The Other Side of my Past

di Sanya
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prefazione ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 ***



Capitolo 1
*** Prefazione ***


Eccomi a voi con una nuova storia !!!!!

Lo so, lo so, dovrei concentrarmi su una storia per volta ma sapete quando l'ispirazione prende è impossibile non darle retta. Per cui eccomi a voi con questa ideuccia venuta per caso mentre lavavo i piatti qualche tempo fa. Sono stata a pensarci due settimane (me lo sognavo anche di notte!) e alla fine ho deciso di dare sfogo a questa idea.

Spero che possa piacervi! Io l'ho scritta di getto...Non so cosa possa venirne fuori, però io ci credo!! Voi fatemi sapere cosa ne pensate!!!!!!

Credo di riuscire a postare il primo capitolo, entro stasera. Devo solo dargli una ricontrollata.

Ora vi lascio leggere in pace. Buona Lettura!!!!!

 

PREFAZIONE

-Non piangere, Alice- le sussurrai piano in un orecchio.

-Ho paura, Byron- riuscì a mormorare tra le lacrime e i singhiozzi.

L’abbracciai senza timore. Sapevo che stavo per perderla. Tutti i miei sforzi per metterla al sicuro da tutto e da tutti si erano dimostrati vani. La stavo perdendo e non potevo oppormi. Avrei voluto nasconderla, riuscire a salvarla da quel destino assurdo. Ma non potevo farci niente.

-Alice, qualsiasi cosa accada io sarò con te, voglio che tu lo sappia- la rassicurai baciandole i capelli disordinati.

-Lo so. Ma non servirà a nulla- disse con la guancia prenuta sul mio petto.

Non osai controbattere. Aveva ragione lei.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Rieccomi....La rompiscatole è tornata xD

Come promesso ho rivisto il primo capitolo e sono riuscita a postarlo.....Mi scuso, non è molto lungo, spero di rifarmi nei prossimi capitoli....

Spero vi possa piacere...Miraccomando fatemi sapere cosa ne pensate! Mi serve per sapere come posso sviluppare....CI tengo molto ^^

Buona lettura!!!! 

 

CAPITOLO 1 - Pov Byron

Eccolo. Quel piccolo esserino insignificante che giocava sotto i rami del grande albero del giardino, dandomi le spalle.

Farfugliava qualche parola senza senso mentre pettinava delicatamente i lunghi capelli delle sue bambole di porcellana.

Sola. Lontana da chiunque avesse potuto salvarla. Un facile bersaglio.

Mi avvicinai, silenzioso come un boa, pronto a scattare. Sentivo in bocca il sapore intenso del veleno. I miei sensi di predatore si erano affinati sentendo il suo odore da lontano e ora niente avrebbe potuto distrarmi dalla caccia.

Tun tun-tun, Tun tun-tun, Tun tun-tun, Tun tun-tun.

Quale odore delizioso si sprigionava da quel fragile corpicino! La sete aumentò. L’oggetto del mio desiderio era proprio a pochi metri da me e il bruciare alla gola divenne sempre più insopportabile. Mi riusciva perfino difficile vedere chiaramente il mio obiettivo a causa delle lingue di fuoco che mi coprivano la vista.

Continuavo ad avanzare verso il mio obiettivo, troppo silenziosamente perché quello mi sentisse. 

Tutto era facile. Fin quando non decise di voltarsi verso di me.

Mi bloccai impietrito a metà strada da lui, da ciò di cui avevo bisogno.

La bambina che avevo deciso di puntare mi sorrise ammaliata e i suoi piccoli occhi neri mi incollarono alla sua figura infantile.

Rimasi a bocca aperta a fissarla. Farfugliò ancora qualcosa di incomprensibile e ritornò a guadarmi, ancora più intensamente di prima.

Sentii una voce, proveniente dalla grande casa avvicinarsi. –Alice…!! Alice…!!!-,  

qualcuno chiamava ansiosamente. Quando la piccola sentì quella voce si voltò lentamente, biascicò qualche altra sillaba e tornò a pettinare le sue bambole. Scattai, ritornando in me per quel poco che bastava.

Balzai andandomi a nascondere nella fitta boscaglia che circondava l’immenso giardino di quella casa.

-Alice…!!!!!!- chiamò sollevata una signora sulla mezza età. La bimba, vedendola, si agitò tutta. Cominciò a strillare con la sua vocina acutissima e ad agitare in aria le manine. La donna la prese in braccio e cominciò a dondolarla su e giù.

-Alice! Santo cielo, che spavento ci hai fatto prendere!- disse sospirando di sollievo.

-Chi ti ha lasciato qui da sola?- chiese come se si aspettasse una risposta. –Oh, Cynthia adesso se la vedrà con me- sussurrò piano, portandosi il viso della bimba al petto.

Poi la bambina fece un gesto che mi fece raggelare i nervi. Cominciò a indicare col ditino la foresta dove mi ero nascosto. Per la miseria!

-Che c’è, piccolina?- chiese la donna. Si voltò per fissare anche lei la fitta vegetazione. Rimasi immobile dietro l’albero, smettendo addirittura di respirare, per paura di essere scoperto. Non vedendo nulla, la donna scosse piano la testa e disse –Vieni, tesoro, andiamo. Si sta facendo tardi- e si mise a raccogliere le bambole e la coperta sulla quale la bimba era seduta.

Appena le vidi entrare in casa, tirai un sospiro di sollievo e uscii dal mio nascondiglio improvvisato. Fissai inerme la grande villa dove vivevano.

Probabilmente un vampiro normale avrebbe pensato a tutti i modi possibili per riuscire a entrare in quel fortino. Probabilmente un vampiro normale non si sarebbe nemmeno fatto distrarre da un neonato nel bel mezzo della sua caccia. L’avrebbe catturato e basta. Perché era un predatore e quel neonato era la preda che si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato. In più particolarmente succoso. 

Ma io non ero normale, almeno non più.

L’unica cosa a cui riuscivo a pensare era la piccola creatura che mi aveva stregato.

Alice.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Oh, sia lodato Edward Cullen!!!!!!!! 

Ehm...Ehm...Ehm...Direi che sono PARECCHIO in ritardo, no???? Dio, scusatemi tantissimo!!!!!!!!!!!! Rimando sempre ma alla fine mi dimentico ^^" Poi parto e, non avendo internet con me, non riesco ad aggiornare!!!! 

Sono un disastro, lo so!!!!! Chiedo umilmente perdono ^^"

Allora colgo l'occasione per rispondere a _Mary e LatinLover (da quanto ho capito, ex-BabyRana, giusto?)...

Allora....Ringrazio _Mary dal profondo del cuore! Sono veramente felice che la storia ti piaccia e di averti colpito così...Grazie Grazie ^^" Spero che nel corso della lettura non rimanga delusa...Bhe, comunque sia, fammi sapere cosa ne pensi! Per quanto riguarda le correzioni, provvederò al più presto!

Alla cara LatinLover posso solo dire che anche io ho odiato per certi aspetti la zia Steph, alcune storie le avrei approfondite di più soprattutto perchè ci avrebbe risparmiato TAAAANTEEE sclerate!!!! 

Comunque 'Bando alle Ciance e gambe in spalla' (sono una pazze sclerotica lo so già! xD)...Vi lascio alla lettura!!! Chiedo scusa anticipatamente se dovreste trovare degli errori (o meglio Orrori come molti dicono)...Non ho ricontrollato s devo essere sincera! Non uccidetemi!!!! 

Buona lettura ;)

 

 

CAPITOLO 2

-Ti prendo, Alice, ti prendo!- gridava Cynthia dall’altro lato del giardino.

-No! Invecee no!- cantilenava lei. Mi venne da ridere guardando quella scena.

La mia piccolina.

Nessuno sarebbe mai riuscito ad acchiapparla. Scivolava via come un’anguilla e aveva la capacità di nascondersi in qualsiasi posto; per non parlare di come si arrampicava sugli alberi.

Era il tramonto. Il sole ancora faceva capolino tra le nuvole violacee come lividi e il cielo era di un insolito color rosa pastello. Sembrava di far parte di un dipinto paesaggistico del romanticismo. Io ero nascosto dietro il tronco di un grosso albero del bosco e osservavo la piccola Alice. Come sempre.

Le due sorelle stavano giocando indisturbate nell’immenso giardino della loro casa.

Cynthia, sua sorella maggiore, le correva dietro cercando di prenderla ma lei correva veloce e si nascondeva in tutti i posti possibili e immaginabili. Ora si era nascosta nel fitto cespuglio di rampicanti come un piccolo passerotto. La sorella intanto la cercava senza risultati.

-Alice! Basta, mi sono stufata di giocare! Tanto lo sai anche tu che alla fine vinci sempre! Vado dentro a finire il mio lavoro con l’uncinetto! Ciao!- urlò forte per riuscire a farsi sentire dalla sorella, dopo un po’ di vane ricerche. Quando la porta della cucina sbatté, Alice uscì piano dal suo nascondiglio. Per un po’ si guardò in giro, incerta sul da farsi. Poi si mise a correre verso il grosso salice secolare dove l’avevo vista la prima volta, nove anni prima.

Anche adesso, molto spesso si trovava lì per rimanere un po’ da sola. A differenza di tutte le altre bambine a lei piacevano le cose avventurose; non molte volte la vedevo giocare con le bambole o leggere libri d’amore. Penso che quello fosse il suo posto preferito in assoluto e non potevo darle torto. Anch’io spesso salivo sopra quell’albero la sera: mi aiutava a rilassarmi e a pensare più liberamente, per quanto il suo pensiero fisso mi concedesse tregua.

Sapevo che era una cosa stupida, quella a cui avevo deciso di dedicarmi. Lei era un’umana e la mia era chiaramente una fissazione basata solo sul suo sangue. O forse no.

Erano nove anni che continuavo a pensare che quella condizione fosse la più stupida alla quale avessi mai dato retta eppure ogni notte mi ritrovavo sotto la sua finestra a controllare che tutto fosse a posto.

Erano nove anni che continuavo a guardarla crescere, a far parte della sua vita, anche se da dietro le quinte; era da tutto quel tempo che mi ponevo il problema della sua sicurezza. Volevo che lei stesse bene.

Con molta fatica, riuscì ad arrivare in cima per godersi la bellezza del giardino da quel piccolo nascondiglio segreto.

Si accoccolò sul tronco levigato. La vidi rilassarsi completamente; chiuse perfino gli occhi. Com’era piccola e indifesa in quel momento. Se avessi voluto, avrei potuto raggiungerla con un balzo e di lei non sarebbe rimasto molto. Ma non volevo. Non avrei mai potuto farle del male. Non avrei permesso a me stesso di fare una cosa del genere.

Sentivo il battito del suo piccolo cuore rimbombare nel vuoto. Se quel suono si fosse fermato, che senso aveva per me rimanere lì?

Già, molto probabilmente il mio posto non era al suo fianco. Ma avrei fatto di tutto per proteggerla, anche se fossi dovuto rimanere al buio. Non avrei mai permesso che qualcuno le facesse del male.

Sospirò piano.

La mia piccola Alice. Era incredibile come quella creatura mi condizionasse la giornata. Quando ero lontano il bisogno di sapere che lei stesse bene mi rimbalzava in testa. Certe volte, il suo pensiero mi rendeva perfino impossibile cacciare.

Chissà cosa avrebbe detto se mi avesse conosciuto. Probabilmente sarebbe scappata via a gambe levate, mi avrebbe dato del demonio. Come normale che fosse.

Ma allora che senso aveva rimanere con lei, se sapevo a priori che mi avrebbe rifiutato?

…Che idea assurda capitò nella mia mente, eppure ci provai.

Balzai leggero sul ramo più alto del salice e mi accovacciai, pronto a saltare al suo fianco. Lei si voltò verso di me e aprì la bocca per cacciare un urlo. Mi ritrovai improvvisamente al suo fianco, la mia mano destra che le copriva la bocca.

-Sssh- le sussurrai piano, tentando di tranquillizzarla. Lei era agitatissima. Sentivo il suo cuore che premeva violento contro le sue costole e il respiro che le si era mozzato in gola.

-Se ti lascio, mi prometti che non urlerai?- chiesi nel tono meno spaventoso possibile che riuscii a trovare. Annuì, ancora sotto shock. Sospirai e lasciai cadere il braccio lungo il mio fianco. Passarono lunghi, eterni minuti nei quali Alice cercò di ritrovare la calma e di regolare il suo respiro affannoso.

-C-C…C-Che…!?- farfugliò poi piano, tentando di far uscire qualche parola sensata.

-Tranquilla- le dissi sorridendole il più amichevolmente possibile.

Mi aspettavo qualsiasi tipo di reazione, ora: urla di panico, lacrime di paura, il chiaro terrore nei suoi occhi. Insomma, la reazione di un normale essere umano alla mia comparsa.

-Come hai fatto a salire fin qui?- chiese tutto d’un fiato, con la sua vocina squillante.

 Cosa? È questa la prima domanda che ti viene in mente da pormi? Insomma sono uno sconosciuto, predatore per di più. E, a una parte di lui, non dispiacerebbe assaggiarti. Non dovresti aver paura?! Chiese perplessa una parte di me.

Rimasi sbigottito. Ma che intendeva dire?

-Io sono l’unica che riesce a salire su questo albero. A parte me, nessuno ci riusciva…- mormorò, cercando di spiegarmi, con la voce rotta dal magone –…nessuno aveva mai battuto il mio primato, prima d’ora…- aggiunse scoppiando in lacrime.

La mia piccola Alice. Riusciva sempre a sorprendermi.

Lottai contro il bisogno di abbracciarla, di rassicurarla, di dirle che lei sarebbe sempre stata la miglior scalatrice d’alberi del mondo. Mi limitai solamente a sfiorarle la guancia per far scivolare sulle mie dita una delle sue dolci lacrime. La pelle della sua guancia rabbrividì al contatto con la mia.

-Perché piangi ora, piccola?- chiesi amichevolmente.

-PERCHÈ MI HAI ROVINATO IL NASCONDIGLIO!- mi urlò addosso.

E non ce la feci più. Le mie braccia fredde e immobili accolsero il piccolo corpicino di quella fragile bambina che fin dal primo momento in cui la vidi mi rubò i pensieri. I sentimenti che mi invasero in quel momento furono troppo forti per essere descritti.

Il pensiero di volerla non faceva più così male. Sì, la volevo, ma non come un vampiro vuole la sua preda.

Io…le volevo…bene; per quanto fosse possibile per me provare qualche sentimento umano.

Rimanemmo così per 10 minuti buoni poi lei sembrò calmarsi. Mi scostò dall’abbraccio e mi guardò con i suoi grandi occhi neri come la pece, un po’ arrossati dal pianto recente. Tirò su forte col naso.

-Adesso stai meglio?- le chiesi preoccupato che si mettesse ancora a piangere.

Annuì piano. Mi sorrise e, se il mio cuore non fosse stato già immobile come un pezzo di marmo, si sarebbe sicuramente fermato con un sussulto.

Mi squadrò da testa a piedi. –Uhm….- borbottò fra sé, torcendo un po’ le labbra. Adorabile. –Penso che tu saresti il soggetto adatto per condividere il mio posto. Ti va?- mi chiese con una felicità negli occhi che non sarei mai riuscito a trovare in nessun altro sguardo.

-Pensi davvero che io possa essere all’altezza di questo onore?- chiesi.

-Certo!- rispose lei con entusiasmo –Tu sarai l’unico che saprà del nostro nascondiglio segreto!- aggiunse con ancor più entusiasmo.

-Ne sono lusingato!- dissi, mettendomi una mano sul petto e chinando un poco la testa così che sembrasse una specie di inchino.

Lei rise. Che suono delizioso! Al mondo non c’era suono più delizioso di quello.

Mi mise una mano sulla spalla –Ascolta, sconosciuto…- cominciò.

-Mi chiamo Byron- dissi bloccando il suo discorso.

-D’accordo, Byron- pronunciò lei. Il mio nome. Rimasi un attimo interdetto ad ascoltare quel suono, il suono della sua voce che pronunciava il mo nome –Ascolta, Byron, d’ora in poi sarai il mio amico. Mi raccomando però, acqua in bocca! Nessuno deve sapere del nostro patto segreto- bisbigliò per non far sentire il discorso a nessuno a parte me.

Abbozzai una risatina –Certo, Alice-. Lei annuii piano, sapeva che non lo avrei detto a nessuno. Mi conosceva da due secondi, eppure sembrava già fidarsi ciecamente di me.

-Alice…! Alice…!- chiamava forte la governante. –Vieni. È pronto in tavola!-

-Uffa…- sbuffò lei. Dopo un minuto di abbattimento la sua attenzione sembrò tornare su di me –Byron, ci sarai ancora domani?- chiese ansiosa.

-Sarò qui- promisi. Ed era una promessa vera e propria; perché io sarei stato lì. Fin quando lei non mi avrebbe mandato via.

Lei mi sorrise –Bhe, a domani, allora!- salutò velocemente e scese dall’albero. Quando toccò terra mi rivolse uno sguardo benevolo.

 -Alice, anche tu manterrai il segreto, vero?- chiesi preoccupato. Non volevo che nessuno venisse a sapere di me. Forse più per egoismo che per senso protettivo. Lei annuì sorridendomi. La guardai correre verso casa ed entrare dalla porta della cucina. Dalla casa provenivano un sacco di rumori, era la vitalità serale degli umani. Una donna armeggiava con le pentole in cucina; Cynthia, in camera sua, scriveva una lettera; il padre era in salotto a leggere il giornale. E poi c’era lei. Il suono del battito del suo cuore era inconfondibile; anche in mezzo a miliardi di persone l’avrei riconosciuto.

Era il battito più importante per me, quello che scandiva le mie giornate, la ragione della mia esistenza.

Rimasi un po’ sull’albero a fissare la vita che correva nelle viscere di quelle persone. Non sarei mai stato come loro. Non avrei mai fatto parte di quella quotidianità che conoscevo così bene, era ovvio, ma per un momento sperai che Alice, col tempo, sarebbe riuscita a volermi bene quanto io ne volevo a lei.

Mi sarebbe bastato solo quello. 


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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Ciao a Tutti !

Eccomi qui, ad aggiornare finalmente! Vi chiedo scusa per la lentezza con cui aggiorno recentemente ma in questo periodo non ci sto proprio con la testa. Non che ci sia mai stata, però ora mi trovo particolarmente in difficoltà e quindi trovare un po' di tempo (e di voglia) per dare spazio alla mia storia e alla mia ispirazione è diventato più difficile. Vi chiedo scusa a tutti, davvero.

Vorrei ringraziare la mia cara Mafra che non si è mai persa un mio capitolo e che mi sostiene in ogni suo commento. Grazie mille, cara!!!!! 

Ma ovviamente ringrazio anche la mia stellina patatosa (xD) ELena che è sempre pronta a darmi consigli e a tirarmi su il morale e la cara Marina che si è proposta di fare da 'correggi-bozze'. Grazie a tutti quelli che mi stanno vicino, davvero. 

Ora vi lascio al terzo capitolo sarà solo di passaggio e servirà per far capire il rapporto che si è instaurato tra Alice e Byron. Dal prossimo (o da quello dopo il prossimo, dipende se mi vene in mente qualche altra idea) cominceranno a cambiare molte cose...

Ringrazio tutti quelli che avranno la santa pazienza di leggere e, magari, di lasciare anche una recensione.

Buona lettura ;)

 

CAPITOLO 3

-Scacco matto- esclamai esultante.

Alice corrugò un po’ le sopracciglia e mi trapassò con lo sguardo.

