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Capitolo 1 - BuioOk,
questa è la mia prima Fanfiction. Risale a parecchio tempo
fa,
ma mi sono decisa solo adesso a pubblicarla perchè avevo una
paura matta. Anzi, a dirla tutta ce l'ho ancora adesso. Che dire, spero
che la storia sia di vostro gradimento. Mi piacerebbe ricevere
qualsiasi tipo di recensione, brutale o meno. Non voglio sentire solo
complimenti, apprezzo le critiche forse anche di più. Detto
questo, ringrazio Giuls e Elly per avermi sopportato e aiutato in tutto
questo tempo. E' anche merito vostro questa storia.
E ora la
pianto, vi lascio leggere. :)
Raindrops.
L'uomo
è
semplicemente un prodotto comune, mentre il mostro è un
prodotto raro; ma sono
entrambi ugualmente naturali, ugualmente necessari, ugualmente compresi
nell'ordine universale e generale.
-Denis Diderot.
Prefazione
Sapevo. Sapevo che in quel
momento avrei potuto morire, e
sarebbe stata probabilmente colpa mia.
Sapevo che ne sarebbe andata
anche della vita, o meglio,
dell’esistenza, delle persone che avevo accanto in
quell’istante.
Sapevo più che mai
in quel momento, con il cuore che scandiva
frenetico ogni singolo rintocco del tempo che scorreva incessantemente,
che
avrei dovuto avere paura, essere spaventata, terrorizzata per la mia
vita.
Sapevo che avrei dovuto avere
paura di loro. Di lui.
Tuttavia, nonostante in quel
momento fosse la mia vita ad
essere in pericolo, non riuscivo in alcun modo a temere per essa. O
almeno a
non temerne per mano loro, per mano sua.
Levai lo sguardo di fronte a
me, con il poco coraggio di cui
ero provvista, pronta.
Guardai attentamente ogni
singola figura davanti a me e,
improvvisamente, mi tornarono in mente con prepotenza le parole
pronunciate da
Alice in un passato poco lontano.
“Era
lui…era lui ad
ucciderti”. Ora aveva un senso.
Capitolo 1.
Buio.
Era tutto così
scuro, così buio. Non riuscivo a ricordarmi
dove fossi e soprattutto cosa stava succedendo. Che gran casino,
continuavo a
ripetermi, dove diavolo sono?
Nel frattempo
quell’oscura parete misteriosa continuava a
correre di fianco a me. Non riuscivo a darle una forma, a descriverla
in modo
soddisfacente. Riuscivo solo a percepire il suo spostamento continuo ed
assurdamente rapido. Sentivo il vento fischiare nelle orecchie e
frustarmi il
viso, costringendomi a socchiudere gli occhi nel tentativo di
mantenerli
aperti.
Un
momento.
Non mi stavo muovendo,
eppure… Una parete non poteva
sicuramente spostarsi. E soprattutto non potevo muovermi di certo a
quella
velocità. Ma che diavolo...?
Le mie gambe erano ferme,
o almeno così le sentivo, ma avevo
quasi paura di guardarmi in giro e distogliere lo sguardo da quel muro
scuro per
timore di ciò che in realtà mi circondava.
Faticai a mantenere il mio
respiro regolare, cercando di
calmarmi come potessi.
Sentivo solamente quel
suono simile ad un fruscio, creato
dal rapido spostamento d’aria che si creava attorno a me.
Faceva freddo.
Chiusi gli occhi ed
ispirai profondamente, rabbrividendo un
poco.
In quel momento, e solo
allora, mi accorsi di un altro
respiro molto, molto vicino al mio
viso.
Non avrei potuto notarlo
se non mi fossi concessa quel
secondo di pausa: era fin troppo regolare, perfetto. Stavo per alzare
lo
sguardo quando mi resi conto di cos’era in realtà
quella parete misteriosa. Le
punte più scure di quel muro, che convergevano verso il
centro da entrambi i
lati e sembravano volermi schiacciare, opprimermi… che
stupida. L’angolazione
da cui la osservavo era totalmente sbagliata. La stavo guardando al
contrario.
Quando quel pensiero finalmente mi raggiunse, fui sconvolta da una
certezza
quasi angosciante. Angosciante, senza quasi.
Mi resi immediatamente
conto delle braccia che mi
sostenevano, strette attorno alle mie gambe e dietro la mia schiena per
sostenermi. Ero in braccio a quel misterioso, regolare respiro.
“Tutto
okay?”, chiese quel respiro, “Pensavo fossi
svenuta.
Stai bene?”.
La voce era come il
respiro, regolare, perfetta.
Rimasi sorpresa un
istante, ammaliata dal suono di quella
voce, e poi farfugliai, nella confusione più totale:
“Chi, io?”.
Una dolce risata eruppe da
un punto molto più vicino di
prima, per poi mormorare al mio orecchio: “E chi,
altrimenti?”. Distinsi con
chiarezza un sorriso nella sua voce.
Ancora non riuscivo a
rendermi conto di ciò che stava
accadendo.
Dovevo capire chi fosse
quello sconosciuto. A quel punto
alzai lo sguardo, ma non mi servì a molto: era davvero buio.
Che ora era? L’ultima
volta che avevo guardato l’orologio…
“Dove
sono?”, mormorai più a me stessa che alla voce.
Il movimento del capo mi
causò una forte fitta alla testa;
portai una mano alla nuca come per arginare il dolore, invano. Feci una
smorfia.
“Siamo nella
foresta di Sellen, vicino a casa ormai. Non ti
preoccupare, è tutto okay adesso”.
Sbattei gli occhi un paio
di volte, cercando di mettere a
fuoco il mio strano interlocutore, ma senza risultati soddisfacenti.
Riuscivo
solo a delineare i confini di un volto niveo, quasi argenteo, ma avrei
giurato
fosse colpa della luna. In cielo infatti sembrava esserci la luna.
Le cime di quelli che ora
davo per scontato fossero alberi
erano parzialmente più chiare da un lato, i riflessi che
brillavano nella notte
più buia che avessi mai visto. La vegetazione appariva
così fitta e scura da
impedire ai deboli raggi di raggiungermi - e raggiungerci, sembrava
più giusto
dire a quel punto.
Già,
pensai con
ironia. Qualcuno di sconosciuto e
misterioso mi sta trasportando chissà dove. Avrei
dovuto essere
terrorizzata. Invece ero solo enormemente confusa; confusa e
affascinata allo
stesso tempo da quella voce. Il che era sbagliato; non del tutto, ma
comunque
sbagliato.
Sin da piccoli ti
insegnano a non dare retta agli
sconosciuti. E io ovviamente dove potevo finire? In braccio a uno
sconosciuto
in un posto dimenticato da Dio in preda a chissà quale
strano tipo di amnesia. Il mio
sarcasmo mi sconcertava.
Cercai di concentrarmi
ugualmente, tentando di ripensare
all’ultima cosa che ero certa di aver fatto. Non mi ricordavo
niente di quello
che mi era successo. L’ultima immagine nitida che avevo era
mia madre, che mi
raccomandava di stare attenta. Quella immediatamente successiva, era
quella
stupida foresta buia. Un bel rompicapo. E soprattutto, una fregatura.
“Ecco, siamo
quasi arrivati. Rilassati”.
Lavorai qualche istante
per distendere i miei muscoli. Non
mi era sembrato di essere tesa.
A dire il vero non lo
sapevo, non ne ero sicura. Come
d’altronde la maggior parte delle cose al momento. Non avevo
ancora abbassato
lo sguardo dal viso candido della voce, stavo ancora cercando di
capire, di
vedere meglio, quando una luce in lontananza catturò la mia
attenzione e mi
costrinse a voltarmi, riportando lo sguardo sulla foresta.
Una luce! Finalmente una
debole, piccola, stupida,
insignificante luce! Il sollievo che mi portò quella vista
fu pressoché
immediato; non sapevo bene il perché.
Non avevo mai avuto paura
del buio, né mai mi aveva
infastidita, al contrario.
Forse era soltanto
perché desideravo un cambiamento, seppur
minimo, a quella distesa scura di alberi sfreccianti. O forse
perché la luce
portava più chiarezza, possibilità di vedere
meglio, anche un viso, una voce…
Mi lacrimavano gli occhi.
Stavamo, anzi stava, andando
troppo veloce e il vento mi frustava il viso, scompigliando i miei
capelli già
indomabili.
Chissà come
erano conciati! Molto più che probabilmente
erano più vicini ad assomigliare ad un nido di vespe che il
mio semplice taglio
castano chiaro. Improvvisamente non ero più sicura di voler
vedere più
chiaramente, di arrivare alla luce. Quasi sorrisi di quanto frivola
potessi
essere a volte. Sbattei le palpebre ripetutamente, cercando di vedere
attraverso la patina sottile che mi offuscava la vista.
“Eccoci”,
mi informò un sussurro.
Era vero. La luce era
vicinissima, quasi tastabile ormai.
Rimasi sorpresa da come quella voce suonasse sempre più
affascinante e perfetta
ogni volta che la sentivo, così vicina al mio viso. Ci
avvicinammo ancora e mi
resi conto che non era una luce naturale, ma solo un gigantesco
lampadario in
una veranda. L’entrata della casa era graziosa, semplice, ma
molto raffinata.
Nonostante le dimensioni
fossero pressoché enormi, passandoci
affianco non ci si sarebbe neanche accorti che era lì,
forse. Era come fissata
nell’insieme della foresta, intrecciata perfettamente con la
natura lì intorno.
Era perfetta.
La porta era relativamente
piccola, di legno, apparentemente
antica come tutto il resto, ma dall’aspetto resistente.
C’erano due finestre
che davano sull’entrata, una aperta per metà,
dalle quali era possibile sentire
il mormorio sommesso all’interno del piccolo locale. Sulla
destra spuntava un
minuscolo ma curato giardinetto, mentre dalla sinistra si riusciva a
sentire lo
scorrere di un fiume. Era il genere di casa che ognuno avrebbe sempre
desiderato per sé.
“Se ti metto
giù prometti di non urlare e scappare via?”.
Ora la luce
c’era; avrei potuto benissimo alzare lo sguardo
e verificare i miei sospetti su quella misteriosa voce, ma non volevo.
E se fosse
stato solo un sogno? Uno stupido, strano, stranissimo sogno? Beh a quel
punto
perché svegliarsi?
Perché
è ovvio che i sogni si interrompano sempre nel
momento migliore.
Un piccolo sbuffo mi
ricordò che la voce era ancora in
attesa di una risposta. Ma perché mai sarei dovuta scappare
urlando?
Non ero sicura di come
potesse suonare la mia voce in quel
momento così mi limitai a fare solo un debole cenno con la
testa. Finalmente i
miei piedi toccarono terra.
“Attenta”,
mi avvertì gentile.
Ah.
Brutta idea.
Le mie gambe erano talmente intorpidite da non sentirle neanche,
figuriamoci
stare in piedi. Infatti, appena il sostegno scomparve da sotto e dietro
di me,
mi sentii fragile, traballante e mi sentii cadere. Ma mi aspettavo un
tonfo, il
mio tonfo.
Invece in poco meno di un
secondo ero di nuovo nelle braccia
gelide della voce. Era freddissimo. Beh non potevo biasimarlo, faceva
davvero
freddo lì fuori. Probabilmente avevo le labbra viola e il
naso rosso.
Ohperfetto!, pensai sarcastica,
immaginandomi il quadro generale della situazione. Probabilmente avevo
le
sembianze di un clown.
“Te
l’avevo detto”, aggiunse con un tono serio e
divertito
nello stesso istante.
Quando mi sentii stringere
al freddo corpo della voce, un
brivido mi percorse dalla testa ai piedi. Metaforicamente parlando,
è ovvio.
Non ero neanche sicura di averli i piedi.
“Scusami”,
mi disse.
Aveva una voce tormentata
adesso, quasi dolorante.
Forse era stanco, forse
pesavo troppo o sentiva freddo. Sta
di fatto che quel tono di voce, di quella voce così
assurdamente perfetta, mi
costrinse finalmente ad alzare lo sguardo verso il suo viso.
Era più vicino
di quanto mi aspettassi, e fu quello che mi
colpì maggiormente all’inizio.
Poi però i miei
occhi si abituarono lentamente alla luce,
sbattendo le palpebre ripetutamente, e quel primo pensiero si perse
nella mia
mente come tutto il resto.
Era la cosa più
bella
che avessi mai visto in tutta la mia vita.
Non era certo una gran
durata, appena sedici anni, ma
comunque abbastanza da poter affermare che di visi del genere non ne
esistevano. Analizzai il suo profilo attentamente, dal basso verso
l’alto,
assimilando il più possibile di quel viso nei miei ricordi,
sicura che sarebbe
scomparso da un momento all’altro, come per magia.
Il suo collo,
così vicino alla mia fronte, era bianco,
snello, ma i muscoli erano ben visibili e apparentemente contratti. La
mandibola era pronunciata, ma non troppo, ed era serrata. Gli zigomi
erano
squadrati, leggermente sporgenti ai lati, in modo da dare al viso
un’aria
misteriosa, e nonostante tutto bellissima.
La bocca era semplicemente
perfetta. Le labbra erano sottili
ma piene, di un colore molto simile al rosa, ma leggermente
più scuro. Il naso
era sottile, perfetto come tutto il resto. La fronte era alta, bianca,
ed era
in parte coperta da piccoli ciuffi ribelli di una chioma
pressoché splendida.
Erano i capelli più belli mai visti. Il colore era davvero
particolare: un
debole castano chiaro, con riflessi rossicci qua e là. Si
potrebbe definire
castano ramato, o bronzo meglio.
Gli
occhi. Gli
occhi li tenni per ultimi perché immaginavo che un viso del
genere avesse occhi
altrettanto stupefacenti. Ma non così. Era un colore, una
sfumatura mai vista:
un forte color oro ambrato, profondo e dai riflessi leggermente
più chiari,
tendenti quasi al verde chiaro. Erano occhi cauti, attenti, cerchiati
da
profonde occhiaie simili ad ustioni.
Le mie dovevano essere
peggio, comunque.
Rimasi a fissarlo per
alcuni secondi, minuti forse, lottando
contro il desiderio di alzare una mano e toccargli il volto. Volevo
parlare,
chiedergli qualcosa, qualunque cosa che mi facesse credere di essere
sveglia e
di non sognare davvero. Ma non riuscivo a trovare la mascella, molto
probabilmente era da qualche parte per terra.
“Stai
bene?”, mi chiese con apprensione.
Stavo bene? Fisicamente,
sì credevo di sì. Mentalmente? Ah,
quello non lo sapevo. Non dopo averlo visto. La mia testa era affollata
da
pensieri confusi, perlopiù stupidi e frivoli, come volerlo
toccare in viso e
sentire che era reale.
“Ehi tu. Sei
sicura di stare bene?”, mi chiese di nuovo con
un sorriso che mi accecò.
Annuii debolmente, ma non
la bevette.
“Okay. Quando
sei in grado di parlare, entriamo”.
Alzai lo sguardo, con
più grinta stavolta della precedente,
e lo fissai in cagnesco per qualche istante.
Era davvero stupido
guardarlo in quel modo, e soprattutto
davvero, davvero difficile.
Come puoi guardare male un
angelo? Restammo così diversi
istanti, il suo sguardo all’inizio cauto. Con il passare dei
secondi però
divenne sempre più divertito, quasi trionfante.
Stava trattenendo un
sorriso, era facile vederlo, poiché gli
angoli della sua bocca erano leggermente piegati
all’insù ed i suoi occhi erano
stretti con un’aria quasi di divertimento.
Ah. Ero buffa, fantastico.
In effetti, chissà come ero
ridotta dopo quella corsa nel bel mezzo della foresta più
buia e fitta
esistente, e chissà poi cosa avevo fatto prima di ritrovarmi
nelle braccia di
quello splendido angelo divertito.
Il pensiero mi fece
trasalire. Che diavolo era successo… prima?
“Cosa
è successo?”, balbettai con voce tremante e stanca.
Mi sentivo come dopo una
lunga notte. La mattina mancava la
voce.
“Niente. Non ti
preoccupare. E’ tutto okay adesso”.
Oh, di sicuro ora era
tutto okay. Ma io avevo bisogno di
sapere cosa era successo prima.
“No. D-Dimmi
cosa è successo prima”, stavo seriamente
congelando.
“Prima di
cosa?”, chiese con voce apparentemente confusa.
Le cose erano due: o era
l’angelo più stupido che ci fosse,
oppure faceva il finto tonto.
O forse... ma
perché avrebbe dovuto mentirmi? Non riuscivo a
capire.
Lo guardai male
più a lungo che potei, prima di dover
distogliere lo sguardo e riassemblare i miei pensieri, ridotti a poco
più di un
groviglio annodato di idee. Scossi la testa debolmente come per
aiutarmi in
tutto ciò e dopodiché lo squadrai nuovamente,
cercando una risposta nei suoi
grandi e brillanti occhi dorati.
Non trovai quello che
stavo cercando, quello no. Ma vidi più
di quanto lui mi avesse mai detto in un istante. C’era
timore, apprensione e...
dolore? Nei suoi occhi all’apparenza solamente divertiti
c’era più di quanto
pensassi.
Immaginai di affondare
nelle sue iridi di quel colore così
improbabile, tanto erano profondi.
“Che
c’è?”, domandò abbassando lo
sguardo e tornando poi
velocemente nei miei occhi.
Aveva
un’espressione diversa ora, più cauta. Stava
nascondendo qualcosa? Non potevo esserne sicura.
“Che cosa
è successo prima… prima della
foresta?”, rimasi sorpresa.
La mia voce era
sorprendentemente decisa ora, sicura. Non
pensavo mi uscisse così.
Beh impressionante.
Sorrisi di quella piccola vittoria
personale.
L’angelo si
accigliò al mio cambio di tono e sorrise
leggermente. Fece un sorriso che avrebbe potuto togliere il respiro a
chiunque,
e lo fece.
Dovetti costringermi a
pensare a respirare.
Okay, meglio.
Tornai a fissarlo, con
interesse, nell’attesa di una
risposta decente.
“Come cosa
è successo? Non… non ti ricordi?”,
chiese. La sua
voce era così bella.
“Ehm, no. Ora mi
puoi dire cosa è successo?”.
Sembravo a mio agio, cosa
difficile stando intrappolata
nelle gelide braccia di un bellissimo sconosciuto chissà
dove.
“Ti
spiegherò tutto dopo. Ora è meglio che entriamo,
stai
gelando. E il tuo braccio…”.
La sua voce era tornata lo
stesso lamento tormentato di
prima.
Il mio braccio? E che
diavolo…? Non volevo allontanare i
miei occhi di un solo centimetro dal suo viso, ma quella frase lasciata
a metà
mi aveva insospettita.
Così abbassai
il viso e rivolsi lo sguardo verso il mio
braccio.
Non ero mai stata una
ragazza molto coraggiosa, o almeno non
per questo genere di cose. Ero il tipo di persona che poteva sopportare
facilmente la vista del sangue, a patto che fosse di qualcun altro. Ma
quello
era ovviamente il mio braccio. E quello era sicuramente il mio sangue.
Successe tutto come se
qualcuno avesse premuto il tasto del
rallentatore: sembrava di vivere una moviola calcistica.
I miei occhi si sfocarono,
come se stessi giocando con il
tasto dello zoom di una videocamera.
“Ehi, stai bene?
Rispondi. Per favore, rispondi”. Ma c’era
qualcosa che non andava.
La sua voce, pur sempre
bellissima nella confusione generale
-o mia più che altro-, ora era distante e sembrava perdersi
nel ronzio di
sottofondo che proveniva dalla mia testa.
Mi sentii cadere, o
precipitare sarebbe più azzeccato, anche
se sapevo di essere del tutto ferma.
Poi il buio si chiuse
intorno a me.
Posterò una
volta ogni una/due settimane. Lasciatemi un commento :) Grazie.
Bene, con
questo si sale a quota due. Che dire...spero che il capitolo sia di
vostro gradimento, anche se non rientra nei miei preferiti. Ditemi voi
:)
Capitolo 2.
Presentazioni.
Chissà quanto era
passato. Secondi, minuti, ore? Non lo
sapevo.
Perché doveva essere
tutto così confuso ultimamente? Beh,
almeno questa volta mi ricordavo cosa mi era successo prima.
Non volevo aprire gli occhi. O
meglio, avrei voluto per
poter vedere nuovamente il suo viso, ma non volevo aprire gli occhi per
paura. Io
e il coraggio eravamo due entità a parte.
Due cose mi ronzavano in testa:
cosa era successo al mio
braccio?
No, pensiero sbagliato.
Dopotutto era per quello che avevo
perso conoscenza.
Secondo, dov’era lui?
Il mio splendido angelo che aveva
assistito a quella scena patetica.
E se… se il sogno
fosse finito? Se adesso avessi aperto gli
occhi e mi fossi ritrovata nella mia piccola camera infantile, nel mio
vecchio
letto?
Anche questo non era un gran
pensiero. Ma era sempre meglio
di pensare che l’angelo se ne fosse andato lasciandomi qui.
Non lo sentivo. Non
sentivo più le sue braccia gelide intorno a me, non sentivo
più il suo respiro
regolare vicino al mio viso congelato. Provai ad aprire gli occhi e
stiracchiarmi un poco.
Mi sentivo rigida, intorpidita.
I miei muscoli mi
implorarono di stare ferma.
“Bentornata fra
noi”, disse una nuova voce. Non la
riconobbi.
Non era certo quella che avrei
desiderato sentire in quel
momento, ma era altrettanto musicale e bella. Era anche alquanto
divertita.
Un colpo di tosse e dei passi.
Spalancai in un attimo gli
occhi e cercai di mettere a fuoco
quello che stava intorno a me.
La stanza era ampia, chiara,
spaziosa. Non c’erano molti
mobili, solo un paio di poltrone e un tavolino, dove poggiava un enorme
televisore al plasma.
I muri erano completamente
bianchi con diversi quadri alle
pareti. Sul lato della stanza più lontano da me
c’era una grandissima vetrata
che rifletteva la scena che mi comprendeva.
Ma non ero da sola.
Davanti a me c’erano
due figure. Una era davvero...gigantesca.
Non avrei saputo descriverla in altro modo. Era un ragazzo sulla
ventina, forse
meno, con i capelli scuri, corti e ricci.
Era pallidissimo, e la sua
pelle contrastava con quel colore
di capelli così scuro. Gli occhi non erano belli come quelli
dell’angelo, ma il
colore era davvero molto simile. Uhm, forse erano fratelli.
Quindi… quindi
forse non mi aveva abbandonata. Anzi, mi aveva portata in casa sua e
lasciata
riposare.
Che sensazione strana,
perché avrebbe dovuto farmi così
tanto piacere una cosa del genere?
Non ci badai molto. Piuttosto
mi concentrai sull’altra
figura che faceva capolino da dietro le enormi spalle del gigantesco
sconosciuto. La fissai attentamente. Era forse una delle persone
più minuscole
che avessi mai visto: sarà stata alta come una bambina di
undici, dodici anni.
Sembrava una bambola. La sua carnagione era dello stesso tipo di quella
del
gigante, ma non si assomigliavano molto questa volta. Gli occhi della
bambola
erano scuri, con angoli tendenti al viola, le occhiaie sotto questi
molto
profonde, simili a vere e proprie ustioni. Tuttavia, il pallore era
identico.
“Ciao”,
cinguettò allegramente la bambola, con una voce che
sarebbe potuta provenire da un angelo, e poi sorrise ampiamente.
La mia mascella si
spalancò per la sorpresa, mentre cercavo
di tirarmi su da quello che doveva essere un divano.
Una risatina angelica eruppe
dalle sottili labbra di
quell’esile figura.
“Mi chiamo Alice. E
lui è Emmett. Non ti preoccupare, è
grosso ma non fa niente”, disse dando una leggera gomitata
giocosa al gigante
di fianco a lei.
Un’altra risatina.
Poi mi porse la mano.
Ehm. Dovevo stringerla? Non ero
sicura di esserne capace. La
mia testa aveva ripreso a fischiare e ronzare, mentre le pareti della
stanza
non stavano più ferme dove sarebbero dovute essere.
Una voce riportò
tutto al suo posto. La voce, per
essere più chiari.
Mi voltai di scatto, forse
troppo velocemente perché la mia
vista si annebbiò un secondo, e lui era là, in
cima alle scale, che ci fissava
con sguardo divertito e uno splendido sorriso agli angoli delle labbra.
Il mio
angelo. Non mi aveva abbandonata. Il sollievo
m’investì come un treno in corsa.
“Alice”,
disse, “non dovresti traumatizzare la nostra nuova
arrivata prima del tempo. Porta via Emm di lì”.
