La porta dei desideri

di _Fedra_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Sospesa ***
Capitolo 3: *** Lucy Pevensie ***
Capitolo 4: *** La Signora Bianca ***
Capitolo 5: *** La porta nascosta ***
Capitolo 6: *** Occhi Neri ***
Capitolo 7: *** Il destino di Narnia ***
Capitolo 8: *** Fuga ***
Capitolo 9: *** Traditore! ***
Capitolo 10: *** Nella foresta ***
Capitolo 11: *** All'accampamento di Aslan ***
Capitolo 12: *** Da soli ***
Capitolo 13: *** Sacrificio ***
Capitolo 14: *** La morte di Aslan ***
Capitolo 15: *** La battaglia ***
Capitolo 16: *** Tempo di tornare a casa ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


  La foresta era di nuovo lì. I miei piedi sfioravano il terreno ricoperto di foglie, le mie dita raggiungevano i ruvidi tronchi degli alberi alti come cattedrali che mi circondavano da ogni parte, i raggi del sole che penetravano trasversali dalle loro chiome maestose, simili ad accecanti lame di luce. Correvo. Volavo. Ero a casa. E poi eccola, la spiaggia. La sabbia si sgretolava soffice e calda tra le mie dita mentre mi precipitavo verso la battigia e mi bagnavo di quei flutti limpidi e ribelli che si perdevano a vista d’occhio sotto quel cielo avvolto da grandi nubi viola e rosate. Il grande palazzo di marmo bianco era ancora lì, a strapiombo sul mare, le sue intricatissime geometrie di arcate e colonne bianche svettavano verso l’alto come mai nessuna costruzione eretta da mano umana avrebbe potuto. Le sirene giocavano a rincorrersi a pochi metri da me, spruzzandosi tra di loro e ridendo con le loro voci argentine, goccioline trasparenti scivolavano dalle loro lunghe chiome ondulate del colore dell’acqua cristallina. Quattro figurette avanzavano verso di me, la luce del sole alle loro spalle disegnava le loro sagome, nascondendone però i volti. Corsi loro incontro, chiamandoli a gran voce. Era bello rivederli ancora lì. Un grande leone dalla criniera dorata osservava paziente i nostri giochi sulla sabbia con i suoi antichi e saggi occhi d’ambra.
NOTE DELL'AUTRICE
Avrete capito  certamente che si tratta di un sogno fatto dalla protagonista. Tutto è un miscuglio di ricordi e sensazioni dei quali, purtroppo, al risveglio non serberà alcun ricordo. Riuscirà la nostra amica a ritrovare la strada giusta per Narnia?
 

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Capitolo 2
*** Sospesa ***


C’è un’età in cui bene e male sono fusi in un unico e intrigante intreccio, nel quale il passo fra il baratro e la salvezza è pressoché nullo. Ogni cosa appare spaventosamente sbiadita e vuota, senza che tu possa fare niente per fermare la morsa gelida di questo grigiore che invade ogni cosa, soffocandola e congelandola in se stessa. No, ero cosciente di non essere depressa, o perlomeno non volevo arrendermi a questa prospettiva. Più che altro, mi sentivo, ecco, sospesa. Era come se la mia vita avesse chiesto qualche mese di time-out per riflettere sul da farsi, dal momento che non sembrava reggere l’enorme quantità di cambiamenti che l’avevano travolta. Avevamo appena traslocato in pieno centro, per stare più vicini al posto di lavoro di papà, a largo Argentina, proprio di fianco al teatro dove diversi anni prima andavo di frequente con la mia famiglia, in quella piazza piena di gatti e di antiche rovine dove il tram passa di continuo con il suo assordante sferragliare che fa tremare i vetri delle finestre del’antico palazzo come se ci fosse il terremoto. Per carità, quel posto era incredibilmente grande e affascinante, uno di quei grandi edifici di molti anni fa pieni di rifugi e passaggi segreti, a tal punto che, a distanza di settimane dal trasloco, avevo ancora paura di perdermici dentro. Ma cosa avrebbe mai potuto sostituire la mia vecchia casetta di periferia? Per carità, era isolata dal mondo e tutto ciò che può comportarne, ma…ma peccato che fosse proprio il luogo dove ero nata e cresciuta e che ora era in mano a dei perfetti sconosciuti. E poi, avevo anche cambiato scuola. Quello era il mio primo anno di superiori al liceo classico, non molto lontano da lì. Era una scuola dura e impegnativa e ogni giorno mi sentivo sempre più demotivata e delusa dai voti che, nonostante i miei continui sforzi, si ostinavano a rimanere bassi. Sapevo che la mia pagella sarebbe stata tutt’altro che buona. Forse mi sarei impegnata di più se avessi avuto il sostegno e l’incoraggiamento della mia famiglia, ma in quel momento sembravano tutti presi da cose di gran lunga più importanti di me, perciò il più delle volte mi ritrovavo completamente sola nel grande appartamento, rivedendo i miei solo a cena, quei dieci minuti scarsi che non bastavano mai a fare una conversazione civile prima che alla TV trasmettessero il dibattito politico di turno. Avrei voluto tanto poter contare su degli amici, ma tutte le persone che avevo frequentato fino a quel momento se ne erano rimaste a condurre tranquillamente le loro vite nel mio vecchio quartiere sull’Appia, divisi da me da chilometri di macchine e colate di cemento armato. Nella mia nuova classe, poi, non mi trovavo affatto bene con i miei nuovi compagni. Loro facevano parte di una comunità ben consolidata, con tutte le sue regole e gerarchie, e io ero l’estranea che non avrebbe mai potuto alterare in alcun modo la barriera invisibile che si erano costruiti attorno, né francamente mi andava di entrarci per poi rimanervi intrappolata. Solo che mi mancava la compagnia e tutti quei punti di riferimento che una ragazza di quattordici anni può desiderare. Tutto mi sembrava grigio e immobile, privo di senso; ogni cosa appariva piatta e mi era indifferente. L’unica cosa di cui ero consapevole, era che in quella posizione sarei stata in grado di fare davvero qualsiasi cosa. Sì, ma cosa e, soprattutto, quando? Questo mi chiedevo mentre camminavo a testa china sul marciapiede affollato, le mani in tasca e le braccia strette nel cappotto, rabbrividendo per il freddo pungente. Si avvicinava il Natale, ma la cosa mi era del tutto indifferente, anzi, mi riempiva il cuore di malinconia. Per me, ormai, il 25 dicembre era un giorno come un altro, aveva perso tutta la magia che aveva avuto un tempo. Niente Babbo Natale accompagnato da uno stuolo di folletti a nascondere i pacchetti sotto l’albero, niente meraviglia davanti al presepio,  a quel piccolo microcosmo che mi ero sempre divertita a creare nell’angolo del salotto, niente fiabe, niente magia. Tutto quello era stato smascherato e bruciato. Era stata tutta una presa in giro ordita dai grandi alle spalle di me e di Leo. Si erano divertiti e ci avevano ingannati, ma ora il gioco era finito. Non restava che il vuoto e la delusione. Era venuto il momento di diventare grandi. E ora, nel vedere quegli esagerati fiocchi rosse e le luminarie accecanti che lusingavano i passanti carichi di pacchi, pensavo con rabbia a quali perversioni avesse portato il cinismo della nostra specie. Ma era davvero così? Non sapevo cosa pensare. Mi allontanai quindi da quella folla pazza il più veloce che potevo e mi incamminai su per la scalinata del Pincio, inoltrandomi nel verde. Speravo di trovare un po’ di pace ai miei folli pensieri, ma quelli sembravano essersi fatti ancora più martellanti dal momento che non c’erano più le voci gracchianti degli altoparlanti pubblicitari che annunciavano l’ultima offerta ad assordarli. Alzai ancora di più la musica negli auricolari, ma fu tutto inutile. Alla fine, mi strappai con rabbia le cuffie dalle orecchie prima che mi si fondesse il cervello, fermandomi nell’ampio piazzale in cui ero giunta. Alzai gli occhi spaesata, pendendo due gelide boccate d’aria. Fu allora che la notai per la prima volta. Era un’enorme statua di leone, lassù, in cima a una balaustrata. I fieri occhi di pietra erano puntati su di me e sembravano guardarmi con aria sorniona. Un brivido mi percorse improvvisamente la schiena, nello stesso momento in cui quella parola mi rimbalzò nella mente: Aslan! Sgranai gli occhi e fissai la statua con più attenzione. Aslan? Da dove proveniva quel nome? Ma era un nome, poi? Mi erano improvvisamente balzate alla mente delle certezze che a rigor di logica sarebbero state perfettamente impossibili, simili a quelle che a volte si incontrano nei sogni, quando viene pronunciato un nome che provoca immediatamente una strana sensazione nel cuore di chi lo ascolta, quasi come se celasse in sé un significato straordinario, anche se a pensarci bene non ha alcun senso. Fu in quel momento che desiderai più di ogni altra cosa ritrovare la magia che mi era stata strappata via e di provare agli altri che esisteva davvero. Un desiderio improvviso quanto rapido, interrotto da un pianto sommesso che giunse alle mie orecchie in quel momento. Qualcuno singhiozzava disperatamente fra gli alberi.     

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Capitolo 3
*** Lucy Pevensie ***


Era una ragazzina a occhio e croce di una decina d’anni, con i capelli castano ramato tagliati corti ornati da un fiocco verde. Era rannicchiata a piedi di un grande albero e piangeva senza freno, il volto nascosto fra le ginocchia e le spalle esili scosse da tremiti. La sola vista, mi provocò un improvviso moto di compassione. Mi sedetti accanto a lei, cercando di farla ritornare in sé.
“Coraggio, piccola” tentai di consolarla. “Cosa ti è successo, eh? Perché sei qui da sola?”.
La bambina levò su di me i suoi grandi occhi azzurri. Aveva una faccetta buffa e grassottella, con quel buffo nasino all’insù ricoperto di efelidi sulla pelle bianco latte. Così conciata, mi ricordava tantissimo una ranocchia.
“Ecco,” le dissi, porgendole un fazzoletto “questo ti farà sentire meglio”.
Non l’avessi mai fatto! Non so perché, ma quel gesto le provocò immediatamente una nuova ondata di pianto, quasi le avesse ricordato il motivo per cui era così triste.
“Su, su, non piangere!” tentai disperatamente di consolarla. “Sicura che non posso fare nulla per aiutarti?”.
“Io non sono una bugiarda!” singhiozzò la bambina, appoggiando la testolina sulla mia spalla. “Perché mentire così? Ma tanto è inutile, loro non mi crederanno mai”.
“Loro chi?”.
“I miei fratelli. Non credono al fatto che io sia stata a Narnia. Pensano che sia stato solo un sogno o che sia diventata matta”.
“Narni?” domandai io, pensando subito al piccolo paesino in Umbria dove ero stata con la mia famiglia tanti anni prima per una vacanza.
“No, no, Narnia” mi corresse la bambina. “Il mondo nell’armadio guardaroba”.
La fissai allibita. Sì, era matta, completamente fuori di testa. “Nell’armadio?” domandai.
La piccola mi lanciò un’occhiataccia. “D’accordo che può sembrare una cosa assurda,” mi disse serissima “ma le cose stanno così. Semplicemente, io e i miei fratelli stavamo giocando a nascondino e mi sono rifugiata in un armadio. Solo che a un certo punto…l’armadio non c’era più, ma al suo posto era comparsa una foresta tutta ricoperta di neve. E’ lì che ho incontrato il signor Tumnus, che mi ha spiegato che quella terra si chiama Narnia e che ora è sotto la maledizione della Strega Bianca, che h mandato un lungo inverno in cui non c’è mai il Natale…Poi sono dovuta ritornare qui e i miei fratelli non mi hanno creduta. Anch’io a un certo punto mi ero convinta di aver avuto un’allucinazione, ma poi, la notte seguente, mi sono ritrovata di nuovo lì. E non ero sola: anche mio fratello Edmund è venuto con me. Ero così felice, speravo che lui mi avrebbe aiutata a provare che dicevo il vero, ma quando è arrivato il momento di dirlo a Peter e Susan, lui ha fatto finta che non fosse accaduto nulla e mi ha trattata come una stupida!” i suoi occhi si riempirono di nuove lacrime. “Non sono una bugiarda! Esiste davvero, lo giuro!”.
Io non sapevo cosa dire. Quello era di gran lunga il racconto più assurdo che avessi mai udito in vita mia. Come crederle? Solo che non volevo ferirla ulteriormente. Che fare dunque? “Non so che dirti, tesoro” le dissi dandole un buffetto sulla spalla. “Ma sono sicura che in qualche modo troveremo una soluzione”.
Fu allora che mi resi conto che la bambina, nonostante facesse un freddo polare, aveva indosso solamente un leggerissimo vestitino di seta rosa a pallini neri che le lasciava scoperte le braccia e gran parte delle gambe.
“Ma sei matta?” esclamai, togliendomi il cappotto  e gettandoglielo sulle spalle. “Così ti ammalerai!”.
La piccola mi fissò con l’aria di chi si stava chiedendo se per caso avessi qualche rotella fuori posto. “Perché mi butti questo giaccone così pesante sulle spalle, con tutto il caldo che fa?”.
“Caldo? Ma se fa meno cinque!”.
“Me è estate! Tu non senti caldo?”.
Sgranai gli occhi per la sorpresa. “Ma è il 19 dicembre!” esclamai.
La bambina mi fissò scuotendo il capo. “Sicura di stare bene?” chiese in tono innocente.
“Io…”. Non sapevo cosa rispondere. La guardai con ancora più attenzione e fu allora che mi resi conto che c’era qualcosa di completamente fuori posto in quella ragazzina, come se non avrebbe mai dovuto trovarsi lì. Era come se fosse stata una creatura completamente dislocata nello spazio e nel tempo. Ma che cosa stava succedendo?
“Chi sei tu?” balbettai.
“Lucy Pevensie, tanto piacere” si presentò lei, tendendomi la manina grassoccia con disinvoltura.
“Io…sono Cate Mantis” risposi io, stringendogliela. “Ma…che ci fai qui? Scusa, ma non capisco. E i tuoi genitori?”. Non riuscivo a trovare il filo logico di tutta quella storia.
“Io vivevo a Londra fino a poco tempo, fa, prima della guerra” rispose Lucy.
“Guerra?”.
“Siamo dovuti fuggire in una casa di campagna perché era diventato troppo pericoloso per noi restare in città. E il mio papà è partito per la guerra” continuò lei.
“Ma di quale guerra parli?” domandai io, spaesata.
“Ma della guerra che c’è ora, no?” rispose Lucy. “Quella contro i Tedeschi”.
“I Tedeschi? Ma quando?”.
“L’anno scorso, il 1939”.
Mi sentii sprofondare. Cosa? Mi guardai nervosamente attorno. Fui presa dal panico. In quel momento non ero più a Roma! Ero sempre seduta ai piedi di un grande albero, solo che questo sorgeva ai margini di un bel prato che abbracciava una bella casa di campagna, nel quale tre ragazzi erano tutti presi a giocare. Quello che sembrava il più grande, un giovanotto biondo dal sorriso simpatico, si voltò verso di noi.
“Vieni, Lu!” esclamò agitando il braccio.
Lucy scosse il capo e appoggiò il mento alle ginocchia, fissando il vuoto davanti a sé, isolandosi in un mondo tutto suo. In un attimo, tutto scomparve e mi ritrovai di nuovo ai piedi di nuovo ai piedi del grande albero sotto il quale avevo creduto di vedere la bambina. Avevo i brividi e le gambe mi tremavano in maniera incontrollata. Non riuscivo a credere di aver vissuto veramente quella esperienza, ritrovandomi a parlare con una persona nata molto tempo prima di me e che forse era già morta da un pezzo. Quel pensiero mi fece venire le vertigini. Possibile che fossi del tutto impazzita? Feci per andarmene, quando notai qualcosa che faceva capolino fra gli incolti ciuffi d’erba. Mi chinai e lo raccolsi. Era un libro, un  grande volume nero con una bella testa di leone che occupava quasi tutta la copertina. Lessi il titolo e sussultai per la sorpresa: C.S. Lewis, “Le Cronache di Narnia”.
 
 
 
 ECCOMI DI NUOVO! COME AVRETE GIA' CAPITO DAL TITOLO, LA BAMBINA CHE PIANGE E' LUCY E LA GIOVANE CATE SI STA TROVANDO AL CENTRO DI UN EVENTO OLTRE I LIMITI DEL POSSIBILE: STA VIVENDO IN PRIMA PERSONA, SENZA RENDERSENE CONTO, NEL PASSATO. POTREBBE ESSERE LA PORTA PER GIUNGERE A NARNIA INSIEME AI PEVENSIE, MA, PURTROPPO, IL DESTINO A IN SERBO PER LEI UNA VERA E PROPRIA PROVA CHE CAMBIERA' OGNI COSA TRA POCHISSIMO. ALLA PROSSIMA PUNTATA, DUNQUE!

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Capitolo 4
*** La Signora Bianca ***


Alla fine, la pagella arrivò e fu molto peggio di quanto mi fossi aspettata. Quattro insufficienze e voti non superiori al sei. Mi avrebbero bocciata quasi sicuramente. Non avevo scampo. Le gambe mi tremavano per la paura mentre ritiravo il foglio maledetto dalle mani del preside di fronte a tutta la classe, pochi istanti dopo il suo inappellabile verdetto. A casa, mi avrebbero come minimo spellata viva. Almeno, avrei dato loro un’occasione per ricordarsi di me. Il tragitto dal lungo Tevere a largo Argentina mi sembrò maledettamente corto, durante il quale pensai più  di una volta di sbarazzarmi definitivamente di quella roba, pur di evitare la sfuriata. Ma non ebbi il coraggio di peggiorare ulteriormente la situazione, no. E così, mi presi tutte le conseguenze senza fiatare. Mia madre scoppiò a piangere senza freno, mentre mio padre si eresse sopra di me in tutta la sua statura, urlando che mi avrebbe spedita a lavorare in seduta stante, rinfacciandomi la mia inettitudine e ingratitudine nei loro confronti, loro che avevano fatto così tanto per me. Io incassai tutto senza battere ciglio, immobile sulla sedia della cucina, fino al verdetto finale, secondo il quale sarei rimasta in punizione per tutte le vacanze di Natale. Mi rintanai in camera mia senza proferire parola, poi, una volta assicuratami di essere completamente sola, scoppiai a piangere senza freno. La mattina seguente, il cielo era un unico velo bianco e freddo e una gelida pioggerellina invernale scendeva lenta e inesorabile simile a delle lacrime. Io ero come al solito abbarbicata alla fermata del tram, stringendomi inutilmente negli abiti alla ricerca di un minimo di tepore. Non potevo neppure consolarmi con un po’ di buona musica, dal momento che mi avevano sequestrato anche il lettore CD. La mia pazienza straripò nel momento in cui passò l’ennesimo tram con la scritta FUORI SERVIZIO in bella mostra sul davanti. Dannazione! Controllai nervosamente l’orologio che avevo al polso. Erano già le otto. Era tardi, maledettamente tardi, e non avevo alcuna intenzione di farmi tutta la strada a piedi, non con quel gelo. Molti pendolari se n’erano andati, i più fortunati avevano chiamato un taxi. Stavo già incominciando a disperare, quando una voce educata, ma dal marcato piglio autoritario, mi fece alzare la testa di scatto.
“Serve un passaggio, carina?”.
Sollevai lo sguardo e mi ritrovai a incrociare quello della donna più spaventosamente bella che avessi mai visto. Era altissima, più di qualsiasi altra persona alta che conoscevo, e aveva la pelle di un bianco innaturale, di un pallore che non avrei mai giurato di vedere in un essere umano, così simile a quello di un cadavere. I capelli biondo platino erano lunghissimi e pettinati con una cura quasi ossessiva, senza neanche una ciocca fuori posto. Gli occhi celesti erano freddi e penetranti e mi risultò subito impossibile sostenere il suo sguardo di ghiaccio. Il suo corpo slanciato era fasciato da un’elegantissima pelliccia bianca.
“Allora, serve un passaggio?” domandò ancora la donna, lanciandomi un sorriso che non avrei mai saputo interpretare.
“Io, signora, veramente…” mi schermii, completamente a disagio. Non mi piaceva.
“Sei tutta gelata, cara, e suppongo che tu sia in ritardo a scuola” continuò lei imperterrita.
“Me la posso cavare benissimo da sola, grazie” balbettai io indietreggiando di un passo.
“Cate,” mi interruppe la donna, allargando ancora di più il suo sorriso indecifrabile “non farti pregare. Tu lo sai che posso aiutarti”.
Mi mancò il fiato. “Chi è lei?” chiesi in preda al panico. “Come conosce il mio nome?”.
La sconosciuta scoppiò in una risatina. “Io so molte cose, Cate. Molte più di quanto tu stessa possa immaginare. Ma ti chiederei davvero troppo nel pregarti di credere alla magia”.
Per un attimo, il mio cuore cessò di battere. Aveva detto magia? La squadrai da capo a piedi, sospettosa.  Possibile che la mia preghiera fosse stata esaudita?
“Magia?” ripetei, sollevando un sopracciglio.
La sconosciuta allargò ancora di più il suo sorriso, cingendomi le spalle con il suo cappotto di pelliccia bianca. “So che potrà sembrarti una cosa folle,” mi disse accarezzandomi i capelli “ma io ho il potere di fare avverare i desideri. Lo avrai di certo intuito da sola che non sono una donna come le altre, non è vero? Del resto, sei una ragazza intelligente, Cate, e il tuo cervellino lo sa bene che non posso mentirti”.
La guardai dritta negli occhi. “E come può provarmi una cosa del genere?” le domandai in tono di sfida.
La donna mi fissò con aria interrogativa. “Non eri tu quella che aveva desiderato di ritrovare la magia?” mi chiese con la sua voce incredibilmente bella e sensuale. “Ebbene, eccomi qua, pronta a farti felice. Io posso far ritornare la magia nella tua vita e molto di più. Se lo vorrai, infatti, mia dolce Cate, potrai diventare come me”.
Io sussultai, sgranando gli occhi per la sorpresa.”In che senso come lei?” chiesi inebetita. Mi sentivo terribilmente strana, come se improvvisamente ogni mia terminazione nervosa si fosse intorpidita, provocandomi una sorta di sonnolenza.
“Oh, non lo sai?” mi incalzò la Signora Bianca. “Io sono una regina, Cate. Regina di una terra grande quanto meravigliosa: il mondo di Narnia”.
“Cos…aspetti! Ha per caso detto Narnia?” esclamai incredula.
“Certo, cara” rispose la donna. “Noto con piacere che ti suona familiare questo nome”.
“Anche una persona che conosco mi aveva parlato di Narnia. Oh, era così triste perché i suoi fratelli non le credevano…”.
“Tutti i bambini tristi desiderano andarsene dal loro mondo per trovarne uno nuovo in cui ogni loro desiderio diventa realtà. Ecco allora che arrivo io e lo porto con me, nel mio castello, nel quale potranno godere di una vita lunga e felice, senza dover mai temere nulla. Del resto, finché ci sono io a garantire ordine e pace nel mio regno, di che cosa devono avere paura?”.
“E posso venire anch’io, in questo regno?” domandai estasiata. Dopotutto,, che cosa ci restavo a fare io in quella città puzzolente che tra l’altro neanche mi apparteneva? Forse davvero il mio posto era a Narnia.
“Certo che puoi venire, mia dolce Cate” rispose la Signora Bianca senza smettere di sorridere. “Vivrai in un castello con tanti servitori tutti per te, che ti porteranno ogni mattina tante cose buone da mangiare e vestiti eleganti per andare alle feste che organizzo sempre per il mio popolo. Pensa: non dovrai più rassettare la tua cameretta, avere dei genitori che si ricordano di te solo per sgridarti e un fratello maleducato fra i piedi e, soprattutto, nessuno ti costringerà mai più a studiare il latino e il greco. Anzi, la vuoi sapere una cosa? A Narnia, il latino e il greco sono banditi dalla legge, perché vanno contro la morale delle persone perbene. Ci pensi?”.
In quel momento, avrei fatto i salti di gioia. Un mondo senza latino e greco? Ma c’era bisogno di chiedermi pure il permesso per andarci ad abitare?
“Ci sto!” esclamai convinta. “Ma…” un dubbio mi balzò improvvisamente alla mente  “è sicura che non devo fare nulla in cambio?”.
La Signora Bianca mi accarezzò una guancia. Le sue dita erano fredde come il ghiaccio. “In un mondo dove tutti sono felici, può esistere una qualsiasi forma di debito ad affannare il cuore?” domandò ridacchiando. “No, Cate, ciascuno si serve in abbondanza di ciò che Narnia offre”.
“E come faccio ad arrivarci?”.
“Ascoltami. Narnia ha tante porte in questo mondo, ma solo alcune sono quelle giuste. Purtroppo, non mi è concesso vederle dal mio mondo, perciò sarai tu a scegliere da quale passare. L’importante è che tu ti ricorderai di me, prima di lasciare questo mondo, e allora io sarò lì, pronta ad accoglierti nel mio regno. Ricordati di Jadis, la regina di Narnia. Lo farai, non è vero? Promettimelo!”.
“Prometto”.
Il fiato mi mancò, quasi mi avessero appena colpita con un pugnale dalla lama di ghiaccio. Avevo la nausea e sentivo crescere in me un sentimento orribile, una sorta di tristezza infinita che mi faceva venire una voglia disperata di urlare il mio dolore. Sollevai lo sguardo. Il traffico e gli antichi palazzi di largo Argentina erano scomparsi, lasciando il posto ai tronchi colossali di una bellissima foresta. La neve cadeva lenta dal cielo nascosto dai rami, ricoprendo ogni cosa con il suo manto gelido e inesorabile.  
AVRETE CAPITO SICURAMENTE CHE LA NOSTRA CATE SI TROVA ORA IN BALIA DELLA STREGA BIANCA E, SE CONOSCETE GIA' LA STORIA DI NARNIA, QUEST'ULTIMA SI RIVOLGE ALLA RAGAZZA PROPRIO NELLO STESSO MODO IN CUI AVEVA FATTO CON EDMUND...COMINCIATE A INTUIRE QUALCOSA? ;)
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 5
*** La porta nascosta ***


