Schützengraben

di Yuri_e_Momoka
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** First trench: Be alive ***
Capitolo 2: *** Deuxième Tranchée: La niege rouge ***
Capitolo 3: *** Dritte Graben: Geschenk ***
Capitolo 4: *** Fourth Trench: The last salvation ***
Capitolo 5: *** Cinquième Tranchée: Le petite étoil ***
Capitolo 6: *** Sechste Graben: Wahnsinn ***



Capitolo 1
*** First trench: Be alive ***


first trench Titolo: Schützengraben, Capitolo 1 – First Trench
Fandom: Axis Powers Hetalia
Personaggi: Inghilterra (Arthur Kirkland), Francia (Francis Bonnefoy), Germania (Ludwig)
Genere: Storico, Drammatico
Rating: Nc17, Arancione
Avvertimenti: Yaoi, Angst, Death, AU
Parole: 4,510 con Windows Office
Disclaimer: I personaggi della fanfiction provengono da Axis Powers Hetalia che appartiene a Hidekaz Himaruya
Note: 1. Questo capitolo non è da rating arancione, ma ho preferito segnalare già da subito che, col preseguire della storia, i capitoli acquisteranno più violenza e conterranno anche alcune scene di sesso. Inoltre vi è la presenza di linguaggio scurrile.
2. Il contesto storico è la Prima guerra mondiale; quello geografico è certe cittadine francesi dove si sono svolte alcune delle battaglie durante l’invasione tedesca. Gli anni vanno dal 1914 al 1916.
3. La fiction è basata su una puntata del programma City of the Underworld: Hitler’s trench. Tuttavia per ricreare un ‘ambientazione adatta a far quadrare questi avvenimenti romanzati ho dovuto compiere delle ricerche e per questo ho anche dovuto prendermi qualche licenza in modo da far svolgere tutto in maniera che la storia risultasse di gradimento. In poche parole possono esserci alcune inesattezze storiche.
4. Non so nulla né di francese nè di tedesco (e credo di essere scadente persino in italiano) perciò sorvolate sugli errori di traduzione.
5. Poiché è la prima volta che scriviamo in questo fandom vorremmo specificare che, come avrete capito, condividiamo un account e anche le fanfiction di nostra produzione, tuttavia, poiché questa proviene da una malsana idea di Yuri, lei ha preferito parlare al singolare in modo da assumersi la totale responsabilità delle reazioni di disgusto che questa storia susciterà in voi :P
 
 
 
First Trench: Be alive
 
Arras, settembre-ottobre 1914

Era un’insignificante cittadina francese, ma si trattava comunque del luogo più inglese che avesse mai visitato dall’inizio della guerra, e ciò gli fece avvertire un debole calore nel petto, dopo lungo tempo trascorso al gelo. Lasciò che gli altri soldati lo sorpassassero per godersi un istante di quel tenue sole che scaldava la terra.
La piazza principale della città era racchiusa in un anello di case tutte uguali, dalle facciate rosso mattone e le falde del tetto molto spioventi, gli architravi bianchi intaccati da mesi di conflitti e incurie.
Il cielo  mostrava timidamente una tinta azzurra. Allora… quel colore così puro esisteva ancora, da qualche parte.
“Caporal Maggiore Kirkland.” La voce del Maresciallo lo riportò dolorosamente coi piedi per terra. “Avrà tempo per trastullarsi quando le truppe saranno state alloggiate. Ora si rechi di sotto ad ascoltare le istruzioni del Maresciallo francese.”
Arthur annuì in silenzio e riprese a seguire gli uomini in divisa che scendevano le anguste scale in fondo all’ambiente – quella che forse era stata una locanda, un tempo.
Seguire le istruzioni di un francese, pensò con stizza. Erano stati gli inglesi a organizzare quell’operazione, erano stati loro a decidere di utilizzare quelle cave di gesso sotterranee per attaccare di sorpresa i tedeschi. Quei mangia baguette non erano nemmeno stati in grado di mettere insieme un piano per sfruttare a proprio vantaggio il loro territorio. Avevano la fortuna di avere, nascosta sotto terra, la chiave per vincere la battaglia – e, perché no, magari anche per rimandare a casa quei maledetti crucchi – e invece che darsi da fare ci avevano costruito sopra un ristorante.
La stanza sotterranea in cui giunse poco dopo si rivelò meno affollata del previsto; probabilmente avevano organizzato la sistemazione dei soldati in diversi gruppi – sicuramente era stata un’idea inglese.
Qualcuno stava già parlando, davanti a tutti. Arthur sospirò. Lui era un Caporal Maggiore: praticamente niente. Ecco perché se ne doveva stare dietro a tutti ad allungare il collo per cercare di capire chi fosse a parlare. In ogni caso non dovette sforzarsi troppo per intuire che il discorso provenisse dalla bocca di un francese: l’accento e il fastidioso modo in cui lasciava scivolare via le parole in un inglese appena accettabile erano inconfondibili. Dato che erano venuti in loro soccorso potevano almeno sforzarsi di imparare decentemente la loro lingua.
Ed ecco apparire, tra una testa e l’altra dei suoi compagni d’armi, il Maresciallo. Che diamine, e quello avrebbe dovuto essere un soldato? Sembrava più un parrucchiere. Come si faceva a tenere dei capelli come quelli in periodo di guerra? I suoi erano sempre secchi e spettinati, e di certo non era uno che non tenesse alla sua persona! Ma in un momento del genere chi aveva il tempo o i mezzi per stare a sistemarsi i capelli o a radersi quel ridicolo pizzetto?
Ci volle meno di un istante per fargli destinare quel francese a una delle sue categorie mentali: incompetente.
Gli era del tutto passata la voglia di ascoltare le chiacchiere del soldato, ma se poi il suo  Maresciallo fosse saltato fuori a richiedere un resoconto delle istruzioni, ribadendo improvvisamente il suo inutile titolo di Caporal Maggiore, allora sarebbero stati guai e avrebbe perduto anche quello sputo di prestigio che si era guadagnato. Così si costrinse ad ascoltare quella che sperava fosse la fine di quell’interminabile sproloquio.
“Occuperete la parte oscidentale delle gallerie che stanno ultimando si essere scavate in questi giorni. La sistemasione dei giacigli è a vostra discresione, a patto che rimaniate nella zona assegnata. A partire da oggi inisieranno ad arrivare altri vostri connasionali, pertonto è obbligatorio mantenere l’ordine e la disciplina. E’ tutto. Au revoir!
Arthur strinse il proprio fucile con entrambe le mani per evitare di imprecare. Che razza di modo era quello di congedare le truppe! Inaudito. E poi lo sapevano tutti che erano gli inglesi a coordinare lo scavo delle gallerie. Poco importava se a lavorare erano i neozelandesi. Facevano comunque parte del territorio britannico.
Il rumore prodotto dallo spostamento degli uomini gli impedì di arrivare a pensare a insulti peggiori. Si decise ad evitare totalmente quella sorta di “Maresciallo”.
Si mise in coda per raggiungere gli alloggi. Quelle gallerie non erano per niente accoglienti e l’idea di doverci trascorrere dentro un tempo indeterminato – settimane, mesi! – lo metteva parecchio a disagio.
“Caporal Maggiore!” Arthur sospirò pesantemente. Il suo Maresciallo gli si avvicinò non appena lui si fu girato e gli ebbe rivolto il saluto  militare.
“Agli ordini” disse, forse con un tono non sufficientemente convinto.
“Voglio subito un aggiornamento su tutti i plotoni di cui è programmato l’arrivo ad Arras. Di quanti uomini si tratta e per che giorno è previsto il loro arrivo. Inoltre, raccolte tutte queste informazioni, dovrà andare a riferirle direttamente al Maresciallo Bonnefoy.”
Arthur guardò altrove per un istante, per evitare di rivolgere al suo superiore un’occhiataccia. Bonnefoy… persino il nome ricordava tutto fuorché quello di una persona affidabile. Non riusciva proprio a scacciare dalla mente l’immagine di quel cicisbeo che acconciava i capelli alle signore.
“Signorsì, signore” fu costretto a rispondere. Ovviamente non era possibile che l’unico proposito di quella giornata – mantenersi alla massima distanza possibile da quell’individuo ambiguo – potesse essere portato semplicemente a compimento.
Andando avanti e indietro per raccogliere le informazioni che gli erano state richieste, Arthur ebbe modo di conoscere, almeno in parte, la zona d’entrata dei tunnel. Si estendevano ovunque, i neozelandesi avevano dotato gli incroci di segnali che riportavano il nome di località del loro Paese per riuscire a orientarsi. Dopotutto quello era un lavoro enorme: i tunnel si sarebbero protesi lungo tutta la terra di nessuno, fino ad arrivare in faccia ai tedeschi. Quei crucchi… avrebbero pagato duramente la loro arroganza.
Ora che aveva raccolto tutte le informazioni che gli servivano, lo attendeva il compito più difficile.
“Devo fare rapporto al Maresciallo” annunciò a un soldato francese evitando accuratamente di comunicare quel nome che non ricordava già più. Probabilmente l’uomo non sapeva pronunciare una sola parola in inglese, perché si limitò a indicare oltre la sua spalla sinistra.
Trovò il “parrucchiere” seduto coi piedi su una vecchia scrivania in quella che sembrava in tutto e per tutto una grotta – c’erano persino delle sottili stalattiti sul soffitto che la luce di una lanterna illuminava di un giallo cupo.
Dis moi, soldat” fu la prima frase che quell’individuo gli rivolse. Davvero incoraggiante.
Arthur non si sforzò di eseguire un saluto militare convinto. “Sono inglese. E sono un Caporal Maggiore.”
Oui, oui. Lo so. Voi inglesi siete riconoscibili a chilometri di distanza.”
Sapere a cosa si stava riferendo gli avrebbe solo fatto saltare i nervi, per cui Arthur strinse i denti e andò avanti.
“Ho i dati sugli arrivi delle altre truppe” disse piazzando i fogli sulla scrivania senza troppa grazia.
“Vedo” fu ciò che replicò il francese, fissandoli. Davvero molto acuto. “Merci, Caporale. So che il vostro non è stato un viaggio breve, quindi se vuole posso farle strada fino al suo alloggio.”
Arthur inarcò un sopracciglio. “Mi pareva di aver capito che la sistemazione era a discrezione di ogni uomo.”
Scertamente, ma poiché si è attardato a svolgere il suo dovere ho provveduto io ad assegnarle una sistemazione per la notte. Prego, mi segua.”
Sinceramente Arthur non vedeva l’ora di lasciar giù quello zaino che si portava dietro da giorni, ma l’invito del Maresciallo aveva lasciato in lui un inspiegabile disagio.
Mentre lo seguiva, il francese riprese a blaterare. “Vuole sapere perché gli inglesi sono così riconoscibili?”
No, avrebbe prontamente risposto Arthur se non si fosse ricordato all’ultimo momento della distanza di grado che c’era tra i due. Tacque, ma per l’altro questo non rappresentò un problema.
“Perché avete sempre l’aria di chi si è appena scottato la lingua con del tè bollente, ma fa di tutto per mantenere il controllo.”
Arthur strinse i pugni. Decise che per una volta avrebbe fatto un favore ai tedeschi e avrebbe risparmiato loro la fatica di ammazzarlo.
“Voi francesi date sempre l’impressione di avere una piuma nelle mutande che vi solletica il culo.”
Il Maresciallo si voltò con un’espressione che Arthur non focalizzò – poiché continuava a fissare deciso di fronte a sé – ma che si divertiva a immaginare.
Il babbeo non impiegò molto a interrompere il silenzio che era calato con una fastidiosa risatina.
“Voi inglesi! Adoro sempliscemonte il vostro humour!”
Si fermarono di fronte a una pesante porta che si apriva su una stanza non troppo spaziosa. Il soffitto era a botte e i letti a castello erano allineati lungo le due pareti più lunghe.
Arthur notò subito qualcosa di strano.
“Perché i letti sono così grandi?”
L’altro lo guardò come se avesse fatto la più idiota delle domande. “Ma è ovvio, perché sono doppi. E’ per risparmiare spazio.”
Arthur sbuffò. Solo i francesi potevano inventarsi una scusa simile per dormire tutti ammassati in una grotta. Si avvicinò a quello che il Maresciallo aveva indicato come il suo letto.
“E’ già occupato da qualcuno” notò Arthur, senza troppo entusiasmo.
Oui, da me!”
Lo zaino che Arthur si stava accingendo a togliere gli scivolò dalle mani e precipitò a terra con un tonfo e un rumore di pentolame. Perché diamine aveva lasciato il suo fucile all’armeria! L’avrebbe ammazzato con un solo colpo e nessuno ne avrebbe sentito la mancanza!
WHAT THE..!”
“Si ritenga fortunato, Caporale. Dormirà negli alloggi dei Sottufficiali, nonostante il suo infimo grado.” Rise. Ma come aveva fatto a sfuggire ai tedeschi fino a quel momento?!
La lingua di Arthur era paralizzata dalla rabbia. L’unico fattore positivo era che almeno avrebbe avuto l’occasione di strangolarlo nel sonno.
Così perso nell’immaginarsi il modo migliore per nascondere un cadavere, sobbalzò quando si trovò la mano del Maresciallo di fronte alla faccia.
“Tra compagni di letto ci si dovrebbe presentare.”
Arthur lo guardò storto. “Siamo soldati, non amici che si incontrano al pub.”
“Ma per diventarlo occorre prima conoscere i propri nomi. E siccome mi sembra il tipico inglese che si dà un sacco di arie, inizierò io. Francis Bonnefoy, enchanté.
“Arthur Kirkland.” Dannazione! L’aveva fatto di riflesso. In fondo, era un gentiluomo, lui!
“Fantastico. Il prossimo passo è darsi del tu.
“Credo che mi fermerò qui dove sono.”
Arthùr, non preferiresti insultarmi senza badare alle formalità?”
Arthur lo prese come un invito. “Prova ancora ad importunarmi e troverò il modo di spedirti di fronte alla corte marziale.”
Francis rise di nuovo. “Magnifique! Non vedo l’ora di scoprire di cosa mi accuserai.”
 
Non aveva mai immaginato di potersi permettere una simile confidenza con un suo superiore, ma quando si trovava costretto a parlare con quel damerino gli insulti non mancavano mai. Era più forte di lui, non riusciva a trattenersi. E sicuramente l’altro non faceva nulla per evitarlo: pareva che provasse un insano divertimento nel stuzzicarlo. La vita in Francia doveva essere molto noiosa se per loro quello rappresentava il miglior passatempo. O semplicemente era quel Bonnefoy ad avere avuto un’infanzia difficile. Sì, aveva sicuramente ricevuto parecchi colpi in testa per ridursi in quello stato.
Arthur si maledì per la terza volta. Pensava troppo e questo gli impediva sempre di dormire bene. Non gli avrebbero certamente permesso di attardarsi sotto le coperte perché lui non finiva di arrovellarsi il cervello in viaggi mentali senza fine. Così si impose nuovamente di mettere a tacere i pensieri e dormire.
Ovviamente anche la situazione in cui si trovava non lo aiutava a prendere sonno. Sebbene voltasse le spalle a Francis non si sentiva per nulla a suo agio… anzi. Ma non osava più muoversi da parecchio tempo. Finalmente si era zittito e aveva interrotto i suoi sproloqui sulle bellezze della Francia e dei francesi e sulla frigidità degli inglesi, se l’avesse svegliato non avrebbe sopportato un altro minuto di quelle idiozie.
Chiuse gli occhi. C’era troppo freddo per dormire. Era incredibile come l’umidità si raccogliesse sotto terra. Di giorno era quasi soffocante, ma di notte, quando calava la temperatura, tutta l’acqua che si era depositata sulla pelle e sui vestiti di raffreddava e Arthur iniziava a tremare. Per lo meno le coperte erano singole.
Si alitò nelle mani per riscaldarsi un po’, ma il risultato fu effimero. Sospirando nascose la testa sotto la coperta. Aveva capito che sarebbe stata una lunga notte.
“Hai trovato pace, petit Arthùr?”
Quelle parole sussurrate all’improvviso nel suo orecchio per poco non gli provocarono un infarto.
Tais-toi!
“Oh! Ma allora conosci un po’ della mia lingua.”
“Ho dovuto per forza imparare qualche parola per farvi chiudere quella boccaccia. E ora lasciami in pace.”
Si rannicchiò per trattenere un po’ di calore e si spinse sul bordo del letto, ma una mano gli si posò sul fianco.
“Hai freddo? Mon dieu, sei tutto bagnato.”
What the fuck!! Che idiozie vai dicendo?!”
“E’ colpa dell’umidità, stupido inglesino frigido. Mi deluderesti se ti eccitassi per così poco.”
Arthur si girò di scatto, ritrovandosi inaspettatamente a pochi centimetri dal naso di Francis. “Ora chiudi quella dannata bocca e piantala con questi discorsi  da bordello da quattro soldi!”
Si girò nuovamente, deciso a non rivolgergli più la parola. Non trascorsero che pochi minuti quando il braccio di Francis spuntò dall’oscurità a stringergli i fianchi.
“Mi sembrava di averti detto di finirla! Vuoi che ti tagli una mano?” minacciò Arthur su tutte le furie.
“E tu vuoi congelare, stupido ragazzino? Chiudi quella bocca acida e dormi.”
Poiché era la prima volta che veniva zittito da Francis, Arthur non replicò. Rimase solo a tormentarsi il cervello con mille pensieri che si sovrapponevano confusamente.
Francis non parlò più. Poco male. Dopo un po’ Arthur pensò che si fosse addormentato, così chiuse gli occhi a sua volta.
Quella notte fece un sogno strano: aveva dei bellissimi capelli lunghi e Francis glieli tagliava senza pietà. Maledetto parrucchiere.
 
