Lonely

di Camelia Jay
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo, capitolo primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo quarto ***
Capitolo 5: *** Capitolo quinto ***
Capitolo 6: *** Capitolo sesto ***
Capitolo 7: *** Capitolo settimo ***
Capitolo 8: *** Capitolo ottavo ***
Capitolo 9: *** Capitolo nono ***
Capitolo 10: *** Capitolo decimo ***
Capitolo 11: *** Capitolo undicesimo ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodicesimo ***
Capitolo 13: *** Capitolo tredicesimo ***
Capitolo 14: *** Capitolo quattordicesimo ***
Capitolo 15: *** Capitolo quindicesimo ***
Capitolo 16: *** Capitolo sedicesimo ***
Capitolo 17: *** Capitolo diciasettesimo ***
Capitolo 18: *** Capitolo diciottesimo ***
Capitolo 19: *** Capitolo diciannovesimo ***
Capitolo 20: *** Capitolo ventesimo ***
Capitolo 21: *** Capitolo ventunesimo ***
Capitolo 22: *** Capitolo ventiduesimo ***
Capitolo 23: *** Capitolo ventitreesimo ***
Capitolo 24: *** Capitolo ventiquattresimo ***
Capitolo 25: *** Capitolo venticinquesimo ***
Capitolo 26: *** Capitolo ventiseiesimo ***
Capitolo 27: *** Capitolo ventisettesimo ***
Capitolo 28: *** Capitolo ventottesimo ***
Capitolo 29: *** Capitolo ventinovesimo ***
Capitolo 30: *** Capitolo trentesimo ***
Capitolo 31: *** Capitolo trentunesimo ***
Capitolo 32: *** Capitolo trentaduesimo ***
Capitolo 33: *** Capitolo trentatreesimo ***
Capitolo 34: *** Capitolo trentaquattresimo ***
Capitolo 35: *** Capitolo trentacinquesimo ***
Capitolo 36: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo, capitolo primo ***


{ Lonely }

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Grazie a chi adesso leggerà, e arriverà fino in fondo, scrivere è una delle mie più grandi passioni e spero che vi piaccia =)

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-P.S.: mi raccomando, fedeli lettrici, passate di qui e mi farete un gran piacere ;) "Il diario di Belle"

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Da troppo tempo dentro di me sentivo come un vuoto, come se tutto il mio romanticismo fosse andato perduto. Dopo quel che era successo, avevo deciso di non innamorarmi mai più. In quell’amore avevo dato troppo, e quello che avevo ricevuto in cambio era stata una delusione che mi aveva fatto star male a tal punto di decidere di dimenticare tutti gli eventi di quei mesi.

Mentre camminavo per la strada, tutto mi riportava a lui. La panchina, dove si sedeva con i suoi amici, fino alla gelateria, dove l’avevo visto prendere il gelato e mi ero memorizzata i suoi gusti preferiti: cioccolato e fragola. Era tutto finito, lui si era portato via tutto, insieme a tutti i sentimenti che provavo prima. Forse all’esterno sembravo una ragazza come tutte le altre, il problema era che io mi sentivo diversa, a causa della mia scelta, e per il fatto che non ero romantica come lo erano loro. Mi ero illusa di poter essere qualcosa per lui, ma mi aveva solo delusa profondamente, e così adesso avevo scordato completamente il significato di “amore”. Tuttavia c’erano anche dei lati positivi: ormai non piangevo quasi più, perché quando lo facevo era sempre a causa sua, non ero sempre con la testa tra le nuvole pensando a lui e i miei voti a scuola, che si erano abbassati talmente ero distratta a scuola, erano tornati nella norma. Piano piano mi stavo riabituando alla vita normale, senza un ragazzo da amare, ma mi andava benissimo così, non avrei potuto chiedere di meglio.

 ***

Era una notte buia e tempestosa. No, un momento, in realtà era mattina e il sole splendeva scaldandomi la pelle.

Io, Jenice Ross, mi stavo dirigendo a scuola fantasticando mentre camminavo per la strada. Il paesaggio non era un granché: mi trovavo nella periferia di una città di medie dimensioni, che non godeva del verde degli alberi e la pace della campagna, tutt’altro, le macchine giravano emettendo un frastuono inimmaginabile insieme ad autobus, tram, motociclette e persino con i campanelli delle bici.

In men che non si dica ero già davanti all’entrata della scuola, che ormai, avendola frequentata per un bel po’, conoscevo come le mie tasche. Una volta arrivata davanti alla porta bianca della classe, mi soffermai a guardarla, senza aver trovato nella mia testa una ragione valida per entrare. Le lezioni ancora non erano iniziate, non era nemmeno suonata la campanella. Aprii leggermente la porta, per poi, decisa, spalancarla del tutto. Ero la prima. Mai successo. Di solito c’era sempre almeno un professore in classe ad attendere. Ma non stamattina. Perché non entravo? Sospirai.

Sentii improvvisamente dei passi dietro di me, dei passi in mezzo al silenzio, infine una presenza. Come un fantasma. Mi voltai di scatto, rabbrividii. Mi aveva congelato con lo sguardo facendomi di colpo indietreggiare e mettere da parte per farlo passare. Lo guardai dirigersi verso il banco, come al solito aveva dei ciuffi di capelli neri che gli andavano a coprire gli occhi, di cui in due anni il colore mi era ancora ignoto. Non potevo però rimanere lì a guardarlo come una stupida, anzi che entrare in classe cominciai a tornare indietro, fuori dalla scuola, ad aspettare come la maggior parte degli studenti che la campanella suonasse. Intanto mi misi a riflettere su ciò che mi era appena successo.

Kyle Gray, ragazzo della mia stessa classe, con cui però non avevo mai parlato. Era arrivato da ben due anni scolastici, e non era mai stato uno socievole. A scuola era un tipo intelligentissimo, il massimo dei voti in tutte le materie, eppure non dava per niente l’idea del tipico secchione. Infatti, appena ti guardava ti sembrava di congelare, tanto che ti veniva quasi spontaneo stargli alla larga, perché pareva essere molto superiore di quanto non lo fossimo noi, qualcuno a cui era proibito avvicinarsi. Sarebbe stato anche un ragazzo niente male, se non fosse stato per il suo comportamento. Tuttavia non mi era mai parso che godesse in questo o lo facesse apposta.

Ma di che mi preoccupavo? Dovevo tornare indietro solo perché lui era in classe? Quanti problemi che mi facevo… di nuovo effettuai la marcia indietro verso la classe, quando la campanella suonò.

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Capitolo 2
*** Capitolo secondo ***


{ Capitolo secondo }

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Ciò che desideravo di più in quel momento era che l’intervallo arrivasse per andarmi a prendere un bicchierino di cioccolata calda alle macchinette, o anche un caffé. Quel giorno in classe era stata presa una decisione di “rivoluzione”: eravamo sempre stati da soli in banco e nessuno si era mai lamentato, però ad un tratto, proprio quel giorno, un’insegnante aveva proposto di unirci in coppie, e nessuno aveva obiettato. L’avrei fatto io, non che i miei compagni mi stessero antipatici, è che si stava così bene in banco da soli… e anche se avessi detto la mia opinione, di sicuro quella di una persona sola non sarebbe di certo valsa.

Pur andando d’accordo quasi con tutti, non me la sentivo di condividere il banco con qualcuno. Pensavo di essere diversa da tutti, a non voler condividere il banco con un compagno.

Come un raggio di sole dentro ad una caverna, la campanella suonò segnando la temporanea fine delle lezioni e con gioia tutti si alzarono in mezzo a sbattimenti di sedie e urla, chi inizia a tirarsi il cancellino della lavagna, sporcando tutto di gesso bianco, chi esce dalla porta spintonando violentemente gli altri, persino le ragazze apparentemente più docili talvolta, quando avevano fretta, si univano alla massa. Sulla porta bianca della classe era appeso un foglio, dalla parte esterna, l’avevo appeso io, mettendo tutti i nomi e cognomi degli studenti della classe da una parte, in una colonna, mentre le altre colonne rappresentavano le materie e una crocetta inserita nella casella del corrispondente alunno rappresentava un’interrogazione, così tutte le volte l’insegnante non doveva ricordarsi chi era stato interrogato e chi no, invece, e poi anche gli studenti potevano regolarsi e farsi un’idea della situazione. Tutti pensavano fosse una buona idea, ma il foglio ormai non era aggiornato quasi mai, ed era mezzo a penzoloni per aria e un po’ scarabocchiato e mal messo, il nastro adesivo che stava lentamente cedendo. L’ultimo pezzettino di nastro rimasto lì, infatti, si staccò facendo cadere il foglio a terra lentamente, che aggraziatamente volteggiò fino a toccare il pavimento.

“Accidenti a me e a quando ho proposto quest’idea…”. Stavo alzandomi per andare a riappenderlo correttamente, ma arrivò qualcuno da fuori della classe.

Era Kyle Gray, si fermò davanti ad esso squadrandolo, io ferma come una stupida in piedi di fronte al mio banco, lui raccolse il foglio mal ridotto studiandolo un po’, sia il fronte che il retro. Da quel che ricordavo, lui aveva una crocetta in tutte le materie, quindi era stato interrogato in tutto. Era proprio bravo, uno studente modello, si direbbe. Osservavo le sue mosse, senza prevedere cosa avrebbe fatto.

Lui alzò le spalle, non so se si era accorto o no che io ero lì presente, accartocciò il foglio e lo lanciò, con una mira eccellente, nel cestino. Il mio povero foglio, ci avevo messo tanto impegno…

– E… ehi! – cominciai con voce leggermente sgomenta – Perché l’hai fatto?!

Lui alzò in modo molto lento lo sguardo, con puro disinteresse nei miei confronti, le mani in tasca, per poi guardare nuovamente il cestino:

– Nessuno lo usava. A cosa serve mettere un foglio delle interrogazioni, se nessuno si fa interrogare e lo aggiorna?

Parlò con voce calma, tranquilla, irritante allo stesso tempo, e leggermente arrogante, per poi andarsene. La prima volta che parlavo con lui, e già mi aveva fatto una brutta impressione.

“Certo che potrebbe almeno guardarmi in faccia quando mi parla… uffa, che nervi!”.

Me ne uscii dalla classe per andare a prendere qualcosa di caldo, per calmarmi.

 

Ero appoggiata al termosifone, sopra di esso stava una finestra che si affacciava sul quartiere, nulla di speciale, non si riusciva nemmeno a vedere l’orizzonte… mi soffermai a guardare le automobili che giravano per la strada in fretta, senza un momento di pace. Racchiudevo tra le mani il bicchierino di plastica con dentro il caffé bollente, aspettando che si raffreddasse.

– Jenice, l’intervallo non è infinito, bevi in fretta quel caffé! – riconobbi quella voce e tornai sulla Terra.

– Ehi Sharon! Non ti avevo vista… – le dissi trangugiando un sorso di caffé bollente che mi andò giù scorrendo veloce tra le membra… – Allora?

– Allora? Allora te lo chiedo io! Come mai sei sempre qui… e guardi il vuoto, da sola?

Che ingenuità, che serenità, nei suoi occhi verde smeraldo.

– Vedi… in questo periodo penso spesso a lui e…

Lei sobbalzò leggermente, sbarrando gli occhi.

– Non dirmi che ti piace ancora, Jenice… pensavo che l’avessimo superata, questa cosa, poi sono dei mesi che non si fa più vedere!

– Ma certo che no! Cosa vai a pensare? Però… il fatto che il mio cuore è stato suo per così tanto tempo… mi sembra di aver buttato via cento anni di tempo prezioso… e poi come faccio a non avere questi rimpianti?

Non riuscii proprio a capire se Sharon fosse più sconcertata o ripugnata.

– Certo che anche lui mi sorprende…

Mandai di nuovo giù un sorso di caffé, mentre lei si appoggiava al termosifone di fianco a me.

– In fondo lui non ne sapeva quasi niente… forse non immaginava che io fossi seria.

E di nuovo sorseggiai, sentendo il calore che mi avvolgeva le membra, e continuai a parlare mentre fissavo gli angoli più remoti del cielo:

– Non dargli colpe che non ha, semplicemente mi ero innamorata di lui… quando mi ha fatto quella cosa però, è cambiato tutto, era inevitabile… – continuai.

Lei sorrise, mi guardò con i suoi grandi occhi, e mi strinse una mano:

– Però sai… – e sghignazzò – vorrei che mi notasse, una volta ogni tanto, in fondo è carino, te l’ho sempre detto!

– Bah, smettila Sharon… tutte queste fantasie! Non sai nemmeno dove possa trovarsi in questo momento…

E ridacchiai, quando la campanella suonò di nuovo. L’intervallo era finito, dovevamo occuparci di quello spostamento di banchi.

Mentre mi dirigevo nell’aula pensai che per uno strano scherzo del destino sarei finita vicino proprio a qualcuno della mia classe vicino al quale non sarei voluta stare. Andava sempre a finire così. Del mio caffé era rimasto solo il bicchierino di plastica e quel bastoncino, sempre in plastica, che serviva a mescolare lo zucchero. Gettai tutto nel cestino, riguardando il mio povero malcapitato foglio delle interrogazioni. Non importa, ne avrei rifatto un altro presto, la prossima volta che ci sarebbe stata una lezione noiosa che nessuno voleva ascoltare, e mi sarei assicurata che Kyle Gray non gli avesse messo le mani addosso. Intanto a passo lento la professoressa ritornò in classe, con un barattolino di vetro tra le mani e dei bigliettini al suo interno.

– Qui ci sono i vostri nomi, adesso unite i banchi, così possiamo cominciare con l’estrazione.

L’insegnante era sorridente, lo era sempre. Aveva circa una sessantina d’anni, ma li portava abbastanza bene. Era una abbastanza ottimista, che se qualcuno prende un brutto voto, lei dice sempre che è recuperabile, che basta studiare un po’ di più o farsi dare una mano… spesso serviva, con alcuni studenti che a volte andavano male.

Cominciammo ad unire i banchi, a due a due. Come sempre il fracasso era di casa, come succede in molte classi.

– Chi viene a fare l’estrazione? – chiese con la sua solita gentilezza l’insegnante, sedendosi comodamente sulla sua sedia e cominciando a squadrarci tutti, uno per uno.

Poi guardò me, con uno sguardo che mi fece capire all’immediata che aveva deciso chi doveva venire. Mi diressi verso la cattedra, ormai convinta che il destino ce l’avesse con me, e mi avrebbe presto fatto un dispetto. Ventidue bigliettini di carta bianchi e ripiegati se ne stavano in quel barattolo vitreo, aspettando che la mia mano li raccogliesse uno per volta. In men che non si dica la mia mano si era già immersa in quel mare di piccoli foglietti.

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Capitolo 3
*** Capitolo terzo ***


Grazie a tutti quelli che hanno recensito e che mi hanno messo tra i preferiti e i seguiti, grazie anche a chi ha semplicemente letto =) continuate così, per favore datemi anche consigli… grazie ^^

Capitolo terzo

C’erano rimasti solo tre bigliettini. Il mio ancora non era spuntato fuori. Gli elementi peggiori della classe sembravano tutti eliminati, c’era ancora il bigliettino di Sharon, e un altro. Non avevo tenuto bene il conto di chi mancasse, perciò non sapevo a chi appartenesse l’ultimo bigliettino. Adesso dovevo estrarre quello che sarebbe andato in banco con Foster, una ragazza molto corteggiata all’interno di tutta la scuola.

Mi feci strada nel barattolo, prendendo uno a caso dei biglietti, sperando che non fosse né il mio né quello di Sharon, così saremmo state in banco insieme.

Lo aprii. Lessi il nome con un groppo in gola:

– Sharon Bulter.

E questo era tutto. Ero sicura che il destino mi avrebbe tirato uno scherzo del genere.

Ne rimanevano due: uno era il mio, sicuramente, l’altro non ne avevo idea…

– Jenice Ross…

E quindi l’ultimo? Sembrava quasi che non mi fosse concesso saperlo. Lo afferrai, lo strinsi nella mano mezza sudata, mi rischiarai la voce e lessi il nome rimasto:

– Kyle Gray.

Lo sapevo, lo sapevo, e di nuovo, lo sapevo. Chi altri, se non proprio lui? Già il modo in cui mi aveva trattata prima, che non mi era per niente piaciuto, in più adesso dovevamo condividere lo stesso banco… più che un’ingiustizia, mi sembrava una presa per il naso.

Prima fila di banchi, destra. Lui verso la finestra, io verso l’interno. Nulla di più inquietante in quel momento. Semplicemente la sua presenza mi faceva rabbrividire. Tuttavia, mi sarebbe piaciuto avvicinarmi a lui e sussurrargli una domanda che nessuno troverebbe normale: “Di che colore sono i tuoi occhi?”.

Già, strano, ma gli occhi è la prima cosa che noto nelle persone. Sempre. E lui era una persona che mi sembrava “proibito” guardarla negli occhi.

Prendevo appunti, sul mio quaderno, a matita. Ecco che sbagliai nella trascrizione di alcune regole matematiche. Allungai la man verso l’astuccio, per afferrare la… gomma. O quello che ne era rimasto, cioè niente.

Improvvisamente, un groppo in gola, di nuovo. Chiusi gli occhi e sospirai. Mi voltai, lui stava guardando fuori dalla finestra. Mi sentivo estremamente a disagio, con un individuo del genere.

– Hai una gomma?

Seconda volta che parlavo con lui, sempre di mia iniziativa, seconda volta che lo facevo con voce sgomenta.

Lui sembrò non sentire la mia domanda. Che nervi. Aprii nuovamente la bocca per riformulare la domanda, ma ecco che il suo sguardo si distolse dall’infinito e allungò la mano verso l’astuccio, per prendere una gomma bianca quasi nuova. L’appoggiò delicatamente sul bordo del banco, come se tra il mio e il suo ci fosse una specie di confine invalicabile. Di nuovo lentamente alzò lo sguardo verso di me, i ciuffi neri gli facevano ombra sugli occhi, di cui non distinguevo il colore, per poi ritornare nel suo mondo con quell’aria malinconica.

– Gr… grazie.

Afferrai velocemente la gomma, cancellai in un batter d’occhio, e in un secondo era di nuovo sul suo banco, gliela misi accanto all’astuccio. Lui sembrò non curarsene minimamente, e stette lì per tutto il resto della lezione con la mano sulla fronte, nei suoi pensieri. Ero curiosa di sapere cosa ci fosse, oltre quella massa di capelli neri. Quali fossero, in quel momento, i suoi pensieri, se era contento, irritato, o del tutto indifferente, del fatto che fossi io la sua compagna di banco.

Fine delle lezioni, finalmente. In tutta tranquillità, mentre il suono della campanella ancora riecheggiava all’interno delle aule e nei corridoi, mi misi lo zaino in spalla e aspettai di essere tra gli ultimi ad uscire. Camminavo, cacciando un’occhiata all’orologio appeso al muro: e così un’altra giornata era passata. Ma come passava in fretta il tempo, sembrava che mi stesse consumando, lentamente, che non avessi il tempo per fare tutto. Che ne avessi sprecato troppo.

Senza rendermene conto, stavo già andando giù per le scale, ero quasi all’ultimo gradino, quando non mi accorsi che ce n’era uno bagnato. Senza prestare attenzione, misi male un piede sullo scalino bagnato, e scivolai in avanti. In quell’attimo mi parve di morire, cercai disperatamente di aggrapparmi a qualcosa, ma niente, dalla bocca non mi uscì nemmeno un sibilo, gli occhi chiusi mentre mi preparavo alla caduta.

Perché non cadevo? Che stava succedendo? Piano riaprii leggermente gli occhi, vedendo che il mio corpo era a penzoloni giù per le scale, ma ciononostante non cadeva. Mi ero appesa a qualcosa. Sgranai gli occhi e mi rimisi in piedi.

Rabbrividii. Quella strana sensazione.

Poi chiusi gli occhi, sospirando leggermente, e mi girai di scatto sapendo che l’avrei trovato lì. Infatti, avevo ragione.

Incredibile: Kyle aveva la mano aggrappata al mio zainetto, aveva fatto in tempo ad evitarmi la caduta, afferrandomi mentre cadevo. Chissà come avrà fatto.

– Attenta, si scivola.

Il tono in cui lo disse, pareva quasi non umano. Fermo, tranquillo, un modo assolutamente indifferente. La sua espressione, in realtà, anche quella era poco umana.

“Ma senti un po’, mi fa anche la predica!” mi dissi, alterata.

Arrossii leggermente per l’imbarazzo, e lo ringraziai abbassando lo sguardo. Quando lo rialzai vidi che lui non mi aveva nemmeno ascoltato e che mi aveva già sorpassato giù per le scale.

“Ma si può sapere chi sei tu?!” pensai.

E giunsi finalmente fuori dalla scuola. Ormai non c’era più nessuno nei dintorni, se non Kyle che si stava allontanando. Poi lo vidi, era laggiù, lontano, ma stava aspettando proprio me. Sorridente, come sempre, con quei capelli biondi che adoravo e il solito look casual.

Corsi verso di lui, che mi prese e mi scompigliò i capelli ridacchiando.

Non pensate male, eravamo solo amici. Lui si chiamava Jonathan, era il mio insegnante di canto che mi conosceva da quando sono nata, per l’esattezza dieci anni in più di me, i suoi erano amici di famiglia. Ma io ho sempre avuto un debole per lui, in fatto estetico, s’intende. Non mi piaceva sul serio, lo trovavo solo estremamente carino. E lui mi voleva un sacco di bene, perché per anni mi aveva sopportato durante le lezioni di canto e ciò mi bastava come dimostrazione.

– Allora Jen, che hai fatto a scuola oggi?

Io ridacchiai, incamminandomi insieme a lui verso casa.

– Prima di tutto sai che non voglio che mi chiami Jen! E poi… niente di particolare, ci hanno solo messi a coppie in banco.

– Ohohoh… bene bene, e sei finita in banco con il tuo ragazzo?

E mi scompigliò di nuovo i capelli. Ecco, lo faceva sempre, toccava il tasto dolente. Lui era forse la persona nella mia vita con cui mi ero sfogata di più, e su di me sapeva praticamente tutto. Ma non capiva mai dov’era il limite, e purtroppo lo sorpassava sempre. Tuttavia, faceva parte del suo carattere.

– No… lo sai che non ce l’ho, il ragazzo.

E feci una smorfia.

Lui si rese conto di avermi fatto male, con quello che aveva detto. Gli dispiacque e cercò di consolarmi a modo suo:

– Bah, se solo avessi dieci anni in più – e mi fece l’occhiolino. Io sbarrai gli occhi e arrossii. Non sapeva davvero neanche cos’era, il limite.

– Ma dai, cosa dici! – risposi fissando per terra – Piuttosto… come mai sei venuto a prendermi?

Lui ci rifletté un attimo perché si era dimenticato. Come al solito.

– Ah sì, tua madre mi ha chiesto se restavo a cena da voi, – e si mise le mani in tasca, guardando le nuvole in cielo – così pensavo di farti una sorpresa, intanto che lei prepara, no?

Vediamo, abbiamo detto finora: senza il senso del limite, smemorato, e oltretutto c’è da aggiungere che pur avendo ventiquattro anni ci si poteva parlare benissimo come se ne avesse avuti quanti ne avevo io, in poche parole, immaturo. Tutti questi difetti facevano di lui quello che era, ed era per quello che gli volevo bene.

– Mmh… – disse, facendo una faccia scettica – ma forse ho fatto male a farmi vedere con te, perché le tue amiche così sono invidiose!

Aggiungiamo anche: vanitoso.

– Dai smettila! – risposi ridendo.

Eravamo due menti completamente diverse, lo so. Lui sempre allegro e con tutti i difetti sopra elencati, io ero una persona fuori, mentre all’interno un’altra: malinconica e riflessiva, sempre in lotta contro il tempo.

colgo l'occasione per dare il benvenuto ad una mia cara amica, Delicious_R_
che è appena arrivata, fatele visita ma prima recensite se vi è piaiuto ^^ grazie dell'attenzione =)

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Capitolo 4
*** Capitolo quarto ***


Voglio continuare a scrivere il meglio e il più sinceramente che posso finché morirò. E spero di non morire mai”.

- Ernest Hemingway -

Grazie delle recensioni…continuate a commentare =) comunque rispondo ad una recensione:

Elly4ever: scoprirai perché Kyle si comporta così proprio nel prossimo capitolo, anche se mi considererete leggermente sadica xDxDxDxD!!

Capitolo quarto


– And I can’t stop it now, oooooh, it can’t stop me now, ooooh…*

Nella mia stanza, stavo cantando a squarciagola in compagnia di Jonathan, che correggeva ogni mio piccolo errore.

– Ferma! – e mise in pausa la musica – Il primo “ooooooh” era inutile, così rischi di andare fuori tempo.

Annuii. Okay, ricordarsi di non fare più “ooh”.

Continuai a cantare cercando di rilassarmi, ma quel giorno ero troppo stanca, non ce la facevo.

– Okay dolcezza, per oggi basta, ti stai esaurendo troppo – e ridacchiò. Odiavo quando mi chiamava “dolcezza”, mi faceva sempre arrossire e lui se ne accorgeva, ma allo stesso tempo gli faceva piacere.

Odiavo le lezioni di matematica. Era ufficiale. Era l’unica materia di cui non capivo proprio niente. O almeno, avevo sempre capito fino ad un paio di mesi prima, poi ero rimasta indietro e le continue spiegazioni del professore non servivano a nulla, e in più facevano tornare sugli stessi argomenti anche gli altri compagni più volte. Se continuavo così avrei dovuto cominciare a fare ripetizioni, e magari i miei per bilanciare le spese mi avrebbero sospeso le lezioni di canto, cosa che non volevo affatto.

L’insegnante continuava con la spiegazione:

– Infine, se qui risulta esserci un sistema lineare, possiamo anche applicare il metodo che…

Mi misi le mani tra i capelli buttando la matita sul banco, e mi scappò un sussurro:

– Ma che roba è questa…?

Rimasi qualche secondo lì ferma, quando rabbrividii. Solo io sapevo cosa significasse ciò. Di scatto mi girai, lo sguardo di Kyle era puntato sul foglio, sul MIO foglio del MIO quaderno. Lo guardai un attimo allibita, mentre lui aveva sempre quell’espressione, e mi disse, sottovoce, indicando un punto tra le scritte:

– Qui hai sbagliato, hai lasciato indietro il cambio dei segni.

D’accordo, avevo apprezzato il gesto, il problema era che anche così non capivo molto delle spiegazioni! Poi osai:

– Non ho capito bene… come mai all’improvviso bisogna cambiare tutti i segni?

Stavolta sì, parlai con voce decisamente più decisa.

– Perché in questo modo puoi facilitarti i calcoli, e vedi che nell’altra equazione adesso ci sono due incognite uguali, e ora puoi applicare il metodo di confronto.

Dalla mia faccia capì benissimo che non avevo idea di come si applicasse il metodo di confronto. Tuttavia non si perse d’animo e mi spiegò anche questo, io che speravo che potesse spiegarmelo un po’ meglio di quanto non lo facesse il professore.

– Mmh… forse ho capito, adesso ci provo.

Sì dai, forse un minimo ci stavo capendo. Stavo mettendomi lì a provare, ma il suo sguardo era ancora fisso sul foglio, poi lo guardai di sfuggita e lui mi fissò negli occhi. Finalmente, dopo due anni, ero abbastanza vicina per vedergli il colore degli occhi: uno stranissimo blu, non azzurro, puro blu, come il mare notturno e gelido profondo, dove per un attimo mi sembrò di affogare. Non riuscivo a sostenere quello sguardo così poco umano, e volevo semplicemente tornarmene sul mio sistema quando dalla bocca mi uscirono esattamente (non ricordo male) queste parole:

– Hai dei begli occhi.

Un secondo dopo ero impallidita d’un colpo, sbarrato gli occhi e mi si era bloccato il respiro mentre il cuore batteva all’impazzata. Come aveva fatto ad uscirmi da sola dalla bocca una frase del genere? Non l’avevo mai detta a nessuno e d’un tratto mi era uscita con lui… oddio che figura. Non volevo dirlo. No!

Lui era stato insensibile anche a quella frase, e non aveva fatto nemmeno un minimo cenno di cambiamento d’espressione.

– Ti ringrazio. Anche tu.

E tornò a guardare sul proprio quaderno, mentre io ero ancora lì mezza a bocca aperta per lo stupore. Che figura, che figura, che figura!

Però, mi aveva pur sempre fatto un complimento. Le donne, di tutte le età, amano i complimenti. Di nascosto presi il mio specchietto dallo zaino e lo puntai sui miei occhi: erano castani, molto scuri, grandi e vispi. Beh, modestamente… pensai, rimettendolo poi via assicurandomi che nessuno l’avesse visto.

Era già passato qualche giorno da quando ero finita in banco vicino a Kyle Gray, e anche se ancora mi metteva a disagio, stavo imparando a conviverci. Non ci scambiavamo una parola, se non di rado.

D’un tratto si sentì bussare alla porta. Entrò il bidello, con un foglietto in mano.

– Buongiorno. Ehm, allora… – e lesse il bigliettino stringendo gli occhi – Jenice Ross in presidenza, la preside gradirebbe parlarle adesso se è possibile.

Sbiancai. La preside di solito riceveva solo se qualcuno aveva fatto qualcosa di veramente grave, con tutti gli impegni che aveva. Di solito era il vice-preside che se ne occupava, non la preside in persona. Mi rivolsi al bidello, alzandomi in piedi:

– Come mai…?

Lui alzò le spalle:

– Non mi riguarda.

Guardai l’insegnante, che mi fece cenno di sì, che potevo andare.

Così me ne andai verso la presidenza, un po’ timorosa, ma allo stesso tempo sicura di me perché non avevo fatto nulla di male. Scesi piano per piano, guardando, non so perché, dalla tromba delle scale cosa c’era sotto, se stava salendo qualcuno. No, era pieno orario di lezione, era vietato girare per la scuola senza autorizzazione.

Eccomi in segreteria. Non ero mai stata in presidenza in vita mia, non sapevo nemmeno dove fosse, a dir la verità.

– Ehm, Ross?

Mi voltai, una segretaria mi stava squadrando.

– Huh, sì sono io!

Ero un po’ titubante. La segretaria mi indicò una porta quasi in fondo al corridoio:

– Prego, la presidenza è laggiù.

Allora non c’era stato un equivoco. La preside voleva davvero vedere me. Annuii con la testa e mi diressi verso quella porta. Sopra non c’era la scritta “presidenza” o qualcosa che potesse indicare che la preside fosse lì dentro. Era una porta in legno chiaro, probabilmente pregiato, e rimasi lì qualche secondo a studiarne le venature. Udii delle voci provenire da dentro, due voci femminili, ma le parole non di distinguevano. Di certo non stavano organizzando una festa. Specialmente una festa per me, eppure sembrava che io fossi proprio l’ospite d’onore.

Afferrai la maniglia, ma prima di muoverla minimamente, con la mano sudata, ricordai le buone maniere, che anche se ero stata convocata era sempre educazione bussare, prima.

Battei il pugno leggermente sulla porta, abbastanza per farmi sentire, e le voci d’un tratto si arrestarono.

– Avanti – disse una delle voci.

Esitando un po’, afferrai la maniglia e socchiusi la porta, guardando attraverso la fessura della porta, poi l’aprii abbastanza per passarci e riconobbi il viso della preside, che avevo visto solamente un paio di volte. Lei era sempre in ordine, sulla quarantina, ciononostante portava bene i suoi anni. I capelli ricci erano legati in un’ordinatissima coda di cavallo, senza nemmeno un ciuffo che usciva di fuori, mentre le labbra sottili erano sempre coperte dallo stesso rossetto bordeaux. Era seduta alla sua scrivania, di fronte al computer, di fianco a lei su una sedia un’altra donna, abbastanza robusta, con i capelli corti, sui sessant’anni e un paio di piccoli occhiali che le cadeva continuamente sul naso, mentre lei si ostinava a tirarli su.

– Salve, Jenice Ross giusto? A quanto vedo si è precipitata!

Io risposi al saluto, la donna vicino alla preside stava in silenzio sorridente.

– Prego, Ross, siediti. Lei è la signora Smith, bravissima psicologa, ed entrambe volevamo parlarti.

Guardai prima la signora Smith, poi la preside, di cui, come avrete notato, non ricordavo il cognome da quante poche volte l’avevo vista.

– Parlando con i professori… ho saputo che hai una delle medie migliori della classe, a parte qualche recente intoppo in matematica. E hanno aggiunto che la tua condotta è impeccabile, sai renderti sempre utile e sei affidabile.

Incredibile che i professori avessero detto cose simili su di me. La preside continuò:

– Per cui… pensavamo che tu saresti stata la persona migliore della tua classe a cui affidare questo incarico, con qualcosa in cambio ovviamente…

Mi protesi leggermente in avanti dalla mia sedia e così anche lei. Ero davvero curiosa di sapere cosa intendeva.

– Ti piacerebbe avere, per aggiustare i tuoi voti, dei crediti extra?

* = la frase è di una canzone, “Alice (Pronuncia Elis)” di Avril Lavigne, il nuovo singolo uscito qualche giorno fa, colonna sonora dell’imminente film “Alice in

Wonderland”.

Non fucilatemi per non essere arrivata al punto! xD vedrete presto cosa c’entrano quei “crediti extra”… alla prossima e recensite!

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Capitolo 5
*** Capitolo quinto ***


Buonasera a tutti…

Beh, volevo solo informarvi che mi hanno fatto piacere tutte quelle recensioni e che andando avanti con la storia… ho creato un gran casino!! La storia è già un bel po’ avanti… la perfezionerò e poi la posterò ;) continuate a seguirmi!

Capitolo quinto

– Crediti extra? Ma io li ho già, faccio lezione di canto.

La preside arricciò il naso.

– Sì ma, ti volevamo chiedere di fare semplicemente una cosa in cambio di altri crediti, non mi sembra una proposta da poco, Ross – diceva sorridendo. Anche se in realtà mi sentivo come se mi stesse corrompendo.

– Beh… sì… forse in effetti mi farebbero comodo.

– A chi non farebbero comodo? Comunque, ho anche saputo che ultimamente vi siete messi in banco a coppie, e che tu, guarda caso, sei finita proprio vicino a Grey.

Grey? Kyle Gray? Cosa c’entrava lui con i miei crediti extra? Non sapevo davvero cosa dire, perciò stetti zitta e annuii semplicemente.

– Vedi, Jenice, – continuò la preside – forse non sai che i crediti extra non si ottengono solamente con attività extra-scolastiche, ma si possono ottenere in svariati modi, come ad esempio facendo qualcosa per aiutare il prossimo, per “prossimo” qui intendiamo altri studenti.

Davvero non capivo. Era tutto senza senso.

– Infatti, – cominciò la signora Smith, guardando me che ero senza parole – e in questo caso stiamo parlando del tuo compagno di banco, Jenice. Ecco… io all’inizio sono stata assunta proprio dagli zii di Gray e…

Non fece in tempo a finire la frase che mi scappò di nuovo, com’era successo prima con Kyle, una parola di troppo:

– … zii…?

Le due donne mi guardarono leggermente sbalordite, e lì caddi dalle nuvole. Cosa potevo saperne, io?

– Oh… davvero non ne eri al corrente? – riprese la signora Smith – Due anni fa i genitori di Gray sono morti entrambi in un incidente, perciò si è trasferito qui dagli zii ed è venuto a frequentare questa scuola, e non vuole socializzare con nessuno dei suoi compagni, come forse ti sarai accorta.

Non potevo credere alle mie orecchie. I suoi genitori non c’erano più? Ripensai a tutte le volte che in quei giorni lui mi aveva guardata, ripensai a poco prima, ai suoi occhi gelidi, freddi, e alla sua espressione che avevo definito “poco umana”. La realtà era che stava nascondendo, si stava tenendo dentro l’enorme sofferenza di chi ha perso entrambi i genitori, e io che non ero riuscita a guardare oltre quei suoi occhi, ed io che nemmeno me ne ero resa conto. Ero stata veramente una stupida.

– Forse ho capito… – cominciai – lei vorrebbe che io aiutassi Kyle a superare questo brutto momento, perché si troverebbe meglio con una della mia età… si adeguerebbe più in fretta…

La preside mi guardò sorridente.

– Esatto, sei perspicace. La tua solidarietà non rimarrà nell’ombra.

Era troppo. Veramente troppo, non ce la facevo a sopportare oltre. Mi stavano comprando con dei crediti extra per alleviare la sofferenza di qualcuno. Se solo l’avessi saputo prima…

– Mi dispiace, – iniziai, alzandomi – ma se devo aiutare qualcuno, specialmente un mio compagno di classe, beh allora preferisco farlo senza chiedere in cambio dei crediti, sarebbe un gesto egoista, a mio parere.

Le due donne si guardarono, e la preside disse, con voce ferma e calma:

– Come vuoi, ti capisco, Ross. Comprendo il tuo pensiero ma conto lo stesso su di te. Non deludermi.

Mi voltai, e mi diressi verso la porta aprendola.

– Non lo farò. Arrivederci.

Tornata in classe, mi sedetti di nuovo sulla mia sedia fredda, davanti al mio quaderno aperto con gli appunti lasciati a metà.

– Che hai combinato?

La sua voce improvvisa, sebbene pacata, mi spaventò e mi fece sobbalzare.

– Oh, nulla… è stato solo un equivoco.

Cercai di essere il più naturale possibile, la verità era che adesso sapevo cosa nascondeva la persona di fianco a me, ed era un peso che forse era meglio, almeno per ora, non riportare a galla. La mia risposta tuttavia non lo convinse:

– Sei stata giù troppo tempo, non è possibile.

Già, ma quanto tempo era passato? Come minimo un quarto d’ora, ma che dico, forse anche di più. Poi continuò:

– Tuttavia, non m’interessa.

“Uffa…! Ma che modi, accidenti!”

Ma non riuscivo a levarmi dalla testa le parole della signora Smith, che mi tormentavano ogni secondo di più. Chissà quanta sofferenza si era portato sulle spalle, in due anni. Chissà quante volte ha dovuto trattenerla e nasconderla, tanto che nessuno se ne accorgesse. Chissà quante volte era qui e stava male, e nessuno che poteva aiutarlo. E io? Io adesso ero qui per questo, ed ero fiera di essermi assunta questa responsabilità.

– Kyle…

Lui si girò al mio sussurro, fissandomi negli occhi. Teneva la penna tra l’indice e il medio e in realtà non stava nemmeno prendendo appunti. Sempre gli stessi ciuffi di capelli neri gli cadevano davanti agli occhi, che tuttavia potevo ancora vedere, nella loro magnificenza, nella loro profondità, e tutto quello che ci si specchiava dentro, e la sofferenza che si portavano dietro.

– Dimmi.

Ormai con lui non aveva senso esitare, potevo definirmi la persona della classe che lo conosceva meglio, forse lo conoscevo molto di più di quanto lui volesse, anzi, questo era sicuro.

– … mi puoi spiegare questo benedetto metodo di Cramer, per favore?

Purtroppo era una cosa che non sono mai riuscita a nascondere, la mia tristezza, la mia preoccupazione.

Per evitare che qualcuno mi vedesse nello stato che ero, tornata in casa mi chiusi in camera mia sostenendo di avere già mangiato a scuola.

“Chissà quante volte avrebbe voluto che ci fosse qualcuno con lui… invece in due anni non ha mai avuto nessuno. Come avrò mai fatto in due anni a non accorgermi di nulla… sono un’insensibile, ecco cosa sono”.

Qualcuno bussò alla mia porta.

Rimasi ferma un paio di secondi, indecisa su cosa fare, e chiesi:

– Chi è?

Eppure riconoscevo il tocco sulla porta, anche se non mi andava di rifletterci più di tanto.

– Ehm, come chi è, dolcezza? È mercoledì, sono le tre… e diamine, chi vuoi che sia?!

Ridacchiai sotto i baffi, e sostenni che preoccuparsi o avere rimpianti era inutile, non serviva a niente. Feci entrare Jonathan e cominciai la mia solita lezione di canto nella maniera più naturale possibile, e anche se lui vedeva che c’era qualcosa che non andava, cercava di non farci caso, e di non farsi troppo gli affari miei, e sorprendentemente per la prima volta parve riuscirci.

Nulla di quella giornata aveva avuto senso, la cosa che mi preoccupava di più era il fatto di aver detto a Kyle che aveva dei begli occhi. Che vergogna. Il bello era che lui se ne era stato lì impassibile a fare finta di niente. Beh, forse era stato meglio così.

Erano le tre… di notte, stavolta. Strano, ma i pensieri più intelligenti mi vengono in mente proprio nel sonno, e quel pensiero mi fece svegliare di colpo.

Quella frase, mi rimbombava nella testa:

“Conto lo stesso su di te. Non deludermi. Non deludermi. Non deludermi…”

Cosa avrebbe voluto che facessi, la preside? In effetti, cosa potevo realmente fare, io? Ero semplicemente la sua compagna di banco, era come se lo avessi conosciuto lì. Non mi veniva in mente niente. L’unico modo per parlare con lui era farsi spiegare qualcosa di matematica, e basta, per il resto non voleva mai parlare e riusciva benissimo a stare zitto anche per cinque ore filate… mmh, forse però un modo c’era. Non stava molto in piedi come piano, forse, ma se fosse riuscito mi avrebbe fatto doppiamente felice. Ma adesso ero troppo rimbambita per pensarci a modo, spostai leggermente il cuscino e mi accovacciai sotto le coperte, riaddormentandomi.

