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La mia fanfiction è ispirata
al film di Antoine Fuqua “King Arthur”, con Clive Owen e Keira Knightley. So
che il film non ha avuto un gran successo ed è sconosciuto ai più, ma a me è
piaciuto e, dopo averci pensato molto, mi è venuta l’idea di riscrivere la
storia di Artù e dei suoi cavalieri, facendo in modo però che nessuno di loro
muoia in missione e che alla fine si ritrovino tutti assieme a festeggiare la
nascita della nuova Britannia liberata dai Romani. La storia, dunque, segue abbastanza
fedelmente il film (tanto che temo che quelli che non sanno nemmeno di che si
tratta non possano capire la fanfic), ma io vi introduco due varianti: come ho
già detto, la prima è non far morire nessuno dei personaggi e la seconda, più
‘audace’, l’aver ideato la nascita di un legame ‘particolare’ fra i miei due
personaggi preferiti del film, Galahad e Tristano. Ci saranno dunque accenni ad
un amore omosessuale (ma senza descrizioni o scene hard), che io ho immaginato
molto simile a quello dei due protagonisti di ‘I segreti di Brockeback
Mountains’, forse per il carattere simile dei personaggi. Se non vi siete
scandalizzati o annoiati troppo durante questa presentazione, possiamo dare il
via a questa avventura.
Artù ed i suoi cavalieri avevano
compiuto la loro ultima missione: avevano salvato il vescovo romano Germanus da
un attacco dei selvaggi Woad e adesso stavano scortando il suo convoglio verso
la fortezza ai piedi del monte Badon, poco oltre il Vallo di Adriano. I sei
uomini ed il loro comandante erano allegri al pensiero delle carte di
affrancamento che Germanus aveva recato con sé da Roma e che avrebbero permesso
loro di essere finalmente liberi dal servizio reso per tanti anni all’esercito
romano. Finalmente ognuno di loro avrebbe potuto andare dove più gli fosse
piaciuto e si sarebbe costruito una nuova vita.
Galahad, però, appariva
pensieroso e il suo giovane volto era corrucciato.
“Non mi piace quel romano”
brontolò, riferito a Germanus. “Se è qui per congedarci, perché non ci consegna
le nostre carte? Cos’è tutta questa messinscena?”
“Ancora non conosci i romani?”
gli rispose scherzosamente Gawain, che procedeva a cavallo accanto a Bors e a
lui. “Senza cerimonie ufficiali non si grattano nemmeno il culo!”
Galahad continuava ad essere poco
convinto e non si unì alle risate degli amici.
“Voi scherzate, ma per me c’è
qualcosa sotto.”
“Quella sarebbe la tua faccia più
felice?” insistette Gawain. La battuta riuscì finalmente a strappare un sorriso
al giovane guerriero.
“Puoi sempre tagliargli la gola,
Galahad, così il tuo congedo te lo prendi da solo.” suggerì Bors, ma il ragazzo
scosse decisamente il capo. Ora il suo umore sembrava migliorato e partecipava
all’allegria dei compagni.
“Lo farei solo se fossi
costretto” replicò, ma non si stava rivolgendo all’amico che gli aveva parlato.
Tristano, silenziosamente, si era affiancato al gruppo ed era lui che Galahad
voleva coinvolgere nel discorso. “Io non uccido per divertimento, come invece
fa qualcun altro…”
L’allusione era chiaramente
diretta al nuovo arrivato che però, inizialmente, non rispose. Solo dopo aver
visto che Galahad aspettava una sua reazione, Tristano ribatté con un
sorrisetto: “Invece dovresti provare, qualche volta. Magari poi ti piace.”
Nessuno capì se si trattasse di una battuta o se invece il valente e
misterioso arciere dicesse sul serio. Ad ogni
modo egli non se ne preoccupò più di tanto.
Lanciò un fischio verso il cielo e lasciò che il suo falcone venisse ad
appollaiarglisi sul braccio: da quel momento in poi tutta la sua attenzione fu
rivolta all’animale e non si curò degli scherzi e delle risate dei compagni.
“Aspetta a dirlo, ce l’hai nel
sangue, questa vita. Non potrai più farne a meno.” insisté Bors, ma il ragazzo
si era ormai distratto e non aveva più voglia di scherzare. Sembrava deluso dal
fatto di non essere riuscito a trascinare Tristano nella discussione.
“Ti sbagli di grosso. Da domani
per me tutto questo sarà solo un brutto ricordo e finalmente potrò avere una
vita normale.” concluse in tono serio. Sì, sarebbe tornato a casa, nella natìa
Sarmazia. Non vedeva l’ora di partire, anche se… Di nuovo lo sguardo gli corse
a Tristano che si stava occupando del falco. Chissà che cosa avrebbe fatto,
lui. Di tutti loro era forse l’unico che non avesse mai parlato dei propri
progetti.
Senza quasi accorgersene Galahad
fece rallentare il cavallo, lasciando che i compagni si allontanassero da lui e
rimanendo appena un poco più avanti di Tristano. Avrebbe voluto chiedergli se
anche lui desiderasse partire al più presto
per la Sarmazia, ma non sapeva come iniziare. L’amico non era solito confidarsi
con nessuno e in quel momento, poi, pareva tutto preso dalla cura del falcone.
Il ragazzo si rese conto di sentirsi intimidito di fronte a lui e di non osare
disturbarlo. Il portamento fiero e quasi aristocratico del guerriero lo metteva
in soggezione.
Nel frattempo Lancillotto si era
affiancato a Bors e Gawain e aveva cominciato a scherzare con loro.
“In realtà io non so bene che
cosa farò una volta libero” diceva Gawain. “Per Galahad è diverso, ma io faccio
questa vita da tanto tempo che non ricordo neanche più la mia casa.”
“Ci faceva un freddo cane e a
quest’ora tutti i miei amici e parenti saranno morti. Inoltre qui ormai ho…
quanti? Una dozzina di figli, più o meno? No, no, dai retta a me, lascia
perdere la Sarmazia. Quando i romani se ne saranno andati, qui saremo noi i
padroni. Io diventerò governatore e Dagonet sarà la mia guardia del corpo e
baciachiappe reale! Eh? Che ne dici, Dag?” esclamò Bors sempre più chiassoso,
rivolgendosi al compagno che chiudeva la fila e che però non gli rispose,
limitandosi ad abbozzare un sorrisetto.
“Magari sposerò una bella donna
sarmata e avrò una nidiata di marmocchi…” continuò pensieroso Gawain, ma
l’amico lo interruppe di nuovo.
“Belle le donne sarmate? Ma
allora non ti ricordi perché siamo scappati da laggiù! E tu, invece,
Lancillotto, cosa farai quando sarai un uomo libero?”
“Beh” rispose maliziosamente il
giovane cavaliere, con gli occhi che gli brillavano nel volto bello e fiero “se
la donna di Gawain è davvero così bella penso che passerò molto tempo a casa
sua. Lei ne sarà felice.”
“E io dove sarò nel frattempo?”
“Semplice: a domandarti a cosa
devi la fortuna che i tuoi figli assomiglino a me!” replicò Lancillotto. Sapeva
di essere un bell’uomo e le attenzioni delle ragazze della fortezza glielo
confermavano continuamente. A Gawain però questa risposta non piacque granché.
“E questo prima o dopo averti
spaccato la testa con la mia ascia?” ribatté, ma il compagno già non lo
ascoltava più. Ridendo, aveva spronato il cavallo per raggiungere Artù.
“Tu cosa farai, Artù?” gli
chiese. L’amicizia fra i due risaliva addirittura ai tempi del loro
addestramento e Lancillotto avrebbe desiderato non allontanarsi troppo dal suo
comandante e compagno di tante battaglie.
“Io andrò a Roma.” rispose
l’uomo, sentendosi finalmente sereno e ottimista. “Non vedo l’ora di essere là.
È una città ordinata, civile, progredita, la migliore del mondo. Dovresti
venirci anche tu, sarei felice di ospitarti.”
“Roma?” ripeté il cavaliere in
tono deluso e disgustato “No, grazie tante. Un posto pieno di arroganti
presuntuosi che si credono dèi in Terra!”
Il gruppetto dei cavalieri
continuò a cavalcare fra chiacchiere e risate fino all’ingresso della fortezza.
Vi scortarono dentro il carro episcopale, poi ognuno di loro si recò a
prepararsi per l’incontro con Germanus nella sala del consiglio. Erano
impazienti di avere in mano le tanto desiderate carte. Artù, invece, insieme al
suo scudiero Jols, accolse il vescovo che scendeva dal carro, gli diede il
benvenuto e disse che lo avrebbe fatto sistemare nei suoi alloggiamenti.
“Sarete a vostro agio lì e, per
qualunque bisogno, non avrete che da chiedere. Il mio scudiero è a vostra
disposizione.” assicurò rispettosamente Artù al romano prima di lasciarlo alle
cure di Jols.
Germanus lo ringraziò
distrattamente, poi seguì Jols che condusse lui ed il suo segretario Horton
agli alloggiamenti. Prima di entrare, però, rivolse uno sguardo sprezzante e
disgustato al cortile della fortezza, disordinato, sporco e semplice, con servi
che portavano cibarie e bambini che scorrazzavano qua e là, giocando alla
guerra. In che razza di luogo era mai capitato e con che barbari si trovava ad
avere a che fare?
Nella sala del consiglio della fortezza, Artù ed i suoi uomini
aspettavano con impazienza l’arrivo di Germanus con le carte di
Nella sala del consiglio della
fortezza, Artù ed i suoi uomini aspettavano con impazienza l’arrivo di Germanus
con le carte di affrancamento che li avrebbero resi finalmente liberi. Erano in
piedi, ognuno accanto al proprio seggio;
questo faceva notare ancora di più l’impressionante numero di posti vuoti,
appartenuti ai cavalieri che non erano sopravvissuti. L’atmosfera di euforia
per l’imminente liberazione era velata di malinconia al pensiero di coloro che
non ce l’avevano fatta a vedere quel giorno tanto atteso.
I cardini della porta cigolarono
e sulla soglia apparve Horton. Dietro di lui stava il vescovo e, a rispettosa
distanza, lo scudiero Jols.
“Sua Eminenza il vescovo
Germanus!” annunciò con sussiego il segretario. Il vescovo avanzò sorridendo,
ma si arrestò immediatamente con un’espressione contrariata sul volto quando
vide che la tavola attorno alla quale tutti sedevano era rotonda.
“Cosa significa questo?” chiese
aspramente Horton a Jols, “Artù aveva detto che il vescovo avrebbe potuto
sedersi al posto d’onore.”
“Artù ha detto semplicemente che
avrebbe potuto scegliere il posto che avesse preferito” ribatté con calma lo
scudiero, nascondendo un sorriso. “Per lui gli uomini sono tutti uguali ed è
per questo che ha voluto un tavolo di questa forma.”
Artù diede il benvenuto a
Germanus, poi gli fece cenno di scegliersi un seggio. Il vescovo si guardò
intorno, celando a malapena il malcontento, poi decise di prendere posto
accanto al comandante.
“Mi era stato dato ad intendere
che foste molti di più.” disse, osservando i tanti sedili vuoti.
Un’ombra improvvisa scese sul
volto di Artù al ricordo dei suoi uomini morti nell’adempimento del loro
dovere. Gli occhi di Lancillotto scintillarono di collera e trattenne a fatica
una risposta brusca. Un messaggio silenzioso passò negli sguardi di Bors e
Dagonet e di Galahad e Gawain che erano vicini. Come osava questo arrogante e
cerimonioso figlio di Roma parlare con tale disprezzo dei loro compagni
perduti?
Tristano non sembrò accennare
alcuna reazione, ma il fatto che, senza attendere il permesso del vescovo, si
fosse già seduto e stesse fissando con ostentazione la coppa che gli era stata
data per brindare alla libertà la dicevano lunga su ciò che gli passava per la
mente.
“Sono quindici anni che
combattiamo al servizio di Roma” spiegò Artù malinconicamente, “All’inizio
eravamo molti di più ed io li avevo scelti personalmente uno per uno per le
loro caratteristiche. Ho giurato che non avrei mai sostituito un cavaliere
caduto in battaglia: per me ognuno di loro è sempre stato unico e perciò
insostituibile.”
Il vescovo parve rendersi conto
della propria indelicatezza e cambiò subito argomento.
“Allora non resta che brindare a
voi, cavalieri, che avete servito con dedizione ed impegno l’Impero in queste
terre tanto perigliose. Roma è in debito con voi.” esclamò, facendo cenno ad
Horton di introdurre due legionari con un barilotto di vino. Poi lo stesso
segretario e Jols iniziarono a riempire le coppe dei guerrieri.
Fu il vescovo a proclamare il
brindisi.
“A voi, nobili cavalieri. Al
vostro valore e ai vostri ultimi giorni al servizio di Roma!”
“Giorno!” precisò Lancillotto,
guardando Germanus con sospetto prima di portarsi la coppa alle labbra.
“Giorno, non giorni.”
“Certamente, certamente… Ora
sedete” continuò il vescovo, fingendo di non accorgersi che Tristano si era già
accomodato da un pezzo. “Sapete, il Santo Padre è molto orgoglioso di voi e mi
ha chiesto di informarlo dettagliatamente su ciascuno.”
“E a che proposito?” domandò
Artù, vagamente preoccupato.
“Naturalmente, il Santo Padre
desidera sapere se voi cavalieri vi siete convertiti al Verbo del Nostro
Salvatore o se invece…”
“I miei uomini professano ancora
la fede dei loro padri ed è una scelta che rispetto.” tagliò corto Artù.
“Ah, certo, sono pagani.” replicò
Germanus, sputando l’ultima parola come se fosse un boccone disgustoso.
Bors, Dagonet e Gawain scossero
il capo guardandosi l’un l’altro con un sorrisetto ironico, mentre Lancillotto
piantava uno sguardo di fuoco contro il Romano. Solo Galahad appariva realmente
offeso e si agitò sulla sedia come per trattenere a stento una reazione
violenta. Fra tutti i cavalieri, il più giovane era anche quello più
profondamente legato alle tradizioni del suo Paese e non tollerava di sentirne
parlare con così sprezzante leggerezza.
“Ma tu, piuttosto, Artù… La tua
guida spirituale è forse Pelagius? Nella tua stanza ho visto una sua effigie.”
“Pelagius è stato come un padre
per me e i suoi insegnamenti sull’uguaglianza ed il libero arbitrio sono stati
fondamentali per la mia vita. Sono impaziente di ritrovarlo a Roma.”
L’entusiasmo e l’affetto del
comandante dei Sarmati era evidente. Germanus, però, si affrettò a cambiare
nuovamente discorso.
“E Roma attende con ansia il tuo
arrivo. Sei un eroe per tutti e trascorrerai il resto della vita fra onori e
ricchezze” disse. Poi si rivolse ai cavalieri, aprendo la scatola intarsiata
che conteneva un fascio di rotoli: “Ecco la vostra ricompensa: il lasciapassare
che vi permetterà di attraversare ogni parte dell’Impero e di recarvi in patria
o dovunque vorrete. Purtroppo, però… Noi non siamo che pedine in un mondo
sempre più calamitoso. I barbari sono ovunque e stanno minacciando da presso la
nostra stessa Città. Perciò Roma ed il Santo Padre hanno deciso di abbandonare
gli avamposti più indifendibili, come la Britannia. Il suo destino non ci
riguarda più; immagino che cadrà in mano ai Sassoni.”
I volti dei cavalieri, che si
erano illuminati alla vista delle preziose carte, si incupirono subito.
“Sassoni?” chiese Artù.
“Sì. Nel Nord del Paese è
iniziata una massiccia invasione.” spiegò il vescovo con indifferenza.
“I Sassoni si impadroniscono solo
di ciò che distruggono!” intervenne Lancillotto, che evidentemente aveva
sopportato abbastanza.
“E distruggono tutto.” aggiunse
Gawain in tono grave.
“Volete dire che in tutti questi
anni io avrei rischiato ogni giorno la mia vita per niente?” si infiammò
Galahad. “Per lasciare la Britannia in mano ai Sassoni e ai Woad?”
“È così.” concluse Germanus
“Comunque voi cavalieri avrete le vostre carte di congedo. Ma prima vorrei
scambiare due parole con il vostro comandante.”
Nessuno degli uomini si mosse.
Gli occhi di tutti erano fissi sui preziosi rotoli.
“In privato!” precisò il vescovo
con fredda determinazione.
“Io non ho segreti per i miei
uomini.” cercò di rimediare Artù, ma il Romano, rivolgendo ai guerrieri uno
sguardo gelido, richiuse con ostentazione la scatola che conteneva i
lasciapassare. Come si permettevano quei barbari pagani di disobbedire ai suoi
ordini?
Capita l’antifona, Lancillotto si
alzò con un sorriso amaro.
“Andiamocene, amici. Lasciamo gli
affari di Roma ai Romani!”
Lentamente e lanciando sguardi
diffidenti a Germanus, anche gli altri cavalieri lasciarono la sala.
Poco più tardi gli uomini di Artù
erano riuniti nel cortile più vasto della fortezza, vicino ad un grande fuoco.
Cercavano di dimenticare il brutto presentimento avvertito di fronte al vescovo
e di spassarsela pensando alla libertà così vicina. Lancillotto giocava ai dadi
con due sentinelle romane e di tanto in tanto stuzzicava la bella Vanora, la
donna di Bors, che alla fine lo colpì con uno schiaffone e raggiunse il suo
uomo che stava cullando tra le braccia il loro ultimo nato.
Gawain e Galahad si sfidavano a
lanciare i loro pugnali contro un bersaglio. Per primo toccò a Gawain che poi
si sedette ad un tavolo vicino con un boccale di vino in mano e una bella
fanciulla dai lunghi capelli rossi al fianco, aspettando di vedere di che cosa
era capace il ragazzino. Galahad lanciò per secondo e colpì piuttosto al di
sotto rispetto al compagno, ma il suo pugnale si era appena conficcato nel
legno quando un terzo pugnale sfrecciò nell’aria e andò a piantarsi proprio in
quello del giovane. Galahad si voltò stupito e vide Tristano, che fino a quel
momento se ne era stato tranquillo a mangiare una mela, guardando gli altri che
si divertivano ma senza partecipare alla loro allegria. A quanto pareva, però,
non aveva resistito alla tentazione di mostrare ancora una volta la sua abilità
senza pari.
