Segno del Destino

di Sasita
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fuga dal miglio ***
Capitolo 2: *** L'Inizio ***
Capitolo 3: *** Smiling Sun ***
Capitolo 4: *** Somewhere in the sunset ***
Capitolo 5: *** Hot Wishes ***
Capitolo 6: *** Like a Tiger ***
Capitolo 7: *** Dancing in the rain ***
Capitolo 8: *** Bittersweet News ***



Capitolo 1
*** Fuga dal miglio ***


FUGA DAL MIGLIO
 

 
Era buio e umido nella stanza del Miglio, delle gocce di condensa cadevano sul pavimento di linoleum beige dal soffitto fatto di grate di ferro arrugginito.
Un letto striminzito e sfatto, coperto di un lenzuolo bianco e spiegazzato, stava poggiato a una parete macchiata e sporca, dipinta di un celestino scialbo, che un tempo doveva essere azzurro intenso.
Le sbarre, dello stesso colore della parete, avevano la vernice che cadeva a pezzetti.
In un angolo c’era un WC e un lavandino, con il calcare che cresceva come un fungo sulla superficie di ceramica di terza mano.
Infondo alla piccola stanza, di quattro metri quadri, una piccola finestrella a grate nere rifletteva la luce dei raggi lunari, illuminando l’uomo che stava seduto sul bordo del letto, con le mani nei capelli e i gomiti poggiati sulle ginocchia.
Alzò lo sguardo verso la porta della sua cella e si alzò in piedi, stiracchiandosi.
Posò una mano su un fianco e si passò l’altra tra i riccioli biondi.
Fece una smorfia rendendosi conto troppo tardi di non poter infilare la mano nella tasca del suo adorato gilet, e di non aver tasche di nessun tipo, in realtà.
Indossava un completo carcerario, di un orribile verde acido che sembrava fare a pugni con il celeste dei locali. Ma almeno riprendeva il colore del pavimento del corridoio che passava davanti alla sua cella.
Intorno a lui stavano molte altre persone, ognuno con una storia diversa, ognuno con il suo destino designato, lo stesso per tutti: La morte. O meglio, la pena di morte.
L’uomo biondo sorrise e si avvicinò alla finestrella, gli piaceva osservare le persone passare distrattamente davanti alla grata, ignare che lì dentro ci fossero i condannati a morte dello stato, i condannati a morte di Sacramento. Strizzò i suoi occhi cerulei nel buio della notte, probabilmente aveva le traveggole, perché gli era parso di vedere una donna dai capelli rossi fare un cenno di saluto in sua direzione.
-Ehi. Ehi, tu: Biondino. Mr Patrick Jane, vieni un secondo qua.-
Patrick Jane si girò verso le sbarre della sua cella e ci si poggiò, di fianco. Con un piede in un rettangolo creato dal ferro che si incrociava fece sbriciolare molta vernice azzurrina.
Sorrise, di quel suo sorriso beffardo e superiore.
-Sì?- chiese
-Che hai fatto per essere qui? Lo sai no, qui dentro c’è una gerarchia, tu sei un poliziotto. Devi aver fatto qualcosa di grave per essere qui. Quelli non prendono mai la Massima Pena. Insomma, non li fanno mai fuori.-
-Come ti chiami?- chiese Patrick, continuando a sorridere.
Il carcerato parve spaesato dalla sua domanda.
-Benjamin, ma chiamami Ben, gli altri mi chiamano Big Ben. Non mi piace. Allora, che hai fatto per avere anche l’ordinanza di esecuzione immediata?-
-Omicidio premeditato.- rispose evasivo.
-Come tutti, ma chi hai ucciso?-
-Ho commesso un omicidio premeditato di uno dei più noti serial killer d’America. L’ho ucciso lentamente. Nello stesso modo in cui lui uccideva le sue vittime, però lentamente. E alla fine ha implorato pietà, mi ha chiesto di ucciderlo velocemente, e non l’ho fatto. Ho lasciato che morisse dissanguato. E quando è morto gli ho sputato, ho scritto sul muro con il sangue “questo è Red John”.-
Quello ci rifletté, e lo guardò.
Chinò di lato la testa e la scosse, in senso di diniego.
-Non è vero.- asserì
-In parte sì.- rispose, mantenendo lo sguardo alto verso di lui e sorridendo storto
-Hai ucciso quel tizio che era effettivamente un Serial killer e avevi già programmato di ucciderlo?-
-Sì. Però gli ho sparato. Al primo colpo era già morto, ma gli ho sparato 21 volte. Con una 45 millimetri che mi era stata regalata. Ma io non ho il porto d’armi. Ho detto al giudice di averlo sempre voluto uccidere e di aver pianificato ogni istante. Sapevo che mi avrebbero dato la pena di morte.-
-Non hai paura di morire?- disse quello, colpito
-Adesso sì.- ammise Jane
-E prima?-
-Prima pensavo al suicidio.-
-Oh...-
-Tu perché sei qui?-
-Dicono che ho ucciso mia moglie.-
-Ed è vero?-
-Non lo so. Dicono di aver trovato dei miei diari dove descrivevo per filo e per segno come l’avrei uccisa. Ma io non ricordo.-
-Non ricordi perché non sei stato tu.-
Il carcerato lo guardò di sbieco. Con gli occhi impauriti e confusi.
-Come lo sai?-
-Dalla tua voce, dai tuoi occhi, dal tuo modo di porti...-
-Ah, Bè, sì... io amavo mia moglie non credo di averla uccisa. Quando ti faranno l’iniezione?-
Patrick lasciò libera una lacrima, i suoi occhi erano gonfi e rossi, ma dava le spalle alla porta, per non farsi vedere.
-Domani.- disse, con il cuore pesante
Big Ben sobbalzò.
-Così presto? Perché mai?-
-Ho dei nemici, e io ho chiesto di morire presto.-
-Perché?-
-Perché la morte è un espiazione, non una pena. Se mi abituo all’idea di morire, invece diverrò pazzo. E l’angoscia mi logorerà, finché non mi ritroverò ad urlare e chiedere pietà, mentre tre uomini mi terranno fermo e mi inietteranno un  siero assassino nelle vene, e io guarderò fuori dal vetro con il pubblico e vedrò lei piangere. E allora mi renderò conto dello sbaglio che ho fatto e del dolore che ho provocato.-
Aveva parlato talmente tanto veloce che non si era neppure reso conto di aver tirato fuori tante parole. Aveva bisogno di parlare con qualcuno.
-Che Dio ti perdoni, amico.-
-Lo spero.-
In realtà Jane non credeva in Dio, ma pensare di  poter vivere ancora, dopo la morte, rendeva quella prossima fine molto più piacevole.
E allora sorrise.
Sapeva che lei avrebbe sofferto, sapeva che lei lo amava e che lo aveva già perdonato per lo scempio che aveva fatto.
Quella donna minuta che si era accorto di amare troppo tardi gli aveva dato la speranza di poter superare anche quelle nuove intemperie, e invece era finito comunque nel Miglio, correndo verso la sua vicina morte.
Cosa aveva ottenuto? Non lo aveva capito.
Lui, in se, non aveva ottenuto niente, ma aveva garantito al mondo una vita senza John il Rosso.
Aveva sfamato la sua voglia di vendetta, ma la cosa non lo aveva toccato che per qualche minuto dopo il misfatto.
Poi aveva pensato a Lisbon e a tutte quelle complicazioni che non aveva calcolato prima di uccidere quell’uomo.
Sarebbe morto, inevitabilmente.
Lisbon, quella piccola fragile donna aveva cercato di coprirlo fino alla fine, fino a rischiare di essere indagata per favoreggiamento e complicità in omicidio. Ma lui non l’aveva permesso, non voleva che un'altra persona finisse nei guai per colpa sua.
Si era accorto di amarla quando gli aveva tirato uno schiaffo sonoro, facendogli voltare la testa, dopo che aveva confessato l’omicidio.
Lei sapeva che l’avrebbero ucciso.
Lei aveva combattuto per lui.
Lui aveva preferito morire, piuttosto che trascinare lei nel suo oblio.
-La ami?- chiese ad un certo punto Ben
-Sì.- rispose lui, tanto ormai non aveva voglia di nascondersi. Era esausto, stanco.
-Come si chiama?-
Patrick Jane si accigliò, da dove arrivava tutta quella curiosità per un tratto tanto insignificante e doloroso?
Jane non avrebbe mai potuto baciarla.
Non avrebbe mai potuto fare l’amore con lei.
Un’altra lacrima gli scivolò sul volto e, di nuovo disse la verità.
-Fa male, sai? Io avevo una famiglia, nove anni fa, quel pazzo schifoso che ho ucciso me l’ha sterminata. Volevano dargli l’ergastolo, lo ritenevano incapace di intendere e di volere. Sì, insomma, soffriva di una forma regressa di psicopatia sociopatica. E io non volevo che vivesse. Solo ora mi rendo conto di avergli quasi fatto un piacere. Meglio morire che stare vivo in una cella chiuso e da solo per anni e anni. Lei, la donna che adesso so di amare, è il capo di una squadra di poliziotti con cui lavoravo, come consulente. È bellissima, si chiama Teresa.-
Patrick non resse oltre, fu percorso da uno spasmo, e si accasciò a terra, piangendo.
Straziato dai singhiozzi si buttò a terra, prendendo a pugni il pavimento appiccicoso.
-Io non l’avrò mai. E non la merito. Voglio morire, solo morire adesso, se non l’avrò mai.- Ben si sentii in colpa.
Mentre il biondo stava chino per terra ad osservare le macchioline create dalle sue lacrime, esamine e stremato, un gridolino sopraggiunse dal bugigattolo dove stavano gli inservienti o i secondini.
-Vi denuncio tutti!- urlò quello.
Patrick si alzò e si appiattì contro le sbarre.
-Provaci e noi diciamo a tutti quello che fai ai carcerati. A partire dalle bastonate, fino alle violenze su quelli che andranno in galera e su quelli piccoli, e sulle donne.-
Il cuore di Jane perse un battito. Una leonessa di un metro e sessanta era arrivata a dare una lezione a quel piccolo bastardo represso di un secondino che lo aveva guardato con sguardo da pazzo maniaco quando lui era entrato quella mattina e si era permesso di toccarlo in posti non consoni, mentre gli scioglieva le manette. Fino a mordergli forte l’orecchio, facendogli perdere sangue, dicendo “questa notte vengo da te”.
Vide un Cho e un Rigsby vestiti di nero e con un passamontagna chiudere il secondino nella cella di isolamento, stretto nella camicia di forza e con un fazzoletto in bocca.
Una donna minuta correva verso di lui e un'altra, più alta, controllava gli altri carcerati.
Le sbarre della cella di Jane si aprirono e lui non fece in tempo a spostarsi che una cascata di capelli corvini gli sferzò il viso. Strinse a se il piccolo corpo che gli si era avvinghiato addosso e inspirò l’odore di vaniglia dei suoi capelli.
-Anche io ti amo, anche io!- ripeteva la donna che lui sapeva essere Lisbon –Va tutto bene, ti porto via di qui!-
Una pace immensa invase il suo cuore pesante, facendolo librare alto e spensierato come non lo era da anni.
Infondo non si sentiva in colpa per aver ucciso un uomo, aveva già ucciso in passato. Solo che lo aveva fatto per legittima difesa della piccola donna che aveva tra le braccia.
E anche lei, per il suo lavoro aveva ucciso. Lei non lo giudicava. Nessuno dei suoi lo giudicava.
-No, non voglio che tu perda il tuo lavoro per me!-
Gli disse con voce sommessa e roca per il pianto, la commozione e la felicità.
-Io mi sono licenziata il giorno dopo che Hightower non ha mosso un dito per risparmiarti la Massima Pena. E loro mi hanno seguito a ruota.-
-Diventerò un latitante a vita.- disse, felicemente
-Meglio latitante che morto. Ho già i tuoi nuovi documenti e anche i miei. Andremo da qualche parte.- disse lei, con fare tranquillo e sereno.
Lui la scostò dalle sue spalle e la tenne a una distanza per poterla guardare negli occhi, era tranquilla e felice.
Le tolse il passamontagna dal viso e le carezzò le guance con i pollici. Teresa si abbandonò al tocco della sua mano e una lacrima le bagnò il viso pallido.
-Io non permetterò che tu muoia così. Hai fatto bene ad uccidere quel pazzo schifoso.-
-Non sei in te. Teresa.-
-Sono perfettamente a conoscenza delle conseguenze! Cambierò nome, cambierò colore di capelli. Mi rifarò le orecchie e cambierò lavoro. Tu uguale, secondo me non staresti male con i capelli scuri.- tentò di scherzare  -Magari ti puoi far correggere le impronte digitali.-
Patrick era affascinato.
-Dove hai preso i documenti?-
-Dal miglior falsario sul mercato. In cambio ho depistato le indagini che vertevano su di lui.-
-Gli altri?- chiese lui, andando ad abbracciare gli amici.
-Io voglio provare a allenare una squadra di baseball. Ero bravo.- affermò sicuro Cho
-Io credo che finirò gli studi per diventare architetto.- disse Van Pelt
-Io andrò a lavorare per la NCIS di San Francisco.- sorrise Rigsby –Rimarremo tutti in contatto. Tutti a Frisco. E io e Grace ci sposeremo.-
Jane sorrise guardando i due ragazzi abbracciarsi.
-Siete sicuri di volervi sacrificare così per me?-
-Il Baseball era il mio sogno.- Cho aveva le braccia conserte nella sua solita posa indifferente. Ma un ombra di sorriso gli dipingeva le labbra e sollevava gli occhi a mandorla in un espressione serena.
-Tutto il dolore delle persone mi fa male, voglio fare qualcosa che porti solo bene.- Van Pelt aveva l’aria di una che ha trovato la pace –Infondo sono giovane. Ho solo 28 anni.-
Jane annuì
-La NCIS è una figata!- Rigsby era elettrizzato.
-Bene, finiti i convenevoli...- iniziò Lisbon –levati quella roba di dosso e metti questi.-
Gli porse un paio di Jeans neri, delle Serafini, una camicia bianca e un golfino di lana leggera e cachemire beige.
Mentre si cambiava Teresa lo aiutava perché facesse più veloce e gli altri perlustravano la zona, facendo il palo.
Teresa non poteva evitare di notare come la sua pelle formicolasse al contatto con quella di Patrick.
Le gambe, il petto, le braccia.
Tentò di non pensarci e gli sorrise, quel sorriso che Jane adorava e che indorava gli occhi di Lisbon in un modo affascinante e misterioso.
-Ti amo.- le sussurrò nell’orecchio –Mi spiace solo non averlo capito prima. Non avrei ucciso John, avrei lasciato che la legge decidesse. Ma ormai è troppo tardi. Sei sicura di ciò che stai facendo?-
-Mai stata più sicura. E io non rischio niente. Ho i miei assi nella manica.- gli fece l’occhiolino
-Ok, piccioncini, siete pronti?- Rigsby si avvicinò e diede una pacca sulla spalla a Jane
-Sì.- affermò sicura Lisbon, stringendo la mano al tessuto del golf di lui e rinfilandosi il passamontagna.
Jane esitò e guardò l’uomo seduto sul bordo del letto nella cella difronte alla sua.
-Rigsby...- disse a un tono di voce che potesse essere udito dal carcerato -... Quando sarai nel NCIS cerca di far cadere le accuse su quell’uomo nella cella, si chiama Benjamin...-
Quello si girò di scatto e sorrise felice a Jane –Sono Benjamin Halsey, e sono innocente.-
Lisbon guardò Jane con gli occhi felini inarcati in una smorfia di scetticismo
-È davvero  innocente! Ti prego, Tessie, permettimi di fare l’ultima cosa alla Jane, quando sono ancora Jane.- disse, e l’abbracciò, incapace di fare diversamente.
La donna sospirò, sussurrandogli nell’orecchio un debole “sì”
-Grazie.- le rispose lui, affogando le parole nel colletto della sua camicia nera.
 
Nelle tre ore seguenti Jane apprese che avrebbero preso un treno, lui e Lisbon, e sarebbero andati a New Orleans, che i suoi soldi –Tutti i suoi soldi- erano passati a un certo “Axel  Simmons” attraverso un testamento fatto dal falsario Jack Marvel, e che questi erano divisi in tre fondi bancari, che a quanto risultava dalla documentazione del Miglio, Patrick Jane era stato internato il 12 aprile 2011 e giustiziato il 13, che Teresa si sarebbe chiamata Dakota McKenzey.
Della vita di Axel, nonché Patrick, si sapeva che era nato a New Orleans e che aveva il nonno di origini svizzere e la nonna era spagnola, emigrati durante la grande guerra, perché innamorati persi e desiderosi di vivere la propria vita in pace, aveva i capelli neri e gli occhi azzurri, le labbra morbide ed ara alto uno e ottanta, o giù di lì.
Il padre era un trafficante di armi, motivo per cui la madre, giovanissima, lo lasciò e portò via con se il piccolo figlio a Sacramento.
Axel non era ricco ed era imparentato con Patrick Jane, da parte di madre, e avevano all’incirca la stessa età, anche se Axel aveva tre anni meno.
Dakota, invece, veniva da una piccola famiglia del Maine, con una madre dolce e comprensiva e un padre burbero e violento. Era figlia unica ed era discendente di alcuni nativi americani, imparentati in seguito con gli inglesi.
La madre la adorava con tutta se stessa, ma ebbe una vita breve, perché il marito la uccise quando Dakota aveva ancora 10 anni. La aveva rotto una bottiglia di Whisky sulla nuca, provocandole un’emorragia celebrale. L’uomo era stato poi arrestato ed era morto in carcere.
La bimba, cresciuta da una zia pacioccona e grassottella nel Montana, era diventata una piccola rockstar di paese, dopo aver finito tutte le scuole, e viveva con il lavoro di cameriera.
Si era traferita a Hollywood all’età di 26 anni, per tentare di entrare in qualche film,  ma non c’era riuscita, quindi era andata a Sacramento e aveva iniziato a lavorare come Bancaria.
Teresa Lisbon, invece, era tornata nella sua vecchia città natale, San Francisco.
I fratelli di Lisbon erano stati avvertiti che lei sarebbe partita a lungo...
-E’ così triste quello che devi fare per me...- disse Jane, dopo il lungo ascolto.
-Non posso nemmeno pensarti morto. Rischierei di morire io stessa, dentro.- disse, abbassando lo sguardo e alzando un sorriso mesto –Sai, credo di amarti da molto tempo, ma non me ne ero mai resa conto. Me ne sono accorta la prima volta che mi hai salvata che provavo per te una simpatia molto forte. E quando abbiamo ballato ho capito di amarti. Non hai idea di come sia stato difficile rendermi conto che avrei dovuto andare avanti senza di te, insomma, Walter, e tutte le altre cose... Ma non ho mai smesso di amare te.- ammise, rialzando lo sguardo sull’uomo difronte a lei.
Patrick  sorrise, illuminando il suo viso come poche volte era successo prima che John morisse.
Lei rimase a guardarlo, con gli occhi incatenati e le labbra dischiuse, pensava di non aver mai visto nessun uomo più bello, nemmeno lo stesso Jane era mai stato così bello come lo era in quel sorriso. Si vedeva che era libero, gli occhi limpidi, chiari e luccicanti, senza ombre a passargli per la mente, il sorriso carnoso e rosastro, illuminato da calde sfumature dorate, come la sua pelle.
Chissà se sarebbe stato uguale, anche con  i capelli più scuri...
-Sarò lo stesso, e sarai la stessa anche te.- la rassicurò lui, posandole una mano sulla guancia e accarezzandola con dolcezza.
-Penso che sia inutile dirti di uscire dalla mia testa, vero?- chiese lei, ritrovando la sua solita aria da donna forte e in carriera.
Lui ridacchiò, facendo cadere la mano –Ovvio.- disse, scherzoso e sereno.
-Sì, starete benissimo insieme e blablabla... ora dovete scendere, però.- disse Cho appena furono davanti al parrucchiere, erano già arrivati a San Francisco, di lì a poco sarebbe iniziata la loro avventura.
Scesero di macchina, e furono seguiti a ruota da Rigsby, Van Pelt e Cho, che li salutarono abbracciandoli.
Kim a braccia conserte li guardava e quasi sghignazzava, Grace sorrideva anche se con le lacrime agli occhi e Wayne... Bé, Wayne rideva apertamente.
Solo quando furono dentro il parrucchiere, li sentirono rientrare in macchina e partire.
Era deciso, Jane si sarebbe fatto tingere i capelli di un morbido castano mogano, e se le sarebbe fatti accorciare un po’.
Lisbon, invece, decise di farsi i capelli castano rossi, come ce li aveva la sua amata mamma.
Per il resto, il tempo passava, ed entrambi trepidavano, aspettando il momento in cui sarebbero stati da soli in treno.




Dice l'autrice:
Ave, gente. Come ve la passate? Beh, io abbastanza bene, nonostante tutto...
Siccome sono pazza e fondamentalmente masochista, ho deciso di distruggermi l'esistenza con un'altra long fic...
Vi spiego come è andata: quest'estate mi sono ritrovata a guardare "Il Miglio verde" per l'ennesima volta, e allora ho pensato "E se Jane uccidesse John e gli dessero la pena di morte?"
E da lì è uscita una shot. Poi me ne sono dimenticata e l'ho ritrovata qualche giorno fa, convinta di finire la Shot..
Poi oggi ho avuto un illuminazione e ho deciso di trasformarla in una Long...
Questa storia... penso che sarà il mio gioiello, ma è ancora tutto da vedere. Quindi... recensite, recensite, recensite!
Una trama diversa e anche piuttosto coinvolgente, ad un certo punto! Vedrete!
Un bacio, amici miei!

Sasy

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Capitolo 2
*** L'Inizio ***


L’INIZIO

 
Due cuori all’unisono sono una melodia troppo difficile per essere riprodotta da strumenti di umana concezione, neppure le arpe delle fate potrebbero definire un suono tanto dolce e penetrante come quello, niente può essere paragonabile all’amore che ti infiamma le vene e annebbia la mente.
Bè, questo Jane e Lisbon lo sapevano, ma era molto, troppo tempo, che non lo provavano…
Forse Lisbon non lo aveva nemmeno mai provato veramente, ma era sicura che quello che stava sentendo in quel momento fosse troppo forte e profondo per essere contenuto da una sola persona, o, almeno, era troppo in quel momento tanto tranquillo.
Non aveva idea del perché, ma appena aveva visto Patrick con i capelli scuri e sbarazzini il suo cuore si era fermato, bloccato in un attimo di sospensione, tra una pompata di sangue e l’altra. Era sicura che quel suo sangue che correva lento si stesse riempendo un po’ troppo di anidride carbonica, perché iniziava a vedere a chiazze nere e sentire la testa girare come una trottola.
Solo in quel momento, a un passo dal cadere per terra, si ricordò di respirare, lasciando entrare l’aria nei polmoni con un sibilo.
Non solo era l’uomo più bello che avesse mai visto, era anche totalmente versatile...
Con i suoi reali riccioli biondo ambra era semplicemente divino, con i boccoli castano mogano era totalmente una divinità.
Non poteva che riportargli alla mente eroi come Odisseo, Pericle, Leonida...
Gli occhi azzurri abbaglianti, più luminosi e vistosi che mai, incorniciati in quella cascata di capelli bruni, le labbra, e la pelle, abbronzata in quel tono caramellato, simile a oro liquido mescolato allo zucchero, con qualche spruzzo di un rosa tenue.

Apollo. No, meglio, Eros. Decisamente Eros.
Non sapeva dirsi se lo preferisse biondo o bruno, ma di certo lo trovava tremendamente affascinante come nessuno gli era mai apparso.
E, con quel peso palesemente lontano dal suo cuore, era tornato la persona straordinaria che un giorno, prima di trasformarsi nel “Bambino Prodigio” del circo, era pronto a diventare.
Era libero dalla cecità della truffa e dei soldi, era libero da Red John, e nei suoi occhi si leggeva tutta la leggerezza del suo animo, unita alla profondità dettata da anni di sofferenze e dalla grande intelligenza che Jane possedeva, e sapeva di possedere, suo malgrado.
E, in quegli abiti così inusuali per “Patrick Jane il Consulente”, era una visione strana, quei jeans scuri, stretti, che gli fasciavano i muscoli ben definiti della gamba, i mocassini e la camicia completata dal golfino lo rendevano una persona totalmente irriconoscibile, per chi non lo conoscesse.
Anche Lisbon, d’altro canto, non era certo da buttare, anzi Jane era sicuro che non fosse mai stata più suo agio e felice come in quel momento.
I capelli castano rossi le facevano risaltare gli occhi verdi da cerbiatta, e il viso piccolo e sempre corrucciato era, adesso, dolce come una mela fresca.
Le guance rosse rosse per gli sguardi penetranti di Patrick, che la riscuotevano nel profondo, donavano un aria ancora più signorile alla sua esile figura...
E Jane doveva ammettere a se stesso che non le era mai sembrata tanto bella come lo era con il viso arrossito per i suoi sguardi e arrossato per la fatica di correre per negozi alla ricerca di vestiti adatti al suo personaggio, i capelli appena fatti lasciati liberi di respirare con il vento che li scompigliava lievemente le davano un tocco principesco e elegante...
Jane era certo che tutto si posse pensare di Lisbon, tranne che non fosse una donna elegante, perché anche nei vestiti da lavoro, con una pistola alla cintola, era una donna piena di femminilità e eleganza...
Perché, come si dice, non è l’abito che fa il monaco, anche se tutto il completo fa la sua “porca” figura.
Alla fine Jane l’aveva convita a prendersi un completo bianco e marrone, con dei pantaloni candidi e una camicetta di entrambi i colori, completata da una fascia nei capelli uguale alla camicia e un paio di orecchini tondi color neve.
Nessuna principessa, aveva pensato Patrick, sarebbe potuta essere più bella dentro e fuori come lo era Teresa, perché nessuna di loro sarebbe mai riuscita a contenere tanta forza e bellezza, cresciuta come poteva essere dentro a una reggia, con persone intorno pronte a fare tutto al suo posto; Lisbon, invece, si era fatta da sola, ed era diventata una donna meravigliosa, perfetta in ogni suo particolare...
Forse un po’ troppo controllata e suscettibile, ma senz’altro una donna straordinaria.
Ad entrambi era passato per la mente che forse erano loro a vedersi tanto belli e interessanti, per via dei sentimenti che provavano l’uno verso l’altra, ma a nessuno dei due erano sfuggiti gli sguardi sognanti, invidiosi e ammiranti delle persone che incrociavano sulla strada verso la stazione.
Era una sensazione strana, per entrambi, essere guardati da tutti non per colpa di qualche trovata geniale/pazzoide di Jane, ma semplicemente per quello che erano.
Due cuori, due essenze, due anime. Due persone unite nella stessa pazza fuga, un’avventura tutta da pregustare e vivere, una vita insieme con nomi, storie, età diverse. Ma loro sapevano che era solo una facciata, sotto quella maschera effimera e ghiacciata erano sempre gli stessi, sempre loro due. Dakota e Axel, per quanto sarebbero stati conosciuti con quei nomi, non sarebbero che rimasti Teresa e Patrick, due persone che avevano lottato ed erano cadute innumerevoli volte, prima di riuscire a raggiungere il loro scopo.
Entrambi avevano ambizioni diverse, che avrebbero continuato a pregustare e ricercare, ma la loro comune meta era il loro amore, ed avevano già sofferto abbastanza per farsi scappare anche quello.
 
