Save me with a kiss.

di itsmemarss
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 00 - prologo ***
Capitolo 2: *** 01 - Incontri, o meglio scontri. ***
Capitolo 3: *** 02 - Casa per l'ultima volta. ***



Capitolo 1
*** 00 - prologo ***


00
prologo

 



Quando l’amore è destino, difficilmente è possibile sfuggirgli. Qualunque cosa tu faccia, in qualunque posto tu possa cercare di scappare, lui ti troverà. Sempre e comunque.
Perché è qualcosa di misterioso. Non ha né forma, né peso. Non se ne può misurare la grandezza. Anche se nessuno l’ha mai visto, non si può negare che esista e che, spesso, faccia soffrire.
S’insinua nel tuo cuore, vi mette radici e poi… è impossibile liberarsene.
Come dei ricordi. Perché anche quando finisce, l’amore non accetta di andarsene del tutto.
Anzi, non contento di ciò che ha appena fatto, ti lascia un piccolo pezzo di sé. E anche quando sarà passato tanto tempo, lui sarà ancora lì.
Qualunque scelta, qualunque modo tu adotterai, il ricordo continuerà a tormentarti.
Non sempre, però, è un male. Perché anche dal ricordo più brutto, si può imparare qualcosa di utile. Qualcosa da riutilizzare in futuro per evitare che il tuo cuore si spezzi ancora.
Perché quando una strada si chiude, mille altre ne appaiono da seguire.
Perché per trovare il principe azzurro, bisogna prima baciare mille e più ranocchi.
Perché la strada più facile, non da soddisfazioni.
E saranno le nostre nuove scelte a decidere il nostro fato. Non qualcun altro.
La vita stessa è fatta di una serie di decisioni. Giuste o sbagliate che siano.
L’importante è capire quando una viene dal cuore e quando no.

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Capitolo 2
*** 01 - Incontri, o meglio scontri. ***


01
-incontri, o meglio scontri-


Aprii gli occhi di scatto, quando qualcosa mi scosse la spalla. O meglio qualcuno.
Per poco non urlai contro l’assistente di volo – una donna sulla trentina, le lunghe ciglia fresche di mascara, gli occhi azzurri che mi fissavano attenti e i capelli biondi raccolti in uno chignon sulla nuca – quasi avessi visto un fantasma.
<< Scusi, ma stiamo per atterrare. Potrebbe allacciarsi la cintura? >> mi chiese, cordiale, indicando il lampeggiante giallo sopra la mia testa. Annuii e strinsi forte le due estremità d’acciaio, cercando di non peggiorare la situazione e limitandomi a ringraziarla.
La voce del comandante si fece sentire poco dopo, invitando tutti a spegnere eventuali cellulari e annunciando l’imminente atterraggio all’aeroporto John F. Kennedy. Quando l’interfono si spense, tornò il brusio di voci sovrapposte.
Sospirai e mi accucciai contro il cuscino, preparandomi all’abbassamento progressivo di quota. Non mi era mai piaciuto volare granché, ma era uno dei tanti prezzi da pagare pur di poter vedere il mondo. E viaggiare era la cosa che amavo di più. Dopo la cioccolata, sia chiaro.
Quando varcavo i confini di un altro paese, città o continente che fosse mi sentivo felice: un misto di euforia e libertà. Era strano, però, da ammettere a chiunque non fosse nella mia mente. L’unica volta che avevo provato a confidarmi con mia madre, si era messa a polemizzare su quanto i paesi stranieri fossero incivili, sporchi e regrediti. Forse era perché non aveva mai messo piede fuori da New York. Bah, non sapeva cosa si perdeva. Le volevo comunque bene, però.
Anzi, non vedevo l’ora di riabbracciare tutta la mia famiglia – mamma, papà e Hunter compreso. Chissà che cosa stavano combinando adesso…
La mia vicina di posto – una bambina all’incirca di nove anni che viaggiava da sola, sotto attenta attenzione delle hostess – cominciò ad agitarsi, impaziente di vedere l’atterraggio.
A un certo punto si sporse verso di me sdraiando misi quasi addosso. Non riuscii a dire niente e la lasciai fare. Non mi erano mai piaciuti i bambini, ma non riuscii a trattenermi davanti alle due finestrelle vuote del suo sorriso timido. Mi ricordava un po’ Hunt alla sua età… non che mio fratello fosse una femmina, eh! Aveva, però, anche lui questa mania di prendersi ogni libertà con gli sconosciuti. Chessò, avrei potuto anche essere un’assassina o un maniaco.
Passai così un buon quarto d’ora a cercare di evitare che il leccalecca della bambina mi finisse fra i capelli, perdendomi il gusto di guardare fuori dall’oblò il delinearsi di grattacieli sull’orizzonte.
Quando le ruote si schiantarono contro l’asfalto grigio della pista e i freni fecero il loro dovere, potei sospirare di sollievo e togliermi quella peste bionda di dosso.
Raccolsi le mie cose, mi misi la borsa a tracolla in spalla e mi avviai verso la punta dell’aereo.
Fui veloce ed evitai la coda degli altri passeggeri, dirigendomi immediatamente verso l’uscita.
Poi, finalmente, riuscii di nuovo a sentire l’aria sferzarmi il viso. Accolsi quella sensazione di familiare con un sorriso. In questo momento, si poteva percepire la brezza proveniente dall’Atlantico, misto ai gas di scarico degli altri aerei.
Dopo aver passato tre mesi in Europa, ero contenta persino di risentire lo smog, purché fosse di casa.
Durò tutto solo qualche secondo, prima di rimettermi in marcia. Attraversai in fretta il piccolo corridoio metallico e mi ritrovai al chiuso.
L’aria condizionata andava alla grande, ma non copriva del tutto quell’odore di persone e luogo antisettico che di solito caratterizza qualunque luogo d’incrocio di tanta gente.
Dopo aver preso le mie valigie – non troppe, preferivo viaggiare leggera – mi diressi verso le porte scorrevoli e poi dritta verso l’area di sosta dei taxi.
Non feci fatica a trovarne uno vuoto, senza nemmeno dover fischiare. Qualunque newyorkese, fin da piccolo, è capace di farlo. Persino con l’indice e il medio.
L’uomo che mi aiutò a caricare i bagagli indossava una maglietta da turista, una di quelle con sopra la statua della libertà sorridente e con i pollici rivolti verso l’alto, e portava un capellino con la visiera al contrario. Si presentò come Paco, mostrando un sorriso brillante.
Il viaggio dall’aeroporto alla città durò quasi un’oretta, soprattutto a causa del traffico pomeridiano. D’altro canto, però, Paco fu un’ottima compagnia. Avessi passato ancora un’ora con lui, saremmo diventati amici. Era un tipo simpatico e cordiale, per niente ficcanaso.
Passammo la periferia e ci dirigemmo verso il centro, dove mia madre abitava in un elegante palazzo dai mattoni bianchi e le porte girevoli. Assomigliava più a un hotel che a una casa vera e propria. C’era persino il portiere, Paul, che per altro mi aiutò a caricare le valigie sull’ascensore.
Prima di andarmene, però, oltre a pagare il conto del viaggio, diedi a Paco anche una bella mancia. In fondo, se l’era guadagnata.