“Accidenti, Tristano, ma come hai
fatto?” esclamò Gawain.
“Ho mirato al centro.” rispose
semplicemente lui, come se stesse spiegando qualcosa di ovvio a dei bambini.
Galahad si ritrovò a fissarlo
ammirato. Era raro che Tristano partecipasse ai loro divertimenti, ma quando lo
faceva lasciava il segno. Si ritrovò, suo malgrado, a pensare che, fin da
quando era entrato nella compagnia dei guerrieri di Artù, era stato Tristano il
suo modello, il cavaliere che sarebbe voluto diventare. Alto e fiero,
abilissimo esploratore anche nelle situazioni più pericolose, arciere
prodigioso, il guerriero possedeva una destrezza tutta particolare nel duello
corpo a corpo: con la sua sciabola affilatissima era in grado di avere la
meglio anche in mezzo a decine di nemici senza mai perdere la compostezza e
l’eleganza dei movimenti. Il suo modo di combattere ricordava quello di un
felino, pareva una danza sinuosa e letale. Il giovane cominciava a pensare che,
per capacità se non per forza fisica, Tristano fosse il cavaliere più abile di
tutti, persino dello stesso Artù o di Lancillotto. Inoltre, particolare che per
Galahad era importantissimo, incarnava il perfetto eroe sarmata. Diversamente
da Bors, Lancillotto o Dagonet, Tristano non si era ‘britannizzato’ nemmeno
nell’aspetto: i suoi abiti, le sue armi, l’armatura e il modo di portare i
capelli, lunghi fino alla base del collo e intrecciati secondo l’uso della loro
terra e infine i due tatuaggi azzurri che aveva sulle guance lo rendevano un
perfetto esponente della gloriosa stirpe degli invincibili cavalieri sarmati.
Nell’euforia e nella gioia che
provava alla prospettiva di ritrovarsi presto libero ed in viaggio per fare
ritorno in patria, Galahad sentì una piccola fitta di… cosa? Dolore? Nostalgia?
Non avrebbe saputo spiegarlo, ma quel sentimento strano aveva a che fare con
Tristano e con la prospettiva, forse, di non rivederlo più, di non combattere
più al suo fianco. Non sapeva se anche lui avrebbe scelto di tornare in
Sarmazia e, in ogni caso, quante probabilità c’erano che si ritrovassero in villaggi
vicini? Quel pensiero gli si insinuò in testa e, per quanti sforzi facesse, gli
impedì di godersi appieno gli scherzi e i divertimenti degli amici da
quell’istante in poi.
In mezzo a tanti festeggiamenti e divertimenti, Bors decise di condurre
la sua compagna Vanora al centro del gruppo e di chied
In mezzo a tanti festeggiamenti e divertimenti, Bors
decise di condurre la sua compagna Vanora al centro del gruppo e di chiederle
di cantare. La donna inizialmente si schermì, ma anche gli altri guerrieri si
misero ad incitarla e ad insistere. Allora prese ad intonare una canzone
dolcissima e struggente, una ballata che parlava della loro terra lontana e del
desiderio di tornare a casa. Mentre Bors l’ascoltava, orgoglioso della
bellissima voce della sua donna, gli altri cavalieri erano commossi e sognavano
il momento in cui avrebbero veramente rivisto la loro patria. Galahad,
addirittura, che aveva più di ogni altro nostalgia della natìa Sarmazia, aveva
chiuso gli occhi e, trasportato dalla voce di Vanora, vedeva davanti a sé le
immense praterie, le steppe sconfinate e i volti degli amici e dei parenti
lontani.
Proprio in quel momento Artù si
avvicinò silenziosamente al gruppo dei suoi uomini: era molto triste e
preoccupato perché Germanus gli aveva ordinato di condurli ad un’ultima
missione, quella di andare a prendere una nobile famiglia romana che viveva a
nord del Vallo di Adriano e di scortarla al sicuro. Il condottiero non si era
potuto rifiutare, ma aveva tentato di opporsi strenuamente e adesso era
addolorato all’idea di imporre ai suoi guerrieri una spedizione così rischiosa
invece di donar loro la libertà che meritavano dopo tanti sacrifici. Al nord
c’erano i Sassoni e, forse, qualcuno dei compagni di Artù sarebbe potuto non
tornare da quell’ultima missione. Non sapeva come fare a parlar loro dell’ordine
del vescovo e, anzi, vedendoli così incantati dalla canzone e nel vivo dei
festeggiamenti, stava per tornare indietro senza mostrarsi.
Bors, però, lo vide e lo chiamò.
“Artù, vieni! Prenditi un boccale
di vino e vieni con noi ad ascoltare Vanora.”
A quel punto l’uomo non poté più
tirarsi indietro. Si avvicinò ai cavalieri che lo attendevano sorridenti e
ignari di ciò che stava per dire loro.
“Amici miei, compagni” iniziò,
“abbiamo affrontato molte battaglie e pericoli insieme e adesso dobbiamo
prepararci per un ultimo incarico da compiere per Roma.”
Gli uomini non lo presero sul
serio. Bors, credendo che scherzasse, fece una delle sue battute.
“Come no, bere fino a scoppiare!”
esclamò, svuotando d’un fiato il boccale che aveva in mano. Gli altri risero,
ma non Artù.
“A nord del Vallo abita una
nobile famiglia romana, isolata e minacciata dai Sassoni. Dobbiamo andare a
prenderla e scortarla al sicuro.” continuò, sentendosi il cuore a pezzi.
“Sì, sì, certo” rise Gawain “Sei
proprio divertente, sai? Mi avevi quasi fatto paura.”
Bors e Galahad abbozzarono un
sorriso, ma il volto del loro comandante era serio e addolorato e tutti
cominciarono a capire che non si trattava di uno scherzo. Tristano e Dagonet si
avvicinarono in silenzio, entrambi fissando Artù con sguardo indagatore.
Lancillotto pareva sul punto di esplodere.
“Partiremo domani all’alba.
Sarebbe meglio che andaste a prepararvi e a riposare” concluse il condottiero.
“Al nostro ritorno avrete le vostre carte di affrancamento.”
“Perché dovremmo farlo? Siamo già
liberi, Roma non ha il diritto di chiederci altro!” sbottò infine Lancillotto.
“È solo una famiglia rimasta
isolata. Moriranno, se non andiamo a salvarli.”
Bors sputò per terra con
disprezzo.
“Che siano i Romani a proteggere
la loro gente. Io sono un uomo libero e mi rifiuto di rischiare ancora la pelle
per loro!” ruggì infuriato.
“Bors ha ragione” intervenne
Galahad “Il nostro dovere nei confronti di Roma, se così lo possiamo chiamare,
è compiuto. Ci hanno strappato alla nostra gente, cos’altro vogliono da noi?”
Il ragazzo era devastato. Il suo sogno si era infranto proprio quando credeva
di averlo finalmente raggiunto.
“Quello è il territorio dei Woad
e ci sono anche i Sassoni. I maledetti Romani vogliono la nostra morte! Oppure
sei tu che la vuoi, Artù?” Bors era talmente arrabbiato da scagliarsi anche
contro il proprio comandante.
In quell’attimo di tensione
intervenne Tristano, prendendo le parti di Artù.
“Tutti dobbiamo morire, prima o
poi. Se è morire per mano di un Sassone che ti spaventa, allora resta a casa.”
ribatté, rivolgendosi al compagno che protestava.
Bors si azzittì, ma fu Galahad a
risentirsi per quelle parole. Che accidenti era preso a Tristano? Era tanto
contento di farsi ammazzare per quegli stupidi Romani? Lui era l’eroe Sarmata
per eccellenza, avrebbe dovuto essere il primo a rifiutare un ordine tanto
assurdo e invece difendeva Roma?
“Tu parli sempre di morire,
allora perché non muori subito?” gridò il giovane, senza nemmeno rendersi conto
di quello che diceva, tanto era deluso e addolorato. “Io qualcosa per cui valga
la pena di vivere ce l’ho!”
“L’unica cosa per cui valga la
pena vivere è una morte gloriosa in battaglia” replicò sprezzante Tristano.
“Ma davvero? E cosa c’è di tanto
glorioso nel morire da schiavi di Roma, per una missione che non abbiamo voluto
noi e che non ci riguarda?” scattò Galahad. Era la prima volta che osava
rispondere in malo modo a Tristano, ma ciò che lui aveva detto lo aveva
profondamente ferito. Morire in battaglia… era solo questo ciò che desiderava?
Non la libertà, il ritorno in patria, l’amicizia dei suoi compagni?
“Ora basta!” gridò Lancillotto.
Anche lui era furioso per l’ingiustizia che i
Romani stavano facendo loro, ma non voleva che i cavalieri si mettessero l’uno
contro l’altro o scaricassero la colpa su Artù.
A quel punto Dagonet si avvicinò
lentamente al comandante, lo fissò dritto negli occhi e, nel silenzio, fece la
sua domanda.
“I Romani non hanno mantenuto la
loro parola. Noi abbiamo quella di Artù?”
“Avete la mia parola.” rispose
l’uomo con franchezza.
“Questo mi basta. Io vado a
prepararmi” dichiarò il cavaliere. Poi, passando accanto all’amico Bors, gli
chiese: “Tu vieni?”
“Certo che vengo. Come potreste
partire senza di me? Vi fareste ammazzare tutti!” esclamò, seguendo il
compagno. Tristano si accodò a loro e anche Lancillotto, dopo aver lanciato un
ultimo sguardo di muto rimprovero ad Artù.
“Gawain, tu sei dei nostri?”
chiese il comandante al suo guerriero, che non si era ancora espresso.
“Sì, io ci sto” rispose lui,
controvoglia. Poi aggiunse: “E anche Galahad.”
Dette queste parole, Gawain si
allontanò lentamente. Galahad era seccato che l’amico avesse parlato anche per
lui, ma sapeva bene che, se tutti fossero partiti, lui non sarebbe di certo
rimasto alla fortezza. L’ingiustizia patita, però, gli bruciava ancora dentro e
voleva che Artù lo sapesse. Così, prima di raggiungere gli altri, guardò il suo
comandante con un sorrisetto amaro e, davanti a lui, quasi come un gesto di
sfida, versò per terra il vino che gli rimaneva e scagliò la brocca, che andò
in pezzi. Solo allora si voltò di scatto e senza una parola per seguire Gawain.
Alcuni cavalieri, come
Lancillotto e Gawain, avevano preferito recarsi subito alle scuderie per
strigliare i cavalli e preparare il loro equipaggiamento da guerra. Galahad,
invece, era troppo frustrato, disilluso e depresso per fare qualsiasi cosa e
decise di andare subito al suo alloggio per riposare. La mattina dopo si
sarebbe alzato prima dell’alba per sistemare tutto, sperando che la collera
sbollisse durante la notte. Era infuriato con i Romani, naturalmente, quei
maledetti ed infidi tiranni che, dopo averlo strappato a forza dalla sua terra,
adesso non stavano ai patti e pretendevano che rischiasse ancora una volta la
vita per una stupida famiglia di cui non gli importava nulla; era in collera
con Artù perché, secondo lui, si era lasciato ingannare dalle parole viscide ed
ipocrite del vescovo Germanus e non aveva difeso i diritti dei suoi uomini come
avrebbe dovuto. Ma, più di tutto, era deluso e arrabbiato per il comportamento
e le parole di Tristano. Il suo eroe, il suo modello, si sarebbe dovuto
schierare per primo dalla parte dei Sarmati e non obbedire agli ordini dei
Romani come un cane fedele! E poi, quel discorso che aveva fatto… davvero per
lui l’unica ragione di vivere era una morte gloriosa in battaglia? Non
desiderava un futuro, una vita libera e il ritorno in Sarmazia come tutti gli
altri? Se le cose stavano così, allora sicuramente le loro strade erano
destinate a separarsi e questo pensiero tormentava Galahad, anche se non ne
capiva fino in fondo il perché.
Il ragazzo camminava immerso nei
suoi pensieri e si accorse solo all’ultimo momento di un’ombra che gli tagliava
la strada. Trasalì, alzò lo sguardo e si trovò proprio di fronte a Tristano. Sembrava
che fosse rimasto lì ad aspettarlo, indovinando che non si sarebbe recato nelle
scuderie come gli altri. Sorpreso e turbato, Galahad non sapeva bene cosa dire.
“Credevo che tu…” cominciò
titubante, “fossi andato a prepararti per la partenza. Insomma, sembravi tanto
ansioso di dedicarti a questa nuova missione.”
“Invece volevo farti una domanda
e per questo sono venuto a cercarti” replicò con calma l’altro, fissandolo con
sguardo penetrante. “Cosa intendevi veramente quando hai detto che tu hai una ragione
per vivere?”
Il giovane sobbalzò e si sentì
arrossire. Per fortuna in quel punto c’era pochissima luce e forse Tristano non
si sarebbe avveduto del suo turbamento.
“Quello che pensano tutti,
ovviamente, no? Tornare in Sarmazia, avere una vita normale…” provò a spiegare,
ma l’altro lo interruppe.
“Hai difeso le tue ragioni con
troppa veemenza perché siano davvero quelle di tutti gli altri. Tornare in
Sarmazia? Va bene, ma sei così sicuro che sia rimasto tutto come lo ricordi? E
sei altrettanto sicuro che potresti adattarti ad una vita normale, come dici
tu, senza emozioni, senza avventure, un giorno dopo l’altro, sempre uguale? No,
io non credo che tu pensassi a questo.”
“Cosa ne sai di quello che
penso?” ribatté Galahad.
Tristano si avvicinò a lui. Pareva
divertito dal suo imbarazzo.
“Vi conosco tutti piuttosto bene
e tu sei ancora più trasparente degli altri. Ad ogni modo, perché non mi
spieghi quali sono le tue ragioni per vivere? Magari potrei cambiare idea…”
suggerì il cavaliere.
Galahad arrossì ancora di più,
rendendosi improvvisamente conto di quanto Tristano avesse capito dei suoi
pensieri, della sua adorazione e ammirazione e di cose che nemmeno lui aveva
compreso fino in fondo. Ebbe la tentazione di scappar via, vinto dalla
vergogna, ma poi rimase dov’era. Se gli faceva quei discorsi, forse allora
anche lui… forse c’era ancora una possibilità di non doversi separare!
Galahad continuava a sentirsi strano e sempre più turbato
Galahad
continuava a sentirsi strano e sempre più turbato. Non capiva se Tristano
volesse qualcosa da lui o se stesse semplicemente prendendolo in giro, magari
approfittando del fatto che aveva certamente notato l’adorazione del ragazzo
nei suoi confronti.
“Mi stupisce che tu, scrupoloso
come sei nel preparare il tuo equipaggiamento da guerra, abbia deciso di
aspettare domattina per recarti nelle scuderie” gli disse, ritornando
sull’argomento che gli premeva. “Sembravi tanto ansioso di partire per farti ammazzare
dai Sassoni!”
L’ombra di un sorriso sfiorò le
labbra del guerriero: il ragazzino voleva proprio rinfacciargli quella frase
fino alla fine dei suoi giorni?
“Nemmeno tu ci sei andato, mi
pare.”
“Io non vorrei
nemmeno partecipare a questa missione suicida! Devo farlo per forza,
sono ancora sotto il comando di Artù, ma non partirei se potessi decidere
liberamente, stanne pur certo. Sei tu quello che aspetta solo di morire in
battaglia…” ribatté Galahad in tono polemico, ma Tristano ne aveva abbastanza delle sue
obiezioni e lo interruppe.
“Te l’ho detto.
Sta a te convincermi che c’è qualcos’altro per cui vale la
pena vivere…” disse con voce sommessa, avvicinandosi a lui ancora di più e
prendendolo per le braccia. Galahad trasalì. A
questo punto non poteva più fingere di non aver capito e, del resto, era ciò
che desiderava fin dal principio, prima ancora di rendersene conto. Però c’era ancora qualcosa che lo tratteneva.
“Senti, lo sai che… insomma, lo
hai capito, altrimenti non saresti qui” cominciò il giovane, sempre più a
disagio, “Però forse non ti rendi conto del fatto che… è vero che io vorrei un
legame più stretto fra noi due, ma ho anche paura che un legame simile poi non mi permetterebbe più di comportarmi come prima. Voglio
dire, come potrei mai combattere preoccupandomi continuamente di te che te ne
vai a cercare gli avversari più pericolosi per dimostrare a te stesso quanto
sei bravo?”
“Allora anche tu mi hai osservato
bene e hai capito che tipo sono” ribatté il cavaliere
in tono leggero, ma poi ridivenne subito serio. “Galahad,
siamo guerrieri ed abbiamo dei doveri. Quello che può
nascere fra noi due non deve cambiare assolutamente
niente sul campo di battaglia. Il nostro primo dovere è quello
di combattenti. Però in questo momento non siamo in guerra, mentre da
domani uno di noi, o entrambi, potrebbe perdere la
vita. Io non voglio avere rimpianti se questo dovesse accadere. Tu sì?”
Il giovane scosse il capo
lentamente e si lasciò guidare dal compagno verso l’alloggio dove dormivano i
cavalieri. Era una stanza molto grande, all’interno della fortezza, con dei
pagliericci per terra che servivano da giaciglio per gli uomini. Un tempo era stata piena di giovani guerrieri, ma col passare degli anni
molti fratelli d’arme erano morti e, poiché Artù aveva giurato di non
sostituirli, il luogo adesso sembrava quasi abbandonato. Del resto Bors si era fatto una famiglia e dormiva molto più spesso
da Vanora che con i suoi compagni, mentre Lancillotto
spesso trascorreva la notte in compagnia di qualche bella fanciulla,
per non pensare alle battaglie imminenti e alla morte che poteva sorprenderlo
in qualunque momento. Il giaciglio di Tristano era addossato alla parete e
lontano dagli altri, come se anche di notte il cavaliere non volesse smentire
la sua fama di lupo solitario. Non c’era nessuno: probabilmente il resto dei
guerrieri si trovava nelle scuderie a equipaggiarsi per la missione. Sempre
rimanendo in silenzio, Tristano condusse Galahad al
suo pagliericcio.