La prima settimana trascorse tra la frenesia dei preparativi al combattimento, ma Arthur e l’intero plotone non impiegarono molto per comprendere che l’attacco a  sorpresa che avevano a lungo preparato avrebbe dovuto aspettare ancora. Ogni giorno continuavano ad ammassarsi sempre più soldati e la convivenza in fondo alle gallerie stava iniziando a diventare problematica.
Sebbene fossero state scelte truppe conosciute per la loro affidabilità, i soldati diventavano sempre più impazienti e le liti scoppiavano di frequente. L’inattività rendeva gli uomini irritabili e indisciplinati.
Arthur non poteva partecipare ai consigli di guerra ma Francis ogni tanto era invitato a prendervi parte e la sera gli riferiva ciò che era venuto a sapere. La loro era diventata una relazione fatta di paradossi. Ogni istante che Arthur trascorreva con lui lo portava sempre più vicino alla rabbia cieca e al desiderio di farlo fuori una volta per tutte, ma l’aspettativa di notizie dall’esterno lo costringeva ad attendere con leggera impazienza i colloqui intrattenuti con lui  nello stesso letto.
Dalla seconda settimana iniziarono le esercitazioni. Arthur aveva già preso parte ad alcune missioni di carattere alquanto insignificante, ma quella che si accingeva a intraprendere era, di fatto, la sua prima battaglia. Combattere per la patria, sconfiggere il nemico. Questi erano gli ideali che i Capi di Stato e l’esercito imprimevano con forza nella mente di ogni soldato, e Arthur ci aveva fermamente creduto.
Alla terza settimana aveva l’impressione che quei pensieri, così fortemente radicati in lui, non gli appartenessero. Iniziava a domandarsi il vero motivo per cui si trovasse a vivere come una talpa da quasi un mese e con l’unico obiettivo di una battaglia imminente.
Quando i suoi incarichi lo portavano in giro per le grotte, si ritrovava inevitabilmente a fissare quelle interminabili scale che avrebbero condotto tutti loro verso l’inferno della terra di nessuno. Un giorno sarebbe sbucato fuori dalle gallerie e si sarebbe trovato faccia a faccia con un tedesco. E in quello stesso istante avrebbe dovuto premere il grilletto.
Quella lunghissima scala che si perdeva nell’oscurità simboleggiava la sua corsa verso l’ignoto.
Non poteva accettare che il suo domani rimanesse avvolto dalle tenebre.
Francis colse il suo stato d’animo quella notte.
“Sei più arrabbiato del solito” notò, senza degnarsi di indagare prima di fare affermazioni impudenti.
“L’oggetto della mia rabbia è sempre lo stesso” rispose Arthur, tentando di essere laconico e non degnandolo di uno sguardo. Dopo tutte quelle notti trascorse a voltargli le spalle aveva il fianco e la spalla sinistri tutti indolenziti.
“Il fatto che la mattina non ci siano mai dei croissant decenti? Sappi che mi sono già lamentato per questo.”
Idiot. Parlo di questa guerra, di questo buco, dei tedeschi e dei francesi.”
“Concordo sulle prime tre, ma purtroppo nessuna di loro dipende da me, quindi non vedo perché mai dovresti essere in collera con i francesi” disse Francis in un tono conciliante che Arthur aveva sentito raramente uscire da quella boccaccia altezzosa.
“Non dovrei essere qui.”
“Secondo il buon senso nessuno di noi dovrebbe.”
Arthur fu assalito da un’ondata di collera: Francis si ostinava a non capire o semplicemente si divertiva a stuzzicarlo. Si voltò trovandoselo appiccicato al naso.
“Finiscila di fare l’imbecille. Sono incazzato perché non capisco il motivo che mi ha spinto ad essere qui, ora, a combattere una guerra che non è mia! Perché dovrei stare qua a rischiare la pelle per voi?! E’ il vostro insulso Paese ad essere stato attaccato e se non siete in grado di difendervi sono problemi vostri!”
Per una volta, Francis rimase serio. “Ragioni da moccioso.”
Arthur digrignò i denti e si voltò di nuovo. Un’altra parola e lo avrebbe coperto di insulti svegliando tutti i presenti. Francis non batté ciglio.
“Se i tedeschi prendono la Francia arriveranno sicuramente anche in Inghilterra, ancor prima che ve ne accorgiate. Siamo tutti nella stessa situazione.”
Era inutile negarlo: Arthur non era uno sprovveduto, sapeva benissimo che Francis aveva ragione, tuttavia non lo avrebbe mai ammesso.
“Non stai combattendo per il mio Paese, ma per il tuo, anche se adesso ci ritroviamo nello stesso letto.”
Francis si faceva odiare sempre di più, perché aveva sempre più ragione. In ogni caso, che stessero combattendo per il proprio Paese o per qualunque altro, loro non c’entravano niente.
“Lo so bene” rispose Arthur a bassa voce. “Se il mio Paese è in pericolo io combatterò per lui, perché non c’è nessuno più inglese di me. Ma proprio per questo non ho alcuna intenzione di buttare la mia vita in una trincea, perché solo restando vivo posso fare qualcosa per scacciare i crucchi.”
Francis gli accarezzò la testa ma Arthur lo scacciò immediatamente.
“Mi fa piacere che la pensi così” disse il francese, ormai avvezzo all’irritabilità di Arthur, “perché voglio poter ascoltare ancora la tua vocetta acida che sputa insulti a qualunque cosa respiri.”
L’inglese gli lanciò un’occhiata disgustata. “Sarà anche per piantarti una pallottola in faccia che sopravvivrò, ricordatelo.”
E Arthur sapeva come fare. Non vi erano molte alternative per restare in vita, evitando il campo di battaglia: disertare o trovare il modo di mandarci altra gente, e quest’ultimo metodo lo attirava parecchio. Scalare il potere e giungere ai vertici, ecco qual era il miglior sistema per poter vedere la fine di quella guerra.
Stava osservando le piccole stalattiti sul soffitto quando Francis invase il suo campo visivo e depositò un bacio sulle sue labbra. Arthur, colto di sorpresa, impiegò qualche istante per comprendere cosa stesse accadendo, ma quando se ne rese conto allontanò quel peso morto con un sonoro schiaffo. Si alzò a sedere di scatto facendo volare via le coperte.
“Ma che cazzo pensi di fare?!”
I due che dormivano sul letto di sopra si mossero e Arthur si morse la lingua. Ma non poteva fare finta di niente!
Francis ripartì all’attacco senza esitare. “Arthùr, domani avrà inizio l’operazione, potremmo anche non vederci più e io sono stufo di accontentare i tuoi capricci da adolescente, quindi ora preparati perché posso sopportare tutti gli schiaffi da femminuccia che mi infliggerai.”
Allungò le braccia ma Arthur fu più veloce ed estrasse il coltello che teneva sotto il cuscino. A quello Francis non poté restare indifferente, dato che la lama ora premeva sulla sua giugulare. Guardò il coltello con una punta di preoccupazione. “Sei proprio un bastardo” disse ghignando. Riusciva a divertirsi anche in situazioni del genere, quel perverso.
Premendo la lama sulla sua pelle, Arthur lo costrinse a tornare sdraiato.
Lui non era come Francis. Diavolo, Arthur stravedeva per le tette, più grosse erano più era contento e l’idea di scoparsi Francis era semplicemente repellente. Tuttavia, il pensiero di averlo in pugno, in quel momento, si avvicinava alla sensazione di trovarsi di fronte a un seno taglia quinta.
Lo guardò a lungo prima di decidersi a fare la prima mossa, ma il pensiero di fargliela finalmente pagare – nell’unica lingua che il francese conosceva – gli diede la spinta sufficiente a chinarsi su di lui, non senza una certa irruenza. Il coltello premeva ancora sulla sua gola, perciò quando Arthur gli aggredì la bocca, la reazione di Francis fu limitata.
Le sue labbra cercarono nuovamente quelle dell’inglese quando si furono separate, ma Arthur non aveva alcuna intenzione di accontentarlo. Lo fece restare al suo posto mentre comprendeva, finalmente, il piacere perverso che si provava nello stuzzicare qualcuno.
Decise di sperimentare nuovi approcci, così la sua lingua accarezzò dapprima la guancia, poi l’orecchio, rubando al francese gemiti sommessi. Quando questi tentò di voltarsi per far incontrare le labbra, Arthur lo bloccò affondando i denti nella carne del suo lobo e Francis gemette di nuovo.
Maudit perverti” bisbigliò irritato. “Almeno ammetti che tutto questo ti piace.”
“Mi piace vederti sottomesso, Maresciallo.”
Con un movimento improvviso, il francese gli afferrò contemporaneamente la mano che stringeva il coltello e la testa, così Arthur perse la presa e si ritrovò in bocca la lingua di Francis. Tentò di ritrarsi, poiché non era questo ciò che aveva pensato. Non avrebbe concesso niente a quel pazzo, voleva insegnargli a stare al suo posto, ma ora che rifletteva di nuovo la situazione volgeva totalmente a suo svantaggio.
Ora Francis gli teneva stretti entrambi i polsi e Arthur dovette appoggiarsi completamente su di lui. Quando il Maresciallo tentò di nuovo di insidiarsi nella sua bocca, lui gli morse la lingua e Francis si ritrasse talmente in fretta da sbattere contro la testiera in ferro del letto. Approfittò del momento per rotolare giù dal corpo di Francis, ma questi fu veloce: era già sopra di lui con un sorriso trionfante.
“Ci hai provato, piccolo bastardo. Ora è il mio turno.”
Questa volta fu il collo di Arthur ad essere invaso da baci e morsi, solo che i suoi non erano gemiti di piacere, bensì di rabbia. Sentiva che Francis si stava eccitando e ciò gli fece provare un istante di panico. Senza rifletterci oltre sferrò una ginocchiata in mezzo alle gambe dell’altro che soffocò un’imprecazione e si lasciò cadere sul materasso.
La lotta li aveva lasciati entrambi stremati a ansanti.
“Però… te la sei cercata” disse Francis, ridendo tra le smorfie di dolore.
“Sei tu… che sei un maiale” ribatté Arthur col fiatone.
“Riesci a capire fin dove mi sarei spinto?”
Arthur rabbrividì. “Non farmici pensare.”
Rimasero in silenzio. L’inglese aveva già chiuso gli occhi quando sentì delle dita accarezzargli la guancia e sussultò. Le labbra di Francis erano pochi millimetri da lui.
“Da domani cambierà tutto. Qualunque cosa accada, restiamo in vita.”
Quando Arthur ebbe la certezza che non sarebbe più stato aggredito, si lasciò andare al sonno, ma non ebbe il coraggio di scacciare quel braccio che gli cingeva le spalle.
Perché sarebbe cambiato tutto.
Il giorno seguente Francis fu trasferito a Vauquais.
 
“Ci sono delle mine! Le mine…”
Le orecchie di Arthur fischiarono e l’esplosione gli rimbombò fin nelle viscere. Terra, legno, arti gli piovvero addosso, ma anche questa volta si ritrovò illeso. In quei tre giorni di battaglia i tedeschi avevano fatto esplodere delle mine sotterranee per tentare di fermare l’avanzata nemica, e fino ad allora Arthur le aveva mancate tutte. I tedeschi si ritiravano lentamente ma la battaglia infuriava.
“Tenersi pronti alla carica! Preparate i fucili!”
Arthur si aggrappò alla sua arma, rannicchiato nella trincea assieme agli altri uomini. Strinse forte la presa, focalizzò i movimenti che avrebbe compiuto: correre, puntare il nemico, sparare, sdraiarsi, sparare, sparare, sparare.
“All’attacco!”
Cazzo. Quel dannato zaino lo tirava per terra e gli impediva di correre bene. Il soldato al suo fianco scivolò nuovamente nella trincea, colpito a morte da un proiettile. Arthur si arrampicò e fu fuori. In lontananza si udivano i colpi di cannone. Il suo obiettivo era la trincea nemica che i tedeschi avevano abbandonato indietreggiando. In tre giorni avevano conquistato dieci metri di terra. In quel momento la sua vita si riduceva a un solo scopo: quel fossato.
Iniziò a correre. Alcuni nemici opponevano l’ultima resistenza da dietro dei sacchi di sabbia poco più in là della trincea e sapeva che altri si nascondevano tra gli alberi alla sua destra, ma stavano venendo sterminati dagli alleati.
Una testa priva dell’elmetto fece capolino dal riparo dei sacchi, Arthur mise un ginocchio a terra, mirò, sparò. Mancato, ma il crucco si era abbassato. Aveva guadagnato qualche istante per proseguire la sua corsa.
Per quanto ne sapeva, sotto di lui poteva celarsi una mina, oppure un ultimo tedesco sarebbe potuto spuntare dalla trincea e freddarlo con un unico colpo. Entrò nel fossato con un salto e atterrò su un cadavere carbonizzato dai lanciafiamme. Si guardò attorno alla ricerca di nemici nascosti, ma non ne vide. Riprese a respirare appoggiandosi al fucile e riparandosi dai proiettili vaganti, attendendo che gli altri soldati lo raggiungessero.
Rimase all’erta: non aveva nessuno che gli coprisse le spalle. Se Francis fosse stato lì, sicuramente non si sarebbe mai allontanato dalle sue spalle… e dal suo fondoschiena.
Arthur chiuse gli occhi, aveva solo pochi istanti prima di dover riprendere la sua corsa verso la morte.
Dal bosco provennero delle grida.
À l’aide!
Arthur avvertì un brivido serpeggiargli lungo la colonna vertebrale. Era francese…
Sentì un proiettile fischiargli a pochi centimetri dalla testa. Cazzo! Si era dimenticato del crucco là davanti e si era alzato troppo oltre il bordo della trincea.
Altre grida dagli alberi e l’inconfondibile rombo del lanciafiamme. Il tedesco sparò di nuovo.
“Adesso basta!” urlò Arthur furibondo. Saltò fuori dal fossato e corse verso la barriera di sacchi di sabbia. Piantò i piedi per terra e si inginocchiò. Un proiettile lo superò, un altro dovette aver fatto centro perché sentì un vago bruciore al fianco, ma non si mosse. Prese la mira e fece fuoco. Dalla barriera non giunsero più altri spari.
Arthur ansimò, scosso dai brividi. Sentì del sangue bagnargli la giacca all’altezza della cintura.
À l’aide!” Il disperato richiamo si fece più vicino e Arthur non attese oltre e si gettò tra gli alberi. Seguì il suono della voce, ma più che altro fu attratto dall’odore di bruciato. Lingue di fuoco si fecero strada tra i rami… no, era un uomo in fiamme. Corse verso l’inglese invocando aiuto con quell’accento ormai familiare, ma Arthur sapeva bene di non poter far niente, anzi, se fosse rimasto lì sarebbe finito anche lui preda del fuoco. Si scansò di lato, ma fu incauto. Da dietro un tronco carbonizzato un tedesco puntava l’arma contro di lui.
Fuck!
Arthur sollevò il fucile, ma fu più lento del nemico.
 
 

Continua


Bene, il primo capitolo è concluso e siamo entrambe pronte ad essere lapidate pubblicamente. Non è la prima fiction hetaliana che scriviamo, ma sicuramente è la prima che pubblichiamo.
Speriamo che il primo impatto sia stato gradevole perchè ci piacerebbe davvero tanto proseguire questa storia, possibilmente accompagnate dai vostri commenti e dai vostri consigli! Siate spietati, ma anche comprensivi, siamo due povere menti perverse....

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Deuxième Trancée: Le niege rouge

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Capitolo 2
*** Deuxième Tranchée: La niege rouge ***


deuxieme tranchee Titolo: Schützengraben, Capitolo 2 – Deuxième Tranchée
Fandom: Axis Powers Hetalia
Personaggi: Inghilterra (Arthur Kirkland), Francia (Francis Bonnefoy), Germania (Ludwig)
Genere: Storico, Drammatico, Guerra
Rating: Nc17, Arancione
Avvertimenti: Yaoi, Angst, Death, AU
Parole: 2,939 con Windows Office
Disclaimer: I personaggi della fanfiction provengono da Axis Powers Hetalia che appartiene a Hidekaz Himaruya
Note: 1. Da qui in poi i protagonisti avanzeranno di grado militare, quindi dovrete sforzarvi un po’ di capire di chi si sta parlando, di volta in volta.
2. Neanche questo è un capitolo da rating arancione, sebbene mi sia impegnata nel renderlo crudo, non siamo ancora arrivati al momento clou. Portate pazienza. Inoltre temo che questo sia un capitolo abbastanza noioso… avrei voluto inserire delle descrizioni storiche più accurate, ma mi sono resa conto che era già abbastanza pesante così com’era, perciò perdonatemi per i numerosi salti temporali, ho solo cercato di arrivare il prima possibile alla parte più interessante. In fin dei conti si tratta di una fanfiction storica, e la storia non è sempre ricca di colpi di scena, ahinoi.
3. Verranno citate un po’ di armi… non importa se non sapete di cosa si tratta, volevo solo tirarmela un po’, magari tra voi c’è qualche appassionato (per quanto mi riguarda, io lo sto seriamente diventando!) In ogni caso tutte le scarse informazioni che ho acquisito provengono da Wikipedia, a cui vi rimando per eventuali chiarimenti.
4. Ho usato Babylon per tradurre le frasi straniere di questo capitolo e sono a conoscenza della sua inaffidabilità quindi non fateci casooooo! Tanto quelle frasi non sono importanti al fine della storia.
 

Deuxième Tranchée: La niege rouge

 

Vauquais, dicembre 1915
 
“Sergente… cosa dobbiamo fare?” chiese il soldato giovane, quello la cui paura negli occhi era talmente palese da sembrare sul punto di perdere il senno.
“State in silenzio, e pregate.”
Francis chiuse gli occhi, sapendo che anche gli altri avrebbero fatto lo stesso. Bloccati lì sotto, come topi, non avevano altre possibilità se non starsene rintanati finché il pericolo non fosse passato. Se ne stavano schiacciati contro le pareti del tunnel con le gambe premute contro il petto, la testa bassa, in attesa del momento in cui sarebbero potuti morire tutti.
In un istante tutta la roccia attorno a loro tremò, si udì un boato, alcuni frammenti di pietra si staccarono dal soffitto e piovvero su di loro sollevando la polvere. Le schegge fischiavano e le pareti rimbombavano. Francis sentì la pietra dietro alla sua schiena divenire più calda. Persino dall’interno della loro galleria poterono udire le grida degli uomini colpiti percorrere la terra ed echeggiare nel loro minuscolo rifugio.
Poi tutti i rumori cessarono, la polvere si posò, lasciandoli semi soffocati. Un paio di soldati piangevano, gli altri restarono increduli di fronte al pericolo miracolosamente scampato.
Un'altra mina sotterranea evitata. Forse sarebbe stata l’ultima.
 
La galleria esplosa era quella più a ovest; si pensava che ci fossero ancora alcuni uomini in vita sepolti a quasi 50 metri sotto terra. Si udivano dei rumori, ma sarebbe trascorso del tempo prima che i soccorsi potessero raggiungerli, sempre se ci fosse stato il tempo di intervenire: molte volte il Comando riteneva uno spreco di forze la ricerca dei superstiti all’interno delle gallerie, era più semplice costruirne delle nuove.
Alla sua truppa furono concesse alcune ore di riposo, così, una volta arrampicatisi fuori dai cunicoli, vennero portati alla cantina, una stretta grotta scarsamente illuminata dove gli uomini potevano acquistare piccoli lussi, quali vino e cioccolata, ma anche francobolli per spedire le lettere alle proprie famiglie. In poche parole, era il luogo più vicino alla realtà che avevano lasciato ormai da tempo.
Lungo il tragitto incrociarono ufficiali e sottoposti che si affrettavano a raggiungere le stanze adibite a uffici, infermerie, cucine… Tutto era claustrofobico, niente a che vedere con i sotterranei di Arras, le cui grotte più ampie riuscivano ad ospitare comodamente duecento persone.
“Sergente? Ha posta da spedire?” Uno dei suoi uomini gli stava tendendo la mano in attesa di ricevere la corrispondenza. Francis, seduto su una panca lungo le pareti della cantina, riusciva a malapena a vederlo in controluce, davanti alla fioca lanterna appesa al soffitto.
“No, questa settimana niente” rispose sorridendo, tentando di celare lo sconforto.
“E quella busta?” insistette il soldato accennando al foglio che Francis aveva appoggiato con finto disinteresse sulla panca.
“Le lettere per le innamorate devono essere scritte con attenzione e io mi reputo un poeta mediocre” scherzò Francis con la sola intenzione di invitare quel tizio a farsi i fatti propri.
“Oh, capisco Sergente. Ma non la faccia attendere troppo o si metterà nei guai!” avvertì l’altro allontanandosi.
Francis lo guardò sparire tra le tenebre del corridoio, poi si voltò stizzito. Altro che poeta mediocre: avrebbe potuto comporre dei sonetti prodigiosi, se solo colui a cui avrebbe voluto rivolgerli non fosse stato un rustico campagnolo collerico. Oltretutto, non aveva alcun indirizzo al quale spedire la lettera.
Si rimise in tasca il foglietto stropicciato, nell’attesa del prossimo momento in cui avrebbe sentito il bisogno di lasciarsi andare ai ricordi.
Che motivo aveva di farlo consegnare? Non sapeva nemmeno se Arthur fosse vivo. Durante le settimane trascorse con lui, Francis sapeva che sarebbe stato trasferito da Arras, ma se l’avesse detto all’inglese avrebbe ottenuto solo un malinconico congedo – o almeno, questo era ciò che si era immaginato, con l’aggiunta di un romantico addio strappalacrime. Quella notte aveva voluto conquistarlo. Ci aveva provato, non esattamente nel migliore dei modi, considerando anche il difficile soggetto con cui aveva avuto a che fare, ma era certo di aver lasciato un segno profondo che avrebbe tormentato quel frigido inglese per molte notti a venire.
Voleva tornare ad Arras, e non solo per le grotte più accoglienti, ma per accertarsi con i suoi occhi e con il suo corpo che quello scriteriato avesse tenuto fede al suo intento… e che fosse ancora vivo. Se lo fosse stato, chissà com’era cambiato. La guerra trasformava  le persone, sia mentalmente che fisicamente.  Magari aveva perso una gamba, era un incidente comune, oppure un lanciafiamme gli aveva fatto il favore di bruciargli quelle sue sopracciglia esagerate. Un anno e tre mesi era un tempo davvero lungo in una realtà in cui ogni giorno poteva essere l’ultimo, l’unica consolazione che Francis poteva permettersi era immaginarsi come sarebbe stato passare più tempo con lui e possederlo fino in fondo.
 
“Ascoltate bene: d’ora in avanti silenzio assoluto. Prendete gli stetoscopi e iniziate a fare il vostro lavoro.”
I suoi soldati obbedirono e si distribuirono lungo la parte finale del tunnel. Li attendevano quattro lunghe ore di intercettazioni, nella speranza di cogliere frammenti di conversazione dei tedeschi che, in quel momento, scavavano gallerie nella direzione opposta a loro. Potevano essere a fianco a loro, sopra, sotto o anche a pochi metri di fronte. L’unico modo per conoscere la loro posizione e quella delle mine che avrebbero piazzato era premersi contro le pareti e ascoltare.
Nelle ultime notti i minatori avevo allungato il corridoio sotterraneo secondo le indicazioni di Francis, ma ogni giorno lui e la sua truppa dovevano tornare lì sotto ad accertarsi che i tedeschi non avessero fatto lo stesso.
Era una situazione assurda. Fin quando avrebbero dovuto continuare a scavare? Prima o poi sarebbero arrivati direttamente sotto la trincea nemica, a meno che i crucchi non li avessero fatti saltare in aria per primi.
Dopo un’ora riuscirono a individuare la direzione dalla quale provenivano delle voci indistinte. Francis aveva dovuto imparare il tedesco con tutti i soldati che si trovavano assieme a lui e ora prendeva appunti su ciò che riusciva a carpire attraverso la terra e la roccia.
Annotò sul suo taccuino un paio di parole in tedesco; nel frattempo gli arrivarono altri foglietti dagli uomini con brandelli di frasi, alcuni traducevano. Il silenzio era assoluto.
Alla fine Francis rilesse per tre volte il risultato dell’appostamento. Si alzò di scatto e corse lungo la galleria che si allargava sempre più, i soldati che si aggiravano per i corridoi si premettero contro le pareti per lasciarlo passare.
“Devo fare rapporto al Maggiore!” annunciò abbozzando un saluto militare all’uomo che piantonava una porta in ferro.
Quando fu dentro si presentò al Maggiore e gli lesse il comunicato.
“Siamo appena venuti a sapere dall’avamposto nella galleria a nord-est che il nemico sta posizionando due Bergmann nelle vicinanze della nostra trincea.”
Il Maggiore alzò gli occhi dalla mappa che stava consultando sulla scrivania.
“Quanto nelle vicinanze?”
“Sbocco a sud-est, quello più vicino alla nostra posizione. In questo modo ci sarà quasi impossibile uscire dalle gallerie in quella direzione.”
L’ufficiale diede un’altra occhiata alla cartina consumata e sospirò. “Sergente Bonnefoy, prenda quattro uomini della sua squadra e vada a sabotare quelle mitragliatrici. Se ci bloccassero il passaggio su quel fronte il piano d’attacco non potrebbe più essere attuato. Parta immediatamente.”
Francis fece fatica a recepire quell’ordine. Sarebbe uscito da quel buco, avrebbe sentito il vento sulla pelle, l’aria pulita… ma si sarebbe anche gettato in bocca ai tedeschi con soli quattro uomini!
Uscì dalla stanza senza parlare. Appena fuori si appoggiò al muro e fece appello a tutta la sua lucidità; più ci pensava e più si convinceva che si trattava di un’impresa impossibile.
Alzò gli occhi al soffitto, immaginando il cielo. Era da tanto tempo che non usciva, chissà com’era cambiata la sua Francia.
 