-Voglio la rivincita. Adesso- dichiarò con tono di sfida.

Abbozzai una risatina vedendo quanto era determinata a strapparmi il primato di campione degli scacchi. Era la quinta partita che cominciavano quel pomeriggio e lei non sembrava né stanca, né annoiata, né, tanto meno, abbattuta dalle ripetute sconfitte. Rimettemmo in ordine i pezzi sulla scacchiera e ricominciammo a giocare in silenzio.

Lei era completamente assorta nell’impegno che dedicava al gioco e alla strategia. Una leggera ruga d’espressione, dovuta alla concentrazione, le solcava la fronte e caratterizzava la sua espressione infantile. Teneva le braccia strette al petto e fissava la scacchiera come se contenesse la soluzione di tutti i suoi problemi. Io la guardavo o, sarebbe meglio dire, la contemplavo.

In qui giorni l’autunno era alle porte: il clima stava abbandonando la tipica calura estiva e le foglie del giardino stavano cominciando ad ingiallirsi. La mia mente vagava attraverso i ricordi; ragionavo sul fatto che in quell’estate l’avevo passata insieme ad Alice, per davvero. Non ero stato a fare il selvaggio, come avevo sempre fatto prima dell’arrivo della mia stella, e non ero neppure stato ad osservarla come un maniaco. Le ero stato vicino. Per lei, c’ero e ci sarei sempre stato, finché lei mi avesse voluto. Il nostro rapporto era diventato sempre più forte; eravamo molto legati, sono convinto che lei mi considerasse come un migliore amico. Dopo tutto, io riuscivo a proteggerla e a prendermi cura di lei e questo bastava a rendermi felice e gratificato.

Tornando alla realtà da quella valanga di ricordi che mi aveva ricoperto, notai che la piccola Alice aveva spostato l’attenzione dalla scacchiera a… me.

-Alice, c’è qualcosa che non va?- chiesi vedendola rapita dai pensieri quanto me poco prima.

Lei chiuse gli occhi e scosse la testa come se fosse costretta a svegliarsi dopo un bel sogno. –No…Niente. Mi chiedevo solo se…- mormorò lasciando la frase in sospeso. Nonostante la mia curiosità, che sentivo spuntare da tutti i pori, non dissi nulla per convincerla a continuare. Mi limitai a fissarla, aspettando che si decidesse da sola a continuare.

-Stavo solo cercando di convincermi del fatto che tu sia reale e non solo frutto di un sogno- sussurrò piano e arrossendo violentemente.

La sua rivelazione mi stupì non poco ma vederla arrossire mi fece emozionare dal profondo del mio cuore morto e freddo. Non l’avevo mai vista arrossire prima di allora: non c’era mai stato motivo per cui lei avesse dovuto, per noi stare insieme era naturale e spontaneo, perché mai lei avrebbe dovuto sentirsi in imbarazzo?

La sua pelle chiara e sottile era resa più rosea dal sangue che le affluiva sulle guancie. La vista era davvero invitante, un vero richiamo alla caccia per un predatore. Ma non per me. Per me, vederla con quel colorito, era la gioia più grande che avessi mai provato. Mi chiesi se quei sentimenti, quelle emozioni, quelle sensazioni che provavo fossero la cosa migliore per la mia natura ma soprattutto per Alice. Non riuscivo a trovare una risposta esauriente per quella domanda.

Lei teneva lo sguardo basso sulla scacchiera tentando di controllare il rossore, senza, però, riuscirci.

Una parte di me, quella rimasta meno sbigottita da quella visione insolita che mi si presentava davanti, convinse in qualche modo la mia mano ad allungarsi lentamente per riuscire a toccare la sua guancia in fiamme. Titubante verso la mia e la sua reazione, raggiunsi la sua guancia e in quel momento fu come se avessi trovato il mio posto nel mondo. Mi sentii come se finalmente avessi trovato tutto quello che avevo cercato.

Mi sentii perfetto.

Completo.

Ma era davvero giusto che io mi sentissi così? Così…preso dai sentimenti e non dagli istinti? No, non era così che avrebbe dovuto funzionare, non in quel modo.

Era completamente sbagliato ma anche inevitabilmente giusto.

La consapevolezza che, per Alice darmi corda, era l’errore più irreparabile che potesse fare non era chiara dentro di me ma come potevo non badare alla gioia che riempiva la mia piccola ogni volta che passavamo del tempo assieme? Anche lei era felice quando stava con me.

Mi sentivo tormentato come non mai.

Mentre continuavo ad accarezzarle la guancia e a riflettere su ciò che era meglio fare, lei alzò lo sguardo e scatenò tutta la potenza del suo sguardo su di me. Notò il mio sguardo tormentato e la vidi intristirsi. Prese la mano con cui le stavo accarezzando la guancia e la strinse forte nelle sue. Abbassammo all’unisono gli sguardi e cominciammo a guardare le nostre mani intrecciate.

-Perché sei arrossita?- chiesi d’un tratto riportando il mio sguardo sul suo viso.

Anche lei alzò gli occhi in modo che i nostri occhi si incontrarono e si perdessero gli uni negli altri. Nuotavo nella sua anima attraverso i suoi occhi.

-Come, non lo capisci?- mi chiese come se il perché fosse arrossita fosse la cosa più ovvia del mondo. In risposta, scossi la testa, confuso. Sospirò e riabbassò lo sguardo sulle nostre mani.

-Ho detto una cosa senza senso…- mormorò più a sé stessa che a me.

-No…- le dissi. –È bello capirti di più…-

Restammo in silenzio per qualche minuto.

-Pensi davvero che io sia frutto di un sogno? Che non sia reale?- le chiesi tornando al discorso iniziale.

-Sì. O per meglio dire, credo sia più un’allucinazione- rispose guardando ancora le nostre mani.

Le presi il mento tra le dita della mano libera e la costrinsi a guardarmi in faccia. –Spiegati meglio- quasi la pregai.

-Bhe, molte volte mi chiedo come sia possibile averti qui… Mi pare una cosa tanto incredibile; surreale, quasi-

-Sei stranita dal fatto che io stia sempre qua intorno per te?- chiesi preoccupato.

-No!- esclamò lei. –No, assolutamente no! Averti qui tutti i giorni è fantastico. Forse troppo rispetto a quello che mi merito realmente. Tu sei così buono e gentile, perché mai dovresti stare con una peste disubbidiente e ribelle?- mi chiese retoricamente. Lei si sentiva fuori luogo? Pensava di essere quella imperfetta? Sicuramente era la mia presenza che la sminuiva.

-Tu sei la mia peste disubbidiente e ribelle preferita- la rassicurai accarezzandole i morbidi e lunghi capelli neri. –E, comunque, quello che non ti merita sono io- dissi abbassando la mano.

-Ma, come? Tu sei così perfetto…- tentò di replicare.

-No, piccola, non sono affatto perfetto e non voglio che tu ti faccia un’idea sbagliata di me- le dissi.

-Come? Che cosa? Byron, ma che dici…- esclamò confusa lei.

-Non preoccuparti, Alice. Non voglio che tu mi giudichi perfetto perché non lo sono, tutto qui- proclamai.

-Va bene. Se tu non sei perfetto allora non lo sono neppure io- decretò lei.

Abbozzai una risatina –D’accordo, ribelle. Benvenuta nel club degli imperfetti-

Rise di gusto anche lei alla mia battuta e la tensione si smorzò. Poi ritornò seria e mi sorrise dolcemente, aprendomi il cuore.

Le nostre mani erano ancora le une nelle altre perciò feci scivolare la mia via dalle sue e con entrambe le presi il viso.

-Ascoltami bene, Alice. Io sono reale, per quanto tu ci possa credere. E rimarrò qui con te. Giocherò con te a scacchi e ci arrampicheremo sugli alberi ogni qualvolta tu vorrai. Te lo posso giurare se non ci credi- le promisi.

-Ci credo- mormorò.

Con un cenno fece sfuggire il suo viso dalla mia presa.

-Sarà meglio che ricominciamo a giocare. Voglio vincere- disse.

Abbozzai una risatina.

-E, sia chiaro, niente favoritismi- aggiunse.

Annuii e ricominciammo a giocare sereni come se la discussione avuta poco prima non significasse niente.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Buon Sabato a tutti ^^

Eccomi qua con un nuovo aggiornamento....

Allora, questo capitolo sarà particolarmente importante perchè da qui in poi cominceranno i problemi, le complicazioni (chi più ne ha più ne metta xD), insomma la storia vera e propria.....

Ci sarà un altro salto temporale in questo capitolo....Probabilmente vi faranno impazzire ma effettivamente non so cosa scrivere -.-" La vita di Byron e Alice è sempre stata piuttosto tranquilla per ora: partite a scacchi, a carte, pomeriggi passati a giocare a nascondino o a guardare le nuvole. Insomma, nulla di che...

Ora però vi prometto che la storia si farà molto più intrigante e i salti temporali non saranno più così frequenti....

Come al solito, ringrazio tutti quelli che si armano di azienza e leggono la storia fino alla fine e magari lasciano pure un commentino ;) Vi Adoro!

Saluto (e ringrazio) la carissima Mafra che è partita per la Croazia! Eh, Beata lei!!!! [Ti ringrazio tanto, cara! Sono felice che la storia, questa come l'altra, ti piaccia molto! Le tue recensioni mi dano davvero un gran sostegno!!! Grazie Mille ^^]

E kloe2004 che ha commentato il capitolo precedente e ha aggiunto la storia alle seguite ;) [Sono felice che ti piaccia il modo in cui mi sono immaginata i personaggi....Spero che anche il resto della storia ti piaccia. Fammi SApere ;)]

Ovviamente non possono mancare Elena e Marina che sono i miei due angeli custodi! Grazie Ragazze!!! E, Ele, grazie ancora per la dedica ^^

Ora vi lascio alla lettura....E, ricordate, qualsiasi commento, anche negativo, è sempre ben accetto :)

 

CAPITOLO 4

Sei anni. Erano passati sei anni dal giorno in cui mi ero presentato ufficialmente a Alice. In quegli anni avevo vissuto intensamente ogni singolo istante che avevo passato con lei, cercando di assaporare la gioia e la pienezza che la sua presenza donava alla mia vita vuota e buia.

Tutto era più colorato e brillante in sua presenza. Lei era la piccola luce, luminosa come solo il sole può, che ravvivava le mie nottate di morte e dolore.

Il suo odore non era più un problema. Ma, infondo, lo era mai davvero stato? Forse solo la prima volta che l’avevo adocchiata. Perché poi il senso di amore nei suoi confronti aveva superato ogni cosa; ogni sentimento possibile era stato spazzato via dal pensiero di proteggerla, prima di tutto da me stesso e dal mostro che viveva dentro di me.

In quei sei anni l’avevo vista crescere e maturare. Era diventata una ragazza, ormai. Aveva lasciato già da tempo le forme tenere e abbozzate dell’infanzia: i fianchi le si erano allargati, i piccoli seni cominciavano a spuntare dai vestiti ormai stretti, il portamento si stava trasformando in quello di una donna adulta e aveva abbandonato i comportamenti da bambina ribelle. Era sempre la mia Alice, solo più matura. Ora, raramente, ci veniva in mente di arrampicarci sul vecchio salice come facevamo quando era più piccola. Lei preferiva fare lunghe passeggiate nella boscaglia accompagnata da me, oppure sdraiarci fianco a fianco sull’erba per guardare il cielo e le nuvole e a riconoscere le immagini che formavano portate dal vento. Inoltre passava le ore a leggermi i suoi libri preferiti. Più il tempo passava, più i minuti che passavo con lei diventavano fondamentali per la mia sopravvivenza. Probabilmente non sarei riuscito a uscire di scena facilmente, ovviamente se avessi deciso di farlo di mia spontanea volontà. Se fosse stata lei a chiedermelo, probabilmente avrei preferito accontentarla andandomene così da vederla felice piuttosto che intristirla o irritarla con la mia presenza.  

Ma sarei riuscito davvero ad allontanarmi da lei senza problemi? Sarebbe stato davvero così scontato come pensavo che fosse? Ero davvero certo che questa decisione non avrebbe portato conseguenze sulla mia natura di vampiro? Ne dubitavo.

Dal canto suo, Alice non sembrava detestare la mia compagnia. Quando la osservavo giocare in giardino con la sorella o con la governante, oppure quando mi perdevo nella sua espressione concentrata mentre ricamava seduta sulla sedia a dondolo della veranda, la vedevo scrutare intensamente la boscaglia con quei suoi luminosi occhi neri. Quasi aspettasse qualcuno. Quasi aspettasse me.

Come me, anche lei sembrava cambiata dalla mia presenza. Forse troppo rispetto alla bambina serena e felice che vedevo prima della mia comparsa. Era cambiata forse in modo troppo malsano. Il che non faceva che accreditare le possibilità che frequentarmi le facesse male, che per lei sarebbe stato meglio che io me ne andassi. I sospetti che la mia presenza fosse dannosa per lei mi giunsero in un pomeriggio di autunno. Era autunno inoltrato, quasi inverno. Come ogni giorno aspettavo che il mio piccolo angelo mi raggiungesse al limitare del bosco per fare la nostra solita passeggiata serale. Il sole, nonostante fosse ancora alto nel cielo, lottava contro le pesanti nuvole grigie che cercavano di nasconderlo, con scarsi risultati. Quelle nuvole non promettevano nulla di buono; pensai che sarebbe stato meglio che Alice e io facemmo una veloce passeggiata. Non badai molto a quale dovesse essere la temperatura: le sensazioni di freddo e di caldo mi avevano abbandonato parecchi anni prima.

Finalmente la vidi uscire. La mia stella. La mia unica ragione per combattere. Lei. Alice.

-Ciao- mi salutò appena mi fu abbastanza vicina. Le sue labbra si aprirono in un sorriso che illuminò subito quella giornata spenta. Il mio sole.

-Ciao, Alice- ricambiai il saluto porgendole il mio braccio –Andiamo?- chiesi gentilmente. Lei annuì e si aggrappò a me saldamente.

Quel giorno rimanemmo stranamente silenziosi, ognuno perso nei propri pensieri e nelle proprie riflessioni.

-Alice, tutto bene?- gli chiesi, rompendo il silenzio. Non mi sembrava normale che la mia piccola, sempre così estasiata e elettrizzata durante i pomeriggi che passavamo insieme, fosse così pensierosa e giù di morale. Ormai avevo imparato a conoscerla, sapevo esattamente i sentimenti che provava solamente guardandola in faccia o seguendo i suoi comportamenti.

-S-sì…- rispose titubante. Oltre a essere giù di morale, cercava di nascondermi qualcosa.

-Mi stai facendo preoccupare…- la avvertii fermandomi e lasciando cadere il mio braccio. Non poteva più mentirmi ora che eravamo faccia a faccia. La parte più razionale e indipendente di me mi diceva che non avrei dovuto comportarmi in quel modo: infondo, toccava a lei decidere se parlarmene o meno, non doveva sentirsi costretta a raccontarmi tutto quello che le succedeva. Ma, dall’altra parte, la parte più protettiva e amorevole nei suo confronti mi diceva che facevo bene a indagare.

Lei, per tutta risposta, mi fissò intensamente con i suoi profondi occhi neri.

-Byron, non è importante, davvero…- mormorò, voltando la testa.

-Se ti fa star male e non ti fa essere te stessa, certo che è importante- controbattei.

Restò a fissare la fitta boscaglia che ci circondava. Non riuscivo a comprendere il perché di quel suo comportamento. Perché cercava di nascondermi qualcosa? Improvvisamente aveva smesso di fidarsi di me?

Sospirò e tornò a guardarmi negli occhi –Mio padre è molto malato, Byron- sputò, quasi fosse un insulto. Notai che la sua espressione riprese il tono triste e senza speranza che aveva cercato di camuffare, senza successo. I suoi occhi divennero velati.

-Come? Che cosa?- chiesi, pensando di aver capito male. Suo padre malato? Non avevo visto nessun movimento nella casa nei giorni precedenti.

-Sì, hai capito bene. Il dottore è venuto a visitarlo stamattina dopo una nottata molto dura. Lui dice che non è possibile far niente, che qualsiasi cura sarebbe inutile. Ha aggiunto anche che, molto probabilmente, non vedrà nemmeno l’arrivo della primavera- riuscì a mormorare prima di scoppiare in lacrime.

Ero impietrito. Sapevo quanto Alice fosse legata a suo padre. Per lei era sempre stato uno dei suoi punti fermi e ora, sapere che molto probabilmente avrebbe dovuto dirgli addio, era doloroso.

-Alice…- le dissi abbracciandola.

-Sta morendo… Sta morendo- continuava a ripetere con il viso premuto contro il mio petto freddo. Io le accarezzavo dolcemente i capelli per calmarla.

Le nuvole si erano fatte più cupe e intense e una pioggerellina leggera cominciò a scendere dal cielo, bagnandoci. Le goccioline si imperlavano nei capelli neri di Alice rendendoli un po’ crespi.

Continuava a singhiozzare. Come avrei voluto riuscire a piangere insieme a lei. Ogni volta che la vedevo triste il mio cuore di ghiaccio si spezzava come se fosse stato colpito da un grosso colpo di martello. Sentivo un groppo in gola talmente grosso che mi impediva di respirare correttamente.

-Mi dispiace tanto, piccola. Dimmi, ti prego, posso fare qualcosa per voi?- chiesi, non sapendo in che altro modo avrei potuto stare accanto a lei e alla sua famiglia.

Alzò lo sguardo verso di me -Mi basta sapere che tu sia qui. E che ci sarai sempre. Promettimi che non mi abbandonerai anche tu, ti prego-

In quel momento avrei voluto fare un sacco di cose tutte insieme: urlare, mettermi a piangere o a correre, una parte di me avrebbe voluto perfino baciarla. Ma semplicemente le asciugai le piccole gocce che le coprivano il viso con il pollice e la abbracciai stretta a me, evitando di farle male. Lei per un attimo ricambiò l’abbraccio, poi il suo corpo mi ricadde smorto tra le braccia.

-Alice…?- domandai tentando di risvegliarla. –Alice!- urlai.

Dannazione! Cosa le era successo?

Che le avevo fatto?!

Demonio, demonio, demonio gridava forte una parte di me.

Appoggiai il suo corpo al suolo; mi misi le mani sul viso e cominciai a singhiozzare. Gli occhi cominciarono a pizzicare, non proprio una sensazione piacevole ma sapevo sopportare.

-Alice, ti prego, rispondi! Svegliati!- dissi scuotendola un po’. Cercai di ricacciare indietro il magone che mi formava un groppo in gola.

Era viva. Sentivo il suo cuore battere leggero e il suo sangue scorrere lento in tutto il corpo. Ma allora che cosa aveva? Perché tutto d’un tratto era svenuta? Soprattutto, cosa avrei dovuto fare ora? Avrei dovuto presentarmi dai suoi come se niente fosse? No, non potevo.

Forse, l’idea migliore era di lasciarla davanti a casa, come se fosse stata male lì sulla soglia: qualcuno, prima o poi, l’avrebbe vista e l’avrebbe portata in casa. No, non potevo lasciarla sola in quel modo: mi ero ripromesso che mi sarei preso cura di lei, sempre.

Non puoi esporti così con gli umani. Pensa a cosa potresti fare ai suoi famigliari. Li metteresti in pericolo. Esordì la parte più ragionevole di me. Ed, effettivamente, aveva ragione.

