Tess
ti presento Kim
Ne
ho fatte di cose strane nella mia vita, credetemi... ma entrare nel
mio appartamento armata fino ai denti come se stessi facendo
irruzione in un covo di mafiosi, be', mi mancava.
C'è
Coso che non miagola come fa di solito, il che non fa che aumentare
la mia ansia. Potrebbe essere sul divano a fare un pisolino... sì...
devo autoconvicermi sia così. Intanto fai come se niente fosse,
Tess... naturale, sciolta, come sempre. Se la Hightower voleva
suggerirti quello che immagino, in realtà non hai niente da temere
là dentro. Non ancora almeno. E tu non devi dare l'impressione che
sia così.
La
serratura fa un rumore assordate. Appena apro la porta Coso mi viene
incontro facendo le fusa e questo un po' mi rincuora. Gli faccio una
coccola veloce, mollo la lupara e il cappotto sul baule, e avanzo con
la sola pistola in pugno.
Banana
Yoshimoto
Plafoniera
Notte
stellata
Mi
guardo intorno circospetta. Il primo obbiettivo sarebbe alla mia
destra, ma le scarpe sono in camera da letto. Salto la libreria e
vado di sopra.
Pur
di non mollare la pistola, mi sfilo gli stivali coi piedi e infilo le
scarpe con una mano sola. Fatto: l'alibi è perfetto.
Adesso
girati. È proprio lì, dietro di te. La Notte stellata di Van
Gogh.
Mi
metto in ginocchio sul letto e la osservo sospettosa, le mani sui
fianchi e la pistola sempre in pugno. Quella stampa l'ho comprata ai
tempi del liceo, è stata la prima cosa che ho appeso in questa casa,
prima ancora dell'orologio in cucina.
Trattengo
il fiato e mi avvicino, la scruto da ogni angolazione. Sopra, sotto,
di lato: niente. Allungo una mano e, cominciando a sentirmi un po'
scema, la sollevo delicatamente dal muro. Non si vede un cazzo,
ovviamente. Apro il cassetto del comodino e ne estraggo una pila,
l'accendo e me la stringo tra i denti, puntandola sotto il quadro.
Non
ho più bisogno di ricordarmi di trattenere il respiro. Io non lo so
che diavolo è quella roba lì, non ho mai visto una cosa del genere
in vita mia. Ma qualcosa mi dice che quella è proprio una cimice.
Mi
tremano le mani quando riappoggio il quadro alla parete. Chiudo gli
occhi e faccio un bel respiro. C'era da immaginarlo, no? Con quegli
stronzi dei federali, che si fanno la guerra anche tra di loro e ti
incriminano se prendi il decaffeinato...
E
adesso che cazzo faccio? Mi sta venendo la nausea... inspira ed
espira, inspira ed espira...
Quanto
rumore che fa il mio respiro. Non c'è un po' troppo silenzio?
Spalanco gli occhi e stringo la presa sulla pistola.
Mi
butto all'indietro sul materasso e gli punto la pistola contro. Non
si muove. Sono stata in situazioni ben più svantaggiose, ma mirare a
testa in giù non è affatto comodo.
E
lui continua a non muoversi. Le braccia lungo i fianchi, mi osserva
in silenzio. E non posso parlare e se lui parla so che saremo fregati
e io non saprò un cazzo di quello che sta succedendo.
Che
situazione di merda!
Comincio
a sentire le braccia intorpidite, quando finalmente si muove. Fa un
passo e io aggiusto la mira. Un altro passo, tolgo la sicura. Si
china su di me e sento il materasso inclinarsi ai lati, dove poggia
le mani.
Gli
punto la canna al centro del petto. Inclina la testa di lato e mi
guarda. Non ho mai visto occhi così neri. Mi sforzo di non battere
ciglio, come se potesse servire a congelarlo sul posto.
Ad
esser sincera, mi sento un po' cretina. Se avesse voluto uccidermi ci
avrebbe già provato. Non che ci riuscirebbe, ma mi farebbe un sacco
di male. Ci faremmo un sacco di male a vicenda, garantito al limone.
Ok,
sembra che siamo finiti in una specie di mexican standoff in pieno
stile pulp. Mi verrebbe da ridere, se non fosse che mi sto cagando
sotto dalla fifa. Alzo le sopracciglia e lui risponde con una buffa
smorfia. Stacco la canna dal suo petto e allontano piano la pistola,
tenendolo comunque sotto tiro.
