Raindrops.

di AHysteria24
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Buio. ***
Capitolo 2: *** Presentazioni. ***
Capitolo 3: *** Incontro inatteso. ***
Capitolo 4: *** Imprevisto. ***
Capitolo 5: *** Scuse. ***
Capitolo 6: *** Cambiamenti. ***
Capitolo 7: *** Irritante. ***
Capitolo 8: *** Sbalzi d'umore. ***
Capitolo 9: *** Nascondino. ***
Capitolo 10: *** Chiarimenti. ***
Capitolo 11: *** Inaspettato. ***
Capitolo 12: *** Alchimia. ***
Capitolo 13: *** Memoria. ***
Capitolo 14: *** Primo giorno. ***
Capitolo 15: *** Sorpresa. ***
Capitolo 16: *** Allenamento. ***
Capitolo 17: *** Giornataccia. ***
Capitolo 18: *** Speciale. ***
Capitolo 19: *** Questione di persuasione. ***
Capitolo 20: *** La Push. ***
Capitolo 21: *** Destino. ***
Capitolo 22: *** Luna. ***
Capitolo 23: *** Favola. ***
Capitolo 24: *** Intruso. ***
Capitolo 25: *** Pericolo. ***
Capitolo 26: *** Guai in vista. ***
Capitolo 27: *** La calma prima della tempesta. ***
Capitolo 28: *** Morte. ***
Capitolo 29: *** Famiglia. ***
Capitolo 30: *** Pronta. ***
Capitolo 31: *** Mal di testa. ***
Capitolo 32: *** Anticipo. ***
Capitolo 33: *** Sola. ***
Capitolo 34: *** Impossibile. ***
Capitolo 35: *** Scommessa. ***
Capitolo 36: *** Imperfetto. ***
Capitolo 37: *** Epilogo. ***



Capitolo 1
*** Buio. ***


Capitolo 1 - Buio Ok, questa è la mia prima Fanfiction. Risale a parecchio tempo fa, ma mi sono decisa solo adesso a pubblicarla perchè avevo una paura matta. Anzi, a dirla tutta ce l'ho ancora adesso. Che dire, spero che la storia sia di vostro gradimento. Mi piacerebbe ricevere qualsiasi tipo di recensione, brutale o meno. Non voglio sentire solo complimenti, apprezzo le critiche forse anche di più. Detto questo, ringrazio Giuls e Elly per avermi sopportato e aiutato in tutto questo tempo. E' anche merito vostro questa storia.
E ora la pianto, vi lascio leggere. :)


  Raindrops.

L'uomo è semplicemente un prodotto comune, mentre il mostro è un prodotto raro; ma sono entrambi ugualmente naturali, ugualmente necessari, ugualmente compresi nell'ordine universale e generale.
-Denis Diderot.

Prefazione 

  

Sapevo. Sapevo che in quel momento avrei potuto morire, e sarebbe stata probabilmente colpa mia.

Sapevo che ne sarebbe andata anche della vita, o meglio, dell’esistenza, delle persone che avevo accanto in quell’istante.

Sapevo più che mai in quel momento, con il cuore che scandiva frenetico ogni singolo rintocco del tempo che scorreva incessantemente, che avrei dovuto avere paura, essere spaventata, terrorizzata per la mia vita.

Sapevo che avrei dovuto avere paura di loro. Di lui.

Tuttavia, nonostante in quel momento fosse la mia vita ad essere in pericolo, non riuscivo in alcun modo a temere per essa. O almeno a non temerne per mano loro, per mano sua.

Levai lo sguardo di fronte a me, con il poco coraggio di cui ero provvista, pronta.

Guardai attentamente ogni singola figura davanti a me e, improvvisamente, mi tornarono in mente con prepotenza le parole pronunciate da Alice in un passato poco lontano.

“Era lui…era lui ad ucciderti”. Ora aveva un senso.

Capitolo 1. Buio.

Era tutto così scuro, così buio. Non riuscivo a ricordarmi dove fossi e soprattutto cosa stava succedendo. Che gran casino, continuavo a ripetermi, dove diavolo sono?

Nel frattempo quell’oscura parete misteriosa continuava a correre di fianco a me. Non riuscivo a darle una forma, a descriverla in modo soddisfacente. Riuscivo solo a percepire il suo spostamento continuo ed assurdamente rapido. Sentivo il vento fischiare nelle orecchie e frustarmi il viso, costringendomi a socchiudere gli occhi nel tentativo di mantenerli aperti.

Un momento.

Non mi stavo muovendo, eppure… Una parete non poteva sicuramente spostarsi. E soprattutto non potevo muovermi di certo a quella velocità. Ma che diavolo...?

Le mie gambe erano ferme, o almeno così le sentivo, ma avevo quasi paura di guardarmi in giro e distogliere lo sguardo da quel muro scuro per timore di ciò che in realtà mi circondava.

Faticai a mantenere il mio respiro regolare, cercando di calmarmi come potessi.

Sentivo solamente quel suono simile ad un fruscio, creato dal rapido spostamento d’aria che si creava attorno a me. Faceva freddo.

Chiusi gli occhi ed ispirai profondamente, rabbrividendo un poco.

In quel momento, e solo allora, mi accorsi di un altro respiro molto, molto vicino al mio viso.

Non avrei potuto notarlo se non mi fossi concessa quel secondo di pausa: era fin troppo regolare, perfetto. Stavo per alzare lo sguardo quando mi resi conto di cos’era in realtà quella parete misteriosa. Le punte più scure di quel muro, che convergevano verso il centro da entrambi i lati e sembravano volermi schiacciare, opprimermi… che stupida. L’angolazione da cui la osservavo era totalmente sbagliata. La stavo guardando al contrario. Quando quel pensiero finalmente mi raggiunse, fui sconvolta da una certezza quasi angosciante. Angosciante, senza quasi.

Mi resi immediatamente conto delle braccia che mi sostenevano, strette attorno alle mie gambe e dietro la mia schiena per sostenermi. Ero in braccio a quel misterioso, regolare respiro.

“Tutto okay?”, chiese quel respiro, “Pensavo fossi svenuta. Stai bene?”.

La voce era come il respiro, regolare, perfetta.

Rimasi sorpresa un istante, ammaliata dal suono di quella voce, e poi farfugliai, nella confusione più totale: “Chi, io?”.

Una dolce risata eruppe da un punto molto più vicino di prima, per poi mormorare al mio orecchio: “E chi, altrimenti?”. Distinsi con chiarezza un sorriso nella sua voce.

Ancora non riuscivo a rendermi conto di ciò che stava accadendo.

Dovevo capire chi fosse quello sconosciuto. A quel punto alzai lo sguardo, ma non mi servì a molto: era davvero buio. Che ora era? L’ultima volta che avevo guardato l’orologio…

“Dove sono?”, mormorai più a me stessa che alla voce.

Il movimento del capo mi causò una forte fitta alla testa; portai una mano alla nuca come per arginare il dolore, invano. Feci una smorfia.

“Siamo nella foresta di Sellen, vicino a casa ormai. Non ti preoccupare, è tutto okay adesso”.

Sbattei gli occhi un paio di volte, cercando di mettere a fuoco il mio strano interlocutore, ma senza risultati soddisfacenti. Riuscivo solo a delineare i confini di un volto niveo, quasi argenteo, ma avrei giurato fosse colpa della luna. In cielo infatti sembrava esserci la luna.

Le cime di quelli che ora davo per scontato fossero alberi erano parzialmente più chiare da un lato, i riflessi che brillavano nella notte più buia che avessi mai visto. La vegetazione appariva così fitta e scura da impedire ai deboli raggi di raggiungermi - e raggiungerci, sembrava più giusto dire a quel punto.

Già, pensai con ironia. Qualcuno di sconosciuto e misterioso mi sta trasportando chissà dove. Avrei dovuto essere terrorizzata. Invece ero solo enormemente confusa; confusa e affascinata allo stesso tempo da quella voce. Il che era sbagliato; non del tutto, ma comunque sbagliato.

Sin da piccoli ti insegnano a non dare retta agli sconosciuti. E io ovviamente dove potevo finire? In braccio a uno sconosciuto in un posto dimenticato da Dio in preda a chissà quale strano tipo di amnesia. Il mio sarcasmo mi sconcertava.

Cercai di concentrarmi ugualmente, tentando di ripensare all’ultima cosa che ero certa di aver fatto. Non mi ricordavo niente di quello che mi era successo. L’ultima immagine nitida che avevo era mia madre, che mi raccomandava di stare attenta. Quella immediatamente successiva, era quella stupida foresta buia. Un bel rompicapo. E soprattutto, una fregatura.

“Ecco, siamo quasi arrivati. Rilassati”.

Lavorai qualche istante per distendere i miei muscoli. Non mi era sembrato di essere tesa.

A dire il vero non lo sapevo, non ne ero sicura. Come d’altronde la maggior parte delle cose al momento. Non avevo ancora abbassato lo sguardo dal viso candido della voce, stavo ancora cercando di capire, di vedere meglio, quando una luce in lontananza catturò la mia attenzione e mi costrinse a voltarmi, riportando lo sguardo sulla foresta.

Una luce! Finalmente una debole, piccola, stupida, insignificante luce! Il sollievo che mi portò quella vista fu pressoché immediato; non sapevo bene il perché.

Non avevo mai avuto paura del buio, né mai mi aveva infastidita, al contrario.

Forse era soltanto perché desideravo un cambiamento, seppur minimo, a quella distesa scura di alberi sfreccianti. O forse perché la luce portava più chiarezza, possibilità di vedere meglio, anche un viso, una voce…

Mi lacrimavano gli occhi. Stavamo, anzi stava, andando troppo veloce e il vento mi frustava il viso, scompigliando i miei capelli già indomabili.

Chissà come erano conciati! Molto più che probabilmente erano più vicini ad assomigliare ad un nido di vespe che il mio semplice taglio castano chiaro. Improvvisamente non ero più sicura di voler vedere più chiaramente, di arrivare alla luce. Quasi sorrisi di quanto frivola potessi essere a volte. Sbattei le palpebre ripetutamente, cercando di vedere attraverso la patina sottile che mi offuscava la vista.

“Eccoci”, mi informò un sussurro.

Era vero. La luce era vicinissima, quasi tastabile ormai. Rimasi sorpresa da come quella voce suonasse sempre più affascinante e perfetta ogni volta che la sentivo, così vicina al mio viso. Ci avvicinammo ancora e mi resi conto che non era una luce naturale, ma solo un gigantesco lampadario in una veranda. L’entrata della casa era graziosa, semplice, ma molto raffinata.

Nonostante le dimensioni fossero pressoché enormi, passandoci affianco non ci si sarebbe neanche accorti che era lì, forse. Era come fissata nell’insieme della foresta, intrecciata perfettamente con la natura lì intorno. Era perfetta.

La porta era relativamente piccola, di legno, apparentemente antica come tutto il resto, ma dall’aspetto resistente. C’erano due finestre che davano sull’entrata, una aperta per metà, dalle quali era possibile sentire il mormorio sommesso all’interno del piccolo locale. Sulla destra spuntava un minuscolo ma curato giardinetto, mentre dalla sinistra si riusciva a sentire lo scorrere di un fiume. Era il genere di casa che ognuno avrebbe sempre desiderato per sé.

“Se ti metto giù prometti di non urlare e scappare via?”.

Ora la luce c’era; avrei potuto benissimo alzare lo sguardo e verificare i miei sospetti su quella misteriosa voce, ma non volevo. E se fosse stato solo un sogno? Uno stupido, strano, stranissimo sogno? Beh a quel punto perché svegliarsi?

Perché è ovvio che i sogni si interrompano sempre nel momento migliore.

Un piccolo sbuffo mi ricordò che la voce era ancora in attesa di una risposta. Ma perché mai sarei dovuta scappare urlando?

Non ero sicura di come potesse suonare la mia voce in quel momento così mi limitai a fare solo un debole cenno con la testa. Finalmente i miei piedi toccarono terra.

“Attenta”, mi avvertì gentile.

Ah. Brutta idea. Le mie gambe erano talmente intorpidite da non sentirle neanche, figuriamoci stare in piedi. Infatti, appena il sostegno scomparve da sotto e dietro di me, mi sentii fragile, traballante e mi sentii cadere. Ma mi aspettavo un tonfo, il mio tonfo.

Invece in poco meno di un secondo ero di nuovo nelle braccia gelide della voce. Era freddissimo. Beh non potevo biasimarlo, faceva davvero freddo lì fuori. Probabilmente avevo le labbra viola e il naso rosso.

Oh perfetto!, pensai sarcastica, immaginandomi il quadro generale della situazione. Probabilmente avevo le sembianze di un clown.

“Te l’avevo detto”, aggiunse con un tono serio e divertito nello stesso istante.

Quando mi sentii stringere al freddo corpo della voce, un brivido mi percorse dalla testa ai piedi. Metaforicamente parlando, è ovvio. Non ero neanche sicura di averli i piedi.

“Scusami”, mi disse.

Aveva una voce tormentata adesso, quasi dolorante.

Forse era stanco, forse pesavo troppo o sentiva freddo. Sta di fatto che quel tono di voce, di quella voce così assurdamente perfetta, mi costrinse finalmente ad alzare lo sguardo verso il suo viso.

Era più vicino di quanto mi aspettassi, e fu quello che mi colpì maggiormente all’inizio.

Poi però i miei occhi si abituarono lentamente alla luce, sbattendo le palpebre ripetutamente, e quel primo pensiero si perse nella mia mente come tutto il resto.

Era la cosa più bella che avessi mai visto in tutta la mia vita.

Non era certo una gran durata, appena sedici anni, ma comunque abbastanza da poter affermare che di visi del genere non ne esistevano. Analizzai il suo profilo attentamente, dal basso verso l’alto, assimilando il più possibile di quel viso nei miei ricordi, sicura che sarebbe scomparso da un momento all’altro, come per magia.

Il suo collo, così vicino alla mia fronte, era bianco, snello, ma i muscoli erano ben visibili e apparentemente contratti. La mandibola era pronunciata, ma non troppo, ed era serrata. Gli zigomi erano squadrati, leggermente sporgenti ai lati, in modo da dare al viso un’aria misteriosa, e nonostante tutto bellissima.

La bocca era semplicemente perfetta. Le labbra erano sottili ma piene, di un colore molto simile al rosa, ma leggermente più scuro. Il naso era sottile, perfetto come tutto il resto. La fronte era alta, bianca, ed era in parte coperta da piccoli ciuffi ribelli di una chioma pressoché splendida. Erano i capelli più belli mai visti. Il colore era davvero particolare: un debole castano chiaro, con riflessi rossicci qua e là. Si potrebbe definire castano ramato, o bronzo meglio.

Gli occhi. Gli occhi li tenni per ultimi perché immaginavo che un viso del genere avesse occhi altrettanto stupefacenti. Ma non così. Era un colore, una sfumatura mai vista: un forte color oro ambrato, profondo e dai riflessi leggermente più chiari, tendenti quasi al verde chiaro. Erano occhi cauti, attenti, cerchiati da profonde occhiaie simili ad ustioni.

Le mie dovevano essere peggio, comunque.

Rimasi a fissarlo per alcuni secondi, minuti forse, lottando contro il desiderio di alzare una mano e toccargli il volto. Volevo parlare, chiedergli qualcosa, qualunque cosa che mi facesse credere di essere sveglia e di non sognare davvero. Ma non riuscivo a trovare la mascella, molto probabilmente era da qualche parte per terra.

“Stai bene?”, mi chiese con apprensione.

Stavo bene? Fisicamente, sì credevo di sì. Mentalmente? Ah, quello non lo sapevo. Non dopo averlo visto. La mia testa era affollata da pensieri confusi, perlopiù stupidi e frivoli, come volerlo toccare in viso e sentire che era reale.

“Ehi tu. Sei sicura di stare bene?”, mi chiese di nuovo con un sorriso che mi accecò.

Annuii debolmente, ma non la bevette.

“Okay. Quando sei in grado di parlare, entriamo”.

Alzai lo sguardo, con più grinta stavolta della precedente, e lo fissai in cagnesco per qualche istante.

Era davvero stupido guardarlo in quel modo, e soprattutto davvero, davvero difficile.

Come puoi guardare male un angelo? Restammo così diversi istanti, il suo sguardo all’inizio cauto. Con il passare dei secondi però divenne sempre più divertito, quasi trionfante.

Stava trattenendo un sorriso, era facile vederlo, poiché gli angoli della sua bocca erano leggermente piegati all’insù ed i suoi occhi erano stretti con un’aria quasi di divertimento.

Ah. Ero buffa, fantastico. In effetti, chissà come ero ridotta dopo quella corsa nel bel mezzo della foresta più buia e fitta esistente, e chissà poi cosa avevo fatto prima di ritrovarmi nelle braccia di quello splendido angelo divertito.

Il pensiero mi fece trasalire. Che diavolo era successo… prima?

“Cosa è successo?”, balbettai con voce tremante e stanca.

Mi sentivo come dopo una lunga notte. La mattina mancava la voce.

“Niente. Non ti preoccupare. E’ tutto okay adesso”.

Oh, di sicuro ora era tutto okay. Ma io avevo bisogno di sapere cosa era successo prima.

“No. D-Dimmi cosa è successo prima”, stavo seriamente congelando.

“Prima di cosa?”, chiese con voce apparentemente confusa.

Le cose erano due: o era l’angelo più stupido che ci fosse, oppure faceva il finto tonto.

O forse... ma perché avrebbe dovuto mentirmi? Non riuscivo a capire.

Lo guardai male più a lungo che potei, prima di dover distogliere lo sguardo e riassemblare i miei pensieri, ridotti a poco più di un groviglio annodato di idee. Scossi la testa debolmente come per aiutarmi in tutto ciò e dopodiché lo squadrai nuovamente, cercando una risposta nei suoi grandi e brillanti occhi dorati.

Non trovai quello che stavo cercando, quello no. Ma vidi più di quanto lui mi avesse mai detto in un istante. C’era timore, apprensione e... dolore? Nei suoi occhi all’apparenza solamente divertiti c’era più di quanto pensassi.

Immaginai di affondare nelle sue iridi di quel colore così improbabile, tanto erano profondi.

“Che c’è?”, domandò abbassando lo sguardo e tornando poi velocemente nei miei occhi.

Aveva un’espressione diversa ora, più cauta. Stava nascondendo qualcosa? Non potevo esserne sicura.

“Che cosa è successo prima… prima della foresta?”, rimasi sorpresa.

La mia voce era sorprendentemente decisa ora, sicura. Non pensavo mi uscisse così.

Beh impressionante. Sorrisi di quella piccola vittoria personale.

L’angelo si accigliò al mio cambio di tono e sorrise leggermente. Fece un sorriso che avrebbe potuto togliere il respiro a chiunque, e lo fece.

Dovetti costringermi a pensare a respirare.

Okay, meglio.

Tornai a fissarlo, con interesse, nell’attesa di una risposta decente.

“Come cosa è successo? Non… non ti ricordi?”, chiese. La sua voce era così bella.

“Ehm, no. Ora mi puoi dire cosa è successo?”.

Sembravo a mio agio, cosa difficile stando intrappolata nelle gelide braccia di un bellissimo sconosciuto chissà dove.

“Ti spiegherò tutto dopo. Ora è meglio che entriamo, stai gelando. E il tuo braccio…”.

La sua voce era tornata lo stesso lamento tormentato di prima.

Il mio braccio? E che diavolo…? Non volevo allontanare i miei occhi di un solo centimetro dal suo viso, ma quella frase lasciata a metà mi aveva insospettita.

Così abbassai il viso e rivolsi lo sguardo verso il mio braccio.

Non ero mai stata una ragazza molto coraggiosa, o almeno non per questo genere di cose. Ero il tipo di persona che poteva sopportare facilmente la vista del sangue, a patto che fosse di qualcun altro. Ma quello era ovviamente il mio braccio. E quello era sicuramente il mio sangue.

Successe tutto come se qualcuno avesse premuto il tasto del rallentatore: sembrava di vivere una moviola calcistica.

I miei occhi si sfocarono, come se stessi giocando con il tasto dello zoom di una videocamera.

“Ehi, stai bene? Rispondi. Per favore, rispondi”. Ma c’era qualcosa che non andava.

La sua voce, pur sempre bellissima nella confusione generale -o mia più che altro-, ora era distante e sembrava perdersi nel ronzio di sottofondo che proveniva dalla mia testa.

Mi sentii cadere, o precipitare sarebbe più azzeccato, anche se sapevo di essere del tutto ferma.

Poi il buio si chiuse intorno a me.

Posterò una volta ogni una/due settimane. Lasciatemi un commento :) Grazie.

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Capitolo 2
*** Presentazioni. ***


Capitolo 2- Presentazioni.

Bene, con questo si sale a quota due. Che dire...spero che il capitolo sia di vostro gradimento, anche se non rientra nei miei preferiti. Ditemi voi :)

Capitolo 2. Presentazioni.

Chissà quanto era passato. Secondi, minuti, ore? Non lo sapevo.

Perché doveva essere tutto così confuso ultimamente? Beh, almeno questa volta mi ricordavo cosa mi era successo prima.

Non volevo aprire gli occhi. O meglio, avrei voluto per poter vedere nuovamente il suo viso, ma non volevo aprire gli occhi per paura. Io e il coraggio eravamo due entità a parte.

Due cose mi ronzavano in testa: cosa era successo al mio braccio?

No, pensiero sbagliato. Dopotutto era per quello che avevo perso conoscenza.

Secondo, dov’era lui? Il mio splendido angelo che aveva assistito a quella scena patetica.

E se… se il sogno fosse finito? Se adesso avessi aperto gli occhi e mi fossi ritrovata nella mia piccola camera infantile, nel mio vecchio letto?

Anche questo non era un gran pensiero. Ma era sempre meglio di pensare che l’angelo se ne fosse andato lasciandomi qui. Non lo sentivo. Non sentivo più le sue braccia gelide intorno a me, non sentivo più il suo respiro regolare vicino al mio viso congelato. Provai ad aprire gli occhi e stiracchiarmi un poco.

Mi sentivo rigida, intorpidita. I miei muscoli mi implorarono di stare ferma.

“Bentornata fra noi”, disse una nuova voce. Non la riconobbi.

Non era certo quella che avrei desiderato sentire in quel momento, ma era altrettanto musicale e bella. Era anche alquanto divertita.

Un colpo di tosse e dei passi.

Spalancai in un attimo gli occhi e cercai di mettere a fuoco quello che stava intorno a me.

La stanza era ampia, chiara, spaziosa. Non c’erano molti mobili, solo un paio di poltrone e un tavolino, dove poggiava un enorme televisore al plasma.

I muri erano completamente bianchi con diversi quadri alle pareti. Sul lato della stanza più lontano da me c’era una grandissima vetrata che rifletteva la scena che mi comprendeva.

Ma non ero da sola.

Davanti a me c’erano due figure. Una era davvero...gigantesca. Non avrei saputo descriverla in altro modo. Era un ragazzo sulla ventina, forse meno, con i capelli scuri, corti e ricci.

Era pallidissimo, e la sua pelle contrastava con quel colore di capelli così scuro. Gli occhi non erano belli come quelli dell’angelo, ma il colore era davvero molto simile. Uhm, forse erano fratelli. Quindi… quindi forse non mi aveva abbandonata. Anzi, mi aveva portata in casa sua e lasciata riposare.

Che sensazione strana, perché avrebbe dovuto farmi così tanto piacere una cosa del genere?

Non ci badai molto. Piuttosto mi concentrai sull’altra figura che faceva capolino da dietro le enormi spalle del gigantesco sconosciuto. La fissai attentamente. Era forse una delle persone più minuscole che avessi mai visto: sarà stata alta come una bambina di undici, dodici anni. Sembrava una bambola. La sua carnagione era dello stesso tipo di quella del gigante, ma non si assomigliavano molto questa volta. Gli occhi della bambola erano scuri, con angoli tendenti al viola, le occhiaie sotto questi molto profonde, simili a vere e proprie ustioni. Tuttavia, il pallore era identico.

“Ciao”, cinguettò allegramente la bambola, con una voce che sarebbe potuta provenire da un angelo, e poi sorrise ampiamente.

La mia mascella si spalancò per la sorpresa, mentre cercavo di tirarmi su da quello che doveva essere un divano.

Una risatina angelica eruppe dalle sottili labbra di quell’esile figura.

“Mi chiamo Alice. E lui è Emmett. Non ti preoccupare, è grosso ma non fa niente”, disse dando una leggera gomitata giocosa al gigante di fianco a lei.

Un’altra risatina. Poi mi porse la mano.

Ehm. Dovevo stringerla? Non ero sicura di esserne capace. La mia testa aveva ripreso a fischiare e ronzare, mentre le pareti della stanza non stavano più ferme dove sarebbero dovute essere.

Una voce riportò tutto al suo posto. La voce, per essere più chiari.

Mi voltai di scatto, forse troppo velocemente perché la mia vista si annebbiò un secondo, e lui era là, in cima alle scale, che ci fissava con sguardo divertito e uno splendido sorriso agli angoli delle labbra. Il mio angelo. Non mi aveva abbandonata. Il sollievo m’investì come un treno in corsa.

“Alice”, disse, “non dovresti traumatizzare la nostra nuova arrivata prima del tempo. Porta via Emm di lì”.

Sembrava davvero divertito dalla mia espressione. Mi sforzai di ritrovare la mascella e la chiusi con forza.

“Okay. Ai suoi ordini”, lo prese in giro Alice.

“Ma vedi di sbrigarti a spiegarle tutto. Non so quanto tempo tu abbia”.

Il repentino cambio d’espressione del bell’angelo mi colpì. Ora il suo viso era contratto, come bloccato in una maschera di preoccupazione evidente.

A cosa si riferiva Alice di così preoccupante?

“Non preoccuparti”, disse una nuova voce, “adesso ti spiegherà tutto”. E come...?

Probabilmente non era difficile capire la confusione che avevo in quel momento nella mia testa. L’avevo sicuramente stampata in faccia. Tuttavia, mi stupii.

“Io sono Jasper comunque. Molto piacere”.

Era un ragazzo molto più che bello. Aveva i capelli biondissimi e dall’aspetto leonino, gli occhi scuri e cauti come quelli della piccola Alice. E fu proprio al suo lato che si mise. Rimase a fissarmi come in attesa di una risposta, o semplicemente con forte curiosità ed interesse.

Era strano, fastidioso, essere guardati così. Forse voleva che mi presentassi anche io, ma non avevo la forza di farlo. Tornai a concentrarmi sul viso imperturbabile dell’angelo.

“Jazz lasciala stare. Cerca solo di calmarla”, una gelida voce femminile lo bacchettò.

Alzai lo sguardo. Una semplice occhiata a quella figura slanciata mi fece venire voglia di seppellirmi: era splendida, molto più che bellissima. I lunghi capelli biondi le arrivavano a metà della schiena con piccoli e ben definiti boccoli argentei. Il suo viso era impressionante, da togliere il respiro, i suoi occhi della stessa tonalità di quelli di Emmett, il gigante.

“Rose, fatti gli affari tuoi e sparisci”, le rispose in modo acido Jasper.

Erano divertenti, a pensarci, ma io avevo altro cui pensare. Fissai il mio sguardo in quello dell’angelo, sperando di non sfigurare troppo con quella “Rose”.

“Ehi ragazzi siamo appena tornati, che state…”, una calda voce cominciò a dire. Di donna sicuramente.

“Oh abbiamo ospiti”, completò un’altra voce, altrettanto calda, ma totalmente diversa.

Una coppia entrò nella stanza, ormai affollata, notevolmente confusi dalla mia presenza almeno quanto lo potevo essere io.

“Alice che cosa...?”, disse la giovane donna appena comparsa.

I suoi capelli color caramello assunsero strani riflessi a contatto con la luce del lampadario, alcuni rossicci, altri tendenti all’oro. Aveva dei lineamenti gentili, amorevoli, ma non poteva essere una madre. Era troppo giovane, o almeno lo era per essere la madre di almeno uno dei presenti. Stringeva la mano di un giovane uomo, ovviamente bellissimo.

Doveva essere una qualità di famiglia.

Era biondissimo, i suoi occhi quasi dello stesso colore dei capelli.

Sbattei un paio di volte gli occhi alla vista di quella figura, più vicina ad essere un protagonista di una fiaba che della realtà. Mi sorrise.

Aveva un’espressione saggia, con la quale dimostrava sicuramente più anni di quelli che aveva.

Beh, se lui era il padre, avevo capito da dove arrivava tutta questa perfezione.

“Ah, no! Io stavolta non c’entro, è stato lui”, disse Alice indicando dietro di me, con il sorriso beffardo di un bambino che ha appena incastrato il compagno di classe.

Notai l’uomo appena entrato annuire nella mia direzione con espressione seria, ma avrei giurato che i suoi occhi non fossero concentrati su di me. Ma che...?

“Sì, colpa mia, Carlisle. Mi dispiace”, bisbigliò al mio orecchio.

Sobbalzai, schiacciandomi contro lo schienale del divano.

Ah! Come diavolo era arrivato così velocemente? Non l’avevo sentito.

Il mio cuore riprese a battere al doppio della velocità consentita. Era inginocchiato dietro il basso divanetto dove ero raggomitolata, le braccia appoggiate sullo schienale bianco che s’intonava perfettamente al colore della sua pelle, il viso rivolto verso il mio con uno sguardo acceso da un misto di forte curiosità e frustrazione. Sembrava una statua scolpita nel marmo, con brillanti gemme incastonate nel viso al posto degli occhi.

“Credo sia meglio che ora le spieghi qualche cosa”, disse Jasper dal fondo della grande stanza. Avevo la vivida impressione che stesse cercando di evitarmi, starmi lontano. Che strano.

Non avevo capito a chi o cosa si riferisse finché il mio angelo non si scostò dal divano e si mise in piedi. Sembrava ancora più bello della prima volta che l’avevo visto.

Annuì brevemente senza alzare lo sguardo dal mio viso, scioccato dalla sua perfezione.

“Carlisle, potreste lasciarci un secondo da soli? Devo davvero parlarle”.

Perché la sua voce angelica era così distorta dalla preoccupazione? Mi faceva stare male.

Strinsi gli occhi e lo fissai con un’intensità ed una curiosità che avrebbero sicuramente turbato chiunque. Ma non l’angelo, lui continuava a guardarmi negli occhi con la stessa espressione di prima, forse solo un po’ confuso dalla mia reazione.

Un sorriso gli spuntò agli angoli delle labbra e mi tolse il fiato. Fui costretta a distogliere lo sguardo, era troppo.

Alzai il viso appena in tempo per notare uno scambio di sguardi cauti tra gli altri presenti, che poi cominciarono ad avviarsi verso quella che probabilmente era la sala da pranzo.

Rimasero per ultimi Alice e Carlisle. Quest’ultimo mi sorrise caldamente e si allontanò con una grazia sovrumana. Sembrava non toccasse nemmeno terra.

La piccola bambolina dai capelli corvini rimase invece a fissarmi con sguardo assente, vuoto. Non ero poi così sicura che stesse guardando proprio me, a dir la verità. Qualche secondo dopo entrambi, l’angelo e Alice, ansimarono in sincrono.

Uno sguardo scioccato e pieno d’ansia attraversò il loro splendido viso.

“Tredici minuti, Edward”, disse Alice con voce angosciata.

Edward. Edward. Edward. Ecco come si chiamava il mio angelo.

Non era un nome molto comune, ma era comunque perfetto per lui. Adesso almeno il mio angelo aveva un nome. Edward.

Dopo aver fantasticato qualche secondo ancora su quel nome, un lieve spostamento d’aria alle mie spalle mi riportò alla realtà.

Tredici minuti? Che cosa voleva dire? Perché tutti dovevano essere così dannatamente criptici?

Era snervante. E poi lui era lì, proprio di fianco a me.

Si sedette sul bracciolo più lontano rispetto a me, sorridendo lievemente. Era un sorriso forzato, non genuino. Questa cosa mi lasciò perplessa. Avevo forse fatto qualcosa di sbagliato?

Rimasi qualche secondo a rimuginare su quello che era successo, sull’impossibilità di quella situazione e cercai di ricordarmi se avevo per caso bevuto la sera prima.

Quello avrebbe spiegato sia il mio momentaneo black-out, sia perché la mia immaginazione stesse galoppando senza freno a quel modo. Non riuscivo a credere a quello che mi stava succedendo.

“Ciao”, mi disse, interrompendo i miei pensieri.

Dopo tutto quello che era successo, quel semplice saluto sembrava provenire da un altro mondo.

“Stai meglio ora?”.

Aveva un fare divertito adesso, mi stava decisamente prendendo in giro per la scena patetica dello svenimento.

Abbassai lo sguardo, colpevole, e mi sentii leggermente arrossire.

Non sentendo arrivare una risposta, Edward andò avanti nel suo monologo.

“Beh, lo spero. Comunque io sono Edward, molto piacere, e tu sei…?”.

Quella volta ci misi un po’ a decifrare ogni parola che aveva pronunciato, mi sentivo ancora parecchio confusa. Non alzai lo sguardo, né tantomeno il viso.

Riuscii tuttavia a notare che stava giocherellando con le sue lunghe dita, nell’attesa di una risposta decente.

Tredici minuti, mi ricordai. Se avevo solo tredici miseri minuti, non potevo permettermi di perderli così. Il mio nome sembrava una cosa così lontana dalla realtà in quel luogo popolato da angeli. Presi fiato ed espirai velocemente.

“Elizabeth”, cominciai a balbettare nervosamente.

“Ma mi chiamano El, però puoi chiamarmi come vuoi, non c’è problema...”.

Perché dovevo parlare a vanvera quando andavo in panico?

Il mio farfuglio si andò perdendo e non sentendo una risposta alzai lo sguardo.

Il suo volto era a dir poco stupito, mentre mi squadrava con curiosità. Si ricompose velocemente e mi sorrise, questa volta in modo più naturale e spontaneo.

“Che c’è che non va?”, chiesi con fare sospetto.

Mi dava un senso di fastidio il modo in cui mi fissava, con un sorriso truffatore.

“Non è niente”, scrollò leggermente le spalle. “Niente, davvero, è solo che...”

Lasciò la frase in sospeso. Era in grado di completare una frase? Ero a dir poco esasperata, dovevo darmi una calmata.

“Che...?”, lo esortai, forse con fin troppo interesse.

“Hai lo stesso nome di mia madre, la mia vera madre intendo”.

Ah. Quindi era stato adottato.

Eppure si somigliava molto con Carlisle, soprattutto per la carnagione e gli occhi.

“Sì, sono stato adottato qualche tempo fa”, fece eco ai miei pensieri. “Io e gli altri, tutti quanti, siamo stati adottati da Esme e Carlisle”.

Ma come...?

Non mi sembrava di aver parlato. Forse ero troppo stanca e confusa per rendermene conto, e fino a quel momento non avevo fatto altro che parlare e parlare invece di tenermi i miei pensieri per me. Questo spiegava gli sguardi curiosi e straniti di tutti. Oddio no! E se avevo detto tutto quello che avevo pensato su di lui? Non volevo pensarci. Soprattutto se poi rischiavo di pronunciarlo.

Rise della mia espressione terrorizzata.

“No, non sei tu, non ti preoccupare”.

Ecco, mi ero persa di nuovo. Mi leggeva nel pensiero?

Appena quel pensiero colpì la mia mente, lo shock gli attraversò il volto e capii di avere ragione.

Mi leggeva nel pensiero, e probabilmente non solo il mio. Ne ero certa.

Ne cercai la prova.

Che cosa è successo prima? Che cosa significa tredici minuti? Rispondimi.

Okay, mi sentivo una perfetta cretina.

Edward scrollò le spalle leggermente e mi sorrise. Aveva sentito, oh sì che aveva sentito.

Parla, lo so che hai capito, pensai.

Ancora un sorriso, poi sospirò rassegnato.

“Perspicace. Credo che nessuno ci sia mai arrivato così velocemente”.

Gli feci un sorriso, che tendeva più ad una smorfia probabilmente.

Rise della mia faccia.

Ah ah. Molto divertente, esilarante, davvero, pensai con sarcasmo.

“Scusami, è solo che non ci sono abituato. E’ strano”.

Rimanemmo a fissarci per diversi istanti, i nostri respiri a scandire il tempo, il battito del mio cuore troppo irregolare da seguire a causa della sua presenza.

Un pensiero insistente mi metteva una strana impazienza.

Tic-tac. Tic-tac. Tredici minuti, tredici minuti.

Chissà quanto tempo rimaneva ancora, e soprattutto cosa significava.

Abbassai lo sguardo, sicura ormai che una risposta non mi sarebbe arrivata, e rimasi a rimuginare sulle mie domande, cercando di non pensare troppo “ad alta voce”.

Poi finalmente parlò.

Mi fa sempre molto piacere sentire i vostri pareri, che siano pro o contro ciò che scrivo. Quindi non abbiate "timore" di offendermi in qualche modo, so accettare una critica e farne tesoro. In breve, vi prego lasciate un commento!

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Capitolo 3
*** Incontro inatteso. ***


Capitolo 3 - Incontro inatteso.

Alloooora...ecco il numero 3. Posto con un po' di anticipo perchè non so se domani sarò in grado di farlo.
E' piuttosto lunghetto rispetto ai due precedenti, e succedono parecchie cose. Ricordo che io sono tutta orecchie(o occhi) per quanto riguarda i commenti, il problema è che non c'è nessuno che mi si fila. Dettagli! Ok, la pianto. A voi :)

P.s. Siccome sono un genio, ovviamente ho dimenticato di inserire la prefazione la prima volta che ho postato. Ho modificato il capitolo ora, quindi se siete curiosi potete sempre farci un salto veloce :)

Capitolo 3. Incontro inatteso.

“Vedi... è successo tutto molto velocemente”.

Le sue parole si rincorrevano, come se avesse fretta di pronunciarle. Dovetti concentrarmi al meglio per poterle capire tutte.

“Io dovevo andare con Alice a... in giro, ecco. Emmett però l’ha chiamata all’ultimo secondo e Alice è dovuta andare con lui. E io ho girovagato per un po’ da solo fino a quando non ho trovato quello che cercavo.”

La mia testa era un gigantesco punto di domanda. Avevo la sensazione di perdermi in un bicchiere d’acqua. Cosa cercava?

E poi non mi ero fatta sfuggire la sua esitazione su quello che dovevano fare lui e Alice. Così lasciai spazio alle domande nei miei pensieri, sicura che se avessi parlato sarebbe stato peggio.

Lui sorrise.

“Okay, forse è meglio se ricomincio”.

Credo anch’io. Grazie mille.

Mi sorrise ampiamente e sospirò.

Ti ascolto, pensai.

Lui annuì e riprese.

“Beh ecco... non posso raccontarti esattamente quello che è successo. Ma sono pronto a scommettere che ci arriverai da sola nel giro di poco tempo. In ogni caso, stavo vagando per la foresta quando ti ho sentita...urlare”. La sua voce si spezzò, incrinandosi su quell’ultima parola.

“Non sapevo cosa stesse succedendo perché non ti sentivo, non riuscivo a percepire i tuoi pensieri, il tuo odore... E’ stato davvero frustrante e difficile per me. Seguivo solo i tuoi urli, erano grida terrorizzate, di dolore”.

Sembrò quasi tremare al ricordo di quell’immagine. La cosa più strana era il fatto che io non mi ricordassi niente di quello che era successo.

Vai avanti, lo esortai.

“Quando sono arrivato e ti ho visto là, per terra, è stato come...come essere colpiti da un fulmine in pieno petto. Eri totalmente indifesa e stavi soffrendo a causa…”.

Un ringhio parve nascere dal centro del suo torace e la cosa mi fece indietreggiare impercettibilmente.

“Non potevo tollerare una cosa simile, dovevo… volevo proteggerti. Ho dovuto farlo e... lui era lì, vicino a te, con quello sguardo…”. Scosse la testa come per scacciare velocemente il pensiero.

Io però mi ero persa di nuovo. Chi era ?  

Poi… “tredici minuti, Edward” aveva detto Alice. Forse non si riferiva a me. Forse si riferiva a quel lui.

Lo sguardo di Edward mi fece capire che ci avevo azzeccato di nuovo, ma questa volta non ne fui felice. C’era qualcuno, qualcuno di pericoloso e ignoto, che aveva cercato di farmi del male e sembrava dovesse tornare.

Edward, pensai. Vai avanti, racconta. Devo sapere.

Lui obbedì con un piccolo cenno del capo.

“Era un Ubach. E’ una…specie...molto pericolosa. Anche noi se possiamo gli stiamo alla larga. Sono estinti in questa zona da circa due secoli, o almeno così pensavamo”. Il suo umore era cambiato di nuovo. Sembrava mi stesse prendendo in giro al momento.

Che cavolo...? Oh certo, io ero l’unica a poter attirare incidenti del genere. Mia sorella ne sarebbe stata entusiasta, aveva sempre portato avanti quella teoria con fermezza.

Davvero divertente, complimenti.

Rise del mio sarcasmo.

“Davvero anche tua sorella lo pensa? Allora non è una teoria così tanto stupida”. La sua voce era notevolmente divertita, mi stava prendendo in giro. Decisamente.

Grazie mille.

Beh, quindi?, lo esortai. Sono rimasta al mio quasi omicidio, un’ombra di acidità evidente nei miei pensieri. Edward s’incupì nuovamente.

“In ogni caso, non era molto potente. Era assetato e non aveva molte forze in corpo. Così quando l’ho... mi sono accertato che non potesse più ferirti, ti ho presa e ti ho portata qui. Fine del racconto”.

“Tu cosa ricordi?”, mi chiese con vivo interesse e un’ombra di preoccupazione dopo una breve pausa.

Avevo la gola secca, la voce probabilmente bloccata nella gola. Così preferii mostrargli quello che mi ricordavo, cercando di evitare i miei pensieri su di lui.

Una domanda mi sorse spontanea.

“Come mi sono fatta questo?”, sollevai il braccio che aveva causato quel ridicolo svenimento come prova.

Avevo ragione, la mia voce era orribile. Era una via di mezzo tra una cornacchia ed un’anziana portinaia. Mi schiarii la voce inutilmente ed attesi la mia risposta.

“Quella è solamente una lieve frattura. Niente di grave, passerà in un paio di settimane”.

Rotta. Non ero mai stata molto attenta durante le lezioni di scienze, ma ero certa che una frattura non sanguinasse. Ma allora il sangue…?

Abbassai immediatamente lo sguardo sul mio braccio.

In effetti non era ferito, era soltanto gonfio e... ingessato? Quando l’avevano fatto? Probabilmente ero rimasta fuori gioco per più tempo di quanto pensassi.

“E’ stata Rosalie. Non dirle che te l’ho detto però, vuole sembrare acida a tutti i costi”.

“E comunque solo una mezz’oretta, non di più. Mi hai fatto venire un bello spavento”, aggiunse subito dopo.

Stava tentando di distrarmi, lo sentivo. Era palese.

Il sangue, pensai, da dove veniva tutto quel sangue? Un piccolo brivido mi percorse la schiena al solo pensare quella frase. Di chi era?

“Era... tuo”, sembrava avere difficoltà a pronunciare quelle parole.

Ma se il sangue era mio, e non proveniva dal braccio, allora...? Non ci capivo niente.

Sputa il rospo, ora. Ordinai nei miei pensieri, cercando di sembrare più decisa di quanto non fossi realmente.

“Era tuo. Solo…solo non veniva dal tuo braccio, ecco”.

Il mio cervello era bloccato, sembrava avere raggiunto il limite massimo di informazioni concesse in una giornata. Non riuscivo a capire totalmente il senso delle sue parole, pronunciate con così tanta difficoltà e disprezzo.

Istintivamente, e perlopiù inconsciamente, mi portai le mani al collo, come per sorreggermi. Fu allora che mi accorsi di un leggero bozzo sulla superficie liscia della mia pelle, come una cicatrice. Non avevo cicatrici, almeno che io sapessi. Era piccola, ma sicuramente visibile. Aveva una forma parecchio strana, come “doppia”. Feci scorrere i polpastrelli più e più volte su quel nuovo segno prima di arrivarci.

La testa aveva ripreso a girare, più forte di prima. Il sangue era mio, ma non proveniva dal mio braccio rotto. E avevo una strana, nuova cicatrice alla base del collo, proprio all’altezza della gola…

Non mi veniva in mente assolutamente nulla. Niente di diverso dal pensiero che mi aveva investito qualche secondo prima, con la violenza di un ariete.

Ritrassi la mano lentamente, restando impigliata tra due ciocche di capelli incollate tra loro. Una smorfia disgustata si dipinse sul mio volto quando mi resi conto che il collante altro non era che il mio stesso sangue. Rimasi a fissare le mie dita, sconcertata.

Riuscivo solo a pensare, pensare, e ancora pensare, completamente sconcertata e disorientata, dalla frase di poco prima.

In ogni caso, non era molto potente. Era assetato e non aveva molte forze in corpo. Così aveva detto. Era assetato, aveva sete. Non una normale sete, una totalmente differente e sconosciuta, almeno a me.

Non riuscivo, non potevo e non volevo ammettere di esserci finalmente arrivata. Avevo capito.

Inspirai ed espirai velocemente, il panico che cominciava ad affiorare. 

“Vampiro”, mormorai con un filo di voce.

 

Non seppi esattamente per quanto rimanemmo a guardarci l’un l’altro.

Edward era pietrificato sul bracciolo bianco del divano, il più distante possibile da me, fissandomi con occhi allo stesso tempo vuoti e colmi di sconforto. Non sembrava respirare. Era totalmente, maledettamente immobile.

Non fui capace di concentrarmi, rimasi solo ad osservare i suoi lineamenti perfetti, sperando che quell’incredibile creatura, ora più che mai simile ad una statua di marmo che ad una persona, riprendesse vita.

Un lieve mormorio proveniva dalla stanza adiacente. Chissà se avevano ascoltato la strana conversazione appena conclusa, chissà se sapevano che avevo capito.

Rimasi in attesa, in ascolto.

Poco dopo, una sedia sembrò scorrere lieve contro il pavimento, poi passi leggeri sembrarono avvicinarsi. Alice entrò nel salotto, dove io e Edward eravamo. Mi voltai automaticamente e cercai di ricompormi, mentre la statua rimase impietrita dov’era.

“Tempo scaduto”, cinguettò soavemente, con fin troppa allegria impressa nella sue voce squillante.

Poi il suo sguardo si bloccò su quello del fratello ed il suo umore si affievolì visibilmente.

“Beh, vedo che comunque avete... finito. Sei stata più veloce di quello che avevo previsto, El”.

Sul finale la sua voce era tornata della stessa tonalità della precedente: euforica, ammaliante.

Il suo sguardo si perse improvvisamente nel vuoto dietro di me, ed un’espressione di terrore inondò il suo viso. Praticamente nello stesso istante, Edward riprese vita, scattando in piedi ad una velocità impossibile, un ringhio minaccioso nel suo petto.

“Sono qui, andiamo.”

Poi si voltò per la prima volta dopo troppo tempo verso di me. Si accigliò.

“No. Alice, resta tu con lei, e anche Rose. Non voglio che rimanga senza protezione neanche un secondo”.

Stava probabilmente rispondendo ad una domanda che mi ero persa.

Alice annuì con decisione, mi afferrò il braccio e mi trascinò verso le lunghe scale curvilinee che portavano al piano di sopra.

“Aspetta”, bisbigliai, sicura che mi potesse sentire.

“Solo un secondo, uno solo”, implorai nuovamente, visto che non allentava la presa.

La guardai in faccia, supplichevole. “Per favore”.

Annuì nuovamente, ma con meno convinzione di quella che aveva usato con Edward, e mi lasciò andare.

Mi affrettai verso di lui, cercando di mantenermi calma e concentrata. Non sapevo bene cosa avrei doluto dirgli, ma dovevo dirgli qualcosa, qualunque cosa.

“Edward”, chiamai con un filo di voce.

Si voltò di scatto, forse stupefatto dal suono della mia voce.

Probabilmente aveva pensato che non avrei mai più voluto vederlo dopo aver scoperto che il mio assalitore misterioso era un vampiro. Mi risultava difficile anche solo pensarlo.

E Edward era stato capace di metterlo fuori gioco. Non ero stupida, forse lenta, confusa, ma non stupida.

Il suo sguardo, ancora una volta, fu per me più di mille parole.

C’era timore, incertezza, sconforto, paura, ma anche sollievo e fierezza. Era bellissimo.

Oops! Il sorriso truffatore che spuntò agli angoli della sua bocca mi fece capire che avevo pensato troppo “a voce alta”.

Sorrisi imbarazzata, abbassando il viso e cercando di nasconderlo al meglio nella vecchia felpa blu che indossavo. Arrossii violentemente e poi sospirai.

Non era certo colpa mia se lui non si faceva i fatti suoi.

Mi fece una smorfia. Beh era bellissimo lo stesso, impiccione o no. Stavolta però pensai piano, o almeno ci provai. Sgranò gli occhi.

“Che c’è?”, chiesi sbigottita.

“Ma come fai?”, domandò Edward sorpreso.

Non capivo, cosa non del tutto strana quel giorno.

Ad interrompermi, mentre rimuginavo sulla sua frase a metà, il ringhio ostile di qualcun altro vicino a me. Mi voltai, spaventata.

Oh. Era solo Emmett. Beh, solo era una parola grossa.

Ma c’era qualcosa di diverso in lui, nel suo atteggiamento. In salotto, poco prima, mi era sembrato un ragazzo simpatico, amichevole, innocuo. Ora invece sembrava come... invecchiato.

Non seppi darmi una spiegazione o una definizione più efficace. Il suo sguardo era duro, ostile e minaccioso. La sua posizione leggermente accucciata sulle ginocchia, in attesa. Sembrava pronto a scattare da un momento all’altro, e sapere per cosa era pronto non mi fece sentire meglio. Tutt’altro. Percepii un movimento all’esterno della casa ed in un secondo, forse meno, mi furono tutti intorno, Edward al mio fianco, le sue braccia protettive intorno a me.

“Alice”, bisbigliò Edward angosciato.

Lei scosse la testa, tristemente.

“Non c’è più tempo. Sono qui”.

Il ringhio feroce di Edward fece eco a quello dei presenti, ora tutti accucciati nella medesima posizione accanto a me.

Le sue braccia mi si strinsero intorno ed un brivido mi percorse.

“Non permetterò che ti accada nulla, ok? Cerca solo di stare il più ferma possibile e vedrai che andrà tutto bene”, sussurrò al mio orecchio, in modo che nessun altro potesse sentirlo, parlando più a se stesso che a me probabilmente.

Sembrava si stesse auto convincendo della sua affermazione, invece di tranquillizzare me. Ma io non avevo bisogno di rassicurazioni, non lì, non tra le sue gelide braccia.

Toc-toc. Qualcuno bussò alla porta e tutti si pietrificarono all’istante, me compresa, il cuore a mille ed il respiro irregolare.

Okay, forse ero un po’ nervosa.

Quel rumore mi lasciò perplessa. Qualunque nemico fosse, almeno era educato.

Carlisle prese un respiro a pieni polmoni e si avvicinò alla porta, esitante. Con un rapido movimento fece scattare la serratura ed aprì la porta, un sorriso amichevole era comparso sul suo viso.

Sapeva recitare bene, sembrava davvero genuino.

“Ben arrivati”, disse caldamente Carlisle, porgendo la sua mano destra agli ospiti indesiderati.

“Vi stavamo aspettando, prego entrate pure”.

 “E’ da parecchio che non ti vedo Carlisle, saranno quasi due o trecento anni. Credevo ti fossi dimenticato di me”, rispose una voce leggera all’esterno.

Sembrava amichevole, strano. Me l’ero immaginata un po’ diversa quella scena.

 “Oh non potrei mai, Amos”, lo interruppe Carlisle, “Sapevo che eri rimasto in Scozia e non sono più venuto a cercarti non avendone l’occasione, di questo mi dispiace. Spero tu possa scusarmi”.

“Non preoccuparti, Carlisle. So quello che stai pensando e non vedo nessuna cattiva intenzione. E comunque sarei potuto venire io. Non hai niente di cui scusarti”.

La voce ora era sensibilmente più vicina, ormai era prossima al salotto.

“Questo è certo, Amos. Lo sai meglio di molti altri”, disse scherzosamente Carlisle.

Ma cosa significava? Mi voltai verso Edward, cercando di incontrare il suo sguardo. Anche lui…?

Senza distogliere lo sguardo dalla sala da pranzo, da dove proveniva la voce sconosciuta, Edward annuì debolmente.

Ma come era possibile?! Avevo sempre vissuto con la certezza che le fiabe e le leggende fossero storie inventate, raccontate ai bambini per tenerli alla larga dai pericoli.

La mia testa era sul punto di esplodere. Anche lui leggeva nel pensiero.

“Oh, ma c’è un’umana qui con voi, vedo. Interessante”.

Un lieve sibilo lasciò le labbra di Edward.

La voce di Amos era vicinissima, ormai a qualche metro, non di più, ed il mio cuore rispose a quell’inevitabile verità aumentando il battito oltre il limite consentito. Mi strinsi nelle braccia di Edward, e lui mi tenne stretta al suo petto.

“Ma questo lo sai già Amos”, disse Carlisle con ansia, “Mio figlio mi ha raccontato quello che è successo nella foresta”.

“Ah. Beh allora saprai anche che probabilmente questa non è solamente una visita di cortesia, caro Carlisle”.

Un brivido mi percorse la schiena ed Edward sfregò la sua mano sul braccio, nel tentativo di confortarmi.

“So anche questo, ma spero di poterti far cambiare idea, Amos. Quella ragazzina non ha fatto niente di male, e tu lo sai meglio di me”.

Seguì una breve pausa, uno strano silenzio assordante che minacciava di farmi impazzire.

Il mio battito ormai era a dir poco udibile. Sentii qualcuno ispirare profondamente, mentre tutti noi attendevamo, immobili e tesi.

“Amos”, disse Carlisle spezzando il silenzio, “non puoi ucciderla”.

Non potei impedirmi di sobbalzare a quella frase.  

“E’ una Hoser, Carlisle! Ed è umana”, sibilò Amos, con evidente disprezzo ed un’ombra di urgenza che non compresi.

Stavano parlando di me? Non capivo.

Quando Amos pronunciò quelle parole, Edward ansimò e mi lasciò andare, facendo ricadere le sue braccia invernali lungo i fianchi. Stupita, distolsi lo sguardo dalla sala da pranzo e mi voltai verso di lui. Il suo volto era scioccato, angosciato. Tormentato.

Che cosa era appena successo?

Tutti gli altri avevano la stessa espressione allarmata che era presente sul viso di Edward, gli occhi spaventati puntati su di me. Tutti tranne Alice, che mi guardava sorridendo ampiamente come poco prima.

“Questo... questo non lo immaginavo, Amos. Ma cosa dovremmo fare, lasciarla uccidere dalla tua famiglia? Sai che non potrei mai accettarlo”, riprese Carlisle, interrompendo i miei pensieri.

“Sai però che è un pericolo per me quanto lo è per te e la mia famiglia. Forse anche di più. Non voglio correre rischi inutili. Ora potrei vederla?”.

Sul finire della frase la sua voce era passata da amichevole e tranquilla a sinistra ed impaziente. D’un tratto, mi sembrò tutto ovvio. Voleva vedere me. Un altro brivido mi percorse la schiena, più intenso questa volta, poiché non c’erano più le braccia di Edward a tenermi al sicuro.

Stavo ancora cercando di incontrare il suo sguardo tormentato, quando dei passi, sebbene leggerissimi, richiamarono la mia attenzione. Mi voltai verso quel nuovo rumore. Carlisle era entrato nel salotto, al suo fianco una figura alta e scura.

Misi a fuoco i lineamenti, aspettandomi chissà quale segno di pericolo, da bravo nemico qual era per me. Tuttavia, non ne trovai.

Era alto, slanciato ma robusto. Avrà avuto sì e no la stessa età di Carlisle, ma il suo volto appariva segnato, conferendogli un aspetto più antico. Aveva i capelli molto scuri, bagnati dalla pioggia, che gli incorniciavano il viso. I suoi occhi erano di un terrificante e sconvolgente rosso cremisi ed al mio sussulto si immobilizzarono su di me. Era bellissimo, ma aveva un’aria spettrale. La sua pelle, chiara come quella di Carlisle, era pallida ma dall’aspetto friabile. Diafano. Sembrava potersi sgretolare da un momento all’altro al minimo filo di vento.

Amos mi sorrise, gentile. Strinsi gli occhi lievemente, per poterlo osservare meglio, ed inclinai la testa da un lato, confusa. Era davvero un nemico educato, sorrideva pure.

Feci una smorfia, cercando di rispondere altrettanto educatamente al suo sorriso.

“Eccoti. Finalmente ci conosciamo, El. Molto piacere, io sono Amos”, si presentò amichevolmente.

Sì, certo… tanti convenevoli per niente.

Molto piacere, sono Amos, il tuo probabile assassino. Davvero lieto.

Sentii crescere in me l’insano desiderio di tirargli un pugno. Tuttavia, dubitavo del possibile effetto di quest’ultimo. Si scompose un poco alla mia espressione ostile.

“Molto piacere, Amos”, scandii freddamente con voce piatta.

Non volevo far trasparire alcuna emozione, alcuna paura. Non volevo sembrare in nessun modo intimorita, anche se ero pressoché paralizzata dalla testa ai piedi.

Presi coraggio e mi costrinsi ad avanzare, consapevole come mai del gesso agganciato al mio braccio, e gli porsi la mano. Dovetti stare attenta a non farla tremare.

Calma, continuavo a ripetermi, sono tutti qui a proteggerti in ogni caso. Andrà tutto benone.

Beh, non ero un granché nel convincere la gente. Me compresa.

Il sospiro preoccupato di Edward mi mise un po’ di paura, ma mi fece anche star meglio. Significava che era lì per me.

Amos rimase sorpreso quanto gli altri dalla mia momentanea audacia, ma poi si fece avanti anche lui e mi strinse la mano. I suoi occhi, di quel colore così improbabile, erano angoscianti, ma s’intonavano con il resto della sua figura.

Mi fissò intensamente e a lungo, poi alzò lo sguardo e si rivolse a Carlisle.

“Beh, è impressionante! E’ più potente di qualsiasi altro Hoser io abbia mai incontrato nei miei seicento anni”, disse estasiato. “Ma purtroppo questo la rende una minaccia ancora più pericolosa per tutti noi”.

Ero di nuovo immobilizzata dalla paura.

“Questo significa che ora dovresti proprio venire con me, El. Se non ti dispiace”.

Sì mi dispiace, e parecchio, avrei voluto replicare. Ma non riuscivo a trovare la voce, la forza per parlare.

“No!”, ruggì Edward alle mie spalle, ed in meno di un secondo fu al mio fianco, le sue braccia di nuovo protettive intorno a me. Il sollievo e la gioia istantanea che mi provocò quella sua reazione fu immensa. Mi accostai a lui.

Amos rimase stupito per qualche istante dall’inspiegabile reazione di Edward, poi si ricompose e sorrise ad entrambi ampiamente.

“Vedo che tuo figlio si è legato molto a questa giovane, Carlisle. Il sentimento reciproco tra i due è pressoché tastabile. Affascinante”.

Ma di cosa stava parlando?

“Il fatto poi che sia così speciale di certo lo ha stregato sin da subito, non ho il minimo dubbio”, continuò con voce sorpresa.

Poi si rivolse a Edward.

“Ragazzo, sai anche tu che è pericoloso. Non sfidare la sorte inutilmente”.

Edward non rispose in alcun modo, ma il suo sguardo parlava per lui.

Era angosciato, era evidente, ma anche leggermente compiaciuto. Da cosa non seppi dirlo.

“Non mi preoccuperei più di tanto, Amos. Sai... non è una Hoser a tutti gli effetti”.

Si voltò trionfante verso di me, poi di nuovo verso Amos.

“Almeno è quello che credo”.

“Cosa intenderesti con questo?”, chiese Amos stupito.

“Non è una Hoser a tempo pieno, diciamo”, concluse Edward, un sorriso evidente nella sua voce perfetta.

“Non riesco a seguirti, ragazzo. E’ una Hoser, su questo non c’è dubbio. Infatti proprio ora né io né tantomeno tu riusciamo a sentirla”.

“Questo è vero, Amos. Ma prima che arrivassi sono riuscito a percepire ogni suo singolo pensiero. Quindi…”

Amos parve momentaneamente sorpreso da quell’ultima affermazione. Si ricompose in fretta.

“Se non posso averne la prova, non posso lasciarla in vita”.

Bene, eravamo arrivati al sodo.

Ero rimasta ad ascoltare l’intera conversazione, senza ricavarne informazioni utili.

Ma questa l’avevo capita. Non poteva lasciarmi in vita.

Mi strinsi automaticamente nelle braccia gelide di Edward, cercando di scomparire il più possibile nella sua giacca a vento blu.

“El”, mi chiamò dolcemente Edward, sussurrandomi vicino all’orecchio.

Trasalii con un sussulto, boccheggiando per lo spavento. Mi aveva colta di sorpresa stavolta.

Sorrise della mia espressione sconvolta.

“El, ho bisogno che tu mi faccia un favore”.

Non sapevo esattamente cosa volesse da me, ma annuii subito.

“Cosa staresti cercando di fare, ragazzo? Vuoi farci uccidere tutti?”, disse angosciato Amos, quasi supplichevole.

Edward rise lievemente, scuotendo la testa.

“Non ti preoccupare, Amos. So quel che faccio”.

“Lo spero per te”. Edward annuì e si rivolse di nuovo a me.

“El, dovresti cercare di tranquillizzarti e pensare come prima, puoi farlo per favore?”

Eh? Non riuscivo a capire cosa volesse dire. E comunque non potevo tranquillizzarmi, non con il mio più pericoloso nemico pronto ad uccidermi. Cominciai ad iperventilare, in preda al panico.

“Jasper”, chiamò Edward. Questo annuì, non capii bene per cosa.

Poco dopo un’atmosfera di pace e tranquillità mi avvolse completamente, e mi rilassai.

Il mio battito rallentò ed il respiro si fece più regolare. Ero confusa, ma quella calma non mi diede tempo di badarci.

“Bene, ora per favore prova a pensare come prima, sul divano”.

Ah. Quindi voleva che mi facessi sentire di nuovo. Okay.

Mi concentrai un istante, quel poco che mi servì per capire che non sapevo assolutamente come fare. Era più una cosa automatica, un riflesso nei confronti della mia privacy. Era semplice pensare “a bassa voce”, ma non il contrario. Mi concentrai di nuovo.

“Niente?”, chiesi speranzosa.

Edward scosse tristemente la testa, rassegnato.

Aspetta un secondo. Dovevo solo alzare la voce giusto? Allora forse bastava…

“Puoi andare là in fondo, per favore?”, chiesi rivolgendomi a Edward.

Lui, completamente confuso, sembrava restio all’idea di lasciarmi andare. Lo guardai, supplichevole.

“No, sarebbe meglio che rimanessi qui con te”.

Oh, certo lo so anch’io.

“Sì, lo so. Ma devo farti un favore, me l’hai detto tu”, risposi forzando un sorriso.

Sbuffò, e poi sospirando profondamente allentò la presa fino a lasciarmi andare.

“Dove devo mettermi?”.

“Lì in fondo”, dissi indicando la grande parete di vetro all’estremità della stanza.

Con un movimento pressoché impercettibile si allontanò da me e si diresse dove gli avevo chiesto.

“Qui va bene?”.

“Perfetto”.

Chiusi gli occhi, portandomi le mani alla testa, in concentrazione.

Premevo le dita sulle tempie, i pollici appoggiati alla base della mandibola, sforzandomi di scostare quel velo invisibile ma apparentemente impenetrabile che ricopriva la mia mente. Ci provai.

Edward. Edward, mi senti? Okay, mi sentivo una cretina. Parlavo da sola.

Sollevai il viso, schiudendo leggermente gli occhi, abbastanza da capire che il mio primo tentativo era stato vano.

Serrai i denti fino a sentir male alla mascella, per concentrarmi, e tentai di nuovo.

Questa volta però cambiai strategia: Edward era lontano, quindi per farmi sentire dovevo alzare la voce, ma non solo. Dovevo anche sentirlo vicino.

Spalancai gli occhi, concentrandomi sul suo viso perfetto.

Era bellissimo, non riuscivo a trovare parole o pensieri migliori per descriverlo. Avrei voluto essere di nuovo tra le sue braccia…

Un sorriso truffatore comparve agli angoli della sua bocca, sollevandogli gli zigomi scolpiti ed illuminandogli sorprendentemente il viso. Non credevo possibile che potesse sembrare ancora più bello. Dovetti ricredermi.

Nonostante ciò, quel suo sorriso mi fece capire che ce l’avevo fatta.

Mi voltai trionfante e notevolmente compiaciuta verso Amos, un’espressione più che sbalordita sul suo volto antico. Edward mi fu di nuovo accanto in meno di un secondo, abbracciandomi da dietro con le sue lunghe braccia invernali.

“Ecco, come desideri”, bisbigliò al mio orecchio, un sorriso nella sua voce, ed un brivido mi scese lungo la schiena.

La sua espressione cambiò, e si rivolse ad Amos.

“Beh, vedi anche tu, Amos, che non ci sono problemi con questa ragazza”.

Il suo tono di voce era notevolmente compiaciuto. Mi fece sorridere.

Ma ancora più esilarante fu l’espressione di Amos, un misto tra confusione e follia. Spalancò gli occhi, portandosi una mano alla tempia, mentre la sua bocca si schiudeva in stupore.

Mi lasciai sfuggire una risatina, che soffocai all’istante portando la mano davanti al viso.

Mi sembrava di essere su di giri, come dopo un dosaggio troppo alto di medicinali.

Il mio umore era aiutato dal fatto che avevo appena vinto una mia piccola battaglia personale, ma più che da ogni altra cosa la mia spensieratezza era supportata dal gelido angelo che aveva ancora le braccia allacciate ai miei fianchi.

“Sì, vedo ragazzo. E sento. Il suo sangue umano è davvero potente, come fai a starle così vicino?”.

Le braccia di Edward si strinsero un poco a quella domanda, ma poco dopo si rilassò.

“E’ tutta questione di tecnica”. Sembrava stesse ridendo di una barzelletta personale.

Alzai lo sguardo, fino a quel momento fisso sulla figura dell’ormai innocuo nemico, cercando il viso di Edward.

Il mio cuore tamburellò un poco, perdendo un battito o due e riprese a correre più veloce che mai.

Era vicinissimo, più di quanto mi aspettassi, più di quanto si fosse mai avvicinato. Fosse stato chiunque altro probabilmente mi avrebbe infastidito, era fin troppo vicino.

Alcune ciocche dei suoi capelli, di quel colore così improbabile e splendido, mi toccarono le guance e la fronte. Sarà stato a poco più di dieci centimetri da me, e mi fissava.

Mi fissava in un modo che aveva dell’incredibile: fui costretta a distogliere velocemente lo sguardo dopo pochi attimi per non andare in iperventilazione. Rimanemmo così appena pochi secondi.

Un leggero colpo di tosse. Una risata soffocata dal fondo della stanza.

Oh, giusto. Eravamo in casa sua, con della gente che mi fissava, e ci fissava.

Il colore del mio viso passò nel giro di pochi istanti dal suo solito pallore ad un più appropriato rosso scarlatto.

Feci per allontanarmi dalle sue braccia, in modo da interrompere la scena imbarazzante, ma non mi lasciò muovere neanche di un millimetro. Perfetto. Beh, anche perché a me andava più che bene rimanere lì dov’ero.

“Potresti sbloccarmi la testa, per favore?”.

“Chi, io?”, rise della mia espressione confusa.

“Sì, tu. Mi hai bloccato di nuovo”.

Ah. Non me ne ero neanche accorta. Ripetei lo stesso procedimento di prima.

“Meglio?”, chiesi. Solo per sentire il suono della sua voce.

“Sì molto, grazie”.

Mi voltai verso Amos. Mi imbarazzava quella conversazione, anche se non sapevo spiegare esattamente il perché.

Quella volta fu Carlisle a parlare.

“Credo che a questo punto non ci sia più motivo di preoccuparsi, Amos”.

“Sì, credo anch’io, Carlisle”, disse velocemente Amos. Poi aggiunse altrettanto rapidamente.

“Ma non facciamo passare troppo tempo questa volta. Ora devo andare, la mia famiglia mi attende”.

“Oh, certamente. Non fare aspettare Thanis senza motivo, vai pure”. Una pausa, poi aggiunse.

“E salutamela, è molto che non la vedo”.

“Sicuramente, Carlisle. Ora se volete scusarmi”.

E così dicendo si avviò rapidamente verso l’uscita. Prima di varcare la soglia si voltò verso ognuno di noi.

“Emmett, Rosalie, Alice, Jasper, Esme...”. Sembrò esitare sul nome di Esme, ma non ne compresi la causa. “Carlisle, Edward. E’ stato un vero piacere rivedervi, anche se la motivazione non era delle più piacevoli”. Poi posò il suo inquietante sguardo cremisi su di me.

“Elizabeth”, precisò, facendo un cenno con il capo, un’evidente acidità nella sua voce.

“Amos”, ripetei con lo stesso tono di disprezzo.

Poi Amos si voltò verso l’uscita.

“Demetri, Claude. Ora possiamo andare”, disse varcando la soglia, per poi scomparire nel buio più totale di quella notte scura.

Rimasi sconvolta. Non era solo.

Alice l’aveva detto: Non c’è più tempo. Sono qui. Non è qui. Ma nonostante ciò rimasi pietrificata all’istante, il mio battito accelerato.

“El, calmati”, mormorò piano al mio orecchio Edward.

In un attimo la stessa atmosfera di pace e tranquillità che mi aveva avvolto poco tempo prima mi circondò nuovamente, ma questa volta non servì a molto.

Mi concentrai, cercando il suo respiro regolare che già una volta mi aveva aiutata.

Andai in panico. Il respiro, il suo respiro, non c’era, non lo trovavo. Cercai meglio.

Niente. Cercai i suoi occhi, spaventata.

Il suo cuore. Il suo battito. Non sentivo neanche quello.

Alzai lo sguardo, terrorizzata più che mai.

“E-Edward”, balbettai, incoerente.

“Cosa c’è, El?”, chiese preoccupato, “Calmati”.

“I-Il…”, mi bloccai, un nodo alla gola. Tentai nuovamente, con la voce che rasentava l’isteria.

Appoggiai una mano al suo petto, proprio sopra il suo battito assente.

“I-Il tuo battito Edward. Non c’è, non…non lo sento”.

TAN TAN TAAAAAAAAN! E' un po' un casino in effetti, spero che il prossimo capitolo riesca un po' a sciogliere alcuni nodi. 
Quindi che dire...o ci vediamo tra le recensioni(dubito, ma spero), o il prossimo Sabato :) Buon weekend e buona giornata!

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Capitolo 4
*** Imprevisto. ***


Capitolo 4 - Imprevisto. Buona domenica a tutti! Purtroppo la settimana di fine quadrimestre si fa sentire - e non poco - e c'è stato un mini ritardo sull'aggiornamento.
In ogni caso, in questo capitolo ho cercato di quantomeno provare a chiarire un po' le cose, sperando di non complicarle ulteriormente. Sono sicura di aver fallito xD
Come ultima cosa, ringrazio quella zuccona schifosa di Carli che mi pubblica nella sua pagina per permettermi di avere quelle visualizzazioni che altrimenti mi sognerei. Quindi grazie isola
na :)


Capitolo 4. Imprevisto.

Il suo sorriso si affievolì rapidamente sul suo volto, per lasciar spazio ad una smorfia preoccupata.

“Carlisle?”, chiese dubbioso Edward.

Ero ancora totalmente scioccata e terrorizzata, non riuscivo a capire granché di quello che stava succedendo.

Carlisle annuì, perlopiù rassegnato, e si avvicinò a me, porgendomi una mano.

“Elizabeth, credo che ci siano alcune cose che ormai sei tenuta a sapere. Anche se questo va contro ogni regola e… potrebbe metterti in pericolo”.

Se stava cercando di tranquillizzarmi, mi dispiaceva per lui, ma era lontano dal riuscirci. Non avevo la forza necessaria a stringere quella mano, così caldamente tesa verso di me. Non vedendo alcuna risposta, la ritirò dopo poco.

“Carlisle, non credo sia il modo migliore per calmarla”, fece eco Edward ai miei pensieri.

“Hai ragione, figliolo, ma credo che abbia il diritto di capire cosa le sta accadendo”.

Edward annuì debolmente, sospirando. Carlisle scrollò le spalle ed andò a sedersi sul divano bianco in fondo alla stanza che poco prima era stato il mio rifugio.

“Vieni qui, El”, mi disse una volta accomodatosi al centro del divanetto, un cuscino color panna stretto in mano.

Indugiai. Non ero sicura di sapermi ancora muovere. Edward si accorse della situazione e mi sorresse gentilmente, spingendomi con dolcezza verso Carlisle.

“Non avere paura, El. Mi rendo conto che può essere sconvolgente, ma non hai nulla di cui preoccuparti, davvero”, ripeté Carlisle, incoraggiandomi.

Deglutii il nodo che mi si era formato in gola e mi feci avanti, tremante.

Ero conscia del fatto che non c’era nessun pericolo, almeno non adesso, non più.

Tuttavia ero completamente sconvolta dall’insieme di informazioni e situazioni che si erano susseguite nel corso della giornata. Non potevo e non riuscivo a capacitarmene.

Avanzai fino a fronteggiare il piccolo divano e mi sedetti nell’unico posto rimasto vuoto.

Carlisle mi sorrise apertamente, cedendomi il cuscino che teneva in mano. Un antistress, pensai.

Edward sorrise. Mi sentiva ancora? Era meglio evitare per questa conversazione. Così abbassai il volume dei miei pensieri sensibilmente.

Ah-ha. L’espressione di Edward mi fece capire che ci ero riuscita. Era frustrato, ma aveva mantenuto lo stesso sorriso complice di prima. Ero sicura che avesse capito il perché del mio gesto.

“Grazie”, disse Carlisle gentile. “Ora cercherò di farti comprendere nel miglior modo possibile l’intera storia”.

Annuii debolmente e Carlisle cominciò a raccontare.

“Vedi, come avrai già capito, noi non siamo del tutto... normali. La nostra specie è molto diversa in ogni suo genere e noi, io e la mia famiglia, siamo un’eccezione molto singolare. Quello che hai appena visto era un Ubach, una specie davvero molto, molto pericolosa, ma per nostra fortuna anche molto poco numerosa. Amos ne è il capo, insieme a sua moglie Thanis. Possiedono poteri veramente speciali, infatti ognuno di loro può percepire i pensieri di chi gli sta accanto e molto di più. La loro caratteristica più distintiva è che possono cambiare forma, trasformarsi in chiunque loro vogliano, assumendone i tratti fisici, l’odore e le debolezze. L’unica cosa che a volte li smaschera è il fatto che il carattere, l’anima, rimane la loro”.

Mi accorsi dello sbuffo poco convinto di Edward poco distante da me.

Ascoltavo con la bocca spalancata, gli occhi sbarrati in shock. Era ovvio che ci fosse qualcosa di particolare in loro, ma tutti questi nomi, caratteristiche, capacità… mi lasciavano senza fiato.

“La loro, la nostra, specie ha pochi nemici. Ci sono i licantropi, i muta-forma... e poi ci sono i Lintus. Questi ultimi sono i più particolari ed i più rari, ma nonostante ciò i più pericolosi per tutti noi. I Lintus si dividono a loro volta in diverse specie, ognuna con una caratteristica che li accomuna. I più comuni sono i Dinerti, che leggono il pensiero e giocano con le emozioni delle persone. Poi esistono i Bromos, resi innocui dalla nostra gente, che un tempo riuscivano a condizionare le scelte altrui. Infine esistono gli Hoser, i più pericolosi, e per questo cacciati quasi fino all’estinzione. Questi sono capaci di controllare con la mente forze enormi, leggere i pensieri a piacimento e, anche se i casi accertati sono stati solamente tre in tutta la nostra storia, ucciderci con una facilità sorprendente”.

Notando la mia espressione, Carlisle rallentò un secondo, fermandosi per permettermi di incamerare tutte quelle informazioni totalmente assurde.

Poi aggiunse con un filo di voce.

“Tu sei una Hoser, El”.

Sbattei gli occhi un paio di volte, incapace di dire qualunque cosa.

Carlisle proseguì, senza attendere nessuna risposta.

“E’ per questo che Amos era così preoccupato. E’ per questo che aveva paura. Gli Hoser sono il nostro più grande nemico e nella loro forma umana sono ancora più mortali per noi. E tu, tu sei forse uno degli Hoser più potenti che Amos abbia mai incontrato, seppur ancora umana. Questa cosa l’ha terrorizzato”.

Io? Io avevo spaventato Amos? Non mi era sembrato molto terrorizzato, preoccupato sì, ma non terrorizzato. Ma soprattutto, io? Cosa avevo io di così strano? Mi sembrava impossibile.

Se ero una Hoser, o qualunque cosa fosse, non riuscivo a comprenderne le conseguenze.

Esme, che fino ad allora era rimasta in disparte, vicino alla grande parete di vetro, capì il mio stato d’animo e si avvicinò sorridendomi.

“El, cara, non c’è niente da capire. Tu sei molto più speciale di quello che pensi ed Amos se ne è reso conto. Perché vedi, gli Hoser sono più potenti nella loro forma immortale, ma quando sono umani sono molto più pericolosi. Una Hoser come te può sfruttare tutte le sue capacità al massimo, inoltre non è percepibile da nessuno di noi. Ed è per questo che Edward non riesce a leggerti nel pensiero, o sentire il tuo odore, come nessuno di noi. Sei come un punto invisibile su una cartina. Ma incredibilmente questo tuo punto può brillare come una semplice umana a piacimento”.

Esme mi guardò teneramente e mi prese la mano tra le sue. Era gelida, per quanto il suo gesto avrebbe scaldato chiunque.

“Hai capito adesso, tesoro?”, mi chiese dolcemente.

Annuii debolmente, tenendo lo sguardo fisso sulle sue mani.

Dovevo fare una domanda, ma non mi usciva la voce. Me la schiarii.

“Ehm, Edward?”, chiesi esitante.

Edward era seduto sul tappeto di fronte al divano, la testa nelle mani ed i gomiti appoggiati alle ginocchia, immobile. Al suono della mia debole voce, si ridestò un poco. Sollevò il capo.

“Sì?”.

Sembrava...freddo, distante. Abbattuto. Non c’era un modo migliore per descriverlo.

“Volevo sapere...”. Ma mi bloccai, incerta se finire la frase.

“Cosa?”, mi esortò dopo alcuni istanti d’attesa.

Era assolutamente freddo. Sembrava aver perso parte della luce che lo accompagnava ovunque andasse.

“Ecco... cosa intendeva prima Amos con il mio…sangue umano? Ha detto che era potente, che era difficile starmi vicino. Non capisco cosa intendesse...”.

La mia voce balbettante si andò perdendo in un silenzio ancor più imbarazzante di quello di prima.

Quella volta fu Alice a rispondermi.

“Beh, è semplice, El. Tu hai capito che siamo…ehm... diversi. Ecco, anche la nostra dieta è differente”.

Oh. Sì, avevo già capito che cos’erano, anche se tentavo di oppormi all’idea con tutte le mie forze.

Ora Alice me ne aveva appena dato la conferma come niente fosse, lo dava per scontato.

L’unica cosa a cui riuscivo a pensare erano i film sui vampiri, e tutte le leggende che li riguardavano. La dieta, la loro dieta. Ah! Sembrava che i miei problemi non avessero mai fine, neanche dove avrei teoricamente dovuto sentirmi al sicuro.

L’unica dieta che conoscevo per i vampiri era quella a base di sangue umano, e la mia piccola nuova e strana cicatrice ne era chiaramente una prova. Mi portai inconsciamente le mani al collo.

Emmett scoppiò in una risata a dir poco fragorosa. Edward scattò in piedi, un’ombra di luce nei suoi occhi spenti, e lo zittì con un pugno sulla spalla ed un ringhio che mi fece venire i brividi.

“El, noi non seguiamo la dieta classica”, precisò divertita Alice.

“Esatto, con noi sei più che al sicuro. Noi ci cibiamo solo di sangue animale”, aggiunse Carlisle.

Mi stupii. Questo…avrei potuto conviverci.

Sembrava una cosa naturale, alla fine anche io mangiavo gli animali. Certo, erano cotti e tagliati in bistecche, ma erano pur sempre animali. Allentai quindi la presa dal mio collo, sollevata.

“Non… non ho ancora capito però la parte sul sangue potente, che è difficile starmi vicino”, dissi, la mia voce rotta dalla confusione e dall’incertezza.

Jasper, appoggiato al muro, il più lontano possibile da me apparentemente, trasalì violentemente e si allontanò ancora. Strano.

Carlisle mi rispose gentilmente.

“Vedi El, ogni umano ha un odore diverso, dipende dal sangue che gli scorre nelle vene. Ed ognuno di noi reagisce in modo diverso e totalmente soggettivo al sangue umano. Il tuo… beh, il tuo è davvero molto potente per noi”.

Indietreggiai un poco a quell’affermazione. Carlisle sorrise.

“Io personalmente sono quasi del tutto immune al sangue umano, ma per alcuni di noi è più difficile abituarsi, sopportarlo. Edward più di tutti sembra essere soggetto al tuo, ed è per questo che evita di…ehm... respirare quando ti è vicino. Non vuole ferirti in alcun modo”.

Mi voltai verso Edward. Aveva lo stesso sguardo tormentato di poco prima, mi fece star male.

“Quindi...quindi voi non… non respirate?”.

Dovevo sapere, ero troppo curiosa, nonostante la paura iniziale.

“Non è necessario, ma è piacevole farlo. Non ne sentiamo il bisogno, tuttavia è utile molte volte”.

Annuii decisa. Stavo recuperando un po’ del mio coraggio latente.

“E… il battito? Voglio dire...”. Non riuscii a completare la frase. Carlisle mi interruppe.

“Noi siamo clinicamente morti, El. Non abbiamo battito, non abbiamo circolazione, come avrai notato. Siamo come congelati nel momento in cui siamo stati cambiati”.

Ecco un’altra domanda che urgeva risposta.

“Come... come funziona? Non si nasce così quindi…”, mi sorrise controvoglia, ma rispose ugualmente.

“No, non nasciamo così. Siamo stati tutti trasformati da altri prima di noi. Io stesso ho cambiato Esme, Rosalie, Emmett, e prima di loro Edward, ma molto tempo fa”.

“Tu li hai… morsi?”. Non riuscivo a vedere altri modi per trasformare qualcuno in un vampiro a parte seguire le vecchie storie e leggende.

“Quanto tempo fa?”.

“Sì, diciamo che ho dovuto. Non me ne sono mai pentito, poiché erano in fin di vita quando li ho trasformati. Il primo fu Edward, esattamente novantuno anni fa”.

Non ero propriamente un genio in matematica, ma feci quattro conti abbastanza velocemente.

Ebbi un sussulto.

Millenovecentodiciotto?!”, strillai, pressoché isterica.

“Esatto. Aveva appena diciassette anni quando lo trovai morente in un ospedale di Chicago”.

Quindi, quindi, quindi. Aspetta un secondo.

Edward era nato nel millenovecentouno ed era dall’età di diciassette anni che era un vampiro e non invecchiava. Uhm… io ne avevo sedici. La differenza non era poi molta, se si faceva fede alle apparenze.

Beh non mi importava più di tanto se erano dei- era però difficile pensarlo- vampiri. Se non mi avevano ancora fatto del male, un motivo c’era. E soprattutto non potevo sopportare l’idea di dover abbandonare Edward. Lui era là, appoggiato al muro, con ancora la stessa espressione tormentata di qualche minuto prima. Non aveva niente a che vedere con mostri mitologici e storie dell’orrore, era la cosa più simile alla perfezione che avessi mai visto, e mai avrei visto.

Era un angelo, come io stessa avevo immaginato sin da subito.

Dall’inizio.

Quel pensiero passeggero mi riportò alla mente il fatto che non avevo la minima idea di dove fosse questo inizio. Ero al sicuro, certo, ma non sapevo esattamente dove, né mi ricordavo cosa fosse accaduto prima. Solo un impenetrabile muro nero e indistinto.

“Dove siamo? Voglio dire, dove di preciso?”, chiesi con voce esitante.

Carlisle alzò il viso di scatto, cercando quello di Edward. Si scambiarono un’occhiata piena di significati, ma nonostante ciò non riuscii a comprenderne neanche uno.

Lo sguardo di Carlisle sembrava un rimprovero, mentre quello di Edward era solamente… rassegnato. Non capivo il perché del suo umore e questo era più frustrante di tutte le altre domande irrisolte. Stava male, forse a causa mia, ma non sapevo il motivo. Tutto era così assolutamente ed incomprensibilmente complicato.

Esme interruppe i miei pensieri con la sua voce chiara e squillante.

“El, tesoro, siamo nei pressi di Forks, nello stato di Washington”.

Cosa?!

Spalancai gli occhi in sorpresa a quell’affermazione. Washington? E dove era finita la mia calda e caotica Miami? Ero finita dall’altra parte degli Stati Uniti! Okay, era uno scherzo.

Mi feci scappare una risatina che rasentava l’isteria.

“Ah. Okay. No, davvero dove siamo?”, dissi tra una risata e l’altra, con voce stridula.

Nessuno mi rispose. Riuscii dopo qualche attimo a ristabilire la mia già precaria salute mentale e mi calmai.

Mi portai le mani davanti al viso, facendole scivolare lentamente dalla fronte fino al mento, poi di nuovo sul viso. Ero disorientata. Non era possibile; a pensarci bene niente di quello che era successo in quello strano, stranissimo giorno era possibile. Forse stavo davvero sognando.

“El...”.

Edward mi fu a fianco in meno di un attimo, le sue mani fredde sul mio volto.

Cercò di spostarmi le mani dal viso e lo lasciai fare, dopo un attimo di esitazione. Con le sue dita raccolse qualcosa di umido e tiepido sulla mia guancia.

“El...”, ripeté, guardandomi colmo d’angoscia.

Non mi ero accorta di essermi messa a piangere, era umiliante e snervante. Non riuscivo a fermare, adesso che me ne ero resa conto, quella piccola ma continua cascata di lacrime. Scossi la testa, come per farle sparire più in fretta.

Edward mi prese il mento con una mano, bloccandomi il capo.

“Cosa c’è che non va?”, chiese.

Ma sembrava si stesse rivolgendo più a se stesso, quindi non risposi. Inoltre avevo paura di come la mia voce sarebbe suonata in quel momento così patetico. Sicuramente orribile, roca, rotta e orribile.

Meglio rimanere in silenzio e conservare il minimo di dignità che mi rimaneva.

Le mie stupide lacrime non accennavano a diminuire.

Basta!, urlai con tutte le mie forze nella mia testa, sperando che qualcuno mi ascoltasse. Ovviamente niente.

Un sospiro.

I miei occhi, abbandonati a vagare per l’affollata stanza, si focalizzarono nuovamente sul volto che avevo davanti. Mi fissava, ed io guardai rapita quel viso. Avrei voluto parlare, chiedere spiegazioni, sapere di più… ma non volevo aprire bocca. Però, forse...

Alzai il volume nella mia testa, lasciando spazio a tutte le domande e gli enigmi che mi soffocavano. Edward trasalì violentemente, ansimando un poco.

Accadde tutto così in fretta, sembrava avessero premuto il tasto di avanzamento veloce.

Nello stesso momento in cui Edward cominciò ad annaspare, apparentemente senz’aria, Alice con un secco “No!” si fiondò davanti a me. Emmett, con un movimento così rapido che non avrei potuto neanche supporre da uno della sua stazza, spinse via il fratello per poi immobilizzarlo a terra. Carlisle, circa un secondo prima seduto sul divano insieme a me, era dall’altro lato della stanza con Jasper fermo tra le braccia.

Erano tutti impazziti. Rimasi a guardare, scioccata, l’espressione di Edward. Sembrava sofferente, ma in modo diverso da prima. Un dolore fisico, acuto e straziante. Era come posseduto, una strana smania nei suoi occhi accesi di desiderio. Desiderio di…

“No!”, strillai nel panico più totale, riportando i miei pensieri e tutto ciò che comportava al sicuro.

“No, no, no, no! Lascialo Emmett! Gli fai male! Lascialo!”, urlai senza fiato.

Alice mi fissò negli occhi, scuotendomi un poco per riportarmi alla ragione.

“El! Non può lasciarlo andare lo sai, l’hai capito anche tu!”.

Sì, avevo capito. Ma perché solo lui, perché tutto così, di colpo?.

Con la coda dell’occhio mi accorsi di Emmett e Edward, insieme a Carlisle e Jasper, che si allontanavano dalla stanza per uscire in giardino.

No! Sillabai in silenzio, ma nella mia testa fu un grido così forte da farmela girare.

“Perché?”, domandai. Non volevo capire, mi rifiutavo.

“El, l’hai colto di sorpresa, non se lo aspettava. Era il primo respiro che si concedeva da quando Amos se ne è andato e tu...”.

Lasciò la frase a metà, ma non mi serviva che la terminasse. Sapevo come doveva concludersi. “E tu hai rischiato di morire e di ferire lui”.

“Perché ha reagito così solo lui?”, domandai nuovamente, precisando questa volta.

“Edward è più soggetto di noi al tuo sangue, ed era molto, molto vicino. Non poteva prevederlo… e neanche io”, concluse la frase tristemente.

“Dov’è adesso? Devo parlargli, chiedergli scusa, devo, devo...”, balbettai confusamente.

“Non puoi adesso, tesoro. E’ ancora troppo… rischioso. Sarebbe meglio che tu gli dessi qualche minuto o ora per riprendersi”, quella volta fu Esme a parlare.

Ore? Io non potevo aspettare ore!

Un ruggito colmo di rabbia conquistò la mia attenzione e mi costrinse a non controbattere. Proveniva da fuori, dall’ampia radura di fronte alla casa.

Quel rumore, così straziante nella sua collera mista a dolore, mi procurò una forte fitta al petto. Non al cuore, come sarebbe facile pensare, ma più che altro alla bocca dello stomaco. Ero distrutta, sconvolta e disgustata da me stessa per un atto così stupido che aveva ferito in quel modo Edward.

Scossi la testa con decisione.

“No”, cominciai a ripetere senza fermarmi.

“No, no, no, no...”.

“Io…io devo, non posso, io, io...”, tentai di formulare senza esito.

Era vitale per me poterlo vedere, potergli spiegare, scusarmi. Dopotutto era stato tutto un errore, uno stupido, stupido errore; mi avrebbe perdonata?

“El, cara, non devi preoccuparti, non ti farà del male”, mi rincuorò Esme dal divano.

Del male? Anche se aveva rischiato di uccidermi solamente qualche minuto prima, non ci avevo mai neanche pensato. Edward non poteva farmi del male, era un angelo.

No, il pericolo, come aveva detto Amos, ero io e solo io.

Mi accorsi di un mormorio sommesso proveniente dal piano di sopra, probabilmente Alice, Rosalie ed Emmett. Gli unici in casa, oltre a me ed Esme, visto che…

Un’altra fitta allo stomaco. Mi alzai di scatto. Se era vero che non potevano percepirmi forse era anche possibile che non mi trovassero. Mi affrettai verso la cucina, dove mi attendeva l’uscita, ma mi accorsi che Esme mi controllava. Così feci per salire le scale, un gradino alla volta, e mormorai piano, sicura che in ogni caso mi avrebbe sentita.

“Ho bisogno di stare da sola, scusa”.

Non era una bugia, solo che non stavo specificando dove il “da sola” fosse.

La vidi annuire e concentrarsi nuovamente sull’enorme schermo piatto della televisione. Mi sarebbe piaciuto fuggire, gridando, urlando fino a non avere più aria nei polmoni. Respirare solo per poter strillare ancora più forte, sfogarmi e poi nascondermi per esaurire il mio sfogo.

Presi coraggio e cominciai a salire le scale con più decisione, due gradini alla volta. I miei passi producevano strani scalpiccii, come se la scala si stesse lamentando.

Feci scorrere le dita sul corrimano di legno antico, ammirando le diverse e bizzarre venature, sentendole sui miei polpastrelli. Ero arrivata al primo piano della casa.

Davanti a me vi era un lungo corridoio tappezzato di quadri a me sconosciuti, tutti di dimensioni e colori differenti. Era molto suggestivo.

Feci scorrere la mano anche sul muro dalle tinte chiare, come tutto il resto, e su alcune cornici.

Percorsi il corridoio, lungo il quale incontrai due stanze. La prima era relativamente piccola, ma ben arredata. Non mi soffermai granché nel guardarla, avevo fretta di trovare un posto dove potermi lasciare andare ad una crisi di pianto senza precedenti.

La seconda però catturò un poco la mia attenzione. Era gigantesca ed aveva due pareti della stanza sostituite da una vetrata immensa, proprio come quella nel salotto. In un angolo c’era un immenso armadio che avrebbe fatto invidia a chiunque. Era aperto, forse qualcuno l’aveva dimenticato.

Misi dentro la testa e rimasi sbigottita dalla quantità di vestiti contenuti in quella meraviglia. Lo shopping non era uno dei miei passatempi preferiti, ma tutta quella roba...beh, impressionante. Sbattei gli occhi un paio di volte e mi costrinsi ad allontanarmi prima di rischiare di tuffarmi in quell’immenso guardaroba.

Proseguii il mio vagabondare per la casa. Quando cominciai ad avvicinarmi alle voci di Emmett e gli altri, mi fermai. Mi stavo avvicinando troppo e se non volevo essere disturbata, era meglio non farlo.

“Tornerà”, sentii Alice dire.

La mia testa si voltò automaticamente verso la voce di Alice. Non volevo farmi scoprire, ma ero per natura curiosa e quell’affermazione, pronunciata così tristemente, mi fece sorgere diverse domande.

Dovevo solo stare ferma, non mi avrebbero sentita. Almeno speravo.

“Oh Alice, lo sai com’è fatto! Terrà il muso per almeno i prossimi dieci anni!”, brontolò Emmett.

“Emmett ha ragione, tornerà, questo è chiaro, ma sarà dura per lui conviverci”.

“Probabilmente è vero ma...”, cominciò Alice.

“Ma?”, la esortò Rosalie, evidentemente spazientita dalla breve attesa.

“Ma non credo che potrà mai allontanarsi dalla ragazza. E’...è troppo...”. Alice non concluse la frase. Si limitò a balbettare, confusa.

“E’ un cretino, ecco cos’è. La ragazza è solo un pericolo, sia per noi che per lui”.

“Oh Rose, non esagerare! Edward è stato un cretino a farsi sorprendere così, ma hai visto anche tu come ci stava male. Ha cercato in tutti i modi di farsi fermare, non ha opposto la minima resistenza. Non potrebbe sopportare di farle del male”. Emmett stava parlando di prima, di me e di Edward. Edward.

Un’altra fitta, più forte questa volta. Dovevo allontanarmi, stavo per esplodere.

“Emmett ha ragione, Rose, io l’ho visto. Nonostante quando El sia vicina non possa vedere chiaramente e con molto anticipo, ho visto come finirà”.

“Amos aveva ragione quando ha detto che il sentimento reciproco tra quei due è forte, è chiaro”, aggiunse Emmett.

Amos aveva ragione solo su una cosa, io ero un pericolo. E l’avevo appena dimostrato.

“E come finirà?”, chiese Rosalie seccata, ignorando la frase confusa di Emmett.

“Non lo so, adesso è sparito tutto”, cinguettò Alice, un sorriso nella sua voce.

“El?”, mi chiamò Alice. “Tanto lo so che sei lì, esci fuori”.

Oops! Ero troppo vicina e mi ero fatta scoprire. C’era un modo per non farsi notare, che diavolo?

Feci capolino con la testa, il mio viso acceso di rosso dalla vergogna.

“Scusate, non volevo. E’ solo che stavo passando di qua e...”, cominciai.

“Oh piantala, El! Io non ti avevo neanche sentita”, m’interruppe Emmett.

Sorrisi, sollevata dal suo tono scherzoso. Era così facile voler bene ad Emmett.

“Scusate, ora vorrei stare un po’ da sola a dir la verità”.

“Sì, vai pure El, ti veniamo a chiamare più tardi”, disse Alice sorridendo.

“Emmett, Rosalie”, dissi velocemente, facendo dei cenni in saluto.

Girai i tacchi e mi affrettai ad allontanarmi, o almeno ci provai.

Il gesso era davvero insopportabile, mi sembrava superfluo, non sentivo alcun fastidio al braccio. Incespicai correndo fino alla fine del corridoio, troppo di fretta per rimanere ad osservare quelli che somigliavano ad uno studio medico ed una biblioteca. Di fronte a me c’era una stanza grande quanto quella dell’armadio, solo più bella.

Nonostante stessi per scoppiare nel mio inarrestabile pianto, mi fermai per poter dare un’occhiata. Non era solo bella, era splendida. Il colore dorato delle pareti, che tanto aveva catturato il mio sguardo pochi secondi prima, si intonava perfettamente coi toni della moquette. In un angolo, contro il muro, era appoggiato un piccolo divano di pelle nera. Entrai esitante in quella stanza dall’aspetto magico.

Di fronte a me c’era un’enorme libreria stracolma di libri, ma soprattutto CD.

C’erano mensole e mensole solo di CD di ogni tipo di musica mai sentita. Su un tavolino, dietro la libreria, un sofisticato stereo scuro. Era il genere di oggetto che urlava “fragile” da chilometri, ma ero sempre stata abbastanza brava con certe cose, quindi mi misi a cercare il nome del modello e della marca. Non le avevo mai sentite pronunciare in vita mia, strano.

Mi guardai attorno fino a quando non trovai gli amplificatori, neri anche loro. Quegli affari avrebbero potuto frantumare le finestre di tutta la casa se solo avessi voluto, ne ero sicura, tuttavia non volevo accertarmene di persona.

Un leggero soffio di vento nei miei capelli mi distrasse.

Mi voltai. Era davvero una stanza incredibile. Non ci avevo ancora fatto caso; l’intera parete sinistra della camera era una gigantesca vetrata che dava sul fiume intorno alla casa. Rimasi a contemplare quella vista per alcuni istanti, in silenzio.

Un altro pensiero mi distrasse nuovamente. Non c’era il letto. Eppure era ovviamente una camera da letto, qualcuno ci viveva.

Nella stanza dell’armadio ce n’era uno, grande e azzurro, ma qui niente. Bizzarro.

Feci vagare lo sguardo per la stanza senza una meta precisa, fino a quando non notai dei vestiti, piegati accuratamente su una sedia in un angolo. Erano sicuramente abiti maschili.

E se… Avrebbe potuto essere la sua stanza.

Ah, un’altra fitta. Sentii i miei occhi stanchi gonfiarsi di lacrime ed ormai era troppo tardi.

Eccolo, il mio pianto. Cominciai a singhiozzare violentemente, la mia vista annebbiata da quell’incessante fontana di lacrime. Cercai tentoni il divano e mi raggomitolai su di esso, dondolandomi con le braccia strette attorno alle ginocchia. Vi appoggiai la testa e così rimasi per diversi minuti, o forse anche di più.

Quando risollevai il viso, fuori era buio pesto, forse già notte fonda. Avevo le guance umide, rigate dalle lacrime, e gli occhi che pungevano come spilli. Ero stravolta, era stata forse la giornata più lunga e complicata della mia vita.

Edward non era tornato. Lo sapevo, lo sentivo. Le fitte allo stomaco erano state un supplizio continuo durante tutto il mio pianto.

Non mi era chiaro perché mi sentissi così male, perché provassi quel dolore così… fisico.

Un diverso tipo di fitta allo stomaco echeggiò in tutta la stanza.

Era davvero parecchio che non mangiavo qualcosa. Con estrema lentezza sciolsi la presa dalle mie gambe e mi alzai dal divano.

Mi sentivo come se le gambe non mi appartenessero, ero stata ferma troppo tempo nella stessa posizione. Mi trascinai svogliatamente verso il corridoio, più stanca che mai.

Il mio stomaco, che ora pregustava l’imminente pasto, continuava a ruggire senza sosta. Mi sembrava che chiunque nel raggio di chilometri potesse sentirlo.

All’ennesimo ruggito mi portai una mano sullo stomaco con un più che appropriato“Shh!”. Okay, stavo impazzendo. Adesso parlavo con il mio stomaco, perfetto.

Cercai nell’annebbiamento più totale di ricordarmi dove fossero le scale. Erano prima o dopo lo studio? Proseguii senza pensarci troppo. Finché le gambe reggevano, tanto valeva camminare.

Dopo essermi trascinata per buona parte dell’apparentemente infinito corridoio bianco, il brusio di alcune voci ormai familiari mi guidò verso la mia meta.

“Finalmente”, mormorai tra me e me.

Il mio stomaco brontolò di nuovo e lo zittii con un opportuno “Silenzio tu!”.

Mi abbarbicai al corrimano, tentando con tutte le mie forze di non volare giù dalle scale. Non staccai neanche un secondo lo sguardo dalle mie scarpe, per evitare di perdere il mio già precario equilibrio. Fu una vera impresa riuscire a mettere un piede davanti all’altro, ma riuscii comunque ad arrivare indenne alla fine della rampa di scale.

Rialzai lentamente lo sguardo. La luce mi accecava, sbattei gli occhi più volte senza vedere nulla di preciso. Poco a poco misi a fuoco la stanza. Oh, molto meglio. Il salotto era come prima, ma c’era qualcosa che non mi tornava, anche se non sapevo esattamente cosa.

Probabilmente era la fame che mi faceva immaginare cose strane, oppure ero semplicemente una povera pazza che parlava con il suo stomaco.

Mi trascinai fino al salotto, dove proveniva il brusio di voci.

“Tornerà, vedrai”, sibilò Alice.

“Lo so anch’io che tornerà, ma come ti ho già detto, non credo che sarà facile sopportarlo!”, rispose Rosalie con lo stesso tono di voce che aveva usato quel pomeriggio. Acido, seccato.

Sembrava essere passata un’eternità da quel momento.

“E allora di cosa stiamo discutendo? Per favore piantiamola”, si lamentò Emmett.

Oh. Stavano ancora parlando di Edward. Non era tornato, ovviamente.

Anche se lo sapevo già, sapevo che non era ancora tornato, quell’ennesima prova mi provocò una nuova fitta.

Quasi in contemporanea il mio stomaco si ribellò ai miei rimproveri di poco prima e ruggì con forza. Il suono sembrò riecheggiare per tutta la casa.

Le voci si bloccarono. Silenzio.

“El?”.

La voce gentile di Carlisle mi chiamò da dietro il muro dove mi nascondevo.

“El, vieni tesoro”, continuò Esme.

Percepii il fuoco avvampare sulle mie guance nello stesso modo in cui sentii assalirmi dalla vergogna.

Beh, ormai non aveva più senso nascondersi. Smascherata dal mio stupido stomaco.

Grazie!, mi rivolsi al traditore. Ma dopotutto non ci vedevo più dalla fame, così sbucai esitante dalla porta che dava sul salotto e feci alcuni passi. Mi fermai all’ingresso, incerta.

“Bentornata fra noi!”, commentò scherzoso Emmett, il suo solito sorriso che gli riempiva il viso.

“Ciao”, balbettai assonnata, una smorfia nel tentativo di un sorriso.

Misi a fuoco lentamente le figure di fronte a me. Erano sei, tutte sedute intorno al tavolino di cristallo nel mezzo, alcune sul divano, altre sulle poltrone.

Feci correre inutilmente il mio sguardo più volte, cercando la settima figura. Si dice “tentar non nuoce”, ma non in questo caso. A dimostrarlo, una nuova fitta allo stomaco.

Il volto di Esme si irrigidì quando mi vide. Si alzò e mi superò, tendendomi una mano con sguardo angosciato.

“Vieni tesoro, sarai affamata, andiamo in cucina”.

Oh sì, cucina! Cibo, finalmente! Il mio stomaco cantilenava felice.

Ripercorremmo lentamente, o almeno io, il breve corridoio che dal salotto portava alla cucina, passando davanti alle scale.

Arrivata alla tanto sospirata meta, Esme cominciò a frugare negli armadietti più in basso.

“Ecco, qui forse...no, no, allora qua sopra...”, bisbigliava a se stessa.

Io rimasi in attesa, lasciando vagare lo sguardo per l’immensa stanza. Tutto in quella casa era di dimensioni smisuratamente grandi.

“Ah! Trovato”, disse trionfante Esme da sotto il lavello.

“Non abbiamo molto, sai...non mangiando... questo è una delle poche cose che ho in casa”.

Appoggiò con grazia sul tavolo una scatoletta di metallo dall’aspetto pressoché fossilizzato.

Lessi lentamente l’etichetta, scritta in una lingua che non mi apparteneva. Ma l’immagine sull’etichetta annerita era tutt’altro che invitante.

“Sono fagioli con il pomodoro”.

Uh, si avevo ragione. Che orrore. Feci una smorfia.

“Se non ti vanno credo di avere qualche merendina”, aggiunse velocemente Esme, intuendo il mio disgusto.

Mmm… merendine? Sicuramente non poteva andarmi peggio dei fagioli. Soprattutto però cominciavo ad avere talmente tanta fame che avrei potuto facilmente trangugiare la scatoletta intera, metallo compreso, senza battere ciglio.

“Oh sì grazie, credo che andranno bene le merendine”, dissi sollevata.

“Allora se guardi nel frigorifero, dovrebbe esserci qualcosa, se non sbaglio”.

Mi voltai, cercando disperatamente la mia fonte di cibo.

“E’ là, fai tu cara?”. Mi indicò un angolo sulla sinistra.

“Sì, sì, grazie mille”.

Vidi con la coda dell’occhio Esme che tornava lentamente in salotto. Mi lanciai con foga sull’elettrodomestico. Lo spalancai.

Rimasi qualche istante accecata dall’improvvisa luce all’interno, poi…

“Cioccolato!”, quasi urlai.

Cioccolato! Sembrava essere trascorsa un’eternità l’ultima volta che l’avevo mangiato. Presi tra le mani le barrette, infilandomi quasi completamente nel frigo, e ne uscii trionfante.

Avevo racimolato tre barrette, troppo poche per saziarmi, ma abbastanza per zittire il mio stomaco. Scartai il primo involucro, euforica. Avvicinai alle labbra quel miracolo e lo addentai.

Non aveva la consistenza giusta, né il solito sapore, ma mi sembrava la cosa più buona che avesse mai sfiorato il mio palato. Ero troppo affamata.

Ingurgitai velocemente, forse troppo, le altre due barrette senza esitare. Quando finii, non mi sentivo ancora sazia, ma comunque soddisfatta. Mi alzai e cercai un bicchiere. Ne scorsi uno dietro un’anta della credenza più in alto. Così mi arrampicai, facendo attenzione a non danneggiare nulla e a non rovinare il gesso, e lo afferrai.

Bene, e ora l’acqua. Di bottiglie neanche l’ombra, quindi aprii il rubinetto e riempii il bicchiere fino all’orlo. Dopo che ebbi bevuto, mi sentii pienamente soddisfatta.

Sospirai e tornai lentamente verso il salotto, dove era cominciata una nuova discussione.

Dalle scale qualcuno mi chiamò, piano.

“El, tesoro”.

Era Esme, ancora. La sua voce dolce e delicata.

Mi voltai verso di lei, confusa. Che cosa ci faceva lì? Mi stava controllando?

Mi fece segno di avvicinarmi ed io le obbedii.

Quando le fui vicina, mi porse una mano. Era seduta sullo scalino più basso, i gomiti appoggiati sulle ginocchia; sembrava una statua. La afferrai e mi condusse di fianco a lei.

“Siediti”, mi offrì, ed io la ascoltai.

Mi passò le dita sulle guance, ancora rigate di lacrime, e mi sorrise tristemente.

“El, tesoro, non è stata colpa tua. Non devi sentirti minimamente in colpa, è stato un errore, può capitare a tutti. E tu sei così giovane e fragile, non affliggerti in questo modo”.

Voleva confortarmi, aveva capito come mi sentivo. La guardai con espressione vuota per qualche secondo. Era stata tutta colpa mia, come poteva negarlo?

“Se non vuoi parlarne con me, non importa, ma mi ferisce il modo in cui stai male per quello che è successo oggi”. Annuii, anche se non ne vidi il motivo.

Con dolcezza, e lentamente, fece scorrere le lunghe e fredde dita sul mio volto, fino a toccare le lacrime ormai asciutte. Mi sorrise e poi proseguì.

“Credo che ora sia meglio che torniamo di là, dai vieni”. E così dicendo si alzò.

Mi sarebbe piaciuto alzarmi con la sua stessa grazia, senza neanche un rumore, uno scalpiccio di protesta della scala.

Mi sollevai a fatica, aiutandomi con il corrimano. Sembrava che mi fosse cresciuto un mattone di duecento chili sullo stomaco in quei pochi minuti.

Esme mi offrì nuovamente la mano ed io la accettai di buon grado. La sua temperatura non mi turbava, era quasi piacevole.

Arrancai fino al salotto, trascinata da Esme, e finalmente mi resi conto di cosa c’era di diverso.

Non sapevo se ci fosse sempre stato, o se fosse comparso all’improvviso. Di certo non l’avevo notato fino a quel momento. Mi domandai come, visto che era enorme.

Era un pianoforte a coda, nero, grande e lucido. Era appoggiato su un rialzo in un angolo della stanza, il suo colore così scuro che contrastava con quello della parete.

Lo osservai, rapita. Avevo sempre desiderato avere un pianoforte come quello, esattamente uguale a quello. Mi ricordavo che da bambina mi piaceva giocare al piccolo musicista con quello di mio nonno. Lui era bravissimo, mi aveva dato qualche lezione.

Non feci caso agli sguardi perplessi che mi seguivano. Mi avvicinai con espressione sognante al piano.

“Posso?”, chiesi timidamente, ma con entusiasmo.

“Ovviamente”, mi rispose Carlisle.

Sembrava divertito dalla mia espressione, e forse anche da qualcos’altro, che tuttavia non riuscii a cogliere.

Sinceramente non mi importava molto. La mia attenzione era tutta concentrata sul piano.

A guardarmi probabilmente sembravo una pazza. Neanche quello mi interessava.

Sollevai piano il copritastiera e mi sedetti sul seggiolino di pelle nera che vi era posto di fronte.

Premetti leggermente su un tasto, verificando che fosse accordato. Perfetto.

Avevo voglia di suonare, era così tanto che non lo facevo. Così feci correre le dita sui tasti, intonando pressoché a memoria la mia melodia preferita.

River flows in you era da sempre stata la mia preferita, sapeva rilassarmi, rallegrarmi, farmi star bene insomma.

La melodia risuonava ovunque nella stanza, come amplificata. Le note salirono di intensità, per poi rallentare di nuovo. E così ancora. Le mie mani procedevano sicure sui tasti, mentre un sorriso nasceva sul mio viso. Non mi ricordavo fosse così piacevole suonare, era passato davvero troppo tempo.

Quando ebbi finito, mi sentii meglio. Ero quasi indecisa se ricominciare a suonarla.

Alle mie spalle qualcuno stava bisbigliando.

“La pace che irradia mentre suona è impressionante”. Era Jasper.

“E’ molto brava per essere così giovane, Edward sicuramente avrebbe apprezzato se fosse stato qui”, ribadì Rosalie, stranamente gentile.

Appena il suo commento si inserì nei miei pensieri, ecco arrivare una nuova fitta.

Il riflesso fu quasi automatico, i miei occhi si riempirono di lacrime e le mie dita abbandonarono la tastiera. Non mi voltai, non volevo ferire Esme di nuovo con la mia stupida emotività.

“El, tesoro, continua ti prego”. Fu proprio lei a incoraggiarmi questa volta.

Non vedendomi rispondere in alcun modo, ma sentendo solo il mio respiro divenire a poco a poco più irregolare tra i singhiozzi, Esme si rese conto di ciò che mi stava accadendo.

“Rose!”, la rimproverò all’istante.

“El, cara, non preoccuparti. Tornerà. Ora continua ti prego, sei così brava”.

Le lanciai uno sguardo colmo di scuse e di ringraziamenti allo stesso tempo. Scuse perché la feriva vedermi così, ringraziamenti poiché era così buona con me, così materna.

Ripresi lentamente a suonare la stessa melodia di prima. L’allegria che provavo prima era sparita, ora era solo un debole sollievo, mentre sentivo le mie dita correre sui tasti bianchi e neri di quel magico piano. Dopo averla suonata fino allo sfinimento, mi resi conto di essere stravolta.

Saranno state le tre di notte ed io non avevo ancora chiuso occhio.

Fuori era notte fonda, colorata di ombre scure. Eppure i sei abitanti della grande casa bianca non sembravano essere sul punto di crollare come me.

Richiusi il copritastiera lentamente e mi alzai, stanca e barcollante.

Alice fu al mio fianco in un attimo.

“Esme, credo sia meglio che la porti di sopra a dormire, sta per crollare”.

“Oh sì, buonanotte El”, mi disse dolcemente Esme.

“Notte”, farfugliai confusa.

Anche gli altri mi augurarono la buona notte, tutti tranne Rosalie. Non capivo il perché, e in ogni caso ero troppo stanca per pensarci.

Quando fummo davanti alle scale, mi voltai verso Alice. Non ero sicura di riuscire a salire i gradini senza finire per terra.

Con un ghigno, mi prese in braccio e mi trasportò fino di sopra.

Come riuscisse a farlo, mi sfuggiva. Era così minuscola e fragile nell’aspetto, non poteva sollevarmi come se niente fosse. Senza accennare a lasciarmi andare, mi portò fino alla stanza dell’armadio.

“Questa è la mia stanza”, cinguettò, un sorriso stampato in faccia.

“Spero non ti dispiaccia dormire nel mio letto”.

Era decisamente divertita da quella situazione.

Non ce la facevo a rispondere, così mi limitai a scrollare le spalle e socchiudere gli occhi.

Cattiva idea. Una volta chiusi, dovetti combattere con tutte le mie forze per riaprirli.

Dovevo chiederle una cosa prima di sprofondare nell’incoscienza più totale per chissà quanto.

Quando riuscii ad aprire gli occhi, ero già seduta sul grande letto blu dell’immensa stanza.

“Alice”, gracchiai assonnata.

“Sì?”.

“Quando tornerà?”

“Presto, El, presto”, mi rassicurò con un filo di voce, mettendomi un braccio intorno alle spalle.

E questo bastò.

Dopodiché, immerse il viso nei miei capelli ed inspirò profondamente.

“E’ davvero semplice starti accanto quando non hai odore, davvero utile”.

Era compiaciuta. Contenta lei. Mi accarezzò il braccio e si alzò.

“Ora dormi, sei distrutta”.

Non seppi se se ne fosse già andata quando le palpebre vinsero la mia forza di volontà e si chiusero sui miei occhi stanchi.

Beeeeeeene. Forse è stato un po' malinconico/taglia-vene come capitolo, spero almeno che i pochi di voi che commentano non si siano già abbandonati ad atti di auto-violenza. Ok, basta con l'umorismo nero.
Le cose sono un po' diverse dall'universo Meyer, o forse più semplicemente ampliate. E soprattutto il "mio" Edward non è esattamente la creatura di ostentata perfezione che lei dipinge. Sì, è sempre lui, ma sbaglia un po' di più. (Si è anche visto xD)
Spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento, ci si becca la settimana prossima! :)

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Capitolo 5
*** Scuse. ***


Mmm buonasera! Sono un po' in anticipo con l'aggiornamento, ma non penso che faccia poi tanta differenza. Vi ricordo che recensire una storia non uccide, né nuoce alla salute. 
Che cosa altro dire...ok, non ne ho idea.

Capitolo 5. Scuse.

Intorno a me era tutto silenzio. In lontananza mi sembrava di udire il cinguettio di alcuni uccelli, ma nulla di più. Silenzio.

Rimasi in quello stato, in dormiveglia, per qualche minuto o forse più.

Quando mi resi conto che non sarei più riuscita ad addormentarmi, cominciai a pensare.

Fuori era ancora buio, lo percepivo, nonostante avessi ancora gli occhi chiusi.

Nel buio più totale, aprii gli occhi. Tutto era indistinto, vago.

Riuscivo a definire solo i contorni della stanza, le pareti chiare, con quei riflessi dorati...

Un momento. Aspetta.

Eppure ero sicura che Alice mi avesse portato nella camera dell’armadio, non in quella dorata. Me lo ero immaginato? Probabile. Mi avevano spostata durante la notte? Possibile. In ogni caso i conti non tornavano. Mi sedetti, per poter esaminare al meglio la situazione.

Un tonfo, il mio per la precisione. Atterrai con un sonoro thud.

Ahia. Ah giusto, ero sul piccolo divano nero.

Anche la moquette era abbastanza comoda. Mi accoccolai contro lo schienale del divanetto e rimasi lì a pensare.

Chissà dov’era Edward, se era tornato. L’immagine della sua espressione mi straziava nei miei ricordi, l’ultima immagine che avevo registrato di lui prima che se ne andasse.

Dalle scale, un lieve rumore. Qualcuno stava salendo i gradini.

Neanche un secondo dopo, udii bussare alla porta. Rimasi sorpresa dalla velocità con cui, chiunque fosse, aveva percorso l’infinito corridoio che conduceva a quella stanza.

Non ero sicura di dover rispondere, o comunque cosa dover dire. Avanti? Non era casa mia, né camera mia. Meglio l’opzione mutismo.

Con un leggero cigolio la porta si aprì. Non vidi chi entrò, sentii solo dei passi avvicinarsi a me.

Ero tranquilla, ma il mio cuore, come se sapesse qualcosa che io ignoravo, batteva a mille.

“Mi hanno detto che sai suonare bene”, una voce mormorò nella quiete generale.

Al suono di quella voce, i miei occhi si riempirono nuovamente di lacrime. Silenzio.

“Perché piangi adesso?”, chiese la voce, leggermente divertita ma ugualmente ansiosa.

Scossi la testa e mi asciugai le lacrime con il dorso della mano.

Era così vicino adesso, lo sentivo. Percepivo il suo respiro calmo e fresco sul mio volto, la prima cosa che avevo avvertito di lui, era quasi tastabile. Mi sforzai di chiudere la bocca.

“El, sarebbe il caso che tu parlassi, mi stai facendo diventare pazzo”.

Non risposi. Avrei voluto farlo, ma non trovavo le parole, o almeno non quelle giuste.

In quel momento l’unica cosa che avrei voluto fare sarebbe stata gettargli le braccia al collo e dirgli quanto mi dispiaceva, scusarmi per quello stupido errore. Ma avevo paura che potesse reagire male, che potesse essere arrabbiato con me per quello che era successo.

“Ti devo delle scuse”, disse.

Lui? Lui mi doveva delle scuse? Era stata colpa mia se era successo quel disastro!

“Non riesci ad immaginare come mi senta in questo momento. E’ stato orribile, davvero. Mi sono odiato con tutto me stesso per quello che stavo per fare, che avrei potuto compiere così facilmente…

In queste ultime ore non ho fatto che cercare di pensare ad altro, ma il tuo viso era sempre lì, che mi inseguiva. Mi tormentava. Non riuscivo a dimenticarmi della tua espressione terrorizzata sul divano, quando ho… ceduto. Se… se non ci fosse stato Emmett… ”.

Le sue parole si rincorrevano, in una spiegazione che aveva fretta di essere conclusa. Sul finale balbettò senza terminare.

“El, ti prego, se puoi, perdonami. Se vorrai poi sparirò dalla tua vita, ma ho bisogno che...”

Shhhh!”, lo zittii infuriata, sollevando una mano nel buio. Ancora silenzio.

In quei secondi tentai di organizzare un discorso decente da poter pronunciare senza scoppiare a piangere. Poi mi feci coraggio ed iniziai.

“Edward”, balbettai. Okay, come inizio non era dei migliori. Ci riprovai.

“Edward, come fai a chiedermi questo? Come fai anche solo a pensarlo? Non ti rendi conto che...”. La mia voce si andò perdendo, gli occhi colmi nuovamente di lacrime pronte a sgorgare.

E tanti saluti al mio discorso organizzato.

“Oh”, disse triste, sospirando. “Capisco. Beh se è così, credo che sarebbe meglio se tornassi dagli altri...”, mormorò con voce mesta ed affranta.

Ma cosa aveva capito?

“No!”, strillai. “No, no, no, no, no! Resta, ti supplico”. E cercai invano il suo braccio nel buio.

“Non posso restare”.

“Perché?!”, domandai disperata.

“Se non puoi perdonarmi, vedo la cosa piuttosto inutile”.

Il mio cervello appena sveglio lavorava lento e assonnato, ma a quelle parole scattò in un impeto di lucidità.

“Ma perché mai dovrei perdonarti?! Tu non hai fatto niente!”.

“Ti ho quasi ucciso!”.

“E’ stata colpa mia!”.

“Cosa? Colpa tua? El, non scherzare”.

Mi voltai, le mie lacrime avevano del patetico. Io e le mie lacrime da rabbia. Era così snervante!

Mi prese il mento tra le sue mani gelide. Le lacrime sgorgarono ancora più velocemente, unite a quelle da tristezza. Quella scena, nonostante fossimo completamente al buio, mi ricordava troppo il momento in cui avevo rovinato tutto.

“Guardami”, disse, una nuova sfumatura nella sua voce perfetta.

“Non vedo niente!”, strillai di nuovo.

Rise, divertito, ed io rimasi ad ascoltare quel suono, rapita. Era così bello anche solo sentirlo.

Click. Una luce leggera illuminò il viso più bello che avessi mai visto e mi lasciò senza fiato.

Era Edward, questo l’avevo già capito, ma vederlo, vedere che era lì vicino a me, era tutta un’altra cosa. Ed era così vicino…

“Dicevi sul serio? Prima, quando hai detto che non ho bisogno di essere perdonato?”.

“Perché dovrei mentirti?”.

La mia voce rasentava l’isteria. Per un attimo mi chiesi se qualcuno stesse dormendo.

“El, io ti ho quasi ucciso. Rispondimi”.

“No, non ti ho mentito, dicevo sul serio. Non riesco a sopportare di averti... ferito”.

“Ah! Ferito? Davvero, El? Sei sicura di stare bene?”, ridacchiò.

“Sto benissimo”, sibilai.

I suoi cambiamenti improvvisi di umore erano impossibili, mi facevano girare la testa.

Mi fissò di nuovo, intensamente. Mi voltai, vinta da quello sguardo.

Questa volta mi lasciò fare, allentando la presa sul mio viso.

“Perché te ne sei andato? Mi… mi hai fatto star male”, mugugnai, sempre con lo sguardo rivolto al pavimento. Non ero mai stata brava con le parole, soprattutto nell’esprimere i miei sentimenti. Arrossii, imbarazzata.

“Mi dispiace, dico davvero. Ma non potevo rischiare di farti del male, di avvicinarmi a te. Sarebbe stato troppo”.

“Ma ora sei qui”.

Riportai i miei occhi nei suoi, ora di un oro ancora più brillante dell’ultima volta.

Ero fortunata che grazie al mio strano potere non potesse leggermi nella testa.

In quel momento, persa nell’oro fuso dei suoi occhi, la mia mente era un rincorrersi di pensieri incoerenti e confusi.

Alcuni non gli avrebbero fatto molto piacere.

“Sì, ora. Ora sono qui e sono con te, El”, mormorò piano con dolcezza.

Feci per avvicinarmi, fu un riflesso che non riuscii a controllare, pressoché automatico. Il suo viso era così vicino al mio, troppo vicino.

Sollevai timidamente una mano verso il suo viso candido, illuminato parzialmente dalla debole luce. La posai alla base dei suoi capelli, il suo tratto più umano, sulla nuca. Eravamo a pochi centimetri uno dall’altro, il suo respiro fresco sul mio viso mi scompigliava i pensieri.

“El”, mi richiamò alla ragione, ritraendosi un poco, con poco più di un lieve sussurro.

“S-Scusa… non, non volevo. Mi dispiace”.

Indietreggiai velocemente a distanza di sicurezza, abbassando lo sguardo di nuovo e nascondendo la mano dietro la schiena. Sembrava stesse andando a fuoco di sua spontanea volontà.

Un fuoco che mi attirava al volto perfetto dell’angelo di fronte a me, così vicino. Un fuoco che dovevo ignorare, per quanto mi attirasse a sé come un magnete. Avrei desiderato volentieri che il pavimento mi inghiottisse, facendomi scomparire.

Che stupida. Stupida, stupida, stupida! Come avevo anche solo potuto pensarci?

“Non dire idiozie, El. Non devi dispiacerti”.

Mi sfiorò la guancia umida di lacrime con la sua mano gelida.

“Scusa”, ripetei. Rise.

“Sei così umana”, mi prese in giro.

Si avvicinò nuovamente, fino ad arrivare a pochi, pochissimi centimetri dal mio viso. Spalancai gli occhi, increduli, e trattenni il respiro.

Mormorò qualcosa, il suo sorriso truffatore comparso di nuovo sulle labbra, ma non riuscii a sentirlo. Era coperto dal rimbombo dei miei battiti veloci e doppi nelle orecchie.

“El, tranquilla, respira”. E così dicendo posò con delicatezza la sua mano sul mio collo.

Sentivo il sangue pulsare a mille al contatto. Non mi stava aiutando, proprio per niente.

Ma lungi da me, tuttavia, interrompere quel semplice tocco.

Forzai l’aria nei polmoni, che mi furono subito grati di quella mossa.

La camera riprese i suoi confini, alla debole luce, e così anche il suo viso perfetto.

Si rilassò un poco. A poco a poco i miei battiti tornarono quasi normali. Quasi.

Dopotutto la sua mano era ancora sul mio collo.

Dopo qualche attimo di silenzio, piuttosto imbarazzante, si avvicinò nuovamente. Ma allora voleva uccidermi! Un collasso respiratorio non era nei miei programmi, ma forse nei suoi sì a quanto pareva.

Mi prese il viso con entrambe le mani ed il mio cuore rispose immediatamente, in automatico.

Respira, continuavo a ripetermi, respira. Ero leggermente intimorita dalla sua inusuale vicinanza, e dalla mia espressione si poteva certamente capire.

La forza del suo sguardo era quasi insopportabile. Mi confondeva e, di nuovo, mi lasciò senza fiato. Respira.

Non capivo ancora cosa volesse da me, cosa cercasse sul mio volto con così tanto interesse e curiosità. Un po’ mi turbava, un po’ mi affascinava. Tuttavia fui costretta come poco prima ad abbassare lo sguardo. O almeno ci provai. Con forza mantenne la presa sul mio volto, tenendo i miei occhi bloccati nei suoi. La luce li illuminava leggermente, facendoli brillare. Le iridi erano di un oro più brillante di qualunque gioiello avessi mai visto, i riflessi che irradiavano tendenti al verde, o forse anche argento. Rimasi a guardarlo, la bocca schiusa lievemente in stupore.

Continuava a fissarmi, ed io di rimando. Rimanemmo in quel modo per diversi minuti.

“Non dovresti dispiacerti per prima, i tuoi desideri non sono lontani da quelli di altri”.

Lo guardai inebetita, senza comprendere. Poi continuò.

“Ora si sta facendo chiaro, credo che dovremmo scendere in ogni caso”.

E così, prendendomi per mano, uscimmo da quella magica stanza.

“Aspetta”, dissi con la voce ancora impastata dal sonno. Avevo minimo due cose da fare prima di scendere le famigerate scale.

“Cosa c’è?”, chiese dubbioso, inarcando un sopracciglio.

“Vorrei…ehm… andare in bagno, prima. Se non ti dispiace”.

