Adikìa - La legge del più forte

di Ilaja
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - L'inizio della fine ***
Capitolo 2: *** Una fata e un cuore malato ***
Capitolo 3: *** Notti buie ***
Capitolo 4: *** 4. L'inganno del destino ***
Capitolo 5: *** Una traccia ***
Capitolo 6: *** Crepuscolo ***
Capitolo 7: *** Ombre nella notte ***
Capitolo 8: *** La gemma della verità ***



Capitolo 1
*** Prologo - L'inizio della fine ***


 

 

 

Adikia - La legge del più forte

Partecipante al contest "Supernatural mistery"

indetto da Oyzis

 

 

 

 

adikia

 

 

 

 

Nickname: Ilaja

Titolo storia: Adikìa – La legge del più forte

Rating: Verde

Genere: Thriller, Giallo, Sovrannaturale

Avvertimenti: Nessuno

Note dell’autore: Nessuna

 

Capitolo 1.  Prologo - L’inizio della fine

Duncan Redland correva. Correva a perdifiato. Incespicando, franando sul terreno, inciampando nelle radici di quel bosco che, oramai, aveva perso quella bellezza medievale che, mistica, scorreva tra le foglie, per trasformarsi in un’inquietante raduno di alberi imponenti, ombrosi, neri come la morte e come il buio che si dipanava svelto alla fine della propria esistenza.

La scarpata era accanto a lui, di un fascino ammaliante, ripida e sassosa, definitiva. Nonostante il burrone alla sua sinistra, Duncan continuava a correre sull’esiguo sentiero battuto dai suoi precedenti, scivoloso per il fango, oscuro per la notte che avvolgeva le eterne pendici del monte Männlich.

Männlich. Che nome adatto. Nel gergo di quella terra, di cui ormai non conosceva più il nome per la paura che gli attanagliava il cuore, voleva dire “morte”.

Un brivido percorse la sua forte e robusta schiena, che tutt’un tratto parve curva, debole, spaventata come il volto del giovane.

Duncan non osò fermarsi lungo tutto il tragitto di discesa, senza curarsi delle gambe molli che non riuscivano più a tenerlo in piedi per la strada quasi verticale, senza curarsi dei graffi alle gambe o degli schizzi di fango sulla faccia. Scivolò, cadde a terra e piantò la mano per frenarsi proprio su una pianta d’ortica, ma non ci fece caso. Senza far conto del dolore, si rialzò di scatto e riprese la sua ansiosa marcia, la mano gonfia e un’ulteriore sbucciatura sulle ginocchia.

La vetta era immensa. Se fosse stato in una delle sue solite, piacevoli passeggiate, se la sarebbe percorsa tranquillamente in poche ore, seguendo il sentiero più sicuro, esaminando le rocce e il terreno e facendo pause sull’erba, per guardare lo splendido paesaggio avvolto nelle nubi bianche di solitudine, verdeggiante, maestoso, miracoloso.

Il giovane virò; la strada sterrata scomparve alla sua vista dietro un curvo pendio, e Duncan imboccò un viottolo meno conosciuto, che solo lui, durante le sue diverse esplorazioni del luogo, aveva osato attraversare. Era mangiato dalle felci e dai sassi, talmente impregnato d’umidità dal macchiare di muffa le cortecce degli alberi, bagnare le foglie malefiche delle ortiche e rendere scivoloso anche quel breve sprazzo di terreno non conquistato dal fango o dalle pietre tondeggianti.

Dietro di sé sentiva l’alito fetido del suo malvagio nemico, ansante per la corsa. Cercò di non pensare a quello che sarebbe potuto accadere. Tuttavia immagini macabre gli vennero alla mente: gli artigli che gli squarciavano il petto, i canini affilati che affondavano nella sua carne… a Duncan venne un conato.

Forse per quello, forse per il troppo spavento che provava per concentrarsi sulla strada, improvvisamente, si ritrovò di fronte un burrone profondo centinaia di metri, dove l’unico atterraggio per un’eventuale caduta erano i massi appuntiti che troneggiavano sul fondo della scarpata.

Il sudore che aveva accumulato con la corsa, nonostante il freddo di quella notte, si tramutò presto in brividi gelati. I suoi occhi chiari non riuscivano più a distinguere il cielo dal buio dello strapiombo; presto ebbe un capogiro e si dovette tenere con una mano a un ramo oscillante per non spiaccicarsi a terra.

Il mostro era dietro di lui. Ansimava, la puzza emanata che avvolgeva l’aria attorno a lui, facendo scuotere Duncan dal breve attimo di malore.

Lentamente, il giovane si girò, terrorizzato. Lui era lì, in piedi di fronte al ventenne inglese, la bocca spalancata, le zanne rilucenti al chiarore di quella luna indifferente, inquietante.

“I… io…” La lingua non ubbidiva più a Duncan, incollata com’era al suo palato bloccato.

“La vendetta è dolce.” La voce risuonò nel silenzio di quella notte, ed era talmente cavernosa, rombante, dal sembrar far parte della stessa oscurità, una fetta del buio che, ghiacciato come l’aria avvolta dalla paura, stava conquistando anche il cuore impazzito di Duncan. “Più dolce di quel che gusterò dopo la tua morte. Mi piace stare qui, a godere del tuo sgomento, mentre tremi come una verginella di fronte a un uomo.”

Duncan era troppo spaventato per sentirsi ferito nell’onore da quel commento.

Il tono giocondo dell’essere mutò di colpo: ora era minaccioso e irato. “Tu mi hai derubato della casa!” ruggì, gli occhi iniettati di sangue che scrutavano in due fessure il volto bianco del giovane. “Hai distrutto la mia famiglia, mi hai rovesciato la fama che con tanta fatica avevo costruito!”

“I… io non…” La sua debole protesta si esaurì sotto lo sguardo feroce della creatura. Lo strappo che sarebbe dovuto essere una bocca si storse in una smorfia di compiacimento, di piacevole crudeltà.

Duncan non riuscì più a respirare.

Gli artigli gli sferzarono il ventre, l’ombra gli attraversò gli occhi.

Non emise nemmeno un rantolo.

Nel buio della notte un corvo gracchiò di piacere.

 


>>Ilaja Ciao a tutti! Come da titolo, questa storia ha partecipato al contest "Supernatural mistery" indetto da Oyzis sul forum di EFP. Dal prologo già si carpisce un accenno alla trama: in un mondo popolato sia da esseri umani che da creature sovrannaturali, strani fatti iniziano a succedere. Una sequenza di omicidi e un mistero sempre più inquietante si fa strada nella Vienna di un tempo forse non troppo lontano; e sta a due comuni ragazze, sconosciute a loro stesse ma accomunate dalla stessa tenacia e forza interiore, svelarlo.

Spero di avervi incuriosito abbastanza, e che seguiate questa storia (per favore, almeno fino al primo capitolo! *-*)

Un abbraccio

vostra,

Ilaja <3

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Capitolo 2
*** Una fata e un cuore malato ***


Adikìa - La legge del più forte

 Capitolo 2. Una fata e un cuore malato

“Da quella notte tempestosa, in cui l’Ombra uccise il viaggiatore, la leggenda è divampata, sulle pendici del Männlich. Ogni notte di luna piena un corvo gracchia, mentre gusta nuovamente il sapore della carne umana, e un’Ombra si apre sul monte, inghiottendo con il Buio le creature innocenti che lo abitano, ed esprimendo a suon di eccidi la sua voglia incontentabile di vendetta.”

“Dèi del cielo! Perché tutti ce la devono avere con i corvi e la luna piena? Che cosa vi hanno fatto di male, me lo volete spiegare?”

Il fratello e tutti i passeggeri della funivia, compreso il conducente, che stavano seguendo il racconto, guardarono male Abby, che si girò dall’altra parte. Proprio non riusciva a farsi piacere quelle assurde panzane che si raccontavano del monte e dell’Ombra, secondo le quali un tale, amante dei viaggi, in una notte di luna piena – un tocco di realismo non avrebbe fatto male agli inventori della storia – era stato sbranato da una creatura indemoniata e assetata di sangue, aiutata da un corvo, l’uccello del malaugurio, appunto.

“Sapete com’è andata secondo me?” disse, rivolta ai pochi passeggeri che non erano entusiasti della lettura ad alta voce di Dean, il fratello minore della ragazza. “Quel tizio ha rotto le scatole all’Ombra per farsi dare dei superpoteri, o roba strana insomma, e lei per tutta risposta lo ha sbranato come meritava, e adesso noi uomini, feriti nell’onore, ci stiamo vendicando tramite assurde leggende.”

Un lupo mannaro avvolto in un cappotto troppo stretto per lui annuì. Evidentemente gli era successa la stessa cosa. Povero diavolo.

Quando il racconto finì, Dean corse da Abby, furente. “Ho anche guadagnato degli spiccioli, che cosa ti dà il diritto di farmi scappare la clientela?”

“Clientela la chiami? Quei poveri turisti che abbindoli per avere una paghetta extra? Ma per favore!” Detto ciò la ragazza si sistemò per bene sul pavimento della funivia, estrasse il suo libro preferito dallo zaino Eastpack ormai sbrindellato, dopo cinque anni di duri viaggi per le montagne, e si immerse nella lettura. Dean guardò con una smorfia la ragazza. Possibile che, tra tutte le femmine che esistevano al mondo, a lui dovesse capitare la più antipatica?

“Quanto manca, George?” chiese con un sospiro al conducente. Lui ammiccò al ragazzino. “Non più di due minuti, se mi presenti tua sorella.”

“Idiota” fece una voce da dietro le pagine di Le avventure di Sherlock Holmes.

George ridacchiò, mentre i turisti osservavano la scena, curiosi. Scena che si ripeteva ogni giorno,  d’estate, quando i giovani Redland si recavano dai genitori per aiutarli con la malga di cui erano proprietari, su, nel monte.

Con il tempo avevano fatto in fretta ad abituarsi al clima tranquillo e piacevole che avvolgeva i paeselli del Friuli, confinanti con l’Austria, e avevano finito per considerare la casa in legno ricoperta di gerani in fiore, in cui abitavano per tre mesi all’anno, come una parte della loro vita.

La gente di Pesariis, che ormai conoscevano, era sempre gentile e accogliente con i ragazzi. Il conducente della funivia, George, era solo uno dei tanti che conosceva i due fratelli che andavano e venivano da casa Redland alla malga, una piccola fattoria che serviva da rifugio e commerciava i formaggi del posto, famosa per il latte di ottima qualità e la cucina rustica eccellente, per la quale aveva anche vinto un premio l’anno prima.

Una coppia di turisti, armata di tutto punto per una passeggiata, con bastoni, scarponi da trekking e zaini attrezzati, scrutò dall’alto in basso quella ragazzina rannicchiata a terra, in jeans, mezze maniche e scarpe da tennis, capendo solo dai discorsi di Dean e George che doveva affrontare il loro stesso percorso. I loro sguardi erano molto eloquenti, tanto che Abby, chiuso il libro perché incapace di concentrarsi in mezzo a quel baccano, li comprese subito.

“Non c’è bisogno che facciate quella faccia” sbottò, mentre i due italiani si guardavano, sorpresi. “So badare benissimo a me stessa.”

“A me non pare proprio” ribatté, dura, la ragazza. Aveva occhi grigi, freddi di ghiaccio, e i lineamenti molto marcati. La bocca sottile e severa si storse in un mezzo sorriso. “La leggenda la conosciamo molto meglio di tuo fratello e i suoi libri spazzatura.”

Abby si ravvivò i capelli ricciuti, legandoseli in una coda, e infilandosi un cappellino a visiera, incurante dell’affermazione della donna che, nel frattempo, si era beccata un’occhiataccia dal compagno. “Concordo con lei per i libri di Dean, ma dubito che quelle storie siano vere” disse la ragazza, uscendo dalla cabina, ormai giunta a destinazione.

“Vieni, tappo!” chiamò Abby e, salutato George, si diressero fuori dall’impianto, sulla strada principale, diretti dai loro genitori.

La donna li rincorse. “Non dovresti voltare le spalle al tuo destino!” gridò, mentre il marito la trascinava via.

Abby non l’ascoltò nemmeno. Prese per mano Dean e se ne andò per la sua strada.

“Era una visionaria?” fece suo fratello, quando la donna si fu allontanata.

Abby scosse la testa. “Era una matta” rispose, e s’inoltrarono nel bosco, reclusi dal resto del mondo, dove l’unico rumore umano erano i loro piedi che facevano scricchiolare il sottobosco ancora umido di rugiada.

 

“I miei tesori!” L’urlo della mamma fece trasalire i clienti, accalcati attorno ai tavoli in cui venivano serviti formaggi, prosciutti e carni, torte fatte in casa e insalate rustiche.

La signora si fece largo tra la folla e corse ad abbracciare i figli. Era magra ed atletica, anche se il viso iniziava già a presentare le rughe di mezz’età. “Mamma” esalò Dean dopo essere sopravvissuto ad un abbraccio fatale. Abby lo trasse in salvo, per poi farsi prendere pure lei. “La mia bambina!”

“Mamma, non ci vediamo da ieri sera, non credo che sia passato così tanto tempo” bofonchiò Abby, allontanandola. La signora la osservò con occhio critico. “Sarà, ma a me non piace per niente che voi dormiate lontano da noi. Proprio non capisco perché non vogliate stare qui durante la notte…”

“Questo posto puzza tremendamente” disse Dean, lanciando un’occhiata al pollame e al vitello di poche settimane, che in quel momento starnazzavano con entusiasmo per il ritorno dei padroncini.

“Ed è sporco!” puntualizzò Abby, indicando le stalle piene di escrementi e le pareti incrostate.

“Ma come! E’ così caratteristico…” si dispiacque la mamma. Era sempre stato il suo sogno, fin da bambina, possedere una malga tra i monti. Chi lo sapeva il motivo. In ogni caso, quando passavano per le strade di Pesariis Abby osservava i ragazzi andare e venire, e sua madre esaltava i gerani alle finestre delle case, con “ooh” e “aah” del tutto inappropriati.

Dietro la schiena, Abby sentì una presenza imponente. “Abigail, cos’è questa novità?” domandò il padre, un uomo robusto e corpulento, con indosso il camice da lavoro. Mentre la moglie cucinava, lui si occupava della produzione di formaggio, di mungere capre e mucche e di far uscire il bestiame sul prato per farlo mangiare.

Abby si girò, furente. “Papà! Sai che odio quel nome.” Era vero. Preferiva di gran lunga Abby. Bello, conciso e chiaro.

Ma lui non si stava occupando del nome. Quella era infatti una battaglia persa già da anni. Inutilmente Abby aveva cercato di correggerlo, di fargli capire che quell’obbrobrio che si portava dietro costantemente proprio non lo sopportava. Bah, l’ostinazione del genitore le era diventata insopportabile.

“Cosa?”

Quello.”

“Di cos… oh, quello.”

Abby si morse il labbro, come spesso faceva nei momenti d’imbarazzo. Cavolo. Questa non ci voleva.

La T-shirt si era leggermente scostata lasciando scoperto il fianco della ragazza, appena sopra i jeans a gamba stretta.

“Ecco, io ve lo volevo dire…”

“Abigail…”

Stava per arrivare la sfuriata. Oh, mer…

“Che figata, Abby! Quando te lo sei fatto?”

La giovane si voltò, il volto imporporato sia di vergogna, per le occhiate truci del padre, che di eccitazione. Infatti, a parlare era stato Jason, il garzone della malga, un ragazzo sui vent’anni dipendente dai suoi genitori, che d’estate saliva in montagna per guadagnarsi qualche soldo da mettere da parte. Si conoscevano da una vita.

“A giugno, per la promozione.”

Jason strizzò l’occhio al padre di Abby. “Finalmente l’ha accontentata! Anche i miei mi fecero un regalo del genere per i sedici anni, ma si è rovinato completamente con l’incidente.” Detto questo mostrò ai due lo sfregio del braccio destro, in cui era ben visibile una sequenza di cicatrici profonde e di un bianco opaco come il cielo velato di quella giornata. Tra i solchi si potevano ancora distinguere sprazzi d’inchiostro scuro.