INNANZITUTTO, AUGURO UN BUON NATALE A TUTTI VOI!! PREMETTO CHE AVREI PREFERITO INSERIRE UN CAPITOLO UN PO' PIU' ADEGUATO ALLA CIRCOSTANZA, MA, PURTROPPO, QUI SI DEVE SEGUIRE L'ANDAMENTO DELLA STORIA. VI CONSIGLIO DI AANDARVI A PRENDERE UN CAPPOTTO E UNA CIOCCOLATA CALDA PRIMA DI LEGGERE, PERCHE' DA QUI IN POI FARA' FREDDO!!!!

Uno, due, tre. Ero sola. Completamente sola. L’appartamento era di nuovo sprofondato nel silenzio. Rimasi distesa ancora per un po’ sul mio letto, ascoltando gli scricchiolii che provenivano dagli angoli più lontani della casa, cercando di non farmi influenzare troppo dalla mia immaginazione che mi stava già tirando brutti scherzi. Voltai il capo verso il comodino, cercando di vedere l’ora. Le quattro? Ancora le quattro? Sbuffai tristemente. Era dura stare agli arresti domiciliari. Niente musica, computer o televisione. Niente passeggiate per Roma. Niente di niente. Tranne la bella pila di libri che mi aspettava in bella mostra sulla scrivania, ovvio. Papà era stato molto chiaro su questo: al suo ritorno, la versione di greco doveva essere impeccabile. Sospirai con rassegnazione e mi tirai su a sedere. Dovevo mettermi al lavoro, prima o poi. Mi trascinai quindi alla scrivania e crollai pesantemente sulla sedia, frugando alla cieca all’interno dello zaino alla ricerca del quaderno, quando le mie dita incontrarono qualcosa che dovevo aver dimenticato al suo interno. Sussultai per la sorpresa e lo estrassi, grattandomi la nuca con fare perplesso. Come avevo fatto a scordarmelo lì dentro?  Le Cronache di Narnia mi balzarono in grembo come se avessero avuto vita propria, quasi mi stessero pregando disperatamente di leggerle. Soppesai pensosamente il libro, Spostando lo sguardo ora sulla sua copertina iridescente, ora sul volume di grammatica greca. Ma sì, del resto, se volevo andare a vivere a Narnia, avrei prima fatto meglio a documentarmi un po’, no? Fu così che, senza starci a pensare oltre, mi ritrovai assorta nella lettura. Trovai subito Lucy e i suoi fratelli e seguii le loro avventure proprio come me le aveva descritte lei. Che cosa strana! Possibile che le parole di quella bambina potessero risultare perfettamente all’interno di uno dei classici della letteratura inglese?  C’erano ancora troppe cose che non capivo. Speravo solo di avere delle risposte andando avanti nella lettura…Stavo giusto leggendo il capitolo in cui Edmund attraversava l’armadio, quando improvvisamente udii un fortissimo schiocco seguito da uno zampettare concitato, che nel silenzio dell’appartamento risultò forte come uno sparo. Topi!, pensai in preda al panico. Per forza, cosa potevo aspettarmi in una casa così grande e vecchia come quella, per di più ricoperta interamente da rivestimenti di legno? Afferrai quindi una delle mie ciabatte e mi avviai con passo felpato verso la porta. Mi affacciai furtiva, ma tutto ciò che vidi fu solo il corridoio buio. Stavo giusto per rientrare in camera, quando di colpo gli scricchiolii ripresero, questa volta dalle parti del salotto.
“Maledetto ratto,ora la vedrai!” imprecai furibonda, saltellando dietro a quel rumore, salvo ritrovarmi ancora una volta in una stanza deserta e semibuia.
“Dove sei?” ringhiai, aggirandomi fra le poltrone simile a una belva in gabbia, sperando solo che quella bestiaccia non balzasse fuori all’improvviso per azzannarmi l’alluce. Come in risposta alla mia domanda, lo scricchiolio mi prese alle spalle. Sobbalzai spaventata e mi gettai all’inseguimento, pronta a scagliare la ciabatta in testa a quella bestiaccia maledetta. Dovevo averlo ormai quasi preso, il corridoio non portava da nessuna parte. E invece, quando pensavo di averlo in pugno, eccotelo che squittisce da dietro la porta del ripostiglio delle scope, nascosta dietro una pesante tenda rossa.
“Ora basta giocare, vieni fuori!” esclamai furibonda, scostando con violenza il tendaggio polveroso e spalancando la porticina.
Un’improvvisa ventata di freddo mi penetrò fin dentro le ossa, mozzandomi il fiato. Che strano! Mah, forse sarà stata qualche presa d’aria nascosta…nel ripostiglio, poi! Basta, era ora di farla finita. Feci un passo deciso in avanti, avanzando nel buio più totale, poi, di colpo, mi ritrovai a camminare nella neve. Bianco, bianco ovunque. E freddo. In un attimo, il gelo mi penetrò nella carne più tagliente di qualsiasi lama attraverso il tessuto dei miei calzini rosa, facendomi gemere per il dolore. Crollai ai piedi di un albero, battendo i denti per quel freddo insopportabile che mi paralizzava lì dov’ero, così pungente che mi impediva perfino di pensare. Cercai disperatamente la porta del ripostiglio dal quale ero venuta, ma quella era scomparsa! Ero sul punto di mettermi a piangere, quando, improvvisamente, dagli alberi emerse un’alta figura bianca con in testa una strana corona appuntita e una lunga verga d’argento in mano, molto simile a una bacchetta magica. Al suo fianco, arrancava a fatica un omino basso e peloso, con la lunga barba grigia che gli arrivava fino ai piedi. La donna mi sorrise, ma non era più il sorriso candido e formale che mi aveva rivolto quella mattina alla fermata del tram, no, ma un ghigno freddo e crudele, torreggiando su di me in tutta la sua imponente statura.
“Guarda un po’ chi c’è” commentò in tono sarcastico, mentre il nano sghignazzava al mio fianco con la sua vocetta stridula. “Hai freddo, Cate? Non temere, piccina, ora ci pensiamo noia trovarti una sistemazione adeguata, non è vero, Gilabrik?”.
“Io…non toccatemi!” provai a farfugliare, ma capii con orrore che tutto era inutile.
Un dolore accecante mi esplose alla testa, un attimo prima di sprofondare nell’oblio. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
  

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Capitolo 6
*** Occhi Neri ***


ECCOMI QUA, DOPO QUALCHE GIORNO DI ASSENZA, TRA UNA FETTA DI PANDORO E UN CONCERTO DI NATALE. CARE INNAMORATE DI EDMUND, STASERA NON VI DELUDERO'!! ANZI, S EVOLETE UN CONSIGLIO, MENTRE LEGGETE, SENTITEVI "UN SENSO DI TE" DI ELISA: MI E' STATA MOLTO UTILE MENTRE SCRIVEVO POCO FA. BUONA LETTURA!!!
Riaprii gli occhi lentamente. Non ricordavo nulla di quello che era accaduto e non avevo la minima idea di dove mi trovavo. L’unica cosa di cui ero consapevole, era che mi sentivo tutte le ossa rotte. Una terribile sensazione di gelo mi paralizzava. Sollevai una palpebra, poi l’altra, anche se desiderai immediatamente di non averlo mai fatto. Ghiaccio. Ghiaccio ovunque, sulle pareti e sul pavimento liscio, persino sulle pesanti sbarre di ferro che si innalzavano a pochi centimetri da me, bloccandomi ogni via di fuga. Ero in trappola! In preda al panico, tentai disperatamente di levarmi in piedi, ma una pesante catena che mi bloccava le caviglie, ancorandomi al suolo, mi impedì ogni movimento.
“No!” singhiozzai, battendo furiosamente un pugno sul pavimento gelido. Dal palmo, già di per sé di un preoccupante color prugna, fuoriuscirono alcune gocce di sangue. “No! NO!”.
Scoppiai a piangere senza più freno, nascondendomi il volto tra le ginocchia. Perché, perché mi stavano accadendo tutte quelle cose orribili? Che cosa avevo fatto di male? Volevo andare a casa, anche a costo di dover tradurre l’intero libro di versioni, qualunque cosa, purché quell’incubo finisse. Ma quello non era un incubo, ma la realtà e io non potevo fare nulla per sfuggirle. Ero spacciata. Ero lì, a rimuginare quei terribili pensieri, quando un improvviso trambusto mi fece sussultare dalla testa ai piedi. Qualcuno stava venendo verso di me. Sentii di nuovo la vocetta stridula del nano rimbombare nella penombra della prigione. Mi si rivoltò lo stomaco per la nausea. Mi ritrassi il più possibile contro la parete della cella, pregando con tutta l’anima che la creatura non fosse lì per me. Ma non era solo. La creatura stava infatti trascinando in malo modo un ragazzo all’incirca della mia età, tenendogli la lama ricurva del suo pugnale puntata contro la sua schiena. Il ragazzino non batteva ciglio e non osava fare alcun tentativo di divincolarsi, paralizzato com’era dal freddo e dalla paura.
“La vostra stanza, vostra maestà” lo canzonò il nano, tirandogli uno spintone che lo mandò lungo disteso sul pavimento gelido.
Il ragazzo crollò a terra senza un lamento, restando a osservare impotente quel demonio mentre gli immobilizzava le caviglie con una pesante catena simile alla mia. “Spero solo che il principino non soffra troppo il freddo, quaggiù” sogghignò il nano una volta finito di armeggiare quell’orribile ferraccio. “Alla mia padrona dispiacerebbe davvero tanto vederti morto non per mano sua”. Detto questo, scoppiò in una risata orribile, allontanandosi fregandosi le mani con perversa soddisfazione.
Dopo pochi attimi, nella prigione calò il silenzio più totale. Eravamo soli. Il ragazzo si tirò su a sedere goffamente e si rannicchiò sul pavimento, fissando il vuoto davanti a sé. Sembrava quasi sul punto di mettersi a piangere, ma qualcosa dentro di lui gli impediva di manifestare le proprie emozioni. Io mi spostai leggermente verso la grata, studiando il nuovo arrivato, la sua sagoma si distingueva appena in quella opprimente penombra bluastra. Aveva i capelli neri e spettinati e la pelle bianchissima, che appariva di un pallore spettrale in quella luce crepuscolare che regnava nella prigione. La mia mente galoppava. Era un umano. Uno come me. Forse era stato portato lì per il mio stesso motivo. Dovevo tentare. Del resto, che cosa avevo da perdere?
“Ehi!” lo chiamai piano. “Ehi, laggiù!”.
Il ragazzo levò lo sguardo verso di me. La mia schiena fu percorsa da un brivido. Non avevo mai visto degli occhi così neri e profondi in vita mia, con quell’espressione allo stesso tempo potente e misteriosa che mi inchiodava lì dov’ero, incapace di sostenerla.
“Who are you?” mi chiese piano, con voce spaventata, ancora da bambino, che celava la sua vera età.
“Io…Mi chiamo Cate Mantis” risposi io in inglese. “E tu?”.
Il ragazzino abbassò lo sguardo, come se quella risposta gli provocasse una tremenda vergogna. “Sono Edmund” rispose in tono quasi impercettibile.
“Edmund?” ripetei ad alta voce. Ma io quel nome lo avevo già sentito! “Il tuo nome non mi è nuovo!” aggiunsi. “Aspetta, non è che per caso sei fratello di qualcuno che conosco?”.
Il ragazzo sembrò sussultare da capo a piedi, piantandomi di nuovo addosso quel suo sguardo incredibile. “Certo, sicuramente li avrai conosciuti, i miei bravi fratelli! E chi non li conosce?” sbottò improvvisamente. Sembrava completamente fuori di sé. “Certo che li conosci, loro, la perfezione assoluta, sempre primi in tutto, sempre quelli che hanno ragione, sempre quelli che si prendono il merito di tutto, mentre io sono trattato come lo zimbello della famiglia Pevensie! Loro mi odiano e io odio loro! Che cosa si aspettavano altrimenti da me? Mi hanno sempre trattato come un verme, trovano sempre qualcosa che non va in me, passano il tempo a prendermi in giro e a darmi dello stupido e tutto quello che dicono o fanno loro è sempre accompagnato da lode e approvazione, mentre io sembro non combinarne una giusta!”.
“Lo so, ti capisco. E’ così anche per me” risposi io con naturalezza, quasi senza rendermene conto. “Io, per fortuna, ho solo un fratello più piccolo, ma ti posso assicurare che anche nella mia famiglia succede così. Anzi, vuoi proprio saperlo? Da me è anche peggio! Vedi, almeno i tuoi fratelli si ricordano che esisti, ogni tanto, mentre i miei genitori…beh, alle volte è come se non esistessi”.
Edmund mi fissò con interesse, aggrottando per qualche attimo le folte sopracciglia nere, poi disse una cosa che non mi sarei mai aspettata da uno come lui: “Beh, cosa vuoi che si aspettino da una femmina come te?”.
“Oh!”. Sì, ero decisamente offesa. “Ma che ne sai delle donne tu, moccio setto?” lo provocai, rossa fin sopra le orecchie.
“Moccioso io?” rispose lui, profondamente risentito. “Guarda che ho già quattordici anni!”.
“Ah, questa è bella! Ma se ho la tua stessa età e potrei essere benissimo tua madre!”.
“Vecchia!”.
“Pupattolo!”.
“Tanto fate tutti schifo, non fate a meno di comportarvi da carogne con me!”.
“Se solo ti sforzassi di essere un po’ più gentile con gli altri, forse non ti tratterebbero come un serpente a sonagli!”.
“Che ne sai tu di come tratto gli altri?”.
“Guarda che si vede?”.
“MA STA’ ZITTA! PENSATE DI CONOSCERMI COME LE VOSTRE TASCHE E DI CONSEGUENZA CREDETE DI POTERMI GIUDICARE A VOSTRO PIACIMENTO, MA NON E’ COSI’! VOI NON MI CONOSCETE AFFATTO!”. Detto questo, mi voltò nuovamente le spalle, rannicchiandosi dalla parte opposta. “E’ inutile” fu tutto quello che riuscii a udire , a metà strada fra un singhiozzo e un lamento.
Era chiuso, terribilmente chiuso e spaventato, ed era per questo che si comportava così. Lui non l’aveva ancora capito, ma io sapevo esattamente come si doveva sentire in quel momento. Uno schifo. Proprio come me. Se eravamo lì tutti e due, un motivo doveva pur esserci. Qualcosa che ci accumunava e che, in qualche modo, sarebbe stato il nostro punto di forza per uscire di lì.
“Perché sei qui?” gli domandai a un certo punto.
“Ho fatto una cosa brutta” mi rispose Edmund dopo un po’, senza smettere di darmi le spalle.
“Non sei obbligato a parlarne” intervenni io, indovinando che stava per rimettersi a urlare. “Ma posso chiederti chi ti ha fatto fare una cosa del genere?” proseguii decisa.
Il ragazzo si voltò lentamente, fissandomi con un’espressione che tradiva sorpresa. “Lei” rispose dopo un po’.
“Lei?”.
“La Strega Bianca” precisò Edmund, abbassando ancora di più la voce. “Mi ha ingannato. Mi aveva promesso di diventare forte e potente se solo le avessi portato i miei fratelli…Sono stati quei maledetti dolci che mi ha fatto mangiare, ne sono sicuro! Da quando ho messo in bocca il primo boccone, non ci ho visto più, era come se non fossi più padrone di me stesso”.
“E’ quello che ha fatto anche a me” dissi io. “Credo di cominciare a capire. Quella strega si diverte a giocare con i nostri sentimenti più controversi, le nostre paure e le nostre frustrazioni, usandole per farci cadere in suo potere”.
Edmund annuì. “Temo che tu abbia ragione, purtroppo” mormorò.
“Ma che cosa se ne farà di noi?”.
Il ragazzo rabbrividì, quasi come se avesse intuito qualcosa di orribile che preferiva tenere per sé. “Non lo so” fu tutto quello che riuscì a bisbigliare.
“Dobbiamo trovare il modo di andarcene di qui” lo esortai io. “Ti devo riportare dalla tua sorellina Lucy. Sarà in pensiero! Spero solo che quella strega non arrivi prima di noi e provi a tentarla con quella stupida storia di Narnia…”.
“Troppo tardi” mi interruppe Edmund, un’espressione di puro terrore dipinta nei suoi occhi neri. “E’ qui”.
“Come? Ha preso anche lei?”.
“No. E’ qui. A Narnia. Ce l’ho portata io”.
Detto questo, il ragazzo si voltò ancora una volta, rannicchiandosi sul gelido pavimento ghiacciato. Le sue spalle erano come scosse da tremiti impercettibili. Stava piangendo.