“Se non mi dispiace?”, mi prese in giro, imitando alla perfezione il mio tono.

“Se mi dici dov’è, almeno”, risposi a tono.

“Ah, certo. Dietro la porta, gira a sinistra ed è subito lì”, mi indicò, un sorriso più che evidente nella sua voce.

Mi affrettai verso il bagno. Avevo assolutamente bisogno di controllare il mio stato, cosa che non facevo da almeno due giorni e che mi spaventava, e di usare la latrina.

Non appena entrai, pensai di aver sbagliato porta: era una stanza troppo enorme per essere un bagno. Tuttavia, gli indizi c’erano tutti: un gabinetto, un lavandino, una doccia, uno specchio…

Oddio! Da quant’era che non mi guardavo allo specchio? Sembravo una sfollata, una senzatetto.

I miei capelli erano piatti, pesanti ed ancora inumiditi dalle lacrime dei giorni passati. Per non contare la ciocca sporca di sangue alla base del collo. Non sembravano più neanche miei. Erano più scuri, tendenti al nero, una corona di ciocche che sparavano in ogni direzione possibile e non.

Gli occhi erano gonfi e pesti, visibilmente arrossati da tutti quei pianti e cerchiati di viola. Le guance erano solcate da profonde righe di acqua salata, ormai seccata, pallide come non mai.

Così, per prima cosa, mi sciacquai per bene il viso.

Ero veramente conciata male. Forse era meglio farsi una doccia, ma Edward? Era pur sempre fuori che mi aspettava. Tuttavia, non potevo di certo presentarmi di sotto in quel modo.

Presa la mia decisione, quindi, voltai le spalle allo specchio e mi diressi verso la porta.

Misi la mano sulla maniglia, pronta ad avvisare Edward e lanciarmi dentro quell’enorme doccia.

“Ah!”, esclamai.

La porta si era spalancata nello stesso istante in cui stavo per aprirla.

Dalla fessura creatasi, fece capolino il piccolo viso da elfo di Alice, i suoi capelli più disordinati dei miei. Nonostante ciò lei era perfetta, angelica. La invidiavo.

“Ciao”, disse con un sorriso più che smagliante.

“Ho pensato che visto che vuoi farti una doccia, dovresti cambiarti i vestiti”, proseguì con un ghigno.

Mi scomposi un poco alle sue parole. Come aveva saputo che volevo lavarmi? E soprattutto, come così in fretta? Non riuscivo a tirare fuori una risposta decente.

“Non ti preoccupare, lo dico io a Edward. Ora ti porto i vestiti”, aggiunse prontamente, notando la mia espressione.

Si fermò un attimo a guardarmi, anzi squadrarmi era più corretto. Un leggero moto di disgusto si dipinse sul suo viso angelico alla vista dei miei abiti ormai ridotti in fin di vita.

“Così non devi più rimettere quelli”. Sull’ultima parola, il disgusto si era fatto più che evidente.

Mi sentii arrossire ed abbassai il volto. Silenzio.

“Se sono miei, non importa vero?”.

Trasalii un poco, non pensavo fosse ancora lì, era tutto così silenzioso.

“No, no, figurati. Anzi grazie, andranno benissimo”.

Mi sorrise apertamente e uscì dal bagno. Non era stato esattamente un sorriso, più che altro era un ghigno malefico e minaccioso. O almeno così mi era sembrato. Forse stavo andando in paranoia.

Tornai di fronte allo specchio, facendo scorrere le mani sul viso. No, quelle occhiaie non volevano proprio venire via. Cominciai a togliermi il maglione blu, che ormai aveva la consistenza del cartone e l’aspetto di una fisarmonica.

In quello stesso momento Alice tornò compiaciuta nella stanza, o almeno supponevo fosse lei. Era sommersa da un carico abnorme di abiti.

“Alice?”, chiamai esitante. Quella quantità spropositata di vestiti mi terrorizzava.

“Si, sono io. Aspetta un secondo”.

La sua voce mi raggiunse smorzata da quel bagaglio, in bilico tra le sue esili braccia. E così dicendo appoggiò quel finimondo sul mobiletto del lavandino.

“Okay, molto meglio”, cinguettò con un sorriso.

“Alice, stai scherzando vero?”, chiesi angosciata, indicando la montagna pericolante di stoffa.

“E perché dovrei? Ti ho portato solo un po’ di scelta, tutto qui”.

“Un po’ di scelta? Alice, mi hai portato un negozio!”.

“Fai come vuoi, scegli pure”. E si incamminò velocemente verso il corridoio.

“Alice!”, cercai di chiamarla, ma ormai era uscita.

“Perfetto”, brontolai a me stessa.

Dopo di che mi costrinsi ad esaminare qualche capo, stendendolo accuratamente sul ripiano.

Mio dio! Erano uno più colorato dell’altro, dalle fantasie particolari ed astruse e, cosa più inquietante di tutte, con scolli vertiginosi.

Presi in mano quello più anonimo e lo appoggiai al mio busto per vedere come mi stava.

Alice scherzava, vero? Era cortissimo, non mi arrivava nemmeno al ginocchio, neanche a metà della coscia.

Lo staccai il prima possibile dal mio corpo, nauseata. Quanto mai le avevo permesso di prestarmi i vestiti! Ora avevo davvero bisogno di una doccia, ero più nervosa che mai.

Mi sfilai con rabbia la maglia ed i jeans, appallottolandoli in un angolo a terra, decisa a indossarli nuovamente nel caso non avessi trovato altro dopo.

Entrai nella doccia, ma dovetti uscire un attimo: non c’era shampoo in vista.

Frugai velocemente nei cassetti fino a quando non trovai quello che cercavo. Era una boccetta di dimensioni minuscole, se non fosse stato per il suo colore, non l’avrei certamente notato. Era di un verde molto brillante, acceso; sull’etichetta una dicitura altrettanto luminescente scritta in quello che supponevo fosse francese.

Soddisfatta, rientrai in doccia ed aprii l’acqua, badando bene a non bagnare il gesso.

Non mi sentivo così bene con me stessa da un bel po’. Sentivo l’acqua scorrere finalmente tra i miei capelli stanchi, bagnarmi il viso, lavando via le ultime tracce delle lacrime. Rimasi fin troppo a lungo sotto l’acqua bollente, ma alla fine, controvoglia, mi costrinsi ad uscire.

Sgusciai fuori dalla doccia, avvolgendomi subito addosso un grande asciugamano bianco.

La calma e la pace guadagnate con la doccia, svanirono quasi all’istante quando mi ritrovai nuovamente a fronteggiare l’enorme pila di abiti.

Brontolai qualcosa di incoerente, incerta se rimettermi i miei vestiti sporchi. Ma…

Un ringhio, a metà tra un ruggito ed un grugnito, mi risalì la gola. I miei vestiti erano andati, spariti.

Alice. Alice, ne ero certa. L’effetto calmante della doccia era definitivamente svanito.

Rassegnata e furiosa, mi avvicinai alla pila di abiti. Ah.

Appoggiati, in un angolo del mobiletto più basso, c’era adesso un paio di jeans blu scuro, scoloriti sui fianchi. Il mio umore si risollevò un poco. Almeno la piccola pazza furiosa mi aveva offerto un paio di pantaloni, oltre a tutto quel disastro.

Mi sembravano un po’ troppo lunghi per appartenere ad Alice, ma non ci badai molto.

Mi infilai i jeans e con aria compiaciuta mi guardai allo specchio. Mi stavano abbastanza bene dopotutto, facevano risaltare le mie gambe, facendole apparire lunghe e asciutte. Poi, il problema principale: che cosa mettere...sopra? Non ne avevo la minima idea. Il gesso era un problema.

Feci correre lo sguardo velocemente su quell’inquietante montagna colorata, fino a che non trovai quello che cercavo.

Era il piccolo vestito scuro e anonimo che avevo provato poco prima, troppo corto per essere indossato da solo. Ma forse con i jeans…

Lo provai. Con un’aria più che soddisfatta, notai che era perfetto per stare con i pantaloni. Abbastanza lungo da coprirmi, ma non troppo. E mi stava anche abbastanza bene, meglio dei pantaloni. Aderiva alla mia vita quasi come una seconda pelle, per poi allargarsi dolcemente fino a cadere sui fianchi.

Lo scollo me lo ero immaginato peggio, anzi non era male. Il mio ciondolo era perfetto in quella posizione. Trionfante, mi sfregai i capelli con l’asciugamano, un ghigno stampato in faccia.

Fu quando i miei capelli furono pressoché asciutti e cominciai a cercare le scarpe, che il mio umore precipitò nuovamente.

Tacchi! E non tacchi normali, tacchi a spillo dalle altezze vertiginose. Io non riuscivo neanche a camminare per terra senza inciampare, e quella pazza voleva farmi andare in giro con quei trampoli? Erano una trappola mortale. Per me e per il resto delle persone che mi stavano accanto, ero un vero e proprio pericolo.

Non ci misi molto a decidere che sarei andata in giro scalza. Dopotutto, le mie adorate scarpe da ginnastica mezze distrutte si erano volatilizzate nel nulla.

Mentre mi controllavo allo specchio, per l’ultima volta prima di scendere, il mio occhio cadde su una piccola borsa posata sulla mensola vicino allo specchio. Avrei giurato che non ci fosse stata prima. Frugai al suo interno, curiosa.

Erano trucchi. Beh, già che c’ero.

Mi avvicinai allo specchio, matita nera alla mano, e cominciai a passarla sul profilo inferiore degli occhi. Ne aggiunsi anche un po’ ai lati, per allungarne la forma, ma non troppo. Non mi piaceva esagerare con quel genere di cose. Tirai fuori anche un poco di cipria, disponendola sugli zigomi. Molto meglio. Era da molto che non mi vedevo truccata, faceva un certo effetto. Strano, insolito.

Mi spazzolai i capelli senza pensarci e mi catapultai fuori dal bagno, consapevole di essere in ritardo. Percorsi le scale così velocemente da chiedermi come facessi ad essere ancora in piedi.

Una volta arrivata di sotto, sentii le voci familiari provenire dalla cucina, insieme ad un rumore di stoviglie. A quel suono il mio stomacò mi ricordò che aspettava la sua - la mia - colazione.

Tan tan taaaaaaaan! Sarebbe taaaaanto, tanto carino se qualcuno si degnasse di scrivermi anche solo che faccio pena, giuro xD In ogni caso, alla prossima settimana! Buon weekend :)

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Capitolo 6
*** Cambiamenti. ***


Buon sabato a tutti! Un'altra settimana è finita finalmente. Non ce la facevo più D:
Detto questo, vi lascio al capitolo. Le cose cambiano - e cosa non lo fa? -, alcune in meglio ed altre in peggio. Ok, ora vi lascio davvero xD

Capitolo 6. Cambiamenti.

Avanzai lentamente verso la cucina fino ad arrivare sulla soglia, dove rimasi sbalordita.

Le sette figure si muovevano con grazia inumana attraverso la stanza, intente nel preparare qualcosa.

Nell’istante stesso nel quale arrivai sulla porta, quelle sette figure si arrestarono, voltandosi verso di me con espressioni gentili. Non mi soffermai molto su quei volti perfetti, a me ne interessava solo uno. E proprio quel viso si illuminò lievemente alla mia comparsa, un ampio sorriso agli angoli delle labbra.

La sua assurda bellezza mi sconvolgeva ogni volta. Volevo rimanere lì a guardarlo, ma uno sbuffo catturò la mia attenzione. Mi voltai.

“Rose!”, strillò Alice, all’apparenza furiosa.

“Che c’è?”, domandò innocente Rosalie. Forse fin troppo.

“Le hai dato i tuoi jeans! Io le avevo messo lì solo i vestiti, diamine!”.

“Non poteva di certo scendere così, lo sai Alice. Non tutte sono come te”.

“Non…tu…”, balbettò furibonda Alice con un ruggito.

Strano. Non mi sarei mai aspettata che tra tutti proprio Rosalie mi avrebbe aiutata.

Un po’ intimorita dall’espressione della piccola Alice, mi avvicinai incespicando al bell’angelo di fronte a me.

“Buongiorno”.

Sospirando, mi voltai verso la voce che mi aveva salutata. Era Emmett.

“Ciao”, dissi raggiante, con un sorriso. Poi sorrisi anche a Esme, Carlisle, Jasper e per ultima Rosalie, a cui riservai anche uno sguardo di profonda gratitudine.

Ero davvero di buonumore quella mattina.

Tornai a cercare l’angelo. Era appoggiato al banco della cucina, con fare disinteressato.

Mi avvicinai sorridendo, inclinando lievemente la testa verso il suo sguardo perso oltre la finestra, cercando di intercettarlo in qualche modo e riportarlo alla realtà.

Ma il suo atteggiamento era cambiato completamente rispetto a pochi secondi prima.

Non si voltò, come mi ero aspettata, e rimase dov’era. Mi feci più vicina, sporgendomi da un lato per incrociare quello sguardo così assorto e pieno di pensieri. Quando incontrai finalmente i suoi occhi, trasalì un poco. Si accigliò, ma sorrise.

“Buongiorno”, dissi, cercando di sollevare quello strano morale.

“Buongiorno. Stai molto bene così”, disse in tono distaccato e apatico.

Era strano, diverso. Non era il mio angelo.

“Ah, grazie. Ehm, credo… anche tu stai bene”.

Annuì, sorridendo leggermente.

Un sorriso che non gli illuminò il volto, né gli occhi. Scomparve prima di raggiungerli.

In questo modo si conclusero i nostri dialoghi.

Non del tutto; continuava a salutarmi brevemente la mattina, ad augurarmi la buonanotte la sera, a chiedermi cosa preferissi mangiare, ma mai niente di più. Così procedettero i miei giorni seguenti nella grande casa bianca. Anonimi, silenziosi.

Gli unici che mantennero il loro comportamento furono Emmett ed Esme. Emmett sapeva sempre farmi ridere; con un atteggiamento, una battuta, un gioco, qualunque cosa di lui risultava buffa e divertente.

Gli andavo a genio, così aveva detto.

Esme era sempre la stessa donna dolce e gentile che mi aveva tanto sostenuta il primo giorno. Materna, solare. Carlisle non fu molto presente durante quei giorni così bizzarri, aveva “faccende di lavoro” da sbrigare urgentemente, così non seppi interpretare il suo comportamento.

Alice. Alice si era indurita parecchio in quei pochi giorni. Non mi rivolgeva quasi più la parola, se non per scortarmi in camera la sera. Sembrava l’ombra del fratello, in ogni singola, irrilevante cosa. Mi chiesi il motivo di quella simbiosi tanto particolare.

Jasper era anonimo, non si vedeva mai, o quasi, durante il giorno. E se c’era, rimaneva in un angolo in disparte, il più possibile lontano da me.

L’unico cambiamento più che positivo fu quello da parte di Rosalie, così apertamente ostile fin dall’inizio. Infatti, dal bizzarro episodio della doccia, i nostri sorrisi insicuri e timidi si erano trasformati a poco a poco in sguardi complici e commenti.

Era diventata quasi un’amica per me, forse più di quanto avrei mai pensato. Mi piaceva parlare con lei, riuscivo a confidarmi e a scherzare senza problemi.

Oltretutto avevo scoperto che Emmett stava con lei. I miei due migliori amici in quello strano clima.

Nonostante quell’inaspettata amicizia riuscisse a non farmi del tutto notare lo scorrere del tempo, vedere Edward che mi evitava così deliberatamente mi faceva star male.

Rose poteva confermarlo, passavo le notti ad irrigare di lacrime le sue magliette. Era sconcertante il modo in cui mi feriva. Sbagliato, e tuttavia impossibile da evitare.

Edward non mi prestava più la minima attenzione, non mi cercava.

Voltava lo sguardo quando incrociavo i suoi occhi. Erano undici giorni che tutto questo andava avanti. Non potevo, non riuscivo a sopportare oltre.

“El, che ne dici della scuola?”, mi domandò una mattina Rose, raggiante.

“Scuola?”, domandai stupita.

Scuola. Mi ero quasi dimenticata che esistesse, a dire la verità.

In quel luogo così improbabile, con personaggi che parevano nascere dalle pagine di un libro di fiabe, non mi sembrava neanche possibile.

“Sì, scuola. Ti va?”. Rose interruppe di nuovo i miei pensieri.

“Perché?”.

Non capivo da dove nascesse il suo strano interesse.

“Le vacanze pasquali stanno finire, noi dobbiamo tornarci in ogni caso”, cominciò a dire, “e tu dovresti venire con noi. Sarebbe grandioso”.

“Io? A scuola? Con voi?”, ripetei, le mie parole balbettate velocemente.

“Sì. Dai, El. Sarebbe fantastico andare a scuola insieme, noi due. Che ne pensi?”.

Poi si voltò.

“Esme? Tu che dici?”.

Esme stava preparando come ogni mattina la colazione per me, biscotti sul grande tavolo ovale. Sollevò il viso verso di noi, guardandomi circospetta.

“Dipende da El, Rose. Lo sai”, disse, sorridendomi in modo gentile.

Era così materna, dolce. Mi ricordava mia madre. Mia madre…

Chissà se sentiva la mia mancanza, se mi avevano cercato da quando ero sparita nel nulla, poco più di una settimana prima.

A me mancava moltissimo. Mi sarebbe piaciuto moltissimo rivedere il suo viso, lievemente abbronzato dal sole, sorridermi di nuovo. Rimasi un attimo a contemplare il suo volto, persa nei miei ricordi. Mi sarebbe piaciuto, questo è vero, ma…

Non volevo tornare. Non ancora almeno. Non mi era chiaro il motivo della mia indecisione; vi avevo cercato una risposta diverse volte, senza risultati.

Avrei voluto tanto chiamare a casa per sentirli e rassicurarli del fatto che andava tutto bene e non dovevano preoccuparsi, ma insieme alla mia memoria più recente avevo anche perso il mio cellulare e, con lui, tutti i numeri salvati all’interno.

Esme e Carlisle si erano proposti di riportarmi a casa subito dopo il mio “incidente”, ma non avevo acconsentito. Mi era sembrato sbagliato. Forse il vero motivo era che volevo vedere Edward sorridermi ancora una volta prima di andarmene e sparire da quel mondo fatato.

“El? El ci sei?”, mi chiamò Emmett dall’altro lato della stanza. Trasalii.

“Oh, scusa. Non volevo svegliarti!”, ridacchiò, prendendomi in giro.

Gli mostrai la lingua, facendogli una smorfia.

“El? Prometti che ci penserai, per favore?”, mi domandò Rose, con aria supplichevole.

Rosalie era in assoluto la ragazza più bella che avessi mai visto. Mi chiesi come stonasse la mia presenza al suo fianco.

La prima volta che l’avevo osservata, non mi ero del tutto accorta di quanto fosse splendida. Mi era parsa bellissima, certo, ma nulla di più. Ora che la conoscevo meglio, avevo imparato ad apprezzarla in ogni singolo dettaglio.

I suoi capelli biondi scendevano dolcemente lungo le spalle, quasi fino ad accarezzarle i fianchi, formando cascate di boccoli dorati. Il viso era ovale, scolpito. Qualunque donna avrebbe dato di tutto per un aspetto così. Il fisico era asciutto ma tonico. Sembrava essere stato ritratto nel marmo. I suoi occhi, di un colore variabile tra l’onice e l’oro, mi stavano fissando, imploranti e in attesa di una risposta.

“Sì, ci penserò Rose. Va bene”, mi arresi a quello sguardo.

“Promesso?”.

“Sì, Rose, promesso”, acconsentii, sconfitta.

Dopotutto, un po’ di scuola non mi avrebbe fatto male.

Sentivo la mancanza della normalità, della monotona quotidianità di tutti i giorni. Quella casa, nonostante mi trovassi piuttosto bene, non era propriamente quello che si definisce “normale”. Vampiri compresi.

Ormai avevo accettato abbastanza di buon grado l’idea che i miei strani coinquilini fossero così particolari nella loro “alimentazione”.

Non mi importava granché. Loro erano buoni, e me lo avevano già dimostrato.

Quel giorno scorse più lentamente degli altri, fiacco. Passai la mattinata con Rose, come al solito, intenta a riordinare il suo immenso guardaroba. Rimasi a guardarla divertita.

Si lanciava come un razzo nell’armadio, cercando di scegliere quale abito indossare e quali invece dar via. Era sempre indecisa, ed io non ero da meno.

“Meglio questo secondo te, El?”, mi chiese per l’ennesima volta mentre faceva ondeggiare un piccolo abito blu davanti allo specchio.

“Non lo so, Rose. Quello mi piace, ma anche l’altro ti sta bene”, commentai svogliata.

“Grazie, molto utile”. Mi fece una smorfia.

“Rose, tu stai bene con tutto. Quindi non vedo il motivo…”

“El, dimmi la prima cosa che ti passa per la testa e basta. Per favore”, sbottò esasperata, quel commento glielo riservavo praticamente ogni giorno.

“Allora… quello lì, quello blu. Va bene?”.

“Grazie”. E finalmente la sfilata si concluse.

Vivevo perennemente dentro i suoi vestiti, anche se erano un po’ troppo lunghi a volte. E di certo non avevano lo stesso effetto su di me, ma cercavo di non pensarci.

Dopo quel breve episodio, che ormai si ripeteva incessantemente tutti i giorni, la giornata trascorse lenta e noiosa. Non avevo fame, quindi sgranocchiai semplicemente una barretta sul divano, accoccolata a Rose.

Posai la testa nell’incavo freddo della sua spalla e rimasi così per diversi minuti. Forse anche di più.

Sullo schermo gigante di fronte a me si susseguivano immagini senza senso, almeno per me.

Mi accorsi di non percepire il respiro di Rose, solo quando provai a rilassarmi in cerca di un po’ di sonno. Speravo che almeno così sarei riuscita a far passare il tempo più velocemente.

Mi tirai su rapidamente, il cuore a mille. L’ultima volta che qualcuno aveva trattenuto il respiro in quel modo, subito dopo era successo il finimondo.

“Rose?”, farfugliai confusa.

Non mi rispose, mi sorrise semplicemente in modo gentile. Ah, brutto segno.

“Rose! Dimmi perché non respiri”, mi intestardii, la voce leggermente più decisa.

“Ehm, ecco…è da parecchio che non…mangio. E tu...”. Abbozzò un sorriso, senza terminare la frase.

Spaventata, controllai subito quello strano velo che ricopriva la mia testa. Avevo imparato a controllarlo, più o meno. Beh, almeno a percepirlo. Mi sembrava a posto, ma lo tastai nuovamente, in cerca di buchi o chissà cosa.

Quando vide la mia espressione confusa e concentrata, capì cosa stavo facendo.

“No, El. E’ tutto a posto, non sei tu. O meglio, non è il tuo coperchio”.

Lei lo chiamava così, diceva che era più simpatico. Contenta lei.

“E allora…?”. Non capivo. Perché non respirare se era tutto okay?

“Diciamo che anche se non sento il tuo odore, questo non significa che non senta il tuo battito, o il tuo calore. O il tuo sangue”, ammise con aria colpevole, abbassando lo sguardo.

A quell’affermazione scattai da un lato, allontanandomi da Rose. Non volevo ferire lei come avevo fatto con Edward. No, non potevo.

“El, tranquilla. Non ti farò del male. Non respirare non serve a niente a dir la verità, è solo che mi aiuta a concentrarmi, tutto qui. Rilassati, è tutto okay”.

Il mio viso era paralizzato in qualunque espressione avessi poco prima.

“Rose, da quant’è che non... cacci?”, domandai, la mia voce spezzata e tremante.

“Un po’. Non volevo lasciarti qua da sola e sono rimasta più del necessario, forse troppo direi”, ammise, abbozzando un sorriso.

“Rose, devi andare. Subito, stasera. Non voglio...non voglio ferire anche te”.

Alla fine della frase la mia voce era stata coperta da uno strano rumore. Solo poco dopo capii che era un singhiozzo, il mio.

“El? Ma cosa stai dicendo? Tu non potresti far male a nessuno qui dentro, neanche se lo volessi. Su col morale”.

Cercò di tirarmi su, ma senza risultati. Il singhiozzo era diventato una vera e propria crisi di pianto in piena regola. Perfetto.

“Tu, E-Edward. Non... non voglio. Non posso, tu devi andare. Stasera”, farfugliai.

Pronunciare il suo nome ad alta voce richiedeva uno sforzo notevole da parte mia.

“Promettimelo”, insistetti.

Mi guardava con aria apprensiva, dolce. Era preoccupata per me. Dovevo calmarmi.

“El...non puoi, non devi sentirti in colpa per quell’idiota di mio fratello. Okay? Dai, basta piangere”. Mi venne vicino, cercando di abbracciarmi.

“Prometti Rose, prima”, la avvertii allontanandomi.

“Va bene, prometto. Ora vieni qua, frignona”. E con un sorriso mi abbracciò, cullandomi dolcemente tra le sue braccia gelide.

 

Mi accorsi delle voci intorno a me. Non erano molte, ma facevano un gran chiasso. Erano voci familiari, ma non quelle che mi sarei aspettata di sentire. Dov’era Rose? Credevo di essermi addormentata tra le sue braccia, sul divano. Eppure…

No, le voci che sentivo non erano decisamente le loro, quelle dei Cullen.

Erano troppo roche, troppo basse. A fatica, cercai di aprire gli occhi. Non avevo voglia, avevo ancora parecchio sonno. Sbadigliai, tenendo gli occhi ancora chiusi. Mi stiracchiai.

Un momento. Se fossi stata sul piccolo divanetto bianco di casa Cullen, a quest’ora sarei già precipitata per terra, tra le risate fragorose di Emmett. Strano.

Mi costrinsi ad aprire gli occhi, in preda alla curiosità. Dove mi avevano trasportata stavolta?

Non mi sembrava il grande materasso di Alice, dove di solito dormivo, né quello di Rose, che a volte mi aveva ospitato. Era troppo scomodo, troppo duro.

Era tutto buio e silenzioso adesso. Le voci erano sparite, portando via con loro il minimo di familiarità che avevo con quel luogo misterioso e sconosciuto. Non sapevo a chi appartenessero, ma almeno non sembrava lo scenario di un film dell’orrore. Ora sì.

Uno spiffero d’aria mi fece rabbrividire. Qualcuno doveva aver lasciato la finestra aperta.

Il soffitto della stanza non era tutto dello stesso colore, aveva ombre più scure ai lati, che convergevano verso il centro. Era davvero strano. Aguzzai lo sguardo, stringendo gli occhi, per cercare di definire meglio quella strana fantasia. Aveva delle leggere luci qua e là…

La realtà, quando si abbatté contro di me, fu sconvolgente.

Stelle. Erano stelle. E io ero fuori, al freddo e al buio. Da sola.

La strana fantasia del soffitto erano alberi. Gli enormi alberi che tanto mi avevano spaventato la prima notte con Edward.

Dove erano finiti tutti? Non potevo credere che mi avessero abbandonata.

Mi avevano abbandonata? Anche Rose? No, non era possibile. Non potevo e non volevo pensarci.

Mi voltai di scatto, mentre percepivo il panico montarmi dentro, così da fronteggiare il terreno umido e sconnesso.

Rimasi seduta sui talloni per qualche istante, in preda alla confusione più totale. Ero stata io ad allontanarmi? Non me lo ricordavo. Ma d'altronde c’erano parecchie cose che non mi ricordavo.

Mi sedetti per terra, con un tonfo che mi fece sussultare.

Calma, mi dissi, adesso vediamo che diavolo è successo.

Tentai di alzarmi, traballante, ma il primo tentativo andò a vuoto. Ricaddi a terra con un sonoro crack. Ci riprovai.

Okay, meglio. Una volta raggiunta la posizione eretta, cominciai a cercare un segno, qualcosa di familiare. Niente.

Perfetto! Pensai, allargando le braccia, destinata a vagare in eterno per il nulla! Era sconvolgente il fatto che riuscissi ad usare il sarcasmo anche in questa situazione.

Azzardai qualche passo in avanti, ma tornai subito indietro. Temevo di perdere l’unico punto di riferimento che avevo al momento.

Forse dovrei… No, meglio di là... No, però credo che le voci provenissero…

Queste furono le mie considerazioni confuse, nel buio e nel silenzio più totale.

Un grido echeggiò nel silenzio, facendomi ronzare le orecchie.

Era stato l’urlo più terribile che avessi mai sentito. Straziante, di dolore.

Attesi qualche secondo, terrorizzata. Sentivo i miei battiti nelle orecchie, il respiro affannoso, un ronzio ancora nei miei timpani, dovuto al grido.

Le voci ripresero, ma stavolta non parlavano, gridavano.

Ne individuai alcune, senza riconoscere a chi appartenessero.

“Corri, Daniel, corri!”.

“Da questa parte, Jess! Muoviti!”.

Alcuni passi affrettati incespicavano in lontananza. E ancora.

“Mel! Dov’è Eric? Eric!”. Erano grida di paura, stavano scappando.

Non sapevo né dove né soprattutto da cosa, ma qualcosa o qualcuno c’èra.

Cominciarono a tremarmi le gambe, e mi sentii instabile sulle ginocchia. Attenta a non fare il minimo rumore, cominciai a muovermi. Ma non andai verso le voci, al contrario corsi rapidamente verso il primo straziante grido agonizzante.

Mi lanciai in una corsa alla cieca, graffiandomi spesso con i rami degli alberi o inciampando nel terreno sconnesso. Tutte le volte mi rialzavo, meccanicamente, e riprendevo la mia corsa.

Mi sembrava di non aver mai fatto muovere le mie gambe più velocemente. Se non fosse stata una situazione così assurda e pericolosa, ne sarei certamente stata entusiasta. Mi accorsi con una strana sensazione, che ondeggiava dalla sorpresa allo smarrimento più totale, che non sapevo assolutamente dove stessi andando. Mi sarei persa.

Un rantolo sopraggiunse alla mia destra, in lontananza. Poi un altro grido, lo stesso di prima.

A quel suono, i miei pensieri passeggeri si persero nel buio della notte insieme a tutto il resto.

Mi sforzai di correre ancora più rapidamente, sfrecciando senza sosta. Era una mossa azzardata, rischiosa certamente, ma c’era una strana forza che mi attirava verso quel grido.

Non seppi esattamente perché, ma dovevo andare.

Un gemito. Stavolta era vicino, molto vicino.

Sbucai in uno spiazzo stranamente illuminato dal chiarore della luna, ma non solo. Al centro della piccola radura c’era un falò che ancora ardeva e scoppiettava. Rimasi a fissarlo finché un altro gemito non richiamò la mia attenzione.

C’era più luce in quel luogo, ma i miei occhi non si erano ancora abituati. Tuttavia riuscii a delineare i contorni di due figure. Una era piccola, minuta ed accasciata in un angolo, contro un grande tronco di quella che avrebbe potuto essere una quercia. Era da quella figura così esile che continuavano a provenire incessantemente dei rantoli di dolore.

L’altra figura era nettamente più imponente, più grande e minacciosa. Era accovacciato, di fianco alla ragazza e la sovrastava. Aveva un ghigno sulle labbra.

Poco a poco mi accorsi che riuscivo a definire meglio quelle figure, e così i colori. Tuttavia non osavo muovermi, ero paralizzata dalla paura.

L’uomo, adesso che riuscivo a vederlo meglio, era davvero grosso e imponente. Non riuscivo a vederlo chiaramente, poiché portava un’ampia felpa scura con un cappuccio che gli oscurava il viso.

Nonostante ciò era palese che fosse lui la causa del dolore della ragazza accasciata ai suoi piedi, ancora agonizzante.

Lei cercava inutilmente di strisciare via, usando solo un braccio e le gambe. L’altro braccio era messo in una posizione del tutto strana, innaturale. Probabilmente era rotto.

Non riuscivo a vederla bene in viso, era all’ombra del tronco.

L’uomo si scostò il cappuccio, mentre con un ghigno si avvicinava alla ragazza.

Questa lanciò un grido che mi perforò i timpani e mi stordì. L’uomo continuava ad avanzare lentamente, come a prolungare la sua agonia.

“Stai ferma. Ora faccio, e poi è tutto finito”, disse con voce suadente.

“Vieni qua, non fare la difficile. Tanto hai già visto che ti prendo se provi a scappare”, continuava a parlarle, come per convincerla.

“Stammi lontano!”, gridò la ragazza, con improvvisa decisione.

In quel momento, mentre il mio cervello registrava la sua voce e la sua esile figura usciva finalmente alla debole luce del falò, un rumore arrivò alle mie spalle.

Non mi capacitavo di quello che stava succedendo, rimasi semplicemente a guardare la scena, sconvolta. Un’altra figura entrò nella radura, con un ruggito.

Sobbalzai, terrorizzata.

“Stalle lontano, Claude”, ruggì la voce, in preda all’ira.

“E tu chi sei, scusa?”, domandò confuso l’uomo, sorridendo beffardo.

“Stalle. Lontano. Ho. Detto.”, ripeté quella voce. “Subito”, gli intimò ancora una volta.

“Non credo che lo farò, ragazzo. Non senti il suo sangue?”.

“Claude. Allontanati”, minacciò la voce, adirata.

Quando la ragazza gemette di nuovo, i tasselli del puzzle andarono al loro posto.

Riconobbi la ragazza, la sua voce, la voce. Tutto.

Quella scena, le grida, l’attacco mi attiravano a loro come un magnete. Ora capivo perché.

Le avevo già vissute. Ero io la ragazza.

Quella voce era la voce, l’unica voce che mai avrei immaginato di sentire a quel punto.

E l’uomo. L’uomo era il mio assalitore, finalmente avevo capito.

Tuttavia questa consapevolezza non mi fece stare meglio e, nell’istante in cui le labbra di Claude sfiorarono il mio collo, mi svegliai urlando.

Mani gelide mi trattennero, mentre io continuavo a gridare a pieni polmoni senza fiato.

Non riuscivo a fermarmi, mi era impossibile.

Era stato tutto così vivido, così reale.

“El!”, mi chiamò la voce sconvolta di Rose, mentre mi strattonava per farmi smettere.

“El, basta! E’ tutto okay, sei al sicuro!”. Dalla sua voce traspariva tutta la sua angoscia.

“Carlisle, che cos’ha?”, chiese di nuovo Rosalie.

“Credo sia stato un incubo, niente di grave. Ma sembra davvero sotto shock”.

“Non hai qualcosa per calmarla? Trema come una foglia”, puntualizzò Alice.

Alice. Era tanto che non la sentivo così vicina a me, mi era mancata.

Cercai di tranquillizzarmi e di chiudere la bocca con tutte le mie forze.

Dopo qualche tentativo, ci riuscii.

“El?”, mi chiamò di nuovo Rose.

“El, mi senti?”. Mi strattonò un poco.

Aprii gli occhi, ancora sconvolta, e li sbattei più volte a causa della luce troppo intensa.

Percepivo l’espressione sconvolta sul mio volto, i miei occhi vitrei e spalancati in una maschera di terrore, ma non riuscivo a calmarmi.

Mi accorsi di Edward, in un angolo della stanza, un’ombra scura contro la parete bianca.

Ripensai alla sua espressione furiosa nel sogno, alla sua ira, e mi si strinse il cuore.

“Oh, meno male”, fu il commento di Emmett. “Non la smetteva più di urlare. Pensavo mi spaccasse i timpani”.

Qualcuno, forse Jasper, ridacchiò e poi si allontanò. Non riuscivo a distinguere ancora bene la gente attorno a me.

Non ero più sul divanetto con Rose, come avevo pensato… prima. Adesso mi trovavo nella grande stanza dorata che mi aveva ospitata la prima notte.

“Jazz, Emm meglio che voi due andiate di là. Non siete per niente di aiuto”, li ammonì Esme.

Poi si rivolse a me.

“El, cara, tu stai bene? Cos’è successo?”.

Trasalii violentemente e ricominciai a tremare tra le braccia di Rose, che mi accarezzò il braccio come per rassicurarmi.

“Esme, credo che questo non sia il momento. Andiamo”, disse Carlisle, sorridendomi, e poi se ne andò con lei.

“Credo che andrò anch’io ora”, aggiunse Alice. “Edward, tu?”.

Era ovvio, dove andava uno andava l’altro. Ormai era così, mi ero abituata.

Abbassai lo sguardo, rassegnata a vederlo sparire un’altra volta.

Non mi aveva ancora rivolto la parola.

Era ancora in piedi contro il muro, il più lontano da me, le braccia incrociate sul suo petto di marmo. Aveva un’espressione strana, nuova, che non riconobbi.

“No, io resto qua, Alice. Vai pure avanti tu”.

Questo non me lo aspettavo. Incredula, alzai lo sguardo ed incrociai il suo. Il mio incubo non mi aveva permesso di vederlo chiaramente, era molto più bello e perfetto di come lo ricordassi.

“Edward…”, lo ammonì seccata la piccola Alice.

“Alice, vai”, tagliò corto Edward, voltandosi verso di lei velocemente.

“Io ti ho avvertito”. Sembrava una minaccia. Strano.

Tornò a fissarmi e per la prima volta dopo giorni mi parve di rivedere lo stesso sguardo che mi riservava all’inizio.

Tremavo ancora, ma non così forte come prima e Rose mi lasciò andare.

“El, mi puoi dire che cos’è successo? Mi hai fatto spaventare a morte”, chiese Rose.

“Ho…ho visto...”, balbettai e rabbrividii al ricordo.

Adesso ricordavo. Non ero sicura che fosse un bene.

“Cosa?”, domandarono all’unisono i due di fronte a me, chinandosi protettivi.

Edward si era avvicinato impercettibilmente nel giro di qualche secondo.

Aprii la bocca per parlare, ma non ne uscì alcun suono. Mi si era formato un nodo in gola.

“El, per favore”, disse a quel punto Edward, posando la sua fredda mano sulla mia guancia.

Le lacrime che mi gonfiarono gli occhi e si riversarono sul mio viso, fino a bagnare le sue dita, furono un misto di gioia e tristezza. Rivoli di acqua salmastra m’inumidivano le guance e non accennavano a diminuire.

Le emozioni che stavo provando erano così confuse.

C’era gioia, perché sentivo la mancanza di quella mano sul mio volto e di quello sguardo apprensivo e dolce, ma anche tristezza poiché sapevo che tutto ciò era dovuto ad un breve episodio e, purtroppo, non sarebbe durato.

Così, forzai le parole sulle mie labbra tremanti.

“Claude”, sillabai in silenzio.

In un attimo lo shock attraversò anche il suo volto perfetto.

Beeeene. Vi lascio in sospeso per una settimana adesso xD Faccio sempre il solito appello a chi legge di lasciarmi qualunque tipo di commento, anche un insulto se proprio non sapete che fare. Ah, con l'occasione ringrazio i pochi - ma buoni - che osano avventurarsi nello spazio recensioni. 
E poi...boh, basta. Buon weekend a tutti! :)

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Capitolo 7
*** Irritante. ***


Beeeene, anche oggi c'è il solito appuntamento con me. Questo capitolo è relativamente breve e piuttosto concentrato, ma prometto che dalla prossima volta si allungheranno un po'(non so quanti di voi possano gioirne però xD). Ah niente, buona lettura!

Capitolo 7. Irritante.

Rimanemmo alcuni minuti in assoluto silenzio, solo il mio battito frenetico ed i nostri respiri a scandirne il tempo. Lo sguardo di Rose era angosciato, perso nel vuoto. Stava riflettendo, e la lasciai fare. Edward non era da meno; probabilmente stava avendo a che fare con i suoi pensieri e con quelli di Rose. Io rimasi a fissare entrambi, stanca e confusa, cercando di rilassarmi, invano.

“Cos’hai visto di preciso?”, domandò cauta Rose.

“Hai visto…tutto?”, aggiunse Edward, visibilmente turbato da quella rivelazione.

“No, non tutto. Ho visto...”.

Rabbrividii al ricordo dell’ultima scena del sogno.

“Hai visto me?”, chiese Edward.

Voleva sapere se lo avevo visto uccidere quel mostro? Che cosa voleva sapere?

“N-No. Ti ho solo sentito arrivare, e parlare. Mi sono risvegliata quando...”. Non conclusi la frase, non era necessario.

Rabbrividii soltanto.

“Hai visto quando ti ha morsa?”, chiese Rose, curiosa.

Il tatto non era uno dei suoi punti forti, questo lo sapevo.

“E’ stato lì che mi sono... svegliata”, ammisi, arrossendo per il risveglio traumatico.

“Ah”, disse Edward.

Sembrava sollevato. Quando parlò di nuovo, era visibilmente più calmo e rilassato.

“Cosa credi sia stato?”, mi domandò curioso.

“Non lo so”, confessai. “Non ne ho la più pallida idea”.

Era vero. Non sapevo minimamente il perché di quel sogno, o ricordo, o qualunque cosa fosse.

“Potrebbe essere la tua memoria; magari sta tornando”, concluse Rosalie.

“Potrebbe, ma perché ora, perché proprio adesso?”, mormorò Edward, più a se stesso che a me e Rose.

“Dovremmo vedere cosa succede”, aggiunse Rose.

“Se è davvero la sua memoria che sta tornando, e non solamente un incubo, dovrebbe avere il…seguito…a breve”.

Sobbalzai sul piccolo divano scuro, rischiando di finire sulla moquette. La fulminai con lo sguardo. Edward non fu da meno.

Non avevo nessunissima voglia di rivivere di nuovo quella scena, anche se sapevo come terminava.

Quando Claude mi aveva… morsa nel sogno, era stato come sentirlo davvero.

Come sentire i suoi denti nella mia carne, nel mio collo. Sentire il suo peso sulla mia gamba, sulla mia figura indifesa. Era per quello che mi ero svegliata urlando e tremante. Era stato orribile, non volevo una replica.

“Rose, evita per favore. Non credo sia il modo migliore per farla calmare”, la zittì Edward.

Meno male che, pensieri o no, mi aveva sempre capita.

“Oh, scusa El”, mormorò Rosalie.

Grugnii qualcosa, senza dire niente di coerente.

Nonostante mi fossi appena svegliata, mi sembrava di essere sveglia da settimane. Ero distrutta. Chiusi gli occhi un attimo per concentrarmi. Quasi non riuscii a riaprirli.

“Ehi”.

Li riaprii a fatica, ma non ero più dov’ero prima. Non mi ero spostata di molto, ma adesso ero tra le braccia di Edward.

Ah. Dovevo essermi addormentata e mi stavo per spiaccicare a terra.

“Scusa”, bisbigliai, la voce impastata dal sonno.

Il sorriso truffatore che tanto mi era mancato rispuntò ad un tratto sulle sue labbra. Ne rimasi incantata. Era come svegliarsi nel bel mezzo di un incubo, cosa che alla fin fine era accaduta, e trovarsi davanti l’angelo più bello che potesse esistere.

Mi sforzai di tenere la bocca chiusa.

“Direi che hai parecchio sonno da recuperare, forse è meglio che ti lasciamo dormire”.

Ero sul punto di ribattere, ma un sonoro sbadiglio me lo impedì.

Oops. Smascherata come al solito dal mio corpo ribelle. Sorridendomi, fece per andarsene.

“No!”, strillai, in preda al panico.

Non volevo che se ne andasse. Mi aggrappai alla manica della sua camicia con quanta forza potevo.

“El, calmati. Va tutto bene ora”. Con la mano tornò a sfiorarmi la guancia umida.

“Non…non andare. Per favore”, supplicai balbettando.

Rose mi guardava con aria preoccupata, ma complice. Sapeva quanto tenessi ad averlo vicino a me, seppure per quel tempo limitato. Mi sorrise e, senza farsi notare da Edward, mi fece l’occhiolino.

L’avrei strangolata. Anche se non l’avesse vista, avrebbe percepito i suoi pensieri. Con espressione afflitta, trovai conferma dei miei sospetti nel sorriso truffatore che era comparso di nuovo sul suo viso.

Abbassai lo sguardo, sentendomi arrossire.

“Credo che andrò da Alice”, disse Rose, con aria innocente. “Resta qui tu con lei, Edward”.

Mi rivolse nuovamente quel sorrisetto complice e soddisfatto.

Mentre la guardavo, furiosa, una risatina uscì dalle sue labbra.

Grazie mille, Rose. Speravo tanto che avesse potuto sentire tutto il sarcasmo che le avevo riservato.

“Bene”, disse Edward con un sospiro. Si stava divertendo, era palese.

“E rimasero in due”, sibilai, ancora arrabbiata.

Rise del mio tono di voce, e forse anche della mia espressione.

“Già, direi di sì”, disse ridacchiando.

Quel suono mi era mancato più di quanto pensassi negli ultimi giorni. Rimasi ad ascoltarlo rapita.

“El?”, domandò incuriosito.

Trasalii un poco. Mi ero persa nel suo sguardo.

“Scusa… non ti stavo seguendo”, ammisi imbarazzata.

“Sì, ho notato”.

“Mi stavi dicendo qualcosa?”.

“Niente di particolare, lascia stare”.

“No, no d…”. Un altro sbadiglio. “Dimmi, ti ascolto”. Sorrisi imbarazzata.

Sorrise gentile e poi aspettò qualche istante in silenzio.

“No, nulla davvero. Adesso è meglio che vada, devi riposare”.

Automaticamente strinsi la presa, abbarbicandomi alla sua camicia.

“El, non ti preoccupare. Dormi, adesso. Sei distrutta”.

“No, non…non è vero”, ribattei testarda, ma senza risultato.

Un altro sbadiglio mi smascherò.

“Oh, sì certo. Vedo, infatti”, mi prese in giro, accarezzando il profilo del mio viso con la sua mano fredda, mentre con l’altra scioglieva facilmente la presa ferrea sulla sua maglia ormai stropicciata.

Gli feci una smorfia e, ostinata, allacciai le mie gambe alla sua schiena. Era una posizione strana, scomoda e soprattutto imbarazzante, ma almeno era ancora lì con me.

Edward si era nel frattempo inginocchiato vicino al bordo del divanetto scuro, dove io ero seduta. Quando presi quella postura, sorrise di nuovo e, con mio grande stupore, si avvicinò.

Il mio battito accelerò in automatico, sentivo il cuore nelle orecchie.

Pensavo si fermasse, ma mi sbagliavo.

Continuava ad avanzare, un centimetro alla volta, un lieve sorriso stampato in faccia.

Calmati, mi ripetevo, non fare come l’altra volta. E così dicendomi, nascosi le mani dietro la schiena, stringendo con forza i pugni fino a che non li sentii indolenziti.

Mi arrivò così vicino che temetti che il mio povero cuore schizzasse fuori dal petto. Non riuscivo a sentire niente a parte i battiti nelle orecchie. E lui, imperterrito, si avvicinava.

La forte luce della stanza lo illuminava, rendendolo ancora più bello ai miei occhi stanchi.

Feci correre lo sguardo sulla sua figura così assurdamente perfetta.

Il busto, il petto, le spalle, il collo, la bocca, le labbra.

E poi ancora.

Il mento, il naso, gli zigomi, gli occhi, i capelli.

Mi soffermai su quella sua strana chioma di bronzo. Era più scompigliata del solito e aveva le punte bagnate che ricadevano a piccole ciocche sulla fronte di marmo. Nonostante ciò sembrava appena uscito da una fiaba, il principe azzurro che chiunque sogna da bambina. Non era un principe, non era per niente azzurro, ma era meglio di qualunque sogno avessi mai fatto.

Quando fu a pochi, pochissimi centimetri dal mio viso, si fermò, sospirando. Non riuscivo a capire cosa lo divertisse così tanto, ma in quel momento, così vicina al suo volto, ero sicura che non avrei capito niente. Anche la cosa più semplice e stupida.

Forse rideva della mia espressione, della mia bocca spalancata in stupore, del mio respiro agitato. O forse più semplicemente sentiva come correva il mio cuore. Non mi importava. Quella volta furono i suoi occhi a catturare la mia attenzione, così vicini come non lo erano mai stati.

Erano diversi, visibilmente più scuri. Erano neri, neri come il carbone. L’oro era sparito, lasciando posto ad uno strano color onice. Inclinai lievemente la testa, incuriosita.

Anche gli occhi di Rose cambiavano colore, ci ero abituata, ma non diventavano così scuri. Da quanto tempo non andava a caccia? Quando il suo sguardo si focalizzò nel mio, quel piccolo pensiero andò perso insieme agli altri. Colore diverso o no, l’effetto era sempre lo stesso.

Con un altro sospiro, si avvicinò ulteriormente, arrivando quasi a toccare la mia fronte con il naso. Trattenni il respiro.

Si allungò verso sinistra e…

Click.

Spense la luce. Tutto fu buio in un attimo, come poche notti prima. Ridacchiando, sciolse di nuovo la mia inutile presa e si alzò.

“Buonanotte, El”. Ero congelata nella stessa posizione di pochi istanti prima, le gambe ancora chiuse attorno al nulla. Mi ero illusa, ancora e ancora.

Stupida!, urlai nella mia testa.

Ero sbigottita, non riuscivo neanche a piangere, come avrei voluto.

“Dormi, El”, mi disse, accompagnando la mia schiena sul divano.

La sua voce era ancora lì, vicino al mio orecchio, ma dal lato opposto del divano. Ora era dietro lo schienale. Non mi aspettavo fosse rimasto in camera, quindi sussultai quando ne udii la voce.

“Sogni d’oro”. E qualcosa di freddo mi sfiorò la fronte, con un leggero schiocco.

Che cosa era stato? La risposta credevo di conoscerla bene, ma non volevo illudermi di nuovo come la stupida che sapevo di essere. L’avrà fatto senza pensarci, continuavo a ripetermi, non ti ha baciato la fronte per un motivo.

No, non mi ha baciato la fronte.

Andai avanti in conversazioni con me stessa finché non presi sonno. Mi era difficile dormire, nonostante fino a qualche momento prima fossi stata distrutta. E lo ero ancora. Ma oltre all’incessante ed oltremodo fastidioso ticchettio della pioggia all’esterno, non facevo che pensare a Edward.

I suoi cambiamenti di umore erano sempre così repentini ed imprevedibili o era una cosa che riservava solo a me, in modo da farmi impazzire il prima possibile? Mi facevano girare la testa.

Un momento prima voltava la testa per evitarmi, e quello dopo mi augurava la buonanotte come se nulla fosse. Forse non ero io l’unica pazza allora.

Il ticchettio della pioggia era snervante.

Tic- tac- tic- tac. Irritante.

Continuai a girarmi sul piccolo divanetto nero, finché per poco non mi ritrovai con il naso sul pavimento. Con un grugnito furioso, rimasi a terra, buttandomi un cuscino sulla testa. Non ne potevo veramente più.

“Edward che cosa ti è saltato in mente stasera?!”, strillò la voce irritata di Alice.

Probabilmente era rimasta offesa per come l’aveva lasciata uscire di scena da sola.

“Shh! El sta dormendo”, la zittì Edward. Magari fossi riuscita a dormire.

“Non mi interessa! Che cosa ti passa per la testa?”, continuò Alice, sempre più furiosa.

“Alice, smettila. Così la svegli”.

“Ti avevo avvertito che era un errore starle vicino, sia per te che per tutti noi”.

La sua voce si era abbassata di molto, ma a me giunse come minimo tre volte più alta. Come uno schiaffo.

“Lo so, Alice. E’ solo che...”

“Niente! Io ho visto come finirà, nonostante vicino a lei mi sia quasi impossibile. L’ho visto!”.

“Il futuro cambia Alice, le tue visioni non sempre…”

“Oh piantala, Edward. Fino a ieri anche tu eri d’accordo con me”.

“Esatto, fino a ieri”.

“Non puoi farti condizionare da quegli occhietti da cerbiatto”.

“Alice…”.

“No. Alice niente. Ora basta. Tu devi evitare che quello che ho visto accada. Ci siamo intesi?”.

“Alice…”, ripeté la voce affranta di Edward.

“No. A domani, Edward”.

Sentii il lieve rumore dei suoi passi allontanarsi, e poi quelli di Edward. Finalmente silenzio.

Anche la pioggia si era calmata, diventando solo un debole sottofondo.

Tuttavia mi era impossibile pensare di dormire dopo aver ascoltato una conversazione del genere. Che cosa stava tramando Alice? Perché io e Edward ne eravamo compresi? Cosa avevo fatto io?

Il futuro. Le visioni. Così aveva detto Edward.

Alice vedeva il futuro? No, non era possibile. Ma che razza di famiglia era quella? Da quello che aveva detto Alice, sembrava che io bloccassi il suo potere, come anche Edward.

Che stupida a non averlo capito prima.

Alice vedeva il futuro! Ecco il perché di quelle strane discussioni il primo giorno, quando avevo origliato. Tuttavia non riuscivo a capire perché dovesse avercela tanto con me, non le avevo fatto niente. Anzi, dopo il primo giorno, non le avevo neanche più rivolto la parola. Solo qualche sorriso, un saluto. Sorrisi che non aveva mai ricambiato, se non con sguardi pressoché assassini. Ma me ne ero fatta una ragione.

Il rumore della pioggia era ancora fastidioso, nel silenzio e nel buio più totale.

Non seppi quando finalmente mi addormentai, ma ad un certo punto, durante quella notte orribile, confusa ed irritante, lo feci.

Ok, ora vi obbligo a lasciarmi una recensione u.u No, non è vero. Però sarebbe taaaanto carino :D
In ogni caso ci si becca la settimana prossima. Buon sabato e buon weekend! :)

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Capitolo 8
*** Sbalzi d'umore. ***


Buonasera! Oggi l'aggiornamento è serale perchè nel pomeriggio sono andata a vedere 'Il cigno nero'. Mamma mia quel film, la Portman è meravigliosa. In ogni caaaaso...ah niente, questo capitolo mi è sembrato un po' diverso mentre lo scrivevo, come un cambio di marcia. Fatemi sapere cosa ne pensate :)

Capitolo 8. Sbalzi d’umore.

Mi svegliai già stanca, per nulla riposata. Era stata davvero una notte pesante.

Aprii gli occhi.

Era ancora buio. Spaventata, tastai subito il materasso sotto di me.

Avevo paura di ritrovarmi di nuovo sul terreno umido e sconnesso dell’ultimo incubo. Passare le mani sulle coperte morbide e lisce mi fece sentire meglio e mi rilassai, sprofondando nel cuscino.

Aspetta, da quando c’erano coperte e cuscino sulla moquette della stanza dorata?

Sobbalzai all’istante, la testa che girava. Mi ero alzata troppo in fretta.

Mi sedetti, portandomi le mani alle tempie. Possibile che ogni volta che chiudessi gli occhi mi ritrovavo sempre da un’altra parte? Era snervante e disorientante.

Mi resi conto che non era buio come pensavo, ma che cercavo solamente la luce dalla parte sbagliata. Ero evidentemente nella stanza di Rose, l’unica senza le pareti di vetro su tutta la lunghezza. Aveva preferito gli specchi.

Probabilmente era già mattina. Difficile capirlo, vista la costante coltre di nubi e nebbia che ricopriva quel luogo. Saltai giù dall’immenso letto, barcollando un poco.

Approfittai degli specchi per vedere in che stato ero dopo una notte del genere. Accesi la luce e mi avvicinai a quello nel guardaroba.

Sgranai gli occhi alla vista del mio riflesso. Sembrava avessi perso uno scontro con un tosaerba.

I miei capelli erano ovunque, tranne nel posto in cui sarebbero dovuti stare. Sospirai e cominciai a sciogliere i nodi, passando le dita tra i capelli.

Sentivo l’umidità anche sui polpastrelli, era incredibile. Quel luogo era il più umido che fosse mai esistito. Da quanto ero arrivata, non c’era stato un solo giorno senza pioggia. Neanche a chiederlo, un giorno di sole.

Il che avrebbe potuto essere solo una coincidenza, ma Rose mi aveva raccontato che quello era la regione più piovosa in tutti gli Stati Uniti, quindi niente da fare. Quanto mi mancava la Florida.

E la mia Miami? Chissà che tempo c’era lì. Probabilmente, poiché era marzo, le spiagge cominciavano a popolarsi di coraggiosi che tentavano i primi bagni.

I miei capelli non ne volevano sapere di tornare a posto, quindi mi arresi. Lasciai cadere le braccia sui fianchi, sconfitta, e mi trascinai verso il corridoio.

“Ehi, El”, mi salutò Emmett, appena fuori dalla porta. “Quand’è che sloggi da camera mia?”, mi prese in giro, sorridendo.

Timida, sorrisi anch’io. Mi dispiaceva occupare le stanze degli altri.

“Ciao Emm. Sì, scusa, lo so è che…”, cominciai a farfugliare.

“Oh, dai El, stavo scherzando”, tagliò corto Emmett, dandomi una leggera gomitata.

Ero sicura di essermi procurata un bel livido nuovo di zecca.

“Hai fame?”, disse, sempre sorridendo.

Emmett era sempre così solare, metteva di buonumore.

“Un po’”, ammisi.

Subito mi prese per un gomito e mi caricò in spalla.

“Ehi!”, protestai rauca. “Mollami!”.

Mi agitavo come una bambina.

“El, non ho voglia di stare ad aspettarti”.

Ridendo, mi portò ad una velocità sovrumana verso la cucina.

“Ciao El, cara”. La voce di Esme proveniva dalla mia sinistra.

O dalla mia destra? Non lo capivo. Girava tutto.

“Ciao”, abbozzai confusa, forse rispondendo al muro o al frigorifero.

“Dormito bene?”, domandò Carlisle, mettendomi una mano sulla spalla per indirizzarmi sulla sedia.

“Sì, sì. Grazie”, mentii svelta.

Non ero mai stata brava a dire bugie, ma magari non l’avevano notato.

“Colpa della pioggia, vero?”, chiese sorridendo Rose. Lei mi capiva sempre al volo.

“Un pochino”, ammisi timida. “Ciao Rose”.

“Ciao El”, rispose subito Rosalie, sfoggiando un gran sorriso.

“Gli altri?”.

Con quella domanda ovviamente mi riferivo ad una sola persona. Rose lo sapeva bene.

Il tardare della risposta mi fece già intuire di cosa si trattasse.

Sospirai, allungandomi per prendere i biscotti in mezzo al tavolo.

“Colazione per tutti, capito”.

Emmett scoppiò a ridere. Rose si lasciò scappare una risatina angelica.

“No. Non ancora, almeno”, mi informò Emmett tra le risate.

Scattai in piedi.

“Sono ancora qui?”, domandai impaziente.

“Sì, devono essere nel garage. Se vuoi beccarli, mi sa che ti tocca correre”, aggiunse Rose.

Strisciai la sedia sul pavimento, rischiando di farla volare a terra per la foga, e corsi via.

“Torno subito!”, urlai alle mie spalle.

Chissà le grosse risate di Emmett. Cercai di non pensarci.

Mi fiondai fuori dalla porta, subito verso il garage. Non avevo girato molto in quei pochi giorni di permanenza, ma la casetta poco distante dall’enorme edificio bianco mi aveva da subito incuriosita.

L’avevano rimodernata come box per le loro auto. Ne avevano di tutti i tipi.

Avevo sempre avuto una piccola passione per le macchine, forse a causa di mio padre.

Corsi fuori nell’ampio giardino davanti alla casa.

Il mio braccio era migliorato notevolmente, talmente tanto che Carlisle era stato costretto a togliermi il gesso, con mia grande soddisfazione, e rimpiazzarlo semplicemente con una fasciatura stretta. Mentre sfrecciavo in mezzo al prato bagnato, attenta a non scivolare, sentivo i ciuffi d’erba inumidirmi le scarpe. Alcuni, più lunghi, arrivavano a solleticarmi le caviglie. Se solo non fossi stata così impaziente di rivederlo, mi sarebbe piaciuto soffermarmi per guardarmi intorno. Per quanto fosse coperto di nebbia e nuvole perenni, quel luogo era semplicemente magico.

Giungendo finalmente in prossimità del garage, rallentai un poco.

Levai lo sguardo verso il cielo.

La nebbia densa ma leggera mi imperlava il viso di piccole gocce d’umidità. Era piacevole.

Il cielo era claustrofobico, quasi opprimente. Le nuvole addensate e scure sembravano avvicinarsi, schiacciandomi; si muovevano veloci nonostante non ci fosse vento.

Ero abituata a ben un altro tipo di cielo, nella mia calda e assolata Miami. Era sempre di un azzurro intenso e brillante, cosparso di batuffoli bianchi e innocui qua e là.

Un leggero bagliore faceva capolino, quasi invisibile, da dietro quella coltre impenetrabile di nubi. Sbattei le palpebre, infastidita dalla lieve luce, e tornai con lo sguardo davanti a me.

Fui costretta a compiere una rapida deviazione; stavo per andare a sbattere. Forse era meglio che tenessi gli occhi per terra. A quel punto ero ormai giunta a destinazione.

Sfrecciai sotto l’ampio ingresso, per poi arrestarmi di colpo con il fiatone.

Di fronte a me, due statue bianche e perfette. La prima era alta, bionda e leonina.

Jasper ovviamente. Stava giocherellando con quelle che supponevo fossero le chiavi di un’auto, senza badarci troppo. Per il resto era totalmente immobile, almeno fino a quando non mi sentì entrare, ansimante.

Come suo solito, indietreggiò visibilmente, fino a toccare il muro.

La seconda, molto più piccola, stava mettendo le ultime cose nel bagagliaio quando si accorse di me. Riconoscendola al primo sguardo, abbandonai velocemente il suo viso. Sapevo che di lì a pochi secondi mi avrebbe rivolto la consueta occhiata colma d’odio che mi riservava sempre.

Lasciai così vagare i miei occhi all’interno della grande struttura, attenta per la prima volta ai particolari presenti.

Tuttavia qualcosa di insolito catturò il mio interesse, qualcosa che mai avrei pensato di vedere.

Infatti, l’occhiata tanto attesa non arrivò a perforarmi la schiena. Stupefatta, mi voltai lentamente verso Alice, ora di fronte a me. Il solito sguardo pressoché assassino e irritato non c’era.

Al contrario, un sorriso a dir poco smagliante era dipinto sul suo minuto volto da elfo.

Il suo viso si illuminò, con un ghigno da tempia a tempia che mi intimorì.

A cosa dovevo tutta quella simpatia? La fissai confusa.

Alice, sempre sogghignando, si portò l’indice davanti alle piccole labbra, facendomi segno di stare in silenzio. Stavo per chiederle il perché, ma l’occhiata che rivolse verso un punto indeterminato dietro di lei me ne fece afferrare il motivo.

Eccola, la terza figura tanto ricercata, per me la sola che contasse: Edward.

Un sorriso si disegnò automaticamente sul mio viso e feci per avvicinarmi.

Era accovacciato sotto la macchina, una Mercedes berlina, e sembrava stesse imprecando qualcosa. Mi arrestai, stupita.

Era la prima volta che lo sentivo parlare in quel modo, doveva essere nervoso.

“Diamine! Sarà la sesta volta questo mese”. Sì, decisamente nervoso.

“Edward, dovresti lasciarlo fare a Rose. Lo sai”, consigliò Jasper, ancora più lontano da me rispetto a dov’era prima.

Mi chiesi quale fosse il suo problema. Se non gli andavo a genio, bastava dirlo, senza fare tutte quelle scene. Lo incenerii con lo sguardo.

“Ehi Edward”, cinguettò allegra Alice, saltellandomi al fianco.

La fissai a bocca aperta per la sorpresa. Ancora non mi capacitavo di quell’improvviso cambio d’umore nei miei confronti.

Lei mi guardò, palesemente divertita dalla mia espressione e rise di gusto.

Il suono che uscì dalle sue labbra chiare e sottili riecheggiò tutto intorno, come amplificato, e giunse a me come un’eco di campane. Scossi la testa per riprendermi dallo stupore.

“Che c’è, Alice?”, chiese frustrato Edward da sotto la carrozzeria scura della macchina.

Doveva avere qualche problema con le candele.

“Non senti un insolito silenzio nella tua testa?”, domandò. Il suo sorriso si tese sul finale.

In effetti Edward non si era ancora accorto di me, probabilmente era troppo nervoso.

“Alice ma che cosa stai...”. La sua voce melodiosa ma attutita dal metallo che lo avvolgeva si andò perdendo, confusa.

Con la coda dell’occhio mi accorsi che Jasper era sulla porta adesso, come se volesse respirare meglio. Eppure il mio velo era a posto, non c’era niente che non andasse. Era davvero strano quel ragazzo.

Era passato poco meno di un secondo, quando sentii un lieve rumore metallico provenire da sotto la carrozzeria, come se qualcuno avesse lasciato cadere una chiave inglese o qualcosa di simile.

Tornai con lo sguardo alla macchina, ma mentre mi rendevo conto che ormai sotto l’auto non c’era più nessuno, una leggera brezza mi scompigliò i capelli e braccia fredde mi avvolsero.

“’Giorno”, mormorò una voce inconfondibile al mio orecchio.

Prima che me ne rendessi conto, il mio cuore aveva già cominciato a galoppare incoerente.

“Ciao”, abbozzai balbettando.

Non era possibile che reagissi a quel modo ogni volta che mi rivolgeva la parola o mi sfiorasse semplicemente. Era imbarazzante.

Il problema era proprio che in quel preciso momento avevo le sue braccia allacciate ai fianchi, il suo respiro fresco sul mio collo che mi scompigliava i capelli e i pensieri.

Mi voltai a cercare il suo viso, e ne rimasi stupita.

Era diverso, raggiante come non l’avevo mai visto, nonostante l’opprimente nero nei suoi occhi.

Aveva lo sguardo divertito, gli angoli delle labbra piene piegate leggermente all’insù.

Sorrisi ampiamente in risposta. Era così semplice star bene vicino a lui, ogni mio singolo problema o insicurezza svaniva all’improvviso, come cancellato dalla sua sola presenza.

Tuttavia non potevo non domandarmi da cosa nascesse tutto quel buonumore.

Era insolito da parte sua, e soprattutto da parte di Alice.

Lo fissai interrogativa, cercando con tutta me stessa di sostenere il suo sguardo senza confondermi. Impresa impossibile. Dovetti rinunciare, abbassando il viso verso il pavimento.

Osservai le piastrelle bianche, sulle quali disegnai fantasie inesistenti ed astruse. Con la coda dell’occhio, mi accorsi di un movimento alle mie spalle. Jasper stava uscendo dal garage e Alice saltellava divertita al suo fianco, il suo viso dipinto con un gran sorriso.

Mi voltai a guardarli meglio. Alice si accorse del mio sguardo e mi rivolse un’espressione complice, alternando occhiate tra me ed Edward. Mi fece l’occhiolino.

Stupefatta, la fissai. Era totalmente assurdo il modo in cui era cambiata nei miei confronti.

Tuttavia, stupore a parte, la guardai in cagnesco per la sua ovvia allusione a me ed Edward.

Una risatina le sfuggì dalle labbra, che coprì all’istante con la piccola mano marmorea.

Abbassai velocemente lo sguardo, sentendomi arrossire. Edward sciolse l’abbraccio di ghiaccio che fino a pochi secondi prima era bruciato come una scossa elettrica e mi si mise davanti, fissandomi con curiosità.

Mantenni il capo abbassato, lo sguardo fisso sul suo petto, in silenzio.

Dopo pochi istanti, mi prese il mento tra le mani, sollevandomi delicatamente il viso fino a quando i miei occhi incontrarono i suoi, neri e fiammeggianti.

“Ehi, a cosa stai pensando?”, mi chiese con palese curiosità.

Ero imbarazzata da quella strana conversazione, dalla sua insolita vicinanza e dal suo umore così inconsueto.

“A niente”, mentii rapidamente.

Un’altra voce, chiara e squillante, si intromise nel discorso.

“Ehm… credo proprio che andrò a chiamare Rose”, disse Alice, ostentando innocenza.

“Jazz, aspettami!”, aggiunse subito dopo, ma non prima di rivolgermi un altro ampio sorriso e una risatina.

Un leggero sbuffo che mi colpì il viso mi ricordò che qualcuno era in attesa di una risposta.

Non risposi, tentando di sfuggire al suo sguardo indagatore.

E poi, non avrei potuto rispondere in ogni caso. Stavo pensando a lui, ovviamente, e non mi sembrava una grande trovata ammetterlo. Optai così per l’opzione mutismo.

Tentai di fuggire da quella domanda, lasciando vagare i miei occhi per l’immenso locale.

Era arredata in modo totalmente diverso dalla grande casa bianca, ma lo stile era pur sempre impeccabile.

Le pareti rimanevano sulle medesime tinte chiare, ma invece dei numerosi quadri, alle pareti spiccavano diverse mensole di legno, stracolme di ogni genere di libro.

Era così grande quel garage. Con una semplice occhiata, mi resi conto del fatto che avrei potuto benissimo vivere lì dentro, macchine comprese, senza alcun problema.

E le auto non erano poche. Riconobbi al primo sguardo ogni modello presente, cercando di analizzare marca e modello al meglio.

Quella che più di tutte catturò la mia attenzione fu una BMW, decapottabile e rossa fiammante. Probabilmente una M3. Non avevo mai visto auto del genere, se non su qualche giornale di motori. Costava un patrimonio. Quella a cui subito dopo rivolsi lo sguardo era enorme.

Stranamente non ne riconobbi il modello, ma era sicuramente una Jeep. Forse una Wrangler, ma non potevo esserne sicura. Tuttavia seppi alla prima occhiata chi fosse il proprietario di quel gigante.

Emmett. Era l’unico che potessi immaginare al volante di quel fuoristrada, mi sarebbe piaciuto fare un giro in auto con lui. Sorrisi brevemente al pensiero.

In un angolo, la più vicina all’ingresso, c’era una Volvo S60. La più anonima, ma anche quella che più di tutte rispettava il concetto di auto comune.

Poi c’era ovviamente la Mercedes berlina, che tanto aveva innervosito Edward. I vetri erano così scuri che non si riusciva a scorgerne l’interno.

Per ultima notai una sagoma lunga e scura, posteggiata in un angolo buio del garage. Incuriosita, feci un passo verso quella macchina sconosciuta.

Il mio mento era ancora fermo tra le mani di Edward, che sembrava restio a lasciarmi andare.

Così aguzzai semplicemente lo sguardo, tentando di indovinarne il modello.

Quando la riconobbi, non potevo crederci.

“Quella è una Vanquish?”, mormorai incredula.

Era una macchina introvabile, non ne producevano più così da un pezzo.

Mio padre me ne aveva parlato spesso. Sorrisi al ricordo del suo sguardo sognante quando ne parlava, come se fosse il gioiello più prezioso che avesse mai visto.

A quella mia domanda, allentò notevolmente la presa sul mio viso, lasciandomi andare.

Con la coda dell’occhio vidi il suo volto assurdamente perfetto illuminarsi di un sorriso beffardo, che mi fermò il respiro.

“Direi di sì”, mi rispose, palesemente compiaciuto.

Avanzai velocemente fino a fronteggiare l’auto.

“E’ tua?”, domandai, facendo scorrere le dita sulla vernice nera e lucida della portiera.

“Già, così sembra”.

Si stava divertendo, un sorriso più che evidente nella sua voce musicale.

Mi voltai a guardarlo e lo trovai di fronte a me, che mi fissava, un ghigno stampato in faccia.

Non mi ero sbagliata, se la stava spassando.

Tuttavia, quando incontrai il suo sguardo, si fece leggermente più serio, sforzandosi di trattenere il sorriso che già gli curvava le labbra sottili.

Mi fissò con tutta l’intensità del suo sguardo scuro, fiammeggiante.

Respira, mi dissi.

Dopo alcuni istanti, dopo aver riordinato i miei pensieri, riuscii a parlare.

“Che c’è?”, domandai.

I suoi occhi mi scrutavano, come in cerca di risposte.

“Niente”, disse, scrollando leggermente le spalle.

“A cosa pensi?”, aggiunse subito dopo, avvicinandosi e bloccandomi con la schiena contro la portiera, chiudendomi così ogni via di fuga e allungando le lunga braccia bianche contro i finestrini.

Accidenti, e io che pensavo di averla scampata.

“Niente”, ripetei, cercando di imitare il suo tono di voce.

Le sue labbra si tesero a trattenere un nuovo sorriso, poi si ricompose tornando serio.

“E’ così frustrante non riuscire a sentire quello che pensi”, commentò con un sospiro.

Già, povero te, pensai con sarcasmo.

“Potresti, volendo. Tuttavia non penso sia una grande idea se non vogliamo fare disastri”, lo presi in giro, facendo una smorfia.

Mi rispose con una smorfia degna della mia, poi sorrise.

“Hai ragione anche tu”.

Annuii, cercando un modo nel frattempo per sgusciare via di lì.

Mi imbarazzava la sua vicinanza e soprattutto le mie reazioni a tutto ciò. Il mio cuore sembrava stesse per prendere l’iniziativa e uscirmi dal petto da quanto batteva forte. Sentivo i battiti nelle orecchie, che quasi coprivano la sua voce perfetta.

Ad un tratto si voltò verso l’ingresso. Non c’era nessuno, almeno così sembrava.

Sospirando, si scostò dall’auto, lasciandomi finalmente libera, e si passò una mano nei capelli bronzei e scompigliati.

Non riuscivo a capire cosa l’avesse distratto, ma ora un po’ rimpiangevo la vicinanza di poco prima. Dopo alcuni istanti, mentre rimuginavo mesta, sentii anche io dei passi leggeri provenire dalla porta. Poi comparve Rose, affiancata dalla saltellante Alice.

Era davvero minuscola di fianco a Rosalie, sembrava un folletto.

Stavano chiacchierando, Alice ogni tanto si lasciava andare a qualche sua risatina angelica. Probabilmente era quella la norma, Alice era sempre stata l’allegro folletto che ora danzava attraverso l’ingresso, probabilmente ero stata io a trasformare la sua allegria innata in odio per un certo periodo. Chissà poi perché.

“Ciao El”, mi salutò Rosalie, sorridendo ampiamente.

Poi guardò Edward e tornò a me, con aria sospetta. Le rivolsi un gran sorriso, sperando così di evitare troppe domande dopo.

“Ciao Rose”.

“La tua colazione è ancora di là, se hai fame”, mi informò, con un’occhiata complice.

“La colazione! Me ne ero dimenticata”, dissi, battendomi lievemente la fronte con il palmo della mano.

A dire la verità non me ne ero totalmente scordata, anzi avevo quasi fame. Ma non avevo alcuna intenzione di andarmene da quel garage, almeno finché lui era lì con me.

“Sì, certo”, mormorò Rosalie, ostentando indifferenza. Aveva sicuramente capito.

“Ehi, El”, mi saltellò al fianco Alice, sorridendo e agitando la piccola mano in saluto.

Non ero sicura di cosa rispondere, o se dovevo rispondere. Fino a quella mattina non mi aveva neanche rivolto la parola, così mi limitai a rivolgerle un sorriso.

“Che ci fate qui voi due?”, chiese brusco Edward, rimasto in silenzio vicino a me fino a quel momento.

“Alice ha detto che non sei capace di aggiustare la S55, così ha chiamato un vero meccanico”, rispose Rosalie, prendendolo in giro.

Edward sbuffò, ma poi si fece da parte.

“Deve avere qualche problema al motore, come al solito. Non so cos’abbia quella macchina”.

“Sono qui per questo”, disse Rose, sorridendo e avvicinandosi alla berlina nera poco distante da noi. Non capii cosa stesse facendo fino a quando non si accovacciò fino a strisciare sotto la carrozzeria. Rose? Rose meccanico? Non riuscivo a immaginarmela, neanche avendone la prova davanti agli occhi.

La guardai rapita mentre armeggiava sotto la carcassa di metallo.

Non poteva essere la stessa Rosalie che la mattina passava le ore davanti allo specchio a scegliere i vestiti, non era possibile.

Dopo qualche secondo di silenzio, una risata giunse da sotto la macchina.

Edward fece un passo in avanti, confuso, e così feci anche io.

Alice si era appollaiata invece su una mensola parzialmente vuota, il suo peso era talmente minimo da non impensierire l’asse di legno.

“Edward non è il motore, sono solo le candele!”, disse Rosalia ridendo, mentre si faceva beffa di lui.

Un sorriso comparve sul mio volto, anch'io l’avevo pensato all’inizio. Avere un padre che fa il rivenditore d'auto a volte aiuta.

“Così è a posto”, disse Rose, uscendo da sotto la macchina, un ghigno soddisfatto sul suo viso.

“Bene, Rose”, commentò Edward, palesemente infastidito dalla sua mancanza in materia.

“Non c’è di che”, lo punzecchiò lei, passandosi una mano nei capelli dorati.

“Ora credo che dovremmo andare, Edward”, disse un’altra voce, interrompendo la breve discussione.

Alice saltò giù dalla mensola velocemente, con grazia sovrumana. Atterrò sulle punte, nonostante si trovasse a più di un metro e mezzo dal suolo, senza fare alcun rumore.

Io, oltre a prendere una storta, avrei sicuramente trascinato con me l’asse di legno, creando il più totale frastuono. A quel pensiero mi rabbuiai, ero invidiosa della loro assoluta perfezione.

“Sì… giusto”, rispose Edward, apparentemente abbattuto.

Sembrava non volesse andarsene. A quel pensiero recuperai il buonumore; forse voleva restare per stare con me.

Che cosa stupida e egocentrica pensarlo. Tuttavia non potei negarmelo, mi faceva felice.

Un nuovo sorriso, più ampio del precedente, si disegnò sul mio viso.

“Jazz! Jazz, muoviti, andiamo!”, chiamò Alice, a bassa voce.

Nonostante l’avesse chiamato con poco più di un sussurro, la sua voce risuonò chiara e squillante come sempre. Ero sicura che l’avesse sentita. Pochi istanti dopo, infatti, Jasper comparve.

Alice era già in macchina, al posto del passeggero, Jasper sul sedile posteriore, quando Edward mi si avvicinò.

“Devo andare”, disse serio.

Non potei negare alla felicità di avvolgermi, come una bolla, a quell’affermazione dispiaciuta.

Forse gli sarei davvero mancata. Combattei un sorriso.

Poi, rendendomi conto finalmente del vero significato della sua frase, mi sentii delusa.

Stava andando via, lontano da me. A me sarebbe sicuramente mancato.

“Già”, fu la risposta più decente che riuscii a dare.

La mia delusione era evidente anche nella mia voce, forse troppo.

“Torno presto”, mormorò al mio orecchio, avvicinandosi fino a solleticarmi il collo con il suo respiro dolce e fresco. Un brivido leggero mi scese lungo la schiena.

“Sì”, dissi, col fiato corto.

Speravo davvero che i battiti del mio cuore non fossero così evidenti come sembravano a me, mentre riecheggiavano nelle mie orecchie.

Poi, dopo aver posato la mano sulla mia guancia, fece scorrere lentamente le dita fredde lungo il profilo del mio viso, dalle tempie al mento e poi fino alla base del collo.

Respira, mi ricordai una volta ancora. Non era il caso di collassare proprio adesso.

Mi fissò a lungo negli occhi, così intensamente che persi il filo di ogni pensiero, per poi allontanarsi con un sospiro e salire in macchina.

Rimasi a guardare, con la bocca spalancata, la sagoma scura dell’auto che ripartiva con un ronzio leggero e si allontanava a velocità impossibile.

Una risata alle mie spalle mi riportò alla realtà.

Eccomi di nuovo qui. Beh, che dite? Spero abbia rispettato - e magari anche superato, non si spera mai troppo - le vostre aspettative. A sabato prossimo! Buon weekend :)

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Capitolo 9
*** Nascondino. ***


Buongiorno a tutti :) Questa settimana...beh, non è stata una passeggiata proprio per niente, anzi. In ogni caso eccovi il capitolo! Buona lettura e fatemi sapere che ne pensate :)

Capitolo 9. Nascondino.

“Guarda che è andato, puoi anche rilassarti adesso”, disse Rose, tra una risatina e l’altra.

Mi voltai. Avrei voluto guardarla in cagnesco per quel commento, ma ero totalmente bloccata.

La mia espressione era rimasta la stessa che avevo avuto fino a pochi attimi prima e non ne voleva sapere di andarsene.

“El, stai bene?”, chiese Rosalie ridendo. 

La divertivo probabilmente.

Paralizzata com’ero, non riuscii a spiccicare parola, quindi mi limitai ad annuire con un debole cenno del capo. Mi sentivo come completamente staccata dal resto del corpo.

Mi si avvicinò lentamente, trattenendo un sorriso evidente e mi mise un braccio intorno alle spalle.

“Adesso mi devi raccontare ogni cosa che vi siete detti, lo sai questo, vero?”.

Trasalii all’istante. Non avevo nessuna intenzione di dire a Rose quello che era successo; nonostante le volessi bene, non era proprio quella che si dice una tomba per certe cose.

A quel punto riuscii a rivolgerle l’occhiata assassina che desideravo. Scoppiò a ridere di nuovo.

“Dai El, solo un pochino”, mi supplicò, trafiggendomi con il suo sguardo intenso e dorato.

Non aveva certamente lo stesso effetto che mi provocava ben altro paio di occhi, ma era difficile negare loro qualcosa.

Vedendo la mia espressione, capì di aver vinto.

“Su, dai, racconta!”, esclamò euforica, stringendo lievemente la presa attorno alle mie spalle.

Forse voleva assicurarsi che non tentassi la fuga. Non potevo negare di non averci pensato.

Grugnii qualcosa di incoerente e cercai di sfuggire al suo braccio.

In quel momento, altri passi annunciarono l’arrivo di qualcuno.

“Rose?”, chiamò una voce familiare, la mia unica salvezza.

Quanto volevo bene a Emmett.

“Sì, sono qui”, disse Rose, alzando il braccio libero.

“E’ davvero fastidioso il fatto che non possa sentire il tuo odore vicino a El”, commentò, facendomi una boccaccia.

Risposi con una linguaccia più che degna della sua, anche se non altrettanto spaventosa.

“Ciao Emm”, dissi poco dopo, sgusciando finalmente via da sotto il braccio di Rosalie.

“Rose hai voglia di andare a fare un giro nella foresta? Mi annoio”, domandò Emmett.

Sembrava un bambino a volte.

“Veramente io e El stavamo parlando”, rispose Rosalie, lanciandomi un’occhiata colma di significati.

Rabbrividii al solo pensiero ed escogitai alla svelta una soluzione.

“Ehi Emm, vengo io con te”, proposi con fin troppo entusiasmo, saltellandogli al fianco e aggrappandomi al suo braccio enorme.

“Non credo che potremmo fare le stesse cose che faccio con gli altri”.

Beh era ovvio, io non cacciavo e non correvo alla velocità della luce. L’unica cosa che riuscivo a fare abbastanza bene era non farmi trovare da loro, quando volevo. Idea.

“Che ne dici di una sfida?”, lo punzecchiai, sicura che avrebbe accettato.

Non mi deluse.

“Che tipo di sfida?”, mi domandò, acceso da un’improvvisa curiosità.

“Tu. Io. Nascondino”, lo sfidai, guardandolo negli occhi, ormai ridotti a fessure.

“El, non sono un bambino io!”, disse, scoppiando a ridere. Ah no?

“Secondo me non mi trovi”, lo provocai di nuovo, contando sulla sua competitività per sfuggire a Rose.

“Vedremo”, mi sfidò, fissandomi divertito, un gran sorriso sul suo volto nonostante lo sguardo di sfida.

Vittoria! Mi voltai verso Rose con un ghigno trionfante stampato in faccia.

Mi rivolse un’occhiataccia degna della vecchia Alice ed io le sorrisi, beffarda.

Dopo neanche un secondo mi ritrovai a mezz’aria, caricata come un sacco di patate sulle spalle di Emmett.

“Ehi!”, mi lamentai, dimenandomi nel tentativo di tornare con i piedi per terra.

“Lasciami giù, Emm!”, continuai, senza alcun risultato.

Scoppiò a ridere, frastornandomi con la sua risata, così vicina al mio orecchio.

In un attimo fummo di nuovo in casa, in cucina per l’esattezza.

Rimanevo sempre sorpresa dalla loro velocità sovrumana, nonostante avessi dovuto farci l’abitudine dopo due settimane.

Tuttavia ero sicura del fatto che non avrei mai potuto abituarmi alla perfezione dei Cullen.

Emmett riuscì a scaricarmi direttamente su una sedia della cucina, forse con più forza del necessario. Rischiai di volare per terra insieme alla sedia, ma in qualche modo mi abbarbicai al grande tavolo di legno e rimasi seduta. Emmett non la smetteva di ridere; mi sarebbe piaciuto fargli cambiare espressione con un bel pugno, ma sapevo che non sarebbe servito a molto. A meno che non sentissi la mancanza del gesso.

“Allora?”, domandai esasperata, allargando le braccia. “Andiamo o no?”, lo esortai.

“Devi mangiare prima, a meno che tu non voglia farti scoprire per colpa del tuo stomaco, come al solito”, mi punzecchiò, facendomi una smorfia.

Beh non potevo dargli torto, avevo fame. E come aveva detto, era un classico ormai che il mio stomaco si ribellasse nei momenti meno opportuni.

A confermarlo, un ruggito riecheggiò in tutta a stanza. Mi portai una mano allo stomaco, imbarazzata, ed abbassai il viso, nascondendolo al meglio nei capelli.

“Come volevasi dimostrare”, disse Emmett sghignazzando.

“Okay, okay”, acconsentii, ancora rossa di vergogna. “Ora mangio”.

E così dicendo mi allungai verso i biscotti in mezzo al tavolo. Ne mangiai più di quanti avessi dovuto, più di quanti avessi bisogno. Mi ingozzai.

Quando ebbi finito, o meglio non riuscii più a mandare giù nulla, mi alzai a fatica dalla sedia, trascinandola sul pavimento chiaro.

Mi sembrava di pesare venti chili in più. Goffamente raggiunsi le scale e le salii.

“Dove pensi di andare scusa?”, mi domandò Emmett, divertito dalla mia andatura. “Alzi già bandiera bianca? Mi deludi così, El”.

“Bagno”, borbottai, ormai già in cima alle scale, con un cenno della mano.

“Se non ti muovi, ti vengo a prendere”, mi minacciò scherzoso.

Non risposi, annuii soltanto.

Ripresi la mia normale velocità, più o meno, ed percorsi buona parte del lungo corridoio bianco con grandi falcate. Arrivata davanti al bagno, spinsi la porta ed entrai.

Mi sconvolgeva sempre quella stanza, era semplicemente enorme. Lo specchio, di fronte a me, rivestiva tutta la parete, coperto solo in parte da un mobiletto chiaro su cui era posato ogni genere di prodotto per il trucco. Rose si era attrezzata al meglio da quando ero arrivata, convinta che la mia pelle chiara, quasi trasparente, fosse perfetta per quei prodotti.

I primi giorni ci era anche riuscita, aiutata dal fatto che cercassi ogni stratagemma possibile per farmi notare da Edward. Mosse che poi si erano rivelate inutili e che quindi avevo preferito risparmiarmi.

Non mi piaceva truccarmi. Evitavo qualunque cosa potesse mettermi al centro dell’attenzione.

Senza pensarci mi specchiai, guardando con sospetto le strane occhiaie sotto i miei occhi castani.

In effetti, non avevo dormito poi molto da quando ero lì.

Anche i miei capelli apparivano stanchi e sfibrati, quasi opachi. Passai una mano nella mia chioma castana, spostandomi il grosso ciuffo che mi copriva in parte l’occhio destro. Erano morbidi, nonostante l’aspetto, senza neanche un nodo.

Erano cresciuti parecchio dall’ultima volta che ci avevo fatto caso, dall’ultima volta che li avevo tagliati. Ora mi arrivavano quasi a metà della schiena, formando lievi boccoli informi con riflessi dorati. Ad essere obiettivi, erano belli, anche se a me non erano mai piaciuti.

Il loro unico e stupido difetto era di non mantenere la piega, oltre al piccolo e irrilevante fatto che si arricciassero con l’umidità. Ecco perché in quel posto c’erano giorni in cui assomigliavo più a un leoncino spelacchiato che a una sedicenne.

Sospirai, e cominciai a lavarmi la faccia. L’acqua fresca mi aiutò a svegliarmi definitivamente e a darmi modo di pensare, finalmente con razionalità, a ciò che era successo in garage.

Non potevo ancora crederci, sembrava surreale. Come molte cose in quel luogo magico, dopotutto. Perché Alice era cambiata così di colpo? Che cosa era successo per farla cambiare in quel modo? E Edward? Come mai era stato così… amichevole? Qualcosa non tornava.

Mi asciugai accuratamente il viso con l’asciugamano appeso in un angolo e presi lo spazzolino.

Mentre mi lavavo i denti, ebbi modo di rimuginare ancora su quel fatto, su Edward e la sua strana, strana sorella. Una volta finito, mi spazzolai i capelli e mi catapultai fuori dal bagno.

Andai a sbattere contro qualcosa di enorme e duro come la pietra.

Alzai lo sguardo, massaggiandomi lentamente la testa dove avevo sbattuto.

Emmett. Ovvio che fosse lui.

“Pensavo fossi caduta un’altra volta, stavo venendo a recuperarti”, mi prese in giro, rivolgendomi un ghigno.

Grugnii qualcosa, borbottando contro quel gigante nerboruto e indistruttibile. Mi faceva male la testa, era proprio duro come il marmo.

Corsi in camera di Rose, recuperando la mia amata giacca a vento bianca di quando ero arrivata e cercando di non pensare alla macchia di sangue che aveva avuto quella sera.

Infilai le braccia dentro le maniche, fino a far uscire le mani dai polsini. Profumava di buono, come qualunque cosa in quella casa. Aveva un odore particolare, un intreccio tra floreale e qualcosa di dolce, qualcosa che non ero mai riuscita ad identificare.

“Ti muovi?”, mi esortò la voce esasperata di Emmett, da sotto le scale.

Un’ultima occhiata al gigantesco specchio di Rosalie, e corsi a perdifiato fuori dalla stanza.

“Arrivo”, esclamai, mentre fluttuavo pericolosamente lungo il corrimano.

Appena toccai terra, mi sentii nuovamente sollevata. Il mio stomaco protestò con un lamento.

Sperai di non vomitare addosso a Emmett, sarebbe stata la mia rovina. Mi avrebbe presa in giro fino alla fine dei miei giorni.

Chiusi gli occhi e strinsi la presa intorno a Emmett. Era come abbracciare una pietra, un enorme macigno freddo e indistruttibile. Quando lo sentii ridere, sollevai leggermente le palpebre, incuriosita. Era stata una risata euforica, elettrizzata.

Mi resi conto che stavamo sfrecciando attraverso l’ampia radura di fronte alla grande casa bianca, così velocemente che fui in grado di delinearne solo i confini.

Affascinata da quella straordinaria velocità, mi aggrappai meglio alla schiena di Emmett ed appoggiai il mento nell’incavo della sua spalla per poter vedere meglio.

Tutto era come una gigantesca parete verde che correva dietro, di fronte e di fianco a noi.

Mi lasciai sfuggire una risatina, entusiasta. Il vento che si creava al nostro passaggio mi frustava il viso e mi scompigliava i capelli, ma mi piaceva.

Ad un tratto, così velocemente che in un solo battito di ciglia avrei potuto perdermelo, Emmett sembrò spiccare il volo. Saltò così in alto da avvicinarsi paurosamente al cielo, in modo da superare con un solo enorme balzo il fiume che scorreva intorno alla casa. Sperai di non fare la stessa fine di Icaro.

L’acqua era di un azzurro piuttosto scuro, ma non abbastanza da celarne il fondo coperto di pietre chiare e lisce. Chissà com’era l’acqua, probabilmente freddissima. Al pensiero, rafforzai la presa strangolatrice attorno al collo di Emmett, stringendo le mani l'una con l’altra fino a quando non le sentii indolenzite. Non avevo alcuna voglia di finire nell’acqua gelata.

“Bello, eh?”, disse Emmett, un sorriso evidente nella sua voce profonda.

Forse pensava che fossi spaventata da quell’altezza o dalla velocità.

In meno di due secondi fummo nuovamente a terra, in mezzo alla foresta.

Gli alberi dall’aspetto secolare mi sfioravano con la loro corteccia spessa e ruvida, tuttavia senza mai toccarmi. Mi chiesi come facesse a correre a quella velocità senza andare a sbattere, tutto era così indistinto e sorprendentemente verde.

“E’ fantastico”, dissi in un sospiro, la mia voce portata via dal vento.

Emmett rise e, se possibile, accelerò.

A quel punto chiusi gli occhi, il vento che si creava al nostro passaggio era troppo forte e mi frustava il viso. Gli occhi mi lacrimavano.

Era come aprire il finestrino di un aereo in piena corsa; per quanto affascinante potesse essere, non era certamente la cosa migliore da fare. Anche senza vedere, percepivo l’eccessiva velocità con cui sfrecciavamo in mezzo alla foresta. La velocità mi inebriava, mi entusiasmava.

Dopo quello che non mi sembrò neanche un minuto, Emmett mi chiamò, ridacchiando soddisfatto.

“El salta giù, siamo arrivati”.

Aprii gli occhi all’istante, preda della curiosità.

Tutto intorno a noi era un labirinto senza fine di alberi giganteschi, scuri e dall’aspetto inquietante.

Tuttavia, era come magico. Il colore delle foglie era di un verde particolare, differente da quello familiare delle piante nei dintorni della grande casa bianca. Aveva un che di oscuro, di opprimente, ma nonostante tutto mi affascinava.

Feci qualche passo in avanti per guardare meglio e levai lo sguardo verso l’alto.

Cominciava a cadere una leggera pioggia che preannunciava l’arricciamento istantaneo dei miei capelli. Tirai su il cappuccio, avvolgendomi al meglio.

Tornai con lo sguardo a Emmett che sorrideva, beffardo.

“Non barare”, gli dissi con fare minaccioso, puntandogli il dito contro.

“Ai suoi ordini”, mi prese in giro, imitando un saluto militare. “Tanto vinco lo stesso, non ne ho bisogno”, aggiunse subito dopo.

“Vedremo”. E così dicendo lanciai la sfida.

“Se vinci tu, farò quello che vuoi per una settimana”, mi propose, guardandomi di sottecchi.

“Invece se vinco io, non dormirai più in camera mia”, aggiunse, con un sorriso che già pregustava la vittoria imminente.

Non potevo di certo tirarmi indietro, ma la sua scommessa non mi attirava più di tanto.

Anche se mi sarebbe sicuramente piaciuto avere Emmett ai miei ordini per una settimana intera, in caso di improbabile vittoria...la vedevo piuttosto dura. Dopotutto io avevo proposto quella sfida solo per liberarmi di Rosalie!

Con un sospiro, acconsentii.

“Okay, va bene”, dissi, suonando già sconfitta. “Affare fatto”.

Tesi la mano destra a stringere la sua. Quasi me la stritolò, mentre sogghignava divertito dalla mia espressione.

Massaggiandomi le dita, dopo che mi ebbe liberato dalla sua presa, lo esortai.

“Allora, conti o no?”, dissi esasperata, cominciando a fare qualche passo per avvantaggiarmi.

“Fino a quanto?”, mi domandò, beffardo.

“Conta fino a cinquecento, dovrebbe bastare”, dissi, facendo qualche conto.

Poi aggiunsi alla svelta. “Ma lentamente”.

“Sarà fatto, ora muoviti”.

Emmett si avvicinò ad un tronco, se possibile più grande degli altri, al centro della minuscola radura in cui ci trovavamo e cominciò a contare ad alta voce.

“Uno... Due… Tre... ”.

Era evidente che mi stesse prendendo in giro, ma lo ignorai.

Girai rapidamente i tacchi e cominciai a correre veloce nel cuore della foresta.

“E non barare, Emm!”, lo avvisai da sopra le spalle, sicura che mi avrebbe sentito.

In conferma, la sua risata fragorosa proveniente da un punto imprecisato dietro di me.

Mi ero già allontanata parecchio.

Svoltai a sinistra, appena dopo un grande tronco. In quel modo avrei potuto facilmente ritrovare la strada verso il punto di partenza, se avevo intenzione di vincere.

Sfrecciai tra i rami, saltando qua e là per evitare le radici che spuntavano dal terreno.

Mi mancava correre; correre senza una meta precisa, senza una buona ragione per farlo, solo per il gusto di far muovere le gambe.

Mi sentivo iperattiva, ancora su di giri per quello che era avvenuto in garage, molto probabilmente. Sentivo che avrei potuto correre per ore, senza sentire alcun affaticamento. Ero troppo euforica per accorgermene. Dopo alcuni secondi, tuttavia, rallentai. Meglio non allontanarsi più di quanto avessi già fatto.

Sbucai in un piccolo spiazzo, in cui gli alberi erano più radi anche se all’apparenza più imponenti.

Lontano da me, al limitare della minuscola radura, scorsi un albero caduto da poco.

Lo riuscii a capire dal fatto che il tronco non fosse ancora ricoperto di muschio, come invece erano gli altri. Formava una sorta di panchina naturale con il tronco d’albero adiacente, creando una minuscola rientranza.

Proprio quello che cercavo, un posto piccolo e comodo per nascondermi.

Ad un tratto, mentre lasciavo vagare lo sguardo tra gli alberi, qualcosa cambiò. Qualcosa che mai e poi mai mi sarei sognata in quel posto.

Un leggero fascio di luce filtrava tra i grandi rami degli alberi, che cercavano di impedire a quel piccolo miracolo di giungere a terra. Sole!

Levai lo sguardo verso l’alto.

La pioggia era sempre presente anche se lieve, quasi piacevole, ma in cielo, tra l’impenetrabile coltre di nubi grigie e perenni, faceva ora capolino una timida sfera gialla.

Non era come lo ricordavo, sembrava quasi malato, spento, ma era certamente sole.

Sorrisi ampiamente, meravigliata.

La sua debole luce illuminava quasi perfettamente il tronco; il mio tronco.

Colmai lo spazio tra me e il mio rifugio a grandi falcate, quasi di corsa, entusiasta del piccolo bagliore giallognolo che giungeva dall’alto, smorzato dalle foglie.

Mi appollaiai sul tronco, piegando le ginocchia al petto e cingendole con le braccia.

Indietreggiai fino a quando la mia schiena non fu contro l’albero adiacente, usandolo come schienale di quella perfetta panchina naturale.

La luce leggera che mi illuminava il viso era tiepida, gradevole.

Chiusi gli occhi e rimasi a scaldarmi per quanto fosse possibile, in silenzio.

Rimasi così per diversi secondi, fino a quando un fruscio richiamò la mia attenzione.

Aprii gli occhi e mi guardai in giro - forse Emmett era già da queste parti. Meglio nascondersi bene.

Così, mi infilai rapidamente nella piccola fessura nel tronco dietro di me e tornai a rilassarmi, godendomi quei brevi istanti di sole, attenta e in ascolto.

Ero pronta a nascondermi al primo avvistamento di Emmett; non ci tenevo a perdere.

Un altro rumore, questa volta nettamente più vicino, giunse dal mezzo della foresta, in mezzo agli alberi. Aguzzai lo sguardo, ma era troppo scuro, nonostante il sole, per capire se ci fosse qualcuno.

Cercai di calmarmi, non era detto che fosse Emmett.

Poteva essere solo un cervo o qualche altro animale, niente di cui preoccuparsi.

Eppure mi sentivo inspiegabilmente all’erta, troppo vigile per una semplice sfida, una stupida scommessa.

Quando il rumore mi raggiunse nuovamente, era ancora più vicino e, soprattutto, più irritante.

Passi. Passi pesanti ed energici, probabilmente in corsa.

Sospirai, sconfitta. Mi aveva già trovata. Non c’era verso che una volta lì sarebbe potuto andare oltre senza scoprirmi. Mi sarebbe toccato trovarmi un altro posto dove dormire. Grugnii qualcosa di incoerente e sgusciai fuori dal mio rifugio, restando però seduta sul tronco.

Ormai era inutile nascondersi, probabilmente mi aveva anche già visto.

Tanto valeva godersi i pochi raggi di sole che rimanevano.

Ad un tratto, con mia grande delusione, il sole sparì, nascondendosi dietro ad una gigantesca nuvola temporalesca.

Perfetto, pensai sarcastica.

Ci mancava solo quello, chissà quando avrei rivisto quel debole bagliore.

Sospirai, raggomitolandomi ancora di più su me stessa.

Faceva freddo, adesso lo sentivo. Ora che l’unica fonte di tepore era svanita nel nulla.

Uno scalpiccio, come di rami calpestati, poco lontano da me, catturò la mia attenzione, costringendomi a voltarmi.

Soffocai un gemito. Al limitare di quella piccola radura, tra gli alberi, era comparsa una figura.

Sulle prime pensai che fosse Emmett. Era ovviamente abbastanza grosso da poter essere lui, ma il colore della sua carnagione mi fece cambiare velocemente idea.

Anche se era circa a più di dieci metri da me, era evidente che non fosse Emm.

La sua pelle era troppo scura, quasi bronzea, e la postura, adesso che ci facevo caso, era diversa da quella di Emmett.

Quella strana figura era in piedi, ma lievemente accucciata sulle ginocchia, con un braccio intorno ad un tronco, come a sorreggersi. Sembrava che non stesse bene, le sue mani tremavano violentemente, in spasmi continui.

Sciolsi leggermente la presa intorno alle mie gambe; forse aveva bisogno di aiuto, non stava bene. Tuttavia appena mi mossi, un ringhio minaccioso eruppe dalle sue labbra.

Non ero sicura del perché, ma quel ringhio mi spaventò.

Calma, mi dissi, Emmett è qui in giro. Non succederà niente.

O almeno spero.

La luce era scarsa, non si vedeva quasi nulla, ma riuscii a scorgere l’espressione rabbiosa dello sconosciuto.

Aveva una corporatura a dir poco impressionante, solo Emmett avrebbe potuto tenergli testa. Sarà stato alto un metro e novanta, forse più vicino ai due metri, con fasci di muscoli evidenti.

Mi accorsi solo allora di come era vestito, mi ero soffermata solo sul suo volto ostile.

I suoi unici indumenti erano un paio di jeans, tagliati al ginocchio, logori e sgualciti.

Feci correre lo sguardo sul suo corpo.

I muscoli delle braccia erano ben visibili, tesi, come pronti a scattare. Gli addominali e i pettorali erano evidenti anche da lontano e risaltavano a causa della carnagione scura.

Era scalzo e, legata ad una caviglia, c’era una piccola funicella nera con un sacchettino scuro.

Mi chiesi il perché di quello strano abbigliamento. Faceva freddissimo, come poteva non congelare?

Appariva rigido, immobile e in attesa. Mi sporsi verso di lui, senza pensarci, ed un nuovo ringhio mi raggiunse.

Questa volta, però fece alcuni grandi passi verso di me, fermandosi a circa metà strada.

La sua espressione mi intimoriva. Sembrava che mi stesse alla larga, come se fossi un pericolo o un nemico. Ma dov’era Emmett?! Doveva trovarmi, e alla svelta.

Esitante, mi alzai in piedi, barcollando un poco.

Era meglio che mi preparassi alla fuga, in ogni caso. Potevo farcela; se partivo con un certo vantaggio, ero veloce. Sperai con tutta me stessa di non inciampare.

Feci un respiro profondo e tornai a fissare lo sconosciuto. Mi guardava con aria confusa, ma pur sempre ostile. Non seppi il perché, ma feci un altro passo avanti, incerta.

Studiai la sua espressione, che da dubbiosa si fece decisa in un solo istante, appena mi vide avanzare. Il tremore alle mani aumentò all’improvviso, spaventandomi, mentre il vento mi soffiava nei capelli. Il ragazzo si portò le mani tremanti alle tempie, digrignando i denti.

Intimorita, tornai immediatamente sui miei passi, arretrando.

In quel momento, mentre le sue mani continuavano a muoversi convulsamente ed il suo corpo ne sembrava quasi contagiato, il sole tornò ad illuminare lo spiazzo che ci conteneva.

Sentii il tepore di nuovo sul mio volto, ma ero troppo sconvolta per potermene accorgere.

Rimasi a fissare il ragazzo di fronte a me, con gli occhi spalancati.

Tuttavia la luce che ci raggiungeva portò con sé un cambiamento improvviso.

Il giovane mi guardò, stupefatto, e in un attimo smise di tremare.

Riportò le braccia sui fianchi e sul suo viso si disegnò un’espressione incerta. Un sorriso incredibilmente amichevole spuntò poi sul suo volto.

In pochi secondi, con grandi falcate, colmò lo spazio tra di noi e tornò a fissarmi, con un’intensità sconcertante. Il suo strano sorriso non accennava a svanire, le guance sporgenti sollevate leggermente.

Ero confusa. Come poteva essere passato da un’ostilità così evidente all’amicizia?

Ad un tratto, sembrò ricordarsi di qualcosa e il suo sorriso sparì in un attimo, rimpiazzato dal dubbio. In meno di un secondo, mi prese con forza il viso tra le mani.

Il suo sguardo era cauto ma deciso, mentre mi squadrava, inclinando lievemente il capo da un lato, come per poter vedere meglio.

Le sue mani erano bollenti e, al contatto con la mia pelle congelata dal vento e dalla pioggerellina leggera, mi fecero venire la pelle d’oca.

Mi ritrassi automaticamente al suo tocco, senza pensarci, ma senza esito. Il mio viso era bloccato tra le sue mani roventi. Ero sbigottita dal suo comportamento.

Non riuscivo a capacitarmene, aveva disordini da personalità multipla? No, non capivo.

Rimanemmo fermi, in quel modo, in silenzio, per diversi istanti.

Avrei voluto urlare, andare via, scappare, qualunque cosa, ma ero totalmente bloccata. E non solo a causa della sua presa ferrea e ustionante, io stessa ero paralizzata.

Non ero mai stata quello che si dice coraggiosa, ma neanche una codarda. Tuttavia, in quel momento, non riuscivo a districare i miei pensieri in modo da renderli sensati.

Il suo volto, ora a pochi centimetri dal mio, era totalmente diverso da come lo avevo immaginato vedendolo da lontano.

La sua pelle, di un color ruggine incredibilmente bello, era perfetta. Aderiva al profilo del suo viso, seguendo la forma degli zigomi sporgenti.

Gli occhi erano scuri, accesi di curiosità ed interesse, leggermente infossati e incorniciati da sopracciglia folte e nere. I capelli corvini erano più lunghi del normale e gli ricadevano in ciocche scure all’altezza del mento. I suoi lineamenti rimandavano chiaramente ai nativi americani, doveva esserci una riserva da qualche parte, lì vicino.

Aveva un viso giovane, avrà avuto sì e no la mia età. Il fisico, invece, dimostrava totalmente il contrario. Poteva sembrare un venticinquenne dalla corporatura, mentre il suo volto, magro ed ancora infantile, mi portava a pensare che avesse all’incirca sedici, diciassette anni.

Era incredibilmente alto. Per riuscire a guardarlo in faccia, ero costretta ad alzare il viso, bagnandomi della pioggia che cominciava a cadere sempre più fitta.

Dopo qualche interminabile secondo di silenzio, parlò.

“Conosci i Cullen”, disse con voce roca e in qualche modo intimidatoria.

Mi sorpresi. Non era una domanda.

Il suo tono di voce mi lasciò perplessa. Non mi piaceva per niente il modo in cui aveva pronunciato il loro nome, con odio, disprezzo.

Avrei voluto ribattere in modo brillante alla sua frase, pronunciata in maniera così ostile e sprezzante, ma non riuscii a trovare la voce. Mi limitai ad annuire, inebetita.

Sorrise malamente in risposta, scuotendo la testa. Ancora non mollava la presa sul mio viso, era irritante. Sbuffai, cercando di sgusciare via dalle sue mani, ma non ci riuscii.

Il suo sorriso si tese. A quel punto il mio nervosismo era maggiore della paura di quel ragazzo.

“Che c’è?”, chiesi palesemente irritata.

Lo conoscevo da circa dieci minuti e già non riuscivo più a sopportarlo. Vedendo la mia espressione cambiare radicalmente, insieme al mio tono di voce, il suo sguardo si fece più serio, anche se il sorriso beffardo non accennava a svanire dal suo volto.

Mi sarebbe piaciuto farglielo sparire con un bel pugno.

“Conosci la famiglia del Dottore?”, mi domandò sarcastico.

Sull’ultima parola aveva fatto trasparire tutto lo sdegno che gli riempiva la voce. Non capivo il perché di tutta quell’ostilità.

Carlisle era una persona fantastica, anche se non propriamente un essere umano.

Oh. Forse allora…

Forse allora sapeva. Ma come era possibile?

Rose mi aveva detto che nessuno sapeva di loro, della loro vera natura e soprattutto della loro esistenza. Nessuno a parte quelli della loro… specie.

Era anche lui un vampiro? Fuggii all’istante da quel pensiero, con un brivido.

A quanto ne sapevo, da quanto Rosalie mi aveva raccontato durante i monotoni pomeriggi nella grande casa bianca, i Cullen erano gli unici, a parte un piccolo clan in Alaska, ad avere una dieta differente dalla norma. E quel ragazzo non veniva certamente dall’Alaska...

No, non poteva essere un vampiro. Non doveva esserlo.

I miei pensieri corsero a Edward. Chissà se sarei uscita da quella foresta per rivederlo. Speravo di sì. No, doveva essere così, dovevo rivederlo.

Annuii a me stessa, raccogliendo il poco di coraggio latente che avevo.

Feci un respiro profondo ed espirai.

“Sì, sono loro ospite”, dissi con voce arrogante, imitandolo, “e conosco il Dottore”, continuai.

“E’ davvero una brava persona, tu lo conosci?”, lo provocai sprezzante.

Era chiaramente sorpreso dalla mia momentanea audacia; anch’io ne ero un po’ stupita a dire il vero. Il suo sorriso finalmente vacillò un poco, per essere sostituito da un’espressione nuovamente ostile ed allo stesso tempo beffarda.

“Non direi”, disse, “non ho avuto ancora questo onore, ma me ne hanno parlato”.

Il suo modo di fare stava per farmi venire un attacco isterico.

Lo guardai in cagnesco, mentre la pioggia mi inzuppava. Silenzio.

Per diversi attimi rimanemmo immobili, a fissarci. Poi, all’improvviso, un sorriso tornò ad illuminargli il volto.

“Non sei una di loro”, disse compiaciuto.

“No, direi di no”, risposi acida.

“Non era una domanda”, aggiunse compiaciuto, “solo una constatazione”.

“E allora cosa vuoi?”, domandai esasperata, cercando per l’ennesima volta di sfuggirgli.

Le mie guance bruciavano sotto il suo tocco.

Il suo sorriso si spense all’istante, diventando per la prima volta un’espressione seria.

“Non sei una di loro”, ripeté serio, “ma hai il loro odore”.

Ah. Ancora questa storia dell’odore. Eppure a me sembrava di averlo, come tutti gli altri.

Eppure, a parte il profumo che mi spruzzavo ogni mattina, Rose diceva di non sentire niente da me. Il che era una cosa buona, in una casa abitata da vampiri. Il fatto che nessuno sentisse l’odore del mio sangue o della mia pelle aveva sicuramente facilitato la mia permanenza, ma ancora non riuscivo a capacitarmene.

Perché io? Perché era possibile tutto questo? La mia mente era un groviglio di domande senza risposta. Era frustrante.

Feci queste considerazioni in pochi istanti, prima di poter organizzare una risposta degna di quel nome. Eppure ne ero sprovvista, non sapevo cosa avrei dovuto dirgli.

“Già”, fu la cosa migliore che riuscii a pronunciare, preda nuovamente delle mie domande senza esito.

La risposta non sembrò soddisfarlo. Bene, neanche io lo ero.

Rimase a fissarmi, incuriosito.

Una domanda mi sorse spontanea e, senza nemmeno accorgermene, uscì dalle mie labbra.

“Tu come fai a saperlo?”.

Forse avevo fatto male a chiederglielo, non era il genere di conversazione che mi sarebbe piaciuto avere. Il suo sguardo si fece cauto e dubbioso, mentre con una mano, liberando finalmente una parte del mio viso, si spettinava i lunghi capelli corvini. Sospirò.

“Dei Cullen?”, domandò sulla difensiva.

Annuii con decisione, intenzionata a non far cadere la discussione.

“Beh, dalle mie parti si parla parecchio della famiglia del Dottore”, ammise sorridendo, come di una battuta personale.

“E tu invece?”, mi domandò, “tu come fai a saperlo?”.

Non sapevo neanche esattamente di cosa stessimo parlando, ma ero decisa a non lasciar perdere.

“Te l’ho detto, sono loro… ospite per un po’ di tempo”.

Anche io ero sulla difensiva adesso, senza nemmeno saperne il vero motivo.

“Beh questa non è una cosa che di solito si dice ai propri ospiti”, costatò divertito, “a meno che non ci si voglia sbarazzare di loro”.

In effetti, non aveva tutti i torti. Adesso che avevamo finalmente chiarito di cosa stessimo parlando, la cosa non mi faceva comunque sentire meglio.

Restava una domanda fondamentale ancora senza risposta: come faceva lui a saperlo? Chi era per conoscere il loro segreto?

Forse la soluzione era davanti a me, chiara e visibile, ma ero talmente confusa che a malapena riuscivo a comprendere di cosa stessimo discutendo. L’unica immagine che continuava a susseguirsi nella mia mente, nei miei pensieri, era un viso.

Un viso straordinariamente bello, così perfetto da togliermi il fiato ogni volta che ci pensavo. Un viso che avrei voluto avere lì con me in quel momento. Un viso assurdamente familiare, per quanto poco lo conoscessi.

Sveglia El, pensai, non è il momento di sognare a occhi aperti.

Tornai al presente, controvoglia. E risposi allo sconosciuto.

“Forse hai ragione”, ammisi, “ma tu come fai a saperlo?”.

Dal mio tono di voce era chiaro che non avrei ammesso una risposta vaga come la precedente.

Finalmente lasciò cadere anche l’altra ustionante mano dal mio viso. Era una sensazione strana quella che percepivo sulle mie guance. Bruciavano letteralmente, e il contrasto con la temperatura esterna e la lieve brezza nell’aria mi dava i brividi.

“Forse è il caso che te lo spieghino i tuoi amichetti”, disse brusco, scrollando le grandi spalle.

Mi massaggiai le guance, ancora roventi.

“E cosa dovrei chiedergli di preciso?”, domandai innocente, facendo un mezzo passo verso di lui. Era più facile del previsto mantenere un tono di voce regolare, senza lasciare trasparire alcun timore.

“Questo dovresti saperlo tu”, sussurrò piano, riducendo gli occhi a due fessure e piegandosi verso di me. Subito dopo si allontanò di scatto, tornando in posizione perfettamente eretta.

“Non so ancora come ti chiami”, costatò.

Stava palesemente cercando di distrarmi, senza neanche fare lo sforzo di nasconderlo. Tuttavia, non avevo voglia di discutere, forse era meglio lasciar perdere per il momento.

“Nemmeno io”, dissi abbozzando un sorriso, poi continuai. “In ogni caso, mi chiamo Elizabeth. Però tu chiamami El”.

Sorrideva, senza dire una parola, con lo sguardo nel vuoto. Chissà cosa stava pensando.

“E tu come ti chiami?”, lo esortai dopo qualche secondo di attesa.

Trasalì un poco, sorpreso forse della mia domanda.

Era evidentemente distratto da qualcosa, ma ignoravo cosa fosse.

Feci un cenno con il capo, cercando di farlo parlare.

“Scusa, mi ero distratto”, ammise, abbassando lo sguardo. “Mi chiamo Jacob comunque, piacere”. Jacob. Okay. E io che pensavo di avere un nome strano.

“Quanti anni hai, Jacob?”, chiesi.

Ero curiosa, il suo fisico dimostrava un’età troppo contrastante rispetto al suo viso giovane. Probabilmente, anzi sicuramente, mi sbagliavo.

“Sedici”, disse sorridendo, “e tu?”.

Sgranai gli occhi. Quella specie di gigante aveva la mia età? Non era possibile.

Scrollai la testa avanti e indietro, cercando di immagazzinare quell’informazione ai miei occhi impossibile. Dopo qualche attimo, fui in grado di rispondergli.

“Anch’io sedici”, mormorai, ancora perplessa.

Jacob mascherò una risata con un colpo di tosse.

“Che c’è?”, domandai esasperata.

“Sedici? Davvero?”, chiese divertito, “ma sei minuscola!”.

Ah certo, ero io quella fuori misura. Non lui, il ragazzo mutante.

Grugnii qualcosa, notevolmente irritata. L’altezza era sempre stato il mio punto debole. Non ero bassa, cioè non troppo, ma avevo sempre desiderato essere alta. E non lo ero.

Abbassai lo sguardo, colpevole, e rimasi a fissarmi le mani.

Erano talmente bianche che sarebbero potute passare per quelle di Rosalie - in effetti la mia carnagione non era poi così differente dalla sua. Solo che il colore della mia pelle non mi identificava in una specie mitologica e dall’aspetto bellissimo, ma soltanto in una ragazza dalla carnagione albina. Forse da lontano avrei potuto confondermi con loro.

Intrecciavo le dita, ripetutamente, voltando i palmi all’insù di tanto in tanto. Ero così persa nei miei pensieri, che quasi non mi accorsi del movimento repentino di fianco a me.

Le mani di Jacob, improvvisamente, avevano ripreso a tremare. Ma non era come poco prima, un tremore limitato alle sole mani o le braccia, adesso tutto il suo enorme corpo sembrava esserne contagiato.

Si allontanò di scatto, balzando lontano da me in poco più di un attimo.

Con il passare dei secondi, gli spasmi convulsi non accennavano minimamente a diminuire. Al contrario. Mi chiesi cosa stesse accadendo; cosa aveva Jacob?

Feci un passo incerto verso di lui, tendendo le braccia in avanti, pronta ad aiutarlo. Tuttavia, la risposta al mio gesto fu, come all’inizio, un profondo ringhio minaccioso e ostile.

Ero paralizzata, non sapevo cosa avrei dovuto, o potuto, fare.

“Jacob?”, azzardai esitante, con voce rotta e tremante.

Provai a fare un altro mezzo passo, ma senza esito. Le mie gambe erano immobilizzate a terra, ancora non mi era chiaro se fosse per paura o per stupore.

Un rumore, un suono sordo, in lontananza, catturò la mia attenzione. Avrei voluto voltarmi, ma come pochi istanti prima, ero paralizzata. Tesi le orecchie. Ora c’era solo silenzio.

Un silenzio che tuttavia non poteva mettermi a mio agio, era fin troppo tranquillo, fin troppo silenzioso. Era assordante tutto quel silenzio.

Nonostante la calma apparente, non potevo fare a meno di pensare a Jacob. Lo stavo ancora fissando, con occhi vuoti ed inespressivi, immobile come non ero mai stata.

Tremava, ancora e ancora. Era leggermente accovacciato in avanti, piegato sulle ginocchia come a sorreggersi dopo un enorme sforzo.

Le sue labbra si muovevano senza sosta, socchiudendosi e schiudendosi rapidamente.

Sembrava stesse parlando, eppure non lo sentivo. Mi concentrai al meglio, curiosa.

“No, no, no, no, no…”, ripeteva in continuazione, angosciato.

“No, non adesso, non ora”, proseguì, supplicando.

L’espressione del suo viso mi tormentava, sembrava quasi che stesse soffrendo, ma ne ignoravo totalmente il motivo.

Fu mentre rimuginavo, agitata, sull’enorme ragazzo di fronte a me, che sentii un nuovo rumore.

Per quanto fosse nuovo, tuttavia, mi era parso familiare. Un ruggito, minaccioso e profondo, in lontananza. Sì, decisamente familiare.

Le mie gambe si sbloccarono a quel punto, mentre il sollievo prendeva posto nel mio corpo.

Mi voltai lentamente verso quel punto indefinito nella foresta.

Forse Emmett mi aveva finalmente trovata, forse mi stava ancora cercando. Di certo era vicino.

Sospirai di sollievo, Jacob probabilmente aveva bisogno di aiuto.

Un altro ringhio, poco dietro di me, mi ricordò la sua inaspettata ostilità.

“Fuori dal nostro territorio, stupidi succhiasangue”, sibilò Jacob a denti stretti.

Oh. Quindi era per questo? Forse era spaventato da Emmett, lui dopotutto conosceva la loro vera natura. Purtroppo non sapeva come fosse Emmett, che per quanto pericoloso era soltanto poco più di un gigantesco bambino dispettoso.

“Jacob...”, azzardai.

Mi fermai, paralizzata dallo sguardo che mi rivolse. Mi trafisse.

Rimasi a fissarlo, pietrificata, incapace di aprire bocca, mentre i miei pensieri erano un groviglio sempre più incoerente di domande. Dopo qualche istante, riprovai.

“Jacob…non... non devi preoccuparti di Emmett, non ti farà nulla”, lo rassicurai con un breve sorriso.

Non ero stata molto convincente, la mia voce era rotta dalla preoccupazione, ma sperai che fosse bastato a calmarlo.

Un altro rumore spezzò il momentaneo silenzio. Qualcuno chiamava il mio nome.

Senza pensarci, feci alcuni passi in avanti, avvicinandomi al margine della foresta. Tuttavia, era strano che Emmett avesse bisogno di cercarmi, poteva trovarmi benissimo se…

Come avevo fatto a non pensarci?

Emmett mi cercava perché non mi aveva ancora trovata, era ovvio, ma quello a cui non ero ancora arrivata era il perché di tutto ciò. Un motivo insulso, a cui io per prima avrei dovuto pensare.

Il mio stupido coperchio, come lo chiamava Rosalie.

Sarebbe bastato abbassarlo e mi avrebbe trovata. Perfetto.

Mi concentrai, socchiudendo gli occhi, e lentamente feci scivolare il velo che mi rivestiva.

Non mi ero ancora abituata a tutto ciò, a dover mantenere una costante attenzione a tutto quello che facevo. I primi giorni era stato particolarmente sfiancante dover badare a così tante cose, tutte nuove per me, ma alla fine mi ero abituata piuttosto di buon grado.

Appena il velo scomparve, mi sentii stranamente scoperta, vulnerabile. Mi afferrai il braccio con la mano destra, stringendomi nelle spalle. Era sciocco sentirsi così, lo sapevo, ma non potei impedirmelo.

Subito dopo, un movimento tra gli alberi, chiaramente in avvicinamento, mi fece capire che ce l’avevo fatta. Nello stesso istante, gli occhi di Jacob scattarono sul mio viso, spalancandosi in sorpresa. Il suo tremore rallentò lievemente per un attimo e, nell’istante in cui sentii una voce familiare chiamare il mio nome, vicino a me, crebbe a dismisura.

Il mio sguardo rimase fisso in quello di Jacob, mentre sussurrava in continuazione.

“No, le farei del male”, mormorava, “no, no, no”.

Ma cosa stava dicendo?

“El!”, mi chiamò Emmett a pochi passi da noi.

Si fermò sul limitare della piccola radura che ci conteneva, al confine con l’ombra creata dai giganteschi alberi secolari intorno a noi.

La sua espressione mi sconcertò. Non avrei mai pensato di riuscire a scorgere un’emozione del genere sul viso di Emmett.

Il suo sorriso sollevato stonava con lo sguardo scuro e preoccupato che gli colmava il volto. 
Ma non era tutto. Per la prima volta aveva un’espressione seria e ostile, pari solo a come l’avevo visto la prima sera, durante l’incontro con Amos.

Che pericolo c’era questa volta? Rimasi ferma, incerta.

“El, vieni qui”, mi disse Emmett, lasciando trasparire una strana ansia nella sua voce.

Avrei dovuto muovermi, ne ero certa, ma non riuscivo a trovare le gambe.

Rimasi ferma, lo sguardo ancora negli occhi di Jacob.

Con la coda dell’occhio, vidi Emmett fare un lieve passo in avanti.

La reazione di Jacob fu immediata. I suoi occhi si accesero di una luce assurdamente brillante appena prima di diventare completamente neri, ed il suo corpo sembrò sul punto di spezzarsi da quanto tremava. Si accasciò in ginocchio, portandosi i polsi alle tempie, mentre le mani erano scosse da spasmi convulsi e continui.

Emmett mi fu al fianco in meno di un secondo e, ancora prima che mi rendessi conto dell’assurda scena davanti ai miei occhi, il tutto sparì dalla mia vista.

Ok, ecco tutto. Wo!, è stato piuttosto lungo questo capitolo. Le cose per El continuano a complicarsi, quasi mi sento in colpa. Quasi xD 
Farmi sapere se vi ha fatto schifo o meno è sempre apprezzato :) Altrimenti a sabato prossimo. Buon weekend e buona settimana! 

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Capitolo 10
*** Chiarimenti. ***


Ebbene! Eccomi di nuovo qui come al solito xD Settimana prossima sarà un vero disastro con la scuola, spero di riuscire ad aggiornare. Se così non fosse posterò il prima possibile :) Detto questo! Ah niente, non lo so. Io rinnovo come al solito la richiesta di lasciarmi una recensione. 
Buona lettura! :)

Capitolo 10. Chiarimenti.

Quando riuscii a capire cosa stava accadendo, ci trovavamo già nei pressi della piccola radura che ci aveva ospitato all’inizio, prima di giocare a nascondino.

Non potevo credere a quello che avevo appena visto, era surreale, impossibile.

Un attimo prima che Emmett mi sollevasse da terra, caricandomi in spalla davanti ai miei occhi increduli, mi era parso di vedere la figura di Jacob oscillare. 
Oscillare, tremante, ed esplodere letteralmente in qualcosa di indefinito e inquietante mentre mi allontanavo, avvinghiata alla schiena di Emmett. 

Dovevo essermelo immaginata, ecco tutto.

Rimasi a fissare confusa il vuoto di fronte a me, mentre la parete impenetrabile di alberi secolari scorreva veloce e scura di fianco a me. Tutto era così assurdamente verde.

Chiusi gli occhi, stringendomi nelle spalle. Ero confusa, sconvolta. Era successo tutto così velocemente.

“El?”, mi chiamò Emmett a mezza voce, ancora un’ombra di insolita serietà nella sua voce.

Aprii gli occhi, sollevando leggermente le palpebre. Non avevo voglia di stare ad ascoltare una ramanzina inutile.

“Che c’è?”, mugugnai spazientita.

Ridacchiò divertito, facendo rimbombare quel suono nelle mie orecchie. Scostai il viso dalla sua schiena, intontita.

Rallentò visibilmente la sua andatura fino a fermarsi, ormai nei pressi della grande casa bianca.

Con un movimento talmente rapido da essere pressoché impercettibile, mi fece scivolare dalle sue grandi spalle nelle sue braccia. Erano come sempre gelide e, al contatto, mi venne la pelle d’oca.

Confusa, rimasi a fissarlo negli occhi, con aria scocciata e arrogante.

Incrociai le braccia sul mio petto, sbuffando.

I suoi occhi erano ancora seri e in qualche modo preoccupati; contrastavano fortemente con il sorriso che gli piegava gli angoli della bocca.

“El...”, cominciò a dire, “vuoi dirmi cosa ti è saltato in mente?”, domandò brusco.

Mi accigliai; che avevo fatto di sbagliato stavolta?

Abbassai lo sguardo, restando a fissare le mie mani.

Vedendo la mia espressione, continuò subito più sereno.

“Vedi El, è complicato. Quello che è successo…beh, non sarebbe dovuto accadere”, abbassò anche lui lo sguardo, come colpevole.

“Non te ne faccio una colpa, non potevi certamente saperlo”, mormorò sorridendo, “la tua sfortuna a volte è più forte della legge delle probabilità”.

A quella frase, levai nuovamente il viso per incenerirlo con lo sguardo.

“Emmett io...”, cominciai a dire, in parte irritata, in parte confusa.

“In ogni caso, non voglio essere io a farti la paternale, quindi ora è meglio andare”.