Jason era stato trovato agonizzante in mezzo al bosco, un pomeriggio di tre anni prima. Aveva perso molto sangue, e il braccio recava ancora segni di un’aggressione feroce, come quella da parte di un lupo, o di un orso particolarmente affamato. Abby però conosceva abbastanza bene le creature della foresta per poter affermare che non erano state loro. Non in un pomeriggio così soleggiato come quello, e non in una zona sicura e sotto gli occhi di tutti, in una radura poco distante dalla malga.

Dopo averlo portato al sicuro all’interno della fattoria, la madre di Abby, Claire, aveva provveduto a pulire e fasciare le ferite, iniettando anche qualche antidoto al veleno, giusto per stare sul sicuro. Jason aveva ripreso conoscenza il giorno seguente, mentre Abby stava al suo capezzale, ad osservarlo sognante. All’epoca aveva tredici anni, e una voglia matta d’innamorarsi. Tutte le sue amiche avevano almeno già dato il primo bacio, tranne lei. Lei sognava il vero amore. E quel ragazzo capitatole addosso d’improvviso poteva fare al caso suo.

Successivamente, Jason continuò ad affermare di non ricordare nulla dell’assalto, o dell’assalitore. Alle domande insistenti dei genitori di Abby aveva dato solo risposte vaghe, e si era fermamente puntato sul non avvisare i suoi parenti. “Non ce n’è bisogno” aveva sbottato di fronte ad una Claire eccessivamente ansiosa. “Davvero, è già tanto quello che avete fatto per me, senza bisogno che vi faccia preoccupare ancora.”

Nonostante le opposizioni del padre della ragazza, Richard, però, voleva trovare un modo per sdebitarsi. E così, aveva preso a venire ogni estate, richiedendo una paga minima e rendendosi utile in mille modi diversi. Quando Dean voleva fare una passeggiata, e a nessuno andava di portarlo, si offriva di accompagnarlo; quando Abby aveva bisogno di una mano per i compiti, spuntava dietro una porta con un sorriso smagliante; aiutava sempre Claire a servire i tavoli e vendere le cibarie; trasportava i recipienti di latte da una parte all’altra e lavorava accanto a Richard per fare il formaggio; portava il gregge a pascolare e mungeva capre e mucche assieme ad Abby.

Tre anni erano passati dall’incidente, e mai, nemmeno per un istante, Jason aveva smesso di frequentare la malga, nonostante Claire e Richard avessero spesso ripetuto che poteva anche dedicarsi ad altro, invece di essere recluso in mezzo ai monti, lontano dai suoi coetanei e dai suoi cari. “Mi trovo bene qui” aveva detto per tutta risposta. “E poi ho conosciuto Abby, Dean, voi. Con chi altri potrei voler passare l’estate?”

Oh, sì, era veramente un ragazzo da sogno.

 

“Di sicuro non le ho dato il permesso io” grugnì Richard, fissando la piccola fata che gli sorrideva luminosa, accovacciata sulla pelle liscia di Abby.

“Oh.” Jason si accigliò. “Allora forse dovrei andare” affermò, cogliendo l’atmosfera che si respirava nella stanza.

Saggia scelta pensò la ragazza, guardando la schiena muscolosa del ragazzo farsi sempre più lontana. Evidentemente il padre notò quello sguardo sognante, perché le si parò esattamente di fronte, il volto mascherata dalla rabbia. “Stammi bene a sentire, signorina” minacciò con il dito rivolto ad una Abby impassibile. “Primo: mi piacerebbe sapere chi ti ha dato il permesso di fare quella roba, chi ha pagato e chi te lo ha fatto. Secondo: reclusa per una settimana…”

“E dove me ne dovrei andare, di grazia?”

“… e terzo: NON OSARE…”

“Papà…”

“ASSOLUTAMENTE…”

“Sherlock Holmes dice sempre…”

“GUARDARE…”

“…che la ragione l’ha sempre vinta sul cuore…”

“IN QUEL MODO…”

“e tu sai…”

“QUEL…”

“che seguo sempre i suoi consigli.”

“RAGAZ…”

Richard!

L’uomo furente si voltò, mentre la madre di Abby lo stava scrutando contrariata da dietro una capretta nera che belava tra le sue braccia. La ragazza si addolcì di fronte a quel musetto tenero; la piccola Delia, infatti, non era nata che da una settimana.

“Che dici? E’ nella sua età prendersi una cotta per un ragazzo carino come Jason! Non è che sei geloso?”

Mentre il faccione del padre di Abby s’imporporava di una piacevole tinta scarlatta, la ragazza sgusciò fuori portata e uscì dalla stalla, respirando finalmente aria pulita e leggera. Non si era mai abituata alla puzza degli animali.

Raggiunse il declivio erboso della collinetta che circondava la malga, il punto più alto, avvolto in un ovattato manto di frasche scure e umide e con il prato morbido percorso da fiori freschi e profumati.

Si sedette tra i fili bagnati di mattino nebbioso e trasse un sospiro. Adorava la montagna, checché ne dicesse ai suoi. Non sapeva nemmeno perché insisteva ogni anno per andare al mare, quando poteva avere un paradiso come quello. A che le servivano le amiche, in mezzo a quello splendido verde che sapeva di libertà, in mezzo a quei trilli gioiosi delle ghiandaie che assistevano commosse alla nascita dei loro piccoli, in mezzo alle nuvole che sfioravano ogni giorno il monte soleggiato, e che sapevano di cielo immenso, colorato, meravigliosamente libero dai vincoli della civiltà moderna?

Chiuse gli occhi, assaporando sulla lingua la debole pioggerellina che scendeva a piccole gocce dalle foglie intrise d’umidità. Fresca.

Già, forse il prossimo anno non sarebbe andata al mare. La riviera era così orrendamente monotona. Nemmeno l’acqua sapeva di fresco come quelle gocce. Era grigia, caotica, sporca. La spiaggia, una terribile accozzaglia di ombrelloni appiccicati gli uni agli altri. Le conchiglie, una minestra di alghe imbrattate di petrolio e meduse morte. Le strade, una sequenza confusionaria di gente che correva, che comprava, che vendeva, che non si godeva l’estate. Le amiche, tirate e disumane sotto quella coltre di trucco, abiti minuscoli, tacchi vertiginosi e superficialità squallida.

Sospettava di non essere l’unica a sentirsi così sola, diversa, esclusa da quel mondo di apparenza e inganno. Eppure, in quei minuti di tranquilla riflessione, il suo cuore sprofondava nella malinconia. Quando Abby si stendeva sotto l’ombra degli alberi gocciolanti, e le foglie del sottobosco scricchiolavano tra le sue scarpe da ginnastica, e i capelli si annodavano dall’acqua che impregnava l’aria e dal fango che sgorgava dal terreno, e sentiva il proprio corpo piacevolmente a contatto con tutto questo, avrebbe voluto sprofondare nella madre terra e rinascere in un altro mondo, in un’altra epoca, lontana da tutti. Lontana dal frastuono della gente, dall’umiltà repressa, dal disonore che incombeva. Esistevano solo lei, i suoi libri di misteri che le aprivano gli occhi sul mondo, e il placido Sherlock Holmes, il suo maestro della moralità e dei sensi di colpa.

“Bello, vero?”

Abby non aprì nemmeno gli occhi quando udì il suo cuore sussultare. Sapeva chi era.

“Tranquilla, tuo padre si è già dimenticato del tatuaggio.”

“Come?”

“Clarie lo ha messo a mungere Belina, e dubito che ne uscirà tanto presto.”

Abby ridacchiò. Belina, una capretta intelligente e irritante, era la più testarda del gruppo e, nonostante il latte che le premeva sulla pancia le facesse male, scappava sempre all’ora della mungitura. Una volta aveva persino tirato una zoccolata a Richard. Solo Jason sapeva come farla ragionare, ma quel giorno Clarie gli aveva espressamene chiesto di rimanere lontano dalla stalla.

“Come mai tua madre ti copre?”

“Oh, è una storia lunga. Anche lei ha un tatuaggio, ma lo ha sempre tenuto nascosto” spiegò Abby. “Una sirena, proprio sotto l’avambraccio.”

“Perché lì?”

“Mio nonno amava il mare, più di quanto gli permettesse la logica. L’ultima volta che mia madre l’ha visto vivo, un piccolo granchio ancora vivo sotto la rete l’ha punta lì.”

Jason tacque. Abby aveva parlato con leggerezza, mascherando il dolore che ancora la pungeva, e lui non voleva intaccare la sua convinta insensibilità.

Il silenzio calò sui due.

Le nuvole frusciavano assieme alle foglie in una danza di piacevole armonia.

Jason si stava giusto chiedendo se poteva liberare la mano della ragazza da una coccinella che l’aveva assalita, quando un grido squarciò l’aria.

“Dean!”

 


>>Ilaja Ciao di nuovo! Tutto bene? Se siete usciti incolumi da quel prologo traumatizzante - c'era pure un corvo cinico, non so se mi spieco ^^- allora avrete letto di sicuro questo capitolo. Non è poi tanto lungo, vero? Nè pesante da leggere, vero?

Okay, non rispondete, fate bene -.-

Alaura... (trad. "Allora": l'ho preso da mio nonno che è un fan del dialetto bologneshe :D Anche se sentita dal vivo fa tutto un'altro effetto^^)

Vediamo di ringraziare dorothy_ e Lulabi per aver inserito la storia tra le seguite :) Ringrazio inoltre quella cinquantina di visite anonime che ha ricevuto il prologo. Sono gratificanti :)

Puoiii... be', direi di passare alle recensioni:

LacrimaDegliDei: Grazie infinite per la tua recensione ^_^ Sì, Duncan è un nome che mi è subito piaciuto molto, e poi si adatta in modo esemplare al personaggio (che vedremo definito per bene solo nel penultimo-terzultimo capitolo, mi dispiace :) Spero continuerai a seguirmi! Bacio!

dorothy_: Intanto ti ringrazio moltissimo per la recensione, l'ho davvero apprezzata. E sai perchè? La gente in genere non viene incuriosita dalle storie. Non pensa. Dice: "Be', vedremo quel che succede..." ma non IPOTIZZA! (o elucubra, che mi piace di più come verbo ;) Alaura... mhmm come già detto sopra, l'identità di Duncan non verrà svelata se non presso la fine della vicenda, quindi tra circa sei o sette capitoli (ehi, sono 10 chappy, per me è già una bella impresa *annuisce vigorosamente*) Quindi... sono contenta che t'incuriosisca, ma non temere, penso che la suspance spunterà fuori anche nei prossimi capitoli...e spero di ricevere qualche altra tua elucubrazione! Un abbraccio forte forte

PS. Detto tra noi, mi piacerebbe se tu tornassi anche in questo capitolo ^_^

Nanakko: In parte ti ho già risposto come messaggio personale.... sono contenta di ricevere la tua recensione, mi ha fatto molto piacere. Vedo che il prologo ispira parecchio...be', un buon inizio! ^_^

Spero di poter leggere al più presto anche la tua di storia, così ci potremo confrontare! Kisses

Lulabi: Grazie anche a te per la recensione! Mi fa piacere che questa storia abbia ispirato così tanto...

Be', ti svelerò un segreto: io sono stata registrata su efp per tre mesi prima di capire come poter pubblicare una storia! -.-" Non sarò 'sta gran maestra d'informatica, però qualche cosa ti posso spiegare...

Alaura: Fare le immagini. Non è complicato, basta capire il sistema ;)

Intanto dovrei sapere se tu per pubblicare usi NVU o il tutorial di EFP. Io uso quest'ultimo e devo dire che mi trovo abbastanza bene. Pertanto ti posso spiegare solo come pubblicarle usando questo editor, che puoi trovare cliccando su Guide/Altro in una pagina di EFP qualsiasi, in alto a sinistra, dopodichè clicchi su Guida all'html e poi clicchi il secondo link.

Be', lì puoi impaginare la tua storia. Per immettere le immagini devi cliccare sull'icona dell'alberello. Ti verrà fuori una finestra, che ti chiede l'URL (l'indirizzo internet) dell'immagine.

A questo punto dipende dall'origine dell'immagine: se l'hai trovata su internet, basta che apri la pagina con solo l'immagine, e ti spunterà fuori ;) se ce l'hai in una cartella del computer, la dovrai immettere su internet, per ottenere l'URL da inserire e poi metterla nel documento.

Per immetterla su internet, io in genere uso programmi come Tinypic, gratuiti naturalmente. Lo cerchi su google e ti viene fuori ;) Dovrai selezionare l'immagine con 'Sfoglia' e poi ti verrà fuori una finestra con l'immagine da un lato e una serie di codici dall'altro. Scegli quello URL (www. tinypic / codice dell'immagine etc....) A questo punto lo puoi inserire con l'Editor ed ottenere il codice HTML da mettere nella pagina Aggiorna/Aggiungi una storia (questo lo sapevi già... l'ho detto, sono dannatamente prolissa -.-)

Note dell'autore?

Vai nel tuo accont di efp e nella sezione "Gestisci l'account" scegli "Cambia NdA e varie" ti verrà fuori una pagina con uno spazio in cui inserire il codice html della presentazione da te preparata (è lo stesso procedimento per pubblicare le storie, anche per le immagini)

Se hai dei dubbi, mandami pure un altro messaggio ;)

Bacioni

 

Bene, allora non mi resta che salutarvi e darvi appuntamento al prossimo capitolo! Bye Bye!!

To be continued...

(hihi l'ho sempre voluto mettere ^^)

 

 

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Capitolo 3
*** Notti buie ***


Adikìa - La legge del più forte

Capitolo 3. Notti buie

Per il signor Moseley quella era stata proprio un’ottima giornata. Aveva risolto brillantemente tutte le incombenze dovute al lavoro e gustato un buon panino ai wurstel. Dopo essersi sfogato al telefono per un po’ e fatto qualche urlaccio, aveva finalmente chiuso lo studio e ora si stava dirigendo tranquillo verso la stazione per prendere il treno delle cinque.

Vienna a pomeriggio inoltrato sembrava un’altra città. Calma, romantica. Con il sole basso che baciava le pareti di cemento che, tutt’un tratto, assumevano sembianze rosso sangue, o rosso passionale, a seconda dell’umore dello spettatore. Nuvole varcavano il cielo, e la gente si affrettava per le strade, in volto espressioni rilassate, di chi si era lasciato indietro il cattivo tempo, e si preparava a vedere il sole, e a sdraiarsi sotto i suoi raggi rasserenanti.

L’avvocato superò alcuni locali serali, delle botteghe d’artigianato e un vicolo che faceva da traversa alla via principali. Dei ragazzacci si accingevano ad accendere un vecchio braciere per riscaldarsi in vista della notte. Lui storse il naso. Che pezzenti. Avrebbero dovuto iniziare a lavorare, invece di speculare a danno di onesti cittadini. Preferì cambiare strada.

Svoltò in una strada frequentata da gente più a modo. Lì le signore giravano in abiti costosi e gli studenti chiacchieravano dentro bar esigenti. Tutto molto più rassicurante.

Moseley si fermò di fronte ad un negozietto di cioccolato, rimuginando tra sé se portare alle figlie quella torta ripiena o i biscotti appena sfornati che le stavano accanto. Il vento soffiava tra le pieghe della giacca nera. L’uomo poggiò un attimo la valigetta ventiquattr’ore per chiudersela. Non voleva che la camicia si sgualcisse.

Quando fece per riprenderla, non la trovò. Alzò lo sguardo. Uno dei ragazzacci che aveva superato prima l’aveva afferrata e ora correva per il selciato.

Moseley sentì montare in sé la rabbia. Quel bastardo! Come si permetteva?!

“Al ladro!” gridò, inseguendolo tra i negozi. Il ragazzo volava come il vento, ma non se lo sarebbe lasciato sfuggire. Nossignore. “Al ladro!”

Una ragazza lo guardò incuriosita. Poi sentì le sue parole, individuò il ladruncolo, e si precipitò ad affiancare Moseley nella corsa.

“E lei chi è?” sbraitò lui, squadrandola.

“Agente Jones” disse mentre lo superava. Anche lei avanzava come una gazzella.