Osservo
i suoi movimenti cauti. Si siede ai piedi del letto e mi guarda
curioso dall'alto. Prima che possa parlare, mi porto un dito alle
labbra. Batte la palpebre e resta in attesa.
Ok,
fantastico... e adesso che ci faccio con un ricercato federale in
camera da letto? E niente battute, grazie.
Mi
metto a sedere e gli faccio cenno con la pistola. Lui si alza e mi
precede in soggiorno. Cerco con gli occhi qualcosa – qualsiasi cosa
– che ci permetta di comunicare. Alla fine afferro un post-it e una
penna.
ci
sono delle cimici
Glielo
passo.
non
mi dire
Uh,
fa anche lo spiritoso!
Glielo
strappo dalle mani e scrivo stizzita: vuoi parlare o
preferisci una pallottola in fronte?
Per tutta risposta,
lo vedo accartocciare il post-it e lanciarlo nel cestino. Si alza e
se ne va, e io non posso fare altro che afferrare il cappotto e
andargli dietro. Si prospetta una bella seratina.
Fuori
fa freddo e tira vento. Mi stringo nel cappotto e
rabbrividisco a vederlo in maglietta.
Lo guardo
scotendo
la testa: non è un
comportamento da alfa, così
attira l'attenzione.
–
Cosa?
– fa lui atono.
–
Siamo
a dicembre.
– borbotto lanciandogli
un'occhiata critica.
–
Tu
hai una pistola.
– mi fa notare.
Già,
be'... non ha tutti i torti. La
metto via ed entriamo
in un locale. Non è che sia
molto a mio agio a girare in mezzo a dei civili con una bestia del
genere, per cui resto in piedi e lo guardo palesemente scettica. Lui
si siede e resta
in muta
attesa.
Ok, se continuiamo
così non ne usciamo.
Mi
siedo davanti a lui con un
sospiro. Segue
un interminabile momento di silenzio, interrotto solo dalla
cameriera. Le diamo le ordinazioni continuando a fissarci in cagnesco
e quando
se ne va torna
il silenzio.
–
Alle
medie vincevo sempre. –
Batto
le palpebre: – Scusa?
–
–
Al
gioco di chi ride prima
guardandosi. – precisa
– Vincevo
sempre. –
Alzo gli occhi al
cielo.
–
Tu
non te ne rendi conto della merda in cui sei finito, eh?
– sbuffo.
–
Dimmelo
tu. – dice
lui con aria sfrontata.
La
cameriera ci porta i caffè
e io stringo la mascella, trattenendo
l'impulso di estrarre di nuovo la pistola.
–
Sei
entrato in casa mia. – gli
sibilo sporgendomi appena
sopra le tazze –
Due volte.
–
–
Tecnicamente
la prima volta eravamo fuori.
– ribatte versandosi
lo zucchero nel caffè.
–
Era
il mio
cornicione. – ribatto
seccata
– E
comunque che diavolo ci facevi lì? I
federali... –
–
Lo
so. – m'interrompe
tutto tranquillo.
–
Oh,
e saprai anche che io lavoro per loro.
– aggiungo acida.
Scrolla le spalle e
io lo prendo come un sì.
–
Allora
che vuoi da me? – faccio
esasperata – Mi
piombi in casa e guardacaso il giorno dopo mi dicono che devo
portagli la tua pelliccia. –
–
No,
– mi
corregge –
loro mi voglio vivo. –
Stringo
gli occhi: – E
tu come fai a saperlo? –
–
Sono
la loro cavia. – dice
laconico, sorseggiando il
suo caffè.
–
Di
cosa stai parlando? La cavia di chi?
–
Alza
gli occhi e li pianta nei miei: –
Tu non sai niente.
–
Lo dice come se
l'avesse appena constatato. E sembra quasi... triste? È difficile
interpretare qualcosa in quella sua faccia di pietra. Non ne ho mai
visto uno così: non sembra in grado di perdere il controllo come
fanno di solito le bestiacce. Mi manda ai matti! Non lo capisco e
sinceramente non ho alcuna voglia di cercare di interpretarlo.
–
Senti,
non so nemmeno perché sto qui a parlare con te.