Lancillotto, Gawain
e Dagonet rientrarono molto più tardi nell’alloggio
che dividevano con i compagni. Il primo si era trattenuto a lungo a discutere
con Artù su questa nuova missione che lo irritava alquanto, gli altri due si
erano recati invece a sistemare i loro equipaggiamenti per la partenza. Bors era stato con loro, ma poi aveva preferito rimanere a
dormire da Vanora, consapevole che poteva essere
l’ultima notte che poteva trascorrere con la sua
compagna fra le braccia e i suoi bambini che li attorniavano. Il giaciglio di
Tristano era piuttosto lontano dagli altri e soltanto Gawain
si accorse che il cavaliere non era solo. Scrollò le spalle, pensando che in
fondo non erano fatti suoi, ma, dirigendosi al proprio giaciglio, notò che
quello di Galahad era vuoto: allora capì quello che
doveva essere accaduto durante la loro assenza e si sentì profondamente
turbato. Fra tutti i guerrieri era quello più vicino al ragazzo e si era già
reso conto della predilezione particolare che Galahad
aveva per Tristano; non si sarebbe mai aspettato, però, che il misterioso e
solitario cavaliere potesse ricambiare il suo affetto. In realtà non era il
fatto in sé a scandalizzarlo poiché sapeva bene come tali rapporti potessero
nascere in un mondo come il loro, fatto solo di violenza, morte e scarsissime
presenze femminili. Ne aveva visti altri crearsi e sciogliersi, sebbene lui
personalmente non avesse mai provato tali bisogni. No, non lo preoccupava
questo: ciò che lo angosciava era come il giovane guerriero avrebbe potuto
vivere una simile relazione. Sapeva che Galahad, a causa
della sua giovane età, non era riuscito ad ambientarsi davvero in Britannia,
provava continuamente nostalgia per la Sarmazia ed era
disgustato dalle incessanti battaglie e uccisioni. L’unico appiglio che aveva
trovato per sopravvivere in quell’inferno era la convinzione radicata che, alla
fine di tutto, sarebbe potuto tornare a casa. Ora anche quella consolazione gli
era stata tolta bruscamente da Germanus e lui si era
evidentemente aggrappato a Tristano per non soccombere alla delusione. Ma cosa sarebbe accaduto se, per caso, il valente arciere
fosse rimasto ucciso in quella missione? Oppure, più semplicemente, se
Tristano, una volta soddisfatto il bisogno originato dall’imminente spedizione
così pericolosa, si fosse stancato di lui e lo avesse respinto? Galahad non sarebbe stato in grado di reagire ad una nuova e cocente delusione, Gawain
lo sapeva bene, era già al limite della sua resistenza. Girandosi e rigirandosi
nel suo giaciglio senza riuscire ad addormentarsi, il cavaliere si augurò che
andasse tutto bene, ma la preoccupazione continuò a tormentarlo per buona parte
di quella notte.
All’alba del
mattino dopo tutti i guerrieri sarmati erano nelle scuderie a preparare
i cavalli, affilare le loro armi, controllare archi e balestre e caricare
viveri e munizioni. Quando Artù entrò nessuno gli
rivolse la parola e ciò lo ferì, ma sapeva che era giusto così: doveva lasciare
ai suoi uomini il tempo di riflettere e farsi una ragione dell’ingiustizia
patita che ancora bruciava troppo forte nei loro cuori. Ciò che più lo
addolorava era comunque l’atteggiamento ostile di Lancillotto. La sera prima
l’amico si era mostrato risentito e caustico nei confronti di Roma, del suo Dio
e di tutto ciò in cui Artù credeva. I due si conoscevano da quando entrambi
avevano quattordici anni, avevano affrontato insieme l’addestramento e ancora
insieme avevano selezionato gli uomini che avrebbero
fatto parte della loro cavalleria scelta; prima d’ora non avevano mai avuto una
discussione tanto accesa come quella della sera precedente e Artù sperava di
riuscire a sanare la ferita al più presto. Non si sarebbe mai perdonato,
altrimenti, se Lancillotto non fosse tornato da quella spedizione. Si sarebbe
sentito per sempre responsabile della sua morte e questa consapevolezza lo
avrebbe distrutto.
“Portate solo l’essenziale”
disse, rivolgendosi ai suoi cavalieri. “Non abbiamo bisogno
di tutto l’equipaggiamento da guerra sarmata, dovremo anzi viaggiare leggeri e
spediti attraverso la foresta fino ai possedimenti di MariusHonorius. Dormendo e mangiando a cavallo
dovremmo riuscire a raggiungere la meta in tre giorni e poi, se la sorte ci
sarà propizia, preleveremo quella gente e la ricondurremo al più presto oltre
il Vallo, evitando i Sassoni.”
“Se la sorte ci sarà propizia…” sottolineò Lancillotto con un sorriso amaro.
In quel momento nelle scuderie
entrò Germanus, seguito da Horton.
Il vescovo si guardò intorno con disgusto e disapprovazione poiché nessuno si
era alzato per salutarlo, anzi, i cavalieri lo avevano
ignorato a bella posta, concentrandosi ancora di più sulle loro occupazioni.
Solo Artù gli andò incontro.
“Sono venuto qui
per informarvi che il mio fedele segretario, Horton,
vi accompagnerà in questa spedizione, in rappresentanza della Santa Sede.”
annunciò. Le sue parole accrebbero il nervosismo che già aleggiava fra i
guerrieri, ma nessuno parlò. Del resto lo stesso Horton
non era propriamente un valoroso e avrebbe rinunciato volentieri ad un simile incarico.
“Bene” commentò Artù, nascondendo
un sorrisetto. Ben conosceva, infatti, la codardia di quell’uomo. Si rivolse
invece al suo servo Jols “Trova un cavallo per il
segretario di Sua Eminenza.”
Horton
salì di malavoglia in groppa al destriero gigantesco che gli fu offerto, ma non
poteva disobbedire al vescovo. Quando tutti i cavalieri furono pronti per la
partenza, Germanus volle benedirli.
“Iddio Onnipotente vi accompagni
nell’adempimento del vostro obbligo di fedeltà verso Roma.” recitò.
“Il mio unico obbligo di fedeltà
è verso i miei uomini!” replicò gelido Artù senza neanche guardarlo.
“Bene, allora riportali presto
sani e salvi.” concluse untuosamente il vescovo.
I guerrieri, con JolsedHorton
che chiudevano la fila, partirono, mentre davanti a loro si aprivano le
imponenti porte del Vallo di Adriano. Varcate le porte spronarono i loro
destrieri, accingendosi a compiere quell’ultima impresa al servizio di Roma.
Viaggiarono per tutto il giorno e
la notte seguente, senza accamparsi, fermandosi solo di tanto in tanto per
abbeverare i cavalli a qualche fonte. Dormirono e mangiarono in sella e
mantennero questo ritmo forsennato per tutta la prima parte del viaggio. I
destrieri erano abituati a tali andature e anche i cavalieri, presi
dall’eccitazione dell’azione, sembravano pian piano dimenticare la rabbia ed il risentimento provati inizialmente. Non sentivano né
stanchezza né fatica.
Horton,
invece, abituato a un ben diverso tipo di vita, era
già distrutto prima che terminasse il primo giorno.
Artù e i suoi uomini, seguiti da un sempre più disperato Horton, stavano
cavalcando all’interno di una fitta boscaglia: era il
Artù e i suoi uomini, seguiti da
un sempre più disperato Horton, stavano cavalcando all’interno di una fitta
boscaglia: era il tramonto e il segretario del vescovo pensava con orrore che
avrebbe dovuto trascorrere anche quella notte in sella al suo destriero. Come
potevano quei barbari viaggiare in un modo tanto incivile? Germanus aveva
ragione, non erano altro che dei selvaggi. E lui adesso era costretto ad
accompagnarli, ma non avrebbe resistito, sarebbe morto procedendo con quel
ritmo!
I pensieri di Horton furono
improvvisamente interrotti da un grido che proveniva dal gruppo di guerrieri
davanti a lui. Cosa stava accadendo?
“È una trappola degli Woad!”
esclamò Lancillotto. “Guardate, ci hanno tagliato la strada da questa parte.”
“Dirigiamoci verso est!” replicò
Artù, spronando il suo cavallo. Gli altri cavalieri lo seguirono, ma la loro
corsa ebbe breve durata: il sentiero dentro la foresta si interruppe davanti ai
loro occhi a causa di una nuova trappola costruita dai guerrieri dal corpo dipinto,
un intrico di corde attorcigliate che impediva il passaggio a chiunque.
“Torniamo indietro, presto!
Vogliono imprigionarci” gridò Bors. Di nuovo Artù ed i suoi uomini furono
costretti a far voltare le loro cavalcature e a riprendere il galoppo dalla
parte opposta, ma anche quella via di scampo fu presto interrotta. La foresta
era disseminata di trabocchetti preparati dagli Woad.
“Ci resta un’ultima possibilità,
altrimenti dovremo affrontarli” disse Tristano, spronando il cavallo e
imboccando uno stretto passaggio fra gli alberi. Dovette però arrestarsi
bruscamente quando una fitta maglia di ferro comparve a sbarrargli il passo. I
cavalieri che lo avevano seguito si fermarono. Non c’era altra scelta, erano
prigionieri dei guerrieri della foresta ed avrebbero dovuto combattere, pur
essendo in inferiorità numerica.
Artù, Lancillotto, Dagonet e
Gawain estrassero le spade; Bors, Galahad e Tristano prepararono i loro archi
con le frecce già incoccate; anche Jols, lo scudiero di Artù, tirò fuori la sua
arma. Horton era sul punto di cadere da cavallo per la paura. Gli Woad, quei
maledetti pazzi che combattevano nudi e dipinti di blu, avevano teso loro
un’imboscata e adesso li avrebbero massacrati tutti. Li aveva già incontrati
durante il suo viaggio con la scorta del vescovo ed il solo ricordo di quella
terribile battaglia lo faceva tremare. Ora erano nelle loro mani e… Il codardo
segretario di Germanus si sarebbe preso a schiaffi per non essere rimasto
tranquillo e pacifico nella civilissima Roma. Quando però gli era stata offerta
l’opportunità di quella missione in Britannia per conto del Santo Padre, lui vi
aveva intravisto la possibilità di fare carriera. Perciò aveva accettato con
entusiasmo, solo che ora sarebbe morto in una terra dimenticata da Dio e dei
barbari sanguinari avrebbero fatto scempio del suo corpo.
Ignari dei pensieri turbinosi che
tormentavano la mente del loro accompagnatore, Artù e i suoi si stavano
disponendo per un combattimento dall’esito quanto mai incerto. Gli Woad erano
nel loro territorio, potevano colpirli da ogni parte e loro erano in trappola.
Il giovane Galahad lanciò di
sfuggita uno sguardo a Tristano, che però era totalmente concentrato sul
proprio arco e non si accorse di lui. Doveva finire così? Sarebbero stati
uccisi in quella foresta senza mai rivedere la loro patria? Quella notte che
avevano trascorso insieme alla vigilia della partenza era stata davvero
l’ultima consolazione e l’ultimo rifugio di calore ed affetto prima di una
morte crudele e atroce? Se almeno lo avesse guardato una volta, una volta sola…
I guerrieri dipinti si
avvicinarono, tenendoli sotto tiro. Li avevano circondati.
“Fatevi avanti! Dunque, che
aspettate?” li incitò Artù, logorato da quell’attesa, pur sapendo che la
battaglia era già perduta.
Il capo degli Woad, però, fece
cenno ai suoi uomini di mettere giù le armi. Fece qualche passo verso il
comandante dei Sarmati e lo fissò, mormorando parole incomprensibili. Artù lo
riconobbe: il giorno in cui avevano assaltato il vescovo e la sua scorta, i
guerrieri della foresta erano guidati dallo stesso uomo. Lui lo aveva disarmato
ed avrebbe potuto facilmente ucciderlo con la sua spada, ma poi aveva deciso di
risparmiarlo. Evidentemente adesso lo Woad gli stava ricambiando il favore.
L’uomo pronunciò altre parole,
questa volta a voce alta e rivolto ai suoi guerrieri. In pochi secondi tutti
scomparvero di nuovo fra gli alberi. Il capo fissò ancora lungamente Artù, poi
anch’egli scomparve.
“Ma cosa è successo? Perché non
ci hanno attaccato?” chiese Lancillotto.
“Forse pensano che non siamo più
noi i veri nemici, ma i Sassoni” rispose Artù. “Adesso però andiamocene di qui,
in fretta! Dobbiamo sbrigarci se domani vogliamo raggiungere la tenuta di
Marius Honorius.”
Il comandante sarmata, infatti,
non si sbagliava: quello stesso giorno un esploratore degli Woad era ritornato
dalla sua perlustrazione, aveva descritto a Merlino, sacerdote supremo del
popolo della foresta, gli orrori e le devastazioni che aveva visto e gli aveva
consegnato un pugnale. Merlino aveva riconosciuto i simboli sassoni che vi
erano incisi sopra ed aveva spiegato alla sua gente che non dovevano più
attaccare Artù ed i suoi cavalieri ma che, anzi, questi sarebbero stati presto
la loro unica speranza contro l’avanzata di nemici ancor più terribili.
Nel frattempo i Sarmati
continuavano a cavalcare, senza fermarsi per la notte e dormendo e mangiando
ancora una volta in sella ai loro destrieri. Viaggiarono per tutto il giorno
successivo e finalmente, nella tarda mattinata del quarto giorno, giunsero
nelle terre di Marius.
Prima di recarsi verso la vasta
proprietà terriera cinta di mura e le piccole casupole di paglia che la
circondavano, Artù si rivolse a Tristano e gli chiese di allontanarsi in
ricognizione per verificare che gli Woad non li avessero seguiti e che i Sassoni
non si trovassero nelle vicinanze. Il cavaliere annuì e partì velocemente,
mentre il suo falco volteggiava alto davanti a lui, quasi ad indicargli la
strada da percorrere. Nessuno dei due si accorse del gesto di rabbia di Galahad,
che aveva assistito alla scena. Il giovane cavaliere si rabbuiò in volto e
spronò nervosamente il cavallo, seguendo malvolentieri gli altri, che si
dirigevano verso i possedimenti del facoltoso romano.
I soldati di guardia li avvistarono
dall’alto delle mura e il loro capitano gridò:
“Voi chi siete?”
“Sono Artorius Castus, comandante
della cavalleria sarmata. Sono stato inviato dal vescovo Germanus di Roma.”
Nel frattempo un uomo grasso e
ben vestito aveva raggiunto i soldati. Alle parole di Artù si illuminò in
volto.
“Da Roma? Finalmente! Presto,
aprite le porte, voglio parlare immediatamente con quest’uomo.”
Subito le porte della tenuta si
aprirono e i cavalieri si avvicinarono lentamente, mentre attorno a loro la
gente dei villaggi avanzava timidamente e li osservava incuriositi.
Marius Honorius raggiunse Artù,
seguito dalla moglie e dal figlio Alessio e da un nutrito gruppo di soldati e
mercenari, ma, prima ancora di salutarlo, si voltò verso i contadini e li
redarguì con asprezza.
“Perché state qui a perdere
tempo? Dovete lavorare! Avanti, tornate alle vostre occupazioni!”
Artù rimase stupito da queste
parole e si guardò intorno. Le persone che erano state rimproverate si mossero
lentamente per tornare al lavoro: erano magre, sciupate e vestite di stracci.
Ma che cosa stava accadendo in quella tenuta? Anche gli altri cavalieri
sembravano condividere il pensiero del loro comandante e sui loro volti si
dipinse un’espressione disgustata e sdegnata.
Marius non si era accorto di
nulla e iniziò a ciarlare amichevolmente con Artù.
“Dunque voi siete il leggendario
Artorius e questi i vostri uomini? Per me è un onore ospitarvi nei miei
possedimenti. Sarete stanchi ed affamati. Fulcinia,” latrò, rivolto alla
moglie, “dai ordine ai servi di preparare un lauto banchetto per i nostri ospiti!”
La donna stava per allontanarsi a
capo chino, ma Artù la fermò.
“Non c’è tempo per questo. Dovete
preparare immediatamente le vostre cose e disporvi a partire con noi. Siamo
stati mandati qui esclusivamente a questo scopo” tagliò corto l’uomo. Il ricco
romano impallidì e tentò di protestare.
“Questo è impossibile. Tutto ciò
che possiedo è qui, è un dono personale del Santo Padre” disse in tono
lamentoso.
“Beh, ora state per donare tutto
ai Sassoni” ribatté Lancillotto, sarcastico. Quell’uomo gli aveva dato sui
nervi fin dal primo istante in cui l’aveva visto.
“Cosa? Ma… no, vi sbagliate di
certo, Roma manderà un esercito e…”
“L’ha già fatto: siamo noi.
Adesso preparatevi, dobbiamo partire al più presto” replicò gelido Artù. I suoi
cavalieri, intanto, sembravano nervosi e gironzolavano sui loro cavalli,
lanciando occhiate di disapprovazione a tutto ciò che vedevano. Ora che avevano
conosciuto la famiglia da salvare, quella missione sembrava loro ancora più
spiacevole del previsto.
“Io mi rifiuto di partire. Questa
è la mia terra e non la lascerò!” esclamò piccato Marius.
A quel punto Artù perse
definitivamente la pazienza.
“Se non riconduco voi e la vostra
famiglia sani e salvi al Vallo di Adriano, io e i miei uomini non potremo mai
lasciare questo Paese. Perciò verrete con me, Marius Honorius, anche se dovessi
legarvi dietro il mio cavallo e trascinarvi personalmente in questo modo fino a
destinazione” disse con un tono che non lasciava dubbi sul fatto che lo avrebbe
messo in pratica, se necessario. Poi, come per un ripensamento, aggiunse: “Mio
signore.”
Rosso di rabbia, ma senza trovare
altri argomenti per controbattere, il romano si incamminò indispettito verso
casa, urlando ordini alla moglie e ai servi perché preparassero ogni cosa per
la partenza.
“Avete sentito?” continuò poi
Artù, rivolto agli abitanti del villaggio. “Nessuno deve restare qui: i Sassoni
stanno per arrivare. Chi è in grado di farlo prenda le sue cose e si diriga
verso il Vallo, gli altri verranno con noi.”
La gente obbedì immediatamente.
In quel momento giunse al galoppo Tristano. Galahad, che era rimasto immusonito
e silenzioso fino a quel momento, fece per andargli incontro, sollevato di
rivederlo sano e salvo; il cavaliere, però, lo ignorò e si diresse subito verso
Artù.
“I Sassoni ci hanno aggirati e
avanzano da sud per tagliarci ogni via di fuga” gli riferì, calmo ed essenziale
come sempre.
“Quanti sono?”
