Le luci di Manhattan. di Lara Rye (/viewuser.php?uid=53340)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Primo. ***
Capitolo 2: *** Capitolo Secondo. ***
Capitolo 3: *** Capitolo Terzo ***
Capitolo 1 *** Capitolo Primo. ***
Le luci di Manhattan.
[Jason -
Nathaniel]
Le luci di
New York splendevano ancora alle tre di mattina: quella
città non smetteva mai
di brillare, di emanare la sua luce, di illuminare i lontani turisti
europei e di
portare alla disperazione i propri cittadini.
Jason si
svegliò lentamente, avvolgendo la coperta attorno al corpo
nudo ed osservando i
pub ancora aperti dal suo appartamento al quindicesimo piano, mentre
sentii il
ragazzo nel suo letto svegliarsi ed avvicinarsi lentamente a lui, in
tutta la
sua stupenda nudità che però, non scosse
minimamente Jason.
“Ti chiami
Jason, bellissimo?”
Non aveva
mai amato i ragazzi particolarmente effeminati ma spesso, soprattutto
nell’ultimo
periodo, ci passava oltre se l’attrazione e il fisico del
ragazzo erano
abbastanza soddisfacenti.
Sesso. Era
l’unica cosa che animava ancora Jason, che non rendeva
solamente il suo corpo
un involucro vuoto. Spesso era convinto che il sesso spingeva la sua
anima
sempre più a fondo, nascondendola dentro di sé,
in modo da far finta che essa
non esistesse nemmeno, eppure era lì, all’interno
di lui e talvolta bruciava
ancora, portandolo alla disperazione lacerante.
“..Non
importa.”
Il ragazzo
si scostò, offeso, non solo per la conversazione assente ma
anche perché in
tutta la nottata, tra le vari grida d’entusiasmo dovute
all’orgasmo, quel Jason
non gli aveva mai chiesto nemmeno il suo nome.
Per lui
era solo una buona scopata, come per la maggior parte dei ragazzi di
Manhattan.
Si mise
velocemente i jeans, chiudendo la cinta di pelle marrone. “Un
medico eh?”
Jason s’irrigidì
ancora di più, lanciando per la prima volta un serio sguardo
al ragazzo:
sembrava veramente interessato a lui, alla sua vita. Voleva
conoscerlo e magari far nascere qualcosa. Aveva sbagliato
ragazzo: lui non stava con nessuno, non più perlomeno. I
tempi per amare erano
finiti tanto tempo prima, quando il suo cuore emetteva ancora
qualcos’altro oltre ai
battiti fisici normalmente accettabili.
“Lo ero un
tempo. Ho ancora l’abilitazione ma, non pratico
più.”
Il ragazzo
lo guardò, annuendo. Era chiaro che non doveva andare oltre,
che non poteva.
Sapeva
benissimo capire quando le sue parole si erano imbattute in una ferita
evidentemente non ancora del tutto guarita: quella di Jason sembrava
ben aperta
e ancora sanguinante.
“Io vado.”
Disse con un tono lieve e simile al sussurro, lasciando un piccolo
biglietto
sul comodino.
Jason
sentì il rumore della porta, quando voltandosi per un
secondo chiese: “Come ti
chiami?”
“Nathaniel.”
La porta sbatté, lasciando Jason da solo, di nuovo.
[…]
L’incontro
con Nathaniel –non tanto la notte di sesso, ma
particolarmente la minuscola
conversazione seguente- aveva fatto agitare Jason, smuovendolo dal suo
solito
stato di indifferenza verso il mondo.
Era un
ragazzo, era stato del sesso, come molte altre notti eppure Jason si
sentiva
diverso, un po’ meno apatico. Era un giorno strano, uno di
quelli che gli
avrebbero cambiando la vita, soprattutto quando, girando un angolo a
Soho, si
ritrovò davanti a qualcosa di inaspettato e terribile,
qualcosa per cui non era
ancora pronto.
“Un
medico! Qualcuno chiami l’ambulanza!” Una donna
particolarmente minuta stava
chinata, mentre gridava, sul corpo di un uomo abbastanza corpulento
ricoperto
dal sangue.
Jason non
poteva aspettare. Non era questione del suo cuore, della sua paura o
del suo
passato ma del motivo per cui aveva passato cinque anni a Stanford,
laureandosi
in medicina e che l’aveva portato alla specializzazione in
chirurgia: l’unico
scopo della sua vita erano gli altri, poter salvare qualcun altro,
combattere
contro la morte prematura.