Una meta, la loro, interamente sconosciuta, per entrambi.
Le uniche cose che sapevano, al momento, erano la loro imminente partenza per New Orlenas e il loro desiderio di amarsi, in ogni modo umanamente concepibile.
Camminavano mano nella mano, in quella città così caotica e vibrante, vicini tanto da sentire ognuno il battito e il respiro dell’altro, non riuscendo però a distinguerlo dal proprio.
Non si erano baciati, non si erano sfiorati, solo sguardi fuggenti e mani come saldate insieme. E le flebili parole “Ti amo” sussurrate debolmente, perché nessuno dei due credeva più in un sentimento tanto volubile e strano.
Fu quando si trovarono davanti alla biglietteria che il primo accenno di tremarella si fece sentire, entrambi con le mani intrecciate, in quella stazione affollata e sovraeccitata di persone e movimenti frenetici e stressanti, si sentirono spaesati e si resero conto di quanto fossero liberi.
-Andrà tutto bene, te lo giuro.- soffiò Patrick, piegandosi leggermente verso l’orecchio di Teresa, sfiorandole sensualmente i capelli con il respiro.
Avrebbe voluto esserne totalmente certo. Non lo era, ma aveva trasmesso a Lisbon tutta la forza che lui sapeva di possedere, e tutta la capacità di persuasione che gli avevano sempre attribuito, forse Teresa non si accorse che Jane non era totalmente certo di quello che le diceva ma sorrise e volse certa lo sguardo al capostazione, annuendo con vigore.
Strinse la mano di Patrick e gli rivolse un sorriso indorato, trascinandolo tra le persone, facendolo quasi inciampare sui bagagli dei viaggiatori, finché non furono davanti all’uomo.
-Salve, è questo il treno per New Orleans?- chiese, con voce ferma e cristallina.
L’uomo parve ammaliato e per un momento si perse negli occhi verdi della piccola leonessa dai capelli castani.
-Sì.- disse infine –Io controllo biglietti e documenti.- e poi deglutì a vuoto
Jane avrebbe voluto ridere, per le abilità suadenti di Lisbon, e prendere per il collo la guardia, che guardava con occhi un po’ troppo curiosi le curve ben definite della sua donna...
Stava provando un sentimento recluso nel suo cuore per anni, sapeva che la forza distruttiva che sentiva prudere sulla pelle era la gelosia.
Fremeva da dentro, anche se sapeva che era totalmente inutile e distruttiva, e le sue dita formicolavano.
Tentava di distrarsi guardando ciò che aveva intorno, ma non vedeva che famiglie felici e sorridenti e coppie abbracciate.
Doveva avere fiducia, ma come averne, avendo un’autostima sotto zero? Simile a una cicca buttata nel bel mezzo dell’autostrada e schiacciata per anni dal passaggio di milioni di auto.
Come averne, essendo perfettamente a conoscenza dell’avvenenza della piccola Lisbon?
-Bene...- disse di nuovo sorridendo Teresa -... Io sono Dakota McKenzey.- mostrò la carta di identità e il biglietto –E lui è il mio caro amico Axel Simmons. Axel dove sono i tuoi documenti?- disse, guardando quegli occhi celesti limpidi e puliti.
Patrick tirò fuori la sua faccia di cera e sorrise raggiante, mostrando al capostazione gli stessi documenti di Lisbon e aggiungendo un complimento alla città che stavano per visitare, essendosi reso conto che “agente-capello-nero-appiccicaticcio-impiastricciato-dal-gel” veniva proprio da lì.
Quando furono soli nello scompartimento a loro riservato si guardarono a lungo, sorridendosi e studiandosi.
La stanzetta era piuttosto semplice e accogliente, di un rosso castano decorato con delle rifiniture in legno scuro, i sedili imbottiti erano comodi e puliti. Una lampada illuminava l’abitacolo e un finestrino alto e lungo mostrava la ferrovia gremita di gente.
-Provo gelosia.- disse Jane, mentre il treno stava partendo, ricordando a Teresa la sensazione provata durante il loro piccolo e breve incontro con la guardia.
Lì per lì Teresa gongolò, felice di scoprire di essere la causa scatenante di un tale sentimento, sopito e addormentato nel cuore di Patrick, e di essere soggetto del suo possesso.
Poi si ricordò di ciò che provava lei ogni benedetto giorno, ad ogni benedetto sorriso regalato a una maledetta donna che non era lei.
-Io l’ho provata anche prima di capire di amarti.- disse flebilmente, attenta alle reazioni di Jane, ma mantenendo lo sguardo verso la finestra, incapace di guardarlo negli occhi; non voleva che Jane si rendesse conto di quanto avesse aspettato in silenzio -Ogni volta che dedicavi un sorriso a una donna che non fossi io, ribollivo. Non hai idea di come mi sono sentita quando ti ho visto baciare quella sciacquetta della Miller, qualche... tempo fa.- finì.
-Oh, ma lo so bene come ti sei sentita. L’ho capito subito. Ma era un bacio d’addio, solo che per non turbare la tua quiete non te lo ho detto, non volevo litigare con te in quel momento, il tuo corpo non faceva che urlarmi contro cose come “STRONZO IMBECILLE CHE VAI A BACIARE LA PSICHIATRA PAZZA, deficiente, bastardo e stupido. Demente!” Sul serio, fa venire il mal di testa la tua chiarezza. Uff.- finì, mimando il gesto di pulirsi il sudore dalla fronte, come dopo un immenso sforzo.
Lisbon, se pur arrossita fino alle punte dei capelli, non poté non ridere.
-Tu sei pazzo.- disse
-Mai sostenuto il contrario.- fu la risposa soffiata e suadente di Jane.
E lei lo vide avvicinarsi, piano, lentamente, il loro cuore iniziò a battere furiosamente, come un cavallo impazzito, al galoppo. E Lisbon si sentì leggera e spaesata, e quell’abitacolo si fece improvvisamente piccolo e caldo.
Poi Jane chiuse gli occhi, dischiudendo le labbra bagnate con la punta della lingua...
Quanto tempo era che non baciava una donna neppure se lo ricordava, per quel che ne sapeva, se non era stato ipnotizzato, ma era improbabile, non aveva mai baciato neppure Kristina.
Non ce l’aveva fatta.
Ma adesso lo sentiva, il cuore al galoppo, il brusio profondo nello stomaco, la testa lontana, le labbra bollenti, gli occhi tremolanti e il corpo in fermento.
Una sensazione stranamente riscaldante, ma allo stesso tempo fastidiosa, perché richiedeva un veloce appagamento.
E più veniva appagata più chiedeva.
In quella, mentre si stavano per baciare, la porta dello scomparto si aprì e un giovane uomo carico di borse e oggetti strani, con una maglia hippie e i pantaloni strappati, infradito e trombone alla mano, si bloccò di colpo sulla porta.
-Scusate tanto.- iniziò, e Lisbon e Jane si affrettarono ad annuire, sperando che avesse un po’ di tatto e se ne andasse. Ma si sbagliavano, non era una scusa, era l’inizio di una domanda, infatti si schiarì la voce, fece un piccolo gorgheggio in stile opera lirica e ricominciò –Scusate tanto, posso sedermi in questo scomparto? Sembra che siano tutti pieni.- e, senza aspettare una risposta si sedette davanti a loro due. -Oh, ma voi continuate pure, adoro le coppie.-
Ma loro si allontanarono, con il volto di pietra, il cuore impazzito e il corpo nuovamente affamato.
Insomma, se già non era una giornata stravagante e enormemente pesante, nonostante tutti i bei avvenimenti, lo sarebbe diventata presto...
Vennero a sapere tutto di Bouregard, il giovane biondo cenere un po’ fatto d’erba, che aveva studiato all’istituto d’arte di Parigi, in Francia, e che era venuto in America a inseguire la sua unica vera aspirazione: la musica.
Scoprirono che aveva 27 anni e che era originario dell’Ontario, ma che i suoi si erano separati poco dopo la sua nascita e lui era stato allevato da suo padre, un hippie sfegatato con tanto di camper che si era voluto trasferire per forza in Francia per partecipare a tutte le feste sulle spiagge per nudisti.
Seppero che aveva problemi di erezione e che suo padre gli aveva insegnato che “una fumatina e una scopatina al giorno levan il medico di torno” e che la madre faceva la ballerina di Lap Dance in un localaccio a Twenty  King’s cross a Frisco e per questo era passato a salutarla prima di iniziare la sua avventura da trombettista.
Lo sentirono anche suonare e si dovettero ricredere sul fatto che forse potesse salvarsi la pellaccia con la musica, uscendo dal giro del fumo e della droga e evitandosi strani avvenimenti a New Orleans.
Ma non poteva essere così.
-Scusatemi, signori, ma adesso devo proprio andare. Però, la prossima volta che ci incontriamo spero di potervi raccontare della mia adolescenza, ho avuto una serie di prime volte molto emozionanti.- disse, e si congedò con un inchino e una steccante strombazzata.
Quando furono certi che fosse lontano Patrick e Teresa si guardarono, alzando le sopracciglia e sbuffando contemporaneamente, iniziando a ridere come bambini, alle spalle del povero un po’ pazzo Bouregard, che, se aveva fortuna, sarebbe finito a suonare in una band per le strade di New Orleans.
-Una serie di prime volte...- iniziò Lisbon, non riuscendo a finire la frase perché ricaduta in una crisi di riso
-Potrebbe essere quando ha dato il primo bacio e si è accorto di averlo dato al cane Elbengard. – disse Jane, scosso dalle risate che gli spezzavano le frasi a metà.
-La prima volta che ha fatto sesso...- riprovò Teresa, sovrastata dalla voce di Patrick che rideva
-... pensando di farlo con la bellissima Geltrudine, mentre alla fine si è rivelato lo zio Lorimbert della ragazza..- disse e con un  nuovo moto di riso si ritrovò con la schiena a terra e con Lisbon sul petto.
Ansimante dalla fatica della risata.
Lisbon non lo aveva mai visto ridere, ed era una visione e una musica magica, strana e gustosa. Gli occhi ridotti a fessure verdazzurre, le labbra aperte e tirate, la bocca invitante.
Non lo aveva mai visto ridere forse per via di John o perché pensava che ogni qual volta Jane ridesse significasse che era nervoso, ma lei avrebbe giurato che il suo sorriso non potesse essere battuto da niente, ma sicuramente si sbagliava di grosso.
La risata di Jane batteva mille a zero il sorriso.
Quando si ritrovò lunga distesa sul suo petto non poté fare a meno di ritrovarsi in preda a un desiderio morboso molto più penetrante di prima.
Si morse le labbra e senza neppure aspettare che finisse di ridere, si portò i capelli dietro l’orecchio e si chinò sulle sue.
Lo baciò prima gli angoli delle labbra, perché lui se ne accorgesse.
E quando si rese conto che Patrick aveva smesso di ridere (e che aveva già capito da un pezzo che lei lo stava per baciare) e la aspettava con le labbra schiuse, pronte e gli occhi socchiusi, anche se ancora tirati in una smorfia sorridente, si avvicinò ancora e sentì le sue labbra calde e morbide, dolci sulle sue.
Le sentì, che si iniziavano a muovere, esperte ma incerte sulle sue e lo aiutò, muovendole contemporaneamente e sentendole cambiare forma sulle sue, mescolarsi in un'unica cosa.
Quando le mani di Patrick andarono sulla sua schiena ebbe un tremito e approfondì il bacio, saggiando l’interno delle labbra di Jane e permettendo alle loro lingue di giocare insieme.
Quando si staccarono, istanti, o forse minuti, dopo si resero conto di essersi messi a sedere per terra e di essere totalmente avvinghiati l’uno all’altra.
Jane sorrise e prese una guancia di Lisbon in una sua mano e lei arrossì, poggiando il suo viso nel suo palmo grande.
Si era sbagliata di nuovo, se la risata batteva mille a zero il sorriso, il bacio la batteva diecimila a mille.
Una cosa era certa, non avevano mai provato, nessuno dei due, un baciò più bello e appassionato. Non avevano mai sentito il formicolio sulle labbra tanto a lungo, lo sfarfallio nello stomaco per tanto tempo.
E, pure se lo sentivano ancora, non potevano che essere felici di soddisfarlo, baciandosi nuovamente.




Dice l'autrice:

Ebbene, avevo detto che averi aggiornato prima Turning Time... non è stato così.
Ma, chi scrive lo sa, quando inizi una storia hai sempre le idee fresche. Dopo che l'hai iniziata, e dopo tanto che la scrivi le idee iniziano a scemare e l'ispirazione... Bé, torna quando vuole e se ne va più spesso. :D
Comunque, Spero che vi piaccia questo capitolo e che possa vedere tante recensioni! Vi voglio bene ragazze!

Sasy

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Capitolo 3
*** Smiling Sun ***


SMILING SUN

 
Un leggero e caldo raggio di sole accarezzò la guancia rosea della danna dai capelli bruni che dormiva tranquilla con la testa sulla spalla dell’uomo con cui viaggiava. Il treno andava a passo sostenuto e l’abitacolo era ancora immerso nel buio della notte, protetto dalle tende tirate sul finestrino per schermare la luce del giorno.
Bastò quel tiepido raggio di luce solare a far uscire dalle braccia di morfeo quella piccola grande donna.
Sbatté piano le palpebre inspirando il profumo dolce e caramellato della pelle del suo compagno.
Si mosse appena, attenta a non svegliarlo, lasciando un caldo bacio sulla sua guancia e si alzò stiracchiandosi, sorridendo al nuovo giorno.
Aprì la tenda, lasciando che la tiepida luce inondasse la stanzetta, spalancò la finestrella per prendere una boccata dell’aria fresca del primo mattino, e con gli occhi di nuovo chiusi si lasciò rinfrescare dalla piacevole brezza primaverile.
L’orologio del suo nuovo cellulare rimandava i segni luminosi delle ore, erano le sei e un quarto e l’alba era appena finita, e lo si poteva capire dal pallido arancio che si andava disfacendo nel celeste del cielo.
Teresa era certa che per arrivare a New Orleans mancassero almeno altre cinque ore, a causa della lunga fermata fatta a Phoenix, verso le tre del mattino.
In quel preciso istante stavano attraversando la barriera invisibile che divideva New Mexico e Texas, avvertiti da un cartello blu che indicava a caratteri cubitali il nome dello stato in cui erano appena entrati.
La ferrovia che stavano percorrendo sembrava infinita ed era tutta dritta, attraverso il grande Texas, in mezzo alle steppe dell’estremo sud del paese.
Aprì gli occhi con il sorriso sulle labbra, il cielo brillava terso di un azzurro turchese bagnato solo all’orizzonte da morbide nuvole bianche, tuffate nella terra bruna.
In quel punto dello stato non si trovavano molti centri abitati, per via del clima desertico e inospitale perfino per le fabbriche.
Solo piccoli arbusti e basse palme verdeggianti si scorgevano sporadicamente, rendendo noto che la vita sopravviveva anche lì, per quanto difficile potesse sembrare.
Aveva i gomiti appoggiati sul finestrino e il viso sporto fuori a sentire il vento creato dalla velocità sulle guance, quando due braccia calde le abbracciarono la vita.
-Buongiorno mia principessa.- Le disse Patrick in un sussurro ancora assonnato, con gli occhi a mezz’asta.
-Buongiorno.- gli rispose girandosi per baciargli dolcemente le palpebre semichiuse.
Sì sentì stringere tra quelle braccia forti e si ritrovò con la testa sul suo petto prima ancora di formulare la domanda che le frullava in testa, facendogliela dimenticare.
-Sì, ho dormito bene, nonostante la scomodità.- le disse Jane, capendo i suoi pensieri.
Sorrise, chiudendo gli occhi e inspirando profondamente quell’aria di felice e tiepida libertà che la loro vita gli prospettava.
In quel momento non le importava se il suo pseudo compagno le poteva leggere la mente, si rendeva conto che fuori dall’ambito lavorativo poteva anche essere utile e divertente, non troppo, però.
-Come ti senti, oggi?- gli chiese Lisbon
-Libero.- rispose Jane, senza nemmeno fermarsi a pensare, stringendola di più a sé.
E lei capì tutti i sottointesi di quella parola.
Libero da tutto.
Libero dal carcere e dalla paura della morte.
Libero dalla sua nemesi.
Libero dalla voglia di vendetta e dal senso di colpa.
Libero di amare e vivere di nuovo.
-E felice.- aggiunse –Stranamente e insanamente felice. E tu, Teresa?-
La donna provava ancora un brivido quando Jane la chiamava con il suo nome e non con il suo cognome.
Teresa alzò lo sguardo e sorrise a Patrick, raggiante.
-Libera e felice.- gli rispose, ben consapevole che lui già lo sapeva, e stampando un dolce bacio sulle sue labbra.
Patrick sorrise beffardo e un luccichio della sua natura giocosa brillò nei suoi profondi e limpidi occhi azzurro mare.
-E desiderosa.- affermò guardandola come se volesse leggerle l’anima e ci stesse pure riuscendo.
Sorrise anche Teresa, ormai avvezza a quei giochetti da mentalista.
-Sì, è vero.- rispose, e, non appena vide Jane gongolare continuò –Desidererei volentieri una sostanziosa colazione.-
Il sorriso di Jane si allargò ancora di più di quanto Lisbon ritenesse possibile.
-Uhm… sì, sei diventata brava a dissimulare, ma il tuo cervello complotta bisbigliando, mentre il tuo corpo…-
Lasciò la frase in sospeso e la lasciò davanti alla finestra, convinto di averla fatta cedere ad arrossire, sedendosi su un divanetto con le mani dietro la testa, coperta da una cascata di boccoli neri.
Lisbon era rimasta lì, con le braccia incrociate sul petto e le labbra increspate in un sorriso di palese sfida, ed aveva alzato un sopracciglio squadrando l’uomo come se fosse un gattino un po’ capriccioso e piccolo, da coccolare e di cui ridere.
-Non ce la fai a farmi arrossire, ormai ci sono abituata a te.- disse poi, andando a sedersi di fronte a lui accavallando i piedi sul tavolino.
Lui la guardò sempre più divertito e si mise a sghignazzare, ma Lisbon non si scompose, sbatté le palpebre dei suoi grandi occhi verde smeraldo e lo guardò come si guarda un bambino piccolo e buffo.
-Le vostre indissolubili convinzioni saranno abbattute prontamente, mia splendente signora.- disse, ma parve vacillare quando Lisbon piegò leggermente la testa di lato e sorrise come compassionevole.
Negli occhi di verdazzurri di Jane, però, apparve un nuovo luccichio, carico di malizia, si alzò e si avvicinò alla donna con uno scatto talmente improvviso che la povera Lisbon rischiò di cadere dal divanetto.
-Che fai?- chiese, con una punta di nervosismo per essere stata presa alla sprovvista.
-Sai, c’è una cosa che ho sempre adorato di te…-
Un tiepido e prontamente sopito rossore si diffuse sul viso di Teresa.
-... sono così ben disegnati, precisi, grandi.- conoscendo Jane era possibile e più che probabile che la stesse prendendo in giro, ma aveva gli occhi puntati sul suo petto e Lisbon non poté fare a meno di arrossire così violentemente che si causò quasi un capogiro a causa della vampata di calore e sangue riversata nei capillari delle guance.
Jane la guardò in viso con un sogghigno maligno e malizioso a illuminargli lo sguardo birichino.
-Non intendevo il tuo seno! Piccola pervertita… intendevo i tuoi bellissimi occhi. Sono simili a quelli di un cerbiatto, meravigliosi.- disse, sorridendo felice, stavolta.
E se Lisbon pensava di non poter arrossire oltre si sbagliava, e un’altra vampata rossastra e calda si mischiò a quella di prima, facendola somigliare molto ad un pomodorino maturo.
-Ho vinto, sei arrossita… e, caspita quanto adoro quando arrossisci.- disse
Solo un leggero rossore rimase a colorire le guance della piccola Lisbon, l’arrabbiatura scomparve e sorrise divertita.
-E’ vero. Hai vinto, ma meriti una gran punizione!-
Disse, alzandosi a sua volta e sovrastando il busto di Jane, che era piegato in ginocchio
-Puniscimi allora...- Disse alzandosi a sua volta e sovrastandola con i suoi ben tredici centimetri in più.
Teresa rise e si rifugiò in un angoletto del cubicolo, esclamando un “Oh oh!” e trattenendo una risata.
Quella che iniziò fu una gara di solletico all’ultima risata.
Nel mentre si stavano distorcendo tra risa rincorrendosi nella stanzetta un  povero Stuart ebbe la sfortuna di dover avvertire i passeggeri della colazione e, imbarazzatissimo, si schiarì la gola e annunciò la notizia, andandosene rosso in volto seguito dalle risate dei due che si stavano comportando come bambini.
 
Passarono le successive due ore a sonnecchiare, Teresa con la testa sulle gambe di Patrick e lui con la testa sul cuscino e una mano sulla schiena della sua bellissima donna.
Ogni tanto si scambiavano qualche bacio e una carezza, accompagnati da quelle due parole che piano piano si facevano strada nei loro cuori e nelle loro menti, inebriando le loro membra stanche di combattere e celarsi dietro maschere dolorose e pesanti.
Maschere, le loro,  che erano cadute non appena si erano resi conto di quanto fossero ormai inutili e friabili.
 