Fuori era giorno. Francis si sporse leggermente fuori dalla trincea e lanciò una triste occhiata al paesaggio intorno: il villaggio di Vauquais era quasi del tutto distrutto, solo alcune povere case di sassi si stagliavano con i loro scheletri contro il sole velato dalla nebbia. Gli alberi più vicini erano bruciati, il terreno era devastato dalle esplosioni delle mine e le voragini si aprivano fin dove poteva arrivare la vista. Alcune chiazze di neve macchiavano quella terra infelice, come a tentare di celare qualcosa che non si poteva più tenere nascosto.
Francis estrasse l’orologio dal taschino e controllò l’ora, poiché stando per tutto quel tempo sotto terra aveva perso completamente la concezione del tempo: quasi le quattro del pomeriggio; non avevano molto tempo prima che il sole tramontasse.
Lui e i suoi quattro uomini erano equipaggiati di fucili, revolver e granate, distribuiti tra loro. Non avevano potuto attrezzarsi più di così: essendo soltanto in cinque doveva essere una semplice missione di sabotaggio e perciò dovevano potersi muovere velocemente.
In realtà a Francis sembrava più un suicidio. I tedeschi non erano degli sprovveduti, avevano sicuramente predisposto sufficienti protezioni alle mitragliatrici.
“Ascoltate bene, soldati. Abbiamo delle Bergmann puntate contro e dobbiamo sabotarle il più velocemente possibile. Se faremo un lavoro pulito potremo tornarcene tutti indietro  vivi, perciò state concentrati e ubbidite agli ordini.”
Gli altri annuirono, ma tutti avvertivano la venefica sensazione della morte imminente.
Uscirono dalla trincea strisciando sulla neve e in pochi istanti Francis si ritrovò fradicio e infreddolito. La guerra non era qualcosa da intraprendere in inverno, la storia aveva accumulato molti esempi del suo esito disastroso e, grazie all’impresa di Napoleone, i francesi avrebbero dovuto imparare più di tutti la lezione. Ma quella non era affatto una guerra: ormai era solo una gara al massacro.
Procedettero con lentezza estenuante, su e giù per le colline fangose create dalle mine esplose, lasciandosi a poco a poco alle spalle il villaggio deserto.
Francis ricordava Vauquais il giorno in cui erano arrivati i francesi a evacuarlo, un anno prima: era un semplice paesino tra i boschi, ma sarebbe diventato presto il teatro di una delle tante, inutili battaglie, destinato alla stessa fine di tutte quelle povere cittadine che si avevano avuto la sfortuna di trovarsi lungo la linea Hindenburg.
Si fermarono al riparo di un tumulo, il più vicino alla trincea nemica. Il problema era che, ovviamente, l’ingresso a quest’ultima era ben nascosto. In silenzio, Francis si fece passare il binocolo. La poca neve caduta gli facilitava il compito dato che il fossato era appena visibile come una vaga striscia scura in mezzo al candore; riusciva anche a distinguere quelli che gli apparvero come sacchi di sabbia celati dalla neve. La sua esperienza gli diceva che quello era il punto in cui erano state poste le mitragliatrici.
In silenzio indicò l’obiettivo ai suoi soldati. Era impossibile avvicinarsi di più, ma si trovavano comunque a una distanza adatta per lanciare una granata. Se avessero mancato il bersaglio sarebbe scattato l’allarme e sarebbero morti tutti.
Francis pensò che sarebbe stato meglio lanciare due ordigni contemporaneamente, ma se fossero esplose nello stesso punto anche loro sarebbero stati coinvolti, e per quanto lui fosse patriottico, non aveva alcuna intenzione di sacrificare se stesso e altre quattro persone per far saltare quelle Bergmann. Perciò rimaneva solo da lanciare quella singola granata e sperare. Decise che sarebbe stato lui a farlo: era il Sergente e si sarebbe assunto questa responsabilità.
Prese in mano la granata, fece un respiro profondo e l’armò. Aveva solo pochi istanti per calcolare la distanza e la forza da imprimere al proprio braccio: la bomba doveva esplodere appena toccata terra. Con la mano libera si fece il segno della croce, e lanciò.
La granata disegnò un grande arco attraverso il cielo candido, Francis seguì il suo percorso e sentì il tonfo soffocato che produsse cadendo sulla neve, a circa un metro dalla fossa.
Non era esplosa. Merda, aveva calcolato male i…
Per qualche secondo rimase assordato dallo scoppio. La neve e il fango si alzarono come  il getto di una fontana e ripiovvero a terra senza produrre alcun rumore, eccetto un lungo, rintronate fischio che gli trafiggeva il cervello.
Francis si era riparato la testa con le braccia e si era lasciato scivolare lungo la collinetta. Quando riacquistò parte dell’udito iniziò a sentire i primi lamenti e le imprecazioni dei tedeschi.
La missione era compiuta, ora dovevano tornare indietro il più presto possibile, prima che il nemico potesse avere il tempo di riorganizzarsi. Ma qualcosa andò storto. Udì un rumore sordo e liquido, poi la neve accanto a lui si sporcò di rosso e uno dei suoi soldati cadde morto. Dalla loro sinistra provennero voci irate e il latrato di un cane, una decina di tedeschi li aveva individuati e correva nella loro direzione. Fottuti, nessuno scampo.
“Correte!” ordinò Francis ai suoi uomini. Sebbene sapesse benissimo che si trattava di una follia non potevano far altro che scappare e pregare di riuscire a sfuggire tra la neve. Prima di mettersi a correre, Francis impugnò la pistola e sparò alcuni colpi. La mano gli tremava, ma i nemici erano in formazione compatta, così riuscì a ucciderne uno e a ferirne almeno un altro. Ovviamente non sarebbe bastato.
Si diedero alla fuga, ma il cane fu subito dietro di loro e azzannò un francese. Alle loro spalle riecheggiavano gli spari e gli ordini del comandante nemico che incitava i suoi all’inseguimento.
Francis correva, non sentiva nemmeno le gambe, ma su quel terreno accidentato non era semplice mantenere l’equilibrio. Gli pareva che i polmoni gli esplodessero e si rese conto con orrore di non sentire più nessuno al suo fianco: i suoi compagni erano morti. Si guardò alle spalle, il comandante puntava la pistola proprio verso di lui. Una Mauser. Cazzo... Era davvero fottuto.
L’istante in cui sentì lo sparo fu lo stesso in cui la sua gamba sinistra cedette e Francis finì con la faccia nel fango gelato. Faticava a respirare, l’aria gli si era ghiacciata nei polmoni e la ferita gli faceva talmente male che non aveva nemmeno la forza di gridare. Tentò miseramente di strisciare via; se si fosse visto in quel momento si sarebbe messo a ridere. I tedeschi ebbero tutto il tempo di avvicinarsi e riprendere fiato, un paio di loro sghignazzava. Francis rinunciò, si accasciò definitivamente nella neve e imprecò. Aveva le lacrime agli occhi per la rabbia e per il dolore. No, non sarebbe crepato in quel modo ignobile, in mezzo a una valle oltraggiata dalla guerra, nel suo Paese occupato da quei bastardi!
Un piede premette crudelmente sulla sua schiena, schiacciandolo a terra; il cane venne a ringhiargli vicino ma venne subito trattenuto e allontanato. I tedeschi dissero qualcosa in tono sprezzante che Francis capiva benissimo.
Non sarebbe crepato lì, non umiliato in quel modo, non senza aver saputo se Arthur fosse ancora vivo. Strinse la pistola nascosta dal suo corpo, si girò di scatto e sparò in faccia al tedesco. Il terreno attorno a sé si tinse di rosso, sentì il sangue schizzargli sul volto.
Gli altri non apprezzarono per nulla quel gesto di ribellione e gli si gettarono addosso. Lo colpirono su uno zigomo con un calcio, lo afferrarono per i capelli e lo misero in ginocchio mentre la sua gamba gli trasmetteva fitte lancinanti. Lo costrinsero a sollevare la testa e sentì il gelo del metallo di una pistola in mezzo alla fronte.
Sie sterben, französisch!”
“Alt!”
Si fece avanti quello che Francis aveva identificato come il comandante. Era alto, biondo e con gli occhi azzurro ghiaccio, nulla di strano per un crucco. Aveva i gradi di Capitano appuntati sulla divisa.
“Vous allez loin de ma terre!” gridò Francis, non gliene fregava niente di parlare con un Capitano o no, e non gli importava nemmeno che non lo capissero, voleva soltanto insultarli a morte e rispedirli tutti nella topaia dalla quale provenivano.
“Andatevene dalla mia terra, dannati barbari bastardi! Avete distrutto le mie città, ammazzato i miei fratelli e sono sicuro che avete ucciso anche Arthur! Andate a farvi fottere!” Sputò sangue e saliva sugli stivali del Capitano, il quale gli assestò un calcio alle costole. Nessuno lo sostenne e Francis cadde a terra. Le ferite gli stavano facendo perdere la lucidità, sentì solo il tedesco impartire un ordine. Quando riaprì gli occhi si rese conto che erano rimasti soli. Francis si guardò attorno con sospetto… già, lo avrebbe ucciso, proprio come un’esecuzione. Probabilmente il tedesco si sarebbe divertito a torturarlo, o magari i sottoposti se n’erano andati perché il loro ufficiale aveva la malsana abitudine di violentare le sue vittime. Erano porci fino in fondo.
 Il tedesco si chinò su di lui e lo guardò, piegando leggermente la testa, perfettamente calmo. Afferrò con due dita la pistola, ormai scarica, che Francis aveva lasciato cadere e la gettò lontano.
“Vattene.”
Era sicuro di non avere capito bene. Il crucco parlava francese. Lentamente, si puntellò sui gomiti e cercò di mettersi seduto.
“Veloce” disse il tedesco con voce profonda, senza alcuna rabbia. Si trattava semplicemente di un ordine.
Francis lo guardò a lungo, era certo che, non appena si fosse voltato per andarsene, gli avrebbe sparato alle spalle. “Perché?”
“Per i miei uomini. Perché non crediate che siamo tutti uguali.” Si rialzò. “Muoviti o verranno a catturarti.”
Francis si rimise in piedi con molta fatica, ma decise di non farselo ripetere oltre. Prima di allontanarsi rivolse al tedesco un’altra occhiata. “Dimmi il tuo nome.”
“Non ne vedo il motivo.”
“Voglio conoscerlo per poterti risparmiare la vita, nel caso si presentasse l’occasione” insistette Francis.
“Non voglio la pietà dei francesi” rispose lui voltandosi.
“Ti prego!”
Il tedesco rimase immobile per qualche istante, Francis vedeva il suo respiro che si condensava davanti a lui, le sue spalle ampie solide e ferme, i corti capelli biondi nascosti sotto il cappello.
“Ludwig. Ora sparisci.”
Francis obbedì e si diresse zoppicando verso la sua trincea. Non si voltò nemmeno, aveva la sensazione di potersi fidare.





Continua


Che capitolo palloso, nevvero? E temo che il prossimo sarà ancora peggio, ma prometto che ce la metterò tutta u_u
Prima di rispondere alla vostre recesioni ho da fare una piccola parentesi: vi sarete sicuramente accorti che i personaggi, che dovrebbero parlare in lingue diverse tra loro, si capiscono, ma allo stesso tempo ogni tanto se ne saltano fuori con frasi nella propria lingue... quindi la domanda che dovrebbe sorgere spontanea è: ma allora tra loro che lingue parlano?
...Boh.... Dico solo che ho voluto inserire ogni tanto qualche frasetta in lingue diversa perchè ci stava bene, ma non fatevi troppe domande... Volevo solo avvertirvi che sono consapevole di questo mistero della fede.



@ GinkoKite: Ciao!! Sono proprio felice che i  personaggi siano risultati IC per te, questo mi rincuora molto... Scrivere di Arthur non è mai stato un problema per me, ma non avevo mai sperimentato Francis (e ancor meno Ludwig!!), in più credo sia abbastanza difficile parlare di loro in una situazione come questa della fanfiction, sicuramente abbastanza lontana da come siamo abituati a vederli... ma proprio per questo ci piace! Mwahahaha! Tranquilla, presto torneranno a rotolarsi nei letti :)

@ Harinezumi: Ma ciao collega! Che bello risentirti dopo averti conosciuta (credo non freghi niente a nessuno).  Sono contenta che ti piaccia il mio Francis serio! Devi sapere che a me quella rana non piace per niente e l'unico modo per rendermelo sopportabile è renderlo serio, perciò quando ci sono io fidati, sarò assai macho XD
Per conoscere la sorte di Arthur dovrete aspettare ancora un po'! *gode sadicamente*

@ Miristar: Capisco perfettamente la tua perplessità riguardo ai giochini poco silenziosi che i due hanno fatto a letto. Non sono riuscita a sistemarli altrove, in un posto come quello era praticamente impossibile farli trovare da soli quindi ho optato per la camerata, almeno la gente "dovrebbe" dormire.... Perciò ti risponderò citando il commento a questa scena di mio fratello: "Probabilmente gli altri staranno guardando" XD

@ Julia Urahara: Senza il suo lato pervertito Francis non sarebbe Francis ù_u Purtroppo in quest'ultimo capitolo non sono proprio riuscita a inserirlo, dopotutto siamo pur sempre in guerra e questa è una fiction assolutamente angst... Spero comunque di essere rimasta IC, le motivazioni che mi hanno spinto a descrivere questi comportamenti di Francis, in queste situazioni atipiche, sono tanti e molto lunghi ma ho cercato di interpretare la meglio quelle che potevano essere delle reazioni credibili.

@ Baekho: Se hai apprezzato l'ambientazione solo al primo capitolo allora credo (e spero) che sarai rimasta positivamente colpita da quest'ultimo XD Quello di "Be alive" era solo un'introduzione, in futuro la situazione peggiorerà sempre più, sappilo...
E per quanto riguarda l'interesse suscitato dalla guerra mi trovi pienamente d'accordo... si tratta di periodi terribili e vergognosi ma ciò non toglie che siano interessanti e proprio per questo possiamo approfondire quelli che sono stati gli sbagli che hanno portato a risultati così drastici e incivili. Credo sia sempre bene parlarne, ovviamente mantenendo un certo rispetto verso l'argomento.




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Capitolo 3
*** Dritte Graben: Geschenk ***


dritte graben Titolo: Schützengraben, Capitolo 3 – Dritte graben
Fandom: Axis Powers Hetalia
Personaggi: Inghilterra (Arthur Kirkland), Francia (Francis Bonnefoy), Germania (Ludwig)
Genere: Storico, Drammatico, Guerra
Rating: Nc17, Arancione
Avvertimenti: Yaoi, Angst, Death, AU
Parole: 3,207 con Windows Office
Disclaimer: I personaggi della fanfiction provengono da Axis Powers Hetalia che appartiene a Hidekaz Himaruya
Note: 1. In questo capitolo sono presenti scene di sesso.
2. Per essere attinente alla Storia, il capitolo si sarebbe dovuto svolgere esattamente un anno prima, nel 1914; tutto il resto, fatta eccezione per i personaggi di Hetalia, è accaduto veramente.
 
 
 
Dritte Graben:  Geschenk


Vauquais, dicembre 1915


Indipendentemente dal fatto che fosse Capitano o meno, Ludwig era un uomo rispettato sul campo di battaglia, sia dai suoi uomini che dai superiori. Era severo, attento, controllato, pretendeva la disciplina ma ricambiava sempre l’obbedienza dei soldati. Quel giovane, con i capelli scuri e i baffi, era quello che lo venerava di più, ma Ludwig non gradiva un atteggiamento tanto idolatrante: lo trovava dannoso e, soprattutto, sinonimo di debolezza.
Per queste motivazioni rimase stupito quando quel giovane soldato, di cui ancora faticava a ricordare il nome – non gli capitava mai, ma quel personaggio gli era stato antipatico dal primo momento in cui era venuto in contatto con la sua personalità – aveva protestato così veemente dopo aver ricevuto quella notizia.
Ovviamente Ludwig non si sarebbe fatto influenzare da puerili lamentele: i suoi ordini non andavano messi in discussione perché sapeva che era la cosa giusta da fare.
“Capitano, la sua decisione offende i soldati che si stanno battendo per la Germania!” insistette il giovane in modo provocatorio. “È inaccettabile che si fraternizzi con il nemico.”
Ludwig era famoso per riuscire a mantenere sempre una fredda calma anche nei momenti più difficili: fu questo a farlo desistere dal mandare quell’arrogante in isolamento. D’un tratto gli tornò in mente il suo nome.
“Soldato Hitler, la finisca con queste proteste, le mie decisioni non verranno messe in discussione. Se non ha intenzione di partecipare avrà il permesso di restarsene qui, in modo da non rovinare un sano momento di svago ai suoi compagni.”
Ludwig si congedò senza indugiare poiché non gli interessava assistere alla reazione del soldato. La prima volta che l’aveva incontrato, a Ypres, gli era sembrato un giovane  e diligente messaggero: eseguiva gli ordini subito e senza discutere e amava la Germania quasi più di Ludwig, ma con lo scorrere del tempo si rese conto che la sua dedizione così sincera rasentava l’ossessione. Era uno di quelli che aveva fallito in tutto e che era riuscito a trovare il proprio scopo soltanto col servizio militare.
Per quanto Ludwig amasse combattere e per quanto avesse trovato in esso la missione della sua vita, c’era una grande differenza tra la difesa della patria e l’odio verso tutti coloro che non vi facessero parte. Una delle tante cose che Ludwig aveva appreso in battaglia era che il nemico non andava disprezzato, ma temuto e ammirato. Per questo aveva deciso di risparmiare quel francese: aveva sabotato le loro mitragliatrici con un’azione lodevole. Ormai le armi erano andate distrutte e non c’era motivo di accanirsi ciecamente contro di lui.
L’uomo doveva differenziarsi dalle bestie.
 
