Seven Little Stones

di ElderClaud
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Verrà la notte e avrà i tuoi occhi [Nnoitra/Rukia] ***
Capitolo 2: *** 2. Ho conservato la tua cravatta; [Zaraki Kenpachi centric] [ZarakixOC] ***
Capitolo 3: *** 3. Il silenzio è il suono più forte [Szayel & Ulquiorra][Szayel centric] ***
Capitolo 4: *** 4. Indossi il vuoto con classe [Szayel/Nemu][Szayel centric] ***
Capitolo 5: *** 5. Se questo è il tuo volere, non aprirò più bocca [Ichigo/Tatsuki][Ichigo centric] ***



Capitolo 1
*** 1. Verrà la notte e avrà i tuoi occhi [Nnoitra/Rukia] ***


Questo progetto nasce con l'intento di scrivere sette prompt, ricavati dalla community di Syllables of Time
Tutte queste oneshot, appartengono all'universo creativo di Raining stones e quindi tutte bene o male collegate tra loro (nel caso di collegamenti diretti con le altre oneshot le citerò), oppure mostreranno spezzoni di passato dei vari personaggi.
Suddetti personaggi scelti (in cui appariranno in coppia o più profondamente in centric) sono:
Ichigo Kurosaki;
Rukia Kuchiki;
Nnoitra Jilga;
Zaraki Kenpachi;
Szayel Aporro Grantz
Appariranno anche altri personaggi, ma in quel caso farò delle centric dei personaggi sopracitati in modo da non andare troppo contro il regolamento della community.
Non mi resta che augurarvi buona lettura, e ditemi cosa ne pensate ^^ (la prima oneshot si allaccia a “temperanza”, “vendetta” e a tutte le altre oneshot in cui appaiono Nnoitra e Rukia.)


1° Verrà la notte e avrà i tuoi occhi.


La lancetta della sveglia sul comodino pareva non voler dare tregua.

Era un continuo ticchettio che solerte rimbombava in ogni angolo della camera da letto, costringendo così il proprietario dell'appartamento a rigirarsi di continuo su di un materasso nuovo, che contava si e no qualche mese di vita. Un giaciglio decisamente più comodo rispetto alla vecchia branda che prima occupava solo un misero angolo della stanza. Ma che in quel preciso istante di insonnia quasi andava a rimpiangere.
Seccato, per il ritardo con cui il sonno giungeva nelle sue stanche membra, Nnoitra Jilga si rigirò ancora tra quelle lenzuola umide di sudore dovute ad un caldo incessante, soffocando tra di esse bestemmie impronunciabili.
E pensare che lui quel letto matrimoniale manco lo voleva. Anzi, non voleva che il suo bilocale subisse una strigliata totale in meno di un giorno.
Tutto questo, grazie alla nuova stagista che gli stava appiccicata al culo quanto una piattola su di un cane.
Rukia”
Mugugnando il suo nome quasi senza volerlo, allungando quella “R” iniziale come a sibilare un ringhio, Jilga sospirò esasperato per la troppa afa che regnava nella stanza buia e si decise a scostare violentemente le lenzuola in fondo al letto.
Liberando così nella notte cupa della stanza, appena rischiarita dalla luce dei lampioni che filtravano attraverso le veneziane abbassate della finestra, il corpo sudato di un uomo provato dai drammi di un tenore di vita discutibile, che nonostante tutto si mostrava ancora tonico e in forma.
Quella nanerottola era entrata prepotentemente nella sua vita lavorativa – per volere degli alti dirigenti dato che il suo precedente zerbino era scappato con un'altra collega – e si era presa la libertà di resettargli tutta la sua esistenza.
Quantomeno la sua persona. Difatti, lo stesso giorno in cui si erano presentati, non lo avrebbe mai dimenticato, ecco che miss “sono più superiore di te” gli aveva fatto risistemare casa da zero.
L'adorato tugurio con i muri ingialliti dal troppo fumo e la moquette sporca di troppi alcoolici, si era trasformato in un attico degno di un manager come lo era lui.
Che seppur appariva per alcuni decisamente un individuo squallido, la stessa Rukia doveva riconoscere che sapeva fare bene il suo mestiere. Sennò Aizen Sosuke non lo avrebbe preso nella sua ditta farmaceutica.

Faceva caldo quella sera, talmente tanto che da fuori la finestra non giungeva nessun rumore che non fosse qualche auto lontana e anonima che passava da quelle parti. Neppure i grilli canticchiavano dolcemente, cullando così il sonno di un feroce padrone di casa.
No, nulla da fare. Anche scostando via quelle lenzuola pulite – ora umide di sudore – bastavano a farlo addormentare del tutto.
Per questo, preda di una forte esasperazione, l'allampanato padrone di casa si alzò a sedere a fatica per tentare così di stiracchiarsi i muscoli.
Visto che non riusciva ad addormentarsi per colpa di quell'afa fottuta, pensò saggiamente, si sarebbe concesso una doccia rinfrescante e poi una sigaretta.
Forse la colpa non era semplicemente del caldo anomalo di una estate che non voleva andarsene via, piuttosto di tutto lo stress che aveva accumulato pensando e ripensando a tutto quel che gli era capitato in quei pochi mesi.
Finalmente, una volta ritto in piedi, si diresse sicuro al bagno – senza neanche star li ad accendere le luci – e una volta giunto, entrò direttamente nella vasca e tirò il candido tendone di plastica.
Non si tolse neppure le mutande mentre, finalmente con i muscoli rilassati, accoglieva sulle spalle uno scroscio di acqua fresca e dissetante.
Difatti, più di un mugugno compiaciuto fuoriuscì dalle sue labbra sottili, nell'atto di passarsi le mani tra i lunghi capelli neri.
Persino il bagno era stato risistemato il giorno stesso in cui quella donnetta fu assunta nel suo ruolo di stagista. Tutto a posto in quella casa. Dalle pareti ai mobili.
Una novità che portò Jilga a essere sull'orlo di un collasso una volta ritornato nella sua dimora. Ma quella di tutta risposta, alla sua telefonata aggressiva in cerca di chiarimenti su chi avrebbe pagato tutte quelle spese, la donna rispose spiccia.

Spese? Quali spese? Sono tutti omaggi che le ditte le hanno offerto una volta che ho detto loro chi eravate e per chi, soprattutto, lavoravate”

Da restare sorpresi vero?
Quella piccoletta era una dannatissima stronza che sapeva il fatto suo. E quel piccolo ricordo lo portò stranamente a sorridere mentre alzava il volto verso l'alto per accogliere così l'acqua spruzzata incessantemente dal diffusore.
“Tzè... Dannata stronza. L'esatto contrario di Neliel e... Ah cazzo! Che paragoni del cavolo...”
Il ricordo dell'ex moglie portò via quel suo sorriso simile ad un ghigno, per fare posto ad un veleno che ancora gli scorreva nelle vene nonostante i tanti anni che erano passati.
Da Neliel Tu, lui aveva avuto una bambina – ormai grande per fortuna – ma non per questo si sentiva di rispettarla perchè la madre di sua figlia. Anzi, tutt'altro, la detestava più della nanetta impertinente. O meglio, erano due cose perfettamente diverse per quanto simili nella loro... Saccenza.
Una volta stancatosi di farsi una doccia rinfrescante, che ora pure quella non pareva più consolatrice a causa dei pensieri che gli tormentavano il cervello, se ne uscì bagnato come uno straccio zuppo e, senza neppure avvolgersi in un asciugamano, si diresse seccato alla finestra della camera da letto. Macchiando con pedate e righe d'acqua, un parquet immacolato dal lavoro di una abile domestica pagata da chissà chi.
Infischiandosene di essere bagnato e praticamente nudo – eccetto le mutande zuppe – si accese una sigaretta e accese la radio vicino al comò. Poi, annoiato, si affacciò alla finestra ora libera del velo di alluminio fornito dalle veneziane.
Dalla finestra del suo appartamento vedeva il cortile interno e una parte della strada. Tutto rigorosamente deserto.
A quanto pare, se avesse fatto qualche isolato in linea retta, sarebbe passato esattamente dove abitava Rukia Kuchiki.
Era importante? No, decisamente no.
A lui in quel momento interessava fumare quella benedetta sigaretta e guardare il cielo notturno mentre, con un suono un po' disturbato, dalla radio sopraggiungeva una malinconica canzoncina che lui canticchiava distrattamente.

Troppo era il caldo... E troppi erano i pensieri che quel bastardo gli generava nella testa.
Piano, come se stesse mormorando una preghiera, le labbra di Nnoitra si muovevano sapienti nel pronunciare ogni singola parola cantata dalla vocalist di un gruppo che a malapena conosceva.
A tratti la sigaretta la tirava su come se fosse stata una cannuccia, accendendo violentemente le braci presenti sulla punta, inalando così velenosa nicotina.
Incrociò le braccia sul davanzale, sporgendosi meglio nell'osservare il desolato panorama notturno, tornando così nei suoi pensieri.
Tra Neliel e Rukia vi era un abisso, questo lo aveva capito bene durante quei mesi di servigi della Kuchiki.
Il fattore che lo aveva portato a disprezzare dal profondo la sua ex moglie, stava nella sua caratteristica principale di averlo sempre trattato con sufficienza e di non aver mai rispettato la sua filosofia di vita.
Neliel era sempre stata sicura di quello in cui credeva – cosa nobile questo non poteva negarglielo – trovando i suoi pensieri violenti tutt'altro che giusti. Anzi, disfattisti e degradanti per il genere umano.
Loro due erano come delle allegorie di stili di vita differenti – uno propenso ad un lato umano e l'altro più propenso a quello pratico – destinate a confrontarsi e non vedere mai un prevalersi di una delle due parti.
E se da un lato aveva trovato stuzzicante un tale confronto, presto si stancò di avere un assistente sociale tra i piedi.
Lui non aveva bisogno di protezione, ne di una guida morale e, soprattutto, non aveva bisogno che il suo capoufficio fosse sua moglie. Poi da li a riuscire a cacciarla via con infamia, è tutta un'altra storia che non gli andava di rimembrare.

Per l'ennesima volta sbuffò fumo dalle labbra dischiuse, mormorando ancora le strofe di una canzone quasi del tutto alle battute finali.
E fu proprio nella strofa finale cantata con stupenda bravura da una giovane cantante, che a Nnoitra Jilga gli si spalancò l'unico occhio buono.

... Verrà la notte e avrà i tuoi occhi...”

Quella frase gli fuoriuscì in modo più marcato dalle labbra, appena nella sua testa gli si accese una lucina di comprensione.
Gli occhi di Rukia, erano esattamente come il cielo notturno che stava osservando.
Quella donna, apparentemente simile a Neliel, sembrava sapere il fatto suo imponendosi anche con una certa arroganza.
Proprio come Neliel, mal digeriva il suo stile di vita e si mostrava superiore sia con gli atti che con le parole.
Eppure, la loro somiglianza si fermava solo a quell'effimera apparenza.
Perchè i suoi occhi, erano come il cielo limaccioso che stava guardando in quel momento. Come la frase di quella canzone ormai conclusa e sostituita da un'altra da un deejay in forma nonostante l'ora tarda e il caldo bollente.
Gli occhi di Rukia erano due pozzi blu scuro su cui nessuna stella brillava limpida e vittoriosa.
Erano come offuscati da un qualcosa, esattamente come quello sopra la sua testa coperto da una asfissiante cappa d'afa, che non mostrava nulla se non una specie di nebbiolina umida e appiccicosa.
Un mantello scuro e opaco, ove nessuna stella o mezzaluna splendente osasse fare capolino per rischiarire un po' quelle calde tenebre indesiderate.
Gli occhi di Rukia insomma, a differenza di quelli di Neliel, avevano conosciuto il peso di una dolorosa sconfitta.

Avevano, esattamente come Nnoitra Jilga, conosciuto il dolore di una perdita improvvisa e colpevole. Oppure, peggio ancora, di un fallimento in bilico tra il volontario e l'involontario.
Erano supposizioni fatte a caldo, certo. Nate improvvisamente ascoltando in modo assai distratto una canzone che fuoriusciva da una vecchia radio, ok.
Ma quel ragionamento proprio non riusciva a sminuirlo. Neppure dopo aver finito di fumare la sigaretta, buttando così un mozzicone ardente di sotto e incurante dei pericoli che avrebbe potuto creare se avesse toccato l'erba secca.
“Che mi venga un fottutissimo colpo” borbottò quasi annoiato.
Scostandosi dalla finestra ormai perfettamente asciugato grazie al caldo presente in quella notte senza stelle. Perfettamente asciutto senza che neppure un filo di vento spirasse dentro la finestra, esclusi i capelli che rimanevano umidi e le mutande che invece, a rovescio della medaglia, si erano fatte insopportabili da portare.
Ringhiando sprezzante, se le sfilò via velocemente per poi appallottolarle con rabbia tra le mani fino a ridurle ad un mucchietto fradicio e indistinto.
“Ma vaffanculo!”
Nuovamente irritato per quel contrattempo dettato dalla tarda nottata insolita, si liberò con fastidio di quell'indumento bagnato gettandolo oltre l'abisso nero presente fuori dalla finestra, sempre e comunque incurante che un gesto simile era ai limiti dell'indecenza e del teppismo condominiale.

Non erano le mutande ad interessarlo, ne le facce dei condomini che si sarebbero create alla vista di quelle mutande giganti che insozzavano la bella aiuola vicina al portone di ingresso.
Ad averlo colpito erano il pensiero degli occhi della sua stagista e al fatto che decisamente non sarebbe riuscito a sbarazzarsi di lei con tanta facilità. Ne avrebbe, alla fine dei conti, trovato la forza morale di farlo.

Perchè gli occhi di Rukia, quei due occhi neri come una notte coperta da un'afa insidiosa, più che somigliare a quelli di Neliel in fatto di temperamento “forte” e di grande sicurezza, erano simili a quelli di Nnoitra Jilga.
Solo che, a differenza di lui, Rukia si ostinava a nascondere la propria insicurezza dietro una parete di pseudo sicurezza e arroganza. Un muro forse imposto per sopravvivere a quel buio che aveva spento la speranza fatta di tante stelle, che lui tuttavia trovava decisamente inutile e ai limiti della perdita di tempo.
Sorpreso egli stesso di un ragionamento così azzardato, eppure così possibile nel suo essere ipotetico, il padrone di quel piccolo appartamento spense la radio e si ributtò a letto nudo come un verme con l'arrivo insperato di un sonno tanto atteso.
E di li a breve, chiudere gli occhi e ignorare l'afa che tornava a farsi risentire su di un corpo ancora fresco di una doccia rilassante, fu una cosa breve e meno travagliata.