Sembrava davvero divertito
dalla mia espressione. Mi sforzai
di ritrovare la mascella e la chiusi con forza.
“Okay. Ai suoi
ordini”, lo prese in giro Alice.
“Ma vedi di sbrigarti
a spiegarle tutto. Non so quanto tempo
tu abbia”.
Il repentino cambio
d’espressione del bell’angelo mi colpì.
Ora il suo viso era contratto, come bloccato in una maschera di
preoccupazione
evidente.
A cosa si riferiva Alice di
così preoccupante?
“Non
preoccuparti”, disse una nuova voce, “adesso ti
spiegherà tutto”. E come...?
Probabilmente non era difficile
capire la confusione che
avevo in quel momento nella mia testa. L’avevo sicuramente
stampata in faccia. Tuttavia,
mi stupii.
“Io sono Jasper
comunque. Molto piacere”.
Era un ragazzo molto
più che bello. Aveva i capelli
biondissimi e dall’aspetto leonino, gli occhi scuri e cauti
come quelli della
piccola Alice. E fu proprio al suo lato che si mise. Rimase a fissarmi
come in
attesa di una risposta, o semplicemente con forte curiosità
ed interesse.
Era strano, fastidioso, essere
guardati così. Forse voleva
che mi presentassi anche io, ma non avevo la forza di farlo. Tornai a
concentrarmi sul viso imperturbabile dell’angelo.
“Jazz lasciala stare.
Cerca solo di calmarla”, una gelida
voce femminile lo bacchettò.
Alzai lo sguardo. Una semplice
occhiata a quella figura
slanciata mi fece venire voglia di seppellirmi: era splendida, molto
più che
bellissima. I lunghi capelli biondi le arrivavano a metà
della schiena con
piccoli e ben definiti boccoli argentei. Il suo viso era
impressionante, da togliere
il respiro, i suoi occhi della stessa tonalità di quelli di
Emmett, il gigante.
“Rose, fatti gli
affari tuoi e sparisci”, le rispose in modo
acido Jasper.
Erano divertenti, a pensarci,
ma io avevo altro cui pensare.
Fissai il mio sguardo in quello dell’angelo, sperando di non
sfigurare troppo
con quella “Rose”.
“Ehi ragazzi siamo
appena tornati, che state…”, una calda
voce cominciò a dire. Di donna sicuramente.
Una coppia entrò
nella stanza, ormai affollata, notevolmente
confusi dalla mia presenza almeno quanto lo potevo essere io.
“Alice che
cosa...?”, disse la giovane donna appena
comparsa.
I suoi capelli color caramello
assunsero strani riflessi a
contatto con la luce del lampadario, alcuni rossicci, altri tendenti
all’oro.
Aveva dei lineamenti gentili, amorevoli, ma non poteva essere una
madre. Era
troppo giovane, o almeno lo era per essere la madre di almeno uno dei
presenti.
Stringeva la mano di un giovane uomo, ovviamente bellissimo.
Doveva essere una
qualità di famiglia.
Era biondissimo, i suoi occhi
quasi dello stesso colore dei
capelli.
Sbattei un paio di volte gli
occhi alla vista di quella
figura, più vicina ad essere un protagonista di una fiaba
che della realtà. Mi
sorrise.
Aveva un’espressione
saggia, con la quale dimostrava
sicuramente più anni di quelli che aveva.
Beh, se lui era il padre, avevo
capito da dove arrivava
tutta questa perfezione.
“Ah, no! Io stavolta
non c’entro, è stato lui”, disse Alice
indicando
dietro di me, con il sorriso beffardo di un bambino che ha appena
incastrato il
compagno di classe.
Notai l’uomo appena
entrato annuire nella mia direzione con
espressione seria, ma avrei giurato che i suoi occhi non fossero
concentrati su
di me. Ma che...?
“Sì, colpa
mia, Carlisle. Mi dispiace”, bisbigliò al mio
orecchio.
Sobbalzai, schiacciandomi
contro lo schienale del divano.
Ah! Come diavolo era arrivato
così velocemente? Non l’avevo
sentito.
Il mio cuore riprese a battere
al doppio della velocità
consentita. Era inginocchiato dietro il basso divanetto dove ero
raggomitolata,
le braccia appoggiate sullo schienale bianco che s’intonava
perfettamente al
colore della sua pelle, il viso rivolto verso il mio con uno sguardo
acceso da
un misto di forte curiosità e frustrazione. Sembrava una
statua scolpita nel
marmo, con brillanti gemme incastonate nel viso al posto degli occhi.
“Credo sia meglio che
ora le spieghi qualche cosa”, disse
Jasper dal fondo della grande stanza. Avevo la vivida impressione che
stesse
cercando di evitarmi, starmi lontano. Che strano.
Non avevo capito a chi o cosa
si riferisse finché il mio
angelo non si scostò dal divano e si mise in piedi. Sembrava
ancora più bello
della prima volta che l’avevo visto.
Annuì brevemente
senza alzare lo sguardo dal mio viso,
scioccato dalla sua perfezione.
“Carlisle, potreste
lasciarci un secondo da soli? Devo
davvero parlarle”.
Perché la sua voce
angelica era così distorta dalla
preoccupazione? Mi faceva stare male.
Strinsi gli occhi e lo fissai
con un’intensità ed una
curiosità che avrebbero sicuramente turbato chiunque. Ma non
l’angelo, lui
continuava a guardarmi negli occhi con la stessa espressione di prima,
forse
solo un po’ confuso dalla mia reazione.
Un sorriso gli
spuntò agli angoli delle labbra e mi tolse il
fiato. Fui costretta a distogliere lo sguardo, era troppo.
Alzai il viso appena in tempo
per notare uno scambio di
sguardi cauti tra gli altri presenti, che poi cominciarono ad avviarsi
verso
quella che probabilmente era la sala da pranzo.
Rimasero per ultimi Alice e
Carlisle. Quest’ultimo mi
sorrise caldamente e si allontanò con una grazia sovrumana.
Sembrava non
toccasse nemmeno terra.
La piccola bambolina dai
capelli corvini rimase invece a
fissarmi con sguardo assente, vuoto. Non ero poi così sicura
che stesse
guardando proprio me, a dir la verità. Qualche secondo dopo
entrambi, l’angelo
e Alice, ansimarono in sincrono.
Uno sguardo scioccato e pieno
d’ansia attraversò il loro
splendido viso.
“Tredici minuti,
Edward”, disse Alice con voce angosciata.
Edward. Edward. Edward. Ecco
come si chiamava il mio angelo.
Non era un nome molto comune,
ma era comunque perfetto per
lui. Adesso almeno il mio angelo aveva un nome. Edward.
Dopo aver fantasticato qualche
secondo ancora su quel nome,
un lieve spostamento d’aria alle mie spalle mi
riportò alla realtà.
Tredici minuti? Che cosa voleva
dire? Perché tutti dovevano
essere così dannatamente criptici?
Era snervante. E poi lui era
lì, proprio di fianco a me.
Si sedette sul bracciolo
più lontano rispetto a me,
sorridendo lievemente. Era un sorriso forzato, non genuino. Questa cosa
mi
lasciò perplessa. Avevo forse fatto qualcosa di sbagliato?
Rimasi qualche secondo a
rimuginare su quello che era
successo, sull’impossibilità di quella situazione
e cercai di ricordarmi se
avevo per caso bevuto la sera prima.
Quello avrebbe spiegato sia il
mio momentaneo black-out, sia
perché la mia immaginazione stesse galoppando senza freno a
quel modo. Non
riuscivo a credere a quello che mi stava succedendo.
“Ciao”, mi
disse, interrompendo i miei pensieri.
Dopo tutto quello che era
successo, quel semplice saluto
sembrava provenire da un altro mondo.
“Stai meglio
ora?”.
Aveva un fare divertito adesso,
mi stava decisamente
prendendo in giro per la scena patetica dello svenimento.
Abbassai lo sguardo, colpevole,
e mi sentii leggermente
arrossire.
Non sentendo arrivare una
risposta, Edward andò avanti nel
suo monologo.
“Beh, lo spero.
Comunque io sono Edward, molto piacere, e tu
sei…?”.
Quella volta ci misi un
po’ a decifrare ogni parola che
aveva pronunciato, mi sentivo ancora parecchio confusa. Non alzai lo
sguardo,
né tantomeno il viso.
Riuscii tuttavia a notare che
stava giocherellando con le
sue lunghe dita, nell’attesa di una risposta decente.
Tredici
minuti, mi
ricordai. Se avevo solo tredici miseri minuti, non potevo permettermi
di
perderli così. Il mio nome sembrava una cosa così
lontana dalla realtà in quel
luogo popolato da angeli. Presi fiato ed espirai velocemente.
“Elizabeth”,
cominciai a balbettare nervosamente.
“Ma mi chiamano El,
però puoi chiamarmi come vuoi, non c’è
problema...”.
Perché dovevo
parlare a vanvera quando andavo in panico?
Il mio farfuglio si
andò perdendo e non sentendo una
risposta alzai lo sguardo.
Il suo volto era a dir poco
stupito, mentre mi squadrava con
curiosità. Si ricompose velocemente e mi sorrise, questa
volta in modo più
naturale e spontaneo.
“Che
c’è che non va?”, chiesi con fare
sospetto.
Mi dava un senso di fastidio il
modo in cui mi fissava, con
un sorriso truffatore.
“Non è
niente”, scrollò leggermente le spalle.
“Niente,
davvero, è solo che...”
Lasciò la frase in
sospeso. Era in grado di completare una
frase? Ero a dir poco esasperata, dovevo darmi una calmata.
“Che...?”,
lo esortai, forse con fin troppo interesse.
“Hai lo stesso nome
di mia madre, la mia vera madre
intendo”.
Ah. Quindi era stato adottato.
Eppure si somigliava molto con
Carlisle, soprattutto per la
carnagione e gli occhi.
“Sì, sono
stato adottato qualche tempo fa”, fece eco ai miei
pensieri. “Io e gli altri, tutti quanti, siamo stati adottati
da Esme e
Carlisle”.
Ma come...?
Non mi sembrava di aver
parlato. Forse ero troppo stanca e
confusa per rendermene conto, e fino a quel momento non avevo fatto
altro che
parlare e parlare invece di tenermi i miei pensieri per me. Questo
spiegava gli
sguardi curiosi e straniti di tutti. Oddio no! E se avevo detto tutto
quello
che avevo pensato su di lui? Non volevo pensarci. Soprattutto se poi
rischiavo
di pronunciarlo.
Rise della mia espressione
terrorizzata.
“No, non sei tu, non
ti preoccupare”.
Ecco, mi ero persa di nuovo. Mi
leggeva nel pensiero?
Appena quel pensiero
colpì la mia mente, lo shock gli
attraversò il volto e capii di avere ragione.
Mi leggeva nel pensiero, e
probabilmente non solo il mio. Ne ero certa.
Ne cercai la prova.
Che
cosa è successo
prima? Che cosa significa tredici minuti? Rispondimi.
Okay, mi sentivo una perfetta
cretina.
Edward scrollò le
spalle leggermente e mi sorrise. Aveva
sentito, oh sì che aveva sentito.
Parla,
lo so che hai
capito, pensai.
Ancora un sorriso, poi
sospirò rassegnato.
“Perspicace. Credo
che nessuno ci sia mai arrivato così
velocemente”.
Gli feci un sorriso, che
tendeva più ad una smorfia
probabilmente.
Rise della mia faccia.
Ah ah.
Molto
divertente, esilarante, davvero, pensai con sarcasmo.
“Scusami,
è solo che non ci sono abituato. E’
strano”.
Rimanemmo a fissarci per
diversi istanti, i nostri respiri a
scandire il tempo, il battito del mio cuore troppo irregolare da
seguire a
causa della sua presenza.
Un pensiero insistente mi
metteva una strana impazienza.
Tic-tac. Tic-tac. Tredici
minuti, tredici minuti.
Chissà quanto tempo
rimaneva ancora, e soprattutto cosa
significava.
Abbassai lo sguardo, sicura
ormai che una risposta non mi sarebbe
arrivata, e rimasi a rimuginare sulle mie domande, cercando di non
pensare
troppo “ad alta voce”.
Poi finalmente parlò.
Mi fa sempre
molto piacere sentire i vostri pareri, che siano pro o contro
ciò che scrivo. Quindi non abbiate "timore" di offendermi in
qualche modo, so accettare una critica e farne tesoro. In breve, vi
prego lasciate un commento!
Alloooora...ecco
il numero 3. Posto con un po' di anticipo perchè non so se
domani sarò in grado di farlo.
E' piuttosto lunghetto rispetto ai due precedenti, e
succedono parecchie cose. Ricordo che io sono tutta orecchie(o occhi)
per quanto riguarda i commenti, il problema è che non
c'è
nessuno che mi si fila. Dettagli! Ok, la pianto. A voi :) P.s.
Siccome sono un genio,
ovviamente ho dimenticato di inserire la prefazione la prima volta che
ho postato. Ho modificato il capitolo ora, quindi se siete curiosi
potete sempre farci un salto veloce :)
Capitolo 3. Incontro
inatteso.
“Vedi... è
successo tutto molto velocemente”.
Le sue parole si rincorrevano,
come se avesse fretta di
pronunciarle. Dovetti concentrarmi al meglio per poterle capire tutte.
“Io dovevo andare con
Alice a... in giro, ecco. Emmett però l’ha
chiamata all’ultimo secondo e Alice è dovuta
andare con lui. E io ho girovagato
per un po’ da solo fino a quando non ho trovato quello che
cercavo.”
La mia testa era un gigantesco
punto di domanda. Avevo la
sensazione di perdermi in un bicchiere d’acqua. Cosa cercava?
E poi non mi ero fatta sfuggire
la sua esitazione su quello
che dovevano fare lui e Alice. Così lasciai spazio alle
domande nei miei
pensieri, sicura che se avessi parlato sarebbe stato peggio.
Lui sorrise.
“Okay, forse
è meglio se ricomincio”.
Credo
anch’io. Grazie
mille.
Mi sorrise ampiamente e
sospirò.
Ti
ascolto, pensai.
Lui annuì e riprese.
“Beh ecco... non
posso raccontarti esattamente quello che è
successo. Ma sono pronto a scommettere che ci arriverai da sola nel
giro di
poco tempo. In ogni caso, stavo vagando per la foresta quando ti ho
sentita...urlare”.
La sua voce si spezzò, incrinandosi su
quell’ultima parola.
“Non sapevo cosa
stesse succedendo perché non ti sentivo,
non riuscivo a percepire i tuoi pensieri, il tuo odore... E’
stato davvero
frustrante e difficile per me. Seguivo solo i tuoi urli, erano grida
terrorizzate, di dolore”.
Sembrò quasi tremare
al ricordo di quell’immagine. La cosa
più strana era il fatto che io non mi ricordassi niente di
quello che era
successo.
Vai
avanti, lo
esortai.
“Quando sono arrivato
e ti ho visto là, per terra, è stato
come...come essere colpiti da un fulmine in pieno petto. Eri totalmente
indifesa e stavi soffrendo a causa…”.
Un ringhio parve nascere dal
centro del suo torace e la cosa
mi fece indietreggiare impercettibilmente.
“Non potevo tollerare
una cosa simile, dovevo… volevo proteggerti.
Ho dovuto farlo e... lui era lì, vicino a te, con quello
sguardo…”. Scosse la
testa come per scacciare velocemente il pensiero.
Io però mi ero persa
di nuovo. Chi era lì?
Poi…
“tredici minuti, Edward” aveva detto Alice. Forse
non
si riferiva a me. Forse si riferiva a quel lui.
Lo sguardo di Edward mi fece
capire che ci avevo azzeccato
di nuovo, ma questa volta non ne fui felice. C’era qualcuno,
qualcuno di
pericoloso e ignoto, che aveva cercato di farmi del male e sembrava
dovesse
tornare.
Edward,
pensai. Vai avanti, racconta. Devo
sapere.
Lui obbedì con un
piccolo cenno del capo.
“Era un Ubach.
E’ una…specie...molto pericolosa. Anche noi
se possiamo gli stiamo alla larga. Sono estinti in questa zona da circa
due
secoli, o almeno così pensavamo”. Il suo umore era
cambiato di nuovo. Sembrava
mi stesse prendendo in giro al momento.
Che cavolo...? Oh certo, io ero
l’unica a poter attirare incidenti
del genere. Mia sorella ne sarebbe stata entusiasta, aveva sempre
portato
avanti quella teoria con fermezza.
Davvero
divertente,
complimenti.
Rise del mio sarcasmo.
“Davvero anche tua
sorella lo pensa? Allora non è una teoria
così tanto stupida”. La sua voce era notevolmente
divertita, mi stava prendendo
in giro. Decisamente.
Grazie
mille.
Beh,
quindi?, lo
esortai. Sono rimasta al mio quasi
omicidio, un’ombra di acidità evidente
nei miei pensieri. Edward s’incupì
nuovamente.
“In ogni caso, non
era molto potente. Era assetato e non
aveva molte forze in corpo. Così quando l’ho... mi
sono accertato che non potesse
più ferirti, ti ho presa e ti ho portata qui. Fine del
racconto”.
“Tu cosa
ricordi?”, mi chiese con vivo interesse e un’ombra
di preoccupazione dopo una breve pausa.
Avevo la gola secca, la voce
probabilmente bloccata nella
gola. Così preferii mostrargli quello che mi ricordavo,
cercando di evitare i
miei pensieri su di lui.
Una domanda mi sorse spontanea.
“Come mi sono fatta
questo?”, sollevai il braccio che aveva
causato quel ridicolo svenimento come prova.
Avevo ragione, la mia voce era
orribile. Era una via di
mezzo tra una cornacchia ed un’anziana portinaia. Mi schiarii
la voce
inutilmente ed attesi la mia risposta.
“Quella è
solamente una lieve frattura. Niente di grave,
passerà in un paio di settimane”.
Rotta. Non ero mai stata molto
attenta durante le lezioni di
scienze, ma ero certa che una frattura non sanguinasse. Ma allora il
sangue…?
Abbassai immediatamente lo
sguardo sul mio braccio.
In effetti non era ferito, era
soltanto gonfio e... ingessato?
Quando l’avevano fatto? Probabilmente ero rimasta fuori gioco
per più tempo di
quanto pensassi.
“E’ stata
Rosalie. Non dirle che te l’ho detto però, vuole
sembrare acida a tutti i costi”.
“E comunque solo una
mezz’oretta, non di più. Mi hai fatto
venire un bello spavento”, aggiunse subito dopo.
Stava tentando di distrarmi, lo
sentivo. Era palese.
Il
sangue, pensai,
da dove veniva tutto quel sangue? Un
piccolo brivido mi percorse la schiena al solo pensare quella frase. Di chi era?
“Era...
tuo”, sembrava avere difficoltà a pronunciare
quelle
parole.
Ma se il sangue era mio, e non
proveniva dal braccio, allora...?
Non ci capivo niente.
Sputa
il rospo, ora.
Ordinai nei miei pensieri, cercando di sembrare più decisa
di quanto non fossi
realmente.
“Era tuo.
Solo…solo non veniva dal tuo braccio, ecco”.
Il mio cervello era bloccato,
sembrava avere raggiunto il
limite massimo di informazioni concesse in una giornata. Non riuscivo a
capire
totalmente il senso delle sue parole, pronunciate con così
tanta difficoltà e
disprezzo.
Istintivamente, e
perlopiù inconsciamente, mi portai le mani
al collo, come per sorreggermi. Fu allora che mi accorsi di un leggero
bozzo
sulla superficie liscia della mia pelle, come una cicatrice. Non avevo
cicatrici, almeno che io sapessi. Era piccola, ma sicuramente visibile.
Aveva
una forma parecchio strana, come “doppia”. Feci
scorrere i polpastrelli più e
più volte su quel nuovo segno prima di arrivarci.
La testa aveva ripreso a
girare, più forte di prima. Il
sangue era mio, ma non proveniva dal mio braccio rotto. E avevo una
strana,
nuova cicatrice alla base del collo, proprio all’altezza
della gola…
Non mi veniva in mente
assolutamente nulla. Niente di
diverso dal pensiero che mi aveva investito qualche secondo prima, con
la
violenza di un ariete.
Ritrassi la mano lentamente,
restando impigliata tra due
ciocche di capelli incollate tra loro. Una smorfia disgustata si
dipinse sul
mio volto quando mi resi conto che il collante altro non era che il mio
stesso
sangue. Rimasi a fissare le mie dita, sconcertata.
Riuscivo solo a pensare,
pensare, e ancora pensare,
completamente sconcertata e disorientata, dalla frase di poco prima.
In
ogni caso, non era
molto potente. Era assetato e non aveva molte forze in corpo.
Così aveva
detto. Era assetato, aveva sete. Non
una normale sete, una totalmente differente e sconosciuta, almeno a me.
Non riuscivo, non potevo e non
volevo ammettere di esserci
finalmente arrivata. Avevo capito.
Inspirai ed espirai
velocemente, il panico che cominciava ad
affiorare.
“Vampiro”,
mormorai con un filo di voce.
Non seppi esattamente per
quanto rimanemmo a guardarci l’un
l’altro.
Edward era pietrificato sul
bracciolo bianco del divano, il
più distante possibile da me, fissandomi con occhi allo
stesso tempo vuoti e
colmi di sconforto. Non sembrava respirare. Era totalmente,
maledettamente
immobile.
Non fui capace di concentrarmi,
rimasi solo ad osservare i
suoi lineamenti perfetti, sperando che quell’incredibile
creatura, ora più che
mai simile ad una statua di marmo che ad una persona, riprendesse vita.
Un lieve mormorio proveniva
dalla stanza adiacente. Chissà
se avevano ascoltato la strana conversazione appena conclusa,
chissà se
sapevano che avevo capito.
Rimasi in attesa, in ascolto.
Poco dopo, una sedia
sembrò scorrere lieve contro il
pavimento, poi passi leggeri sembrarono avvicinarsi. Alice
entrò nel salotto,
dove io e Edward eravamo. Mi voltai automaticamente e cercai di
ricompormi,
mentre la statua rimase impietrita dov’era.
“Tempo
scaduto”, cinguettò soavemente, con fin troppa
allegria impressa nella sue voce squillante.
Poi il suo sguardo si
bloccò su quello del fratello ed il
suo umore si affievolì visibilmente.
“Beh, vedo che
comunque avete... finito. Sei stata più
veloce di quello che avevo previsto, El”.
Sul finale la sua voce era
tornata della stessa tonalità
della precedente: euforica, ammaliante.
Il suo sguardo si perse
improvvisamente nel vuoto dietro di
me, ed un’espressione di terrore inondò il suo
viso. Praticamente nello stesso
istante, Edward riprese vita, scattando in piedi ad una
velocità impossibile,
un ringhio minaccioso nel suo petto.
“Sono qui,
andiamo.”
Poi si voltò per la
prima volta dopo troppo tempo verso di
me. Si accigliò.
“No. Alice, resta tu
con lei, e anche Rose. Non voglio che
rimanga senza protezione neanche un secondo”.
Stava probabilmente rispondendo
ad una domanda che mi ero
persa.
Alice annuì con
decisione, mi afferrò il braccio e mi
trascinò verso le lunghe scale curvilinee che portavano al
piano di sopra.
“Aspetta”,
bisbigliai, sicura che mi potesse sentire.
“Solo un secondo, uno
solo”, implorai nuovamente, visto che
non allentava la presa.
La guardai in faccia,
supplichevole. “Per favore”.
Annuì nuovamente, ma
con meno convinzione di quella che
aveva usato con Edward, e mi lasciò andare.
Mi affrettai verso di lui,
cercando di mantenermi calma e
concentrata. Non sapevo bene cosa avrei doluto dirgli, ma dovevo dirgli
qualcosa, qualunque cosa.
“Edward”,
chiamai con un filo di voce.
Si voltò di scatto,
forse stupefatto dal suono della mia
voce.
Probabilmente aveva pensato che
non avrei mai più voluto
vederlo dopo aver scoperto che il mio assalitore misterioso era un
vampiro. Mi
risultava difficile anche solo pensarlo.
E Edward era stato capace di
metterlo fuori gioco. Non ero
stupida, forse lenta, confusa, ma non stupida.
Il suo sguardo, ancora una
volta, fu per me più di mille
parole.
C’era timore,
incertezza, sconforto, paura, ma anche
sollievo e fierezza. Era bellissimo.
Oops!
Il sorriso
truffatore che spuntò agli angoli della sua bocca mi fece
capire che avevo
pensato troppo “a voce alta”.