Si era fatto mezzogiorno ed era ora di andare. Ludwig radunò i soldati in formazione ordinata e insieme iniziarono a marciare verso il villaggio di Vauquais, deserto e quasi del tutto distrutto ormai da più di un anno. Sebbene avesse accettato quasi subito l’idea dei francesi e avesse tentato di trasmettere entusiasmo ai suoi uomini per quell’iniziativa, Ludwig indagava la zona attorno a sé con attenzione: c’era sempre l’esigua possibilità che si trattasse di una trappola.
Dalle abitazioni diroccate provenivano alcune colonne di fumo e Ludwig udì le voci dei francesi trasportate dal vento freddo. I suoi soldati sembrarono rincuorati ma alcuni di loro erano ancora sospettosi, come lui del resto. In ogni caso, se fossero tornati indietro adesso avrebbero soltanto peggiorato i rapporti con il nemico.
Da lontano un francese venne loro incontro, ringraziò il Capitano per essersi presentato e invitò gli altri a riunirsi attorno ai fuochi. Ludwig non l’avrebbe disdegnato ma i suoi sensi erano sempre all’erta, così iniziò a girovagare lentamente tra i soldati accampati che ancora faticavano a concedersi confidenza l’un l’altro. Effettivamente si trattava di una situazione insolita, Ludwig non aveva ricordi di altri episodi come quello, forse durante le guerre più antiche… In ogni caso se un evento di festa poteva migliorare le prestazioni dei suoi soldati allora era favorevole anche a indire una tregua con i francesi. Fu proprio uno di loro che gli venne addosso barcollando – probabilmente già ubriaco.
“Oh! Pardon, monsieur!” si scusò raddrizzandosi e Ludwig notò che non era ubriaco – forse – ma faticava a camminare appoggiato a delle stampelle improvvisate. Inoltre riconobbe quella voce non appena l’udì. Fece finta di nulla ma l’altro lo fermò mettendogli una mano sulla spalla, in un gesto di confidenza prematuro e poco gradito.
“Ehi. Sei tu, vero? Ti riconosco meglio di spalle che da davanti.” Ludwig si voltò e si trovò effettivamente di fronte allo stesso francese a cui aveva salvato la vita pochi giorni prima. Gettò un’occhiata distratta alle stampelle.
“Sei stato tu a lasciarmi questo regalino” scherzò l’altro, un po’ troppo allegro per essere uno che si trovava faccia a faccia con un nemico, “quindi ritiro le scuse per esserti venuto addosso.”
“Come preferisci” replicò Ludwig poco incline a continuare quella conversazione e tentando nuovamente di svignarsela.
“Dove vai così di fretta?” insistette il francese. “Per una volta tanto non abbiamo nulla da fare e io vorrei offrirti un bicchiere di vino.”
Ludwig non fece nulla per dissimulare la sua irritazione. Decise di essere chiaro, poiché il francese sembrava non capire. “Sebbene abbia acconsentito a questo scambio culturale, non nutro una totale fiducia in voi, perciò è mio dovere assicurarmi che dietro a tutto questo non si celi un’imboscata.”
“Oh” commentò l’altro con una punta di ammirazione. “Davvero professionale, ma posso assicurarti che nessuno dei presenti è qui per sua volontà e tutto ciò in cui speriamo è tornarcene a casa il prima possibile. Una tregua ogni tanto è qualcosa a cui non rinunceremmo. Piuttosto, voi potreste approfittarne.”
Ludwig si ritenne offeso da quell’insinuazione. “Non abbiamo portato armi, come stabilito.”
“E allora è tutto a posto! Siediti con me e dimostrami che sei qui solo per trascorrere un pacifico Natale.”
I francesi avevano davvero la lingua lunga.
“Come mai parli tedesco?” domandò per cambiare argomento.
Prima di rispondere l’altro se la prese comoda e si sedette, con molta calma, su un ceppo vicino a un fuoco incustodito.
“Probabilmente per la stessa ragione per cui tu parli francese.”
Era un’affermazione alquanto stupida. Ludwig parlava francese perché era un Capitano, mentre l’individuo che aveva di fronte non sembrava affatto una persona di tale rango.
Non giungendo alcun commento, il francese si affrettò a specificare. “Sono uno degli addetti allo spionaggio nelle gallerie. Tu, invece, non sembri uno che si sporca la camicia andando sotto terra.”
“Già” rispose Ludwig, “io sono uno di quelli che si sporcano solo le mani.”
Con quella risposta lo mise a tacere per un po’, ma la quiete durò poco.
“Comunque mi sembra educato presentarmi, dato che io conosco già il tuo nome.” Invece di tendergli la mano, gli porse un bicchiere vuoto. “Mi chiamo Francis e vorrei che bevessi un po’ di vino.”
Ludwig accettò il bicchiere con reticenza. “Non sono due frasi che vanno esattamente assieme…”
“Oh sì, invece. Io amo il vino.” Francis dimostrò la veridicità delle sue parole stappando la bottiglia senza etichetta che stava appoggiata al ceppo e versandone una quantità generosa a sé e a Ludwig.
Non avevano nemmeno finito il primo bicchiere che il francese si era già perso in discorsi insensati.
“Adoro il vino, ovunque mi trovi mi fa sempre tornare in mente le estati della Provenza. Tanti vigneti, tanto sole e tante contadinelle felici che cantano raccogliendo i grappoli. Ah, la Francia, che terra da sogno. È come trovarsi nei Campi Elisi. Sono sicuro che anche in paradiso sia pieno di contadinelle con le gonne svolazzanti che vengono a imboccarti con gli acini succosi e rispondono alle tue occhiate mostrandoti le loro candide mutandine …”
Ludwig smise di ascoltare dopo gli elogi alla Provenza, un po’ perché non gli interessava minimamente, un po’ perché si rese conto di non essere abituato al vino, poiché, a dispetto del freddo, il viso gli si era riscaldato parecchio e la testa era diventata pesante. Poteva reggere litri su litri di birra, ma il vino era riuscito a prenderlo alla sprovvista.
“… e il miglior panettiere di Parigi è …”
“Perché non puoi stare zitto per un minuto?” Ludwig si era stufato di sentire quel brusio in sottofondo. Francis lo guardò, interdetto: forse sperava di poter parlare a vanvera ancora per una buona mezzora. Rimase colpito da quella protesta, rifletté a lungo prima di rispondere, osservando le abitazioni di pietra che si stagliavano scure sul bianco cielo invernale. Poi sorrise con espressione che si avvicinava molto alla commiserazione.
“La guerra cambia le persone. Credevo fosse solo una scusa usata dai vecchi reduci per lamentarsi, invece mi sbagliavo.”
“Prima non parlavi senza sosta?”
Francis scosse la testa, agitando il bicchiere. “Altroché, l’arte della dialettica è un mio grande pregio. È solo che, prima di incappare in tutto quest’orrore non avevo bisogno di parlare a caso per nascondere quello che sentivo veramente.”
Ludwig non era lì per offrire consulenza psicologica a un francese ubriaco, per cui non volle indagare oltre. Ci pensò il francese a proseguire con la sua confessione.
“Tu che cosa pensi di tutto questo?” domandò Francis, facendo un ampio gesto davanti a sé col bicchiere in mano.
Ludwig non parlò: non era in grado di fornire una risposta del genere in così poco tempo e, anche se avesse potuto, non credeva di voler condividere il suo punto di vista a riguardo.
“Lo sai” continuò Francis, “sei uno di coloro che ha invaso il mio bellissimo Paese, riducendolo in questo stato vergognoso. Vorrei ammazzarvi tutti qui, in un istante.”
Il suo sguardo era piantato in quello di Ludwig. Se pensava di spaventarlo stava commettendo un grandissimo errore, l’unico motivo per cui il tedesco non aveva risposto a quella provocazione era che non lo credeva assolutamente capace di compiere il gesto di cui l’aveva minacciato.
“Sai perché non lo farò?” volle sapere Francis. Ovviamente Ludwig aveva molte idee che si sposavano bene con la parola debolezza, ma preferì conoscere l’opinione del francese.
“Perché so che non risolverei niente. I tedeschi soffrono come i francesi, nessuno di noi vorrebbe essere qui, adesso. Siamo solo strumenti di una guerra di cui nessuno ha capito il significato, ma che tutti combattono credendo di avere ragione. È per questo che non mi hai ucciso, vero?”
Ludwig lo scrutò a sua volta per cercare di capire quanto di sé potesse condividere con il francese.
“Rispettare il nemico” disse infine, prendendo un altro sorso di vino e poggiando poi il bicchiere nella neve. “Nel tuo caso non è soltanto un saggio precetto, ma qualcosa che si può mettere in pratica. Strano a dirsi, ma la pensiamo in modo molto simile.”
Il vociare degli altri soldati era lontano, alle loro spalle, di fronte a loro i resti di Vauquais e la consapevolezza di un futuro difficile e, forse, troppo breve.
“Ludwig” disse Francis dopo un po’ di tempo, chiamandolo per la prima volta per nome – cosa che al tedesco non piacque particolarmente – “vorresti farmi un regalo di Natale?”
“Sinceramente, non mi pare che ci sia molto da festeggiare.”
“Infatti, lo credo anch’io.” Ludwig si chiese perché  mai Francis avesse gli occhi arrossati. “Mi devi soltanto regalare una mezzora lontano dai ricordi.”
Un’idea iniziò a formarsi nella testa leggermente annebbiata del Capitano.
“Vorrei che mi aiutassi a dimenticare per un po’ una persona che ha reso quest’ultimo anno una tortura. È lontano da me e quasi sicuramente non lo rivedrò più, perciò regalami mezzora di libertà da lui.”
Non si trattava certo di una richiesta comune e a Ludwig non piaceva per niente l’idea di essere usato per assecondare i piaceri perversi di un francese. Tuttavia doveva fare i conti anche con le sue esigenze: non era di pietra e dopo anni trascorsi nell’esercito era passato attraverso certe esperienze. Ma lì… con un francese! Quello andava oltre il rispetto per il nemico.
“Non mi aspetto niente da te, puoi farmi ciò che vuoi, non m’interessa.” Quest’ultima affermazione di Francis mise in una luce vagamente diversa l’insolita situazione. Forse sarebbe stata solo un’altra occasione in cui avrebbe dimostrato la sua abilità nel comando.
Stanco di aspettare risposte che non giungevano, Francis si alzò e zoppicando si diresse verso una delle case abbandonate. Ludwig decise che era il momento di smetterla di pensare.
La porta della casupola si chiudeva a malapena e la parte superiore era bruciata; le tende non c’erano più e gli scuri alle finestre erano caduti. Appena entrato, Ludwig prese una sedia ammaccata e la incastrò tra il pavimento e il pomello della porta. Francis era girato di spalle e si stava sbottonando la giacca della sua divisa blu.
“Devi sapere che non è mia abitudine adescare gli uomini in questo modo… ah, ma cosa racconto! Se la gente conoscesse tutte le mie avventure amorose la smetterebbe di adulare Casanova. Oh!” Si voltò di scatto con metà del petto scoperto. “Non ti ho chiesto se preferisci farlo con i vestiti o senza.”
“Non fa differenza.” Ludwig voleva solo finire in fretta e tentare di ricavare soltanto il meglio da quella strana – e un po’ deprimente – situazione.
Francis si avvicinò a lui e tese le mani verso i bottoni della sua giacca, ma a Ludwig non interessava quella parte, non nutriva nessun sentimento per quell’atto e non voleva sentirne alcuno, poiché lo riteneva un comportamento assolutamente non consono a una personalità moralmente solida come la sua. Si trattava di un’eccezione, un piccolo divertimento, un’incoscienza dettata dal vino che nessuno sarebbe mai venuto a sapere, una piccola macchia sul suo curriculum impeccabile che sarebbe stata cancellata via con facilità.
Afferrò un polso del francese, glielo torse sopra la testa e lo spinse con la faccia rivolta verso il muro.
“Oh, facciamo così? Avevo sperato in una posizione del tutto diversa, ma sono uno che si sa adattare.”
“Non dimenticare chi è l’invasore, tra i due.”
Finalmente Francis si decise a zittirsi e a collaborare slacciandosi i pantaloni. Ludwig continuava a tenere stretto il suo polso contro il muro gelato, il francese prese la sua mano libera e si portò le sue dita alla bocca, poi Ludwig poté iniziare a scendere verso il basso, lungo la curva della schiena, e a toccarlo senza troppo riguardo. Il corpo di Francis era sensibile e reagì velocemente agli stimoli. Ludwig fu abile a slacciarsi la cintura con una sola mano e il francese lo fu altrettanto a stuzzicarlo con la propria, pur essendo voltato.
Nonostante la tacita intesa avuto fino a quel momento, la prima volta non furono perfettamente in sincronia: Francis era ancora un po’ rigido e Ludwig fu un po’ troppo precipitoso. Quel maledetto vino l’aveva lasciato intontito, ma col procedere del tempo i loro movimenti si armonizzarono e i gemiti a fatica trattenuti di Francis scandivano i secondi e i minuti.
Ludwig si sfilò la cintura dai pantaloni e la passò attorno al collo del francese che si lasciò sfuggire una risatina roca.
“Ti diverte?” volle sapere Ludwig.
“Penso solo… che io e te siamo davvero in sintonia. È come se mi stessi punendo per questo mio piccolo peccato di lussuria.”
“Pensala come vuoi. A me piace solo avere le persone sotto controllo.”
I loro fiati si condensavano nell’aria gelata e delicati fiocchi di neve si insinuavano tra le assi  smembrate del tetto.
Si inarcarono di nuovo, la cintura premette sulla pelle di Francis imbiancata dalla pallida luce che filtrava dall’alto, bloccando il suo freddo respiro. Il sudore di Ludwig si stava ghiacciando in fretta e sentì di essere vicino al culmine.
Un ultimo movimento un po’ più violento e scomposto degli altri, il laccio strinse troppo e un nome fu lasciato aleggiare a metà nell’aria limpida.
Francis venne e Ludwig lo seguì.
Il francese si lasciò andare a un profondo sospiro liberatorio e a una risatina che non aveva niente di elegante, Ludwig invece si affrettò a rivestirsi, prima che il sudore lo congelasse. Francis si lasciò scivolare a terra contro il muro e Ludwig si sedette accanto a lui – ma non troppo vicino – per riprendere fiato. Sentì l’altro armeggiare con la giacca ancora abbandonata sul pavimento, poi Francis gli mise davanti agli occhi una sigaretta ammaccata. Il tedesco l’afferrò un po’ sorpreso da quel gradito optional e se la fece accendere.
"Tu mettrais l’univers entier dans ta ruelle" disse il francese improvvisamente allegro, liberando una boccata di fumo.
“Posso sapere da quando ti eri preparato a questo?” domandò Ludwig, ignorando la citazione.
“Da quando si è deciso di trascorrere insieme il Natale. Sinceramente, avrei rimorchiato chiunque.” Si prese il tempo di aspirare di nuovo. “Però il fatto che sia stato tu l’ha reso piacevole.”
Ludwig non rispose. Non aveva certo bisogno di rassicurazioni, eppure non voleva far vedere a Francis che quel piccolo apprezzamento non l’aveva lasciato indifferente. Infine, il Capitano si allacciò il cappotto, si raddrizzò il cappello e si rivolse a Francis, che se ne stava ancora semi sdraiato per terra, nudo dalla vita in su.
“A mai più, francese. Ovviamente nulla di tutto quello che è successo dovrà uscire da qui.”
Oui, mein hauptmann” rispose, facendo il saluto militare con la sigaretta tra le dita. “Ma prima permettimi di ricambiare il tuo regalo.” Frugò nuovamente tra le sue cose ed estrasse una scatolina di latta verde scuro. Gliela porse e Ludwig l’aprì subito, sospettoso.
Era un set per la toeletta maschile, con pettine, forbici, rasoio e pennello per radersi. Il tedesco gli rivolse un’occhiata interrogativa.
“Lo ammetto, non l’ho preso pensando a te. Mi perdonerai?”
“Era per il tuo uomo, giusto?”
Francis abbassò lo sguardo, mettendosi le mani in tasca. “Tenerlo sempre con me, sapendo di non poterglielo dare, è molto più triste che donarlo a qualcun altro. Permetti?” Prese in mano il pettine e lo passò sulla frangia scomposta di Ludwig. “Ti dona, questa pettinatura. Ora sì che sembri un vero duro.”
Ludwig si diede una fugace occhiata allo specchietto ancora riposto nella scatola.
“Grazie.”
“Addio, Allemand. Spero davvero di non ucciderti per sbaglio.”
“Addio, Französisch. Ascolta bene, la prossima volta.”
Ludwig uscì dalla casa, e si congedò da Francis sperando che riuscisse a comprendere il significato di quell’ultima frase.
 
“Capitano! Cosa ci fa qui sotto?”
“Taci, soldato! Ricorda qual è il tuo compito.” Ludwig riprese a scrutare, stizzito, il buio in cui era immerso. Le gallerie serpeggiavano ormai attraverso tutta la terra di nessuno, e stare lì sotto dava la sensazione di ritrovarsi sepolti vivi in una fossa. Ora Ludwig capiva cos’era stata la vita di Francis fino a quel momento e l’utilità che la sua conoscenza avrebbe potuto avere a quello stato della battaglia, quell’interminabile e infruttuosa battaglia…
Nel silenzio generale, Ludwig si accostò alla nuda terra scavata di recente, nel punto in cui i suoi uomini avevano individuato la posizione del tunnel nemico. Sapeva che quello che stava per fare poteva essere considerato tradimento, ma sapeva anche che era la cosa più giusta, per lui e per coloro che si trovavano in quel luogo sperduto e martoriato a uccidersi inutilmente.
Avvicinò l’orecchio alla parete, ascoltò attentamente per qualche minuto, poi prese fiato e si domandò, per l’ultima volta, se fosse sicuro di ciò che stava per fare.
“Piazzeremo una mina qui, alle 19.”
Trattenne il respiro e attese una risposta. In realtà si sentiva ridicolo, ma non lo stava facendo per paura o per debolezza. Voleva solo mettere fine a quella pazzia.
Compris.
 
 
 
Continua
 
 
 
 
Buonasera a tutti! Chiedo scusa per il ritardo col quale ho pubblicato… speravo di riuscire ad aggiornare ogni settimana ma ho avuto da fare più del previsto e alla fine sono stata costretta a posticipare. Comunque spero che siate rimasti soddisfatti. Finalmente un po’ di sano sesso, scrivere a rating arancione è stato abbastanza difficile per me, soprattutto si è rivelato molto complicato riuscire a farvi capire dove si trovavano… certe parti del corpo….. vabbè!
Riprendo un attimo il discorso accennato nelle note e poi rispondo alle recensioni: durante l’assedio di Vauquais, iniziato nel 1914 e terminato nel 1916 (credo…forse ’17) i soldati dei diversi fronti hanno deciso di fare una tregua e festeggiare assieme il Natale. Non so esattamente se si siano ritrovati al villaggio o se abbiano avuto con loro le armi o no ma comunque è un fatto accaduto veramente, e anche la presenza di Hitler, e il suo rifiuto a festeggiare con i francesi, sono veri. Per quanto riguarda le soffiate che i soldati nelle gallerie si sono fatti sulla posizione delle mine… è vero anche quello, anche se è accaduto verso la fine dell’assedio.
 
 
@ Miristar: Eh…che dire, mi spiace che sia stato un po’ palloso, purtroppo io nutro un amore malato per i polpettoni storici quindi dovrete sorbirvene ancora un po’, ma mi impegnerò per renderli più leggibili! Per quanto riguarda Arthur come avrai visto non si sa ancora niente ma non perdere le speranze! Invece, i capitoli saranno sei, due a testa!
 
@ GinkoKite: I tuoi apprezzamenti sull’IC dei miei personaggi mi rincuora tantissimo! Oggi vi ho fatto conoscere il mio Ludwig e spero davvero che sia risultato credibile… ho fatto davvero fatica con lui, ma credo anche che sia quello che più si avvicina, caratterialmente, all’anime: un po’ scostante, maniaco dell’ordine, ma anche paziente, altruista e comprensivo. Logicamente c’è sempre da considerare che, trovandosi in guerra, non possono passare le giornate a rincorrersi per i campi… Spero che il mio francese sia corretto anche stavolta! XD
 
@ Julia Urahara: Che ne dici del Doistu-polpettone? XD Mi è venuto molto più tenero di come l’avevo pensato ma non mi dispiace del tutto… Attendo le tue impressioni!
 
@ Baekho: Io e l’angst siamo pericolosamente in sintonia… E per quanto riguarda Arthur, sì, lo amiamo tutti!!! Ma bisogna aspettare :P Prometto che nel prossimo capitolo vi ripagherò tutta per la vostra paziente attesa.
 
@ Harinezumi: La risposta al tuo commento l’ho praticamente esaurita con i messaggi precedenti ^^’ ma ribadisco che mi dispiace taaaaaanto se risulto noiosa ma purtroppo adoro la storiaaaaah! Comunque vi prometto che i prossimi due capitoli saranno molto più romanzati, l’ultimo invece… beh diciamo che se non vi interessa la storia potreste anche saltarlo… vedete voi! Grazie millissime per i tuoi complimenti e alla prossima!!
 
 
Next chapter --> Fourth Trench: The last salvation
 
Annuncio a tutte le fan in attesa che il prossimo capitolo è di Arthur… eh sì, è ancora vivo e più o meno intero… potete smettere di stare in pena XD

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Capitolo 4
*** Fourth Trench: The last salvation ***


fourth trench Titolo: Schützengraben, Capitolo 4 – Fourth Trench
Fandom: Axis Powers Hetalia
Personaggi: Inghilterra (Arthur Kirkland), Francia (Francis Bonnefoy), Germania (Ludwig)
Genere: Storico, Drammatico, Guerra
Rating: Nc17, Arancione
Avvertimenti: Yaoi, Angst, Death, AU
Parole:  5,634 con Windows Office
Disclaimer: I personaggi della fanfiction provengono da Axis Powers Hetalia che appartiene a Hidekaz Himaruya
Note: 1. Anche stavolta ho dovuto posticipare la data del capitolo rispetto al fatto storico, solo per riuscire a parlare di tutte le battaglie che avevo in mente, ma anche per fare in modo che i  personaggi si trovassero e si spostassero in un arco di tempo “umano” da un luogo all’altro. Perciò vi chiedo nuovamente di fare finta di essere nel 1915, e non nel ’16.
2. Per la vostra gioia ci saranno ancora scene di sesso.
 

Fourth Trench: The last salvation
 

Dover / Ypres, aprile 1916
 
Londra bruciava e gli Zeppelin solcavano il cielo cremisi come le ombre di enormi calabroni. Tutto andava in rovina, le bombe cadevano inesorabilmente su ogni cosa, imprevedibili e implacabili. La sua infanzia, la sua vita si sbriciolavano tra le esplosioni, i ricordi volavano lontano sottoforma di cenere.
Sentiva il calore delle fiamme e la polvere degli edifici crollati che lo soffocavano. Era inutile guardarsi attorno: lo scenario era sempre uguale e non sembrava esserci una via di fuga.
Contemplava impotente quella tragedia e l’unica cosa a cui riuscì a pensare fu un vecchio ritornello che raccontava di un ponte che crollava…
 
Le pareti della sua stanza erano grigie, macchiate qua e là dall’umidità e con estesi buchi nell’intonaco. Lì, a Dover, gli Zeppelin erano già passati. I tedeschi, nel tentativo di conquistare la Manica, avevano attaccato i porti e poi si erano spinti nell’entroterra.
Arthur rimase immobile a fissare il soffitto scrostato, con la coperta gettata di lato. Non sapeva se quello scenario infernale di Londra fosse stato un incubo o un ricordo: era accaduto appena due giorni prima e ancora faticava a rendersene conto.
Si mise a sedere lentamente sul letto, la luce grigia penetrava dalla finestra alla sua destra e mostrava la desolazione di Dover. La sua camera era vuota, eccetto un semplice comodino e l’unica finestra, dalla quale cercava le risposte alle sue domande, si trovava accanto al triste letto dalla testata in ferro.
Aveva il braccio sinistro fasciato e appeso al collo e una benda stretta in fronte, regali dall’ultimo campo di battaglia, a Neuve Chapelle.  L’operazione era stata un successo, la città era stata sottratta ai tedeschi in mezzora, non riusciva a capire come, in così poco tempo, fossero potuti morire a migliaia: cinquemila perdite per ogni chilometro di terra conquistato.
Quando gli fu detto che sarebbe stato riportato a Londra aveva davvero sperato che fosse tutto finito e che, in qualche modo, avrebbe potuto provare a ricominciare. Poi gli avevano riferito che, appena rimessosi, sarebbe stato rimandato al fronte: era un Capitano ormai, gli uomini avevano bisogno della sua guida, poiché si era dimostrato così abile nelle battaglie precedenti. Era così, aveva faticato così tanto per potersi guadagnare la propria indipendenza, ma si stava rendendo conto sempre più di aver fatto male i conti.
Qualcuno bussò alla porta e non si preoccupò di attendere l’invito prima di entrare. Arthur fece per alzarsi ma fu fermato da un gesto della mano.
“Buongiorno, Capitano. Come si sente oggi?”
“Buongiorno, Colonnello. Sto bene, la ringrazio.”
“Questo ci conforta, dato che abbiamo molti progetti in serbo per lei.” Il Colonnello si avvicinò al letto con una cartellina sottobraccio. “Sono qui in veste ufficiale per promuoverla al rango di Maggiore.”
Arthur si impegnò per simulare sorpresa, in realtà se lo aspettava già da tempo. Un altro grado verso l’alto e un altro metro verso il basso.
“Siamo tutti colpiti dalla capacità con la quale ha organizzato quei salvataggi durante l’attacco di Londra, nonostante fosse ferito, quindi promuoverla ci è sembrata la cosa più giusta da fare.”
Già, era proprio l’occasione che stavano aspettando.
“Presumo che si stia annoiando” continuò il Colonnello estraendo la cartellina e gettandola sul letto. “Le ho portato qualcosa da leggere.”

Arthur osservò il fascicolo, se avesse potuto scegliere non l’avrebbe mai letto, ma il suo superiore era lì e controllava le sue mosse, così lo aprì.
“Belgio…” lesse ad alta voce.
“Ypres. È quella la sua prossima destinazione. Presumiamo che i tedeschi stiano conducendo degli esperimenti in quel luogo. I battaglioni alleati sono giù sul posto, vogliamo che lei li raggiunga e fermi i tedeschi una volta per tutte.”
Arthur sollevò lo sguardo dai fogli e lo puntò dritto in quello del Colonnello. Ormai non cercava più di nascondere il suo odio verso quell’individuo: stavano entrambi giocando, ma la sconfitta di Arthur era un dato di fatto. Aveva compiuto ogni genere di azione spregiudicata, pericolosa, eroica, subdola pur di arrivare fin lì, al vertice, per potersi allontanare dal campo di battaglia e avvicinarsi a coloro che avevano in mano le sorti della guerra, per farla terminare o almeno per potersi rintanare da qualche parte lontano da quella distruzione. Ma più si avvicinava al potere, più percepiva la verità e comprendeva sempre più che il motivo per cui milioni di persone si affannavano e morivano era una mera questione economica. Non esistevano né un inizio né una fine, le sorti di tutti erano in mano a pochi e lui era un semplice strumento, come tutti gli altri. Si era praticamente gettato in pasto a coloro che cercavano carne da mandare al macello per i propri scopi: a nessuno faceva comodo un ufficiale che proveniva dal popolino e il fatto che si fosse guadagnato il potere con le proprie forze era soltanto un elemento di pericolo, perché lui non vedeva la guerra dallo stesso punto di vista dei borghesi che stavano al comando e accoglierlo tra le loro fila li avrebbe soltanto danneggiati.
Questo era il semplice motivo per cui adesso Arthur veniva mandato nell’inferno di Ypres, perché questa era una missione dalla quale non sarebbe dovuto tornare.
Una promozione… bella scusa. Maggiore Kirkland non suonava nemmeno tanto bene. Ma Arthur non si sarebbe tirato indietro, si era sobbarcato di troppe responsabilità, sapeva troppe cose per poter desiderare di abbandonare tutto. Piuttosto, avrebbe compiuto con dignità il primo passo sul sentiero in discesa verso la rovina.
 