“Un intero esercito. Saranno qui
al tramonto, forse anche prima. Dobbiamo far presto.”
“Da dove passeremo?”
“Ci dirigeremo verso est. Ho
individuato una pista. Dovremo passargli accanto, ma non c’è altra scelta.
Piuttosto, Artù, chi è tutta questa gente?” chiese poi, notando gli abitanti
del villaggio che si erano radunati in attesa.
“Loro vengono con noi” rispose
lapidario il comandante, per prevenire eventuali lamentele. Tristano si limitò
a scuotere la testa con un sorrisetto, come se la cosa non lo riguardasse
affatto.
“Allora non ce la faremo”
concluse.
Gli altri cavalieri si erano
radunati per ascoltare. Galahad stavolta non riuscì a nascondere la sua stizza:
ma come, Artù si era impegnato a riportare i suoi uomini sani e salvi e adesso
metteva a repentaglio la loro vita per un gruppo di contadini sconosciuti? E,
come se non bastasse, continuava a mandare Tristano in ricognizione, da solo, esposto
a ogni pericolo. Ma lui non era più disposto ad accettare questo trattamento e
si sarebbe fatto sentire! Artù non poteva trattarli come se fossero di sua
proprietà, avevano una vita ed un futuro che li attendeva e non sarebbero morti
in quella stupida missione voluta da Roma!
Tutto attorno fervevano i preparativi, sotto la sovrintendenza di
Lancillotto
Tutto attorno fervevano i
preparativi, sotto la sovrintendenza di Lancillotto. Artù, invece, appariva
distratto: aveva notato in mezzo alle capanne un uomo anziano che pendeva da
una catena, seminudo e con la schiena lacerata dalle frustate. Infuriato per quella
vista, aveva chiamato uno dei servi di Honorius e chiesto notizie di
quell’uomo. Galahad pensò che quello fosse il momento adatto per provare a
parlare con Tristano di ciò che lo assillava; il loro comandante era impegnato
in tutt’altra questione.
“In tutta sincerità, Tristano, tu
cosa ne pensi di questa spedizione?” gli chiese, avvicinandosi a lui con il suo
destriero.
“Cosa ne dovrei pensare? Mi
limito a fare quello che mi viene chiesto.”
“Ma questa famiglia romana…
questa gente… guarda laggiù, per esempio: Artù sta liberando quel vecchio che è
stato ridotto in fin di vita per aver disobbedito ad
un ordine di quel grasso e tronfio romano. E noi dovremmo
rischiare la vita per una persona simile?” disse il ragazzo, seguendo con gli
occhi la scena drammatica che si stava svolgendo poco lontano.
“Dobbiamo, se vogliamo avere le
carte di affrancamento” rispose tranquillamente il compagno. Per Tristano,
evidentemente, la vita era molto semplice e non si poneva
tanti problemi. Ma Galahad non era ancora arrivato al
punto che gli premeva. Vide Artù che, dopo aver liberato il vecchio torturato e
averlo affidato alle cure di alcune donne, si stava ora avvicinando ad una strana costruzione in pietra, priva di finestre, che
sorgeva presso le mura della tenuta padronale. Alcuni soldati cercarono di
fermarlo, ma lui avanzò verso l’edificio, sguainando la spada per farsi largo.
“Cosa c’è qui dentro?” domandò a
nessuno in particolare, poi continuò: “La porta è stata murata. Abbattila, Dagonet”.
Il cavaliere obbedì subito,
sfondando il muro a furia di colpi della sua poderosa ascia. Dietro c’era
un’altra porta murata e Dagonet schiantò anche quella.
“Artù, non abbiamo tempo”
protestò Lancillotto, scendendo da cavallo e avvicinandosi al suo comandante. Tuttavia
anche lui era attratto dall’apertura che si affacciava su uno strettissimo
corridoio sul quale si aprivano diverse celle. L’odore là dentro era
insopportabile.
“Entriamo!” esclamò Artù,
facendosi luce con una torcia. Lancillotto, Dagonet e Gawain lo seguirono. Bors
rimase fuori con la spada sguainata a tenere a bada i soldati di Marius, mentre
Galahad e Tristano restarono in sella ai loro cavalli, senza prendere parte a
quell’azione. Il ragazzo notò che il compagno appariva lievemente seccato da
quell’interruzione.
“Artù, dovremmo sbrigarci ad
andarcene di qui” provò a dirgli, ma il suo comandante lo ignorò. Ormai era già
entrato nell’edificio con gli altri tre cavalieri.
“I Sassoni sono
molto vicini, vero? Se non partiamo subito ce
li ritroveremo addosso e Artù non dovrebbe perdere tempo così. Non trovi?” gli chiese Galahad, cercando di rientrare
nell’argomento che gli premeva.
“Io gliel’ho detto” replicò
Tristano, lasciando trasparire una leggera punta di irritazione.
“Più di così non posso fare.”
“E ti pare giusto?
Voglio dire, la tavola rotonda e tutti i discorsi sull’uguaglianza e poi siamo
stati costretti a seguirlo in missione fin quassù. E questo non basta ancora!
Oltre alla famiglia romana, che i Sassoni se la portino, ci dovremo trascinare
dietro uno stuolo di persone che ci rallenteranno nel cammino. Artù ha
ascoltato il nostro parere? Neanche per sogno! Prima ti manda
in ricognizione a sfidare chissà quali pericoli e poi non segue nemmeno i tuoi
suggerimenti” continuò il giovane, dando finalmente via libera a tutte le
lamentele che si era tenuto dentro dall’inizio del viaggio. Tristano,
però, non gli dava molta soddisfazione.
“Sono io il miglior esploratore
ed è logico che sia io ad andare in ricognizione. Se poi lui non vuole seguire
le mie indicazioni sono affari suoi.”
“Eh no, sono affari nostri,
perché se moriamo in questa missione…” riprese Galahad, sempre più infuriato.
Stavolta, però, si interruppe, vedendo i cavalieri che
uscivano dalla costruzione: Gawain e Lancillotto tenevano prigionieri due monaci
dall’aria esaltata, Artù aveva in braccio una giovane donna e Dagonet un
bambino, entrambi ridotti pelle ed ossa e quasi in fin di vita. I due vennero deposti delicatamente a terra e gli venne data
dell’acqua. A quel punto intervenne Marius Honorius, fuori di sé dalla rabbia,
seguito dalla moglie Fulcinia.
“Cosa state
facendo? Non avete il diritto!” ululò, ma Artù lo zittì
subito.
“Là dentro ci
sono decine di persone come loro, morte per la fame, la sete e le torture.
Puoi spiegarmi questo, animale?” ringhiò.
“Sono solo pagani!” si giustificò
Marius, molto poco opportunamente. Le sue parole
scatenarono ancor di più la rabbia di Galahad.
“Lo siamo anche noi, e allora?”
gridò, avvicinandosi pericolosamente al romano. Adesso quella missione gli
sembrava più assurda che mai. Erano venuti lassù per salvare un pazzo fanatico
che torturava e uccideva la gente per le sue convinzioni religiose? Perché non
lo avevano lasciato a discutere di religione con i Sassoni?
L’uomo si rivolse con odio alla
moglie.
“Sei stata tu, tu l’hai aiutata a
restare in vita!” urlò, colpendola con un violento ceffone che la fece cadere a
terra. Artù reagì subito con un pugno violento che mandò il tronfio romano
lungo disteso nella polvere.
“Non la passerete liscia” esclamò
Marius con odio. “Appena saremo al Vallo informerò il
vescovo Germanus della vostra insolenza e la pagherete cara!”
Per nulla impressionato, il
comandante sarmata si buttò su di lui, puntandogli la spada alla gola.
“Forse dovrei ucciderti subito e
decidere così il mio destino, ma non voglio insudiciare la mia spada” sibilò.
Poi lasciò cadere l’uomo nella polvere, rimise la spada nel fodero e diede ordine ai suoi uomini di disporsi per la partenza.
Il rullo dei tamburi dei Sassoni
si faceva sempre più vicino.
La carovana si mise in marcia. I
feriti erano distesi su un carro coperto da un telone; Fulcinia e Dagonet si
occupavano di loro. Artù si avvicinava ogni tanto per chiedere informazioni
sulla ragazza e il bambino. Il sentiero era stretto ed
innevato e molte persone dovevano spostarsi a piedi, non avendo né un carro né
un cavallo.
Lancillotto affiancò il proprio
destriero a quello del suo comandante ed amico. Gettò
un’occhiata alla giovane distesa nel carro, che si era ripresa ed osservava tutto con i suoi occhi neri e penetranti, poi
si allontanò di nuovo, portandosi in testa alla fila di carri. Artù lo seguì,
sperando in un’occasione propizia per parlargli, ma Lancillotto era ancora
seccato.
“Questa gente
ci sta rallentando. Se andiamo avanti così, presto i
Sassoni ci saranno addosso” gli disse in tono polemico.
“Non lascerò questa gente qui a
morire” ribadì seccamente Artù.
Lancillotto sorrise amaramente.
“Questa missione è veramente per
Roma… o è per Artù?” domandò sarcastico, poi si allontanò senza attendere una
risposta.
Rimasto solo, il comandante si
guardò intorno. Si stava avvicinando una tormenta e probabilmente si sarebbero
dovuti fermare per la notte. Una sosta avrebbe reso ancor più drammatica la
loro situazione, anche lui sentiva il rullare dei tamburi sassoni sempre più
vicino e sapeva che grave pericolo incombesse, ma capiva anche che molte
persone sarebbero morte se avessero camminato tutta la notte sotto la neve. Lo
addolorava che Lancillotto non comprendesse e che mantenesse l’atteggiamento
ostile che aveva avuto fin dalla partenza. Non erano mai stati così a lungo
senza quasi parlarsi.
Ben presto Tristano, seguito
immancabilmente da Galahad, gli si avvicinò a cavallo.
“Prima che giunga la notte dovremo trovare una radura in cui accamparci, o questa
gente morirà” gli spiegò Artù. “Tristano, devo chiederti di andare in
ricognizione e informarci sulla posizione dei Sassoni.”
Il cavaliere annuì. Stava per
partire, quando risuonò la voce di Galahad.
“E invece no!
Artù, i Sassoni sono vicini e tu non puoi mandare così tranquillamente Tristano
a rischiare la vita. Siamo noi i tuoi uomini e tu hai
promesso di riportarci sani e salvi” si ribellò con veemenza. “Adesso però stai anteponendo questi sconosciuti a noi! E, in ogni caso, se i nemici ci attaccheranno, queste persone
saranno comunque uccise”.
La protesta inattesa del suo
guerriero più giovane lasciò per un attimo Artù senza parole.
“Come ti
permetti di discutere un mio ordine? Io sto facendo
quello che ritengo meglio per tutti e in ogni caso non devo dare spiegazioni a
te!” lo rimproverò. Il tono era più infuriato di quanto avrebbe voluto,
ma l’uomo era esausto, ancora sconvolto per ciò che aveva visto nella tenuta di
Honorius e lacerato per la manifesta ostilità del suo migliore amico. Non
poteva lasciare che la sua autorità sui cavalieri venisse meno.
“E io
non sopporto che sia sempre Tristano a dover rischiare la vita in esplorazione.
Se proprio vuoi che ci vada, allora io andrò con lui! Non lo lascio solo!” continuò il ragazzo, meno polemico e più
disperato.
Artù stava per controbattere
nuovamente alle strane parole del giovane, ma fu Tristano a risolvere la
questione. Si avvicinò al destriero di Galahad, posò affettuosamente una mano
sul braccio del compagno e gli parlò con voce calma e rassicurante.
“Non mi succederà niente e tu non
puoi venire con me. Te l’ho detto, sono il miglior esploratore fra noi e so
come fare, conosco le strade e i nascondigli giusti. Se venissi anche tu,
dovrei pensare a te e tenerti al sicuro e allora sì che saremmo entrambi in pericolo.
Non ti preoccupare, tornerò presto.”
Le parole del cavaliere calmarono
Galahad che, pur rabbuiato, annuì. Tristano lanciò il suo falco e partì al
galoppo, seguendo il volatile.
Artù restò in testa al gruppo,
guardandosi intorno alla ricerca di una radura per accamparsi. La neve gli
sferzava il viso e mille pensieri gli turbinavano in mente. Non immaginava che
esistessero persone, come Marius Honorius, che si consideravano investiti da
Dio e con questa scusa asservivano i più poveri e torturavano chi non obbediva
loro. Era questa, dunque, la vera Roma? Forse Lancillotto aveva ragione a
criticare sempre i romani. Avrebbero dovuto parlarne, in questo modo magari
anche la frattura fra loro si sarebbe ricomposta. E Galahad, poi? Aveva
rifiutato quella spedizione fin dal principio, ma non si era mai ribellato ad un suo ordine prima di allora. E lo aveva fatto perché
temeva per l’incolumità di Tristano, non per se stesso. Artù non si era mai
accorto che i due cavalieri fossero tanto legati e aveva trovato singolare
anche il comportamento del suo esploratore, che aveva calmato Galahad con poche
parole affettuose. Cosa stava accadendo attorno a lui?
Il comandante dei Sarmati si sentiva confuso e non era più sicuro di cosa fosse
meglio fare.
Nel cuore della notte tutti dormivano, eccetto i cavalieri che dovevano
montare di guardia e Galahad
Nel cuore della notte tutti
dormivano, eccetto i cavalieri che dovevano montare la guardia e Galahad. Lui
non era di turno, ma non riusciva a prendere sonno a causa dell’angoscia e
della preoccupazione che provava per Tristano. Il guerriero aveva detto che
sarebbe tornato presto, invece erano trascorse ore e lui non si vedeva. I
tamburi dei sassoni erano sempre più incalzanti… Forse gli era accaduto
qualcosa di brutto? In quel caso il giovane non avrebbe mai potuto perdonare
Artù per averlo mandato in esplorazione da solo. In preda a pensieri spaventosi
e terribili sulla sorte del suo compagno, Galahad si girò e rigirò per tutta la
notte e solo alle prime luci dell’alba cadde in un sonno agitato. Questo, però,
ebbe breve durata. Strepiti e grida, che sembravano provenire da ogni parte
dell’accampamento improvvisato, lo destarono completamente e il ragazzo fu
subito in piedi, temendo che le sue peggiori paure si fossero avverate.
In realtà la causa di tanto
frastuono era Marius Honorius: il romano aveva corrotto alcuni dei suoi soldati,
che adesso si stavano ribellando ad Artù e ai cavalieri. Lancillotto, Dagonet e
Bors stavano già combattendo contro di loro e Artù aveva appena estratto
Excalibur. I mercenari rimasero ben presto in pochi e, quando il comandante dei
Sarmati ordinò loro di arrendersi, questi lasciarono cadere a terra le spade.
Marius, però, non era soddisfatto e con una mossa fulminea, singolare in un
grasso e goffo individuo come lui, afferrò il bambino che Dagonet aveva salvato
e gli puntò un pugnale alla gola.
“Massacrateli tutti o io lo
uccido!” esclamò.
Nessuno osò muoversi di fronte ad
una minaccia tanto terribile, ma non ci fu bisogno di alcun intervento da parte
degli uomini di Artù: una freccia trafisse il petto del crudele romano, che cadde
all’indietro con gli occhi sbarrati, incredulo e stupefatto.
Tutti si voltarono verso il punto
dal quale era partita la freccia e rimasero sorpresi e ammirati nel vedere
Ginevra che teneva in mano l’arco preso a un mercenario caduto e che stava
eretta, sicura e decisa, senza più il minimo segno delle torture e degli stenti
patiti.
“E’ evidente che la tua mano è
guarita perfettamente” commentò ironico Lancillotto.
La ragazza sorrise e annuì.
“Adesso potrete contare su un
guerriero in più: io so combattere benissimo, nel mio popolo le donne si
allenano e lottano esattamente come gli uomini” aggiunse poi con orgoglio. Ma
non c’era bisogno di spiegazioni poiché tutti avevano potuto rendersi conto
della forza e dell’abilità della giovane Woad.
“E voi cosa farete adesso?”
domandò Artù, rivolto ai pochi mercenari rimasti in vita che si erano arresi.
“Siamo mercenari e combattiamo
per chi ci paga” disse uno di loro. “Marius Honorius ci pagava e così
obbedivamo a lui, ma se sarete voi a darci un salario combatteremo al vostro
fianco, altrimenti ce ne andremo a cercare un altro padrone e vi abbandoneremo
al vostro destino.”
“Potreste farlo certamente”
ribatté calmo il comandante sarmata, “ma i Sassoni sono vicini e non so se voi,
da soli, potreste sfuggirgli. Insieme saremmo senz’altro più forti.”
Il soldato scambiò alcuni sguardi
interrogativi con i compagni, poi annuì e si rivolse nuovamente ad Artù,
tendendogli la mano con un sorriso.
“Io e i miei compagni siamo
d’accordo: resteremo con voi anche senza una paga” concluse.
I due uomini si strinsero la
mano, ma un rumore che proveniva dalla foresta li interruppe. I cavalieri
sarmati e i soldati romani brandirono le loro armi, pronti per un nuovo
combattimento, ma dai cespugli sbucò Tristano a cavallo. Per la prima volta
appariva veramente esausto.
“Quanti Sassoni hai fatto fuori?”
gli chiese Bors.
“Quattro” rispose il guerriero
stancamente. Anche la voce tradiva la fatica e lo sfinimento che provava. “Ci
sono praticamente addosso, non abbiamo tempo da perdere: dobbiamo andarcene subito
da qui!”
Galahad era rimasto talmente
sbigottito da non trovare nemmeno il coraggio di avvicinarsi al compagno. Non
lo aveva mai visto così! Solitamente Tristano era in grado di lottare contro
più di un nemico con eleganza e scioltezza, lasciando sul campo di battaglia
numerosi morti e allontanandosi senza nemmeno scomporsi. Che cosa era successo
veramente durante quell’esplorazione? Il giovane lanciò di nuovo uno sguardo
duro ad Artù, che aveva messo così gravemente in pericolo la vita del suo amico
e pensò che non ci sarebbe stata una seconda volta: d’ora in poi, giurò a se
stesso, sarebbe rimasto al fianco di Tristano qualunque cosa fosse accaduta.
