Seven Little Stones di ElderClaud (/viewuser.php?uid=30676)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Verrà la notte e avrà i tuoi occhi [Nnoitra/Rukia] ***
Capitolo 2: *** 2. Ho conservato la tua cravatta; [Zaraki Kenpachi centric] [ZarakixOC] ***
Capitolo 3: *** 3. Il silenzio è il suono più forte [Szayel & Ulquiorra][Szayel centric] ***
Capitolo 4: *** 4. Indossi il vuoto con classe [Szayel/Nemu][Szayel centric] ***
Capitolo 5: *** 5. Se questo è il tuo volere, non aprirò più bocca [Ichigo/Tatsuki][Ichigo centric] ***
Capitolo 1 *** 1. Verrà la notte e avrà i tuoi occhi [Nnoitra/Rukia] ***
Questo progetto nasce con l'intento di scrivere sette prompt,
ricavati dalla community di Syllables of Time
Tutte queste oneshot, appartengono all'universo creativo di Raining
stones e quindi tutte bene o male collegate tra loro (nel
caso di
collegamenti diretti con le altre oneshot le citerò), oppure
mostreranno spezzoni di passato dei vari personaggi.
Suddetti personaggi scelti (in cui appariranno in coppia o
più
profondamente in centric) sono:
Ichigo Kurosaki;
Rukia Kuchiki;
Nnoitra Jilga;
Zaraki Kenpachi;
Szayel Aporro Grantz
Appariranno anche altri personaggi, ma in quel caso farò
delle
centric dei personaggi sopracitati in modo da non andare troppo
contro il regolamento della community.
Non mi resta che augurarvi buona lettura, e ditemi cosa ne pensate ^^
(la prima oneshot si allaccia a “temperanza”,
“vendetta” e a
tutte le altre oneshot in cui appaiono Nnoitra e Rukia.)
1°
Verrà la notte e avrà i tuoi occhi.
La lancetta della sveglia
sul comodino pareva non voler dare tregua.
Era un continuo ticchettio
che solerte rimbombava in ogni angolo della camera da letto,
costringendo così il proprietario dell'appartamento a
rigirarsi di
continuo su di un materasso nuovo, che contava si e no qualche mese
di vita. Un giaciglio decisamente più comodo rispetto alla
vecchia
branda che prima occupava solo un misero angolo della stanza. Ma che
in quel preciso istante di insonnia quasi andava a rimpiangere.
Seccato, per il ritardo
con cui il sonno giungeva nelle sue stanche membra, Nnoitra Jilga si
rigirò ancora tra quelle lenzuola umide di sudore dovute ad
un caldo
incessante, soffocando tra di esse bestemmie impronunciabili.
E pensare che lui quel
letto matrimoniale manco lo voleva. Anzi, non voleva che il suo
bilocale subisse una strigliata totale in meno di un giorno.
Tutto questo, grazie alla
nuova stagista che gli stava appiccicata al culo quanto una piattola
su di un cane.
“Rukia”
Mugugnando il suo nome
quasi senza volerlo, allungando quella “R” iniziale
come a
sibilare un ringhio, Jilga sospirò esasperato per la troppa
afa che
regnava nella stanza buia e si decise a scostare violentemente le
lenzuola in fondo al letto.
Liberando così nella
notte cupa della stanza, appena rischiarita dalla luce dei lampioni
che filtravano attraverso le veneziane abbassate della finestra, il
corpo sudato di un uomo provato dai drammi di un
tenore di
vita discutibile, che nonostante tutto si mostrava ancora tonico e in
forma.
Quella nanerottola era
entrata prepotentemente nella sua vita lavorativa – per
volere
degli alti dirigenti dato che il suo precedente zerbino
era
scappato con un'altra collega – e si era presa la
libertà di
resettargli tutta la sua esistenza.
Quantomeno la sua persona.
Difatti, lo stesso giorno in cui si erano presentati, non lo avrebbe
mai dimenticato, ecco che miss “sono
più superiore di te”
gli aveva fatto risistemare casa da zero.
L'adorato tugurio
con i muri ingialliti dal troppo fumo e la moquette sporca di troppi
alcoolici, si era trasformato in un attico degno di un manager come
lo era lui.
Che seppur appariva per
alcuni decisamente un individuo squallido, la stessa Rukia doveva
riconoscere che sapeva fare bene il suo mestiere. Sennò
Aizen Sosuke
non lo avrebbe preso nella sua ditta farmaceutica.
Faceva caldo quella sera,
talmente tanto che da fuori la finestra non giungeva nessun rumore
che non fosse qualche auto lontana e anonima che passava da quelle
parti. Neppure i grilli canticchiavano dolcemente, cullando
così il
sonno di un feroce padrone di casa.
No, nulla da fare. Anche
scostando via quelle lenzuola pulite – ora umide di sudore
–
bastavano a farlo addormentare del tutto.
Per questo, preda di una
forte esasperazione, l'allampanato padrone di casa si alzò a
sedere
a fatica per tentare così di stiracchiarsi i muscoli.
Visto che non riusciva ad
addormentarsi per colpa di quell'afa fottuta, pensò
saggiamente, si
sarebbe concesso una doccia rinfrescante e poi una sigaretta.
Forse la colpa non era
semplicemente del caldo anomalo di una estate che non voleva
andarsene via, piuttosto di tutto lo stress che aveva accumulato
pensando e ripensando a tutto quel che gli era capitato in quei pochi
mesi.
Finalmente, una volta
ritto in piedi, si diresse sicuro al bagno – senza neanche
star li
ad accendere le luci – e una volta giunto, entrò
direttamente
nella vasca e tirò il candido tendone di plastica.
Non si tolse neppure le
mutande mentre, finalmente con i muscoli rilassati, accoglieva sulle
spalle uno scroscio di acqua fresca e dissetante.
Difatti, più di un
mugugno compiaciuto fuoriuscì dalle sue labbra sottili,
nell'atto di
passarsi le mani tra i lunghi capelli neri.
Persino il bagno era stato
risistemato il giorno stesso in cui quella donnetta fu assunta nel
suo ruolo di stagista. Tutto a posto in quella casa. Dalle pareti ai
mobili.
Una novità che portò
Jilga a essere sull'orlo di un collasso una volta ritornato nella sua
dimora. Ma quella di tutta risposta, alla sua telefonata aggressiva
in cerca di chiarimenti su chi avrebbe pagato tutte quelle spese, la
donna rispose spiccia.
“Spese?
Quali spese?
Sono tutti omaggi che le ditte le hanno offerto una
volta che
ho detto loro chi eravate e per chi, soprattutto,
lavoravate”
Da
restare sorpresi vero?
Quella
piccoletta era una dannatissima stronza che sapeva il fatto suo. E
quel piccolo ricordo lo portò stranamente a sorridere mentre
alzava
il volto verso l'alto per accogliere così l'acqua spruzzata
incessantemente dal diffusore.
“Tzè...
Dannata stronza. L'esatto contrario di Neliel e...
Ah cazzo!
Che paragoni del cavolo...”
Il
ricordo dell'ex moglie portò via quel suo sorriso simile ad
un
ghigno, per fare posto ad un veleno che ancora gli scorreva nelle
vene nonostante i tanti anni che erano passati.
Da
Neliel Tu, lui aveva avuto una bambina – ormai grande per
fortuna –
ma non per questo si sentiva di rispettarla perchè la madre
di sua
figlia. Anzi, tutt'altro, la detestava più della nanetta
impertinente. O meglio, erano due cose perfettamente diverse per
quanto simili nella loro... Saccenza.
Una
volta stancatosi di farsi una doccia rinfrescante, che ora pure
quella non pareva più consolatrice a causa dei pensieri che
gli
tormentavano il cervello, se ne uscì bagnato come uno
straccio zuppo
e, senza neppure avvolgersi in un asciugamano, si diresse seccato
alla finestra della camera da letto. Macchiando con pedate e righe
d'acqua, un parquet immacolato dal lavoro di una abile domestica
pagata da chissà chi.
Infischiandosene
di essere bagnato e praticamente nudo – eccetto le mutande
zuppe –
si accese una sigaretta e accese la radio vicino al comò.
Poi,
annoiato, si affacciò alla finestra ora libera del velo di
alluminio
fornito dalle veneziane.
Dalla
finestra del suo appartamento vedeva il cortile interno e una parte
della strada. Tutto rigorosamente deserto.
A
quanto pare, se avesse fatto qualche isolato in linea retta, sarebbe
passato esattamente dove abitava Rukia Kuchiki.
Era
importante? No, decisamente no.
A lui
in quel momento interessava fumare quella benedetta sigaretta e
guardare il cielo notturno mentre, con un suono un po' disturbato,
dalla radio sopraggiungeva una malinconica canzoncina che lui
canticchiava distrattamente.
Troppo
era il caldo... E troppi erano i pensieri che quel bastardo gli
generava nella testa.
Piano,
come se stesse mormorando una preghiera, le labbra di Nnoitra si
muovevano sapienti nel pronunciare ogni singola parola cantata dalla
vocalist di un gruppo che a malapena conosceva.
A
tratti la sigaretta la tirava su come se fosse stata una cannuccia,
accendendo violentemente le braci presenti sulla punta, inalando
così
velenosa nicotina.
Incrociò
le braccia sul davanzale, sporgendosi meglio nell'osservare il
desolato panorama notturno, tornando così nei suoi pensieri.
Tra
Neliel e Rukia vi era un abisso, questo lo aveva capito bene durante
quei mesi di servigi della Kuchiki.
Il
fattore che lo aveva portato a disprezzare dal profondo la sua ex
moglie, stava nella sua caratteristica principale di averlo sempre
trattato con sufficienza e di non aver mai rispettato la sua
filosofia di vita.
Neliel
era sempre stata sicura di quello in cui credeva – cosa
nobile
questo non poteva negarglielo – trovando i suoi pensieri
violenti
tutt'altro che giusti. Anzi, disfattisti e degradanti per il genere
umano.
Loro
due erano come delle allegorie di stili di vita differenti –
uno
propenso ad un lato umano e l'altro più propenso a quello
pratico –
destinate a confrontarsi e non vedere mai un prevalersi di una delle
due parti.
E se
da un lato aveva trovato stuzzicante un tale confronto, presto si
stancò di avere un assistente sociale
tra i piedi.
Lui
non aveva bisogno di protezione, ne di una guida morale e,
soprattutto, non aveva bisogno che il suo capoufficio fosse sua
moglie. Poi da li a riuscire a cacciarla via con infamia, è
tutta
un'altra storia che non gli andava di rimembrare.
Per
l'ennesima volta sbuffò fumo dalle labbra dischiuse,
mormorando
ancora le strofe di una canzone quasi del tutto alle battute finali.
E fu
proprio nella strofa finale cantata con stupenda bravura da una
giovane cantante, che a Nnoitra Jilga gli si spalancò
l'unico occhio
buono.
“...
Verrà la
notte e avrà i tuoi occhi...”
Quella
frase gli fuoriuscì in modo più marcato dalle
labbra, appena nella
sua testa gli si accese una lucina di comprensione.
Gli
occhi di Rukia, erano esattamente come il cielo notturno che stava
osservando.
Quella
donna, apparentemente simile a Neliel, sembrava sapere il fatto suo
imponendosi anche con una certa arroganza.
Proprio
come Neliel, mal digeriva il suo stile di vita e si mostrava
superiore sia con gli atti che con le parole.
Eppure,
la loro somiglianza si fermava solo a quell'effimera apparenza.
Perchè
i suoi occhi, erano come il cielo limaccioso che stava guardando in
quel momento. Come la frase di quella canzone ormai conclusa e
sostituita da un'altra da un deejay in forma nonostante l'ora tarda e
il caldo bollente.
Gli
occhi di Rukia erano due pozzi blu scuro su cui nessuna stella
brillava limpida e vittoriosa.
Erano
come offuscati da un qualcosa, esattamente come quello sopra la sua
testa coperto da una asfissiante cappa d'afa, che non mostrava nulla
se non una specie di nebbiolina umida e appiccicosa.
Un
mantello scuro e opaco, ove nessuna stella o mezzaluna splendente
osasse fare capolino per rischiarire un po' quelle calde tenebre
indesiderate.
Gli
occhi di Rukia insomma, a differenza di quelli di Neliel, avevano
conosciuto il peso di una dolorosa sconfitta.
Avevano,
esattamente come Nnoitra Jilga, conosciuto il dolore di una perdita
improvvisa e colpevole. Oppure, peggio ancora, di un fallimento in
bilico tra il volontario e l'involontario.
Erano
supposizioni fatte a caldo, certo. Nate improvvisamente ascoltando in
modo assai distratto una canzone che fuoriusciva da una vecchia
radio, ok.
Ma
quel ragionamento proprio non riusciva a sminuirlo. Neppure dopo aver
finito di fumare la sigaretta, buttando così un mozzicone
ardente di
sotto e incurante dei pericoli che avrebbe potuto creare se avesse
toccato l'erba secca.
“Che
mi venga un fottutissimo colpo” borbottò quasi
annoiato.
Scostandosi
dalla finestra ormai perfettamente asciugato grazie al caldo presente
in quella notte senza stelle. Perfettamente asciutto senza che
neppure un filo di vento spirasse dentro la finestra, esclusi i
capelli che rimanevano umidi e le mutande che invece, a rovescio
della medaglia, si erano fatte insopportabili da portare.
Ringhiando
sprezzante, se le sfilò via velocemente per poi
appallottolarle con
rabbia tra le mani fino a ridurle ad un mucchietto fradicio e
indistinto.
“Ma
vaffanculo!”
Nuovamente
irritato per quel contrattempo dettato dalla tarda nottata insolita,
si liberò con fastidio di quell'indumento bagnato gettandolo
oltre
l'abisso nero presente fuori dalla finestra, sempre e comunque
incurante che un gesto simile era ai limiti dell'indecenza e del
teppismo condominiale.
Non
erano le mutande ad interessarlo, ne le facce dei condomini che si
sarebbero create alla vista di quelle mutande giganti che insozzavano
la bella aiuola vicina al portone di ingresso.
Ad
averlo colpito erano il pensiero degli occhi della sua stagista e al
fatto che decisamente non sarebbe riuscito a sbarazzarsi di lei con
tanta facilità. Ne avrebbe, alla fine dei conti, trovato la
forza
morale di farlo.
Perchè
gli occhi di Rukia, quei due occhi neri come una notte coperta da
un'afa insidiosa, più che somigliare a quelli di Neliel in
fatto di
temperamento “forte” e di grande sicurezza, erano
simili a quelli
di Nnoitra Jilga.
Solo
che, a differenza di lui, Rukia si ostinava a nascondere la propria
insicurezza dietro una parete di pseudo sicurezza e arroganza. Un
muro forse imposto per sopravvivere a quel buio che aveva spento la
speranza fatta di tante stelle, che lui tuttavia trovava decisamente
inutile e ai limiti della perdita di tempo.
Sorpreso
egli stesso di un ragionamento così azzardato, eppure
così
possibile nel suo essere ipotetico, il padrone di quel piccolo
appartamento spense la radio e si ributtò a letto nudo come
un verme
con l'arrivo insperato di un sonno tanto atteso.
E di
li a breve, chiudere gli occhi e ignorare l'afa che tornava a farsi
risentire su di un corpo ancora fresco di una doccia rilassante, fu
una cosa breve e meno travagliata.
