Another 1918

di AvevoSolo14Anni
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prefazione ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Prefazione ***


Prefazione:
 


Edward Masen era un ragazzo di soli sedici anni e mezzo, che aveva sogni e aspettative per la sua vita come tanti altri.
Viveva con i suoi genitori, Elisabeth e Edward Senior. La sua non era una delle famiglie più ricche di Chicago, ma non era nemmeno povera.
Edward purtroppo era costretto a lavorare come operaio in una vecchia ed enorme fabbrica, ma non era proprio quello che voleva. Lui voleva studiare, imparare tutto quello che si può imparare, per poi scegliere un lavoro adatto a lui. Ancora non sapeva quale, ma non era di certo l’operaio.
Aveva una mente molto aperta, curiosa, difficile da stupire. Era riflessivo e molto sveglio, intelligente nonostante i pochi insegnamenti ricevuti. Ma infondo era il 1917, in quell’epoca dovevi essere davvero ricco per permetterti di andare a scuola.
Anche se molto astuto, si era un po’ lasciato ipnotizzare da tutte quelle propagande sul reclutamento per la Grande Guerra, e sognava di poter fare il militare non appena diventato maggiorenne.
Ma il suo vero sogno nascosto era un altro, più semplice e comprensibile a tutti: trovare la felicità, trovare l’amore, quello vero.
Per questo lui teneva sempre gli occhi aperti, in una ricerca non troppo attiva, sperando che in qualche modo fosse l’amore a trovare lui, non il contrario.


Spazio dell'autrice:
Buongiorno a tutti e grazie per aver letto questa breve prefazione!!! L'ho voluta mettere per sentire magari qualche vostro commento a proposito di questa mia idea... Allora che ne dite? La continuo? :)
Spero di ricevere almeno un paio di recensioni (please!!) :)
Che altro dire? Baci e a presto, Juls.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1:
 


