Casa di bambola

di CaskaLangley
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** #Cherokee ***
Capitolo 2: *** #Infornography ***



Capitolo 1
*** #Cherokee ***


Note preliminari incoerenti dell'autrice
Capita ogni tanto che io scriva cose strane. Come questa storia, per esempio. Il Mac spergiura che io abbia creato oggi il documento, ma non è vero, sarà di sei mesi fa, probabilmente di più. Il motivo per cui non l'ho postata prima è che avrei voluto aspettare di finirla, poi però una cosa che inizia per Little e finisce per Boxes mi ha un po' monopolizzata, e quindi eccomi qui, a centellinarla in attesa di chiuderla. Cosa che succederà l'anno prossimo, penso, che ha un suono un po' traumatico, ma l'anno prossimo è tra due mesi, rassegnamoci.
Beh, visto che siamo qui diciamo due cose doverose, prima di iniziare, altrimenti rischieresti di non capirci una mazza.
Prima di tutto, per chi non lo sapesse: io scrivevo su Evangelion. E' chiaro che a una parte del mio cervello manca scrivere su Evangelion XD E' probabile che quando ho cominciato questa storia avessi visto o stessi aspettando di vedere You can not advance. Beh, avevo molta voglia di riprendere in mano un certo metodo, lo stavo utilizzando anche in un'altra storia su Kingdom Hearts (un AU yakuza, lo leggerete mai? Speriamo), lo trovo molto rilassante, sarà perché di solito ma mia scrittura sia torppo densa che troppo emotiva XDD In queste storie, volevo che fosse asciutta e fredda. Ho anche riesumato i miei dvd di Serial Experiments Lain...! E mi hanno fatta sentire un idiota, tanto per cambiare D: Ma ti amo, Lain.
Poi, sono una grande fan di Joss Whedon :3 Ho un debito non indifferente nei suoi confronti, è una delle persone che mi ha insegnato a scrivere. Ai tempi in cui scrivevo su Evangelion volevo fare un tributo a Buffy the vampire slayer, ma purtroppo è stato uno dei miei duemila progetti mai nati D: Tempo dopo avrei voluto inventarmi qualcosa su Firefly, e niente ancora. Così siamo arrivati ad oggi, a Dollhouse, ed eccoci qui. Dollhouse poteva essere una serie bellissima, se non l'avessero ostacolata. Mi sono permessa allora di tributarla rilevandone l'universo, che è quello in cui si svolge questa storia (anche se, non incontrandosi mai i personaggi e non tenendo conto degli sviluppi originali, non si tratta di un crossover). Alcune idee sono mie, altre fanno parte della mitologia della serie (la presentazione iniziale di cos'è un Attivo è una citazione letterale) . La storia comunque è indipendente e si spiega da sé, non serve che abbiate visto la serie, anche se dovreste perché merita. Se poi non capite qualcosa, è perché effettivamente è un casino immane :D D'altra parte, il bello dello sci-fi, è annuire seriamente quando i personaggi parlano di cose scientificamente senza senso. Adesso, infatti, vi lascio liberi di andare a farlo.
Quelli di questa storia sono i dialoghi su cui mi sono formata, e quasi dieci anni dopo è stato molto divertente scriverli; spero che siano migliori di quelli di allora, ovviamente XD non mi riuscivano mai. Take that, 15-yeas-old-self! I capitoli, come vedete, non saranno lunghi (altra fonte di rilassamento non indifferente, e altro ritorno alle origini, in effetti), cercoerò di postarli abbastanza velocemente :3 Alla fin fine, per i miei standard, poteva essere una oneshot, ma siamo sotto Natale e Gesù Bambino non mi porterebbe i regali se costringessi ancora la gente a spipparsi tomi di quaranta pagine. Oltre ai capitoli di Boxes, ovviamente. A proposito, non sono riuscita a postarlo per l'anniversario, quello nuovo ;_; Vi racconterò a tempo debito. Ah, dimenticavo! Ho scelto questo titolo perché era divertente che fosse sia una traduzione letterale del titolo della serie che un rimando Ibseninano XD ...mi rendo conto, sì, di trovarlo divertente solo io.
Un bacio, e divertitevi a sguazzare nella depressione :*




CASA DI BAMBOLA

Raggiunto un certo livello di progresso, ogni scienza diventa indistinguibile dalla magia.
(Arthur C. Clarke)

 

The world is a vampire.

 

# Cherokee
“Chiediti se questo è ciò che vuoi chiamare ‘Al’.”

“Sicuramente avrà sentito voci colorite su che cosa sia un Attivo. Robot, zombie, schiavi…molti pensano che siano soltanto dei bravi bugiardi. In realtà, sono l’esatto opposto. Un Attivo è la persona dall’animo più puro che si possa incontrare.”

Cherokee non è il suo vero nome, quello era noioso.
Pare che sia nata nelle Highland, vicino a Inverness, ma siccome non se lo ricorda le piace di più pensare di essere nata a Londra insieme al punk. L’ultima volta che l’ha vista, sua madre aveva diciannove anni ed era un po’ punk. Non sa bene che fine abbia fatto e forse non vuole saperlo. Cherokee ha il suo viso e i suoi capelli, ma le avevano detto che ha gli occhi di suo padre. Dovendo scegliere avrebbe preferito i capelli e gli occhi di suo padre e la vagina di sua madre, ma non si può avere tutto. Almeno, tutti la scambiano per una ragazza. Anche quest’uomo le ha detto sali, dolcezza. Ma forse dolcezza vale per entrambi i sessi.
Dolcezza è una delle sue parole preferite.
Ha quasi diciassette anni.

“L’imprinting della memoria si estende anche alla memoria muscolare. Qualsiasi cosa i nostri Attivi siano chiamati a fare, sarà qualcosa per cui si preparano da tutta la vita.”