Forse
quella doccia era riuscita a far miracoli. Oppure, con tutta
probabilità, era stato di aver rischiarato i propri pensieri
ad
avergli ridato un sonno tra mille borbottii e mugugni vari.
Magari l'indomani le
avrebbe offerto un caffè...
[…]
Inalò
l'aria in un profondo respiro, trovando l'atmosfera piacevolmente
umida.
Kira
Izuru constatò ancora una volta e con ancora tiepido piacere
–
dopo una nottata bollente spesa a lavorare – che l'aria del
primo
mattino era pressoché perfetta.
Il
sole sul fondo della strada stava iniziando a sorgere, tingendo
così
parzialmente l'orizzonte di un morbido color rosa. Non una nuvola in
cielo, quello che aveva coperto la notte passata era niente meno che
l'afa micidiale di una tarda estate.
Non
era certo sua intenzione farsi una nottata di straordinari,
però era
questo ciò che aspettava un semplice avvocato d'ufficio come
lo era
lui.
Sospirò
esausto, posandosi una mano sul volto per massaggiarselo meglio.
I suoi
capelli biondi erano spettinati e la cravatta stretta al collo
decisamente poco in asse. E per di più, sul suo volto erano
ben
visibili due occhiaie da far invidia ad un panda.
In
quel preciso momento, per quanto l'aria del mattino era lievemente
umida e tiepida – e per tal motivo rilassante –
nulla avrebbe
tolto un buon sonno ristoratore ad uno stanco avvocato.
Si,
decisamente buttarsi sul letto e dormire fino a mezzogiorno pareva la
cosa più bella del mondo. E ciò lo
portò a sorridere lievemente
mentre superava il cancello che lo avrebbe portato nel condominio in
cui abitava.
“Finalmente
a casa” pensò con soddisfazione.
Ma per
sua immensa sfortuna, quel timido sorriso apparso sul suo volto
solcato da una – presumibilmente – perenne
stanchezza, dovette
nuovamente piegarsi in una smorfia di dolore alla
vista di un
qualcosa di osceno.
Davanti
al portone di ingresso dello stabile, ove era presente una bella
aiuola ben curata piena di candide rose, era presente un qualcosa di
totalmente iniquo.
Delle
mutande enormi, candide e ancora fradice della lunga nottata afosa,
troneggiavano sopra le sue rose con una
sfacciataggine
inaudita.
“Ohh...”
con un
segno tangibile di impotenza, Kira Izuru allargò lievemente
le
braccia e lasciò scivolare a terra la sua vecchia
ventiquattrore.
Sconsolato,si
avvicinò al luogo del delitto. Notando – senza
però toccarle –
che quelle enormi mutande potevano solo appartenere ad una persona a
lui ben nota, che spesso e volentieri prendeva la sua aiuola come
cestino dei rifiuti.
Sopra
l'elastico ancora grigio di mutande originariamente candide,
capeggiava la scritta “menos grande” in tutta la
sua provocante
calligrafia.
E solo
un uomo dal nome di Nnoitra Jilga poteva osare permettersi di
indossare simile robaccia.
Distrutto
per quell'ennesimo affronto, l'avvocato chinò la testa verso
il
suolo dispiaciuto per quell'ennesimo insulto alla sua adorata aiuola.
Sicuramente
un giorno, se avesse mai avuto la forza di andare a bussare a quel
gigante iroso con la forza di dieci buoi e un coraggio indifferente
per farsi chiedere scusa per i danni ricevuti, il cielo lo avrebbe
accolto come un eroe.
Ma
fino a quel giorno, se davvero ci teneva alle sue ossa, tutto
ciò
che poteva fare era di raccogliere quelle mutande con un bastone, e
lasciare vicino all'ingresso del vicino che abitava sopra di lui.
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Capitolo 2 *** 2. Ho conservato la tua cravatta; [Zaraki Kenpachi centric] [ZarakixOC] ***
La seconda oneshot è tutta dedicata al personaggio di
Zaraki!
Attenzione! La storia è ambientata sei
anni prima degli
avvenimenti narrati in Raining Stones (per ovvi motivi). I legami con
i personaggi dell'universo di questa serie ci sono, ovvio,
però in
qualche modo ho voluto mostrare l'incontro tra Yachiru e Zaraki
stesso. Come ultimo lascio gli avvertimenti: fondamentalmente questa
è una Zaraki centric/ZarazkixNuovo Personaggio ( OC a cui io
non ho
dato volutamente un nome ). Con presenza di lime di sottofondo.
Quindi io vi ho avvisati!
Per il resto spero facciate una buona lettura! Ditemi cosa ne pensate
^^
2°
Ho
conservato la tua cravatta
“Sei
sicuro di saper usare questo coso?!”
“Certo
che si, signore! Ma non è un coso, è un programma
di meeting
online. Sa, l'ho usato pure per Ikakku prima che andasse ad
arruolarsi in marina. Che poi, chissà come se la passa tra
uomini
più cappelloni di lui
e...”
“Va
bene Ayasegawa, lasciamo stare. Penso che metterò un
annuncio sul
giornale...”
Il
chiacchiericcio insistente di uno dei suoi uomini, portarono il capo
dei vigilantes Zaraki Kenpachi a chiudere li una discussione che
pareva a dir poco imbarazzante.
Erano
dieci anni che lui se ne lavorava li – nella grande azienda
farmaceutica nota in tutta la città come Las Noches
– a dare la
caccia agli incompetenti e ai teppisti. Ma questo non lo irritava
affatto per essere, magari, un lavoro un tantino umiliante per la sua
persona.
Non
era così quando si parlava di Zaraki.
Perchè
quel suo lavoro, i suoi uomini lo sapevano alla perfezione, se lo era
andato a cercare lui stesso senza lamentarsi minimamente.
Ma
questo non toglieva a Yumichika di indignarsi lievemente e fare una
faccia dispiaciuta di fronte al diniego di un intervento informatico.
La tecnologia era essenziale di quei tempi, perchè non
affidarsi al
suo portatile preferendo invece di un antiestetico pezzo di carta?
“Ma
signore, è davvero sicuro di voler adoperare un mezzo
così
antiquato? Nessuna donna...”
“Non
sono pratico di informatica, Ayasegawa. E gradirei che chiudessi il
becco”
Con
gesto teatrale ma del tutto genuino, l'interpellato si portò
una
mano alla bocca con lo stupore di essersi quasi dimenticato un
segreto importante. Soprattutto da non spifferare ad alta voce dati
altri due colleghi che, poco lontani da loro – erano
all'interno
della sala ristoro per le guardie della struttura – erano
intenti a
bere caffè davanti alla macchinetta.
“Mi
scusi – borbottò sottovoce, notando il lieve
disagio del suo
superiore – allora vada per il giornale, me ne occupo io.
Stia
tranquillo, eh!”
Tutta
quella confidenza da complotto ordito ai danni di un re, lui ai suoi
uomini non l'aveva mai data. Ne ci teneva a buffonate del genere.
La
fiducia e l'onore erano alla base del saldo rapporto che aveva con i
suoi uomini.
Solo
che, a pensarci bene, Yumichika gli era parso il più adatto
a
sbrigare una pratica alquanto noiosa e di mantenere comunque il
segreto.
Era un
ragazzo chiacchierone e narcisista. Ma oltre a questo era uno che era
sempre ben aggiornato su tutto e sapeva usare i cosi
di
comunicazione come lo era quel... Computer portatile o come diavolo
si chiamava.
Per di
più, nonostante la sua aria da pettegolo, avrebbe
sicuramente
mantenuto il segreto di un capitano non
più tanto disposto a
vivere la sua esistenza da solo.
Era un
pensiero un tantino imbarazzante, che lo portò a staccarsi
dall'uomo
seduto al candido tavolo da mensa con passi un po' insicuri, per
affacciarsi ad una finestra e li specchiarsi attraverso il riflesso.
Zaraki
si era fatto decisamente una vita avventurosa fin da ragazzo. Per
quanto mai voluta, alla fine della corsa quella della violenza e
della guerra era proprio la strada che più gli calzava.
Quelle
ferite profonde sul suo volto spigoloso e mascolino, duro come la
roccia e conscio di una sofferenza squallida e crudele, erano le
uniche testimoni del suo passato da mercenario in
giro per il
mondo.
Dalla
giungla amazzonica fino al deserto dell'Iraq, da montagne innevate e
paludi salmastre, di cose ne aveva viste parecchie.
Cose
meravigliose contrapposte, a rovescio della medaglia, a cose che mai
avrebbe raccontato in vita. Ma che ancora lo tormentavano ogni qual
volta si coricava a letto la sera.
Questo
però, faceva parte del suo passato. Di Zaraki il mercenario
si erano
ormai perse le tracce da tempo, cioè da quando aveva deciso
di
cambiar vita o quantomeno di provarci.
Sia
per i troppi nemici che si era fatto, sia perchè ormai
assuefatto ai
limiti dell'esasperazione.
Che
cosa poi avesse spinto Aizen Sosuke ad accettare un curriculum come
il suo in una azienda tanto rinomata, lui non lo sapeva e poco gli
importava.
A
quanto pare, al signor Aizen piacevano le persone prive di scrupoli e
perfettamente genuine. Come un po' lo era lui in
persona.
Quindi,
alla base di tutto questo lieve pensiero sul suo passato burrascoso e
tetro, cosa ci sarebbe stato di male se finalmente si fosse pure
trovato una compagna di vita?
Dov'era
il pensiero sporco in ciò? Era dieci anni che
“rigava dritto”
quindi era anche giusto soddisfare un ben altro tipo di pensiero ed
esigenza.
Voltando
lievemente lo sguardo su Ayasegawa, lo vide chiaramente chiudere
quell'affare elettronico, alzarsi dalla sedia e iniziare a rovistare
nei giornali posti in un angolo della sala in cerca di una rivista
decente.
Quel
ragazzo aveva preso sul serio il desiderio del capitano di trovarsi
una donna. Solo che, con la poca praticità che aveva nel
comunicare
con femmine e con i mezzi di comunicazione moderni, aveva giusto
bisogno di una dannatissima mano.
Era
davvero imbarazzante per lui pensare di essersi fatto aiutare da uno
dei suoi uomini in questo, per quanto comunque, nessuno si sarebbe
dissociato dall'aiutarlo in modo serio ed efficiente.
Ma
solo Yumichika avrebbe tenuto la boccaccia chiusa, di questo,
nonostante il deglutire saliva per stemperare una certa tensione
nascosta, ne era perfettamente certo.
[…]
“Ahh...
Allora questo eri tu da giovane?”
“Ehm...
Si”
“Ahh...
Tranquillo, dai. Belli i capelli comunque, eh!”
Avrebbe
ucciso Ayasegawa, questo era sicuro.
L'appuntamento
alla fine era riuscito a concluderlo, questo grazie alle pagine
stampate e non a internet, tuttavia aveva sin dall'inizio della
serata il sentore di un disastro completo.
Per
carità, lei era una bella ragazza sorridente e solare
– forse un
tantino imbarazzata (tremava lievemente) ma qui la si poteva anche
capire, era di lui che si parlava – ma era giovane in
confronto a
lui.
Troppo
giovane – con i suoi trenta anni compiuti solo il mese scorso
– e
con lui che era già alla metà della sua
quarantina o forse di più.
Non aveva mai saputo quando era nato.
La sua
telefonata era arrivata inaspettata e quasi istintivamente
sgradita da un uomo non abituato a simili mezzi. Persino lei stessa
pareva titubante nel conoscerlo così, di punto e in bianco e
senza
quasi sapere nulla di lui. Tuttavia l'annuncio lei se lo era letto
bene e sapeva perfettamente di avere di fronte un uomo maturo. Uno
che poteva anche essere suo padre volendo.
Stranamente
incontrarsi al ristorante a cui si erano dati appuntamento non fu
difficile. Forse perchè entrambi erano due figure un po'
anomale in
quel locale comunque elegante.
Un
uomo in giacca e cravatta dal volto tumefatto da vecchie cicatrici,
che incontra una ragazza dagli abiti forse un po' troppo succinti e
larghi per la sua minuta figura. Forse presi in prestito o forse
vecchi e datati dopo una dieta ferrea, fattostà che appena
lo vide
iniziò un costante balletto per impedire che la gonna si
alzasse
troppo sorridendogli imbarazzata e impacciata al contempo.
E ora
che erano seduti ad uno dei tavoli precedentemente prenotato, la
giovane donna osservava una vecchia foto del mercenario quando era
giovane, lasciandosi andare a risate ebeti nel vedere la sua vecchia
acconciatura a “porcospino”.
“No
dai, ssei... Sei carino anche qui. Acconciatura un po' punk
però mi
piace! N-non che tu stia male adesso con i capelli lunghi,
eh!”
“Ti
ringrazio”
“Ti
annoio forse? Cioè, se sto sbagliando qualcosa per favore dimm...”
“No,
no. Non stai sbagliando nulla – sospirò piano per
calmarsi lui
stesso – anche tu è la prima volta che ti affidi a
quei
giornaletti del cavolo?”
L'insicurezza
e il nervosismo isterico nella giovane si stemperò
nell'ultima
parola dettata da Zaraki, iniziando a ridere con la sua risata un po'
ebete e ancora da bambina.
“Ah,
ah... Cavolo! Comunque
si, anche io mi sono affidata a quella roba. C-cercavo un uomo maturo
per... Boh... – alzò lo sguardo dubbiosa in cerca
della parola
adatta – immagino per sentirmi sicura,
ecco”
prese
il bicchiere colmo di vino rosso e, senza neppure aspettare di
mettere qualcosa nello stomaco, lo sorseggiò tutto come una
intenditrice di alcoolici ben collaudata.
Non
avevano ancora portato loro da mangiare, solo da bere, che
già due
bicchieri belli colmi di vino erano finiti nello stomaco di lei.
Stupefacente
davvero, pensò Zaraki nell'osservarla –
lui non aveva ancora
toccato nulla – e notando le sue gote leggermente cosparse di
lentiggini, farsi lievemente arrossate per l'alto grado alcoolico del
vino.
Non
era il suo aspetto a preoccuparlo, quanto ciò che aveva
detto. Lo
aveva scelto con intento ben precisi, ed un chiaro indizio era per
sentirsi più sicura.
Sicuramente
era una ragazza fortemente insicura e forse un po' strana. Lo
dimostravano i suoi atteggiamenti e i tentativi di apparirgli aperta
e comprensiva.
Forse
era pure spaventata da lui... Oppure da tutta la situazione molto
più
probabile.
Zaraki
prese un appunto mentale di massacrare il povero Ayasegawa. Ma non
prima di essersi congedato gentilmente da lei a fine cena
ripromettendosi di non affidarsi più ad inutili inserzioni.
[…]
Zaraki
Kenpachi non aveva mai baciato una donna in vita sua.
Mai,
ne da ragazzino, ne da mercenario poi. Già la sua vecchia
professione impediva il divertimento con dolce compagnia, data la
costante vita in bilico tra vita e morte, tuttavia dopo quello per
altri dieci anni non si era adoperato a cercare una donna. Non se la
sentiva ecco.
Oltre
al fatto di non essersi mai accompagnato con una femmina, rimaneva il
fatto che, smesso di fare il soldato di ventura, i suoi istinti
assopiti si erano ad un certo punto risvegliati.
Ma più
che il sesso, cercava qualcosa di stabile e sicuro. Esattamente come
lo cercava lei.
Chi
gli avrebbe assicurato che una plausibile relazione con una donna
conosciuta solo da un paio d'ore, si sarebbe concretizzata nel tempo?