Così dicendo, mantenendomi tra le sue braccia fredde, ricominciò la sua corsa attraverso la foresta. In lontananza era già possibile scorgere il riflesso della debole luce del sole, smorzata dalle nubi, che si rifletteva sulla superficie del breve ruscello intorno alla casa.

Mentre si allontanava, più veloce che mai, mi parve di sentirlo mormorare qualcosa.

“Tanto appena arriveremo a casa, saranno gli altri a farcela”, sussurrò, la sua voce portata via dal vento in corsa.

Ignoravo il senso delle sue parole, ma nonostante ciò mi preoccupò leggermente. Ancora non capivo cosa avessi fatto di male, dopotutto mi ero solo allontanata un po’, nulla di che.

Dopo appena qualche secondo, fummo in vista della casa.

Emmett non saltò, come aveva fatto prima, il piccolo ruscello intorno alla casa.

Semplicemente lo ignorò, sfrecciandovi attraverso e provocando enormi spruzzi d’acqua. Conseguenza: mi bagnai come un pulcino.

Mi lamentai, mugugnando qualcosa, mentre Emmett rideva divertito.

Corse rapidamente fino a giungere davanti all’ampia veranda, resa inutilizzabile a causa dei grandi alberi che si estendevano verso la casa, come a nasconderla volontariamente.

Arrivati lì, mi fece scendere per terra e, con un ampio ghigno, aprì lentamente la porta d’ingresso.

In un secondo, il salotto fu riempito dal suono di ruggiti minacciosi e insoliti.

Che c’era che non andava adesso? Mi guardai attorno, sbigottita.

Poi una voce acuta e squillante mi raggiunse da sopra tutto quel frastuono.

“El!”, mi chiamò Rose, con evidente sollievo, “che ti è successo?”, mi domandò sorpresa e apparentemente arrabbiata.

Che mi era successo? Non mi sembrava di aver fatto nulla. Mi fermai, allargando le braccia, interrogativa.

“Rose...”, provai a dire, ma mi fermai.

Davanti a me, così velocemente che non fui nemmeno in grado di accorgermene, adesso c’erano anche Carlisle, Esme, Jasper e Alice.

“Tacete!”, esclamò Rosalie, evidentemente spazientita.

L’unico ad avere un comportamento ostile era Jasper, accucciato protettivo al fianco di Alice, mentre digrignava i denti. La sua espressione m’intimoriva; feci un passo indietro.

“Jazz, è tutto a posto”, disse Alice tranquilla, rivolgendomi un gran sorriso a cui non mi ero ancora abituata.

Tutti gli altri, Carlisle compreso, mantenevano un’espressione cauta, guardinga...e davvero insolita.

Emmett andò a sistemarsi al fianco di Rose, che nel frattempo si era portata di fronte a me, con passo tranquillo e rilassato. Sempre sorridente.

Rosalie mi fece un cenno con la testa, a indicarmi che ora potevo parlare.

“Rose…che sta succedendo?”, fu l’unica cosa che riuscii a forzare fuori dalle mie labbra, farfugliando.

Tutti si voltarono all’unisono verso Emmett, che si stava defilando in fretta e furia senza dare nell’occhio. Sembrava colpevole.

“Emm?”, lo chiamò Rosalie.

Quando vide che il suo amato non aveva nessuna intenzione di stare a sentirla, si fece seria.

“Emmett”, sembrò minacciarlo, “dimmi cosa è successo a El, subito”.

A quel punto Emm si voltò leggermente, un sorriso di scuse sul suo volto.

“Niente di che”, disse scrollando le spalle, “siamo solo andati nella foresta a fare un giro”.

Stava omettendo un paio di cose, ma la sua strana dimenticanza mi fece pensare che forse fosse meglio così.

Non mi piaceva il modo in cui mi guardavano tutti, come se fossi appena uscita da un film sugli alieni. Beh, tutti tranne Alice, che continuava ad abbagliarmi con quello strano sorriso complice. Che avesse visto quello che era successo? Probabile. Di certo non era mia intenzione chiederglielo, non ora almeno.

“Perché allora puzza di-”, cominciò a sbraitare Rose.

Sembrava sull’orlo di una crisi isterica.

A quel punto, prima ancora che potesse terminare la frase, Carlisle le mise una mano sulla spalla, facendole cenno di no con il capo.

“Non è il momento, Rose”, disse calmo Carlisle.

Mi rivolse poi un gran sorriso.

“Emmett, Jasper, Esme?”, li chiamò con voce serena, “Io, Rosalie e Alice dobbiamo fare due chiacchiere con El, se per favore potete andare in salotto…”.

Annuirono subito, allontanandosi velocemente e proseguendo verso il salotto a grandi passi.

Esme, prima di andarsene, mi sfiorò una guancia con la sua mano fredda.

“Stai tranquilla, tesoro”, mi disse sorridente.

Sorrisi in risposta, forse con un attimo di ritardo.

Ero preoccupata dal loro modo di fare, ma soprattutto di una cosa in particolare. Una mancanza, più che altro.

In casa c’erano solamente sei vampiri, ma nessuna traccia del settimo. L’unico di cui in realtà m’importasse. Dov’era Edward?

“El?”, mi chiamò Rosalie a qualche passo da me. Probabilmente si stava chiedendo cosa facessi ancora lì, immobile, con lo sguardo fisso nel vuoto.

Trasalii, spalancando gli occhi in sorpresa. Non me lo aspettavo.

“Eh?”, domandai confusa, giocherellando con una ciocca di capelli che mi cadeva ribelle sulle spalle.

Mi guardò spazientita, probabilmente non avevo sentito una domanda.

“Vieni, andiamo”, disse scuotendo la testa, spostando in questo modo le cascate di boccoli dorati sulla sua schiena.

Rimasi a fissarla, colpita ogni volta sempre di più dalla sua assurda bellezza e perfezione.

Dato che non accennavo a muovermi, Rosalie mi prese delicatamente per mano e mi guidò su per le scale. Salii attentamente i gradini, persa ancora una volta nelle mie domande e incertezze.

Che cosa stava per dire Rose prima che Carlisle la fermasse? Cosa sapeva Alice? Cosa aveva fatto Emmett di grave? E dov’era Edward? C'erano fin troppe domande senza risposta.

Giunte a metà del lungo corridoio bianco, proprio davanti ad un’anonima porta di legno, ci arrestammo. Dietro di noi, così silenziosi e aggraziati che sembravano non toccare terra, Alice e Carlisle. Tornai con lo sguardo a Rosalie, in piedi di fianco a me, statuaria. Sembrava assorta, preda di mille pensieri, gli occhi dorati persi nel vuoto. Non appena incontrò il mio sguardo, mi sorrise e, incomprensibilmente, arricciò il naso.

In quei pochi attimi, Alice e Carlisle ci avevano già raggiunti.

Quest’ultimo si arrestò ed aprì la porta di quella stanza. Non ci ero mai entrata, non aveva mai attirato la mia attenzione come la camera di Alice o di Rose. Solo ora la vedevo per la prima volta.

Aveva l’aspetto di uno studio, forse un ufficio. Il soffitto era molto alto, le pareti dipinte con gli stessi toni della casa. Contro la parete di fronte a noi c’era un’enorme libreria in quello che sembrava legno massiccio, stracolma di ogni genere di volume. 
Poco distante dall’ampia biblioteca, prendeva posto una grande scrivania dai colori scuri. Su di essa era appoggiato un portapenne nero con delle incisioni dorate ed alcuni libri. 
Tra questi ne spiccava uno, aperto al centro del tavolo, di dimensioni davvero notevoli. Era rilegato in pelle, anch’essa scura, e dall’aspetto doveva essere un volume di un’enciclopedia.

La stanza era illuminata grazie ad una portafinestra sulla sinistra, che dava sulla foresta tutt’intorno alla casa. Mi accorsi che faceva più caldo ora.

Appena volsi lo sguardo verso destra, ne capii il motivo.

In un angolo scoppiettava un piccolo camino, il fuoco che ardeva e crepitava vivo. Davanti, a poco più di qualche centimetro, c’erano tre poltrone dalle piccole dimensioni disposte a cerchio.

Mi sentii prendere delicatamente per un braccio e rifocalizzai l’attenzione su quello che stava accadendo. Rose era in piedi, lo sguardo serio, di fianco a me. Le sue dita lunghe e fredde chiuse intorno al mio avambraccio. 

Alice ci superò velocemente, saltellando con grazia fino a raggiungere la sedia più distante da noi. Si appollaiò su di essa, incrociando le gambe ed appoggiando i gomiti sulle ginocchia, con fare soddisfatto. Sorrise.

Rose mi tirò per la manica, annuendo lievemente in incoraggiamento.

“Siediti”, mi disse gentile.

Abbozzò un sorriso che non riuscì al pieno. Sembrava preoccupata.

Arricciò nuovamente il naso. Ma che diavolo…?

Feci come aveva detto, senza obbiettare, e fluttuai confusa fino alla poltrona più vicina al caminetto crepitante. Mi tolsi senza pensarci la giacca a vento, ancora fradicia per il viaggetto nel ruscello con Emmett, e mi sedetti. Si stava bene e, infreddolita, cercai di avvicinarmi ancora di più al camino, attenta a non farmi vedere da Rosalie.

Se avesse visto che avevo freddo, avrei temuto per la sorte di Emm.

Mi sarebbe piaciuto accostare le mani alle fiamme, che ardevano vivaci, ma a quel punto mi avrebbe certamente visto. Mi accoccolai semplicemente su un lato, allungandomi verso il camino, e portai le ginocchia al petto, cingendole con le braccia.

Tutto era avvolto da un insolito silenzio. Troppo silenzio.

Carlisle si era seduto nella poltrona di fronte a me, così silenziosamente che non me ne ero neanche accorta. Si fissava le mani, rigirandole continuamente, come indeciso sul da farsi.

Alice rimaneva sulla mia destra, sorridente - come avevo scoperto essere sua abitudine.

Quando incrociò il mio sguardo incerto, le sue labbra sottili si tesero ancora di più in un sorriso abbagliante. Rosalie invece si era semplicemente appoggiata al bracciolo della mia poltrona, la sua figura perfetta tesa da qualche strana ed evidente preoccupazione.

Tornai con lo sguardo sulla piccola Alice, l’unica dei presenti a mantenere un atteggiamento sereno.

Appoggiò il mento tra le mani, guardandomi.

Ad un tratto, il suo sguardo si fece vuoto, come concentrato su qualcosa di lontano ed indefinito. Il suo sorriso si affievolì un poco. Stupita, rimasi a fissarla.

Dopo pochi secondi, tuttavia, rifocalizzò nuovamente i suoi occhi su di noi - sul presente. Probabilmente era riuscita ad avere una visione, anche se in mia presenza.

La sua voce suonò chiara e squillante come sempre, ma velata d’impazienza, quando parlò.

“Okay, parliamo”, disse Alice, “Racconta”.

Non mi aspettavo una cosa del genere.

Non erano loro a voler parlare con me? Perché adesso dovevo raccontare io? Cosa poi, di preciso? Rimasi a guardare Alice, interrogativa.

Spostai lo sguardo su Carlisle, immobile sulla poltrona di fronte a me. Fissava le fiamme dietro di me con aria assorta, forse preoccupata. In quel momento, sollevò lo sguardo su di me, poi verso Alice, e di nuovo a me, così velocemente che non fui nemmeno sicura di averlo visto.

“Alice, non è questo il momento”, disse Carlisle apatico. Non l’avevo mai sentito così.

“No, Carlisle, è anche questo parte del motivo”.

La voce fredda di Rose giunse dalla mia sinistra, autoritaria. Mi sorprese.

“Hai ragione, forse però... ”, disse Carlisle con un sospiro, senza concludere la frase.

“No, ora dobbiamo chiarire, è per questo che siamo qui”, disse questa volta Alice.

“Chiarire cosa?”, la mia voce sfuggì alle mie labbra senza alcun comando, semplicemente confusa.

Gli occhi dei presenti si spostarono immediatamente su di me.

Vidi Rose, con la coda dell’occhio, annuire a Carlisle in una sorta di incoraggiamento, mentre Alice si metteva comoda nella poltroncina su cui era seduta.

Il mio sguardo era bloccato sui lineamenti incredibilmente belli di Carlisle, rigidi e preoccupati. Sospirò e, con estrema lentezza, dischiuse le labbra chiare e sottili a parlare.

“Elizabeth”, sillabò lentamente, con serietà. “Cosa…”, disse con apparente difficoltà, “chi hai visto nella foresta?”.

Sembrava che quella domanda gli costasse molto. Immediatamente feci un collegamento con il comportamento ostile di Jacob nella radura. Esitai un secondo, facendo mente locale, incerta su cosa dire esattamente.

“Nulla di che”, mentii con fin troppa innocenza, “io ed Emm siamo solo andati a fare un giro nella foresta, non abbiamo visto nessuno”.

Ricordavo perfettamente lo sguardo che Rosalie aveva rivolto ad Emmett appena rientrati e speravo che mantenere il suo stesso profilo basso mi avrebbe aiutata.

Tuttavia, qualcosa mi diceva che gli occhi di Rose, al momento, mi stessero perforando la schiena.

“El…”, mi ammonì la sua voce, proprio dietro di me.

La sua voce era proprio come il suo sguardo, fredda, di ghiaccio, quasi assassina avrei azzardato.

Okay, okay. Forse era meglio non rischiare la sorte.

“Ecco, ci siamo messi a giocare, io e Emmett…”, farfugliai, alla ricerca delle parole migliori per raccontare il tutto. Mi sentivo inspiegabilmente colpevole, come se stessi confessando qualche strana sorta di crimine.

“Poi mi sono messa a correre e sono sbucata in un piccolo spiazzo. E c’era il sole... ”, dissi quasi sognante, al ricordo di quel breve tepore e dei deboli raggi che mi avevano illuminato.

Esitai qualche istante, rievocando l’inquietante presenza di Jacob, all’inizio.

“E?”, mi esortò Alice, con impazienza.

Sembrava infastidita da qualcosa, ma ne ignoravo il motivo.

“A un certo punto è arrivato un ragazzo, Jacob”, dissi velocemente. 
Poi, dopo una breve pausa, domandai, “c’è qualche riserva da queste parti per caso?”.

Carlisle si accigliò.

“Sì, una vicino a First Beach”, mormorò, quasi rassegnato, “La Push”.

“Ah ecco, forse era di lì”.

Carlisle annuì, senza convinzione.

“Va’ avanti”, disse seria Rosalie.

Forse stava progettando l’omicidio di Emmett.

“Ehm, Jacob è stato un po’…strano, ecco”, esitai, omettendo la prima sequenza di ringhi ostili.

“Poi però abbiamo parlato un po’, senza problemi. Era anche abbastanza simpatico”, dissi, sorpresa della mia conclusione.

In effetti, era stato simpatico, anche se non ci avevo mai pensato fino a quel momento.

Certo, senza prendere in considerazione tutte le stranezze.

“Mi è parso che vi conoscesse”, ammisi con un filo di voce.

Non volevo scatenare una reazione simile a quella di Jacob.

“Ah sì?”, domandò Alice, con fin troppa innocenza.

Annuii lentamente, mordicchiandomi il labbro inferiore. Sembrava che la sapesse lunga, su qualunque cosa fosse. Almeno non avevano avuto nessuna reazione strana.

Tutti a parte Rosalie che, non appena recepì la mia affermazione, scattò in piedi. I suoi occhi saettarono sul mio viso, accesi d’ira.

“Cosa ti ha detto esattamente?”, domandò infuriata, passando una mano nella folta chioma bionda.

“Rose…non ti preoccupare, non gli ho detto niente”, la rassicurai subito con voce rotta.

Sembrava sul punto di urlarmi addosso, quindi decisi di raccontarle tutto quello che era successo, se era quello che voleva.

“All’inizio Jacob è stato…strano. Voglio dire, si comportava in modo insolito. Pensava che fossi una di voi”, mimai l’impossibilità di quell’affermazione con ampie virgolette con le dita.

“Poi il sole è tornato e Jacob è cambiato radicalmente. Sembrava sapere il vostro segreto…”, continuai a farfugliare.
“Ma io non gli ho detto niente, giuro!”, aggiunsi subito dopo, in fretta.

“Non è colpa tua El, non ti preoccupare”, disse Alice, “va’ pure avanti”.

Annuii, poco convinta.

“Ehm…ecco, dopo abbiamo parlato un po’ e ha fatto qualche riferimento a Carlisle. E’ stato strano. Gli ho chiesto come faceva a saperlo, ma ha detto che sarebbe stato meglio se me lo aveste detto voi”.

Feci oscillare lo sguardo tra i presenti, con aria interrogativa. Me lo avrebbero detto?

Alice mi sorrise.

“Questo te lo spiegheremo più avanti, ora è il caso che tu sappia tutto a proposito della tua…natura”, disse con aria pensierosa.

Rimasi sorpresa dalla frase di Alice. Ne avevamo già parlato, anche se brevemente, la prima sera. C’era qualcos’altro da sapere?

“Cosa?”, balbettai stupita, passandomi nervosamente una mano nei capelli ancora umidi alle estremità.

A quel punto fu Carlisle a parlare.

“El, ti abbiamo solamente accennato le mille sfaccettature del tuo potere e della tua specie. Inoltre, facendone in qualche modo parte, devi sapere qualcosa di più sulla nostra specie e sulle regole che regolano i rapporti tra di noi”.

Quindi era di questo che si trattava. Annuii decisa, pronta ad ascoltare se era quello che volevano.

“Devi sapere che il mondo in cui vivi, il tuo mondo, è molto diverso da come te lo potevi essere immaginato. Di questo certamente te ne sei resa conto anche tu”, disse Carlisle, sorridendomi leggermente.

Quando riprese a parlare, i suoi occhi sembrarono concentrarsi su scene lontane e passate.

“Quando capii cos’ero diventato, cercai in tutti i modi di distruggermi, poiché disgustato da ciò che ero. Un mostro, un assassino. Con il tempo, scoprii che c’era un altro modo di vivere, un’alternativa a tutto questo, e così cambiai anche il modo di vedere la mia esistenza. Per prima cosa, tuttavia, fuggii dall’Inghilterra, dov’ero nato. Vedere a poco a poco la gente che amavo e conoscevo invecchiare e morire, davanti ai miei occhi, era diventato impossibile. Andai così in Scozia per qualche tempo. Lì non incontrai quasi nessuno della mia specie, poiché era una zona quasi disabitata a quell’epoca. Tuttavia, mi imbattei in un clan molto numeroso e conobbi il capo di quella grande famiglia”. Si fermò, rifocalizzando lo sguardo sul mio volto solo per scoccarmi un’occhiata piena di significati.

Collegai subito, senza neanche pensarci.

“Amos”, dissi in un sibilo. Carlisle annuì e tornò al suo racconto.

“Passai qualche tempo con Amos, poiché mi trovavo abbastanza bene con loro: nonostante alcuni membri del suo clan fossero ancora umani, non avevano alcun odore che mi tentasse. In quel periodo Amos mi spiegò diverse cose, tra cui la sua natura.
“Il suo clan non era una famiglia di veri e propri vampiri, erano qualcosa di più, ma anche qualcosa di meno. Erano Ubach, il che significava che leggevano tutti nel pensiero ed erano capaci di cambiare forma, trasformarsi in chiunque a loro piacimento. Fu quando un giorno mi ritrovai a cacciare con loro nei boschi, anche se la loro preda era totalmente differente, che mi accorsi della loro debolezza. 
"Un giovane, infatti, appena arrivò alle spalle di un anziano pescatore sulla riva di un fiume, non riuscì ad ucciderlo al primo affondo. L’uomo, ferito e spaventato, cercò di sfuggire al giovane. E fu proprio quello che mi sorprese: nonostante quello Ubach lo avesse morso, era ancora in grado di correre perfettamente. Non avevo mai sperimentato il mio veleno su qualcuno, ma ne avevo visti gli effetti su di me, all’epoca della mia trasformazione. Il dolore, l’agonia che il veleno provoca è talmente forte, talmente schiacciante, che se mai qualcuno dovesse riuscire a scampare ad un primo attacco, sarebbe costretto a pentirsi di non essere morto subito quando questo comincia a diffondersi nel corpo”. 

Il viso di Carlisle si contrasse in una smorfia di disgusto, di orrore, e mi chiesi cosa esattamente vedesse nei suoi ricordi. Molto probabilmente, cose di cui avrei preferito non essere a conoscenza.

“Ed è così che ho capito: gli Ubach non sono velenosi”, disse Carlisle solenne.

Le mie mani corsero automaticamente alla base del mio collo, veloci, dove era ancora ben visibile la mia piccola, bizzarra cicatrice.

Carlisle annuì. Ero sconcertata.

Non avevo mai pensato, forse per mia stupidità, a quello che era successo la prima notte, quando Edward mi aveva portato a casa. Mi aveva detto, anche se tra le righe, che Claude mi aveva morsa, ma non avevo mai pensato a quello che voleva dire essere ancora viva, o comunque umana.

Da quello che Carlisle mi aveva detto quella sera, e Rosalie nei giorni successivi, si diventava vampiri solo grazie al loro veleno, trasmesso con un morso. Solo pochi avevano l’autocontrollo necessario per poterlo fare, ma Carlisle e altri prima di lui vi erano riusciti.

Mi ero sempre fermata a quella considerazione, senza andare mai più a fondo.

Claude mi aveva morsa. Io ero ancora umana. Erano due cose che avrebbero dovuto farmi capire quello che Carlisle aveva appena finito di dirmi, forse fin troppo ovvie. 
Claude non era riuscito a uccidermi perché era arrivato Edward, ma, essendo stata morsa, sarei dovuta essere un vampiro, a quest’ora. Gli Ubach non erano velenosi, ecco il perché di tutto.

La mia confusione era talmente ovvia sul mio volto, che Carlisle aspettò prima di continuare.

“Quando ne parlai con Amos”, riprese poco dopo, “egli mi spiegò dei loro poteri e, soprattutto, mi parlò dei loro nemici. I principali sono, come i nostri, i licantropi e gli Hoser. Questi ultimi sono particolarmente pericolosi a causa delle loro capacità.
“Gli Hoser, come ti ho già detto, possono leggere nel pensiero e, anche se in casi molto rari, ucciderci. Inoltre, sono impossibili da rilevare dai nostri sensi, come ad esempio l’olfatto”.

Mi sorrise gentile. “Tu sei una Hoser, come sai”.

Una nuova domanda mi sorse spontanea, sfuggendo alle mie labbra.

“Io potrei leggere nel pensiero?”, domandai incredula e, soprattutto, eccitata.

Mi ero sempre chiesta come sarebbe stato avere il potere di Edward.

“Gli Hoser più anziani sono tutti in grado di farlo, nella loro forma sia umana che vampira. 
Sia gli Ubach che gli Hoser, infatti, manifestano i loro poteri già da umani. In questo modo entrano a far parte dei clan prima della trasformazione, così che possono accrescere al meglio le loro capacità.

“Ma come fanno a trasformarsi se…se non sono…velenosi?”, domandai confusa.

“Gli Hoser sono come noi, nella loro bocca c’è veleno. Solo gli Ubach non lo sono, o meglio, tutti tranne uno. E’ per questo che Amos è il capo del clan, poiché è l’unico Ubach velenoso”.

Come la prima sera, mi sentivo come se la mia testa avesse raggiunto il massimo di informazioni possibili.

“Quindi…quindi io…”, balbettai in cerca d’aria.

“Esatto”, disse Alice, “anche se non capisco ancora perché negli ultimi giorni le mie visioni siano tornate più frequenti, anche se in tua presenza”.

“Dici sul serio, Alice?”, domandò Rosalie, incuriosita. Alice annuì.

“Sì, è così, anche se non ne so il motivo”.

“E’ per questo che sei…cambiata con me?”, chiesi curiosa, sporgendomi leggermente in avanti.

“Sì e no”, ammise con un sorriso, “diciamo che oltre alla frequenza è cambiato anche il tema principale”. Sul finire della frase la sua voce si era fatta stranamente seria, come persa in ricordi ed immagini sgradite.

“Cosa vorrebbe dire, Alice?”, chiesi nuovamente.

Il suo sguardo si fece improvvisamente serio e deciso, i suoi lineamenti rigidi. Chinò il capo a fissare le sue piccole mani che rigirava nervosamente.

“Ti ricordi qualche tempo fa, quando ero…quando ti evitavo?”.

Ovviamente ricordavo. Ricordavo tutto. Come avrei potuto dimenticare il modo ostile con cui mi guardava, giorno dopo giorno, all’inizio? Annuii semplicemente, lanciandole uno sguardo pieno di significati. Mi rivolse un tenue sorriso di scuse, sollevando il viso.

“All’inizio è stato…difficile. Vicino a te mi era pressoché impossibile avere delle visioni, a volte di più, a volte meno”, disse con voce piatta, senza emozioni.

“Tuttavia, sono riuscita a vedere l’arrivo di Amos e un’altra scena, anche se così confusa da non riuscire a distinguere niente in particolare. Dopo quello che è successo la prima sera, ti ricordi, Edward è venuto da me chiedendomi spiegazioni sulla visione che avevo avuto. Né io, né tantomeno lui eravamo riusciti a capire quello che stava succedendo”.

Sperai che il mio sussulto, al ricordo di quella sera, di Edward - con gli occhi infiammati di desiderio e dolore - non fosse stato evidente come era parso a me.

“Fu solo più tardi, fuori all’aria aperta, lontano da te, che ebbi un’altra visione. Era certamente la stessa scena, ma quella volta riuscii a distinguere quasi ogni cosa, anche se forse avrei preferito non farlo. 
“Quella visione aveva due conclusioni diverse, ma entrambe avevano a che fare con te, con Edward e tutti noi”.

“Perché non me l’hai detto, Alice?”, intervenne Rosalie, che nel frattempo si era appoggiata al muro alla mia sinistra, la sua pelle candida che s’intonava perfettamente ai toni chiari della parete.

“Non volevo farti preoccupare per qualcosa che non capivo esattamente neanche io, scusami Rose”.

Rosalie sembrava particolarmente irritata, mi intimoriva un po’.

“Che cosa vedevi nelle visioni?”, domandò bruscamente Rosalie, tuttavia era evidente la sua curiosità.

Alice sembrava restia a parlare, ma lo fece ugualmente, forzando le parole fuori dalle sue labbra sottili.

“La prima visione comprendeva solamente Edward e te”, disse rivolgendosi a me. 
“C’eravate voi due e tu…tu eri in pericolo, El. Edward cercava di proteggerti, di nasconderti da qualcosa che non sono riuscita a vedere, ma…”, la sua voce si perse debole, in un sussurro.

Avevo paura di sapere cosa volesse dire quel “ma”, quella frase, quella visione, ma dovevo sapere.

“Cosa?”, sussurrai in un sibilo pressoché muto.

Stentai a cogliere la mia voce. Tuttavia, non avevo il minimo dubbio che lei non l’avesse udita.

“Nella prima visione venivi uccisa, El”, mormorò Alice, così silenziosamente che dovetti ripetere più volte le sue parole nella mia mente per comprenderle al meglio.

Quest’azione mi prese qualche secondo, mentre assimilavo il significato della frase.

Uccisa. Ero…non spaventata, forse. Non ne ero sicura. Forse l’emozione più esatta era lo sgomento, la confusione. Il mio primo pensiero, tuttavia, corse a Edward.

“E Edward? Cosa…lui…?”, ero così disorientata da non riuscire a formulare una frase con un senso logico. Sperai mi capisse ugualmente, e così fece.

“Non lo so, la visione si interrompeva troppo in fretta, ogni volta nello stesso…momento”, sembrava esitare, i suoi occhi di onice liquida, puntati su di me, cauti e attenti.

“Non sono riuscita a vedere quello che gli accadeva”, mormorò triste, scuotendo la testa.

Percepii Rose, poco lontana da me, affrettarsi ad alleviare l’evidente tensione nell’aria.

“E la seconda?”, la sollecitò Rosalie, con voce stridula e angosciata.

Probabilmente era preoccupata per me. Capii al volo perché Alice non ne aveva parlato con Rose: si sarebbe preoccupata inutilmente, diventando iperprotettiva nei miei confronti.

Come rischiava, del resto, di divenire da quel momento in poi.

Alice non rispose. I suoi occhi erano ancora puntati su di me, analizzando ogni mia reazione ed espressione. Tentai, senza esito, di sorridere, cercando di tranquillizzarla.

Con ogni probabilità feci semplicemente una smorfia.

“Alice?”, insistette Rose.

Alice sollevò il suo piccolo viso di scatto a fissare Rosalie. No, non fissare, incenerire era il termine più azzeccato. C’era ovviamente qualcosa, qualcosa forse peggiore della prima visione, che mi stava nascondendo.

“Alice”, dissi lentamente, esitante. “Cosa…cosa hai visto nella seconda visione?”, riuscii finalmente a dire.

Alice sospirò profondamente, come rassegnata, e lanciò un’ultima occhiata a Rosalie prima di tornare con i suoi grandi occhi dorati nei miei.

“El…né la prima, né la seconda visione hanno più importanza. Il futuro è cambiato. Non è niente”, disse in un vano tentativo di sviare l’argomento.

“No Alice, voglio…devo sapere. Cosa hai visto che non vuoi dirmi?”.

Sospirò di nuovo, respirando profondamente.

“Ho avuto la seconda visione poco dopo la prima, appena qualche secondo. Non riuscivo a capire da cosa dipendesse tutta quel caos, quella confusione. Solitamente, le mie visioni seguono le decisioni degli altri; quando questa viene presa, la visione cambia in un modo o nell’altro, a seconda della scelta. Tuttavia, quella sera, avevo avuto due visioni completamente diverse, e allo stesso tempo…uguali, senza che nulla di apparente fosse cambiato.

“Nella seconda visione…”, disse con voce debole, “c’eravate sempre tu e Edward. Eravate nella foresta, poco lontano da qui, in un piccolo spiazzo”.

Rimasi ad ascoltarla, assorta. Non potevo credere che fosse spaventata dal raccontarmi che Edward ed io fossimo in una radura, doveva esserci di più. 
Forse la radura che aveva visto nella sua visione era la stessa in cui avevo incontrato Jacob. Forse era per quello che tutti loro erano preoccupati. Forse pensavano che qualunque cosa mi fosse accaduto nella visione, sarebbe potuto succedermi oggi.

“Alice”, la rimproverai.

Tuttavia, non riuscii ad imprimere nella mia voce l’irritazione che desideravo.

Il piede sinistro di Rosalie prese a scandire nervosamente il tempo, mentre il silenzio cresceva d’intensità.

“El…”, sembrò implorarmi, la forza del suo sguardo di onice riversa nel mio.

Scossi la testa energicamente, tentando di fare chiarezza nella mia mente. Finalmente si decise a parlare.

“La visione terminava allo stesso modo, El. Tuttavia…”, sembrava le costasse molto dirlo. “Tuttavia, era Edward…era lui ad ucciderti”.

TAN TAN TAAAAAAAAAAN! Eh sì, è un po' quello che si dice un cliffie xD 
Ringrazio come al solito Carli e Fà che mi sopportano e postano i capitoli in pagina. Questa storia non avrebbe nemmeno un decimo delle visualizzazioni che ha senza di loro. Eeee...poi basta. 
A sabato prossimo, si spera! Buon weekend :)

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Capitolo 11
*** Inaspettato. ***


Eqquindi...mi potrei essere dimenticata dell'aggiornamento xD Ah niente! Però me ne sono ricordata e sono qui alle due di notte ad aggiornare, qualche punto lo recupero u.u In ogni caso, settimana prossima aggiorno di venerdì perchè sarò via durante il weekend, così dovrete aspettare un giorno in meno :) Eeee nient'altro da dire! Vi avevo lasciato un po' in sospeso, ora il seguito. 

Capitolo 11. Inaspettato.

Rimasi immobile, senza lasciar cadere lo sguardo dal viso di Alice. Ad ogni modo, non sarei riuscita a fare altrimenti.

Rose mi sfiorò delicatamente il braccio, cercando di darmi conforto con il suo gelido tocco.

Mi sforzai di pensare. Avevo sensazioni strane…discordanti, incompatibili tra loro.

Ora più che mai avrei dovuto essere terrorizzata, o come minimo intimorita da quello che aveva appena detto Alice. Tuttavia, oltre allo stupore, allo sgomento che mi dominava in quel preciso istante, non riuscivo in alcun modo ad avere paura di loro. Di lui.

Ripensai in un attimo a quella mattina, nel garage.

Osservai nuovamente il suo viso, nei miei ricordi. Un viso così bello da togliere il respiro, i capelli bronzei e spettinati, il suo tratto più umano, gli occhi scuri dall’intensità sconcertante.

No. Non sarei mai riuscita ad avere paura di lui.

L’unica cosa che appariva ovvia, continuando a riflettere - a vedere quel volto nella mia mente - era che le uniche sensazioni che suscitava in me fossero sempre le stesse, dalla prima volta che il mio sguardo aveva incontrato il suo.

Ogni volta che i miei occhi correvano al suo viso, che incrociavano il suo sguardo cauto, che le sue dita fredde e leggere mi sfioravano, non c’era paura, né timore. C’era solo scompiglio, agitazione, ma l’origine era totalmente differente da quella che avrebbe probabilmente dovuto essere.

Lentamente feci scivolare il viso nelle mie mani, abbassando lo sguardo e socchiudendo le palpebre. Inspirai profondamente, e attesi.

Lasciai scorrere qualche secondo ancora, mentre sentivo crescere l’ansia di Rosalie al mio fianco. Tuttavia, avevo bisogno di quegli attimi, e nessuno mi interruppe.

“Dov’è?”, mormorai fioca, balbettando, la voce attutita dalla mia mano.

Aprii nuovamente gli occhi, a fissare Alice di fronte a me.

“Dov’è Edward?”, ripetei meccanica. Avevo bisogno di sapere dov’era, di parlare con lui. Semplicemente di stare con lui.

Carlisle rispose con voce quasi sorpresa, sollevata per alcuni aspetti.

“Edward è andato a Seattle a recuperare qualche documento, El”. Oh.

“Sarà comunque qui prima di sera”, disse Alice con un gran sorriso.

Quel pensiero mi risollevò immediatamente, facendo comparire un tenue sorriso agli angoli della mia bocca. Lasciai cadere le mani dal mio viso e mi voltai verso Rosalie, prendendole la mano ancora appoggiata alla mia spalla.

“Rose?”, chiesi incerta, preoccupata dalla sua espressione.

Non era più arrabbiata, questo era ovvio. La rabbia aveva ceduto posto all’ansia, alla…tristezza? Sembrava fosse così.

“Rose, tutto okay?”, ripetei, cercando una risposta nei suoi occhi lontani e dorati.

Apparivano distanti, distaccati. Tuttavia, alla mia domanda si rifocalizzarono sul mio viso.

Abbozzò un lieve sorriso.

“Sì, certo El”, disse con voce intenzionalmente allegra. Fin troppo.

Non ero per nulla convinta e le scoccai un’occhiata indagatrice. Tornai a fronteggiare Alice, ancora sorridente e serena, con un sospiro, tenendo la mano fredda di Rosalie tra le mie.

“Hai…”, farfugliai, “hai detto che le tue visioni sono cambiate, giusto?”.

Alice annuì, sospirando.

“Sì, non del tutto, a dire la verità”.

Trasalii immediatamente, al pensiero che la mia morte comprendesse ancora un futuro prossimo. Non ero spaventata da Edward, ma, come ogni essere umano, l’istinto di sopravvivenza è spesso più forte di ogni razionalità.

Sentii Rosalie irrigidirsi al mio fianco ed ero certa che non stesse respirando in quel breve istante.

Alice si lasciò sfuggire una risatina.

“No, non ti preoccupare”, disse cinguettando, “da quel punto di vista la mia visione è piuttosto diversa”. Rise nuovamente e quella volta, sollevata dalla sua affermazione, sorrisi anch’io.

“E’ stato…strano”, continuò Alice, “ho avuto questa visione ieri sera, dopo aver parlato con Edward. Era arrabbiato con me per voler continuare…a evitarti; lui non voleva, mentre io ero ancora convinta che fosse necessario.

“C’eravate sempre tu e Edward, nella foresta, ma quella volta eravamo tutti lì a proteggerti ed eri al sicuro”, concluse Alice, il suo sorriso più teso che mai. “Sai...”, riprese Alice, “sembri stanca”.

“No, è tutto okay”, dissi, “non sono stanca”.

“Forse sarebbe meglio se facessi una doccia, in ogni caso”, mormorò Alice, lasciandosi sfuggire una risatina.

Carlisle e Rosalie si unirono a lei discretamente. Sembrava stessero ridendo di una battuta personale, qualcosa che non riuscii a cogliere.

“Ehm…okay”, farfugliai confusa.

Lentamente mi alzai dalla poltrona su cui ero raggomitolata, le mie gambe indolenzite e addormentate per aver mantenuto quella posizione troppo a lungo.

Avevo ancora tante, troppe domande a cui dovevo dare una risposta.

Tuttavia, la maggior parte era per Edward. Avrei dovuto attendere ancora.

Fluttuai fino alla porta, voltandomi appena prima di uscire per rivolgere un sorriso ad Alice e Carlisle. Rosalie era appena dietro di me, come sempre.

Non appena ci fummo allontanate di qualche metro dall’anonima porta in legno dello studio, Rose mi afferrò per un braccio, costringendomi a fermarmi.

“Che cosa c’è?”, chiesi spazientita e perlopiù confusa.

“El, sei…sei sicura che sia tutto okay?”.

I suoi occhi erano cauti, attenti, come se avesse paura di toccarmi o farmi del male.

“Sì Rose, è tutto okay, non ti preoccupare”, la confortai.

Le sfiorai la mano con cui mi bloccava i fianchi, per farle capire che era davvero così.

“Come…non hai paura che possa farti del male?”.

Una risatina isterica sfuggì alle mie labbra.

Rose!”, esclamai, “non ne ho mai avuta e non credo che ne avrò mai”.

Probabilmente suonava fin troppo spavaldo – ridicolo, forse -, ma era la verità. Non sarei mai riuscita ad avere paura di loro, come poteva anche solo pensarlo? Non erano dei mostri, di questo ne ero certa. Me lo avevano già dimostrato in più di un’occasione.

Rosalie allentò la presa dal mio braccio e dai miei fianchi, lasciandomi libera.

Rimasi a fissarla, dubbiosa. Sorrise.

Ormai era pomeriggio inoltrato, o forse sera, le nuvole che coprivano completamente il cielo mi impedivano di esserne certa. Lentamente, riprendemmo a camminare.

Avevo un pensiero fisso che, nonostante tutte le domande e i dubbi che avevo, continuava ad ossessionarmi. Edward. Non era affatto buono l’effetto che aveva su di me. Ormai era diventato controproducente, deleterio…malsano quasi il modo in cui ero assuefatta dalla sua presenza.

Tuttavia, non m’importava. Sapevo che mi sarebbe bastato vederlo per stare meglio, proprio come a un drogato basta vedere il proprio spacciatore per sentirsi meglio.

Scossi leggermente la testa come per liberarmi di quel pensiero insistente.

Senza accorgermene, eravamo già arrivate in cucina. Mi ritrovai, quasi senza pensarci, davanti al frigorifero con una barretta in mano. Risi di me stessa, sorridendo tra me e me.

“Ehi, El!”.

 “E’ parecchio che non ti fai vedere”, risposi con voce piatta, senza emozione.

Rise. “Oh sì, direi di sì. Sai com’è Rose…”

Un’altra voce lo interruppe. Una voce che, in quel momento, avrebbe potuto far tremare chiunque.

“No, Emmett, dimmi. Com’è Rose?”, disse.

Mi voltai di scatto, lasciando chiudere da sola la porta del frigo che tenevo aperta con la mano destra. Non appena vidi l’espressione di Rose e Emmett di fronte a me, scoppiai a ridere.

Emmett mi lanciò un’occhiata ostile ma scherzosa.

Rosalie era appoggiata allo stipite della porta della cucina, le sue labbra sottili piegate in un sorriso angelico quanto diabolico.

“Accidenti a te e al tuo maledettissimo potere, El”, mormorò Emm sotto il suo respiro.

Risi ancora, mentre sgattaiolavo fuori dalla cucina, abbandonando i due piccioncini ai loro litigi.

“Bene Emm, adesso spiegami”, sentii Rosalie scandire minacciosamente ogni singola sillaba.

“Ma…Rose…era solo così, per divertirsi. Non è successo niente”.

Niente! Niente? Allora dimmi se niente è trovare quel…quel ragazzino nei boschi”, sibilò Rosalie, la sua voce gelida e tagliente. Mi chiesi nuovamente il perché della sua furia omicida.

A dire la verità, non me ne importava molto. Lasciai andare avanti la discussione senza più ascoltare. Guardai fuori dalla grande vetrata che dava sulla foresta. Era ormai buio, forse il tramonto. Così, confortata dal fatto che entro poche ore avrei rivisto Edward e ancora divertita dall’immagine di Emmett preda di Rosalie, mi diressi saltellando verso il salotto, dove mi appollaiai sul piccolo divano bianco.

Fu solo quando mi accorsi dei titoli di coda che scorrevano sullo schermo del televisore al plasma di fronte a me, che mi resi conto che qualcuno aveva acceso la tv.

Mi voltai. Dietro di me, Esme era abbracciata teneramente a Carlisle, seduti su una poltrona poco distante da dov’ero. Mi sentivo di troppo in quell’atmosfera.

Tuttavia, non c’era molto da fare. Lasciai vagare i miei occhi stanchi e annoiati per la grande stanza finché la scena riflessa dall’enorme vetrata non catturò la mia attenzione. Quell’immagine mi fece rimpicciolire, sentire ancora una volta di più di non appartenere a quel luogo.

Vedevo perfettamente una copia esatta di Carlisle e di Esme. Erano bellissimi, come sempre. I loro sorrisi brillavano anche semplicemente in un riflesso. E poi c’era una piccola, esile figura raggomitolata su un divanetto bianco. Era totalmente differente dalle altre due, non avrebbe potuto neanche lontanamente competere con loro. Ma la cosa che più di tutte mi lasciò perplessa fu come quella figura, dall’aspetto così fragile e debole, risultasse diversa anche da come la ricordavo io.

Era diversa, il suo volto appariva pallido e stanco. Tuttavia, i suoi occhi - i miei occhi -, erano accesi di una strana luce, qualcosa di cui non mi ricordavo.

Lasciai nuovamente vagare lo sguardo per la stanza, in cerca di qualcosa che attirasse la mia attenzione, qualcosa da fare. All’improvviso, la trovai. I miei occhi si fermarono immediatamente sul profilo del grande pianoforte nero e lucido che sembrava aspettarmi in fondo alla stanza, in un angolo contro la parete. Il contrasto tra la vernice scura del piano e quella del muro era forte, ma non stonava minimamente.

Senza nemmeno prendere una decisione volontariamente, mi alzai in piedi e mi diressi verso lo strumento. Colmai lo spazio velocemente, poi mi fermai, incerta. Mi voltai.

“Posso?”, chiesi esitante, rivolgendomi a Carlisle ed Esme, con un breve sorriso.

“Certamente cara, quando vuoi”, mi rispose prontamente Esme.

“Sei davvero brava”, aggiunse Carlisle, completando la sua frase.

Annuii imbarazzata, calando il viso nei miei capelli castani e arruffati.

“Grazie…credo”, mormorai con un filo di voce.

Mi sedetti velocemente sulla pelle liscia e nera del sedile di fronte al piano, incespicando un poco nelle sue gambe, ansiosa di togliere al più presto gli sguardi dei presenti dal mio viso imbarazzato. Non era passato poi molto tempo dall’ultima volta in cui avevo preso posto su quella seggiola e avevo lasciato scorrere le mie mani sui tasti. Tuttavia, mi accorsi in quel preciso istante che mi era mancato. Sollevai con cura il copri- tastiera e cominciai a suonare.

All’inizio fu semplicemente un susseguirsi di singole note, lieta solamente di far correre le mie dita sull’altalenarsi di tasti neri e bianchi. Solo in seguito mi accorsi che, senza nemmeno pensarci, le mie mani stavano disegnando sull’ampia tastiera le note della mia melodia preferita.

Un brusio dietro di me colse la mia attenzione e sbirciai da sopra le spalle.

Rosalie ed Emmett si erano rapidamente avvicinati, insieme a Alice e Jasper e, con aria divertita e allo stesso tempo rapita, mi osservavano. Preda nuovamente dell’imbarazzo, mi voltai rapidamente a fronteggiare di nuovo i chiaroscuri della tastiera davanti a me.

Notai con sollievo che, tuttavia, la discussione tra Rose ed Emm era finita bene o, se non altro, senza spargimenti di sangue. Proprio in quel momento, con la coda dell’occhio, mi accorsi che Emmett stava bisbigliando qualcosa all’orecchio di Rosalie e lei, con una risatina argentea, rispondeva con una lieve gomitata giocosa. Lieve…beh almeno per Emmett lo era.

Tornai alle mie note, mentre il mio piccolo pubblico prendeva posto alle mie spalle sulle poltrone presenti. Probabilmente, se non fossi stata così assorta nel suonare, mi sarei accorta del lievissimo toc- toc alla porta e, allo stesso modo, avrei fatto caso al sorriso radioso, e tuttavia complice, di Carlisle che si accingeva ad aprirla.

Proprio mentre mi apprestavo a concludere la mia melodia, una sagoma scura fece capolino dalla porta ed entrò nel salotto. Si fermò e così feci anch’io.

Un sorriso raggiante mi tese immediatamente le labbra ed incorniciò il mio viso, automaticamente, mentre il mio sguardo si posava su quell’incredibile figura.

Lo guardai, e fu come vederlo per la prima volta. Il mio cuore sembrò subire un brusco cambio di marcia e, di sua volontà, decidere di uscire dal mio petto. La vista del suo volto mi accelerò il respiro e, mentre i miei occhi indugiavano sul suo viso, timidi e incerti, mi resi conto dell’innaturale silenzio intorno a noi. Ma non m’importava.

I miei ricordi, per quanto recenti, non gli avevano reso giustizia. Non a un viso così incredibilmente perfetto, con cui nemmeno il più bello degli angeli avrebbe potuto competere, che nemmeno la più fervida fantasia avrebbe potuto immaginare.

La mascella quadrata e scolpita, la curva morbida delle labbra sottili ma piene, la linea dritta del naso, l’angolo netto che creavano gli zigomi leggermente sporgenti…

La fronte marmorea era occupata da lunghi ciuffi di capelli ramati che la pioggia aveva reso più scuri ed alcune gocce scendevano lentamente lungo il suo splendido profilo.

I suoi occhi, come sempre, indussero il mio cuore ad un udibile sprint. Il colore che avevano acquistato dopo quella mattina di caccia era il più caldo che avessi mai visto.

Era oro. Oro liquido, incorniciato da una lunga e folta cornice di ciglia scure. In altro modo non avrei saputo descriverlo. Il suo sguardo si fermò su di me e le sue labbra, prima socchiuse leggermente, si tesero in un sorriso che parve rispecchiare il mio.

“El”, mi disse, con una voce che rivelava sollievo.

“Ciao Edward”, farfugliai, un sorriso timido impresso sul mio viso.

Perché dovevo sembrare così costantemente imbranata?

Mi accorsi che l’espressione di Rose e Alice sembrava…assente. Come se stessero cercando una botola nel pavimento per poter sparire il più presto possibile.

Ma al momento avevo di meglio da fare. Primo tra tutti, ricordarmi come si faceva a respirare.

Edward mi si avvicinò con velocità sovrumana e, prima che me ne resi conto, era seduto con me sulla seggiola di fronte al piano.

“Suoni bene, sai?”, mi mormorò sorridendo.

Riecco il sorriso truffatore che mi era mancato. Sorriso che accelerò ulteriormente il mio battito. Ormai faticavo a sentire le persone accanto a me. I colpi ripetuti e costanti del mio cuore sembravano rimbombare nella mia testa come martelli pneumatici.

“Ehm…grazie”, sussurrai abbozzando un sorriso.

“Ti dispiacerebbe ricominciare? Così suoniamo insieme”, disse.

Poi aggiunse subito dopo, come ricordandosi di qualcosa di vitale importanza. “Certo, se ti va”.

“Sì, certamente”, mi affrettai a dire.

Forse troppo in fretta. Sorrise di nuovo.

“Non so quanto possa starti dietro…”, aggiunsi, sicura che le sue innumerevoli abilità comprendessero anche il pianoforte.

“Saprò regolarmi”, disse ammiccando.

E cominciò a lasciar correre le sue dita sui tasti. Sembrava che quella musica, quella melodia, fosse grata ad Edward per suonarla. Mi fece un cenno con la testa, per incoraggiarmi. Mi unii a lui.

Suonammo in perfetta armonia, anche se io feci ben poco. Tuttavia, non ci badai. In quel momento eravamo insieme, come in una gigantesca bolla di sapone solo nostra.

Ma come ogni bolla, era destinata prima o poi a scoppiare. E scoppiò.

Alice!, esclamò furioso Edward, abbandonando la tastiera con forza.

Prima che potessi solo rendermi conto di quello che stava accadendo, Edward era già in piedi, all’altro capo dell’enorme stanza, davanti ad Alice, che sembrava più che mai in cerca della sua botola.

“Prima o poi avrebbe dovuto saperlo comunque, Edward”, cercò di argomentare Alice, sulla difensiva, indietreggiando fino a toccare la parete bianca con la schiena.

Edward emise un lamento molto simile ad un ruggito, lanciando le braccia in aria.

“E per questo hai deciso di dirglielo oggi? Proprio mentre io non c’ero?!”, sbraitò.

“E’ stata colpa mia, Edward”, intervenne prontamente Carlisle, mettendo un braccio sul petto di Jasper che sembrava pronto a scattare da un momento all’altro.

Un sentimento misto tra preoccupazione e rabbia mi investì.

“Ho deciso di informare proprio oggi El perché sapevo che altrimenti tu non me l’avresti mai permesso. E per questo ti chiedo scusa, figliolo”, aggiunse con uno sguardo colmo di scuse.

Edward parve riuscire a calmarsi. Un po’, almeno.

Inspirò a lungo, portandosi una mano tra i folti capelli umidi nervosamente.

Carlisle raggiunse Edward con una grazia che mi lasciò stupefatta, come se fosse non toccasse terra, ma fluttuasse semplicemente nell’aria.

“Figliolo, credo che tu abbia bisogno di parlare con lei adesso”, sussurrò piano, ma abbastanza forte da darmi modo di sentire. Ero sicura che l’avesse fatto di proposito.

Edward mi lanciò uno sguardo dapprima allarmato che parve tuttavia ammorbidirsi quando si rese conto della mia espressione rilassata e serena. Perché lo ero. In quel momento, anche se tutti gli occhi erano puntati su di me, il suo sguardo bastava a tranquillizzarmi.

Edward tornò a fronteggiare Carlisle, poi Alice e Rosalie - che tuttavia sembrava la meno toccata dal tutto - e poi ancora Carlisle. Annuì rassegnato.

“El”, mi chiamò dolcemente mentre mi si avvicinava.

“Sì, certo. Okay”, mi affrettai a dire, abbozzando sorriso nel tentativo di rassicurare il suo volto angosciato.

Mi alzai e mi diressi verso di lui. Rose fu al mio fianco in un battito di ciglia.

“Cosa...”, cominciai a chiederle, leggermente frustrata dalla sua apparente iperprotettività.

Sapevo cavarmela benissimo anche da sola e non mi andava di avere la baby-sitter. Inoltre Rosalie sapeva perfettamente quanto desiderassi passare del tempo da sola con Edward, ma pareva sorvolare abilmente su questo particolare. Se fosse stata capace di leggermi nel pensiero, forse si sarebbe offesa del risentimento che provavo verso di lei in quell’istante. Sembrava un cane da guardia. Edward parve irritato allo stesso modo, ma non proferì parola.

Percorremmo in silenzio le scale e buona parte del lungo corridoio bianco, senza che nessuno avesse espresso ad alta voce la volontà di andarci.

Ci arrestammo davanti alla porta della stanza dorata, mentre una strana sensazione cominciava ad assalirmi. Ansia. Ma per cosa? Non avevo nemmeno idea di cosa stessimo facendo.

Levai lo sguardo verso Edward e questo bastò a rasserenarmi. Mi sorrise gentile quel ghigno truffatore e mozzafiato che tanto amavo, mentre mi avvolgeva le spalle con il suo braccio freddo, avvicinandomi al suo petto. Era freddo, come sempre, e i suoi vestiti erano ancora leggermente umidi dalla pioggia. Tuttavia, lungi da me ritrarmi dal suo tocco invernale.

“Rose, ora puoi anche smetterla”, disse brusco Edward, dopo un lungo sospiro.

“Io da qui non mi muovo”, ribatté aspra Rosalie.

Mi chiesi il motivo di quell’improbabile comportamento. Era mia amica, certo, e come tale era sempre stata molto attenta a me. Tuttavia, ignoravo completamente il motivo di tutta questa preoccupazione nei miei confronti.

Edward sbuffò, visibilmente irritato. Aprì la porta con un unico colpo e la lasciò sbattere sgraziatamente contro il muro. Irritato, decisamente.

Poi mi guardò, come se volesse scusarsi della sua maleducazione. Restituii il fugace sorriso che mi rivolse e quello bastò ad accelerare il mio battito.

Guardai Rose, chiaramente indispettita.

Un silenzio di tastabile imbarazzo calò su di noi. Credetti di poterlo agguantare con una mano.

Siccome nessuno dei due insieme a me, le due persone- anche se nel senso relativo del termine- più belle che avessi mai visto e che mai, senza ombra di dubbio, avrei mai visto, non accennavano a muoversi o a rompere il silenzio, presi il coraggio a due mani e mi andai a sedere sul piccolo divanetto nero nella stanza.

Fui travolta per un secondo infinitesimale dai ricordi legati a quello stupido e scomodo divano nero.

Sorrisi tra me e me. Mi appollaiai su di esso, avvicinando a me le ginocchia e cingendole con le braccia. Soddisfatta della precaria comodità che avevo ottenuto, mi voltai verso Rosalie ed Edward.

“Bene, allora?”, cinguettai con incredibile facilità nell’apparire calma.

Forse era solamente la vicinanza di Edward. I due si guardarono, prima con intesa, poi in cagnesco. Sempre i soliti. Rose sorrise arrogante ad Edward e mi si avvicinò, pressoché danzando.

“Io sono venuta per ascoltare”, disse, sfidando Edward con lo sguardo, “tocca a lui parlare”. Aggiunse un altro sorriso provocatore, tanto angelico quanto diabolico.

“Okay”, disse pacatamente Edward.

Poteva sembrare calmo, ma sapevo che le provocazioni di Rosalie avevano colpito nel segno. Inspirò profondamente dalle narici e, dopo un istante forse fin troppo lungo, espirò con un sospiro. Mi sembrò di avvertire la sua pazienza incrinarsi all’ennesimo sguardo di Rosalie. Così, decisi di intervenire prima di assistere ad un Caporetto.

“Rose, per favore, per favore, per favore, potresti lasciar parlare me e Edward da soli?”, chiesi supplichevole, tentando di emulare lo sguardo che lei spesso mi proponeva per esaudire i suoi desideri.

Rosalie mi guardò, una finta ombra di innocenza sul suo volto angelico.

Ora”, intimai con un sibilo, anche la mia pazienza non più così disponibile.

“Okay, ho capito, ho capito”, mormorò Rosalie, evidentemente sconfitta.

Si alzò con grazia e fluttuò dolcemente fino alla porta. Lì si voltò verso di me e mi rivolse uno sguardo dapprima palesemente offeso ma, quando fu chiaro che Edward non la stesse guardando, più complice che mai.

Mi fece l’occhiolino, lanciandomi un sorriso mozzafiato e scomparve dietro la porta. Rose… Sorrisi ancora una volta.

“Grazie”, mormorò una voce melodiosa al mio orecchio, più vicina di quanto immaginassi possibile.

Sobbalzai. Ed eccolo, seduto vicino a me, rannicchiato su quello stupido divanetto nero che, solamente con la sua presenza, acquistava un aspetto totalmente diverso.

Feci mente locale di - la prossima volta che mi fosse capitato - sedermi dov’era accovacciato lui in quel momento. Okay, forse era un po’- molto - morboso. Tuttavia, non m’importava.

“Devo parlarti”, disse, la sua voce aveva assunto uno strano tono preoccupato che non mi piaceva.

“Bene”, tentai di suonare calma e distaccata, “dimmi”.

Il mio tentativo non fu molto brillante. Respira, con calma, mi dissi.

“Quello che ti ha detto Alice…”, sembrava stesse affogando, che le parole fossero intrappolate nella sua gola. Ebbi lo strano impulso di premere una mano sul suo viso freddo per poter permettere ai suoi lineamenti di ammorbidirsi.

“Non ha nessuna importanza, Edward”, mi affrettai a dire, nascondendo le mani dietro la schiena e ricacciando indietro quella stramaledetta forza che sembrava avvicinarmi al suo viso come un magnete. Mi sentivo come un piccolo pianeta isolato che, preda della legge di gravità, non poteva fare a meno di orbitare intorno alla stella più bella che esistesse nella galassia.

“Ha importanza, invece!”, esclamò, ridestandomi dai miei pensieri.

“No che non ne ha, non m’importa”, ribattei testarda.

“Come fa a non averne? Hai ascoltato quello che ti ha detto Alice?”.

“Oh sì, ogni parola. E fidati se ti dico che non m’interessa”.

“Io…Alice ha visto…”, ed eccolo affogare nuovamente. Serrai i pugni dietro la schiena.

“Sì, ha visto, ma non è accaduto. Non ha importanza”, la cocciutaggine era un mio forte, soprattutto se ero più che mai convinta della mia posizione.

“Io avrei potuto ucciderti”, disse tutto d’un fiato, come liberandosi di un gran peso.

Annuii, consapevole.

“Io…”, continuò, come cercando a tutti i costi di intimidirmi ed allontanarmi da lui.

Non sapeva che non poteva bastare.

“Io potrei ucciderti”, disse, guardandomi negli occhi, “ora”.

“Ma non lo farai”, sorrisi.

Non seppi il perché, ma sorrisi genuinamente, sicura della mia affermazione. C’era qualcosa dentro di me che era totalmente convinto di questo, anche se era perfettamente consapevole di tutto il resto.

“No”, ammise Edward, dandomi ragione. “Ma potrei”.

Annuii, ancora una volta conscia di quello che diceva. Sorrisi debolmente.

Edward, per tutta risposta, scivolò il più lontano da me, fino a finire sul minuscolo bracciolo del divanetto. In quel momento, come intento ad ascoltare la nostra conversazione, il sole decise di fare capolino tra la spessa coperta di nubi opache e grigiastre che opprimeva il cielo.

Mi ero sbagliata, non era sera. Era già l’alba.

Rischiarò dolcemente la stanza, portando con sé un lieve tepore. Con la luce, quella camera sembrava ancora più grande e magnifica. Guardai rapidamente il grande armadio sulla mia destra, l’immensa libreria stracolma di ogni genere di libro e CD, il sofisticato stereo nero di fronte a me, all’altro capo della stanza, e la vetrata che faceva da grande parete sulla nostra sinistra.

Solo allora mi accorsi di un lieve arcobaleno che illuminava lo spesso vetro, con migliaia di riflessi e sfaccettature.

Tornai con lo sguardo su Edward, meravigliata.

Brilli”, dissi con voce sognante e incantata.

“Sono un mostro, un fenomeno da baraccone”, mormorò colmo di disprezzo verso se stesso.

Come poteva un angelo odiare se stesso?

Miriadi di piccoli rubini sembravano prendere vita sulla sua pelle chiara e dovetti combattere una volta ancora contro quel magnetismo costante.

Chissà se questo magnetismo avesse due poli, o fossi solo io a subirne gli improbabili effetti.

“No”, mormorai dolcemente, spezzando il breve silenzio che si era creato. “Tutt’altro”.

Edward mi guardò, come per accertarsi del mio stato mentale ed io, ancora una volta, mi trovai a sorridere. L’angelo a pochi centimetri da me nascose il suo viso tra le sue ginocchia, raccolte come le mie, e portandosi un braccio davanti in modo che me ne fosse impossibile la vista.

Emise una sorta di lamento e, in quel preciso istante, il magnetismo ebbe la meglio su di me.

Le mie mani sciolsero i pugni, ancora doloranti per la presa a cui le avevo costrette, e, come animate di vita propria, senza bisogno di prendere una decisione cosciente, raggiunsero l’angelo.

Indugiarono sul suo profilo, incerte se toccare quell’essere così incredibile per paura che potesse dissolversi al contatto. Forse era fatto della stessa sostanza dei sogni. Bello, ma irraggiungibile.

Posai, infine, una mano sulla sua spalla. Era come toccare il marmo, la stessa durezza, la stessa temperatura, liscio allo stesso modo, ma a differenza di quest’ultimo, si modellava sotto il mio tocco come qualunque pelle è capace di fare.

“Edward”, lo chiamai, cercando di distoglierlo dalla sua autocommiserazione. Impresa vana.

Lasciai scorrere le mie dita nell’incavo del suo collo, dove i piccoli arcobaleni erano ancora visibili, giocherellando con le luci che si venivano a creare.

Chissà perché mi ero sempre immaginata che l’arcobaleno fosse caldo, tiepido quantomeno. Invece la temperatura emanata dalla sua pelle non differiva minimamente dal solito, eccezion fatta per il lieve tepore che ci regalava il pallido sole che lottava per un posto nel cielo colmo di nubi opache.

Tuttavia, feci attenzione a non toccarlo mai propriamente. Avevo paura che avrebbe potuto reagire male, allontanarmi ulteriormente. Purtroppo, ero troppo vicina alla mia stella per poter essere immune all’attrazione gravitazionale che esercitava su di me.

La mia mano corse dal suo collo ai suoi capelli di quel colore così improbabile, assaporandone la consistenza con i polpastrelli. Si ritrasse impercettibilmente e questo bastò a fermarmi. Mi sentivo come se mi avessero appena tirato un pugno in pieno stomaco, lasciandomi senza fiato.

Feci per alzarmi, lentamente, quando Edward sembrò risorgere dal pieno delle sue ceneri.

I suoi occhi brillavano, più ardenti e liquidi che mai nel loro oro, in sintonia con la sua pelle sfavillante.

“No”, disse con voce ferma e allo stesso tempo dolce, prendendomi per un braccio.

Mi sedetti nuovamente ed attesi una sua brillante spiegazione.

“Non andare”, mi implorò. “E’ solo che ho sempre…paura di farti del male, di ferirti”, ammise abbassando lo sguardo, colpevole.

“Potrei farlo in qualsiasi momento, anche ora”, disse con voce mesta, alzando nuovamente lo sguardo. “E sarebbe così semplice”, aggiunse con un sorriso malinconico, giocherellando con una ciocca dei miei capelli fuori posto.

Quel contatto così casuale fece schizzare il mio cuore in uno sprint senza precedenti.

“Sembra che tu non stia facendo altro che ripeterlo”, riuscii a sussurrare, non senza difficoltà, dopo qualche attimo.

“Perché è la verità”, disse triste, i suoi occhi riversi nei miei. “E poi…”, aggiunse poco dopo, “di cosa vorresti parlare?”, chiese con voce carezzevole.

Rimasi colpita dal modo in cui mi guardava. Sembrava assorto, rapito. Forse c’erano davvero due poli in questo strano magnetismo.

“La tua pelle brilla”, dissi, la mia voce ancora sognante nel vedere la sua pelle sfavillare alla fioca luce del sole.

“Già”, commentò cupo. “E’ qualcosa che facciamo quando ci esponiamo al sole. È anche per questo che viviamo qui a Forks”.

“Pioggia, pioggia, pioggia”, commentai. Sorrise.

C’era stato un solo momento, oltre a quella strana alba a cui stavamo assistendo, in cui un tiepido raggio di sole mi aveva raggiunto, timido. Improvvisamente, mi tornarono in mente tutte le domande che necessitavano di una risposta.

“Ehm…Edward?”, chiesi dubbiosa.

“Sì?”.

“Mi chiedevo…Alice ti ha già…fatto sapere quello che è successo stamattina?”, chiesi esitante, per paura di scatenare un’altra reazione poco piacevole. “Cioè, ieri mattina direi, a questo punto”, mi corressi.

Il suo sorriso truffatore gli tese gli angoli delle labbra, illuminandogli il volto.

“Alice no, ma ci ha pensato Rosalie mentre era qui”, disse con una smorfia.

Ripensare a Rose e a poco prima mi fece sorridere.

“Quindi sai tutto?”, chiesi conferma.

“Sì, direi di sì”.

“Mi chiedevo…come mai Jacob sembrava avercela così tanto con voi?”.

Sembrò pensarci su un attimo.

“Non è con noi in particolare, ma con quello che siamo. Non riescono ad accettare la nostra esistenza”.

“Ma voi non…non siete come gli altri. Non fate del male a nessuno, giusto? Perché dovrebbero essere così ostili senza motivo?”.

Non riuscivo a capire come delle persone potessero odiare i Cullen senza prima conoscerli, senza sapere quanto fossero buoni e, spesso e volentieri, meglio di molte persone.

“E’ la loro natura, come noi abbiamo la nostra”.

“Non capisco”, ammisi. “Come faceva Jacob a sapere chi siete?”, chiesi, per una volta dritta al punto.

“E’ una storia lunga”, disse Edward sospirando.

Forse sperava che non glielo chiedessi. O almeno così sembrava.

Guardai teatralmente fuori dalla finestra. Poi, lentamente, con un ampio sorriso stampato in faccia, tornai a guardare Edward.

“E’ solo l’alba, ho ancora tempo”, dissi ammiccando.

Ammiccavo, e da quando? Mi sorpresi di me stessa, pentendomi di quell’eccesso di confidenza. Stupida, pensai.

Edward parve non risentire del mio bizzarro atteggiamento. Anzi, contrariamente a quanto pensavo, si avvicinò a me, cingendomi le spalle con un braccio e affondando il volto nei miei capelli scompigliati. Effetto: ennesima volata del mio cuore ormai senza controllo.

Levai lo sguardo imbarazzato verso il suo viso e mi accorsi appena in tempo che storceva il naso. Proprio come aveva fatto Rosalie la sera prima. Ma che diavolo…?

Mi scostai leggermente da lui, cosa che mi costò non poco, e lo guardai in cagnesco.

“Che c’è?”, chiesi esasperata.

“Niente”, disse, scrollando lievemente le spalle.

Incrociai le braccia sul petto, testarda.

“Mi faresti un favore?”, chiese sogghignando.

“Quello che vuoi, ma mi devi ancora spiegare la tua lunga storia”.

“Certo, ma prima potresti farti una doccia?”, mi domandò, lasciandosi sfuggire una dolce risata che risuonò come un’eco di campane.

“Puzzi decisamente di licantropo”.

Wo-oh. Edward ha fatto un'uscita un po' fuori luogo xD Comunque! E' decisamente troppo tardi per scrivere qualcosa di anche lontanamente sensato. 
Spero solo che qualcuno si degni di lasciarmi una recensione(vi preeeeego!), altrimenti a venerdì prossimo! Buon weekend e buona settimana :)

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Capitolo 12
*** Alchimia. ***


Salve a tutti! Oggi sono in anticipo :) Questo weekend sono via e quindi posto prima, così non vi lascio senza aggiornamento u.u Comuuuunque...avevamo lasciato quei due con una rivelazione fatta con (molto) poco tatto, ora vediamo come va a finire. A voi! :)

Capitolo 12. Alchimia.

Rimasi qualche istante a fissarlo, con espressione vitrea, mentre le sue parole - pronunciate con così tanta casualità - prendevano posto nel mio cervello, già oltremodo sottosopra.

Cosa, scusami?”, esclamai stridula, quando ebbi recuperato la facoltà di formulare pensieri coerenti.
“Scusami, battuta infelice”, mormorò Edward, l’espressione ancora vagamente divertita.

Dovevo aver sentito male, non c’era altra spiegazione.

Gettai la testa all’indietro, ispirando profondamente e scuotendo il capo a destra e a sinistra, come a cercare di chiarirmi quel caos che si era venuto a creare nella mia mente.

“Mi dispiace”, sentii dire, la voce di Edward ora poco più di un flebile sussurro. “Non... ”, cominciò.

Con più energia di quanto pensavo a quel punto di avere ancora, tornai a fronteggiare Edward, lo sguardo deciso e attento, nonostante la mia confusione.

“Che cosa vorresti dire con questo?”, domandai seria, ancora chiaramente scossa.

“E’…complicato”, disse. “Speravo di riuscire a renderlo più semplice, ma sembra non sia servito poi a molto”, aggiunse con un tenue sorriso di scuse.

Spiegami”, ordinai, anche se la mia voce debole e ancora notevolmente distratta dal bagliore della sua pelle faceva sembrare tutt’altro.

“Noi”, cominciò con un lungo sospiro di rassegnazione, “…i vampiri, abbiamo pochi nemici”.

“Sì, questo l’ha detto Carlisle almeno cinque volte”, mormorai annuendo.

Ero improvvisamente scocciata dalla quantità di informazioni della quale ero all’oscuro.

“Esattamente”, aggiunse Edward. “Ti ricordi chi sono?”.

Annuii con decisione e feci mente locale. Ricordavo perfettamente quella prima sera, nei particolari.

Aveva cambiato così tante cose, era palese che la ricordassi.
“Vediamo…ci sono quelli come me, gli Hoser…”, cominciai, chiedendo conferma con lo sguardo.

Edward annuì, indicandomi con una mano di andare avanti.

“Poi, ecco, ci sono quelli come Amos, gli Ubach, giusto? E un altro paio di nomi strani”.

Edward ripeté il gesto di prima ed io obbedii.

“Ah sì, e ci sono i licantropi”, conclusi.

In quel momento mi parve quasi di sentire il click che producevano le tessere del puzzle che avevo in testa, incastrandosi alla perfezione e dandomi modo di capire.

“Ah”, fu l’unica cosa che seppi dire.

Edward non fu di molte più parole.

“Già”, mormorò.

Dopo qualche attimo di silenzio, ripresi a parlare.

“Quindi Jacob ce l’aveva tanto con voi, non perché gli avete fatto qualcosa, ma perché siete…vampiri”, sentenziai.

Usare quella parola ad alta voce – vampiri – mi faceva sentire strana. Sembrava ricordarmi che ero diversa, che non appartenevo a quel mondo magico popolato di figure mitologiche e, più di tutto, che avrei dovuto esserne terrorizzata.

Stupida vocina, pensai.

La ricacciai indietro, dove non avrebbe più potuto assillarmi con le sue prediche da Grillo Parlante.

Sbuffai.

“Che hai?”, domandò Edward, il suo viso leggermente teso dalla preoccupazione.

“No, nulla. Davvero”, ammisi con sincerità. Ero solo esasperata dal Grillo Parlante.

“Jacob…”, ripresi, cercando conferma dei miei dubbi, anche se ormai erano certezze.

“Sì, è un licantropo”, disse mesto, “Beh, più precisamente, è un mutaforma, ma il problema non cambia. Probabilmente non si è trasformato da molto, è troppo giovane. Poco più di un bambino. Cosa che fa di lui un pericolo ancora più grande per gli umani”.

“Perché?”, domandai di getto. “Ehi, aspetta. Io non sono poco più di una bambina”, sibilai con disappunto.

Rise di gusto della mia espressione. Cocciuta, incrociai le braccia sul petto, dando mostra della mia infantilità appieno.

“No, scusami. Con questo intendevo il fatto che è un licantropo molto giovane. Troppo”.

“E questo è un problema?”.

“Sì”, si limitò a rispondere.

Notando la mia espressione interrogativa riprese la sua spiegazione.

“I licantropi sono creature molto…volatili. Temporanee. Con questo non intendo il fatto che abbiano vita breve, ma che le loro trasformazioni possono avvenire di frequente, solo a causa di uno sbalzo d’umore. E questo li rende potenzialmente pericolosi per chi gli sta accanto”.

“Ma come, niente luna piena e paletti d’argento?”, domandai ironica.

Ridacchiò brevemente.

“Hollywood è una gran beffa”.

Sorrisi anch’io. Quel momento sarebbe potuto essere così perfetto, se solo non fosse stato che stessimo parlando di licantropi e vampiri. Ma in che razza di posto vivevo?

Vampiri, licantropi e chissà quanti altri nemici con nomi bizzarri e impronunciabili. Ero incredula. Sbalordita. E tuttavia affascinata.

“Jacob non è l’unico, vero?”, domandai ad un tratto.

Edward si fece subito serio.

“No, ci sono altri come lui. Giù alla riserva Quilleute”.

“Tutti lì?”, chiesi rapita.

“Perché, qui come siamo messi? Anche noi siamo tutti insieme”, disse ridacchiando.

“Beh, sì. Ma voi siete…diversi”, ammisi.

Lui sfoderò un gran sorriso, di quelli che avrebbero potuto fermare un treno in corsa o sciogliere un iceberg. Non fece nessuna delle due cose, almeno per quello che ne seppi, ma bastò a fermare il mio cuore, che ripartì subito dopo ad un ritmo non consentito.

Sembrava palesemente felice che io li considerassi diversi. Gli rivolsi a mia volta un sorriso, che tuttavia non poté neanche lontanamente competere con il suo.

“Come mai nella riserva?”, chiesi.

Che domanda stupida. La risposta, invece, mi sorprese.

“Gli antenati dei Quilleute si sono rifugiati lì tempo fa e da sempre hanno questa…caratteristica. Di trasformarsi. Abbiamo stabilito un patto con loro, per cui noi non possiamo entrare nel loro territorio e viceversa. Se succedesse, il patto sarebbe rotto e uno scontro pressoché inevitabile”.

“Perché sono pericolosi?”.

“Perché noi siamo pericolosi”, precisò Edward sottovoce.

Non fui sicura che si stesse rivolgendo a me, quindi non commentai oltre.

“Quello che è successo ieri”, riprese Edward dopo poco, “quello non sarebbe dovuto accadere”.

Lo fissai con sguardo interrogativo, ancora una volta. Stentavo a ricordare cosa fosse successo poche ore prima.

“Quando Emmett è venuto a…recuperarti”, disse con un filo di voce, “tu non ti trovavi più nel nostro territorio, ma nel loro”.

Sentii la terra mancarmi sotto i piedi.

“Cosa…cosa succederà?”, domandai, sentendomi improvvisamente tremare.

“Non lo so”, rispose con voce mesta. “So solo che se Emmett non fosse intervenuto probabilmente ora saresti…morta nel bel mezzo della foresta a causa di quel cane”.

Giungendo verso la fine, la sua voce si era fatta da triste a minacciosa.

Avrebbe potuto farmi venire i brividi, ma la sua vicinanza mi tranquillizzò. Non era mai stato così vampiro prima d’ora. I suoi occhi erano persi nel vuoto, concentrati su una scena lontana che lo costringeva a stringere i pugni e serrare la mascella.

“Mi…mi dispiace”, abbozzai in un lamento.

Solo in quel momento mi accorsi che avevo cominciato a piangere.

Bene, perfetto, pensai. Ci mancavano solo le mie stupide lacrime.

Mi affrettai ad asciugarle con il dorso della mano, ma qualcosa di freddo e liscio lo fece prima di me. Alzai lo sguardo.

Edward aveva completamente abbandonato il suo sguardo assassino – il suo essere vampiro – e, in quel preciso istante, era inginocchiato davanti a me ai piedi di quello stupido, scomodo divanetto, a soli pochi centimetri, con gli occhi dorati riversi nei miei.

“Non piangere”.

“E’ colpa mia”, singhiozzai.

Abbassai nuovamente lo sguardo sulle mie mani attorcigliate.

“No, non è vero”.

“Sì, invece!”, mi intestardii.

Ridacchiò dolcemente, scostandomi i capelli umidi di lacrime dal viso.

“El, guardami”, mormorò.

Obbedii. I suoi occhi erano così sinceri, così profondi che pensai di poterci annegare.

“Non è colpa tua, ce ne occuperemo noi”.

Per un attimo gli credei. Non perché fosse la verità, sapevo che era successo tutto a causa mia. Ma perché quegli occhi erano così sinceri da far apparire quella menzogna vera anche ai miei occhi lucidi.

“Mi dispiace”, mi ripetei ancora.

E crollai. Il magnetismo ebbe la meglio su di me, ancora una volta. Mi ritrovai con le braccia attorno al suo collo freddo, la sua camicia bagnata dalle mie lacrime tiepide.

Pensavo mi avrebbe allontanata, o più che altro frenata. Tuttavia, non fece nulla di tutto ciò.

Mi strinse al suo petto, cullandomi lievemente avanti e indietro, strofinandomi una mano sulla schiena nel tentativo di darmi conforto.

“E’ tutto okay, El. Tutto okay”, mi ripeté dolcemente all’orecchio.

Solo dopo qualche istante di silenzio, mentre il sole combatteva per mantenere un piccolo posto nel cielo già stracolmo di nubi, mi resi conto dell’incredibilità di quel momento. Della sua perfezione. E, soprattutto, della sua intimità.

Sollevai il viso, con un sorriso imbarazzato, quel tanto che bastava per vedere il profilo di Edward. Quel tanto che bastava per accorgermi che stava storcendo il naso.

Mi scostai lentamente, non senza difficoltà, e sorrisi brevemente.

“Scusami”, mormorai, “la doccia. Vado”. Feci per alzarmi.

Edward ridacchiò e, quando mi fui certa di riuscire a stare in piedi senza che la stanza girasse, lui era già in piedi, davanti a me, con la mano protesa verso di me. Quello non me l’aspettavo.

Mi incoraggiò con un sorriso a prendere la sua mano e l’afferrai, esitante.

“Forse dovresti mangiare prima”, mi consigliò.

“Forse”, acconsentii. “Ma dovrei costringervi al mio odore per metà mattinata”.

“Tu non…”, cominciò a contraddirmi, ma lo fermai con un gesto della mano.

“Quindi andrò prima a farmi una bella doccia e poi verrò giù a mangiare qualcosa”, conclusi con un sorriso.

“Tu non hai odore, ricordi? È solo colpa di quel cane se puzzi”, terminò la sua frase.

“Vorrà dire che farò una doccia lunga e rigenerante, così eliminerò ogni traccia”, replicai.

Mi piaceva avere l’ultima parola.

Edward  sorrise e mi lasciò la mano. Il suo sguardo tradiva qualche nuova emozione, ma non le seppi identificare.

“Okay, a dopo”, mi congedai, ormai giunti alla porta del bagno.

“A dopo”, acconsentì con un cenno della testa.

Sembrò esitare, appena prima di voltarsi e allontanarsi da me.

Si fermò qualche passo dopo e fece marcia indietro. Lo osservai, impietrita, avvicinarsi fino a quando non fu a pochissimi centimetri.

“Non metterci troppo. Ti aspetto di sotto”, mi mormorò all’orecchio, mentre un brivido che non aveva nulla a che vedere con freddo e paura mi percorreva la schiena.

Mi baciò la guancia di sfuggita.

Lo guardai, ancora paralizzata, mentre sfilava via. Lasciai scorrere qualche secondo. O forse più.

“Okay”, sussurrai balbettando, troppo tardi perché potesse udirmi.

Alienata, entrai in bagno, e fluttuai fino alla doccia. Mi sentivo come sollevata da terra, leggera e senza pensieri. Rimasi sotto il getto d’acqua bollente per molto tempo. Forse troppo.

Temevo che da un momento all’altro Rosalie si sarebbe precipitata in bagno, con il pretesto di assicurarsi che stessi bene, interrogandomi senza pietà fino a quando non avrei raccontato tutto quello che era successo.

Con un lamento che avrebbe potuto sembrare benissimo un grugnito, uscii di malavoglia dalla doccia e mi avvolsi rapidamente nell’asciugamano, prima che il caldo vapore che mi avvolgeva potesse essere divorato dal freddo di fine Marzo.

Mi guardai allo specchio, per più di metà completamente appannato. Se solo non avessi saputo che quello era uno specchio, probabilmente non mi sarei riconosciuta. Sembravo uno zombie, con tanto di occhiaie cangianti. Variavano da un tenue azzurro-blu ad un più consono viola grigiastro. Uno zombie, insomma. O un pugile appena pestato. C’era un’ampia scelta.

Certo, probabilmente se in quella casa fossi riuscita a dormire invece di saltellare qua e là per i boschi, probabilmente non sarei stata conciata così. Mi avvicinai allo specchio, passandomi entrambe la mani sul viso e lasciandole scivolare fino al collo, dove le lasciai, coprendomi la mia cicatrice relativamente nuova. Non mi ero ancora abituata a vederla, e ogni volta mi faceva rabbrividire. Sentii bussare alla porta.

Mi affrettai, infilandomi nei vestiti con una rapidità che mi sorprese.

Un altro colpo. Toc- toc.

“Un attimo!”, intimai con quanta gentilezza potessi esprimere in quel momento, mentre saltellavo per entrare nei jeans e al contempo avevo una scarpa dispersa per l’immenso bagno.

 “El?”, domandò una voce che non riconobbi subito.

Ma non era Rose, come avevo pensato. Meglio così, pensai.

Mi guardai un’ultima volta allo specchio per sistemarmi e mi ravviai i capelli umidi.

Aprii la porta.

“El”, disse in un sussurro dal quale tuttavia trapelava sollievo.

Presi immediatamente colore. Anche se non avevo modo di controllare il mio viso allo specchio, non ne avevo bisogno per affermare che il mio volto aveva assunto toni che andavano dal rosa scuro al più appropriato rosso scarlatto.

Mi passai nervosamente nei capelli, spostandoli da un lato.

“Stai molto meglio così”, ammise con un sorriso, “lascia scoperto di più il tuo viso”.

Mi sentii sciogliere.

“Ciao Edward”, mormorai abbozzando un sorriso, fluttuando a circa un metro da terra. “Come mai qui?”.

“Non uscivi più, ero venuto a controllare che stessi bene”, mi rivolse un mezzo ghigno.

“Ah, divertente. Stai cercando di rubare il mestiere a Emm?”, chiesi, saltellando fuori dal bagno.
“Pensavo mi preferissi a lui”, disse scherzando, “ma non importa”.

Fece spallucce, fingendo un’espressione avvilita e guardandomi di sottecchi.

“Come fai a esserne così certo?”, lo stuzzicai avvicinandomi.

Probabilmente ero stata troppo sotto l’acqua calda. Ma che diavolo stavo facendo?

“Non è così?”.

Feci anch’io spallucce, mentre il mio personale Grillo Parlante mi urlava nella testa, chiedendomi cosa diamine stessi combinando.

Non lo so!, avrei voluto rispondergli.

Tuttavia, un monologo ad alta voce, in quel momento, non mi sembrava l’idea migliore.

“Potrebbe”, acconsentii con un sorriso.

Il sorriso truffatore comparve all’unisono anche sul suo volto. Quel sorriso aveva il potere di stregarmi.

“Avrai fame”, disse Edward.

“Non molta”, mentii.

Una sottospecie di ruggito squarciò il silenzio e fece scoppiare entrambi in una risata.

“Oh sì, non molta”, commentò Edward divertito.

“Stupido stomaco”, borbottai.

Sembrava mi aspettasse al varco, che attendesse sempre il momento migliore per mettermi al meglio in imbarazzo. Tuttavia, non potevo ignorarlo. Per questo mi fiondai in cucina a recuperare qualche biscotto e un paio di barrette al cioccolato. L’espressione “qualche biscotto” forse non era la più esatta. Divorai quasi tutto il pacchetto e, una volta finito, mi sentii finalmente sazia.

Trotterellai fino al divano, che ormai era diventato il mio rifugio quotidiano.

Edward si era defilato abilmente dicendo che “aveva ancora dei documenti da ritirare”, lasciandomi sola, ed io ero rimasta a guardare, come un vegetale, il susseguirsi delle immagini proiettate dal televisore, senza vedere nulla in realtà.

Senza rendermene conto, ricominciai a pensare a quella mattina, alla bizzarra alchimia che si era creata tra di noi e una strana sensazione mi avvolse. Anzi, sarebbe più corretto dire che m’investì.

Dopo qualche minuto che ci rimuginavo, fui costretta ad alzarmi. Mi sentivo iperattiva, come una molla pronta a scattare da un momento all’altro.

“’Giorno piccoletta”, mi disse ridacchiando Emmett mentre scendeva le scale con un ghigno stampato in faccia.

Quando mi fu vicino, mi spettinò i capelli con una mano, schiacciandomi la testa.

Ehi!”, esclamai, ritraendomi velocemente da quel gigante forzuto e dispettoso.

“Buongiorno anche a te”, aggiunsi sarcastica.

Poco dopo arrivò anche Rose, seguita a ruota da Alice e Jasper.

“Carlisle e Esme?”, domandai dopo che li ebbi salutati.

“Carlisle è in ospedale, al lavoro, mentre Esme ha accompagnato Edward a Seattle”, mi rispose Alice, con il sorriso sulle labbra.

“Seattle?”, ripetei sorpresa.

“Sì, doveva occuparsi di alcune pratiche e documenti da ritirare”.

Feci spallucce, cercando di mascherare in qualche modo la mia sorpresa.

Seattle era abbastanza lontana, non sarebbe tornato presto. E io mi sentivo ancora una molla caricata.

“El?”, mi chiamò Rosalie con quello sguardo implorante che avevo imparato a riconoscere.

“No”, tagliai corto. Non avevo voglia di raccontarle i fatti miei, filo per segno.

“E dai, per favore”, supplicò guardandomi negli occhi con intensità bruciante.

Ah!”, esclamai esasperata, alzando le braccia al cielo, “e va bene!”.

“Dai, almeno aiutami a scegliere cosa mettere”, e con quella scusa mi trascinò a forza al piano di sopra. “Allora, raccontami!”, mi incitò Rosalie una volta che fummo in camera sua, davanti all’armadio pieno di vestiti.

Le raccontai a grandi linee quello che era accaduto, mentre lei si provava decine e decine di capi.

Il resto della giornata trascorse all’incirca allo stesso modo, in maniera diversa a seconda dei momenti, ma con un pensiero che era sempre lì, pronto a fare breccia nella mia mente con la violenza di un ariete. Sempre lui. Sempre Edward.

Qualcuno è giusto un po' ossessionato xD Ah niente! Spero sempre che qualcuno mi degni di recensioni e/o opinioni di qualunque natura. In caso contrario ci si becca la prossima settimana . Buon weekend a tutti! :)

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Capitolo 13
*** Memoria. ***


Buonasera a tutti! Ho deciso di postare in anticipo perchè questo sarà un finesettimana parecchio movimentato - eufemismo! - e quindi rischierei di dimenticarmi o non avere tempo. Spero non vi dispiaccia :)

Capitolo 13. Memoria.

Quella sera, quando Alice mi accompagnò in camera di Rosalie per dormire, era ancora molto presto. Approfittai della breve assenza di Rose ed Emmett per appropriarmi della loro stanza.

Mi sentivo stravolta, come se avessi spostato una montagna.

Augurai la buonanotte a tutti gli abitanti della casa e, dopo essermi lavata i denti e pettinata i capelli fino all’esasperazione, nella speranza vana che riuscissi a renderli lisci, andai a letto rapidamente.

Nonostante la stanchezza, riuscivo ancora a percepire la molla pronta a scattare. Era strano sentirsi così, ma non del tutto spiacevole. Mi sentivo viva e all’erta. Rimasi nel letto, raggomitolata sotto le coperte, mentre un mare di pensieri mi affollava la mente. E proprio come un mare, come un’onda insistente sotto la forza dell’alta marea, il pensiero di Edward continuava ad assillarmi. Ero improvvisamente scocciata dall’effetto che aveva su di me. Tuttavia, sapevo di non poterci fare niente. Rimasi a crogiolarmi nei miei pensieri, nelle mie domande, fino a quando, vinta dalle quaranta ore che avevo alle spalle senza chiudere occhio, la stanchezza ebbe la meglio sulle mie palpebre, che si chiusero docilmente.

 

Non fu come la volta prima, e per questo mi resi conto sin da subito di quello che stava succedendo.

Era il genere di sogno in cui sai che stai sognando, e tuttavia sai che non potrai svegliarti finché il sogno non si conclude. Perciò attesi, consapevole.

Fu da subito ovvio che cosa stessi sognando: la foresta era uguale alla precedente. Tuttavia, c’era qualcosa di radicalmente diverso. La foresta era la stessa, ma stavolta mi trovavo già nel piccolo spiazzo dove il fuoco ardeva e scoppiettava. Ma non era deserto come la volta prima, c’erano diversi ragazzi sparsi per la piccola radura. Notai diverse figure, tra cui la mia. Questa volta appariva sana, sorridente, a differenza dell’ultima volta. Mi osservai con attenzione mista a curiosità, mentre a poco a poco riuscivo a ricomporre il puzzle della mia memoria.

C’erano proprio tutti: Jess, Sue, Eric, Cindy, Grace, Daniel. Daniel. Sentii un tuffo al cuore nel vederlo.

Notai Eric che mi si avvicinava, una strana espressione sul suo volto pallido, celata malamente dagli occhiali sottili poggiati sul naso. Eric era il classico secchione carino. Intelligente, senza dubbio, e di bell’aspetto. Tuttavia era dotato dell’umorismo di un’ape rimasta intrappolata nel costume, e questo bastava perché la mia stima del suo quoziente intellettivo calasse vertiginosamente.

Mi si avvicinò.

“Due passi?”, sbottò con la sua consueta delicatezza.

Annuii semplicemente, mentre si incamminava in tutta rapidità verso il bosco.

Mi afferrò il braccio, appena sotto il gomito, e prese a trascinarmi attraverso lo spiazzo.

Sfilammo velocemente davanti a tutti gli altri. Scorsi Daniel in un angolo, che mi guardava incuriosito. Mi limitai a rispondergli con un cenno della mano ancora libera e uno sguardo confuso, mentre facevo il verso a Eric alle sue spalle. Sorrise divertito.

Daniel era il mio migliore amico, da sempre. Non mi ricordo di aver mai avuto un amico migliore di lui. Era il classico bel ragazzo, sportivo e sveglio, quello che tutte le ragazze desiderano portare al ballo di fine anno e presentare ai propri genitori. Io, invece, mi limitavo a considerarlo quasi un fratello. Tuttavia, non potevo negare di aver avuto anch’io il mio momento “cotta per il migliore amico”, che però era passato, per mia fortuna, alla svelta.

Era biondo, con folti capelli sparati e drizzati in tutte le direzioni nelle più disparate creste. Aveva un fisico davvero notevole e occhi cangianti, che oscillavano tra il verde ed il marrone.

Eric prese a trascinarmi più veloce e lanciai a Daniel uno sguardo esasperato. Lui ridacchiò.

Eric camminò a passo di marcia fino a quando, ormai irritata, non lo superai in velocità e mi fermai davanti a lui.

“Allora?”, chiesi scocciata.

Sospirò profondamente.

“Ho bisogno di parlarti”, disse con lo sguardo piantato sui suoi piedi.

“Sono qui, illuminami”, commentai acida.

L’espressione che c’era nei suoi occhi quando si decise a sollevare il volto mi sconcertò.

Cercai di calmarmi.

“Eric”, sospirai, “dimmi pure, ti ascolto”.

Mi condusse ad un piccolo masso, piatto e grigio, su cui ci sedemmo.

“Ecco, vedi…è per Sue”, ammise timidamente, forse arrossendo un poco.

Non potevo esserne sicura, a causa del buio che c’era tra gli alberi.

Sue aveva una cotta segreta per Eric da mesi, forse dal primo giorno in cui era arrivata nella nostra scuola. Era l’ultima arrivata, e trovata Eric spiritoso ed intelligente, oltre che carino. L’aggettivo che più mi sorprendeva accanto al nome di Eric era spiritoso.

“Tu sei sua amica e…”, il suo farfuglio si andò perdendo nel silenzio della foresta intorno a noi.

“Sì?”, lo esortai.

“Beh volevo chiederle di uscire, ma volevo sapere prima da te se era una cosa…da fare”, mormorò. “Se ne vale la pena, ecco”.

“Eric, non pensarci, sono sicura che Sue accetterà di uscire con te”, lo rassicurai con un mezzo sorriso imbarazzato. Dovevo dirgli che Sue aveva una cotta per lui?

Mi ravviai i capelli con una mano, spostandoli da un lato, e mi alzai. Meglio sfuggire in fretta alle situazioni imbarazzanti.

“Okay”, annuì con poca convinzione. “Se lo dici tu”.

Tornammo in silenzio alla radura dove tutti gli altri ci aspettavano e vidi con soddisfazione che Eric si avvicinava timidamente a Sue. Saltellai vicino a Daniel che mi squadrò curioso.

Feci spallucce, rassicurandolo con un gesto della mano. Era meglio non alimentare i pettegolezzi.

“Dov’è Mel?”, chiesi ad un tratto, notando la mancanza di qualcuno.

“Non so, è andata con Jess un attimo via”.

“Ah”, risposi.

Ripresi a parlare con gli altri, ma mi fermai all’improvviso. C’era qualcosa che non mi quadrava.

“Sai dov’è andata?”, domandai nuovamente a Daniel.

“Credo di là, verso il fiume nel bosco”, mi indicò con un cenno disinteressato.

“Vado a cercarla, tienimi il posto”.

“Okay”.

Mi alzai rapidamente, senza badare a Eric e Sue che chiacchieravano allegramente in un angolo vicino al fuoco. Le fiamme illuminavano in modo singolare la piccola radura che ci ospitava.

Gli alberi, così tanti che si perdeva il conto degli innumerevoli tronchi tutt’intorno a noi, erano rischiarati solo in parte. Le foglie che ne occupavano i rami brillavano di un rame acceso, come se fossero fatte di metallo arrugginito.

Mentre mi incamminavo verso il punto indicato da Daniel, mi resi conto della sconcertante consapevolezza di non essere in grado di richiamare alla memoria il viso di Mel. Avevo solo un vago ricordo, debole, e temevo potesse scomparire con il primo soffio di vento tra i miei capelli. Mi affrettai a cercare Mel e Jess; ora più che mai avevo bisogno di vederla.

“Mel?”, chiamai esitante, dopo che il buio della foresta mi ebbe avvolta.

Nessuna risposta, il silenzio cresceva.

“Jess?”, riprovai. Niente.

Sentii il panico affiorare e feci dietrofront, spaventata di non riuscire più a trovare la strada per tornare allo spiazzo d’erba.

“El?”, una voce familiare mi avvolse nella sua familiarità.

“Dan? Daniel dove sei?”, lo chiamai.

Riuscii a scorgere un bagliore fioco in lontananza, tra gli alberi, e poco dopo notai una figura che veniva verso di me.

“Oh, eccoti finalmente”, mormorai sollevata.

“Mi sono accorto che eri andata via senza la lanterna e sono venuto a cercarti”.

“E’ troppo buio qui, non le ho trovate”, dissi avvilita.

“Sono arrivate qualche secondo dopo che te ne sei andata”, ridacchiò Daniel.

Anche con quella debole luce riuscivo a vedere il suo sorriso brillare nel buio.

“Oh, perfetto! Solita fortuna”, borbottai.

“Dai, torniamo indietro”, concluse Daniel dandomi un colpetto sulla spalla.

Mi limitai ad annuire e lo seguii, accodandomi al fascio di luce.

Fu a quel punto, mentre una lieve brezza soffiava dietro di noi, che sentii dei passi. Altri passi.

“Dan?”, chiamai esitante.

Non ero il genere di persona facilmente impressionabile, non per così poco. Dopotutto avrei potuto benissimo essermelo immaginata. Tuttavia, nel buio della notte che faceva da padrona, quel lieve rumore mi provocò un brivido lungo la schiena non da poco.

“Che c’è?”, domandò Daniel fermandosi davanti a me.

Mi arrestai di colpo, andando a sbattere contro la sua schiena.

“Scusa”, bofonchiai, “è solo che mi è sembrato di sentire dei passi”.

“Io non ho sentito nulla, dai muoviti”.

A prova della mia tesi, altri passi silenziosi tornarono a riempire il silenzio del bosco.

Ci guardammo in silenzio, scambiandoci uno sguardo dapprima spaventato e poi sempre più teso.

“El, muoviti”, mi esortò Dan, afferrandomi per un braccio con più foga del necessario e spingendomi davanti a lui.

Riuscivo a scorgere il limitare della radura, illuminata dall’allegro fuoco scoppiettante, dove quell’ansia che mi stava divorando era solo una stupida fantasia. Incespicai, affrettandomi per raggiungerla. Quando ormai ero a pochi, pochissimi metri dalla mia meta, mi accorsi di un insolito silenzio alle mie spalle. Troppo, troppo silenzio.

Percepii la stretta al mio braccio allentarsi.

Nessun altro rumore ad eccezion fatta per il rimbombo sordo e affrettato del mio cuore, che sembrava rimbalzare nella mia testa. Avevo paura di voltarmi, nonostante sapessi che dovevo farlo.

“Dan?”, farfugliai.

Mi sentivo come impietrita, la mente vigile, forse fin troppo, mentre il corpo sembrava totalmente staccato ed indipendente da essa. La presa che mi strinse il braccio subito dopo, con forza che non mi aspettavo, mi diede un sollievo momentaneo. Nel tempo che impiegai a costringermi a voltarmi e realizzare che quella presa non poteva certamente essere di Daniel, cominciarono le grida.

Davanti a me c’era una figura scura, con un cappuccio portato fino ad oscuragli il volto.

Inizialmente prestai attenzione solo alle urla che mi circondavano, come un’immensa bolla ovattata, ma quando mi parve di vedere le labbra di quell’individuo piegarsi in un ghigno, riuscii a riconcentrarmi. Riuscivo solo a delinearne i confini, tuttavia avrei potuto giurare che stesse sorridendo. Un sorriso che mi raggelò dalla testa ai piedi, fino a quando non mi forzai a respirare.

“Come stiamo, signorina?”, mi chiese con voce suadente.

“Dov’è Daniel?”, balbettai.

L’uomo di fronte a me si limitò ad indicarmi un punto imprecisato sul terreno, tra i tronchi, con un gesto noncurante della mano.

“Dan!”, gridai.

Tentai di sfuggire alla presa ferrea che mi tratteneva il braccio in una morsa simile a ghiaccio ed acciaio. Senza successo.

Mi inginocchiai il più vicino possibile a Daniel, accasciato in un angolo, apparentemente svenuto.

“Cosa…cosa gli è successo? Che gli hai fatto?”, domandai balbettando.

Cercai di inghiottire il groppo che mi si era formato in gola.

“Non ti preoccupare, non è lui che mi interessa”, sussurrò dolcemente.

Quella frase mi spiazzò.

Rimasi in silenzio, accovacciata di fianco al mio amico, senza alzare lo sguardo, per diversi istanti.

Quell’uomo sembrava attendere di buon grado. Sentii la sua mano infilarsi tra i miei capelli, percorrendone la lunghezza. Inspirai a fondo, mentre un brivido gelido, solo una debole eco della paura che provavo in quel momento, mi percorse.

Alzai lo sguardo fino ad incontrare il suo.

La lanterna di Daniel era per terra, a qualche passo da noi, ed illuminava solo parzialmente il suo profilo. Vidi ancora una volta il suo sorriso riempirgli il volto, di cui non vedevo gli occhi, e capii che ero in pericolo.

Non il genere di pericolo legato ad un uomo misterioso in un bosco. Quel sorriso mostrava una crudeltà che non ero nemmeno riuscita a credere di immaginare.

“Starà bene”, disse sorridendo, “di questo non devi preoccuparti”.

Il modo in cui aveva formulato quella frase completò il puzzle. Lui sarebbe stato bene. Io no.

“Cosa vuoi?”, domandai nel breve lampo di coraggio che mi restava.

“Oh, è semplice”, sogghignò, “te”. “Sai…”, continuò, “hai un buon odore, e vorrei accertarmi del sapore se non ti dispiace”.

Lo guardai attonita, trattenendo il respiro.

Avrei voluto gridare, muovermi, scappare fino a quando non fossi stramazzata al suolo, con il fiato corto ed i muscoli in fiamme. Tuttavia, i miei arti sembravano non rispondere ai miei comandi, paralizzati dalla paura, come se appartenessero a qualcun altro.

La lanterna a pochi metri da me sembrava essere l’unico punto di luce nel raggio di chilometri.

Non mi sfioravano nemmeno più le grida che avevo intorno. Raccolsi la volontà e mi feci forza.

Mi alzai con estrema lentezza, mentre cercavo un qualsiasi appiglio in grado di prolungare la mia vita abbastanza a lungo da trovare una soluzione.

“Chi sei?”, domandai.

“Mi chiamo Claude”, rispose con un sorriso gentile, “e tu sei?”.

“Elizabeth”, mormorai facendo un passo di lato.

La sua stretta non accennava ad allentarsi e il suo sguardo, di cui non vedevo l’origine, ero certa che mi seguisse con estrema rapidità.

“Un nome antico, molto bene”, commentò senza smettere di sorridere, “posso sapere il perché?”.

“Era di mia nonna”, la mia voce sembrava stesse lottando per un soffio d’ossigeno.

Mi sentivo affogare, mentre il panico mi avvolgeva e mi trascinava giù senza darmi modo di reagire in alcuna maniera. Mi feci coraggio, azzardando un altro passo verso la lanterna.

“Mi sei simpatica, Elizabeth. Peccato che…”, lasciò la frase in sospeso, rimpiazzandola con un ghigno crudele.

“Cosa vuoi da me?”, lo interruppi.

Volevo guadagnare tempo, ma più di tutto volevo impedirgli di pronunciare quelle parole che avrebbero segnato la mia fine.

Un altro passo.

“Niente di che, dolcezza”, disse, “O meglio, sarebbe più adatto dire niente di personale in questi casi”.

A quel punto caddi in ginocchio. La lanterna era a meno di venti centimetri da me, potevo sentire il lieve tepore irradiarsi intorno a me.

“No, non fare così”, mi accarezzò nuovamente i capelli, inspirando profondamente.

Si inginocchiò a sua volta, portando il suo viso a pochi centimetri dal mio. Ormai non facevo più caso ai brividi che mi percorrevano. Per un breve istante incontrai i suoi occhi e mi parve di rivedervi il suo sorriso.

Rosso. Uno sconvolgente rosso cremisi prendeva posto nelle sue iridi brillanti e crudeli.

“Prometto che farò veloce, non sentirai nulla”, sussurrò avvicinandosi ancora al mio viso.

Percepivo la maschera d’orrore sul mio volto, i miei occhi vitrei e le labbra secche. Lasciò scivolare la sua mano dai miei capelli fino ad accarezzarmi la guancia.

Sorrise nuovamente prima di posare le sue dita fredde nell’incavo del mio collo.

In quell’istante di totale silenzio mi accorsi che le grida erano cessate.

Mi scostò i capelli e mi piegò il collo leggermente all’indietro. Terrorizzata, non riuscivo ad imporre resistenza.

In uno spasmo di lucidità cercai tentoni la lanterna riversa al suolo e l’afferrai, per poi lanciarla con quanta forza mi fosse possibile contro il suo viso.

Percepii il vetro che andava in frantumi e la debole fiamma all’interno sprigionarsi.

Un gemito nacque dall’uomo chinato di fronte a me. Scattai in piedi, correndo via.

Sentivo la terra volare sotto di me; non avevo mai corso tanto veloce prima. Superai velocemente i tronchi che mi separavano dalla radura e, se possibile, accelerai. Sentivo l’adrenalina volare nelle mie vene.

Un colpo, qualcosa di così forte che non credevo possibile, mi fece perdere l’equilibrio.

Caddi a terra bocconi, tentando di sorreggermi con le braccia, che tremavano come foglie. Sentii la testa pulsarmi mentre il dolore prendeva posto nel mio corpo.

Vidi quell’uomo, Claude, di nuovo di fronte a me e capii che ormai non potevo fare più nulla.

“Avevo appena detto che mi eri simpatica”, disse con una calma che non fece che accrescere la mia paura, “Così hai appena complicato le cose, signorina”.

Sollevai lo sguardo.

Una figura in lontananza mi fece sorridere e, tuttavia, provare ancora più paura.

Al limitare della radura, dalla quale ormai ero lontana, riuscii a scorgere il profilo di Daniel che si sorreggeva ad un tronco. Mi fissava, come se volesse intervenire.

Raccolsi la voce ed il coraggio rimasti.

“Daniel, corri!”, strillai con quanta voce avessi ancora in corpo.

Sentii la mia voce incrinarsi per lo sforzo, salendo di parecchie ottave fino a toccare un acuto che fece male ai miei stessi timpani.

Claude si voltò, quel sorriso crudele che avevo imparato a temere come nient’altro stampato in viso.

Daniel mi fissò incerto e fece un passo in avanti.

“Daniel, vai via di qui!”, urlai nuovamente mentre le lacrime che tanto avevo represso cominciavano a sgorgare senza fine.

“Ragazzo ascoltala, non voglio farti del male”, gli intimò Claude.

Per un attimo, gli fui grata.

“Daniel, ti prego!”, dissi nuovamente, ma la mia voce sembrava rifiutarsi di uscire.

Claude mi sorrise, inginocchiandosi di nuovo accanto a me.

Prima che la sua figura mi oscurasse il resto della foresta, mi accorsi che Daniel aveva preso il volo verso la salvezza. Quasi sorrisi.

“Vediamo signorina, perché hai tentato di scappare?”, mi chiese gentilmente.

Notai con sgomento che il fuoco che gli aveva invaso il viso poco prima lo aveva semplicemente scalfito, procurandogli delle lievi abrasioni ma nulla di più.

“Che domanda stupida, scusami”, disse dopo qualche attimo di silenzio. “Solo che ormai non posso lasciarti in vita”, sussurrò al mio orecchio. “A proposito, mossa furba quella del fuoco”.

Ero terrorizzata, e cercai inutilmente di scivolare via.

Mi lasciò allontanare semplicemente di qualche metro, giusto in tempo per giungere nuovamente nella radura dove il fuoco insisteva a scoppiettare, prima di afferrarmi con forza per i capelli.

Sentii la sua mano che mi strappava diverse ciocche prima di lanciarmi, con facilità e velocità sorprendente, contro il tronco di una quercia.

L’impatto fu orribile. Percepii la mia testa sbattere con forza contro il tronco ed accasciarsi da un lato. Claude mi fu davanti in meno di un secondo.

A quel punto sapevo perfettamente come sarebbe finita, il lento susseguirsi degli eventi che di lì a poco sarebbero accaduti, ma non riuscivo a calmarmi.

“Come stiamo, signorina?”, recitò nuovamente.

Sapevo che era inutile, stupido, ma cercai ugualmente di strisciare via.

Con un sospiro, Claude premette il suo piede sul mio braccio. Inizialmente non percepii il dolore, ma solo la paura. Dopo alcuni istanti, un grido stracciò il silenzio. Il mio.

“Bizzarro”, mormorò il mostro accovacciato ora di fronte a me, “Il tuo odore è sparito nel nulla”.

Sembrò rifletterci qualche istante, pensieroso.

“Forse è meglio che mi sbrighi”, concluse sorridendo.

Tentai nuovamente di strisciare via, ma non potevo scappare.

La sua figura scura e imponente torreggiava sopra di me, con il viso ad un palmo dal mio.

“Stalle lontano, Claude!”, ruggì una nuova voce, rompendo il silenzio.

Claude si scostò di qualche centimetro dal mio volto, abbastanza da vedere chi l’avesse disturbato.

“E tu chi sei, scusa?”, domandò confuso, sorridendo beffardo.

“Stalle. Lontano. Ho. Detto.”, ripeté quella voce. “Subito”, gli intimò ancora una volta.

“Non credo che lo farò, ragazzo. Non senti il suo sangue?”.

Alcune lacrime ripresero a rigarmi le guance, senza che potessi fermarle.

“Claude. Allontanati”, minacciò la voce, adirata.

Sollevai il viso quanto bastava per osservare lo sventurato che stava cercando di fermare quel mostro. Mi sembrò di essere già morta.

Ero morta e non me ne ero accorta? Non c’erano altre spiegazioni possibili.

La debole luce del falò che stentava a crepitare in un angolo della radura bastava a svelare il profilo di quell’incredibile figura pallida e slanciata. In quel momento mi parve di non sentire alcun dolore.

Tuttavia, bastò voltarmi e rivolgere lo sguardo a Claude, i suoi occhi orribilmente rossi e crudeli a solo pochi centimetri dai miei, per farmi crollare la realtà nuovamente addosso.

Ad un tratto Claude mi sporse verso di me, ignorando completamente quella creatura sfuggita ad un sogno, appoggiando una mano sulla mia spalla e l’altra sulla mia nuca, per poi posare qualcosa di gelido sul mio collo. Le sue labbra.

 

Mi svegliai di soprassalto, le labbra secche dischiuse in un grido muto.

Sentivo il cuore volare, i suoi battiti si rincorrevano con velocità impossibile, rimbombando nelle mie tempie. Mi sedetti sul letto, incrociando le gambe con un sospiro. Il debole led verde della piccola radiosveglia posta sul comodino mi avvertiva che la mezzanotte era passata da poco.

Solo un sogno, mi dissi, è tutto okay.

Mi passai una mano tra i capelli, bagnati di sudore. Affondai il viso nelle mani, cercando di calmarmi. Quando riuscii a respirare più regolarmente, anche i battiti cominciarono ad assumere un ritmo più normale. Mi lasciai cadere nuovamente sul materasso, preda dei miei pensieri.

Mi rannicchiai sotto le coperte, cercando di riprendere sonno e di scacciare le immagini di quell’incubo che altro non era che un semplice, orribile ricordo.

Sentivo la pioggia ticchettare impaziente fuori dalla finestra, in attesa come me del nuovo giorno.

Nel tentativo di riprendere sonno, richiamai alla mente quello che era successo quella mattina.

Quelle immagini, quei sorrisi, quella strana alchimia creatasi tra di noi.

Poco a poco, quasi con un sorriso rilassato sulle labbra, mi riaddormentai mentre la pioggia non accennava a rallentare il suo ritmo accelerato ed incessante.

Beeeeeene! Allora, commenti? Che dire, spero che Claude non vi abbia impressionato xD No, vabbè. E' un tipo educato dopotutto. Comunque! Ci tengo a ringraziare tutti i lettori silenziosi che mi seguono, senza necessariamente commentare qualcosa. Grazie :)
Ah e poi vorrei ringraziare - visto che ci sono xD - Carli e Fà che mi postano in pagina anche se ormai non mi sopporteranno più, e Jen che mi recensisce e mi saluta sempre. Tu sei meravigliosa!

Eeee poi niente, a sabato prossimo!  Buona settimana a tutti :)

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Capitolo 14
*** Primo giorno. ***


Bene, buongiorno! Bando alle ciance, vi posto il capitolo in fretta che devo andare a vedere Non Lasciarmi u.u Fatemi sapere cosa ne pensate, ok? Questo capitolo è piuttosto lungo, e c'è una piccola sorpresa per El.
Ci terrei a dedicare questo capitolo alla mia Angelica personale, che sinceramente non so se legga o meno questa storia(probabilmente se n'è dimenticata come al solito), però sono dettagli.
(Meno male che avevo detto "bando alle ciance" xD)

Capitolo 14. Primo Giorno.

Mani fredde mi toccarono il viso, mentre riuscivo a percepire la debole luce filtrare dalle finestre.

“Ehi, Bella Addormentata?”, mi chiamò una voce fin troppo familiare.

Non risposi in alcun modo, avevo ancora troppo sonno.

“Ti svegli da sola o devo chiamare il tuo Principe Azzurro?”, scherzò ridacchiando.

Grugnii scocciata, voltandomi dall’altra parte e nascondendo la testa sotto il cuscino.

“Dai, El, muoviti!”, mi esortò, dandomi dei deboli spintoni per cercare di avere qualche risposta.

Rose!”, esclamai esasperata, aprendo gli occhi.

Non mi mossi.

“Oh, finalmente”, commentò ridendo, “Dai muoviti che facciamo tardi”.

C’era qualcosa che non mi tornava, c’era troppa luce in quella stanza.

“Tardi per cosa?”, bofonchiai da sotto il cuscino.

Uscii allo scoperto e capii cosa non tornasse.

“Ehi, aspetta”, dissi, “perché sono nella stanza di Alice adesso?”.

Avrei giurato di essermi addormentata in quella di Rosalie.

Mi voltai. Rosalie ridacchiò.

“Sì, Emmett ti ha scarrozzata di qua appena rientrati ieri sera”, ammise con un ampio sorriso.

La fissai, fingendomi tradita.

“Scusami El, sai com’è…io ed Emm avevamo bisogno della stanza e…”.

Sgranai gli occhi, lanciando un braccio a mezz’aria nel tentativo di zittirla.

Ah!”, esclamai, “non voglio saperlo, Rose!”.

Rosalie rise di gusto, scompigliandomi i capelli.

“Dai, muoviti che è già tardi”, ripeté per poi scostarsi da me.

Con grazia, si alzò dal letto e si avviò verso l’uscita. Quando fu a pochi passi dalla porta, la chiamai.

“Rose?”.

“Sì?”.

“Tardi per cosa?”.

La sola risposta che riuscii ad ottenere fu un sorriso smagliante ed un’occhiata che ricordava un bambino che progetta furti di caramelle.

“Lo vedrai”, ridacchiò una volta uscita.

Confusa, mi sedetti sul letto. Nonostante la nottata, per più di un verso da incubo, mi sentivo riposata e sveglia. Mi passai una mano tra i capelli, spostandoli da un lato, e sbadigliai.

All’idea di alzarmi, la stanchezza sembrava tornare a farmi visita. Cercai di raccogliere un po’ di forza di volontà e mi costrinsi ad alzarmi. Poco a poco, scivolai placidamente giù dal grande materasso sul quale ero stata scaricata durante la notte.

Arrancai fino al bagno, dove tentai di svegliarmi con ripetuti schizzi di acqua gelida sul viso. Sciolsi poi il groviglio che avevo in testa e mi diressi al piano di sotto, dove tutti mi stavano aspettando.

Il modo in cui tutti mi guardavano era strano, come se mi stessero nascondendo qualcosa.

Guardai Esme con aria interrogativa e lei si limitò a sorridermi, stringendosi nelle spalle.

Qualunque cosa stesse accadendo, non me la raccontavano giusta.

Ingurgitai una quantità di biscotti impressionante. Evitai di domandarmi dove trovasse posto tutta quella roba nel mio corpo. Mentre mangiavo, i solleciti da parte di Alice, Rose ed Emmett furono frequenti ed impazienti.

“Dai, su, sbrigati El!”, continuavano a ripetermi, cantilenando senza sosta.

Quando ebbi finito, Rose e Alice mi afferrarono per i gomiti e mi trascinarono a forza di sopra.

Fui sorpresa di non vedere ancora alcuna traccia di Edward in casa. Avevano detto che sarebbe tornato entro sera. Evitai di pensarci mentre Alice e Rosalie mi trainavano qui e là per le stanze.

“Prima i vestiti”, costatò Alice.

“Giusto”, le diede ragione Rosalie, con un sorriso sulle labbra che parlava da sé.

Mi ritrovai in camera di Rose, immobile davanti allo specchio imprigionato tra le ante dell’immenso armadio a muro, mentre Alice e Rosalie sfrecciavano davanti a me con abiti di ogni tipo. Li esaminavano, avvicinandomi i capi al busto per poi gettarli via. Andammo avanti così per cinque minuti buoni. Alla fine, mi ribellai.

“Volete spiegarmi che diavolo succede?”, esclamai, gettando le braccia in aria.

Le due squilibrate al mio fianco si scambiarono un ghigno complice, ignorandomi, e ripresero le loro attività maniacali. Dopo altri cinque minuti, che a me parvero pressoché ore, Alice esclamò soddisfatta.
“Questo è perfetto!”.

La guardai attonita, mentre faceva oscillare con aria soddisfatta una maglia dall’aspetto costoso e soffice.

“Perfetto per cosa?”, domandai esasperata.

“Su, mettitela”, mi intimò Rosalie.

Era una congiura. Grugnii qualcosa di incomprensibile e la infilai, non senza difficoltà.

Per la prima volta da quando mi ero svegliata, quando la mia testa finalmente sbucò dal collo della maglia, rivolsi lo sguardo alla radiosveglia sul comodino. Segnava le sette e venti.

“Aspettate. Voi siete pazze”, quasi strillai, “mi avete svegliata per giocare a Barbie-vesti-e-trucca alle sette?”.

“Vedo che hai già capito il prossimo passo”, sogghignò Alice.

Rassegnata, sbuffai e le lasciai fare. Quando riuscii a guardare per la seconda volta la sveglia, segnava che mancava solo qualche minuto alle otto. Rosalie e Alice sembravano aver concluso la loro brillante sfilata e mi osservavano come se fossi un pezzo da esposizione. I loro sorrisi brillavano nella penombra azzurrata della stanza.

“Volete per favore dirmi che cosa state tramando voi due?”.

Per tutta risposta, mi afferrarono nuovamente per un braccio e mi trascinarono davanti all’armadio di Rose.

“No, di nuovo no”, supplicai.

Con un ghigno, aprirono le ante, in silenzio, e mi lasciarono alle presentazioni con la sconosciuta che si rifletteva nello specchio. Lasciai oscillare il mio sguardo tra quella figura e le due al mio fianco, che si lanciavano sguardi complici.

“Cosa…”, cercai di dire, ma non appena le labbra di quella sconosciuta si mossero all’unisono con le mie, mi fermai.

“Trucco, magia e trucco”, ammise Alice con un sorriso che avrebbe sciolto chiunque.

“Voi siete pazze”, sussurrai con un filo di voce, passandomi una mano tra i capelli, l’unica cosa che non avevano trasformato completamente.

Due deboli colpi alla porta.

“Si può?”, domandò una voce che avrei riconosciuto ovunque.

“Entra”, mi anticipò Rose, strizzandomi l’occhio con un sorriso.

La fissai, irritata. Le piaceva proprio mettermi in imbarazzo.

“Ciao”, riuscii a dire, con gli occhi piantati a terra.

“El”, mi chiamò con quell’abituale sollievo che sembrava trapelare ogni volta che pronunciava il mio nome. “Qualcosa che non va?”, domandò innocente, senza riuscire tuttavia a nascondere il sorriso nella sua voce.

“Io”, ammisi.

“Sei bellissima”, mormorò qualche secondo dopo.

Non mi accorsi di come il mio cuore avesse già cominciato a correre fino a quando, nel sentire le sue parole, i battiti accelerarono in modo impossibile. Prima o poi, la sua presenza mi avrebbe causato un bell’arresto cardiaco.

Non sollevai gli occhi dal pavimento. Sentii la sua mano fredda prendere con infinita delicatezza la mia.

“Siamo pronti?”, domandò.

“Pronti”, risposero Rosalie e Alice alle mie spalle.

Nell’entrare in cucina, mi ritrovai a sorridere. Tutto quel mistero mi stava mettendo una certa curiosità e allegria. Uscimmo di casa uno dopo l’altro, salutando Carlisle e Esme che ci guardavano con insolita apprensione. Il genere di preoccupazione che assilla normali genitori.

Seguii Edward e gli altri fino al garage, dove presero posto nella Volvo.

Considerai lo spazio all’interno dell’abitacolo e guardai dubbiosa Edward. Lui si limitò a sorridere e ad annuire, facendomi cenno di salire dopo Emmett. Quando il suo peso giunse alle sospensioni della macchina, questa sembrò schiacciarsi a terra. Risi e, pregando che non cedesse, salii in macchina.

Mi ritrovai conficcata tra i sedili, incastrata tra Emmett e Jasper, che sembrava intento a diventare un tutt’uno con il finestrino adiacente. Mi chiesi, ancora una volta, cosa avesse contro di me.

Alice prese posto davanti ed Edward al posto di guida. Quando fummo fuori dal garage, in mezzo alle centinaia di alberi che ci circondavano, lasciai che i miei dubbi si esprimessero.

“C’è qualche anima buona che ha intenzione di dirmi che diavolo state combinando?”.

Notai Edward e Alice scambiarsi uno sguardo complice.

“Ti portiamo a socializzare”, disse Emmett con un gran ghigno.

Non capii cosa volesse dire quella frase fino a quando non vidi che la macchina si era fermata in un parcheggio pieno di macchine.

In alto, in un angolo dell’edificio, un cartello.

 

Forks High School

Home of the Spartans

 

Mi precipitai fuori dall’abitacolo per accertarmi di non aver avuto un’allucinazione.

Guardai Edward, attonita.

“Benvenuta alla Forks High School”, mi informò.

Scuola?”, esclamai balbettando.

“O se preferisci istituto studentesco”, il suo sorriso mi impedì di rispondergli come avrei voluto.

Edward mi prese delicatamente per mano, mandando il mio cuore a mille, e mi spinse con dolcezza verso l’ingresso dell’edificio.

Era un complesso davvero enorme, composto da diversi edifici in mattoni rossi scuri posti saldamente uno sopra l’altro. Guardai tutte le persone in quel parcheggio, armate di zaini e quaderni, che ci fissavano in modo strano. Ero la nuova adesso.

“Edward, aspetta”, lo trattenni per un braccio.

“Che c’è?”, domandò stupito.

I suoi occhi mi fecero perdere il filo del discorso.

“Ehm, ecco…è che non ho lo zaino”, ammisi timidamente.

Edward ridacchiò.

“Rose l’ha preso per te”.

“Ah”, risposi brillantemente.

“Vieni con me ora, dobbiamo passare dalla segreteria per i moduli e l’orario”.

Lo seguii in silenzio, incapace di capire come fossi finita lì. La segreteria era riscaldata e ben illuminata; mi tolsi la giacca a vento. Le pareti della stanza erano di un particolare color mattone, che sembrava voler seguire i toni presenti all’esterno. C’erano diverse sedie pieghevoli che facevano pensare ad una sala d’aspetto, e tre scrivanie poste dietro un bancone che spezzava a metà la stanza, tutte occupate da diverse risme di fogli appoggiati uno sull’altro in un bizzarro disordine ordinato. Un pesante orologio a muro ticchettava rumorosamente, rompendo il silenzio. Erano presenti diversi vasi di piante, dalle più piccole alle più grandi.

Dietro una delle scrivanie sembrava attenderci una minuscola donna dai capelli rossi.

L’etichetta posta sulla sua camicia verde scuro non lasciava scampo a incertezze.

 

Signorina Cope, Segretaria

Forks High School

 

“Salve, signorina Cope”, disse Edward con voce suadente, “passate bene le vacanze?”.

La poveretta, per la quale provai della compassione non indifferente nel vedere il modo in cui cercava di farsi notare, gli sorrise ampiamente.

“Bentornato, signor Cullen. Sì, molto bene, e lei?”.

Edward sorrise e si sporse sul bancone, fulminando la segretaria con tutta la potenza del suo sguardo. Mi sembrò di riuscire a sentire il suo cuore vacillare.

“Bene, grazie. Tuttavia, sono qui – oltre che per salutarla – per completare l’iscrizione di un’amica”.

Mi indicò, prendendomi per un braccio ed accompagnandomi al bancone vicino a lui.

“Salve”, la salutai.

“Buongiorno signorina”, mi degnò di un semplice sguardo cortese e distaccato prima di tornare a fissare Edward.

“Dovrebbe firmare dei moduli e ritirare il suo orario”, le spiegò Edward affabile.

“Oh, sì certo. Vado subito a prendere i documenti, li ho messi insieme ai vostri”.

Mi rivolse un sorriso gentile e a Edward qualcosa che sembrava più un ghigno famelico.

“Torno subito”, sorrise nuovamente e sparì dietro il bancone.

Fissai torva Edward per un minuto buono, poi spezzai il silenzio con una domanda che urgeva risposta. Mi avvicinai a lui.

“Come avete fatto?”, bisbigliai lanciando un’occhiata alle mie spalle per controllare che Ms. Cope non fosse ancora tornata.

Mi guardò, forse ponderando una risposta.

“Ricerche, documenti…”, si strinse nelle spalle.

“Seattle”, intuii.

“E per chi pensavi che fossero quei documenti?”, sorrise truffatore.

“Ma…voglio dire, come avete fatto ad iscrivermi? Non avete indirizzo, documenti, niente di me. Nemmeno la carta d’identità. Come avete fatto?”.

Mi guardò come se fossi giunta alla domanda fondamentale troppo velocemente.

“Come ho detto: ricerche”.

“E avete trovato tutto?”.

“Non sapendo dove cercare, no”.

“E allora…?”.

“Un amico ci ha fatto un favore e ci ha procurato i documenti, senza dover toccare gli originali”.

Lo fissai stranita, perplessa. Poi ci arrivai.

“Hai falsificato dei documenti per me?”, bisbigliai sotto voce.

“Benvenuta alla Forks High School, signorina Cooper”, ci interruppe la segretaria.

La fissai basita. Era una vita che qualcuno non mi chiamava per cognome.

“Grazie”, le risposi sorridendo, forse con un secondo di ritardo.

“Ecco a te gli orari e, Edward?”, reclamò la sua attenzione, “questi sono i tuoi e quelli del signor…beh, di Emmett. Ci sono stati dei cambi d’orario”.

“Nessun problema”, le sorrise cortese.

“Perfetto”, aggiunse la signorina Cope, che sembrava voler prolungare il più possibile quella conversazione.

Firmai i moduli velocemente.

“Noi andremmo, iniziano le lezioni. Torneremo a orario concluso per restituirle i moduli firmati”, terminò Edward.

“Buona giornata”, disse rassegnata, “e benvenuta”.

Benvenuta alla Forks High School, era forse la quinta o sesta volta che me lo ripetevano.

Nell’uscire dalla segreteria, diedi una gomitata a Edward.

“Che fai?”, mi domandò ridacchiando.

“Ti approfitti della gente, e io ti punisco”.

“Di chi mi sarei approfittato?”.

“Della povera signorina Cope, che rischiava un infarto se le andavi un po’ più vicino”.

“Tu dici? Non mi è sembrato”.

“Dico, so come si sente”.

Non appena quelle parole sfuggirono alle mie labbra, mi pentii di averle pronunciate.

Il sorriso truffatore tornò a colmare il suo viso.

“E con questo cosa vorresti dire?”, mi domandò con aria compiaciuta.

“Niente, solo che non dovresti approfittare del tuo aspetto per far colpo sulla gente”, rimasi sulla difensiva.

“Non è mia intenzione”, rispose ridendo.

“Bene”, aggiunsi testarda.

Varcammo la soglia dell’atrio della scuola. Rose ed Emmett erano ancora lì ad aspettarci e si scambiarono uno sguardo complice quando ci videro arrivare vicini, ridendo e scherzando.

Non me ne ero nemmeno resa conto. Mi distanziai a malincuore.

Edward mi guardò sorpreso, come se anche lui si fosse accorto solamente allora della nostra vicinanza.

“Beh…ci vediamo dopo, allora”, disse Rosalie.

“Sì, in mensa”, aggiunse Edward.

“Cerca di non perderti almeno qui”, si unì Emmett.

Risi, consapevole della possibilità della cosa.

“Ci proverò. Se non mi vedete, venite a cercarmi”.

Emmett ridacchiò e si allontanò prendendo per mano Rosalie. Edward mi fissò a lungo, il suo sguardo perso nel vuoto e nei pensieri, poi sembrò riprendersi.

“Ti accompagno a lezione”, disse con voce decisa.

Annuii con un sorriso.

“Che lezione hai adesso?”, mi chiese.

Tirai fuori il foglio con gli orari, con le dimensioni di una cartina topografica, e la esaminai.

“Credo…credo di avere spagnolo alla prima”, dissi, quasi sicura della mia affermazione.

Edward diede uno sguardo veloce al foglio e annuì.

“Vieni, da questa parte”.