Nel prossimo capitolo: “Fu così che scoprii che Kyle era un vampiro”.

AHAHAH, sì vi piacerebbe… no, scherzavo, in questa storia niente vampiri ;) mi dispiace per le fan di Twilight. xD alla prossima.

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Capitolo 6
*** Capitolo sesto ***


Capitolo sesto

Era una mattinata uggiosa, destinata a diventare piovosa. I miei stivali camminavano tra le pozzanghere create dalla pioggia del giorno precedente schizzando in qua e in là. Adoravo camminare nelle pozzanghere. Con me avevo sempre il mio ombrellino, che quella mattina mentre andavo a scuola tenevo in mano, nell’eventualità che avesse iniziato subito a piovere. Fortunatamente riuscii ad arrivare nella mia classe asciutta. Lui era già lì, Kyle, intendo. Avrei potuto attuare il mio piano, proprio in quel preciso istante. Ma non lo feci, dovevo aspettare ancora un po’ ed elaborarlo per bene. Quel piano ingegnoso mi era venuto in mente proprio l’altra notte, alle tre: avrei potuto approfittare del fatto che ultimamente andavo male in matematica, mentre lui era più che discreto, per farmi aiutare anche fuori da scuola, magari nel pomeriggio. Così magari avremmo potuto anche rafforzare la nostra… beh, amicizia, se così la si vuol chiamare. Io un po’ lo consideravo già un amico, con tutto l’aiuto che mi dava, ma lui sicuramente non se ne era reso conto. Tuttavia, non volevo mettere in alcun modo in imbarazzo né lui né me stessa. Se fossi riuscita nel mio intento, lui sarebbe stato almeno un po’ più “felice”, mentre io sarei migliorata in matematica.

Le lezioni non erano ancora iniziate, in classe solo noi due.

– Buongiorno Kyle! – cercai di dire nel modo più allegro possibile, anche se quando stavo intorno a lui di allegria ce n’era ben poca. Lui si girò, guardandomi dritto negli occhi.

– Buongiorno, Ross.

Fui infastidita. Io lo chiamavo per nome, come mai invece lui mi doveva chiamare per cognome? Non mi sembrava da “amici”. Ma forse gli stavo mettendo troppa fretta. Cercai un argomento su cui discutere:

– Grazie dell’aiuto in matematica… deve essere difficile, sopportarmi così tanto!

Io ero ancora in piedi e con il giubbotto addosso, mentre Kyle, anche lui in piedi, stava guardando fuori dalla finestra e sembrò non ascoltarmi, eppure mi aveva sentito benissimo:

– Figurati… – disse semplicemente, per poi terminare la frase dopo un paio di secondi – … mi fa piacere.

Ero sorpresa, non si era mai spinto così in là in una conversazione.

– Beh, meno male…

Finalmente la campanella che segnava la fine delle lezioni suonò, e tutti uscirono. Tutti tranne me, che mi piaceva rimanere in classe e uscire dalla scuola per ultima, senza nessun’altro che mi vedesse. Guardando fuori dalla finestra, effettivamente, come avevo previsto, stava piovendo.

Una volta fuori aprii il mio ombrellino bianco a pallini neri, pensando a qualche giorno prima che mi era venuto a prendere Jonathan. Mi sarebbe piaciuto, in questa giornata piovosa, avere la sua compagnia. Davanti a me c’era ancora una lunga fila di studenti che camminava con l’ombrello in mano, in fondo Kyle, che invece non aveva nemmeno il cappuccio a coprirsi quella massa di ciuffi neri.

Allungai il passo per raggiungerlo, ma ormai era fradicio. Gli arrivai da dietro mettendolo sotto l’ombrello insieme a me:

– Ehi Kyle! – gli dissi sorridendo – Beh, così almeno non ti bagni!

Lui, sempre con le mani in tasca, rispose in tono indifferente:

– Così penseranno che stiamo insieme.

Io arrossii di colpo. Infastidita da quella frase, feci un passo in avanti sorpassandolo, e lui finì di nuovo sotto la pioggia.

– Come vuoi.

Ma passò appena un secondo, che udii da dietro la sua risposta:

– Non ho detto che preferisco bagnarmi.

Lievemente sollevata, ma ancora di colorito rossastro, feci marcia indietro e lo ripresi sotto insieme a me, cercando di prolungare il discorso:

– Senti… – e abbassai lo sguardo – potrei chiederti un favore?

Lui smise di osservare il cielo e mi guardò, con il giubbotto mezzo aperto da dove si vedeva la camicia bianca bagnata che aderiva alla pelle.

– Dimmi…

Mi sentii un po’ a disagio nel chiederglielo:

– Se hai tempo… sempre se vuoi poi eh? … ehm, non è che, per caso, mi daresti una mano in…

Non feci in tempo a finire la frase, che lui già mi rispose:

– Quando vuoi.

Stupita dalla sua risposta, lo guardai esterrefatta, ma contenta allo stesso tempo.

– Davvero??

Lui mi stava ancora guardando, sembrava che con il solo sguardo stesse scavando sempre più a fondo nella mia anima. Sul suo viso si dipinse un leggero, forse solo un cenno, di sorriso.

– Certo.

Era la prima volta che lo vedevo sorridere, e mi sembrava così diverso. E ora che ci pensavo, forse ero la prima persona che in due anni era stata in grado di fargli fare un cenno di sorriso. Ed era talmente bello.

– Ti andrebbe bene domani? Non so, magari domani ti do il mio indirizzo, poi nel pomeriggio mi raggiungi a casa…

Mi sorprendevo persino di me stessa. Non dicevo mai le cose così apertamente con persone che non conoscevo bene.

– Perché no? – e si rimise a guardare il cielo – Puoi anche fermarti, sai?

Mi fermai. Senza che me ne accorgessi, dalla massa di studenti che c’era prima, adesso eravamo praticamente soli, a parte qualche passante.

Eravamo fermi, davanti ad una casa, apparentemente molto nuova.

– Io abito qui. Grazie. A domani.

E se ne andò, scavalcando il piccolo cancello che lo separava dal giardino.

– P… prego…

E rimasi sola, sotto la fitta pioggerella che batteva contro il mio ombrello, incamminandomi verso casa, saltellando nelle pozzanghere. Ripensai al suo sorriso, che anche se non era tanto, per me era già aver fatto dei passi avanti, e in qualche modo sarei stata vicino a lui.

– Jenice!

Sentii una voce che mi chiamava, e d’un tratto mi risvegliai.

– Sharon! – lei mi raggiunse da lontano, saltandomi addosso e facendomi quasi cadere l’ombrello.

– Che ci fai ancora qui? Ti sei persa mentre andavi a casa?

E ridacchiava, nella sua solita spensieratezza, con il suo solito sorriso.

– No… ho solo rallentato un po’ il passo, chiacchieravo con Gray.

Lei apparve stupita alle mie parole:

– Con Kyle Gray? Ah già, è vero che state in banco insieme! Ma non ti sembra un tipo un po’… strano?

Guardai in basso, nelle pozzanghere, ripensando alla sua triste realtà. Era inutile spiegarle la faccenda, lei avrebbe sicuramente sdrammatizzato, e questo era l’ultimo argomento su cui sdrammatizzare.

– No, non è come sembra… domani mi aiuterà un po’ in matematica.

– Pff, e allora come sarebbe? Non è che la sua vicinanza ti sta facendo prendere una cotta per lui?

E mi fece uno sguardo complice. Ancora non aveva capito che il mio umore non era mai quello per scherzare. Da almeno tre mesi, da quando il mio cuore era andato in pezzi a causa di quel ragazzo. E, adesso che ci pensavo, lui non gli somigliava per niente, anzi, forse era meglio, almeno Kyle non si metteva a intortare la prima che gli capitava, e aveva dei modi più gentili e molto meno bruschi, molta più maturità, e degli occhi decisamente più belli.

– No… cosa dici? Non è nemmeno il mio tipo.

– Già… pensa bene ai tipi giusti, lo sapevo che non ti saresti fatta incantare da un tipo del genere…

Mi fermai. Proprio non capiva, proprio non riusciva ad arrivarci. E mi stava facendo infuriare, e stressare. E una lacrima stava per uscirmi da un occhio.

– Sta’ zitta, Sharon… – sussurrai.

– Cosa Jenice? Non ho sentito! – disse lei guardandomi con i suoi grandi occhi. In fondo, anche se mi fossi arrabbiata con lei e le avessi spiegato tutto, non avrebbe fatto alcuna differenza, quindi tanto valeva tacere.

– Nulla…


Spero ke vi sia piaciuto anke questo capitolo… sono arrivata molto avanti a scrivere, però ci metto un po’ per perfezionare tutto, quindi…

Comunque la storia è appena all’inizio^^ alla prossima!

*-* per favore fatemi sapere ke ne pensateee! ^^’

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Capitolo 7
*** Capitolo settimo ***


Care lettrici… sono lieta di annunciarvi (non so se a voi renderà felici qnt me O.o) che questo è solo il settimo di una lunga serie di capitoli che ho già scritto e sto perfezionando… la storia entrerà nel vivo solo nel capitolo 10, è da lì che iniziano, diciamo, tutti i casini. Non sottovalutate i personaggi secondari perché saranno fondamentali!

Buona lettura ^^

Capitolo settimo

L’unica cosa che forse ci separava da un’amicizia erano proprio i suoi occhi, come mi guardavano, quello che avevano dentro, il mare notturno profondo e gelido che sembravano racchiudere, dove tutte le volte mi sentivo annegare, senza respiro, senza fiato. L’avrei impedito.

Camera mia era sempre al buio. Io stavo sul letto sdraiata, talvolta, a riflettere nell’oscurità. Quel giorno c’era un pensiero che tormentava la mia testa, ma non riuscivo a capire cosa. Mi alzai lentamente dalle coperte stropicciate, accesi la luce, e il mio sguardo si posò inevitabilmente sul calendario. In mezzo a tutte le date, alcune cerchiate, altre sottolineate o con le crocette, ce n’era una, la data di oggi, con sopra un foglietto appiccicato. Avvicinandomi potei leggere e ricordarmi che quel giorno avrei avuto “ripetizioni” di matematica, se si potevano chiamare così. Più che altro erano aiuti. Preferivo farmi aiutare da un compagno piuttosto che da un insegnante, e poi sarebbe stato forse un modo per conoscere meglio Kyle. Sta di fatto che in quell’istante sentii il campanello suonare e, essendo in casa da sola, andai io ad aprire la porta, tanto sapevo, me lo sentivo, che era lui. Passando per il corridoio che portava alle scale vidi lo specchio, uno specchio grande quasi quanto la parete, che era sempre servito molto in casa, soprattutto a me, e mi fermai giusto un attimo a vedere se ero a posto: un ciuffo di capelli era sfuggito alla mia molletta viola. In fretta, rimisi la molletta tra i capelli nella maggior cura possibile, ma mentre andavo giù per le scale un pensiero arrestò tutti gli altri: perché? Perché mi ero fermata davanti allo specchio a controllarmi e a mettermi a posto con la massima cura? Ridacchiai tra me e me, credendo che fosse solo una stupidata, tanto lui era semplicemente un mio compagno di classe… poi finalmente giunsi alla porta.

Dopo un’ora la testa già mi scoppiava. Tutti quegli a, b, c, e x e y… non ci capivo molto, ma pian piano forse stavo facendo qualche progresso. Seduti alla scrivania, in camera mia, stavolta con la luce accesa, tenevo la mano destra con la penna sul quaderno, mentre la sinistra se ne stava in mezzo alle gambe, che stringeva con tutta la sua forza i pantaloni, ma entrambe stavano sudando. Mi sentivo non proprio a mio agio in quel contesto, ma era mio dovere se volevo migliorare in matematica.

Lui era, o sembrava solo, molto tranquillo ed era sempre gentile, non cambiava mai tono di voce, solo ora notavo il suo naso alla francese, con quella punta all’insù, che gli dava un’aria leggermente intrigante. I capelli gli andavano meno davanti agli occhi del solito, si potevano distinguere facilmente i suoi occhi, occhi bellissimi, che avrebbero fatto invidia a chiunque. Aveva la pazienza di rispiegarmi tutto, anche le tabelline, se necessario, e lo faceva sempre nel modo più garbato possibile, in un modo che neanche io ci sarei riuscita, ecco perché mi trovavo estremamente bene, nonostante quella sensazione d’imbarazzo.

– Quindi qua posso fare il cambio dei segni ora, prima però devo applicare la regola di cancellazione… giusto?

E indicai l’ultimo passaggio del sistema con la penna. Lui lo fece di nuovo, quello strano sorrisetto che aveva fatto anche il giorno prima, che mi aveva lasciato senza parole.

– Brava, hai capito.

La mia mano sinistra strinse ancora più forte i miei pantaloni, afferrando anche la gamba, facendomi male. Da quanto me l’ero stretta forte, il giorno dopo mi sarebbe venuto un livido.

Lo guardai sorridente, e sospirai di sollievo. Finalmente, forse avevo capito come risolvere un sistema di tipo semplice.

– Forse con un po’ di pratica, riuscirai ad essere pronta per il compito in classe.

Forse quella era una delle frasi più lunghe, a parte le spiegazioni di matematica, che mi avesse mai rivolto, ma che allo stesso tempo mi meravigliò. Mi ero scordata del tutto del compito di matematica, che si sarebbe tenuto tra tre giorni appena, e non ce l’avrei mai fatta a recuperare tutte le mie lacune in tempo.

– Oh no, mi ero dimenticata che c’era il compito… oddio come farò?

Disperata, mi misi le mani tra i capelli, appoggiando i gomiti sulla scrivania.

– Non preoccuparti, – disse lui, che non si toglieva dalla faccia quel sorriso – basta che fai un po’ di pratica, tutto qui, ti darò una mano anch’io.

No, questa era una delle frasi più lunghe che mi avesse mai rivolto. Poi si alzò in piedi, si sistemò la camicia nera, e aggiunse:

– Adesso però devo andare, se vuoi una mano io ci sono sempre.

Io alzai la testa, guardandolo, e sembrava aver allargato ancora di più il sorriso. Quanto mi sentivo bene, a vederlo così. E poi ciò che aveva detto, “Io ci sono sempre”, mi fece stare ancora meglio. Affiancandolo, lo accompagnai alla porta e lui se ne andò, lasciandomi nel cuore un forte senso di soddisfazione.

Questa storia andò avanti per altri due giorni, lui veniva da me, e mi spiegava qualcosa di matematica, tutte le volte andavamo da una a due ore, non di più. Finché non arrivò il giorno del compito.

Ero sul mio banco, sudavo in tutte le parti del corpo, come quasi tutti i miei compagni, Sharon inclusa, perché non volevo che matematica mi rovinasse la media di tutte le materie. Stava arrivando il professore con le copie del compito, e lui non era un tipo da farsi fregare mentre qualche compagno scopiazza a tutt’andare.

Entrò serio in classe consegnandoci le copie, e cominciai ad osservare gli esercizi: “Un sistema lineare, beh penso di saperlo fare, è la cosa su cui mi sono esercitata di più… qualche equazione semplice… risolvi con il metodo di Cramer… dai iniziamo, poi vedremo, e speriamo in bene!”.

Le due ore che avevamo per fare il compito passarono velocemente, tanto che avevo paura di non riuscire a fare in tempo, invece concentrandomi riuscii a fare più o meno tutto. Anche se non ero sicura di me, in fondo sarebbe stato impossibile ritrovarmi di colpo un “cento punti su cento” in soli tre giorni di esercizio… ma almeno sessanta punti dovevano essere miei.

La campanella era suonata. Il suo suono continuava a riecheggiare nei corridoi, ed era giunta l’ora di consegnare. Stavo per dimenticare di scriverci il mio nome sopra, che era solitamente la prima cosa da fare in un compito. Consegnando, c’era Kyle davanti a me, e potei vedere che come sempre il suo foglio era ordinato senza nemmeno un’imprecisione, e poi riguardando il mio, mi accorsi che a confronto il mio lavoro era inguardabile. Tuttavia, era tutta farina del mio sacco e ne ero fiera, perché ero riuscita a fare qualcosa in più del solito.

L’ansia mi divorava, ogni momento di più, non volevo sapere com’era andato il mio compito. Nonostante il grande aiuto che mi aveva dato Kyle avevo una grande paura del risultato. Quel giorno a scuola avrei saputo la verità.

Le gambe tremavano, la gola bloccata e non riuscivo a parlare. All’improvviso mi sentii prendere delicatamente la mano destra, e mi venne un tonfo al cuore.

– Andrà tutto bene, – mi girai, completamente rossa – sei migliorata.

Lo disse con un lieve sorriso, e lì mi resi conto che era stato un bene averlo come compagno di banco fino adesso. Il professore arrivò davanti a noi, con dei fogli in mano. Probabilmente i compiti corretti.

– Come al solito impeccabile, Gray – si rivolse al mio compagno di banco consegnandogli un foglio dove appariva la scritta rossa cerchiata con dei punti esclamativi “Cento su cento”.

Poi guardò me, prese un foglio, sul retro c’era il mio nome, “Jenice Ross”… per un attimo, quando vidi il fronte, pensai che quello in realtà fosse il nome di qualcun altro, a causa del punteggio segnato sopra.

– Bravissima, Ross. Sei migliorata.

Il mio obbiettivo era almeno sessanta, ebbene, vidi scritto in rosso “Settantatre su cento”, vale a dire una bella “C” stampata sopra.*

La campanella suonò la fine delle lezioni. Ero ancora troppo emozionata per il miglioramento fatto in matematica, e come al solito aspettai che quasi tutti uscissero. Anche Kyle stava per uscire, ma per lui avere preso una “A” non era niente di speciale.

– Kyle! – lo fermai. Lui si girò, guardandomi con una faccia molto serena. Io mi avvicinai a lui, prima lentamente, poi quando gli fui abbastanza vicina, mentre lui si chiedeva cosa stesse succedendo, io mi buttai addosso a lui e lo abbracciai, stringendolo forte, sulla soglia della porta della classe.

Lui rimase senza parole, non riusciva proprio a parlare. Improvvisamente, mentre avvolgevo il suo corpo caldo, il mio cuore sobbalzò, sentendo per qualche secondo quell’emozione che non provavo in maniera così forte da tanto tempo: la gioia. Da lui non mi sarei più staccata, tanto ero felice. Non diceva niente, quindi ci pensai io a parlare:

– Grazie… grazie mille…

Appoggiai piano la mia testa sul suo petto, potevo sentire il suo cuore che batteva all’impazzata, facendo di conseguenza andare il mio forte come un tamburo, tanto che pensavo volesse uscire dal mio corpo. Lui, con le mani leggermente tremanti, ricambiò il mio abbraccio e piano, come solo lui sapeva fare, mi sussurrò:

­– Figurati…

* = Sto tenendo conto dei criteri di valutazione americani, dove 90-100 punti è A (eccellente), 80-89 punti è B (buono), 70-79 punti è C… la completa insufficienza sarebbe invece F (dal 4 in giù nei voti in Italia).

avrei mai fatta a recuperare in tempo.

to di matematica, che era solo tra tre giorni! i aveva lasciato senza parole.

aso

 
ci tenevo a fare pubblicità a Delicious_R_, che ha appena pubblicato la sua prima sotira, Sun Between Stars, fatele una visita mi raccomando! ;) a presto e lasciate un commentino!

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Capitolo 8
*** Capitolo ottavo ***


Prima che continuiate a leggere volevo rispondere ad una recensione che mi è stata fatta proprio ieri nel terzo capitolo:

Bittersweet Rose_: sono molto contenta che la storia ti piaccia (come sono contenta che piaccia a tutte le altre, ovvio) e volevo solo dirti che se trovi qualche somiglianza con Twilight, è puramente casuale perché non ho mai letto il libro, ho solo visto il film ma non me lo ricordo quasi per niente xD… a dir la verità non vado neanche matta per Twilight… =)

Buona lettura!

Capitolo ottavo

Non avrei mai voluto lasciare la presa. Mai. Mi vennero in testa tantissimi pensieri tutti in una volta, ero riuscita a farlo emozionare, anche se adesso anche io ero emozionata. Non mi decidevo a lasciarlo, volevo ancora stringerlo… e lui sembrava starci facendo l’abitudine. Ma di colpo, facendomi forza, mi staccai e lui fece lo stesso. Potevo vedere, con mia grandissima sorpresa, che era diventato rosso quasi quanto me. Già, ma io ero rossa come un peperone! Mi girai per non farmi vedere, e tornai al mio banco per prendere la cartella. Quando me la misi in spalla lui non c’era già più, era sparito.

“Oh, perfetto…”.

Sentivo il cuore che pulsava ancora e mi chiedevo perché. Le mie mani erano tremanti e non riuscivo a tenerle sollevate. Deglutii, non ce la facevo più. Il mio sguardo fu attirato da un quaderno rosso fuoco che stava sotto il suo banco. Attratta dall’oggetto, siccome lui non c’era, lo presi e lo analizzai. Sembrava che anche su esso ci fosse impregnato il suo profumo. Sfogliandolo non potei fare a meno di notare che era un quaderno d’inglese, materia dove tutti e due andavamo bene. Peccato che sull’ultima pagina era scritta la consegna dei compiti per il giorno dopo.

“Oh mio dio, si è dimenticato il quaderno qui! Come faccio? Come faccio? Devo riportarglielo assolutamente!” pensai, anche se questa cosa mi puzzava non poco, perché in fondo non era mai successo in due anni che si dimenticasse qualcosa a scuola. E proprio per questo, perché lui era troppo perfetto, non ero convinta.

Corsi fuori dalla classe nella speranza di ritrovarlo ancora lì, ma se ne era già andato.

Pensai come avrei potuto fare a restituirglielo. Presi fuori il cellulare in cerca del suo numero, ma poi mi ricordai che non ero mai stata nello stato d’animo di chiederglielo. Poi ricordai, io una volta avevo fatto la strada insieme a lui fino a casa sua! Mi ricordavo dove abitava… bastava ripetere la strada fino a lì e, anche se mi sarei sentita non poco a disagio, avrei suonato a casa sua e gliel’avrei potuto restituire, ma non ora, dovevo tornare ad un’ora più decente, nel pomeriggio.

Fuori dalla scuola c’era lei, Sharon Bulter, mi stava aspettando. Le corsi incontro, e le chiesi che ci faceva lì.

– Beh Jenice, io ho notato che in realtà è due giorni che… mi “eviti”.

Lo disse con aria leggermente afflitta. Però la verità non era tanto quella, certo, ci ero rimasta male per quello che aveva detto di Kyle, ma più che altro non stavo mai con lei in quei giorni perché facevo compagnia al mio compagno di banco. Tuttavia non risposi.

– Beh… mi sono poi resa conto che mi sbagliavo, – continuò mentre ci incamminavamo verso casa – sul fatto di Kyle. Io non ho il diritto di giudicarlo perché a quanto pare lo conosci meglio di me, e non è tutto.

La guardai, chiedendomi cos’altro volesse dire.

– Ho notato come lo guardi, – disse sorridendo – non lo ammetti neanche con te stessa, ma forse sta iniziando a piacerti.

Mi fermai. Solo in seguito pensai veramente al significato delle parole che aveva appena pronunciato.

– Non so se quello che dici è vero, Sharon. So solo una cosa per certo, sulla quale ti sei sbagliata.

Lei mi guardò con i suoi soliti occhi vispi:

– E cioè?

Io mi guardai gli stivali, poi in terra, sulla strada, non volevo alzare lo sguardo.

– Cioè che io in realtà non lo conosco per niente.

Erano le quattro del pomeriggio in punto. Orario ideale per suonare il campanello di una casa sconosciuta.

Avanzai lentamente esitando con il dito sul campanello, lo tenni premuto per un secondo e mezzo circa, poi aspettai, agitata. Mi sentivo in imbarazzo, a suonare a casa di qualcuno che non conosco. Comunque, ero sempre più convinta che ci fosse qualcosa sotto.

Pian pianino, la porta di aprì, e da lì uscii una donna minuta, con i capelli biondi e corti, con un sorriso smagliante.

– Ehm… salve! – cominciai, sentendomi a disagio – Scusi il disturbo, ma Kyle abita qui giusto?

La donna mi guardò un po’ stupefatta, chiedendosi probabilmente la ragione della mia visita.

– Sì abita proprio qui… perché?

Le mostrai il quaderno rosso fuoco che avevo trovato in classe:

– Questo è suo, l’ha dimenticato oggi a scuola e sono venuta a riportarglielo!

Cercavo di parlare nella maniera più allegra possibile, e a quanto pare fece effetto.

– Huh, ti ringrazio, cara! Non era mai successo che si dimenticasse qualcosa a scuola!

Detto questo mi invitò ad entrare e mi chiese:

– Vuoi andarlo a salutare? Vieni, ti faccio vedere dov’è camera sua.

E così, con il quaderno in mano, seguii la donna, che quasi sicuramente era la zia di Kyle, infatti riconoscevo in lei alcuni dei suoi tratti, come il naso alla francese che doveva essere proprio una cosa di famiglia, e camminai osservando nei minimi dettagli l’arredamento della casa fino alla suddetta stanza.

La donna infine bussò ad una delle tante porte che vedevo, e riconobbi come risposta immediatamente il suo inconfondibile timbro di voce:

– Sì…?

– Si può, Kyle? – diceva la donna, sempre con il sorriso stampato sulla faccia – Qui c’è una tua compagna che deve restituirti una cosa!

Dalla stanza di Kyle si sentì provenire di nuovo la voce del ragazzo:

– Sì entrate.

Quella sua risposta secca mi mise ancora di più a disagio, anche se ormai un po’ mi ero ambientata alla situazione.

Sua zia mi aprì la porta incitandomi ad entrare. Lei in realtà rimase fuori andandosene e lasciando la porta aperta. La stanza era abbastanza buia, quasi quanto la mia solitamente, probabilmente anche a lui piaceva stare al buio.

– Ciao Kyle… – lo salutai sorridendo, leggermente rossa.

– Ciao – rispose lui sorridendo, stavolta apertamente. Fissò il quaderno, e lentamente lo prese, ringraziandomi.

Da come lo disse, dalla luce che brillava nei suoi occhi, capii improvvisamente tutto. Sì, avevo capito qual era il suo gioco. Io ero stata un’ingenua, e lui era stato molto più furbo di ciò che voleva far credere. L’aveva fatto apposta, aveva lasciato lì di proposito il quaderno, di un colore sgargiante, possibilmente importante, e leggermente sporgente dal banco così che lo potessi notare subito. Sapeva che l’avrei preso io e che sarei andata fino a casa sua per restituirglielo. Ma a questo punto mi sorgeva un dubbio… perché? Perché spingersi fino a questo punto?

– Mi sei mancata – disse scherzosamente. Sì, scherzosamente, avete capito bene.

– Posso sapere una cosa…? – cominciai, avendo intenzione di chiedergli perché avesse lasciato il quaderno lì, ma poi mi resi conto che era meglio rimanere nell’ignoto. Studiai la sua camera in un paio di secondi: una console dei videogiochi impolverata, una foto dei suoi genitori sulla scrivania, la madre era vestita da sposa, aveva gli occhi identici a quelli del figlio, anche se quasi tutte le altre cose si poteva dire che le avesse prese dal padre, libri sparsi ovunque, soprattutto sulla psicologia, uno addirittura che richiamava il senso della vita, e potei finire di formulare la mia domanda:

– Kyle… credi che la vita abbia un senso?

Lui mi squadrò, e con molta naturalezza rispose:

– Se la vita avesse un senso, non si dovrebbe morire. Perché un senso le cose non lo perdono mai, e quando si muore si perde tutto.

Avevo perfettamente capito a cosa stesse facendo riferimento. E la cosa non mi piaceva, avevo fatto la domanda sbagliata. Abbassai lo sguardo, imbarazzata per ciò che avevo detto.

– Allora? Come mai quella faccia? Non eri contenta per la C in matematica?

Continuò lui riassumendo l’“allegria” di prima, se così la si poteva chiamare. Io sorrisi, e risposi:

– Ma certo che sono felice! Piuttosto… mi dai il tuo numero? Così almeno… la prossima volta che perdi qualcosa ti posso avvertire! – cercai di sdrammatizzare un po’ e trovare qualche argomento. Anche se così facevo il suo gioco, perché avevo capito che lui voleva allungare la conversazione. Ma in fondo, forse anche io in quel momento lo volevo. E ripensai alle parole di Sharon, che forse per me non erano giuste, perché forse consideravo Kyle un amico molto speciale, perché sotto certi aspetti mi somigliava, ma nulla di più. Almeno, io credevo così.

Ma allora perché i nostri cuori battevano uno più forte dell’altro oggi, mentre ci abbracciavamo?

Anticipazioni del prossimo capitolo: nulla di troppo fondamentale, ma scoprirete che Kyle quando vuole può diventare un po’ gelosetto… alla prossima!

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Capitolo 9
*** Capitolo nono ***


Grazie 1000 delle recensioni!! =D adesso mi dedico alla carriera di scrittrice: *manda Delicious_R_ alla macchina da scrivere e inizia a dettarle la sua opera come una grande intellettuale mentre lei sgobba u.u* AHAHAH scherzavo ovviamente -^.^-

Preparatevi ad assaporare la VERA VICENDA nel prossimo capitolo, un sacco di avventure ci aspettano U.U

PS: non vi aspettate una vera e propria scenata di gelosia, comunque! Non so se sono io ad aver esagerato, ma Kyle sarà solo appena un po’ geloso, ovviamente sempre di più con lo scorrere dei capitoli…

Capitolo nono

Tornata a casa mi sentivo strana, ripensando alle parole di Sharon di quel giorno, a cui non davo alcun senso, davvero, ma non sapevo ora cos’era Kyle per me. E poi, quel “piano” di lasciare di proposito il quaderno a scuola… mi chiedevo che significasse. Ma lasciai stare per alcuni giorni, finché non tornò mercoledì, senza che io fossi giunta ad alcuna conclusione, anzi, ero sempre più confusa.

Il mercoledì cantare con Jonathan non mi sembrava più uguale, da un paio di settimane. Ma stavolta non perché c’era qualcosa di strano in me, ma più che altro c’era qualcosa di strano in lui, e continuavo a chiedermi cosa fosse. Era da tanto ormai che mi esercitavo sempre sulla stessa canzone, io ormai ero abbastanza discreta ma lui non faceva che apparirmi strano, non faceva altro che farmi ripetere e ripetere da sola, senza più darmi consigli. Poi ad un certo punto, quel giorno, mi fermò e disse:

– Questa canzone è perfetta così, dolcezza, – e di nuovo arrossii, come mio solito – sono io oggi che non sono in forma.

Poi prese tutta la sua roba e stava per uscire, quando lo fermai.

– Non solo oggi, però… io con te mi sono confidata così tante volte, perciò potresti dirmi tu se c’è qualcosa che non va?

Lui si fermò, richiuse la porta che prima aveva aperto per uscire, e disse apertamente:

– Sì, problemi con la ragazza.

Lo disse persino con il sorriso sulle labbra, quasi volesse sdrammatizzare.

– Capisco… mi dispiace… spero che risolviate! – non sapevo veramente che altro dire, se non che ero dispiaciuta, anche se un po’ di gelosia nei confronti del mio amico ventiquattrenne l’avevo sempre avuta.

– No no, mi ha proprio lasciato. Non c’è nulla da risolvere. Beh, devo dire che mi dispiace, ma forse meno che a te. In fondo mi diceva sempre che ero un immaturo.

Quando mai aveva preso una relazione seriamente? Era sempre stato così… non sarebbe mai cambiato.

– Mi aggiusto io con mamma. Non preoccuparti, a mercoledì.

E se ne uscì senza dire altro, lasciandomi sola come una stupida. Diceva così, ma in realtà gli dispiaceva. E io come sempre dovevo rimanere lì a guardare la sofferenza altrui.

All’improvviso uno strano impulso si accese dentro di me. Afferrai il telefono e iniziai a scorrere nella rubrica fino a giungere a quella dannata lettera, la “K”. Mi chiedevo cosa stessi facendo, perché, perché e ancora perché… perché avevo voglia di sentirlo? Non riuscii a frenare il mio istinto e lo chiamai. Che gli avrei potuto dire? Non potevo illuderlo inutilmente o semplicemente rompergli le scatole. Aspetta, perché “illuderlo”? Mica gli piacevo… anzi, in realtà non lo sapevo. In realtà non sapevo nemmeno se provava almeno un senso d’amicizia, nei miei confronti.

­– Pronto?

Quel timbro di voce inconfondibile mi fece per un attimo sobbalzare.

– Ciao Kyle… senti, non è che per caso puoi darmi i compiti di storia? Perché io sul diario mi ero scritta “pagina 643”, ma poi ho guardato e quella pagina non esiste…

Una scusa buona, pur essendomela inventata sul momento.

– No, infatti, è pagina 243… tuttavia non me la bevo, pagina 643 esiste eccome nel libro, non hai fatto bene i calcoli.

Ero senza parole. Aveva intuito il mio piano. Improvvisamente lo sentii ridacchiare.

– Sei un po’ prevedibile. Scommetto che non hai nemmeno il diario aperto in mano.

In effetti no, buttai lo sguardo in terra dove c’era lo zaino ancora chiuso.

– Ma che dici… – poi cercai di cambiare discorso – comunque, che fai?

Lui aspettò un po’ prima di rispondere, anche se poi mi rispose con un’altra domanda:

– Me lo chiedi perché vuoi sapere se sono occupato?

Perfetto. Ma ero davvero così prevedibile, o era lui che aveva messo una telecamera in camera mia?

– Facciamo un giro? Mi devo distrarre…

Non immaginavo neanche la faccia di lui dall’altra parte, ma suppongo che fosse sorpresa. Accettò.

Camminare per la strada insieme a lui non mi sembrava vero, anche se forse in quel momento avrei preferito stare lì accanto a Jonathan, visto come stava.

– Allora, come mai avevi voglia di uscire?
Davvero non sapevo che rispondere, e probabilmente si sarà chiesto come mai volevo uscire proprio con lui. Anch’io me lo chiedevo.

– Devo distrarmi… – e mi avvicinai ancora di più a lui, potevo sentire il calore del suo corpo – un mio caro amico sta male…

Lo vidi chiaramente impallidire, e guardarmi strano. Poi quella domanda:

– E quanti anni ha questo tuo amico?

Perfetto, proprio la domanda giusta. Nessuno avrebbe mai capito. Nemmeno lui. Il mio migliore amico ha ventiquattro anni, e allora?

– Beh… diciamo che è un pochino grandicello…

– Ho capito.

Ma in realtà non aveva capito per niente. E poi era sempre più turbato.

– Ma in che senso “amico”? – continuò, mettendosi una mano tra i capelli.

A quella domanda ero rimasta scioccata, senza parole, e scoppiai a ridere. Cos’era, geloso?

– Nel senso amico, Kyle, cosa pensi che significhi?!

Gli presi spontaneamente il braccio, come se fosse mio amico da sempre. Lui sembrava aver ripreso colore. Ogni tanto mi riproponeva i suoi splendidi sorrisi, che mi davano un’enorme soddisfazione, siccome non pensavo che ce l’avrei fatta in così poco tempo. Continuavamo a camminare, parlando del più e del meno, senza un argomento fisso. Ma a me andava bene così, bastava che gli restassi vicino.

Di nuovo ero confusa, non riuscivo a capire se per me Kyle era semplicemente un amico, o qualcosa di più. Che era speciale questo l’avevo capito, perché avevamo dei punti in comune e tra di noi scorreva una certa affinità, però non riuscivo a capire se ero andata oltre l’amicizia, e non riuscivo a capire se lo stesso era per lui. Una cosa che ancora non ero riuscita a fare, nemmeno in minima parte, era farlo aprire con me, e questo mi dispiaceva, perché tra amici di solito ci si deve dire tutto.

Pensai però che il primo passo, anche stavolta, potevo farlo io anzi che lui.

– Povero Jonathan… quella ragazza l’ha fatto solo soffrire.

Improvvisamente, a mia sorpresa, Kyle strinse i pugni, ma non disse nulla. Continuai:

– Pensi che risolverà presto?

Lui mi guardò con una strana luce nei suoi occhi blu, e rispose, sorridendo per rassicurarmi:

– Spero proprio di sì…

E d’un tratto sembrava essere entrato finalmente nella confidenza che io volevo con lui. Mi scompigliò i capelli, come Jonathan faceva sempre.

Ridacchiai, mentre cercavo di rimettermeli a posto:

– Già, speriamo… – e mi sorse spontanea una domanda – Kyle, hai mai avuto una ragazza?

Lui arrossì, tuttavia rispose senza cambiare espressione:

– Beh, alla vecchia scuola avevo molte corteggiatrici, ma erano tutte uguali: oche chiacchierone e vuote, perciò non le ho mai considerate.

Ciò mi fece pensare che prima che i suoi genitori morissero lui avesse un carattere più aperto, diverso. Mi sarebbe tanto piaciuto scoprire questo lato di lui che ormai era scomparso.

Lui mi fissò come se da me si aspettasse anche un’altra domanda, e forse era l’ideale che la facessi per farlo aprire, magari, un po’ con me: perché aveva cambiato scuola. Ma non gli chiesi niente, stetti semplicemente zitta, perché tenevo di più alla sua temporanea felicità in quel momento, piuttosto che si sfogasse con me. Quella domanda gli avrebbe riaperto inutilmente una grossa ferita.

– Tu, invece? – mi chiese.

Sapeva di me più di quanto sapessi io di lui, ma non importava.

– No… ma poco tempo fa… – e mi strinsi ancora di più a lui – un ragazzo… mi piaceva così tanto che avevo perso la testa per lui, ma in tanto tempo mi aveva solo illuso… poi quella sera, è stato orribile, tanto che ho voluto cancellare tutti i ricordi di allora…

Ecco, mi ero sfogata abbastanza? Lui era rimasto sorpreso, anche se non era riuscito a seguire alla perfezione il filo del discorso siccome non mi ero nemmeno spiegata bene, e dalla sua faccia si vedeva che era afflitto per me, e mi abbracciò come quella volta a scuola. I nostri cuori battevano all’unisono, forti come un treno, e realizzai che un suo gesto valeva più di cento dolci parole.

Scusa cara Jenice… ti ho tracciato questo carattere di proposito ma io stessa mi chiedo… COME FAI A ESSERE CONFUSA?!?! Persino io mi sono innamorata del mio stesso personaggio xD *-* mah… sperando che vi sia piaciuto, recensite mi raccomando mi fa sempre piacere! ^^ ps: ditemi se la scrittura è di vostro gradimento, le sto un po' sperimentando xD

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Capitolo 10
*** Capitolo decimo ***


Eheh (non fucilatemi per quello che ho scritto!!!!! XD)

Capitolo decimo

Che significava, tutto questo? Insomma, era un periodo decisamente “no”, dove se stavo male per qualcuno dovevo per forza parlarne con qualcun altro e… in questo caso quel “qualcun altro” era Kyle. Adesso i ruoli si erano un po’ invertiti, insomma. Però, in tutto questo tempo, ho cercato qualcuno che mi stesse vicino, prima Jonathan, adesso invece c’è anche Kyle e a volte anche Sharon… ma alla fine nessuno di questi tre viene da me per dei consigli, o per essere appoggiato. Alla fine sembra che nessuno dei tre abbia bisogno di me. E io mi sento sola.

Almeno se Kyle mi avesse dato qualche dimostrazione, forse lì sarei stata un po’ più felice. Il punto era: cosa doveva fare? Non mi bastava che si aprisse con me, no, io volevo qualcosa di più, ma non sapevo cosa. Mi ripetevo in continuazione che era solo un amico. Un amico speciale.

Quel giorno a scuola Kyle non si presentò, e mi preoccupai senza una valida ragione. Poteva aver avuto qualsiasi cosa, un semplice raffreddore o non aveva semplicemente voglia di venire a scuola… però era sempre una scusa per sentirlo.

Fortunatamente stava bene, aveva solo avuto una visita, ma era un’altra prova, quella, che nonostante il poco tempo che ci conoscevamo, mi ero legata a lui talmente tanto che non riuscivo più a staccarmi dalla mente il suo pensiero, mentre a lui sembravo totalmente indifferente, e ciò mi faceva male. Una parte dei sentimenti che provavo per lui, evidentemente, mi erano ancora ignoti. Stavo lì in bilico, tra l’amicizia e un sentimento più grande.

Il campanello di casa suonò. Sperai con tutto il mio cuore che fosse uno dei due, ma tanto era (di nuovo) mercoledì pomeriggio, chi poteva essere?

Aprii io la porta, siccome ero da sola in casa, e appena lo vidi lì con la chitarra sotto braccio gli saltai addosso.

– Allora…? Come stai? – mi preoccupavo per lui molto di più di quanto non si preoccupasse lui per sé stesso.