* * *
 

Quando aprii la porta, per poco non rimasi soffocata dall’abbraccio super di mia madre. Lucinda, la nostra governante di famiglia e anche mia ex tata, se ne stava in disparte, ridacchiando sotto i baffi per la scena.
Dopo qualche minuto – che mi sembrò eterno – mamma si staccò da me e mi squadrò per bene, tenendomi le mani salde sulle spalle. << Tesoro… non hai un bell’aspetto. E dov’è il tuo rag- >>
<< Mamma! Anch’io sono felice di vederti >> esclamai, interrompendola prima che potesse finire la frase. Non le avevo parlato della mia rottura con Matt, né l’avrei fatto in futuro. O almeno non per il momento.
Le mostrai il migliore dei miei sorrisi a trecentossessanta denti e presi a parlare dell’unico argomento che le importava sul serio, facendomi largo nell’enorme soggiorno che seguiva l’ingresso. << Hunter? >> chiesi, voltandomi verso di lei con aria innocente.
<< Ah, quello screanzato. Gli avevo detto di arrivare in orario, ma… è sempre occupato con quel suo gruppetto di amici, che per altro non sembrano essere dei pochi di buono. Hanno sempre delle facce… e devi sapere che… >> e blablabla. Bingo. Tirare in ballo mio fratello, equivaleva a salvarmi la pelle ogni qualvolta che dovevo evitare di parlare di argomenti imbarazzanti o nocivi.
Paraurti della macchina di papà sfondato contro un palo, ad esempio? Hunter.
Ragazzo che mi riaccompagna a casa dopo una notte passata fuori? Hunter.
Forse potrei essere incinta, secondo alcuni pettegolezzi del piccolo club che frequenta mia madre? Hunter.
Povero, piccolo, il mio fratellino. Fin da quando è nato, è sempre stato il capo espiatorio di tutti. Non c’è perciò da biasimarlo se, appena può, approfitta per starsene lontano da mamma il più lungo possibile. Soprattutto da quando ha compiuto diciotto anni e ha trovato un appartamento in qualche piccolo quartiere di Brooklyn o giù di lì. Di solito riesco a vederlo solo quando torno a casa o nei periodi di festa, come Natale o il Ringraziamento. Raramente riesce a salvarsi anche da quest’ultime.
Per il resto, si poteva ammirarlo solo nelle foto incorniciate alle pareti colo crema di casa.

 