Lo seguii per l’edificio, affrettandomi a volte per mantenere il suo passo.

“Edificio 7, Spagnolo. Buona permanenza”, disse con un sorriso.

“Dovresti fare la guida turistica, hai una vocazione”, mormorai sarcastica.

Edward ridacchiò.

“Ci vediamo dopo”, sussurrò serio, cambiando completamente il suo umore. “A mensa”.

“A mensa”, ripetei.

Lo guardai allontanarsi e sfilare via mentre la campanella echeggiava come un rumore lontano smorzato dai battiti nelle mie tempie. Feci un respiro profondo ed entrai in aula.

Forza, mi dissi.

Notai con sollievo che la professoressa era già in aula, così che non sarei stata costretta ad intrattenere misere e stupide conversazioni con gli altri studenti. Mi avvicinai a piccoli passi alla cattedra, esitante.

“Ehm…salve”, esordii a bassa voce.

“Oh buongiorno, tu devi essere la nuova arrivata”, intuì la professoressa.

Era una donna minuta, sulla cinquantina, dall’aspetto amabile. I capelli, una volta di un bel color mogano, cominciavano a lasciar spazio a timide ciocche argentee, intrecciate in una coda di cavallo a mezz’altezza. Era leggermente strabica, ma il suo sguardo, ovunque guardasse, era straordinariamente gentile.

“Sì”, ammisi annuendo.

“Bene, dammi pure il modulo e prendi posto dove preferisci”.

Le sorrisi cordialmente, sorpresa. Quella donna mi ispirava una strana simpatia. Le porsi gentilmente il modulo, che firmò con una sigla decisa e tondeggiante.

“Vai pure a sederti vicino a Morrison”.

La guardai interrogativa. Mi indicò sorridendo uno dei posti liberi vicino a un ragazzo che si aprì in un sorriso quasi spiacevole.

“Oppure, se preferisci, vicino a Hunt”, si corresse notando la sua espressione.

Seguii il suo dito con lo sguardo fino ad imbattermi in una ragazza dal volto niveo e nascosto in parte dai capelli.

“Grazie mille”, mormorai con un sorriso.

Mi diressi vicino alla ragazza, che non osava sollevare lo sguardo dal suo quaderno.

Le rivolsi il migliore dei miei sorrisi, nel tentativo di metterla a suo agio, ma ci riuscii ben poco. Sembrò scomparire sempre di più risucchiata da forze invisibili sotto il banco. Sospirai e tirai fuori il quaderno che Rose aveva messo nello zaino.

Presi appunti quasi tutta la lezione, cercando di non pensare agli sguardi curiosi che sentivo perforarmi la schiena continuamente. Non appena suonò la campanella, un rumore di sedie trascinate a terra riempì l’aria come una tempesta. Rimasi seduta, nell’attesa di far defluire il traffico che si era creato all’uscita.

Guardai la ragazza di fianco a me.

E che diavolo, mi dissi, forza, socializza.

Feci un respiro profondo ed espirai.

“Ciao”, abbozzai.

La ragazza tirò su la testa di colpo, come se fosse sorpresa che qualcuno si stesse rivolgendo a lei.

“Ciao”, mi rispose timidamente.

“Sono El, piacere”, le porsi la mano, ma la ritirai subito dopo.

“Io Angelica”, sorprendendomi, sorrise.

“Che cos’hai adesso?”, domandai.

“Ginnastica”, rispose avvilita, “tu?”.

Presi ad armeggiare con la piantina, dispiegandola sul banco.

“Ginnastica”, dissi con un sorriso che conteneva soddisfazione e sconforto.

La mia prima conoscenza aveva con ogni probabilità il mio stesso orario, ma avevamo ginnastica.

“Dai, andiamo”, mi invitò, “altrimenti Copp ci ammazza”.

Sorrisi nuovamente, sentendo la mascella implorarmi di smetterla. La seguii, lasciandola andare avanti.

Angelica era una ragazza dalla semplicità e dalla bellezza, a mio parere, intimidatoria.

I lunghi capelli color mogano le ricadevano sulle spalle formando lievi boccoli dai riflessi più chiari, tendenti al rosso. Il suo volto, forse dalla pelle poco più chiara della mia, contrastava fortemente con il colore dei capelli, ma non stonava minimamente. Gli occhi, timidi ed espressivi, erano marroni come i miei, ma sembravano contenere più segreti e solitudine di chiunque avessi mai conosciuto. Camminando al suo fianco, mi accorsi di essere una spanna più alta di lei. Almeno quello.

Fummo costrette ad attraversare, con mio grande disappunto, il prato bagnato per giungere alla palestra. Mi tuffai in spogliatoio e costatai che Rosalie aveva pensato proprio a tutto. C’era tutto, persino una spazzola. Sorrisi brevemente.

Ginnastica a parte, dove la mia nuova classe apprese velocemente che a pallavolo era consigliabile tenermi lontana - o da loro, o almeno dal pallone -, il tempo trascorse veloce fino alla pausa pranzo.

L’insegnante di Matematica, il professor Varner, era l’unico ad avermi creato problemi, presentandomi alla classe e obbligando tutti a salutarmi. Io, colorandomi di scarlatto, ero andata spedita fino in fondo alla classe per prendere posto, di fianco a un ragazzo di nome Thomas. La matematica lo interessava quanto me, quindi avevamo passato la lezione a bisbigliare sottovoce. Quando suonò la campanella, era ora di pranzo. Thomas mi accompagnò in mensa, dove incontrammo anche Angelica, da sola.

Mi chiesero se volessi mangiare con loro, ma risposi che avevo già il posto “prenotato” con degli amici. Quando Thomas mi chiese chi fossero, risposi con un sorriso compiaciuto. Quello che mi stupì fu la sua reazione.

“Davvero? Sei amica dei Cullen?”.

“Sì, perché?”.

“No, così. È strano, loro non hanno amici. Sono sempre e solo loro cinque”.

“Ah”, fu la cosa più eloquente che riuscii a dire.

Li ringraziai dell’invito, invitandoli a mia volta a mangiare con noi, ma declinarono entrambi rapidamente. Dopo che ebbi comprato qualcosa - qualunque cosa fosse - da mangiare, mi guardai in giro. Alice si sbracciava da un tavolo, in un angolo della sala. Sorrisi scuotendo la testa e li raggiunsi.

“Ciao”, li salutai.

“Vieni, siediti”, disse Rose.

Mi fece sedere nell’unico posto libero intorno al piccolo tavolo rotondo. Quello vicino a Edward.

“Ciao”, gli dissi.

“Ciao”, sorrise gentilmente. “Com’è andata? Sopravvissuta alle tue prime tre ore scolastiche?”, aggiunse dopo una breve pausa.

“Sono qui, quindi sì. Anche se a Ginnastica è stata un’impresa”.

“Che orario hai?”.

“Ehm…Spagnolo, Ginnastica e Matematica per ora. Poi non so”.

Tirai fuori quella sorta di cartina topografica con annotati i miei orari.

“Okay, dopo ho Inglese e Biologia”.

Annuì pensieroso, mentre giochicchiava con le posate e il suo pranzo intonso.

“Non dovresti stare qui”, mormorò poco dopo.

“Cosa?”, domandai sorpresa, strabuzzando gli occhi.

“Dovresti restare con i tuoi amici, non con noi”.

“Gli ho chiesto se volevano venire qua, ma non hanno voluto”.

“Gli umani riescono a capire qual è la cosa giusta da fare senza volerlo”, disse. “Generalmente”, aggiunse subito dopo con un sorriso.

Gli mostrai la lingua in una smorfia.

“Edward ha ragione, El. Devi farti degli amici, oltre a noi”, la voce di Rosalie mi distrasse.

“Ti abbiamo iscritta a scuola anche per questo”, concluse Alice sorridendo.

Oh”, mormorai, “Ehm okay”.

Feci per alzarmi, ma Edward mi afferrò per un braccio.

“Da domani”, sorrise, riaccompagnandomi sulla sedia al suo fianco.

Mangiai in silenzio, assistendo ai brevi battibecchi tra Emmett e Rosalie e osservando Jasper e Alice fissarsi a lungo negli occhi, senza una parola, ma trasmettendone più di mille. La loro intensità mi sconcertava. Fui più volte costretta a distogliere lo sguardo.

Quando mi voltavo verso Edward, lo trovavo sempre lì, a guardarmi. Non lo capivo, ma quello sguardo mi faceva sentire speciale.

Quando il ronzio insistente della campanella spezzò il silenzio, ci alzammo lentamente. I loro vassoi, ancora pieni, furono gettati via.

“Ti accompagno?”.

Mi voltai.

“Ehm sì, certo”, risposi.

Edward sembrava stranamente incerto su come comportarsi. Sembrava umano. Si fermò all’uscita della mensa, ondeggiando sui talloni.

“Ehi, El!”, la voce di Thomas parve riportarmi brutalmente alla realtà.

“Oh, ciao Thomas”, dissi sorpresa, “non hai lezione ora?”.

“Sì, certo. Inglese”, ammise soddisfatto. “Insieme”, sillabò lentamente come per testare le mie capacità mentali.

“Ah, sì! Non avevo realizzato, scusa”.

“Nulla, andiamo?”, si affrettò a dire.

A quel punto parve accorgersi di quella splendida statua incisa nel marmo alle mie spalle, che lo fissava cupo. Il suo umore si affievolì all’istante.

“Oh, ti accompagna lui. Non importa, ci vediamo in classe allora”, e fece per andarsene.

Quando ormai stavo per sospirare di sollievo, Edward parlò.

“Ehi, Duke aspetta!”, lo chiamò gentilmente, “Fai tu, io sono già in ritardo”.

Mi voltai verso di lui, incenerendolo con lo sguardo. A che gioco stava giocando?

Se non fossi stata sicura di procurarmi solamente dei lividi, gli avrei rifilato una bella gomitata.

“Grazie Cullen”.

Thomas si aprì in un sorriso dall’ampiezza invidiabile. Edward annuì e mi sorrise.

Un sorriso strano, diverso. Tramava qualcosa, ci avrei giurato.

“Noi ci vediamo dopo”, si rivolse a me, evitando di proposito Thomas.

Si avvicinò a me fino a sfiorarmi la guancia con le labbra e sparì dietro l’angolo.

Rimasi alcuni istanti - che a me parvero minuti, se non ore - ferma, immobile a fissare il corridoio dietro il quale era scomparso. Mi sembrò di sentire la sua risata compiaciuta provenire da lontano.

“El, ora siamo davvero in ritardo”, mi informò Thomas, “dobbiamo andare”.

Il suo umore sembrava essersi incupito, ma Tom continuava a sfoggiare il suo sorriso imperturbabile.

“Sì, andiamo”, farfugliai.

Se non ci fosse stato Thomas, sicuramente mi sarei persa. Avrei potuto finire in Egitto, e non me ne sarei accorta minimamente. Era la seconda volta che mi baciava la guancia a quel modo. Sembrava non ci pensasse, non vi badasse. Io, al contrario, gli davo fin troppa importanza. Questa volta mi ero risparmiata dal cercare di calmare il mio cuore impazzito. Ormai era la norma. Si sarebbe abituato anche lui.

Quando entrammo in classe, dopo aver fluttuato per i corridoi in fretta e furia, il prof. aveva già cominciato la lezione.

Bel modo di iniziare, pensai sarcastica.

Cercai di recuperare la mia entrata trionfale presentandomi con il migliore dei miei sorrisi al professore. Era un uomo che da molto tempo aveva abbandonato la mezz’età e i capelli, solo alcuni ciuffi si ostinavano a fargli compagnia su quella testa dalle sembianze di un gigantesco uovo.

“Buongiorno, scusi molto il ritardo, non trovavo la classe e il mio amico mi ha aiutato. Questa scuola è un labirinto”, abbozzai come scusa.

Poteva reggere, forse.

Il prof si limitò a guardarmi in silenzio e, dopo poco, annuì.

“Duke, signorina, avete bussato quando siete entrati?”, la sua voce non dava a intendere alcun indizio sulla risposta da dare.

“Cooper”, gli suggerii.

“Come sia, avete bussato?”, la sua voce rimaneva distaccata, calma.

“No, scusi professore, eravamo di fretta”, intervenne prontamente Thomas.

“Allora per favore accomodatevi fuori e ripetete questo breve principio di educazione che avete dimenticato”, ci intimò senza alterare il suo tono.

Prima di uscire, il viso nascosto timidamente tra i capelli, gli porsi il modulo da firmare.

“Scusi ancora”, mormorai avvilita.

Bell’inizio, non c’è che dire, dissi a me stessa.

Quando finalmente riuscii a rientrare in classe, dopo aver bussato elegantemente alla porta, mi abbandonai sulla sedia, esausta.

Se il primo giorno mi distruggeva a quel modo, non osavo immaginare i seguenti.

Il professor Watt continuò a lanciarmi occhiate tutta l’ora, senza però interpellarmi in alcun modo. La lezione di Inglese, bene o male, trascorse velocemente. Durante l’ora di Biologia, con il professor Varner, assistemmo alla proiezione di un video sugli stadi della divisione cellulare. Quell’argomento l’avevo già fatto a scuola - nella mia vecchia scuola - a Miami, e lasciai semplicemente sfilare davanti a me il susseguirsi di immagini, senza che avessero alcun senso. Al suono della campanella io e Angelica, ancora una volta la mia compagna di banco, scattammo in piedi e ci catapultammo fuori dalla classe. Il mio primo giorno di scuola era ufficialmente finito.

Il sollievo che provai e mi disegnò un sorriso raggiate sul viso, fu rimpiazzato all’istante dallo stupore quando, nella foga di uscire dalla classe, andai a sbattere contro Edward.

Era venuto a prendermi. Ancora una volta, sollievo.

Lo guardai incuriosita, mentre ci allontanavamo dal traffico verso le uscite.

Ora di punta, pensai.

Edward si strinse nelle spalle.

“Pensavo ti servisse una mano per trovare l’uscita”.

“Credo che ci sarei riuscita lo stesso”, replicai.

“Tu credi”, insistette ridacchiando.

Un lieve colpo di tosse.

“Ehm, El? Io vado, ci vediamo domani a Spagnolo”.

Era Angelica. Mi ero completamente scordata che fosse lì, come il resto del mondo.

“No, cioè okay. Però aspetta”, le feci cenno di avvicinarsi.

Angelica fece qualche piccolo passo, celando il viso e lo sguardo tra i lunghi capelli color mogano.

“Angelica, Edward. Edward, Angelica”, gesticolai presentandoli.

Se fossi riuscita a convincere la mia amica che i Cullen non erano da evitare, forse non avrei dovuto rinunciare a nessuno dei due. Angelica prese più colore di quanto ne avessi mai visto sul suo volto in un attimo, non appena incontrò gli occhi sereni di Edward.

Lui mi guardò, lanciandomi un’occhiata e strinse delicatamente la mano della mia amica. Sorrisi compiaciuta.

“A domani El, ti aspetto all’entrata”, mormorò, “Edward”.

E in pochi secondi sparì tra la massa di persone sparse nel corridoio che si affrettavano verso l’uscita.

“Dai, andiamo anche noi. Altrimenti Emmett farà storie”, disse Edward con un sorriso.

Ci incamminammo verso il parcheggio, senza lasciare tuttavia che la fretta ci preoccupasse.

Il tempo, con Edward, sembrava scorrere di sua volontà, facendosi beffa delle lancette. Passava sempre troppo velocemente.

Sbucammo troppo presto nel parcheggio, dove Rosalie e gli altri ci aspettavano accanto alla Volvo.

“Si era persa?”, chiese Emmett sghignazzando.

“No”, rispose con un sorriso, “anche se probabilmente ci era vicina”.

Lo fulminai con lo sguardo.

Prendemmo posto in macchina, stringendoci forse più del dovuto. Ora potevo capire come si sentivano le sardine ad essere inscatolate. Tuttavia, mi impuntai e questa volta mi sedetti vicino al finestrino. Inoltre, Jasper non sembrava risentire della mia lontananza.

Il tragitto verso casa fu silenzioso, eccezion fatta per qualche scambio di battute da parte di Alice e Emmett. Nel silenzio che mi avvolgeva, mi limitai ad osservare le immagini che sfrecciavano all’esterno del finestrino, sfocate e confuse a causa dell’eccessiva velocità.

Quando ci fermammo ad un semaforo, riuscii a delineare i confini del paesaggio che ci circondava. Sembrava uno di quei piccoli paesi delle fiabe, lontano dal mondo e da tutto il resto. In effetti, non era una descrizione tanto sbagliata. Le strade erano piccole e strette, l’asfaltatura ormai quasi non visibile ed erano l’unico segnale di civiltà in quel minuscolo universo circondato di verde. La foresta, che circondava tutta Forks, faceva da padrona. Le case, che io immaginavo costituite di complessi come lo erano a Miami, erano invece solamente delle villette isolate incastonate nel verde.

Magico, pensai.

L’auto ripartì e tutto si sfocò, perdendone i contorni. Come il risveglio da un sogno.

Non appena varcammo la soglia di casa, Esme corse ad abbracciarmi.

“El, tesoro! Come è andata oggi?”, il suo tocco era gelido, al contrario del suo gesto, che avrebbe scaldato chiunque.

Ricambiai l’abbraccio, respirando profondamente quel profumo che li caratterizzava.

“Tutto bene”, sorrisi.

“Dopo ci racconterai”.

“Certo”.

“Ora vai pure di sopra se preferisci”.

Salii due gradini alla volta, per poi precipitarmi in camera di Rose e togliermi finalmente quella maglia che sembrava avesse deciso di farmi da seconda pelle.

“Si può?”, Rosalie bussò alla porta.

“Ehm sì, sì. Certo”.

“Vuoi un’altra maglia?”, mi offrì gentilmente, vedendomi armeggiare con la mia solita felpa.

“Rose, sai che mi scoccia usare sempre i tuoi vestiti”.

“Non essere stupida, El. Sai che puoi usarli quando e come vuoi, tanto sarebbero comunque da dar via. Alice non ce li fa tenere”.

La guardai, scuotendo la testa.

“Quella lì”, indicai alla fine, sorridendo imbarazzata.

Rosalie scoppiò a ridere e mi porse la maglia che preferivo in assoluto tra tutti i suoi abiti.

Una maglia rossa, a maniche lunghe, di seta con una piccola scollatura a V che scendeva dolcemente dal collo. La stoffa era morbida e l’accarezzai più volte prima di infilarla.

“Ti sta benissimo”, mormorò Rosalie.

“Grazie, è la mia preferita”.

“Ne parli come se fosse tua”, ridacchiò Rose divertita.

Le mostrai la lingua nella migliore delle mie smorfie.

“Dai, vieni che ti tolgo tutto quel trucco che hai in faccia. Si è sciolto ormai”.

Mi trascinò in bagno, dove mi struccò completamente e mi truccò di nuovo. Tuttavia, il trucco questa volta era molto meno evidente. Più naturale. Lo preferivo di gran lunga.

“Ora scendiamo, devi mangiare”, disse Rosalie una volta che ebbe finito.

Ok, ora scappo! Spero vi sia piaciuto. Un grazie alle solite, non posso citarvi sempre o divento noiosa(più di quanto sia già). Buona giornata e buon weekend! Alla prossima :)

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Capitolo 15
*** Sorpresa. ***


Buonasera! Ho deciso di postare con qualche ora d'anticipo perchè domani rischierei di non avere tempo. A proposito, domani è il compleanno di KStew! Quant'è bbbella lei.
Comunque! Passiamo a noi xD Questo capitolo mi sta uccidendo i nervi, sono un po' nervosa sull'ultima parte sinceramente. Spero vi piaccia e, nel caso, non fatevi problemi a dirmi che fa schifo! Detto questo, vi lascio leggere. Buona lettura! :)

Capitolo 15. Sorpresa.

Una volta a tavola, Esme mi obbligò a raccontarle per filo e per segno ogni singolo istante della giornata appena trascorsa; le lezioni, le mie impressioni, le mie nuove e ridotte amicizie. Durante il pranzo, avevo trovato più di una volta lo sguardo di Edward fisso su di me, un’espressione concentrata sul suo viso – come se stesse cercando di decifrarmi. Quando poi incrociavo il suo sguardo, si limitava ad offrirmi un lieve sorriso, quasi a ridere di una battuta personale, per poi volgere gli occhi altrove. Era… strano.

Nonostante fosse il mio primo giorno di scuola, purtroppo, i compiti non mi avevano di certo risparmiato.

Rose mi aiutò con matematica e così impiegai meno tempo del previsto, anche se ci impiegammo quasi tutto il pomeriggio. Quando scesi in salotto per la cena, mi accorsi che la pioggia bussava con insistenza ai vetri, come se volesse mettersi al riparo da se stessa. Non avevo granché fame, così mi limitai a gironzolare senza meta per la cucina con una mela in mano.

“Dovresti mangiare”, la voce di Edward mi fece cadere la mela dalle mani.

“Sto mangiando”, replicai, chinandomi a raccoglierla.

Quando abbassai lo sguardo, era già lì, accovacciato per restituirmi la mela.

Il suo sguardo mi distrasse un secondo.

“Sai cosa intendo”, si rialzò velocemente.

Sbuffai.

“Sì, mamma”, lo presi in giro alzando gli occhi al cielo.

“Molto divertente”, disse sorridendo. “Ora mangia”.

Sbuffai di nuovo, rassegnata. Ero certa che non mi avrebbe fatto uscire dalla cucina senza che avessi mandato giù qualcosa di consistente.

“Cosa dovrei mangiare quindi?”, lo sfidai.

Lo vidi sorridere prima che si voltasse e prendere a cercare qualcosa nel freezer. Ne estrasse qualcosa dalla forma squadrata, smussata leggermente ai lati, che non riconobbi.

Me lo porse con il suo solito sorriso truffatore. Lo ricambiai, anche se ancora ignoravo cosa fosse quella scatola fredda. Abbassai così lo sguardo, posandolo finalmente sull’oggetto che stava tra le mie mani.

Non appena mi resi conto di cosa fosse, sgranai gli occhi in stupore.

“Mi hai comprato del gelato?”, pressoché urlai.

Sentii gli occhi inumidirsi. La sua espressione sfumò in meno di un secondo, colorandosi di apprensione.

“Stai piangendo? Non ti piace? C’è qualcosa che non…”, cominciò a chiedere preoccupato.

Lo fermai con un gesto della mano.

“E’…grazie”, mormorai.

Ero senza parole. In realtà, non era niente di che, niente che avrebbe dovuto farmi sentire in quel modo, eppure era un gesto così… non avrei saputo descriverlo. Il sorriso di Edward si tese.

“Vieni, andiamo a mangiarlo sul divano”, mi propose posandomi una mano sulla mia schiena e sospingendomi verso il salotto.

Rabbrividii, e non solo per il freddo.

“Andiamo?”, chiesi alzando un sopracciglio nella sua direzione.

“Tu mangi, io ti controllo”, sfoderò un mezzo sorriso quasi accecante.

Annuii con un gran sorriso, per poi dirigermi verso il divano, dove mi sedetti incrociando le gambe.

“Grazie”, dissi sincera.

Era… quant’era che non mangiavo un gelato? Sembrava lontano una vita.

Edward mi raggiunse con un cucchiaio, che mi porse gentilmente. Sorrisi di nuovo ed aprii quel miracolo che tenevo tra le mani.

Mangiai in silenzio, assaporandone ogni singolo boccone. Quando ebbi finito, avanzandone un po’ e programmando mentalmente quando avrei potuto finire la parte restante, mi accoccolai sul divano.

Rimasi sorpresa quando Edward mi offrì la spalla per appoggiarmi a lui.

Sgranai gli occhi, ma non dissi nulla. Non avrei fatto nulla per interrompere quel momento.

Certo, io non avrei fatto nulla, ma qualcun altro ci pensò al posto mio.

“El, spostati”, mi intimò Emmett con estrema gentilezza varcando la soglia. “C’è la partita”.

Mi voltai verso di lui, assonnata.

Il suo sguardo non lasciava spazio a repliche. Sbuffai e scivolai giù dal divano.

“Emm”, lo ammonì Edward.

“No, non fa niente”, lo interruppi. “Chi gioca?”.

“White Sox – Tigers”.

“Oh, baseball”, mormorai facendo spallucce.

Edward mi guardò sorpreso, così come Emmett.

Vidi il piano nel suo angolo del salotto ed escogitai velocemente la mia vendetta. Mi alzai velocemente e lo raggiunsi, sedendomi con un sorriso.

“Ti dà molto fastidio se suono, Emm?”, chiesi raggiante.

“Sì”, replicò infastidito.

“Bene”, sorrisi e portai le mani alla tastiera.

El!”, esclamò Emmett esasperato. “Lo fai apposta!”.

Scoppiai a ridere.

“Complimenti Sherlock, avevi qualche dubbio?”.

Edward si unì alla mia risata, accostandosi a me sulla panca.

Suonammo nuovamente insieme, scambiandoci di quando in quando sguardi e sorrisi complici.

Era divertente, ma più di tutto era magico, speciale. Era come se una bolla ci avvolgesse, isolandoci dal resto del mondo. Quando la partita si concluse, Emmett si alzò con un sorriso che progettava vendetta. Ci avrei scommesso.

Mi riappropriai del mio posto, con Edward nuovamente al mio fianco.

“Adesso te la farà pagare”, mormorò dopo una lunga pausa.

“Lo so”, sorrisi.

“Ma ne valeva la pena”, ridacchiò.

“Già”, sussurrai, appoggiando di nuovo la testa sulla sua spalla.

Mi rannicchiai su un lato e chiusi gli occhi, respirando profondamente.

Edward non si mosse minimamente, riuscivo solo a percepire il suo respiro regolare che spezzava il silenzio. Così, con gli occhi chiusi e il buio tutt’intorno, mi tornò in mente la prima volta che avevo sentito quel respiro. Sorrisi a quel breve ricordo.

“Dormi?”, mi chiese sussurrando al mio orecchio.

Mi provocò un brivido e sorrisi di nuovo.

“Quasi”, risposi a bassa voce.

“Allora forse è meglio che tu vada a dormire”, mormorò.

Sospirai e dischiusi gli occhi.

“Buonanotte”, dissi una volta che fui in piedi.

Mi regalò il suo sorriso truffatore, che mi accelerò il cuore.

“Buonanotte”, mi augurò a sua volta.

In silenzio, mi allontanai verso le scale, dove sembrava aspettarmi Rosalie.

Era già tardi, ormai la mezzanotte passata da qualche minuto, quando mi accompagnò in camera sua per dormire. Senza sorprendermi più di tanto, trovai Emmett sulla porta della camera, le braccia incrociate sul petto, i pugni stretti e lo sguardo degno di un bambino dispettoso.

Mi fermai, sbuffando. Ero stravolta, il primo giorno di scuola mi aveva stancata più del dovuto.

Ci mancava solo questa, pensai con sarcasmo.

Sfidai Emmett con lo sguardo, in silenzio, mentre Rosalie alternava strane occhiate tra noi due.

Emmett scosse la testa, con un sorriso compiaciuto sulle labbra. Era impossibile quanto fosse infantile e vendicativo.

“Ti ho trovata, ho vinto io”, disse soddisfatto. “Quindi qui dentro stasera ci sto io”.

“Mi hai trovata solo perché te l’ho permesso io”, ribadii. “Altrimenti a quest’ora saresti a lavare i piatti giù in cucina con un bel grembiule”.

“Sarà quel che sarà, ho vinto comunque”, insistette il gigante davanti alla porta.

“Emmett!”, esclamai esasperata. “Spostati, ho sonno!”.

“Non è un mio problema”, mormorò con aria di sfida, facendomi una boccaccia.

Rose intervenne in quel duello che sembrava appartenere ai tempi dell’asilo.

“Voi due, piantatela”, disse. “La stanza è anche mia, Emm, e decido anch’io. Scommessa o no”.

Lo sguardo ed il tono di voce che usò bastò a far sparire quel sorriso compiaciuto dal volto di Emmett. Sorrisi soddisfatta e gli mostrai la lingua, facendo una smorfia. Mi sentii più che mai infantile, ma anche pienamente soddisfatta della mia inaspettata vittoria.

“Dai, Rose! Non fare la guastafeste!”, esclamò Emmett, con un grugnito.

Passò alle suppliche, con mio grande stupore.

“Per favore Rose, dai”, mormorò con una dolcezza che mi sorprese.

Mi accorsi di un breve scambio d’occhiate tra i due ed improvvisamente mi resi conto di non avere più una stanza dove dormire.

Bene, perfetto, pensai.

“El, magari puoi chiedere ad Alice se ti presta la sua stanza”, mi disse Rosalie con voce distratta, ancora intenta in quella conversazione silenziosa con il suo ragazzo.

Grugnii qualcosa di incoerente, mentre Rose mi rivolgeva uno sguardo strano, nuovo, che non riuscii a cogliere.

“E va bene!”, esclamai lanciando le braccia in aria. “Ma questa me la segno, Emm”, lo minacciai riducendo gli occhi a due fessure e puntandogli un dito contro.

“Oh, sto tremando”.

Con un ultimo ruggito esasperato mi allontanai da quel bambino troppo cresciuto.

Sentii dei passi affrettati alle mie spalle e mi resi conto che Rosalie mi stava seguendo.

“Che vuoi, Rose?”, sbottai ancora irritata dal suo tradimento.

“El, perdonami”, mi disse mentre mi raggiungeva con disinvoltura.

“Certo, certo”, tagliai corto con stizza.

Mi voltai e ripresi a camminare per il salotto, in cerca di Alice.

“No, aspetta”.

Mi afferrò per un braccio.

“Alice è già in camera sua…con Jasper”, mormorò con uno strano sorriso. “Non so quanto ti convenga”.

La sua espressione fu abbastanza eloquente. Rabbrividii un attimo e scossi la testa.

“Okay, allora dormo in salotto”.

Forse c’era la speranza che Edward fosse ancora lì, seduto ad aspettarmi.

Chissà se lui aveva già capito quel che voleva fare Emmett. Feci spallucce, mentre una strana furia omicida mi montava dentro. Emmett mi avrebbe sentita, e presto.

“Andiamo a cercare un letto in garage, credo che lì ci siano ancora delle vecchie cose di Edward, tra cui un letto”.

Rassegnata e allo stesso tempo incuriosita, annuii a testa bassa.

Percorremmo velocemente il lungo corridoio bianco, senza badare agli innumerevoli quadri che ne decoravano le pareti, e giungemmo all’ingresso, dove ci attendeva l’uscita.

Cercai rapidamente la figura di Edward in salotto, ma non la trovai. Mi chiesi dove fosse sparito stavolta. Rose mi aprì la porta e lasciò che passassi prima di lei, forse sperando di addolcirmi un minimo. La superai velocemente e mi diressi al garage senza alcuna esitazione.

Ovviamente pioveva ancora. Senza mostrarmi minimamente intimidita dalla pioggia che scendeva veloce, pungente come spilli e pesante come monete, mi tirai su il cappuccio della giacca a vento che avevo con me e mi incamminai rapidamente. Quando giunsi in prossimità della casetta che dava sulla radura davanti a casa Cullen, mi accorsi che alcune luci che non avevo mai notato erano accese. Conferivano a quel piccolo edificio un aspetto molto più accogliente, familiare.

Varcammo la soglia e mi fermai. C’era uno strano tepore, come se ci fosse il riscaldamento acceso.

Tuttavia dubitavo che le macchine percepissero il freddo.

Rosalie mi guardò, una strana smania nei suoi occhi.

“Prova a vedere in quegli scatoloni lì nell’angolo, io vado a vedere di sopra”, disse entusiasta, come se non vedesse l’ora di frugare in mezzo alla polvere. “Se hai bisogno, chiamami”.

Annuii, perplessa.

La vidi sparire per le scale del garage, che portavano, supponevo, al piano di sopra.

Mi avventurai nella penombra azzurrata che avvolgeva quella stanza. La carrozzeria delle macchine riluceva anche nel buio. C’erano mensole, scaffali, ma nessuna traccia degli scatoloni che aveva detto Rosalie.

“Rose?”, la chiamai.

“Sì?”, la sua voce suonò divertita.

“Quali scatoloni?”.

Con un lieve click la stanza si illuminò.

Rosalie, accanto alla scala e le dita sull’interruttore, mi osservava con il sorriso sulle labbra.

“Oh, si vede che Carlisle li ha spostati”, disse. “Prova a vedere se negli armadi trovi qualcosa”.

Annuii di nuovo, senza capire cosa esprimesse il suo sguardo.

“Io torno di sopra”.

“Okay”, mormorai a nessuno in particolare.

Cominciai a rovistare qui e là, senza trovare assolutamente niente di quello che cercavo.

“Ehi, El!”, mi chiamò Rose all’improvviso. “Ho trovato qualcosa!”, esclamò.

“Arrivo!”, dissi abbandonando gli scatoloni e scattando in piedi.

Corsi di sopra, salendo due gradini alla volta. Quando raggiunsi la cima delle scale, trovai tutto al buio. Cercai tentoni l’interruttore, ma non lo trovai. Sospirando, mi avventurai nella stanza.

“Rose?”, chiamai esitante.

Nessuno mi rispose.

“Rose, dove sei?”, ripetei.

Sentii una risatina dietro di me e mi voltai di colpo. La luce riempì la stanza ed io rimasi senza fiato.

Una stanza di dimensioni sorprendenti pareva stendersi ai miei piedi.

I toni alle pareti erano chiari, che oscillavano dal giallo all’arancione, donandole un aspetto semplice e familiare. La luce principale era data da una lampada alogena in un angolo, ma erano presenti piccole abat-jour che rischiaravano debolmente l’atmosfera, conferendo all’insieme un aspetto magico. Un letto bianco, circolare, circondato da una grande testiera in legno scuro, spiccava in fondo alla stanza. Contro la parete, in fondo, torreggiava un immenso armadio scuro, dalle cui ante faceva capolino uno specchio intero. Sulle pareti, alcuni quadri di piccole dimensioni, colorati e vivaci. Una grande porta finestra dava sull’ampia radura di fronte all’edificio e lasciava penetrare qualche raggio di luna, che riusciva a filtrare dalla spessa coltre di nubi scure.

Era splendida.

“Buon compleanno”, la voce di Edward mi avvolse, lasciandomi ancora una volta senza fiato.

Mi voltai verso la sua voce, gli occhi sbarrati in stupore.

“Cosa, scusa?”, farfugliai.

“La mezzanotte è passata da un pezzo, quindi buon compleanno”.

“Che…che giorno è?”

Edward sorrise, divertito dalla mia espressione sbigottita.

“E’ il venti da ormai…”, controllò teatralmente l’orologio al suo polso, “esattamente trentadue minuti”.

“Di Marzo?”, non riuscivo a capacitarmi di quello che stava accadendo.

“Sì, di Marzo”, mi guardò come per verificare se fossi pazza.

Non me ne ero resa conto. Mi ero totalmente dimenticata. Assurdo.

Mi passai una mano tra i capelli, spostandoli come al solito da un lato.

“Dov’è Rose?”.

“Ti ha confezionato il regalo ed è scappata via”, disse sorridendo.

“Regalo?”, ripetei.

Edward non mi rispose, si limitò a volgere lo sguardo verso la stanza che ci comprendeva.

Sentii la mia bocca spalancarsi, seguita subito dopo dagli occhi per lo stupore.

“Mi...”, mi fermai.

Rimasi in silenzio a lungo, lo sguardo perso nel vuoto. Ci riprovai.

“Mi avete regalato un appartamento… per il mio compleanno?”, chiesi balbettando.

Stentavo a crederci. Era difficile solo pronunciarlo.

Edward sorrise e si strinse nelle spalle, come se non fosse importante. Poi annuì.

“Direi che si può dire così, sì”, rispose Edward dietro di me.

Non riuscivo a capacitarmene. Era troppo.

“Ma cosa…come avete fatto? Io…”, balbettai confusa.

“Abbiamo pensato che non fosse il caso di lasciarti litigare con Emmett ogni sera per dormire”.

Ripensai immediatamente allo sguardo d’intesa che si erano scambiati Rose e Emm.

Emmett… sorrisi.

“Non ci credo”, riuscii a dire dopo qualche minuto di silenzio.

Edward mi raggiunse silenziosamente, ponendosi al mio fianco.

“Ti sta bene questa maglia”, commentò dopo qualche istante. “Questo colore ti dona molto”.

Imbarazzata, abbassai lo sguardo.

“Grazie”, mormorai. “E’ di Rose”.

“Già, ma non è lei che mi piace con questa maglia”, replicò con un mezzo sorriso.

Sentii il cuore distrarsi e perdere qualche battito, per poi ripartire più forte che mai.

Seguì un lungo silenzio, che nessuno dei due osò rompere. Dopo qualche istante, fu Edward a parlare.

“Vieni, dai un’occhiata qui in giro”, mi offrì con un gran sorriso. “Qualcuno mi ha detto che ho una vera vocazione per fare la guida turistica, è giusto che la metta in pratica”.

Sorrisi a mia volta alle sue parole, ma non dissi nulla. Poi, senza una sola parola, presi la sua mano tesa verso di me e m’incamminai. Mi guidò per l’appartamento, indicandomi le stanze e gli oggetti, i mobili e tutto il resto. Il bagno, la cucina, la stanza degli ospiti, il piccolo balcone sul retro che dava sulla foresta…

Mi sorpresi di quanto fosse grande. Non l’avevo immaginato così. Per ultima, lasciammo la camera da letto. Ci fermammo sulla soglia.

“Benvenuta a casa, signorina Cooper”, disse sorridendo.

Ricambiai il sorriso e mi voltai verso la stanza che, tuttavia, era la prima che avevo visto. Mi fermai al centro della camera, girando su me stessa per osservarla al meglio.

Il parquet ai miei piedi era parzialmente celato da un grande tappeto chiaro dall’aspetto morbido. Mi chinai ad accarezzarlo, affascinata.

Edward, ancora sulla porta, mi osservava apparentemente rapito. Incorniciato dalla cornice della porta, sembrava più irreale che mai, come dipinto sullo sfondo di quel paesaggio fiabesco. Sorrisi imbarazzata quando mi sorprese ad osservarlo.

Nascosi rapidamente il viso tra i capelli, piantando lo sguardo a terra e sentendomi arrossire.

Zzz!

Un suono familiare ed oltremodo irritante mi sfiorò l’orecchio. Voltai la testa di scatto, cercandone con lo sguardo la fonte. Seguii con lo sguardo quel piccolo mostro svolazzante. Avrebbe avuto vita breve. Mi alzai, senza perderlo l’occhio.

“Che fai?”, mi domandò Edward alle mie spalle con aria divertita.

La sua voce mi distolse momentaneamente dalla mia momentanea furia omicida.

“Mi preparo a commettere un omicidio”, risposi concentrata, facendo girare la testa qui e là per la stanza.

Non persi di vista nemmeno un secondo quel mostriciattolo succhiasangue che minacciava di regalarmi una notte insonne.

“Ci sono testimoni?”, scherzò Edward.

“Solo tu”, mormorai sottovoce. “Non lo racconterai in giro, vero?”.

“Oh, no”, rise. “Muto come una tomba”.

Seguì un momento di perfetto silenzio.

La zanzara si era finalmente appoggiata sulla sua ultima superficie, dopo ripetuti saltelli qua e là. Mi appiattii al muro e scivolai lungo la parete, così da avvicinarmi silenziosamente.

“Che stai tentando di fare?”, chiese Edward chiaramente divertito.

“Ora lo vedi”, tagliai corto, concentrata.

Mi spinsi lentamente sulle punte e sollevai il braccio in silenzio, fino a che non fu allo stesso livello della mia vittima. Sfoggiai un sorriso compiaciuto che già pregustava la vittoria imminente.

Mentre mi preparavo ad assestare il colpo di grazia, sentii qualcosa di freddo afferrarmi il gomito ed abbassarmi gentilmente il braccio. Il movimento fece volare via la zanzara.

“C’ero vicina”, mormorai contrariata, imbronciandomi.

Edward scosse la testa, sorridendo divertito.

“Da te non me l’aspettavo”, scherzò, fingendosi sconvolto. “E’ una creatura innocente”.

“Sì, innocente fino a quando non mi dissangua”, borbottai.

Edward ridacchiò.

Lo fissai con un sorriso, fingendo di pensare a qualcosa.

“Dopotutto non siete poi così diversi”, conclusi, senza riuscire a trattenere un mezzo sorriso.

“Mi stai dando della zanzara?”, replicò divertito.

“Così sembra”, mi strinsi nelle spalle con aria innocente.

“Mmm”.

Mi fissò a lungo, con intensità sconcertante. Poi ad un tratto, il suo sguardo mutò rapidamente. C’era sempre un’ombra divertita nei suoi occhi dorati, ma ora c’era qualcosa di diverso, qualcosa in più. Temetti di averlo ferito con la mia boccaccia.

Tuttavia quel pensiero, in un attimo, scomparve insieme a tutti gli altri. La zanzara non c’era più, la stanza, io stessa non c’ero più, insieme al resto del mondo. In quell’istante le sue labbra toccarono le mie.

Rimasi ferma, immobile, mentre le sue labbra esitavano sulle mie, sfiorandole appena per poi ritrarsi e sfiorarle di nuovo con una delicatezza disarmante. La sua mano si posò con dolcezza sul mio viso, come se fossi l’oggetto più fragile al mondo, mentre l’altra stringeva la mia.

Con un attimo di ritardo, reagii.

Ripresi controllo dei miei muscoli e chiusi gli occhi, come tante volte avevo visto fare nei film. Tuttavia, un attimo di ritardo di troppo. Edward si era già allontanato dal mio viso, un’espressione triste e confusa sul suo volto perfetto, celata da un sorriso. Come un’idiota andai avanti nel vuoto creatosi tra di noi. Sorrise di nuovo. Un sorriso triste, infelice, che minacciò di incrinarmi il cuore.

Rimasi a fissarlo negli occhi per qualche secondo, troppo scossa per poter fare o dire qualunque cosa.

Il silenzio che seguì fu uno dei più pesanti che avessi mai vissuto.

Intuii che Edward non avrebbe più preso nessuna iniziativa e decisi quindi di fare qualcosa. Cosa, di preciso, rimaneva ancora un mistero.

Mi costrinsi a fare un passo in avanti, colmando lo spazio tra di noi. Riuscii a riempire il vuoto creatosi fisicamente tra noi, ma avevo paura di non poter più colmare quello che sembrava riempire i suoi occhi tristi.

Sollevai timidamente una mano, nel tentativo di accarezzargli il volto.

Le sue dita mi fermarono, quel sorriso triste di nuovo sulle sue labbra mentre scuoteva la testa. Riportò la mano sul mio fianco, dove lasciò entrambe.

Evitai di pensare alla scossa elettrica che mi percorreva. Lasciai scivolare la mia mano sopra la sua, posandola sul suo avambraccio freddo. Sollevai la testa, incatenando il mio sguardo con il suo.

Sorrisi imbarazzata. Non avevo la minima idea di come comportarmi, nonostante l’obbiettivo fosse chiaro. Decisi semplicemente di non pensare.

Non pensare alla sua mano che si posava gentile sul mio collo, con un sospiro fresco che mi confuse, alle mie dita che risalivano timidamente il suo braccio, per poi posarsi tremanti sulla sua nuca. Non pensare, mentre le mie dita s’intrecciavano ai suoi capelli e le sue mani mi stringevano a sé, alla corrente elettrica che sembrava avvolgerci e correre tra di noi. Non pensare ai miei battiti accelerati, che si rincorrevano senza sosta, mentre rimbombavano nella mia testa e contro il suo petto, come echi sordi del tempo che sembrava solo scivolarci addosso.

Non pensai nemmeno quando vidi gradualmente il suo volto avvicinarsi al mio e la sua bocca incontrò nuovamente la mia, regalandomi un brivido lungo la schiena. Percepii le sue labbra dischiudersi appena, lentamente, e lo seguii.

Il mio respiro si trasformò poco a poco in affanno e mi sembrò, nonostante lui non ne avesse bisogno, che anche Edward fosse in cerca di aria. Troppo presto, ci allontanammo l’uno dall’altra.

Fece un passo indietro, mantenendo entrambe le mani sui miei fianchi. Aveva un’espressione combattuta, ma sorrideva come non avevo mai visto.

Lo guardai sorridere e mi sentii speciale, perfetta, come se quel sorriso racchiudesse il segreto del mondo. Mi prese la mano ed ebbi la sensazione che nei suoi occhi ci fossero più parole di quante ce ne fossimo mai detti. Sapevo di essere ferma, immobile, ma avevo l’impressione di essere ad un palmo da terra. Dopo un breve silenzio composto semplicemente dei nostri sguardi, Edward fece un passo avanti e mi avvolse tra le sue braccia, stringendomi a sé senza una parola.

Nascosi il mio viso contro il suo petto, lasciandomi circondare dal suo abbraccio.

“Tu sei decisamente meglio di una zanzara”, mormorai con la voce attutita dal suo torace.

Affondò il viso tra i miei capelli. Percepii le sue labbra tendersi in un sorriso a contatto con il mio capo.

“Anche tu”, sussurrò lentamente, la sua voce smorzata. “Meglio di qualunque altra cosa al mondo”.
Restammo in silenzio, lasciando che il mio cuore riprendesse a scandire il tempo con un ritmo più regolare.



TAN TAN TAAAAAAAAN! Essì, finalmente ce l'hanno fatta. Spero davvero che non sia risultato pesante da leggere o blablabla non ne ho idea, ma non sapevo bene come riprodurre il momento xD Si accettano consigli! Beeeh detto questo, ci si becca come al solito la settimana prossima. Buon weekend! :)

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Capitolo 16
*** Allenamento. ***


Buon pomeriggio! Prima di tutto vorrei ringraziarvi davvero di cuore per il responso all'ultimo capitolo, non potete capire quanto mi abbia fatto piacere. Grazie mille!
Detto questo, riprendiamo da dove avevamo lasciato quei due. Ahimé le cose non funzionano sempre come si vorrebbe... Buon capitolo! :)

Capitolo 16. Allenamento.

Le cose da quel giorno cominciarono a scorrere con più velocità, in una routine che non minacciava minimamente di stancarmi. Scuola, casa. Casa, scuola. E compiti, immancabilmente compiti.

La mia nuova casa – a cui ancora stentavo a credere – era fantastica. Mi ci ero abituata abbastanza velocemente, anche se tendevo ancora a passare la maggior parte del mio tempo in casa Cullen.

Tuttavia, nei giorni seguenti non riuscii mai a trovarmi da sola con Edward e non riuscivo a capire se questa fosse una semplice coincidenza o un abile tentativo di evitarmi da parte sua.

Forse si era accorto di aver commesso un errore, quella sera. Forse voleva evitarmi per lasciar svanire in me le speranze che si erano inevitabilmente create. Forse, semplicemente, la fortuna era impegnata altrove.

Dopotutto, cosa mai avrebbe potuto trovare in me? Una ragazza semplice, senza abilità o interessi particolari. Non ero particolarmente bella, non lo ero mai stata. Di questo me n’ero fatta una ragione. Rientravo nella norma, come per tutto il resto.

Eccezion fatta per quella inutile capacità di mantenere la mia testa, con relativi pensieri connessi, al sicuro. Tuttavia, non ero così sicura in quegli ultimi giorni che fosse qualcosa di buono. Se Edward avesse percepito cosa pensavo, i miei dubbi e le mie incertezze, forse sarebbe venuto da me per rassicurarmi. O, al contrario, per confermare i miei dubbi.

Edward, invece…lui sì che era speciale. Era un angelo. Fino a quella sera, che ormai, anche se solo a distanza di qualche giorno, appariva lontana anni luce e appartenere ad un altro mondo, non mi ero mai chiesta cosa fosse Edward per me. Cosa provassi per lui. Non ne avevo mai sentito il bisogno, poiché forse ai miei occhi la risposta era ovvia. Almeno da parte mia.

Quando finalmente mi ero interpellata, avevo sostenuto una lunga conversazione con il mio personale Grillo Parlante, che aveva cercato di persuadermi ad ammetterlo. Alla fine, esasperata, gli avevo dato ragione. Lo amavo. Aveva ragione, ero solo restia ad ammetterlo, a causa della paura e, in minor parte, della cocciutaggine. Avevo paura del dopo.

Una volta che l’avessi ammesso a me stessa, non sarei più potuta tornare indietro. Non avrei più potuto negare alla speranza di avvolgermi e annebbiarmi. Avevo paura che proprio quella speranza, che aveva cominciato a mettere radici dentro di me e cresceva ogni volta che incrociavo il suo sguardo, mi potesse ferire. Non avrei potuto lamentarmi e piangere, a causa dei sentimenti che avevo deciso di provare. Per questo, restavo in silenzio davanti a lui quando camminavamo insieme agli altri, a testa bassa. Non c’erano risposte alle ulteriori domande che mi affollavano la testa.

Tuttavia, riuscii in qualche modo a gestire la situazione, alternando silenzi a falsi sorrisi e lasciandomi travolgere e distrarre da quella routine che ormai avevo fatto mia.

Rosalie, nel frattempo, non era d’aiuto. Cercava in ogni modo di farlo, tentando di sostenermi e assillandomi per raccontarle cosa fosse successo quel lunedì sera per “sconvolgermi tanto”.

Non mi sentivo sconvolta. Più che altro confusa. Tanto, troppo confusa. Dopotutto, io ero semplicemente umana.

Nei giorni seguenti cercai così di passare il minor tempo possibile da sola, tentando in questo modo di evitare i miei problemi. Trovai una vera amica in Angelica, che divenne per me più importante di quanto avessi mai pensato. Diventammo inseparabili, contro ogni mia previsione. Completavamo le frasi una dell’altra, avevamo interessi molto simili e con lei, come riuscivo forse ad essere solo con Rose, ero semplicemente me stessa. Sembravamo completarci come due metà di un intero, e spesso scherzavamo sull’essere due gemelle separate alla nascita.

Thomas si dimostrò un buon amico, ma temevo che ci fossero alcune incomprensioni dietro l’angolo. Dimostrava fin troppe attenzioni nei miei confronti, cosa che all’inizio non mi aveva minimamente infastidita. Pensavo – o meglio, mi ero auto convinta – che quello fosse solamente il suo modo di essere, di comportarsi. Ormai sembrava non accorgersi nemmeno della presenza dei Cullen e aveva preso l’abitudine, ogni mattina, di aspettarmi davanti al posto auto della Volvo per accompagnarmi in classe.

Mi piaceva pensare che la cosa infastidisse in qualche modo Edward, e speravo fosse per gelosia. Tuttavia, cercavo di evitare certi pensieri. A mensa ormai non pranzavo quasi più con i Cullen, sostenendo la scusa di “mantenere amicizie umane”.

All’inizio avevo accettato di buon grado le attenzioni di Thomas, credendo - o almeno, sperando - che potesse scatenarsi una qualche reazione di gelosia. Tuttavia, l’unico risultato che avevo ottenuto era il fatto che Tom si era irreparabilmente appiccicato a me, senza perdermi di vista un secondo. Nonostante ciò, cercavo di non dare a vedere quanto mi innervosisse il suo comportamento oltremodo morboso e mi lasciavo scivolare addosso le giornate primaverili senza che me ne accorgessi più del dovuto. Così, quando una mattina di fine Aprile Alice mi buttò giù dal letto, ne rimasi sorpresa.

“El, salta giù dal letto. Ho deciso che voglio insegnarti a controllare il tuo potere!”, mi cinguettò allegramente a un palmo dal naso. “Su, svegliati!”, m’intimò poco dopo, scostando le tende dalla grande porta finestra e lasciando che la debole luce del mattino mi abbagliasse.

“Cosa?”, farfugliai con la voce impastata dal sonno.

“Hai sentito benissimo”, disse allegra.

“Alice, è domenica!”, bofonchiai coprendomi il viso con il braccio.

“Lo so”.

“Quindi muoviti”, aggiunse subito dopo.

Mi voltai, scoprendomi il viso e scoccandole un’occhiata eloquente.

“Visto? Sei già sveglia”, ridacchiò vedendomi.

“Alice…”, la supplicai.

“Niente Alice, alzati!”.

Grugnii qualcosa, ma ormai sapevo di non potermi più riaddormentare, quindi strisciai fino al bordo del letto.

“Cosa intendevi prima, Alice?”, domandai quando fui in grado di sostenere un discorso sensato.

“Voglio insegnarti a controllare il tuo potere”.

“E come vorresti fare, scusa?”.

Si strinse nelle spalle.

“Ancora non lo so”, disse. “Mi verrà in mente”.

La prospettiva di riuscire a sfruttare questo mio ipotetico potere mi entusiasmava. Volevo imparare, e in fretta.

“Cosa facciamo?”, chiesi dopo che ebbi finito di prepararmi.

“Andiamo nella foresta”, rispose decisa, annuendo a se stessa.

“Nella…”, feci per domandare, “Oh, va bene”.

Sapevo che era meglio non frenare Alice quando aveva quell’espressione.

Alice mi sfoderò un sorriso raggiante e in meno di un secondo mi ritrovai in casa Cullen.

“Non dovevamo andare nella foresta?”, chiesi scocciata.

Non avevo voglia, o coraggio almeno, di incontrare Edward per casa.

Alice mi squadrò, nonostante la sua piccola statura, dall’alto al basso. Un moto di lieve disgusto apparve sul suo viso da elfo.

“Con quei vestiti no di certo”, mi rispose.

A me suonò come una minaccia.

“No, Alice”, la implorai. “Non di nuovo”.

Sorrise beffarda.

“Se vuoi che ci sia io, sì”.

Mi dovetti mordere la lingua per non risponderle male. Io non le avevo proprio chiesto niente, tantomeno che ci fosse lei. Tuttavia, se ci fosse stata Rose la cosa non sarebbe stata poi molto diversa, quindi mi zittii.

Salimmo le scale velocemente per poi ritrovarmi, come ormai era norma, davanti al grande armadio di Rosalie. Alice mi vestì in modo normale, cosa che da lei non mi aspettavo certamente. Questo la diceva lunga su cosa avesse in mente di fare.

Nel scendere le scale, mentre Alice ed io scherzavamo allegramente, incrociammo Edward. Il mio sorriso si affievolì immediatamente, rimpiazzato da un’espressione avvilita ed imbarazzata.

L’espressione di Edward non era molto distante dalla mia, anche se celata meglio.

“Ciao Edward”, cinguettò Alice al mio fianco.

“Buongiorno Alice”, mormorò Edward rivolgendole una strana occhiata. “El”.

Mi salutò con un cenno del capo, evitando accuratamente i miei occhi.

“Edward”, lo salutai con poco più di un sussurro.

Strinsi le mani l’una con l’altra, rigirandole nervosamente.

“Dove state andando?”, chiese ad Alice.

“Un giretto nella foresta”, annunciò con un ampio sorriso.

Tuttavia, non fece parola di quello che dovevamo in realtà fare.

Mi stupì, ma evitai di darlo a vedere. Rimasi con lo sguardo fisso sui gradini delle scale, contemplando i miei piedi.

“Vorresti venire anche tu?”, chiese Alice squillante.

Il mio sguardo scattò avanti, accendendosi di una luce particolare. Imbarazzo. Imbarazzo e, non potei impedirmelo, speranza.

I miei occhi incrociarono i suoi e si scambiarono una lunga occhiata. Il loro colore dorato, così come l’intensità, mi dava alla testa. Tuttavia, cercai di sostenere il più a lungo possibile il suo sguardo e di celare, per quanto mi fosse possibile avendolo a pochi centimetri da me, ciò che provavo per lui.

“Dovrei?”, mormorò con un mezzo sorriso ad Alice, senza staccare gli occhi dai miei nemmeno un istante.

“Secondo me, sì”, rispose allegra.

Avrei voluto zittirla. Arrischiai un’occhiata eloquente verso di lei e sorrisi, compiaciuta.

Sembrava che Alice stesse cercando di comunicare qualcosa ad Edward, ma che, tuttavia, non ci stesse riuscendo. Il mio potere a volte risultava davvero utile.

Tornai a fissare Edward, ancora immobile davanti a me. Mi stava guardando. Provai una fitta allo stomaco, come se anche lui stesse improvvisamente ricordando tutto quello che era successo.

Lo guardai negli occhi e per un attimo mi sembrò di rivedere lo stesso sguardo che mi aveva rivolto quella sera, solo più tormentato. Fiammeggiava per la sua intensità, lasciandomi perplessa. L’oro fuso che sembrava sprofondare nelle sue iridi brillanti mi confondeva.

Ad un tratto, tuttavia, chiuse gli occhi impedendomi così di giungere alla via più diretta per i suoi sentimenti. Quando li riaprì, l’oro si era di nuovo congelato. Abbassai lo sguardo, percependo gli angoli delle mie labbra piegarsi automaticamente verso il basso. Non sarebbe venuto.

“Non credo che sarebbe una buona idea”, mormorò. “Magari la prossima volta”.

Sospirai in silenzio, sconfitta.

“Alice, El”, ci salutò e proseguì lungo il corridoio.

Non potei impedirmi di seguirlo con lo sguardo finché non sparì all’interno della sua stanza, così come non potei impedire ai miei occhi di gonfiarsi di lacrime tristi.

Sbattei le palpebre velocemente per impedirgli di traboccare.

“Mi dispiace, El”, mi sussurrò Alice avvolgendomi con un braccio intorno alla vita.

Mi arrabbiai. Come se lei non avesse saputo che l’avremmo incontrato. Come se non l’avesse previsto.

“Già, anche a me”, dissi in poco più di un sospiro.

Si alzò sulle punte, affondando il viso nei miei capelli e respirando profondamente.

“Molto, molto utile”, ridacchiò.

Sbuffai.

“Dai, andiamo”, disse poco dopo recuperando il suo consueto umore.

Feci per ribattere, ma m’interruppe con un cenno della mano.

“Prima impari a controllare il tuo potere, prima riuscirai a leggere cosa gli frulla in testa”.

Sbarrai gli occhi. Non ci avevo ancora pensato.

“Davvero?”, mormorai entusiasta.

“No, per finta”, scherzò. “Muoviti, El, andiamo ora!”.

Annuii decisa e corsi giù per le scale.

La Volvo era già di fronte a casa, parcheggiata in mezzo all’ampia radura.

La raggiunsi e mi catapultai sul sedile del passeggero, cercando di sfuggire alla pioggia che sembrava volermi inseguire. Chiusi la porta dietro di me, sentendomi finalmente all’asciutto.

Mi lasciai sfuggire un sospiro.

“Bene, allacciati la cintura”, cinguettò Alice. “Si parte!”.

Feci come diceva, senza dire una parola.

“Alice?”, dissi ad un tratto, mentre il ruggito del motore riempiva l’abitacolo.

“Sì?”.

“Non sarebbe stato meglio…”, dissi gesticolando verso l’esterno. Mi fermai.

Ripensai alla volta scorsa, aggrappata alla colossale schiena di Emmett e rimpiazzai quel gigante che tanto adoravo con la piccola, minuscola Alice. L’idea non mi attirava più di tanto, nonostante sentissi la mancanza dell’ebbrezza della velocità.

“No, niente”, aggiunsi alla svelta.

Alice si strinse nelle spalle, sorridendo. Era eccitata quanto me, a quanto sembrava.

Rimasi in silenzio a guardare fuori dal finestrino, mentre l’auto sfilava lungo strade e sentieri invisibili, circondata solo dal silenzio e dal ticchettare della pioggia.

“Alice?”, domandai per la seconda volta in poco più di cinque minuti.

“Sì?”, rispose allo stesso modo, voltandosi appena verso di me.

“Credi davvero che sia il caso con la pioggia? Credi che ce la possa fare?”.

Il suo sorriso, se possibile, si tese ancora di più rivelando i suoi denti perfetti e lucenti.

“Non pioverà”, disse picchiettandosi la fronte con l’indice e il medio in modo eloquente. “E sono abbastanza certa che tu possa farcela, per quanto non sia in grado di vederlo”.

Annuii senza aggiungere niente. Il silenzio riprese, ma senza pesare.

Alice sembrava avere l’espressione paralizzata nel suo consueto sorriso, senza tuttavia apparire forzata. Spesso stentavo a credere che fosse stata davvero lei quei primi giorni. Alice era così…solare, così sorridente nei confronti della vita stessa.

Rosalie considerava una sorta di maledizione, un forzare il regolare svolgimento del mondo, diventare immortali. Per Alice pareva tutto il contrario; come se non avesse mai avuto una vita diversa all’infuori di questa, come se fosse nata per quello.

“Siamo arrivate”, disse Alice con voce squillante, distogliendomi dai miei pensieri.

Una volta fuori dall’abitacolo, mi guardai attorno. Come tutto in quel luogo, aveva qualcosa di magico. Qualcosa di spaventoso e affascinante allo stesso tempo. Gli alberi secolari tutt’intorno a noi sembravano volerci inghiottire in un moto volontario, le loro fronde colossali mosse dal vento che soffiava leggero ma insistente. Era tutto così assurdamente verde.

Camminammo velocemente attraverso gli alberi, affrettandomi per mantenere il passo di Alice. Dopo poco sbucammo in un ampio spiazzo circolare pressoché simmetrico. Gli alberi qui erano praticamente assenti, come se si fossero ritirati per lasciarci posto. Ai confini di quella radura, si mantenevano tuttavia compatti ad ergere una muraglia impenetrabile.

Alzai i palmi verso il cielo e sorrisi. Aveva avuto ragione, come sempre. Non pioveva più.

“Pronta?”, mi chiese Alice.

“Pronta”, replicai decisa.

Alice annuì con fermezza e m’indicò di posizionarmi di fronte a lei, sul lato più a nord dello spiazzo.

“Bene”, disse una volta che ebbi preso posto.

Alice appariva concentrata, gli occhi chiusi e il capo chino.

Rimasi in silenzio a guardarla, aspettando. Nonostante non piovesse più, il vento gelido soffiava ancora, frustandomi il viso. Mi strinsi nella giacca a vento.

“Alice?”, azzardai.

Ssshh!”, m’intimò sollevando un dito. “Sto pensando”, mi disse.

Dopo qualche breve istante, sollevò la testa con un gran sorriso.

“Okay, credo di aver capito come fare”, dichiarò orgogliosa.

La fissai dubbiosa, le labbra premute in scetticismo.

“Non so ancora se funzionerà, ma ho la mia teoria”, disse soddisfatta, “quindi funzionerà”.

Sembrava davvero molto compiaciuta e sicura di se stessa.

“El, ora abbassa il tuo scudo”, la sua voce decisa mi raggiunse insieme al vento dall’altra parte della radura.

“Cosa?”, domandai sorpresa.

“Ti ho detto che ho la mia teoria”.

Strabuzzai gli occhi, interrogativa.

“Posso sapere di cosa si tratta, Alice?”, la esortai.

“Okay, ma non…”, si fermò come a cercare la parola migliore, “non offenderti”.

Offendermi?

Rimasi a fissarla, le braccia strette sul petto per il freddo.

“Credo che il tuo potere sia più forte quando Edward è vicino a te”, disse seria. “Credo che sia questa la ragione per cui riesco ad avere le visioni anche quando sono con te. Se Edward è lontano, il tuo scudo è come se diminuisse di spessore”, concluse soddisfatta.

La ascoltavo a bocca aperta. Era impossibile, ma probabile allo stesso modo. Sentii il mio stomaco contorcersi quando mi tornò in mente il mio compleanno.

Trasalii, facendo una smorfia.

“Quando, invece, ti è vicino, per me è pressoché impossibile avere visioni chiare. Non ho ancora capito il perché, ma è come un carburante per te”.

Sorrisi. Forse si poteva vedere così, nonostante non fosse solo quello per me.

“Alice, sei sicura?”, domandai cambiando velocemente argomento. “Devo abbassare lo scudo?”.

La teoria di Alice non aveva fatto altro che accrescere in me la voglia di riuscire a controllare meglio il mio potere. Dovevo e volevo sapere cosa pensava Edward.

“Sì”, mi rispose Alice.

“Ma sei sicura che…”, mormorai dubbiosa.

Le poche volte che l’avevo fatto, non era andata poi molto bene. Quasi assalita da un vampiro e quasi attaccata da un licantropo. Le percentuali non giocavano a mio favore.

“El, non sono Jasper e non sono Edward. Posso farcela, non sei poi molto diversa dagli altri umani”.

Controvoglia, abbassai il velo che mi ricopriva. Avevo imparato a percepirlo, a controllarlo anche se non del tutto. Come la volta prima, mi sentii immediatamente vulnerabile e indifesa.

Alice fece un lungo e profondo respiro, chiudendo gli occhi.

“Non ti ricordavo così buona, sai?”, disse scherzosa.

Tentai di sorridere, ma non riuscii granché nell’intento. Alice rise.

“El, non preoccuparti! Scherzavo”, ridacchiò.

“Ora che faccio?”, domandai curiosa.

“Ora sbircio nel tuo futuro”, sorrise ampiamente.

“Alice! Avevi detto che…”.

M’interruppe.

“L’ho detto e lo farai, ma adesso lasciami fare”.

“Intanto cerca di concentrarti per dopo”, consigliò poco dopo.

La osservai mentre i suoi occhi diventavano vuoti ed impenetrabili ad intervalli di tempo quasi regolari, alternando sorrisi raggianti ad espressioni serie.

Quando i suoi occhi tornarono a focalizzarsi su di me, un gran sorriso le illuminava il viso.

“Qualcosa di buono?”, chiesi curiosa.

“Diciamo di sì”, i suoi occhi sembravano volermi dire qualcosa, ma riuscivo a leggervi solo una grande allegria.

“Me lo dirai?”.

“Ah, no”, disse ridacchiando.“Non ti rovinerò la sorpresa”.

“Sorpresa? Alice, che sorpresa?”.

“El, niente di cui agitarsi. Ora puoi rimettere lo scudo al suo posto”.

Obbedii alla svelta, sentendomi immediatamente più al sicuro.

“Ora devi cercare di potenziarlo più che puoi”, mi disse seria.

“E come…”.

Mi fermai. Il sorriso di Alice era più eloquente delle parole.

“Ah, no”, mi affrettai a dire. “Alice, fa già abbastanza male pensarci ogni tanto”.

“E invece devi”, m’intimò.

“Costringimi”, la sfidai.

“Vuoi imparare o no?”.

“Sì”, mormorai incerta, “ma Alice…”.
“El, devi pensare a Edward. Questo è quanto”.

Grugnii esasperata e obbedii, anche se controvoglia.                                                           

Mi strinsi nella giacca a vento, aumentando la presa attorno al mio stomaco, mentre richiamavo alla mente quei brevi episodi di un tempo che ormai appariva lontano.

“Bene così, El”, esclamò entusiasta Alice.

Incoraggiata da quell’esclamazione, riportai nei miei pensieri i momenti precisi di quella sera, quando tutto era stato così perfetto ed irreale da desiderare di non svegliarmi da quel sogno. Ad un tratto, sentii qualcosa cambiare. Non d’improvviso, piuttosto un lieve e graduale cambiamento che percepii in ritardo.

Cercai il mio scudo, intimorita. Non c’era. O meglio, non riuscivo a trovarne i contorni, ma era sempre intorno a me. Fu con non poco stupore che mi resi conto che i bordi più esterni del mio scudo arrivavano ad accarezzare Alice, che sorrideva soddisfatta.

Oh!”, esclamai stupefatta.

Alice scoppiò a ridere.

“Come diavolo…”, cercai di domandare a me stessa, ma senza esito.

Non riuscivo a spiegarmi in alcun modo cosa stesse accadendo. Come poteva essere possibile? Non mi sembrava di esserci mai neanche lontanamente riuscita, eppure…

“El, ora devi concentrarti”, mi distrasse la voce di Alice.

Tirai su la testa di scatto, pronta ed attenta. Mai come ora desideravo di imparare a gestire questo incredibile scudo, a me ancora in parte sconosciuto. Annuii decisa, con un sospiro. Ora che me ne rendevo conto, mantenere lo scudo a quei livelli era faticoso. Come lo era stato d’altronde agli inizi, anche solo per mantenerlo attivo.

Ti ci abituerai, mi dissi, è troppo importante adesso.

“Che cosa devo fare?”, chiesi, la mia voce ferma e risoluta.

“Devi semplicemente avvolgermi con il tuo scudo”, la voce di Alice rispecchiava la mia.

Con un gemito di fatica sospinsi quel velo, tanto invisibile quanto tastabile che si frapponeva tra noi, verso di lei. Fu più impegnativo di quanto avessi pensato, potevo sentire il mal di testa lievitare nel mio cranio. Tuttavia, alla fine, ci riuscii. Me ne accorsi immediatamente, e fui da subito sicura che me ne sarei resa conto anche senza guardare Alice sorridere compiaciuta e formare il segno di vittoria con le piccole dita sottili e chiare. Non appena riuscii nel mio intento, percepii come un debole bagliore, un punto di luce all’interno del mio scudo.

“Incredibile”, mormorai più a me stessa che ad Alice.

-…fosse stato Edward-

La mia testa scattò in avanti, lo sguardo a cercare la provenienza di quel suono.

Quel nome era inconfondibile nella mia mente, così come la voce che le aveva pronunciate.

“Cosa hai detto?”.

“Non ho detto nulla”.

“Alice, qui ci sei solo tu. Non prendermi in giro”.

“Davvero, io non ho detto nulla”, enfatizzò il termine.

La guardai a bocca aperta, mentre lo stupore si faceva strada insieme alla consapevolezza nel mio corpo. Un gran sorriso mi tirò gli angoli della bocca, senza che i miei muscoli prendessero la decisione di farlo.

“Stai scherzando!”, quasi strillai. “E’ impossibile!”.

Mi passai una mano tra i capelli, sbalordita.

“Incredibile”, sentii mormorare Alice.

Poi, come un elastico troppo teso, percepii il mio scudo tornarmi indietro con la violenza di un boomerang. Sobbalzai per la sorpresa e sospirai, in parte soddisfatta e altrettanto contrariata.

Posai le mie mani tremanti sulle ginocchia, respirando profondamente.
“Ancora”, affermai decisa.

Alice sorrise, scuotendo la testa.

“Riprendi fiato prima”.

Attendemmo all’incirca un minuto prima di decidere che era inutile aspettare che mi riprendessi completamente dallo sforzo. Tanto valeva battere il ferro quando era caldo.

I due tentativi successivi si rivelarono un profondo buco nell’acqua. Cominciavo a dubitare di riuscirci. Forse me l’ero immaginata?

Quando iniziai a perdere le speranze, ci riuscii.

- El, tra poco comincerà a piovere di nuovo -

Esultante, sorrisi.

“Da quando fai le previsioni del tempo, Alice?”, domandai elettrizzata.

“Ci sei riuscita!”, il sorriso di Alice seguiva il mio.

“Sì, anche se mi fa male la testa”, mi massaggiai la fronte.

“Direi che per oggi può bastare”, concluse.

Annuii il minimo indispensabile.

Anche solo il più insignificante dei movimenti del capo mi faceva pulsare le tempie.

“Se mi esplode il cervello, è colpa tua”, mormorai ad Alice una volta tornate in macchina.

Alice ridacchiò, e quel suono, come di campane in festa, risuonò nella mia testa come amplificato.

Appoggiai la fronte contro il vetro freddo del finestrino, traendone un minimo di sollievo.

Sospirai, soddisfatta. Ce l’avevo fatta. Per poco, ma ci ero riuscita.

“Cosa riesci a sentire di preciso?”, domandò Alice a metà del viaggio. “Sono curiosa”.

“E’ come…”, farfugliai in cerca del termine più consono. “E’ come se ci fosse qualcuno che mi parla attraverso un vetro. Lo sento, ma non riesco a distinguere bene le parole”, abbozzai un mezzo sorriso, compiaciuta della mia analogia.

“Quindi non vedi immagini, non vedi niente”, costatò Alice.

Tuttavia, mi sembrò una domanda e mi sentii in dovere di rispondervi.

“No, non vedo…nulla. Dovrei?”.

“Edward riesce a vedere le mie visioni, e le immagini mentali che le persone creano”.

“Oh”, fu la cosa più brillante che riuscii a dire.

“Sono sicura che è solo questione di esercizio, il resto verrà da sé”, mi confortò sorridendo.

Quella volta, mi limitai a chiudere le palpebre. La testa mi faceva un male dell’accidenti, non me la sentivo di rispondere.

“Tutto bene la testa?”, sembrò rendersi finalmente conto di come stavo.

“Sì”, mentii alla svelta.

“Appena torniamo a casa, ti fai dare un’occhiata da Carlisle”.

“Mh-mh”, fu il mio responso.

Se fosse un’affermazione o meno, quello non lo capii nemmeno io.

In breve tempo, molto meno di quello che mi era apparso all’andata, sbucammo nell’ampia radura ormai a me familiare. Entrammo in casa appena in tempo perché iniziasse il temporale. La pioggia, armata di lampi e tuoni, sembrava urlare contro il vento, che non tardava a rispondere.

Mi portai le mani alle orecchie, frastornata. Un toccasana per il mio mal di testa.

“Carlisle?”, chiamò Alice, accompagnandomi sul divano. “Siediti qui e rilassati”, mi sussurrò piano.

Mi limitai a fissarla, pregando di non sembrare il vegetale che mi sentivo.

“El!”, una voce inconfondibile riempì l’aria come colpi di cannone per la mia povera testa.

“Che ti è successo?”, esclamò.

Ssshhh!”, la zittì Alice.

“Rose, non è niente”, la confortai. “Però tu abbassa il volume, ok?”.

“Niente? Sembri un cadavere”, disse a bassa voce, con mio grande sollievo. “Sei più pallida di me!”, continuò.

Sbuffai, scocciata. Per fortuna, la presenza di Carlisle sembrò rischiarare la stanza ed il mio umore tetro.

“Emicrania?”, chiese gentilmente.

“Non lo so”, risposi sincera. “So solo che fa un male cane”.

“Dovresti prendere del Tylenol”, affermò. “Poi vediamo”.

“Mh-mh”, convenni.

Rosalie insistette per portarmi di sopra in braccio, in camera sua, ma grazie a Dio c’era Emmett.

“Stia male quanto vuole, ma i patti sono patti”, affermò ridacchiando.

Evidentemente, il mio mal di testa lo divertiva.

“Ecco Rose, ascolta l’amore della tua vita”, sogghignai.

“Non me la sento di lasciarla dormire da sola, in garage”, replicò testarda.

“Starò benissimo”, mi affrettai a dire. “Promesso”.

Alla fine Rose acconsentì, e mi portò con mio grande disappunto fino in garage. In braccio. Ovviamente accompagnata dalle fragorose risate di Emm. Prima o poi, quel bambino troppo cresciuto me l’avrebbe pagata.

Esausta, mi sdraiai sul letto, ancora completamente vestita. Non mi sentivo in grado nemmeno di togliermi le scarpe, così lasciai perdere.

Mi addormentai poco dopo, mentre lasciavo che la mia giornata scorresse davanti ai miei occhi. Edward non vi aveva fatto parte, ma ero comunque contenta. Mi sentivo inspiegabilmente soddisfatta, un sorriso stanco sempre sul mio volto. Edward non c’era stato, ed io ne avevo fatto a meno. Ero sopravvissuta, giusto? Anche se era ancora da vedere quest’ultimo particolare, vista la mia emicrania. 

Mentre l’incoscienza si faceva strada verso di me, ero sempre più convinta di poter ormai riuscire a stare senza Edward. Forse potevo farcela, era possibile. Forse sarei riuscita a comportarmi come lui. Ne ero convinta, ma dopotutto ero ancora sotto Tylenol.

Ebbene! ...Spero che nessuno di voi mi stia odiando. Insomma, El sembra aver capito che deve svegliarsi un po'. Eeee niente! Non ho nient'altro di particolare da dire, a parte invitarvi come sempre a farmi una visitina nello spazio recensioni e ringraziare come al solito le quattro disperate(in senso buono!xD) che mi commentano sempre. Un grazie anche ai lettori silenziosi in pagina! Che altro...ah sì, buon weekend! A sabato prossimo :)
Modifica dell'ultimo secondo: AUGURI GIOVANNA!xD Se me lo dicevi prima magari era meglio u.u Buon compleanno!

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Capitolo 17
*** Giornataccia. ***


Buon pomeriggio e buona Pasqua a tutti! La mia connessione è a dir poco instabile, quindi sarò veloce. Le cose per El non vanno alla grande, poverina xD Eeee niente, buon capitolo! :)

Capitolo 17. Giornataccia.

Era chiaro che non dovessi riuscire a dormire. Qualcuno doveva avercela con me, probabilmente.

Il sogno cominciò lentamente, dandomi la possibilità di capire tutto quello che accadeva intorno a me. Non mi trovavo nella solita radura, che ultimamente faceva da scenario fisso nei miei sogni.

Era un luogo nuovo, familiare in un certo senso, tuttavia non abbastanza da farmi sentire al sicuro. Era sempre una radura, ma come notai con grande sollievo, non la stessa degli incubi precedenti. Era grande, leggermente ovale e circondata da giganteschi alberi.

Mentre vagavo per quell’immenso spiazzo d’erba, notai un particolare che catturò la mia attenzione. Una pietra abbastanza grande, dalle forme nette e tondeggianti, nera come la pece. Risaltava sul manto erboso, non per il suo colore, bensì per lo strano simbolo che sembrava esservi inciso sopra con grande cura. Eppure, quella pietra sembrava non essere mai stata toccata da anima viva. Mi chinai a raccoglierla e mi sorpresi di quanto fosse liscia e levigata la sua superficie.

Soffiai via la polvere ed il terriccio, prendendola tra le mie mani. Era pesante, nera e lucida. E quello strano simbolo sembrava appartenere a un’epoca distante, lontana. Mi affascinava. Tre lunghe linee, piegate in semicerchio, parevano intrecciarsi a voler dipingere qualcosa. Ogni arco s’intersecava con l’altro in punti diversi, formando un simbolo davvero suggestivo.

Sentii il vento soffiarmi tra i capelli e, con un sussulto, mi resi conto di non essere sola. Scattai in piedi, levando lo sguardo e facendolo vagare attentamente lungo tutto il perimetro dell’ampia radura. Ed eccolo. Immobile come sempre, quel sorriso crudele a riempirgli il volto.

Il suo viso, diversamente dall’ultima volta, era scoperto, lasciando che il suo sguardo s’intonasse al sorriso. Percepii un lungo brivido gelido percorrermi la schiena.

Il luogo era diverso, la situazione era diversa, ma lì, nei miei sogni, c’era sempre lui. Claude.

Mi guardò, inclinando il capo da un lato e tendendo il suo sorriso. Recitò la sua consueta frase, impeccabile e gentile come sempre.

“Come stiamo, signorina?”, chiese pacato.

Non sapevo cosa rispondere, o se dovessi anche solo dire qualcosa, quindi mi limitai ad annuire. Almeno qui non mi faceva male la testa.

Claude si avvicinò lentamente, percorrendo il perimetro della radura. Sembrava studiarmi, come un animale in gabbia pronto ad attaccare. Seguii ogni suo movimento, senza lasciare soli i suoi occhi per un attimo.

“Come sta il tuo amico, Elizabeth?”, domandò ad un tratto, fingendosi realmente interessato.

“A quanto so, benissimo”, cercai di sembrare il più sicura possibile. “Non lo sento da un po’”.

Sentivo le mani sudare freddo e formicolare lungo i miei fianchi. Le strinsi con forza in pugno.

“L’ultima volta che l’ho visto stava benissimo, in effetti”, sussurrò dolcemente, avvicinandosi in modo più vistoso adesso.

Sentii la rabbia crescere in un secondo, spodestando la paura.

“Tu non devi toccarlo”, minacciai seria.

Claude sorrise, e quel sorriso bastò a far riaffiorare il mio terrore.

“Non ho intenzione di fare nulla”, replicò suadente. “Al tuo amico”, aggiunse precisando.

Non potei impedirmi di rabbrividire, nonostante cercassi di mascherare tutto ciò scuotendo la testa e stringendomi nella giacca a vento.

“Qualcosa non va?”, chiese. “Hai forse freddo?”.

Mi venne voglia di sorridere. Se sapevamo entrambi come sarebbe finita, perché continuare con i convenevoli? Eppure, non avevo nessuna intenzione di dire nulla.

“No, non è niente”, replicai con quanta più decisione potessi.

“Ti fa forse male la testa?”.

I miei occhi si sbarrarono in stupore, mentre mi affrettavo a chiudere ogni via d’accesso al panico. Possibile che fosse solo una coincidenza, la sua domanda? Possibile che il panico che sentissi mi urlasse di scappare, non importava dove?  Dopotutto, se era sempre lo stesso sogno, Edward sarebbe arrivato.

“No, la testa non mi fa male”.

“Non più”, mi corresse lui.

Non potei impedirmi di indietreggiare visibilmente, lasciando cadere la pietra ai miei piedi e correndo via. Diedi retta al panico nella mia testa, non c’era altro modo.

“Come sei testarda”, sentii dire alle mie spalle.

Urlai, l’ultima cosa che mi sarebbe servita in quel luogo. Non c’era nessuno ad ascoltarmi.

“Fai sempre così”, mormorò Claude al mio orecchio, accarezzandomi il collo con il suo respiro gelido.

“Cosa vuoi da me?”, domandai mentre le prime lacrime cominciavano a percorrermi il viso.

“Mi sembrava che fosse già chiaro”, rispose posando lentamente le sue labbra sul mio collo.

Volevo muovermi. Dovevo muovermi, ma non potevo. Non riuscivo.

“Voglio te”, la sua voce gentile e mielata mi dava allo stomaco, mentre le lacrime sgorgavano dai miei occhi come fiumi in piena. “Ssshh”, mormorò dolcemente al mio orecchio.

“Sarò veloce, non posso dirti che non sentirai niente, ma non sarà troppo doloroso”, mi rassicurò.

Mi strinse, avvolgendomi con un braccio, il suo corpo ancora alle mie spalle.

E fu a quel punto che mi resi conto del perché del mio panico. Il sogno era diverso.

Così, quando Claude portò per l’ennesima volta le sue labbra sul mio collo e, questa volta, affondò i suoi denti nella mia carne, non provai stupore. Non provai nemmeno dolore.

Mi svegliai di colpo, i miei occhi spalancati in orrore e già colmi di lacrime.

Percepivo la maschera di terrore affiorare sul mio viso, i capelli impastati di sudore e la fronte madida. Mi sedetti sul letto, quasi sorpresa di trovarmi in camera mia.

Come una stupida, tastai con le dita la superficie del mio collo. Ed eccola, la mia cicatrice. Quasi sorrisi, meravigliata dal fatto di non averne un’altra.

Poi, quando la consapevolezza giunse insieme allo sconforto, scoppiai a piangere. Il gesto più stupido ed inutile che potessi fare. Dopotutto, a cosa sarebbe servito? Avevo promesso a me stessa che non avrei pianto, non per lui. Mi portai le mani sul viso, cercando di nascondere al mio pubblico invisibile quella scena patetica.

Il sogno era stato diverso. Il luogo era stato diverso, la situazione era stata diversa. Il finale era stato diverso. Quasi sorrisi all’ironia della cosa, tra i ripetuti singhiozzi.

Edward non c’era più nel sogno, come non c’era più per me.

 

Quelli che a me sembrarono solamente minuti, se non secondi, furono invece ore. Prima del previsto, il ronzio insistente della sveglia riempì l’aria come una palla di cannone.

Grugnii qualcosa, cercando tentoni quell’arnese maledetto, ma non lo trovai.

Trovai invece quella che – nell’annebbiamento più totale da coma mattutino – sembrava una mano. Seguii il suo profilo con i polpastrelli, la pelle liscia e marmorea.

La mano sfuggì alla mia presa ed io aprii gli occhi.

“Sveglia, sveglia!”, cantilenò Alice.

Era seduta sul bordo del mio letto, la pelle candida che s’intonava con i toni delle lenzuola chiare.

Sfoggiava un sorriso invidiabile e stringeva tra le dita la mia odiata sveglia.

“Buongiorno, El!”, continuò senza perdere il buon umore.

La sua voce squillante risultava oltremodo fastidiosa quella mattina. Avevo già capito che oggi non sarebbe stato un buon giorno. A peggiorare le cose, la debole luce che filtrava attraverso le tende. Era troppo intensa. Non faceva presagire nulla di buono.

“Sì, El, oggi c’è il sole”, mi confermò Alice. “Tutto il giorno”.

Sembrava dovesse essere una buona cosa. E lo sarebbe stata, se questo non avesse voluto dire che i Cullen non sarebbero venuti a scuola.

“Come…”, cominciai a chiedere.

Alice mi interruppe prontamente.

“Rosalie ti accompagna e ti viene a prendere in macchina, nessun problema”.

Annuii, il mio morale sottoterra.

Una volta in cucina, mi accorsi che non c’erano più i miei biscotti. Dovetti ripiegare su un’insulsa barretta insapore. Oggi era proprio cominciato male.

“El, farai tardi”, mi ricordò Rosalie mentre salivo a cambiarmi.

Sbuffai, rimproverandomi per come mi stavo comportando. Dopotutto non era certo colpa di Rose. Tuttavia, non potei impedirmi di essere scontrosa con chiunque avesse la sfortuna di incrociarmi quella mattina. Ovviamente mi guardai bene dall’incontrare lo sguardo di Edward.

Avevo deciso come comportarmi. Avevo deciso di ignorarlo. E se volevo continuare con la mia strategia, era vitale che non sprofondassi in quegli occhi dall’intensità sconcertante che riuscivano a farmi dimenticare tutto e tutti.

Così lo ignorai. Mentre uscivo di casa, salutando uno ad uno i presenti ed evitando intenzionalmente Edward, quasi mi parve che fosse notevolmente infastidito.

Bene, pensai.

Senza accorgermi del tutto dello scorrere del tempo, mi ritrovai in macchina con Rosalie, diretta a velocità impressionante a scuola. Scuola, sbuffai.

“El?”, domandò incerta Rose.

Non spostai di un millimetro lo sguardo dal paesaggio che scorreva all’esterno del finestrino.

“Sì?”, domandai con apatia.

“Potresti spiegarmi che cosa è successo con mio fratello?”, domandò evidentemente preoccupata. “Magari potrei aiutare, magari…”, continuò, ma la interruppi.

Tirai su la testa di scatto, distolsi lo sguardo e mi voltai verso Rosalie con la mia miglior espressione rassicurante e serena.

“Rose, lascia stare”, abbozzai un sorriso. “Non è il momento”.

La mia voce era suonata così triste e malinconica come era sembrata a me?

“Dev’essere un momento piuttosto lungo allora”, borbottò stizzita.

Le rivolsi uno sguardo scoraggiato, sentendo le lacrime affiorare agli occhi.

“El…”, mormorò Rosalie dispiaciuta.

“No, lascia stare”, dissi in poco più di un sussurro.

Mi accorsi che eravamo ferme, la macchina posteggiata appena dietro l’angolo del parcheggio della scuola. Era il momento della fuga.

“Devo andare”, mi apprestai ad aprire la portiera. “Rose…”, la rimproverai quando mi resi conto che le porte erano chiuse.

“Vorrei solo aiutarti, El. Capire che sta succedendo”, disse sincera.

Quasi, per un secondo, mi convinse.

Poi scossi la testa. Inutile che coinvolgessi anche Rose.

“Apri”, le intimai esasperata.

“Neanche Edward capisce quello che sta succedendo”, continuò imperterrita.

A quel punto scoppiai a ridere. Una risata strana, quasi isterica.

“Ah, questo è davvero perfetto”, dissi sarcastica. “Tuo fratello è davvero un attore migliore di quanto avessi mai pensato”, mi guardai bene dal pronunciare il suo nome.

Scossi la testa con quello strano sorriso sul volto che nemmeno io capivo da dove provenisse.

Rosalie mi guardò come se avessi di colpo tre mani e una coda.

“El”, mi chiamò.

“Faccio tardi”.

Mi sporsi a schiacciare il pulsante per sbloccare le portiere e mi catapultai fuori dall’abitacolo. Questa volta mi lasciò fare. Avevo improvvisamente fretta di andare a scuola, sempre meglio che restare a pensare a Edward.

Svoltai rapidamente l’angolo che ancora mi separava dalla mia meta e tirai un sospiro di sollievo, asciugandomi con il dorso della mano le lacrime che mi avevano gonfiato gli occhi.

Angelica. La sua figura sembrava risaltare come un diamante in mezzo a semplici vetri. Mi affrettai per raggiungerla, ansiosa di vederla.

“El!”, si sbracciò sorridente quando mi scorse.

Un sorriso spontaneo si disegnò sul mio volto. La salutai con un gesto della mano, mentre attraversavo il parcheggio per raggiungerla.

Il rumore di una brusca frenata mi riportò alla realtà.

“Ehi!”, sbottò una voce stizzita. “Fai attenzione a dove vai!”.

Volsi lo sguardo verso il mio irritato interlocutore e vi riconobbi – all’interno dell’abitacolo di una jeep dalle modeste dimensioni – la figura di Dean Morrison.

“Cooper!”, esclamò quando mi riconobbe.

“Morrison!”, ripetei la sua espressione e il suo tono sorpreso.

Rise e si sporse fuori dal finestrino.

“Non ti avevo riconosciuta”, ammise sfoggiando un bel sorriso.

“Meglio così”, mi strinsi nelle spalle.

Il suo sorriso si trasformò in poco meno di un secondo nel ghigno spiacevole che ricordavo del mio primo giorno, mentre mi squadrava come se potesse vedermi attraverso.

“Ehi, Coop”, disse ad un tratto, mentre mi allontanavo con un cenno della mano.

Mi voltai di nuovo, sorpresa.

“Se vuoi mi aspetti e mi accompagni a lezione”, propose inarcando un sopracciglio. “Che dici?”.

“Non dovresti essere tu ad accompagnarmi? Sono pur sempre la nuova arrivata”, replicai abbozzando un sorriso e infilandomi le mani nelle tasche della giacca a vento.

Tuttavia, non appena notai il suo sguardo ed il suo sorriso spalancarsi in modo proporzionale, feci marcia indietro alla svelta.

“Comunque non posso, c’è già Angelica che mi aspetta. Sarebbe scortese”.

“Oh, dai! Raccontala a qualcun altro”.

La testardaggine di certa gente, non la capirò mai.

“Ciao Coop!”, una voce familiare sembrò venirmi in soccorso.

“Ehi Tom”, mi voltai e lo salutai con un cenno.

“Duke”, mormorò Morrison, improvvisamente di umore tetro.

“Non ti trovavo, ti stavo aspettando, ma la macchina dei Cullen non c’era e sono venuto a cercarti”, disse Tom come se avesse fretta di finire la frase.

“E mi hai anche trovata”, replicai forse un po’ troppo acida.

“Andiamo a lezione?”, domandò Tom, ignorando del tutto Dean che ancora ci fissava.

Annuii svogliata, cercando con lo sguardo Angelica che ancora mi aspettava sotto il portico.

“Ehi, non così! C’ero prima io”, s’intromise Morrison infastidito.

“Arrangiati”, replicò Thomas senza badargli troppo.

Perché avevo l’improvvisa sensazione di essere il premio di una corsa per cani?

Dean fece per aprire lo sportello e Thomas gli andò incontro.

“Piantatela”, quasi urlai. “Non è giornata!”.

Così detto, mi voltai stizzita e raggiunsi quasi di corsa Angelica, che mi attendeva impaziente con il sorriso sulle labbra.

“Ma che hanno quei due?”, fu la prima cosa che mi domandò quando avemmo oltrepassato il portone d’ingresso.

Sospirai, sorridendo lievemente. Angelica sapeva come trattarmi.

“Non ho davvero idea”, feci spallucce.

“Sembrava stessero per saltarsi al collo per vincerti”.

“Esattamente”, sbuffai.

La campanella non rischiarò il mio umore.

“Dai, facciamo tardi”.

“Io posso accompagnarti senza che qualcuno mi stacchi un braccio?”, chiese ridacchiando Angelica.

Risi anch’io.

“Andiamo”.

La mattinata scorse veloce, compresa l’ora di Ginnastica, dove tutti rimasero sorpresi delle mie doti calcistiche. Dopotutto, non potevo fargliene certo una colpa. Dopo aver passato quasi un mese a fare pallavolo, evitando le mie pallonate dalla traiettoria improbabile, era ovvio che pensassero che fossi una specie di pericolo pubblico in qualunque tipo di sport si trattasse.

Quando giunsi a mensa, insieme all’imperturbabile Tom, trovai come sempre Angelica ad aspettarmi. Il nostro tavolo era già quasi pieno, mancavamo solo noi.

Avevo imparato a riconoscere bene quasi tutti gli studenti di quella minuscola scuola, sapendo il nome e l’orario. Tuttavia, non avevo legato con molta gente. Anzi, gli unici con cui ero in grado di sostenere una vera e propria conversazione erano solo Angelica, Tom, Claire e pochi altri.

Claire era una delle “barbie” della scuola, la classica ragazza bella e popolare. Bionda, dagli occhi di un colore ancora indeciso se essere verdognolo o marrone, fisico ovviamente statuario, forse un po’ abbondante sui fianchi.  Tuttavia, per quanto gli altri potessero credere, Claire era dotata anche di un cervello.

Salutai i presenti con un cenno, sedendomi vicino ad Angelica.

“Non mangi, El?”, chiese Tom al mio fianco.

“Non ho fame oggi”, tagliai corto infastidita.

“Oh”, rispose mortificato. “Sei proprio sicura?”.

Sbuffai esasperata. Voleva davvero continuare ad assillarmi?

“Tom?”.

“Sì?”.

“Finiscila”, gli intimai con tono che non ammetteva repliche.

Angelica dovette trattenere una risata portandosi un trancio di pizza alla bocca.

“Ang?”, domandai ad un tratto. “Sei riuscita a fare matematica?”.

“Sì, mi ha aiutato mio fratello”, dichiarò sorridente. “Io non ci capisco niente”.

Ad un tratto, la conversazione che andava avanti a qualche decina di centimetri da me colse la mia attenzione.

“Potremmo andarci questo sabato”, Jackson sembrava ponderare una risposta molto accurata.

“Ho sentito che farà bel tempo”, s’intromise Tom.

“Andiamo con la mia macchina? Dovremmo starci tutti”, Anne Scott sembrava entusiasta della proposta, qualunque fosse.

Mi sporsi in avanti, curiosa.

“Ehi, ma giù alla riserva ci sarà un centro commerciale?”, chiese ad un tratto Claire, ansiosa.

E tanti saluti alla mia teoria sul cervello.

“No”, replicò Jackson stizzito. Poi tornò a rivolgersi a Anne, “Sì, potrebbe essere un’idea”.

“Claire, noi andremmo comunque per vedere First Beach, non per fare shopping”, la voce gentile di Angelica la confortò.

“Oh, okay. Mi piace l’idea”, sorrise raggiante.

“Giù a First Beach?”, domandai sorpresa. “Alla riserva?”.

“Sì, ci sei mai andata?”, domandò Thomas stupito.

“No, mai”, mormorai. A dire la verità, non ero neanche sicura di poterci andare. “Però sarei curiosa”, ammisi.

“Perché non vieni anche tu?”, propose Jackson.

“Sì, vengono tutti”, si unì Anne.

“Ehm okay. Direi di sì”, acconsentii. “Quando di preciso?”.

“Pensavamo sabato, perché sembra che ci sarà bel tempo. Tu sei libera?”.

“Credo proprio di sì”, sorrisi ampiamente.

“Allora d’accordo”, concluse Tom raggiante.

La campanella sembrò spezzare quel momento con brutalità, riportandoci al presente.

“A domani”, salutai Jackson e Anne.

Poi mi rivolsi a Angelica.

“Con te, a dopo”, sorrisi.

Poi m’incamminai con Thomas al mio fianco, sempre allegro e quasi scodinzolante, verso la lezione successiva.

“Ehi, Coop!”, mi chiamò una voce che, quel giorno, era ormai divenuta familiare.

“No, non di nuovo”, mormorai avvilita sottovoce.

“Morrison”, borbottò Tom di fianco a me, avvicinandosi a me fino a che le nostre braccia non si toccarono.

“Duke”, lo salutò Dean.

“Abbiamo un’altra lezione insieme”, dichiarò entusiasta Dean, come se fosse una cosa di cui vantarsi.

“Evviva”, mormorai sarcastica, lanciando le braccia in aria esasperata.

“Ci sono anch’io”, s’intromise Tom.

Lo ignorammo entrambi.

“Dai Coop, faremo tardi”, mi prese per un braccio.

A quel punto, arrivò alle mie spalle la mia salvezza.

“El!”, mi urlò Claire, prendendomi per il braccio che stringeva Dean.

Sia ringraziato il Cielo, pensai sospirando di sollievo.

“Claire!”, le sorrisi affabile e mi lasciai trascinare via.

Mi affrettai lungo il corridoio, camminando al fianco di Claire.

“Grazie”, le mormorai sottovoce.

Ridacchiò divertita.

“Di niente”.

Entrammo in classe ancora ridacchiando, precedendo di qualche secondo Dean e Tom.

Fui più rapida che mai a prendere posto al fianco di Allison Moore, con cui avevo scambiato poco più di qualche saluto, la quale mi sorrise e tornò a seguire la lezione.

La lezione di Inglese trascorse velocemente, senza lasciarmi tempo di pensare a nient’altro che non fossero i miei appunti.  L’ora di Biologia fu ben altra storia. Il professor Varner non mi fu d’aiuto, facendomi una domanda a cui non sapevo rispondere, né avevo ascoltato.

“Signorina Cooper?”, mi chiamò stizzito, forse per la seconda volta.

Mi voltai, sobbalzando e tirando su la testa di colpo.

Non avevo assolutamente sentito cosa mi avesse chiesto e arrossii, abbassando lo sguardo.

“Sì, professore?”.

“Saprebbe rispondere adeguatamente alla domanda di Moore?”.

Mi voltai verso Allison, che mi fissava dispiaciuta dall’altro lato della classe. Abbozzò un sorriso di scuse, che non mi sentii di ricambiare.

“No, professore”, risposi avvilita.

“Vorrebbe invece spiegarci in modo altrettanto brillante quello di cui si stava occupando?”.

“No, professore”, ripetei, questa volta scocciata.

La lezione riprese, ed io cercai questa volta di non perdermi nei miei pensieri.

Anche stavolta Edward era tornato con prepotenza nella mia testa, senza che decidessi volontariamente di farlo. Presi appunti, cercando di stare attenta, ma a fine lezione sapevo che non sarei stata in grado di ripetere una sola parola detta.

Quando suonò la campanella mi precipitai all’uscita, preceduta da Angelica che tentava in ogni modo di rallegrarmi. Non era successo niente di particolare, certo, ma quell’episodio non aveva fatto altro che confermare una volta per tutte che quella giornata aveva qualcosa di storto.

Una volta fuori da quell’edificio, mi sentii quasi meglio.

Respirai a pieni polmoni l’aria tiepida che mi avvolgeva come una bolla, e sorrisi. Tutto questo durò solo qualche secondo, prima di accorgermi che Tom mi seguiva.

“El!”, mi chiamò, raggiungendomi di corsa e afferrandomi il braccio.

“Angelica”, la salutò con un sorriso.

“Ciao Tom”, rispose lei, gentile.

“Sai, stamattina non ho avuto tempo di chiederti una cosa”, ammise Thomas sorridente.

“Dimmi”, mormorai acida, mentre cercavo con lo sguardo la Volvo che mi avrebbe riportata a casa.

“Mi chiedevo…come mai i Cullen non sono venuti oggi?”.

Lo guardai in cagnesco, chiedendomi cosa potesse interessargli.

“Oggi è una bella giornata, e quindi sono andati a fare trekking”, risposi cercando di apparire rilassata. “Io ho insistito per venire a scuola e Rose mi ha accompagnata”.

“Rose? Rosalie? La bionda bella e glaciale?”, domandò stupito Tom.

“Sì, lei”, non avevo voglia di iniziare una discussione inutile con lui.

“El, io vado. Ci vediamo domani”, mi salutò Angelica con un sorriso.

“A domani Ang, magari ti chiamo stasera”.

“Okay, allora a più tardi”, disse. “Tom”.

La guardai allontanarsi, percependo che l’effetto benefico che aveva su di me cominciava a svanire.

“Quindi sabato vieni?”, sentii Thomas domandare alle mie spalle.

Mi voltai verso di lui.

“Ho detto che vengo, quindi direi di sì”, tagliai corto.

“Sei sicura che ti vengano a prendere? Magari posso darti io un passaggio”.

A quel punto la vidi, la mia tanto attesa Volvo scintillante.

Indicai con un sorriso l’auto che aveva appena spento il motore in un angolo del parcheggio.

“Sicura”, risposi trattenendo una risata.

L’espressione affranta di Thomas era impagabile.

“A domani”, mi congedai sorridendo.

O almeno così speravo.

“No, ti accompagno fino alla macchina”, dichiarò cocciuto.

Mi costrinsi a non urlare, anche se ne avevo una voglia matta. Mi passai semplicemente una mano nei capelli, nervosa, spostandoli da un lato. Camminammo in silenzio, veloci. Ora avevo fretta di tornare a casa. Qualunque cosa per togliermi di dosso quell’essere appiccicoso e insistente.

Quando arrivammo davanti alla macchina, mi voltai sfoggiando un gran sorriso. Speravo non sembrasse così falso come lo sentivo.

“Grazie di avermi accompagnata, Tom”, dissi rapidamente. “A domani”.

A quel punto non seppi esattamente cosa o come accadde, ma le labbra di Tom si posarono sulle mie, ruvide e insistenti almeno quanto lui.

Quando me ne resi conto, appoggiai le mani al suo petto e lo spinsi via, cercando di non apparire troppo rude. Tom sorrideva, io ero più che furiosa.

Mi accorsi che stava per dire qualcosa, così alzai un dito per zittirlo.

“No”, quasi ringhiai. “No”.

Aprii di scatto il bagagliaio e vi lanciai all’interno il mio zaino.

Quando per la prima volta scorsi la figura che mi attendeva all’interno, sentii il mio stomaco contorcersi in protesta. Strinsi i pugni, facendo appello all’ultimo briciolo di autocontrollo che mi rimaneva, e mi feci forza.

Lanciai un’ultima occhiata feroce a Thomas, ancora imbambolato dove lo avevo lasciato, e scossi la testa. Questa giornata era proprio destinata a peggiorare.

Aprii la portiera con forse più foga del necessario, preparandomi ad affrontare Edward.

O, nel mio caso, ad ignorarlo.

Tan tan taaaaaaaaaan! E ora? Muhahaha.
Comunque! Fatemi sapere cosa ne pensate u.u Non vi terrò ancora molto sulle spine, giuro!
Buona Pasqua a tutti! A sabato prossimo :)

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Capitolo 18
*** Speciale. ***


Buonasera mondo! Oggi sono andata a vedere 'Cappuccetto rosso sangue', un po' per curiosità e un po' per "sostenere moralmente" la Hardwicke. Carino, niente di particolare. Una nota negativa va sicuramente alla mancanza di chimica tra la Seyfried e Fernandez(lui gran bel pezzo di figliolo però, non c'è che dire xD), alla recitazione un po' carente e al continuo senso di déja-vù nei confronti di Twilight. Quel "Hai paura?" - "No" è stato agghiacciante da sentire in particolare. Però tutto sommato è stato carino. Billy Burke è il migliore!(Team Charlie FTW!)
In ogni caso! Ho finito con la mia recensione non richiesta xD Passiamo a noi u.u Avevamo lasciato quei due in una situazione che sembrava promettere qualche scintilla. Buona lettura! :)

Capitolo 18. Speciale.

Entrai in macchina, chiudendomi la portiera alle spalle con forza. Evitai accuratamente il suo sguardo indagatore, che percepivo tuttavia sul mio viso imbronciato. Non seppi se mi salutò, o se mi evitò completamente. Avevo ancora i timpani compressi da quel ronzio assillante che avevo nelle orecchie. Nessun dubbio che fosse per la rabbia.

Mi accoccolai sul sedile, raccogliendo le gambe e stringendole con le braccia. Appoggiai il mento sulle ginocchia, mentre la macchina prendeva il volo verso casa. Restammo in silenzio a lungo, l’unico suono a riempire l’aria era il rombo del motore. Tuttavia, quel rumore sembrava non fare altro che amplificare il silenzio. Strinsi i pugni, costringendomi a non voltarmi e non incontrare il suo sguardo che sapevo seguirmi.

Rimasi con gli occhi fissi sul paesaggio oltre il parabrezza, riuscendo a scorgere, tuttavia, solo ricordi. Ricordi che in quel momento non avrebbero dovuto venire a galla, ricordi che era vitale tenere chiusi in un cassetto della mia mente, per evitare di tradirmi. Ricordi che stentavo a credere di aver vissuto. Ormai non riuscivo nemmeno più a pensare che fosse vero.

Dopotutto, come potevo esserne sicura? Se non fosse stato per il mio corpo, che sembrava ricordare meglio di me quella sera, probabilmente sarei giunta alla conclusione che me l’ero immaginato.

Ma ricordavo. Ricordavo il lieve tremore nelle sue mani, come nelle mie, mentre si posavano sul viso dell’altro; la consistenza dei suoi capelli bronzei, stretti alle mie dita; il modo in cui sembrava stessi andando a fuoco, percorsa da una scossa elettrica che ancora riuscivo a percepire, anche se solo una debole eco di quello che era stato.

Anche tu, meglio di qualunque altra cosa al mondo.

Quelle parole, come impresse sulla carta, sembravano fluttuare ancora nella mia mente. In quel momento ci avevo creduto. Le avevo credute vere, sincere.

La rabbia, pari in quel momento solo allo sconforto, ebbero il sopravvento. Spezzai il silenzio, senza alzare lo sguardo di un millimetro dalle mie mani strette in pugni.

“Perché?”, mi limitai a sillabare attentamente, lettera per lettera, furente.

“Rosalie è andata a caccia con Emmett, e Alice non poteva”, rispose brusco.

La sua voce, nonostante fosse aspra, era pur sempre più vellutata e perfetta di qualunque voce umana. Sorrisi affranta, scuotendo la testa lievemente.

“Perché?”, ripetei.

Sentii i miei occhi gonfiarsi di lacrime di rabbia.

“Non credo di seguirti”, ammise.

Mi morsi un labbro, pentendomi all’istante della mia decisione. Mi voltai ad incontrare il suo sguardo. Notai le sue nocche stringersi sul volante, ma non dissi nulla. Non avrei più detto nulla.

Distolse gli occhi freddi dai miei, tornando ad osservare la strada tra gli alberi.

Scoppiai a piangere in silenzio, nascondendomi ai suoi occhi, tenendo lo sguardo annebbiato dalle lacrime fisso fuori dal finestrino.

Con mia sorpresa, sentii i freni dell’auto stridere e fermarsi. L’auto era ferma, ancora nascosta tra gli alberi che sembravano avvolgerla. Senza pensarci, mi voltai smarrita verso Edward. Lui era lì a fissarmi, l’espressione sul suo volto colma di risentimento e tristezza.

Mi affrettai ad asciugarmi gli occhi con il dorso della mano. Poi mi limitai a fissarlo, a lungo ed in silenzio, mentre la rabbia tornava a farmi visita.

“Vorrei andare a casa, se non ti dispiace”, sbottai ad un tratto, irritata.

“Perché ti stai comportando così?”, domandò lui.

Mi venne da ridere, ma mi limitai a scuotere la testa, affranta.

“Portami a casa, Edward”, il mio tono di voce sembrava una supplica.

“Dobbiamo parlare”, continuò testardo. “Ora”.

Lo fissai in cagnesco, incrociando le braccia sul petto.

“Bene, parla”, sbottai infastidita.

“Dovresti dirmi tu cosa c’è che non va”.

A quel punto, la rabbia e tutto il resto accumulati in quella giornata esplosero.

Io? Dovrei spiegarti io cosa c’è che non va? Dovrei spiegarti io perché sono più di venti giorni che mi eviti, dopo quello che è successo? Tu…”, la mia voce si perse tra un singhiozzo e l’altro.

Odiavo le mie lacrime da rabbia. Scossi la testa in silenzio.

Edward mi fissava costernato, ma ormai sapevo che era un bravo attore.

“Portami a casa”, ordinai con la voce più ferma di cui ero capace in quel momento.

“El…”.

Lo ignorai completamente.

“Portami a casa”, ripetei.

“Elizabeth!”, la sua voce riecheggiò in tutto l’abitacolo, costringendomi a dargli retta.

Seguì un lungo silenzio, in cui tutto mi sembrò completamente immobile. Il suo sguardo era perso oltre il vetro, pensieroso. E dopo, improvvisamente, si voltò di nuovo verso di me. Prese un lungo respiro.

“Tu non sai, non puoi capire…quanto mi costi evitarti, non chiederti nulla, nemmeno quando ti vedo tesa o infelice. Non puoi capire”.

“Già. Non capisco”, mormorai asciugandomi le lacrime per l’ennesima volta. “Ora portami a casa”.

“Non ho finito”, disse accennando un sorriso.

Mi sforzai di non pensare quanto fosse bello quel sorriso, quanto mi mancasse.

“Ho…ho capito che non posso evitarti. Per me sei un’ossessione, cerco di evitarti, ci provo, ma non ci riesco. Vedo il tuo viso ovunque, il tuo sorriso, i tuoi occhi…”, la sua voce aveva cambiato nuovamente tono, diventando seria e di nuovo vellutata. E, mio malgrado, intrisa di sincerità.

Per un attimo, affogai in quella sincerità, costringendomi a credere che fosse vero, che non fosse semplicemente un attore migliore di quanto avessi mai pensato. Decisi di cambiare tattica.

“Perché hai deciso di evitarmi, se ci tieni davvero così tanto?”.

Sospirò, avvilito.

“Non mi credi”, disse.

Non era una domanda. E aveva ragione.

“Sto aspettando una risposta”, continuai cocciuta.

“E’ proprio perché ci tengo, perché tengo a te, che l’ho fatto. Non potevo sopportare di farti del male e...”, sembrò fermarsi per prendere aria.

Non riuscivo a staccare lo sguardo dal suo viso.

“Quando quella sera mi sei stata così vicina, troppo vicina, avevo paura anche solo di toccarti. Sarebbe bastato un niente per ucciderti e così mi ripromisi di non cercarti più. Preferisco vivere ed amarti da lontano che avere anche solo la più lontana possibilità di farti del male”.

Percepii la mia mascella spalancarsi.

“Cosa, scusa?”, la mia voce salì di alcune ottave.

Mi guardò, confuso, ed abbozzò un sorriso mozzafiato.

“Credo di non aver capito cosa intendi, soprattutto l’ultima frase”.

Il suo sorriso truffatore gli illuminò il volto, sollevandogli gli zigomi scolpiti nel marmo.

Sentii il debole, invitante tepore della speranza cominciare a farsi strada dentro di me e mi costrinsi a fermarla. Nonostante tutto quello che mi aveva appena detto, non potevo crederci. Non volevo crederci.

Sospirò profondamente, passandosi una mano tra i folti capelli ramati.

“Non mi credi ancora”.

“Non posso crederci”.

“Perché?”, apparve sinceramente confuso.

Presi un respiro profondo, premendo le labbra una sull’altra con forza.

“Perché non lo sopporterei”.

I suoi occhi si spalancarono, senza capire.

“Che…mi lasciassi”, precisai. “Di nuovo”.

Sembrò rilassarsi. Chiusi gli occhi, respirando profondamente per calmarmi.

Alcune lacrime, le più insistenti e testarde, si ostinavano ancora a scorrermi lungo le guance quando sentii la sua mano bloccarmi il mento, con infinita delicatezza. Dischiusi gli occhi e lo trovai a pochi centimetri da me. Il suo sguardo bruciava e questa volta non lo evitai.

Sentivo di non avere la volontà necessaria a resistergli, né l’avrei voluta. Era quasi incredibile come ogni singola cellula del mio corpo percepisse la vicinanza di Edward, come sembrasse volersi avvicinare il più possibile, fino a toccarlo di nuovo.

Preda di quel magnetismo che ormai mi stava divorando, alzai timidamente una mano per posarla sul suo viso. Le sue guance si sollevarono in quello splendido sorriso che tanto mi era mancato.

Accostò il suo volto al mio, fino a sentire il suo respiro sulla mia pelle. Il mio cuore sembrava volermi uscire dal petto, ne sentivo gli echi confusi ed incespicati colmare il poco spazio rimasto tra di noi.

Poi avvicinò le sue labbra sempre di più alle mie, finché non ne presero la stessa forma. In quel momento capii che non sarei più riuscita a vivere solo di ricordi. Non mi sarebbero bastati.

Le mie labbra sembravano bruciare sotto le sue, che si muovevano lente ma con decisione, rabbia, come se cercassero di recuperare in un istante il tempo perduto. Quel bacio finì troppo in fretta, senza darmi nemmeno il tempo di rendermene conto. Staccò la bocca dalla mia, con infinita gentilezza – come se fossi la cosa più fragile che avesse mai toccato – ed appoggiò la fronte contro la mia. La punta del mio naso sfiorava il suo, ed ero certa che sarei potuta sprofondare nell’oro dei suoi occhi, tornato finalmente caldo e brillante.

“Ora sei convinta che non ti lascerò?”, sussurrò piano, come se anche lui avesse timore di interrompere quel momento.

“Sì, ora sì”, risposi con un filo di voce. “Almeno spero”.

Accennò un sorriso, al quale risposi senza sforzo. Non sembrava volersi muovere, quindi decisi di cercare nuovamente le sue labbra. Tuttavia, me le lasciò appena sfiorare, giusto il tempo di far impazzire il mio cuore un’altra volta.

Mugugnai scocciata.

“Non è giusto che solo tu possa baciarmi”, borbottai facendo una smorfia.

Edward rise.

“Non credo che tu debba tentare la sorte inutilmente”, ribadì serio.

Poi, dopo l’ennesimo sbalzo d’umore, ridacchiò.

“E poi pensavo che due baci al giorno bastassero”, sogghignò divertito.

“Questo non valeva”, replicai.

Si avvicinò nuovamente, scompigliandomi i capelli e raccogliendo una lacrima, ormai dimenticata, con le labbra.

“Io mi riferivo al tuo amico, infatti”, nonostante i battiti assordanti che sentivo nelle orecchie, riuscii a percepire il sorriso nella sua voce.

Mi stava prendendo in giro, e si stava anche divertendo. Sbuffai, le mie labbra contro le sue.

“Oggi è stata proprio una giornataccia”, ammisi seccata.

“Ah, davvero?”, domandò innocente.

“A parte quest’ultimo particolare”, dissi toccando la punta del suo naso con l’indice della mia mano. “E’ stata davvero una giornata orribile”.

“Non solo per Duke, vero?”, vidi il suo sorriso tendersi ulteriormente.

Sospirai, questa storia me l’avrebbe riproposta all’infinito.

“Tu non dovresti essere geloso, invece di continuare a prendermi in giro?”, domandai fingendomi indignata.

Si avvicinò di nuovo, facendomi perdere il filo del discorso.

“E lo sono”, mormorò tra i miei capelli. “Credimi”.

Ad un tratto, mi sentii preoccupata.

“Ehi, domani non c’è il sole, vero?”, chiesi agitata.

Un’altra giornata così non l’avrei sopportata di certo. Tuttavia, sembrava aver altro da fare; non mi rispose. In effetti, quella risposta avrebbe potuto aspettare. Le sue labbra parevano voler recuperare il tempo perso, e per quanto mi riguardava ci riuscivano.

“Domani sarà una splendida giornata di nubi qui a Forks”, mi disse poco dopo.

Troppo, troppo poco.

“Forks”, gli feci eco, pensierosa.

Chissà che tempo c’era a Miami in quel momento. La mia Miami...

Mi bastò uno sguardo al mio fianco per lasciar dissolvere quel pensiero in mezzo agli altri.

“Direi che possiamo andare a casa adesso”, disse Edward sfoggiando un gran sorriso.

Annuii decisa.

“Casa”, ripetei, per la prima volta da chissà quanto, felice.

Me ne rendevo conto mentre salivo i gradini uno ad uno – lentamente – della grande casa bianca, mentre le dita infinitamente fredde di Edward stringevano le mie. Ero felice. Ero a casa. E il sorriso che avevo sul volto ne era una prova.

 

“El!”, la voce di Rosalie sembrò riportarmi alla realtà.

Mi venne incontro sorridendo, per poi fermarsi, alternando sguardi scettici tra me, Edward e le nostre mani ancora strette. Inarcò un sopracciglio, aprendo la bocca per parlare.

Alzai un dito, fermandola appena in tempo. Sapevo già cosa avrebbe detto.

“Sì, Rose”, mi affrettai a dire. “Poi ti spiego tutto”.

Sembrò rilassarsi visibilmente. Sospirò.

Forse quella mattina l’avevo trattata peggio di quanto pensassi. Edward mi guardò, improvvisamente allarmato, e sembrò cercare sul mio volto indizi di qualcosa che ignoravo. Sorrise, scuotendo lievemente la testa, e lasciò la mia mano con dolcezza. Lo guardai, senza capire.

Poco dopo apparve Emmett. Sorrisi ad Edward, complice. Lui si strinse nelle spalle, innocente.

Non era ancora tempo di far sapere ad Emm ogni cosa.

“Oh”, esclamò Emmett fingendosi sorpreso. “Allora sei sopravvissuta!”.

Gli feci una smorfia.

“Non grazie a te”, replicai mostrandogli la lingua.

Rispose alla mia smorfia in modo più che adeguato, solo più terrificante.

“Ehi!”, strepitò nuovamente Emmett. “Voi due siete vicini!”.

Ci indicò spalancando gli occhi. Senza che me ne fossi resa conto, il mio sguardo era tornato a cercare Edward. Lui, d’altronde, non si stava comportando diversamente.

Emmett fece oscillare una grande mano tra i nostri visi, fingendo un’espressione sbalordita.

“E riuscite anche a vedervi!”, scoppiò a ridere prima di finire la frase.

Edward lo seguì, così come Rose. Io mi limitai a sorridere, imbarazzata e pensierosa.

Era davvero stato così evidente? E soprattutto, quanto era stato evidente per far sì che anche Emmett se ne accorgesse?

“El?”, la voce di Emmett mi riportò sulla terra.

Tirai su la testa di scatto, disorientata.

“Eh?”, chiesi confusa.

“Bentornata sulla Terra”, m’informo ridacchiando.

Grugnii infastidita e sbuffai.

“Che ore sono?”, chiesi ad un tratto.

La luce fuori dalle finestre era ormai fioca, forse era il crepuscolo. Ad un tratto, non avevo più così fretta che quella giornata finisse.

“Le cinque”, rispose Rosalie.

“Devo fare i compiti”, ammisi.

“Hai bisogno di una mano?”, fu l’automatico responso di Rose.

Rosalie alternava occhiate perplesse tra me ed Edward, soffermandosi sul mio viso con fare apprensivo. Le sorrisi, scuotendo la testa.

“No, non credo di avere bisogno”, la rassicurai. “Nel caso ti chiamo”.

Rosalie annuì, scoccando un’occhiataccia ad Edward.

Sorrisi, sinceramente divertita da quella scena. Mi voltai e mi allungai verso la porta. Tuttavia, qualcuno fu più veloce di me nell’aprirla. Edward mi fissava, il suo volto sereno e splendido. Con le labbra disegnò quel suo sorriso truffatore che era capace di togliermi il fiato.

“Ti accompagno”, m’informo senza che potessi replicare.

E non avrei replicato. Camminammo in silenzio fino a raggiungere il garage. Ancora stentavo a considerarla casa mia.

“Pensierosa?”, mi sussurrò Edward all’orecchio, senza preavviso.

Sobbalzai, passandomi una mano nei capelli come ero solita fare. Feci spallucce.

“Non più di tanto”, risposi vaga.

“Sembrava”, imitò il mio tono.

Risi della sua espressione.

Quando fummo sulla porta del garage, sfilai la chiave dalla tasca e l’aprii. Entrai senza pensarci, lanciando le chiavi sul mobile. Sentendomi avvolta dal silenzio, mi voltai in cerca di Edward.

Era ancora là, immobile e bellissimo, che mi osservava sorridendo, un’espressione quasi insicura sul suo volto.

“Che c’è?”, domandai imbarazzata.

“Niente”, si strinse nelle spalle.

“Non entri?”.

“Dovrei?”.

Esibii la mia migliore espressione indignata.

“Oh beh, se non vuoi…”, mi apprestai a chiudere la porta, trattenendo un sorriso evidente.

Fu dietro di me prima che la porta fosse anche solo a metà della strada. Le sue braccia si allacciarono ai miei fianchi ed ebbi qualche difficoltà nell’impormi di respirare.

“Vuoi una mano con i compiti?”, mi propose con voce mielata.

Al momento, avevo in mente tutto fuorché i compiti.

“Compiti”, sbuffai.

Ridacchiò divertito.

“Devo farli per forza, secondo te?”.

“Hai intenzione di farmi fare brutta figura con i professori?”, chiese fingendosi offeso. “Dopotutto abbiamo dato noi la tua iscrizione alla signorina Cope”, continuò.

Questa volta non riuscì a trattenere il sorriso che si faceva largo sulle sue labbra.

“Oh, sì”, dissi con enfasi. “Povera signorina Cope!”.

Ridacchiammo insieme, senza staccare gli occhi l’uno dall’altra.

Mi sentivo così straordinariamente…felice. Perfetta, speciale. Bastava il suo sguardo a farmi sentire così. Mi faceva apparire il premio, invece della vincitrice.

 

Qualche minuto dopo, in camera – seduta alla mia scrivania – tentavo di farmi entrare in testa la lezione di Biologia. Volevo evitare di farmi trovare nuovamente impreparata e distratta ad una domanda, ma non c’era verso. Biologia sembrava repellermi, così come riusciva solo la Matematica.

“Una mano?”, sussurrò ad un tratto Edward contro i miei capelli.

“Anche due”, risposi sospirando.

“Prova a concentrarti, non mi sembri molto attenta”, percepii il sorriso nella sua voce.

“Oh, certo. La fai semplice tu”.

In effetti non ero granché attenta alla quantità impressionante di paragrafi sul mio libro. Questo, in gran parte, era dovuto alle labbra di Edward posate sulla mia testa, che sentivo tendersi in un sorriso ogni volta che sbuffavo o sospiravo.

“Non mi stai aiutando molto così”, sbottai petulante.

La Biologia non aveva effetti benefici su di me. Il suo sorriso si tese nuovamente, lasciandosi sfuggire un sospiro. Sospirai anch’io, mentre percepivo le sue labbra scivolare fino a raggiungere il mio collo. Rabbrividii, inarcando il collo e sorridendo.

“No, nemmeno così”, riuscii a dire mentre l’unica cosa che sentivo era il mio cuore pulsare nelle orecchie.

“E così?”, la sua voce era dolce, bassa. Perfetta.

Mi bastò quella per rabbrividire.

Feci finta di ponderare una risposta, mentre le sue labbra scorrevano lungo l’incavo del mio collo e sulla mandibola. Il mio cuore probabilmente aveva deciso di abbandonarmi, stava correndo all’impazzata.

“No”, farfugliai, costringendomi a respirare. “Neanche così”.

Sospirò contro la mia pelle, sentivo il suo respiro fresco e perfetto...

“Peccato”, mormorò, ritraendosi troppo in fretta.

Mi costrinsi a non fare il broncio non appena si scostò da me.

“Forse però mi serviva”, abbozzai dopo qualche secondo.

Edward ridacchiò divertito.

“Ne dubito”.

“Come fai a saperlo?”, lo sfidai, voltandomi verso di lui e incrociando le braccia sul petto.

“Non mi tentare”, replicò lui sorridendo il mio sorriso preferito.

Sostenni qualche istante il suo sguardo prima di decidere che non avevo più voglia di fingere di studiare. Chiusi il libro di scatto, sorridendo ampiamente.

“Ho finito”, annunciai alzandomi.

Mi allontanai, sicura che ne sarebbe rimasto sorpreso. Infatti non mi deluse.

“Dove vai?”, domandò incuriosito.

Scoppiai a ridere.

“Che c’è?”, chiese.

“Sei prevedibile”, lo presi in giro.

“Dove vai?”, ripeté.

“Ho voglia di chiamare un’amica”.

“Angelica”, decretò lui.

“Pensavo non mi sapessi leggere nel pensiero”.

“Sei prevedibile anche tu”, mi sorrise compiaciuto.

Gli feci una smorfia.

“E oggi ho sentito che l’avresti chiamata”, si strinse nelle spalle con fare innocente.

“Che fai, mi spii?”, domandai fingendomi offesa.

Sfoderò un sorriso nuovo, malizioso.

“Può darsi”, ammise.

“Come sarebbe può darsi?”, esclamai indignata, senza riuscire tuttavia a trattenere una risata.

Il telefono che prese a vibrare tra le mie mani mi distrasse dalla conversazione. Sorrisi quando lessi il numero sul display. Lo dicevo sempre che sapeva leggermi nel pensiero.

“Tu e Angelica dovreste mettere su una compagnia”, gli suggerii sorridendo.

Poi risposi al cellulare, il sorriso ancora sulle labbra.

“Ehi Ang”, esordii.

 

La telefonata durò a lungo, come sempre.

Parlammo di tutto e, quando conclusi la telefonata, era ormai ora di mangiare per me. La notizia più importante, tuttavia, era però che Claire non sarebbe venuta sabato a First Beach.

“Andiamo a mangiare?”, propose Edward una volta che ebbi messo giù il cellulare.

Io vado a mangiare, tu mi controlli”, precisai citando una sua vecchia frase.

“Come sempre”.

Quel sorriso, prima o poi, mi avrebbe fermato il cuore. Ne ero piuttosto certa.

Ebbene! Ce l'hanno fatta. Era ora direi! Vi avevo detto che non vi avrei tenuti sulle spine per molto u.u Cosa non darei per fare i compiti anch'io con Edward ._.
Ah niente, spero vi sia piaciuto. Ringrazio per il responso al capitolo precedente - ricevere recensioni e sapere cosa ne pensate mi fa sempre davvero piacere! Vi invito a ripetervi anche stavolta xD Eee che altro, GRAZIE A CARLI E FA' che nonostante non mi sopportino più, lo fanno lo stesso(non so bene come). Ok, ho concluso! Oggi parlo troppo. A sabato prossimo! :)

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Capitolo 19
*** Questione di persuasione. ***


Buonasera mondo! Sono un po' in ritardo rispetto alla solita tabella oraria, chiedo perdono. Ma ho un alibi: oggi sono andata a (ri)vedere Water for Elephants!(Mi rifiuto categoricamente di chiamarlo con il titolo tradotto, ennesima prova di quanto possiamo essere squallidi in questo campo). Vi risparmierò dall'ennesima recensione di film non richiesta, vi dico solo che è tanta roba - sia il film che il Roberto xD Buona lettura! :)

Capitolo 19. Questione di persuasione.

Da quel pomeriggio tutto sembrò riprendere un ritmo più regolare e salutare. Io ed Alice ci allenammo poco in quella settimana, e solamente vicino a casa. Non tornammo più a quella bizzarra radura simmetrica dall’aspetto familiare. Tutto ciò era in parte dovuto al fatto che quella settimana la pioggia sembrava non voler dare tregua al cielo, continuando a far scrosciare ripetute e fitte cascate d’acqua. D’altra parte, e soprattutto, era però dovuto al fatto che il mio magnetismo ormai sembrava aver preso il sopravvento su tutto il resto. Edward ed io stavamo insieme quanto possibile, sempre.

Ai ripetuti appelli di Alice e alle incessanti prese in giro di Emmett riuscivo a rispondere semplicemente con un sorriso imbarazzato o una smorfia. Mi andava più che bene così, non mi importava.