– Tutto bene, dolcezza.

E mi scompigliò i capelli, rimandandomi al ricordo di Kyle una settimana prima che aveva fatto la stessa cosa, ma i due lo facevano in modo completamente diverso.

Andammo in camera mia, iniziando a provare, ed era uno di quei momenti, il mercoledì pomeriggio, che con Jonathan mi godevo pienamente. Anche se lui era ancora un po’ diverso, non ancora del tutto “guarito”. Lo guardai nei suoi occhi quasi da bambino, perché in fondo sì, lui era ancora un bambino.

– Sicuro che adesso vada tutto bene?

Lui sorrise al suono della mia voce, poi andò a cercare il testo di una canzone che voleva farmi provare, senza rispondermi.

– Okay… – sussurrai, ma sicura che lui avesse sentito. Tornò davanti a me, squadrandomi, gli vidi in viso uno strano sorriso, poi, come se non riuscisse a sostenere il mio sguardo, fissò altrove.

– Non sai, quant’è difficile trattenermi in questo momento.

In che senso? Cosa voleva dirmi? Voleva dirmi tutto?

– E allora? Apriti con me, no? Sono qui apposta, in fondo…

Lui sghignazzò, dicendo, infine:

– Davvero lo vuoi?

– Sì!

Peccato che intendevamo sue cose diverse. Era tutto un equivoco, io avevo capito che doveva dirmi qualcosa, ma le sue intenzioni erano altre. Non era ciò che mi voleva dire, ma ciò che voleva fare.

Si avvicinò, lentamente, prendendomi, tenendomi le braccia, quasi non mi volesse far scappare, il cuore che sobbalzava, che voleva fare, che voleva fare, che cosa diamine stava facendo?!

Le nostre bocche si sfiorarono, si toccarono, si unirono. O meglio, la sua si unì alla mia. Io, sconvolta, non riuscivo a realizzare cosa stesse succedendo.

In mezzo secondo capii tutto ciò che c’era da capire: io per Jonathan ero solo un ripiego, per di più ero più piccola di dieci anni, ragione in più per pensare che mi stesse solo usando per divertimento, ciò che mi stava profondamente deludendo, e la cosa che finalmente capii maggiormente, che volevo capire da un bel po’, era che mi rendevo conto che in realtà Jonathan mi piaceva, e molto. Non importava se ero un ripiego, quel bacio che mi stava regalando, non me l’avrebbe probabilmente dato mai più. Tuttavia, una parte di me desiderò che ci fosse Kyle al suo posto. Ciò andava completamente contro tutto il resto dei miei pensieri, per me Kyle era solo un grande amico, ma poteva una grande amicizia nascere in così poco tempo? No, ecco qual era il problema. Un’amicizia si costruisce passo per passo, non tutta in una volta. Allora cos’era, cos’era…? La verità era che in quel momento ero combattuta fra due ragazzi, uno di un’età spropositata in confronto alla mia, l’altro di cui non sapevo nulla, solo che adoravo quando sorrideva e mi abbracciava, e quando mi perdevo nei suoi splendidi occhi blu.

Lui si staccò, il mio cuore che pompava a più non posso. Il mio primo bacio lo avevo buttato per soddisfare un capriccio del mio migliore amico ventiquattrenne.

– Scusami, scusami, scusami per favore…

Immediatamente mi abbracciò, stringendomi forte, ma non c’era lo stesso calore che sentivo tra le braccia di Kyle. Questa cosa faceva differenza. Io ovviamente ero senza parole.

– Oddio, ti prego Jen scusami non volevo… è che io in fondo ti considero una della mia stessa età…

Mi staccai da lui, leggermente afflitta:

– Non importa… non farmi certe cose se ti servo solo come ripiego…

La verità era che aveva solo bisogno di un bacio… che cosa inverosimile…

– Già… scusa, non farti delle illusioni inutili, lo dico per il tuo bene.

E mi accarezzò il viso, sussurrandomi continuamente che mi voleva bene. Il casino però ormai l’aveva combinato, e io dovevo subirne le conseguenze: come facevo a non farmi delle illusioni? Era più forte di me.

Volevo farlo andar via, ma ci pensò prima lui a togliersi di torno. Gli promisi che non avrei detto nulla alla mamma, e che dovevamo dimenticare questa faccenda. Era il ragazzo più immaturo che avessi mai conosciuto, e mi aveva creato in testa una gran confusione.

Poco dopo suonò il telefono, non potevo credere ai miei occhi: era la prima volta che Kyle mi chiamava. E, dopo tanto tempo, mi sentì parlare di nuovo con voce sgomenta:

– Pronto…?

Non ascoltai ciò che mi stava dicendo, stavo solo capendo il loro senso. Succede, uno non ascolta però le informazioni gli entrano comunque nel cervello.

Aveva per caso intuito che avevo voglia di vederlo o era una pura casualità? Ero confusissima in quel momento. Ma se vederlo avesse significato confondermi ancora di più, l’avrei fatto lo stesso. Così, un po’ sollevata, accettai la sua proposta di farmi un giro con lui, sempre nel tratto tra casa sua e la mia, e me ne uscii il più curata possibile in quel momento, con il mio giubbotto nero e gli stivali che usavo per saltellare nelle pozzanghere come una bambina piccola. Una bambina piccola e confusa.

Lui era lì, di fianco a me, e io che nemmeno riuscivo a sostenere il suo sguardo. Mi sentivo malissimo, come se gli avessi fatto un grande male. Mi sentivo, nella mia testa, come se l’avessi tradito. E lui che non sapeva niente. Oggi le parti si erano invertite, io ero depressa, mentre lui ogni volta che mi guardava sorrideva. Però notò che avevo qualcosa di strano. Quasi subito.

– Ehi, Jenice che cos’hai? – disse in tono dolce, un tono che mai gli avevo sentito usare. In quel momento pensai tante cose, ecco Kyle, tira fuori la parte morta di te, ad esempio, la parte che non hai mai mostrato per due anni…

Ci sedemmo su un muretto, la luce fioca del sole ci riscaldava. Come potevo fare a dirglielo? Avevo talmente tanta voglia di sfogarmi con lui per l’ennesima volta, ma non sapevo come fare…

Quando però appoggiai semplicemente la testa sulla sua spalla, poi con la mano sinistra gli strinsi la manica del giubbotto, me ne fregai del trucco, e le mie lacrime scesero giù per il suo braccio.

Aaaaah ed eccovi servito un assaggio JenicexJonathan… ma pensate durerà? Scopriamolo nel prossimo capitolooooo! Commentate ;)

Comunque anch’io sono molto impegnata nello studio in questo periodo… tanto che non sono riuscita a studiare storia x la verifica di ieri!! Il prof mi ha beccato con il libro sotto al banco O.O fortunatamente l’ho scampata, ma quasi quasi gli avrei detto “Prof scusi, ma a che mi serve il libro sotto al banco se ho già i bigliettini e le fotocopie pronte sotto la verifica?!?!?!?!” =P ;) xDxDxD Bye Bye…

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Capitolo 11
*** Capitolo undicesimo ***


Mannòòòò! Povero Jonathan, tutti lo detestano xD T_T e pensare che è forse il mio personaggio preferito xDxD beh magari perché io so tutta la storia… non vi perdete i prossimi capitoli, la storia entra sempre di più nel vivo!

PS: ho contato circa un’altra ventina di capitoli come minimo -^^- spero non vi dispiaccia :D

Capitolo undicesimo

Eppure, in così poco tempo lui era diventato per me importantissimo. Mentre con Jonathan era una cosa completamente diversa, i miei sentimenti verso di lui erano maturati nel tempo senza che io me ne accorgessi per poi svegliarsi tutti in una volta. Un colpo al cuore. Erano anche due caratteri completamente diversi, ma nemmeno io sapevo ciò che volevo.

Kyle aveva insistito perché gli raccontassi tutto. Quando seppe tutta la verità ci sentimmo tutti e due da schifo. Mentre piangevo, lui mi guardava con lo sguardo perso, nei suoi occhi non vedevo più la stessa luce che gli vedevo negli ultimi giorni, mi sembrava che tutti i piccoli passi fatti insieme a lui stessero di botto tornando indietro in un secondo. Vedevo che ci era rimasto male, non tanto per il bacio, ma più che altro nel vedere che stavo così male per Jonathan. Fu lì che mi accorsi che a lui gliene importava di me, forse anche più di quel che pensavo, e nonostante lui ci fosse rimasto male era lì a consolarmi, stringendomi e sussurrandomi parole carine. Jonathan invece, la causa di tutto il mio male, se ne stava nascosto dai miei occhi da qualche parte, vergognandosi per ciò che aveva fatto. A quel punto non solo mi chiedevo cosa provassi io nei confronti di Kyle, ma mi domandavo anche cosa significassi io per lui. Il suo sguardo sofferente che ero riuscita pian piano a placare era ritornato, per colpa mia. Volevo che tirasse fuori quella parte di lui che non mi aveva mai mostrato, invece avevo fatto l’esatto opposto.

– Grazie Kyle… – dissi singhiozzando, gli sarei stata infinitamente grata per essere stato comunque vicino a me nel momento del bisogno. A proposito di verità, mi chiesi per un attimo se avrei fatto bene a dirgli tutto anche a proposito della preside e della signora Smith, che volevano che io lo aiutassi, ma probabilmente gli avrei fatto ancora di più del male.

– Almeno è consapevole del male che ti ha fatto? – mi chiese di nuovo con un tono dolce, che solo lui sapeva usare.

– Sì… mi ha anche detto di non illudermi inutilmente… – risposi, smettendo finalmente di piangere.

Lui continuava a stringermi tra le sue braccia, quasi avesse paura che potessi scappare, e il suo calore mi piaceva tremendamente.

– Già… non sopporterei, se ti facesse dell’altro male.

Al suono di quelle parole mi si gelò il sangue nelle vene, il cuore che batteva forte come un tamburo. In quel breve periodo, aveva imparato a volermi bene, forse quanto ne volevo io a lui. È vero, Jonathan mi piaceva molto, ma in quel momento Kyle era al mio fianco e per lui sentivo qualcosa di molto speciale, non avrei scambiato quel momento per niente al mondo, e subito dopo ne ebbi la prova.

Il telefono squillò. Kyle mi lasciò, era arrossito. Sul display riconobbi il numero, un tonfo al cuore, e lui se ne accorse.

– Pronto…?

Sì, era proprio Jonathan, che mi aveva cercata.

– Jenice… mi dispiace per oggi te lo ripeto, ho bisogno di parlarti assolutamente.

Io rimasi perplessa. Pensavo che tutto ciò che avesse bisogno di dirmi fosse di non farmi illusioni.

– Parlare, con me? Adesso?

– Sì – sentii dall’altra parte. Sopra la mia mano appoggiata al muretto sentii posarsi quella calda di Kyle, mi voltai, lo guardai negli occhi: sembrava quasi volermi dire di non lasciarlo…

– Scusa Jonathan, ma adesso proprio non posso. Se davvero ti va di parlare, richiamami stasera.

Era evidente che era rimasto stupito dalle mie parole. Non Jonathan, ma Kyle.

– D’accordo… a stasera, dolcezza.

Riagganciai.

Quella parola aveva completamente finito l’effetto su di me. Il suo modo di dire “dolcezza”, non era più quello di un tempo. Stavo cominciando a dubitare persino del fatto che mi considerasse una sua amica.

– Più aspetti, più prolungherai la tua sofferenza… – mi disse Kyle, fissando il cielo leggermente annuvolato.

– Fa lo stesso, – gli risposi, sentendo la sua mano sempre più calda sopra la mia – in questo momento ho più voglia di stare qui con te.

Sempre guardando in alto, sorrise, e nei suoi occhi sembrava essere tornato un pizzico di felicità.

Ero a casa, ad aspettare che mi chiamasse. Certo, sicuramente non l’avrei chiamato io. Doveva darmi tante di quelle dimostrazioni…

Arrivò mia madre, che mi disse che Jonathan aveva telefonato quel pomeriggio e che mi aveva lasciato un messaggio, un messaggio che mai mi sarei aspettata.

Quel giorno aveva firmato un contratto per incidere un disco insieme al resto della sua band, che non avevo mai avuto l’onore di conoscere, e che era partito quella sera stessa per New York. Aveva detto anche che mi avrebbe chiamato lui appena possibile, e che gli dispiaceva non avermi potuto salutare come si deve.

Non potevo credere a quelle parole, mi sembrava quasi un film. Stava davvero succedendo? Jonathan mi stava lasciando, e non mi aveva neanche salutata. Sarebbe diventato famoso, e si sarebbe dimenticato di me. Come aveva fatto a cambiare tutto così in fretta, senza che io me ne accorgessi? Come avevo fatto a tornare a soffrire per un ragazzo, anche se mi ero imposta di non avere più nulla a che fare con l’amore? Non mi rimaneva che stare in silenzio, e attendere le risposte.

Finalmente, il giorno dopo, mi chiamò.

Di sottofondo si sentivano tanti strani rumori, probabilmente era già per le strade di New York, magari con la band, magari con il manager, magari con una nuova ragazza che lo sosteneva.

– Jenice… scusa se sono partito senza dirti nulla, è che pensavo fossi arrabbiato con me.

Non avevo parole. Rimasi in silenzio per un paio di lunghissimi secondi, poi risposi, ancora incredula:

– Ma come ti vengono in mente certe cose? Quindi è vero che inciderai un disco?

– Già…sono già a New York, credo che ci vorranno dei mesi prima che ritorni…

In quel momento non avvertii il bisogno di piangere. Avevo solo da sperare nel successo di Jonathan, e sperare nella sua felicità.

– Congratulazioni… sei il migliore.

– Con la voce che hai diventerai anche migliore di me. Un giorno me lo sento, faremo un duetto noi due, dolcezza.

Sorrisi, e gli chiesi di non chiamarmi più dolcezza. Ormai su di me non aveva più alcun effetto.

Mi promise che mi avrebbe richiamato il prima possibile, e riagganciammo entrambi.

Era ovvio che mi dispiacesse di aver perso una persona importante, ma era il momento di tifare per lui stavolta, perché aveva sempre sognato di avere una carriera con la sua band. E poi, anche se mi piaceva, non dovevo stare male per la sua lontananza, perché prima o poi sarebbe tornato da me. Non sentii il bisogno di parlare con qualcuno, in quel momento non avevo bisogno di Kyle, o chiunque altro. Volevo semplicemente stare sola, e abbandonare tutti i miei pensieri.

Perché Jonathan, se davvero ti volevo bene, era giusto lasciarti andare rimanendo sempre dalla tua parte.

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Capitolo 12
*** Capitolo dodicesimo ***


Questo capitolo ci permette di capire molte cose sulle quali altrimenti ci resterebbero dei forti dubbi, e forse vi ricrederete tutte sul fatto che Jonathan è antipatico T_T.

Dal punto di vista di Jonathan, un momento prima di firmare il contratto discografico.

PS: ero arrivata al 36° capitolo della storia e pensavo di aver finito ma... vedo che c'è molto altro da aggiungere!! O.O penserete "KE PALLEEEE!" ma se non vi andrà di leggere allora andatevene subito prego xD

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Capitolo dodicesimo (Il punto di vista di Jonathan)

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Quel foglio che stava davanti a me, quel foglio, che mi avrebbe cambiato la vita. L’ultima chiamata prima della mia decisione, andata in fallimento. Sono stato respinto. Non mi restava che prendere subito la mia decisione.

– Allora, firma? Vedrà, non se ne pentirà!

Quello spilorcio che mi stava davanti non era affatto interessato alla mia carriera, ma solo ai soldi che avrebbe fatto. Gli altri compagni della band erano entusiasti all’idea di incidere un disco, anche io, ma sicuramente meno di loro. Ma non m’importava, l’unica cosa che in quel momento mi turbava era non essere riuscito a chiarire con l’ultima persona con cui avevo lasciato delle cose in sospeso. La punta della mia penna si posò sullo spazio bianco fatto apposta per la mia firma. E in quel momento i pensieri invasero la mia mente. Erano per lei.

“Jenice… mi dispiace per ciò che è successo fra noi, la verità è che tu non sei mai stata un ripiego nella mia testa. Forse sarà che la mia mente è troppo immatura, ma io in quell’attimo ti desideravo davvero. Ti ho lasciato credere di essere un ripiego, ti ho detto di non farti illusioni, perché la nostra differenza d’età è troppo evidente e tra noi non potrà mai esserci nulla. O almeno, non per ora.

Magari tra qualche anno, quando tu avrai vent’anni e io ne avrò trenta, questa differenza non si noterà più e tu mi accetterai, ma adesso non posso. Lascerò passare il tempo, poi tornerò, te lo prometto.

Tutti i momenti che abbiamo passato insieme, da quando avevo dieci anni e ti ho vista per la prima volta nella culla, a quando, cinque anni fa, mi chiedesti di insegnarti a cantare. Non scorderò mai quel giorno, eri ancora così piccola… avevi solo nove anni, ma sapevo che la tua voce avrebbe fatto strada, infatti eccoti qui, a cantare i brani dei tuoi cantanti preferiti quasi alla perfezione. Mi dispiace di non poter essere lì, a completare il tuo percorso. Forse quando tornerò, anche se la tua voce sarà già migliorata anche senza il mio aiuto, potremo continuare ad esercitarci il mercoledì pomeriggio insieme.

Spero anche che un giorno potrò portarti con me in studio, e registrare insieme una canzone, dedicata a noi e alla nostra amicizia speciale”.

– Ehi?? Pronto? Si decide a firmare sì o no?!

Di colpo caddi dalle nuvole, rividi di fronte a me il contratto discografico, stavo davvero per firmarlo.

Stavo davvero per dire “addio” a tutta la mia vita, a tutto il mio passato. Ma che passato? Che cos’aveva di così bello, il mio passato? L’unica cosa che mi dava tanta gioia era vedere gli occhi speranzosi e felici di Jenice, che mi dicevano che ero un grande, che ero il migliore. Così andavo avanti.

– Potrei… riprovare a telefonare, prima?

– Sta scherzando? Non ho tempo da perdere, io! Ha avuto settimane per pensarci, non le avrà passate a non far niente spero! Ho un appuntamento importantissimo tra poco, vediamo di fare in fretta!

Non mi restava altra scelta, dovevo rinunciare a salutarla.

Così iniziai a scorrere con la penna sul foglio, tutti i compagni della mia band che aspettavano solo me, lasciando una scia d’inchiostro dietro di essa, e scrivendo in modo abbastanza disordinato il nome Jonathan Harvey, che forse un giorno avrebbe avuto un successo smisurato in tutto il mondo. In effetti sì, era così, era il nostro inizio, l’inizio dei Contagious, un nome che un giorno avrebbe brillato, infatti con la nostra musica avremo contagiato milioni di fan, me lo sentivo. Alcune canzoni erano già pronte, altre attendevano solo di essere scritte, ma ce n’era una addirittura che ero sicuro che sarebbe diventata un grande successo, una canzone che nessuno mai si aspetterebbe da me*.

– Perfetto, signor Harvey, lei e il resto della band potrete partire stasera stessa per New York, non siete felici?

Le grida di felicità e di entusiasmo di tutti riempirono la stanza, comunque nemmeno io potevo fare a meno di essere felice in quel momento. Insomma, stavo pur sempre per incidere un disco, non era una cosa che capitava tutti i giorni. Sarei diventato famoso, le nostre canzoni avrebbero potuto scalare le classifiche, saremmo stati pieni di ragazze, un sacco di soldi e ogni tipo di pubblicità, anche se saremmo stati continuamente tormentati dai paparazzi… Nella vita preoccuparsi non serve a niente, perché tanto preoccupandoti i problemi non te li risolvi. Avrei chiamato Jenice quella sera stessa, durante il viaggio. Non l’avrei rivista per molto tempo, almeno speravo che non fosse arrabbiata con me.

“Chissà, Jenice, magari quest’esperienza mi servirà a maturare”.

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* = Jonathan fa riferimento ad un fatto che si svolgerà nei prossimi capitoli :D non perdetevelo.

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Spazio recensioni:

Sonietta: non mi è permesso di fare spoiler per il bene della storia ^^' però posso dire che nel mio ruolo devo essere in grado di accontentare i lettori il più possibile, we'll see...

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Capitolo 13
*** Capitolo tredicesimo ***


Bene, eccomi con un nuovo capitolo ^^ ho notato che spesso inserisco citazioni come “non esiste amicizia fra uomo e donna!” e l’ho messo + di una volta… perché per me è vero!! Delicious_R_ lo sa benissimo -^^-’’’’

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Per il prossimo capitolo sto preparando una sorpresina che penso farà felici le mie lettrici... =P soprattutto le fan di manga =P=P=P=P=P xD

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Capitolo tredicesimo

– E tu, cosa ne pensi? Non ho nessun altro a cui chiedere il parere…

Sharon esitò un attimo, poi mi disse cosa realmente ne pensava:

– A parte il fatto che ciò che mi hai raccontato è… scioccante… penso che Jonathan te l’abbia detto solo per il tuo bene, Jen.

Con il telefono all’orecchio, ripensai a tutta la nostra conversazione.

– Dici… delle illusioni?

– Già…

Pensando, fissando un punto fisso sul pavimento, mi vennero in mente diversi fattori. Poi alla fine, giunsi a delle ipotesi, che, pur essendo assurde, mi lasciavano riflettere parecchio:

– Ma Sharon, pensa… se lui aveva davvero firmato un contratto discografico, doveva già esserne al corrente da un bel po’, no?

Lei rifletté un attimo.

– Beh, sì, non è una cosa che si decide da un giorno all’altro.

– Quindi… fai finta che lui lo sapesse già da qualche settimana… perché non me l’avrebbe detto?

– Che ne so, probabilmente voleva dirtelo all’ultimo minuto, in modo che potessi goderti gli ultimi giorni insieme a lui…

Giusto. Mi sembrava un bel ragionamento.

– Perciò forse era giù di morale per quello, in questi tempi, perché gli sarebbe dispiaciuto lasciare la sua gente! Allora era una bugia, quella della ragazza che l’aveva lasciato! Quindi…

Stetti zitta. Come conclusione, si poteva dire che era abbastanza immediata, ma il mio ragionamento non faceva una piega, in effetti…

– Quindi…?

Se fosse stato davvero così… se fosse stato davvero così, che sarebbe cambiato? Tutto, o niente…

– Quindi vuol dire che forse io non ero un ripiego per lui. Vuol dire che o semplicemente si voleva divertire, o per lui significavo qualcosa. In ogni caso mi ha mentito.

Già, per la prima volta in tanti anni mi aveva mentito, anche se forse l’aveva fatto a fin di bene… sì, l’aveva fatto per me, perché forse la sua lontananza mi avrebbe fatto male. E poi, la differenza d’età era troppo evidente. Anche se tra qualche anno non si sarebbe più vista, e avremmo benissimo potuto stare insieme. Comunque, a quell’ora mi avrebbe già dimenticata. Non mi restava che accettare la cosa, e apprezzare tutto ciò che mi circondava, finché c’era.

– E Kyle?

La sua domanda mi lasciò leggermente di stucco.

– Kyle cosa??

– Beh, mi sembra ovvio, non gliel’hai detto?

Beh sì, in effetti gliel’avevo detto, ma questo cosa c’entrava in tutto il discorso?

– Sì che gliel’ho detto… è stata la prima persona a saperlo, e l’unica, a parte te. Addirittura… sembrava stesse male per me…

– Certo, mi sembra ovvio! Insomma Jenice, sei tu che sei cieca oppure fai finta di non vederle certe cose? Kyle è geloso, per forza ci è rimasto male. Non ti ha detto niente però, immagino.

Ecco che mi venne il batticuore. No, Kyle non poteva essere geloso, lui mi vedeva solo come un’amica, niente di più.

– Cosa avrebbe dovuto dirmi?

Lei, dall’altra parte, ridacchiò.

– Ma come? È da un bel pezzo che noto questa cosa, Jenice, lui si è innamorato di te, si vede lontano un miglio! Non riesce a smettere di guardarti, e poi non ti sei chiesta come mai solo con te fa tanto il dolce?

Sharon era la prima che mi faceva notare queste cose. Davvero era così? E perché io non me ne ero mai accorta, se non in minima parte, di tutte queste cose?

– E poi… – continuò lei – si vede che anche a te piace, e secondo me non te ne rendi conto ma ti piace più di Jonathan. Lo so che per te è speciale, ma non hai mai sentito qualcosa di così speciale anche per Kyle?

Sì, aveva ragione. Tante volte l’avevo desiderato con me, al mio fianco. Persino mentre Jonathan mi baciava, in piccola parte.

– Già… hai ragione. Grazie Sharon, adesso so che cosa fare.

Ci salutammo, e riagganciammo.

Era tutto chiaro, adesso. Ogni minimo particolare adesso mi era chiaro. Dal quaderno rosso d’inglese lasciato di proposito sotto al banco, che era solo una scusa per vedermi, allo sguardo profondamente triste di quando, il giorno prima, mi ero sfogata con lui. E poi anche a me, in fondo, piaceva tremendamente stare a contatto con lui. Perché in fondo eravamo simili. Lui aveva sofferto molto più di me, ma anche io avevo avuto il cuore in pezzi, una volta, e mi ero imposta di non avere più niente a che fare con i ragazzi, se non per amicizia. Ma in quei giorni avevo imparato che non può esistere amicizia fra uomo e donna, l’avevo testato sulla mia stessa pelle. Anzi, sulle mie stesse labbra.

Ciò che avevo intenzione di fare adesso era raccogliere tutto il coraggio che avevo in corpo e provare a dire a Kyle la verità, se davvero gli volevo bene, sul perché eravamo entrati in confidenza e ci eravamo conosciuti meglio. Perché adesso che ci pensavo, era tutto merito della preside della mia scuola e della signora Smith. Se non fosse stato per loro, chissà quando avrei scoperto che i genitori di Kyle erano morti. Speravo solo che lui non si fosse arrabbiato con me per non averglielo detto e avesse pensato che tutto ciò che c’era stato tra noi fosse stato solo perché io avevo pena per lui, perché non era vero. Infatti, poco prima che quel giorno la preside mi convocasse nel suo ufficio, guardando negli occhi di Kyle per un momento desiderai profondamente sapere cosa ci fosse nella sua testa, desiderai conoscere il suo io. Chissà se l’avrebbe capito.

Erano già due giorni che aspettavo, ma Jonathan ancora non mi aveva chiamata. Una volta avevo provato a chiamarlo io, ma aveva il cellulare spento. Pensai che l’avrei disturbato, quindi non ci provai più. Ormai l’avevo del tutto perdonato, mi ero messa il cuore in pace considerandolo finalmente per ciò che era davvero: il mio migliore amico. Niente di più. Quella del bacio era stata solo una scintilla.

Ora ciò di cui mi dovevo preoccupare era Kyle, e come avrei affrontato l’argomento “La preside mi aveva chiesto di aiutarti in cambio di crediti extra!”.

Almeno potevo considerarmi pulita, perché per principio non avevo accettato la sua proposta. Eh sì, avevo deciso di fare tutto da sola, e me ne vantavo, di questo.

Ero a scuola e stavo seguendo una normalissima lezione di scienze. Il morale di Kyle sembrava essersi leggermente risollevato, avrei voluto avere un’occasione per spiegargli che andava tutto bene.

– Beh ragazzi, se quest’anno volete dissezionare almeno un lombrico, farete meglio a stare attenti.

Cosa ci trovavano tutti di bello nel dissezionare qualche povero invertebrato, davvero non lo sapevo. E poi, queste cose di solito non si fanno con una rana? Forse il lombrico era solo per la prima esperienza…

Qualcuno bussò alla porta della classe, che poco dopo si aprì.

Quella faccia mi era molto familiare, sì. Ebbi la strana sensazione di avere già vissuto quel momento

– Jenice Ross in presidenza – disse il bidello, con il suo foglietto in mano con sopra scritto il mio nome.

Ero più preoccupata adesso che sapevo di cosa avrebbe voluto parlare la preside, che la prima volta quando non sapevo niente. Mi alzai dalla sedia, con Kyle che mi squadrava, e andai verso la porta per uscire. Sulla soglia, il bidello mi sussurrò:

– Ma quante ne combini, Ross?

Io lo guardai. La prima volta diceva che non erano affari suoi ciò che sarei dovuta andare a fare in presidenza. O mi sbaglio?

– A quanto pare proprio troppe…

E così in poco tempo ero di nuovo lì, davanti alla porta dell’ufficio della preside, quella senza nessuna scritta incisa o appesa sopra, di legno chiaro forse pregiato con quelle strane venature che disegnavano motivi fantasiosi.

A quanto pareva, la mia avventura in presidenza continuava.

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Ilary_chan: la tua recensione mi fa riflettere sull’identità del mio stesso personaggio secondario, in effetti. È che dal punto di vista della scrittrice le cose appaiono diverse, appaiono come realmente sono, non come devono apparire al pubblico. Cercherò, man mano, di dare una chiara idea di Jonathan anche a voi. Mi raccomando continuate a recensire! ^^

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Capitolo 14
*** Capitolo quattordicesimo ***


Mi scuso tantissimo per la sorpresina ke dovevo mettere in questo capitolo (un'immagine), ma ho avuto dei grossi problemi con il pc (ACCIDENTIII GRRRR!) e quindi x adesso sono impossibilitata a metterla T.T vedrò prossimamente ke posso fare ç.ç

SPAZIO RECENSIONI:

Ms Murder: in effetti la storia è fatta proprio perché in questa parte che chiameremo “iniziale” i sentimenti dei personaggi sono molto confusi, neanche loro (a parte Kyle forse) sanno cosa realmente provano. Presto si farà chiarezza.

Comunque… sei proprio sicura che Jonathan tornerà presto? ;)

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Capitolo quattordicesimo

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La mia mano leggermente sudata bussò sulla porta della presidenza, e la voce, adesso per me inconfondibile, della preside mi disse di entrare. Afferrando la maniglia mi si stavano riproponendo scene già vissute, e di nuovo, come quella volta, scrutando dalla fessura che avevo aperto vidi chiaramente la preside seduta alla scrivania e la signora Smith seduta di fianco, mi sembrava di dover ripetere tutto come una specie di replay.

– Salve Ross. Ci rivediamo!

Accennai un sorriso e ricambiai il saluto. La preside mi fece cenno di sedermi sulla stessa sedia dell’altra volta, di nuovo tutta l’attenzione era puntata su di me.

Notai ora cose che non avevo notato la volta precedente: sulla scrivania c’era un pacchetto di sigarette leggermente nascosto da alcuni documenti, mentre la preside masticava una chewing-gum, presumibilmente dal forte sapore alla fragola a giudicare dal suo fiato che mi arrivava praticamente addosso. Potevo capire che masticava per trattenere l’istinto di fumatrice. Ciò era qualcosa che le dava un pizzico in più di professionalità, anche se non riuscivo a spiegarmi il perché.

– Bene Ross. – cominciò la preside sistemando alcuni fogli, la signora Smith che mi osservava sorridente – Ti ho fatta chiamare per sapere come vanno le cose. Intendo con i voti, la condotta eccetera…

Mi stupii alla domanda. Non era possibile che mi avesse chiamato solo per questo. Doveva essere un mezzo per arrivare pian piano al punto.

– Oh, beh tutto bene, direi. Già…

Non sapevo che altro rispondere.

La preside mi fissò negli occhi, le si dipinse uno strano sorriso di compiacimento.

– Crede che non mi abbiano informata della sua meritata C in matematica? Ma mi dica, come ha fatto a fare un recupero così veloce? Non è facile imbrogliare il professore, non può certo aver copiato!

In effetti sì, doveva essersi studiata per bene ciò che aveva da dirmi, intendeva arrivare a Kyle parlando prima dei miei voti recuperati in matematica grazie a lui.

– Beh, diciamo che ho mantenuto la mia parola… ho cercato di conoscere un po’ meglio Kyle, e siamo in buoni rapporti. Infatti mi ha dato una mano in matematica per qualche giorno, ecco qui tutto il mio miglioramento.

Lo sguardo della signora Smith si faceva sempre più dolce e inquietante allo stesso tempo, e iniziò a parlare:

– Eppure vorrei tanto sapere come hai fatto… pensa, Kyle non ha voluto incontrarmi nemmeno una volta, a parte per presentarci, e ho continuato per mesi a parlare con i suoi zii senza che potessero arrivare a dei risultati! Come avrai fatto?

A volte mi ritenevo persino più intelligente di un adulto, in questo caso più comprensiva di una psicologa:

– Sarà stata la vicinanza di una coetanea.

Secondo me quella lì la laurea l’aveva comprata, per non arrivare a questa ovvia conclusione. Avrei voluto sapere quanto la pagavano.

– In ogni caso, – continuò la psicologa – ho capito dagli zii che la situazione sembra essere migliorata un po’, e penso che la zia abbia proprio accennato anche a te.

Già, forse si riferiva a quando sono andato a trovarlo a casa, o a tutte le volte che usciva per fare un giro insieme a me.

– Sì, Ross, credo che ti siano veramente grati per ciò che stai facendo, continua così. Forse a fine anno potresti trovarti la media di matematica leggermente alzata. – terminò la preside.

Stavolta non me la sentivo di rifiutare, perché in fondo avevo fatto tutto quel che avevo fatto senza aspettarmi niente in cambio. Questo premio lo accettavo volentieri.

E fu così che stavolta me ne potei uscire dall’ufficio senza essere triste come l’ultima volta, ma più felice di quando c’ero entrata. Mi rimaneva solo una cosa da fare: parlarne al mio compagno di banco, anche se non sarebbe stato facile.

– Allora? Cosa vai a fare in presidenza tutte le volte? – scherzava Kyle, che sembrava aver ritrovato il suo “buon umore”.

– In realtà… forse è meglio se ne parliamo fuori… – gli risposi, fissando il libro davanti a me.

– Ehi, mica volevo intromettermi negli affari tuoi! – continuava a dire in modo troppo scherzoso, così scherzoso che mi preoccupavo ancora di più.

Anche la prima volta mi aveva chiesto cos’era successo. Solo che dopo aveva sostenuto che non gli interessava affatto, anche se adesso penso non fosse vero. Forse in fondo stava morendo di curiosità.

Mi rassegnai, e decisi di parlarne con lui fuori da scuola, andando verso casa.

Uscendo, di fianco a lui, notai che era una bella giornata soleggiata. Mi ricordava tanto quella volta, io stavo quasi per cadere dalle scale quando Kyle mi salvò in tempo, poi all’uscita, nel punto che stavo fissando in quel momento, c’era Jonathan, sorridente che mi stava aspettando. Adesso non lo sentivo da un bel po’. Chissà che fine aveva fatto…

– Kyle… – cominciai, senza sapere come continuare il discorso – per caso, conosci una certa signora Smith?

Lui mi guardò decisamente strano, per poi, senza controllo, scoppiare a ridere come non l’avevo mai visto fare. Rimasi sbigottita. Veramente molto sbigottita. Non l’avevo mai visto ridere a quel modo.

– Chi? Quella vecchia strega? Ahahah, – continuava a ridere senza fermarsi – Jenice, non mi dire che è arrivata a chiedere l’aiuto della scuola!

Io ero troppo sconvolta e stranita per rispondere. L’aiuto della scuola?

– Cosa significa? – gli chiesi io, seria.

– Cosa significa quello che mi stai dicendo tu, piuttosto. Stai dicendo che ti hanno convocato in presidenza ben due volte solo per parlare con lei?

Io annuii senza dire niente, lui che ancora se la rideva sotto i baffi.

– Lo immaginavo… posso sapere che cosa c’entravi tu?

Ecco che era arrivato alla domanda cruciale, adesso dovevo spiegargli tutto. Mentre camminavamo, sotto l’ombra di qualche edificio di passaggio, mi feci forza e mi sforzai di raccontargli come stavano le cose. Inutile dire che lui non se l’aspettava, tutto questo progetto che lo riguardava. Era da un bel po’ che tutta questa storia andava avanti, ed ero sicura che se la sarebbe presa con me per questo.

– Dici sul serio? Stai dicendo che l’hai fatto solo per dei crediti?

Adesso si era fatto più serio. Io però lo ero cento volte di più. Lo guardai leggermente imbronciata, ad una maniera molto insolita, da parte mia.

– Che stai dicendo? Certo che no! Gliel’ho detto in faccia che l’avrei fatto di mia iniziativa… però… adesso mi pento di non averti detto niente prima.

Lui alzò la mano, me la posò sulla testa, per poi scompigliarmi i capelli come già aveva fatto, e camminando di fianco a me, sorrise e disse:

– Non fa niente, ti capisco. Non devi pentirti di nulla, ho capito le tue intenzioni e lo apprezzo.

Che bello, sentirmi dire quelle parole.

Eravamo già davanti a casa sua, quando ci fermammo entrambi davanti al cancellino. Mi guardò dolcemente, e il mio cuore ricominciò a battere all’impazzata.

– Meno male… io ero sicura che ti saresti arrabbiato… – dissi, spostando il mio sguardo dal suo, ma lui improvvisamente mi accarezzò il viso con la mano sinistra, facendomi inevitabilmente guardare ancora verso di lui.

– Io? Come potrei arrabbiarmi con te?

Il suono di quelle parole mi stava facendo quasi svenire, il suo sguardo era per me sempre più difficile da sostenere, sentii il cuore come uscire dal petto da quanto andava forte, nel vedere lui che si avvicinava sempre di più, sempre di più, fin quando non fummo in grado di sfiorarci con le labbra. Ma di lui sentii solo il fiato, perché non mi baciò, me lo fece solo credere, in realtà passò oltre, e con le labbra mi sfiorò delicatamente tutta la guancia sinistra fino a staccarsi completamente, e avvolgermi con le sue braccia in un caldo abbraccio, le gambe che mi tremavano, gli occhi lucidi per l’emozione, e restammo in silenzio per un minuto buono, ad ascoltare i battiti dei nostri cuori, io che per un attimo avevo veramente creduto e sperato che lui mi baciasse, e capii in quel minuto una cosa importante:

Jonathan, per quanto provassi qualcosa di speciale con lui, non poteva essere paragonato a Kyle. Adesso lui era lontano, a New York senza telefonarmi da giorni, per chissà quale impegno, Kyle invece era lì e a me ci teneva veramente, e ce la stava mettendo tutta perché io non lo lasciassi. Sì, perché Kyle c’era, non solo come ragazzo che mi aveva rubato il cuore, ma anche come amico, cioè sia per amarmi che per stare al mio fianco nel momento del bisogno, e questo era ciò che contava.

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Capitolo 15
*** Capitolo quindicesimo ***


Ehi! Ma guarda, siamo già al quindicesimo capitolo! Vi informo che in questo capitolo si entra ufficialmente nel vivo della storia. quello che avete letto, era una specie di introduzione ^^’ spero non vi stanchiate di leggere tanto facilmente! =)

(che bello impazzisco di gioia, domani la mia scuola kiude x neveee! =D)

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Capitolo quindicesimo

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Erano passati sei mesi. Sei mesi da quando lui non c’era più, sei mesi da quando l’avevo sentito l’ultima volta. Che dire, Jonathan mi mancava. Anche se adesso, almeno, al mio fianco avevo sempre Kyle. Non che lui fosse un rimpiazzo, ovvio, solo che avevo bisogno di lui, adesso…

Poteva davvero essersi scordato di me così facilmente? D’accordo, forse per lui, nonostante tutti i miei ragionamenti, ero solo un’amica e niente di più, ma se davvero mi voleva bene in sei mesi poteva almeno farmi una misera telefonata… non chiedevo molto.

Avevo deciso, l’avrei chiamato io.

Eccomi in camera mia, luci spente come al solito, sdraiata sul mio letto a comporre il suo numero, che stentavo a riconoscere a memoria. Spinsi la cornetta verde e misi il telefonino all’orecchio nell’attesa che rispondesse.

Segreteria telefonica: siamo spiacenti, l’utente da lei chiamato è al momento occupato… – lo sapevo, non avevo speranza… – … per prenotare la chiamata, prema 5.

Beh, poteva essere un’idea, prenotare la chiamata. Perché no? Grazie, segreteria! Premetti con il pollice sul tasto 5, e la voce della segreteria continuò:

Ha prenotato la chiamata. Se il numero entro 45 minuti diventerà libero, la informeremo con un avviso speciale, e la chiamata partirà automaticamente. Può riagganciare, grazie!

Perfetto, adesso bisognava solo aspettare, no?

I minuti passavano e, non sapendo come ammazzare il tempo, ripassai matematica, lessi un paio di pagine del libro di scienze, che in parte spiegava anche “Come dissezionare un lombrico” (eh sì, perché ancora, dopo sei mesi, non eravamo riusciti a tagliare in due nemmeno un lombrico, figuriamoci allora quando saremo arrivati alla rana!).

Erano già passati 32 minuti, ma niente. Finalmente, però, dal mio cellulare partì uno squillo, era la segreteria che diceva che il numero era libero, adesso.

Presto, la chiamata stava partendo!

Impaziente, misi nuovamente il cellulare all’orecchio e sentii squillare. Dopo appena uno squillo e mezzo sentii rispondere:

– Pronto?