Forse quella doccia era riuscita a far miracoli. Oppure, con tutta probabilità, era stato di aver rischiarato i propri pensieri ad avergli ridato un sonno tra mille borbottii e mugugni vari.
Magari l'indomani le avrebbe offerto un caffè...

[…]

Inalò l'aria in un profondo respiro, trovando l'atmosfera piacevolmente umida.
Kira Izuru constatò ancora una volta e con ancora tiepido piacere – dopo una nottata bollente spesa a lavorare – che l'aria del primo mattino era pressoché perfetta.
Il sole sul fondo della strada stava iniziando a sorgere, tingendo così parzialmente l'orizzonte di un morbido color rosa. Non una nuvola in cielo, quello che aveva coperto la notte passata era niente meno che l'afa micidiale di una tarda estate.
Non era certo sua intenzione farsi una nottata di straordinari, però era questo ciò che aspettava un semplice avvocato d'ufficio come lo era lui.
Sospirò esausto, posandosi una mano sul volto per massaggiarselo meglio.
I suoi capelli biondi erano spettinati e la cravatta stretta al collo decisamente poco in asse. E per di più, sul suo volto erano ben visibili due occhiaie da far invidia ad un panda.
In quel preciso momento, per quanto l'aria del mattino era lievemente umida e tiepida – e per tal motivo rilassante – nulla avrebbe tolto un buon sonno ristoratore ad uno stanco avvocato.
Si, decisamente buttarsi sul letto e dormire fino a mezzogiorno pareva la cosa più bella del mondo. E ciò lo portò a sorridere lievemente mentre superava il cancello che lo avrebbe portato nel condominio in cui abitava.
“Finalmente a casa” pensò con soddisfazione.
Ma per sua immensa sfortuna, quel timido sorriso apparso sul suo volto solcato da una – presumibilmente – perenne stanchezza, dovette nuovamente piegarsi in una smorfia di dolore alla vista di un qualcosa di osceno.
Davanti al portone di ingresso dello stabile, ove era presente una bella aiuola ben curata piena di candide rose, era presente un qualcosa di totalmente iniquo.
Delle mutande enormi, candide e ancora fradice della lunga nottata afosa, troneggiavano sopra le sue rose con una sfacciataggine inaudita.
“Ohh...”
con un segno tangibile di impotenza, Kira Izuru allargò lievemente le braccia e lasciò scivolare a terra la sua vecchia ventiquattrore.
Sconsolato,si avvicinò al luogo del delitto. Notando – senza però toccarle – che quelle enormi mutande potevano solo appartenere ad una persona a lui ben nota, che spesso e volentieri prendeva la sua aiuola come cestino dei rifiuti.
Sopra l'elastico ancora grigio di mutande originariamente candide, capeggiava la scritta “menos grande” in tutta la sua provocante calligrafia.
E solo un uomo dal nome di Nnoitra Jilga poteva osare permettersi di indossare simile robaccia.
Distrutto per quell'ennesimo affronto, l'avvocato chinò la testa verso il suolo dispiaciuto per quell'ennesimo insulto alla sua adorata aiuola.
Sicuramente un giorno, se avesse mai avuto la forza di andare a bussare a quel gigante iroso con la forza di dieci buoi e un coraggio indifferente per farsi chiedere scusa per i danni ricevuti, il cielo lo avrebbe accolto come un eroe.

Ma fino a quel giorno, se davvero ci teneva alle sue ossa, tutto ciò che poteva fare era di raccogliere quelle mutande con un bastone, e lasciare vicino all'ingresso del vicino che abitava sopra di lui.

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Capitolo 2
*** 2. Ho conservato la tua cravatta; [Zaraki Kenpachi centric] [ZarakixOC] ***


La seconda oneshot è tutta dedicata al personaggio di Zaraki! Attenzione! La storia è ambientata sei anni prima degli avvenimenti narrati in Raining Stones (per ovvi motivi). I legami con i personaggi dell'universo di questa serie ci sono, ovvio, però in qualche modo ho voluto mostrare l'incontro tra Yachiru e Zaraki stesso. Come ultimo lascio gli avvertimenti: fondamentalmente questa è una Zaraki centric/ZarazkixNuovo Personaggio ( OC a cui io non ho dato volutamente un nome ). Con presenza di lime di sottofondo. Quindi io vi ho avvisati!
Per il resto spero facciate una buona lettura! Ditemi cosa ne pensate ^^


2° Ho conservato la tua cravatta


Sei sicuro di saper usare questo coso?!”
Certo che si, signore! Ma non è un coso, è un programma di meeting online. Sa, l'ho usato pure per Ikakku prima che andasse ad arruolarsi in marina. Che poi, chissà come se la passa tra uomini più cappelloni di lui e...”
Va bene Ayasegawa, lasciamo stare. Penso che metterò un annuncio sul giornale...”

Il chiacchiericcio insistente di uno dei suoi uomini, portarono il capo dei vigilantes Zaraki Kenpachi a chiudere li una discussione che pareva a dir poco imbarazzante.
Erano dieci anni che lui se ne lavorava li – nella grande azienda farmaceutica nota in tutta la città come Las Noches – a dare la caccia agli incompetenti e ai teppisti. Ma questo non lo irritava affatto per essere, magari, un lavoro un tantino umiliante per la sua persona.
Non era così quando si parlava di Zaraki.
Perchè quel suo lavoro, i suoi uomini lo sapevano alla perfezione, se lo era andato a cercare lui stesso senza lamentarsi minimamente.
Ma questo non toglieva a Yumichika di indignarsi lievemente e fare una faccia dispiaciuta di fronte al diniego di un intervento informatico. La tecnologia era essenziale di quei tempi, perchè non affidarsi al suo portatile preferendo invece di un antiestetico pezzo di carta?
Ma signore, è davvero sicuro di voler adoperare un mezzo così antiquato? Nessuna donna...”
Non sono pratico di informatica, Ayasegawa. E gradirei che chiudessi il becco”
Con gesto teatrale ma del tutto genuino, l'interpellato si portò una mano alla bocca con lo stupore di essersi quasi dimenticato un segreto importante. Soprattutto da non spifferare ad alta voce dati altri due colleghi che, poco lontani da loro – erano all'interno della sala ristoro per le guardie della struttura – erano intenti a bere caffè davanti alla macchinetta.
Mi scusi – borbottò sottovoce, notando il lieve disagio del suo superiore – allora vada per il giornale, me ne occupo io. Stia tranquillo, eh!”

Tutta quella confidenza da complotto ordito ai danni di un re, lui ai suoi uomini non l'aveva mai data. Ne ci teneva a buffonate del genere.
La fiducia e l'onore erano alla base del saldo rapporto che aveva con i suoi uomini.
Solo che, a pensarci bene, Yumichika gli era parso il più adatto a sbrigare una pratica alquanto noiosa e di mantenere comunque il segreto.
Era un ragazzo chiacchierone e narcisista. Ma oltre a questo era uno che era sempre ben aggiornato su tutto e sapeva usare i cosi di comunicazione come lo era quel... Computer portatile o come diavolo si chiamava.
Per di più, nonostante la sua aria da pettegolo, avrebbe sicuramente mantenuto il segreto di un capitano non più tanto disposto a vivere la sua esistenza da solo.
Era un pensiero un tantino imbarazzante, che lo portò a staccarsi dall'uomo seduto al candido tavolo da mensa con passi un po' insicuri, per affacciarsi ad una finestra e li specchiarsi attraverso il riflesso.
Zaraki si era fatto decisamente una vita avventurosa fin da ragazzo. Per quanto mai voluta, alla fine della corsa quella della violenza e della guerra era proprio la strada che più gli calzava.
Quelle ferite profonde sul suo volto spigoloso e mascolino, duro come la roccia e conscio di una sofferenza squallida e crudele, erano le uniche testimoni del suo passato da mercenario in giro per il mondo.
Dalla giungla amazzonica fino al deserto dell'Iraq, da montagne innevate e paludi salmastre, di cose ne aveva viste parecchie.
Cose meravigliose contrapposte, a rovescio della medaglia, a cose che mai avrebbe raccontato in vita. Ma che ancora lo tormentavano ogni qual volta si coricava a letto la sera.
Questo però, faceva parte del suo passato. Di Zaraki il mercenario si erano ormai perse le tracce da tempo, cioè da quando aveva deciso di cambiar vita o quantomeno di provarci.
Sia per i troppi nemici che si era fatto, sia perchè ormai assuefatto ai limiti dell'esasperazione.
Che cosa poi avesse spinto Aizen Sosuke ad accettare un curriculum come il suo in una azienda tanto rinomata, lui non lo sapeva e poco gli importava.
A quanto pare, al signor Aizen piacevano le persone prive di scrupoli e perfettamente genuine. Come un po' lo era lui in persona.
Quindi, alla base di tutto questo lieve pensiero sul suo passato burrascoso e tetro, cosa ci sarebbe stato di male se finalmente si fosse pure trovato una compagna di vita?
Dov'era il pensiero sporco in ciò? Era dieci anni che “rigava dritto” quindi era anche giusto soddisfare un ben altro tipo di pensiero ed esigenza.
Voltando lievemente lo sguardo su Ayasegawa, lo vide chiaramente chiudere quell'affare elettronico, alzarsi dalla sedia e iniziare a rovistare nei giornali posti in un angolo della sala in cerca di una rivista decente.
Quel ragazzo aveva preso sul serio il desiderio del capitano di trovarsi una donna. Solo che, con la poca praticità che aveva nel comunicare con femmine e con i mezzi di comunicazione moderni, aveva giusto bisogno di una dannatissima mano.
Era davvero imbarazzante per lui pensare di essersi fatto aiutare da uno dei suoi uomini in questo, per quanto comunque, nessuno si sarebbe dissociato dall'aiutarlo in modo serio ed efficiente.
Ma solo Yumichika avrebbe tenuto la boccaccia chiusa, di questo, nonostante il deglutire saliva per stemperare una certa tensione nascosta, ne era perfettamente certo.

[…]

Ahh... Allora questo eri tu da giovane?”
Ehm... Si”
Ahh... Tranquillo, dai. Belli i capelli comunque, eh!”

Avrebbe ucciso Ayasegawa, questo era sicuro.
L'appuntamento alla fine era riuscito a concluderlo, questo grazie alle pagine stampate e non a internet, tuttavia aveva sin dall'inizio della serata il sentore di un disastro completo.
Per carità, lei era una bella ragazza sorridente e solare – forse un tantino imbarazzata (tremava lievemente) ma qui la si poteva anche capire, era di lui che si parlava – ma era giovane in confronto a lui.
Troppo giovane – con i suoi trenta anni compiuti solo il mese scorso – e con lui che era già alla metà della sua quarantina o forse di più. Non aveva mai saputo quando era nato.
La sua telefonata era arrivata inaspettata e quasi istintivamente sgradita da un uomo non abituato a simili mezzi. Persino lei stessa pareva titubante nel conoscerlo così, di punto e in bianco e senza quasi sapere nulla di lui. Tuttavia l'annuncio lei se lo era letto bene e sapeva perfettamente di avere di fronte un uomo maturo. Uno che poteva anche essere suo padre volendo.
Stranamente incontrarsi al ristorante a cui si erano dati appuntamento non fu difficile. Forse perchè entrambi erano due figure un po' anomale in quel locale comunque elegante.
Un uomo in giacca e cravatta dal volto tumefatto da vecchie cicatrici, che incontra una ragazza dagli abiti forse un po' troppo succinti e larghi per la sua minuta figura. Forse presi in prestito o forse vecchi e datati dopo una dieta ferrea, fattostà che appena lo vide iniziò un costante balletto per impedire che la gonna si alzasse troppo sorridendogli imbarazzata e impacciata al contempo.

E ora che erano seduti ad uno dei tavoli precedentemente prenotato, la giovane donna osservava una vecchia foto del mercenario quando era giovane, lasciandosi andare a risate ebeti nel vedere la sua vecchia acconciatura a “porcospino”.
No dai, ssei... Sei carino anche qui. Acconciatura un po' punk però mi piace! N-non che tu stia male adesso con i capelli lunghi, eh!”
Ti ringrazio”
Ti annoio forse? Cioè, se sto sbagliando qualcosa per favore dimm...”
No, no. Non stai sbagliando nulla – sospirò piano per calmarsi lui stesso – anche tu è la prima volta che ti affidi a quei giornaletti del cavolo?”
L'insicurezza e il nervosismo isterico nella giovane si stemperò nell'ultima parola dettata da Zaraki, iniziando a ridere con la sua risata un po' ebete e ancora da bambina.
Ah, ah... Cavolo! Comunque si, anche io mi sono affidata a quella roba. C-cercavo un uomo maturo per... Boh... – alzò lo sguardo dubbiosa in cerca della parola adatta – immagino per sentirmi sicura, ecco”
prese il bicchiere colmo di vino rosso e, senza neppure aspettare di mettere qualcosa nello stomaco, lo sorseggiò tutto come una intenditrice di alcoolici ben collaudata.
Non avevano ancora portato loro da mangiare, solo da bere, che già due bicchieri belli colmi di vino erano finiti nello stomaco di lei.
Stupefacente davvero, pensò Zaraki nell'osservarla – lui non aveva ancora toccato nulla – e notando le sue gote leggermente cosparse di lentiggini, farsi lievemente arrossate per l'alto grado alcoolico del vino.
Non era il suo aspetto a preoccuparlo, quanto ciò che aveva detto. Lo aveva scelto con intento ben precisi, ed un chiaro indizio era per sentirsi più sicura.
Sicuramente era una ragazza fortemente insicura e forse un po' strana. Lo dimostravano i suoi atteggiamenti e i tentativi di apparirgli aperta e comprensiva.
Forse era pure spaventata da lui... Oppure da tutta la situazione molto più probabile.
Zaraki prese un appunto mentale di massacrare il povero Ayasegawa. Ma non prima di essersi congedato gentilmente da lei a fine cena ripromettendosi di non affidarsi più ad inutili inserzioni.

[…]

Zaraki Kenpachi non aveva mai baciato una donna in vita sua.
Mai, ne da ragazzino, ne da mercenario poi. Già la sua vecchia professione impediva il divertimento con dolce compagnia, data la costante vita in bilico tra vita e morte, tuttavia dopo quello per altri dieci anni non si era adoperato a cercare una donna. Non se la sentiva ecco.
Oltre al fatto di non essersi mai accompagnato con una femmina, rimaneva il fatto che, smesso di fare il soldato di ventura, i suoi istinti assopiti si erano ad un certo punto risvegliati.
Ma più che il sesso, cercava qualcosa di stabile e sicuro. Esattamente come lo cercava lei.
Chi gli avrebbe assicurato che una plausibile relazione con una donna conosciuta solo da un paio d'ore, si sarebbe concretizzata nel tempo? Ovviamente, nessuno.
Però in quel preciso momento erano le sue labbra che stava baciando. Il cui tocco, seppur principalmente semplice e solo dopo più passionale, lo aveva fatto sciogliere come una candela. Lui che aveva la durezza del granito più forte.
Si era fatto tante promesse quella stessa sera.
Promesse che poi, stranezza della vita, aveva buttato nel cesso una volta riaccompagnata la donna nel suo appartamento.
Forse un po' brilla, o forse con l'intenzione di non concludere con un buco nell'acqua, in punta di piedi gli aveva cinto con le braccia il collo muscoloso, per poterlo baciare anche solo in modo lieve.

