Bizzarrie

di princess_sparklefists
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Schrödinger aveva un gatto (che era vivo e stecchito come un ratto) ***
Capitolo 2: *** L'orologio segna il momento dell'apertura ***



Capitolo 1
*** Schrödinger aveva un gatto (che era vivo e stecchito come un ratto) ***


Con questo mio scritto mi propongo di raccontare quella che penso di poter definire senza troppe esitazioni come l'esperienza più bizzarra della mia vita, sebbene immediatamente prima dei fatti che mi appresto a narrare, io debba evidentemente essere stato vittima di un’amnesia, che mi ha privato di tutti i ricordi antecedenti all’inizio della mia narrazione.
 

***
Mi svegliai dolorante, cosciente soltanto del pulsante intorpidimento che mi invadeva il braccio sinistro. Dov’ero? Come ci ero arrivato? Chi ero? Uno sciame di domande sperdute bussò implorante alla mia mente.
Aprii gli occhi. Mi trovavo in una stanza con pareti, soffitto e pavimento dipinti di un grigio uniforme. Non ricordavo di esserci arrivato, quindi era piuttosto verosimile che mi ci avessero portato mentre ero privo di sensi. Una luce diffusa permeava l’ambiente, ma non riuscii a capire da dove provenisse. Faceva un caldo soffocante e l’odore di chiuso era insopportabile. Non si vedevano finestre, porte, botole o aperture di sorta, ma dovevano esserci; a meno che il malato di mente che mi aveva chiuso lì dentro non avesse sigillato la stanza dopo avermi lasciato lì. Osservai la camera: era totalmente spoglia, fatta eccezione per un mucchio di stracci a qualche metro da me, un orologio fermo e un grosso quadro, decisamente dozzinale.

La mia ricerca di una via di fuga venne interrotta dal brusco fuoriuscire di un paio di gambe da quello che avevo classificato come “mucchio di stracci”: e che, a quanto pareva era invece il mio compagno di prigionia. Mi avvicinai e scostai delicatamente le due coperte patchwork che lo nascondevano. Era una ragazzetta esile e pallida, dai tratti molto delicati, a cui non avrei dato più di sedici anni. Era impalandrata in qualcosa che passava sotto il nome di “felpa” semplicemente perché il solo pensiero di un vestito di pile era qualcosa di troppo grottesco. Sulla gamba destra delle ferite rimarginate da poco componevano i caratteri “#10010: Jodie”.
Sovrappensiero allungai una mano per ravviarle i capelli. Così lo vidi, il mio marchio, che pulsava sul braccio sinistro: “#10011: Joyce”. Non ero stato fortunato come la mia misteriosa compagna: i tagli erano purulenti, alcuni non si erano nemmeno rimarginati del tutto. Cacciai un urlo stridulo, che la svegliò. Spalancò gli occhi, terrorizzata. Non so perché, ma con i folti capelli biondi che si ritrovava mi ero immaginato avesse gli occhi chiari, e restai piuttosto contrariato nel vedere che li aveva di un castano melmoso, in modo del tutto irragionevole.

–Reee, ti sei svegliato- biascicò stiracchiandosi –Piacere, il mio nome è Jodie-. –Sai dove siamo?- le chiesi trepidante. –Non ne ho idea! Mi sono trovata qui, e se devo dire non ricordo neanche come ci sono arrivata. Re! Prima degli strani tizi ti hanno trascinato dentro, ma erano incappucciati e ho pensato fosse meglio fare finta di dormire-. –Da dove mi hanno trascinato dentro?-. –Dalla finestra, re?-. –Quale finestra?-. Dall’informe mostro felposo spuntò una manina pallida, tesa a indicare il dipinto. –Quello è un quadro- dichiarai, iniziando a dubitare della sanità mentale di quella ragazzina logorroica. –No, è una finestra. Guarda- squittì lei, alzandosi. Rischiai seriamente l’infarto quando la vidi piegarsi verso la tela, sparire gradualmente e ricomparire nell’acquarello, per poi fuoriuscirne indenne e con un ciuffo d’erba stretto trionfalmente nella mano. Incuriosito avvicinai anche io le dita al quadro. Niente, sotto i polpastrelli solo il colore rappreso e la ruvida tela.
Sentii un conato di vomito risalire lungo il mio essere, di pari passo con l’ondata di panico che mi invadeva la mente.. Sembrava che io e Jodie fossimo in stanze diverse, eppure nella stessa. –Re, Joyce, che diavolo c’è? Ti senti male?-. –Come sarebbe a dire “che diavolo c’è?”- sbottai isterico – Questo…questo “coso” non può essere una finestra e un quadro allo stesso tempo!-. –Certo che può, come è vero che Schrödinger aveva un gatto, che era vivo e stecchito come un ratto-. Restai a fissarla sgomento, cercando di trovare un qualche senso alla sua affermazione. –E non chiamarmi Joyce- commentai acidamente alla fine, giusto per non stare zitto –Non mi fiderei più di tanto di come mi chiama qualcuno che incide strani codici sui corpi altrui!-. Ma lei non mi stava più ascoltando, era persa nel cercare la base ideale per una canzoncina che faceva pressappoco:
“Schrödinger era un matto
E aveva un bel gatto.
Ma anche il gatto
era matto.
Schrödinger aveva un gatto,
che era vivo e stecchito come un ratto!
Re re rerre re re rer”



_________
Note dell'atroce autrice
Eccomi con la mia ennesima storia che nessuno si cagherà. Questa partecipa alla challenge di
cameraoscura. E al Festival del Nonsenso indetto da NonnaPapera! sul forum di EFP. Buona lettura!