Ehi, ehi, aspetta. Quella non era la voce di Jonathan, non la conoscevo quella voce. Era femminile, sarà stata di una ragazza giovane.

“Oh no, e questa chi è? Avrò sbagliato numero? O forse l’ha cambiato? Ma no, deve essere la sua nuova ragazza, proprio così è lei, la sua nuova ragazza che gelosa gli ha impedito di chiamarmi e adesso mi ha risposto lei per farmi la parte! Aiuto!”.

– Ehm… scusi ma… con chi parlo?

– Sono la sorella di Jonathan, suppongo che tu lo stia cercando…

Non sapevo che dire. Già, mi ero scordata che aveva una sorella più grande che abitava già a New York.

– Ehm sì, in effetti sì…!

– Ah mi dispiace, ma adesso è in studio di registrazione e non può parlare… è importante?

– No, no! Era giusto per salutarlo… non era nulla di importante…

Sentii la voce dall’altra parte sbuffare.

– Tu sei Jenice Ross, giusto? Beh se è così allora evita di richiamare. I Contagious diventeranno presto popolari. E il cantante-chitarrista, nonché fondatore della band, non ha proprio tempo per le fan come te, piccola. Addio.

Detto questo, mi sbatté il telefono in faccia. No, non era la fidanzata arrabbiata, peggio, era la sorella impicciona. Comunque è vero, per lui adesso ero diventata semplicemente questo: una piccola inutile fan, di cui semplicemente sapeva l’esistenza.

“Tra due giorni è il mio compleanno… chissà se mi farà gli auguri…” pensai.

Tutti gli anni Jonathan, il giorno del mio compleanno, mi portava qualche regalo stravagante. Per i dodici aveva vinto un pupazzo grande come una stanza a forma di gatto blu, e me l’aveva portato in casa con sopra appiccicato un bigliettino di auguri. Per i tredici un buono per 20 gelati alla gelateria migliore del quartiere. Per i quattordici, invece, siccome aveva comprato una chitarra nuova, per non buttare via quella vecchia a cui era molto legato, decise di regalarmela, anche se non la sapevo suonare. Mi aveva anche insegnato qualche accordo, ma era finita lì. Le aveva dato un nome, J. Sì, un nome corto, semplice da ricordare, solo J.

Scrutai la chitarra impolverata dietro la scrivania, la “J” incisa sopra, che mi disse stava sia per “Jonathan” che per “Jenice”.

Quest’anno da lui non mi aspettavo nemmeno uno straccio di augurio, figuriamoci un regalo. Probabilmente si era già scordato che era il mio compleanno.

Kyle, invece? Ancora non sapevo se dirglielo, del mio compleanno, perché non sapevo se a ricevere un regalo da lui, ammettendo che me lo avesse fatto, mi sarei sentita a mio agio. Era da un po’ di tempo che tra noi c’era qualcosa di speciale, c’era del tenero. Adoravo stare con lui, mi faceva sentire una persona migliore. Per lui forse era lo stesso. Da un po’ di tempo sembrava essere più felice, più spensierato, speravo che si lasciasse il passato alle spalle al più presto. Da questo suo cambiamento d’atteggiamento, però, ne derivò la conseguenza che in classe la gente iniziava a sentirsi meno in soggezione con lui, quindi le ragazze non esitavano ad avventarsi su di lui chiedendogli appuntamenti (anche se solitamente il primo passo dovrebbe essere il ragazzo a farlo) e cose varie, ma lui, sempre con la massima gentilezza, rispondeva sempre di no, sostenendo di essere già “più o meno impegnato”, senza mai dire chi fosse l’interessata. Sia io che lui tenevamo a non far sapere a nessuno del nostro rapporto speciale, anche se non si poteva dire che “stavamo insieme”. Tutto ciò mi rendeva molto gelosa, anche se in realtà mi faceva piacere.

L’intervallo era solitamente il momento della giornata che dedico a me stessa pienamente. Guardavo fuori dalla finestra, talvolta con un caffé in mano. Oggi no, Clarissa Foster, compagna di banco di Sharon, mi si avvicina e mi chiede:

– Qualche programma per il compleanno, Ross? Ormai ci siamo, è proprio domani!

La squadrai con aria indifferente, strano che parlasse proprio con me, una semplice studentessa anonima della scuola, mentre lei era miss liceo, miss bellezza, miss praticamente-ogni-cosa. Che avesse voluto che la invitassi ad una qualche festa in modo da potersi mischiare tra tutti i ragazzi? Forse quel fine settimana non aveva niente da fare, quasi mi dispiaceva.

– Mi spiace, ma quest’anno nulla in programma. Tratterò il mio compleanno come se fosse un giorno come tutti gli altri.

Detto questo lei non mi rispose, e si allontanò semplicemente. I miei sospetti erano fondati.

– E quella?

Al soave suono della sua voce mi parve che il mio cuore uscisse d’un colpo dal petto.

– Quella che…? – gli risposi, confusa.

– Scommetto che Foster voleva venire alla tua festa inesistente.

Sì ma… frena! Come faceva a sapere del mio compleanno?

– Uff… come l’hai saputo?

Lui si avvicinò sicuro, e mi mise il braccio intorno al collo come a volte faceva.

– Potrei farti la stessa domanda su almeno dieci cose che riguardano me.

Lo fissai negli occhi, nella maniera che lui soltanto sapeva.

– E va bene, me l’ha detto Sharon. Ha detto poi di farti un bel regalo. Peccato che ci avevo già pensato.

Mi misi la mano sulla fronte. Sharon, quando avrebbe imparato a stare zitta? Chi lo vuole un regalo da lui? A me bastava sapere che non mi avrebbe abbandonata anche lui.

– Che ti regalano i tuoi? – mi chiese. Solo in quel momento pensai che in quei mesi sarebbe già potuto passare il suo compleanno a mia insaputa.

– Io volevo un gattino… sai, quei gattini piccoli, con quegli occhioni grandi grandi… solo che i miei hanno detto che me l’avrebbero preso, ma mi hanno già fatto il regalo. Hanno detto comunque che alla prossima occasione andiamo a sceglierne uno.

Kyle sghignazzò, ma non mi chiesi il perché. Tanto se gliel’avessi chiesto non mi avrebbe neanche risposto.

– Ti chiederei di accompagnarmi a fare un giro oggi, ma devo comprarti il regalo, e sarà una sorpresa.

– Ma se me lo dici in anticipo che mi farai una sorpresa, allora che gusto c’è? – dissi ridacchiando, quando la campanella suonò.

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Capitolo 16
*** Capitolo sedicesimo ***


Ecco un capitolo che alcune aspettavano, mentre forse altre non se lo aspettavano, ma qui c’è il primo capitolo (e lo sarà anche il prossimo, anticipo) dal punto di vista di Kyle. In tutto x ora ne ho contati 4, sparsi per tutta la storia ;)

(a fondo pagina trovate lo spazio per le mie risposte alle vostre recensioni :D)

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Capitolo sedicesimo (Il punto di vista di Kyle)

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È da quando l’ho vista la prima volta che non ho potuto fare a meno di guardarla sempre, ogni momento, mentre mi dicevo che non poteva essere, che non dovevo commettere stupidaggini, e innamorarmi. Ma era da quando eravamo finiti in banco insieme che mi ero rassegnato. Qualcosa in lei era diverso da tutte le altre, qualcosa di lei mi stava facendo perdere la testa. Eppure con lei mi sentivo talmente bene, era da due anni che non provavo quella specie di… felicità.

Purtroppo, i miei genitori li ho persi nell’età peggiore, a dodici anni, almeno l’età peggiore a mio parere. Inizi a farti delle speranze, dei sogni, cominci ad avere delle aspettative, i primi amori, le prime scoperte, ma non ti accorgi che tutto ciò che ti circonda e di cui hai bisogno sono loro. E se li perdi, come è successo a me, allora tutto finisce come una catena che si spezza: di conseguenza tutti gli anelli vi escono e se ne vanno per conto loro.

Non mi restava che andare a vivere dagli zii, dove nonostante tutto ciò che facevano per “sostituire” i miei, non ce l’hanno mai fatta completamente. Avevano sempre desiderato avere dei figli in casa, e se non erano figli, un nipote lo accettavano volentieri comunque.

E la signora Smith poi, quella strega che i miei zii avevano assunto per avere un aiuto, ma io non ho mai voluto incontrarla. Ricordo l’unica volta: questa donna grassa e sui sessant’anni, con un vestito largo a fiori in cui sarebbero potute entrare dieci persone. Il suo sguardo mostrava un’esagerata sicurezza, le labbra chiare e sottili arricciate in un sorrisetto irritante, con degli occhialetti che non le donavano per nulla, di un rosso troppo vivo, che faceva a pugni con il vestito, che invece era blu. Si ostinava a tirare su quegli occhiali, ma alla fine se li ritrovava sempre sulla punta del naso. Già dalla prima parola che disse non solo mi accorsi che era una psicologa che era venuta per me, ma anche che io e lei non saremmo andati d’accordo e che non avevo di certo nulla da dirle.

Diceva “Non ti preoccupare, sono qui per aiutarti!” ma a me veniva semplicemente da ridere, a quelle parole. Io non avevo bisogno di alcun aiuto, il mio stile di vita era stato una mia scelta, in fondo, perché ostacolarmi? Come vivevo quando abitavo a New York, forse lì mi mancava un po’ come vivevo, la mia vita sociale… ma in quel momento per me difficile, non avevo bisogno né di amici, né di ragazze, né di qualche assurda psicologa, in un periodo del genere volevo solo stare per conto mio, e basta.

Quella fu la prima e l’ultima volta che vidi la signora Smith, tuttavia sentivo ancora parlare di lei, era come la mia ombra, che mi seguiva ovunque andassi, perché i miei zii comunque continuavano a parlarci e a confidarsi con lei. Ma visto i cambiamenti che ci sono stati dalla volta in cui l’ho vista, cioè nessuno, potevo dire che non era in grado di fare il suo mestiere. Addirittura era arrivata a chiedere aiuto alla scuola, alla preside stessa. Non me lo sarei mai aspettato, che quella donnona avesse talmente tante risorse. “Alleandosi” con la preside, aveva escogitato di farsi aiutare da una studentessa, la più brava, la più diligente della mia classe, guarda caso l’unica che in mezzo a tutti gli altri aveva attirato la mia attenzione, anche se non lo davo a vedere.

Pensavo fosse inutile ricominciare daccapo, completamente inutile. Ma quando arrivò lei, fu tutto diverso. Ciò che con lei provavo non lo provavo con nessuno, e il legame che avevamo costruito tra noi non volevo che si sciogliesse. Tuttavia, sento come se ancora non potessimo definire il nostro legame “incancellabile”, perché lei è molto diversa da me, ma anche un po’ simile. È lei, proprio lei, quella che aveva baciato un altro, e poi lo era venuto a dire a me. Mi faceva piacere ma allo stesso tempo dolore. Dolore, perché pensavo lì di averla persa, quando invece quell’evento sembrava essere venuto apposta per lasciarmi il “via libera”, anche se adesso lei era triste per lui, anche se ero certo al 100% che non provava più niente. Proprio per questo volevo consolarla, e provare a farle dimenticare questo dolore. Mi serviva un regalo. Uno perfetto, uno da lasciarla senza parole. Magari semplice, ma anche originale e che l’avrebbe toccata nel cuore.

Camminavo verso casa, guardando tra le vetrine dei negozi, cercando qualcosa di interessante, ma nulla che potesse piacere a lei, purtroppo. Una lieve pioggerella cominciò a cadere, e anche oggi ero senza l’ombrello. Ciò mi riportava alla mente quel giorno che lei mi prese sotto l’ombrello, e facevo finta che mi desse fastidio che pensassero che stessimo insieme, mentre in realtà non mi sembrava vero, che a lei importasse di me. Anzi, non sapevo se in quel momento le importasse di me o solo che le dessi ripetizioni di matematica, ma non m’importava. Adesso lei però non c’era, e io come facevo? Dovevo per forza bagnarmi. Almeno stavolta avevo il cappuccio della felpa. Me lo misi in testa e cercai di accelerare il passo, guardando lo stesso tra le vetrine. Gioielli, vestiti, accessori per capelli, profumi… non avevo idee di cosa le piacesse, ma ero sicuro che tutte quelle cose troppo femminili non facessero per lei.

La strada era praticamente deserta, il cielo sempre più grigio. L’unico rumore era il ticchettio della pioggia, e un lieve miagolio. Un miagolio acuto, proveniente da lì vicino. In effetti, voltando lo sguardo potevo vedere a pochi metri un piccolo gattino nero che miagolava tutto bagnato sotto la pioggia. Mi avvicinai, sembrava spaventato. Infatti cominciò a tremare. Il suo miagolare indifeso, i suoi occhioni verdi, la sua codina a punta che si agitava in qua e in là, per un attimo quel micio mi ricordò me stesso. Abbandonato al suo destino.

Mi inginocchiai, allungando la mano per toccarlo, lui sempre più spaventato, sempre più rassegnato. Sembrava in perfetta salute, a parte tutto il pelo bagnato. Morbido e umido, non potevo lasciarlo lì a morire, abbandonato a se stesso.

Lo presi in braccio con estrema facilità, talmente era piccolo. I suoi occhioni mi guardavano grati, spaventati e speranzosi allo stesso tempo. Aveva bisogno di una visita dal veterinario.

– Beh piccolo, con te so già che cosa fare… ora mi manca solo il biglietto e un pacco regalo dove infilarti.

E adesso anche lui stava andando incontro ad un destino migliore, lo stesso destino che salvò entrambi: incontrarla.

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SPAZIO RECENSIONI:

LyhyEllesmere: no, i fatti si svolgono negli Stati Uniti, il luogo preciso non viene specificato, ma si presume che sia nello stato di New York (da cui viene anche il nome dell’omonima città) o al massimo negli stati confinanti, e capirete dai prossimi capitoli perché, infatti… beh non faccio spoiler ;D muahahahaha!; infatti, come è di uso in America, gli studenti frequentano tutti lo stesso liceo.

Tutte quelle che dicono che la sorella di Jonathan è bastarda: Oh, non vi dovete assolutamente preoccupare di quella lì ù.u credo proprio che non si ripresenterà più :)

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a proposito, grazie infinitamente di tutti i commenti che tutte le volte mi fate, mi rendono estremamente felice!

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Capitolo 17
*** Capitolo diciasettesimo ***


Finalmente ce l'ho fatta nel mio intento, ecco la sorpresina di cui vi parlavo poco tempo fa... -.-' ahimé non sono una brava disegnatrice, quindi non mi odiate pleaseeee! >.< xD
Per vedere la famosa immagine cliccate qui (non aspettatevi chissà cosa...)
Ecco il secondo capitolo dal punto di vista di Kyle, e avverto che il prossimo sarà ricco di colpi di scena!
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{ Capitolo diciassettesimo (il punto di vista di Kyle) }
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Il gattino sembrava in buona salute. Aveva solo freddo e fame, per il resto avrebbe potuto sopportare anche il fatto di essere impacchettato nella carta da regalo. Però non sono così irresponsabile da lasciare un gattino delle ore dentro una scatola senza buchi per l’aria, per chi mi avete preso? L’avrei tenuto con me fino al giorno dopo, e poi avrei trovato un modo per rifilarlo a Jenice come sorpresa.

– Ehi Jenice, che fai oggi?

Lei si girò verso di me con il suo solito sorriso, anche se in questo periodo era meno frequente del solito, e mi rispose:

– No, oggi non ho nulla in particolare da fare, anche se beh… è il mio compleanno. Ho un’idea! Andiamo a fare un giro?

Era ben lì che volevo arrivare. Non c’era quasi gusto ad inventarsi dei piani geniali con lei.

– Beh… d’accordo. Passo alle quattro da te?

Lei annuì. Poi mise su il broncio, e disse:

– Kyle, sei veramente uno stupido! – era per metà arrabbiata e per metà allegra che stava ridendo come una matta – Ti ho anche ripetuto che era il mio compleanno e tu nemmeno uno straccio di augurio!

Detto questo si diresse a passo veloce verso la classe, probabilmente perché voleva farsi inseguire da me. Ma sapeva che non ero il genere di ragazzo, e forse questa parte di me l’attirava ancora di più: vedere che non le davo corda.

Erano le quattro precise, ero puntualissimo. Conoscendo Jenice, lei sarebbe già sicuramente stata lì davanti alla porta ad aspettare il mio arrivo. Avevo un pacchetto in mano, una scatola colorata con un fiocco, per la precisione. Il gattino era dentro, bello addormentato, insieme a lui un bigliettino di auguri. Cercavo di convincermi il più possibile che quello fosse il regalo giusto, e lo speravo davvero. Non volevo che mi dicesse che aveva cambiato idea e che non lo voleva più un gatto. Sarebbe stato imbarazzante. Beh, valeva la pena correre il rischio, se fosse stata felice, avrebbe reso molto felice anche me.

Suonai al campanello di casa sua, appoggiai delicatamente il pacco per terra e mi nascosi. Sentii lei aprire la porta, mi immaginai la scena: avrebbe già dovuto vedere la scatola, infatti la sentii sussurrare “E questa?”

Subito dopo, uno strillo. Non sapevo se di felicità o di spavento, sapevo solo che mi aveva lacerato i timpani.

Sbucai fuori da dietro l’angolo e la vidi davanti a me, con il gattino nero in braccio e il bigliettino in mano, vestita in jeans e maglietta semplice come sempre, un trucco leggero che le risaltava il viso e ai miei occhi appariva come sempre la più bella. Lei mi guardò con occhi estremamente sorpresi, la bocca aperta, corse verso di me con il piccolo gattino in braccio esprimendo la sua gioia con le solite frasi che si dicono quando un regalo è stato gradito.

– Oddio… ma è bellissimo! Come ti è venuto in mente?

– Semplice, hai detto che volevi un gatto… eccoti un gatto!

Lei guardò ancora il micio, poi mi fece cenno di seguirla, e ci sedemmo su un muretto lì vicino, tenendo il cucciolo in grembo.

– Uh, e adesso come lo chiamo? – disse guardandomi interrogativa. Non avevo pensato ad un nome. Io con i nomi non ho mai avuto fantasia.

– Ehm… non ne ho idea!

Jenice si mise a pensare, incredibile che fosse così difficile dare un nome ad un piccolo gatto nero.

– … Nuvola!

Scoppiai a ridere senza riuscire a contenermi:

– Sì, una nuvola piena di pioggia!

Sbuffò, e tornò a riflettere.

– E… Napoleone? Il grande conquistatore!

Nome assurdo per quel cucciolo, quasi quanto il primo.

– Ma suona male, pensa quando lo chiamerai, “Il piccolo Napoleone”.

– Beh, non dovremo per forza chiamarlo “piccolo”.

Squadrai il micio, che si stava riaddormentando. Probabilmente la discussione annoiava anche lui.

– A te sembra che sia grande? Guardalo, è poco più grande della tua mano!

– Beh, un giorno crescerà! Comunque non piace neanche a me Napoleone.

Perfetto, non eravamo arrivati a nulla, quindi.

– … Che ne dici di Black?

Guardai prima lei poi lui.

– Black? Perché… Black?

Lei ridacchiò:

– Beh, di certo allora non possiamo chiamarlo White!

Black… non sapevo se era il nome giusto, ma a me non dispiaceva. Sempre meglio di Nuvola, o peggio, Napoleone. Bah, Napoleone… sarebbe potuto andare bene per tutti i gatti, anzi, tutti gli animali, ma per lui proprio no.

Adesso potevamo dire che era soddisfatta. Aveva trovato già il nome al mio regalo. Ero contento che le fosse piaciuto, sapevo che l’avrebbe trattato con cura. Il piccolo Black…

– Mi chiedo quanto sopravvivrà con una padrona come te!

Mi guardò leggermente stranita:

– Che cosa vuoi dire con questo?

Ecco che mi scappava di nuovo da ridere:

– Intendo, non avere un attaccamento morboso a lui, d’accordo? Altrimenti mi odierà per averlo consegnato a te.

– Bah, smettila! –esclamò sorridente – Mica lo torturerò!

Ero felice che il regalo le fosse piaciuto. Felicissimo, perché vederla felice mi fa altrettanto contento.

Una volta a casa, annoiato, accesi la radio con il volume a palla, e mi misi a rimettere a posto dei libri che avevo sparso in giro, siccome mia zia non intende ridursi a pulirmi la stanza ogni volta che è in disordine, cioè tutti i giorni, e più qualcuno la lascia così com’è, più peggiora nei giorni successivi. Era un dato di fatto.

Mentre afferravo i libri, guardando i titoli per riconoscerli, sentivo la canzone della radio, tanta chitarra, che prendeva il sopravvento, finché non interveniva la voce a ripetere “dolcezza, dolcezza, perché tu, dolcezza…”.

Era orecchiabile, certo, però un po’ ripetitiva.

Guardandomi intorno ricordai il giorno in cui Jenice era venuta qui. Forse non avrà trovato un ordine eccezionale, ma di sicuro non era come in quel momento. Eh sì, lo stratagemma del quaderno sotto al banco l’aveva fatta venire dritta dritta nella tana del lupo.

Scorsi anche la foto dei miei genitori, sulla scrivania. La bellezza di mia madre il giorno delle nozze non era mai cambiata, mi aveva accompagnato fino a poco più di due anni fa. Quanto a papà, è lui che mi ha fatto conoscere tutti questi libri di psicologia, infatti erano suoi. Altro che signora Smith, pensai che magari gliene avrei potuto regalare qualcuno.

Finito di riordinare, riascoltai alla radio, dove la canzone era appena finita:

– Il cantante afferma di aver dedicato la canzone ad una persona per lui speciale, e per…

Non feci finire la voce di parlare, che spensi la radio. Oggigiorno la musica non mi interessava più di tanto… e nemmeno m’importava di chi dedicava le canzoni e a chi le dedicava.

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Sorpresa sorpresaaaaa! Io fossi in voi non mi perderei il prossimo capitolo, dato che è pieno di SORPRESONEEEEE! Shock! Che potrebbe mai succedere di tanto scioccante? Beh, un po' di spoiler nel capitolo sopra è già presente, basta che facciate attenzione ai particolari ;)
Vi aspetto alla prossimaaaaaaa =)
PS: grazie infinite come sempre per le recensioni :)

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Capitolo 18
*** Capitolo diciottesimo ***


Saaaaalve! ^^ vi comunico che ho ufficialmente completato Lonely, e piano piano perfezionerò tutti i capitoli per poi postarli. Vi comunico che ne avrete per un bel po’ -^.^-

Buona lettura! Sorprese in arrivo! (più di una!!!!!) O____O

PS: se vedete delle imprecisioni della trama, o nei personaggi, o per qualsiasi altra cosa, non esitate a dirmelo tramite recensione o via e-mail ^^ grazie


{ Capitolo diciottesimo }

Non potevo crederci, adesso avevo davvero un gattino tutto per me! Il mio piccolo Black, l’avrei trattato con estrema cura, l’avrei tenuto sempre con me, per quanto mi fosse possibile, ovvio. Il regalo perfetto, sapeva davvero cosa desiderassi in quel momento.

Avevo appena dato da mangiare al piccolo Black, che si era abbuffato come un maialino, e sembrava voler andare a dormire. Lo misi temporaneamente in un cesto con un cuscino morbido sopra, e lo lasciai in pace.

Per distrarmi un po’, adesso, mi ci voleva un giretto fuori da sola. Presi così l’iPod viola da sopra la scrivania, e lo accesi. Oh no, batteria scarica. Come facevo adesso? Non andavo mai in giro senza la mia musica.

– Mamma! – gridai – C’è qualcosa in casa per ascoltare la musica?

Aspettai un paio di secondi, poi sentii la voce lontana di mia madre rispondere:

– Non credo, no aspetta, forse c’è qualcosa nel salotto, credo nel mobile vicino alla porta!

Okay, valeva la pena tentare. Tra tutti i lettori che avevo comprato nella mia vita, magari ce n’era ancora qualcuno funzionante. Arrivata in salotto, scrutai il mobile vicino alla porta, e aprii il primo cassetto: documenti su documenti, probabilmente molto vecchi. I miei non buttavano mai niente. Chiusi il cassetto, provai con il secondo: ammassi di cuffiette intrecciate in maniera impossibile da snodare, non ci si capiva niente. Però ad un paio di queste cuffiette era attaccata una piccola e vecchia radiolina bianca, forse inutilizzata da anni.

Cercai di sgarbugliare tutti quei nodi e alla fine ci riuscii, con molta pazienza, e la radiolina era finalmente in mio possesso. Meglio di niente. L’accesi, almeno funzionava. Dissi così alla mamma che andavo fuori, e preso il giubbotto uscii a fare un giro a piedi. Dove abitavo io non c’erano pericoli, non era come nelle grandi città, dove bisognava stare sempre all’erta.

Misi il volume della radiolina quasi al massimo, in modo da coprire tutti i rumori esterni come le macchine che andavano, la gente che parlava… mi sintonizzai sulla mia stazione radio preferita, si sentiva una donna dalla voce molto allegra che parlava delle hit del momento:

– … Ma passiamo alle ultime notizie! Appena oggi è uscito un nuovo singolo e… zzzzzzzzzz!

Accidenti, un’interferenza. Dai, io stavo ascoltando! Proprio adesso che stavano per mettere una nuova canzone uscita appena oggi… me la stavo per perdere. Feci qualche passo indietro… qualche passo in avanti e poi di lato… nulla. Ad un certo punto però, l’interferenza passò da sola e potevo di nuovo sentire, anche se la canzone era già iniziata.

La chitarra elettrica andava di brutto, su note che mi stimolavano tantissimo, al punto di farmi canticchiare anche se non conoscevo il pezzo, e mi misi a ballarlo leggermente mentre camminavo.

– Uh, sì vai così… nananananananaaaa… – cantavo piano.

Ecco che il cantante cominciò, la prima parola della canzone, su cui si soffermò un paio di secondi, fu quella. Fu “dolcezza”. Mi bloccai. Sarebbe stata una parola normalissima, se a dirla non fosse stato lui. Ascoltai, per essere sicura di quel che pensavo, ma non c’erano più dubbi adesso.

Ero ferma, gli occhi spalancati e la bocca mezza aperta. Il cuore batteva all’impazzata per l’emozione, perché non ci potevo credere. Cominciai a sudare freddo, sentivo il sangue scorrere velocemente nelle vene, fino alla testa, che pulsava e pulsava, e solo adesso avevo il fiato sufficiente per farmi uscire un’unica parola dalla bocca:

– Jonathan.

La sua voce era inconfondibile e, accompagnato dal suono degli strumenti della sua band, continuava ad alludere proprio a me con parole a me familiari, tipo “quel gatto grande e blu” che era il mio regalo per i dodici anni, “i mercoledì nella tua stanza grigia” la mia stanza, che assumeva una luce grigiastra a luce spenta e con la finestra aperta… tutte frasi che riportavano a me, e poi quel “dolcezza”… una parola che si ripeteva troppo spesso, che mi assillava. Per tutta la canzone continuava a dirlo, senza un attimo di pace. Ero io allora, “dolcezza”… non aveva mai smesso di chiamarmi così, neanche quando gliel’avevo chiesto io.

Finita la canzone, in quel mare di note per me nuove ma nello stile familiare tipico di Jonathan, io ero ancora lì ferma per la strada nello stesso punto, e l’allegra voce femminile riprese a parlare:

– Sì, avete appena ascoltato Honey, il primo singolo per i Contagious che hanno chiamato il loro album d’esordio nello stesso modo! Lo stesso cantante afferma di aver dedicato e scritto la canzone appositamente per una persona a lui cara che proprio oggi compie gli anni, beh gente, oggi facciamo a questa misteriosa “lei” gli auguri tutti insieme! La canzone è destinata ad arrivare in cima alle classifiche, ha già totalizzato tantissimi ascolti in un solo giorno. Ma adesso parliamo d’altro. La nuova canzone del famoso gruppo inglese…

E senza interessarmi di nient’altro, spensi la radiolina.

Senza saperlo, stavano facendo gli auguri proprio a me. Mi misi a ridere, con sempre gli occhi aperti e nello sgomento allo stesso tempo. Non sapevo come sentirmi, come comportarmi. Ero fuori di me per l’emozione, mi sentivo matta.

Jonathan, tra tutti i regali che mi avevi fatto, questo li superava decisamente tutti.

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Era forse una decisione presa troppo di fretta, troppe cose da organizzare, da gestire… in più sarebbe stato difficile, tutto molto difficile.

Era ormai sera tarda, stavo per addormentarmi nel mio letto, sotto le mie belle coperte rosa, ancora sconvolta per la canzone. Per quella maledetta canzone. La notizia aveva sconvolto anche i miei genitori, soprattutto mia madre, che tuttavia mi aveva ammonita con il suo solito tono amorevole di non disturbare Jonathan che magari stava lavorando o era impegnato… mi aveva consigliato di mandargli un messaggio e ringraziarlo, se volevo.

Il messaggino gliel’avrei mandato il giorno dopo, adesso non mi veniva veramente in mente cosa dire, oppure avrei potuto dire cose esagerate data l’emozione che provavo in quel momento. Quindi era meglio aspettare.

Adesso però non dovevo pensarci, dovevo pensare a tutt’altro. Dovevo prendere una decisione, sulla quale non sarei tornata. Per mettere in atto il mio piano avrei sicuramente avuto bisogno dell’aiuto di Kyle… che avrebbe accettato di sicuro. E, se non avesse accettato, gli avrei fatto gli occhioni dolci finché non avrebbe ceduto, oppure avrei trovato un buon argomento per convincerlo. Ormai sapevo come comportarmi, con lui.

Il problema era che anche lui avrebbe potuto dire che la mia idea era assurda, e soprattutto anche i miei genitori, che avevano molto più potere su di me di quanto non immaginassi. Ancora non ero maggiorenne, e dovevo ancora stare alle loro regole. Altrimenti sarei già chissà dove.

Comunque, senza Kyle non avrei davvero potuto fare niente. Lui era fondamentale per me, sia per il mio piano che in generale. La cosa più difficile da fare era dissuadere i miei, e fargli accettare in qualche modo la mia idea. Non sarebbe stato per niente facile. Impossibile, direi. Valeva la pena tentare, era anche il periodo giusto, avevo ancora qualche giorno per rifletterci meglio e per parlare con i miei e con Kyle, e nessuno mi avrebbe fermato. In effetti sì, le vacanze pasquali si avvicinavano e avrei avuto molta più libertà se non c’era la scuola di mezzo.

Pensavo in continuazione come fare, senza darmi un attimo di pace per ben due ore. L’ho detto, come decisione era piuttosto avventata. Ma dovevo farlo.

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Seduti sul nostro solito muretto, dissi a Kyle che avevo qualcosa da dirgli. Lui sembrò ascoltarmi, quando facevo seriamente nemmeno lui scherzava mai. Cominciai così a spiegargli:

– Vedi Kyle, le vacanze di Pasqua si stanno avvicinando…

Lui mi guardò perplesso, e rispose:

– Beh, sì, e allora?

– Beh… pensa un po’, due settimane, niente compiti, niente scuola, niente andare a letto presto la sera… e possiamo uscire finché ci pare.

Lui sembrò non comprendere.

– Quindi Jenice? Arriva al punto, forza!

Mi rassegnai. Non c’era altro modo per dirglielo, speravo che fosse già d’accordo con me fin dall’inizio, non mi andava di stare lì delle ore, forse anche dei giorni, per convincerlo e basta. Mi misi la mano sulla fronte e, con lo sguardo chino, mi decisi a sputare il rospo:

– Okay Kyle, te lo dico chiaro e tondo, e non pensare di capire male perché sarà proprio così come te lo dirò. Io voglio andare a New York, e vorrei che tu ci venissi insieme a me.

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Capitolo 19
*** Capitolo diciannovesimo ***


Salve a tutti! Beh, oggi ho poco da dirvi, solo che ho iniziato ad abbozzare il seguito di Lonely, si chiamerà Crossroads. Per il momento è solo una bozza, anche il titolo non è certo, ma è sicuro che sarà di rating giallo, forse arancione. Vi ringrazio per essere arrivati fin qui ^^ Mmh, i nostri protagonisti andranno a New York?!?!?! Uhuh scopriamolo insieme!

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{ Capitolo diciannovesimo }

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Ancora non si era reso conto di quanto fosse serio il mio tono di voce. Infatti se ne stava lì, indifferente, con uno strano sorrisetto stampato sulla faccia. Sulla sua dannatissima e bellissima faccia.

Alcuni ciuffi di capelli si ostinavano ad andargli davanti agli occhi, ma potevo ancora vedere il suo sguardo che era sempre più bello, ogni giorno che passava, e sembrava avermi stregata.

Assunse poi l’espressione di uno che ha voglia di scherzare, e disse:

– Che cosa vuol dire che vuoi andare a New York?

Come se non avesse capito.

– Che altro può voler dire? Sto parlando seriamente, Kyle!

In effetti quella era la prima volta in assoluto che non prendeva le mie parole sul serio, ma in fondo lo comprendevo anche, visto ciò che avevo appena detto.

Mi guardava adesso in modo diverso, con una strana luce negli occhi.

– Perché non ci vai con i tuoi, anzi che con me?

Semplice da spiegare: i miei non mi avrebbero mai permesso di andare a cercare Jonathan per New York.

– I miei mi sarebbero solo d’intralcio. Non mi lascerebbero la libertà che voglio. E purtroppo sono ancora minorenne e non libera di scegliere come meglio credo.

Il mio ragionamento non faceva una piega. Anche se sarebbe stata dura.

– E hai deciso così, di punto in bianco? Sentiamo, cosa vorresti fare a New York? – disse con una punta d’ironia, che lui non usava mai in nessun genere di frasi.

– L’hai sentita la nuova canzone dei Contagious? Beh il leader della band è Jonathan, la canzone si chiama Honey ed è dedicata a me! È il mio regalo di compleanno… eppure non riesco a capire perché in sei mesi non si è mai degnato di farsi sentire, neppure una volta…

Kyle ci era evidentemente rimasto male. Ora che Jonathan si era levato di mezzo, pensava di non avere più i bastoni tra le ruote, ma non aveva ancora capito che per lui non era un ostacolo, che lui non ne aveva per niente, di ostacoli.

– E allora perché non ci vai da sola… a New York, da “lui”?

Mi dispiaceva di avergli detto quelle cose. Si sentiva messo in secondo piano solo perché Jonathan mi voleva bene e mi aveva dedicato una canzone che avrebbe potuto scalare le classifiche internazionali.

– Per tanti buoni motivi che adesso ti elencherò: primo, io a New York ci voglio andare solo con te, e quindi non essere geloso di Jonathan; – e a quel punto Kyle arrossì e non poco – secondo, non mi va di andarci da sola, in una così grande città mi potrei anche smarrire, potrebbero farmi di tutto; terzo, i miei non mi manderanno mai, a meno che non sia accompagnata da qualcuno che guarda caso fino a quasi tre anni fa abitava nella “Grande Mela”. E tu sei uno affidabile, non è vero?

Non sapeva cosa rispondermi. Ma non era difficile immaginare cosa gli uscì infine dalla bocca:

– Che idea assolutamente stupida. Ti rendi conto che è impossibile una cosa del genere? Sai per caso per certo che lui è ancora a New York? Sai dove abita, dov’è il suo studio di registrazione? Sai almeno cosa dirgli quando, e se lo incontrerai?

Mi sorpresi a quelle parole. Perché nonostante fossero di rimprovero, le aveva dette con la sua solita gentilezza che nessun altro sarebbe riuscito ad usare in quel contesto.

– E poi non ho finito, – continuò – dove staremo? E soprattutto, quanto hai intenzione di rimanerci?

In effetti aveva ragione. Avevo ragionato talmente poco sul piano, che non mi ero curata di tutte queste cose.

– Potremmo stare da mia cugina, lei abita a New York ormai da un anno e mezzo e ha una casa grande! Staremo il tempo necessario per ritrovare Jonathan, ci volessero anche tutte le vacanze e qualche giorno di più. Ho intenzione di ringraziarlo di persona e di parlare con lui, siccome quando se n’è andato non ci siamo nemmeno potuti salutare. Penso di sapere dov’è il suo studio di registrazione e so per certo da mia madre che starà in un albergo a New York con gli altri componenti della band finché non riuscirà a sistemarsi. Là non ci saranno così tanti alberghi… basterà controllare!

Kyle scosse la testa ripetutamente.

– Hai idea di quanti alberghi esistano in quella città? Non sai neanche quanto è grande! E poi, come faremo a farci bastare i soldi?

– I soldi che i miei parenti mi hanno regalato per il compleanno sono più che sufficienti, e se ci mettiamo anche quelli della paghetta che ho risparmiato…

Kyle non era per niente convinto, tuttavia.

– Mi dispiace, ma la realtà è che non caveremmo un ragno dal buco, sempre se riuscissi a convincere i tuoi. Non intendo venire con te, a mettere in atto un piano che è già fallito prima di iniziare… sei troppo ottimista, Jenice.

Aveva ragione, perfettamente ragione. In effetti fino adesso Kyle non aveva mai sbagliato, su niente.

– Hai ragione… – cominciai, guardando in basso, con tono afflitto – non so neanche da dove cominciare, non so da dove partire… è che ci tenevo così tanto a rivederlo, dopo che ha persino scritto una canzone appositamente per me… mi dispiace, non ho riflettuto abbastanza.

Detto questo, mi alzai dal muretto e feci per andarmene, stavolta sicura che lui non mi avrebbe seguito. Sì perché tutte le volte che mi allontanavo da lui, anche scherzosamente, speravo che lui mi inseguisse per dimostrarmi che non voleva che me ne andassi. Stavolta non c’era motivo di fermarmi. Disse solo questa frase:

– Abbiamo intenzione di andarci in treno?

Mi girai, fissandolo negli occhi blu, che avevano assunto una luce ancora una volta diversa da prima.

– Che cosa?

– Ho detto, ci andiamo in treno? E quando si parte, a proposito?

Non potevo credere a ciò che stava dicendo, non poteva essere assolutamente possibile, almeno da lui.

– Vuol dire… che hai cambiato idea?

– Non ho assolutamente cambiato idea sul fatto che sarà un fallimento già prima di partire. Però sì, se ti riferisci al fatto di accompagnarti ho cambiato idea.

Era proprio vero, allora. Mi voleva accompagnare, nonostante tutti quei difetti che aveva il mio piano e nonostante fosse irrimediabilmente geloso di Jonathan, il ragazzo che mi aveva baciata per poi scappare con la sua band.

Mi buttai su di lui abbracciandolo forte, come non facevo da tempo. Già, era da un bel po’ che non lo abbracciavo così. Da quando mi aveva detto che non avrei mai potuto farlo arrabbiare, quella volta che gli raccontai della preside e della signora Smith.

– Grazie Kyle… lo sapevo che mi vuoi troppo bene!

Lui, ancora più rosso di prima, rispose scherzosamente:

– Adesso però non esageriamo…

In seguito mi staccai da lui, e aspettai che si alzasse in piedi dal muretto, si sistemò la camicia bianca e continuò:

– Come pensi di convincere i tuoi? New York non è come qui. Qui siamo in una città piccola, abbastanza sicura. Io ci vivevo, e ti assicuro che non è affatto come qui.

Non mi facevo tanti problemi, conoscendo i miei avrebbero facilmente ceduto, contando anche che mi avrebbe accompagnata Kyle e che sarei stata da mia cugina, sempre se lei avesse approvato.

– In qualche modo farò. Adesso devo anche telefonare a Lindsay, mia cugine. Casa sua è così grande, da quanto mi ha raccontato, che dovrebbe contenere anche una camera per gli ospiti, e sarebbe una fortuna, no?

Lui sorrise, scuotendo leggermente il capo.

– Hai intenzione di auto-invitarti a casa di tua cugina per una data da stabilire, senza sapere neanche quanto tempo rimarremmo?

– Non è un problema. sono sicura che per lei non sarà un problema!

Lui mi mise la mano sulla testa, scompigliandomi i capelli.

– Speriamo!

Adesso avevo anche lui dalla mia parte. E niente mi avrebbe fermato. Solo di una cosa avevo paura: di poter provare ancora qualcosa per Jonathan senza rendermene conto. Perché temevo che ciò che provavo per lui in realtà non fosse stato interrotto dal mio cuore, ma dalle circostanze che mi si erano proposte, cioè che lui se n’era andato e non ci eravamo più sentiti. Ma con Kyle non avevo nulla da temere, in fondo. Perché eravamo più uniti che mai.

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Capitolo 20
*** Capitolo ventesimo ***


Capitolo ventesimo.

buona lettura ^^

__

Ad essere sincera, non mi sarei mai aspettata questa situazione: fuori di casa, il sole si era appena levato, emettendo una piacevole luce fioca, in mano una valigia rosa strapiena di tutto e di più, vestiti, il mio diario, perché a quell’età lo scrivevo ancora, spartiti e testi di canzoni, il mio iPod, il cellulare, i soldi necessari e quella maledetta radiolina, grazie alla quale quella mattina sarei andata a New York.