Ovviamente, nessuno.
Però
in quel preciso momento erano le sue labbra che stava baciando. Il
cui tocco, seppur principalmente semplice e solo dopo più
passionale, lo aveva fatto sciogliere come una candela. Lui che aveva
la durezza del granito più forte.
Si era
fatto tante promesse quella stessa sera.
Promesse
che poi, stranezza della vita, aveva buttato nel cesso una volta
riaccompagnata la donna nel suo appartamento.
Forse
un po' brilla, o forse con l'intenzione di non concludere con un buco
nell'acqua, in punta di piedi gli aveva cinto con le braccia il collo
muscoloso, per poterlo baciare anche solo in modo lieve.
Mai
provato un tocco simile.
Mai
sentito un simile brivido a contatto con un altro corpo umano. Che
fosse il seno di lei che premeva contro il suo petto, o il cadavere
di un nemico che gli scivolava addosso, era una sensazione unica.
Il
passo dall'ingresso dell'appartamento fino alla camera da letto fu
decisamente breve. Tanto che accolse quasi con spavento il colpo alla
schiena quando cadde all'indietro, colpendo il vecchio materasso con
le scapole e lei stessa sul ventre.
“Uff!”
uno
sbuffo gli fuoriuscì nell'attimo in cui le loro labbra si
separarono, nell'accogliere il lieve dolore alla pancia dovuta alla
ginocchiata involontaria della padrona di casa.
“Ah...
Oddio! Ti ho fatto male? Stai bene? Non volevo...”
“No,
è a posto. Non lo hai fatto apposta”
“Sicuro,
eh? Vuoi che ci fermiamo per... Non so – si
sistemò meglio sopra
di lui appoggiando ambo le ginocchia sul materasso – mi sa
che
forse stiamo correndo troppo”
“Non
mi sto lamentando”
Sinceramente
tra i due c'era un abisso. E non solo di età.
Zaraki
era decisamente poco loquace, mentre lei decisamente chiacchierona e
con la parlantina veloce. In tutta onestà, non sapeva
neppure lui
del perchè di quella risposta tanto spiccia nel suo
desiderio di
chiudere in bellezza la serata.
La
compagnia non gli dispiaceva affatto – e non solo
perchè era in
compagnia di una bella ragazza – e poi quei suoi stessi baci,
come
quelli che era ritornata a donargli dopo quella chiacchierata, lo
rendevano confuso al punto giusto.
Era
bello sentire quelle labbra e quella lingua – che ancora
sapeva di
vino e il cui tocco umido lo fece fremere – a contatto con la
sua.
Era bello sentire quelle manine gracili infilarsi dentro la sua
camicia per stuzzicarlo.
Si
sorprese però, quando la giovane dai lunghi capelli belli
come la
seta, si alzò a sedere a cavalcioni su di lui per sfilarsi
la
camicetta. Sorridendogli smagliante mentre sbottonava uno ad uno i
piccoli bottoncini bianchi.
Le
prime tette viste in vita sua, lo portarono a sgranare gli occhi
dalla sorpresa. E ciò allarmò la proprietaria di
tali tette di non
poco.
“Wow...”
“Cosa?
Che cosa c'è? – si ricoprì
immediatamente per quell'espressione
sorpresa – Ho fatto qualcosa che non dovevo? Le mie tette
sono
orribili? Oddio... Si vedono ancora i buchi dei percing sui
capezzoli?! È da un anno che non li porto, lo
giuro!”
“Eh...?
Ah, no tranquilla! Sono belle. È solo che non le avevo mai
viste
così... Da vicino”
La
sorpresa della sua piccola rivelazione portò la donna a
guardarlo
con un velo di dubbio negli occhi verde chiaro.
“No?
Mai una volta?”
“Eh
no – sbuffò stanco ma non mortificato da quella
rivelazione – ho
aspettato di incontrare la donna giusta...”
Era
una mezza stronzata, non gli andava ancora di raccontarle tutto del
suo passato. Dopotutto neppure lui conosceva quello che lei combinava
– o aveva combinato – in vita, per cui
perchè darsi tanta pena?
La sua
risposta però non portò irritazione o
ilarità nella giovane
seminuda, tutt'altro, abbassò lo sguardo e sorrise
dolcemente
nell'atto di stringersi meglio per coprire le proprie nudità.
“Che
dolce. Hai... Tu hai fatto bene ad aspettare il momento giusto. Non
come noi giovani che dobbiamo fare tutto e subito...”
Ennesima
risata ebete per concludere uno dei suoi tanti discorsi lasciati
aperti. A Zaraki dopotutto non dispiaceva quella risata, per quanto
ancora lo lasciasse decisamente perplesso.
“Ok,
quindi – si sistemò meglio nella posizione
sdraiata permettendo
così alla donna stessa di poggiarsi meglio a lui –
non ti spiace
se lascio fare tutto a te vero?”
Un'altra
risata – stavolta meno stentorea – della donna si
levò per la
stanza dall'aspetto spartano, alle parole di un Zaraki si perplesso
ma comunque indisposto a tirarsi indietro.
Se si
prendeva la cosa alla leggera, allora ci si poteva anche divertire
senza pensare che lui era un emerito sconosciuto. Bastava non pensare
e ignorare la coscienza inquieta.
“Ahh...
Allora ok, eh! Inizio a sbottonarti i pantaloni per tirarti fuori il
pisello...”
[…]
Il suo risveglio poteva
essere considerato alquanto traumatico.
Era la stessa identica
sensazione che provava quando, da mercenario, si ritrovava a
svegliarsi in luoghi sconosciuti oppure a malapena notati come nel
suo caso.
Un senso di disagio misto
a lieve smarrimento, che ogni volta lo portavano – allora
come
adesso – a strofinarsi gli occhi con i palmi delle mani.
Mani ora rovinate dal
tempo e dalle cicatrici, stanche come tutte le sue membra dopo una
nottata che gli era parsa a dir poco interminabile.
No, non si sentiva più
l'età di certi movimenti audaci.
“Mm...”
Mugugnò incerto nel
muoversi in quel letto sfatto e caldo, cercando di guardarsi in giro
in una pesante penombra che era la camera della sua prima compagna di
vita.
Solo buio e un arredamento
spartano che si delineava tra le ombre rischiarite dai primi raggi
del sole. Che a malapena entrava tra gli scuri abbassati delle
finestre in stanza.
Con la schiena dolorante,
riuscì a mettersi a sedere e a osservare chi alla sua destra
dormiva
tranquillamente.
La padrona di casa era
avvolta e rannicchiata tra le coperte, come una bambina piccola presa
da un insolito freddo. Il suo respiro tuttavia, ad uno stanco
–
quanto ancora confuso – Zaraki, pareva rilassato e tranquillo.
Non era casa sua – e
questo gli dava un certo disagio istintivo – però
la voglia di
bere qualcosa ce l'aveva eccome. Uno stomaco che borbottava basso e
ancora intorpidito dal poco sonno, gli parlava forte e chiaro.
Per questo, stiracchiando
i possenti muscoli della schiena, volle alzarsi in piedi senza non
poca fatica.
Ne aveva provate di sfide
eccitanti in vita sua... Ma ciò che lo
aveva colto la notte
stessa forse le pareggiava. Sempre vero il vecchio detto de
“c'è
sempre una prima volta per tutto”. E lui sentendosi sepolto
sotto
tonnellate di calde ed umide sensazioni, si era sentito vivo come
quando entrava in battaglia.
Iniziò a camminare per
raggiungere il corridoio, ma dovette fermarsi una volta che si espose
alla luce proveniente da fuori la stanza.
“Ah no, così non va...”
Con un tardo arrivare di
riflessi non troppo svegli – dovuti al faticoso risveglio
– si
accorse di essere completamente nudo. E per tanto dovette fare marcia
in dietro e recuperare i suoi vestiti.
Con un po' di imbarazzo,
tornò in quella stanza che ancora sapeva di loro due
– un odore di
corpi mescolati tra loro simile a quello dei bordelli che aveva
assaltato in gioventù, senza però l'odore
pungente della droga –
trovandosi a rovistare tra gli abiti sparsi, fino a trovare i suoi
pantaloni.
Indossò solo quelli con
una certa goffaggine, prima di avviarsi verso il corridoio e
guardarsi attorno.
Giusto tre stanze –
contando anche la camera da letto – e un bagno.
Zaraki in quel momento
aveva una voglia disperata di caffè, per poter dimenticare
il forte
disagio di essere li e di aver fatto quello che aveva fatto.
“Che mi venga un colpo –
borbottò, scostando un poco il bordo dei pantaloni per
guardarsi il
membro rilassato – qui mi sa che per un mese non ci muoviamo
più... Eh?”
No. non dopo tutto il
movimento a cui lo aveva sottoposto. Non a tutto quello che lei gli
aveva fatto precisiamo, perchè lui proprio non sapeva dove
mettere
le mani.
Sia per timore di farle
del male, sia perchè... Preferiva così. E
sarà stata pure uno
scricciolo di ragazza, ma a fargli certi pompini o a cavalcarlo con
forza era indice di possedere una certa tempra.
A cosa stava
pensando...? Ah, si! Farsi del caffè. Meglio pensare a
quello.
Fece però giusto in tempo
a raggiungere la soglia della cucina, che marcati colpi di nocche si
fecero sentire sulla porta d'ingresso smaltata di bianco.
Colpi ripetuti e secchi,
tipici di una persona impaziente, attendevano che qualcuno andasse ad
aprire la porta.
“Ohi allora?! Ci sei?
Apri!”
Per fortuna della padrona
di casa c'era Zaraki sveglio, sennò con il sonno profondo
che aveva
nessuno sarebbe andato ad aprire all'esigente persona – una
donna
dalla voce – che aspettava da dietro quella squallida porta
bianca.
L'ex mercenario non rimase
deluso dalle sue aspettative. Davanti a lui, c'era effettivamente una
donna.
Anzi, data la divisa che
indossava, doveva essere una studentessa delle superiori. E tra le
braccia, aveva uno strano fagotto.
Incurante di essere mezzo
nudo, di avere i lunghi capelli in disordine e in generale un aspetto
tutt'altro che raccomandabile, Zaraki Kenpachi aveva aperto a quella
porta con assoluta indifferenza. Senza aver timore dello sguardo
della giovane – un misto di sorpresa allarmata e
perplessità –
che lo guardava da capo a piedi.
Se quella ragazzina aveva
dei problemi, poteva semplicemente andarsene dato che lui era li in
tutta legalità.
“Che vuoi?!” tagliò
corto lui.
Le sue parole neutre ma
pur sempre dure come la roccia portarono la ragazzina lentigginosa ad
assottigliare i grandi occhi azzurri e a fare un passo in dietro con
precauzione.
“Chi sei tu? Sei amico
di...”
“Si lo sono, che vuoi?
Che hai in braccio?!”
la giovane parve non
apprezzare il fatto di essere stata interrotta all'improvviso. Anzi,
di tutta risposta strinse a se un fagotto che iniziava a mugugnare e
ringhiò a bassa voce.
“Mostrami un documento o
chiamo la polizia! E se sei uno dei suoi amici tossici faresti
meglio ad andartene dal mio palazzo!”
Zaraki non lo poteva
sapere – ancora – ma quella
ragazzina, o meglio la sua
famiglia dato che era ancora minorenne, era la proprietaria di quel
condominio fatiscente.
Quindi per quella volta,
con una straordinaria pazienza dettata dal fatto che aveva di fronte
una donna – se fosse stato un uomo gli avrebbe tumefatto la
faccia
– frugò nella tasca destra dei pantaloni per
estrarre quello che
pareva un libretto nero.
In realtà, era sua
abitudine portarsi sempre dietro il distintivo d'ordinanza, anche
quando non lavorava.
E seppur era solo il
distintivo di una guardia giurata, fece una certa impressione alla
ragazzina. Era ancora giovane da potersi fidare ancora di un
distintivo.
Nel mentre che un
imbarazzante silenzio calava sui due – rotto solo dai mugugni
generati da quello, pensò dopo una attenta analisi, che
pareva un
bambino – dal fondo delle scale giunse una voce maschile
sgraziata
dall'ira.
“Hyori!
Dove hai
messo i miei pennelli?!”
seccata, la giovane di
nome Hyori sbuffò per sminuire la tensione, roteando gli
occhi e
consegnando il fardello borbottante – e ormai divenuto una
seccatura – al vigilantes mezzo nudo.
“Vabbè senti, tieniti
questa cosa e di alla madre di pagare l'affitto per
questo
mese...Di favori come questo non voglio farne più
– glielo
consegnò con una certa fretta voltandosi poi di scatto per
avviarsi
sulle scale e urlando poi – Shinji!
Deficiente di un cugino!
Te li ho buttati via i tuoi schifosissimi pennelli!!”
Zaraki non stette li a
guardare quella ragazzina velenosa scendere le scale e iniziare ad
urlare assieme al cugino per motivi futili, poiché decise
saggiamente di ritornare in casa e guardare dentro quella coperta.
Nel mentre che si avviava
nello spoglio salotto, scostò quella coperta lievemente
incuriosito,
per trovare solo il volto di una bambina che lo guardava incuriosita
ma non spaventata.
Doveva trattarsi
sicuramente di una femmina, dato che tra i capelli chiari portava una
mollettina con un gatto disegnato ed era identica alla madre.
“Mm... Non sei
spaventata?!”
La guardò dubbioso e un
poco incerto. Lui che mai aveva preso in braccio una creatura, si
ritrovava ora, dopo decisamente troppi pochi secondi – gli
stessi
che lo avevano portato nel letto della donna – a portarne una
tra
le braccia.
“Non mi conosci, volendo
potrei farti del male sai?!”
Non voleva farle del male
per davvero, ci mancherebbe, però era curioso notare che con
lui –
rispetto alla ragazzina precedente – sembrava tranquilla
ammiccando
perfino un sorriso.
La creatura senza nome era
tranquilla, istintivamente fiduciosa dell'ex mercenario, azzardandosi
addirittura a stringergli il naso aquilino con una manina.
“Ah...
Ma dai! Te
l'hanno data...”
A interrompere quello
strano siparietto, ci pensò la madre della
creatura, vestita
di una semplice vestaglia azzurrina e armata nella mano destra di una
teiera di plastica colma di caffè freddo.
La mano che reggeva quella
brocca da due soldi, forse per il fatto che il compagno aveva
scoperto della bimba, tremava così violentemente da andare
quasi a
rovesciare l'oscuro contenuto sul pavimento.
Il tutto, incorniciato da
un sorriso teso e un po' disperato.
“Si... È stata una
ragazzina a darmela per...”
“Ah si! Hyori, la figlia
dei padroni di casa! Ahh... Mi ha fatto un piacere perchè
t-ti
dovevo incontrare, eh! Ha un anno sai? Mia figlia intendo... Ahh ero
più sbandata un anno fa! Adesso ho
voluto cambiare per...”
“Va tutto bene, non sono
arrabbiato”
Nell'interromperla piano
in tutto quel suo chiacchierare velocemente e nervosamente, parve
sorbire un effetto positivo.
Incredibilmente la donna
si calmò, sospirando percettibilmente e posando su di un
tavolino la
caraffa del caffè.
Zaraki comprese le
motivazioni che l'avevano spinta a nascondere quella creatura ai suoi
occhi. Non che lui fosse arrabbiato – piuttosto sorpreso come
del
resto era sorpreso di tutta quell'avventura – però
comunque
percepiva il disagio di lei e il dover affrontare una vita nuova con
tutti i drammi che ne conseguono.