– mi alzo e frugo nelle
tasche in cerca degli spicci per
il caffè –
Vattene. La prossima volta
che ti vedo ti porto da loro.
–
– È
una minaccia? –
Sbaglio o si sta
trattenendo dal ridere?
Sbatto le mani sul
tavolo e mi chino su di lui.
–
Non
provocarmi, sacco di pulci.
– sputo tra i denti –
Con quelli
come te mi ci pulisco
gli stivali. –
Mi
guarda impassibile: –
L'ultima volta non è andata
esattamente così. –
–
Cristo!
– impreco
e mi allontano – Non
ci credo... –
Non
riesco a credere che non abbia il minimo timore di me. Non mi è mai
piaciuto vantarmi dei miei successi, ma modestamente sono la
cacciatrice di licantropi più famosa della costa ovest, ho
all'attivo il maggior numero di bestie
fatte fuori del nord America
e non c'è un singolo mostro
in tutta la California che non abbia sentito parlare di Little Red
Cap. Come
diavolo fa a non conoscermi?
Dov'era questo coglione
negli ultimi sette anni?
E come si permette
adesso di rivolgersi a me con quel sorrisino di scherno?!
–
Qualcosa
mi dice che dovrei conoscerti.
–
–
Vattene.
– gli ripeto uscendo dal
locale – Scappa
finché sei in tempo. –
–
Mi
dispiace, – dice
alle mie spalle –
ma non ci riesco proprio ad
avere paura di te. –
– E
fai male. – mugugno
camminando a grandi passi
per allontanarmi il più
possibile da lui.
–
Non
la vuoi sentire la mia storia?
–
–
No.
–
–
Peccato,
è piena di colpi di scena e ha un finale a sorpresa.
–
Mi fermo in mezzo
al marciapiede e mi volto. È lì, a un paio di metri da me,
appoggiato al muro con le mani in tasca.
–
Chi
è il regista? – faccio
ironica.
Sogghigna
e si stacca dal muro per avvicinarsi. E io arretro. Quei denti...
sono abituata a vedere certe cose nei licantropi trasformati, ma da
umani dovrebbero avere un aspetto, be', umano.
E quella roba è tutt'altro
che umana.
–
Ti
piacciono? – si
passa la lingua sul bordo affilato dei canini –
Io mi ci devo ancora
abituare. –
Mi
acciglio: – Si
può sapere cosa
sei? –
–
Sono
come te. –
Ancora quella
frase. Non la sopporto. Non ha senso.
–
No,
tu non
sei
come me.
– scandisco con una
smorfia – Tu
sei un fottuto mostro,
io sono umana. –
– I
fottuti mostri che conosci non sono così
– ribatte indicandosi –
E tu lo sai. –
–
Ti
avranno selezionato. –
faccio sarcastica –
Come i cani.
–
Adesso ha l'aria divertita: – Ci
sei quasi. Vuoi sapere
com'è andata o no? –
Alzo
le braccia esasperata: –
Ho scelta?
–
–
Puoi
sempre piantarmi una pallottola in fronte.
–
Ci
guardiamo. E mio malgrado
sorrido. C'è questa…
cosa...
tra di noi. L'ho percepita fin dal primo momento che l'ho visto,
sotterrata da tutto
lo
schifo della paura e del desiderio di vendetta. Non voglio darle un
nome, per ora mi limiterò a dire che è una specie di intesa.
–
Prego.
– lo invito.
–
Grazie.
–
Riprendiamo a
camminare. Non so nemmeno dove stiamo andando, ma non possiamo
tornare a casa, quindi prendiamo a girovagare.
–
Cosa
ti hanno detto di me? –
–
Non
eri tu che dovevi raccontare?
– faccio guardandolo
storto, ma poi gli sciorino le stesse cose che mi hanno detto i federali.
–
Per
lo meno ti hanno dato il mio nome vero.
– commenta lui sarcastico –
Ma non sono un alfa. Non
come intendi tu, per lo meno.
–
Inarco
un sopracciglio: – E
come lo intendo io? Sentiamo.
–
–
Come
un capo branco, la guida
indiscussa,
l'unico che ha la facoltà di creare altri licantropi.
– spiega concisamente.