Nel frattempo Fulcinia e Alessio,
la moglie e il figlio di Honorius, aiutati da Dagonet e Gawain, avevano scavato
una buca e vi avevano adagiato il corpo dell’uomo. Non potevano certo portarlo
con loro durante un viaggio così insidioso, anche se Marius avrebbe senz’altro
desiderato un funerale in grande stile, secondo
l’usanza romana. Del resto lui non aveva mai fatto nulla per farsi amare dai
propri familiari e non ci furono né lacrime né scene di dolore durante la sua
sepoltura.
Il giorno seguente la carovana
dei fuggiaschi dovette oltrepassare un sentiero fra le montagne, mentre la neve
e il freddo si facevano sempre più terribili. La gente soffriva moltissimo e
non c’era modo di dar loro sollievo, poiché tutti i villaggi che avevano
trovato sul loro cammino erano stati completamente rasi al suolo dai Sassoni.
Artù era sempre più preoccupato e cominciava a pensare che Lancillotto non
avesse avuto tutti i torti a lamentarsi per quella spaventosa missione. Ne
sarebbero mai usciti vivi? E le persone che li avevano seguiti, confidando
nella loro protezione, che fine avrebbero fatto?
Al termine del sentiero i
fuggiaschi e i cavalieri si trovarono di fronte all’enorme distesa ghiacciata
di un lago. I tamburi dei Sassoni si facevano udire sempre più insistenti ed
era chiaro che non vi era altra via d’uscita: la carovana avrebbe dovuto
attraversare quella lastra di ghiaccio, con la speranza che sostenesse il peso
di tanti uomini e animali.
Artù spronò il cavallo e lo
condusse verso la superficie gelata; Ginevra, Lancillotto e Tristano lo
seguirono, ma gli scricchiolii sotto gli zoccoli delle cavalcature si fecero
sempre più sinistri.
“Sei sicuro che non ci sia
un’altra via di fuga?” domandò il comandante a Tristano.
“Purtroppo sì” replicò il
guerriero con espressione tesa e preoccupata. “Ho perlustrato ogni possibile
passaggio, ma i Sassoni ci hanno tagliato la strada da ogni parte. Dobbiamo
attraversarlo il più in fretta possibile.”
Artù si voltò e segnalò alla
colonna che lo seguiva di avviarsi, ma avevano fatto solo pochi passi su quella
superficie insidiosa quando i tamburi dei Sassoni divennero vicinissimi: erano
in trappola e lo scontro con quei temibili nemici era ormai inevitabile.
Il comandante dei Sarmati prese
una rapida decisione. Chiamò a sé Ganis, il giovane
uomo che nella tenuta di Marius si era offerto di mettersi ai suoi ordini e che
lo raggiunse, orgoglioso di poter essere di aiuto.
“Ascoltami bene, Ganis” gli
disse, “ti sto per chiedere qualcosa di molto difficile e pericoloso, ma so di
potermi fidare di te. I Sassoni ci sono addosso e per la gente della carovana
sarà la fine. Tu, però, puoi aiutarmi: mentre noi resteremo qui a combattere
contro di loro, tentando di fermarli in qualche modo, tu guiderai la colonna
verso sud fino a che non raggiungerete il Vallo di Adriano.”
“Ma io so combattere, posso
rimanere qui e unirmi a voi!” protestò il giovane, deluso.
“Lo so, ma quella gente ha
bisogno di una guida e tu sei l’unico che possa farlo. Ti affido le loro vite.
E voi” continuò, rivolgendosi ai fuggiaschi, “seguirete Ganis come avreste
fatto con me: è lui ora il vostro comandante e dovrete obbedirgli come
obbedireste a me.”
Fulcinia e Alessio annuirono a
nome di tutti i componenti del gruppo. Ganis diede ordine
di rimettersi in marcia e la colonna si avviò, ma una persona non si era mossa
con loro. Ginevra scese da cavallo armata dell’arco col quale aveva ucciso
Marius e con spavalderia si avvicinò ad Artù e ai suoi uomini.
“Un arciere abile come me vi farà
comodo in questo frangente” dichiarò senza falsa modestia. Artù la guardò con
ammirazione e annuì, poi non ci fu più il tempo di dire altro, poiché sulle
rive opposte del lago ghiacciato apparve improvvisamente Cynric, il figlio del
capo sassone, con i suoi soldati.
“Bene” commentò Bors, “avevo
proprio voglia di menare un po’ le mani!”
“A me non piace dovermi guardare
continuamente le spalle” aggiunse Tristano. “Preferisco combattere.”
A un ordine di Artù i cavalieri e
Ginevra si allinearono con gli archi puntati e le frecce incoccate, pronti a
colpire, mentre Jols e Horton, sempre più terrorizzato e pentito di essersi
lasciato coinvolgere in una simile pazzia, si ritirarono con i cavalli al
centro del quadrato formato dai combattenti, in modo tale da rimanere protetti
dai loro scudi, che costituivano una vera e propria barriera.
“State fermi fino al mio ordine”
disse il comandante. “Forse il ghiaccio non reggerà sotto il peso di tanti
soldati e noi non saremo costretti a combattere.”
Infatti, Cynric stava osservando
nervosamente la distesa ghiacciata e decise di ordinare ad uno dei suoi di
scagliare una freccia verso i cavalieri, per meglio valutarne la distanza. Il
dardo partì, ma terminò la sua corsa assai prima di raggiungerli e slittò sul
ghiaccio.
“Bors, Tristano, Galahad” esclamò
Artù, “pensate di poter fare di meglio?”
I tre guerrieri scoccarono le
loro frecce, che volarono rapide nel cielo e si conficcarono nel petto di tre
soldati sassoni. Allora Cynric perse la pazienza e con un cenno ordinò ai suoi
di marciare verso il nemico, ignorando i minacciosi scricchiolii che
provenivano dal lago ghiacciato.
“Colpiteli ai fianchi e fate in
modo che si serrino al centro, così il loro peso sarà maggiore!” gridò Artù ai
suoi.
I dardi ripresero a sfrecciare,
colpendo uno dopo l’altro i Sassoni alle estremità della fila, ma il loro capo
non si fermò fino a quando non valutò di essere alla distanza giusta.
“Siamo a tiro, adesso!” esclamò.
“Colpiteli senza pietà!”
Le frecce
sassoni partirono, ma Artù, Ginevra e i cavalieri alzarono i loro scudi,
formando una barriera impenetrabile. Le armi si abbatterono inutilmente sulla
difesa organizzata dal comandante sarmata e ricaddero sul ghiaccio senza recar
danno a nessuno.
Quando la prima ondata di frecce
fu terminata, i guerrieri sarmati e la giovane Woad ripresero a bersagliare i
fianchi della fila dei Sassoni, uccidendone e ferendone molti; ogni volta che
questi tentavano di colpirli con i propri dardi, invece, gli scudi proteggevano
Artù e i suoi.
Cynric era sempre più infuriato.
“Avanti! Muovetevi, più svelti!”
urlava per incitare i soldati che stavano per scoraggiarsi, intrappolati fra le
frecce del nemico e una superficie sempre più scricchiolante e pericolosa. “Ucciderò
chiunque proverà a ritirarsi, per me non fa differenza se morirete qui o là.”
Allora i Sassoni si gettarono
all’attacco, cercando di ignorare i compagni falcidiati dai dardi nemici e il
terribile rumore del ghiaccio che iniziava a cedere. Si facevano sempre più
vicini e ben presto sarebbero piombati addosso ad Artù, Ginevra e gli altri
uomini. Nessuno di loro aveva paura della morte imminente, ma
Galahad guardò ansiosamente verso Tristano, rimpiangendo di non avergli parlato
dopo che era tornato dalla perlustrazione e pensando con tristezza che non
avrebbe più potuto sentire il conforto e il calore del suo abbraccio.
La situazione sembrava mettersi male per Artù ed i suoi compagni: la
distesa ghiacciata stava lentamente cominciando a cedere sotto il peso
dell’esercito sassone, ma le crepe si estendevano con troppa lentezza e in
breve Cynric ed i suoi sarebbero stati
La situazione sembrava mettersi
male per Artù e i suoi compagni: la distesa ghiacciata stava cominciando a
cedere sotto il peso dell’esercito sassone, ma le crepe si estendevano con
troppa lentezza e in breve Cynric e i suoi sarebbero stati addosso ai Sarmati.
“Serrate le file! Pronti al corpo
a corpo!” ordinò il comandante, ma questa volta uno dei cavalieri non obbedì e
si slanciò correndo verso il nemico: era Dagonet.
“Dagonet! Torna qui
immediatamente!” lo richiamò Artù, ma l’uomo non lo ascoltò nemmeno. Giunto
alla distanza desiderata brandì la sua poderosa mazza e l’abbatté sul ghiaccio
con una forza mostruosa. Nuove crepe si aprirono immediatamente sotto il
formidabile colpo e si propagarono veloci verso Cynric e il suo esercito. I
Sassoni compresero l’intento del guerriero e impallidirono per il terrore.
“Presto, copritelo!” esclamò il
comandante sarmata, rivolgendosi ai suoi cavalieri. Bors, Tristano, Galahad e
Ginevra presero a lanciare frecce su frecce con incredibile precisione;
l’esercito di Cynric veniva rapidamente decimato,
mentre Dagonet continuava a sferrare colpi violenti sulla lastra di ghiaccio
che cedeva sempre più.
Cynric, però, non rimase a
guardare. Ordinò agli uomini superstiti di concentrare tutti i loro dardi sul
cavaliere solitario in mezzo al lago e all’improvviso Dagonet fu raggiunto da
due frecce, una alla gamba e una alla spalla. Questo, però, non servì a
fermarlo, anzi parve infondergli nuova energia: vibrò un micidiale colpo sul
ghiaccio e lo schianto fu ancor più terrificante degli altri.
“Uccidetelo,
uccidetelo! Che aspettate, incapaci?” sbraitava il capo dei Sassoni ai
suoi uomini.
Altre due frecce raggiunsero il
corpo del cavaliere, che cadde in ginocchio. Con un ruggito di esultanza Cynric
e ciò che restava dei suoi guerrieri si slanciarono in avanti per gettarsi
addosso all’uomo e finirlo, ma proprio in quel momento la superficie gelata s’infranse
sotto i loro piedi. Uno spaventoso crepaccio si aprì e i Sassoni, smarriti e
terrorizzati, abbandonarono le armi e tentarono di tornare indietro, ma era
troppo tardi: sotto il loro peso il lastrone di ghiaccio cedette completamente
e la maggior parte dei guerrieri fu trascinata nelle acque nere, gelide e
profonde. In preda al panico e fuori di sé per la frustrazione Cynric ordinò la
ritirata, ma solo pochi guerrieri riuscirono a riguadagnare la riva insieme a
lui.
Bors, allora, corse a precipizio
verso l’amico ferito per portarlo via prima che il lago inghiottisse anche lui;
Artù e Lancillotto lo seguirono e tutti insieme riuscirono a sollevare il
guerriero, che si reggeva a malapena sulle gambe, per riportarlo al sicuro a
riva. Jols e Ginevra allestirono per lui un giaciglio riparato, spalando via la
neve da terra con gli scudi e sistemando delle coperte per tenerlo al caldo. Di
fronte a questa scena Galahad era rimasto immobile, pallidissimo, con lo
sguardo fisso sull’amico ferito e stringendo istintivamente un braccio di Tristano,
quasi a volersi accertare che lui era lì accanto e che non gli era successo
nulla di male. Non era difficile indovinare i suoi pensieri: nel corso degli
anni molti dei loro compagni erano morti, ma ultimamente questo non si era più
verificato; certo il giovane sapeva che le ferite e le morti in battaglia erano
inevitabili, però cercava di non pensarci per non impazzire. Adesso, invece,
Dagonet era stato colpito e ciò significava che lo stesso sarebbe potuto
accadere anche a Tristano, magari durante una di quelle perlustrazioni così
pericolose che Artù lo costringeva a fare.
“Pensi che morirà?” mormorò
Galahad al compagno con una voce che si udiva a malapena. Intanto Bors e gli
altri avevano adagiato il valoroso cavaliere sul giaciglio e si organizzavano
per medicare le sue ferite. Nessuna di esse era mortale, ma
Dagonet aveva perso sangue e inoltre vi era il rischio di un’infezione. A
questo punto intervenne con sicurezza Ginevra.
“Il vostro compagno non morirà,
ma dobbiamo intervenire subito. Jols, per favore, accendi un fuoco e vai a
prendere dell’acqua in un recipiente per farla bollire. Artù, sei in grado di
estrarre le frecce dal corpo di Dagonet senza provocargli un’eccessiva perdita
di sangue? Tu, Lancillotto, trova un pezzo di stoffa da
lacerare per fare delle bende” disse.
Gli altri la guardarono stupiti
per un attimo, poi seguirono le sue indicazioni, conquistati dalla fermezza e
dalla tranquillità con la quale la ragazza aveva parlato. Solo Lancillotto
esitò.
“Come puoi sapere cosa si deve
fare in questi casi?” le domandò in tono scettico.
“Mio padre è Merlino, capo degli
Woad e sacerdote supremo: da lui ho imparato l’arte di guarire con le erbe ed è
ciò che ho intenzione di fare per salvare la vita al vostro amico” rispose.
“Mentre voi preparate l’occorrente, io mi recherò nella foresta qui vicina per
cercare i medicamenti adatti. Forse ci impiegherò un po’ di tempo per trovare
le erbe adatte poiché dovrò frugare sotto la neve.”
La giovane s’incamminò senza
aggiungere altro e Lancillotto, dopo averla osservata allontanarsi con sguardo
ammirato, si affrettò a eseguire i suoi ordini: trovata una camicia fra le cose
che i cavalieri avevano portato con sé per la missione, la lacerò per farne
delle bende. Nel frattempo Artù stava estraendo i dardi dal corpo di Dagonet il
più delicatamente possibile, Jols aveva raccolto della legna e acceso il fuoco
e Bors era andato ad attingere acqua. Quando Ginevra tornò con le erbe, era
tutto pronto. La ragazza ne mise alcune a bollire nell’acqua per fare una
pozione e usò le altre per medicare le ferite del guerriero; il sangue si
arrestò e anche il dolore sembrò diminuire, ma Dagonet restava molto debole.
Sarebbe stata la pozione a ridare all’uomo energia sufficiente almeno per
riprendere il cammino verso la fortezza, oltre il Vallo di Adriano.
“Artù, non c’è pericolo che i
Sassoni ci attacchino ora che siamo così indifesi?” chiese Gawain al suo
comandante.
Il cavaliere si voltò verso la
riva opposta del lago, dove Cynric stava gridando furiosamente contro i soldati
sopravvissuti per l’umiliante sconfitta subita. La collera del guerriero era
tale da spingerlo a malmenare e addirittura uccidere alcuni dei suoi uomini.
“No, sono troppo pochi e non
possono più raggiungerci attraverso il lago” rispose, riportando lo sguardo su
Ginevra che si stava occupando abilmente del ferito. “Potrebbero aggirarlo, ma
per arrivare fino a noi dovrebbero attraversare tutti quegli altipiani e non
credo che lo faranno. Penso piuttosto che si riuniranno all’esercito principale
per attaccarci in un momento per loro più favorevole. Questo ci dà un certo
margine di tempo per ritornare al Vallo in sicurezza.”
Artù sapeva che il ritorno
sarebbe stato più lento dell’andata: Dagonet era ferito e debole e, anche se fosse
riuscito a cavalcare, avrebbe avuto bisogno di riposare spesso. Non c’era
comunque altra scelta.
Trascorsero circa due ore. La
pozione e le erbe medicinali avevano fatto effetto e Dagonet si sentiva meglio:
riusciva ad alzarsi in piedi e dichiarò risoluto che era pronto a montare il
proprio cavallo.
“Se davvero ti senti
sufficientemente in forze possiamo partire” acconsentì Artù, “ma ci muoveremo
più lentamente e, non appena proverai dolore o debolezza, ci fermeremo e
Ginevra ti curerà di nuovo. Lo so che così ci metteremo molto più tempo, ma non
mi preoccupo di questo: i Sassoni dovranno affrontare una pista in mezzo alle
montagne innevate e impiegheranno comunque più giorni per raggiungere il Vallo.
Arriveremo prima di loro in ogni caso.”
Detto questo, il comandante dei
Sarmati diede l’ordine ed il gruppo si mise in viaggio per tornare alla
fortezza dove li attendeva la meritatissima ricompensa: le carte di
affrancamento promesse da Germanus.
Mentre cavalcava in testa alla
compagnia, Artù fu affiancato da Lancillotto. Il volto del cavaliere sembrava
rasserenato e tranquillo e non aveva più l’espressione torva dei giorni precedenti.
“So di essermi comportato in modo
molto ostile durante tutta questa missione” iniziò a dire il guerriero, “ma tu
sapevi fin dal principio che io non l’approvavo. Ho avuto per lungo tempo la
sgradevole sensazione che tu preferissi la famiglia romana e la loro gente ai
tuoi stessi uomini e questo mi faceva ribollire di rabbia. Oggi, però, ho capito
che mi sbagliavo: non solo ti sei slanciato per salvare Dagonet nonostante il
pericolo causato dal ghiaccio e dalle frecce nemiche, ma hai anche accettato di
rallentare il passo per non sfinirlo e consentirgli di tornare sano e salvo. Ti
chiedo perdono per aver dubitato di te, Artù.”
“Non devi scusarti di nulla, è
già tutto dimenticato” replicò il comandante con un sorriso. I due amici si
strinsero la mano con calore e Artù sentì che un grosso peso gli scivolava via
dal cuore: aveva sofferto molto per la manifesta disapprovazione del suo
compagno più caro ed era felice che alla fine tutto fosse stato chiarito.
Ci vollero tre giorni di viaggio
prima di raggiungere la collina che dominava il Vallo di Adriano, ma nel
frattempo i cavalieri si erano riuniti alla carovana dei civili e Dagonet aveva
potuto proseguire nel carro coperto, assistito da Ginevra e da Fulcinia,
recuperando le forze ogni giorno di più. Le sentinelle al Vallo videro Artù e
gli altri e si accinsero alla laboriosa operazione di apertura delle porte; i
carri si snodarono giù per il declivio e i cavalieri Sarmati li seguirono
felici. La loro ultima missione era terminata, Dagonet si era ripreso e adesso
Germanus avrebbe dovuto consegnare le carte che li avrebbero resi uomini
liberi. Sembrava impossibile essere giunti finalmente a quel momento così a
lungo atteso. Attraversarono il villaggio ed entrarono nella fortezza, dove il
vescovo li attendeva con un sorriso ipocrita sulle labbra.