Qualcosa mi accarezzò una spalla e poi il viso, scuotendomi dalle mie fantasie.
Chi stava cercando di tirarmi via da quel sogno? Perché lo stava facendo?
Aprii gli occhi dopo pochi secondi, e con la vista – prima sfocata, poi sempre più chiara mentre i miei occhi si abituavano alla debole luce che entrava dalla finestra – arrivarono anche le parole di mia madre.
<< Edward, svegliati. Farai tardi al lavoro. >> diceva, con il tono amorevole che era solita usare con me.
Era inutile insistere per restare a dormire ancora, anche perché sapevo non sarebbe stato giusto. Dovevo rispettare il mio dovere quotidiano.
Le sorrisi, per farle intendere che ero cosciente. Lei mi ricambiò ed uscì dalla mia camera, richiudendo la porta.
Non nego che il primo impulso, vedendo la stanza sgombra, fu quello di rimettere la testa sul cuscino e abbandonarmi ai bei sogni interrotti come prima. Ma – come avevo già pensato poco prima – non sarebbe stato corretto.
Perciò mi alzai, ancora leggermente intontito, per andarmi a vestire e prepararmi alla giornata di duro lavoro che mi aspettava.
Sceso in cucina afferrai un pezzo di pane e bevvi il bicchiere di latte freddo che mia madre mi aveva lasciato sul tavolo.
<< Buongiorno, Edward. >> mi salutò mio padre, entrando nella stanza.
<< Buongiorno. >> risposi, mentre mi pulivo con la mano le labbra bagnate dal liquido bevuto.
<< Sei pronto? >> chiese lui subito dopo, controllando che fossi già vestito.
<< Sì. >> risposi.
<< Andiamo. >> disse sorridendo e incamminandosi verso la porta di casa.
Non capivo proprio cosa c’era da sorridere. Non sarebbe stata di certo divertente la giornata che ci aspettava.
Con i soliti pensieri malinconici ma rassegnati lo seguii.
Mentre varcavo la soglia, due mani leggere che conoscevo molto bene mi si posarono sulle spalle per trattenermi.
<< Buon lavoro, tesoro. >> mi augurò mia madre alle mie spalle.
Mi voltai e lei subito mi strinse a sé. Quei dolci abbracci rasserenavano un poco la mia giornata.
Mio padre, che era già avanti di qualche passo, tornò indietro per darle un breve bacio. Poi insieme andammo verso la fabbrica dove lavoravamo.
Durante il percorso non ci scambiammo una parola. Volevo bene a mio padre e sapevo che lui ne voleva a me, ma non sempre era facile conversare con lui. Era introverso, forse non amava condividere i suoi pensieri con gli altri. Nemmeno con suo figlio.
Quel giorno, però, intuivo la sua preoccupazione. Non sapevo spiegarmela e non chiesi nulla a riguardo, ma in qualche modo l’avvertivo nella sua espressione e nei suoi movimenti.
Dopo i soliti cinque chilometri di cammino, arrivammo al lavoro che odiavo tanto intensamente.
Era stancante: arrivato a casa la sera, dopo dieci ore di fatica, ero sempre sfiancato. Ma non solo: ero sempre stato un po’ ambizioso, di conseguenza non miravo ad una vita da operaio come quella di mio padre. In fine, se non gli incidenti tanto frequenti, ad uccidermi sarebbe stata la noia: il fisico era concentrato sul proprio lavoro, ovviamente, ma non ci voleva una grande concentrazione. E la mia mente vagava, correva libera, e dopo solo un paio d’ore era già in crisi perché non trovare qualcosa a cui pensare.
Per questo motivo, nella disperazione, avevo iniziato a guardarmi intorno e a riflettere su qualsiasi cosa mi circondasse.
Che fossero i visi conosciuti dei miei colleghi più vecchi, quelli dei miei coetanei costretti a quel misero lavoro, quelli dei nuovi impiegati che ancora non conoscevo o i macchinari cigolanti e arrugginiti.
Una volta avevo io stesso visto un incidente causato dal malfunzionamento di uno di questi ultimi. Era stato tremendo, uno di quei ricordi che temevo di non poter mai dimenticare e che tormentavano certi miei incubi. Il cavo di un semplice macchinario che sollevava pesi troppo esagerati per essere trasportati dagli uomini si era d’un tratto rotto, facendo cadere il tubo di ferro molto spesso e pesante su un malcapitato che passava in quel momento. Il silenzio occupato soltanto dal ronzio delle macchine e dal ticchettio di martelli e altri attrezzi era stato infranto dalle urla disumane dell’uomo. Tutti erano accorsi – dopo i primi momenti di shock – in suo aiuto.
Dopo alcuni minuti una ventina di uomini erano riusciti a sollevare il tubo e a spostarlo, ma, prima che potesse essere trasportato all’ospedale più vicino, l’uomo si addormentò per non risvegliarsi più. L’emorragia interna era troppo grave.
Ogni volta che tornava quel pensiero nella mia testa, cercavo di scacciarlo subito con un brivido. Non è mai bello vedere una persona morire tra le urla.
Da quel giorno mi fidavo sempre meno dei macchinari della fabbrica, cercando di tenere me e mio padre il più lontano possibile da essi.
Così, non mi restava nulla da fare se non osservare (per non dire spiare) le persone che lavoravano intorno a me.
Non solo ascoltavo le conversazioni che riuscivo ad udire, a volte semplicemente esaminavo i loro comportamenti.
Dopo pochi mesi di esercizio sapevo tutti i nomi dei miei cinquantatre colleghi, sapevo se erano sposati, se avevano figli, conoscevo piuttosto bene il loro carattere.
Quando i nostri superiori ci avvertivano che era l’ora della pausa pranzo, tiravo un sospiro di sollievo.
Mangiavo il panino che mi portavo da casa insieme ai colleghi che avevano più o meno la mia stessa età, parlando del più e del meno.
<< Finalmente. >> mormorava sempre Thomas, tirando fuori il suo pranzo.
Era il mio migliore amico, ed anche il mio “maestro”. Erano tante le cose che mi aveva insegnato: ad avere un migliore inglese, le basi della matematica, come funzionava l’universo. Era così che c’eravamo trovati: lui un ragazzo di vent’anni con un bagaglio culturale superiore alla media per via degli insegnamenti di suo padre, io un ragazzo di sedici anni con una grande voglia di imparare.
Ultimamente andavo spesso a casa sua, la sera, per imparare a suonare il pianoforte. Io non ne avevo uno, per cui non potevo fare pratica da solo, e questo non aiutava. Ma lui era sempre molto paziente.
<< La giornata è ancora lunga. >> gli rispose quel giorno Matthew, con il suo solito pessimismo.
Matthew era un ragazzo più povero di me e mal nutrito, spesso mi ritrovavo a preoccuparmi per le sue condizioni. Il suo fisico si debilitava ogni giorno di più, grazie al suo lavoro: alimentava il fuoco dei macchinari trasportando il legno e gettandovelo dentro.
<< Domani è giornata di riposo. >> dissi io, cercando di pensare in positivo.
<< Finalmente. >> ribadii Thomas.
<< E dopodomani saremo di nuovo qui. >> sospirò Matthew. << Con un po’ di fortuna. >> aggiunse poco dopo.
Era davvero molto pessimista.
Thomas scosse la testa e si rifiutò di rispondergli, piuttosto si rivolse a me. << Vieni a fare un po’ di pratica, questa sera? >>
Annuii, subito entusiasta della proposta. << Volentieri. >>
Dopo qualche minuto di silenzio in cui eravamo tutti e tre intenti a mangiare, esposi i miei timori. << Sapete per caso cosa sta succedendo? >> domandai.
<< A cosa ti riferisci, Edward? >> rispose Thomas.
Anche Matthew mi guardava curioso.
<< All’umore degli adulti >> mormorai, per non farmi sentire da un gruppo di essi che stava seduto poco distante.
<< In che senso? >> continuò a chiedere Thomas.
<< Non avete notato come sono tutti… preoccupati? >> chiesi, pensando in particolare all’espressione tormentata di mio padre ma anche a quelli di un’altra ventina di persone.
I ragazzi si guardarono intorno, scrutando gli uomini più grandi.
<< In effetti hai ragione, Edward. >> confermò Matthew, ancora guardandosi attorno.
<< Cosa può essere successo, per preoccupare tutti in questo modo? >> domandai tra me e me.
I miei compagni restarono in silenzio, mentre la leggera preoccupazione che mi tormentava contagiava anche loro. Mi dispiaceva averli messi a conoscenza di quel problema, ma speravo che mi potessero dare una risposta.
Evidentemente, non mi restava che parlarne con mio padre.
Dopo la solita mezz’ora di pausa pranzo, le attività ripresero regolarmente.
Alla sei del pomeriggio finì l’orario lavorativo, ed io uscii da quel luogo contento come ogni sabato di non rivederlo per più di ventiquattro ore.
Come d’abitudine, al ritorno io e mio padre passammo per il parco cittadino, allungando leggermente il cammino.
Quando giunse il momento più opportuno, mi decisi a parlare. << Padre, come mai ti vedo così preoccupato? >>
Lui alzò lo sguardo, sorpreso di avermi sentito parlare, e forse colpito dalla mia domanda. << Preoccupato? >> chiese a sua volta, anziché rispondermi.
<< Da stamani mi sembri turbato. Forse è una mia impressione. >> no, non era una mia impressione. Ne ero quasi certo.
Scosse le spalle, ostentando indifferenza.
<< Sono solo voci. >> mormorò.
<< Quali voci? >>
Mi sorrise bonario, ma non sembrava un’espressione sincera. << Non te ne devi preoccupare, per ora. Meglio badare solo alle certezze. >>
Ero confuso dalla sue parole, ma sapevo che non mi avrebbe svelato altro.
A quel punto, speravo che il padre di Thomas sapesse qualcosa della faccenda.
<< Ti dispiace se resto qui un po’? Tornerò a casa per l’ora di cena. >> domandai, fermandomi in mezzo al parco.
Lui mi osservò e alzò le spalle. << Fa pure, figliuolo. >>
Continuò per la sua strada, mentre io raggiunsi una delle panchine al bordo del sentiero che dava su un ampio prato.
Il sole era in procinto di tramontare, in quella giornata autunnale.
Tentai di trovare le risposte alle mie domande in quello spettacolo così comune e pure così spettacolare, ma per quanto cercai non mi venne in mente niente.
Cosa poteva preoccupare mio padre e tutti gli altri colleghi? Quale comune problema potevano avere?
Mi stupii della mia stupidità: la risposta era davanti ai miei occhi, eppure per ore l’avevo ignorata.
Non c’erano altre opzioni, doveva essere per forza quello. Cercai altre possibilità, ma non ne trovai.
Mi arresi e esaminai la situazione – ancora non troppo definita –, constatando che il problema anche mio.
Cos’era successo al lavoro? Cos’aveva quella vecchia fabbrica che non andava?
Tante cose, risposi automaticamente. Ma non penso che le mie lagne sulla sicurezza fossero il problema che perseguitava tutta quella gente.
Doveva essere qualcos’altro, qualcosa di peggiore, sicuramente.
Sospirai rassegnato. Forse avrei ripreso il discorso, quella sera a cena.
Poi mi persi nell’arancione del cielo sconfinato, immaginando di poter raggiungere il sole. Non di raggiungerlo realmente, solo di poter volargli più vicino, lontano dai miei problemi e dalla mia vita, che non mi soddisfaceva.
Mi ritrovai di nuovo a ripensare al mio destino – cosa che succedeva veramente spesso – e a chiedermi cosa mi sarebbe successo nel futuro. Cos’avrei fatto nella mia vita?
Mi immaginai adulto. Un uomo saggio e colto, uno scienziato. Incredibile la mia curiosità a riguardo della scienza, avrei voluto conoscere l’origine di ogni cosa. Ma forse nessuna persona al mondo poteva sapere tutto.
Immaginai di tornare casa la sera dalla mia famiglia: una moglie e due figli, un maschio e una femmina. Mai, mai, li avrei costretti a lavorare. Gli avrei voluto dare un’adolescenza migliore della mia, più felice e spensierata.
Non che io fossi arrabbiato con mio padre, per carità. Sapevo bene che non era colpa sua, che non c’era scelta per noi. Ma avrei voluto che per me, una volta padre, non fosse così.
Per quanto riguardava la figura della mia sposa, non avevo nemmeno una vaga idea. Non sapevo come sarebbe potuta essere la mia donna ideale, ma confidavo di poterlo capire una volta che l’avessi avuta di fronte.
 