Lo
guardo esterrefatta. Queste cose le so da una vita, mio padre mi ha
insegnato i rudimenti delle
dinamiche sociali dei licantropi quando ero ancora
una pivellina. Ma mai –
mai
– uno di loro me ne ha parlato. È pur vero che fino ad ora, se si eccettuano insulti e imprecazioni varie, non avevo mai
parlato con uno di loro – ma sono dettagli.
–
Io
non ho un branco. Non sono mai stato morso e non ho mai morso
qualcuno. – lo
sento aggiungere.
–
Stronzate!
– sbotto
– Diamo
anche per vero
che non hai mai morso
qualcuno...
non ci credo, ma non è impossibile. Quello che è impossibile è che
nessuno abbia morso te,
caro mio. –
Lui annuisce con
aria pensierosa. Resta un momento in silenzio, come a valutare
qualcosa.
–
Ok.
– fa d'un tratto.
E si toglie la
maglietta.
–
Ma
che cazzo stai facendo?! –
Lo afferro per un
braccio e lo trascino dietro un vicolo.
–
Ti
faccio vedere. – dice
semplicemente, sfilandosi le scarpe e sbottonandosi i jeans.
– No, senti... –
balbetto inspiegabilmente imbarazzata – non ce n'è bisogno...
davvero... –
Lui m'ignora.
– Me li tieni? –
fa passandomi un grumo di vestiti.
– Basta! –
strillo – Mi stai mettendo... a disagio... porca puttana, ma non ce
l'ha un po' di decenza?! –
– Ascoltami bene.
–
Come ho fatto ad
abbassare la guardia in questo modo? Non so quand'è che mi ha
afferrato per il collo, né come abbia fatto a passare così
velocemente dal tizio quasi amichevole di prima alla bestia letale
che è adesso... ma il risultato è che sono nella merda.
– Tieniti i tuoi
cazzo di pudori. – ringhia – Sono stato rinchiuso in una vasca di
plasma per mesi, sedato, nudo come un verme, con tubi infilati
ovunque. I medici parlavano di me come se non fossi lì. Quando mi
hanno tatuato, ero in fila come le vacche che vanno a farsi
marchiare. Secondo te me ne frega qualcosa della decenza? –
Se capisco la metà
di quello che sta dicendo è già tanto. Anche perché al momento la
mia più grossa preoccupazione riguarda quella mano stretta intorno
al mio collo e a seguire quei denti così vicini alla mia pelle. La
presa di un licantropo è in grado di fratturare le ossa, il suo
morso può spezzare di netto la carotide di un individuo adulto,
l'infezione portata dalla sua saliva è contagiosa per gli uomini e
letale per le donne e i bambini... è utile ripassare mentalmente le
lezioni, sopratutto per mantenere la calma.
Oh, al diavolo! Sto
per farmela sotto!
– Adesso la
pianti di fare la stronzetta acida e controlli. – mi ordina.
Annuisco. Mi lascia
andare bruscamente e si allontana di molti passi da me. E per un po'
ci guardiamo diffidenti, immobili, ognuno preso da paure diverse.
– Tu vedi morsi?
–
Scuoto la testa.
Poi mi ricordo che al momento è di spalle.
– No. – faccio
con voce flebile, mi schiarisco la voce – No. –
Gli porgo i suoi
vestiti: non mi piace che resti così nudo. Cioè, non mi piace
l'effetto che mi fa vederlo così nudo... oh, porca miseria!
– Come hanno
fatto? – gli chiedo, strizzando gli occhi e sviando i pensieri.
– Un'iniezione.
Veloce e pulita. – dice secco, rivestendosi – Poi ci hanno messi
in quarantena in quelle specie di vasche per cyloni. –
– Parli al
plurale. – noto – Quanti eravate? –
– Non conosco il
numero totale, nella mia stanza eravamo una dozzina, suppongo che nelle altre ne fossero contenuti altrettanti. – spiega – Ho contato venti
stanze nel piano dove mi trovavo. Sette piani in totale, escluso
l'ingresso al pianterreno. All'ultimo gli uffici. –
– Parli come un
militare. –
– Perché lo
sono. –
Trattengo il fiato.
– No... non
dirmi... – annaspo – vi siete offerti volontari? –
Lui annuisce, le
braccia conserte e lo sguardo lontano. Sembra quasi vergognarsi.
– Ce l'hanno
venduta come un farmaco sperimentale. – accenna – Un modo per
renderci più forti e reattivi in combattimento. –
– Ma che idioti!