Cherokee pensa a queste cose mentre si guarda nello specchio accanto al letto. Ha capelli lisci color miele, grandi occhi grigio scuro. Col gloss le sue labbra sembrano più belle di quanto non siano. Guarda nello specchio anche ciò che sta accadendo, così può far finta di non essere davvero lì e che quell’uomo non le stia davvero addosso e non si stia sfregando contro la sua coscia. Questa è una fantasia erotica che presto finirà, questa è una scena che le sta ispirando l’erba. In realtà è nella sua stanza con le fate di ceramica lo skateboard che non usa gli acchiappa sogni appesi al muro e la saga di Weetzie Bat. Cherokee è il nome della figlia di Weetzie. L’ha scelto perché è bionda e dolce, però in realtà il suo personaggio preferito è Babystrega. E’ sola al mondo e arrabbiata come lei.
Adesso, per esempio, è molto arrabbiata. Però non lo dà a vedere. Continua a guardarsi nello specchio e nota una cosa che non aveva mai visto prima, una cicatrice sulla gamba. Quando se l’è fatta? Non riesce a ricordarlo e se ci prova le viene un gran mal di testa. L’uomo le lecca il collo come fosse una cosa da mangiare e si spinge contro di lei. Le coperte infeltrite puzzano di fumo e i muri della stanza sono spaccati dall’umidità. Cherokee conta le macchine che sente passare sulla strada e quelle che si fermano nel parcheggio. Un’ora e si farà una bella doccia. Un’ora e sarà tutto a posto.
“Cosa cazzo…”
L’uomo ha spinto una mano tra le sue gambe. Cherokee indietreggia un po’ anche se è schiacciata dal suo peso. Lo sapeva che sarebbe successo, lo sapeva. Succede quasi sempre, dannazione. Prova a chiedere scusa – e di che cosa, poi? A lei non fa piacere avere un muscolo ingombrante niente affatto necessario. Ma adesso la preoccupano gli occhi dell’uomo, le vene gonfie del suo collo. Chiede ancora scusa e per istinto prova ad andare via, però sa che è inutile, lo è sempre. Siccome è condannata stringe i denti e aspetta i pugni. Ne ha presi talmente tanti che le pare non le facciano più male. Almeno vorrebbe crederlo, ma quando il primo arriva strilla e poi strappa le lenzuola cercando di scappare. L’uomo le prende una gamba e lei cade dal letto picchiando la faccia. Comincia a sanguinare dal bel naso che le piace tanto, se lo guarda sempre, un sacco di gente glielo tocca e dice: hai un naso perfetto, proprio un bel nasino da bambina. Frocio del cazzo, urla l’uomo, mostro schifoso. Adesso ti apro il culo, stronzo. Cherokee singhiozza perché pensa al suo naso, chissà se si è rotto. Non avrebbe i soldi per rimetterlo a posto, così sarà un mostro e pure brutta. L’uomo gli tira giù i pantaloncini e lei comincia a piangere.
La porta si apre in quel momento, come nei film che guarda sempre dal vecchio televisore scassato che hanno nella roulotte. Debbie, una delle sue compagna, scuote sempre la testa quando entra l’eroe che salva la fanciulla. “Maddai” dice mentre si fa le unghie.
Adesso, però, Cherokee ha davanti quell’eroe e non ha più paura.

“Insomma, supponendo che l’ingaggio abbia un risvolto erotico…avremo tutto il vostro personale che ascolterà ciò che facciamo?”
“No, assolutamente.”
“Ma se dovete proteggerlo…”
“Un handler monitorerà i segnali vitali dell’Attivo, al fine di riconoscere segnali di pericolo o di sofferenza. Se il suo ingaggio comporta attività criminali l’handler potrebbe ascoltare, sì, ma in caso contrario non avrà idea di che cosa stia succedendo. Nessuno lo sa.”


Edward è così bello. E’ biondo come un principe azzurro. Non ricorda neanche dove l’ha incontrato e ora si fida di lui più di chiunque altro. Forse perché quando lo guarda negli occhi sa che lui non le farebbe mai del male. Lo sa e basta, e lei gli affiderebbe la sua vita. Così, anche mentre distrugge la faccia di quell’uomo bavoso a cazzotti, Edward sembra a Cherokee la creatura più nobile e tenera del mondo. Non le importa del sangue né delle urla, non capisce le minacce. Lo guarda ed è come guardare il sole. E quando Edward molla l’uomo come fosse spazzatura e si avvicina, lei si butta tra le sue braccia e si scioglie in lacrime. Edward la stringe, le accarezza i capelli, le dice che adesso è lì con lei e che andrà tutto bene. Cherokee singhiozza: “Forse mi ha rotto il naso. Sono brutta, non guardarmi.” Ma lui la guarda lo stesso e dice: “Non è rotto, stai tranquilla” poi, dopo una pausa “E non sei brutta.” Cherokee non è convinta e si asciuga il sangue, che rimane appiccicoso sopra il dorso della mano. Ma non prova nient’altro che amore quando Edward chiede “un trattamento ti farebbe stare meglio?” e sperando di trasmetterlo risponde “sì.”

“Lei è un uomo che può avere tutto ciò che vuole. Se quello che vuole è una ragazza vestita da cheerleader che le dica quant’è magnifico, può pagarne cento che lo facciano in modo soddisfacente per lo stesso costo di un solo giorno con un Attivo. Ma questo non riguarda ciò che vuole. Riguarda ciò di cui ha bisogno.”

Edward scende le scale in un cocente imbarazzo. Al gli sta tenendo la mano e si fa trascinare come un bambino. Al…non riesce a fare a meno di pensarlo con quel nome, anche se in realtà Al sta dormendo da qualche parte e quando si sveglierà avrà un bel po’ di domande in merito alle ammaccature sul suo corpo. Per questo Edward è lì, per evitare che si faccia male. Solo che a volte non ci riesce.
Appena salgono in macchina Cherokee si guarda nello specchietto. La conosce, sa quant’è vanitosa. All’inizio vedere suo fratello comportarsi da ragazza era un po’ disturbante, mentre adesso…è ancora disturbante, ma ogni tanto lo diverte. Quando stanno per uscire, più che altro, quando Cherokee è lì che gli zompetta attorno e che gli chiede “dove andiamo?”
Dopo no. Dopo decisamente no.
“Mi hai salvato” gli dice, come se non se ne fosse accorto. Quello che si chiede Edward è chi salverà lui dalla Armstrong. Aggressione a un cliente; potrebbero sospenderlo, togliergli Al…mandarlo nell’Attico. Scaccia un brivido come una mosca e mette in moto.
“Dovere” risponde, ed è la verità. Ma Cherokee non lo sa e si sporge per dargli un bacio sulla guancia. Lui sta guidando e non può evitarlo, a meno di spaccarsi la testa contro il finestrino e andare fuori strada. Un rischio un po’ eccessivo, anche se essere baciato dal proprio fratello non rientra tra i piaceri per cui Edward pensa che valga la pena vivere.