A scuola, Edward sembrava ancora divertirsi nel vedere lo sguardo avvilito ma imperturbabile del mio amico Thomas. A dire la verità, la cosa un po’ divertiva anche me. L’unica persona che pareva più che scioccata, se non irritata, da questa novità era Rose. Le occhiate che mi riservava erano preoccupate, contrariate. Non capivo il perché del suo comportamento, ma cercavo in ogni caso di non badarci. Edward sembrava accorgersi di qualunque cosa provassi, e più di una volta mi aveva chiesto se avevo qualcosa che non andava.

Quel venerdì, quando mi svegliai, ero più che agitata. Il giorno dopo sarei andata a First Beach. A La Push. Ancora non sapevo se fosse giusto andarci, se potevo o se avrei violato qualche altro strano patto tra creature mitologiche. Accordi a parte, ero più curiosa che mai di vedere la riserva e Jacob.

Jacob. Chissà come stava. Chissà se quello strano, enorme ragazzo mi ricordava ancora. La sua espressione combattuta e tormentata, la sorpresa sul suo viso nell’istante in cui il mio velo si era abbassato, erano ancora presenti nei miei ricordi. Impressi come marchi a fuoco.

Quella mattina mi alzai di buonumore, nemmeno la lieve pioggerellina che scendeva timida dalle nuvole pesanti e grigie sembrava riuscire a scalfire la mia eccitazione. Una volta a scuola, tuttavia, mi sorpresi nel non vedere Angelica ad aspettarmi sotto il portico, come sempre.

Strano, mi dissi. Tuttavia, faceva piuttosto freddo. Probabilmente era in corridoio o nell’atrio, il suo bel sorriso pronto a salutarmi.

“Non c’è”, un sussurro di velluto mi sfiorò l’orecchio, facendomi rabbrividire.

Sobbalzai, voltandomi verso quella splendida voce.

Edward. Possibile che tutto ciò fosse per me? Che lui potesse anche solo lontanamente provare quello che io sentivo?

Il suo sorriso truffatore sembrava celare uno sguardo lievemente malinconico.

“Cosa?”, domandai.

Non lo seguivo.

“Angelica”, chiarì dispiaciuto. “Non c’è”.

“Oh”, risposi.

Non riuscivo a capire. L’avevo sentita la sera prima, me l’avrebbe detto se avesse avuto da fare.

“Ha preso l’influenza”, precisò, percependo la mia preoccupazione.

“Oh”, ripetei.

Gli sorrisi, stringendo le sue dita che mi avevano raggiunta.

“Mi dispiace”.

“Già”, dissi. “Ma tu come fai a saperlo?”.

Il suo sorriso mozzafiato di sempre gli sollevò le labbra. Si picchiettò in modo eloquente la fronte con le lunghe dita sottili, per poi scompigliarmi dolcemente i capelli.

“Credevo che con me vicino ti fosse impossibile”.

“Certamente”, si strinse nelle spalle.

“E quindi?”, continuai testarda.

“Prima non ero poi così vicino”, sorrise nuovamente. “E poi tu eri concentrata altrove”.

“Non sei poi così potente come pensi”, mi prese in giro.

Gli feci una smorfia, notando con la coda dell’occhio la figura statuaria di Rosalie. Mentre il suo viso si avvicinava visibilmente al mio, non riuscivo a staccare lo sguardo dall’espressione contrariata e pressoché ostile di Rose. Edward se ne accorse, fermandosi.

Mi guardò negli occhi, seguendo il mio sguardo fino a trovare Rosalie. Si allontanò lentamente, fissando a lungo la sorella. Quella situazione cominciava a mettermi a disagio.

“Vieni”, mormorò ad un tratto. “Andiamo a lezione, ti accompagno”.

Annuii distrattamente, ancora un po’ turbata.

Oltre al fatto che Rosalie sembrasse avercela con me – cosa che continuavo a non capire – Angelica non c’era. E cosa ancora più preoccupante al momento, Angelica non sarebbe venuta alla riserva. Da un punto di vista egoistico, quella era la cosa che più mi angosciava.

Durante la lezione di Spagnolo, con il posto accanto al mio completamente vuoto, le lancette sembravano volermi prendere in giro, scorrendo al contrario. Matematica, se possibile, fu anche peggio. Il mio amico Thomas Duke non mi diede tregua, parlando senza sosta. Mi chiesi se quel pomeriggio lontano solo qualche giorno, quando le sue labbra avevano toccato con prepotenza le mie, fosse svanito dalla sua memoria. Come era possibile, altrimenti, che si comportasse così?

La pausa pranzo scivolò via velocemente, senza che nemmeno me ne accorgessi. Edward ancora insisteva che mangiassi con gli altri, quindi mi unii controvoglia al solito tavolo. Stavano ultimando i preparativi per il giorno seguente, cosa che ormai non m’interessava più di tanto. Il mio umore era calato vertiginosamente nelle ultime ore.

Poco prima che suonasse la campanella, tuttavia, Edward si avvicinò al mio tavolo. La sua espressione era seria, leggermente preoccupata.

Mi stupii ed osservai con cura i suoi lineamenti perfetti.

“El”, mi chiamò con voce seria.

Non mi ero sbagliata, c’era qualcosa che lo preoccupava. Senza neanche che lo dicesse, mi alzai di scatto e gli andai vicino.

“Edward”, mormorai a bassa voce, sicura che mi avrebbe ugualmente sentita. “Che succede?”.

“Vieni un secondo”, il suo tono mi allarmò.

Mi scusai rapidamente con i presenti, abbandonando il tavolo e seguendo Edward. Eravamo sempre attenti a scuola – o in pubblico – a non dare troppo nell’occhio, a non stare troppo vicini. Tuttavia, in quell’occasione, preferii avvicinarmi a lui per guardarlo al meglio negli occhi.

“Dimmi”, cercai di suonare decisa.

Si guardò attorno, poi scosse la testa lentamente.

Con mia sorpresa, mi prese per mano e mi trascinò in corridoio, appena dietro una grande colonna bianca tappezzata di annunci colorati, in modo che fossimo fuori dal campo visivo del resto del corpo studentesco. Ci fermammo e Edward mi lasciò la mano, espirando pesantemente.

“Perché non mi hai detto che vuoi andare a La Push?”, non suonò quasi una domanda.

Mi morsi il labbro. Sospettavo di aver sbagliato, ora lo sapevo.

“Hai idea a quanti problemi puoi andare incontro?”.

I suoi occhi fiammeggiavano, fissi nei miei.

“Non vi metterò in pericolo ancora”, mormorai con decisione. “Io non…”.

Edward alzò gli occhi al cielo, scuotendo la testa. Quando i suoi occhi tornarono nei miei, Edward sorrideva – un sorriso malinconico, quasi amaro, che lo rendeva splendido nella sua apparente tristezza e incredulità.

“Non è per noi che mi preoccupo”, precisò. “Sei tu il pericolo pubblico”.

“Molte grazie”, sbuffai.

“El”, sussurrò con dolcezza mentre le sue dita correvano sul mio braccio, provocandomi la pelle d’oca. “Non andare a First Beach”, il suo tono ora era quasi una supplica. “Per favore”.

“Ma…”, azzardai. Mi fermai, notando il suo sguardo.

Riprovai, facendomi coraggio.

“Io volevo andarci”, mi sentivo tanto una bambina capricciosa.

Tuttavia, era la verità. Il fatto che me lo stesse impedendo sembrava aver risvegliato in me la voglia e la curiosità di visitare la riserva.

“Per favore”, supplicai anch’io.

Il suono della campanella coprì in parte la mia voce. Edward sospirò. Sembrava combattuto. Sentii che quello era il momento dell’offensiva.

“Edward”, sussurrai con dolcezza, posandogli una mano sul braccio. “Per favore”.

Si portò le dita alle tempie, sospirando nuovamente.

“No”, disse alla fine.

“Edward”, implorai.

“No”, ripeté risoluto, i suoi occhi bruciavano d’intensità. “Non posso lasciarti andare”.

Non riuscivo a capire il motivo di tutto ciò. Non capivo che problema ci fosse nel lasciarmi andare da sola alla riserva. Perché doveva impedirmelo? Tuttavia, non me la sentii di replicare.

Rimanemmo a fissarci, a lungo, senza che nessuno parlasse.

“Ehi, Coop!”, sentii qualcuno chiamarmi.

Quando riconobbi la voce, sbuffai.

“Ciao Morrison”, non mi preoccupai di apparire allegra o amichevole.

Edward si allontanò da me lentamente, sfiorandomi semplicemente il braccio. In silenzio. Avrei tanto voluto urlare.

“Hai voglia di accompagnarmi a lezione?”, domandò Dean sorridendo beffardo.

I suoi modi non facevano che irritarmi, ma evitai di rispondere come avrei voluto.

“Fai come vuoi”, dissi apatica, incamminandomi senza voltarmi.

“Oh, Coop, aspettami!”, mi gridò.

Percepii i suoi passi affrettati alle mie spalle e poi al mio fianco.

“La tua amica?”, chiese ad un tratto.

“Angelica è ammalata”, mormorai distaccata.

“Oh”, rispose. “Quindi non viene domani, peccato”.

Perché non mi sembrava che fosse realmente dispiaciuto?

“Già”.

“Se vuoi posso passarti a prendere, così facciamo la strada insieme”, propose su di giri.

Per la prima volta da quando era arrivato, mi voltai verso di lui a fissarlo.

“Non credo che ci sarò, Dean”, ammisi stanca. “Spiacente”.

Si accigliò visibilmente. Arrivammo appena in tempo per la lezione.

Tom, già seduto al posto di Angelica - e quindi di fianco a me -, non appena mi vide si sbracciò, sorridendo ampiamente. Sospirai.

Ancora due ore, mi feci forza.

Per mia fortuna durante Inglese il professore si limitò ad un breve ripasso, senza spiegare o interrogare. Quando giunsi alla fine della giornata, mi stupii di trovare Edward davanti alla porta dell’aula, pronto come sempre ad accompagnarmi fino alla macchina.

Mi accolse in silenzio, accarezzandomi semplicemente la guancia ed abbozzando un sorriso. Come ogni volta che cercavo di fare la sostenuta, tentai di non fissarlo troppo a lungo negli occhi. Quando arrivammo davanti all’auto, mi aprì gentilmente la portiera. Tuttavia, invece di avvicinarsi al posto di guida, si allontanò dalla Volvo.

“Edward”, lo chiamai stupita.

Si voltò, un sorriso mal celato sulle sue labbra.

“Devo andare in segreteria a recuperare dei documenti, torno subito”.

Annuii rapidamente, appoggiandomi alla portiera.

“Gli altri?”, chiesi prima che se ne andasse.

“Arrivano tra poco”, mi sorrise e si allontanò velocemente.

Lo osservai sfilare via, rapita da tanta grazia e bellezza.

Dopo poco più di un minuto, Jasper ed Alice comparvero nel parcheggio. Con mia sorpresa, tuttavia, Alice si allontanò verso la segreteria, come aveva fatto Edward. Sospirai. Non mi entusiasmava stare con Jasper.

Jasper mi raggiunse lentamente, restando come suo solito ad una insolita distanza di sicurezza. A volte pensavo mi odiasse. Sbuffai, incrociando le braccia sul petto ed appoggiando la schiena alla carrozzeria della Volvo. Stavo cercando impazientemente Rose e Emmett tra la folla, quando il silenzio tra me e Jasper, che riusciva a sovrastare con facilità il vociare degli altri studenti, si spezzò.

“Sai che non è così”, la sua voce bassa e profonda mi distrasse dai miei pensieri.

Mi guardai attorno, stupita da quella voce familiare ma insolita. Lo fissai interrogativa.

“Cosa?”, domandai senza capire.

“Non è vero che ti odio”, la sua espressione sembrava tesa, i suoi occhi guardinghi. “Lo sento”, proseguì calmo. “Sento che pensi che non ti sopporti, che credi che ti odi, ma non è così”.

Mi limitai a fissarlo, le mie labbra spalancate in stupore. Era il discorso più lungo che avessi sentito provenire da lui.

“Non sei tu, sono io”, continuò dispiaciuto. “Il problema è…la sete. La mia sete è diversa da quella di tutti gli altri. Probabilmente è colpa di tutti gli anni passati ad uccidere, senza pensare a quello che in realtà facevo. Tuttavia non…non riesco a starti vicino senza desiderare di ucciderti”.

Nonostante la sorpresa, cercai di replicare.

“Ma io non…”, farfugliai.

“No, tu non hai odore. Non ora. Ma quando quella prima sera il tuo odore mi ha colpito, anche se solamente per un istante, si è impresso nella mia mente, nella mia gola, nella mia essenza di…mostro. E ti reclama. Ogni volta, ogni singola volta che ti sono vicino, sento di rischiare di ucciderti”.

Il suo sguardo era fisso nel vuoto, pensieroso, mentre parlava con voce sommessa. Non sembrava temere di spaventarmi con le sue parole, come avrebbe fatto Edward. Si voltò a fissarmi in volto, gli occhi dorati che spiccavano sulla carnagione pallida.

“Non posso, non potrei mai ucciderti. Non me lo perdonerei. Questa è la mia famiglia e uccidere te sarebbe come ucciderne un membro”.

Non avevo idea di cosa dire. Anche solo se dovevo dire qualcosa.

Ero totalmente stupefatta e riuscivo a percepire la maschera di stupore fissa sul mio viso. Le sue parole mi facevano piacere, in uno strano modo. Certo, aveva appena ammesso di volermi uccidere, ma mi aveva anche considerata come un membro della sua famiglia. Senza nemmeno accorgermene, sorrisi.

“Sei strana”, costatò Jasper, nessuna traccia di offesa nella sua voce profonda.

Il mio sorriso si tese ulteriormente. Simulai un inchino, sentendomi per la prima volta a mio agio con Jasper.

“Grazie”, dissi sincera, trattenendo l’ennesimo sorriso.

Jasper scosse la testa divertito.

“Jazz!”, una voce squillante ci raggiunse.

Mi voltai di scatto e Alice era già dietro di me, un ghigno soddisfatto sul suo volto da elfo.

“Ciao El”.

Alice mi degnò semplicemente di un rapido saluto prima di tuffarsi tra le braccia di Jasper. Era difficile vederli mostrare la loro relazione, non erano certamente come Emmett e Rosalie.

Un braccio mi cinse da dietro, stringendomi a sé. La sua temperatura bastava a farmi capire che fosse. Mi accostai al suo corpo freddo e marmoreo, inspirandone profondamente l’aroma fresco ed inconfondibile.

“Ci hai messo parecchio”, dissi trattenendo un sorriso.

La discussione a mensa sembrava essere lontana anni luce, facevo fatica a tenere il broncio se era così vicino.

“Non è vero”, mormorò al mio orecchio.

Sospirai.

“Okay, non è vero. Ma a me è sembrato un’infinità di tempo”.

Nonostante fosse alle mie spalle, era facile capire che stesse sorridendo. Più che probabilmente di un sorriso mozzafiato e compiaciuto.

“Potrai perdonarmi?”, sussurrò contro la mia pelle.

Respira, ordinai a me stessa.

“Può darsi”, risposi con un filo di voce. “Ora andiamo”, aggiunsi in fretta.

Edward ridacchiò e mi lasciò andare.

“Ai suoi ordini”.

Sorrisi divertita.

Aspettai che salisse Jasper e lasciai che occupasse il posto più lontano possibile da me. Non perché avessi paura, ma volevo evitare che soffrisse più di quanto facesse già. Il tragitto, schiacciata contro il corpo ingombrante di Emmett, non fu dei migliori. Tuttavia, evitai di lamentarmi.

Edward e gli altri, una volta a casa, decisero che era tempo di andare a caccia. Stare in quell’enorme casa da sola non mi entusiasmava, ma di certo non mi spaventava, quindi cercai di convincere Edward.

“Sei sicura di non volere che io rimanga qui con te?”.

“Edward”, lo rimproverai con un’occhiata. “Non puoi non andare a caccia perché non vuoi lasciarmi da sola”.

Sembrava sul punto di interrompermi, quindi gli accarezzai il viso con delicatezza, portando le dita sulle sue labbra.

“Starò benissimo”.

“Posso stare qui, andrò la prossima settimana”.

“Edward”, lo rimproverai nuovamente, osservando attentamente le occhiaie livide sotto i suoi occhi. “Ne hai bisogno. Vai”.

Sospirò rassegnato, premendo la sua guancia fredda sul mio palmo e socchiudendo gli occhi. Sapeva che avevo ragione.

“Sarò a casa prima che faccia buio”, mi promise.

“Non ho paura del buio, sai?”, lo sfidai.

Mi sorrise quello splendido sorriso truffatore che era capace di sciogliermi.

“Ci sarò comunque”, ripeté giocherellando con una ciocca dei miei capelli che ricadeva ribelle sulle spalle.

Annuii senza convinzione. Ora che se ne stava andando, cominciavo a realizzare che non sarebbe stato con me.

“Edward!”, la voce seccata di Emmett tuonò nell’aria.

Sbuffai scocciata. Edward sorrise.

“A stasera”, mormorai controvoglia.

Il suo sorriso si tese, sembrava compiaciuto.

“Non starò via molto”.

“Lo so”.

Mi baciò velocemente, senza darmi realmente il tempo di rendermene conto. Le sue labbra lasciarono le mie troppo presto. Troppo, troppo presto.

“Edward!”, la voce di Rosalie avrebbe potuto congelare un vulcano.

“Devo andare”, sussurrò dispiaciuto.

Il suo tono amareggiato mi fece sorridere. Gli passai con dolcezza le dita tra i capelli, scompigliandoli un poco.

“Vai”, suggerii con un filo di voce.

Sfiorò nuovamente le mie labbra e, il secondo dopo, era già sparito. Rimasi qualche istante – forse più del necessario – ferma a fissare il punto da cui supponevo fosse scomparso.

Quando sentii il motore potente della jeep di Emmett e della BMW di Carlisle prendere vita ed allontanarsi, fui certa di essere sola.

Ero sola. In casa. C’era ancora luce, ma non sarebbe durato ancora molto. Andai in cucina ed ingurgitai qualcosa. Cosa, di preciso, non ci feci caso. Non avevo granché fame e ancor meno avevo voglia di cucinare. Non avendo molte alternative, feci i compiti. Li finii, facendone forse più del necessario. Quando tirai su la testa dai libri, ormai era già buio. Decisi così di non tornare a casa mia: l’idea di attraversare l’ampia radura, da sola e al buio, non mi entusiasmava particolarmente.

Mi sedetti sul divano, accoccolandomi contro uno dei braccioli ed accesi la TV.

Per un attimo, pensai a cosa sarebbe successo se quel giorno, che sembrava lontano anni luce, Claude non mi avesse attaccata. Probabilmente a quest’ora sarei stata a casa di Daniel a guardare la TV, o magari da Mel. Non avrei mai trovato tutto quello che ora appariva ai miei occhi come irrinunciabile. La mia stessa vita, l’avevo trovata.

Mi resi conto, senza sorprendermi, che non sarei mai potuta tornare alla mia vita di prima. Non avrei mai più potuto vivere senza Edward. Se lui fosse scomparso, il mio mondo sarebbe svanito insieme a lui. Non c’era un motivo semplice e razionale che mi legasse a lui, sapevo semplicemente di dover stare con lui, sentirlo vicino a me per poter continuare ad esistere.

Lui era il mio mondo. Senza la terra su cui poggiare i piedi o l’aria da respirare non sarei potuta sopravvivere. E lui era tutto ciò; tutto ciò di cui avevo bisogno e tutto ciò che avrei mai desiderato.

Rimasi seduta, lo sguardo fisso sulle immagini che si rincorrevano sullo schermo, senza senso.

Che strano. Non avrei mai creduto possibile tutto questo. Pensai alla prima sera, ad Amos e alla sua frase. In quel momento mi aveva colpita.

“Vedo che tuo figlio si è legato molto a questa giovane, Carlisle. Il sentimento reciproco tra i due è pressoché tastabile. Affascinante”.

Sorrisi appena al ricordo. Era passato così tanto tempo…o almeno, così appariva ai miei occhi stanchi.

Fu quando vidi il viso di Claude, il suo sorriso crudele e le sue iridi cremisi – un volto che compariva fin troppo spesso per i miei gusti quando chiudevo gli occhi – che mi resi conto di essermi addormentata. Mi svegliai lentamente, il mio corpo indolenzito dalla posizione scomoda e prolungata. Guardai fuori dalla finestra e sbuffai. Pioveva a dirotto, cosa non insolita per quel luogo.

“Siamo di cattivo umore?”, mormorò una voce inconfondibile al mio orecchio.

Il mio cattivo umore sparì con tutto il resto, lasciando solo un sorriso sulle mie labbra.

“Sei tornato”, esclamai, sinceramente sollevata.

“Dormivi e non ho voluto svegliarti”, ammise. “Anche se Emmett avrebbe gradito buttarti giù dal divano”. Sorrise divertito, e così feci anch’io.

“Grazie mille, Emm!”, alzai la voce quanto bastava perché mi sentisse.

A conferma, le sue risate giunsero poco dopo.

“Com’è andata la caccia?”, domandai curiosa.

“Al solito”.

A volte sembrava avere paura di dirmi qualcosa su di lui, qualcosa sulla sua vera…essenza.

“Puoi dirmelo, non mi scandalizzo”.

“Ma potresti”, replicò mesto. “Ho sempre la sensazione di sbagliare, che non sia giusto tutto questo”, aggiunse con lo stesso tono, accarezzandomi una ciocca di capelli.

“Tutto questo?”.

“Io…e te”, precisò con un gesto della mano. “Noi due”.

Sgranai gli occhi, la sensazione di un pugno nello stomaco vivida nel mio corpo.

“Non…capisco”, farfugliai con un filo di voce.

“Non preoccuparti”, mi rassicurò, le sue labbra tendendosi in uno splendido sorriso. “Sono troppo egoista per privarmi di te, non potrei farcela senza”.

Sorrisi, senza tuttavia sentirmi rassicurata.

“Non m’importa cosa sei, se sei un cane a tre teste o un essere mitologico. Sei tu, e questo basta”.

Edward mi guardò a lungo negli occhi, accesi da una strana luce che non riuscii a riconoscere. Poi, con delicatezza infinita, portò le sue labbra sulle mie. Fu un bacio semplice, ma mi disse tutto quello che avevo bisogno di sentire. Non c’era bisogno di parole.

Quando dopo poco, come sempre, si allontanò da me con uno sguardo combattuto, mi strinsi al suo petto. Era freddo, duro come il marmo.

“Ti amo”, sussurrai piano, la mia voce attutita dal suo corpo.

Mi sentii strana, imbarazzata per più di un verso, ma nel momento in cui le parole sfuggirono alle mie labbra, seppi che non c’era nulla di più vero.

Mi strinse a sé, cingendomi con un braccio ed accarezzandomi i capelli con una mano.

“Ti amo”, mormorò a sua volta, le labbra premute sulla mia fronte.

Mi sentii leggera, speciale. Come mai nella mia vita ero stata.

Quel momento sarebbe potuto durare in eterno e a me sarebbe andato bene così.

“Devo vedere la partita”, annunciò la voce seccata ma giocosa di Emmett. “Quindi andate a fare i piccioncini altrove”.

E tanti saluti al momento eterno.

“Direi che mi è venuta voglia di suonare il piano”, la mia era una minaccia bella e buona.

Sorrisi divertita all’espressione inorridita di Emm.

“Non pensarci nemmeno”.

Risi di gusto.

“Sto scherzando, Emm!”.

“Meglio per te”.

“Certo, certo”, tagliai corto e mi accomodai al suo fianco.

Mi guardò. Anzi, mi bruciò con lo sguardo.

“Non può interessarmi il baseball?”, chiesi innocente.

“No”, rispose secco e visibilmente indignato.

Poi sospirò, come rassegnato, e si strinse per lasciarmi posto sul divanetto.

“Ma sta’ zitta”, ordinò.

“Sissignore”, lo presi in giro.

Edward ci osservava con la stessa espressione compiaciuta di un genitore che guarda i figli giocare al parco. Gli feci cenno di avvicinarsi e di sedersi vicino a me.

Mi strinsi contro Emmett, che sbuffò irritato.

“Vieni qui”, propose Edward allargando le braccia in segno d’invito.

Invito che non avevo intenzione di rifiutare.

Mi accoccolai tra le sue braccia, contro il suo petto che risultava gelido anche attraverso i vestiti. Guardammo la partita in religioso silenzio, eccezion fatta per alcune esclamazioni di Emmett qui e là. A dire la verità, il concetto di “guardare” non era il più appropriato per me. Non avevo visto un solo secondo della partita. Nemmeno uno. Avevo solo distrattamente notato le figure dei giocatori armate di mazze e guantoni. Ero continuamente distratta dalle labbra dell’angelo vicino a me, che mi sfioravano i capelli, il collo, i polsi…

“Dovresti mangiare”, la sua voce mi distrasse nuovamente.

“Cosa?”, domandai disorientata.

“Non hai fame?”, chiese di nuovo, la sua voce morbida a solo pochi centimetri dal mio orecchio.

“A dire la verità”, ammisi sorridendo. “Parecchia”.

Mi prese per mano e mi condusse in cucina, dove scaldai le lasagne che Esme aveva comprato il giorno prima. Masticai la mia cena in silenzio, lanciando solo qualche occhiata sognante di tanto in tanto ad Edward. Ogni volta che alzavo lo sguardo, era sempre lì, i suoi occhi sul mio viso.

Quando ebbi finito di mangiare, mi alzai per lavare i piatti e le stoviglie.

“Faccio io”, offrì Edward.

“No, mi piace”.

“Allora ho il permesso di aiutarti?”.

“Accordato”, sorrisi ampiamente.

Seguì una breve pausa, un silenzio confortevole rotto solo dal rumore delle stoviglie e il suono dell’acqua che scorreva nel lavandino.

“Hai chiamato la tua amica?”, chiese Edward ad un tratto.

Mi battei il palmo sulla fronte.

“Oh!”, esclamai. “Mi sono dimenticata!”.

“E ora ti sei sporcata invece”, ridacchiò Edward divertito.

Lo guardai interrogativa.

“Ti sei sporcata tutta la fronte di schiuma”, precisò con un ghigno.

“Ah”, mormorai. “Così dici?”. E così dicendo lo schizzai completamente.

La sua finta espressione inorridita fu impagabile. Scoppiai a ridere.

Subito dopo notai la sua espressione cambiare.

“Non oseresti”, lo avvisai indietreggiando.

“Tu credi?”, mormorò sfoderando un ghigno malizioso.

Cominciammo a schizzarci, riempiendoci di schiuma in un modo che non avevo creduto possibile. Non era da Edward questo comportamento, non il solito Edward almeno. Questo nuovo lato di lui non faceva che accrescere la mia infatuazione.

“Okay, okay”, esclamai stremata. “Hai vinto!”.

Edward rise, stringendomi tra le sue braccia – i vestiti fradici pressoché incollati ai nostri corpi.

“Visto?”, sussurrò soddisfatto.

Ridacchiai un poco, per poi voltarmi verso di lui.

“Ora dobbiamo pulire”, annunciai senza perdere il sorriso.

“Detto fatto”, mormorò la sua voce al mio orecchio.

Il secondo dopo, lui non c’era più. Al suo posto, un tornado era comparso nella cucina, che lasciava ordine invece di distruzione al suo passaggio. Sentivo le posate tintinnare, l’acqua scorrere, ma non riuscivo a vedere nulla. Dopo pochi secondi Edward riapparve davanti ai miei occhi, la cucina perfettamente in ordine. Mi voltai verso il frigorifero, dandogli le spalle.

“E ora dove vai?”, domandò curioso fingendosi offeso.

“Mi è venuta in mente una cosa”.

Aprii la porta del freezer, esaminandone il contenuto.

“Sarebbe?”, mi esortò dopo qualche secondo di pausa.

“C’è una cosa che devo finire”, non potei fare a meno di sorridere. “Eccolo”, aggiunsi trionfante.

Le labbra di Edward si tesero a combattere uno splendido sorriso.

“Tutto questo per un gelato?”, chiese beffardo.

“Il mio gelato, per la precisione”, precisai facendogli una smorfia.

Mi armai di cucchiaio e tornai in salotto, seguita a ruota da un Edward apparentemente divertito. Mi acciambellai sul divano, incrociando le gambe.

“E’ ancora buono?”, domandò dubbioso.

“Certo”, farfugliai con la bocca piena.

Arricciò il naso, come se lo disgustasse.

“Che cos’hai contro il gelato?”, domandai piccata.

Si strinse nelle spalle.

“Niente”, ammise. “Solo che non ha un aspetto invitante”.

Sorrisi appena.

“Per te, forse”, replicai.

“Direi di sì”.

“Non vuoi assaggiarlo?”.

La sua espressione disgustata mi fece ridere.

“Saresti in grado di mangiare del cibo umano però, giusto?”.

“Ovviamente”, rispose.

La sua risposta lasciava ad intendere la restante parte della frase: “Ma non ho assolutamente intenzione di farlo”.

Ridacchiai di nuovo.

“Che c’è?”, chiese esasperato.

“Niente, mi chiedevo come sarebbe vederti mangiare del gelato”.

Portai l’ennesimo boccone alle labbra.

“Potrei provare”.

“Ah davvero?”, chiesi inarcando un sopracciglio in sfida.

La sua espressione maliziosa mi disorientò. Si chinò su di me, prendendomi il viso tra le sue mani fredde, per poi posare le sue labbra sulle mie. Mi baciò a lungo, come forse mai aveva fatto.

Il mio respiro era ormai un affanno incontrollabile, il mio cuore che tentava di tenere il ritmo senza dover fuoriuscire dal mio petto. Mi sembrò che potesse farlo. Intrecciai le dita ai suoi capelli di bronzo, sentendo il suo corpo gelido a contatto con il mio. Quando si allontanò da me, ero ormai senza fiato. Lui, nonostante non ne avesse bisogno, sembrava in cerca d’aria quanto me.

I suoi occhi dorati e appena nutriti splendevano e bruciavano come piccole stelle infuocate. Mi passai una mano tra i capelli, la mia espressione decisamente sorpresa.

“Mmm”, mormorò Edward con un sorriso appena accennato agli angoli della bocca.

“Cosa?”, chiesi ancora senza respiro.

“Non è poi così male il gelato”.

“Il gelato”, ripetei.

Con le labbra disegnò il mio sorriso preferito.

“Il gelato”, ripeté a sua volta.

“Sei incredibile”, mormorai scuotendo la testa, un sorriso sbalordito sul mio volto.

“Hai cominciato tu”.

“Non mi sto lamentando, infatti”, replicai. “Affatto”.

Posai la testa sulla sua spalla, accostandomi al suo corpo freddo. Socchiusi gli occhi.

Come spesso succedeva nei momenti di assoluto silenzio, nella mia mente s’intrufolò con prepotenza il viso di mia madre, di mia sorella, mio padre. La mia famiglia, i miei amici. Come una presentazione fotografica della mia vita precedente. Non potevo negare che mi mancassero. I loro volti sorridenti, parzialmente abbronzati, mi sorridevano in un modo che solo un familiare può fare. Sorrisi familiari, gentili. Senza critiche.

Sospirai, nostalgica.

“Qualcosa non va?”.

Certamente se ne era accorto, come sempre.

“Niente”, feci spallucce. “Pensavo”.

Edward picchiettò delicatamente le sue dita contro la mia fronte.

“Questa faccenda a volte risulta davvero, davvero frustrante”.

“Cosa?”.

“Sarebbe semplice capire come aiutarti se sapessi cosa stai pensando”.

Sospirai, socchiudendo nuovamente gli occhi.

“Non vuoi dirmelo?”, domandò con semplice curiosità.

“No, non è quello”, ammisi sincera. “E’ solo che non vorrei…preoccuparti, ecco”.

“Preoccuparmi?”, chiese inarcando un sopracciglio perfetto.

“Pensavo…”, mormorai con lo sguardo basso. “A mia madre, alla mia famiglia”.

Percepii il suo corpo irrigidirsi al mio fianco, tramutandosi in una splendida scultura di ghiaccio.

“Ti mancano, non è vero?”, chiese qualche secondo dopo. La sua voce era forzatamente tranquilla.

Abbassai nuovamente lo sguardo, mantenendolo sulle mie mani intrecciate tra loro.

Mi strinsi nelle spalle, mormorando un “Sì” muto.

Edward era ancora troppo rigido. Troppo silenzioso. Tuttavia, a poco a poco, il suo corpo sembrò rilassarsi. Mi cinse la vita con un braccio.

“Parlami di loro”.

Parlammo tutta la sera. Dei miei genitori, dei miei amici, della mia famiglia. Di tutto. Della mia vecchia scuola, dei miei pochi veri amici e, con non poco imbarazzo, della mia non vita sentimentale. Rimase apparentemente sorpreso di quest’ultimo argomento.

Tuttavia, alla fine la stanchezza ebbe la meglio sulla mia forza di volontà. Appoggiai la testa nell’incavo della sua spalla di ghiaccio e chiusi gli occhi, sospirando. Mi risvegliai solo dopo, in camera mia, mentre le braccia di Edward mi posavano tra i cuscini e mi avvolgevano tra le coperte.

“Scusami”, lo sentii dire in un sussurro. “Ti ho svegliata”.

Improvvisamente, nonostante il mio cervello fosse rallentato dalla stanchezza, mi tornò alla mente qualcosa di importante.

Ora o mai più, mi dissi, tanto vale tentare.

“Edward”, lo chiamai, la mia voce impastata dal sonno.

“Sono ancora qui”, era poco distante da me.

Con fatica, sollevai le palpebre quanto bastava per scorgere la sua splendida figura nella penombra azzurrata della stanza.

“Posso andare…”, mi sentivo tanto una bambina capricciosa e testarda. “A La Push?”.

“Domani”, aggiunsi. “Per favore”.

Le mie palpebre si richiusero contro la mia volontà. Non me la sentii di combatterle.

Seguì un breve silenzio in cui temetti di addormentarmi. Poi, inaspettatamente, le sue labbra mi sfiorarono la fronte. Lo sentii sospirare.

“Va bene”, mormorò, un’ombra di un sorriso nella sua voce. “Ora dormi”.

L’ultima cosa che la mia mente riuscì a registrare, prima di cadere nel mondo dei sogni, fu la voce di Edward che mi sussurrava qualcosa all’orecchio. Una melodia, forse. Ma ero troppo stanca per farmi domande, troppo stanca per rimanere sveglia oltre.

Credo che potrei rischiare di innamorarmi di questo lato di Edward xD Che dire, spero come al solito che il capitolo vi vada a genio. Voglio ringraziare le mie recensitrici più assidue: Effy92,  Kelley, Marta Stew, Paola, Giada e ovviamente Jen :D Grazie perchè ci siete sempre - senza di voi rischierei di perdere la voglia di postare! Ultima cosa: la scena del gelato è "tratta da una storia vera" - cedo tutti i diritti d'autore alla mia Angelica personale xD Buon sabato sera e buon weekend! Alla prossima :)

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Capitolo 20
*** La Push. ***


Buonasera gente! Beeeh sono di nuovo di fretta, quindi m'intrattengo poco. Faccio gli auguri a quel grand'uomo del Roberto che oggi fa 25 anni e deve tenermi bene la mia donna, o lo gambizzo :D
Detto ciò, qualcuno tra le recensioni(a proposito, scusatemi ma non ho avuto il tempo di rispondervi) diceva che non prometteva granché bene la gita a La Push...chissà u.u
Vi lascio al capitolo! :)

Capitolo 20. La Push.

Mi svegliai presto, dopo un sonno senza sogni. Mi sentivo bene, riposata. Il mio corpo sembrava rigido, come se non volesse interrompere quel momento perfetto della mattina, quando sei sveglio e intorno a te c’è solo un assoluto silenzio.

“Buongiorno, Bella Addormentata”, la sua voce non fece altro che migliorare quell’istante.

Strizzai gli occhi, arricciando il naso e facendo una smorfia mio malgrado.

“Buongiorno”, farfugliai ancora assonnata.

Dita fredde mi scostarono i capelli dal viso.

“Dormito bene?”.

“Mmm”, bofonchiai.

Lo sentii sorridere, senza ombra di dubbio quel perfetto sorriso truffatore capace di lasciarmi senza respiro. Aprii gli occhi, sbattendo più volte le palpebre per vedere nitidamente. Lui era lì, splendido come sempre, quel sorriso che avevo appena immaginato che splendeva sul suo volto. Era troppo, qualcosa di cui era impossibile abituarsi. Ed era assurdamente destinato a me.

Improvvisamente mi tornò alla mente la sera prima. Aveva acconsentito a farmi andare a La Push. Perché l’aveva fatto… giusto? Non me lo ero sognato, vero? Il dubbio s’insinuò prepotentemente nel mio cervello, disegnando sul mio viso un’espressione confusa e probabilmente pensierosa.

Mi tirai su, voltandomi su un lato ed appoggiandomi su un gomito. Lo guardai dubbiosa, in silenzio, aggrottando la fronte.

“Qualcosa non va?”, mi scostò l’ennesima ciocca ribelle dal viso.

“Mmm”, mormorai. “Mi chiedevo solo una cosa”.

Aspettò in silenzio che continuassi, sollevando un sopracciglio.

“Ecco…”, sperai in tutti i modi di non sembrare un’emerita idiota. “Non sono sicura di una cosa”.

“Tu…”, continuai, sentendomi arrossire. “Tu ieri sera mi hai davvero dato il permesso di andare a La Push, vero? Non me lo sono sognato”.

Edward sorrise divertito.

“No, non l’hai sognato”, ridacchiò tentando di nascondere un nuovo sorriso.

“Oh”, mormorai. “Davvero?”.

Era difficile pensare che avesse acconsentito così facilmente. Lo conoscevo abbastanza bene da sapere che era testardo quanto Rosalie.

“Voglio dire”, continuai. “Come mai?”.

Sorrise, abbassando lo sguardo sulle nostre mani intrecciate.

“Ho solo pensato a cos’è meglio per te”.

Mi guardò negli occhi. Brillavano d’oro, ma c’era qualcos’altro. Qualcosa di nascosto che sembrava voler venire fuori.

“Mi nascondi qualcosa?”, domandai curiosa. Conoscevo quello sguardo.

“Proprio niente”, nei suoi occhi sinceri non c’era ombra di menzogna.

Gli credetti, anche se qualcosa, nella mia testa, mi diceva il contrario. Alice varcò la porta della stanza come un treno in corsa, tuttavia con la grazia di una ballerina classica.

“Buongiorno, El”, disse in tutta fretta. “Preparati, devi muoverti”.

Mi lasciai trascinare giù dal materasso, la mia espressione vuota e confusa allo stesso tempo.

“Sei in ritardo per andare a La Push”, le sue parole si rincorrevano. “I tuoi amici saranno all’uscita dalla statale tra venti minuti, vuoi arrivare con loro o no?”.

Annuii senza capire realmente. Avevo ancora troppo sonno. Mi ritrovai in cucina, già vestita e pettinata, appena quindici minuti dopo. Rosalie mi stava fissando, seduta davanti a me con l’ormai abituale espressione ostile.

“Divertiti con i cani”, sibilò sotto il suo respiro.

“Rose, che cosa c’è che non va?”, trovai finalmente il coraggio di dirle.

“Niente”, fece spallucce, minimizzando.

“Rose”, la rimproverai. “E’ da quando…da quando Edward ed io abbiamo ripreso a parlarci che sei così, come se la cosa ti infastidisse”.

“Forse mi infastidisce”.

“E perché mai?”.

“Chiedilo alla tua migliore amica, forse lei lo sa”, bofonchiò acida.

Sgranai gli occhi, sbalordita.

“E’ di questo che si tratta?”, domandai stupita. “Di Angelica?”.

Rosalie sostenne il mio sguardo per qualche istante, prima di lasciarlo cadere sul tavolo.

“Rose?”, la esortai.

Si strinse nelle spalle, come se la cosa avesse poca importanza.

“El, muoviti!”, Alice mi prese per un braccio, alzandomi dalla sedia. “Sei in ritardo!”.

“Alice, no!”, esclamai innervosita. “Ora no, La Push può aspettare”.

Alice abbandonò il mio braccio, il suo umore neanche lontanamente scalfito dalla mia risposta.

“Okay, ma sbrigati”, cinguettò allegra e si diresse al piano di sopra.

“Rose”, riportai il mio sguardo su di lei.

“Non ha importanza, vai pure”.

“Ne ha eccome”.

Dal mio tono di voce si capiva che non avrei accettato un’altra risposta come la precedente.

“El”, sospirò guardandomi negli occhi. “Ho solo paura di vederti soffrire di nuovo, non mi è piaciuto l’ultima volta”.

Fui incapace di rispondere come avrei voluto. Rose. Per lei ero sempre stata importante, non importava come lo dimostrasse. Si era sempre preoccupata per me, aiutandomi in ogni modo.

“Rose, non succederà. Davvero”, la rassicurai.

Le mie parole erano di conforto, ma sapevo che erano vere. Edward non mi avrebbe abbandonato, non più. Sospirò di nuovo, come rassegnata. Poi si alzò e mi abbracciò, come non faceva da tanto.

Mi era mancata. Più di quanto avessi ammesso a me stessa.

“Va bene, basta con le smancerie”, annunciò con un ampio sorriso. “Ora vai o Alice ci uccide”.

Alice, per l’appunto, era già sulla porta, le chiavi della macchina che roteavano pericolosamente sul suo indice.

 

Fu un viaggio piuttosto breve. Lo avevo immaginato più lungo, ma di certo non mi lamentai. Eravamo troppo in ritardo per raggiungere gli altri all’uscita dalla statale, quindi Alice decise di andare direttamente a La Push ed aspettarli lì. Inoltre, la debole luce che ogni tanto riusciva a filtrare le nubi costituiva per Alice un intralcio notevole, nonostante riuscisse a prevederlo in tempo.

“Devi promettermi che starai attenta”, m’informò per quella che probabilmente era la ventiduesima volta.

“Alice, l’ho già promesso, anzi giurato, a Edward”, bofonchiai. “Lo sai che starò attenta, non c’è bisogno di ripeterlo all’infinito”.

Alice sogghignò.

“Stavo solo controllando”.

Sbuffai. Mi sentivo come una bambina dell’asilo.

Stai attenta, aveva ripetuto Edward fino all’esasperazione, giuramelo. Per favore, fallo per me.

Poco prima di raggiungere La Push, a quelli che a me sembravano circa trecento metri, accostammo.

“Posso arrivare fin qui”, disse Alice allegra. “Mi dispiace, devi fartela a piedi”.

“Non c’è problema”, dissi in fretta.

Avevo già la mano sulla maniglia.

“Se aspetti qui, tra due minuti arriveranno i tuoi amici”, m’informò.

“Oh”, mormorai. “Okay”.

“Allora a dopo”, aggiunsi aprendo la portiera.

“A dopo”, ripeté sorridendo.

Richiusi la portiera dietro di me. Il rumore di un finestrino in movimento catturò la mia attenzione.

“El”, mi chiamò sporgendosi verso di me.

“Sì?”, mi voltai.

“Stai davvero attenta. Edward non mi perdonerebbe se ti accadesse qualcosa, e non perdonerebbe nemmeno te”.

Annuii decisa.

“Allora ci vediamo qui…”, chiuse gli occhi sorridendo. “Direi alle cinque”.

Ridacchiai. Sapeva sempre tutto.

“A più tardi, Alice”, la salutai. “Grazie”.

Il motore riprese vita e, qualche istante dopo, era già andata via. Non sapendo che fare, cominciai a camminare. M’incamminai verso la piccola cittadina che s’intravedeva tra la densa foschia, gli alberi ad incorniciarla. Sembrava uscire direttamente da un libro di fiabe. Quando fui abbastanza vicina da riuscire a distinguere ogni abitazione, mi fermai.

Le case, tutte simili ma diverse allo stesso tempo, variavano tra l’intenso color mattone e il debole giallo ocra. Le dimensioni erano ridotte, le diverse stanze davano l’impressione di accatastarsi una sull’altra. Sbirciai attraverso una finestra aperta. La cucina era accogliente, dall’aspetto familiare.

“Coop!”, mi sentii chiamare. “Che ci fai qui?”.

Quella voce curiosa, insistente e in qualche modo arrogante, sembrava sorpresa di trovarmi lì. Mi voltai di scatto e trovai un fuoristrada verde scuro, il suo motore scoppiettante, proprio davanti a me. Lo riconobbi all’istante.

“Morrison”, dissi apatica.

Si sporse dal finestrino fino ad essere a pochi centimetri da me.

“Mi avevi detto che non saresti venuta”, sembrava sorpreso. “Cambiato idea?”.

“Sono qui, quindi direi di sì”.

“Oh”, mormorò, forse non era la risposta che si era aspettato. “Gli altri?”.

“Per ora ho visto solo te”, ammisi senza preoccuparmi del tono scoraggiato della mia voce.

Mormorò qualcosa che non riuscii del tutto a comprendere, ma che mi sembrò somigliasse a un “Ancora meglio”.

“Beh, hai voglia di andare a fare una passeggiata?”.

Non avevo la minima voglia di fare una passeggiata da sola con lui, ma acconsentii ugualmente. Sempre meglio che rimanere a sbirciare nelle cucine altrui.

“Va bene”, bofonchiai senza enfasi.

Cominciammo a camminare, apparentemente senza meta.

“Sai dove stiamo andando, vero?”, chiesi ad un tratto, esitante.

Mi guardò con la solita sufficienza ed arroganza di sempre.

“Ovvio, io vengo qui da una vita”.

“Sbruffone”.

“Quindi?”, chiesi dopo qualche istante.

“Quindi cosa?”.

“Quindi dove stiamo andando?”.

“Alla spiaggia”.

L’idea non mi allettava. Senza dubbio il concetto che avevo io di spiaggia e quello che avevano quaggiù era sostanzialmente diverso. Lo guardai in viso. Stava osservando la strada dietro di me, senza prestarmi attenzione. Quando stava zitto, era quasi semplice passare del tempo con lui. Sorrisi appena. In quel momento tornò con lo sguardo su di me. Non sembrava sorpreso di trovarmi a fissarlo, solo…soddisfatto. Compiaciuto.

“Dean, El!”, esclamò una voce familiare.

Ci voltammo all’unisono. La mia espressione sollevata, la sua infastidita. Il minivan blu scuro che aveva accostato davanti a noi fu un vero e proprio sospiro di sollievo. C’erano tutti. Jackson, Anne, Thomas, Peter, Allison e Claire.

“Claire!”, esclamai vedendola. “Che ci fai qui?”.

“Avevi detto che non saresti venuta”, aggiunsi entusiasta.

La giornata sembrò rischiararsi visibilmente dopo la sua apparizione.

“Lo so!”, disse euforica quanto me, catapultandosi fuori dalla macchina. “Ma i miei hanno cambiato idea all’ultimo momento!”.

Sorrisi ampiamente. Ne sapevo qualcosa anch’io.

“Scusateci se abbiamo fatto tardi”, disse Jackson. “Anne era in ritardo e senza macchina non potevamo muoverci”.

Le rivolse uno sguardo scherzoso, al quale lei rispose con una linguaccia.

“Non è colpa mia”, si giustificò Anne ridendo.

“Sì, certo”, intervenne Peter. “Direi che è colpa di Claire”.

“Perché mia?”.

“Perché ho deciso così”.

Li osservavo ridere, scherzare. Erano divertenti, ma era come se fossi semplicemente uno spettatore. Distante. Non ne facevo parte.

Ci incamminammo verso la spiaggia, dove ammucchiammo della legna. Accendemmo un falò gigantesco. Non ne avevo mai visto uno del genere, forse anche perché, da dove venivo io, non c’era granché bisogno di falò. Miami... Come sempre, quando mi capitava di pensarci, persi la cognizione del tempo.

“El?”, la mano di Tom ondeggiò davanti ai miei occhi.

Sobbalzai.

“Oh”, mormorai. “Tom”.

Rise della mia espressione disorientata.

“Che fai, dormi ad occhi aperti?”, mi prese in giro.

“Sì, direi di sì”, sorrisi. “Scusami”.

“Ti va di venire a fare un giro alle pozze?”, propose senza nascondere il suo entusiasmo.

“Le pozze?”, ripetei. “Oh, no”, dissi. “Adesso no, grazie, magari più tardi”.

“Okay, io, Peter e Allison andiamo ora”, m’informò. “E anche Dean”.

“Motivo in più per stare qui”, gli sorrisi complice.

“Pensavo ti piacesse”, mormorò con evidente sollievo.

“A me?”, esclamai sorpresa.

Poi sorrisi. Se solo avesse saputo dove era diretto il mio cuore, avrebbe sicuramente cambiato espressione. Scossi la testa divertita.

“No di certo”.

Non potei fare a meno di pentirmi delle mie parole. Il suo volto si illuminò di quelle che, probabilmente, erano speranza e soddisfazione.

“Tom, andiamo!”, gli gridò Allison.

Sorrisi, notando le attenzioni che Allison aveva per il mio amico.

“Allora a dopo”, si congedò velocemente.

“A dopo”, gli sorrisi.

Restammo solo Claire ed io. Anne e Jackson erano presenti, ma la loro attenzione era decisamente impiegata altrove.

Era ora che quei due si mettessero insieme, pensai sospirando.

L’unico pensiero che, tuttavia, mi veniva in mente guardandoli, era Edward. Mi sarebbe piaciuto averlo qui con me, la sua mano intrecciata alla mia. Purtroppo, vecchi e stupidi patti con gli esseri mitologici della zona avevano impedito tutto ciò.

Licantropi. Sospirai di nuovo. Se solo questo luogo non sembrasse far parte di un film di fantascienza, sarebbe tutto più semplice. Claire mi guardò, preoccupata forse da tutti i miei sospiri.

La rassicurai con un sorriso e lei tornò ad arrostire il suo marshmallow. Stare con Claire era semplice. Sapeva che non c’era bisogno di parlare, il silenzio era confortevole. Spesso le persone lo trovano imbarazzante.

Guardai – per la prima volta da quando ero arrivata – il paesaggio intorno a me. Era incredibile. La spiaggia sembrava grigia, così come le rocce, ma le sfumature erano totalmente diverse l’una dall’altra. La scogliera cadeva a strapiombo sull’oceano, tuffandosi in un’acqua scura e densa. Le onde creavano il solo rumore udibile, ritmico e rilassante. Alcuni gabbiani volavano sull’acqua, sfiorandola appena, indecisi se avvicinarsi o no a quella superficie dall’aspetto inquietante. Le nubi, pesanti e grigie, sembravano incorniciare quello che appariva un luogo incantato.

“Ciao ragazze”, una voce a me sconosciuta mi distrasse dai miei pensieri.

Alzai rapidamente lo sguardo, cercandone la fonte. Un gruppo di ragazzi – probabilmente del posto, decisi, notando il loro abbigliamento – si stava avvicinando a noi.

“Ciao”, abbozzò Claire.

Non parlai, mi limitai a fissarli incuriosita. Strinsi gli occhi per cercare di vederli meglio oltre la foschia. Non appena riuscii a delinearne i lineamenti, mi pietrificai. Erano tutti spaventosamente simili. Gli stessi capelli scuri, tagliati corti. La stessa muscolatura evidente e robusta. La stessa espressione apparentemente ostile, che cercava tuttavia di apparire rilassata. Poi lo riconobbi. Era più alto dell’ultima volta che l’avevo visto, più grosso. Aveva anche tagliato i capelli. Ma era lui, nessun dubbio in proposito. Quando anche lui mi vide, ci scambiammo una lunga occhiata.

“Ciao”, mormorai, mantenendomi sul casuale.

“Non dovreste accendere fuochi qua intorno, rischiate di appiccare un incendio”, ci informò il più grande dei nuovi arrivati.

Aveva un’espressione diversa, paziente. Rassegnata.

“Sì, scusateci”, si affrettò a dire Claire.

Mi limitai a sbuffare, trattenendo un sorriso beffardo. Dubitavo che con un’umidità del genere qualcosa riuscisse a prendere fuoco.

“Beh, ormai è acceso”, continuò il ragazzo, sorridendo. “Tanto vale approfittarne”.

“Possiamo unirci a voi?”, domandò prima di prendere posto sul tronco di fronte al nostro.

“Sì, certamente”, rispose Claire.

Avrei voluto che ci fosse stato un buon motivo per farle dire di no. Jacob continuava a mantenere il suo sguardo vigile su di me. Lo sentivo bruciare sul mio viso, come una volta avevano fatto le sue mani.

“Mi chiamo Sam”, disse poco dopo il giovane sconosciuto.

“E questi sono”, li indicò uno a uno. “Paul, Jared, Quil, Jacob ed Embry”.

I pochi dubbi che mi ordinavo di mantenere su di lui, vennero sfatati con quella semplice presentazione.

“Io sono Claire”, si presentò. “E questa è la mia amica El”, mi indicò con il pollice puntato verso di me. Mi diede una leggera gomitata.

“Oh”, mormorai. “Piacere”.

Mentre parlavo, continuavo ad osservare l’espressione tesa di Jacob. Parlai poco durante la conversazione che seguì. Claire bastava per entrambe.

Ad un tratto, mi alzai. Non sapevo esattamente il motivo di quello che stavo facendo, o cosa stavo facendo in realtà, ma evitai di chiedermelo. Improvvisamente, non avevo più voglia di stare ferma.

“Dove vai?”, domandò Claire, un po’ offesa forse dal mio comportamento.

“Voglio raggiungere gli altri alle pozze”, dissi la prima cosa che mi era passata per la mente.

“Gli altri ormai staranno già tornando”, insistette.

“Non importa, voglio vederle”, continuai testarda. “Tom mi ha messo curiosità”.

“Non sai nemmeno come andarci”, disse lei. “Ti perderai”.

“Se non ti dà fastidio, può accompagnarti uno dei ragazzi”, s’intromise Sam.

Grandioso, pensai con sarcasmo.

Tuttavia, se volevo andarmene di lì, sembrava l’unica via d’uscita.

“Okay”, bofonchiai stringendomi nelle spalle.

“Vado io”, la sua voce fu come una martellata.

Mi sentivo come un bambino a cui è appena volato via il suo palloncino.

Senza aspettare, salutai tutti con un cenno della mano e mi voltai, accelerando il passo per lasciarlo il più indietro possibile da me. M’incamminai nella foresta. Gli alberi sembravano stringersi attorno a me, cercando di impedire il passaggio a chiunque altro. La foschia qui era più densa, mi arrivava al ginocchio, impedendomi di vedere il terreno.

Stai attenta, le parole di Edward mi pungevano nelle orecchie, giuramelo. Fallo per me.

“Stai sbagliando strada”, era ancora troppo vicino.

Come faceva a tenere il mio passo? Avevo quasi il fiatone e lui era a pochi passi da me, il suo respiro perfettamente regolare.

“Non importa”, tagliai corto.

“Dove stai andando, allora?”.

“Non lo so”, ammisi senza voltarmi verso di lui.

“Non ho voglia di seguirti in mezzo alla foresta”.

“Allora non farlo”.

“Ti perderesti”, la sua voce aveva un’ombra di divertimento.

Mi voltai ad osservarlo.

“Se senti una che urla, sono io”, mormorai brusca. “In quel momento puoi venire a cercarmi”.

Gli angoli della sua bocca si sollevarono in un sorriso.

“Non volevi vedere le pozze?”.

“Era una scusa per andarmene”.

“Però dovresti vederle, sono interessanti”.

Sospirai. Non avrebbe ceduto al mio umore tetro.

“Okay, andiamo”.

Camminammo in silenzio, i nostri passi l’unico suono ad accompagnarci. La distanza tra noi era tale che, se qualcuno ci avesse incontrati, avrebbe pensato che stessimo semplicemente andando nella stessa direzione. Dovetti prestare attenzione ad ogni passo per non rischiare di inciampare. Ad un tratto, sbucammo fuori dalla foresta. La luce grigiastra e pallida mi accecò, costringendomi a socchiudere gli occhi. Poi, poco a poco, li riaprii. E rimasi senza parole.

Interessanti, aveva detto Jacob. Non meravigliose, nonostante quest’ultimo aggettivo fosse il più appropriato. Un piccolo torrente scorreva davanti a noi e, sulle sue sponde, piccole piscine colme di vita brillavano alla scarsa luce del giorno. Mi sporsi con attenzione sul bordo di ognuna, osservando il piccolo acquario sotto di me. Le anemoni ondeggiavano alla corrente invisibile, piccole conchiglie animate si muovevano caute sulla roccia. Alcuni pesci erano abbastanza coraggiosi da mostrarsi a me, mentre altri, i più piccoli, guizzavano rapidamente da un capo all’altro della pozza, impedendomi di vederli con chiarezza.

“Non male, non è vero?”, la voce di Jacob mi distrasse.

Ero completamente assorbita da quei piccoli acquari naturali.

“Già”, acconsentii con un sorriso. “Sono splendide”.

In quel momento, il sole fece capolino da dietro le nubi. Qualcosa che non mi aspettavo di certo.

“Ehi”, esclamai. “Il sole”.

“Ogni tanto ci ricorda che esiste anche qui”, ridacchiò Jacob.

“Che strano”, dissi sorridendo.

“Cosa?”.

“E’ la seconda volta che ti vedo, e la seconda volta che spunta il sole”.

Non era del tutto vero, ma la coincidenza mi sembrò divertente. Jacob si limitò a sorridere. Era strano come il mio umore fosse cambiato, come mi sentissi a mio agio ora.

“I succhiasangue quando vengono a prenderti?”, domandò ad un tratto.

Non c’era intenzione di offesa nella sua voce, ma bastò a innervosirmi nuovamente. E tanti saluti al mio umore.

“Alle cinque”, risposi gelida.

“Spero non si facciano vedere”, mormorò con disprezzo.

La presenza del sole non bastò a non farmi arrabbiare. Sbuffai e feci per andarmene. Dove, rimaneva ancora un mistero.

La sua mano fu attorno al mio braccio talmente in fretta che mi sembrò impossibile.

“No”, disse serio.

Alzai lo sguardo per osservare la sua espressione. Sembrava invecchiato. Non nei lineamenti, ma nella pazienza e nella serietà che dimostrava.

“No?”, ripetei.

“Suppongo che i tuoi amici ti abbiano informata”, portò su quel termine tutto il suo disprezzo.

“Sì”, risposi con il suo stesso tono.

“Non dovrebbero farsi vedere nei dintorni, dopo quello che è successo”.

“Non è successo niente”, insistetti.

“Il patto è stato rotto”, disse. “Ti sembra niente?”.

“Abbiamo deciso di passarci su, di fare finta che non sia successo niente, ma la verità non cambia”, continuò serio.

“Emmett l’ha fatto per salvarmi”.

“Non mi sembravi granché in pericolo”.

“No? Io invece credo di ricordare un grosso lupo scuro che esplode davanti a me”.

Il mio tono era gelido. La sua espressione mi fece capire di averlo punto nel vivo.

“Solo perché quella sanguisuga era entrata nel nostro territorio”.

Ci fissammo in cagnesco, a lungo.

“Allora lo sai”, disse poco dopo.

Mi portò una mano rovente sulla guancia, come aveva fatto tempo prima. Mi innervosiva, ma non la scrollai via.

“So cosa?”, domandai confusa.

La sua temperatura era talmente alta da provocarmi la pelle d’oca.

Mi sorrise ampiamente. Quel ragazzo aveva dei cambi d’umore troppo repentini per poterlo seguire.

“Quello che…sono”, ammise.

Sembrava meravigliato. Annuii in silenzio, abbassando lo sguardo.

“E non hai…paura?”.

Lo fissai negli occhi, abbozzando un sorriso beffardo.

“Dovrei?”, chiesi inarcando un sopracciglio.

“Non è da tutti avere a che fare con lupi e mostri succhiasangue”.

Sbuffai. Non mi piaceva quando li chiamava così.

“Perché avete fatto finta di niente con il patto?”.

“Pensi sia stato uno sbaglio?”, domandò, un’ombra di divertimento nei suoi occhi.

“No!”, esclamai ritraendomi. “Solo mi stavo chiedendo il perché”.

“Il primo sbaglio è stato mio. Non avrei mai dovuto mettere in pericolo la tua vita. Quando mi sono…trasformato, ho avuto paura di poterti uccidere”.

“Ma non l’hai fatto”, lo confortai.

Mi chiesi perché ultimamente tutti avevano paura di potermi uccidere. Sorrisi sarcastica.

“Se il tuo succhiasangue…”.

“Emmett”, lo interruppi.

“Se il tuo succhiasangue”, continuò come se non avessi parlato. “Non fosse arrivato, tuttavia, non sarebbe successo niente”.

“Certo, certo”, tagliai corto.

“I succhiasangue non possono entrare nel nostro territorio”, sibilò con rabbia.

Ad un tratto, sembrò ricordarsi di qualcosa di vitale importanza.

“Perché sei qui?”, domandò brusco.

Ero sorpresa. Che razza di domanda idiota era?

Io posso venire qui”, gli ricordai. “Non sono…un vampiro”.

Mi risultava ancora difficile utilizzare quella parola in una conversazione. Mi guardò in silenzio, analizzando il mio viso con attenzione. Sembrava…dispiaciuto. Non capii il perché. Lasciò cadere la mano dal mio viso.

“No, non ancora”, lo sentii mormorare.

TAN TAN TAAAAAAAAAAAAN! Cosa intenderà Jacob con quella frase, cosa sa lui? 
Il mio solito noioso grazie va alle persone che sostengono la mia ff e che mi dicono cosa ne pensano. E poi a quelle due che mi lasciano riempire la bacheca della loro pagina xD Buon sabato e buon weekend! Alla prossima :)

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Capitolo 21
*** Destino. ***


Buon pomeriggio. Questi ultimi due giorni sono stati davvero uno schifo, quindi sarò breve. Chiedo scusa se il capitolo non è particolarmente lungo, ma credo sia abbastanza concentrato. Buona lettura :)

Capitolo 21. Destino.

Sentii la confusione più totale emergere sul mio viso. Sgranai gli occhi.

Cosa?”, domandai confusa, un’ombra isterica nella mia voce.

Mi guardò stupito, come se non capisse. Inclinò il capo da un lato.

“Cosa hai appena detto?”, ripetei, la mia voce salita di parecchie ottave.

Jacob sembrava più confuso di me.

“Hai sentito”, mormorò cupo.

Si ritrasse e si allontanò velocemente. Rimasi qualche istante a fissarlo, inebetita. Poi mi ripresi.

“Jacob!”, urlai, gettandomi con qualche secondo di troppo di ritardo al suo inseguimento.

Era incredibile quanto camminasse veloce quel ragazzo, e con quanta agilità. Temetti di cadere per terra, o di finire in acqua, mentre saltavo da una roccia all’altra per tenere il suo passo. Quando fu in cima alla scogliera, sembrò avere pietà della ragazza che arrancava tra le rocce. Si fermò, il suo volto teso. Accelerai per gli ultimi metri.

“Sei veloce”, disse vedendomi, un’ombra cupa di divertimento.

Mi fermai anch’io, appoggiando le mani alle ginocchia per sostenermi e respirando profondamente.

“Non quanto te”, ansimai senza fiato. “Perché sei scappato così?”, chiesi improvvisamente irritata.

Non rispose alla mia domanda, o almeno non a questa. Scosse la testa con fare pensieroso, calciando una pietra davanti ai suoi piedi e scagliandola un centinaio di metri più in là.

Seguii con lo sguardo la scena prima che cominciasse a parlare, come se avesse bisogno di togliersi un peso dallo stomaco.

“Dalla prima volta che ti ho vista, nella radura, ho capito che c’era qualcosa in te. Qualcosa di diverso, di… strano. Non riuscivo a percepire il tuo odore, intorno a te non c’era nient’altro che quell’orribile puzzo di vampiro. Quando poi il succhiasangue è entrato nel nostro territorio per riprenderti, tu hai fatto… non lo so, qualcosa – e sono riuscito a sentirlo. Persino per me il tuo odore umano era troppo forte. Mi sono reso conto che c’era davvero qualcosa che non andava in te”, mi rivolse un mezzo sorriso beffardo. “Così decisi di raccontare tutto a Sam e, una volta tornato alla riserva e spiegato cosa era accaduto, abbiamo cominciato a cercare qualcosa che parlasse di esseri come te nelle nostre leggende”.

Non riuscivo a trovare la voce per dire qualunque cosa. Sentivo la maschera di stupore farsi strada sul mio viso, nient’altro.

“Non abbiamo trovato quasi nulla, finché non abbiamo cominciato a cercare tra quelle dei freddi. A quel punto è diventato tutto estremamente chiaro”.

Il suo sguardo, perso in lontananza ad osservare le onde infrangersi contro la scogliera, era corrucciato e all’apparenza preoccupato. Non mi piaceva. C’era qualcosa che mi sentivo nello stomaco – che nemmeno io riuscivo a spiegarmi – che in quel momento mi stava dicendo che dovevo fare dietrofront e tornarmene al campo dov’era rimasta Claire.

Come una stupida, ignorai quella sensazione e forzai la mia voce a sfuggire alle labbra.

“Cosa…”, mi interruppi, poi riprovai. “Cosa avete trovato?”.

“Non avevamo mai dato peso a quelle leggende, poiché narravano delle diverse…specie di succhiasangue. Come se ci fosse bisogno di distinguerli uno dall’altro…”, sbuffò alzando gli occhi al cielo. “Il nostro nemico è uno solo, non c’importava a quale specie appartenesse. Tuttavia, non appena ho letto di quella piccola popolazione costretta a nascondersi e sfuggire ai suoi stessi simili… gli Hoser, mi è stato chiaro che tu fossi una di loro”, terminò la frase e mi fissò. Il suo sguardo bruciava.

Non potei non fare a meno di tirare un sospiro di sollievo. Quella storia la sapevo già, mi ero preoccupata per niente.

“Sembri…non preoccupata”, costatò Jacob.

“So già cosa sono”, ammisi senza troppo entusiasmo.

Questo discorso era già stato affrontato troppe volte per i miei gusti.

“Quindi sai anche cosa accadrà dopo”, disse scettico, quasi come se fosse una domanda.

M’incupii. Cosa c’era che non sapevo ancora?

“E cosa dovrebbe succedere dopo?”, domandai con il suo stesso tono di voce, inarcando un sopracciglio.

Jacob mi fissò per un secondo interminabile, come per cercare qualcosa sul mio volto. Poi sospirò pesantemente, passandosi le mani sul viso a stropicciarsi gli occhi.

“Gli Hoser sono predestinati, il loro destino è già scritto. Non appena mostrano i primi poteri, i primi sintomi, è impossibile interrompere il cambiamento. Può bastare un niente, un evento inaspettato, uno sbalzo d’umore…e cambia tutto. Per questo aspetto, somigliate molto a noi. A quel punto il ragazzo, o la ragazza, continua a diventare sempre più forte, a sviluppare ed incrementare i suoi poteri e l’unica cosa possibile è aspettare”.

La voce di Jacob si perse nell’aria, portata via dalla brezza leggera che soffiava dall’oceano.

“Aspettare?”, chiesi esitante.

Sapevo che mi sarei pentita di quella risposta, i suoi occhi mi avvertirono. Dopotutto si era interrotto proprio per questo, per impedirmi di capire, sperando forse che il buon senso avesse il sopravvento sulla curiosità. Ma dovevo sapere. Volevo sapere.

Jacob sospirò, sconfitto.

“Aspettare finché non saranno gli Hoser stessi a…trovarla”, sembrò affogare nelle sue stesse parole, indeciso se pronunciarle. “E trasformarla”.

Mi sentii mancare il respiro, la sensazione di un pugno nello stomaco. Uno di quei colpi da cui è difficile riprendersi, la testa gira e la botta pulsa sotto la tua stretta, l’unica cosa che sembra tenerti unita ed impedirti di cadere a pezzi. Così come avrei fatto con un vero colpo, strinsi il mio braccio intorno alle costole cercando di respirare in modo regolare.

“Trasformarla”, ripetei dopo qualche attimo di puro silenzio.

“Mi dispiace”.

Mi sedetti sul bordo della roccia, tra l’erba fresca e umida, a fissare il vuoto che si stendeva davanti a me. Era tutto così assurdo. Giocherellai con i ciuffi d’erba che mi solleticavano i polsi.

 “Non avrei dovuto dirtelo”, la sua voce era colma di risentimento.

“No”, mi affrettai a dire.

L’immagine, il ricordo del morso di Claude s’intrufolò con prepotenza nella mia mente, portandosi in primo piano tra i miei pensieri. Il dolore, quella sensazione di essere lacerata…

Le mie dita si strinsero attorno ai deboli ciuffi d’erba. Li sentii strapparsi e contorcersi sotto la mia presa.

Gli ero grata per quello che aveva detto. Dovevo solamente assimilare la notizia al meglio.

“Come facevi a non saperlo?”, domandò con rabbia.

“Non lo so”, bofonchiai con un filo di voce.

Riaprii la mano, osservando i ciuffi d’erba sul mio palmo. Distrutti, strappati - come me.

Jacob si sedette al mio fianco, il suo sguardo indagatore a cercare il mio.

“Jake!”, una nuova voce chiamò alle nostre spalle.

Mi voltai, e Jacob era già in piedi di fronte a me.

“Oh, eccoti”, esclamò la figura comparsa dagli alberi.

Sospirai di sollievo quando mi resi conto che era solo un ragazzo, avrà avuto all’incirca l’età di Jacob. I capelli erano lunghi – come Jacob, la prima volta che lo avevo visto – che gli ricadevano all’altezza del mento. Erano castano scuro, come i suoi occhi. Nonostante somigliasse a Jake, il loro aspetto fisico era totalmente diverso. Quel ragazzo era più magrolino, nonostante fosse alto quasi come lui. Allampanato poteva andare per descriverlo.

Mi notò fissarlo con occhi curiosi e mi sorrise al lieve imbarazzo.

“Ciao”, mi salutò con un cenno della mano, sfoggiando un gran sorriso.

Mi limitai a sollevare la mano ed abbozzare un sorriso.

“Cosa vuoi, Seth?”, ci interruppe Jacob, evidentemente infastidito.

“Sam ti cercava”.

Lo vidi sospirare pesantemente.

“Allora torniamo indietro”.

Osservai i due lanciarsi strane occhiate prima di rivolgersi a me. Jacob si allontanò velocemente, senza aspettarci.

“Andiamo”, disse Seth tendendomi la mano.

La afferrai con qualche secondo di ritardo.

“Andiamo”, gli feci eco.

 

“Così…”, mormorò il ragazzo al mio fianco. “Tu sei amica di Jake”.

Stavamo camminando in tutta calma, senza che nulla ci pesasse.

“Mmm”, acconsentii. “Penso che si possa anche dire così”.

Il ragazzo mi rivolse un gran sorriso.

“Beh io sono Seth”, mi tese la mano. “Clearwater”.

Ci stringemmo la mano.

“E io Elizabeth”, gli sorrisi a mia volta, imitando la sua presentazione, “Cooper”.

Il tragitto fu più breve di quanto mi ricordassi. La compagnia di Seth, inoltre, era di gran lunga preferibile. Jacob era così…prevenuto. Mi metteva a disagio a volte.

“El!”, esclamò Claire non appena mi vide. “Ero preoccupata! Dov’eri finita?”, continuò tutto d’un fiato.

“Alle pozze”, le ricordai. “Te l’ho anche detto”.

“Quando ho visto quell’altro ragazzo tornare qui senza di te mi sono preoccupata”.

Le sorrisi nel tentativo di tranquillizzarla.

“Mi ha riaccompagnata Seth”, le indicai il ragazzo al mio fianco.

Gli altri, così come Claire, furono sorpresi di vedermi tornare con Seth. Dean e Tom, in particolare, non ne furono piacevolmente colpiti, a giudicare dalle loro espressioni.

Troppo preda dei miei pensieri, mi allontanai dai miei amici per sedermi su un tronco da sola. La persona più vicina a me era una ragazza che mi osservava con un’espressione gelida. Era così… emanava una rabbia e un odio che non riuscivo a spiegarmi. Mi chiesi se fossi davvero io il bersaglio di tanto disprezzo.

I suoi occhi castani, colmi di quello che mi apparve come risentimento misto ad un’infinita tristezza, mi studiavano da lontano. I capelli scuri, tagliati piuttosto corti, le coprivano in parte un viso dalla bellezza esotica. Zigomi alti e labbra sottili, ricoperti da una splendida carnagione ambrata.

Mi rannicchiai sul tronco, portando le ginocchia al petto, come per difendermi dal mondo intorno a me. Ero ancora scossa dal discorso di Jacob. Trasformata, pensai disorientata.

In poco più di un istante, con quella semplice costatazione, il mio futuro sembrava essersi sbriciolato e svanito nel nulla. Certo, avrei potuto accettarlo. E l’avrei accettato, perché a quanto pare era così che doveva andare. Ma non ero ancora pronta per diventare… un vampiro. Come potevo? Non mi sentivo pronta. E soprattutto, lo sarei mai stata? Alla vita, fino a quel momento, non avevo chiesto altro che un’esistenza semplice, senza grandi difficoltà o intoppi. Il problema è che a volte la vita non ti riserva ciò che aspetti.

Sospirai. Forse la stavo facendo più difficile di quello che forse era in realtà. Era il mio destino? Benissimo, sarei andata incontro al destino a testa alta. Finché il destino avesse compreso anche Edward, l’avrei accettato senza lamentarmi.

Alzai lo sguardo, asciugandomi la lacrima che tentava prepotentemente di scivolare lungo la mia guancia. La ragazza aveva ancora gli occhi puntati su di me. Qualcosa, nella mia espressione, parve mutare il suo sguardo radicalmente. Si alzò e mi si avvicinò, la sua espressione indecifrabile. Sembrava…indecisa su come comportarsi. Si guardò attorno, cercando di apparire rilassata.

“Tutto bene?”, mi chiese in un sussurro, sedendosi al mio fianco.

Presi un respiro profondo, sperando che la voce non mi si spezzasse.

“Più o meno”, ammisi.

Seguì un breve silenzio in cui mi chiesi perché anche i suoi occhi sembravano lucidi.

“Qualcosa non va?”.

“Direi di sì”, dissi sincera. “Ma credo che ora vada meglio”.

“Non sembra”, abbozzò un sorriso.

Quel sorriso mi stupì. E mi intristì. Era un sorriso arrugginito, come se non fosse stato usato da parecchio tempo. Un sorriso che, per più di un verso, mi sembrò più una smorfia di dolore.

“Sono Leah, comunque”, annunciò la ragazza, tendendomi la mano. “Clearwater”.

Gli angoli della mia bocca si sollevarono automaticamente in un mezzo sorriso. Sorriso che si completò di fronte alla sua espressione confusa.

“Che c’è?”, domandò incuriosita.

“Tu e tuo fratello vi presentate allo stesso modo”, le dissi stringendole la mano.

“Sono Elizabeth comunque, cioè El”.

Quello strano sorriso spuntò nuovamente sul suo bel viso.

“Conosci Seth?”.

“Già”, annuii.

La sua espressione, ad un tratto, tornò seria.

“Mi…dispiace”, mormorò. “Per la storia della trasformazione”, precisò con un filo di voce.

Ero certa che fosse sincera.

“Come fai…”, cominciai.

“Me l’ha detto Jacob”, mi anticipò.

“Sei sua amica?”.

Fece una smorfia.

“Non credo sia la definizione più esatta”, ammise con un ghigno. “Ma penso di sì”.

Sorrisi anch’io, senza volerlo. Tuttavia, il mio umore tornò quello di prima non appena mi ricordai di cosa stavamo parlando. Non riuscivo a spiegarmi perché, ma sentivo di potermi confidare con Leah.

“E’ che non mi sento pronta per…quello che deve accadere”, ammisi, lo sguardo fisso sulle mie mani.

“Nessuno di noi lo è”, disse in poco più di un sussurro.

La guardai incuriosita, inarcando un sopracciglio. Sorrise amaramente.

“Io…sono come Jacob”.

“Questo vorrebbe dire che…”, esclamai forse a voce troppo alta.

Mi interruppi, rivolgendole un sorriso di scuse e guardandomi attorno circospetta.

“Questo vorrebbe dire che anche tu sei…un licantropo?”, sibilai di nuovo, quasi impercettibilmente.

Il sorriso arrugginito sollevò leggermente i suoi zigomi. Annuì.

Mi passai una mano tra i capelli, sbalordita. Possibile che tutte le persone che incontravo fossero delle creature mitologiche? Scossi la testa, incredula.

“Ehi, ti va di restare qui a mangiare?”, propose ad un tratto, come se fosse la cosa più normale del mondo.

 

Nonostante la proposta mi allettasse, in un modo che non fui capace di spiegarmi, rifiutai gentilmente l’offerta. Dopotutto, Alice sarebbe venuta a prendermi alle cinque. Quando fu ora di andarmene, il sole brillava ancora timido nel cielo grigio. Aveva un che di opprimente. Claustrofobico.

Seth si offrì di accompagnarmi fino al confine, dove mi attendeva una scintillante Volvo argentata. Chissà da quanto era già lì. Improvvisamente, ero smaniosa di tornare a casa.

Quando arrivammo alla macchina, Alice mi sorrise ampiamente.

“Divertita?”, chiese allegra. Subito dopo arricciò il naso. “Chi è lui?”.

Avevo fatto bene a farmi accompagnare? Ad un tratto non ne ero più così certa.

“Sono Seth”, si presentò raggiante.

“Clearwater”, finii io per lui, ridacchiando.

“Alice”, si presentò a sua volta, osservandolo attentamente.

Ovviamente non si strinsero la mano.

“Andiamo?”, mi esortò Alice.

Sembrava su di giri per qualcosa. Annuii. Casa finalmente.

“Ciao El”, mi salutò Seth.

Mi voltai verso di lui e, senza davvero pensarci, lo abbracciai.

“Ciao Seth”.

Lui ridacchiò.

“Ci si vede”.

Stavo ancora sorridendo quando richiusi la portiera dietro di me e il motore prese vita. Quando fummo abbastanza lontane da La Push, cominciai a sentirmi a disagio.

Loro avevano sempre saputo la verità. E non me l’avevano detta. Avrei dovuto dirgli cosa avevo scoperto? O avrei dovuto tenerlo per me? Come avrei dovuto parlarne, nel caso? Non sapevo davvero dove sbattere la testa.

“Pensierosa?”, chiese Alice quando fummo in vista della casa.

“Mmm”, acconsentii.

“Sono proprio curiosa”, la sentii mormorare elettrizzata.

Mi voltai verso di lei per rivolgerle un’occhiata inquisitoria, ma eravamo già arrivate. Alice era già fuori dalla macchina, il suo sorriso che riusciva a risplendere anche nella penombra del garage. Mi spalancò la portiera prima che avessi il tempo anche solo di mettere la mano sulla maniglia.

“Su, muoviti!”, mi esortò.

“Alice perché devi sempre farmi fretta?”, domandai esasperata.

Richiusi la portiera dietro di me, sospirando.

“Cosa c’è di così importante?”, chiesi sospirando.

Per tutta risposta, Alice mi mise le sue mani alla base della mia schiena e iniziò a spingermi.

“Alice!”, esclamai ridacchiando.

“Muoviti, muoviti!”, continuava a dire.

Attraversammo la radura davanti alla casa, per poi fermarci sulla porta d’ingresso. Mi bloccai, incuriosita. Non mi ero accorta che la macchina di Carlisle fosse parcheggiata fuori. Strano. Non l’aveva mai fatto. Probabilmente è arrivato tardi dal lavoro, decisi.

In quel momento sentii una voce all’interno della casa. Troppo roca, troppo bassa, troppo normale per appartenere a chiunque di loro.

“Chi c’è, Alice?”.

Mi sorrise un ampio ghigno soddisfatto. La sua espressione era strana. Compiaciuta, curiosa ed entusiasta allo stesso tempo.

Bussò tre volte alla porta. Un colpo distanziato, due vicini.

“Alice?”, la esortai di nuovo.

Qualche istante dopo sentii la serratura scattare e la porta aprirsi. Feci scivolare lo sguardo dal viso di Alice alla figura sulla porta.

“Bentornata”, disse, il solito sollievo nella sua voce perfetta.

Gli sorrisi, prendendogli la mano e intrecciando le dita alle sue.

“Edward, ma…”, la mia voce si perse nell’aria.

Stavo per chiedergli cos’aveva Alice di strano, ma notai la stessa espressione sul suo viso.

“Chi c’è in casa?”, domandai inarcando un sopracciglio.

Mi sorrise il mio sorriso preferito, accarezzandomi la guancia con il dorso della sua mano, ancora intrecciata alla mia. Nei suoi occhi c’era qualcosa di diverso, una strana luce che pareva accenderlo ed elettrizzarlo. Alice, che era rimasta a fissarci, cominciò a battere il piede, spazientita.

“Edward, entriamo”, cinguettò facendogli l’occhiolino.

“Cosa mi nascondete voi due?”, mi intestardii.

A quel punto Alice spalancò la porta, che fino a quel momento era rimasta aperta solo in parte, e saltellò in salotto. Non mi ero accorta che mi avesse presa per un braccio finché non mi sentii tirare come una bambola di pezza.

“Alice, ma che…”, cominciai.

Non riuscii a finire. In quel momento riuscii a riconoscere la voce di prima e sentii gli occhi gonfiarsi di lacrime, sicuramente di un tipo diverso da quello di appena qualche ora prima – lacrime di felicità.

 “Mamma!”, gridai correndole incontro, sentendomi completa come non riuscivo da molto.

Ebbene, spero sia stato di vostro gradimento. Cosa ne pensate voi? Cosa dovrebbe fare El, o come dovrebbe sentirsi? Un grazie come sempre alle recensitrici e ai lettori silenziosi - buon weekend gente :)

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Capitolo 22
*** Luna. ***


Eccomi qui! Sono leggermente in anticipo, ma ci tengo ad aggiornare stasera perchè devo fare un "regalo di nozze" a Jen e Bubu u.u (Anche se a Bubu non gliene frega niente, quindi è solo per Jen praticamente xD) Quiiiiindi...ecco qui un capitolo un po' smielato. Fatemi sapere che ne pensate! Buon capitolo :)

Capitolo 22. Luna.

Le andai incontro tanto forte da farla indietreggiare di qualche passo. Per un secondo temetti di cadere. Tuttavia, non mi lasciò andare. Mi strinse così forte da temere che le mie costole si sbriciolassero da un momento all’altro. Sentivo il suo cuore martellare contro il mio petto, il suo battito accelerato quanto il mio. Ma non m’importava delle mie costole, che si spezzassero pure. Quell’abbraccio. Per quello avrei dato qualsiasi cosa in quel momento.

Sentivo il corpo contro il mio, la sua mano accarezzarmi i capelli, il suo odore familiare ed inconfondibile nelle narici e non desideravo altro. La mia mamma.

Non credevo mi fosse mancata così tanto.

“El, El, El, El, El…”, continuava a sussurrare al mio orecchio.

La sua voce tremava d’emozione, così come ero sicura che avrebbe fatto la mia se fossi stata anche solo in grado di parlare.

Notai con la coda dell’occhio Esme e Carlisle stringersi a loro volta in un abbraccio, un’espressione compiaciuta sul loro volto amabile e dai lineamenti perfetti. Avevo imparato a considerarli la mia seconda famiglia. Lo erano. Ma quello che stavo provando in quel momento…era totalmente diverso. Più assoluto.

Edward mi osservava con un lieve sorriso sulle labbra. Mi sembrava più bello che mai, qualcosa che nemmeno la più fervida immaginazione sarebbe mai riuscita a sognare. Troppo presto, ci allontanammo quanto bastava per guardarci negli occhi. Non mi lasciò andare – mi tenne strette le mani sulle braccia, come se avesse paura che potessi sparire di nuovo nel nulla. Anche il suo viso, come il mio, era rigato da profondi solchi di acqua salmastra. Si asciugò velocemente le lacrime, sorridendomi.

Il suo viso. Mi era mancato anche quello. I capelli scuri, legati in una coda ribelle che lasciava intravedere alcune timide ciocche argentee. Gli zigomi alti, non troppo sporgenti, che sostenevano gli occhi di un colore particolare, che avevo sempre invidiato – ancora indeciso se essere blu o del tutto castano. La pelle era leggermente abbronzata, come sempre – con timide lentiggini a disegnarla – ma si vedevano ugualmente le piccole rughe che cominciavano a comporre il suo viso, come piccole tessere di un puzzle infinito.

Mi asciugò l’ennesima lacrima con un dito, posando la sua mano sulla mia guancia.

“Guardati”, mormorò. “Sei bellissima”.

“Mamma”, la rimproverai con un filo di voce, abbozzando un sorriso imbarazzato. “Non cominciare”.

Notai gli angoli della bocca di Edward sollevarsi in un nuovo sorriso.

“Quanto mi sei mancata, scricciolo”, mi strinse forte a sé.

Respirai profondamente il suo profumo. Mi era mancato anche quello. Sapeva di casa, di infanzia…di nostalgia.

“Anche tu, mamma”.

“Che ci fai qua?”, chiesi ad un tratto, realizzando appieno la situazione.

Inarcò un sopracciglio, sorridendo.

“Delusa di trovarmi qui?”.

“Non scherzare, ti prego”.

Sorrise di nuovo, per poi voltarsi verso i nostri spettatori. Indicò Edward, sfoggiando un gran sorriso.

“Mi ha contattata lui. Anzi, a dire il vero mi è proprio venuto a prendere a casa per poi portarmi qui”, ridacchiò nel terminare la frase.

Lo guardai. Quello sguardo… Mi aveva tenuto nascosto tutto, nonostante il suo sguardo mi avesse lasciato capire qualcosa, che tuttavia non avevo afferrato. L’aveva fatto per me.

“Grazie”, mormorai con quanta sincerità e gratitudine riuscissi ad imprimere nella voce. “E’…è splendido averti qui, mamma”.

Mi spettinò i capelli.

“Non immagini quanto”, convenne lei.

“Ma papà?”, chiesi ad un tratto. “E Sarah?”.

Si strinse nelle spalle.

“Sono rimasti a casa, stanno bene. Manchi anche a loro”.

“Già”, sospirai.

Ero rimasta lontana dalla mia famiglia così tanto.

Ci sedemmo sul divano, senza staccarci neanche un secondo l’una dall’altra. Avevo paura che potesse svanire da un secondo all’altro.

“Suppongo tu sia stanca, Marie”, disse Carlisle dopo che mia madre ebbe raccontato tutto ciò che era successo in mia assenza.

Era molto tardi, ma non riuscivo ancora a percepire la stanchezza.

“A dire il vero no”, ammise con un sorriso. “Ma penso che sia comunque ora di andare a letto”.

Rivolsi a Rose un sorriso complice. Lei non dormiva dal millenovecentotrentatre, eppure non sembrava granché stanca.

“Vi accompagno io”, propose Edward.

Per tutta la serata mi era stato vicino, senza tuttavia toccarmi in particolar modo. Mi aveva sfiorato la mano un paio di volte, ma aveva evitato di farsi vedere da mia madre.

Attraversammo la radura che ci separava da casa in silenzio, il rumore dei nostri passi nell’erba umida ad accompagnarci.

Levai lo sguardo al cielo. Le nuvole erano rade, coprivano la notte soltanto in parte. La luna splendeva, così luminosa che mi abbagliò. Il sole stesso non aveva mai brillato così in quel luogo. Sembrava guidarci, come un grande faro appostato nel bel mezzo del cielo.

“El, tesoro, sbrigati ad entrare o prenderai freddo”, mi avvisò mia madre.

Annuii e mi affrettai verso la porta. Edward era lì, in piedi, pronto a salutarci. Mi dispiaceva non salutarlo come avrei voluto.

“Buonanotte, Marie”, si rivolse a mia mamma.

Si voltò verso di me, accennando un sorriso.

“Buonanotte, El”.

“’Notte, Edward!”, si congedò in fretta mia madre, intrufolandosi in casa. Sicuramente a mettere a posto qualcosa di mio.

Edward trattenne una risata. Gli presi la mano.

“Allora a domani”, mormorai alzando lo sguardo verso il suo viso.

Stava trattenendo un sorriso, era evidente.

“Perché fai quella faccia?”, domandai, sorridendo a mia volta a causa della sua espressione divertita.

“Niente”, si strinse nelle spalle. “E’ solo che io ti rivedrò molto prima di domani”.

Spalancai gli occhi.

“Tu…cosa?”.

Edward inarcò un sopracciglio in modo significativo.

“Vorresti dirmi che la notte rimani qui?”.

Fece spallucce.

“Non c’è molto altro da fare”, mi abbagliò con il suo sorriso truffatore.

“Allora riformulo la mia frase”, gli sorrisi beffarda. “A più tardi”.

Mi baciò la fronte rapidamente, così veloce che ebbi appena il tempo di respirare il suo profumo.

“A più tardi”, acconsentì prima di sparire nella notte.

Ancora disorientata dalla sua presenza, mi diressi su per le scale, dove ero sicura che mi attendesse mia madre. Come sospettavo, infatti, la trovai appollaiata sul divanetto all’ingresso, un enorme sorriso sul suo volto instancabile.

“Credo che quel ragazzo abbia perso la testa per te”, affermò convinta.

Mi sentii arrossire e, prontamente, nascosi in parte il viso nei capelli.

“Ne sei convinta?”, domandai innocente.

“Oh, El! Non prendermi in giro, ho visto come ti guarda”.

Sbuffai.

“Ok, credo che tu abbia ragione”.

“E tu?”, chiese curiosa, come solo una madre sa fare.

“Potrei aver perso anch’io la testa, mamma”, ammisi, acquistando un imbarazzante colorito scarlatto.

Ridacchiò.

“Sono pur sempre la tua mamma, io so tutto”.

“Già”, mi unii alla sua risata. “Mi sei mancata”, la strinsi in un abbraccio.

“Anche tu, scricciolo”, mormorò tra i miei capelli. “Ti abbiamo cercata così tanto”.

A quel momento perfetto si aggiunse qualcosa. Qualcosa di scomodo, fastidioso.

“Continuavamo a pensare, a sperare che tu fossi ancora viva, che ti fossi salvata e fossi scappata via, ma non lo sapevamo. Nessuna chiamata, nessuna lettera, nessun recapito. Niente di niente. Avevamo cominciato a pensare, a temere che tu fossi…”, s’interruppe.

La sua voce sembrava potersi spezzare da un momento all’altro.

“Oh, tesoro, non sai quanto mi dispiace per averlo solo pensato!”, mi strinse forte, tanto da farmi mancare il respiro.

Ecco cos’era. Rimorso, senso di colpa. Mi sentii una stupida. Che razza di figlia ero? Da quando ero arrivata qui, sembravo aver perso i contatti con il mondo reale – quello della mia vecchia vita. Erano davvero passati solo due mesi? Il cambiamento era stato così radicale che appariva ai miei occhi come una vita intera.

“Mi dispiace mamma”, era la cosa più banale che potessi dire in quel momento, ma ugualmente vera.

Non ero in grado di dirle perché non l’avevo chiamata. Non ero in grado di spiegarlo nemmeno a me stessa. A cosa avevo pensato negli ultimi due mesi? Che cosa diavolo era stato più importante della mia vecchia vita? Il suo nome scattò davanti ai miei occhi con una velocità sorprendente, rispondendo in modo automatico alle mie domande.

Sospirai. La mia nuova vita, ecco cos’era stato più importante. Dopotutto, Edward era la mia vita ora.

“Mi dispiace di non aver chiamato”, ripetei.

Mi sorrise, regalandomi quel sorriso che era impresso nei miei ricordi e che non attendeva altro che tornare a splendere.

“Ora non importa”.

Annuii decisa. Ora che la mia vita – quella vecchia e quella nuova – erano tornate insieme, niente avrebbe potuto essere più perfetto.

“Adesso però è ora che tu vada a dormire”.

“Forza, vai”, mi esortò dolcemente.

Sospirai di nuovo e mi alzai.

“La tua camera è quella sulla destra, in fondo al corridoio”, la informai.

“Dovrò fare attenzione a non perdermi, è enorme questo posto”.

“Buonanotte, mamma”.

“’Notte, El”.

Mi baciò la fronte e, senza smettere di sorridere, si diresse verso la sua stanza.

Quella sera mi sembrava di fluttuare. Mia madre era con me, qualcosa cui mi ero imposta di non pensare, né tantomeno sognare. E invece era lì, sotto il mio stesso tetto. Mi sentivo completa, felice.

Se solo non fosse stata per quella piccola sensazione di…disagio che mi punzecchiava lo stomaco. Non riuscivo a spiegarmela.

Mi lavai e mi cambiai il più veloce possibile. Ero ansiosa di passare del tempo con Edward, qualcosa che oggi non ero riuscita ancora a fare.

Scelsi un pigiama pulito, accartocciando e lanciando sotto il lavandino quello della sera prima. Volevo qualcosa di più di maglietta e pantaloni da ginnastica. Edward mi aveva sicuramente vista anche con quelli, ma tanto valeva migliorare un po’ l’aspetto generale. Ancora avvolta nel gigantesco asciugamano bianco, aprii il cassetto dove tenevo i vari vestiti.

Rimasi a bocca aperta. Alice aveva detto che mi avrebbe comprato qualcosa di nuovo, ma certamente non avevo potuto immaginare una quantità tale di capi. Più che pigiami, quelli sembravano vestiti per andare ad una serata di gala. La maggior parte erano neri, con inserti in pizzo che mi facevano rabbrividire alla sola vista. Richiusi il cassetto, scuotendo la testa.

Era troppo tardi per recuperare il mio vecchio pigiama? Sbuffai.

Non avrei mai più accettato di farmi comprare qualcosa da Alice, se non con la mia supervisione.

Mi sedetti sul bordo del letto, sperando che Edward non arrivasse proprio in quel momento. Mi sorpresi quando trovai una busta che spuntava da sotto il cuscino.

Ho pensato ti servisse.

Sospirai. Mia madre pensava sempre a tutto.

Aprii la busta e trovai all’interno – come avevo sospettato – il mio pigiama preferito. Me lo infilai, per poi andare in bagno a controllare come mi stesse. Ero piuttosto soddisfatta, quindi mi spazzolai i capelli e tornai in camera sfoggiando un lieve sorriso. Lui era già lì. Come se fosse rimasto appostato fuori dalla finestra ed avesse atteso il momento migliore per entrare. Sdraiato sul letto, immobile, con lo sguardo verso la foresta che si stendeva oltre la finestra, appoggiato solo sui gomiti, somigliava più ad una statua di marmo. Poi la mia statua prese vita, voltando il capo verso di me e sollevando gli angoli della bocca a disegnare un sorriso mozzafiato.

Saltai sul letto, raggomitolandomi accanto a lui.

“Ciao”, lo salutai raggiante.

“Siamo su di giri stasera”, mormorò mentre attorcigliava un mio boccolo tra le sue dita.

“Tu dici?”, chiesi inarcando un sopracciglio.

Alzò gli occhi al cielo, mettendosi a sedere in modo da vedermi in viso.

“Ne sono convinto”, mormorò inchiodando i suoi occhi ai miei.

Quando lo faceva, mi sentivo sempre le gambe molli, come se le mie ossa si trasformassero in spugna. Distolsi lo sguardo poco dopo, sentendo che il mio cuore non avrebbe retto un attimo di più. Trattenne un sorriso consapevole.

“Sai…somigli a tua madre in maniera piuttosto singolare”.

Lo fissai, scettica.

Io e mia madre ci somigliavamo molto, ma sapevo che lui intendeva qualcosa di diverso.

“Certo, solo che lei da giovane era molto più carina”, mi strinsi nelle spalle.

Sembrò quasi che ruggisse. Alzò gli occhi al cielo, scuotendo la testa.

“Sei impossibile”.

Gli feci una smorfia.

“Lo so”, replicai testarda.

Mi piaceva avere l’ultima parola.

“Cosa intendevi prima, comunque? Dalla tua faccia non sembrava ti riferissi all’aspetto…fisico”.

“Era così evidente?”, ridacchiò tranquillo.

Feci spallucce.

“No, ma ti conosco abbastanza bene da capire cos’hai in mente”.

“Pensavo che dei due fossi io quello che sa leggere nel pensiero”.

“Per ora”.

Sbuffò, esasperato dalla mia cocciutaggine.

“Quindi…”, disse, cercando un nuovo argomento. “Com’è stata la tua giornata?”.

Ero sul punto di rispondere, ma mi fermai. Eccola di nuovo, quella sensazione di disagio.

“Suppongo non interessante quanto la tua”, replicai, improvvisamente sulla difensiva.

Mi sorrise il suo sorriso truffatore, che riuscì ad alleviare leggermente quella strana sensazione. Non riuscivo a spiegarmelo. Sapevo che era stupido, che non aveva senso. Avrei dovuto semplicemente ignorarla. Edward inarcò un sopracciglio, interrogativo.

Solo qualche secondo dopo, quando le sue dita gelide tracciarono il profilo del mio viso, mi resi conto di cosa non andasse. Sarei diventata anch’io fredda come lui. Un freddo.

Mi accigliai, abbassando lo sguardo sulle mie mani.

“Qualcosa non va?”, chiese dolcemente.

Certamente non immaginava. Probabilmente, se fosse stato capace di leggermi nel pensiero, stavolta sarebbe stato tutto più semplice. Indossai la mia maschera impassibile in viso.

“Oggi a La Push ho incontrato Jacob e gli altri Quilleute”, lo informai distaccata.

Il mio improvviso cambio nel tono di voce sembrò preoccuparlo. Rimase in silenzio, aspettando che continuassi.

“Ho avuto una conversazione davvero interessante con Jacob”, lo sfidai con lo sguardo, la voce tagliente.

“Mi ha parlato di alcune leggende locali”, sibilai. “E anche di alcune leggende riguardo ai freddi”.

Il suo sguardo era attento, impenetrabile, ma riuscivo a scorgere la sua paura.

“Quali leggende?”, mi esortò dopo un lungo istante.

“Quelle che raccontano degli Hoser”, mormorai gelida. “Quelli come me”.

L’aria intorno a noi sembrava essersi improvvisamente congelata. Quel silenzio, per quanto breve, minacciava di spaccarmi i timpani.

“Sai”, buttai lì, come a minimizzare. “E’ stato interessante scoprire il mio destino da uno sconosciuto”.

I suoi occhi si accesero come legna al fuoco – ardevano. Erano allarmati e tristi allo stesso tempo. Mi guardò a lungo, indeciso su cosa fare. Probabilmente stava riflettendo.

Poi, forse più istintivamente che altro, mi strinse tra le sue braccia fredde, cosa che non fece altro che aumentare la mia rabbia. Lacrime – lacrime di rabbia e frustrazione, di tradimento e rassegnazione – gonfiarono i miei occhi, pronte a sgorgare senza fine. Mi sentii la gola bruciare e chiudersi, come se qualcosa mi soffocasse.

“No!”, esclamai, sfuggendo alla sua stretta.

Per un breve istante sperai di non svegliare mia madre, che dormiva nella sua stanza, all’oscuro di tutto quello che stava accadendo. Mantenni lo sguardo alto sui suoi capelli – nel vano tentativo di non far traboccare le lacrime –, senza incontrare i suoi occhi. Sapevo di non poter riuscirci.

Percepivo il suo sguardo su di me, i suoi occhi d’oro liquido che osservavano ogni espressione che si susseguiva sul mio viso. Sembravano bruciare come il falò sulla spiaggia. Senza sosta, senza controllo. Mentre lasciavo cadere il mio sguardo sul materasso, incrociai appena il suo sguardo. Vidi nei suoi occhi che il mio gesto l’aveva ferito, ma non riuscii a pentirmene.

Ero furente. Furente perché sembrava realmente dispiaciuto, perché avevo dovuto sapere cosa sarebbe successo da una persona che conoscevo appena. Furente perché loro non me l’avevano detto e, con ogni probabilità, non l’avrebbero mai fatto.

“Mi dispiace, El”, sussurrò Edward, il fuoco ancora nei suoi occhi.

Mi impedii di lasciarmi distrarre da quello sguardo dorato che tanto amavo. Tuttavia, mi bastò fissarlo un altro attimo per sentire la mia maschera sbriciolarsi in tante schegge di malinconia. Mi morsi un labbro, trattenendo un singhiozzo.

Rimasi in silenzio e così anche lui. Sembrava che avesse paura di toccarmi, di ferirmi. Non volevo cedere, non volevo dimostrarmi debole.

Orgoglio, che cosa stupida.

Scossi la testa, liberandomi di ogni pensiero inutile e lasciai che fosse il mio corpo, e non la mia mente, a decidere per me. Nascosi il viso contro il suo petto, lasciandomi stringere e cullare. Lacrime tiepide, ma senza significato questa volta, mi rigarono il viso.

“Mi dispiace”, mormorò.

Sapevo che era la verità, che era sincero. Lì, tra le sue braccia, ogni problema sembrava ridursi fino a scomparire.

“Mi dispiace che tu l’abbia scoperto così, mi dispiace che non sia stato io stesso a dirtelo, mi dispiace. Mi dispiace, El. Ti chiedo scusa. Se solo potessi evitarti…questo, farei qualunque cosa”.

Sollevai lo sguardo quanto bastava per sprofondare nei suoi occhi.

“Questo?”, chiesi confusa.

“Quello che sono. Non te l’ho detto perché forse speravo che non ammetterlo, non dirlo ad alta voce, potesse non renderlo realtà. Non voglio che tu soffra”.

Abbozzai un sorriso amaro.

“Pensi davvero che tutto questo sia perché non voglio diventare…un vampiro?”.

Mi fissò, senza espressione. Sospirai.

“E’ il mio destino. Sono quello che sono, sono pronta ad accettare quello che deve accadere. O almeno credo che lo sarò al momento opportuno. E’ che non mi sento pronta, non ancora. Sapevo che prima o poi sarebbe comunque successo, io voglio restare con te per sempre, e quello sarebbe l’unico modo, ma non…non avevo mai pensato concretamente alla cosa. Ma quello che mi ha fatto infuriare è che non sia stato tu a dirmelo. Me l’ha detto Jacob! Jacob!”, feci una smorfia, alzando le mani in aria.

Appariva sorpreso dalle mie parole, come se qualcosa non gli tornasse.

“Tu…”, sembrava che qualcosa lo soffocasse. “Tu saresti disposta a…morire per restare con me?”

“Non è proprio morire, tecnicamente”, precisai abbozzando un sorriso.

Alzò gli occhi al cielo, per poi affondare il viso tra i miei capelli.

Poi sospirai. Il peggio era passato.

“Elizabeth”, disse con voce ferma, tuttavia insicura. “La cosa a cui tengo di più è la tua vita, pensi che potrei mai disfarmene per un capriccio?”.

Mi scostai dal suo corpo freddo per lanciargli un’occhiataccia.

“Capriccio?”, chiesi scettica, inarcando un sopracciglio.

“Se tu diventassi un vampiro, non ci sarebbe nessuno più felice di me. Non avrei più paura di perderti, di farti del male, ma l’unica cosa a cui tengo più di me stesso sei tu. E non permetterò che tu butti via la tua vita così”.

Ero sul punto di replicare brillantemente, quando le sue labbra furono sulle mie e i miei pensieri si persero nell’aria intorno a noi. Quell’aria, che prima sembrava essersi congelata, ora stava andando a fuoco. Lo baciai con rabbia, intrecciando con forza le mie mani tra loro dietro al suo collo, in modo da impedirgli di andarsene. Con le dita sembrava memorizzare ogni tratto del mio volto, mentre io faticavo a costringermi di respirare. Sentii la sua bocca ritrarsi dalla mia e sapevo di non poter fare niente. Inutilmente, rafforzai la mia presa.

Tuttavia, come se la mia stretta fosse costituita di semplice gas, si liberò rapidamente. Sospirai, sconfitta.

Qualcosa, però, nella sua espressione, cambiò radicalmente. Pensavo si sarebbe scostato da me, come faceva sempre, per darsi il tempo di riprendere il controllo dei sensi che sentiva di essere sul punto di perdere. Invece mi stupì. Mi sollevò con facilità sorprendente e mi stese sul letto.

Il mio cuore cominciò a tremare con quanta forza gli fosse concesso. Mi sovrastava, le sue mani appoggiate sul materasso ai lati del mio capo. Sentivo il suo corpo gelido contro il mio, ma sapevo che si stava controllando, che le sue braccia erano ancora in tensione per non schiacciarmi con il suo peso. I suoi occhi bruciavano di una strana luce.

Sapevo che il mio desiderio inespresso non si sarebbe realizzato quella sera, il suo sguardo lo diceva più che chiaramente, ma la mia mente e il mio corpo rispondevano a due impulsi totalmente diversi. Sentivo l’aria entrare ed uscire dai miei polmoni troppo velocemente, la sentivo bruciare lungo la mia gola. Le sue labbra continuavano a muoversi dall’incavo del mio collo fino alla clavicola, facendomi rabbrividire.

Se avesse parlato, non avrei sentito niente. Nelle mie orecchie c’erano solo i battiti accelerati del mio cuore. Temevo che si sarebbe fermato da un momento all’altro. Se fossi morta in quel momento, sarebbe stata una morte piacevole.

Ad un tratto si fermò, portando le labbra al mio orecchio. Un altro brivido, l’ennesimo, mi scese lungo la schiena.

“Qualcosa non va?”, chiese, un sorriso nella sua voce.

“Cosa?”, domandai senza fiato.

Ridacchiò dolcemente sulla mia pelle, scostandomi una ciocca di capelli.

“Ti vedo perplessa”.

Sapevo che non sarei riuscita a parlare, mi mancava la voce.

Mi limitai a fare un lieve cenno con il capo, socchiudendo gli occhi.

“Se non ti va…”, ero sicura che stesse sorridendo, nonostante la penombra mi impedisse di esserne certa.

Per tutta risposta, gli misi le braccia al collo, attirandolo a me. Sorrise di nuovo.

“Cosa faresti se ti dicessi che ti amo?”, anche se la luce era scarsa, riuscivo a vedere i suoi occhi con chiarezza. Gli sorrisi.

“Ti direi che ti amo anch’io”.

“Risposta esatta”, mi diede un lieve baciò prima di scivolare con leggerezza al mio fianco. “Dormi ora”, mormorò tra i miei capelli.

“Certo, come se potessi riuscirci”, bofonchiai.

Sentivo ancora il sangue pompare troppo veloce nelle mie vene, l’adrenalina scorrere con rapidità ed accelerarmi i battiti.

“Concentrati”, ridacchiò. “Io sarò qui”.

Sbuffai.

“È proprio quello a rendermi difficile addormentarmi”.

Mi sembrò quasi di sentirlo alzare gli occhi al cielo. Mi sollevò delicatamente, scostando le coperte. Poi mi stese nuovamente, coprendomi. Mi sentivo molto una bambina, ma, lì tra le sue braccia, non avevo la minima intenzione di lamentarmi.

Si sdraiò nuovamente accanto a me, cingendomi con un braccio. Sbadigliai appena, raggomitolandomi su un fianco in modo da incastrarmi perfettamente nell’incavo creato dal suo corpo.

“Buonanotte, El”, sussurrò piano, tra i miei capelli.

Ascoltai il suono della sua voce dissolversi nel silenzio. Non dissi nulla, rimasi ad osservare il cielo fuori dalla finestra. La luna ormai era alta al centro del cielo. Le cime degli alberi parevano tingersi d’argento, rendendo un po’ meno buia ed inquietante quella notte. Il suo riflesso sembrava avere vita propria, mentre scivolava da una cima all’altra nel suo itinerario nel cielo notturno, creando a volte strane ombre sul terreno. Ripensai alla mia giornata, a ciò che era successo. A quello che sarebbe successo.

Mi sentivo come la luna. Ora splendeva, più forte che mai, e si sentiva splendida, perfetta – perché sapeva di essere nel posto giusto. Tuttavia, sapeva altrettanto bene che prima o dopo sarebbe tramontata. Non lo faceva pesare, perché sapeva che sarebbe tornata a brillare, ancor più di prima, la sera dopo. Avrebbe brillato insieme alla sua stella e, finché ci fosse stata lei, non avrebbe temuto nulla. Nemmeno l’alba.

Beeeh...che dite, smielato o ci può stare? Questi due sono pieni di casini, ma sono un sacco carini insieme xD Mi sono sentita anche abbastanza poetica con l'ultima frase, vabbè. Detto questo, grazie a tutti come al solito, blablabla buon weekend e alla prossima! Non vedo l'ora finisca la scuola ._. A sabato! :)

P.s. AUGURI JEEEEEEEENNNNN! E figli maschi xD

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Capitolo 23
*** Favola. ***


Bene, sono in anticipo. Ogni settimana ce n'è una, sembra - e questa non è da meno. Almeno di buono c'è che la scuola sta finendo, che tra due giorni ci sono gli MTV movie awards e che tra due settimane c'è il concerto dei 30stm. Che altro dire...questa storia ha due anni suonati e ormai stento quasi a riconoscerla come mia a volte, ma sono in situazioni come questa - quando il mio umore va a braccetto con il capitolo - che mi rendo conto che così non è. Comunque niente paura, non è un capitolo taglia-vene nella sua interezza; ha i suoi punti di luce. Buona lettura :)

Capitolo 23. Favola.

Mi svegliai con una sensazione strana. Tutto sembrava così assurdamente perfetto, in equilibrio. Era quasi irreale, forse fin troppo. Il mio ultimo ricordo della sera prima, per quanto vago ed annebbiato, erano le labbra di Edward che si avvicinavano alla mia fronte prima di scomparire nella debole luce del mattino, cosa che non faceva che accrescere in me l’impressione di prendere vita direttamente dalle pagine di un libro di fiabe.

“Buongiorno”, salutai allegra mia madre, una volta uscita dalla mia stanza.

Chissà da quanto era sveglia.

“Siamo di buon umore stamattina”, costatò sorridendomi.

“Già”, le rivolsi un ampio sorriso. “Dormito bene?”, chiesi poco dopo, mentre attraversavamo in tutta calma la radura per raggiungere casa Cullen.

“Splendidamente, quei materassi sono un sogno”.

Sorrisi, immaginando mia madre chiedere ad Esme consigli sulla casa. In cucina, durante la colazione, parlammo del più e del meno. Era dovuta partire talmente in fretta, quando Edward l’aveva contattata, che non aveva avuto il tempo per poter spiegare a mio padre e mia sorella dove stava andando. Mi aveva detto che era sparita nel nulla, proprio come avevo fatto io.

Mi raccontò che quando Daniel era tornato a casa, la sera dopo la mia scomparsa, non era riuscito a dire altro che “L’ho lasciata lì, l’ho lasciata lì”. Il mio stomaco si contrasse violentemente al ricordo del mio amico. Non potevo impedirmi di rabbrividire ogni singola volta che ci pensavo.

Avevo raccontato a mia madre quello che era successo quella sera. O meglio, quello che lei sarebbe riuscita ad accettare su quella sera. La verità, a volte, non è la migliore delle soluzioni.

La versione ufficiale era che ci eravamo persi, finendo preda di alcuni orsi che avevano colto l’occasione di attaccarci. Avevamo tentato di scappare, ma l’unico a riuscirci era stato Daniel. Io ero rimasta in balia dell’animale fino a quando Edward e la sua famiglia, la quale era casualmente e fortunatamente in campeggio in quella zona, non mi aveva trovata e salvata, portandomi a casa loro.

A quanto disse mia madre, anche gli altri ragazzi erano tornati a casa sani e salvi, anche se evidentemente sotto shock. Tutti a parte uno, oltre me. Cindy.

Cindy quella sera non era tornata a casa. Notai lo sguardo di mia madre riempirsi di tristezza.

“Povera ragazza”, mormorò scuotendo la testa, affranta.

I miei occhi, oltre ad inumidirsi di lacrime di sconforto, si riempirono di puro terrore. Non ero mai stata molto amica di Cindy, ma la conoscevo abbastanza da sentirmi male in quel momento. Sapere, inoltre, cosa poteva esserle successo, non mi faceva sentire affatto meglio. Scossi la testa, cercando di non pensarci.

“Vado di sopra”, annunciai a mia madre, una volta terminata la colazione.

Mantenni la voce bassa, per paura che si spezzasse in un singhiozzo. Mi affrettai verso le scale, sperando di trovare Rose in camera sua. Al piano di sopra non trovai nessuno, così ne approfittai per sciacquarmi nuovamente la faccia. Avevo bisogno di schiarirmi le idee.

Il continuo pensiero che, se non ci fosse stato Edward, sarei morta, non era qualcosa di nuovo per me. Sapevo di dovergli la vita dal primo momento in cui l’avevo visto. Quindi perché mi sentivo così colpevole? Mi presi la testa tra le mani, impedendo che esplodesse. No, non avrei dovuto sentirmi così. Non aveva senso. Era egoistico da parte mia, ma perché pensare a qualcosa che mi faceva star male quando appariva tutto finalmente perfetto? Quella era finalmente la mia favola, non c’era motivo di andare a cercare la strega cattiva.

Ripercorsi il corridoio lentamente, osservando con attenzione i dipinti appesi alle pareti. Quando raggiunsi la cima delle scale, sentii le voci dei Cullen in salotto. Sorrisi appena e scesi alcuni scalini per ascoltare meglio, riuscendo ad individuare la voce di Carlisle quasi subito.

“Se pensi che sia la cosa più giusta da fare, credo che non ci sia altro di cui discutere”.

Seguì un breve silenzio. Inclinai la testa da un lato, cercando di capire cosa stesse succedendo. La voce di Carlisle mi era sembrata così malinconica.

“E’ la cosa giusta”.

In un primo momento non riuscii a riconoscere quella voce. Forse ne ero rimasta lontana fin troppo tempo.

“Marie”, continuò Carlisle. “Ti capiamo perfettamente, solo che è difficile per noi”.

Mi sporsi da un lato, osservando l’intera scena riflessa nella vetrata. Erano tutti lì, insieme a mia madre. La cosa che più colse la mia attenzione fu l’espressione di Rose. Sembrava che, per quanto impossibile, stesse per scoppiare a piangere. Edward era in piedi, al suo fianco, la stessa espressione tormentata sul suo viso d’angelo.

“Sono stata troppo tempo lontana da mia figlia, ora desidero solo riportarla a casa con me. Vi ringrazio per tutto ciò che avete fatto, davvero, dal più profondo del mio cuore. Ma è ora di tornare a casa per me ed El”.

I miei occhi si spalancarono in sorpresa. Subito dopo, arrivò la fitta allo stomaco.

“No”, mormorai muta.

Ricacciai indietro le lacrime con quanta forza avessi. In quel momento, sperai con tutte le forze di non incrociare nessuno dei loro sguardi. Quello sarebbe stato il colpo di grazia, la parola fine sulla mia fiaba. Mi sedetti sugli scalini, prendendomi la testa tra le mani.

La strega cattiva era arrivata, e prima di quanto avessi previsto. Prima di quanto temessi. Non avevo neanche avuto il tempo di prepararmi alla battaglia. La strega aveva vinto a tavolino, senza darmi il tempo di decidere o di combattere. La mia fiaba non avrebbe avuto un lieto fine.

Mi morsi un labbro, trattenendo un singhiozzo.

Il mio mondo mi era assurdamente apparso come una splendida illusione, il mio momento perfetto. Tutto era sembrato coesistere in semplicità… a quanto pare non era così che doveva andare.

Appoggiai la testa alle ginocchia, chiudendo gli occhi. Forse le lacrime, non vedendo una via d’uscita, sarebbero tornate al loro posto.

Sospirai pesantemente, faticando per reprimere l’ennesimo singhiozzo. Cercai di pensare razionalmente a quello che stava succedendo. Sarei tornata dalla mia famiglia, dai miei amici. Avrei dovuto essere felice. Perché, quindi, mi sentivo come se stessi per essere sospinta in un baratro senza fine? Mi sentivo come se non riuscissi ad incamerare abbastanza aria nei polmoni.

“Signora Cooper”, sentii la voce di Edward quasi supplicare.

“Marie”, lo corresse mia madre.

“Marie”, acconsentì lui con voce atona e al tempo stesso intrisa di sofferenza. “La prego, potrebbe trovare un’alternativa, un compromesso. Non è necessario che torniate a casa, almeno non subito”.

Edward. Sentire la sua voce in quel modo, spezzata dal tormento che sembrava torturarlo dall’interno, fece contrarre nuovamente il mio stomaco.

Sentii la gola bloccarsi e restringersi sempre più. La sentivo pizzicare, come se qualcuno mi stesse pungendo con una lama invisibile. Il fatto che sapessi che quella, probabilmente, sarebbe stata una delle ultime volte in cui avrei udito la sua voce fu la goccia che fece traboccare il vaso. Ma il vaso non traboccò, più semplicemente si frantumò in mille pezzi.

Sapevo che non sarei più riuscita a reprimere le lacrime. Mi alzai, traballante, la vista offuscata dalle lacrime che mi gonfiavano gli occhi, e mi diressi al piano di sopra. Percorsi gli scalini in fretta, rifugiandomi nell’unico posto in cui potevo andare.

La sua stanza era come la ricordavo. La prima che mi aveva ospitato e che aveva assistito al mio pianto. E sentivo che ci sarebbe stata una seconda volta. Mi raggomitolai a terra sulla moquette dorata e scivolai indietro fino a quando la mia schiena non incontrò il profilo freddo e duro del divanetto nero. Cinsi le ginocchia con le braccia, avvicinandole al petto e mi dondolai un poco, per tranquillizzarmi – invano. Piansi. Piansi parecchio e in silenzio.

Tuttavia, nemmeno tra le lacrime riuscivo a rallentare quel enorme flusso di pensieri che mi attanagliavano in quel momento. Sarebbe stata questa l’ultima volta che avrei visto quella stanza? Sarebbe stata questa l’ultima volta che avrei vissuto in quello splendido luogo incantato, racchiuso dalle nuvole? Cercai di non pensare alla domanda più importante, la vera ragione del mio sconforto. Sarebbe davvero stata l’ultima volta che avrei visto Edward?

No, era impossibile. Lui mi avrebbe cercata, sarebbe venuto con me. Sarebbe stato con me. L’avrebbe fatto, vero? Doveva. Mi costrinsi a non considerare nemmeno l’alternativa, forse quella più facile per lui. Me l’aveva promesso, no? Era stato lui a dirmelo. Non mi avrebbe lasciata.

Sospirai, rassicurata un poco da quelle parole impresse nella mia memoria. Tuttavia, non riuscivo a spiegarmi cosa provassi. Perché quella separazione, ormai così imminente, pareva ferirmi in quel modo? Non era normale, era quasi un dolore fisico. Certamente la mia assuefazione per lui non era salutare. Ma quale drogato abbandonerebbe mai la sua droga preferita semplicemente perché fa male? Era da mettere in conto, quando l’avevi provata la prima volta, che ti avrebbe fatto male. Avrebbe potuto ucciderti – era ovvio – ma nonostante ciò avevi cercato la tua dose quotidiana, senza mostrare il minimo dubbio. Coraggio? O forse semplicemente mancanza di buon senso. Oppure era soltanto la ricerca di quella sensazione, quella strana sensazione di pace ed equilibrio perfetto che riuscivi ad avere solo quando avevi la tua dose tra le mani.

Sospirai, scuotendo la testa e sorridendo quasi a me stessa.

Edward. Non importava che potesse uccidermi, che stare con lui fosse contro ogni regola e ogni razionalità. Io potevo sopravvivere solamente se sapevo di avere lui al mio fianco. Altrimenti sarei stata preda della mia crisi d’astinenza. Sarei morta.

Morta. No, forse no. Non letteralmente, almeno. Sarei più semplicemente rimasta svuotata, privata di ogni sentimento ed emozione. Ci sarei stata, ma sarei stata invisibile. Più di quanto fossi mai stata. Sospirai nuovamente, sentendomi una stupida. Era tutto così assurdo.

Avevo trascorso sedici anni di mediocrità; ero solamente rimasta a galla, annaspando per non affondare. Mi ero confusa tra la folla, beccandomi spintoni e gomitate qui e là, ma senza mai reagire. Avevo paura di farlo. Paura che, se non fossi riuscita ad uscire dalla folla, ne sarei stata inghiottita. E poi, senza che nemmeno me ne accorgessi, la mia vita era cambiata. Avevo trovato il mio posto, le mie persone, il mio destino – e brillavo. Ero ancora solo un piccolo bagliore in lontananza, di quelli che se chiudi gli occhi per un secondo sembrano essere spariti, ma c’ero. E stavo imparando a splendere.

Inspirai profondamente, stringendo le ginocchia al petto. La mia luna stava forse tramontando ora? E quando sarebbe tornata ad ardere nel cielo? Perché doveva tornare; sarebbe tornata. Sapevo che sarebbe stato impossibile tornare alla vita di prima, alla mia vecchia vita. Ero cambiata, avevo per la prima volta aperto gli occhi sul mondo che mi circondava e non sarei stata capace di tornare indietro. Appoggiai la testa tra le ginocchia, sospirando profondamente.

“Si può?”, chiese una voce picchiettando sulla porta.

Grugnii contrariata, sbuffando.

“El, tesoro, posso entrare?”, insistette mia madre.

“No”, mugugnai.

Mi ignorò completamente, entrando nella stanza e richiudendo la porta alle sue spalle.

“Oh”, mormorò sbalordita. “Questa stanza è splendida”.

Non risposi, sentendo la mia gola annodarsi.

“Scricciolo, devo parlarti”.

“Non ho voglia”, risposi cocciuta.

“Non importa, tanto parlo io. Tu sta’ a sentire”.

Borbottai qualcosa di incomprensibile, lamentandomi. Mi asciugai velocemente gli occhi e il viso con il dorso della mano, eliminando le tracce visibili del mio sconforto.

“Okay, il fatto è questo”, si sedette accanto a me.

Sapevo che non era tipo da girare attorno alle cose, ma a volte avrei preferito il contrario.

Mantenni il capo chino, evitando accuratamente il suo sguardo. Aspettai in silenzio.

“Tesoro, facciamo le valigie, dobbiamo tornare a casa”.

Speravo che il fatto di sapere cosa mi aspettasse diminuisse la fitta allo stomaco. Passò qualche secondo prima che riuscissi a respirare regolarmente.

“Ma…”, farfugliai senza fiato. “Perché?”.

La senti prendere un respiro profondo.

“El, non posso rimanere qui per sempre, e nemmeno tu. I Cullen hanno già fatto fin troppo per noi, ora è tempo di tornare a casa. E’ giusto così”.

La mia fitta allo stomaco sembrava togliermi il respiro. Non sentivo più i polmoni.

“Ma loro…”

“Tesoro, lo so che per te sarà difficile. Ho notato i vostri sguardi, ho visto come state vicino l’uno all’altra, ma sai anche tu che non è possibile. Se avessi la possibilità di non farti soffrire sai che farei di tutto, ma non posso”.

Ci fu un breve silenzio. Rimasi a fissare senza espressione il vuoto fuori dalla finestra. Lo stesso che sembrava riflettersi dentro di me. Il fiume scorreva veloce, incurante di tutto il resto.

“Non piangere”, sussurrò poco dopo, raccogliendo qualcosa di umido sulla mia guancia.

“Non sto piangendo”, replicai, la voce rotta sull’ultima parola.

“Oh, El”, sorrise baciandomi la fronte. “Succederà tante altre volte. Purtroppo succederà ancora, ci si lascia, ma si sopravvive lo stesso. Ci siamo passati tutti”.

Scossi la testa, improvvisamente irritata.

“Non è lo stesso”, risposi a denti stretti.

Sapevo di avere ragione, nonostante mia madre credesse il contrario.

Mi morsi un labbro, respirando profondamente. Mi guardò a lungo negli occhi, cercando qualcosa che non riuscii a capire. Quando distolse lo sguardo, annuì a se stessa.

“Forse hai ragione tu, non è lo stesso”, acconsentì con voce triste. “E credo sia per questo che mi sento così colpevole. Non voglio essere la cattiva della tua storia”.

Sorrisi, scuotendo la testa, affranta. La mia storia a quanto pare aveva già il suo finale ben scritto.

“Se ci fosse un modo per averti con me e saperti felice allo stesso tempo…sai che lo farei, vero?”.

Annuii, appoggiando la testa alla sua spalla.

“Mi dispiace toglierti tutto questo, ma siamo stati troppo a lungo senza di te”.

Sembrava chiedermi scusa. Doveva sentirsi in colpa. In quel momento, tuttavia, in me c’era troppa tristezza per riuscire a provare il senso di colpa che ero consapevole di dover provare verso la mia famiglia e la mia assenza prolungata.

“Non…”, annaspai per mentire nel modo migliore. “Non importa, mamma”.

“Sopravvivrò, l’hai detto anche tu”, aggiunsi abbozzando un sorriso triste.

La sua espressione mi fece capire che non l’aveva bevuta. Si passò una mano tra i capelli, pensierosa. Un gesto che avevo ereditato da lei.

“Scusatemi”, la voce di Carlisle sopraggiunse leggera, quasi irreale. Faceva quasi male sentirla. “Posso?”, chiese gentilmente, battendo debolmente le nocche sulla porta.

“Certo, Carlisle”, acconsentì in tutta fretta mia madre. “Oh, ma cosa mi fai dire”, aggiunse ridacchiando. “E’ casa tua questa!”.

Carlisle si limitò a sorridere, studiandomi con una strana espressione.

“Buongiorno, El”, mi salutò dopo un lungo sguardo.

“’Giorno”, risposi forzatamente.

Entrambi si voltarono a fissarmi con un’espressione preoccupata.

“Suppongo che tu abbia già parlato con El”, disse esaminando il mio volto.

Mia madre si limitò ad annuire senza troppa convinzione.

“Marie, ne sei davvero convinta?”.

Apparve sorpresa di quella domanda, forse si aspettava che il discorso fosse ormai chiuso. O forse sperava semplicemente di non doverne più parlare con me presente.

“Carlisle sai anche tu che non è possibile…”.

“Ospitarvi qui in casa”, finì la frase per lei. “Lo so perfettamente. Ma mio figlio ha avuto un’idea che io trovo particolarmente brillante”.

Si fermò, rivolgendoci un sorriso trionfante.

“Edward?”, chiese mia madre, stupita.

Carlisle annuì, visibilmente compiaciuto.

“Nessun dubbio in proposito”, borbottò lei con un sorriso.

Carlisle sembrava sicuro di sé, come se sapesse cosa sarebbe successo con certezza. Che Alice…? Cercai di non pensarci, evitando di darmi false speranze.

 “Sappiamo perfettamente che non è possibile ospitarvi tutti qui, tuttavia credo che sia una piacevole alternativa quella di trovarvi un alloggio stabile nei dintorni”.

Mi rivolse un ampio sorriso, che non potei fare a meno di ricambiare almeno in parte. Sapevo di sbagliare, stavo facendo galoppare la speranza a briglia sciolta.

“Carlisle, viviamo in Florida”, mia madre fece pesare quell’ultima parola quanto una montagna.

La Florida, la mia Florida, non mi era mai apparsa così detestabile. Improvvisamente, volevo con tutte le mie forze restare lì. Non avrei permesso alla strega cattiva di vincere, non le avrei permesso di compiere il suo incantesimo. Principe o non principe, avrei vinto.

O almeno, lo speravo.

“Mamma…”, intervenni implorante.

“El, non è possibile”.

“Mamma, chi c’è a Miami? Siamo semplicemente io, te, papà e Sarah. Di chi altri abbiamo bisogno?”.

Mia madre sembrò cercare la risposta più esatta nell’aria sospesa sopra di me. Poi sospirò.

“Non abbiamo nemmeno i soldi per trovare una casa qui”.

Abbassai lo sguardo, sconfitta. Su questo punto non potevo dire niente che fosse d’aiuto. Quella era una partita che volevo giocare, ma sapevo di non poter vincere.