Sorrisi imbarazzata, abbassando
il viso e cercando di
nasconderlo al meglio nella vecchia felpa blu che indossavo. Arrossii
violentemente e poi sospirai.
Non era certo colpa mia se lui
non si faceva i fatti suoi.
Mi fece una smorfia. Beh era
bellissimo lo stesso,
impiccione o no. Stavolta però pensai piano, o almeno ci
provai. Sgranò gli
occhi.
“Che
c’è?”, chiesi sbigottita.
“Ma come
fai?”, domandò Edward sorpreso.
Non capivo, cosa non del tutto
strana quel giorno.
Ad interrompermi, mentre
rimuginavo sulla sua frase a metà,
il ringhio ostile di qualcun altro vicino a me. Mi voltai, spaventata.
Oh.
Era solo
Emmett. Beh, solo era una parola
grossa.
Ma c’era qualcosa di
diverso in lui, nel suo atteggiamento.
In salotto, poco prima, mi era sembrato un ragazzo simpatico,
amichevole,
innocuo. Ora invece sembrava come... invecchiato.
Non seppi darmi una spiegazione
o una definizione più
efficace. Il suo sguardo era duro, ostile e minaccioso. La sua
posizione
leggermente accucciata sulle ginocchia, in attesa. Sembrava pronto a
scattare
da un momento all’altro, e sapere per cosa era pronto non mi
fece sentire
meglio. Tutt’altro. Percepii un movimento
all’esterno della casa ed in un
secondo, forse meno, mi furono tutti intorno, Edward al mio fianco, le
sue
braccia protettive intorno a me.
“Alice”,
bisbigliò Edward angosciato.
Lei scosse la testa,
tristemente.
“Non
c’è più tempo. Sono qui”.
Il ringhio feroce di Edward
fece eco a quello dei presenti,
ora tutti accucciati nella medesima posizione accanto a me.
Le sue braccia mi si strinsero
intorno ed un brivido mi
percorse.
“Non
permetterò che ti accada nulla, ok? Cerca solo di stare
il più ferma possibile e vedrai che andrà tutto
bene”, sussurrò al mio
orecchio, in modo che nessun altro potesse sentirlo, parlando
più a se stesso
che a me probabilmente.
Sembrava si stesse auto
convincendo della sua affermazione,
invece di tranquillizzare me. Ma io non avevo bisogno di
rassicurazioni, non
lì, non tra le sue gelide braccia.
Toc-toc.
Qualcuno
bussò alla porta e tutti si pietrificarono
all’istante, me compresa, il cuore a
mille ed il respiro irregolare.
Okay, forse ero un
po’ nervosa.
Quel rumore mi
lasciò perplessa. Qualunque nemico fosse,
almeno era educato.
Carlisle prese un respiro a
pieni polmoni e si avvicinò alla
porta, esitante. Con un rapido movimento fece scattare la serratura ed
aprì la
porta, un sorriso amichevole era comparso sul suo viso.
Sapeva recitare bene, sembrava
davvero genuino.
“Ben
arrivati”, disse caldamente Carlisle, porgendo la sua mano
destra agli ospiti indesiderati.
“Vi stavamo
aspettando, prego entrate pure”.
“E’
da parecchio che
non ti vedo Carlisle, saranno quasi due o trecento anni. Credevo ti
fossi
dimenticato di me”, rispose una voce leggera
all’esterno.
Sembrava amichevole, strano. Me
l’ero immaginata un po’
diversa quella scena.
“Oh
non potrei mai,
Amos”, lo interruppe Carlisle, “Sapevo che eri
rimasto in Scozia e non sono più
venuto a cercarti non avendone l’occasione, di questo mi
dispiace. Spero tu
possa scusarmi”.
“Non preoccuparti,
Carlisle. So quello che stai pensando e
non vedo nessuna cattiva intenzione. E comunque sarei potuto venire io.
Non hai
niente di cui scusarti”.
La voce ora era sensibilmente
più vicina, ormai era prossima
al salotto.
“Questo è
certo, Amos. Lo sai meglio di molti altri”, disse
scherzosamente Carlisle.
Ma cosa significava? Mi voltai
verso Edward, cercando di
incontrare il suo sguardo. Anche lui…?
Senza distogliere lo sguardo
dalla sala da pranzo, da dove
proveniva la voce sconosciuta, Edward annuì debolmente.
Ma come era possibile?! Avevo
sempre vissuto con la certezza
che le fiabe e le leggende fossero storie inventate, raccontate ai
bambini per
tenerli alla larga dai pericoli.
La mia testa era sul punto di
esplodere. Anche lui leggeva
nel pensiero.
“Oh, ma
c’è un’umana qui con voi, vedo.
Interessante”.
Un lieve sibilo
lasciò le labbra di Edward.
La voce di Amos era
vicinissima, ormai a qualche metro, non
di più, ed il mio cuore rispose a
quell’inevitabile verità aumentando il
battito oltre il limite consentito. Mi strinsi nelle braccia di Edward,
e lui
mi tenne stretta al suo petto.
“Ma questo lo sai
già Amos”, disse Carlisle con ansia,
“Mio
figlio mi ha raccontato quello che è successo nella
foresta”.
“Ah. Beh allora
saprai anche che probabilmente questa non è
solamente una visita di cortesia, caro Carlisle”.
Un brivido mi percorse la
schiena ed Edward sfregò la sua
mano sul braccio, nel tentativo di confortarmi.
“So anche questo, ma
spero di poterti far cambiare idea,
Amos. Quella ragazzina non ha fatto niente di male, e tu lo sai meglio
di me”.
Seguì una breve
pausa, uno strano silenzio assordante che
minacciava di farmi impazzire.
Il mio battito ormai era a dir
poco udibile. Sentii qualcuno
ispirare profondamente, mentre tutti noi attendevamo, immobili e tesi.
“Amos”,
disse Carlisle spezzando il silenzio, “non puoi
ucciderla”.
Non potei impedirmi di
sobbalzare a quella frase.
“E’ una
Hoser, Carlisle! Ed è umana”,
sibilò Amos, con evidente disprezzo ed un’ombra di
urgenza
che non compresi.
Stavano parlando di me? Non
capivo.
Quando Amos
pronunciò quelle parole, Edward ansimò e mi
lasciò andare, facendo ricadere le sue braccia invernali
lungo i fianchi.
Stupita, distolsi lo sguardo dalla sala da pranzo e mi voltai verso di
lui. Il
suo volto era scioccato, angosciato. Tormentato.
Che cosa era appena successo?
Tutti gli altri avevano la
stessa espressione allarmata che
era presente sul viso di Edward, gli occhi spaventati puntati su di me.
Tutti
tranne Alice, che mi guardava sorridendo ampiamente come poco prima.
“Questo... questo non
lo immaginavo, Amos. Ma cosa dovremmo
fare, lasciarla uccidere dalla tua famiglia? Sai che non potrei mai
accettarlo”, riprese Carlisle, interrompendo i miei pensieri.
“Sai però
che è un pericolo per me quanto lo è per te e la
mia famiglia. Forse anche di più. Non voglio correre rischi
inutili. Ora potrei
vederla?”.
Sul finire della frase la sua
voce era passata da amichevole
e tranquilla a sinistra ed impaziente. D’un tratto, mi
sembrò tutto ovvio. Voleva
vedere me. Un altro brivido mi percorse la schiena, più
intenso questa volta,
poiché non c’erano più le braccia di
Edward a tenermi al sicuro.
Stavo ancora cercando di
incontrare il suo sguardo
tormentato, quando dei passi, sebbene leggerissimi, richiamarono la mia
attenzione. Mi voltai verso quel nuovo rumore. Carlisle era entrato nel
salotto, al suo fianco una figura alta e scura.
Misi a fuoco i lineamenti,
aspettandomi chissà quale segno
di pericolo, da bravo nemico qual era per me. Tuttavia, non ne trovai.
Era alto, slanciato ma robusto.
Avrà avuto sì e no la stessa
età di Carlisle, ma il suo volto appariva segnato,
conferendogli un aspetto più
antico. Aveva i capelli molto scuri, bagnati dalla pioggia, che gli
incorniciavano il viso. I suoi occhi erano di un terrificante e
sconvolgente
rosso cremisi ed al mio sussulto si immobilizzarono su di me. Era
bellissimo,
ma aveva un’aria spettrale. La sua pelle, chiara come quella
di Carlisle, era
pallida ma dall’aspetto friabile. Diafano. Sembrava potersi
sgretolare da un
momento all’altro al minimo filo di vento.
Amos mi sorrise, gentile.
Strinsi gli occhi lievemente, per
poterlo osservare meglio, ed inclinai la testa da un lato, confusa. Era
davvero
un nemico educato, sorrideva pure.
Feci una smorfia, cercando di
rispondere altrettanto
educatamente al suo sorriso.
“Eccoti. Finalmente
ci conosciamo, El. Molto piacere, io
sono Amos”, si presentò amichevolmente.
Sì,
certo… tanti convenevoli per niente.
Molto piacere, sono Amos, il
tuo probabile assassino.
Davvero lieto.
Sentii crescere in me
l’insano desiderio di tirargli un
pugno. Tuttavia, dubitavo del possibile effetto di
quest’ultimo. Si scompose un
poco alla mia espressione ostile.
“Molto piacere,
Amos”, scandii freddamente con voce piatta.
Non volevo far trasparire
alcuna emozione, alcuna paura. Non
volevo sembrare in nessun modo intimorita, anche se ero
pressoché paralizzata
dalla testa ai piedi.
Presi coraggio e mi costrinsi
ad avanzare, consapevole come
mai del gesso agganciato al mio braccio, e gli porsi la mano. Dovetti
stare
attenta a non farla tremare.
Calma,
continuavo
a ripetermi, sono tutti qui a proteggerti
in ogni caso. Andrà tutto benone.
Beh, non ero un
granché nel convincere la gente. Me
compresa.
Il sospiro preoccupato di
Edward mi mise un po’ di paura, ma
mi fece anche star meglio. Significava che era lì per me.
Amos rimase sorpreso quanto gli
altri dalla mia momentanea
audacia, ma poi si fece avanti anche lui e mi strinse la mano. I suoi
occhi, di
quel colore così improbabile, erano angoscianti, ma
s’intonavano con il resto
della sua figura.
Mi fissò
intensamente e a lungo, poi alzò lo sguardo e si
rivolse a Carlisle.
“Beh, è
impressionante! E’ più potente di qualsiasi altro
Hoser io abbia mai incontrato nei miei seicento anni”, disse
estasiato. “Ma
purtroppo questo la rende una minaccia ancora più pericolosa
per tutti noi”.
Ero di nuovo immobilizzata
dalla paura.
“Questo significa che
ora dovresti proprio venire con me,
El. Se non ti dispiace”.
Sì
mi dispiace, e
parecchio, avrei voluto replicare. Ma non riuscivo a trovare
la voce, la
forza per parlare.
“No!”,
ruggì Edward alle mie spalle, ed in meno di un
secondo fu al mio fianco, le sue braccia di nuovo protettive intorno a
me. Il
sollievo e la gioia istantanea che mi provocò quella sua
reazione fu immensa.
Mi accostai a lui.
Amos rimase stupito per qualche
istante dall’inspiegabile
reazione di Edward, poi si ricompose e sorrise ad entrambi ampiamente.
“Vedo che tuo figlio
si è legato molto a questa giovane,
Carlisle. Il sentimento reciproco tra i due è
pressoché tastabile.
Affascinante”.
Ma di cosa stava parlando?
“Il fatto poi che sia
così speciale di certo lo ha stregato
sin da subito, non ho il minimo dubbio”, continuò
con voce sorpresa.
Poi si rivolse a Edward.
“Ragazzo, sai anche
tu che è pericoloso. Non sfidare la
sorte inutilmente”.
Edward non rispose in alcun
modo, ma il suo sguardo parlava
per lui.
Era angosciato, era evidente,
ma anche leggermente
compiaciuto. Da cosa non seppi dirlo.
“Non mi preoccuperei
più di tanto, Amos. Sai... non è una
Hoser a tutti gli effetti”.
Si voltò trionfante
verso di me, poi di nuovo verso Amos.
“Almeno è
quello che credo”.
“Cosa intenderesti
con questo?”, chiese Amos stupito.
“Non è una
Hoser a tempo pieno, diciamo”, concluse Edward,
un sorriso evidente nella sua voce perfetta.
“Non riesco a
seguirti, ragazzo. E’ una Hoser, su questo non
c’è dubbio. Infatti proprio ora né io
né tantomeno tu riusciamo a sentirla”.
“Questo è
vero, Amos. Ma prima che arrivassi sono riuscito a
percepire ogni suo singolo pensiero. Quindi…”
Amos parve momentaneamente
sorpreso da quell’ultima
affermazione. Si ricompose in fretta.
“Se non posso averne
la prova, non posso lasciarla in vita”.
Bene, eravamo arrivati al sodo.
Ero rimasta ad ascoltare
l’intera conversazione, senza
ricavarne informazioni utili.
Ma questa l’avevo
capita. Non poteva lasciarmi in vita.
Mi strinsi automaticamente
nelle braccia gelide di Edward,
cercando di scomparire il più possibile nella sua giacca a
vento blu.
“El”, mi
chiamò dolcemente Edward, sussurrandomi vicino
all’orecchio.
Trasalii con un sussulto,
boccheggiando per lo spavento. Mi
aveva colta di sorpresa stavolta.
Sorrise della mia espressione
sconvolta.
“El, ho bisogno che
tu mi faccia un favore”.
Non sapevo esattamente cosa
volesse da me, ma annuii subito.
“Cosa staresti
cercando di fare, ragazzo? Vuoi farci
uccidere tutti?”, disse angosciato Amos, quasi supplichevole.
Edward rise lievemente,
scuotendo la testa.
“Non ti preoccupare,
Amos. So quel che faccio”.
“Lo spero per
te”. Edward annuì e si rivolse di nuovo a me.
“El, dovresti cercare
di tranquillizzarti e pensare come
prima, puoi farlo per favore?”
Eh?
Non riuscivo a
capire cosa volesse dire. E comunque non potevo tranquillizzarmi, non
con il
mio più pericoloso nemico pronto ad uccidermi. Cominciai ad
iperventilare, in
preda al panico.
“Jasper”,
chiamò Edward. Questo annuì, non capii bene per
cosa.
Poco dopo
un’atmosfera di pace e tranquillità mi avvolse
completamente, e mi rilassai.
Il mio battito
rallentò ed il respiro si fece più regolare.
Ero confusa, ma quella calma non mi diede tempo di badarci.
“Bene, ora per favore
prova a pensare come prima, sul
divano”.
Ah. Quindi voleva che mi
facessi sentire di nuovo. Okay.
Mi concentrai un istante, quel
poco che mi servì per capire
che non sapevo assolutamente come fare. Era più una cosa
automatica, un
riflesso nei confronti della mia privacy. Era semplice pensare
“a bassa voce”,
ma non il contrario. Mi concentrai di nuovo.
“Niente?”,
chiesi speranzosa.
Edward scosse tristemente la
testa, rassegnato.
Aspetta un secondo. Dovevo solo
alzare la voce giusto?
Allora forse bastava…
“Puoi andare
là in fondo, per favore?”, chiesi rivolgendomi
a Edward.
Lui, completamente confuso,
sembrava restio all’idea di
lasciarmi andare. Lo guardai, supplichevole.
“No, sarebbe meglio
che rimanessi qui con te”.
Oh, certo lo so
anch’io.
“Sì, lo
so. Ma devo farti un favore, me l’hai detto tu”,
risposi forzando un sorriso.
Sbuffò, e poi
sospirando profondamente allentò la presa fino
a lasciarmi andare.
“Dove devo
mettermi?”.
“Lì in
fondo”, dissi indicando la grande parete di vetro
all’estremità della stanza.
Con un movimento
pressoché impercettibile si allontanò da me
e si diresse dove gli avevo chiesto.
“Qui va
bene?”.
“Perfetto”.
Chiusi gli occhi, portandomi le
mani alla testa, in
concentrazione.
Premevo le dita sulle tempie, i
pollici appoggiati alla base
della mandibola, sforzandomi di scostare quel velo invisibile ma
apparentemente
impenetrabile che ricopriva la mia mente. Ci provai.
Edward.
Edward, mi
senti? Okay, mi sentivo una cretina. Parlavo da sola.
Sollevai il viso, schiudendo
leggermente gli occhi,
abbastanza da capire che il mio primo tentativo era stato vano.
Serrai i denti fino a sentir
male alla mascella, per
concentrarmi, e tentai di nuovo.
Questa volta però
cambiai strategia: Edward era lontano,
quindi per farmi sentire dovevo alzare la voce, ma non solo. Dovevo
anche
sentirlo vicino.
Spalancai gli occhi,
concentrandomi sul suo viso perfetto.
Era bellissimo, non riuscivo a
trovare parole o pensieri
migliori per descriverlo. Avrei voluto essere di nuovo tra le sue
braccia…
Un sorriso truffatore comparve
agli angoli della sua bocca,
sollevandogli gli zigomi scolpiti ed illuminandogli sorprendentemente
il viso.
Non credevo possibile che potesse sembrare ancora più bello.
Dovetti
ricredermi.
Nonostante ciò, quel
suo sorriso mi fece capire che ce
l’avevo fatta.
Mi voltai trionfante e
notevolmente compiaciuta verso Amos,
un’espressione più che sbalordita sul suo volto
antico. Edward mi fu di nuovo
accanto in meno di un secondo, abbracciandomi da dietro con le sue
lunghe
braccia invernali.
“Ecco, come
desideri”, bisbigliò al mio orecchio, un sorriso
nella sua voce, ed un brivido mi scese lungo la schiena.
La sua espressione
cambiò, e si rivolse ad Amos.
“Beh, vedi anche tu,
Amos, che non ci sono problemi con
questa ragazza”.
Il suo tono di voce era
notevolmente compiaciuto. Mi fece
sorridere.
Ma ancora più
esilarante fu l’espressione di Amos, un misto
tra confusione e follia. Spalancò gli occhi, portandosi una
mano alla tempia,
mentre la sua bocca si schiudeva in stupore.
Mi lasciai sfuggire una
risatina, che soffocai all’istante portando
la mano davanti al viso.
Mi sembrava di essere su di
giri, come dopo un dosaggio
troppo alto di medicinali.
Il mio umore era aiutato dal
fatto che avevo appena vinto
una mia piccola battaglia personale, ma più che da ogni
altra cosa la mia
spensieratezza era supportata dal gelido angelo che aveva ancora le
braccia
allacciate ai miei fianchi.
“Sì, vedo
ragazzo. E sento. Il suo sangue umano è davvero
potente, come fai a starle così vicino?”.
Le braccia di Edward si
strinsero un poco a quella domanda,
ma poco dopo si rilassò.
“E’ tutta
questione di tecnica”. Sembrava stesse ridendo di
una barzelletta personale.
Alzai lo sguardo, fino a quel
momento fisso sulla figura
dell’ormai innocuo nemico, cercando il viso di Edward.
Il mio cuore
tamburellò un poco, perdendo un battito o due e
riprese a correre più veloce che mai.
Era vicinissimo, più
di quanto mi aspettassi, più di quanto si
fosse mai avvicinato. Fosse stato chiunque altro probabilmente mi
avrebbe
infastidito, era fin troppo vicino.
Alcune ciocche dei suoi
capelli, di quel colore così
improbabile e splendido, mi toccarono le guance e la fronte.
Sarà stato a poco
più di dieci centimetri da me, e mi fissava.
Mi fissava in un modo che aveva
dell’incredibile: fui
costretta a distogliere velocemente lo sguardo dopo pochi attimi per
non andare
in iperventilazione. Rimanemmo così appena pochi secondi.
Un leggero colpo di tosse. Una
risata soffocata dal fondo
della stanza.
Oh, giusto. Eravamo in casa
sua, con della gente che mi
fissava, e ci fissava.
Il colore del mio viso
passò nel giro di pochi istanti dal
suo solito pallore ad un più appropriato rosso scarlatto.
Feci per allontanarmi dalle sue
braccia, in modo da
interrompere la scena imbarazzante, ma non mi lasciò muovere
neanche di un
millimetro. Perfetto. Beh, anche perché a me andava
più che bene rimanere lì
dov’ero.
“Potresti sbloccarmi
la testa, per favore?”.
“Chi, io?”,
rise della mia espressione confusa.
“Sì, tu.
Mi hai bloccato di nuovo”.
Ah. Non me ne ero neanche
accorta. Ripetei lo stesso
procedimento di prima.
“Meglio?”,
chiesi. Solo per sentire il suono della sua voce.
“Sì molto,
grazie”.
Mi voltai verso Amos. Mi
imbarazzava quella conversazione,
anche se non sapevo spiegare esattamente il perché.
Quella volta fu Carlisle a
parlare.
“Credo che a questo
punto non ci sia più motivo di
preoccuparsi, Amos”.
“Sì, credo
anch’io, Carlisle”, disse velocemente Amos. Poi
aggiunse altrettanto rapidamente.
“Ma non facciamo
passare troppo tempo questa volta. Ora devo
andare, la mia famiglia mi attende”.
“Oh, certamente. Non
fare aspettare Thanis senza motivo, vai
pure”. Una pausa, poi aggiunse.
“E salutamela,
è molto che non la vedo”.
“Sicuramente,
Carlisle. Ora se volete scusarmi”.
E così dicendo si
avviò rapidamente verso l’uscita. Prima di
varcare la soglia si voltò verso ognuno di noi.
“Emmett, Rosalie,
Alice, Jasper, Esme...”. Sembrò esitare
sul nome di Esme, ma non ne compresi la causa. “Carlisle,
Edward. E’ stato un
vero piacere rivedervi, anche se la motivazione non era delle
più piacevoli”.
Poi posò il suo inquietante sguardo cremisi su di me.
“Elizabeth”,
precisò, facendo un cenno con il capo,
un’evidente acidità nella sua voce.
“Amos”,
ripetei con lo stesso tono di disprezzo.
Poi Amos si voltò
verso l’uscita.
“Demetri, Claude. Ora
possiamo andare”, disse varcando la
soglia, per poi scomparire nel buio più totale di quella
notte scura.
Rimasi sconvolta. Non
era solo.
Alice l’aveva detto: Non
c’è più tempo. Sono qui. Non èqui.
Ma nonostante ciò rimasi
pietrificata all’istante, il mio battito accelerato.
“El,
calmati”, mormorò piano al mio orecchio Edward.
In un attimo la stessa
atmosfera di pace e tranquillità che
mi aveva avvolto poco tempo prima mi circondò nuovamente, ma
questa volta non
servì a molto.
Mi concentrai, cercando il suo
respiro regolare che già una
volta mi aveva aiutata.
Andai in panico. Il respiro, il
suo respiro, non c’era, non
lo trovavo. Cercai meglio.
Niente. Cercai i suoi occhi,
spaventata.
Il suo cuore. Il suo battito.
Non sentivo neanche quello.
Alzai lo sguardo, terrorizzata
più che mai.
“E-Edward”,
balbettai, incoerente.
“Cosa
c’è, El?”, chiese preoccupato,
“Calmati”.
“I-Il…”,
mi bloccai, un nodo alla gola. Tentai nuovamente,
con la voce che rasentava l’isteria.
Appoggiai una mano al suo
petto, proprio sopra il suo
battito assente.
“I-Il tuo battito
Edward. Non c’è, non…non lo
sento”.
TAN TAN
TAAAAAAAAN! E' un po' un casino in effetti, spero che il
prossimo capitolo riesca un po' a sciogliere alcuni nodi.
Quindi che dire...o ci vediamo tra le recensioni(dubito, ma spero), o
il prossimo Sabato :) Buon weekend e buona giornata!
Capitolo 4 - Imprevisto.Buona
domenica a tutti!
Purtroppo la settimana di fine quadrimestre si fa sentire - e non poco
- e c'è stato un mini ritardo sull'aggiornamento.
In ogni caso, in questo capitolo ho cercato di quantomeno
provare
a chiarire un po' le cose, sperando di non complicarle ulteriormente.
Sono sicura di aver fallito xD
Come ultima cosa, ringrazio quella zuccona schifosa di Carli che mi
pubblica nella sua pagina per permettermi di avere quelle
visualizzazioni che altrimenti mi sognerei. Quindi grazie isolana
:)
Capitolo
4. Imprevisto.
Il suo sorriso si
affievolì rapidamente sul suo volto, per
lasciar spazio ad una smorfia preoccupata.
“Carlisle?”,
chiese dubbioso Edward.
Ero ancora
totalmente scioccata e terrorizzata, non riuscivo
a capire granché di quello che stava succedendo.
Carlisle
annuì, perlopiù rassegnato, e si
avvicinò a me,
porgendomi una mano.