Tirai su da terra il corpo di Alice e mi misi a correre molto più velocemente del normale, con lei tra le braccia. Dovevo affrettarmi. Nonostante non potessi accompagnarla a casa e prendermi cura di lei, decisi che più velocemente sarei arrivato a destinazione meglio sarebbe stato per lei.

Passarono pochi secondi e mi ritrovai nel enorme giardino di casa Brandon. Posai con delicatezza il corpo di Alice sul vialetto, in modo che potessero vederla più facilmente e mi dileguai, salendo su una grande quercia.

Rimasi lì a fissare intensamente il suo corpicino lasciato alla furia delle intemperie. Cominciò a piovere più forte, ma, prima che la parte più protettiva di me prendesse il sopravvento e decidesse di portarla in casa, sentii la porta sbattere con un colpo secco.

-O Signore, Alice!- urlò la governante. Si accovacciò e prese la testa della mia piccola sul grembo. –Signora Meg! Signora Meg!- chiamava ansiosamente.

-Virginia, è mai possibile ch…- tentò di replicare la donna ma, vedendo il corpo della figlia a terra, esclamò –Alice!- e corse anche lei verso la governante.

Dopo essersi chinata e aver preso tra le mani quella della figlia cominciò a singhiozzare -Virginia, di’ a Patel di venire subito qui, digli di chiamare il dottor Scott immediatamente. Vai, Forza!- ordinò alla governante.

-Subito, signora- e velocemente si rialzò per correre in casa.

Lei rimase lì, sotto i tuoni e la pioggia scrosciante, a coccolare la figlia e a dire che sarebbe andato tutto bene. Anche io rimasi lì, tutta la notte. Vidi arrivare Patel, il maggiordomo, che aiutò a portare in casa Alice. Aspettai perfino l’arrivo del dottore. Sarei rimasto lì per l’eternità se sarebbe servito. Stavo ascoltando con ansia e bramosia il verdetto del medico.

-È la stessa malattia del padre- lo sentii dire.

La stessa malattia del padre. Mi sentii mancare l’aria. Il padre stava morendo a causa di quel male. Trasalii al pensiero che un destino simile potesse abbattersi sulla mia Alice.

La madre fece una domanda che mi sfuggì –Se devo essere onesto, signora Brandon, non so cosa dirle. Essendo Mary Alice più giovane e più forte, potrebbe essere che sopravviva. Ma non posso darle nessuna certezza- si bloccò e per un attimo mi immaginai il dottore prendere le mani della donna tra le sue -Abbiate fede- disse.

Se ne andò. Lo sentii scendere le scale, aprire e chiudersi la porta alle spalle.

Sentii la madre singhiozzare violentemente e la governante tentare di consolarla.

E fu in quel momento che desiderai morire.

 

//Howard Shore – Rosalie//

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


Eccomi qui!!!!

Dopo un periodo di latitanza inspiegata...rieccomi a rompere come sempre!!! Scusatemi, ma sono indietrissimo con i compiti e mi sto concentrando moltissimo su un sacco di cose (mi sono iscritta a due contest e non so dove trovare il tempo per scrivere). Oltrettutto mi sto dedicando alla lettura dell'Ospite della zia Steph<3: qualcuno di voi l'ha letto???? IO lo adoro!!! Mi chedo che cosa infili nei suoi romanzi la zia Steph visto che tutti quelli che scrive mi rapiscono....Boh!

Allora in questo capitolo si capiranno meglio i pensieri del povero Byron....Lo sto facendo soffrire moltissimo, lo so, mi piange il cuore anche a me per questo!!!

Allora vorrei specificare una cosa: magari molti di voi si chiederanno come mai Byron pensi che ogni cosa succeda a Alice sia colpa sua. In effetti, è una cosa stupida, Alice si è presa l'influenza (non la spagnola), non è stato lui in prima persona a metterla in pericolo. Ma il nostro povero protagonista pensa che ogni disgrazia succeda a Alice sia colpa della sua presenza, in particolare della sua natura.

Ah, altra cosa importante. Alice non sa niente di ciò che è Byron! Non sospetta nulla dell'esistenza dei vampiri, ma dopo questa malattia molte cose cambieranno....

Allora passiamo ai ringraziamenti!

Come al solito lodo con tutto il mio cuore quelli che commentano! Do un grosso bacio a Mafra (Oooh, che bello cara sei tornata!!!!!! *Me felicissima*) BHe, già sai quanto sono fiera di poter leggere le tue recensioni e i tuoi consigli! Hai l'imensa pazienza di leggere tutte le mie storie...Grazie davvero!!! (O.Mio.Dio.Non.Ci.Posso.Credere. sei tu la famosa _mafra_ del contest???????????????? Allora devo assolutamente scrivere qualcosa da presentarti!!!! NOn posso lasciarti a mani vuote! Cmq ho notato che partecipiamo insieme anche a un altro contest 'Family, My Love....'! Waaa, Che bello!!!!)

E non dimentichiamoci di Kloe!!! Grazie!!! che bello sapere che ti piaccia la mia storia!!! ^^

Ringrazio anche quelli che leggono e non si fanno vedere....Sappiate che sono un po' arrabbiata con voi perchè non commentate! *Tzè* Noooo, Scherzo!!!

Ah, colgo il momento per ringraziare tutti quelli che hanno letto la mia prima One-Shot Nightmare (Per chi vuole dare un'occhiata questo è il link http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=544386&i=1) Sono contenta che sia piaciuta!!!

Ora vi lascio leggere!!!

Grazie per la pazienza ;D

CAPITOLO 5

Ero ancora appollaiato sulla grande quercia. Udivo la madre continuare a piangere e la governante tentare di consolarla. Percepivo il respiro di Cynthia, che ascoltava dalla sua stanza ciò che stava accadendo, impietrito quanto il mio dalla rivelazione.

-Signora Meg, forza. Andiamo a letto. Vedrà che domani tutto andrà meglio. Guarirà, ne sono più che certa- disse la governante per tentare di schiodare la donna da quello stato. A quella frase seguirono dei passi e lo sbattersi di una porta.

Se ne erano andati tutti. Il silenzio regnava in quella casa. Solo i cuori che battevano mi suggerivano che c’era vita.

Silenzio. Buio.

E così era la mia vita. Silenziosa, buia.

Non un stella luccicava pallida in lontananza, nell’universo. Nemmeno la luna faceva capolino tra le fronde scure degli alberi o tra le nuvole spesse che la nascondevano.

La mia stella era malata e forse non ce l’avrebbe fatta.

Alice. La mia piccola Alice.  

Chiusi gli occhi e nascosi il viso tra le mani.

Era colpa mia se era ridotta in quello stato. Avrei dovuto accorgermene che quel giorno non stava bene. Avrei dovuto pensare prima a lei, questa volta, che non a me stesso. Ora, a causa della mia non-curanza, rischiavo di perderla. Per sempre.

Che senso aveva restare ancora lì? Non era questo il segnale che aspettavo per andarmene?

L’avevo messa abbastanza in pericolo per decidere di prendere una strada diversa per la mia eternità. Avrei potuto ritornare alla mia vita di sempre, almeno quella che seguivo prima di incontrare lei.

Ero fermamente convinto che fosse la scelta migliore eppure rimanevo a fissare quella casa. Perché non me ne andavo da quel luogo e la lasciavo in pace una volta per tutte?

“Facile, perché lei significa troppo per te.” Suggerì una parte di me. Ed, effettivamente, aveva ragione. Lei era troppo per me.

Un demonio, un seguace del diavolo non avrebbe dovuto desiderare in quel modo un angelo del genere. Non ne aveva il diritto. Era un’ossessione più che un amore irrealizzabile.

“Mostro. Byron, sei semplicemente un mostro.”

Già, ero un mostro; un mostro che non poteva fare a meno della parte più buona della sua vita. Un mostro che, nonostante sapesse di far del male alla sua unica ragione di vita ogni secondo che passava accanto a lei, non poteva fare a meno di sentire la sua presenza. Desiderava sentire i morbidi capelli di lei tra le sue dita; immaginava in ogni secondo di sentire la sua vocina dolce e squillante che parlava del più e del meno; bramava di vedere il suo sorriso sulle labbra, di sentire il suo odore intenso per rendersi conto che lei fosse reale, viva.

Se quella creatura perfetta fosse scomparsa, cos’era il mostro senza di lei? Cosa sarei stato io, senza di lei?

Cercai di concentrarmi su quei rari e leggeri rumori che mi circondavano. Per lo più, badavo a quelli che provenivano dalla casa, precisamente dalla stanza che si affacciava sulla parte più rigogliosa del giardino.

Era la più ampia, la più luminosa. Mi ero affacciato tante volte a quella finestra per poter vedere cosa la mia piccola stava combinando. Per lo più giocava, si divertiva, leggeva. Ora non volevo nemmeno pensare alle condizioni in cui versava la sua salute.

Aguzzai l’udito e sentii un leggero, quasi impercettibile, battito cardiaco. Era quello di Alice. Il suo piccolo cuore batteva stanco nella sua cassa toracica. Ogni pulsazione sembrava sempre più affaticata, decisa a smettere. Sentivo il suo respiro annaspare in cerca di ossigeno. Il suo petto si gonfiava e sgonfiava a fatica, come se fosse costretto a compiere quei gesti naturali. Mi sembrò di sentirla tossire.

Un impeto di rabbia mi scosse da capo a piedi. Lei doveva vivere; era ancora troppo presto per abbandonare tutto quello che era il suo mondo. Era troppo presto per abbandonare me. Non ero ancora pronto.

Le mie dita si contrassero di più intorno alla forma del mio viso. Mi sarei staccato la testa e bruciato da solo, se ciò fosse servito a far tornare tutto come prima. Ma anche se non fosse servito a niente lo avrei fatto. Almeno avrei evitato di scontrarmi con i sensi di colpa.

Avevo paura. Non ero solamente preoccupato, avevo paura per quello che riservava il futuro. Sarebbe stato brutto e indesiderato come lo immaginavo? Probabilmente sì.

Sospirai profondamente e cercai di scacciare via ogni possibile pensiero pessimista. Dovevo avere fede, per quanto possa essere difficile per un vampiro. Avere fede nel fatto che Alice guarisse e ritornasse a essere la ragazza spensierata di un tempo, che crescesse nella donna che avevo sempre desiderato che diventasse, che avesse un marito fedele che la facesse sentire unica, che avesse dei figli a cui badare.

E io, che ruolo avrei avuto nella sua vita? Nessuno.

Io non avrei potuto darle niente di ciò che desideravo. Le avrei dato dolore, delusione. Niente di stabile su cui fondare un rapporto, una vita. Solo incertezze.

L’avrei curata come avevo fatto un tempo: da lontano, cercando di rimanere estraneo alla sua vita, per quanto ci fossi riuscito.

No, non sarebbe bastato a renderla felice, realizzata. E neppure io sarei riuscito a occuparmi di lei senza che interferissi di nuovo nella sua esistenza.

Probabilmente avrei dovuto prendere una decisione definitiva. Una scelta da cui non sarei più potuto tornare indietro.

Vagliai con la mente tutte le possibili alternative. Tra le tante non sapevo quale seguire.

Alzai la testa e guardai verso quella finestra.

“È per il suo bene, Byron. Non essere egoista.” Mi urlò contro la parte più protettiva di me. Chiusi gli occhi, serrando le palpebre. Quando li riaprii, avevo preso la mia decisione.

Dovevo allontanarmi. Velocemente.

Basta. Alice non avrebbe più avuto a che fare con me. Non le avrei più fatto del male. Lei si meritava di vivere.

Certo, sarei tornato a vedere come versava il suo stato di salute. Ma niente di più.

Niente più pomeriggi passati a guardare le nuvole, niente più passeggiate nella boscaglia.

Balzai giù dall’albero e corsi via veloce verso la notte gelide del bosco.

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


Eccomi a voi, o popolo di lettori!!!!

Che bello essere di nuovo con la tastiera in mano *.* Effettivamente ora mi sento un po' imbranata: sembra che non mi ricordi più come si scrive X]

Bene, a tempo record dal mio arrivo a casa, ecco a voi il sesto capitolo! Non so com'è, ma mi sento particolarmente ispirata in questo momento, infatti sono già a metà del secondo capitolo. Cogliamo l'attimo di ispirazione finchè dura, vah!

Bhe, non c'è molto da dire, se non che Byron si troverà in una situazione piuttosto insolita da ora in poi....Lascio a voi ogni tipo di premonizione!

Ringrazio la grandissima Mafra (che per altro ha cambiato ancora nick xD) che continua a essere fedele alla mia storia. Grazie cara! Sono felice di avere il tuo sostegno! E non preoccuparti per il povero Byron: avrà i suoi momenti di gioia e i suoi momenti di dolore.... 

Ringrazio anche tutti quelli che leggono e leggeranno e che, soprattutto, recensiranno!! Please....

Ringrazio anche jadina94 che ha valutato più che pienamente la mia One-Shot su Esme e Carlisle 'Parents and Lovers' (questo è il link http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=558879&i=1 passate a dare un occhiata ^^).

Buona lettura ;]

 

CAPITOLO 6

Mentre correvo il più velocemente possibile via da quel posto, cercai di non pensare alla strada che avevo appena imboccato. La separazione sarebbe stata dolorosa, più per me che per lei.

Mi sentii inutile. Nella mia esistenza mi ero prefissato un solo obiettivo da seguire e avevo fallito. Come normale che fosse. Non ero mai riuscito a concludere niente di sensato. Qualunque cosa che venisse in contatto con me, cadeva distrutta. Ero peggio di un uragano.

I miei pensieri correvano insensati nella mia mente. Per lo più riguardavano il futuro e la salute di Alice. Avevo fatto bene a lasciarla sola adesso? In balia del futuro e della morte? Non ne ero convinto. Scossi convinto la testa per cercare di allontanare tutte quelle domande e i relativi sensi di colpa che cominciavano a combattere dentro di me.

In quei momenti c’era solo una cosa che mi avrebbe tirato su il morale: cacciare.

Almeno in quei pochi momenti la ragione veniva accantonata in un angolo remoto della mia mente e così avrei potuto evitare di pensare a ciò che avevo fatto. Avrei evitato di pensare e tutti i miei problemi sarebbero risultati bazzecole.

Aumentai la velocità con cui i miei piedi si alternavano sul terreno facendo spaziare la mente tra i colori, le ombre e gli odori che stanziavano tra le fitte chiome degli alberi.

Arrivai al limitare del boschetto, dove la fitta vegetazione si trasformava nelle antiche mattonelle che formavano la strada e il marciapiede. Mi strinsi nella giacca e cominciai a camminare a passo d’uomo verso quello che sarebbe stato il mio pasto. Camminavo per le strade buie e desolate di quel piccolo paesino, tenendo controllato ogni movimento delle poche persone che camminavano traballanti attraverso i vicoletti e di quelle che sentivo parlottare attraverso i muri delle case che si affacciavano sulla via.

Attraversai la strada e mi ritrovai nel vicoletto dove di solito gli ubriaconi si appartavano per trovare un po’ di tranquillità per riuscire a far passare la sbornia, dove, solitamente, mi nutrivo. Mi guardai intorno in cerca della sfortunata persona a cui avrei dovuto portare la morte. Vagai silenzioso come una folata di neve tra i corpi addormentati di quegli uomini. Mi domandai perché riponevano le loro prospettive di vita in una buona bottiglia di vino. Prima o poi questa sarebbe finita. E cosa avrebbero fatto, allora? Ne avrebbero comprata un’altra? E dopo di quella? 

Pensai che non dovesse esserci molta differenza tra me e loro: loro condividevano le gioie della vita, per quanto precarie potessero essere, in un buon vino, io le condividevo con l’instabilità umana. Per me gioire era come una scommessa ippica: una volta esci vincitore, l’altra ne esci perdente. Loro non vivevano, sopravvivevano. E io? Io ero in balia tra la vita e la morte. Avevo smesso di vivere davvero molti anni prima. Per loro, invece, una soluzione c’era: la vita riserva sempre uno sprazzo di felicità, perché non se la godevano? Perché non si rendevano conto che la vita riservava qualcosa di più che l’addormentarsi ubriaco su un marciapiede?

Intuii che loro non potevano capire: ti rendi conto di quanto la vita sia importante solo quando la perdi o rischi di rimanerne senza. Ma era davvero giusto lasciare che la vita ti scivolasse addosso così come l’alcool scivolava nella loro gola mentre altri desideravano vivere umanamente più di ogni altra cosa?

Strinsi i denti e afferrai per un braccio un uomo mezzo addormentato. Esitai guardando la figura di quello sconosciuto e pensando a quanto avrei voluto avere una vita, una vita vera da essere umano, come la sua. Questo si svegliò un poco; sbatté le palpebre, rintronato cercando di capire dove fosse.

-Scusa- gli sussurrai poco prima di avventarmi famelico su di lui. Non urlò nemmeno: sentii il suo corpo irrigidire quando le mie labbra gli sfiorarono la pelle raggrinzita dell’avambraccio e, poco dopo, il suo corpo cadde smorto tra le mie braccia. Lo riposi a terra coprendolo con dei cartoni.

Mi allontanai in cerca di qualcun altro con cui fare banchetto. Uscii da quel vicolo e mi diressi verso qualche altro obiettivo sconosciuto.

D’un tratto sentii delle voci sconosciute ma che parlavano di qualcosa a me molto vicino.

-Hai saputo cosa è successo alla famiglia Brandon, Sophie?- chiese una voce femminile bassa e affaticata.

-Sì, Rosaleen, l’ho saputo da Marylin questa mattina. Ha detto che era stata dal dottor Scott e che la sua infermiera le ha raccontato tutta la storia. Che situazione…- rispose una seconda voce sempre femminile solo più aggraziata e acuta.

Le voci provenivano dalla piccola sartoria sulla strada. Mi affacciai ai vetri impolverati e guardai dentro. Due donne, un’anziana l’altra decisamente più giovane, spettegolavano tra i vari tessuti e pizzi che traboccavano dagli scaffali.

-Davvero! Io lo continuavo a dire a Margaret che avrebbe dovuto mettere una buona parola sulla sua famiglia davanti a Dio. La pregavo di venire con me a ogni messa. Lei non mi ha ascoltato ed ora ecco con cosa si ritrova: due membri della sua famiglia che stanno per andarsene, una casa da curare, i debiti da pagare. Come minimo dovrà far sposare Cynthia al principe d’Inghilterra!- commentò acida la più anziana che stava seduta su uno sgabello, ricamando all’uncinetto.

-Pensa che l’infermiera mi ha raccontato che nemmeno il dottor Scott riesce a fare qualcosa perché qualsiasi cura costerebbe troppo per la famiglia e non vuole aggravare l’economia famigliare. Inoltre pensa se il povero Christopher dovesse morire: rimarrebbero senza denaro e sarebbero costrette a vivere in mezzo a una strada. Per non parlare poi di tutto il loro onore…- aggiunse la più giovane che stava tagliando un pezzo di stoffa rosa pastello.

-Io, i miei figli, li ho fatti crescere con una buona base religiosa. Sono sempre stati sani e hanno studiato in una scuola cattolica. Ed ora sono entrambi sposati con donne d’alto rango, hanno dei figli stupendi e un lavoro più che dignitoso. La giustizia divina non si è mai abbattuta sulla mia famiglia perché sono sempre rimasta fedele al Signore a differenza della loro sgangherata famiglia!- esclamò Rosaleen, l’anziana, con indignazione.

-Infondo, però, sono stati anche loro una famiglia felice in passato…- fece notare la più giovane che, nel frattempo, aveva cominciato a lavorare sopra uno dei numerosi manichini che la circondavano.