“Per quello non ci sono problemi”, anche la sua voce fece ingresso nella stanza, mandando il mio cuore – malgrado tutto – in fibrillazione.

“Giusto, papà?”, mi sorrise il mio sorriso preferito.

Risposi a quel sorriso senza nemmeno accorgermene.

“Scusatemi, sono entrato senza bussare”.

Alzai gli occhi al cielo. Solo lui avrebbe potuto pensare ad una cosa del genere in quel momento.

“Mio figlio ha ragione, Marie. Per l’acquisto della casa non ci sono problemi, ci fa piacere”.

“Non potrei mai chiedervi una cosa simile”.

“Nessuno ha chiesto niente infatti”, intervenne Edward sorridendo compiaciuto. “Lo facciamo noi perché ci teniamo”.

“Io vi ringrazio, davvero, ma non…”.

“Sì, che puoi”, concluse Carlisle per lei.

Non riuscivo a dire nulla, rimasi ad osservare la scena davanti ai miei occhi increduli e speranzosi. Quel silenzio irreale sembrava creare una pressione sui miei timpani, minacciando di romperli. C’era troppo, troppo silenzio. Sentivo di non avere la forza, il coraggio per poter incontrare gli occhi di Edward. Li sentivo. Erano lì, li sentivo esaminare il mio volto e le mie guance, ancora rigate dalle lacrime di poco prima. Mantenni così lo sguardo fisso sul volto di mia madre, che appariva pensierosa e combattuta allo stesso tempo.

Ad un tratto notai l’espressione di mia madre cambiare. Un sorriso si disegnò automaticamente sul mio volto, sentendo il sollievo farsi spazio dentro di me. Sollievo insieme a qualcos’altro, qualcosa che non riuscii ad identificare. Conoscevo quello sguardo. Aveva preso una decisione.

La abbracciai senza pensare, stringendola forte.

“Grazie, grazie, grazie”, mormorai entusiasta al suo orecchio.

“Ehi, io non ho ancora detto niente”.

“Ti conosco fin troppo bene”, il mio sorriso si tese ancora di più.

Sembrava che il cuore potesse uscirmi dal petto.

“E devo ancora parlarne con tuo padre. Dio, tuo padre…”, mi strinse più forte a sé.

Poi sospirò, sorridendomi. Sembrava sollevata in qualche modo.

“Dovresti ringraziare loro”, aggiunse.

Sospirai anch’io, respirando il suo profumo inconfondibile. Poi mi voltai ad osservare le due statue di marmo dai lineamenti perfetti che avevo davanti. Cercai per qualche secondo qualcosa da dire, qualcosa che realmente esprimesse la gratitudine che provavo in quel momento per loro.

“Grazie”, fu l’unica cosa che, per quanto semplice e banale, riusciva a racchiudere tutto.

“E’ un piacere, El”, mi rispose Carlisle. “Sai che per te faremmo qualunque cosa”.

Sentivo di non poter parlare senza che la mia voce si spezzasse. Era troppo, qualcosa che non avevo immaginato. Abbracciai Carlisle, senza pensarci. Rispose all’abbraccio e lo sentii sorridere.

“Grazie”, ripetei di nuovo scostandomi da lui.

Poi guardai Edward. Era lì – ed era lì per me. Qualsiasi principe delle fiabe sarebbe impallidito a vedere un viso come il suo. E io…non mi ero mai sentita una principessa. Non lo ero. Ma nonostante ciò, questa era la mia favola. Nessun dubbio in proposito.

Edward mi fissò, i suoi occhi che analizzavano con attenzione ogni mio minimo movimento e ogni singola lacrima di gioia che mi rigava il volto.

“Marie, vorresti venire un secondo con me nel mio ufficio? In questo modo potremo decidere al meglio dove farvi alloggiare”, sentii Carlisle proporre a mia madre.

Non li guardai nemmeno mentre sfilavano via, fuori da quella stanza che, per più di un verso, era davvero magica. I miei occhi erano impegnati altrove.

Edward, senza distogliere lo sguardo dal mio, mi prese una mano, intrecciando le sue dita con le mie e si alzò in piedi, in modo da essere di fronte a me. Sorrisi quando la sua temperatura mi fece rabbrividire leggermente. Con dolcezza mi tirò a sé, stringendomi tra le sue braccia fredde. Non sapevo se dovessi parlare, se dovessi dire qualcosa. Quel momento mi sembrava perfetto senza il bisogno delle parole.

“Pensi che riusciremo a passare del tempo senza aver paura di dividerci?”, chiesi nascondendo il viso contro il suo petto.

Lo sentii sorridere, senza dubbio quel sorriso truffatore che tanto amavo. Affondò il volto tra i miei capelli, sospirando.

“Non è possibile dividerci”, sussurrò appoggiando le labbra sulla mia testa.

Sospirai, stringendomi a lui il più possibile.

“Forse dovresti andare giù da Rose”, respirò dopo qualche lungo, perfetto istante di silenzio. “Era davvero preoccupata”.

Sorrisi, diminuendo la mia presa.

“Okay”, acconsentii controvoglia.

Sorrisi nuovamente quando mi accorsi che le sue braccia sembrassero restie a lasciarmi allontanare da lui. Lo guardai, inarcando un sopracciglio. Si strinse un poco nelle spalle e sorrise a sua volta, mozzandomi il respiro.

“Speravo non acconsentissi così in fretta”.

“L’hai detto tu”, replicai beffarda.

“Lo so”.

“E allora…”, non ebbi nemmeno il tempo di formulare la mia domanda quando mi baciò.

Doveva aver temuto che me ne andassi, che lo lasciassi. Sapevo che mi avrebbe seguito, come sapevo che per lui sarebbe stato difficile abbandonare la sua famiglia. La sua mano rimase sulla mia schiena, avvicinandomi, se possibile, ancora di più al suo corpo freddo, mentre l’altra mi teneva saldamente il viso – come se avesse realmente paura che sparissi. Quando cominciò a mancarmi l’aria, mi allontanò leggermente. Affondai qualche istante nei suoi occhi, incapace di dire nulla.

“Ora andiamo da Rose”, sorrise quello splendido sorriso in grado di fermarmi il cuore.

Temevate un disastro eh? Ahimè sono fin troppo buona, non vi tengo nemmeno in sospeso. Mi merito qualche recensione magari? Ok, scherzavo. Buon weekend e buona ultima settimana di scuola! :)

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Capitolo 24
*** Intruso. ***


Buongiorno e buon pomeriggio! Ci potete credere che è finita la scuola? Io sono certa di non aver ancora realizzato - ho fatto l'ultima verifica di filosofia circa due ore fa. Non mi sembra vero di essere in vacanza! Detto questo, ormai dovreste sapere che non riesco a far filare tutto liscio per più di un capitolo, quiiiiindi...beh buona lettura :)

Capitolo 24. Intruso.

“Era fallo, diamine!”.

Sorrisi per l’ennesima volta alle imprecazioni di Emmett. Forse sperava che, alzando la voce, l’arbitro lo sentisse. La partita di football era ormai alla fine ed eravamo sotto di sei punti. E, da come Emmett si agitava sul divanetto, sembrava volesse entrare in campo per dare una mano.

Sentii Edward sospirare alle mie spalle, le sue braccia stringersi ancora di più attorno ai miei fianchi. Mi sembrò di poterlo sentire alzare gli occhi al cielo.

“Non credi sia ora di andare a dormire?”, la voce di Alice mi fece sobbalzare.

“No, non credo”.

“Eppure dovresti”, mi fece una smorfia.

“E voi non dovreste?”.

Realizzai solo dopo che la mia era la domanda più stupida che potessi fare.

“Okay, lascia perdere”, tagliai corto. “Ma fammi finire di vedere la partita”.

“Nemmeno per sogno”.

Sembrava divertirsi un mondo.

“Alice, ho già una madre”.

“Sì, e ora non c’è”, rispose compiaciuta. “E le ho promesso di tenerti d’occhio”.

Sbuffai, alzando gli occhi al cielo. Sentii il corpo di Edward tremare sotto una risata soffocata.

“Alice, per favore”.

Mi fissò in cagnesco, nonostante la sua espressione divertita. Edward sospirò. Sperai che dicesse qualcosa, ma evidentemente non voleva scatenare l’ira di Alice su di sé. Mi tese la piccola mano pallida, sorridendo un ghigno soddisfatto.

“Sai che posso trascinarti a casa anche di peso, non c’è problema per me”.

Da quando era diventata così? Sospirai esasperata e, controvoglia, mi alzai. Le braccia di Edward allentarono solo la presa, senza lasciarmi andare. Si alzò insieme a me, ponendosi poi al mio fianco.

“Non hai avuto paura nemmeno un po’ che me ne andassi?”, la punzecchiai sarcastica.

“Neanche un po’”, il suo sorriso si tese ulteriormente.

“Lo sapevi”, dedussi dalla sua espressione.

Si strinse nelle spalle, ostentando modestia.

“Può darsi”.

Sorrisi, scuotendo la testa divertita.

“Volete smetterla? C’è gente che sta guardando una partita qua”, ci rimproverò Emmett senza staccare gli occhi dal televisore. Scoppiai a ridere, per poi sospirare. Sospirai di felicità, finalmente serena come non lo ero da molto. Mia madre e Carlisle erano ancora via, in strada verso la mia Miami. Stavano andando a prendere la mia famiglia. E poi sarebbero tornati qui. Tutti.

Edward mi cinse in fianco, avvicinandomi a lui.

La mia vita, quella nuova, era qui. E stava per unirsi a quella vecchia. Non c’era niente che potesse scalfire il mio umore. Solamente l’idea di poter riabbracciare mio padre, mia sorella…mi mandava su di giri.

“Andiamo?”, propose Edward al mio orecchio.

Il suo respiro fresco sulla mia pelle mi mandò un brivido lungo il collo. Annuii docilmente, scostandomi da lui per poter salutare gli altri.

“Buonanotte Rose”, la abbracciai come ogni sera, nascondendo il mio viso nei suoi innumerevoli, splendidi boccoli dorati.

“Sogni d’oro, El”.

Anche Rosalie era tornata quella di sempre. La mia amica, la persona su cui potevo sempre contare. Se Angelica era la parte mancante di me che ero riuscita a trovare, lei era la una sorella maggiore che non avevo mai avuto.

Per salutare Emmett mi posizionai davanti allo schermo, in modo da infastidirlo. E funzionò.

“Spostati di lì, pulce!”, esclamò alzandosi per spostarmi lui stesso.

Scoppiai a ridere di nuovo, saltando in avanti in modo da schivarlo. Non avrebbe mai usato la sua forza su di me. O almeno, lo speravo.

“’Notte, Emm!”, gridai mentre fuggivo oltre il divano.

Lo sentii borbottare qualcosa come “piccola peste, ma non ne ero totalmente sicura. Ridacchiavo ancora mentre Edward mi accompagnava a casa.

“Siamo di buonumore”, costatò, apparentemente soddisfatto del mio umore.

“Già”, sospirai levando lo sguardo al cielo.

La luna era ancora lì e, se possibile, ancora più brillante dell’ultima sera. Come promesso, era tornata a splendere come non aveva mai fatto. Sembrava felice di essere nel bel mezzo del cielo, circondata da tutte quelle stelle. Una, in particolare, brillava al suo fianco. Era splendida, forse persino più della luna. Dopotutto, la luna brilla solo di luce riflessa e non propria. Tuttavia, brillavano insieme con semplicità, senza oscurarsi a vicenda.

“Ma non di molte parole, come sempre”, lo sentii sorridere.

Sorrisi anch’io, stringendomi nelle spalle.

“Cosa guardi?”.

“La luna”.

“E’ bellissima, non c’è dubbio”, acconsentì prendendomi la mano.

“Anche la sua stella”, mi volsi a guardarlo, indicandola con una mano.

“Ci sono molte stelle nel cielo, ma solamente una luna. E quella è decisamente più importante”.

Il suo sguardo mi fece perdere il filo del discorso. Mi scostò una ciocca di capelli dal viso, sospirando profondamente. Chiusi gli occhi per poter riprendere il discorso. Faticavo a mantenere la concentrazione con il suo volto così vicino al mio. Sentii le sue labbra chiudersi sulla mia fronte e poi le sue mani sulle guance.

Tu sei decisamente più importante”, sussurrò piano.

La sua voce parve confondersi con i suoni della notte, portata via dal vento e dallo scorrere del fiume. Improvvisamente, non sentii più la terra sotto i miei piedi. Riaprii gli occhi velocemente, disorientata. Mi ci volle un attimo per rendermi conto di dov’ero.

“Mettimi giù!”, sibilai divertita.

Ovviamente, non era mia intenzione liberarmi delle sue braccia.

“E’ tardi e Rose mi sta praticamente urlando nella testa di mandarti a dormire”.

Mi accigliai.

“Non dovrei impedirti di leggere nel pensiero?”.

Ridacchiò, scuotendomi sotto la sua risata.

“Di solito, ma Rosalie me lo sta davvero urlando”.

Mi unii alla sua risata, smettendo di divincolarmi. Non mi resi perfettamente conto di dove fossimo fino a quando Edward non accese la luce.

“Ecco”, mi mise a terra, accompagnandomi con dolcezza.

Gli feci una smorfia, dirigendomi verso la camera.

“Resti stasera?”, proposi con disinvoltura, nonostante il solo pensarci mi mandasse il cuore a mille.

Lo sentii soffocare una risata con un colpo di tosse. Sicuramente aveva sentito i miei battiti aumentare notevolmente.

“Ho alternative?”.

Recuperai tutto ciò che mi serviva e mi voltai verso di lui.

“Mmm”, finsi di pensarci su. “No, direi di no”.

“Allora direi proprio di sì”, il suo sorriso truffatore aumentò i miei battiti ulteriormente.

Mi lavai i denti velocemente, impaziente di andare in camera mia, dove sapevo che avrei trovato Edward ad aspettarmi. Rimasi sotto il getto caldo della doccia forse più del dovuto, beandomi di quel tepore che sembrava lavare via ogni ansia.

Quando uscii, mi avvolsi rapidamente nell’enorme asciugamano bianco piegato sul mobiletto, il più in fretta possibile in modo da non disperdere il calore. Mi misi il pigiama, mi spazzolai i capelli e mi catapultai in tutta fretta fuori dal bagno, consapevole di averlo fatto aspettare troppo a lungo. La sua espressione tuttavia era serena e rilassata.

“Ciao”, mi salutò con un sorriso.

Il tempo con lui quella sera sembrò volare via senza che me ne rendessi conto. Parlammo di tutto, di quello che ci piaceva, di quello che odiavamo. Prima di quanto pensassi, scivolò giù dal letto. Lo guardai stranita, inarcando un sopracciglio.

“Dove stai andando?”, chiesi sorpresa.

“E’ tardi, e tu devi dormire”.

Sembrò piacevolmente colpito dal fatto che non mi fossi accorta dello scorrere del tempo.

“Quanto tardi è esattamente?”.

“Abbastanza perché tu domani non ti regga in piedi”, mi sorrise truffatore.

Sbuffai, lasciandomi cadere tra le coperte. Mi coprii il viso con un braccio. Lo sentii soffocare una risata; qualche secondo dopo era al mio fianco.

“Domani arriverà la tua famiglia”, respirò contro la mia pelle. “Non posso fare brutta figura davanti a tuo padre”.

Lo sentii sorridere.

“Va bene”, sospirai, lanciandogli un’occhiataccia.

Mi baciò la fronte, tenendo la mia testa stretta tra le sue mani fredde.

“Buonanotte, El”, mormorò sedendosi sul bordo del letto e cingendomi le spalle con un braccio.

“’Notte”.

 

Mi svegliai di colpo, la fronte madida di sudore. Sentivo il cuore pompare con più forza del necessario, i suoi battiti nelle mie orecchie l’unico rumore nella notte. Questa volta era stato così vivido, così reale. Cercai Edward facendo scorrere le mani sulle lenzuola stropicciate, sapendo che mi sarebbe bastato sentire il suo odore per riuscire a calmarmi. Ma non lo trovai.

Aprii gli occhi, aspettando qualche secondo interminabile che si adattassero nella debole penombra azzurrata che filtrava dalla finestra. La mia radiosveglia segnava le due e venti. Niente, non c’era. Mi sedetti sul materasso, scrutando attentamente ogni singolo angolo della stanza. Mi fermai ad un tratto, spalancando gli occhi e fissando quel punto davanti a me.

Il mio cuore riprese a volare. Era stato lì. Nel mio sogno Claude era proprio in quel punto. La paura che sentivo mi batteva forte in gola, pulsando all’unisono con il mio cuore. Mi passai una mano tremante tra i capelli, inspirando profondamente.

Era solo un sogno. Solo un sogno, ripetei a me stessa.

A dire la verità, la maggior parte dei miei sogni ormai riguardava Claude. Mi ossessionava, non mi dava tregua nemmeno durante la notte. Quell’ultimo sogno, quell’ultimo incubo ad essere più precisi, mi aveva spaventata più del solito. Mi era apparso tutto così assurdamente reale. Non era stato niente di terrificante in realtà. Era semplicemente rimasto in piedi a fissarmi mentre dormivo, completamente ignara di tutto, mentre il suo sorriso crudele risplendeva alla fievole luce della luna. Si era avvicinato fino a sfiorarmi i capelli, fino a respirare vicino al mio collo, ma a quel punto mi ero svegliata.

Solo un sogno, mi dissi per l’ennesima volta, lasciandomi cadere di nuovo sul cuscino.

Mi raggomitolai nelle coperte, stringendo forse con forza eccessiva il lembo del lenzuolo tra le mie dita, nel tentativo di tranquillizzarmi. Quando fui abbastanza certa di essermi calmata, altre domande affiorarono alla mia mente. Sapevo che non era il momento, che avrei dovuto dormire, o almeno provarci. Tuttavia, il mio cervello sembrava andare a più di cento all’ora, e decisamente senza freni.

Dove diavolo era finito Edward? Aveva detto che sarebbe rimasto, non era forse così?

Forse era la sua assenza che rendeva quel sogno paurosamente simile alla realtà, a preoccuparmi realmente. Sospirai profondamente, socchiudendo gli occhi.

Domattina non mi reggerò proprio in piedi, fu l’ultima cosa che pensai prima di addormentarmi nuovamente, questa volta senza sogni.

 

Mi svegliai con una strana sensazione a cui non riuscivo a dare un nome. Mi alzai lentamente, strofinandomi gli occhi. C’era fin troppa luce. Scostai la tenda che lasciava filtrare quel bagliore inusuale, costringendomi a socchiudere gli occhi.

Sospirai. Sole. Non era certo un buon modo di cominciare il lunedì mattina. Mi lavai e vestii velocemente, ansiosa di tornare nella grande casa bianca. Quella sensazione era davvero strana, e l’essere da sola in casa non l’aiutava a svanire. Anche il mio stomaco, nei suoi borbottii, sembrava volesse raggiungere al più presto quella meta. Tuttavia, dubitavo che la motivazione fosse la stessa.

Attraversai la piccola radura a grandi falcate, quasi di corsa. Il vento era fresco e la temperatura piacevole. Una bella giornata, se non si prendeva in considerazione il fattore vampiro-scintillante.

“Buongiorno!”, chiamai appena entrata.

Varcando la soglia, mi sentii a casa. Ormai, per più di un verso, lo era.

“Ciao El!”, mi salutò Emmett dalla cima delle scale.

Scese in fretta gli scalini, sorridendomi apertamente.

“Rose, Edward e gli altri sono fuori”, m’informò.

“Colazione”, dedussi facendo una leggera smorfia.

Emmett mi fece l’occhiolino, scompigliandomi i capelli.

“A proposito, dovresti mangiare anche tu”.

“Saranno qui a momenti, in ogni caso”, aggiunse notando la mia espressione pensierosa.

“Come mai sei rimasto qui da solo?”, chiesi mentre m’incamminavo verso la cucina.

“Beh, prima di tutto perché devo fare da balia a qualcuno, e in secondo luogo non sono del tutto da solo. Io, Esme e Carlisle andiamo a cacciare più tardi, ma Carlisle è già uscito quindi…”.

“Capito”, tagliai corto, allungandomi verso un pacchetto di biscotti.

“Hai bisogno di qualcosa?”.

“Emm, non ho davvero bisogno di una baby-sitter”.

“Ehi, faccio solo il mio lavoro!”.

Inarcai un sopracciglio, curiosa. La sua espressione colpevole lasciava capire che si era fatto sfuggire qualcosa di troppo.

“Edward”, sospirai trattenendo un sorriso.

“E Rose”, pronunciò il suo nome con un’ombra di esasperazione.

Ridacchiai divertita, masticando la mia colazione. Cercai di ignorare Emmett il più possibile mentre sentivo i suoi occhi pesare sulla mia figura.

“Guarda che puoi anche andare”, lo rassicurai sorridendogli.

Ondeggiò sui talloni, indeciso.

“Non lo dirò a Rose”, promisi.

Il suo sorriso si spalancò, illuminandogli il viso.

“Perfetto”, mi sorrise prima di voltarsi e scappare verso il televisore.

Scossi la testa, divertita. Finita la colazione, mi alzai per rimettere a posto ogni cosa. Guardai l’orologio velocemente. Avevo ancora tempo, quindi feci tutto con estrema calma.

Tuttavia, prima ancora che potessi allungarmi verso la piccola credenza per riporre al suo posto la scatola dei biscotti, mi sentii afferrare i fianchi. Sobbalzai, lasciando andare istintivamente quello che avevo in mano. Strinsi la testa tra le spalle, socchiudendo gli occhi. Mi aspettavo un tonfo, qualcosa. Mi voltai e lui era lì. Ovviamente lo era. Reggeva tra le mani la scatola dei biscotti, il suo splendido sorriso a sollevargli gli angoli della bocca.

“Buongiorno”, mi salutò facendo oscillare il suo sguardo divertito tra me e la scatola tra le sue mani.

Sospirai, trattenendo un sorriso.

“Ciao”.

Mi sorrise il suo splendido sorriso truffatore, spostando l’oggetto nella sua mano destra ed osservandolo dubbioso, come se stesse cercando di capire cosa ci trovassi di così appetibile.

“Così…stanotte sei sparito”, mormorai indugiando sul suo volto d’angelo.

Mi sentivo quasi imbarazzata ad ammettere che mi aveva sorpreso non trovarlo al mio fianco. Il suo sorriso si affievolì un poco, lasciando intravedere un’espressione mortificata.

“Mi dispiace…Alice aveva bisogno di me”.

Con la mano libera mi sfiorò la guancia, facendomi venire la pelle d’oca.

“Non importa”, lo rassicurai alla svelta. “Mi sono semplicemente…preoccupata non trovandoti”.

Mi sorrise, compiaciuto.

Percorsi con le dita il profilo del suo viso, solcando le occhiaie che fino al giorno prima erano state di un blu profondo. Ora i suoi occhi erano tornati di quello splendido oro liquido che minacciava sempre di fermarmi il cuore. Il suo sorriso si tese leggermente mentre si avvicinava al mio volto con lentezza infinita. Mi sollevai sulle punte, così da raggiungere le sue labbra più velocemente.

 “El, Edward, siamo in ritardo!”, ci esortò Rosalie.

Sospirai, ondeggiando sui talloni. Edward trattenne una risata.

“Ciao Rose!”, m’incamminai verso di lei una volta che Edward mi ebbe lasciata andare.

“Ciao”, mi salutò raggiante.

“Ora muoviti che facciamo tardi”.

Mi voltai verso Edward, poi verso il bagliore che filtrava dalla finestra con espressione confusa. Poi di nuovo verso Rosalie.

“Non ti preoccupare, ti portiamo soltanto”, ridacchiò lei.

Ovviamente sembrava che avessi bisogno della scorta per andare a scuola.

“Dai, andiamo”, mi cinse per i fianchi Rose, spingendomi verso l’esterno.

Mi affrettai verso il garage, preceduta da Rose, che non perdeva occasione per dirmi di sbrigarmi. Non capivo perché, ma sembrava che ogni volta fossi in ritardo – e forse era anche vero. Edward mi seguiva a passo lento, mantenendo la mia andatura. Sapevo che per lui era una tortura. Mi accorsi solo davanti alla portiera della macchina di aver dimenticato qualcosa.

“La giacca!”, esclamai battendomi il palmo sulla fronte. “Torno subito!”.

Mi precipitai su per le scale, avvertendo nuovamente quella strana sensazione. Era disagio, soggezione. E la voce nella mia testa sembrava urlarmi di stare attenta. Forse il comportamento iperprotettivo di Edward aveva finito per mandarmi in paranoia.

Non appena giunsi in cima alle scale, lo trovai lì. Aveva la mia giacca appoggiata sul braccio. Sospirai con un mezzo sorriso; ancora non ero riuscita ad abituarmi alla sua velocità.

Mi avvicinai a lui, osservandolo attentamente. C’era qualcosa che non andava nel suo sguardo, nella sua postura. La sua mascella era tesa, lo sguardo attento e, in un modo che non riuscii a spiegarmi, spaventato. Afferrai la giacca con esitazione, sollevandola e raggomitolandola contro il mio petto.

“Edward?”, domandai.

Non si voltò. Non diede neanche l’impressione di aver sentito. Impossibile.

“Edward?”, riprovai, afferrandogli il braccio ancora teso in avanti.

Un profondo sibilo sembrò fuoriuscire dalle sue labbra, talmente impercettibile che non fui sicura di averlo sentito. Tuttavia, riuscì a farmi rabbrividire.

Che diavolo…? Mi sporsi verso di lui, intercettando i suoi occhi.

Il suo sguardo sembrò focalizzarsi di nuovo su quello che gli stava attorno ed osservò attentamente il mio viso. Quella che prima mi era semplicemente apparsa paura, ora lo era. Nessun dubbio in proposito.

“Rosalie”, chiamò in un sussurro.

La sua voce era assurdamente calma, fin troppo. Sembrava che non volesse alzare la voce, come per paura che si spezzasse. Rose arrivò in poco più di un secondo. Anche lei, come Edward, si arrestò di colpo. Il suo sguardo tuttavia era rabbia, rabbia mista a sconforto.

“Rose?”, mi avvicinai al lei.

Sentivo il panico montare dentro di me, nonostante non capissi cosa stesse succedendo.

“Rose!”, le scossi il braccio cercando di farmi notare. “Dimmi cosa sta succedendo!”.

Quel silenzio minacciava di bucarmi i timpani.

“E’ lo stesso”, sentii Edward in poco più di un sussurro.

Mi voltai verso di lui, la mia espressione totalmente confusa e disorientata.

“Cosa è lo stesso?”.

La mia voce suonava strana, stridula. Cercai di calmarmi prendendo un respiro profondo.

“Edward”, mormorai con dolcezza, prendendogli la mano.

Mi guardò negli occhi. La sua espressione mi lasciò senza fiato.

“E’ lo stesso”, ripeté.

“L’odore che ho sentito quella sera”, le sue labbra sembravano restie alla verità. “E’ lo stesso”.




Tan tan taaaaaaaaaaaan! Sapete cosa significa questo? Che le cose si complicano ulteriormente, mi pare ovvio xD Una piccola cosa, non so bene quando aggiornerò, ma nelle prossime due settimane potrebbero insorgere dei ritardi piuttosto sostanziali o esserci degli anticipi, ancora non so bene. Sicuramente fra due settimane l'aggiornamento salterà, ma appena torno posto! Scusate per il disagio. Beeeh che altro dire, un grazie a tutti come al solito. E BUONE VACANZE! Mioddio davvero, buone vacanze - un'altra settimana a scuola e sarei stata portata al suicidio. Alla prossima! :) 
P.s. Non ho ben capito perchè mi mette l'ultima frase più grande - beh pace xD

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Capitolo 25
*** Pericolo. ***


Beeeeh buonasera! Sono un po' in ritardo, ma spero mi perdonerete. Ho una giustificazione però: ero al concerto dei 30stm! Mammammmia *fangirling overload* Ah niente, questo capitolo è piuttosto concentrato anche se breve. Che dire, spero sia di vostro gradimento. Buona lettura! :)

Capitolo 25. Pericolo.

Rimasi a fissarlo, la mia espressione congelata in qualunque cosa fosse presente fino a poco prima sul mio viso. Mi sentivo bloccata, paralizzata in quella che riconobbi come paura. Riuscivo a percepire il mio corpo immobilizzato, la mia postura rigida ed innaturale, le braccia tese come ad afferrare qualcosa che era scomparso all’improvviso. Erano passati solamente pochi secondi, e a me sembravano trascorse ore.

“Cosa…”, tentai di formulare.

Mi sentivo come se ci fosse qualcosa nella mia gola, come se stessi soffocando.

“Di cosa stai parlando?”, riuscii a chiedere con voce malferma.

Mi sentivo ancora congelata, non riuscivo a muovermi. Battei le palpebre con decisione, cercando di scacciare quella strana sensazione e di riprendere il controllo di me stessa. C’era qualcosa di sbagliato, qualcosa che non andava. Non sapevo cosa fosse, ma qualcosa c’era.

Evitò accuratamente la mia domanda, i suoi occhi ancora concentrati su qualcosa di lontano.

“Devo parlare con Alice”.

Improvvisamente si girò verso di me, posandomi entrambe le mani sulle spalle. Mi fissò attentamente e a lungo.

La paura che avevo visto nei suoi occhi fino a qualche istante prima scomparve rapidamente, lasciando posto alla rabbia. Per un lungo attimo, apparve ai miei occhi come un vampiro. Un vero vampiro, il genere di creatura spaventosa ed assassina dei libri lasciati a prendere polvere sugli scaffali delle biblioteche.

“Rosalie”, pronunciò attentamente il suo nome senza staccare i suoi occhi dai miei. “Stai attenta a El, e portala a scuola”.

Ci impiegai più del necessario per capire cosa avesse detto esattamente. Con un secondo di ritardo, reagii.

“No!”, esclamai stringendo i pugni.

Lo sguardo di Edward si spalancò in sorpresa, e dopo sospirò amaramente.

“Ho bisogno di parlare con Alice”, forzò tutta la potenza del suo sguardo su di me.

Chiusi gli occhi e scossi la testa velocemente. Non volevo cedere e non avrei ceduto. Inspirai profondamente nel tentativo di calmarmi il più possibile.

“E allora verrò con te”, lo fissai cocciuta, stringendo i pugni fino a quando non mi fecero male.

“No”, replicò secco.

Mi mordicchiai il labbro, per evitare che le lacrime di rabbia raggiungessero i miei occhi.

“Edward”, la voce calma di Rose ci interruppe. “Non posso portarla a scuola. Non se devo lasciarla da sola, non se…”, non finì la frase.

La sua voce sfumò semplicemente nell’aria, lasciando un vuoto soffocante al suo posto.

“Cosa?”, domandai voltandomi verso di lei.

Non mi rispose. Abbassò lo sguardo, contemplando il pavimento. Tornai a fissare Edward.

“Cosa?!”.

Inspirai profondamente.

“Edward”, riprovai con più calma. “Per favore, per favore, dimmi cosa sta succedendo”.

Mi guardò nuovamente, i suoi occhi ancora colmi di rabbia e sconforto. Scosse la testa, ma senza negarmi una risposta. Era semplicemente rassegnato.

“Qualcuno…”, rispose piano, ponderando ogni singola sillaba. “Qualcuno è stato qui”.

Feci automaticamente un passo indietro, portandomi una mano al petto. Sentivo il mio stomaco contorcersi, a disagio.

“La traccia è fresca, non è stato più tardi di ieri notte”, continuò Rosalie per lui.

Ieri notte, ripetei nella mia mente. La mia bocca si spalancò con un piccolo pop.

“Qualcuno è stato qui”, ripetei con un filo di voce.

Edward annuì, i suoi occhi spaventati dalla mia espressione.

“Ieri notte”, continuai sentendomi instabile.

Ci fu una lunga pausa nella quale pensai di svenire. O forse lo speravo. Le pareti della stanza sembravano inclinarsi paurosamente.

“El, respira”.

I miei occhi terrorizzati osservarono il suo viso attentamente. Mi costrinsi a respirare profondamente. Quel qualcosa di sbagliato, quella strana sensazione di disagio…ora sembravano essersi riassestati come un puzzle. Un puzzle che mi spaventava per quanto fosse semplice e al tempo stesso pericoloso.

“Claude”, mormorai muta.

Le mie labbra non volevano pronunciare quel nome, la mia mente non voleva ripensare a quella figura, a quell’immagine. Era così impossibile. Le mie orecchie sembravano vibrare di uno strano, snervante suono. A parte quello, riuscivo a sentire solamente il battito continuo ed accelerato del mio cuore. Socchiusi gli occhi per un istante che mi parve infinito, per poi riaprirli di nuovo.

L’espressione di Edward non era cambiata. Non avevo sbagliato.

Quella consapevolezza, tuttavia, non mi fece sentire affatto meglio.

“Edward, Rose!”, una voce nuova s’intromise tra i ronzii. “Ciao El”, aggiunse in tutta fretta.

Era stranamente agitata, qualcosa che non avevo mai associato alla sua voce.

“Edward…”, cominciò a dire.

Edward la fermò, sollevando una mano.

“Ha già capito”.

“Oh”.

“Come hai fatto a non vederlo, Alice?”, nella sua voce era visibile la rabbia.

“Sono riuscita a vederlo solo quando ho sentito il suo odore qui, non prima…mi dispiace”.

“Io…io non so perché…mi dispiace”, aggiunse come se fosse suo dovere scusarsi.

“Ormai è tardi”, tagliò corto Rose.

Seguì una breve pausa, accompagnata da un silenzio pesante. Mi sentivo come se dovessi cominciare ad urlare da un momento all’altro. Assistevo semplicemente alla scena davanti a me senza fare niente – totalmente incapace di dire o fare niente. Mi sentivo congelata. Congelata nella paura e nella consapevolezza. Quel sogno…era stato veramente solo un sogno? C’era davvero qualcosa di più? La mia testa girava senza sosta attorno ai medesimi interrogativi, senza trovare risposta.

“El”, finalmente qualcuno mi interpellò, distogliendomi dai miei pensieri.

Alice mi osservava, i suoi grandi occhi dorati ad analizzare il mio volto. Sbarrai gli occhi, attenta.

“Ti dispiacerebbe saltare un giorno di scuola?”.

Quella domanda mi fece quasi sorridere. Scuola? Me ne ero totalmente dimenticata. Sembrava una cosa così distante dalla mia realtà.

“Non vado da nessuna parte”, risposi cercando di apparire decisa.

Annuì a se stessa più volte, cominciando a camminare avanti e indietro davanti a noi.

“Non riesco a vedere niente con te vicino, però è l’unico modo per averti al sicuro”, mormorò tra sé a voce abbastanza alta perché sentissi. “E non sono nemmeno sicura che senza di te riuscirei a vedere qualcosa. Forse non sono in grado di vedere…quelli come loro. Non mi era mai capitato, a parte con i cani”.

Ci impiegai un attimo in più del necessario per capire che si riferiva all’episodio della foresta, quando avevo incontrato Jacob. Pensare a Jacob, a Seth, a Leah…sembrava così irreale.

“Edward, cosa dobbiamo fare?”, domandò Rosalie esasperata.

“Ho bisogno di parlare con Carlisle, è l’unico che li conosce”.

“Carlisle è ancora…”.

“Lo so”, la interruppe bruscamente.

Edward sembrava completamente impazzito. I suoi occhi erano spalancati in quella che per lui era stata una totale sorpresa, la rabbia e la paura al loro interno ben visibili.

Non appena varcammo la soglia di casa Cullen, scomparve rapidamente su per le scale. Rimasi in silenzio al fianco di Alice e Rose, consapevole dei loro sguardi fissi su di me. Mi strinsi nelle spalle e continuai a fissare il pavimento, ripensando al mio strano sogno e perdendo il senso del tempo.

La cosa che mi spaventava più di ogni altra era il pensiero che potesse succedere qualcosa alle persone che amavo. Sapevo che Edward o Rosalie non erano deboli, né facili da scalfire, ma non potevo impedirmi in alcun modo di preoccuparmene. Cosa sarebbe successo se per colpa mia fosse accaduto qualcosa? Se Alice, o Emmett, o Rose…- forzai il suo nome nella mia mente -, o Edward fossero rimasti in qualche modo feriti, se gli fosse accaduto qualcosa, qualunque cosa… non sarei riuscita a sopportarlo. Ma tutto ciò non aveva senso. Per quanto continuassi a pensarci, ancora ed ancora, non riuscivo a capirlo. Che senso aveva quello che stava succedendo? Perché ora, perché io? La voce nella mia testa sembrava conoscere la risposta, ma la evitai accuratamente.

“Oh, El, tesoro!”, sentii Esme chiamarmi preoccupata.

Alzai lo sguardo verso di lei, disorientata. Mi corse incontro, abbracciandomi forte.

Dietro di lei, Edward era al telefono, bisbigliando così velocemente da apparire semplicemente un lieve rumore di sottofondo. Lo vidi scuotere tristemente il capo.

“Stai bene?”, mi chiese ansiosa, spostandomi i capelli dal viso.

Annuii velocemente, cercando di non rimuginare troppo sulla risposta.

Non stavo bene. Forse sì, non ne ero totalmente sicura. Ma mi sentivo strana, spezzata. Come se mancasse qualcosa.

“El”, mi chiamò.

Sentii distintamente il piccolo click del telefono che si richiudeva. Alzai lo sguardo verso di lui, esitante. Socchiuse gli occhi, prendendo un respiro profondo.

Scese le scale rapidamente, superandomi in un breve secondo ed entrando in salotto. Si voltò a guardarmi. I suoi lineamenti, per quanto perfetti e mozzafiato, erano contratti e rigidi.

“Dobbiamo parlare”, mormorò senza emozione.

Mi limitai a fissarlo, senza sapere esattamente cosa fare. Dopo un istante di silenzio, mi tese la mano. Abbozzò un sorriso, che tuttavia non riuscì e sformò in una smorfia di preoccupazione. Impiegai qualche secondo per ricordare come riuscire a muovere le gambe.

Mi mossi lentamente, evitando con cura di incontrare lo sguardo di Edward. Compii ogni movimento con estrema attenzione, mantenendo lo sguardo incollato al pavimento. Sentii una mano fredda sulla mia spalla sospingermi verso di lui. Rosalie era dietro di me.

Presi la mano di Edward e la strinsi quanto forte potessi. Alice si appollaiò velocemente sul bracciolo della poltrona occupata da Jasper, Emmett e Esme nelle restanti. Edward mi condusse fino al divanetto, dove mi strinse al suo fianco senza dire una parola. Quel silenzio cominciava a pesare.

Rose, in piedi a qualche passo da me, si schiarì la voce.

“Che diavolo sta succedendo”, sillabò con cura tra i denti.

La sua voce era aspra di risentimento. Fissò Edward in cagnesco, per poi passarsi una mano tra i capelli biondi.

“Lo sai già”, mormorò Edward. “Rose, sai che non potresti mai riuscire ad ucciderlo da sola”, aggiunse con un’ombra di umorismo nero subito dopo.

Emmett ridacchiò in silenzio.

“Così mi piaci, Rose”, ghignò divertito.

“Oh, sta’ zitto!”.

Nonostante la situazione, mi lasciai sfuggire un sorriso.

“Non penso”.

Mi voltai verso Edward per capire a chi stesse rispondendo. Il suo sguardo era fisso in quello di Jasper. Si lasciò sfuggire un sorriso anche lui.

“Così potrebbe andare, ma non sarà assolutamente facile…No, dobbiamo risolverlo, e al più presto”.

Edward sembrava quasi…confortato. Più sereno di prima.

Che cosa gli stava dicendo Jasper? Ero improvvisamente innervosita da quella conversazione silenziosa ed ero certa di non essere la sola. Rosalie cominciò a battere il piede, irritata.

“Qualcuno vuole dirmi che sta succedendo?”, li interruppi, sull’orlo dell’esasperazione.

Un breve sorriso illuminò il volto di Edward.

“Cosa?”, mi aggrappai alla sua manica in modo più che infantile.

“Jasper stava solamente valutando le possibilità in modo interessante”, quel sorriso truffatore nascondeva qualcosa.

Tuttavia, finché fosse rimasto sul suo viso, sapevo che l’ansia non sarebbe tornata.

“Sapete, è piuttosto snervante non avere la minima idea di ciò che state dicendo”, intervenne Alice sorridendo.

Si voltò verso di me, facendomi una smorfia.

“Tutta colpa tua”, mi accusò con falso risentimento.

Sorrisi un poco, voltandomi prima verso Edward e poi verso Jasper.

“Allora?”, insistetti, quasi implorante.

Fu tutto calmo per un lungo istante, poi Edward prese un respiro profondo.

“Gli Ubach non ci attaccheranno”, la sua voce era serena, ma c’era qualcosa che lo preoccupava.

Di questo ero sicura. Tuttavia, non potei impedirmi di sospirare di sollievo.

“Non è nel loro stile, non lo farebbero mai. O almeno, se non provocati”, lanciò un’occhiata eloquente ad Emmett, che sbuffò incrociando le possenti braccia sul petto.

“Claude e Demetri sono i loro segugi, il loro compito è quello di…trovare le persone di cui hanno bisogno. Ho letto nella mente di Amos quanto ho potuto la prima sera, ma non abbastanza. Avevo capito che sarebbe tornato, che non aveva intenzione di lasciare qui qualcuno di così…”, si voltò verso di me, fissandomi come a cercare qualcosa sul mio viso. “… interessante. La loro proposta, quando arriveranno, sarà una sola: o lei, o tutti noi”.

Lo fissai negli occhi, spaventata dalle sue parole. Sentivo la gola stringersi ogni secondo di più, la sensazione di soffocare sempre più viva.

“Per questo non c’è problema”, sogghignò Emmett.

In un’altra situazione, avrei probabilmente ridacchiato con lui. Ma questa volta era diverso. C’erano le loro vite in gioco, e a causa mia.

“No!”, esclamai sporgendomi in avanti.

“El ha ragione, Emm. Non possiamo sconfiggerli tutti”.

“Quanti riusciamo”, sorrise ampiamente al pensiero.

Edward sembrò apprezzare l’idea per un istante troppo lungo per tranquillizzarmi. Strinsi la manica della sua camicia, stropicciandola con forza.

“Non ci pensare nemmeno”, intervenne Rose, definitiva.

Emmett la ignorò completamente, scambiando una lunga occhiata con Jasper e Edward. Jasper sorrise, apparentemente tentato dall’idea.

“Idioti”, bofonchiai.

“Cretini”, mi fecero eco Alice e Rose.

“Stavamo solo prendendo in considerazione tutte le possibilità”, scherzò Emm, dando di gomito a Alice. “Il che ci riporta a ciò di cui voi due stavate blaterando prima”.

Edward annuì, riprendendo il discorso di poco prima.

“Come dicevo, gli Ubach non ci attaccheranno, ma questo non vuol dire che non faranno nulla per metterci in difficoltà, forse più di uno scontro. Combattere non è nel loro stile, piuttosto giocheranno con noi, con le nostre menti. Cercheranno di creare una falla nella nostra famiglia, confondendoci, e aspettando la minima distrazione per approfittarne”.

La sua voce, sul finire della frase, si era fatta più minacciosa, più cupa.

“Quindi non dobbiamo farci fregare”, concluse Emmett sorridendo.

“Semplice per te”, borbottò Rosalie, pessimista.

“Jasper stava valutando come poter restare uniti senza lasciare El senza protezione”.

Mi fissò in volto, studiando la mia espressione.

“Questo significa che dovrò essere sotto sorveglianza ventiquattro ore su ventiquattro?”, chiesi scettica e parzialmente contrariata.

Non mi entusiasmava l’idea di avere Emmett o Jasper come guardie del corpo ogni secondo della giornata.

No”, quello che fuoriuscì dalle labbra di Edward fu quasi un ruggito.

Sembrava nascere dal centro del suo petto. Indietreggiai automaticamente, spaventata. Che era successo? Dubitavo fortemente che quella fosse una risposta alla mia domanda. Il suo intero corpo sembrava congelato, teso come per prepararsi ad un attacco.

Tornai con lo sguardo verso il viso di Edward, ma ora non era più voltato verso di me. Stava osservando Emmett, la sua espressione furente.

“No”, ripeté, la sua voce terrificante nella sua calma e fermezza.

Per un momento temetti che potesse attaccarlo. Non mi era mai apparso tanto arrabbiato.

“Ehi, ehi!”, Emmett alzò i palmi verso l’alto in segno di resa. “Stavo solo pensando! Non è colpa mia se non sei capace di farti gli affari tuoi”.

Gli sorrise, tentando di addolcire la sua espressione. Sembrò rilassarsi un poco, la statua al mio fianco ammorbidirsi per tornare alla vita.

“Dovresti cercare di tenerli per te questi pensieri”, disse tra i denti.

“Mi piacerebbe riuscirci”, gli fece una smorfia.

Continuai ad osservarli, senza comprendere.

“Scusami, ho avuto una reazione eccessiva”.

Emmett si strinse nelle spalle, minimizzando l’accaduto.

“Di niente, fratello”.

Scambiai un’occhiata veloce con Rosalie. Nemmeno lei sembrava capire cosa stesse accadendo.

“E’ solo che…non posso sopportare di metterla neanche lontanamente in pericolo e soprattutto non voglio che si possa sentire nemmeno un secondo…un mostro”.

Un mostro? Ma di che stavano parlando?

“Ehi?”, cercai di attirare l’attenzione di Edward, stringendogli la manica. “Ci sono anch’io quaggiù”.

Mi sorrise gentilmente, stringendo la presa attorno ai miei fianchi.

“Ovviamente ci sei”.

Sorrisi anch’io, e poi sospirai. Era così bravo a distrarmi.

“Di cosa stavate parlando?”.

Lo supplicai con lo sguardo, sentendomi totalmente infantile. Non m’importava.

“Grazie mille, Emmett”, borbottò sarcastico, lanciandogli un’occhiataccia.

“Di niente, dovere”, rispose beffardo.

Sorrisi, senza abbandonare il mio sguardo da cerbiatto abbandonato.

“Emmett stava pensando…a come tu potresti aiutarci. Il tuo potere potrebbe esserci enormemente d’aiuto, ma non sappiamo come e quanto possiamo spingerlo senza rischiare. Potrebbe essere pericoloso, per te quanto per noi. E se così fosse, non voglio che tu ti senta un mostro. Inoltre, non posso permettere che tu ti metta in pericolo, è mio compito proteggerti”.

Lo fissai in volto mentre le sue parole acquisivano significato nella mia testa.

Potevo essere d’aiuto. Quel pensiero, per quanto piccolo, sembrava diventare più forte ogni secondo che passava. Prima che me ne rendessi conto, avevo già deciso.

“Edward, voglio aiutarvi”, dissi, cercando di suonare decisa.

“No, invece”.

“Perché no? Hai detto anche tu che potrei essere d’aiuto! Non posso stare dietro di voi aspettando che qualcuno venga qui a prendermi”.

“Non succederà, infatti”, ribatté. “Non lo permetterò”.

“Grandioso. E nel frattempo dovrei essere il peso sulle vostre spalle?”.

“Edward, vi aiuterò”, ribadii testarda.

“No, non lo farai”.

Ruggii esasperata, cercando aiuto sui volti dei presenti.

Sapevo di non poter contare su Rose. La mia protezione sembrava essere la prima cosa per lei. Mi sorpresi quando vidi che Alice era d’accordo con Edward. Jasper invece sembrava essere dalla mia parte, così come Emmett.

“Sei così testardo!”, lo accusai irritata.

“Sì”, mi sorrise truffatore, passandomi una mano sul collo.

“E sempre così bravo a distrarmi”, sospirai.

“Sì”, ripeté compiaciuto.

Grugnii qualcosa di incomprensibile, sconfitta. Per il momento. Sarei tornata alla carica quanto prima, avrei solamente dovuto aspettare il momento giusto.

“E quindi, nel frattempo, cosa sono tenuta a fare?”, chiesi stizzita.

Tu niente, noi terremo te e la tua famiglia al sicuro”.

Sentii la mia bocca spalancarsi in sorpresa. La mia famiglia. Mi ero completamente dimenticata di loro, ancora. E ora stavano venendo qui. Dove c’ero io, dove c’era il pericolo.

“El? Cosa c’è?”, la voce di Edward suonò storpiata dal ronzio nelle mie orecchie. “Qualcosa non va? Ti senti male?”.

Mi scostò i capelli dal viso, sentendomi la fronte. Ogni suono sembrava pungermi la testa con intensità inaudita.

“Shhh!”, lo zittii tappandogli la bocca con una mano.

Parve rilassarsi visibilmente dopo la mia reazione.

“La mia famiglia sta venendo qui”, mormorai dopo un breve silenzio, in cui il ronzio sembrò trasformarsi in un fastidioso ma sopportabile rumore di sottofondo.

Alzai lo sguardo verso Edward, spaventata.

“Non possono venire qui! Potrebbero farsi del male, potrebbero mettersi in pericolo, potrebbero… Non possono! Edward, non possono…”.

Mi accorsi che il mio respiro cominciava ad accelerare, cercando di competere con i battiti del mio cuore. Lentamente, senza che potessi fermarlo in alcun modo, si trasformò in un singhiozzo. Le sue braccia mi strinsero, lasciando che la mia testa affondasse contro il suo petto.

“Non possono”, mugugnai senza fiato.

Cercò di calmarmi, strofinandomi il braccio con la sua mano fredda.

“E’ tutto okay, non permetterò che gli succeda niente. Lo giuro”.


Non so perchè, ma l'ultima frase continua a venirmi di dimensioni sballate ._. Ah niente! El è un po' in panico, Edward non è da meno e Emmett rimane sempre il migliore xD Per il resto non c'è molto da dire. Come al solito grazie a tutti, settimana prossima posterò più o meno come oggi o comunque lunedì! Buona settimana e godetevi le vacanze! Alla prossima :)

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Capitolo 26
*** Guai in vista. ***


Buonasera. Sono in ritardo, quindi mi scuso. Mi scuso anche per la mancanza di vitalità e di qualunque tipo di introduzione a questo capitolo, ma sono appena tornata da cinque giorni di vacanza e sto dormendo in piedi. E visto che ci siamo, mi dispiace di non aver risposto alle recensioni della settimana scorsa - non ce l'ho fatta proprio. Buona lettura :)

Capitolo 26. Guai in vista.

“Oh, per favore! Non fare la difficile!”, ripeté Alice per l’ennesima volta.

Ormai avevo perso il conto.

“Alice”, mugugnai cercando aiuto con lo sguardo.

Emmett sembrava fin troppo divertito.

Grugnii qualcosa di incomprensibile, cercando di sfilare il braccio dalla sua presa.

“Sarà divertente!”, cantilenò imperturbabile mentre mi sospingeva verso l’ingresso.

Dubitavo sinceramente che la sua idea di divertente fosse simile alla mia. E soprattutto, mi sarebbe piaciuto evitare un bel mal di testa. Ogni volta che ci andavamo avevo bisogno del Tylenol per riuscire a dormire.

“Hai detto che vuoi aiutarci, no? Vuoi aiutare Edward? E allora sbrigati!”.

Ruggii esasperata. Era così ingiusto. Quello era giocare sporco.

“Non so ancora quando, o come, ma questa me la paghi Alice”.

Sentii la risata soffocata di Emmett a pochi passi da me. Alice mi sorrise un enorme ghigno malefico, sembrando quasi compiaciuta.

“Questa sarebbe una minaccia?”, il suo sorriso si tese ulteriormente.

“Questa è una minaccia”.

Ridacchiò, palesemente divertita.

“Oltre ad essere una promessa”, aggiunsi senza riuscire a trattenere l’ombra di un sorriso.

“Oh, tanto ne abbiamo di tempo!”.

Così dicendo, mi agguantò per il gomito e mi trascinò fuori. Cercai di opporre resistenza, piantando saldamente i miei piedi per terra e sporgendomi di lato per aggrapparmi a qualsiasi cosa in grado di sorreggermi.

“Edward!”, esclamai cercando aiuto.

Emmett scoppiò a ridere, riempiendo tutta la stanza con la sua risata.

Edward era sparito poco dopo la discussione in salotto, Jasper e Rose al suo seguito. Mi aveva detto che voleva seguire le tracce, scoprire da dove era arrivato. Aveva detto che sarebbe servito a non farci trovare impreparati la prossima volta.

La prossima volta, pensai accigliandomi. Questo significava che ci sarebbe stata un’altra volta. Forse l’ultima, forse…

Bloccai con forza quel pensiero, sforzandomi di pensare ad altro.

“Edward non ti aiuterà, soprattutto se tiene alla sua testa”.

Mi sarebbe piaciuto essere un vampiro in quel momento, abbastanza forte da riuscire a restare ferma dove volevo, senza essere trasportata via. Abbastanza forte da dare una mano…

Sospirai, lasciandomi trascinare fuori casa.

Alice sembrava non vedere l’ora di raggiungere la piccola radura dove non ci recavamo da tempo per allenarci. Salimmo velocemente in macchina ed appoggiai la testa contro il finestrino, lo sguardo lontano, perso oltre il vetro senza vedere nulla in realtà. Lasciai vagare i miei pensieri da soli e, prima che me ne rendessi conto, stavo pensando di nuovo ad Edward. La sua espressione, impressa nei miei ricordi come marchi a fuoco, ancora mi spaventava. Sospirai di nuovo.

“So che lo eviteresti volentieri, e che Edward non sarebbe mai d’accordo se lo venisse a sapere, ma abbiamo bisogno ora più che mai del tuo potere”, la sua espressione seria mi confuse.

Mi sorrise leggermente, portando nuovamente gli occhi sulla strada.

“Alice io…”.

“Ne abbiamo bisogno; sai che, se così non fosse, non te lo chiederei”.

“Alice io voglio aiutarvi. Lo farò, davvero”.

Abbozzai un sorriso al quale Alice rispose immediatamente.

“Grazie”.

Mi strinsi nelle spalle, cercando di apparire rilassata.

Il viaggio fu più breve di quanto ricordassi. Il silenzio durò poco prima che Alice cinguettasse un allegro “Siamo arrivate”, seguito da un enorme sorriso scintillante.

Il luogo era lo stesso, ovviamente. Tuttavia, la presenza del sole lo faceva sembrare un posto meno misterioso di quanto mi fosse parso la prima volta. Le fronde degli alberi, tutt’intorno allo spiazzo colorato di un intenso verde scuro, sembravano animarsi al leggero vento che soffiava, scompigliandole e creando un lieve, rilassante rumore di sottofondo. Presi un respiro profondo, passandomi una mano tra i capelli.

“Okay”, mi sforzai di apparire decisa. “Cominciamo”.

Indirizzai lo sguardo verso Alice, gli occhi socchiusi e il capo chino al centro della radura. La sua pelle candida sembrava guizzare nei suoi riflessi arcobaleno. Alzò la testa, incontrando i miei occhi e mi sorrise.

“E’ davvero piacevole il calore”.

Calore. Cercai di non fare smorfie alle sue parole. Decisamente Alice non aveva mai sperimentato il caldo soffocante della Florida.

“Bene, cominciamo”, tagliò corto, il suo sorriso a brillare nella debole luce. “E’ passato molto tempo dall’ultima volta, quindi dobbiamo ricominciare da capo. Ti ricordi come avevi fatto le prime volte?”.

Annuii in silenzio, ripassando mentalmente ogni singola azione.

“Okay, allora con calma. Un bel respiro, raccogli e poi…lentamente”, mi incoraggiò.

Cercai di concentrarmi il più possibile, tentando di individuare con chiarezza i confini del mio velo. Quando lo trovai, lo sospinsi gentilmente sempre più lontano da me, fino ad accerchiare Alice. Guadagnai ogni singolo centimetro con immensa difficoltà, trattenendo il respiro per concentrarmi maggiormente. Finalmente ci riuscii, espirando velocemente in una piccola nuvoletta d’aria condensata. La sua piccola scintilla parve riscaldare il mio scudo, illuminandolo immediatamente.

Mi faceva sentire…protetta, e al tempo stesso in grado di proteggere. Finalmente solo me stessa, e nessun altro.

- El?-

Sorrisi al suo pensiero, annuendo subito.

- Fantastico. Okay, come ci si sente? Dev’essere pazzesco sentire i pensieri! Avrei dovuto chiedere a Edward…-

Chiusi gli occhi, massaggiandomi le tempie. Questo era già più di quanto ero abituata a fare.

Il mal di testa stava arrivando, lo sentivo. Le mie tempie pulsavano sotto lo sforzo. Mi sembrava di avere un intero esercito, con tanto di cavalleria, nel mio cervello.

Strinsi i denti, costringendomi a respirare.

- Potrebbe essere così utile! E finalmente saprei sempre cosa regalare a Esme per Natale…-

“Shhh!”, sibilai portandomi le mani alle orecchie.

La mia testa sembrava sul punto di esplodere.

-Ops, mi dispiace-

Il velo tornò indietro come una molla in tensione, rimbalzandomi addosso con estrema violenza. Le mie mani tremavano per lo sforzo.

“Alice io…”, quasi pregai, passandomi una mano sulla fronte per asciugare il velo di sudore creatosi.

“Ancora una volta”, insistette sorridendo.

Quel pomeriggio continuammo così, svariate volte, finché quasi non caddi stremata a terra. Ormai cercavo di non fare caso al dolore che minacciava di farmi esplodere la testa. Non era diventato più sopportabile con il passare delle ore, ma semplicemente più facile da gestire. Se non ci pensavo, riuscivo a non provarlo in tutta la sua intensità. Alla fine, Alice ebbe pietà di me.

“Okay, okay. Direi che per oggi è abbastanza”.

Direi”, cercai di imitarla, senza grandi esiti.

“Posso solo chiederti un’ultima cosa?”, cinguettò sfoderando un sguardo implorante.

Sapevo che, qualunque cosa fosse, avrebbe trovato il modo di convincermi.

“Dimmi Alice”, sospirai esasperata.

“Mi chiedevo soltanto…posso sbirciare nel tuo futuro?”.

Alzai gli occhi al cielo, sospirando.

“Dai! Dai, dai, dai!”, cantilenò con piccoli saltelli.

“E va bene”, acconsentii.

Non avevo voglia di oppormi alla sua testardaggine.

“Oh”, disse sorpresa. “Questo è stato più veloce di quanto avessi pensato”.

Forse a volte era ancora possibile sorprendere Alice. Sfoderò un ghigno compiaciuto, facendomi segno con le mani di sbrigarmi. Sbuffai pesantemente, ma obbedii.  Tuttavia, fu molto più facile di prima. Quasi…rilassante. Il sollievo che mi provocò riuscì a compensare il senso di vulnerabilità che mi assaliva ogni volta che mi trovavo costretta ad abbassare le mie difese. Mi sentii di colpo più leggera ed iniziai a camminare avanti e indietro per il piccolo spiazzo d’erba, osservando per la prima volta con attenzione ciò che mi circondava.

Quella radura aveva un che di magico, non riuscivo a spiegarmelo.

“Oh!”, esclamò Alice.

Mi voltai immediatamente, inizialmente preoccupata. C’era qualche novità? Aveva visto qualcosa di nuovo su…Claude? E poi sbuffai di nuovo, palesemente scocciata. Un nuovo, enorme ghigno soddisfatto le colmò il viso, illuminandolo. Mi fissò sorridente, apparentemente ansiosa di raccontarmi ciò che aveva appena visto - sicuramente qualcosa che la riguardava da vicino. Forse una giornata di shopping, forse una sfilata. Rabbrividii con orrore al pensiero.

“Che succede, Alice?”, mi sforzai di chiedere allegramente.

Il suo sorriso si tese.

“Jasper mi chiederà di sposarlo! Di nuovo!”, cinguettò felice.

“Ehm…congratulazioni”, abbozzai. “Di nuovo”.

Ridacchiò da sola per qualche istante, per poi farmi segno di continuare a fare ciò che stavo facendo prima. Ripresi quindi a girovagare, spingendomi verso il lato più a nord dello spiazzo.

Alcune gocce di pioggia cominciarono a  scendere lentamente dal cielo, e levai lo sguardo per osservare le grandi  nuvole opache che confermavano l’arrivo di un bell’acquazzone. Sentii qualcosa colpirmi la punta della scarpa e spostai lo sguardo nuovamente verso il suolo.

Una piccola pietra scura giaceva a qualche decina di centimetri da me, nascosta tra i ciuffi d’erba. La osservai qualche istante, inclinando la testa da un lato, cercando di capire il perché di quella strana sensazione – di nuovo quella sensazione. Scossi la testa, cercando di scacciare via quel pensiero. Stavo davvero diventando paranoica.

Mi chinai così a raccogliere il piccolo sasso che riluceva a terra e l’afferrai, per poi osservarla meglio adagiandola sul palmo. Era umida e liscia. La sua superficie era così lucida che probabilmente mi ci sarei potuta specchiare, se non fosse stato per quegli strani segni incisi…

Improvvisamente, tutto acquistò senso.

Rimasi ad osservare la piccola pietra che giaceva sul mio palmo, mentre la consapevolezza, seguita a ruota dalla paura, si faceva strada dentro di me.

Quella pietra. Quella radura. Tutto.

Ora capivo perché mi era apparsa così familiare, perché quella strana sensazione aveva ripreso ad assalirmi nel bel mezzo del nulla. Avevo già visto quella radura, come avevo già visto quella pietra. Tempo fa, in un sogno lontano vite da quella che credevo di vivere ora.

Ricordavo anche come finiva il sogno. Non potei impedirmi di rabbrividire violentemente al pensiero, stringendo quel piccolo oggetto nel mio pugno. Lasciai scorrere qualche attimo, sperando con tutte le mie forze di svegliarmi da un momento all’altro. Forse era solo l’ennesimo incubo. Eppure mi sentivo sveglia, all’erta. Non era un sogno.

“A-Alice…”, riuscii a dire dopo qualche secondo di silenzio. “Dove siamo qui, esattamente?”.

Avevo bisogno di sapere, di prepararmi in qualche modo.

Alice non sembrò fare caso alla mia espressione, senza dubbio troppo presa dai suoi nuovi progetti. Aveva un matrimonio da organizzare. Il suo, per giunta.

“Come sarebbe dove…?”, iniziò a chiedere, ma finalmente sembrò accorgersene. “El, che succede?”, domandò preoccupata, quasi volando al mio fianco.

Stringevo ancora nel mio pugno la piccola pietra scura, le sue incisioni sembravano bruciare a contatto con la mia pelle per i pensieri e i ricordi che suscitavano in me. Mi sforzai di sciogliere il pugno, allentando la presa un dito alla volta e le mostrai quello che giaceva sul mio palmo.

“Che cosa dovrebbe significare questo sasso?”, mi chiese quasi spazientita.

Non le piaceva non essere al corrente di tutto.

“Alice io…io ho già visto questo posto, questa pietra. In un sogno”.

“Un…un incubo”, mi corressi con un filo di voce.

Sembrava confusa dalle mie parole, ma al tempo stesso sinceramente preoccupata.

“Cosa accadeva nel sogno? Ho bisogno di saperlo”.

Si guardò attorno, assumendo una leggera posizione accucciata.

“Vieni, andiamo via. Dobbiamo dirlo agli altri”.

 

Il tragitto verso casa fu più breve di quanto mi aspettassi. Alice non accennava a sollevare il piede dall’acceleratore, i suoi occhi concentrati su qualcosa di confuso e lontano da noi, e dal presente stesso.

Per quanto riguardava me, rimasi a fissare gli alberi che scorrevano veloci fuori dal finestrino. La mia vita sembrava scorrere alla stessa velocità. Impossibile da distinguere, confusa e offuscata. Era ovvio che ci fosse, ma i suoi confini sembravano scomparire e confondersi con quella successiva. In tutto quel verde, era difficile trovarmi.

“Vieni”, mormorò in tutta fretta Alice una volta sbucate davanti a casa.

Prima ancora che potessi slacciarmi la cintura, era davanti alla mia portiera, già spalancata.

“Oh, e…”.

“Sì, lo scudo”, tagliai corto, riportando le mie difese al loro posto.

Mi sentii meglio, e peggio. Ma non era il momento giusto per pensare ad uno stupido mal di testa. Stringevo ancora tra le mani quella piccola pietra nera e lucente.

“Edward, Jasper, Rose, Esme, Emmett”, chiamò rapidamente i presenti appena varcata la soglia di casa. Il suo tono probabilmente li allarmò, poiché furono al mio fianco tutti in meno di un secondo, le loro posizioni rigide e pronte all’attacco.

“No, non c’è nessun pericolo”, li tranquillizzò dirigendosi verso il salotto.

Non c’è nessun pericolo ora, avrei voluto precisare, ma optai per l’opzione mutismo – non ero ancora sicura di poter parlare senza che la mia voce si rompesse per lo stress.

Edward era dietro di me, protettivo, un braccio che mi cingeva i fianchi con troppa forza perché potesse tranquillizzarmi. Evitai il suo sguardo per non allarmarlo ulteriormente.

“Che succede, Alice?”, sbottò Rose, fissandomi in viso. “Sembra che abbia appena visto un fantasma”, aggiunse ansiosa.

“Non mi stupirei se ci riuscisse”, borbottò con un ghigno Emmett.

“El?”, mi chiamò Alice, facendomi un rapido gesto con la mano.

Inspirai profondamente, costringendomi ad aprire nuovamente il mio palmo. Questa volta non volevo vederla, non volevo avere l’ennesima prova che quello che mi stava accadendo era reale.

“Mi volete spiegare cosa c’entra un sasso?”, esclamò Rosalie, palesemente infastidita.

“Rose, calmati”, mormorò Edward alle mie spalle, scoccando una veloce occhiata a Jasper.

In pochi attimi, l’atmosfera sembrò alleggerirsi e diventare più respirabile.

Presi un nuovo, lungo respiro.

“El ha detto di aver già visto questa  pietra, e anche il luogo dove siamo state oggi…in un sogno”.
“Ma questo non ha senso”, borbottò di nuovo Emm.

L’occhiata di ghiaccio che Rosalie gli riservò fece rabbrividire anche me.

“In quel sogno…”, non finì la sua frase.

Percepii il corpo di Edward tramutarsi in marmo, e capii che il mio potere questa volta non era stato abbastanza potente da nascondergli ciò che Alice stava pensando.

“A quanto pare è più vicino di quanto pensassimo”, ruggì lui tra i denti.

“…Claude uccideva El, nessuno di noi era abbastanza vicino per salvarla”, concluse Alice.

Cercai di spiegarmi perché, proprio in quel momento, la frase chiara e concisa, non riuscissi a provare paura. Solo… rassegnazione. Come se fosse un fatto, e non solamente una reale possibilità. Qualcosa di assoluto, il cui contrario era impossibile. Il silenzio creatosi nuovamente nella stanza sembrava esserne l’ennesima conferma. L’aria era congelata, sembrava non circolare. E forse era vero, in parte, poiché ero l’unica a respirare in quel preciso istante.

“Era un sogno, diamine!”, esclamò ad un tratto Emmett. “Come se fosse possibile che lasci morire El!”.

Cercai di rispondere al suo sorriso solare, ma probabilmente le mie labbra riuscirono a formare solamente una debole smorfia.

“Emmett ha ragione, questo non significa nulla”, gli fece eco Rosalie.

Nonostante il suo stentato ottimismo, nei suoi occhi era chiara la preoccupazione. Avrei voluto semplicemente dirle di tranquillizzarsi, che era tutto okay. Ma non credevo di esserne in grado, senza mentire a me stessa.

Certo, era solo un sogno. Lo stesso genere di sogno che avevo fatto la notte scorsa, quando avevo visto Claude nella mia stanza. Quanto potevano ancora considerarsi sogni, o incubi? La mia testa sembrava sul punto di esplodere, e non solo metaforicamente .Portai entrambe le mani alle tempie, massaggiandole lentamente. Il contatto con le mie dita fredde provocò un leggero sollievo, che durò purtroppo solo poco più di qualche secondo.

Edward se ne accorse e posò il suo palmo gelido contro la mia fronte. Sospirai, sollevata.

“A dire la verità…”, abbozzai. “Io credo che significhi qualcosa”.

Le dita di Edward scivolarono sulla mia guancia, e mi strinsi contro di loro.

“Cosa intendi?”, insistette Alice, dopo qualche secondo di silenzio.

Sorrisi. Era così semplice dimenticare tutto il resto vicino a Edward.

“Ecco…”, ma mi fermai.

Avrei fatto la figura della pazza. Forse lo ero, non era da escludere.

“Cosa, amore?”

Mmm. Amore. Mi ci sarei anche potuta abituare.

“Okay, il fatto è che…ho già sognato Claude, ma ieri notte l’ho sognato in camera mia…e poi stamattina…”, non finii la frase.

Non ce n’era bisogno.

“Questo sembra…serio”, mormorò Emmett.

Edward mi trascinò con lui verso il divano, accompagnandomi gentilmente.

“Vorrei parlare da solo con El, se possibile”.

Il suo tono gelido e al tempo stesso colmo di angoscia fece contorcere il mio stomaco. Non volevo essere costretta a vederlo sempre in questo modo per colpa mia. Non lui e soprattutto non a causa mia. Gli altri rimasero a fissarci un attimo, prima di svanire come fantasmi. Nessun suono, nessun rumore. Rosalie rimase un attimo in più sulla porta, indecisa. Sapevo con certezza che avrebbe voluto sapere cosa stava accadendo esattamente. Voleva proteggermi, come sempre.

Le sorrisi, tentando di rassicurarla per quanto mi fosse concesso. Mi rispose con un breve sorriso, per poi sparire insieme agli altri. Un tempo era stato tutto così semplice. Lasciai vagare per un lungo istante la mia mente, permettendole di ripescare ricordi che sembravano appartenere ad un’altra me. Quante cose erano cambiate in così poco tempo.

Sentii un sospiro alle mie spalle, e mi ricordai tutto il resto.

Oh. Certo. Mi voltai lentamente verso di lui, abbassando lo sguardo. Mi sentivo stranamente colpevole, come se sapessi di avergli tenuto nascosto qualcosa di importante. In un certo senso, era la verità.

“El”, mormorò lasciando che il suo respiro s’infrangesse sul mio volto.

Mi prese il volto tra le mani, costringendomi a fissarlo negli occhi. La loro intensità mi lasciava sempre sconcertata. Non era possibile che qualcuno potesse influenzare la mente altrui solo con uno sguardo.

“Perché non mi hai detto niente di questo?”.

Cercai di sfuggire ai suoi occhi, chinando la testa, ma senza esito. Non accennava a lasciarmi andare.

“Edward io…”, boccheggiai cercando una risposta degna di questo nome, mentre il suo sguardo bruciava nel mio.

“Mi dispiace”, ammisi infine. “Pensavo…non so nemmeno cosa pensavo!”.

“So solo che ero spaventata, e tu eri al telefono con Carlisle, e Claude…”, cominciai a gesticolare.

Le sue braccia mi circondarono prima che me ne rendessi conto, il suo petto premuto contro la mia guancia a calmare il mio respiro accelerato.

“Shh, shh”, mi cullò un poco. “Non importa, sistemeremo tutto”.

Annuii contro il suo maglione, respirando profondamente il suo odore inconfondibile.

“Credo che questo faccia parte dei loro giochi”, sull’ultima parola fece ricadere tutto il suo disprezzo. C’era disprezzo, ma anche rabbia.

Impiegai un attimo di ritardo per capire cosa intendesse. Il mal di testa sembrava rallentare qualunque cosa facessi.

“Pensi che siano loro?”, domandai insicura.

“Ne sono quasi sicuro, purtroppo”.

“Che genere di giochi?”.

“Gli Ubach sono particolarmente dotati d’inventiva quando vogliono qualcosa. Sono in grado di influenzare la nostra mente incosciente, quelli che chiamiamo sogni”.

“Come ci riescono?”, chiesi stupita.

Com’era possibile una cosa del genere? Improvvisamente, mi sentii usata. Stavano giocando con la mia testa.

“Come riesco io a leggere il pensiero, o Jasper a controllare le emozioni, o Alice a vedere nel futuro? E’ un dono, non si sa esattamente come funzioni”.

“Ma solo tu hai questo potere, mentre loro…”, lasciai sfumare la frase.

Lo sentii annuire.

“Sì, loro sono tutti in grado di farlo”.

“Promettimi che non permetterai che ti succeda niente”, mormorai decisa.

Alzai lo sguardo per controllare la sua espressione. Mi sorrise.

“Prometto”, disse teatralmente.

“E tu evita di metterti in pericolo”, aggiunse. “Sai che non potrei vivere senza di te”.

“Mmm”, bofonchiai in risposta.

Era difficile non sentirsi in qualche modo imbarazzata ogni volta che pronunciava frasi simili.

Ci fu un breve silenzio, in cui i nostri respiri e il battito del mio cuore sembravano essere gli unici nel raggio di chilometri. Affondai di nuovo contro il suo torace.

“A cosa stai pensando?”, chiesi qualche secondo dopo, la mia voce attutita dal suo petto.

“Questa frase è del mio repertorio”, replicò, un sorriso nella sua voce. “Cosa stai pensando tu?”.

Mi scostai da lui quanto bastava per scoccargli un’occhiataccia.

“Non ti hanno insegnato che ad una domanda non si risponde con una domanda?”.

Mi sorrise il suo sorriso truffatore, che mi accelerò il respiro.

“Te l’ho chiesto prima io”, insistetti, cocciuta.

Si strinse nelle spalle, e poi si avvicinò notevolmente al mio viso.

“Posso avere la precedenza?”, sentii a fatica, i battiti del mio cuore nelle tempie e nella gola.

Perché doveva essere così bravo a distrarmi? Perché io non riuscivo mai ad ottenere quell’effetto? Era così ingiusto. A volte mi faceva infuriare.

Sbuffai sulle sue labbra, socchiudendo gli occhi. Lo sentii sorridere.

“Sai cosa penso?”, chiesi inarcando un sopracciglio. “Dovresti lasciare che vi aiuti”.

Le sue braccia, che fino ad allora erano rimaste attorno alle mie spalle, scivolarono via.

“Sai che non posso”.

“Perché non puoi?”.

“El, hai promesso”.

“No, non l’ho fatto”, non potei fare a meno di sentirmi in colpa.

Sospirò profondamente, esasperato. Continuai ugualmente con la mia arringa.

“Non sarei un problema, anzi, magari potrei essere anche d’aiuto!”.

“El, no”.

“Ma tu…”, mi chiuse le labbra tra pollice e  indice prima che potessi finire la mia frase.

Alzai gli occhi al cielo, cercando di liberarmi. Quel piccolo movimento mi ricordò la fitta continua e pulsante nella mia testa.

Strinsi gli occhi, facendo una smorfia e incassando la testa tra le spalle come per proteggermi dal chiasso che proveniva dall’interno del mio cranio.

“Tylenol?”, chiese, un misto di divertimento e apprensione sul suo viso.

“Tylenol”, acconsentii.

Che ne dite? Le cose si complicano sempre di più ormai - cosa dovrebbero fare El e i Cullen? Spero che il capitolo vi sia piaciuto, ora vado davvero a dormire. Buonanotte e alla prossima! :) P.s. La storia ha raggiunto e superato le 100 recensioni, grazie di cuore!

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Capitolo 27
*** La calma prima della tempesta. ***


Buon pomeriggio! Eccomi qui con un nuovo aggiornamento estivo. Ho notato che le visualizzazioni sono un po' calate, e suppongo sia perchè siamo in periodo di vacanze - credo che potrei fermare gli aggiornamenti durante il mese di agosto in modo da riprendere bene a settembre. In ogni caso! Grazie a quelli che rimangono sempre e comunque e buona lettura :)

Capitolo 27. La calma prima della tempesta.

Era forse la quindicesima volta che il mio sguardo scattava verso le pesanti lancette dell’orologio appeso al muro in meno di cinque minuti.

Con calma, mi dissi, tornerà.

Edward era uscito da appena qualche minuto, e il tempo sembrava scorrere con una lentezza impensabile. Il mio mal di testa andava un po’ meglio ora, ma non abbastanza da riuscire a fare i compiti. O forse quella era semplicemente mancanza di voglia.

In ogni caso, il mio corpo si rifiutava categoricamente di abbandonare il piccolo divanetto bianco. La coperta in cui ero avvolta sembrava trattenermi ai cuscini con più forza di quanto avessi mai pensato. Mi sentivo un po’ una bambina.

La luce, all’esterno, era ormai del tutto scomparsa dietro le cime degli alberi, e la pioggia che rigava i vetri rendeva tutto più offuscato. Rimasi qualche minuto a fissare le gocce che scivolavano lungo le finestre, creando strane e diverse composizioni. Lanciai un’altra occhiata all’orologio, per poi sbuffare quando mi resi conto che erano trascorsi sì e no trenta secondi. Non sarebbe mai passato abbastanza velocemente. Tuttavia, era impossibile costringerlo a rimanere a casa. Sapevo che aveva bisogno di cacciare e di passare del tempo con i suoi fratelli.

Mi raggomitolai, se possibile, ancora più stretta su me stessa e presi un respiro profondo. Socchiusi gli occhi, cercando di rilassarmi. Forse, se mi fossi addormentata, il tempo sarebbe passato più velocemente.

“Va un po’ meglio ora?”.

Non volevo aprire gli occhi per controllare, e sentivo la mia voce mancare in gola. Così mi limitai a stringermi nelle spalle, sperando che Rosalie mi lasciasse riposare. Forse speravo troppo.

“Ti fa ancora male la testa? Io l’avevo detto a Alice, di non portarti più lì, ma è così cocciuta…”

Strinsi gli occhi al breve flash dovuto ad una luce accesa.

“Non sei eccitata? Domani a quest’ora Carlisle sarà tornato e la tua famiglia sarà qui! Non vedo l’ora di conoscere tua sorella, da come l’hai descritta dev’essere un bel tipo”.

Il monologo di Rose continuava imperterrito. Lungi da me, tuttavia, interromperla. A quel punto sarei stata costretta a farlo diventare un discorso.

“Okay, lo so. Hai mal di testa e sei in crisi d’astinenza da Edward-manca-da-ben-dieci-minuti, ma sono qui ed è parecchio che non parliamo”.

Sospirai, ma non potei darle torto. Come amica, ultimamente, avevo proprio fatto schifo.

Mi stiracchiai leggermente, aprendo gli occhi appena per guardarmi intorno.

Era seduta per terra, le gambe incrociate sul pavimento, i suoi grandi occhi dorati ad osservarmi ed i lunghi capelli biondi ad incorniciare il suo splendido viso. Una figura del genere sarebbe potuta benissimo appartenere ad una favola, il genere di favola che tutti sognano per sé. Buffo che per Rosalie la sua vita fosse tutto tranne che una favola.

Abbozzai un sorriso, che ricambiò velocemente.

“Bentornata nel mondo degli esseri pensanti”, mi accolse con una smorfia.

“Non stavo dormendo”, mi giustificai mostrandole la lingua.

“Certo, certo”.

“Quindi…”, avviai il discorso, senza avere idea di come continuarlo.

Ridacchiò un istante, passandosi una mano tra i capelli.

“Non vedo l’ora che arrivi qui la tua famiglia!”, la sua voce cristallina rimbalzò nella mia testa come una palla di cannone.

Incassai la testa nelle spalle, sperando forse di attutire quel suono.

“Sì, anch’io”, sospirai.

Il mio tono senza emozione sembrò sorprenderla.

“Non sei contenta?”.

Cercai di rispondere nel modo più onesto possibile.

“Sì, certo. È solo che… sono un po’ preoccupata, tutto qui”.

Annuì a se stessa, facendo scivolare i boccoli dorati lungo le sue spalle.

“Mi chiedo se sia la cosa più giusta… Sono sicura al cento per cento delle mie decisioni, ma quelle decisioni riguardano solamente me. Non ho preso in considerazione nessun altro. E ora mi chiedo se non abbia sbagliato, se non sarebbe stato più giusto tornare a casa ed evitare a voi e alla mia famiglia questo pericolo e…”.

“Sai che non è vero”, mi interruppe.

“Non ne sono più tanto sicura”.

Rose sospirò, offrendomi una mano. Ero restia ad abbandonare il mio rifugio tiepido, ma avevo bisogno della sua vicinanza. L’afferrai, e lei mi tirò a sé sul pavimento freddo.

Rabbrividii al contatto con le sue braccia gelide e mi affrettai ad interporre la mia calda coperta tra di noi. Come poteva fare così freddo agli inizi di Maggio?

“El, se fossi andata via con tua madre, l’avrei capito. Davvero. Ma non posso giurarti che non ti avrei seguita fino in Florida, perché sarebbe stata una delle mie alternative”.

Mi sorrise sincera, e non potei impedirmi di fare altrettanto.

“E in ogni caso ormai sarebbe troppo tardi per lasciarti tornare in Florida adesso. Anzi, sarebbe stato uno sbaglio anche allora. Se è vero che Claude è sulle tue tracce, tu e la tua famiglia sareste stati senza la nostra protezione”.

Rabbrividii appena alle sue parole, sforzandomi di ignorarle e impedire loro di fare breccia nei miei pensieri. Presi un respiro profondo.

“Quali alternative?”, chiesi ignorando la sua ultima frase.

“Mmm, vediamo…o seguirti, o il lavaggio del cervello a tua madre”.

Risi al pensiero, appoggiando la testa contro la sua spalla. Mi sentii bene.

“Rose! Rose!”, la voce di Alice ci interruppe.

Non badai a voltare il mio sguardo verso di lei. Rimasi dov’ero, combattendo un sorriso. Conoscevo quel tono, e sapevo che aveva qualcosa in mente.

“Devi aiutarmi assolutamente! Jazz è fuori con Emm e Edward, e Esme ha detto di chiedere a te”.

Rosalie non riuscì a trattenere un sorriso esasperato, lanciandomi un’occhiata eloquente.

Ridacchiai in silenzio, cercando di non farmi notare. Se Alice avesse chiesto anche il mio aiuto…rabbrividii al pensiero.

“Che c’è, Alice?”.

“Jasper mi sta per chiedere di sposarlo di nuovo e io non ho assolutamente niente da mettere!”.

Alzai gli occhi al cielo.

“Alice, così sembri davvero una sedicenne al primo appuntamento”, la prese in giro Rosalie.

Le tirai una gomitata, borbottando un “che hai contro le sedicenni tu?”.

Ero sicura di essermi appena procurata un bel livido.

“Non ho chiesto cosa sembro, ho chiesto una mano per disegnare il vestito più perfetto di sempre”.

Sentii il peso di Rose svanire da dietro di me, e raddrizzai velocemente la schiena. Il secondo dopo, era in piedi.

“Scusami, lo sto facendo anche per te. Se si accorge che ha un’altra vittima a disposizione, non esiterà oltre”, mi sussurrò all’orecchio.

Sorrisi, e un attimo dopo ero di nuovo da sola nel grande salone. Lanciai l’ennesima occhiata all’orologio e sospirai nuovamente. Ancora troppo tempo.

Rimasi a fissare la scena riflessa nell’enorme vetrata, osservando con attenzione i piccoli particolari che non sembravo capace di cogliere solitamente. La superficie lucida del pianoforte, i colori vivaci dei quadri appesi alle pareti, gli strani riflessi creati dalle luci. Tutto sembrava uguale e diverso allo stesso tempo.

Sbadigliai profondamente, senza badare a coprirmi la bocca con la mano. Stavo cominciando ad annoiarmi seriamente. Cercai di pensare a qualcosa che mi permettesse di ignorare la sua assenza, o almeno di non esserne così ossessionata. Siccome sembrava che dormire non mi fosse concesso, mi alzai e mi diressi verso la cucina – tanto valeva mettere qualcosa sotto i denti.

Sul mobile della cucina trovai il mio cellulare. Senza pensarci, lo presi in mano e composi velocemente il numero. Prima ancora di rendermene conto, stavo aspettando la risposta di qualcuno.

“Pronto?”, la sua voce era sorpresa.

“Oh, ehi Ang!”, esclamai allegra.

Era così tanto che non la sentivo. Avevo avuto troppi, troppi contrattempi negli ultimi giorni.

“El!”, mi salutò entusiasta. “Come stai? E’ passato troppo tempo, scusami se non mi sono fatta sentire”.

 “Niente di che”, cercai di suonare sincera. “Se non prendi in considerazione un mal di testa che potrebbe portarmi all’esasperazione. Tu piuttosto, ti è passata la febbre?”.

“No, purtroppo. L’influenza è uno schifo”.

“Comunque…sei sicura che vada tutto bene?”, aggiunse poco dopo.

Accidenti. Non l’aveva bevuta.

“Beccata”, ammisi, “Sono solo un po’ agitata…i miei arrivano domani”.

Sperai questa volta di riuscire meglio. Facevo pena a mentire.

Davvero?”, esclamò elettrizzata. “E quanto aspettavi a dirmelo?! Oh, devi essere così eccitata!”.

“Sì, infatti”, mormorai con un filo di voce.

“Scusa, sto urlando. Hai preso qualcosa per il mal di testa?”.

Sorrisi debolmente.

“Sì, non…”.

“El, scusami, ti richiamo più tardi. Mio fratello ha deciso di giocare con i miei trucchi! Ciao!”.

“Sì, a dopo”, risposi al telefono già attaccato.

Sbuffai profondamente, appoggiandomi al mobile della cucina.

Sarei mai riuscita a non mentirle, o sarei stata costretta a fingere con la mia migliore amica? Cercai di non pensare alla risposta più ovvia. E, soprattutto, alle sue conseguenze. Non avrei mai potuto dirle tutta la verità, per paura di metterla in pericolo. Ma egoisticamente c’era una cosa che mi preoccupava più di quello. Quando sarei diventata un…vampiro, non avrei più potuto vederla. Telefonate ed e-mail sarebbero state le uniche cose che avrei potuto garantirle. Mi sentii male al pensiero – come lei, anche la mia stessa famiglia avrebbe subito le stesse conseguenze. Sarei sparita di nuovo, e questa volta per sempre. L’avrei sopportato? L’avrebbero sopportato? Da parte mia, ero sicura che per me sarebbe stato possibile, se non pensarci, almeno non soffrire quanto loro. Edward sarebbe stato con me. Tuttavia, sapevo dai racconti di Carlisle cosa avrei provato, vedendo le persone che amavo pian piano sparire e lasciare un vuoto dietro di loro, mentre io, congelata nella mia eternità, sarei rimasta ad osservare quel vuoto diventare sempre più grande, fino a quando non sarebbe diventato insopportabile. Quel pensiero portò con sé qualche piccolo brivido. Faceva male solo a pensarci.

Mi passai una mano tra i capelli, inspirando profondamente.

In ogni caso, non c’era molto da fare. Era qualcosa di già deciso – deciso senza avvisarmi, ma pur sempre deciso. Quando sarebbe stato? Tra una settimana, un mese, un anno? Due anni? Di più?

Quando avrei perso il familiare battito del mio cuore per scambiarlo con qualcosa di totalmente sconosciuto ed infallibile? Non mi sentivo ancora pronta, nonostante cercassi di convincermi del contrario.

Certo, pensai con pessimismo, se non mi uccidono prima.

Il mio umorismo nero era davvero irritante. Ma, alla fine, non era qualcosa da ignorare. Cosa sarebbe successo se…

Fermai il pensiero a metà, riprendendolo con una diversa conclusione. Non riuscivo ad immaginarmi quella conclusione. Non potevo.

…se le cose non fossero andate come avrebbero dovuto? Se quello che ormai davo per scontato, non lo fosse poi stato? Dopotutto, è quando ti viene tolto anche il peggiore degli scenari, che capisci di aver finito. La mia testa sembrava non reagire bene a tutti questi pensieri, e il mio stomaco, allo stesso modo, si contorceva, a disagio. Forse era meglio trovare qualcosa da fare. Pensare non era il massimo nel mio caso.

Sospirai, lasciando ricadere le braccia sui fianchi.

“Ogni volta che torno, ti trovo sempre di cattivo umore. Devo stare fuori dai piedi ancora un po’?”.

Il suo tono scherzoso rischiarò i miei pensieri, facendo scattare la mia testa verso l’origine di quel suono. Cattivo umore o no, la sua voce mandò una scarica elettrica lungo la mia schiena.

Sorrisi immediatamente, voltandomi verso di lui.

Era come se riuscissi a respirare solamente vicino a lui. Tutto sembrava assumere toni e colori più naturali quando ero con lui, e sembrava più semplice da affrontare. Non c’era modo per me di guarire dalla sua dipendenza, né avevo intenzione di farlo.

Inspirai profondamente, senza lasciare svanire il sorriso. In meno di un secondo, era davanti a me, il suo viso incredibile a poco più di centimetri dal mio. Non c’era modo per me di abituarmi a lui, alla sua bellezza impossibile o alla sua velocità sovrumana. Cercai di apparire rilassata mentre il cuore perdeva qualche battito.

“Io ho un’idea migliore. Potresti non andartene mai”.

Mi sorrise il suo sorriso truffatore, avvicinando la mia fronte alla sua. Finse di pensarci su qualche istante, per poi tornare ad affondare nei miei occhi.

“Mmm”, mormorò senza perdere il sorriso.

Mi sospinse con dolcezza, stringendomi la vita con entrambe le mani. La sua espressione era soddisfatta in uno strano modo nel vedere il mio sguardo perplesso mentre mi rendevo conto di ciò che stava facendo. Le sue labbra si avvicinarono alle mie, ma senza sfiorarle. Rimase così qualche istante per poi spostarsi sul mio collo, dove riprese quella tortura infinita. Il mio petto continuava ad alzarsi e abbassarsi freneticamente, senza mantenere uno schema. Stava cercando di farmi venire un infarto? Era sulla buona strada.

Sospirò nell’incavo del mio collo, per poi ritrarsi e scoccarmi un’occhiata divertita. Il suo sorriso si tese. Sentii il profilo freddo del frigo contro la mia schiena, e mi arresi al suo magnetismo costante. Allacciai le braccia al suo collo e lo attirai a me con quanta forza potessi. Non molta, rispetto alla sua. Se avesse voluto, sarebbe potuto rimanere perfettamente immobile. Tuttavia, l’altro polo della calamita non si oppose.

Mi ritrovai aggrappata alla sua giacca, ancora bagnata dalla leggera pioggia che cadeva fitta, mentre le sue labbra cercavano le mie con impazienza e una strana smania. Mi ricordò per un secondo l’insistenza di Tom, ma non aveva niente a che fare con quello – affatto. Il mio respiro correva, cercando di rincorrere i miei battiti, che incespicavano affannati. Mi allungai sulle punte, per prolungare quanto possibile quel miracolo. Mancavano ancora pochi secondi, e avrebbe deciso che era abbastanza per quel momento. A volte era così semplice dimenticare che la mia vita dipendeva da quello.

Le sue mani mi tenevano stretta, impedendomi di scappare via. Come se avessi una ragione al mondo per andarmene o fossi abbastanza pazza da volerlo. La sua mano s’inchiodò con forza sulla mia schiena, facendomi rabbrividire per la temperatura, e mi tirò a sé – se possibile, ancora di più.

Ad un tratto, si fermò. Si scostò leggermente da me, inchiodando il mio sguardo al suo. I suoi occhi splendevano di oro liquido, acceso di quella natura che cercava di tenermi nascosta per il mio stesso bene. A poco a poco, ritornarono quelli di sempre.

Sollevò un sopracciglio, combattendo un sorriso.

“Okay, se il bentornato è questo, puoi anche andare…ogni tanto”, ansimai senza fiato.

Ridacchiò divertito, chinandosi per toccare le mie labbra ancora una volta.

“In ogni caso, bentornato”, gli sorrisi sincera.

Attesi che il mio respiro si stabilizzasse.

“Com’è andata la…cena?”, chiesi con nonchalance.

Stavo migliorando su questo aspetto. Mi sorrise, inclinando la testa da un lato per osservarmi.

“Bene, piuttosto…movimentata”, ridacchiò alla sua battuta personale.

“Ehi!”, mi salutò Emmett con un cenno.

Scoppiai a ridere non appena mi resi conto di come era ridotta la sua maglia.

“Lo sai che Rose ti ucciderà, non è vero?”.

Sembrava che si fosse divertito un mondo a lottare con la sua cena, o qualunque cosa fosse. Era tagliata orizzontalmente più volte, lasciando della stoffa solo qualche brandello che penzolava senza vita sul suo enorme torace.

Gli lanciai un’occhiataccia. Si unì alla mia risata.

“Non credo che sia possibile, ma in ogni caso sarà furiosa”.

“Penso anch’io”, mormorò Edward senza staccare gli occhi dal mio viso.

“Sentiamo, per cosa dovrei essere furiosa?”, il tono gelido di Rosalie, proveniente dal piano di sopra, mi procurò un’altra risata.

“Oops”.

“Emm!”, lo chiamò di nuovo.

Lui sorrise ampiamente, per poi sparire verso le scale. Stavo ancora sorridendo quando riportai il mio sguardo verso Edward. I suoi occhi erano ancora lì ad osservarmi.

“Che c’è?”, chiesi imbarazzata.

“Niente”, si strinse nelle spalle.

Lo fissai, scettica.

“Lo sai, sei splendida”.

Sentii le mie guance scaldarsi e fui rapida nel nascondere il viso tra i capelli.

“Bugiardo”, gli tirai un leggero pugno sul petto.

“Sì”, acconsentì. “Lo sono spesso. Ma non ora”.

“Smettila”, mugugnai con un sorriso, appoggiando la testa sul suo torace.

“Come preferisci”, il sorriso nella sua voce era più che evidente.

 

Quella sera andò tutto come al solito. Cena, Rosalie, tv, Edward. La mia monotonia era perfetta. Speravo che tutto questo fosse normale, che questo fosse finalmente il modo in cui tutto doveva andare. Tuttavia, una parte della mia mente non poté non chiedersi se questa non fosse semplicemente la calma prima della tempesta.

Ero piuttosto stanca, ed evitai di rimanere sveglia troppo a lungo.

“Resti qui?”, gli chiesi come ogni sera.

Annuì. “Stasera soprattutto”.

“La testa non mi fa più così male”.

Non volevo che si preoccupasse troppo. Non che mi dispiacesse il fatto che sarebbe rimasto.

“Non è solo questo. Ricordati che sei sotto sorveglianza”, mi fece l’occhiolino.

Oh, giusto”.

“E in ogni caso, mi piace guardarti dormire”, cercò di alleggerire l’atmosfera. “Quindi ora dormi”, mi sorrise e poi mi baciò la fronte.

“Ai suoi ordini”, non potei impedirmi di sorridere a mia volta, raggomitolandomi al suo fianco.

“Buonanotte”.

“’Notte”.

Con il suono della sua voce, che sembrava canticchiare una canzone, e la sua vicinanza, mi addormentai velocemente. Questa volta, senza sognare.

 

“Sveglia, sveglia!”, mi sentii canticchiare all’orecchio.

Mugugnai qualcosa di incomprensibile, voltandomi dall’altra parte. Quel movimento mi ricordò che avrei dovuto sentire una fitta, che invece era scomparsa. Niente mal di testa. Forse la giornata incominciava con il piede giusto.

“Dai, svegliati!”.

O forse no.

“Alice”, ruggii ancora con gli occhi serrati.

“La parola scuola ti dice niente? Forza, sbrigati”.

Siccome non accennavo a muovermi di un millimetro, usò la parola magica.

“Edward è in cucina che ti aspetta, vuoi fare attendere anche lui?”.

Sorrisi leggermente, costringendomi con estrema fatica ad aprire gli occhi.

“Oh, era ora. E adesso muoviti”.

Mi lanciò quello che supponevo fossero i miei vestiti e svanì nel nulla, come era arrivata.

Alzai gli occhi al cielo. Indugiai ancora qualche istante tra le coperte, ma alla fine riuscii a strisciare giù dal letto. Come mi dispiaceva abbandonarlo la mattina.

Evitai di rovinarmi il buonumore mattutino guardando la mia immagine allo specchio o i capi che Alice aveva scelto per me. Mi diressi verso il bagno, passandomi una mano tra i capelli per districarli. Una volta che ebbi finito di lavarmi, fui costretta ad esaminare il mio vestiario.

Ugh. Non potevo aspettarmi che Alice avesse un minimo di buon senso, ma l’avevo quantomeno sperato. Una lunga maglia di cotone elasticizzato nera, con piccoli dettagli bianchi e grigi, era la cosa che la mia vista sopportava con più facilità. Per quanto riguardava la gonna… beh, quella era un’altra storia. Ripescai velocemente i jeans del giorno prima, rifiutandomi categoricamente anche solo di immaginarmi con addosso quella.

Una volta indossati i jeans, mi infilai la maglia, arrangiandola in modo che non sembrasse troppo elegante. La ripiegai su se stessa, in modo che creasse una certa piega cadendo sui pantaloni. Da quando ero diventata così attenta a questo genere di cose?

Evitai di rimuginarci sopra, afferrando lo zaino e affrettandomi verso casa. Verso Edward.

“Buongiorno a tutti”, mi annunciai con un lieve fiatone.

Non potevo negare di aver corso, era evidente. Esme e Carlisle mi sorrisero gentili.

“Buongiorno, El. Dormito bene?”.

Annuii, guardandomi attorno.

“Sì, grazie”, risposi con voce assente.

Sapevo che era scortese, e sperai che non vi badassero troppo.

Esme sorrise, notevolmente compiaciuta.

“E’ in camera sua”.

A stento trattenne una risata. Mi sentii arrossire, e cercai la mia via di fuga.

“Ehm…grazie. Vado”.

Mi affrettai verso le scale, salutando con un cenno Emmett e Rosalie, abbracciati teneramente sul divano. Non sembravano molto interessati alla tv, nonostante fosse accesa.

Intravidi anche Jasper, che si limitò a sorridermi cordialmente. Mi fece sentire in colpa, ma evitai di pensarci.

Probabilmente mi aveva sentita avvicinare, i miei passi erano molto più rumorosi di quelli dei membri della sua famiglia. Persino Emmett riusciva a creare meno scalpiccii di me. Quando fui appena a metà del corridoio, lo vidi fare capolino dalla sua stanza.

Il suo sorriso era vagamente soddisfatto.

“Buongiorno”, mormorò al mio orecchio in meno di un battito di ciglia.

Sobbalzai. Nonostante lo facesse spesso, non riuscivo ad abituarmi alla sua velocità.

“Ciao”, abbozzai frastornata.

Mi baciò teneramente la fronte, per poi prendermi per mano.

“Facciamo colazione?”, propose.

Facciamo?”.

Gli scoccai un’occhiata scettica. Mi sfiorò il collo con le labbra, percorrendolo nella sua lunghezza.

“Se non ti dispiace”, respirò a contatto con la mia clavicola.

Lo sentii sorridere mentre il mio cuore effettuava il primo sprint della giornata.

Socchiusi gli occhi, inarcando leggermente la schiena. Il suo tocco sembrava lasciare fiamme sulla mia pelle, che si contrapponevano alla pelle d‘oca.

“Rientro nella tua colazione?”, scherzai, cercando di non apparire totalmente assente.

Si ritrasse immediatamente, lasciando solo la sua mano nella mia.

“Ovviamente no. Mai”, sibilò tra i denti, i suoi occhi ora seri e quasi congelati.

Io e la mia boccaccia. Se solo ne fossi stata in grado, mi sarebbe piaciuto tirarmi un calcio in faccia.

Mi morsi la lingua, costringendomi a non dire qualcosa che avrebbe potuto peggiorare la situazione.

Il suo buonumore mattutino era già sparito.

Sospirai, rafforzando la stretta delle nostre mani.

“Dai, ora andiamo. Devi fare colazione”, enfatizzò il soggetto.

Annuii, seguendolo lungo il corridoio.

 

Notai Alice osservarmi nello specchietto retrovisore, un moto di disgusto sul suo piccolo volto.

Inarcai un sopracciglio, dubbiosa.

“Quando imparerai a vestirti decentemente, sarà sempre troppo tardi”.

Mi rivolse un’occhiataccia.

“Alice, dalle un po’ di tregua”, s’intromise Rosalie rivolgendomi un gran sorriso.

“Certo, difendila sempre, tu”.

Ridacchiammo entrambe alla sua espressione indignata.

Tornai ad osservare il paesaggio fuori dal finestrino. La velocità era tale da non permettermi di distinguere quasi nulla. Per quella strana cittadina che era Forks, oggi era una bella giornata.

Il cielo grigio permetteva di scorgere un bagliore leggermente più intenso del solito oltre la coltre di nubi. Non era troppo umido, ma nemmeno secco. Chissà quanto sarebbe durato.

“El?”, il mio cervello registrò l’enorme mano di Emmett dondolarmi davanti agli occhi. “Terra chiama El?”.

“Okay, è fatta. Chi le ha dato troppo Tylenol ieri sera?”, rise alla sua stessa battuta.

Mi ripresi, scuotendo leggermente la testa.

“Piantala Emm”, lo rimbeccò Rosalie.

Ero sorpresa di vederlo già fuori dall’abitacolo, la sua enorme figura che incombeva su di me. Non mi ero accorta di essere arrivata a scuola.

Edward si sporse verso di me, spostando quel gigante dalla sua visuale.

“Tutto okay?”.

“Mmm, credo di sì”, abbozzai un sorriso. “Solo un po’ stanca forse”.

Mi offrì la mano, che accettai subito. Ignorai la pelle d’oca che creò il contatto, e ci incamminammo verso le prime lezioni.

“Non hai Matematica, tu?”, lo fissai perplessa mentre mi seguiva nella classe di Spagnolo.

Le espressioni dei miei compagni erano le stesse, solamente più sorprese e sognanti. O almeno, speravo di non avere sempre quella espressione. Mi accompagnò in fondo alla classe, dove prendemmo due posti liberi. Ridacchiò del mio sguardo confuso.

“Ricordi venerdì, quando io e Alice siamo andati in segreteria?”.

Annuii velocemente, senza capire.

“Ecco, abbiamo fatto dei cambi strategici di orario”.

Sollevai le sopracciglia.

“Non capisco il perché”, ammisi sincera.

“Beh, stavo solamente cercando di starti vicino il più possibile”, mi sorrise. “In ogni caso, adesso sei sotto sorveglianza, quindi…”.

Sorrisi ampiamente.

“Direi che mi ci potrei abituare”.

Tuttavia, non riuscii a non lanciare uno sguardo malinconico al posto vuoto di Angelica.

 La lezione trascorse velocemente, e quando alle mie orecchie giunse il suono insistente della campanella, seguito dal pesante strisciare delle sedie sul linoleum bianco, lanciai più di un’occhiata all’orologio alla parete. Da quando il tempo aveva messo il turbo?

“Sopravvivrai alla prossima ora?”, mi chiese Edward una volta in corridoio.

“Suppongo di sì, perché?”.

“Storia è l’unica lezione che hai da sola, la signorina Cope non ha potuto spostarti in un altro corso”.

Sbuffai.

“Bene”, mormorai con sarcasmo.

Eccoci qua! Questo capitolo - come si capisce parecchio anche dal titolo - è un po' di passaggio, "di pausa", se vogliamo chiamarlo così. Quei due hanno bisogno di prendere un po' di fiato prima di farli cominciare a preoccupare sul serio muhahaha. Ah niente, alla prossima settimana! Godetevi le vacanze :)

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Capitolo 28
*** Morte. ***


Buonasera mondo! Ecco l'aggiornamento come sempre. Come promesso, da qui iniziano gli scossoni - sarà poi un crescendo fino alla fine muhahahaha. Ok non so già più che dire ._. Ah niente, buon capitolo! :) Fatemi sapere che ne pensate.

Capitolo 28.Morte.

La professoressa continuava a spiegare ormai da più di quaranta minuti, e a me sembravano trascorse ore. A volte desideravo solo di poter dormire in santa pace, senza aver paura di fare figuracce o essere rimproverata. Quell’ora, l’unica che avevo da sola, sembrava non voler terminare.

Ero praticamente sdraiata sul banco, la testa appoggiata su una mano che ormai non sentivo più. Con l’altra scarabocchiavo su un piccolo foglietto bianco con la matita - l’unica cosa che mi impedisse di andare in letargo seduta stante. Ogni tanto alzavo lo sguardo e lo dirigevo verso il grande orologio appeso alla parete di fronte a me, che sembrava prendersi gioco del tempo con le sue enormi lancette.

La prof posò il suo sguardo su di me, per poi scivolare via velocemente. Era una donna stramba; davvero, davvero stramba. I capelli corti e ricci incorniciavano un viso minuto solcato da piccole ma infinite rughe di un colorito più scuro rispetto al suo viso.

“La crisi del ‘300…”, il suo monologo continuava imperterrito.

Quella voce così impassibile, così assolutamente noiosa mi irritava. Sembrava aver voglia quanto me di starla a sentire.

“La peste fu il colpo di grazia. Giunse intorno al 1348, provocando la morte di quasi un terzo della popolazione in continue ondate…”.

Guardai il resto della classe – non c’era nessuno che la stesse seguendo. Mi sfuggì un sorriso.

“Cambiò radicalmente il modo in cui veniva concepita la morte stessa. Vennero stravolti gli ideali cristiani: la morte non era più una casualità che apriva le porte al regno celeste, ma qualcosa di comune e inarrestabile, qualcosa da temere”.

Riportai gli occhi sulla prof. La sua voce era cambiata, animandosi un poco.

“Si accentuò il sentimento dell’attaccamento alla vita. La morte era solo la fine, non più l’inizio di qualcosa di più grande. Ed era soprattutto una fine tastabile, visibile, qualcosa che poteva accadere da un momento all’altro.

“Questo concetto, il concetto della morte, è differente da quello dei giorni d’oggi. Oggi la morte è vista più come…qualcosa di eccezionale, un incidente, qualcosa che non dovrebbe succedere. Ognuno di noi sa perfettamente che non è così, ma siamo portati a crederlo, a considerarlo in questo modo. La prima cosa che proviamo davanti alla morte di qualcuno è la sorpresa. Perché? Perché è accaduto? Non sarebbe dovuto succedere. Sappiamo che avrebbe potuto, perché è così che va la vita, ma non siamo portati a pensarlo. La società è cambiata radicalmente rispetto a quella di allora. C’è chi sostiene ancora che la morte sia un nuovo inizio, un modo per vivere senza temere nuovamente questa morte che ci spaventa da sempre, ma la maggior parte della gente possiede ancora l’attaccamento alla vita che hanno sviluppato gli europei del ‘300. Nessuno vuole morire, nessuno vuole perdere quello che ha, perché ha paura di quello che potrebbe trovare o di quello che, forse, potrebbe non trovare. Se siamo umani, la temiamo.

“Ma dopotutto, ci basiamo sull’esperienza. Se le cose sono andate così fino ad ora, chi può assicurarci che sarà così per sempre? Persino la morte, secondo questo punto di vista, potrebbe non essere logicamente necessaria”.

La campanella smorzò il suono delle ultime parole della prof.

“Bene, per la prossima volta voglio un riassunto del capitolo quindici e sedici, e rispondete alle domande in fondo alla pagina”, la sua voce tornò rapidamente il cupo sospiro annoiato di sempre.

La stavo ancora fissando ad occhi spalancati quando mi accorsi che tutto intorno a me era di nuovo in movimento. Sedie, banchi, cartelle…cambio dell’ora. Il vociare dai corridoi era forte, ma allegro.

Ero stupita. Non credevo che una lezione di storia potesse interessarmi. Avevo perso la cognizione del tempo.

Raccolsi le mie cose, i miei movimenti lenti e ponderati mentre riflettevo su quello che avevo appena finito di ascoltare. Ogni singola parola che aveva detto era vera. Al pensiero che potessi perdere la vita domani, o in un prossimo futuro, faceva rigirare il mio stomaco in modo strano. Forse perché ci ero andata vicina già una volta. E poi le parole di Jacob tornarono alla mia mente come un campanello d’allarme, premuto con insistenza per attirare l’attenzione – impossibile da ignorare.

“Aspettare finché non saranno gli Hoser stessi a…trovarla. E trasformarla”.

Trasformarla. Sarei morta. Non era una morte definitiva, ma lo era abbastanza da spaventarmi.

Mi sarei risvegliata, sarei rimasta la stessa di prima…più o meno. O almeno speravo. Dopotutto, non sapevo assolutamente come mi sarei sentita, cosa avrei provato. Sarei stata anche io come la peste? Una piaga da cui fuggire, impossibile da fermare?

No, Edward non me lo avrebbe mai permesso. Ma cosa sarebbe successo se non fosse andato tutto come doveva? Se qualcosa fosse andato storto e fossi morta realmente? Morta di una morte definitiva, assoluta. Non riuscivo a pensarci. Tutto sembrava programmato, già scritto in quello che sembrava un destino dotato di grande ironia. L’unica cosa che volevo era vivere la mia vita.

Perché questa piccola, semplice e comune pretesa sembrava così impossibile per me? Avevo fatto qualcosa di sbagliato, rotto qualche strano equilibrio tra mortale ed immortale? Questo strano destino mi stava solo prendendo in giro, o cercava di punirmi per qualcosa?

Così tante domande…e nessuna risposta. Era così frustrante.

Mi misi lo zaino in spalla e abbracciai i libri. Mi diressi verso la massa in corridoio, che sembrava sfrecciare a velocità inumana.

Pensai ai Cullen, a tutti loro. Apparivano felici, in qualche modo appagati dalla loro bizzarra esistenza. Tuttavia, sapevo bene che avrebbero dato qualsiasi cosa per tornare umani ed affrontare la morte che noi, deboli umani, temevamo sopra ogni cosa. Rose mi aveva detto che la sua vita, o esistenza, era una favola, come la mia. Ma la sua non aveva un lieto fine. Nonostante lei amasse Emmett ed avesse una famiglia splendida su cui contare, avrebbe dato tutto, persino Emmett, in cambio del suo lieto fine – la morte.

Quindi la mia favola non aveva un lieto fine? Poteva averlo? E soprattutto, lo volevo?

Il viso di Edward sembrava galleggiare davanti ai miei occhi mentre procedevo a passo lento verso la lezione successiva.

“Ehi”, sentii la voce di Rose improvvisamente al mio fianco.

Mi guardai attorno per capire come fosse riuscita ad arrivare lì, tra tutta quella gente.

“Ehi”, risposi con un attimo di ritardo.

“Edward mi ha chiesto…”, abbozzò quasi imbarazzata.

“Di scortarmi, sì ho capito”.

Sorrise leggermente, abbassando lo sguardo.

“Com’è stata la lezione?”.

Mi strinsi nelle spalle, cercando di suonare disinteressata.

“Al solito, niente di particolare”.

Mi sorrise di nuovo, alzando lo sguardo verso il mio viso.

“Noiosa?”.

“No, non direi”, ammisi. “Almeno non tutto il tempo”.

Ridacchiò al mio tono di voce e dopo fece una smorfia. La guardai stranita.

“I tuoi due amichetti ti vogliono salutare”, quasi ringhiò attraverso i denti.

Sorrisi alla sua espressione, voltandomi per seguire il suo sguardo. Subito dopo sbuffai, alzando gli occhi al cielo.  Ero certa di aver visto Rosalie sorridere, soddisfatta della mia reazione.

“Ehi, Coop!”, guardai in cagnesco il ragazzo che si sbracciava in mezzo al corridoio per farsi notare. L’istinto mi consigliava di voltarmi nuovamente e fare finta di non averli visti, ma ignorai quel buon suggerimento.

“Ciao Dean”, mi fermai, cercando di sorridere.

“Peter”, feci un cenno con il capo nel tentativo di salutare il suo amico.

“Pensavo che mi avresti ignorato e saresti scappata via”, sogghignò compiaciuto.

“Lo pensavo anch’io”, bofonchiai contrariata.

“Cosa?”, chiese sporgendosi verso di me.

“Oh, niente”.

Ripresi a camminare, cercando di tenere il loro passo. Erano così lenti, sicuramente non avevano paura di arrivare in ritardo. O meglio, non gli importava.

Alzai lo sguardo dal pavimento per cercare Rose. Era andata avanti, ma si era fermata per osservarmi. Ovvio che l’avesse fatto – ero sotto sorveglianza.

“Come mai ieri non c’eri?”, chiese Morrison ad un tratto.

“Ehm…motivi di famiglia”, abbozzai con un tono che non ammetteva repliche.

Ovviamente, lui lo ignorò.

“Cioè?”, insistette alzando la voce per farsi sentire sopra il baccano.

Mi voltai quanto bastava per sfoderare un ghigno beffardo.

“Non sono affari tuoi”.

Si accigliò e il mio sorriso si tese ulteriormente.

Motivi di famiglia… Beh, in effetti si poteva anche considerare così. Era un problema di tutti noi, tutta la mia famiglia. Mi impedii di visualizzare nella mia mente il volto di Claude, che già minacciava di tornare a trovarmi questa notte. Sospirai profondamente, stringendo i libri contro il petto.

Sentivo Dean e Peter ridacchiare sommessamente alle mie spalle, i loro bisbigli chiari anche nella confusione del cambio dell’ora. Tuttavia, non riuscivo a distinguere cosa stessero dicendo. Aguzzai l’orecchio, in cerca di qualcosa in grado di distrarmi dai miei problemi. Trattenni il respiro, nella speranza di udire meglio senza il debole suono del ricambio d’aria nei miei polmoni. Niente, non riuscivo a sentirli.

Espirai pesantemente, contrariata.

Non appena quel pensiero colpì la mia mente, mi sentii colpevole. Ascoltare i loro pensieri sarebbe stato come violare la loro privacy, non potevo farlo.

Li sentii di nuovo sghignazzare alle mie spalle e mi voltai ad osservarli con sguardo curioso e in qualche modo colpevole. Trovai entrambi i loro sguardi su di me.

Mi voltai immediatamente, riportando lo sguardo davanti a me. Sentivo il mio viso leggermente più caldo nella zona delle guance. Sperai con tutte le mie forze di non essere arrossita. Stavano parlando di me? Ero abbastanza egocentrica da pensarlo. La mia curiosità era stata violentemente stuzzicata.

Cercai di reprimerla, usando le scuse di cui ero provvista. Alla fine, tuttavia, mi arresi alla curiosità.

Con un sospiro, chiusi gli occhi e ricordai quello che avevo messo in pratica il giorno prima.

Un bel respiro, raccogli e poi…lentamente”.

Mi risultava ancora difficile trovare il mio scudo, ma ormai sapevo come fare. Non era più difficile come prima. A poco a poco, mentre lasciavo andare con attenzione quello strano velo che mi ricopriva, sentii come dei piccoli bagliori accendersi sotto di esso.

Improvvisamente, la confusione spacca timpani che caratterizzava il cambio dell’ora sembrava essersi triplicato nella mia testa. Frenai l’istinto di portare le mani alle orecchie e smetterla immediatamente. Tutto era un susseguirsi di immagini, sfumature, parole assordanti. Pensieri.

Mi concentrai sui due piccoli fuochi alle mie spalle, cercando di isolare tutto il resto.

- Io l’avevo detto-.

Ascoltai con attenzione, stringendo gli occhi nello sforzo. Non mi ero sbagliata.

Nella mia mente si susseguivano immagini diverse, appartenenti a menti diverse, ma ero in grado di riconoscere a chi appartenevano immediatamente. Repressi un ruggito quando mi ritrovai ad osservarmi dalla loro prospettiva. Non mi piaceva il modo in cui stavano pensando.

- Guardala!-

- Ti avevo detto che era bella-

- Amico, tu sei pazzo. Hai visto come la guarda quel mostro di Cullen? Farai anche parte della squadra di football, ma non credo che la spunteresti.

Con la coda dell’occhio li osservai mentre cominciavano a spingersi.

- Bella fiducia, grazie mille!-

- Di nulla, dovere-

Attraverso quell’immagine notai me stessa passarmi nervosamente una mano nei capelli – non me ne ero nemmeno accorta. Mi voltai verso di loro, palesemente irritata, salutandoli con un cenno stizzito della mano per poi dirigermi quasi di corsa verso Rose. Volevo sfuggire il prima possibile a quei due.

Come un elastico troppo teso, il mio velo tornò al suo posto appena gliene diedi l’occasione. La mia prima prova non era andata granché a buon fine.

Accelerai il passo, stringendo con forza i libri contro il petto e cercando di sfuggire a quella situazione imbarazzante il prima possibile.

Trovai Rose davanti alla porta della classe, un sorriso compiaciuto stampato in faccia.

“Problemi?”, ridacchiò senza preoccuparsi di nascondere la sua soddisfazione.

“Al momento solo quei due”, sospirai facendo un cenno sopra la spalla.

“Vuoi che me ne occupi?”, domandò innocente, un’ombra minacciosa nella sua voce.

“Grazie, ma no grazie”, le rivolsi un breve sorriso.

“Dai, entriamo che è già tardi”.

 

La lezione durò fin troppo. A qualche minuto dal tanto sospirato suono della campanella, mi accorsi che il mio stomaco reclamava a gran voce il pranzo.

Stupido, insistente, inopportuno stomaco.

Con mio grande imbarazzo, mi resi conto dall’espressione divertita di Rosalie, che tentava in ogni modo di mascherare la sua risata con dei deboli colpi di tosse, che se n’era accorta. Eccome.

Alzai gli occhi al cielo, cercando per quanto mi fosse concesso di seguire gli ultimi minuti della lezione. Matematica era sempre stato un supplizio e ora, con il nuovo argomento appena iniziato, non sembrava essere migliorata. Finalmente, la campanella suonò, riempiendo l’aria di sospiri di sollievo e rumori di sedie. Ora di pranzo.

Riposi velocemente le mie cose nello zaino e lo misi in spalla, dirigendomi a grandi falcate verso il corridoio. Ero pronta a tuffarmi nella folla che confluiva verso la mensa.

“Che fai, non mi aspetti nemmeno?”, sentii Rosalie chiamarmi.

Le sorrisi, fermandomi sulla porta per aspettarla. Il mio stomaco ruggì impaziente.

“Mmm”, mormorò mentre attraversavamo il corridoio affollato.

“Che c’è?”.

“Niente, pensavo che è strano che oggi non ci sia il tuo amichetto appiccicoso, quello che ti insegue la mattina…come si chiama? Duke?”.

Alzai la testa di scatto, voltandomi indietro e poi di nuovo avanti.

“Wow”, ridacchiai. “Non me ne ero nemmeno accorta”.

Ero davvero distratta, forse cominciavo a pensare troppo. Mi ero dimenticata di Tom? L’insistente, sempre presente Tom? Scossi la testa. Non lo credevo possibile. Quantomeno, mi sarei dovuta accorgere del sollievo dovuto alla sua assenza.

“Non pensare troppo, altrimenti rischi l’autocombustione”, mi prese in giro.

“Molto divertente”, le mostrai la lingua.

“Molto maturo”, replicò lei.

Alzai gli occhi al cielo, accelerando.

“Okay, ora vai pure al tuo tavolo”, mi disse quando arrivammo in mensa. “Ci vediamo dopo”.

“Certo”, mormorai sarcastica. “Come se avessi la speranza che mi perdiate di vista anche solo un secondo”.

Rise e se ne andò via, ondeggiando con grazia fino al tavolo dove erano già tutti seduti. Ricordai a me stessa di non apparire troppo…sognante nel guardare Edward. Era necessario che a scuola non pensassero nulla su noi due. Così, mi limitai a fare un cenno con la mano verso il suo tavolo, sorridendo ampiamente.

I suoi occhi mi studiarono, come per assicurarsi che fossi ancora nello stesso stato in cui mi aveva lasciata, e poi mi sorrise. Quel sorriso…prima o poi sarei morta.

“El!”, sentii una voce familiare, ma del tutto inappropriata a quel luogo.

Una voce che ricordavo solamente, di cui non riuscivo a richiamare il viso… Mi voltai di scatto, sbarrando gli occhi in sorpresa.

“Mel!”, quasi gridai.

La osservai scioccata mentre correva verso di me. Quando mi arrivò contro, quasi persi l’equilibrio.

“Cosa…oddio Mel! Cosa ci fai qui?”.

Potevo sentire le lacrime gonfiarmi gli occhi, mentre il ricordo di quella sera tornava alla mia mente. Mi sentivo così stupida, così inutile. Come avevo potuto scordare il suo viso? E invece era lì, tra le mie braccia. I suoi occhi chiari mi osservavano euforici, i lunghi capelli rossicci che le coprivano in parte le guance. Mi scostai da lei, posandole entrambe le mani sulle spalle. Dovevo osservarla, ora che potevo. Avevo il terrore di poter dimenticare ancora il suo volto.

“Non fare la solita sentimentale”, mi canzonò divertita.

“Non posso crederci”, mormorai passandomi una mano tra i capelli. “Che diavolo ci fai qui?”.

“Devo andarmene?”, sollevò entrambe le sopracciglia.

In risposta, strinsi la presa sulle sue spalle.

“Ok, ok. Comunque anch’io sto bene, grazie mille”, mi prese in giro.

“Sì, lo so, scusami. Come stai? E’ solo che…non capisco”.

Ero così confusa. Fece spallucce.

“Mmm, niente di nuovo. A casa è una noia, così quando ho sentito che i tuoi stavano venendo qui, ho deciso di fare un salto”.

“El, chiudi la bocca”, ridacchiò poco dopo. “Non è niente di che, sono io e sono qui”.

Niente di che”, ripetei scettica. “Certo”.

“Dai, raccontami qualcosa”, mi trascinò al tavolo più vicino.

La seguii come un automa, incapace di capire cosa accadesse attorno. Tutto sembrava susseguirsi alla velocità della luce, senza darmi modo di accorgermene.

“Tipo…”, riprese il discorso. “Dimmi chi è quel pezzo di ragazzo laggiù che ti osserva come se avesse paura che ti rubassi”.

Mi ritrovai a sorridere. Non avevo bisogno di voltarmi per capire di chi stesse parlando.

“Edward Cullen”, mormorai, un po’ compiaciuta.

Il mio sorriso si tese ulteriormente. Pronunciare il suo nome, sapendo che era interamente mio, non era qualcosa a cui mi ero abituata. Faceva sempre un certo effetto.

“Mmm”, mormorò pensierosa. “Qualcosa mi dice che hai uno scheletro nell’armadio”.

Ridacchiai, lanciando un’occhiata a Edward dietro di me.

La mia amica poteva sapere di noi due? O rientrava negli “altri”? Dopotutto, Angelica sapeva che c’era qualcosa. Non poteva sapere tutto, ovviamente – ma qualcosa sapeva.

“No, non…”, non conclusi la frase.

I miei occhi si spalancarono non appena registrarono l’espressione stampata sui visi dei Cullen. C’era, disprezzo, rabbi, indecisione – ma soprattutto paura. Rosalie, Edward ed Alice erano in piedi, rivolti verso di me, mentre Emmett e Jasper erano seduti, con il busto completamente girato verso il mio tavolo. Qualcosa, nelle loro espressioni, mandò un brivido lungo la mia schiena.

Scoccai a Edward uno sguardo interrogativo, inclinando la testa di lato.

Perché ora erano tutti così all’erta? C’era qualcosa di cui preoccuparsi? O forse… ma perché mai avrei dovuto tradire il loro segreto, e esporli così al mondo? Se non l’avevo fatto fino ad ora, mi sembrava così inutile. Persino all’inizio, quando la cosa mi spaventava enormemente, sapevo di non poter raccontare di loro a nessuno. Quindi perché? Non ero così stupida. Tuttavia, la loro posizione accucciata sembrava consigliare alla mia mente un'altra ragione.

La campanella cominciò a suonare, riscuotendomi dalla mia catatonia. Mi voltai velocemente verso Melanie, cercando di nascondere il mio sguardo spaventato.

“Quindi…Bella Addormentata nel Bosco, ti va ti saltare quest’ora e venire a fare un giro con me? Lo so, lo so, non è giusto e bla bla bla…però è una vita che non passiamo del tempo insieme”.

Aprii le labbra per parlare, ma non uscì alcun suono. Avevo paura, questa volta veramente.

“Devo…devo chiedere a loro, sai…sono loro che mi riportano a casa”, riuscii a farfugliare.

“Okay, ma sbrigati. Non abbiamo troppo tempo. Se il preside mi trova qui, mi sbatte fuori”.

La mensa si stava svuotando rapidamente, e ormai non c’era altro rumore che le commesse pronte a ripulire i tavoli. Osservai Edward e Rose scambiarsi una veloce occhiata e annuire, per poi dirigersi verso di me, seguiti da Alice e gli altri. Jasper rimase protettivo dietro Alice, i suoi occhi che analizzavano la figura seduta al tavolo con me.

“Ehi, strano il biondino lì”, mormorò Mel. “Carino, ma strano”.

Annuii senza pensarci granché, alzandomi dal tavolo e indietreggiando di qualche passo. Sentii Edward posarmi una mano sulla schiena, e sospirai di sollievo.

“Vieni, andiamo in classe”, suggerì Emmett mettendomi un braccio intorno alle spalle. Il tono della sua voce era insolitamente serio e inquietante.

“Oh, e dai! Solo un’ora, poi puoi tornare benissimo a fare la brava scolaretta”.

“Mi dispiace, ma non credo sia il caso”, sibilò Edward tra i denti.

La sua voce era gelida. Mi strinsi a lui senza pensarci.

“Per favore?”, chiese Mel, insistente.

Tuttavia, la sua voce era cambiata. Mi accorsi con un brivido di ciò che stava succedendo.

No”, ringhiarono Edward e Rose in sincrono.

Qualcosa simile ad un ruggito sembrò scuotere il suo petto.

“Oh, beh”, ci sorrise. “Non importa”.

Rabbrividii di nuovo nel riconoscere la crudeltà in quel sorriso. Quello non era riuscito a cambiarlo.

“Vorrà dire che tornerò a trovarvi un’altra volta”, continuò. “E magari la prossima volta riesco a portarti con me”, si fermò ad osservarmi. “Fino ad allora, arrivederci, signorina”, mormorò prima di scomparire.

Sentii il respiro mancarmi in gola, e le gambe molli.

Mi accorsi solo distrattamente del ruggito soffocato di Emmett e Jasper, e dell’avvertimento velato di Rosalie, mentre Edward mi faceva sedere su una sedia.

“No”, la sentii dire. “Noi non possiamo renderci così visibili. Se spariste entrambi, desteremmo troppi sospetti”.

“El?”, la voce di Edward era poco distante da me, ma non riuscivo a capire da dove provenisse esattamente. Tutto girava troppo veloce.

“El, calmati, è finita. Se n’è andato”, cercò di tranquillizzarmi, sostenendomi con un braccio.

A poco a poco, tutto sembrò stabilizzarsi e riprendere i propri confini.

Sollevai lo sguardo, e trovai Edward davanti a me, inginocchiato. I suoi occhi erano fiamme di rabbia e odio. Distolsi lo sguardo da quei due bracieri – mi spaventavano.

Appoggiai la testa contro la sua spalla, espirando profondamente.

“Ho avuto paura”, mormorai a fatica.

“Anch’io”, mi strofinò il braccio nel tentativo di calmarmi. “Anch’io”.

“Questa volta ci è andato così vicino…”, farfugliai, la mia voce rotta nei punti più strani.

Regnò il silenzio per qualche lungo, interminabile istante.

“So che non è il momento più adatto, ma dovremmo andare a lezione”, s’intromise Jasper.

Annuii docilmente, alzandomi. Un’aura di tranquillità sembrò avvolgermi e abbracciarmi. Tentai di sorridere.

“Grazie, Jasper”.

Questa volta Claude ci era andato così vicino… rabbrividii di nuovo.

TAN TAN TAAAAAAAAAAAAAAAN! Ve lo aspettavate? Insomma, è un po' un casino. 