“Sia lodato Iddio!” esclamò
Germanus. “Avete portato a termine trionfalmente la vostra spedizione e Alessio
potrà ritornare a Roma sano e salvo!”
Si fece incontro a Fulcinia e al
ragazzo, ma nessuno dei due parve felice di vederlo, anzi si strinsero l’un
l’altra, allontanandosi da lui.
“Dov’è il vostro caro sposo,
Fulcinia?”
“Marius Honorius è morto durante
la fuga, ma Alessio è sopravvissuto” rispose
impassibile la donna. Il vescovo non parve particolarmente addolorato per la
morte dell’uomo: in fondo ciò che davvero contava era la vita di Alessio, il nipote
e pupillo del Santo Padre che era destinato a divenire un personaggio
importante nella Chiesa romana e, chissà, forse un giorno addirittura Papa.
Notando l’evidente ostilità di Fulcinia e del giovane, Germanus si rivolse ad
Artù e ai suoi cavalieri.
“Nobili cavalieri” disse
cerimoniosamente, porgendo al comandante un fascio di rotoli che una guardia
romana gli aveva appena consegnato, “ecco i vostri salvacondotti: ora siete
uomini liberi!”
Artù passò i rotoli a Lancillotto
che li distribuì ai compagni; nessuno dei cavalieri disse una parola e, una
volta ricevuta la propria carta di affrancamento, ognuno si allontanò senza
ringraziare o salutare il vescovo, che li fulminò con lo sguardo, indignato da
tanta insubordinazione. Ma che altro poteva fare? I cavalieri avevano obbedito
agli ordini di Roma e portato in salvo il prezioso giovane, lui non aveva più
nessuna scusa per tormentarli ancora, nonostante li disprezzasse profondamente.
Le truppe di Cerdic erano accampate presso un villaggio incendiato ai
margini della foresta, a circa un miglio a Nord del Vallo
Le truppe di Cerdic erano
accampate presso un villaggio incendiato ai margini della foresta, a circa un
miglio a nord del Vallo. Il comandante sassone era infuriato con il figlio
Cynric, che aveva dato una così meschina prova di sé nella battaglia contro i
Sarmati al lago ghiacciato e, per calmare la sua collera, stava organizzando
con il fidato luogotenente l’attacco imminente al Vallo.
“Prima di attaccare faremo
un’azione dimostrativa per far loro capire cosa li
aspetta, se sceglieranno di resistere e di battersi” spiegò, senza rivolgere
nemmeno un’occhiata al figlio.
Anche Cynric era colmo d’ira per
essere stato umiliato da un gruppetto di cavalieri e lo irritava ancor di più
notare che suo padre lo ignorava e parlava solo con il luogotenente, come se
fosse lui, adesso, carne della sua carne. Non era
giusto! Il giovane promise a se stesso che durante l’attacco al Vallo sarebbe
stato il più indomito e valoroso dei guerrieri, per riconquistare la stima di
Cerdic e vendicare l’onta subita.
Artù sedeva solo nella sua stanza
e pensava a ciò che sarebbe accaduto l’indomani. Sapeva bene che i Sassoni
erano molto vicini e che avrebbero attaccato il Vallo, ma lui aveva promesso ai
suoi uomini che sarebbero partiti tutti insieme per la Sarmazia ancor prima
dell’alba. Cosa doveva fare? Si sentiva un codardo
all’idea di andarsene abbandonando quella povera gente alla crudeltà e alle
sevizie dell’esercito nemico; era vero che la sua missione era ormai compiuta,
ma come poteva lasciare il suo posto quando sapeva benissimo che i Sassoni
avrebbero distrutto tutto e ucciso o fatto prigioniero ogni uomo, donna e
bambino? Tuttavia, se avesse invece deciso di non partire, avrebbe dovuto
spiegarlo ai suoi cavalieri e senza dubbio loro, in particolare Lancillotto, lo
avrebbero considerato un traditore. Era una scelta difficilissima e Artù non
sapeva più quale fosse quella giusta. Le sue riflessioni furono interrotte da
Ginevra. La ragazza aveva lo sguardo brillante e un sorriso che rivelava una
gioia segreta.
“Ginevra, sono contento che tu
sia qui, avevo bisogno di parlarti” le disse. “Domani, quando ce ne andremo, le
ultime legioni romane avranno già abbandonato il Vallo e senza dubbio i Sassoni
attendono quel momento per attaccare. Devi assolutamente venire con noi, solo
così sarai al sicuro.”
Lei scosse il capo, risoluta.
“Io non verrò con voi, devo
restare qui e combattere!”
“Perché?” le chiese Artù. “Questa
non è la tua guerra e i Britanni non sono la tua gente.”
“No, ma la mia gente è nella
foresta” ribatté Ginevra. “Io sono l’ultima di una grande famiglia e la prima
donna del mio popolo. Come figlia di Merlino, sono un capo degli
Woad e domattina, quando mio padre li condurrà qui, io combatterò alla loro
testa.”
Il coraggio e la decisione della
ragazza spinsero Artù a prendere la decisione che rimandava.
“Allora io resterò e combatterò
per la libertà della Britannia e perché il tuo popolo e il mio possano vivere
finalmente in pace” affermò.
Ginevra gli si avvicinò
prendendogli il viso fra le mani.
“Domani potremmo morire entrambi
e questa potrebbe essere l’unica notte che ci rimane…”
mormorò.
L’uomo la prese fra le braccia,
la distese sulla sua branda e la baciò a lungo. Fecero l’amore con abbandono e
passione, come cercando l’uno nell’altra un rifugio di pace e bellezza in mezzo
a tanta brutalità e violenza. Poi, placati, scivolarono lentamente nel sonno. Ma ben presto furono destati da un violento bussare: era
Jols.
“I Sassoni!” gridò il servo di
Artù. “Correte alle mura, presto!”
I due amanti si alzarono e si
rivestirono in fretta, precipitandosi lungo i corridoi e le rampe di scale,
fino agli spalti dove trovarono l’intera guarnigione, i cavalieri sarmati e i
mercenari che guardavano ammutoliti una spaventosa croce di fuoco nella piana antistante il Vallo: era il segnale che i Sassoni avrebbero
attaccato e li avrebbero annientati.
Lancillotto si rivolse al suo
comandante.
“Artù, questa
non è più la nostra guerra. Io e gli altri abbiamo già
preparato i nostri cavalli e siamo pronti a partire” gli disse. I
cavalieri accanto a lui annuirono gravemente.
“Io resto” replicò pacatamente
Artù, senza distogliere lo sguardo dalle fiamme appiccate dai Sassoni. “Adesso
questa è anche la mia battaglia.”
“Lo sapevo!” esclamò con disgusto
il guerriero. “Già dall’inizio di questa missione temevo che ci
avresti traditi, ora però tradisci te stesso.”
Si volse e si allontanò infuriato
a grandi passi. Gli altri restarono a guardare perplessi il loro comandante che
aveva deciso di abbandonarli, poi anche Bors seguì Lancillotto, scuotendo
deluso il capo e rivolgendosi all’amico Dagonet.
“Qui non abbiamo più nulla da
fare. Vieni, Dag, andiamo a finire di prepararci per
la partenza.”
Lentamente tutti i cavalieri si
allontanarono, lanciando un ultimo sguardo deluso e addolorato ad Artù. La loro
reazione ferì il comandante sarmata, ma ormai lui aveva compiuto la sua scelta
e la presenza di Ginevra al suo fianco gli infondeva serenità.
“Lancillotto ha ragione, Artù ci
ha traditi e ha tradito se stesso!” disse Galahad a
Tristano mentre si avviavano verso il loro alloggio per cercare un po’ di
riposo prima della partenza. “Non te lo avevo detto e ripetuto per tutta la
missione? A lui non importa più nulla di noi, adesso vuole combattere per i
Britanni e per quella ragazza Woad. Ti sembra giusto?”
Se Tristano era deluso dal
comportamento del proprio comandante non lo diede a
vedere.
“Probabilmente è ciò che lui
ritiene giusto” si limitò a commentare. “Non sta a noi giudicare solo perché
non la pensiamo allo stesso modo.”
“Come fai a restare così calmo
dopo quello che abbiamo visto e sentito? Artù ha scelto un altro popolo, non è più un Sarmata!” esclamò il
ragazzo, pronunciando con disgusto quella che per lui era la peggiore delle
offese.
“Ognuno deve seguire la propria
strada e il proprio destino” replicò Tristano.
Erano giunti nella stanza dove dormivano i cavalieri, ma non vi trovarono
nessuno. Lancillotto era probabilmente andato a sbollire la rabbia da qualche
parte mentre Bors, Dagonet e Gawain si erano recati nelle stalle per finire di
preparare il loro equipaggiamento.
“Vuoi veramente sprecare l’ultima
notte nella fortezza arrabbiandoti con Artù?” chiese il cavaliere al giovane
compagno.
“No” rispose piano Galahad,
seppure ancora immusonito, “voglio pensare che fra
poche ore partiremo per la
Sarmazia e rivedremo finalmente la nostra terra e i nostri
cari!”
Tristano sorrise appena e
condusse il ragazzo al proprio giaciglio. Chi poteva dire cosa avrebbe loro
riservato il viaggio? I Sassoni avrebbero potuto comunque assalirli mentre
partivano e quella poteva essere l’ultima notte in cui sarebbero stati insieme
per dare e ricevere affetto, calore e conforto. Nessuno dei due voleva
sprecarla in sterili arrabbiature e rancori.
La mattina dopo, all’alba, il
convoglio uscì dalla fortezza: era formato dalla carrozza episcopale sulla
quale viaggiavano Germanus e Horton, e da un carro che ospitava Alessio e
Fulcinia, con i servi e alcune famiglie del villaggio. Lancillotto e gli altri
cavalieri scortavano la carovana vegliando in particolare sul carro della
moglie e del figlio di Marius Honorius. Dietro si snodava la colonna dei
legionari e dei mercenari che abbandonavano il Vallo per sempre dopo un dominio
durato più di quattrocento anni.
Dall’alto della collina di Badon,
Artù, armato di tutto punto, li osservava andarsene, immobile come una statua.
Nel suo cuore si agitavano sentimenti contrastanti. Non era pentito di essere
rimasto per aiutare i Britanni e il popolo di Ginevra, che quella stessa
mattina, molto prima dell’alba, era corsa nella foresta per mettersi a capo dei
suoi e ricongiungersi con suo padre; aveva compiuto la sua scelta con il cuore
e sentiva che era quella giusta. Nello stesso tempo, però, non poteva
dimenticare i tanti anni trascorsi a lottare al fianco di quei cavalieri che
adesso si stavano allontanando sempre più. Erano i suoi compagni, i suoi amici ed
era doloroso separarsi per sempre da loro, specialmente con la consapevolezza
che lo consideravano un traditore e che non erano
nemmeno andati a salutarlo prima della partenza. Chissà se lo avrebbero mai
perdonato, se sarebbero riusciti a comprendere, un
giorno, le ragioni che lo avevano spinto a rimanere?
I cavalieri proseguivano la loro
lenta marcia dietro il convoglio, ma i loro pensieri non erano molto diversi da
quelli di Artù. Anche loro portavano dentro il ricordo di tanti episodi
brutali, commoventi, esaltanti o dolorosi di una vita
trascorsa insieme alla fortezza. Il dolore della separazione era troppo
bruciante per poter essere espresso a parole, perciò
tutti tacevano e nemmeno il pensiero di far ritorno in patria riusciva a lenire
quella ferita. Ognuno di loro pareva immerso nelle proprie riflessioni, ma se
avessero parlato avrebbero scoperto di essere tutti
dominati dallo stesso pensiero: era stato veramente Artù a tradirli o non erano
stati forse loro ad abbandonare lui, lasciandolo solo nella battaglia più
difficile e più importante contro un nemico spietato?
I cavalieri sarmati proseguivano la loro lenta marcia dietro il
convoglio, ma nei loro volti non si leggeva la gioia che sarebbe stato logico
trovarvi, visto che il viaggio intrapreso li avrebbe ricondotti finalmente
nella natia Sarmazia
I cavalieri sarmati proseguivano
la loro lenta marcia dietro il convoglio, ma sui loro volti non si leggeva la
gioia che sarebbe stato logico trovarvi, visto che il
viaggio intrapreso li avrebbe ricondotti finalmente nella natia Sarmazia. A
ondate giungeva loro il suono lontano dei tamburi e dei corni sassoni, poi ad
essi si unì quello che sembrava il rumore di una battaglia, grida di guerra e
cozzare di armi: evidentemente lo scontro fra i Sassoni e i Britanni uniti agli
Woad aveva avuto inizio. Subito i loro cavalli presero a nitrire e a
strattonare furiosamente le redini, sembravano scalpitare per la voglia di
unirsi al combattimento e i loro padroni non riuscivano più a trattenerli.
“Cavalieri” esclamò Bors,
ridendo, “devono essere proprio i cavalli a rammentarci il nostro dovere?”
Erano le parole che tutti
attendevano. Gli uomini si riunirono, scambiandosi sorrisi e sguardi
soddisfatti; Lancillotto fece fermare il convoglio e tutti raggiunsero in
fretta il carro che conteneva gli equipaggiamenti. Prima di armarsi, Tristano
si rivolse al suo falco, il compagno fedele che lo aveva sempre seguito in
tutte le sue avventure e che stava tranquillamente appollaiato sul suo braccio.
“Vai, ora sei libero” mormorò
affettuosamente, avvicinando il viso all’animale. Poi lo incitò a volare via e
per un po’ lo seguì con lo sguardo, mentre il volatile si spingeva sempre più
in alto nel cielo limpido. Già, almeno lui sarebbe stato davvero libero…
Gli altri erano impegnati a
indossare le corazze e a scegliere le armi e non si avvidero del gesto di Tristano
ma Galahad, naturalmente, lo notò e si avvicinò al compagno.
“Perché lo hai fatto? Quando la
battaglia sarà finita e avremo sconfitto quei maledetti Sassoni lui potrà
ritornare da te” gli disse, mentre un brivido gelido gli attraversava la
schiena. Forse Tristano aveva liberato il falco perché sapeva che quel
combattimento gli sarebbe stato fatale, che i nemici questa volta erano troppo
forti?
Il guerriero si accorse della
domanda inespressa negli occhi angosciati del ragazzo e gli scompigliò i
capelli con un gesto affettuoso.
“L’ho liberato proprio perché non
voglio che ritorni da me” spiegò. “Mi ha servito fedelmente per tanti anni, è
stato un amico leale e fidato ed è per questo che io gli ho ridonato la
libertà, esattamente come Artù ha fatto con i suoi cavalieri. Noi abbiamo
scelto di rinunciare alla nostra libertà e alla nostra patria per ritornare a
combattere al suo fianco, però questa è una decisione che abbiamo preso
spontaneamente e non riguarda il falco, che ha tutti i diritti di andarsene
dove più gli piacerà. Questo noi non potremo più farlo, lo sai, vero?”
Galahad annuì lentamente.
Nell’eccitazione del momento aveva dimenticato cosa significava veramente
tornare indietro: non si trattava solo di aiutare un amico contro un popolo
crudele e spietato; una volta tornati da Artù non sarebbero più potuti
ripartire per la Sarmazia,
sarebbero dovuti rimanere fra i Britanni e dare vita ad un nuovo popolo.
Tristano vide la tristezza negli occhi del giovane e lo strinse rapidamente a
sé.
“Anche tu sei libero, Galahad”
gli sussurrò dolcemente. “Non sei costretto a venire con noi, so quanto
desideri ritornare in Sarmazia…”
Per tutta risposta il ragazzo lo
abbracciò forte.
“Non m’importa di tornare in
Sarmazia se tu non ci vieni: la mia casa adesso è dove sei tu!” affermò con
decisione. Tristano gli sorrise intenerito e poi entrambi si recarono al carro
degli equipaggiamenti per indossare le corazze e prendere le rispettive armi.
In cima a Badon, in sella al suo
cavallo, Artù osservava i Sassoni dispiegarsi nel campo di battaglia, mentre il
vessillo da guerra sarmata, il dragone, sventolava in alto sopra di lui.
Improvvisamente udì il rumore di cavalli al galoppo alle sue spalle e ben
presto si trovò accanto i compagni di tante battaglie, schierati alla sua
destra e alla sua sinistra, sorridenti e armati di tutto punto. L’uomo,
commosso, non riusciva quasi a credere ai propri occhi. Li fissò lungamente uno
per uno.
“Vorrei che foste lontano, in
salvo,” mormorò con la voce rotta dall’emozione, “ma vi sono grato di cuore per
essere tornati.”
I cavalieri sarmati erano ognuno
al proprio posto; Artù alzò la mano destra in un segnale convenuto e gli Woad
risposero. Tutto era pronto.
Inaspettatamente, però, Tristano afferrò
una freccia, la incoccò e prese la mira in silenzio. Gli altri lo guardarono,
stupiti, ma c’era qualcuno che solo lui vedeva: Geoffrey, il britanno che si
era venduto ai Sassoni. In quel momento stava spiando le mosse dei cavalieri
dalla cima di un grande albero che sorgeva nella piana sotto di loro per poi
riferire tutto a Cerdic. Il valente arciere era riuscito a scorgerlo, anche se
Geoffrey si era nascosto tra i rami; la sua freccia partì fulminea e trapassò
il cranio della spia, che piombò a terra con le braccia e le gambe scomposte.
“Adesso non potrà più riferire ai
Sassoni le nostre mosse!” esclamò soddisfatto Bors. “Sei davvero formidabile,
Tristano!”
Galahad non disse nulla, ma i
suoi occhi erano pieni di orgoglio e ammirazione sconfinati.
Con un grido di battaglia, Artù
sguainò la spada e la levò in alto; subito gli altri lo imitarono e unirono le
spade alla sua, in un tacito giuramento.
La battaglia era cominciata:
Ganis e gli altri giovani del villaggio avevano appiccato il fuoco alle balle
di fieno disseminate lungo le mura della fortezza e iniziarono a spingerle giù
dagli spalti, facendole rovinare sopra i Sassoni che vi erano entrati, decisi e
sicuri di poterla conquistare in breve tempo. Mentre il fumo nero si levava,
soffocando e accecando i nemici, i legionari di Marius che avevano scelto di
rimanere e gli uomini del villaggio si gettarono su di loro, ansiosi di
combattere. Intanto, dalla foresta, a un ordine di Merlino, gli arcieri Woad
capeggiati da Ginevra fecero partire un fittissimo tiro di frecce contro i
Sassoni. Quelli che sopravvivevano ai dardi erano finiti dalle spade, le lance
e le mazze dei mercenari.