Mai provato un tocco simile.
Mai sentito un simile brivido a contatto con un altro corpo umano. Che fosse il seno di lei che premeva contro il suo petto, o il cadavere di un nemico che gli scivolava addosso, era una sensazione unica.
Il passo dall'ingresso dell'appartamento fino alla camera da letto fu decisamente breve. Tanto che accolse quasi con spavento il colpo alla schiena quando cadde all'indietro, colpendo il vecchio materasso con le scapole e lei stessa sul ventre.
Uff!”
uno sbuffo gli fuoriuscì nell'attimo in cui le loro labbra si separarono, nell'accogliere il lieve dolore alla pancia dovuta alla ginocchiata involontaria della padrona di casa.
Ah... Oddio! Ti ho fatto male? Stai bene? Non volevo...”
No, è a posto. Non lo hai fatto apposta”
Sicuro, eh? Vuoi che ci fermiamo per... Non so – si sistemò meglio sopra di lui appoggiando ambo le ginocchia sul materasso – mi sa che forse stiamo correndo troppo”
Non mi sto lamentando”
Sinceramente tra i due c'era un abisso. E non solo di età.
Zaraki era decisamente poco loquace, mentre lei decisamente chiacchierona e con la parlantina veloce. In tutta onestà, non sapeva neppure lui del perchè di quella risposta tanto spiccia nel suo desiderio di chiudere in bellezza la serata.
La compagnia non gli dispiaceva affatto – e non solo perchè era in compagnia di una bella ragazza – e poi quei suoi stessi baci, come quelli che era ritornata a donargli dopo quella chiacchierata, lo rendevano confuso al punto giusto.
Era bello sentire quelle labbra e quella lingua – che ancora sapeva di vino e il cui tocco umido lo fece fremere – a contatto con la sua. Era bello sentire quelle manine gracili infilarsi dentro la sua camicia per stuzzicarlo.
Si sorprese però, quando la giovane dai lunghi capelli belli come la seta, si alzò a sedere a cavalcioni su di lui per sfilarsi la camicetta. Sorridendogli smagliante mentre sbottonava uno ad uno i piccoli bottoncini bianchi.
Le prime tette viste in vita sua, lo portarono a sgranare gli occhi dalla sorpresa. E ciò allarmò la proprietaria di tali tette di non poco.
Wow...”
Cosa? Che cosa c'è? – si ricoprì immediatamente per quell'espressione sorpresa – Ho fatto qualcosa che non dovevo? Le mie tette sono orribili? Oddio... Si vedono ancora i buchi dei percing sui capezzoli?! È da un anno che non li porto, lo giuro!”
Eh...? Ah, no tranquilla! Sono belle. È solo che non le avevo mai viste così... Da vicino”
La sorpresa della sua piccola rivelazione portò la donna a guardarlo con un velo di dubbio negli occhi verde chiaro.
No? Mai una volta?”
Eh no – sbuffò stanco ma non mortificato da quella rivelazione – ho aspettato di incontrare la donna giusta...”
Era una mezza stronzata, non gli andava ancora di raccontarle tutto del suo passato. Dopotutto neppure lui conosceva quello che lei combinava – o aveva combinato – in vita, per cui perchè darsi tanta pena?
La sua risposta però non portò irritazione o ilarità nella giovane seminuda, tutt'altro, abbassò lo sguardo e sorrise dolcemente nell'atto di stringersi meglio per coprire le proprie nudità.
Che dolce. Hai... Tu hai fatto bene ad aspettare il momento giusto. Non come noi giovani che dobbiamo fare tutto e subito...”
Ennesima risata ebete per concludere uno dei suoi tanti discorsi lasciati aperti. A Zaraki dopotutto non dispiaceva quella risata, per quanto ancora lo lasciasse decisamente perplesso.
Ok, quindi – si sistemò meglio nella posizione sdraiata permettendo così alla donna stessa di poggiarsi meglio a lui – non ti spiace se lascio fare tutto a te vero?”
Un'altra risata – stavolta meno stentorea – della donna si levò per la stanza dall'aspetto spartano, alle parole di un Zaraki si perplesso ma comunque indisposto a tirarsi indietro.
Se si prendeva la cosa alla leggera, allora ci si poteva anche divertire senza pensare che lui era un emerito sconosciuto. Bastava non pensare e ignorare la coscienza inquieta.
Ahh... Allora ok, eh! Inizio a sbottonarti i pantaloni per tirarti fuori il pisello...”

[…]

Il suo risveglio poteva essere considerato alquanto traumatico.
Era la stessa identica sensazione che provava quando, da mercenario, si ritrovava a svegliarsi in luoghi sconosciuti oppure a malapena notati come nel suo caso.
Un senso di disagio misto a lieve smarrimento, che ogni volta lo portavano – allora come adesso – a strofinarsi gli occhi con i palmi delle mani.
Mani ora rovinate dal tempo e dalle cicatrici, stanche come tutte le sue membra dopo una nottata che gli era parsa a dir poco interminabile.
No, non si sentiva più l'età di certi movimenti audaci.
“Mm...”
Mugugnò incerto nel muoversi in quel letto sfatto e caldo, cercando di guardarsi in giro in una pesante penombra che era la camera della sua prima compagna di vita.
Solo buio e un arredamento spartano che si delineava tra le ombre rischiarite dai primi raggi del sole. Che a malapena entrava tra gli scuri abbassati delle finestre in stanza.
Con la schiena dolorante, riuscì a mettersi a sedere e a osservare chi alla sua destra dormiva tranquillamente.
La padrona di casa era avvolta e rannicchiata tra le coperte, come una bambina piccola presa da un insolito freddo. Il suo respiro tuttavia, ad uno stanco – quanto ancora confuso – Zaraki, pareva rilassato e tranquillo.
Non era casa sua – e questo gli dava un certo disagio istintivo – però la voglia di bere qualcosa ce l'aveva eccome. Uno stomaco che borbottava basso e ancora intorpidito dal poco sonno, gli parlava forte e chiaro.
Per questo, stiracchiando i possenti muscoli della schiena, volle alzarsi in piedi senza non poca fatica.
Ne aveva provate di sfide eccitanti in vita sua... Ma ciò che lo aveva colto la notte stessa forse le pareggiava. Sempre vero il vecchio detto de “c'è sempre una prima volta per tutto”. E lui sentendosi sepolto sotto tonnellate di calde ed umide sensazioni, si era sentito vivo come quando entrava in battaglia.
Iniziò a camminare per raggiungere il corridoio, ma dovette fermarsi una volta che si espose alla luce proveniente da fuori la stanza.
“Ah no, così non va...”
Con un tardo arrivare di riflessi non troppo svegli – dovuti al faticoso risveglio – si accorse di essere completamente nudo. E per tanto dovette fare marcia in dietro e recuperare i suoi vestiti.
Con un po' di imbarazzo, tornò in quella stanza che ancora sapeva di loro due – un odore di corpi mescolati tra loro simile a quello dei bordelli che aveva assaltato in gioventù, senza però l'odore pungente della droga – trovandosi a rovistare tra gli abiti sparsi, fino a trovare i suoi pantaloni.
Indossò solo quelli con una certa goffaggine, prima di avviarsi verso il corridoio e guardarsi attorno.
Giusto tre stanze – contando anche la camera da letto – e un bagno.
Zaraki in quel momento aveva una voglia disperata di caffè, per poter dimenticare il forte disagio di essere li e di aver fatto quello che aveva fatto.
“Che mi venga un colpo – borbottò, scostando un poco il bordo dei pantaloni per guardarsi il membro rilassato – qui mi sa che per un mese non ci muoviamo più... Eh?”
No. non dopo tutto il movimento a cui lo aveva sottoposto. Non a tutto quello che lei gli aveva fatto precisiamo, perchè lui proprio non sapeva dove mettere le mani.
Sia per timore di farle del male, sia perchè... Preferiva così. E sarà stata pure uno scricciolo di ragazza, ma a fargli certi pompini o a cavalcarlo con forza era indice di possedere una certa tempra.
A cosa stava pensando...? Ah, si! Farsi del caffè. Meglio pensare a quello.

Fece però giusto in tempo a raggiungere la soglia della cucina, che marcati colpi di nocche si fecero sentire sulla porta d'ingresso smaltata di bianco.
Colpi ripetuti e secchi, tipici di una persona impaziente, attendevano che qualcuno andasse ad aprire la porta.
“Ohi allora?! Ci sei? Apri!”
Per fortuna della padrona di casa c'era Zaraki sveglio, sennò con il sonno profondo che aveva nessuno sarebbe andato ad aprire all'esigente persona – una donna dalla voce – che aspettava da dietro quella squallida porta bianca.
L'ex mercenario non rimase deluso dalle sue aspettative. Davanti a lui, c'era effettivamente una donna.
Anzi, data la divisa che indossava, doveva essere una studentessa delle superiori. E tra le braccia, aveva uno strano fagotto.
Incurante di essere mezzo nudo, di avere i lunghi capelli in disordine e in generale un aspetto tutt'altro che raccomandabile, Zaraki Kenpachi aveva aperto a quella porta con assoluta indifferenza. Senza aver timore dello sguardo della giovane – un misto di sorpresa allarmata e perplessità – che lo guardava da capo a piedi.
Se quella ragazzina aveva dei problemi, poteva semplicemente andarsene dato che lui era li in tutta legalità.
“Che vuoi?!” tagliò corto lui.
Le sue parole neutre ma pur sempre dure come la roccia portarono la ragazzina lentigginosa ad assottigliare i grandi occhi azzurri e a fare un passo in dietro con precauzione.
“Chi sei tu? Sei amico di...”
“Si lo sono, che vuoi? Che hai in braccio?!”
la giovane parve non apprezzare il fatto di essere stata interrotta all'improvviso. Anzi, di tutta risposta strinse a se un fagotto che iniziava a mugugnare e ringhiò a bassa voce.
“Mostrami un documento o chiamo la polizia! E se sei uno dei suoi amici tossici faresti meglio ad andartene dal mio palazzo!”
Zaraki non lo poteva sapere – ancora – ma quella ragazzina, o meglio la sua famiglia dato che era ancora minorenne, era la proprietaria di quel condominio fatiscente.
Quindi per quella volta, con una straordinaria pazienza dettata dal fatto che aveva di fronte una donna – se fosse stato un uomo gli avrebbe tumefatto la faccia – frugò nella tasca destra dei pantaloni per estrarre quello che pareva un libretto nero.
In realtà, era sua abitudine portarsi sempre dietro il distintivo d'ordinanza, anche quando non lavorava.
E seppur era solo il distintivo di una guardia giurata, fece una certa impressione alla ragazzina. Era ancora giovane da potersi fidare ancora di un distintivo.
Nel mentre che un imbarazzante silenzio calava sui due – rotto solo dai mugugni generati da quello, pensò dopo una attenta analisi, che pareva un bambino – dal fondo delle scale giunse una voce maschile sgraziata dall'ira.
Hyori! Dove hai messo i miei pennelli?!”
seccata, la giovane di nome Hyori sbuffò per sminuire la tensione, roteando gli occhi e consegnando il fardello borbottante – e ormai divenuto una seccatura – al vigilantes mezzo nudo.
“Vabbè senti, tieniti questa cosa e di alla madre di pagare l'affitto per questo mese...Di favori come questo non voglio farne più – glielo consegnò con una certa fretta voltandosi poi di scatto per avviarsi sulle scale e urlando poi – Shinji! Deficiente di un cugino! Te li ho buttati via i tuoi schifosissimi pennelli!!”
Zaraki non stette li a guardare quella ragazzina velenosa scendere le scale e iniziare ad urlare assieme al cugino per motivi futili, poiché decise saggiamente di ritornare in casa e guardare dentro quella coperta.
Nel mentre che si avviava nello spoglio salotto, scostò quella coperta lievemente incuriosito, per trovare solo il volto di una bambina che lo guardava incuriosita ma non spaventata.
Doveva trattarsi sicuramente di una femmina, dato che tra i capelli chiari portava una mollettina con un gatto disegnato ed era identica alla madre.
“Mm... Non sei spaventata?!”
La guardò dubbioso e un poco incerto. Lui che mai aveva preso in braccio una creatura, si ritrovava ora, dopo decisamente troppi pochi secondi – gli stessi che lo avevano portato nel letto della donna – a portarne una tra le braccia.
“Non mi conosci, volendo potrei farti del male sai?!”
Non voleva farle del male per davvero, ci mancherebbe, però era curioso notare che con lui – rispetto alla ragazzina precedente – sembrava tranquilla ammiccando perfino un sorriso.
La creatura senza nome era tranquilla, istintivamente fiduciosa dell'ex mercenario, azzardandosi addirittura a stringergli il naso aquilino con una manina.

Ah... Ma dai! Te l'hanno data...”
A interrompere quello strano siparietto, ci pensò la madre della creatura, vestita di una semplice vestaglia azzurrina e armata nella mano destra di una teiera di plastica colma di caffè freddo.
La mano che reggeva quella brocca da due soldi, forse per il fatto che il compagno aveva scoperto della bimba, tremava così violentemente da andare quasi a rovesciare l'oscuro contenuto sul pavimento.
Il tutto, incorniciato da un sorriso teso e un po' disperato.
“Si... È stata una ragazzina a darmela per...”
“Ah si! Hyori, la figlia dei padroni di casa! Ahh... Mi ha fatto un piacere perchè t-ti dovevo incontrare, eh! Ha un anno sai? Mia figlia intendo... Ahh ero più sbandata un anno fa! Adesso ho voluto cambiare per...”
“Va tutto bene, non sono arrabbiato”
Nell'interromperla piano in tutto quel suo chiacchierare velocemente e nervosamente, parve sorbire un effetto positivo.
Incredibilmente la donna si calmò, sospirando percettibilmente e posando su di un tavolino la caraffa del caffè.
Zaraki comprese le motivazioni che l'avevano spinta a nascondere quella creatura ai suoi occhi. Non che lui fosse arrabbiato – piuttosto sorpreso come del resto era sorpreso di tutta quell'avventura – però comunque percepiva il disagio di lei e il dover affrontare una vita nuova con tutti i drammi che ne conseguono.
In un certo senso, loro due erano simili.
“Ce l'ha un nome?”
“Eh, cosa?” la donna parve cadere dalle nuvole a quella sua nuova domanda.
“La bambina... Ha un nome?”
“Ah ecco... – improvvisamente il volto della giovane madre si fece serio. Tinto di tristezza e disagio – N-no... Non le ho dato un nome ecco. Non ho avuto il coraggio di darglielo”
Perchè quando si è consci di essere sporchi, si prova sempre timore nel fare la cosa più semplice del mondo.
Come dare il nome al proprio figlio ad esempio, per timore che in tal modo il suo futuro venga infangato dal passato del genitore.
Dio... Quanto lo capiva bene lui quel dannato concetto.