“Elizabeth,
credo che ci siano alcune cose che ormai sei
tenuta a sapere. Anche se questo va contro ogni regola e…
potrebbe metterti in
pericolo”.
Se stava cercando di
tranquillizzarmi, mi dispiaceva per
lui, ma era lontano dal riuscirci. Non avevo la forza necessaria a
stringere
quella mano, così caldamente tesa verso di me. Non vedendo
alcuna risposta, la
ritirò dopo poco.
“Carlisle,
non credo sia il modo migliore per calmarla”, fece
eco Edward ai miei pensieri.
“Hai
ragione, figliolo, ma credo che abbia il diritto di
capire cosa le sta accadendo”.
Edward
annuì debolmente, sospirando. Carlisle scrollò le
spalle ed andò a sedersi sul divano bianco in fondo alla
stanza che poco prima
era stato il mio rifugio.
“Vieni
qui, El”, mi disse una volta accomodatosi al centro
del divanetto, un cuscino color panna stretto in mano.
Indugiai. Non ero
sicura di sapermi ancora muovere. Edward
si accorse della situazione e mi sorresse gentilmente, spingendomi con
dolcezza
verso Carlisle.
“Non avere
paura, El. Mi rendo conto che può essere
sconvolgente, ma non hai nulla di cui preoccuparti, davvero”,
ripeté Carlisle,
incoraggiandomi.
Deglutii il nodo che
mi si era formato in gola e mi feci
avanti, tremante.
Ero conscia del
fatto che non c’era nessun pericolo, almeno
non adesso, non più.
Tuttavia ero
completamente sconvolta dall’insieme di
informazioni e situazioni che si erano susseguite nel corso della
giornata. Non
potevo e non riuscivo a capacitarmene.
Avanzai fino a
fronteggiare il piccolo divano e mi sedetti
nell’unico posto rimasto vuoto.
Carlisle mi sorrise
apertamente, cedendomi il cuscino che
teneva in mano. Un antistress, pensai.
Edward sorrise. Mi
sentiva ancora? Era meglio evitare per
questa conversazione. Così abbassai il volume dei miei
pensieri sensibilmente.
Ah-ha.
L’espressione di Edward mi fece capire che ci ero
riuscita. Era frustrato, ma aveva mantenuto lo stesso sorriso complice
di
prima. Ero sicura che avesse capito il perché del mio gesto.
“Grazie”,
disse Carlisle gentile. “Ora cercherò di farti
comprendere nel miglior modo possibile l’intera
storia”.
Annuii debolmente e
Carlisle cominciò a raccontare.
“Vedi,
come avrai già capito, noi non siamo del tutto... normali.
La nostra specie è molto diversa in ogni suo genere e noi,
io e la mia
famiglia, siamo un’eccezione molto singolare. Quello che hai
appena visto era un
Ubach, una specie davvero molto, molto pericolosa, ma per nostra
fortuna anche
molto poco numerosa. Amos ne è il capo, insieme a sua moglie
Thanis. Possiedono
poteri veramente speciali, infatti ognuno di loro può
percepire i pensieri di
chi gli sta accanto e molto di più. La loro caratteristica
più distintiva è che
possono cambiare forma, trasformarsi in chiunque loro vogliano,
assumendone i
tratti fisici, l’odore e le debolezze. L’unica cosa
che a volte li smaschera è
il fatto che il carattere, l’anima, rimane la
loro”.
Mi accorsi dello
sbuffo poco convinto di Edward poco
distante da me.
Ascoltavo con la
bocca spalancata, gli occhi sbarrati in
shock. Era ovvio che ci fosse qualcosa di particolare in loro, ma tutti
questi
nomi, caratteristiche, capacità… mi lasciavano
senza fiato.
“La loro,
la nostra, specie ha pochi nemici. Ci sono i
licantropi, i muta-forma... e poi ci sono i Lintus. Questi ultimi sono
i più
particolari ed i più rari, ma nonostante ciò i
più pericolosi per tutti noi. I
Lintus si dividono a loro volta in diverse specie, ognuna con una
caratteristica che li accomuna. I più comuni sono i Dinerti,
che leggono il
pensiero e giocano con le emozioni delle persone. Poi esistono i
Bromos, resi
innocui dalla nostra gente, che un tempo riuscivano a condizionare le
scelte
altrui. Infine esistono gli Hoser, i più pericolosi, e per
questo cacciati
quasi fino all’estinzione. Questi sono capaci di controllare
con la mente forze
enormi, leggere i pensieri a piacimento e, anche se i casi accertati
sono stati
solamente tre in tutta la nostra storia, ucciderci con una
facilità
sorprendente”.
Notando la mia
espressione, Carlisle rallentò un secondo,
fermandosi per permettermi di incamerare tutte quelle informazioni
totalmente
assurde.
Poi aggiunse con un
filo di voce.
“Tu sei una
Hoser, El”.
Sbattei gli occhi un
paio di volte, incapace di dire
qualunque cosa.
Carlisle
proseguì, senza attendere nessuna risposta.
“E’
per questo che Amos era così preoccupato. E’ per
questo
che aveva paura. Gli Hoser sono il nostro più grande nemico
e nella loro forma
umana sono ancora più mortali per noi. E tu, tu sei forse
uno degli Hoser più
potenti che Amos abbia mai incontrato, seppur ancora umana. Questa cosa
l’ha
terrorizzato”.
Io? Io avevo
spaventato Amos? Non mi era sembrato molto
terrorizzato, preoccupato sì, ma non terrorizzato. Ma
soprattutto, io? Cosa
avevo io di così strano? Mi sembrava impossibile.
Se ero una Hoser, o
qualunque cosa fosse, non riuscivo a
comprenderne le conseguenze.
Esme, che fino ad
allora era rimasta in disparte, vicino
alla grande parete di vetro, capì il mio stato
d’animo e si avvicinò
sorridendomi.
“El, cara,
non c’è niente da capire. Tu sei molto
più
speciale di quello che pensi ed Amos se ne è reso conto.
Perché vedi, gli Hoser
sono più potenti nella loro forma immortale, ma quando sono
umani sono molto
più pericolosi. Una Hoser come te può sfruttare
tutte le sue capacità al
massimo, inoltre non è percepibile da nessuno di noi. Ed
è per questo che
Edward non riesce a leggerti nel pensiero, o sentire il tuo odore, come
nessuno
di noi. Sei come un punto invisibile su una cartina. Ma incredibilmente
questo
tuo punto può brillare come una semplice umana a
piacimento”.
Esme mi
guardò teneramente e mi prese la mano tra le sue.
Era gelida, per quanto il suo gesto avrebbe scaldato chiunque.
“Hai
capito adesso, tesoro?”, mi chiese dolcemente.
Annuii debolmente,
tenendo lo sguardo fisso sulle sue mani.
Dovevo fare una
domanda, ma non mi usciva la voce. Me la
schiarii.
“Ehm,
Edward?”, chiesi esitante.
Edward era seduto
sul tappeto di fronte al divano, la testa
nelle mani ed i gomiti appoggiati alle ginocchia, immobile. Al suono
della mia
debole voce, si ridestò un poco. Sollevò il capo.
“Sì?”.
Sembrava...freddo,
distante. Abbattuto. Non c’era un modo
migliore per descriverlo.
“Volevo
sapere...”. Ma mi bloccai, incerta se finire la
frase.
“Cosa?”,
mi esortò dopo alcuni istanti d’attesa.
Era assolutamente
freddo. Sembrava aver perso parte della
luce che lo accompagnava ovunque andasse.
“Ecco...
cosa intendeva prima Amos con il mio…sangue umano?
Ha detto che era potente, che era difficile starmi vicino. Non capisco
cosa
intendesse...”.
La mia voce
balbettante si andò perdendo in un silenzio
ancor più imbarazzante di quello di prima.
Quella volta fu
Alice a rispondermi.
“Beh,
è semplice, El. Tu hai capito che siamo…ehm...
diversi.
Ecco, anche la nostra dieta è differente”.
Oh. Sì,
avevo già capito che cos’erano, anche se tentavo
di
oppormi all’idea con tutte le mie forze.
Ora Alice me ne
aveva appena dato la conferma come niente
fosse, lo dava per scontato.
L’unica
cosa a cui riuscivo a pensare erano i film sui
vampiri, e tutte le leggende che li riguardavano. La dieta, la loro
dieta. Ah!
Sembrava che i miei problemi non avessero mai fine, neanche dove avrei
teoricamente dovuto sentirmi al sicuro.
L’unica
dieta che conoscevo per i vampiri era quella a base
di sangue umano, e la mia piccola nuova e strana cicatrice ne era
chiaramente
una prova. Mi portai inconsciamente le mani al collo.
Emmett
scoppiò in una risata a dir poco fragorosa. Edward
scattò in piedi, un’ombra di luce nei suoi occhi
spenti, e lo zittì con un
pugno sulla spalla ed un ringhio che mi fece venire i brividi.
“El, noi
non seguiamo la dieta classica”, precisò divertita
Alice.
“Esatto,
con noi sei più che al sicuro. Noi ci cibiamo solo
di sangue animale”, aggiunse Carlisle.
Mi stupii.
Questo…avrei potuto conviverci.
Sembrava una cosa
naturale, alla fine anche io mangiavo gli
animali. Certo, erano cotti e tagliati in bistecche, ma erano pur
sempre
animali. Allentai quindi la presa dal mio collo, sollevata.
“Non…
non ho ancora capito però la parte sul sangue potente,
che è difficile starmi vicino”,
dissi, la mia voce rotta dalla confusione e dall’incertezza.
Jasper, appoggiato
al muro, il più lontano possibile da me
apparentemente, trasalì violentemente e si
allontanò ancora. Strano.
Carlisle mi rispose
gentilmente.
“Vedi El,
ogni umano ha un odore diverso, dipende dal sangue
che gli scorre nelle vene. Ed ognuno di noi reagisce in modo diverso e
totalmente soggettivo al sangue umano. Il tuo… beh, il tuo
è davvero molto
potente per noi”.
Indietreggiai un
poco a quell’affermazione. Carlisle sorrise.
“Io
personalmente sono quasi del tutto immune al sangue
umano, ma per alcuni di noi è più difficile
abituarsi, sopportarlo. Edward più
di tutti sembra essere soggetto al tuo, ed è per questo che
evita di…ehm... respirare
quando ti è vicino. Non vuole ferirti in alcun
modo”.
Mi voltai verso
Edward. Aveva lo stesso sguardo tormentato
di poco prima, mi fece star male.
“Quindi...quindi
voi non… non respirate?”.
Dovevo sapere, ero
troppo curiosa, nonostante la paura
iniziale.
“Non
è necessario, ma è piacevole farlo. Non ne
sentiamo il
bisogno, tuttavia è utile molte volte”.
Annuii decisa. Stavo
recuperando un po’ del mio coraggio
latente.
“E…
il battito? Voglio dire...”. Non riuscii a completare la
frase. Carlisle mi interruppe.
“Noi siamo
clinicamente morti, El. Non abbiamo battito, non
abbiamo circolazione, come avrai notato. Siamo come congelati nel
momento in
cui siamo stati cambiati”.
Ecco
un’altra domanda che urgeva risposta.
“Come...
come funziona? Non si nasce così
quindi…”, mi
sorrise controvoglia, ma rispose ugualmente.
“No, non
nasciamo così. Siamo stati tutti trasformati da
altri prima di noi. Io stesso ho cambiato Esme, Rosalie, Emmett, e
prima di
loro Edward, ma molto tempo fa”.
“Tu li
hai… morsi?”. Non riuscivo a vedere altri modi per
trasformare qualcuno in un vampiro a parte seguire le vecchie storie e
leggende.
“Quanto
tempo fa?”.
“Sì,
diciamo che ho dovuto. Non me ne sono mai pentito, poiché
erano in fin di vita quando li ho trasformati. Il primo fu Edward,
esattamente
novantuno anni fa”.
Non ero propriamente
un genio in matematica, ma feci quattro
conti abbastanza velocemente.
“Esatto.
Aveva appena diciassette anni quando lo trovai
morente in un ospedale di Chicago”.
Quindi, quindi,
quindi. Aspetta un secondo.
Edward era nato nel
millenovecentouno ed era dall’età di
diciassette anni che era un vampiro e non invecchiava. Uhm…
io ne avevo sedici.
La differenza non era poi molta, se si faceva fede alle apparenze.
Beh non mi importava
più di tanto se erano dei- era però
difficile pensarlo- vampiri. Se non mi avevano ancora fatto del male,
un motivo
c’era. E soprattutto non potevo sopportare l’idea
di dover abbandonare Edward.
Lui era là, appoggiato al muro, con ancora la stessa
espressione tormentata di
qualche minuto prima. Non aveva niente a che vedere con mostri
mitologici e
storie dell’orrore, era la cosa più simile alla
perfezione che avessi mai
visto, e mai avrei visto.
Era un angelo, come
io stessa avevo immaginato sin da
subito.
Dall’inizio.
Quel pensiero
passeggero mi riportò alla mente il fatto che
non avevo la minima idea di dove fosse questo inizio. Ero al sicuro,
certo, ma
non sapevo esattamente dove, né mi ricordavo cosa fosse
accaduto prima. Solo un
impenetrabile muro nero e indistinto.
“Dove
siamo? Voglio dire, dove di preciso?”, chiesi con voce
esitante.
Carlisle
alzò il viso di scatto, cercando quello di Edward.
Si scambiarono un’occhiata piena di significati, ma
nonostante ciò non riuscii
a comprenderne neanche uno.
Lo sguardo di
Carlisle sembrava un rimprovero, mentre quello
di Edward era solamente… rassegnato. Non capivo il
perché del suo umore e
questo era più frustrante di tutte le altre domande
irrisolte. Stava male,
forse a causa mia, ma non sapevo il motivo. Tutto era così
assolutamente ed
incomprensibilmente complicato.
Esme interruppe i
miei pensieri con la sua voce chiara e
squillante.
“El,
tesoro, siamo nei pressi di Forks, nello stato di
Washington”.
Cosa?!
Spalancai gli occhi
in sorpresa a quell’affermazione.
Washington? E dove era finita la mia calda e caotica Miami? Ero finita
dall’altra parte degli Stati Uniti! Okay, era uno scherzo.
Mi feci scappare una
risatina che rasentava l’isteria.
“Ah. Okay.
No, davvero dove siamo?”, dissi tra una risata e
l’altra, con voce stridula.
Nessuno mi rispose.
Riuscii dopo qualche attimo a
ristabilire la mia già precaria salute mentale e mi calmai.
Mi portai le mani
davanti al viso, facendole scivolare
lentamente dalla fronte fino al mento, poi di nuovo sul viso. Ero
disorientata.
Non era possibile; a pensarci bene niente di quello che era successo in
quello
strano, stranissimo giorno era possibile. Forse stavo davvero sognando.
“El...”.
Edward mi fu a
fianco in meno di un attimo, le sue mani
fredde sul mio volto.
Cercò di
spostarmi le mani dal viso e lo lasciai fare, dopo
un attimo di esitazione. Con le sue dita raccolse qualcosa di umido e
tiepido
sulla mia guancia.
“El...”,
ripeté, guardandomi colmo d’angoscia.
Non mi ero accorta
di essermi messa a piangere, era
umiliante e snervante. Non riuscivo a fermare, adesso che me ne ero
resa conto,
quella piccola ma continua cascata di lacrime. Scossi la testa, come
per farle
sparire più in fretta.
Edward mi prese il
mento con una mano, bloccandomi il capo.
“Cosa
c’è che non va?”, chiese.
Ma sembrava si
stesse rivolgendo più a se stesso, quindi non
risposi. Inoltre avevo paura di come la mia voce sarebbe suonata in
quel
momento così patetico. Sicuramente orribile, roca, rotta e
orribile.
Meglio rimanere in
silenzio e conservare il minimo di
dignità che mi rimaneva.
Le mie stupide
lacrime non accennavano a diminuire.
Basta!,
urlai con
tutte le mie forze nella mia testa, sperando che qualcuno mi
ascoltasse.
Ovviamente niente.
Un sospiro.
I miei occhi,
abbandonati a vagare per l’affollata stanza,
si focalizzarono nuovamente sul volto che avevo davanti. Mi fissava, ed
io
guardai rapita quel viso. Avrei voluto parlare, chiedere spiegazioni,
sapere di
più… ma non volevo aprire bocca. Però,
forse...
Alzai il volume
nella mia testa, lasciando spazio a tutte le
domande e gli enigmi che mi soffocavano. Edward trasalì
violentemente,
ansimando un poco.
Accadde tutto
così in fretta, sembrava avessero premuto il
tasto di avanzamento veloce.
Nello stesso momento
in cui Edward cominciò ad annaspare,
apparentemente senz’aria, Alice con un secco
“No!” si fiondò davanti a me.
Emmett, con un movimento così rapido che non avrei potuto
neanche supporre da
uno della sua stazza, spinse via il fratello per poi immobilizzarlo a
terra.
Carlisle, circa un secondo prima seduto sul divano insieme a me, era
dall’altro
lato della stanza con Jasper fermo tra le braccia.
Erano tutti
impazziti. Rimasi a guardare, scioccata,
l’espressione di Edward. Sembrava sofferente, ma in modo
diverso da prima. Un
dolore fisico, acuto e straziante. Era come posseduto, una strana
smania nei
suoi occhi accesi di desiderio. Desiderio di…
“No!”,
strillai nel panico più totale, riportando i miei
pensieri e tutto ciò che comportava al sicuro.
“No, no,
no, no! Lascialo Emmett! Gli fai male! Lascialo!”,
urlai senza fiato.
Alice mi
fissò negli occhi, scuotendomi un poco per
riportarmi alla ragione.
“El! Non
può lasciarlo andare lo sai, l’hai capito anche
tu!”.
Sì, avevo
capito. Ma perché solo lui, perché tutto
così, di colpo?.
Con la coda
dell’occhio mi accorsi di Emmett e Edward,
insieme a Carlisle e Jasper, che si allontanavano dalla stanza per
uscire in
giardino.
No!
Sillabai in
silenzio, ma nella mia testa fu un grido così forte da
farmela girare.
“Perché?”,
domandai. Non volevo capire, mi rifiutavo.
“El,
l’hai colto di sorpresa, non se lo aspettava. Era il
primo respiro che si concedeva da quando Amos se ne è andato
e tu...”.
Lasciò la
frase a metà, ma non mi serviva che la terminasse.
Sapevo come doveva concludersi. “E tu hai rischiato di morire
e di ferire lui”.
“Perché
ha reagito così solo lui?”, domandai nuovamente,
precisando questa volta.
“Edward
è più soggetto di noi al tuo sangue, ed era
molto,
molto vicino. Non poteva prevederlo… e neanche
io”, concluse la frase
tristemente.
“Non puoi
adesso, tesoro. E’ ancora troppo… rischioso.
Sarebbe meglio che tu gli dessi qualche minuto o ora per
riprendersi”, quella
volta fu Esme a parlare.
Ore? Io non potevo
aspettare ore!
Un ruggito colmo di
rabbia conquistò la mia attenzione e mi
costrinse a non controbattere. Proveniva da fuori, dall’ampia
radura di fronte
alla casa.
Quel rumore,
così straziante nella sua collera mista a dolore,
mi procurò una forte fitta al petto. Non al cuore, come
sarebbe facile pensare,
ma più che altro alla bocca dello stomaco. Ero distrutta,
sconvolta e
disgustata da me stessa per un atto così stupido che aveva
ferito in quel modo
Edward.
Scossi la testa con
decisione.
“No”,
cominciai a ripetere senza fermarmi.
“No, no,
no, no...”.
“Io…io
devo, non posso, io, io...”, tentai di formulare senza
esito.
Era vitale per me
poterlo vedere, potergli spiegare,
scusarmi. Dopotutto era stato tutto un errore, uno stupido, stupido
errore; mi
avrebbe perdonata?
“El, cara,
non devi preoccuparti, non ti farà del male”, mi
rincuorò Esme dal divano.
Del male? Anche se
aveva rischiato di uccidermi solamente
qualche minuto prima, non ci avevo mai neanche pensato. Edward non
poteva farmi
del male, era un angelo.
No, il pericolo,
come aveva detto Amos, ero io e solo io.
Mi accorsi di un
mormorio sommesso proveniente dal piano di
sopra, probabilmente Alice, Rosalie ed Emmett. Gli unici in casa, oltre
a me ed
Esme, visto che…
Un’altra
fitta allo stomaco. Mi alzai di scatto. Se era vero
che non potevano percepirmi forse era anche possibile che non mi
trovassero. Mi
affrettai verso la cucina, dove mi attendeva l’uscita, ma mi
accorsi che Esme
mi controllava. Così feci per salire le scale, un gradino
alla volta, e
mormorai piano, sicura che in ogni caso mi avrebbe sentita.
“Ho
bisogno di stare da sola, scusa”.
Non era una bugia,
solo che non stavo specificando dove il
“da sola” fosse.
La vidi annuire e
concentrarsi nuovamente sull’enorme
schermo piatto della televisione. Mi sarebbe piaciuto fuggire,
gridando,
urlando fino a non avere più aria nei polmoni. Respirare
solo per poter
strillare ancora più forte, sfogarmi e poi nascondermi per
esaurire il mio
sfogo.
Presi coraggio e
cominciai a salire le scale con più
decisione, due gradini alla volta. I miei passi producevano strani
scalpiccii,
come se la scala si stesse lamentando.
Feci scorrere le
dita sul corrimano di legno antico,
ammirando le diverse e bizzarre venature, sentendole sui miei
polpastrelli. Ero
arrivata al primo piano della casa.
Davanti a me vi era
un lungo corridoio tappezzato di quadri
a me sconosciuti, tutti di dimensioni e colori differenti. Era molto
suggestivo.
Feci scorrere la
mano anche sul muro dalle tinte chiare,
come tutto il resto, e su alcune cornici.
Percorsi il
corridoio, lungo il quale incontrai due stanze.
La prima era relativamente piccola, ma ben arredata. Non mi soffermai
granché
nel guardarla, avevo fretta di trovare un posto dove potermi lasciare
andare ad
una crisi di pianto senza precedenti.
La seconda
però catturò un poco la mia attenzione. Era
gigantesca ed aveva due pareti della stanza sostituite da una vetrata
immensa,
proprio come quella nel salotto. In un angolo c’era un
immenso armadio che
avrebbe fatto invidia a chiunque. Era aperto, forse qualcuno
l’aveva
dimenticato.
Misi dentro la testa
e rimasi sbigottita dalla quantità di
vestiti contenuti in quella meraviglia. Lo shopping non era uno dei
miei
passatempi preferiti, ma tutta quella roba...beh, impressionante.
Sbattei gli
occhi un paio di volte e mi costrinsi ad allontanarmi prima di
rischiare di
tuffarmi in quell’immenso guardaroba.
Proseguii il mio
vagabondare per la casa. Quando cominciai
ad avvicinarmi alle voci di Emmett e gli altri, mi fermai. Mi stavo
avvicinando
troppo e se non volevo essere disturbata, era meglio non farlo.
“Tornerà”,
sentii Alice dire.
La mia testa si
voltò automaticamente verso la voce di Alice.
Non volevo farmi scoprire, ma ero per natura curiosa e
quell’affermazione,
pronunciata così tristemente, mi fece sorgere diverse
domande.
Dovevo solo stare
ferma, non mi avrebbero sentita. Almeno
speravo.
“Oh Alice,
lo sai com’è fatto! Terrà il muso per
almeno i
prossimi dieci anni!”, brontolò Emmett.
“Emmett ha
ragione, tornerà, questo è chiaro, ma
sarà dura
per lui conviverci”.
“Probabilmente
è vero ma...”, cominciò Alice.
“Ma?”,
la esortò Rosalie, evidentemente spazientita dalla
breve attesa.
“Ma non
credo che potrà mai allontanarsi dalla ragazza.
E’...è
troppo...”. Alice non concluse la frase. Si limitò
a balbettare, confusa.
“E’
un cretino, ecco cos’è. La ragazza è
solo un pericolo,
sia per noi che per lui”.
“Oh Rose,
non esagerare! Edward è stato un cretino a farsi
sorprendere così, ma hai visto anche tu come ci stava male.
Ha cercato in tutti
i modi di farsi fermare, non ha opposto la minima resistenza. Non
potrebbe
sopportare di farle del male”. Emmett stava parlando di
prima, di me e di
Edward. Edward.
Un’altra
fitta, più forte questa volta. Dovevo allontanarmi,
stavo per esplodere.
“Emmett ha
ragione, Rose, io l’ho visto. Nonostante quando
El sia vicina non possa vedere chiaramente e con molto anticipo, ho
visto come
finirà”.