“Adesso tocca a noi!” esclamò
Artù, lanciandosi al galoppo giù dalla collina seguito dai suoi cavalieri. I
guerrieri sarmati sbucarono come fantasmi in mezzo al fumo e alle fiamme e
falcidiarono i soldati di Cynric e Cerdic a decine; dietro di loro venivano gli
spaventosi Woad, urlanti e spietati, pronti a uccidere e mutilare chiunque
capitasse loro a tiro. In breve l’esercito che aveva tentato di infiltrarsi
nella fortezza fu annientato.
Cerdic e Cynric, però, non si
trovavano nella fortezza. Avevano inviato uno schieramento di fanti in
avanscoperta pensando che i Britanni fossero più facili da sconfiggere, ma
avevano tenuto con loro, di là dal Vallo, il grosso dell’armata. A un ordine di
Cerdic, l’esercito sassone si schierò e cominciò ad avanzare nella piana. Gli
uomini di Cynric, che si trovavano davanti, videro i corpi straziati e mutilati
dei loro compagni a mano a mano che proseguivano, poi si accorsero anche di
un’altra cosa: stavano camminando su una sostanza vischiosa che sembrava fango.
“Mio signore” disse uno dei fanti
a Cynric, “stiamo avanzando in mezzo alla pece…”.
“Chiudi il becco, idiota! Che
razza di soldato sei se hai paura di sporcarti con un po’ di fango?” urlò in
risposta il Sassone.
“Ma non è fango, mio signore, è…”
In quel momento Artù sollevò la
spada che sfavillò nel sole. A quel segnale, Ginevra e i suoi fecero partire
decine di frecce incendiarie, mentre Merlino diede ordine di trasportare fuori
dalla foresta le catapulte già armate dei loro micidiali proiettili e di farle scattare.
I dardi e le sfere di fuoco solcarono il cielo e si abbatterono contro i
nemici, per la maggior parte impantanati nella pece. In pochi istanti i
guerrieri sassoni si trovarono avvolti dalle fiamme, mentre da ogni parte
sbucavano cavalieri sarmati, mercenari o Woad per infilzare quelli che erano
scampati al fuoco. Quando le frecce incendiarie si esaurirono, anche Ginevra e
i suoi arcieri sguainarono le spade e si gettarono nella mischia, pronti ad un
combattimento corpo a corpo.
Cerdic continuava ad avanzare,
nonostante il suo esercito e quello di suo figlio avessero già subito delle
gravissime perdite. Rianimati dal suo coraggio, i Sassoni superstiti gli si
assieparono intorno e ripresero a combattere.
“I loro cavalli! Colpite i loro
cavalli!” ordinò Cerdic, dopo che Artù e i suoi uomini avevano caricato più
volte le armate sassoni e avevano inflitto loro perdite ingenti. Gli arcieri
sassoni presero di mira le cavalcature dei Sarmati, che stramazzarono a terra:
Artù e gli altri cavalieri dovettero così continuare la battaglia appiedati,
lottando faccia a faccia con il nemico, in mezzo alle fiamme, al fumo
nauseante, ai corpi mutilati, alla polvere e alle grida di guerra.
Ginevra e le sue guerriere
stavano combattendo contro Cynric e i suoi uomini; a un certo punto la giovane
Woad, esausta, si ritrovò attaccata da due Sassoni: riuscì ad abbatterne uno,
ma l’altro la gettò a terra colpendola col piatto della lama e si avvicinò per
decapitarla. In quel momento, però, quattro delle sue guerriere accorsero
gridando, circondarono l’uomo e lo colpirono da ogni parte, facendolo a pezzi.
Ginevra rivolse la propria
attenzione a un avversario ben più degno di lei: Cynric in persona. Il
guerriero era soddisfatto di combattere contro di lei, che sembrava ormai
stremata dalla fatica; era convinto di poterla eliminare facilmente e di
riabilitarsi così agli occhi di suo padre, dopo i tanti fallimenti. In realtà,
però, la giovane si dimostrò subito un osso duro: nonostante la stanchezza
riusciva a muoversi velocemente e lui non era in grado di colpirla. Ci furono
numerosi assalti e Cynric stesso rimase ferito da un colpo della Woad, ma alla
fine riuscì a colpirla in faccia e a gettarla a terra. Si sarebbe avventato su
di lei per finirla se, in quel momento, non fosse intervenuto Lancillotto con
una spada in ciascuna mano. Il cavaliere aveva visto la ragazza a mal partito e
si era slanciato in mezzo ai nemici per soccorrerla, abbattendo numerosi
Sassoni al suo passaggio.
Cynric, che non era il più
coraggioso degli uomini, vedendo un simile avversario si allontanò senza tante
cerimonie, lasciando che di lui si occupassero i suoi soldati. Mentre fuggiva,
però, intravide la possibilità di ribaltare il combattimento in proprio favore.
Raccolse da terra una balestra e mirò alla schiena di Lancillotto, che in quel
momento era impegnato in uno scontro con un guerriero sassone.
Stava per scoccare il dardo
fatale ed era tanto impegnato a pregustare il momento in cui avrebbe riferito
al padre di aver abbattuto il valoroso cavaliere sarmata da non accorgersi che
Dagonet era sopraggiunto alle sue spalle. Disgustato dal gesto meschino del sassone,
il sarmata brandì la sua enorme spada con entrambe le mani e con un colpo
deciso decapitò Cynric. La testa del figlio di Cerdic rotolò nella polvere
senza che nessuno vi facesse caso: Ginevra e Lancillotto stavano lottando
fianco a fianco per eliminare gli ultimi soldati che avevano intorno e Dagonet,
compiuto il proprio dovere, ripulì la spada per terra e si avviò verso nuovi
nemici.
La fine di Cynric fu ingloriosa
esattamente come lo era stata tutta la sua vita.
Ginevra, Lancillotto e le guerriere Woad non si erano nemmeno accorti
del pericolo corso e continuarono gli scontri; quando il cavaliere vide che i
nemici erano stati sconfitti e che, da quel momento in poi, la giovane e le sue
compagne avrebbero potuto
Ginevra, Lancillotto e le
guerriere Woad non si erano nemmeno accorti del pericolo corso e continuarono
gli scontri; quando il cavaliere vide che i nemici erano stati sconfitti e che,
da quel momento in poi, la giovane e le sue compagne avrebbero potuto cavarsela
da sole, decise di recarsi in un altro punto del campo di battaglia per dare
man forte ad Artù. Immaginava, infatti, che la maggior parte dei soldati
avversari si sarebbe schierata contro di lui, sapendo che, se fossero riusciti
ad eliminare il comandante sarmata, anche i suoi guerrieri ed i Britanni
avrebbero perso coraggio. Era proprio così, infatti: Artù era impegnato in un
furioso combattimento contro un folto gruppo di nemici e, sebbene la sua
temibile spada ne uccidesse un buon numero, altri erano riusciti a ferirlo e
adesso il valoroso cavaliere appariva stanco e provato. Lancillotto fu subito
accanto a lui con un sorriso e, spalla a spalla, i due affrontarono quella
sfida con maggior ardimento.
“Proprio come quando eravamo
ragazzini, non è vero, Artù?” commentò.
Artù si limitò ad annuire e
proseguì lo scontro, ma provava una grandissima gioia nel cuore avendo di nuovo
l’amico con sé e potendo combattere con lui. L’ostilità e gli screzi che li
avevano divisi durante l’ultima missione erano ora veramente svaniti e la loro
grande amicizia aveva trionfato ancora.
Nel frattempo anche gli altri
cavalieri stavano affrontando valorosamente e con successo i Sassoni: Bors e
Gawain erano stati feriti, ma questo non aveva loro impedito di combattere;
anzi, la ferita ricevuta li aveva fatti infuriare e resi ancor più micidiali.
Dagonet, dopo aver salvato la vita a Lancillotto, era tornato in mezzo ai
nemici mulinando l’enorme spada e falciandone a decine. Galahad aveva eliminato
moltissimi avversari passando in mezzo a loro a cavallo e scoccando una freccia
dopo l’altra; poi, quando era rimasto appiedato, aveva proseguito con gli
scontri corpo a corpo, riuscendo comunque ad abbattere due o tre Sassoni ad
ogni assalto.
Tristano, intanto, mieteva vittime
l’una dopo l’altra con la sua spada, la cui lama era talmente affilata che
molti dei soldati neppure avvertivano il colpo che li uccideva; la facilità con
la quale si sbarazzava anche di quattro o cinque avversari alla volta era tale
che il cavaliere sembrava non provare nemmeno fatica. E forse era proprio così.
A un certo punto, nella mischia, il sarmata scorse un avversario che giudicò
veramente degno di lui: Cerdic, il comandante supremo dei Sassoni. Anche l’uomo
lo aveva notato mentre eliminava i suoi uomini con tanta freddezza e questo lo
aveva talmente impressionato che aveva deciso di ucciderlo personalmente: un
guerriero tanto abile e coraggioso non meritava niente di meno. Così Tristano
iniziò a farsi largo a fendenti in mezzo ad un manipolo di Sassoni,
abbattendoli tutti, per raggiungere Cerdic che, dal canto suo, lo stava
aspettando con un ghigno truce stampato in volto e con lo scudo e l’ascia da
guerra impugnati saldamente. Anche lui si mosse rapidamente verso l’avversario,
senza mai staccargli gli occhi di dosso, e ben presto i due si trovarono faccia
a faccia.
Galahad, che, nonostante la
confusione, cercava di non perdere di vista il compagno, vide ciò che stava
accadendo e, in preda all’angoscia, cercò di liberarsi dei nemici che lo
circondavano per correre a dargli man forte. Ma i
Sassoni lo incalzavano da ogni parte e il ragazzo, con la morte nel cuore, fu
costretto a rimanere dov’era e a proseguire il combattimento, sperando con
tutte le sue forze che Tristano, questa volta, non avesse scelto un avversario
troppo forte per lui.
Cerdic e il cavaliere sarmata
iniziarono la lotta, ma per diverso tempo il confronto si mantenne in parità:
gli affondi di spada dell’uno venivano parati dall’ascia dell’altro, i due si
avvicinavano e poi tornavano ad allontanarsi per riprendere fiato prima del
successivo attacco. Tristano con un micidiale affondo tranciò un quadrante
dello scudo di Cerdic, sbalzando l’uomo all’indietro, ma questi si riprese
subito e si avventò furiosamente contro il cavaliere che lo attendeva, ben
saldo sulle gambe divaricate. Il Sassone calò in avanti l’ascia con tutte le
sue forze e il colpo sfiorò appena Tristano; l’arma andò a conficcarsi nel
terreno. Cerdic, allora, non perse tempo e sguainò una spada formidabile, con
la quale iniziò a sferrare terribili fendenti contro lo scudo dell’avversario
fino a schiantarlo. Vistosi in vantaggio, il comandante sassone colpì al volto
Tristano con il piatto della lama e lo gettò a terra; alzò la spada e la calò
giù con una violenza spaventosa, sperando di finirlo. Tristano, però, pur
essendo ormai esausto e sfinito, riuscì a rotolare via e a sottrarsi al colpo
che gli sarebbe stato fatale.
Galahad non era il solo ad
essersi accorto dello scontro fra Tristano e Cerdic: anche Artù, che era più
vicino, aveva visto il suo cavaliere lottare in quello che sembrava un
confronto impari. Aveva guardato, impotente, l’enorme Sassone che sembrava
divertirsi con lui come un gatto col topo. Cerdic aveva ormai Tristano in suo
potere, ma non pareva intenzionato a ucciderlo subito; quando il cavaliere era
riuscito a rimettersi i piedi, stremato, col respiro affannoso e con il sangue
che gli usciva dal labbro spaccato, infatti, aveva lasciato che riprendesse la
sua spada e poi lo aveva assalito di nuovo. Invece di tentare un affondo che
gli avrebbe spaccato il cuore, il Sassone lo aveva colpito di taglio,
provocandogli un’altra bruciante ferita sul torace. Tristano, che non era
abituato ad essere colpito poiché con l’agilità che lo
distingueva sfuggiva sempre ad ogni attacco ed era il primo ad affondare
l’arma, si era distratto per un attimo, quasi sorpreso dal fatto di perdere
sangue. Cerdic ne aveva approfittato per urtarlo con una spallata e buttarlo
nuovamente a terra e il guerriero sarmata, come la prima volta, aveva tentato
di rotolare via.
“Non posso assistere all’agonia
di Tristano senza fare nulla!” gridò allora Artù, in preda ad una collera
furiosa. “Lancillotto, coprimi, io tenterò di raggiungerlo.”
Mentre il cavaliere si occupava
dei soldati, Artù cominciò a correre in direzione di Cerdic, possente e
implacabile come una macchina da guerra. Il comandante dei Sassoni aveva
afferrato Tristano per i capelli e lo aveva sollevato da terra con un violento
strattone; il cavaliere, esausto ma non domo, aveva sfilato un pugnale
dall’armatura ed era riuscito a piantarlo nel petto del nemico. Cerdic, allora,
aveva perso la voglia di giocare con lui e aveva deciso di finirlo: sempre
tenendolo stretto per i capelli, lo ferì prima al braccio e alla mano con la
quale stringeva ancora il pugnale e poi alzò la spada per affondargliela in
gola. Ma non ci riuscì mai perché un urto violento dietro la spalla sinistra
gli fece perdere la presa e quasi anche l’equilibrio. Il Sassone riuscì a non
farsi cadere la spada di mano e si preparò ad affrontare la nuova minaccia,
mentre Tristano, libero dalla stretta crudele ai capelli, riuscì ad allontanarsi,
strisciando lentamente con le ultime forze che gli erano rimaste.
Quando Cerdic si voltò, si
ritrovò di fronte Artù, con la spada lorda di sangue sassone e gli occhi
infiammati d’ira; solo allora il comandante nemico si accorse che l’urto alla
spalla era stato in realtà un affondo della spada del cavaliere sarmata. Il
sangue gli scorreva copioso lungo il braccio sinistro che cominciava a perdere
le forze. Questo, però, non lo fermò e i due contendenti si assalirono
furiosamente, poi indietreggiarono per riposizionarsi. Cerdic, incredulo, si
rese conto di sanguinare anche da una ferita alla fronte: non aveva né visto né
sentito il fendente che lo aveva colpito, tanto era stato rapido.
I due avversari continuarono per
un po’ a girarsi intorno, studiandosi, poi si gettarono nuovamente l’uno contro
l’altro. In un primo momento Cerdic sembrò avere la meglio, perché Artù era
finito in ginocchio a terra e pareva sfinito, ma, quando il Sassone sollevò la
spada per finirlo, il sarmata, rapido come un lampo, gli affondò la lama nel
petto, trapassandolo da parte a parte. Sorpreso, il capo nemico sentì le gambe
cedergli e scivolò sulla polvere. Artù si rialzò lentamente senza mai
togliergli gli occhi di dosso e si pose in piedi davanti a lui; avrebbe voluto
torturarlo con calma come lui aveva fatto con Tristano, ma poi si rese conto
che non doveva mettersi sul suo stesso piano: lui era un cavaliere e non un
selvaggio sanguinario. La spada saettò veloce nell’aria e decapitò Cerdic; per
un istante il suo corpo restò immobile, poi rovinò a terra, seguendo la testa
rotolata in mezzo al sangue, alla pece e alla polvere del campo di battaglia.
Stremato, anche Artù si accasciò
sulla propria spada. Attorno a lui i pochi Sassoni superstiti si battevano
sempre più stancamente e alcuni di loro, dopo aver visto morire il proprio condottiero,
decisero di darsi alla fuga oltre il Vallo. Il tentativo, però, fu vano: furono
accerchiati dagli Woad, i mercenari ed i civili che li
massacrarono tutti senza pietà.
Poco dopo sul campo scese un
silenzio di morte e Artù e i suoi seppero che la battaglia era terminata e i
Sassoni erano stati sconfitti definitivamente.
Il comandante dei Sarmati si alzò
stancamente in piedi e si guardò attorno: tutto era finito, restava solo un
groviglio di corpi insanguinati, mentre il sole pomeridiano aveva a poco a poco
spazzato via fumo e polvere. Artù vide i compagni avvicinarglisi: Bors si
appoggiava a Dagonet, Galahad sorreggeva Gawain e Lancillotto portava sulle
spalle Tristano, che aveva perso i sensi. Ginevra li seguiva,
esausta e coperta di sangue. L’uomo si sentì sollevato nel vedere che tutte le
persone che gli erano care ce l’avevano fatta, ma non
riusciva a provare gioia per la battaglia vinta, anzi, tutte quelle morti e
quelle atrocità lo avevano disgustato: era solo contento che fosse tutto
finito.
Artù volle sincerarsi subito delle reali condizioni della ragazza e dei
compagni che avevano condiviso con lui quell’ultima, terribile battaglia
Artù volle sincerarsi subito
delle reali condizioni della ragazza e dei compagni che avevano condiviso con
lui quell’ultima, terribile battaglia.
“State tutti bene?” domandò.
“Ginevra, sei ferita? E Tristano se la caverà?”
“Solo qualche graffio: il sangue che
vedi è soprattutto dei miei nemici e non mio” rispose con orgoglio la giovane
Woad.
Artù la guardò ammirato e poi si
avvicinò a Lancillotto, che teneva Tristano sulle spalle, per esaminare le
ferite dello sfortunato arciere. Era preoccupato soprattutto per lui, dopo aver
assistito alle sofferenze che il crudele Cerdic gli aveva inflitto.
“Ha perduto molto sangue e adesso
è svenuto, ma un po’ di riposo e cure adeguate ce lo restituiranno come nuovo”
lo tranquillizzò il cavaliere.
“Mi occuperò io di curare lui e
gli altri tuoi compagni che sono rimasti feriti, è il minimo che possa fare
dopo tutto l’aiuto che ci avete dato” fece una voce alle spalle di Artù. “E tu
ora hai altri doveri da compiere, non meno importanti di questo: perciò ti
serviranno ancora la lealtà e il coraggio dei tuoi uomini.”
L’uomo si voltò e vide Merlino.