A cena, infine, mi dovetti trattenere dal chiedere altre informazioni a mio padre. Il motivo era semplice: mia madre.
Non sapevo lei fosse a conoscenza o meno di ciò che preoccupava mio padre, non volevo rischiare di spaventarla. Era una donna così dolce, così amorevole, da rendere intollerabile il pensiero di ferirla.
Mio padre, era un po’ il suo contrario: forte, indistruttibile. Sembrava che nulla potesse scalfire la sua calma.
Ed io com’ero? Forse una via di mezzo, ma non saprei dirlo. Non penso si possa essere obbiettivi su se stessi.
Ad ogni modo, dopo cena ero uscito per andare dal mio amico Thomas. Casa sua era a soli due isolati, la raggiunsi in fretta.
Bussai alla porta – due colpi secchi – e pochi istanti dopo lui mi aprì. Mi fece accomodare e io lo ringraziai cortesemente, sfilandomi il cappello e mettendolo dotto braccio.
Senza dire nulla andò in sala da pranzo, verso il pianoforte, e si sedette sulla panca che stava di fronte ad esso.
Mi accomodai al suo fianco.
Lo interruppi prima che potesse parlare. << Thomas, >> dissi, << penso di sapere cosa preoccupa tutti quanti, giù in fabbrica. >>
Lui mi guardò interessato. << Ovvero? >>
<< Ci devono essere problemi con il lavoro. >>
Lui rifletté brevemente. << È possibile. >>
Mi morsi il labbro, nervoso. << Pensi che perderemo il posto? >>
Avvertii la sua ansia alle mie parole. Conoscevo la sua risposta già prima che parlasse. << Non lo so. >>
Dopo qualche altro minuto di pensieri timorosi, iniziò la lezione di pianoforte. Non ero ancora bravo, ma cercavo di impegnarmi al massimo: il suono di quello strumento in particolare mi piacque al primo udito.
Tornato a casa, andai a dormire. Ero molto stanco, dopo un’intera settimana di lavoro.
Poco prima che spegnessi le luci, mia madre entrò nella stanza per darmi la buonanotte.
Si sedette sul bordo del mio letto e mi guardò con tenerezza. << Com’è andata la giornata? >>
<< Bene >> risposi, sperando non notasse la menzogna.
<< Ne sono lieta >> disse, sorridendo.
La ricambiai, e per un attimo affondai nel suo sguardo, nei suoi occhi verdi così identici ai miei. La somiglianza tra di noi era lampante.
<< Scusa, ma ora vorrei dormire. Sono molto stanco. >> sussurrai, per poi sbadigliare.
<< Ma certo, tesoro mio. Buonanotte. >> sussurrò.
<< Buonanotte anche a te. >>
Fece per alzarsi, ma si arrestò subito. Si chinò su di me e poso un lieve bacio sulla mia fronte. Poi uscì dalla stanza sorridendomi un’ultima volta e chiudendo le luci.
Un grande affetto mi riempiva il cuore pensando a mia madre: l’unica donna che avessi amato fino ad allora.




Spazio dell'autrice:
Salve a tutti! :) Grazie mille per aver letto :)
Spero che questo capitolo non vi abbia deluse o annoiate. Anche a me sembra un po' monotono, ma volevo presentare per bene la vita di Edward prima di entrare nel vivo della storia :)
Un grazie particolare a:
anna71: grazie per la recensione, spero leggerai anche il resto della mia storia! :)
mikycullen2: grazie per la recensione e il complimento :D Spero ti sia piaciuto anche questo capitolo :)
Mela_: ciao! Grazie per la recensione! Grazie per i complimenti e sono contenta che ti sia piaciuta l'idea!
Thelionfellinlovewiththelamb: grazie mille! Spero ti sia piaciuto il primo capitolo :D
Isabella_Swan: grazie per i complimenti e per la correzione, avevo fatto confusione tra prefazione e epilogo xD
Mi farebbe piacere ricevere altre vostre recensioni e ovviamente anche di altri! ;)
Baci e a presto, Juls.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2
 