Solo quando il bisogno fisiologico di cibo di fece sentire si alzarono per andare a colazione, scoprendo, però, che era già ora di pranzo.
Sedettero uno di fronte all’altra a un tavolo in disparte, guardandosi.
-Allora, Signorina McKenzey e Signor Simmons della cabina 45, vero?- Un cameriere si era avvicinato sorridendo al tavolo e aveva in mano un piccolo blocchetto, sul petto, invece, svettava il cartellino con il nome, Jose Manito.
-Sì.- Risposero in coro
-Benissimo,- disse, sorridendo di nuovo –Cosa ordinate?- chiese
-Io prendo un Hamburger con senape e maionese, contorno di patate fritte e un insalatina.- Disse Teresa e il cameriere appuntò.
-Io lo stesso.- si affrettò a dire Jane prima ancora che il cameriere glielo chiedesse –E prendiamo una dell’acqua naturale e un Cabernet Sauvignon.-
-Litro o bicchiere?-
-Litro.- Rispose prontamente Patrick, prima che Teresa potesse dire “Bicchiere”
Mentre il cameriere si allontanava Lisbon lo fulminò con lo sguardo, ma con un sorriso sereno steso sulle labbra.
-Suvvia Lisbon, non ti preoccuperai del mio portafoglio vero?- Lisbon arrossì appena
Lui continuò a studiarla, strizzando gli occhi celesti come se volesse scovare ogni minimo dettaglio che l’anima della donna gli stesse nascondendo.
Ogni tanto sorrideva e poi scuoteva la testa.
-Ti mancano?- chiese Lisbon, non riuscendo a contenersi, dopo aver notato per la prima volta che Jane portava ancora l’anello al dito.
-Chi?-
-Non fare domande idiote Ja… Axel!- Stava per dire Jane, doveva allenarsi di più. –E’ ovvio che sai a chi mi riferisco.-
Lui sorrise tranquillo e si guardò la mano con la fede, stendendo e flettendo le dita per farlo brillare alla luce del sole proveniente dal finestrino, fuori il cielo era limpido e pulito e una steppa si continuava ad estendere, mentre la temperatura faceva sembrare il terreno in movimento.
Passarono diversi minuti prima che rispondesse, tanto che Teresa pensò che non volesse rispondere.
-Sai... Dakota... fino a poco tempo fa pensavo che non sarei mai stato capace di amare di nuovo. Che avrei sempre sentito il mio cuore lontano, al di fuori del mio corpo e di ogni sentimento umano... non perché non potessi avere occasione di rinnamorarmi, ma perché pensavo che nessuno avrebbe mai potuto prendere il posto di Angela e Charlotte nel mio cuore. Però ho scoperto che non c’era bisogno che loro venissero dimenticate per provare di nuovo amore, il mio cuore era cresciuto, maturato, e poteva contenere più persone. Ci  sei entrata te, Kimball, Grace, Wayne, Minelli… poi ho scoperto che non solo potevo provare un amore fraterno, ma anche un amore infiammante come quello che provo per te. Ho scoperto che Angela e Charlotte potevano rimanere nella loro parte del mio cuore, mentre io potevo far spazio a te, che sei andata al centro. Mi mancano, ma non sono un blocco, sono una parte della mia vita. Una parte passata.
E invece c’eri te, che sei il mio futuro, e non ho sentito senso di colpa o niente del genere quando ho capito di amarti. Sono umano, non le dimenticherò mai, ma adesso il primo posto nel mio cuore è tuo.-
Teresa annuì, libera da un enorme peso e prese la mano di Patrick con la fede nelle sue, le rigirò e la osservò, con il sorriso.
-Cosa hai…- iniziò Lisbon, esitante e ben felice di essere interrotta dalla risposta di Jane.
-Rabbia. Rabbia, dolore e desiderio di vendetta.- rispose, sincero –Ho sparato... e dopo il primo colpo sono scoppiato a piangere, era morto di già. Ma mi sono reso conto che non è stato per niente utile. Un colpo, ed è morto. Non ha sofferto come ho sofferto io e come hanno sofferto moltissime persone a causa sua. Avevo liberato me stesso dal senso di colpa, avevo liberato il mondo da  un mostro... che non avrebbe mai sofferto per essere stato tale. Quindi ho pianto, ancora più arrabbiato, e ho gridato e ho continuato a sparare. E poi siete arrivati voi, tu mi hai preso a schiaffi e... il resto lo sai.-
I suoi occhi si erano offuscati di nuovo e un ultimo barlume del fantasma del sensitivo si fece breccia nello sguardo felice di poco prima.
-Scusa.- si affrettò a dire Teresa, ma lui le sorrise, radioso e le baciò una mano.
-Non hai niente di cui scusarti, sono stato io lo stupido… non ti ho mai ascoltato. Ero cieco, e tu lo sapevi. Ho razionalizzato troppo tardi che forse avevi ragione tu, che non sarebbe stata certo la vendetta a darmi pace. Ma quel che è fatto è fatto, no? Inutile piangere sul latte versato… e non mi pento di aver ucciso un uomo, perché quello di certo non era considerabile un uomo. Uff... questi discorsi seri mi sfiancano. – Il biondo bevve un po’ di vino e la guardò con gli occhi di nuovo colmi di gioco e scherno.
Teresa sbuffò, ma non poté che rendersi conto di come fosse facile per entrambi passare dal serio al giocoso senza problemi, quando erano insieme e parlavano liberamente.
-Allora...- riprese lui, con lo stesso barlume divertito e il riflesso del sole allo zenit sul viso abbronzato -... cosa pensi di fare a New Orleans?- chiese
-Bé, da adesso in poi ne so quanto te.- rispose con sincerità, prima di buttare giù un altro sorso di vino rosso lasciando che la luce le illuminasse le piccole goccioline scarlatte rimaste sulle labbra –Insomma, immagino che dovremmo inventare, dovremmo...-
-... creare.- convenne Patrick, con un sorriso.
Con la testa china di lato e gli occhi puntati su di lui, Teresa lo scrutò a fondo, tentando di capire cosa pensasse realmente quell’uomo che nonostante tutto rimaneva un enigma irrisolvibile.
-Suvvia Ter... Dakota, non sono così enigmatico, sono un uomo infondo, no? Ma concordo sul fatto che tu non mi potresti risolvere… tu sei il mio libro, io il tuo lettore… sarebbe difficile fare il contrario, perché io, come lettore sono in grado di mascherare, imparando dagli altri…-
-Mi stai dicendo che in questo momento stai portando una maschera?- le chiese lei, divertita
-No.- era quasi compassionevole il suo tono di voce –Ma per te è come se lo facessi, perché non sei abituata a badare a ogni minimo particolare di una persona... insomma, tu estorci confessioni con la forza dell’interrogatorio, non è compito tuo sapere cosa passa per la testa a un assassino o un presunto assassino o chicchessia…-
Teresa rise
-Che c’è?- il sopracciglio alzato e il sorriso storto
-Niente... è buffo vedere come credi di essere onnisciente.-
-Io non lo credo, lo sono.- disse, sorridendo e facendo alzare gli occhi al cielo alla bella Teresa.
Pranzarono tranquillamente, parlando del più e del meno e scambiandosi intensi giochi di sguardi, le persone intorno li guardavano, estasiati, pensando che raramente si trova una coppia di sposi ancora così innamorata.
E ancora prima di rendersene conto, erano arrivati a New Orleans.
Fu la voce metallica dell’altoparlante ad avvertire i passeggeri che il treno si sarebbe fermato per un ora alla stazione ferroviaria della città da lì a cinque minuti.
-Di già?- chiese una sorridente Teresa
-Così pare.- Jane le sorrise di rimando
Si presero per mano e tornarono nel loro scompartimento a raccogliere i loro pochi bagagli, sempre sorridenti.
L’aria calda e umida della città li accolse benevola, costringendo Patrick a togliersi il maglioncino e legarselo in vita e la piccola Teresa a tirarsi su le maniche della camicetta, mentre trascinavano le loro valige tra le persone, con le dita intrecciate.
Molti luoghi comuni ritraggono New Orleans come una città di porto sovreccitata e musicale, che sprizza voglia di vita da tutti gli angoli... Bé, a dispetto della maggior parte delle dicerie, queste sembrarono proprio fondate.
Una piccola banda di suonatori faceva un caloroso spettacolo di musica Jazz e una giovanissima ragazza cantava sulle note di quelle musiche magiche, venditori ambulanti sorridenti offrivano amuleti contro la magia nera e passate di cotone leggero, i palazzi colorati sembravano urlare vitalità e le persone sorridevano.
Famiglie unite, persone ammiccanti, bambini che giocano e ragazze colme di buste di negozi giravano intorno a Patrick e Teresa totalmente a loro agio.
-Affascinante...- sospirò una rapita Teresa, osservando una giovane donna danzare leggera con una cesta di oggetti in vendita fermata sulla testa.
-Molto, sì.-
Jane guardava una piccola bimba bionda correre intorno ai genitori, sorridenti e felici, prendere per mano la madre e mettersi a saltellare in circolo a ritmo di musica e la donna saltellare con lei in una specie di balletto tribale e ridere allegra, e pensò contento che vedendo quella scena non provava altro che una calda felicità, con una sola, piccola punta di nostalgia, ma non quella triste morsa dolorosa che lo avrebbe attanagliato meno di una settimana prima.
Rise e imitò molte coppie intorno a loro, prese all’improvviso Teresa per un fianco e strinse le mano nella sua, in alto iniziando a volteggiare in un valzer movimentato.
-Penso di aver fatto male a portarti qui!- disse in un sorriso quasi doloroso la bella Lisbon
-Lo penso anche io!- rispose Jane, passandosi una mano tra i capelli e scompigliandoli, mentre continuavano a ballare intorno alla giovane venditrice insieme a un'altra decina di coppie giovani e allegre.
La baciò sulle labbra e le strofinò il naso sul suo, fermandosi in quella danza e incatenando gli occhi di un azzurro limpido a quelli verdi e accesi della sua donna.
-Ti amo.- lo disse deciso, senza esitazione e totalmente convinto della sua affermazione, ad alta voce e molti si girarono a guardarli, mentre Patrick le prendeva il volto tra le mani, le sussurrava un “ti amo tantissimo” sulle labbra, facendo chiudere i grandi occhi a Teresa e baciandola dolcemente, in un bacio carico di promesse che, stavolta, sarebbero stata mantenute.
Neppure si resero conto delle persone che avevano iniziato a battere le mani e a fischiettare, e quando si staccarono, sorridendo come due ragazzini alla prima cotta la musica era finita e le persone continuavano a sorridergli mentre si allontanavano.
E loro si incamminarono tra la folla, verso una via altrettanto vivace, ma meno trafficata da macchine e da persone.
-E ora?- chiese Patrick, guardando di nuovo Teresa, come se gli fosse impassibile non guardare quelle meravigliose iridi color verde mare.
-Non ne ho la più pallida idea... immagino che dovremmo cercarci un albergo, ma non rimarremo qui a lungo, penso, siamo comunque troppo vicini a Sacramento, e se dovesse succedere qualcosa per cui il piano dovesse saltare ci troverebbero subito.- Teresa era di nuovo pensierosa
-E dove pensavi di andare, dopo?- le chiese dopo qualche secondo silenzio Jane, riportandola alla realtà.
-Non saprei, pensavo a posti come il Brasile o l’Argentina, dove spesso danno asilo politico...- rispose
Patrick annuì, poi la guardò.
-Non penso di voler andare in Brasile.- asserì poi, con un mezzo sorriso
Teresa corrucciò la fronte
-E perché mai?- chiese, severa
-Non sono un reietto, non mi voglio nascondere in un posto dove regalano asili politici. Per non contare dei rischi, se danno asilo politico a tutti non posso che immaginare quanti criminali girino.-
Teresa sbuffò.
-I tuoi sono solo degli stupidi pregiudizi!-
-E tu sei troppo preoccupata per niente...- sorrise Patrick
-La nostra incolumità penale non mi pare niente..- 
-Il Sud America no. Troppo pericoloso. Non voglio rischiare di perderti solo perché esci a fare la spesa!- disse fingendo un brivido
-Pregiudizi!- sibilò con astio la piccola leonessa.
-Che ne pensi della Svizzera?- propose sicuro Jane
-In Svizzera accettano solo persone con un censo alto e...- Si bloccò, lo guardò e scosse il capo
-Lo so cosa pensi e non sono d’accordo.- disse
-Illuminami, Grande Mago.- Schernì Teresa incrociando le braccia al petto
-Pensavi che anche se io HO la possibilità di portarci entrambi in Svizzera, lì la vita è troppo costosa e non hai la minima intenzione di lasciarmi spendere un capitale solo per vivere in comodità in Europa. Ah, e che lì parlano Tedesco e impararlo non è un gioco da ragazzi, mentre tu conosci lo spagnolo perché lo hai studiato a scuola!- disse, gongolando.
-Come hai... Ah, ma che te lo chiedo a fare. Va bene, allora, Tu non vuoi andare in Sud America, io non voglio andare in Svizzera.-
-Montecarlo.-
-Stessa zolfa, anzi peggio, a meno che tu non discenda per linea diretta da un cittadino di Montecarlo... tu non discendi da un cittadino di Montecarlo, vero?-
-Non ho questa fortuna, ma tu potevi anche fare le cose per bene in quei documenti falsi!- le rispose lui, storcendo le labbra in una pallida imitazione di una smorfia accigliata.
-Non rompere le palle, per favore. Potremmo andare...-
-A Cuba? No, non mi va che mi scambino per uno in bancarotta che cerca un paradiso fiscale.-
-Stavo per dire Canada, stupido idiota.- le inveì contro lei
-Così mi offendi.-
-Smetti di fare il bambino.- disse –Non ho voglia di...-
-Litigare? Non stiamo litigando, caspita se stessimo già litigando sarebbe grave. Questa è una delle nostre solite scaramucce, insomma, stiamo soltanto facendo un confronto di idee.-
Teresa sbuffò e gli tirò un debole schiaffo sul braccio.
-Va bene, dicevi?- furono le semiscuse di Patrick
-Non ho voglia di passare una giornata a cercare la nostra prossima, e spero definitiva, meta.-
-Oh... pensavi a questo, sì, giusto, la meta, ok...-
-E se...- Tentò di iniziare Teresa
-Ci sono!- la interruppe lui –Italia.-
-Italia?- Chiese lei
-Sì, hai presente, quel paese molto interessante a forma di Stivale con tutte quelle belle città d’arte e di storia...-
-Patrick?- lo interruppe lei, senza pensare di dire il nuovo nome.
-Sì?-
-So cos’è l’Italia.-
-Ne sono contento, sarebbe una gravissima lacuna se tu non lo sapessi...-
-Jan... cazzo! Axel?- disse
-Dimmi, raggio di sole.-
-Mi chiedevo, sei sicuro di voler andare in Italia?- chiese
-Perché non dovrei?- chiese lui, ben conoscendo la risposta.
-Sì, bé, insomma... Tu e Angela… la vostra luna di miele l’avete fatta a Venezia e...-
-Nove mesi dopo è nata Charlotte. Lo so, c’ero.- sorrise –Non c’è nessun problema, anzi! Mi piacciono gli Italiani! E ti ho detto che non...-
Per parlarle si era girato a guardarla senza guardare dove metteva i piedi, con il risultato di atterrare una povera ragazza.
-Oh, scusi...- Ma si fermò vedendo il cipiglio un po’ incazzato, un po’ divertito della giovane.
La aiutò a rialzarsi, vedendo mutare l’espressione da irritata a interessata ai nuovi incontrati
-Niente, ma stia più attento la prossima volta.-
La ragazza sorrise, doveva essere all’incirca sui 25 anni, con lunghi e setosi capelli castani, sguardo vispo e ossatura robusta.
-Prima volta a New Orleans?- chiese, poi
Jane e Lisbon annuirono.
-Ero persa anche io il mio primo giorno, tre anni, fa...- disse –Vi va un caffè? Stavo andando a prendere una mia amica a lavoro.-
-Con piacere.- Rispose Jane, mentre Lisbon lo guardava di traverso
-Sì...- sospirò poi -... Ci fa piacere, però abbiamo tantissime cose da fare, trovare un alloggio scegliere...-
-Oh! Per l’alloggio vi posso aiutare, o meglio, Alice vi può aiutare, allora, venite a prendere questo caffè o no?-
-Molto volentieri!- Stavolta a sorridere erano entrambi. –Italiana?- chiese poi Jane, con estremo interesse.
-Bé, sì, Ligure, per l’esattezza. Come lo sa? No, mi lasci indovinare, l’accento?-  rispose la giovane pimpante
-In realtà parli un ottimo inglese, più che altro direi che l’ho capito dal tuo modo di fare, gli italiani sono molto estroversi.- disse, gioioso
-Sì, certo, è vero.- sorrise di nuovo –Vi chiamate?-chiese poi, rivolta a Lisbon.
-Dakota McKenzey e Axel Simmons.- Rispose Lisbon, radiosa –E lei?-
-Oh, diamoci del tu! Io Sono Serena, Serena Poletti, e la mia amica si chiama Alice Romandi. E siamo entrambe italiane.-
E sorridendo, si avviarono verso un locale poco lontano, dove la musica sembrava uscire dalle pareti, e i cocktail e la birra scorrevano a fiumi.





Dice l'autrice:
Ammetto che sono in ritardo e che non ho rispettato quello che avevo detto, ovvero che avrei aggiornato Turning Time.
Ma ho un blocco, come avete visto anche dal ritardo con cui ho postato questo capitolo. E me ne dispiaccio.
Comunque, adesso, passiamo alla storia.
Come avrete notato ho inserito due nomi, alla fine, che sono reali, ora, chiaramente non ho messo i cognomi veri, perche penso che sia meglio così, comunque questa è una specie di Meta-fic, ovviamente in un mondo dove non c'è The Mentalist, ma ci sono gli attori che lo interpretano.
Quindi dedico questo capitolo a Ser e Ali, due delle mie amiche del web. E alle altri suggerisco di prepararsi, perché saranno citate e faranno parte della storia.
Un bacio a tutte voi, mie care fanwriter e fanreader, spero di leggere tante belle recensioni!
Ci si legge,

Sasy

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Capitolo 4
*** Somewhere in the sunset ***


SOMEWHERE IN THE SUNSET

 
È quando siamo completamente, perfettamente ed ardentemente felici, in compagnia di coloro che amiamo e di persone simpatiche e divertenti, che la nostra mente si adagia su pensieri tranquilli e ci ritroviamo, d’improvviso, a seguire passivamente quel che ci succede attorno ed a perderci in considerazioni astratte ed astruse sulla nostra vita. Futuro, passato, presente, sogni, desideri, rimorsi, rimpianti, gioie, dolori, sorprese...
Tanti aspetti che viviamo ogni giorno ma di cui non ci rendiamo conto, perché troppo presi dalla superficialità della nostra vita frenetica, continua, quotidiana.
La nostra esistenza è fatta di giorni e di notti, giorni in cui lavoriamo, studiamo, mangiamo, parliamo, incontriamo o conosciamo. Notti in cui dormiamo, per lo più.
Eppure quanto raramente ci rendiamo conto dell’incommensurabile fortuna che un qualche  essere superiore ci ha donato?
Noi viviamo. Passiamo la vita come se fosse solo una lunga giornata,  piena di impegni e tappe. E non arriviamo a rendercene conto finché, appunto, non usciamo da questa pallida e sfocata quotidianità e ci addentriamo in un mondo colorato e nitido, che non ha una parvenza di perfezione né la presunzione di volerla imitare, anzi, sembra quasi scomposta, disordinata, irritante. All’inizio, almeno.
Ma fatti gli occhi per vedere contorni decisi e colori scintillanti ci rendiamo conto di quanto abbiamo perso.
Jane e Lisbon stavano in quel bar rumoroso di chiacchiere, risate, schiocchi di bicchieri e musica Jazz, parlavano tranquillamente con quella giovane donna italiana che avevano appena conosciuto ed erano felici, sembrerà ridondante ripeterlo, ma non si è mai troppo certi che i concetti arrivino alla mente delle persone.
 
Serena era una ragazza prorompente, spigliata, ma a suo modo timida e pudica.
Sul tavolo due tazze di tè al latte e una di caffè nero si alzavano e abbassavano a intermittenza, mentre i possessori parlavano.
Jane aveva preso a fare il suo giochino della figure-chiave-della-mente, ed aveva indovinato quelle che la povera ragazza aveva pensato.
-Come hai fatto?- la chiese, scrutandolo con le braccia incrociate e un sopracciglio alzato.
-A capire che stavi pensando a un cerchio dentro a un quadrato? Bè, magia.-
Lisbon e la giovane risero.
-E’ arrivato il pro-pro-pronipote di Merlino!- fece Serena, tra le risate.
-Il grande mago!- recitò Teresa con aria solenne, tradita dalle gote rosse e gonfie nel tentativo di trattenere un altro scoppio di risa.
-Axel non rivelerò i tuoi segreti a nessuno!- Serena posò una mano sul cuore e alzò l’altra –Parola di Rogue Girl!- e sorrise di un sorriso poco innocente.
-Rogue Girl?- chiese Jane, curioso
-Ah, no. Sono segreti di donna. Non rivelerò a te quel che contiene il cassetto Rogue Girls. Come non rivelerò a nessuno quel che  tu mi dirai,  perché l’ho chiuso proprio lì dentro.- disse, seria, ma sul viso le passò l’ombra maliziosa di prima.
Jane corrucciò le sopracciglia e si chinò sul tavolo, con le braccia incrociate poggiate sul legno scuro, scrutando Serena con negli occhi, intensamente, come faceva ogni qualvolta desiderasse mettere a nudo l’anima di una persona.
-Un gruppo segreto. In cui condividete tutto. Uhm… Oh o! Proprio tutto tutto, eh?- aggiunse, notando un brillante luccichio negli occhi della ragazza.
-Comunque...- continuò poi, raddrizzandosi e posando la schiena sulla sedia e lo sguardo nel suo tè  -... cerchio dentro a un quadrato. Sei una persona fondamentalmente iperattiva e estroversa, una continua voglia di fare, ergo cerchio. Ma ti trattieni, in parte perché hai ricevuto un educazione, in parte perché non vuoi esporti troppo con le persone che non conosci bene. Quindi cerchi di domarti, ma ogni tanto qualche sporadico richiamo della tua vera te stessa riappare: il luccichio nello sguardo, modi di fare, atteggiamenti. Posso quasi vedere le parole che trattieni con noi, perché il tuo corpo quasi le proietta. E poi, ovviamente con noi, anche se ci conoscessimo benissimo, non ti apriresti come le tue Rogue Girls. In primo luogo perché siamo molto più grandi e poi perché io sono un uomo. Comunque, stavo dicendo, questo sarebbe il fermo quadrato che trattiene il prorompente cerchio.-
Serena sorrise impressionata e divertita, Teresa sbuffò scocciata e Jane... Bè, Jane beveva il suo ottimo tè al latte, nascondendo nella tazza un sorrisino sghembo e altamente compiaciuto.
 
Una donna entrò in quel momento nel pub, con uno svolazzio di capelli e vestiti urlando a pieni polmoni.
-Polpetta?- e mosse la testa in cerca di qualcuno in particolare nel locale.
Con sguardo sorpreso Jane e Lisbon videro Serena sorridere, girarsi verso l’ingresso e sbracciarsi,  gridando sopra la folla rumorosa.
-Ave Sensei!-
Teresa era sempre più scettica, mentre Jane sorrise apertamente, si sporse vicino all’orecchio di Lisbon  e sussurrò: “soprannomi”
Lei annui.
La donna soprannominata Sensei si avvicinò e sorrise ai commensali della sua amica e li salutò, in perfetto inglese.
-Allora... – cominciò Serena, tirando a sedere la sua amica -...Loro sono Axel...- indicò Jane -... E Dakota.- E indicò Lisbon –Lui mi ha fatto cadere per terra per strada e abbiamo fatto amicizia.- disse sorridendo, poi si rivolse a Jane e Lisbon e finì le presentazioni –Ragazzi, Lei è Alice, la mia amica.-
Alice posò le sue cose a terra e si sistemò per bene sulla sedia su cui Serena l’aveva lanciata e ordinò un caffè macchiato, inserendosi amabilmente nel discorso.
-Ah, Ali, cercano un alloggio... avevo pensato che potrebbero venire da noi. L’appartamento non è grande, ma nel salotto c’è il divano letto, e secondo me ci starebbero benissimo. E poi se gli affittiamo la stanza non può che esserci utile. Comunque sia dormiamo insieme lo stesso, quindi non vedo problemi!- disse Serena dopo una miserissima figura di Jane che, questa volta, non aveva indovinato le figure pensate da Alice, giustificandosi dicendo che “non aveva ricevuto le vibrazioni giuste e non era pronto a dare una descrizione della ragazza, per una personalità complessa.” E riaprendo l’ilarità del gruppetto.
-Oh, no. Non vogliamo disturbare, troveremo un Hotel dove stare, non ci sono problemi, davvero!- intervenne Lisbon, dopo aver sentito le parole della ragazza.
-Non disturberete affatto.- Alice annuì e sorrise, guardando prima Jane poi Lisbon –Anzi, sarò ben lieta di affittarvi la stanza. Anche se... bè, non avrete proprio intimità.- disse, con un sorrisino e un’occhiata d’intesa a Serena.
Lisbon arrossì e fece per replicare ma Jane fu più veloce e sorrise alle italiane, beffardo.
-Se davvero non disturberemo, saremo felici di essere ospitati da voi... per quanto riguarda l’intimità... penso che potremo rinunciare agli appagamenti carnali per qualche giorno, anzi magari un po’ di riposo non può che farci piacere. Non è vero Dakota?-
Se desiderava farla arrossire di più c’era riuscito in pieno, Lisbon sembrava un pomodoro maturo pronto ad essere cotto.
Alice sorrise e sporse il braccio coperto di bracciali fini per prendere un tovagliolo sul tavolo.
-42?- Chiese Jane, notando un piccolo tatuaggio nell’interno del polso della trentunenne
-Precisamente, 42. Tatuato... quattro anni fa.- asserì
-E che significherebbe?- Chiese Jane, curioso.
-Indovina.- si intromise Serena, facendo ridestare Teresa dallo stato semi sconvolto in  cui era caduta per quei tranquilli quanto falsi apprezzamenti sulla sua vita sessuale.
-Oh, insomma, ve l’ho detto, sono un mentalista non Houdini, non ho proprio idea di cosa significhi quel 42, anche se posso capire che ci sia sotto un motivo...- sospirò teatralmente Jane, come se fosse stato costretto a rivelare una cosa indecente.
-Ammetti di non riuscire a capirlo?- chiese in un risolino compiaciuto Serena
-Uffa, sì.- Jane era esasperato, ma un sorriso beffardo si dipinse sul suo viso e, piegata la testa di lato, fissò lo sguardo di sbieco sulla ragazza soprannominata Polpetta. –Ma... posso sempre capirlo da te.- disse infine
-E come?- Alice intrecciò le braccia al petto con tono di sfida –Le leggerai la mente?-
-Io ho indovinato le sue figure, ho la chiave d’accesso alla sua mente, posso scoprire tutto da lei.- alzò le spalle con aria di chi la sa lunga –Con te... ci devo lavorare, ripeto, una personalità affasciante.-
-Va bene, allora, proviamo.- affermò Serena –Perché il 42?-
Jane sorrise, tronfio -Dammi il braccio.-
-eh?-
-Il braccio, per favore.- sorrise di nuovo
-Ma...- Serena provò a controbattere, scettica
-Dagli il polso, deve fare uno dei suoi trucchetti... lascialo fare è solo un megalomane.- Teresa, esasperata dall’immaturità del suo compagno, alzò gli occhi al cielo, ma sul volto ancora un sorriso si dipinse, radioso.
Serena tese il braccio a Patrick, che le afferrò il polso e lo tenne stretto tra due dita.
-Giochiamo al dottore?- il tono allusivo di Serena fece sorridere ancora di più Jane e Lisbon rise della sua espressione fintamente concentrata.
Dopo alcuni minuti di estenuante attesa, Jane allargò il sorriso, lasciò il polso di Serena e guardò Alice dritta negli occhi.
-Interessante...- disse –Ben 42 motivi per tatuare il numero 42 sul braccio? È psichedelico, ma davvero molto interessante.- Annuì e si alzò.
Tutti lo guardarono sbalorditi, tranne Teresa che, esasperata, si era alzata di soppiatto per pagare il conto a tutti.
-Ho pagato... non ne avete già abbastanza di lui?- disse, di ritorno dal banco da bar
-Hai pagato?- dissero in coro Alice e Serena
-Non dovevi!- Continuò Serena, mentre contemporaneamente Alice diceva –Perché?-
Jane sghignazzò e si stiracchio come un gatto.
-Dovevo perché abbiamo passato davvero una gran bella mattinata, insieme. È sempre bello conoscere nuove persone.- rispose Teresa, in tono pratico, ma sincero.
-Dovreste ritenervi onorate, non fa amicizia facilmente.- si intromise Patrick, sussurrando alle orecchie delle ragazze e meritandosi un’occhiata(ccia) da Teresa.
-Che si fa ragazzi? Avete già visto la città?- esplose Serena in un sorriso
Teresa sopirò –In realtà no, mi piacerebbe. Ma non voglio disturbare...-
-Quanti problemi che vi fate, voi americani! Sul serio, e pensare che pensavo che fossimo tanto simili noi italiani e voi americani. Invece no...- rise Alice
-Seriamente, noi americani siamo molto loquaci, alla mano, spensierati a volte anche inopportuni. È lei quella che si fa problemi.- si intromise Jane, quasi in tono di scusa
-Benissimo, allora, vediamo la città? Da che partiamo?- chiese Alice
-Dal museo del Jazz?- propose Serena
-Oppure il mercato...-
-Il quartiere Francese?-
-Quello spagnolo?-
-La via dei negozi?-
Ormai le due ragazze parlavano da sole, mentre Lisbon stava a braccia conserte e Jane sorrideva affascinato.
-... mi piacerebbe vedere i mercati, sono sempre così colorati.- si inserì alla fine lui
-Ok, vada per i mercati.- commentò Alice
-Aspetta… magari volete portare a casa le valigie prima.- Serena si girò verso di loro
-Non sarebbe male come idea, in effetti.- Le sorrise la piccola Teresa
-Benissimo, allora. Prima tappa: casa. Dopo andiamo ai mercati.- riepilogò la ragazza del 42
-Fantastico!- gongolò l’uomo, sprizzando felicità da ogni poro
Sfrecciando su un taxi bianco e nero Patrick e Teresa si guardavano intorno, e alla radio passava una canzone dei Lifehouse che sembrava ritmare la corsa della macchina, veloce, lenta, forte. E correva insieme alla loro vita, alla loro giornata, già quasi finita a dirsi del sole ormai inevitabilmente orientato a ovest.
Le due giovani conosciute nel pomeriggio avevano preso la moto di Alice per tornare a casa, ed erano volate via alla velocità della luce su quella ducati nera lucidissima.
-Mi desideri accanto a te anche se sono una persona orribile?-
Il tempo passato nel groviglio dei suoi sentimenti più deplorevoli si stava piano piano allontanando dalla mente di Jane, ma non avrebbe mai lasciato i suoi ricordi, e, nonostante tutto, quella canzone un po’ gli ricordava quei momenti di tristezza, nonostante la speranza di cui trattava.
Il sole batteva sui suoi lineamenti ben  disegnati e il vento dal finestrino gli scompigliava i capelli neri che fino a un giorno prima erano meravigliosamente biondo rame. Un espressione seria gli attraversò il volto felice.
-Smetti di dire idiozie.- lo apostrofò Teresa, con lo sguardo catturato da un boccolo scuro che ricadeva sugli occhi azzurri del suo uomo, ipnotizzata
 
All night staring at the ceiling
counting for minutes I've been feeling this way
So far away and so alone
 
But you know it's alright
I came to my senses
Letting go of my defenses
There's no way I'm giving up this time
Yeah, you know I'm right here
I'm not losing you this time
 
-Vorrei poterti fotografare in questo momento.- disse dopo qualche secondo Patrick, catturando una guancia della brunetta in una sua mano grande e carezzandole lo zigomo con il pollice  –Hai un espressione meravigliosa. Rilassata, felice, sincera, libera... e poi il sole che ti batte di traverso così sul viso ti dà una luce divina. Non c’è dubbio, i tuoi occhi danno il meglio al tramonto... e sono convinto anche all’alba.-
Le sorrise e lasciando cadere la mano tra le piccole dita di Teresa si girò a guardare il sole che si tuffava inesorabile verso l’orizzonte.
-Io avrò paura della notte, anche quando sarai accanto a me.- gli sussurrò lieve Lisbon all’orecchio, vedendolo sciogliersi in un caldo sorriso –Perché non potrò vedere quelle pozze azzurre dove amo perdermi e specchiarmi.-
Patrick, girandosi lento verso di lei, incatenò gli occhi ai suoi e alzò le mani prendendole il viso tra le mani.
Le si avvicinò e, sempre occhi negli occhi, sussurrò a pochi centimetri dalle sue labbra
-Potrai sempre svegliarmi.-
E la baciò. Di un bacio che non significava altro che amore. Non aveva sottointesi ne desideri repressi troppo a lungo. Era un bacio adulto, maturo.
 