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Capitolo 2
*** L'orologio segna il momento dell'apertura ***


Erano passate alcune ore e molte, moltissime, troppe, ripetizioni della canzoncina del gatto di Schrödinger, quando, nel corso di una delle mie peregrinazioni mentali, arrivai a formulare un’ipotesi di senso compiuto su cosa stesse succedendo. E soprattutto inerente a qualcosa che non fosse un professore gatto con un matto o una matto che aveva un gatto professore. Per verificarla avevo bisogno dell’aiuto della mia compagna di prigionia. Che, in quel momento, era occupatissima a canticchiare scemenze.
«Jodie» apostrofai la ragazza «L’ambiente in cui ti trovi è luminoso?».
«Re?».
Dovetti ripeterle la domanda altre due volte prima che lei mi prestasse un minimo di attenzione.
«Ree, sì, ma non si capisce da dove arrivi la luce».
«Come se fossero le pareti stesse a emetterla?».
«Essattooo! Ci hai preso, re, sai che sei perspicace, Joy-Joy?».
«Ora Joy-Joy da dove esce fuori?».
«Non posso certo non chiamarti!».
Sbuffai e scossi la testa.
«C’è un orologio?».
«Sì, brutto, bianco e soprattutto fermo. E’ così anche nella stanza che vedi tu?».
Annuii. Lei riprese a cantare i suoi irritanti motivetti. Stavo per urlarle di piantarla quando venni colpito dal proverbiale lampo di genio.
Balzai in piedi strillando: «Ma certo! Il gatto di Schrodinger!».
La mia compagna ammutolì e mi fissò stranita.
«Jodie, qualcuno, non chiedermi come, ha bloccato il tempo al metaforico istante prima dell’apertura della scatola! L’ultimo attimo in cui il gatto è vivo e morto, fa caldo e freddo e quell’affare è un quadro e anche una finestra.» spiegai concitato.
Lei iniziò a muovere un indice in aria, mormorando. Sembrava stesse disegnando un qualche schema a uso personale.
«Sì, ha senso» cinguettò concludendo i suoi movimenti insensati.

Dieci minuti dopo la scatola venne aperta.
L’orologio riprese a funzionare, la temperatura calò di colpo e il “coso” decise definitivamente di essere una finestra. Scavalcando il davanzale entrarono quattro figuri nerovestiti. I loro mantelli li coprivano interamente, rendendo visibili delle loro persone solo la punta del naso, le sottili e pallide labbra da anemici, i menti affilati e l’attaccatura del collo, e due treccine di capelli. Sembravano identici, fatta eccezione per il colore delle chiome: lilla grigiastro, blu elettrico, rosso carminio e verde fluo. In generale pensai che sembravano usciti direttamente da un romanzo fantasy. E che sicuramente non stavano dalla parte del protagonista.

«Reee! Sembrate i cattivi di un manga!» sbottò Jodie.
Restai basito. “Ecco,” pensai “buonanotte, ora ci ammazzano”. Non osavo neanche respirare. Fortunatamente i nostri aguzzini, senza dare segno di averla sentita, dissero lapidari:

«La prima parte dell’esperimento è conclusa. Si dia inizio alla seconda parte. Prego, seguiteci».
Non parlavano all’uninsono, no, sarebbe stato troppo squallido e parodistico: si completavano le frasi a vicenda, ma con voce così atona e impersonale da essere indistinguibili uno dall’altro. Non era la parlata di un cattivo da blockbuster di serie B. Ogni singola sillaba faceva correre lungo la schiena brividi normalmente associati allo sfoderamento di spade eccessivamente affilate. Ogni parola richiamava la netta sensazione di essere un piccolo roditore indifeso messo all’angolo. Non avevano bisogno di armi per minacciarci, perché la semplice idea di disobbedire a una voce del genere non era contemplata. Li seguimmo, io in preda a un gelido terrore, Jodie saltellando nel suo solito modo snervante.

 

 

Note dell'autrice
Scusate l'incredibile ritardo, avevo perso i fogli su cui è scritta la storia (abituatevi, sono fatta così). Spero questo capitolo vi piaccia e ringrazio tutti coloro che hanno commentato e aggiunto tra le seguite ^^

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