L’avvocato le stette dietro, arrancando, ma con un’espressione soddisfatta sul volto. Era lì che si vedeva l’efficienza delle forse dell’ordine austriache!

Il ladruncolo non si fermò dopo molto. Imboccò una viuzza del quartiere popolare, dietro i cassonetti di un vecchio palazzo fatiscente. Moseley pensò che prima o poi avrebbero dovuto far abbattere quei rottami di edifici. Erano così antiestetici!

Il ragazzo si trovò la strada bloccata da un ammasso di spazzatura e un muro di mattoni. Era spiazzato.

Anche Moseley corrugò la fronte. Possibile che un ragazzo che viveva in quel quartiere non sapesse di star andando in un vicolo cieco?

L’agente Jones non perse tempo, né lo fece l’avvocato con i suoi pensieri. Ora voleva solo indietro la sua valigetta e andarsene a casa. Senza comprare biscotti al cioccolato.

“Posa la refurtiva” ordinò la giovane. Il ladro lo fece.

“Mani in alto!”

Tenendo sott’occhio il ragazzo, la poliziotta ingiunse a Moseley di prendere la valigia. “E’ la sua?”

Lui controllò. “Ne sono certo.”

“Manca qualcosa?”

Era tutto a posto. Scosse la testa.

“Bene, ragazzo. Ora mi segui in centrale. Senza obiezioni.”

Il giovane chinò il capo. Lei si rivolse all’avvocato. “Grazie, signorina Jones” fece lui.

“Eseguo il mio lavoro” ribatté la ragazza. Gli sorrise freddamente. Era molto carina.

Tornò a rivolgersi al pezzente. “Tu! Con me in auto.”

Moseley stava per girare su i tacchi e ritornare alla sua quotidiana, apprezzata vita, quando accadde l’inevitabile.

L’urlo della donna fu attenuato dalla sua scomparsa.

 

***

 

“Non osare disubbidire, Jones! Gli ordini sono ordini! Non si discute!”

Kitty si morse il labbro, ma non abbassò lo sguardo. Gli occhi gelidi del suo comandante la penetravano con disprezzo. Sentì la pelle fremere. “Lì ci è morta Anne, capitano! Non posso rimanere impassibile se anche lui…” La voce le si spezzò. Calde lacrime iniziarono la loro discesa sulla sua guancia.

Lui la fissò, e la ragazza capì che non avrebbe cambiato idea. In realtà, non aveva mai nemmeno preso in considerazione le sue proteste.

“Austin è il più competente, pertanto manderò lui. Non m’interessa se la sua fidanzata si rode il cuore dall’angoscia. Non è un mio problema.” Scandendo con forza le ultime parole, le voltò le spalle. “Qui non c’è posto per i sentimentalismi, Jones. Farai bene a ricordartelo, prima di provocare la tua espulsione dal gruppo.”

La porta si chiuse, e Kitty si ritrovò sola. Distrutta. Con un cuore in mano che ancora non trovava la forza per battere.

Due braccia l’avvolsero, e lei affondò la faccia nel maglione che le copriva. Acqua salata e lana si fusero insieme.

“So che sei sconvolta dalla scomparsa di tua sorella” disse lui. “Ma non devi lasciarti andare. Stai tranquilla. In men che non si dica cattureremo quel mutante.”

“Ma…”

“Non hai fiducia in me, Kitty?”

Lei rinunciò.

 

Erano settimane che quel dannato mutante imperversava per le strade di Vienna. Uno dopo l’altro, avvocati, membri del governo, corpi armati e calciatori importanti erano caduti sotto la sua morsa. Prima il signor Beckford, ministro dell’Informazione: era stato trovato morto nei bagni del Parlamento cinque ore dopo il decesso, quando gli altri suoi colleghi avevano lasciato perdere le loro chiacchiere inutili e si erano accorti della sua scomparsa.

Per secondo, era caduto il signor Sackville, membro di un’importante compagnia, amministratrice dei principali canali televisivi dello Stato: a dare l’allarme era stata la segretaria, che l’aveva rinvenuto senza vita sul balcone dell’ufficio, mentre era fuori a fumare, come ogni mattina, meditando sulle posizioni da prendere in riunione.

Il terzo a morire era stato mister Shelton, un calciatore ormai in pensione che allenava la nazionale tedesca, ricercato in tutto il mondo per i suoi preziosi consigli: più di un ragazzo aveva trovato fama e ricchezza grazie alla sua pubblicità. Sua moglie aveva scoperto il cadavere il secondo giorno della loro annuale vacanza in campagna: a quanto pareva, era deceduto mentre annaffiava le siepi della casa.

L’episodio fu seguito a ruota, dieci giorni dopo, con la caduta di miss Whittier, avvocato di fama internazionale, ricercato e temuto in tutto il mondo: era in colloquio con un cliente quando questi aveva chiamato la polizia e il pronto soccorso, dicendo che la signora era improvvisamente svenuta e che era preoccupato da morire. Successivamente, dell’uomo non si era più avuta traccia, come non si erano ritrovate informazioni sulle impronte digitali rinvenute sul corpo delle vittime. Lì, le molecole vorticavano vertiginosamente, si addensavano, si rimodellavano. Tra tutti gli importanti indizi trovati sulla scena del delitto – capelli, peli, tracce di pelle secca, impronte su dei vetri – non uno faceva risultare un individuo registrato, nemmeno tra le schede delle creature sovrannaturali.

Nonostante la situazione drammatica in cui si trovava la scientifica, però, il capo del gruppo cui apparteneva Kitty aveva trovato un aspetto molto interessante di tutta la vicenda. Non che ne fosse saltato fuori molto, anche se effettuato; quel particolare, però, quell’irrealizzabile progetto che sfiorava i limiti del fantascientifico, stava dando speranza a tutta la sua squadra. E, se era vero che la speranza era l’ultima a morire, di sicuro non sarebbe stata la remissività di Kitty a farla soccombere.

Doveva fare qualcosa.

Mentre rimuginava tra sé, rannicchiata su un sedile fetido della metropolitana, Kitty lasciò che lo sguardo scorresse sulla moltitudine di luci e rumori che investivano il finestrino. Buio totale prima, sprazzi di bianco dopo, ad una delle fermate. Gente che scaricava, parlava, passeggiava, correva, piangeva, contava… Un demone con indosso un mantello viola ricambiò il suo sguardo con un’occhiata profonda. Kitty ne percepì all’interno desolazione, tristezza, un’infinita voglia di cambiare che si era ormai arenata come conchiglie su una spiaggia inquinata. Distolse gli occhi, mentre la metro sfrecciava via.

Rassegnazione… Quegli occhi rassegnati fecero nascondere il cuore di Kitty ancora di più. Se solo lei fosse stata all’altezza… se solo avesse avuto la forza giusta per combatterla, ci sarebbe riuscita. Aveva gli elementi per farlo.

Però era pericoloso.

E completamente astruso.

Se solo potessi… se solo fossi una gemella perfetta di te, Anne, forse…

Sentì le lacrime salirle agli occhi.

Se solo avessi il tuo stesso coraggio…

Forse ti potrei vendicare.

Represse un singhiozzo. Una donna anziana accanto a lei la guardò con compassione.

Aiutami, Anne…

Chiuse le palpebre.

Per tutto il viaggio, non provò nemmeno ad ascoltare la musica.

 

***

In certi giorni di pioggia, Nathalie non riusciva proprio a fare niente. Fissava con aria assorta il computer ronzante, e la pagina vuota che avrebbe dovuto riempire di informazioni. L’aria condizionata dell’ufficio faceva frusciare i foglietti del suo taccuino, riempiti di scritte che aspettavano la loro pubblicazione. Nathalie, però, aveva ormai deciso che per quel giorno avrebbe lasciato stare. Si rilassò sullo schienale della sedia imbottita, e chiuse gli occhi. Fuori, il picchiettare delle gocce contro la finestra aggiunto al tuonare del vento che sbatteva le imposte iniziò a farsi ritmico e accentuato.

Plick. Plick. Plick.

Nathalie sospirò. Quando una giornalista di fama internazionale come lei non riusciva a buttare giù tre righe decenti, allora voleva dire che proprio non era giornata. Il suo capo avrebbe dovuto arrangiarsi e trovare qualcun altro. Non poteva certo far fare tutto il lavoro a lei!

Per schiarirsi le idee, navigò fino al sito della BBC. Trasmettevano notizie radio ventiquattr’ore su ventiquattro. Sia mai che, con un po’ di fortuna, non riuscissero a farle venire in mente le parole giuste.

“Battuta del premier italiano Silvio Berlusconi con il presidente…”

Ma che gliene fregava a lei?

“Situazione critica in Afghanistan: l’America richiede…”

Bah, se la potevano cavare anche senza il suo aiuto.

“Pubblicato nuovo libro di…”

Chiuse la finestra internet. Si aspettava che almeno la BBC trasmettesse cose interessanti, non le solite baggianate da giornali locali.

Si arricciò una ciocca dei suoi capelli rosso fuoco in un impeto di nevrosi. Odiava quando accadeva! S’impallava tutto il suo geniale sistema nervoso, e non c’era più nemmeno la voglia di battere i tasti al computer.

Decise che sarebbe stato meglio uscire a prendere qualcosa da mangiare. La pioggia avrebbe mandato via quel mal di testa orrendo e le avrebbe fatto venire in mente dei buoni periodi da adattare a quel maledetto articolo.

 

Il bar affianco al suo ufficio era conosciuto e rinomato dalla gente di tutto il quartiere. Era un locale accogliente, caldo, e i camerieri erano gentilissimi. Per non parlare del caffè e delle paste che, se Nathalie non avesse fatto un servizio proprio sulla loro provenienza, avrebbe giurato fossero italiane.

“Lungo, grazie, con un bel cornetto” ordinò a un ragazzo in grembiule, il quale, riconoscendola dal tesserino, si fece subito rosso e corse dietro il bancone a preparare la portata. Nathalie sospirò. Eh sì, quando si era una celebrità come lei, nemmeno in un bar frequentato da gente ignorante si poteva essere a propria volta ignorati.

Nell’attesa, tirò fuori dalla borsa un quadernetto e una penna, con cui iniziò a buttar giù una scaletta dell’articolo. Prese a ispezionare i cassetti vuoti della parte creativa del suo cervello.

“Buongiorno, Sam!”

“Ciao Kitty! Vieni pure, c’è tanto lavoro da fare stasera…”

“Ehi Kitty!”

“Ciao!”

Una ragazza minuta, che non dimostrava più di diciotto anni, entrò di corsa nel locale, bagnata da capo a piedi e con le scarpe che schioccavano per l’acqua sulla gomma. “Odio questi temporali” si lamentò, mentre afferrava il grembiule offertogli da un collega. “Eh, già” fece questi, togliendole con gentilezza il cappotto fradicio.

Lei rise. “Grazie, Paul, ma non c’è proprio bisogno di tornare all’epoca medievale!”

Il ragazzo arrossì, sorridendole.

Sam, il proprietario, le corse incontro, e iniziò a parlarle a bassa voce. Nemmeno Nathalie, che sedeva al tavolo più vicino, riuscì a carpire qualcosa. Quando finì, la ragazza che si chiamava Kitty sembrò rimanere interdetta. Poi sorrise al vecchio burbero. “Grazie, Sam. Ora me la sbrigo io” disse, raccogliendosi i lisci capelli castani in una coda di cavallo e afferrando il primo vassoio a portata di mano. Così facendo, si voltò in un istante, sorprendendo Nathalie, che la stava fissando curiosa. “Salve!” salutò, solare. “Posso essere d’aiuto?”

La donna ricambiò il sorriso luminoso con un’occhiata gelida. “Affatto. Mi hanno appena portato quanto richiesto”, rispose, indicando la tazzina da caffè e dei fazzoletti di carta sporchi, un tempo contenenti la pasta.

La ragazza annuì, sempre sorridendo, prese il piattino e il resto e andò al bancone, dove prese a prendere le ordinazioni. Dopo dieci minuti, però, era di nuovo lì.

Nathalie alzò gli occhi al cielo, apparentemente infastidita. “Sì, sono io. La Nathalie del servizio sulle armi di nuova generazione dotate dalla NASA, la Nathalie che ha svolto da sola un’inchiesta sulle nuove tattiche nigeriane, la Nathalie che ha lavorato al “New York Times”, sempre io. Tieni.” Scarabocchiò sul taccuino un autografo e glielo diede. “Ora lasciami. Ho da fare.”

Lei l’occhieggiò dubbiosa. “Scusi?”

“Tieni” ripeté Nathalie. “Non ho tempo da perdere con dilettanti. Evita di scocciarmi.”

Kitty scoppiò a ridere. “Temo che lei abbia frainteso.”

Adesso era Nathalie a rimanere interdetta. “Frainteso su cosa, esattamente?”

Kitty continuò a ridere. “Senta, lasci stare l’autografo. So esattamente chi è lei, e non ho bisogno della sua firma a confermarmelo.” Sorrise. “Avrei bisogno di un favore.”

Nathalie la fissò, stupita.

“Vedo che poi non ha molto da fare. Glielo giuro, si tratta di qualche ora.”

La donna abbassò lo sguardo sul taccuino. In effetti, dubitava di riuscire a combinar qualcosa quel pomeriggio. Ma cosa importava a una bambina come quella là?

Si abbandonò sulla sedia. “Senti, allora fa’ presto. Vuoi un’intervista per la scuola? D’accordo, ma muoviti, chiaro?”

La ragazzina era sempre più divertita. “Giuro, non la immaginavo così boriosa!”

Nathalie spalancò la bocca. “Prego?”

Kitty fece un’altra risatina. “Scusi, mi è uscito di getto. Presumo che nessuno debba chiamare qualcuno ‘borioso’, quando sta per chiedergli un favore!” Mentre rideva, si prese una sedia e le si sedette accanto. Nathalie era scioccata.

“Le cose mi escono di bocca così, senza pensarci. Le chiedo scusa, è un mio grande difetto” prese a dire la ragazzina, giocherellando con un ciuffo di capelli castani. “La prego di perdonarmi, e di starmi a sentire. Le devo chiedere una cosa importante.”

La giornalista si rassegnò. Era chiaro che quella non avrebbe smesso di tartassarla fino a quando non le avesse chiesto quello che doveva. “E sia” sospirò. “Dimmi”.

Lei si sistemò meglio sulla sedia. “Ecco… avrei bisogno dei suoi servigi.”

“Servigi?”

“Sì, delle sue doti. Ho bisogno di pubblicare una notizia importante ed inedita, e chi meglio di lei…”

La questione si stava facendo interessante. Anche Nathalie si raddrizzò sulla seggiola e chiuse il taccuino. “Di che notizia si tratta?” chiese, facendo trasparire un’indifferenza completamente falsa.

La sua brama di fama non si sarebbe fermata di fronte a nulla, nemmeno al doversi abbassare a spulciare notizie da una liceale. Se la novità era interessante, e se le fossero venute le parole giuste al momento giusto, magari poteva anche rimediare a quel fiasco di articolo che non si scriveva, e recuperare il posto in prima pagina, invece che nel trafiletto di lato.

Nathalie era fiera di potersi considerare un personaggio machiavellico. ‘Il fine giustifica i mezzi’, soleva ripetere, quando, per esempio, si trovava a copiare riflessioni segrete di sua sorella dal suo diario, oppure a prendere spunto da altre parole di altre persone, che non potevano rendersi conto di quello che stavano dicendo. Tra i suoi più celebri articoli, spiccavano opinioni del suo passato professore di storia, di suo padre, un operaio paziente e laborioso, e di scrittori sconosciuti perché mai pubblicati. Se sapessero che i loro manoscritti si ritrovano, nascosti, nei miei articoli, mi pagherebbero più di quanto non faccia il mio capo. Almeno gli ho dato un futuro. Erano questi i pensieri che giravano per la testa di Nathalie Marlison, giornalista di successo che screditava con ogni uscita in televisione almeno tre aspiranti novellieri, che si erano affidati a lei nella speranza di un suggerimento.