“Un Attivo non giudica, non finge. Questo sarà il più puro, il più genuino incontro della sua vita. E le garantisco che non lo dimenticherà mai.”

*

“Si può sapere cosa cazzo ti è saltato in mente?!”
Non avevano neanche attraversato il corridoio. Da lì, attraverso il vetro opaco, Edward vede gli Attivi nell’atrio passeggiare flemmaticamente, senza meta. Un luogo freddo, un po’ new age. Arredamento falso giapponese, falso minimalista, falso in generale. Anche certe piante non sono vere.
“Lo sai quanto ha pagato quell’uomo per Echo?!”
“Si chiama…”
“Quarantamila sterline, ecco quanto, e tu gli hai spaccato la faccia!”
“Beh, era ora che qualcuno lo facesse! Dovevate internarlo, non dargli mio fratello perché lo facesse a pezzi!”
Roy Mustang lo guarda per un attimo, poi sospira e si zittisce come a raccogliere la pazienza. La signorina Hawkeye, dietro di lui, guarda come al solito senza fiatare. Edward si sente strano, in sua compagnia, come di fronte a qualcosa di sbagliato.
“Alfons ha ricontrollato i bioritmi di Echo, e non era in pericolo di vita.”
“Lei non conosce mio fratello, lui si fida ciecamente delle persone, se aveva paura è perché…”
“Echo non è tuo fratello, Edward, è il tuo Attivo.”
“Sì, e l’ho guardato negli occhi quando ho giurato di proteggerlo.”
Mustang rimane in silenzio e distoglie lo sguardo. “Vai” gli ordina “Ne parliamo dopo. Cherokee rifiuta il trattamento se non ci sei tu.”
Edward annuisce e passa oltre a passo fiero, convinto di avere ragione. Mustang lo guarda e non riesce neanche a dargli torto. Non era tagliato per dirigere questo posto, ora lo sa, ma quello che non sa è se sia un sollievo che quel compito non sia più suo. Sospira, voltandosi verso Riza: “Dici che c’è un modo per nasconderlo alla Armstrong? Ho come l’impressione che ci prenderemo la nostra parte, per questa cazzata olimpionica.”
“E’ il nostro lavoro, Signore” risponde lei “Cerchiamo di fare del nostro meglio.”

Cherokee è accovacciata sulle scale, due uomini della sicurezza la controllano. Quando vede Edward si alza e gli corre incontro, lo abbraccia. Il naso ha smesso di sanguinare ma non lo zigomo, dove la pelle si è staccata. Non sembra rotto. A Edward non hanno mai spiegato che fine fanno gli Attivi che non sono più abbastanza attraenti da lavorare, ma crede di saperlo. C’è un solo posto, in una casa, dove si possono ammassare le bambole rotte e inutilizzabili.
“E’ l’ora del mio trattamento?” chiede Cherokee guardandolo con fiducia. Edward le accarezza goffamente la testa e annuisce, poi lascia che lo prenda per mano e salgono le scale.
Quelli sono gli occhi di Al.

Adesso Cherokee è sulla sedia, Alfons sta eseguendo lo screening. Il cervello di Al ruota su uno dei monitor come se non fosse una cosa reale. Edward lo guarda e ricorda di quando ideavano piani diabolici per rubare le caramelle che la mamma teneva da parte per gli ospiti. A quel tempo, quel cervello che a lui era invisibile era anche la cosa più cara che avesse.
Adesso è solo una struttura incompleta, una casa disabitata.
“Chiedere un ragazzo che si vesta da ragazza e poi picchiarlo perché è un ragazzo - che razza di fantasia.”
“Non la peggiore che mi sia capitata.”
Alfons si alza e si avvicina alla sedia. Edward va con lui. Cherokee rimane sdraiata come se tutto questo le sembrasse normale e lo guarda. Gli fa un sorriso. Edward ricambia sentendosi in colpa. Lo schienale della sedia si abbassa ed è solo un attimo, come una scossa elettrica. Il rumore è forte, tutte le volte che lo sente vorrebbe strappare Al da lì. E’ un’operazione dolorosa? Mentre lo studiava non se l’era chiesto. Lo schienale si rialza e Al apre gli occhi. Grandi, inespressivi. E’ così che Edward immagina qualcuno con le sinapsi bruciate dalla droga.
“Mi sono addormentato?”
“Solo per un po’ ” risponde Alfons, tirando fuori l’hardware che ora contiene Cherokee. Edward pensa a quando, in macchina, gli ha raccontato del suo gatto. Si chiama Tee Wee e per qualche motivo odia il latte. Edward ha risposto che anche a lui non piace. “Quindi quando vivremo tutti insieme avrò un sacco di latte per me” aveva risposto Cherokee sorridendo. Ma Cherokee non esiste e non esiste il suo gatto. Edward si chiede se esistano i suoi sentimenti, visto che lui è lì per percepirli. E’ stupido dispiacersi perché non puoi ricambiare l’amore di un mucchio di dati sopra un disco, no? Eppure non riesce a non sentirsi male.
Due uomini della sicurezza si avvicinano ad Al e lo portano via, probabilmente dal dottor Knox. E’ lì che le bambole vanno a farsi rattoppare quando a qualcuno sfugge il gioco di mano. Edward vorrebbe seguirlo, invece guarda Alfons che ripone Cherokee insieme a tutti gli altri imprint di Al. Impulsi umani creati dal nulla, congelati dentro uno schedario e chiusi in cassaforte. Se ci pensa ha i brividi.
“Potresti toglierle la cotta che ha per me? Mi mette in imbarazzo.”
Alfons ride e chiude la cassaforte: “Anche se potessi non correrei il rischio, Cherokee era già sull’orlo del suicidio. Adesso come adesso, tu sei il suo principe azzurro. Se ti eliminassi, chi può dire come reagirebbe?”
“E tu hai ficcato un suicida nel corpo di mio fratello?”
“No, ma quello che Cherokee prova per te non era previsto. L’ha sviluppato spontaneamente, anche se non so come.”
“E come lo spieghi, questo errore?”
“Col fatto che lavoro ventidue ore e mezza al giorno, Edward, e che voi due non mi rendete mai la vita facile.”
Edward sbuffa. Alfons torna alla scrivania e aggiorna i dati sull’ingaggio di Al. La scheda è a nome ECHO.
“Non hai neanche una teoria? Dai, ci deve essere un motivo. Cerca di capire la mia situazione, non è facile quando tuo fratello vestito da donna ti fa capire che vuole che te lo porti a letto.”
“Non lo so, Ed, un Attivo si fida del suo handler completamente…è possibile che tu fossi impresso nella memoria fotografica di Alphonse al punto da amplificare questo processo, e che un imprint vulnerabile come Cherokee l’abbia sviluppato in una forma d’innamoramento. Si può quasi dire che siate troppo legati, voi due.”
“Non vedo come si possa essere troppo legati a qualcuno.”
“Gli esseri umani si legano troppo uno all’altro. E’ un errore comune, ma che ci permette di vivere. Però ci sono anche persone che sono del tutto incapaci di legarsi ai propri simili, e per questo conducono una vita misera.” Alfons chiude la scheda di Echo. “Ecco perché esistono le Dollhouse.”