A richiamarlo dai suoi pensieri ci pensò la bimba stessa, che con una certa noncuranza aveva iniziato a strattonargli i capelli per avere attenzioni.
“Hm... – fece lui, ignorando ancora la creatura e rivolgendosi alla madre dopo un mezzo minuto di silenzio – non ti dispiace se le do io il nome?”
Incredibilmente – nel silenzio che ne conseguì a quella sua domanda sfacciata – oltre ad una espressione quantomeno sorpresa della donna, la sua risposta fu incredibilmente insolita.

[…]

Il telefono dentro la sua giacca vibrava sommessamente da circa cinque secondi, provocandogli un certo fastidio nel muscolo pettorale.
Seccato per quella vibrazione continua, volle staccare la mano dal palo argentato per attingere all'interno del consueto indumento lavorativo.
Kenpachi non aveva una macchina, ne aveva mai fatto la voglia di averne una. Al massimo in città si spostava a piedi o, come in quel caso, usava la metro per andare al lavoro.
Non stette neppure a guardare il numero sul display verde, che immediatamente alzò la cornetta del vecchio cellulare. Non era mai stato molto avvezzo alle tecnologie, andando così a rischiare di rispondere a dei perfetti sconosciuti.
Se avesse avuto la premura di guardare lo schermo del telefonino tuttavia, si sarebbe risparmiato un mezzo colpo al cuore.
“Ehmm... Ehi, ciao! Disturbo? Sei impegnato? Vuoi che metto...”
Era lei.
“Va tutto bene, sto andando a lavorare”
“Ah ecco! Lo sapevo, sto disturbando! Riattacco poi ti... Ti telefono stasera per...”
“Sono sulla metro – sospirò mettendosi a sedere su di una panchina del vagone in movimento – non mi rechi disturbo. E sono solo al momento”
Non erano che passate ventiquattro ore dalla loro serata. Un tempo interminabile dopo aver fatto due cazzate in contemporanea. Ossia: aver perso la verginità con una ragazza di neanche trenta anni (e poteva essere sua figlia); e aver dato un nome alla figlia di tale donna.
Aveva per lei, scelto un nome che a lui era sempre piaciuto. E che in un certo modo era anche il nome di una persona che gli sarebbe piaciuto essere quando era solo un ragazzo.
Era un ricordo strano. Opaco e reso lontano con lo scorrere degli anni.
Incredibilmente doloroso da portare sulle spalle, ogni qual volta che rimembrava anche solo quella foschia lontana.
Ma in tutti quei ricordi istintivamente soppressi, c'era quel nome che gli piaceva veramente.
“Ah... Ti volevo ringraziare per il nome della bambina... Yachiru è un nome bellissimo”
Ascoltando distrattamente le parole della giovane, l'ex mercenario arricciò leggermente le labbra fino a formare un abbozzo di sorriso.
“Mh... Non c'è problema...”
“Ah... Poi volevo dirti un'altra cosa. Forse non te ne sei accorto perchè avevi fretta eh! Comunque io... – parve indugiare come imbarazzata dall'altra parte della cornetta, cercando di trovare le parole adatte senza arrossire troppo – Io... Ho conservato la tua cravatta. Si ecco, te la sei dimenticata. E se per caso la rivuoi... T-te la posso portare al lavoro!”
Francamente? Era stato bene con lei.
Era stato bene per davvero, non solo per averci fatto del sesso e basta. Non era andato a letto con una ragazzina arrapata.
Non aveva commesso una vigliaccheria andando con una prostituta, ne un azzardo andando con una donna pronta ad “incastrarlo” in un matrimonio forzato – e ciò era testimonianza come lei avesse cercato in tutti i modi di occultare la piccola.
Lui era semplicemente stato bene e basta.
Gli era piaciuto ascoltarla parlare velocemente, farsi possedere da lei con passione ed infine – cosa non da meno – aver preso in braccio quella marmocchia.
Per la prima volta in vita sua si era sentito una persona normale, a discapito di quello che la sua persona stessa comunicava al mondo.
Qualunque uomo avrebbe rinunciato a quel siparietto traballante. Con una donna con figlia a carico e senza soldi per pagare in tempo l'affitto. Sarebbe scappato da bravo codardo perchè fondamentalmente privo di spermatozoi nei testicoli, lasciandole al loro destino incerto.
Ma lui, che ci aveva fatto l'amore con quella donna, e che aveva per giunta dato un nome alla piccola, non era autorizzato a fregarsene di loro.
Zaraki non era un vigliacco e qualunque impegno lui, ne era sicuro come quando da ragazzo scendeva sul campo di battaglia, l'avrebbe preso e portato a termine.
Sorrise ampiamente – come non faceva dai tempi del suo servizio da soldato mercenario – prima di risponderle sicuro delle proprie, prossime, parole.

Non scomodarti, passo io a prenderla. E anzi... Mettiti un bel vestito che stasera offro io”

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Capitolo 3
*** 3. Il silenzio è il suono più forte [Szayel & Ulquiorra][Szayel centric] ***


Finalmente riesco ad aggiornare questa raccolta (e stavolta il capitolo va quasi più sul malinconico oltre che sull'introspettivo)! Che ci crediate o meno, l'ispirazione mi è giunta ascoltando “welcome to the jungle” dei Guns and Roses e da li mi sono immaginata una metropolitana piena di gente con Szayel che da quasi di matto per lo stress.
Inoltre, potreste trovare Ulquiorra più “chiacchierone” del solito ma è giustificato a livelli di trama (quando vuole Aporro è davvero insidioso). Per il resto, nella storia sono presenti dei termini portoghesi, di seguito vi mostro la traduzione (ho usato google per scrivere in portoghese, per cui affidabilità zero). Ps: la storia è collegata a “old job” che vi consiglio di leggere prima di addentrarvi in questa per non rovinarvi la sorpresa XD

“Vou fazer-lhe um pouco mal. A criança não foi filmado bem” = “farò un po' male. Il bambino non si è girato bene”
Senhores = Signori
criança = bambino
Desculpa me = Perdonatemi


3° il silenzio è il suono più forte.


Welcome to the jungle
We've got fun n' games...”

La fastidiosa vibrazione del cellulare all'interno della tasca interna del suo gilè, misto ad una vocina stridula della suoneria che accompagnava ogni scossa, portò il tutto a far sbuffare Szayel Aporro Grantz per la noia dell'ennesimo squillo ricevuto.
Estrasse dall'indumento squisitamente retrò – simile a quello di un funzionario postale del vecchio West seppur molto più elegante e costoso – il piccolo cellulare argentato, trovandosi a ringhiare sottilmente per l'ennesimo squillo a vuoto che veniva dal suo laboratorio.
Quei figli di buona donna pareva che appena trovavano un topo in laboratorio, si alzavano in piedi sulle sedie terrorizzati anziché pensare a come affrontare il problema.
Scorse rapidamente – sistemandosi la candida montatura degli occhiali sul naso – il numero di chi lo aveva imprudentemente chiamato, scorgendo però che i suoi sottoposti erano abbastanza furbi, a quanto pare, per usare il telefono aziendale in modo da non farsi beccare e massacrare da lui.
Che infami. Era già abbastanza degradante per lui dover prendere la metropolitana di primo mattino perchè – tu guarda un po' – la sua auto aveva subito un guasto improvviso da dover essere portata via con il carro attrezzi fin dal meccanico, poi se ci si mettevano anche quei dannati neo laureati raccomandati da papà allora stava a posto.
Volendo magari, avrebbe potuto chiedere a suo fratello Yylfort di dargli uno strappo sino a dove lavorava lui – Las Noches non era poi così irraggiungibile. E Aizen sama avrebbe compreso un suo ritardo – ma era la forte insofferenza che Aporro nutriva per i propri familiari a farlo desistere nel chiedere un favore simile.
L'alternativa era di prendere un taxi – ma con i suoi orari era più facile che beccasse costantemente traffico – oppure come in quel caso la sudicia metropolitana con il suo adorabile repertorio di casi umani, anche se era un mezzo veloce e non conosceva ritardi.
Guardandosi attorno con circospezione misto a diffidenza, dovette constatare come il vagone che aveva scelto per una rapida corsa fosse pieno di gentaglia di ogni tipo.
Gente di varie etnie e alcuni dalla scarsa igiene, portavano una strana cappa viziata per tutta la lunghezza della metro. Decisamente nauseabondo per lui, ben preoccupato di arrivare al lavoro con un simile olezzo.

Welcome to the jungle
We take it day by day
If you want it you're gonna bleed...”

Stavolta – per l'ennesimo squillo di un cellulare appena deposto nella tasca interna del gilè – ebbe davvero una forte scossa di nervosismo, che portò il povero Grantz ad estrarre con rabbia, stavolta deciso a rispondere a quei bastardi, un telefono che vibrava e cantava con nervosi.
Tuttavia, forse mettendoci troppo impeto teatrale nell'estrarre l'oggetto – manualità poco considerata dai restanti passeggeri troppo presi a guardare il vuoto – si ritrovò ad urtare senza farlo apposta un passeggero in piedi dietro di lui.
Il vagone non era eccessivamente affollato da non respirare ma si contavano comunque parecchie persone in piedi. Senza volerlo quindi, dette una gomitata alla scapola di un individuo non in vista, portandogli una nota di sorpresa oltre che di stress aggiuntivo.
Seccante. Decisamente molto secante per lui che aveva già i nervi a fior di pelle, determinato a tutti i costi di dirgliene quattro al barbone distratto.
Ma quando si voltò verso l'attentatore dei propri fragili filamenti nervosi, Aporro dovette abbandonare una espressione sottilmente truce per far spazio a quella inusuale della sorpresa, alla vista di un volto a lui noto in mezzo a tutta quella marmaglia. Le iridi ambrate letteralmente si sgranarono dalla sorpresa, alla vista di quello che era un suo pallido collega di lavoro.
Ulquiorra...? Ma sei davvero tu?”
una domanda forse un po' banale – a detta di entrambi – ma ampiamente giustificata dallo stress di ritrovarsi in una metropolitana lercia e da una mattinata tutt'altro che piacevole.
“Si... – disse laconico l'uomo spintonato – sono io...”
di Ulquiorra Shiffer non si sapeva molto. Era decisamente poco loquace e la sua pausa pranzo se la passava spesso – se non sempre – nel suo ufficio di contabilità.
Era uomo di fiducia di Aizen Sosuke quindi si, di lui lo scienziato poteva fidarsi sufficientemente. Se non altro se era il capo a scegliere i suoi adepti, non correva il rischio di incappare in autentiche nullità.
Aveva sentito addirittura strane voce su di lui, che lo volevano come ginecologo in un passato ormai remoto e dimenticato. Come potesse uno come lui, con quella faccia che aveva tra l'altro, essere un dottore specializzato in ginecologia, per il Grantz era un mezzo mistero ed era alla stregua di una stupida leggenda. Anche se un certo giro di fauna femminile attorno al suo tetro ufficio l'aveva comunque vista.
Deglutì quasi divertito per quell'ultimo pensiero che gli sfiorò la testa, sistemandosi gli occhiali sul naso e porgendogli una nuova domanda dettata da semplice curiosità.
“Ma dimmi un po', come mai a prendere la metropolitana pure tu? Anche a te la macchina si è rott-”
“La macchina io non ce l'ho”
a Szayel Aporro non piaceva affatto essere interrotto all'improvviso, per questo inclinò il mezzo sorrisetto di prima a mo di smorfia contrariata per la laconica – quanto secca – risposta del collega ben aggrappato al suo palo in ghisa e ben concentrato a mantenere l'equilibrio agli scossoni del vagone.
Liquidò infine il tutto con uno sbuffo annoiato, notando la scarsa attitudine del collega a interazioni umane. Non che questo fosse un male, però quel suo atteggiamento rischiava di essere piuttosto equivoco e maleducato.
“Oh via Ulquiorra... Non c'è bisogno di essere così rudi tra colleghi”
poteva anche suonare come beffarda la battuta del Grantz. Ma Ulquiorra Schiffer si trattenne per se una risposta che voleva un secco “noi non siamo colleghi” perchè – purtroppo – lo erano eccome.
Si limitò a chiudere gli occhi con profonda pazienza, notando che la reazione aveva comunque attirato lieve ilarità nell'interlocutore poco voluto.
E Aporro era desideroso di saperne di più su quell'individuo così dannatamente riservato, che era quasi naturale che gli stimolasse una certa curiosità.
Ulquiorra era un individuo che, con i suoi modi di fare quasi bruschi e un tenore di vita misterioso, aveva attirato su di sé parecchi pettegolezzi – c'è chi addirittura lo volesse coinquilino di due lesbiche e spesso spettatore dei loro giochi – ma a parte certe chiacchiere da “bar” lo scienziato doveva ammetterlo che un certo fascino lo esercitava eccome su di lui.
Oh per carità, non in quel senso specifico quanto alla sua stessa figura e impostazione. Per tale motivo ecco che si ritrovava a studiarlo attentamente da capo a piedi, guardandolo bene come era impacchettato nel suo completo da ufficio sobrio e quasi anonimo, come se avesse di fronte uno dei suoi tenti esperimenti – o cavie – deciso a entrare più in sincronia con lui e vedere di farci altre chiacchiere aggiuntive.
“Comunque, devi ammettere che su di te è stato costruito un vero e proprio mito. Insomma, trovo piuttosto affascinante la figura di te che un tempo era un prode ginecologo che ora agisce nell'ombra come-”
Scempiaggini e basta, Szayel...”
Aporro sorrise alle parole di Ulquiorra, aggiungendoci con più pacatezza la parte finale del suo discorso “Un po' come Batman... non trovi anche tu?”
Stranamente, non si scompose più di tanto per la secca interruzione del contabile ma anzi, ne trasse profondo piacere nel fare quelle insinuazioni aggiungendoci pure la metafora del supereroe che agisce con il favore delle tenebre per fare giustizia.
“Se hai finito con il darmi noia, sarebbe il caso di rispondere a quel tuo cellulare”
con sommo disprezzo dello scienziato – che ben tradì il nervoso con una smorfia di puro odio – il cellulare dentro il taschino del gilè si era messo a suonare nuovamente con la solita musichetta di rito.
Addirittura, qualcuno iniziò ad alzare la testa per l'ennesimo trillo caduto a vuoto, con tutta probabilità ormai annoiato di quella canzoncina roca e fastidiosa.
“Ehi Deejay, cambia disco!” consigliò qualcuno da stare in fondo al vagone e non in vista per sommo dispiacere di Aporro.
Se avesse avuto sotto il suo furente sguardo il ragazzino che aveva consigliato di cambiare suoneria, gli avrebbe sicuramente iniettato del cortisone negli occhi.
Niente invece, si ritrovò a sbuffare annoiato e a riporre l'oggetto nella sua tasca nascosta – non lo spegneva perchè se telefonava l'ufficio di Aizen sama era finito – e a indirizzare uno sguardo su Shiffer che ora era tornato a non guardare nessuno esattamente come prima.
Peccato di non essere riuscito a estrapolargli qualcosa di più, perchè gli sarebbe piaciuto davvero tanto fare una analisi del soggetto e vedere se si tradiva in qualche modo.