Jason fece
un lungo respiro, poi iniziò a correre verso
l’uomo. Ogni secondo era
importante.
“Sono un
medico.” Disse solamente, prima di cercare di fermare
l’emorragia. Mentre le
sue mani si sporcavano di sangue e i ricordi gli mischiavano la paura
ai suoi
stessi battiti, cercò di non fermarsi, di combattere per un
uomo innocente.
[…]
La
giornata nella sala operatoria passò velocemente:
assisté il chirurgo, cercando
di salvare la vita di quell’uomo.
“è bello rivederti
da queste parti, Jase.” Kendra –la sua migliore
amica e capo infermiera del suo
vecchio ospedale- gli sorrise. “Sai che puoi tornare quando
vuoi, Jas?”
“Lo so.”
Si tolse i guanti macchiati di sangue. “Ma Ken, non credo di
essere ancora un
medico.”
“Dopo
tutto questo, Jason? Dopo oggi? Non esiste nessun’altro al
mondo che è più
medico di te. Se non vuoi farlo per te, fallo per me ma soprattutto
fallo per
Alec.”
Jason
sussultò. Sentire il nome di Alec
era
ancora qualcosa di penetrante e doloroso.
“Ci penserò.
Devo andare ora, Ken!” Jason prese il biglietto dalle tasche
dei pantaloni. Per
la prima volta dopo Alec, voleva vedere un ragazzo.
Abitava a
Soho.
Appena
suonò il campanello, Nathaniel si presentò
davanti alla porta.
“Jason,
cosa ci fai qui?”
Jason si
toccò i capelli biondi, quasi agitato. “Volevo
chiederti se ti andava di andare
a prendere una birra, o magari un Daiquiri.”
“Hei, mica
sono una femminuccia. L’ombrellino nel cocktail non
è la mia passione! Vada per
la birra.”
Jason gli
sorrise. “Ok, Nathaniel!”
“Chiamami
solo Nate.”
...
Questa
storia partecipa alla Challenge dal nome alla storia (only Slash)
di Nonna Papera.
Jason: medico che guarisce.
Ho cercato di puntare sulla cura di se stesso, del suo essere medico
che guarisce gli altri e se stesso. Nel prossimo capitolo si capiranno
più cose, soprattutto su Alec.
Dovrebbe essere composta da tre capitoli.
Spero vi piaccia ^^
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Capitolo Secondo. ***
Le luci di Manhattan.
[Jason -
Nathaniel]
Quella birra -bevuta su una panchina sotto casa di Nate- non era andata
come entrambi avevano previsto.
Avevano passato delle
ore semplicemente a parlare, a chiedersi le cose più
imbarazzanti, a ridere. Avevano incominciato a conoscersi, andando
all'indietro, partendo dal sesso e poi arrivando all'anima, lentamente,
senza avere troppa fretta.
"Coming Out?" Nate
bevve un sorso dalla birra, accarezzando con la lingua il bordo di
vetro della bottiglia, mentre alzò il sopracciglio.
"Domanda spigolosa, cazzo. Quando ero più piccolo, i miei
portavano me e mia sorella, Cleo, in questo enorme residence al di
fuori della città. Era bellissimo tanto che sembrava di
essere in un panorama paradisiaco, poi un giorno, scoprì con
Cleo questo piccolo rockmusic club. C'era un piccolo palco e tantissimi
libri, tutti legati ai grandi cantautori rock. Al residence poi, c'era
una famiglia enormemente snob che aveva questo figlio, Theodore, il
quale era sradicato, eccentrico e bellissimo. Ogni sera scappava da
casa e andava in quel club. Dopo una delle tante nottate passate a
guardarci gli diedi il mio primo bacio sotto le notte di Love Me Two Times dei Doors,
cantata da un gruppo di adolescenti. Fu la serata più
eccitante di tutta la mia vita, anche perchè nella saletta
invernale, posta proprio dietro il locale, feci l'amore con lui per la
prima volta: tutto in quella maledetta notte."
Nate bevve ancora, lasciando scendere per la gola un lunghissimo e
quasi bruciante sorso. Probabilmente doveva evitare di dire quel
particolare, ma infondo si erano promessi di dire la verità,
anche se era del tutto scomoda e vergognosa. "Theodore aveva sedici
anni, io tredici."