La donna stava già architettando il modo di togliere con l’astuzia il titolo di cooperatrice alla giovinetta, quando questa la sconvolse, per quanto possibile, più di prima. “Le concedo tutti diritti alla notizia: scoperta, articolo, idea. Basta che lei aiuti me e il mio capo a far luce su questa faccenda.”

Nathalie non sapeva se saltare in aria per la gioia o trattenersi per far colpo sulla sua povera vittima. Molto scioccamente, quella scema le stava dando l’opportunità di fare un gran colpo. La paura nei suoi occhi le faceva intuire che era roba grossa, importante. Subito, tirò fuori il taccuino. Aprì una pagina bianca e fece scattare la biro. “Di che si tratta?” ripeté, fervente.

Gli occhi della giovane scattarono. Non c’era ironia, non c’era malizia. Solo determinazione.

“Lo dovrà vedere da lei” affermò.

Il proprietario del locale, Sam, tossì sul bicchiere che stava pulendo.

Nathalie s’accigliò. Quell’uomo aveva un nonsochè…

Prima che ci potesse pensare su, la ragazzina l’aveva già trascinata via dal locale, sotto la pioggia fragorosa.

 


>>Ilaja: Scusatemi per la lunga assenza, ragazzi!! E' stata davvero imperdonabile!! T-T Che tristezza passare la vita a studiare greco per la scuola. Davvero. Non è che lo faccia apposta di stare assente così a lungo *sigh*

Sempre per il greco (no, scherzo, non posso usare la stessa battuta. Troppo deprimente =.= E' per letteratura -.-") purtroppo non ho la possibilità di rispondere individualmente ad ogni singola recensione lasciatami (compresa quella della mia amata LeFauconD'Argent al primo capitolo *me commossa*). Comunque, credo che nei prossimi giorni vi risponderò per messaggio privato, sempre che non vi dispiaccia, e sempre se i miei prof non si decidono di farmi una visitina durante le vacanze di Natale per darmi altri compiti. Sarebbe davvero sgradevole u.u

Aehm, per il capitoletto, non c'è molto da spiegare: vi avevo già accennato che questa storia si basa su due personaggi, e qui vi viene presentato il secondo, l'agente Kitty (che di poliziesco non ha nemmeno l'uniforme ^^). Per i misteri...be', qui faccio la sadica: DOVRETE ASPETTARE IL PROSSIMO CAPITOLO

Come sono gentile con i miei lettori ^_^"

mi spiace ancora, davvero, non ho tempo...una ricerca sul tempo interiore di Virginia Woolf mi attente -.-"

Buon Natale e felice 2011 a tutti!!!

Vostra,

Ila <3

 

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Capitolo 4
*** 4. L'inganno del destino ***


 

Adikìa - La legge del più forte

4. L’inganno del destino

Abby correva come non mai. Inciampando nella paura e nell’ansia, nel terrore che quel ruggito sentito poco dopo potesse significare qualcosa, correva, il vento che non le sussurrava più parole gentili all’orecchio, bensì pensieri orrendi, nati da idee di spavento che assaltavano la sua mente. E mentre i capelli svolazzavano noncuranti al soffio della corrente di ovest, e i piedi volavano tra le viole e i le margherite, sentiva una pressione sempre crescente sul cuore, così forte dall’impedirle di respirare.

Jason l’accostò nella corsa. Abby si sentì tranquillizzata dalla presenza del suo amico.

Il sole delle dieci si era nascosto dietro nuvole cariche di pioggia quella mattina. La malga era ancora vuota, i visitatori sarebbero arrivati solo verso mezzodì. Quella volta, però, Abby provò uno strano senso di vuoto.

“Mamma!” gridò. “Papà!”

“Clarie! Richard!”

Il vento faceva sbattere in un modo inquietante le imposte di legno contro le pareti bianche di calce.

Abby sentì le lacrime confondersi assieme alla pioggia sulle gote. “Dean!” singhiozzò. “Ci siete?”

Jason comparve al suo fianco. Abby gli si gettò addosso. “Dove sono finiti?” domandò contro il suo petto. “Dove sono?”

Non riusciva nemmeno a rendersi conto che lui le stava accarezzando i capelli, e che il suo cuore batteva forte quanto il suo, all’unisono, come due uccelli inseparabili che chiedono in sincrono di stare insieme per sempre.

Dopo un po’, Jason si scostò per asciugarle le lacrime. “Ehi, Sherlock” mormorò. “Su, facci vedere cosa sai fare.”

Abby annuì con vigore. Giusto. Doveva mantenere la calma. Non era una bambinetta ipersensibile e piagnucolona. Nossignore.

Ormai la pioggia si faceva più incessante, picchiava sul fango, batteva il ritmo di una macabra danza di solitudine. Jason era corso a coprire gli animali e farli andare nelle stalle. Abby sondava il terreno prima che l’acqua cancellasse il terreno smosso dagli scarponi dei suoi genitori.

“Abby!”

“Cosa c’è?” si affannò lei, dopo essere scivolata nel fango del cortile. Lui le sventolò di fronte agli occhi un biglietto di carta straccia, poco più piccolo di quelli che si accludono ai regali di compleanno. La grafia era sottile e sbilenca, vergata di fretta o con molta malagrazia. Già i

goccioloni di pioggia fredda e pungente stavano scacciando le piccole macchie d’inchiostro da prima sbiadite.

Il biglietto era attaccato ad una trave con un chiodo arrugginito. Nel strapparlo, Jason aveva smembrato metà foglio.

“Che aspetti?” fece Abby, elettrizzata come il fulmine che aveva rimbombato un minuto prima, nella vallata accanto a loro. “Leggilo!”

“Aspetta!” esclamò Jason. Anche lui correndo, con Abby che scivolava sulla sua scia, si fece strada nel cortile traboccante d’acqua per raggiungere le sue stanze. La ragazza vi fece il suo ingresso leggermente imbarazzata; non era poi molto allenata in fatto di maschi.

La camera, però, era molto semplice e scarna, con un mobilio modesto e qualche abito buttato per terra, tanto per specificare che a vivere lì non era una pensionata con dei gattini.

Gli unici effetti personali erano qualche libro impilato sul pavimento, un album di fotografie rovesciato sul dorso, sopra la trapunta del letto sfatto, e un paio di schizzi: un lupo mannaro dall’aria ubriaca, una chimera che sorrideva sorniona in mezzo ad una radura, un piccolo goblin appena nato e uno spiritello Ala di Fiore, di quelli che s’incontrano solo in mezzo ai boschi, miti creature in grado di donare, se si è gentili con loro, qualche goccia del loro unguento magico, capace di curare anche le ferite più profonde, nel corpo come nell’animo. Spesso si diceva che solo il tempo sarebbe stato in grado di cicatrizzare un cuore piagato; gli Ala di Fiore, per la loro tranquilla esistenza, erano infatti così attaccati al placido scorrere del tempo che, ormai, ne avevano fatto casa loro.

“Belli questi schizzi” commentò Abby, ammirata.

Jason abbozzò un sorriso. “Sì, mi sono venuti bene” sbottò, brusco. In fretta e furia accese una candela con un fiammifero mezzo smozzicato, la piazzò sul tavolo di legno e chiamò la ragazza a sé.

La cera colava lentamente, mentre gli occhi della giovane s’infuocavano come la fiamma sul cerino.

Una goccia bianca si appiccicò alla carta ormai sfaldata dalla pioggia.

La finestra sbatté.

 

Certe volte, nei thriller al cinema, la tensione si accomuna a piccoli particolari melodrammatici. Per esempio, adesso la candela di Abby si sarebbe dovuta spegnere ad un soffio d’aria gelida, oppure lei sarebbe svenuta, come minimo, mentre una gallina dal rostro affilato, scappata dalle stalle, avrebbe fatto irruzione beccando a sangue la giovane. E il sangue si sarebbe confuso con la cera, e da lì sarebbe nato il titolo del film.

Be’, gente, siete ancora in tempo per cambiare sala.

O andare a letto stringendo un orsacchiotto.

Tuttavia non lo farete.

Perché?

Semplice.

Perché quando il film si tramuta in realtà, nessuno ha più il coraggio di stringersi tra le coperte e affondare il viso nel pelo del peluche, o di abbandonare il cinema quando la notte è già calata, o di acquistare un pacco di pop-corn per il prossimo cartone animato.

Si riesce solo a rimanere freddi ed immobili come statue di marmo, rivoli gelidi che percorrono la fronte piana, dita bianche che non sentono più il tavolo che stringono convulsamente.

Abby lo sta facendo.

Però nella vita, il regista che le punta addosso una luce blu purtroppo non esiste.

 

Jason provò a leggerlo ad alta voce. La condivisione aiuta a superare i problemi, dicevano alcuni esperti, colleghi Clarie. Lei, quando non era occupata alla malga, era una psicologa.

In quel momento, Abby sentiva un incessante bisogno di lei. Con tutta sé stessa.

Il ragazzo si schiarì la voce, e lei sentì d’un tratto il pavimento sprofondare sotto i suoi piedi tremanti, e il suo cuore venir pestato dalle radici brulicanti sotto la terra fradicia, e la sua fiducia, l’esile speranza che ancora la legava al mondo crudele di cui faceva parte, la fede che illuminava le notti insonni, scomparvero assieme al colore delle gote, e alla sicurezza che prima aveva provato ogni volta che sentiva pronunciare una frase dalle labbra della madre. “Noi ci saremo sempre, per te, tesoro mio.”

Sentì le gambe cedere e si accasciò sul letto, senza un gemito, gli occhi vuoti fissi sul pezzetto di carta che stringeva Jason.

“Recatevi a mezzanotte alla radura del ragazzo. Ostaggi in pericolo. Lui sa cosa voglio.” In calce c’era una macchia nera. Bava di Ombra. L’amico di Abby trattenne il disgusto.

Silenzio, rotto dal soffio delle nuvole all’orizzonte.

“J-Jason.”

Lui si voltò, lo sguardo in ombra. Lontano rintoccò l’orologio di Pesariis. Mezzogiorno in punto.

Fuori, una farfalla sfavillò alla luce del sole vivo dietro il velo di nubi oramai schiarite, e una ghiandaia cantò. Di nuovo.

“Ti prego.”

“Dopo.”

“No!” Abby scoppiò in lacrime, ma la voce non era rotta. Era ferma e imperiosa come lo sguardo che accusava Jason come un fulmine sotto la pioggia, un lampo di decisione che dava forza alle labbra contratte, alle sopracciglia arcuate, a capelli scostati dalla frangia, al mento sporto in avanti, e alla gola che sobbalzava, scossa dai singhiozzi.

Jason non aveva la forza di venire colpito ancora da quel fulmine.

“Jason! I miei genitori e Dean stanno morendo! Morendo, Jason! Questo, almeno, sei in grado di capirlo?”

Accuse su accuse, e una ferita nel cuore.

“Abby…”

“Abby un corno, Jason! Fino ad ora ho finto di crederti. Non ricordi nulla? Benissimo. Non è affar mio. Quando però c’è di mezzo la mia famiglia ti tocca svuotare il sacco. Ora!”

La ghiandaia rispose con inaspettata gaiezza al tono duro della ragazza, che ormai non riusciva più a frenare il pianto.

Lui cercò di calmare le sue convulsioni, ma lei lo scacciò via. Lo odiava.

Jason si sentì morire.

Infine, decise.

“E’ una questione che bisogna affrontare con i fatti. Vieni.”

La trascinò via, mentre gli singhiozzava addosso, e, pur maledicendosi per la propria sensibilità, si ritrovò anche lui gli occhi annebbiati dal dispiacere, mentre il sole andava scivolando fuori dalla portata delle nubi assassine, ormai vuote di pioggia.

Odiava quella luce allegra quanto odiava sé stesso.

 

La foresta era un intrico pericoloso di vita infida e traditrice. Non ci si poteva fidare nemmeno della roccia che spuntava tra il fango: al momento opportuno, lei avrebbe teso una trappola e chiunque avesse osato avvicinarla si sarebbe ritrovato con le gambe penzolanti su una scarpata sassosa.

Jason aveva scelto il sentiero meno sicuro e meno conosciuto dell’intero monte Männlich, una scia di terra ed argilla che si intrecciavano, con a sinistra una flora rigogliosa che sapeva di fresco, e a destra un bel dirupo profondo qualche decina di metri, sotto il quale si scorgevano pietre appuntite e rapaci ingordi, che adocchiavano con pazienza e avidità uno dei soliti spiritelli avventati che svolazzava solo soletto alla ricerca di un compagno per alleviare la solitudine.

Le scarpe da ginnastica di Abby non andavano bene per quel tipo di percorso; il taglio del terreno smussato non veniva assorbito dalla suola, come era invece per Jason, che indossava gli scarponi da trekking. Risultato: nel giro di pochi minuti aveva le piante dei piedi doloranti per i calli e le avversità della montagna, la testa che le girava per il pianto e il corpo ridotto a un piccolo ammasso di tendini e muscoli, privo di qualsiasi forza di volontà. Presto Jason dovette sorreggerla, nonostante le sue proteste sdegnose. “Sei debole” disse lui, a mo’ di spiegazione.

Lei, in tutta risposta, scoppiò a piangere. “Mi faccio schifo!”

“No, dài…”

“Sì! E’ vero! Non sono nemmeno capace di camminare…”

“Penso che la maggior parte delle persone non riesca nemmeno a reggersi in piedi dopo aver perso tutt’un colpo famiglia e casa.”

Abby tirò su col naso. Gli occhi azzurri le luccicavano di tristezza.

“Ho sempre creduto di essere una ragazza ‘forte e tenace’. Sai, ci speravo veramente. Hai presente i romanzi noir? Quelli in cui la protagonista che deve risolvere i misteri è sempre – e nota bene il sempre – bellissima, dall’aria mistica, un po’ malinconica e con una forza di volontà inestinguibile?”

Jason annuì, lo sguardo perso nel vuoto della strada di fronte a loro.

“Ecco, io ho sempre pensato di essere lei. Ormai ero così satura di quei racconti che immaginavo la sua personalità fosse entrata in me. Capisci cosa voglio dire? Io volevo essere diversa. Da tutti.”

“E lo sei.”

“Non è vero, e lo sai anche te. Ho pianto come una bambina per due ore da quando abbiamo iniziato a camminare. Sono penosa.”

“Saresti penosa se non avessi pianto. Allora sì che mi sarei preoccupato.”

“Invece di farmi forza mi sono lasciata andare…”

“Sei una ragazza, Abby! Non un’eroina dal cuore di ghiaccio! Anche io mi sarei tirato dietro quello scemo di Jason obbligandolo a dirgli tutto se fossi stato in te!”

Quell’affermazione risuonò come un allarme nella mente di Abby. Si era dimenticata della situazione, lasciando libero spazio allo sfogo come ogni giorno d’estate, quando chiacchieravano placidamente all’ombra di qualche albero.

Si scostò dal giovane. Aveva scordato che Jason era lì, immutabilmente lì, senza alcuna scusa per quello che aveva fatto. Non sapeva cosa fosse stata la causa di tutto ciò; era solo cosciente del fatto che la causa per cui i suoi genitori e suo fratello rischiavano la vita era quel ragazzo misterioso che le camminava di fronte. E lei doveva avercela con lui, per forza.

Il frusciare degli alberi confuse i loro respiri.

 

Sbucarono in una radura tiepida di sole, coperta da un soffice sottobosco di arbusti e rametti spezzati. Lì il vento non soffiava poi tanto forte, frenato com’era da quegli alberi imponenti e massicci di decenni passati, dalla cui fronda spuntava la cresta del Männlich, spogliata dalle intemperie, secca e ruvida come la carta vetrata contro il polpastrello morbido di un bambino.

Abby trasalì. Quel posto le ricordava un episodio, così vicino eppure tanto lontano… Ma non sapeva di cosa si trattasse.

Chiuse gli occhi. Colori confusi… un intrico di motivi soleggiati… Una figura scura…

Un anello di nuvole circondava la pineta. Duncan accarezzava la sua capigliatura dorata, rilucente ai raggi solari, riflessi dalle ali dello Spiritello Campanula che svolazzava sereno sopra le loro teste.

Lei rise, una risata cristallina, come quel lago di diamante che ondeggiava al passaggio delle libellule, quello accanto alla loro baita, dove vivevano, felici, tanto felici.