Quel posto era una desolazione, proprio come tutti gli altri luoghi in cui era stato durante gli ultimi due anni. Inghilterra, Francia, Belgio, ormai non vi erano più molte differenze, l’unica cosa che vedeva erano i campi di battaglia e quelli erano sempre, tristemente uguali. Forse, l’unica novità degna di nota era che a Ypres c’era ancora qualche albero vivo. Però pioveva. Pioveva sempre.
Le trincee si articolavano su una vasta area, mentre le gallerie erano basse e strette, per lo più si trattava di cunicoli. C’era solo un tratto più praticabile che conduceva ad alcune stanze per le necessità primarie: infermeria, alcune camerate e due uffici, uno per il Generale – che in ogni caso non li degnava mai della sua presenza – e uno per lui. I soldati che non trovavano posto sottoterra si accontentavano di dormire in trincea o, se erano fortunati, nei villaggi vicini, quando non erano chiamati per combattere. Al momento comunque si trovavano tutti lì, perché Arthur non aveva perso tempo a organizzare l’attacco desiderato dal Comando e più tardi si sarebbe consultato con i Sergenti.
Intanto scrutava la zona deserta che si stendeva davanti a lui: da qualche parte, a un chilometro circa di distanza, c’era la trincea tedesca, immobile.
Arthur stava in piedi vicino alla trincea, in una zona leggermente rialzata: un perfetto bersaglio per un cecchino, ma sapeva di non correre alcun rischio, al momento. Da settimane era tutto tranquillo, nulla si muoveva, era come se i tedeschi stessero aspettando qualcosa, e per Arthur non era difficile capire cosa.
Il braccio gli pendeva ancora dalla fascia al collo e per quanto avesse voluto liberarsi di quel bendaggio era ancora troppo presto. Durante l’attacco a Londra gli era rimasto sotto un muro crollato, solo per miracolo non si era rotto niente ma aveva rischiato di farselo amputare da quanto i muscoli e i tendini si erano danneggiati. Era stato fortunato, se ne rendeva conto ormai da due anni. Nonostante tutte le idiozie e gli atti sconsiderati che aveva compiuto si era sempre salvato e aveva sempre combattuto per restare in vita. Ma da un po’ gli era sorta una nuova domanda: a cosa serviva restare in vita in un mondo come quello? Ora che conosceva tutti i loschi ed egoistici intrighi che stavano all’origine della guerra aveva anche la certezza che quel conflitto non sarebbe mai finito. Quindi tanto valeva sparire per sempre da quel posto.
 
Aveva sollevato il fucile e stava prendendo la mira, ma era inutile, era ridicolmente in ritardo e il tedesco lo aveva già nel mirino. Per di più stava per morire per aver seguito le grida di un francese. Maledizione.
Poi accadde qualcosa di indefinito e nebbioso. Dal fianco ferito – che prima aveva quasi dimenticato – salì una fitta che gli raggiunse il cervello e per qualche istante vide tutto confuso. Riuscì a sentire lo sparo e il terreno gli colpì la nuca. Pensò di essere stato preso in pieno e il mondo si oscurò. Ma poi sentì degli uomini che gridavano, altri spari, riapparve un po’ di luce e Arthur si ritrovò a boccheggiare nel fango. Il tedesco che gli aveva sparato cadde morto e altri soldati con la divisa inglese color kaki vennero a vedere se Arthur era ancora vivo, chiamarono un barelliere e lo portarono via. Ancora faticava a capire cos’era successo, aveva ipotizzato che la ferita al fianco gli avesse fatto perdere i sensi per qualche secondo e gli avesse fatto schivare il proiettile per un soffio.
Ma per tornare alla base lui e i barellieri dovevano attraversare il campo di battaglia, con i proiettili che vagavano impazziti, le mine ovunque e il fuoco che aveva incendiato quel francese e l’aveva divorato in pochi secondi. Che senso aveva correre al rifugio? Non sarebbero riusciti a fare un solo passo in più.
Il braccio gli faceva malissimo e lo costrinse ad aprire gli occhi. Adattarsi al buio della camerata fu difficile, ma presto riprese il controllo e ricordò dove si trovava. Era a Ypres, non ad Arras. Quel capitolo della sua vita era chiuso.
Durante il sonno la fascia gli si era slegata dal collo e il braccio gli era finito sotto il corpo. Impiegò molto tempo prima di riuscire a muoverlo. Il suo respiro era ancora affannoso, rimase a lungo immobile, con le coperte scostate dal corpo. Con la mano sana tastò il materasso duro al suo fianco, ma ne incontrò subito il margine. Ritirò la mano sentendo un’inspiegabile tristezza.
Quello non era un letto francese.
 
“Le loro mitragliatrici sono appostate qui, qui e qui. In questo punto ci sono due cannoni, ma hanno esaurito le munizioni e i rifornimenti non sono ancora arrivati. Questa zona è la preferita dai cecchini, quindi se attacchiamo da questa parte…”
Arthur reggeva una matita tra i due indici e tracciava distrattamente piccole onde nell’aria, mentre osservava attento la cartina che il Sergente stava picchiettando, sciorinando orgogliosamente tutte le informazioni che aveva raccolto sui tedeschi prima dell’arrivo dei rinforzi.
“Se provassimo ad aggirare qui…”
“Cos’è quella traccia?” domandò improvvisamente Arthur. Il Sergente si interruppe con aria confusa.
“Quale traccia?”
“Quel segno dietro la nostra trincea.”
L’uomo abbassò lo sguardo, alla ricerca. “Oh! Quella è la trincea che usavamo all’inizio dell’attacco, quando i tedeschi utilizzavano i cannoni, ma quando hanno terminato le munizioni, e poiché abbiamo accertato che non era più previsto il loro arrivo, ci siamo spostati un chilometro più avanti.”
Arthur si piegò in avanti e la osservò pensieroso. “Voglio mille uomini, settecento attaccheranno frontalmente, trecento rimarranno qui in caso di necessità. Tutti gli altri si trasferiranno nella vecchia trincea.”
Il Sergente si agitò e si rivolse a lui come se stesse parlando a un idiota. “Ma Maggiore, in caso di emergenza noi saremmo troppo lontani per venire in vostro aiuto. Mille uomini sono troppo pochi!”
“Non se vengono usati bene.”
“Ma si tratta di una missione rischiosa, non sappiamo nemmeno cosa stiano pianificando i tedeschi!”
“Per questo motivo ho intenzione di portarne pochi con me! È meglio che ne muoiano mille che cinquemila.” Arthur stava perdendo la pazienza, era stanco di venire trattato come una recluta: sapeva quello che stava facendo. L’altro si acquietò.
“Maggiore, è sicuro di non voler dirigere l’attacco da qui? Lei detiene il comando, se dovesse cadere sul campo…”
“Non accadrà. E se anche fosse, non sono io a fare la differenza, qui.” Avrebbe continuato a ripetere ai suoi uomini quella  frase per rassicurarli. Non sapeva se sarebbe caduto o no, il giorno dopo, ma di sicuro era ciò che il Comando si aspettava, quindi poteva essere solo questione di tempo.
“Ora vai, manda qui gli ufficiali francesi cosicché possano concordare col piano.” Arthur congedò con un gesto della mano il Sergente, il quale salutò e uscì in fretta. Fuori si udì un breve scambio di battute, poi la porta si aprì di nuovo ed entrarono i francesi. Il primo, il Tenente, fece il saluto militare e venne diretto verso la scrivania; il secondo…
Arthur trattenne il respiro, sentì il cuore mancare un battito e rimase impietrito perché quella era l’ultima persona che pensava di trovarsi davanti. Era Francis, e aveva la sua stessa, identica espressione.
Arthur era stato colto così alla sprovvista che non seppe come reagire, ma Francis stava immobile e muto, pallido e con gli occhi sgranati come se stesse guardando un fantasma, perciò l’inglese tentò di riscuotersi e fece finta di nulla, invitando il Tenente a parlare. Questi non se lo fece ripetere, sembrava aver imparato a memoria un discorso interminabile sui pregi delle sue truppe e sul supporto che avrebbero offerto e Arthur rispondeva ogni tanto a monosillabi, sforzandosi di guardarlo negli occhi. Ma ogni tanto lo sguardo gli cadeva su Francis che se ne stava ancora lì a fissarlo, immobile, mettendolo del tutto a disagio. Sembrava fare uno sforzo immane per trattenersi, gli tremavano tutte le braccia.
Arthur espose il piano a grandi linee, disse che avrebbe preso solo quattrocento francesi per la spedizione del giorno dopo. L’altro dimostrò di accettare le condizioni, probabilmente aveva poca voglia di organizzare un attacco e Arthur aveva fatto in modo che esso apparisse una specie di ricognizione. Il Tenente si congedò e fece un cenno un po’ spazientito a Francis, ma Arthur colse l’occasione al volo, senza pensarci.
“Vada pure, Tenente, ma vorrei che il Sergente si trattenesse qui per elencarmi le armi a vostra disposizione.”
“Come desidera” rispose l’altro senza dimostrare troppo interessamento. Uscì e si chiuse la porta alle spalle.
Arthur fece il giro della scrivania lentamente, cercando qualcosa da dire e un’espressione da assumere.
“Ehi… dove sei…” Gli fu impossibile terminare la domanda perché Francis gli aveva preso la testa tra le mani e sigillato le labbra con le proprie. Arthur non apprezzava simili effusioni ed ebbe l’impulso di respingerlo, ma non lo fece, un po’ perché era accaduto tutto così inaspettatamente – l’incontro, la sua lingua in bocca – un po’ perché era stato colpito dalla sofferenza che Francis aveva dimostrato di patire mentre stava lì, in piedi, a guardarlo… e anche perché era come se qualcosa, dentro di lui, si stesse sciogliendo e gli stesse prosciugando le forze.
Per tutte quelle ragioni – e per tante altre che non riuscì a classificare – non reagì alle mani di Francis che lo frugavano, toccandogli ogni parte del corpo, come per assicurarsi che ci fosse ancora tutto. Ma quando gli tastò il braccio ora libero, Arthur si ritrasse colto da una fitta di dolore.
Francis si spaventò, ma subito si avvicinò di nuovo e stavolta lo guardò dritto negli occhi. Arthur si perse per un attimo in quel blu, un colore così vivo che non vedeva da molto tempo. Il francese lo strinse così forte da spremergli l’aria fuori dai polmoni.
“Lo giuro, ero sicuro di non rivederti più. Maledizione, cosa mi hai fatto per torturarmi così? Ho sperato che mi sparassero un colpo in testa per riuscire a smettere di pensarti.”
“Basta, Francis.” Arthur cercò di essere delicato ma non era sicuro spingersi oltre, qualcuno sarebbe potuto entrare, e comunque c’era un limite a tutto, ciò che si sentiva dire lo metteva in difficoltà. Non gli faceva piacere ammetterlo, sperava di aver sviluppato un maggior autocontrollo, ma era contento di rivedere Francis, era come tornare indietro, quando la fine della guerra sembrava sempre dietro l’angolo.
Nonostante tutto avvertiva un certo pericolo in quel sollievo, qualcosa che avrebbe potuto minare la sua determinazione e allontanarlo dai suoi doveri.
“Che ti è successo?” chiese Francis ignorando le sue proteste. Scrutava con premura ogni angolo del suo viso. Arthur si sentì a disagio.
“Nulla di così diverso da quello che hai passato tu, a meno che non ti abbiano messo a riordinare scartoffie fino adesso.”
Francis sembrò addolorato. “I tuoi occhi sono morti, Arthur.”
Non era certo qualcosa che ci si sentiva dire tutti i giorni e l’inglese rimase non poco colpito da quell’osservazione. In realtà non c’era nulla di strano in quello che aveva detto Francis: Arthur era perfettamente consapevole di ciò che era diventato.
“Già” disse infine, nascondendo una punta di amarezza, “certe cose non si possono evitare.”
In realtà anche il francese appariva provato. Portava su di sé i segni della guerra, era dimagrito, non camminava più sicuro e impettito, non esibiva più quel sorriso provocatorio, ma i suoi occhi brillavano, come chi non ha ancora abbandonato la speranza.
All’improvviso il francese parve ricordarsi della reticenza di Arthur e si allontanò leggermente, cambiando argomento. “Sono felice che tu abbia mantenuto la tua promessa di restare in vita. Mi piacerebbe tanto sapere come hai fatto a diventare Maggiore in così poco tempo.”
Arthur non andava fiero di ciò che aveva fatto: se due anni prima era disposto a qualunque cosa pur di arrivare ai vertici, ora rimpiangeva i giorni in cui sarebbe potuto morire silenziosamente su un fangoso campo di battaglia, inconsapevole delle trame che si celavano sopra la sua testa, convinto di aver combattuto per un giusto ideale.
Si portò una mano alla tempia e sollevò i capelli, rivelando la cicatrice infertagli dal proiettile di Arras che l’aveva risparmiato per un soffio.
“Grazie a questo e a mille altri inutili atti di eroismo.”
Francis sfiorò la ferita a sua volta. “Che idiota.”
Sì, lo era, ma non disse niente. “Se non avessi fatto tutto questo ora non sarei qui.”
“Già, probabilmente saresti in Inghilterra, in congedo.”
Avvertì una punta di irritazione. Ricordargli i suoi sbagli non lo aiutava a restare calmo. Decise di prenderlo in contropiede. “E tu perché non sei a casa in congedo?”
Francis immerse le dita più in profondità tra i capelli di Arthur. “Ti cercavo.”
“Hai detto di essere sicuro che fossi morto.”
“È vero.” Rise senza entusiasmo. “Ti rendi conto di quello che mi hai fatto?”
Arthur aveva voglia di ribattere senza tanto garbo, non gli piaceva il modo in cui Francis lo sobbarcava di ulteriori responsabilità. Era certo di non poter reggere nulla di più, ma era stanco dei battibecchi, delle gare a chi riusciva a prevalere, delle lotte contro le tentazioni. Gli rimaneva soltanto un obiettivo da portare a termine e probabilmente non si sarebbe protratto oltre il giorno successivo.
Francis lo guardò in un modo che lo inquietò, lo abbracciò di nuovo, più delicatamente questa volta e iniziò a baciargli il collo. “Adesso che sono qui non ti lascerò fare altre stupidaggini.”
Arthur si divincolò. “Basta, adesso.”
“Nonostante tutto non sei cambiato.”
Sì che era cambiato! Aveva fatto delle scelte e imboccato un percorso al quale non poteva più sottrarsi senza provocare gravi conseguenze, e questo non era da lui. Francis lo faceva arrabbiare, non sapeva nulla di quello che gli era successo o che aveva deciso. Non si rendeva conto delle responsabilità che aveva!
Era cambiato, o meglio, era distrutto. Aveva cancellato tutto ciò che era e anche ciò in cui credeva. Non aveva altre aspettative se non quella di andare a morire il giorno dopo, rinunciando semplicemente a quello per cui, due anni prima, voleva vivere e combattere.
Si sentiva ridicolo di fronte a Francis. Aveva affrontato ogni genere di difficoltà, pericolo e sofferenza, eppure gli sembrava di essere ridicolmente inferiore e questo lo faceva infuriare.
Era come se Arthur non esistesse più, persino il suo orgoglio era sprofondato sotto terra.
Non avrebbe rinunciato ai suoi doveri e non avrebbe abbandonato la sua missione, ma se avesse potuto avrebbe voluto sparire per sempre, in quel modo avrebbe risolto ogni problema.
“Ti desidero come prima, ma so che sei un pudico bastardo quindi non insisterò, mi accontenterò di continuare a coccolarti finché non riuscirai più a resistermi.”
Arthur lo spinse via. Francis non sapeva niente, non poteva pretendere di credere che fosse rimasto lo stesso di prima. Era furibondo e la sua mente andò al tagliacarte che teneva sulla scrivania: glielo avrebbe piantato volentieri in un occhio. Che arrogante. Ma ciò che lo faceva sentire ancora peggio era la sensazione di avere sempre torto quando si trovava col francese. Che situazione degradante, voleva provare finalmente sollievo, voleva scomparire. Ormai non era che un rottame, sentiva che persino la sua anima era stata corrotta e non aveva più speranze. Non riusciva a provare altro che dolore, senso di colpa e rabbia, era per questo che il giorno dopo avrebbe attraversato la terra di nessuno senza paura: perché era arrivato al punto di disprezzarsi.
Fissò Francis negli occhi, un po’ come una sfida, ma non c’era nulla di nobile in ciò che stava per fare, soltanto il desiderio di essere annullato, nel corpo e nell’anima.
Si sentiva uno schifo, ma con decisione e rabbia iniziò a sbottonarsi la giacca e la gettò per terra, poi fece lo stesso con la camicia, i pantaloni e in pochissimo tempo si ritrovò nudo.
Francis aveva assistito a quell’esibizione inaspettata a bocca aperta, ma Arthur non aveva intenzione di conoscere la sua reazione, si trattava soltanto di un atto egoistico.
Andò al muro e vi si appoggiò coi gomiti, cercando di non pensare a nulla.
“Che cosa stai facendo?” domandò Francis incredulo.
“Stai zitto, so che lo vuoi e allora sbrigati.”
Sentì i suoi passi che si avvicinavano lentamente, ma non le sue mani sulla pelle, come aveva pensato.
“Non ti voglio così.”
Che palle, non gli andava bene niente. Non si poteva accontentare?
“Francis, sono cambiato, fattene una ragione, quindi datti una mossa prima che ci ripensi!”
Era umiliante, ma era anche tutto ciò che in quel momento poteva fare per cercare di soddisfare il suo desiderio di autodistruzione, o almeno era l’unica cosa che non comprendesse l’uso del tagliacarte.
Era solo un disgustoso concentrato di dolore e fallimenti.
Francis avrebbe potuto insistere sulla convinzione che quello fosse il modo sbagliato per farlo, ma probabilmente pensò di non potersi perdere un’occasione del genere. Le sue mani erano fredde quando gli sfiorarono i fianchi e salirono lungo la schiena, fino alle spalle.
“Sono qui per salvarti dall’oscurità in cui sei caduto, Arthur.”
Arthur chiuse gli occhi. Era impossibile salvarlo, lui stesso non voleva, ma cercò di crederci per qualche istante.
“Tu hai già salvato me” continuò Francis, “sei stato la mia piccola stella nei momenti peggiori che mi ha permesso di tornare vivo da te.”
Quelle parole non lo aiutavano ad affrontare la vergogna che già provava. “Smettila di farneticare.”
“Smettila tu, di farneticare, e cerca di capire quello che ti posso dare.”
Ciò che voleva era solo sprofondare e smettere finalmente di pensare, ma purtroppo la capacità di arrovellarsi il cervello in ogni situazione era una sua prerogativa, per cui, prima di sentire le dita di Francis sfiorargli il ventre, fu investito da una valanga di ripensamenti che lo fecero irrigidire come un ramo secco.
Il francese riprese a baciarlo, cosa che Arthur non sopportava poiché in quel lasso di tempo, che pareva protrarsi per l’eternità, aveva mille occasioni per pensare a quanto stesse mentendo a se stesso. Gli piaceva sentire il tocco invadente ed esperto di Francis, il calore che si diffondeva dalla sua pelle, i suoi capelli che gli solleticavano le spalle, i suoi vestiti che diminuivano man mano. Ma era tutto troppo complicato e degradante, era molto più semplice desiderare di essere eliminato per sempre piuttosto che accettare quei brividi di piacere.
“Lo vuoi davvero?” gli sussurrò Francis all’orecchio.
Maledizione, perché doveva complicargli la vita così?! Era triste e confuso, sicuramente non aveva le facoltà per prendere una decisione razionale e tutto quello che stava accadendo era dettato solo dal suo temporaneo disorientamento. Sì, lo voleva, ma se ne sarebbe sicuramente pentito, ne era certo, stava commettendo un atto sconsiderato e infantile, proprio come tutti quei patetici tentativi di eroismo che gli erano costati la condanna a morte. Ultimamente non era più in grado di fare delle scelte assennate, era come se l’istinto avesse preso definitivamente il sopravvento e lo spingesse a commettere una cazzata dopo l’altra, senza riuscire più a fermarsi.
Nel tempo che Arthur impiegò per tentare di decifrare quello che sentiva, Francis decise di interpretare la risposta a modo suo. Scivolò lungo la sua schiena fino ad inginocchiarsi – ormai era nudo anche lui, Arthur lo avvertiva perfettamente – mise le mani sui suoi fianchi e prese ad accarezzarlo, dapprima con le labbra e poi con la lingua.
Arthur lottava contro l’impulso di girarsi e stenderlo con una ginocchiata. Che modi erano?! Non si vergognava? Il modo in cui stava usufruendo di lui, neanche fosse la più volgare prostituta di un bordello, lo turbava profondamente, ma ad essere sinceri era proprio ciò che Arthur aveva desiderato all’inizio: essere preso, annullato, abbattuto completamente. Tra il desiderio e il fatto compiuto, però, c’era un abisso. L’inglese non aveva una grande cultura in materia, tutti i rapporti che aveva avuto fino ad allora erano stati con fanciulle assai meno volgari ed intraprendenti di Francis, però intuiva esattamente cosa c’era da fare, in quella situazione. Il francese continuava a lavorare là dietro, e Arthur era felice di essere girato così da poter nascondergli il rossore che gli stava invadendo le guancie. Quando le mani di Francis scesero sulle sue cosce per poi risalire, Arthur comprese di essere caduto troppo in basso per potersi risollevare.
Non voleva che Francis lo stimolasse in quel modo, voleva essere lui a gestire il suo piacere, era così che aveva sempre fatto con le donne. Ma in quel momento era completamente in balia di quei movimenti alienanti ai quali non voleva assolutamente abbandonarsi.
Non poteva farlo, non poteva umiliarsi in quel modo. Va bene farsi sopraffare, ma voleva almeno mantenere un minimo di dignità, non aveva intenzione di restare in balia di Francis come una donnaccia scostumata e ancor meno…
Fu un attimo e tutti i pensieri svanirono. Tutte le sue aspettative non l’avevano preparato a una sensazione del genere, un groviglio inestricabile di dolore, piacere, desiderio, fastidio, calore, attrito, brivido… il suo cervello smise di lavorare.
La testa di Francis ora era accanto alla sua e sentiva distintamente il suo respiro affannoso sulla pelle sudata. Arthur affondò le unghie nella roccia, si morse le labbra per bloccare quei gemiti che gli risalivano lungo la gola e pretendevano di uscire, incontrollati e volgari.
Si dovette inarcare sotto la forza di Francis, il quale si appoggiava ugualmente al muro, stringendo le mani di Arthur tra le sue, come per impedirgli di sottrarsi a quell’unione, ma anche per sostenerlo. Poiché insisteva nel suo sofferto silenzio, Francis, o per esigenza o solo per dispetto, gli morse la spalla, e così anche Arthur fu costretto a lasciarsi andare, con sua somma vergogna, ma anche con liberazione.
“Ho aspettato… ho sognato all’infinito questo momento” disse Francis col fiato corto. “Sei tutto ciò che voglio, sei la mia salvezza da questo inferno.”
Arthur non rispose, fu colto da un tremito.
“Perché ti trattieni? Sarà tutto più semplice e più bello se ti lasci andare. Non domandarti se sia giusto o sbagliato, pensa soltanto ad accogliere in te il mio amore.”
Che razza di romanticherie sdolcinate, solo un parrucchiere francesino poteva parafrasare una dichiarazione tanto infiocchettata. Era terribile trovarsi in balia di un altro in quel modo, eppure Arthur sapeva che, se avesse dato retta a Francis, sarebbe stato tutto più semplice.
I movimenti di Francis erano sempre più intensi e precisi. Lui sì che sapeva dove toccare per fargli perdere la ragione e Arthur era ormai prossimo al punto di non ritorno.
“Guardami, Arthur. Stai facendo l’amore con me, non col muro… coraggio.”
Era troppo vulnerabile, non voleva mostrare a Francis il suo volto paonazzo e un’espressione ormai troppo vicina all’estasi, ma la forza di volontà lo stava abbandonando velocemente. Francis gli sfiorò la mandibola, spingendolo  a piegare il collo all’indietro e a scoprirsi.
“F-Francis…” Voleva dirgli di piantarla, ma le parole non riuscivano a salire, sembravano fermate da un nodo all’altezza del cuore.
“Arthur, sei bellissimo così. Di’ ancora il  mio nome.”
Ma cosa pretendeva, il servizio completo? Non avrebbe fatto la dolce mogliettina accondiscendente per soddisfare i suoi capricci.
“Fran…cis”
Che cazzo stava facendo?! Perché quella era l’unica parola in grado di pronunciare?
Mon Dieu, sei perfetto.”
“Francis…”
Fantastico, il suo cervello era fottuto. Era come se la sua parte razionale fosse relegata in un angolo, completamente slegata dal resto del corpo e stesse osservando, critica e un po’ disgustata, l’assurda situazione in cui si era sprofondato da solo.
Francis lo toccò con ancora più trasporto ma meno coordinazione, più veloce, più intensamente e Arthur raggiunse infine l’apice del piacere. Dalla strana sensazione che provò pochi istanti dopo capì che anche Francis l’aveva raggiunto ed entrambi si fermarono ansimando.
Ora che la mente di Arthur stava riacquistando lucidità, non poteva ancora credere di aver fatto ciò che era appena accaduto, in verità era a metà tra lo stupito e lo shockato. Le sue forze si erano prosciugate e d’un tratto non sentì più le gambe. Francis lo accolse tra le sue braccia e si sedettero per terra, appoggiati al muro.
Arthur si sentiva andare a fuoco e il francese gli passò lentamente una mano sulla fronte e sui capelli a tergergli il sudore, mentre con l’altro braccio lo cingeva stretto.                                
Accarezzò con attenzione le cicatrici che individuò sul corpo di Arthur, il quale si ritrovò ad apprezzare più quel momento di affettuosa quiete rispetto al sesso.
“Sei stato davvero scortese” disse Francis, passando dalla ferita al fianco alla lunga cicatrice sul braccio sinistro, “hai trattato male questo corpo pur sapendo che presto avresti dovuto darlo a me.”
“Non l’ho mai saputo, razza di egocentrico.”
Se l’avesse saputo sarebbe stato tutto diverso? Se ad Arras avesse fatto una scelta differente e avesse accolto in maniera diversa le attenzioni di Francis, ora si sarebbe trovato a morire a Ypres, col corpo martoriato e l’anima spezzata?
“In un modo o nell’altro io ottengo sempre ciò che voglio. Ma la prossima volta mi piacerebbe sedurti, piuttosto che vederti costretto da un tuo malsano desiderio autolesionista.”
Arthur sospirò irritato: non sapeva accontentarsi. “La prossima volta impegnati di più, allora, e non cercare di rimorchiarmi con i tuoi metodi da voyeur.”
Francis gli baciò il braccio e la mano, come un cane che si lecca una ferita. Un gesto… affettuoso.
“Voglio che tu rimanga indietro nella vecchia trincea, domani.”
Francis si fermò e lo guardò negli occhi come per accertarsi che non stesse scherzando. “Mi prendi in giro, vero?”
“Perché dovrei farlo? Sono gli ordini di un tuo superiore.”
Gli lasciò andare il braccio. “E quindi hai intenzione di lanciarti ancora in quell’assurda missione suicida?!”
“Non alzare la voce, cretino!”
“Sei tu il cretino! Dopo tutto quello che è successo credevo di averti fatto passare la voglia di morire!”
Arthur si staccò da lui. “Non si tratta di voglia di morire, ma di doveri! Ho ricevuto l’ordine di condurre questa missione e non mi tirerò indietro.”
“Sei un maledetto idiota! Non solo pretendi che ti lasci andare, ma vuoi anche che me ne rimanga ben lontano in caso ti servisse aiuto! Sei un bastardo egoista!”
Nella caverna spoglia l’eco dello schiaffo aleggiò per alcuni interminabili secondi. Francis, che era stato colto completamente di sorpresa, si portò la mano alla guancia arrossata.
Ora Arthur era furibondo.
“L’egoista sei tu! Possibile che non capisci? Non ci siamo solo io e te, qui! È una guerra e ormai ci siamo dentro entrambi, io molto più di te, purtroppo!”
“Ancora ti importa di questa stupida guerra?! Ormai avrai capito che né tu né io possiamo fare nulla per fermarla! E allora ti basterebbe lasciare il comando e venire via con me! Cos’è che ti ferma, ancora?”
Arthur si morse la lingua prima di urlare un insulto che avrebbe attirato nell’ufficio tutti i soldati presenti nei dintorni. Si prese qualche istante per riacquistare il controllo, o almeno per riuscire ad abbassare il volume della voce.
“Fammi capire: intendi disertare?”
Francis spalancò le braccia esasperato. “Cos’è che ti trattiene, ancora? Adesso siamo insieme e possiamo andarcene dove vogliamo! Possiamo tornare in Inghilterra, scappare in Italia oppure in America!”
Arthur aveva voglia di urlare e prenderlo a botte per la sua ottusità, ma capì che non sarebbe servito e ormai era stanco di discutere. Se avesse potuto se ne sarebbe andato sbattendo la porta, ma purtroppo era ancora nudo e rivestirsi avrebbe richiesto troppo tempo, tanto che sicuramente gli sarebbe passata l’arrabbiatura.
Si inginocchiò di fronte a Francis. Per qualche motivo si sentiva esausto, ma voleva riuscire a farlo ragionare.
“Devi metterti in testa che sono un Maggiore, adesso. Ho un compito da eseguire, dei soldati da comandare. Se disertassi… i miei uomini verrebbero accusati di tradimento e molto probabilmente sarebbero tutti fucilati! Se… se io…”
Dannazione, non ce la faceva più. Francis non poteva sapere quanto lui stesso volesse andarsene di lì e abbandonare tutto, ma non poteva farlo! Il suo orgoglio glielo impediva, i suoi doveri… Non sopportava di dover tornare sulle sue scelte, lui andava avanti, non provava rimorso per nulla. Non poteva permetterselo.
E ora cercava di reprimere quel feroce istinto di fuga che Francis gli stava instillando, era talmente dilaniato che se fosse stato solo probabilmente gli sarebbero spuntate le lacrime, ma non davanti a lui.
“Cerca… cerca di capire quello che devo fare.” Gli posò i pugni sul petto, non sapeva più cosa dire ma non voleva nemmeno che l’altro replicasse. Non poteva non capire!
Dopo un po’ Francis sospirò e gli prese la testa tra le mani costringendolo a guardarlo negli occhi.
“Mio povero Arthur. Ti sei condannato con le tue mani.”