“Amos
aveva ragione quando ha detto che il sentimento
reciproco tra quei due è forte, è
chiaro”, aggiunse Emmett.
Amos aveva ragione
solo su una cosa, io ero un pericolo. E
l’avevo appena dimostrato.
“E come
finirà?”, chiese Rosalie seccata, ignorando la
frase
confusa di Emmett.
“Non lo
so, adesso è sparito tutto”, cinguettò
Alice, un sorriso
nella sua voce.
“El?”,
mi chiamò Alice. “Tanto lo so che sei
lì, esci
fuori”.
Oops! Ero troppo
vicina e mi ero fatta scoprire. C’era un
modo per non farsi notare, che diavolo?
Feci capolino con la
testa, il mio viso acceso di rosso
dalla vergogna.
“Scusate,
non volevo. E’ solo che stavo passando di qua
e...”,
cominciai.
“Oh
piantala, El! Io non ti avevo neanche sentita”,
m’interruppe
Emmett.
Sorrisi, sollevata
dal suo tono scherzoso. Era così facile
voler bene ad Emmett.
“Scusate,
ora vorrei stare un po’ da sola a dir la
verità”.
“Sì,
vai pure El, ti veniamo a chiamare più tardi”,
disse
Alice sorridendo.
“Emmett,
Rosalie”, dissi velocemente, facendo dei cenni in
saluto.
Girai i tacchi e mi
affrettai ad allontanarmi, o almeno ci
provai.
Il gesso era davvero
insopportabile, mi sembrava superfluo,
non sentivo alcun fastidio al braccio. Incespicai correndo fino alla
fine del
corridoio, troppo di fretta per rimanere ad osservare quelli che
somigliavano
ad uno studio medico ed una biblioteca. Di fronte a me c’era
una stanza grande
quanto quella dell’armadio, solo più bella.
Nonostante stessi
per scoppiare nel mio inarrestabile
pianto, mi fermai per poter dare un’occhiata. Non era solo
bella, era
splendida. Il colore dorato delle pareti, che tanto aveva catturato il
mio
sguardo pochi secondi prima, si intonava perfettamente coi toni della
moquette.
In un angolo, contro il muro, era appoggiato un piccolo divano di pelle
nera.
Entrai esitante in quella stanza dall’aspetto magico.
Di fronte a me
c’era un’enorme libreria stracolma di libri,
ma soprattutto CD.
C’erano
mensole e mensole solo di CD di ogni tipo di musica
mai sentita. Su un tavolino, dietro la libreria, un sofisticato stereo
scuro.
Era il genere di oggetto che urlava “fragile” da
chilometri, ma ero sempre
stata abbastanza brava con certe cose, quindi mi misi a cercare il nome
del
modello e della marca. Non le avevo mai sentite pronunciare in vita
mia,
strano.
Mi guardai attorno
fino a quando non trovai gli
amplificatori, neri anche loro. Quegli affari avrebbero potuto
frantumare le
finestre di tutta la casa se solo avessi voluto, ne ero sicura,
tuttavia non
volevo accertarmene di persona.
Un leggero soffio di
vento nei miei capelli mi distrasse.
Mi voltai. Era
davvero una stanza incredibile. Non ci avevo
ancora fatto caso; l’intera parete sinistra della camera era
una gigantesca vetrata
che dava sul fiume intorno alla casa. Rimasi a contemplare quella vista
per
alcuni istanti, in silenzio.
Un altro pensiero mi
distrasse nuovamente. Non c’era il letto.
Eppure era ovviamente una camera da letto, qualcuno ci viveva.
Nella stanza
dell’armadio ce n’era uno, grande e azzurro, ma
qui niente. Bizzarro.
Feci vagare lo
sguardo per la stanza senza una meta precisa,
fino a quando non notai dei vestiti, piegati accuratamente su una sedia
in un
angolo. Erano sicuramente abiti maschili.
E se…
Avrebbe potuto essere la sua stanza.
Ah,
un’altra
fitta. Sentii i miei occhi stanchi gonfiarsi di lacrime ed ormai era
troppo
tardi.
Eccolo, il mio
pianto. Cominciai a singhiozzare
violentemente, la mia vista annebbiata da quell’incessante
fontana di lacrime.
Cercai tentoni il divano e mi raggomitolai su di esso, dondolandomi con
le
braccia strette attorno alle ginocchia. Vi appoggiai la testa e
così rimasi per
diversi minuti, o forse anche di più.
Quando risollevai il
viso, fuori era buio pesto, forse già
notte fonda. Avevo le guance umide, rigate dalle lacrime, e gli occhi
che
pungevano come spilli. Ero stravolta, era stata forse la giornata
più lunga e
complicata della mia vita.
Edward non era
tornato. Lo sapevo, lo sentivo. Le fitte allo
stomaco erano state un supplizio continuo durante tutto il mio pianto.
Non mi era chiaro
perché mi sentissi così male, perché
provassi quel dolore così… fisico.
Un diverso tipo di
fitta allo stomaco echeggiò in tutta la
stanza.
Era davvero
parecchio che non mangiavo qualcosa. Con estrema
lentezza sciolsi la presa dalle mie gambe e mi alzai dal divano.
Mi sentivo come se
le gambe non mi appartenessero, ero stata
ferma troppo tempo nella stessa posizione. Mi trascinai svogliatamente
verso il
corridoio, più stanca che mai.
Il mio stomaco, che
ora pregustava l’imminente pasto,
continuava a ruggire senza sosta. Mi sembrava che chiunque nel raggio
di
chilometri potesse sentirlo.
All’ennesimo
ruggito mi portai una mano sullo stomaco con un
più che appropriato“Shh!”.
Okay,
stavo impazzendo. Adesso parlavo con il mio stomaco, perfetto.
Cercai
nell’annebbiamento più totale di ricordarmi dove
fossero le scale. Erano prima o dopo lo studio? Proseguii senza
pensarci
troppo. Finché le gambe reggevano, tanto valeva camminare.
Dopo essermi
trascinata per buona parte dell’apparentemente
infinito corridoio bianco, il brusio di alcune voci ormai familiari mi
guidò
verso la mia meta.
“Finalmente”,
mormorai tra me e me.
Il mio stomaco
brontolò di nuovo e lo zittii con un opportuno
“Silenzio tu!”.
Mi abbarbicai al
corrimano, tentando con tutte le mie forze
di non volare giù dalle scale. Non staccai neanche un
secondo lo sguardo dalle
mie scarpe, per evitare di perdere il mio già precario
equilibrio. Fu una vera
impresa riuscire a mettere un piede davanti all’altro, ma
riuscii comunque ad
arrivare indenne alla fine della rampa di scale.
Rialzai lentamente
lo sguardo. La luce mi accecava, sbattei
gli occhi più volte senza vedere nulla di preciso. Poco a
poco misi a fuoco la
stanza. Oh, molto meglio. Il salotto era come prima, ma c’era
qualcosa che non
mi tornava, anche se non sapevo esattamente cosa.
Probabilmente era la
fame che mi faceva immaginare cose
strane, oppure ero semplicemente una povera pazza che parlava con il
suo
stomaco.
Mi trascinai fino al
salotto, dove proveniva il brusio di
voci.
“Tornerà,
vedrai”, sibilò Alice.
“Lo so
anch’io che tornerà, ma come ti ho già
detto, non
credo che sarà facile sopportarlo!”, rispose
Rosalie con lo stesso tono di voce
che aveva usato quel pomeriggio. Acido, seccato.
Sembrava essere
passata un’eternità da quel momento.
“E allora
di cosa stiamo discutendo? Per favore
piantiamola”, si lamentò Emmett.
Oh. Stavano ancora
parlando di Edward. Non era tornato,
ovviamente.
Anche se lo sapevo
già, sapevo che non era ancora tornato,
quell’ennesima prova mi provocò una nuova fitta.
Quasi in
contemporanea il mio stomaco si ribellò ai miei
rimproveri di poco prima e ruggì con forza. Il suono
sembrò riecheggiare per
tutta la casa.
Le voci si
bloccarono. Silenzio.
“El?”.
La voce gentile di
Carlisle mi chiamò da dietro il muro dove
mi nascondevo.
“El, vieni
tesoro”, continuò Esme.
Percepii il fuoco
avvampare sulle mie guance nello stesso
modo in cui sentii assalirmi dalla vergogna.
Beh, ormai non aveva
più senso nascondersi. Smascherata dal
mio stupido stomaco.
Grazie!,
mi
rivolsi al traditore. Ma dopotutto non ci vedevo più dalla
fame, così sbucai
esitante dalla porta che dava sul salotto e feci alcuni passi. Mi
fermai
all’ingresso, incerta.
“Bentornata
fra noi!”, commentò scherzoso Emmett, il suo
solito sorriso che gli riempiva il viso.
“Ciao”,
balbettai assonnata, una smorfia nel tentativo di un
sorriso.
Misi a fuoco
lentamente le figure di fronte a me. Erano sei,
tutte sedute intorno al tavolino di cristallo nel mezzo, alcune sul
divano,
altre sulle poltrone.
Feci correre
inutilmente il mio sguardo più volte, cercando
la settima figura. Si dice “tentar non nuoce”, ma
non in questo caso. A
dimostrarlo, una nuova fitta allo stomaco.
Il volto di Esme si
irrigidì quando mi vide. Si alzò e mi
superò, tendendomi una mano con sguardo angosciato.
“Vieni
tesoro, sarai affamata, andiamo in cucina”.
Oh sì,
cucina! Cibo, finalmente! Il mio stomaco cantilenava
felice.
Ripercorremmo
lentamente, o almeno io, il breve corridoio
che dal salotto portava alla cucina, passando davanti alle scale.
Arrivata alla tanto
sospirata meta, Esme cominciò a frugare
negli armadietti più in basso.
“Ecco, qui
forse...no, no, allora qua sopra...”, bisbigliava
a se stessa.
Io rimasi in attesa,
lasciando vagare lo sguardo per
l’immensa stanza. Tutto in quella casa era di dimensioni
smisuratamente grandi.
“Ah!
Trovato”, disse trionfante Esme da sotto il lavello.
“Non
abbiamo molto, sai...non mangiando... questo è una
delle poche cose che ho in casa”.
Appoggiò
con grazia sul tavolo una scatoletta di metallo
dall’aspetto pressoché fossilizzato.
Lessi lentamente
l’etichetta, scritta in una lingua che non
mi apparteneva. Ma l’immagine sull’etichetta
annerita era tutt’altro che
invitante.
“Sono
fagioli con il pomodoro”.
Uh, si avevo
ragione. Che orrore. Feci una smorfia.
“Se non ti
vanno credo di avere qualche merendina”, aggiunse
velocemente Esme, intuendo il mio disgusto.
Mmm…
merendine? Sicuramente non poteva andarmi peggio dei
fagioli. Soprattutto però cominciavo ad avere talmente tanta
fame che avrei
potuto facilmente trangugiare la scatoletta intera, metallo compreso,
senza
battere ciglio.
“Oh
sì grazie, credo che andranno bene le merendine”,
dissi
sollevata.
“Allora se
guardi nel frigorifero, dovrebbe esserci
qualcosa, se non sbaglio”.
Mi voltai, cercando
disperatamente la mia fonte di cibo.
“E’
là, fai tu cara?”. Mi indicò un angolo
sulla sinistra.
“Sì,
sì, grazie mille”.
Vidi con la coda
dell’occhio Esme che tornava lentamente in
salotto. Mi lanciai con foga sull’elettrodomestico. Lo
spalancai.
Rimasi qualche
istante accecata dall’improvvisa luce
all’interno, poi…
“Cioccolato!”,
quasi urlai.
Cioccolato! Sembrava
essere trascorsa un’eternità l’ultima
volta che l’avevo mangiato. Presi tra le mani le barrette,
infilandomi quasi
completamente nel frigo, e ne uscii trionfante.
Avevo racimolato tre
barrette, troppo poche per saziarmi, ma
abbastanza per zittire il mio stomaco. Scartai il primo involucro,
euforica.
Avvicinai alle labbra quel miracolo e lo addentai.
Non aveva la
consistenza giusta, né il solito sapore, ma mi
sembrava la cosa più buona che avesse mai sfiorato il mio
palato. Ero troppo
affamata.
Ingurgitai
velocemente, forse troppo, le altre due barrette
senza esitare. Quando finii, non mi sentivo ancora sazia, ma comunque
soddisfatta. Mi alzai e cercai un bicchiere. Ne scorsi uno dietro
un’anta della
credenza più in alto. Così mi arrampicai, facendo
attenzione a non danneggiare
nulla e a non rovinare il gesso, e lo afferrai.
Bene, e ora
l’acqua. Di bottiglie neanche l’ombra, quindi
aprii il rubinetto e riempii il bicchiere fino all’orlo. Dopo
che ebbi bevuto,
mi sentii pienamente soddisfatta.
Sospirai e tornai
lentamente verso il salotto, dove era
cominciata una nuova discussione.
Dalle scale qualcuno
mi chiamò, piano.
“El,
tesoro”.
Era Esme, ancora. La
sua voce dolce e delicata.
Mi voltai verso di
lei, confusa. Che cosa ci faceva lì? Mi
stava controllando?
Mi fece segno di
avvicinarmi ed io le obbedii.
Quando le fui
vicina, mi porse una mano. Era seduta sullo
scalino più basso, i gomiti appoggiati sulle ginocchia;
sembrava una statua. La
afferrai e mi condusse di fianco a lei.
“Siediti”,
mi offrì, ed io la ascoltai.
Mi passò
le dita sulle guance, ancora rigate di lacrime, e
mi sorrise tristemente.
“El,
tesoro, non è stata colpa tua. Non devi sentirti
minimamente in colpa, è stato un errore, può
capitare a tutti. E tu sei così
giovane e fragile, non affliggerti in questo modo”.
Voleva confortarmi,
aveva capito come mi sentivo. La guardai
con espressione vuota per qualche secondo. Era stata tutta colpa mia,
come
poteva negarlo?
“Se non
vuoi parlarne con me, non importa, ma mi ferisce il
modo in cui stai male per quello che è successo
oggi”. Annuii, anche se non ne
vidi il motivo.
Con dolcezza, e
lentamente, fece scorrere le lunghe e fredde
dita sul mio volto, fino a toccare le lacrime ormai asciutte. Mi
sorrise e poi
proseguì.
“Credo che
ora sia meglio che torniamo di là, dai vieni”. E
così dicendo si alzò.
Mi sarebbe piaciuto
alzarmi con la sua stessa grazia, senza
neanche un rumore, uno scalpiccio di protesta della scala.
Mi sollevai a
fatica, aiutandomi con il corrimano. Sembrava
che mi fosse cresciuto un mattone di duecento chili sullo stomaco in
quei pochi
minuti.
Esme mi
offrì nuovamente la mano ed io la accettai di buon
grado. La sua temperatura non mi turbava, era quasi piacevole.
Arrancai fino al
salotto, trascinata da Esme, e finalmente
mi resi conto di cosa c’era di diverso.
Non sapevo se ci
fosse sempre stato, o se fosse comparso
all’improvviso. Di certo non l’avevo notato fino a
quel momento. Mi domandai
come, visto che era enorme.
Era un pianoforte a
coda, nero, grande e lucido. Era
appoggiato su un rialzo in un angolo della stanza, il suo colore
così scuro che
contrastava con quello della parete.
Lo osservai, rapita.
Avevo sempre desiderato avere un
pianoforte come quello, esattamente uguale a quello. Mi ricordavo che
da
bambina mi piaceva giocare al piccolo musicista con quello di mio
nonno. Lui
era bravissimo, mi aveva dato qualche lezione.
Non feci caso agli
sguardi perplessi che mi seguivano. Mi
avvicinai con espressione sognante al piano.
“Posso?”,
chiesi timidamente, ma con entusiasmo.
“Ovviamente”,
mi rispose Carlisle.
Sembrava divertito
dalla mia espressione, e forse anche da
qualcos’altro, che tuttavia non riuscii a cogliere.
Sinceramente non mi
importava molto. La mia attenzione era
tutta concentrata sul piano.
A guardarmi
probabilmente sembravo una pazza. Neanche quello
mi interessava.
Sollevai piano il
copritastiera e mi sedetti sul seggiolino
di pelle nera che vi era posto di fronte.
Premetti leggermente
su un tasto, verificando che fosse
accordato. Perfetto.
Avevo voglia di
suonare, era così tanto che non lo facevo.
Così feci correre le dita sui tasti, intonando
pressoché a memoria la mia
melodia preferita.
River
flows in you
era da sempre stata la mia preferita, sapeva rilassarmi, rallegrarmi,
farmi
star bene insomma.
La melodia risuonava
ovunque nella stanza, come amplificata.
Le note salirono di intensità, per poi rallentare di nuovo.
E così ancora. Le
mie mani procedevano sicure sui tasti, mentre un sorriso nasceva sul
mio viso.
Non mi ricordavo fosse così piacevole suonare, era passato
davvero troppo
tempo.
Quando ebbi finito,
mi sentii meglio. Ero quasi indecisa se
ricominciare a suonarla.
Alle mie spalle
qualcuno stava bisbigliando.
“La pace
che irradia mentre suona è impressionante”. Era
Jasper.
“E’
molto brava per essere così giovane, Edward sicuramente
avrebbe apprezzato se fosse stato qui”, ribadì
Rosalie, stranamente gentile.
Appena il suo
commento si inserì nei miei pensieri, ecco
arrivare una nuova fitta.
Il riflesso fu quasi
automatico, i miei occhi si riempirono
di lacrime e le mie dita abbandonarono la tastiera. Non mi voltai, non
volevo
ferire Esme di nuovo con la mia stupida emotività.
“El,
tesoro, continua ti prego”. Fu proprio lei a
incoraggiarmi questa volta.
Non vedendomi
rispondere in alcun modo, ma sentendo solo il
mio respiro divenire a poco a poco più irregolare tra i
singhiozzi, Esme si
rese conto di ciò che mi stava accadendo.
“Rose!”,
la rimproverò all’istante.
“El, cara,
non preoccuparti. Tornerà. Ora continua ti prego,
sei così brava”.
Le lanciai uno
sguardo colmo di scuse e di ringraziamenti
allo stesso tempo. Scuse perché la feriva vedermi
così, ringraziamenti poiché
era così buona con me, così materna.
Ripresi lentamente a
suonare la stessa melodia di prima.
L’allegria che provavo prima era sparita, ora era solo un
debole sollievo,
mentre sentivo le mie dita correre sui tasti bianchi e neri di quel
magico
piano. Dopo averla suonata fino allo sfinimento, mi resi conto di
essere
stravolta.
Saranno state le tre
di notte ed io non avevo ancora chiuso
occhio.
Fuori era notte
fonda, colorata di ombre scure. Eppure i sei
abitanti della grande casa bianca non sembravano essere sul punto di
crollare
come me.
Richiusi il
copritastiera lentamente e mi alzai, stanca e
barcollante.
Alice fu al mio
fianco in un attimo.
“Esme,
credo sia meglio che la porti di sopra a dormire, sta
per crollare”.
“Oh
sì, buonanotte El”, mi disse dolcemente Esme.
“Notte”,
farfugliai confusa.
Anche gli altri mi
augurarono la buona notte, tutti tranne
Rosalie. Non capivo il perché, e in ogni caso ero troppo
stanca per pensarci.
Quando fummo davanti
alle scale, mi voltai verso Alice. Non
ero sicura di riuscire a salire i gradini senza finire per terra.
Con un ghigno, mi
prese in braccio e mi trasportò fino di
sopra.
Come riuscisse a
farlo, mi sfuggiva. Era così minuscola e
fragile nell’aspetto, non poteva sollevarmi come se niente
fosse. Senza
accennare a lasciarmi andare, mi portò fino alla stanza
dell’armadio.
“Questa
è la mia stanza”, cinguettò, un sorriso
stampato in
faccia.
“Spero non
ti dispiaccia dormire nel mio letto”.
Era decisamente
divertita da quella situazione.
Non ce la facevo a
rispondere, così mi limitai a scrollare
le spalle e socchiudere gli occhi.
Cattiva idea. Una
volta chiusi, dovetti combattere con tutte
le mie forze per riaprirli.
Dovevo chiederle una
cosa prima di sprofondare
nell’incoscienza più totale per chissà
quanto.
Quando riuscii ad
aprire gli occhi, ero già seduta sul
grande letto blu dell’immensa stanza.
“Alice”,
gracchiai assonnata.
“Sì?”.
“Quando
tornerà?”
“Presto,
El, presto”, mi rassicurò con un filo di voce,
mettendomi un braccio intorno alle spalle.
E questo
bastò.
Dopodiché,
immerse il viso nei miei capelli ed inspirò
profondamente.
“E’
davvero semplice starti accanto quando non hai odore,
davvero utile”.
Era compiaciuta.
Contenta lei. Mi accarezzò il braccio e si
alzò.
“Ora
dormi, sei distrutta”.
Non seppi se se ne
fosse già andata quando le palpebre
vinsero la mia forza di volontà e si chiusero sui miei occhi
stanchi.
Beeeeeeene.
Forse è stato un po' malinconico/taglia-vene come capitolo,
spero almeno che i pochi di voi che commentano non si siano
già
abbandonati ad atti di auto-violenza. Ok, basta con l'umorismo nero. Le
cose sono un po'
diverse dall'universo Meyer, o forse più semplicemente
ampliate.
E soprattutto il "mio" Edward non è esattamente la creatura
di
ostentata perfezione che lei dipinge. Sì, è
sempre lui,
ma sbaglia un po' di più. (Si è anche visto xD)
Spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento, ci si becca la
settimana prossima! :)
Mmm buonasera! Sono un po' in
anticipo con l'aggiornamento, ma non penso che faccia poi tanta
differenza. Vi ricordo che recensire una storia non uccide,
né nuoce alla salute.
Che cosa altro dire...ok, non ne ho idea.
Capitolo
5. Scuse.
Intorno a me era
tutto silenzio. In lontananza mi sembrava
di udire il cinguettio di alcuni uccelli, ma nulla di più. Silenzio.
Rimasi in quello
stato, in dormiveglia, per qualche minuto o
forse più.
Quando mi resi conto
che non sarei più riuscita ad
addormentarmi, cominciai a pensare.
Fuori era ancora
buio, lo percepivo, nonostante avessi
ancora gli occhi chiusi.
Nel buio
più totale, aprii gli occhi. Tutto era indistinto,
vago.
Riuscivo a definire
solo i contorni della stanza, le pareti
chiare, con quei riflessi dorati...
Un momento. Aspetta.
Eppure ero sicura
che Alice mi avesse portato nella camera
dell’armadio, non in quella dorata. Me lo ero immaginato?
Probabile. Mi avevano
spostata durante la notte? Possibile. In ogni caso i conti non
tornavano. Mi
sedetti, per poter esaminare al meglio la situazione.
Un tonfo, il mio per
la precisione. Atterrai con un sonoro thud.
Ahia.
Ah giusto,
ero sul piccolo divano nero.
Anche la moquette
era abbastanza comoda. Mi accoccolai
contro lo schienale del divanetto e rimasi lì a pensare.
Chissà
dov’era Edward, se era tornato. L’immagine della
sua
espressione mi straziava nei miei ricordi, l’ultima immagine
che avevo
registrato di lui prima che se ne andasse.
Dalle scale, un
lieve rumore. Qualcuno stava salendo i
gradini.
Neanche un secondo
dopo, udii bussare alla porta. Rimasi
sorpresa dalla velocità con cui, chiunque fosse, aveva
percorso l’infinito
corridoio che conduceva a quella stanza.
Non ero sicura di
dover rispondere, o comunque cosa dover
dire. Avanti? Non era casa mia, né camera mia. Meglio
l’opzione mutismo.
Con un leggero
cigolio la porta si aprì. Non vidi chi entrò,
sentii solo dei passi avvicinarsi a me.
Ero tranquilla, ma
il mio cuore, come se sapesse qualcosa
che io ignoravo, batteva a mille.
“Mi hanno
detto che sai suonare bene”, una voce mormorò
nella
quiete generale.
Al suono di quella
voce, i miei occhi si riempirono
nuovamente di lacrime. Silenzio.
“Perché
piangi adesso?”, chiese la voce, leggermente
divertita ma ugualmente ansiosa.
Scossi la testa e mi
asciugai le lacrime con il dorso della
mano.
Era così
vicino adesso, lo sentivo. Percepivo il suo respiro
calmo e fresco sul mio volto, la prima cosa che avevo avvertito di lui,
era
quasi tastabile. Mi sforzai di chiudere la bocca.
“El,
sarebbe il caso che tu parlassi, mi stai facendo
diventare pazzo”.