In un certo senso, loro
due erano simili.
“Ce l'ha un nome?”
“Eh, cosa?” la donna
parve cadere dalle nuvole a quella sua nuova domanda.
“La bambina... Ha un
nome?”
“Ah ecco... –
improvvisamente il volto della giovane madre si fece serio. Tinto di
tristezza e disagio – N-no... Non le ho dato un nome ecco.
Non ho
avuto il coraggio di darglielo”
Perchè quando si è
consci di essere sporchi, si prova sempre timore
nel fare la
cosa più semplice del mondo.
Come dare il nome al
proprio figlio ad esempio, per timore che in tal modo il suo futuro
venga infangato dal passato del genitore.
Dio... Quanto lo capiva
bene lui quel dannato concetto.
A richiamarlo dai suoi
pensieri ci pensò la bimba stessa, che con una certa
noncuranza
aveva iniziato a strattonargli i capelli per avere attenzioni.
“Hm... – fece lui,
ignorando ancora la creatura e rivolgendosi alla madre dopo un mezzo
minuto di silenzio – non ti dispiace se le do io
il nome?”
Incredibilmente – nel
silenzio che ne conseguì a quella sua domanda sfacciata
– oltre ad
una espressione quantomeno sorpresa della donna, la sua risposta fu
incredibilmente insolita.
[…]
Il telefono dentro la sua
giacca vibrava sommessamente da circa cinque secondi, provocandogli
un certo fastidio nel muscolo pettorale.
Seccato per quella
vibrazione continua, volle staccare la mano dal palo argentato per
attingere all'interno del consueto indumento lavorativo.
Kenpachi non aveva una
macchina, ne aveva mai fatto la voglia di averne una. Al massimo in
città si spostava a piedi o, come in quel caso, usava la
metro per
andare al lavoro.
Non stette neppure a
guardare il numero sul display verde, che immediatamente
alzò la
cornetta del vecchio cellulare. Non era mai stato molto avvezzo alle
tecnologie, andando così a rischiare di rispondere a dei
perfetti
sconosciuti.
Se avesse avuto la premura
di guardare lo schermo del telefonino tuttavia, si sarebbe
risparmiato un mezzo colpo al cuore.
“Ehmm... Ehi, ciao!
Disturbo? Sei impegnato? Vuoi che metto...”
Era lei.
“Va tutto bene, sto
andando a lavorare”
“Ah ecco! Lo sapevo, sto
disturbando! Riattacco poi ti... Ti telefono stasera per...”
“Sono sulla metro –
sospirò mettendosi a sedere su di una panchina del vagone in
movimento – non mi rechi disturbo. E sono solo al
momento”
Non erano che passate
ventiquattro ore dalla loro serata. Un tempo interminabile dopo aver
fatto due cazzate in contemporanea. Ossia: aver perso la
verginità
con una ragazza di neanche trenta anni (e poteva essere sua figlia);
e aver dato un nome alla figlia di tale donna.
Aveva per lei, scelto un
nome che a lui era sempre piaciuto. E che in un certo modo era anche
il nome di una persona che gli sarebbe piaciuto essere quando era
solo un ragazzo.
Era un ricordo strano.
Opaco e reso lontano con lo scorrere degli anni.
Incredibilmente doloroso
da portare sulle spalle, ogni qual volta che rimembrava anche solo
quella foschia lontana.
Ma in tutti quei ricordi
istintivamente soppressi, c'era quel nome che gli piaceva veramente.
“Ah... Ti volevo
ringraziare per il nome della bambina... Yachiru
è un nome
bellissimo”
Ascoltando distrattamente
le parole della giovane, l'ex mercenario arricciò
leggermente le
labbra fino a formare un abbozzo di sorriso.
“Mh... Non c'è
problema...”
“Ah... Poi volevo dirti
un'altra cosa. Forse non te ne sei accorto perchè avevi
fretta eh!
Comunque io...
–
parve indugiare come imbarazzata dall'altra parte della cornetta,
cercando di trovare le parole adatte senza arrossire troppo –
Io...
Ho conservato la tua cravatta. Si
ecco, te la sei
dimenticata. E se per caso la rivuoi... T-te la posso portare al
lavoro!”
Francamente? Era stato
bene con lei.
Era stato bene per
davvero, non solo per averci fatto del sesso e basta. Non era andato
a letto con una ragazzina arrapata.
Non aveva commesso una
vigliaccheria andando con una prostituta, ne un azzardo andando con
una donna pronta ad “incastrarlo” in un matrimonio
forzato – e
ciò era testimonianza come lei avesse cercato in tutti i
modi di
occultare la piccola.
Lui era semplicemente
stato bene e basta.
Gli era piaciuto
ascoltarla parlare velocemente, farsi possedere da lei con passione
ed infine – cosa non da meno – aver preso in
braccio quella
marmocchia.
Per la prima volta in vita
sua si era sentito una persona normale, a discapito
di quello
che la sua persona stessa comunicava al mondo.
Qualunque uomo avrebbe
rinunciato a quel siparietto traballante. Con una donna con figlia a
carico e senza soldi per pagare in tempo l'affitto. Sarebbe scappato
da bravo codardo perchè fondamentalmente privo di
spermatozoi nei
testicoli, lasciandole al loro destino incerto.
Ma lui, che ci aveva fatto
l'amore con quella donna, e che aveva per giunta dato un nome alla
piccola, non era autorizzato
a fregarsene di loro.
Zaraki non era un
vigliacco e qualunque impegno lui, ne era sicuro come quando da
ragazzo scendeva sul campo di battaglia, l'avrebbe preso e portato a
termine.
Sorrise ampiamente –
come non faceva dai tempi del suo servizio da soldato mercenario
–
prima di risponderle sicuro delle proprie, prossime, parole.
“Non
scomodarti,
passo io a prenderla. E anzi... Mettiti un bel vestito che stasera
offro io”
|
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Capitolo 3 *** 3. Il silenzio è il suono più forte [Szayel & Ulquiorra][Szayel centric] ***
Finalmente riesco ad aggiornare questa raccolta (e stavolta il
capitolo va quasi più sul malinconico oltre che
sull'introspettivo)!
Che ci crediate o meno, l'ispirazione mi è giunta ascoltando
“welcome to the jungle” dei Guns and Roses e da li
mi sono
immaginata una metropolitana piena di gente con Szayel che da quasi
di matto per lo stress.
Inoltre, potreste trovare Ulquiorra più
“chiacchierone” del
solito ma è giustificato a livelli di trama (quando vuole
Aporro è
davvero insidioso). Per il resto, nella storia sono presenti dei
termini portoghesi, di seguito vi mostro la traduzione (ho usato
google per scrivere in portoghese, per cui affidabilità
zero). Ps:
la storia è collegata a “old job” che vi
consiglio di leggere
prima di addentrarvi in questa per non rovinarvi la sorpresa XD
“Vou fazer-lhe um pouco mal. A criança
não foi filmado bem” =
“farò un po' male. Il bambino non si è
girato bene”
Senhores =
Signori
criança = bambino
Desculpa me = Perdonatemi
3°
il
silenzio è il suono più forte.
“Welcome
to the jungle
We've got fun n' games...”
La fastidiosa vibrazione
del cellulare all'interno della tasca
interna del suo gilè, misto ad una vocina stridula della
suoneria
che accompagnava ogni scossa, portò il tutto a far sbuffare
Szayel
Aporro Grantz per la noia dell'ennesimo squillo ricevuto.
Estrasse dall'indumento squisitamente retrò –
simile a quello di
un funzionario postale del vecchio West seppur molto più
elegante e
costoso – il piccolo cellulare argentato,
trovandosi a
ringhiare sottilmente per l'ennesimo squillo a vuoto che veniva dal
suo laboratorio.
Quei figli di buona donna pareva che appena trovavano un topo
in laboratorio, si alzavano in piedi sulle sedie terrorizzati
anziché
pensare a come affrontare il problema.
Scorse rapidamente – sistemandosi la candida montatura degli
occhiali sul naso – il numero di chi lo aveva imprudentemente
chiamato, scorgendo però che i suoi sottoposti erano
abbastanza
furbi, a quanto pare, per usare il telefono aziendale in modo da non
farsi beccare e massacrare da lui.
Che infami. Era già abbastanza degradante per lui dover
prendere la
metropolitana di primo mattino perchè – tu guarda
un po' – la
sua auto aveva subito un guasto improvviso da dover essere portata
via con il carro attrezzi fin dal meccanico, poi se ci si mettevano
anche quei dannati neo laureati raccomandati da papà allora
stava a
posto.
Volendo magari, avrebbe potuto chiedere a suo fratello Yylfort di
dargli uno strappo sino a dove lavorava lui – Las Noches non
era
poi così irraggiungibile. E Aizen sama avrebbe compreso un
suo
ritardo – ma era la forte insofferenza che Aporro nutriva per
i
propri familiari a farlo desistere nel chiedere un favore simile.
L'alternativa era di prendere un taxi – ma con i suoi orari
era più
facile che beccasse costantemente traffico – oppure come in
quel
caso la sudicia metropolitana con il suo adorabile repertorio di casi
umani, anche se era un mezzo veloce e non conosceva ritardi.
Guardandosi attorno con circospezione misto a diffidenza, dovette
constatare come il vagone che aveva scelto per una rapida corsa fosse
pieno di gentaglia di ogni tipo.
Gente di varie etnie e alcuni dalla scarsa igiene, portavano una
strana cappa viziata per tutta la lunghezza della metro. Decisamente
nauseabondo per lui, ben preoccupato di arrivare al lavoro con un
simile olezzo.
“Welcome
to the jungle
We take it day by day
If you want it you're gonna
bleed...”
Stavolta –
per l'ennesimo squillo di un cellulare appena deposto nella tasca
interna del gilè – ebbe davvero una forte scossa
di nervosismo,
che portò il povero Grantz ad estrarre con rabbia, stavolta
deciso a
rispondere a quei bastardi, un telefono che vibrava e cantava con
nervosi.
Tuttavia, forse
mettendoci troppo impeto teatrale nell'estrarre l'oggetto –
manualità poco considerata dai restanti passeggeri troppo
presi a
guardare il vuoto – si ritrovò ad urtare senza
farlo apposta un
passeggero in piedi dietro di lui.
Il vagone non
era eccessivamente affollato da non respirare ma si contavano
comunque parecchie persone in piedi. Senza volerlo quindi, dette una
gomitata alla scapola di un individuo non in vista, portandogli una
nota di sorpresa oltre che di stress aggiuntivo.
Seccante.
Decisamente molto secante per lui che aveva già i nervi a
fior di
pelle, determinato a tutti i costi di dirgliene quattro al barbone
distratto.
Ma quando si
voltò verso l'attentatore dei propri fragili filamenti
nervosi,
Aporro dovette abbandonare una espressione sottilmente truce per far
spazio a quella inusuale della sorpresa, alla vista di un volto a lui
noto in mezzo a tutta quella marmaglia. Le iridi ambrate
letteralmente si sgranarono dalla sorpresa, alla vista di quello che
era un suo pallido collega di lavoro.
“Ulquiorra...?
Ma sei davvero tu?”
una domanda
forse un po' banale – a detta di entrambi – ma
ampiamente
giustificata dallo stress di ritrovarsi in una metropolitana lercia e
da una mattinata tutt'altro che piacevole.
“Si... –
disse laconico l'uomo spintonato – sono io...”
di Ulquiorra
Shiffer non si sapeva molto. Era decisamente poco loquace e la sua
pausa pranzo se la passava spesso – se non sempre –
nel suo
ufficio di contabilità.
Era uomo di
fiducia di Aizen Sosuke quindi si, di lui lo scienziato poteva
fidarsi sufficientemente. Se non altro se era il capo a scegliere i
suoi adepti, non correva il rischio di incappare in autentiche
nullità.
Aveva sentito
addirittura strane voce su di lui, che lo volevano come ginecologo
in un passato ormai remoto e dimenticato. Come potesse uno come lui,
con quella faccia che aveva tra l'altro, essere un dottore
specializzato in ginecologia, per il Grantz era un mezzo mistero ed
era alla stregua di una stupida leggenda. Anche se un certo giro di
fauna femminile attorno al suo tetro ufficio l'aveva
comunque
vista.
Deglutì quasi
divertito per quell'ultimo pensiero che gli sfiorò la testa,
sistemandosi gli occhiali sul naso e porgendogli una nuova domanda
dettata da semplice curiosità.
“Ma dimmi un
po', come mai a prendere la metropolitana pure tu? Anche a te la
macchina si è rott-”
“La macchina
io non ce l'ho”
a Szayel Aporro
non piaceva affatto essere interrotto all'improvviso, per questo
inclinò il mezzo sorrisetto di prima a mo di smorfia
contrariata per
la laconica – quanto secca – risposta del collega
ben aggrappato
al suo palo in ghisa e ben concentrato a mantenere l'equilibrio agli
scossoni del vagone.
Liquidò infine
il tutto con uno sbuffo annoiato, notando la scarsa attitudine del
collega a interazioni umane. Non che questo fosse un male,
però quel
suo atteggiamento rischiava di essere piuttosto equivoco e
maleducato.
“Oh via
Ulquiorra... Non c'è bisogno di essere così rudi
tra colleghi”
poteva anche
suonare come beffarda la battuta del Grantz. Ma Ulquiorra Schiffer si
trattenne per se una risposta che voleva un secco “noi non
siamo
colleghi” perchè – purtroppo –
lo erano eccome.
Si limitò a
chiudere gli occhi con profonda pazienza, notando che la reazione
aveva comunque attirato lieve ilarità nell'interlocutore
poco
voluto.
E Aporro era
desideroso di saperne di più su quell'individuo
così dannatamente
riservato, che era quasi naturale che gli stimolasse una certa
curiosità.
Ulquiorra era
un individuo che, con i suoi modi di fare quasi bruschi e un tenore
di vita misterioso, aveva attirato su di sé parecchi
pettegolezzi –
c'è chi addirittura lo volesse coinquilino di due lesbiche e
spesso
spettatore dei loro giochi – ma a parte
certe chiacchiere da
“bar” lo scienziato doveva ammetterlo che un certo
fascino lo
esercitava eccome su di lui.
Oh per carità,
non in quel senso specifico quanto alla sua stessa
figura e
impostazione. Per tale motivo ecco che si ritrovava a studiarlo
attentamente da capo a piedi, guardandolo bene come era impacchettato
nel suo completo da ufficio sobrio e quasi anonimo, come se avesse di
fronte uno dei suoi tenti esperimenti – o cavie –
deciso a
entrare più in sincronia con lui e vedere di farci altre
chiacchiere
aggiuntive.
“Comunque,
devi ammettere che su di te è stato costruito un vero e
proprio
mito. Insomma, trovo piuttosto affascinante la figura di te che un
tempo era un prode ginecologo che ora agisce nell'ombra come-”
“Scempiaggini
e basta, Szayel...”
Aporro sorrise
alle parole di Ulquiorra, aggiungendoci con più pacatezza la
parte
finale del suo discorso “Un po' come Batman...
non trovi
anche tu?”
Stranamente,
non si scompose più di tanto per la secca interruzione del
contabile
ma anzi, ne trasse profondo piacere nel fare quelle insinuazioni
aggiungendoci pure la metafora del supereroe che agisce con il favore
delle tenebre per fare giustizia.