“Ti ringrazio per esserti offerto
di guarire Tristano, ma temo che ti stia ingannando. La mia missione è
terminata e non ho più alcun dovere da compiere” rispose tristemente il comandante
sarmata.
Merlino fissò lungamente la
figlia Ginevra, che si era messa al fianco di Artù e lo guardava con occhi
scintillanti.
“Sei tu che t’inganni, Artù: la
tua missione e quella dei tuoi uomini è appena cominciata” replicò. “In te si
assommano l’ultima grandezza della Roma che fu, il valore dei guerrieri sarmati
e l’ardore dei Britanni. Da te, da voi tutti prenderà origine un nuovo popolo
che renderà forte e gloriosa la
Britannia che sarà!”
Artù non disse più nulla, ma nel
suo cuore sentì nascere una nuova speranza: sì, forse Merlino aveva ragione e
la sua missione più gloriosa era appena iniziata. Si incamminò verso la
fortezza e gli altri lo seguirono. Ginevra lo prese per mano e lui gliela
strinse, godendo di quel contatto che gli riscaldava l’anima: ora sapeva che in
quell’impresa, nella costruzione del nuovo popolo, avrebbe avuto al fianco non
solo gli amici di sempre, ma anche la donna che aveva imparato ad amare.
Galahad e Gawain camminavano
vicini e il ragazzo sosteneva l’amico ferito tenendogli un braccio attorno alla
vita, ma nel suo cuore si agitavano oscuri presentimenti e la preoccupazione
per la sorte di Tristano minacciava di sopraffarlo. Gawain se ne accorse e
cercò di calmarlo.
“Non tormentarti così, Galahad”
gli disse. “Hai sentito cosa ha detto Merlino, no? Penserà lui a curarci tutti
e Tristano se la caverà sicuramente.”
Il giovane si riscosse, stupito
che il compagno gli avesse letto nel pensiero e, soprattutto, che fosse a
conoscenza del legame che lo univa all’arciere sarmata.
“Non fare quella faccia
sconvolta, so tutto da molto tempo e non voglio intromettermi nei vostri
affari” continuò scherzosamente Gawain. “Volevo solo tranquillizzarti e
assicurarti che non lo perderai. Ginevra ha salvato la vita a Dagonet, che era
in condizioni più gravi e in una situazione di estremo pericolo, in mezzo alla
foresta e ai ghiacci e con i Sassoni poco distanti. Per Merlino sarà una
passeggiata rimettere in piedi Tristano qui alla fortezza con tutti i rimedi a
disposizione!”
Galahad si sforzò di annuire.
“Sì, forse hai ragione, comunque
sarò più sereno quando lo vedrò riposare nel suo giaciglio sotto le cure di
Merlino.”
“Allora manca poco” concluse
Gawain. “Guarda, stanno già aprendo le porte della fortezza e tra poco saremo
nei nostri alloggi.”
Alcuni minuti più tardi, nello
stanzone che fungeva da alloggio per i cavalieri di Artù, Merlino e Ginevra si
adoperavano per curare le ferite che i guerrieri avevano riportato in
combattimento. Artù, Dagonet, Lancillotto e Galahad avevano solo qualche
graffio, escoriazione e livido, perciò furono medicati da altri Woad istruiti
da Merlino; il comandante sarmata, però, non si fermò a lungo e, appena curato,
si recò subito nella fortezza per riorganizzare i turni di guardia, elogiare i
legionari ed i civili che avevano combattuto con lui e parlare con i servitori
affinché preparassero alloggi sufficienti per tutti e un lauto banchetto per
ristorare soldati e civili, Romani, Britanni o Woad che fossero.
Anche Galahad non volle
allontanarsi da Tristano, perciò restò nell’alloggio ad attendere preoccupato
che Merlino si occupasse di lui. Bors e Gawain avevano ricevuto ferite più
serie, l’uno al fianco e l’altro alla schiena; furono curati con molta premura
da Ginevra e anche Bors, non appena si sentì in grado di farlo, lasciò
l’alloggio per recarsi dalla compagna Vanora e dai suoi figli, che sicuramente
erano molto in ansia per lui.
Fu il sacerdote supremo degli
Woad in persona a fornire le cure necessarie a Tristano, che era il più grave
di tutti: la lotta con il crudele e fortissimo Cerdic lo aveva stremato,
inoltre il Sassone lo aveva colpito più volte provocandogli numerose ferite:
nessuna di esse era mortale, ma ognuna era molto dolorosa e aveva causato
copiose perdite di sangue. Merlino le medicò con cura e precisione una per una
con le erbe medicamentose che conosceva così bene, poi chiese a Ginevra di
preparare un tonico che avrebbe consentito all’arciere sarmata di riacquistare
le forze perdute. Galahad, in silenzio e pallido come un morto, osservava i due
che si davano da fare attorno a Tristano, mentre il suo cuore era oppresso da
oscuri presentimenti. E se fosse stato troppo tardi? Se avesse perso tanto
sangue da rendere inutile ogni cura? Oppure, pensò mentre un brivido gelido gli
attraversava la schiena, se si fosse salvato, ma fosse rimasto debole e
impossibilitato a combattere? Il ragazzo sapeva bene che, per un guerriero come
Tristano, vivere da civile sarebbe stato addirittura peggiore della morte!
Dopo quelli che a Galahad
sembrarono secoli, Merlino e Ginevra terminarono il loro compito e si
avvicinarono per parlare con il giovane.
“Le ferite di Tristano erano
molte, ma non erano gravi e con le medicazioni che gli ho fatto si
rimargineranno presto” iniziò a dire il sacerdote Woad. “Ciò che mi preoccupava
maggiormente era la perdita di sangue, ma il tonico che mia figlia ha preparato
serve proprio per aiutare il corpo a riprendere le forze.”
“Ne ho preparato a sufficienza
per tre giorni” spiegò poi Ginevra, “e gliene ho somministrato una prima dose
proprio ora. Dovrà prenderlo cinque volte al giorno, almeno nei primi tempi,
poi, quando si sarà ripreso abbastanza, basteranno due dosi, una al mattino e
una alla sera. Ti occuperai tu di controllare che beva la medicina nelle
quantità necessarie?”
“Certamente!” rispose subito il
giovane. “Resterò con lui giorno e notte e farò tutto ciò che posso per
aiutarlo!”
“Ne ero sicura” commentò con un
sorriso la ragazza. L’attaccamento di Galahad verso Tristano non era passato
inosservato nemmeno a lei, che si era unita da poco tempo al gruppo.
“Ma perché non riprende i sensi?
Ditemi la verità, Merlino, tornerà davvero quello di prima? Io… so che voi
siete un abile guaritore e sono certo che Tristano guarirà, ma potrà combattere
ancora? Sarà il guerriero agile e imbattibile che è sempre stato? Perché,
vedete, per lui… insomma… se non potesse più…”
Merlino comprese perfettamente le
paure del ragazzo.
“Il suo corpo si rimetterà presto
e le ferite infertegli non lasceranno alcuna conseguenza: le erbe che io e mia
figlia usiamo servono proprio a questo e, nella foresta, mi è capitato più
volte di occuparmi di alcuni dei miei uomini ridotti in condizioni di gran
lunga peggiori delle sue e ognuno di loro è tornato in piedi in pochi giorni”
lo tranquillizzò l’uomo. “Quello che io non posso curare è lo spirito. Tu dici
che Tristano era abituato ad essere il guerriero più forte e invincibile e non
ho difficoltà a crederti. L’unica cosa che resta da verificare è come vivrà la
sua prima sconfitta, come reagirà alla consapevolezza di non essere
invincibile.”
“Cosa volete dire?” domandò
Galahad preoccupato. Le parole di Merlino erano così oscure ed enigmatiche…
“Non è il caso di pensarci
adesso. La cosa importante, per ora, è aiutare Tristano a rimettersi
completamente e di questo so che ti occuperai tu. Ora devo recarmi da Artù,
abbiamo molte cose di cui parlare” concluse l’uomo, tranquillizzando il giovane
guerriero solo in parte.
Ginevra si affrettò a seguire il
padre, mentre Galahad si sedette accanto al giaciglio del compagno. Erano
rimasti solo loro due nell’alloggio. Il ragazzo osservava il volto pallido e
affilato di Tristano, che sembrava sprofondato in un sonno ristoratore, ma
continuava a ripensare alle strane parole di Merlino e cercava inutilmente di
comprendere che cosa il sacerdote Woad avesse voluto dirgli. Da una parte era
contento nel vedere che il compagno riposava tranquillo, sapendo quanto ne
avesse bisogno, ma dall’altra avrebbe tanto voluto parlare con lui e sapere
direttamente dalla sua voce come si sentiva. L’angoscia continuava a
tormentarlo e sarebbe stato così finché Tristano non fosse perfettamente
guarito.
Nei tre giorni successivi Galahad non si risparmiò e restò notte e
giorno al capezzale di Tristano, facendogli prendere regolarmente il tonico,
cambiandogli le medicazioni delle ferite e portandogli da mangiare e da bere
Nei tre giorni successivi Galahad
non si risparmiò e restò notte e giorno al capezzale di Tristano, facendogli
prendere regolarmente il tonico, cambiandogli le medicazioni delle ferite e
portandogli da mangiare e da bere. Fu sollevato nel constatare che, già dopo il
primo giorno di cure, il cavaliere aveva ripreso decisamente le forze, ma lo
trovava più silenzioso del solito e questo lo preoccupava molto. Non aveva il
coraggio di dirgli nulla per non disturbare le sue riflessioni, ma ciò che
Merlino gli aveva detto continuava a risuonargli nella testa: come avrebbe
reagito psicologicamente Tristano alla prima sconfitta?
Intanto, nella fortezza, c’era
un’atmosfera di grande allegria. I cavalieri erano finalmente liberi e potevano
scegliere il loro futuro; tutti loro, comunque, avevano deciso di restare al
fianco di Artù e di far parte del nuovo popolo che sarebbe sorto in Britannia.
La loro vita sarebbe però cambiata in meglio: non sarebbero più stati al
servizio di nessuno, avrebbero ricevuto una paga sostanziosa per gli anni
passati agli ordini di Roma e sarebbero stati considerati a tutti gli effetti
cavalieri, nobili compagni d’armi del capo della nuova Britannia, Artù. La
tavola rotonda, voluta dallo stesso Artù per non creare disuguaglianze fra i
guerrieri, acquistava ora un nuovo e più profondo significato poiché, dopo
Artù, erano loro gli uomini più importanti di Britannia e avevano la
possibilità di prendere decisioni e discuterle con gli altri. Al momento, per
fortuna, non c’erano contrasti fra popoli: Woad, Britanni, Sarmati e i pochi
Romani rimasti si erano uniti e vivevano in pace, ma sicuramente prima o poi altri contingenti di Sassoni sarebbero sbarcati
per tentare di conquistare quelle terre tanto invitanti e ci sarebbero state
nuove battaglie. Nel frattempo, però, i guerrieri si limitavano a tenersi in
allenamento e a pianificare il futuro. Molte liete novità li attendevano.
Bors si era finalmente deciso a
sposare l’eterna compagna Vanora e, per rendere l’avvenimento ancor più
solenne, si era accordato con Artù per celebrare le proprie nozze insieme con
quelle del suo comandante con l’impavida Ginevra. Poi la numerosa famiglia si
sarebbe stabilita in una casa tutta sua, porta a porta con la casetta scelta da
Dagonet, il quale così sarebbe stato vicino al suo migliore amico. Bors e
Vanora avevano anche adottato il piccolo salvato nella tenuta di Marius
Honorius e Dagonet, che si era affezionato moltissimo al bambino, avrebbe avuto
la possibilità di vederlo quando avesse voluto.
Lancillotto aveva scelto un
alloggio luminoso e accogliente, con l’intenzione nemmeno poi così nascosta di
ospitarvi più fanciulle compiacenti possibile; Gawain,
invece, aveva fatto proprio quello che si era ripromesso al ritorno dalla
penultima missione, ossia si era fidanzato con una graziosa fanciulla bruna di
nome Elanor e progettava di sposarsi presto. La sua futura
sposa non era sarmata bensì britanna, ma la cosa non sembrava affatto
disturbare lo schietto cavaliere.
Mentre tutti erano felici,
speranzosi e si adoperavano per allestire al meglio le doppie nozze di Artù e
Bors, Galahad non partecipava all’euforia generale e continuava a restare al
fianco di Tristano. Per lui non aveva senso pensare al futuro finché non avesse
saputo cosa voleva fare il suo compagno… sempre che lo avesse ancora voluto
accanto a sé. Non dimenticava, infatti, che Tristano gli si era avvicinato solo
prima dell’ultima missione, per avere affetto e conforto di fronte ad
un’impresa che poteva costare la vita a tutti loro. Ora che era ritornata la pace
avrebbe avuto ancora bisogno di lui o sarebbe tornato a essere il lupo
solitario di sempre? Galahad aveva rinunciato a tornare nell’amata Sarmazia per
non allontanarsi dagli amici, ma non avrebbe saputo rinunciare anche a
Tristano.
Due settimane dopo giunse il
giorno tanto atteso: fu lo stesso Merlino a celebrare le nozze tra la figlia
Ginevra e Artù, rinsaldando così l’unione dei popoli; unì in matrimonio anche
Bors e Vanora e ciò fu un grande onore per la coppia. Artù, comunque, che si
era convertito al Cristianesimo, volle far benedire la propria unione con la
donna amata anche da un giovane frate che si era stabilito da poco alla
fortezza, dopo che i Sassoni avevano distrutto il suo villaggio. Il religioso
si chiamava Vernon ed era un ragazzo semplice e allegro, sempre pronto ad
aiutare i più poveri e a seguire fino in fondo i comandamenti di Gesù. Insomma,
era tutto il contrario dei pomposi e strafottenti uomini di Chiesa come
Germanus o Horton e proprio per questo Artù lo aveva voluto alle proprie nozze!
Dopo la celebrazione dei matrimoni ci furono feste, giochi e banchetti che si
protrassero per tre giorni e, naturalmente, gli amici e compagni di Artù erano
in prima fila quando si trattava di fare baldoria. Nel frattempo Tristano si
era completamente ristabilito e aveva potuto partecipare alle nozze insieme a
Galahad; però non si unì ai compagni per i festeggiamenti e, anzi, già la prima
notte di divertimenti si allontanò dalla fortezza senza avvertire nessuno,
nemmeno il compagno.
Quando Galahad si accorse che
Tristano era sparito cadde in preda all’angoscia e cercò aiuto presso l’amico
di sempre, Gawain.
“Non preoccuparti così, lo sai
com’è fatto Tristano” minimizzò il cavaliere. “Troppa confusione lo mette in
crisi e non mi stupirei se si facesse vivo solo quando tutta questa baraonda
sarà finita. Vieni a festeggiare con noi, divertiti e non ci pensare: sono
certo che lui sta benissimo e lo vedremo tornare quando meno ce lo aspettiamo.
Non ha fatto sempre così, in fondo?”
Galahad si lasciò trascinare da
Gawain, bevve un boccale di birra, guardò i giochi e le gare che si svolgevano
tra i giovani contadini, ma senza una vera partecipazione. Certo, Tristano si
era sempre comportato in quel modo, ma ciò avveniva prima che nascesse un
legame fra loro due… invece se n’era andato senza nemmeno dirgli nulla,
disinteressandosi della sua preoccupazione e dei suoi sentimenti!
Come Gawain aveva giustamente
previsto, Tristano si rifece vivo al termine dei festeggiamenti, quando la vita
alla fortezza era ritornata alla normalità. La mattina in cui fece ritorno fu
praticamente aggredito da Galahad.
“Ma dove sei stato? Ero
preoccupato per te, non è molto tempo che sei guarito dalle tue ferite! E poi
ti sembra di esserti comportato bene nei confronti di Artù e Bors? La festa era
in loro onore!”
“Artù e Bors sanno che non mi
piacciono le feste” rispose gelido l’arciere. “Ho partecipato al loro
matrimonio, ma poi sono andato nella foresta per trascorrere del tempo da solo,
procurandomi il cibo e mettendomi alla prova. Proprio perché sono guarito da
poco è necessario che mi addestri il più possibile per tornare quello di
prima.”
“Va bene, però potevi avvertirmi
invece di sparire senza una parola…” replicò il ragazzo, spiazzato dalla logica
di Tristano.
“E perché? Io non ho obblighi nei
confronti di nessuno e ora sono un uomo libero. Dovresti conoscermi, ormai,
perciò per quale motivo preoccuparsi?”
Galahad non riuscì nemmeno a
rispondere a causa della cocente delusione provata, ma Tristano non era uno
sciocco e capì subito che cosa si agitava nella mente del giovane cavaliere.
“Non sono abituato ad avere
legami, ma ciò che ho costruito con te è importante” disse allora, addolcendo
il tono. “Voglio continuare ad averti vicino, anche adesso che viviamo in pace,
ma tu devi avere pazienza con me e lasciarmi i miei momenti di solitudine. Lo
so che non sono un tipo facile, però…”
Galahad non lo lasciò finire e
gli si buttò tra le braccia.
“Io desidero solo che restiamo
insieme!” esclamò, quasi in lacrime. “Potrai avere tutta la libertà che vorrai,
basta che… insomma… io…”.
Tristano lo accarezzò teneramente
sui capelli e lo strinse a sé.
“So che cosa ha voluto dire per
te rinunciare al ritorno in Sarmazia” mormorò. “Non sarai solo, questo posso
promettertelo, anche se dovrai adattarti al mio stile di vita; pensi di
riuscirci?”
Il ragazzo non riuscì a
rispondere, sopraffatto dall’emozione e dal sollievo. Abbracciò più forte il
compagno e annuì. Certo che avrebbe accettato qualunque cosa pur di restare al
fianco di Tristano, c’era bisogno di chiederlo?
Questa è la mia particolare
versione della leggenda immortale di Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda,
che però ognuno può immaginare e raccontare come preferisce. Ciò che davvero
conta è questo: Artù e i suoi uomini si erano creati una nuova patria e avevano
fondato un nuovo popolo; ognuno di loro aveva scelto la vita che desiderava e
ne era soddisfatto. Naturalmente gli anni successivi avrebbero portato ancora
battaglie, fatiche e sofferenze, ma anche momenti di serenità e di gioia fra
amici e con le persone amate. Del resto, questo era il loro destino ed è
proprio per il loro valore e il loro coraggio che oggi noi li conosciamo e li
ammiriamo come gli eroi di Britannia.