-Sì, finche a Christopher non è venuto in mente di diventare socio di una società. Allora, quando questa chiuse per bancarotta, lui si trovò senza un quattrino in tasca. Io lo dicevo, lo dicevo che un minatore non può diventare imprenditore da un giorno con l’altro!- spiegò, continuando ad armeggiare con il piccolo uncinetto argentato che teneva tra le dita raggrinzite.

Ero stupefatto. La famiglia di Alice aveva gravi difficoltà economiche? Non riuscii nemmeno ad immaginarlo. Prima di tutto quel disastro, Alice portava abiti ricamati molto eleganti che, di certo, non parevano scadenti.

-Sai che i Davinson se ne sono andati dalla città?- rivelò Rosaleen.  

-Sul serio?! E come mai?- chiese incuriosita dalla nuova storia Sophie, la più giovane.

-Già; prevedono che quest’anno l’influenza sarà più forte del previsto e allora si sono trasferiti in campagna da dei parenti. Prima hanno mandato i figli e poi li hanno raggiunti- raccontò.

-Ho sentito anche io che l’influenza sarà più forte. Anche gli Sherman se ne sono andati per lo stesso motivo. Io e John siamo preoccupati: abbiamo tre figli piccoli e non voglio far correre loro rischi inutili. Probabilmente ci trasferiremo anche noi…- confessò Sophie.

Rosaleen la guardò sbigottita. -Bhe, ormai io non ho nulla da perdere. E comunque, non ho paura! Sono nata qui e rimarrò qui finché il parroco non mi darà l’estrema unzione!- urlò, sventolando il complicato intreccio di fili a cui stava lavorando.  

Ci fu una lunga pausa in cui ciascuna donna si dedicò al lavoro assegnatole. Rosaleen tossicchiò. Sophie, con gli spilli in mano, completò l’orlo del vestito.  

-Cosa pensi che facciano ora, Rosaleen? I Brandon, intendo…- chiese con evidente preoccupazione la giovane che ora ricamava un vestitino violetto.

-Secondo me, è meglio che si trovino un buon parroco per il funerale. Nulla di più- sentenziò Rosaleen.

-Sono in pena per loro. Sono dei miei cari amici e non voglio perderli, nonostante tutte le cose indegne che hanno fatto- spiegò mormorando, abbassando lo sguardo.

-Sophie, non sono cose che ti riguardano, quelle. Pensa alla tua famiglia, ai tuoi figli, al viaggio che state per compiere tutti insieme. Quelle sono persone che non hanno bisogno della nostra compassione: ognuno guida la vita a modo proprio e loro lo hanno fatto male. Vieni, andiamo, si è fatto tardi. Ti aiuterò io stessa a preparare le valige così che possiate prendervi cura dei vostri figli come si deve. Vieni, andiamo- la rassicurò Rosaleen, prendendole le mani nelle sue. Detto questo Sophie spense la lampada a olio posata sul bancone di lavoro e si diresse insieme alla figura ingobbita di Rosaleen verso la porta sul retro.

Io rimasi davanti alla vetrina buia per qualche minuto tentando di rimettere in ordine i pensieri e le informazioni che le due donne mi avevano indirettamente rivelato.

Se la situazione per la famiglia di Alice era veramente così disastrosa anche le poche speranze che avevo accumulato sarebbero andate in fumo. Non avevano i soldi per pagare le cure…

I miei occhi cominciarono a pungere come se mille e più spilli tentassero di perforarli.

Mi lasciai scivolare contro la parete, inerme come lo ero stato quel pomeriggio.

Se…Se non fossero riusciti a pagare le cure…sarebbero morti. Entrambi. Padre e figlia. La morte per loro era un fatto più che chiaro, ora. Non una vaga possibilità resa più reale dalla preoccupazione. Era lì. La vedevo alitare sul loro collo, aspettando che la malattia prendesse il sopravvento così da riuscire a portarli via.

Non potevo permetterlo. Non importava cosa avevo promesso poche ore prima; non valeva più. Avrei fatto di tutto per riuscire a salvarli e questa volta non mi sarei tenuto dietro le quinte: sarei stato lì quando la febbre di Alice si sarebbe fatta più forte, sarei stato lì quando il padre avrebbe avuto bisogno di un'altra bacinella d’acqua fresca. Li avrei aiutati in prima persona.

Mi alzai in piedi, forte e deciso come non mai. Mi voltai e velocemente ripercorsi la strada a ritroso fino ad arrivare alle porte del bosco. Lì, mi misi a correre. Non c’era tempo da perdere.

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


Ooooochei, lettori!! Bentornati!!!

Eccovi l'ottavo capitolo!!! GiàGià, l'ispirazione non si ferma (per fortuna), anzi! Sono tanto ispirata che in due giorni mi sono venute in mente due idee per delle storie nuove *.* Eheheheh! Ma bisognerà avere pazienza perchè prima volglio finire una delle due storie che ho attive (probabilmente questa, visto che per quella di Tanya dovrò mettermi a studiare ben bene i libri >.<).

'Hey, indovina ci viene a cena?' è la frase che potrebbe calzare per questo capitolo, ovviamente "cena" inteso in senso lato xD Sempre a pensare maleeee!!!

I ringraziamenti sono sempre gli stessi xD Vorrei solo dire una cosa a Mafra: mi dispiace tanto di essermi impicciata dei tuoi fatti personali. Ne avevamo già parlato nel blog ma voglio cogliere l'occasione per scusarmi ancora e per ringraziarti della seconda possibilità del contest ;)

Bene, ora vi faccio leggere!!!

Buona lettura ;)

 

CAPITOLO 7

Mi ritrovai sotto la veranda di casa Brandon in nemmeno due minuti. Nessuna luce accesa brillava nell’oscurità di quel salotto che avevo intravisto così tante volte attraverso gli spessi vetri delle finestre, ma che ora avrei visto in prima persona.

Dopo aver deciso che mi sarei presentato di persona per dare una mano avevo passato molto tempo a sistemare il mio aspetto trascurato da decenni: innanzi tutto avevo rubato un nuovo abito perché il mio era troppo sciupato, dopo di che passai molto tempo a ripulirmi e a cercare di essere presentabile. Controllai i miei occhi più e più volte negli specchi d’acqua che incontravo durante il cammino, ma il colore risultava sempre accettabile: erano di un viola talmente scuro che pareva nero. Sistemai un ultima volta i folti capelli color terra bruciata.

Presi un respiro profondo e bussai tre volte sulla superficie leggera della bianca porta d’ingresso. Aspettai qualche secondo, nel quale i miei ripensamenti galleggiarono sulla mia coscienza come pezzi di sughero, prima di udire dei tonfi frettolosi venire ad aprire la porta.

-Buongiorno- salutò Virginia, la governante che avevo visto tante volte giocare con Alice e Cynthia. Vestiva un lungo vestito color lavanda sovrastato da un grembiule stropicciato. I capelli erano raccolti precariamente in un fermaglio nero e sul viso si potevano leggere i segni della stanchezza.

-Buongiorno. È questa casa Brandon?- chiesi gentilmente, togliendomi il capello, trovato per l’occasione.

-Sì, è questa. Siete l’assistente del dottor Scott?- domandò, una vaga traccia di speranza sul volto.

-No, mi spiace. In realtà, mi chiamo Byron Chapman. Sono il nipote più grande della signora Chapman. Fa la sarta in città- spiegai, mettendo in pratica la bugia che avevo ripetuto più e più volte durante i miei preparativi. Ringraziai il cielo per aver letto il cognome di Sophie sulle vetrate impolverate della sartoria.

-Ah. Molto piacere, io sono Virginia Webb, ma chiamatemi solo Virginia. Non sapevo che la cara Sophie avesse un nipote, non ne ha mai parlato…- esclamò, lasciando la frase in sospeso. Lessi, nei tratti materni del suo viso, la confusione del mio arrivo inaspettato.

-Già, lei e mia madre non erano in buoni rapporti. Ma, come si suol dire, quando c’è bisogno di un aiuto, i parenti sono sempre pronti- spiegai, cercando di mascherare l’imbarazzo e l’indecisione che il raccontare bugie comportava. Virginia mi squadrò per qualche minuto ancora, cercando di trovare delle somiglianze che non c’erano. Scosse la testa, tornando alla realtà.

-Che maleducata che sono! Non è carino lasciare un ospite fuori di casa! Prego, entrate!- esordì. Io entrai titubante nella casa in cui avevo sempre desiderato vivere, ma che non avrei mai potuto abitare. Era strano trovarsi lì, ora. Mi persi a osservare il mobilio semplice ma elegante che arredava il salotto: le poltrone rivestite di morbida pelle beige invitavano anche il più restio degli ospiti a sedersi, la legna secca scoppiettava indisturbata nel caminetto, le ceste piene di giornali e pizzi ricamati avevano un’aria accogliente e familiare. La scalinata di innocente legno bianco si inerpicava tranquilla dal corridoio fino alle stanze superiori. Nulla avrebbe preannunciato che in quella casa si stava combattendo una battaglia con la morte.

-Venite, signor Chapman. Seguitemi nella cucina- intimò gentilmente la governante. Mi guidò attraverso il lungo corridoio che portava ai piedi della scala, ma, poco prima di raggiungere il primo gradino, Virginia sviò verso una piccola porticina sul lato destro del corridoio.

Lo stanzone in cui ci ritrovammo mi stupì particolarmente: era immenso, quasi era difficile credere che fosse celato da una porta così minuscola. Nell’angolo più nascosto, un possente cammino dominava l’intera stanza. Un lungo tavolo di noce, simile a quelli che si trovano nelle locande, riempiva la stanza in tutta la sua lunghezza. Hai lati, c’erano innumerevoli pentole di rame, mestoloni e dispense contenenti ingredienti di vario genere.

-Sedetevi, vi prego- mi invitò Virginia.

-Grazie- dissi, sorridendole con gratitudine. Scostai la sedia e mi misi a sedere nell’angolo più vicino al camino.

Virginia, nonostante continuassi a declinare, insistette nel prepararmi un buon tè. Restammo nel silenzio più assoluto mentre lei metteva a bollire l’acqua nella stufa a legna e sceglieva tra i tanti infusi a sua disposizione. Quando tutto fu pronto, versò il liquido color ambra in due tazze di porcellana dipinta e si mise a sedere accanto a me. Sorseggiò per qualche minuto la sua bevanda mentre io mi perdevo negli sbuffi di fumo che si disperdevano nell’aria.

-Signor Chapman…- cominciò dopo qualche minuto.

-Chiamatemi pure Byron…- la interruppi. Lo fece più per guadagnare tempo che per scortesia.

-Byron, non vorrei sembrare scortese, ma…vorrei sapere cosa l’ha spinta a venire a farci visita- chiese, fissandosi le mani, imbarazzata. Tentai di concentrarmi e di raccontare la storia come l’avevo imparata.

-Bhe, mia zia e mio zio hanno deciso di trasferirsi dai miei genitori, che hanno una residenza in campagna, per qualche tempo. Sapete, con tre figli così piccoli anche un raffreddore potrebbe essere pericoloso; l’hanno fatto per precauzione, più che altro…- spiegai.

-Ancora non capisco…- disse, guardandomi confusa.

-Diciamo che io sono qui solo di vedetta. Visto che sono il più maturo della famiglia, zia Sophie mi ha pregato di venire qui a controllare che tutto procedesse per il verso giusto. Mi ha anche parlato di voi, molto: mi ha raccontato che era molto amica della signora Brandon. Mi ha scongiurato di venire a farvi visita ogni volta possibile per sapere come procede la loro malattia, ovviamente se ciò non arreca disturbo…- raccontai.

-No, Byron, assolutamente! Voi non arrecate nessun disturbo!- mi tranquillizzò.

-Mi ha chiesto di aiutarvi in ogni modo possibile, se ce ne fosse bisogno. Con denaro, medicinali, anche con solo la mia presenza, se potesse tornare utile- continuai.

-Oh, vostra zia è veramente una persona d’oro. Non pensavo che si preoccupasse così tanto delle nostre sorti. Ringraziatela tanto, non appena avrete occasione di sentirla- esclamò. Uno spesso velo di gratitudine le ricopriva la voce.

-Sono scortese se vi chiedo come stanno il signor Brandon e sua figlia?- chiesi, ormai scalpitante di curiosità.

Vidi i tratti del suo viso irrigidirsi per poi intristirsi. Abbassò lo sguardo e cominciò a passare le dita sul bordo della tazza. Quando rialzò lo sguardo un velo di lacrime separava le sue iridi color muschio dalle mie scure e pericolose. Capii al volo: la situazione non era migliorata, peggiorata, se mai.

-Non ci sono stati molti miglioramenti- riuscì a biascicare, –Il signor Brandon è stazionario, ma Alice…- scosse la testa, -Il dottore ci ha detto di continuare ad avere fede: se Dio è clemente, farà un miracolo…- aggiunse, abbassando lo sguardo e congiungendo le mani in grembo.

-Mi dispiace molto- dissi, cercando di rimanere estraneo alla situazione. Ma come potevo? La mia piccola stella stava morendo nella stessa casa! Come potevo anche minimamente convincermi a recitare una parte che non era mia?

Una parte di me avrebbe voluto volare su per quelle scale, aprire la porta della sua stanza e stringerla al petto. Avrei sofferto con lei la malattia, l’avrei aiutata a combattere.

-La signora Brandon ha deciso di mandare la sua primogenita Cynthia a casa di sua sorella che vive a St. Louis così almeno starà lontana dalla malattia. È partita stamattina all’alba. Margaret invece ha deciso di rimanere qui a prendersi cura del marito e della figlia; non so quanto questo possa durare: Meg è molto debole, sia mentalmente che fisicamente- continuò.

-Virginia, sappiate che è per questo che sono venuto qui, per dare una mano, per rendermi utile. Farò qualsiasi cosa perché il signor Brandon e Alice sopravvivano. Lo prometto- mormorai, posandole una mano sulla spalla.

-Avete un cuore d’oro, Byron, sul serio. Prendersi cura di sconosciuti solo per amor loro e della zia. Siete gentile- mormorò, posando a sua volta la mano sulla mia. Rabbrividì al contatto con la mia pelle di ghiaccio e, d’istinto, allontanai la mia mano da lei.

Si schiarì la voce e cercò di sistemarsi meglio i capelli.

-Farò di tutto per dare una mano- promisi ancora.

Virginia annuì e si alzò per riporre le tazze da tè nel lavabo. Le sciacquò più volte e le ripose ad asciugare sopra uno straccio sull’immenso tavolo. Improvvisamente sentii dei tonfi stanchi provenire dalle scale. Poco dopo, la porta della cucina si aprì con uno scatto e apparve la figura sfinita della signora Brandon, Margaret.

-Virginia, abbiamo bisogno di altra acqua fresca. Questa si è già riscaldata troppo- farfugliò.

Appena scorse la mia presenza si immobilizzò come se avesse visto un fantasma. Non c’era paura che attraversava il suo volto, solo titubanza.

-Buongiorno, signora Brandon- salutai, facendo un vago cenno del capo.

-Buongiorno- ricambiò lei, cercando di essere gentile, ma evidentemente perplessa. Schioccò uno sguardo di rimprovero a Virginia che prontamente spiegò la situazione.

-Lui è il nipote di Sophie Chapman, la sarta che ha la bottega giù in paese- puntualizzò.

-Sì. Mi chiamo Byron. Mia zia mi ha chiesto di starvi vicino in questo momento così delicato. Spero di non creare alcun disturbo…- aggiunsi, mentendo ancora una volta.

-Bhe, mi fa piacere che a Sophie stia a cuore la nostra situazione- commentò, svuotando la bacinella. –Comunque, è un vero onore; due mani in più fanno sempre comodo- aggiunse apatica, come se le venisse chiesto il parere di una trasmissione radiofonica di cui non conoscesse nemmeno l’esistenza.

-Perfetto- annuì Virginia, asciugandosi le mani sul cotone consunto del grembiule –Preparerò una stanza da letto, allora- propose. Cominciò ad avviarsi, sempre con quel suo passo frettoloso e maldestro, verso la porta della cucina.

-No!- urlai. Non potevo vivere notte e giorno in casa con loro, era escluso: come avrei giustificato le mie ripetute assenze? E il mio infaticabile, insonne fisico? Inoltre, sarebbe stato rischioso: la mia sete instabile avrebbe potuto trasformarmi da un momento all’altro da paladino della giustizia ad assassino bramoso di sangue, nel vero senso della parola.

Le due donne mi fissarono stupite della mia reazione: la signora Brandon fece traboccare un po’ d’acqua dal contenitore che teneva tra le mani, Virginia mi fissava con sguardo vivido.

-Bhe, immagino che il signor Byron abbia già trovato una sistemazione. E poi si dovrà occupare degli affari di famiglia. Non è vero, signor Byron?- puntualizzò la signora Brandon; sembrava volesse scusare quella mia reazione esagerata come fa una madre col proprio figlio.

-Sì, infatti- assentii, cercando di far sparire il nervosismo dal mio volto.

-Oh, d’accordo- accettò Virginia.

-Però prometto di essere da voi ogni volta mi sarà possibile- rassicurai con un sorriso sforzato.

-Scusate, ma ora devo proprio lasciarvi, signor Byron. È stato un vero piacere fare la sua conoscenza e la ringrazio immensamente per la sua disponibilità- si congedò con un movimento stanco del capo.

-Arrivederci, signora Brandon. A presto- salutai.

-Ah, Virginia- si ricordò improvvisamente sulla soglia della stanza –Prova a preparare un po’ di minestra calda per pranzo. Voglio vedere se riesco a far mangiare loro qualcosa, per lo meno a Christopher- ordinò.

-Certamente- rispose gentilmente la governante.

Dopo che la signora Margaret lasciò la stanza, rimanemmo per qualche secondo in silenzio: Virginia occupata a spentolare con i suoi mille e più ingredienti, io giocherellavo con il bordo della tazza ancora piena che avevo sott’occhio.

-Adesso devo proprio andare- annunciai, alzandomi lentamente dalla sedia.

Virginia mi lanciò uno sguardo da dietro le spalle e si voltò verso di me –D’accordo, vi accompagno alla porta-.

Camminammo fianco a fianco fino alla porta d’ingresso, ripercorrendo a ritroso il percorso dell’andata.

-Byron, mi scuso per come si è comportata la signora Margaret oggi. È molto in pena per i suoi cari e non riesce a concentrarsi su altro…- abbassò lo sguardo, fissando le sue mani screpolate.

-Non vi preoccupate, Virginia. Capisco che è un momento difficile per tutti voi- sussurrai.

Uscii dall’uscio e cominciai a scendere i tre gradini della veranda. Dietro di me, sentii la porta bianca cigolare sule giunture. Poi sbatté e il rumore dei passi picchiettò sul pavimento. A passo d’uomo mi diressi verso il possente cancello di ferro battuto che divideva la strada sterrata dalla casa. Affidai i miei pensieri a Dio e pregai con tutto me stesso che la situazione si concludesse nel migliore dei modi.

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


Heylà!!! Bentornati o benvenuti, dipende dal punto di vista ;)

Allora, scusate:

1) per l'estremo ritardo con cun cui aggiorno. Sapete, la scuola è una tortura anche in questo senso, impedendoti di fare quello che più ti piace

2) per l'orario, della serie "non potevi aggiornare più tardi" xD

Va bhe....Cmq, ecco a voi il capitolo numero *rullo di tamburi* Otto! Wow che traguardo *w*

In questo capitolo si vedranno le sofferenze della piccola, povera Alice...Mi viene da piangere anche a me rileggendolo *sigh*

Ora Risposte alle Recensioni!