“Guarda, Duncan” indicò con quella bocca di rosa, una macchia nera che s’addensava al cielo. “Rondini!”

Lui stava per baciarla, volgendo il suo viso verso il proprio, illuminando con il suo sguardo azzurro l’erba accanto a loro. Lei si voltò…

“Ti senti bene?” Abby sussultò al tocco del ragazzo, dolce e premuroso.

“Non te ne dovrebbe fregare nulla” sbottò, cacciando indietro lacrime amare di dolore e di tristezza. Lo allontanò con rudezza.

Jason ingoiò i sensi di colpa che gli rodevano il cuore, ma sostenne lo sguardo accusatorio della ragazza. “Abby” disse, con un tono così serio da spaventarla. “Se questo posto ti ricorda qualcosa, me lo devi assolutamente dire. Non sai cosa…”

“Non sono affari tuoi!” sbraitò in tutta risposta la sua compagna.

“Sì, invece!” ruggì lui. “E’ importante!”

“Più importante della vita dei miei genitori e di Dean? Non credo!”

“Parla!”

“No, tu!”

Lui urlò, fustigò con pugni e calci il primo tronco che aveva a portata di mano, imprecò verso il cielo impassibile. Rabbia e furore si fusero in muscoli contratti e sguardi persi nel rosso dell’odio.

“Devi dirmelo” ripeté, ansante, alla ragazza che lo fissava, spaventata da quello scatto. “Subito.”

Lei si morse le labbra. Non voleva dargli ascolto. Era un traditore, null’altro che feccia in quel mondo orrendo…

“Guarda, Duncan! Rondini!”

L’avrebbe voluta baciare, abbracciare, sorriderle e stare con lei, sempre.

In un momento appropriato, però.

Le rondini volavano, ma s’intensificavano, sempre più; e sempre più Duncan capiva che non erano rondini, ma ombre, di cenere, di male e dolore…

Capì. Quando era troppo tardi.

“Abby! Abby!”

La ragazza si riebbe quando sentì un fiotto d’acqua gelida percorrerle la schiena. Era fradicia; i capelli appiccicati al mento liscio di pioggia, le braccia colorate dal fango. E il petto di Jason contro la sua fronte, che batteva, in sincrono con il suo, le sue mani che l’abbracciavano, i singulti che lo facevano piangere…

“Jason” soffiò dolcemente, la testa che le girava, il sonno pressante sulle sue palpebre. Il ragazzo la strinse a sé.

Il cielo rombava sotto le loro teste, mentre il pomeriggio avanzava, impavido, verso quella mezzanotte cruciale.

“Ti riporterò i tuoi genitori, Abby.”

Fulmini che squarciavano la volta nuvolosa.

“E’ una promessa.”

 

***

>>Ilaja A volte ritornato. Essì. Stavolta sono tornata davvero. E non lo dico così, tanto per fare: ho la seria intenzione di aggiornare più continuamente. Mhh, dubitate? Beh, non avete tutti i torti. Ma mi dovete credere, senza Internet era davvero impossibile aggiornare le storie. A meno che tu non sia Superwoman o una nuova pazza psicopatica di quelle che escono in tv ogni anno urlando "La fine del mondo è vicina!" per le quali, ovviamente, nulla è così lontano dal realistico. Ma tralasciamo questi discorsi (e tralasciamo anche le ben tre frasi iniziate con una congiunzione. Che delirio).

Allora, anche se saprò non riceverò più nemmeno la più remota, neutra e insignificante delle recensioni, perchè naturalmente voi non mi perdonerete MAI, continuo a scusarmi. Lascio scritto che ringrazio tutti quelli che hanno recensito, a cui risponderò via privata.

Grazie per l'attenzione.

Ah, non vomitate subito dopo aver letto il capitolo. Aspettate almeno di vedere qualche sfornato fatto da me =)

Baciiii

Ila<3

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Capitolo 5
*** Una traccia ***


Capitolo 5. Una traccia

Nathalie odiava la metropolitana. Puzzava, la gente non si lavava, e i sedili erano sudici, stantii e vecchi. Un posto orribile.

La sua piccola accompagnatrice, invece, si era rannicchiata accanto al finestrino ed era intenta ad osservare la sequenza di mura che si susseguiva, con il correre del treno, sferragliando alla velocità del vento.

“Prima che lei lo veda” iniziò, “è bene che lei sappia tutto ciò che c’è da sapere.”

La biro di Nathalie scattò.

Kitty ridacchiò. La risata era triste. Forse anche quelle precedenti lo erano state. Anche la sua solarità nel locale poteva essere stata forzata.

Oltre che la notizia, Nathalie prese ad analizzare anche la sua inesperta ospite. Si mordicchiava le unghie, stringendosi sempre di più nel suo cappotto pesante. Nonostante quella maggiore età che dimostrava il suo fisico, i comportamenti sembravano quelli di una bambina sulle soglie dell’adolescenza.

La donna s’accigliò. Mai vista una persona più strana.

Kitty smise di ridere. “Mi sa che quel blocchetto non le servirà. Lo metta via.” Suonava quasi come un ordine.

Lei sbuffò, e ripose tutto nella borsa. Anche se scoccianti, doveva sottostare alle regole del gioco. Ne valeva dello scoop.

“Allora, ancora tanti misteri? Su, parla, non ho tutta la giornata.”

“Mi sa che la dovrà avere, signora. Non stiamo andando nella via accanto.”

Nella mente di Nathalie scattò un campanello d’allarme. “Fammi capire bene” fece, tremendamente nervosa. “Mi stai dicendo che hai lasciato il tuo luogo di lavoro per uscire con me, una sconosciuta che hai notato in un bar squallido, e portarmi dall’altro lato della città, solo per ‘avere i miei servigi’, che non sei nemmeno sicura che avrai?”

Kitty ridacchiò. “Esatto, signora. Ma su una cosa si sbaglia. Io non l’ho notata. Avevo già in mente di rapirla per portarla dove volevo io, e di farle scrivere quell’articolo, che lei lo voglia o no.”

Nathalie si sentì vittima di una congiura tra ragazzini imbranati. Rise, genuina. “Certo” assentì, prendendola in giro.

“E’ una cosa seria.”

“Detta da una che si mangia le unghie e indossa il cappotto di sua madre? Serissima.” Assunse un’aria contrita.

La giovane lo prese come uno scherzo; ma la voce che le uscì di bocca era tagliente come il ghiaccio. “Mi stia a sentire” parve ironizzare. “Le dico la notizia poi lei decide, d’accordo? Può sempre scendere dalla metro.” Le indicò il portello appena chiusosi, alle sue spalle.

“E non potevamo parlarne al bar? Qual è il motivo di queste stranezze.”

“Il fatto che lei non può scegliere al bar.”

“Ma se hai appena detto che posso scendere quando mi pare!”

Kitty alzò gli occhi al cielo. “E’ evidente che non mi so spiegare.”

“Molto, direi.”

“E va bene, ora tenterò di dirle quel che so. Perché non sono solo io a far parte di questo…diciamo, ‘progetto’.” Sorrise, furba.

“Si sbrighi! Ci sta girando attorno da almeno un’ora!”

“Gesù!” sbraitò la mocciosa. Nathalie iniziava ad odiarla con tutto il cuore. Si morse la lingua per non darle l’opportunità di ribattere ancora e iniziare questa benedetta storia.

“Avrà di sicuro sentito parlare degli omicidi avvenuti a Vienna” disse lei.

Nathalie annuì.

“E saprà di sicuro che la polizia ci sta girando intorno da settimane senza uno straccio di indizi.”

“So anche questo, sì.”

“Perché non ci ha scritto sopra un articolo?”

“Perché è stato affidato ad un mio collega, molto più inesperto di me, che se ne intende con i casi senza conclusione.”

Kitty sorrise. “Molto bene” fece. “E’ ora che inizi a dar del filo da torcere ai colleghi inesperti.”

 

Michael Dumas odiava la gente che lo faceva aspettare. L’ansia dell’attesa gli faceva colare il sudore nel colletto della camicia, e questo gli dava un tocco di antiestetismo davvero orrido.

Stava alla finestra, come le tante altre volte in cui aveva atteso, inutilmente o no, l’arrivo di qualche suo dipendente un po’ scalmanato. Sempre la stessa finestra, dai vetri scuri, che sostava imponente all’apice di un alto edificio, anch’esso nero come la notte e freddo come il metallo della sua struttura, che dominava imponente la piazza, poco distante dal burrascoso Danubio e i suoi ponti brulicanti di gente.

Gli unici rumori che si sentivano era il ronzio del computer che scaricava e riceveva dati su dati, e il ticchettio della sveglia digitale ancorata sul tavolino di mogano. A Michael piaceva quel ticchettio: gli dava un senso di austerità e di rigore. Gli scandiva il tempo che passava, il tempo che necessitava a lui per lavorare correttamente e con disciplina, la stessa disciplina che avrebbe dovuto trasmettere ai suoi dipendenti, se solo loro non fossero così testardi.

La porta si aprì. “Signore” fece la sua centralinista. “Abbiamo appena ricevuto una brutta notizia.”

Dumas si voltò. “Quale?”

“C’è stato un nuovo omicidio. Un altro avvocato, William Moseley, che aveva appena lavorato alla causa di Hioshimo Oharta, il terrorista giapponese.”

“Un altro? Avete già mandato una squadra?”

“Ci hanno pensato quelli del reparto 7, residenti in quel quartiere.”

“Molto bene. L’hanno preso?”

“Assolutamente no, signore. Anzi, l’agente Jones, intervenuto prontamente sul posto, è stato ucciso assieme alla vittima.”

Dumas corrugò la fronte. “Quale, delle due?”

“Anne Jones, signore. I giornalisti sono già all’entrata dell’ufficio.”

Dumas imprecò.

“Va bene, organizza per il finesettimana una conferenza stampa, così staranno buoni. C’è altro?”

“L’agente Jones – l’altra – è appena entrata con la signorina Marlison. La stanno raggiungendo.”

“Grazie.”

La centralinista chiuse la porta.

Michael Dumas, a capo della polizia viennese da più di vent’anni, si passò la mano tra i capelli ispidi. La morte di Anne avrebbe reso la sensibile Kitty ancora più emotiva di prima. Questa volta, però, non se lo sarebbe potuto permettere. Non ora che era al centro del caso più eclatante della storia austriaca.

“Buongiorno, signore.”

Dumas si voltò. “Agente Jones, signorina Marlison, buongiorno.”

Nathalie lo salutò. “Salve, signore.”

Duma si rivolse alla sua dipendente. “Lei già sa…?”

“Sì, signore.”

Dumas annuì. “Molto bene. Allora è bene che inizi a prepararsi per la spedizione.”

La donna si accigliò. Poi la confusione si schiarì, e la verità la fece raggelare. “Oh, no” gemette. “No no no, signore, io non…”

“Mi sa che deve, signora. La cime del monte Mannlich l’attende.”

 

La centralinista di Michael Dumas era sfiancata dalla stanchezza. Quella mattina aveva superato sé stessa, alzandosi alle 6.30 e rovinandosi il trucco sulle palpebre con una stropicciata agli occhi. Se pensava che c’erano pendolari che si svegliavano a quell’ora tutte le mattine, le venivano i brividi. Mamma mia. Come facevano con la permanente ai capelli??

Stando ben attenta a non spezzarsi le unghie di lunghezza vertiginosa dipinte di rosso, si rassettò la gonna attillata e si risistemò alla tastiera del computer. Odiava dover scrivere messaggi via e-mail. Senza dubbio si sarebbe scheggiata le dita smaltate.

Purtroppo, liste infinite di lavoro da sbrigare l’attendevano alla scrivania, e lei non le poteva far aspettare.

Facendo molta attenzione al dorso, usò il polpastrello del pollice per accendere il computer. Appena aprì una finestra di Internet Explorer, però, un omuncolo di bassa statura e di pessimo odore si avvicinò al suo bancone.

Lei alzò un sopracciglio tirato. “Prego” fece, impassibile.

“Dovrei vedere il signore Dumas.”

Il sopracciglio si inarcò ancora di più. “Michael Dumas è impegnato al momento. La prego di aspettare.” Gli indicò la sala d’attesa, nascosta dietro una parete di vetro. Lì sostavano le persone che erano venute lì per denunciare un furto, un rapimento o un abbandono. Donne piangenti e uomini arrabbiati si disperavano sulle seggiole di plastica mezze distrutte da dieci anni di lavoro in quell’edificio. L’uomo storse la bocca. “Guardi che è importante.”

“Anche il suo incontro è importante. Così come il mio lavoro. Quindi per favore la smetta di importunarmi e si metta seduto.”

Lui ringhiò. “Importunarla? Kitty Jones sta importunando Dumas, semmai, quindi per favore, mi lasci passare.”

“Come sa di Kitty Jones?”

“So tutto. Mi faccia passare.”

Almeno se lo sarebbe levato dai piedi.

“Ultimo piano, ufficio B” sbottò la centralinista, molto seccata.

 

“Andremo sul monte Mannlich, sì” continuò Dumas, ignorando i gemiti della Marlison. “Come lei sa già, gli unici indizi che si sono resi utili in qualche modo all’identificazione dell’assassino – sto parlando della foto scattata da un bambino con il cellulare durante la rincorsa per le strade di Vienna e dei testimoni oculari che l’hanno visto – ci riconducono là. E là noi lo dovremmo catturare, e lei scrivere il suo articolo, se tutto va bene.”

“L’agente Jones, allora” ribatté la donna “deve aver mancato di riportarmi qualche particolare. Da quanto ho capito, tutti gli indizi – mancanti, oserei dire – mandano allo stesso individuo, giusto? Il fatto che le molecole si mescolino fanno apparirlo come un mutante, uno particolarmente pericoloso, visto che non è registrato agli appelli delle creature sovrannaturali.”

Dumas annuì silenziosamente. Kitty si sedette su una sedia imbottita, guardando con aria truce la sua compagna. Lei riprese a ragionare: “Un’altra cosa che ho capito è che questo essere è imprendibile. Se è vero che è in grado di cambiare corpo, e se queste molecole girino a velocità impressionante da non riuscire a catalogarle, non lo possiamo identificare in alcuna persona. Quindi come può essere” e qui guardò male Kitty. “Come può essere che riusciate a capirne l’identità con una fotografia e una dichiarazione visiva?”

“Comparazione” rispose pacato Dumas.

“Che?”

“Comparazione. Comparare cose con altre.”

“So cosa significa” riprese ad attaccare la Marlison. “E su che cosa vi basate per comparare il volto di questo assassino con altri?”

“Non lo compariamo con altri assassini, ma con gli altri suoi avvistamenti. Le ultime persone che hanno visto le vittime e la faccia dell’uomo che si presume fosse l’omicida concordano tutte su una foto. Questa foto.” Si avvicinò al suo computer ronzante, un Apple di ultima generazione. Cliccò su una cartella che si aprì con un beep. Ne uscì un documento, con tanto di foto, scannerizzazione della carta d’idoneità e dati specifici.

“Signora” concluse “ecco il motivo per cui ci andremo a fare una passeggiatina tra i monti.”

Nathalie Marlison accennò a una risata. “Come mai questo mutante è riuscito a farsi prendere l’impronta digitale?” Indicò la macchia scura sulla scannerizzazione della carta.

“Questo” disse Dumas prendendo il cappotto “E’ quello che andremo a scoprire.”

 

Dustin Sedgewick era nato tra attori professionisti. Sua madre era di origine italiana, uscita con successo dall’Accademia di Arti Drammatiche di Milano. Suo padre era un artista di strada, cresciuto tra birra scaduta, oltre che scadente, e giocolieri che si guadagnavano da vivere gettando palle incandescenti tra la folla. Dustin non l’aveva mai conosciuto, ma poco importava; aveva sangue d’autore nelle vene, e ci faceva i conti più che volentieri.

Per cui, non ritenne opportuno entrare burrascoso interrompendo la spiegazione di Dumas. Oltre che poco decoroso, era anche poco artistico. Preferì attendere la frase finale, quella con più enfasi in cui il climax si addensava per poi dissolversi subito con la conclusione della scena.