Gli occhi di Jason si
aprirono totalmente, perplessi e spaventati, come se quell'informazione
equivalesse a un enorme bugia, anche se non gli occhi del ragazzo
poteva notare l'assoluta serietà. "Tredici?"
"Già."
"Beh, sei prematuro. Io
a tredici non sapevo neanche come funzionasse il mio cazzo, oltre alla
pipì intendo."
Nate sorrise, liberando la tensione del suo corpo che lo caratterizzava
ogni volta che scopriva quel piccola particolare della sua vita
sessuale. Jason l'aveva presa sul ridere. Era la prima persona ad
averlo fatto. "Beh Jason, pressoche neanche io. Theodore me l'ha
insegnato."
Jason
scoppiò a ridere, imbarazzatissimo. "La tua frase aveva un
non so che di profondamente erotico." disse, formulando un sorriso
malizioso e incredibilmente affascinante. "Quindi, non sei mai stato
con una ragazza?"
"Mai. Tu si?" Jason si
raddrizzò un attimo. Quei discorsi avevano provocato in lui
un piccolo movimento nelle sue parti bassi, e la cosa lo faceva
vergognare enormente anche perchè erano solo discorsi. "Oh
si, tante, veramente tante!"
"Da come l'hai detto
sembra che ti sia scopato tutta la generazione femminale!"
"..Più o
meno." Nate scoppiò a ridere, non riuscendo più a
distogliere lo sguardo dagli occhi azzurrissimi di Jason. Infondo non
poteva biasimare quelle ragazze, dato che Jason riusciva a brillare
nella notte con quel suo fascino sorprendente e delicato.
"Cioè, aspetta, non intendevo dire che.. insomma.." Le
parole di Jason si fermarono: Nate gli aveva poggiato un dito sulle
labbra, zittendolo. Avvicinò il suo viso accanto a quello di
Jason, lentamente, finchè non toccò le sue
piccole rosee labbra, accarezzandole, assaporandole, facendo di quel
loro bacio pura magia.
La lingua di Jason
s'intrufulò nella bocca di Nate, vivace e pronta a giocare
con quella del ragazzo, felice di assaporare la sua dolce saliva.
Velocemente le mani di
Nate si appoggiarono sulla vita di Jason, fino a scendere poco
più in basso,provocandogli ancora più eccitazione
mentre i loro baci si facevano sempre più insistenti e
passionali, come se l'uno avesse bisogno delle labbra dell'altro.
"..Vieni."
"Non dovevamo andare
lentamente?"
"Possiamo fermarci e
vederci domani per un altra birra, se vuoi." Lo sguardo di Nate era
serio: per quanto fosse eccitato e desideroso di averlo dentro di
sè, sapeva benissimo aspettare perchè come la
stessa mattina, Nate voleva lui, voleva conoscerlo ed imparare a
volergli bene, ad amarlo, ad ascoltarlo, a vivere un giorno con lui,
sfruttandone ogni possibilità. Jason, però,
sapeva che anche se quella sera era stata molto bella e Nate gli
piaceva veramente, lui non era interamente lì. La
sua indifferenza era coperta solo dall'eccitazione forte, dal desiderio
del sesso e di vita, di quella che lui non aveva da moltissimo tempo.
Si passo velocemente
una mano tra i capelli biondi, pensando alle varie
possibilità ma soprattutto a quella giornata stramba, a come
era iniziata e a come stava per finire. Non gli capitava da tempo di
iniziarla e finirla accanto alla stessa persona, una tra l'altro per
cui provava un notevole interesse. Perchè buttare tutto
quello? Perchè permettere a se stesso di rovinare ancora
tutto? Fece un lungo respiro prima di pronunciare quel maledetto nome.
"Alec."
"Cosa?"
"Nate, prima devo
parlarti di una persona. Ho bisogno che tu capisca che dopo non potrai
più tornare indietro, che non è tutto semplice
come pensi, che io assomiglio più alla persona di stamattina
che a quella di stasera. Ok?"
Lo sguardo di Nate
divenne cupo. Non era un ragazzo impressionabile, ma conosceva
perfettamente la distinzione tra serietà e divertimento, tra
l'essere gay e l'essere uomo. Nathaniel conosceva la paura e il viso di
Jason ne era coperto. "Racconta."