Come al solito, ringrazio immensamente la cara Mafra per tutto ^^. Che bello! Sono felice che tu creda che il capitolo sia il più bello di tutti *.* Per come ce l'ho in mente il capitolo che più aspetto di scrivere (penso che sarà quello più smielato di tutta la storia =P) deve ancora arrivare...E cmq sono curiosa anche io di come la mia ispiazione si snoderà da adesso in poi....Spero solo che alla fine il risultato si apprezzato da voi e da te, mia cara e fedele lettrice!

Oltrettutto, vedi, anche io mi sono ritrovata a cambiare nick ;D

E come scordarsi della mia patata Ele!!! Carissima, non sai quanto sono felice che la FF ti piaccia! E già, è brutto che già si sappia il finale di questa storia comunque pazienza! Io mi sto divertendo un sacco a scriverla, anche se non ho molto tempo a disposizione adesso! Ovviamente i tuoi consigli e pareri sono più che graditissimi come quelli di tutti =)

Ok ragazzi ora vi lascio al capitolino sperando che vi piaccia!

Buona lettura ;)

Ps: a fine capitolo vi voglio porre una piccola domanda su una mia nuova storia ^^

CAPITOLO 8

Quando vidi che le prime luci dell’alba cominciarono a colorare il folto sottobosco, decisi di uscire dalla mia tana. Non appena mi ritrovai sul terreno umido e denso, notai che tutto ciò che mi circondava aveva assunto una sfumatura celestiale. Aveva nevicato quella notte, la prima nevicata dell’anno.

Alzai la testa al cielo e vidi i leggeri fiocchi di neve svolazzare trasportati dal vento. Ricordai che quando era più piccola io e Alice rimanevamo tutta la mattina in giardino a costruire pupazzi di neve, tirarci palle di neve e disegnare angeli sul prato imbiancato. Sussultai pensando che probabilmente non sarebbe più riuscita a vedere quella bellezza.

Scacciai l’ansia che mi legava lo stomaco e mi diressi in tutta fretta verso la grande casa bianca. Arrivato al possente cancello in ferro battuto, notai che le porte erano accostate. Entrai, preoccupato di chi potessi incontrare. Cosa era successo in mia assenza? Quella notte di leggeri batuffoli di neve aveva portato disgrazie annunciate oppure novità inaspettate?

Affrettai il passo spinto specialmente dalla curiosità. E se fosse successo qualcosa di irreparabile? Cosa avrei detto? Come mi sarei comportato?

Bussai nervosamente alla porta più e più volte. Dopo un’estenuante attesa, Virginia venne ad aprirmi la porta. Osservai i suoi comportamenti stanchi e affaticati; i suoi abiti erano ancora più usurati e sciupati e i capelli erano una massa indefinita di materia.

-Oh, Signor Byron! Buongiorno- farfugliò.

-Buongiorno Virginia. Come va?- domandai, cercando di non essere irruento. Sapevo che non tutto andava bene, lo percepivo. Cercai di apparire rilassato ma con una certa preoccupazione che mi dipingeva gli occhi.

-No, non va per niente bene- bisbigliò, abbassando lo sguardo e andandosi a sedere sul grande divano del salotto. La seguii aspettando una qualche spiegazione più esauriente.

-Christopher si sta riprendendo. Lentamente ma si sta riprendendo. La febbre continua a debilitarlo ma riesce a mangiare, a rispondere alle domande che gli poniamo. Insomma, reagisce…- lasciò la frase in sospeso. Guardò le abbagliati fiamme che provenivano dal caminetto e tirò su col naso. Incrociò il mio sguardo vivido.

-Alice…- scosse la testa. –Non si riprende. È sempre incosciente, urla nel sonno e farfuglia cose senza senso. Non sappiamo più cosa fare- sospirò, guardando le pieghe della gonna.

-E il medico, cosa dice?- chiesi, ormai sbigottito.

-Dovrebbe venire ancora durante la mattinata, ma lui non può fare niente. Nessuno può fare niente- mormorò.

Nessuno può fare niente. Queste erano le parole che mi rimbombavano nel cervello.

“Nessuno può fare più nulla. Nemmeno tu, Byron. Hai fallito, hai perso. È finita”. Mi sentii accusato. Gli occhi cominciarono a pizzicare e la mia vista si annebbiò.

Mi alzai in piedi, forse troppo velocemente per apparire umano, ma non mi interessai a quello. Dovevo fare qualcosa, mi ero ripromesso che non l’avrei lasciata andare per nessun motivo al mondo. Non avrei mai potuto darla vinta alla morte che bramava per portarla nelle tenebre. Mai.

Avrei combattuto al suo fianco per riportarla in vita. E se lei fosse stata troppo stanca per combattere, per struggersi per trovare una luce nel buio, avrei lottato io per lei. Avrei acceso io la luce che l’avrebbe riportata in vita.

-Virginia, vi ho promesso che avrei fatto qualsiasi cosa per aiutarvi ed è quello che intendo fare. Non lascerò che qualche vostro caro si spenga in questo modo- urlai, in preda alla rabbia che l’impotenza mi trasmetteva. Virginia mi guadava con sguardo sconvolto: probabilmente non si aspettava una simile reazione da me.

-Ditemi, che posso fare? Ora, in questo momento voglio rendermi utile- implorai, inginocchiandomi davanti a lei.

-Bhe, non saprei…- mormorò, giocherellando con l’orlo del grembiule. La guardai ancor più intensamente.

Sospirò. –D’accordo- mormorò. –Margaret è andata a riposarsi e io sono parecchio stanca; Christopher sta riposando tranquillo, ma c’è bisogno di qualcuno che si occupi di Alice. Di sopra c’è la bacinella con l’acqua fresca. Se c’è qualcosa mi chiami, immediatamente-

-Grazie- mormorai e mi diressi verso le scale mentre Virginia si distese sul divano.

Raggiunsi i piedi delle scale e cominciai a percorrerle una per una, lasciando travolgermi dal flusso infinito di pensieri che mi gridavano di affrettarmi.

Come attratto da una forza invisibile, mi avvicinai all’ultima porta del corridoio. Presi un respiro profondo prima di abbassare la maniglia.

Quando aprii la porta lo spettacolo che mi si presentò davanti era spaventoso: le serrande di metallo erano abbassante e nemmeno un raggio della luce cristallina che colpiva la neve e rimbalzava tornando al cielo riusciva a penetrare l’oscurità. L’unica fonte di luce era una piccola lampada elettrica posata sul comodino accanto al letto.

Ai piedi di una piccola sedia in vimini si trovava la bacinella di metallo colma di acqua ghiacciata.

Notai che tutti gli intrattenimenti, i disegni e le bambole che la mia piccola tanto amava erano sparite. Al loro posto, si trovava solo l’oblio del nulla.

Lasciai che il mio sguardo si posasse sul letto sfatto che dominava la stanza. E la vidi.

Il mio piccolo angelo era riverso nel letto, sdraiata sulla schiena con una pezza umida sulla fronte. Boccheggiava in cerca d’ossigeno. Il suo petto si muoveva in maniera irregolare, insana. Il suo cuore era un mormorio talmente basso che lo sentivo perdersi nell’immensità della stanza.

Mi sedetti sulla sponda del letto e le tolsi dalla fronte il fazzoletto ormai accaldato. Le accarezzai la fronte con la mi amano di ghiaccio: era bollente. Presi il suo viso smorto tra le mani e lei sospirò di sollievo.

-Alice- sussurrai sull’orlo di quel precipizio chiamato dolore. Passai nervosamente le mie dita sul suo viso percorrendo le profonde occhiaie che le scavavano il viso, le sue guance cineree e il delicato naso che spuntava come la punta di un iceberg.

Provò a farfugliare qualcosa di incomprensibile, ma la gola riarsa le impedì di parlare. Provai a darle da bere un po’ dell’acqua che il bicchiere sul comodino conteneva. Trangugiò avidamente.

-Ho freddo- bisbigliò, aggrappandosi con le mani alla coperta e battendo forte i denti.

-Passerà, Alice, te lo prometto. Non sentirai più freddo- rassicurai. La febbre avrebbe smesso prima o poi di salire, no? Esisteva un limite dopo il quale la temperatura corporea avrebbe cominciato a scendere, vero?

Mi aggrappai alle speranze più assurde mentre passavo le mie mani morte sul suo viso ammalato. Le sfiorai la giugulare e sentii il sangue pompare indeciso, stanco, pronto a smettere da un momento all’altro. Strinsi forte i pugni cercando di concentrarmi su altro.

-Non vedo niente- gridò, portandosi le mani alla fronte e stringendosi le tempie fino a far diventare le nocche bianche. –Non vedo più niente!-

-Sssh- bisbigliai, togliendole le mani dalle tempie e posandole sotto le coperte. Non riuscivo a vederla in quello stato, non potevo. Mi domandai come avessi mai potuto pensare di abbandonarla in una situazione del genere. Provai disgusto per me stesso.

La strinsi tra le mie braccia, cercando di calmare il suo corpo irrigidito. La sua testa calda si posò sul mio petto e mi sentii come se il mio cuore avesse ricominciato a battere e il calore che emanava avesse cominciato disperdersi nelle mie viscere.

Dopo qualche singhiozzo di dolore, sentii il suo corpo ricadermi addormentato tra le braccia. Riposai la sua testa sul cuscino e la coprii con la coperta imbottita. Mi sdraiai al suo fianco e la avvolsi nella mia stretta innevata per tenerla al fresco. Il suo respiro accaldato cominciò a rimbalzare sul mio petto.

Alice. Mia piccola Alice.

Perché mi dovevi far vivere in quella sofferenza? Perché dovevo vederti in quello stato senza poter fare niente?

Non mi ero mai sentito più impotente. Stavo combattendo una battaglia ad armi impari: io e la morte in uno scontro faccia a faccia. In palio c’era la vita di Alice.

Sarei riuscito a vincere? Sarei riuscito a strappare via dalle mani avide della morte la vita di Alice? L’unica vita di cui mi interessava davvero?

Un urlo agghiacciate distolse la mia mente dai pensieri e mi riportò alla realtà.

Era Alice. Si era rannicchiata in posizione fetale e si premeva le mani sugli occhi talmente forte che pensai le avessero infilato due pungiglioni tra le palpebre.

La strinsi ancora di più a me e sentii gli occhi pungere come se mille api avessero costruito il proprio alveare all’interno delle mie iridi scure.

**********

Wow, ragazzi! se siete arrivati fino a qui i faccio i miei complimenti *Clap-clap*

Ok, questa è la mia domanda....Mi è venuta in mente una nuova storia e ho bisogno di sapere se può essere messa in pratica o se è solo una mia classica pazzia. Bene, questa sarebbe la presentazione....

Edward Masen aveva una sorella gemella. Marie Madeleine Masen. Questa, miracolosamente, si salvò dalla spagnola trasferendosi dagli zii in campagna. Ma cosa succederebbe se questa, una volta tornata in città, scoprisse che suo fratello è ancora vivo, in qualche modo?

Giù le armi ragazzi!!! Lo so, ripeto, lo so che ho più di un milione di storie attive però vorrei sapere se in un futuro prossimo prossimo potrà essere messa in pratica anche questa mia idea. Allora, che ne pensate? Aspetto le vostre recensioni sull'aromento ;) 

Ah, sono aperti anche i consigli titolo x questa FF...Al momento la mia fantasia è pari a zero! 

Sbizzarritevi e grazie per aver letto tutto quanto ^^

 

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


Buon pomeriggio a tutti !!

Eccomi qui, questa volta stranamente puntuale, sfortunati voi xD

Ebbene forse ho trovato il modo per aggiornare tutte le settimane, ma forse, eh! Tutto dipende ovviamente dalla scuola, dai compiti e dalla mia prof di biologia se si decidesse a trovare un solo modo per interrogare e non venticinque diversi >.<  [Approposito grazie a Ele per il mega consiglio su come scrivere quando si ha anche altro da fare ;) Grazie patata!]

Bene, detto questo, passiamo alle risposte alle recensioni:

Mafra: Wow *w* Sono felice che la mia nuova pazzia ti piaccia! Ci vorrà un po' però, prima voglio almeno finire questa, visto che mi stanno venendo in mente un sacco di nuove sfaccettature ;) Già, è triste vederli così poverini! Ma non preoccuparti, anche loro avranno i loro momenti di gioie (e...Un sacco di altre cosine che si scopriranno pian piano ;])

Tempest_The_Avatar: Innanzitutto, Benvenuta!!! Sono felice che ti piaccia la mia storia!!! E sì, effettivamente st creando un Byron molto dolce, spero di non farlo diventare noioso. Ovviamente, i consigli e le critiche sono ben accetti!!

Ora vi lascio alla lettura, però non prima di ringraziare Ele che ne combina una più del diavolo ma a cui voglio un sacco di bene ^^

Buona lettura e recensite ;)

CAPITOLO 9

Rimasi abbracciato a Alice per un tempo infinito. Minuti, ore, secoli, millenni. Sembrava che il tempo si fosse fermato mentre proteggevo con le mie braccia la sua fragile e instabile vitalità.

Non fu facile vederla soffrire in quel modo. Ogni volta che urlava e si premeva forte le tempie sentivo gli occhi pizzicare di dolore. La stringevo ancora più forte a me, perdendomi nello spazio circostante.

Il suo respiro, sempre più affannoso e forzato, mi entrava nei muscoli, facendoli contrarre. La sua fronte era diventata un blocco di metallo incandescente. Avevo provato in qualsiasi modo a raffreddarla, ma nulla aveva funzionato.

Mi sentivo completamente inutile: potevo darle sollievo, ma non guarirla completamente. Potevo aiutarla a sopportare la sofferenza, ma non sarei mai riuscito ad estirparla completamente dal suo organismo.

Avrei dovuto guardarla andare via in braccio alla morte, senza potermi opporre in nessun modo? La strinsi ancor più forte al mio petto di marmo.

Guardai il suo viso, indebolito dalla malattia, il viso di quella giovane donna che mi aveva rapito in ogni suo gesto. Nonostante stesse morendo, la trovai comunque bella: la pelle morbida e vellutata delle guance, le labbra lineari e non appariscenti, i lunghi capelli corvini arrivavano alle spalle e rendevano i suoi movimenti sinuosi e femminili.

Mi ricordai di quel pomeriggio d’estate in cui avevo passato il tempo ad intrecciare i fiori nella sua chioma luminosa. Uno ad uno, avevo incorniciato i fiori di campo nelle sue folte ciocche color pece. Quando si alzò dall’erba e i capelli si mossero insieme alle folate di vento che soffiavano dolci, mi apparse come madre natura. Racchiusa in quel suo vestitino color perla e con i fiori che le adornavano i capelli, mi apparse come la figura più celestiale che io avessi mai visto. Un angelo venuto a salvarmi dall’oscurità in cui la mia anima era caduta.

Sospirai, preda dell’angoscia.

No, pensai, non possono rimanere solo i ricordi. Quei momenti devono ancora far parte del suo presente, non possono rimanere solo racconti sbiaditi del passato.

-Alice, non lasciarmi solo, ti prego. Non mi abbandonare- sussurrai con la voce rotta dal senso di pianto che diventava sempre più forte e presente.

In risposta sussultò e le mani raggiunsero la gola. Queste la attorcigliarono come un boa affamato e premettero le dita sottili e stanche con forza sullo strato sottile di pelle. Alice tossicchiò qualcosa e il suo respiro divenne più affannoso di prima; provò a biascicare qualcosa, ma non uscì nulla, come se avesse la gola troppo riarsa anche solo per chiedere un po’ d’acqua.

Quante volte mi ero visto fare quel gesto quando avevo sete? Infinite. Avrebbe dovuto apparirmi famigliare, normale e non nuovo e shoccante. Eppure perché lo era? Perché mi ritrassi di scatto davanti a qualcosa che riempiva costantemente le mie giornate?

Provai a sciogliere quel gesto nervoso e possessivo. Non riuscii a sbrogliare la presa, ma mi parve di sentire un ringhio sommesso. Mi ritrassi ancora, troppo scosso per assistere a una scena del genere.

Che cosa significava ciò? Sicuramente mi ero sognato tutto. Insomma, non era minimamente possibile che quei gesti fossero associati a ciò che ero io: avevo sempre cercato di non farmi vedere assetato da Alice. No, non erano gesti associati, era solo la mia immaginazione che volava.

Sentii dei passi provenire dal piano sottostante. Delle voci rimbalzarono veloci lungo le scale. Alcuni battiti pulsavano affaticati.

Riconobbi la voce amorevole di Virginia, il tonfo stanco dei passi della signora Margaret. Mi alzai velocemente e mi misi a sedere sulla sedia di vimini con in braccio la bacinella dell’acqua.

La porta si aprì con uno scatto poco gentile. Mi voltai e vidi la figura del dottor Scott.

Quest’ultimo era un ometto alto poco più di Alice, ma dall’aria austera, seria, inflessibile.

-Bene, bene, bene- esclamò. –Vediamo come va oggi…-

Posò la costosa borsa di pelle ai piedi del letto e sì avvicinò con aria irrompente alla fragile Alice che, riversa nel letto e abbandonata la posizione di poco prima, boccheggiava in cerca di aria per i suoi polmoni.

La visitò frettolosamente, sfiorandole distrattamente con la mano la fronte febbricitante e ascoltando fuggevolmente il battito stremato del suo cuore. In tutto ci mise, sì e no, cinque minuti.

-Non vedo miglioramenti- sentenziò, la voce ridotta a uno sbuffo insofferente.

Virginia si avvicinò al fianco di Margaret, che era scoppiata in lacrime. Le diede qualche pacca sulla spalla. Io rimasi seduto sulla sedia con ancora la bacinella in grembo. Fissavo il letto e cercavo di realizzare ciò che il medico aveva detto: “Non vedo miglioramenti”.

Non c’erano miglioramenti, Alice stava ancora male o forse stava peggiorando. Ma una cosa rimaneva certa: stava morendo, l’avrei persa.

-Ma non si può fare niente?- mi ritrovai a domandare, sorprendendomi di quanto fosse disperato quel mormorio d’aiuto.

Il dottor Scott, ripresa in mano la sua borsa di pelle, mi schioccò uno sguardo di ghiaccio. Immagino che se non fossi stato un vampiro, quello sguardo avrebbe dovuto mettermi a tacere.

-Allora?- aggiunsi, questa volta più convinto e acido.

-No- rispose con voce piatta. –Non si può più fare niente-

Chiuse la cerniera della borsa con un gesto secco e se la mise in spalla, pronto per sgusciare fuori dalla porta.

-È impossibile- esortai. –Una cura deve esserci per forza. Lei è un dottore, dovrebbe fare di tutto per aiutarci e non lasciarci alla nostra sorte-.

Mi alzai dalla sedia e mi disposi davanti al prepotente e al meschino che era. La sua pancia scoppiava, stretta com’era nel panciotto. Mi squadrò con sguardo accusatore.

-Chi è lei per dire ciò?- puntualizzò inacidito il medico.

-Sono un amico di famiglia e ci tengo al fatto che tutti i miei amici ricevano le cure necessarie per guarire- osservai la borsa, notando che, a parte lo stetoscopio, non aveva utilizzato nessun altro attrezzo medico.

Si accorse della mia accusa silenziosa. -Mi sta accusando di non essere un bravo medico? Lo sa chi sono, io? Io sono il medico più ricercato della contea. Tutti desiderano avere la mia consulenza, e lei sta criticando il fatto che io non faccia bene il mio lavoro?- si alzò sulle punte per riuscire a parlare guardandomi negli occhi.