Edward è appoggiato al corrimano, per oggi non vuole più scendere le scale.
Sotto di lui, gli Attivi vivono a basso consumo. Mangiano poco, fanno esercizio, si lavano in docce comuni perché non hanno il senso della malizia né impulsi sessuali. Non mai tra loro.
Al sta tagliando i rami ad un bonsai. Anche da lì, Edward riesce a vedere la toppa che ha sullo zigomo. E’ probabile che senta dolore, ma non avendo consapevolezza di come manifestarlo lo tiene per sé. Non parla se non interrogato, non sorride se non a lui. Edward odia quel sorriso, perché è debole e accondiscendente.
Il sorriso di Al è diverso.
“La Armstrong ti aspetta nel suo ufficio.”
Edward si volta. Mustang si è appoggiato con lui, ma non troppo vicino. Quand’è stata l’ultima volta che qualcuno l’ha toccato? E’ abbastanza sicuro che sia stata Cherokee. Certo, non può biasimare nessuno. In un posto del genere la prima cosa che impari è quanto ingannevole sia il contatto fisico, e quanto poco voglia dire.
“Devo proprio…?”
Mustang fa una specie di sorriso: “Sembra di sì. Se può consolarti, dopo di te ci sono io. Mi raccomando, falla incazzare per bene.”
Edward sbuffa e si stacca dalla ringhiera. Al sta ancora lavorando sul bonsai.
“La ferita di Echo non è grave, in caso te lo stessi chiedendo.”
“Si chiama Al.”
“Chiamarlo col suo nome ti fa sentire meno in colpa? Sei fortunato, se è così, e non voglio toglierti le tue illusioni, ma dovresti guardarlo un po’ più attentamente. Non ha gusti, abitudini, umori, tantomeno sentimenti. Sa a mala pena che esisti. Chiediti se questo è ciò che vuoi chiamare ‘Al’.”


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Capitolo 2
*** #Infornography ***


# Infornography
“Ricordati che sei stato tu a fargli questo.”

Olivier Milla Armstrong ha il portamento di una regina e la tempra di un pezzo power metal.
Dicono che sia una bella donna, anche se con quel volto in perenne tensione è difficile vederlo.
Gli Armstrong sono da sempre tra i maggiori azionisti della Rossium, società di copertura che gestisce le Dollhouse, ma Olivier ha agito in modo che le voci sulla sua presunta raccomandazione tacessero in una settimana. Da quando ne ha assunto la direzione due anni fa, la Dollhouse di Londra ha duplicato i guadagni e incrementato i contatti. Tra i suoi meriti, riconosciuti anche tra i soci anziani, c’è l’aver trovato e assunto il giovane Alfons Heiderich, che è subentrato come programmatore a quel pazzo di Tucker. Se le si presenta l’occasione di parlare di Roy Mustang, il precedente direttore, sorride polita e resta sul vago. Se le si domanda “come ha fatto ad arrivare così in alto?” la sua risposta è sempre e solo “Facendo il mio lavoro”.