And I'm all in, nothing left to hide
I'm falling harder than a landslide
I spend a week away from you last night
And now I'm calling, calling out your name
Even if I lose the game, I'm all in
I'm all in tonight, yeah I'm all in, I'm all in for life
 
There's no taking back what we've got
Too strong, we've had each other's back for too long
There's no breaking up this time
And you know it's okay, I came to my senses
Letting go of my defenses
There's no way I'm giving up this time
 
-Il sole tramonta.- osservò Teresa quando si separarono, senza però staccare gli occhi da quelli azzurri lucidi di Patrick.
-Lo so.-
Lei con la testa sulla sua spalla, e lui appoggiato allo sportello del taxi guardavano fuori le persone passare bagnate dai raggi rossastri del sole al crepuscolo.
-E’ stata una bella giornata, vero?- osservò Teresa, assonnata
-Sì, lo è stata. Siamo stati fortunati a incontrare quelle ragazze, sono a posto.-
-Pensi che possiamo fidarci di loro?-
-Sì, penso di sì.-
Dopo pochi minuti il tassista si fermò davanti a una palazzina blu e, una volta pagato, aiutò i due a scendere i bagagli.
-Ehi! Siamo qui, all’ultimo piano.- li richiamò una voce da una finestra
 
Alice e Serena avevano già aperto e preparato il divano letto per i nuovi coinquilini quando Teresa e Patrick entrarono in casa.
L’appartamento non era né grande né lussuoso, per gli standard americani, era un monolocale con soppalco che dava su un giardinetto pubblico dove dei bambini giocavano ogni giorno, si vedeva il sole tramontare dietro i palazzi ed era ben arredato.
Con mobili nuovi e lucidi, pareti colorate in colori tenui e caldi, la cucina era fornita di ogni lusso possibile e nel salotto si notavano subito il televisore al plasma, l’impianto stereo e un immensa libreria che prendeva tutta la parete intorno alla finestra.
Libri, DVD e CD di musica jazz, blues e rock risaltavano all’occhio in un quasi ordine, e si vedeva da lontano che erano tutti usati quotidianamente. Alle pareti delle cartine geografiche dell’Italia, dell’Inghilterra, della Francia e degli Stati Uniti capeggiavano tra tutto il resto. Poche foto, tutte ritraenti facce sorridenti e persone amichevoli.
-Come fa ad essere tutto così in ordine?- chiese Jane d’un tratto, mentre osservava tutti i vari dettagli cercando, sicuramente, di trarne indizi sul carattere delle coinquiline.
-Il tassista vi ha fregato. Ci vogliono cinque minuti da quel bar a casa, voi ce ne avete messi quaranta. Quindi o avete già fatto il giro turistico oppure avete regalato una cena all’Harry’s Bar al tizio che vi ha portato qui.- rispose Serena, vivace.
Teresa si accigliò, non le era sembrato di averci messo tanto, né di aver pagato chissà quanto il tassista. A Sacramento prendevano molto di più per molta meno strada.
-Di solito non è così in ordine...- Alice e Serena si guardarono e risero, sotto gli occhi perplessi dei loro nuovi amici –Comunque fate come se foste a casa vostra. Là c’è il bagno...- indicò una porta color crema a destra –Qua su c’è camera nostra e la cucina la vedete. Se volete potete usare internet e anche il telefono.- concluse Alice, con aria saputa.
Serena guardò tutti con aria critica. –Quante ore avete viaggiato?-
-Di viaggio sono state sette, ma ci siamo fermati spesso perché non era un treno di linea, quindi… non so, tredici, quattordici ore.- rispose Lisbon e Jane annui, senza staccare gli occhi da una foto che ritraeva due ragazze abbracciate, sullo sfondo di un locale brulicante di persone, che facevano la linguaccia all’obbiettivo con un cuore rosso disegnato sulla guancia di ognuna.
-Dovete essere stanchi morti. Non si dorme molto nei treni.- insistette la giovane
-Già.- concordò Lisbon, trattenendo uno sbadiglio nella mano.
-Quindi propongo di rimandare a domani il giro turistico e di ordinare Thailandese per tutti. Vi piace il Thailandese?-
Jane si voltò dall’esame dell’ennesima foto e sorrise radioso. –Altroché!-
-Dakota?- chiese poi Serena, avvicinatasi già al telefono rosso sul tavolino di ingresso.
-Sì, molto.-
-Benissimo allora, Thailandese.- digitò il numero e prese tra le mani un menù delle dimensioni di un volantino. Dopo pochi secondi di attesa le risposero e lei iniziò a ordinare -Prendo riso alle verdure per tutti, poi pollo al curry… io lo prendo al curry verde, voi?-
-Rosso.- rispose Jane
-Rosso.- rispose contemporaneamente Teresa
-Come te, Polpetta. Vado a fare la doccia, se non sono ancora uscita quando arriva non esitate a chiamarmi.- disse Alice.
-Benissimo, quattro polli al curry, due verdi e due rossi, poi i Wantun e i gamberetti fritti al cocco.- attese ancora pochi istanti e poi riprese –Mezzora? Va bene. Siamo al... ah, già lo sa…  Sì, sì, siamo clienti abituali…- rise a qualcosa detta dal centralinista del ristorante e chiuse la chiamata con un semplice “buona serata”.
-Bene ragazzi, mezzora e arriva la cena, vado a cambiarmi su in camera...-
-Tranquilla.- la interruppe Jane con aria disinvolta, ora intento a studiare i libri nella immensa libreria a muro, ma forse intuì lo sguardo indagatore di Serena, perché si affrettò a completare la frase –Apriamo noi se non sei tornata entro mezzora.- disse.
-Ma è sempre così irritante?- chiese la ragazza a Lisbon
-Purtroppo sì, ma ci si fa l’abitudine.- rispose con un sorriso e le spallucce Teresa
-Santa Dakota, allora, io l’avrei già preso in calci in culo. E poi li preferisco fighi, rigorosi, risparmiatori di sorrisi e possibilmente Orientali che hanno fatto parte della marina!- disse, quasi gridando la seconda frase, facendo sussultare la povera Lisbon.
La porta del bagno si socchiuse e ne sbucò una faccia gocciolante d’acqua tanto da non riuscire ad aprire gli occhi, che però riuscì a fare una linguaccia e rispondere –Sta zitta, Polpetta, orientali saranno fighi, ma vuoi mettere con i fighi ricchi, simpatici un po’ stronzi e possibilmente americani che hanno un castello in Irlanda.-
Jane si intromise –Non so se uno abbia fatto parte della marina o se l’altro abbia un castello proprio in Irlanda… però non è che conoscete Cho e Mashburne?-
Alice riuscì ad aprire un occhio turchese e fissare intensamente Patrick, mentre Serena lo guardò con aria fintamente disinteressata –E... chi sarebbero?- chiese, con disinvoltura
-Un ricco americano e un poliziotto/soldato orientale troppo grandi per voi.- rispose Jane evasivo
Serena accantonò il suo proposito di sembrare indifferente alle parole dell’irritante moretto e lo guardò con tanto d’occhi, mentre Alice usciva e rientrava e usciva dal bagno di nuovo perché si era dimenticata di coprirsi andando incontro alla scenetta.
-Uomini maturi?- dissero insieme
-Più o meno la mia età.- rispose lui, compiaciuto
-Oh, quindi hanno cinque anni mentalmente.- se ne uscì Serena scrutandolo di traverso
-E massimo 35 fisicamente.- la completò Alice, sconsolata.
Jane rise e si aprì in un sorriso a sessantaquattro denti –Ti ringrazio, Alice, ma purtroppo io ho 41 anni compiuti. Walter Mashburne ne ha... quanti Te... soro?-
-43.- rispose lei sovrappensiero
-Bene, 43, e Kimball Cho...-
-Santiddio, lo conosci da un secolo!-
-Non direi proprio un secolo, però...-
-Kim ha 37 anni, e non fare il bambino.-
-I bambini sono divertenti.- disse Jane
-I bambini sono guastafeste insopportabili.- lo contraddisse la Polpetta
-La smetti di dire il contrario di tutto quello che dico?- le sorrise il moro
-No. Ora vado a fantasticare su.- e la giovane si avviò spedita verso le scale di legno chiaro che portavano nella camera delle due ragazze.
-Io torno in doccia.- sospirò Alice
Rimasti relativamente soli Teresa lanciò uno sguardo assassino a Patrick e gli sillabò di starsene zitto sui loro amici, d’ora in poi. Patrick le sorrise e tornò alla sua ispezione della libreria, lasciandole un solo giocoso bacio sullo zigomo.




Dice l'autrice:
Ci ho messo un secolo, lo so bene, e vi chiedo umilmente di perdonarmi...
E temo che per Turning Time dovrete ancora aspettare… però l’ho iniziato il capitolo… Ma non illudetevi. XD
No, ok, passiamo alla storia: Jane e Lisbon hanno fatto amicizia e a quanto pare Jane ha trovato pane per i suoi denti. Alice e Serena, sono solo i primi due personaggi originali (insomma, più o meno originali, visto che esistono davvero… nella realtà! ;D) dei penso 10 che infilerò nella storia. Di base i principali caratteri nuovi ma reali saranno 6: Alice, Serena, Giulia, Greta (cioè me!!), Claudia e Sonia.
Poi ci sono gli amici e altri funzionali al contorno dei sei.
E poi ci saranno tanti personaggi in un certo senso secondari, ma leggendo capirete che non saranno proprio fuori dalla narrazione e riusciranno a mettere in crisi, o avvicinare, i nostri due eroi.
Leggete e recensite, che se no io non scrivo più! xD no,  non è vero, ma voglio come minimo 5 recensioni. Ci siamo capiti?
Uhm, lo spero per voi!
(: Sasy :)
 
P.s. Voglio ringraziare la mia Beta Giulia  -che, no, non è la Giulia dei sei,  ma comparirà nella storia come una delle mie amiche- perché si sorbisce il compito di correggere i miei capitoli quando finisco di scriverli. E questo è il suo capitolo di debutto, perché sono stata una lumaca e non gliene ho mandati prima, quindi, GRAZIE BETA!!!

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Capitolo 5
*** Hot Wishes ***


HOT WISHES

 
È risaputo che lo shopping faccia bene alla salute, quanto poi sia vera questa affermazione non si può sapere. Di sicuro non fa bene alle finanze, anche se queste fossero abbastanza ampie da soddisfare gli istinti procacciatori di inutili chincaglierie di ben tre donne.
Jane era ricco, molto ricco, di questo Lisbon ne era certa anche prima di poter sperimentare quanto fosse ricco il suo fantomatico consulente.
Ma quel mercoledì di Aprile lo avrebbero ricordato lei, Serena ed Alice e, purtroppo per lui, anche Patrick. Non che lui si preoccupasse di spendere i suoi soldi, con tutte i suoi investimenti in borsa e le sue capacità ne avrebbe potuti riavere il triplo di quanti ne avesse spesi, soltanto che un uomo di quarant’anni costretto a subire l’ormone dello shopping di tre donne per un giorno intero non ne esce indenne, e sicuramente non ne esce normale.
Finché si fosse parlato di una cittadina e di una sola donna da accompagnare, per giunta adulta, per lui non ci sarebbero stati problemi ne postumi. Ma dato che il povero Patrick dovette portare le buste di due donne giovani in preda a una crisi maniaco-compulsiva e di una che per la prima volta provava quel brivido che ti percorre la spina dorsale e ti infiamma le vene quando hai alla mano tre carte di credito oro e una platino, non fu facile per lui tirare avanti sei ore di fila sotto il sole della Louisiana in una New Orleans caotica di come lo può essere solo a Pasqua o a Natale.
Ma infondo se lo era ripromesso: avrebbe fatto tutto pur di fare felice Teresa Lisbon. Solo che non si aspettava di certo di trovarsi a fare tutto anche per quelle due matte di ragazze.
Il sole che si infrangeva sui palazzi delle vie del centro del French Quartier, colorati in toni che variavano dal blu notte al rosso cremisi, illuminava tutto accecando i passanti, i clacson in lontananza delle auto sulla superstrada rimbombavano insieme alla musica degli artisti di strada che intonavano canti dalle parole strane e la melodia inebriante, le persone che correvano coperte di buste e il chiacchiericcio continuo che solo una città grande o molto turistica conoscono, avrebbero fatto intontire anche il più serafico degli uomini, il caldo soffocante e i negozi sfavillanti richiamavano un numero talmente alto di persone che le file duravano minuti insostenibili. E il vento sembrava un optional. Già dopo venti minuti tra quella folla scatenata, con Serena e Alice che sgattaiolavano in qua e in là complottando cosa potesse essere meglio per Dakota, tra un corpetto vintage e degli stivaletti blu, e Teresa con gli occhi luccicanti per le infinite possibilità che non aveva mai potuto avere, e Jane stava per scoppiare.
-Ciambelle! Bomboloni! Caramelle per i bambini! Fermatevi all’emporio di Zio Carmelo!-
I venditori ambulanti si sgolavano correndo qua e là con i loro carretti colorati e caramellati, in quei loro strani vestiti sgargianti con i loghi rattoppati.
-Vi predico il futuro in un modo sicuro! Venite gente per conoscere il fato solo 50 dollari e vi sarà svelato!-
Anziane signore che davano l’idea di aver visto tutto nella vita canticchiavano a bassa voce nenie che si sentivano più forti e più chiare che se l’avessero gridate in un megafono.
-Tè freddo e limonata, signori. Venite siamo solo scout! Limonata fresca fatta in casa.-
Jane ne avrebbe tanto voluta una di limonata, almeno per sedare la sete che sembrava assalirlo ogni tre passi, sudato tra la gente, ma purtroppo ogni volta che si girava per cercare dei ragazzini che tentavano di vendere la loro limonata non vedeva che altra gente, ormai disposta fin troppo a cortina per scorgere una bancarella di improvvisati ristoratori.
-Dischi! DVD, CD e Live dei vostri cantanti preferiti! E’ assicurato!-
Anche gli onesti lavoratori di legali negozi uscivano in strada a richiamare l’attenzione della gente che, incurante di un piccolo negozio di piccoli tesori, correvano tra grandi magazzini e negozi di marca.
In questo Serena e Alice si distinguevano, ed anche Teresa ad essere sinceri, nessuna delle tre sembrava essere attratta dalla tendenza di un oggetto o di una marca.
 
-A che serve comprare un vestito di marca per poi lasciarlo nell’armadio? No, meglio comprare una cosa che magari non va di moda ma in cui ti senti bene. Alla fine ti diranno che sei trendy, e probabilmente lo sei anche più di chi crede di esserlo perché indossa capi disegnati da qualche “stilista importante”.- Aveva detto Alice, prima di andare a sbattere contro un palo della luce che per distrazione non aveva visto.
-La vita è fatta per essere vissuta. Non per andare dietro agli altri. La maggior parte della gente di New Orleans non si veste secondo la moda. Basta guardare bene, si riconoscono. Sono quelli che portano i vestiti più sgargianti e strani. Sono cresciuti così, tra i negozietti dietro l’angolo e una lezione di tromba. Quelli che vanno alla “ricerca del marchio perduto” sono i turisti, che hanno finito per contagiare la nostra generazione.- aveva finito Serena per Alice, con un sospiro. –Lo fa sempre, sapete? A me viene sempre un coccolone. Insomma, prima o poi finisce sotto a un autobus se non sta attenta!-
Dopo quel piccolo sipario filosofico e fondamentalmente serio la conversazione era virata di nuovo sulla scelta tra il vintage e l’etnico, in cui stavolta era entrata anche Teresa, inseritasi nella spensieratezza della giornata.
Ad dire la verità un po’ Patrick si divertiva tra gli schiamazzi e le parole spensierate dedicate al completo relax che solo una dovuta sessione di Shopping può dare. Fare shopping da alle donne la sensazione di essere onnipotenti, era la sua deduzione. Non che non lo sapesse già, però era la prima volta che la vedeva nell’ottica di un piacere e non di un dovere. Prima comprare qualcosa a Angela o Charlotte sembrava un dovere ogni giorno, adesso si rendeva conto che Charlotte non era mai stata troppo contenta dei suoi regali non perché fosse viziata come bambina, ma perché il piacere dello shopping nasce dal farlo in compagnia, tra prove, cambi, sorrisi, risate, chiacchiere e giochi.
Angela probabilmente aveva provato a spiegarglielo, ma si sa che il potere, la fortuna e il denaro danno alla testa, finché non li perdi tutti e tre miseramente.
Ma in realtà quella scoperta lo faceva sorridere, a differenza di come si fosse mai sentito in quegli anni di desolazione.
Girarono tutti il French Quartier, entrando in tutti i negozietti più piccolo e all’apparenza insignificanti delle vie, ed entrando in Royal Street solo per bere e pranzare, entrarono in Garden District e comprarono valige e souvenir, scattarono foto al Voodoo Spiritual Temple, ammirarono le case padronali di River Road e alla fine passeggiarono per Uptown, tutti stanchi e carichi di buste, perché da solo Jane non era riuscito a portarle tutte.
Serena aveva proposto di andare all’acquario, prima di rendersi conto che per tornare a casa lasciare le cose, cambiarsi tutti, andare a cena e poi visitare il mercato notturno avevano solo tre ore di tempo.
 
-Sono sfinito.- espirò Jane, riempiendo un bicchiere d’acqua per berlo tutto d’un sorso e poi un altro per versarselo in testa, bagnando i capelli e la T-Shirt verde militare già poco coprente che indossava.
-Vedi di pulire prima che...- aveva provato a cominciare a dire Serena premeditando che Alice le sarebbe sfrecciata accanto scendendo di corsa dalla camera e scivolando con i piedi nudi sull’acqua con il risultato di finire gambe all’aria –... Alice finisca a terra.- finì in tono sconsolato e un po’ arrabbiata, con le labbra arricciate e un sopracciglio alzato. –Oh, Sensei, ma sei incorreggibile! E tu...- disse puntando un dito al petto di Jane –Vedi di non ucciderla, o ti ammazzo!- facendo ridere tutti, Sensei compresa.
-Ma dai, Polpetta, non mi sono fatta niente, sono abituata a capitolare ovunque.- rispose Alice scoccandole un’occhiataccia e massaggiandosi il fondoschiena camminando in modo circospetto verso il bagno.
Teresa, dal canto suo, aveva ormai smesso di ripetere a Patrick che quella non era casa loro sentendosi rispondere sempre “Appunto!”.
-Chiedi scusa.- lo intimò comunque con un’occhiata scettica, prima di tornare a rovistare nelle buste alla ricerca di un vestitino leggero adatto al clima comprato proprio quel pomeriggio.
-Scusa, Alice.- Gridò Jane alla giovane donna, probabilmente già in doccia
-Figurati.- fu la risposta, altrettanto urlata, della bella Sensei
Quando si girò compiaciuto per bere un altro bicchiere d’acqua Serena era ancora lì, con le braccia incrociate sul petto e gli occhi fissi in quelli cerulei di Jane.
-A me non mi incanti, carino. Pulisci immediatamente.- Patrick sorrise sillabando “mancata führer” e poi borbottando “vena repressa” quando Serena lo colpì con una pacca di dorso sul petto, scatenando l’ilarità di Teresa che aveva assistito al siparietto comico dei due bambini.
Jane fu costretto a seguire l’ordine immediatamente, perché Serena– mentre mangiava una pera e leggeva il giornale – lo minacciava con un frustino dall’aria equivoca prima di potersi dedicare a finire una bottiglia e mezzo d’acqua ghiacciata, ma in compenso ebbe la soddisfazione di vedere la sua bellissima Teresa felice, ridere con gli occhi quasi lucidi per la scenetta, alla luce del tramonto che entrava dalla finestra alle sue spalle.
E, Bè, in mancanza di spazio e tempo ebbe la fortuna di vedere Teresa cambiarsi e poté studiare ogni centimetro della sua pelle candida che gli scatenava una tempesta sentimentale ed ormonale ogni volta che ne poteva scorgere il più piccolo millimetro.
Il vestito che Alice aveva fatto pressione che Lisbon comprasse le stava alla perfezione. Sbarazzino e giovanile, sì, ma sembrava tagliato da una sarta e cucito sulla pelle della bella donna bruna. Teresa doveva indossare un vestito elastico di cotone lungo fino a pochi centimetri sopra il ginocchio di un tenue beige tendente al Terra di Siena che si completava con un vestito leggero e semitrasparente di quel lino che di solito si usa per i vestiti da mare, fatto a motivi astratti in colori che andavano dal rosso bordeaux al beigiolino chiaro, completato da una cinturina di cuoio chiaro, intrecciato come se fosse una corda. I capelli castani tirati su in una crocchia volutamente spettinata, gli orecchini vintage dorati, le scarpe marroncine aperte e alte e la borsetta di pelle dello stesso colore da portare a tracolla le davano un’aria così allegra e sicura da farla sembrare, seppur paradossalmente con quei vestiti semplici, ad una dea. Ed il sole che continuava ad illuminarle la pelle con quel suo tono arancio la trasformava nella regina delle dee.
Jane era rimasto a guardarla mentre si cambiava, zampettando sulle note di “I Have a Dream” del musical “Mamma Mia!” che uscivano alte dallo stereo, incantato dalla grazia e l’eleganza che poche donne a 37 anni possono avere.
-Axel, smetti di guardare la tua ragazza e cambiati!- le disse Alice facendogli l’occhiolino uscendo dal bagno coperta da un asciugamano chilometrico –Avrai tutto il tempo per ammirarla.- gli sorrise e corse su per le scale, riuscendo magicamente a non buttare per terra niente, lei compresa.
Jane riporto lo sguardo su Teresa che adesso lo guardava arrossendo, non si era accorta che lui la stava guardando.
-Vado in bagno.- disse con voce roca, un  po’ impacciato, Patrick.
 