-In questa casa non ha fatto tutto il possibile. C’è sempre una speranza e lei la sta buttando via. È disposto a far soffrire una famiglia per la perdita di un caro solo per il semplice gusto del denaro?- mormorai serio. Lo vidi irrigidirsi, le mani strette intorno alla tracolla della borsa, indeciso se scappare dai suoi doveri o affrontare i problemi come un vero uomo. Come un vero medico.

Mi guardò perplesso, perso nelle sue congetture. Margaret singhiozzava ancora, sempre più intensamente. Il suo dolore era talmente forte che riusciva a riempire il silenzio e il buio di quella stanza morta. Virginia persisteva nel vano tentativo di consolarla.

Il dottore si guardò intorno: sembrava esaminare tutto quello che la stanza gli poteva offrire. Poi fermò lo sguardo sulle due donne che piangevano sull’uscio della stanza. Corrugò le sopracciglia e abbassò lo sguardo verso la punta delle sue scarpe lucide.

-Se lei è un loro amico, conosce la situazione, non è vero? Sa che non posso permettermi di aggravare la loro economia. Sicuramente se perdessero qualche membro della famiglia, farebbe solo bene al loro portafoglio- puntualizzò secco.

Strinsi i pugni, combattendo contro la voglia di balzargli alla giugulare e porre fine a cotanta cattiveria e povertà di sentimenti. Non vedeva quanto stavano già soffrendo? Quanto stavamo già soffrendo? Era veramente disposto ad aggravare quel dolore solo per non pesare sul denaro?

Lo guardai con aria critica per poi guardare nella direzione dove l’angoscia era più intensa e pulsante: la madre di Alice. Tornai a fissare gli occhi strafottenti del medico, incrociando le braccia sul petto. Lui, in risposta, schioccò la lingua e scosse convinto la testa.

-Non si preoccupi, mi occuperò io del denaro per pagare la medicina- dissi con sguardo più implorante.

Lo vidi traballare a quella mia esclamazione. Fece spaziare lo sguardo sul pavimento, ragionando sul da farsi. Sospirò arreso.

-E va bene- esortò, tirando fuori dal taschino del panciotto il blocco sul quale scriveva le ricette mediche

 

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


Eccomi Qui!

Sono abbastanza puntuale?? Bha, può essere xD

Scusate l'orario assurdo, ma ho dovuto pubblicare per forza visto che domani non sono in casa, causa compleanno di parenti -.-"

Comunque sia, DECIMO CAPITOLO *.* Fantastico!!! SOno quasi a metà!!!! Tranquilli, tranquilli tra poco l'agonia finirà xD

Bene, Bene, ovviamente ringrazio tutte le persone che hanno letto! Ragazzi, siete voi che fate andare avanti questa pazzia!

E ora, risposte alle recensioni:

Tempest_The_Avatar:Sono felice che il capitolo del Byron minaccioso ti sia piaciuto! Spero che anche questa versione da "non-proprio-bravo-ragazzo" sia di tuo gradimento! COntinua a seguire la mia storia in questo modo, mi fa davvero molto piacere ^^

Mafra:Carissima!! RIeccoci al nostro ormai solito appuntamento settimanale!!! COme ho detto per Tempest sono felice che questo Byron un po' diverso e non il classico sdolcinato ti piaccia! In questo capitolo l'ho fatto diventare un cattivo ragazzo *me si guarda la punta delle scarpe* ti piace anche così???? Speriamo! Per quanto riguarda la storia per il contest Non preoccuparti ^^!! Sono felicissima di aver partecipato e di essermi messa alla prova su una Bella/Jacob, essendo una Team Edward convinta è stao un lavoro ben faticoso!!!

Bhe, che dire ancora? Spero che il capitolo piaccia a tutti quelli che lo leggeranno!

Buona lettura ;)

CAPITOLO 10

Rimasi sulla porta d’ingresso a fissare il foglio ingiallito piegato a metà. Lo rigiravo tra le mani augurandomi che potesse riportare la serenità a quella famiglia distrutta dal dolore.

Quando il dottore aveva accettato di fare la ricetta, avevo visto negli occhi di Margaret una luce nuova. Mi era apparsa speranzosa, più viva rispetto al giorno prima. L’angoscia che le dipingeva le guance era sparita, rivelando una nota di tenacia inaspettata.

-È sicuro, signor Byron?- continuava a chiedermi.

-Certo, signora Brandon- rispondevo io, tranquillo. –Se è solo questo che posso fare per aiutarvi, lasciate che me ne occupi io-.

Lei si apriva nel più sincero dei sorrisi di ringraziamento. Quella luce, così simile a quella che vedevo negli occhi di Alice un tempo, le illuminava le guance, conferendomi il più speciale degli onori. Non capivo perché quella donna aveva così tanta fiducia nei miei confronti, infondo avrei dovuto incuterle timore, titubanza e invece si comportava come se fossi il più caro degli amici di famiglia.

Alzai la testa e guardai i passi del medico confondersi tra il manto di neve fresca che copriva il vialetto.

-Grazie, Byron- mormorò la signora Brandon, posandomi una mano sulla spalla. Il calore mi fece trasalire; sentivo la rete di capillari che attraversava la sua carte trapanarmi la pelle. Mi voltai verso di lei e incontrai il suo sguardo implorante: il sangue le affluiva alle guance conferendole un colorito appetitoso, i suoi occhi mi perforavano il cuore addormentato che mi ritrovavo nel petto.

Ecco da chi aveva preso di più Alice: i capelli le ricadevano allo stesso modo sulle spalle, lo stesso sguardo ammaliatore, gli stessi tratti abbozzati, ma, soprattutto, lo stesso sapore appetitoso.

“Avanti, mordila. È quello che vuoi. Forza” urlò la parte più debole di me.

Ero davvero capace di fare una cosa del genere? Di espormi così agli umani? Ma, soprattutto a distruggere la vita innocente della donna che aveva messo al mondo l’unica ragione per cambiare ciò che ero?

Scossi la testa, cercando di ritrovare la lucidità offuscata. Smisi di respirare e serrai le palpebre.

-Devo andare- biascicai, uscendo dalla porta con passo sostenuto.

Mentre percorrevo deciso il vialetto di casa Brandon, sbirciai due o tre volte verso la porta della grande casa: Margaret mi fissava, stranita dal mio comportamento e da quella reazione insensata. Era aggrappata alla porta, alla ricerca di una parola o di un comportamento che avesse potuto ferirmi a tal punto. La confusione nel suo sguardo perso era evidente.

-Non si preoccupi, signora Brandon. Ritornerò domani col medicinale che avete bisogno- esclamai abbastanza forte perché potesse sentirmi. Ripresi fiato e l’aria pungente di neve mi ripulì i polmoni.

La signora Brandon sorrise e mi fece un cenno di arrivederci con la mano.

La porta si chiuse sbattendo.

Mi voltai e mi diressi a passo sostenuto verso il cancello. Le mie scarpe scricchiolavano schiacciando la ghiaia e i piccoli cristalli di ghiaccio che si incastravano fra i piccoli ciottoli.

Infilai il piccolo foglietto nella tasca dei pantaloni e mi incamminai tranquillo verso ciò che avrebbe riportato Alice in salute.

La responsabilità che mi ritrovavo addosso era enorme: solo io potevo salvare la vita più importante di tutte per me e la chiave era racchiusa in quel medicinale, in quel misero foglietto.

Non era importante sapere come l’avrei procurata, l’importante era sapere che la soluzione c’era e che sarebbe arrivata. L’avremmo accolta come un temporale dopo un lungo periodo di siccità.

Perché l’estate sarebbe ritornata, ne ero più che certo. Bastava attendere ed essere capace di sopportare il freddo gelido dell’inverno. L’estate sarebbe ritornata e, con sé, avrebbe portato l’animo forte e unico di Alice.

 

 

La notte calò lenta e inesorabile. La luna cominciò a tingere d’argento i profili dei palazzi e a illuminare la neve che aveva impolverato le strade della piccola città.

Attendevo, come solo un predatore sa aspettare, che tutte le persone lasciassero la strada e si rifugiassero nelle loro calde e accoglienti case.

Stavo seduto immobile davanti alla piccola farmacia, fissando le bianche luci che illuminavano la vetrinetta. Non vedevo l’ora che la loro luce cominciasse a dissolversi nell’oscurità e nella polvere che copriva ogni singolo centimetro della vetrinetta.

Avevo passato tutto il pomeriggio a pensare a come procurarmi quell’elisir per la vita e non ero giunto a molte conclusioni fattibili. L’unica che mi sembrava  realizzabile era quella di intrufolarmi in farmacia e…rubarla.

Effettivamente non era molto giusto, di questo ne ero consapevole, ma il dovere di salvare Alice veniva prima di qualunque altra cosa.

Alzai di nuovo lo sguardo e notai che le lampadine si stavano oscurando lentamente. La farmacista, una donna sulla quarantina, uscì dalla porta principale, chiudendola a chiave.

Si infilò la chiave nella tasca del camice e mi incamminò verso casa, lasciandosi alle spalle una scia forte e definita di sangue fresco.

Il suo odore mi entrò nei polmoni e a quel punto tutto mi apparve sfuocato e lontano, come se non lo stessi vivendo veramente io.

Passarono dieci secondi da quando vidi la donna uscire dalla porta del negozio e ora me la ritrovavo tra le braccia esangue e con gli occhi vitrei ancora spalancati dal terrore. Non aveva sofferto, non avevo sentito nemmeno un urlo o un gorgoglio risuonare nel buio del vicoletto.

Perché l’avevo fatto? Perché avevo strappato via la vita di quella donna? Non sapevo rispondere. Sete? Possibile. Orgoglio? Probabile.

Solo dopo alcuni eterni secondi di domande senza risposta mi venne in mente della chiave che le appesantiva il camice. La tirai fuori e la nascosi nella tasca dei pantaloni, insieme al foglietto.

Abbandonai il suo corpo in un angolo nascosto di una vietta senza uscita.

Ritornai davanti alla porta del negozio polveroso. Feci girare la chiave all’interno della toppa per due o tre volte prima che sentii il cigolio delle giunture che annunciavano la porta aperta. Sentii il campanello sulla porta, avvertendo la mia entrata.

Varcai la soglia di soppiatto e mi diressi verso il lungo bancone ricolmo di ricette mediche e formule per medicinali d’erboristeria.

Mi guardai in giro, in cerca del luogo deve era custodite le medicine. Girai intorno al bancone e mi ritrovai davanti a un enorme armadio. Aprii uno dei tanti cassetti che riempivano la sua superficie, controllai il contenuto con il foglietto in mano in cerca della medicina dal nome impronunciabile.

Controllai altri cinque o sei cassetti prima di trovare quello che stavo cercando: un flacone di vetro trasparente attirò la mia attenzione, lo presi in mano e lessi la scritta rossa sull’etichetta bianca immacolata: il nome coincideva.

La felicità che in quel momento invase le mie viscere fu incontenibile: dovetti tapparmi la bocca con il palmo della mano per evitare di scoppiare in un urlo liberatorio.

Raccolsi in una busta alcuni flaconi e presi anche qualche confezione di pillole contro la febbre alta. Cercai anche un paio di siringhe sterilizzate.

Uscii dal negozio, chiusi la porta con tre mandate e posai la chiave sullo zerbino dell’ingresso.

Mi allontanai con la refurtiva tra le mani, deluso da me stesso, ma anche felice di aver raggiunto il mio scopo. Quello di fare tutto ciò serviva per salvare la vita di Alice.

**********

Non lo faccio mai per mancanza di tempo ma oggi mi voglio soffermare anche su questi ringraziamenti.

Vorrei ringraziare tutti quelli che hanno messo la mia storia tra le preferite ELeMasenCUllen, LiTtLe_MissGiuly_ e Xversa.

Tutti quelli che hanno inserito la mia storia tra le seguite kloe2004, LadyRhoswen, LuNa1312, pikkola_puffetta, Tempest_The_Avatar e _Mary.

Questi dati non indicano un fattore di successo della mia storia ma sono molto felice che a qualcuno interessi davvero questa mia pazzia! Siete voi che mi fate andre avanti a scrivere e sapere che alcune persone mi seguono mi spinge a andare avanti! Grazie davvero!

Ringrazio anche i lettori silenziosi, sperando che la mia storia vi piaccia ^^

 

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 ***


Ciao a tutti...
Eccomi qui ad aggiornare, puntualmente. 
Non c'è molto da dire riguardo a questo capitolo, se non che ora la storia si complicherà un po' di più...
Chiedo scusa per l'umore nero che ho oggi, ma sono rimasta un po' delusa da delle persone che giudicavo importanti. Va bhe, ovviamente a voi non interessa un tubo xD
Va bhe, ora vi lascio tranquilli...
Buona lettura ^^

Ps: d'ora in poi a fine pagina troverete le risposte alle recensioni....


CAPITOLO 11

Il giorno dopo, i Brandon accolsero il mio arrivo come la manna dal cielo. Non appena entrai in casa, spazzandomi via dalla giacca di velluto i candidi fiocchi di neve che ancora cadevano fitti dal cielo, vidi gli occhi delle due donne accendersi di una vita che abbosso a loro non avevo mai percepito. Mi travolsero con la loro voglia di agire: non ce la facevano più a sostare in quel eterno stato di dubbio, in quell’eterna consapevolezza di non poter fare niente e quindi di poter solo aspettare che una forma di giustizia divina si abbattesse sui loro malati.
Virginia somministrò il medicinale il pomeriggio di quel giorno stesso sotto il controllo austero del medico Scott. Quando lui seppe che ero riuscito a procurarmi le medicine, mi schioccò un intenso sguardo di sottecchi che lasciava trasparire tutto il sospetto sulla provenienza dei prodotti; io lo rassicurai con un sorriso forzato.
Le settimane passavano lente e uguali, cadenzate solo dal sorgere e dal tramontare del sole ogni giorno. Le giornate in casa Brandon divennero monotone, ma traboccanti di una speranza repressa. Continuavamo a somministrare ad Alice e Christopher le medicine con continuità e puntualità, ma i cambiamenti tardavano ad arrivare, soprattutto per quanto riguardava Alice: la sua febbre non era stabile; passava da momenti tranquilli in cui sembrava che il suo organismo stesse cominciando a guarire ad altri decisamente più difficili: la febbre le saliva ad una temperatura assurda e cominciava a urlare e a esclamare cose insensate. Rabbrividivo, ogni qualvolta succedeva.
Un uggioso giorno di metà gennaio il signor Brandon si alzò dal letto e lo vidi scendere le scale con l’aiuto di Virginia e Margaret. Non appena il suo sguardo stanco e indebolito si posò su di me ai piedi delle scale, corrugò le sopracciglia e chiese alla moglie il mio nome. Mi presentai, le signore spiegarono la situazione e mi elogiarono per il mio prezioso aiuto e lui mi ringrazio stringendo la mia mano in segno di gratitudine.
Si sedette in salotto con noi per circa una mezz’oretta: rimase tutto il tempo vicino al grande camino cercando di ravvivare un po’ il colorito smorto sulle sue guance. Tossì più volte poi annunciò che tornava di sopra a riposarsi.
Da quel giorno cominciò a scendere più frequentamente, partecipando ai pasti e mettendosi a leggere un po’ di giornale vicino al fuoco.
Chiese più volte della salute della figlia, ma la risposta era sempre la stessa: “stazionaria”. Un giorno andò per fino a trovarla: Margaret lo guidò per un gomito attraverso il corridoio, seguita a pochi passi da me e Virginia. Margaret aprì l’ultima porta del corridoio e fece sedere Christopher sulla sedia di vimini ancora posizionata vicino al letto. Io e Virginia rimasimo appoggiati alla soglia della porta fissando la situazione all’interno della stanza, lo stato in cui versava la stanza non era cambiato per niente: la desolazione che la occupava era la stessa che avevo già percepito in passato. Christopher accarezzò la fronte bollente della figlia e sospirò di tristezza, Alice mugulò qualcosa e strinse le mani al bordo della coperta. Fu in quel momento che Margaret disse: “Forza. Scendiamo”.
Il dottor Scott non venne più. Non lo vidi più entrare in casa Brandon per fare una visita di controllo.
Quel giorno, mentre mi stavo dirigendo come tutte le mattine dai Brandon notai che una luce diversa illuminava il sentiero intorno a me. Non era più la luce scurita e morta dell’inverno, era una luce diversa: più fulgida, più… viva.
Alzai gli occhi al cielo e mi misi a scrutare lo strato di nuvole che nascondeva quella luce celestiale. Pensai a Alice e alla sua situazione disperata: sarebbe riuscita davvero a sopravvivere? Oppure quella luce intensa era il preludio di qualcosa di terribile che si stava per abbattere?
Sospirai e cominciai a camminare a passo più veloce e regolare.
Ci misi poco a raggiungere casa Brandon. Bussai come tutti i giorni e, stranamente, venne ad aprirmi la signora Brandon.
Mi guardò con occhi rilucenti ed esultanti. Capii subito che era successo qualcosa di nuovo: un cambiamento, uno di quei cambiamenti che tanto attendevamo, si era posato sulla sorte della piccola Alice.
-Si è svegliata- annunciò. -È cosciente-.
Era il paradiso, il luogo in cui mi ritrovai in quel momento? Così pieno di bellezza e gioia?
Quello che avevamo sempre desiderato che avvenisse si era esaudito. Esisteva beatitudine maggiore?
Fermo sulla soglia d’ingresso mi chiedevo se mi meritavo davvero quel miracolo che Dio mi aveva concesso. Era una seconda possibilità, questa? Un modo per dirmi di non lasciarla andare perché lei avrebbe potuto abbandonarmi più facilmente di quanto immaginassi?
La signora Brandon mi fece entrare, mi tolsi il cappello e mi guardai intorno, in cerca dei tratti del miracolo che si era posato su quella famiglia. Rimasi immobile nel mezzo dell’anticamera, non credendo ai miei occhi. Guardai in cima alle scale e la vidi.
Aggrappata al braccio di Virginia, cercava di mettere un piede davanti all’altro senza inciampare. Si guardava le caviglie, indecisa nel compiere ogni minimo passo.
Era scheletrica, vedevo le ossa del bacino e delle spalle spuntare fuori dalla pelle, il suo viso scarno portava ancora i segni della malattia recente: guance ciniree, sguardo smorto e vagante, le labbra sottili di un color violaceo acceso. I lunghi capelli, legati precariamente in una coda di cavallo, ricadevano smorti lungo un lato della sua schiena. Il suo respiro procedeva inceciso, ma il suo cuore batteva potente del petto.
Lo scialle che legava il suo petto minuto sembrava affaticarla più dei movimenti stessi.
Sentii Margaret nascondere singhiozzi nel candido fazzoletto bianco che teneva ripiegato tra le mani. Io guardavo inebetito la scena: la stavo vivendo davvero? Era reale? O era solo un viaggio fantasioso della mia mente?
Poi alzò gli occhi e in quel momento capii che era tutto reale. Alice era viva, per quanto la malattia l’avesse debilitata ora stava bene, era con noi, era con me.
Fece scorrere lo sguardo su ogni cosa familiare che la circondava, soffermandosi sulle cose a cui era più affezionata.
Quando il suo sguardo debilitato si posò su di me, aggrottò un po’ le sopracciglia, come se stesse cercando un ricordo o una sensazione legata ai tratti del mio viso. Mi aveva riconosciuto? Si ricordava di tutti i pomeriggi che avevamo passato insieme? Le nostre chiacchierate, le nostre risate, i nostri giochi erano state cancellate dalla febbre alta?
Il nostro scambio di sguardi venne interroto da Margaret in lacrime che corse verso la figlia: la abbracciò forte e si ritrovò a singhiozzare sulla sua spalla.
Mi chiesi se avrei mai potuto far parte di quel quadretto familiare. Ovviamente no. Io ero solo l’amico che aveva prestato il suo aiuto in un momento di difficoltà. Non avrei dovuto trovarmi lì. Non avrei dovuto far parte della vita felice di quella famiglia.
-Alice!- esortò Margaret tra le lacrime e i singhiozzi.
-Mamma- mormorò lei con la sua voce roca.
I miei occhi comincirono a pizzicare non appena la sua voce giunse alle mie orecchie. Il pensiero che quella voce avrebbe potuto dissolversi nel nulla della morte mi aveva bruciato le viscere come il veleno che mi avevano inniettato in corpo quella notte maledetta, e riuscire a sentirla ancora mi faceva provare la gioia più forte che un essere avesse mai potuto provare.
L’abbraccio si sciolse e lo sguardo languido di Alice ritornò a fissarmi curioso. Il suo indice ossuto mi indico e la sua voce rimbombò ancora nel silenzio della stanza: -Chi è lui?- domandò.
-Lui è Byron, il nipote di Sophie Chapman. Ci è stato molto vicino in questo periodo, mentre tu e tuo padre eravate malati- spiegò Virginia.
-Sì, esatto. È stato lui a procurarci le medicine- trillò felice Margaret.
Alice mi guardo, sorridendomi debolmente. –Grazie, signor Byron. Non sarei qui se non ci fosse stato lei-, mi porse la mano cadaverica.
-Di nulla-, sorrisi anch’io e cercai di stringere la mano di Alice il più delicatamente possibile.
Quando mi trovai a pochi centimetri dai sui occhi vidi qualcosa di diverso in lei: apparte la malattia e la curiosità che ancora leggevo nel suo sguardo, c’era una luce diversa che le brillava negli occhi, come se in lei si fosse insediato un segreto irrivelabile.
Vedevo quella luce brillare e la consapevolezza che, nonostante ora Alice fosse sana, nulla sarebbe stato più come prima mi travolse come un fiume che rompe i suoi argini naturali. 