“Se hai
finito con il darmi noia, sarebbe il caso di rispondere a quel tuo
cellulare”
con sommo
disprezzo dello scienziato – che ben tradì il
nervoso con una
smorfia di puro odio – il cellulare dentro il taschino del
gilè si
era messo a suonare nuovamente con la solita musichetta di rito.
Addirittura,
qualcuno iniziò ad alzare la testa per l'ennesimo trillo
caduto a
vuoto, con tutta probabilità ormai annoiato di quella
canzoncina
roca e fastidiosa.
“Ehi Deejay,
cambia disco!” consigliò qualcuno da stare in
fondo al vagone e
non in vista per sommo dispiacere di Aporro.
Se avesse avuto
sotto il suo furente sguardo il ragazzino che aveva consigliato di
cambiare suoneria, gli avrebbe sicuramente iniettato del cortisone
negli occhi.
Niente invece,
si ritrovò a sbuffare annoiato e a riporre l'oggetto nella
sua tasca
nascosta – non lo spegneva perchè se telefonava
l'ufficio di Aizen
sama era finito – e a indirizzare uno sguardo su Shiffer che
ora
era tornato a non guardare nessuno esattamente come
prima.
Peccato di non
essere riuscito a estrapolargli qualcosa di più,
perchè gli sarebbe
piaciuto davvero tanto fare una analisi del soggetto e vedere se si
tradiva in qualche modo.
Non ci avrebbe
mai sperato, ma la tanto opportunità di osservarlo meglio ci
fu
eccome.
Subito dopo
aver riposto il noioso cellulare argentato nel taschino foderato di
seta, ci furono un paio di grida attutite provenienti in volo dal
vagone successivo a dove si trovavano entrambi.
Szayel inarcò
un sopracciglio per tutto quel fastidioso chiasso, mentre Ulquiorra
si limitò ad indirizzare le proprie iridi smeraldine verso
la fonte
del suono. Alcuni rumori strani – forse di tafferugli tra
donne –
si erano sentiti già prima che lo scienziato spintonasse il
pallido
collega. Ma ora i rumori erano decisamente molesti.
Tanto da
attirare svariate teste di passeggeri dallo sguardo vacuo fino a quel
momento, ora attenti ad osservare l'anonima porta di collegamento tra
un vagone e l'altro.
“Santo cielo
– brontolò un Grantz passandosi una mano tra i
capelli delicati –
ma che diavolo hanno da urlare? La parola civiltà non la
conoscono?”
prendere la
metropolitana era snervante. La gente era oltremodo maleducata e poco
conscia di sapere che cos'è l'igiene personale. E poi
questo,
schiamazzi ad oltranza.
In definitiva,
Aporro si stava seriamente pentendo di aver preso quel mezzo di
spostamento che gli stava dando una grandissima noia.
Solo la
presenza di Ulquiorra salvava dalla situazione, in tutti i sensi
possibili.
Perchè poco
dopo la domanda del giovane dottore seccato, qualcuno ebbe la
magnanimità di rispondere al suo quesito. Rendendo piuttosto
interessante la situazione.
“No, ecco –
un tizio che si trovava vicino alla porta si voltò verso
Szayel,
dandogli risposta – pare che una donna stia per partorire
e
nessuno sappia cosa fare...”
“Uff... Ma tu
guarda che situazione noiosa – roteò gli occhi
seccato anche da
quell'inconveniente che sapeva di grottesco, accorgendosi
però solo
all'ultimo che il collega al suo fianco non c'era più
– eh?
Ulquiorra ma dove vai?”
dire che fu un
fulmine fu davvero poco, perchè tosto il collega contabile
– senza
minimamente tradire alcuna emozione sul volto pallido e indifferente
– si affrettò a guadagnare la porta di
collegamento facendosi
strada in modo fluido tra la calca di gente.
Seguito a breve
da un Grantz velatamente interessato a quella sua reazione strana
–
dire che gli era spuntato un sorrisetto soddisfatto alla vista della
fuga di Schiffer era poco – varcarono quasi spalla a spalla
una
porta arrugginita solo per andare incontro ad un vagone ove le urla
femminili di una donna in evidente stato di travaglio, si perdevano
con la calca di gente simile ad un impenetrabile muro che separava i
due dalla scena grottesca in atto.
A Szayel
pizzicarono le narici, per quello che era l'inequivocabile odore di
liquido amniotico e sangue.
“E allora
dottore – fece improvvisamente lui ma con fare serio e non
più
mellifluo – adesso che si fa?!”
l'esperto qui a
quanto pare era lo stesso Ulquiorra in persona – e ormai
quelle che
circolavano su di lui non erano affatto dicerie – che non
stette li
poi ad indugiare più di tanto, facendosi ancora largo tra la
folla
fino ad arrivare ad un gruppetto di tre donne di cui una, seduta su
di una panca, era in evidente travaglio.
Le due – di
origine ispanica a quanto pare – tentavano di consolare la
più
giovane asciugandole la fronte colma di sudore con dei fazzoletti,
scostandole anche i capelli neri come l'ebano per darle più
respiro
mentre questa ormai allo stremo si limitava a pregare e a urlare
–
a tratti – nel tentativo di spingere via quel figlio che non
ne
voleva sapere di andarsene dall'utero materno.
Arrivato infine
davanti alle due donne più anziane, Ulquiorra si
destreggiò in un
amabile spagnolo per farsi spiegare dalle due il punto della
situazione.
Altra cosa che
sorprese lo scienziato, fu di scoprire che il collega conoscesse lo
spagnolo. Lo osservò con una punta di interesse
massaggiandosi il
mento nel vedere come, oltretutto, riuscisse a comunicare con calma
con le due donne disperate, per poi attingere dalla propria
ventiquattro ore delle salviettine umide che mai come in quel momento
potevano essere utili.
Prima di usarle
però, si tolse la giacca e si sollevò
accuratamente le maniche
della candida camicia, in gesti precisi e calcolati, di chi ben
sapeva cosa fare.
“Tieni –
disse infine, lanciando il pacco delle salviette a Szayel prima di
chinarsi in ginocchio dinnanzi alla partoriente – evitiamo
che
questa spazzatura che ci circonda causi altri
danni...”
“Uhm... non
sapevo che conoscessi lo spagnolo” borbottò lo
scienziato nel
mentre che si sollevava anch'egli le maniche della camicia prima di
usare le preziose salviette igieniche.
“Infatti non
è spagnolo – replicò uno Schiffer ora
con le mani in mezzo alle
gambe di una donna quasi spaventata dall'avvento di un pallido omino
– è portoghese, queste donne parlano-”
“Ok, ok... –
sbuffò spazientito e di rimando, un Aporro che si
apprestò ad
andare vicino ad un improvvisato ginecologo – vediamo di far
nascere questo bambino. Ne ho piene le scatole di tutte queste
urla”
La ragazza –
Aporro le avrebbe dato si e no sulla ventina d'anni e non era affatto
di sgradevole aspetto – ebbe quasi l'impulso di chiudere di
scatto
le gambe alle dita del dottore che si infilarono dentro di lei,
confortata però giusto in tempo dalle parenti che le
spiegarono la
situazione. Trovandosi per questo a deglutire confusa, guardando
attentamente i due uomini. Obbedendo al dottore chino dinnanzi a lei.
“Vou
fazer-lhe um pouco mal. A criança não foi filmado
bem”
le parole
uscirono fluide dalla bocca di un uomo dal sorprendente sguardo
freddo, togliendole ogni voglia di polemizzare limitandosi ad annuire
frettolosamente.
Szayel già se
lo immaginava, sarebbe stato un viaggio ancor più infernale
del previsto.
[…]
“Ah...
Ulquiorra, aspetta!”
allungando il
passo sullo stradello piastrellato di finta pietra antica, Szayel
Aporro Grantz si apprestò a raggiungere il silenzioso
collega ormai
prossimo ad entrare per la porta a vetro scorrevole che portava a Las
Noches. Era una mattina come tante si potrebbe bellamente aggiungere
– con svariato via vai di dipendenti e altre persone dalla
struttura – eppure c'era innegabilmente qualcosa di diverso.
A sentirsi
nominare da quella voce suadente, ad Ulquiorra partì
l'istinto –
poi soppresso per motivi di educazione – di allungare il
passo ed
entrare nella struttura farmaceutica in modo da non doversi fermare a
parlare con lui.
Invece rimase
fermo dov'era e si girò appena per osservare un collega di
lavoro
raggiungerlo smagliante e un poco malizioso.
“Grantz...
Che cosa vuoi?”
laconico come
sempre – quasi apatico per un occhio poco attento –
il giovane
uomo scrutò senza reale emozione lo scienziato appena
sopraggiunto
avvolto da un completo color prugna. Elegante vero, ma per il
contabile era un indumento a dir poco eccentrico.
“A-ah... Non
fare il finto tonto – fece Szayel aggiustandosi gli occhiali
sul
naso con uno sguardo quasi maligno in volto – dimentichi il
nostro
lavoro di squadra dell'altro ieri? Oppure hai forse la memoria corta,
collega?”
“A che serve
ricordarlo?” in quel mentre Schiffer si voltò
verso l'entrata
degli uffici a meno di tre metri da lui, quasi in procinto di
riprendere la camminata.
“Beh, non
saprei – Aporro iniziò a camminare lentamente di
fianco al collega
silenzioso, cercando di estrapolargli qualche emozione –
abbiamo
fatto nascere un bambino e tu sapevi cosa fare... Molto strano che un
contabile sappia cosa fare!”
Concluse con
una mezza risata divertita, al ricordo di due giorni fa e della
ragazza in travaglio dentro a quel sudicio vagone.
In realtà,
strafottenza a parte, doveva ammettere che era stata una esperienza
per lui a dir poco inusuale.
Aveva certo
profonda conoscenza del corpo umano, ma non possedeva la stessa
esperienza sul campo di Ulquiorra nel mettere al mondo una creatura.
Non lo avrebbe
ammesso davanti a nessuno ma nel momento esatto in cui avvolse il
bambino allungatogli da Schiffer in una candida sciarpa –
gentilmente offerta da una studentessa che aveva offerto il suo
patetico aiuto – percepì
chiaramente un brivido scendergli
giù per la schiena.
Non era
abituato a tenere in braccio un bambino – anzi, mai preso in
braccio neanche uno – e tutto era successo così in
fretta che
nell'esatto momento in cui lo aveva accolto tra le braccia per
permettere a Schiffer di tagliargli il cordone ombelicale, tutte le
sue strafottenti certezze caddero giù e si sentì
come perso – o
inadeguato – per un gesto tra i più naturali al
mondo.
Naturali per
tutti meno che per lui.
Per tal motivo
si affrettò a dare il marmocchio sporco di sangue ad una
madre
esausta ma al contempo felice, decidendo di togliersi dai piedi il
prima possibile imitato senza manco farlo apposta da un Ulquiorra
impassibile.
Questo
comunque, non trapelò affatto nello sguardo arrogante dello
scienziato, ben scrutato da un contabile che sapeva il fatto suo.
“Hm... non
potrei dire la stessa cosa di te”
una battuta
sibillina che in un primo momento Szayel affatto capì,
buttandola
brevemente sul ridere. Continuando a rigirare il coltello nella piaga
“Sono
sorpreso che tu abbia deciso di cambiare mestiere, tutto qui. Anche
perchè hai dimostrato di avere i nervi saldi anche in
situazioni
simili... Dovevi essere il più bravo nel tuo corso, dico
bene?”
“Io sono
il più bravo, Szayel. A differenza tua che non sai mantenere
un
briciolo di sangue freddo”
Ok, ora stava
iniziando ad esagerare. Una simile arroganza neppure lui riusciva ad
accettarla seppur da un dottore degno di nota. Pertanto, lo sguardo
di Aporro si assottigliò colmo di nervosi poco trattenuta,
cercando
di scrutare al meglio l'impassibile maschera di un compagno di
squadra poco incline a tale squadra.
“Sai... Credo
di non capirti affa-”
“Che cosa hai
provato a prenderlo in braccio?”
Silenzio.
Gli occhi
ambrati dell'interpellato si sgranarono in un misto di shock e ira
pronta ad esplodere, nell'incontrare le iridi di un freddo verde
assassino di Ulquiorra che, non ricevendo la risposta che voleva
–
e fin troppo semplice da rispondere per lui –
abbassò le palpebre
per contenere pazienza e rispondergli in modo flemmatico.
“Te lo dico
io, hai provato umanità. Ne sei
consapevole di questo?”
Evidentemente
lo scienziato non aveva prestato attenzione all'attento sguardo del
ginecologo, che si era posato brevemente su di lui nell'atto di
preparare il bambino per darlo finalmente alla madre. La
determinazione e l'arroganza che avevano contraddistinto il Grantz
durante tutta l'operazione, andò brevemente a puttane quando
i suoi
occhi si scontrarono con quelli grandi e dilatati del neonato.
Una mera
frazione di secondo che non sfuggì ad un Ulquiorra ben
attento. Ed
era un momento che lo stesso giovane uomo bollava come
“debolezza”
in tutti i sensi.
“Il
silenzio è il suono più forte...
Szayel”
Gli seccava
dargli in qualche modo ragione, perchè era assolutamente
sicuro
che il suo prolungato silenzio non era una risposta
alla
sfacciata mezza domanda del contabile.
“Senhores...
senhores! Posso disturbarvi...?!”
il clima di
palpabile tensione tra i due dottori, che si scrutavano attentamente
negli occhi come due predatori che si studiavano l'un l'altro, venne
improvvisamente interrotto da una tremolante voce di donna ormai
prossima ad avvicinarsi a loro.
Come colti
dalla sorpresa, entrambi gli uomini ebbero come una sorta di
rimembranza nel sentire quella timida voce di donna che ad ogni lento
passo si apprestava a raggiungere i due uomini pronti, forse, a
percuotersi con le rispettive valigette.
Quando poi
Szayel Aporro e Ulquiorra si voltarono finalmente sulla figura che
stava percorrendo il vialetto semi trafficato per andare loro vicino,
si ricordarono di chi fosse quella minuta figura.
Era la donna
che due giorni fa non era riuscita ad aspettare la fermata della
metro per partorire. Era quella, che senza l'aiuto dei due uomini
avrebbe visto la propria situazione aggravarsi maggiormente.
In principio
non l'avevano riconosciuta subito. Sul vagone aveva un aspetto
decisamente disastrato, mentre ora decisamente più in forma
e con in
braccio – avvolto da un candido lenzuolino – la sua
creatura
tranquillamente persa nel mondo dei sogni.
“Ah, tu
sei...”
“... La
ragazza dell'altra volta” concluse lo scienziato al posto del
lento
contabile.
Passandosi una
mano tra i capelli e studiando attentamente la ragazza dalla pelle
ambrata che sorrideva loro timidamente.
“Si ecco...
Qualcuno nel treno vi ha riconosciuto – indirizzò
gli occhi neri
verso un Aporro decisamente più famoso in città
di un collega poco
chiacchierone – e mi è stato detto dove lavoravate
e... Io...
Desculpa me! Volevo solo ringraziarvi per avermi
aiutato”
ci fu un
proverbiale silenzio alle parole di una neo mamma che non sapeva se
mettersi a ridere dalla gioia oppure scappare via per aver fatto una
brutta figura con gente piuttosto importante nella città in
cui era
appena giunta.
Quello di nome
Szayel Aporro Grantz la scrutava attentamente e dall'alto in basso,
mentre il dottore che l'aveva assistita con maggiore
intensità si
limitò ad un impercettibile segno di
“si” con la testa.