Mi svegliai alle prime luci del giorno seguente: domenica, finalmente.
Per tutta la settimana, quel giorno sembrava non voler arrivare mai. Poi, quando alla fine giungeva, volava via in quattro e quattr’otto.
Mentre mi alzavo dal letto e mi stiracchiavo, decisi che mi sarei gustato ogni istante di quella giornata.
Mi affacciai alla finestra per guardare com’era il tempo e cercare di capire che ora fosse. Il sole splendeva, ancora ben lontano da essere perfettamente sopra la mia testa: non poteva essere più tardi delle dieci.
Mi infilai una camicia azzurrina, un  paio di pantaloni beige e le scarpe nere. Poi andai in cucina.
<< Buongiorno, Edward. >> dissero in coro i miei genitori.
<< Buongiorno. >> risposi.
<< Dormito bene? >> domandò mia madre, mentre metteva un piatto in tavola e cuoceva un uovo.
<< Sì, grazie. >>
<< Hai programmi per la giornata? >> chiese ancora.
<< Penso che farò una passeggiata. >>
Lei annuì e mi verso l’uovo nel piatto, mentre io mi prendevo un bicchiere e del latte.
Finita la colazione, mi alzai.
<< Venite anche voi? >> domandai, mentre già andavo verso la porta.
<< No, io e tuo padre dobbiamo andare a comprare. >> rispose mia madre per entrambi.
<< Okay. >>
Mia madre mi diede una carezza sulla testa e mio padre mi salutò con un cenno. Uscii di casa e incontrai una brezza tiepida, piacevole.
Le strade erano abbastanza affollate, ma niente di particolare. Solo quando passai davanti all’Home Insurance Building – primo grattacielo d’America: dodici piani di lamiere di cui la mia città si vantava tanto – incontrai un nugolo di gente, turisti senz’altro, intenti ad ammirare la sua altezza vertiginosa.
Mi incamminai verso Oak Street Beach, avevo voglia di vedere l'acqua.
Giunto sul posto vi trovai troppa gente intenta a prendere il sole, troppi bambini che urlavano e schizzavano l’acqua dolce del lago Michigan tutt’intorno, anche addosso alle persone. Le madri non mancavano di rimproverarli, i padri sembravano volersi godere quella giornata di riposo senza badare al resto.
Non faceva per me, non in quel momento: desideravo pace e un po’ di solitudine. Vagai senza una meta, fin quando non mi ritrovai in un parco. Era semideserto, solo pochi anziani camminavano per i sentieri terrosi.
Mi sedetti su una panchina all’ombra di una giovane quercia e mi persi nei mie pensieri.
Se avessi perso il mio posto di lavoro, cosa avrei fatto? E mio padre? Non conoscevo altri mestieri, non mi ero mai posto quel problema prima. Era un questione spinosa, mi affannai a cercare una soluzione.
Sobbalzai per lo spavento quando una ragazza crollò sulla panchina, accanto a me. Non l’avevo sentita arrivare, ma era evidente dal suo fiatone incontrollato che aveva corso parecchio.
Si mise una mano sul petto, come se tentasse di calmare le pulsazioni frenetiche del suo giovane cuore. Giovane, perché lo era anche lei: avrà avuto pressoché la mia età, o forse poco meno.
La osservai: era vestita bene, con abiti eleganti e raffinati. Doveva essere di buona famiglia, per forza. Aveva una camicetta bianca, abbottonata stretta anche nel colletto, una gonna grigio pallido che le arrivava sotto il ginocchio e lunghe calze bianche a coprirle le gambe magre.
Quando realizzò di non essere sola – o forse mi aveva visto già da prima, non lo so – si voltò verso di me e la potei vedere chiaramente in viso. Aveva grandi occhi marrone cioccolato, con ciglia lunghe e folte, un nasino dritto e delle giuste dimensioni, labbra carnose e rosse leggermente aperte per la sorpresa. Le ampie guance erano di un rosso molto intenso, un bel contrasto con la pelle così pallida. Il tutto, era incorniciato da lunghi e folti capelli marrone scuro.
Restò a fissarmi per qualche istante immobile, poi raddrizzò la schiena e si schiarì la voce, diventando in qualche modo ancora più rossa in viso. << Buongiorno. >> disse, come se niente fosse.
<< Buongiorno, signorina. >> risposi, distogliendo lo sguardo.
Osservai per un po’ gli alberi, sentendomi senza motivo uno stupido, poi le lanciai un’altra occhiata.
Non mi guardava, sembrava preoccupata. Con gli occhi scuri cercava freneticamente qualcosa in mezzo alla flora che ci circondava, ed intuii che era lieta di non trovare nulla.
Mi preoccupai per quella fanciulla, sembrava molto delicata. Forse qualcuno la inseguiva? Forse aveva bisogno d’aiuto? Il mio istinto non mi permise di starmene con le mani in mano.
<< Ha qualche problema? >> domandai lentamente, per non spaventarla.
Lei sobbalzò comunque sentendomi, poi mi fissò per la seconda volta. Si schiarì ancora la voce. << No, nessun problema. >>
I suoi occhi scivolarono di nuovo via, ritornando a perlustrare il parco.
<< Qualcuno la sta inseguendo? >> chiesi, allarmato. Non volevo farmi gli affari suoi, ma forse la potevo aiutare.
Con gli occhi tornò nei miei e si morse un labbro, evidentemente nervosa. Rimase qualche istante in silenzio, poi finalmente si decise a parlare. << Non lo so. >>
Non era la risposta che mi aspettavo. Come poteva non saperlo?
Alzai le sopracciglia, stupito. << Non capisco. >> le dissi, per invitarla a continuare.
La ragazza sospirò, poi fisso i suoi piedi e le sue mani pallide ed esili. << Sono scappata. >> ammise con voce flebile.
Rimasi ancora più sorpreso, ma la determinazione in me aumentò. << Da chi? >>
<< Dalla mia famiglia. >>
Altro stupore. Perché non rispondeva mai come mi aspettavo che facesse? << Perché? >>
Mentre rispondeva, nei suoi occhi era evidente la tristezza. << Sono stanca della mia vita. >>
Non sapevo cosa dire. << La maltrattano? >> azzardai.
<< No, niente del genere! >> si affrettò a dire. Sembrava sincera, ma era ancora preoccupata ed imbronciata. << Semplicemente, non sopportò più di stare nella mia casa. Non sopportò più la mia routine, la mia vita stessa. A te non capita mai? >> la sua voce s’incrinò nell’ultima parola.
Quella domanda mi diede da pensare, la presi molto seriamente. Quante cose avrei cambiato della mia vita, potendo? Tante, troppe cose.
<< Sì, mi è capitato. >> realizzai.
Sembrò soddisfatta di avermi fatto capire quello che sentiva, ma questo ancora non spiegava alcune cose.
<< Quindi teme che i suoi genitori la stiano cercando. >> conclusi.
<< No, figuriamoci! >> disse lei, con una risatina isterica. << Loro hanno ben’altro di cui occuparsi. Piuttosto, temo che abbiano mandato dei servi a cercarmi. Forse, se non mi trovano, chiameranno la polizia. >>
Avevo ragione, la ragazza era nobile. Ma allora, perché si lamentava della sua vita?
Mi venne un’idea e mi alzai in piedi di scatto. Poi mi chiesi perché lo stessi facendo: perché mi ostinavo ad aiutarla? Probabilmente era solo una ragazzina viziata.
 