Addosso nulla di troppo pesante, ma neanche di troppo leggero: una felpa sopra una maglietta, jeans e un giubbotto estivo. Tirai fuori l’iPod dalla valigia e mi misi le cuffiette. Misi una canzone che avevo imparato a cantare insieme a Jonathan, una delle prime. Pensai ai giorni precedenti passati ad organizzare la cosa: con molta buona volontà ho convinto i miei genitori e mia cugina gentilmente aveva detto di essere disposta ad ospitarci finché volevamo, a condizione di sopportare il suo ragazzo che ogni tanto veniva a farle visita. Mi chiedevo allora perché non convivessero. Beh, non erano affari miei. Ritornando a prima, non mi sarei mai aspettata tutto questo, il fatto di partire per New York insieme a Kyle, che neanche un anno prima consideravo un tipo strano con cui non avevo mai nemmeno parlato. Mi sbagliavo, mi ero sbagliata in tutto quel tempo, e pensai a tutto il tempo che avevamo perso. Non avrei mai neanche detto di potermi prendere una cotta per lui. Infatti, tutte le volte che mi si avvicinava, una parte di me sperava che lui appoggiasse le sue labbra alle mie e mi desse un bacio. Ma non capivo se l’avrebbe mai fatto, o sarei dovuta essere io a fare il primo passo. No, era una cosa impossibile per me. Non ero mai stata in grado di farmi avanti con un ragazzo, e poi se avessi provato a baciare Kyle o a dirgli ciò che provavo apertamente, avevo paura di perderlo e non avere così più nessuno.

Probabilmente lui era già in stazione. Sarebbe potuto passarmi a prendere, ma per arrivare là passava per un’altra strada. Così salii nel posto davanti della mia macchina con la mamma che mi accompagnò fino in stazione. Forse non era stato un bene, che lei mi accompagnasse. Non ha mai sopportato la mia lontananza, mi telefonava tutti i giorni quando andavo via, e non siamo mai state distanti per più di una settimana, quindi mi sembrò poco opportuno che mi dovesse dire “addio” proprio lì. Avrei preferito che mi salutasse a casa… e forse anche lei.

Mi chiesi come poteva sentirsi Kyle, senza una madre da salutare. Magari anche lei quando lui andava via per qualche giorno gli si appiccicava e lo riempiva di baci fino all’ultimo momento, come faceva la mia tutte le volte. Immaginai come potesse sentirsi, e mi dispiaceva. Perciò, raccomandai a mia madre di non fare troppe scenate, mentre eravamo in macchina. E poi, davanti al ragazzo che mi piaceva, non volevo che mi mettesse in imbarazzo, oltretutto.

Ancora a guidare verso la stazione, mia madre continuava a farmi raccomandazioni una sull’altra, e sembrava che il discorso non potesse mai avere fine. Chissà se anche io sarei diventata una madre così. Senza volerlo così, mi figurai di fianco a Kyle con un bebé in braccio, un bebé che poi cresceva e diventava un teenager che andava al liceo e aveva anche lui, come tutti noi, i suoi problemi, portava a casa la ragazza, una diversa ogni settimana, e noi che, almeno un paio di volte, lo beccavamo a fumare, e in men che non si dica quello che prima era un neonato adesso era già sposato con una ragazza fine e carina con cui spettegolavo da mattina a sera, mentre guardandomi allo specchio vedevo le rughe che avanzavano sulla mia pelle che una volta era bella, liscia e impura. Tutto ciò lo stavo facendo con lui al mio fianco. Ma che razza di pensieri mi venivano? Scossi la testa, e tornai nel mondo reale.

L’unica cosa a cui dovevo pensare adesso era cosa avrei detto esattamente a Jonathan quando l’avrei rincontrato. Se l’avessi rincontrato. Non sarebbe stata un’impresa facile, questo era sicuro. Dai finestrini della finestra si vedevano tutti i palazzi, tutti gli edifici e le altre macchine, qualche autobus, tutti scorrevano, mi allontanavo da loro come in una fuga.

Ecco la stazione, laggiù in lontananza. Più ci avvicinavamo, meglio riuscivo ad intravedere le figure delle persone che erano là anche loro ad aspettare il treno. Tra di loro vidi nitidamente la figura di Kyle. Sì ero sicura, era lui. Laggiù da solo, con solo una piccola valigia in terra appoggiata alla sua gamba sinistra. Era in piedi ad aspettare me, e ancora non riuscivo a capacitarmi di tutto ciò che stava accadendo.

La macchina cominciò a rallentare, finché non si fermò del tutto. Aprii lo sportello, mia madre scese e mi aiutò a tirare fuori la valigia che era su uno dei sedili posteriori.

– Kyle è là, mamma – le dissi. Eh sì, per lei era arrivato il momento di salutarmi.

– Stai attenta, tesoro, stai sempre con Kyle mi raccomando!

Al solo pensiero, diventai rossa.

– Mamma dai! Cosa dici…?

Lei mi abbracciò riempiendomi di baci, a pochi metri dalla stazione. Non avevo più voglia di partire, non avevo voglia di lasciare per dei giorni il mio nido, anche se ci sarebbe stato Kyle. Ma dovevo partire, avevo preso la mia decisione, ormai, e non ci sare più tornata su.

Anche mentre mi allontanavo continuava a ripetermi raccomandazioni a raffica, senza mai fermarsi, finché non fui troppo lontana e troppo mischiata alla gente per sentirla.

Arrivai da Kyle, appoggiai il mio corpicino dolcemente a lui. Non sembrava per niente turbato all’idea di partire, ma pensai che in fondo forse un po’ lo era, anche se non lo dava a vedere. Non ci dicevamo niente, sembrava che comunicassimo telepaticamente, e di questo anche la gente se ne accorse. Chissà cosa pensavano, dei nostri bagagli, di dove stavamo per andare, di noi.

– Beh? Quante raccomandazioni ti ha fatto tua madre? – mi chiese lui.

– Troppe… anche mentre mi allontanavo da lei, sono le ultime sue parole che ho sentito.

Lui sorrise, la cosa gli stuzzicava il divertimento.

– Allora hai fatto male, dovevi farti accompagnare da tuo padre.

Allora anche lui le conosceva, queste cose. Anche lui sapeva cosa voleva dire, e ancora se lo ricordava.

– Io mi sono fatto accompagnare da mio zio… – continuò – sennò mia zia alla stazione non sarebbe più riuscita a staccarsi da me. Meglio salutarsi direttamente finché ero ancora in casa.

In fondo per lui avere loro due come zii era un po’ come avere dei secondi genitori, e ciò mi rendeva felice. In più avevo visto la zia, e mi era parsa una donna buona e simpatica.

 

Quando il treno arrivò, salimmo in cerca di due posti vicini, anche se erano per la maggior parte occupati. Molti erano pendolari, si riconoscevano dai vari strumenti di lavoro come valigette, documenti e divise che gli stessi indossavano.

Trovammo, per fortuna, due posti liberi e lui gentilmente mi cedette il posto accanto al finestrino. Era una meraviglia osservare il paesaggio che scorreva, con la musica rimbombante nelle orecchie mentre pensavo “Quali meraviglie avrò l’onore di vedere nella Grande Mela?”…

Tuttavia, nonostante il paesaggio che mi si presentava fuori dal finestrino, non riuscivo ogni tanto a non guardare Kyle, mentre anche lui ascoltava la musica, o meglio, passava tutto il viaggio a cercare una canzone che gli potesse piacere.

Poi mi ricordai: appena due giorni prima avevo comprato il CD dei Contagious e mi ero messa tutte le canzoni nell’iPod. Alcune le avevo già sentite da Jonathan, altre invece mi erano completamente nuove. Le andai a cercare, e per una decina di volte almeno ascoltai Honey, che ogni volta mi lasciava di stucco come la prima volta che la sentii, in mezzo alla strada attraverso quella stupida radiolina, senza la quale però non avrei potuto intraprendere quest’avventura che in fondo mi stava servendo a crescere, a maturare, e avrei fatto tanta esperienza.

Con Kyle vicino era tutto diverso. Con lui sentivo di poter andare ovunque, e fare qualunque cosa, a patto che ci fosse stato sempre lui. Sempre, senza mai lasciarmi. Non importava cosa sarebbe successo, io lo volevo con me, e non avrei mai permesso che qualcuno me l’avesse portato via.

Intanto lui era lì, impegnandosi per trovare qualche canzone adatta, qualche canzone che gli sarebbe potuta piacere.

– Kyle… – gli dissi, sorridendo, e porgendogli una delle mie cuffiette – risparmia la batteria, ascoltiamo il mio, no?

Lui mi sorrise come solo lui sapeva fare, delicatamente prese la cuffietta e se la mise all’orecchio.

– Niente Contagious. – disse semplicemente.

Io mi misi a ridere, era incredibile quanto la sua espressione mi stesse dicendo “Sono geloso, sono geloso, sono geloso…”.

– E va bene, come vuoi. Tanto non li avrei messi comunque.

Il viaggio continuava. E noi eravamo lì, su quei sedili, e mi esaltava l’idea che la gente potesse guardarci, con le nostre cuffie dell’iPod condivise, e pensare “Come sono carini quei due insieme…”.

Ma che andavo a pensare? Io sinceramente non mi vedevo per niente a fare la ragazza di Kyle, anche se sapevo che andando avanti di questo passo qualcosa sarebbe successo. Mi chiesi se davvero io volessi evitare di innamorarmi di nuovo, perché è facile a dirsi, però, come a tutte le ragazze, quando succede succede, e nessuno è in grado di fermarti.

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Capitolo 21
*** Capitolo ventunesimo ***


Da quello che ho letto nelle recensioni, sento il bisogno di dire una cosa: prima di tutto sono felice che vi piaccia questa storia, ma non è una trama tanto scontata, ve ne accorgerete più andrete avanti =) non succederà affatto quel che vi aspettate.Ringrazio per la pazienza e per la disponibilità di Delicious_R_ =)

Capitolo ventunesimo 

 

– Ciao Jenice! Quanto tempo! È da Natale che non ti vedo!

Mia cugina Lindsay mi strinse a lei peggio di quanto non facesse la mamma, e ci fece entrare in casa.

Le presentai anche Kyle, e lei pensò immediatamente che fosse il mio ragazzo. La cosa mise in imbarazzo entrambi, ovviamente.

La casa era nel centro della città, appena scesi dal treno trovammo immediatamente un taxi, che ci condusse fino all’indirizzo che Lindsay mi aveva detto per telefono qualche giorno prima della partenza. Trovarlo fu facile, grazie all’esperienza del tassista, ma pagammo un’esagerazione. Decisi che non avrei mai più preso un taxi in tutta la mia vita.

– Beh a dire il vero dovrei lasciare la casa in mano vostra per alcuni giorni, perché devo andare a fare delle interviste a Washington, ma questo tu Jen lo sapevi già, non è vero?

Lindsay era una giornalista in carriera, si occupava soprattutto di interviste, infatti. Nulla di troppo importante, ma stava facendo dei grandi progressi. Spesso aveva necessità di spostarsi per alcuni giorni per andare a intervistare diversi personaggi e il tempo non bastava mai. Avrebbe lasciato casa sua in mano a noi. La cosa mi preoccupava, e non poco, perché non solo eravamo minorenni, ma non abitavamo neanche nella casa, in teoria. E poi… chi l’avrebbe pulita la casa? Io, che non ero capace, essendo cresciuta come una bimba viziata fino ad allora? Tuttavia ero disposta anche a questa condizione, e non dissi niente a Kyle per paura, e certezza, che si rifiutasse di venire ancora una volta.

Lindsay ci fece vedere la casa, ma la cosa che colpì di più sia me che Kyle fu la camera da letto: il letto era matrimoniale. Mi sbagliavo, quando dicevo che in quella casa ci sarebbero state sicuramente le stanze per gli ospiti. Il letto dove dormiva Lindsay e talvolta anche il suo fidanzato era grande e spazioso, dava l’idea di essere molto comodo. Ma dovevo dormirci insieme a Kyle. Ero sicura che se la sarebbe presa tremendamente con me quando Lindsay sarebbe uscita, non tanto per il letto ma per il fatto che non gli avevo detto che avremo fatto una specie di “marito e moglie che vanno ad abitare in una casetta a New York”. In fondo era come una specie di gioco. Ma alla fine lui non disse niente, solo che da me si aspettava questo e molto, ma molto peggio. Ma cosa ci poteva essere, peggio di così?

Sistemammo in fretta le valigie, mentre Lindsay era già partita per Washington. Mi domandavo come faceva a stare tranquilla lasciandoci casa sua per dei giorni. Non era mai stata una ragazza molto responsabile, ma le ero grata per la sua disponibilità. Mi aveva lasciato una chiave, dato tutte le indicazioni necessarie a mandare avanti la casa, e siccome non mi vedevo nemmeno bene come casalinga da grande, non riuscii ad assorbire tutte le informazioni. Fortunatamente alle cose più difficili ci pensava Kyle per me. Sarebbe stato un bravo marito. E a quel pensiero mi venne da ridere.

– E adesso che facciamo? – mi chiese Kyle, evidentemente su di giri per la storia del letto matrimoniale e della casa tutta per noi.

– So esattamente dove dobbiamo andare, adesso. – gli dissi io, per non farlo arrabbiare ulteriormente dicendogli che non ne avevo idea – Intanto dobbiamo rintracciare lo studio di registrazione… oppure potremmo vedere se c’è qualche concerto dei Contagious… il che non dovrebbe essere troppo difficile.

Kyle non sembrò approvare molto… si capiva dal mio tono che non sapevo da dove cominciare, e mi chiesi allora perché aveva accettato di accompagnarmi. Forse sperava che così ci avrei messo definitivamente una pietra sopra, con Jonathan.

– E hai qualche idea di dove si trovi questo studio? Magari possiamo provare a chiedere lì, oppure potremmo cercare su Internet le date dei concerti, se ce ne sono…

– Beh penso di sapere dove si trovi. Non è lontano da qui, possiamo benissimo arrivarci a piedi e… senza prendere taxi.

Kyle rise finalmente, era dall’inizio del viaggio che non lo faceva:

– Ti verrà la fobia dei taxi e dei tassisti così.

– No, ti sbagli. Solo a New York è così. Io ho paura solo dei taxi di New York.

Non pensai al fatto che forse era quel tassista che ci aveva truffati. In fondo io non avevo mai preso un taxi in realtà, lo avevo solo visto fare nei film.

Il giorno dopo saremmo andati allo studio di registrazione a controllare. Magari Jonathan era lì e non c’era bisogno di fare ulteriori giri per la città. Comunque ero sicura che l’avremmo trovato presto, famoso o non famoso che fosse. Quel giorno comunque eravamo troppo stanchi per muoverci di casa, così cercammo di condividere la casa più come due compagni di classe nella stessa stanza in gita, che come una coppietta appena trasferita.

 

Momento decisamente drammatico. Il letto. Un letto matrimoniale.

Ero davanti ad esso in camicia da notte, tutto ben rifatto, non una piega fuori posto o un cuscino anche leggermente storto. Sembrava che aspettasse proprio noi… che andassimo da lui… fuori era buio, le lampade sui due comodini ai lati del letto facevano luce in tutta la stanza, sugli armadi e anche un po’ sui muri erano appesi poster di attori e cantanti famosi che Lindsay adorava.

Mi sedetti sul piumone, e strinsi nelle mani i lembi della camicia da notte rosa, leggermente sotto pressione. Ero seduta sul lato più vicino alla porta, l’altro lato invece era quello vicino alla finestra. Chiusi gli occhi qualche secondo cercando di rilassarmi, dai, in fondo mica dovevamo fare l’amore! Vero?

Quando riaprii gli occhi mi accorsi della presenza di Kyle dietro di me, che era già nel letto.

– Non farti venire in mente strane idee. – gli dissi secca senza girarmi.

Lui inevitabilmente scoppiò a ridere.

– Ma figurati… non ti farò niente… a meno che… – e qui si fermò creando la suspense.

– A meno che…? – lo incitai a finire la frase, girandomi lentamente verso di lui.

– A meno che il mio istinto maschile non prenda il sopravvento, in tal caso saresti spacciata!

Non mi andava di scherzare. Sarebbe potuta andare a finire che ci avrei creduto veramente.

– Smettila! Non fare lo scemo, Kyle! – fissai un punto sulla porta e strinsi ancora di più nelle mani i lembi della camicia da notte.

– Dai Jen, stavo solo scherzando!

Non mi aveva mai chiamata Jen. Quando non lo conoscevo non mi chiamava proprio, quando ancora non eravamo in confidenza mi chiamava Ross, il mio cognome, poi Jenice, ma mai per il mio solito soprannome che tutti mi affibbiano per accorciarmi il nome, cosa che non avevo mai sopportato, finché non lo fece lui.

Spostai lo sguardo sul comodino, dove era appoggiato un giornalino, uno di quelli per ragazze che fanno solo pettegolezzi sulle star. Sulla copertina una scritta a caratteri cubitali inconfondibile: “Contagious, nuovo gruppo sulla cresta dell’onda! e subito sotto a questa, una foto grande quasi quanto l’intera pagina del gruppo, riconobbi immediatamente Jonathan al centro, con un sorriso smagliante che mi era alquanto familiare, perché me lo ritrovavo sempre davanti, fino a sei o sette mesi fa, ormai avevo perso il conto.

– Guarda, Kyle! I Contagious! – e gli misi il giornalino davanti alla faccia.

Lui con molta calma me lo sfilò di mano e lo aprì alle prime pagine:

– Qui dice che ci sarà tra pochi giorni un loro live proprio qui, a New York.

– Davvero? Dammi! – e gli presi il giornalino, leggendo con attenzione. Sì, in effetti mancava davvero poco, appena quattro giorni.

– E come facciamo? Cosa facciamo adesso eh? – gli chiesi, agitata.

– Calmati, – disse lui con il suo solito tono – lì dovrebbe esserci un numero, è per i biglietti del concerto. Basta che lo chiami, ne prenoti uno in prima fila e il gioco è fatto.

Immediatamente mi alzai e andai a prendere il telefono, digitai in tutta fretta il numero e mi misi il telefono all’orecchio.

– Ma sei matta? – cominciò lui – A quest’ora chi vuoi che ti risponda?

Giusto, mi ero scordata che erano le due di notte. Riagganciai, poi mi venne un dubbio:

– Aspetta, cos’è che hai detto prima? Di prenotare un biglietto? Uno solo?

– Già – rispose in tutta calma.

– No, no! devi venire anche tu! Non puoi lasciarmi andare da sola! – mi sentivo come una bimba di tre anni che faceva i capricci.

– Smettila, non sono interessato a quelli lì.

Il suo comportamento mi irritò un po’, sapevo che parlava male dei Contagious solo perché era geloso.

– Beh vorrà dire che sarò libera di andare dietro le quinte e… fare ciò che voglio con Jonathan senza nessuno che mi controlli...

Lui mi guardò male, e io mi convinsi che avevo fatto centro, imparando a sfruttare questo suo punto debole.

– Forse è meglio che venga anch’io, chissà chi potresti mai incontrare da sola a New York in mezzo a tutti quei fan!

Ridacchiai, rimisi il giornalino sul comodino infilandomi sotto le coperte.

– Buonanotte… geloso!

Lui mi rispose con uno sbuffo, spegnendo infine la luce.

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Capitolo 22
*** Capitolo ventiduesimo ***


volevo approfittarne per dire che ho iniziato a scrivere una nuova storia, Trapped, originale-romantica che parla di una ragazza appassionata di scrittura..un giorno due oggetti magici rendono un suo racconto realtà, e vivendo una stranissima avventura, si accorgerà di provare qualcosa per il suo stesso protagonista, che fino a poco tempo prima era solo inchiostro sparso su un foglio di carta. :)

Capitolo ventiduesimo

Avevo freddo. Mi sentivo… fredda. Aprii leggermente gli occhi, era tutto buio. Non riuscivo a realizzare cosa stesse succedendo, poi mi ricordai: ero nello stesso letto di Kyle, ma adesso sentivo freddo e non capivo perché. Mi sentii improvvisamente avvolgere da uno strano calore, un calore umano. I miei occhi erano abbastanza aperti per vedere la figura nera di un braccio che tirava su la coperta, e delicatamente me l’adagiava sul corpo. Adesso non sentivo più freddo.

– Ma come fai a scoprirti sempre? – sentii una voce sussurrarmi dolcemente, la voce di Kyle. Chissà quante volte quella notte aveva dovuto ricoprirmi, altrimenti avrei preso freddo. Avrei voluto ringraziarlo, ma in fondo ero ancora inconscia e la volta successiva che riaprii gli occhi c’era la luce del sole che m’illuminava. Mi girai, ma nel letto di fianco a me non c’era nessuno. Cercai di capire in base alla luce del sole che ore fossero, ma feci prima a posare lo sguardo sulla sveglia sul comodino.

“Bah… sono solo le 11.16…” e richiusi gli occhi, sperando che Morfeo mi avesse riaccolta nel mondo dei sogni. Di scatto riaprii gli occhi, mi tirai su e gridai:

– Le 11 passate?! Com’è possibile?

Come avevo fatto a dormire così tanto e così bene? E senza accorgermi che Kyle si era già alzato? Mi ero sentita così a mio agio a dormire con lui?

Vidi una figura improvvisamente sbucare sulla soglia della porta, era lui, già vestito, con un sacchetto di carta in mano, e, avvicinandosi un po’, me lo gettò tra le braccia.

– Croissant al cioccolato, direttamente dalla pasticceria francese qui di fianco. Ti piace il cioccolato, vero? – disse sparendo poi dalla stanza.

– Uh, sì è il mio preferito… grazie…

Detto questo tirai fuori il croissant ancora caldo, lo rimisi nel sacchetto e andai a mangiarlo in cucina. In realtà me l’ero messa in testa io, quest’idea, di alzarmi presto e andare a comprare la colazione anche per lui. In fondo era stato un gesto dolce, come il croissant che stavo addentando.

– Non so se riuscirò a sopportare un’altra notte con te, – disse dalla camera da letto dove si era appena diretto – non fai altro che toglierti le coperte durante la notte, mi dai fastidio.

È vero, ora mi ricordavo.

– Ah già… grazie…

In verità mi accorsi che stavamo già usando la casa come se fosse nostra, invece ci era solo stata data abusivamente e segretamente in prestito.

La parte più dura era stata parlare ai parenti: gli avevamo detto che Lindsay usciva spesso di casa, ma non che ci aveva lasciati per dei giorni per andare a Washington. Almeno eravamo sicuri che se fosse successo qualcosa si sarebbe assunta Lindsay tutta la colpa, e lei aveva detto che lo avrebbe fatto senza problemi. Ciò mi faceva pensare che si fidasse molto di noi, ma quanto ci si può realmente fidare a lasciare in custodia una casa a due quindicenni?

– Dove andiamo oggi? Che dici, telefono per i biglietti? – gli chiesi.

Lui, solo Dio sa cosa stesse facendo in quel momento in giro per casa, rispose:

– Telefona, e vedi di prenderli in prima fila, se vuoi che ti veda.

Presi il telefono, e digitai il numero. La sera prima ero un po’ più euforica, ce l’avrei fatta, ma ora che mi era tornata la ragione capii che mi vergognavo a telefonare io.

Andai da Kyle e insistetti perché prenotasse lui i biglietti. Alla fine, come previsto, cedette, premette la cornetta verde del telefono, mettendoselo all’orecchio.

Dopo poco iniziò a parlare, sentendo solo quello che diceva lui, in preda al panico.

– Davvero? Ne è sicura? Okay, grazie comunque… arrivederci.

E riagganciò. Non c’erano belle notizie: i biglietti erano tutti esauriti, dal primo all’ultimo. Ora il mio morale era decisamente a terra, mentre Kyle sembrava ancora un po’ su di giri dal giorno prima.

– Dai, troveremo un altro modo – disse rassicurandomi, anche se non c’era niente da fare. Io volevo andare al concerto, non era giusto!

 

– Ma almeno sai dove stiamo andando? – mi ripeteva Kyle per la strada, mentre io cercavo di capire qualcosa nella cartina che tenevo in mano.

– Sì, qui dice che lo studio di registrazione di Jonathan è qui vicino, tra poco dobbiamo girare a destra.

In realtà non ci capivo molto, ma ci provavo. Era più difficile di quanto sembrasse, speravo solo che lui non si accorgesse più di tanto che ero in difficoltà.

Il destino volle che, troppo impegnata a guardare la cartina, andassi a sbattere la zucca dritta contro un palo.

– Ahia che botta! – mi lamentai mettendomi la mano sulla fronte, la sinistra che stringeva la cartina. Kyle venne subito davanti a me.

– Ti sei fatta male? – mi chiese, ridendo.

– Non c’è niente da ridere! Mi verrà un bernoccolo enorme!

Ma quanto mi faceva piacere il fatto che si preoccupasse per me, anche se in modo scherzoso?

Tolsi la mano dalla fronte, e fissai arrabbiata il palo dove avevo sbattuto la testa. Attaccato al metallo un po’ arrugginito, c’era un volantino appiccicato con tanto nastro adesivo, sembrava nuovo, messo appena poco tempo fa, in bianco e nero. Non me ne curai, ed evitai di leggere cosa c’era scritto, ma non potei fare a meno di notare la scritta in corsivo e grande “Contagious” e subito il mio sguardo si appiccicò spontaneamente al foglio:

Vendo due biglietti in prima fila del concerto dei Contagious, New York live, META’ PREZZO!!!”. Sotto erano indicati la data del concerto e il numero della persona da chiamare nel caso si volessero acquistare i biglietti.

– Oddio Kyle! Ma hai visto?!

Immediatamente staccai il volantino dal palo lasciandovi appiccicato qualche pezzo di nastro adesivo e dopo avergli chiesto la conferma chiamai subito il numero indicato sul pezzo di  carta, e passai subito il telefono a Kyle in modo che rispondesse lui, anche se non gli andava per niente, questo era più che evidente. Se fosse stato per lui adesso saremmo ancora a casa nostra.

Dopo qualche squillo, finalmente la persona dall’altra parte rispose. Sentii Kyle parlare, capendo, per la mia felicità, che eravamo i primi a chiamare, quindi i biglietti, miracolosamente, c’erano ancora. Che gioia.

Quando Kyle riagganciò, mi spiegò che dovevamo incontrarci in un bar lì vicino tra un’ora, e che ci avrebbe portato i biglietti vendendoceli a metà prezzo.

Quale occasione si presentava davanti a noi… e come non accoglierla?

– Presto allora, sbrighiamoci! – e presi Kyle per un braccio correndo verso la prima fermata dell’autobus. Per fortuna lui, avendo abitato lì, conosceva il posto, e ci saremmo arrivati in una ventina di minuti, e il prossimo autobus che ci avrebbe portati là sarebbe stato tra dieci minuti.

Non avevo mai fatto prima di allora un simile via vai, prima in treno, poi taxi, poi a casa e il giorno dopo a piedi per poi prendere l’autobus…

Arrivati al bar, uno abbastanza popolare probabilmente, ci mettemmo lì davanti all’entrata, Kyle mi disse che il ragazzo dei biglietti l’avremmo riconosciuto per la T-shirt verde e il cappellino rosso. Aspettammo, io nell’ansia, eccitata per la bella notizia dei biglietti, Kyle era più che tranquillo invece, e forse non vedeva l’ora di andarsene. Speravo solo che non sperasse che non esistessero effettivamente, questi biglietti, e che fosse tutto uno scherzo.

Più tardi vedemmo avvicinarsi all’entrata un ragazzo alto, con un cappellino rosso e la T-shirt verde, da lontano sembrava non avere più di vent’anni. Vidi Kyle partire di scatto andandogli incontro, vidi i due parlare da qualche metro di distanza senza sentire cosa si stessero dicendo, poi decisi di avvicinarmi anch’io per ascoltare. Sempre più vicina, stavo per appiccicarmi a Kyle quando studiai meglio il ragazzo: aveva un viso molto familiare. Il suo modo di vestire con i colori in contrasto, capelli castano chiaro, il suo fisico. Improvvisamente mi congelai. Sentii come se il sangue nelle vene non scorresse più. Non mi sbagliavo, era proprio lui, anche se era la cosa più inverosimile del mondo, una cosa che non ci si sognerebbe di vivere nemmeno nei film, dove le coincidenze sono la norma, era…

– Dylan…? – sussurrai, con un filo di voce che mi uscì a stento.

Il ragazzo mi guardò dritta nei miei occhi castani, cercando il più possibile di riconoscermi, con quello sguardo che mi era fin troppo noto. Era impossibile che fosse lui… su sei miliardi di persone, quante probabilità c’erano di incontrare proprio lui per comprare quei dannatissimi biglietti dei Contagious per il concerto in prima fila? Perché lì, a New York, insieme a Kyle? Perché adesso? Perché non, invece, un anno prima…?

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Capitolo 23
*** Capitolo ventitreesimo ***


Capitolo ventitreesimo

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questo capitolo è interamente flashback, avrete le spiegazioni che chiedevate nello scorso capitolo proprio qui ^^ chi è questo Dylan? Che vuole? E soprattutto, che ruolo svolgerà u.u? scopriamolo!

PS: grazie infinite delle recensioni, in particolare a pippof che l'ha votata per le storie scelte e anche per il conorso migliori personaggi originali, non me l'aspettavo proprio sinceramente ^^''''! Comunque, quando le ho viste sono saltata di gioia xD... spero di ricevere altre votazioni, così almeno potrò passare al prossimo turno!

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Tutto successe più di un anno prima, un anno e mezzo circa. Era dicembre, la neve cadeva candida imbiancando tutto, nel mio quartiere: dalle case, agli alberi spogli delle loro foglie, e anche le macchine che passavano sembravano tutte uguali con quella coperta di neve sopra…

Io mi stavo dirigendo a scuola a piedi nonostante la nevicata che stava facendo, anzi, mi piaceva vedere i fiocchi di neve che mi cadevano delicatamente sul giubbotto. Mi ricordai che avevo dimenticato di spegnere il cellulare, se mi fosse squillato mentre ero in classe infatti sarebbe stato un guaio. Infilai la mano in tasca, dove mettevo di solito il telefonino per averlo sempre a portata di mano, ma per mia sorpresa, non c’era. Eppure quella mattina ero sicurissima di averlo messo lì, com’era possibile? No, dovevo essermi sbagliata… controllai nell’altra tasca, poi passai alle tasche del giubbotto, mentre me ne stavo lì sotto la neve. Non c’era, non riuscivo a trovarlo.

Preoccupata, mi sfilai lo zaino dalle spalle e cominciai a controllare per sicurezza in tutte le tasche possibili, senza alcun risultato. Pensai, anche se ero sicura di no, dove avrei potuto lasciarlo se fosse ancora in casa. Ma no, non era possibile perché io quella mattina me l’ero infilato in tasca, ne ero più che certa!

Feci qualche passo indietro e controllai se nel mucchio di neve sul marciapiede potesse esserci, magari mi era caduto… dov’era finito, accidenti? Con la mano sulla fronte, preoccupata, mi concentrai al massimo. Dove potevo averlo messo? Dove potevo averlo perso…?

All’improvviso una voce maschile interruppe i miei pensieri, e mi sentii toccare piano la spalla.

– Scusa, cercavi questo?

Mi girai di scatto, presa alla sprovvista. Lui era lì, fermo, un giubbotto bianco di marca e la sciarpa nera, i capelli castano chiaro, che mi stava porgendo il cellulare, il mio cellulare nero.

Cadendo dalle nuvole, annuii velocemente riprendendomi il cellulare. Con voce esile, lo ringraziai, lui mi ricambiò con un sorriso, un sorriso largo con dei denti smaglianti che sembravano quasi rifatti, anche se non mi sembrava possibile.

Lui era Dylan Light, ragazzo dell’ultimo anno molto popolare, soprattutto tra le ragazze. Si sentiva spesso parlare di lui, delle sue performance nel basket, in cui era un vero campione nella zona, dei suoi voti alti che l’avrebbero portato lontano. Un ragazzo perfetto, dunque, il cui solo sorriso bastò per farmi prendere una cotta per lui.

I giorni successivi furono decisamente critici: lo cercavo per tutta la scuola solo per vederlo, non avendo il coraggio sufficiente per farmi avanti. Più i giorni passavano e più mi convincevo che il nostro era stato un incontro voluto dal destino, che mi avrebbe portato al mio vero amore, che ormai ero convinta che fosse lui.

Ogni tanto, passando, guardava tutte le ragazze con il suo solito sorriso, me e le mie amiche comprese. Per me quello era un modo semplicissimo quanto banale per illudermi, e devo dire che ci era riuscito benissimo. Lo vedevo provarci con tutte, con le mie amiche, le mie nemiche, quelle che non conoscevo. Ma ad un certo punto iniziai a non riconoscere più la differenza tra queste tipologie, Dylan mi piaceva sempre di più, sentivo che non potevo stare un giorno senza vederlo, iniziai a frequentare i locali e i posti dove andava spesso, iniziai a fare delle conoscenze in comune con lui, feci tutto il possibile. Alla fine lui, mi notò.

Era un giorno soleggiato stavolta, di maggio. Avevo passato tutti questi mesi a cercare di farmi notare, e quel giorno, tornando a casa da scuola, sentii la stessa voce di quella mattinata nevosa di dicembre fermarmi.

Non ricordo cosa mi disse, non ricordo quale fosse la sua faccia, perché mi ero letteralmente sciolta appena lo vidi. Ormai era inutile, mi ero innamorata sinceramente di lui. Non ricordo nulla di quella giornata, non una minima, anche piccola cosa. Ricordo solo che mi chiese di incontrarci.

Conoscendomi, credo di avergli risposto al massimo dell’eccitazione, ovviamente affermativamente, con il cuore che batteva a mille. Credo anche di essere diventata o pallida come un fantasma, o rossa come un peperone. In entrambi i casi non ci stavo facendo una bella figura.

Non ricordo il giorno dell’incontro, non ricordo il luogo. So solo che era sera, e avevo un vestitino fine ma non volgare, rosa e delicato sul mio colore della pelle, con cui stava perfettamente, anzi, sembrava che fosse stato cucito apposta per me. Pur avendo già i capelli lisci, avevo speso quasi un’ora per farmi la piastra, convinta che i miei capelli potessero venire ancora più belli di com’erano, avevo dato un trucco leggero, ma comunque visibile. La borsetta era bianca, la mia preferita perché potevo abbinarla con tutto. Ricordo vagamente una panchina, non era quella dove lui ed i suoi amici si sedevano sempre, di questo ne ero sicura. Mi ero messa lì, ad aspettare. Ero dieci minuti in anticipo, perciò era logico che ancora lui non ci fosse.

Tirai fuori dalla borsetta il cellulare, lo stesso che Dylan mi aveva ritrovato, probabilmente era finito in terra cadendo dalla tasca, e cominciai a messaggiare con le mie amiche di allora senza tenere conto di quanto tempo passasse. Una volta terminato, controllai l’orologio: erano già passati più di dieci minuti. Pazienza, pensai, a tutti capitava di fare un po’ di ritardo ogni tanto.

Dopo un altro quarto d’ora, ormai mi ero congelata su quella panchina, perché nonostante fosse quasi estate la sera faceva freddo, vidi finalmente una figura avvicinarsi. I lampioni illuminavano il luogo a giorno, quindi presto potei riconoscerlo. Sfortunatamente, non era lui, ma avendolo visto da lontano, e vedendo che aveva la sua stessa altezza, mi ero convinta che fosse lui, per un attimo.

Comunque non era una faccia nuova, quella di colui che avevo scambiato per Dylan. Passò davanti a me, a meno di due metri di distanza, e fu la prima volta che lo sguardo di Kyle Gray mi fece quasi paura. Mi fissò per un paio di secondi, non di più, con uno sguardo inquietante, siccome oltretutto era anche buio, non riuscii a leggere cosa volesse dire la sua espressione, e pensai le stesse cose che sapete già, che pensavo sempre prima, ovviamente, di conoscerlo meglio.

Incredibile: mi ricordavo di Kyle, mi ricordavo del mio abbigliamento e di quel che feci su quella panchina ad aspettare, ma non ricordavo nulla, per il resto. C’ero riuscita veramente bene, a cancellare tutto, di quella serata. O meglio, avevo cancellato gli altri particolari che non volevo ricordare.

Kyle se n’era andato, passandomi semplicemente davanti, lasciando dietro di lui una scia di stranezza, di paura. Di nuovo pensai che era un ragazzo strano.

Di questo breve flashback a proposito di Kyle c’è poco da sapere: che il fatto che fosse passato Gray di lì era stato per me come una specie di presagio, anche se non seppi interpretarlo, e, guardando l’orologio, era già passata una buona mezz’ora dal mio arrivo. Mi cominciai così a domandare come mai non mi aveva chiesto il numero di cellulare, in modo da riuscire a contattarlo, e pensai di aver capito male il luogo dell’appuntamento, anche se mi stavo solo illudendo che fosse così.

Dentro di me, nel profondo del mio cuore, capii che non aveva avuto nessun imprevisto, che di proposito non mi aveva chiesto il numero di cellulare, che non sarebbe mai arrivato, quella sera. Che, in poche parole, mi aveva dato buca come un perfetto st… stupido.

Piangendo dentro di me, mi alzai da quella panchina, con la sensibilità delle gambe ormai perduta a causa del freddo, entrambe le mani attaccate alla borsetta, il cuore spezzato. I miei capelli, lisci come non mai a causa di tutta quella piastra, fluttuavano nell’aria ai miei movimenti accarezzandomi le guance.

I miei genitori mi avevano portato lì in macchina, ma non avevo voglia di farmi venire a riprendere. Non m’importava dei mal intenzionati, camminavo per la strada sotto i lampioni che m’illuminavano immersa nella mia vergogna e nella mia umiliazione. Non mi veniva da piangere, non mi veniva nemmeno da fare il broncio. Ci ero rimasta talmente male che non assumevo alcuna espressione. Non ricordo quanto ci misi per arrivare a casa, probabilmente però mi facevano male i piedi a causa dei tacchi, anche se non troppo alti. Non ricordo cosa dissero i miei, al mio rientro. Non ricordo cosa successe quella notte, se rimasi sveglia o se mi addormentai tra le lacrime, oppure no. Ancora oggi quelle memorie non si rifanno vive nella mia mente, ed è così che voglio che rimanga.

Ricordo però tutto ciò che successe nei giorni successivi.

Entrata a scuola, non potei fare a meno di notare lui, che teneva per mano un’altra ragazza. Era una ragazza che conoscevo, vagamente, forse ci avevo anche parlato almeno una volta, ma non ricordo il suo viso, e nemmeno il suo nome. Anche lei, come me, sembrava sinceramente innamorata di Dylan, ma non riuscivo ad essere comunque felice per lei, anzi, provai in quel momento un astio nei suoi confronti mai provato prima con nessun altro.

Passavano i giorni, e i due erano sempre più uniti. Mi arresi all’idea che i due si erano innamorati l’uno dell’altra e che non si sarebbero mai lasciati. In quel periodo Jonathan veniva spesso a trovarmi, ed io mi sfogavo abitualmente con lui, che mi consolava. Le sue cure nei miei confronti mi fecero più che bene, tanto che all’inizio dell’estate riuscii finalmente a dimenticare Dylan e quasi tutto ciò che lo riguardava. L’anno dopo se ne sarebbe andato anche dalla scuola, sapevo che sarebbe andato a vivere in una città più grande, mi era ignoto quale fosse.

Fu così che, fino al giorno in cui la mia professoressa non decise di metterci in banco a coppie, ero sicura che non avrei mai più avuto a che fare con l’amore, in tutta la mia vita, ma mi dovetti ricredere, perché anche se ci si rialza dopo essere caduti, è naturale continuare a camminare.

***
Spazio autrice:
avete capito chi è, eh? Dylan, il personaggio di cui (se ricordate) si parlava nei primi capitoli, soprattutto nel secondo, anche se non c'era mai stata una vera e propria descrizione ed era una specie di "personaggio a sorpresa". Sinceramente, all'inizio pensavo anche di non farlo entrare in scena, ma questo racconto flashback ci permette di capire meglio cos'ha passato effettivamente Jenice e perché non voleva più innamorarsi... goodbye ^^
PS: mary withlock avevi ragione xD

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Capitolo 24
*** Capitolo ventiquattresimo ***


VORREI FARE IL PUNTO DELLA SITUAZIONE:

1) importante: ho pubblicato una one-shot, si chiama "It won't end like this" ed è INERENTE A LONELY, e potete posizionarla nella parte della storia che preferite. è dal POV di Jonathan (che lo sapete che è il mio personaggio preferito) e con lui percorriamo tutta la vita di Jenice fino alla famosa partenza di lui per New York. Vi aspetto numerose!!

2) volevo approfittare del momento per ringraziare di cuore tutte quelle che mi hanno votato, grazie siete fantastiche =)

3) ciao mamma, se stai leggendo (e so che lo stai facendo senza che io lo sappia), allora sappi che prima o poi mi vendicherò, non so quando e neanche come, ma mi vendicherò per non avermelo detto ^^ tanti saluti.

***

Capitolo ventiquattresimo

Purtroppo la sua faccia non l’avrei mai dimenticata, per quanto mi fossi sforzata, il ragazzo che mi aveva spezzato il cuore.