“Questo” disse Dumas, mentre prendeva il cappotto “E’ quello che andremo a scoprire.”

Era il momento. Sedgewick si schiarì la gola, pregustandosi un’entrata trionfale e virile. Stava per entrare in scena. “Questo invece, Mike” avrebbe detto, “è ancora da vedere.” E allora lo sguardo di Kitty Jones si sarebbe rivolto a lui con…

“Toh, guarda chi c’è” sentì una voce ridacchiare di fronte a lui. Alzò lo sguardo e… non poteva crederci.

“Dustin Sedgewick. Come mai da queste parti?” Quella voce melodiosa era del tutto fuori luogo in quel frangente. Kitty non si sarebbe dovuta accorgere…

Al diavolo. Per Sedgewick, la finzione e l’irrealtà erano la chiave della sua vita. Odiava che qualcuno ci mettesse sopra le mani, anche se si trattava di quella meravigliosa creatura che era Kitty Jones. “Passavo di qui” borbottò, irritato. Oh, mannaggia, era pure diventato rosso. Che perdita di charme.

“Mi spiace interrompervi ma, se mi è concesso intercedere…”

“Cosa vuoi, Sedgewick?” ringhiarono Kitty e Dumas insieme.

Lui alzò le mani con un gesto difensivo. “Vengo in pace, amici.”

“Già il fatto che ci chiami amici non mi piace” sbuffò la Jones. Dustin non le rispose. “Dumas” chiese invece, rivolto al dirigente, “ti chiedo di non mandare un plotone d’esecuzione laggiù.”

“Credo che tu sia rimasto un po’ indietro con la storia, Sedgewick. Siamo nel duemila. Ricordi? Il ‘plotone d’esecuzione’ non esiste più. Si parla di agenti.” Kitty sottolineò l’ultima parola indicando sé stessa, il proprio capo e la linguaccia che gli fece.

L’uomo alzò gli occhi al cielo. “Lascialo parlare” interloquì Dumas. “Vediamo cos’ha da dire, questa volta.”

“Ancora? Signore, gli abbiamo dato mille possibilità e nemmeno una è riuscito a non sprecarla” disse aspramente lei. Poi, però, tacque.

Prima che Sedgewick potesse aprire bocca, però, un altro intervento gli tolse la libertà di parola. Dalla sedia imbottita accanto a quella di Kitty si alzò una persona. Una donna. Snella, alta, con capelli castani stretti in un chignon e tratti marcati di matita sotto gli occhi scuri, a delineare lo spirito marcato, oltre che il carattere. “E chi sarebbe lei?” chiese la donna seccamente.

“Un pazzo” disse la Jones.

“Un genio” fece Dumas, invece. “Ma incompreso pure da sé stesso.”

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Capitolo 6
*** Crepuscolo ***


Capitolo 6. Crepuscolo


“Era buio” iniziò, non senza sospirare, Jason, “ancora non ero conscio di ciò che era accaduto.”

Abby si strinse nella sua maglia. Profumava come la sua pelle.

Si trovavano in un anfratto naturale, scavato nell’argilla secca di millenni e nascosto alla vista da una folta vegetazione che cresceva, inesorabile, crudele, lungo la parete di muschio.

La risposta a come facesse Jason a conoscere un posto del genere, e ad essere al centro di quella meschina vicenda, era attesa dalla ragazza con trepidazione.

Lui l’abbracciò con lo sguardo. Abby lo sentiva più vicino che mai.

Ormai, però, non poteva più fare niente. L’aveva tradita, lei per prima; e non voleva permettere, anche se il suo cuore desiderava ben altro, che si illudesse che l’avesse perdonato. Non l’avrebbe mai fatto.

Un’eroina dal cuore di ghiaccio non perdonava mai.

“Quando mi risvegliai, non vedevo nulla. Solo ombra, e cenere. Sì, ero steso sopra mucchi di cenere. Non so da dove provenissero, probabilmente da un falò appena concluso, magari proprio da quel fuoco che mi aveva ridotto nello stato pietoso in cui mi trovavo. Avevo segni, e ferite, e ustioni, e tatuaggi incisi nella pelle. Intrichi di rune che non conosco, ma che ho imparato a decifrare; cicatrici fatte con il ferro rovente. Ero stato torturato, ne ero certo, ma ancora non so…”

Abby era scioccata da quell’inizio. Mai avrebbe immaginato che fosse successo a Jason; mai avrebbe immaginato che quelle tracce…

Chiuse gli occhi e sospirò. Lacrime le salirono agli occhi, anche se non sapeva bene perché. Stanchezza? Dolore? Confusione? Forse tutto l’insieme.

Jason alzò una mano, come per consolarla. Poi la lasciò ricadere sul ginocchio, e non disse nulla.

Preferì continuare, invece. “Il dolore che provavo… non sapevo se fosse interiore o fisico. Magari erano entrambi, e non me ne rendevo conto. Avevo otto anni, e non capivo cosa mi stesse succedendo. Sapevo solo che faceva male, qualunque cosa fosse.

“Quando uscii dalla caverna in cui mi ritrovavo – questa, per l’appunto. Ti ho portata qui perché lo ritenevo un luogo sicuro, affidabile, familiare – la luna ormai era tramontata. Albeggiava; e io non sapevo dove andare.”

Abby tremava. Jason l’avrebbe volentieri presa tra le braccia, ma non ne aveva il coraggio.

Si tolse la maglia e le scarpe. La ragazza distolse gentilmente lo sguardo. Lui rise, anche se era totalmente fuori luogo. “Non preoccuparti, ti do’ il permesso” ammiccò, cercando di sollevare un po’ il morale sotto terra della giovane. Lei sorrise, ma non servì a nulla.

Jason si girò, a mostrarle i segni che aveva sulla schiena. Sentì l’amica che tratteneva il fiato. Sì, erano orribili. “Ma non fanno più male come una volta” tentò di dire, anche se non era vero.

Sul dorso del ragazzo, circoli neri d’inchiostro si avvolgevano in una spirale maligna. Era percorsa da spine appuntite, intricate tra rametti di biancospino. Al centro del disegno si stagliava un enorme germoglio, verde scuro sulla pelle chiara del giovane. Era fatto benissimo, con una maestria; ma attorno all’icona, negli spazi intercedenti i vari livelli della spirale, si stagliavano rune dall’aria arcaica, eppure, anche se sconosciute, minacciose. Perché Abby scoprì che poteva leggerle, al primo sguardo. Ed erano minacce di morte, di distruzione, di collera ed ira.

Il tatuaggio che sfigurava l’intera schiena del ragazzo era poco leggibile, perché sciupato dal tempo e dal suo stesso possessore. Si vedeva come aveva cercato di sfregarselo via; come la pelle si era staccata sotto la sua furia, sotto ferite che si era auto inflitto. “Mio Dio, Jason” si lasciò scappare lei. “Cosa ti sei fatto?”

“Mi hanno costretto. Non volevo più portare quei segni addosso. Però ancora si leggono, nonostante i miei sforzi.” Si rimise la camicia. “Anche tu riesci a leggerli, vero?”

Abby annuì, a disagio. “Sono cose orribili.”

“Sì.”

“Ma io non capisco… come faccio… come facciamo a…?”

Il ragazzo scosse la testa. “Prima guarda anche questo…” Si alzò i pantaloni fino al ginocchio. Sembrava che tutte le sue gambe fossero state massacrate. In effetti, non sembrava, ma era: cicatrici bianche risaltavano traslucide sulla sua pelle, in mezzo a tanti cerchi, e rombi, e scritture arcane che Abby lesse lo stesso. “ ‘Perché sei tu e non un altro, in nome della dea distruttrice Calì, io invoco il sacrificio…’ Calì? Una religione orientale?”

“Non so perché si trovi quel nome in questi tatuaggi. Viene nominato solo una volta, nella parte che hai appena letto. Sinceramente non ci capisco nulla.”

“E stai tentando di spiegarmi cose che non capisci nemmeno tu?”

“Sto tentando di spiegarti quella poca di chiarezza che ho fatto in dodici anni di riflessione. Se tu mi stessi ad ascoltare, invece che andarmi sempre contro, magari riusciresti a capire qualcosa che a me è sfuggito.”

Abby si morse le labbra, ma non chiese scusa. Lo fissò negli occhi, parlandogli con lo sguardo.

Lui lo distolse, e continuò. “Questa non è che una piccola parte di quello che mi hanno fatto” disse, mettendosi a posto i jeans. “Non per fare il falso modesto, ma non mi va di farti vedere gli altri” ammiccò di nuovo. Abby ridacchiò con scarsa convinzione. “Okay, allora parti.”

Si era tirata leggermente su di morale. Jason se ne sentì orgoglioso.

“In mezzo alla foresta, all’alba, a otto anni, non credo nessuno sappia cosa fare. Io feci l’unica cosa che ci suggerisce il nostro istinto di umani; mi trovai un riparo e qualcosa da mangiare. Raccolsi dei lamponi in alcuni cespugli poco distanti da qui, poi dormii qui.” S’interruppe, pensieroso. “Ho fatto questa vita per qualche settimana. Passavo la giornata a girare per il bosco. Non vedevo più in là della foresta, non sapevo la strada per raggiungere il paese più vicino. Presto ebbi confidenza con i sentieri e le radure e le piante commestibili.

“Non ricordavo nulla della mia vita precedente. Il vuoto più totale. Non sapevo di avere genitori, non sapevo neanche cosa fossero dei genitori. Ero come un bambino appena nato che si trova a fare i conti con il resto del mondo. A malapena riuscivo a camminare.

“Imparai tutto da autodidatta. Parlavo il linguaggio degli animali, capivo i sussurri dei ruscelli; non pensavo di essere di una specie diversa da quella degli orsi, o dei cervi, o delle aquile che mi chiamavano dalle alte vette del cielo.

“Delle volte mi capitava di incontrare qualche viandante malinconico. Era inverno, e nessun umano voleva avventurarsi tra le cime di questi monti. Però feci amicizia con un fantasma, una creatura molto strana: le fattezze erano quelle di una ragazza barocca, ma quando mi guardava, sembrava mi perforasse l’animo.” Abby annuì. Anni prima aveva avuto come compagna di classe una ragazza fantasma, dalla pelle sottile e diafana. Portava sempre i capelli raccolti, ed era una bellissima fanciulla, di cui tutti i compagni di Abby s’erano innamorati, almeno una volta. Lei però era molto discreta; non parlava molto, e, se guardava negli occhi qualcuno, sembrava gli scrutasse le parti consce, inconsce e volutamente dimenticate della testa.

“La sera andava alla fonte, poco distante da questa caverna. E lì cantava. Un canto triste, malinconico, che trasportava irrealtà, e volontà di sognare, e di vivere in quei sogni; ma anche lei sapeva che non ce l’avrebbe mai fatta, e per questo cantava. Voleva sognare di vivere tra i suoi sogni.

“Per cinque giorni l’andai a trovare. Rimanevo lì, fermo, immobile, ad ascoltarla, come se tutta la mia vita dipendesse dal suo canto. Lei, al termine delle canzoni, mi guardava, e sorrideva. Un sorriso triste e tenero, che ancora oggi mi spezza il cuore. Credo che sia stata la prima ad avermi dato la possibilità di considerarla mia madre.” La voce gli si spezzò. “Poi, al termine della settimana, non venne. Era sparita. Come ogni fantasma, con la fine della sua seconda vita, era stata richiamata dove noi non vorremmo mai andare. E se ne andò.”

“Quell’incontrò mi insegnò tante cose. Capii che esistevano creature simili a me, in fattezze e sensazioni: avevamo entrambi due braccia e due gambe, dei capelli lunghi – si, mi arrivavano fino a metà schiena – due occhi, un naso, una bocca, delle orecchie. Inoltre, compresi che il linguaggio che avrei dovuto parlare era il suo, e non quello degli animali. Per te sembrerà una cosa strana, ma per uno che era cresciuto tra arbusti e cerbiatti, era abbastanza complesso da apprendere, come sistema.”

Abby scosse il capo. “No, posso immaginare…”

Jason alzò le sopracciglia.

Lei rise. “Okay, non posso! Ma va’ avanti, ti prego.”

“Erano passati due mesi dal mio incontro con il fantasma, e tre mesi dal mio risveglio nella caverna. Poi, vennero. Prima una, poi tante. Ombre dei morti, ombre oscure, ombre che non ho mai dimenticato. Mi scrutavano mentre dormivo, e, appena aprivo gli occhi, potevo solo scorgere un guizzo nero che si volatilizzava nel cielo mattutino.

“Immagino che anche tu abbia avuto paura, da piccola, dei ladri, o del mostro sotto al letto. Io avevo paura di quelle ombre. Minacciose. Le sentivo ridere nelle mie orecchie quando dormivo, ululare nel mio sonno. Non reagivo. Sopportavo, così, senza dire nulla, sperando che un giorno se ne sarebbero andate come la mia mamma.

“Un giorno, invece, fecero tutt’altro. Non erano stupide. Accorgendosi che ero sveglio, mi parlarono. Era una lingua arcana, non capivo, eppure sentii che avrei dovuto seguirle. Forse.

“L’insistenza delle Ombre, però, si fece serrata. Iniziarono a venirmi a trovare anche di giorno, poco prima del tramonto del sole.”

Abby tentennò. “Ma… ma sei sicuro che fossero… insomma… vere? Voglio dire, quella delle Ombre è solo una leggenda. Nessuno, nemmeno tra le creature che abitano tra di noi, le ha mai realmente viste. Non può essere che ti sia… insomma… inventato qualcosa?”

Lui la fulminò con lo sguardo. “Intendi dire che sto inventando questa storia?” ringhiò.

“No, assolutamente!” Abby iniziò ad aver paura. Jason la stava occhieggiando in modo feroce, orrendo. Ricordò lo scatto di rabbia di poco prima, come lui avesse reagito esageratamente per la sua colpa. Pur volendo fermarsi, non ci riuscì. “Pensavo… insomma, i bambini spesso si immaginano le cose. Io da piccola avevo un amico immaginario. Mi ha aiutato molto quando mi sentii sola, a casa della nonna, con i miei genitori quassù alla malga, senza nessuno veramente amico mio.”

Lui fremette. “Non ho inventato NULLA!!!” gridò.

Abby strillò di paura. “Jason…scusa, mi spiace…”

“Possibile che tu non capisca? Ero certo che fossi la persona giusta! Quello che ti sto raccontando è vero! I miei segni, le mie torture, la mia storia sono vere! Tutto è dannatamente VERO!!!”

“Perdonami, ho…”

Gli occhi divennero rossi. Abby si allontanò da lui, spaventata.

Poi, d’un tratto, si calmò. “Hai paura di me” mormorò, mortificato.

Lei non seppe cosa dire.

Lui si accasciò di nuovo a terra. “Hai paura di me” ripeté. Si guardò le mani, disgustato da sé stesso.

Abby balbettò qualcosa, ma lui non la sentì. “Sono un mostro” sussurrò, guardandosi ancora le mani. Erano piene di calli e ferite.

Tra i due cadde il silenzio.

 

“Mi sono sempre odiato con tutto il cuore …” disse Jason. Il sole era quasi tramontato, e, dopo un attimo di pausa, aveva ripreso a raccontare, come se nulla fosse successo. Anche Abby avrebbe voluto che nulla fosse successo.

“… da quando le Ombre mi hanno portato via.”

“Cosa?”

“Esatto. Dopo le incessanti richieste da parte loro di farsi seguire, accettai, pur di liberarmi di quelle creature che mi torturavano le notti e il sonno. Avevo quasi nove anni.”