Ci tengo a dire che la parte iniziale - quella relativa alla lezione di storia - mi sta parecchio a cuore dal momento che è "tratta da una storia vera", ovvero la mia xD La mia prof di storia è una donna meravigliosa, non credo di aver mai amato tanto una materia(soprattutto se noiosa quanto può esserlo Storia ._. ) Insomma, quella lezione mi ha fatto riflettere parecchio, e forse spero che lo faccia anche con voi, seppur in minima parte. 

Detto questo, non ho più niente da dire! Grazie come sempre alle solite quattro o cinque disperate(lo dico con amore!)che si prendono la briga di lasciarmi anche solo due righe, non sapete davvero quanto sia importante per me. Eeeee poi basta, alla prossima! :*

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Capitolo 29
*** Famiglia. ***


Capitolo 29 - Famiglia.

Buongiorno! Posto con un giorno d'anticipo perchè non ci sarò questo weekend, quindi non voglio farvi aspettare troppo. Questo capitolo è piuttosto leggero, soprattutto in confronto al precedente - mi diverto troppo a far succedere casini xD Beeeh buon capitolo! :)

Capitolo 29. Famiglia.

Mi sentivo quasi congelata mentre osservavo Edward discutere con Carlisle al telefono su ciò che era accaduto appena qualche ora prima, troppo velocemente perché io potessi capire. Sembrava completamente assorto, nonostante continuasse a mantenere un braccio intorno alla mia vita e, occasionalmente, rafforzasse la sua stretta – probabilmente a seconda di cosa stessero dicendo.

Per quanto mi riguardava, non avevo la minima idea di cosa pensare. Sembrava quasi che il mio cervello si rifiutasse di stare al passo con gli avvenimenti, che continuavano a susseguirsi senza rendere conto a nessuno.

“Quindi cosa possiamo fare?”, sentii Rosalie aggiungersi alla conversazione.

Grugnii contrariata, alzando gli occhi al cielo.

Avevo ascoltato questa storia fino all’inverosimile. Ero vicina all’esasperazione ormai.

“El, amore, va tutto bene ora”.

“Sì, lo so”, bofonchiai raggomitolandomi su me stessa.

“Allora cosa c’è che non va?”.

“Vorrei solo riuscire ad avere una giornata normale”.

Non chiedevo molto. Solo ventiquattro dannatissime ore senza strane creature pronte a saltarmi al collo alla prima occasione. Era troppo, forse?

“Mi dispiace, El”, mi baciò la fronte. “Davvero. Mi dispiace”.

“Per cosa ti stai scusando ora?”.

Era tutto il giorno che si scusava con me per ogni genere di cosa. Se mi fosse caduto un fulmine in testa, probabilmente si sarebbe assunto la colpa anche di quello.

“Per impedirti di avere una vita normale”.

Sbuffai. Riusciva sempre a trovare il modo di dare la colpa a se stesso.

Mi alzai, dirigendomi verso il piano di sopra.

“E ora dove vai?”.

“A cercare qualcuno meno autolesionista di te”, mi sforzai di fargli una smorfia.

Il mio viso sembrava ancora paralizzato nella stessa espressione che avevo avuto in mensa, e non ero totalmente sicura di essere riuscita nel mio intento.

Ovviamente, Rosalie mi seguì qualche secondo dopo. Salii le scale velocemente, percorrendo il corridoio a grandi falcate. Indecisa su dove rifugiarmi, mi appoggiai semplicemente al muro più distante dall’ingresso. Qui era buio, la luce del salotto non arrivava con chiarezza, ma semplicemente sembrava filtrare e riflettersi grazie agli oggetti.

Rosalie si avvicinò di nuovo, rimanendo però a distanza. Se non avessi realmente temuto per la mia vita, questa storia avrebbe potuto cominciare a darmi sui nervi. Forse lo faceva già.

Non avevo bisogno della baby-sitter. E nemmeno del cane da guardia. Tuttavia, la cosa che più mi rendeva furiosa era tutt’altra. Era il fatto che Claude fosse riuscito con tanta facilità a penetrare nella mia quotidianità, fingendo di farne parte e prendendosi gioco di me. E io c’ero cascata. Non riuscivo a capacitarmi di quanto fossi stata stupida, di come gli avessi creduto immediatamente. Melanie, la mia amica Mel. Si era finto lei per arrivare a me.

Da un certo punto di vista, gli ero grata. Ero grata a quell’orribile, psicotica creatura che tanto voleva portarmi via la vita perché grazie a lui, ora, ero riuscita ad imprimere nella mia mente il viso della mia amica.

Strano. Non mi ero mai chiesta perché le persone uccidono. Tutti, bene o male, viviamo a contatto con questo genere di episodi. La televisione, la radio, i giornali ne sono stracolmi. Eppure, non mi ero mai interrogata sulle cause prima. Spesso si tende a concludere l’argomento con un semplice “E’ pazzo”, come se bastasse a giustificare l’avvenimento o per capire il perché di tutto ciò. Qualcuno era stato disposto a fingere di essere qualcun altro, solo per tentare di uccidermi. In uno strano, stranissimo modo, mi faceva sentire quasi importante. Valevo la pena di tutto questo? Questa finzione, questa continua protezione da parte delle persone che mi volevano bene?

Presi un respiro profondo, facendomi scivolare contro il muro con la schiena fino a toccare terra.

Quindi – feci mente locale – un vampiro assetato del mio sangue vuole uccidermi, e oggi ci è andato molto più vicino di quanto avessi mai voluto. In più, la mia famiglia sta venendo qui.

Bene. Perfetto. Fantastico.

Il mio sarcasmo mi sconvolgeva. Ma che diavolo avevo fatto per arrivare a tutto questo? Scossi la testa, cercando di calmarmi. Le mie mani tremavano per rabbia mista a paura.

“El”, sentii Rose mormorare alle mie spalle.

“Per favore, Rose”, sibilai. “Per favore, non ora”.

“Mi piacerebbe poterti aiutare, non sai quanto, ma mi sento inutile”.

Bene. Così eravamo in due.

La fissai in cagnesco mentre ignorava le mie suppliche e si avvicinava, la sua figura assurdamente mozzafiato anche nella debole luce. Si inginocchiò davanti a me, tendendomi una mano e sfiorandomi la guancia con un polpastrello. Era umida.

“Dai”, mi incitò, forzatamente allegra. “Vieni in bagno che ti tolgo tutta quella roba che hai in faccia”.

Mi strofinai un occhio con  il dorso della mano, notando con una smorfia le strisce nere di trucco che si era portato via.

“Mmm, Alice è riuscita a beccarmi stamattina”.

Afferrai la sua mano e mi lasciai trascinare in bagno.

Contro ogni pronostico, il lento processo di togliere e poi rimettere il trucco- qualcosa che avrei evitato volentieri- riuscì a calmarmi. Sembrava…normale. Qualcosa di normale mi serviva. Qualcosa di sicuro su cui poter contare, per quanto stupida o insignificante fosse.

“Va meglio, ora?”, mi chiese Edward non appena tornammo in salotto. “Mi…”.

“Non dire che ti dispiace. Non azzardarti a dirlo”, lo minacciai con un mezzo sorriso, puntandogli un dito contro.

Sentii Emmett ridacchiare divertito alle mie spalle. Tornai a sedermi sul divanetto, accoccolandomi al suo fianco. Non disse nulla, si limitò ad affondare il viso nei miei capelli e cingermi con un braccio.

“Oh”, sentii Rosalie mormorare.

“Che c’è?”, domandai.

L’espressione sul suo viso era strana. Un misto di eccitazione e sorpresa. Rose si portò rapidamente l’indice davanti alle labbra, facendomi segno di stare zitta.

Inclinò la testa da un lato, socchiudendo gli occhi. Gli altri sembrarono tendersi allo stesso modo, concentrati. Stavo per chiedere spiegazioni, quando Jasper sembrò darmi la risposta che cercavo.

“Sono vicini”, sospirò forzando un sorriso nella mia direzione.

Fissai Emmett, e poi ancora Jasper, incuriosita. Cosa, questa volta? Cosa stava succedendo? Avevo quasi timore di chiederlo. Poi notai l’espressione di Alice.

“Diavolo!”, esclamò Alice, seccata. “Come riesci a sopportarla?! È impossibile riuscire a vedere qualcosa in anticipo!”, puntò il piccolo pugno verso di me, e poi verso Edward.

Sentii le sue labbra tendersi in un sorriso a contatto con i miei capelli.

“Non è semplice come sembra”, ridacchiò allacciandomi un braccio ai fianchi.

“Mi spiegate che succede?”, chiesi leggermente esasperata.

“Prometti di non andare in panico o niente del genere”, mi avvisò Rosalie scherzando.

Almeno speravo stesse scherzando.

Mi scostai da Edward quanto bastava per fissarlo in viso. Premette le labbra insieme, beandosi della mia espressione scocciata. Perlomeno, sapevo che non era nulla di preoccupante. Nessuno mi avrebbe ucciso stasera.

“Oh, come siete lunghi”, sbuffò Emmett. “Pulce, mammina e papino stanno arrivando”.

 

Fissai a lungo il ghigno compiaciuto di Emmett, senza vederlo in realtà. Il mio sguardo era perso nel vuoto, come il mio cervello.

“Fra quanto?”, sentii Esme chiedere.

Sapevo di dover portare lo sguardo verso di lei ed ascoltare la risposta a quella domanda, ma non riuscivo a far altro che fissare; fissare un punto fisso e boccheggiare.

“Poco più di cinque…sei minuti se c’è il semaforo rosso”, chiarì Jasper con voce sicura.

Come potevano essere tanto certi? Come potevano anche solo sentire le macchine fino all’autostrada? Mi sembrava impossibile. Totalmente, assurdamente impossibile.

Alla fine, riuscii a sbattere le palpebre. Il mio corpo riprese a lavorare nel modo in cui avrebbe dovuto, carburando poco a poco. Mi passai una mano tra i capelli, spostandoli nervosamente da un lato.

“El, rilassati”, mi suggerì Rose. “Non c’è nessun pericolo”. Sì, certo.

Il braccio di Edward si strinse attorno ai miei fianchi, ricordandomi la sua presenza.

“Sì, io…lo so”, incespicai nelle mie stesse parole nella fretta di farle uscire. “Credo solo di essere un po’ nervosa”.

Udii Rosalie borbottare a proposito del mio “un po’”, ma cercai di non badarci.

“El, amore, andrà tutto bene. Non devi essere preoccupata”, mi prese il viso tra le mani in modo da piantare i suoi occhi nei miei.

“Lo so”, sospirai sentendo i nervi allentarsi grazie al suo sguardo dorato.

“Sono qui per te. Lo siamo tutti”.

Sentii Emmett sbuffare in un angolo e lottai contro un sorriso.

“Sì, anche Emm”, ridacchiò Edward.

Alzai gli occhi al cielo, sospirando di nuovo.

“Spero solo di piacere a tuo padre”, mi abbagliò con un sorriso.

Avrei voluto alzare di nuovo gli occhi al cielo.

“Come se tu potessi non farlo”.

“Tu sei troppo di parte, il tuo giudizio non conta”.

“E di chi, allora?”, incrociai le braccia sul petto, fissandolo in cagnesco. “E poi non hai bisogno del giudizio di nessuno”, brontolai prima che potesse rispondermi.

Sembrò lottare contro un gran sorriso che gli tendeva gli angoli della bocca.

“Sai di essere più importante di qualsiasi altra cosa al mondo per me, quindi non ti stupire se voglio che con te ci sia la persona giusta”, mi spostò una ciocca dietro l’orecchio.

Abbassai lo sguardo, un po’ imbarazzata. Poi la mia testa scattò nuovamente verso l’alto.

“Come sarebbe a dire la persona giusta?”, domandai, la mia voce stridula per l’irritazione.

Si strinse nelle spalle, minimizzando la cosa.

“Non ti preoccupare, sono abbastanza egoista da non volerti cedere a nessun altro. Mai”.

Gli lanciai un’occhiataccia e sostenni il suo sguardo.

“Lo spero per te”, lo minacciai. “E comunque”, addolcii il mio tono e lasciai cadere lo sguardo. “Tu sei la persona giusta”.

Mi sembrò di sentirlo alzare gli occhi al cielo.

“Non sono nemmeno sicuro di rientrare nella definizione”.

Questa volta, fui io ad alzare gli occhi al cielo. Poi tornai a fissarlo, inchiodando il mio sguardo al suo.

“Senti, Edward, credi quello che vuoi. Ma io voglio te, qualunque cosa tu sia o faccia, per il resto della mia vita. La persona giusta posso lasciarla a chi ne ha davvero bisogno, tipo Tom o Morrison, ma non m’importa. E se solo pensi che-”.

Stavo per dirgli una volta per tutte che non m’importava, che poteva fare o essere quello che più gli piaceva, che non m’importava che fosse una creatura mitologica o un mostro a tre teste, io l’avrei voluto sempre e per sempre. Tuttavia, non riuscii a terminare la mia brillante arringa, perché mi mise a tacere con un bacio.

Non fu come quello del giorno prima, in cucina, ma piuttosto qualcosa di infinitamente più dolce. Mi spostò di nuovo i capelli, per poi accarezzarmi la guancia. Il mio cuore sembrava aver deciso di fuoriuscire dalla mia gola, e ogni battito sembrava rimbalzarmi in testa con la testa forza di un ariete. Come riusciva a farmi tutto questo?

Sentii un lieve colpo di tosse alle mie spalle e Edward sorrise sulle mie labbra.

“Ti amo”, disse fissandomi intensamente negli occhi. “Davvero”.

Il colpo di tosse successivo fu più insistente, costringendomi a tornare al presente. Avevo totalmente dimenticato di non essere la sola al mondo in questo momento.

“Prendetevi una camera”, brontolò Emmett sottovoce.

“Chiudi il becco, Emm”, lo zittii senza staccarmi da lui.

Tuttavia, fu Edward a scostarsi da me, alzandosi in piedi e offrendomi una mano. Lo fissai per un lungo istante, perplessa.

“Apro io”, sentii Esme offrirsi e dirigersi verso l’ingresso.

Mi congelai, guardandomi disperatamente intorno. La preoccupazione, l’ansia che ero riuscita ad arginare ritornarono ad opprimermi in modo claustrofobico.

“Comincia lo spettacolo”, annunciò Emmett, sorridendo ampiamente.

Forzai le mie labbra a formare lo stesso sorriso ed afferrai la mano di Edward, ancora tesa verso di me. Raccolsi quel poco di coraggio che speravo di avere, inspirando profondamente.

“E spettacolo sia”, mormorai senza staccare gli occhi dalla porta all’ingresso.

 

Quei brevi secondi, in cui persino per me fu possibile sentire il ronzio del motore della Mercedes di Carlisle arrivare davanti a casa e parcheggiare, furono un piccolo inferno ghiacciato. Non potei fare a meno che osservare il modo in cui ognuno di noi prendeva posto, come in un campo di battaglia, e si preparava al meglio. Eravamo disposti in modo strano, fin troppo normale per apparirmi così. Con me non avevano mai badato a nascondere la loro natura, così che ora i loro movimenti, piccoli spostamenti di peso o battiti di ciglia ravvicinati, mi sembravano innaturali e quasi sgraziati.

Esme, davanti alla porta, sembrava contare mentalmente quanti secondi mancavano a riabbracciare Carlisle. Le sorrisi, e strinsi la mano di Edward.

Sentii distintamente le portiere sbattere, e moltiplicai la mia stretta.

“Rilassati, o ti farai venire un infarto”, mormorò Edward al mio orecchio. “Il tuo cuore sta volando”.

Annuii in silenzio, ascoltando il rumore dei passi che rimbombava nel porticato.

“Certo che un posto peggiore dove finire non poteva sceglierlo”, sentii una voce borbottare.

Il mio respirò prese ad accelerare non appena la riconobbi.

“E’ da quando siamo entrati in questo schifo di stato che piove a dirotto”.

“Shh, Sarah, per favore!”.

“Però devo ammettere che la casa ha il suo perché”, la sua voce mi arrivò ovattata, ma chiara.

“Ti ringrazio”, sentii Carlisle commentare.

“Mi dispiace, mia figlia…”, la voce di mia madre salì di qualche ottava,  forse per l’agitazione.

“Marie non ti preoccupare”, ogni passo più vicino alla porta sembrava aumentare il volume dei miei battiti. “Ora, invece, direi di entrare…piove davvero a dirotto”.

Mi concentrai sulla voce calma e rilassata di Carlisle, mentre aspettavo che qualcuno bussasse alla porta. Quando sentii quel suono, Edward mi strinse la mano, per poi lasciarla andare.

Stavo per chiedergli il perché, quando notai il pomello della porta ruotare sotto la spinta di Esme.

 

Fu diverso da quando avevo rivisto mia madre. L’altra volta ero corsa ad abbracciarla, senza nemmeno riuscire a pensarci. Questa volta camminai lentamente, ponderando ogni singolo passo e sguardo verso di loro. L’effetto sorpresa aveva probabilmente un risultato migliore su di me. Mentre mi avvicinavo, non riuscivo a staccare i miei occhi dai loro. C’era sorpresa, insicurezza, sollievo e, per quanto mi sembrava, felicità.

Sorrisi a mia madre, giungendo finalmente davanti a lei.

“Ciao, mamma”, sorrisi debolmente.

Piccole lacrime paffute cominciarono a gonfiarle gli occhi e strinsi la sua mano tra le mie. Mi voltai verso mia sorella, cercando di mascherare la mia felicità nel vederla. Non era da noi mostrare l’affetto che avevamo l’una per l’altra, nonostante entrambe lo sapessimo perfettamente.

Era cresciuta. Non molto, ma abbastanza da poterlo notare. I suoi lunghi capelli castani formavano boccoli più lunghi, ricadendo quasi a metà della sua schiena. La sua corporatura era quella di sempre, solo più longilinea, mentre il viso appariva meno rotondo e infantile. Ormai non era molto più bassa di me

“Ehi”, mi salutò con un sorriso, osservandomi con i suoi grandi occhi marroni.

Le sorrisi ampiamente, abbassandomi quanto bastava per stringerla in un abbraccio e tentare di sollevarla. Ovviamente, non me lo permise.

“El, mollami!”, ridacchiò allontanandosi. “Sei sempre la solita”, mi fissò fingendo un’espressione scocciata. “E poi guarda fuori, c’è il diluvio. Solo con la tua sfortuna saresti potuta finire in un posto del genere”.

“Anche tu mi sei mancata”, la interruppi con una smorfia.

“Sì, anche tu”.

Il mio sorriso si tese ulteriormente mentre mi voltavo verso mio padre.

Mio padre – il mio grande eroe, quello che fin da piccola avevo ammirato e assillato con le mie domande senza fine, che mi aveva sempre accontentata e rassicurata. Osservai la sua figura a lungo, risalendo lentamente dal suo busto fino a raggiungere le spalle e poi il viso. Quando lo raggiunsi, il mio sorriso s’incupì un poco. La sua espressione era dura, lo sguardo severo e quasi arrabbiato. Le braccia incrociate sul petto, le mani strette in pugni, sembravano un chiaro indizio della sua rabbia. Gli posai una mano sul braccio, cercando di sostenere il suo sguardo.

“Papà, io…”.

Sapevo perfettamente perché ce l’aveva con me.

Un flash di indecisione passò velocemente dietro i suoi occhi, per poi tornare la maschera di prima. Scoccai un’occhiata veloce dietro di me, cercando Edward. Mi annuì, incoraggiandomi. Tornai a fissare mio padre. Presi un respiro profondo, sperando che la mia voce non si spezzasse.

“Mi dispiace”, riuscii a dire, abbassando lo sguardo.

Scosse la testa, mettendomi entrambe le mani sulle spalle.

“No”, la sua voce uscì quasi strozzata. “Prima ho bisogno che tu mi dica perché non ci hai chiamato, perché non ti sei fatta sentire tutto questo tempo. Ho bisogno di saperlo, perché io ti credevo morta e tu non hai avuto il minimo riguardo di avvisarci, dirci almeno che respiravi ancora. Non hai idea di cos’hai fatto passare a tua madre…”.

Fissai i suoi occhi stringersi nel vedere i miei diventare umidi. Niente lo spaventava quanto le lacrime.

Non riuscivo a far altro che guardarlo negli occhi. Non sapevo cosa rispondergli, perché nemmeno io avevo idea di cosa fosse successo in quegli ultimi mesi. Ogni volta mi colpiva come un treno in piena corsa; come avevo fatto a dimenticarmi di loro? Non erano scomparsi dai miei pensieri, erano semplicemente passati in secondo piano. Sapevo che la spiegazione a tutto ciò era esattamente alle mie spalle, e in questo momento stava osservando attentamente come i miei respiri accelerassero in un silenzio che minacciava di diventare assordante. Tuttavia, non riuscivo a capire come fosse possibile.

“Scusami”, farfugliai mentre stringevo le braccia intorno al suo busto.

Rimase rigido per qualche secondo, nel quale temetti di venire respinta, ma poi lo sentii sospirare pesantemente e, l’istante dopo, le sue braccia mi strinsero in un abbraccio che non avrei scambiato per nulla al mondo.

“Non farmi mai più una cosa del genere”, mi baciò la fronte.

Sentii mia madre al mio fianco posarmi una mano sulla spalla.

“Grazie”, mormorò a qualcuno. “Ancora. Grazie per esservi presi cura di lei”.

“Sì, per tutto”, le fece eco mio padre.

La sua voce rimbombò con forza contro il mio orecchio, appoggiato contro il suo petto.

“Carlisle, ti prometto che ti restituirò tutto non appena…”.

“Non credo sia questo il momento di cui parlarne, Michael. Goditi la tua famiglia, ora”.

Oooh la famigliola felice è tornata insieme, yay! Fossi stata il padre di El non so se l'avrei perdonata così facilemente ._. però in effetti bisogna capirla, con tutto quello che le è capitato magari cambiano anche le priorità xD 
Beeeh divento noiosa dopo un po' a ringraziarvi sempre, però grazie alle solite: Paola, Jen, Giada(anche se ora sei in vacanza e sei sparita! D:) e Giò principalmente - che ci sono sempre e non so come farei senza i vostri commenti - e poi tutte quelle che lasciano anche solo due righe occasionalmente. Ok queste note finali stanno diventando troppo lunghe. Buon weekend a tutti e alla prossima! :)

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Capitolo 30
*** Pronta. ***


Buon pomeriggio. Ho deciso di aggiornare oggi - nonostante l'enorme anticipo - perchè domani parto e conoscendo la mia sfiga generale la connessione non funzionerà. Quiiiiindi ho pensato che forse è meglio assicurarvi l'aggiornamento. Spero che vi piaccia, e quasi credo che lo farà. Se siete per Edward potrebbe essere di vostro gradimento questa parte u.u Vabbè basta, buona lettura :)

Capitolo 30. Pronta.

“Incredibile”, sentii mia sorella mormorare. “Questo posto è incredibile!”.

Annuii senza prestarle molta attenzione. Fissavo in silenzio la piccola casa che sembrava sbucare dal nulla, sul limitare della foresta, da circa un minuto intero. Avrei potuto giurare che non ci fosse nessuna casa fino al giorno prima…

Mi ripresi dallo stupore solo per lanciarle un’occhiata beffarda.

“Schifo di posto, eh?”, le diedi una leggera spinta.

Si strinse nelle spalle.

“Schifo di tempo? Sì. Schifo di posto? Anche. Ma la casa…”, sembrò cercare la parola più adatta. “Assurda”.

Non potei impedirmi di suonare un po’ compiaciuta.

“Già. E riguardo al tempo, ti ci abituerai”.

“Mmm”.

Fuori dalla macchina faceva freddo e mi strinsi nella giacca.

Emmett, Rose, Alice e Jasper avevano preferito rimanere a casa, mentre noi – divisi tra la macchina di Edward e quella di Carlisle – ci eravamo diretti verso casa. Non avrei mai potuto immaginare di trovarmi davanti a un’abitazione del genere. Sembrava sorgere direttamente dall’ambiente circostante, fondendosi con la foresta in perfetta armonia. Non appariva grande, ma avrei potuto giurare che all’interno ci fossero più stanze di quanto immaginassi. Le tinte erano chiare, simili a quelle di casa Cullen, ma più accese.

Osservai l’auto di Carlisle accostare appena dopo la Volvo sulla quale eravamo arrivati. Il ronzio del motore cessò velocemente, per poi lasciare spazio ai mormorii striduli ed entusiasti di mia madre.

“Non è possibile!”, squittì. “E’ splendida”.

Edward si voltò verso di me, per poi sorridere. Sembrava soddisfatto anche lui.

Mia madre quasi corse verso Edward per abbracciarlo. L’espressione stupita sul suo viso era probabilmente la fotocopia della mia. Ci scambiammo uno sguardo confuso e al tempo stesso divertito.

“Grazie”, disse mia madre. “Non ci posso credere”.

“Non deve ringraziare me”.

Sarah mi lanciò un’occhiata esasperata. Tuttavia, riuscii a notare l’eccitazione dietro quell’espressione.

“Volete entrare?”, propose prontamente Esme.

“Ovviamente sì”, si affrettò a dire mia sorella, salendo gli scalini e arrestandosi davanti alla porta, impedendo a sé stessa di saltellare sul posto per l’eccitazione.

“Esme, chi ha progettato questa casa? Davvero, è magnifica”, domandò mia madre, curiosa.

Sorrise ampiamente, piuttosto compiaciuta.

“Non saprei, l’abbiamo comprata anni fa perché ci era sembrata splendida, non abbiamo fatto altro che arredarla”.

Trattenni un sorriso. Probabilmente Esme si era fatta aiutare da Emmett a costruirla, e questo al massimo ventiquattro ore prima.

Ci incamminammo lentamente verso l’ingresso, sobbalzando tutti – o quasi – al tintinnio delle chiavi che si avvicinavano alla porta.

“Ci siamo”, squittì mia madre entusiasta.

Mio padre mi appoggiò una mano sulla spalla, abbozzando un sorriso quando lo fissai in volto.

La serratura scattò velocemente.

“Tocca a voi aprirla ora”, ci invitò Carlisle.

 

Non avevo pensato che una casa potesse essere bella quanto la villa dei Cullen. Questa, in uno strano modo, lo era. Era più piccola, più famigliare ed accogliente, ed i toni chiari alle pareti riuscivano ugualmente a trasmettere calore. Alcuni quadri, che ero sicura di aver già visto nel garage, erano appesi con infinita precisione ai muri. I mobili in legno apparivano moderni e semplici, ma avevano al tempo stesso un aspetto antico e prezioso. I loro toni scuri contrastavano con il colore delle pareti, ma creavano un’armonia perfetta con tutto il resto. Nulla sembrava stonare.

“Questo è…”, annaspai per trovare la parola più adatta.

“Ti piace?”, chiese Edward alle mie spalle, un gran sorriso nella sua voce.

Annuii con gli occhi sgranati, incapace di rispondere.

“Sarah, vorresti vedere la tua camera?”, lo sentii proporre.

“Subito!”, fu la replica di mia sorella.

Mi sentii afferrare per un gomito e notai che Sarah si era prontamente aggrappata alla mia giacca. Quando fu certa che la stessi seguendo, lasciò la mia manica e sfrecciò verso il piano di sopra.

Edward ridacchiò, prendendomi per mano non appena fummo fuori portata dagli altri.

“Non dovreste fare tutto questo”, gesticolai con la mano libera indicando la casa.

“No, non dobbiamo, ma lo facciamo ugualmente”, mi sorrise gentile, stringendomi a sé.

Il corridoio ricordava vagamente quello di casa Cullen, così mi diressi decisa verso quelle che supponevo fossero le camere da letto.

“El! Guarda qui!”, sentii Sarah quasi gridare. “Una stanza tutta per me!”.

Soppressi una risata, scuotendo la testa divertita. Edward si fermò, bloccando il mio braccio e tutto ciò che vi era collegato con lui.

“Dove stai andando?”, chiese trattenendo l’ennesimo sorriso.

Lo fissai sospettosa, inarcando un sopracciglio.

Questa è la tua stanza”, indicò con indifferenza la porta alle sue spalle.

“Oh, okay”.

Una stanza tutta per me. Anche qui.

“Stavo pensando”, dissi tamburellando con le dita sul suo braccio. “Che cosa ne sarà del garage? Mi mancherà”.

“Credo che qualche volta tu possa passare una notte da Rose”, mormorò avvicinandomi a lui.

“Mmm”, bofonchiai distratta mentre il suo viso si faceva sempre più vicino al mio.

“Magari potreste invitare anche me”, sorrise sulle mie labbra.

“Buona idea”.

Le sue labbra toccarono le mie una, due, tre volte teneramente, per poi spostarsi sul mio collo. Sobbalzai impercettibilmente alla sua temperatura, e lo sentii sorridere. Mi faceva sentire un po’ colpevole, baciarlo lì, in casa, senza che i miei genitori ne avessero la minima idea. Non che avessi intenzione di informarli, ovviamente.

Tra il rumore assordante dei miei battiti, riuscii a distinguere alcune voci che si avvicinavano alle scale. Edward si ritrasse, toccando di nuovo le mie labbra con le sue per poi appoggiarsi contro il muro con fare disinteressato.

Il secondo dopo, mio padre sbucò dal piano di sotto. Ci osservò con aria dubbiosa, scoccando un’occhiata piuttosto indispettita verso Edward. Molto…paterna. Non l’avevo mai visto comportarsi in quel modo. Forse anche perché non ce n’era mai stato bisogno.

Abbassai lo sguardo in silenzio, contemplandomi i piedi.

“Papà! Guarda la mia stanza!”, esclamò prontamente Sarah, togliendomi dal grande imbarazzo.

Con un’ultima occhiata sospettosa, mio padre si allontanò a grandi falcate. Sospirai di sollievo, appoggiandomi al muro al fianco di Edward.

“Questo risulterà più difficile d’ora in poi”, borbottai senza nascondere il mio tono dispiaciuto.

“Decisamente, ma non è detto che non sia divertente”.

Divertente? Lo adocchiai dubbiosa.

Si strinse nelle spalle, senza darmi una risposta a parte il suo splendido sorriso truffatore.

 

Quella sera, mangiammo tutti insieme qui in casa. Ci raggiunsero anche Rose e gli altri, probabilmente piuttosto a malincuore sapendo a cosa andavano incontro. La cena non doveva entusiasmarli particolarmente, o almeno la cena intesa come pasto con cibo solido. Fortunatamente, questo posto sembrava meglio fornito in quanto a risorse alimentari. Per più di una volta, quella sera, osservai i Cullen, chiedendomi dove andasse a finire tutto quel cibo. Non credevo di voler sapere la risposta. Non sembravano disgustati dai piatti sulla tavola, nonostante sapessi quanto in realtà il cibo umano fosse per loro qualcosa di rivoltante.

Ogni tanto, lanciavo un’occhiata verso i presenti a tavola e mi accorgevo di qualche smorfia, per la quale riuscivo a stento a trattenere un ghigno. Tuttavia, finsero con mirabile destrezza di apprezzare il pasto. Oltre a questo, la cena ed il resto della serata trascorse in tutta tranquillità, tra chiacchiere rilassate e qualche scambio di battute. Mio padre sembrava aver fatto subito amicizia con Carlisle, mentre mia sorella sembrava avere una sottospecie di forma di adorazione per Alice.

“Ehi, Edward! Avresti potuto portare Sarah a casa, invece di El!”, mi mostrò la lingua, per poi ridere della sua stessa battuta.

Le feci una smorfia.

“Tutto sarebbe stato molto più divertente”, cinguettò mentre volteggiava attorno a mia sorella con il metro in mano.

Aveva deciso di disegnarle un vestito, a quanto pareva. Sorrisi all’espressione estatica di Sarah. Forse non mi sarei sentita troppo in colpa per averla portata via da Miami. Forse.

Più di una volta, mi accorsi delle occhiate che i miei genitori alternavano in perfetta sincronia tra me ed Edward. Ormai non avevo più dubbi che, nonostante quella sera ci fossimo evitati quasi completamente e sedessimo ben distanziati l’uno dall’altra, mia madre avesse sputato il rospo non appena le si era posta l’occasione. Non potevo fargliene una colpa, ma non potei impedirmi di sbuffare piuttosto pesantemente. Oltre ad essere sotto sorveglianza, ora avrei avuto costantemente gli occhi puntati addosso.

Quel pensiero mi riportò controvoglia a ciò che era accaduto appena qualche ora prima. Il clima che aleggiava in casa era totalmente diverso, come se fossi stata catapultata da un’altra parte, dove tutti quei problemi non sembravano esistere. Doveva essere così – la mia famiglia non doveva sospettare nulla, altrimenti i Cullen avrebbero rischiato di rivelare il loro segreto, esponendoli così ad ulteriori problemi e pericoli. Tuttavia, in quel momento, non riuscii a non sentirmi felice. Almeno un po’.

Tutte le persone a cui volevo bene erano qui con me, finalmente insieme.

Mi passai una mano tra i capelli, spostandoli da un lato. Edward, seduto sulla poltrona più lontana da me, mi adocchiò incuriosito. Sapeva che era qualcosa che facevo solo quando ero nervosa.

“Beh”, annunciò Carlisle. “Direi che ormai è ora di andare a dormire”.

Io e Rose ci scambiammo un sorriso complice.

“Dovete essere piuttosto stanchi”, disse alzandosi dal divano.

“Domani sarà una giornata impegnativa”, gli fece eco Esme. “Saremo qui in mattinata per aiutarvi a disfare i bagagli e mettere in ordine, se avete bisogno”.

“Grazie mille”, rispose mia madre. “Non riesco ancora a capire come possiate essere tanto gentili. È sovrumano”.

Il sorriso di Esme assunse una piega amara.

“Buonanotte a tutti, è stato un piacere”, si affrettò a dire Jasper.

Ci rivolse un sorriso gentile, per poi dirigersi verso la porta, seguito a ruota da Emmett e Alice.

“Sarah, ci vediamo domani, non dimenticartelo”, cinguettò entusiasta Alice prima di uscire.

“Buonanotte anche a te, Alice!”, alzai la voce, imprimendo tutto il mio sarcasmo in quelle poche parole.

La sentii ridere.

“’Notte!”, gridarono lei e Emmett insieme.

Sorridendo, mi diressi verso Rosalie per salutarla.

“Ci vediamo tra meno di dodici ore”, disse quando non accennai ad allontanarmi dal suo abbraccio.

“Lo so”, ridacchiai.

“Buonanotte, El”.

“’Notte, Rose”.

La osservai uscire di casa, seguita da Esme e Carlisle. Dietro di loro, anche Edward. Trattenni a stento un ghigno quando alternò lo sguardo tra me e mio padre, visibilmente indeciso su cosa fare.

“’Notte, Edward”, decisi io per lui.

Strinse le labbra, salutandomi semplicemente con un gesto della mano.

“A domani, ragazzo”, disse mio padre, invitandolo ad uscire e decretando così la fine della sua permanenza in casa nostra. Sembrava piuttosto stizzito.

“Ciao Edward, grazie ancora”, cantilenò mia madre, addolcendo il saluto.

La porta si chiuse prima di darmi il tempo di guardarlo un’altra volta. Sospirai, alzando gli occhi al cielo.

“Di questo dobbiamo discutere”, minacciò mio padre.

“Dai, Michael. Non essere così burbero”, lo canzonò mia madre.

Decisa a non rischiare eventuali prediche o discorsi imbarazzanti, cominciai a dirigermi verso il piano di sopra.

“Dove credi di andare, signorina?”, mi sentii chiamare.

Accidenti.

“A dormire?”, suonai indecisa mentre ero restia a voltarmi verso i miei genitori.

“Non si saluta più?”, mi rimbeccò mio padre con dolcezza.

Sospirai di sollievo. Forse per oggi sarei riuscita ad evitare quel genere di conversazione.

“Va bene che non ti sei fatta viva per mesi, però le buone abitudini non si dovrebbero perdere mai”.

“Ho detto che mi dispiace”, mi scusai ancora, avvicinandomi ai miei.

“Lo so, e non sto facendo niente per ribadire quanto tu ci abbia fatto stare in pensiero”, sogghignò abbracciandomi.

“Certo, certo. Non lo stai facendo”, alzai gli occhi al cielo con un mezzo sorriso. “Buonanotte, papà”, aggiunsi stampandogli un bacio sulla guancia. “Buonanotte, mamma”, allungai il braccio intorno alla sua spalla.

Mi scostai da loro, per poi dirigermi nuovamente al piano di sopra.

“’Notte, Sarah!”, gridai per farmi sentire, ormai in cima alle scale.

Quasi corsi in camera mia, catapultandomi verso la finestra e aprendola di scatto completamente. Inspirai a pieni polmoni, sporgendomi oltre il bordo per osservare la notte. Mi ritrovai a sorridere, e scossi la testa rientrando in camera. Come potevo sentirmi così felice, nonostante tutti i problemi? Mi sembrava sbagliato. Eppure non riuscivo a sentirmi diversamente. La consapevolezza di avere la mia famiglia al piano di sotto riusciva a creare in me una felicità schiacciante, quasi opprimente.

Tamburellai con le dita sul bordo della finestra, per poi raccogliere le mie cose e andare in bagno. Nonostante fosse tardi, decisi di farmi una doccia calda per cercare di calmarmi. Mi sentivo come se avessi bevuto troppi caffè. Ero iperattiva, e sicura che, se non fossi riuscita a tranquillizzarmi almeno un po’, non avrei chiuso occhio questa notte.

Sembravo non riuscire a pensare ad altro che a Claude. Era vicino, più di quanto mi piacesse e di quanto avessi immaginato. Non potevo permettere che la mia famiglia ci andasse di mezzo.

Rabbrividii, nonostante il vapore caldo della doccia mi avvolgesse ancora.

Non l’avrei permesso. Se Claude cercava me, avrebbe trovato ciò che voleva. Non mi sarei nascosta. Avrei fatto qualunque cosa per tenere al sicuro le persone che amavo, e non solo quelle con un cuore che batteva. Dopotutto, avevo a disposizione dei poteri. Non avevo ancora idea di come ci sarei riuscita, ma dovevo imparare ad usarli, qualunque cosa fossero. Avrei chiesto aiuto ad Alice, o anche Emmett, se Edward e Rose si fossero opposti. Non potevo sopportare l’idea di perderli, nemmeno uno di loro.

Passai un’ultima volta la spazzola tra i capelli, sospirando pesantemente. Lanciai un’occhiata alla mia immagine riflessa nello specchio, per poi tornare in camera.

Il secondo dopo, mi ritrovai con la schiena contro la porta chiusa alle mie spalle.

“Starti lontano troppo a lungo mi uccide”, mormorò Edward allungando le braccia ai lati della mia testa, impedendomi ogni via d’uscita.

“Sappi che è qualcosa che non ho intenzione di rifare”, aggiunse, la sua bocca al mio orecchio. Rabbrividii appena.

“Mh-mh”, bofonchiai confusamente, giocherellando con una sua ciocca di capelli e sperando con tutto il cuore di non andare in iperventilazione.

Percorse l’incavo del mio collo con le labbra, lasciandomi piccoli brividi. Chiusi gli occhi, forzando un respiro profondo nei miei polmoni.

“Edward”, lo chiamai con un filo di voce.

“Mmm”, mi rispose, sfiorandomi il profilo della mascella con la punta del naso.

Mantenere la concentrazione stava diventando davvero difficile a quel punto. Sentii la punta della sua lingua fredda tracciare un breve tratto sul mio collo, e mi sembrò che le mie gambe si trasformassero in gelatina.

“Voglio…devo parlarti di una cosa”, cercai di suonare decisa mentre sentivo ogni tipo di volontà venire meno.

“Di che cosa, esattamente?”, sorrise sulla mia pelle, senza accennare a muoversi.

Dovetti utilizzare tutta la mia forza di volontà per trovare la forza di posargli entrambe le mani sulle spalle e cercare di spostarlo. Sospirò pesantemente, ma mi lasciò fare.

“Ecco…voglio che tu mi insegni ad usare i miei poteri”, studiai la sua espressione mentre speravo che non mi rispondesse come sapevo che avrebbe fatto.

“El”, mi rimproverò con un’occhiata esasperata.

Non avevo sbagliato. Il suo sguardo si raffreddò di colpo.

“Non voglio che Claude si avvicini più di quanto non abbia già fatto alla mia famiglia. E se vuole me, beh allora andrò da lui”.

“No”, ringhiò tra i denti. “Sai che ti ucciderebbe”.

Alzai gli occhi al cielo.

“Ed è proprio per questo che mi serve che tu mi aiuti. Se non lo farai, chiederò a Alice o Emm. Volevo solo che tu lo sapessi prima”.

Sembrò faticare a reprimere un ruggito.

“Tu non capisci”, mormorò dopo qualche attimo di silenzio, lasciando cadere le braccia sui fianchi e liberandomi dalla sua morsa.

La sua espressione triste mi sconcertò.

“Allora spiegami”, allungai la mano per raggiungere la sua.

Scosse la testa, per poi fissarmi negli occhi con un’espressione scoraggiata e fiera allo stesso tempo.

“Non posso perderti”, disse fra i denti. “Non posso nemmeno rischiare di perderti. Il solo pensare di non averti più…”, chiuse gli occhi, scuotendo lievemente la testa come a scacciare il pensiero.

Strinsi la sua mano, prendendola tra entrambe le mie e portandola contro il mio petto.

Sospirò pesantemente, per poi tornare a fissarmi.

“Non posso perderti, e tu sembri cercare in ogni modo di ucciderti”, mi sorrise amaramente.

Non sapevo esattamente cosa dire o fare, perché tutto in quel momento mi sembrava totalmente inopportuno. Avrei voluto dirgli che lo facevo per lui, per la sua famiglia e la mia, che non volevo uccidermi, ma semplicemente rendermi d’aiuto. Tuttavia, sapevo che in ogni caso non avrei cambiato la situazione.

Con una mano, gli accarezzai lentamente il viso, cercando di trasmettergli con quanta intensità mi fosse concesso quanto lo amassi, e quanto fossi disposta a fare per lui.

“Edward non…non preoccuparti. Non c’è bisogno di essere paranoico”, abbozzai un sorriso, tentando di alleggerire l’atmosfera.

Osservai la sua espressione cambiare radicalmente. Il suo sguardo, da triste e sconfortato, si accese di una strana luce. Il secondo dopo, mi ritrovai sul letto. Non ebbi nemmeno il tempo di rendermi conto di quanto morbido fosse il materasso, o di quanto soffici fossero le coperte.

Il cuore prese a martellarmi nel petto ancor prima che le sue labbra si scontrassero con le mie.

“Vediamo…”, mi mormorò languido all’orecchio, afferrandomi i polsi e stendendomi le braccia sopra la testa.

Percepivo la mia espressione, un misto di panico e agitazione, mentre cercavo di capire cosa stesse facendo. Mi tremavano le gambe.

“Pensi che un uomo abbia il diritto di difendere la propria vita, di proteggerla?”.

Riuscii semplicemente ad annuire, distratta completamente dal modo in cui le sue labbra si aprivano e si chiudevano nel parlare. La mia testa girava a causa di quella vicinanza.

“Lo biasimeresti?”, chiese di nuovo mentre scendeva con le labbra lungo il mio collo.

Non riuscivo a capire dove volesse arrivare, ma in quel momento ero sicura di non riuscire nemmeno a pensare in modo lineare. Sentivo il suo corpo contro il mio, immobile sotto la sua presa d’acciaio, e non riuscivo a concentrarmi su nient’altro. Scossi la testa, rispondendo alla sua domanda.

“Lo considereresti pazzo se tentasse di farlo? Un paranoico?”, risalì al mio orecchio con estrema lentezza.

Forzai un lungo respiro nei miei polmoni, che sembravano aver preso fuoco.

“No”, sussurrai frastornata, sorprendendomi della mia stessa voce.

Era bassa, rauca, come se qualcosa m’impedisse di parlare. Lo sentii sorridere sulla mia pelle, per poi ritrarsi e fissarmi in viso.

“Allora come fai a non capirmi, dopo averti detto più di una volta che sei tutta la mia vita”, mi fissò a lungo, i suoi occhi bruciavano come legna al fuoco.

Faticai per riprendere una respirazione normale. Il mio cuore continuava a battere all’impazzata contro le costole, senza accennare minimamente a rallentare. Sembrava che ci fossero delle scariche elettriche lungo tutto il mio corpo, intente ad incendiarmi.

Sospirai, combattendo un sorriso. Quando voleva qualcosa, era difficile non dargli ragione. Sapeva perfettamente come farsi ascoltare.

“Sei impossibile”, sibilai alzando gli occhi al cielo.

“Io ho sempre ragione, e te l’ho dimostrato”.

“Dimostrare di avere ragione e costringere qualcuno a farlo è ben diverso”, lo accusai con una smorfia. “Questa è coercizione”.

“Io non ho costretto proprio nessuno”, ammise innocente, sfoderando un gran sorriso.

“Certo, certo”.

Lo vidi alzare gli occhi al cielo prima di chinarsi a baciarmi.

“Sai”, mormorò con un ghigno tornando a sedersi sul letto. “Non credo di aver fatto una grande impressione su tuo padre”.

Sbuffai.

“E’ solo iperprotettivo”, lo giustificai poco convinta. “Tu dovresti saperne qualcosa”.

Mi prese la mano, portandola al suo viso e inspirando profondamente ciò che non poteva sentire. Il mio odore.

“Mi dispiace di essere troppo protettivo, so che a volte tendo un po’ ad esagerare…”.

“Un po’?”, lo interruppi, lanciandogli un’occhiata scettica.

Mi ignorò.

“Mi dispiace di farti sentire in trappola a volte, sappi che non è questa la mia intenzione. È solo che l’istinto di autoconservazione spesso è più potente di ogni ragione”, mi sorrise sincero.

Abbassai lo sguardo, come sempre imbarazzata dalle sue parole. Non mi ero ancora abituata, per quanto fosse solito a farlo, a sentirlo paragonare la sua vita con la mia. A dargli persino più importanza della sua. Sembrava irreale.

Sentii la sua mano posarsi sotto il mio mento, sollevandolo per costringermi a guardarlo negli occhi.

“Non mi sento in trappola, solo…limitata, a volte. Vorrei aiutarti, davvero”.

Per quanto sapessi che le mie parole l’avrebbero irritato, non potei impedirmi di provarci di nuovo. Tuttavia, non si mostrò toccato dal mio ennesimo tentativo. Al contrario, si chinò verso di me, baciandomi ancora con delicatezza infinita. Spesso dimenticavo che la mia vita dipendeva anche da quello. Presto, troppo presto, interruppe il bacio.

“Comunque”, lo informai quando si scostò da me. “Questo non cambia le cose”.

Capì immediatamente a cosa mi riferivo, e stavolta reagì diversamente.

“Dormi, El”, disse esasperato.

“Non ignorare quel che dico”.

“Buonanotte”, mi baciò la fronte, stendendosi al mio fianco.

“Edward!”, sibilai irritata.

Lo sentii ridacchiare in silenzio.

“Buonanotte, El”, mormorò prima di spegnere la luce.

Tutto assunse ombre e colori diversi, ma era facile individuare il lieve bagliore che emanava la sua pelle anche in quella debole penombra.

Sbuffai. Testarda, mi rifiutai di infilarmi sotto le coperte come avrei fatto normalmente. Incrociai le braccia sul petto, assumendo un’espressione indignata.

“Non fare il muso”, lo sentii sorridere. “Tanto sai di non esserne capace”.

“Questo lo credi tu”.

Seguì un breve silenzio, spezzato solamente dai miei respiri. Cercai di respirare il più lentamente possibile, in modo da fare meno rumore. Forse sarei apparsa più risoluta, se mi fossi dimostrata meno umana possibile. Ridussi i miei respiri al minimo, prendendoli lunghi e distanziati.

“E va bene”, sibilò esasperato. “Mi arrendo, parla”.

Sorrisi trionfante, lanciandogli un’occhiata beffarda.

Mi voltai verso di lui, stendendomi su un fianco. Mi schiarii la voce, cercando di tornare seria.

“Edward, qui non si tratta solamente di me o di te, ma di tutti noi. Sai che posso aiutarvi, perché non vuoi permettermelo? Pensi davvero che se succedesse qualcosa a chiunque di voi, riuscirei a sopportarlo, sapendo che è colpa mia? Io non-”.

Mi chiuse le labbra tra indice e pollice.

“Non accadrà niente a nessuno. Baderemo noi alla tua famiglia, non devi preoccuparti”.

“E chi penserà a voi? La mia famiglia siete anche voi”, biascicai lottando per aggirare le sue dita.

Alla fine mi lasciò andare.

Le sue labbra si tesero in un’espressione indecisa e pensierosa al tempo stesso.

“Non mi merito tutto questo”, scosse la testa con un lieve sorriso. “In ogni caso”, tornò a fissarmi negli occhi. “Tu non devi preoccuparti per noi. È inutile e senza senso. E tu non aiuterai nessuno con i tuoi poteri. Non avrai nemmeno l’opportunità di essere ferita da qualcuno, te lo prometto”.

“Ma…”, cercai di obbiettare.

Ma niente, la cosa che più mi aiuterebbe è sapere che sarai qui, al sicuro, senza che io debba preoccuparmi di una piccola adolescente cocciuta”, mi fece una smorfia. “Anche se sono sicuro che lo farò lo stesso”. Mi abbagliò con il suo sorriso truffatore.

I suoi sbalzi d’umore mi facevano girare la testa.

“Edward”, lo rimproverai scocciata, fulminandolo con lo sguardo. “Se sei così preoccupato che qualcuno possa ferirmi, beh allora…allora trasformami in un vampiro, così non avrai di che preoccuparti”, buttai lì la prima cosa che mi saltò in mente.

Notai solo distrattamente lo sguardo sconcertato di Edward mentre ragionavo su ciò che avevo appena detto. I suoi occhi si spalancarono in sorpresa, e per un secondo temetti che avesse bisogno di aiuto per respirare. Se fosse stato umano, probabilmente mi sarei avvicinata per praticare qualche manovra di rianimazione. Ma non ci badai granché, avevo la testa da un’altra parte.

Un vampiro. A quel punto nemmeno Claude avrebbe più avuto una ragione per uccidermi. Sarei stata forte, perfetta, immortale. Indistruttibile. Da un punto di vista esclusivamente egoistico, non vedevo l’ora di vedere la mia immagine riflessa nello specchio. Finalmente qualcuno che non avrebbe stonato al fianco di Edward.

Ma, più di ogni altra cosa, sentivo di essere pronta questa volta. Sentivo ancora lo stomaco aggrovigliarsi al pensiero, e il cuore pompare un po’ più forte – come se avesse fretta di battere, sapendo che di lì a poco avrebbe terminato la sua corsa – ma niente di tutto questo generava rassegnazione o terrore. C’era paura, ovviamente. Una paura così forte e irrazionale da non riuscire a capire da dove arrivasse, ma non abbastanza da essere in grado fermarmi.

Mi aggrappai al suo braccio, tirandolo a me fino a quando i suoi occhi non furono allo stesso livello dei miei. Occhi confusi e spaventati.

“Trasformami in un vampiro”, dissi più decisa, quasi apprezzando il suono di quella frase.

Un suono, simile ad un ruggito, sembrò nascere al centro del suo petto, appena a qualche centimetro da me. Serrò la mascella, cercando di reprimere quel suono.

“Non se ne parla nemmeno”, ringhiò tra i denti.

“Perché? Edward, è la cosa migliore, Claude non avrebbe più ragione di-”.

“Smettila, El. Non è un gioco”.

“So perfettamente che non è un gioco. Non sei tu che continui a sognarlo, o che viene continuamente inseguito”, strinsi gli occhi a due fessure, imprimendo quanta acidità potessi in quelle poche parole. “Sai anche tu che è la cosa più logica”.

“Non metterò fine alla tua vita”, scandì con rabbia ogni sillaba.

“E chi lo farà, allora?”, esclamai arrabbiata. Per un secondo mi domandai se i miei genitori fossero già a letto.

Lo sapeva. Sapeva, come me, che prima o poi sarebbe successo. Mi avrebbero trasformato, se non loro, quelli come me. Non c’era modo di scappare.

“No”, sibilò serio, fissandomi così duramente da spaventarmi.

Indietreggiai di qualche centimetro, lasciandogli il braccio. Si accorse del mio sguardo spaurito e addolcì la sua espressione.

“No”, ripeté con più calma.

“E’ l’unico modo”, sussurrai con un filo di voce.

Alzò gli occhi al cielo, scuotendo la testa.

“Ma tu i modi per farti ammazzare li sogni di notte, o ti vengono in mente al momento?”.

Gli sorrisi debolmente, avvicinandomi di nuovo a lui.

“Scusa se ti ho spaventata, mi hai preso alla sprovvista”, mi portò un braccio attorno alle spalle.

“Non mi hai spaventata”.

“Certo, certo”.

“Edward”, lo chiamai in poco più di un sussurro. “Pensaci, è la cosa più giusta”.

“Per favore, dormi”, mi strinse a sé con voce strozzata. “Per favore”.

Lo osservai di sottecchi per qualche istante, analizzando la sua espressione tormentata. Qualcosa mi diceva che non avrei dovuto vedere quello sguardo.

“Okay”, acconsentii rigirandomi nel letto così che fossi accoccolata contro di lui. “Buonanotte”.

“Buonanotte”, mormorò tra i miei capelli, la sua voce insicura nella penombra della mia stanza.

...E insomma, il ragazzo ha i suoi modi per farsi ascoltare xD Beh spero vi sia piaciuto, la decisione di El credo sia totalmente giustificata ora, dal momento che non c'è più in ballo solo lei. Preferisce dar via tutto ciò che conosce per proteggere le persone che ama e credo che la cosa le faccia onore, nonostante lei abbia ancora una paura fottuta di essere trasformata(come credo è giusto che sia, il fatto che Bella non fosse minimamente spaventata non mi ha mai convinto sinceramente. Va contro ogni istinto umano - come detto precedentemente nel capitolo 28). Ok sto diventando troppo prolissa ultimamente. Ringrazio le 5 belle donne che hanno recensito la volta scorsa, siete meravigliose.

Vi lascio con questa canzone - una nuova cover dei 30stm della canzone degli U2 "Where the streets have no name", che sinceramente trovo meravigliosa. C'è una passione dentro che fa venire la pelle d'oca, non so se è lo stesso per voi. 

Buon weekend, alla prossima! :)

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Capitolo 31
*** Mal di testa. ***


Capitolo 31 - Mal di testa.

Rieccoci qui! Bentornati per chi è ancora con me :) Spero abbiate passato delle belle vacanze! (Sono curiosa di sapere dove siete stati e com'è andata, quindi sentitevi liberi di raccontarmi i fatti vostri nello spazio recensioni) Ho deciso di sospendere gli aggiornamenti durante il mese di Agosto perchè ovviamente quasi nessuno li avrebbe visti, ma ora si riprende con il solito ritmo - ovvero una volta a settimana, solitamente il Sabato o comunque intorno al week-end. 
Ringrazio in anticipo chi legge e continuerà a leggere questa storia fino alla fine, ormai non manca molto. E ovviamente - e soprattutto - chi recensisce; siete meravigliose donne. Ok basta, buona lettura! :)

Capitolo 31. Mal di testa.

La luce fioca che filtrava dalla finestra mi colpì il viso, e l’unica cosa che potei fare fu stringere le palpebre con forza.

Non voglio svegliarmi, implorai nella mia testa.

“El, tesoro, è ora di svegliarsi”, sentii una voce chiamarmi.

Non sembrava reale, quindi non l’ascoltai, ignorandola completamente e affondando la testa nel cuscino. Una mano tiepida mi solleticò il braccio, e quel tocco sembrò ancor meno reale. Troppo caldo per la temperatura che ero abituata a sentire.

“Mmm”, mugugnai quando quella mano mi scostò i capelli dal viso, permettendo alla luce di raggiungermi meglio.

“Scricciolo, farai tardi a scuola”.

Aprii gli occhi di scatto, trovando mia madre davanti a me. Sospirai di sollievo alla sua vista. Era reale.

“Buongiorno, mia bella addormentata”, mi salutò con un bacio in fronte.

Sorrisi ampiamente. Alice non mi aveva di certo mai svegliata così, ed ero piuttosto certa che non ne avrei sentito la mancanza.

“Mmm”, la salutai a mio modo.

Ridacchiò qualche istante, per poi dirigersi verso la porta. Mi resi conto in quel momento che qualcosa mancava. Feci oscillare lo sguardo da un capo all’altro della stanza, aspettandomi di vederlo sbucare da qualche angolo nascosto.

“Dov’è Edward?”, chiesi più a me stessa che a mia madre.

A giudicare dalla sua espressione scioccata, quella non era la cosa più giusta che avrei dovuto dire.

“Non saprei. E non so cosa o come tu abbia passato i tuoi mesi di permanenza qui, mia cara, ma spero proprio che quel ragazzo non sia in questa casa in questo momento, perché se tuo padre lo beccasse perderesti ogni possibilità di vederlo ancora”.

Il suo tono mi fece che capire che con “tuo padre” potevo comprendere perfettamente anche lei. Le immagini che stava producendo la sua mente sembravano impresse sulla sua fronte, in bella vista. Immagini che, a dirla tutta, mi dispiaceva non aver vissuto.

“No, no!”, esclamai, sorpresa dalla velocità con cui aveva tratto le sue conclusioni. “Non è come pensi!”, mi affrettai a dire. “E’ solo che di solito venivano lui o Alice a svegliarmi”, mi giustificai, sperando che la mia mezza verità risultasse abbastanza credibile.

“Mmm”, mormorò scettica, per poi ricordarmi di affrettarmi e uscire dalla stanza.

Sospirai di sollievo, passandomi una mano tra i capelli.

Lasciai vagare lo sguardo per la camera, apprezzandola nei dettagli per la prima volta. Le dimensioni modeste e l’arredamento semplice dovevano essere state un’idea di Esme, così come i colori. Alice avrebbe optato per qualcosa più tendente al rosa o al viola acceso. Le tinte, invece, rimanevano sui toni di un debole giallo appena accennato. L’armadio nell’angolo aveva la superficie totalmente ricoperta di specchi interi, così da far apparire la stanza più grande e luminosa. Un’idea di Rosalie, sicuramente. Sulla scrivania c’era uno stereo che urlava fragile e al suo fianco pile di CD, ordinati meticolosamente per quello che sembrava anno e genere. Sorrisi – Edward.

Controvoglia, lanciai un’ultima occhiata alla mia nuova stanza prima di scivolare lungo il letto e posare i piedi per terra. Il parquet freddo a contatto con la mia pelle mi fece venire voglia di sotterrarmi sotto le coperte e non uscirne mai più. Tuttavia, mi costrinsi a trascinarmi in bagno e a prepararmi.

Quella notte avevo fatto finalmente un sogno normale. Avevo sognato la solita radura, ma questa volta non c’era Claude ad aspettarmi, bensì Edward – cosa che cambiava lo status del mio sogno radicalmente. C’era qualcosa che non mi tornava, ma evitai di badarci troppo. Forse ero semplicemente troppo abituata a fare incubi, e un sogno normale risultava strano.

Scesi in cucina con un sorriso stampato in faccia. Era incredibile quanto fosse facile sorridere con la mia famiglia attorno.

“Dormito bene?”, chiese mio padre con noncuranza.

Riuscii ugualmente ad individuare il tono dubbioso della sua voce, e lanciai un’occhiataccia a mia madre. Non riusciva a tenere la bocca chiusa nemmeno una volta.

“Benissimo”, replicai allegra. “Voi, piuttosto?”.

Scompigliai giocosamente i capelli di Sarah, per poi agguantare la mia colazione.

“Magnificamente”, rispose mio padre.

Ebbi appena il tempo di finire la colazione e di lavarmi i denti, che due colpi di clacson reclamarono la mia attenzione con prepotenza. L’espressione di mio padre la diceva lunga.

“Saluta tutti da parte nostra”, mi raccomandò mia madre.

Mio padre sbuffò, esprimendo in silenzio la sua scarsa simpatia per almeno un membro della famiglia Cullen. Non potei fare a meno di sorridere.

“Saluta Alice!”, insistette Sarah.

“A più tardi!”, gridai da sopra le spalle, salutandoli con un gesto della mano.

Mi affrettai verso la macchina, tirandomi su il cappuccio non appena mi accorsi delle gocce di pioggia, discontinue ma pesanti, che minacciavano di far lievitare la mia capigliatura.

“Sei un disastro”, fu il primo commento che mi sentii rivolgere quando richiusi la porta dietro di me.

“Anche per me è un piacere vederti, Alice. Ti saluta Sarah”, replicai sarcastica.

Non era la cosa più semplice stare in sei in una macchina omologata per cinque, soprattutto con Emmett al proprio fianco. Mi schiacciai contro il finestrino, abbozzando un saluto per ognuno di loro. Io e Edward ci scambiammo solo una lunga occhiata.

Prima di accorgermene, eravamo a scuola. Le sospensioni della Volvo sembrarono essere più che grate quando scendemmo dall’auto.

Sapevo di non poter salutare Edward come avrei voluto, lì davanti a tutta la scuola, quindi mi limitai a sostenere il suo sguardo a lungo, sapendo che sarebbe bastato quello. Mi sorpresi quando notai Edward serrare la mascella e produrre uno strano sibilo. Cinque secondi dopo, Thomas Duke fece il suo ingresso nel parcheggio. Sorrisi compiaciuta della sua gelosia. Mi faceva sentire importante.

“Ciao Coop”, mi salutò come sempre, sprizzando entusiasmo da tutti i pori.

Ero abbastanza di buonumore da evitare il sarcasmo.

“Ciao Tom, tutto bene? Ieri non ti ho visto a scuola”.

“Già, visita medica. Niente di che, esami del sangue”.

Notai le labbra di Edward sollevarsi in un sorriso truffatore. Sorrisi anch’io.

Ci incamminammo verso scuola, il nostro gruppo reso in qualche modo eterogeneo dalla presenza mia e di Tom. Sembravamo non appartenervi.

“Così…che fai sab-”, lo sentii cominciare, prima che lo interrompessi alzando una mano.

“Ang!”, mi affrettai verso di lei, sorpresa e al tempo stesso felice di trovarla come sempre sotto il portico ad aspettarmi.

“Ciao El”, mi sorrise.

Mi voltai rapidamente verso Edward per controllare la sua espressione. Questa situazione sembrava fin troppo simile a ieri. Ma il suo sguardo era sereno, quindi mi rilassai.

Ci dirigemmo velocemente verso Spagnolo, seguite da un Tom che sembrava non volersi arrendere. Apparve piuttosto sorpreso, e non piacevolmente, quando ci vide entrare in classe seguite da Edward. Mi sfuggì un ghigno.

Edward prese posto in fondo, lasciando me e Angelica prendere i due posti liberi nella fila davanti. Non riuscii a badare granché attenzione alla lezione, passando la maggior parte del tempo a bisbigliare con Angelica di qualunque cosa ci passasse per la mente.

Ad un tratto, mi accorsi di un piccolo pezzo di carta ripiegato che era apparso sul mio banco. Lo presi in mano, cercando di non farmi notare. Sapevo perfettamente di chi fosse quel biglietto ancora prima di aprirlo.

Non dovresti  stare attenta alla lezione ?, diceva.

Sorrisi brevemente, affrettandomi per recuperare una penna dal mio astuccio senza fare rumore.

Potrei farti la stessa domanda , risposi rapidamente.

Lo osservai con la coda dell’occhio sorridere e poi far scorrere la penna sul pezzo di carta stropicciato.

Mi piace la tua calligrafia

Sospirai pesantemente, assicurandomi che sentisse.

Non quanto la tua, scrissi disordinatamente. e comunque ciaooggi non ti avevo ancora salutato.

Lasciai scivolare distrattamente il biglietto sul banco alle mie spalle, tenendo d’occhio la professoressa.

Ciao. Scusami se sono sparito stamattina.

Scossi la testa. Trovava sempre un modo per prendersi una colpa per qualcosa.

Meglio cosi, non c e stato bisogno di leggere nella testa di mia madre per capire che si e fatta idee piuttosto strane.

Per quanto mi piacerebbe che fossero vere, avrei voluto aggiungere.

Gli passai velocemente il biglietto. Sentii una risata camuffata da un lieve colpo di tosse.

“Signor Cullen? Què tienes allì? Por favor, los dos”, gesticolò indicando anche me.

“Perdone”, rispose Edward alle mie spalle con un accento impeccabile.

Sapevo che sguardo sarebbe seguito a quel tono di voce, come sapevo la reazione che avrebbe avuto la povera signora Moreno.

Abbassai lo sguardo, incollandolo al quaderno. Non lo rialzai fino alla fine della lezione, conscia delle occhiate che continuava a lanciarmi l’insegnante. Suonata la campanella, tirai un sospiro di sollievo e cominciai a mettere a posto le mie cose. Salutai Angelica, piuttosto confusa dal mio cambio d’orario, assicurandole che l’avrei rivista a pranzo. La guardai incamminarsi verso la palestra.

“Scusami”, sentii dire al mio fianco una volta in corridoio.

“Per cosa?”, strabuzzai gli occhi.

“La professoressa si è accorta del biglietto”.

Alzai gli occhi al cielo, accelerando per evitare di sorbirmi ulteriori giustificazioni per drammi inesistenti. Ovviamente, non riuscii a distanziarlo. Quello che per le persone normali era un passo più che veloce, per lui non lo era.

“Pronta per storia?”, mi chiese davanti alla classe.

La prof non era ancora arrivata, quindi mi fermai ondeggiando sui talloni.

“Cercherò di sopravvivere e di non farmi travolgere dal passato”, lo rassicurai con un sorriso.

“Allora a dopo?”, suonò quasi come una domanda.

Da quando era così insicuro? Lo squadrai dubbiosa.

“Ovviamente”, mi affrettai a dire. “Anche se preferirei che restassi qui”.

Sembrò rilassarsi un po’. Lentamente, mi raccolse una ciocca di capelli e me la spostò dietro l’orecchio.

“Anch’io, ma non penso che il preside accetterebbe di buon grado”.

“Quindi a dopo”, decretai avvicinandomi a lui.

Sapevo che a scuola non l’avrebbe mai fatto, ma speravo di avere un buongiorno come si deve. Si limitò ad accarezzarmi il braccio, stringendo le dita fredde attorno ad esso.

“A dopo”, disse in un sospiro, prima di voltarsi e sfilare via.

L’ora di Storia, come anche Matematica, passò come se non fosse mai arrivata. Il mio cervello sembrò non registrare nemmeno il ronzio di sottofondo che corrispondeva alla voce della prof, preferendo fluttuare come in assenza di gravità. Solamente a metà dell’ora di Matematica mi accorsi che il mio mal di testa stava diventando ingestibile. Le tempie pulsavano e tenevo la mascella così serrata da farmi male.

Quando la campanella decretò l’inizio della pausa pranzo, avevo ormai raggiunto un certo livello di squilibrio mentale. Cominciavo a immaginarmi il sollievo dovuto ad una salutare testata contro il muro, non esattamente la cosa più sana da fare.

Fluttuai in corridoio, senza nemmeno registrare gli spintoni che ricevevo di tanto in tanto da alcuni ragazzi che si affrettavano verso la mensa. Ogni suono, ogni mormorio, ogni anta di ogni dannato armadietto sembrava giungere alle mie orecchie con la forza di un ariete che cercava in ogni modo di trapanarmi il cervello. Sembrava di avere un cantiere in testa, con tanto di motoseghe e martelli pneumatici.

Sbucai in mensa e me ne pentii quasi subito – qui il rumore era amplificato. Le sedie strisciavano sul linoleum, le posate sbattevano nei piatti, i vassoi slittavano sui tavoli. Inferno.

“El”, sentii una voce chiamarmi.

Perfetto. Ora sentivo anche le voci. Non sembrava reale, mi arrivava ovattata, confusa. Come se fosse lontana chilometri. Mi portai le mani alle tempie, cercando di alleviare in qualche modo la pressione all’interno del cranio.

“El?”, chiamò di nuovo, più forte questa volta.

Mi riscossi, riuscendo a focalizzare il mio sguardo su Angelica.

“Oh”, mormorai. “Scusami, ero sovrappensiero”.

“Tutto bene? Non hai una bella cera”.

Abbozzai un sorriso, che a giudicare dall’espressione di Angelica non riuscì.

“Solo un po’ di mal di testa”, mi strinsi nelle spalle.

“Vieni a sederti, è meglio che prendi qualcosa”.

“Magari dopo faccio un salto in infermeria per vedere se hanno del Tylenol”.

Mi osservò scettica, per poi afferrarmi un braccio e trascinarmi al nostro tavolo. Doveva avere paura che svenissi da un momento all’altro.

“Non mangia?”, sentii Tom chiedere dopo qualche minuto.

“Non credo stia molto bene, non mi sembra il caso”, rispose Angelica con calma.

“Sta male?”, insistette Thomas.

“Tom, la vedi anche tu. Non credo sia al massimo della forma”.

Avevo la faccia completamente affondata tra le braccia e la fronte appoggiata contro il tavolo freddo. Tuttavia, non riuscivo a trarne sollievo. Invece di migliorare, sembrava continuare ad andare  peggio.

Ignorai i discorsi confusi di Thomas, sforzandomi di sollevare la testa quanto bastava per cercare Edward dall’altra parte della sala. Trovai i suoi occhi su di me, un’espressione preoccupata sul suo volto. In quel momento, agognavo per il suo tocco freddo sulla mia fronte.

Ogni secondo che passava, la pressione all’interno della mia testa sembrava diventare sempre più forte, sempre più rumorosa. Come se ci fossero più suoni dentro che fuori dalla mia testa.

Basta, mi dissi, cerca di non pensarci e passerà.

Forse sarei anche riuscita a saltare l’ora d’Inglese e a rifugiarmi in infermeria. Sospirai pesantemente, raddrizzandomi sulla sedia.

“Okay”, farfugliai confusa quando notai che mi girava la testa. “Di che stavate parlando?”.

Volevo provare ad inserirmi nella loro conversazione, così che forse sarei riuscita a distrarmi.

Fui costretta a chiudere gli occhi per le vertigini. Ero sicura di essere ferma, eppure mi sentivo cadere continuamente. A quel punto, ero anche piuttosto spaventata. Che mi stava succedendo?

Ignorai i pigolii preoccupati dei ragazzi al tavolo con me mentre cercavo di ricordarmi con esattezza cosa avessi mangiato la sera prima. Forse qualcosa mi aveva fatto male – ma non avevo la nausea. E, nonostante la mia scarsa esperienza medica, trovavo poco plausibile l’ipotesi di un’intossicazione alimentare senza la nausea.

Non riuscii a trovare alcuna risposta, probabilmente anche perché il mio mal di testa me lo rendeva alquanto impossibile. L’unica cosa con cui riuscivo a paragonarlo erano le emicrania dovute agli allenamenti con Alice. La pressione era la stessa, ma mai ero arrivata a questo punto – di solito mi imbottivano di Tylenol prima.

Mi sforzai di riaprire gli occhi, sentendomi instabile. Mi aggrappai al bordo del tavolo, cercando di focalizzare ciò che mi stava attorno.

“El? Guardami. Ti senti male? Devo chiamare l’infermiera?”, le mani di Angelica mi tenevano il viso con forza, ma non mi sembrava di riuscire a sentirle.

Le vedevo, certo, ma non le sentivo chiaramente. Solo una pressione fredda e umida sulle guance.

“Chiamate l’infermiera”, sentii qualcuno dire.

Mi schiacciai nelle spalle quando il suono di una sedia trascinata sul pavimento arrivò alle mie orecchie. Tuttavia, questa volta non lo sentii in tutta la sua forza. C’era un ronzio di sottofondo ora, qualcosa di cui ero grata in un certo senso. Con un breve lampo di lucidità, mi accorsi verso dove mi stavo dirigendo. Mal di testa, giramenti, orecchie che fischiano. L’offuscamento della vista che giunse qualche istante dopo completò il quadro alla perfezione. Stavo per svenire.

“Ang”, farfugliai appena. “Credo di stare per svenire”, la informai, sperando di aver parlato correttamente.

Poi, con mia sorpresa, per un attimo tutto sembrò diventare silenzioso. Nessuna sedia, nessuna posata, nessun mormorio fastidioso, niente di niente. Mi portai le mani alle tempie, apprezzando quel breve istante di pace. Non sentivo assolutamente niente. La vocina nella mia testa mi informò dispiaciuta: la calma prima della tempesta.

Il secondo dopo, tutto riesplose con violenza, portando con sé immagini, voci e odori che non appartenevano a quel luogo.

Appena prima di svenire, riuscii a sentire distintamente una voce accanto a me. Mi voltai, sperando di trovarla al mio fianco, ma Edward era là al suo tavolo, in piedi come se fosse indeciso su cosa fare. La sua espressione era strana. Non capii che cosa esprimesse esattamente, se paura, confusione, sorpresa o semplicemente indecisione.

-Riesco a sentirti- , riuscii a sentirlo dire prima di perdere conoscenza.

Ero sicura di non aver visto le sue labbra muoversi.

TAN TAN TAAAAAAAAN! E ora? 
Ok no, scherzi a parte, la povera El ne ha una dietro l'altra. Che succederà ora secondo voi? Spero che la storia non vi stia annoiando o cose del genere, nel caso fatemi sapere, mi raccomando.

Come ho detto sopra, ormai non manca molto alla fine. La storia si compone di 36 capitoli più l'epilogo finale, quindi ci siamo quasi. Come credete che finirà? Avete qualche idea/dubbio/supposizione varia? Io sono qui per rispondere a qualunque domanda - o almeno ci provo. Detto ciò, vi ringrazio e vi auguro un buon week-end! :)

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Capitolo 32
*** Anticipo. ***


Buongiorno e buon sabato :) Vi avevo lasciato un po' in sospeso la volta scorsa, quindi sarò breve.
Questo capitolo è piuttosto importante per gli sviluppi che apporta alla trama, e racchiude anche il titolo della storia stessa. Spero quindi che vi piaccia :) Buona lettura!

Capitolo 32. Anticipo.

Non mi sembrava di essere completamente cosciente. Forse lo ero. Forse no.

Il mio corpo era schiacciato a terra come se pesasse tonnellate, e non avevo la minima intenzione di provare a muovermi di un solo millimetro. La pressione all’interno della mia testa m’informò che ero completamente cosciente.

Mi sforzai di mantenere il respiro lento e prolungato mentre cercavo di capire dove fossi. Ero chiaramente su un letto – riuscivo a sentire qualcosa di simile a tessuto sotto le mie mani – ma era troppo duro e scomodo per poter essere anche lontanamente simile ad un materasso. Ero in ospedale? No, niente strani bip da tutte le parti, né irritanti voci dall’altoparlante che parlavano ininterrottamente. Fu quando strinsi il lenzuolo di carta tra le mie dita che mi resi conto di essere in infermeria.

Una mano calda coprì la mia.

-Ti prego, ti prego, ti prego fa che stia bene. Spero di non averle attaccato l’influenza. L’infermiera ha detto che è solo svenuta, forse per un calo di zuccheri. Speriamo stia bene.-

Continue immagini si susseguivano, ripetendo senza sosta come una moviola calcistica la scena in cui perdevo conoscenza, per poi cadere sgraziatamente a terra. Nell’immagine, Edward si materializzava al mio fianco per impedirmi di sbattere la testa.

“Ang”, bofonchiai con voce impastata cercando di aprire gli occhi.

“Oh, sei sveglia. Meno male”, disse sollevata.

-Dio grazie, meno male-

“Che diavolo è successo?”, chiesi, nonostante lo sapessi già. “Dov’è Edward?”, avevo bisogno di sapere che diamine mi stava succedendo.

“L’infermiera non l’ha voluto far entrare, credo che avesse paura di lasciare una ragazza sola con un ragazzo, sai com’è”, m’informò sorridendomi appena.

“Oh”, mi accigliai.

“E’ fuori dalla porta, l’ultima volta che l’ho visto continuava ad andare avanti e indietro come se stesse per impazzire. Era piuttosto nervoso, l’ho sentito imprecare un paio di volte…”.

Sorrisi all’immagine che seguì quella frase, evitando di domandarmi come diavolo riuscissi a leggere nella mente di Angelica in quel momento.

“Forse è meglio che lo lasci entrare, volevo solo assicurarmi che stessi bene”.

“Grazie, Ang”, risposi sincera.

“Mi hai fatto spaventare a morte. Non farmi mai più una cosa del genere”.

I suoi pensieri non la tradivano. Si era spaventata davvero.

“Mi dispiace. Ci proverò”.

“Ti chiamo stasera, cerca di rimetterti”, mi diede un rapido bacio sulla fronte prima di uscire dalla stanza.

Mi guardai attorno. Come infermeria era piuttosto deprimente. I toni verde scuro alle pareti non facevano che accrescere la mia tesi. Non c’erano mobili di alcun genere, fatta eccezione per un paio di sedie, il lettino incredibilmente scomodo su cui ero ancorata, e una libreria piena zeppa di libri inutili.

-Signorina Cullen, sarebbe meglio che lei andasse a lezione-, sentii la signorina Cope informare Rosalie dalla segreteria. L’occhiataccia che spaventò la segretaria mi fece quasi ridere.

Ero sorpresa. Il mio scudo arrivava fino in segreteria? Lo tastai attentamente, seguendone i contorni fino a trovarne i limiti fino a cui era esteso. Era più ampio di quanto fossi mai riuscita ad estenderlo e non mi stava costando alcuna fatica. Il mal di testa sembrava svanire a poco a poco, mentre io mi rafforzavo.

Mi ero immaginata il mio scudo come una sfera, certamente non come l’ovale che era adesso. Era lungo circa dieci metri, per quanto mi sembrava, ma largo appena due. C’era qualcuno che continuava a passeggiare, avanti e indietro, dentro e fuori il mio scudo. Era irritante. Non riuscivo a sentire con esattezza i suoi pensieri. Ci impiegai qualche secondo per capire chi fosse. Quel qualcuno si fermò, con mio grande disappunto fuori dal mio raggio d’azione.

Con il mio debole udito umano riuscii semplicemente a sentire un silenzioso scambio di battute, seguito da un rumore di passi.

“Edward”, mormorai sollevata quando lo vidi entrare.

-Grazie a Dio-

“El”, richiuse la porta alle sue spalle, per poi materializzarsi al mio fianco.

Non disse niente, ma potevo capire dai suoi pensieri quanto fosse preoccupato e al tempo stesso sollevato.

-Mi senti, non è vero?-, domandai nella mia testa, sentendomi incredibilmente stupida.

Annuì, ma ancora preferì il silenzio.

-Com’è possibile?-, chiesi allungandomi per raggiungere la sua mano.

Avevo bisogno di un contatto, seppur minimo.

“Non lo so”, rispose apatico.

Potevo dire con certezza che c’era qualcosa che mi stava nascondendo. Il suo tono era senza vita, i suoi occhi svuotati e spenti. Come se l’oro al loro interno si fosse congelato in un grande iceberg dorato.

-Edward, che succede? Che c’è che non va?-, strinsi la sua mano, sperando inutilmente di ricevere una risposta da parte sua a quel contatto.

“E’ tutto okay. Non c’è niente che non va”.

“Edward”, questa volta parlai ad alta voce. “Non prendermi in giro”.

Sospirò pesantemente, chiudendo gli occhi per poi riaprirli. In quel breve processo, i suoi occhi cambiarono espressione, scaldandosi un poco.

“Mi hai fatto quasi prendere un infarto, che non è esattamente la cosa più semplice da fare”.

“Mi dispiace”, abbozzai. “Non so nemmeno che diavolo è successo”.

“Sì, ma ti ho sentita. E ti sento ora”.

Sembrava scioccato quanto me da quello che era accaduto.

-Mi piace la possibilità di fare delle conversazioni silenziose-, pensai con entusiasmo.

Mi sorrise un ghigno.

-Anche a me non dispiace come idea-, finalmente reagì alla mia stretta di mano, portandola sul lettino e stringendo la mia tra entrambe le sue.

-Mi chiedo come funzioni quest’affare-, domandai più a me stessa che a lui.

-Questo non ti deve preoccupare. Stai bene? Sei caduta piuttosto male prima. Ti fa male qualcosa?-

-Giusto-, pensai con una smorfia, -Ah. A proposito, grazie per avermi evitato un bel bernoccolo-

-Di niente. Come stai?-, insistette chinandosi a sfiorare il dorso della mia mano con le labbra.

Alzai gli occhi al cielo.

-Bene, direi. Un po’ frastornata. Beh a dire il vero un po’ più di frastornata, ma credo che abbia a che fare con il fatto che di colpo riesco a leggere i pensieri delle persone che mi stanno attorno-

Mi sorrise compiaciuto.

-Ci farai l’abitudine-

-Lo spero-

Per un breve istante, riuscii a vedere nella sua mente un’immagine che mi fece sorridere.

Mi tirai su dal lettino, strisciando indietro fino a quando non mi ritrovai quasi seduta. Lasciai scivolare via la mia mano dalla sua, apprezzando l’espressione confusa sul suo volto.

“Che stai facendo? Dovresti stare sdraiata ancora un po’, sei svenuta da poco”.

“Sto facendo quello che volevi che facessi”, mi avvicinai a lui fino a quando il suo viso non fu a pochi centimetri dal mio.

Mi sorrise il mio mezzo sorriso preferito.

“Mh-mh”, mormorò colmando la distanza tra di noi. “Mi piace questa faccenda dei pensieri”, disse sulla mia bocca.

-Mi piace questa faccenda dei pensieri-, gli feci il verso nella mia testa.

Sorrise ancora mentre le sue labbra premevano sulle mie. Feci scivolare una mano alla base del suo collo, e con l’altra gli accarezzai il volto. Cercavo sempre di imprimere ogni momento, ogni tocco, ogni linea del suo volto nella mia memoria, consapevole che prima o poi avrei rischiato di ricordarli con meno precisione.

Le sue dita s’intrecciarono ai miei capelli, per poi scendere alla base della mia schiena e avvicinarmi ulteriormente a lui. Non era mai abbastanza. Volevo sempre essere più vicino. E ancora, e ancora, e ancora.

Ad un tratto, notai qualcosa cambiare nei suoi pensieri. Cercava di controllarsi. Gli stampai un altro bacio leggero prima di allontanarmi. Non volevo rendergli le cose difficili. Restammo qualche istante a fissarci negli occhi con un sorriso ebete prima che qualcuno bussasse alla porta. L’infermiera era venuta a controllare il mio stato, o così aveva in mente di giustificarsi. In realtà, voleva sapere perché il bel ragazzo ci stava mettendo così tanto ad accertarsi di come stavo.

“Vediamo se posso mandarti a casa”, mi disse avvicinandosi e toccandomi la fronte.

“A casa?”, le feci eco, confusa.

“Non penserai di certo di andare a lezione dopo essere svenuta”.

Mi accigliai, abbassando lo sguardo.

Edward stava pensando a come il mio labbro inferiore, già solitamente più in fuori rispetto a quello superiore, sporgesse in quel momento. Era affascinato dal mio broncio, o questo era quello che pensava. Sospirai alzando gli occhi al cielo.

“Allora, come ti senti?”, chiese la piccola donna paffuta al mio fianco.

“Direi bene, abbastanza normale”.

Lettura del pensiero a parte, certo, pensai sarcastica.

Edward camuffò una mezza risata con un colpo di tosse.

“Anche tu malato, ragazzo?”, chiese scettica.

“No, grazie signora Miller. Sto bene”, rispose affabile.

Avrei voluto alzare gli occhi al cielo di nuovo. Era impossibile.

“Beh, vediamo signorina Cooper… ora sta bene. Magari quando arriva a casa mangi qualcosa di zuccherato. Ha già chiamato i suoi genitori?”.

La osservai confusa.

“Ehm, no. A dire il vero no”.

“Sarò più che felice di rendermi utile e riaccompagnare la signorina Cooper a casa”.

Sollevai un sopracciglio nella sua direzione.

“Mmm”, rifletté l’infermiera.

Pensava non fosse sicuro lasciarmi andare in macchina da sola con lui. Avrebbe potuto…

“Per me va bene”, mi affrettai a dire prima che le sue fantasie intaccassero il mio cervello.

Ci adocchiò per qualche attimo, per poi decidere che se ero così sicura come sembravo, allora non c’era nessun problema.

“Okay, quindi voi due ragazzi passate in segreteria a ritirare il permesso dalla Cope e uscite pure”.

Ricevuta la sua benedizione, fummo liberi di uscire dall’infermeria.

“Vuoi che ti porti in braccio?”, propose Edward con un gran sorriso.

“Grazie, ma no. Cammino da sola”.

“Aiuterebbe a convincere la signorina Cope che hai bisogno di un passaggio a casa”.

“Certo, come se non bastassero i tuoi battiti di ciglia per farla sciogliere ai tuoi piedi”.

Ridacchiò in silenzio, per poi allontanarsi un attimo per ritirare i permessi.

Fu indietro in meno di due minuti, e rimpiansi di non averlo seguito in segreteria e aver assistito alla scena con la Cope. Mi sarebbe piaciuto sapere che cosa pensava, almeno per un minimo di solidarietà femminile. Sapevo cosa significava essere sottoposta alla potenza del suo sguardo.

“Stai bene? Hai avuto altri giramenti?”, mi chiese appena prima di aprire le porte della segreteria.

Pioveva, quindi mi infilai la giacca e mi tirai su il cappuccio.

“Sto bene”, gli risposi mentre respiravo l’aria fresca e impregnata dell’odore della pioggia.

Mi piaceva quell’odore. Era quasi qualcosa di nuovo per me, a Miami non pioveva molto spesso. O almeno, non tutti i giorni.

“Oh”, esclamai quando raggiungemmo la Volvo.

“Che c’è? Ti fa male la testa?”, chiese preoccupato.

“E piantala, sto bene. Mi stavo solo chiedendo… come faranno Rose e gli altri a tornare a casa senza macchina?”.

Ridacchiò per qualche secondo.

“Vorrà dire che tornerò a prenderli, oppure faranno una corsa a casa”.

Di certo Emmett avrebbe gradito una bella gara, possibilmente con scommessa, fino a casa. Tuttavia, ero abbastanza certa che Alice e Rose avrebbero avuto altro da dire, soprattutto vista la pioggia. Edward mi aprì elegantemente la portiera, aspettando che salissi per poi richiuderla silenziosamente una volta entrata. Lo guardai richiudere la portiera dietro di sé appena un secondo dopo. Mi allacciai la cintura, per poi accoccolarmi sul sedile mentre il motore prendeva rapidamente vita. Appoggiai un gomito sul bordo del finestrino, sorreggendomi la testa con una mano mentre lasciavo vagare lo sguardo oltre il parabrezza.

Sul vetro, cadevano continuamente piccole gocce di pioggia. Erano talmente tante che riuscivano a creare, nel loro infrangersi, un piacevole rumore di sottofondo. Nel loro procedere lungo il vetro formavano strane fantasie e intrecci.

Le osservai con attenzione, seguendone una in particolare. Era piccola, tonda, semplice. Non avrebbe attirato lo sguardo di nessuno. Seguii il suo percorso lungo il vetro, notando come fosse attorniata dalle altre, quasi a proteggerla dalla sua stessa fragilità. Guadagnava pochi centimetri ad ogni movimento, scivolando sempre più verso il basso. La osservai continuare il suo tragitto, arricchirsi e privarsi ad ogni contatto con le altre gocce. Cominciava a prendere velocità, a scendere con più rapidità verso la fine del vetro. Non c’era stato nessun segnale, nessun avviso, eppure aveva accelerato senza motivo, forse cercando di arrivare al traguardo prima delle altre. Speravo che ci riuscisse. Ad un tratto, il tergicristalli se la portò via.

Scioccata, rimasi ad osservare il punto in cui era sparita. A poco a poco, altre gocce ripresero a riempire lo spazio creatosi, tuttavia senza mai ricoprire perfettamente il punto dove la mia goccia di pioggia era scomparsa. Gli intrecci ripresero, ma il vuoto rimase tale.

Sentii qualcosa di strano pizzicarmi dentro. Quindi era così. Non c’era modo di sapere come sarebbe finita. Potevi correre, affrettarti lungo il vetro e superare gli altri, protetta da chi ti stava intorno, ma non c’era alcun modo di sapere quando il tergicristalli ti avrebbe spazzato via.

Abbassai lo sguardo, sconfitta. Edward ingranò la retro ed uscimmo dal parcheggio.

 

Quando arrivammo a casa, il silenzio era ancora intatto. Non mi disturbava, e ovviamente nemmeno Edward. Era confortevole in un certo senso.

Dopo tutti quei pensieri, quelle voci e tutto il resto, era piacevole un po’ di silenzio. Evitai di leggergli nel pensiero, cercando di rispettare la sua privacy, mentre entravamo in salotto.

“El, tesoro, che ci fai a casa?”, domandò Esme preoccupata non appena mi vide.

Si voltò a chiedere spiegazioni a Edward.

“Ha avuto un giramento ed è svenuta, ma ora sta bene”, la tranquillizzò.

Esme mi portò una mano sulla fronte.

“Sei sicura?”, mi chiese conferma.

Annuii docilmente.

“Esme, dov’è Carlisle?”, disse Edward qualche secondo dopo.

Entrambi sapemmo la risposta non appena finì di parlare. Edward annuì in silenzio.

“Fra quanto pensi che sarà qui?”.

“Dovrebbe arrivare a momenti”, abbozzò Esme. “Edward, è successo qualcosa?”.

Non gli lasciai tempo di rispondere.

“Diciamo di sì”, le sorrisi.

“Diciamo che riesce a leggere nel pensiero ora”, completò la frase per me, imitando il mio tono.

Esme si portò la mano davanti alla bocca in stupore.

Carlisle arrivò appena due minuti dopo. Comprese l’espressione di Edward non appena mise piede in casa. Annuì serio e gli mise una mano sulla spalla.

“Buongiorno, Elizabeth”, mi salutò con un gran sorriso.

Mi limitai a rispondere con un gesto della mano e l’accenno di un sorriso. Non riuscivo a togliere gli occhi dallo sguardo preoccupato di Edward. Stava cercando di non pensarci, ma non poteva prendermi in giro.

“Vieni”, mi disse, prendendomi per mano e trascinandomi in salotto.

Vidi Carlisle annuire di nuovo e poi seguirci.

“Che succede, Edward?”, espresse i suoi pensieri una volta seduti.

Ovviamente non sapeva che potevo sentirlo perfettamente anch’io.

“El ha… migliorato le sue potenzialità oggi a pranzo. È svenuta e da allora riesce a leggere i pensieri come me”.

-Oh-, pensò Carlisle, voltandosi verso di me.

-Beh un po’ me lo aspettavo, figliolo. Ricordi anche tu quanto Amos fosse rimasto impressionato quella prima sera-

Edward annuì serio.

“Anch’io, ma… non mi aspettavo che fosse così presto”.

-Capisco. Questo anticiperà ogni cosa-

“Aspettate. Anticipare cosa?”, m’intromisi nella loro conversazione.

Edward sospirò rassegnato.

“Più velocemente sviluppi i tuoi poteri, prima gli Hoser verranno a… reclamarti”.

Carlisle si portò una mano dietro la testa con fare pensieroso.

“Oh”, mormorai sorpresa.

Tuttavia, nonostante mi aspettassi, probabilmente come tutti loro, di esserne spaventata, mi ritrovai ad esserne quasi grata. Sorrisi ampiamente verso Edward.

“Beh, allora è perfetto. Mi trasformeranno, così Claude non potrà più uccidermi”.

Era perfetto. Sembrava che tutto s’incastrasse alla perfezione, come un puzzle su misura per me.

Edward ruggì al mio fianco, circondandomi un polso con le dita.

“No!”, esclamò con rabbia. “Ne abbiamo già discusso. Non ho nessuna intenzione di ucciderti”.

Il suo sguardo fisso nel mio era feroce, brillante quanto tizzoni ardenti.

“Calmati, Edward”, lo avvertì Carlisle. “Le farai del male”.

Edward allentò la stretta attorno al mio polso fino a lasciarlo ricadere sul divano.

Solo dopo che la circolazione ebbe ripreso a scorrere, mi resi conto di quanto forte avesse stretto. Rimasi ad osservare le linee bianche dove fino ad un istante prima erano state le sue dita e il contorno scuro che le circondava.

“A dire la verità, El”, disse Carlisle con voce calma e misurata. “Non è proprio così semplice”.

Alzai lo sguardo verso di lui, portandomi entrambe le mani in grembo e stringendo il polso offeso con l’altra. Faceva male.

“Se gli Hoser…”, si fermò, scuotendo la testa amaramente. Ci riprovò. “Quando gli Hoser si accorgeranno delle tue capacità, è molto probabile che decidano di tenerti con loro. Saresti il loro fiore all’occhiello, o per meglio dire la loro arma migliore”.

Ci fu un profondo sibilo al mio fianco. Lo ignorai.

“C’è un modo per evitarlo? Voglio dire, non c’è un modo per fare sì che non abbiano pretese su di me?”.

Lanciò uno sguardo di scuse verso Edward. Sibilò un’altra volta.

-Perdonami, figliolo-, pensò sincero prima di tornare a me.

“Un modo c’è, ed è quello a cui stiamo pensando da parecchio tempo. Ma Edward continua ad opporsi, e non sembra esserci modo di smuoverlo”.

Repressi un sibilo a mia volta, guardando nella direzione di Edward in cagnesco, ma senza posare davvero i miei occhi su di lui. Il mio polso pulsava ancora al ricordo della sua stretta.

“E’ la mia vita, non la sua”, scandii con attenzione.

Poco importava che lui mi considerasse la sua vita. Il cuore che batteva all’impazzata in quel momento, quello che aveva i battiti contati – non importava il modo in cui sarebbero terminati – era pur sempre il mio.

Carlisle annuì mestamente, per poi sospirare.

“Dovremmo trasformarti noi. A quel punto, apparterresti alla nostra famiglia e avremmo un vincolo da rivendicare nel caso volessero toglierti a noi. Non avvierebbero mai uno scontro che rischierebbe di attirare troppa attenzione su di loro”.

Annuii decisa.

“Quando?”, domandai impaziente.

Prima era, meglio era. Non potevo sopportare oltre tutti quei problemi, quelle paure.

Un altro ruggito riempì la stanza e l’attimo dopo Edward torreggiava sopra di me, le sue braccia allungate lungo entrambi i lati del divano in modo da non lasciarmi via d’uscita.

No!”, esclamò furente. “Perché tutta questa fretta?! Sei impazzita?”.

Evitai i suoi occhi deliberatamente, sporgendomi verso Carlisle.

“Hai sbattuto la testa troppo forte oggi a mensa? Non pensi ai tuoi genitori, alla tua famiglia, a me?!”, mi bloccò il viso tra le mani, costringendomi a fissarlo negli occhi.

Cercai di sgusciare via, ma era impossibile.

Sostenni il suo sguardo a lungo, impedendomi con decisione di affondare in quell’oro incandescente come avrei fatto di solito. Non aveva il diritto di trattarmi così.

“Riflettici”, ripeté, quasi ringhiando tra i denti.

“Toglimi le mani di dosso”, sibilai riducendo gli occhi a due fessure.

Allentò la sua presa all’istante, fino a quando le sue braccia non ricaddero sui suoi fianchi. Il suo sguardo era triste, dispiaciuto. Cercò il mio con occhi colmi di scuse. Ero pronta a sostenere il suo sguardo infuriato, ma non quello dispiaciuto.

Mi rifiutai di chinare il capo – l’orgoglio a comandarmi – ma sentivo la mia risolutezza venire meno ogni secondo passato a specchiarmi in quei due pozzi dorati.

“Mi dispiace”, disse in un sussurro, la sua voce malinconica e carezzevole, avvicinandosi fino a quando non toccò la fronte con la mia.

Chiusi gli occhi, ripiegando leggermente la testa, per poi spingere contro la sua. Riaprii gli occhi, abbozzando un sorriso. Sospirò di sollievo.

-Mi dispiace. Perdonami-, ripeté ancora.

Annuii senza staccare la fronte dalla sua.

Con dolcezza, mi prese il polso che aveva stretto troppo forte prima, circondandolo con le sue dita e applicando la più leggera pressione. Accarezzò gentilmente con il pollice le linee bianche che lui stesso aveva impresso.

-Scusami-.

Entrambi udimmo il richiamo silenzioso di Carlisle.

Si scostò da me, baciandomi tra gli occhi per poi tornare a sedersi accanto a me.

Carlisle annuì a se stesso.

-Elizabeth, finché Edward si opporrà in questo modo, sai tu meglio di me o di chiunque altro quanto sia impossibile fare ciò che vorresti-

“Non dico “no, mai”, semplicemente “non ora”. Vi prego. Sembra così poco il tempo che riuscirò a passare con te, non voglio strappare via la tua vita e rischiare così che tu ce l’abbia con me per il resto della tua esistenza”, mi circondò la vita con un braccio. “Non puoi esserne certa”.

Mi lanciò un’occhiata tormentata.

-Non voglio rischiare la tua anima-

“Quindi non c’è soluzione”, esclamò Carlisle, la sua voce incupita di uno strano tono amareggiato.  “Lascerai che qualcun altro si porti via la sua vita e la sua anima. Sono sicuro che ti ringrazierà, Edward, di averle impedito di fare la sua scelta. Succederà comunque prima o poi, questo lo sai bene”.

Edward sospirò cupo, scuotendo la testa. Non mi sarei mai aspettata di vedere Carlisle reagire a quel modo. Seguì un lungo silenzio, in cui mi sembrò di essere l’unica a respirare.

Mantenni lo sguardo basso sulle nostre mani intrecciate.

“Okay”, scandì Edward in poco più di un sussurro. “Quando?”.

Era incerto. Sapevo che per lui questa era ancora la scelta sbagliata, ma lo stava facendo per me. Strinsi la sua mano tra le mie. Carlisle si passò una mano tra i capelli, riflettendo attentamente.

“Non lo so”, ammise fissandomi in volto. “I suoi genitori si sono appena trasferiti qui, non me la sento di portargli via la loro figlia dopo così poco”.

“Ma non ce ne andiamo, resteremo qui, giusto? Vedrò lo stesso la mia famiglia, no?”, chiesi insicura. Edward e Carlisle sospirarono in sincrono.

“Resteremo qui, sì”, mi confortò Carlisle. “Ma non posso dire quando o se potrai rivedere i tuoi genitori. Potresti essere troppo pericolosa per loro”.

Oh. Per un secondo me ne ero dimenticata. Sarei diventata un vampiro.

“Possiamo rimandare questa conversazione a più avanti. Non c’è motivo di decidere ora”, mi rassicurò Edward, sfregandomi il braccio con la mano. “Sono successe parecchie cose oggi, è meglio che tu ci rifletta e che ti riposi. Ne riparleremo quando sarà il momento più adatto”, disse incatenando lo sguardo al mio.

 

Il pomeriggio passò lentamente. Edward mi aveva riportato a casa dei miei genitori, accennando al fatto che probabilmente avevo avuto un calo di zuccheri durante la mattinata e non mi ero sentita bene. Mia madre quasi diede fuori di matto.

Tuttavia, siccome la presenza di Edward era notevolmente poco gradita all’interno delle mura domestiche, fu costretto ad uscire, lasciandomi così da sola per il pomeriggio.

Sapevo che sarebbe rimasto a tenermi d’occhio e mi sarebbe bastato salire le scale e raggiungere la mia stanza per trovarlo lì, ma mia madre mi obbligò a restare con lei in salotto, sfoderando la scusa del è-poco-tempo-che-sei-qui-stai-con-la-tua-mamma, in forza del mio precario stato di salute.

Passai così il pomeriggio ancorata al divano insieme a mia madre, impegnata in una telefonata dietro l’altra. L’espressione “stai con la tua mamma” comprendeva solamente il fatto di trovarci nella stessa stanza.

La sentii più volte borbottare al telefono, mentre cercava di contattare il suo vecchio posto di lavoro per velocizzare il trasferimento alla sede più vicina. Olympia non era molto lontana e non sembrava dispiacerle lavorare lì. Mio padre invece era già riuscito ad effettuare il trasferimento alla modesta concessionaria di Port Angeles. Niente a che vedere con quella di Miami, ma nemmeno lui mostrava grandi segni di pentimento. Sarah si era già fatta un paio di amiche a scuola, riuscendo a farsi invitare a casa loro sin dal primo giorno. Come ci riuscisse, per me rimaneva un mistero.

Quando notai che la luce del sole cominciava a svanire da dietro la pesante coltre di nubi, decisi che era tempo di rifugiarmi in camera mia.

“Vado in camera”, informai mia madre mentre era ancora al cellulare, impegnata ad annotare su un post-it diversi indirizzi e numeri di telefono.

Mi rivolse uno sguardo di scuse, dispiaciuta del poco tempo passato insieme. Le sorrisi per tranquillizzarla e salii al piano di sopra. Edward era già lì ad aspettarmi.

Ecco fatto, ancora meno uno. Che ne pensate? Ve lo aspettavate in qualche modo? Come ho già detto, questo capitolo è piuttosto importante per me soprattutto perchè racchiude il titolo stesso, quindi fatemi sapere che cosa ne pensate - per favore? Mi rendo conto che la trama è un po' contorta, quindi se a qualcuno non fosse perfettamente chiara la faccenda trasformazione/Hoser o qualunque altra cosa io sono sempre qui :)
Vi ringrazio per il bentornata del capitolo scorso, mi fa sempre piacere vedervi recensire - soprattutto dopo così tanto tempo. Non so che altro dire, quindi buon weekend e alla prossima! :)  

Vi lascio con questa canzone meravigliosa, che per il titolo direi che può anche andare a braccetto con il capitolo xD 

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Capitolo 33
*** Sola. ***


Buonasera! Aggiorno stasera perchè domani sono fuori tutto il giorno. Stiamo procedendo piuttosto spediti verso la fine, ormai manca davvero poco. Questo capitolo è piuttosto lungo, e nell'ultima parte si fa protagonista uno dei personaggi che più preferisco nella Saga - probabilmente non per voi però xD Non so che dire, quindi buona lettura :)

Capitolo 33. Sola.

Quando uscii di casa, la mattina seguente, fui quasi sorpresa del fatto di essere in largo anticipo. Di solito ero costretta a catapultarmi fuori dalla porta e correre in macchina, grata del fatto che la guida di Edward fosse ben più veloce di quella normale.

Raggiunsi a grandi falcate la Volvo ferma a poco più di qualche metro, il motore ancora acceso. Tuttavia, mi sorpresi quando, aprendo la portiera posteriore, trovai la macchina vuota. Fatta eccezione per Edward.

“E questo…?”, cercai di domandare gesticolando, piuttosto sorpresa.

“Pensi di usarmi come tassista oppure salire qui di fianco a me?”, m’interruppe sfoderando un gran sorriso.

Inarcai un sopracciglio nella sua direzione, squadrandolo scettica. Lui si limitò a picchiettare il sedile del passeggero, invitandomi a salire. Non riuscii a non sorridere. Lanciai lo zaino sul sedile posteriore e richiusi la portiera, per poi salire davanti. Non appena allacciai la cintura, alzai lo sguardo e lo trovai lì, a pochi centimetri da me.

La bellezza del suo viso così vicina al mio si portò via il mio respiro, lasciandomi boccheggiante. Cercai di ricompormi, rimuovendo gli occhi dai suoi.

“A cosa devo tutto questo?”, domandai ostentando indifferenza.

Non la bevette. Si avvicinò ulteriormente, chiudendo la distanza tra noi fino a lasciare semplicemente lo spazio per formare sospiri ravvicinati.

“Mmm, Emmett si era stufato di stare stretto e io ho pensato che dopotutto non era una cattiva idea accontentarlo”.

La sua voce nascondeva un’ombra divertita che mi rivelava quanto gli piacesse farmi impazzire.

“Mh-mh”, lasciai che le sue labbra sfiorassero appena le mie, senza in realtà toccarle. “Sono sicura che ora Emmett è felice”.

Sentii quasi un ruggito, confuso dalla sua risata, giungere dalla sua gola mentre annullava la distanza tra noi, schiacciandomi contro di lui con impazienza. Ero stupita dal suo comportamento, ma lungi dal lamentarmene. Stavo bene dov’ero.

Mi strinse con forza, affondando le mani tra i miei capelli e avvicinandomi al suo viso con insistenza, convinto di potermi avvicinare a lui oltre ogni limite imposto dalla fisica. Ad un tratto, le sue labbra cambiarono atteggiamento, diventando dolci e caute nei movimenti. Potevo sentire il mio cuore rimbombare nel suo petto, tanto forte da pensare che sarebbe riuscito a risvegliare il suo, ormai dormiente da diverso tempo. Infine, si scostò da me, entrambi affannati dal respiro accelerato.

Non mi lasciò allontanare, mi tenne stretta tra le braccia quanto la macchina poteva concedergli.

“Buongiorno”, mi disse baciandomi la fronte.

Dopo un buongiorno del genere, non mi sarei più accontentata di qualcosa di diverso.

“Ciao”, abbozzai trattenendo a stento una risata imbarazzata.

Poi mi accigliai.

“Ehi!”, esclamai sgusciando via dalle sue braccia per lanciargli un’occhiata confusa. Non riuscivo a capire. “Non riesco più a sentirti”.

Mi sorrise compiaciuto.

“L’avevi già capito”, costatai dalla sua espressione.

“Sì, e anche sospettato”, ammise. “E’ normale che dopo aver manifestato il tuo potere per la prima volta, nei giorni successivi sembri sparire nel nulla”.

Il suo sorriso truffatore mi stava dicendo qualcosa di più.

“Ma?”, insistetti, sicura che ci fosse qualcosa da aggiungere.

“Ma a quanto pare tu sei speciale anche in questo”.

Inarcai un sopracciglio, confusa. Non riuscivo a sentirlo, era impossibile che stesse dicendo il contrario. Nella mia testa c’era il vuoto più assoluto. Solo i miei soliti pensieri aggrovigliati.

“Edward, io non ti sento”.

Annuì sorridente. “Ora”.

“Cosa?”.

Per tutta risposta si avvicinò di nuovo a me, così velocemente che mi sembrò di non averlo visto.

“Edw-”, cercai di lamentarmi, nonostante non riuscissi a convincere nemmeno me stessa.

“Shh”, mormorò. “Stai attenta”.

Appoggiò la sua bocca sulla mia, rendendomi difficile qualunque tipo di concentrazione. Chiusi gli occhi. Ci avrei provato, almeno.

-Vedi?-, lo sentii chiedere nella mia testa.

Sobbalzai, ritraendomi. A giudicare dalla sua espressione, sembrava avere qualche difficoltà nel trattenere la risata che minacciava di scoppiare.

“Alice è convinta che tu sia più forte con me vicino… beh, questo direi che dimostra la sua teoria”.

Era assolutamente, completamente compiaciuto di se stesso. Mi lanciò un’occhiata soddisfatta e al contempo divertita.

Alzai gli occhi al cielo.

“E’ possibile”, acconsentii controvoglia. “Ora portami a scuola, siamo in ritardo”.

 

Quella settimana trascorse velocemente, risucchiata com’ero dagli impegni e dalla mia nuova routine. A scuola c’era una strana atmosfera, quel misto di allegria e voglia di libertà che avvolgeva come una bolla di sapone le ultime settimane di lezione. Tutti sembravano non attendere altro.

Le giornate passavano così velocemente che quasi non mi resi conto che la fine della scuola si avvicinava sempre di più. L’estate portava cambiamenti; non ero sicura di volerla.

Il mio scudo ebbe alti e bassi, ma non si manifestò più come la prima volta. Ogni tanto riuscivo a percepire qualche immagine, qualche pensiero, ma niente di più. Tuttavia, alla fine preferivo che fosse così. A volte è meglio non sapere ciò che la gente pensa di te, a meno che tu non voglia cambiare l’opinione che hai su di essa.

Quella settimana cercai di stare con la mia famiglia il più possibile. Non volevo perdere nemmeno un secondo con loro. Solo ora riuscivo a rendermi conto di quanto mi fossero mancati.

Mia madre era riuscita ad ottenere il trasferimento e, con sua grande sorpresa, anche un buon aumento. Nonostante Edward negasse spudoratamente, sospettavo che i Cullen c’entrassero qualcosa con tutto ciò.

“Oh, El!”, mi chiamò Angelica appena dopo che ci fummo salutate dopo l’uscita a scuola.

“Sì?”, le chiesi quando mi raggiunse.

“Mi sono dimenticata di dirti che sabato i ragazzi hanno organizzato un’altra uscita a La Push, vieni con noi?”.

“Ehm… non saprei”, abbozzai con un sorriso.

“Dimmi di sì”.

“Ang, non lo so. Devo chiedere ai miei e…”, mi zittii prima di dire cose di cui mi sarei pentita.

“Fa venire anche lui”, mi sorrise.

Mi maledii mentalmente. Come faceva Angelica a conoscermi così bene? A volte sembrava fosse lei quella capace di leggere nel pensiero.

“Dimmi che ci penserai…?”, la sua supplica sembrò quasi una domanda.

Le sorrisi. “Okay, ci penserò, ma non ti prometto niente”.

“Va bene. Chiamami, a domani!”.

“Ciao Ang”, la salutai di nuovo.

La osservai correre verso la sua macchina.

“Salve”, la sua voce fu seguita dalle sue dita fredde che s’intrecciavano alle mie.

Abbassai lo sguardo sulle nostre mani, inorridita, e sobbalzai lasciando la sua. Sembrava che il mio cuore stesse cercando un modo per perforare la cassa toracica e prendere il volo. Non l’avevo sentito arrivare.

“Che diavolo fai?!”, sibilai fissandolo in cagnesco.

Mi guardò con un’espressione confusa.

“Ti saluto?”, domandò con un mezzo sorriso.

Alzai gli occhi al cielo.

“Vuoi farmi venire un infarto? Non puoi comparire così dal nulla!”, mi portai una mano al petto come prova, riuscendo a percepire il mio cuore anche attraverso la giacca a vento.

Le sue labbra si tesero a trattenere un altro sorriso.

“Cercherò di non farlo più”, promise con un’espressione tutt’altro che seria.

“E poi che diamine stavi cercando di fare?”, gesticolai senza motivo.

“Dovrei dire qualcosa in questo momento? Non ho idea di cos’altro abbia sbagliato”, ridacchiò tra sé.

Gli afferrai il polso, accostandolo al mio e rendendo così ovvio a cosa mi riferissi.

“Sbaglio o eravamo d’accordo che non avremmo dovuto mostrarci in pubblico?”.

A quel punto rise della mia espressione. Avevo avuto una giornata piuttosto pesante, mi sentivo sull’orlo di una crisi isterica.

“Allora?”, insistetti esasperata dalla sua noncuranza.

Si strinse nelle spalle con sguardo innocente. “Ho deciso che non m’importa”.

“Cosa… perché?”, domandai stupita, i miei occhi spalancati in sorpresa.

Senza abbandonare i miei occhi, con la mano libera afferrò il mio polso con dolcezza, costringendomi così a sciogliere la mia presa.

Mi sorrise, per poi far scivolare le sue dita nuovamente tra le mie e lasciarle così a mezz’aria.

“Voglio che tutti sappiano che sei mia e di nessun altro”.

In quel momento, avrei voluto quasi urlare. Sapevo che mi amava, nonostante mi sembrasse sempre incredibile, ma il fatto che ora volesse farlo sapere a tutti… sembrava renderlo ancora più reale.

Ero consapevole degli sguardi che proprio in quell’istante mi stavano perforando la schiena come minuscoli pugnali, ma non riuscivo ad interessarmene minimamente.

“Nessun altro”, ripetei convinta.

“Nessun altro”, mi fece eco, avvicinandosi a me quanto bastava per baciarmi.

Non potei impedirmi di sorridere all’“ooooh” sorpreso che si levò quasi in coro dal parcheggio della scuola, e nemmeno Edward ci riuscì. Senza badare a nessuna delle facce stupite che ci guardavano senza neanche batter ciglio, salimmo entrambi sulla Volvo.

 

“Ehi El, ho saputo che avete dato spettacolo nel parcheggio della scuola”, mi accolse Emmett non appena misi piede in casa.

Non avrebbe sicuramente perso quest’occasione per prendermi in giro.

“Già”, gli sorrisi, sperando che dargli corda sarebbe bastato a zittirlo.

Ovviamente mi sbagliavo.

“Mi sarebbe piaciuto assistere, peccato che Rose abbia voluto subito correre a casa per…”

Edward lo interruppe con un ruggito.

“Sta zitto, Emm”.

Emmett trattenne a stento una risata, ma non continuò con la sua tortura. Non capivo il perché della reazione di Edward, ma ero grata che fosse riuscito a far smettere Emm.

Quel pomeriggio avevo detto a mia madre che sarei andata a fare i compiti da Rose e che, forse, sarei rimasta lì fino a dopo cena. Cosa non del tutto falsa, ma dubitavo che avrei passato tutto il mio tempo con Rosalie. Nel complesso, passai una bella giornata e una serata anche migliore, anche se un po’ particolare.

Quella sera, ad un tratto, Alice scattò in piedi affrettandosi per spegnere le luci e accendere una debole musica di sottofondo con un gigantesco sorriso stampato in faccia.

Edward alzò gli occhi al cielo, scuotendo la testa lievemente con una risata.

Notai gli altri allontanarsi discretamente da Alice – che nel frattempo si era appollaiata su una delle poltrone vicino alla vetrata – la sua espressione entusiasta mentre si lisciava distrattamente il vestito sulle ginocchia.

Edward mi strinse la mano con dolcezza, avvicinandomi al suo petto. Mi accostai a lui sul divano.

Stavo per chiedere spiegazioni, quando Jasper scese le scale dal piano di sopra, il suo sorriso che rispecchiava quello di Alice. Non avevo nemmeno notato la sua assenza silenziosa.

A quel punto, nell’osservare l’espressione di entrambi, capii quello che stava succedendo.

“Pensavo mi avresti lasciata qui”, cinguettò Alice con una risatina.

Jasper camminò lentamente verso di lei fino a starle di fronte.

“E’ sempre impossibile riuscire a farti una sorpresa”, mormorò con un sorriso.

Poi si voltò brevemente verso di me, lanciandomi una breve occhiata per poi scrollare le spalle impercettibilmente. Oh, certo. Adesso era colpa mia se la sua ragazza era una veggente. Gli angoli della bocca mi si curvarono in un sorriso involontario e sentii anche Edward sorridere in silenzio.

Jasper accarezzò lentamente il braccio di Alice, dalla spalla fino al polso, per poi prenderle la mano.

“E comunque, sai bene che ti faccio sempre aspettare parecchio”, riprese il discorso.

Alice sorrise ampiamente, come se dietro quella frase ci fosse molto di più.

“Temevo che non saresti mai arrivato”, disse in un sussurro.

“E invece eccomi qui”, si inginocchiò lentamente, i suoi occhi che scintillavano con eccitazione. “Eccoci qui”.

Si fissarono a lungo, in silenzio, e mi sentii uno spettatore indesiderato. L’intensità con qui i loro occhi restavano in quelli dell’altro, colmi di parole e promesse silenziose, mi faceva sentire quasi a disagio. Rose e Emmett, in un angolo, osservavano con superficialità la scena davanti a loro – probabilmente perché l’avevano già vissuta più di una volta –, mentre Esme e Carlisle avevano preferito andare in cucina. Riportai di nuovo lo sguardo su Alice e Jasper.

Fu Jasper a rompere nuovamente il silenzio.

“Alice Cullen, vuoi rendere la mia esistenza più felice di quanto avessi mai pensato?”.

Alice cominciò ad annuire ancor prima che finisse la frase.

“Allora sposami di nuovo”, disse solennemente, sollevando la piccola mano di Alice fino a quando non sfiorò le sue labbra.

Fui costretta ad allontanare lo sguardo.

“Sì”, la sentii squittire entusiasta.

Sospirai lievemente, cercando di capire perché sentivo gli occhi umidi. Edward mi strinse di nuovo la mano. Abbassai lo sguardo sulle nostre dita intrecciate e fu semplice capire che era questo quello che volevo. Anch’io volevo un momento in cui qualcuno sarebbe stato costretto a guardare altrove, un momento mio e solo mio. E sapevo anche con chi volevo vivere quel momento.

Strinsi anch’io la sua mano con forza, sperando di trasmettergli ciò che provavo almeno in parte.

Non volevo il matrimonio. Non ancora, almeno. Volevo semplicemente essere sua in modo indiscutibile, in modo che nessun altro avrebbe tentato di portarmelo via. Volevo che la gente sapesse che lui era mio, che questa splendida, introversa, testarda creatura immortale mi aveva donato l’anima che credeva di non avere, legandola alla mia con fili invisibili.

Con le dita della mano libera disegnai sul suo braccio un intreccio confuso, avvicinandomi al suo orecchio per sussurrargli quello che ormai appariva quantomeno scontato.

“Ti amo”.

Sembrò irrigidirsi e per un attimo temetti di aver fatto un errore. Forse non voleva questo, forse gli bastava quello che avevamo ora. Tuttavia, dopo qualche secondo il suo corpo tornò a prendere vita, e si sporse a sfiorarmi la fronte con le labbra teneramente.

“Ti amo”, mormorò a sua volta.

 

“Mamma?”, chiesi la mattina dopo prima di uscire.

“Sì, tesoro?”.

“Ecco… so che siete qui da poco e mi dispiace non stare con voi, ma Angelica e gli altri ragazzi mi hanno chiesto di andare con loro a La Push, la riserva Quilleute a First Beach”.

Ondeggiai sui talloni, esitante.

“Posso andare?”, domandai, esplicitando la mia richiesta.

“First Beach, hai detto?”.

Annuii in silenzio, indecisa se alzare lo sguardo o continuare a contemplarmi i piedi.

“Con chi dovresti andare?”.

Oh, per carità divina. La santa inquisizione no.

“Mamma…”, mi lamentai alzando gli occhi al cielo. “Dovrei andare con Angelica e altri compagni di scuola, te l’ho già detto”.

“E Edward?”.

Ah, colta nel segno.

“Che c’entra Edward ora?”, replicai sulla difensiva.

“Niente, pensavo solo che venisse anche lui”, mi sorrise come se fosse compiaciuta della mia reazione. “Sai, dato che è la tua ombra ovunque tu vada”.

Sbuffai. “Non viene, non può”.

Ti prego non chiedermi perché, pensai supplichevole.

“Mmm”, sembrò soddisfatta. “Quando hai detto che volete andare?”.

“Sabato”, risposi. “L’idea era di andare lì la mattina presto e stare lì fino al pomeriggio”, dissi anticipando la sua domanda successiva. “Non so quando si torna”.

Mia madre annuì lentamente. “Per me va bene, ne parlerò con tuo padre”.

Esultai internamente. Metà del lavoro era fatto e, nonostante mi disturbasse il fatto che avesse acconsentito solo perché non c’era Edward, preferii concentrarmi su come affrontare la questione con Edward stesso. Non sarebbe stato così facile.

Mi decisi a parlargliene durante il tragitto verso scuola. Di certo non avrebbe potuto scappare o evitarmi così. Avevo voglia di rivedere Seth e Leah, e forse anche Jacob, anche se non ero totalmente sicura di quest’ultimo.

“Quindi…”, farfugliai mordicchiandomi nervosamente l’interno della guancia.

Lasciai la voce perdersi nel vuoto. Mi passai una mano tra i capelli, espirando profondamente.

“El?”, mi chiamò Edward portandomi una mano sotto il mento e sollevandomi il viso fino a che non incontrai i suoi occhi. “Dimmi”.

Cercai di evitarli, guardando alle sue spalle il paesaggio oltre il finestrino.

“Io…niente, mi chiedevo solo…”, dissi inciampando sulle mie stesse parole, chiedendomi se riuscisse a distinguerle. “Guarda la strada. Angelica mi ha chiesto di uscire questo sabato, ma volevo prima chiedere a te se era okay?”, la mia voce suonò come una domanda.

La macchina rallentò visibilmente ed Edward accostò, lasciando il motore acceso e voltandosi verso di me. I suoi lineamenti seri si rilassarono quasi subito ed espirò profondamente prima di rivolgermi un mezzo sorriso che mi mozzò il fiato.

“Sono davvero così opprimente?”, chiese inclinando la testa di lato.

“No!”, mi affrettai a dire. “E’ solo che...”.

“El, io mi fido di te. Non voglio che ogni volta che vuoi fare qualcosa tu abbia paura di dirmelo perché pensi che io sia contrario e te lo impedisca. Voglio solo che tu sia al sicuro, nient’altro”.

Sorrisi timidamente.

“Ecco, il problema è quello credo”.

I suoi occhi bruciavano sul mio viso.

“Ovvero?”.

“Diciamo che la tua idea di sicuro non corrisponde a quella della maggior parte della gente”, mormorai lasciando cadere lo sguardo.

Lo sentii sospirare, sicura che stesse alzando gli occhi al cielo.

“Angelica mi ha chiesto di andare a La Push”, confessai dopo qualche secondo di silenzio.

Notai le sue dita stringersi intorno al volante, ma non osai alzare lo sguardo per osservare la sua espressione.

“Allora meno male che non sono “la maggior parte della gente””, commentò.

Ancora silenzio. Lo vidi ingranare la marcia e ripartire, riportando la macchina in carreggiata. Poco dopo, notai il profilo della scuola avvicinarsi lentamente davanti a noi, la foresta cedere spazio agli edifici, il verde delle cime arrendersi al grigio cupo della civiltà.

Avevo bisogno di una risposta. Esitante, alzai lo sguardo verso di lui e lo fissai da sotto le ciglia. La sua espressione era pensierosa, i suoi lineamenti tesi e contratti. Quando scesi dalla macchina, davanti a scuola, stavo ancora aspettando una sua risposta.

“Edward”, lo chiamai, trattenendolo per la manica della giacca. “Per favore, almeno rispondimi”.

Inspirò profondamente come per calmarsi.

“Okay”, sospirò rassegnato.

Lo fissai confusa.

“Okay mi rispondi o okay posso andare?”.

Gli angoli della sua bocca si sollevarono verso l’alto.

“Okay, puoi andare”, chiarì, un’ombra divertita nella sua voce.

Rilasciai un respiro che non mi ero resa conto di trattenere.

“Davvero?”.

Come era possibile? Così facilmente? Doveva esserci qualcosa sotto.

“Davvero”, mi sorrise di nuovo. “E’ così incredibile da credere?”.

“Beh, a dire la verità sì”, ammisi ridacchiando.

“Okay, forse me lo merito”, alzò gli occhi al cielo. “Ma promettimi che starai attenta. Se ti dovesse succedere qualcosa, qualunque cosa, ti considererò la diretta responsabile”, mi prese per mano, avvicinandomi a lui fino a che non fui quasi contro il suo petto. “Promettimelo”, insistette fissandomi a lungo negli occhi.

“Te lo prometto”, sospirai.

“Bene”, mi baciò la fronte. “Allora direi che possiamo andare in classe”.

 

“Hai preso tutto?”, mi domandò sulla porta di casa.

“Sì, papà”.

“Bene, stai attenta allora”, mi baciò la fronte. “E divertiti”.

Ridacchiai alla sensazione di deja vù. “Ci vediamo più tardi”.

Quei due avevano molto più in comune di quanto pensassero o, nel caso di mio padre, di quanto gli sarebbe piaciuto sapere.

Alice era già in macchina ad aspettarmi. Purtroppo Edward non aveva potuto accompagnarmi perché Emmett e Jasper lo avevano trascinato in una battuta di caccia e Alice aveva impedito a Rose di accompagnarmi, offrendosi lei volontaria.

“Ciao”, la salutai.

“Ciao, El”, mi sorrise gentile.

Il silenzio durò appena il tempo di mettere in moto la macchina.

“Jasper mi ha chiesto di sposarlo di nuovo! Ci pensi?”.

“Alice, c’ero anch’io. Ero presente”.

“Sì, lo so. Stavo solo gongolando”, tamburellò con le dita sul volante per qualche istante. “Voglio che tu sia la mia damigella d’onore”.

Strabuzzai gli occhi.

“Tu cosa? Io che cosa?”, quasi strillai. “Non se ne parla”.

“Oh, lo sapevo che avresti fatto così”, alzò gli occhi al cielo. “Sei proprio un caso disperato”.

“Dai, ti prego! Ti prego, ti prego, ti prego. Mi vuoi bene, giusto?”, continuò imperterrita.

“Ah, no! Non usare la carta del ti voglio bene, Alice”.

“Se non vuoi farlo per me, potresti almeno farlo per Edward”.

Stavo per risponderle, ma mi limitai a fissarla confusa. Aprii la bocca per parlare, ma fui costretta a richiuderla un paio di volte prima di riuscire a formulare una risposta.

“Cosa? Che cosa c’entra Edward adesso?”.

“Sono sicura che a lui farebbe davvero molto piacere partecipare ad un evento ufficiale insieme a te”, disse sorridendo ampiamente.

Strinsi gli occhi nella sua direzione, osservandola con sospetto.

“Alice, cosa sai che io non so? Ti ha detto lui qualcosa?”.

Il suo sorriso si tese.

“Può darsi, non ne sono sicura”.

Alzai gli occhi al cielo.

“Senti Alice, a me farebbe piacere aiutarti, però… non sono il genere di persona a cui piacciono le feste. E io non piaccio alle feste”.

“Tu pensi troppo”.

Sospirai. Aveva ragione.

“Lo so”.

“Ti prego, sii la mia damigella. Edward sarà il testimone”, insistette ancora.

L’idea di percorrere la navata insieme a lui bastava ad aggrovigliarmi lo stomaco nel modo più strano e a far accelerare il mio cuore.

“Ho visto come vi guardate. Rose e Emmett non faranno in tempo a ripetersi”.

La guardai incredula, incapace di formulare una frase con un senso logico.

“Non fingere di non sapere di cosa parlo. Prima che tu te ne accorga, sarai con una fede al dito e di cognome farai Cullen, sorellina”, enfatizzò l’ultima parola con un gran sorriso compiaciuto.

Mi limitai a fissarla, gli occhi spalancati e la mandibola che oscillava pericolosamente verso il pavimento. Dopo qualche istante, ritornai in me.

Cosa voleva dire tutto questo? Lei sapeva qualcosa? Lui le aveva detto qualcosa?

“El?”, la voce di Alice mi riportò alla realtà.

“Eh?”.

“Siamo arrivate”.

“Oh, sì. Okay”, farfugliai mentre armeggiavo con la cintura di sicurezza e scivolavo fuori dall’abitacolo. Le mie gambe all’improvviso sembravano essere diventate di gelatina.

“El”, mi chiamò di nuovo.

“Sì?”.

“Stai di nuovo pensando troppo. Divertiti e stai attenta”, mi sorrise. “E dimmi che sarai la mia damigella”.

Mi sentivo troppo scombussolata per argomentare oltre.

“Va bene, Alice”, presi un respiro profondo. “Va bene, sarò la tua damigella”.

“Sì!”, esultò con una risatina. “Grazie El”.

Alzai gli occhi al cielo. “Non c’è di che”.

“Allora torno a prenderti più tardi, chiama quando vuoi che ti venga a prendere e sarò qui subito”.

“Va bene”, annuii tamburellando con le dita sulla tasca dove tenevo il cellulare.

“Stai attenta ai cani, questi mordono”, mormorò prima di ingranare la retro e sfilare via.

Fissai per alcuni istanti il punto in cui era sparita, quasi confusa dalle sue parole. A volte sembravo scordarmi quanto il mio mondo fosse diverso da quello che appariva.

Mi incamminai in silenzio verso la spiaggia, dove sapevo che avrei trovato gli altri. Ad un tratto scorsi una figura venire nella mia direzione e, quando si accorse di me, mi salutò con un ampio movimento del braccio. Il lieve sole alle sue spalle non mi permetteva di riconoscere chi fosse, riuscivo semplicemente a delineare i contorni di una figura alta e slanciata.