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Capitolo 7
*** Il destino di Narnia ***


Un brivido mi partì da dietro la nuca e si insinuò lungo la mia schiena, attraversandomi le gambe e le braccia fino ad arrivare alla punta delle dita. Aprii gli occhi lentamente, tremando di paura. Da quanto tempo ero lì? Forse solo poche ore, forse intere settimane. Dovevo aver perso conoscenza per il freddo, o più semplicemente ero stata vinta dalla stanchezza. Tutto era buio intorno a me. Le membra intirizzite avevano perso la loro sensibilità e pensai con orrore che forse avrei rischiato qualche amputazione, se qualcuno non correva a buttarmi una coperta addosso. Già mi sembrava di non avere più la sensibilità delle dita e dei piedi scalzi, quando, improvvisamente, qualcosa cambiò. Un improvviso tepore mi invase da capo a piedi, proprio come se un’entità invisibile mi stesse soffiando dell’aria calda nelle vene e per un attimo giurai di avvertire in bocca l’irresistibile sapore della cioccolata calda.
“Edmund, sei tu?” domandai smarrita.
Nessuna risposta. Probabilmente, il ragazzo si era addormentato da qualche parte, non udivo più neanche i suoi singhiozzi.
Strinsi gli occhi ancora di più, cercando di sondare quella penombra bluastra che mi opprimeva, quando per poco non urlai di paura.
Un leone, il più grande e possente leone che avessi mai visto, era accucciato accanto a me, fissandomi intensamente con i suoi profondi occhi d’ambra.
Mi ritrassi per quanto potevo, scuotendo il capo, quasi sperassi di ispirare pietà in quella belva feroce che avevo davanti. No, non poteva finire così, non poteva finire in quel modo, sbranata da lui, sola in quella prigione di ghiaccio. Un momento, non ero da sola. Edmund! E se una volta riempitosi la pancia, il leone avesse aggredito anche lui? Non sapevo che fare. Di urlare era assolutamente fuori questione, lo avrei sicuramente fatto inferocire, per non parlare che avrei rischiato di attirare l’attenzione di qualche guardia o, ancora peggio, della Signora Bianca.
“Non mi mangiare!” pigolai, paralizzata dalla paura. “Ti prego, non mangiarmi! E se proprio devi farlo, almeno risparmia il ragazzo! Per favore!”.
“Non aver paura, Figlia di Eva” mi disse una voce calda e sorniona. “Io sono tuo amico”.
Sobbalzai per la sorpresa. Possibile che a parlare fosse stato proprio il leone?
Osservai la fiera più attentamente. I suoi fieri occhi d’ambra non si staccavano dai miei e sembravano persino sorridermi con aria sorniona, proprio come la voce che avevo udito poco prima.
“Chi sei?” domandai timidamente.
Ci fu un suono strano, una sorta di misto fra le fusa di un grosso gatto e una risatina roca. “Tu mi conosci bene, Cate, anche se ora non te ne rendi conto”.
“Eh, no, ora basta!”protestai io, allarmata. Quella storia l’aveva già sentita e mi aveva cacciata in un bel guaio! “Non mi farò ingannare un’altra volta!” continuai decisa. “Prima quella tizia che si crede una regina che mi intrappola qui, poi un leone parlante! Ora le ho proprio viste tutte! E sempre con questa Narnia e tutti qui che dicono di conoscermi, io non ce la faccio più! Me ne voglio tornare a casa, a casa, ORA!”.
Il leone parve rattristarsi. “Pace, Figlia di Eva” intervenne, facendomi ammutolire all’istante. “Non c’è nulla da temere da me, non ho motivo di farti del male. Ascolta le mie parole, però: so che non vorresti essere qui e che ora ti trovi in grave pericolo, ma purtroppo il tuo fato ha voluto che tu intraprendessi questa via”.
“Stai dicendo che sono spacciata, vero?” chiesi con un moto di orrore.
“No, bambina mia, no” mi rincuorò lui. “Ma c’è una prova che devi affrontare. Vedi, Cate, tu sei stata scelta per intraprendere un viaggio che cambierà completamente il tuo destino e ci saranno molte scelte che dovrai fare per riuscire infine a trovare la tua strada. Il mondo di Narnia ha bisogno di te, come ha bisogno anche di questo ragazzo che, come te, è ora prigioniero della Strega Bianca”.
“Ma chi è questa Strega Bianca e che cosa vuole da me? Che cosa volete tutti da me?”.
“Jadis è il male di questa terra. Si è impossessata di Narnia e ora la governa sotto la sua maledizione, condannandola a un inverno che dura ormai da cento anni. Ma le cose stanno per cambiare. E’ stato annunciato che un giorno, l’arrivo di due Figli di Adamo e due Figlie di Eva ristabilirà la pace in questa terra, cacciando per sempre l’usurpatrice. Ma ella lo sa bene che il suo tempo sta per scadere e sta cercando in tutti i modi di ostacolare la profezia, a cominciare dal dividere coloro che ne portano il marchio, come vedi tu stessa di fronte a questa ragazzo”.
“Un momento, vuoi dire che saranno quattro esseri umani a sconfiggere la Strega Bianca? Quattro fratelli?”.
“Sì. Tu hai avuto l’occasione di conoscerne già i più piccoli”.
Lanciai una rapida occhiata nel fondo buio della cella, dove stava rannicchiato Edmund. Mi domandai se sapesse che cose incredibili gli aveva riservato il destino.
“E io allora cosa c’entro in tutto questo?” domandai poi.
“La tua è un’altra storia” rispose il leone. “Fai parte di un’altra era, un altro mondo, così distante da quello che i quattro fratelli Pevensie conoscono. E hai bisogno di intraprendere questo viaggio insieme a loro, poiché esso è in pericolo quanto questo. Presto infatti la Strega Bianca sarà cacciata e vorrà trovare altre dimensioni da conquistare. Bisogna essere pronti affinché ciò non accada. E poi, sei stata tu stessa a voler scegliere questo destino per te. Ho ascoltato il tuo cuore, Cate, i tuoi desideri più nascosti, e sono venuto come promesso. Purtroppo, anche la Strega Bianca ha intuito i tuoi pensieri e si è messa subito sulle tue tracce per neutralizzarti. Infatti, sei pericolosa per lei, perché tu sei ciò che la profezia non aveva previsto: Narnia ha bisogno di te. Devi essere coraggiosa, Cate, e d’ora in poi le tue scelte dovranno partire dal tuo cuore, non dalla tua mente”.
Mi mancò il fiato. Non capivo. Tutto quello non aveva senso.
“Chi sei tu?” chiesi ancora una volta.
“Mi chiamano in tanti modi, ma qui a Narnia il mio nome è Aslan” rispose il leone.
Nell’udire quel nome, il cuore mi si riempì di una strana consapevolezza, come se una gioia misteriosa mi stesse facendo coraggio e mi stesse rendendo forte e tenace. Era come se mi stessi risvegliando dopo un lungo sonno.
“Ora devi andare, Cate” proseguì Aslan. “Ti aspetto alla Tavola di Pietra. E’ lì che dovrai andare una volta libera. Mi raccomando, non smarrire la strada”.
Detto questo, il grande leone svanì in una vampata di fuoco che avvolse l’intera cella, accendendola di una luce abbagliante che per pochi attimi nascose ogni cosa, rendendo la fiera ancora più bella e maestosa di quanto già lo fosse, poi tutto tornò calmo e silenzioso.
Mi guardai attorno, smarrita. Mi sentivo improvvisamente strana, come se qualcosa all’interno della cella fosse cambiato.
Abbassai d’istinto gli occhi sulle mie caviglie.
La catena giaceva a terra, il lucchetto spalancato simile a una macchia nera sul pavimento ghiacciato.
Ero libera.
ANGOLO AUTRICE
Ok, lo so che mi sono fatta un po’ aspettare, ma ho avuto tanto da studiare e tra l’altro non sto passando un bel periodo, perciò scusatemi se la scrittura è un po’ scadente in questo capitolo.
Comunque, come avrete intuito, la storia sta iniziando a farsi un po’ più interessante. Aslan è venuto da Cate e le ha rivelato il suo destino e quello dei Pevensie, poi l’ha liberata dalla catena che la teneva prigioniera.
E ora, cosa farà la nostra giovane amica? Scapperà da sola alla Tavola di Pietra o tenterà di salvare Edmund?
Si acettano ipotesi 

 


 

 

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Capitolo 8
*** Fuga ***


 Libera. Ero libera.
Continuavo a ripetermi mentalmente quelle parole quasi fossero state un mantra, fissando come inebetita la catena che giaceva inerte sul pavimento ghiacciato, lontana dalla mia caviglia. Ma non ero solo libera. Di colpo mi sentivo più forte, più decisa. Uno strano senso di calore pervadeva le mie membra intorpidite dal freddo e dalla paura, facendomi fremere di una voglia irresistibile di sentirmi viva, determinata, pronta all’azione. Non mi sentivo più paralizzata dal gelo, nonostante fossi vestita solamente della mia solita tuta marrone con il cappuccio e avessi ai piedi solamente un paio di calzini bagnati, anzi, avevo addirittura caldo. Aslan. Sapevo che era un ragionamento del tutto insensato, ma ero certa che mi sentivo così da quando avevo visto Aslan accanto a me. Lui mi aveva parlato e mi aveva liberata. Avevo una missione da compiere in quel momento. Narnia  aveva bisogno di me per permettere alla profezia di avverarsi. E io avevo bisogno di Narnia. Il cerchio era chiuso. Non potevo uscirne in alcun modo. E di certo non potevo restarmene lì seduta sul pavimento a rigirarmi i pollici, non quando avevo davanti un’occasione come quella. Alla Tavola di Pietra, aveva detto. Un altro appuntamento. Mi lambiccai disperatamente il cervello per cercare di capire dove si celasse la trappola questa volta, ma, in fin dei conti, pensa che in fondo qualunque posto sarebbe stato meglio di quella prigione ghiacciata. Ma quella volta sarei stata più prudente, di questo ne ero certa: al primo segnale di pericolo, me la sarei data a gambe più veloce che potevo.
Mi alzai dunque da terra, sentendo finalmente il sangue defluirmi nelle gambe, dandomi un piacevole formicolio di sollievo. Mossi qualche passo, sondando la cella alla ricerca di eventuali vie di fuga, quando il mio sguardo cadde su di lui. Edmund! Per poco non mi scordavo che anche lui era prigioniero! Mi avvicinai timidamente al ragazzo, convinta che anche lui fosse stato liberato, ma, con mia grande sorpresa, lo ritrovai esattamente dove lo avevo lasciato prima di perdere conoscenza, addormentato e con le gambe ancorate al suolo dalla pesante catena. Le sue condizioni erano visibilmente peggiorate. La pelle già pallida di suo aveva assunto un preoccupante colorito bluastro e il ragazzo tremava impercettibilmente. Forse aveva anche la febbre. Dovevo portarlo via di lì a tutti i costi, o sarebbe morto comunque, e al diavolo quel suo caratteraccio maschilista!
Gli sfiorai timidamente la spalla, cercando di riscuoterlo dal sonno senza provocargli altri traumi. Era freddo come il ghiaccio. “Edmund?” lo chiamai a bassa voce.
Di nuovo quel suo sguardo incredibile mi inchiodò lì dov’ero. Rabbrividii e abbassai gli occhi.
“Che vuoi?” domandò lui in modo scortese.
“Non l’hai visto?” azzardai, sperando di non sembrare completamente pazza.
“Visto cosa?”.
“Aslan!”.
Edmund aggrottò le folte sopracciglia nere, scuotendo debolmente il capo.
“Ascolta, non c’è tempo. Dobbiamo andarcene di qui e raggiungere la Tavola di Pietra il prima possibile. Lì dovremmo essere al sicuro”.
“Che ne sai?” mi provocò lui in tono di sfida.
“Lo so e basta!” risposi con decisione. Quello non era proprio il momento delle discussioni. “Sono libera. Ti basta?”.
Edmund mi fissò con tanto d’occhi. “Come hai…?”.
“Aslan, che tu ci creda o no” dissi in tono sbrigativo.
“Va bene, va bene, sarà stato pure questo Aslan, ma, non so se l’hai notato, io qui sono un tantino legato  terra con una catena, non so se mi spiego”.
“Guarda che ci vedo benissimo! Sta’ zitto un attimo e lasciami pensare a un modo per liberarti, piuttosto!”.
Mi spremetti le meningi, guardandomi attorno disperatamente alla ricerca di un modo per tirargli via quell’affare, quando, di colpo, mi balzò in mente un’idea mentre mi scostavo una ciocca di capelli castani da viso. Mi tolsi una forcina dalla fronte e la infilai nella serratura.
Edmund mi fissava scuotendo il capo con fare scettico. “Ma come…”.
“Zitto!”.
Ci fu uno schiocco secco seguito da un tintinnio, poi la catena cadde ai miei piedi.
“Fatto” lo rimbeccai in tono di sfida. “Allora, vuoi alzarti o hai intenzione di rimanere lì per terra per sempre?”.
Il ragazzo mi lanciò un’altra delle sue terribili occhiate di fuoco, facendomi avvampare. Quanto lo odiavo in quel momento!
“Allora?” lo incalzai. “Sto aspettando”.
Edmund non si mosse. Solo allora realizzai che evidentemente era troppo debole per fare qualunque cosa. Soffocando a stento uno sbuffo, mi chinai su di lui e lo aiutai a mettersi in piedi. Il ragazzo non fece resistenza e si appoggiò alla mia spalla come un sacco di patate.
“Almeno cammina!” gemetti nello sforzo di sostenere il suo peso.
Edmund emise un verso a metà strada fra un sospiro e un grugnito, poi fece uno sforzo e si puntellò sulle gambe, prendendo a trascinarsi al mio fianco.
“Hai pensato pure a come facciamo a uscire di qui, capo?” mi sfidò, ancora in perfetta vena di fare lo spiritoso nonostante fosse stato mezzo ibernato.
“Ci sto pensando” risposi io guardandomi attorno.
La nostra cella era una specie di grandissima cripta sotterranea piena di stalattiti di ghiaccio che pendevano dal soffitto. Nonostante però fossimo sotto terra, ciò non impediva a una tremenda corrente d’aria fredda di torturarci il viso, spirando chissà dove.
“Se riesco a scoprire da dove entra l’aria, siamo fuori” annunciai prendendo ad arrancare lungo le pareti, Edmund che mi seguiva fissandomi come se fossi completamente pazza.
Avanzammo per circa metà del perimetro della sala, poi, finalmente, la trovai. Era una piccola grata appoggiata al muro. Una grata vecchia. Quindi fragile. Non solo. Qualcuno, qualcuno di grosso e silenzioso proprio come un grande felino, l’aveva leggermente divelta al suo passaggio invisibile. Sorrisi, ripensando allo sguardo sornione di Aslan. Aveva pensato a tutto, quel furbacchione!
“Coraggio” esortai Edmund mentre mi piegavo sulla grata e la scardinavo senza alcuno sforzo. “Vieni”.
“Chi ti dice che non ci accadrà qualcos’altro di terribile?” mi domandò lui sospettoso.
“Lo so e basta. E, comunque, sarà meglio di qui” tagliai corto io prendendolo per un braccio e aiutandolo a calarsi giù dietro di me.
Atterrammo in una conduttura gelida e buia. L’aria fredda che spirava al suo interno era così forte da mozzare il fiato, insinuandosi in quella infinita conduttura con un ululato cavernoso. Avanzammo qualche passo a tentoni, fino a quando i miei piedi non incontrarono un’incrostazione ghiacciata sul pavimento. Persi l’equilibrio e mi trascinai dietro Edmund, prendendo a rotolare uno contro l’altro giù per la conduttura, aumentando sempre più velocità fino a diventare due veri e propri proiettili, urlando entrambi a pieni polmoni per la paura, le nostre voci rimbombavano grottesche nel buio, fino a che non intravedemmo in lontananza un flebile luce che prese a farsi sempre più forte, fino a rivelare un’altra grata, contro cui ci schiantammo prima ancora di renderci conto della sua presenza, portandocela dietro per parecchi metri mentre venivamo sparati contro un cumulo di neve.
“Ed?” chiamai con la bocca impastata, gli occhi fissi sugli alberi sopra le nostre teste. “Ci sei?”.
“Sì, e gradirei che ti alzassi, se non ti dispiace!” rispose la sua voce petulante sotto di me.
Quasi mi fossi scottata, balzai in piedi di scatto, liberando il ragazzo che era rimasto sepolto da me, che ancora stringevo spasmodicamente la grata che avevamo sfondato.
“Bella mossa, capo, complimenti!” borbottò lui sputando una manciata di neve.
La sua reazione mi fece involontariamente scoppiare a ridere di gusto.
“Beh, che c’è? Ti faccio tanto ridere?” esclamò lui, indignato.
Risi ancora più forte. “Ed, ma non capisci? SIAMO LIBERI!”.
Il ragazzo sbatté le palpebre e si guardò intorno. Il castello della Strega Bianca era alle nostre spalle, lontano e isolato come uno spaventapasseri in un campo di grano.
“Siamo liberi, perfetto” borbottò lui, scontroso come al solito. “E ora? Non dirmi che sai anche dove andare”.
“Infatti non lo so” risposi alzando le spalle.
“Ah, perfetto. Quasi quasi me ne torno dentro, allora” esclamò lui  esasperato.
“Ma su una cosa sono sicura al cento per cento” proseguii io risoluta.
“Ah, sì? E quale”.
“Ovunque si vada, sarà certamente molto lontano da qui”.
 
 
 Eccomi di nuovo, dopo un lungo periodo di assenza (purtroppo non molto felice).
Ciò significa che oggi vi darò modo di farvi due sane risate con queta rocambolesca fuga dal castello della Strega Bianca, tra le proteste ancora vive del povero Edmund, nonostante abbia finito di scrivere il capitolo già da un pezzo!!+
Colgo l'occasione di ringraziare le mie due accanite lettrici, HelgaFair e La_la (la padella funziona che è una meraviglia, ma per il prossimo capitolo dovrai cercare qualcosa di più pesante ed efficace), per il vostro appoggio ed entusiasmo che sono stati di grande aiuto nel dar vita a questa storia.
Come potete constatare di persona, infine, sono riuscita a far funzionare l'html e perciò non dovrete più soffrire di mal di testa nel leggere le mie fanfiction!
Un abbraccio a tutte e due!! :)