* * *
 

Non erano nemmeno le tre del pomeriggio e già stavo morendi di sonno. Me ne andai quindi in camera mia, con la scusa di dover sistemare le mie cose dalle valigie all’armadio.
Naturalmente mia madre cercò di farmi cambiare idea, di accompagnarla al Circolo per fare la conoscenza di non so quale vecchia signora imbacuccata in pellicce estive… ma riuscii a farla desistere dopo nemmeno dieci minuti.
Quando sentii il clic della porta che si chiudeva e delle chiavi che giravano nella serratura, potei finalmente chiudere gli occhi e…
<< Signorina Prescott? >>. Per poco non mi venne un colpo, il secondo in tutta la giornata, mentre la voce di Lucinda mi destava da chissà quale fantasia a occhi chiusi. Aprii gli occhi di scatto e mi ritrovai i suoi occhi che mi guardavano socchiusi.
<< Ah! Sei tu Lu’ >> risposi con il fiatone << Potevi bussare >> dissi, guardandola con aria fintamente sveglia. Tanto, ero certa che non avrebbe funzionato con lei, ma tant’è.
<< L’ho fatto signorina >>
<< Oh. Okay. Beh, cosa c’è? >> chiesi, lisciando con noncuranza le coperte color lavanda.
<< C’è qualcuno al telefono per lei >>.
Sulle prime pensai a Matt e deglutii pesantemente, poi realizzai che non gli avevo mai dato il numero della casa dei miei. Sospirai di sollievo e mi alzai dal letto.
<< E’ un certo… signor Wakofield. Perdoni la mia pronuncia, Wakefield >> ripetè lei, cercando di non confondersi con la pronuncia spagnola.
Non le diedi modo di dire altro e corsi a prendere la cornetta nell’ufficio che mio padre usava, prima di andare in pensione, per ricevere i suoi clienti.

 

* * *
 

<< Pronto? >> dissi nel ricevitore, mentre sentivo che mi tremavano le mani per l’agitazione. Mi sedetti sulla poltrona di pelle, all’altro capo della scrivania e incrocia le gambe sulla superficie in legno di quercia.
<< Pronto? Signorina Prescott? Sono il proprietario dell’appartamento che ha visto sul giornale. La volevo informare che può venire a vedere la casa oggi >> mi rispose la voce di un ragazzo. Rimasi un po’ interdetta, mi sarei quasi aspettata un vecchio e invece questo qua sembrava avere quasi la mia stessa età. Almeno di voce…
Cercai di trattenere l’euforia. << Sul serio? Per che ora? >>
<< Le andrebbe bene verso le sei? Senno potrebbe anche passare- >>
<< No, no. Va benissimo anche così >> lo interruppi, quasi come fossi una quindicenne davanti alla richiesta di uscire del capitano di football.
<< Okay, allora a più tardi >> rispose l’uomo dall’alra parte della cornetta.
<< Arrivederci >> dissi e misi giù.
Avrei voluto urlare per la gioia. L’appartamento in questione era più della casa dei sogni che qualunque bambina poteva aver sognato di abitare nella sua infanzia. Equivaleva all’appartamento dello stesso Principe Azzurro. Senza Principe incluso, naturalmente.
E domani l’avrei finalmente vista con i miei occhi! Se la trattazione avesse dato i suoi frutti… hasta la vista casa di Matt e bonjour nuova vita.

 

* * *
 

Ero talmente emozionata, che non riuscii a resistere in casa per più di un’ora.
Così raccattai dalle valigie un paio di pantaloncini, una camicietta a quadri e un paio di sandali. Per essere primavera, si stava bene, ma io ero totalmente esagerata quando si trattava di stagioni. Non avevo il minimo senso pratico, così sceglievo le cose da mettere in base all’umore e non di certo al termometro.
Per finire, presi un vecchio cappello di paglia di mia madre e me lo sistemai in testa.
Erano le quattro esatte, quando mi chiusi la porta di casa alle spalle, sotto lo sguardo di disapprovazione di Lucinda, che avrebbe dovuto sistemare le mie cose al posto mio.
Povera Lu’… ma mia avrebbe sopportato ancora per poco.

 