"Era l'ultimo anno di
specializzazione. Il mio lavoro era tutto ciò per cui vivevo
ed ero sereno dalla mattina alla sera perchè salvare vite
era sempre stato il mio scopo, tutto ciò che avevo sempre
desiderato fare. Ero parte dell'ospedale, ero vita e poi a completare
il mio quadro di serenità c'era Maraj. Era una ragazza
inglese di origini russe, bellissima. Non era solo la donna
più bella che avessi mai visto, ma era un oncologa
affermata, intelligente, furba, leale. Vivevamo insieme già
da qualche anno e il nostro futuro era perfettamente delineato fin
quando lui non si presentò sotto le sue mani: Alec Furbey.
Alec era un militare,
congedato perchè aveva il linfoma di Hodgkin. Ricordo la
prima volta in cui l'ho visto, accanto a Maraj. Sembravano il paradiso
unito, un insieme sublime di intelligenza e fascino. Ricordo che li
avevo visti ridere e in quell'istante, m'innamorai subito. Quel singolo
secondo fu la sensazione più emozionante di sempre.
Desideravo quel momento, quella passione. Desideravo prenderlo e farlo
mio, completamente, anche se la mia compagna rimaneva il mio mondo, la
mia pace, la mia amata quotidianeità.
Io ed Alec cominciammo
a ridere insieme, a diventare l'uno parte dell'altro, fino a quando,
facemmo l'amore nella sua stanza, durante il mio turno notturno. Quel
piacere, quell'intensità, quell'amore fu la cosa
più sorprendente della mia vita, più vera. Avevo
sempre creduto di essere etoressessuale, mal dal momento in cui lo
incontraì tutto nella mia vita cambiò, persino il
mio stesso io. M'innamorai per la prima volta nella mia vita,
perchè anche se avevo amato Maraj non mi ero mai innamorato
di lei, mai."
Il viso di Jason si
ricoprì di lacrime veloci e silenziose. Raccontare quella
storia era come scavare all'interno della sua anima bruciata, dilaniata
e distruggerla ancora di più, riportando quei ricordi nella
sua mente da tanto tempo completamente apatica.
"Io ed Alec stemmo
insieme per cinque mesi ovvero lungo la durata della sua chemioterapia.
Il tumore sparì ma subito dopo ripartì, rimanendo
ucciso la settimana stessa.
Ebbe un tumore maligno
e guarì, ma il suo stesso lavoro, quello che non accettava
il suo vero io, lo uccise. Lui era il mio vero amore, il mio primo. "
Nate non aveva distolto lo sguardo da Jason nemmeno per un secondo,
assorbito dal suo racconto, dall'amore che traspariva dalle sue parole.
"Nate, lui è stato il mio unico ragazzo. Certo, il sesso
è continuato ad esserci e forse è stato proprio
il modo in cui ho espresso quel dolore, ma ..ma non ho mai avuto
nessun'altro ragazzo perchè dopo la morte di Alec non sono
più riuscito a vivere, ad essere un dottore, ad essere un
uomo."
Nate si alzò
e rovesciò tutta la birra rimanente per terra, nel piccolo
giardino del condominio. Prese quella di Jason e fece lo stesso.
"..Ma? Nate?"
"Uno, se te lo stessi
chiedendo non ho alcun tipo di problema mentale e beh, due, non ti
chiedo di essere il mio ragazzo. In effetti non ti chiedo nemmeno di
essere un uomo, Jase. Ti chiedo solo di vivermi, giorno dopo giorno.
Nessun ragazzo si è mai aperto così con me e
questo significa che hai un anima accessibile e per questo fragile e
meravigliosa. Voglio riuscire a permetterti di lenire quel dolore
lentamente, come le nostre birre rovesciate nel giardino.
Andiamoci piano, ok?
Come volevi tu. Una birra di sera, un caffè di mattina."
"Domani mattina dovrei
andare in ospedale."
Gli occhi castani di
Nathaniel si illuminarono, vivaci e sereni. "Ne sono contento."
Si diedero un ultimo
piccolo bacio poi Jason s'incammino verso casa. Stava facendo dei
passi, anche se erano piccoli.
Missing
Moment {Jason - Alec}
Un
anno prima.
"Non è un addio
questo, sai?" La barba di Alec toccò il viso liscio e
coperto dalle lacrime di Jase.
"E cosa sarebbe allora?"
Le loro mani si sfiorarono, delicatamente e velocemente si lasciarono,
quasi come se fosse stato un errore, un malinteso e non un piccolo
gesto di vita.