*****************

Mafra: Hey carissima!! Bene, sono felicissima che il modo in cui mi immagino Byron ti piaccia così tanto! Alla fine non tutti sono come Edward: dolci, perfetti e tutto il resto, Ci sono anche i vampiri cattivi ;) 
Spero che il capitolo ti piaccia e che continuerai a seguirmi con la stessa gioia di adesso... Bacioni e alla prossima ;)


 

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 ***


Oggi aggioramento lampo ;)
Capitolo scritto in davvero pochissimo tempo, ma spero comunque che sia venuto bene....Bhe, ditemelo voi ;)
Bhe, direi che come capitolo è abbastanza importante...Capirete perchè leggendo....
Ringrazio tutti quanti: tutti quelli che mi sopportano da così tanti capitoli, tutti quelli che hanno aggiunto la mia storia tra le amate nel loro cuore. Non sono molte, lo so, però voglio che sappiate che x la mia storia siete importanti.
Grazie Grazie ^^

Bene, ora vi lascio leggere in pace....
Buona lettura ;)


CAPITOLO 12

-Ecco a te, Alice-. Le porsi il piatto colmo di calda minestra.
-Grazie- mi sorrise dolcemente afferrando saldamente il bordo della fondina. La posò sul tavolino del salotto e cominciò a soffiarci sopra, facendo spostare gli sbuffi di calore che si alzavano dalla pietanza.
Mi sedetti all’altro capo del divano e attesi che portasse il cucchiaio alla bocca e mi desse il suo parere sulla mia nuova “creazione”.
Gustò fino in fondo la prima cucchiaiata di minestra. –Uhm- assentì, schioccandomi uno sguardo fiero e soddisfatto. –Direi che ti stai dando da fare, Byron. Complimenti. Solo una cosa: ti sei dimenticato di mettere il sale-. Fece una finta smorfia di disgusto allontanando di più il piatto verso il centro del tavolo. Ridemmo insieme.
-Ok, ok, ho capito- dissi, raccogliendo il piatto dal tavolino. –Torno subito-.
Ritornai in cucina e spulciai tra i vari stipetti, cercando il contenitore del sale fino.
È strano, pensai, come la vita può cambiare quando meno te lo aspetti.
Se due settimane prima mi avessero detto che mi sarei ritrovato a tentare di preparare da mangiare per Alice e per la famiglia Brandon, probabilmente avrei risposto con una sonora risata. Anche ora, se mi ritrovavo a pensare a quella situazione, mi sembrava alquanto improbabile che fossi io in prima persona a viverla davvero.
Avevo passato quelle due settimane a riabilitare i corpi debilitati di Alice e Christopher. Sapevo che probabilmente non era giusto rimanere lì, che sarebbe stato meglio che mi volatilizzassi lasciando dietro di me solo una nuvola di polvere e invece, dopo aver visto Alice sorridere al mondo dopo quella brutta esperienza, continuavo a rimandare la data della mia partenza e ad assorbire ogni minimo segno di vita della mia stella.
Ogni volta che mi allontanavo, anche solo per la notte, cominciavo a sentire la tensione che mi legava i muscoli e la volontà di tornare indietro sempre più potente e pressante; mi sentivo con una piccola foglia che combatteva per assicurarsi la quantità di raggi solari necessari per vivere.
Margaret e Virginia non sembravano affatto turbate dalla mia presenza in casa, anzi la accoglievano ancora a braccia aperte: ogni mattina mi aprivano la porta rivelando il più sincero dei sorrisi di benvenuto. Durante la giornata mi incaricavano dei piccoli lavori domestici a cui mi concedevo con particolare piacere: se quello era l’unico modo per restare vicino ad Alice, conservando la mia maschera da amico di famiglia, avrei fatto così.
Alice non ricordava nulla di me, purtroppo. Sembrava che la sua mente avesse estirpato i ricordi che mi riguardavano: ogni tanto la vedevo fissarmi con un’aria assorta come se stesse cercando di far riaffiorare del nulla momenti che non era sicura di aver vissuto. Mi irrigidivo e le chiedevo se tutto andasse bene; lei scuoteva la testa e abbassava lo sguardo.
Non sapevo se dovessi considerarmi fortunato per il fatto che lei non ricordasse niente; probabilmente lo ero, ma una piccola parte di me desiderava immensamente che mi saltasse al collo e mi chiedesse di andare a scalare insieme il salice del giardino.
Strinsi forte il cucchiaio e questo si accartocciò, prendendo la forma della mia stretta. Lo nascosi infondo a un cassetto. Poggiai il piatto su un vassoio e mi incamminai per il salotto.
Mi bloccai sulla soglia della stanza, incapace di reagire a quello che mi si presentava davanti agli occhi. Il vassoio scivolò dalle mie mani e il piatto si ruppe sul pavimento, rovesciando il cibo sul parquet. Mi avvicinai di corsa al divano sul quale il corpo di Alice si contorceva.
-Alice! Alice!-. La scuotevo forte per le spalle sperando che uscisse da quella che sembrava un vuoto d’anima. Fissava con occhi vuoti e vitrei il tavolino davanti a sé, ma vedevo che non era in quella stanza con me: era come se stesse analizzando una parte distinta di presente, una parte distante di un universo parallelo che solo lei poteva vedere.
Fissai quegli occhi vitrei intensamente in attesa di una risposta, di una spiegazione. Un lampo di coscienza vibrò nelle sue iridi, facendola ritornare al presente. Poi accadde tutto molto velocemente.
Alice si accasciò sul bracciolo del divano, le nocche strette sulle tempie. Mi avvicinai ancora a lei e sentii il suo respiro accelerare finché ogni soffio di fatica non divenne l’eco sordo del precedente. Le palpebre serrate apparivano sbiancate, come il resto del suo viso.
Un urlo abbozzato le scivolò fuori dalle labbra vivide quasi come un’implorazione.
Posai un braccio sopra la sua spalla tentando di trovare una spiegazione logica a quanto stava accadendo. Ma la mia mente non riusciva ad elaborare nulla. La fissavo impotente, incapace di trovare una logica nei suoi comportamenti come nei miei.
-Virginia!- chiamai, sperando che riuscisse a sentirmi mentre stendeva i panni in giardino.
-No- riuscì a biascicare, stringendomi forte il braccio. Sentì la sua stretta bollente, quasi come se le fosse tornata la febbre, penetrare nella mia pelle di marmo. Trattenne il respiro e serrò ancora di più le palpebre.
Rimasi immobile ad aspettare che qualche parte di me si decidesse a compiere qualche azione dettata dalla mia ragion eclissata, ma nulla. Non riuscivo a far altro che guardare Alice contorcersi sotto quella forza invisibile ma impossibile da fermare. Chiusi gli occhi e mi persi nella sua sofferenza, come avevo già fatto tante volte in passato.
E come tutto era cominciato, tutto finì. In un battito di ciglia, il corpo di Alice cedette e i suoi arti cominciarono a sciogliersi. Rimase accovacciata sul divano con gli occhi chiusi e il fiatone che le appesantiva il petto. Increspò le labbra e si tirò a sedere.
Mi guardò afflitta e preoccupata per la mia reazione.
-Scusa-, disse, riabbassando lo sguardo. –Mi capita a volte-.
La guardai sconcertato. –Ti capita a volte? Che intendi dire, Alice? Che non è la prima volta?- domandai, sull’orlo di una crisi isterica.
-Sì,- ammise lei. –Mi capita, ma nessuno mi aveva mai visto-.
Accantonai la rabbia in un lato della mia mente e mi misi ad analizzare la situazione: possibile che nessuno aveva mai assistito a una di quelle “crisi”? Erano improvvise e incontrollabili, possibile che nessuno della famiglia ci avesse mai fatto caso?
-Nessuno?-, domandai incredulo.
-Nessuno. Di solito quando mi capita cerco di isolarmi, di nascondermi, ma questa volta è stato troppo improvviso- spiegò.
Rimanemmo qualche minuto in silenzio. La guardai cercando una risposta tra le pieghe infinte dei suoi occhi. Era il suo segreto, quello che mi aveva appena rivelato. Il segreto che avrebbe voluto nascondere a tutta la sua famiglia, a tutte le persone che le volevano bene.
-Da quando…?- lasciai la frase in sospeso, sperando che la potesse completare.
-La prima volta che mi accadde fu due giorni dopo che guarii dalla febbre- mormorò.
-Ma…cosa ti accade esattamente, quando…quando hai queste crisi?- chiesi, cercando di andare più a fondo con questa storia.
Mi trapassò con uno sguardo indeciso. Si mordicchiò un labbro prima di rispondermi.
-Non lo so,- farfugliò. –Mi capita di vedere il viso di alcune persone, alcune sconosciute e altre con cui vivo, e poi più niente. Vedo solo buio, sento voci indistinte e alcuni ringhi lontani. E poi provo dolore, tanto dolore, ma è come se non fosse mio. È come se soffrissi il dolore che qualcun altro mi trasmette-. Si zittì di colpo come se si fosse resa conto di aver raccontato troppo su una faccenda che sarebbe stato meglio tenere nascosta.
Si alzò dal divano, sistemandosi meglio il lungo e pesante maglione che la avvolgeva.
-Mi prometti una cosa?-, chiese con tono serio e composto. Annuii, aspettando che continuasse. -Prometti di non dire nulla a nessuno, specialmente a Virginia e a mia madre. Me lo prometti?-
-Sì, Alice, te lo prometto-, mormorai.
Non sapevo se avevo fatto bene a prometterle una cosa del genere: non sapevo quanto di salutare ci fosse in quelle sue “crisi”, forse avrei fatto meglio a parlarne immediatamente con qualcuno, a rivolgermi a un dottore, a uno specialista per risolvere quel problema.
Non volevo che Alice si ritrovasse a soffrire, non volevo più vederla in quello stato, così preda di ciò che non le apparteneva.
Eppure una parte di me non faceva altro che pensare che quello che avevo fatto era la cosa migliore. Proteggere Alice, mi ero detto, era stato ciò a cui avevo dedicato tutta la mia esistenza, ora ne avevo la possibilità concreta. Me lo aveva chiesto lei. Sarei davvero stato capace di declinare dicendole che era meglio che si esponesse a chi non voleva rivelare niente? No, non ne sarei stato capace.
-Bene-. Vidi il suo viso rasserenarsi non appena capì che avrei tenuto il segreto.
-Sarà il nostro piccolo segreto- aggiunse, voltandosi e andando a raccogliere i cocci del piatto che coprivano il pavimento.


*******************


Mafra:
Ed eccoci qui, col nostro solito appuntamento settimanale dello sclero!!! Eh si, povero Byron, lo sto facendo soffrire ben bene *Risata sadica* xD
Apparte gli scherzi, spero che la storia non comicnia ad annoiarti....Se così fosse fammelo sapere subito ;)
A settimana prossima!!!!







 

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 ***


Ehm...Ehm....Ehm....Buongiorno ^^"
Non c'è bisogno che dica niente, vero?? xD
Non linciatemi, non linciatemi!!!!! Scusate scusate scusate immensamente! Ho saltanto un aggiornamento, sono proprio imperdonabile ù.ù
Comunque, ora eccomi qui!!!
Bene, già nel capitolo precedente iniziano a farsi vivi i primi problemucci...C'è da dire che con questo i problemucci diventereanno problemoni... Lascio a voi ogni tipo di pensiero al riguardo xD
C'è da dire, in oltre, che in questo capitolo arriverà un nuovo personaggio che sconvolgerà non di poco la situazione....!
Ok, spero vi piaccia ^^
Buona lettura ;)


CAPITOLO 13
Raccogliemmo i cocci spigolosi sul pavimento nel più totale silenzio.
Guardavo Alice, cercando una risposta coerente a tutto quello che avevo appena vissuto. Era davvero possibile tutto ciò che mi aveva appena raccontato? Che tutta la sofferenza che avevo visto nei suoi occhi fosse reale?
Pensai a quanto mi aveva detto: nessuno sapeva di quelle sue “crisi”, nemmeno lei sapeva di cosa si trattasse esattamente, vedeva volti, azioni, tutto però troppo offuscato. 
-Alice, prima mi hai detto che, quando hai queste crisi, vedi delle cose. Cosa hai visto esattamente, prima?- domandai, troppo preoccupato per tenermi tutto dentro.
Alice fece cadere lo strofinaccio con il quale stava pulendo la macchia giallastra dal pavimento. –Bhe…-, esortò, accartocciando il panno tra le sue mani. Prese un respiro profondo.
-È strano, sai?- cominciò. –Vedo i volti di tutte le persone che conosco ma in situazioni diverse, le vedo coinvolte in azioni improbabili. E poi vedo persone che non ho mai visto, luoghi in cui non sono mai stata. È strano, ma è anche bello. È come fare un viaggio rimanendo nello stesso posto-.
La ammonii con lo sguardo. Sapevo che cercava di sviare alla mia domanda; la ragione di quel gesto mi era ancora sconosciuta.
-Ho visto mia zia Claire entrare dalla porta di ingresso. Poi…poi tutto è diventato instabile e distante. Annebbiato, questo è il termine adatto- sospirò.
Anuii pensieroso. Non avevo ancora afferrato il vero significato di ciò che le stava succedendo. Quelle “visioni”, ormai non conoscevo termine più adatto per descriverle, rimanevano ancora un lato oscuro della nuova personalità di Alice.
Alice mi regalò un sorriso forzato e ritornò al suo lavoro.
Con quel suo sorriso, voleva ingannarmi, ne ero più che certo. Voleva farmi credere che tutto quella situazione fosse normale, che avere visioni fosse usuale e neanche minimamente preoccupante. Ma sapevo che lei, infondo, era terrorizzata da quegli eventi. Terrorizzata dal dolore che portavano e dalle conseguenze che le si sarebbero rovesciate addosso.
Non avrebbe mai potuto nascondermi la sua paura per ciò che era diventata, nemmeno con un sorriso.
Per quanto mi riguardava, la preoccupazione riempiva ogni minimo sguardo o gesto che le davo. Non potevo non evitare di manifestare i miei veri sentimenti di fronte a quella situazione incasinata. Sapevo perfettamente quali sarebbero state le conseguenze se qualcuno fosse venuto a sapere della sua non perfetta salute mentale. Ogni volta rabbrividivo immaginandola stretta nella camicia di forza, gli occhi persi e vitrei squadrare lo spazio angusto e buio in cui avrebbe dovuto vivere ogni momento della sua esistenza perduta. Non immaginavo nemmeno il suo corpo scosso dal getto ghiacciato dell’acqua o torturato dalla sedia elettrica.
Non toccammo più quell’argomento. Discutevamo di argomenti di poco valore, evitando appositamente di toccare il tasto dolente di entrambi.
Ogni tanto la vedevo corrugare le sopracciglia, come se cercasse di collegare i suoi gesti o degli oggetti familiari a luoghi già esplorati o ad azioni già vissute.
Io mantenni la promessa: non feci parola con nessuno del suo cambiamento. Ancora non sapevo se quello che avevo deciso di fare era la scelta giusta oppure stavo solo assecondando una pazzia. Ma, d’altronde, ero mai stato davvero sicuro e convinto delle mie decisioni da quando avevo conosciuto Alice? No, non lo ero mai stato.
 
 
Le ruote dell’auto sgommarono instabili sotto la ghiaia sul vialetto. Guardai assorto il polverone che esse avevano prodotto disperdersi nell’aria.
-Alice!- esultò Cynthia non appena la nebbia attorno a noi si dissolse. La abbracciò forte facendola tossire. Ridacchiò mentre la lasciava andare, le schioccò un bacio rumoroso sulla guancia. Salutò calorosamente anche il resto della famiglia.  
-Oh, la smettiamo di fare gli sdolcinati? Non voglio morire di diabete precoce- mormorò la voce austera della piccola donna che seguiva Cynthia.
Era una donna piccola, gracilina, ma, nonostante ciò vedevo una grande quantità di rispetto che riusciva a portarsi dietro.
-Benvenuta, Claire- la salutò con un sorriso forzato Margaret.
-Buongiorno, sorella- disse, schioccandole un vago sorriso di superiorità.
Rimasero a fissarsi ostili per qualche secondo poi Claire esortò –Bhe, questo posto è della stessa bassezza sociale di quando l’ho lasciato. Per fortuna, adesso ci sono io-.
Raccolse la sua valigia da terra e si diresse a passo deciso verso la porta di casa. Entrò e la chiuse sbattendola.
Mi trovai ad analizzare sotto shock la situazione. “No, non era possibile”, mi dissi non appena la signora Margaret ci diede notizia del suo arrivo due giorni prima.
È solo uno scherzo, uno scherzo di cattivo gusto, vero?, continuavo a chiedermi mentre Virginia finiva di leggere il telegramma.
In quei giorni pensai a tutti le possibili spiegazioni: poteva essere una coincidenza, oppure solamente uno specie di sesto senso che aveva azzeccato per caso. Ma nessuna di quelle era plausibile. Tutto mi ricollegava alle strane e incomprensibili visioni di Alice.
Guardai Alice e la preoccupazione che leggevo nei suoi occhi era evidente. Fissava con sguardo vivido la porta, il labbro inferiore le tremava leggermente.
Sapevo cosa stava pensando perché era la stessa cosa che stavo pensando io: quella situazione avrebbe portato a conseguenze non molto piacevoli. Questo era poco, ma  sicuro.