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 9
*** Traditore! ***


 “Allora, questo signor Castoro diceva che Aslan si trovava alla Tavola di Pietra” tentai un’altra volta mentre arrancavo nella neve alta, ormai rassegnata all’idea di dover dire addio ai miei alluci. “Non ricordi nient’altro, Ed?”.
Il ragazzo scosse il capo debolmente, le braccia strette sul petto.
Camminavamo lenti nella foresta ricoperta di neve, la luna ci illuminava di una spettrale luce bluastra, senza avere la minima idea di dove eravamo diretti, il cuore in gola per la paura di veder sbucare la Strega Bianca da un momento all’altro. Non ero del tutto sicura che avrei retto a un simile incontro… Stavo giusto tentando di scrutare il cielo alla ricerca di qualche costellazione che mi apparisse familiare, cosa abbastanza stupida da fare, dato che mi trovavo in un altro mondo, quando un improvviso verso soffocato mi fece voltare di scatto. Edmund era crollato sulle ginocchia, restando seduto a terra, in preda alla febbre che sembrava non dargli requie. Senza stare a riflettere mezzo secondo a che cosa avrebbe mai potuto pensare il mio compagno di viaggio nei miei confronti, mi precipitai al suo fianco, sollevandogli il capo e mettendogli un braccio attorno alle mie spalle, aiutandolo a rialzarsi. Per fortuna era piccolo e mingherlino, altrimenti non so come avrei fatto a smuoverlo da lì.
“Forza, Ed” cercai di fargli forza. “Ti prego”.
“Non..non ce la faccio” borbottò lui, ciondolando simile a un pupazzo aggrappato alla mia spalla. “Fermiamoci qui, per favore…per favore”.
“Sì, ok. Ecco, vieni”.
Lo feci sedere sulle radici di un albero, passandogli una mano sulla fronte. Scottava. Dovevo fare qualcosa, portarlo via di lì a ogni costo, in un posto caldo e asciutto, trovare delle medicine, o sarebbe morto in poco tempo, al freddo e lontano dalla sua famiglia. Ma cosa? Più che scaldarlo quel poco con il mio corpo, non potevo fare nulla. E, per di più, non era neanche coperto a sufficienza, con quel maglioncino leggero e i pantaloni alla zuava.
“Non hai pensato di portarti dietro una pelliccia, eh?” gli chiesi, cercando di mantenerlo cosciente finché potevo.
“Ce l’avevo, sì, ma poi l’ho lasciata a casa dei Castori” rispose lui.
“Ma si può essere più stupidi?” sbottai io, ormai al culmine dell’esasperazione.
“Ero convinto che una volta a casa della Strega avrei avuto armadi interi tutti per me!” si difese Edmund, profondamente risentito.
“Si può sapere che ti ha fatto mangiare quella là?” domandai scuotendo il capo. “Non mi sembri tipo da fare queste cose”.
Edmund alzò gli occhi verso di me, quei suoi bellissimi occhi neri a cui non avrei mai fatto l’abitudine. Sembrava quasi che fosse sul punto di ridere…No, mi stavo sbagliando, sarà stato sicuramente qualche strano effetto della luce lunare che gli deformava il viso. “Io non ne sarei così sicuro, se fossi in te” fu tutto quello che riuscii udire dalla sua voce, così fioca che fu appena un sussurro nel silenzio della foresta innevata.
“Perché no?” domandai io sorridendogli. “Andiamo, ti posso presentare delle persone che farebbero benissimo dei ragionamenti di gran lunga peggiori di questo a cui non assomigli per niente. Insomma, mi sembri un ragazzo sveglio, ecco”.
“Non mi conosci abbastanza” insistette il ragazzo.
“Ma da quel poco posso dedurre molte cose. Se solo fossi un po’ meno scortese e ti fidassi di più di me, oserei dire che mi sei addirittura simpatico!”.
“Simpatico? Che parolone!”.
Sì, in quel momento aveva addirittura riso, non c’erano dubbi!
“Davvero, Ed” proseguii io imperterrita.  “E, comunque, non mi passerebbe neanche per l’anticamera del cervello l’idea di lasciarti qui a morire nel bosco, anche se fossi la persona peggiore di questo mondo”.
Edmund scosse nuovamente il capo, senza abbassare quel suo sguardo incredibile. Era debole, eppure la sua incredibile vitalità sembrava trovare comunque il modo di uscire fuori a far danni. Non riuscivo a capire come avesse potuto tradire i suoi fratelli. Giusto quella maledetta strega…Il solo pensiero mi fece mettere in moto il cervello, alla disperata ricerca di una soluzione.
“Dobbiamo rimetterci in marcia, ora” gli dissi. “Te la senti di riprendere? Non credo che rimanere qui a congelarci sia una buona idea”.
“Non ce la faccio scusa. Forse se prosegui e mi fai venire a prendere…”.
“Non essere ridicolo, io qui da solo non ti ci lascio!”.
Edmund sbuffò. Sembrava davvero aver deciso di mettere radici nella neve.
“Ti aiuto io” proposi decisa, tirandolo per il braccio semi-congelato e aiutandolo a rimettersi in piedi, anche se per poco non ruzzolammo a terra entrambi, dal momento che il ragazzo non fece il minimo sforzo per reggersi sulle gambe. “Non arrenderti!” lo esortai. “Non ora. Non qui”.
Facemmo qualche passo nella neve, arrampicandoci sul sentierino che costeggiava pericolosamente un dirupo scosceso, sotto il quale scorreva un grande fiume gelato, facendo rimbombare nella notte un cupo rumore che sembrava provenire direttamente dalle viscere della terra, come se una forza tremenda stesse lottando per liberarsi dal gelo che la imprigionava.
“Stai attento a non farmi cadere di sotto, almeno” borbottai mentre mi tenevo con cautela alla larga dal precipizio. “C’è un bel fiume gelato che ci aspetta, nel caso ti andasse…”.
Mi fermai un attimo a riprendere fiato. “No, non ce la faccio a trascinarti e allo stesso tempo cercare di orientarmi” dissi a quel punto. “Perdonami, Ed, non per essere sadica, ma se non collabori, siamo spacciati”.
Edmund stava per aprire bocca e rispondere, quando quella voce sensuale e crudele allo stesso tempo ci fece sobbalzare entrambi.
Alzai gli occhi di scatto, lottando con tutte le mie forze per non scoppiare a urlare. Non mi sarebbe certo stato di aiuto in un momento simile.
“Ben fatto, complimenti. Una fuga davvero ben organizzata. Peccato che finisca qui” disse la Strega Bianca con un sorriso perfido stampato sul volto pallido come una statua.
Alle sue spalle, il nano ci mostrò un ghigno tutto denti aguzzi, facendo schioccare minacciosamente la frusta che aveva tirato giù dalla slitta trainata da renne bianche che li aveva condotti fin lì.
In preda al panico, strinsi ancora più saldamente la presa attorno al braccio di Edmund. “Voi siete gli esseri più spregevoli che abbia avuto la sfortuna di incontrare!” esclamai con rabbia. “Ma io, al contrario di voi, sono una persona onesta e leale e ve lo dimostrerò! Azzardatevi a fare del male a questo ragazzo e ve la vedrete con me!”.
“Non credo che ce ne sarà bisogno” disse la voce di Edmund alle mie spalle.
Mi voltai di scatto, spalancando la bocca per la sorpresa. Il ragazzo si era inaspettatamente staccato dalla mia spalla, apparendo improvvisamente forte e perfettamente in grado di reggersi in piedi da solo, gli occhi che si erano fatti più neri che mai, velati di un’espressione indecifrabile.
“La prigioniera ha tentato di prendersi gioco di voi, vostra maestà” continuò imperterrito, senza staccare gli occhi dalla strega. “Ma io ve l’ho riportata, in segno della mia devozione verso di voi, o mia regina. Spero che in questo modo capirete quanto vi sono fedele”.
“Edmund, che cosa stai…?”sussurrai in preda all’orrore, ma il ragazzo sembrò non avermi neppure sentita, così come fece Jadis, il cui sorriso si allargò mostruosamente ancora di più.
“E dunque è così?” gli chiese in tono di sfida. “Noto con piacere che il nostro principino inizia a comprendere come va il mondo. Bravo, Edmund” si complimentò poi, passandogli una mano diafana fra i capelli –io ebbi la sgradevole sensazione che mi si rivoltasse lo stomaco −. “A quanto pare, ti ho sottovalutato. In te vedo realmente il re che speravo d’incontrare , un giorno. Sarai caldamente ripagato, per questo”.
“Grazie, vostra maestà” rispose Edmund, totalmente impassibile alle sue gelide carezze.
“Quanto a te,” aggiunse la strega rivolgendosi improvvisamente a me, l’espressione del volto ritornata improvvisamente crudele “penso che la tua utilità qui sia del tutto sprecata. Non staresti male come arredo nel cortile del mio palazzo” disse stringendo minacciosamente la lunga verga appuntita che reggeva in mano, la quale fremette immediatamente con un ronzio sinistro.
“Permettetemi di dissentire, maestà,” intervenne Edmund “ma non credo che questa ragazza potrebbe risultare una statua pregevole. Insomma, guardatela, è bruttina, e di parecchio anche. Penso che farebbe sfigurare in maniera spiacevole il vostro rigoglioso giardino. Perché non lasciarla invece alle onde gelate del fiume? Il burrone è molto ripido e non credo che questa qui abbia altre speranze, oltre a quella di morire all’addiaccio con le ossa rotte”.
Quelle parole sembrarono eccitare ancora di più lo spirito perverso della strega. “Tu hai l’anima più nera della notte, mio giovane principe” sussurrò con voce melliflua, pizzicandogli la guancia. “GILABRIK!” esclamò poi. “Sbarazzati di questa qui. Io e Edmund abbiamo tante altre faccende da sbrigare, non è vero?”.
“Certo vostra maestà” annuì il ragazzo in tono servile.
Io avevo udito ogni parola senza fiatare, paralizzata dall’orrore. Fu solo quando vidi il nano avanzare verso di me sghignazzando con la sua vocetta stridula che mi riscossi, troppo tardi, dal mio torpore.
“Edmund!” lo chiamai disperatamente. “Sei sotto incantesimo, Ed, lei ti sta usando, lei ti ucciderà! Non capisci? Abbiamo bisogni di te, Narnia ha bisogno di te! Diventerai re comunque, ma nel bene!”.
Lui sembrava non udirmi neppure, restando lì, lo guardo basso e le mani nelle tasche, ben lontano dal ragazzo fragile e sensibile che avevo creduto di scorgere nei suoi occhi.
Il nano mi afferrò per il bavero con una forza del tutto inaudita per una creatura minuscola come lui, trascinandomi verso il precipizio.
“Edmund!” lo implorai ancora, scalciando disperatamente sul terreno. Una tremenda frustata sulle ginocchia mi tolse il fiato, facendo aumentare ancora di più la rabbia e l’orrore dentro di me. “Sei un vigliacco, una serpe velenosa, un traditore, ecco cosa sei!” urlai a pieni polmoni, ancora incredula per quanta freddezza e crudeltà si celassero nella vera natura del ragazzo. “I tuoi fratelli avevano ragione a trattarti così! Anche loro sono stati traditi! E dire che io mi fidavo di te, per un momento ti avevo creduto persino mio amico! Mi fai schifo! Ti odio!”.
Non aggiunsi altro, non dopo che le mie gambe si trovarono a penzolare nel vuoto, un attimo prima che il fiato mi mancasse in gola e il cuore cessasse di battere per una frazione di secondo, mentre precipitavo giù, sempre più giù, in quell’orrendo dirupo di cui non scorgevo neppure il fondo.

Allora, so che in questo preciso momento vorrete scagliare sul povero Edmund padelle, mazze ferrate, mattarelli, clave e forbici dalla punta arrotondata, ma, come mi sta facendo disperatamente notare lui stesso, prima di ricorrere alla violenza è il caso di aspettare un pochino e tutto sarà più chiaro!

Spero di non essermi fatta attendere troppo anche questa volta (gli esami all'università mi stanno portando via molto tempo, ma prometto che da marzo mi vedrete più spesso!).

Spero in ogni caso che questo capitolo vi sia piaciuto e sarò felice di sentire le vostre opinioni a riguardo! Un bacione!
Sunny

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 10
*** Nella foresta ***


nbsp;Ci volle un’infinità di tempo prima che osassi riaprire gli occhi e realizzassi che non mi ero fatta nulla. O, almeno, non ancora. Ero sospesa ad almeno una decina di metri da terra, incastrata in una rete di arbusti che avevano frenato la caduta all’ultimo istante. I loro rami mi erano penetrati nelle costole, graffiandomi la faccia, e un fastidiosissimo bruciore mi tormentava il fianco. Imprecai fra i denti, non osando muovere un muscolo. Possibile che dovevo finire proprio fra quei cosi pieni di spine? Beh, in fin dei conti, sempre meglio che sfracellarsi sulle rive del fiume ghiacciato! Con un profondo respiro, osai guardare giù, trattenendo a fatica le vertigini. Sarebbe bastato il minimo gesto a farmi cadere di sotto. Ma dovevo trovare comunque il modo di liberarmi da quella scomoda situazione, anche perché non sapevo quanto quei sottili rami secchi avrebbero retto il mio peso. Facendo appello a tutte le mie forze, mi districai più veloce che potevo dalle spine che mi trattenevano per i capelli e i vestiti, divincolandomi dalla loro presa dolorosa e cercando di raggiungere il frammento di terra più vicino. Con uno schiocco secco, l’arbusto si spezzò sotto il mio peso, facendomi fare un volo di qualche metro, rotolando rocambolescamente giù per il pendio innevato, rischiando di andare a sbattere contro un albero. Rimasi lì, distesa bocconi nella neve, lo sguardo perso sulle cime degli alberi che in quel momento mi sembravano di un’altezza vertiginosa, irraggiungibile, ogni centimetro del mi corpo dolorante e sanguinante. Eppure ero ancora viva. Viva! Era più di quanto potessi sopportare. Scoppiai in un pianto disperato e silenzioso, le lacrime che mi scendevano lentamente lungo le guance parevano lame incandescenti in confronto a tutto quel bianco gelo che mi circondava da ogni parte.
Quando finalmente mi calmai, mi tirai lentamente su a sedere e mi guardai intorno smarrita. Che fare? Dove sarei andata? Alzai lo sguardo verso il pendio da cui ero precipitata. La gola era così profonda che non riuscivo neanche a scorgerne la sommità. Il cuore mi si contrasse con una fitta dolorosa. Edmund. Come poteva una persona mostrarsi così crudele e priva di scrupoli? Quale anima nera si celava dietro quello che sembrava un ragazzo per bene, forse solo un po’ troppo sicuro di sé? Sbattei le palpebre con violenza, come per scacciare un pensiero sgradevole. Per un attimo, solo per un attimo, una vocina maliziosa mi aveva sussurrato cose assurde quanto imbarazzanti, idee sciocche quanto irrazionali, ma che in qualche modo, nonostante in quel momento non lo avrei mai ammesso, erano la verità. Una nuova fitta di dolore mi percorse il petto e, nonostante stessi lottando con tutte le mie forze per evitarlo, scoppiai a piangere di nuovo, questa volta non per il dolore o la paura, ma per qualcos’altro, qualcosa che andava più profondamente nella mia anima, senza ancora rivelare la sua presenza, fuorché quella tristezza infinita che mi aveva presa in una morsa d’acciaio, terribile come la consapevolezza di essere stati traditi da una persona che si ama.
“No!” singhiozzai, sfregandomi violentemente il volto arrossato con il dorso della mano. “No! No!”.
Scrollai il capo con furia, guardandomi intorno nuovamente alla ricerca di un segno, un punto di riferimento, qualcosa che mi strappasse via da quei miei assurdi pensieri e mi facesse preoccupare di cose ben più importanti di un ragazzino dalla lingua biforcuta. Seguii con lo sguardo il corso sinuoso del fiume che si perdeva nella foresta, simile a un pericoloso sentiero ghiacciato. Non so perché feci quell’associazione, ma, in qualche modo, sentivo che ero sulla strada giusta. Mi incamminai, dunque, lungo la sponda gelata, stando attenta a non scivolare sulla sottile lastra gelata che scorreva a pochi metri da me, gorgogliando impercettibilmente all’interno della sua prigione. Marciai per un tempo infinito, le gambe sempre più doloranti e i piedi che ormai non li sentivo più, fino a quando non stramazzai al suolo priva di forze, addormentandomi lì dov’ero, senza preoccuparmi minimamente di trovare un riparo.
 
Fui risvegliata da un rumore che credevo di aver dimenticato, una specie di crepitio scoppiettante, accompagnato dal buon profumo della legna fresca. Aprii gli occhi lentamente, facendomi accarezzare da quel bagliore rossastro che mi riscaldava il volto. Un fuoco acceso. E una coperta di lana che mi ricopriva. Possibile che stesse accadendo davvero?
Mi tirai su a edere incredula, stropicciandomi gli occhi. Un’ombra scura si stagliava accanto al focolare.
“Oh, sei sveglia, finalmente!” esclamò una voce calda e allegra nell’oscurità della foresta.  
“Chi sei?” domandai spaesata.
“Non mi riconosci?”.
Strinsi le palpebre a due fessure, sondando la figura oltre il fascio di luce provocato dal fuoco.
“Non riesco a vederti, scusa” dissi alzando le spalle.
Lo sconosciuto scoppiò in una risata, poi si chinò leggermente verso di me, rivelando il suo volto. Sembrava un vecchio guerriero, la lunga barba e i capelli d’argento che gli ricadevano sulla gorgiera rosso scuro, i profondi occhi azzurri incredibilmente vivi e saggi che brillavano simili a due antiche stelle sul volto rubizzo.
“Perdonatemi, signore, ma credo di non avervi mai visto” mi scusai ancora.
“Eppure dovresti conoscermi bene, ormai” scherzò l’uomo. “Forse mi ricordavi diverso, nel tuo mondo”.
“Nel mio mondo?”.
“Coraggio”.
Il suo sorriso caloroso e cordiale, le guance piene, l’aspetto bonario, senza tempo, tutto mi piovve in testa insieme a quell’inaspettata verità, accresciuta dal suo aspetto saggio e solenne, del tutto privo della banalità commerciale che tanti adulti nel mio mondo gli avevano appioppato, a partire dalla ridicola giacca rossa della Coca-Cola.
“Tu sei…?” esclamai incredula.
Il sorriso di Babbo Natale si fece ancora più grande. “Dimmi la verità, Cate,” mi disse dolcemente “hai mai pensato seriamente che io non esistessi?”.
“Non per come volevano che fossi per loro, no” risposi tutto d’un fiato.  
“Ci sono molte cose che nel tuo mondo sono andate perdute, bambina mia” continuò lui. “Ma tu sei stata una delle poche che ha avuto il coraggio di desiderare di poter guardare oltre e il tuo desiderio è stato esaudito. Potrai tornare a casa e portare loro un messaggio ben diverso alle persone che ami. Nulla accade per caso e questo è il momento giusto per scoprire quanto il tuo destino sia speciale, Cate”.
“Devo trovare Aslan” dissi decisa. “Lui mi ha chiesto di raggiungerlo alla Tavola di Pietra, ma non so la strada”.
“La strada è dentro il tuo cuore” rispose Babbo Natale. “Tu la conosci già”.
Mi porse un calice d’oro ricolmo di cioccolata fumante, che svuotai tutto d’un fiato.
“Tuttavia,” proseguì “credo che tu abbia bisogno di un piccolo aiuto per affrontare il tuo viaggio”.
Si chinò sul sacco che teneva ai suoi piedi, estraendovi un lungo mantello con il cappuccio, un paio di stivali di pelle e una spada dall’impugnatura  testa di leone.
“Sono strumenti, non giocattoli” si raccomandò facendosi serio. “Usali con giudizio”.
“Grazie, signore” lo ringraziai, gli occhi che mi brillavano di felicità.
“Ora,però, devo andare. L’inverno sta ormai finendo e ho ancora molte faccende da sbrigare”.
“Cosa? Come dite?”.
Babbo Natale sorrise ancora e ciò bastò a farmi capire ciò che stava accadendo. Il potere della Strega aveva ormai i giorni contati.
“Segui il corso del fiume” disse l’uomo levandosi in piedi e avviandosi verso la slitta che lo attendeva a pochi metri da noi. “Ti porterà da Aslan”.
“Lo farò, è una promessa!” assicurai io.
“Buona fortuna, Cate Mantis. E buon Natale!” mi salutò lui levando il braccio.
Io lo salutai a mia volta mentre la slitta partiva a tuta velocità nella neve, il tintinnio dei campanelli assicurati al dorso delle renne risuonò allegro nella foresta rimasta silenziosa troppo a lungo.
Mi sentivo improvvisamente più forte e consapevole, un profondo senso di pace e di gioia mi pulsava dolcemente nel petto, cancellando per sempre qualsiasi forma di dolore e rabbia. Ecco, la magia era tornata nella mia vita. La mia preghiera era stata esaudita. Levai il capo sulle chiome degli alberi alti come cattedrali, sfiorando i loro tronchi ruvidi e sentendo la loro anima antica sussurrarmi dolce e rugosa allo stesso tempo sotto le dita. Ero di nuovo lì, in quella foresta magica che avevo tanto sognato in un tempo lontano che credevo di non ricordare più.     
 
 So già che tutte le fan di Edmund saranno molto deluse da questo capitolo, ma purtroppo al momento il ragazzo è in stato di grave incoscienza a cusa della brutale aggressione di La_la e quindi non sifarà vedere fino al prossimo capitolo (tanto il bello deve ancora venire!).

In ogni caso, in questo capitolo Cate comincia a rendersi conto di avere dei sentimenti e ne paga le conseguenze (forza, piccola, resisti!) e allo stesso tempo comincia a entrare a far parte di quel mondo che finora le è stato completamente ostile.

Vi ringrazio tutti del sostegno, ci vediamo al prossimo capitolo! Baci <3

Sunny



 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 11
*** All'accampamento di Aslan ***