“Non
sarei qui ad abbracciare il mio criança
se non fosse stato per voi due. V-vorrei ringraziarvi se
possibile...”
era una
situazione un po' imbarazzante e pareva che i due uomini non avessero
minimamente compreso cosa lei – la giovane donna senza nome
–
volesse dire con il ringraziarli.
Tuttavia ci
arrivò per primo Ulquiorra – forse
perchè più abituato a simili
manifestazioni dato il suo precedente lavoro, a detta di una facile
conclusione di Aporro – che come mosso da empatia
aprì lievemente
la braccia per accogliere il timido abbraccio della neo mamma, che
con pargolo tenuto su con un solo braccio impiegò l'altro
per
cingere l'esile schiena del contabile.
Dopo un rapido
bacio a fior di guancia ad un impassibile Schiffer – che
ancora una
volta si limitò ad annuirle in silenzio –
toccò alla volta di
Szayel stesso.
Al dottore
quasi venne un colpo nel vedersi la ragazza davanti che – in
poche
frazioni di secondo – lo aveva abbracciato nell'esatto modo
in cui
aveva abbracciato Ulquiorra.
Un
insolito tocco che lo portò in principio ad irrigidirsi per
quei due
corpi che premevano contro il suo – come un vago timore
istintivo
che quel bambolotto di carne potesse in qualche modo rompersi
per il troppo stringersi addosso – che tuttavia
ricambiò con una
lieve goffaggine dando piccole pacche consolatorie alla schiena della
giovane.
Quando infine,
per sommo sollievo di Szayel, la neo mamma lo liberò per
salutarli
un'ultima volta andando infine a ricongiungersi alle due donne
–
con tutte probabilità le stesse dell'altra volta –
che
l'aspettavano vicino alla strada, lo scienziato deglutì
appena
posando un breve sguardo su un contabile che segnava un
impercettibile sorriso agli angoli della bocca.
Seppur
impercettibile e seppur ben nascosto, lo scienziato se ne accorse
eccome sorridendo quasi maligno nel vedere la sua di debolezza.
“Ma cosa vedo
mai... ? Dell'umanità sul volto di Schiffer? Oppure era una
contrazione nervosa?!”
il
cambiamento repentino del pallido uomo ci fu eccome, e il lieve
sorriso scomparve del tutto tornando a fare spazio ad una espressione
quanto meno seria.
“Scempiaggini”
decretò infine quello, decidendosi finalmente di avviarsi al
lavoro.
“Non mi hai
ancora detto perchè hai abbandonato il tuo vecchio mestiere,
caro
Ulquiorra. O devo dedurre che questa è una rimembranza
dolorosa per
te? Eppure su quella donna hai dato il massimo...”
avrebbe
volentieri voluto vedere una qualche espressione risentita sul volto
impassibile del caro
collega, giusto per vendicarsi di prima. Aveva osato metterlo in
difficoltà e la cosa decisamente lo indisponeva.
Szayel odiava
sentirsi a disagio in qualunque situazione. Ed era quella che lui
definiva una grandissima debolezza.
Anche se
il più delle volte, quel “disagio” era
più riferibile ad una
umanità
quasi bandita dalla sua ragione di folle scienziato in ascesa, ed era
un qualcosa che Ulquiorra conosceva dannatamente bene.
Più di quanto
lo stesso Grantz potesse immaginare.
“Hai mai
fatto tirocinio nel pronto soccorso d'urgenza?”
“Ma che
domande! Certo che l'ho fatto! Ed è stata una situazione
spiacevole
sotto ogni punto di vista – Aporro rabbrividì un
poco nel
rimembrare il breve tirocinio fatto nell'ospedale della
città,
decisamente poco consono ad un uomo di scienza come lui –
grandissima disorganizzazione e casi assurdi che di umano avevano ben
poco e... Oh...” gli occhi ambrati gli si spalancarono quasi
avvolti dalla sorpresa, nel comprendere molto lentamente la risposta
alla sibillina domanda di Ulquiorra.
“Ti
sei
risposto da solo, Szayel”
era disdicevole
per il capo supremo del reparto scientifico cadere in una gaffe del
genere. A non riuscire lontanamente a capire le motivazioni che
avevano spinto Schiffer a mollare tutto per dedicarsi a qualcosa che
decimasse i rapporti umani quasi a zero.
La caduta
precoce del contabile poco chiacchierone, era stata in una
umanità
che non era riuscito – al tempo che fu – a tenere a
bada e a non
farsi condizionare.
Szayel a quel
punto poteva solo immaginare che cosa fosse passato sotto gli occhi
di un giovanotto con magari tanti bei propositi per il futuro, fino a
spingerlo a cambiare totalmente mestiere.
A Szayel Aporro
le violenze gratuite sulle donne non piacevano neanche un po'. Non
erano nel suo stile onestamente parlando, e le bollava come
comportamenti tipici di individui rozzi che non hanno una minima idea
di come prendere l'universo femminile e comunicarci.
Per Szayel, la
violenza era accettabile solo se vi era voluta complicità da
parte
della compagna – e per istinto il suo pensiero
andò ad una Cirucci
Tunderwitch attualmente a casa sua – lasciando perdere tutti
gli
altri scenari possibili squallidi e degradanti.
Lentamente
quindi, capì ciò che il silenzioso contabile
aveva sempre – sino
all'ultimo momento – evitato di esternare, dandosi
mentalmente
dell'idiota per non esserci arrivato prima. Per non aver compreso
quei suoi silenzi più forti di qualsiasi altro rumore.
Umanità
infine, che uccide sul nascere ogni buon proposito e che per alcuni
individui è bene abbandonare se si vuole lavorare
egregiamente. Pena
un fallimento epico come quello di Ulquiorra.
E Szayel di
certo come lui non voleva finirci, con lo spettro di una professione
abbandonata tra mille rimpianti e disgusti vari, arrivando sempre a
rimpiangerla magari in modo sottile e malinconia.
Pertanto,
mormorò un rammaricato “capisco” ad un
collega che non aveva più
nulla da aggiungere, decidendosi infine di seguirlo fin dentro le
porte scorrevoli di vetro blindato e finalmente dedicarsi al suo
lavoro inumano.
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Capitolo 4 *** 4. Indossi il vuoto con classe [Szayel/Nemu][Szayel centric] ***
Bene, rieccomi finalmente ad aggiornare questa mini raccolta, con un
prompt che mi sembrava decisamente adatto per la coppia Szayel/Nemu.
Coppia questa che non mi ispira ne allegria ne romanticismo, ma solo
tonnellate di angst e gore che alle volte non fa poi così
male
all'umore.
Ovviamente si allaccia alle mie precedenti oneshot soprattutto a
“Vendetta” e a tutte le altre dove appare Szayel
Aporro Grantz,
oltre che al capitolo scorso. Può essere letto anche senza
aver dato
una occhiata ai miei precedenti lavori.
A differenza del capitolo scorso questo è molto
più dark e più che
contenere lime direi che è sull'erotico.
Ad ogni modo, buona lettura!
4° Indossi il vuoto con classe
Nell'ombra ignota di una
ricca e spartana stanza, qualcosa si muoveva con pigrizia verso un
soffitto tinto di nera pece notturna.
Un suono sottile e
delicato si librò nell'aria già viziata, simile
ad uno sbuffo
appagato di chi si concede una sigaretta come minuto di relax,
catturando quasi senza volerlo l'attenzione di un paio di occhi verde
scuro.
Nella pesante ombra della
stanza da letto di Szayel Aporro Grantz – rischiarata solo da
una
tenue luce di un mattino malato proveniente in volo dalle veneziane
abbassate – un intenso aroma di tabacco si riversò
nella zona
circoscritta del letto matrimoniale allo sbuffo del suo padrone
appagato.
Sottili fili grigi, simili
all'incenso esotico, rapirono per un istante l'attenzione di una
imperturbabile Nemu Kurotsuchi prima che
quest'ultima se ne
tornasse a fissare il soffitto buio con la solita espressione che la
caratterizzava.
Un gesto timido e
apparentemente disinteressato, che non sfuggì all'attenzione
di un
brillante scienziato che ben pensò di aspirare maggiormente
il
filtro della candida sigaretta con fare soddisfatto.
“Uff...”
quasi come stesse gustando
un dessert, dalle labbra sottili partì un altro docile
sbuffo di
fumo, cercando poi con sguardo appannato – a causa della
carenza
degli occhiali da vista situati al momento su di un comodino in
compagnia di un reggiseno – una compagna che si muoveva
appena
sotto quelle lenzuola di seta nera. Profumate di lavanda e di sesso,
parlavano ancora degli audaci movimenti che li avevano colti neanche
dieci minuti prima.
“Siamo insolitamente
loquaci a quanto vedo...” lo sguardo
ambrato del dottore
pareva crudele mentre letteralmente mangiava la pallida figura
avvolta nelle lenzuola.
Quelle parole gli uscirono
fuori così all'improvviso dopo un lungo silenzio senza
però
riuscire, in qualche modo, a destare la sua deliziosa ospite.
Non era la prima volta che
Aporro riusciva a trascinarsi nel letto la figlia del suo peggior
nemico.
Quel Mayuri Kurotsuchi che
ormai aveva fatto il suo tempo ma che però, con l'insistenza
di una
pianta infestante, ancora continuava a dirigere il suo reparto
scientifico anche se ormai era bravo solo a stendere
con la
macchina i cani altrui.
Oh, il paparino sapeva
quello che la figlia combinava nel letto del suo acerrimo rivale,
solo che... Non gliene fregava nulla?!
A Mayuri non importava se
Aporro si portasse a letto sua figlia – questo il giovane
scienziato lo sapeva benissimo – quanto era infastidito da
ciò che
lui avrebbe potuto scoprire su sua figlia. Ma forse
era da
considerare il fatto che vi era un lato affascinante se Nemu finisse
spesso e volentieri nelle mani del giovane Grantz.
Magari il dottor
Kurotsuchi poteva scoprire su di lei cosa quello stupido ragazzino
stava architettando, su questo c'era da scommetterci parecchi sacchi.
Eppure era un destino così
ridicolo quello della giovane Nemu, la quale pareva non volersi
staccare in nessun modo da due uomini che altro non facevano, in
tutti i sensi possibili, che sfruttarla come una mera cavia da
laboratorio.
Ma dopo quel breve giro di
pensieri tutt'altro che puliti, la calma nell'ambiente che li
circondava vene spezzata da piccoli gesti.
Alle parole quasi
sussurrate del Grantz, nonostante il velo di strafottenza che le
circondava, gli occhi della giovane donna si indirizzarono nuovamente
sul padrone di casa con la stessa agghiacciante
tranquillità
di prima.
A differenza dello
spietato amante – con la schiena appoggiata sul cuscino
– lei se
ne rimaneva sdraiata totalmente su di un materasso ancora umido,
limitandosi a fissarlo in silenzio senza accennare ne un sorriso ne
una qualsiasi smorfia.
E questo a Szayel Aporro
piaceva quasi da morire. Anche il suo gesto inconsueto di allungare
il braccio destro verso di lui – un gesto in apparenza
automatico –
e prendergli dalle labbra la sigaretta per poter pure lei usufruire
di quella velenosa nicotina, erano atteggiamenti che stranamente lo
soddisfavano.
Perchè era come averla in
pugno ogni volta.
Ed era come avere in pugno
lo stesso Mayuri, per quanto fosse certo che approfittasse pure lui
di quei post appuntamenti per fare un check up completo alla
maggiore delle sue figlie. In un circolo vizioso di esperimenti e
sevizie, dove la sua figura “umana” veniva
cancellata dal
vocabolario dei due uomini. Divenendo qualcosa di incredibilmente
speciale.
“Cara mia... Tu
decisamente indossi il vuoto con classe”
Non era nell'essere amici
intimi che risiedeva la loro specialità. Anzi, persino lo
stesso
scienziato avrebbe detto che loro due non erano affatto degli amici.
Aporro non aveva amici,
erano delle seccature e con il lavoro che faceva
“amici” era
sinonimo di “nemici”.
No, lui Nemu l'aveva
conosciuta molto tempo prima, e non l'aveva mai considerata
lontanamente una amica e neppure una amante accondiscendente. Ma un
interessante soggetto di studio quello
si.
Vi era stato un anno di
università in cui era stato praticamente costretto a fare
uno stage
presso l'ospedale cittadino. Un luogo a dir poco penoso fin troppo
pieno di casi umani, odiosi in tutti i sensi, e di ben altrettanta
inefficienza e poca preparazione da parte di medici ben più
–
sulla carta almeno – preparati di lui.
Fu in quel luogo infernale
– un posto in cui qualcuno, berciandogli addosso, aveva
esplicitamente detto che se lo meritava assai
– che vide per
la prima volta Nemu Kurotsuchi.
All'epoca Szayel non era
nessuno. Non era uno scienziato di fama internazionale come lo
spudorato Kurotsuchi, ma solo uno studentello con la puzza sotto il
naso.
Eppure, non poteva non
pensare di aver ricevuto un aiuto dal cielo quando vide quella
sfortunata ragazza su di un letto anonimo in una stanza altrettanto
anonima e piena di macchinari medici.
Non poteva credere ai suoi
occhi che la giovane pallida e piena di ecchimosi che riposava oltre
la vetrata che li separava, fosse la chiave del suo futuro successo e
carta vincente per battere quel folle – quanto geniale
–
scienziato pazzo.
Fu con un sorriso che si
ampliava maggiormente in volto – quasi tremando da tante
erano le
emozioni che lo sovrastavano – che entrò nella
stanza della
giovane per osservarla più da vicino.
In quella macchia bianca
qual era la stanza di un trafficato ospedale di città, la
giovane
Nemu aprì debolmente gli occhi lividi e mostrò ad
un inquietante
novizio le sue iridi verde scuro.
Due pozzi profondi e
letteralmente spenti, in cui l'ambra del Grantz
cadde a
precipizio rapito da una incommensurabile fonte di informazioni
vivente.
Cinque anni passarono da
allora.
Cinque lunghi anni da quel
primo e silenzioso incontro avuto dai due.
I piccoli sospetti del neo
scienziato si rivelarono poi fondati quando riuscì ad
entrare più
in “intimità” con quella ragazza,
dandosi in automatico del
genio per aver intuito come quella figlia non fosse altro che la
cavia degli esperimenti più pericolosi
del padre.
Che cosa avesse portato il
prode Mayuri a sfruttare una delle sue figlie come un topo da
laboratorio, questo il Grantz non lo sapeva e neanche ci teneva a
saperlo.
Forse la sfruttava poiché,
dopo una vita spesa a fare esperimenti sulla propria pelle, il corpo
di uno scienziato si degrada allo stesso passo di quello di un essere
umano comune, senza tener conto che a fare esperimenti su se stessi
poi c'è un degrado ben più maggiore.
Ma Nemu era sangue del suo
sangue, quindi perfetta – ad una mente brillante e folle di
scienziato – per assorbire quante più sostanze
possibili nel
silenzio più assoluto, che inevitabilmente finivano in
contrasto tra
loro con effetti collaterali disastrosi.
E ovviamente, tra le cause
della sua salute precaria c'erano anche i suoi di esperimenti, oltre
che a quelli del padre. Si poteva perfettamente dire che la guerra
tra i due passava attraverso il corpo di quella ragazza.