Non ci avrebbe mai sperato, ma la tanto opportunità di osservarlo meglio ci fu eccome.
Subito dopo aver riposto il noioso cellulare argentato nel taschino foderato di seta, ci furono un paio di grida attutite provenienti in volo dal vagone successivo a dove si trovavano entrambi.
Szayel inarcò un sopracciglio per tutto quel fastidioso chiasso, mentre Ulquiorra si limitò ad indirizzare le proprie iridi smeraldine verso la fonte del suono. Alcuni rumori strani – forse di tafferugli tra donne – si erano sentiti già prima che lo scienziato spintonasse il pallido collega. Ma ora i rumori erano decisamente molesti.
Tanto da attirare svariate teste di passeggeri dallo sguardo vacuo fino a quel momento, ora attenti ad osservare l'anonima porta di collegamento tra un vagone e l'altro.
“Santo cielo – brontolò un Grantz passandosi una mano tra i capelli delicati – ma che diavolo hanno da urlare? La parola civiltà non la conoscono?”
prendere la metropolitana era snervante. La gente era oltremodo maleducata e poco conscia di sapere che cos'è l'igiene personale. E poi questo, schiamazzi ad oltranza.
In definitiva, Aporro si stava seriamente pentendo di aver preso quel mezzo di spostamento che gli stava dando una grandissima noia.
Solo la presenza di Ulquiorra salvava dalla situazione, in tutti i sensi possibili.
Perchè poco dopo la domanda del giovane dottore seccato, qualcuno ebbe la magnanimità di rispondere al suo quesito. Rendendo piuttosto interessante la situazione.
“No, ecco – un tizio che si trovava vicino alla porta si voltò verso Szayel, dandogli risposta – pare che una donna stia per partorire e nessuno sappia cosa fare...”
“Uff... Ma tu guarda che situazione noiosa – roteò gli occhi seccato anche da quell'inconveniente che sapeva di grottesco, accorgendosi però solo all'ultimo che il collega al suo fianco non c'era più – eh? Ulquiorra ma dove vai?”
dire che fu un fulmine fu davvero poco, perchè tosto il collega contabile – senza minimamente tradire alcuna emozione sul volto pallido e indifferente – si affrettò a guadagnare la porta di collegamento facendosi strada in modo fluido tra la calca di gente.
Seguito a breve da un Grantz velatamente interessato a quella sua reazione strana – dire che gli era spuntato un sorrisetto soddisfatto alla vista della fuga di Schiffer era poco – varcarono quasi spalla a spalla una porta arrugginita solo per andare incontro ad un vagone ove le urla femminili di una donna in evidente stato di travaglio, si perdevano con la calca di gente simile ad un impenetrabile muro che separava i due dalla scena grottesca in atto.
A Szayel pizzicarono le narici, per quello che era l'inequivocabile odore di liquido amniotico e sangue.
“E allora dottore – fece improvvisamente lui ma con fare serio e non più mellifluo – adesso che si fa?!”
l'esperto qui a quanto pare era lo stesso Ulquiorra in persona – e ormai quelle che circolavano su di lui non erano affatto dicerie – che non stette li poi ad indugiare più di tanto, facendosi ancora largo tra la folla fino ad arrivare ad un gruppetto di tre donne di cui una, seduta su di una panca, era in evidente travaglio.
Le due – di origine ispanica a quanto pare – tentavano di consolare la più giovane asciugandole la fronte colma di sudore con dei fazzoletti, scostandole anche i capelli neri come l'ebano per darle più respiro mentre questa ormai allo stremo si limitava a pregare e a urlare – a tratti – nel tentativo di spingere via quel figlio che non ne voleva sapere di andarsene dall'utero materno.
Arrivato infine davanti alle due donne più anziane, Ulquiorra si destreggiò in un amabile spagnolo per farsi spiegare dalle due il punto della situazione.
Altra cosa che sorprese lo scienziato, fu di scoprire che il collega conoscesse lo spagnolo. Lo osservò con una punta di interesse massaggiandosi il mento nel vedere come, oltretutto, riuscisse a comunicare con calma con le due donne disperate, per poi attingere dalla propria ventiquattro ore delle salviettine umide che mai come in quel momento potevano essere utili.
Prima di usarle però, si tolse la giacca e si sollevò accuratamente le maniche della candida camicia, in gesti precisi e calcolati, di chi ben sapeva cosa fare.
“Tieni – disse infine, lanciando il pacco delle salviette a Szayel prima di chinarsi in ginocchio dinnanzi alla partoriente – evitiamo che questa spazzatura che ci circonda causi altri danni...”
“Uhm... non sapevo che conoscessi lo spagnolo” borbottò lo scienziato nel mentre che si sollevava anch'egli le maniche della camicia prima di usare le preziose salviette igieniche.
“Infatti non è spagnolo – replicò uno Schiffer ora con le mani in mezzo alle gambe di una donna quasi spaventata dall'avvento di un pallido omino – è portoghese, queste donne parlano-”
“Ok, ok... – sbuffò spazientito e di rimando, un Aporro che si apprestò ad andare vicino ad un improvvisato ginecologo – vediamo di far nascere questo bambino. Ne ho piene le scatole di tutte queste urla”
La ragazza – Aporro le avrebbe dato si e no sulla ventina d'anni e non era affatto di sgradevole aspetto – ebbe quasi l'impulso di chiudere di scatto le gambe alle dita del dottore che si infilarono dentro di lei, confortata però giusto in tempo dalle parenti che le spiegarono la situazione. Trovandosi per questo a deglutire confusa, guardando attentamente i due uomini. Obbedendo al dottore chino dinnanzi a lei.
Vou fazer-lhe um pouco mal. A criança não foi filmado bem”
le parole uscirono fluide dalla bocca di un uomo dal sorprendente sguardo freddo, togliendole ogni voglia di polemizzare limitandosi ad annuire frettolosamente.
Szayel già se lo immaginava, sarebbe stato un viaggio ancor più infernale del previsto.

[…]

“Ah... Ulquiorra, aspetta!”
allungando il passo sullo stradello piastrellato di finta pietra antica, Szayel Aporro Grantz si apprestò a raggiungere il silenzioso collega ormai prossimo ad entrare per la porta a vetro scorrevole che portava a Las Noches. Era una mattina come tante si potrebbe bellamente aggiungere – con svariato via vai di dipendenti e altre persone dalla struttura – eppure c'era innegabilmente qualcosa di diverso.
A sentirsi nominare da quella voce suadente, ad Ulquiorra partì l'istinto – poi soppresso per motivi di educazione – di allungare il passo ed entrare nella struttura farmaceutica in modo da non doversi fermare a parlare con lui.
Invece rimase fermo dov'era e si girò appena per osservare un collega di lavoro raggiungerlo smagliante e un poco malizioso.
“Grantz... Che cosa vuoi?”
laconico come sempre – quasi apatico per un occhio poco attento – il giovane uomo scrutò senza reale emozione lo scienziato appena sopraggiunto avvolto da un completo color prugna. Elegante vero, ma per il contabile era un indumento a dir poco eccentrico.
“A-ah... Non fare il finto tonto – fece Szayel aggiustandosi gli occhiali sul naso con uno sguardo quasi maligno in volto – dimentichi il nostro lavoro di squadra dell'altro ieri? Oppure hai forse la memoria corta, collega?”
“A che serve ricordarlo?” in quel mentre Schiffer si voltò verso l'entrata degli uffici a meno di tre metri da lui, quasi in procinto di riprendere la camminata.
“Beh, non saprei – Aporro iniziò a camminare lentamente di fianco al collega silenzioso, cercando di estrapolargli qualche emozione – abbiamo fatto nascere un bambino e tu sapevi cosa fare... Molto strano che un contabile sappia cosa fare!”
Concluse con una mezza risata divertita, al ricordo di due giorni fa e della ragazza in travaglio dentro a quel sudicio vagone.
In realtà, strafottenza a parte, doveva ammettere che era stata una esperienza per lui a dir poco inusuale.
Aveva certo profonda conoscenza del corpo umano, ma non possedeva la stessa esperienza sul campo di Ulquiorra nel mettere al mondo una creatura.
Non lo avrebbe ammesso davanti a nessuno ma nel momento esatto in cui avvolse il bambino allungatogli da Schiffer in una candida sciarpa – gentilmente offerta da una studentessa che aveva offerto il suo patetico aiuto – percepì chiaramente un brivido scendergli giù per la schiena.
Non era abituato a tenere in braccio un bambino – anzi, mai preso in braccio neanche uno – e tutto era successo così in fretta che nell'esatto momento in cui lo aveva accolto tra le braccia per permettere a Schiffer di tagliargli il cordone ombelicale, tutte le sue strafottenti certezze caddero giù e si sentì come perso – o inadeguato – per un gesto tra i più naturali al mondo.
Naturali per tutti meno che per lui.
Per tal motivo si affrettò a dare il marmocchio sporco di sangue ad una madre esausta ma al contempo felice, decidendo di togliersi dai piedi il prima possibile imitato senza manco farlo apposta da un Ulquiorra impassibile.
Questo comunque, non trapelò affatto nello sguardo arrogante dello scienziato, ben scrutato da un contabile che sapeva il fatto suo.
“Hm... non potrei dire la stessa cosa di te”
una battuta sibillina che in un primo momento Szayel affatto capì, buttandola brevemente sul ridere. Continuando a rigirare il coltello nella piaga
“Sono sorpreso che tu abbia deciso di cambiare mestiere, tutto qui. Anche perchè hai dimostrato di avere i nervi saldi anche in situazioni simili... Dovevi essere il più bravo nel tuo corso, dico bene?”
“Io sono il più bravo, Szayel. A differenza tua che non sai mantenere un briciolo di sangue freddo”
Ok, ora stava iniziando ad esagerare. Una simile arroganza neppure lui riusciva ad accettarla seppur da un dottore degno di nota. Pertanto, lo sguardo di Aporro si assottigliò colmo di nervosi poco trattenuta, cercando di scrutare al meglio l'impassibile maschera di un compagno di squadra poco incline a tale squadra.
“Sai... Credo di non capirti affa-”
“Che cosa hai provato a prenderlo in braccio?”
Silenzio.
Gli occhi ambrati dell'interpellato si sgranarono in un misto di shock e ira pronta ad esplodere, nell'incontrare le iridi di un freddo verde assassino di Ulquiorra che, non ricevendo la risposta che voleva – e fin troppo semplice da rispondere per lui – abbassò le palpebre per contenere pazienza e rispondergli in modo flemmatico.
“Te lo dico io, hai provato umanità. Ne sei consapevole di questo?”
Evidentemente lo scienziato non aveva prestato attenzione all'attento sguardo del ginecologo, che si era posato brevemente su di lui nell'atto di preparare il bambino per darlo finalmente alla madre. La determinazione e l'arroganza che avevano contraddistinto il Grantz durante tutta l'operazione, andò brevemente a puttane quando i suoi occhi si scontrarono con quelli grandi e dilatati del neonato.
Una mera frazione di secondo che non sfuggì ad un Ulquiorra ben attento. Ed era un momento che lo stesso giovane uomo bollava come “debolezza” in tutti i sensi.
Il silenzio è il suono più forte... Szayel”
Gli seccava dargli in qualche modo ragione, perchè era assolutamente sicuro che il suo prolungato silenzio non era una risposta alla sfacciata mezza domanda del contabile.