Quando uscì le donne erano già tutte pronte e lo stavano aspettando.
Serena sembrava si fingeva bonariamente scocciata dal suo comportamento, Alice gli alzò i pollici in su dietro le teste delle altre due, per non farsi vedere e Teresa aprì la bocca per dire qualcosa, alzando la testa dall’orologio, ma quando vide Patrick la richiuse e lo fissò con occhi che esprimevano quello che il corpo gridava silenziosamente: Desiderio.
Pantaloni bianco sporco, mocassini marroni estivi, camicia bianca di lino semitrasparente con le maniche girate fino al gomito bloccate da bottoni di legno di cocco, capelli neri bagnati e tenuti un po’ all’indietro con un ciuffetto a lasciato ricadere sulla fronte.
Bello. Molto bello e molto più che sexy o affascinante.
Ma quello che più di tutto aveva colpito Teresa era il cofanetto piatto, largo e color rosso mattone che teneva in una mano. Troppo grande per un anello e troppo piccolo per una collana.
-Questo è per te, non sono andato solo a cercare un negozio di souvenir quando l’ho detto. Ho visto Cartier e ho pensato che stavolta non puoi avere niente in contrario se ti regalo un gioiello.- sorrise sornione e si avvicinò a Teresa che per lo stupore era ancora confusa.
Le aprì il cofanetto davanti ne apparvero due braccialetti d’oro rosa e un piccolo cacciavite argentato.
-Ti spiego come funzionano. Io ti metto il braccialetto al braccio e poi lo fisso con il cacciavite con questa vitina che vedi qui.- disse mostrando una piccola vite perfettamente confondibile con quelle incise –Poi tu lo farai per me.-
Passarono dei secondi di silenzio e alla fine fu sempre Patrick a spezzare il silenzio. Sorrise, guardò il polso piccolo di Teresa ed esclamò –Fortuna che ho indovinato la misura del tuo polso perché altrimenti non avrebbe avuto l’effetto giusto. Vedi, il punto è che senza il cacciavite non puoi togliere il braccialetto. E anche con il cacciavite hai bisogno di aiuto per toglierlo.- si schiarì la voce –Allora?- chiese poi, incapace di trattenersi
Teresa alzò gli occhi e lo guardò –Sei una canaglia e mi sei costato dieci anni di vita.- poi sorrise e lo baciò, facendo sbuffare Serena.
-Non per interrompere ma abbiamo prenotato.- asserì la ragazza
-Solo perché tu hai il cuore di pietra e non sei romantica non significa che tutto il mondo deve piegarsi alla tua totale assenza di romanticismo, Padawan.- le rispose con una saggia gomitata Alice, incarnandosi nel suo ruolo di maestra zen.
Staccandosi Patrick e Teresa risero.
-Mi piace molto. Che aspetti a mettermelo?- disse Teresa, asciugandosi un occhio lucido.
-NO!- gridò inorridita Alice –Ci ho messo mezz’ora per truccarti gli occhi!-
Serena rise e Patrick alzò un sopracciglio mentre Lisbon, inorridita tanto quanto Alice, allontanava la mano dall’occhio –Appena in tempo.- disse –Non l’avevo neppure toccato. Tempismo perfetto, Ali.-
-Quando abbiamo finito fatemi un fischio, eh.- disse la Polpetta con un sorrisetto malizioso stampato in faccia –Allora volete chia...-
Alice emise uno stridulo “oh” e una risatina mentre tappava la bocca a Serena.
Teresa non afferrò la parola, ma Patrick sì e, seppur preso in castagna, sorrise e rispose alla domanda prontamente fermata –Tutto a tempo debito, Serena. tutto a tempo debito.-
Detto ciò fissò il braccialetto a Lisbon che fece altrettanto con lui e adesso sul polso di entrambi svettava un bellissimo braccialetto con il motivo a vite che, nessuno lo sapeva a parte loro due, al suo interno portavano il nome di entrambi. Quello vero, però.
Nel bracciale di Jane c’era scritto Teresa Lisbon, e in quello di Lisbon, Patrick Jane.
In quel silenzioso scambio di promesse Lisbon notò anche un'altra cosa: Jane non portava più la fede.
-Sì, l’ho appesa a una catenella al collo.- disse Jane leggendole nel pensiero
-Andiamo o no?!- si lagnò Serena liberatasi con un morso dalla mano della Sensei, che adesso la guardava di traverso con occhi assassini.
-Sarai punita, Padawan, per avermi morso la mano!- disse Alice
-Sì, voglio proprio vedere! Pf!- e così dicendo Serena fece una piroetta ed aprì la porta iniziando a scendere le scale due alla volta, rischiando di rompersi l’osso del collo.
 
L’aria della sera era satura del calore della giornata e non un alito di vento sfiorava le quattro persone sedute al tavolo tondo sulla terrazza del Monaghan's Erin Rose all’incrocio tra Conti Street e Bourbon Street.
-Axel, Dakota, propongo un brindisi, visto che è la vostra ultima notte a New Orleans. E non avete idea di come mi dispiaccia. Siete stati con noi una settimana e sento che possiamo definirci amici. Quindi, amici miei, brindiamo affinché il vostro viaggio sia bello e felice perché possiate tornare a casa con il sorriso sul viso esattamente come lo avete adesso. Perché possiamo rivederci e perché mi promettiate che il prossimo anno verrete a festeggiare il Jazz Fest con noi!- Disse Alice alzandosi e scoccando un’occhiata a Serena perché non infilasse una frase delle sue nel discorso.
Alzarono i loro calici di prosecco e brindarono tutti insieme “Al viaggio e al ritorno!” mentre i camerieri portavano le loro ordinazioni, sorridendo.
Ben presto mangiavano tutti, pasteggiando a vino le specialità marinare che avevano ordinato
-Stavamo pensando di andare a Roma.- disse Jane, dopo l’ennesimo boccone dalla catalana di Aragosta che avevano preso lui e Lisbon.
-Giuls!- dissero in coro Sensei e Polpetta, lasciando spiazzati i due.
-Un’altra componente del gruppo delle Rogue Girls?- chiese Patrick, sorseggiando il suo vino
-Oh sì. Lei è Josei, o Jam, come preferite. Ma... noi la chiamiamo semplicemente Giuls.- spiegò Alice
-È innamorata di Robin Tunney, l’attrice. Il suo primo scopo di vita è trovarla e baciarla.- disse Serena, mangiando con aria indifferente il suo cacciucco –Questo cacciucco mi ricorda Livorno. Un po’ mi manca l’Italia.- se ne uscì poi, apparentemente senza nesso logico tra le due affermazioni
-Un po’ quell’attrice ti somiglia, sai?- si intromise Jane rivolgendosi alla sua Teresa
-Sì, è vero, quindi sta attenta a Giulia.-
Per quale strano motivo, anche se Serena le sorrise in modo malizioso e giocoso, Teresa non colse per niente la scherzosità dell’affermazione.
-Di quante persone è composto il vostro gruppo?- chiese per sviare il discorso la brunetta
-Sei.- disse distrattamente Serena
-Oltre a noi e a Giuls ci sono Greta, Claudia e Sonia.- disse Alice
Al nome Claudia, Serena sospirò e si fermò a guardare l’etichetta della bottiglia d’acqua senza vederla davvero ed esalò –Scodella!-
-Inquieti, lo sai?- le disse Jane passandole una mano davanti agli occhi, come cercando di svegliarla
-Trovi?- rispose lei senza muovere lo sguardo, ma continuando a mangiare ed a discutere –Forse. Per la mia scodella posso inquietare!-
-Lasciatela perdere.- disse Alice, sorridendo ai suoi gamberoni al Marsala –Quando è venuta in America si è lasciata la Scodella, Claudia, alle spalle. Stanno insieme da quattro anni ormai. Probabilmente un giorno anche Claudia verrà qui, ma prima deve finire lo stage.-
-Quando verrà compreremo una casa più grande.- asserì convinta Serena
-O magari comprerete una casa vostra.- le suggerì Alice
Serena finalmente alzò lo sguardo dalla bottiglia e cinguettò –Hai ragione!- per poi tornare a fissare l’etichetta.
Jane era tranquillamente inquietato, mentre Lisbon palesemente perplessa.
-Comunque, a Roma ci sono tante cose da vedere. Il Colosseo, le Rovine di Roma, tutti i vari monumenti, San Pietro, le librerie, le biblioteche, cinema all’aperto, negozietti carinissimi...- disse Alice
-Sì, come i se...- tentò di iniziare Serena fermata da Alice che con un gesto troppo veloce della mano le fece volare il bicchiere di Gewuztraminer addosso
-...gugi infernali, è un negozietto davvero molto caratteristico dove vendono ogni genere di chincaglieria relativa alla storia di Roma e di Atene. Molto molto suggestivo.- e solo una volta completato il discorso, Alice finse di essersi appena accorta di aver letteralmente lanciato il bicchiere in faccia a Serena –Oh, scusami Ser.- fece, nascondendo un sorrisetto compiaciuto.
 
Quando la sera finì tutti si resero conto che andare al mercato sarebbe stato improponibile. Era già mezzanotte passata e l’aereo di Jane e Lisbon sarebbe partito il giorno dopo alle una e trentacinque, e sarebbero quindi stati costretti a iniziare il Check-in alle otto del mattino.
Si fermarono a uno sportello bancario e prelevarono quanto bastava per entrare in Italia con i contanti in tasca, tornarono a casa e dopo aver sistemato le compere del giorno nelle valigie si addormentarono cullati dal canto di un jazzista solitario un po’ brillo.
 
-Axel? Axel svegliati!- Lisbon, seduta e vestita sul letto scrollava Jane che non voleva saperne di svegliarsi.
-No, Tessie, dai! Non voglio alzarmi!- rispose Jane con la bocca impastata dal sonno
-Chi è ‘Tessie’?- chiese Serena, appoggiata al tavolo del cucinino e sorseggiando il suo Tè al latte
-Sua madre, si chiamava Teresa.- rispose Lisbon, che si era preparata a una possibile domanda per un errore di uno dei due –Lei non voleva che lui la chiamasse “Mamma”, le sembrava troppo da anziana.- scrollò le spalle e tirò uno schiaffo a Patrick, che si tirò su di scatto spalancando gli occhi e ansimando
-Ma che fai?- chiese quando mise a fuoco la scena
-Hai cinque minuti per vestirti. Sono venti alle otto… oh, quattro. Muoviti!- rispose Teresa guardandolo torva
-Oh mio Dio.- Jane si alzò di scatto e recuperò i vestiti con cui aveva deciso di viaggiare. Una semplice maglietta rossa e dei jeans grigi uniti ad un paio di scarpe da tennis bianche.
Alice li aspettava già a bordo della sua Ducati 848 nera in shorts e canotta e li salutò radiosa non appena li vide sbucare dal portone del palazzo
-Appena in tempo. Un quarto alle otto, saremo in tempo perfetto.- scese dalla moto e andò gli andò incontro, finendo tra le braccia di Serena inciampando nel marciapiede –Maledette infradito!-
-Sì, sarà colpa delle scarpe!- le fece notare Serena
-Ma si può sapere perché le dai contro?- chiese Jane, incuriosito dal suo comportamento ribelle verso la sua Sensei
-Non mi fa finire le frasi!- disse lei mentre un taxi parcheggiava a un passo dalla moto di Alice
-D’accordo ragazzi. Io e Serena andiamo in moto, quello è il vostro taxi.-
E così dicendo Serena e Alice salirono in groppa alla ducati e partirono verso il Louis Armstrong International Airport.
-Superano il limite di velocità.- commentò Teresa montando in auto e stringendosi a Patrick
-Hai paura dell’aereo?- gli chiese lui, sentendola così preoccupata.
-No... cioè, sì, ma...-
-Non devi. Ci sono io.- la rassicurò Jane
-Bella consolazione, così se cadiamo muori anche te!- commentò Lisbon
-Non cadremo, non moriremo e staremo benissimo. Stai tranquilla. Vedrai, dormirai benissimo in aereo e non ti accorgerai nemmeno che voleremo.-
-Vorresti ipnotizzarmi?-
-Non dirmi che ancora non ti fidi! Sei terribile Teresa!-
-Dobbiamo imparare i nostri nuovi nomi, Axel, è importante.- sussurrò in un bisbiglio quasi inudibile la donna –Dobbiamo abituarci a chiamarci con quelli anche tra di noi. Mi hai chiamata Tessie davanti a Serena questa mattina.-
Patrick sbiancò –E tu che hai detto?-
-Che era il nome di tua madre che non voleva che tu la chiamassi mamma perché si sentiva vecchia.-
Patrick sorrise e le baciò la fronte –Il mio genio!-
Lei sorrise, arrossì e alzò le spalle –improvvisare è il mio lavoro.- disse, ma si rabbuiò –Era.-
Jane si sentì in colpa di nuovo. Ormai era una tendenza istaurata nei suoi cromosomi, sentirsi in colpa per qualcosa o qualcuno –Amore, io...-
-Come mi hai chiamata?- chiese Teresa alzando gli occhi su di lui
-Amore. Perché? Non va bene?-  Jane era bravo con le persone, sì, ma Lisbon lo aveva stupito abbastanza volte da fargli imparare da non dare mai niente per scontato sul suo conto.
-No. Amore è perfetto, perfetto.- rispose lei, posandogli un romantico bacio sulle labbra. –E smettila di sentirti in colpa! Sei un idiota.- disse scherzosamente.
Il viaggio verso l’aeroporto fu breve e ben presto Patrick e Teresa si ritrovarono a dover fare il loro secondo addio nel giro di una settimana. Prima i ragazzi, poi le loro due nuove amiche, che li avrebbero sempre conosciuti come Axel e Dakota.
-Ci siete state di grande aiuto qui, grazie davvero!- disse Teresa, in uno dei suoi grandi slanci d’affetto
-Dovere.- rispose Serena
-E piacere.- Concordò Alice
-Siamo stati fortunati a incontrarvi, spero che ci rivedremo presto!- continuò la donna
-Sì, ci rivedremo sicuramente.- disse Jane, strizzando l’occhio a Alice battendo una mano in modo fintamente distratto sulla borsa da viaggio a tracolla.
-Bene, se incontrate Giulia a Roma portatele questo.- disse Serena porgendo a Jane una bambolina che somigliava pericolosamente a una donna che Jane aveva conosciuto tempo prima, chiamata Kristina Frey –Non è una vera bambola voodoo, ma ci somiglia! E dalle un bacio da parte nostra!- disse poi rivolta a Teresa, con un sorriso malizioso.
-Lo faremo.- disse Lisbon, già dimentica degli avvisi della sera precedente riguardo la famosa attrice...
Jane ridacchiò.
-Bene, credo che dovremmo salutarci, quindi...- disse poi Alice, intristita.
-Pare.- concordò Teresa
-Allora...- Serena porse la mano a Jane -...Ci vediamo combina guai!-
Lui le strinse la mano e la tirò a sé, abbracciandola. –Smetti di fare il führer di casa!- le disse
Dopo di che abbracciò Alice, sussurrandole nell’orecchio. –Lasciale dire almeno la frase che freme dalla voglia di dire da quando ci ha visti!- le suggerì
Alla fine anche Teresa si lasciò trasportare dall’emozione del momento e abbracciò le due ragazze.
Quando poi, salendo la scala mobile che portava al Check-in si girarono per salutarle con la mano, Serena si allontanò a debiti passi da Alice e mise le mani a megafono alla bocca.
-Auguri e grandi copulate!- gridò, e tutti nell’aeroporto si girarono a guardare prima lei, poi Jane e Lisbon.
Il primo rise e la seconda sbiancò –Contaci!- le rispose Jane, mentre Alice, scuotendo la testa e stropicciandosela con la mano guardò l’amica, per poi scoppiare a ridere.
-Sei indicibile, Polpetta!- disse tra le risate –Ma ammetto che morivo dalla voglia di dirlo anche io!-
E sia Jane che Lisbon le continuarono a sentire ridere finché non arrivarono in cima alla scala e furono isolati per entrare nel Check-in.




Dice l'autrice:
Bonsoir, mes amis! Allora, come promesso ecco il capitolo di Segno del Destino!!
Cosa posso dire? uhm... i nostri stanno per andare a Roma, dove, ovviamente, incontreranno Giulia che...
Eh eh... non vi dirò mai come la incontreranno o cosa farà lei!
Ho intenzione di dedicare due capitoli a personaggio incontrato, tranne in un caso, in cui ricompariranno tutti e, ovviamente, la persona che hanno incontrato in quel frangente rimarrà in ballo per più capitoli, insieme a tutte le altre!
Ho finito di Spoilerare e torno a fare quello che stavo facendo prima di venire a mettere il capitolo...
Sto delirando, scusate.
Un bacione a tutte,
Sasy

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Capitolo 6
*** Like a Tiger ***


LIKE A TIGER

 
L’aria era secca e fredda nell’aeroplano mentre iniziava la sua lenta discesa verso l’aeroporto di Fiumicino, a Roma. Attraverso i finestrini appannati e opachi dell’abitacolo si vedeva in cielo il sole nascente spendere e  brillare, illuminando in lontananza gli aerei in partenza e in arrivo all’aeroporto romano. Poche nuvole all’orizzonte macchiavano quella tela azzurro scuro del primo mattino mentre pennellate rosa e arancioni tingevano i colori dell’alba dei primi d’estate.
Maggio era al suo inizio e Roma si svegliava lentamente, mentre l’aereo 747 da New Orleans atterrava tranquillo con qualche piccola scossa sull’asfalto nero della pista.
I passeggeri, ancora un po’ addormentati per il lungo ed estenuante viaggio, iniziarono a scendere nella leggera brezza mattutina, totalmente diversa dal caldo che già opprimeva alle prime luci dell’alba nella caotica e vitale città della Louisiana da cui erano partiti.
Una zazzera di ondulati capelli neri comparve dall’uscita anteriore, tenendosi per mano con una donna dai lisci capelli castani.
-Fa freddino per essere maggio.- disse Jane con quel suo sorriso furbo e acceso
-Non siamo più in Luisiana, Axel.- gli rispose Lisbon, sorridendogli e facendogli l’occhiolino.
-Pensa un po’...- commentò lui, baciandole la fronte –Eri mai uscita dagli stati uniti?- chiese poi
-Non sono mai andata più in là del Nevada.- rispose lei, un po’ emozionata per la novità
-Felice di essere la tua prima volta.- se ne uscì lui con tono lievemente allusivo –L’Italia è un gran bel paese.-
-Me ne hanno parlato.- gli disse, incamminandosi per i corridoi pieni di negozi dell’aeroporto e lanciandogli un’occhiatina di disapprovazione.
-Pensavo non sapessi niente dell’Italia.- scherzò
-Fra me e te sono io quella che ha studiato.-  gli rispose, con un colpetto sul braccio.
-Ma io so molte più cose...- commentò l’uomo, evasivo
-Tipo cosa?- lo sfidò lei
-So che non vedi l’ora che prendiamo una stanza d’albergo, tutti soli soletti...-
-Oh no! Non potrei mai, sarebbe grave che fantasticassi su un bambino di cinque anni. Vuoi che ti compri un lecca lecca?- rispose sarcastica Teresa indicando con un sorriso da maestra d’asilo il negozio di dolciumi a cui stavano passando accanto.
-Adoro quando fai la difficile!- le disse lui, pizzicandole il naso –Mi ricordi la mia maestra delle elementari... quella donna non voleva cadere ai miei piedi.- sorrise
-Forse perché avevi cinque anni, appunto?-
-Oh, no, ne avevo dieci. E lei ventiquattro.-
-E’ la stessa cosa.- sospirò lei, scuotendo la testa
-Allora perché tu sei caduta ai miei piedi?-
-Il fascino di avere uno schiavetto ricchissimo...- disse ridendo
Jane si finse offeso –È questo che sono? Il tuo schiavetto ricchissimo?-
-Dipende...-
-In albergo te la faccio pagare.- le disse Patrick, baciandole castamente la guancia.
-Sei un pervertito, altro che!- sorrise Teresa
-Colpa tua!-
-Ah, sì, certo, mi pareva strano...- sospirò lei –E sentiamo, Grande Santo, perché sarebbe colpa mia?-
-Mi risvegli istinti primordiali.- le rispose lui, a voce bassa e suadente che scaldò Teresa nel profondo.
-Pervertito!- gli sibilò lei, allontanandosi.
-Frigida!- disse lui, con il sorriso sulle labbra
-Parla quello che ha fatto voto di castità per nove anni... pensa un po’! Io, caro, mi sono divertita anche senza di te!- sogghignò Teresa voltandosi e puntandogli un dito al petto.
-Però mi ami.- le sorrise soddisfatto.
-Sì... ma non c’è bisogno che lo ripeti duecentocinquanta volte per farlo diventare vero! Lo è e basta, credici!-
-E’ comunque incredibile.-
-Senti, Axel, io non sono una santa, d’accordo? Sono umana. Io sono una donna e come tale ho un cuore che non posso decidere a chi donare.- smise di camminare, gli si parò davanti e gli sorrise –Potendo scegliere credi che ti avrei scelto?-
Lui la guardò di traverso –Sì?-
-Sei un uomo fantastico e non importa che tu lo capisca adesso, prima o poi te ne renderai conto. Comunque sia io non ti capisco… hai un ego così spropositatamente grande e non ti riesce capire che sei una persona meravigliosa?-
Lui sorrise come lo Stregatto e la guardò con quello sguardo saccente e colpevole allo stesso tempo che tirava fuori ogni volta che ne combinava una delle sue… come quando che aveva detto “se stessi morire chiamerei te.” E Lisbon aveva capito l’allusione di quel “se”...
-Tu vuoi i complimenti! Sei proprio pessimo, lo sai?- commentò Teresa, accigliata
-Tanto mi ami lo stesso…- gongolò lui
-Vuoi un pugno? Guarda che non ci metto niente a tirartelo!- lo zittì Lisbon, continuando a camminare tra la folla.
Il cielo continuava a schiarirsi e le lampade si spegnevano lentamente, lasciando posto alla calda luce solare,  mentre nell’aeroporto impazzava il caos tra gli arrivi e le partenze, con Hostess, Stewart e piloti che facevano la spola tra un gate e l’altro.
Il ritiro bagagli, come al solito, era carico di persone nervose e frettolose, decise a non perdere neppure un instante del loro tempo alla ricerca delle proprie valige. Francesi, americani, ungheresi, russi, italiani e africani si mischiavano tra un ritiro bagagli e l’altro alla ricerca del proprio volo. Centinaia di valige rimanevano abbandonate tra i bagagli perduti e una famiglia numerosa cercava tra queste le loro, arrivate, non si sa come, un giorno prima.
 
-Sempve gli stessi, voi italiani! Pevdete le valige che è un piaceve!- commentò la tiratissima madre di famiglia in un forte accento franco-svizzero e una marcata erre moscia.
-Suvvia, amore, fanno del loro meglio!- cercò di placarla il marito, un giovane semplice e bonario che sembrava un perfetto cantante di Jodel.
 
Continuando a camminare tra la gente, non esattamente tutta felice, contenta o calma, Jane e Lisbon arrivarono al ritiro 12, e, prese le proprie valige, si incamminarono verso l’uscita nella famosa capitale italiana, comprando una cartina della città, un frasario italiano, un dizionario e due magliette con la scritta “Rome” sul petto.
Dalle finestre si poteva vedere che si prospettava una giornata calda e tranquilla, ma, come è risaputo, mai dare tutto per scontato quando si è di fronte alla sfrontataggine degli italiani.
Infatti, timbrato il passaporto ed entrati nella febbricitante mischia di persone accolte dai cari con cartelli in mano, si imbatterono in una giovane donna sulla ventina che sventolava alto un cartellone con su scritto “Axel e Dakota”.
I capelli, corti e scalati, le ondeggiavano intorno alla faccia, mentre saltellava in su e in giù, facendo sventolare la camicetta verde e il foulard giallo che aveva legato al collo con un nodo. Probabilmente lei capì che erano Axel e Dakota dalle facce sperdute e incredule e gli corse in contro, fermandosi a un passo da Lisbon e sorridendo come una bambina davanti a un pacco di natale.
-Tu devi essere la “copia di Robin” e tu il “Tipo da Sasy”.- disse, abbracciandoli entrambi –Serena e Alice mi hanno parlato di voi.-
Siccome Lisbon sembrava aver perso l’uso della voce, Jane, come suo solito in situazioni imbarazzanti, prese la parola e sfoderò il suo sorriso da conquistador.
-Tu devi essere Giulia.- disse, sorridendo a duemila watt.
-Oh! Che sbadata, sì. Io sono Giulia, mi hanno detto di avervi raccontato delle cose di me.- fece una pausa teatrale –Non è vero che il mio primo scopo di vita è baciare Robin Tunney... perché è un’ambizione un po’ troppo bassa. Punto alla seconda base.- disse con sguardo malizioso che fece alzare un sopracciglio anche a Jane –Allora... immagino abbiate bisogno di un alloggio. Io non vi posso ospitare perché il mio appartamento è al completo e poi mi è stato detto che... – si fermò, ridacchiò e si schiarì la voce –Immagino che vorrete un po’ di intimità.- disse poi.
-Ti riferisci alle “copulate”?- chiese Patrick, tentando di far spostare gli occhi della ragazza da Teresa a lui.
Il risultato fu che Giulia lo guardò e rise apertamente, mentre Teresa arrossiva e poi sbiancava, passando dall’imbarazzo alla rabbia assassina nel giro di pochi secondi.
-Non sei un po’ troppo grande per alludere?- chiese Lisbon, tra i denti, rifilando una gomitata al povero Patrick.
-Oh cara, ma lui non ha alluso, è stato diretto come poche volte ho sentito essere un uomo! E non credo che ci sia un’età precisa per alludere...- commentò con un sorrisetto
-Immagino che voi Rogue Girl ne sappiate qualcosa.- disse Patrick
-Oh, sì. Eccome.- rispose quella, frugando nella borsa a tracolla da cui spuntava un piccolo PC di dimensioni impressionantemente piccole. –Allora, per l’alloggio... mi è stato detto che non ti mancano i soldi, mio caro Axel, quindi ho pensato di prenotarvi una deluxe all’Eccelsior.- disse infine, porgendo ai due un foglio con i dati della prenotazione.
-Grazie.- disse Lisbon, arrossendo inspiegabilmente e meritandosi una occhiata divertita di Jane che, ovviamente, aveva percepito i peccaminosi pensieri che l’avevano fatta arrossire.
-Te lo sei scelto carino, sai?- disse Giulia, incamminandosi verso le porte a vetro scorrevoli dell’uscita.
Fuori non era certo paragonabile al caos di New York, o di San Francisco, ma di certo a Sacramento il traffico non era mai stato così intenso. Tre file di taxi bianchi affollavano la strada appena fuori dalle porte, mentre una strada sopraelevata a questa era trafficata da macchine private e pulmini di garage. Sullo sfondo apparivano palazzi alti e grigi di fabbriche tessili e negozi di mobili.
Giulia li fece attraversare tra i taxi, apparentemente avvezza a tale confusione stradale, e salendo delle scalette passò oltre l’altra strada, fermandosi di lato ad aspettare.
-La mia macchina è al Garage Pegaso, stanno venendo a prenderci.- spiegò, vedendoli un po’ smarriti.
L’odore di smog era penetrante e forte dopo aver passato sedici snervanti ore in un abitacolo, percorso solo da aria condizionata pura e secca, le macchine sfrecciavano veloci e le persone che uscivano dall’aeroporto si svestivano, togliendosi maglioni e giacche, mentre si stiracchiavano, finalmente libri di muoversi.
Un pulmino bianco sporco, con un cavallo alato sulla fiancata, si fermò proprio di fronte ai tre, che, saliti a bordo e allacciate le cinture, si avviarono verso il garage.
 