L’ufficio è ai piani alti, per arrivarci bisogna passare almeno cinque minuti in ascensore.
A Roy non manca e non è mai mancato, però deve ammettere che c’era stato un tempo in cui credeva di non poter fare a meno della sedia girevole in pelle, del camino e soprattutto dell’angolo bar; non beveva quasi mai, ma averlo gli dava l’idea di uno status symbol, come una bandiera a simboleggiare la strada percorsa.
Lo fanno entrare quando Edward Elric è ancora lì, a prendersi la sgridata dritto come un fuso e con le braccia lungo i fianchi. Non è sensibile all’autorità, né tantomeno al potere, ma sa quand’è il momento di non mettersi in pericolo. La Armstrong è seduta alla scrivania e dietro di lei c’è Miles come dietro di lui c’era Riza. Prima della storia con Tucker, prima che tutto crollasse. Prima che Roy dovesse prendere la sua bandiera e retrocedere.
“Mustang, che piacere. Mi è giunta voce che ha già provveduto a dare una strigliata al ragazzaccio.”
Edward lo guarda di traverso. Roy è stato in quella situazione abbastanza spesso da sapere che un tono così morbido non promette mai niente di buono.
“Sì, signora Armstrong” – odia essere chiamata signorina- “Appena è rientrato insieme a Echo.”
“E quindi opportuno ricordarle che non è il suo lavoro controllare gli handler, ma il mio, e che lei deve preoccuparsi esclusivamente della sicurezza della casa e degli Attivi?”
“No, signora, ne sono consapevole.”
“Bene, meglio così. Vediamo di dimostrarlo più spesso.”
Roy annuisce. Edward lo sta guardando, ma la Armstrong lo richiama.
“In quanto a te, spero che ci siamo capiti. In caso contrario, parlerò con estrema chiarezza: non sono disposta a tollerare altre stronzate. Sapevi benissimo come sarebbe stato usato il corpo di Alphonse quando l’hai portato qui, e hai firmato un contratto. Non c’è bisogno che ti ricordi quanto costa non rispettarlo.”
Edward non risponde.
“Prima di fare un’altra bravata del genere, ricordati che sei stato tu a fargli questo.”
Edward stringe i pugni. Continua a non rispondere. La Armstrong lo congeda e solo dopo che la porta si è chiusa si alza con le mani dietro la schiena: “Crede di poter fare quello che vuole solo perché Echo è uno degli Attivi più richiesti.”
“Non credo sia così calcolatore. Ama suo fratello e non sopporta che gli si faccia del male, tutto qui.”
“Allora doveva pensarci prima di friggergli il cervello.”
Roy non risponde. Amare qualcuno e non causargli dolore sono cose che solo in teoria vanno di pari passo.
“Ha ancora bisogno di me?”
“Bisogno è una parola grossa. Tuttavia, gradirei una sua opinione.”
Roy tira un sorriso: “Vedrò di non esaltarmi troppo.”
“Sarebbe meglio, dato che mi serve lucido. Alfons mi ha portato i dati degli ultimi test su Echo.”
Tira fuori la cartella da un cassetto e la appoggia sulla scrivania. Roy la prende.
“E’ cambiato qualcosa?”
“No. Echo continua a rifiutare Alphonse, e così anche gli altri Attivi.”
“Quante prove ha fatto?”
“Abbastanza.”
“Potrebbe essersi smagnetizzato?”
“No, e i dati sono intatti. Alfons sta modificando adesso una copia di backup e più tardi tenteremo di nuovo su Juliet, ma come al solito una sola cosa è certa: Edward non ci ha detto tutto.”
“Questo era chiaro dall’inizio.”
“Come ritieni opportuno procedere?”
“E’ una domanda trabocchetto? Se rispondessi mi ricorderebbe che è lei il capo?”
“Mi sento magnanima, oggi, e ben disposta a tollerare persino le tue demenziali opinioni.”
Roy ride, mentre sfoglia la cartella. La Armstrong continua: “Abbiamo ragione di credere che ciò che nasconde Edward Elric sia importante, ergo dovremmo copiarlo e dare l’imprint a un Attivo.”
“Conoscendolo, è difficile che parli…”
“Anche ricorrendo alla tortura fisica o all’alterazione della personalità?”
“Non sarebbe…”
“…etico, lo so. Per questo ho chiesto cosa ritiene opportuno fare, e non cosa dovremmo fare.”
Roy tace. La Armstrong si siede.
“Diamogli ancora un po’ di tempo. Forse Alfons scoprirà qualcosa, o Edward si deciderà a parlare. In ogni caso, non lo perda di vista.”
“Anche perché di questo passo ucciderà qualcuno…”
“Se dovesse succedere, c’è un posto nell’Attico accanto al dottor Tucker. La mente di un genio è sempre un luogo interessante da esplorare, soprattutto per quelli del piano di sopra.”
Roy ha un brivido, ma annuisce. Esce dall’ufficio portandosi la cartella. Riza lo sta aspettando in piedi davanti all’ascensore, gli chiede com’è andata. Non ha molta voglia di risponderle.
“Signore, non è al suo meglio?”
Roy sorride: “No, però ci sto provando.”

Edward scorge Al tra gli altri e si avvicina. Gli Attivi stanno disegnando, seduti a tavoli bassi e isolati. C’è un forte odore di tempera. Al è concentrato sul suo disegno, ma alza la testa al suono dei suoi passi e gli sorride. Edward sorride a sua volta e si siede sul pavimento riscaldato.
“Ti fa male?”
“Che cosa?”
Si indica lo zigomo. Al se lo tocca e sembra accorgersi soltanto adesso della benda. Si acciglia, risentito, e lo guarda come se temesse una punizione: “Non sono al mio meglio?”
“Non ti preoccupare, tra poco starai bene.”
“Cerco sempre di fare del mio meglio.”
“Lo so, Echo.”
Lui sorride e torna a colorare. I capelli lunghi e sciolti si riversano sul foglio, sporcandosi di tempera. Edward si scioglie la coda e gli dà il suo elastico. Al lo guarda incerto. Edward sospira e si porta dietro di lui, poi gli raccoglie i capelli dalle punte verdi e azzurre e li lega. Da quella posizione riconosce il chip sottocutaneo nel suo collo. Ha l’aspetto di una puntura di zanzara. Al non sa di averlo e dubita che gliene importerebbe. Più di una volta Edward ha pensato di rimuoverlo con un coltello e di scappare, ma così avrebbe dovuto vivere per sempre con l’ombra di Al, un bambino in trappola nel corpo di un ragazzo, troppo fiducioso e incapace di badare a se stesso.
Lascia andare la coda, le punte colorate sbattono sulla sua schiena sporcandola.
“Ecco fatto. Ora va meglio, no?”
Al si tocca le spalle come se non si capacitasse di averle libere e comincia a guardarsi attorno spaventato. Edward ride e gli mette la coda sotto gli occhi. Al sembra sollevato e gli sorride.
“Cosa stai disegnando?”
Al si allontana dal foglio per mostrarglielo. Ci sono il cielo, i prati, una casetta…e tre persone. Due bambini biondi e qualcun altro. Edward sbatte gli occhi: “Echo, chi sono?”
Al indica i due bambini: “Questo è Edward e questo sono io.”
“…e l’altro?”
Al sorride: “Non lo so. Ma sembra felice, no?”