“Sei resistito parecchio” fece Abby a voce flebile, con una punta di ammirazione. Per un bambino di otto anni, essere a contatto con quelle creature anche solo un giorno poteva essere fatale. Si diceva che fossero mortali. Erano concentrazioni di tutti i pensieri e desideri negativi della gente; avevano origine dalla cenere e dall’odio più profondo. Le Ombre erano leggende, sì, ma se quanto affermava Jason era vero, allora doveva essere davvero stato terribile. Abby se lo immaginò, un bimbo solo e dimenticato, perso nelle oscurità della foresta, a contatto con mesi con quegli esseri abominevoli dagli artigli di fumo e dal respiro velenoso. Erano in grado di risucchiare tutta la felicità dal corpo degli uomini, e anche la loro creatività, i loro sogni, tutto ciò che dava a qualcuno la forza di andare avanti. Un bambino, inoltre, era particolarmente vulnerabile; tutti sapevano che l’immaginazione di un bambino, in età infante, era praticamente incontrollata. Se fin da bambini si conoscono le Ombre, non si sarebbe stati mai più in grado di sognare.

Come a leggerle nel pensiero, Jason disse, con modestia: “No, non è stato complicato. Ora che uso la logica, se chiunque fosse stato nei miei panni se la sarebbe cavata con nulla. Se le Ombre mi vennero a chiamare, era perché avevo qualcosa di speciale, ed erano sicure che non avrebbero avuto nessun effetto su di me.

“Fatto sta, che le seguii. Mi condussero sempre più su, nella vetta estrema del monte, dove le nuvole si potevano toccare.”

Abby si mostrò dubbiosa. “Quello sarebbe il punto di ritrovo delle Ombre?”

“Sì. Naturalmente, non è visibile a tutti” aggiunse Jason, in risposta alla domanda inespressa di Abby. “C’è una specie di ‘passaggio segreto’, come lo chiamate voi. Porta all’interno della montagna, una stanza interamente fatta di argilla e pietra fuse insieme. E’ estremamente precaria, ma ci pensano i servitori delle Ombre a tenerla in piedi.”

“I servitori?”

Jason annuì. “Mai sentito parlare di Atlante, che regge il mondo? Lì è la stessa cosa, ma reggono una costruzione molto più importante di tutto il globo: il Cristallo.

“Questi servitori non sono altro che prigionieri, creature come me, che hanno una sorta di refrattarietà al potere distruttivo delle Ombre. Siamo meticci, nati in una terra senza madre né padre. Siamo fatti di cenere e odio. Abbiamo all’interno il Cristallo.”

“Cosa sarebbe questo fantomatico ‘cristallo’?”

“Non è altri che l’essenza stessa delle Ombre. Da dove traggono il proprio potere? Da dove assumono i sentimenti negativi di cui sono fatte?”

“Io sapevo” disse Abby, “sapevo che avessero loro la facoltà di assumerli, e non che erano parassiti di un altro sistema.”

“Non è così. Tutti noi siamo parassiti di qualcosa. Degli animali e delle piante, per nutrirci; dell’aria per respirare, delle altre persone per … per vivere.” Distolse lo sguardo dalla ragazza, che si sentì arrossire. “Jason …”

Lui tagliò corto: “Il Cristallo è nato per essere distrutto, principalmente. In un flusso indistruttibile, l’odio e l’orrore si riversano dentro di esso, che costituisce il cuore, in senso fisico, del mondo. Della sua parte negativa.”

Abby continuava a non capire.

“Per la miseria!” Ricominciò ad innervosirsi. Gli occhi ridivennero rossi e le mani strinsero in una morsa il tessuto dei suoi vestiti. “E’ difficile da spiegare … è una cosa che si sente, che non si può descrivere.”

“D’accordo” si affrettò a dire Abby. “Allora, queste Ombre, che molto probabilmente sono state quelle che ti avevano torturato, sono venute a riprenderti perché sei un refrattario, immune al loro potere distruttivo. Ti hanno portato da questo Cristallo, che è il fulcro del loro ‘regno’. Poi?”

Lui riprese a respirare regolarmente. “Lì incontrai i cosiddetti servitori, i miei simili. Erano uomini normalissimi, di aspetto assolutamente anonimo. Come me, però, sapevano resistere al fascino distruttore delle Ombre. Noi non siamo più forti di voi. Siamo semplicemente meno vulnerabili.”

“E che differenza ci sarebbe, scusa?” Mannaggia a me, si disse subito, pentendosi. Perché continuo a fargli domande sconvenienti?

“La vulnerabilità è data dal fisico, mentre la forza dall’animo.”

“Be’, si può applicare anche alla psiche. Io per esempio adesso sono vulnerabile perché …” Le salirono le lacrime agli occhi. “… perché sono separata dalla mia famiglia.”

Di nuovo quell’abbraccio con lo sguardo. Gli occhi di Jason trasudavano dolcezza, così come il suo corpo, che sembrava fatto apposta per proteggere la ragazza. Tuttavia, c’era qualcosa sotto quell’apparenza. Quel qualcosa che lui voleva spiegarle, ma che non riusciva a farsi capire. Quel qualcosa di misterioso che lo rendeva così affascinante ai suoi occhi …

Abby sentì il suo sguardo appannarsi. Perché si era dovuta innamorare proprio di lui, causa della scomparsa della sua famiglia?

 

“Passarono così gli anni. Noi eravamo assoggettati al volere delle Ombre” continuò Jason, “e non potevamo fuggire. Molte delle famiglie dei miei amici erano sotto costante pericolo, sotto il tiro delle Ombre; se loro avessero smesso di fare quel lavoro, di lavorare per quelle creature, i loro familiari sarebbero stati in pericolo di vita.”

“E tu? Perché rimanevi se …”

“Se non avevo nessuno che mi volesse bene?” Abby si morse il labbro. “Non volevo dirti questo.”

“Hai fatto bene. E’ la verità.” Lui sospirò. “Io ero un bambino. Non avevo trovato la forza di contrastarle, quando mi avevano catturato. E quando divenni più grande, mi ero affezionato troppo ai miei compagni di lavoro per abbandonarli.”

“Tuttavia l’hai fatto.”

“Esatto. Jim, il mio amico più caro, aveva trovato una via tra le gallerie sotterranee che sbucava in un sentiero secondario alla strada maestra, nel bosco. Erano anni che nessuno vedeva un raggio di sole, così la sua scoperta fece abbastanza scalpore.

“Per settimane, a turno, scavammo quella via. Era interrotta da frane di detriti e spuntoni di roccia, ma con pazienza e grande volontà, riuscimmo a finirla.

“Ora che era pronta dovevamo organizzarci per l’evasione. Il percorso da fare per sbucare in superficie era lungo un paio di chilometri, ed era molto stretto, impedendoci la fuga di massa.” Sospirò. “Non potevamo scappare di nascosto, se ne sarebbero accorti troppo presto e le famiglie dei miei amici sarebbero state in grave pericolo. Organizzammo un diversivo. Attaccammo noi, i più giovani e forti, mentre gli altri correvano dai loro cari per proteggerli dalla furia delle Ombre. L’obiettivo del nostro attacco era quello di distruggere una volta per tutte il Cristallo, protetto da una rete magica fortissima, indistruttibile anche per noi refrattari. Non tutti ce la fecero a fuggire.”

“Tu sì.”

“Sì. E mi rivogliono con loro.”

Abby trasalì. “Ma ora sei più forte, giusto? Sei cresciuto, dopo che ti abbiamo trovato dopo la fuga, tre anni fa, riusciresti a resistere ai loro attacchi! Perché mi accompagni da loro? Perché vuoi ritornarci?”

Jason alzò lo sguardo. I suoi occhi erano profondi, pozzi infiniti di una malinconia disperata. Riflettevano il cielo ormai scuro. Riflettevano il volto sconcertato di Abby.

“Perché ora ci sei tu.”

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Capitolo 7
*** Ombre nella notte ***


Capitolo 7. Ombre nella notte


“Odio la montagna” sbuffò la Marlison mentre, ansante come un bufalo in salita, arrancava sulla scia dei suoi compagni.

“C’è per caso qualche cosa che non odi?” sbraitò di rimando Kitty Jones, anche lei stanca ma piena di energia e determinazione.

Sedgewick ridacchiò. “Signorina, le ricordo che anche il suo caratterino non è proprio pacifista!”

“Zitto, essere immondo!”

Dumas intimò a Kitty di non ribattere sempre. Lei tacque, imprecando tra sé e con l’ortica che l’aveva appena sfiorata. “Va’ a quel …”

“Kitty.”

“… prato. E’ un posto molto più calmo che qui in mezzo ai nostri odiosi piedi.”

Dustin ridacchiò di nuovo, beccandosi un’occhiata malevola da Kitty.

“Scusa” fece Nathalie, avvicinando l’ometto che camminava tronfio in mezzo al fango. “Io ancora non ho capito chi sei.”

“Un gran …”

“… traditore.”

“Kitty, smettila. Fallo parlare.”

“Agli ordini.”

Sedgewick si schiarì la gola. “Signora Marlison” iniziò con voce stridula “Io sono un artista. Impiego i miei umili servigi al fine della pace del mondo, e per salvarci da …”

“Sì, sì, va bene. Ma cosa fai di preciso?”

“Io curo la strategia di gruppo. Essendo un attore sprecato per l’attività teatrale, mi curo delle mosse dietro le quinte. La luce degli spalti non fa per me.”

“Povera stella.”

“Kitty …”

“Okay, sto zitta.”

Dustin ignorò l’interruzione. “Sono il dirigente della squadra speciale per il recupero delle prove. Essendo questi agenti di polizia … leggermente … disattenti per queste cose, noi ci occupiamo di aiutare la scientifica a ritrovare gli indizi utili per l’indagine.”

“Scusi, ma a me sembra un lavoro totalmente inutile. Come fate a recuperare prove andate distrutte? Macchine del tempo?”

“Intanto non è inutile, ma necessario. E penso di non essermi spiegato a sufficienza. Io dirigo una squadra della scientifica autorizzata ad intercettare informazioni di carattere fondamentale per la riuscita dell’indagine, ad andare sul posto prima del mandato di alcuni agenti e ad assicurarmi che non venga toccato nulla senza il mio consenso.”

“Okay, oltre che inutile lo trovo anche dannatamente insensato. Cosa le fa credere di essere superiore di certi agenti?”

“Il mio titolo di studi e la disciplina che ho avuto modo di provare.”

“Aah, capisco.” La Marlison si rivolse agli altri due. “E voi vi fate mettere i piedi in testa da questo qui?”

“Ehi …”

Dumas sospirò. “Purtroppo nemmeno io ho il potere. Sedgewick ci ha fornito una marea di informazioni che gli accredita il posto di venire qui a romperci le scatole.”

“Che democrazia.”

“Anche io penso sia un’ingiustizia.”

“A proposito di ingiustizie …” fece Kitty, fermandosi di fronte alla malga dei Redland. “E’ ingiusto il destino con noi. Non c’è anima viva.”

E aveva ragione.

 

***

 

“Ancora non capisco cosa ci faccio io. Qui. Con te. Cosa c’entra la mia famiglia in tutto questo?” chiese Abby, mentre camminava preoccupata al seguito del giovane. Avevano deciso di riprendere il viaggio e di parlare durante la camminata, in modo da essere lì al sorgere della luna. Lì dove, poi, lo sapeva solo Jason; Abby si limitava a seguirlo, attenta a non dire cose di cui si sarebbe potuta pentire.

L’affermazione di una mezz’ora prima, del ragazzo, ancora faceva male al cuore di Abby. Avrebbe voluto baciarlo, dirgli che anche per lei era la stessa cosa, che ce l’avrebbero fatta a liberarlo da questo orrendo vincolo. Ancora, però, non sapeva il resto della storia, e la sedicenne era in battaglia con sé stessa. Sentimento o ragione?

Jason tranciò un ramo che gli impediva il passaggio con somma violenza. Abby si zittì. “Voi” disse lui “c’entrate con tutto.”

La ragazza ingoiò a vuoto.

“L’antenato di cui hai avuto le visioni, poco fa, è stato quello che ha dato inizio a tutto. Duncan Redland, comandante del battaglione occidentale durante la Grande Guerra. Quella contro i mutanti, quando ancora questi sporchi umani non avevano capito come usarne i poteri a proprio vantaggio.” Tranciò un altro ramo, che però non gli stava ostruendo il passaggio. Lo fece solo per cattiveria. “Duncan era un individuo estremamente originale. Amava la tranquillità e la gioia di vivere. Certamente non era stato lui a voler andare in guerra.

“Il tuo avo non vedeva in questo posto una buona base per l’esercito, bensì un’oasi di pace e serenità, da vivere con la sua famiglia e con la sua donna. Inoltre, era anche poco esposto ai plotoni di passaggio, così non avrebbe messo in pericolo i suoi cari.

“Si dimise dall’esercito, causando una grande perdita d’onore per sé e per il suo nome. Ora è stata dimenticata – buon per te – ma all’epoca era una marchiatura a fuoco per chi era un Redland. La famiglia l’accettò, pur di vedere contento il loro discendente.

“Negli anni che Duncan passò qui, in questi boschi, scoprì una strada che portava in stanze sotterranee, luogo di ritrovo per le prime forme di Ombra sul pianeta. Erano le stesse sale in cui lavoravo io fino a tre anni fa, e il condotto era quello che usammo per far fuggire gran parte della gente.

“Essendo Duncan un individuo intelligente e contro le monarchie assolute che erano quelle all’interno del regno delle Ombre – ovvero il manipolare noi refrattari ai loro voleri – capì subito che l’unico modo per sconfiggerle sul serio era l’intaccare il Cristallo. Tentò … ma fallì.”

“E ora si vogliono vendicare del torto subito su noi, discendenti diretti?”

“Esatto. Hanno rapito la tua famiglia per farti – e farmi – uscire allo scoperto. Così pensano di prendere due piccioni con una fava.”

“E perché proprio me? Voglio dire, non ho particolari poteri … tranne quel fatto assurdo di leggere le rune.”

“Fatto assurdo che ci accomuna. Nemmeno i miei compagni di schiavitù riuscivano a decifrare le rune incise sul mio corpo. Cosa pensi che sia?”

Abby ci pensò su. “Non saprei … forse qualcosa che Duncan aveva e che ha trasmesso a me.”

“Può darsi. Oppure no.”

“Un momento.” La ragazza si fermò, inorridita. “Stai dicendo che potrei venire dal posto in cui ti hanno fatto quelle cose orribili?”

“Forse. Oppure no. E’ quello che andremo a scoprire stanotte.”

Lei gli si parò davanti. “Se vuoi anche liberare i tuoi amici è bene che mi faccia partecipe di tutti i tuoi piani. C’è di mezzo la mia famiglia, non dimenticarlo.”

Lui la guardò.

Lei lo guardò.

Si abbracciarono, mentre le lacrime di Abby bagnavano il collo di Jason.

 

***

 

“Non possono essersi volatilizzati. Qualcuno deve averli informati della nostra visitina” disse subito Sedgewick, guardandosi intorno contrariato.

“Ehi, Conan Doyle, questa è gente onesta” obiettò Kitty, guardandolo male. “Sono venuta qui più di una volta, e sono dei bravi lavoratori. Offrono il pane a chi li aiuta.”

“La loro cucina non è affar nostro. Stanno proteggendo un criminale.”

“Un probabile criminale.”

“Sempre di criminale si tratta. Allora, da dove cominciamo a cercarli?” Guardò speranzoso Dumas, che non volse il capo di un centimetro. “Lo specialista nelle prove sei tu, Sedgewick. Hai carta bianca.”

“E vedi di non fare i tuoi soliti pasticci. L’ultima volta ci ha rimesso le penne un mio amico.”

“Si è trattato di uno stupido errore di calcolo. Il tuo amico se l’è cercata.”

Kitty lo investì come una furia. “Andrew non c’entrava nulla! Tu stavi giocando con il fuoco, e il fuoco, in quel caso, era acceso da uno dei peggiori killer della storia. Mentre passavi il tempo a divertirti trattando con il nemico, lui ha fatto fuori il mio collega, e che hai risolto? NULLA!!!”

Dumas mise la mano sulla spalla alla ragazza. “Stai calma, Kitty. Per fortuna Austin non è con lui.”

Sospirò. “Per fortuna ha piovuto da poco. Le orme nel fango sono ben visibili. Dovremmo chiamare dei cani e qualche agente in più.” Sfoderò la ricetrasmittente.

Poco dopo, il cellulare di Kitty vibrò. ‘Arrivo’. Messaggio di Austin.