Continua



Ogni volta spero di metterci meno del solito a pubblicare, ma la verità è che ci metto tanto cmq, soprattutto stavolta che avevo molto da fare, quindi chiedo perdono di nuovo.
Dunque, Francis felice, Arthur depresso... ho dovuto scrivere sette pagine prima di riuscire a far spogliare Arthur di sua spontanea volontà, credetemi non è stato facile, ma dovete sapere che ho scritto esattamente tutto ciò che volevo trasmettere. L'inglesino non può certo calarsi i pantaloni al primo sguardo dolce di Francis, e lui, d'altro canto, non può neanche stuprarselo... Arthur non lo permetterebbe e Francis non oserebbe, perché in fondo gli vuole troppo bene.
Ora passiamo alle recensione della volta scorsa:


@GinkoKite: Le sopracciglia sono tornate, e insieme a loro anche il nostro amato inglese! Volevo rassicurarti sulla tua affermazione su Francis... intendo quel "molto profondo"..... Ludwig non si è lamentato quindi immagino che tu abbia pienamente ragione.

@Harinezumi: Come sono contenta che tu conosca questi fatti! E' sempre utile essere ben informati su queste cose. Francis è un inguaribile romanticone, ed è pure stracotto quindi è naturale che continui a pensare al suo frigido inglesino!! Scusa, alla fine ti ho fatto attendere ancora di più!!!!! *piange*

@Julia_Urahara: Devo rivelarvi che questa fic è stata scritta in prevalenza per fare un piacere alla mia compagna di account nonché beta. La FrUk e la Francia x Germania (che qui si è tramutata nella Germania x Francia a causa di un mio rifiuto psicologico XD) sono due delle sue coppie preferite di Hetalia in assoluto. A me basta che ci sia Arthur e tanto angst e sono felice :P

@Miristar: Dunque... da dove cominciare... Ci tengo davvero tanto a farti capire che non era assolutamente mia intenzione far apparire Hitler come un omosessuale represso. Ho inserito il suo personaggio solo per qualche riga, non mi permetterei mai (né mi prenderei lo sbattimento di farlo) di inventarmi la sua personalità per poi infilarlo lì tra una riga e l'altra. Mi sono semplicemente basata sul fatto storico e confermato: Hitler era davvero un incapace e un disadattato, non riusciva bene in niente, tranne che nei compiti affidatigli durante la guerra, è per questo che appare così infervorato e che ha sviluppato il suo grande odio verso il nemico che lo porterà ai tragici eventi della seconda guerra mondiale. Ti prego, non pensare che mi metta a inventarmi personalità di tale complessità come quella di Hitler!
Per il resto, sono felice che tu abbia gradito i momenti di sesso dello scorso capitolo e spero che questi ultimi ti siano piaciuti ancora di più!



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Capitolo 5
*** Cinquième Tranchée: Le petite étoil ***


5-Cinquieme tranchee Titolo: Schützengraben, Capitolo 5 – Cinquième Tranchee
Fandom: Axis Powers Hetalia
Personaggi: Inghilterra (Arthur Kirkland), Francia (Francis Bonnefoy), Germania (Ludwig)
Genere: Storico, Drammatico, Guerra
Rating: Nc17, Arancione
Avvertimenti: Yaoi, Angst, Death, AU
Parole:   5,247 con Windows Office
Disclaimer: I personaggi della fanfiction provengono da Axis Power Hetalia che appartiene a Hidekaz Himaruya
Note: 1. Ripeto nuovamente: siamo nel 1915, non nel 1916, ma ho dovuto di nuovo posticipare per problemi logistici. Copritevi gli occhi.
2. Ho scritto questo capitolo ascoltando You raise me up. Se ce l’avete mettetela su perché ci sta bene *sniff*
3. Giunti al penultimo capitolo, mi sono finalmente resa conto che si tratta di un AU, perciò l’ho inserito tra gi avvertimenti. Faccio sempre fatica a decidere se si tratta o no di un AU quando scrivo di Hetalia, ma stavolta in effetti non era molto difficile… scusate.
4. Vi avverto che siamo arrivati alla parte angst della storia. Sì, avete capito, i capitoli precedenti erano delle leggere barzellette. Buona lettura!
5. Ho appena realizzato una fanart inerente al capitolo... se volete darci un'occhiatina, QUI
 
 
Cinquième  Tranchée: Le petit étoil
 

Ypres, aprile 1916

Il cielo minacciava pioggia, ma al suolo indugiava una pesante nebbia che rendeva il paesaggio spettrale. L’aria era impregnata dell’odore dell’umidità ma anche di quello del marcio e della decomposizione. Faceva freddo, per essere il 22 aprile.
La trincea era in fermento a causa delle operazioni di trasferimento dei reparti, le gallerie brulicavano, ma in superficie i movimenti erano limitati al minimo, a causa della costante paura di essere spiati dai tedeschi. Il silenzio che proveniva dalla trincea nemica era inquietante. Ogni tanto Francis udiva il lamento di un corvo.
Arthur impartiva ordini a destra e a sinistra, facendo spostare gli approvvigionamenti e le munizioni da una parte, le armi e i soldati in partenza dall’altra. Sembrava determinato e perfettamente padrone della situazione, ma Francis non poteva dimenticare il turbamento del giorno prima. Si era accorto della sua lotta interiore e delle lacrime trattenute, era consapevole di avergli chiesto troppo e si rendeva conto anche di essere stato precipitoso. Non sapeva se, nei suoi panni, avrebbe disertato o meno, ma era sicuro che Arthur non avrebbe mai potuto farlo: lui era un gentiluomo inglese, non sarebbe mai fuggito da un campo di battaglia, almeno non senza aver lasciato dietro di sé qualche freddura.
E stava proprio lì la sua vendetta personale verso coloro che avevano deciso quell’assurda missione: portarla a compimento e dimostrare di essere un bravo ufficiale.
Francis non approvava del tutto, secondo lui si trattava comunque di una pazzia, di  stupido orgoglio, ma lo capiva. Perciò ora si trovava sull’attenti assieme a quelli che sarebbero partiti per la vecchia trincea.
Arthur non avrebbe rinunciato a quella battaglia e Francis non lo avrebbe lasciato per nulla al mondo, non adesso che l’aveva appena ritrovato. Fino a qualche giorno prima aveva  abbandonato le speranze di rivederlo vivo, quando lo avevano spedito a Ypres non aveva avvertito alcun presentimento, eppure, dopo due anni di sofferenza, gli era bastato entrare in una stanza spoglia a mezzo chilometro sotto la superficie per trovarvi la più grande felicità che avesse mai sognato.
Adesso ciò che gli rimaneva da fare era aiutare Arthur come poteva e, sebbene a malincuore, esaudire il suo desiderio, restare indietro. Tuttavia, al primo segnale di pericolo, avrebbe percorso i due chilometri che li separavano in due minuti e sarebbe corso in suo aiuto.
Spostare tutte le migliaia di uomini era un’operazione che richiedeva tempo ed erano state organizzate varie ondate che trasportavano vari tipi di beni utili. Avevano deciso di spostare tutto, anche se non sapevano per quanto tempo sarebbero rimasti nella trincea vecchia. Si trattava di una scelta azzardata, ma ancora una volta Francis non aveva ribattuto, perché si fidava. Lui aveva temporeggiato fino all’ultimo e ora restava solo la sua compagnia a dover partire, assieme alle munizioni delle mitragliatrici.
Come comandante della truppa fu Francis a dover aggiornare il Maggiore sullo stato dei preparativi, così, con molta fatica, sentendo le gambe pesanti come piombo, si avvicinò ad Arthur.
“Siamo pronti.”
Mentre si specchiava nei suoi occhi verdi cercava di rivivere più volte possibile gli ardenti momenti che avevano trascorso insieme, ancora e ancora, perché era stato tutto troppo breve e temeva che si fosse trattato solo di un sogno. Sperava che Arthur capisse, voleva che sapesse quanto tutto quello fosse stato importante per lui e quanto fosse doloroso adesso privarsene.
“Bene, allora partite.” Anche nella voce di Arthur Francis lesse una sfumatura di tristezza.
Si rivolsero il saluto militare e quando l’inglese abbassò la mano, Francis gliela sfiorò con la propria, indugiando qualche istante su quel contatto.
“Se succede qualcosa, chiamami in qualunque modo. Io arriverò.”
“Non ce ne sarò bisogno. Rimanete nella trincea e tenete liberi i bunker.”
Francis si sforzò di capire, ma Arthur si voltò senza fornire alcuna spiegazione sulla necessità di ricorrere ai rifugi.
Infine anche Francis si incamminò, ma si voltò indietro più volte a osservare la schiena di Arthur che si dissolveva nella nebbia.
 