La vecchia stanza impolverata aveva sempre avuto un certo fascino, per loro, ma prima della morte della mamma dovevano sgattaiolarci dentro in gran segreto e poi tornare indietro prima che se ne accorgesse. Adesso era tutta un’altra storia, nessuno si preoccupava più di quello che facevano o di dove andavano. Anche la famiglia Rockbell, che si prendeva cura di loro, li lasciava liberi perché rispettosi della loro strana elaborazione del lutto. Che passassero le giornate in quella vecchia casa piena di ricordi, nella stanza dove il padre aveva lasciato le sue tracce prima di sparire, a loro sembrava normale.
In realtà, Edward e Alphonse non si erano mai nemmeno avvicinati all’elaborare il lutto.
Nelle loro menti troppo sveglie, troppo ostinate, stavano piuttosto cercando un modo per modificarlo.
Quel pomeriggio Edward era seduto sulla vecchia sedia traballante. I braccioli imbottiti, e anche il poggia testa, avevano ceduto e ora era soltanto uno schienale storto che somigliava un po’ a una canoa.
“Papà ha fatto qualcosa di grandioso” aveva spiegato la mamma, portandoli via da lì la prima volta, “ma poi se ne è pentito e ha distrutto tutto.”
“Ora dov’è?”
“A finire ciò che ha cominciato.”
Mentre Alphonse frugava in giro, forse nella speranza di trovare una risposta alle sue domande – perché portare via la madre a due bambini soli, che senso può avere?- Edward cercava di decifrare gli appunti che il padre aveva lasciato; i più importanti, quelli più chiari, erano stati bruciati.
“Papà stava lavorando a una tecnologia che potrebbe permettere il travaso delle personalità” aveva detto ad Al, che era a gattoni sul pavimento e spostava scatole piene di componenti hardware.
“In che senso travaso?”
“Nel senso di creare una nuova personalità dal nulla e trapiantarla nella testa di qualcuno.”
“…e perché si dovrebbe fare una cosa del genere?”
E Edward, che era fiero di suo padre per la prima volta nella vita, rispose: “Perché si può.”

“Alphonse Elric, diciannove anni…ha la mia età, ma sembra più piccolo.”
“Ha trascorso gli ultimi due anni in coma e il suo corpo ha parzialmente smesso di sviluppare.”
“Come l’avete trovato?”
“Una soffiata. Lui e il fratello vivevano presso una famiglia, i Rockbell…sono entrambi medici, ma non hanno potuto fare altro che mantenere in vita il suo corpo.”
“Sempre se questa è vita…”
“Questo ce lo devi dire tu.”
Alfons guardò il ragazzo sulla sedia e tornò in postazione. Prese una stecca di liquirizia dal bicchiere. Mustang rimase in piedi dietro di lui.
“Dai primi test non risulta attività cerebrale, ma non è solo questo…è come se il suo cervello fosse stato azzerato.”
“Nel senso che non ha contenuti?”
“Sì, esatto. In gergo lo chiamiamo tabula rasa. I computer non sono ancora in grado di decodificare per suoni e immagini i dati della mente umana, ma li possono visualizzare. E’ come un disco rigido pieno di files per cui non hai un lettore adatto. Ma questo ragazzo…beh, non ha niente. La sua mente non ha trattenuto neanche le più elementari reazioni motorie. Cosa gli è successo?”
“Sappiamo solo quello che ci ha raccontato suo fratello, e non è detto che sia la verità. Stando a quanto dice, due anni fa hanno tentato un imprint su Alphonse con mezzi quasi casalinghi. Il risultato è che lui non si è più svegliato.”
“E’ impossibile, come potevano avere idea di come fare una cosa del genere…?”
“Alphonse e Edward Elric, il loro nome non ti dice niente?”
Alfons tacque, rosicchiando la liquirizia. L’illuminazione arrivò all’improvviso: “Sono imparentati col professor Elric?”
“Esatto, sono i figli di Hohenheim Elric.”
“Non posso crederci, ho fatto la tesi sul professor Elric!”
“E non sapevi come si chiamano i suoi figli?”
“Naturalmente la tesi parlava del suo lavoro, non certo della sua vita privata.”
“E le consideri due cose differenti?”
“Certo, è ovvio. Anzi, si può dire che la stessa vita di uno scienziato sia il suo lavoro.”
Mustang rise amaramente: “Non credo che i suoi figli sarebbero felici di sentirlo dire…”
Alfons incrociò le gambe sulla sedia girevole e si spinse davanti al secondo monitor.
“Hohenheim Elric ha elaborato e sviluppato la teoria di base della tecnologia dell’imprint. E possibile che i suoi figli l’abbiano ricreata attraverso i suoi studi, o che addirittura abbiano utilizzato un prototipo…si sa qualcosa?”
“Edward afferma di aver aggiustato la sedia che era nello studio del padre. Non molto bene, a quanto pare.”
“Non è detto, l’errore potrebbe essere stato nell’imprint…hanno ancora l’hardware? Vorrei esaminarlo.”
“No, a quanto pare si è bruciato. So chi doveva essere, se può servirti.”
“Chi?”
“La loro madre.”
“L’hanno ricreata?”
“No, era una copia di backup.”
“Perché copiare la propria moglie?”
“Forse per amore?”
Alfons alzò le spalle. In qualche modo, Mustang ne fu turbato.
“Pensi di poter fare qualcosa?”
“Penso che sarebbe interessante provarci. Intanto, credo di poterlo svegliare installando la struttura degli Attivi.”
“Era quello che aveva intenzione di fare Edward, ma stava cercando di programmare la struttura da solo.”
“Perché non è venuto subito qui?”
“Perché sapeva cosa gli avremmo chiesto in cambio, credo.”
“E qual era il problema?”
“Sei tu che li programmi, Alfons, sai per cosa vengono ingaggiati la maggior parte degli Attivi.”
“Sì, ma il contratto dura cinque anni. Quando la personalità originaria viene riattivata non ricordano più niente.”
“E con ciò? Non è lecito avere a cuore il proprio corpo o quello di chi si ama?”
“Non vedo il problema, in fondo noi ce ne prendiamo cura.”
“Quindi consideri il corpo un mero contenitore, senza valore?”
“Non dico che non abbia valore, ma è comunque un valore relativo. E il professor Elric pensava lo stesso, dal momento che ha elaborato la tecnologia proprio partendo dall’idea di salvare la mente dal deterioramento del corpo.”
“Che cosa vuol dire, che voleva passare la mente di una singola persona di corpo in corpo, all’infinito?”
“Proprio così. Si può dire che il professor Elric abbia elaborato la teoria dell’immortalità.”
“Lo trovo raccapricciante.”
Alfons si alzò e andò verso la sedia. Alphonse Elric giaceva immobile con gli occhi chiusi.
“Vuole chiamare suo fratello? Forse vuole essere presente.”
“Sì, è probabile. Però preparati, non è uno facile con cui trattare.”
“Come tutti i geni.”
“Genio? Avrebbe potuto ucciderlo.”
“Ma non l’ha fatto. L’unico errore di Edward Elric è stato eseguire l’operazione senza aver precedentemente installato sul fratello l’architettura degli Attivi, cosa a cui probabilmente non era arrivato nemmeno suo padre all’epoca degli appunti che ha consultato. Per quanto mi riguarda, questa è l’opera di un genio.”
“E per quanto riguarda me è la prova della stupidità e dell’arroganza di un ragazzino.”
Alfons restava tranquillo. Mustang uscì.