 Il rumore si faceva sempre più forte a ogni passo, rimbombando assordante fra gli alberi che di colpo sembravano farsi sempre meno carichi di neve, lasciando i rami sottili nudi e bagnati da una leggera brina che gocciolava lentamente sul terreno, accendendolo del suo dolce profumo. Affrettai il passo, cercando di capire la fonte di tutto quel frastuono. Sentivo che, in qualche modo, stava accadendo una cosa buona quanto straordinaria. Possibile che fosse davvero la voce di una cascata che si era appena liberata dalla sua prigione di ghiaccio? La scena che mi si parò davanti agli occhi in quel momento mi lasciò senza fiato, completamente impotente di fronte alla grandiosa potenza della Natura. Un grandissimo fiume impetuoso scorreva violentemente lungo gli argini appena riconquistati, trascinando con sé immani blocchi di ghiaccio come se fossero stati delle semplici barchette di carta, sbatacchiandoli l’uno contro l’altro fino a spaccarli in mille pezzi. Il sole, il primo sole che vedevo risplendere in quel mondo, accarezzava timidamente le onde ribelli, conferendo loro un bagliore cristallino, puro come quelle acque appena tornate alla vita. Mi fermai sulla riva, contemplando raggiante quello spettacolo grandioso, bagnando le dita nella corrente impetuosa e avvertendo sulla mia pelle tutto il suo potere, ascoltandolo in silenzi, rabbrividendo per il freddo e il rispetto che provavo nei confronti di quella che sentivo un’entità pulsante di vita che respirava ai miei piedi. In quel momento capii perché i miei antenati veneravano le divinità fluviali, prima fra tutte quella che aveva dato origine alla loro stessa città, quella città che sarebbe vissuta in eterno. Vita. Era tutta attorno a me, finalmente, bella come non l’avevo mai vista.
Un grido scosse l’aria, facendomi trasalire. Una figuretta minuta dai corti capelli castano ramati annaspava nella corrente, comparendo e sparendo malamente fra i flutti, la corrente che la trascinava via senza pietà. Il sangue smise per un attimo di scorrermi nelle vene. Come non riconoscerla?
“LUCY!”.
Dovevo aiutarla assolutamente o sarebbe affogata davanti ai miei occhi. Mi slacciai d’istinto il fodero della spada e lo protesi verso di lei.
“Afferra, Lu, afferra!” gridai più forte che potevo.
La bambina agitò le braccine verso di me, tenendosi stretta all’intercapedine di cuoio, il suo peso morto rischiò di farmi precipitare in acqua a mia volta. Mi gettai istintivamente all’indietro con tutto il mio peso, trascinandola fuori dall’acqua e ruzzolando insieme sul terreno bagnato dalla neve che si scioglieva, al sicuro.
“Tutto bene?” ansimai, gettandole il mantello sulle spalle. Possibile che quei fratelli non avevano mai la premura di mettersi qualcosa di più pesante sopra gli abiti estivi?
“Sì” rispose Lucy rabbrividendo. “Grazie”. Nonostante i capelli bagnati e la pelle bluastra per il freddo, la bambina aveva gli occhioni blu spalancati nel sorriso più radioso che si possa immaginare. “Lo sapevo!” esclamò. “Sapevo che saresti venuta, un giorno!”.
“Sì,” risposi io, abbracciandola forte, come se fosse stata una vera sorella “sì, sono qui! Perdonami se non ti ho creduta, prima! I grandi sono molto stupidi, alle volte! Ti conviene non prendere esempio da noi!”.
Lucy era sul punto di dire qualcosa, quando un’acuta voce femminile giunse alle nostre spalle. “Lucy!” stava gridando. “LUCY!”.
La bambina trasalì, scattando in piedi e correndo nella direzione dalla quale proveniva il grido. “Qualcuno ha visto la mia pelliccia?” domandò con la sua squillante vocetta innocente.
“Lu!” gridò l’alta ragazza bruna che aveva urlato, correndole incontro e abbracciandola forte.
Alle sue spalle, un ragazzone biondo stava rinfoderando una grande spada, scostandosi dalla fronte la frangia bagnata.
“Eravamo così spaventati, pensavamo che fossi annegata!” continuava a gridare la sorella, quasi sul punto di mettersi a piangere.
“E invece sono qui!” esclamo Lucy risoluta.
 “Ma dove hai preso il mantello?” domandò a quel punto la ragazza.
F u allora che tutti levarono gli occhi su di me, che me ne ero rimasta in disparte fra i cespugli.
“Ehm, salve!” li salutai timidamente.
“Chi è questa ragazza, Lu? La conosciamo?” domandò suo fratello facendosi più vicino.
“Lei è Cate Mantis” mi presentò la bambina, facendomi cenno di avvicinarmi con la testolina. “E’ quella ragazza del giardino del professor Kirke, vi ricordate? Anche lei non mi aveva creduto e ora eccola qui! Mi ha salvata poco fa!”.
Tutti mi fissarono con un misto di ammirazione e di smarrimento, facendomi arrossire fin sopra le orecchie, visibilmente a disagio; poi il ragazzo biondo si fece avanti, tendendomi la mano. “Piacere, mi chiamo Peter, il fratello di Lucy” si presentò sorridendomi gentilmente.
Gli strinsi la mano timidamente, sorridendogli a mia volta. Rimasi profondamente colpita dai suoi occhi, di un blu zaffiro proprio come quelli della sorellina, che gli conferivano uno sguardo fiero e allo stesso tempo gentile, naturale, da ragazzo della porta accanto. Il suo atteggiamento rassicurante mi fece forza, abbandonando qualsiasi senso di disagio.
“Io sono Susan, tanto piacere!” si presentò a sua volta la sorella, sorridendomi radiosa. Era una ragazza sui sedici anni di una rara bellezza proprio come i fratelli, gli occhi di ghiaccio che contrastavano con la folta chioma castana, i tratti marcatamente mediterranei sul viso pallido.
“E’ un piacere, Susan!” risposi io, stringendo la mano anche a lei.
“Bene, noto che la nostra compagnia è visibilmente accresciuta” disse una voce simpatica dalle parti delle mie ginocchia.
Abbassai lo sguardo e trasalii per la sorpresa. Una coppia di grossi castori dal pelo bruno mi stava fissando con i loro dolci occhietti neri, i nasini umidi che si muovevano appena verso di me. Castori parlanti? Ora sì che le avevo viste tutte! Eppure, anche se a rigor di logica la cosa non aveva alcun senso, in quel mondo una simile verità mi sembrava totalmente normale.
“Siete loro amici?” domandai, chinandomi verso di loro per osservarli meglio.
“Certo, cara” rispose la femmina. “Anche tu sei diretta al campo di Aslan?”.
“Sì” risposi sorridendo. “Non mi dispiacerebbe affatto fare la strada in vostra compagnia”.
“Sì, sì!” esclamò Lucy raggiante. “Ti prego, vieni con noi!”.
Mi rialzai in piedi, scompigliandole per gioco i capelli rossicci. “Certo che rimango con voi!” le risposi. “Non sai quanto sono felice di avervi incontrati!”.
“Ci conviene andare, allora” intervenne a quel punto il Castoro. “Ricordatevi che vostro fratello è ancora nelle mani della Strega Bianca e Aslan è l’unico che può fare qualcosa per lui, ormai”.
Il solo pensiero di Edmund mi colpì come una pugnalata, facendomi dimenticare la felicità che mi aveva travolta in quegli ultimi minuti.
“Andiamo, allora!” la voce allegra di Peter bloccò a metà le mie tristi congetture, facendomi ritornare il sorriso che era scomparso per pochi istanti.
Lucy emise un gridolino di gioia e mi prese per mano, mettendosi a correre fra le chiazze di verde che emergevano vista d’occhio fra la neve. Io risi e la rincorsi, creando un disordinato scompiglio nella compagnia, Peter che ci rincorreva tirandoci palle di neve mezza sciolta e Susan che si teneva leggermente in disparte, non senza nascondere il proprio divertimento.
Trascorremmo così gran parte della mattinata, scherzando e facendo i matti per diverse volte, inebriati dalla primavera che era finalmente ritornata a splendere in quel mondo maledetto, restituendogli il suo vero volto, alternandoli a momenti in cui discorrevamo animatamente, curiosi di conoscere le nostre rispettive vite.
Peter aveva diciassette anni e frequentava il college, aspettando on ansia il momento in cui avrebbe potuto coronare il suo sogno di diventare medico.
Susan, invece, preferiva studiare la letteratura e aveva un debole per il latino. Inutile dire che quando le rivelai che frequentavo una scuola in cui non si faceva nient’altro, la ragazza prese immediatamente a tempestarmi di domande, finendo poi per promettermi che sarebbe riuscita a farmi amare quelle materie che quegli ignoranti dei miei professori mi avevano reso semplicemente odiose.
Lucy, poi, si rivelò un vero e proprio vulcano. Aveva un’immaginazione incredibile, perennemente in moto, pronta a scatenarsi non appena il suo campo visivo si imbatteva in qualcosa che la colpiva particolarmente, da un piccolo fiore appena sbocciato ai primi fili d’erba che si facevano timidamente largo tra la neve. E la cosa più sorprendente era che tutta questa fantasia non appariva come i semplici vaneggiamenti di una bambina quale era, ma emanavano tutta la magia e l’innocenza che racchiudeva, senza nient’altro di superfluo a contaminare la sua semplicissima purezza. Era piccola, sì, ma straordinaria.
Di Edmund non parlammo affatto.
Lucy mi raccontò per filo e per segno di come fosse arrivata a Narnia insieme ai fratelli, passando attraverso il vecchio armadio guardaroba nella grande casa di campagna di un rinomato professore che si era offerto di ospitarli durante la guerra.
“Dunque voi venite dal mio stesso mondo, solo molti anni prima di me” osservai a un certo punto.
“A quanto pare, le cose stanno così” ripose Susan, camminando al mio fianco. “Però a rigor di logica è impossibile”.
“Dopo tutto quello che ci è successo, ancora usi la parola impossibile, sorella?” domandò Peter ridacchiando.  “Se noi siamo stati chiamati dal nostro tempo, non vedo perché Cate non debba esserlo stata dal suo. Del resto, questa è un’altra dimensione e poco importa il tuo luogo di provenienza, o no? Stiamo vivendo tutti in questo tempo, in questo luogo, proprio ora”.
Io gli sorrisi raggiante. Mi piaceva Peter, aveva tutto l’aspetto di essere un ragazzo allo stesso tempo saggio e molto simpatico. Un ragazzo d’altri tempi, pensai con una vena di gelosia.
“Quanti anni dovresti avere più di noi?” domandò Susan a quel punto.
“Non lo so dire di preciso” risposi io, che con la matematica non ci sapevo proprio fare. “Comunque, prima di venire qui, da me a Roma era il 2005”.
“Roma?” esclamò Susan, illuminandosi di colpo. “E com’è? Oh, sapessi quanto desidero vederla! Mamma e papà ci sono stati in viaggio di nozze, ma noi ragazzi mai! E’ tanto cambiata dalla guerra?”.
“E’ caotica” dissi alzando le spalle. “Meglio qui”.
Susan mi afferrò il braccio con fare complice. “Non ci credo!” esclamò senza smettere di sorridere. “Scommetto che è come per il latino: devi guardare sotto la superficie, per scoprire il tesoro che nasconde”.
“Spero tanto che tu abbia ragione” borbottai. “Io non ne sono tanto convinta…”.
Susan mi abbracciò forte, come una vera amica. “Tutto può succedere” disse dolcemente. “E quando nemmeno te lo aspetti. Parola di una razionalista rompiscatole come me!”.
 
Continuammo a seguire il corso del fiume fino a quando i signori Castoro non ci fecero cenno di svoltare verso l’entroterra, ai piedi delle montagne, dove sorgeva un’ampia vallata verde che si perdeva a vista d’occhio. La neve si era ormai completamente sciolta, lasciando il posto al trionfo selvaggio della natura appena risvegliata. L’aria era calda e mite, carica dei profumi della primavera. In poco tempo, le pellicce vennero riposte e ci ritrovammo a camminare tranquillamente in maniche di camicia. E, alla fine, arrivammo a destinazione. L’infinita distesa di tende rosse occupava l’estremità della pianura, brulicante di vita. Un’alta figura si stagliava su uno sperone di roccia, scrutando l’orizzonte. Sulle prime non capii che cos’era, sembrava un cavaliere, poi sobbalzai per la sorpresa nel constatare che in realtà il corpo dell’umano e quello del cavallo erano in realtà una cosa sola e che quello era un vero e proprio centauro. Se solo la Marchesi avesse potuto essere lì! Ci avvicinammo al campo, entrano nel cuore dell’accampamento. A ogni passo, il mio stupore aumentava, capendo che tutto quello che avevo visto fino a quel momento non era stato altro che un millesimo di tutto ciò che mi aspettava. Creature di ogni sorta si affollavano attorno a noi, scrutandoci con gli occhi carichi di curiosità. C’erano centauri, fauni, ghepardi, cavalli e molti altri animali di cui non avevo mai sentito parlare prima.
“Perché ci guardano tutti?” domandò Susan gettandosi attorno occhiate nervose.
“Forse trovano che sei buffa” rispose Lucy ridendo.
Ci fermammo infine dinanzi a una tenda più grande delle altre, proprio al margine della foresta. Peter si fermò per primo, volgendosi verso il grande centauro nero che sorvegliava l’entrata.
“Siamo qui per conferire con Aslan” disse il ragazzo sguainando la spada.
Fu una frazione di secondo. Nel campo piombò il silenzio più totale. Tutti si erano improvvisamente prostrati in segno di rispetto, come a un segnale invisibile. Ma non era a noi che si rivolgevano. Il raffinatissimo panno di porpora e oro che fungeva da porta della tenda si scostò lentamente, lasciando passare quasi senza far rumore la creatura più bella e maestosa che avessi mai visto. Aslan ci fissò con i suoi bellissimi occhi d’ambra.
“Benvenuti, figli di Adamo e figlie di Eva” ci salutò con la sua voce profonda e sorniona allo stesso tempo. “E benvenuti anche a voi, signori Castori. Noto con piacere che, nonostante i pericoli, avete affrontato lo stesso il viaggio. Ma manca qualcuno nella vostra compagnia”.
Il cuore mi si contrasse nuovamente in maniera dolorosa e lo stesso sembrò avvenire ai miei compagni: tutti evitavano accuratamente di guardarsi negli occhi.
“Lui ci ha traditi, signore” rispose Peter per tutti noi.
Un coro di voci si alzò alle nostre spalle.
“Se le cose stanno così, allora ha tradito tutti noi!” esclamò il centauro nero sguainando la spada.
“Pace, Oreius” intervenne Aslan. “Sono certo che esiste una spiegazione”.
“In verità, è mia la colpa” continuò Peter. “Sono stato troppo duro con lui”.
Io mi voltai a fissarlo, stupefatta. No, non potevo crederci, non dopo quello che era accaduto.
Susan gli mise una mano sulla spalla. “Tutti lo siamo stati” aggiunse in tono risoluto.
“Vi prego, è nostro fratello!” lo implorò Lucy.
Gli occhi di Aslan si erano fatti improvvisamente tristi. “Lo so,” disse “ma ciò rende ancora più grave il suo tradimento. Sarà più difficile di quello che crediate”.
 
“Tu credi che Aslan lo salverà?” domandai io mentre mi legavo i capelli in una coda.
“Io mi fido di lui” rispose Peter deciso.
“Ma tu vuoi che torni?” domandai velenosa.
Peter fece una smorfia, poi rispose “Sì”.
“Vedrai,” disse Lucy tirandomi per una manica del vestito che mi avevano fatto trovare nella tenda “Edmund non è così antipatico come sembra”.
“No, infatti” risposi sorridendo. “Lu, perché non vai un attimo fuori da Susan. Credo che abbia bisogno di aiuto”.
La bambina sorrise con fare innocente e annuì, precipitandosi poi fuori.
Rimanemmo da soli io e Peter.
“Suppongo che tu abbia qualcosa da dirmi” disse il ragazzo sorridendomi con il suo solito fare rassicurante.
“Sì” risposi io decisa. Almeno lui doveva sapere. “Ho conosciuto vostro fratello” dissi tutto d’un fiato. “Perdete tempo nel salvarlo. Ormai è al completo servizio della Strega Bianca”. Ecco, ora dovevo solo fare lo sforzo per digli come stavano le cose. “Lui si è finto mio amico per poi tradirmi. Ha tentato di uccidermi e ci sarebbe anche riuscito se non mi fossi salvata per puro caso. Mi dispiace tanto per voi che siete una famiglia tanto dolce, ma, davvero, solo voi tre. Lui è un mostro”.
Peter ascoltava in silenzio, una mano sul mento, limitandosi ad annuire impercettibilmente con il capo. Poi, non appena terminai il mio racconto, fece una cosa che non mi sarei mai aspettata da lui. Mi strinse forte fra le sue braccia, come nessuno aveva mia fatto prima con me, in un abbraccio che infondeva tutto il coraggio e la dolcezza che non avevo mai avuto da nessuno, quella di un vero amico e di un fratello.
“Va tutto bene” mi disse piano. “Ora è tutto finito, sei con noi e non ti accadrà più nulla di male,è una promessa”.
Io annuì piano, il volto immerso nella sua spalla, poi, lentamente, mi discostai da lui.
“Grazie” mormorai con la voce che tremava. “Ora…scusa, ma credo che ho bisogno di fare due passi. Non mi sento bene” aggiunsi imbarazzata, poi, senza starci a pensare un attimo di più, uscii dalla tenda, avviandomi a grandi passi fra le tende dell’accampamento e ancora oltre, perdendomi nella valle e infine crollando su un grande masso di pietra, da dove potevo contemplare quel panorama infinito in cui cielo e terra si toccavano all’orizzonte. Avevo il fiato mozzo e le gambe mi tremavano in maniera incontrollata. Ma non era stato l’abbraccio a sconvolgermi. Era qualcos’altro che non osavo neppure ammettere a me stessa. Qualcosa che mi faceva male al cuore e che mi bruciava dentro come un fuoco nero. Una forza misteriosa e potente che credevo di non conoscere, ma che in quel momento mi aveva completamente soggiogata. Quella stessa forza che in quel bellissimo pomeriggio di primavera mi fece versare le lacrime del mio primo amore.
 
  Buonasera, cari lettori!
So che anche questa volta vi ho fatti aspettare per un bel po', ma almeno posso discolparmi con un bel capitolone pieno di novità.

Anche se Edmund ancora non ha fatto la sua ricomparsa (ma vi assicuro che dal prossimo capitolo in poi sarà anche FIN TROPPO presente), Cate ha fatto la conoscenza degli altri Pevensie, trovando in loro proprio quegli amici che ha sempre desiderato.
Non vi nascondo che qualsiasi supposizione facciate su Peter è perfettamente azzeccata, anche se le lacrime della nostra amica non sono affatto per lui. Chi è o è stato innamorato capirà benissimo come si sente (anch'io del resto, altrimenti non potrei mai scrivere una cosa del genere).

Ringrazio ancora una volta sawadee e La_la per il loro affettuosissimo sostegno di sempre, spero che anche questo capitolo vi abbia appassionate come i precedenti!

Non mi resta che augurarvi una buon lettura, in attesa del GRANDE RITORNO!
Ciao!


 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 12
*** Da soli ***


 Fu quando alzai lo sguardo e vidi le lunghe ombre bluastre allungarsi sui prati che capii che stava scendendo la sera e che era giunto il momento di rientrare, cosa che sinceramente non mi andava affatto. Mi alzai di malavoglia e ciondolai verso l’accampamento che sorgeva alle mie spalle, sotto il cielo ormai di un azzurro cupo, privo di sole. Il buon odore di zuppa messa sul fuoco e carne alla griglia mi venne dolcemente incontro, consolando la mia malinconia con la prospettiva di una cena deliziosa. Stavo già pregustando le dolcezze della buona cucina narniana, quando una figuretta grassoccia vestita di azzurro mi corse incontro dalle prime tende, urlando di gioia e tuffandosi tra le mie braccia con una forza impensabile per una bambina così piccola.
 

“Cate!” gridò Lucy. “Oh, Cate, sapessi cos’è successo! Non ti hanno attaccata i lupi, vero?”.
“I lupi? Lucy, di che cosa stai parlando?”.
“Mentre eri via, io e Susan siamo state aggredite da due lupi che ci stavano seguendo da giorni! Per fortuna è arrivato Peter e ci ha salvate!” spiegò la bambina a velocità record, lasciandomi a un tempo sorpresa e spaventata. “Ma ora stiamo tutti bene. Anzi, la sai la novità? Edmund è tornato!”.
Fui immediatamente presa da una sensazione sgradevole. “Edmund…?” balbettai ancora più allibita.
“E’ qui!” strillò Lucy allargando ancora di più il suo sorrisone. “I soldati di Aslan hanno seguito uno dei lupi e l’hanno trovato!”.
“Ah”. Si vedeva proprio che sprizzavo entusiasmo da tutti i pori.
“Non vieni a salutarlo?”.
Ecco, me l’aspettavo una simile domanda. Col cavolo che ci sarei andata!
“Mi dispiace, Lu,” mi scusai facendo le spallucce “ma non credo di sentirmi molto bene. E’ stata una giornata molto lunga e sono a dir poco travolta. Non credo farei una buona impressione a tutti voi e non sono in vena di figuracce, così conciata. Magari domattina, va bene?”.
Lucy assunse un’aria profondamente implorante, spalancando i suoi enormi occhioni azzurri proprio come il Gatto con gli Stivali, in un modo che avrebbe intenerito persino la Strega Bianca, ma non me! Povera Lu, ma cosa potevo farci io se aveva un fratello così odioso.
“Scusami, tesoro” ripetei dolcemente, stampandole un bacio sulla nuca. “Davvero, sto poco bene”.
“Domani verrai, non è vero?” mi implorò la bambina.
“Domani” risposi io, sperando che ciò bastasse a tenerla buona almeno per la nottata.
La mia risposta sembrò sortire l’effetto desiderato, perché la piccola accennò a esultare, gridando: “Allora buonanotte, Cate!” e correndo via, verso il resto dell’accampamento.
“Buonanotte, Lucy” risposi io in tono tutt’altro che convincente, avviandomi poi verso la mia tenda, anche se in quel momento avrei preferito di gran lunga pernottare in un dormitorio comune. C’era poco da stare tranquilli, con un criminale del genere in libera uscita per il campo!
 
Quella notte, dormii tre ore scarse, la spada stretta convulsamente al petto e una candela rigorosamente accesa, rischiando di mandare a fuoco tutto alla mia minima distrazione, ma non volevo dare al nemico la soddisfazione di sorprendermi nel sonno. Non mi preoccupavo tanto di quell’essere spregevole di Edmund Pevensie, che secondo me sapeva sì e no camminare autonomamente (oltre che a mangiare), ma dei suoi amichetti là fuori. Possibile che se lo fossero lasciati sfuggire così facilmente? E se fosse stata una trappola e quell’idiota li avesse condotti fino al campo? In tal caso, bel macello per noi e soluzione di tutti i problemi da parte del nemico. Cercai disperatamente di non pensare a quella simpatica prospettiva, stringendo ancora più forte la spada a me. Avrei venduto cara la pelle, questo era più che certo! Altro che femminuccia da quattro soldi! Finalmente, il sonno pose definitivamente fine alle mie spaventose fantasie, coronandosi di incubi che mi tennero così impegnata, che neanche le cannonate sarebbero state in grado di svegliarmi.
 