"Baciami." La voce di
Alec era pronunciata, diversa dai soliti sussurri a cui Jase era
abituato a causa dell'assurda segretezza della loro storia d'amore.
A volte Jase non
riusciva nemmeno a pensare che fosse una vera storia d'amore dato che
era tutto talmente nascosto da fargli paura.
"Alec, qualcuno potrebbe
vederci."
Gli occhi color smeraldo
di Alec brillarono per un secondo - entusiastato dalla visione sublime
del suo ragazzo. Sapeva che sarebbe venuto in guerra con lui se solo
glielo avesse permesso. Sapeva che dividendosi, sarebbero andati
incontro alla morte interiore perchè l'uno amava altro
pienamente, senza sosta, senza farsi alcuna domanda, solamente
ringraziandosi a vicenda. Per quanto fosse più grande di
Jase, in quel momento Alec si sentì un bambino allontanato
dalla sua casa, dai suoi genitori, dai suoi primi amori.
"Non m'interessa. Ho
bisogno che tu mi baci, Jase."
Jason non
aspettò altro. Forse quella era la prima volta in cui non si
assicuravano di non essere visti e in cui il loro unico tormento era
ricordarsi di quelle sensazioni per l'eternità.
Le labbra di Jase si
incollarono a quelle di Alec, decise e fiere, pronte a lasciare il
segno in quell'ultimo bacio bagnato dalle lacrime, mentre il viso si
Jase veniva ricoperto dal suo tanto amato raspare della barba del suo
uomo.
Lentamente Alec
s'allontanò, pronto a ritornare in quella guerra che non
sentiva sua perchè aveva trovato il vero amore.
"Alec?"
Si girò, un
ultima volta, confondendo il verde dei suoi occhi con il celeste di
quelli di Jase. "Si?"
"Amami." Alec
annuì, senza dire nient'altro. L'avrebbe amato per il resto
dei suoi giorni, anche se sentiva che non sarebbero stati ancora tanti.
Non gli aveva chiesto di
aspettarlo principalmente perchè sapeva che non sarebbe
tornato, che quello sarebbe stato il suo ultimo viaggio.
Alec Furbey , Morto il 7
Marzo 2009 all'età di 34 anni.
Alec Furbey era morto
amando.
....
Note dell'autrice:
Devo ammettere che questo capitolo è stato per me
particolarmente difficile e complicato, anche se mi è molto
caro.
Il Missing Moment
finale è un mio gesto di egoismo probabilmente,
perchè essendomi innamorata di un mio personaggio quale Alec
non potevo non dargli voce, un finale, un vero addio.
Spero che vi sia
piaciuto.
Grazie mille a chi
l'ha messa fra le seguite, a chi ha commentato (risponderò
personalmente) e a chi la legge.
Spero che mi facciate
sapere cosa ne pensate.
Penso che si
concluderà con il prossimo capitolo, al massimo altri due,
non di più.
Lara
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Capitolo Terzo ***
3JasonNateAlec
Le luci di Manhattan.
[Jason -
Nathaniel]
"Jason McLean. Sembri
quasi un miraggio di questi tempi."
Il ragazzo emise solo un flebile sorriso, senza aggiungere una parola,
come risposta all'affermazione del suo vecchio capo reparto. Osservava
il corridoio
bianco aprirsi davanti a lui, movimentato dagli infermieri che
correvano da una parte all'altra, pronti ad aiutare i pazienti a non morire,
quando possibile.
Sin dalla sera prima aveva sperato che, tornando in quel posto e
rivedendo tutte le persone a cui era profondamente legato, dentro di
lui sarebbe scattato qualcosa di profondo, come un segno o un
avvertimento che quell'anno passato lontano dal suo lavoro era stato
tutto uno sbaglio per cui era pronto a rimediare.
I passi lenti
che percorreva, ascoltando il rumore delle sue scarpe che toccavano
l'asfalto tra quel reparto che per lui aveva sempre rappresentato la
sua vera casa, si mostravano inutili, come quella stessa mattina, quel
tentativo.
Sentiva il suo cuore pulsare ad un ritmo totalmente naturale,
indifferente e quindi privo di qualsiasi emozione.
Essere un chirurgo non era più l'essenza della sua vita e
non
corrispondeva più alla sua totale felicità:
probabilmente
tutto quello che lui aveva fatto prima dell'incontro con Alec non era
nemmeno stata felicità perchè quella vera, quella
che
ricordava lui, durava pochissimi secondi, inafferabili ed
irrecuperabili.