*****************
Teresa non aveva mai visto niente del genere in tutta la sua vita. Neppure le meravigliose ville dove spesso dovevano indagare erano tanto lussuose. Neppure la villa di Mashburne lo era, e Walter era un uomo che se poteva dare prova di sfarzo lo faceva.
Ma quella stanza era il sogno che ogni donna fa almeno una volta nella vita.
Il pavimento di marmo rosso lucido, venato di bianco, era intrecciato con strisce marmoree bianche, striate di rosso, che formavano una specie di onda per tutta la stanza, illuminandola riflettendo la luce che entrava dalla finestra che sostituiva tutto il muro che dava sull’esterno dell’hotel e da cui si potevano vedere, in tutta la loro magnificenza, le rovine dell’antica Roma, disperse in qua e là in quello che un tempo era il foro della più importante città del mondo conosciuto.
Le pareti, ricoperte da quella stoffa tipica delle case secentesche, erano di un rosso pastello ricamato di bianco e dietro la porta d’entrata due colonne ioniche di gesso bianco salivano fino al soffitto a volta.
Davanti al breve corridoio dietro l’entrata un grande divano avorio in stile imperiale guardava  verso un Samsung led 9000 circondato da eleganti casse stereo, proprio in mezzo alla stanza, di fronte al vetro infrangibile della finestra panoramica.
Sotto al divano, nel salotto spazioso, stava uno di quei divani pelosi, anch’esso color avorio, e tutt’intorno, affisse al muro, si notavano delle stampe artistiche con i panorami più belli di Roma.
A destra del salotto, dietro tre archi di gesso bianco come le colonne all’entrata, c’era la camera da letto.
A quel punto, tutte le più oscure e peccaminose fantasie che Teresa  avesse mai fatto su Patrick si fecero di nuovo breccia nella sua mente, facendola arrossire improvvisamente.
Aldilà degli archi sembrava di passare in un'altra dimensione, il colore della stoffa delle pareti passava dal rosso veneziano fiorito di bianco al blu notte stellato d’argento. Il soffitto della camera, a volta anche questo, era tempestato di lucine a muro che si accendevano e si spengevano dolcemente, dando alla stanza l’idea della notte stellata. Il letto era di baldacchino, in un legno bianco, laccato e intarsiato d’argento e le coperte, che davano tanto l’idea di essere di raso, per non dire di seta, erano di un blu ancora più intenso e scuro di quello delle pareti ed erano incorniciate da delle tende argentate ricamate e da tre file di cuscini della stessa tonalità. La finestra, che prendeva tutto il lato destro della stanza, illuminava il tutto e ai lati del letto due fotografie in bianco e nero raffiguravano le scene di un ballo intenso. Davanti al letto, attaccato al soffitto, un altro televisore faceva bella vista e a sinistra del baldacchino, su un alto calice di rame, una bottiglia di Krug immersa nel ghiaccio invitava chiunque l’adocchiasse.
C’era anche un’altra camera da letto, uguale a questa, ma era tutta nelle tonalità del verde di Sacramento e, dato che nessuna bottiglia di uno dei più pregiati Champagne capeggiava in quella stanza, Jane e Lisbon capirono subito che la camera patronale doveva essere quella blu.
Jane si guardava intorno molto compiaciuto e ammirato, mentre Lisbon… lei era totalmente estasiata.
-Oh. Mio. Dio.- Esclamò Teresa, girando su sé stessa per osservare bene da ogni angolatura la stanza  – eufemismo per intendere appartamento – d’albergo –Questo sì che è un Hotel!-
Jane sospirò –Questa sarebbe la deluxe? Sono curioso di vedere la presidenziale!- disse, guardandosi anche lui intorno –Di questo passo dovrò tirare fuori i soldi del fondo pensione tra tre giorni.- commentò, fingendosi irritato.
-Oh, ma dai!- lo riprese Lisbon, facendogli un pizzicotto sul braccio –Dopo tutto quello che mi hai combinato me lo devi! E poi hai tutti quei soldi… che ne vuoi fare? Li vuoi far seppellire con te?-
Jane le sorrise, sornione –Ah, come volete madamigella, sarete voi, poi, a chiedere i soldi in un piattino, quando ci ritroveremo a fare gli artisti di strada?- chiese, beffardo e ironico.
-Beh, poco male. Ho già un clown qui con me.- sospirò, guardandolo mentre, lentamente, andava verso il letto a baldacchino –Un clown che sa fare anche i giochini con le carte... prevedere il futuro... leggere nel pensiero... e, ah, giusto… impazzire le donne.- finì poi, sedendosi sul materasso e accarezzando sensuale il tessuto blu.
-Cerchi di sedurmi elencando tutte le mie qualità?- le disse avvicinandosi con passo felino Jane –Uhm… credo che avresti più successo se provassi a farmi uno spogliarello.-
-Oh, non credo che lo farò.-
Lisbon lo prese per il colletto della maglietta rossa e lo attirò a sé, mordendosi le labbra e fissando i suoi occhi verde smeraldo in quelli azzurro cielo del suo uomo. Lo baciò sensuale, e iniziò a sghignazzare quando, al tentativo di Jane di approfondire il bacio, lei si alzò sfuggendogli.
-Oh oh… ma come siamo impazienti!- disse –No, no. Devo disfare le valige, caro il mio giocoliere.-
Jane sorrise, meditando vendetta, e si buttò sul letto.
 
-Perché mi torturi?- le chiese, poco dopo, avvicinandosi a Teresa mentre lei metteva tutti i loro vestiti nell’armadio vittoriano sul lato sinistro della stanza. –Non abbiamo ancora visto cosa c’è di sopra...- le disse in un orecchio, accarezzandole la pelle con il respiro fino a fargliela formicolare e costringendola a chiudere gli occhi per non vedere la stanza vorticarle intorno.
-Smetti di fare il tentatore...- commentò lei in un sussurro caldo e profondo, sempre ad occhi chiusi, poggiando lieve la schiena al petto di Patrick.
-Perché dovrei?- sorrise lui, baciandole il collo –Siamo in una suite stupenda solo io e te. E’ la prima volta che siamo soli, da quando...- non finì la frase e soffocò le parole mordendole la spalla.
-Patrick, ti prego, non adesso.- disse spegnendo un gemito e cercando di allontanarlo, lei, contro voglia.
-Come sei pignola e perfettina!- commentò lui, rafforzando la stretta delle sue mani sui fianchi della sua donna.
-Come sei disubbidiente e disordinato!- rispose lei, con un sorriso, abbandonandosi all’abbraccio caldo e confortante di Patrick.
-Ci sei tu a correggermi, no?- chiese lui, continuando a baciarle il collo e le spalle e accarezzandole la pelle sotto la maglietta.
-Come no...- provò a iniziare, perdendo l’ultimo briciolo di lucidità quando Jane, con una mossa repentina e forte la voltò fino a farla finire faccia a faccia con lui.
Lei lo guardò un solo secondo, prima che le sue mani corressero ai capelli di Patrick ora neri, e lui con una la stringesse contro di lui e con l’altra le accarezzasse la nuca con i polpastrelli e si lasciassero andare a un bacio incandescente.
Ma, proprio mentre Lisbon lo trascinava verso il letto, tentando di sbottonargli la camicia, Jane la spinse fino a farla cadere sul materasso e si girò per andarsene.
-Oh, no… come siamo impazienti. Devi finire di disfare le valige!- disse, ridendo sotto i baffi.
-Piccolo, brutto e stronzo bastardo che non sei altro... era una vendetta questa?- rise anche lei tirandogli un cuscino e colpendolo in pieno in testa. –Non cambi proprio mai, eh?–
-Non ti piacerei allo stesso modo se fossi diverso!- le sorrise lui, avviandosi alle scale a chiocciola che andavano a un piano superiore della suite.
-Chi lo sa...- lo prese in giro lei, alzandosi dal letto con il sorriso e ricominciando a sistemare i vestiti. -... Potrei sempre innamorarmi di un tipo come Cho, così sicuro e maturo... sì, credo che potrei.-
Jane si affacciò dallo scalino scrutandola, curioso e dubbioso. –Naa… non fa per te. Tu sei attratta dal fascino del mistero, come me!–
-Contaci.- annuii lei, divertita dal comportamento perennemente infantile di Patrick.
-Teresa... vieni subito qui sopra!- la chiamò dal piano superiore con una voce che la allarmò.
-Che c’è?- chiese, correndo su per le scale –Che succe...- iniziò, bloccandosi a metà parola, guardando quello che aveva davanti.
Il piano di sopra non era niente meno che una grossa piscina sotto una cupola di vetro oscurato, con tanto di lettini prendisole e cuscini bianchi. Il pavimento era tutto in piastrelle di mosaico che formavano un disegno di delfini azzurri che sembravano saltare fino alla piscina, rialzata e anch’essa tutta fatta a piccoli tasselli di mosaico blu, azzurri, turchesi, verdi...
E il secondo giro di fantasie approdò nella mente di Lisbon, facendola di nuovo arrossire.
-Stai per caso arrossendo?- chiese Jane, girato di spalle.
-Cosa te lo fa pensare?-
Lui si girò, sorrise e strinse le spalle –Beh… suppongo ricorderai che io leggo la mente, vero?-
-See… certo.- commentò, avvicinandosi alla vasca.
-Vuoi scommettere?- le domandò lui, avvicinandosi come per abbracciarla.
-Certo che sì.- fu la risposta
-Mi stai forse sfidando? Allora dovrò punirti per la tua sfiducia nei miei confronti!- le sussurrò all’orecchio un momento prima di sollevarla di peso e lanciarla in acqua ancora prima che lei potesse anche solo aprire bocca.
-Ma allora sei davvero idiota!- lo accusò, tra le risate, schizzandolo. –Sono vestita!-
-Anche io...- disse lui, ammiccando e tuffandosi nell’acqua calda.
-Dobbiamo andare a pranzo!-
Lui finse una faccia preoccupata –Pure quello vuoi farmi pagare?-
Un ghigno compiaciuto si dipinse sul viso di Teresa –Non dovevi farmi vedere le due carte oro e la carta platino, cocco mio!-
-Ah! E’ così allora... va bene, andremo a pranzo. Ma... restiamo un po’ in piscina prima!- la supplicò
-Sei un bambino! Proprio un bambino.- scosse la testa lei avvicinandoglisi e abbracciandolo.
 
Scintillante nel suo abito verde smeraldo lungo fino a poco sotto il ginocchio, arricchita con una collana, un bracciale, un paio di orecchini di smeraldi e un pochette bianca come il copri spalle, Lisbon si avvicinò a Jane, uscito in quel momento dal bagno vestito di tutto punto, in un completo due pezzi nero e nuovo di zecca. –Wow.- commentarono contemporaneamente, dandosi un veloce bacio e avviandosi verso la sala da pranzo nel grande giardino dell’hotel.
 
-Cazzo!- esclamò Lisbon, appena entrata nella sala da pranzo, e riparandosi dietro la schiena di Jane.
-Come sei scurrile, Dakota, siamo in un posto di lusso!- commentò lui
-Smetti di fare il cretino e coprimi.- rispose lei, pizzicandogli il fianco.
-Ahia!- esclamò, massaggiandosi la parte offesa. –Credimi… in questa posizione non stai comoda te e non sto comodo io e la gente potrebbe pensare male...- sospirò –Si può sapere che c’è?-
-Niente...- disse lei, alzandosi e prendendolo a braccetto, un po’ pallida.
-Te l’ho già detto che sei meravigliosa in quest’abito?- giudicò Patrick, guardandola con uno strano luccichio nello sguardo. –Il verde si intona in modo incredibile alla tua carnagione, ai tuoi occhi e anche ai tuoi capelli. E’ decisamente il tuo colore. Cercherei di sedurti, se non fossi già mia...-
-Grazie...- disse lei, arrossendo –Sappi che l’ho messo solo perché me lo hai chiesto te!-
Si diressero verso un tavolo in un angolo della sala, mentre i clienti si giravano a guardarli. Lisbon, in cuor suo, desiderò con tutta sé stessa che quell’uomo non la notasse.
-Teresa!- esclamò una voce allegra due tavoli più in là di quello dove erano Jane e Lisbon. Si irrigidirono, ma non si voltarono.
-Chi è?- sussurrò Jane.
-Ouh…- commentò Teresa, sedendosi e sentendosi osservata. –Il mio professore universitario...-
-Teresa!- ripeté la stessa voce, adesso proprio accanto a loro –Teresa Lisbon... non ci posso credere! Quanto tempo, eh, Tessie?- disse.
Teresa si alzò, per salutare per bene quel capitolo della sua vita che sperava di aver chiuso, e si ritrovò stritolata nell’abbraccio di quell’uomo di vent’anni più grande di lei.
La mano dell’uomo scese troppo in basso, tanto che Jane, rimasto piuttosto scioccato da tutto l’accaduto, fissò questa in un silenzio spiazzato mentre stringeva un po’ troppo un gluteo perfetto di Lisbon.
-Johnny!- arrossì lei, staccandosi velocemente da lui e facendo segno a Jane di alzarsi. –E non chiamarmi più così. Ora  sono sposata. Sono una Simmons.- disse, bluffando spudoratamente –Lui è Axel Simmons, mio marito.- lo presentò.
Jane, ancora sotto shock, non ritenne lecito correggerla in quel momento, allungò la mano all’uomo e la strinse, tirando fuori uno dei suoi sorrisi di cera migliori. –Piacere di conoscerla!- disse –Lei è?- chiese.
-Ah Ah… chi è lei, per rubarmi la donna, dovrei dire io.- rispose l’uomo, ridendo un po’ in imbarazzo e un po’ intenzionato a mettere in imbarazzo –Suvvia... siete sposati e tua moglie non ti ha detto di me? D’accordo che è stato un po’ di tempo fa, ma… siamo stati insieme cinque anni.-
Lisbon si sentì morire.
-Piuttosto... caspita, Tessie, sei uno schianto assoluto.- commentò, facendo alzare un sopracciglio a Jane, che, nel frattempo, sempre più confuso, si era riseduto al tavolo.
-Ehm… Grazie, Johnny. Axel, lui è Johnny Smith. Era il mio professore universitario.-
-E fidanzato!-
Teresa lanciò un’occhiata dispiaciuta a Jane, che però non la ricambiò e si finse indifferente, anzi –Vuole sedersi con noi?- chiese all’uomo
-Oh, no, grazie. Stavo andando via... stasera parto per tornare in patria, devo scappare.- sorrise –E’ stato un piacere Tess. E anche conoscere te, Axel. Sei un uomo fortunato...- ridacchiò e si allontanò, lasciando dietro di sé un silenzio glaciale.
-Patrick...- sussurrò lei, cercando di catturare lo sguardo del suo amato
-Non adesso, Dakota.-
 
La porta della stanza sbatté con violenza, facendo rimbombare tutto il mobilio. Jane, come una furia, si strappò dal collo la cravatta nera e la lanciò sul pavimento. Toccò alla giacca, che fece la stessa fine. Si sganciò il primo bottone della camicia, come se gli stringesse troppo alla gola. Camminò fino alla finestra e lì davanti si fermò, poggiò una mano sul fianco, dando le spalle alla porta, e passò l’altra mano tra i capelli, scompigliandoli.
Lisbon, ancora scossa dalla reazione di Jane che non riusciva a capire, gli si avvicinò, cercando di richiamare la sua attenzione.
-Non ti avvicinare, per favore. Non adesso...- le disse lui, trattenendo a stento di alzare la voce, con il risultato di tirare fuori una voce fredda e graffiante.
-Si può sapere che cosa è successo?- chiese allora lei, stizzita. Scalciò via i tacchi, che rimbalzarono inermi contro l’imbottitura del muro. Lanciò la pochette sul divano, poco lontano.
-Non è ovvio?- le rispose lui, girandosi e guardandola con occhi di fuoco.
-No. Scusami, Houdini, se non riesco a leggere la mente come fai tu... davvero non sai quanto mi dispiace!- fece, sarcastica, lei.
Lui si avvicinò, con fare quasi minaccioso, e lei reduce dei ricordi di quando era bambina, si allontanò di scatto.
Jane si fermò, la osservò e poi, guardando il soffitto scuotendo la testa, rise istericamente –Non ho intenzione di alzare un dito, contro di te, io. Non sono tuo padre...- disse, duro.
-Cosa ti ho fatto?- urlò lei, sentendolo così distante.
Patrick iniziò a gesticolare –Non iniziare a urlare contro di me. Non credi che avresti potuto dirmi che hai avuto una storia con il tuo professore dell’Università... anzi, ti rendi conto che io neppure sapevo che tu fossi andata all’università!- disse lui, a un tono di voce fin troppo alto.
-Cosa importa? Insomma.. tu sai tutto di me!- commentò lei –Sono io che non so niente di te...-
-Sai di me più di quanto io sappia di te, a questo punto, immagino.- gesticolò Jane, iniziando ad andare su e giù per la stanza
-Oh, certo, come no!- Teresa, gonfiando il petto e battendosi una mano sulla fronte come se avesse avuto una folgorazione –Certo… adesso capisco! Oh… hai ragione, io so davvero tanto di te.. molto più di quanto tu non ti sia permesso di estorcermi in otto anni che ti conosco. Sì, deve essere proprio così.-
-Non essere infantile...- ringhiò lui
-Io sarei infantile? Ti rendi conto che mi stai facendo una scenata perché non sapevi che sono andata all’università...- Teresa posò le mani sui fianchi e sospirò teatralmente
-Che mi dici di “Johnny”? Come mai non me ne hai parlato mai?- chiese lui, sempre più arrabbiato. Il suo petto andava su e giù.
-Vuoi davvero che ti racconti di tutti gli uomini con cui sono stata a letto? Oh… ma certo... Sono tanti, Patrick! Con alcuni ci sono stata mesi, con altri settimane, altri ancora mi hanno avuta per qualche giorno... di alcuni non ricordo neppure il nome, perché un tempo il mio migliore amico era il bourbon. Oh, sì, poi c’è qualcuno con cui sono riuscita a stare almeno un anno...-
-Cinque. Sai quanti sono cinque anni? Era una storia importante! Mio dio, Teresa, come hai fatto a omettermi che avevi avuto una storia tanto duratura alle spalle?- disse lui, alzando le mani sopra la testa e facendole ricadere lungo i fianchi
-Cavolo, Patrick, ero giovane, ero all’università… era un uomo affascinante, intelligente, sexy e ... beh, stronzo, pure. Ma... non ho mai provato molto per lui!-
-Oh, così sei una di quelle che stanno con un uomo solo per compiacerlo o per avere dei favori...- gridò lui.
Questo la ferì.
-Se ti riferisci alla mia semi-storia con Sam, sappi che è stato solo un bacio e comunque… io non sono una troia. Stai bene attento alle parole che usi!-
-Non ho detto “troia”, ho detto che sei servizievole...- commentò acido
-Tu non hai il diritto di dirmi come posso o non posso essere... stiamo insieme da poco più di una settimana, cavolo, cosa ti aspetti? Che ti racconti tutto quello che ho passato nella vita!-
-Come posso fidarmi di te, se non mi dici niente?- sbottò Jane, battendo un palmo contro una delle colonne di gesso che davano sulla camera verde.
-Come posso io fidarmi di te, dopo tutto quello che hai fatto?- disse lei, ormai al limite
Lui la guardò, con espressione furente –Sapevi che l’avrei fatto. Non me lo puoi rinfacciare.- sembrava offeso.
-Credevo che non lo dicessi sul serio… e io che ho lasciato tutto per te... per cosa? Per un assassino. Perché è questo che sei. Hai ucciso un uomo a sangue freddo… così, come se niente fosse! Cosa pretendi da me?- continuò a gridare Teresa
Patrick sembrava inorridito.
-Tu davvero pensi che lo abbia fatto con cuore leggero? Certo... ma sì, come no. Mi diverte proprio andare in giro con una pistola in tasca e sparare a chi capita... perché poi, ovviamente, era proprio una persona a caso, lui, no?- scosse la testa –Sei assurda, Lisbon.-
-Tu non me lo dici… ripeto, tra me e te il fenomeno da baraccone sei tu!- le lacrime ormai erano vicine. Era una sua maledizione: ogni volta che era arrabbiata le lacrime le salivano agli occhi, minacciando di uscire.
-Io non sono un fenomeno da baraccone! Sei tu quella che non condivide niente… io l’ho sempre detto. L’ho sempre detto che...-
-Sì, tu hai detto tante cose, Jane. Ne hai dette tante… ma visto che di quelle che hai detto sei riuscito a mantenere solo quelle orribili, come uccidere un uomo a sangue freddo, come posso darti retta?-
-Vorresti insinuare che non ho mantenuto la promessa di proteggerti sempre? Di salvarti sempre? Di esserci sempre per te?-
-Davvero tu pensi di averlo fatto? E… scusami se sono cattiva, venale e chissà che altro... ma non ti pare che il semplice fatto di aver ucciso un uomo, in servizio, in un posto pubblico, mentre eri sotto la mia custodia, con una pistola che non avresti dovuto avere dato che non hai un porto d’armi sia un modo per mantenerle?- chiese, retorica, ormai in preda all’isteria
-Non era un uomo qualunque!- si difese lui
-TI SEMBRA UN MOTIVO VALIDO PER UCCIDERLO? E COMUNQUE... POSSIBILE CHE SIA L’UNICA COSA CHE NOTI IN QUELLO CHE HO DETTO?-
-Si può sapere perché mi attacchi?-
-PERCHE’ MI ATTACCHI TU, SEMMAI?-
-Certo che tutto ti credevo, fuor che isterica…- disse, acido.
-COSA VORRESTI DIRE CON QUESTO?- Gli chiese lei, togliendosi gli orecchini di smeraldi e lanciandoglieli, colpendolo in pieno petto.
-NIENTE!-
-BENE!-
-BENE.-
Jane sospirò e Teresa lasciò che le lacrime si liberassero e sgorgassero fuori da quei suoi bellissimi occhi verdi.
-Oh, non piangerai adesso!- commentò lui, ancora acido.
-Forse non siamo fatti per stare insieme..- disse lei, triste e arrabbiata.
-Forse.- concordò lui, andando verso la porta.
-Che cosa fai?- gli chiese, andandogli incontro.
-Chiedo una camera singola...- rispose, aprendo la porta e chiudendosela alle spalle.
E Lisbon rimase lì, in silenzio, ascoltando solo il suono pesante e veloce del suo cuore che batteva all’impazzata.
Era la prima volta che litigavano da pseudo fidanzati quali erano, ed era la prima volta che litigavano così da quando si conoscevano. Forse stare insieme non era per loro. Forse non erano adatti a impegnarsi. Forse lui non era pronto. Forse lei non lo sarebbe mai stata.
E mentre sentiva il cuore strapparsi nel petto, sanguinante e dolorante, angosciato dall’ennesimo crollo della sua vita, quella porta si aprì di nuovo di scatto.
E Patrick, i lineamenti piegati in una smorfia di atroce sofferenza, i capelli spettinati e la camicia mezza sbottonata, rientrò come un turbine nella stanza e le arrivò addosso a una velocità che in una situazione normale sarebbe sembrata sovrumana.
Come una tigre che di soppiatto attacca la sua preda. E lei l’agnello che non può che sottomettersi a tanta forza.
Non fece a tempo a scansarsi. Le mani dell’uomo le bloccarono i fianchi, attirandola a se e fermandola in una morsa ferrea. Mani possessive e forti, cruente e quasi violente. E mentre le mani la avvicinavano sempre di più, facendole quasi male, le labbra di quell’uomo si infransero sulle sue. Quelle labbra non erano state più decise, forti, dure e feroci. Non c’era niente di quei baci dolci, passionali e tranquilli che si erano dati fino ad allora. Quello era una bacio di possesso. Le labbra di lui su quelle di lei non sembravano che ripetere “sei mia”. E Lisbon non poté che rispondere a quel bacio cruento. Quelle labbra sembravano quasi costringerla ad aprire le sue: lei lo fece, dischiuse le labbra e quel bacio divenne una danza ardente e aggressiva, prepotente.
Le mani di Jane strinsero ancora di più la vita di Teresa, avvicinandola alla sua e un gemito uscii lieve dalla bocca della donna, soffocato dall’ennesimo fiammeggiante bacio, quando una mano corse al suo collo, avvicinando i loro visi ancora di più e approfondendo quel contatto tanto intimo e brutale.
-Sono geloso... volevo... volevo smettere di litigare con… con te appena... appena iniziato...- sussurrò, roco e languido tra i baci e i sospiri, Jane.
-Non penso quel che ti ho detto...- biascicò Teresa, in un attimo di respiro.
-Neanche io… mi... mi dispiace...-
-Sei perdonato...- disse lei –Ora sta zitto, però…-
Patrick le tirò giù la zip del vestito, che cadde inerme per terra, e la tirò su facilmente, facendo aderire il suo corpo a quello di Teresa, che strinse le gambe intorno al busto del suo uomo, continuando a baciarlo, mentre lui la portava in una camera.
Fuori dalla finestre, una pioggia battente oscurava tutto.