Edward entra nella stanza che come al solito ha una luce blu e opaca. Alfons dice che più forte gli dà l’ansia. In questo momento è appollaiato sulla sedia girevole e osserva il monitor principale, che getta sul suo profilo pallido una luce verde elettrico. Una volta Edward gli ha chiesto quand’è stata l’ultima volta che è uscito e lui ha risposto “Non me lo ricordo”.
“E te ne stai sempre solo?”
“Non sono solo, ci sono i miei imprint.”
Alfons nota subito il foglio che lui tiene sotto braccio, arrotolato, ma non gli chiede niente. Dietro di lui ci sono già Mustang e la Armstrong, entrambi coi loro protetti silenziosi. La signorina Hawkeye in particolare dà segni di vita solo quando Mustang le fa un cenno, prende la radio appesa alla cintura e la accosta alla bocca: “Portate Juliet.”
Edward cerca di stare lontano da loro, si avvicina ad Alfons che è la cosa più simile a se stesso che abbia trovato lì. Osserva la scheda riassuntiva sul monitor: ALPHONSE ELRIC.
“L’hai modificato?” chiede incerto.
“Solo a livello strutturale, i dati sono intatti. L’ho passato su un nuovo supporto, quello su cui l’avevi salvato ormai è vecchio.”
“Tutto qui? Un problema di incompatibilità?”
“No, non credo. Ma già che ci lavoravo, tanto valeva provare. Certo che tuo fratello doveva essere speciale, se ci tieni così tanto a riportarlo indietro.”
Mustang s’intromette, infastidito: “Speciale o no, chiunque faccia parte della nostra vita ci sembra ugualmente insostituibile.”
Edward accenna una risata, girandosi verso di lui: “Io di lei farei anche a meno.”
Anche la Armstrong ride, pur restando composta: “Ha ragione, Mustang, sono sicura che Alfons potrebbe creare un ottimo generatore che si prenda il disturbo di dire certe banalità.”
“Potrei fare in modo che avverta la tensione e reagisca enunciando frasi da leader…” concorda lui, fingendo di pensarci. Miles, che di solito si tiene fuori da qualsiasi discussione, sghignazza coprendosi la bocca con la mano. Mustang, che ha aggrottato gravemente la fronte, ora incrocia le braccia come un bambino offeso e decreta: “Siete aridi.”
La signorina Hawkeye non ha battuto ciglio.
Le porte si aprono e due uomini della sicurezza scortano Juliet e il suo handler. Juliet ha la pelle scura e parte dei capelli rosa. Non ha nient’altro che la distingua dagli altri Attivi, e anche se Edward considera Al inconfondibile sa che non è così.
Alfons si alza e va da lei, che si è sdraiata sulla sedia.
“Sei pronta per il trattamento?”
“Certo, sono sempre felice dei miei trattamenti.”
Alfons le sorride e abbassa lo schienale della sedia, poi dà l’imput e il corpo di Juliet va in tensione. Dura pochi secondi, ma lei geme dal dolore. Mustang distoglie lo sguardo, la Armstrong lo nota. Edward si fa largo senza aspettare, mentre la sedia si rialza. “Al?” chiede a Juliet, che lo guarda un po’ interdetta: “Mi sono addormentata?” Edward sospira, seccato come se le avesse fatto un torto. Alfons si acciglia e risponde: “Solo per un po’. Davvero.”
“Magari è lei il problema.”
“Juliet? No, ho fatto la manutenzione alla struttura qualche giorno fa, era tutto a posto.”
“Forse ha bisogno di un upgrade.”
“E’ aggiornata al 7.5, l’ho sviluppato io stesso dopo il bug della 7.”
“Che tipo di bug era?”
“Se te lo dico non ci credi.”
“Spara.”
“…non riconosceva il katakana.”
“Stai scherzando?”
“No, evidentemente il tecnico della Dollhouse di New York non lo riteneva necessario. E guarda che è seccante quando ti riportano un Attivo perché nel bel mezzo di una conferenza in giapponese ha cominciato a urlare e vomitare sangue.”
“Ew. Fanno così a tutti gli errori del sistema?”
“Che ne so, nessuno ha mai fatto un errore così stupido.”
Edward esita e poi scoppia a ridere.
“Che c’è?”
“Chissà alla Dollhouse di Tokyo…”
Anche Alfons ride. Li interrompe la voce bassa di Mustang, che vibra dolente: “Andiamo, Riza. Vedere due bambini che giocano con il cervello umano mi dà i brividi.”
La signorina Hawkeye annuisce. La Armstrong li osserva andarsene ma non li ferma.