Eppure, dietro quel suo essere vile, Jason sapeva che si trovava in
quel posto per un motivo preciso ovvero perché era
esattamente quello il punto da cui
poter ricominciare. In quell'ospedale tutto era iniziato e in esso
tutto era finito.
"Dannie, ci vediamo dopo. All'una, giusto?" Osservò l'amico
annuire, prima di andarsene in un altro reparto che per quanto ci
avesse provato, non gli era mai appartenuto.
Attraversare quella porta
era come una metafora terribile con Dante Alighieri: era la porta
dell'inferno. Quando si varcava l'entrata, bisognava sapere che niente,
nell'animo e nel cuore, sarebbe stato come prima perchè si
mostrava, come un quadro, l'immagine di tantissime persone private
della propria dignità e del proprio futuro.
Jason si posò davanti a quel maledetto cartello verde,
pronto a
mostrare le indicazioni -a lui non neccessarie- per un reparto in cui,
come in nessun'altro, si capiva il vero significato della parola
malattia.
Oncologia.
Fece un lungo
respiro, profondo e denso, poi toccò la fredda maniglia di
ferro
ed aprì la porta, consapevole di quello che era e di quello
che
sarebbe diventato.
"Perchè ti fa
così tanto paura quella maniglia?"
Jason guardò la porta, tremando leggermente, fermandosi
davanti ad essa, mentre spingeva la carozzina di Alec.
"Là dentro c'è la perdita della speranza,
là dentro ci sono le persone.."
"Come me, Jason?"
Alec era ferito. Sapeva di non avere più nulla. Sapeva che
tutto gli era stato portato via, persino la sua stessa vita.
Il suo sguardo si abbassò, fermo e deciso, verso il cemento.
"Alec, scusami. Io non intendevo."
Alzò gli occhi, fermo nell'azzurro del ragazzo. "Sappiamo
entrambi cosa intendevi. Il punto è che non capisco come tu
riesca a stare con una persona per cui provi pena. Davvero, non ci
arrivo."
Jason non ribattè. Non sapeva cosa dire, come giustificarsi
e se c'era davvero un giustificazione per tutto ciò.
"Forse è meglio che non mi accompagni, oggi." disse infine,
aprendo la porta e facendosi strada, muovendo la carozzella
manualmente, anche se con qualche difficoltà.
Non avere il possesso delle sue gambe era disintegrante.
I
suoi passi erano intensamente delicati, come dei piccoli saltelli, come
se fosse in procinto di volare: si sentiva estremamente
piccolo
davanti a tutto quello, ai malati che avevano la forza che non aveva
mai visto in nessun altro, alla malattia più disintegrante
che
ci fosse, per lui molto più distruggente dell' Alzheimer o
di un
Ictus.
Gli infermieri, passando, lo guardavano: erano certi di riconoscere in
lui qualcuno che era già stato lì, che aveva
attraversato
quella porta e ne era uscito illeso, o perlomeno ancora vivo, anche se
Jason spesso ne dubitava.
All'improvviso si ritrovò davanti a quella stanza, a quella
che
per mesi era appartenuta ad Alec. Dalla porta mezza aperta,
poté
vedere ancora i ricami azzurri sulle tende bianche ed ingiallite, la
scrivania rossa, la televisione mezza distrutta la quale si vedeva
completamente in verde ed in azzurro, il calorifero ormai nero.
Osservò il letto.
Un ragazzino di non più di diciassette anni ci dormiva
dentro,
con il cuscino mezzo alzato e con il corpo completamente teso anche nel
sonno.
Jason avanzò, camminando lentamente, impaurito dal pensiero
di
poterlo svegliare, di poterlo disturbare in quei pochi momenti che
sicuramente il ragazzo riusciva a concedersi, liberandosi dal dolore.
Prese in mano la cartella, osservano i termini che gli
passavano
sotto le dita, mentre scorreva le pagine.
Samuel Denay: sedici anni non ancora compiuti, tumore in
prossimità del cuore e dei polmoni.
"Chi sei?" Il ragazzo lo fissava dai suoi occhi azzurrissimi,
molto simili ai suoi.
"Sono un chirurgo specializzato in cardiochirugia." Il ragazzo si
alzò, cercando di tirarsi su con la forza che non aveva
nelle
braccia. Ci riuscì in qualche modo, tentennando.