* * *
 

New York era da sempre stata la mia città. Ormai ci vivevo da quando ne avevo memoria e conoscevo le sue strade come le mie tasche. O almeno avrei dovuto, perché il mio senso di orientamento era pari a zero – tale e quale la temperatura invernale della Groellandia – e finii per perdermi in mezzo a Times Square.
Cercai alla belle e meglio di orientarmi, ma dopo un’oretta o due mi arresi e decisi di prendermi una pausa.
Approfittai di un chiosco di gelati all’angolo tra Central Park – almeno quello sapevo riconoscerlo – e una piccola viuzza trafficata per chiedere informazioni e anche riempirmi lo stomaco.
Secondo l’orologio erano le cinque passate e il mio stomaco non toccava cibo da mezziogiorno.
Così ordinai un enorme cono gelato al cioccolato e alla fragola e ascoltai attentamente le indicazioni del gelataio. Almeno in quello ero brava: riuscivo a tenere a memoria un sacco di cose. Caratteristica di famiglia.
Scoprii di essere molto più vicino alla mia destinazione, di quanto pensassi. Solo pochi isolati mi dividevano, infatti, dalla via in cui – presto? – avrei abitato.
Feci cadere un paio di monetine nella mano dell’uomo paffuto, vestito con un grembiule bianco, e lo ringraziai.
Tutta contenta, il sorriso a novantadue denti e gli occhi chiusi, mi preparai ad addentare la delizia che tenevo in mano. Pochi istanti dopo mi accorsi, però, con disappunto che la mia lingua brancolava nel vuoto.
Fui così costretta ad aprire gli occhi e mi ritrovai a fissare il mio gelato. O almeno quello che ne restava, mentre un grosso cane si occupava di pulirlo – o meglio leccarlo – via dal terreno grigio del marciapiede. Addio gelato. Spero che andrai nel paradiso dei dolci… okay, il basso tasso di glicemia mi stava cominciando a dare alla testa.
<< Accidenti! Mi dispiace tanto. Mi è sfuggito di mano il guinzaglio e non sono riuscito a rincorrere abbastanza in fretta Charlie, cioè il mio cane. Sai, lui adora il gelataio e… >> si fermò per qualche secondo a guardarmi, forse non vedendomi reagire. In effetti, stavo ancora fissando il mio cono, spappolato sull’asfalto. << … ehm, non ti ho visto… tutto bene? Se vuoi, posso ricomprartene un altro. Voglio dire… >> continuò lui, passandosi una mano tra i capelli, leggermente preoccupato.
Alzai lo sguardo, pronta a fronteggiare quello screanzato di un assassino di gelati, quando incontrai un paio di occhi nocciola e le parole mi morirono in bocca. Letteralmente.
Qualunque cosa volessi rispondere, fu annientata dall’espressione del suo viso. Beh, anche dal suo visto stesso. Cioè, insomma, beh. Okay, in quel momento non sapevo proprio cosa dire, nemmeno alla mia testa.
Continuava a fissarmi in attesa di una mia risposta. Le sopracciglia leggermente arcuate verso l’alto, lo sguardo da cucciolo innocente, il mezzo sorriso che mi stava rivolgendo. Era chiaro, quel ragazzo mi stava facendo morire e non lo conoscevo nemmeno.
<< Se lo vuoi davvero, v-va bene… >> biascicai, cercando di richiudere la bocca.
<< Okay! >> esclamò, illuminandosi tutto. << Allora due coni gelato, identici a quello che aveva ordinato prima la signorina qui presente >> disse poi, rivolto al gelataio, il quale sorrise spostando prima lo sguardo sul ragazzo e poi su di me.
<< Comunque… io sono Liam, piacere >> si presentò, appoggiandosi al baracchino dei gelati e continuando a fissarmi. Io non fui da meno, sebbene cercassi ogni tanto di distogliere lo sguardo. Proprio in uno di quei – rari – momenti, mi accorsi che il suo cane stava cercando assiduamente di accoppiarsi con la mia gamba.
<< Ehm, piacere di conoscerti, ma… il tuo cane… >> cercai di dire.
<< C’è qualche problema? >> chiese lui, perplesso.
Risposi indicando con un cenno dell’indice il labrador a pelo lungo dorato che si stava allegramente divertendo a muoversi su e giù.
Lui seguì il mio gesto e sembrò riprendersi da una transe. << Oh, cavolo. Charlie! Charlie, lascia stare la gamba di questa ragazza. Suvvia, da bravo. Charlie! >> Mentre Ian cercava di far desistere il suo cane, io me la risi alla grande. Erano davvero carini. Mi chiesi persino se non fosse una tattica che usava di solito per accalappiare le ragazze. Di una cosa, però, ero certa: con me stava funzionando alla grande. Sebbene l’idea di quello che stava succedendo ai piani bassi, non mi entusiasmasse più di tanto.
<< Scusa, non so nemmeno come sia possibile. Di solito non fa così… >> disse Ian poco dopo, riprendendo il controllo del suo fido e arrotolandosi più volte il guinzaglio intorno al polso.
<< Non fa niente… rimane lo stesso un bellissimo cane >> E tu un magnifico padrone, pensai guardando il ragazzo dagli occhi color cioccolato.
<< Ecco i vostri gelati, ragazzi. Buon appetito >> ci augurò il gelataio, porgendoci i due coni.
Ian pagò con una banconota e non pretese indietro il resto. Poi, tirandosi indietro i capelli con la mano libera, tornò a sorridermi. Anche i capelli erano marroni, ma di una tonalità più scura.
<< Beh, grazie mille per il gelato. C-ciao! >> dissi all’improvviso, dandogli le spalle e cominciando a camminare verso la meta del mio appuntamento delle sei con il padrone di casa. Okay, se fossi rimasta lì a fissarlo ancora per molto, mi sarebbe venuta la bava alla bocca… e poi mi ero mollata con Matt da nemmeno ventiquattr’ore. Va bene non essersela presa, ma così sarei stata a dir poco menefreghista totale. In fondo lo avevo frequentato per ben sei mesi. Sei!
<< Aspetta! Non so ancora il tuo nome >> mi fermai nel sentire di nuovo la sua voce. Dannata debolezza… strinsi i pugni e cercai di ridarmi un contengno, tanto per non sembrare una piccola adolescente dagli ormoni in subbuglio.
Voltai la testa lentamente. << E’ Leah >> risposi, sorridendo debolmente. << Ora, scusa, ma devo scappare! >> e corsi verso il semaforo, il quale rischiava di diventare pericolosamente rosso e se fossi rimasta ancora in sua compagnia… beh, avrei finito per dare retta agli ormoni.