Senhores... senhores! Posso disturbarvi...?!”
il clima di palpabile tensione tra i due dottori, che si scrutavano attentamente negli occhi come due predatori che si studiavano l'un l'altro, venne improvvisamente interrotto da una tremolante voce di donna ormai prossima ad avvicinarsi a loro.
Come colti dalla sorpresa, entrambi gli uomini ebbero come una sorta di rimembranza nel sentire quella timida voce di donna che ad ogni lento passo si apprestava a raggiungere i due uomini pronti, forse, a percuotersi con le rispettive valigette.
Quando poi Szayel Aporro e Ulquiorra si voltarono finalmente sulla figura che stava percorrendo il vialetto semi trafficato per andare loro vicino, si ricordarono di chi fosse quella minuta figura.
Era la donna che due giorni fa non era riuscita ad aspettare la fermata della metro per partorire. Era quella, che senza l'aiuto dei due uomini avrebbe visto la propria situazione aggravarsi maggiormente.
In principio non l'avevano riconosciuta subito. Sul vagone aveva un aspetto decisamente disastrato, mentre ora decisamente più in forma e con in braccio – avvolto da un candido lenzuolino – la sua creatura tranquillamente persa nel mondo dei sogni.
“Ah, tu sei...”
“... La ragazza dell'altra volta” concluse lo scienziato al posto del lento contabile.
Passandosi una mano tra i capelli e studiando attentamente la ragazza dalla pelle ambrata che sorrideva loro timidamente.
“Si ecco... Qualcuno nel treno vi ha riconosciuto – indirizzò gli occhi neri verso un Aporro decisamente più famoso in città di un collega poco chiacchierone – e mi è stato detto dove lavoravate e... Io... Desculpa me! Volevo solo ringraziarvi per avermi aiutato”
ci fu un proverbiale silenzio alle parole di una neo mamma che non sapeva se mettersi a ridere dalla gioia oppure scappare via per aver fatto una brutta figura con gente piuttosto importante nella città in cui era appena giunta.
Quello di nome Szayel Aporro Grantz la scrutava attentamente e dall'alto in basso, mentre il dottore che l'aveva assistita con maggiore intensità si limitò ad un impercettibile segno di “si” con la testa.
Non sarei qui ad abbracciare il mio criança se non fosse stato per voi due. V-vorrei ringraziarvi se possibile...”
era una situazione un po' imbarazzante e pareva che i due uomini non avessero minimamente compreso cosa lei – la giovane donna senza nome – volesse dire con il ringraziarli.
Tuttavia ci arrivò per primo Ulquiorra – forse perchè più abituato a simili manifestazioni dato il suo precedente lavoro, a detta di una facile conclusione di Aporro – che come mosso da empatia aprì lievemente la braccia per accogliere il timido abbraccio della neo mamma, che con pargolo tenuto su con un solo braccio impiegò l'altro per cingere l'esile schiena del contabile.
Dopo un rapido bacio a fior di guancia ad un impassibile Schiffer – che ancora una volta si limitò ad annuirle in silenzio – toccò alla volta di Szayel stesso.
Al dottore quasi venne un colpo nel vedersi la ragazza davanti che – in poche frazioni di secondo – lo aveva abbracciato nell'esatto modo in cui aveva abbracciato Ulquiorra.
Un insolito tocco che lo portò in principio ad irrigidirsi per quei due corpi che premevano contro il suo – come un vago timore istintivo che quel bambolotto di carne potesse in qualche modo rompersi per il troppo stringersi addosso – che tuttavia ricambiò con una lieve goffaggine dando piccole pacche consolatorie alla schiena della giovane.
Quando infine, per sommo sollievo di Szayel, la neo mamma lo liberò per salutarli un'ultima volta andando infine a ricongiungersi alle due donne – con tutte probabilità le stesse dell'altra volta – che l'aspettavano vicino alla strada, lo scienziato deglutì appena posando un breve sguardo su un contabile che segnava un impercettibile sorriso agli angoli della bocca.
Seppur impercettibile e seppur ben nascosto, lo scienziato se ne accorse eccome sorridendo quasi maligno nel vedere la sua di debolezza.
“Ma cosa vedo mai... ? Dell'umanità sul volto di Schiffer? Oppure era una contrazione nervosa?!”
il cambiamento repentino del pallido uomo ci fu eccome, e il lieve sorriso scomparve del tutto tornando a fare spazio ad una espressione quanto meno seria.
“Scempiaggini” decretò infine quello, decidendosi finalmente di avviarsi al lavoro.
“Non mi hai ancora detto perchè hai abbandonato il tuo vecchio mestiere, caro Ulquiorra. O devo dedurre che questa è una rimembranza dolorosa per te? Eppure su quella donna hai dato il massimo...”
avrebbe volentieri voluto vedere una qualche espressione risentita sul volto impassibile del caro collega, giusto per vendicarsi di prima. Aveva osato metterlo in difficoltà e la cosa decisamente lo indisponeva.
Szayel odiava sentirsi a disagio in qualunque situazione. Ed era quella che lui definiva una grandissima debolezza.
Anche se il più delle volte, quel “disagio” era più riferibile ad una umanità quasi bandita dalla sua ragione di folle scienziato in ascesa, ed era un qualcosa che Ulquiorra conosceva dannatamente bene.
Più di quanto lo stesso Grantz potesse immaginare.
“Hai mai fatto tirocinio nel pronto soccorso d'urgenza?”
“Ma che domande! Certo che l'ho fatto! Ed è stata una situazione spiacevole sotto ogni punto di vista – Aporro rabbrividì un poco nel rimembrare il breve tirocinio fatto nell'ospedale della città, decisamente poco consono ad un uomo di scienza come lui – grandissima disorganizzazione e casi assurdi che di umano avevano ben poco e... Oh...” gli occhi ambrati gli si spalancarono quasi avvolti dalla sorpresa, nel comprendere molto lentamente la risposta alla sibillina domanda di Ulquiorra.
Ti sei risposto da solo, Szayel”
era disdicevole per il capo supremo del reparto scientifico cadere in una gaffe del genere. A non riuscire lontanamente a capire le motivazioni che avevano spinto Schiffer a mollare tutto per dedicarsi a qualcosa che decimasse i rapporti umani quasi a zero.
La caduta precoce del contabile poco chiacchierone, era stata in una umanità che non era riuscito – al tempo che fu – a tenere a bada e a non farsi condizionare.
Szayel a quel punto poteva solo immaginare che cosa fosse passato sotto gli occhi di un giovanotto con magari tanti bei propositi per il futuro, fino a spingerlo a cambiare totalmente mestiere.
A Szayel Aporro le violenze gratuite sulle donne non piacevano neanche un po'. Non erano nel suo stile onestamente parlando, e le bollava come comportamenti tipici di individui rozzi che non hanno una minima idea di come prendere l'universo femminile e comunicarci.
Per Szayel, la violenza era accettabile solo se vi era voluta complicità da parte della compagna – e per istinto il suo pensiero andò ad una Cirucci Tunderwitch attualmente a casa sua – lasciando perdere tutti gli altri scenari possibili squallidi e degradanti.
Lentamente quindi, capì ciò che il silenzioso contabile aveva sempre – sino all'ultimo momento – evitato di esternare, dandosi mentalmente dell'idiota per non esserci arrivato prima. Per non aver compreso quei suoi silenzi più forti di qualsiasi altro rumore.
Umanità infine, che uccide sul nascere ogni buon proposito e che per alcuni individui è bene abbandonare se si vuole lavorare egregiamente. Pena un fallimento epico come quello di Ulquiorra.
E Szayel di certo come lui non voleva finirci, con lo spettro di una professione abbandonata tra mille rimpianti e disgusti vari, arrivando sempre a rimpiangerla magari in modo sottile e malinconia.
Pertanto, mormorò un rammaricato “capisco” ad un collega che non aveva più nulla da aggiungere, decidendosi infine di seguirlo fin dentro le porte scorrevoli di vetro blindato e finalmente dedicarsi al suo lavoro inumano.

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Capitolo 4
*** 4. Indossi il vuoto con classe [Szayel/Nemu][Szayel centric] ***


Bene, rieccomi finalmente ad aggiornare questa mini raccolta, con un prompt che mi sembrava decisamente adatto per la coppia Szayel/Nemu. Coppia questa che non mi ispira ne allegria ne romanticismo, ma solo tonnellate di angst e gore che alle volte non fa poi così male all'umore.
Ovviamente si allaccia alle mie precedenti oneshot soprattutto a “Vendetta” e a tutte le altre dove appare Szayel Aporro Grantz, oltre che al capitolo scorso. Può essere letto anche senza aver dato una occhiata ai miei precedenti lavori.
A differenza del capitolo scorso questo è molto più dark e più che contenere lime direi che è sull'erotico.
Ad ogni modo, buona lettura!


4° Indossi il vuoto con classe




Nell'ombra ignota di una ricca e spartana stanza, qualcosa si muoveva con pigrizia verso un soffitto tinto di nera pece notturna.
Un suono sottile e delicato si librò nell'aria già viziata, simile ad uno sbuffo appagato di chi si concede una sigaretta come minuto di relax, catturando quasi senza volerlo l'attenzione di un paio di occhi verde scuro.
Nella pesante ombra della stanza da letto di Szayel Aporro Grantz – rischiarata solo da una tenue luce di un mattino malato proveniente in volo dalle veneziane abbassate – un intenso aroma di tabacco si riversò nella zona circoscritta del letto matrimoniale allo sbuffo del suo padrone appagato.
Sottili fili grigi, simili all'incenso esotico, rapirono per un istante l'attenzione di una imperturbabile Nemu Kurotsuchi prima che quest'ultima se ne tornasse a fissare il soffitto buio con la solita espressione che la caratterizzava.
Un gesto timido e apparentemente disinteressato, che non sfuggì all'attenzione di un brillante scienziato che ben pensò di aspirare maggiormente il filtro della candida sigaretta con fare soddisfatto.
“Uff...”
quasi come stesse gustando un dessert, dalle labbra sottili partì un altro docile sbuffo di fumo, cercando poi con sguardo appannato – a causa della carenza degli occhiali da vista situati al momento su di un comodino in compagnia di un reggiseno – una compagna che si muoveva appena sotto quelle lenzuola di seta nera. Profumate di lavanda e di sesso, parlavano ancora degli audaci movimenti che li avevano colti neanche dieci minuti prima.
“Siamo insolitamente loquaci a quanto vedo...” lo sguardo ambrato del dottore pareva crudele mentre letteralmente mangiava la pallida figura avvolta nelle lenzuola.
Quelle parole gli uscirono fuori così all'improvviso dopo un lungo silenzio senza però riuscire, in qualche modo, a destare la sua deliziosa ospite.
Non era la prima volta che Aporro riusciva a trascinarsi nel letto la figlia del suo peggior nemico.
Quel Mayuri Kurotsuchi che ormai aveva fatto il suo tempo ma che però, con l'insistenza di una pianta infestante, ancora continuava a dirigere il suo reparto scientifico anche se ormai era bravo solo a stendere con la macchina i cani altrui.
Oh, il paparino sapeva quello che la figlia combinava nel letto del suo acerrimo rivale, solo che... Non gliene fregava nulla?!
A Mayuri non importava se Aporro si portasse a letto sua figlia – questo il giovane scienziato lo sapeva benissimo – quanto era infastidito da ciò che lui avrebbe potuto scoprire su sua figlia. Ma forse era da considerare il fatto che vi era un lato affascinante se Nemu finisse spesso e volentieri nelle mani del giovane Grantz.
Magari il dottor Kurotsuchi poteva scoprire su di lei cosa quello stupido ragazzino stava architettando, su questo c'era da scommetterci parecchi sacchi.
Eppure era un destino così ridicolo quello della giovane Nemu, la quale pareva non volersi staccare in nessun modo da due uomini che altro non facevano, in tutti i sensi possibili, che sfruttarla come una mera cavia da laboratorio.

Ma dopo quel breve giro di pensieri tutt'altro che puliti, la calma nell'ambiente che li circondava vene spezzata da piccoli gesti.
Alle parole quasi sussurrate del Grantz, nonostante il velo di strafottenza che le circondava, gli occhi della giovane donna si indirizzarono nuovamente sul padrone di casa con la stessa agghiacciante tranquillità di prima.
A differenza dello spietato amante – con la schiena appoggiata sul cuscino – lei se ne rimaneva sdraiata totalmente su di un materasso ancora umido, limitandosi a fissarlo in silenzio senza accennare ne un sorriso ne una qualsiasi smorfia.
E questo a Szayel Aporro piaceva quasi da morire. Anche il suo gesto inconsueto di allungare il braccio destro verso di lui – un gesto in apparenza automatico – e prendergli dalle labbra la sigaretta per poter pure lei usufruire di quella velenosa nicotina, erano atteggiamenti che stranamente lo soddisfavano.
Perchè era come averla in pugno ogni volta.
Ed era come avere in pugno lo stesso Mayuri, per quanto fosse certo che approfittasse pure lui di quei post appuntamenti per fare un check up completo alla maggiore delle sue figlie. In un circolo vizioso di esperimenti e sevizie, dove la sua figura “umana” veniva cancellata dal vocabolario dei due uomini. Divenendo qualcosa di incredibilmente speciale.

“Cara mia... Tu decisamente indossi il vuoto con classe

Non era nell'essere amici intimi che risiedeva la loro specialità. Anzi, persino lo stesso scienziato avrebbe detto che loro due non erano affatto degli amici.
Aporro non aveva amici, erano delle seccature e con il lavoro che faceva “amici” era sinonimo di “nemici”.
No, lui Nemu l'aveva conosciuta molto tempo prima, e non l'aveva mai considerata lontanamente una amica e neppure una amante accondiscendente. Ma un interessante soggetto di studio quello si.
Vi era stato un anno di università in cui era stato praticamente costretto a fare uno stage presso l'ospedale cittadino. Un luogo a dir poco penoso fin troppo pieno di casi umani, odiosi in tutti i sensi, e di ben altrettanta inefficienza e poca preparazione da parte di medici ben più – sulla carta almeno – preparati di lui.
Fu in quel luogo infernale – un posto in cui qualcuno, berciandogli addosso, aveva esplicitamente detto che se lo meritava assai – che vide per la prima volta Nemu Kurotsuchi.
All'epoca Szayel non era nessuno. Non era uno scienziato di fama internazionale come lo spudorato Kurotsuchi, ma solo uno studentello con la puzza sotto il naso.
Eppure, non poteva non pensare di aver ricevuto un aiuto dal cielo quando vide quella sfortunata ragazza su di un letto anonimo in una stanza altrettanto anonima e piena di macchinari medici.
Non poteva credere ai suoi occhi che la giovane pallida e piena di ecchimosi che riposava oltre la vetrata che li separava, fosse la chiave del suo futuro successo e carta vincente per battere quel folle – quanto geniale – scienziato pazzo.
Fu con un sorriso che si ampliava maggiormente in volto – quasi tremando da tante erano le emozioni che lo sovrastavano – che entrò nella stanza della giovane per osservarla più da vicino.
In quella macchia bianca qual era la stanza di un trafficato ospedale di città, la giovane Nemu aprì debolmente gli occhi lividi e mostrò ad un inquietante novizio le sue iridi verde scuro.
Due pozzi profondi e letteralmente spenti, in cui l'ambra del Grantz cadde a precipizio rapito da una incommensurabile fonte di informazioni vivente.
Cinque anni passarono da allora.
Cinque lunghi anni da quel primo e silenzioso incontro avuto dai due.
I piccoli sospetti del neo scienziato si rivelarono poi fondati quando riuscì ad entrare più in “intimità” con quella ragazza, dandosi in automatico del genio per aver intuito come quella figlia non fosse altro che la cavia degli esperimenti più pericolosi del padre.

Che cosa avesse portato il prode Mayuri a sfruttare una delle sue figlie come un topo da laboratorio, questo il Grantz non lo sapeva e neanche ci teneva a saperlo.
Forse la sfruttava poiché, dopo una vita spesa a fare esperimenti sulla propria pelle, il corpo di uno scienziato si degrada allo stesso passo di quello di un essere umano comune, senza tener conto che a fare esperimenti su se stessi poi c'è un degrado ben più maggiore.
Ma Nemu era sangue del suo sangue, quindi perfetta – ad una mente brillante e folle di scienziato – per assorbire quante più sostanze possibili nel silenzio più assoluto, che inevitabilmente finivano in contrasto tra loro con effetti collaterali disastrosi.
E ovviamente, tra le cause della sua salute precaria c'erano anche i suoi di esperimenti, oltre che a quelli del padre. Si poteva perfettamente dire che la guerra tra i due passava attraverso il corpo di quella ragazza.
Ma lo stesso Szayel Aporro trovava strano il suo comportamento. Un carattere che invece di portarla lontano da due autentici aguzzini, altro non faceva che buttarsi volontariamente nelle fauci del drago ogni santissima volta. Magari faceva tutto ciò per proteggere la sorellina minore – copia sputata di Nemu e ignara di che razza di persona senza scrupoli fosse il padre – oppure la sua devozione al proprio creatore era così ampia che ben volentieri lasciava che il Grantz le somministrasse varie sostanze per studiare quelle di Mayuri che, per ovvie ragioni, entravano in reazione tra loro dando non pochi problemi alla giovane donna.
Eppure c'era qualcosa che non quadrava, se lo sentiva.