Jason lo osservò bene: nella sua magrezza e debolezza, aveva
una
bellezza intrinseca che gli circondava il viso, semplice e delineato,
come se esso fosse completamente distaccato dal dolore che circondava e
caretterizzava il corpo. I suoi occhi, azzurri come il cielo, come una
specie di paradiso celeste, esprimevano serenità,
curiosità e un incredibile voglia di vivacità e
vita.
Moltissime persone situate in quel reparto erano vuote, perse, chiuse
in una baratro, ma Samuel no.
Sembrava che ciò che traspariva dalla sua anima gridasse
vita a piena voce.
Samuel aprì il cassetto inferiore del comodino posto accanto
al
suo letto e porse una foto a Jason, dicendo solo: "Penso che appartenga
a te."
Jason la prese tra le mani, osservando bene quella fotografia,
raffigurante lui ed Alec stretti in un forte abbraccio.
"Non
abbiamo neanche una foto." sussurrò Jason, steso sul letto,
mentre Alec si preparava per una visita importante.
"Quando te ne andrai, non avrò neanche una foto di te, di
noi." concluse infine il biondo.
Alec era davanti allo specchio,
possente e scuro nel viso, come sempre. Avanzò verso la
scrivania, estraendo una polaroid.
"Facciamola."
"Abbracciami." sussurrò Jason.
"Cosa?"
"Abbracciami. Voglio potermi ricordare di un tuo abbraccio."
Alec lo strinse a sè, forte e deciso, mentre il viso
sembrava
rigato dalle lacrime. Era una specie di pre-addio, una foto per
ricordarsi della verità.
"Grazie" disse Jason,
riportando gli occhi sulla cartella del ragazzo.
Soho, Casa di Nathaniel. Ore 21.20
Nathan stava male.
I colori lo stancavano, come
sempre. Volse gli occhi attornò al soggiorno di casa sua,
color
bianco e nero, come un vecchio filmato di Jim Morrison o un vecchio
film, colmo di quella magia che il mondo gli aveva tolto, smembrandolo.
I suoi libri si aprivano in un perfetto ordine alfabetico, mostrandosi
perfetti e delineati, come una pura ossessione. Talvolta, quando stava
male e si sentiva perennemente solo, si beveva un bicchiere di vino
leggendo qualche pagina, quelle che gli serviva per superare, per
andare avanti.
"Come stai, Nate?" Nathan alzò lo sguardo verso la ragazza,
bionda e con un viso troppo giovane e spontaneo per i suoi trent'anni
di età.
"Sto,
Chloe."
"Devi perdonarla. Prima o poi dovrai farlo."
Nathan sbattè il pugno sul tavolo, violentemente, causando
la
fuoriuscita di un pò di sangue. Lui e sua sorella si erano
ripromessi di non affrontare più quell'argomento
così
doloroso eppure lei, proprio quel giorno, era ritornata a sbatterglielo
in faccia, brutalmente.
Aveva cercato di estraniarsi da tutto ciò, di vivere e
crescere
senza che nessuno potesse fargli o rinfacciargli il suo passato, la sua
vita precedente.
"Si tratta della mamma, Nate."
Gli occhi castani di Nathan cambiarono, assumendo un tono scuro,
raggiungendo quasi il nero, l'oscurita. Quella persona non era sua
madre, non più, non da quando suo padre era morto e lui si
era
ritrovato a combattere contro una persona malvagia, indifferente nei
confronti di suo figlio, di lui.
"Sarà tua madre. Non è più la mia da
molto tempo."
Il campanello suonò, interrompendo la discussione tra i due
fratelli. Nate guardò oltre la porta, emettendo un sospiro
di
sollievo. Era arrivato il suo adorato ospite proprio nel momento
perfetto.
Appena
Nate poggiò lo sguardo sul corpo di Jason, si
sentì al sicuro, pronto a ritornare nella sua falsa
serenità.
...
Sono giorni che sono su sto benedetto capitolo e finalmente pubblico,
non ce la facevo più a lavorarci sopra. Tanto è
comunque orribile.
A dir la verità è la meta di un capitolo: ho
deciso di dividerlo in due.. Il prossimo sarà totalmente
dedicato a Nate.
Comunque ho deciso di allungarla un pò.
Grazie a tutti, come sempre :)
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=612337
|