ANGOLO AUTRICE.
Okay, finalmente sono riuscita a postare il primo capitolo. Più che altro perchè ero molto indecisa su come suddividere i capitoli.
Ma alla fine ce l'ho fatta a scegliere e quindi eccomi qua *smile* Per il resto... non ho molto altro da dire. Spero solo che non deluda chi abbia messo questa storia fra le seguite! Al prossimo aggiornamento che spero sia presto :D

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Capitolo 3
*** 02 - Casa per l'ultima volta. ***


02


Qualche decina di minuti dopo, mi trovavo davanti alla facciata in mattoni rossi di una casa. Quella casa, per l’esattezza, che si trovava tra la 79esima passante per Amsterdam e Columbus Avenue. A diversi isolati dall’Upper East Side, dove viveva mia madre. Una cosa – certamente – positiva.
L’architettura era quella tipica dei vecchi palazzi newyorkesi, risalenti ai primi anni del Novecento.
Dovevano essere poco più di sei piani, ma mi bastava il fatto, che per guardare la mia finestra, il mio naso dovesse puntare dritto verso le nuvole.
Premetti il tasto del citofono sotto il nome Wakefield e, senza nemmeno che ci fosse bisogno di parlare, il portone si aprì. Evidentemente non aspettava che me.
Subito dopo il portone, oltre un atrio dal pavimento decorato a mosaici, c’era l’ascensore. Doveva risalire anch’esso alla costruzione originaria e non aveva subito molti restauri da allora.
Consisteva, infatti, in una specie di porta pacchi gigante con le sole inferriate nere a evitare di cadere nel cunicolo dei cavi.
Pigiai il sesto piano e le porte cominciarono a chiudersi, quando sentii la voce di qualcuno.
<< Aspetta! Aspetta… >> intuii quello che stava succedendo e misi una mano davanti al sensore.
La proprietaria della voce arrivò poco dopo, tutta trafelata. Sembrava quasi che avesse appena corso una maratona.
<< Grazie, davvero >> mi disse con il fiatone. Si appoggiò alla parete alla mia sinistra e gettò a terra la borsa. Nel frattempo le porte si richiusero e l’ascensore cominciò a salire. Tra le grate, però, scorsi un’altra figura, questa volta maschile. << E’ il mio ex. Stavo correndo per quello. Devi vedere come ha cercato di seguirmi… fin dal posto dove lavoro io. Quell’uomo. E’ una piattola vivente >> continuò la ragazza, forse notando la mia occhiata perplessa.
<< Ne so qualcosa >> mormorai.
<< Anche tu problemi con gli ex? >> mi chiese e annuii. Ridemmo entrambe, ognuna con un’immagine in testa. La mia rappresentava Matt, vestito come se fosse appena uscito dal letto, che correva per fermare l’aereo e veniva placcato da due uomini in abiti scuri. Dovevo ammettere, che non l’aveva presa poi così bene.
<< Comunque io sono Poppy >> disse lei, porgendomi la mano. Gli occhi azzurri che mi fissavano curiosi, i capelli legati in una coda alta. Portava un vestito a fiori e degli stivaletti di cuoio. Doveva avere la mia età.
<< Leah, piacere >> risposi di rimando, ricambiando la stretta.
Quando l’ascensore si fermò al sesto, scendemmo entrambe. Prima lei, poi io.
<< Ti sei appena trasferita, per caso? >> annuii. << Beh, io sono nella 308, se vuoi venire a spettegolare di uomini ultra appiccicosi >> prese qualcosa dalla borsa e aprì la porta. << Alla prossima allora! >>, con un ultimo cenno della mano, scomparì dietro la porta.
Fu solo in quel momento, quando sentii un leggero colpo di tosse, che notai che c’era qualcuno  appoggiato alla parete fuori dall’ascensore.
Era un ragazzo, le mani in tasca, la camicia bianca fuori dai pantaloni e con le maniche arrotolate sopra i gomiti. I jeans erano più larghi di una taglia. Appena incrociai il suo sguardo, mi fece un mezzo sorriso.
<< Prescott? >> chiese, facendomi cenno con il mento. Una leggera barba cresceva incolta lungo il suo profilo. Non gli dava, però, un’aria trasandata ma piuttosto… sexy. Frenai sul nascere le mie fantasie mentali per quello sconosciuto. Annuii e si staccò dal muro, porgendomi la mano.
<< Sono Ian, il proprietario dell’appartamento che vorrebbe affittare >> si presentò il ragazzo. Aveva i capelli neri, leggermente spettinati, che gli ricadevano sulla fronte. Gli occhi erano invece erano tutto il contrario di quella zazzera bohémien, di un grigio tanto chiaro da sembrare finto. Innaturale. Forse usava delle lenti a contatto…
<< Leah, piacere di conoscerla >> risposi, stringendogli la mano.
<< Il piacere è tutto mio. Se ora mi vuole seguire… >> disse, dandomi le spalle e cominciando a camminare lungo il corridoio dal pavimento coperto di moquet rossa.
 