Dice l'autrice:

Allora... il titolo "precedente" al definitivo doveva essere "un serie di prime volte", perché avevo inserito anche la parte successiva... non c'è bisogno che specifichi, non è vero? Bene, quindi, detto ciò...
Ho deciso di non farlo perché: Non sono ancora sicura di voler scrivere quella parte con un pov esterno, volevo tenervi sulle spine e volevo essere sicura che il capitolo fosse leggibile e non spropositato come quelli bellissimi della mia beta (Winter Soul, a chi interessasse.). 
Detto questo, poi, volevo avvisarvi che non sarà tutto rose e fiori come credevate fino a metà di questo capitolo. Oh, no, care mie. Stiamo parlando di vita reale e nella vita reale nessuno vive felice e contento e sereno e allegro e sorridente per sempre. Insomma, magari è felice per sempre, ma sorridente no di sicuro. Quindi, un po' di realtà, ragazze, eh?
Benissimo, spero che vi piaccia questo capitolo, perché voglio sei recensioni. E non si discute.
Inoltre, vorrei dedicarlo a Amy90 (Giadina!!) perché ho totalmente abbandonato le sue recensioni spulciose e spero che anche se io sono stata così... cattivella, lei mi faccia una di quelle recensioni che amo. Spero di essermi riscattata, con la dedica.
Ho finito di sproloquiare, adesso, lo prometto.
Benissimo, fatemi sapere cosa ne pensate e... alla prossima!

Sasy 

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Capitolo 7
*** Dancing in the rain ***


DANCING IN THE RAIN



La cupola del vaticano si stagliava brillante, sotto quella pioggia battente, illuminata dai fulmini che nel cielo rischiaravano una notte buia e fredda. Il vento sibilava negli spifferi, le finestre vibravano e tutto sembrava essersi fossilizzato in un attimo di glaciale, infinita e impersonale interruzione. Che fosse la pioggia, che fosse il vento, che fossero i tuoni e i fulmini, il tempo si era bloccato, fermato come se tutto, all’improvviso, non importasse più. Come se andare avanti, in quel momento, sembrasse troppo difficile o troppo pericoloso, come se quel momento fosse perfetto, da qualche parte per qualche persona.
Il buio della notte assorbiva ogni altra luce o colore. I ristoranti chiudevano, poche macchine correvano, nessuno camminava per la strada. Anche le televisioni ormai tacevano e neppure un mendicante sembrava intenzionato a disturbare quella nera quiete che poche volte ci è concesso di vivere. A volte è la pioggia a creare quelle atmosfere eteree che non sono possibili da dimenticare.
Le scene più belle dei film, ad esempio. Chi non ha amato quel tanto agognato bacio sotto la pioggia in Colazione da Tiffany?
La pioggia è qualcosa di speciale e particolare. A volte ispira tristezza, a volte ci porta a vivere momenti indimenticabili, perfetti e incredibili.
I gatti avevano smesso di miagolare, i cani di abbaiare, le persone di parlare. Qualche ragazza, affacciata alla finestra, osservava pigra le gocce cadere sull’asfalto scuro della strada.
Da qualche teatro arrivava il suono dolce e melodioso di un assolo di violino e le rovine di quell’antica grandezza si facevano accarezzare docili dall’acqua piovana.
Tutto fermo, tutto immobile.
E due anime stavano sospese in un istante senza tempo né spazio. Lì, amandosi, desiderandosi.
Mentre la pioggia faceva da cornice, la loro personale prima meta bruciava in una lenta passione incandescente, lasciando ad entrambi il tempo di assaporare ogni minimo piacere, ogni minimo movimento, ogni minimo colore, ogni minima sfumatura.
Lentamente, senza fretta, ma con ardore e desiderio, con impazienza ed esigenza.
Patrick Jane posò Teresa sul letto: la guardava negli occhi, quasi preoccupato, quasi impaurito. Lei lo osservava tranquilla, come in estasi, mentre gli slacciava la camicia e la faceva scivolare, lungo le braccia e la schiena fino a farla cadere a terra.
Un fulmine squarciò il cielo nel momento in cui con mani sicure e sguardo fiero, Teresa si slacciò il reggiseno, facendolo finire insieme alla camicia.
Jane trattenne un sospiro, osservandola alla luce della grande, piena e luminosa luna che brillava nel cielo, nonostante le nuvole e la pioggia. Lisbon quasi rise, vedendolo così intimorito, e allacciando le dita dietro la sua nuca lo tirò a sé, fino a che non ebbe l’orecchio a portata di voce.
-Non pensare, per una volta. Sono sicura che ti ricordi come si fa... – gli sussurrò roca, iniziando a disegnare con le labbra righe curve tra il lobo e la mascella sulla sua pelle calda.
Tutta la furia, la rabbia, l’angoscia di pochi istanti prima sembrava annientarsi, sotto quella timida insicurezza.
Le mani di Patrick corsero ai fianchi di Teresa, la spostò, avvicinandola a sé, e assaporando in quel contatto la pelle della sua donna, della sua amata.
Lisbon fu più sfrontata: con la sicurezza di chi, in certi momenti, si lascia andare alla sola passione invece che alla mente, slacciò i pantaloni neri di Patrick e, scivolando sinuosamente sulle lenzuola li fece scendere, lentamente. Il semplice essere finalmente accarezzato di nuovo, procurava a Patrick scariche di piacere che aveva dimenticato quanto fossero importanti ed intense. Aveva dimenticato come ci si sentisse ad essere amati, desiderati, sfiorati.
La riportò davanti a sé e la baciò, intensamente, dolcemente, mentre con una mossa repentina liberava entrambi da ogni ostacolo di stoffa che ormai li dividesse e, riscoprendo quel piacere dato dal possesso e dall’appagamento, le accarezzò il seno con le labbra e il corpo con le mani facendola inarcare contro di lui e respirare affannosamente, mentre il tempo continuava ad andare più pigramente del normale, come un vecchio amico che fa di tutto pur di donare un momento di pacifica perfezione alle persone che più di tutte vuole vedere felici.
Un gemito li colpì quando i loro corpi nudi si toccarono, una scarica di adrenalina unita a un puro ed infinito calore.
Teresa afferrò i ricci scuri del suo amante tra le dita ed affondò il viso nell’incavo della sua spalla, odorando la fragranza  intensa di tè che la sua pelle emanava.
Patrick le accarezzò il fianco, la coscia, la gamba ed afferrò il polpaccio, legandoselo dietro la schiena. Aspettò che lei lo guardasse, poi, con un movimento lento, dolce e voluttuoso, entrò in lei.
Tutto intorno si fece silenzioso, come fosse chiuso in una cappa di vetro dove nessun suono poteva essere sentito ma ogni sensazione veniva amplificata. Non sentì il suo gemito, quando gli uscì dalle labbra, ma lo percepì, gorgogliante, nel profondo del suo essere. Non sentì più la pioggia schiaffeggiare il vetro, non sentì più il fruscio del vento e lo sfregare delle lenzuola.
Ogni sua concezione era sparita, come se il suo essere un osservatore ed ascoltatore di professione fosse scomparso d’improvviso. Sentiva solo il battere del suo cuore pulsare in ogni vena, sincronizzato a quello della piccola leonessa che adesso non era che sua.
La vide chiudere gli occhi ed aprire la bocca, istintivamente, mentre una lacrima le scivolava sulla guancia rossa, e lui dischiuse le labbra lasciando morire un respiro proprio lì, spezzato.
Iniziò a muoversi, dentro di lei, le afferrò le braccia, costringendogliele sopra la testa, e la baciò.
Come si descrive un amore sognato e represso da anni, quando finalmente scoppia nella sua più passionale ed intensa forma? Come si mette in parole quel desiderio penetrante e sfibrante, nel momento in cui viene appagato? Quali sono gli aggettivi, i verbi, i sostantivi che si possono scomodare per descrivere l’indescrivibile?
Diamo parole ai sentimenti per renderli noti a tutti, perché ognuno possa dare a una parola una sintomatologia diversa. L’amore, fisico e psichico che sia, per ognuno è diverso. Per alcuni può essere quando le ginocchia cedono, per altri è un’aspirazione nascosta e vibrante, per altri ancora è un vortice che fa girare la testa fino a far perdere il controllo, dando la sensazione di avere tutte le ossa rotte e il cervello ovunque, tranne che nella propria testa.
Come accompagnati dal crescendo di una musica classica, come se tutto fosse davvero un grande film d’amore, i loro corpi erano illuminati dalla luce dei lampi e i loro respiri coperti dal rumore dei tuoni e dalle note di una musica inesistente.
Oscurità, luce. Bontà, malvagità. Uomo, donna. In un gioco di opposti dove ogni cosa si interseca come un puzzle, loro due capirono di essere due pezzi perfettamente combacianti, due estremità che non hanno bisogno di forzature per stare insieme. Non poteva esistere l’uno senza l’altra esattamente come non potevano esistere la luce senza l’oscurità, il bene senza il male, l’agnello senza la tigre, la vita senza la morte. 
Più veloce, più forte. Continuarono a muoversi, tra baci e carezze. Ansimavano beati, affamati e affaticati, alla ricerca di quell’appagamento che solo chi l’ha provato lo può conoscere, e chi non l’ha mai conosciuto non ha che le parole di qualcun’altro per provare a descriverlo.
Patrick la baciò di nuovo, quando seppe di essere ormai vicino. E quando entrambi arrivarono al culmine, in un grido rauco, due uniche parole risuonarono nella stanza, accompagnate dalla melodia dei loro respiri e dal ritmo delle gocce c’acqua.
-Patrick!-
-Teresa!-
Ancora ansimanti, concessero ai nervi il permesso di distendersi. Jane si accasciò su di lei, ben attento a non farle male, ma per niente intenzionato a perdere il contatto tra di loro.
-Ti amo...- le sussurrò all’orecchio, in un sorriso.
Lei lo abbracciò, sorridendo –Anche io.-
E si addormentarono poco dopo, provando a contare i battiti dei loro cuori, irrimediabilmente uniti, e a distinguere l’uno il profumo dell’altra, ormai fatalmente mischiati.
 
 
Delle carezze leggere sulla pelle e il tocco lieve del sole la svegliarono da quel piccolo paradiso personale in cui era caduta. Era mattina ormai e il tiepido calore del suo amante la faceva sentire in un limbo di perfezione. Sorrise a occhi chiusi e si accoccolò meglio contro il petto di Patrick, fino a che non sentì il suo respiro sui capelli.
-Buongiorno, raggio di sole.- le sussurrò lei nell’orecchio -Dormito bene?- chiese
-Benissimo. Buongiorno a te.- rispose lei, senza aprire gli occhi e voltando la testa per farsi baciare. -E tu?-
Patrick le sfiorò l’orecchio con le labbra e sorrise -Non mi lamento...- disse.
Teresa rise piano. -Sempre a fare lo scemo...-
-Scemo ma bellissimo.- rispose lui, mordendole delicatamente la spalla.
-Su questo non c’è dubbio.- sospirò lei –Anche se ingrandisce il tuo smisurato ego, devo ammetterlo. Sei dannatamente bello.-
-No. Tu sei dannatamente bella. Oh, meglio, angelicamente bella.- controbatté lui
-Io l’angelo e tu il diavolo?- ripeté Lisbon –Uhm... sì, mi sembra giusto.- esclamò
-Ah sì, eh? Io sarei il diavolo?-
-Il diavolo dannatamente bello. Dovresti ringraziarmi.- disse lei, giocando con le sue mani. –Adoro le tue mani...-
Patrick ne alzò una davanti ai suoi occhi e la studiò, con fare pensoso. –Già, non sono affatto male... perfette per qualsiasi cosa.- disse, con il sorriso nella voce e sulle labbra.
Lisbon aprì un occhio e glielo fissò in volto –Oddio, Patrick! Sei orribile.- disse, storcendo la bocca.
-Hai detto poco fa che sono meraviglioso e dannatamente bello... sei un po’ lunatica stamattina, eh?- le rispose lui, giocoso.
-Sai a cosa mi riferisco.- asserì lei, tirandogli un leggero schiaffetto sul dorso della mano. -Sei un maiale.-
-Così mi offendi.- le disse, passando leggero le labbra sulla pelle scoperta tra la spalla e il collo della sua donna.
-Non sembri particolarmente offeso.- osservò la mora.
Lui sorrise -Ah, beh, sono uno che si adatta...- le morse il lobo dell’orecchio, facendola sospirare –E comunque... la malizia sta negli occhi di chi guarda.-
Lei si girò, lo guardò e poi, con fare felino, lo butto giù di schiena sul letto, mettendoglisi a cavalcioni sugli addominali.
Lui la osservò esterrefatto –Che stai facendo?- domandò
-Prendo il comando.- rispose, scendendo con le labbra dal petto al ventre.
 
Ben presto l’ora di pranzo arrivò e passò senza che ne Jane ne Lisbon si alzassero dal letto.
Nessuno osò entrare a sistemare la stanza, visto il “Do not Disturbe” attaccato proprio fuori dalla porta.
Niente poté indurre i due amanti a uscire da quella fantastica suite, prima di aver fatto un bagno in vasca o essersi accoccolati sul divano a guardare vecchi film in italiano senza capirne che poche parole.
-Dobbiamo parlare.- esordì Teresa, accoccolata sul petto di Patrick sotto una coperta leggera. Fuori dalle finestre ancora impazzava una bufera di pioggia.
Lui le scostò i capelli dal viso, la osservò e lasciò che il sorriso gli scivolasse via dal volto.
-Lo so. Ma speravo lo stesso che non lo dicessi.- le rispose.
Lisbon si alzò spostandosi al lato opposto del divano e si rannicchiò contro il bracciolo, con le gambe strette al petto. -Ho avuto delle storie, quando già lavoravo con te.- disse
-Lo immagino, sei una bella donna. Interessante. E sei umana, hai bisogno di contatto e…- iniziò lui
-No. Non entrare nella mia testa.- lo interruppe lei - Ho avuto altre storie non perché non riuscissi a stare senza contatto fisico fino a che non ti avrei avuto. Ma perché ero certa che non saresti mai stato mio, pertanto cercavo di dimenticarti, lasciandomi andare tra le braccia di altri uomini.- confessò
-Tu sei la prima dopo mia moglie.- disse Jane, dopo un po’.
Lisbon sospirò –Sono stata con Mashburne.-
Patrick alzò gli occhi su di lei, esterrefatto –Come? Non ci credo.-
-E i tuoi poteri? Non l’avevi notato?- gli rispose Teresa, con un’occhiataccia.
-Ma… Mashburne? No. Quell’uomo con così poco buon gusto...- commentò.
Lisbon gli pizzicò una gamba –E’ stata una sola notte!- si difese.
Lui la guardò, massaggiandosi la parte offesa, e annuì.
-Capito.-
-Ho avuto... tre storie importanti, prima di te. Una, la prima, con Johnny, il mio professore universitario. La seconda è stata… quando? Nel novantacinque, con un avvocato che lasciai poco dopo essere entrata in polizia perché non approvava il “cattivo impiego che avrei fatto della mia intelligenza e della mia cultura”. Siamo stati insieme quattro anni. E l’ultima con un mio collega, quando ero nella squadra di Bosco. Ci lasciammo perché io fui trasferita a Sacramento e ti conobbi...- elencò Teresa –Siamo stati insieme tre anni e mezzo, perché...-
-Sei stata trasferita a Sacramento nel 2003, e ci siamo conosciuti il primo giorno di primavera del 2004.- completò l’uomo, picchiettandosi le labbra con l’indice.
Lisbon annuì. –Sta a te.- disse.
-Oh, beh... io ho avuto una storia importante soltanto. Con Angela. Avevo diciassette anni quando ci siamo ‘messi insieme’...- iniziò, mimando le virgolette con le dita –E ventuno quando ci siamo sposati. E poi, nel 2002 l’assassinio. Avevo trentadue anni.-
Una leggera tristezza avvolse Patrick mentre raccontava la sua lunga storia con Angela. Teresa gli si avvicinò, gli prese il volto tra le mani e, guardandolo negli occhi chiari improvvisamente malinconici, gli sussurrò: -Parlami di loro...-
E tornò ad accoccolarsi sul petto caldo del suo uomo, osservando le gocce d’acqua scivolare pigre sui vetri.
-Angela, prima che scappassimo, faceva la trapezista.- disse Patrick, dopo una lunga pausa. -La incontrai il giorno stesso in cui i suoi genitori si unirono al nostro gruppo di circensi. Lei studiava in casa e quando diventammo amici iniziammo a studiare insieme. Alla fine lei si diplomò, io no. Comunque, a vent’anni ce ne siamo andati e da allora ne io ne lei abbiamo più rivisto i nostri genitori. Lei si laureò poco dopo essere rimasta incinta di Charlotte.- sospirò –Ricordo che i primi anni fu difficile, nessuno dei due aveva idea di come si crescesse davvero una figlia... poi io iniziai a fare il sensitivo e diventammo ricchi. Molto ricchi. Mandammo Charlotte nelle migliori scuole private e ci comprammo una grande villa a Malibù e... e poi io diventai fanatico e mi persi un sacco di cose della crescita di mia figlia, dimenticai mia moglie, la tradii… sono stato un vero stronzo. Ricordo che la domenica andavamo tutti e tre alla messa e mia figlia voleva sempre stare sulle mie spalle... profumava sempre di fragole e crema, era il suo sciampo preferito, l’unico che volesse.-
Una lacrima gli scivolò sulla guancia, perdendosi nel colletto della camicia.
Lisbon gli prese la mano e se la strinse al petto.
-Mi dispiace, non volevo...- cercò di scusarsi, pentita di avergli chiesto di rivivere i momenti belli con la famiglia che non avrebbe più potuto avere.
-Grazie.- esclamò Jane, d’improvviso.
Teresa strinse gli occhi e si morse le labbra, cercando di non permettere alle lacrime di bagnarle il viso.
-Non ricordo molto di quando mia madre era viva. Mi ricordo il suo profumo... un misto tra rose selvatiche e aghi di pino. Il colore rosso acceso del suo rossetto e i suoi occhi verdi, più chiari dei miei. Avevo dieci anni quando morì, davo tutto per scontato, all’epoca. Non avevo mai pensato che la mia fortuna finisse. Vivevo in una famiglia felice, unita... mio padre sorrideva, giocava con me e i miei fratelli, lavorava fino a tardi, però non faceva mai vedere che era stanco. Mia madre ci preparava i panini per andare a scuola la mattina e ci cantava le canzoni, in macchina. Ricordo che il giorno in cui morì avevamo litigato, le avevo detto che una brava mamma mi avrebbe mandata a dormire da un’amica. E che lei non era una brava mamma.- alla fine, le lacrime le uscirono comunque –Lei mi disse che un giorno avrei capito. Un giorno sarei stata madre, e avrei capito che c’è un età per tutto e che l’educazione è importante...-
Patrick la avvolse con le braccia e la strinse a sé più che poté, inspirò l’odore di vaniglia dei suoi capelli e la cullò dolcemente, come fosse un oggetto delicato, da non danneggiare.
-Il primo giorno che ti ho vista ho pensato che un giorno mi avresti salvato.- le disse, in un soffio.
Teresa sorrise, lieta –Io ho pensato che mi avresti fatto finire in una marea di casini, ma che alla fine saremmo finiti per stare insieme. Altrimenti ti avrei ucciso.-  rispose.
Patrick rise, divertito –Meno male che è andata così, allora.-
-Bah, io non ne sarei sicuro, fossi in te... potrei ancora ucciderti: Dakota ha il porto d’armi.- commentò lei, sorridendo.
-Ahia!-
Altri minuti di intimo silenzio passarono tranquilli, mentre loro rimanevano abbracciati su quel divano vittoriano.
-Non pensavo che alla fine ce l’avrei fatta. Credevo che sarei rimasto solo.- affermò lui, alla fine.
-Everybody needs somebody.. everybody needs somebody to love…- canticchiò Teresa in risposta. –Ho sempre sostenuto che i Blues Brothers avessero ragione, quando cantavano quella canzone. Tutti hanno bisogno di qualcuno.-
Lui ridacchiò. –Forse hai ragione...  Sweetheart to miss… sweetheart to miss... Sugar to kiss… sugar to kiss- canto lui.
-Yeah!- fece lei, muovendo le spalle -I need you you you… I need you you you…- continuò
-… I need you you you in the morning… I need you you you… When my soul's on fire!- fecero in duetto, prima di scoppiare a ridere come due adolescenti.
Teresa si alzò dal divano trascinando con se Patrick, accese lo stereo e cercò una stazione dove mandassero canzoni americane.
All’improvviso l’aria della stanza si riempì di musica e di risate. Lisbon si fermò su un canale dove stavano dando Wonderful, di Gary Go, alzò a tutto volume e iniziò a cantare con il cantante. Prese Patrick per la mano e se lo avvicinò, iniziando a ballare e saltellare come una ragazzina.
 
Si scatenarono come fossero in discoteca, ballando sulle note di tante canzoni diverse, baciandosi e rincorrendosi per la stanza.
Fino a che il pomeriggio non lasciò posto alla sera e non venne il momento di andare a cena.
 
Ancora ridacchiando, scesero per mano fino al giardino e si sedettero allo stesso tavolo della sera prima.
Quando il cameriere arrivò per chiedere le ordinazioni erano ancora lì che cinguettavano nemmeno avessero avuto quindici anni e quello, tutto d’un pezzo, non si smosse fino a che non ebbero smesso di guardarsi ed ebbero ordinato la cena.
Alla fine, però, dovettero tornare a parlare di argomenti seri. Argomenti da quarantenni americani in fuga.
-Quindi... dobbiamo decidere se rimanere o partire di nuovo.- iniziò Teresa, tagliando un pezzo di carne e portandoselo alla bocca.
-Perché non dovremmo restare? Che pericolo corriamo?- chiese Jane, arrotolando gli spaghetti intorno alla forchetta.
-Al momento nessuno, ma prevenire è sempre meglio che curare, non credi?- domandò lei, una volta mandato giù il boccone di saltimbocca.
-Sì, però siamo qui da nemmeno due giorni...- fece notare lui
-Ma io non dico di partire adesso, semplicemente pensavo di non rimanere qui troppo a lungo...-
Jane bevve un sorso di vino rosso e osservò Teresa picchiettarsi la forchetta all’angolo della bocca, pensierosa.
-No, certo. Non penso che rimarremo molto più di qualche settimana, però non c’è bisogno di andare via così presto... insomma, possiamo prendere tutto questo un po’ come una vacanza, no?- domandò.
Lei lo squadrò –Una vacanza senza fine, però.- sospirò
-Possiamo fermarci, a un certo punto, immagino. Dobbiamo solo aspettare che le acque si siano calmate. Adesso sarebbe troppo presto per stabilirci, no? Io sono fresco fresco di morte...- fece, in tono macabro.
-Simpatico.- lo prese in giro lei –Sì, ovviamente. Non possiamo stabilirci subito... e comunque all’inizio dovremo trovare un posto sicuro, calmo...-
-Come un paesino in svizzera!- esclamò lui, ritirando in ballo la discussione che avevano avuto poco più di una settimana prima, a New Orleans.
-Mi pare di averti già detto cosa penso della Svizzera, no?- le domandò sarcastica, inghiottendo l’ennesimo morbido pezzo di vitella.
-Sì, ma  io ho anche detto che potremmo permettercelo tranquillamente!- esclamò lui, puntandole contro la posata.
-Quanto sei noioso... vediamo, okay? Ora facciamo come hai detto te: Prendiamola come una vacanza. Magari fra qualche anno potremo pure tornare in America, andare in Montana, in Minnesota...-
-Alle Hawaii!- disse lui, mettendosi una mano davanti alla bocca mangiando la pasta. –Uhm... ottima questa pasta! Cavolo, devo farmi spiegare dagli italiani come farla. Noi non la sappiamo proprio fare...- esclamò poi.
Teresa allungò la forchetta nel piatto di Patrick e assaggiò i suoi spaghetti alla carbonara. –Hai ragione, noi non la sappiamo proprio cucinare la pasta.- affermò.
-Primitiva!- le sibilò lui, dandole un giocoso schiaffo sulla mano con la forchetta infilata nel suo piatto.
-Serviti pure anche te, uomo di grande classe...- gli disse lei, indicando il suo piatto tipico. -...comunque, vacanza, giusto? E dove andiamo dopo?-
Patrick si pulì la bocca dalla salsa burro e vino del piatto di Teresa.
 –Ho sempre voluto visitare Firenze.- disse
-La Firenze di quello che ha scritto la Commedia Divina?- chiese Lisbon.
Lui finse una faccia indignata. –E meno male che hai fatto l’università... la Firenze di Dante, il grande, grandissimo scrittore della Divina Commedia, di Michelangiolo, di Raffaello, di Da Vinci. La Firenze città d’arte, di storia, di cultura, di letteratura... Firenze. Una delle più belle città d’Italia e del mondo. La Firenze per cui una volta avevo pensato di studiare l’italiano... anzi, credo che ricomincerò a studiarlo!-.
Lisbon lo guardò divertita. –Non lo imparerai mai l’italiano!- lo sfidò
-Vuoi scommettere?- chiese lui
-Sì.- disse lei –Quanto?-
-Cento?-
Lei annuì –E sia. Cento dollari che...-
-Cento euro, siamo in Europa.- la corresse lui, continuando a mangiare la sua pasta.
-Uff… come sei pedante! Cento euro che non impari l’italiano. E’ troppo difficile!-
-Per me niente è troppo difficile. Ricordatelo, il mio cervello è un computer, è una tagliola. Può immagazzinare più dati di quanti tu possa mai immaginare...- disse
-Vedremo.- disse lei, finendo il suo piatto e bevendo l’ultimo sorso di vino nel suo bicchiere. –Ottima cena, devo dire!-
Patrick le sorrise.
 –Gli italiani sono famosi per la buona cucina, insieme ai francesi.-
Lei gli fece la linguaccia –Lo sapevo, perfido.-
-Sì, come la Firenze di quello che ha scritto la Commedia Divina...- la schernì lui.
-Io ho una laurea. Quindi: shh!-
Jane alzò le mani in segno di resa –Come vuoi, mia regina.-
Teresa rise –Scemo.-
-Bella.-
-Ruffiano.-
-Quando può portare ottimi risultati certo che sì!- le rispose lui, prima di prenderla per mano e riportarla in camera.