Era la prima volta che, stando vicino a Kyle, mi accorsi del calore del suo corpo. Era una cosa meravigliosa, sentire il suo calore, e non ci avevo mai fatto caso.

Dylan aveva notato che la mia faccia era familiare, ma forse non aveva sentito che avevo pronunciato il suo nome, perché un secondo dopo era di nuovo a guardare Kyle.

– Per fortuna che mi hanno chiamato subito! – disse allegramente. Non avrei mai immaginato che Dylan si fosse trasferito proprio a New York, di tutte le città grandi che esistevano negli Stati Uniti.

Kyle era serio, e senza nemmeno che ci accomodassimo ad un tavolino, tirò subito fuori il portafoglio, e così anch’io, mentre Dylan sfilò dalla tasca dei pantaloni due biglietti.

Me li diede in mano, e sì, sembravano davvero autentici.

– Dovevo andarci con la mia ragazza, accidenti… purtroppo mi ha lasciato.

Della sua ex ragazza però non ne parlava altrettanto allegramente. Doveva essere la stessa che aveva ancora al periodo della scuola, quando li vedevo sempre tenersi per mano. Finalmente mi sentivo ripagata, anche lui aveva imparato cosa significa avere il cuore spezzato. Forse. Peccato che, sapendo un minimo com’era fatto, ero sicura che la lezione non l’avrebbe mai imparata.

Passai i biglietti a Kyle, che li osservò attentamente. Io invece tirai fuori anch’io il portafoglio. Accanto a lui mi sentivo tremendamente al sicuro, come si sentirebbe un bambino accanto ai genitori, e infine chiese a Dylan quanto gli dovevamo.

Dylan mi guardò di nuovo negli occhi, cercando invano di riconoscermi. Sembrò pensarci un attimo, alla cifra, poi disse con tono tranquillo:

– Cento dollari in tutto.

Il portafoglio mi cadde di mano, non osai guardare la faccia di Kyle in quel momento. Stava forse scherzando? Come, cento dollari?! Avevo capito bene?

– Come… cento dollari? – gli chiesi un po’ titubante, con un filo di voce.

– Beh, sono comunque posti in prima fila, e il gruppo sta avendo abbastanza successo, sapete che il loro singolo è in vetta alle classifiche? I biglietti costavano cento dollari ciascuno, ma siccome ve li faccio pagare la metà… beh alla fine sono io a perderci cento dollari, tesoro!

Kyle, che stava controllando tranquillo nel portafoglio, alla parola “tesoro” tirò su lo sguardo di scatto congelando Dylan come solo lui sapeva fare.

– Attento a come parli – gli disse in modo molto tranquillo ma deciso allo stesso tempo.

Davvero incredibile… Kyle per una volta aveva commesso un errore, almeno a mio parere. Con la sua scenata di gelosia, per un attimo temetti che avremmo perso i biglietti così facilmente come li avevamo trovati.

Dylan invece scoppiò a ridere, e non se ne curò. Guardando il biglietto, vidi in effetti che il prezzo che aveva proposto era giusto, avremmo davvero pagato la metà. Tirai così fuori i soldi, ancora incredula per quello strano incontro.

Una volta effettuato il pagamento, Dylan, apparentemente soddisfatto, fece per andarsene, quando, ad un certo punto, si fermò dicendo, girandosi verso Kyle:

– Ah… trattamela bene, la mia Jenice.

Tutti e due ci rimanemmo talmente di stucco che non riuscimmo a spiccicare una parola di più, e Dylan era già scomparso in mezzo alla gente. Cominciai a pensare che il fato avesse voluto quell’incontro, che volesse che Dylan mi ripagasse per ciò che mi aveva fatto. Era un modo per farmi giustizia, un modo per farmi tornare il sorriso. Da quel giorno imparai a credere sempre che in qualche modo, prima o poi, il fato trova il modo per pareggiarti i conti.

Ero sicurissima che non fosse riuscito a riconoscermi, invece di me si ricordava. E non sembrò per niente dispiaciuto, da come parlò. Ma adesso almeno sapevo che per lui non provavo né rabbia, né amore, né rancore. Era una persona come tutte le altre, anzi, quasi tutte le altre. Mi aveva solo un po’ offesa il fatto che avesse detto che io ero sua, perché lui non mi aveva mai voluta in realtà. Adesso nella mia testa provavo dispiacere nel fatto che quella ragazza l’avesse lasciato. Era la prima volta, a quanto sapevo dai pettegolezzi nel mio liceo, che capitava. Le altre ragazze al mio ritorno non ci avrebbero mai creduto, infatti decisi di non nominare neanche lui e di non dire niente di ciò che era accaduto. Questo lo sapevamo solo noi tre, da adesso in avanti.

– Come fa a sapere il tuo nome? – mi chiese Kyle, ancora lì fermo in piedi a fissare tra la gente.

Immaginavo che sarebbe arrivato il momento di raccontargli tutto, anche se non pensavo che sarebbe successo in quel modo, proprio per niente.

Non mi sarei mai aspettata una coincidenza simile, era una cosa che non avrei mai e poi mai immaginato. Ma come lo dicevo adesso a Kyle? Ci avrebbe creduto?

– Beh… lui è quel ragazzo che ti dicevo…

Kyle parve capire al volo.

– Quello di cui ti eri innamorata?!

Sorpresa dal suo tono di voce insolito lo guardai con aria perplessa.

– Già… proprio lui! Ti capisco benissimo se non mi credi!

Lui era ancor più sorpreso, e sembrò anche leggermente preoccupato:

– Ma… lui non ti piace più, vero?

Mi scappava da ridere adesso, ma riuscii a trattenermi. Incredibile quanto potesse essere preoccupato di lui.

– Kyle, non lo vedo dall’inizio di quest’estate… è quasi un anno, se ci pensi! Sì è vero mi ero innamorata di lui, e mi ha anche dato buca ad un appuntamento… però è acqua passata, non fare il geloso!

Kyle fissò un altro punto, sentendosi come colto con le mani nel sacco:

– E chi è geloso scusa…?

Appena un paio di secondi dopo, sembrò realizzare l’intero concetto della mia frase, come se avesse capito in quel momento cosa volesse dire dare buca ad un appuntamento, quindi si girò fissandomi dritto negli occhi:

– Che cos’è che ti ha fatto?!

Domanda retorica, sperava di aver capito male.

Eppure, anche se forse non si ricordava, per un attimo c’era stato anche lui, quella sera, passando davanti a me, probabilmente dimenticandosi il mio sguardo speranzoso di quel momento.

– Uh, intendi “mi ha dato buca ad un appuntamento”?

Lui annuì, stupito.

– Sì… mi aveva chiesto un appuntamento, poi l’ho aspettato per quasi un’ora, ma lui non mi aveva neanche chiesto il numero, quindi me ne sono andata.

Non entrai troppo nel dettaglio, già quel che avevo detto bastò a tirarmi giù di morale, e abbassai così lo sguardo per terra, prendendo in mano il mio biglietto e fremendo dalla voglia di rivedere Jonathan. Per un attimo mi chiesi se ciò che avevo fatto fino ad ora, intendo venire a New York per inseguire un cantante ormai famoso, non fosse stato solo un grande errore. E se davvero fosse stato così, allora stavo trascinando Kyle insieme a me, e a lui andava bene, a quanto sembrava.

Lui strinse così i pugni, senza guardarmi però direttamente in faccia.

– Se solo me l’avessi detto prima io…

Se gliel’avessi detto prima cosa? Che avrebbe fatto, l’avrebbe picchiato? Punto primo, non era assolutamente da lui, anzi, considerando il fisico palestrato di Dylan sarebbe stato lui a prenderle; punto secondo, perché “vendicarmi” per perdere così i biglietti del concerto? C’erano momenti in cui Kyle proprio non sembrava ragionare, probabilmente avevo trovato in lui il punto debole che ogni persona ha, e se ad una persona si tocca il punto debole, questa non ragiona più, e reagisce d’impulso. Kyle era uno, infatti, che ragionava bene prima di fare le cose. E poi, come appena scritto, lui non era per niente il tipo che arrivava e ti dava un pugno dritto in faccia, non riuscivo nemmeno ad immaginarmelo, ad essere onesta.

– Sei proprio incorreggibile…

Mi guardò perplesso, quasi non sapesse a cosa mi riferivo.

– Che avresti voluto fare scusa? – gli chiesi, con una di quelle domande di cui già sai la risposta.

Lui mi mise il braccio sinistro intorno al collo, e provai la strana sensazione di avere un corpo molto minuto rispetto al suo, e in effetti un po’ era vero. Non rispose alla mia domanda, perché anche lui sapeva che non sarebbe riuscito a fare niente. Cercai così di cambiare un po’ discorso:

– Secondo te perché ce li ha rivenduti alla metà? Insomma, a quanto ho capito i Contagious sono già molto popolari e qualcuno li avrebbe potuti comprare anche a prezzo intero…

Kyle mi guardò, avendo intuito che volevo cambiare argomento. Mi assecondò con facilità:

– Non voleva correre rischi… oppure è il classico “bello e pieno di soldi”, ma chi si crede di essere?

Le stava cercando tutte per sminuirlo, e lo capivo, e mi faceva sentire importante perché mi voleva tutta per lui…

Eravamo lì, fermi, e pensai che in fondo lui aveva solo me, mentre io avevo un disperato bisogno di lui nella mia vita.

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Capitolo 25
*** Capitolo venticinquesimo ***


scusate ma non ho tanto tempo per aggiornare di questi tempi... comunque volevo un attimo discutere degli ultimi tre capitoli: vorrei che si capisse che la comparsa di Dylan è dovuta solo alla mia volontà di inserire una specie di "morale" in mezzo alla storia, se ti si fa un torto (Jenice a cui Dylan ha dato buca), allora questo ti viene vendicato a carico della persona di cui è la colpa (Dylan che si lascia con la sua ragazza e vende i biglietti a Jenice alla metà, anche se poi in realtà questa cosa non accade quasi mai xD) Buona lettura a tuttiiiiiiii!<3

Capitolo venticinquesimo

Ero avvolta dall’oscurità, immersa dalle coperte. Cercavo il più possibile di non scoprirmi, per non scomodare sempre Kyle, che ormai con me non ce la faceva più... Tenevo stretto nella mano il morbido piumone bianco panna, come se non lo volessi far scappare.

Non riuscivo più ad addormentarmi, la sveglia digitale segnava le tre di notte e venticinque minuti. Non sapendo che fare, mi girai sul fianco sinistro, con lo sguardo rivolto verso la porta, e dando le spalle a lui.

I minuti passavano e non riuscivo più ad addormentarmi, pensai che la mattina seguente sarei stata io ad alzarmi presto e andare a comprare la colazione. Già, perché non ero proprio in grado di cucinarla, io in cucina ero veramente una frana, di quelle che danno fuoco alla casa mentre preparano un toast. Era inutile chiudere gli occhi, non serviva a niente. All’improvviso, avvertii un fruscio di coperte dietro di me, era lui che si muoveva. Avevo l’impressione che si stesse muovendo nel sonno. Pochi secondi dopo, il suo braccio destro avvolse il mio corpo, e mi sentii addosso il piacevolissimo calore della sua pelle. Riuscivo ad avvertire persino il suo lieve respiro, ancora stava dormendo. Con la destra gli presi la mano calda, delicatamente, in modo da non disturbare i suoi sogni. La tenni vicina a me, sperando che non si togliesse da quella posizione per tutta la notte, a costo di rimanere sveglia.

Girai leggermente la testa, per vederlo: anche lui era girato sul fianco destro, il suo viso a pochi centimetri dal mio. Si direbbe quasi che inconsciamente mi avesse voluto stringere a lui.

Percepire il suo contatto, il suo calore. Era una cosa che non avevo mai provato con nessun ragazzo prima di allora, e con nessuno così intensamente, e so che non era molto, ma sentire che era lì già mi bastava.

Passò mezz’ora, erano le quattro ormai. Eravamo sempre fermi nella stessa posizione, quando sentii alle mie spalle di nuovo un fruscio di coperte, stavolta più brusco, il che mi diede l’idea che si fosse svegliato all’improvviso. Io non mi mossi, rimasi ferma, stringendo la sua mano.

– Jenice… – sussurrò, in modo appena percepibile – … sei sveglia?

Non so cosa mi passò per la testa in quel momento, non so davvero a che cosa stavo pensando, ma non risposi, fingendo di dormire. Con gli occhi socchiusi, vidi appena la sveglia digitale segnare le quattro e due minuti.

– Stai davvero dormendo? – continuò, sempre con un filo di voce.

Io continuai a non rispondergli, chiedendomi cosa volesse dirmi.

Sentivo ancora le coperte muoversi leggermente, il suo braccio che si spostava, ed inevitabilmente lasciai la presa della sua mano.

Successe tutto molto lentamente: la sua guancia sinistra, morbida come quella di un neonato, cominciò ad accarezzare delicatamente la mia guancia destra, ormai era arrivato vicino alla bocca, quando le sue labbra entrarono a contatto con la mia pelle, e lì mi stampò delicatamente un bacio, talmente veloce che per un attimo non fui nemmeno sicura che fosse tale. Il mio cuore cominciò a tamburellare forte, sperai che lui non se ne accorgesse. Quanto avrei voluto buttarmi addosso a lui, in quel momento. Ma volevo ancora lasciarlo fare, e poi avevo paura di rovinare tutto facendo così.

Continuò, mi strinse tra le sue braccia attento a non “svegliarmi”, accarezzandomi piano il viso. Io non sapevo cosa fare, mi sentivo terribilmente emozionata, non feci nulla. Rimasi ferma, lui che mi teneva stretta, come se volesse proteggermi. Una sensazione che non avrei dato per nessun’altra al mondo.

E, lentamente, i miei occhi si chiusero del tutto, stringendomi nelle coperte, facendo attenzione ad ogni mio singolo movimento, per non rovinare l’atmosfera che si era venuta a creare, e mi addormentai tra le sue braccia.

 

Un’altra notte era passata, un’altra volta, guardando la sveglia, vidi che erano le undici passate… e Kyle si era già alzato.

“Oh no, accidenti, volevo alzarmi prima io!”.

Di nuovo arrivò tra le mie braccia un croissant al cioccolato, e mi chiesi se aveva intenzione di pagarmelo tutte le mattine. Sì, sembravamo veramente due coniugi. Solo che la parte della casalinga sembrava la facesse lui.

– Non è giusto, stamattina volevo alzarmi prima io!

Chissà cosa stesse facendo poi, perché la casa di certo non la stava pulendo, e a dir la verità nemmeno io perché nelle faccende di casa sono sempre stata negata.

Non badò alle mie parole, in effetti nemmeno io al suo posto ci avrei badato. Non sapendo che altro fare lì nel letto, mi alzai per fare colazione con il mio croissant al cioccolato. Basta, decisi che il giorno dopo avrei assolutamente trovato un modo per alzarmi presto.

Intanto che mi scendeva la crema al cioccolato giù per la bocca, talmente era farcito il croissant, pensai che in effetti era un bel po’ che non mi esercitavo a cantare.

“Beh, quando rincontrerò Jonathan non voglio che mi veda fuori forma!” pensai. Quindi quel giorno mi sarei esercitata a cantare, in qualche modo, e senza disturbare i vicini o, peggio, Kyle.

Subito dopo colazione mi chiusi in bagno togliendomi la camicia da notte e infilandomi un paio di jeans non troppo nuovi e una maglietta colorata

Uscii dal bagno che mi stavo ancora sistemando i capelli ribelli, rimpiansi di non aver portato la piastra, nonostante avessi già, come ho già spiegato, i capelli lisci.

Mentre Kyle si era precipitato in bagno non appena ne uscii, andai dalla mia valigia e la misi sottosopra solo per trovare i miei amati spartiti musicali.

Erano un bel po’, circa una cinquantina tra tutti quelli che Jonathan mi aveva dato tra una lezione e l’altra, molti erano dei miei cantanti preferiti, altri erano brani che aveva scritto proprio lui insieme al resto della sua band. Mi sarebbe piaciuto conoscerli, i membri della sua band.

Sfogliando, riconobbi spartiti vecchi e nuovi, non avevano un ordine cronologico. Anzi, a dir la verità non avevano neanche un ordine, erano sparsi come capitava, anche al contrario. Non ero mai stata una tipa ordinata.

Ero arrivata quasi alla fine, quando notai un foglio piuttosto malmesso, stropicciato, scritto a mano, per giunta. Sì, era uno spartito anche quello, ma non aveva titolo, non aveva nemmeno le parole indicate sotto le note. Per un attimo pensai non fosse una canzone, ma un semplice brano musicale, ma non era possibile, perché io tenevo solo canzoni nel mio repertorio, non sapendo suonare praticamente nulla, a parte un po’ la chitarra e qualche nota con il flauto insegnatami a scuola.

Cominciai ad interpretare le note scritte sul vecchio foglio con la mia voce un po’ fuori esercizio, ma bella come sempre. Era su una scala abbastanza facile, non ebbi difficoltà. Le prime tre battute scorsero velocemente, e mi accorsi immediatamente che quel brano lo conoscevo già. Era molto familiare… all’improvviso, alla quarta battuta terminata, mi resi conto di star cantando sulle note di Honey, e non mi sbagliavo. Certo, come spartito doveva essere alquanto vecchio, perché non tutte le note erano esattamente come nella versione originale. Ciò mi faceva pensare che quella fosse solo la prima stesura della canzone. Pensai che avrei potuto venderla su internet a prezzi sconsiderati.

Come aveva fatto quello spartito a finire lì in mezzo? Probabilmente era uno dei tanti che Jonathan mi aveva dato, un po’ senza farci caso, ma che poi non avevo mai cantato. Sarà stato uno di quelli che non teneva troppo in considerazione. La prima versione, quella che tenevo tra le mani, era decisamente più semplice di quella che si poteva ascoltare alla radio. Era uno spartito prezioso, e mi sentivo quasi non degna di tenerlo tra gli altri brani del mio repertorio.

Continuai a cantarci sopra, scoprendo sempre di più la semplicità che quel brano aveva alla sua prima stesura. Ovvio, nessuna canzone esce perfetta al primo tentativo, ma quella le assomigliava incredibilmente, ed ero sicura che fosse proprio lei, proprio la canzone dedicata e scritta appositamente per me.

Tenevo il foglio davanti agli occhi, e cominciai a scandire anche le parole, insieme alle note. Di nuovo ricordai tutti i momenti passati insieme al mio migliore amico, grazie a quei versi stupendi.

Finito il brano, abbassai lentamente il foglio, guardandomi davanti. Effettivamente Kyle mi stava guardando con aria leggermente perplessa.

– Non sapevo che cantassi così bene.

Lo disse con un tono talmente sorpreso che quasi non sembrava vero.

– Lo dici come se non te lo fossi aspettato, in fondo sapevi che facevo lezione di canto, no? O forse credevi che non avessi una bella voce?

– Sì, ma non mi aspettavo che avessi un talento del genere…

Trovai subito da ridire.

– Io? Talento? No, i veri talenti non fanno lezione di canto, i talenti al 100% nascono con il canto nel sangue, non lo sapevi?

Non aveva nulla da obiettare. Io non ero un talento, e l’avevo sempre saputo. Ma il canto era la mia passione, lo praticavo da anni e se non ero un talento allora avrei cercato di diventarlo, anche se forse non era possibile.

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Capitolo 26
*** Capitolo ventiseiesimo ***


COMUNICAZIONI IMPORTANTI:::::::

1) allora, ho pubblicato una nuova storia, Bleeding Kisses (baci sanguinanti) SUI VAMPIRIIII! Precisando però che ho cercato di non prendere per niente spunto dalla Meyer u.u la protagonista di questa storia è mooooooolto diversa dalla famosa Bella, ecco la trama:

Sydney (lo so, lo so, nome schifoso o.o' ) è una ragazza apparentemente fredda e poco socievole, ma pochi sanno che in realtà è così furba che riesce a stare con 3 RAGAZZI CONTEMPORANEAMENTE! Le cose cominciano a cambiare quando Syd viene messa di fronte ad una scelta: chi dei 3 sarà il suo principe azzurro definitivo? Così, inizia il susseguirsi di eventi strani, Syd viene morsa da QUALCOSA o QUALCUNO durante la notte, e uno dei suoi 3 ragazzi rischia di MORIRE DISSANGUATO... Sydney Barker, con l'aiuto di Amanda White, ragazza con la quale pensava di non dover mai parlare e preparatissima in fatto di vampiri, cercherà di mettere fine alle aggressioni ma.. qualcosa non va come dovrebbe.

2) Ho deciso che, alla fine di Lonely, metterò una specie di epilogo con tanto di SORPRESA SPECIALE! Continuate a seguirmi =) buona lettura.

Capitolo ventiseiesimo:

Il documento che avevo in mano mi lasciava credere che quella canzone fosse stata progettata e lavorata un sacco di tempo. Il fatto che Kyle non mi avesse mai sentita cantare prima inoltre mi sorprendeva alquanto.

– Un inutile pezzo di carta… – aveva detto avvicinandosi riguardo al foglio, non appena riconobbe la canzone che stavo cantando. Ovviamente non sopportava tutto ciò che riguardasse Jonathan e quella canzone. Per lui l’esordio dei Contagious era stata sia una salvezza che una disgrazia, perché Jonathan si era allontanato dalla mia vita, e perché mi aveva scritto una canzone che era più famosa di loro.

Feci un paio di passi verso di lui, finché non gli fui praticamente davanti. Notai una cosa che non avevo mai notato prima, una profonda cicatrice che partiva da sotto la mandibola, gli scorreva giù per la parte destra del collo, era quasi tutta nascosta dai capelli, ma quella parte che riuscii a vedere mi indicava che doveva essere una vecchia ferita che scorreva anche giù per un tratto della schiena, doveva essere stato un profondo taglio procurato da un oggetto piuttosto appuntito. Mi venne la matta curiosità di sapere come se la fosse procurata, e mi chiesi perché non l’avevo mai notata prima.

Lui si accorse che la stavo fissando, e appoggiò la mano destra sopra di essa, girandosi poi di scatto. Io strinsi tra le mani lo spartito, abbassando per un attimo lo sguardo.

– Un vetro. Nulla di che… – disse semplicemente, andandosene – e butta quella cartaccia. –  concluse sempre riferendosi allo spartito.

Poteva sembrare esagerato a chiedermi una cosa simile, ma lo comprendevo perché, in fondo, era un po’ come se quella canzone fosse la sua dannazione, il suo più grande nemico. Anche se le sue erano tutte preoccupazioni inutili.

– Vorrà dire che questo lo dovrò tenere lontano da occhi indiscreti…

E misi lo spartito ben piegato dentro la tasca della biancheria della mia valigia.

– E lontano dalle tue manacce… – terminai, sussurrando, in modo che così lui non sentisse.

 

Tutto il giorno non avevamo nulla da fare. Il concerto sarebbe stato tra due giorni, e intanto che avremmo fatto?

Lui non aveva molta voglia di uscire, perciò in caso di bisogno ero io ad andare a far compere, anche se non andavo molto lontano perché per me andare in giro da sola in quella grande città era un rischio. Mi rendevo il più disponibile possibile, dato che lui andava la mattina a prendermi la colazione alla pasticceria francese lì vicino.

Quando la mamma chiamava, sempre le stesse cose: mi chiedeva come andava, io le dicevo tutto bene, poi le chiedevo come stava il piccolo Black, che non potevo vedere crescere in quel momento, e lei mi chiedeva di Lindsay. Io a quel punto non sapevo che inventarmi e le dicevo che era uscita, e che la facevo richiamare dal suo telefono mentre era fuori. A quel punto riagganciavo, chiamavo Lindsay e le dicevo di richiamare la mamma, ma prima le raccontavo tutto ciò che avrebbe dovuto sapere e tutto ciò che lei le avrebbe chiesto, così la nostra organizzazione era impeccabile.

Anche gli zii di Kyle lo chiamavano spesso, e mi sentivo felice del fatto che avesse avuto degli zii che si prendevano cura di lui come se fossero i suoi genitori.

La sera arrivò in fretta, io ero uscita per comprare la cena: pizza. Quella di New York era più buona di quella della mia città. Aveva più sapore, ma immaginai che sicuramente non avrebbe potuto competere con quella italiana.

Tornando verso casa, passai davanti ad un negozio che noleggiava film. Con la mia unica borsa della spesa in mano, entrai e vidi cosa c’era: tutti i film romantici andavano a ruba, mentre i film dell’orrore erano molto “temuti”, perciò la gente evitava di prenderli. Tranne me, io mi avventai su quello che mi sembrava più spaventoso e lo presi.

Uscendo dal negozio osservai meglio la copertina del film, e immaginai la scena: io e Kyle sul letto matrimoniale, uno appiccicato all’altra, la TV davanti a noi. Ad ogni scena paurosa uno strillo, il mio. Io che stringo il suo braccio in preda al panico, lui che ride dicendo che sono patetica ma in fondo neanche a lui dispiace quella situazione. E così restiamo appiccicati tutta la notte perché io ho paura del mostro del film in questione. Perfetto, ma che mente maliziosa che ero.

 

Come avevo previsto, la scenetta che mi ero immaginata si ripeté, precisa. Ad un certo punto, Kyle mise il suo braccio intorno alla mia spalla, lasciando che io mi stringessi al suo corpo da giovane uomo. Inutile dire come mi sentissi: tremendamente bene.

Piuttosto, mi preoccupai per la cicatrice che gli avevo visto quel giorno. Da come aveva troncato la conversazione, intuii che non ne volesse parlare. Ma ormai avrebbe dovuto sapere che mi avrebbe messo ancora più curiosità. Ero dal lato sinistro del letto, non riuscivo a vedere la parte del suo collo dove si nascondeva la cicatrice. Di nuovo, lui se la toccò, e io non potei fare a meno di controllarlo. Lui si accorse della mia reazione, e sospirò.

– Come te la sei fatta? – gli chiesi, ormai fuori di me dalla curiosità ma anche in pensiero.

– Nulla, è solo un graffio. – troncò così nuovamente la conversazione.

No, non era un graffio, e lo vedevo troppo bene. Mi dispiaceva che io dovessi sempre raccontargli tutto, mentre lui non riusciva mai ad aprirsi con me, mi sembrava di essere sempre al punto di partenza.

Arresa, tornai a guardare il film, appoggiando la testa a lui.

Sentii che lui di nuovo sospirava, quando ricominciò a parlare:

– Me la sono fatta in quell’incidente. – e guardò in basso, alle coperte – Nulla di che… non ci faccio quasi più caso.

– No, non è nulla di che, Kyle! – gli dissi – Kyle… davvero, lo sai che con me puoi parlare di quello che vuoi…

Non volevo forzarlo, non me la sentivo. Tuttavia era ora che anche io cominciassi a fare qualche sforzo per farlo aprire un po’.

Mi fissò negli occhi, il cuore mi sobbalzò nel vedere quanto fosse dolce il suo sguardo.

– Te l’ho detto. In quell’incidente, un vetro mi ha tagliato, il dolore era insopportabile. L’ho sentito per giorni, anche in ospedale. Ovviamente non è stato quello il male più grande.

Lo strinsi forte a me, sapendo cosa intendesse. Aveva ragione, la sua cicatrice più grande non era quella.

Lui cominciò ad accarezzarmi, non badavamo quasi più al film. Mi chiesi se lui per me provasse ciò che provavo io. Perché mi resi conto che mi stavo incominciando ad innamorare di lui, se non lo ero già.

Il film terminò, la trama era stata spaventosa. Come certi film molto inquietanti, questo si era concluso nel peggiore dei modi: con la morte di quasi tutti i personaggi. Adesso avevo paura di ritrovarmi uno zombie in camera. Per fortuna che c’era lui lì con me. Chiusi piano gli occhi, ero ancora appoggiata a lui.

Il mio respiro si faceva sempre più lento, lui adesso stava fermo. Stava semplicemente lì, godendosi il momento.

Improvvisamente la luce si spense, e ricordando le scene peggiori del film appena visto, cominciai a spaventarmi.

– Kyle… come mai si è spenta la luce?? – gli chiesi, leggermente agitata.

Nessuna risposta.

Cominciai ad avvertire scricchiolii e rumori strani ovunque. Ombre inquietanti si nascondevano tra l’arredamento, Kyle se ne stava lì zitto.

– Aaaargh! – sentii improvvisamente un ringhio spaventoso.

– AAAAAAAAAAAAAAAH! – gridai con tutto il fiato che avevo, staccandomi dalla sua presa e infilandomi sotto le coperte.

La luce si accese immediatamente seguita dalle sue risate a crepapelle.

Io ero ancora sotto le coperte, ma mi ero ovviamente resa conto del suo scherzo cretino.

– Kyle! Sei cattivo!!! – esclamai, con tutto il corpo nascosto sotto al morbido piumone bianco panna.

Lui continuava a ridere, poi si sforzò di dire una semplice frase:

– Dì la verità, dove hai nascosto quella cartaccia?

Si riferiva allo spartito di Honey. Era inutile, era troppo prezioso per finire nelle sue mani, chissà cosa gli avrebbe fatto!

– Inutile. Tutto inutile. Non lo avrai mai! – gli dissi in modo scherzoso, uscendo pian piano dalle coperte.

– Adesso grazie al tuo bello scherzetto dovrò starti appiccicata tutta la notte dalla paura che ho adesso!

Lui non sembrò avere nulla in contrario, e di nuovo spense la luce.

– Fai con comodo.

Non mi aspettavo che fosse così facile. Certo, dormire abbracciata a lui era tutta un’altra cosa che stare semplicemente nello stesso letto. E così pensai, anche se ero un po’ ripetitiva, che mi piaceva tremendamente.

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Capitolo 27
*** Capitolo ventisettesimo ***


scusate l'imperdonabile ritardo ^^', però ho passato un periodo che voi nemmeno potete immaginare... e sono in mezzo ad un sacco di casini!!!!!! Però sono anche felice felice felice felice felice felice <3 ho deciso che ci sarà un SUUUUUUUUUUUUPER finale a sorpresa, che vi lascierà a bocca aperta!!! O___________O bye

Capitolo ventisettesimo

Dovevo svegliarmi, dovevo assolutamente svegliarmi…

Aprii gli occhi di scatto, sperando di essermi svegliata in tempo. Mi ero dimenticata che quella mattina avrei dovuto pensare io alla colazione. Non riuscivo a girarmi, non ne avevo la forza psicologica.

Pian piano, mi voltai e vidi che lui era ancora lì che dormiva come un bambino.

“Evviva!!!” pensai. Era abbracciato a me, d’altronde lo era stato tutta la notte. Quel film dell’orrore mi aveva fatta dormire poco, per questo l’avevo pregato di non lasciarmi per tutta la notte come una bimba che teme i fantasmi.

Guardai la sveglia, erano appena le sette e mezza. Adesso era anche troppo presto. Pensai comunque che non volevo rimanere lì e rischiare di addormentarmi di nuovo, mi alzai lentamente togliendomi dalla sua presa e senza fare alcun rumore chiusi le tende per non far penetrare la luce del sole in modo che fosse più difficile che si svegliasse, mi infilai nel bagno e cominciai a lavarmi e a vestirmi, semplicemente un paio di jeans e una felpa rosa non troppo pesante, con sotto una maglietta di cotone.

Siccome era ancora troppo presto perché la pasticceria fosse aperta, tentai di fare qualche faccenda di casa, nonostante non avessi alcuna esperienza.

Alle otto e un quarto mi infilai la felpa e uscii di casa, augurandomi che non succedesse niente.

Un secondo, ma dov’era la pasticceria?

Disorientata, cercai di guardarmi intorno, invano. Nessuna pasticceria francese nei paraggi. La fortuna però mi assisteva e, seguendo una scia di persone che tornava da una stessa direzione con qualche pasticcino in mano, arrivai lì velocemente.

Dall’interno della pasticceria proveniva una fragranza inconfondibile: quella dei dolci. Paste, pastine e quant’altro, e una volta uscita da lì promisi a me stessa che non ci sarei entrata mai più, o rischiavo di mangiare tutto ciò che c’era dentro.

Due bei “croissant au chocolat”, come li chiamano i francesi, fumanti, appena usciti dal forno, da leccarsi i baffi. Io il mio lo mangiai per strada, non avevo tempo di fare colazione in casa, volevo finire di “fare le pulizie” e volevo anche esercitarmi a cantare quel giorno, in più dovevo restituire il film noleggiato la sera prima. Prima o poi a forza di fare colazione con i croissant sarei ingrassata parecchio!

Rientrai zitta zitta in casa, ed entrai in camera da letto. Non avevo intenzione di fare rumore, ma appena entrata sbattei il ginocchio contro la gamba del letto, facendomi un male terribile. Avevo voglia di urlare, gridare, strillare, ma in qualche modo riuscii a trattenermi accovacciandomi a terra. Purtroppo il botto fu talmente forte che lui si svegliò, e mi vide agonizzante in terra con un sacchetto di carta in mano.

– Ehm… Jenice? Tutto bene?

Ecco, lo sapevo, ci ero riuscita a rovinare il mio piano!

– A te sembra che vada tutto bene? – borbottai, in preda al dolore che si stava lentamente affievolendo.

Lui scoppiò a ridere. Io gli passai la busta contenente il croissant.

– Ma a che ora ti sei alzata, tanto per sapere?

Mi tirai a fatica in piedi, la mano ancora sul ginocchio dolorante.

– Alle sette e mezza. AHAH! Vittoria! Alla fine ce l’ho fatta, a batterti!

Lui mi guardò perplesso, ridendo nuovamente.

– Bastava che ti alzassi alle dieci, non importava tirarsi in piedi appena si levava il sole!

La spiritosaggine gli riusciva sempre.

– Ehi… – dissi, pensando ad alta voce – Ma domani c’è il concerto!

E mi tolsi la mano dal ginocchio che ormai non doleva più, ma ci sarebbe venuto un bel livido.

Lui a quelle parole si infilò di nuovo sotto le coperte, non avendo per niente voglia di vedere “quelli lì”, come lui li chiamava, figuriamoci ascoltarli in prima fila per tutta la sera. Mi sentivo un po’ cattiva a costringerlo, ma era lui che mi stava accontentando!

– Forse non dovrei costringerti a venire con me al concerto. – dissi semplicemente, guardandolo mentre faceva come un bambino che non vuole alzarsi dal letto per andare a scuola.

– E te ne rendi conto adesso che abbiamo già comprato i biglietti?

– Ma allora è vero che non vuoi venirci per niente!

Lui sospirò, come se stesse mostrando tutta la sua pazienza solo con me.

– Stavo scherzando… lo sai che mi va di accompagnarti.

Andai fino alla soglia della porta.

– Sei sicuro? – gli chiesi con un tono di voce più basso.

– Uffa… ti ho detto di sì!

Guardai l’orologio.

– Ehi! Quanto ancora pensi di stare in quel letto? È tardissimo, sono LE NOVE PASSATE!

Lui si addentrò ancor di più nelle coperte.

– Ma và… – mi rispose in modo scherzoso.

 

La giornata proseguì, e bene o male riuscii a fare tutto. Ancora mi esercitavo a cantare, sul famoso spartito su cui Kyle voleva mettere le mani. Per non farlo innervosire, decisi di metterlo via dopo i primi dieci minuti.

Il telefono suonò.

Andai a tirarlo fuori, e vidi sul display il nome “Sha”, soprannome che avevo dato a  Sharon.

– Pronto?

– Jenice! Ma mi hanno detto che sei a New York! Ecco perché non ti sentivo più, ma mi spieghi come mai ci sei andata?

La sua voce era alquanto allegra, come sempre.

– Beh… dovevo fare… delle cose. Delle cose importanti.

Che altro potevo inventarmi? L’avevo detto che era meglio tenere all’oscuro dei biglietti, del concerto, di Dylan e di tutto il resto.

– E con chi ci sei andata scusa? Perché non mi hai detto niente, pensavo che fossimo migliori amiche… Oddio! Non è che hai cambiato migliore amica e sei andata a New York con lei tenendomi all’oscuro di tutto?

Ma com’era simpatica… e perspicace, quella era la sua dote migliore. Ovviamente sono sarcastica.

– Ma no… con chi sono hai detto? – e istintivamente guardai verso Kyle, che mi faceva chiaramente segno di no, no e no, di non dire che ero insieme a lui in quel viaggio.

– Ehm… è ovvio che sono da sola, – continuai – sono venuta da sola ma sto con mia cugina Lindsay, in casa sua… ha una bella casa, sai?

Sembrò essersela bevuta. In fondo, un minimo di verità c’era, ero davvero a casa di mia cugina.

La conversazione sembrava non volgere mai al termine: mi chiese cosa avevo visto, se avevo avvistato qualche super star, se c’erano ragazzi carini (a cui per la verità in quei giorni non avevo nemmeno fatto caso, essendo troppo impegnata a stare appiccicata a Kyle), e tutte cose che mi avrebbe chiesto qualsiasi persona curiosa di sapere come fosse la Grande Mela.

Finalmente, dopo almeno un quarto d’ora di conversazione, si decise a terminare la chiamata e a lasciarmi in pace.

Kyle era ancora lì, mi guardava.

– Come mai non vuoi che si sappia che siamo insieme qui?

Era una domanda ovvia, di cui anche io sapevo già la risposta, ma gliela feci comunque, non so perché.

– Perché io ci tengo alla mia privacy. Come ti sentiresti se all’improvviso tutti iniziassero a parlare dei fatti tuoi?

Parlava come se fossimo stati insieme. In effetti però, un po’ era come se lo fossimo, anche se non ufficialmente. L’avevo detto che lì dentro sembravamo una coppia di coniugi.

– Già… credo di condividere il tuo punto di vista. Ma prima o poi dovrà uscire allo scoperto, questa cosa.

Lui si girò, intento ad andarsene in un’altra stanza.

– Quando arriverà il momento saprò come comportarmi.

Detto questo, scomparve dalla stanza, lasciandomi lì immobile con il cellulare ancora in mano.

“Kyle, non voglio assolutamente cambiare una virgola di te, perché mi piaci esattamente così come sei, anche se inevitabilmente hai mutato alcuni aspetti di te in questo periodo che ci siamo conosciuti. Ma per certi aspetti sei proprio uguale a quando ti ho visto per la prima volta, quel giorno” pensai.

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Capitolo 28
*** Capitolo ventottesimo ***


Capitolo ventottesimo =)

flashback, Point Of View Jenice

Era un normalissimo giorno di scuola, un lunedì, ricordo. Mi ricordo perché la professoressa di inglese era entrata a passo spedito quella mattina, indossando stranissimi tacchi a spillo che non le si addicevano per niente, e lei era solita a portare sempre i tacchi a spillo il lunedì, nessuno sapeva esattamente il motivo.

Fuori dalla finestra si poteva ammirare il paesaggio: come al solito palazzi che coprivano l’orizzonte e macchine che sfrecciavano a tutt’andata, il cielo dava i primi segni di cambiamento di stagione, perché eravamo già quasi in inverno, e l’estate e l’autunno erano letteralmente volati. L’inverno, la stagione che odio di più e, guarda caso, quella che dura più a lungo, era alle porte, e stava portandosi dietro i primi freddi gelidi, nuvole nere e, più tardi, neve. Odiosissima neve.

Guardando i miei compagni di classe che come al solito si azzuffavano per entrare dalla porta, notai che c’era qualcosa di strano nell’aula, un cambiamento. Lo notai perché in quei pochi mesi di quell’anno scolastico, in cui andavo ancora alle medie, non c’era stato nessun cambiamento di nessun genere, quindi era ovvio che me ne accorgessi. Non appena tutti si sedettero, mi accorsi subito che c’era un banco in più. Un banco uguale a tutti gli altri, perciò si faticava a farci caso. Questo banco non era molto distante dal mio, e mi domandai a chi appartenesse.

La professoressa comunicò che avremmo avuto un nuovo compagno di classe, e disse che sarebbe uscita un attimo dalla classe per andare a vedere se era già arrivato.

Non appena uscì, mi alzai dal banco, come fecero tutti del resto, e andai alla cattedra aprendo quel grande registro che ogni classe possiede. A noi studenti era permesso di consultarlo, per compiti, comunicazioni e cose di quel genere, anche se erano sempre i professori a scrivervi sopra.

Alla prima pagina era presente l’elenco dei nomi della classe, che era già stato aggiornato perché contava un nome in più della settimana prima.

Scorrendo nell’elenco, non notai alcun nome nuovo fino a che non arrivai alla “G”, dove, oltre a un paio di altri miei compagni che avevano il cognome che iniziava con quella lettera, c’era scritto “Gray Kyle”.

Così era un maschio, e mi chiesi come mai si fosse trasferito in questa scuola dopo alcuni mesi che la scuola era già iniziata.

La professoressa arrivò, e chiudendo il registro mi diressi nuovamente al mio solito banco.

Dietro di lei eccolo arrivare, a passo abbastanza sicuro, un ragazzo alto e magro con i capelli neri, di cui alcuni ciuffi che gli coprivano gli occhi.