* * *
 
Ian si fermò davanti all’ultima porta del piano. Sopra al legno, al centro, era inciso il numero 304.
Dalla tasca posteriore dei jeans, tirò fuori una chiave dorata. Nessun fronzolo. La girò nella serratura e la porta si aprì senza fare rumore, mostrando un piccolo ma accogliente appartamento tipicamente newyorkese, dove i muri crescevano più in altezza che in larghezza.
Dietro la porta, vi era un piccolo tavolino con un portaoggetti. Sulla parete alcuni quadretti, riprendenti barche a vela, e un appendiabiti.
Subito dopo l’ingresso si apriva un piccolo soggiorno dalle pareti giallo chiaro. Il pavimento era fatto di parquet, liscio e venato. Al centro del soffitto, vi era un lucernario.
<< Si apre sul terrazzo. Non è molto grande, ma ci si può mangiare durante l’estate >> suggerì Ian.
Non era ancora stato ammobiliato, ma presto sarebbero arrivati i camion dei traslochi con la poca roba che non avevo comprato in comune con Matt. Ecco, l’unica cosa negativa del rapporto con lui, era stato che avevamo dovuto prendere i mobili con una cassa comune. Così ora lui si ritrovava con mezzo soggiorno ed io con qualche sedia dell’Ikea.
Sempre nel salotto era presente la cucina, sistemata ad angolo. C’era il cucinotto con forno, il lavandino e sopra due piccole dispense, microonde e un frigo bianco con qualche calamita. Notai con terrore che non era presente la lavastoviglie: mi sarei dovuta arrangiare.
<< E’ un po’ piccola, ma c’è tutto >> intervenne Ian, mostrandomi come si apriva il tavolo, a ridosso della parete.
Il bagno, alla destra della cucina, era di media grandezza con le piastrelle bianche e qualche mosaico. C’era sia la doccia, che la vasca e un piccolo lavandino si trovava accanto al water.
Per ultima, ma non meno importante, c’era la mia stanza. Tre delle quattro pareti erano state dipinte di rosa antico, mentre l’ultima aveva i mattoni a vista, proprio dove avevo in mente di mettere la tastiera del letto. Non rimasi delusa dalla grandezza visto, che sembrava essere la stanza più grande della casa.
<< Ottimo. La prendo >> dissi infine a Ian e, dopo aver concordato sul prezzo, ci stringemmo la mano e tornammo in soggiorno. Domani avrei dovuto firmare delle carte.
Ian doveva aver notato la mia espressione completamente rapita, mentre davo un’ultima occhiata all’appartamento, il luccichio nei miei occhi, perché le parole che seguirono il movimento delle sue labbra riassumettero in poco i miei pensieri.
<< Beh, benvenuta nella sua nuova casa, Prescott >> esclamò, dandomi una pacca sulla schiena. << Se dovessi avere dei problemi, basta che bussi alla mia porta. Abito nell’appartamento qui accanto, il 305. Bene, ora la lascio. Devo sbrigare delle cose. Può tenere la chiave >> detto questo, Ian se ne andò, chiudendo la porta dietro di sé.
 
* * *
 
Una mezz’oretta dopo, mi trovavo già in strada, a farmi largo tra la folla di persone.
Non potevo ancora crederci: finalmente avrei vissuto in una casa tutta mia…
Ero talmente elettrizzata da non sentire più le gambe. O forse era a causa del venticello gelido che si era alzato, subito dopo il tramonto. Erano appena le sette di sera, ma io ero vestita come fosse pieno Luglio.
Mi affrettai a prendere un taxi e a tornare a casa. Mamma doveva essere già tornata e Lu’ poteva saperle tenere testa quanto voleva, ma ero certa che in questo caso sarebbe stato ancora più arduo.
In casa mia, mia madre dettava legge e c’erano due regole alle quali teneva più delle altre.
Uno: mai dimenticarsi di dire dove si era.
E due: essere sempre puntuali per la cena.
Guardai l’orologio. Erano le sette e un quarto. Avevo appena trasgredito anche alla seconda.
 
* * *
 
Arrivai a cena innoltrata, mentre tutti quanti erano già a tavola. I piatti vuoti, le facce ansiose.
Mamma mi venne incontro, lo sguardo contrariato. << Che cosa ti è saltato in mente? Uscire così, senza avvisare, e poi tornare a quest’ora… insomma, non è così che ho cresciuto mia figlia >> disse lei, mettendosi le mani sui fianchi e assumendo la tipica aria da ‘mamma infuriata’.
<< Ti prego mamma, non fare scenate. In fondo, stavolta, non ci sono nemmeno ospiti. Solo tu, papà e… >> intravidi una testa bionda, spuntare da dietro la spalla di Lucinda << Hunter! >> urlai, prima di gettarmi a braccia aperte su mio fratello.
Aveva due anni meno di me, eppure era più alto di una spanna e mezzo. Chissà cosa metteva nel latte la vecchia Lu’. Forse qualche strana polvere messicana…
<< Hei, Lee. Mi. Stai. Soffocando >> bofonchiò Hunter, da sotto la stoffa della mia maglietta.
Lo lasciai andare, ma solo per osservarlo meglio. Anche il viso era cresciuto. Il naso si era fatto più appuntito, il mento più squadrato e aveva perso anche l’ultima ciccia attorno agli zigomi.
Eppure, dall’ultima volta che lo aveva visto, dovevano essere passati… cavolo, due anni. Erano una vita, soprattutto considerando il fatto, che entrambi non avevamo passato più di cinque minuti l’uno lontano dall’altro, fin dalla nascita. In fondo, lui era il suo fratellino e non bastava aver raggiunto la maggiore età, per farglielo dimenticare.
<< Cavolo, sei un uomo ora… Huntie >> ammisi, sorridendo e spettinandogli i capelli.
<< Eddai, non chiamarmi così >> disse lui, sistemandosi la zazzera disordinata che aveva in testa.
<< Ma se l’ho sempre fatto, quando eri piccolo >> lo punzecchiai.
<< Infatti, ma ora sono cresciuto e non sono più un bambino >> rispose lui, la faccia seria.
<< E va bene, ho capito >> sospirai, arrendendomi.
Intanto mamma se n’era rimasta in disparte, ignorata da tutti. Povera mamma.
<< Allora? Insomma, in questa casa non mi ascolta più nessuno. Diamine Leah. Non vuol dire che anche se non viviamo più sotto lo stesso tetto, puoi permetterti di fare come ti pare. In Europa sarà tutta un’altra storia, ma fino a prova contraria questa casa non è mica un albergo! >> sbottò lei, dandomi le spalle e andando verso la cucina. Quando la porta si chiuse dietro di lei, nella stanza scese un silenzio di tomba.
<< L’hai fatta grossa stavolta, Lee… >> mormorò mio fratello, trattenendo una risata.
Sospirai. Hunter, per quanto mi desse fastidio ammetterlo, aveva ragione. Insomma, pensavo che mia madre fosse una persona abbastanza superficiale, che se la prendeva per tutto, che adorava qualsiasi cosa che io odiassi… ma questo non mi dava di certo il diritto di prenderla in giro.
In fondo era mia madre, mi aveva cresciuto, mi aveva educato – e per fortuna non avevo preso da lei – e mi aveva voluto bene. Non si meritava tutto questo.
Così decisi di andarle dietro.
<< Hei, Lee. Aspetta. Non azzardarti a usarmi come- >> la voce di Hunter si spezzò dietro il legno duro della porta della cucina.
 