Ma lo stesso Szayel Aporro
trovava strano il suo comportamento. Un carattere che invece di
portarla lontano da due autentici aguzzini, altro non faceva che
buttarsi volontariamente nelle fauci del drago ogni santissima volta.
Magari faceva tutto ciò per proteggere la sorellina minore
– copia
sputata di Nemu e ignara di che razza di persona senza scrupoli fosse
il padre – oppure la sua devozione al proprio creatore
era
così ampia che ben volentieri lasciava che il Grantz le
somministrasse varie sostanze per studiare quelle di Mayuri che, per
ovvie ragioni, entravano in reazione tra loro dando non pochi
problemi alla giovane donna.
Eppure c'era qualcosa che
non quadrava, se lo sentiva.
Già quel pomeriggio Nemu
si era presentata a Las Noches – il suo attuale e splendente
luogo
di lavoro – per fare una cosa che lo aveva lasciato
totalmente
stupefatto. Pur non lasciando trasparire nulla all'infuori della
buona educazione che le era stata imposta da un'invisibile madre,
furono le sue parole a sorprenderlo in modo assai curioso.
“Vorrei
chiederti
scusa per l'incidente della volta scorsa”
Ci impiegò non poco per
capire cosa quella ragazza dai semplici abiti neri cercasse di
dirgli. Scrutandola da oltre la propria scrivania, per il dottore
Nemu Kurotsuchi non dava modo di capire a quale fatto si riferisse
nel modo più assoluto. Seduta rigidamente sulla poltroncina
di pelle
sintetica e con le mani conserte in grembo – tanto da dare
l'idea
di essere di fronte ad una severa dama borghese in un dipinto di fine
ottocento – il Grantz dovette scrutare attentamente in quegli
occhi
verde scuro per capire a cosa si stesse riferendo.
La morte di quel piccolo
cane di nome Verona, ad opera di Mayuri Kurotsuchi che allegramente
lo aveva investito per fargli un dispetto, Aporro se la ricordava
perfettamente – da allora il superstite Lumina, un pechinese
di tre
anni, non faceva altro che lamentarsi per la mancanza del compagno
–
quindi appena capito cosa quella piccola e falsa educanda stesse
cercando di comunicare, un piccolo e perfido sorriso affiorò
dalle
sue labbra sottili e in precedenza imbronciate per quella visita a
sorpresa.
Lesto ed elegante,
distolse lo sguardo dalla propria ospite quel tanto che bastava per
indirizzare gli occhi color ambra verso la propria sinistra.
Frugò poi circa qualche
secondo dentro un cassetto della lucida scrivania di marmo nero, fino
a trovare – tra gli ordinati documenti e le scatole di
medicinale
in ordine perfetto in un piccolo cestino di vimini –
ciò che
avrebbe fatto decisamente al caso suo.
Una boccettina di vetro
ambrato si posò con delicata decisione sul freddo marmo
dell'ufficio
– con un suono timido che però ebbe il peso di un
macigno nel
cuore della donna – accompagnato da un sorriso fin troppo
descrittivo da parte del giovane dottore.
“Un
piccolo prezzo
che puoi accettare...”
La boccettina ancora non
etichettata e quindi fuori commercio – in cerca di un tester
per le
prove che ne dessero il via libera alla vendita – di un
medicinale
a lei sconosciuto era il prezzo da pagare per lo strano, forse
sincero, gesto di umiltà nel chiedere scusa per la follia di
un
padre che comunque amava indissolubilmente.
Anche se di poche parole
lo scienziato si era fatto capire benissimo dalla pallida donna, che
subito chinò il capo per non dare a vedere il lieve tremito
del
labbro inferiore in un istintivo stato di
sconforto. Aporro
sospettava che fosse strano che Nemu si presentasse da lui con il
solo scopo di chiedere scusa per colpe non sue, ma non stette li ad
indagare oltre sul fatto del perchè lei si trovasse li a
chiedere il
suo perdono dopo qualche mese dall'incidente.
Era una cavia di
laboratorio. Doveva semplicemente lasciarsi studiare e vedere cosa il
dolce paparino stesse architettando questa volta.
“Io...
Prendo già
troppi medicinali...”
Una semplice riluttanza
che poteva apparire inconsueta per il soggetto presente –
succube
all'inverosimile di un padre e di un altro scienziato privi di
scrupoli – portò una lieve espressione imbronciata
all'uomo che
ancora giocava a passare il dito indice attorno al tappo cromato
della boccettina anonima.
Era strano vedere
Nemu così improvvisamente reticente nel farsi ispezionare,
magari
pure tagliare, oppure nell'assumere farmaci ancora non testati come
in quel caso. Di solito rimaneva silenziosa e si limitava unicamente
a eclissare lo sguardo verso il basso, pur rimanendo rigida e tenace
come il padre le aveva duramente insegnato.
In questo caso invece,
oltre a dargli una immagine più sofferente del solito
– quasi
rannicchiata nella poltrona con quelle sue spalle così
incassate –
nonostante fosse ancora ferma nella sua nobile postura, era quella
sua disobbedienza a far storcere il naso ad un dottore che, se non
era per scopi scientifici paterni, non capiva il perchè
della sua
visita.
Che cosa dunque l'aveva
spinta nella bocca del drago in un modo così poco discreto?
Erano domande a cui il
Grantz non prestò la doverosa attenzione al caso, non
calcolandolo
come l'inconsueto atteggiamento – ma poi neanche tanto
– di una
cavia in disperata e istintiva ricerca di una via d'uscita da un
incubo senza fine. Una speranzosa salvezza
inconscia che per
lei non sarebbe mai arrivata, dato che ad attenderla prima o poi
sarebbe sopraggiunta solo una morte con tutta probabilità
lenta e
dolorosa.
Per lui erano solo
capricci e basta, avvalorati dalla sua aspra
educazione di chi
non voleva sentirsi dire un “no” e neppure frasi
senza senso
alcuno. Almeno per Szayel stesso.
E visto che se non era
stato il padre a mandarla da lui con scuse così banali da
apparire
ridicole e derisorie agli occhi di tutti – non solo i suoi
–
forse erano appetiti ben più malsani che spronavano la
pallida
figura a concedersi a lui.
In tutti i sensi
possibili. Portandolo per questo, a sorridere con una perfidia che
avrebbe congelato persino un morto.
Se una qualunque creatura
cercava salvezza in Szayel Aporro Grantz, andava prima o poi incontro
ad un destino ben più peggiore.
Neppure lo stesso
scienziato avrebbe detto chi tra lui e Mayuri fosse il peggio del
peggio per quella povera ragazza, ma era ugualmente interessante
notare i risvolti di quella loro relazione che non
si fermava
unicamente all'imbottitura di farmaci e smembramenti vari.
Relazione... Magari
la si poteva definire anche così.
Di certo Nemu Kurotsuchi
era un delle poche donne che con regolarità –
almeno parziale –
passava dalla sua camera da letto e a volte anche a cena fuori o nel
suo stesso appartamento lussuoso.
Accidentalmente l'aveva
pure presentata a suo fratello Yylfort e alla sua attuale ragazza
–
nonché amante occasionale dello stesso scienziato
– Cirucci
Tunderwitch.
E nonostante per quei due
imbecilli dei suoi coinquilini la presenza della giovane Kurotsuchi
era un evento alquanto insolito e curioso, stranamente per Szayel era
stato un momento piuttosto divertente.
Il che era strano, visto
che normalmente avrebbe vissuto una simile situazione come la
più
profonda delle seccature esistenti. Ma anche per quel giorno, Nemu
passò nuovamente nelle sue stanze con la stessa indifferenza
apparente delle volte scorse. E forse era questo a divertirlo per
davvero.
Venendo consumata ogni
volta con un'ardore che faceva quasi paura data la follia del suo
amante, che più che amarla ogni volta – sotto
quelle lenzuola che
lasciavano il posto del profumo di lavanda con quello di corpi
aggrovigliati tra loro – era come se la divorasse
tutte le
volte possibili.
Sapeva di essere affamato
di carne così come della conoscenza in campo scientifico.
Per lui
che si trattasse del sesso più sfrenato o arrivare all'apice
di aver
compreso le funzionalità di un farmaco appena inventato,
equivaleva
all'orgasmo più assoluto.
Spesso e volentieri, sulla
pelle della ragazza sua schiava lasciava segni tangibili di morsi
fatti quasi a sangue, lasciati li apposta dall'impeto di una passione
che esigeva a volte che quasi quel rosso fluido vitale sgorgasse
fuori dalle sue sventurate prede.
Ma cosa ancor più
sbalorditiva era vedere la sua indifferenza che andava a farsi
benedire, in favore di un malsano piacere verso quei morsi e quelle
carezze passionali non certo dettate da sentimenti puri, da credere
che forse – alla fine della corsa – a Nemu magari
non dispiaceva
poi così tanto essere trattata a quel modo. Vivendo giorno
per
giorno in una perenne sindrome di Stoccolma, tanto da portarla a
sgranare gli occhi terrorizzata per ogni morso –
apparentemente –
letale, stemperato solo dalla sua stessa voce che non mostrava
affatto nessun tipo di terrore.
E anche questo a Szayel
Aporro Grantz, piaceva da morire.
“Sai che vorrei farti
una domanda?!”
Contro tutte le sue ben
calcolate aspettative, dovette per forza notare come quella ragazza
fosse per davvero più loquace del solito.
Lo scienziato sbatté
ripetutamente le stanche palpebre per mettere a fuoco una figura
femminile non meno disastrata di lui, cercando di capire cosa volesse
dire con “domanda”.
“Che tipo di domanda?”
nel mentre che pronunciò
quelle parole un po' perplesse, uno sbuffo di fumo fuoriuscì
dalle
sue labbra portandolo quasi a tossire per non aver calcolato bene il
tempo di espirazione della nicotina.
Pertanto, irritato per
quella sua stupida distrazione, decise di spegnere la sigaretta
precedentemente sfilata dalle dita della ragazza sul posacenere nero
posto sul comodino di fianco al letto.
Ad infastidirlo
ulteriormente in quelle scarse tenebre mattutine – con una
luce
spettrale che ancora filtrava dalle veneziane abbassate – ci
fu la
titubanza della sua ospite che deglutì prima di rispondergli
con
coraggio.
Non riuscendo comunque a
guardarlo negli occhi, fissando ancora una volta il soffitto anonimo.
“Se
io rimanessi
incinta... Tu mi sposeresti?”
Era una domanda strana.
Molto strana.
Tanto che lo stesso Aporro
dovette assorbirla con qualche secondo di ritardo data l'assoluta
scarsa consuetudine del quesito posto.
Si ritrovò per questo a
sbattere maggiormente le palpebre, puntellando i gomiti sull'umido
materasso e alzandosi un poco a sedere.
Sforzandosi quasi
inutilmente di mettere a fuoco la donna che ancora riposava nel suo
letto, cercò con stizza gli occhiali sul comodino alla
propria
sinistra per capire cosa quella cretina volesse
dirgli con
quelle parole assurde.
Una volta posti i candidi
occhiali sul naso – senza un certo tremore –
l'immagine di Nemu
venne finalmente messa a fuoco in tutto il suo splendore
mattutino.
Un livido nero come le
ombre che li circondavano spiccava circolare e fresco appena sopra il
seno destro della giovane, giusto nascosto lievemente dalle lenzuola
costose e stropicciate. Altri segni di morsi oltre a quello le
segnavano le spalle e pure il collo, non notati dalla giovane seppur
estremamente dolorosi.
“Che cosa? Scusa ma...
Credo che sia particolarmente poco fattibile –
iniziò a parlare
con una lieve nevrosi che lo portò ad arricciare gli angoli
della
bocca in un ghigno ironico, prima di continuare – imbottita
di
farmaci come sei dubito fortemente che tu abbia ancora
possibilità
di essere fertile.... Inoltre, non ho nessuna intenzione di
commettere l'errore di mio padre”
Nelle sue parole
lievemente aspre c'era un fondo di verità non indifferente
– che
portarono la donna ad abbassare lo sguardo quasi mortificata
–
oltre che ribadire un concetto base per lui fondamentalmente
importante.
Per quanto fosse poco
educato parlare male dei propri genitori, per lo scienziato non
esistevano limiti data la sua nota insofferenza verso la madre e il
peggio compatimento verso l'estinto padre.
Pertanto, rassicurato
dalle proprie ferme parole, il padrone di casa volle alzarsi a sedere
del tutto su di un letto sfatto e ormai non più umido,
lasciando che
le lenzuola scivolassero via dal suo torso snello fluide come
l'acqua.
Ma nel mentre che si
passava una mano tra i capelli delicati ancora tinti di un pallido
rosa acceso – un segno tangibile di voler apparire a tutti i
costi
“diverso” dagli altri – Nemu volle ancora
esprimere il proprio
pensiero personale.
Cocciuta e speranzosa,
sfidò ancora la pazienza dello scienziato suo signore ed
amante.
“Ma metti che io abbia
dei bambini da te, tu mi sposeresti per evitare uno scandalo?”
stavolta Szayel Aporro si
voltò con più intensità verso una Nemu
che guardava un soffitto
ora grigio a causa dei raggi solari mattutini, irritato per la
difficile comprensione di quelle parole per lui incomprensibili.
Non che odiasse i bambini,
solo che gli erano indifferenti e – cosa non da meno
– si sentiva
inadeguato a prestare loro attenzione.
Neppure quindici giorni fa
aveva aiutato una donna a partorire su di una lurida metropolitana,
ma ciò che pensava – ossia quasi la solita routine
del medico
improvvisato e unico capace di tirare fuori un ragno dal buco
–
andò in frantumi nell'esatto momento in cui la creatura se
la trovò
tra le braccia.
Si era sentito inadeguato
e sbagliato, per quanto quel semplice contatto avesse tirato fuori
qualcosa in lui che mai si sarebbe immaginato di provare.
Timore di sbagliare
qualcosa, paura di rompere quel bambolotto di carne, inadeguatezza di
stare accanto al prossimo. Tutte cose poi buttate giù con
una stizza
tipicamente sua, ma capaci di riaffiorare potenti a quelle domande
dettate con una piuma di ingenuità dalle creature meno pure
della
terra.
Per tanto, scostò con
rabbia le lenzuola dalle proprie gambe, deciso ad alzarsi dal letto
per darsi una sistemata nel bagno vicino al corridoio. Bastava il suo
silenzio per far capire alla Kurotsuchi che non vi erano risposte per
quella sua stupida domanda.
“Tra breve dovrò andare
al lavoro... Se vuoi puoi restare, ma non voglio vederti qui al mio
ritorno”
non stette li a scrutare
una donna dallo sguardo spento e disilluso, dandole unicamente le
spalle duro come la roccia e freddo nel timbro vocale come una
stalattite di ghiaccio.
Si diresse nudo come un
verme nel bagno poco distante la sua camera da letto, mentre una
donna sospirava piano portandosi quasi inconsciamente le mani su di
un grembo sterile e vuoto.
Il suono della seta che si
aggrovigliava tra le sue pallide dita, si perdeva e veniva a momenti
soppresso dallo scroscio incensante della doccia di un bagno con la
porta lasciata distrattamente aperta.
Un pensiero sottile il suo
– disperato senza capirne il motivo – che aveva
decisamente fatto
partire male la giornata ad uno scienziato che, a differenza della
sua deliziosa ospite, aveva fin troppi pensieri nella testa lucida di
spietate idee.