– sbotto – Non vi insegnano niente i film? Non ci si deve mai
fidare dei federali! –
– Disse quella
che lavorava per loro. – sogghigna – Comunque non hanno mentito: non c'è paragone con quello che ero prima. –
– Già. –
sbuffo – Allora qual'è il problema? Perché sei scappato? E i tuoi
colleghi che fine hanno fatto? E che diavolo c'entro io? –
Alza le mani,
vagamente divertito: – All'ultima ti ho già risposto. –
– Sì, e non me
la bevo. – ribatto dura – Ok, sei un esperimento di laboratorio.
Ok, non sei un licantropo come gli altri. Resta il fatto che sei un
mostro e io non mi fido. Sopratutto se mi vieni a dire che sono come
te, quando è evidente che... –
– Tu sei orfana
di madre, lei è stata uccisa da un licantropo. –
Scatto
all'indietro, sentendo il gelo salirmi su per le vene.
– Questo non
c'entra niente con... come diavolo sai queste cose di me? –
– Nel centro
avevano un dossier su di te. È così che ti ho trovata. Così... –
s'interrompe e mi lancia un'occhiata penetrante – e con il tuo
odore. Tuo padre ti ha mai detto esattamente quando è morta? –
– Ero molto
piccola. – taglio corto, arretrando ancora e stringendomi la
braccia al petto.
Che voleva dire con
quella cosa dell'odore?
– È vero. –
annuisce, come se conoscesse perfettamente la storia – Non eri
nemmeno nata. –
– Questo non ha
senso! –
– Eri ancora nel
suo grembo quando lei venne attaccata dal licantropo. – insiste lui
– Il virus è stato assorbito da te e tu sei mutata. Tua madre non
morì per l'attacco, ma per il parto. –
Mi rendo conto che
sono in iperventilazione solo quando cerco di parlare e non ci
riesco. Ha senso: con i vampiri può succedere e ciò che nasce è un
dampiro, una creatura a metà strada tra i succhiasangue e gli essere
umani.
– Tu sei un
ibrido umano-licantropo. –
– Stronzate! –
balbetto pateticamente, mentre la testa inizia a lavorarmi contro.
– Hai sempre
avuto un sesto senso per i licantropi: li riconosci anche nella loro
forma umana e prevedi un attacco anche senza vedere il tuo
avversario. –
– È un talento
di famiglia. –
– La tua dieta si
basa quasi del tutto sulla carne, arrivi a stare male se non la mangi
tutti i giorni. –
– Ho un
metabolismo particolare. –
– Il tuo ciclo...
–
– E tu come
cazzo...?! –
– Il tuo ciclo –
m'interrompe – è perfettamente tarato sulle fasi lunari. –
– Questo non...
prova niente... e tu sei un maledetto stalker! Adesso basta! –
Sta dicendo
esattamente le cose che sto elaborando e l'inutilità delle mie
risposte mi è chiara ancora prima di darle. Man mano che tutto viene
a galla mi sento sprofondare nel panico.
– Tess... –
– Oh, sai anche
il mio soprannome? – rido istericamente – Adesso mi dirai che
marca di carta igienica uso?! –
– Non ti sei
chiesta perché non mi hai sparato? –
Sfilo la pistola
dalla fondina e gliela punto contro.
– Sono sempre in
tempo. – sibilo.
Lo vedo scattare
via. È velocissimo, molto più di quanto sono abituata a vedere. A
stento seguo i suoi movimenti. E ancora una volta mi ritrovo
immobilizzata.
– Con il tuo
sangue hanno creato un virus in grado di riprodurre la tua mutazione
genetica. – sussurra minaccioso all'orecchio – Io sono il
risultato di questo. –
Faceva meno male
una sprangata sui denti. La vista mi si offusca.
– Ti ho cercata
per ucciderti. –
Serro gli occhi,
facendo scorrere giù le lacrime.
– Allora fallo. –
La sola idea che mi
abbiano usata per fare questo... mi sparerei io stessa, ma sono una
smidollata.
– No. Tu mi
aiuterai a fermarli. –
Mi lascia andare.
Crollo a terra e lo guardo dal basso, esterrefatta.
– Muovi il culo.
– mi fa un cenno – Ci serve un piano. –
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