“Eccoti qui!”, esclamò accelerando il passo verso di me.

Riconobbi subito la voce.

“Seth!”, sorrisi ampiamente, affrettandomi a mia volta per raggiungerlo. “Dio mio, Seth, sei tu?”, domandai incredula una volta davanti a lui.

Come aveva fatto a crescere così?

Si indicò orgoglioso il petto. “Proprio io”.

Alla faccia della crescita adolescenziale. Sembrava che l’avessero nutrito con i fagioli magici delle favole. Era cresciuto di quasi dieci centimetri, le braccia visibilmente più robuste e le linee dei muscoli del torace evidenti anche attraverso la maglietta che indossava.

“Ti prego, dimmi che tua sorella non è cresciuta anche lei così tanto”, dissi gesticolando nella sua direzione.

Ridacchiò leggermente, per poi scompigliarmi i capelli.

“No, tranquilla”, mi rassicurò con un sorriso. “Ah, Jake mi ha detto di salutarti”.

“Oh”, mormorai. “Ehm… okay. Salutalo anche tu da parte mia, credo”.

“Dai, andiamo. Ti porto dagli altri”.

Il tragitto fu tranquillo, accompagnato da qualche breve scambio di battute e piccoli aggiornamenti sulle novità della riserva. A quanto pareva non c’era molto di nuovo.

“El!”, Angelica mi corse incontro non appena giungemmo sulla spiaggia. “Sei arrivata!”.

L’abbracciai brevemente, per poi prendere posto vicino a lei su uno dei tronchi disposti in cerchio sulla sabbia. Poco dopo notai un’altra ragazza seduta in disparte, il busto rivolto verso la scogliera. Leah. Decisi di raggiungerla, sperando di riuscire a strapparle anche solo un rapido sorriso arrugginito. Forse, con il tempo, sarebbe tornato a sembrare naturale.

“Ciao”, mi annunciai sedendomi al suo fianco.

Mi sorrise parzialmente, solo un angolo della bocca sollevato verso l’alto. Dopo un lungo silenzio, cominciammo a chiacchierare distrattamente, senza parlare di nulla in particolare. Sembrava quasi spensierata mentre ridacchiava in silenzio al nostro scambio di battute, ma l’espressione all’interno dei suoi occhi la tradiva.

“Quindi non ci andrai?”, mi chiese perplessa ad un tratto.

“Assolutamente no!”.

“Perché, El? Il ballo di fine anno è importante per una ragazza”.

Scossi la testa con un sorriso.

“Beh, non per me”, chiarii con una smorfia nella sua direzione. “E poi non ho nulla da mettermi”, mentii velocemente.

Non era esattamente una bugia, in realtà non avevo molto da mettermi, ma sapevo che sarebbe bastato anche soltanto suggerire a Rose e Alice di andare a fare shopping perché il mio problema scomparisse.

“Mmm”, mormorò pensierosa. “Questo significa che però non hai il problema dell’accompagnatore”. Mi rivolse un gran sorriso.

“Uhm, ecco, no. Cioè, sì. No. Non ho questo problema”, farfugliai senza senso.

Ridacchiò in silenzio, per poi osservarmi con una strana espressione.

“Quindi è vero. Stai con una delle sanguisughe”, la sua non era una domanda.

“Sì”, ammisi timidamente. “A quanto pare”.

Seguì un breve silenzio, in cui entrambe rimanemmo assorte nei nostri pensieri. Studiai il suo viso con attenzione. Non sembrava disgustata, nonostante sapessi che lo era. Sembrava più… dispiaciuta, quasi mortificata. I suoi lineamenti gentili erano piegati in un’espressione corrucciata.

“Perché li odiate così tanto?”, domandai senza rendermene conto. “I Cullen, voglio dire”.

Mi guardò con aria desolata.

“Non è loro che odio, è più il fatto che siano delle sanguisughe”, mormorò per poi abbassare lo sguardo sulle sue mani. “Ma non è nemmeno quello il motivo”.

Aspettai in silenzio che continuasse.

“Se loro non esistessero, se davvero il mondo fosse come dovrebbe essere, senza mostri e assassini, allora io potrei avere una vita normale e non essere… questo”, disse con disprezzo indicando il suo corpo.

“Non ti piace essere… quello che sei?”, domandai incerta.

Sembrò pensarci su per un attimo.

“No. Sì”, sospirò pesantemente. “Non lo so”.

Le sorrisi debolmente.

“E’ complicato”, mormorò ancora.

Prese un respiro profondo, incassando la testa nelle spalle come per preparare a sollevare un gran peso. Vedere la sua espressione distrutta mi strinse lo stomaco.

“Ti ricordi Sam, il ragazzo che voleva farvi spegnere il falò?”, chiese d’un tratto con voce forzatamente allegra.

Mi limitai ad annuire.

“Io… stavo con lui”, sussurrò così piano che non fui sicura di averla sentita correttamente.

Scosse la testa impercettibilmente, per poi abbozzare un sorriso.

“Quando mi lasciò, si limitò a dire che gli dispiaceva. Che non poteva dirmi molto altro, ma che se c’era una cosa che poteva dirmi era che gli dispiaceva e che, se avesse potuto, non mi avrebbe mai fatto una cosa del genere. Disse che a me non l’avrebbe mai fatto”.

Notai le sue mani stringersi l’una con l’altra con forza e mi chiesi cosa stesse provando in quel momento. Una parte di me non era certa di volerlo sapere.

“Da quel momento, fu come se… il mio mondo si fosse diviso in due, a metà. C’era il passato e i suoi ricordi, e poi c’era una strana dimensione del presente, in cui non ero sicura di voler vivere. Per non so nemmeno più quanto tempo, mi limitai a rimanere sul confine di entrambi. Spesso scivolavo indietro e rivivevo i ricordi; era più forte di me, ma sapevo di non poter continuare a farlo se volevo vivere. Il futuro non era nemmeno in vista, non c’era più. Se l’era portato via lui”.

La sua espressione era vuota, persa in un periodo lontano. Non sembrava nemmeno essere qui con me.

“Ogni giorno passavo davanti a casa di Emily e lo vedevo, anche se per poco. Quando erano insieme, era ancora peggio. Lui non mi aveva mai baciata così, non mi aveva mai stretta così… e lei era esattamente tutto quello che io non sarei mai potuta essere. Era felice, era bella, era sua”.

La sua voce monotono si spezzò sull’ultima parola, e le sue mani si strinsero attorno alle sue costole, come per tenerla insieme.

“Leah, tu sei bellissima”, la interruppi, dandole torto.

Per le altre due cose non avrei potuto contraddirla. Il suo sguardo si rifocalizzò su di me ed abbozzò un debole sorriso.

“Lo pensavo anch’io”, sospirò pesantemente. “Ma a quanto pare una persona si sente bella solo quando si sente voluta e amata. L’autostima e il proprio egocentrismo servono a poco in questo caso”.

Sospirò di nuovo, per poi scuotere la testa come per liberarsi di quel pensiero.

“Se non avessi avuto Seth, in quel periodo, non so nemmeno dove sarei a quest’ora. Tuttavia, un giorno si ammalò. Aveva la febbre alta e non riuscivo in alcun modo ad abbassargliela. Sembrava stare bene, ma la sua temperatura era troppo alta. Non riuscivo a capire perché mia madre non si preoccupasse, pensavo che sarebbe morto. Poi, qualche giorno dopo, Seth cambiò radicalmente. Guarì nel giro di una notte, e cominciò ad allontanarsi da me e a seguire Sam. All’inizio pensavo che fosse uno scherzo di cattivo gusto”, scosse di nuovo la testa. “Ma poi mi ammalai anch’io, e appena due giorni dopo mi ritrovai piena di pelliccia, con quattro zampe e una coda”, sogghignò amaramente. “Pensavo di essere diventata pazza, sentivo le voci nella mia testa. Sentivo la sua voce nella mia testa dirmi di stare calma, che tutto sarebbe andato bene, che gli dispiaceva… proprio come aveva fatto quando mi aveva lasciata.

“Solo dopo mi resi conto di quello che era successo, ma l’unica cosa che ricordo chiaramente è la rabbia di quel momento. Nel momento in cui ho visto nei suoi pensieri perché mi aveva lasciata, perché lei era il suo dannato imprinting, e il dispiacere, la compassione quasi che provava nei miei confronti-”, le sue mani si strinsero in piccoli pugni, mentre la sua figura sembrava tremare di rabbia.

Conoscevo quel tremore, l’avevo già visto una volta.

“Leah, per favore, calmati”, mormorai cercando di afferrarle una mano.

Sembrò accorgersi della mia presenza solo allora; prese un respiro profondo e i tremiti cessarono quasi immediatamente.

“Scusami”, sussurrò quasi senza voce.

Le sorrisi timidamente, aspettando che continuasse.

“In ogni caso, da quel momento in poi le cose migliorarono. Non avevo ancora un futuro, ma avevo uno scopo. Mi faceva sentire… meglio. Non bene, ma meglio”.

Inspirò profondamente, per poi rilassare le spalle mentre rilasciava un respiro stanco.

“Non mi piace essere un mostro, ma è l’unica cosa che ho”, concluse con un sospiro. “Tuttavia, se i Cullen non fossero mai arrivati qui, probabilmente tutto questo non sarebbe mai successo e avrei una vita normale”.

“Mi dispiace, Leah”, strinsi la sua mano con forza.

“Anche a me”, acconsentì con un debole sorriso. “Ma ormai è fatta”.

Rimasi ad osservare le onde che si infrangevano sulla scogliera lontano da noi, una brezza leggera che mi solleticò il viso e mi fece rabbrividire.

Mi strinsi a lei, cercando al tempo stesso di darle conforto e scaldarmi.

“Hai freddo?”, chiese dopo poco.

Annuii contro la sua spalla.

“Vieni”, disse alzandosi velocemente.

La osservai allontanarsi di qualche passo, per poi aspettarmi.

“Vieni o no?”.

“Arrivo!”.

La raggiunsi velocemente, facendo cenno ad Angelica che mi allontanavo insieme a Leah per non farla preoccupare. Lei si limitò ad annuire, totalmente presa dalla conversazione con Seth. Leah mi trascinò rapidamente lungo la spiaggia, fino a risalire il sentiero ed entrare nel villaggio. Lo attraversammo per lo più in silenzio, senza scambi di parole, per poi trovarci davanti a una piccola casa rossiccia dall’aspetto simile a tutte le altre.

“Benvenuta a casa Clearwater”, mi disse solennemente, forzando un sorriso, prima di salire gli scalini di casa e invitarmi all’interno.

L’abitazione era quasi più piccola di come poteva apparire dall’esterno, ma le tinte chiare alle pareti e la luce che filtrava dalle grandi finestre sembravano renderla più spaziosa.

Un tavolo di legno dalla forma squadrata occupava gran parte della sala principale, in fianco al quale era posto un divanetto rosso dall’aspetto vissuto. Quattro sedie circondavano il tavolo, ma solamente tre erano fuori posto, mentre la quarta, appoggiata accuratamente contro la superficie laterale del tavolo, sembrava semplicemente inutilizzata.

“Vieni, andiamo in camera mia”.

La seguii lungo lo stretto corridoio, attenta a non toccare nulla.

La camera di Leah era minuscola, composta semplicemente di un letto e di una scrivania posta sotto il davanzale della finestra che la illuminava. In un angolo, c’era un armadio lungo e stretto, le cui ante sembravano faticare a stare chiuse. Nell’insieme, era confortevole, nonostante fosse piuttosto claustrofobica.

“Mi dispiace che non sia all’altezza degli standard delle sang-”, si fermò prima di terminare la frase. “Scusa”, mormorò.

Annuii, abbozzando un sorriso.

“Qual è il Cullen con cui stai? Sai, mi è capitato di vederli una volta sola, ma credo di ricordarli abbastanza bene”.

Spalancai gli occhi alla sua domanda, poi deglutii rumorosamente.

“Edward”, risposi con voce fioca.

Perché sembrava così definitivo e importante il modo in cui avevo risposto alla sua domanda? Non mi aveva chiesto chi volevo portare all’altare con me, tuttavia il mio cuore sembrava pensarla diversamente dal modo in cui prese a battere non appena pronunciai il suo nome.

“Mmm”, sembrò pensarci su un attimo. “Ah! Sì, credo di ricordare”, sbottò qualche attimo dopo.

“Il ragazzino solitario con i capelli rossicci e l’espressione colpevole?”, domandò con un mezzo ghigno.

Ridacchiai alla sua descrizione, veritiera seppur sintetica, per poi annuire di nuovo, imbarazzata.

“E’ carino”, costatò dopo un breve silenzio.

Fissai i miei occhi su di lei, sollevando entrambe le sopracciglia nella sua direzione, certa che non avrebbe mai detto una cosa del genere su di lui.

Beh, molto più che carino, la vocina nella mia testa commentò aspramente.

Scosse la testa, un’ombra divertita sul volto, per poi ridacchiare silenziosamente.

“No”, chiarì. “Non intendo quello”.

Il suo sorriso sbiadì rapidamente.

“E’ carino il fatto che non sia più solo”, la sua bocca si curvò in una piega amara. “Ho… una certa simpatia per lui. Lo capisco. Sai, dopotutto non era l’unico ad essere solo… un tempo, almeno”.

Il mio petto si strinse nel vedere la sua espressione. Leah si lasciò cadere sul letto, affondando tra i cuscini con un sospiro stanco.

Mi sedetti sul bordo, in silenzio.

“Leah?”, chiesi qualche minuto dopo.

“Mmm?”.

Sapevo di non poterglielo chiedere, ma la curiosità mi spingeva a farlo.

“Cos’è l’imprinting?”.

Il suo gemito strozzato mi fece capire di aver sbagliato. E molto.

“E’ soltanto un modo crudele per rendere le nostre vite ancora più difficili di quello che già sono”, rispose con un filo di voce.

“Scusami, non-”, dissi, ma m’interruppe.

“No, è… okay. Pensavo solo che i tuoi amici te l’avessero già spiegato”.

Scossi la testa, aspettando un qualche suo tipo di risposta.

Poco dopo, Leah prese un respiro profondo e si sedette sul letto, incrociando le gambe sotto di sé. Mi fissò per un istante, per poi lasciare cadere lo sguardo.

“Vedi, l’imprinting è… complicato”, inspirò profondamente di nuovo. “E’ amore fraterno, familiarità, amicizia e l’amore più puro allo stesso tempo”.

La sua voce era spezzata, quasi dovesse piangere da un momento all’altro. Tuttavia, ero sicura che non l’avrebbe mai fatto. Non davanti a qualcuno.

Questa volta toccò a me fare un respiro profondo.

“Ed  è così male?”, provai ad alleggerire l’atmosfera, abbozzando un sorriso.

“Non per chi ha l’imprinting”, mormorò in un sussurro colmo di lontano risentimento.

Scosse la testa impercettibilmente, come per liberarsi di un pensiero scomodo.

“E’ la cosa migliore e quella peggiore possibile. E’ come… un cambio di gravità improvviso. Quando lo incontri, o la incontri, il mondo si capovolge. Senza nemmeno accorgertene, ti ritrovi sottosopra, e non sai nemmeno come ci sei arrivato. E non te ne potrebbe importare meno. Vieni… privato di te stesso. Tutto ciò che sei, ciò che ti lega a ciò che sei, o che eri, la tua famiglia, i tuoi amici, cosa o chi pensavi di amare… persino te stesso, non importa più. C’è lui, e solo lui”, concluse con un sospiro. “O lei”.

Come si fa a non amare Leah? E' meravigliosa questa donna. 
Mi ricordo di aver scritto quest'ultimo dialogo sull'imprinting sul banco a scuola - in inglese così che la gente non avrebbe capito o sarebbe stata troppo pigra per farlo xD Comunque! Mi ha fatto davvero piacere leggere le recensioni - come sempre - e do il benvenuto alle new entry u.u

Che altro dire... non so, cosa credete che succederà ora? Vi è piaciuto il capitolo? Che ne pensate di Edward, o del (ri)matrimonio di Alice e Jasper? Vi informo che nel prossimo capitolo ci sarà il boom finale, quindi restate con me, mi raccomando u.u Beeeh vi lascio con una canzone che ultimamente mi sta divorando il cervello. Buon weekend e alla prossima! :)

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Capitolo 34
*** Impossibile. ***


Capitolo 34 - Impossibile.

'Sera a tutti! Ok, this is it - questa è la resa dei conti. Finalmente le carte si scoprono, e neanch'io posso più temporeggiare per impedirvi di capire cosa succede. Mancano due capitoli, e ovviamente è qui che scatterà l'ultimo cambio di marcia. Restate con me, mi raccomando u.u Buona lettura e fatemi sapere che ne pensate :)

Capitolo 34. Impossibile.

In quel momento, provai vergogna per aver tirato fuori un argomento tanto sensibile e pesante per Leah. Potevo vederlo nei suoi lineamenti contratti – dal momento che rifiutava di incrociare i miei occhi – che stava soffrendo. Cosa avrei potuto dire? “Mi dispiace”? Non era neanche lontanamente abbastanza. Non lo sarebbe mai stato.

Mi allungai per afferrare la sua mano e stringerla tra le mie, cercando di farle capire quanto mi dispiacesse. Tuttavia, sentivo che dovevo lasciarla da sola qualche istante per darle modo di calmarsi e sfogarsi da sola. Il lieve tremore che le percorreva le braccia ne era la prova.

“Uhm… Leah?”, la chiamai dopo un lungo minuto di silenzio.

Un silenzio così assordante che premeva sui miei timpani, minacciando di romperli. Non aveva ancora alzato lo sguardo da prima, i suoi occhi vuoti fissi sulla coperta sgualcita ai piedi del letto.

Alzò la testa al suono del suo nome, ma non abbastanza da incrociare il suo sguardo.

Lungo una guancia fui sicura di scorgere un percorso appena segnato, irregolare ma ben visibile a causa della luce che vi si rifletteva sopra. Quel sentiero proseguiva lentamente fino al mento, dove terminava in una piccola goccia, appena tremante.

Mi mancò il fiato.

“Posso… mi potresti dire dov’è il bagno?”, chiesi esitante, senza lasciar cadere il mio sguardo dalle sue lacrime.

Codarda, mi urlò la vocina dentro di me. Hai fatto questo, e ora scappi via.

Leah prese un respiro profondo, per poi lasciar cadere le spalle come se il peso che sostenevano fosse peggiore del mondo intero. La piccola lacrima ondeggiò lentamente, per poi precipitare sul suo ginocchio, creando una minuscola macchia scura.

“L’ultima porta a sinistra in fondo al corridoio”, alzò il braccio per indicarmi, senza guardare, dove dovevo andare.

Volevo semplicemente sparire.

“Grazie”, sussurrai imbarazzata, pentendomi delle mie parole appena uscirono dalla mia bocca.

L’ultima cosa che Leah voleva ora, con ogni probabilità, era un ringraziamento.

Quasi fuggii dalla stanza, accostando la porta alle mie spalle non appena ne fui fuori. Non andai nemmeno in bagno, mi serviva solo una scusa per scappare dalla sua camera.

Codarda, ribadì la vocina.

Ma non potevo fare altro. C’era così tanto lì dentro, come se i ricordi custoditi all’interno di quella stanza riempissero l’aria, rendendola quasi irrespirabile. Forse era Leah che l’aveva resa così, attaccandosi ai suoi ricordi così forte da non lasciare spazio per nient’altro.

Mi ritrovai in cucina, confusa ed emotivamente distrutta. Girovagai in silenzio, ascoltando il lieve scalpiccio che le mie scarpe creavano al loro passaggio sul pavimento in legno. In quel momento, ero sola. Nonostante Leah fosse nella stanza in fondo al corridoio, sembrava che ci fossi solamente io.

Seguii con le dita il profilo dei mobili della cucina, osservando distrattamente le venature del legno e le sue pieghe. Ad un tratto, mi fermai e mi sporsi per afferrare un piccolo orologio da taschino dall’aspetto vissuto appoggiato sul bordo del tavolo. Non mi sembrava di averlo visto prima.

Lo osservai con attenzione, rigirandolo ripetutamente per studiare quel piccolo oggetto dalle lancette immobili sulla mezzanotte. Tuttavia, qualcosa attirò la mia attenzione e fui costretta a sollevare gli occhi.

Mi si mozzò il respiro non appena ne distinsi i contorni e aguzzai lo sguardo, sperando di potermi smentire. Lucida e nera come me la ricordavo, la piccola pietra incisa era sul piano della cucina, ad appena poco più di mezzo metro da me.

Cominciai a scuotere la testa in cenno di diniego, chiudendo gli occhi rapidamente e sperando di non ritrovare la pietra davanti ad essi, una volta aperti di nuovo. Invece era sempre lì. Non era possibile che fosse in casa sua; non lì, non ora. Nello stesso momento, un suono lungo e ripetuto riempì la stanza. Mi servì qualche secondo per rendermi conto che era il telefono.

Notai Leah uscire dalla sua stanza qualche istante dopo, affrettandosi a raggiungere la cornetta e a sollevarla. Ma non riuscivo a concentrarmi su nient’altro che quella pietra davanti a me.

“Pronto?”, sentii Leah rispondere. “Mamma, che c’è? Sì, sono in casa. Visto che ho risposto mi pare ovvio”.

Cercai di prendere respiri lunghi e controllati, mentre sentivo uno strano formicolio percorrermi le braccia fino alla punta delle dita. Paura, adrenalina?

“No, sono con un’amica. Si chiama El, non la conosci. Sì, lei. Okay, ciao”.

Volevo avanzare, spingere le mie gambe fino a permettermi di afferrare quella piccola pietra che sembrava ossessionarmi e scagliarla il più lontano possibile da me, ma l’unica cosa che riuscivo a fare era indietreggiare in modo instabile con il respiro affrettato.

“El? Tutto bene?”, sentii la voce di Leah avvicinarsi.

Dov’era la mia voce? Sembravo non riuscire a trovarla. Strinsi i pugni e mi costrinsi a voltarmi, allontanando lo sguardo da quell’ossessione nera.

Leah era in piedi, praticamente al mio fianco, le sue braccia tese verso di me, forse spaventata che potessi svenire da un momento all’altro. In quel momento, non ne ero sicura.

“Stai bene?”, mi chiese preoccupata.

Mi limitai a scuotere la testa.

“El, mi stai spaventando”, mosse un altro passo verso di me. “Che sta succedendo?”.

Strinsi ulteriormente i pugni, così forte che sentii le unghie premere all’interno del palmo.

“Quella…”, deglutii a fatica il nodo che si era formato in gola. “Quella pietra…è tua?”, chiesi con un filo di voce, indicando l’oggetto della mia domanda.

Seguì il mio sguardo fino a focalizzarlo su ciò che stavo indicando, un’espressione confusa sul suo viso.

“No, uhm, io… non credo di averla mai vista prima”.

Un brivido freddo mi percorse la schiena, e mi portai i pugni alle tempie nel tentativo di concentrarmi. Non potevo farmi prendere dal panico.

“El, che c’entra quella pietra con…”, gesticolò nella mia direzione. “Che diavolo sta succedendo?”.

“Mi piacerebbe saperlo”, sussurrai.

A quel punto, sentii le mani di Leah afferrarmi con forza le spalle e scuotermi, costringendomi a fissarla in volto. Quando incrociai finalmente il suo sguardo arrabbiato e ferito, qualcosa sembrò scattare dentro di me. Percepii l’espressione sul mio viso cambiare, trasformandosi in determinazione e abbandonando a poco a poco la paura incontrollata che mi aveva assalito.

“Dobbiamo andarcene di qui”, decretai con voce ferma, per poi cercare di sgusciare via dalla sua presa.

Non me lo permise, impedendomi di muovermi anche solo di un centimetro.

“Perché? Spiegami che sta succedendo”.

Senza abbandonare il suo sguardo, inspirai profondamente.

“Leah, fidati di me. Ti spiegherò, ma solo quando saremo fuori di qui e al sicuro”.

Sperai che l’espressione sul mio volto bastasse a convincerla. A quanto pare, lo fu.

“Perché mai la mia casa non-”, cominciò a dire, esasperata, ma si interruppe. “Ah! Va bene”, sbuffò, liberandomi dalla sua presa.

Camminai decisa fino al piano su cui era appoggiata la pietra, lanciandole un ultimo sguardo prima di afferrarla in mano e nasconderla con forza nel palmo, quasi sperando che sparisse. Sembrava bruciare a contatto con la mia pelle – come se persino il mio corpo sapesse che doveva allontanarsene

“Andiamo”, sospirai dirigendomi verso la porta d’ingresso.

Leah non esitò, seguendomi rapidamente.

Non appena fummo fuori da casa, il sollievo fu quasi istantaneo. Quella strana pressione, la sensazione di disagio che non mi ero nemmeno resa conto di provare fino ad allora, sparì non appena misi piede sul terriccio umido fuori casa. Tuttavia, non era abbastanza. Era troppo vicino – troppo vicino.

Mi resi conto di aver cominciato a correre quando notai la linea massiccia che creava la foresta avvicinarsi con velocità. Ero sorpresa dalle mie azioni, dal mio stesso modo di agire. Mi sarei aspettata di rimanere paralizzata dalla paura, troppo spaventata per fare qualunque cosa, e aspettare che Claude arrivasse. Invece ero riuscita a sorprendermi, facendo scattare quello strano meccanismo interno che riuscivo solamente a definire come istinto di sopravvivenza. Quello che mi garantiva, in quel momento, di poter scappare.

Solo qualche istante dopo mi accorsi della figura slanciata di Leah che mi affiancava nella corsa, i movimenti aggraziati e il respiro regolare nonostante la velocità.

“Mi devi una spiegazione”, si limitò a dire.

Annuii brevemente, per poi rallentare visibilmente fino a camminare semplicemente in modo da poter parlare. Camminai avanti e indietro lungo il confine con la foresta, i fitti alberi al suo interno di un colore insolito a causa della strana luce che filtrava attraverso le nuvole.

“Gli Ubach. Stanno venendo qui”, costatai dopo un breve silenzio. “Sono già qui”, mi corressi, aprendo il mio palmo come prova.

I suoi occhi si spalancarono, e il suo corpo cominciò a essere percorso da fremiti.

“Non è possibile. Ne avrei sentito la puzza”.

Scossi la testa.

“Hanno un odore diverso. Diverso quanto lo è il mio da un umano… normale”.

Non potei impedirmi la smorfia di amaro disgusto che si aprì sul mio volto.

“Vogliono… vogliono me”.

“Merda”, borbottò Leah sotto il suo respiro.

Si fermò completamente, bloccando i miei movimenti con lei afferrandomi il braccio.

“Devo avvisare gli altri. Subito”, dichiarò con attenzione, enfatizzando ogni sillaba. “Ma per farlo ho bisogno di trasformarmi. E devo portarti via di qui”.

Annuii decisa. “Okay”.

Strinsi la pietra nel palmo un’ultima volta, per poi infilarla nella tasca dei jeans.

Edward, fu l’unica cosa che riuscii a pensare quando le mie dita sfiorarono il contorno freddo del cellulare nella mia tasca. Lo estrassi velocemente, affrettandomi a scorrere la rubrica per trovare il numero che cercavo.

“Che stai facendo?”, domandò Leah.

“Chiamo Edward. Deve venirmi a prendere. Qui non sono al sicuro, e nemmeno voi”.

“Non possono venire qui!”, esclamò, mentre i suoi fremiti s’incrementarono. “Lo sai, El, che non possono”.

Poi sembrò pensarci su un attimo.

“Ti porterò al confine. Digli di farsi trovare lì”.

Annuii e premetti il tasto invio. Al secondo squillo, fui salutata da un sospiro di sollievo che conoscevo bene, accompagnato dal suono del mio nome.

“El”, sentii la sua voce dall’altro capo del telefono.

Sospirai anch’io di sollievo al suono della sua voce.

“Edward, non ho tempo per spiegare. Ho bisogno che tu venga al confine con i Quilleutes il prima possibile”.

“El, che succede?”, la sua voce ora era preoccupata, un’ombra minacciosa nel suo tono.

“Claude è qui. Non so dove, ma è qui”.

Un ruggito basso e feroce giunse dall’altra parte.

“Vengo a prenderti”.

“No, Edward. C’è il patto. Ti prego, Leah mi porterà al confine. Tu vieni semplicemente a prendermi”.

Sentii un sospiro esasperato, seguito da un rumore attutito.

“Okay. Ma informa Leah che se ti succede qualcosa, qualsiasi cosa, la ucciderò”.

Tremai al suono della sua voce, indubbiamente nel pieno della sua vera natura.

“Tranquillo, sanguisuga. Nessuno si avvicinerà a lei più di quanto la farei avvicinare a te”, rispose Leah alzando gli occhi al cielo, il suo avvertimento chiaro nonostante il tono rilassato.

“Bene”, confermò Edward. Poi, dopo un breve silenzio. “El, ti prego, stai attenta”.

Annuii, sollevata che in quel momento non fosse in grado di vedere le lacrime che si stavano formando alla base delle mie ciglia, minacciose di scivolare lungo le guance.

“Lo farò”, risposi con voce decisa, sperando che non si spezzasse.

Terminai la telefonata subito dopo, quasi temendo che potessi dirgli di fregarsene del patto e venirmi a prendere prima che poteva e stringermi a lui.

“Non ti preoccupare, andrà tutto bene”, mi rassicurò Leah, abbozzando un sorriso.

Annuii nuovamente, asciugandomi gli occhi con il dorso della mano.

“Ora fai attenzione, non voglio ferirti”, mi avvertì prima di indietreggiare di diversi passi.

Non ebbi neanche il tempo di aprire la bocca per chiederle il perché, quando il suo corpo cominciò presto ad essere scosso da tremori e fremiti incontrollabili che sembravano avvolgere la sua figura sempre di più fino a che, così velocemente che se avessi chiuso gli occhi per un secondo me lo sarei perso, la pelle lasciò il posto alla pelliccia grigia di un gigantesco lupo.

Le zampe robuste affondarono nel terreno, creando ampi solchi nel terriccio umido, mentre la schiena s’inarcò come per stendersi dopo essere stata rinchiusa tanto a lungo in quel corpo semplicemente umano. Il muso allungato era rivolto nella mia direzione, gli occhi brillanti e scuri che mi osservavano con attenzione, probabilmente ponderando la mia reazione.

Sbuffò rumorosamente, emettendo una nuvola di aria condensata, mentre ero intenta a cercare qualche tratto di Leah in quell’animale. Rimasi immobile qualche istante, completamente sconvolta da ciò a cui avevo appena assistito. Sapere che la tua amica è un licantropo e vederla effettivamente erano due cose ben diverse con cui fare i conti. Tuttavia, non era quello il momento per le incertezze.

Leah sbuffò nuovamente, chinandosi sulle zampe anteriori e inclinando il grande muso verso il terreno. La osservai attentamente e a lungo, prendendo un respiro calmante e profondo prima di decidermi.

“Okay”, risposi alla sua richiesta silenziosa, dirigendomi verso di lei.

Mi arrampicai lungo la pelliccia sino ad incastrarmi tra le sue spalle possenti, abbassando le mani alla base del suo collo per stringere tra le dita due grandi ciocche di pelo in modo da non cadere.

“Puoi andare”, le dissi dopo aver stretto le ginocchia lungo i suoi fianchi, ancorandomi al suo corpo.

Il secondo dopo, stavamo volando. L’unica cosa a cui potevo paragonarla era la velocità di Emmett, quando mi aveva portata con lui. Leah emise un lungo ululato, per poi accelerare ulteriormente.

La foresta sfrecciava ai nostri lati, e fui costretta ad abbassarmi fino a quando il mio petto non fu a contatto con la sua schiena per evitare i rami che si protendevano verso di noi. Poco dopo, altri ululati sembrarono squarciare il cielo, e capii che Leah aveva chiamato il resto del branco.

A causa della nostra velocità, il vento mi colpiva in viso, frustandomi i capelli e facendomi lacrimare gli occhi. Li chiusi con forza, accostando ulteriormente il mio viso al suo pelo.

Inspirai profondamente. Sapeva di legno, di terriccio umido e di pino. Mi calmò.

Sentii poco più tardi dei suoni cadenzati, attutiti dall’erba sul terreno. Ero certa che, se avessi aperto gli occhi e mi fossi guardata intorno, avrei visto diversi lupi correre al nostro fianco. Il rumore delle loro zampe pesanti che si muovevano ritmicamente e il respiro regolare di Leah riuscirono a calmare il battito frenetico nel mio petto; se fosse dovuto alla paura o alla velocità non avrei potuto dirlo.

Dopo quelli che parvero solamente pochi secondi, percepii il corpo di Leah rallentare e gradualmente fermarsi. Strinsi la presa sul pelo che tenevo tra le dita e azzardai uno sguardo intorno a me. Il respiro mi si fermò in gola quando mi resi conto che c’erano sette giganteschi lupi intorno a noi, tutti più grandi di Leah. Quest’ultima scrollò le spalle con uno sbuffò prima di chinarsi sulle zampe anteriori, invitandomi a scendere. Lentamente, allentai la mia presa e scivolai giù. Avevo stretto così forte le ginocchia intorno al suo corpo che mi sentivo instabile.

Mi guardai nuovamente intorno, cercando di individuare i diversi lupi che conoscevo. Quali erano Seth e Jacob?

Non appena notai un lupo alto e magro, l’unico dall’aspetto scoordinato nonostante la stazza, lo riconobbi. Avrei voluto sorridergli, ma il suo muso non era rivolto verso di me. Nessuno di loro lo era. Fissavano tutti un punto lontano, immobili e con i denti scoperti. Un basso ringhio di sottofondo riempiva l’aria.

Mi voltai verso quel punto per cercare la fonte di quell’agitazione e sentii il cuore salirmi in gola.

“Edward!”, quasi gridai, la voce spezzata sul finale.

Le mie gambe si mossero di loro volontà, portandomi verso la figura che era in piedi ad una ventina di metri da me. Non mi accorsi di Leah finché non si parò davanti a me, ringhiando sommessamente e scoprendo i denti, i suoi occhi concentrati sul mio viso con una strana espressione.

“Leah, che cosa stai facendo?”.

Fui costretta a fermarmi, alternando lo sguardo tra il grosso lupo davanti a me e la figura quasi eterea non molto lontano. Il suo viso era contratto, i suoi lineamenti visibilmente rigidi anche a quella distanza. Notai i suoi pugni stringersi ai fianchi, così forte che sembrava che le nocche potessero fuoriuscire dalla pelle.

Riportai gli occhi su Leah, guardandola completamente confusa. Perché si comportava così?

“Leah”, sospirai. “So che non ti piacciono, ma devo andare con lui”.

Leah scosse la testa, sbuffando rumorosamente, per poi avanzare lentamente verso di me fino a quando il suo muso non fu quasi all’altezza del mio viso. I suoi occhi mi stavano dicendo qualcosa, ma non ero sicura di capire. Stai attenta, forse? Sì, decisamente. Lei non si fidava di Edward, non sapeva che con lui ero completamente al sicuro.

Abbozzai un sorriso verso quel grande muso grigio, percorrendo con le dita la base di esso e stringendo con forza due ciocche di pelo nei miei pugni. Mi feci vicina.

“Leah, fidati di lui”, le sussurrai all’orecchio. “Andrà tutto okay”.

Un lamento strangolato giunse dal suo petto, che sembrò ripetersi in alcuni di quelli degli altri lupi presenti. Un ringhio profondo parve sovrastare gli altri, zittendoli improvvisamente. Alzai lo sguardo per cercarne la fonte e osservai con curiosa attenzione il gigantesco lupo nero che sembrava studiarmi con una certa ostilità. A quanto pare l’alfa aveva parlato.

Cercai di non badare agli occhi che sentivo puntati sul mio viso e sulla mia schiena mentre mi scostavo lentamente da Leah, dopo averla ringraziata silenziosamente per ciò che aveva fatto per me. Non appena mi allontanai da lei, i miei occhi tornarono a cercare Edward.

Era esattamente dove l’avevo lasciato prima, la mascella rigida in un’espressione imperscrutabile e al tempo stesso minacciosa. Non appena fui più vicino, un lieve sorriso gli curvò gli angoli della bocca e si passò una mano tra i capelli bronzei perfettamente disordinati. Non si mosse, e sospettai che fosse per non attraversare il confine.

Quando gli fui davanti, gli gettai le braccia attorno alla vita e nascosi il viso contro il suo petto,  aggrappandomi alla sua giacca con quanta forza riuscissi ad esercitare in quel momento. Inspirai profondamente il suo odore, e rilasciai il respiro che non mi ero resa conto di trattenere.

Le sue braccia mi circondarono lentamente la schiena, ma non mi strinsero. Mi resi conto che stavo tremando. Non mi ero mai sentita più vulnerabile.

 “Sono qui”, cercò di confortarmi, la sua voce fredda e attenta.

Che era successo alla me decisa e coraggiosa?

“Stai tremando”, costatò dopo qualche istante, questa volta più dolcemente.

Annuii senza parlare, conscia di quanto orribile la mia voce sarebbe suonata in quel momento.

Sollevai lo sguardo fino ad incrociare i suoi occhi, sentendomi inspiegabilmente fragile e a disagio. Mi sentivo quasi stupida a sentirmi così debole dopo tutto quello che era successo. Tuttavia, il pensiero di essere finalmente tra le sue braccia e al sicuro mi rendeva le gambe molli.

I suoi occhi, colorati di quell’ombra dorata di cui mi ero innamorata, mi osservavano con una strana espressione mista di tensione e preoccupazione. C’era anche qualcos’altro… qualcosa che non riuscii a distinguere e che mi causò un brivido freddo lungo la schiena. Distolse rapidamente lo sguardo, per tornare a concentrarsi su un punto fisso alle mie spalle.

Dai lupi giunse un nuovo ringhio, più profondo, e uno della stessa natura sembrò formarsi nella gola di Edward. Strinsi con forza i pugni contro la sua schiena, cercando di distrarlo e riportare la sua attenzione su di me. Lentamente, tornò a fissarmi.

“Dobbiamo andarcene”, sussurrai, consapevole che se avessi parlato più forte la mia voce si sarebbe spezzata.

Mi osservò in silenzio, i suoi occhi attenti e imperscrutabili. Non mi erano mai sembrati tanto inaccessibili fino a quel momento. Appariva lontano… distante. La sensazione di disagio che continuava ad ossessionarmi tornò ad avvolgermi, lasciandomi confusa e spaventata. Cercai di scacciarla, ma presto capii che potevo solo cercare di ignorarla.

Rimasi in silenzio, aspettando un qualche tipo di risposta. Sembrava quasi che si stesse accertando che fossi esattamente come mi aveva lasciata, ma la sua espressione diceva tutt’altro – e il fatto che non sapessi cosa fosse mi spaventava. I suoi occhi incontrarono brevemente i miei, causandomi di nuovo uno strano brivido, per poi abbassarsi e chiudersi lentamente.

Espirò con uno sbuffo che sembrava quasi un sospiro rassegnato.

“Vieni”, disse brusco. “Andiamo via di qui”.

Mi afferrò per il gomito e, il secondo dopo, mi ritrovai sulle sue spalle, alle quali mi ancorai con forza, quasi la mia vita dipendesse da quello.

Lo vidi annuire nella direzione del branco e lo sentii sorridere. A quel punto, cominciò a correre, così veloce che ero convinta che il mio stomaco fosse rimasto al punto di partenza. Non mi sembrava di aver mai corso così velocemente. Ad un tratto, si fermò di colpo e mi fece scendere dalle sue spalle.

La mia testa sembrava girare su se stessa, e mi sentivo instabile. Le sue mani si strinsero sui miei fianchi per stabilizzarmi, in modo che non cadessi. Quando il movimento nella mia testa sembrò calmarsi, azzardai uno sguardo intorno. Eravamo già a casa? Impossibile.

Con un sussulto sorpreso, mi resi conto che ci trovavamo nella radura in cui Alice mi aveva portato per allenarmi più di una volta. Perché eravamo venuti qui? La foresta appariva come sempre, immancabilmente minacciosa e al tempo stesso familiare, il suo verde che avvolgeva tutto come se avesse vita propria. Probabilmente, mi dissi, aveva detto agli altri di trovarci qui. Forse, dopotutto, era più sicuro che a casa.

Lasciai che il mio sguardo vagasse di sua volontà, seguendo i confini della radura fino a quando non incontrarono il punto esatto dove avevo trovato la pietra per la prima volta. La mano destra corse sulla tasca dov’era ora, per poi stringere il tessuto con forza. Un brivido mi percorse la schiena, ma ero certa che non fosse per il freddo.

Riportai lo sguardo su Edward, trovando i suoi occhi puntati su di me. Lentamente si avvicinò a me, per poi circondarmi con le sue braccia e affondare il viso tra i miei capelli.

“Non avrei mai dovuto lasciarti andare”, disse con un sospiro.

“No”, mormorai di getto. “No, Edward – non è colpa di nessuno questo”.

“Avrebbe potuto ucciderti”.

“Ma non l’ha fatto”.

Sospirò, esasperato dalla mia testardaggine.

“Perché ci siamo fermati qui?”.

Non rispose.

“Edward?”.

Niente. Mi scostai da lui, inclinando il capo per cercare di osservare la sua espressione.

Stavo per chiamarlo di nuovo, quando una vibrazione, seguita da una fastidiosa suoneria, giunsero dal mio cellulare. Il suono sembrò quasi squarciare il silenzio assoluto della foresta, e mi maledii mentalmente per non aver messo semplicemente la vibrazione.

Estrassi il cellulare dalla tasca, abbozzando un sorriso verso l’espressione ora piuttosto perplessa di Edward. C’era qualcosa però… qualcosa che ancora non mi convinceva e mi spaventava nella sua espressione; forse il suo sguardo o quella strana ombra nascosta abilmente al suo interno.

Riportai gli occhi sul telefono per leggere il numero sul display, per poi tornare a fissare Edward confusa. Il display leggeva chiaramente Edward, mentre la suoneria continuava a suonare senza accennare ad interrompersi. Doveva aver dato il suo telefono a Emmett e Jasper perché ci raggiungessero.

Premetti il tasto di ricezione della chiamata, accostando il cellulare all’orecchio.

“Pronto?”, azzardai esitante.

Non sapevo perché, ma qualcosa non tornava. Il respiro mi si bloccò in gola quando riconobbi il sospiro sollevato dall’altra parte.

“El”, si limitò a dire. “El, dove sei?”, aggiunse subito dopo, un’ombra preoccupata nella sua voce.

No. Non poteva essere Edward. Come poteva esserlo? La vocina nella mia testa stava cercando di urlarmi qualcosa, ma il battito del mio cuore che mi rimbalzava nelle orecchie non mi permetteva di ascoltarla come avrei dovuto.

Alzai lentamente lo sguardo, trovando Edward davanti a me esattamente dove l’avevo lasciato.

“E-Edward?”, farfugliai ad entrambi.

“El, che succede?”, chiese la voce nel telefono.

Mantenni gli occhi puntati su di lui, cercando qualche segno, qualcosa…

Non è lui!, mi gridò la voce nella mia testa.

“El? Mi stai facendo spaventare. Sono al confine coi Quilleutes e tu non ci sei”, continuò la voce. “Ti pregherei di dirmi dove sei prima che impazzisca”.

L’Edward davanti a me inclinò il capo da un lato, quasi ad osservarmi meglio, per poi sollevare gli angoli della bocca in un sorriso che ormai conoscevo più di quanto avrei voluto.

Non mi resi quasi conto di aver smesso di respirare fino a quando la voce di Edward non mi riscosse.

“El!”, quasi gridò nel ricevitore.

Sono qui. Edward, sono qui. Aiutami. Vieni qui, ti prego.

Avrei voluto rispondergli. Oh, avrei davvero voluto farlo, ma il mio cervello sembrava essersi semplicemente disconnesso dal corpo, forse cercando di rifugiarsi in un angolo sicuro in attesa del peggio che sapevo prossimo.

Claude tese il suo sorriso, provocandomi la pelle d’oca, prima di azzardare un passo verso di me. Era come lui, esattamente come lui. Gli stessi occhi dorati, gli stessi capelli ramati che sembravano vivere di un disordine studiato, il profilo lineare e scolpito, la sua voce. Ogni cosa era uguale. Il mio cuore sembrò battere più forte di quanto avesse mai fatto al pensiero che, almeno, sarebbe stata lui l’ultima cosa che avrei visto, in qualche modo.

Istintivamente, indietreggiai anch’io di un passo, abbassando lentamente la mano che teneva stretto il telefono. Il mio corpo non rispondeva come avrei voluto, ma sembrava che percepisse il pericolo e fosse pronto a scappare. Sentivo l’adrenalina correre tra le vene; il formicolio che mi percorreva le braccia fino alla punta delle dita una chiara prova di questo. Le gambe erano tese, pronte a scattare qualora si fosse presentata l’occasione. Quello che il mio corpo non sapeva era che sarebbe stato completamente inutile.

Un altro passo verso di me, un altro indietro.

Tuttavia, sembrava sempre più vicino e non riuscivo a indietreggiare abbastanza velocemente.

“Stammi lontano”, forzai fuori la voce, cercando di suonare decisa, ignorando quello strano formicolio.

Paura e adrenalina creavano un mix pericoloso – il coraggio a volte non serve a nulla.

Sentii un profondo ruggito provenire dal cellulare, le sue vibrazioni quasi risalire lungo il mio braccio.

“Chi c’è lì con te?”, riuscii a sentire la voce di Edward al telefono.

Claude avanzò di nuovo e questa volta rimasi pietrificata per la sua velocità. Con estrema gentilezza, mi prese la mano e sfilò il cellulare dalle mie dita, per poi portarselo all’orecchio.

“Salve, Edward”, disse allegramente, compiaciuto, premendo il tasto del vivavoce.

Chiuse gli occhi brevemente per godersi il ruggito furente di Edward, seguito da diverse imprecazioni indistinte.

“Dov’è lei? Non provare a farle del male”, la sua voce furiosa e sofferente sembrò quasi stringersi intorno al mio petto, soffocandomi.

“Oh, è qui con me… al sicuro”.

“Dimmi dove sei, o quando ti troverò ti ucciderò più lentamente di quanto abbia intenzione di fare”.

Claude alzò lo sguardo per fissarmi in volto con espressione compiaciuta, per poi allungare il cellulare verso di me, quasi sfidandomi a parlare. Sapeva che non ne ero in grado.

“E-Edward”, cercai di parlare.

“El, dimmi dove sei. El!”, mi sembrava di riuscire a sentire il lieve rumore che creava il suo spostamento d’aria mentre sfrecciava attraverso la foresta.

Claude sogghignò, e capii che era ciò che voleva. Voleva essere trovato. Con l’ennesimo sorriso crudele, portò le dita a sfiorare il tasto di fine chiamata.

Il mio stupido attaccamento alla vita ebbe la meglio sul buon senso, e le parole fuoriuscirono dalle mie labbra prima di pensarci.

“La pietra, Edward! Alice mi-”, riuscii a dire prima che la telefonata terminasse bruscamente.

Rimasi immobile a fissare il piccolo cellulare argentato che stringeva in mano, per poi cercare un po’ di coraggio e risalire quel profilo perfetto fino ad incrociare i suoi occhi.

Ero certa che Edward mi avesse sentita, ma non ero sicura di volere che mi trovasse ora. Non con Claude che sogghignava come se avesse appena vinto una scommessa. Il suo ghigno si tese ed ignorai la pelle d’oca che si formò alla base del mio collo.

Inclinò la testa da un lato come per studiare meglio la sua preda.

“Come stiamo, signorina?”, recitò come il perfetto attore che era.

Indietreggiai di mezzo passo mantenendo gli occhi puntati nei suoi.

Sapevo di dover trovare la voce necessaria per intrattenerlo un po’ più a lungo. Forse Edward sarebbe riuscito a salvarmi anche stavolta, forse sarebbe arrivato in tempo.

“Mi piacerebbe poterti dire che va tutto bene”, forzai un sorriso, che tuttavia risultò una smorfia.

Mi sorrise di nuovo. Il suo viso, i suoi occhi, la sua voce deformati da quel sorriso crudele erano abbastanza da farmi salire le lacrime agli occhi.

“Sono onestamente dispiaciuto”, rispose sincero, avvicinandosi ancora ed estendendo un braccio verso di me, quasi a volermi afferrare.

Questa volta scattai indietro, balzando quanto più lontano mi fosse possibile.

“Oh, no”, disse con voce triste. “Non avere paura di me”, sembrava realmente dispiaciuto.

Sembrava la sua voce, e ciò mi faceva sentire male. Non potei impedirmi di fare una smorfia alla sua affermazione.

“Beh, non ancora almeno”, si avvicinò di nuovo, ovviamente compiacendosi di ciò che stava facendo.

Le sue dita trovarono il mio braccio destro e, il secondo dopo, ero di fronte a lui. La bellezza del suo volto mi tolse il respiro, e fui costretta a chiudere gli occhi per impedirmi di mettermi a piangere.

“Che c’è, signorina? Non ti piace il tuo Edward?”.

I miei occhi si spalancarono immediatamente per fissarlo in cagnesco, ma la mia volontà si sbriciolò come un castello di sabbia schiacciato dall’alta marea quando incontrai due grandi iridi dorate intente a guardarmi con un’ombra divertita. Occhi che, con ogni probabilità, conoscevo meglio dei miei. Ma, questa volta, non conoscevo ciò che vi era al loro interno.

“Ti prego”, sussurrai in silenzio.

Lo sentii sorridere, ma il mio sguardo era già fuggito dal suo viso.

“Che cosa?”, chiese divertito.

“Basta. Non… smettila di essere lui. Ti prego”, la mia voce si ruppe sull’ultima supplica.

Restò in silenzio un istante, poi sorrise di nuovo.

“Mi dispiace”, mormorò al mio orecchio, facendomi sussultare. “Ma credo di divertirmi troppo per smetterla”.

Sentii il suo respiro freddo sul collo e strinsi automaticamente i pugni per costringermi a rimanere immobile.

“Sai, è davvero divertente vedere come cambi espressione non appena vedi il suo viso, per poi ricordare che non è lui e sembrare quasi sul punto di scoppiare a piangere. Sentire il tuo cuore accelerare e il tuo sangue correre nelle vene alla sua sola vista…”, si accostò di nuovo al mio collo per inspirare profondamente. “E’ un vero peccato che non possa sentire il tuo odore ora”.

Rabbrividii brevemente.

“Claude, per cortesia, non importunare la nostra giovane amica”, una nuova voce, parzialmente familiare, spezzò il silenzio.

...Ecco qui! Ve lo sareste aspettato? Cosa pensate che succederà adesso?
Sinceramente spero di avervi sorpreso, ma anche di non aver deluso le vostre aspettative sui possibili avvenimenti. Per chi vuole vedere come si risolve la faccenda, l'appuntamento è per settimana prossima u.u 

Vi lascio con questa. Buon weekend! :)

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Capitolo 35
*** Scommessa. ***


Buonasera! Curiosi di sapere come va a finire? Non dico nulla, vi lascio leggere sperando che vi piaccia :) 

Capitolo 35. Scommessa.

Ci impiegai un secondo in più del necessario per riconoscerla. Alzando lo sguardo, non mi stupii di vedere Amos camminare lentamente verso di noi, così con grazia che sembrava non toccasse nemmeno il terreno, circondato da altri quattro vampiri.

“Ovviamente, Amos. Stavo solamente ammazzando il tempo in attesa del vostro arrivo”, lo sentii sogghignare di nuovo.

Se fossi stata in me stessa, avrei probabilmente avuto voglia di fargli passare quel ghigno compiaciuto con un pugno. Gli angoli della bocca mi si curvarono verso l’alto al pensiero.

Amos ci raggiunse senza fretta, per poi sorridermi brevemente. Solo a quel punto, quando il suo sguardo color cremisi mi costrinse a guardare altrove, mi accorsi degli altri vampiri posti lungo la linea immaginaria che seguiva i confini della radura. Non ne avevo mai visti così tanti tutti insieme. Ne contai diciassette, senza prendere in considerazione i sei che avevo intorno.

I miei occhi spaventati cercarono di studiare i loro volti, ma erano troppo lontani per delinearne perfettamente i contorni. L’unica cosa che mi sembrava di riuscire a vedere era un paio di occhi rossi che si ripeteva per ogni viso che analizzavo.

“Beh, finalmente”, la voce di Amos mi riscosse dai miei pensieri.

Riportai lo sguardo su di lui, guardandolo con espressione scettica. Il respiro mi rimase in gola quando incrociai le sue iridi cremisi studiarmi con la stessa attenzione che ricordavo avesse usato la prima sera. Sembrava un momento lontano anni…

Mi sorrise educatamente, ritirando la mano che non avevo notato estendere verso di me.

“E’ da un po’ che ti teniamo sott’occhio”, sfoggiò un altro mezzo sorriso, come se mi avesse appena fatto un complimento. “A dire il vero, è stato Claude ad occuparsene”, si corresse.

Mi voltai di scatto verso di lui, sperando di incenerirlo con lo sguardo.

“Eri tu”, lo indicai riducendo gli occhi a due fessure. “Per tutto questo tempo, eri tu!”.

Non si disturbò a rispondere, ma sogghignò semplicemente. Ero stata così stupida. Era ovvio che fosse stato lui. Quella sensazione di disagio, il sentirsi osservata…

“Tu, tu…”, balbettai in preda alla rabbia, annaspando per trovare le parole giuste.

“Oh, signorina, non c’è bisogno di prendersela tanto”, mi rivolse un gran sorriso, per poi farmi l’occhiolino.

Repressi un ruggito stringendo con forza i pugni. La paura di poco prima sembrava essersi eclissata dietro la forza della mia rabbia. Ero furiosa, forse più con me stessa per esserci cascata l’ennesima volta.

“Se avessimo voluto, avrei potuto ucciderti quando e come avrei ritenuto meglio”, continuò, adocchiandomi come se stesse costatando qualcosa di ovvio. “Ma abbiamo preferito aspettare”.

Edward mi aveva avvisato dei loro giochi mentali, ma non l’avevo mai ritenuta una reale possibilità. Le sue parole tornarono con prepotenza nei miei pensieri.

“Credo che questo faccia parte dei loro giochi”, sull’ultima parola fece ricadere tutto il suo disprezzo.

“Pensi che siano loro?”, domandai insicura.

“Ne sono quasi sicuro, purtroppo”.

“Che genere di giochi?”.

“Gli Ubach sono particolarmente dotati d’inventiva quando vogliono qualcosa. Sono in grado di influenzare la nostra mente incosciente, quelli che chiamiamo sogni”.

Boccheggiai spaventata quando finalmente capii. Gli incubi non erano mai andati via, si erano semplicemente nascosti, mascherandosi senza destare sospetti e al tempo stesso quasi avvisandomi di ciò che sarebbe successo, quasi prendendomi in giro. Nei miei sogni Claude non se n’era mai andato, si era semplicemente finto Edward.

Mi morsi l’interno della guancia per impedirmi di piangere. Presi un respiro profondo.

“Perché?”, mi limitai a dire, rabbrividendo della mia stessa voce spaventata.

Mi sentivo fragile mentre le mie sensazioni balzavano dalla rabbia alla paura.

Amos mi guardò come se avessi fatto una domanda lecita, seppur ovvia.

“Perché? Oh, Elizabeth, credo che tu non sia a conoscenza del tuo potenziale. La prima sera, quando ti ho incontrata per la prima volta, ho capito subito che eri particolare, speciale… e per questo pericolosa. Non appena fui fuori da casa Cullen, avevo già deciso che sarei tornato ad ucciderti personalmente, per assicurarmi che il pericolo che rappresentavi venisse eliminato”.

Strinsi i pugni con forza per fermare il formicolio che mi percorreva le braccia.

Amos mi sorrise brevemente.

“Questa era l’unica cosa che avevo in mente. Tuttavia, non appena ritornammo in Scozia, trovammo alcuni Hoser nel nostro territorio. Potrai immaginare la nostra sorpresa: la maggior parte di noi li considera praticamente estinti. Sapevamo che cercare di ucciderli sarebbe stato inutile, quindi ci siamo limitati a chiedere come mai fossero venuti nel nostro territorio.

“Prova a indovinare, signorina? Avevano saputo che avevo incontrato te, e che a quanto pare eri speciale. E per questo ho cambiato idea; abbiamo fatto un patto”.

Amos si fermò brevemente per osservarmi con attenzione, apparentemente soddisfatto.

“Loro non volevano esporsi ai pericoli che avrebbe provocato un loro avvistamento, ma sarebbero stati costretti a farlo per venire a reclamarti e trasformarti, prima o poi. Così abbiamo acconsentito a venire noi al posto loro a prenderti, a patto che loro lasciassero il nostro territorio immediatamente”.

No, era l’unica cosa che riuscivo a pensare. No, no, no, no. Questo era peggio di venire uccisa da un mostro come Claude. Questo significava che non solo sarei morta, ma sarei stata costretta a rimanere per il resto della mia esistenza lontano da ciò che più amavo. La morte, improvvisamente, sembrava particolarmente invitante.

Istintivamente, feci un passo indietro. Claude seguì il mio movimento con gli occhi, sorridendomi quando capì dalla mia espressione sconfitta che sapevo di non poter scappare. Dovetti lasciar cadere lo sguardo rapidamente, il suo aspetto abbastanza da stringermi il petto fino a farmi mancare l’aria.

Amos riprese il suo discorso come se niente fosse.

“Ma sai, spesso mi trovo a prendere decisioni stupide. Me ne sono reso conto quando sono entrato in questa radura e ti ho vista per la seconda volta. La tua mente è un luogo così incredibile… irraggiungibile a chiunque, ma al tempo stesso così fragile e limitata. Umana. Sono certo che sarebbe un vero peccato consegnarti-”, un suono sordo e prolungato lo costrinse a lasciare la frase incompleta.

Il mio corpo percepì la sua presenza ancora prima che i miei occhi si focalizzassero sulla figura che ora era al confine della radura.

Il sollievo che mi gonfiò il petto impiegò poco a trasformarsi nuovamente in angoscia quando mi resi conto dei numerosi vampiri che circondavano Edward, un profondo ringhio di sottofondo a provare la mia paura. Si accucciò piegando le ginocchia in posizione di attacco, osservando attentamente chi lo circondava e scoprendo i denti.

“Edward”, il mio fu appena un sussurro, ma non appena il suo nome lasciò le mie labbra, la sua testa scattò verso di me, lasciandolo per un secondo senza difese.

Prima che me ne rendessi conto, tre dei vampiri che lo circondavano balzarono all’unisono verso di lui, cercando di colpirlo al collo con i denti scoperti. Osservai la scena senza essere in grado di battere neanche le ciglia, cercando di seguire ogni mossa di Edward mentre si divincolava tra tutti quei nemici. A causa mia.

Edward. “No”, gemetti impotente, incapace di allontanare lo sguardo per paura di non trovarlo più.

Sembrava quasi che cercasse di non ferirli. Si stava difendendo quel tanto che bastava per non soccombere. Perché non reagiva? Perché non li stava uccidendo?

Due Ubach gli si avventarono addosso mentre Edward saltava verso l’alto per evitarne un altro. I tre precipitarono a terra con un rombo assordante, simile ad un tuono. Uno dei due lo immobilizzò, aggrappandosi con forza alla schiena di Edward, mentre l’altro cercò di attaccarlo direttamente. Sentii chiaramente il rumore metallico dei denti che affondavano nel suo braccio rimbalzare nell’aria ed echeggiare nel mio stomaco, nauseandomi.

Edward ruggì nuovamente, questa volta un suono misto a dolore.

“Stop”, dissi di nuovo, sperando che servisse a qualcosa. “Stop, stop!”.

Sentii Claude ridacchiare al mio fianco.

Non ero certa se le mie ginocchia mi sorreggessero ancora, oppure fossi semplicemente in ginocchio. Non le sentivo. Non mi importava in quel momento.

“Basta!”, gridai con quanta energia avessi. “Lo state uccidendo!”.

Amos, che fino ad allora si era limitato ad osservare la scena con espressione impassibile, si voltò verso di me con un mezzo sorriso.

“Charles, Demetri”, si limitò a dire, senza staccare gli occhi dal mio viso.

A quel semplice ordine, i due vampiri, insieme a tutti gli altri, si ritrassero di qualche metro. Qualche secondo dopo, Edward si sollevò rapidamente e ritornò in posizione eretta, guardandosi prima intorno e poi focalizzando gli occhi sul mio viso. La sua espressione cambiò immediatamente, rilassando i suoi lineamenti e lo sguardo nei suoi occhi dorati, ma la sua postura era ancora vigile e tesa, pronta a scattare non appena vi fosse stato bisogno.

I miei occhi corsero lungo la sua figura in cerca di qualunque tipo di ferita, ma non ne trovai. La manica sinistra della sua maglia era ampiamente lacerata, ma la pelle diafana sotto di essa era apparentemente intatta. Sospirai di sollievo.

“Ben arrivato, ragazzo”, lo salutò calorosamente Amos, come se quello che era appena successo non fosse mai accaduto. “Ti aspettavamo”.

Edward sembrò reprimere un ringhio, limitandosi a sorridere amaramente e annuire nella sua direzione, senza allontanare tuttavia i suoi occhi dai miei. Fece per muoversi verso di me, ma Amos alzò un braccio, facendogli cenno di fermarsi.

“Oh, assolutamente no”, disse.

Poi si voltò di nuovo verso di me, formando un mezzo sorriso con le labbra sottili.

“Come dicevo”, riprese il discorso di prima come se nulla fosse. “Ho deciso che sarebbe stato un vero peccato consegnarti agli Hoser e lasciare che fossero loro a trasformarti”.

Edward digrignò i denti, ringhiando sommessamente, ma rimase immobile. Qualche secondo dopo, incrociai nuovamente il suo sguardo tormentato. Sapevo cosa stava pensando in quel momento. Quando ci saremmo dovuti dire addio? Avrei avuto il tempo per farlo, o mi sarebbe stato strappato via senza preavviso?

“Così abbiamo pensato di prenderti con noi e trasformarti”, mi rivolse un sorriso compiaciuto. “Se fossi io a trasformarti, gli Hoser non potrebbero più costringerti ad andare con loro. Non la trovi un’idea grandiosa?”. Il suo sguardo era colmo di aspettativa, come se si aspettasse che mi congratulassi realmente con lui.

“Ovviamente, ti permetteremo di visitare i Cullen ogni tanto”, aggiunse compiaciuto.

Mi veniva da vomitare.

“No”, sibilò Edward con voce gelida.

Un ringhio feroce proveniente dagli altri vampiri seguì le sue parole, ma non capii a cosa fosse dovuto fino a quando non sentii delle voci chiamarmi alle mie spalle.

No!, pensai. Tutto questo è sbagliato. Non anche loro. Non per colpa mia.

Aspettai in silenzio di svegliarmi da quell’incubo, stringendo i pugni talmente forte da tagliarmi i palmi con le unghie.

“Carlisle!”, esclamò Amos. “Che piacere vederti!”.

Mi voltai lentamente, cacciando indietro le lacrime quando vidi tutta la famiglia Cullen avvicinarsi velocemente. C’erano tutti, anche Esme. Erano tanti, ma non abbastanza da sovrastarli.

Alcuni degli Ubach furono veloci a chiudersi attorno a noi, effettivamente circondandoci in quella che era a tutti gli effetti una trappola letale.

“Stavamo giusto dicendo che permetteremo ad Elizabeth di venirvi a trovare una volta che l’avremo trasformata”.

Un suono strangolato, a metà tra un sibilo e un ringhio, echeggiò alla mia sinistra. Rimasi immobile, sapendo che se mi fossi voltata per vedere a chi apparteneva quel lamento sarei scoppiata a piangere.

“Amos, in nome della nostra amicizia, ti chiedo di ripensarci”, sentii la voce ferma di Carlisle quasi implorare dietro di me, mentre il mio sguardo ondeggiava tra il viso di Edward e quello di Rosalie.

Le loro espressioni, sempre così diverse, questa volta vestivano la stessa emozione. Erano distrutte.

“Lascia la ragazza con noi, non creerà problemi né a voi, né a nessun altro”, continuò Carlisle.

“Ne sono consapevole, ma ti sei reso conto del suo potenziale? Sarebbe l’offensiva perfetta,e non lo sa nemmeno”.

Sentii un sospiro profondo alla mia destra. Così ero l’offensiva… un semplice mezzo per ottenere ciò che volevano.

“Dacci qualcosa per poterti fare cambiare idea”, s’intromise Edward, la sua espressione illeggibile.

Claude si voltò verso di lui con uno sguardo incuriosito, sinceramente interessato. Guardarli nello stesso istante mi fece contorcere lo stomaco.

“Che cosa hai in mente, ragazzo?”, lo incoraggiò Amos.

Edward trattenne a stento un ghigno.

“Una scommessa”, disse con un mezzo sorriso.

Perché improvvisamente sembrava così sicuro di sé? Una scommessa?

“Che genere di scommessa?”, chiese incuriosito, avvicinandosi a Edward.

Edward sorrise brevemente.

“Dovrò riconoscere alcuni di voi con l’aspetto di qualcuno della mia famiglia”, disse facendo un cenno diretto alle mie spalle.

Il ghigno di Claude si tese in maniera quasi impossibile.

“Se vincerò io, lascerete immediatamente il nostro territorio senza tornare mai più. Sparirete come siete arrivati, senza lasciare tracce del vostro passaggio. Se invece vincerete voi…”, la sua testa si volse leggermente nella mia direzione, indirizzandomi un breve sorriso che mi tolse il respiro. Non per la sua bellezza esagerata, ma per il dolore che vi era impresso. “Beh, in quel caso, sarò io a venire con voi. Lascerete in pace la mia famiglia e-”.

No!”, gridai prima che potessi rendermene conto.

Quel suo sorriso mi stava chiedendo scusa. Se fosse finita male, mi avrebbe detto addio.

“Edward, non puoi fare sul serio”, disse Alice, un’ombra arrabbiata nella sua voce squillante.

“Edward, figliolo, pensaci bene”, le fece eco Carlisle.

Non mi preoccupai nemmeno di guardarmi attorno per vedere le loro espressioni; sapevo che sarebbero state una copia della mia, eccetto le lacrime che mi pungevano gli occhi.

“El, mi d-”, mormorò, ma non lo lasciai finire.

“No”, ripetei. “No”.

No, no, no, no, continuai a ripetermi come un mantra.

Edward tese una mano verso di me, come se fosse in grado di toccarmi nonostante la distanza che ci era stata imposta. Con le labbra formò in silenzio la parola scusa. Scossi la testa lentamente, il debole movimento abbastanza da farmi scivolare una lacrima lungo la guancia.

“Amos, non credo che questa sia l’idea migliore. Mio figlio è impulsivo, non ha idea di quello a cui sta andando incontro”, sobbalzai sorpresa al suono della voce di Carlisle.

Volsi il capo impercettibilmente verso di lui, osservando il suo viso dai lineamenti tesi e contratti dalla preoccupazione.

“Carlisle”, sembrò rimproverarlo Edward, scuotendo la testa.

“Mmm”, sembrò pensarci su Amos, portandosi una mano sotto il mento. “Interessante”.

Non sembrava per nulla toccato dal piccolo scambio di battute appena avvenuto.

Edward fece scorrere lo sguardo su ogni membro della sua famiglia, soffermandosi un po’ più a lungo su Alice, per poi fermarsi nuovamente su Carlisle.

Notai i due scambiarsi uno sguardo significativo. Quando Carlisle riprese a parlare, il suo tono era totalmente sconfitto. Sentii un gemito strozzato provenire da Esme, ma non vi badai.

“Spero tu sappia quello che stai facendo, Edward”.

Il silenzio che seguì parve regnare per un istante interminabile, disturbato solamente da un brusio impercettibile proveniente dagli Ubach alle spalle di Amos e Claude.

Io mi limitai a continuare a fissare Edward, cercando di capire che cosa gli passasse per la testa. Cosa stava cercando di fare? Come poteva essere così sicuro di sé? Avrei potuto perderlo per sempre, un per sempre più lungo di quanto qualunque umano avrebbe mai immaginato. Avrei preferito sacrificarmi io, piuttosto che privare la sua famiglia della sua presenza.

Amos e Claude si fissarono per un breve secondo, scambiandosi uno sguardo eloquente.

“Sono d’accordo”, annunciò Amos spezzando la quiete irreale. “Mi piace quest’idea”.

Un debole sorriso si aprì sulle labbra di Edward e, lo stesso sorriso, sollevò quelle di Claude. Faceva male soltanto vederlo uguale a lui.

“Sapevo che non avresti mai rifiutato una buona scommessa”, disse Edward, visibilmente compiaciuto e con aria di sfida.

“Ah-ha, ragazzo. Ho detto che sono d’accordo, non che accetto la scommessa”, lo corresse Amos.

Edward represse un ruggito. “Che cosa vorrebbe dire?”.

“Che ho intenzione di rendere la partita più… interessante, se per te”, lasciò scivolare il suo sguardo cremisi su di me, “per voi, va bene”.

Un ringhio profondo sembrò provenire dal petto di Edward, ripetuto da quello che credevo fosse Emmett, a giudicare dall’intensità del suono.

Amos sorrise crudelmente, i suoi occhi accesi di uno strano entusiasmo.

“Che ne pensi, signorina?”, si rivolse a me.

Lo fissai, insicura su cosa fare. Non avevo idea di cosa dover rispondere. A quel punto, era una partita a scacchi. Dovevo pensare ad ogni mossa con almeno due d’anticipo, o sarei finita schiacciata.

“Credo che saresti d’accordo anche tu se il tuo Edward non dovesse rischiare la vita”, continuò con tono suadente. Rabbrividii brevemente.

Annuii decisa con rapidi cenni del capo, incapace di fare altro.

“Lei non c’entra”, irruppe Edward. “Lasciala fuori. Parla con me”.

“Come sbagli, ragazzo”, scosse la testa Amos con un sorriso divertito. “Lei è l’unica che qui c’entra davvero”.

“E ora, vorrei proporti la mia variante”, disse mentre notai Claude allontanarsi, indietreggiando fino a ricongiungersi con gli altri Ubach. “Come hai detto tu, se tu vincessi, noi ce ne andremmo immediatamente. Ma voglio sempre la ragazza. Se vinciamo noi, è lei che voglio”.

Amos interruppe il ringhio di Edward a metà con un gesto della mano.

“E voglio che sia lei a riconoscere te, sono sicuro che così sarebbe molto più divertente”, concluse con un sorriso sereno e, tuttavia, glaciale.

“No”, rispose immediatamente Edward, seguita da Rose qualche secondo più tardi.

Rimasi in silenzio, cercando di pensare correttamente.

E se avessi potuto riuscirci? Riconoscere Edward, in quel momento, sembrava qualcosa di assolutamente semplice. Avevo sempre pensato di poterlo fare ad occhi chiusi. Tuttavia con Claude… E se ci fossi davvero riuscita? Se avessi potuto impedire che la mia famiglia venisse spezzata per colpa mia?

“No, Edward”, m’intromisi con voce decisa, più di quanto mi sarei mai aspettata. “Voglio tentare”.

La sua testa scattò nella mia direzione, i suoi occhi bruciavano quanto tizzoni ardenti.

Distolsi rapidamente lo sguardo, rivolgendomi direttamente ad Amos.

“Okay, lo farò”, dichiarai decisa, annuendo a me stessa.

Amos mi sorrise ampiamente, palesemente compiaciuto della facilità con cui aveva ottenuto ciò che voleva.

“No!”, ruggì Edward, ignorando completamente ogni buonsenso e interponendosi tra me e Amos, la sua postura accucciata e tesa ad indicare che era pronto all’attacco.

Quattro dei cinque Ubach rimasti intorno a me gli furono addosso in quello che mi parve un battito di ciglia, e il secondo successivo i miei occhi erano incollati alla figura di Edward ancora una volta intrappolato tra le braccia dei miei – nostri – nemici. Tuttavia, questa volta si lasciò completamente scuotere da una parte all’altra, mostrando a malapena i denti. Che diavolo stava facendo?

“Lasciatelo”, intervenne Amos con voce monocorde. “Se lo uccidete, fate fare la stessa fine anche al mio divertimento”.

Non appena le parole lasciarono la sua bocca, Edward fu di nuovo libero. Mi sorrise compiaciuto, apparentemente consapevole di ciò che aveva appena fatto.

“Edward, devi smetterla di-”.

“El”, mi interruppe. “Non ho intenzione di permetterti di fare una cosa del genere. E’ troppo pericoloso”.

“Che cosa?”, esclamai arrabbiata. “Perché fare questa scenata solo per potermi dire cosa posso o non posso fare non lo è?”, gesticolai verso il punto dov’era stato appena trattenuto.

Rilasciò un sospiro esasperato.

“M’importa soltanto di te, non di me”, rispose come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

“Beh a me invece sì, quindi smettila!”, cercai di rendere la mia voce autoritaria.

Mi passai una mano velocemente tra i capelli, prendendo un lungo respiro. Mi voltai di nuovo verso Amos.

“Ho detto che lo farò, e manterrò la mia promessa. Potrei solo… avere un momento per”, mi bloccai nel tentativo di deglutire il nodo che mi si era formato in gola, “per salutare?”.

Sapevo che, se non fosse finita come speravo, non avrei avuto l’occasione di farlo.

Il basso ringhio di sottofondo di Edward si arrestò immediatamente alle mie parole, in attesa lui quanto me di un responso positivo. Amos sembrò ponderare la sua risposta qualche istante prima di sorridermi amichevolmente.

“Ma certo, signorina! Mi pare più che giusto”.

“Ma avete poco tempo”, s’intromise Claude, la sua voce e il suo aspetto abbastanza da causarmi un brivido freddo lungo la schiena. “Poi si comincia”. Sorrise crudele nella nostra direzione.

Non persi tempo. Mi voltai rapida verso Edward, afferrandolo per il braccio e strattonandolo gentilmente affinché mi seguisse. Nonostante sapessi che era impossibile, volevo evitare di avere gli occhi di tutti puntati addosso.

Lanciai una rapida occhiata verso il resto della famiglia, abbozzando un debole sorriso di scuse. Non potevo salutarli come avrei voluto, non c’era abbastanza tempo; e se dovevo scegliere, ovviamente Edward era la mia priorità. Speravo lo capissero.

Ci allontanammo di qualche decina di metri, entrambi consapevoli che la distanza non sarebbe mai stata abbastanza perché non ci sentissero, per poi fermarci sotto un grande albero, i suoi rami che sembravano ripararci parzialmente dagli occhi altrui.

Sollevai timidamente il capo verso di lui, il mio coraggio scomparso ancora una volta senza preavviso, trovando i suoi occhi intenti sul mio viso, come a decifrarmi.

Le sue mani risalirono lentamente lungo le mie braccia fino a quando non si fermarono sulle mie guance, accarezzandomi con tenerezza.

“Edward”, sospirai, aggrappandomi alle sue braccia.

Avevo bisogno di sentirlo lì, vicino a me. Questa volta davvero.

“Ho paura”, confessai in un sussurro invisibile.

La sua espressione mi diceva che provava anche lui la stessa cosa.

“Sai che non sei costretta a farlo”.

“Lo so, ma voglio farlo”, mormorai. “Se non lo faccio…”.

Non mi disturbai a terminare la frase. Entrambi sapevamo che gli Ubach avrebbero attaccato immediatamente alla prima occasione.

Edward annuì pensieroso. “Se solo potessi farlo io al posto tuo…”.

“E’ meglio così, allora. Preferisco rischiare la mia vita, piuttosto che la tua”.

Le sue labbra assunsero una piega amara mentre le sue mani scendevano sulle mie spalle.

“Non capisci, vero? La mia non è vita. Non lo è stata per parecchio tempo, prima di te. E non lo sarebbe più, se tu non fossi più qui con me. Tu sei ciò che mi tiene in vita, è solo quando sono con te che sono vivo. Altrimenti, è soltanto un lento sopravvivere. Non ha senso, né scopo”.

Scossi la testa con un debole sorriso. “Tu sei fuori”, fu l’unica cosa che riuscii a dire.

Mi rivolse il mio mezzo sorriso preferito, per poi lasciare scorrere le sue dita gelide lungo le mie braccia. Ne seguii il movimento con lo sguardo prima di tornare a cercare il suo viso.

Lo trovai di fronte al mio, i suoi grandi occhi dorati colmi di emozioni ormai facili da comprendere per me. Com’era possibile conoscere una persona meglio di se stessi?

“Ti amo”, dissi decisa senza distogliere lo sguardo.

Sentii gli occhi inumidirsi non appena le parole sfuggirono alle mie labbra. Perché sembrava quasi un addio? Non volevo che lo fosse.

Le sue mani arrestarono il loro movimento, ripercorrendo il tratto percorso prima fino a che non furono nuovamente sulle mie guance. Con i pollici tracciò le linee umide sotto i miei occhi, un’espressione quasi di scuse sul suo volto.

“Non farlo sembrare un addio”, disse in un sussurro.

Avvicinò il suo viso al mio con estrema lentezza, quasi a cercare di imprimere a fuoco nella memoria ogni singolo istante. Mi baciò con dolcezza, ma era facile percepire l’ombra di disperazione nascosta all’interno. La stessa che mi stava consumando in quello stesso istante.

Le mie mani corsero a coprire le sue, forse in un tentativo inconscio di trattenerlo a me il più possibile, mentre il respiro si faceva affrettato.

Quando si allontanò da me sembrò quasi che lo stesse facendo contro la sua volontà. Rimase a qualche centimetro dal mio viso, fissandomi negli occhi con un’espressione seria e tormentata al tempo stesso. Sapevo che in quel momento si stava controllando per tenere a bada il suo lato più nascosto, ma non riuscivo a costringermi a fregarmene.

Accostai di nuovo il mio viso al suo e lo baciai ancora, sperando che non mi allontanasse. Non lo fece. Mi strinse a sé con forza, forse per impedirmi di sparire, schiacciandomi contro il suo petto gelido mentre le nostre bocche correvano l’una sull’altra senza sosta. Questa volta non c’era dolcezza, ma solo rabbia e disperazione nel bacio.

Alla fine, fui costretta a staccarmi per riprendere fiato.

“Tempo scaduto”, sentii chiamare dal centro della radura.

Sospirai affranta. Tempo scaduto.

Feci per allontanarmi da Edward, ma non me lo permise. Mi tenne ancorata a lui, trafiggendomi con le sue grandi iridi d’oro.

“Ti amo”, il suo fu quasi un ruggito. “Ora vai a vincere quella scommessa, e poi torna da me”.

L’intensità delle sue parole era tale che mi ritrovai semplicemente ad annuire, incapace di formare qualunque tipo di pensiero.

Entrambi riluttanti, tornammo lentamente verso la radura con le dita intrecciate, dove Amos ci aspettava con un’espressione ansiosa ed eccitata.

“Oh, eccovi!”, esclamò soddisfatto non appena ci vide. “Perfetto”.

Ebbi giusto il tempo di stringere la mano di Edward un’ultima volta, prima che venisse brutalmente allontanato da me e posto in mezzo agli Ubach.

“Ciao”, sussurrai in silenzio verso di lui.

Mi rivolse il mio mezzo sorriso. “A dopo”.

Amos si fregò le mani impaziente con un gran sorriso.

“Bene, bene. Cominciamo”.

Ok, ditemi - cosa ne pensate? Edward ha fatto bene a proporre la scommessa, o si è scavato la fossa da solo? E quest'ultimo "addio", sempre che lo sia davvero? A me è venuto abbastanza il magone mentre lo scrivevo, se devo essere sincera. Il prossimo capitolo è l'ultimo - poi l'epilogo e ci si saluta :( 
Come sempre vi ricordo che se la storia non è chiara nei dettagli, sono più che disponibile a chiarirvi qualche passo che - mi rendo conto - può sembrare contorto/incomprensibile. Purtroppo per me, o forse più per voi, mi piacciono le storie un po' contorte e/o complicate, quindi dovete portare pazienza xD

Beeeeh vi saluto, buon weekend e alla prossima! :) La canzone di oggi è questa:

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Capitolo 36
*** Imperfetto. ***


BUONASERA! Siamo giunti alla fine, che tristezza D: Dopo questo capitolo, ci sarà l'epilogo e poi ci salutiamo. Aaaaaah oddio che cosa triste, vabbè.
Tornando a noi, ecco a voi l'ultimo capitolo - la resa dei conti. Buona lettura :) Fatemi sapere che ne pensate!

Capitolo 36. Imperfetto.

Mi sentii strattonare con forza all’indietro e non opposi alcuna resistenza, mentre uno degli Ubach mi trascinava all’indietro fino a quando non fui davanti ai Cullen. Ebbi appena il tempo di osservarli brevemente quando mi venne posta sugli occhi quella che pensavo fosse una benda.

Sobbalzai sorpresa e le mie mani corsero a tastare il tessuto che mi rendeva momentaneamente cieca. La benda in sé era sottile, ma era ripiegata più volte su se stessa fino a renderla quasi spessa, tuttavia era soffice ed estremamente liscia – probabilmente di seta.

Cercai di calmarmi prendendo un lungo respiro.

Potevo farcela. Dovevo farcela. Non era una possibilità, era un obbligo.

Sapevo che in quel momento avrei potuto morire, e sarebbe stata probabilmente colpa mia. Bastava un semplice errore, un’indecisione, una scelta affrettata… e sarebbe finita nel modo sbagliato. Sarei stata costretta a lasciare tutto ciò che amavo per salvarli. Era un prezzo che avrei pagato, ma che volevo cercare di evitare. Sapevo che ne sarebbe andata anche della vita, o meglio, dell’esistenza, delle persone che avevo accanto in quell’istante. Ero certa che, se avessi perso, non sarebbero rimasti immobili a guardarmi andare via. Avrebbero tentato di riprendermi come potevano, rischiando con ogni probabilità la loro vita.

Un senso di nausea mi avvolse mentre pensavo a Edward, Rose e gli altri, i loro corpi ridotti in pezzi ed accatastati l’uno sull’altro in attesa di essere trasformati in cenere.

Presi un altro respiro profondo nel tentativo di tranquillizzarmi.

Dovevo soltanto seguire il mio istinto, nient’altro. Fidarmi di quelle sensazioni che faticavo a comprendere ogni qual volta ero insieme ad Edward.

La vocina nella mia testa mi ricordò che non era poi così facile. Dopotutto con Claude ci ero cascata; avrei potuto sbagliare di nuovo, e stavolta non ci sarebbe stata una seconda possibilità.

Un altro respiro.

Che cosa stavano aspettando? Non avremmo dovuto cominciare? Sentii le mani intorno alla benda tremarmi lievemente, in eco ai miei pensieri. Ero divisa. In quel momento avrei cercato qualunque scusa per poter posticipare la scommessa, eppure non vedevo l’ora di cominciare, in modo da svegliarmi il prima possibile da quest’incubo.

“Siamo pronti”, sentii chiamare alle mie spalle.

Non mi mossi; in un secondo l’adrenalina prese a scorrere veloce nelle mie vene, provocandomi un fastidioso formicolio lungo le braccia fino alle punte delle dita. Chiusi e riaprii i pugni un paio di volte nel tentativo di arrestare quella strana sensazione.

Sentii qualcuno sciogliere il nodo alla benda, ma trattenerla ferma dov’era.

“Giusto un paio di regole”, riconobbi la voce di Amos a qualche metro da me. “Ovviamente hai il permesso di toccare tutti gli Edward”, riuscii chiaramente a percepire il sorriso nella sua voce, “e puoi anche parlargli, se vuoi. Quando avrai decretato che questo o quello non è il tuo Edward, dovrai semplicemente alzare un braccio e l’individuo in questione verrà allontanato. In questo modo non creeremo troppo rumore né sarai costretta a parlare – credo sia a tuo vantaggio. Se sbaglierai, beh, penso che capisca anche tu cosa succederà”. Lo sentii sospirare soddisfatto. “Inoltre, mi sembra ovvio che tu non possa tentare di barare; ricordati che possiamo leggergli il pensiero. Lo sapremmo immediatamente”.

Annuii in silenzio.

“Non ci sono altre regole particolari, credo. Che dire, buona fortuna allora”.

Molto lentamente, mi sentii sfilare la benda dagli occhi. Rimasi ferma dov’ero, lo sguardo basso e fisso sul terreno umido.

Sbattei le palpebre un paio di volte per adattarmi alla luce fastidiosa e grigiastra del cielo, il sole poco più di un cerchio sbiadito soffocato dalle nuvole opache – un po’ come mi sentivo io. Alzai lo sguardo poco a poco, stringendo i pugni per cercare di calmare quell’irritante formicolio.

Il respiro mi si bloccò in gola non appena i miei occhi registrarono la scena di fronte a me. A poco più di una decina di metri da me c’era Edward, ma era come moltiplicato. Ne contai diciotto. La stessa postura, la stessa espressione, lo stesso sguardo…

Mi veniva da vomitare.

“Rose”, chiamai con voce spezzata, in preda al panico.

La pressione che stavo mettendo su me stessa sembrò schiacciarmi all’improvviso, rendendomi le ginocchia molli ed instabili.

“Ah no. No, no, signorina. Niente aiuti, qui siete solo tu e Edward… tutti quanti”, Amos sorrise alla sua battuta personale. “Ho permesso alla tua famiglia di guardare anche per questo”, lo sentii aggiungere con voce sottile quanto crudele.

In quel momento mi sentivo così… inutile. Non ci sarei mai riuscita. Come avevo anche solo potuto pensarci? Se avessi sbagliato? Non riuscivo nemmeno a immaginarlo, il pensiero abbastanza da farmi rigirare lo stomaco in modo strano.

“Forza, Elizabeth. Il campo è tutto tuo”, mi esortò Amos con voce gentile.

In un secondo, ero furiosa. Laggiù c’era Edward, ed io ero troppo stupida e spaventata per riconoscerlo. E’ Edward!,  urlai a me stessa, odiandomi da sola. Com’era possibile che non riuscissi? Dovevo farlo. Lo conoscevo meglio di me stessa; ogni espressione, ogni lineamento, ogni piega di ogni sorriso… era mia quanto sua. Non era possibile che non fossi in grado di riconoscerlo.

Presi un profondo respiro per calmarmi.

La paura non era sparita, era sempre lì in agguato, pronta ad assalirmi alla prima occasione, ma per il momento ero riuscita a relegarla in un angolo. C’era qualcosa di nuovo, di diverso ora che mi correva nelle vene.

Mi accorsi con uno strano senso di compiacimento che non avevo paura di loro. Non di lui. E non era la mia vita quella per cui temevo. Volevo vivere, ovvio; tuttavia, nonostante in quel momento fosse la mia vita ad essere in pericolo, non riuscivo in alcun modo a temere per essa. O almeno a non temerne per mano loro – per mano sua. Era stupido pensarlo, ma ero convinta che lui non mi avrebbe mai ucciso.

Levai lo sguardo di fronte a me, con il poco coraggio di cui ero provvista, pronta. Guardai attentamente ogni singola figura davanti a me e, improvvisamente, mi tornarono in mente con prepotenza le parole pronunciate da Alice in un passato poco lontano. Le sue parole mi erano sempre suonate assurde, quasi incomprensibili…

“Era lui… era lui ad ucciderti”.

Ora aveva un senso. E tuttavia non riuscivo a costringermi a crederci.

Un mezzo sorriso dalla piega amara mi sollevò le labbra senza che me ne rendessi conto. Anche Alice probabilmente aveva già capito.

Prendendo un ultimo lungo respiro cominciai ad avanzare verso Edward. Quale fosse, in mezzo a tutti, ancora non lo sapevo. Lasciai correre lo sguardo sui diversi volti, sebbene uguali, davanti a me. Uno di loro incrociò i miei occhi e mi sorrise apertamente. Lo scartai immediatamente, dirigendomi verso di lui e poi alzando il braccio destro una volta giunta davanti.

Un vampiro dai capelli rossi quasi quanto i suoi occhi sembrò materializzarsi al posto dell’Edward che avevo di fronte in pochi secondi. Mi osservò con attenzione mista a curiosità, inclinando la testa di lato, per poi rivolgermi lo stesso sorriso di qualche attimo prima ed allontanarsi rapidamente.

Bene così, dissi a me stessa.

Continuai allo stesso modo per diversi minuti, analizzando ogni singolo tratto o espressione di ogni figura davanti a me, spaventosamente simile alle altre, e poi alzando ripetutamente il braccio destro.

Ogni volta trattenevo il respiro, nervosa, aspettandomi da un momento all’altro la voce di Amos che mi informava del mio errore. Sarebbe stato così facile, ci sarebbe voluto così poco…

Quando ne rimasero solamente cinque, mi resi conto che cominciava a farmi male la testa.

Non di nuovo, pensai contrariata con una smorfia.

Mi portai una mano alla tempia, massaggiandola lentamente con una lieve pressione. Forse… la mia mente parve cominciare a lavorare di fantasia senza che le avessi dato l’ordine. Forse avrei potuto usare questa cosa a mio vantaggio. Forse… forse avrei potuto utilizzare il mio potere per riconoscere Edward, o per aiutarmi almeno. Tuttavia, sapevo che era più rischioso di ogni altra cosa, poiché se avessi sbagliato Edward, questo avrebbe sentito a sua volta i miei pensieri, e sarei stata scoperta. A quel punto, sapendo quanto il mio scudo poteva estendersi, ero certa che non se ne sarebbero mai andati senza di me.

Senza poterlo impedire, feci una smorfia disgustata.

“Qualcosa non va?”, la voce familiare di Edward mi raggiunse.

Un brivido freddo sembrò congelarmi la base del collo.

Alzai lo sguardo verso di lui, inclinando il capo come per studiarlo meglio. No, non era lui. La sua preoccupazione appariva sincera, ma i lineamenti erano rilassati nonostante tutto.

“No, niente”, mi sforzai di sorridere. “Solo un po’ di mal di testa, tutto qui”.

Poco dietro di lui, sulla sua sinistra, notai un Edward abbozzare un mezzo sorriso appena percettibile, corretto immediatamente da un’espressione seria e concentrata.

Lo osservai per breve attimo, poi mi costrinsi a distogliere lo sguardo. Mi avvicinai a passi lenti verso l’Edward che aveva parlato, alzando il braccio senza una parola non appena gli fui davanti. Questo distorse la bocca, apparentemente deluso.

“Peccato”, disse. “Mi stavo divertendo”.

In pochi secondi, un vampiro dai capelli biondi che ricadevano all’altezza del mento e l’aspetto infantile prese il suo posto. Avrà avuto all’incirca la mia età.

“Sai”, continuò fissandomi con concentrazione evidente. “Spero quasi che tu riesca a vincere”.

Abbozzò un sorriso al quale non potei non replicare. Appariva così genuino.

“Grazie”, sussurrai in risposta.

I suoi occhi sembravano volermi dire qualcosa quasi disperatamente, tuttavia era qualcosa che non ero in grado di cogliere appieno. Scappa, scappa appena puoi e il più lontano da qui. Non lasciare che ti prendano, sembravano dire, ma non potevo esserne sicura.

Lo osservai incerta, sperando che il mio sguardo bastasse a rispondergli.

Non posso senza la mia famiglia. Non vedi? Ho bisogno di loro. Devo vincere la scommessa e poi potrò andarmene con loro, non prima.

“James, lascia continuare Elizabeth”, intervenne la voce di Amos, interrompendo il nostro strano scambio di sguardi.

James annuì subito, sorridendomi appena prima di voltarsi e allontanarsi per raggiungere gli altri.

Mi sentivo un po’ confusa, impaurita forse dopo aver ricevuto quello strano avvertimento. Che era successo a quel ragazzo? Scossi la testa rapidamente. Non ero sicura di volerlo sapere, e certamente non era questo il momento.

Annuendo a me stessa, ripresi il mio compito. Ora ne restavano solamente quattro, e uno di loro era Edward.

Presi un respiro profondo prima di osservare attentamente le figure davanti a me. Notai Amos fare loro un cenno veloce con la mano, e subito dopo tutti e quattro si mossero verso il centro della radura, verso di me, avvicinandosi a vicenda lungo una linea immaginaria, distanziati di un paio di metri l’uno dall’altro.

Rimasi immobile a fissarli, respirando appena, osservando con attenzione ogni piega ed espressione dei loro volti paurosamente identici. Respirando profondamente, mi avvicinai di qualche passo verso di loro per poterli osservare meglio. Al primo sguardo, decisi di scartarne uno. I suoi occhi sembravano distanti, tuttavia venati di uno strano divertimento che stentavo a comprendere.

Non lo eliminai. Decisi che era meglio concentrarmi sugli altri.

Tre, mi dissi, solo tre. Sembrava così facile…

Tornai a fissarli, studiandone le espressioni. Una in particolare mi colpì; i suoi occhi sembravano quasi fiammeggiare per la loro intensità, un misto di rabbia e sofferenza velati al loro interno.

Incrociai il suo sguardo. Edward?

I suoi occhi parvero attenuare le emozioni all’interno, lasciando trasparire una strana gentilezza. Era davvero lui? Distolsi lo sguardo, cercando quello degli altri due.

Dovevo esserne certa, non potevo rischiare di lasciarmi ingannare nuovamente. L’espressione serafica di uno degli altri mi spiazzò un attimo; appariva calmo, controllato. Ero certa che quello non potesse essere Edward.

Spostai lo sguardo sull’ultima figura, sperando con tutta me stessa che fosse realmente facile com’era stato finora. Ovviamente non lo era. Non appena lo guardai in viso, trovai un paio di occhi che mi stavano già fissando da chissà quanto, la loro intensità abbastanza da farmi sentire a disagio. I lineamenti perfetti del suo volto erano contratti, come bloccati in una smorfia di preoccupazione e tormento. Ma la cosa che più faceva male da vedere era la… speranza – forse? – nascosta nei suoi occhi.

Distolsi lo sguardo rapidamente, guardandomi un istante attorno per poi ritornare a lui, rendendomi conto che era lo stesso che mi era parso trattenere un sorriso prima. Era Edward? Come potevo esserne assolutamente certa? Mi passai nervosamente le mani nei capelli.

Notai entrambi seguire i miei movimenti con estrema attenzione, ma in modo diverso. Il primo sembrava quasi osservarmi con adorazione, guardandomi con occhi preoccupati e sinceri, come se fosse sul punto di abbandonare il suo posto e raggiungermi, per poi scappare via; mentre il secondo pareva più accertarsi che fossi tutta intera, il suo sguardo pareva quasi bruciarmi.

Rimasi immobile a pensare, le mani ancora intrecciate tra i capelli, gli occhi fissi su un punto senza in realtà vedere nulla. Quale dei due? Suonava così semplice.

Avrebbe potuto essere solo un’altra stupida scelta nella mia vita. Destra o sinistra, sopra o sotto,  giallo o blu, bianco o nero… ce ne sono infinite. Questa era uguale alle altre, e al tempo stesso così differente.

“El”, mi sentii chiamare dalla sua voce. Suonava distrutta, tormentata.

La mia testa scattò nella sua direzione senza decisione alcuna, e lo fissai con un misto di sorpresa e angoscia. Il primo Edward, sulla sinistra, mi osservava con un’espressione colma di aspettativa e di preoccupazione al tempo stesso. Avrei voluto urlare. Chi stavo ascoltando ora?

 “El, amore, per favore-”, un lamento strozzato, appena percettibile, lo interruppe.

Spostai lo sguardo sulla fonte del rumore, e trovai il secondo Edward esattamente come l’avevo lasciato, immobile nella sua posizione. I suoi occhi erano ancora puntati nei miei, ma questa volta contenevano anche una rabbia che mi prese alla sprovvista.

“Chiudi quella bocca”, le sue labbra si mossero appena, ma la sua voce raggiunse entrambi come un veleno ghiacciato.

“El, non dargli retta”, s’intromise l’altro. “Ricorda cosa ti ho detto sui loro giochi mentali. Sta giocando con te, ti sta prendendo in giro. Ti prego, non cascarci… non di nuovo”, sul finale la sua voce si era fatta più fioca, quasi spezzata sull’ultima sillaba.

I miei occhi si spalancarono in stupore. Era davvero Edward allora? Mi ricordavo bene ogni parola che Edward mi aveva detto, ed avevo imparato a mie spese che aveva ragione. Ed era stato lui a dirmelo, non c’era stato nessun altro in quel momento…

“Edward?”, domandai nella sua direzione, abbozzando un passo verso di lui.

Ma non potevo esserne comunque certa. Loro avrebbero potuto facilmente leggergli il pensiero. Diamine. Perché doveva essere tutto così complicato?

“Sono qui, El”, rispose sollevato, allargando le braccia in segno d’invito. “Vieni qui”.

Mi guardai intorno, sentendomi a disagio, e trovai per un breve secondo lo sguardo dell’altro Edward, ancora immobile come prima. I suoi occhi mostravano ancora un cambiamento, questa volta c’era una strana ombra di sofferenza, mista a uno sguardo di scuse.

Il mio stomaco sembrò aggrovigliarsi sotto quello sguardo. Ignorai quella strana sensazione, particolare quanto familiare, e avanzai a passi incerti verso l’Edward sulla mia sinistra, che ancora mi aspettava con espressione sollevata.

Non appena gli fui davanti, le sue braccia mi circondarono i fianchi con estrema delicatezza, come se avesse paura di spezzarmi, e nascose il viso nel mio collo, inspirando profondamente. Ero totalmente disorientata, incerta se dovergli stringere le braccia al collo o semplicemente aspettare ancora. C’era qualcosa che ancora non andava, e non capivo cosa fosse.

“Ti amo”, lo sentii mormorare tra i miei capelli. “Sapevo che ce l’avresti fatta, non ho mai temuto che avresti sbagliato. Ti amo”, ripeté scostandosi un poco per potermi guardare in viso.

Poi capii. Non c’era niente che non andava, assolutamente niente…

Sentii un suono soddisfatto provenire da qualche metro alle mie spalle, e riconobbi la voce di Alice nel silenzio, proprio mentre Edward avvicinava il suo volto al mio con dolcezza, tenendomi per il mento. Ero certa di sapere a cosa fosse dovuto il suo gesto, e mi sentii sorridere appena.

…ed era proprio questo che era così sbagliato. Era tutto troppo perfetto, troppo… irreale.

Edward chiuse la distanza tra i nostri volti, toccando le sue labbra fredde con le mie diverse volte prima di posarle realmente.

Rimasi totalmente immobile, in attesa.

Era quasi divertente il modo in cui il mio corpo reagiva, come se capisse cosa stava succedendo meglio della mia stessa mente. Forse avrei semplicemente dovuto fidarmi di lui fin dall’inizio.

La sua mano risalì la mia guancia fino a posarsi sulla nuca, trattenendomi dov’ero, mentre l’altra affondava nei miei capelli.

Mi sentii sorridere senza nemmeno volerlo mentre sollevavo lentamente il braccio destro fino a quando non fu totalmente esteso sopra la mia testa.

Sentii le sue mani staccarsi da me lentamente e i suoi occhi cercarmi, per poi assumere una strana espressione quando notarono il mio braccio sollevato. Mi osservò per qualche istante con uno sguardo stralunato, per poi sollevare le labbra in un sorriso che, mio malgrado, sapevo riconoscere bene.

“C’eri quasi, Claude”, sorrisi, talmente fiera di me stessa che non ero nemmeno in grado di essere spaventata, nonostante la situazione.

La sua figura cominciò a mutare rapidamente, perdendo i lineamenti perfetti di Edward ed acquistandone altri, ugualmente belli, ma non altrettanto cari.

Claude rispose al mio ghigno con il suo, per poi indietreggiare di un passo e annuire.

“Mi piacerebbe poterti chiedere la rivincita, ma non credo di essere nelle condizioni di farlo”, mi sorrise parzialmente divertito, quasi compiaciuto nonostante la sua sconfitta.

I suoi occhi cremisi mi osservavano con un misto di curiosità e compiacimento; non ero sicura di capirlo. Ma non era importante ormai.

“Credo di aver vinto”, decretai con voce sottile. Poi più decisa, “Ho vinto”.

Quella consapevolezza mi fece tremare le gambe. Ce l’avevo fatta. Dio, ce l’avevo fatta!

Sentii la voce di Amos rivolgersi a Carlisle come un vecchio disco in sottofondo mentre cercavo di ripetere nella mia mente gli avvenimenti degli ultimi minuti, sentendomi così forte da poter credere di volare.

Cercai di calmarmi, tentando di pensare razionalmente. Dopotutto Amos avrebbe ancora potuto venir meno alla sua promessa e attaccarci. Il solo pensiero mi fece rovesciare lo stomaco.

Mi voltai verso di loro, cercando un contatto visivo che speravo mi avrebbe aiutato a capire di cosa stessero parlando, troppo a bassa voce perché io capissi.

“Una scommessa è una scommessa”, lo sentii dire. “E questa volta pare proprio che mi sia andata male. Amici come prima, Carlisle? Non mi piace serbare rancore”.

Percepii la mia bocca spalancarsi per l’incredulità, per poi sollevarsi in un gran sorriso euforico. Lo vidi offrire la mano a Carlisle, abbozzando un gran sorriso.

Carlisle la fissò un attimo, poi sollevò la sua, mantenendola però a una certa distanza.

“Certamente, finché tu e il tuo clan rimarrete fuori dal nostro territorio e manterrete la promessa”.

I due si guardarono per un lungo istante, poi Amos annuì e gli strinse la mano.

“Certo, sarà fatto. Beh, alla prossima allora, è stato un piacere”, disse con fare solenne, mentre mi accorgevo solo vagamente degli altri Ubach che sparivano rapidamente in silenzio.

Scorsi brevemente la figura di James che si allontanava, e la seguii con lo sguardo con una certa apprensione. Dovevo ricordarmi di chiedere a Edward cosa gli era successo.

La voce di Amos mi riscosse dai miei pensieri.

“Mi auguro che verrete anche a trovarci, ovviamente”. Poi si voltò verso di me. “Elizabeth, spero di rivederti prima o poi, in veste di signora Cullen”.

Sparì subito dopo, senza darmi nemmeno il tempo di arrossire. Sorrisi vagamente imbarazzata, passandomi una mano tra i capelli e facendo una lieve smorfia prima di rendermi conto che non avevo ancora raggiunto Edward. Edward!

Mi voltai di scatto, dirigendomi verso di lui, ancora immobile dov’era rimasto tutto il tempo. Questa volta i suoi occhi celavano un misto di commozione e scuse che sembravano mischiarsi alla sua gioia ed incredulità evidenti.

Mi arrestai una volta giunta davanti a lui. Sembrava così diverso guardarlo in viso questa volta, rispetto a tutte le altre. Levai lentamente lo sguardo verso il suo viso, trovando un gran sorriso a sollevargli le labbra. Non credevo di averlo mai visto così… felice. I suoi occhi dorati sembravano risplendere, accesi di una luce che non ero sicura di avere mai visto.

“Ciao”, mormorai stupidamente.

Lo sentii ridacchiare appena, per poi percepire la sua mano circondare la mia.

“Ciao”, rispose con un sorriso nella voce, portandosi la mia mano alla bocca e baciandone il dorso quasi in modo adorante.

La sua mano libera risalì il mio braccio, facendomi venire la pelle d’oca al passaggio, fino ad accarezzarmi la guancia; il suo pollice corse lungo il mio profilo, sfiorandomi dal contorno degli occhi fino alle labbra, dove si soffermò più a lungo, per poi ripetere il percorso.

“Dovrai spiegarmi come hai fatto, prima o poi. Per un secondo, ho davvero avuto paura di perderti per sempre”, disse con stentata leggerezza, nonostante potessi avvertire ancora la sua preoccupazione.

Questo era stato lo sbaglio di Claude. Si era finto l’Edward perfetto, quando sapevo che in realtà non lo era del tutto – nonostante odiasse ammetterlo, persino lui aveva delle paure. Edward era perfetto per me, ma non era perfetto.

Mi limitai ad annuire, per poi sollevare entrambe le braccia ed aggrapparmi alla sua maglia. Avevo bisogno di sentirlo vicino, di sapere che era reale e mio.

“Ho avuto paura da morire”, confessai quasi in silenzio.

Inspirai profondamene contro il suo petto, sentendomi finalmente sicura e protetta.

“Anch’io”, percepii, più che sentii le sue labbra sussurrare tra i miei capelli.

Mi scostai quel che bastava per guardarlo in viso, sorridendogli appena.

“Ti amo”, dissi semplicemente, credendo in ogni singola lettera.

Lo vidi scuotere la testa, un mezzo sorriso a increspargli le labbra sottili.

“Ti amo”, rispose prima di chiudere la breve distanza tra noi. “Davvero”.

...E quindi tutto è bene quel che finisce bene. Come sono banale xD Fatemi sapere che cosa ne pensate. Buon weekend e alla prossima! :)

La canzone è What the water gave me, il nuovo singolo di Florence + the machine. Quella donna è meravigliosa.

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Capitolo 37
*** Epilogo. ***


Okay... this is it. E' davvero la fine gente D: Sono piuttosto disperata per questa cosa, abbandonare definitivamente questi due non credo mi piacerà molto. Nel caso qualcuno se lo stesse domandando, non ci saranno sequel - la storia è conclusa così, cercare di forzare un seguito in qualcosa che si sente finito sarebbe un fallimento in partenza.
Detto questo, vi lascio al capitolo. Ci rivediamo in fondo che ho parecchio da dire e qualche saluto da fare :)

Capitolo 37. Epilogo.

“Rose”, brontolai esasperata. “Rose, Rose! Basta!”.

Cercai di ritrarmi dalla sua presa, ma l’unica cosa che ottenni fu un aumento della sua stretta.

“Smettila di divincolarti, o mi farai sbavare l’eyeliner”.

Mi lasciai affondare nella sedia, sconfitta.

“D’accordo”, bofonchiai.

Era più di un’ora, o almeno così ero convinta, che Rose mi teneva prigioniera nel suo bagno con la scusa di prepararmi per il grande evento della giornata: il matrimonio di Alice e Jasper.

Sbuffai. Se avessi saputo che acconsentire ad essere la damigella di Alice avrebbe significato indossare un vestito scelto appositamente da lei e una sessione di trucco infinita, avrei opposto più resistenza. Decisamente più resistenza.

“Rose, non c’è bisogno che mi metta tutta quella roba in faccia. Farò sempre una figuraccia di fianco a tutti voi”.

Rosalie alzò gli occhi al cielo, in parte divertita ma anche scocciata.

“Taci, sarai perfetta”.

Questa volta fu il mio turno per alzare gli occhi al cielo.

Mi sistemai sulla sedia, guardandomi attorno con una certa curiosità mentre Rose si apprestava ad applicarmi la cipria, o qualunque cosa fosse.

A giudicare dalla luce che filtrava nella stanza, dovevano essere all’incirca le due di pomeriggio. Alice stava preparando Sarah nella sua stanza – quelle due ormai erano impossibili da separare – mentre Jasper, Edward e Emmett erano andati “in campeggio”. Mia madre era forse la più agitata di tutti, cercando in ogni modo possibile di aiutare Esme e Carlisle ad organizzare il matrimonio che Alice aveva pianificato in modo già più che perfetto. Mio padre si limitava a cercare di frenare il suo entusiasmo, anche se non con molto esito.

Sorrisi al pensiero. Non era passato poi molto da quando avevo pensato di perderli per sempre. Erano trascorse due settimane dall’incontro con gli Ubach, e a quanto pareva avevano mantenuto la loro promessa. Erano svaniti nel nulla, lasciandosi alle spalle solo qualche ricordo spiacevole e parecchia paura. Jasper e Emmett andavano spesso a controllare i confini, per essere certi che non fossero tornati, ma finora non c’erano state sorprese, e di questo ero grata. Ero abbastanza certa del fatto che non l’avrebbero fatto, ma non potevo esserne totalmente sicura.  Dopotutto,  mi risultava alquanto difficile fidarmi di loro.

Dopo quella che parve un’altra ora, Rose si scostò dal mio viso con un gran sorriso compiaciuto.

“Ok, ho finito”, annunciò sistemandomi una ciocca di capelli già acconciati dietro l’orecchio.

“Pensavo non l’avresti mai detto”, sospirai teatralmente, ignorando di proposito la sua smorfia.

Mi alzai dalla sedia, voltandomi verso lo specchio.

“Ah, no”, mi bloccò, fermandomi per un braccio e riportandomi con le spalle rivolte verso lo specchio. “Ti vedrai a lavoro finito”.

Sospirai esasperata.

“Pensavo fosse la sposa a cui erano riservati i trattamenti snervanti”.

“Pensavo sapessi a cosa stavi andando incontro quando hai detto di sì ad Alice”, rispose con un gran ghigno.

Repressi un ruggito. Feci per replicare, ma Rose m’interruppe con un gesto della mano.

“Ah-ah. Quando avrò finito, avrai tutto il tempo per brontolare. Ora devi sbrigarti a mettere il vestito, o farai tardi”.

Rassegnata e sconfitta, obbedii in silenzio. La cerimonia iniziava alle cinque – di tempo ce n’era ancora parecchio – ma discutere con Rose non portava mai ad alcuna vittoria.

Il vestito era appoggiato sul bordo del letto, avvolto da uno spesso rivestimento bianco di tessuto. Non mi era ancora stato permesso di guardarlo – non che ne avessi l’intenzione – e ormai stavo diventando nervosa, oltre che curiosa. Con Alice non si poteva mai sapere.

“Dai, aprilo”, m’incoraggiò Rosalie, vedendomi esitante.

Annuii in silenzio, forse più a me stessa che a lei. Sollevai l’abito con cura, prendendo la cerniera dell’involucro tra pollice ed indice e facendola scorrere lentamente lungo la lampo. Cercai di non apparire troppo sorpresa davanti al vestito che mi trovai di fronte.

Era sicuramente bello. Il tessuto di chiffon color caffè partiva da una scollatura a cuore per poi ricadere elegantemente in piccole pieghe. Una cintura di tessuto più spesso lo avvolgeva appena sotto il seno, chiudendosi con un piccolo fiocco dello stesso materiale. Era semplice. Era perfetto.

“Alice aveva pensato a qualcosa di più… sfarzoso, per così dire”, sentii chiaramente il sorriso nella sua voce, “ma Edward ha insistito per questo. Era convinto che ti sarebbe piaciuto”.

Registrai appena quello che stava dicendo mentre osservavo stupita quel pezzo di stoffa dall’aspetto tanto fragile. Lo accarezzai con la punta delle dita, facendo scivolare i polpastrelli sul tessuto delicato.

“Ti piace?”, la voce di Rosalie mi riportò alla realtà.

Mi limitai ad annuire soltanto, un piccolo sorriso sulle mie labbra.

“Che ne dici di indossarlo, allora, invece di restare lì impalata a fissarlo?”.

A quel punto la realtà tornò a materializzarsi davanti ai miei occhi.

“Cosa? Io… no! Rose, non posso”, balbettai con gli occhi sgranati, allontanando da me il vestito. “Non posso metterlo, è troppo… troppo”.

Non potevo indossare quel vestito. Era perfetto, sì. Ma non per me.

“Oh, non cominciare”, sbottò Rose. “Forza, mettilo”.

Rimasi immobile a fissarla, sconcertata.

“Non ti farò uscire dalla stanza finché non sarai pronta, a te la scelta. Ti perderai la cerimonia e dovrai subire l’ira di Alice per il prossimo ventennio”.

Sbuffai alzando gli occhi al cielo e mi maledii per aver acconsentito a quella tortura.

“Okay, okay”, mi arresi alzando le braccia in segno di resa quando la vidi avanzare verso di me.

Mi infilai con cura l’abito sotto lo sguardo divertito e attento di Rosalie, sistemandomi le ciocche di capelli che tentavano di sfuggire all’acconciatura intricata che aveva allestito.

“Perfetta”, mormorò con un gran sorriso quando mi fui infilata anche le scarpe, per poi prendermi per mano e trascinarmi davanti allo specchio. “Perfetta”, ripeté.

La mia prima reazione fu di sorpresa. Ero davvero io quella riflessa lì di fronte a me? Portai istintivamente la mano ai capelli, prendendo una ciocca ribelle tra le dita. Erano sollevati in un’acconciatura elegante, ma non troppo ricercata. Riuscivo a sentire, più che vedere, le forcine che aveva usato per mantenerli in quella posizione. Due lunghe ciocche ricadevano lungo le tempie, incorniciandomi il viso con dolcezza.

Un colpo alla porta mi costrinse a voltarmi di scatto.

“Bene, pronta?”, fece capolino Alice da dietro lo stipite.

Sorrisi timidamente, annuendo appena.

“Edward e i ragazzi sono di sotto, ci stanno aspettando. Andiamo”, aggiunse vivace.

Non riuscivo a comprendere la sua esuberanza, ma quelle furono le parole magiche in grado di convincermi a muovermi. Notai Rose e Alice scambiarsi uno strano sguardo d’approvazione, ma decisi di non badarvi. Sentii la voce di Emmett provenire dal piano inferiore.

“El, dobbiamo aspettarti ancora molto? Il povero Edward ti attende impazientemente”, finse un tono petulante.

Sentii chiaramente un colpo, forse un pugno, sferrato, seguito da qualche risata soffocata.

“Emm, taci!”, urlò di rimando Alice, mentre Rosalie si limitava a ridacchiare in silenzio.

Quest’ultima mi prese per mano, portandomi con sé fino in cima alle scale.

“Rose, puoi andare tu da Esme a chiederle se ha già disposto tutti i fiori?”.

Dopodiché, Alice si fiondò immediatamente in giardino, dove l’aspettava un Jasper che appariva più entusiasta di quanto l’avessi mai visto fino a quel momento. A quanto pare non le importava di non farsi vedere dallo sposo prima della cerimonia – dopotutto era soltanto giusto nei confronti di Jasper, lei aveva già visto tutto.

Rosalie la seguì rapidamente, ma non prima di aver stampato un bacio sulle labbra di Emmett. Rimasi ad osservare la scena, immobile sui miei tacchi instabili fino a quando non scorsi una figura sorridente che mi osservava in fondo alla stanza. Mi sorrise, e il secondo dopo era ai piedi delle scale, lo stesso sorriso ad illuminargli quel bel viso che amavo.

“Sei…”, sembrò per un secondo cercare le parole più adatte, per poi scuotere velocemente la testa. “Alice aveva ragione: valeva la pena di aspettare per vederti”.

Distolsi lo sguardo dal suo, sorridendo appena al suo commento e sentendo le mie guance scaldarsi.

“Grazie”, lo sentii sorridere a sua volta, divertito dalla mia timidezza.

Azzardai un’occhiata di sottecchi verso di lui, e sentii il mio cuore perdere un battito. Indossava un completo scuro, la cravatta nera annodata perfettamente al collo sopra la camicia bianca. L’abito nero riusciva come non mai a far risaltare il suo colorito niveo, accentuandone i lineamenti e l’oro brillante degli occhi, che ancora sentivo su di me. Era bellissimo, e, in un modo che ancora non comprendevo, mio.

“Forza, andiamo”, disse tendendo una mano verso di me e salendo con eleganza due gradini.

Annuii. Non riuscivo a capire il perché del mio improvviso nervosismo. Mi mordicchiai l’interno della guancia.

“Uhm, sì. Ecco, a proposito… grazie per il vestito. E’ davvero molto bello”, dissi sottovoce.

Iniziai a scendere le scale, prestando attenzione ad ogni gradino, aiutandomi con il corrimano a bilanciarmi sulle scarpe.

“Sei davvero…”, la sua voce mi costrinse ad alzare il capo di scatto, il che si concluse con la mia prevedibile perdita di equilibrio.

Due braccia dalla presa forte e rigida mi impedirono di rovinare al suolo, e mi strinsero a loro.

“Instabile”, conclusi la sua frase con un mezzo sorriso una volta che fui certa di essere in piedi.

Alzai lo sguardo per trovare Edward a fissarmi con occhi divertiti e forse adoranti, un mezzo ghigno a sollevargli le labbra.

“Stavo per dire ‘splendida’, ma credo che anche ‘instabile’ possa funzionare visti gli ultimi eventi”, il suo sorriso si tese ulteriormente, e la sua presa sui miei fianco si intensificò appena.

“Ah! Divertente, Edward. Divertente”, dissi fingendomi petulante.

Edward si limitò a scuotere la testa senza dire nulla, per poi avvicinare il suo viso al mio con lentezza calcolata.

“Mi sei mancata”, sussurrò strofinando il suo naso con il mio.

“Mmhmh”.

“Edward, non ci pensare nemmeno”, sentimmo entrambi la voce di Alice provenire dall’ingresso. “Quel trucco deve rimanere tale fino alla fine del mio matrimonio, quindi non ci pensare nemmeno a baciarla”.

Sbuffammo entrambi scocciati, per poi scambiarci uno sguardo divertito per la nostra reazione. Suo e mio malgrado, Edward si raddrizzò e mi prese per mano, conducendomi all’esterno. Meglio non provocare Alice.

 

La cerimonia si svolse rapidamente, per mia fortuna. Stare in piedi a fianco dell’altare sui tacchi non era il modo ideale di passare il pomeriggio.

Ogni tanto mi soffermavo a guardare Alice e Jasper, il loro sguardo complice e totalmente adorante, ma senza essere romantico in modo esagerato. Tuttavia, la maggior parte del mio tempo la passai ad incrociare lo sguardo di Edward dall’altro lato dell’altare, la sua postura rigida ed elegante.

Ogni qual volta lui cogliesse il mio sguardo, i suoi occhi parevano illuminarsi appena e il suo sorriso faceva capolino sulle labbra sottili e piene. E sentivo per me era esattamente la stessa cosa.

Mi sentivo così stupida e infantile, ma non potevo impedirmelo.

Quando finalmente la cerimonia si concluse, ci dirigemmo verso il ricevimento, dove la mia famiglia, alcuni invitati ed il resto dei Cullen stavano già chiacchierando.

Il misterioso clan di Denali era stato invitato, e mi sentii più che a disagio durante le presentazioni, soprattutto di fronte a una certa Tanya, che mi guardava come se mi fosse cresciuto un arto in più dall’ultima volta che mi ero vista allo specchio. Tuttavia, a parte questo, andò tutto più che bene. La mia famiglia si congratulò quasi esageratamente con Alice e Jasper, in particolare Sarah, che sembrava una piccola bambola di porcellana con il vestito che le aveva preparato Alice.

Ero di fronte al buffet con i miei genitori quando mi sentii picchiettare la spalla.

“Signor Cooper, signora Cooper”, salutò Edward con un cenno del capo e un sorriso. “Potrei rubarvi vostra figlia per qualche minuto?”.

Mio padre parve sul punto di rispondere, ma mia madre intervenne.

“Certamente, Edward. E chiamami Marie”.

“Grazie, Marie”, le sorrise cordiale. “Signor Cooper”.

Dopodiché, mi cinse la vita con un braccio e mi sospinse verso il lato più isolato del giardino. Non appena fummo fuori dalla vista dei presenti, si fermò e prendendomi il viso tra le mani, mi baciò rapidamente ma con dolcezza.

“Ciao”, mi sorrise, percorrendo con il pollice le mie labbra.

“Ciao”, sospirai trasognata.

Mi prese la mano e mi trascinò con sé lungo un sentiero appena visibile, camminando lentamente tra gli alberi che ci circondavano. Ad un tratto, stufa dei continui rischi di storte, sbuffai e fermai Edward.

“Che stai facendo?”, chiese divertito quando notò la mia espressione.

“Mi tolgo i tacchi”, annunciai soddisfatta. “Mi stanno uccidendo”.

Edward scosse la testa ridacchiando.

“Sei incredibile”.

“No, sono stufa”, replicai con una smorfia.

Riprendemmo a camminare, ma più lentamente.

“Sei davvero molto bella con quel vestito”.

Annuii timidamente, mormorando un “Anche tu” appena pronunciato.

“Rose mi ha detto che sei stato tu ad insistere su questo”, aggiunsi poco dopo.

“Sì, mi piaceva. Credevo che sarebbe stato perfetto su di te, e alla fine avevo ragione”.

“Ovviamente lo saresti stata anche con un paio di jeans e una maglia, ma Alice non era molto propensa”, continuò al mio silenzio.

Alzai gli occhi al cielo.

Era una proposta interessante, ma se mi fossi davvero vestita così mi avrebbero tutti guardato come se fossi uscita da un cartone animato. Il che mi riportava…

“Ehi, chi è Tanya?”, chiesi ricordandomi del modo in cui mi aveva guardato.

Edward si irrigidì inizialmente, per poi ridacchiare.

“E’ una dei nostri “cugini” dell’Alaska che condividono il nostro stile di vita, pensavo che-”.

“Non intendevo quello, e lo sai”, lo interruppi. “Mi ha fissata in modo strano, non mi è piaciuto”.

“Davvero?”, finse di esserne totalmente all’oscuro.

“Edward”, lo ammonii.

“El, amore, Tanya non è nessuno di importante. E’ solo che probabilmente le è parso strano il fatto che io ti presentassi a lei come ‘la mia ragazza’, tutto qui”.

Sgranai gli occhi immediatamente.

“Mi stai dicendo che quella Tanya era la tua ragazza?”, sbottai ad un volume forse più alto di quanto avessi voluto.

Riportai alla mente il viso di quella ragazza dai capelli biondo fragola, e desiderai di sprofondare nel terreno. Lei era… perfetta. Un attentato all’autostima di qualunque ragazza.

“No, no, El”, si affrettò a rassicurarmi Edward. “Ovviamente no, tu sei stata la prima… e l’unica, per quanto mi riguarda, ad avermi fatto provare tutto questo”, disse accarezzandomi il viso gentilmente.

“Ma allora…”.

“Lei voleva… mi voleva, ma le ho fatto capire che non ero interessato. Fine della questione”.

Rimasi a fissarlo ad occhi sbarrati.

“Ma… perché?”, fu l’unica domanda che riuscii a formulare.

“Perché? Che significa perché?”, ridacchiò tranquillo.

“Lei è così, così…”, sospirai frustrata.

Edward mi sollevò il mento con le dita, costringendomi ad incontrare il suo sguardo.

“Non è te”, mi sorrise sereno. “Questa è una spiegazione sufficiente”.

Mi sentii sciogliere un pochino alla sua affermazione. Tuttavia, non potei impedirmi di sbuffare.

Edward scoppiò a ridere, chinandosi per baciare le mie labbra imbronciate e poi raddrizzandosi subito.

“Sei buffa quando sei gelosa”.

“Non sono gelosa”.

“Okay”, acconsentì con un mezzo ghigno che la diceva lunga.

“Non è vero”, insistetti.

“Mmhmh”.

“Torniamo indietro?”, sbottai fingendomi indispettita.

“Ai suoi ordini”.

Riprendemmo a camminare, ma questa volta dirigendoci verso casa. Edward mi strinse al suo fianco passandomi un braccio intorno alla vita.

“Pensi mai che prima o poi vorrai sposarti anche tu?”, chiese d’un tratto Edward.

La sua domanda mi mandò inspiegabilmente nel panico.

“No”, mi affrettai a dire. “Cioè, sì. Ma non spesso, capita ogni tanto”, lasciai svanire la mia voce nel silenzio ovattato della foresta.

Sapevo di dover restare zitta, eppure la curiosità ebbe la meglio.

“Come mai?”, chiesi con un filo di voce.

“Non saprei. Sai, con il matrimonio di Alice e Jazz e tutto il resto…”.

“Mmm”, mi limitai a dire.

Un silenzio strano sembrò appollaiarsi sulle nostre spalle fino a quando Edward non parlò di nuovo.

“Sai, fino a non molto tempo fa ero convinto che per me sarebbe stato impossibile. L’idea che ci fosse qualcuno là fuori perfetto per me era assurda”, mormorò pensieroso. “Beh, almeno è stato così fino a quando non ti ho conosciuta”, si corresse con un sorriso pensieroso. “Sei praticamente… entrata nella mia vita quasi di prepotenza, e all’inizio mi faceva quasi rabbia il modo in cui mi sentivo stregato da te, senza che tu te ne rendessi nemmeno conto”.

Edward si fermò, prendendomi entrambe le mani tra le sue e guardandomi in viso.

“Ci ho messo così tanto a rendermi conto che ti amavo, e ancora di più a fartelo capire”, scosse la testa con un breve sorriso. “Ma ti amo, e questo non cambierà mai. Nemmeno se un giorno tu dovessi stancarti di me e decidere che dopotutto non sono abbastanza, che non ti merito… ti amerei lo stesso, anche se probabilmente preferirei non farlo”.

Mi passò il pollice sulle labbra. “Volevo solo che lo sapessi”.

Cercai di combattere il gran sorriso che minacciava di spuntarmi sulle labbra, ma non riuscii ad impedirlo.

“Ti amo”, risposi semplicemente. “Quando ti deciderai a capirlo?”, aggiunsi dandogli un colpo sul petto, che gli causò una risata.

Mi prese il viso tra le mani e questa volta mi baciò davvero, soffermandosi sulle mie labbra più a lungo. Riaprii gli occhi per trovarlo lì ad osservarmi, un’espressione strana sul suo volto.

“Voglio passare il resto della mia vita… della mia esistenza con te”, mormorò.

Ah. Aiuto.

“Uhm…io, ah…”, mi sentii farfugliare, per poi prendere un respiro profondo nel tentativo inutile di calmarmi. “E’ una proposta, la tua?”, cercai di sdrammatizzare, rivolgendogli un sorriso.

“Solo se vuoi che lo sia”.

Diavolo. Riuscivo a sentire le mani formicolare fino alla punta delle dita.

“Beh, in questo caso, Edward Cullen… credo davvero che passeremo l’eternità insieme”.

 

Fine.

Quiiiindi... quanto fa strano vedere la parola fine su un proprio lavoro? Fin troppo sinceramente.

Okay, passiamo alle cose serie. Ho un paio di ringraziamenti e saluti vari da fare. 
Prima di tutto, voglio ringraziare Giuls e Elly che, nonostante non ci si senta più come prima, hanno permesso a questa storia di prendere il via e a me di continuarla, motivandomi nel percorso. 
Ovviamente devo ringraziare anche quelle due in pagina - per chi se lo stesse chiedendo, Carli e Fabi - che mi sopportano e mi permettono di postare la storia anche lì di tanto in tanto; se ho delle visualizzazioni è solo grazie a voi. Di certo non avrei fatto un bel niente da sola. (Senza contare il fatto che non avrei nemmeno mai postato, ma questi sono dettagli xD)
Il che mi porta alle mie recensitrici. Quanto siete meravigliose? Paola, Giò,
Jen, Marta, Giada, Ginevra, Jujis (se ho dimenticato qualcuno siete libere di insultarmi) - se grazie a quelle due ho iniziato a postare, è grazie a voi che ho continuato a farlo. Senza i vostri commenti mi sarebbe passata sicuramente la voglia - per non dire farsi prendere dalla depressione più totale xD Quindi GRAZIE di cuore anche a voi, soprattutto a voi.
Un grazie va anche a tutti i lettori silenziosi, che sinceramente spero prendano il coraggio a due mani e si azzardino a scrivere anche solo due parole per quest'ultimo capitolo - poi giuro che sparisco, quindi non vi rompo più xD 
L'ultimo grazie va alla mia Angelica personale - con la storia non c'entra granché, ma poco importa visto che c'entra con me. Probabilmente non leggerai mai questa nota/capitolo perchè non te ne frega minimamente xD però sappi che ti voglio bene.

Ok, con le smancerie credo di aver concluso. Credo eh - nel caso le aggiungo più tardi, tanto posso modificare i post xD Eeeeh niente, ci vediamo spero. Prima o poi torno a postare qualcos'altro, devo solo trovare il tempo perchè le idee ci sono. Grazie ancora gente! :* 

                                                                                   Ale.

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