* * *
 
<< Mamma? >> provai a dire, avvicinandomi a lei. Se ne stava appoggiata al lavandino, le mani sul bordo, la testa bassa. In quel momento mi sentii davvero in colpa. Per anni avevo riso delle sue tradizioni, della sua mentalità all’antica, che mi ricordava tanto gli anni ’50. Eppure, mai una volta che mia madre avesse detto qualcosa. Stavolta, però, era diverso. Avevo passato il segno.
<< Non capisco perché tu debba sempre essere così… così… >> cominciò lei.
<< Diversa? >> tentai io. << Categoricamente fuori posto nella vita che tu mi hai voluto costruire intorno? >>
<< No. No. Anzi. Non ho mai voluto che tu fossi qualcosa che non volevi, che diventassi una copia di me >> si voltò e mi venne incontro. << Vedi, tesoro, volevo solamente che avessi un modello corretto da seguire. Con delle regole, dei principi… volevo che potessi contare su insegnamenti che io, alla tua età, non sapevo. Sai che tua nonna, beh, non è mai stata molto presente nella mia vita. Non volevo che tu dovessi imparare a vivere… vivendo >> cercò la mia mano. Rimasi per qualche secondo ferma, immobile, a fissare quella mano così sottile, dove un piccolo anello d’oro contornava il suo anulare. Alla fine, gliela strinsi e alzai lo sguardo, incontrando il suo.
<< E per questo ti ringrazio, mamma, ma… è finito tempo fa il periodo in cui avevo bisogno di te. Ora voglio solamente contare su me stessa, voglio provare a farcela da sola. Voglio anche essere capace di sbagliare. Di arrivare in ritardo o di dimenticarmi di dirti dove vado. Voglio essere indipendente e, per quanto tu mi voglia bene, devi lasciarmi scegliere di vivere come voglio >> dissi, riepilogando anni di pensieri mai espressi.
Passarono un paio di minuti, prima che sul suo volto comparisse un tenue sorriso. Annuì, ricambiando la stretta. << Oh, Leah, hai ragione. Perdona la tua stupida mamma per essere stata così appiccicosa e rompiscatole >> disse, abbracciandomi forte. Accolsi quell’abbraccio con un sorriso, inspirando il suo profumo di violette. Non ero mai stata così vicino a mia madre da anni.
<< No, mamma, perdonami te >> biascicai. Sentivo le lacrime pungermi gli occhi, ma le ricacciai indietro. Non volevo rovinare un così bel momento con un bel pianto, seppure di gioia.
<< D’accordo, allora ci perdoniamo a vicenda. Pace fatta? >> chiese mia madre, staccandosi e mostrandomi il mignolino.
<< Pace fatta >> risposi io, mostrando il mio e stringendolo intorno al suo. Era come essere tornati bambini, quando bastava un gesto a far dimenticare ogni dolore.
Ti voglio bene mamma, pensai. Ed era vero.
 