Ma che per almeno quel
giorno, videro una lenta progressione nel suo cervello a causa di
pensieri ben più inadeguati che neppure l'acqua fredda della
doccia
riuscì a mandare via.
|
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Capitolo 5 *** 5. Se questo è il tuo volere, non aprirò più bocca [Ichigo/Tatsuki][Ichigo centric] ***
Torno dopo parecchio tempo
ad aggiornare la mia raccolta con una oneshot dedicata ad Ichigo
Kurosaki e a Tatsuki Arisawa. Per chi non lo sapesse questa coppia
è
stata una tra le prime che ho apprezzato quando iniziai a leggere
Bleach. E nonostante il tanto tempo trascorso ci sono ancora molto
affezionata. Ovviamente la storia è legata alle precedenti e
ha dei
riferimenti con “giochi pericolosi”,
“malizia” e tutte le
altre della serie Raining Stones. Posso aggiungere che attualmente si
tratta dell'oneshot più pulita che mi sono concessa di
scrivere se
così si può dire. Ed i riferimenti all'ebraismo
sono strettamente
legati a “malizia”. Mi sento di dire che i generi
stavolta
trattati da me sono l'angst, l'introspettivo e il romantico.
Come ultimo questa storia
partecipa all'iniziativa di Fanworld “gift boxes
challenge” con
il prompt: Vacanze di Natale, “Cosa farai?”
5. Se
questo è il tuo volere, non aprirò più
bocca
“Cosa
farai?”
La domanda che Tatsuki
Arisawa pose al ragazzo che le sedeva dinnanzi ebbe l'effetto di un
fulmine che esplode a ciel sereno.
Gli occhi castani di
Ichigo Kurosaki – sua vecchia conoscenza di infanzia
– si
scostarono dal dépliant che la giovane gli aveva passato
circa due
minuti prima, giusto un paio di pagine che sponsorizzavano dei
videogame in offerta, guardandola interrogativo in volto senza
minimamente capire a cosa si riferiva.
Attorno a loro intanto, la
vita in quella tavola calda dal sapore squisitamente vintage anni
cinquanta continuava a correre con le frettolose ordinazioni di
frappè e di panini caldi.
Nel mentre che aspettavano
le loro ordinazioni i due ragazzi si erano messi a chiacchierare del
più e del meno – passatempi,
università, lavoro – ma ecco che
la situazione per il futuro architetto stava per cambiare
drasticamente.
“Cosa? – alzò
lievemente un sopracciglio nel porre la domanda, esibendo
l'espressione più ebete e involontaria che possedesse
– scusa ma
non ti seguo proprio!”
“Le vacanze di Natale,
Ichigo – la giovane dagli ispidi capelli neri
sbuffò, guardandolo
un po' storto – cosa hai intenzione di fare durante le
vacanze?!”
quella per il giovane
Kurosaki era effettivamente stata una domanda a trabocchetto. Difatti
abbandonata l'espressione per così dire stupita, si vide
costretto a
rabbuiarsi un poco, facendo notare alla giovane donna cosa ci fosse
calcato nella sua testa ramata quel sabato pomeriggio.
“Questa non ti dice
niente, eh?!”
“Oh piantala! La kippah
non è mai stato un problema per te nel venire a festeggiare
il
Natale a casa mia!”
il fatto che Ichigo fosse
un membro del popolo ebraico e Tatsuki di famiglia cristiana non
praticante non era mai stato un problema nel frequentarsi o stringere
amicizie. La città in cui vivevano i giovani universitari
non era
nota per pregiudizi marcati tra i vari popoli – forse anche
per il
fatto che era piccola e bene o male tranquilla a differenza di
città
più grandi e caotiche – quindi la ragazza non
capiva l'impuntarsi
di Ichigo su cose come, ultimamente parlando tra l'altro, il passare
le meritate vacanze assieme e cercare di rilassarsi il più
possibile
fosse una questione quasi impossibile da realizzarsi.
Era pur vero che pure
nella famiglia di pel di carota (testardo e cocciuto) festeggiare un
giorno che nulla aveva a che fare con le loro tradizioni non era mai
stato un problema. La sua stessa amata madre era solita fare l'albero
di Natale nel grande soggiorno facendosi aiutare da lui e dalle sue
due sorelline.
Alle volte ci si metteva
pure quell'impiastro di suo padre. Anche se combinava spesso guai,
finchè Masaki era ancora in vita si sorvolava pure su quello
e quei
giorni freddi e carichi di festa erano comunque passati in modo
speciale.
Perchè fondamentalmente
trascorsi in famiglia.
Dal giorno della morte
della madre per Ichigo Kurosaki erano cambiate parecchie cose.
Si era ritrovato con
l'innocenza letteralmente perduta e costretto a maturare
così in
fretta per i suoi otto anni di vita, da isolarsi un po' per volta dal
mondo infantile che lo circondava a scuola e in famiglia per prendere
le redini di una vita troppo in fretta sbocciata.
Benché lui nulla
centrasse con la morte di Masaki, se solo non avesse dato retta ad un
capriccio interiore che manco più ricordava minuziosamente
nel
dettaglio, non poteva – non riusciva – non darsi la
colpa di
tutto quell'accaduto.
Perchè se solo non avesse
attraversato quella strada maledetta per Dio sa solo cosa ormai, lei
non lo avrebbe rincorso e non si sarebbe fatta schiacciare come una
bambola di stracci da un'auto che agli occhi di un bambino piccolo
–
non più innocente – pareva grande come grandi sono
le fauci del
drago.
Per lui il Natale perse di
significato immediatamente. E per molti anni non cedette alla
tentazione di distruggere l'albero natalizio solo perchè le
sue
sorelle – Yuzu e Karin – e più in
generale tutta la sua famiglia
ancora credevano nel significato che doveva dare. Perchè in
fin dei
conti era giusto così e la stessa Masaki avrebbe voluto la
loro
serenità più di qualunque altra cosa.
Ma c'era un'altra cosa che
per Ichigo simboleggiava odio e amore al contempo.
In quanto membro di una
famiglia ebraica il presepe non era mai stato costruito in casa sua.
Non che ci fosse un ripudio verso quell'affascinante composizione, ma
giustamente la sensazione che trasudava in famiglia su quella
questione era di istintivo disagio. E per ovvio orgoglio, per i suoi
stessi genitori andava bene così.
In compenso era permesso
ai più piccoli di rifarsi gli occhi sulle graziose statuine.
E quello che Tatsuki
realizzava in casa propria era sempre stato una meraviglia per il
giovanotto corrucciato. Aveva sempre trovato splendido che in casa
dell'amica venisse costruito una intera città in miniatura,
alcune
delle statuine tra l'altro si muovevano pure nell'atto di tagliare la
legna o fare del pane, e per di più non si trattavano di
quelle di
plastica vendute a basso costo nei supermercati ma statuine
realizzate in terracotta e provenienti dall'Italia.
Ma era l'interno della
capanna che i suoi occhi di bambino si posavano maggiormente. Li,
all'interno di un minuscolo spazio accogliente, c'era una famiglia il
cui messaggio primo che il piccolo Ichigo comprendeva era quello
dell'amore assoluto.
Per un certo verso quelle
statuine gli rimembravano la sua famiglia, ed era per tale motivo che
le vacanze di natale se le passava spesso e volentieri a casa
dell'amica – oltre che con le sue due sorelline che spesso
portava
con se – anche dopo la tragedia che lo aveva colpito.
Perchè
nonostante tutto, anche se iniziò a detestare pure quello,
non
poteva non vederci del buono nel significato che trapelava da quella
composizione.
Schiarendosi la mente con
un veloce battito di ciglia – la domanda di Tatsuki lo aveva
portato a rivangare fin troppi ricordi – scosse velocemente
la
testa cercando poi di essere il più chiaro possibile.
“N-non è per quello
maledizione! Io non voglio venire a fare le vacanze a casa tua!
C-cioè nel senso...”
“Nel senso che hai altro
a cui pensare piuttosto che passare del tempo con la tua donna?
Spiegati meglio di grazia!”
le parole che Tatsuki
pronunciò bloccarono in tal modo le traballanti
giustificazioni del
suo fidanzato, porgendogli nell'atto di parlare un sorrisetto nervoso
nel mentre che finalmente – dopo quella che parve una
interminabile
attesa – vennero loro serviti i panini precedentemente
ordinati.
La giovane Arisawa si
strinse maggiormente nella felpa sportiva in un abbraccio personale e
risentito, mentre Ichigo allungava il proprio broncio frustrato da
non riuscire a trovare le parole adatte.
Ma non riuscendo a a
picconare il proprio orgoglio come si deve – dovuta anche al
fatto
che aveva in mente una cosa per lui totalmente imbarazzante da
chiedere per quelle vacanze di Natale – furono nuovamente le
parole
della giovane a rispondere seccata.
Anzi, il tono che la
karateka professionista usò, fu quantomeno lapidario.
“Molto bene allora... Se
questo è il tuo volere, non aprirò più
bocca”
Il momento esatto in cui
Ichigo Kurosaki si accorse che Tatsuki Arisawa non era più
una
semplice amica di infanzia, non poteva con precisione svizzera
ricordarselo.
Tuttavia, era sicuro che
da quando la madre – che lui era sicuro di aver ucciso
–
era scomparsa in modo drammatico, quella bambina dall'animo forte
aveva assunto un ruolo fondamentale nella sua crescita.
Si conoscevano dall'età
di quattro anni – da quando andavano in palestra assieme e
luogo
quello dove lei ripetutamente lo metteva al tappeto – e la
considerava come una delle poche fidate amiche che aveva.
A Tatsuki infatti bastava
davvero poco per comprendere Ichigo. E nonostante tutta l'apparente
scontrosità che possedeva, fu con un affetto sorprendente
che fece
sentire l'amico in pace con se stesso nei pochi momenti in cui
stavano assieme. Continuando a chiedergli – quasi
imponendogli –
di passare a casa sua durante le vacanze natalizie per ammirare il
tanto spettacolare presepe, sapeva sempre come badare a lui
leggendogli dentro in una maniera che per lo stesso Ichigo era
incredibile.
Tuttavia negli anni al
ragazzo era subentrata una ossessione non indifferente di proteggere
la propria famiglia e gli amici più cari. Un sentimento
quanto mai
nobile questo era vero, nato nel tempo dopo la morte della madre che
avrebbe dovuto proteggere e non condannare,
ma che
tuttavia in alcuni momenti della sua adolescenza aveva raggiunto
momenti di pura ossessione.
Se non ci fosse stata lei
anche in quei frangenti disastrosi dovuti agli ormoni che iniziano a
scorrere nelle vene e nel cervello e nella credenza di poter essere
invincibile, forse si sarebbe fatto davvero del male credendo di
essere nel giusto. Era vero, lui aveva sempre protetto
dall'età di
otto anni le sue sorelle dai bambini prepotenti e dagli incidenti
domestici.
Ma più gli anni passavano
e più per Ichigo la responsabilità di proteggere
tutti diveniva
sempre più una fatica immane. Sia per il suo fisico che,
soprattutto, per il suo cervello.
Furono i pugni della
Arisawa per primi a riportargli un po' di senno in quella sua testa
dura come il marmo. Furono loro, accompagnate poi dalle voci degli
amici che gli erano più cari.
E cosa non meno
importante, aveva notato che Tatsuki non aveva mai
avuto
bisogno di essere protetta.
Sia perchè era
fisicamente in gamba da tenere a bada anche più di un
teppistello –
non per niente era cintura nera e insegnante nella palestra che
frequentavano da bambini – sia perchè non era lei
ad essere
protetta da lui, ma era lui che fin da piccolo era stato protetto da
quella che era stata un punto di riferimento essenziale.
Ciò che rappresentò
Tatsuki col tempo – per un Ichigo che usciva da una
turbolenta
adolescenza – fu qualcosa di simile ad una piccola oasi di
serenità
per un ragazzo con l'istintivo bisogno di proteggere chi ama.
Lei era una certezza vera
– palpabile – che gli dava una ritrovata sicurezza
in tutta la
sua vita fin troppo provata. Fu poi un percorso lungo quello che li
portò definitivamente ad avvicinarsi a quel modo.
Un passo alla volta, anno
dopo anno, per capire che oltre l'amicizia c'era qualcosa che li
univa in un modo tutto speciale. Certo, Ichigo non ricordava il
momento esatto in cui la sua ragazza arrossì in un misto di
imbarazzo e orgoglio alle sue parole che parlavano – in un
modo
tutto suo e del tutto impastato con altri argomenti perchè
troppo
imbarazzante parlare di amore e sdolcinatezze varie – ma
ricordò
il suo pugno poi e le sue parole in seguito.
“Stupido,
ci sei
arrivato solo adesso?!”
una situazione che lo
avrebbe portato sicuramente a ridere di sincero gusto – non
si
sarebbe mai aspettato che persino lei avrebbe maturato simili
sentimenti nel tempo – ma che accadde solo interiormente
anche se
come dichiarazione d'amore, la prima in assoluto per lui, fu un
autentico fiasco e i due non si parlarono per quasi una settimana.
Ma fu solo questione di
pochi giorni, perchè poi ebbero modo di chiarirsi e di
vivere la
vita in un modo drasticamente differente.
Ma era ovvio che per
Kurosaki quella che stava affrontando in quel fatidico momento era
più ardua della loro “dichiarazione
d'amore” avvenuta neanche
tre anni prima.
Deglutì cercando di
scartare qualunque altra cazzata da poterle dire per aggirare il vero
motivo di quell'appuntamento in un posto carino ma poco romantico
–
nessuno dei due tra l'altro amava i luoghi da diabete –
decretando
che forse era il caso di sbatterle in faccia tutta la realtà.
La scusa delle sue origini
ebraiche era stata una colossale cazzata, degna di lui tra l'altro,
di evitare quelle dannatissime vacanze per un solo semplice motivo.
Schiarendosi difatti la
voce, e scrutandola intensamente fin quasi a darle disagio e
quantomeno a farle togliere quell'espressione imbronciata da strega,
decretò il motivo della sua reticenza.
“Tatsuki, io non voglio
semplicemente passare le vacanze con te... Ma voglio vivere
con te”
Fu un colpo inaspettato
persino per un animo forte e impavido come quello della Arisawa,
perchè i suoi grandi occhi scuri si sgranarono non tanto per
il tono
greve che il proprio fidanzato usò, quanto per la stessa
importanza
di aver detto una cosa simile.
La giovane karateka aveva
intuito che da un po' di tempo a quella parte nella villetta schiera
in cui era andato a stare per essere più vicino
all'università,
condivisa tra l'altro da degli autentici animali, aveva iniziato ad
essere un luogo di pura insofferenza per l'uomo che aveva imparato ad
amare col tempo. E anche se era vero che da un po' di tempo la
soluzione di andare a convivere assieme era stata pensata da entrambi
anche se non detta mai esplicitamente, la reazione che coinvolse la
giovane non fu poi molto dissimile dalla loro dichiarazione d'amore
scalcinata e pericolosa. Rossa in volto un po' per l'emozione e un
po' per il grande orgoglio che la caratterizzava, Tatsuki si rivolse
al ragazzo sbuffando parole fin troppo note per le sue orecchie e per
uno sguardo ritornato ebete come in principio di tutta quella loro
discussione.
“Ci
sei arrivato solo
adesso, eh?!”
Forse entrambi non
avrebbero conservato a lungo andare quel nuovo episodio della loro
vita, ma i clienti di quella paninoteca se lo sarebbero ricordati
molto a lungo.
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