L’insegnante disse solo il suo nome, nulla di più. Non gli chiese da dove provenisse, il motivo per il quale era venuto. Nulla. Lo mandò semplicemente al banco vuoto. Lo vidi davanti a me mentre camminava, e chiuse per un momento gli occhi, la mano sinistra in tasca, mentre l’altra si tirò su per un attimo i capelli. Siccome aveva gli occhi chiusi non potei vederne il colore, ma in compenso notai delle profonde occhiaie in evidenza sotto di essi. La vista quei solchi mi fece provare immediatamente una sensazione di inquietudine che non mi levai dalla testa per un bel po’. Persino il modo in cui camminava mi conduceva al pensiero, all’idea che fosse una persona fredda e distaccata. Non guardava in faccia nessuno, mentre, al contrario, tutti lo stavano fissando, io compresa.

Il modo in cui faceva le cose, pareva troppo perfetto, ma strano allo stesso tempo. Quelle occhiaie che aveva mi rimasero impresse, in più aveva un viso molto pallido, anche se, e questo all’inizio lo dissero anche molte delle mie compagne, era un tipo affascinante, con dei bei lineamenti.

Solo io mi ero accorta in quella classe da più o meno venti studenti che in Kyle Gray si celava qualcosa di strano, infatti in futuro sarebbe toccato proprio a me scoprirlo, che cos’era.

Come se quella mattina non fosse successo proprio niente, come se Kyle fosse stato invisibile, la lezione cominciò, e nessuno fece più caso a lui, tranne me.

Lo ammetto, come ragazzo era alquanto inquietante e non avevo mai avuto il coraggio di avvicinarmi a lui e chiedergli qualcosa. Allora ero anche abbastanza timida.

Io e Sharon, compagne dai tempi delle elementari, stavamo quasi sempre insieme ma non ci capitava quasi mai di parlare di lui. Presto cominciai a condividere l’opinione di tutti gli altri, di lei compresa, che era un tipo strano, che ti mette in soggezione. Tuttavia non potevo fare a meno di affiancare a questi pensieri anche la mia, di opinioni. Sharon un giorno mi disse che non avrebbe mai voluto essere tanto strana. Fu allora che mi resi conto che disprezzavo certi giudizi che dava all’immediata verso gli altri, e fu allora che mi resi conto che la nostra amicizia era più debole di un fiore durante l’inverno, che non sarebbe durata in ogni situazione, perché ognuna disprezzava certi atteggiamenti dell’altra, e quindi a volte evitavamo di esprimere le nostre opinioni per paura di darci contro e discutere. Potevo definirla la mia migliore amica solo perché c’era nel momento del bisogno? La realtà è che essere amici significa anche apprezzare l’altro per quello che è, cosa che tra noi non succedeva. Quindi in conclusione eravamo amiche per modo di dire, in realtà non esistono amiche al cento per cento.

Forse l’unico era Jonathan, che già mi faceva da tre anni lezioni di canto, ma lui lo consideravo una specie di fratello maggiore. O qualcosa del genere. La verità era che ancora non lo sapevo.

Ritornando al discorso di Kyle, notammo subito tutti che la sua intelligenza era nettamente superiore alla nostra, o meglio, era quello che la sapeva applicare meglio. Non c’era una materia dove avesse un punto debole, non un professore che si lamentasse di lui. Mi faceva un po’ invidia, perché anche se avevo una bella media, oltre a non essere nemmeno paragonabile alla sua, stavo già cominciando a sentire i primi affaticamenti, che sarebbero poi diventati lacune, in matematica.

Per due anni Kyle Gray non sdegnò di scambiare una parola con me, né con nessun altro della classe, se non strettamente necessario, tuttavia si mostrava sempre educato e gentile nei confronti di tutti, anche se sempre con quell’aria da… lupo solitario.

Ricordo che un giorno, dopo che suonò la campanella che segnava la fine delle lezioni, lasciai uscire tutta la classe, prima di andare verso la porta. Non mi accorsi che era rimasto anche lui, dentro con me. Ormai ero quasi dalla soglia, anche lui stava per uscire. Ad un certo punto si voltò verso di me, come se si fosse appena accorto della mia presenza, e si spostò, mettendosi da una parte, per farmi passare. Ci rimasi di stucco, del fatto che mi desse la precedenza. Sussurrai un “grazie” appena percepibile, e senza guardarlo, ma comunque avvertendo il suo sguardo addosso, mi diressi a passi veloci fuori dalla classe. Non mi voltai per tutto il tragitto, pensando che magari lui non era come tutti credevano, magari era gentile e simpatico, ma mi tolsi dalla mente immediatamente questo genere di pensieri.

Avevo anche fatto caso al fatto che per andare a casa prendevamo la stessa direzione. Io però stavo solitamente dal ciglio opposto della strada, e sempre a qualche metro più indietro rispetto a lui. Che potevo dire, quel ragazzo mi aveva sempre messo in soggezione, non conoscevo la sua vera indole, e mai in quel periodo mi sarei aspettata che avremo anche dormito nello stesso letto, un giorno.

Già, da perfetti sconosciuti che si vedono però tutte le mattine a scuola, a due “amici” inseparabili che se ne vanno a New York e condividono una casa e un letto matrimoniale, anche se solo contemporaneamente. Certo che ne avevamo fatta di strada, in pochi mesi.

Adesso conoscevo il colore dei suoi occhi, che ogni giorno sembravano affascinarmi sempre di più, e quelle tristi e profonde occhiaie che aveva sotto di essi erano finalmente scomparse.

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Capitolo 29
*** Capitolo ventinovesimo ***


Ok, ciò che accadrà nei prossimi capitoli potrà sembrare mooolto inverosimile, penserete “Ma dai, non è possibile che succeda una cosa del genere!!! Quante probabilità ci sono?” eppure fidatevi, TUTTO ha una spiegazione… U.U

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Capitolo ventinovesimo <3
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Tutti gli sforzi che avevo fatto, tutte le imprese che avevo compiuto, stavano per andare a termine facendomi finalmente raggiungere il mio scopo, scopo che bramavo da così tanto tempo che stavo per dimenticarmi la ragione per cui ero venuta nella grande città: il concerto.
Ovviamente quello non sarebbe stato per me un concerto come tutti gli altri, non ero semplicemente una fan dei Contagious come tutti mi avrebbero presto visto, ma una grande amica di Jonathan, il cui unico vero fine era trovare un modo per rivederlo dopo sette mesi e parlargli. Avevo talmente tante cose per la testa da chiedergli che probabilmente me ne sarei dimenticata più della metà, potete immaginare. Mi domandavo da un sacco di tempo perché quel giorno mi avesse baciato, o proprio quel giorno, sapendo che se ne sarebbe dovuto andare. Probabilmente nemmeno il più forte degli esseri umani riesce a resistere vivendo l’ultimo giorno nella sua città natale senza fare e dire ciò che aveva sempre desiderato. Doveva essere una cosa più che naturale, pensavo. Non avevo però in fondo nemmeno la certezza che lui avesse in quel momento provato veramente qualcosa per me. Mi sembrava strano, io per lui sarei dovuta essere solamente una bambina. Una bambina che imparava a cantare. Me l’aveva detto, quel giorno, che mi considerava una persona della sua stessa età, ma avevamo due concetti di età totalmente diversi: io pensavo che avere dieci anni di differenza a quell’età fosse troppo evidente, troppo… strano. Era la mia mentalità, non potevo farci niente. Magari dieci anni dopo sarebbe potuta essere una cosa normalissima, ma adesso no, io ero come una bambina e lui quasi un uomo. Avevo un’unica certezza nei suoi riguardi: non provavo per lui più di una semplice amicizia, perché mi ero resa conto di aver considerato Jonathan più di quel che era, sbagliando terribilmente, mentre mi ero intanto accorta che ciò che provavo per Kyle cresceva sempre di più, e non potevo più considerare quest’amicizia come tale. In poche parole, mi era successa la cosa opposta con due persone diverse: reputavo Jonathan più di un amico quando invece non era nulla di più, e ritenevo un amico Kyle di cui invece, lo devo ammettere, mi stavo sinceramente, anche in quegli stessi giorni, innamorando.

Era arrivato, come già detto, il giorno del concerto. Avevo tanto atteso quel giorno che adesso non mi sembrava vero di viverlo. Ripensai a quell’avventura a New York quasi giunta al termine, a Lindsay che come se niente fosse aveva tolto subito il disturbo, al letto matrimoniale, a Dylan, al film dell’orrore ma soprattutto ai croissant…
Anche quella mattina mi ero sforzata di alzarmi presto, fortunatamente stavolta mi svegliai ad un orario decente, alle nove. Kyle dormiva ancora come un bambino e io avevo a disposizione tutto il tempo che mi serviva per fare ciò che dovevo fare. Chiusi le tende per nascondere ancora un po’ la luce solare, uscii di casa subito dopo essermi lavata e vestita, entrai nella pasticceria nonostante mi fossi ripromessa di non farlo a causa di tutte le delizie che vi erano esposte, ma senza degnare le povere prelibatezze di un minimo sguardo, per quanto fosse dura, visto la dolce fragranza che emanavano. Presi i croissant, anche stamattina belli fumanti, mi diressi immediatamente verso casa, stavolta senza divorare la colazione in un sol boccone, oggi volevo fare colazione insieme al mio adorato “coniuge”.
Entrata in casa feci attenzione a non ripetere l’errore della mattina prima, sbattere il ginocchio, su cui come previsto era venuto un grande livido blu, contro la gamba del letto. Appoggiando temporaneamente le buste con la colazione su un comodino, aprii le tende per dare l’impressione di esserlo venuto proprio a svegliare, sperando infatti che aprisse gli occhi.
Girandomi verso di lui notai il movimento delle coperte, e qualche lamento.
– Sveglia! Stasera c’è il concerto, non fremi dalla voglia di andarci? – dissi un po’ crudele, con una punta di sarcasmo ma sempre scherzando.
Lui stette in silenzio, e si mise semplicemente il cuscino sulla testa per non sentirmi. Non era proprio una persona mattutina, come avevo pensato vedendolo sempre alzarsi prima di me. In realtà nessuno dei due lo era.
A fatica, si alzò alla fine, ed intravide le buste dei croissant sul comodino, prendendo la sua.
– Ehi aspettami, anch’io devo mangiare! – e gli corsi dietro mentre cambiava stanza afferrando frettolosamente la mia colazione.
Ci sedemmo così al tavolo, io di fronte a lui.
– Come pensi che faremo ad arrivare al concerto, ci hai pensato? – disse mentre apriva in due il suo croissant, facendo spargere nell’aria una lieve scia di vapore che usciva proprio dal centro.
– A dire il vero non c’ho pensato, pensavo l’avresti fatto tu.
Ma non potevo sempre pretendere che fosse la gente a risolvermi i problemi. Se non saremmo riusciti ad andare al concerto il problema sarebbe stato solo ed esclusivamente mio.
– Prenderemo un taxi… – continuò lui, guardandomi negli occhi, per vedere poi il mio mancato consenso – anzi, forse è meglio se prendiamo l’autobus, ce ne sarà sicuramente uno che va lì.
Sorrisi all’idea, nel vedere che si era accorto del mio disprezzo verso i taxi newyorchesi, e del loro prezzo pressoché esagerato.
– Non credo sarà un concerto troppo movimentato, insomma, è una band che ha appena cominciato a fare carriera, anche se avesse tanti fan non credo proprio che sarà come andare ad un concerto di una super star internazionale…
Chissà, magari in qualche anno i Contagious avrebbero scalato le classifiche con i loro pezzi. In fondo, da un po’ di tempo erano sempre al centro dell’attenzione, come molte band che escono fuori dal nulla e arrivano con dei pezzi strepitosi, e con un bellissimo cantante, sì, quello aiuta molto il commercio, in certi casi più della buona musica (nota fuori testo: provate a dire che non è vero!! xD penso che alcuni gruppi riescano a diventare famosi solo per l'aspetto fisico del cantante, poi ognuno ha le sue opinioni... avete mai visto voi un/una cantante brutto/a [a parte Bill Kauiltz... ahahah scherzo non voglio offendere nessuno :) e poi non lo penso nemmeno] ma talmente orribile che non si guarda, da qualche parte? Io no, comunque, io sono la prima a dire che ascolto musica che forse vanta qualche bel pezzo di musicista :P dico solo di riflettere su quanto la musica sia diventata commerciale in questi anni, oh certo, anch'io penso che Lady GaGa sia una grande artista, abbia una voce stupenda eccetera, ma il 70% delle persone a cui chiedo di lei rispondono "è una bella gnocca"!!).

Il concerto iniziava alle 21. Alle 20 eravamo già nei nostri posti a sedere, con lo stomaco stracarico di pizza, e mi sembrava che mi dovesse tornare su. Ero troppo emozionata, vedere Jonathan su quel palco come lui da anni ormai sognava… non mi sembrava vero. Io poi, dopo tanto tempo l’avrei rivisto. Era quasi come se stessi vivendo una fantasia, l’adrenalina alle stelle.
Mentre io andavo in estasi, Kyle cercava di trattenermi, di calmarmi, e presi esempio un po’ da lui che se ne stava lì seduto e tranquillo. In molti erano a entrare, soprattutto ragazze della mia stessa età all’incirca, che urlavano quant’era bello questo, quant’era bello quell’altro… ma soprattutto quant’era figo Jonathan. Il mio Jonathan non si toccava. Per me era come il mio fratellone, quindi guai a chi lo importunava. A Kyle ovviamente non avrebbe fatto piacere questo mio modo di pensare, quindi non mi lamentai di nulla. Dalla prima fila, dov’eravamo noi, si vedeva benissimo, davanti a noi un grande gradone che portava al palco.
Era tutto così emozionante, sembrava tutto talmente speciale…
I minuti sembravano non passare mai, la gente cominciava ad entrare e si aveva sempre di più una sensazione di stare stretti, per fortuna che eravamo entrati con un’ora di anticipo.
Ripensai alle parole della sorella di Jonathan: io ero solo una delle sue piccole tante fan insignificanti.
“Beh, intanto vedremo se davvero sarò come dicevi piccola e insignificante, cara!” pensai. Tutto il mio viaggio, le mie “avventure”, non sarebbe mai e poi mai andato tutto in fumo, non l’avrei permesso.
All’improvviso tutte le luci si spensero, non si vedeva più niente. Le grida dei fan (soprattutto delle ragazze) si sentivano anche da lontano un miglio, le trovavo prive di senso. Guardai l’orologio, erano le nove e due minuti, alcuni riflettori cominciarono ad illuminare seguendo movimenti precisi il palco, sì, ero emozionata al massimo. Perciò dalla bocca non mi usciva una parola. Kyle mi teneva con un braccio intorno al collo, sorridendo, comprendendo il mio stato d’animo.
Improvvisamente i riflettori si spensero, e dopo un secondo uno di essi si riaccese posizionato in un preciso angolo del palco: sotto di esso era apparso il batterista, che con il suo strumento si mise a fare giochetti divertenti, stuzzicando il pubblico. Era alto e biondo, più carino di quando l’avevo visto in foto sui giornalini. Un altro riflettore si accese, stavolta sul chitarrista, molto magro, capelli rossicci, anche lui si mise a fare giochetti con la chitarra. Toccò poi al bassista, capelli tinti di svariati colori, finché poi tutte le luci non si spensero, per riapparire tutte in una volta insieme ad una centrale, che puntava dritta sul cantante: Jonathan, il cantante-chitarrista nonché leader della band.
Non era cambiato di una virgola, da quando l’avevo visto l’ultima volta. Il solito sorriso stampato sulla faccia, il microfono in mano con cui chiedeva se eravamo pronti.
C’era anche da chiederlo? Certo che ero pronta, da sette mesi ormai lo ero.

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Capitolo 30
*** Capitolo trentesimo ***


Capitolo trentesimo (scusate l'immondo ritardo, ma sono stata in vacanza e ho in programma di pubblicare il prossimo capitolo per la prossima settimana. Vi auguro una buona lettura =D)








Finalmente, dopo tanto tempo l’avevo di nuovo lì, davanti a me, che sorrideva.

La band cominciò la sua esibizione, con brani a me familiari poiché avevo imparato a memoria tutto il loro album. La voce di Jonathan era bella come sempre, star o non star la sua bellissima voce non sarebbe mai cambiata e aveva stregato migliaia di fan.
Giochi con le luci, grida e strilli dal pubblico, tutto bellissimo, ma adesso era arrivato il mio turno.
Jonathan guardava spesso tra le prime file del pubblico, ancora non mi aveva vista.
– Vai Jenice, è il tuo momento! – mi disse Kyle all’orecchio, siccome in mezzo a tutto qual trambusto di fan non si capiva nulla.
Era incredibile quanto in fondo lui mi sostenesse.
Okay, dovevo farcela, eravamo appena all’inizio del concerto, ma dovevo farcela.
Mi sporsi verso il gradone che portava al palco, e con le mani davanti alla bocca a mo’ di megafono, cominciai a gridare per farmi sentire:
– JONATHAN!!!!
Ma lui non sentiva, era ovvio, che non sentisse.
Mi venne in mente un’idea migliore, così, furba, aspettai che lui guardasse le prime file e gridai con tutto il fiato che avevo in gola:
– JONATHAN SONO JENICE!!!
All’ultima parola della mia frase lo vidi chiaramente congelarsi, nonostante stesse ancora cantando. Quando il pezzo finì ci fu un momento di pausa, mentre sorridevo guardandolo Jonathan mi fissò dritto negli occhi, rimanendo sbalordito. Felice della cosa, afferrai Kyle per un braccio dicendogli all’orecchio che mi aveva vista. Jonathan si diresse dagli altri membri della band, sussurrando loro qualcosa. Qualche istante dopo uno dei due chitarristi partì, suonando le famose note di una canzone che tra l’altro mi piaceva molto, sempre parte del loro repertorio. Notai subito che il bel cantante guardava sempre verso di me, allora era vero che mi aveva riconosciuta!
Continuarono per il resto della serata facendo finta di niente, ma comunque Jonathan mi guardava spesso, sembrando ai miei occhi quasi felice.
Ero tuttavia felice di essere lì insieme a Kyle, perché non avrei desiderato in quel momento essere a quel concerto con nessun altro.

Era ormai alla fine, il concerto dei Contagious, avevano esibito tutte le loro canzoni, eccetto una, proprio quella a me dedicata, Honey.
– Grazie! Grazie mille, New York! – diceva il cantante entusiasmato al microfono – Per stasera abbiamo finito, ormai, ma c’è un’ultima cosa, una persona che vi vorrei presentare!
Immediatamente volse lo sguardo verso di me. Appena compresi mi si gelò il sangue nelle vene, non riuscivo nemmeno a pensare. Non si stava riferendo a me, vero?
Jonathan scese velocemente dal palco mentre gli altri della band facevano qualche numero con i loro strumenti.
– Jenice vieni per favore, sono qui! – disse lui sempre con il microfono in mano da un angolo del palco, dove molte fan cercavano di buttarcisi addosso.
– Coraggio, Jenice, sta chiamando te! – disse Kyle sorridente, prendendomi gentilmente per un braccio e facendosi strada tra le persone, trascinandomi dietro.
 Sinceramente non ci potevo credere, il cuore mi pompava a mille, sentivo il viso avvampare, non riflettevo, non mi rendevo conto della situazione, non riuscivo a realizzare che tantissime persone, onestamente non saprei dire neanche quante, mi stavano per vedere accanto all’amato cantante.
Kyle mi portò fino a dove presumibilmente proveniva la voce di Jonathan.
Finalmente, vicino al palco, lo vidi distintamente davanti a me, appena un paio di metri di distanza. Lui fece cenno alle guardie di sicurezza che erano lì di farmi passare, io che non badavo alle grida delle fan e alla band che suonava, ma nemmeno a cosa mi sarebbe successo, se era per quello.
La presa di Kyle mi abbandonò improvvisamente, lasciandomi sola in mezzo alla folla con alcune guardie di sicurezza che mi facevano passare e mi conducevano con garbo verso Jonathan.
Ero di fianco a lui, adesso, totalmente emozionata. Gli sarei immediatamente saltata addosso, ma come ho detto, non ragionavo e non mi andava neanche di farlo di fronte a tutte quelle persone.
– Ciao Jenice, sono felicissimo che tu sia qui. – mi disse semplicemente, prendendomi anche lui delicatamente il braccio, con un tocco che non sentivo da tantissimo tempo, ormai.
Salimmo lentamente sul palco, mi misi la mano libera davanti alla bocca, mi vergognavo da morire. Ma in fondo non era ciò che avevo sempre sognato, il successo, la fama? Quella era una buona occasione, no?
Jonathan, al centro del palco insieme a me, la band che aveva smesso di suonare, alzò in alto il mio braccio, non potei fare a meno di sorridere davanti a quel pubblico.
– Lei è Jenice, ragazzi! E a lei è dedicata la canzone che stiamo per esibire, scommetto che la stavate aspettando!
Le grida dei fan si fecero più forti, cercai in mezzo al pubblico numeroso, tra la prima fila, lo sguardo di Kyle. Era lì, mi guardava sorridente, e mi fece il segno dell’okay, tranquillizzandomi parecchio.
– Dolcezza, – mi disse Jonathan all’orecchio, coprendo il microfono in modo che non si sentisse – va bene per te cantare la tua canzone, adesso? Sono sicuro che ti sei esercitata, ne sono più che certo.
Mi diede una pacca sulla spalla. In effetti sì, mi ero esercitata parecchio su quella canzone, ed ero prontissima a cantarla.
Una guardia di sicurezza arrivò frettolosamente con un microfono, passandomelo.
Fummo avvolti da una cortina di fumo, grazie agli effetti speciali.
– Appena sparisce la nebbia, parte la musica e cantiamo insieme a partire dal primo ritornello, okay?
Io annuii lentamente, ancora come se fossi inconscia.
La nebbia sparì, le urla dei fan sempre più forti, la chitarra che partiva.
“Okay Jenice, puoi farcela” mi dissi semplicemente. Dopodichè era arrivato per la voce il momento di partire. Seguii le istruzioni di Jonathan e stetti zitta ascoltandolo di fianco a me che mi teneva la mano fino all’inizio nel ritornello, poi mi fece cenno di partire.
Insieme cantammo sulle note di quel ritornello, che ripeteva infinitamente “honey, honey, honey…” e altre parole che mi facevano capire quanto teneva alla nostra amicizia, e sperava continuasse per sempre.
Io continuavo a guardare Kyle, dal pubblico, che era la persona che mi dava più incoraggiamento, forse anche più di Jonathan.
Sentivo addosso il flash delle macchine fotografiche, notai alcune telecamere. Era tutto così strano, per me. Meno di un anno fa, non mi sarei mai sognata lontanamente una cosa del genere, ma è anche vero che meno di un anno fa davo per scontato che il mio amico sarebbe rimasto sempre con me, ma non avevo compreso la cosa più importante, cioè che lui stava crescendo, doveva ancora maturare.
Non l’avrei probabilmente mai rivissuta in tutta la mia vita, l’emozione che stavo provando, inutile citare tutti i pensieri che mi frullavano per la testa.
Stato d’animo: indescrivibile. Per quella manciata di minuti, mi sentii davvero una super star.

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Capitolo 31
*** Capitolo trentunesimo ***


Capitolo trentunesimo

Salve a tutti =) adesso è uno di quei capitoli che direte "ma dai, non è possibile che succeda una cosa del genere!!!!!", ma credetemi che tutto ha una spiegazione!

However. . . la storia è quasi alla fine (ancora 6 capitoli xD) e annuncio che l'ultimo è un finale a sorpresa!!! Bene, dopo questo... buona lettura.

Avevo appena cominciato a cantare, che già era tutto finito: la canzone non durò più di qualche minuto, e sentivo nelle vene il bisogno di altra musica, altro sostegno da parte del pubblico. La soddisfazione più grande era stata questa, i fan che urlavano e applaudivano. Un po’ di casino, certo, ma quello ci voleva, in un concerto che si rispettasse.

– Sei stata grande, dolcezza! – mi disse Jonathan, abbracciandomi sul palco davanti a tutto il pubblico. Io lo ricambiai, felicemente, ma le altre fan avrebbero poi voluto vedermi morta. Ero talmente emozionata che mi veniva da piangere, ma da persona matura quale mi reputavo decisi di non farlo, sforzandomi.

Il concerto era finito. Tutto stavano uscendo, scesi immediatamente dal palco non appena si fosse liberata un po’ la sala, saltai addosso a Kyle, che continuava a ripetermi che ero stata bravissima. Non immaginavo che quella serata sarebbe finita come sarebbe finita.

Ero ancora appiccicata a lui, Jonathan si avvicinò facendosi strada tra gli ammiratori rimanenti, e disse:

– Non importava, vi faccio ridare i soldi del biglietto, ad entrambi.

Lo disse con il suo solito sorriso, che mi faceva impazzire di felicità, e faceva impazzire di gelosia Kyle.

– Jonathan, non sai quante cose avrei da dirti… – gli dissi.

– Oh, avrai tutto il tempo che vuoi per dirmele.

Kyle mi lasciò, e mi disse:

– Ti aspetto qui fuori, Jenice. Fai con comodo.

Gli ero estremamente grata per aver compreso la situazione.

Jonathan mi accompagnò così verso il suo camerino, passando per un lungo corridoio che brulicava di gente.

 

– Allora, – cominciò lui, una volta seduti davanti al suo grande specchio – dimmi che cos’hai fatto tutto questo tempo.

– Tu piuttosto! Dovrei chiedertelo io come mai in sette mesi non trovi il tempo di chiamarmi!

Lui fissò in basso, evidentemente dispiaciuto. Da sopra un tavolino prese una sigaretta fuori da un pacchetto, l’accendino fuori dalla tasca, se l’accese mettendosela in bocca:

– Ero certo che serbassi del rancore nei miei confronti. Chiamandoti avrei solo potuto farti del male.

Lo guardai mentre si voltava e faceva uscire dalla bocca il fumo della sigaretta, con dispiacere e sorpresa contemporaneamente.

– Quando hai iniziato a fumare? – gli chiesi piano, un tono di voce molto più basso rispetto a prima.

Quel camerino non mi rendeva tanto a mio agio: era piccolo, le luci abbaglianti, e anche se eravamo soli avevo sempre la sensazione di essere osservata.

Lui non rispose alla mia domanda, fregandosene di una cosa così come il fumo, che per lui sarà stata probabilmente superficiale.

– Quello chi era, il tuo ragazzo? – disse con un tono come quello di una ragazzina che vuole spettegolare.

Io risi leggermente alla sua domanda. Kyle, il mio ragazzo. No, non era così. Era Kyle, il mio amico molto speciale che vorrei che fosse il mio ragazzo, ma nessuno dei due ha voglia di rovinare questo straordinario rapporto che c’è adesso.

– No, è un mio caro amico. Ma non mi hai ancora detto nulla, tu! Come ti è venuto in mente di scrivere quella canzone? Me la sono addirittura ritrovata tra gli spartiti!

– Appunto che avresti dovuto prevederlo. – disse lui con un altro tiro di sigaretta, che si stava consumando lentamente – Non dirmi che non ti ha fatto piacere, perché non ci crederei neanche morto!

– No, mi ha fatto piacere ma…

Non sapevo come continuare, perciò stetti in silenzio. Mi ero dimenticata tutto ciò che avevo da dirgli di importante.

Cominciai così, per divertirlo o forse semplicemente per sfogarmi, a raccontargli tutta la storia fin dall’arrivo a New York, tutte le cose viste e sopportate, notai di stare usando per Kyle sempre buoni aggettivi, sottolineando la sua pazienza e la sua gentilezza con me. Jonathan ascoltò interessato i miei discorsi, ma alla fine non mi disse niente di lui.

– Beh, se hai fatto un tal viaggio fin qui, allora so che hai la stoffa per fare quel che ti sto per chiedere.

Chiedere? Cos’è che mi doveva chiedere, ancora? Non avevo già risposto abbastanza?

Mi guardò negli occhi, senza staccarsi un attimo, senza battere ciglio. Buttò il mozzicone di sigaretta nel portacenere. Socchiuse la bocca, e lo sentii pronunciare chiaramente questa frase:

– Ti voglio come cantante della band.

Rimasi allibita da queste parole. Tutto quello che era successo poco prima su quel palco, adesso sembrava avere uno scopo.

– Che cosa?

Lui sorrise, ma nonostante la sua apparenza mi accorsi che non era più il Jonathan di una volta, quello che non fumava, sempre allegro che pensava solo alla musica e a divertirsi, e che era estremamente vanitoso e immaturo. Mi trovavo di fronte ad un’altra persona.

– Parlo sul serio. Lasceresti la scuola, ma gireresti gli stati e chissà, magari anche il mondo intero sempre insieme a me, e al resto della band. Te l’avevo promesso o no che, un giorno, avremmo potuto cantare nuovamente insieme?

Le sue parole mi fecero riflettere parecchio. Ciò che significava lasciare la scuola era per me come dire cancellare le tue aspettative per il futuro. Senza la scuola non sarei potuta andare avanti, ma avrei avuto Jonathan e la musica, ma non avrei più potuto avere al mio fianco la mia famiglia, le mie amicizie e soprattutto Kyle.

Fare la cantante, cosa avrebbe potuto significare?

– Che dici, non sono abbastanza brava.

– Ahahah! Nel mondo dello spettacolo non importa essere bravi o avere talento, basta avere un bel viso e carisma, e una voce ascoltabile. Direi che la tua è già più che ascoltabile. E poi ne passerà di tempo, prima del prossimo album… non devi decidere adesso!

Eppure sembrava quasi che i suoi occhi parlassero un altro linguaggio, mentre la sua bocca diceva quelle cose. Dopo un momento appena prese un’altra sigaretta dal pacchetto, cominciando a fumarla.

– Vai a fare un giro, Jenice, – cominciò Jonathan, sempre più serio – e con un po’ d’aria fresca schiarisciti le idee. Se questo è davvero ciò che vuoi, diventare famosa, allora rischia. Io sono qui fino a domattina, se vuoi parlare con me.

Mi alzai dalla sedia, ma non feci in tempo a voltarmi, che lui continuò il discorso:

– Ricorda, posso sembrarti diverso perché sono famoso, perché fumo, perché parlo in modo diverso da come mi conosci. Ma io rimango sempre Jonathan.

Detto questo mi fece l’occhiolino, e mi fece andare.

Su ordine di Jonathan fui accompagnata verso l’uscita da una guardia di sicurezza, che mi disse che ero la benvenuta, e che potevo tornare quando volevo.

Una volta fuori, fui immersa da un’orda di fan, che mi avevano riconosciuta e mi guardavano in modo molto strano, ma a forza di spintoni riuscii a filarmela. Lui era lì, a pochi metri, Kyle mi stava aspettando. Aveva un sorriso appena accennato, ma era evidentemente felice per me.

– Kyle… – cominciai il discorso, non sapendo però come continuarlo. Kyle non badò a me, e mi prese la mano.

– Allora, ti sei divertita piccola super star? Eheh, ti giuro, mentre eri lassù sembravi davvero una cantante professionista!

Misi la mano libera davanti alla bocca, rimasi in silenzio per qualche secondo. Poi finalmente mi decisi a parlare:

– Kyle, io… ecco, volevo parlare appunto di questo. Volevo, ecco… chiederti un consiglio, da amico…

Lui mi guardò in modo strano, cominciando a comprendere la serietà che avevano le mie parole.

– Sì Jen… dimmi.

Chiamandomi con quel soprannome mi sentii peggio, come se gli stessi per fare ancora più male.

– Jonathan… mi ha chiesto se mi va di diventare la cantante della loro band, insieme ovviamente a lui.

Kyle non reagì. Stette semplicemente ad occhi spalancati, guardando fisso il cielo senza darmi alcun cenno di risposta.

– Beh… – continuai – ha detto che dovrei lasciare la scuola, ma potrei viaggiare continuamente e diventerei famosa… tu cosa ne dici?

Ero sicura che nella sua mente si stesse ripetendo all’infinito il pensiero “Smettila di trattarmi come un amico”, ma me ne ero resa conto solo un attimo dopo.

Lasciò la mia mano, cominciò a camminare verso la fermata dell’autobus, io che lo seguivo come un’ombra.

– Sì. – rispose semplicemente.

– Sì? – gli domandai – Che significa semplicemente “Sì”? A te non importa se me ne andrò da qualche parte per il mondo e diventerò famosa?

Non riusciva a guardarmi negli occhi, era più forte di lui.

– Vuol dire sì, che sarei felicissimo per te. È il tuo futuro, la tua carriera, quindi non mi riguarda. Fai ciò che vuoi.

Ma l’aveva detto con una punta di tristezza, quella punta di tristezza che non mi convinceva per niente.

– Non pensavo che te ne importasse così poco di me. Non cerchi di fermarmi? Non cerchi di avere oppure un po’ più di entusiasmo?

Lui si girò, fissandomi negli occhi ardente di rabbia.

– Ti ho detto di fare quello che ti pare, a me non importa. Per quanto mi riguarda sono venuto qui solo per accompagnare una ragazzina viziata ed egoista, e sto parlando proprio di te!

Rimasi scioccata alle sue parole. In tutto quel tempo, non mi aveva mai parlato così, non si era mai arrabbiato così tanto, anzi, non si era proprio mai arrabbiato, e basta. Tutta la rabbia che aveva represso in quei giorni, in tutto quel tempo, si scatenò improvvisamente contro di me in quella sola e unica frase.

– Allora sai che ti dico? – cominciai alzando di molto il tono di voce, le lacrime che mi stavano salendo agli occhi – Che allora se vuoi puoi anche tornartene a casa con il primo treno, a me non interessa! Fai conto che io faccia già parte della band!

Detto questo mi girai, e a passo veloce, senza nemmeno guardare la faccia che avesse fatto, mi diressi di nuovo verso l’orda di fan, superandola e andando a cercare Jonathan, perché ero stanca adesso, sarei diventata la cantante della band, punto.

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Capitolo 32
*** Capitolo trentaduesimo ***


Capitolo trentaduesimo

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Uh-uh, come mai ho l'impressione che questo capitolo vi piacerà??? *sghignazza e fa la finta tonta* grazie per le recensioni dello scorso capitolo ^^. Basta, non dico altro, il capitolo deve parlare da solo! Bye bye!!!!

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Ormai non riuscivo più a trattenere le lacrime, non era possibile che non gliene importasse niente di me. La verità era che forse non gliene era mai importato, forse mi aveva sempre preso in giro.

Le guardie di sicurezza mi riconobbero facendomi entrare, riconducendomi al camerino di Jonathan. Lo vidi sempre seduto nello stesso posto, a fumare un’altra sigaretta. Sforzandomi, riuscii a trattenermi dal piangere.

– Ho deciso. Non mi importa di niente, io voglio fare parte della band.

Mi sedetti di fronte a lui, che tirò di nuovo con la sigaretta.

– Sei sicura che è ciò che vuoi, dolcezza? Tornare indietro sarà difficile. Non pensi a tutto ciò che lascerai? La famiglia, gli amici… il tuo ragazzo?

Lì mi alterai.

– Ti ho detto che non è il mio ragazzo! Non è neanche mio amico, mi considera viziata ed egoista e di lui non m’importa proprio niente, accidenti!

Lui non batté ciglio. Continuò con tutta calma il discorso.

– Vedi Jenice… io ho scelto la musica al resto perché è qualcosa che mi rende felice, l’unica cosa che ci riesce. Non mi piaceva rimanere nell’anonimato. Perciò ho deciso di mollare tutto e intraprendere questa carriera. Tu ti trovi di fronte ad una scelta difficile, devi imparare a capire cosa per te è necessario o meno, cos’è che ti renderebbe più felice.

Non riuscivo a capire se stesse dalla mia parte o no. Mi stava solo confondendo ulteriormente le idee.

– Quel ragazzo ti ha detto che sei egoista. Ma da quel che mi hai raccontato, non pensi che abbia ragione? In fondo, sei stata tu a volere che ti accompagnasse, solo per vedere me. Non ti è importato se gli avrebbe fatto male o meno questo, te ne sei fregata dei suoi sentimenti e hai continuato a trattarlo come una marionetta, ignorando i suoi bisogni e le sue necessità, e i suoi sentimenti di gelosia, badando solo ai tuoi.

Guardai in basso, le mie scarpe. Era vero, tutto ciò che stava dicendo. Era vero, tutto vero… e mi sentii crudele, terribilmente crudele.

– Mi piacerebbe che tu facessi la cantante, insieme a me. Ma ci tengo a te, quindi non voglio che butti via la tua vita per qualcosa di cui non sei sicura.

Silenzio. Nessuno dei due per una decina di secondi spiccicò una parola. D’altronde, io cosa avrei potuto dire? Mi sentivo malissimo, pensando a ciò che avevo appena capito. In tutto questo tempo, mi ero ripromessa che avrei fatto di tutto per rendere più felice Kyle, invece era finita che l’avevo dato per scontato e l’avevo fatto soffrire ancora di più. Non era che non gliene importava niente di ciò che avrei fatto, ma non voleva condizionarmi, voleva solo la mia felicità, anche se in realtà ci stava malissimo.

– Ho capito. Ho preso la mia decisione. Credo che non farò parte della band, mi dispiace.

lui mi fissò dritto negli occhi, la sigaretta ormai finita.

– La mia offerta è e sarà sempre valida. – mi interruppe – Jenice… prometto che tra un paio di settimane verrò a trovarti. Adesso vai, e fa’ pace con il tuo ragazzo.

Per quanto gli ripetessi che non lo era, era completamente inutile. Per lui Kyle sarebbe sempre e comunque stato il mio ragazzo.

Si alzò da quella sedia, mi abbracciò forte, e mi condusse personalmente verso l’uscita, salutandomi con un “A presto, dolcezza mia…”, e si raccomandò anche di non farmi scoprire dalla mamma, o sarebbero stati guai. Ma non badai a quest’ultima frase.

Mi diressi verso la fermata dell’autobus, sperando che fosse lì. Ma mi illudevo soltanto, pensai seriamente che avesse preso alla lettera le mie parole e se ne fosse davvero tornato a casa con il primo treno. Sperai con tutto il cuore che non fosse così. Perché Kyle era il ragazzo che amavo, e non avrei voluto perderlo per niente al mondo, nemmeno per una brillante carriera nel mondo dello spettacolo.

Quella panchina per aspettare l’autobus. Avrei voluto sedermi, ma era tutto occupato. C’era una trentina di persone, sempre lì, ad aspettare con me, forse il mio stesso autobus, forse un altro.

Restai nella penombra, tra l’oscurità della notte e la luce del lampione. Le ragazze spettegolavano, le sentivo dietro di me, alcune parlavano di me, non mi avevano probabilmente riconosciuto, altrimenti si sarebbero messe a fissarmi senza mai distogliere lo sguardo. A quanto pare ero considerata abbastanza brava, qualcuna sospettava che avrei presto fatto anch’io parte della band. Aveva torto, quella qualcuna. Non se ne parlava neanche, e di questo ne ero assolutamente sicura, anche se forse sarebbe stato troppo tardi cambiare idea tra qualche anno.

Mi misi il cappuccio della felpa in testa, per evitare che qualcuno mi riconoscesse. Faceva freddo, avrei voluto che Kyle fosse stato lì a scaldarmi.

“Gray Kyle…” pensai “Tu sei la mia dannazione, se sto facendo questo è solo perché tengo a te quanto a me stessa, desidero con tutto il mio cuore che tu mi perdoni per ciò che ho fatto…”.

 

Dopo aver preso l’autobus, mi diressi sola, senza curarmene dei pericoli, verso casa, saranno stati al massimo dieci minuti di camminata.

Camminavo sul marciapiede insieme a tanta altra gente, nonostante fosse già notte, c’erano alcuni chewing-gum spiaccicati per terra, alcuni più vecchi di altri. Il cielo era annuvolato, non si vedevano le stelle. Continuavo a tenere, vergognandomi, il cappuccio sulla testa. Poi pensai a che servisse, e lo levai. Misi poi le mani in tasca, continuando il tragitto con le lacrime agli occhi. Mi sentivo estranea al mondo che mi circondava.

La mia borsetta era come se diventasse man mano più pesante, il mio trucco sembrava sciogliersi lentamente sulla mia faccia ormai in lacrime. Sentivo le lacrime che mi rigavano di nero le guance insieme alla matita per gli occhi e al mascara. Piano, mi tirai indietro i capelli, mi sistemai la felpa nera. Ero quasi arrivata a casa, passai di fronte alla pasticceria francese, ovviamente chiusa a quest’ora. Mi vennero in mente tutti quei ricordi…

La casa di Lindsay era appena illuminata da un lampione. Se non fosse stato per quello, essa sarebbe stata completamente coperta dall’oscurità. Sotto di esso, con lo sguardo rivolto verso il basso e le mani in tasca, c’era lui.

Kyle era lì che mi stava aspettando, io sentii chiaramente il cuore che tamburellava velocissimo nel mio petto, un groppo in gola.

– Kyle! – gridai, avventandomi su di lui improvvisamente.

Rimase sorpreso, io mi attaccai a lui, alla sua camicia nera, iniziando a piangerci sopra disperatamente.

– Jenice…! – mi disse lui in tono sorpreso.