Mentre marciava verso ovest, assieme ad altre centinaia di persone, cercava di calcolare il tempo che stava impiegando a percorrere quel tratto. Doveva affidarsi al suo istinto perché non aveva più l’orologio: l’aveva perso nelle gallerie di Vauquais. Stavano impiegando più di tre quarti d’ora a causa dei vari carichi che dovevano trasportare, ma Francis era sicuro di poter percorrere la stessa tratta in meno di mezzora, quindi, se avesse fatto più in fretta che poteva, in circa quaranta minuti sarebbe arrivato da Arthur. Era un lasso di tempo assurdamente lungo per soccorrere qualcuno, ma era tutto ciò che era in suo potere. Quanto avrebbe voluto voltarsi e tornare indietro, ogni passo che compiva era uno sforzo immane.
Forse Arthur aveva già dato inizio all’attacco. Forse si trovava già vicino al fronte nemico. Forse qualcuno gli aveva già sparato. Qualunque cosa fosse accaduta Francis era totalmente impotente, e anche se in quel momento si fosse trovato con lui non era sicuro di poter fare qualcosa di concreto per aiutarlo, perché l’esperienza gli aveva insegnato che l’esito di una battaglia era determinato dall’abilità, ma ancora di più dalla fortuna.
Era primo pomeriggio quando giunsero alla trincea, ma il sole non si mostrava ancora, se ne stava celato dietro una spessa coltre di nubi grigie. Una volta arrivato con la sua squadra, Francis dovette consultarsi con gli altri Sergenti per fare il punto della situazione e organizzare gli uomini. Quando scese nell’avvallamento si rese conto con irritazione che alcune provviste erano state portate all’interno dei bunker.
“Ehi!” gridò a un sottufficiale facendolo avvicinare. “Il Maggiore non aveva dato l’ordine di tenere sgomberi i bunker? Cosa ci fanno lì tutti quei sacchi?”
“Non… non ho in mano io la gestione degli approvvigionamenti, ma suppongo che abbiano ritenuto necessario tenere il cibo al riparo dalla pioggia.”
“Non mi interessa quello che ritenete necessario, gli ordini sono di tenerli fuori e voi farete così!” Non tollerava un inadempimento del genere. Non si rendevano conto del momento cruciale in cui si trovavano? Francis era consapevole di essere parecchio intrattabile a causa del nervosismo, ma gli altri avrebbero fatto bene ad essere più responsabili e a dare retta ad Arthur.
Le mitragliatrici furono piazzate, i soldati si sistemarono ai loro posti e i comandanti smisero di impartire ordini. Adesso potevano solo attendere che accadesse qualcosa. Ogni tanto Francis si recava dal messaggero a chiedere se ci fossero delle novità, ma la risposta era sempre negativa. Tentava di spingere il proprio sguardo il più lontano possibile, ma all’orizzonte si intravedevano solo le forme indefinite dei crateri lasciati dai cannoni, armi e oggetti abbandonati, basse collinette di avvistamento e altre deformazioni del terreno spoglio. E poi la nebbia, che ancora non accennava a diradarsi. Sebbene fossero a metà giornata, sembrava di dover rimanere per sempre sospesi nel breve istante che segue l’alba.
Per sottrarsi alla noia i soldati confabulavano tra di loro a bassa voce.
“Questa nebbia è strana” notò uno.
“Forse la nebbia belga è diversa da quella inglese.”
“Ma a rigor di logica dovrebbe essere uguale a quella francese, e questa mi sembra diversa.”
“Già… è troppo bassa.”
Incuriosito da questo scambio di opinioni, anche Francis iniziò a prestare attenzione alla nebbia ed, effettivamente, riscontrò in essa alcune anomalie. Prima di tutto sembrava più pesante del solito, aveva un tenue colore giallo e poi… era come se si avvicinasse sempre di più.
“Cos’è quest’odore?”
“Sembra come… mostarda!”
“È impossibile.”
“Forse i tedeschi stanno facendo un barbecue.”
“Smettetela di dire stronzate! Qui sta succedendo qualcosa di strano…”
La nebbia avanzò come un’onda e ora che era più vicina Francis si rese conto che era molto più veloce di come gli era apparsa all’inizio. Adesso sentiva anche lui quell’odore di mostarda.
“Tutti nei bunker!” gridò qualcuno in preda al panico. “Questo è gas!”
I soldati iniziarono a spingersi e a dirigersi verso le aperture che conducevano ai rifugi, accalcandosi e schiacciandosi. Francis rimase paralizzato a osservare il gas che avanzava e che proveniva esattamente dalla trincea tedesca. Se era giunto fin da loro significava che…
“Sergente, non stia fuori!”
Venne trascinato per una spalla e spinto oltre la porta di ferro. Lo stretto corridoio era già stipato di persone, riuscirono ad aggiungersene ancora una decina, poi le porte si chiusero in faccia a coloro che ancora pregavano di entrare.
“No, no! Vi prego fatemi entrare, c’è posto ancora per uno!”
I più gentili si scusarono disperati, ma i più semplicemente cacciarono via a calci quelli che ostacolavano la chiusura delle porta.
Francis osservò con amarezza la velocità con cui persone che lottavano con intenti altruistici si tramutavano in bestie al primo segno di pericolo. Se fosse dipeso da lui, avrebbe volentieri ceduto il suo posto a qualcun altro e sarebbe corso fuori a cercare Arthur, ma era completamente bloccato. Ammassati com’erano in quelle basse stanzette avrebbero fatto prima a morire per mancanza di ossigeno che per le esalazioni, ma era inutile tentare di far ragionare degli uomini in preda al panico, perciò non rimaneva altro da fare che attendere e ascoltare quello che succedeva fuori.
“Scappiamo da qui!”
“Soldato, non lasciare la tua posizione! Non serve a niente fuggire, i gas ti raggiungeranno comunque!”
“State giù!”
“No! Il gas tende a stare in basso. Rimanete in piedi e cercate di non respirare.”
Qualcuno continuava a battere i pugni sulla porta di ferro.
“Rimanete calmi! Non sappiamo nemmeno cosa sia, potrebbe trattarsi di un semplice lacrimogeno.”
“Già… mi bruciano gli occhi.”
Iniziarono a tossire.
“Stiamo sbagliando tattica” disse qualcuno sottovoce, proprio di fianco a Francis. Si voltò: si trattava di un ragazzo biondo con gli occhiali dal particolare accento inglese. Fu così che Francis si rese conto di essere stato salvato dalla compagnia canadese che li appoggiava nella battaglia di Ypres, assieme ad altre colonie britanniche.
“Se davvero sono stati i tedeschi a rilasciare questi gas” proseguì il ragazzo, “allora il posto più sicuro è la trincea nemica, dato che il vento soffia a loro favore. Scappare non serve.”
Francis non poté che concordare, ma spiegarlo ora ai soldati sarebbe stato inutile e nessuno di loro avrebbe osato gettarsi di proposito in mezzo a dei gas sconosciuti.
Nel frattempo, da fuori iniziarono a provenire i primi lamenti di dolore.
“Oddio! Sto andando a fuoco! Brucia tutto!”
“I miei occhi!”
I colpi sulla porta si intensificarono.
“Fateci entrare, stiamo soffocando!”
Era davvero straziante, ma nessuno aprì la porta, non avrebbe avuto senso, a quel punto.
“Ehi… sento un odore strano” disse qualcuno che si trovava vicino all’entrata.
“Sta entrando! Il gas sta entrando dalle fessure!”
Si scatenò di nuovo il panico, da davanti iniziarono a spingere ma non c’era modo di muoversi. Piccole scie di vapore giallino serpeggiarono dentro al bunker. Francis aveva la sensazione di trovarsi dentro a un forno. Non aveva nessuna intenzione di morire schiacciato in un buco in quel modo vergognoso! D’istinto si coprì la bocca e il naso con la mano anche se era ovvio che non sarebbe servito a niente.
Gli uomini si strapparono pezzi di divisa e qualunque stoffa avessero a portata di mano e cercarono di rendere stagna la porta infilandoli in ogni fessura e attorno allo stipite.
“Così non resisteremo nemmeno dieci minuti. Non c’è aria!”
“Non voglio uscire! Non sentite come urlano quelli là fuori?! Siamo fottuti!”
“Ascoltate tutti!” Era stato un altro canadese a parlare. “Non possiamo stare qui dentro, dobbiamo uscire per forza e forse ho una soluzione! Questo gas è fatto di cloro. L’ammoniaca neutralizza il cloro.”
“E come fai ad esserne certo?”
“Dove la troviamo l’ammoniaca?”
Francis iniziava a intuire quale fosse la via di fuga. Era disposto a tutto pur di uscire di lì e andare alla ricerca di Arthur. Era una situazione disperata, ma l’unica speranza che aveva era che, trovandosi – in teoria – vicino alla trincea tedesca il suo inglese fosse scampato al gas.
“Ne hai quanta ne vuoi.”
“E dove la terrei?!”
“Il tuo piscio è ammoniaca! Fatela su un fazzoletto e mettetevelo davanti al naso.”
“Ma stai scherzando?! Non mi metto il piscio in faccia!”
“E allora muori soffocato dal gas, idiota!”
Quella minaccia fu sufficiente a spingere tutti a strapparsi un lembo della manica e a sbottonarsi i pantaloni. Per quanto fosse spiacevole mettersi quel coso puzzolente sotto al naso, Francis non esitò nemmeno un secondo. Era stata un’idea geniale e le alternative erano due: uscire annusando piscio o morire soffocati rinchiusi lì dentro.
“Siete tutti pronti?”
La porta si spalancò e l’ambiente si riempì di fumo. Uscirono velocemente e gli occhi di Francis iniziarono subito a bruciare. Il suo primo respiro gli si bloccò a metà ed iniziò a tossire, sentiva ancora quell’inquietante odore di mostarda. Tuttavia andò meglio del previsto: la nube stava diminuendo e si stava lentamente depositando sul fondo della trincea.
Gli uomini che erano rimasti fuori erano di meno, molti dovevano essere scappati. Di quelli che erano rimasti alcuni erano privi di sensi – o morti – mentre gli altri mostravano ancora qualche segno di vita, ma respiravano a fatica, tossivano, si tenevano le mani sugli occhi per il dolore oppure si strappavano i vestiti. Francis non aveva tempo di stare a soccorrerli, così come i canadesi, che stavano già organizzando il contrattacco e stavano andando a liberare gli altri soldati ancora barricati nei bunker.
Uscì con un salto dalla trincea immersa nel gas. Se avesse piovuto sarebbe stato tutto più semplice, invece l’umidità premeva i fumi al suolo impedendo di vedere bene il terreno. Francis iniziò a correre verso il nemico, senza armi, senza niente, e i canadesi dovettero prenderlo ad esempio perché li sentì incitare gli altri a seguirlo.
“La trincea tedesca è sicuramente al sicuro quindi attacchiamo ora e respingiamoli!”
“Compagnia, caricate!”
Francis fu superato da una moltitudine di canadesi armati e con i fazzoletti legati attorno alla testa; lui però rimase più indietro: sebbene bramasse raggiungere il prima possibile Arthur, se avesse esaurito le sue forze in quella corsa non sarebbe stato in grado di aiutarlo, ma anche perché le esalazioni lo costringevano a rallentare continuamente per riprendere fiato. In quel modo non sarebbe arrivato molto lontano. Lungo il tragitto superò alcuni canadesi che non erano sopravvissuti al gas, temeva che ogni passo potesse essere l’ultimo e che sarebbe morto ancor prima di raggiungere l’avamposto alleato.
Si lasciò cadere sulle ginocchia: doveva vomitare. Quando risollevò la testa notò che la nebbia gialla si era abbassata, l’alimentazione del gas doveva essersi interrotta. Riprese a camminare più motivato di prima, se le sue condizioni non fossero peggiorate ce l’avrebbe fatta, e se era stato fortunato forse era rimasto solo un po’ intossicato. Non doveva arrendersi, se si fosse abbandonato per terra sarebbe soffocato di sicuro, doveva restare in piedi finché la nube non si fosse del tutto diradata. E doveva sbrigarsi a trovare Arthur.
Più procedeva e più aumentavano i corpi sparpagliati scompostamente e Francis notò che erano orientati tutti verso un’unica direzione, come se avessero cercato di fuggire dal nemico.  I cadaveri non finivano mai, sembrava che sul campo fosse calata l’apocalisse. Molti di loro erano ammassati lungo una specie di corridoio: era la trincea. Ma come avrebbe trovato Arthur? Erano troppi! Se si fosse messo a controllarli tutti sarebbe stato troppo tardi.
Osservò con disperazione la strage che si estendeva davanti a lui senza sapere cosa fare, quando dalla foschia all’orizzonte vide apparire una figura. Chiunque fosse gli avrebbe chiesto aiuto, quindi gli corse incontro cercando di attirare la sua attenzione, ma questi non stava guardando avanti perché avanzava barcollando tenendosi le mani sulla faccia.
“Ehi!” Francis lo raggiunse e lo bloccò tenendolo per le spalle. “Hai visto il Maggiore? Dov’è?”
L’altro rispose con dei lamenti e si inginocchiò. Francis lo costrinse a scoprirsi il volto nella speranza di farlo ragionare. “Devo sapere dove si trova!” Si pentì subito di averlo voluto vedere in viso. Era coperto di sangue, ciò che restava degli occhi era un grumo scarlatto. Se li era strappati?!
Francis capì che non avrebbe ottenuto alcuna risposta, lo lasciò andare e il suo panico ritornò a crescere. Non poteva fare altro che procedere e cercarlo dappertutto, finché non l’avesse trovato. Iniziò a chiamarlo perché era sicuro – voleva esserlo – che Arthur fosse ancora in grado di rispondergli.
Gettò via il fazzoletto ormai inutile, superò la trincea e procedette verso i tedeschi, in lontananza sentiva già i rumori della battaglia con i canadesi. Controllava ogni corpo che sembrava assomigliare ad Arthur, ma non era mai lui. Francis non sapeva se esserne sollevato o afflitto, ma ciò che lo turbava sempre più era il non udire mai una risposta ai suoi richiami.
“Arthur!” C’erano tanti biondi tra gli inglesi e Francis aveva paura di guardare i loro volti straziati. “Arthur!”
Poi vide qualcuno che attirò la sua attenzione, gli assomigliava… sì, ne era certo! Era sdraiato a faccia in giù ma era sicuro che fosse lui. Lo raggiunse di corsa e lo liberò dal peso di un altro corpo. Ormai si trovava nelle vicinanze della trincea nemica, poteva udire distintamente gli spari, non era un luogo sicuro.
“Alzati subito, Arthur! Ce ne dobbiamo andare!” Una raffica di mitragliatrice piovve a pochi metri di distanza da loro. Si mise un suo braccio attorno al collo e se lo trascinò dietro.
“Non ce la farò a portarti fino alla base, devi camminare!” Era assurdo parlargli così, non sapeva nemmeno se fosse vivo… ma non aveva tempo per chiederselo. Si allontanò il più veloce possibile dalla traiettoria dei proiettili, ma poi inciampò su qualcosa – sicuramente era un cadavere. Caddero entrambi e il colpo dovette risvegliare Arthur perché tossì.
“Arthur! Avanti, svegliati. Ora ti porto… dal medico.” Lo guardò in viso e si sentì mancare il fiato: metà faccia era ustionata, ma non era stata opera di un lanciafiamme, poiché i capelli e i vestiti erano intatti. Era stato il gas, e l’aveva preso in pieno. Non poteva aspettare oltre, lo afferrò di nuovo e riprese a camminare.
“Ci penso io, però… però devi promettermi che resterai vivo finché non ti avrò portato dal medico. Hai capito? Arthur!”
“…sì.”
Quell’unica parola rappresentò un sollievo insperato.
“Promettilo!”
“Sì.”
Con fatica superarono la prima trincea. Francis continuava a ripetersi che mancava solo un chilometro, non era molto, ce l’avrebbero fatta. Alla base c’era il medico che si sarebbe occupato di Arthur, bastava solo sbrigarsi.
“Sei un idiota… Un idiota! Cosa volevi dimostrare?! Te l’avevo detto che era una pazzia. E adesso mi tocca trascinarti e guai a te se muori adesso, vanificando tutta la fatica che sto facendo!”
“…perché lo fai?”
Sentirlo parlare gli infondeva nuove energie. “Come sarebbe? Dopo quello che abbiamo fatto insieme pensi che ti lascerei morire così?”
“No, ma… perché?”
Francis aveva capito ciò che Arthur voleva sentirsi dire. Era ridicolo, gli sembrava di stare con una ragazzina insicura, ma comprendeva le sue incertezze e il suo bisogno di rassicurazioni.
“Perché… perché tu sei l’unico inglese che riesco a sopportare. Mi piacciono i tuoi occhi, perché trasmettono tutto il contrario di ciò che dici. E mi piace il colore dei tuoi capelli, anche se sono sempre in uno stato pietoso, mi fanno venire voglia di sistemarteli. Hai una bella pelle e dei lineamenti morbidi, e le tue labbra che dicono tante cattiverie sembrano fatte apposta per essere zittite con le mie.” Parlare lo distraeva dalla fatica e colmava il silenzio che lo terrorizzava. “Poi… adoro il tuo corpo forte ma acerbo allo stesso tempo, sembra qualcosa di proibito.”
Gli occhi gli bruciavano e gli lacrimavano, non sapeva se fosse a causa del gas o per la tristezza, ma il pensiero di poter perdere tutto ciò che stava adulando lo struggeva.
“Hai delle dita lunghe… le trovo sensuali. Sei testardo e orgoglioso, ma questo ti permette di non pentirti delle tue scelte e di essere responsabile. E poi… mantieni sempre le promesse. Vero, Arthur?”
Non giunse risposta. Francis continuò a camminare.
La vista della trincea alleata fu come un lieto miraggio, trovò la forza di sorridere pensando che poteva esserci ancora speranza per entrambi e che il peggio era passato, ora doveva solo far visitare Arthur.
“Devi giurarmi… che questa sarà l’ultima volta” disse col fiato corto. “L’ultima battaglia, Arthur. Che tu lo voglia o no… ti trascinerò lontano da qui e vivremo in  pace.”
Si lasciò cadere nel fossato e riprese fiato mentre faceva sedere l’inglese con la schiena addossata alla parete rivestita di rami verdi, come un grande cesto di vimini.
“Un medico qui! Presto!” chiamò Francis a gran voce, poi scostò delicatamente i capelli dal volto di Arthur per osservare meglio le ferite. Fu contento di vedere che almeno gli occhi erano ancora al loro posto, ma il respiro era debole e affaticato.
“Guardami, avanti! Ora siamo al sicuro, ti farò curare. Coraggio, guardami.”
Arthur rispose alle sue suppliche e aprì gli occhi. Francis ringraziò Dio mille volte.
“Non posso…”
“Come no? Sono qui, non ti preoccupare.”
Arthur sollevò incerto lo sguardo. “Non ti vedo.”
Francis avvertì il gelo affondargli nel petto e colpirlo direttamente al cuore. Passò lentamente una mano davanti agli occhi di Arthur senza ottenere alcuna reazione.
“Sei cieco” appurò con la voce incrinata.
L’inglese fu piegato da un attacco di tosse, Francis lo sostenne, lo abbracciò stretto mentre l’altro si aggrappava alla sua spalla alla ricerca di ossigeno. Si accorse subito che era grave perché le sue labbra erano macchiate di sangue.
“Il medico!” gridò ancora con rabbia.
“Sono… dei vigliacchi…” Arthur usava tutto il fiato che aveva per parlare. “Sapevano che avevano… il gas… ma ci hanno mandati lo stesso. E io li ho… mandati a morire.”
“Non dire così, non è stata colpa tua se quegli uomini sono morti.” Francis intravide alcune lacrime scendere da quegli occhi ciechi.
“Quelli che ho ucciso oggi… potevano… essere gli stessi che avrebbero fucilato… se fossi scappato con te…”
Francis chiamò ancora aiuto, vederlo in quello stato lo struggeva.
“Sono tutti uguali… vogliono solo… ucciderci tutti.”
“Smettila di parlare, adesso. Concentrati e basta e vedrai che ce la farai.”
Arthur si lamentava e Francis credette che stesse ancora piangendo, ma si accorse con orrore che non era così. Gridava come se lo stessero torturando.
“I vestiti… mi bruciano! Aaaah! Toglili!”
Privo della vista e senza fiato non riusciva a gestire bene i movimenti, ma ci pensò Francis a strappargli prima la giacca della divisa e poi la camicia sotto, mettendo a nudo la pelle bruciata. La osservò incredulo e sconvolto, senza sapere cosa fare: il gas lo stava corrodendo dall’interno e qualunque cosa provasse non serviva a nulla.
“Stai… stai calmo, adesso. Lo so che fa male ma resisti. Ecco, senti? Il cuore ti batte a mille, è un buon segno! Stai tranquillo, tra poco passerà.” Ma continuava a peggiorare e tossiva sempre più sangue. Francis lo prese in braccio. “Dal medico ti ci porto io. Tu concentrati e non ti agitare. Penso a tutto io…”
Poteva anche continuare a parlare a raffica, ma sentiva che non sarebbe servito a nulla. Corse lungo la trincea con Arthur tra le braccia.
“Ah… F-Francis…”
“Non parlare, pensa a respirare!”
“Vattene… da qui. Scappa e nasconditi… lascia che si uccidano tutti… ma tu vattene… è tutto inutile.”
“Dottore!” chiamò Francis dopo aver individuato il giovane con i baffi arricciati e gli occhiali che visitava altri soldati intossicati. “È il Maggiore! Devi curarlo subito!”
Il medico, che appariva già piuttosto sconvolto dagli avvenimenti, si avvicinò subito senza fare domande e appoggiò le dita sul collo di Arthur.
“No. È in shock ipovolemico, è troppo tardi.”
Francis non riuscì a credere a ciò che aveva sentito. “Co-cosa?! Avanti… dagli un’occhiata! Ce la può fare, il cuore batte…”
“È shock ipovolemico, non c’è niente da fare!” insistette il medico spazientito e ansioso di tornare ad altri pazienti.
“Ma fai qualcosa! Tenta di salvarlo!” Francis era fuori di sé, ma l’altro gli si parò davanti altrettanto furioso.
“Non posso! È morto! Portalo via e lasciami lavorare!” Si voltò lasciandolo lì e subito altri soldati lo spintonarono per prendere il suo posto.
Francis si addossò alla parete senza parole e senza forze, le braccia gli tremavano, ma non a causa del peso di Arthur. Aveva bisogno di riflettere, ma il suo cervello sembrava incapace di produrre alcun tipo di pensiero, non riusciva a credere a nulla di quello che stava succedendo.
Scivolò a terra senza lasciare la presa sul suo delicato carico. Infine si decise ad abbassare lo sguardo e a cercare di capire ciò che era accaduto. Posò la mano sul petto nudo di Arthur, proprio dove l’aveva posta qualche minuto prima, là dove aveva appena sentito il suo cuore battere così forte, ora c’erano solo il silenzio e l’immobilità. E il suo corpo che bruciava ora era freddo e pallido, così perfetto in quell’agognato sollievo da apparire come una statua.
Pensò a tutto ciò che gli aveva detto con tanta leggerezza e a ciò che di più importante non gli aveva mai rivelato. Gli aveva detto che sarebbe stata l’ultima battaglia, che l’avrebbe portato lontano, gli aveva detto che era un idiota e un egoista. Non gli aveva detto quanto lo amasse e quanto fosse importante, perché gli era sempre sembrato scontato.
Guardando il suo viso e i suoi occhi che, nonostante la morte e la cecità, sembravano vedere oltre la realtà, pensò che tra i due, in quel momento, Arthur fosse il più fortunato.
“Sergente.” Non si voltò nemmeno quando lo chiamarono. “Deve portare il corpo là in fondo. I cadaveri verranno bruciati mentre ci troviamo sottovento, perché non c’è tempo di sotterrarli e non possiamo rischiare che ci contaminino.”
“Un minuto” sussurrò e chiunque gli avesse parlato si allontanò. Voleva rimediare a tutto ciò che non aveva fatto o detto in quel poco tempo che restava ancora da condividere e cercò di concentrare tutto in un solo bacio. Non fu nemmeno in grado di capire se avesse provato qualcosa o no. Quelle labbra gli parevano estranee.
Senza più pensare si diresse verso il luogo in cui i corpi di chi era riuscito a tornare o che non aveva trovato rifugio erano raccolti l’uno sull’altro. Sicuramente se ne sarebbero aggiunti molti altri.
Francis depositò Arthur con delicatezza e fu lui stesso a prendere dalle mani dell’uomo incaricato la torcia già accesa. Dopo qualche istante di esitazione appiccò il fuoco, ripetendo a se stesso che non c’era altro da fare, che stava per bruciare solo un semplice corpo. Il corpo che aveva tanto amato e accarezzato.
Il fuoco gli scaldò le lacrime sul viso e quando  iniziò ad ardere intensamente, Francis si allontanò perché non voleva che l’ultima immagine di Arthur fosse quella di un oggetto disfatto.
Dal fondo della trincea vide il fumo salire in cielo, lontano dalla terra corrotta, portando con sé le ceneri di Arthur.
 
Dei canadesi che quel pomeriggio si erano lanciati eroicamente all’attacco ne erano tornati solo alcune decine. Tra loro non c’era il ragazzo che gli aveva fatto compagnia durante i terribili momenti nel bunker, il ragazzo che sarebbe rimasto per sempre senza nome.
Quella notte era stata pianificata un’altra incursione, e così il giorno dopo e quello dopo ancora. Si erano tutti stupiti del fatto che i tedeschi non avessero approfittato della strage per avanzare, ma probabilmente nemmeno loro avevano previsto l’effetto devastante che i gas avrebbero avuto. In fondo, si era trattato solo di uno spreco di vite.
Francis non aveva preso parte a nessuna delle operazioni, non aveva fatto altro che starsene seduto nello stesso punto in cui aveva tenuto stretto Arthur. Quando calava la notte alzava lo sguardo al cielo e vedeva sempre la stessa stella che splendeva col suo chiarore discreto proprio sopra di lui. Non era una stella particolarmente grande o importante, per quello che ne sapeva non apparteneva nemmeno a nessuna costellazione. Ma era una delle prime a splendere quando il cielo si tingeva di rosso e rimaneva a vegliarlo per tutta la notte.
Ora che era solo – terribilmente solo – aveva ricominciato a pensare, ma l’unica cosa a cui la sua mente riusciva a rivolgersi erano le ultime parole che Arthur gli aveva lasciato. Le aveva custodite durante quegli ultimi, indefiniti tre giorni, e meditate e rielaborate. E mentre pensava osservava gli effetti della battaglia, gli uomini che andavano e non tornavano, la distruzione di Ypres, il dolore di tutti, il proprio corpo provato dal veleno… Più rifletteva e meno riusciva a trovarvi un senso.
Avrebbe preferito ricordare il giorno in cui lui e Arthur erano stati sorpresi dalla pioggia e si erano riparati sotto lo stesso ombrello; il suo compleanno, quando l’inglese aveva cucinato per lui, o il giorno in cui avevano litigato per scegliere la carta da parati da mettere in soggiorno; la volta in cui avevano fatto un picnic in campagna e avevano dimenticato la tovaglia; la domenica mattina in cui Francis era rimasto a guardarlo dormire. Ma non poteva, non era accaduto niente di tutto ciò. Non c’era stato il tempo.
Lascia che si uccidano tutti… ma tu vattene.
Quella era la sofferenza che la gente procurava a se stessa. Quella era la guerra che aveva ucciso Arthur, e Francis non voleva averci più nulla a che fare.
Si guardò indietro, verso ovest, dove il rosso del cielo cedeva velocemente il posto al buio, verso l’orizzonte. Da qualche parte doveva ancora esistere un luogo che si era salvato dalla follia collettiva, il posto che Francis decantava all’inglese quando tentava di convincerlo a vivere.
Si alzò e uscì allo scoperto. Si diresse verso il sole morente iniziando a correre. Avrebbe ascoltato Arthur e avrebbe lasciato che la morte cogliesse chi la desiderava, ma lui non voleva più prendere parte a quello sterminio. Corse veloce verso la bassa collina che si stagliava verso il tramonto perché sentiva che al di là di quella poteva esserci un mondo diverso.
Sentì a malapena le grida dietro di sé, non ci badò e proseguì la sua corsa.
“Che sta facendo?!”
“Disertore! Tradimento!”
Voleva sapere se non era troppo tardi per tentare di vivere una vita lontana dalla sofferenza, voleva vivere in quel luogo anche per Arthur, che non ci aveva creduto.
“Puntate!”
Bastava superare quella collina per accertarsene.
“Fuoco!”
Provò una sensazione strana di formicolio in tutto il corpo, soprattutto sulla schiena. Ad un tratto gli mancò l’aria e le gambe si rifiutarono di procedere. Cadde per terra. Che coincidenza, si trovava proprio di fronte alla collinetta.
Gli sembrava di avere il corpo bagnato e iniziò a sentire più freddo. Era la notte che calava. Strisciò sull’altura e si issò con la forza delle braccia, si arrampicò verso la cima, ma più avanzava e più le energie gli venivano meno. Non mancava molto, però, voleva solo dare un’occhiata oltre.
Raggiunse l’apice, si ritrovò il sole proprio davanti e mentre lo osservava svanire si rendeva conto che oltre alla collina il paesaggio non cambiava. C’erano ancora distruzione e desolazione, dolore e morte. Non serviva proseguire, il luogo in cui lui e Arthur avrebbero voluto fuggire non esisteva più.
Si sdraiò privo di energie, sopra la montagna di corpi bruciati, a guardare il cielo, consapevole che sotto di lui, da qualche parte, ci fosse anche Arthur.
La luna apriva un ironico sorriso nel cielo oscuro e contemplava il mondo con crudele divertimento. Di fianco ad essa, però, Francis individuò la solita, piccola stella, che lo vegliava dall’alto e lo rassicurava.
Sollevò la mano verso di essa ed intrappolò la sua debole luce, sentendola vicina. Per la prima volta, dopo tanto, era felice e sollevato.
Arthùr… tu es ma petite étoil.
Quando infine calò il buio, Francis non si sentì più solo.
 