Ma era pur sempre una donna, così mi avevano educato.
<< Se vuole, signorina, conosco un posto dove non la troveranno. >> dissi.
Lei mi guardò, indecisa se fidarsi di me o no. Dopo pochi istanti si decise.
Si alzò in piedi. << Chiamami Isabella. >> disse, sorridendomi timidamente. << Qual è il tuo nome? >>
<< Edward. >> dissi, porgendole la mano.
Lei la strinse con una leggera agitazione, poi di nuovo mi sorrise, in modo più sincero, mentre cercavo di portarla in un luogo più sicuro.
 
Dopo circa quaranta minuti di cammino silenzioso, eravamo giunti a destinazione.
Eravamo in un’altra spiaggia, più piccola e molto meno famosa. In quel momento, intorno non c’era anima viva.
<< Qui. >> dissi ad Isabella, rompendo il lungo silenzio. Aprii la porta cigolante del capanno di legno a me familiare, quello dove mio padre teneva una barchetta a remi, ormai troppo vecchia e cadente, perciò inutilizzabile.
Sapevo che il capanno non era il massimo del confort, soprattutto per quella ragazza che evidentemente era abituata a vivere in un lusso che io stesso stentavo ad immaginare, ma decisi che si sarebbe abituata. Forse avrebbe solo finto di farlo.
Le tenni la porta aperta e lei entrò con passo esitante, guardandosi intorno. Il capanno era piccolo, forse dieci metri quadrati. E lo spazio era quasi tutto occupato dalla barca.
Quando fu dentro la seguii, richiudendo la porta. Era impalata a pochi centimetri da me, nello spazio angusto tra il muro e quel che restava dell’imbarcazione. Con un passo entrai dentro quest’ultima, poi mi sedetti sulle assi di legno scabre.
Lei mi osservò e dopo pochi secondi fece lo stesso, sedendosi sull’asse di fronte alla mia.
<< È tua? >> chiese poco dopo, per spezzare il silenzio, indicando l’ammasso di legname sulla quale era seduta.
<< Di mio padre. >> le risposi.
<< E oggi lui verrà qui? >> domandò, leggermente spaventata.
<< No, non la usa da anni. >> dissi per tranquillizzarla.
Isabella sospirò di sollievo.
Ripiombammo nel silenzio, questa volta toccava a me parlare.
<< Allora, Isabella, posso sapere qual è il tuo cognome? >> fu la prima domanda che mi venne in mente. Tra l’altro ero curioso di sapere a quale famiglia appartenesse, dato che conoscevo quasi tutte le famiglie più nobili della città.
Fece cenno di no con la testa, ed io rimasi sorpreso e un po’ irritato. << Ti sto aiutando a nasconderti e non posso nemmeno sapere il tuo nome completo? >>
Arrossì, in imbarazzo. << Te lo dirò più avanti. >>
Sospirai.
<< Perché vorresti saperlo? >> domandò.
Scrollai le spalle. << Curiosità. >> risposi. << Perché sei fuggita? >> chiesi a bruciapelo.
Si morse ancora il labbro inferiore. << Te l’ho già detto. >>
<< Scusa, ma non riesco a capirti. >>
<< In che senso? >>
<< Non riesco a capire cosa possa non andare nella tua vita. Non posso immaginarlo, perché la mia è troppo diversa. Lavoro sei giorni su sette, dieci ore al giorno, e non posso permettermi di studiare. Non so cosa darei per avere quello che hai tu. >> spiegai, forse con un po’ troppo ardore.
Le mi fulminò con lo sguardo. << E così, tu credi che solo perché ho dei bei vestiti e una bella casa sia in una situazione migliore della tua? Credi sul serio che essere nati in una famiglia ricca sia una bella cosa? I miei genitori li conosco a malapena, mi hanno fatta crescere ed educare dai domestici. Non ho nemmeno il diritto di scegliere cosa indossare, la mia vita è interamente decisa da altre persone. Studio a casa cose che non mi interessano, so già che da grande mi impediranno comunque di fare qualsiasi lavoro, e mi costringeranno a sposare il figlio di un qualche riccone loro amico. Tu forse non hai i miei beni materiali, ma almeno hai il controllo della tua vita e probabilmente anche una famiglia a cui importa qualcosa di te! >> sbottò, quasi urlando.
Cercai qualcosa da dire invano, il suo discorso mi zittì.
<< Va bene, siamo entrambi sfortunati in modi diversi. >> ammisi.
Fece un cenno d’assenso, rimanendo seria.
<< Adesso, quali sono le tue intenzioni? >> chiesi poco dopo.
<< Intenzioni riguardo a cosa? >>
Alzai gli occhi al cielo. << Cosa farai? Continuerai a fuggire o tornerai a casa? >>
Dalla sua espressione, sembrò che avesse realizzato di dover prendere una decisione sul suo futuro solo quando glielo feci notare.
<< Non lo so. >> ammise.
<< Pensaci. >>
Guardai il sole attraverso la piccola finestra che era sul muro alla mia destra, ma alcune nuvole mi impedirono di capire che ora fosse. Vidi in quel momento l’orologio raffinato al polso di Isabella. Erano già le due.
<< Tornerò a casa. >> mormorò, poco convinta.
<< Ne sei sicura? >>
<< No. >> rispose. << Ma non vedo altre alternative. >>
<< Potresti rifugiarti da qualche parte. >> dissi.
<< E dove? >>
<< Sono convinto che se glielo dicessi, mia madre insisterebbe per aiutarti e riuscirebbe a convincere perfino mio padre. >> dissi. Davvero ero pronto ad aiutare così tanto una sconosciuta?
<< Lo faresti sul serio? >>
Evidentemente, sì. Annuii.
<< Perché? >> chiese ancora, stupita.
<< Non lo so. Qualcosa mi dice di farlo. >> neanche io riuscivo a spiegarmelo meglio.
Lei mi sorrise grata. << Grazie, ma sarà meglio tornare. I miei genitori potrebbero chiamare sul serio la polizia, e se mi trovassero a casa tua tutta la tua famiglia finirebbe in guai seri. >>
In effetti, non ci avevo pensato. Forse era meglio così, non volevo causare problemi ai miei genitori.
<< Cosa ti faranno, quando tornerai? >> chiesi, cercando di nascondere la mia preoccupazione insensata.
<< Mi sgrideranno senza dubbi, ma non penso faranno altro. >>
Lo spero, pensai. << Quindi, scappando oggi, cos’hai risolto? >>
Ancora sembrò pensarci solo quando glielo chiesi. << Evidentemente, nulla. >> sospirò, facendosi triste.
Avrei voluto consolarla, ma non sapevo come fare.
<< Ma ho un’idea. >> disse all’improvviso. << Sì, ho deciso. >>
<< Cosa? >>
<< D’ora in poi, se non mi lasceranno fare di testa mia, ogni domenica scapperò. >> disse con determinazione.
<< E dove andrai? >> domandai.
I suoi occhi scuri si incatenarono ai miei, e mi guardò in un misto di speranza e supplica. << Saresti disposto ad aiutarmi ancora? Potrò venire qui? >> domandò, con la voce quasi tremante.
Senza nessun motivo, capii che non avrei voluto deluderla per nulla al mondo. << Certo. >> dissi, sorridendole.
Lei fece lo stesso, e i suoi occhi brillarono di gratitudine. << Grazie. >> disse.
<< Figurati. >> risposi.
 