Cominciai a farfugliare, a dire “mi dispiace, perdonami” e cose simili, mentre lui avvolse il mio corpo con le sue braccia, sussurrandomi che andava tutto bene. Ma io non lo ascoltavo, continuavo a piangere e a piangere…

– Hai ragione, sono egoista, sono viziata, tutto quello hai detto è vero… mi dispiace, non me ne sono nemmeno resa conto…

– Ehi Jenice… calmati, non ti preoccupare, anche io ho esagerato, ti chiedo scusa… la realtà è che per me sei importantissima, non vorrei perderti per nessuna ragione al mondo.

Stavamo immobili, lì sotto il lampione. Andava bene così, non potevo chiedere di meglio. All’improvviso mi staccai da lui.

– Sei rimasto qui solo per aspettare me? Perché Kyle?

Lui mi accarezzò i capelli, e dolcemente mi rispose:

– Perché le chiavi di casa ce le hai tu…

Rimasi immobilizzata. Ops, errore mio!

– Oddio, è vero scusa mi dispiace io davvero…

Fui interrotta dalla sua mano, che mi accarezzava la guancia. Lui continuò ciò che stava dicendo:

– E perché ti amo, stupida.

Rimasi ferma, a guardarlo negli occhi. Il cuore batteva forte, era come se non riuscissi a realizzare il significato di quella frase. Lui… mi amava.

– Ti amo anch’io. – gli risposi secca, dicendo precisamente ciò che stavo all’inizio solo pensando.

Il suo viso si avvicinò al mio, lentamente, io avevo gli occhi spalancati, non capivo più niente. Le sue morbide labbra arrivarono a sfiorare le mie, e ci unimmo in uno splendido bacio al sapore di menta che sembrò durare per sempre…

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Capitolo 33
*** Capitolo trentatreesimo ***


Capitolo trentatreesimo

Uuuuh finalmente ci siamo dati una mossa xDxDxD!!!!!!!! Finalmente bacio ma... c'è per caso qualcosa sotto? Mmmh, non so sinceramente che ne penserete di questo capitolo, ma penso sia divertente. L'ho riletto dopo tanto tempo e mi sono divertita da matti xD

Buona lettura!

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Quella notte non dormimmo affatto. Quella notte rimanemmo tutto il tempo seduti sul letto matrimoniale, a dirci tutto ciò che in quei mesi ci saremmo sempre voluto dire, due parole sole: “Ti amo”, quella frase si ripeteva uscendo dalle nostre bocche all’infinito, abbracciati l’uno all’altra, io che solo adesso mi accorgevo di tutte le piccole cose che mi aveva detto e fatto, che era come se mi stesse già dicendo quelle parole. Non pensavo più a Jonathan, non riuscivo a comprendere ciò che lui provava realmente per me, se amore o amicizia, ma non m’importava, perché ora l’unica cosa a cui pensavo era al ragazzo che avevo davanti, lui che non mi aveva mai spezzato il cuore, che non mi aveva mai dato buca, che era sempre stato al mio fianco quando ne avevo bisogno, era lui quello che cercavo. E lui invece sembrava avere soltanto me, e voleva avere soltanto me. A nessuno dei due importava di essere popolari a scuola, non c’importava dei pettegolezzi o delle partite di football, ci importava solo di stare insieme, sembrava che nessuno potesse separarci.

– Jenice, – mi sussurrò, con la testa appoggiata alla mia – tu sei la persona più importante della mia vita…

Fissai per qualche secondo le pieghe della coperta del letto matrimoniale, per poi guardare il comodino, dove era posata la sveglia.  Sì era tardi, erano già le cinque di mattina, eravamo stati quattro ore solo a parlare, ma non importava, sarei potuta rimanere sveglia anche per tre giorni di fila.

Come non detto, i miei occhi si chiusero lentamente, e dalla mia bocca uscì con voce sottile quest’unica frase:

– Prima o poi scapperemo da questa realtà…

E mi addormentai dolcemente tra le sue braccia.

Quasi come se fosse stato appena un attimo dopo, una luce abbagliante mi trafisse gli occhi. Io li riaprii di scatto, senza ricordare dove mi trovassi e con chi, sapevo solo che mi ero come svegliata da un sogno.

Ero al centro del letto matrimoniale, sotto le coperte, ancora vestita. Girandomi, vidi distintamente la finestra da cui passava la luce del sole. Confusa, con un gran mal di testa e gli occhi ancora stanchi, guardai la sveglia: era quasi mezzogiorno. Oddio, avevo dormito talmente tanto? Improvvisamente una fitta alla testa. Bah, mi sentivo come se fossi stata in preda ad una post sbornia. Cercai di ricordare cosa fosse successo, quasi convinta di essermi realmente ubriacata. Ma no, i ricordi riaffiorarono in un baleno nella mia testa, nitidi. Prima pensai a Jonathan, a tutto ciò che mi aveva detto, ormai convinta fermamente che non fosse più lo stesso di sempre. Poi pensai a tutto il resto della notte, con Kyle, una nottata di parole dolci meravigliosa. Guardai di nuovo la sveglia, e all’angolino di essa vidi la data del giorno prima.

“Accidenti, questa sveglia deve essersi rotta. Come lo dico a Lindsay?” pensai.

Afferrai la sveglia dal comodino, chiusi la mano destra a pugno e cominciai a darle delle botte. Il chiasso che produceva era infernale, tutte le viti all’interno che sbattevano di qua e di là, producendo un fastidioso tintinnio.

Dalla porta sbucò improvvisamente Kyle, che mi guardò con aria vagamente perplessa:

– Che cosa diamine stai facendo?

Quando lo vidi ebbi un tonfo al cuore improvvisamente, ripensando a tutte le parole della notte prima.

– Ho paura di avere rotto la sveglia di Lindsay!

Lui si avvicinò al letto, per poi sfilarmela dalle mani. La esaminò.

– Beh certo che la rompi se continui a sbatterla… a me sembra a posto, cosa ci trovi di strano?

Come? A posto? No, la data era sbagliata, era rimasta indietro di un giorno, era impossibile che non se ne fosse accorto!

– Ma come? No! Guarda bene la data!

Lui guardò bene l’angolino della sveglia dove c’era la data. Notai che era come se evitasse di guardarmi direttamente negli occhi, ed era arrossito. Allora anche lui si stava ricordando della notte scorsa!

– Mi sa che stai delirando. Quella vodka ti ha fatto male, vedi di riprenderti per il concerto, altrimenti non riuscirai nemmeno a goderti quei Contagious che ti piacciono tanto.

Che cosa? Che voleva dire “quella vodka”? Poi mi sorse improvvisamente un dubbio. Di scatto afferrai la borsa che stava sul comodino insieme alla sveglia, anche se non ricordavo che fosse sempre stata lì, e tirai fuori il cellulare, guardandolo bene: la data era la stessa che segnava la sveglia, quella del concerto tanto atteso. Ma non era possibile, perché io ci ero già stata al concerto, avevo parlato con Jonathan del fatto che volesse che diventassi una cantante, avevo litigato con Kyle ma poi Jonathan mi ha fatto un discorsetto e ci ho fatto pace, poi ci eravamo baciati e… poi non ricordavo… ecco un’altra fitta alla testa. Non ricordavo l’intermezzo tra il bacio sotto al lampione e la nottata sul letto matrimoniale.

– Kyle… cosa intendi per “vodka”? Ti puoi spiegare?

Lui rimase di stucco.

– Oh mamma… immagino che adesso dovrò raccontarti tutto quanto…

Rimasi allibita, tutto? Tutto cosa? Insomma, qualcuno mi poteva gentilmente spiegare cosa mi stava succedendo e perché avevo quel terribile mal di testa?

– Okay Jenice. Dimmi cosa ti ricordi di ieri sera – terminò lui.

Bene, adesso ero io quella che gli doveva le spiegazioni.

– Beh… noi eravamo andati al concerto, poi all’ultima canzone Jonathan mi ha fatto salire sul palco per cantare con lui… ed ero emozionatissima! Poi mi aveva proposto di diventare la seconda cantante della sua band, io allora sono uscita per parlarne con te e… ricordo che abbiamo litigato.

Mentre parlavo non riuscivo nemmeno a guardarlo in faccia. Era troppo imbarazzante, specie la parte che sarebbe venuta dopo. Continuai:

– Allora sono tornata da Jonathan… che mi ha convinto che non era quella la scelta giusta da fare per me, anche se lui l’avrebbe voluto, mi aveva detto che dovevo decidere in piena sicurezza. Allora sono tornata a casa e… ehm… noi, praticamente, alla fine, siccome io avevo le chiavi e poi c’era il lampione e… beh insomma, noi ci saremmo praticamente baciati.

Alzai lo sguardo. Lui mi guardava sorpresissimo, completamente rosso di vergogna.

– E… nient’altro?

Arrossii ancora di più. Strinsi nelle mani i lembi del piumone, e terminai il discorso a fatica:

– Abbiamo passato tutta la notte a dirci “ti amo”. Tutto qui.

Di nuovo lo riguardai negli occhi. All’improvviso gli sfuggì una lieve risata.

Mi chiesi che cosa ci trovasse in quel momento da ridere comunque, visto quello che gli avevo appena detto.

– Beh, mi dispiace Jenice, ma non è del tutto vero!

Non era tutto vero? Cioè? Io mica me le inventavo le cose, davvero era successo! Non avevo sognato! Era la pura realtà, ne ero assolutamente certa.

– Kyle… puoi spiegarti meglio per favore? Mi stai prendendo in giro?

Il suo sguardo si fece serio, si sedette accanto a me sul letto.

– Vedi Jenice… ho paura che quasi tutto quello che è successo ieri sera… tu te lo sia sognato.

No, non poteva essere così. Non si spiegherebbe nulla allora, perché ero andata a letto vestita? Ricordavo distintamente di essermi addormentata tra le sue braccia, infatti!

Il mio tono si fece anche lui più serio:

– Kyle non prendermi in giro, che cos’è successo davvero?

– Io sono più che serio, Jenice. Ieri sera siamo andati in un locale, e hai bevuto troppa vodka alla menta. Ti sei ubriacata e hai sognato tutto, ecco cos’è successo!

Mi ero ubriacata. Non era mai successo in tutta la mia vita che mi ubriacassi, quindi doveva succedere proprio la sera prima. Qualcosa non mi tornava in questa storia, era una cosa troppo inverosimile. E starmi per convincere che avevo sognato tutto, era una vera disgrazia per me, un giorno di fatica buttato, sprecato, pieno di azione, lacrime ed estasi da concerto.

– Cosa c’è allora di vero, in quello che ti ho raccontato…?

Gli si dipinse uno strano sorriso sulla faccia. Un sorriso che avevo intuito perfettamente cosa volesse comunicarmi.

– Questo… – sussurrò, avvicinandosi lentamente con il viso. Mi tornò alla mente il ricordo del nostro primo bacio, al sapore di menta, come la vodka con lui affermava di essermi ubriacata. Mi prese la testa tra le mani, delicatamente, e mi stampò un altro dolce, tenero bacio sulle labbra.

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Capisco la confusione generale. Ma coooooome???!!?!?!?! Allora che diavolo è successo, ci sono un sacco di cose che non tornano!!!! E poi qualcuno penserà che io mi sia inventata la scusa del sogno per far tornare le cose a posto perché non volevo troppi intrecci... ma non è così, questo sogno è di fondamentale importanza in questi ultimi capitoli (36 + finale a sorpresa)

ALLA PROSSIMAAAAAAAA!!!!!!!!!

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Capitolo 34
*** Capitolo trentaquattresimo ***


Capitolo trentaquattresimo

Oh sì, mi rendo conto di quanto i miei capitoli siano corti, su Word occupano appena tre pagine O.O è che è molto vecchia, questa storia, e man mano la sto riguardando. However, per tutti quelli che aspettavano di capire che diamine sta succedendo qui, e che vuol dire che Jenice si è sognata tutto, ecco qui il capitolo 34, ho deciso che probabilmente unirò il 35 e il 36, e poi ci sarà.... IL FINALE A SORPRESA, un finale che forse vi aspetterete, forse no, chi lo sa...

Bye Bye 

PS AVVERTENZA: dopo aver letto, è ESTREMAMENTE probabile che rimarrete così "O.ò, ma non è mica possibile una cosa del genere!!!!!". Allora io vi dico: credetemi -.- può succedere -.-

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Kyle.

 *

Quel maledetto spartito. Non l’avrebbe mai buttato. Avevo deciso di lasciar scorrere, perché pensavo di essere troppo geloso, magari esageravo. Insomma, pensavo che magari qualcosa per quel cantante lo potesse provare, e questa era una cosa che mi tormentava, ma il fatto che lui fosse famoso mi lasciava qualche chance in più. Anche se in quei giorni, tuttavia, continuavo a paragonarmi a lui: era bello, famoso, tutte le ragazze ai suoi piedi, e stava facendo una montagna di soldi, e come se non bastasse era anche simpatico. Cosa potrebbe volere di più una donna? Io invece ero… ero me stesso. Era questo il problema, ero semplicemente me stesso, e nulla di più.

Quella sera, il giorno prima del concerto, Jenice era talmente eccitata che se ne uscì fuori con l’idea di festeggiare. Io, non avendo nulla in contrario, sebbene non avessi affatto voglia di andare a quello stupido concerto, e sebbene fossimo già sotto le coperte dopo esserci guardati un film dell’orrore, decisi di accompagnarla senza oppormi.

Uscimmo di casa, lei era così tranquilla e sorridente, con quella felpa rosa che le donava tantissimo, avrei voluto dirglielo. Non riuscivo mai io a farle dei complimenti, neanche quando davvero avrei voluto.

Le strade erano affollate, lei non voleva staccarsi assolutamente da me e continuava a tenermi la mano. Io, ovviamente, non avevo di che lamentarmi, ma cercavo di non farlo notare troppo. Quando ero con lei era tutto diverso, perché se con gli altri in quasi tre anni ero riuscito a nascondere perfettamente le mie emozioni e i miei sentimenti, con lei invece apparivano troppo evidenti. Tutto me stesso usciva allo scoperto quando eravamo insieme, io e lei da soli.

Entrammo in un locale, erano le dieci di sera circa. Chiaramente all’interno non c’era quasi nessuno, perché si iniziava a fare festa solamente dopo le undici, ma Jenice era talmente emozionata per il concerto del giorno dopo che mi disse di andare a prendere qualcosa. Quando le chiesi cosa volesse, rimasi sorpreso: voleva della vodka. Per quanto ne sapevo, lei non aveva quasi mai bevuto alcool, e le poche volte che lo aveva fatto mi aveva affermato che non riusciva a reggerlo per niente, anche poco. Tuttavia mi aveva anche detto di non essersi mai ubriacata seriamente, per fortuna.

Il barista mi diede facilmente della vodka alla menta, siccome per la mia età sembravo abbastanza grande. Il bicchiere era abbastanza grande, molto più di uno normale.

Jenice lo bevve quasi tutto velocemente, io l’aiutai a finirlo, disse che quella sera doveva fare qualcosa che non aveva mai fatto, da quanto era eccitata. Inutile dire che presto cominciò a farle male la testa, e voleva uscire dal locale.

Una volta fuori cominciò a delirare, a dire tutto ciò che pensava. Tutto ciò a cui pensava ovviamente era Jonathan.

Mi chiese poi, camminando sul marciapiede, il cielo sempre più buio, se ero geloso. Cosa diamine potevo risponderle? Le dissi che non era assolutamente un problema, quello lì, per me. Eh sì, si era ubriacata davvero. Con un bicchiere di vodka alla menta.

Mentre camminavamo, mi propose di sederci su una panchina. La accontentai, e lei divenne seria improvvisamente. Cominciò a parlare, e mi disse queste testuali parole:

– Kyle… io voglio che tu sappia che anche se parlo sempre di Jonathan, che è vero, è bellissimo e lo adoro tanto tanto… comunque io ti amo tantissimo, più di lui, lui per me è solo il mio migliore amico, nulla di più!

Rimasi sorpreso da quelle parole, anche se ero sicuro che lo pensasse sul serio. Fu decisamente un modo strano per dirmelo, ma mi disse che mi amava.

Appoggiò piano la sua testa sulla mia spalla.

– E tu? – continuò – Tu mi ami, non è vero?

Io non sapevo che dire, se non la verità. Io l’amavo più di qualunque altra cosa, incondizionatamente.

–Sì che ti amo, stupida…

Forse “stupida” non ci stava davvero bene nella frase. Ma era stata stupida forse a non accorgersi e ad avere la certezza che io l’amassi in tutto quel tempo che era trascorso, e poi anche lei me l’aveva confessato in una maniera alquanto strana, perciò ero giustificato.

Delicatamente, mi avvicinai a lei e, senza curarmi di tutta la gente che stava circolando, sfiorai le sue labbra con le mie, per poi darle un bacio. Sentivo il cuore uscire dal petto, delle emozioni bellissime sovrapporsi tra loro. Un bacio che non dimenticherò mai, un bacio che sapeva di menta. Anzi, per precisare, sapeva di vodka, alla menta. Lei invece se lo sarebbe presto scordato, dato che si era ubriacata con un bicchiere di vodka… anche se sparavo di no.

– Kyle sei fantastico… non avrei mai pensato di potermi innamorare di te. Non avrei mai pensato di potermi innamorare di nuovo…

Quel Dylan Light. Se l’avessi saputo prima… quanto avrei voluto poterla consolare, quando le spezzò il cuore… ma probabilmente la mia testa sarebbe stata controllata dalla gelosia, quindi chissà cosa avrei potuto dire. Era stata veramente una fortuna riuscire a trovare quei biglietti, anche se proprio da lui, sebbene in fondo al mio cuore avevo sempre sperato di non trovarli mai… pensai di essere stato un egoista, per un attimo, perché non volevo la felicità di Jenice, cioè rincontrare il suo preziosissimo cantante. Eppure l’amavo talmente tanto, che non potevo non sostenerla in qualunque cosa, qualsiasi decisione lei avesse preso.

– Sai una cosa? Sei adorabile la notte quando dormi. Anche se ti scopri continuamente – le sussurrai, ormai che ci stavamo dicendo tutto.

Lei non mi rispose, era lì, con la testa appoggiata a me, si era addormentata.

– … Appunto… – sussurrai tra me e me.

Era una fortuna che fossimo vicino a casa. Almeno potevo portarla in braccio fino a lì, non sarebbe stato un problema.

La lasciai dormire tranquillamente, trasportandola fino alla porta tra le mie braccia. Prenderle le chiavi dalla borsa fu una vera impresa, ma ce la feci, alla fine, e aprii la porta.

Immediatamente mi diressi verso la camera da letto, la posai sul matrimoniale mentre dormiva beata, chissà cosa stava sognando…

Appoggiai la sua borsa viola sul comodino, mezza aperta da dove avevo miracolosamente estratto le chiavi, e la infilai ancora vestita sotto le coperte dopo averle tolto gli stivali.

Mi sembrava così fragile, così bisognosa di qualcuno che l’accontentasse in tutto e per tutto. Io, se era per quello, sarei stato disposto a trattarla come una principessa, allora.

– Kyle… – udii la sua voce – io non ho sonno. Possiamo anche stare così tutta la notte, non m’importa…

Lei si tirò su, guardandomi negli occhi, abbracciandomi.

– Voglio sentirmi ripetere che mi ami, ti prego – continuò.

Le accarezzai i capelli, felice di vederla sorridente, felice che volesse sentirsi dire da me che l’amavo.

– Ti amo, te lo potrei ripetere all’infinito. Ti amo ogni giorno di più.

Lei fu così ancora più felice, e mi strinse il colletto della camicia, dalla parte dove avevo la vecchia cicatrice.

Le ore passavano, rimanemmo lì a raccontarci di tutto e di più, lei mi continuava a dire quanto nel profondo avesse sempre voluto saltarmi addosso e baciarmi, io invece le dissi quante volte l’avevo accarezzata e baciata sulle guance mentre dormiva. Forse una o due volte se n’era anche accorta, ma non me lo disse mai.

– Ho bisogno di te, Kyle… mi lasceresti per un’altra? – disse ad un certo punto, con la massima dolcezza possibile.

Come poteva anche solo pensare una cosa del genere?

– Certo che no, Jenice, tu sei la persona più importante della mia vita…

Guardò le coperte, per poi alzare lo sguardo alla sveglia, che segnava le cinque del mattino, infine, come se non gliene importasse, tornò a guardarmi negli occhi, sussurrandomi questa frase:

– Prima o poi scapperemo da questa realtà…

Capivo a cosa voleva riferirsi. Probabilmente intendeva il fatto che a scuola non potessimo stare insieme comportandoci come ci sarebbe naturale, perché entrambi odiavamo il fatto che ognuno lì dentro dovesse spettegolare su tutto e tutti, non volevamo che si parlasse troppo di noi, della nostra strana coppia. Volevamo rimanere nell’anonimato, almeno nel contesto scolastico. Poi se Jenice voleva diventare una cantante famosa e farsi vedere su tutte le copertine delle riviste, sarebbe stata un’altra cosa.

Se avessimo fatto vedere che ci frequentavamo spesso, che eravamo molto in confidenza, qualcuno sicuramente se ne sarebbe uscito prima o poi con frasi esagerate o non vere, e tutta la scuola sarebbe diventata impossibile da gestire e sopportare. Un giorno saremmo fuggiti da quella realtà, saremmo diventati liberi di gestirci come volevamo.

Detto questo, non parlò più. Io la tenevo tra le braccia, mentre lei si era addormentata dolcemente, sarei rimasto così per sempre, ma avrei disturbato sicuramente il suo sonno, tenendola per tutto il resto della notte così. Quindi la rimisi sotto le coperte, e la lasciai sognare in pace.

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Angolo autrice di fondo:
VE LO DICEVO, IO!
However, vi assicuro che è possibile ubriacarsi con un bicchiere di vodka, io ne so qualcosa -.-
Prendetemi per scema o deficiente, se volete xD se avete qualcosa da commentare, lo leggerò. Ci vediamo prestissimo con il 35, intanto...
SPOILEEEEEEEER:::::::

Oh mamma, pensai, chissà se a mia insaputa… Ma no, Kyle me l’avrebbe detto… o forse no? O forse preferiva lasciarmi all’oscuro per il mio bene? Mi venne improvvisamente questo grosso dubbio, mi catapultai così giù dal letto.

Kyle?! – gridai dalla camera da letto – Non è che c’è qualcosa che abbiamo fatto più del bacio che non mi vuoi dire, vero?

Sentii dall’altra stanza provenire una risata.

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Capitolo 35
*** Capitolo trentacinquesimo ***


Capitolo 35

Ehi, salve a tutte!!

... già, lo so lo so -.- sto via dei mesi e me ne torno con un "Ehi, salve!", non c'è alcuna giustificazione per il mio "ritardo" (più che un ritardo è qualcosa di molto più esteso che non saprei definire O.O) comunque... sono qui!

Ho visto che si richiede di me, qui in giro :D non può che farmi piacere!!!!

Grazie per chi ancora mi sopporta T________________T!!!

Mi spiace di essere arrivata all'ultimo capitolo T____T comunque, non è proprio l'ultimo, perché non dimenticatevi del finale a sorpresa!! Già, ci sarà qualcosa di davvero interessante da scoprire u.u niente paura xD nulla di troppo impossibile o astruso! Spero di ritornare presto sulle scene di EFP, ma per ora vi lascio con questo doppio capitolo, sperando che non abbiate perso del tutto la pazienza ^^'

PS: sto tentando con l'ennesima storia, si chiama "Il diario di Belle" e secondo me è la miglior cosa che abbia mai scritto u.u non per vantarmi xD PASSATE, PER FAVOOOOOOOOOOOORE!! *w*

***

– Cosa?! E io avrei detto tutte quelle cose? Ma… dici sul serio? Quindi aspetta, il concerto, la lite e tutto… io l’ho sognato? – dissi ancora incredula, mentre lui annuì.

– Oh no! Uffa… mi viene da piangere! E poi… – continuai, portandomi una mano vicino alla bocca, fissando un punto per terra – ti ho detto tutte quelle cose… non ce l’avrei mai fatta a dirle da sobria.

Kyle stette in silenzio per un attimo, lasciandomi pensare ad alta voce, poi intervenne:

– La cosa più importante per me è sapere se tu quelle cose le pensavi sul serio.

Lo guardai, comprendendo cosa volesse sentirsi dire.

– Ma certo che le pensavo davvero, altrimenti io…

Non feci in tempo a terminare la frase che si alzò dal letto matrimoniale, dicendo semplicemente con il suo solito tono tranquillo e uno strano sorriso sulle labbra:

– A me basta questo. – e lasciò la stanza.

Il peggio era che non ricordavo assolutamente niente. Ero stata io allora la prima a dirgli “ti amo”, anche se non avrebbe dovuto importarmi molto. Però… ero infastidita dal fatto che non me lo potessi ricordare. Okay, non mi sarei ubriacata mai più, decisi. E poi con solo un bicchiere di vodka alla menta… ma come si fa?

Cominciai a ragionare su tutto, non so cosa mi sconvolgesse di più, se il fatto che mi ero sognata tutto, oppure il fatto che ubriacandomi avessi spiattellato a Kyle un mucchio di cose che mi vergognavo a dirgli da sobria, e che avessimo passato, come avevo sognato, una notte stupenda…

Oh mamma, pensai, chissà se a mia insaputa l’avevamo fatto… Ma no, Kyle me l’avrebbe detto… o forse no? O forse preferiva lasciarmi all’oscuro per il mio bene? Mi venne improvvisamente questo grosso dubbio, mi catapultai così giù dal letto.

– Kyle?! – gridai dalla camera da letto – Non è che c’è qualcosa che abbiamo fatto più del bacio che non mi vuoi dire, vero? Perché se mi nascondi qualcosa faresti meglio a dirmelo subito anzi che lasciarmi nel dubbio…!

Sentii dall’altra stanza provenire una risata.

– Secondo te, Jenice? E poi se ti sei ricordata che siamo stati insieme sul letto a parlare tutta la notte, credo che ti ricorderesti se l’abbiamo fatto!

– Ah bene, – conclusi, sollevata – meglio così. La mia prima volta vorrei che fosse da sobria, perlomeno…

Ero ancora in piedi, vicino al letto. Sulla soglia vidi spuntare di nuovo Kyle, che era alquanto arrossito (era troppo carino quando succedeva).

– La tua prima volta… – disse senza guardarmi direttamente negli occhi.

– La mia prima volta. – terminai, ridacchiando. Avrei voluto dirgli che la mia prima volta avrei voluto che fosse con lui, ma non ero più sbronza, ahimé.

– Non credo che tu voglia fare colazione, visto che ora è… – continuò Kyle che era tornato di là, cambiando discorso.

– Beh no… anche se a dire il vero un po’ di fame ce l’avrei.

– Allora possiamo andare a mangiare fuori, se ti va.

– Come abbiamo sempre fatto, del resto… – risposi io.

Detto questo sgattaiolai in bagno, cominciando a lavarmi e vestirmi. La roba da lavare dei giorni precedenti l’avevo infilata tutta stropicciata in valigia, dato che non sapevo usare neanche la lavatrice.

Uscimmo poi di casa, cercando un posto carino dove mangiare mentre mi brontolava lo stomaco. Alla fine andammo in un fast food.

 

– Kyle… – cominciai, una volta seduti al tavolino. Ciò che gli avrei detto, non sapevo che reazione potesse suscitare in lui.

– Dimmi. – mi disse lui. Ero sicura che presto avrebbe fatto i salti di gioia.

– Io non ci voglio più andare al concerto. E così è deciso. Penso che anche tu approverai la mia scelta, dato che è dall’inizio che non volevi andarci…

Inutile dire come ci rimase. Si può benissimo immaginare. Rimase in silenzio per una manciata di lunghissimi secondi, finché non rispose:

– E come pensi di fare con i biglietti?

Già, i biglietti. Una cosa a cui non avevo pensato minimamente.

– Possiamo fare come ha fatto Dylan! Attacchiamo un volantino, e stavolta li rivendiamo a prezzo pieno così ci guadagniamo anche dei soldi in più, non è una buona idea?

Lui annuì, anche se poco convinto. Evidentemente si fidava di me quanto bastava.

Improvvisamente sentii il cellulare squillare, così presi la borsa e lo tirai fuori. Guardai il nome sul display, era Lindsay.

– Pronto? – risposi.

– Ciao Jenice! Sai che torno a casa oggi pomeriggio? Mi sono intrattenuta un po’ a Washington con il mio ragazzo, stiamo tornando entrambi a New York, siamo già in viaggio…

Non avevo pensato che sia Lindsay che il suo ragazzo, che la seguiva ovunque, abitavano a New York, una cosa che poteva giocare a nostro vantaggio, e mi venne un’idea:

– Senti Lindsay… saresti interessata al concerto dei Contagious di stasera?

Lei esitò un attimo, per poi rispondere:

– Ma come, non hanno già finito i biglietti?

– No, due li ho io e sono in prima fila. Non me la sento di farti pagare il prezzo pieno a te che sei mia cugina, io infatti li ho pagati la metà, puoi andarci con il tuo ragazzo no?

Lei sembrò alquanto eccitata.

– Davvero? Dici sul serio? Io avevo telefonato ma non ne avevano più! Tu non sei veramente intenzionata ad andarci? Ne sei sicura?

– Sicurissima. I Contagious non mi interessano. Quando torni oggi te li do, okay?

– Perfetto, grazie Jenice sei fantastica… non so cosa farei senza di te. Ma dimmi una cosa, la mamma non sospetta di nulla vero? E lo sa che hai comprato questi biglietti?

– Beh… no, non sospetta di niente, non sa nulla. Non ti preoccupare, tutte cose che rimarranno fra me e te.

– Grande, meno male… hai una cugina davvero irresponsabile!

– Comunque… oggi credo di saperti dire fino a quando resteremo, ma siccome non andiamo più al concerto credo che domani dovremmo partire…

Alzai lo sguardo verso Kyle, che mi guardava con un’espressione neutra.

– Bene, ma potete rimanere tutto il tempo che volete, credo che stanotte la passerò a casa del mio ragazzo dopo il concerto, beh mi dirai oggi pomeriggio. Grazie ancora Jenice sei mitica! A oggi pomeriggio allora!

– Ciao Lindsay… – e riagganciai.

– Partiamo domani? – mi chiese Kyle.

Io annuii, anche se mi dispiaceva. Quello sarebbe stato l’ultimo giorno passato interamente con il mio… già, ma adesso stavamo insieme? Perché questa piccola parte della situazione mi era ignota. Desiderai intensamente di poter fuggire un giorno dalla mia città, andarmene con Kyle da qualche parte, e stare sempre insieme. Non sarebbe mai stato possibile, a scuola da me, dove pettegolezzi e altre cose del genere erano di casa. A nessuno dei due interessava far sapere a tutti che eravamo andati a New York insieme, e neanche che ci amavamo. Saremmo stati troppo a disagio.

– Oggi diamo i biglietti a mia cugina, poi ci organizziamo per tornare a casa. Nessuno saprà mai niente di questa storia. – aggiunsi.

– Ma Jenice… – continuò Kyle – perché? Perché non vuoi più andare al concerto, se hai tanto insistito per venire a New York solo per questo?

La spiegazione era più che semplice. Io tenevo tantissimo a Jonathan, è vero, ma quel sogno di quella notte mi aveva fatto capire tante cose: non volevo arrivare a litigare con Kyle costringendolo a venire al concerto, perché sarei stata egoista. Poi Jonathan, lo immaginavo già da un po’ di tempo, era sicuramente cambiato. Come nel mio sogno, probabilmente aveva cominciato a fumare e a fare tante cose che prima non faceva, e se ci teneva davvero a me, arrabbiata o no, mi avrebbe telefonato una volta almeno, anche solo per chiedermi scusa. Se gliene fosse davvero importato di me, mi avrebbe contattata. Pensai che aveva inciso quella canzone solo perché il ricordo di me non si sbiadisse, mi avrebbe chiesto di far parte della band solo per gli ascolti e i soldi che avremmo guadagnato. Il successo fa male alle persone, a volte le cambia completamente, e anche se Jonathan mi aveva detto nel sogno di essere sempre lo stesso, forse non si rendeva conto che non era vero. E se invece fosse stata la verità, allora non avevo motivo di preoccuparmi per lui e andarlo a cercare in quella grande città.

I miei genitori non vennero mai a sapere tutto il casino che era successo. Non seppero mai che io e Kyle eravamo stati per giorni in una casa temporaneamente disabitata da soli, mentre mia cugina stava a intervistare personaggi famosi e a farsi il suo ragazzo a Washington. Quel giorno demmo i biglietti a Lindsay, facendogli pagare la metà come aveva fatto Dylan con noi, così fu come se non li avessimo mai comprati. Non avrei probabilmente mai più rivisto Jonathan, e mi dispiaceva tantissimo. Ma se lui non aveva la stessa voglia di vedermi, allora non sapevo che farmene di quei biglietti. Nel sogno aveva detto che mi sarebbe venuto a trovare, ma non ero così ingenua da crederci davvero, specialmente dal suo tono di voce. Di veri amici al mondo se ne trovano ben pochi, e quasi tutti talvolta si sottomettono alla fama e al successo, ed è impossibile tornarne indietro.

Riuscimmo miracolosamente a trovare un posto in treno. Di solito quelli che partono da New York sono sempre affollatissimi. Anche se un po’ a malincuore, fui felice di lasciare quella città, non faceva per me. Non lo volevo più, il successo, perché sarebbe significato perdere tutto, anche Kyle. Se dovevo diventare come Jonathan, allora era meglio restare felici nella propria anonimità ma insieme alla persona che ami.

Presto le vacanze finirono, e si tornò a scuola. Io e Kyle facemmo finta che non fosse successo niente: ci comportavamo da semplici amici, parlavamo il meno possibile, ma a volte non riuscivamo a nascondere che ci dessero fastidio alcune cose, come per esempio lui che era geloso quando qualche ragazzo mi si avvicinava, anche solo per salutarmi e fare una veloce chiacchierata. Io invece ero preoccupata del fatto che adesso molte ragazze dicevano di trovarlo affascinante. Riuscii a nascondere tutto su New York perfettamente, anche a Sharon, che continuava a pormi domande su domande.

I giorni passavano, e le uniche occasioni per parlare con Kyle era a lezione, vicino a lui. Ogni volta attiravamo su di noi gli sguardi scettici dei compagni.

Un giorno, all’intervallo, presi il mio caffé mettendomi come mio solito davanti alla finestra a guardare il paesaggio. Il cielo primaverile mi dava un po’ di felicità, anche se mi mancavano quelle giornate insieme a Kyle, dove non avevamo nessuno sguardo indiscreto…

All’improvviso sentii una mano appoggiarsi sulla mia spalla, un tonfo al cuore. Mi girai di scatto.

– Kyle… ma cosa…

– Shh… – m’interruppe lui, avvicinandosi di scatto con il viso e baciandomi davanti a tutta quella gente.

Il bicchierino di caffè vuoto mi cadde a terra, mi chiesi se fosse diventato pazzo. Non m’importava in quel momento. Davanti a tutti, mi godetti il bacio in quella sua unica passione che ci univa, senza curarmi di niente, il cuore forte come un tamburo.

– Kyle… perché? – gli sussurrai una volta staccati.

– Jenice… a me non importa cosa dice e pensa la gente. Basta che nessuno mi separi mai da te. Prima o poi scapperemo da questa realtà… – mi disse nell’orecchio.

Io ero arrossita, tutti gli sguardi addosso a noi, tutti che bisbigliavano qualcosa sul nostro conto.

Kyle aveva ragione, che importava? Ci eravamo fatti fino adesso troppe paranoie, troppi problemi… ed era tutto così semplice. Che importava? Io desideravo solo stare per sempre insieme a lui, nient’altro.

– Jen… – la sua voce si fece sempre più flebile – vorresti stare sempre insieme a me?

Ci volle un paio di secondi prima che riuscissi a realizzare cosa volesse dire.

– Significherebbe… che vorresti che ci mettessimo insieme?

Lui mi fissò dolcemente negli occhi, sentivo il cuore scoppiare, uscire letteralmente dal petto. Poi ci fu come il silenzio.

– Sì.

Incredula, strabiliata, e con tutte le emozioni possibili da provare in quel momento che si fecero vive, annuii decisa.

Lui sorrise.

Lo abbracciai forte, lo sentii sussurrarmi che mi amava all’orecchio. Girai lo sguardo un attimo verso tutta la gente: qualcuno sorrideva, qualcun altro era sorpreso. Ma alla fine che cosa m’importava?

Già. Che importava…

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Capitolo 36
*** Epilogo ***


Epilogo…

 

Siamo giunti alla fine, ahimè. Terminare questa storia mi sembra molto, molto strano… ha occupato ore dei miei pensieri mentre la scrivevo e voi ora siete qui che la leggete e la giudicate. Non è una cosa da niente, mi rendo conto.

Per l’ultima volta (in questa storia) vi auguro una buona lettura!

 

 

***

 

 

Quel giorno, tornata a casa da scuola, mi piantai sul divano color pesca ad accendere il televisore mangiando comodamente sdraiata qualcosa. I miei, che avevano già mangiato, mi ripetevano continuamente di non farlo, ma era un’altra delle mie cattive e malsane abitudini. Dopodiché mi chiusi in camera mia a luce spenta come al solito e misi la musica dello stereo a palla.

Presi il mio microfono, quello che usavo sempre per cantare, ignorando il vicinato a cui andava bene tutto e non si lamentava mai, e cominciai a cantare a squarciagola per la gioia dei miei genitori che si sarebbero volentieri tappati le orecchie dalla confusione.

Continuai così per più di mezz’ora, quasi facendomi andare via la voce, il che era successo più di una volta.

Misi lo stereo in pausa, le corde vocali esauste. Cominciai a riprendere fiato dopo tutto quel cantare, nell’oscurità della stanza riuscivo ad udire ogni minimo rumore. Sentivo anche i miei che interloquivano con qualcuno, ma non aveva importanza. Chiunque fosse, stava per ascoltare di nuovo le mie fantastiche performance.

Riaccesi lo stereo, la base musicale era partita. Perfetto, ecco che prendo fiato per cominciare a cantare i primi versi che…

Toc toc.

Mi bloccai, sprigionando fuori dalla bocca tutto il fiato che avevo accumulato. Un brivido giù per la schiena. Mi venne quasi da ridere; il tocco. Il tocco con cui la persona fuori dalla porta aveva bussato era proprio uguale a quello di Jonathan. Aveva bussato talmente tante volte a quella porta che mi ero memorizzata il suono che emetteva. Cosa da matti, ne sono consapevole.

Spensi lo stereo, ancora divertita da quel tocco sulla porta.

Non posai neanche il microfono, che rimase nella mia mano sinistra mentre con la destra afferravo la maniglia.

Come era mio solito fare, aprii la porta solo un po’, giusto per vedere dalla fessura chi fosse:

Cominciando dal basso, vidi un paio di jeans con una cintura allargata che in realtà i pantaloni non li teneva su, maglietta nera con una “J” bianca a carattere gotico stampata sopra che avevo già visto, addosso a qualcuno che aveva la fissazione per l’iniziale del suo nome. No, ma che andavo a pensare? Scorrendo sempre più in alto con lo sguardo, notai una chioma bionda che avrei riconosciuto fra milioni di altre. Istintivamente, chiusi di scatto la porta sbattendola.

Tenendo stretta la maniglia, m’inginocchiai convinta che le mie gambe non avrebbero trattenuto il mio peso un secondo di più. Mi venne un groppo in gola. Cercai di fare respiri profondi, per quanto mi fosse possibile. La mia mano sinistra lasciò cadere a terra il microfono, che fece un sordo tonfo per terra.

Mi tirai su, appoggiando per un secondo la fronte sulla porta. Quando mi fui ripresa per tutto, dopo qualche secondo, riaprii lentamente la porta convinta che fosse ancora lì. La mano sinistra corse immediatamente sull’interruttore della luce che illuminò la stanza.

L’avevo di fronte a me, nella sua figura che non era cambiata per niente in tutti quei mesi.

Ero lì, a bocca aperta e occhi sgranati, che lo squadravo dalla testa ai piedi mentre lui, sorridente, disse semplicemente:

– Salve, dolcezza!

Avevo davanti a me Jonathan Harvey.

Una qualunque fan dei Contagious che non avesse seguito tutta la storia dall’inizio mi avrebbe domandato:

“Ma chi? Jonathan Harvey il cantante?!”

Io allora a quel punto le avrei risposto:

“No, non il cantante. Il mio migliore amico”. 

 

***

 

Eccoci qui alla fine. Be’, mie lettrici, io sono stata benissimo con voi (metaforicamente xD) e terminare qui questa storia mi dispiace. Prometto che mi darò da fare per altre storie in futuro xD. E ti pareva che mettevo un finale come questo? Sto lavorando a questa, "Il diario di Belle" fatemi una visita, ci conto ;) Comunque, non possiamo sapere cosa capiterà a Jenice e Kyle (e anche a Joathan dai xD) ma possiamo immaginarlo, con tutta la nostra fantasia.

Perché la fantasia è la cosa più bella che ci è stata donata.

Fantastichiamo, finché possiamo.

Un bacio a tutte.

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