Dice l'autrice:
Buonasera a tutti, miei carissimi amici lettori! Allora, lo so che è un po' che non aggiorno, però credetemi... questo capitolo è stato difficile! Spero vi piaccia, anche perché in questo periodo mi sento molto più votata alla poesia che alla scrittura di FanFiction... ma, ehi, alla fine eccomi qui.
Come molti di voi desideravano, alla fine i due hanno... capitolato. E non mi sono trattenuta. O meglio, è ovvio, come avete letto io non descrivo la dovizia di particolari, anche perché... insomma, sarebbe stupido farlo, dato che non li conosco...
However, ditemi se vi è piaciuto.
Ringrazio tutti coloro che mi recensiscono ogni volta che pubblico un nuovo capitolo, tutti coloro che mi seguono, mi leggono e mi commentano. Siete grandi! 
Dedico questo capitolo alla mia beta (una scrittrice quasi più brava di me... quasi... la trovate sul fandom di Harry Potter, la sua Dramione è davvero meravigliosa. Come si chiama lei? Winter Soul. Andate e leggete!), alle mie Rogue, che in questo capitolo non sono comparse perché era un capitolo JisbonJisbonJisbon.
E a una persona in particolare, a cui qualcuno saprà dare un nome: A te, che ormai mi tormenti anche nei sogni.
E con questo ho concluso!

Un bacio grandissimo,

Sasy

 

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Capitolo 8
*** Bittersweet News ***


BITTERSWEET NEWS

 
Il caldo e l’afa sembravano non voler mollare quel giovedì di maggio. Neppure a San Francisco, una delle città più ventilate e fresche della California, sembrava possibile passare una giornata tranquilla senza rischiare di squagliarsi da un momento all’altro. Anche in Facoltà era difficile sopravvivere al calore umido del clima equatoriale di quella giornata primaverile. L’estate era arrivata in anticipo in America, quell’anno; o almeno, così recitavano a pappagallo i meteo nei canali televisivi e radiofonici.
Grace camminava spedita nei suoi vestiti sgargianti e con i capelli rossi raccolti in una treccia lunga, su e giù nell’università. Era il giorno della sua ultima tesi di laurea.
In fondo si era ripromessa di riprendere gli studi di architettura, una volta lasciata la polizia. E così aveva fatto, anche se adesso le forze dell’ordine le mancavano terribilmente.
Tra lei e Wayne tutto andava a meraviglia: avevano deciso di andare a vivere insieme, in una piccola villetta colorata con un bel giardino pieno di fiori.
Lui, come aveva detto, era andato a lavorare per la NCIS e vista la sua esperienza al CBI dopo pochi giorni di lavoro ai “piani alti” avevano deciso di elevarlo a livello di capo di una squadra investigativa. A quanto pareva era stata Hightower a mettere una buona parola su di lui e sulla squadra che era stata, nel suo periodo lavorativo dal 2004 al 2011, quella con il maggior numero di casi risolti.
Ogni volta che si perdeva nei ricordi della vecchia squadra, Grace era presa da una grande nostalgia: la mancavano le schermaglie teologiche con Patrick, i discorsi da donne con Teresa, il modo di fare di Kimball e il continuo smangiucchiare di Wayne.
Ora era una laureanda in architettura, era una colta progettista ventisettenne dai capelli rossi, un prestante futuro marito e tre migliori amici di cui due erano in giro non si sa dove in Europa.
Sorrise amaramente mentre saliva le scale con i tacchi che ticchettavano sul pavimento di legno, diretta verso la sala conferenze dove avrebbe esposto la tesi.
Il problema, però, era che Grace sentiva che qualcosa non stava andando bene. Non a Teresa e Patrick, che sicuramente si stavano godendo la “vacanza”, ma in generale.
Grace aveva la sensazione che presto qualcosa sarebbe andato storto, come se sapesse che LaRoche stava seguendo il caso di Patrick, e avessero scoperto che era evaso.
Beh, prima o poi l’avrebbero capito, nonostante l’inettitudine dei secondini... In fondo, mancava un corpo.
E poi LaRoche era troppo scaltro per lasciarsi scappare tanti piccoli dettagli, come ad esempio il fatto che  tutti si erano licenziati.
Probabilmente era solo paranoica, o era l’ansia pre-laurea, però lei si sentiva come se ci fosse qualcosa che non andava in città.
Arrivò nella sala, tirò un respiro profondo e guardò tra il pubblico: c’erano i suoi genitori, che si tenevano per mano seduti in prima fila, sua sorella Marie e suo fratello Peter vicini che parlottavano fitto fitto, Wayne che la guardava raggiante con i pollici alzati, Kim che, a braccia conserte, la osservava con un ombra di sorriso sul volto. E poi c’erano alcuni studenti, che assistevano per capire bene come fare, ma lei non li conosceva.
E, infine, la commissione che la aspettava al tavolo. Si sedette, agitata, e posò la tesi davanti a sé. Si passò le mani sulle gambe tentando di calmarsi, respirò profondamente di nuovo e iniziò a parlare.
 

*********

 
-Wow! Sei stata bravissima, amore!- le disse Wayne quando arrivarono a casa, dopo che la commissione la ebbe liquidata con un bel 105.
Ancora non ci credeva, che era riuscita a prendere la laurea. Abbracciò il fidanzato e poi la madre, il padre e i fratelli. Kim le strinse la mano, impassibile ma affettuoso allo stesso tempo.
-Non ci credo!- disse, al settimo cielo - E pensare che mi sentivo così strana stamani... come se dovesse succedere qualcosa da un momento all’altro... -
-Era solo l’ansia da prestazione, Grace.- le fece sua madre –Cosa sarebbe mai potuto andare male?-
Grace lanciò un’occhiata a Wayne e Kimball, che la ricambiarono turbati.
-Niente, mamma. Hai ragione...-
Il padre di Grace rise –E quando mai non ce l’hai, Elisabeth?-
-Ah, sta’ zitto, Ronald.- lo redarguì la donna, scuotendo la chioma bionda e cotonata e scoccando un’occhiata divertita al marito quasi calvo.
Riportò lo sguardo su Wayne e Grace, che si tenevano per mano teneramente, e sorrise, andando verso la cucina. -Vado a controllare il forno, prendete pure posto a tavola.- disse, camminando spedita.
Quando la donna tornò in sala da pranzo trovò il marito, Wayne e Kimball in una discussione sulla partita serale di football: Ronald diceva che avrebbero sicuramente vinto i Red Socks, mentre Wayne era convinto che questa sarebbe stata la volta buona per il Sacramento. Kimball era impassibile, ascoltava in silenzio con le braccia conserte e annuendo. Grace era assorta nei suoi pensieri e guardava distrattamente fuori dalla finestra che dava sul cortile, seguendo  con gli occhi il dondolio dell’altalena che un tempo era stata sua fedele compagna di giochi.
Elisabeth le se avvicinò e le posò una mano sulla spalla, facendola destare dai suoi pensieri.
-Ti andrebbe di aiutarmi in cucina?- le chiese, con un sorriso insolitamente dolce sul viso.
Grace sorrise annuendo e seguì la madre gettando un ultimo sguardo all’altalena mossa dal vento.
La cucina di casa Van Pelt era di una leggera tonalità crema, accogliente e sempre pervasa di un delizioso odore di miele e lavanda. I fornelli, sempre perfettamente in ordine, adesso accoglievano una grossa padella in cui rosolavano delle verdure tagliate a fettine, mentre dal forno emergeva il delizioso profumo dell’agnello. Dalla finestra invece entrava un lieve venticello: nella zona di San Francisco dove abitavano i genitori di Grace, infatti, faceva leggermente più freso e dal giardino davanti a casa arrivava una brezza leggera che sembrava trasportare l’odore di erba tagliata. La stanza, molto luminosa, aveva al centro un grande ripiano di marmo dove la signora Van Pelt stava tagliando una cipolla. Grace si guardò intorno e si avvicinò al frigorifero, prendendo una bottiglia d’acqua fresca e versandosene un po’ in un bicchiere.
-Sei incinta?-
Per poco non gli andò di traverso l’acqua che stava bevendo e dovette fare un grosso sforzo per non sputarla fuori per rispondere. Invece la ingollò tutta d’un sorso e guardò sua madre, che neppure si era girata per farle una domanda del genere; anzi, era rimasta a tagliuzzare la sua cipolla e la rossa avrebbe pure scommesso che stesse sogghignando.
-Mamma, ma che domande fai?- domandò
-Mi pareva di averti fatto una domanda per prima.- rispose, seria.
Grace sospirò -No, mamma. Non sono incinta.-
Elisabeth annuì per qualche secondo, prima di girarsi a guardare la figlia dritta negli occhi verdi. La fissò con i suoi occhi scuri a lungo e poi tornò alla sua cipolla.
-Allora qualcosa non va con il tuo vecchio lavoro... ho saputo cosa è successo a quel consulente di cui mi hai parlato spesso. L’hanno detto al telegiornale quello che ha fatto. Sai, per quanto io sia cattolica credo che questo… Jane abbia fatto bene a liberarsi di quell’uomo. Peccato l’abbia fatto nel modo sbagliato. Non c’è più giustizia in questo mondo, comunque.-
Grace la guardò in silenzio: sua madre era sempre stata molto perspicace, ed era stato difficile mentirle a volte. Però stavolta avevano fatto un giuramento, nessuno avrebbe mai dovuto dire una parola riguardo quanto fosse realmente successo quella notte del 13 aprile.
-Sì, mi dispiace molto per Jane. Ma ormai è acqua passata, non ci possiamo fare niente.- Grace si morse le labbra per quanto stava per dire, era pur sempre cattolica dopo tutto e mentire tanto spudoratamente non era il suo forte - Spero che Dio si prenda cura della sua anima, in paradiso.-
Sua madre annuì di nuovo, stavolta in modo più cerimonioso, e si affrettò a buttare le cipolle tagliate nella padella per farle rosolare insieme alla verdura.
-Mi dispiace per lui. E per tutti voi.- esclamò alla fine, riposando gli occhi sulla figlia, persa ad esaminare i residui di cipolla sul bancone di marmo chiaro. –Cosa ti turba, Grace?- le chiese allora la donna, vedendo ben al di là della maschera che Grace, tanto ostinatamente, continuava a portare.
La rossa spostò di nuovo lo sguardo sulla madre e le fece un sorriso triste –Niente di che, mamma. E’ tutta questa storia. E’ stato un brutto anno. Tra O’laghlin che...- scosse la testa, cacciando il pensiero – E Jane che ha ucciso John il Rosso, tutto il processo, finito con la sua condanna, la sua morte e poi la squadra che si è sciolta, il capo...-
-Teresa?- si intromise Elisabeth, che aveva conosciuto Lisbon alle prove del matrimonio di Grace e Craig, prima di tutto il disastro.
Grace annuì –Teresa che è andata dai fratelli e non si sa come stia o cosa faccia...- negli occhi della giovane passò un’ombra di tristezza ma la ricacciò subito.
Elisabeth posò la mano sul braccio della figlia stringendolo dolcemente –Si sistemerà tutto.- le sussurrò.
-Lo so mamma.-
La signora Van Pelt stava per fare un’altra domanda quando suonarono alla porta e Grace ne approfittò per andare ad aprire a sua sorella e suo fratello, ovviamente in ritardo.
La sorella di Grace le somigliava molto, a parte per i capelli e gli occhi – gli uni biondi, gli altri castani – , mentre il fratello era totalmente diverso, con i suoi lineamenti marcati tutti di suo padre e i capelli scuri del nonno.
-Ehi, laureata.- la apostrofarono contemporaneamente le due pesti gemelle che le erano capitate come fratelli.
-Ce ne hai messo di tempo per arrivare in fondo, eh?- la canzonò Marie, entrando in casa e buttandosi sul primo divano che trovò.
-Oh, non la prendere in giro!- accorse in suo soccorso suo fratello Peter.
Marie sorrise con i suoi denti bianchi e perfetti –Ma lo so, Pete. Ma la sorellona può difendersi da sola, non ha bisogno di templari per la sua causa.- proferì giocosa e con un gesto della mano che alla rossa ricordò tremendamente Jane. –Allora, quand’è che si mangia?-
Wayne lanciò un’occhiata alla sorella bionda della sua ragazza con aria grata, probabilmente non aveva fatto lui la domanda per educazione ma stava morendo di fame.
-E’ quasi pronto!- gridò Elisabeth dalla cucina –Anzi, Pete perché non porti i crostini in tavola, sono già pronti.-
Peter non se lo fece ripetere due volte. Nonostante tutte le differenze che aveva con la gemella, infatti, sul cibo erano uguali. Erano due ventunenni perennemente affamati e perennemente magri. Ma in fondo era una cosa di famiglia, probabilmente, visto che lei era quella che amava mangiare un bel cheeseburger o una tortina al cioccolato e panna senza farsi problematiche sul fisico. Su questo, lei e i suoi fratelli erano gocce d’acqua.
Il giovane portò prima i crostini, poi le bruschette ed infine gli affettati e mamma Elisabeth fece tranquillamente presente a tutti di non aspettarla, ma di iniziare a mangiare.
 

********

 
Dopo pranzo Kimball e Wayne erano seduti a tavola da soli, mentre Peter e suo padre tentavano di sistemare un cavo della tv nel salotto dove avrebbero visto la partita di football, le donne di casa stavano in cucina a chiacchierare di futili cose e la voce squillante e vivace della bella Marie spiccava sulle altre due, mentre parlava eccitata della sua futura laurea in legge e di quanto fosse meraviglioso il suo campus...
-Pensi quello che penso io?- domandò d’improvviso Rigsby, smangiucchiando un pezzetto di pane rimasto sulla tovaglia.
-Sto pensando che la sorella di Grace è davvero una ragazza affascinante.- rispose lui, guardandolo con i suoi scurissimi occhi a mandorla.
Wayne mugugnò –Intendevo, non pensi anche tu che sia strano che Lisbon non ci abbia scritto ancora? Sono passate molte settimane.-
Cho alzò le spalle, con aria saputa –Avranno avuto da fare, quei due. Hanno molto da recuperare, dopo tutto.- esclamò con un leggero timbro tra il divertito e il preoccupato.
-Sì, ma non ventiquattrore su ventiquattro per… quanto? Quasi due mesi. Insomma, non è possibile.- esclamò Wayne, spalancando i suoi occhi chiari.
Un lampo fugace di malizia passò negli occhi neri dell’orientale –Non so che dirti.-
-Forse dovremmo chiamare per chiedere come stanno.-
Kimball lo guardò impassibile ma in modo decisamente eloquente. Wayne non capì e al moro toccò spiegarsi, come se non avesse già parlato abbastanza per la giornata.
-Hai sentito di aerei caduti, ultimamente?- chiese
-No.- rispose Wayne confuso.
-Navi affondate?-
-No, ma perché ... –
-Duplici omicidi di persone chiamate Axel e Dakota?-
-No, però...-
-Allora non dobbiamo chiamarli noi. Ci chiameranno loro. Ce lo hanno detto: contattateci solo in caso di estrema urgenza, altrimenti saremo noi a cercarvi.- sospirò –Non vogliono metterci in pericolo, Wayne.-
Rigsby annuì, ma non era ancora convinto.
Dopo qualche minuto di perplessità, però, aveva già trovato qualcos’altro con cui trastullarsi. –Scommetto che sono in Svizzera.- disse, sicuro di sé.
Cho sogghignò –Non scommettere contro di me. Perderai, di nuovo.-
-Stavolta sono sicurissimo.- esclamò
-Duecento dollari che sono andati dritti dritti in Svizzera.-
Cho sorrise apertamente e porse la mano a Wayne –Duecento dollari che non ci sono andati, perché Lisbon avrà sicuramente da ridire sul fatto che per entrare in Svizzera ci vogliono tanti soldi.-
Wayne era sicuro, e strinse la mano di Kimball con sicurezza –Dove dici che sono, allora?- chiese
-Italia. O Belgio, Inghilterra, Francia… questi posti qui. Anche la Spagna è una possibilità.- commentò l’orientale, con ancora il sorriso sulle labbra.
La loro diatriba territoriale fu interrotta dal grido di gioia dei due uomini di casa, che si stavano battendo il cinque proprio nel momento in cui i due si girarono a guardarli.
Avevano riparato la televisione.
-Wayne, Kimball, venite a vedere la partita?- domandò il signor Van Pelt,  con i capelli rossi arruffati per via dell’essere stato sotto il mobiletto della TV per tutto quel tempo.
I due si scambiarono un’occhiata esasperata e si alzarono dal tavolo per raggiungere Peter e Ronald sul divano del salotto.
Il salotto di casa Van Pelt, al contrario della cucina, era impostato su colori più freddi. Le pareti, coperte da carta da parati color celeste pastello con eleganti ricami bianchi, erano tappezzate di foto di famiglia incorniciate in quadri bianchi che richiamavano al mare: alcuni infatti avevano gli angoli a forma di conchiglie, o di scogli. Talvolta di pesci. Altre cornici invece riportavano raffigurazioni di angioletti in diverse posizioni e azioni.
Il divano e le poltrone, bianchi, erano cosparsi di cuscini dei colori del mare e i mobili scuri, a contrasto con l’impatto chiaro della stanza ma perfettamente integrati alla stanza, erano di stampo marinaro. E a completare l’opera c’erano alcune barchette in bottiglia e un vassoio stracolmo di  conchiglie di ogni tipo. Beh, non era da biasimare la scelta dell’arredamento di quella stanza, da cui si vedeva, proprio dietro la televisione, dalle finestre grandi e ammantate di tende azzurre e bianche, l’oceano su cui San Francisco è costruita.
La famiglia Van Pelt, tra l’altro, viveva in un quartiere residenziale molto bello e ricco, fatto di casette bianche tutte composte di un grande giardino, un cortiletto interno e spiaggia. Una specie di villaggio, da poco costruito proprio accanto alla bella Frisco.
-Adoro questa stanza...- esclamò Marie, entrando in salotto con un vassoio con i caffè -... E’ decisamente la mia preferita nella casa.-
Grace entrò in quel momento sorseggiando la sua camomilla –Concordo, anche se a me piace moltissimo la camera di mamma e papà.-
Peter si tuffò su una poltrona, sistemandosi per bene –Io preferisco la stanza di Grace, anche se magai cambierei il colore...- disse, rabbrividendo al solo pensiero della camera color rosa carne della sorella maggiore.
-Io ho sempre amato la cucina.- esclamò invece il padre di Grace, facendo ridere sua moglie, appena entrata nella stanza per la partita.
-Non ne avevamo dubbi, Ron.- gli disse, sedendosi accanto a lui.
Wayne e Kimball si sedettero sul divano accanto al signor Van Pelt, mentre Grace si sedette per terra, alle gambe di Wayne, e Marie sulla poltrona opposta a quella del gemello.
 

*********

 
-Così, Kimball, tu alleni la squadra di baseball di San Francisco.- esordì Ronald, quando anche la partita fu finita e l’ora di cena si avvicinava.
Cho annuì –Non è proprio la prima squadra, però sì.- disse
-E’ tanto per uno che ha appena iniziato.- si complimentò il padre di Grace
L’orientale annuì di nuovo, adesso sorridendo. –Un tempo ero molto bravo, ma decisi per la polizia.- spiegò.
-E dimmi, esattamente in che squadra giocavi?-
Kim stava per rispondere, quando il suo cellulare squillò nella sua tasca. Immediatamente gli occhi di Grace e Wayne gli si puntarono addosso, mentre lui guardava lo schermo del cellulare impassibile.
Si scusò e si alzò per rispondere.
-Kimball Cho.- rispose.
Ascoltò per diversi minuti, prima di riattaccare dicendo che avrebbe provveduto.
A quel punto, tornò al tavolo e guardò prima Grace e poi Wayne, i quali capirono subito. Infatti, dopo aver risposto cortesemente alle ultime domande del padre di Grace, i tre si accomiatarono, giustificandosi dicendo che avevano tante cose da fare.
Una volta fuori dalla portata della rumorosa famiglia Van Pelt, Cho svoltò verso l’autostrada prendendo la via per Sacramento. Si stava facendo buio e sulla strada c’era meno gente del solito, probabilmente per via delle vacanze in cui meno persone facevano su e giù tra le città per lavorare, ma, piuttosto, se ne stavano a Malibù sotto il sole.
-Che è successo?- chiese Rigsby, dopo che non ce la fece più ad aspettare.
-Era Hightower.- rispose Kim, guardando la strada come volesse attraversarla in un secondo con un solo sguardo.
-E...- lo incitarono Grace e Wayne.
-Sa che Patrick è evaso. Sa che non è mai stato giustiziato. Vuole parlare con noi, non mi aspetterei buone nuove.-
Il tragitto da Frisco a Sacramento fu velocizzato dal confabulare dei tre, che cercavano di mettersi il meglio possibile d’accordo per dare una versione dei fatti abbastanza valida per poter togliere dai guai sia loro che Teresa. Per Jane non potevano fare niente, ovviamente. Lui sarebbe probabilmente diventato un ricercato di stato, ma in fondo era praticamente scomparso e nessuno avrebbe mai potuto trovarli, per quanto li cercassero.
Sia Kim, Wayne e Grace che Teresa, però avevano un falso alibi da mostrare per la notte dell’evasione e sicuramente sarebbero riusciti a cavarsela.
Quando arrivarono al CBI, gli uffici erano già quasi chiusi. Attraversare di nuovo il loro bullpen scatenò in tutti e tre emozioni contrastanti: rabbia, nostalgia, tristezza, malinconia, felicità, emozione...
Un agente dai capelli rosso scuro stava chino alla scrivania di Jane mentre un uomo tarchiato era al posto di Lisbon nel suo ufficio. Grace ebbe l’impulso di dire all’agente dai capelli rossi di togliersi dalla scrivania del loro amico, ma si trattenne, ricordandosi che loro lì dentro non avevano più niente di proprietà. Non la lavagna, non il tavolo lungo o la televisione, non il divano di pelle o le scrivanie, non i computer, non i file che un tempo loro sfogliavano. Niente era rimasto davvero loro, a parte i casi chiusi, su cui erano stampati in modo incorreggibile e indelebile tutti i loro nomi.
Arrivarono in silenzio all’ufficio di Madeline e bussarono piano.
-Avanti.- li invitò la donna. –Buonasera. Grace, Kimball, Wayne.- salutò, con un mezzo sorriso.
-Madeline.- salutarono loro, con un po’ di acredine.
Hightower li guardò un po’, poi si alzò dalla sedia e si avvicinò loro, appoggiandosi alla scrivania. –So che Jane è evaso. E suppongo anche che voi e l’agente Lisbon l’abbiate aiutato, perché da dove era rinchiuso è praticamente impossibile evadere senza aiuto di qualcuno.-
I tre rimasero in silenzio.
-So anche che probabilmente se vi interrogassi o vi richiedessi un alibi per quella notte avreste delle prove di ferro che attesterebbero che non eravate al Sacramento State Prison nella sezione del “miglio”.-
Grace, Wayne e Kim non osarono scambiarsi un’occhiata ma avrebbero tanto voluto farlo, perché non riuscivano a capire dove il loro ex-capo volesse arrivare.
-Sedetevi.- disse gentilmente Madeline, indicando le poltrone e tornando dietro alla scrivania.
I tre obbedirono.
-Allora, come agente capo di un intero dipartimento, temo di dovervi dire che è mio dovere organizzare le ricerche di Patrick ed è mio dovere arrestare chiunque provi a coprirlo, in quanto detenuto di massima sicurezza...- si lasciò sfuggire uno sbuffo contrariato -... pertanto se voi mi diceste che state proteggendo Patrick Jane e, suppongo, Teresa Lisbon, dovrei prendere seri provvedimenti contro di voi.-
Poi, Kimball capì.
-Non abbiamo nessuna intenzione di dirlo, signora.- disse
-Benissimo. Quindi suppongo che il signor Jane e la signorina Lisbon non siano in giro per gli Stati Uniti, o peggio, per il mondo sotto falso nome. Non è così, forse?-
Kimball nascose un sorriso –Proprio così.-
Madeline sorrise –Fantastico allora. Ritengo che tutto ciò sia solo un grosso errore. Ma, nel caso non fosse un errore e i signori Jane e Lisbon, che non sono in fuga, venissero trovati o riconosciuti, non potrò fare a meno di arrestare entrambi. Ma, ovviamente, è tutto ipotetico.-
-Ovviamente.- rispose Grace, che aveva capito, subito seguita da Wayne che si affrettò ad aggiungere un “certamente” pieno di enfasi.
-Per tanto, se per ipotesi, qualcuno li avvistasse, io non informerei delle persone che stanno aiutando gli ipotetici fuggitivi, giusto?-
-Giustissimo.- risposero in coro.
-Prima di tutto perché non ci sono fuggitivi, e poi perché voi non state aiutando questi ipotetici Jane e Lisbon in fuga.-
-Già.- rispose Wayne, tanto eccitato da riuscire difficilmente a nasconderlo.
-Quindi se vi dicessi che la polizia sta indagando su un certo Axel Simmons e una certa Dakota McKinley, voi non sapete assolutamente dirmi chi siano e, soprattutto, siete totalmente certi che non si tratti degli ipotetici Jane e Lisbon.-
-Assolutamente no.- rispose Cho, pronto.
-D’accordo. Questo è quanto. Mi raccomando, state attenti. Vi avviserò se ci fossero delle novità, mi dispiace aver tirato fuori una storia tanto dolorosa.-
E così dicendo, Hightower li liquidò con un sorriso complice. Non c’era dubbio, quella donna era un vero genio ma era una brava persona e sapeva riconoscere chi fosse nel giusto e chi nello sbagliato, per quanto dovesse seguire le regole che il suo lavoro le imponeva.
E così, in parte sollevati e in parte terrorizzati, i tre si ridiressero verso San Francisco, per decidere cosa fare di quanto avevano scoperto. 






Dice l'autrice:
Hola, como estas? Salve a tutti e a tutte, miei carissimi lettori, sono tornata fresca e pimpante, pronta pronta per ricominciare ad assillarvi con le mie storie su The Mentalist. E siccome sono una che fa le cose con rigore, eccomi con il capitolo di Segno del Destino. Per vostra (e mia) sfortuna il capitolo di Turning Time non è ancora completato, ahimè, spero che tutti vi ricordiate di quella storia quanto basta perché non abbia messo ancora le ragnatele e magari non le metta da qui a quando aggiornerò...
Comunque sia, spero che vi piaccia questo capitolo dedicato a quanto succede in quel di California, dovevo fare un  piccolo stacco tra i piccioncini che se la godono e gli altri che invece sono ancora nella vita reale. :)
Che ne pensate? Insomma, fatemi sapere!!! Vi voglio bene, ragazzi!!
Baci e abbracci,

Sasy

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