Non risposi. Avrei
voluto farlo, ma non trovavo le parole, o
almeno non quelle giuste.
In quel momento
l’unica cosa che avrei voluto fare sarebbe stata
gettargli le braccia al collo e dirgli quanto mi dispiaceva, scusarmi
per
quello stupido errore. Ma avevo paura che potesse reagire male, che
potesse
essere arrabbiato con me per quello che era successo.
“Ti devo
delle scuse”, disse.
Lui? Lui mi doveva
delle scuse? Era stata colpa mia se era
successo quel disastro!
“Non
riesci ad immaginare come mi senta in questo momento.
E’ stato orribile, davvero. Mi sono odiato con tutto me
stesso per quello che
stavo per fare, che avrei potuto compiere così
facilmente…
In queste ultime ore
non ho fatto che cercare di pensare ad
altro, ma il tuo viso era sempre lì, che mi inseguiva. Mi
tormentava. Non
riuscivo a dimenticarmi della tua espressione terrorizzata sul divano,
quando
ho… ceduto. Se… se non ci fosse stato
Emmett… ”.
Le sue parole si
rincorrevano, in una spiegazione che aveva fretta
di essere conclusa. Sul finale balbettò senza terminare.
“El, ti
prego, se puoi, perdonami. Se vorrai poi sparirò
dalla tua vita, ma ho bisogno che...”
“Shhhh!”, lo
zittii infuriata, sollevando una mano nel buio. Ancora silenzio.
In quei secondi
tentai di organizzare un discorso decente da
poter pronunciare senza scoppiare a piangere. Poi mi feci coraggio ed
iniziai.
“Edward”,
balbettai. Okay, come inizio non era dei migliori.
Ci riprovai.
“Edward,
come fai a chiedermi questo? Come fai anche solo a
pensarlo? Non ti rendi conto che...”. La mia voce si
andò perdendo, gli occhi
colmi nuovamente di lacrime pronte a sgorgare.
E tanti saluti al
mio discorso organizzato.
“Oh”,
disse triste, sospirando. “Capisco. Beh se è
così,
credo che sarebbe meglio se tornassi dagli altri...”,
mormorò con voce mesta ed
affranta.
Ma cosa aveva capito?
“No!”,
strillai. “No,
no, no, no, no! Resta, ti supplico”. E cercai
invano il suo
braccio nel buio.
“Non posso
restare”.
“Perché?!”,
domandai disperata.
“Se non
puoi perdonarmi, vedo la cosa piuttosto inutile”.
Il mio cervello
appena sveglio lavorava lento e assonnato,
ma a quelle parole scattò in un impeto di
lucidità.
“Ma
perché mai dovrei perdonarti?! Tu non hai fatto
niente!”.
“Ti ho
quasi ucciso!”.
“E’
stata colpa mia!”.
“Cosa?
Colpa tua? El, non scherzare”.
Mi voltai, le mie
lacrime avevano del patetico. Io e le mie
lacrime da rabbia. Era così snervante!
Mi prese il mento
tra le sue mani gelide. Le lacrime
sgorgarono ancora più velocemente, unite a quelle da
tristezza. Quella scena,
nonostante fossimo completamente al buio, mi ricordava troppo il
momento in cui
avevo rovinato tutto.
“Guardami”,
disse, una nuova sfumatura nella sua voce
perfetta.
“Non vedo
niente!”, strillai di nuovo.
Rise, divertito, ed
io rimasi ad ascoltare quel suono,
rapita. Era così bello anche solo sentirlo.
Click.
Una luce
leggera illuminò il viso più bello che avessi mai
visto e mi lasciò senza
fiato.
Era Edward, questo
l’avevo già capito, ma vederlo, vedere
che era lì vicino a me, era tutta un’altra cosa.
Ed era così vicino…
“Dicevi
sul serio? Prima, quando hai detto che non ho
bisogno di essere perdonato?”.
“Perché
dovrei mentirti?”.
La mia voce
rasentava l’isteria. Per un attimo mi chiesi se
qualcuno stesse dormendo.
“El, io ti
ho quasi ucciso. Rispondimi”.
“No, non
ti ho mentito, dicevo sul serio. Non riesco a
sopportare di averti... ferito”.
“Ah!
Ferito? Davvero, El? Sei sicura di stare bene?”,
ridacchiò.
“Sto
benissimo”, sibilai.
I suoi cambiamenti
improvvisi di umore erano impossibili, mi
facevano girare la testa.
Mi fissò
di nuovo, intensamente. Mi voltai, vinta da quello
sguardo.
Questa volta mi
lasciò fare, allentando la presa sul mio
viso.
“Perché
te ne sei andato? Mi… mi hai fatto star male”,
mugugnai,
sempre con lo sguardo rivolto al pavimento. Non ero mai stata brava con
le
parole, soprattutto nell’esprimere i miei sentimenti.
Arrossii, imbarazzata.
“Mi
dispiace, dico davvero. Ma non potevo rischiare di farti
del male, di avvicinarmi a te. Sarebbe stato troppo”.
“Ma ora
sei qui”.
Riportai i miei
occhi nei suoi, ora di un oro ancora più
brillante dell’ultima volta.
Ero fortunata che
grazie al mio strano potere non
potesse leggermi nella testa.
In quel momento,
persa nell’oro fuso dei suoi occhi, la mia
mente era un rincorrersi di pensieri incoerenti e confusi.
Alcuni non gli
avrebbero fatto molto piacere.
“Sì,
ora. Ora sono qui e sono con te, El”, mormorò
piano con
dolcezza.
Feci per
avvicinarmi, fu un riflesso che non riuscii a
controllare, pressoché automatico. Il suo viso era
così vicino al mio, troppo
vicino.
Sollevai timidamente
una mano verso il suo viso candido,
illuminato parzialmente dalla debole luce. La posai alla base dei suoi
capelli,
il suo tratto più umano, sulla nuca. Eravamo a pochi
centimetri uno dall’altro,
il suo respiro fresco sul mio viso mi scompigliava i pensieri.
“El”,
mi richiamò alla ragione, ritraendosi un poco, con
poco più di un lieve sussurro.
“S-Scusa…
non, non volevo. Mi dispiace”.
Indietreggiai
velocemente a distanza di sicurezza,
abbassando lo sguardo di nuovo e nascondendo la mano dietro la schiena.
Sembrava stesse andando a fuoco di sua spontanea volontà.
Un fuoco che mi
attirava al volto perfetto dell’angelo di
fronte a me, così vicino. Un fuoco che dovevo ignorare, per
quanto mi attirasse
a sé come un magnete. Avrei desiderato volentieri che il
pavimento mi
inghiottisse, facendomi scomparire.
Che stupida.
Stupida, stupida, stupida! Come
avevo anche solo potuto pensarci?
“Non dire
idiozie, El. Non devi dispiacerti”.
Mi sfiorò
la guancia umida di lacrime con la sua mano
gelida.
“Scusa”,
ripetei. Rise.
“Sei
così umana”,
mi prese in giro.
Si
avvicinò nuovamente, fino ad arrivare a pochi, pochissimi
centimetri dal mio viso. Spalancai gli occhi, increduli, e trattenni il
respiro.
Mormorò
qualcosa, il suo sorriso truffatore comparso di
nuovo sulle labbra, ma non riuscii a sentirlo. Era coperto dal rimbombo
dei
miei battiti veloci e doppi nelle orecchie.
“El,
tranquilla, respira”. E così dicendo
posò con
delicatezza la sua mano sul mio collo.
Sentivo il sangue
pulsare a mille al contatto. Non mi stava
aiutando, proprio per niente.
Ma lungi da me,
tuttavia, interrompere quel semplice tocco.
Forzai
l’aria nei polmoni, che mi furono subito grati di
quella mossa.
La camera riprese i
suoi confini, alla debole luce, e così
anche il suo viso perfetto.
Si
rilassò un poco. A poco a poco i miei battiti tornarono
quasi normali. Quasi.
Dopotutto la sua
mano era ancora sul mio collo.
Dopo qualche attimo
di silenzio, piuttosto imbarazzante, si
avvicinò nuovamente. Ma allora voleva uccidermi! Un collasso
respiratorio non
era nei miei programmi, ma forse nei suoi sì a quanto pareva.
Mi prese il viso con
entrambe le mani ed il mio cuore
rispose immediatamente, in automatico.
Respira,
continuavo a ripetermi, respira.
Ero
leggermente intimorita dalla sua inusuale vicinanza, e dalla mia
espressione si
poteva certamente capire.
La forza del suo
sguardo era quasi insopportabile. Mi
confondeva e, di nuovo, mi lasciò senza fiato. Respira.
Non capivo ancora
cosa volesse da me, cosa cercasse sul mio
volto con così tanto interesse e curiosità. Un
po’ mi turbava, un po’ mi
affascinava. Tuttavia fui costretta come poco prima ad abbassare lo
sguardo. O
almeno ci provai. Con forza mantenne la presa sul mio volto, tenendo i
miei
occhi bloccati nei suoi. La luce li illuminava leggermente, facendoli
brillare.
Le iridi erano di un oro più brillante di qualunque gioiello
avessi mai visto,
i riflessi che irradiavano tendenti al verde, o forse anche argento.
Rimasi a
guardarlo, la bocca schiusa lievemente in stupore.
Continuava a
fissarmi, ed io di rimando. Rimanemmo in quel
modo per diversi minuti.
“Non
dovresti dispiacerti per prima, i tuoi desideri non
sono lontani da quelli di altri”.
Lo guardai
inebetita, senza comprendere. Poi continuò.
“Ora si
sta facendo chiaro, credo che dovremmo scendere in
ogni caso”.
E così,
prendendomi per mano, uscimmo da quella magica
stanza.
“Aspetta”,
dissi con la voce ancora impastata dal sonno.
Avevo minimo due cose da fare prima di scendere le famigerate scale.
“Cosa
c’è?”, chiese dubbioso, inarcando un
sopracciglio.
“Vorrei…ehm…
andare in bagno, prima. Se non ti dispiace”.
“Se non mi
dispiace?”, mi prese in giro, imitando alla
perfezione il mio tono.
“Se mi
dici dov’è, almeno”, risposi a tono.
“Ah,
certo. Dietro la porta, gira a sinistra ed è subito
lì”, mi indicò, un sorriso
più che evidente nella sua voce.
Mi affrettai verso
il bagno. Avevo assolutamente bisogno di
controllare il mio stato, cosa che non facevo da almeno due giorni e
che mi
spaventava, e di usare la latrina.
Non appena entrai,
pensai di aver sbagliato porta: era una
stanza troppo enorme per essere un bagno. Tuttavia, gli indizi
c’erano tutti:
un gabinetto, un lavandino, una doccia, uno specchio…
Oddio! Da
quant’era che non mi guardavo allo specchio? Sembravo
una sfollata, una senzatetto.
I miei capelli erano
piatti, pesanti ed ancora inumiditi
dalle lacrime dei giorni passati. Per non contare la ciocca sporca di
sangue
alla base del collo. Non sembravano più neanche miei. Erano
più scuri, tendenti
al nero, una corona di ciocche che sparavano in ogni direzione
possibile e non.
Gli occhi erano
gonfi e pesti, visibilmente arrossati da
tutti quei pianti e cerchiati di viola. Le guance erano solcate da
profonde
righe di acqua salata, ormai seccata, pallide come non mai.
Così, per
prima cosa, mi sciacquai per bene il viso.
Ero veramente
conciata male. Forse era meglio farsi una
doccia, ma Edward? Era pur sempre fuori che mi aspettava. Tuttavia, non
potevo
di certo presentarmi di sotto in quel modo.
Presa la mia
decisione, quindi, voltai le spalle allo
specchio e mi diressi verso la porta.
Misi la mano sulla
maniglia, pronta ad avvisare Edward e
lanciarmi dentro quell’enorme doccia.
“Ah!”,
esclamai.
La porta si era
spalancata nello stesso istante in cui stavo
per aprirla.
Dalla fessura
creatasi, fece capolino il piccolo viso da
elfo di Alice, i suoi capelli più disordinati dei miei.
Nonostante ciò lei era
perfetta, angelica. La invidiavo.
“Ciao”,
disse con un sorriso più che smagliante.
“Ho
pensato che visto che vuoi farti una doccia, dovresti
cambiarti i vestiti”, proseguì con un ghigno.
Mi scomposi un poco
alle sue parole. Come aveva saputo che
volevo lavarmi? E soprattutto, come così in fretta? Non
riuscivo a tirare fuori
una risposta decente.
“Non ti
preoccupare, lo dico io a Edward. Ora ti porto i
vestiti”, aggiunse prontamente, notando la mia espressione.
Si fermò
un attimo a guardarmi, anzi squadrarmi era più
corretto. Un leggero moto di disgusto si dipinse sul suo viso angelico
alla
vista dei miei abiti ormai ridotti in fin di vita.
“Così
non devi più rimettere quelli”.
Sull’ultima parola, il disgusto si era fatto più
che evidente.
Mi sentii arrossire
ed abbassai il volto. Silenzio.
“Se sono
miei, non importa vero?”.
Trasalii un poco,
non pensavo fosse ancora lì, era tutto
così silenzioso.
“No, no,
figurati. Anzi grazie, andranno benissimo”.
Mi sorrise
apertamente e uscì dal bagno. Non era stato
esattamente un sorriso, più che altro era un ghigno malefico
e minaccioso. O
almeno così mi era sembrato. Forse stavo andando in paranoia.
Tornai di fronte
allo specchio, facendo scorrere le mani sul
viso. No, quelle occhiaie non volevano proprio venire via. Cominciai a
togliermi il maglione blu, che ormai aveva la consistenza del cartone e
l’aspetto
di una fisarmonica.
In quello stesso
momento Alice tornò compiaciuta nella
stanza, o almeno supponevo fosse lei. Era sommersa da un carico abnorme
di
abiti.
“Alice?”,
chiamai esitante. Quella quantità spropositata di
vestiti mi terrorizzava.
“Si, sono
io. Aspetta un secondo”.
La sua voce mi
raggiunse smorzata da quel bagaglio, in bilico
tra le sue esili braccia. E così dicendo appoggiò
quel finimondo sul mobiletto
del lavandino.
“Okay,
molto meglio”, cinguettò con un sorriso.
“Alice,
stai scherzando vero?”, chiesi angosciata, indicando
la montagna pericolante di stoffa.
“E
perché dovrei? Ti ho portato solo un po’ di
scelta, tutto
qui”.
“Un
po’ di scelta? Alice, mi hai portato un negozio!”.
“Fai come
vuoi, scegli pure”. E si incamminò velocemente
verso il corridoio.
“Alice!”,
cercai di chiamarla, ma ormai era uscita.
“Perfetto”,
brontolai a me stessa.
Dopo di che mi
costrinsi ad esaminare qualche capo,
stendendolo accuratamente sul ripiano.
Mio
dio! Erano uno
più colorato dell’altro, dalle fantasie
particolari ed astruse e, cosa più
inquietante di tutte, con scolli vertiginosi.
Presi in mano quello
più anonimo e lo appoggiai al mio busto
per vedere come mi stava.
Alice scherzava,
vero? Era cortissimo, non mi arrivava
nemmeno al ginocchio, neanche a metà della coscia.
Lo staccai il prima
possibile dal mio corpo, nauseata.
Quanto mai le avevo permesso di prestarmi i vestiti! Ora avevo davvero
bisogno
di una doccia, ero più nervosa che mai.
Mi sfilai con rabbia
la maglia ed i jeans, appallottolandoli
in un angolo a terra, decisa a indossarli nuovamente nel caso non
avessi
trovato altro dopo.
Entrai nella doccia,
ma dovetti uscire un attimo: non c’era
shampoo in vista.
Frugai velocemente
nei cassetti fino a quando non trovai
quello che cercavo. Era una boccetta di dimensioni minuscole, se non
fosse
stato per il suo colore, non l’avrei certamente notato. Era
di un verde molto
brillante, acceso; sull’etichetta una dicitura altrettanto
luminescente scritta
in quello che supponevo fosse francese.
Soddisfatta,
rientrai in doccia ed aprii l’acqua, badando
bene a non bagnare il gesso.
Non mi sentivo
così bene con me stessa da un bel po’.
Sentivo l’acqua scorrere finalmente tra i miei capelli
stanchi, bagnarmi il
viso, lavando via le ultime tracce delle lacrime. Rimasi fin troppo a
lungo
sotto l’acqua bollente, ma alla fine, controvoglia, mi
costrinsi ad uscire.
Sgusciai fuori dalla
doccia, avvolgendomi subito addosso un
grande asciugamano bianco.
La calma e la pace
guadagnate con la doccia, svanirono quasi
all’istante quando mi ritrovai nuovamente a fronteggiare
l’enorme pila di
abiti.
Brontolai qualcosa
di incoerente, incerta se rimettermi i
miei vestiti sporchi. Ma…
Un ringhio, a
metà tra un ruggito ed un grugnito, mi risalì
la gola. I miei vestiti erano andati, spariti.
Alice.
Alice, ne
ero certa. L’effetto calmante della doccia era
definitivamente svanito.
Rassegnata e
furiosa, mi avvicinai alla pila di abiti. Ah.
Appoggiati, in un
angolo del mobiletto più basso, c’era
adesso un paio di jeans blu scuro, scoloriti sui fianchi. Il mio umore
si
risollevò un poco. Almeno la piccola pazza furiosa mi aveva
offerto un paio di
pantaloni, oltre a tutto quel disastro.
Mi sembravano un
po’ troppo lunghi per appartenere ad Alice,
ma non ci badai molto.
Mi infilai i jeans e
con aria compiaciuta mi guardai allo
specchio. Mi stavano abbastanza bene dopotutto, facevano risaltare le
mie gambe,
facendole apparire lunghe e asciutte. Poi, il problema principale: che
cosa
mettere...sopra? Non ne avevo la minima idea. Il gesso era un problema.
Feci correre lo
sguardo velocemente su quell’inquietante
montagna colorata, fino a che non trovai quello che cercavo.
Era il piccolo
vestito scuro e anonimo che avevo provato
poco prima, troppo corto per essere indossato da solo. Ma forse con i
jeans…
Lo provai. Con
un’aria più che soddisfatta, notai che era
perfetto per stare con i pantaloni. Abbastanza lungo da coprirmi, ma
non
troppo. E mi stava anche abbastanza bene, meglio dei pantaloni. Aderiva
alla
mia vita quasi come una seconda pelle, per poi allargarsi dolcemente
fino a
cadere sui fianchi.
Lo scollo me lo ero
immaginato peggio, anzi non era male. Il
mio ciondolo era perfetto in quella posizione. Trionfante, mi sfregai i
capelli
con l’asciugamano, un ghigno stampato in faccia.
Fu quando i miei
capelli furono pressoché asciutti e
cominciai a cercare le scarpe, che il mio umore precipitò
nuovamente.
Tacchi! E non tacchi
normali, tacchi a spillo dalle altezze
vertiginose. Io non riuscivo neanche a camminare per terra senza
inciampare, e
quella pazza voleva farmi andare in giro con quei trampoli? Erano una
trappola
mortale. Per me e per il resto delle persone che mi stavano accanto,
ero un
vero e proprio pericolo.
Non ci misi molto a
decidere che sarei andata in giro
scalza. Dopotutto, le mie adorate scarpe da ginnastica mezze distrutte
si erano
volatilizzate nel nulla.
Mentre mi
controllavo allo specchio, per l’ultima volta
prima di scendere, il mio occhio cadde su una piccola borsa posata
sulla
mensola vicino allo specchio. Avrei giurato che non ci fosse stata
prima. Frugai
al suo interno, curiosa.
Erano trucchi. Beh,
già che c’ero.
Mi avvicinai allo
specchio, matita nera alla mano, e
cominciai a passarla sul profilo inferiore degli occhi. Ne aggiunsi
anche un
po’ ai lati, per allungarne la forma, ma non troppo. Non mi
piaceva esagerare
con quel genere di cose. Tirai fuori anche un poco di cipria,
disponendola
sugli zigomi. Molto meglio. Era da molto che non mi vedevo truccata,
faceva un
certo effetto. Strano, insolito.
Mi spazzolai i
capelli senza pensarci e mi catapultai fuori
dal bagno, consapevole di essere in ritardo. Percorsi le scale
così velocemente
da chiedermi come facessi ad essere ancora in piedi.
Una volta arrivata
di sotto, sentii le voci familiari
provenire dalla cucina, insieme ad un rumore di stoviglie. A quel suono
il mio
stomacò mi ricordò che aspettava la sua - la mia
- colazione.
Tan tan taaaaaaaan! Sarebbe
taaaaanto, tanto carino se qualcuno si degnasse di scrivermi anche solo
che faccio pena, giuro xD In ogni caso, alla prossima settimana! Buon
weekend :)
Buon
sabato a tutti! Un'altra settimana è finita finalmente. Non
ce la facevo più D: Detto questo, vi
lascio al capitolo. Le cose cambiano - e cosa non lo fa? -, alcune in
meglio ed altre in peggio. Ok, ora vi lascio davvero xD
Capitolo
6. Cambiamenti.
Avanzai lentamente
verso la cucina fino ad arrivare sulla
soglia, dove rimasi sbalordita.
Le sette figure si
muovevano con grazia inumana attraverso
la stanza, intente nel preparare qualcosa.
Nell’istante
stesso nel quale arrivai sulla porta, quelle
sette figure si arrestarono, voltandosi verso di me con espressioni
gentili.
Non mi soffermai molto su quei volti perfetti, a me ne interessava solo
uno. E
proprio quel viso si illuminò lievemente alla mia comparsa,
un ampio sorriso
agli angoli delle labbra.
La sua assurda bellezza mi sconvolgeva ogni
volta. Volevo rimanere lì a guardarlo, ma uno sbuffo
catturò la mia attenzione.
Mi voltai.
“Rose!”,
strillò Alice, all’apparenza furiosa.
“Che
c’è?”, domandò innocente
Rosalie. Forse fin troppo.
“Le hai
dato i tuoi jeans! Io le avevo messo lì solo i
vestiti, diamine!”.
“Non
poteva di certo scendere così, lo sai Alice. Non tutte
sono come te”.
“Non…tu…”,
balbettò furibonda Alice con un ruggito.
Strano. Non mi sarei
mai aspettata che tra tutti proprio
Rosalie mi avrebbe aiutata.
Un po’
intimorita dall’espressione della piccola Alice, mi
avvicinai incespicando al bell’angelo di fronte a me.
“Buongiorno”.
Sospirando, mi
voltai verso la voce che mi aveva salutata.
Era Emmett.
“Ciao”,
dissi raggiante, con un sorriso. Poi sorrisi anche a
Esme, Carlisle, Jasper e per ultima Rosalie, a cui riservai anche uno
sguardo
di profonda gratitudine.
Ero davvero di
buonumore quella mattina.
Tornai a cercare
l’angelo. Era appoggiato al banco della
cucina, con fare disinteressato.
Mi avvicinai
sorridendo, inclinando lievemente la testa
verso il suo sguardo perso oltre la finestra, cercando di intercettarlo
in
qualche modo e riportarlo alla realtà.
Ma il suo
atteggiamento era cambiato completamente rispetto
a pochi secondi prima.
Non si
voltò, come mi ero aspettata, e rimase dov’era. Mi
feci più vicina, sporgendomi da un lato per incrociare
quello sguardo così
assorto e pieno di pensieri. Quando incontrai finalmente i suoi occhi,
trasalì
un poco. Si accigliò, ma sorrise.
“Buongiorno”,
dissi, cercando di sollevare quello strano
morale.
“Buongiorno.
Stai molto bene così”, disse in tono distaccato
e apatico.
Era strano, diverso.
Non era il mio angelo.
“Ah,
grazie. Ehm, credo… anche tu stai bene”.
Annuì,
sorridendo leggermente.
Un sorriso che non
gli illuminò il volto, né gli occhi.
Scomparve prima di raggiungerli.
In questo modo si
conclusero i nostri dialoghi.
Non del tutto;
continuava a salutarmi brevemente la mattina,
ad augurarmi la buonanotte la sera, a chiedermi cosa preferissi
mangiare, ma
mai niente di più. Così procedettero i miei
giorni seguenti nella grande casa
bianca. Anonimi, silenziosi.
Gli unici che
mantennero il loro comportamento furono Emmett
ed Esme. Emmett sapeva sempre farmi ridere; con un atteggiamento, una
battuta,
un gioco, qualunque cosa di lui risultava buffa e divertente.
Gli andavo a genio,
così aveva detto.