* * *
 
Quella sera, a cena, ridemmo come non facevamo da secoli ormai. E le nostre risate furono condite dal buonissimo arrosto di carne, patate e sugo d’arancia di Lucinda. Mi mancava la sua cucina.
In Europa non avevo fatto altro che mangiare panini e cibo da fastfood. Difficilmente ero riuscita a prepararmi qualcosa di più sano. Anche perché, dovevo ammetterlo, non ero mai stata un mago ai fornelli. Risentire, quindi, il sapore dolce dell’agrume, mischiato a quello più speziato della carne, mi fece sentire finalmente a casa.
Chiacchierai e discussi degli usi e costumi europei insieme a mio padre, un uomo abbastanza taciturno e dall’animo timido. Non avevo mai avuto un rapporto molto stretto con lui: forse perché, quando ancora vivevo stabilmente qui, erano poche le volte in cui rimaneva a casa. Era una delle persone più intelligenti che conoscessi – tre lauree e poliglotta – e non mi meravigliava per niente che fosse poi diventato anche uno dei più importanti insegnanti di letteratura inglese di Harvard e Oxford. Prima della pensione, fino a quasi sei mesi fa, papà viaggiava ininterrottamente tra New York e Londra e viceversa.
Al contrario di mamma, era l’unico appassionato quanto me di viaggi e non disdegnava le culture diverse dalla nostra. Da giovane aveva addirittura visitato l’India e l’Africa, mete ancora sconosciute ai miei occhi, ma cui ben presto avrei rimediato.
Da lui, avevo sempre preso il colore dei miei occhi: azzurri, con una punta di verde.
Da mamma, invece, il colore di capelli: biondo grano. Da piccola mi ripetevano spesso quanto le assomigliassi.
 
* * *
 
Verso le nove, decisi che era il momento di fare le valigie e prendere tutte le poche cose che erano rimaste in quella casa, affacciata direttamente su Central Park.
Svuotai l’armadio, liberai i cassetti della scrivania e del cassettone, staccai i poster e le fotografie. Avrei lasciato solamente pochi oggetti per ricordare ai miei genitori quanto ancora fossi legata a loro. Per il resto, quella stanza, sarebbe diventata un fantasma di me.
Mentre ero piegata sopra a una selva inferocita di calzini spaiati, intenta a giocare a Memory con i miei vestiti, sentii qualcuno bussare alla porta.
Quando mi voltai, riconobbi il viso di Hunter, che mi guardava dall’alto del suo metro e ottantacinque. Naturalmente, trovandomi a terra, mi sembrava ancora di più un gigante.
<< Hei, Lee. Posso entrare? >> mi chiese.
<< Certo Huntie, fai pure >> risposi con un sorriso, tornando poi alle mie calze. Ero indecisa su un paio a righe rosa e un altro paio a righe rosa pallido. In fondo, qual era la differenza?
Non badai all’alzata di occhi di mio fratello, mentre lo chiamavo per l’ennesima volta con quel soprannome stupido e infantile. Eppure io lo trovavo così carino…
<< Te ne stai andando, vero? Insomma, potrai anche avere fregato mamma, forse papà sarà indifferente, ma a me non è sfuggito niente >> cominciò, il tono serio.
Naturale che lo avesse notato: c’era una valigia in mezzo alla stanza! Quando mai l’avrei tirata fuori da sotto il letto, se non per riempirla?
<< Mi trasferirò dall’altra parte di Central Park. Vi basterà prendere un taxi o la metro per venirmi a trovare >> risposi. Lasciai stare i calzini e lanciai entrambe le paia nella valigia.
<< Sì, ma… non sarà più come prima. Insomma, tu ti farai una nuova vita, mentre io sarò ancora qua, con mamma e papà. Soprattutto con mamma, che non farà che tartassarmi ancora di più, senza te cui rompere >> incrociò le braccia, appoggiandosi con la schiena allo stipite.
<< Oh, vedrai che la mamma cambierà prima, o poi >>.
Rimanemmo in silenzio per un po’. Lui a guardarmi tacito dall’alto, io a sistemare le ultime cose. Quando anche l’ennesimo poster fu tolto dalla carta da parati, sospirai e andai verso di lui.
<< Huntie? >> tentai, cercando il suo sguardo.
<< Uhm >> grugnì lui, sentendo nuovamente il suo nomignolo.
<< Rimarrai sempre il mio fratellino preferito, lo sai questo, vero? >> dissi, scompigliandosi i capelli biondi. Mi guardò irritato, ma alla fine notai l’ombra di un sorriso sul suo profilo appuntito.
<< E ora perché non mi aiuti a portare qualche valigia di là? >> chiesi, cominciando ad afferrarne una bella pesante. Hunter sospirò e alzò gli occhi al cielo, prima di prendere le altre due.
Le appoggiammo tutte davanti alla porta, nel piccolo ingresso.
Quella notte dormii in una camera vuota, sotto le coperte che utilizzavo da ragazzina. Non chiudevo gli occhi in quella stanza da secoli. Dopo il diploma, ero subito andata a vivere con Matt ed ero tornata occasionalmente a casa per qualche festa o compleanno. Non mi ero mai fermata più di un giorno.
Era triste pensare di andarmene. In realtà una parte di me era ancora legata profondamente alla mia famiglia, come se non fossi ancora cresciuta del tutto. In fondo… avevo solo ventidue anni.
Scossi la testa, cacciando via quei pensieri. Non ero più una ragazzina, non avevo bisogno della sicurezza costante dei miei genitori, volevo essere indipendente.
E quest’occasione mi avrebbe dato la possibilità di cambiare, di lasciare da parte la sindrome da Peter Pan e crescere davvero.
In fondo, come avevo detto anche al mio fratellino, erano solo pochi metri.
Anzi, ero sicura che, dall’ultimo piano del palazzo, fosse persino possibile notare le finestre del mio appartamento.
Mi addormentai con la voglia di andare a controllare.

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