**************************
 

Mafra: Eh già, cara, ho fatto dimentacare tutto alla piccola Alice!!!! muahmuahmuahmuah!!! IO sono troppo diabolica xD
            Bhe, comunque non preoccuparti, ora condividono un segreto particolarmente importante....Sarà questo a unirli??? Bha, vedremo xD
            E chissà, magari poi la relazione diventerà un po' più intima.....Aah, Basta!!!!!! xD
            Spero che anche questo capitolo ti sia piaciuto ^^
            Alla prossima ;)

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Capitolo 15
*** Capitolo 14 ***


Ed Eccomi qui, puntuale!
Bhe che dire....In questo capitolo si capiranno un bel po' di cose: innanzi tutto l'avversione nei confronti di questa zia un po' ambigua, secondo verranno accennate alcune cose che nei prossimi capitoli saranno pressoche fondamentali...
Ok, non voglio dilungarmi molto nella presentazione. Non voglio annoiarvi, visto che già la storia non è il massimo...
Buona lettura ;)

Ps: chiudo scusa per la lunghezza precaria dei capitoli...Spero che possano piacere comunque ^^


CAPITOLO 14


Sedemmo rigidi, fissi sulle sedie di vimini nel salotto dei Brandon. Era strano vedere come i componenti nella famiglia, solitamente così aperti, socievoli e pieni di argomenti su cui discorrere, si sentissero così a disagio davanti a una presenza insolita.
Fissavamo dubbiosi la piccola ma imponente presenza della signora Claire sorseggiare tranquilla il suo the.
Era preoccupante come solo la presenza di una persona indesiderata possa portare sconforto nella vita di una famiglia adattata.
Alice reggeva con le mani tremanti la tazza, lanciandomi ogni tanto dei vaghi sguardi indescrivibili.
-Bhe,- esortò Virginia. -Spero che riesca a trovarsi bene da noi, signora Claire-.
-Oh, sì, cara. Lo spero anche io- rispose fredda.
Christopher cominciò a tossire forte. –Scusatemi- biascicò, e aiutato da Margaret, si diresse verso le scale.
-Ho bisogno di parlarti- mi sussurrò Alice all’orecchio.
Annuii e la seguii verso le scale, lasciandoci alle spalle l’insolito gelo che avvolgeva il salotto. Mi spinse all’interno della sua stanza e chiuse la porta con circospezione.
Era incredibile il cambiamento che aveva subito quella stanza. Non era più il luogo di morte e sofferenza che avevo sempre visto: dalle finestre filtrava la luce debole e vaga del sole coperto dalle nuvole, i colori avevano ricominciato a riacquistare la vita che prima le era stata tolta.

Alice si sedette sul letto.
-Hai visto cos’è successo- chiese. Lessi nei suoi occhi tutto quello che non avrei mai voluto vedere in essi: terrore per qualcosa più grande di lei, ansia per le conseguenze di ciò che stava diventando, rassegnazione per ciò a cui non poteva trovare soluzione.
-Lo so- mormorai, cercando di apparire il più cauto possibile.
Abbassò lo sguardo, sospirando. Il suo respiro cominciò ad accelerare, la sua espressione mutò diventando una maschera di puro dolore.
-Alice- la chiamai, sedendomi accanto a lei, sul letto.
Alzò lo sguardo e vidi le lacrime scavarle le guance. Non è minimamente descrivibile la sensazione che in quei momenti legò il mio corpo. Una sofferenza più grande di quella che legava il cuore di Alice, senza dubbio. Io non dovevo combattere solo con la sofferenza che provava lei, ma anche con la convinzione di non poter far nulla per placarla.
-No, Alice. No- tentai di rassicurarla, accarezzandole dolcemente la lunga chioma corvina. Ma nulla. I singhiozzi non volevano placarsi, la disperazione non voleva placarsi.
I miei occhi cominciarono a pizzicare sgradevolmente. Le lacrime stavano combattendo contro il mio corpo impassibile, tentando di trovare una via di fuga, ma rimanendo, inevitabilmente, intrappolate in sé stesse.
Quante volte mi ero promesso di non vederla più piangere? Infinite. Mi ero promesso un milione di volte che non avrei più permesso all’angoscia di toccare il suo cuore, eppure più cercavo di portare a termine il mio compito, più qualche evento imprevisto sbilanciava il nostro già precario equilibrio.
Sarei stato uno schiocco se mi fossi ripromesso un’altra volta di estirpare la sua sofferenza per sempre. Ora come mai prima, sarebbe stato da cechi sperare in una cosa del genere. Sapevo che non avrei mai potuto proteggerla dal dolore che provava. Mai.
Non ci ero mai riuscito e probabilmente non ci sarei mai riuscito davvero.
La presi tra le braccia, stringendola a me delicatamente. Lei nascose il viso tra le pieghe della mia camicia sgualcita. Le lacrime cominciarono a bagnarla e in qualche modo riuscirono a farmi scaldare il cuore.
-Che devo fare? Dimmi, che devo fare?- implorò.
-Alice, io giuro, giuro su Dio, che manterrò il segreto, non lo dirò a nessuno. Te lo giuro. Sarò sempre pronto a sorreggerti-.
Sembrò tranquillizzarsi. -Grazie, Byron. Non so cosa potrei desiderare di più-.
Si asciugò gli occhi e mi guardò, sorridendo. -Sei l’unica persona di cui mi possa fidare-.
Le baciai la fronte con le mie labbra fredde.
 
Scesi le scale ancora non sicuro di quello che fosse successo. Era davvero successo? Non ci credevo.
Io e Alice non avevamo mai avuto quel tipo di rapporto da amici intimi. Forse il primo periodo, quello felice, quello nel quale dovevo solo preoccuparmi della mia natura e non dei mille e più problemi che adesso ci travolgevano. Anche dopo che mi raccontò le sue prime visioni il rapporto non era più lo stesso: la freddezza che aveva cominciato a far capolino nel nostro rapporto un po’ mi spaventava, ad essere sincero.
Attraversai il corridoio e mi fermai poco prima di entrare in cucina. Fu il chiacchiericcio tra Margaret e la signora Claire a fermarmi.
-Margaret, scusa se ho deciso di farmi viva ora, dopo tanto tempo. Cynthia non mi ha parlato molto bene della vostra situazione attuale e ho pensato di venire a darvi una mano- spiegò, senza sentirsi però davvero costretta a precisazioni.
-Già. Bhe, in effetti, siamo rimasti un po’ sorpresi dal tuo telegramma. Pensavo che fossi davvero troppo occupata col tuo lavoro nel negozio di antiquariato- rispose, evitando mi inserire troppa enfasi.
Tesi al massimo le orecchie, catturando ogni minimo spostamento d’aria.
-Oh, immagino, cara. Credimi, lo immagino. Ma dopo essere stata a contatto con Cynthia non ho potuto non intervenire- ammise.
Margaret si irrigidì. –Che…Che intendi dire?-
-Bhe, mi sembra chiaro che il suo comportamento non sia accettabile per una ragazza in età da marito. Insomma, dovrebbe apparire elegante, educata, più donna e invece sembra ancora una bambina- puntualizzò.
Sentii Margaret nascondere uno sbuffo di impazienza. Era furiosa, tesa, insofferente verso quella persona che evidentemente non poteva sopportare di vedere in casa sua. Ma doveva sopportare, come me.
-Non metto in dubbio che tu e Christopher abbiate fatto un buonissimo lavoro, però penso che senza il mio aiuto la vostra famiglia non riuscirà mai a riscattarsi- aggiunse.
-Anche Alice ha raggiunto l’età per sposarsi, non è vero?- domandò, evidentemente incuriosita dall’argomento. Strinsi i pugni, nascondendo un ringhio.
-Intendi dire che sei venuta qui solo per far sposare le nostre due figlie?- accusò Margaret.
-Esattamente, mia cara- annuì. Mi immaginai il sorriso potente che troneggiava sul viso di quella tradizionalista. -Se ci pensi, tutte le famiglie in rovina e un po’ più sveglie della vostra accedono a questo metodo-.
-Claire, non ti permetterò di fare una cosa del genere. Neanche sotto tortura- si oppose la madre di Cynthia e Alice.
-Bhe, non c’è bisogno che ti torturi, per farti accettare-. Le gambe di una sedia strisciarono sul pavimento. -Mi basta ricordarti che l’eredità dei nostri genitori è in mano mia. C’è bisogno che ti riporti alla mente che questa casa è solo una mia gentile concessione?! Io non ti devo niente, sorella. Sei tu che mi devi qualcosa-. Il rumore di un accendino spezzò il silenzio. L’odore di tabacco bruciato giunse alle mie narici. -Pensala in questi termini: ti sto aiutando a ritrovare le ricchezze che avete perduto-.
I passi sicuri della signora Claire attraversarono la stanza. La porta della cucina si aprì. Non mi calcolò neppure. Uscì in veranda per finire la sigaretta.   

***************
Mafra: Hey! Bhe diciamo che la tua supposizione è abbastanza esatta xD I fatti si stanno incasinando...E parecchio. Però devo dire che è davvero brutto tentare di scrivere di una storia di cui si sa già il finale...E' triste =(
Sono felice che, nonostante tutto, la storia continui a piacerti! Spero di non cominciare ad apparire noiosa o scontata o mielosa o robe del genere..In ogni caso, non aspettare a dirmelo! Il parere della gente mi aiuterebbe davvero a sviluppare la storia in modo migliore....
Grazie di tutto!


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Capitolo 16
*** Capitolo 15 ***


Ehm...Salve, gente!
Ehehehe chi non muore si rivede, si dice in questi casi!
Già non parlatemi del tempo che non aggiorno -.-" Sono millenni che non aggiorno!!
Ma adesso sono tornata!!!! ehehe, vi toccherà sopportarmi ancora per un po'!xD
Ok, ora passiamo al capitolo....Visto che la situazione non è già abbastanza complicata, aggiungiamo una nuova entrata!!
Ora scappo e vi lascio al capitolo! Prometto che aggiornerò più regolarmente!!!
Hope you enjoy ^.^


CAPITOLO 15

-Su, su. Forza! Muoviamoci!- sbraitò ancora una volta la signora Claire.
Bussai leggero sulla porta di acero. –Alice, sei pronta?- domandai cauto. –La zia Claire si sta innervosendo-.
-Ho quasi finito. Dammi solo un minuto-. Un fruscio leggero di tessuti ovattò la sua voce. Dei sospiri indecisi riempirono l’aria della stanza. Sentii i suoi passi, leggeri ma decisi, arrivare verso la porta.
Quando la aprì, mai avrei pensato di notare un cambiamento così repentino in Alice. Rimasi con la bocca aperta per qualche minuto vedendola indossare quel vestito così bello. Era color celeste, la gonna cadeva drappeggiata sulle cosce e un fiocco bianco latte le legava i fianchi dolcemente.
-Ti piace?- mi domandò, volteggiando su sè stessa. L’orlo del vestito ondeggiò, arricciandosi alle estremità.
-Sì- annuii. –È il vestito più bello che abbia mai visto-.
Sorrise, mostrando una schiera di denti piccoli e bianchi. –Grazie, Byron-.
Le sorrisi anch’io, totalmente ammaliato da quella creatura così diversa da me. Eravamo così diversi, eppure uniti da un filo invisibile che nemmeno io sapevo ben definire. Probabilmente era il suo segreto che ci rendeva più complici, ma per me era diverso: continuavo a essere rapito da quell’essere umano, dai suoi comportamenti. Come avevo fatto in passato, mi preoccupavo ogni secondo che stesse bene, che lo scialle che portava addosso la mantenesse abbastanza al caldo, che le scarpine non le facessero male.
Da quando avevo scoperto che, dopo la malattia, Alice non sarebbe più stata come prima, quest’attaccamento nei suoi confronti era diventato notevolmente più forte: non potevo permettere che il segreto che entrambi nascondevano con cura, in un angolo della nostra memoria, venisse a galla, scatenando le conseguenze più inimmaginabili. Sapevamo perfettamente entrambi quale sarebbe stato il suo destino, se non fossimo riusciti nel nostro intento: le poche volte che avevamo tentato di vagliare tutte le possibilità, arrivando inevitabilmente a ciò, io sussultavo, lei sbiancava e i suoi occhi si riempivano di un terrore insopportabile. No, non potevamo permetterlo. Dovevamo continuare a fingere che tutto andasse bene ed io dovevo accompagnare Alice attraverso quel viaggio nell’esistenza normale che avrebbe dovuto vivere.
In questo senso, l’arrivo della zia Claire aveva contribuito a liberarle la mente. Ora i momenti in cui la vedevo preoccupata e tesa verso il mondo era praticamente scomparsi, il che mi rendeva estremamente felice. L’idea che forse poteva davvero continuare a vivere in modo normale, mi dava la forza per continuare ad aiutarla.
Feste, balli, inviti per prendere un the, erano queste le attività che occupavano le giornate di Alice e Cynthia, da quando la zia Claire aveva preso in mano le redini della famiglia. E da quando frequentava tutto quello che Christopher considerava “frivolezze”, non l’avevo mai vista più felice.
Le sistemai le spalline, cadute asimmetriche dopo il suo volteggio scombinato.
-Allora?- esordì ancora zia Claire, parandosi al nostro fianco.
-Sì- annuì Alice. –Sono pronta-.
-Bene. Scendi nell’atrio, troverai Cynthia ad aspettarti- esclamò lei.
Alice annuì e si diresse con passo deciso giù dalle scale.
Rimanemmo così io e la vecchia zia. Lei mi fissò, lanciandomi uno sguardo puro di disprezzo. Sapevo che non le andavo proprio a genio. Come lo avevo scoperto? Diciamo che avere un udito supersensibile non aiuta. Tante volte l’avevo sentita parlare con Margaret, opponendosi fermamente alla mia presenza che sarebbe potuta risultare non adeguata ad occhi estranei. Ma Margaret non voleva sentire ragioni: avevo aiutato la famiglia e ormai era come se ci facessi parte.
Notai che i suoi occhi divennero due fessure infuocate. Tossicchiai per finta, aspettando che mi dicesse qualcosa.
-Ascolti, signor Byron- iniziò, mantenendo un tono di voce basso e apparentemente tranquillo. –Sappiamo benissimo entrambi che il nostro rapporto non è dei migliori ed è per questo che le chiedo di rimanere estraneo ai miei progetti per le due ragazze-. Sapevo benissimo cosa intendeva: non era la prima volta che uscivano per essere parte di queste nuove attività e non era nemmeno la prima volta che Margaret mi pregava di accompagnare le sue figlie, di controllare e di fare da supervisore alla situazione. Ovviamente, io accettavo di buon grado: a essere sincero, non piaceva nemmeno a me questa nuova vita che Alice aveva cominciato a seguire.
-So perfettamente quello che devo fare, signora Claire- risposi inacidito.
-Bene- sospirò lei. –Allora mi lasci fare in pace quello che mi sono prefissata-.
Scendemmo le scale, io dietro di lei. Sull’uscio vidi la signora e il signor Brandon fare le solite raccomandazioni alle ragazze. Nei loro occhi si poteva leggere tutta l’ansietà che quella situazione trasmetteva loro: avrebbero perso di lì a poco le loro figlie, la cosa più preziosa che possedevano.
-Mi raccomando, Cynthia- esclamò la signora Margaret, sistemando il capellino color confetto che la primogenita portava sul capo. –Stai attenta a tua sorella e comportati educatamente, anche tu Alice- aggiunse passando alla piccola Alice.
-Sì, mamma- entrambe risposero con un sorriso.
-D’accordo, d’accordo, basta smancerie- decretò la zia Claire, trascinando le due ragazze fuori dalla porta di casa. Sospirai affranto, sicuro che starebbe stato un pomeriggio lungo.
Margaret mi lanciò uno sguardo impensierito. –Non si preoccupi, signora Margaret. Farò del mio meglio-. Vidi il suo viso rilassarsi un poco.
Uscii dalla casa ritrovandomi davanti a un’auto abbastanza costosa per l’epoca, la stessa con la quale ogni volta ci recavamo nel luogo stabilito dall’invito. –Avanti, signor Byron, vuole decidersi a salire? Non ho intenzione di arrivare in ritardo- sbuffò la signora Claire.
Mi sedetti accanto a Alice, sul sedile posteriore. Rimasi tutto il tempo del viaggio a fissare quelle pupille scure, tentando di analizzare ciò che stava pensando. Lei se ne accorse e rimase a sorreggere il mio sguardo per eterni, lunghissimi minuti. E fu come se l’onice nella quale erano intagliati i suoi occhi si sciolse, mostrando tutto ciò che nascondeva in fondo a quell’anima pura ma fragile. Fu come essere travolti da una massa d’acqua che viaggiava alla velocità della luce. L’intensità con la quale mi tuffai nelle emozioni di Alice fu travolgente, diventare parte di quel fiume di vita fu il viaggio più stupendo che potessi mai fare. Purtroppo però quel contatto terminò troppo presto. Mi ritrovai sbalzato nel mondo reale senza nessun preavviso. Lo sguardo di Alice rimbalzava sulle sue ginocchia, il mio invece rimase vagante qualche secondo prima di rendersi pienamente conto che quel momento era finito.
Rimasi a fissare il paesaggio che veloce ci volava accanto.
 
-Alice, va tutto bene?- domandai avvicinandomi al lungo tavolo della sala.
-Sì- annuì lei. –Va tutto alla perfezione-.
La musica terminò con un arpeggio di violino. Le coppie si dispersero ai lati della stanza, aspettando che la piccola orchestra iniziasse una nuova melodia.
-Ti stai divertendo?- domandai, sistemando la gonna dell’abito.
I suoi occhi si illuminarono. –Sì, mi piace un sacco qui-.
Le sorrisi dolcemente. –In questo caso, le andrebbe di ballare con me, signorina Brandon?- scherzai, porgendole la mano e facendo un finto inchino. Lei iniziò a ridacchiare, bloccandosi però improvvisamente. Mi voltai per capire il motivo per cui la mia stella non potesse più ridere. Zia Claire, ovviamente. E stavolta non era sola.
-Alice, cara, ti volevo presentare una persona- esclamò, ponendo una mano sulla spalla a un tizio dai capelli rosso scuro. Questo sorrise sornione, fissando la piccola Alice negli occhi. -Si chiama Maurice Bradley ed era molto impaziente di fare la tua conoscenza- aggiunse.
Quel Maurice allungò un braccio verso il petto di Alice. –Molto piacere- disse. –È davvero un onore fare la sua conoscenza, signorina Brandon. Sua zia mi ha parlato molto bene di lei-.
Strinsi i pugni quando Alice sfiorò la mano di Maurice con le sue dita fragili. –Piacere- mormorò.
I due rimasero a fissarsi qualche secondo: Maurice con un sguardo sicuro e fiero, Alice più titubante e assorta. Conoscevo perfettamente quello sguardo insicuro: stava contemplando ciò che aveva visto con quello che si ritrovava davanti agli occhi e, visto la tensione che le attraversava il corpo, le due immagini dovevano combaciare.
-Perfetto- esclamò la signora Claire un'altra volta. –Perché non andate a ballare ora? Questa danza non è la tua preferita, Alice?-.
Spinse i due verso il centro della sala, dove Maurice prese per i fianchi Alice iniziando a farla piroettare. Rimasi immobile a fissare il vuoto. Sentii la signora Claire ridacchiare mentre si allontanava da me. Strinsi i pugni e digrignai i denti.
Per quanto quel tizio potesse essere perfetto, avevo la sensazione che non avrebbe portato nulla di buono alla precaria vita di Alice. Anzi, non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione.
  



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