Esme era sempre la
stessa donna dolce e gentile che mi aveva
tanto sostenuta il primo giorno. Materna, solare. Carlisle non fu molto
presente durante quei giorni così bizzarri, aveva
“faccende di lavoro” da
sbrigare urgentemente, così non seppi interpretare il suo
comportamento.
Alice.
Alice si
era indurita parecchio in quei pochi giorni. Non mi rivolgeva quasi
più la
parola, se non per scortarmi in camera la sera. Sembrava
l’ombra del fratello,
in ogni singola, irrilevante cosa. Mi chiesi il motivo di quella
simbiosi tanto
particolare.
Jasper era anonimo,
non si vedeva mai, o quasi, durante il
giorno. E se c’era, rimaneva in un angolo in disparte, il
più possibile lontano
da me.
L’unico
cambiamento più che positivo fu quello da parte di
Rosalie, così apertamente ostile fin dall’inizio.
Infatti, dal bizzarro
episodio della doccia, i nostri sorrisi insicuri e timidi si erano
trasformati
a poco a poco in sguardi complici e commenti.
Era diventata quasi
un’amica per me, forse più di quanto
avrei mai pensato. Mi piaceva parlare con lei, riuscivo a confidarmi e
a
scherzare senza problemi.
Oltretutto avevo
scoperto che Emmett stava con lei. I miei
due migliori amici in quello strano clima.
Nonostante
quell’inaspettata amicizia riuscisse a non farmi
del tutto notare lo scorrere del tempo, vedere Edward che mi evitava
così
deliberatamente mi faceva star male.
Rose poteva
confermarlo, passavo le notti ad irrigare di
lacrime le sue magliette. Era sconcertante il modo in cui mi feriva.
Sbagliato,
e tuttavia impossibile da evitare.
Edward non mi
prestava più la minima attenzione, non mi
cercava.
Voltava lo sguardo
quando incrociavo i suoi occhi. Erano
undici giorni che tutto questo andava avanti. Non potevo, non riuscivo
a
sopportare oltre.
“El, che
ne dici della scuola?”, mi domandò una mattina
Rose, raggiante.
“Scuola?”,
domandai stupita.
Scuola.
Mi ero
quasi dimenticata che esistesse, a dire la verità.
In quel luogo
così improbabile, con personaggi che parevano
nascere dalle pagine di un libro di fiabe, non mi sembrava neanche
possibile.
“Sì,
scuola. Ti va?”. Rose interruppe di nuovo i miei
pensieri.
“Perché?”.
Non capivo da dove
nascesse il suo strano interesse.
“Le
vacanze pasquali stanno finire, noi dobbiamo tornarci in
ogni caso”, cominciò a dire, “e tu
dovresti venire con noi. Sarebbe grandioso”.
“Io? A
scuola? Con voi?”, ripetei, le mie parole balbettate
velocemente.
“Sì.
Dai, El. Sarebbe fantastico andare a scuola insieme,
noi due. Che ne pensi?”.
Poi si
voltò.
“Esme? Tu
che dici?”.
Esme stava
preparando come ogni mattina la colazione per me,
biscotti sul grande tavolo ovale. Sollevò il viso verso di
noi, guardandomi
circospetta.
“Dipende
da El, Rose. Lo sai”, disse, sorridendomi in modo
gentile.
Era così
materna, dolce. Mi ricordava mia madre. Mia madre…
Chissà se
sentiva la mia mancanza, se mi avevano cercato da
quando ero sparita nel nulla, poco più di una settimana
prima.
A me mancava
moltissimo. Mi sarebbe piaciuto moltissimo
rivedere il suo viso, lievemente abbronzato dal sole, sorridermi di
nuovo. Rimasi
un attimo a contemplare il suo volto, persa nei miei ricordi. Mi
sarebbe
piaciuto, questo è vero, ma…
Non volevo tornare.
Non ancora almeno. Non mi era chiaro il
motivo della mia indecisione; vi avevo cercato una risposta diverse
volte,
senza risultati.
Avrei voluto tanto
chiamare a casa per sentirli e
rassicurarli del fatto che andava tutto bene e non dovevano
preoccuparsi, ma
insieme alla mia memoria più recente avevo anche perso il
mio cellulare e, con
lui, tutti i numeri salvati all’interno.
Esme e Carlisle si
erano proposti di riportarmi a casa
subito dopo il mio “incidente”, ma non avevo
acconsentito. Mi era sembrato
sbagliato. Forse il vero motivo era che volevo vedere Edward sorridermi
ancora
una volta prima di andarmene e sparire da quel mondo fatato.
“El? El ci
sei?”, mi chiamò Emmett dall’altro lato
della
stanza. Trasalii.
“Oh,
scusa. Non volevo svegliarti!”, ridacchiò,
prendendomi
in giro.
Gli mostrai la
lingua, facendogli una smorfia.
“El?
Prometti che ci penserai, per favore?”, mi domandò
Rose, con aria supplichevole.
Rosalie era in
assoluto la ragazza più bella che avessi mai
visto. Mi chiesi come stonasse la mia presenza al suo fianco.
La prima volta che
l’avevo osservata, non mi ero del tutto
accorta di quanto fosse splendida. Mi era parsa bellissima, certo, ma
nulla di
più. Ora che la conoscevo meglio, avevo imparato ad
apprezzarla in ogni singolo
dettaglio.
I suoi capelli
biondi scendevano dolcemente lungo le spalle,
quasi fino ad accarezzarle i fianchi, formando cascate di boccoli
dorati. Il
viso era ovale, scolpito. Qualunque donna avrebbe dato di tutto per un
aspetto
così. Il fisico era asciutto ma tonico. Sembrava essere
stato ritratto nel
marmo. I suoi occhi, di un colore variabile tra l’onice e
l’oro, mi stavano
fissando, imploranti e in attesa di una risposta.
“Sì,
ci penserò Rose. Va bene”, mi arresi a quello
sguardo.
“Promesso?”.
“Sì,
Rose, promesso”, acconsentii, sconfitta.
Dopotutto, un
po’ di scuola non mi avrebbe fatto male.
Sentivo la mancanza
della normalità, della monotona
quotidianità di tutti i giorni. Quella casa, nonostante mi
trovassi piuttosto
bene, non era propriamente quello che si definisce
“normale”. Vampiri compresi.
Ormai avevo
accettato abbastanza di buon grado l’idea che i
miei strani coinquilini fossero così particolari nella loro “alimentazione”.
Non mi importava
granché. Loro erano buoni, e me lo avevano
già dimostrato.
Quel giorno scorse
più lentamente degli altri, fiacco.
Passai la mattinata con Rose, come al solito, intenta a riordinare il
suo immenso
guardaroba. Rimasi a guardarla divertita.
Si lanciava come un
razzo nell’armadio, cercando di
scegliere quale abito indossare e quali invece dar via. Era sempre
indecisa, ed
io non ero da meno.
“Meglio
questo secondo te, El?”, mi chiese per l’ennesima
volta mentre faceva ondeggiare un piccolo abito blu davanti allo
specchio.
“Non lo
so, Rose. Quello mi piace, ma anche l’altro ti sta
bene”, commentai svogliata.
“Grazie,
molto utile”. Mi fece una smorfia.
“Rose, tu
stai bene con tutto. Quindi non vedo il motivo…”
“El, dimmi
la prima cosa che ti passa per la testa e basta.
Per favore”, sbottò esasperata, quel commento
glielo riservavo praticamente
ogni giorno.
“Allora…
quello lì, quello blu. Va bene?”.
“Grazie”.
E finalmente la sfilata si concluse.
Vivevo perennemente
dentro i suoi vestiti, anche se erano un
po’ troppo lunghi a volte. E di certo non avevano lo stesso
effetto su di me,
ma cercavo di non pensarci.
Dopo quel breve
episodio, che ormai si ripeteva
incessantemente tutti i giorni, la giornata trascorse lenta e noiosa.
Non avevo
fame, quindi sgranocchiai semplicemente una barretta sul divano,
accoccolata a
Rose.
Posai la testa
nell’incavo freddo della sua spalla e rimasi
così per diversi minuti. Forse anche di più.
Sullo schermo
gigante di fronte a me si susseguivano
immagini senza senso, almeno per me.
Mi accorsi di non
percepire il respiro di Rose, solo quando
provai a rilassarmi in cerca di un po’ di sonno. Speravo che
almeno così sarei
riuscita a far passare il tempo più velocemente.
Mi tirai su
rapidamente, il cuore a mille. L’ultima volta
che qualcuno aveva trattenuto il respiro in quel modo, subito dopo era
successo
il finimondo.
“Rose?”,
farfugliai confusa.
Non mi rispose, mi
sorrise semplicemente in modo gentile. Ah,
brutto segno.
“Rose!
Dimmi perché non respiri”, mi intestardii, la voce
leggermente più decisa.
“Ehm,
ecco…è da parecchio che non…mangio. E
tu...”. Abbozzò
un sorriso, senza terminare la frase.
Spaventata,
controllai subito quello strano velo che
ricopriva la mia testa. Avevo imparato a controllarlo, più o
meno. Beh, almeno
a percepirlo. Mi sembrava a posto, ma lo tastai nuovamente, in cerca di
buchi o
chissà cosa.
Quando vide la mia
espressione confusa e concentrata, capì
cosa stavo facendo.
“No, El.
E’ tutto a posto, non sei tu. O meglio, non è il
tuo coperchio”.
Lei lo chiamava
così, diceva che era più simpatico. Contenta
lei.
“E
allora…?”. Non capivo. Perché non
respirare se era tutto
okay?
“Diciamo
che anche se non sento il tuo odore, questo non
significa che non senta il tuo battito, o il tuo calore. O il tuo
sangue”, ammise
con aria colpevole, abbassando lo sguardo.
A
quell’affermazione scattai da un lato, allontanandomi da
Rose. Non volevo ferire lei come avevo fatto con Edward. No, non potevo.
“El,
tranquilla. Non ti farò del male. Non respirare non
serve a niente a dir la verità, è solo che mi
aiuta a concentrarmi, tutto qui.
Rilassati, è tutto okay”.
Il mio viso era
paralizzato in qualunque espressione avessi
poco prima.
“Rose, da
quant’è che non... cacci?”, domandai, la
mia voce
spezzata e tremante.
“Un
po’. Non volevo lasciarti qua da sola e sono rimasta
più
del necessario, forse troppo direi”, ammise, abbozzando un
sorriso.
“Rose,
devi andare. Subito, stasera. Non voglio...non voglio
ferire anche te”.
Alla fine della
frase la mia voce era stata coperta da uno
strano rumore. Solo poco dopo capii che era un singhiozzo, il mio.
“El? Ma
cosa stai dicendo? Tu non potresti far male a
nessuno qui dentro, neanche se lo volessi. Su col morale”.
Cercò di
tirarmi su, ma senza risultati. Il singhiozzo era
diventato una vera e propria crisi di pianto in piena regola. Perfetto.
“Tu,
E-Edward. Non... non voglio. Non posso, tu devi andare.
Stasera”, farfugliai.
Pronunciare il suo
nome ad alta voce richiedeva uno sforzo
notevole da parte mia.
“Promettimelo”,
insistetti.
Mi guardava con aria
apprensiva, dolce. Era preoccupata per
me. Dovevo calmarmi.
“El...non
puoi, non devi sentirti in colpa per quell’idiota
di mio fratello. Okay? Dai, basta piangere”. Mi venne vicino,
cercando di abbracciarmi.
“Prometti
Rose, prima”, la avvertii allontanandomi.
“Va bene,
prometto. Ora vieni qua, frignona”. E con un
sorriso mi abbracciò, cullandomi dolcemente tra le sue
braccia gelide.
Mi accorsi delle
voci intorno a me. Non erano molte, ma
facevano un gran chiasso. Erano voci familiari, ma non quelle che mi
sarei
aspettata di sentire. Dov’era Rose? Credevo di essermi
addormentata tra le sue
braccia, sul divano. Eppure…
No, le voci che
sentivo non erano decisamente le loro,
quelle dei Cullen.
Erano troppo roche,
troppo basse. A fatica, cercai di aprire
gli occhi. Non avevo voglia, avevo ancora parecchio sonno. Sbadigliai,
tenendo
gli occhi ancora chiusi. Mi stiracchiai.
Un momento. Se fossi
stata sul piccolo divanetto bianco di
casa Cullen, a quest’ora sarei già precipitata per
terra, tra le risate
fragorose di Emmett. Strano.
Mi costrinsi ad
aprire gli occhi, in preda alla curiosità.
Dove mi avevano trasportata stavolta?
Non mi sembrava il
grande materasso di Alice, dove di solito
dormivo, né quello di Rose, che a volte mi aveva ospitato.
Era troppo scomodo,
troppo duro.
Era tutto buio e
silenzioso adesso. Le voci erano sparite,
portando via con loro il minimo di familiarità che avevo con
quel luogo
misterioso e sconosciuto. Non sapevo a chi appartenessero, ma almeno
non
sembrava lo scenario di un film dell’orrore. Ora
sì.
Uno spiffero
d’aria mi fece rabbrividire. Qualcuno doveva
aver lasciato la finestra aperta.
Il soffitto della
stanza non era tutto dello stesso colore,
aveva ombre più scure ai lati, che convergevano verso il
centro. Era davvero
strano. Aguzzai lo sguardo, stringendo gli occhi, per cercare di
definire
meglio quella strana fantasia. Aveva delle leggere luci qua e
là…
La
realtà, quando si abbatté contro di me, fu
sconvolgente.
Stelle. Erano
stelle. E io ero fuori, al freddo e al buio.
Da sola.
La strana fantasia
del soffitto erano alberi. Gli enormi
alberi che tanto mi avevano spaventato la prima notte con Edward.
Dove erano finiti
tutti? Non potevo credere che mi avessero
abbandonata.
Mi avevano
abbandonata? Anche Rose? No, non era possibile. Non
potevo e non volevo pensarci.
Mi voltai di scatto,
mentre percepivo il panico montarmi
dentro, così da fronteggiare il terreno umido e sconnesso.
Rimasi seduta sui
talloni per qualche istante, in preda alla
confusione più totale. Ero stata io ad allontanarmi? Non me
lo ricordavo. Ma
d'altronde c’erano parecchie cose che non mi ricordavo.
Mi sedetti per
terra, con un tonfo che mi fece sussultare.
Calma,
mi dissi, adesso
vediamo che diavolo è successo.
Tentai di alzarmi,
traballante, ma il primo tentativo andò a
vuoto. Ricaddi a terra con un sonoro crack.
Ci riprovai.
Okay, meglio. Una
volta raggiunta la posizione eretta,
cominciai a cercare un segno, qualcosa di familiare. Niente.
Perfetto!
Pensai,
allargando le braccia, destinata a vagare in eterno per il nulla! Era
sconvolgente il fatto che riuscissi ad usare il sarcasmo anche in
questa
situazione.
Azzardai qualche
passo in avanti, ma tornai subito indietro.
Temevo di perdere l’unico punto di riferimento che avevo al
momento.
Forse
dovrei… No,
meglio di là... No, però credo che le voci
provenissero…
Queste furono le mie
considerazioni confuse, nel buio e nel
silenzio più totale.
Un grido
echeggiò nel silenzio, facendomi ronzare le orecchie.
Era stato
l’urlo più terribile che avessi mai sentito.
Straziante, di dolore.
Attesi qualche
secondo, terrorizzata. Sentivo i miei battiti
nelle orecchie, il respiro affannoso, un ronzio ancora nei miei
timpani, dovuto
al grido.
Le voci ripresero,
ma stavolta non parlavano, gridavano.
Ne individuai
alcune, senza riconoscere a chi
appartenessero.
“Corri,
Daniel, corri!”.
“Da questa
parte, Jess! Muoviti!”.
Alcuni passi
affrettati incespicavano in lontananza. E
ancora.
“Mel!
Dov’è Eric? Eric!”. Erano grida di
paura, stavano
scappando.
Non sapevo
né dove né soprattutto da cosa, ma qualcosa o
qualcuno c’èra.
Cominciarono a
tremarmi le gambe, e mi sentii instabile
sulle ginocchia. Attenta a non fare il minimo rumore, cominciai a
muovermi. Ma
non andai verso le voci, al contrario corsi rapidamente verso il primo
straziante grido agonizzante.
Mi lanciai in una
corsa alla cieca, graffiandomi spesso con
i rami degli alberi o inciampando nel terreno sconnesso. Tutte le volte
mi
rialzavo, meccanicamente, e riprendevo la mia corsa.
Mi sembrava di non
aver mai fatto muovere le mie gambe più
velocemente. Se non fosse stata una situazione così assurda
e pericolosa, ne
sarei certamente stata entusiasta. Mi accorsi con una strana
sensazione, che
ondeggiava dalla sorpresa allo smarrimento più totale, che
non sapevo
assolutamente dove stessi andando. Mi sarei persa.
Un rantolo
sopraggiunse alla mia destra, in lontananza. Poi
un altro grido, lo stesso di prima.
A quel suono, i miei
pensieri passeggeri si persero nel buio
della notte insieme a tutto il resto.
Mi sforzai di
correre ancora più rapidamente, sfrecciando
senza sosta. Era una mossa azzardata, rischiosa certamente, ma
c’era una strana
forza che mi attirava verso quel grido.
Non seppi
esattamente perché, ma dovevo andare.
Un gemito. Stavolta
era vicino, molto vicino.
Sbucai in uno
spiazzo stranamente illuminato dal chiarore
della luna, ma non solo. Al centro della piccola radura c’era
un falò che
ancora ardeva e scoppiettava. Rimasi a fissarlo finché un
altro gemito non
richiamò la mia attenzione.
C’era
più luce in quel luogo, ma i miei occhi non si erano
ancora abituati. Tuttavia riuscii a delineare i contorni di due figure.
Una era
piccola, minuta ed accasciata in un angolo, contro un grande tronco di
quella
che avrebbe potuto essere una quercia. Era da quella figura
così esile che
continuavano a provenire incessantemente dei rantoli di dolore.
L’altra
figura era nettamente più imponente, più grande e
minacciosa. Era accovacciato, di fianco alla ragazza e la sovrastava.
Aveva un
ghigno sulle labbra.
Poco a poco mi
accorsi che riuscivo a definire meglio quelle
figure, e così i colori. Tuttavia non osavo muovermi, ero
paralizzata dalla
paura.
L’uomo,
adesso che riuscivo a vederlo meglio, era davvero
grosso e imponente. Non riuscivo a vederlo chiaramente,
poiché portava un’ampia
felpa scura con un cappuccio che gli oscurava il viso.
Nonostante
ciò era palese che fosse lui la causa del dolore
della ragazza accasciata ai suoi piedi, ancora agonizzante.
Lei cercava
inutilmente di strisciare via, usando solo un
braccio e le gambe. L’altro braccio era messo in una
posizione del tutto
strana, innaturale. Probabilmente era rotto.
Non riuscivo a
vederla bene in viso, era all’ombra del
tronco.
L’uomo si
scostò il cappuccio, mentre con un ghigno si
avvicinava alla ragazza.
Questa
lanciò un grido che mi perforò i timpani e mi
stordì.
L’uomo continuava ad avanzare lentamente, come a prolungare
la sua agonia.
“Stai
ferma. Ora faccio, e poi è tutto finito”, disse
con
voce suadente.
“Vieni
qua, non fare la difficile. Tanto hai già visto che
ti prendo se provi a scappare”, continuava a parlarle, come
per convincerla.
“Stammi
lontano!”, gridò la ragazza, con improvvisa
decisione.
In quel momento,
mentre il mio cervello registrava la sua
voce e la sua esile figura usciva finalmente alla debole luce del
falò, un
rumore arrivò alle mie spalle.
Non mi capacitavo di
quello che stava succedendo, rimasi
semplicemente a guardare la scena, sconvolta. Un’altra figura
entrò nella
radura, con un ruggito.
Sobbalzai,
terrorizzata.
“Stalle
lontano, Claude”, ruggì la voce, in preda
all’ira.
“E tu chi
sei, scusa?”, domandò confuso l’uomo,
sorridendo
beffardo.
“Stalle.
Lontano. Ho. Detto.”, ripeté quella voce.
“Subito”,
gli intimò ancora una volta.
“Non credo
che lo farò, ragazzo. Non senti il suo sangue?”.
“Claude.
Allontanati”, minacciò la voce, adirata.
Quando la ragazza
gemette di nuovo, i tasselli del puzzle
andarono al loro posto.
Riconobbi la
ragazza, la sua voce, la voce. Tutto.
Quella scena, le
grida, l’attacco mi attiravano a loro come
un magnete. Ora capivo perché.
Le avevo
già vissute. Ero io la ragazza.
Quella voce era la
voce, l’unica voce che mai avrei
immaginato di sentire a quel punto.
E l’uomo.
L’uomo era il mio assalitore, finalmente avevo
capito.
Tuttavia questa
consapevolezza non mi fece stare meglio e,
nell’istante in cui le labbra di Claude sfiorarono il mio
collo, mi svegliai
urlando.
Mani gelide mi
trattennero, mentre io continuavo a gridare a
pieni polmoni senza fiato.
Non riuscivo a
fermarmi, mi era impossibile.
Era stato tutto
così vivido, così reale.
“El!”,
mi chiamò la voce sconvolta di Rose, mentre mi
strattonava per farmi smettere.
“El,
basta! E’ tutto okay, sei al sicuro!”. Dalla sua
voce
traspariva tutta la sua angoscia.
“Carlisle,
che cos’ha?”, chiese di nuovo Rosalie.
“Credo sia
stato un incubo, niente di grave. Ma sembra
davvero sotto shock”.
“Non hai
qualcosa per calmarla? Trema come una foglia”,
puntualizzò
Alice.
Alice. Era tanto che
non la sentivo così vicina a me, mi era
mancata.
Cercai di
tranquillizzarmi e di chiudere la bocca con tutte
le mie forze.
Dopo qualche
tentativo, ci riuscii.
“El?”,
mi chiamò di nuovo Rose.
“El, mi
senti?”. Mi strattonò un poco.
Aprii gli occhi,
ancora sconvolta, e li sbattei più volte a
causa della luce troppo intensa.
Percepivo
l’espressione sconvolta sul mio volto, i miei
occhi vitrei e spalancati in una maschera di terrore, ma non riuscivo a
calmarmi.
Mi accorsi di
Edward, in un angolo della stanza, un’ombra
scura contro la parete bianca.
Ripensai alla sua
espressione furiosa nel sogno, alla sua
ira, e mi si strinse il cuore.
“Oh, meno
male”, fu il commento di Emmett. “Non la smetteva
più di urlare. Pensavo mi spaccasse i timpani”.
Qualcuno, forse
Jasper, ridacchiò e poi si allontanò. Non
riuscivo a distinguere ancora bene la gente attorno a me.
Non ero
più sul divanetto con Rose, come avevo pensato…
prima.
Adesso mi trovavo nella grande stanza dorata che mi aveva ospitata la
prima
notte.
“Jazz, Emm
meglio che voi due andiate di là. Non siete per
niente di aiuto”, li ammonì Esme.
Poi si rivolse a me.
“El, cara,
tu stai bene? Cos’è successo?”.
Trasalii
violentemente e ricominciai a tremare tra le
braccia di Rose, che mi accarezzò il braccio come per
rassicurarmi.
“Esme,
credo che questo non sia il momento. Andiamo”, disse
Carlisle, sorridendomi, e poi se ne andò con lei.
“Credo che
andrò anch’io ora”, aggiunse Alice.
“Edward,
tu?”.
Era ovvio, dove
andava uno andava l’altro. Ormai era così,
mi ero abituata.
Abbassai lo sguardo,
rassegnata a vederlo sparire un’altra
volta.
Non mi aveva ancora
rivolto la parola.
Era ancora in piedi
contro il muro, il più lontano da me, le
braccia incrociate sul suo petto di marmo. Aveva
un’espressione strana, nuova,
che non riconobbi.
“No, io
resto qua, Alice. Vai pure avanti tu”.
Questo non me lo
aspettavo. Incredula, alzai lo sguardo ed
incrociai il suo. Il mio incubo non mi aveva permesso di vederlo
chiaramente,
era molto più bello e perfetto di come lo ricordassi.
“Edward…”,
lo ammonì seccata la piccola Alice.
“Alice,
vai”, tagliò corto Edward, voltandosi verso di lei
velocemente.
“Io ti ho
avvertito”. Sembrava una minaccia. Strano.
Tornò a
fissarmi e per la prima volta dopo giorni mi parve
di rivedere lo stesso sguardo che mi riservava all’inizio.
Tremavo ancora, ma
non così forte come prima e Rose mi
lasciò andare.
“El, mi
puoi dire che cos’è successo? Mi hai fatto
spaventare a morte”, chiese Rose.
“Ho…ho
visto...”, balbettai e rabbrividii al ricordo.