 
 


Continua
 


 
Se vi dicessi che ho pubblicato questo capitolo per farvi un regalo di Natale probabilmente mi pioverebbero addosso accette e pomodori *schiva* Buon Natale!
Che ci crediate o no, sono stata buona. Ho diminuito di molto il numero delle effettive perdite di questa battaglia, perché gestire compagnie da 10.000 persone mi risultava difficile. Ho anche allungato di parecchio la sopravvivenza dei personaggi. Il 22 aprile del 1915 a Ypres morirono 5.000 inglesi in dieci minuti a causa del gas, da allora ribattezzato “iprite” o “gas mostarda”.
Avrete anche riconosciuto un certo canadese di cui ora mi sfugge il nome. Sapevo fin dall’inizio che alla battaglia avevano preso parte anche parecchie colonie inglesi, ma avevo deciso di non inserire altri personaggi per non distogliere l’attenzione dai tre protagonisti, che avevano già abbastanza problemi. Quando però ho scoperto che i poveri, obliati canadesi avevano condotto un eroico attacco durante l’uso dell’iprite non ho potuto fare a meno di inserire anche Matthew. Tanto ve ne dimenticherete tra poco.
Invece, per quanto riguarda il rogo dei corpi, è una mia licenza personale, non credo proprio che li abbiano bruciati davvero.
Per chi non lo sapesse, lo shock ipovolemico è provocato dal cuore che batte all’impazzata per compensare la pressione che precipita ma alla fine cede (detta molto in sintesi). Gli effetti che l’iprite aveva sui soldati sono quelli che manifesta Arthur e i suoi vestiti lo bruciano perché assorbono il gas che viene poi liberato lentamente.
E ora, prima di passare alle recensioni – che sono sempre meno! Ho paura di avervi convinti del tutto ad abbandonare questa fiction! – una piccola anticipazione del prossimo capitolo: sarà totalmente dedicato a Ludwig, ma essendo rimasto solo vi avverto che sarà soltanto un paranoico soliloquio col quale vorrei imprimere la morale a tutta questa deprimente storia. Se non vi piace la Storia o se odiate le elucubrazioni mentali lasciatelo perdere!! Non vorrei trovarmi dopo piena di commenti del tipo: “Che palle di capitolo! Dov’è il romanticismo??”
In ogni caso ho già deciso di accorciarlo di molto per evitare di annoiarvi troppo, sarà giusto un breve epilogo.
Passiamo a cose più allegre!



@GinkoKite:  Grazie davvero per i tuoi incoraggiamenti, sei davvero gentilisisma :D Hai colto bene la malinconia generale che aleggiava su questa storia e adesso, come hai visto, si è manifestata. Mi dispiace di avervi fatte soffrire tutte, ma se adorate l'angst come me penso di avervi fatte felici. In ogni caso c'è anche tanta romanticheria che gira :)

@Miristar: Beh sai, Francis è capitato un po' così, ma mi sono accorta che tentare si spiegare tutti i passaggi che occorrerebbero per scrivere una bella fiction di guerra sono davvero troppi quindi qui ci concentriamo specialmente sul lato del romanzo.. qui ho spiegato in breve che Francis era stato trasferito ad Ypres, era una cosa abbastanza frequente quindi non crucciarti :) Il mega orgione nnnnnnnnnnno....... mi dispiace.... ma sono convinta che d'ora in poi copuleranno felici in paradiso u_u

@Julia Urahara: Credo che qui l'IC dei personaggi sia stato messo a dura prova e spero di essermi destreggiata bene!  Date libero sfogo ai vostri insulti, attendo le vostre recensioni!!! :D




Nach vorne Kapitel --->Sechste  Graben:  Wahnsinn  

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Capitolo 6
*** Sechste Graben: Wahnsinn ***


6-sechste Titolo: Schützengraben, Capitolo 6 – Sechste Graben
Fandom: Axis Powers Hetalia
Personaggi: Inghilterra (Arthur Kirkland), Francia (Francis Bonnefoy), Germania (Ludwig)
Genere: Storico, Drammatico, Guerra
Rating: Nc17, Arancione
Avvertimenti: Yaoi, Angst, Death, AU
Parole: 1,558 con Windows Office
Disclaimer: I personaggi della fanfiction provengono da Axis Powers Hetalia che appartiene a Hidekaz Himaruya
Note: 1. Non ci crederete, ma questa volta abbiamo la data storicamente corretta!
2. Questo capitolo è stato impostato come un diario, poiché vi avevo avvertito che sarebbe stato una specie di monologo interiore di Ludwig, non potendo più farlo interagire con gli altri protagonisti, mi è sembrato più creativo e “leggero” scriverlo in questo modo che mi permette di effettuare salti temporali e digressioni più profonde riguardo ai pensieri di Ludwig. Spero che riusciate a leggere il font.
 

Sechste  Graben:
 Wahnsinn
 

Verdun, 20 ottobre 1916
 
Da quando ha avuto inizio la mia carriera nell’esercito, sono sempre stato dell’idea che trascrivere le proprie memorie fosse una futile perdita di tempo, capace solo di distogliere l’attenzione dai propri doveri e dalle riflessioni più importanti. Sono stato di quest’idea fino a oggi, ma adesso sento l’assoluto bisogno di occupare  il mio tempo, di tenere la mia mente sveglia, di assicurarmi di essere ancora lucido.
Questa, che credo sarà la mia ultima battaglia, ha avuto inizio nel mese di febbraio. Io e la mia Armata siamo stati mandati qui a maggio per offrire supporto coloro che avevano conquistato il forte Douaumont, sottraendolo ai francesi: si tratta di una costruzione pentagonale, interrata e protetta da almeno quattro strati di  copertura, una fortezza praticamente inespugnabile. L’obiettivo dell’attacco erano il vantaggio strategico del forte e la mitragliatrice pesante custodita al suo interno, un’arma alta 8 metri, forse di più. Non lo so con esattezza. Mi rendo conto che si tratti di una grave inadempienza ai miei doveri, ma saperlo non importa più: i francesi l’hanno sabotata abbandonando il forte. Ora siamo intrappolati qui, con un’arma formidabile inutilizzabile.
La conquista del forte è sicuramente parsa agli uomini come una volontà divina o l’ennesima dimostrazione dell’infallibilità dell’esercito tedesco. Il mio reggimento è stato scambiato per un gruppo di francesi mandati a rinforzare le scarse difese del forte, il Sergente Kunze è entrato, da solo, e ha fatto prigionieri gli artiglieri di guardia. Tutto qui, un’operazione semplice e fortunata, che ha portato alla conquista di questo favoloso punto strategico e alla totale svalutazione dell’esercito francese. I soldati hanno iniziato a chiamarli “poilu”, perché sono pelosi, perché trascorrono lunghi periodi in trincea senza potersi radere o tagliare i capelli.
Ho sempre pensato che sottovalutare il proprio nemico fosse l’errore più grande per un soldato. Ora se ne sono resi conto tutti, dato che la nostra stessa tattica viene usata contro di noi da sei mesi.
Inoltre io so perfettamente che alcuni francesi utilizzano eccellenti set per la cura personale .


 

Verdun, 21 ottobre 1916
 
Mi sono reso conto di non essere stato preciso nella scorsa testimonianza: io non sto affatto raccogliendo le mie memorie, poiché sono sempre più convinto di voler dimenticare il prima possibile tutto questo. Sto soltanto facendo ordine nei miei pensieri.
Inizio a temere di non essere più in grado di eseguire le mie funzioni qui. Se ciò dovesse accadere ovviamente mi ritirerei subito dalla mia carica e lascerei il posto a qualcuno di più capace. Il vero problema sono i miei pensieri: sono sempre più confusi, vagano sempre più lontano.
Ormai siamo rimasti in pochi e inizio a chiedermi cosa stiamo difendendo. Se i rinforzi non arrivano, rimanere qui a farsi bersagliare dalla granate dei francesi non ha alcun senso. Rimanere qui è pericoloso. Alcuni mesi fa qualche soldato incosciente ha acceso un fornello da campo troppo vicino all’armeria. L’esplosione è stata enorme, ho visto la testa di un uomo volare, con tutto l’elmetto, fino al condotto d’aria. Sono morti in centinaia. Ma la tragedia non si è conclusa qui – questo forte sembra maledetto. I soldati che hanno tentato di fuggire, anneriti dal fumo, sono stati scambiati per le truppe marocchine francesi e sono stati spazzati dalle nostre mitragliatrici.
Non mi era mai successo prima. Sento il mio orgoglio di ufficiale sprofondare. Le bombe disgregano lentamente il mio autocontrollo. Gli scoppi rimbombano nelle viscere e proseguono nella testa.
Ripeto ai miei uomini che presto tutto questo finirà. Invidiano i morti.

 
 
 
Verdun, 22 ottobre 1916
 
Abbiamo conquistato questo forte stremando il nemico a forza di bombardamenti. In questo momento mi sembra assurdo non aver pensato che loro avrebbero potuto utilizzare questa semplice tattica per riprenderselo.
Sento le granate cadere sulla terra sopra di noi. Incessantemente. Una ogni dieci secondi. Il rumore è assordante.
Sei mesi. Ancora non riesco a crederci.
Vedo gli uomini attorno a me impazzire lentamente. All’inizio io e gli altri pochi ufficiali rimasti abbiamo tenuto alto il loro morale ricordando loro la schiacciante vittoria. Sono quasi del tutto convinto che tutti ormai rimpiangano la conquista di questo posto.
Lo spirito di molti viene spezzato da questo incessante bombardamento, vengono colti da convulsioni, movimenti incontrollati degli arti, tic nervosi.
Alcuni sono talmente stremati che, non riuscendo più a impugnare un’arma, sono costretti a chiedere aiuto agli amici per togliersi la vita.
La notte scorsa ho ripensato a un episodio che in principio mi era sembrato del tutto irrilevante – ma quando si è costretti in un bunker per sei mesi anche le cose più inutili acquistano un diverso significato. Dopo la battaglia di Vauquais, e prima di Verdun, mi sono spostato lungo il nostro fronte per stendere un rapporto sulla situazione generale delle battaglie e l’avanzamento delle nostre truppe. Ad aprile mi sono recato a Ypres a verificare lo stato in cui versavano gli esperimenti con i gas al cloro: non spettava a me stabilire il metodo di conduzione della battaglia, sebbene trovassi l’espediente del gas estremamente pericoloso e assolutamente non onorevole.
I movimenti del nemico erano pressoché nulli da settimane, così come i nostri, così uscii dalla trincea e mi misi a osservare le linee degli eserciti dell’Intesa. Scrutai l’orizzonte col binocolo, abbastanza sicuro di trovare il fronte tranquillo, e difatti non vidi nessuno, eccetto una persona. Indossava l’uniforme degli ufficiali inglesi e se ne stava in piedi, oltre la propria trincea, completamente esposto, ma apparentemente calmo, come se stesse contemplando un tranquillo paesaggio di campagna. Lui non aveva alcuno strumento per vedermi da quella distanza, per cui mi presi tutto il tempo per cercare di capire le sue intenzioni. Notai che era giovane, che era biondo e anche che aveva delle sopracciglia sproporzionate – ma questo è un altro particolare irrilevante. Ciò che mi colpì di lui fu l’espressione che celava nello sguardo. D’un tratto fui colto da un’inspiegabile malinconia, poiché capii subito ciò che stava pensando: stava guardando il campo di battaglia senza riuscire a scorgervi un domani, senza riuscire a capire il motivo di quello scempio, sentendosi trite di fronte ad un tale spreco di forze e di vite, ma rassegnato al suo dovere e deciso a portare a compimento ciò che gli era stato comandato, perché amava il suo Paese, perché voleva rimandare a casa più vite possibile.
Rimasi profondamente toccato dalla mia abilità a cogliere tutto ciò, ma il motivo che mi aveva spinto a tanto era che sentivo il suo turbamento estremamente vicino al mio.
Non potei fare a meno di ripensare anche al francese e a rattristarmi per il fatto che esistessero, in questa guerra, altre persone che la ritenevano inutile, ma che fossero tutte così lontane l’una dall’altra, e così piccole rispetto alla sua vastità, da essere totalmente impotenti.

 
 

Verdun, 23 ottobre 1916
 
Oggi ho fatto qualcosa che non avrei mai creduto possibile. Sono stato colto da un’improvvisa e sconosciuta ispirazione e mi sono puntato la pistola sotto il mento. In quell’istante di follia mi è sembrata l’unica soluzione. Non so ancora bene cosa mi abbia fatto cambiare idea, forse la vista di un uomo suicidatosi qualche giorno prima. Per qualche motivo la sua espressione non mi sembrava per niente sollevata.
Avverto un leggero tremore alla mano, temo che non ci vorrà molto prima che mi riduca anch’io come gli altri giovani che la maggior parte definisce “deboli”. Anch’io credevo di avere un animo più forte. Ogni giorno scopro sempre più che questa guerra sta distruggendo ogni mia certezza. Spero di essere ancora in grado di scrivere, tra qualche giorno. Ma sono quasi certo che quest’assedio sia prossimo alla fine.
Sentendo continuamente i nemici che, dall’alto, tentano di sfondare le nostre difese, il mio pensiero è andato nuovamente al francese di Vauquais. Mi chiedo cosa stia facendo, mi chiedo se abbia trovato il suo uomo. Forse è uno di coloro che mi sta bombardando. Se così fosse, sarei felice per lui.
Ora mi rendo conto di non avere nulla. Avevo il mio Paese: forse tra qualche mese non esisterà nemmeno più; avevo la mia carriera: appena i francesi riusciranno a penetrare qui, sarà distrutta in pochi istanti; avevo i miei uomini: quelli che mi sono rimasti sono impazziti o si sono tolti la vita.
Se il francese avesse perso tutte queste cose, avrebbe avuto almeno il suo uomo. Quando sarò io a perdere tutto ciò, credo che la mia vita perderà completamente significato. È davvero triste sapere di non avere nulla di veramente importante.
Nonostante tutti i miei sforzi e la mia intelligenza, mi rendo conto di essere stato drogato dagli esaltati ideali del Kaiser. In fondo, desideravo solo che il mio Paese diventasse adulto, ma non è questo il modo.

 

 

Verdun, 24 ottobre 1916
 
 
Tutto s—ta per f˛–nire. Mi sen—to sollev-to, nonostaᴗnte tutto..—
I tremori sono aumen—taᴗti, non resco piu~ aᴗscrivere bene.
I fraᴗncesi stanno per entrar—.
L’unnuunica cosa a cui reisco aa pens—are e~ la fine di quest’aᴗgoiia.
Non abbandonero~ la Ggermania, affronteroo~ ogni conseuenzaᴗ come un degno uıciale— tedesco. Non riesco a immaginare nuuuulla di peggio, dopo i mesi trascorsi qui.
Non so— decidere se coloro cheᴗentrerannn μ o qui per portarci via – o ucciderci – saranno la nostra cond~anna o la nostra salvezzaᴗ
Non mı pento di nulla, hoo fatto semplicemente cıò che ritenevo giusto. Ora de—sidero soltanto che ıl μ io Paese rinasca e che trovi una ⌡uida capace¬




Fine

Finisce un anno e finisce anche un'avventura. Carissimi voi tutti che avete letto, recensito, seguito e odiato questa fanfiction, vi ringrazio davvero tanto e spero di risentirci presto!
Siccome è stato un capitolo breve ne approfitterò per dedicarmi un po' più spazio del solito pubblicizzando un libro che mi ha aiutato molto in quest'ultimo periodo... anche se, in realtà, se l'avessi letto prima di scrivere la fiction sarebbe sicuramente uscito qualcosa di molto migliore!! Perciò, se vi è piaciuta la mia storia, leggete il nuovo libro dello zio Ken!!!! :D  *ama la sua nuova scoperta letteraria "La caduta dei giganti! di Ken Follett* Al momento sono ancora a metà del romanzo ma più vado avanti e più rimango sconvolta per le somiglianze con la mia fiction e ciò mi fa davveor fare i salti di gioia e alza ulteriormente - e pericolosamente - il livello della mia autostima! Ma apparte questo, sul serio, leggetelo! Offre uno spaccato bellissimo sul periodo che ho trattato e parla anche di molte battaglie e situazioni da me più o meno descritte... e se vi può consolare è anche un tantino più positivo di me, ma su questo non posso rassicurarvi perchè mi manca ancora un bel po' per finire :)
Detto questo, interrompo le mie disquisizioni, vi ringrazio ancora immensamente e rispondo alle recensioni!
Risponderò a quelle che vorrete lasciarmi a questo capitolo in via privata oppure aggiornando la pagina... probabilmente la seconda opzione, quindi se vi interessano le risposte date un'occhiata qui in fondo tra qualche giorno! (quando ci saremo tutti ripresi da Capodanno...)

@Miristar: Ma noooooo!!!! Io scrivo le risposte alle recensioni dando per scontato che abbiate già letto la storia!! Vabbè dai, dopotutto il mio era un finale abbastanza prevedibile.. Prometto che smetterò di scrivere angst per un po', ma ho scoperto che i racconti di guerra mi ispirano tantissimo e ho una gran voglia di scriverne un altro!! Aspetterò in modo da farvi riprendere, nel frattempo Momoka scriverà sicuramente qualcosa di più allegro e leggero :)


@Ginko Kite: Sai, credo proprio di essere come te! Io adoro l'agst, soprattutto scriverlo con le mie sadiche manine, ma quando leggo una storia divento irrimediabilmente romantica e spero sempre nel lieto fine più sdolcinato....... sniff... se non avessi scritto io questa storia, a quest'ora progetterei di uccidere l'autrice


@Sunlight Girl: Ciao! Mi fa piacere conoscerti! Ovviamente mi fa anche piacere ricevere tante recensioni *l'ego malvagio cresceeeee*, ma ovviamente, oltre alla questione del vanto personale, c'è soprattutto il fatto che grazie a voi posso migliorare a mano a mano, quindi grazie per aver commentato!


@Harinezumi: eheh..... continuo a pensare di essere stata fin troppo buona con loro.. se fossero state persone reali probabilmente sarebbero morti in un modo ancora più brutto e lontani l'uno dall'altro... Comunque su con la vita, è solo una fiction, tutti sappiamo che in realtà la Francia e l'Inghilterra sono tanto felici e si amano immensamente :)
Grazie per i complimenti all'ambientazione e sia lode alla grammatica italiana!!!!! (che svanisce nel momento in cui scrivo le risposte.....)


@Julia Urahara: Aaaaaaaah! Mi dispiace di averti fatto piangere!! Ma ogni tanto fa bene,  no? :) Su su


@Kati07: Wow.... il tuo è un vero complimento coi fiocchi, altroché. La mia storia un capolavoro?? Non ne sono sicura ma non immagini quanto tu mi faccia felice... tengo davvero tanto a questo mio pargoletto nato un po' prematuramente.
Credo fermamente che tu abbia 10 in storia! Io non lo avevo... la maggior parte delle cose che ho descritto mi erano totalmente sconosciute fino a un paio di mesi fa... è nato tutto da un semplice documentario che mi ha messo la pulce nell'orecchio e mi ha spinto a cercare qualche informazione qua e là e a inverntarmi il resto :)
Per quanto riguarda i gas, mi sono andata a informare un po' per te! Io e Momoka siamo state al campo di sterminio di Auschwitz, ci hanno fatto vedere le camere a gas e ci hanno anche spiegato che come veleno venivano usate delle specie di pastiglie che evaporavano al contatto con l'aria e si depositavano all'interno delle camere. Questo mi sembra un metodo abbastanza diverso dall'iprite, ma cercando per il web ho scoperto che all'epoca erano molto fantasiosi (per queste cose le idee non mancano mai T_T) e usavano molti tipi di gas a seconda del periodo, del luogo o di come girava loro: semplice vapore acqueo, monossido di carbonio, ma anche gas al cloro, come l'iprite, e molto altri. Quindi la mia risposta alle tue domande è un mezzo sì, probabilmente hanno usato anche l'iprite, assieme a molte altre sostanze.
Ti ringrazio tanto per l'interessamento e la recensione! Questo capitolo non è stato poi tanto sconvolgente, no? :)

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