“Presto avremo i rinforzi. Anne verrà vendicata” disse la ragazza. Il comandante annuì silenziosamente.

 

***

 

La luna già albeggiava tra le fronde degli alberi, improvvisamente bui e tetri. Abby si strinse nella giacca estiva. Quel posto la inquietava.

Si trovavano in una radura poco distante dall’entrata, a dir di Jason, del ritrovo delle Ombre. Era circondata da arbusti spinosi, e più di una volta Abby si era trattenuta dallo strillare, mentre una vipera slittava sul suolo sotto i suoi piedi.

“Aspettiamo?” chiese per l’undicesima volta a Jason. Lui le sorrise e la strinse a sé. “Tra un po’ arriveranno, ne sono sicuro. Quel segnale non è stato dimenticato, anche se sono passati tre anni.”

Abby si sentì sprofondare nel petto del ragazzo e nell’imbarazzo per sé stessa. Cosa stava facendo? Amoreggiava mentre la sua famiglia andava in pezzi? “Speriamo” mormorò, mentre sentiva il respiro caldo di lui che le dava conforto.

 

L’orologio digitale di Abby segnalava le 22.35 quando la ragazza iniziò a dare segni di evidente nervosismo. “Tra un’ora e mezza dovremo andare” disse, camminando su e giù per la radura. “Non pensi di …?”

“Entrare e piantare un coltello in mezzo al Cristallo? Abby, senza il loro aiuto non ce la faremo mai. Noi abbiamo un’arma in più.” Indicò sé stesso e lei. “Possiamo decifrare i loro rituali scritti sulla parete e compierli. Li conosco a memoria, non sono semplici da seguire. Ma ci servono i loro attrezzi e la loro adesione alle pareti.”

“Adesione? Che vuoi dire?”

Un crollo di pietre interruppe la spiegazione del ragazzo. Lui ammiccò verso Abby. “Ora lo scoprirai.”

 

***

 

Kitty si strinse contro il petto del suo ragazzo. “Com’è andata la missione?”

Lui la baciò. “Tutto tranquillo. Non che ci fosse molto da scoprire, ma abbiamo gli strumenti giusti” indicò le jeep cariche di roba “e la forza giusta” indicò gli uomini dietro di lui. “Quindi, amore, non ti preoccupare. Vendicheremo Anne una volta per tutte.”

Kitty sospirò.

 

Il tragitto fu breve. Al seguito avevano le jeep che trasportavano il necessario per ispezionare il terreno e aprire delle vie qualora le strade fosse intasate. Spesso i criminali più pericolosi si nascondevano in bunker difficili da individuare e ancor più difficili da raggiungere.

Kitty dirigeva con Dumas e Austin la compagnia, mentre un paio d’agenti avanti a loro avanzavano con i cani da caccia.

L’orologio segnava le 22.47 quando raggiunsero il punto in cui le tracce risalivano a meno di un quarto d’ora prima. Gli agenti fermarono le jeep e il silenzio divenne pesante. Kitty avanzò insieme ad Austin e Dumas.

Sbucarono in una radura. Sì sentiva un odore forte. “Mutante” sibilò Austin tra i denti.

Kitty lo poteva capire. Aveva perso i genitori quando aveva dieci anni, a causa di un cambia-forma psicopatico, che girava per la città seminando delirio. Prima che la polizia potesse fermarlo, aveva ucciso la sua famiglia. Era per questo che era entrato nelle forze dell’ordine: per tentare di risollevarne la qualità, ed evitare altri brutti episodi alla gente di Vienna.

“Là dentro” indicò un agente, seguendo il fiuto del cane. Era un vicolo buio e infido, tra gallerie sotterranee.

“Andiamo” disse Austin trascinandosi dietro Kitty e gli altri.

 

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Capitolo 8
*** La gemma della verità ***


Capitolo 8. La gemma della verità

 


Quando entrò nel cunicolo indicatole da Jason, Abby ebbe come primo impulso quello di tornarsene a casa. Quel posto sapeva di morte.

Bruciature sulla parete della caverna testimoniavano lo svolgersi di una battaglia, e c’erano rune minacciose a spaventare chiunque osasse dirigersi attraverso quella via. “‘Non ritentate la via del male’? Intendi dire che l’avevano già scoperto?”

“Dopo, Abby” rispose Jason, intimandole il silenzio. “Quando siamo là.”

“Ma là non …”

“Ti prego.”

Abby si zittì. Continuarono a camminare, silenziosi, tra le macerie di quella strada. Si vedeva che nessuno l’aveva più utilizzata da tre anni. Evidentemente, dopo l’evasione che era stata repressa, le Ombre avevano talmente aumentato la guardia che la gente non si era nemmeno sognata di riprovarci.

L’uomo che li conduceva sembrava conoscere bene Jason. Li era venuto a prendere dopo il crollo, creato per non destare sospetti. Delle volte scambiava con il ragazzo degli sguardi d’intesa. Parlavano con lo sguardo.

Abby si strinse ancora di più al braccio del compagno. Il buio troneggiava in quel luogo. Le ombre si addensavano per non farli passare.

Per una ventina di minuti camminarono nell’oscurità, illuminati solo dal flebile bagliore dell’orologio digitale di Abby, che a tratti spariva a tratti ricompariva, nascosto dalle rocce che passava la ragazza. Segnava le 23.11.

Jason le sussurrò: “Ancora un piccolo sforzo.”

Dopo, videro la luce.

 

Il regno delle Ombre non era affatto tetro come immaginava Abby. Luci rossastre davano luce ai lavoratori, che scavavano nuove gallerie per le Ombre, mentre un enorme raggio di luce bianca si dipanava tra mille corridoi, raggiungendo anche il loro.

Abby, tutt’un tratto, si sentì male. Si aggrappò al braccio di Jason d’istinto, facendolo cadere. La testa le girava, iniziò a sudare mentre la pressione aumentava, e un improvviso vuoto irruppe nel suo cuore, spaccandolo.

Sentì Jason imprecare. “Non pensavo …” La raccolse da terra e la tenne fra le sue braccia. “Tra un po’ passa, amore mio” udì che le mormorava in un orecchio. “Tra un po’ passa …”

Non passò, e il buio occupò anche i suoi occhi.

Amore mio, pensò, e perse conoscenza.

 

Quando si riebbe, la luce troneggiava ancora, sopra di lei. Ora che era così vicina, riusciva a capire di cosa si trattava. Erano cristalli luminosi, che spuntavano dal terreno con frequenza spaventosa. Luccicavano come lucciole la sera.

“Ti sei ripresa.” Jason le sorrise.

Lei era troppo confusa per ricambiare. C’era gente al suo capezzale. Donne, uomini, bambini piccoli e magri. La stavano fissando come si fissa un fantasma; paura, ma anche una punta d’invidia.

Abby si sentiva un fantasma.

“Dove siamo? Dov’è la mia famiglia? Che mi è successo?” articolò debolmente, cercando di tirarsi su. Jason la costrinse a sdraiarsi. “Ora sei al sicuro. Non c’è da preoccuparsi, quello che hai avuto è stata la reazione comune quando si entra in contatto con le Ombre.”

“Ma ancora non ne ho vista una!”

“Sei negli appartamenti della schiavitù, Abby. Sono lontane, ma si sentono molto forte. E’ normale che tu abbia avuto una leggera caduta. Troppo dolore per una persona come te” le fece una carezza.

Lei arrossì. “Cos’è successo?” chiese poi, sulle spine.

“Nulla di che. Manca poco all’esecuzione e …” lanciò un’occhiata al suo orologio da polso “E il Cristallo è quasi distrutto.”

“Che cosa? Come avete fatto a farlo” guardò anche lei “… in dodici minuti?” Si tirò su a sedere. La testa ancora le girava, ma adesso riusciva a concentrarsi su quanto doveva fare.

“Osserva” disse con un gran sorriso Jason. Aveva l’aria di uno appena tornato a casa.

Abby lo fece. E rimase a bocca aperta.

 

***

 

“Mio Dio. Che posto è mai questo?” Kitty caracollò con sollievo fuori dal cunicolo, felice di non dover più sopportare il puzzo di carogna e le inquietanti bruciature che segnavano il passaggio in quel luogo angusto. Seguita a ruota da Austin e Dumas, improvvisamente si ritrovò in una sala. Alta. Luminosa. Enormi colonne di pietra portanti sostenevano la struttura, mentre spuntoni di roccia rendevano arduo il sentiero, pungolandolo da lato a lato. Kitty si sarebbe aspettata un cunicolo, un buco usato come tana. Invece, si trovava di fronte a immensi siti sotterranei, ingegnosamente architettati, meravigliosi da vedere.

Impalcature in legno si affacciavano lungo la via, con al di sopra gente magra e minuta che lavorava come se ossessa, si affrettava a passarsi gli strumenti da muratore, urlava ordini e minacce, seguite da frustate che brillavano alla luce rossa dei fari artificiali, e a quella bianca di alcuni cristalli fosforescenti che si affacciavano dalla volta della grotta.

In effetti, non era una vera e propria grotta. Era più un edificio ‘interrato’, una cosa stile Signore degli Anelli: ritocchi antichi e barocchi donavano alla struttura un fascino antico, ed imponenti monumenti, come archi e altari sparsi un po’ per l’enorme sala, facevano accapponare la pelle alla povera Kitty.

Prima ancora che potesse reagire, Austin le indicò un altro fatto straordinario: il movimento della gente.

Quei poveri diavoli – che Kitty avrebbe subito liberato – si arrampicavano sulla roccia come formiche. Evidentemente, era tanto il tempo che avevano avuto a disposizione per prendere confidenza con il loro luogo di lavoro, che ne erano diventati una parte. E in senso letterale; gli schiavi non usavano scale per salire sulle impalcature, bensì le proprie gambe. Anche su steli di roccia liscia perfettamente levigata, loro facevano leva con la pianta del piede, per scivolarle sopra e aderire completamente con il materiale.

Il tutto, Kitty lo osservava da uno spuntone di roccia nascosto nell’ombra, al riparo dagli sguardi delle guardie. Che, ora che la ragazza si era leggermente ripresa dallo spavento erano …

Troppo tardi: lei, il suo ragazzo e il suo capo svennero quasi contemporaneamente, mentre molte mani li agguantavano e li tiravano via, dentro una fessura della parete. Presto essa si richiuse e non ci fu traccia dell’incursione degli agenti.

 

“Chi siete? Cosa volete?”

Al risveglio dei poliziotti, Abby e gli altri iniziarono a tartassarli di domande fino a scoppiare. Come avevano fatto ad entrare? E perché erano armati?

Una giovane donna, non molto più grande di Jason, rinvenne per prima. La ragazza accorse da lei, guardandola ostile. “Chi è lei?”

La donna la guardò senza capire. Gli occhi scuri erano segnati da rughe di stanchezza, e le ciocche lunghe di capelli castani bagnate dalla pioggia. Fuori allora era scoppiato un temporale di fine estate. “Mi chiamo Kitty Jones” rantolò debolmente. “E sono qui per cercare l’assassino di mia sorella.”

Se quella frase avrebbe dovuto sconvolgere la folla di persone che li circondava, non vinse nel suo intento. La gente non ci fece caso e continuò a raggrupparsi tra i tre nuovi venuti, nella speranza che avessero portato nuove notizie, per liberarli.

Abby non alzò un sopracciglio. “Assassino? Ah, capisco.” Sospirò. “Qui tutti stiamo cercando di farlo fuori. Se ci aiutate, riusciremo a liberare questa gente. E i miei genitori.” L’aiutò ad alzarsi. “Vede quei cavi?” disse, indicandole una serie di linee metalliche sospese sul soffitto. Erano trapuntate da piccoli portavivande, a malapena grandi per far salire un uomo. Evidentemente erano usati dai servi per girare più velocemente da una parte all’altra degli scavi, forse per consegnare qualche messaggio, o del materiale da lavoro. “Mi segua” disse la ragazza. “Abbiamo un sacco di lavoro da sbrigare. Ah, si metta questi” Le lanciò una serie di indumenti zozzi e consumati. “Così si confonderà tra la folla.”

“Ma io …” Kitty non riusciva più a capire nulla. Possibile che quel mutante abbia assoggettato tanta gente per costruirgli un palazzo sotterraneo?

Dietro di lei udì un mugugno. “Austin!” chiamò, e, gettati a terra gli indumenti, si fece strada tra i curiosi per soccorrere lui e Dumas, appena svegli.

Non fece però in tempo a parlargli che qualcuno sovrastò il chiasso degli schiavi.

“Cosa succede qui?” Una voce possente tuonò tra le mura della piccola stanza in cui si trovavano. Tra le persone si fece largo un uomo alto, dalle fattezze rozze, con una barba sfatta e lunghi capelli che celavano uno sguardo torbido come l’argilla agli occhi degli altri. Dalla deferenza con cui si rivolgevano a lui, Kitty capì che si doveva trattare di un pezzo grosso. “Sapevamo che Abigail …”

“Abby” ribatté lei, seccata. Alcuni ridacchiarono.

“… che Abby e Jason sarebbero dovuti venire qui, dal segnale che ci ha dato. Ma voi, chi siete?”

Kitty, rizzatasi in piedi, rispose con un’altra domanda. “Jason? Jason Mitchigan, residente alla malga dei Redland è qui?”

“Certo che è qui” affermò Abby in risposta. “E’ lui ad organizzare la Resistenza, in questo posto. E vorrebbe, come tutti noi, sapere come avete fatto ad entrare e se ci aiuterete entro …” guardò l’orologio “entro quaranta minuti a sabotare lo scambio che le Ombre hanno organizzato tra me, Jason e la mia famiglia.”

L’agente Jones fu colta alla sprovvista. Ma in che posto sono finita? “Perdonatemi, ma non capisco. Io, il comandante Dumas e Austin siamo venuti qui inseguendo Jason Mitchigan, indagato per omicidio da tutti i dipartimenti di polizia di Vienna. Pensavamo che fosse fuggito perché colpevole. Dov’è ora?” chiese poi, cercando il ragazzo di cui aveva la foto tra le persone che la circondavano.

La ragazza con cui stava parlando, però, non era del parere di lasciarla passare. “Signora Jones” disse, distruggendo l’autorità di Kitty con il solo sguardo sprezzante. “Posso assicurarle che c’è un errore. Jason non farebbe mai una cosa del genere. E’ fuori discussione.” Si voltò e fece per andarsene, quando fu bloccata dalla mano dura di Austin. “Il tuo amico” disse il giovane “ha ucciso cinque o sei persone in queste settimane. Desideriamo interrogarlo per accertamenti. E se pensi di fuggire” aggiunse, ringhiandole contro. “Dovrai essere indagata anche tu per collaborazione e oltraggio a pubblico ufficiale.”

La ragazzina si agitò sotto la sua presa. “Qui le regole della repubblica non contano, Cristo! Vede questa gente?” E gli indicò i lavoratori. “Sono tutti alle spese di un branco di Ombre assatanate, che tra mezz’ora, se non ci muoviamo, prenderanno anche me e la mia famiglia! E visto che voi intendete trattenere Jason, per quale diabolico motivo Dio solo lo sa, be’, ve lo impedirò! Lui sta organizzando la Resistenza a questo scambio, e, in carcere o morta, continuerò a proteggerlo, che lo vogliate o no!”

Il ragazzo in questione corse via, nell’ombra.

 

***

 

“Mamma.”

“Dimmi, tesoro.”

“Non ci uccideranno, vero? Abby e Jason verranno a prenderci, vero? Loro non ci abbandoneranno mai.” Era un’affermazione, non una speranza.

La donna sospirò. “Preferirei che lo facessero. Nessuno è in gradi di vivere tra queste mura gelide, e con quelle creature …” Le vennero i brividi al solo pensarci.

“Piccolo, come vanno le ferite?”

“Fanno male.”

“Ce la faremo, ne sono certo.”

“Sì papà. Ce la faremo.”

Le porte si aprirono e l’essere scivolò, viscido, sul pavimento in pietra levigata. “E’ il vostro turno. Rito di purificazione prima della cerimonia.”

Il bambino gemette. “Lasciaci vivere!” strillò, come impazzito. “Fa male!”

Le urla salirono fino al cielo.

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