Quella sera, ero seduto sul mio letto a riflettere.
Ero tornato a casa piuttosto tardi, ai miei genitori avevo raccontato che mi ero addormentato al parco. Verisimile, data la mia stanchezza.
Avevo lasciato Isabella nel parco in cui ci eravamo incontrati. Avevo insistito per accompagnarla a casa, ma lei aveva detto che conosceva bene la strada. In realtà, sapevo che non voleva farmi vedere dove abitava. Sembrava fidarsi di me, ma per qualche strano motivo non voleva rivelarmi a quale famiglia appartenesse.
Chissà se l’avrei rivista la domenica successiva. Chissà cosa le avevano fatto o detto al suo rientro. Chissà cosa stava facendo, adesso.
Mi scrollai da quella catena di pensieri, stupito da me stesso. Ero davvero così preoccupato per lei perché era una giovane donna? Ormai era inutile, non potevo farci più niente.
Eppure, continuai a chiedermi se l’avrei rivista o meno.



Spazio dell'autrice:
Salve! :D Grazie mille per aver letto :)
Cosa ne dite di questo secondo capitolo? Sorprese o ve l'aspettavate di ritrovare Isabella anche qui? xD Non è proprio la solita Bella, ma comunque non modificherò molto il carattere (penso).
Un grazie particolare a:
Mela_: grazie per la recensione! Sono contenta che questo Edward ti piaccia :) E' così che me lo immagino anche da umano, sempre pronto a sacrificarsi :) Spero che questo capitolo ti abbia "emozionata" un po' più del primo, anche perchè penso che forse sia un po' più interessante (lo spero, soprattutto xD). Grazie mille ancora :)
Un enorme grazie anche a tutti quelli che hanno messo la storia tra le seguite/preferite/ricordate!!! :D
Come sempre vi invito a recensire, anche negativamente :)
A presto e grazia ancora, Juls.


 
 
 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3

 


La settimana seguente sembrò scorrere ancora più lentamente del solito: lavoro, cena, dormire, lavoro, cena, dormire. Erano principalmente quelle le cose che facevo ogni giorno.
Poi, come una secchiata d’acqua gelida mentre dormi, mi svegliò dal mio torpore una notizia ben poco gradita.
Quel Giovedì, come ogni mattina, stavamo andando al lavoro io e mio padre. Arrivati dalla fabbrica, trovammo tutti gli altri operai ammassati davanti ai cancelli chiusi.
<< Cosa sta succedendo? >> domandò mio padre al primo uomo che si ritrovò di fronte.
<< Non ci fanno entrare. >> rispose l’uomo, sospirando con rassegnazione.
Rimanemmo entrambi impietriti: era molto peggio di quello che mi aspettavo. Stava davvero accadendo quello che a questo punto temevo? Eppure non c’erano stati segni di questo evento, come poteva essere successo tutto così all’improvviso? Perché?
Un uomo, che si distingueva da noi operai grazie ai bei vestiti che indossava, salì su una cassa davanti al cancello della fabbrica, e urlò un paio di volte per richiamare l’attenzione di tutti i presenti. Quando ci riuscì, parlò. << Signori, ascoltatemi, ho un annuncio importante da fare. La fabbrica è stata assorbita dalle industrie Iron Company, perciò mi dispiace comunicarvi che tutti i lavoratori hanno perso il posto. >>
Esplose un boato, per la maggior parte composto da insulti e versi di rabbia. Fossi stato nei panni dell’uomo che aveva appena reso certa la notizia, me la sarei data a gambe. Speravo si rendesse conto che rischiava il linciaggio.
Me lo aspettavo, era vero, ma rimasi comunque paralizzato sul posto. E adesso, cosa avremmo fatto?
<< Vieni, Edward. >> disse mio padre, tirandomi per un braccio.
Lo seguii senza fiatare, lanciando un’ultima occhiata alla folla adirata e alla fabbrica in cui non avrei più rimesso piede. È brutto da ammettere, ma una piccola parte di me tirò un sospiro di sollievo a quella constatazione.
<< Dove andiamo? >> domandai dopo qualche centinaio di metri.
<< A casa. >> rispose mio padre con voce incolore.
<< E poi, cosa faremo? >>
<< Nelle ultime settimane stavo già cercando un lavoro alternativo. Tutti i lavori migliori, con gli stipendi più alti, sono occupati, però rimane ancora qualcosa giù al porto. >> mi comunicò.
Inutile dire che quella prospettiva non mi riempì di gioia. << Quindi già lo sapevi. >>
<< Giravano delle voci. >> spiegò. << Meglio prevenire che curare, ricordalo sempre. Se ti si presenterà mai davanti la prospettiva di un problema, cerca delle soluzioni ancor prima che capiti. >>
<< Lo farò. >>
Arrivammo a casa poco dopo. Appena entrammo, mia madre si presentò in corridoio con uno sguardo stupito.
<< È successo. >> disse semplicemente mio padre.
Le sue labbra piene si piegarono di colpo all’ingiù e il suo sguardo si fece triste, abbassandosi anch’esso sul pavimento. Annuì lentamente.
I miei timori della settimana prima erano stati inutili, lei sapeva già tutto.
Andai in camera mia e mi buttai a peso morto sul mio letto, a riflettere. Avevo sempre odiato il mio lavoro, ma adesso probabilmente ne avrei fatto uno anche peggiore.
Quella compagnia, la Iron Company, stava lentamente assorbendo tutte le fabbriche della città. Mi sentii uno stupido per non averci pensato prima. Erano ormai note tutte le proteste fatte delle migliaia di operai che avevano perso il posto. L’impresa licenziava sempre tutti i vecchie lavoratori, perché usava stranieri che prendevano meno paga, oppure solo i giovani locali, più forti e resistenti. Ma io ero troppo giovane.
 