Il mattino seguente mi svegliai decisamente tardi per i miei gusti, quando il sole era già alto da un pezzo e la temperatura si era fatta calda e accogliente. Mi tirai su a sedere con la testa che mi pulsava dolorosamente, rivestendomi distrattamente e legandomi i capelli castani in un coda bassa, poi uscii dalla tenda, avviandomi al rigagnolo d’acqua che scorreva poco lontano per lavarmi il viso e le labbra secche. Il piacere delle fredde goccioline d’acqua mi allontanò momentaneamente dalle mie preoccupazioni, fino a quando non alzai involontariamente il capo verso la cima della collina. Soffocai a fatica un gemito. Lui era là, davanti ad Aslan, un’aria remissiva e innocente che sembrava miracolosamente pervaderlo da capo a piedi, come un ragazzino troppo cresciuto che sta ricevendo la ramanzina da un genitore. Soffocai a fatica l’istinto di andare fin lassù per riempirlo di botte e mi voltai di scatto, avviandomi a grandi passi nella mia tenda, decisa a non uscirvi più per nessuna ragione. Non so per quanto tempo rimasi lì dentro a rimuginare pensieri omicidi, più simile a una pentola a pressione che a una ragazzina di quattordici anni; l’unica cosa certa era che la cosa non durò meno di un paio d’ore, fino a quando un rumore di passi timidi e impacciati sopraggiunse dinanzi alla tenda, scostando il drappo che fungeva da porta senza stare a fare troppo cerimonie.
Saltai su come se fosse appena entrato un serpente velenoso, stringendo convulsamente la spada nella mano destra.
Edmund Pevensie mi lanciò un sorriso carico di imbarazzo, scostandosi nervosamente un ciuffo di capelli neri dalla faccia. “Ehm, ciao” mi salutò, le mani nelle tasche e l’aria colpevole.
Io gli lanciai un’occhiata carica di tutto l’odio che avevo in corpo. Non riuscivo a credere che un ragazzo della mia età sapesse comportarsi da bambino di cinque anni in quel modo così patetico. “Ciao” risposi con freddezza.
“Temo che chiederti scusa non basta, vero?”.
“Infatti no”.
Cadde un silenzio imbarazzato, in cui nessuno di noi sembrava voler parlare, entrambi incapaci di trovare un modo per cominciare e sciogliere definitivamente quella tensione carica d’imbarazzo che era calata fra di noi.
“Mi dispiace” disse a un certo punto Edmund.
Fu sufficiente per farmi esplodere. “Mi dispiace?” sbottai. “MI DISPIACE? Prima fai in modo di farmi ammazzare da quella matta psicolabile e poi te ne esci con mi dispiace? Ma hai la minima idea di quello che hai fatto, piccolo bugiardo? Giocare in questo modo con la vita di una persona che si era mostrata gentile con te, che aveva cercato di aiutarti anche se eri stato tu stesso a dirmi di non farlo, perché credevo di aver visto nei tuoi occhi qualcosa che non c’era, ma nonostante tutto io mi fidavo di te, ti consideravo un amico! E tu? Mi hai tradita come se niente fosse! Devi solo vergognarti, sei un mostro!”.
“Hai ragione ad arrabbiarti, scusa” borbottò il ragazzo, lo sguardo basso e le mani affondate nelle tasche. “Ma non avevo altra scelta” aggiunse poi, sollevando improvvisamente gli occhi su di me. Soffocai a stento un sussulto. “Se non l’avessi fermata, la Strega Bianca ti avrebbe trasformata in una statua, come fa sempre con i suoi prigionieri. Credimi, ha tentato di farlo anche con me, la notte scorsa. Se invece fossi caduta di sotto…beh, ammetto che non è stato proprio il modo migliore per mandarti via, ma avevo visto da tempo gli arbusti e sapevo che avrebbero attutito il colpo”.
“E perché loro non se ne sono accorti, me lo spieghi?”.
“I nostri nemici sono tipi pratici e in quel momento pensavano solo a farti fuori. Spero solo che non ti sia fata troppo male, ma ribadisco che come statua saresti decisamente peggio”.
Mi sentii avvampare, fissandolo con un’espressione indecifrabile. Non riuscivo a credere a una parola di quello che stava dicendo. Lui che salvava me?
“Non riesco a fidarmi di te” risposi schiettamente.
Edmund accennò a un gesto che pareva di assenso. “Posso capirlo. Neanch’io lo farei,, fossi in te” disse piano. Incredibile a dirsi, ma sembrava davvero dispiaciuto.
“Perché sei tornato?” domandai.
“Non è stata una mia scelta. Sono stato salvato. Penso sia stato un miracolo giunto proprio all’ultimo istante, perché quando sono entrati nell’accampamento mi stavano uccidendo”.
“Cosa? Dopo che gli hai fatto un favore?” chiesi in tono sarcastico.
Edmund fece una smorfia. “Con i miei fratelli al campo di Aslan, l’unico modo per impedire alla profezia di avverarsi è evitare che si congiungano tutti e quattro” rispose amareggiato. “Così aveva mandato il suo nano a tagliarmi la gola, mentre lei progettava di attaccare voi una volta sbarazzatasi di me”.
Notai il taglio che aveva sul labbro, segno tangibile della colluttazione. Rabbrividii involontariamente.
“Dunque te la sei vista brutta” commentai acida.
“Diciamo che non vado matto per i palazzi di ghiaccio e le donne che si divertono a pietrificare la gente, no” rispose il ragazzo.
“E Aslan cosa dice?”.
“Dice che non potevo farci nulla. E’ stata un’esperienza che mi ha aiutato a diventare forte. Così la prossima volta starò più attento a non ferire chi mi sta intorno. Magari sono persone che mi vogliono davvero bene”.
Quella frase mi fece sorridere involontariamente. Eccola di nuovo, quella luce che per un attimo mi era sembrato di scorgere nei suoi occhi neri la notte in cui ci eravamo incontrati.
“Io non te ne voglio neanche un po’, sappilo” lo presi in  giro.
“Peccato” rispose lui fingendosi offeso. “Per un attimo avevo pensato che potessimo diventare buoni amici”.
Io scoppiai a ridere di gusto. “Beh, potremmo sempre diventarlo, no?” dissi senza più un briciolo di rabbia nella voce.
Mi chinai accanto al mio giaciglio ed estrassi un paio di fette di pane e la marmellata che mi aveva portato la Signora Castoro la sera prima, nascoste nella bisaccia.
“Tieni” dissi, offrendogliele. “Non è molto come pasto, ma non ho niente di meglio da offrire a un estraneo che si intrufola nella mia tenda senza permesso”.
Edmund mi ringraziò sorridendo e afferrò la sua fetta di pane, addentandola con l’aria di uno che non mangia da giorni.
“Credo che la mia cucina sia leggermente migliore di quella della Strega Bianca” commentai mordendo la mia razione.
“Decisamente” fece eco Edmund con la bocca piena.
Scoppiai a ridere ancora una volta, quella vista era troppo buffa. “Spero che almeno la marmellata ti faccia diventare più buono” commentai.
“Ma io sono buono! Ma nessuno mi dà mai l’occasione per dimostrarlo! Sono tutti troppo impegnati a darmi dello stupido!” si difese il ragazzo inarcando le sopracciglia nere, subito sulla difensiva.
“Io non credo che sei stupido” mi affrettai a precisare. “Ti capisco, Ed. Tu non sai quanto”.
“Anche tu hai dei fratelli che ti considerano una superficiale?” domandò Edmund facendosi interessato.
“Solo un fratello più piccolo. Ma lui, come del resto i miei genitori, non sono quasi mai a casa. Non parlo con nessuno e quel poco che ci vediamo lo passo a sentirli parlare di quello che fanno e non fanno, ignorando praticamente tutto della mia vita, eccetto le cose che non vanno, quelle si ricordano sempre di rinfacciarmele”.
“Sei una ragazza molto sola, quindi”.
“Sì. In una grande città, non c’è molto spazio per le persone piccole come me”.
 “Capisco” annuì Edmund. “Neanch’io frequento molte persone. Anzi, a dire il vero, neanche una”.
“Perché?”.
“Semplicemente non le trovo interessanti” fu la semplice risposta.
Scossi il capo divertita. “Non credo che il mio tempo ti piacerebbe” scherzai.
“Perché? Io penso che un’era valga l’altra” commentò il ragazzo. “Basta che ci siano sempre buone cose da mangiare, naturalmente”.
“Oh, beh, di certo a Roma non muori di fame”.
E cominciai a fargli una rapida panoramica dei posti che avevo scoperto in centro negli ultimi mesi, quando faceva freddo e non mi andava di rifugiarmi nella mia grande casa gelida, attratta dal buon profumo di pane e pizza appena sfornati che fuoriuscivano dai negozi delle strette viuzze del ghetto, mescolandosi con l’odore umido della pioggia in un unico, inebriante elisir di lunga vita fra dolci e focacce. Inutile dire che in meno di cinque minuti Edmund mi implorò letteralmente in ginocchio di portarlo a Roma un giorno di questi. Io gli risposi che, se solo fosse stato possibile, ce lo avrei portato anche subito.
Una volta finita la colazione, decidemmo di fare un giro fuori. La giornata era particolarmente calda e il sole picchiava forte sulla testa.
“Era ora che l’inverno finisse” commentai mentre avanzavamo verso la vallata che mi aveva vista così triste il giorno precedente.
“Da me era estate” disse il ragazzo.
“A Roma, invece, era quasi Natale” risposi io.
“Sai, io credo che non sia così impossibile vincere la Strega” aggiunse lui con decisione. “Insomma, ho avvertito una certa differenza fra lei e Aslan. E’ come se Aslan fosse…la cosa giusta, ecco la prima cosa che ho pensato quando mi sono trovato per la prima volta di fronte a lui. E’strano, è come se tutto fosse parte di lui in questo mondo, come se la vita di Narnia partisse direttamente dentro di lui”.
“Ma tu sai chi è Aslan?” domandai a quel punto.
Edmund alzò le spalle. “Sinceramente non lo so” rispose. “E’ qualcosa che non riesco a definire”.
“Tu hai paura?”.
“Un po’. Ma non vi abbandonerò, stai tranquilla. Sono pur sempre un principe!”.
“Ehi, non montarti tanto la testa con questa storia dell’eroe” lo canzonai io.
“Ma sul serio!” si schermì il ragazzo. “Peter da solo non basterà mai a proteggere Susan, Lucy…e te, naturalmente!”.
Io arrossii violentemente. “Guarda che so benissimo cavarmela da sola!” protestai. “Pensavo ci fossi arrivato da solo!”.
“Ma sei pur sempre una donna!” si difese Edmund.
Io feci una smorfia furbetta. “Mai sottovalutare l’avversario”.
Detto questo, raccolsi un lungo ramo da terra e lo spezzai in due, gettando l’altra estremità al ragazzo.
“In guardia!” esclamai in tono di sfida.
“Non farmi ridere! Questa non è roba da femmine!” disse Edmund perplesso.
“Guarda che il mio mito è Zorro! Oh, dimenticavo, tu non hai la minima idea di chi sia, ma comunque non è un tipo che passa i pomeriggi a sorseggiare tè nel suo salotto!”.
“Ma…”.
“Che fai? Paura?”.
Ecco, avevo colto nel segno.
“Poi non dire che ti ho fatto male” disse il ragazzo un attimo prima di gettarsi contro di me e di incrociare i nostri bastoni come se fossero spade.
Ammetto che all’epoca la nostra scherma era decisamente rudimentale, più simile a quella che ci immaginavamo dai libri e dai film che più amavamo, ma ciò non offuscava affatto il nostro entusiasmo, sfidandoci a vicenda con una tenacia e coraggio che avrebbero lasciato perplesso Jack Sparrow in persona. Alla fine, Edmund riuscì a spezzare in due il mio bastone, puntandomi il suo fra le scapole.
“Allora, ti arrendi?” domandò, pregustando la vittoria.
“Col cavolo!” risposi io, prendendo a fargli il solletico alla pancia a tradimento.
Edmund soffocò a stento una risata e mi strappò con un solo gesto il laccio che mi legava i capelli, facendomeli ricadere disordinatamente sulle spalle e scompigliandomeli tutti con la mano libera. Io urlai e mi lanciai al suo inseguimento per i prati, cercando di farmi restituire il laccetto che teneva apposta fuori dalla mia portata, scatenando una lotta furibonda che lasciò decisamente perplessi tutti quelli che ci stavano a osservare in lontananza, ormai convinti che la nostra salute mentale fosse completamente andata. Infine, ci accasciammo stravolti sul prato, io che stringevo trionfante il mio laccetto nel palmo della mano, ovviamente senza dare accenno a smettere di ridere.
“Sai, tu mi sorprendi ogni minuto di più!” commentò a un certo punto Edmund. “Non pensavo che voi femmine foste così incredibili!”.
“Ma noi lo siamo!” risposi io, lasciandomi accarezzare dalla luce del sole.
“Mah, non è che abbia incontrato delle grandi cime fra di voi” proseguì lui risoluto. “Di solito, quelle come te pensano solo al trucco e al vestito bello, ai party e agli uomini danarosi, con l’unica prospettiva di mettere su una famiglia di ragazzini pestiferi e urlanti…”.
“Guarda che il discorso è lo stesso che facevi prima riguardo i tuoi fratelli” lo corressi io. “Noi donne non siamo tutte stupide o frivole, ma per colpa dei pregiudizi di voi uomini siamo state costrette a diventarlo. Ma ti assicuro che ogni donna al mondo darebbe chissà che cosa per essere considerata qualcosa di più, perché lo siamo e io te l’ho appena dimostrato. Non è così, Edmund?”.
Il ragazzo fece una smorfia, lanciandomi una lunga occhiata che lasciava trapelare perfettamente che, nonostante non lo avrebbe mai ammesso, in cuor suo ammetteva che avevo ragione. Sorrisi tra me e me, divertendomi a osservare il sole che giocava sul suo viso, colorandogli appena il lungo naso diafano cosparso di efelidi e dorandogli i ciuffi di capelli neri e i profondi occhi vispi. Era bello sapere che sapeva anche sorridere. Ed era ancora più bello sapere che non era un ragazzo cattivo.
“Sai una cosa? Basta che non ti arrabbi” mi domandò a un certo punto mentre prendevamo la tintarella distesi sul prato.
“Dimmi, Ed” lo esortai io.
“Potresti ripetermi il tuo nome? Non riesco proprio a ricordarlo...”.
 
 
 Ma buonasera!
Piaciuta la sorpresa? Oggi proprio non riuscivo a studiare, quindi ho pensato bene di scrivere questo capitolo che sto attendendo con ansia quanto voi (immagino già l'urlodi trionfo di La_la nel leggere questo capitolo ^^).

Dunque, finalmente il nostro "eroe" è tornato al campo e ha fatto pace con Cate. E, nonostante io qui sia di tutt'altro umore, posso dire di essere riuscita a scrivere comunque una scena abbastanza tenera, che penso abbia portato il buon umore generale.

Spero che le vostre attese siano state soddisfatte!! :)

Con un caloroso bentornato a Edmund, me ne ritorno quindi a studiare, pronta a regfalarvi presto un altro capitolo (Avvertenze: premunirsi contro la Befana per la settimana prossima, in particolar modo nel finesettimana).

Un bacio a tutti (anche ai miei lettori "invisibili", che leggono e non commentano mai, tanto lo so che ci siete!) e come sempre un grandissimo saluto a sawadee e La_la.

A presto!!!!!

 
 

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Capitolo 13
*** Sacrificio ***


 Stavo volando. Nel vero senso della parola. Vedevo il mondo attraverso le orecchie fulve del cavallo come in un  mirino, ondeggiando dolcemente al ritmo con il suo collo, il suo fiato caldo andava al ritmo con mio, il suo cuore si era fuso con la mia anima. In quel momento, io e Philip eravamo una cosa sola, lo stesso essere, la stesso spirito, uniti, indivisibili. Non avrei mai immaginato che andare a cavallo fosse una cosa così bella. Qualche volta, da piccola, avevo desiderato fare un giro sui quei cavalli dall’aspetto malinconico che trainano le carrozzelle per le vie di Roma, desiderio che si era sempre concretizzato in sella a uno di quelli della giostra che allestivano sempre in piazza Navona durante le vacanze di Natale. Ma la realtà era ben diversa dall’ambiente artificiale in cui ero vissuta fino a quel momento. Non era semplicemente l’emozione più bella e forte che avevo provato fino a quel momento. Era un vero e proprio modo di percepire il mondo in maniera diversa, avvertendolo in tutte quelle forme invisibili che solitamente la vita di tutti i giorni preclude. Attraversai il prato a tutta velocità, svoltando poi verso un gruppo di rocce bianche accese dal sole, dove Edmund mi stava osservando un po’ perplesso, appollaiato su una di esse.
“Whoa!” esclamai con enfasi mentre frenavo Philip a pochi metri da lui. “Coraggio, Ed, tocca a te!” lo esortai poi, balzando giù con naturalezza.
“Che? Di già?” domandò lui impallidendo con tutte le lentiggini.
“Ma dai, è facilissimo! Ho imparato io in dieci minuti!” lo presi in giro io porgendogli le redini. “E’ come andare in giostra, solo che è più bello!”.
Edmund scosse il capo, ritornando nuovamente scontroso come un orso bruno.
“E dai, altrimenti come farai a dare una lezione a Peter? E’ da mezz’ora che si pavoneggia con quell’unicorno!” dissi io, giocandomi la mia carta peggiore, è vero, ma sicuramente la più efficace perché, nell’udire quelle parole, il ragazzo balzò in piedi come se si fosse scottato, trascinandosi a grandi passi verso il cavallo.
“Questa me la paghi!” borbottò scontroso mentre provava a montare in sella, riuscendoci goffamente solo al terzo tentativo.
“D’accordo, tanto lo sai che in duello sono imbattibile” risposi io tranquillamente, alludendo alle spade abbandonate sul prato in attesa dell’allenamento.
“Bando alle ciance…Cate! Come faccio a far partire questo coso?”.
Io scoppiai una risatina e gli spiegai tutto. Edmund ascoltava e annuiva di tanto in tanto con qualche grugnito titubante. Dalle rapide occhiate che gettavo di tanto in tanto a Philip, era fin troppo evidente che il cavallo aveva tutta l’aria di uno che si stava divertendo un mondo. Sentivo che sarebbero diventati grandi amici.
“Ho capito” disse a un certo punto Edmund.
“Allora parti, su!” risposi io discostandomi da lui per non farmi travolgere, intuendo che stava per fare una partenza a razzo.
E difatti, poco ci mancò che mi unissi anch’io alla galoppata folle in cui il ragazzo si lanciò, avendo dato le gambe con un entusiasmo un po’ eccessivo, passandomi talmente vicino che la terra cominciò a tremare sotto il peso degli zoccoli del sauro.
“CHE FAI?” gli gridai esasperata. “FRENA! FRENA!”.
Ma Edmund non sembrava in vena di starmi a sentire, tutto preso a urlare come un pazzo in sella a Philip (che in realtà non stava poi galoppando così forte), il quale correva senza una meta precisa per il prato. Io presi a rincorrerli come una matta, continuando a gridargli di tirare le redini, fino a quando il cavallo, sicuramente intuendo che il suo aitante cavaliere stava per perdere i sensi dalla paura, rallentò dolcemente l’andatura, fino a fermarsi al passo e allungando il muso verso un ciuffo d’erba fresca, cosa a cui Ed non era preparato, aggrappato alle redini com’era, e ruzzolò malamente giù dal collo del cavallo ormai completamente fermo, trovandosi a pochi centimetri dal suo nasone vellutato. La scena era così ridicola che non riuscii a trattenermi e scoppiai in una fragorasa risata.
“Che c’è?” domandò il ragazzo, sempre con il muso di Philip a due centimetri dal naso.
“No, niente! Scusa, sei stato fantastico! Ah, ah, ah, ah, ah, ah, ah!”.
Edmund sembrò imbronciarsi ancora di più, incrociando le braccia sul petto. “Non è divertente!” brontolò.
“Dai, su, non sei stato così male!” continuai a ridere io. “Insomma, hai resistito al galoppo fino all’ultimo e poi…patatrac!, mi cadi da fermo! E’ stato buffissimo!”.
“A me non fa ridere!” continuò il ragazzo imperterrito.
Philip emise una serie di brontolii bassi che potevano essere interpretati benissimo come una risatina.
“Almeno risali, così vediamo di non rifare il botto!” lo incoraggiai io. “A cavallo è come in bicicletta: prima di imparare, si cade sempre. Vedrai che tra poco andrà meglio, fidati!”.
“Sì, sì, va bene, mi fido” borbottò lui spazzolandosi via l’erba che si era appiccicata alla casacca nella caduta.
Philip alzò gli occhi al cielo con fare rassegnato.
 
Molte scene di panico e cadute dopo, si poteva dire che Edmund fosse diventato un bravo cavallerizzo, al punto da decidere di sana pianta di andare a sfidare nientemeno che Peter , con il quale si lanciò in una fole corsa giù per la collina, strillando e sbeffeggiandosi l’una l’altro nel modo in cui solo un grande conoscitore della psicologia maschile sa tollerare. Io stetti a osservarli divertita dalle rocce bianche che costellavano la valle, raggiungendo poi Susan e Lucy che si stavano allenando un po’ più giù.
“Ciao, Cate!” mi salutò Susan mentre rendeva la mira per il suo arco. “Tutto bene?”.
“Alla grande!” risposi io allegramente.
Susan sorrise e scagliò la freccia, la quale mancò di poco il centro del bersaglio. La ragazza soffocò aristocraticamente un’imprecazione che per pochi attimi increspò le sue labbra carnose.
“Coraggio, non era poi così male” cercai di consolarla. “Del resto, il bersaglio era molto lontano”.
Non ci eravamo accorte che nel frattempo Lucy era scivolata tranquillamente al nostro fianco, scagliando il suo piccolo pugnale e centrando il bersaglio con la precisione degna di un serial killer. Alle nostre occhiate sbigottite, la bambina rispose con uno dei suoi incredibili sorrisi innocenti.
In quella, Edmund e Peter irruppero alle nostre spalle in sella ai loro destrieri, facendoci voltare di scatto.
“En gard!” tuonò Edmund, sguainando la spada e sfidando il fratello.
Peter cominciò a snocciolargli consigli su consigli sulla tecnica (ops, non ci avevamo pensato!), parando tutti colpi con una precisione disarmante. Erano talmente presi a menarsi un colpo dietro l’altro, che quasi non si accorsero del Signor Castoro che si era avvicinato incautamente a loro, finendo pericolosamente vicino agli zoccoli dei loro cavalli. Fu Philip ad accorgersi in tempo del castoro, impennandosi sulle zampe posteriori per richiamare l’attenzione dei due duellanti.
Edmund strillò spaventato e si aggrappò spasmodicamente al collo del cavallo, terrorizzato alla sola idea di finire nuovamente con il sedere per terra. “Cavallo!” esclamò per riportarlo all’ordine.
Il sauro poggiò di nuovo le zampe anteriori sull’erba e si voltò verso di lui con fare mansueto, mormorando: “Mi chiamo Philip”.
Nel sentirlo parlare, per poco Edmund non cadde sul serio, lanciandomi immediatamente una lunga occhiata interrogativa. “Lo sapevi?” domandò con la voce che tremava.
Io mi trattenni a stento dallo scoppiare a ridere di nuovo. “Certo!” fu la mia risposta.
Il ragazzo stava giusto per lanciarmi una serie di imprecazioni poco carine, quando la voce del Signor Castoro ci riportò bruscamente alla realtà.
“Maestà!” esclamò in tono tutt’alto che rassicurante. “La Strega Bianca sta venendo qui! Vuole parlare con Aslan! Dovete venire, subito!”.
Quelle parole fecero calare il gelo su di noi. L’occhiata che io Edmund ci lanciammo l’un l’altra era fin troppo chiara. Paura. Paura cieca di ritrovarci di nuovo al cospetto di quell’essere. Ma questa volta non avremmo fatto lo stesso errore.
“Andiamo” disse Peter voltando l’unicorno.
Noi annuimmo seri e lo seguimmo in silenzio. Io mi affiancai subito a Philip, cercando di stare il più possibile vicino a Edmund. In quel momento ci sentivamo più che mai vicini l’un l’altro. Non parlammo per tutto il tragitto, fino a quando non ci schierammo tutti insieme di fronte alla tenda di Aslan. Il grande leone stava sulla porta, squadrando con i suoi bellissimi occhi d’ambra il mostruoso corteo che stava venendo verso di noi. La sola voce stridula del nano che annunciava la sua signora mi fece accapponare la pelle. Quattro ciclopi sorreggevano la Strega Bianca, la quale sembrava ancora più marmorea in confronto al trionfo di colori che aleggiava nel campo, creando tutto attorno a lei un’atmosfera plumbea, gelida, come se anche lo stesso cielo fosse diventato improvvisamente bianco di neve. Mentre scendeva dalla lettiga, quel demonio lanciò un’occhiata verso di noi, facendomi intuire immediatamente per chi era venuta.
“C’è un traditore tra i tuoi, Aslan?” chiese Jadis con la voce affilata come un coltello.
Mi si rivoltò lo stomaco, stringendomi d’istinto a Edmund. No, perché, perché proprio lui?
“Nessuna offesa ti è stata arrecata da lui!” ruggì Aslan.
La strega ghignò crudele. “Davvero? Ti ricordo che ogni traditore spetta a me. Il suo sangue mi appartiene. Non oserai negarmelo!”.
Che stava dicendo? Che cavolo stava dicendo? Non aveva senso, era assurdo, schifoso, blasfemo!
“Vieni a prenderlo, allora!” tuonò Peter sguainando la spada, mentre tutti noi ci stringevamo attorno al ragazzo, facendogli da scudo.
La Strega Bianca gli lanciò un’occhiata sprezzante. “Davvero credi di impedirmi di prendere ciò che è mio di diritto, piccolo re?” domandò spietata. “Aslan sa che se non avrò il sangue come stabilito, Narrnia cadrà e sarà distrutta dal fuoco e dall’acqua. Quel ragazzo morirà sulla Tavola di Pietra secondo la tradizione!”.
L’orrore che quelle parole suscitarono in tutti noi si manifestò in un mormorio concitato che esplose da ogni parte. Era più di quanto potessi sopportare.
“Edmund non ha tradito!” tuonai, facendo un passo avanti, decisa. La rabbia aveva vinto la paura. “Io sono la prova di tutto ciò!”.
“Ciò non basta a cancellare la sua colpa” rispose la strega, fissandomi in modo sadico. “e di certo non mi starò a preoccupare di quanto possa starmi a cuore il tuo amichetto. Per me, lui non è una cosa di mia proprietà e ci faccio quello che voglio. E penso che da ora in poi lo sia per tutta Narnia”.
Soffocai a fatica un conato di vomito, evitando di cadere a terra solo perché Susan mi aveva cinto le spalle con le braccia. Tutto assomigliava in maniera impressionante a un film dell’orrore.
“Proferirà con me in privato” tuonò la voce di Aslan al disopra delle nostre teste.
La strega gli lanciò uno sguardo trionfante, seguendo il leone all’interno della tenda. Nel campo piombò un silenzio di tomba. Susan mi fece sedere sull’erba, le gambe che mi tremavano in maniera incontrollata, cercando disperatamente di calmarmi, cosa che in quel momento era assolutamente inutile. Eravamo tutti e cinque pallidi come cenci, incapaci di parlare, ognuno immerso nei propri orribili pensieri. Edmund caracollò acanto a noi, prendendo a strappare ciuffi d’erba con le dita e lanciandoli distrattamente per aria. Era più pallido che mai e sembrava sul punto di scoppiare in lacrime. Non riuscivo a trovare la forza di guardarlo per più di dieci secondi. Sulle sue labbra c’erano i fantasmi di mille discorsi che in quel momento avrebbe voluto affrontare con noi, anche se sapeva benissimo che non sarebbero serviti a cambiare la situazione. Non potevo sopportarlo. Non volevo lasciarlo. Era il mio primo vero amico, e non solo. In qualche modo sentivo che Aslan non avrebbe mai permesso alla strega di ucciderlo, ma come? Una cosa era certa: quella specie di demonio avrebbe dovuto passare sopra il mio cadavere prima di torcere un solo capello a Edmund,. Garantito. Il flusso disperato dei mie pensieri fu interrotto dalla comparsa della strega sulla soglia della tenda. Sembrava furibonda, il suo solo sguardo faceva rizzare i capelli in testa dalla paura. Il cuore mi pulsava dolorosamente nelle orecchie; il fiato mozzo di Edmund accanto a me era la sola cosa che riuscivo a udire. Jadis attraversò il campo a passi lenti, lanciando un’occhiata tagliente dritta verso il ragazzo, che per un attimo fu sul punto di svenire, poi rimontò sul suo trono senza proferir parola.
“Ha rinunciato al sangue del Figlio di Adamo!” annunciò la voce di Aslan alle sue spalle.
Un boato di gioia esplose tutto intorno a noi. Non riuscivo a crederci, era salvo!
“Come farò a essere sicura che manterrai la promessa?” chiese la strega.
La risposta di Aslan fu un ruggito così grandioso, da farla piombare seduta sul trono come un sacco di patate, gli occhi sgranati dal terrore. Un coro di risate accompagnò il tutto, mentre la Strega Bianca abbandonava il campo con la coda fra le gambe. Lucy gridò di gioia e saltò la collo del fratello, il quale la strinse nell’abbraccio più tenero che avessi mai visto. Susan e Peter lo abbracciarono a loro volta, di nuovo tutti e quattro, di nuovo uniti, come se nulla fosse accaduto. Io rimasi in disparte, lasciando quell’immensa gioia tutta alla famiglia Pevensie. Lo sguardo mi cadde su Aslan e lo vidi incredibilmente triste, anche se, non appena notò la mia occhiata preoccupata, il leone si limitò a sorridermi con il suo sguardo ambrato. La cosa però non mi impedì di rabbrividire.
 