Già quel pomeriggio Nemu si era presentata a Las Noches – il suo attuale e splendente luogo di lavoro – per fare una cosa che lo aveva lasciato totalmente stupefatto. Pur non lasciando trasparire nulla all'infuori della buona educazione che le era stata imposta da un'invisibile madre, furono le sue parole a sorprenderlo in modo assai curioso.
Vorrei chiederti scusa per l'incidente della volta scorsa”
Ci impiegò non poco per capire cosa quella ragazza dai semplici abiti neri cercasse di dirgli. Scrutandola da oltre la propria scrivania, per il dottore Nemu Kurotsuchi non dava modo di capire a quale fatto si riferisse nel modo più assoluto. Seduta rigidamente sulla poltroncina di pelle sintetica e con le mani conserte in grembo – tanto da dare l'idea di essere di fronte ad una severa dama borghese in un dipinto di fine ottocento – il Grantz dovette scrutare attentamente in quegli occhi verde scuro per capire a cosa si stesse riferendo.
La morte di quel piccolo cane di nome Verona, ad opera di Mayuri Kurotsuchi che allegramente lo aveva investito per fargli un dispetto, Aporro se la ricordava perfettamente – da allora il superstite Lumina, un pechinese di tre anni, non faceva altro che lamentarsi per la mancanza del compagno – quindi appena capito cosa quella piccola e falsa educanda stesse cercando di comunicare, un piccolo e perfido sorriso affiorò dalle sue labbra sottili e in precedenza imbronciate per quella visita a sorpresa.
Lesto ed elegante, distolse lo sguardo dalla propria ospite quel tanto che bastava per indirizzare gli occhi color ambra verso la propria sinistra.
Frugò poi circa qualche secondo dentro un cassetto della lucida scrivania di marmo nero, fino a trovare – tra gli ordinati documenti e le scatole di medicinale in ordine perfetto in un piccolo cestino di vimini – ciò che avrebbe fatto decisamente al caso suo.
Una boccettina di vetro ambrato si posò con delicata decisione sul freddo marmo dell'ufficio – con un suono timido che però ebbe il peso di un macigno nel cuore della donna – accompagnato da un sorriso fin troppo descrittivo da parte del giovane dottore.
Un piccolo prezzo che puoi accettare...”
La boccettina ancora non etichettata e quindi fuori commercio – in cerca di un tester per le prove che ne dessero il via libera alla vendita – di un medicinale a lei sconosciuto era il prezzo da pagare per lo strano, forse sincero, gesto di umiltà nel chiedere scusa per la follia di un padre che comunque amava indissolubilmente.
Anche se di poche parole lo scienziato si era fatto capire benissimo dalla pallida donna, che subito chinò il capo per non dare a vedere il lieve tremito del labbro inferiore in un istintivo stato di sconforto. Aporro sospettava che fosse strano che Nemu si presentasse da lui con il solo scopo di chiedere scusa per colpe non sue, ma non stette li ad indagare oltre sul fatto del perchè lei si trovasse li a chiedere il suo perdono dopo qualche mese dall'incidente.
Era una cavia di laboratorio. Doveva semplicemente lasciarsi studiare e vedere cosa il dolce paparino stesse architettando questa volta.
Io... Prendo già troppi medicinali...”
Una semplice riluttanza che poteva apparire inconsueta per il soggetto presente – succube all'inverosimile di un padre e di un altro scienziato privi di scrupoli – portò una lieve espressione imbronciata all'uomo che ancora giocava a passare il dito indice attorno al tappo cromato della boccettina anonima.
Era strano vedere Nemu così improvvisamente reticente nel farsi ispezionare, magari pure tagliare, oppure nell'assumere farmaci ancora non testati come in quel caso. Di solito rimaneva silenziosa e si limitava unicamente a eclissare lo sguardo verso il basso, pur rimanendo rigida e tenace come il padre le aveva duramente insegnato.
In questo caso invece, oltre a dargli una immagine più sofferente del solito – quasi rannicchiata nella poltrona con quelle sue spalle così incassate – nonostante fosse ancora ferma nella sua nobile postura, era quella sua disobbedienza a far storcere il naso ad un dottore che, se non era per scopi scientifici paterni, non capiva il perchè della sua visita.
Che cosa dunque l'aveva spinta nella bocca del drago in un modo così poco discreto?
Erano domande a cui il Grantz non prestò la doverosa attenzione al caso, non calcolandolo come l'inconsueto atteggiamento – ma poi neanche tanto – di una cavia in disperata e istintiva ricerca di una via d'uscita da un incubo senza fine. Una speranzosa salvezza inconscia che per lei non sarebbe mai arrivata, dato che ad attenderla prima o poi sarebbe sopraggiunta solo una morte con tutta probabilità lenta e dolorosa.
Per lui erano solo capricci e basta, avvalorati dalla sua aspra educazione di chi non voleva sentirsi dire un “no” e neppure frasi senza senso alcuno. Almeno per Szayel stesso.
E visto che se non era stato il padre a mandarla da lui con scuse così banali da apparire ridicole e derisorie agli occhi di tutti – non solo i suoi – forse erano appetiti ben più malsani che spronavano la pallida figura a concedersi a lui.
In tutti i sensi possibili. Portandolo per questo, a sorridere con una perfidia che avrebbe congelato persino un morto.

Se una qualunque creatura cercava salvezza in Szayel Aporro Grantz, andava prima o poi incontro ad un destino ben più peggiore.
Neppure lo stesso scienziato avrebbe detto chi tra lui e Mayuri fosse il peggio del peggio per quella povera ragazza, ma era ugualmente interessante notare i risvolti di quella loro relazione che non si fermava unicamente all'imbottitura di farmaci e smembramenti vari.
Relazione... Magari la si poteva definire anche così.
Di certo Nemu Kurotsuchi era un delle poche donne che con regolarità – almeno parziale – passava dalla sua camera da letto e a volte anche a cena fuori o nel suo stesso appartamento lussuoso.
Accidentalmente l'aveva pure presentata a suo fratello Yylfort e alla sua attuale ragazza – nonché amante occasionale dello stesso scienziato – Cirucci Tunderwitch.
E nonostante per quei due imbecilli dei suoi coinquilini la presenza della giovane Kurotsuchi era un evento alquanto insolito e curioso, stranamente per Szayel era stato un momento piuttosto divertente.
Il che era strano, visto che normalmente avrebbe vissuto una simile situazione come la più profonda delle seccature esistenti. Ma anche per quel giorno, Nemu passò nuovamente nelle sue stanze con la stessa indifferenza apparente delle volte scorse. E forse era questo a divertirlo per davvero.
Venendo consumata ogni volta con un'ardore che faceva quasi paura data la follia del suo amante, che più che amarla ogni volta – sotto quelle lenzuola che lasciavano il posto del profumo di lavanda con quello di corpi aggrovigliati tra loro – era come se la divorasse tutte le volte possibili.
Sapeva di essere affamato di carne così come della conoscenza in campo scientifico. Per lui che si trattasse del sesso più sfrenato o arrivare all'apice di aver compreso le funzionalità di un farmaco appena inventato, equivaleva all'orgasmo più assoluto.
Spesso e volentieri, sulla pelle della ragazza sua schiava lasciava segni tangibili di morsi fatti quasi a sangue, lasciati li apposta dall'impeto di una passione che esigeva a volte che quasi quel rosso fluido vitale sgorgasse fuori dalle sue sventurate prede.
Ma cosa ancor più sbalorditiva era vedere la sua indifferenza che andava a farsi benedire, in favore di un malsano piacere verso quei morsi e quelle carezze passionali non certo dettate da sentimenti puri, da credere che forse – alla fine della corsa – a Nemu magari non dispiaceva poi così tanto essere trattata a quel modo. Vivendo giorno per giorno in una perenne sindrome di Stoccolma, tanto da portarla a sgranare gli occhi terrorizzata per ogni morso – apparentemente – letale, stemperato solo dalla sua stessa voce che non mostrava affatto nessun tipo di terrore.
E anche questo a Szayel Aporro Grantz, piaceva da morire.

“Sai che vorrei farti una domanda?!”
Contro tutte le sue ben calcolate aspettative, dovette per forza notare come quella ragazza fosse per davvero più loquace del solito.
Lo scienziato sbatté ripetutamente le stanche palpebre per mettere a fuoco una figura femminile non meno disastrata di lui, cercando di capire cosa volesse dire con “domanda”.
“Che tipo di domanda?”
nel mentre che pronunciò quelle parole un po' perplesse, uno sbuffo di fumo fuoriuscì dalle sue labbra portandolo quasi a tossire per non aver calcolato bene il tempo di espirazione della nicotina.
Pertanto, irritato per quella sua stupida distrazione, decise di spegnere la sigaretta precedentemente sfilata dalle dita della ragazza sul posacenere nero posto sul comodino di fianco al letto.
Ad infastidirlo ulteriormente in quelle scarse tenebre mattutine – con una luce spettrale che ancora filtrava dalle veneziane abbassate – ci fu la titubanza della sua ospite che deglutì prima di rispondergli con coraggio.
Non riuscendo comunque a guardarlo negli occhi, fissando ancora una volta il soffitto anonimo.
Se io rimanessi incinta... Tu mi sposeresti?”
Era una domanda strana. Molto strana.
Tanto che lo stesso Aporro dovette assorbirla con qualche secondo di ritardo data l'assoluta scarsa consuetudine del quesito posto.
Si ritrovò per questo a sbattere maggiormente le palpebre, puntellando i gomiti sull'umido materasso e alzandosi un poco a sedere.
Sforzandosi quasi inutilmente di mettere a fuoco la donna che ancora riposava nel suo letto, cercò con stizza gli occhiali sul comodino alla propria sinistra per capire cosa quella cretina volesse dirgli con quelle parole assurde.
Una volta posti i candidi occhiali sul naso – senza un certo tremore – l'immagine di Nemu venne finalmente messa a fuoco in tutto il suo splendore mattutino.
Un livido nero come le ombre che li circondavano spiccava circolare e fresco appena sopra il seno destro della giovane, giusto nascosto lievemente dalle lenzuola costose e stropicciate. Altri segni di morsi oltre a quello le segnavano le spalle e pure il collo, non notati dalla giovane seppur estremamente dolorosi.
“Che cosa? Scusa ma... Credo che sia particolarmente poco fattibile – iniziò a parlare con una lieve nevrosi che lo portò ad arricciare gli angoli della bocca in un ghigno ironico, prima di continuare – imbottita di farmaci come sei dubito fortemente che tu abbia ancora possibilità di essere fertile.... Inoltre, non ho nessuna intenzione di commettere l'errore di mio padre”
Nelle sue parole lievemente aspre c'era un fondo di verità non indifferente – che portarono la donna ad abbassare lo sguardo quasi mortificata – oltre che ribadire un concetto base per lui fondamentalmente importante.
Per quanto fosse poco educato parlare male dei propri genitori, per lo scienziato non esistevano limiti data la sua nota insofferenza verso la madre e il peggio compatimento verso l'estinto padre.
Pertanto, rassicurato dalle proprie ferme parole, il padrone di casa volle alzarsi a sedere del tutto su di un letto sfatto e ormai non più umido, lasciando che le lenzuola scivolassero via dal suo torso snello fluide come l'acqua.
Ma nel mentre che si passava una mano tra i capelli delicati ancora tinti di un pallido rosa acceso – un segno tangibile di voler apparire a tutti i costi “diverso” dagli altri – Nemu volle ancora esprimere il proprio pensiero personale.
Cocciuta e speranzosa, sfidò ancora la pazienza dello scienziato suo signore ed amante.
“Ma metti che io abbia dei bambini da te, tu mi sposeresti per evitare uno scandalo?”
stavolta Szayel Aporro si voltò con più intensità verso una Nemu che guardava un soffitto ora grigio a causa dei raggi solari mattutini, irritato per la difficile comprensione di quelle parole per lui incomprensibili.
Non che odiasse i bambini, solo che gli erano indifferenti e – cosa non da meno – si sentiva inadeguato a prestare loro attenzione.
Neppure quindici giorni fa aveva aiutato una donna a partorire su di una lurida metropolitana, ma ciò che pensava – ossia quasi la solita routine del medico improvvisato e unico capace di tirare fuori un ragno dal buco – andò in frantumi nell'esatto momento in cui la creatura se la trovò tra le braccia.
Si era sentito inadeguato e sbagliato, per quanto quel semplice contatto avesse tirato fuori qualcosa in lui che mai si sarebbe immaginato di provare.
Timore di sbagliare qualcosa, paura di rompere quel bambolotto di carne, inadeguatezza di stare accanto al prossimo. Tutte cose poi buttate giù con una stizza tipicamente sua, ma capaci di riaffiorare potenti a quelle domande dettate con una piuma di ingenuità dalle creature meno pure della terra.
Per tanto, scostò con rabbia le lenzuola dalle proprie gambe, deciso ad alzarsi dal letto per darsi una sistemata nel bagno vicino al corridoio. Bastava il suo silenzio per far capire alla Kurotsuchi che non vi erano risposte per quella sua stupida domanda.
“Tra breve dovrò andare al lavoro... Se vuoi puoi restare, ma non voglio vederti qui al mio ritorno”
non stette li a scrutare una donna dallo sguardo spento e disilluso, dandole unicamente le spalle duro come la roccia e freddo nel timbro vocale come una stalattite di ghiaccio.
Si diresse nudo come un verme nel bagno poco distante la sua camera da letto, mentre una donna sospirava piano portandosi quasi inconsciamente le mani su di un grembo sterile e vuoto.
Il suono della seta che si aggrovigliava tra le sue pallide dita, si perdeva e veniva a momenti soppresso dallo scroscio incensante della doccia di un bagno con la porta lasciata distrattamente aperta.
Un pensiero sottile il suo – disperato senza capirne il motivo – che aveva decisamente fatto partire male la giornata ad uno scienziato che, a differenza della sua deliziosa ospite, aveva fin troppi pensieri nella testa lucida di spietate idee.
Ma che per almeno quel giorno, videro una lenta progressione nel suo cervello a causa di pensieri ben più inadeguati che neppure l'acqua fredda della doccia riuscì a mandare via.