Nei giorni seguenti mio padre si affannò per ottenere i posti su cui aveva messo gli occhi, mentre io ero sempre più depresso dopo aver scoperto di cosa si trattasse esattamente il nuovo lavoro.
Scaricatori di porto. Da operaio a scaricatore di porto e soltanto sedici anni di vita. È proprio vero che non c’è limite al peggio.
Il peggio era vedere nella mia testa tutte le mie mete, i miei sogni – diventare medico, politico, avvocato o altre cose simili – diventare sempre più lontani e irraggiungibili.
Alla fine l’ottenne – e dire che ne sembrava pure entusiasta, per quanto possa essere entusiasta di qualsiasi cosa mio padre –, avremmo iniziato Lunedì.
Mentre il Sabato me lo annunciava con quello che poteva essere una specie di sorriso, io non facevo esattamente i salti di gioia.
Quella sera avevo cercato di vedere i lati positivi della faccenda, di trovare qualcosa per tirarmi su, ma fu tutto inutile. In città ormai tutte le famiglie di ceto medio o povere odiavano la Iron Company, che aveva tolto il lavoro già a troppe persone e non sembrava volersi fermare. Senza accorgermene, finii per odiarla intensamente anche io (non so se per tutti i discorsi furenti di mio padre o per mia spontanea iniziativa).
Mia madre, nel frattempo, non sembrava preoccupata. Un po’ secondo me lo era, ma di certo era anche brava nel non darlo a vedere. Tutte le volte che le chiesi se era intimorita dalla nostra situazione così precaria, rispondeva frasi come “sono certa che ce la faremo” oppure “ho fiducia in tuo padre e so che farà le scelte giuste”. A sentirglielo dire un po’ mi veniva da ridere; non perché non avessi fede in mio padre, ma perché visti tutti i disordini in città e l’accanimento di tantissime persone nel trovare un lavoro nuovo dubitavo che lui sarebbe riuscito a farcela. Ma come sempre fu furbo, infatti si era già praticamente aggiudicato i posti prima che la fabbrica annunciasse la chiusura.
Avevo anche parlato con il mio amico Thomas, che mi aveva detto che forse suo padre aveva trovato un posto come insegnante  in un’università e che se così fosse non avrebbe più dovuto lavorare, molto probabilmente. Ero felice per lui, ma non posso nascondere che un po’ lo invidiavo.
Mi ero anche domandato della sorte di tutti quegli operai che erano molto più poveri di me, preoccupandomi che alcuni potessero morire di fame. Ma io non sapevo come evitarlo, quegli anni erano duri quasi per tutti, e cose del genere era più strano non vederle che il contrario.
Quando finalmente mi misi a letto, ricordai che il giorno dopo avrei probabilmente rivisto Isabella. Mi chiesi come fosse stata la sua settimana: chissà come era stata diversa dalla mia.
E con quel pensiero scivolai nell’incoscienza.
 