Poco più tardi, mentre preparavo il pranzo nella mia tenda, dei passi dietro di me mi fecero sobbalzare. Senza pensarci, strinsi Edmund nell’abbraccio più forte che avrei mai saputo dare a un essere umano, piangendo sommessamente sulla sua spalla.
“Sono felice che tu sia qui” gli sussurrai pianissimo.
 
 Buongiorno a todos! Come state? Ok, ora potete tirare un sospiro di sollievo (La_la, calma l'esercito, che alla befana ci pensiamo fra un paio di capitoli!).

Innanzitutto, vorrei dedicare la prima parte di questo capitolo a Haydid, un grande amico molto simile a Philip che oggi non c'è più. Grazie di tutto, bello! Non ti dimenticherò mai!

Per la seconda, ragazzi, ho rabbrividito quanto voi! Ok, l'ho messo apposta il finale con l'abbraccio orsacchiotto, altrimenti non mi reggeva il cuore!

Auguro a tutti voi un buon finesettimana!

A presto!

Baci!

Sunny




 
 
           
 
 
 
 

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Capitolo 14
*** La morte di Aslan ***


 Mi rigirai per l’ennesima volta fra le coperte, gli occhi spalancati nel buio e le orecchie tese al minimo rumore, incapace di prendere sonno. Era stata una giornata intensa, è vero, nella quale erano successe troppe cose tutte insieme, accompagnate da emozioni altrettanto forti. E non riuscivo a togliermi dalla testa il pensiero che, solo poche ore prima, avevo rischiato di perdere per sempre il mio migliore amico. Nonostante sapessi per certo che quella maledetta strega doveva essere ormai molto lontana dall’accampamento, la sensazione di gelo e di nausea che mi attanagliava da quel pomeriggio sembrava non darmi tregua. Eppure, da quando quel mostro se n’era andato, ne avevo fatte di cose! Prima di tutto, io e i Pevensie avevamo deciso immediatamente di potenziare il nostro addestramento, decisi ora più che mai a combattere al fianco di Aslan, immensamente grati nei suoi confronti per aver salvato il ragazzo. Ma era proprio questo il punto che mi inquietava di più: come aveva fatto a convincere la strega a rinunciare al suo sangue, quando nell’attimo prima di entrare nella tenda sembrava così sicura di ottenerlo? L’espressione triste sul volto del grande leone mi tormentava come un terribile presagio, un presagio che nessuno, tranne me e Lucy, sembrava aver notato, tutti presi com’erano a festeggiare. Che cosa aveva in mente? Qual era il suo piano? Scattai a sedere improvvisamente, come se avessi preso la scossa. C’era qualcosa che non andava, ne ero sicura. Lo sentivo, quel senso di nausea che aumentava sempre di più mentre la notte sprofondava nella sua ora più buia, lo sentivo inerpicarsi sgradevolmente su per stomaco, serrandomi l’esofago e congelandomi la lingua, mentre i muscoli degli arti si contraevano dolorosamente. C’era qualcosa nella foresta, qualcosa di spaventoso, di terribile, che stava accadendo proprio in quel momento, mentre tutti dormivano nelle loro tende. Rapida come un fulmine, mi scostai le coperte dal corpo, gettandomi il mantello sulle spalle e assicurandomi la spada alla vita, uscendo a grandi passi dalla mia tenda e prendendo a camminare nell’accampamento silenzioso argentato dalla pallida luce della luna. La tenda delle sorelle Pevensie doveva trovarsi nei dintorni. Stavo già tirando un sospiro di sollievo nel vederla comparire davanti ai miei occhi, quando, nello scostare il drappo della porta, il cuore mi ebbe un tuffo nel constatare che era vuota. No, non potevano sparire proprio quella notte! Lottando disperatamente per non farmi vincere dal panico, tornai rapidamente sui miei passi, diretta verso la foresta, sperando di trovarle nei dintorni. Tutto era cupo e silenzioso. Non un rumore, nemmeno un fruscio. Tutto faceva paura. Avanzavo guardinga fra i primi tronchi degli alberi centenari, la destra poggiata sull’elsa della spada, pronta a sguainarla al minimo segno di pericolo, quando improvvisamente mi arrestai. Qualcuno stava avanzando lentamente al limitare del bosco, lì dove finiva l’accampamento. Strinsi gli occhi a due fessure nel seguire i suoi movimenti e sospirai di sollievo nel constatare che si trattava di Edmund. A quanto pareva, avevamo avuto entrambi la stessa idea. Tornai indietro e lo raggiunsi con cautela. Il ragazzo levò il capo verso di me e accennò a un sorriso, senza però nascondere la propria preoccupazione.
“Ciao” lo salutai mentre emergevo dal macchione di alberi. “Anche tu non riesci a chiudere occhio?”.
“No” rispose Edmund. “C’è qualcosa che non va. Lo sento”.
“Non trovo Susan e Lucy” continuai io.
“Saranno da qualche parte” mi tranquillizzò lui. “Magari Lu ha avuto un incubo e Susan l’ha portata a fare due passi per farla calmare. Magari ora sono tutte e due a sorseggiare cioccolata calda nella dispensa, vedrai. Non sono due sprovvedute”.
“Voglio crederlo. E Peter?”.
Edmund fece un sorriso esasperato. “Pete dorme come un ghiro e probabilmente neanche i corni di guerra riusciranno a farlo levare in piedi. Mentre uscivo, sono inciampato per sbaglio nella sua armatura e non si è neanche mosso. Domattina controllerò che non sia morto sul serio!”.
“Dai, Ed, non essere così tragico!”.
“Ma che tragico! Sarebbe una bellissima notizia, invece”.
Scoppiai a ridere, mio malgrado. Quei due non sarebbero mai andati d’accordo, era inutile starci a sperare. Edmund tornò serio, scrutando gli alberi intimorito. “Non mi piace” sussurrò.
“Neanche a me” feci eco io. “Sai dove si trovi Aslan?” domandai.
“Non è nella sua tenda. Sono andato a cercarlo per chiedergli consiglio, oltre che per ringraziarlo del suo gesto” rispose il ragazzo. “Cate, ti rendi conto di quello che ha fatto?”.
“Forse non abbastanza” risposi io seria. Le sue parole mi avevano fatto venire in mente una cosa orribile…no, Aslan no, non poteva aver stabilito una posta del genere solo per lui, non poteva essere…mortale.
“Perché sono qui, te lo sei chiesto?” continuò Edmund, come a seguire il filo dei miei pensieri. “C’è qualcosa che non torna. Possibile che la strega abbia rinunciato al mio sangue così facilmente?”.
“Non si sarà arresa, questo è sicuro. Magari c’è qualcosa che noi non conosciamo. Del resto, siamo qui da così poco tempo…” cercai di spiegare io, anche se sapevamo benissimo tutti e due che non poteva essere così.
“Posso capire la profezia e tutto,” disse Edmund inarcando le sopracciglia “ma non posso accettare che Aslan offra se stesso al posto mio”.
Quella terribile conclusione mi fece gelare il sangue nelle vene. “Cosa?” esclamai orripilata. “No, no e poi no! Aslan non può farlo, lui no!”.
“No, Cate, fidati, o almeno provaci. Lui non ha detto niente, ma io lo sento che è così. Ha scambiato la sua vita con la mia. Come poteva altrimenti quella megera rinunciare al sangue di colui che avrebbe portato la profezia al compimento?”.
“No!” sbottai mettendomi le mani nei capelli. “A questo punto, potevo sacrificarmi io per te! Sono stata una stupida a non pensarci, una stupida egoista!”.
Quello che accadde immediatamente dopo quelle parole mi lasciò senza fiato. In un attimo, Edmund mi aveva presa per le spalle, guardandomi dritta negli occhi. Il suo sguardo penetrante mi paralizzò lì dov’ero, facendomi salire un violento rossore su per le guance, nonostante stessi lottando con tutte le mie forze per trattenerlo. “Non devi dire mai più una cosa del genere, Cate. Capito? Mai più” disse lentamente, scandendo ogni parola. “Perché io non potrei permettermi di perderti, non ora che ho trovato una persona che possa chiamare amica. Narnia non sarebbe più la stessa senza di te, nessun mondo sarebbe più lo stesso senza di te. Sei tutta la mia vita, ora”.
Non riuscivo a credere alle mie orecchie, eppure in quel momento mi sentivo più sveglia che mai. Respiravo a fatica, le gambe che tremavano incessantemente, i miei occhi castani persi nei suoi, neri, intensi, bellissimi, che sprigionavano a un tempo tutta la forza e la bellezza racchiusi dentro quel ragazzo minuto e apparentemente scontroso, che in quel momento stava dando prova di essere più di un amico, anche lui, come me, avvertiva una forza che non poteva controllare. La stessa che in quel momento stava decidendo i destini di tutti noi.
Il suo volto era ormai vicinissimo al mio. Potevo contargli tutte le lentiggini sul naso nonostante tutto fosse immerso nella più totale oscurità. L’unica cosa che si sentiva in quel silenzio di tomba era il nostro respiro, affannoso e sorpreso allo stesso tempo, incapaci di rincorrere quello che stava avvenendo davanti ai nostri occhi. Senza neanche accorgermene, gli avevo posato impercettibilmente le dita sulle spalle, mentre le sue mani erano scivolate all’altezza della mia vita, le nostre labbra sempre più vicine. Chiusi gli occhi e mi abbandonai a quel vortice di sensazioni, lasciando ogni mia decisione a ciò che il cuore mi diceva.
Un urlo selvaggio squarciò la notte, strappando il buio e percuotendo la foresta con il suo orrore. Spalancai gli occhi di scatto, trovandomi a pochi millimetri da quelli di Edmund, a un passo dalle sue labbra, interrompendo il bacio che stavamo per strapparci. Senza volerlo, i nostri volti furono rigati da lacrime di dolore, entrambi in preda a una tristezza sconfinata.
“E’ morto” sussurrò il ragazzo con la voce che tremava.
“L’ha fatto per amore” dissi io sul punto di crollare. “Solo per amore”.
Le forze mi abbandonarono nell’attimo in cui Edmund mi cinse le spalle, stringendomi al suo petto, al quale mi aggrappai con tutte le mie forze, il suo cuore era l’unica voce che mi guidava in quella notte terribile. In quel momento, non avevamo più nulla se non l’un l’altra.
 
 Capitolo breve, ma intenso (immagino già la faccia di La_la).

A dire il vero, fino a oggi pomeriggio pensavo di rendere questa parte molto diversa, con Cate ed Edmund che parlavano delle loro vite nel loro mondo, ma poi ho pensato che la cosa sarebbe stata NOIOSISSIMA e perciò ho optato per questa soluzione, che tra l'altro anticipa una cosa che avrei voluto fare nel sequel (perché ci sarà!).

Insomma, come avrete intuito, l'intero capitolo si basa sull'amore, un amore infinito che regola l'intero Universo (non pensate che si tratti della stessa Grande Magia?), e che unisce il sacrificio di Aslan al bacio mancato fra i due protagonisti. 

Spero che questo breve capitolo vi sia piaciuto. La prossima volta, si scende in battaglia (preparate le padelle!).

Un bacio a tutti voi!

Sunny

 
 
           

 

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Capitolo 15
*** La battaglia ***


 L’alba precedette i nostri passi sull’erba, allungandosi sul campo addormentato accompagnata da una dolce brezza che spirava dai monti. Camminavamo uno a fianco all’altra, senza guardarci. Mi sentivo fortemente a disagio e lo stesso valeva per Edmund. Possibile che stavamo per baciarci? Come avevamo potuto essere così sciocchi, così ingenui? Ci conoscevamo appena, avevamo passato appena un pomeriggio insieme e di colpo, alla prima occasione, eccoci a farci gli occhi da triglia in piena notte come due allocchi! Mi vergognavo, mi vergognavo da matti. Avevo la sgradevole sensazione di avere le orecchie in fiamme. Ma c’era un’altra cosa che in quel momento mi tormentava: quel terribile senso di tristezza e di angoscia che aumentava a ogni passo, accompagnato dalla certezza che ormai Aslan non c’era più.
Trovammo Peter già sveglio, fuori dalla sua tenda, intento a contemplare quello che presto sarebbe diventato il suo regno. La presenza a Narnia l’aveva visibilmente cambiato, come se improvvisamente da ragazzo pieno di vita qual era si fosse trasformato in un uomo adulto e carico di responsabilità. Ci salutò con uno di quei sorrisi che ti mettevano a tuo agio, venendoci incontro a grandi passi.
“Siamo mattinieri, ragazzi?” chiese battendoci una pacca sulla spalla.
“Aslan è morto” disse Edmund in tono grave.
Peter lo fissò come se di colpo il fratello fosse diventato matto. “Ma cosa dici, Ed? Aslan non può morire!” esclamò.
“Noi l’abbiamo sentito. Devi crederci. Ci dispiace moltissimo” intervenni io.
Peter ci lanciò occhiate cariche di panico. “No!” sbottò. “NO! Ragazzi, tutti ieri abbiamo avuto una giornataccia, posso capirlo, ma Aslan non può essere morto, capite? Senza di lui, la guerra non si…ma che diav…!”.
Sussultammo tutti e tre, colti di sorpresa dall’improvvisa folata di vento che ci travolse violentemente, schiaffeggiandoci il viso e arruffandoci i capelli. Un turbinio di petali rosa chiarissimo si levò dinanzi ai nostri occhi sbigottiti, prendendo la forma di una donna bellissima dal volto velato di tristezza. Spaventati, sia Edmund che Peter sguainarono d’istinto le spade, ma la creatura li ammonì con un solo gesto della mano. “Calma, miei principi” disse loro con una bella voce calda, da donna matura e saggia. “Vi porto brutte notizie dalle vostre sorelle. Il grande Aslan è morto questa notte sulla Tavola di Pietra. Il popolo di Narnia attende ora vostri ordini per scendere in battaglia contro la Strega Bianca”.
 
L’intero campo era pervaso da un fermento febbrile. Tutti correvano da una parte all’altra in preda alle più svariate occupazioni, tra armi da affilare e distribuire alle direttive militari. Io ed Edmund attendevamo fuori da quella che un tempo era stata la tenda di Aslan. Il silenzio che era calato fra noi due dalle prime luci dell’alba non dava segno di abbandonarci e la tensione si poteva tagliare con il coltello.
“Hai paura?” domandò improvvisamente il ragazzo.
Io trasalii, colta di sorpresa. “Un po’” risposi. “E tu?”.
Edmund fece una smorfia. “Lascia perdere” borbottò.
Feci per mettergli fraternamente una mano sulla spalla, quando improvvisamente la porta si aprì, rivelando Peter con l’aria più afflitta che gli avessi mai visto in faccia. “E’ vero” disse tristemente. “E’ morto. E, quel che è peggio, non c’è traccia né di Susan né di Lucy”.
“Allora dovrai guidarci tu” intervenne Edmund deciso.
Il fratello scosse il capo, puntellandosi sul tavolo su cui era poggiata la pianta del futuro campo di battaglia.
Il suo scoramento sembrò far infervorare ancora di più il ragazzo. “Peter, c’è un esercito là, pronto a seguirti!”.
“Non credo di essere all’altezza di questo compito” si schermii Peter, la voce carica di amarezza.
“Aslan pensava di sì” proseguì Edmund risoluto. “E anch’io lo penso”.
“Peter,” intervenni io, decisa a farlo ragionare una volta tanto “se siamo arrivati fino a questo punto, ora non ci è concesso fare un passo indietro. E’ il nostro momento. Il momento di Narnia. Forse combattere in questo momento sembrerà un’impresa disperata, è vero, ma almeno avremo qualche speranza in più rispetto all’arrenderci subito. Se Aslan ha deciso di abbandonarci, vuol dire che sapeva quello che stava facendo. Io mi fido di lui. E mi fido anche di te”.
Peter ci guardò intensamente, lo sguardo grave e penetrante di un uomo adulto, poi i suoi occhi caddero sulla pergamena che aveva davanti a sé. “E’ deciso, allora” mormorò. “Si va in battaglia”.
 
La valle si estendeva immensa e verdeggiante fino ai confini delle montagne, propagandosi a perdita d’occhio all’orizzonte. Era una bellissima giornata d’estate, e lo sarebbe stata ancora di più se di lì a poco in quel paesaggio idilliaco non si fosse consumato un massacro. La temperatura saliva di minuto in minuto e io temevo che con il caldo la battaglia sarebbe stata ancora più pesante. Galoppai lungo la linea che mi era stata assegnata, precedendo il drappello di centauri che mi era stato assegnato, posizionandoci in prima fila. Levai lo sguardo in alto, verso le grandi rocce bianche che fungevano da postazione per gli arcieri, cercando con lo sguardo quella figuretta rossa e oro dai grandi occhi neri. Edmund incontrò il mio sguardo e levò il braccio verso il cielo in un cenno di saluto.
“Quando sarà tutto finito, non ci separeremo più” mi aveva promesso poco prima di dividerci. “Te lo prometto”.
“Stai attento” gli avevo detto con la voce che tremava.
“Anche tu”.
E, senza starci a pensare, mi aveva sfiorato la guancia con le labbra. Io gli avevo gettato le braccia al collo, stringendolo a me un’ultima volta. Ti amo, avevo pensato in quel rapidissimo frangente, ma poi avevo alienato violentemente quel sentimento prorompente, concentrandomi sulla battaglia. Ero montata in sella a Philip ed ero partita al galoppo, il cuore in fiamme.
Il suono di un corno mi richiamò alla realtà. All’orizzonte era comparsa una massa nera di corpi mostruosi e armati fino ai denti, capeggiati dal demone, bianco come la neve, in piedi su un cocchio trainato da orsi bianchi, lo sguardo assassino che fiammeggiava al disopra della criniera dorata che portava al collo, la sua criniera. La sola vista mi fece montare in corpo una rabbia incontenibile, talmente forte da scaricarsi simile a una scossa elettrica nel corpo di Philip, facendolo impennare bruscamente con un nitrito che lacerò l’aria ormai torrida. Nel campo calò il silenzio, poi, improvvisamente, un tremendo boato esplose dalle nostre truppe: Peter aveva lanciato l’attacco.
Per primi attaccarono i grifoni. Planavano dall’alto e colpivano i nemici con delle grosse pietre. A un segnale di Edmund, gli arcieri scagliarono i loro dardi, abbattendo le avanguardie nemiche. Il temporaneo vantaggio, però, fu rapidamente cancellato da il segnale di carica di entrambi gli schieramenti. Peter scese giù dal crinale insieme ai suoi, il suo unicorno bianco era un bagliore di luce in mezzo al luccichio sinistro delle armature. Era il segnale.
Sguainai la spada. “PER NARNIA!” gridai a pieni polmoni mentre mi lanciavo alla carica a mia volta, seguita a ruota dai miei centauri.
Ormai eravamo tutti una massa compatta di corpi che avanzavano a tutta velocità sull’erba, un’onda irresistibile che avanzava senza sosta, travolgendo tutto quello che trovava. Vedevo i nemici farsi sempre più vicini. Vedevo le loro zanne, i loro artigli, le loro spade e le loro asce ormai a pochi etri da me.
Tornerò da te, pensai. Poi, lo schianto.
 