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Capitolo 5
*** 5. Se questo è il tuo volere, non aprirò più bocca [Ichigo/Tatsuki][Ichigo centric] ***


Torno dopo parecchio tempo ad aggiornare la mia raccolta con una oneshot dedicata ad Ichigo Kurosaki e a Tatsuki Arisawa. Per chi non lo sapesse questa coppia è stata una tra le prime che ho apprezzato quando iniziai a leggere Bleach. E nonostante il tanto tempo trascorso ci sono ancora molto affezionata. Ovviamente la storia è legata alle precedenti e ha dei riferimenti con “giochi pericolosi”, “malizia” e tutte le altre della serie Raining Stones. Posso aggiungere che attualmente si tratta dell'oneshot più pulita che mi sono concessa di scrivere se così si può dire. Ed i riferimenti all'ebraismo sono strettamente legati a “malizia”. Mi sento di dire che i generi stavolta trattati da me sono l'angst, l'introspettivo e il romantico.
Come ultimo questa storia partecipa all'iniziativa di Fanworld “gift boxes challenge” con il prompt: Vacanze di Natale, “Cosa farai?”


5. Se questo è il tuo volere, non aprirò più bocca



Cosa farai?”
La domanda che Tatsuki Arisawa pose al ragazzo che le sedeva dinnanzi ebbe l'effetto di un fulmine che esplode a ciel sereno.
Gli occhi castani di Ichigo Kurosaki – sua vecchia conoscenza di infanzia – si scostarono dal dépliant che la giovane gli aveva passato circa due minuti prima, giusto un paio di pagine che sponsorizzavano dei videogame in offerta, guardandola interrogativo in volto senza minimamente capire a cosa si riferiva.
Attorno a loro intanto, la vita in quella tavola calda dal sapore squisitamente vintage anni cinquanta continuava a correre con le frettolose ordinazioni di frappè e di panini caldi.
Nel mentre che aspettavano le loro ordinazioni i due ragazzi si erano messi a chiacchierare del più e del meno – passatempi, università, lavoro – ma ecco che la situazione per il futuro architetto stava per cambiare drasticamente.
“Cosa? – alzò lievemente un sopracciglio nel porre la domanda, esibendo l'espressione più ebete e involontaria che possedesse – scusa ma non ti seguo proprio!”
“Le vacanze di Natale, Ichigo – la giovane dagli ispidi capelli neri sbuffò, guardandolo un po' storto – cosa hai intenzione di fare durante le vacanze?!”
quella per il giovane Kurosaki era effettivamente stata una domanda a trabocchetto. Difatti abbandonata l'espressione per così dire stupita, si vide costretto a rabbuiarsi un poco, facendo notare alla giovane donna cosa ci fosse calcato nella sua testa ramata quel sabato pomeriggio.
“Questa non ti dice niente, eh?!”
“Oh piantala! La kippah non è mai stato un problema per te nel venire a festeggiare il Natale a casa mia!”
il fatto che Ichigo fosse un membro del popolo ebraico e Tatsuki di famiglia cristiana non praticante non era mai stato un problema nel frequentarsi o stringere amicizie. La città in cui vivevano i giovani universitari non era nota per pregiudizi marcati tra i vari popoli – forse anche per il fatto che era piccola e bene o male tranquilla a differenza di città più grandi e caotiche – quindi la ragazza non capiva l'impuntarsi di Ichigo su cose come, ultimamente parlando tra l'altro, il passare le meritate vacanze assieme e cercare di rilassarsi il più possibile fosse una questione quasi impossibile da realizzarsi.
Era pur vero che pure nella famiglia di pel di carota (testardo e cocciuto) festeggiare un giorno che nulla aveva a che fare con le loro tradizioni non era mai stato un problema. La sua stessa amata madre era solita fare l'albero di Natale nel grande soggiorno facendosi aiutare da lui e dalle sue due sorelline.
Alle volte ci si metteva pure quell'impiastro di suo padre. Anche se combinava spesso guai, finchè Masaki era ancora in vita si sorvolava pure su quello e quei giorni freddi e carichi di festa erano comunque passati in modo speciale.
Perchè fondamentalmente trascorsi in famiglia.
Dal giorno della morte della madre per Ichigo Kurosaki erano cambiate parecchie cose.
Si era ritrovato con l'innocenza letteralmente perduta e costretto a maturare così in fretta per i suoi otto anni di vita, da isolarsi un po' per volta dal mondo infantile che lo circondava a scuola e in famiglia per prendere le redini di una vita troppo in fretta sbocciata.
Benché lui nulla centrasse con la morte di Masaki, se solo non avesse dato retta ad un capriccio interiore che manco più ricordava minuziosamente nel dettaglio, non poteva – non riusciva – non darsi la colpa di tutto quell'accaduto.
Perchè se solo non avesse attraversato quella strada maledetta per Dio sa solo cosa ormai, lei non lo avrebbe rincorso e non si sarebbe fatta schiacciare come una bambola di stracci da un'auto che agli occhi di un bambino piccolo – non più innocente – pareva grande come grandi sono le fauci del drago.

Per lui il Natale perse di significato immediatamente. E per molti anni non cedette alla tentazione di distruggere l'albero natalizio solo perchè le sue sorelle – Yuzu e Karin – e più in generale tutta la sua famiglia ancora credevano nel significato che doveva dare. Perchè in fin dei conti era giusto così e la stessa Masaki avrebbe voluto la loro serenità più di qualunque altra cosa.
Ma c'era un'altra cosa che per Ichigo simboleggiava odio e amore al contempo.
In quanto membro di una famiglia ebraica il presepe non era mai stato costruito in casa sua. Non che ci fosse un ripudio verso quell'affascinante composizione, ma giustamente la sensazione che trasudava in famiglia su quella questione era di istintivo disagio. E per ovvio orgoglio, per i suoi stessi genitori andava bene così.
In compenso era permesso ai più piccoli di rifarsi gli occhi sulle graziose statuine.
E quello che Tatsuki realizzava in casa propria era sempre stato una meraviglia per il giovanotto corrucciato. Aveva sempre trovato splendido che in casa dell'amica venisse costruito una intera città in miniatura, alcune delle statuine tra l'altro si muovevano pure nell'atto di tagliare la legna o fare del pane, e per di più non si trattavano di quelle di plastica vendute a basso costo nei supermercati ma statuine realizzate in terracotta e provenienti dall'Italia.
Ma era l'interno della capanna che i suoi occhi di bambino si posavano maggiormente. Li, all'interno di un minuscolo spazio accogliente, c'era una famiglia il cui messaggio primo che il piccolo Ichigo comprendeva era quello dell'amore assoluto.
Per un certo verso quelle statuine gli rimembravano la sua famiglia, ed era per tale motivo che le vacanze di natale se le passava spesso e volentieri a casa dell'amica – oltre che con le sue due sorelline che spesso portava con se – anche dopo la tragedia che lo aveva colpito. Perchè nonostante tutto, anche se iniziò a detestare pure quello, non poteva non vederci del buono nel significato che trapelava da quella composizione.

Schiarendosi la mente con un veloce battito di ciglia – la domanda di Tatsuki lo aveva portato a rivangare fin troppi ricordi – scosse velocemente la testa cercando poi di essere il più chiaro possibile.
“N-non è per quello maledizione! Io non voglio venire a fare le vacanze a casa tua! C-cioè nel senso...”
“Nel senso che hai altro a cui pensare piuttosto che passare del tempo con la tua donna? Spiegati meglio di grazia!”
le parole che Tatsuki pronunciò bloccarono in tal modo le traballanti giustificazioni del suo fidanzato, porgendogli nell'atto di parlare un sorrisetto nervoso nel mentre che finalmente – dopo quella che parve una interminabile attesa – vennero loro serviti i panini precedentemente ordinati.
La giovane Arisawa si strinse maggiormente nella felpa sportiva in un abbraccio personale e risentito, mentre Ichigo allungava il proprio broncio frustrato da non riuscire a trovare le parole adatte.
Ma non riuscendo a a picconare il proprio orgoglio come si deve – dovuta anche al fatto che aveva in mente una cosa per lui totalmente imbarazzante da chiedere per quelle vacanze di Natale – furono nuovamente le parole della giovane a rispondere seccata.
Anzi, il tono che la karateka professionista usò, fu quantomeno lapidario.
“Molto bene allora... Se questo è il tuo volere, non aprirò più bocca

Il momento esatto in cui Ichigo Kurosaki si accorse che Tatsuki Arisawa non era più una semplice amica di infanzia, non poteva con precisione svizzera ricordarselo.
Tuttavia, era sicuro che da quando la madre – che lui era sicuro di aver ucciso – era scomparsa in modo drammatico, quella bambina dall'animo forte aveva assunto un ruolo fondamentale nella sua crescita.
Si conoscevano dall'età di quattro anni – da quando andavano in palestra assieme e luogo quello dove lei ripetutamente lo metteva al tappeto – e la considerava come una delle poche fidate amiche che aveva.
A Tatsuki infatti bastava davvero poco per comprendere Ichigo. E nonostante tutta l'apparente scontrosità che possedeva, fu con un affetto sorprendente che fece sentire l'amico in pace con se stesso nei pochi momenti in cui stavano assieme. Continuando a chiedergli – quasi imponendogli – di passare a casa sua durante le vacanze natalizie per ammirare il tanto spettacolare presepe, sapeva sempre come badare a lui leggendogli dentro in una maniera che per lo stesso Ichigo era incredibile.
Tuttavia negli anni al ragazzo era subentrata una ossessione non indifferente di proteggere la propria famiglia e gli amici più cari. Un sentimento quanto mai nobile questo era vero, nato nel tempo dopo la morte della madre che avrebbe dovuto proteggere e non condannare, ma che tuttavia in alcuni momenti della sua adolescenza aveva raggiunto momenti di pura ossessione.
Se non ci fosse stata lei anche in quei frangenti disastrosi dovuti agli ormoni che iniziano a scorrere nelle vene e nel cervello e nella credenza di poter essere invincibile, forse si sarebbe fatto davvero del male credendo di essere nel giusto. Era vero, lui aveva sempre protetto dall'età di otto anni le sue sorelle dai bambini prepotenti e dagli incidenti domestici.
Ma più gli anni passavano e più per Ichigo la responsabilità di proteggere tutti diveniva sempre più una fatica immane. Sia per il suo fisico che, soprattutto, per il suo cervello.
Furono i pugni della Arisawa per primi a riportargli un po' di senno in quella sua testa dura come il marmo. Furono loro, accompagnate poi dalle voci degli amici che gli erano più cari.
E cosa non meno importante, aveva notato che Tatsuki non aveva mai avuto bisogno di essere protetta.
Sia perchè era fisicamente in gamba da tenere a bada anche più di un teppistello – non per niente era cintura nera e insegnante nella palestra che frequentavano da bambini – sia perchè non era lei ad essere protetta da lui, ma era lui che fin da piccolo era stato protetto da quella che era stata un punto di riferimento essenziale.
Ciò che rappresentò Tatsuki col tempo – per un Ichigo che usciva da una turbolenta adolescenza – fu qualcosa di simile ad una piccola oasi di serenità per un ragazzo con l'istintivo bisogno di proteggere chi ama.
Lei era una certezza vera – palpabile – che gli dava una ritrovata sicurezza in tutta la sua vita fin troppo provata. Fu poi un percorso lungo quello che li portò definitivamente ad avvicinarsi a quel modo.
Un passo alla volta, anno dopo anno, per capire che oltre l'amicizia c'era qualcosa che li univa in un modo tutto speciale. Certo, Ichigo non ricordava il momento esatto in cui la sua ragazza arrossì in un misto di imbarazzo e orgoglio alle sue parole che parlavano – in un modo tutto suo e del tutto impastato con altri argomenti perchè troppo imbarazzante parlare di amore e sdolcinatezze varie – ma ricordò il suo pugno poi e le sue parole in seguito.
Stupido, ci sei arrivato solo adesso?!”
una situazione che lo avrebbe portato sicuramente a ridere di sincero gusto – non si sarebbe mai aspettato che persino lei avrebbe maturato simili sentimenti nel tempo – ma che accadde solo interiormente anche se come dichiarazione d'amore, la prima in assoluto per lui, fu un autentico fiasco e i due non si parlarono per quasi una settimana.

Ma fu solo questione di pochi giorni, perchè poi ebbero modo di chiarirsi e di vivere la vita in un modo drasticamente differente.
Ma era ovvio che per Kurosaki quella che stava affrontando in quel fatidico momento era più ardua della loro “dichiarazione d'amore” avvenuta neanche tre anni prima.
Deglutì cercando di scartare qualunque altra cazzata da poterle dire per aggirare il vero motivo di quell'appuntamento in un posto carino ma poco romantico – nessuno dei due tra l'altro amava i luoghi da diabete – decretando che forse era il caso di sbatterle in faccia tutta la realtà.
La scusa delle sue origini ebraiche era stata una colossale cazzata, degna di lui tra l'altro, di evitare quelle dannatissime vacanze per un solo semplice motivo.
Schiarendosi difatti la voce, e scrutandola intensamente fin quasi a darle disagio e quantomeno a farle togliere quell'espressione imbronciata da strega, decretò il motivo della sua reticenza.
“Tatsuki, io non voglio semplicemente passare le vacanze con te... Ma voglio vivere con te”
Fu un colpo inaspettato persino per un animo forte e impavido come quello della Arisawa, perchè i suoi grandi occhi scuri si sgranarono non tanto per il tono greve che il proprio fidanzato usò, quanto per la stessa importanza di aver detto una cosa simile.
La giovane karateka aveva intuito che da un po' di tempo a quella parte nella villetta schiera in cui era andato a stare per essere più vicino all'università, condivisa tra l'altro da degli autentici animali, aveva iniziato ad essere un luogo di pura insofferenza per l'uomo che aveva imparato ad amare col tempo. E anche se era vero che da un po' di tempo la soluzione di andare a convivere assieme era stata pensata da entrambi anche se non detta mai esplicitamente, la reazione che coinvolse la giovane non fu poi molto dissimile dalla loro dichiarazione d'amore scalcinata e pericolosa. Rossa in volto un po' per l'emozione e un po' per il grande orgoglio che la caratterizzava, Tatsuki si rivolse al ragazzo sbuffando parole fin troppo note per le sue orecchie e per uno sguardo ritornato ebete come in principio di tutta quella loro discussione.
Ci sei arrivato solo adesso, eh?!”

Forse entrambi non avrebbero conservato a lungo andare quel nuovo episodio della loro vita, ma i clienti di quella paninoteca se lo sarebbero ricordati molto a lungo.

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