L’installazione dell’architettura andò a buon fine, il corpo di Alphonse Elric venne rinominato ECHO e fu scortato al proprio loculo, dove si addormentò a comando.
Non riconosceva suo fratello.
Edward sapeva che sarebbe successo, ma aveva sperato in un miracolo. Ridicolo, da parte sua, visto che si trovava lì proprio perché non aveva saputo rispettare il volere di Dio.
Si era accasciato sulla poltrona davanti alla scrivania, rigirandosi l’hardware di Alphonse tra le mani. Non aveva fatto caso al programmatore della Dollhouse, che dopo essersi assentato era infine tornato nel suo ufficio e ora cercava di attirare l’attenzione schiarendosi la voce. Quando se ne accorse, Edward si alzò.
“Scusa, ti ho rubato il posto.”
“Non importa. Sai, sono un grande ammiratore di tuo padre.”
“Io per niente.”
Come primo dialogo non c’era male. Alfons non si scompose, però si sedette.
“Non l’ho detto per farti piacere, ma perché getta le basi della mia teoria. La vuoi sentire?”
Edward non rispose, rimase in attesa. Alfons cominciò: “Secondo i documenti ufficiali, il professor Elric ha lasciato la vostra casa nel duemiladue, quando tu avevi…dodici anni, esatto? Si parla di un rigurgito morale o qualcosa del genere…immagino che sia inevitabile, dopo una certa età.”
“Fammi capire, vuoi dimostrarmi che conosci mio padre meglio di me? Perché guarda che non è difficile.”
“Certo che no, mi limito ai fatti. Tutti sanno che tentato di impedire la diffusione della sua tecnologia, ma ormai aveva firmato per la produzione delle prime cinque sedie, che sarebbero andate alle prima cinque case: Tokyo, Dubai, Parigi, Washington DC e New York. Ma quella prima produzione aveva un problema, bruciava le sinapsi degli Attivi. Reggevano quattro, cinque imprint, poi diventavano inutilizzabili.”
“E’ perché avevano affrettato i tempi, papà ci stava lavorando.”
“Quindi lo sapevi.”
Edward strinse i denti.
“Come immaginavo. Inizialmente anch’io ho pensato che il problema dipendesse dalla sedia che dici di aver usato, ma le sinapsi di Alphonse sono intatte e tu lo sapevi, altrimenti perché portarlo qui? E poi c’è un’altra cosa, quella che mi ha convinto.”
“Che cosa?”
“Che ami molto tuo fratello. Si vede benissimo da come lo guardi.”
Edward tacque a lungo. “E con questo?”
“Dubito fortemente che tu l’abbia buttato su una vecchia sedia scassata senza prima studiarla, e di sicuro hai capito che non era affidabile. Hai creato un nuovo dispositivo, vero?”
Edward sgranò gli occhi. Attese qualche istante e accennò una risata: “Mi sa che mi stai sopravvalutando.”
“Sì, può darsi. Può anche essere che tu abbia messo a repentaglio la vita di tuo fratello per un errore stupido e grossolano.”
Edward non rispose, ma non ce ne fu bisogno. Alfons creava repliche di esseri umani da tre anni, e lo faceva troppo bene per farsi sfuggire l’espressione sul suo viso. Stringeva i denti, forse mordendosi la lingua per non contraddirlo. Una cosa, di lui, aveva capito subito, l’orgoglio con cui esibiva il suo talento.
Alfons prese il bicchiere delle liquirizie e se ne mise in bocca una.
“Non devi dirmelo subito, hai cinque anni per pensarci. Per quanto mi riguarda, non lo riferirò alla Armstrong. E’ evidente che si tratta di qualcosa di importante, se lo tieni nascosto. Comunque, se consideri che in due anni non sei riuscito a svegliarlo, potresti aver bisogno del mio aiuto, no?”
“E che cosa vuoi in cambio?”
Lui sorrise spontaneamente: “Solo l’opportunità di lavorare con un genio.”
Gli porse le liquirizie. Edward, attonito, ne prese una.
“Comunque, io sono Alfons Heiderich.”
Edward mise il rametto in bocca e gli porse la mano. Alfons la strinse e sfilò una seconda sedia da sotto la scrivania.

Roy Mustang è seduto sulle scale come un ragazzino e guarda Echo, che è a sua volta seduto in un angolo. Tiene un libro sulle ginocchia e lo sfoglia, anche se gli Attivi non sanno leggere. E’ stato Edward a darglielo? I passi sulle scale non lo distraggono, quell’immagine in un certo senso è tutto e lo fa ammutolire. Echo si sta sforzando di comprendere qualcosa, anche se non ce la può fare.
Lui ha perso quella voglia per sempre, ormai.
“Stai cercando di spiare gli Attivi sotto la doccia? Non è da te approfittare di creature innocenti, una volta dicevi di essere un playboy.”
Roy si accorge solo in quel momento di stare guardando verso le docce. Forse Echo voleva scaldarsi col vapore. Sforza un sorriso furbo, senza girarsi: “Certo, mia cara, e se mi avessi conosciuto al mio meglio avremmo avuto una focosa relazione.”
La Armstrong scoppia a ridere e si appoggia al corrimano. Roy pensa che anche una reazione meno cristallina andava bene. Lei scosta i capelli dagli occhi, azzurri e freddi come laghi ghiacciati.
“Non dovresti essere così duro con i ragazzi, specie con Alfons. Sono tre anni che non esce, comincia a dimenticare molto di come si trattano gli esseri umani.”
“Allora fatelo uscire, maledizione, che vada a drogarsi e a fare sesso non protetto come i ventenni normali.”
“Dovrai abituarti, prima o poi, non lo licenzierò solo perché tu frigni.”
“Non ti ho chiesto di farlo, ma non cambierò idea. E’ troppo giovane.”
“Alfons Heiderich è un genio, ha portato il caricamento dell’imprint da due ore a due minuti.”
Roy sorride amaramente: “Due minuti per creare una persona…non stiamo giocando un po’ troppo con la pazienza di Dio?”
“Adesso che il tuo stipendio è più basso ti preoccupi di Dio? Non ti è stato d’impedimento quando Tucker faceva il Frankestein.”
Mustang non risponde. La Armstrong guarda Echo che a sua volta continua a guardare il libro.
“Un Attivo può capire ogni cosa, provare ogni esperienza, vivere tutte le vite e amare in modo intenso e disinteressato. Per quanto mi riguarda, li considero la cosa più simile a Dio che abbiamo.”
“Ma non vivono una vita reale.”
La Armstrong sorride benevola: “Perché, Mustang, credi forse di essere più reale di loro, in questo momento?”
Roy non risponde. Sente i passi della donna salire le scale. Lui stringe i denti e si prende la testa tra le mani, con rabbia.

*

Note incoerenti dell'autrice: sono di cattivissimo umore, quindi niente note ;_;" ma non potevo non mettervi l'asterisco, so che gli volete bene, quindi eccolo <3

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