<< Edward, tesoro, svegliati. >>
Una voce molto familiare interruppe il mio bellissimo sogno. No, non poteva finire! Era così bello, mi sentivo così bene…
Ma cosa stavo sognando?
<< Oggi non devo lavorare. >> mugugnai con un po’ di lucidità.
Impossibile, il sogno era già quasi totalmente svanito. Ho sempre odiato le volte in cui succede che appena ti svegli dimentichi quello che hai sognato. Perché si dimentica?
Tutto svanì, tranne la consapevolezza che fosse un sogno bellissimo. Anche la sensazione di pace stava per essere totalmente scacciata dall’irritazione.
<< Lo so, ma sei tu che mi hai chiesto di farti alzare alle dieci. Non ricordi? >>
Oh cielo, Isabella! Chissà dov’era, chissà se era davvero scappata anche questa volta… Dovevo controllare, e anche in fretta.
<< Sì, è vero. Grazie mamma. >> dissi alzandomi di scatto – con la testa che iniziava girare per il movimento repentino. Le posai un bacio sulla guancia rosea e morbida, poi corsi a cambiarmi.
Dopo essermi vestito e aver mangiato qualcosa al volo quasi volai per le strade piuttosto affollate di Chicago, sotto un sole tiepido che riluceva ovunque.
Incredibile quanto fosse grande la differenza tra le varie persone che passeggiavano per le vie: c’erano giovani donne a braccetto con mariti dall’aria potente, con i figli che saltellavano poco più avanti, tutti eleganti e ordinati; poi si ci voltava dall’altra parte e si vedevano barboni sdraiati sul ciglio della strada, sporchi e maleodoranti, che facevano l’elemosina o urlavano cose prive di senso.
Cercai di non distrarmi per non sbagliare strada e andai dritto verso la piccola spiaggia deserta dove mio padre aveva ancora il capanno che conteneva i resti di quella che era stata una barca a remi da pescatori.
E se lei non fosse stata lì? L’avrei aspettata o me ne sarei andato? Se avessi scelto la prima opzione, magari avrei atteso in vano per tutto il giorno qualcosa che non sarebbe mai arrivato. Ma dovevo comunque provare.
Tutti i miei dubbi svanirono quando, varcando la soglia del capanno, vidi una magra figura avvolta in una veste azzurra.
Isabella era ancora più graziosa di quanto la ricordassi: aveva un vestito color cielo a maniche corte che la avvolgeva stratta fino ai fianchi, per poi cadere in una gonna larga che le arrivava fino a sopra le caviglie. In vita aveva un sottile fiocco blu scuro, e ai piedi delle ballerine bianche.
<< Ciao. >> disse, e sembrò davvero sollevata nel vedermi.
<< Buongiorno. >> la salutai. Un sorriso si dipinse automaticamente sul mio viso. << Sei venuta davvero. >> aggiunsi dopo qualche istante.
<< Anche io sono stupita che tu sia venuto. >> disse. << In realtà, sono stupita anche di me stessa. >>
Ridacchiai. << Non pensavi di poter essere così coraggiosa? >> azzardai.
<< Esatto. >> approvò sorridente.
<< Com’è andato il rientro? >> chiesi con un velo di apprensione. Mi accomodai sulle assi della barca.
<< Più o meno come mi aspettavo. Mi hanno fatto una bella strigliata, prima i miei tutori e poi addirittura i miei genitori! Non hanno fatto altro che ripetermi quanto erano delusi dal mio comportamento e che avevo la loro più completa disapprovazione. Avrei voluto dirgli che non mi interessa il parere di degli estranei. >> mormorò, facendosi sempre più sconsolata nel progredire del discorso.
Non feci in tempo a parlare che aggiunse: << È incredibile pensare che conosco meglio te, estraneo che vedo adesso per la seconda volta in vita mia, piuttosto che loro, persone che mi hanno messo al mondo. >>
<< Addirittura? >> dissi sorpreso.
<< Sì, stanne certo. >>
<< E cosa sai di me? >> chiesi curioso.
Rifletté per qualche istante. << So che ti chiami Edward, che hai pressoché la mia età… >> poi arrossì lievemente e abbassò lo sguardo. << E che sei un ragazzo molto gentile e generoso. >> 
Sorrisi. << Grazie. >>
Mi sorrise anche lei. << È la verità. Ti devo un grosso favore, tienine conto. >>
<< Non ti preoccupare. >>
Rimanemmo in silenzio per qualche secondo.
<< E ora che si fa? >> chiese lei.
Scossi le spalle. << Non so. >>
<< Mmm. >> mormorò. << Non c’è granché qui dentro. >>
<< Sono spiacente, principessa. >> dissi per punzecchiarla, ma sorridendo affinché capisse che scherzavo.
Mi guardò con aria di sfida. << Guarda che so essere alla mano quanto te. >>
Risi. << Ne dubito. >>
<< Te lo dimostrerò. >> disse decisa. << Prima o poi. >> aggiunse poco dopo.
Sorrisi. << Okay. >>
<< E a te cos’è successo questa settimana? >> domandò con aria stranamente interessata.
<< Niente di cui stupirsi. La fabbrica in cui lavoravo ha chiuso, io e mio padre siamo stati licenziati e da domani farò un lavoro ancora più brutto del precedente. >> dissi con crescente irritazione.
<< Mi dispiace. >> disse. Ne sembrava davvero rattristata.
<< Tranquilla, me lo aspettavo. Ormai in questa città non c’è nulla di cui stupirsi, soprattutto di questi tempi. >>
<< Già. >> sussurrò con imbarazzo.
<< Tu cos’hai fatto durante la settimana? >> chiesi a mia volta, curioso.
Passammo tutto il giorno a parlare, e fui molto sorpreso di non annoiarmi mai. La sua vita era molto interessante, così diversa da quello che conoscevo, e il suo modo di raccontare dovevo ammettere che mi affascinava. Mi raccontò di tutta la sua settimana, poi ci descrivemmo le rispettive abitazioni, mi chiese dei miei genitori e io dei suoi tutori.
Faceva una vita davvero molto lussuosa, eppure non sembrava la solita signorina viziata. Più parlava e più mi incuriosiva.
Purtroppo la sera giunse presto e fu l’ora di salutarci.
<< Questa volta mi permetterai di accompagnarti a casa? >> domandai speranzoso.
Scosse la testa ed io la guardai imbronciato. << Fidati, è meglio così. >>
Non riuscivo a capire il perché, ma mi fidai di lei. Prima o poi sarei riuscito a farmi dire il suo cognome.
<< Allora a Domenica prossima… >> mormorò leggermente imbarazzata, non sapendo come congedarsi.
<< Sì, a Domenica. >> dissi. In un impeto di sicurezza afferrai la sua mano e le posai un lieve bacio sul dorso.
Lei arrossì violentemente, sorrise e se ne andò.
La rimasi a guardare fin quando non sparì dietro un angolo.



Spazio dell'autrice:
Salve a tutti! Sì, lo so, sono in ritardo. Ma quando mai sono stata puntuale? Mi impegnerò ad esserlo, promesso.
Allora... Stiamo entrando pian piano nel vivo della storia! Sappiate fin dall'inizio che io non corro, voglio che ogni cosa si sviluppi per bene... Vedrete! v.v
Grazie come sempre a chi legge, a chi mette la storia tra le seguite o tra le preferite!
Un grazie in particolare a:
Mela_: mi fa sempre molto piacere leggere le tue recensioni! :D Cosa ne pensi ora dei due ragazzi? Spero ti siano piaciuti anche qui! Bella ha i suoi motivi per tenere nascosto il suo cognome... Lo scoprirete più avanti! ;)
iamalone: sei davvero molto gentile! Spero tanto ti sia piaciuto anche questo capitolo e spero me lo farai sapere, anche in caso contrario! :)
Come sempre invito tutti a recensire - io non desisto, anche se ottengo sempre scarsi risultati. ù.ù
A presto, Juls.

P.S. Buon anno e buon rientro a scuola a tutti in ritardo! xD

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