Non capivo più nulla. Tutto era un turbinio infernale di lame, zanne e artigli. L’aria era intrisa dell’odore acre del sangue e del sudore e ben presto al mio fianco cominciarono ad ammassarsi i primi cadaveri. Io continuavo a menare fendenti contro gli assalitori, lottando per la vita che minacciava di abbandonarmi da un momento all’altro. In pochi minuti, avvertii in bocca il sapore del mio stesso sangue. Un minotauro mi aveva colpita sulla schiena. Il dolore mi accecò per pochi attimi, ma riuscii a rispondere in tempo, piantandogli la spada fra le corna e fuggendo via. Per un attimo, temetti di perdere i sensi, poi, inebriata dall’urlo selvaggio della vita che mi chiamava a sé, mi raddrizzai sulla sella e ritornai a combattere. Tutto quello era orribile, il peggiore dei miei incubi, l’inferno. Doveva finire, doveva finire. Ci fu un sibilo, poi tutto fu invaso dal fuoco. Qualcuno doveva aver scagliato una freccia incendiaria, isolando le armate nemiche. Un urlo di trionfo si levò dalle nostre truppe. Stavo già per richiamare i miei, quando un orrendo lampo di un azzurro accecante tagliò l’aria, spegnendo le fiamme con un gelido bagliore: Jadis stava avanzando in prima linea, pietrificando chiunque osasse intralciare il suo cammino.
“Ritirata! RITIRATA!” sentii urlare Peter.
Non avevamo altra scelta, erano troppi.
“CON ME!” gridai voltando Philip e galoppando verso le rocce.
La nostra fuga fu coperta da un nugolo di frecce scagliate dai nostri uomini, i quali abbatterono un gran numero di nemici. Noi ci arrampicammo il più veloce possibile sullo sperone roccioso, ma ciò non bastò a fermare i nemici: in pochi secondi, infatti, le truppe infernali erano alle nostre spalle, ormai in evidente vantaggio numerico.
“VIA!” gridai in preda al panico. “SALVATEVI!”.
Philip si inerpicò ancora più in alto, il collo bagnato di sangue e sudore, il fiato mozzo. Sotto di me, si udì uno schianto terribile, accompagnato pochi istanti dopo da un nuovo lampo azzurro. Con gli occhi carichi di orrore, mi costrinsi a guardare giù e per poco non caddi da cavallo: Peter era a terra e il centauro Oreius era stato appena trasformato in statua, proprio mentre stava per vibrare un fendente mortale alla strega, che ora avanzava inesorabilmente verso il ragazzo, completamente inerme.
“Devo fare qualcosa!” esclamai facendo per far voltare Philip, ma il cavallo si impuntò con decisione, rovesciando bruscamente la grossa all’indietro.
“No, Cate!” nitrì deciso. “Hai altri ordini! Pensa ai tuoi uomini!”.
“E tu ascoltai i miei, invece!” sbottai, speronandolo con decisione. “Se Peter muore, sarà stato tutto inutile! Muoviamoci, forza! FORZA!”.
Philip s’impennò risentito, poi corse giù, pronto a dare man forte al maggiore dei Pevensie. Il ragazzo stava affrontando un feroce corpo a corpo con un lupo mannaro e non si era accorto della strega che si stava avvicinando pericolosamente a lui, pronta a colpirlo alle spalle.
“Cate, guarda!” esclamò Philip, indicandomi con un brusco movimento del capo ciò che stava per succedere.
“A noi non la fai, demonio!” gridai io, lanciandomi contro di lei e attaccandola di fianco, finendole addosso.
La strega sussultò, colta di sorpresa, i suoi terribili occhi iniettati di sangue penetrarono i miei, afferrandomi per il bavero a trascinandomi giù dal cavallo. Caddi rovinosamente a terra, finendo supina ai suoi piedi.
“Che sciocca ragazzina” commentò saccente, mentre levava la bacchetta su di me. “Davvero pensavi di battermi con una mossa da quattro soldi? Davvero deludente”.
In tutta risposta, io le sputai sfacciatamente in faccia, cosa che fece aumentare ancora di più la sua furia omicida, facendola sembrare mostruosamente più alta e pallida di quanto già lo fosse.
“Piccola sudicia…” ringhiò, facendo per tramutarmi in un pezzo di pietra, quando tutto diventò azzurro, in un’esplosione fredda e accecante.
Rimasi immobile, gli occhi chiusi, convinta di essere stata pietrificata, ma il cuore che continuava a pulsarmi nelle orecchie mi costrinse a guardare, dal momento che, nonostante l’incantesimo, continuassi a rimanere imperturbabilmente viva. Il moncone della bacchetta cadde a pochi centimetri da me, facendomi schizzare in piedi con un moto di orrore. Un ragazzo esile si era frapposto fra me e la strega, fronteggiandola con coraggio dopo averle distrutto la sua arma peggiore.
“EDMUND!” urlai incredula.
Davvero mi aveva salvata? La gioia nel rivederlo di nuovo accanto a me svanì all’istante, rotta da un sinistro rumore sordo, come quello di un drappo umido che viene lacerato. La strega aveva immerso fino all’elsa la spada nella pancia del ragazzo, facendogliela uscire dalla schiena. Edmund emise un muto sospiro, gli occhi neri che imploravano pietà mentre quel mostro sfilava la spada dal suo corpo come se niente fosse, crollando ai miei piedi come un peso morto.
L’orrore che mi montò dentro si trasformò in un istante in un urlo selvaggio nel vedere lo sguardo perverso della strega che torreggiava su di lui, scagliandomi contro di lei a spada tratta, decisa a farla a pezzi e dilaniarla come lei aveva fatta con lui. Jadis rise e mi respinse con un fendente, colpendomi al fianco. Ruzzolai a terra, la mano premuta spasmodicamente sulla ferita, per fortuna superficiale, cercando di colpirla nuovamente, ma la Strega Bianca mi afferrò peri capelli, sollevandomi ad altezza vertiginosa dal suolo e facendo per passarmi da parte a parte con la spada, quando Peter le piombò addosso con tutte le sue forze, facendole mollare la presa. Caddi a terra come un sacco di patate, con la sgradevole sensazione di avere tutte le ossa rotte.
“VAI DA EDMUND!” mi gridò Peter mentre si difendeva da un affondo della strega.
Io annuii tremando e mi precipitai al suo fianco. Il ragazzo era ancora vivo, ma era pallido come un cencio e aveva il fiato mozzo per il dolore. Non osavo abbassare lo sguardo sull’orrenda ferita che aveva sul ventre.
“Ed” sussurrai, accarezzandogli la fronte.
Il ragazzo levò gli occhi su di me in un sorriso debole. “Cate…”. Le sue dita cercarono la mia mano.
“No! NO!”.
Lacrime bollenti presero a scorrermi sul viso, incapace di trattenere il dolore. Non sapevo cosa fare. Dovevo chiedere aiuto. Ma dove, in una battaglia dove se sei colpito devi morire?  Mi strappai un pezzo di tunica e cercai di tamponare disperatamente la ferita, ma tutto fu inutile. In un attimo, le mie mani furono lorde di sangue. “No!”.
“L’importante, è che alla fine siamo rimasti insieme” disse Edmund con la voce sempre più spenta.
Gli baciai la mano che continuava a tenere la mia. “Non lasciarmi” singhiozzai. “Ti prego. Io ti amo”.
Edmund fece un suono indecifrabile, accennando a un sorriso.
In quell’attimo, un fragore sinistro accompagnato da un urlo lacerante mi fece alzare lo sguardo di scatto. Peter era caduto a erra, una spada conficcata nel braccio, e ora la strega si preparava a finirlo. Stavo per aspettarmi il peggio, quando un poderoso ruggito scosse improvvisamente l’aria, facendo tremare la terra il cielo, scuotendo l’aria intrisa di morte.
“ASLAN!” gridai incredula, una gioia selvaggia che mi accendeva ogni speranza, cancellando ogni traccia di dolore e di rabbia.
E non era solo: dall’alto della roccia su cui era comparso, Susan emerse al suo fianco, l’arco teso verso l’esercito nemico, mentre Lucy sguainava il suo piccolo pugnale. Alle loro spalle, un vero e proprio esercito di ogni sorta di creature fantastiche si riversò nella valle, sgominando le creature della strega, che si dispersero disordinatamente nel capo di battaglia, cercando inutilmente scampo. Aslan ruggì di nuovo e si lanciò contro la Strega Bianca, atterrandola e sbranandola con le sue fauci. In pochi attimi, nella valle ritornò il silenzio.
“E’ finita” tuonò il grande leone, di nuovo sovrano di Narnia.
“Ce l’abbiamo fatta!” sussurrai, stringendo ancora di più la mano di Edmund, quando, di colpo, mi si gelò il sangue nelle vene. Il nano della strega era a meno di un metro da noi, levando l’ascia ridendo con la sua voce stridula. Ci fu un sibilo, poi la creatura cadde a terra, uccisa da una freccia. Un attimo dopo, Susan e Lucy erano al nostro fianco, seguite a ruota da Peter.
“Oh, mio Dio!” esclamò la maggiore, inginocchiandosi accanto al fratello e liberandolo dell’elmo per farlo respirare meglio.
“Mi dispiace” fu tutto quello che riuscii a dire.
Lucy si chinò su di lui e svitò un’ampolla piena di un liquido rosso sangue, riversandolo sulle labbra del ragazzo agonizzante. Edmund chiuse gli occhi, senza emettere più alcun suono, poi li spalancò improvvisamente, rivelando un sorriso sereno. Il sangue non c’era più e il ragazzo era perfettamente guarito!
“EDMUND!” fu il grido di gioia che lanciammo tutti all’unisono, sommergendolo nell’abbraccio più forte che il poveretto si fosse mai trovato a ricevere.
“Quando imparerai a fare quello che ti dico?” chiese Peter ridendo.
“Guardate!” esclamai al culmine della gioia.
Aslan era di fronte a noi, i suoi occhi d’ambra accesi da quello che sembrava un vero e proprio sorriso sornione. Si avvicinò con passi felpati a un fauno pietrificato, soffiandogli dolcemente sul capo. La creatura fu percorsa da un brivido, poi, miracolosamente, tornò alla vita.
“Coraggio,” disse il leone, voltandosi teneramente verso la piccola Lucy “ci sono altri che necessitano delle nostre cure”.
La bambina sorrise raggiante e lo raggiunse, ansiosa di guarire altri soldati con la sua pozione miracolosa. Noi restammo per un attimo a osservarli sparire lungo il pendio, poi Peter e Susan si levarono in piedi a loro volta, facendo per avviarsi anche loro.
“Beh,” commentò Edmund sorridendo “direi che è andata bene”.
Non seppi resistere oltre. “Tu…stupido…matto…mi…hai…fatto…prendere…un colpo!” e, senza starci a pensare oltre, lo baciai.
Edmund sgranò gli occhi per la sorpresa, poi, soffocando una risatina, mi baciò a sua volta, rimanendo lì, abbracciati su quel prato che solo due giorni prima ci aveva visti passeggiare l’uno accanto all’altra. Ci scostammo timidamente, soffocando un certo imbarazzo. Notai con la coda dell’occhio Susan che ci lanciava uno sguardo complice, ma non le diedi peso.
“E’ stato bello” balbettai, rossa come un peperone.
Edmund sorrise. “Mai quanto te, Cate”.
 
Eccomi qua! Piaciuto il capitolo? Devo dire che finora è stato quello che mi ha divertita di più!

Visto che alla fine si baciano? (La_la felicissima, immagino, o almeno ci provo!).

Ah, dimenticavo: SDENG!

Al prossimo (e purtroppo ultimo) capitolo!

Un bacio e grazie per il vostro sostegno!
 
 
           
 
 
 
 

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Capitolo 16
*** Tempo di tornare a casa ***


 I Pevensie attraversarono il corridoio di marmo al centro della grande sala del palazzo reale, fermandosi infine dinanzi ai loro troni. Aslan li chiamò uno alla volta, ponendo sul loro capo le corone a loro destinate e pronunciando i loro nomi, la Valorosa, il Giusto, la Dolce e il Magnifico, quei nomi che da quel momento in poi sarebbero appartenuti loro per sempre. Io rabbrividì, pervasa da una gioia incontenibile nel vederli lì, tutti insieme, maestosi e allo stesso tempo puri, sovrani incontrastati come aveva stabilito la profezia, immersi nel loro destino. Ma alla felicità si stava lentamente sostituendo uno strano senso di tristezza, soprattutto quando alzavo o sguardo verso quella figura gracile e bruna vestita di azzurro, la quale non incontrava più il mio sguardo. Edmund era un re, ora, e ciò lo faceva sembrare distante chilometri da me. Da quel momento in poi, avrebbe avuto le sue responsabilità, i suoi doveri, avrebbe dovuto governare il paese e diventare un uomo. Il suo posto non era più quello che fino a quel momento avevamo chiamato “il nostro mondo”, ma a Narnia. Lo sapevo dall’inizio che alla fine le nostre strade si sarebbero dovute dividere, ma allora non immaginavo minimamente ciò che significava. Non avevo ancora accettato i miei sentimenti per il Giusto, per me non sarebbe stato un problema vivere senza di lui, come se non ci fossimo mai incontrati. Non avevamo ancora combattuto l’uno a fianco dell’altra, non gli avevo mai stretto la mano pregando che restasse in vita, non sapevo che cosa significasse trascorrere il tempo con lui, scherzare insieme e, alla fine, incontrare le sue labbra in quel bacio che non mi sarei mai aspettata. Molte cose erano cambiate da quel “ti amo”, definitivamente. Nulla sarebbe mai stato come prima. E, in quel momento, desideravo tanto che tutto ciò non fosse mai accaduto, non dopo aver visto il prezzo da pagare. Ora io e lui non avevamo più nulla a che vedere l’uno con l’altra, io sarei dovuta stare nel mio mondo, e lui nel suo. Divisi. Senza starci a pensare oltre, mi voltai e fuggii dalla sala senza dare nell’occhio, non volendo rovinare quel momento di festa, le lacrime che scendevano lentamente sulle mie guance.
 
La spiaggia era di nuovo davanti a me, il mare che si perdeva nell’infinito sotto il cielo rosato dal tramonto,il grande palazzo di marmo che si stagliava maestoso sulla scogliera. Il mio sogno era lì. Io ero nel sogno. Il mio sogno. Quello che per tanti anni avevo cercato e in cui ero tornata, alla ricerca di risposte che avrei riportato nel mio mondo, il posto che mi apparteneva e che mi era sempre appartenuto, pronta a diventare anch’io una donna. Un fruscio felpato accanto a me mi fece voltare il capo verso il grande leone che mi si era avvicinato.
“Il mio tempo è scaduto, vero?” chiesi con un velo di tristezza nella voce.
“Sì, Figlia di Eva. Hai imparato da questo mondo tutto ciò che ti serve per affrontare il tuo. Da questo momento in poi, saprai ricoprire il tuo ruolo con giustizia e saggezza, proprio come hai imparato qui, e la tua vita sarà felice” rispose Aslan con dolcezza.
Soffocai a fatica un singhiozzo. “Aslan…” sussurrai, incapace di rivelargli il dolore che mi serrava il petto.
“Non ora” mormorò il leone. “Accadrà. Non ora, ma accadrà”.
Le sue parole  suscitarono uno strano calore dentro di me, come se mi stessero dando la certezza che un giorno, non sapevo come, io ed Edmund saremmo stati uniti per l’eternità.
“Cate”.
La sua voce mi fece sussultare, il cuore a mille.
“Edmund!”.
Lui era accanto a me, aveva lasciato la festa solo per venirmi a cercare.
“Te ne vai?” chiese, i grandi occhi neri pervasi di tristezza.
Io annuii seria. “Sì, mi dispiace”.
“No! Non puoi andartene ora! Qui abbiamo tutto quello che desideriamo, sarai la mia regina, puoi esserlo, lo meriti!”.
Io mi avvicinai a lui, accarezzandogli quel viso da angelo dispettoso che si ritrovava, lottando per non fargli vedere le lacrime che lottavano per uscire, poi, facendomi ancora più vicina, gli sfiorai le labbra con le mie, baciandolo con tutto l’amore che avevo dentro di me. “Non possiamo restare insieme” dissi stringendolo a me, mentre lui tuffava il volto fra i miei capelli. “Apparteniamo a due mondi diversi, a due ere diverse. Se ci pensi, se tornassimo nei nostri mondi, tu dovresti essere come minimo mio nonno o” il cuore ebbe una fitta dolorosa “addirittura già morto”.
Edmund mi strinse a sé ancora più forte. Stava piangendo, lo sentivo, anche lui non avrebbe mai voluto permettere che ci separassimo.
Alzai il volto verso di lui, perdendomi in quello sguardo che ormai non mi turbava più, ma si limitava a farmi capire quanto lo amassi. “Io sento che ci rivedremo, un giorno” gli promisi. “Quando sarà il momento”.
“Cate,” mi chiamò Aslan, che era rimasto a pochi metri da noi, lanciandoci lunghe occhiate comprensive “è ora di andare”.
“E’ la cosa giusta” dissi in tono consapevole. Sapevo che era così, anche se per il momento non riuscivo a sopportarlo. “Forse se restassi ora, saremmo davvero divisi per sempre”.
“Cosa?”.
“Fidati. Non è il momento. Ti prometto che, quando ci vedremo ancora, sarà per sempre”.
Edmund mi baciò, un bacio lungo, passionale, nel quale avrei voluto restare immersa per l’eternità. “Ti amo” sussurrò mentre sfiorava le mie guance bagnate, la punta del mio naso, le sue mani nei miei capelli spettinati dal vento.
“Anch’io” sussurrai stringendomi a lui. “Anch’io”.
“Non dimenticarti mai di me. Ti prego, promettimelo” sussurrò il ragazzo.
“Lo prometto” dissi piano.
“Cate”.
Aslan aveva indicato il mare, con quel nome. Ed esso gli aveva risposto, increspandosi e rivelando una porta fra le onde, la porta che mi avrebbe ricondotta a casa.
“Io ti aspetterò” disse Edmund, sfiorandomi le labbra un’ultima volta. “Ogni giorno della mia vita”.
“Allora a presto” lo salutai io. “A casa”.
Le nostre mani si lasciarono lentamente, con un fruscio delicato, carico di amore e nostalgia, mentre io mi voltavo e mi immergevo nelle acque del mare, che mi accolsero e mi abbracciarono, trascinandomi con loro verso casa, il mio posto, nel quale avrei atteso, paziente. Mi voltai un’ultima volta, scorgendo a malapena i profili di Aslan d Edmund tra i flutti, poi tutto divenne buio.
 
Mi ritrovai supina sul mio letto, intenta a osservare il soffitto. Che strano sogno che avevo fatto! Mi era parso di fare un lungo viaggio in un posto fantastico chiamato Narnia, in cui lottavo al fianco di quattro fratelli e di un possente leone contro la Strega Bianca, liberando quella terra meravigliosa da una maledizione durata cento anni. E che mi ero innamorata di un ragazzo, Edmund, mi pare che si chiamasse. Che strano! Ma era stato solo un sogno, in quel momento avevo cose molto più importanti di cui occuparmi. Come per esempio della mia bella versione di greco, dal momento che erano già e quattro e non avevo ancora concluso un accidente. Mi trascinai di malavoglia verso la scrivania, scrutando con aria di sfida quelle pagine maledette, affrontandole con una nuova consapevolezza: erano noiose, va benissimo, e come tali le avrei trattate, impegnandomi a tradurle come si deve per poi non doverle rivedere mai più. Stavo per aprire il dizionario, quando notai qualcosa nascosto fra le pagine del quaderno. Sembrava un fogliettino di cara. Lo estrassi delicatamente dal suo nascondiglio. Le parole scritte con quella grafia sottile e un po’ disordinata mi fecero balzare sulla sedia, incredula e allo stesso tempo carica di una consapevolezza ancora più grande:
 

don’t forgive me
Edmund
 
 

 

Buongiorno a tutti!
Purtroppo, questa è la fine della fanfiction (sì, mentre scrivevo le ultime righe, una lacrimuccia è uscita anche a me). Ma questo non è un addio: presto, infatti, ci sarà un sequel, del quale in questo capitolo ho già spoilerato qualcosina e che premetto sarà un totale rovesciamento dell'ultimo libro (perché così come finisce è INACCETTABILE).

Ringrazio ancora tutti voi lettori per la pazienza e il sostegno e saluto con affetto le mie due "fan" più sfegatate, sawadee La_la, per il loro affetto ed entusiasmo
Colgo l'occasione per salutare anche Helga Fair e cioccolata per le loro recensioni (adesso tornerò a farmi gli affari vostri, dato che ho due vostre fiction in sospeso!).

Che dire?
Alla prossima (e spero sia presto)!
Un abbraccio fortissimo a tutti voi!
Ciao!


Sunny 

 
           
 
 
 
 

 

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