Adesso ricordavo.
Non ero sicura che fosse un bene.
“Cosa?”,
domandarono all’unisono i due di fronte a me,
chinandosi protettivi.
Edward si era
avvicinato impercettibilmente nel giro di
qualche secondo.
Aprii la bocca per
parlare, ma non ne uscì alcun suono. Mi
si era formato un nodo in gola.
“El, per
favore”, disse a quel punto Edward, posando la sua
fredda mano sulla mia guancia.
Le lacrime che mi
gonfiarono gli occhi e si riversarono sul
mio viso, fino a bagnare le sue dita, furono un misto di gioia e
tristezza.
Rivoli di acqua salmastra m’inumidivano le guance e non
accennavano a
diminuire.
Le emozioni che
stavo provando erano così confuse.
C’era
gioia, perché sentivo la mancanza di quella mano sul
mio volto e di quello sguardo apprensivo e dolce, ma anche tristezza
poiché
sapevo che tutto ciò era dovuto ad un breve episodio e,
purtroppo, non sarebbe
durato.
Così,
forzai le parole sulle mie labbra tremanti.
“Claude”,
sillabai in silenzio.
In un attimo lo
shock attraversò anche il suo volto perfetto.
Beeeene. Vi lascio in
sospeso per una settimana adesso xD Faccio sempre il solito appello a
chi legge di lasciarmi qualunque tipo di commento, anche un insulto se
proprio non sapete che fare. Ah, con l'occasione ringrazio i pochi - ma
buoni - che osano avventurarsi nello spazio recensioni.
E poi...boh, basta. Buon weekend a tutti! :)
Beeeene,
anche oggi c'è il solito appuntamento con me. Questo
capitolo è relativamente breve e piuttosto concentrato, ma
prometto che dalla prossima volta si allungheranno un po'(non so quanti
di voi possano gioirne però xD). Ah niente, buona lettura!
Capitolo
7. Irritante.
Rimanemmo alcuni
minuti in assoluto silenzio, solo il mio
battito frenetico ed i nostri respiri a scandirne il tempo. Lo sguardo
di Rose
era angosciato, perso nel vuoto. Stava riflettendo, e la lasciai fare.
Edward
non era da meno; probabilmente stava avendo a che fare con i suoi
pensieri e
con quelli di Rose. Io rimasi a fissare entrambi, stanca e confusa,
cercando di
rilassarmi, invano.
“Cos’hai
visto di preciso?”, domandò cauta Rose.
“Hai
visto…tutto?”, aggiunse Edward, visibilmente
turbato da
quella rivelazione.
“No, non
tutto. Ho visto...”.
Rabbrividii al
ricordo dell’ultima scena del sogno.
“Hai visto
me?”, chiese Edward.
Voleva sapere se lo
avevo visto uccidere quel mostro? Che
cosa voleva sapere?
“N-No. Ti
ho solo sentito arrivare, e parlare. Mi sono
risvegliata quando...”. Non conclusi la frase, non era
necessario.
Rabbrividii soltanto.
“Hai visto
quando ti ha morsa?”, chiese Rose, curiosa.
Il tatto non era uno
dei suoi punti forti, questo lo sapevo.
“E’
stato lì che mi sono... svegliata”, ammisi,
arrossendo per
il risveglio traumatico.
“Ah”,
disse Edward.
Sembrava sollevato.
Quando parlò di nuovo, era visibilmente
più calmo e rilassato.
“Cosa
credi sia stato?”, mi domandò curioso.
“Non lo
so”, confessai. “Non ne ho la più
pallida idea”.
Era vero. Non sapevo
minimamente il perché di quel sogno, o
ricordo, o qualunque cosa fosse.
“Potrebbe
essere la tua memoria; magari sta tornando”,
concluse Rosalie.
“Potrebbe,
ma perché ora, perché proprio adesso?”,
mormorò
Edward, più a se stesso che a me e Rose.
“Dovremmo
vedere cosa succede”, aggiunse Rose.
“Se
è davvero la sua memoria che sta tornando, e non
solamente un incubo, dovrebbe avere il…seguito…a
breve”.
Sobbalzai sul
piccolo divano scuro, rischiando di finire
sulla moquette. La fulminai con lo sguardo. Edward non fu da meno.
Non avevo
nessunissima voglia di rivivere di nuovo quella
scena, anche se sapevo come terminava.
Quando Claude mi
aveva… morsa
nel sogno, era stato come
sentirlo davvero.
Come sentire i suoi
denti nella mia carne, nel mio collo.
Sentire il suo peso sulla mia gamba, sulla mia figura indifesa. Era per
quello
che mi ero svegliata urlando e tremante. Era stato orribile, non volevo
una
replica.
“Rose,
evita per favore. Non credo sia il modo migliore per
farla calmare”, la zittì Edward.
Meno male che,
pensieri o no, mi aveva sempre capita.
“Oh, scusa
El”, mormorò Rosalie.
Grugnii qualcosa,
senza dire niente di coerente.
Nonostante mi fossi
appena svegliata, mi sembrava di essere
sveglia da settimane. Ero distrutta. Chiusi gli occhi un attimo per
concentrarmi.
Quasi non riuscii a riaprirli.
“Ehi”.
Li riaprii a fatica,
ma non ero più dov’ero prima. Non mi
ero spostata di molto, ma adesso ero tra le braccia di Edward.
Ah. Dovevo essermi
addormentata e mi stavo per spiaccicare a
terra.
“Scusa”,
bisbigliai, la voce impastata dal sonno.
Il sorriso
truffatore che tanto mi era mancato rispuntò ad
un tratto sulle sue labbra. Ne rimasi incantata. Era come svegliarsi
nel bel
mezzo di un incubo, cosa che alla fin fine era accaduta, e trovarsi
davanti
l’angelo più bello che potesse esistere.
Mi sforzai di tenere
la bocca chiusa.
“Direi che
hai parecchio sonno da recuperare, forse è meglio
che ti lasciamo dormire”.
Ero sul punto di
ribattere, ma un sonoro sbadiglio me lo
impedì.
Oops.
Smascherata
come al solito dal mio corpo ribelle. Sorridendomi, fece per andarsene.
“No!”,
strillai, in preda al panico.
Non volevo che se ne
andasse. Mi aggrappai alla manica della
sua camicia con quanta forza potevo.
“El,
calmati. Va tutto bene ora”. Con la mano tornò a
sfiorarmi la guancia umida.
“Non…non
andare. Per favore”, supplicai balbettando.
Rose mi guardava con
aria preoccupata, ma complice. Sapeva
quanto tenessi ad averlo vicino a me, seppure per quel tempo limitato.
Mi sorrise e, senza farsi notare da
Edward, mi fece l’occhiolino.
L’avrei
strangolata. Anche se non l’avesse vista, avrebbe
percepito i suoi pensieri. Con espressione afflitta, trovai conferma
dei miei
sospetti nel sorriso truffatore che era comparso di nuovo sul suo viso.
Abbassai lo sguardo,
sentendomi arrossire.
“Credo che
andrò da Alice”, disse Rose, con aria innocente.
“Resta qui tu con lei, Edward”.
Mi rivolse
nuovamente quel sorrisetto complice e
soddisfatto.
Mentre la guardavo,
furiosa, una risatina uscì dalle sue
labbra.
Grazie
mille,
Rose. Speravo tanto che avesse potuto sentire tutto il sarcasmo che le
avevo
riservato.
“Bene”,
disse Edward con un sospiro. Si stava divertendo,
era palese.
“E
rimasero in due”, sibilai, ancora arrabbiata.
Rise del mio tono di
voce, e forse anche della mia
espressione.
“Già,
direi di sì”, disse ridacchiando.
Quel suono mi era
mancato più di quanto pensassi negli
ultimi giorni. Rimasi ad ascoltarlo rapita.
“El?”,
domandò incuriosito.
Trasalii un poco. Mi
ero persa nel suo sguardo.
“Scusa…
non ti stavo seguendo”, ammisi imbarazzata.
“Sì,
ho notato”.
“Mi stavi
dicendo qualcosa?”.
“Niente di
particolare, lascia stare”.
“No, no
d…”. Un altro sbadiglio. “Dimmi, ti
ascolto”.
Sorrisi imbarazzata.
Sorrise gentile e
poi aspettò qualche istante in silenzio.
“No, nulla
davvero. Adesso è meglio che vada, devi
riposare”.
Automaticamente
strinsi la presa, abbarbicandomi alla sua
camicia.
“El, non
ti preoccupare. Dormi, adesso. Sei distrutta”.
“No,
non…non è vero”, ribattei testarda, ma
senza risultato.
Un altro sbadiglio
mi smascherò.
“Oh,
sì certo. Vedo, infatti”, mi prese in giro,
accarezzando il profilo del mio viso con la sua mano fredda, mentre con
l’altra
scioglieva facilmente la presa ferrea sulla sua maglia ormai
stropicciata.
Gli feci una smorfia
e, ostinata, allacciai le mie gambe
alla sua schiena. Era una posizione strana, scomoda e soprattutto
imbarazzante,
ma almeno era ancora lì con me.
Edward si era nel
frattempo inginocchiato vicino al bordo
del divanetto scuro, dove io ero seduta. Quando presi quella postura,
sorrise
di nuovo e, con mio grande stupore, si avvicinò.
Il mio battito
accelerò in automatico, sentivo il cuore
nelle orecchie.
Pensavo si fermasse,
ma mi sbagliavo.
Continuava ad
avanzare, un centimetro alla volta, un lieve sorriso
stampato in faccia.
Calmati,
mi
ripetevo, non fare come l’altra volta. E così
dicendomi, nascosi le mani dietro
la schiena, stringendo con forza i pugni fino a che non li sentii
indolenziti.
Mi arrivò
così vicino che temetti che il mio povero cuore
schizzasse fuori dal petto. Non riuscivo a sentire niente a parte i
battiti
nelle orecchie. E lui, imperterrito, si avvicinava.
La forte luce della
stanza lo illuminava, rendendolo ancora
più bello ai miei occhi stanchi.
Feci correre lo
sguardo sulla sua figura così assurdamente
perfetta.
Il busto, il petto,
le spalle, il collo, la bocca, le
labbra.
E poi ancora.
Il mento, il naso,
gli zigomi, gli occhi, i capelli.
Mi soffermai su
quella sua strana chioma di bronzo. Era più
scompigliata del solito e aveva le punte bagnate che ricadevano a
piccole
ciocche sulla fronte di marmo. Nonostante ciò sembrava
appena uscito da una
fiaba, il principe azzurro che chiunque sogna da bambina. Non era un
principe,
non era per niente azzurro, ma era meglio di qualunque sogno avessi mai
fatto.
Quando fu a pochi,
pochissimi centimetri dal mio viso, si
fermò, sospirando. Non riuscivo a capire cosa lo divertisse
così tanto, ma in
quel momento, così vicina al suo volto, ero sicura che non
avrei capito niente.
Anche la cosa più semplice e stupida.
Forse rideva della
mia espressione, della mia bocca
spalancata in stupore, del mio respiro agitato. O forse più
semplicemente
sentiva come correva il mio cuore. Non mi importava. Quella volta
furono i suoi
occhi a catturare la mia attenzione, così vicini come non lo
erano mai stati.
Erano diversi,
visibilmente più scuri. Erano neri, neri come
il carbone. L’oro era sparito, lasciando posto ad uno strano
color onice.
Inclinai lievemente la testa, incuriosita.
Anche gli occhi di
Rose cambiavano colore, ci ero abituata,
ma non diventavano così scuri. Da quanto tempo non andava a
caccia? Quando il
suo sguardo si focalizzò nel mio, quel piccolo pensiero
andò perso insieme agli
altri. Colore diverso o no, l’effetto era sempre lo stesso.
Con un altro
sospiro, si avvicinò ulteriormente, arrivando
quasi a toccare la mia fronte
con il naso. Trattenni il
respiro.
Si
allungò verso sinistra e…
Click.
Spense la luce.
Tutto fu buio in un attimo, come poche notti
prima. Ridacchiando, sciolse di nuovo la mia inutile presa e si
alzò.
“Buonanotte,
El”. Ero congelata nella stessa posizione di
pochi istanti prima, le gambe ancora chiuse attorno al nulla. Mi ero
illusa,
ancora e ancora.
Stupida!,
urlai nella
mia testa.
Ero sbigottita, non
riuscivo neanche a piangere, come avrei
voluto.
“Dormi,
El”, mi disse, accompagnando la mia schiena sul
divano.
La sua voce era
ancora lì, vicino al mio orecchio, ma dal
lato opposto del divano. Ora era dietro lo schienale. Non mi aspettavo
fosse
rimasto in camera, quindi sussultai quando ne udii la voce.
“Sogni
d’oro”. E qualcosa di freddo mi sfiorò
la fronte, con
un leggero schiocco.
Che cosa era stato?
La risposta credevo di conoscerla bene,
ma non volevo illudermi di nuovo come la stupida che sapevo di essere.
L’avrà fatto senza pensarci,
continuavo a ripetermi, non ti ha baciato la fronte per un motivo.
No,
non mi ha baciato la fronte.
Andai avanti in
conversazioni con me stessa finché non presi
sonno. Mi era difficile dormire, nonostante fino a qualche momento
prima fossi stata
distrutta. E lo ero ancora. Ma oltre all’incessante ed
oltremodo fastidioso
ticchettio della pioggia all’esterno, non facevo che pensare
a Edward.
I suoi cambiamenti
di umore erano sempre così repentini ed
imprevedibili o era una cosa che riservava solo a me, in modo da farmi
impazzire il prima possibile? Mi facevano girare la testa.
Un momento prima
voltava la testa per evitarmi, e quello
dopo mi augurava la buonanotte come se nulla fosse. Forse non ero io
l’unica
pazza allora.
Il ticchettio della
pioggia era snervante.
Tic- tac- tic- tac. Irritante.
Continuai a girarmi
sul piccolo divanetto nero, finché per
poco non mi ritrovai con il naso sul pavimento. Con un grugnito
furioso, rimasi
a terra, buttandomi un cuscino sulla testa. Non ne potevo veramente
più.
“Edward
che cosa ti è saltato in mente stasera?!”,
strillò
la voce irritata di Alice.
Probabilmente era
rimasta offesa per come l’aveva lasciata
uscire di scena da sola.
“Shh! El
sta dormendo”, la zittì Edward. Magari fossi
riuscita a dormire.
“Non mi
interessa! Che cosa ti passa per la testa?”,
continuò
Alice, sempre più furiosa.
“Alice,
smettila. Così la svegli”.
“Ti avevo
avvertito che era un errore starle vicino, sia per
te che per tutti noi”.
La sua voce si era
abbassata di molto, ma a me giunse come
minimo tre volte più alta. Come uno schiaffo.
“Lo so,
Alice. E’ solo che...”
“Niente!
Io ho visto come finirà, nonostante vicino a lei mi
sia quasi impossibile. L’ho visto!”.
“Il futuro
cambia Alice, le tue visioni non sempre…”
“Oh
piantala, Edward. Fino a ieri anche tu eri d’accordo con
me”.
“Esatto,
fino a ieri”.
“Non puoi
farti condizionare da quegli occhietti da
cerbiatto”.
“Alice…”.
“No. Alice
niente. Ora basta. Tu devi evitare che quello che
ho visto accada. Ci siamo intesi?”.
“Alice…”,
ripeté la voce affranta di Edward.
“No. A
domani, Edward”.
Sentii il lieve
rumore dei suoi passi allontanarsi, e poi
quelli di Edward. Finalmente silenzio.
Anche la pioggia si
era calmata, diventando solo un debole
sottofondo.
Tuttavia mi era
impossibile pensare di dormire dopo aver
ascoltato una conversazione del genere. Che cosa stava tramando Alice?
Perché
io e Edward ne eravamo compresi? Cosa avevo fatto io?
Il
futuro. Le visioni.
Così aveva detto Edward.
Alice vedeva il
futuro? No, non era possibile. Ma che razza
di famiglia era quella? Da quello che aveva detto Alice, sembrava che
io
bloccassi il suo potere, come anche Edward.
Che stupida a non
averlo capito prima.
Alice vedeva il
futuro! Ecco il perché di quelle strane
discussioni il primo giorno, quando avevo origliato. Tuttavia non
riuscivo a
capire perché dovesse avercela tanto con me, non le avevo
fatto niente. Anzi,
dopo il primo giorno, non le avevo neanche più rivolto la
parola. Solo qualche
sorriso, un saluto. Sorrisi che non aveva mai ricambiato, se non con
sguardi
pressoché assassini. Ma me ne ero fatta una ragione.
Il rumore della
pioggia era ancora fastidioso, nel silenzio
e nel buio più totale.
Non seppi quando
finalmente mi addormentai, ma ad un certo
punto, durante quella notte orribile, confusa ed irritante, lo feci.
Ok, ora vi obbligo a
lasciarmi una recensione u.u No, non è vero. Però
sarebbe taaaanto carino :D In ogni caso ci si
becca la settimana prossima. Buon sabato e buon weekend! :)
Buonasera! Oggi l'aggiornamento
è serale perchè nel pomeriggio sono andata a
vedere 'Il cigno nero'. Mamma mia quel film, la Portman è
meravigliosa. In ogni caaaaso...ah niente, questo capitolo mi
è sembrato un po' diverso mentre lo scrivevo, come un cambio
di marcia. Fatemi sapere cosa ne pensate :)
Capitolo
8. Sbalzi d’umore.
Mi svegliai
già stanca, per nulla riposata. Era stata
davvero una notte pesante.
Aprii gli occhi.
Era ancora buio.
Spaventata, tastai subito il materasso
sotto di me.
Avevo paura di
ritrovarmi di nuovo sul terreno umido e sconnesso
dell’ultimo incubo. Passare le mani sulle coperte morbide e
lisce mi fece
sentire meglio e mi rilassai, sprofondando nel cuscino.
Aspetta, da quando
c’erano coperte e cuscino sulla moquette
della stanza dorata?
Sobbalzai
all’istante, la testa che girava. Mi ero alzata
troppo in fretta.
Mi sedetti,
portandomi le mani alle tempie. Possibile che
ogni volta che chiudessi gli occhi mi ritrovavo sempre da
un’altra parte? Era
snervante e disorientante.
Mi resi conto che
non era buio come pensavo, ma che cercavo
solamente la luce dalla parte sbagliata. Ero evidentemente nella stanza
di
Rose, l’unica senza le pareti di vetro su tutta la lunghezza.
Aveva preferito
gli specchi.
Probabilmente era
già mattina. Difficile capirlo, vista la
costante coltre di nubi e nebbia che ricopriva quel luogo. Saltai
giù
dall’immenso letto, barcollando un poco.
Approfittai degli
specchi per vedere in che stato ero dopo
una notte del genere. Accesi la luce e mi avvicinai a quello nel
guardaroba.
Sgranai gli occhi
alla vista del mio riflesso. Sembrava
avessi perso uno scontro con un tosaerba.
I miei capelli erano
ovunque, tranne nel posto in cui
sarebbero dovuti stare. Sospirai e cominciai a sciogliere i nodi,
passando le
dita tra i capelli.
Sentivo
l’umidità anche sui polpastrelli, era incredibile.
Quel luogo era il più umido che fosse mai esistito. Da
quanto ero arrivata, non
c’era stato un solo giorno senza pioggia. Neanche a
chiederlo, un giorno di
sole.
Il che avrebbe
potuto essere solo una coincidenza, ma Rose
mi aveva raccontato che quello era la regione più piovosa in
tutti gli Stati
Uniti, quindi niente da fare. Quanto mi mancava la Florida.
E la mia Miami?
Chissà che tempo c’era lì.
Probabilmente,
poiché era marzo, le spiagge cominciavano a popolarsi di
coraggiosi che
tentavano i primi bagni.
I miei capelli non
ne volevano sapere di tornare a posto,
quindi mi arresi. Lasciai cadere le braccia sui fianchi, sconfitta, e
mi
trascinai verso il corridoio.
“Ehi,
El”, mi salutò Emmett, appena fuori dalla porta.
“Quand’è che sloggi da camera
mia?”, mi prese in giro, sorridendo.
Timida, sorrisi
anch’io. Mi dispiaceva occupare le stanze
degli altri.
“Ciao Emm.
Sì, scusa, lo so è che…”,
cominciai a
farfugliare.
“Oh, dai
El, stavo scherzando”, tagliò corto Emmett,
dandomi
una leggera gomitata.
Ero sicura di
essermi procurata un bel livido nuovo di
zecca.
“Hai
fame?”, disse, sempre sorridendo.
Emmett era sempre
così solare, metteva di buonumore.
“Un
po’”, ammisi.
Subito mi prese per
un gomito e mi caricò in spalla.
“Ehi!”,
protestai rauca. “Mollami!”.
Mi agitavo come una
bambina.
“El, non
ho voglia di stare ad aspettarti”.
Ridendo, mi
portò ad una velocità sovrumana verso la cucina.
“Ciao El,
cara”. La voce di Esme proveniva dalla mia
sinistra.
O dalla mia destra?
Non lo capivo. Girava tutto.
“Ciao”,
abbozzai confusa, forse rispondendo al muro o al
frigorifero.
“Dormito
bene?”, domandò Carlisle, mettendomi una mano
sulla
spalla per indirizzarmi sulla sedia.
“Sì,
sì. Grazie”, mentii svelta.
Non ero mai stata
brava a dire bugie, ma magari non
l’avevano notato.
“Colpa
della pioggia, vero?”, chiese sorridendo Rose. Lei mi
capiva sempre al volo.
“Un
pochino”, ammisi timida. “Ciao Rose”.
“Ciao
El”, rispose subito Rosalie, sfoggiando un gran
sorriso.
“Gli
altri?”.
Con quella domanda
ovviamente mi riferivo ad una sola
persona. Rose lo sapeva bene.
Il tardare della
risposta mi fece già intuire di cosa si
trattasse.
Sospirai,
allungandomi per prendere i biscotti in mezzo al
tavolo.
“Colazione
per tutti, capito”.
Emmett
scoppiò a ridere. Rose si lasciò scappare una
risatina angelica.
“No. Non
ancora, almeno”, mi informò Emmett tra le risate.
Scattai in piedi.
“Sono
ancora qui?”, domandai impaziente.
“Sì,
devono essere nel garage. Se vuoi beccarli, mi sa che
ti tocca correre”, aggiunse Rose.
Strisciai la sedia
sul pavimento, rischiando di farla volare
a terra per la foga, e corsi via.
“Torno
subito!”, urlai alle mie spalle.
Chissà le
grosse risate di Emmett. Cercai di non pensarci.
Mi fiondai fuori
dalla porta, subito verso il garage. Non
avevo girato molto in quei pochi giorni di permanenza, ma la casetta
poco
distante dall’enorme edificio bianco mi aveva da subito
incuriosita.
L’avevano
rimodernata come box per le loro auto. Ne avevano
di tutti i tipi.
Avevo sempre avuto
una piccola passione per le macchine,
forse a causa di mio padre.
Corsi fuori
nell’ampio giardino davanti alla casa.
Il mio braccio era
migliorato notevolmente, talmente tanto
che Carlisle era stato costretto a togliermi il gesso, con mia grande
soddisfazione, e rimpiazzarlo semplicemente con una fasciatura stretta.
Mentre
sfrecciavo in mezzo al prato bagnato, attenta a non scivolare, sentivo
i ciuffi
d’erba inumidirmi le scarpe. Alcuni, più lunghi,
arrivavano a solleticarmi le
caviglie. Se solo non fossi stata così impaziente di
rivederlo, mi sarebbe
piaciuto soffermarmi per guardarmi intorno. Per quanto fosse coperto di
nebbia
e nuvole perenni, quel luogo era semplicemente magico.
Giungendo finalmente
in prossimità del garage, rallentai un
poco.
Levai lo sguardo
verso il cielo.
La nebbia densa ma
leggera mi imperlava il viso di piccole
gocce d’umidità. Era piacevole.
Il cielo era
claustrofobico, quasi opprimente. Le nuvole
addensate e scure sembravano avvicinarsi, schiacciandomi; si muovevano
veloci
nonostante non ci fosse vento.
Ero abituata a ben
un altro tipo di cielo, nella mia calda e
assolata Miami. Era sempre di un azzurro intenso e brillante, cosparso
di
batuffoli bianchi e innocui qua e là.
Un leggero bagliore
faceva capolino, quasi invisibile, da
dietro quella coltre impenetrabile di nubi. Sbattei le palpebre,
infastidita
dalla lieve luce, e tornai con lo sguardo davanti a me.
Fui costretta a
compiere una rapida deviazione; stavo per
andare a sbattere. Forse era meglio che tenessi gli occhi per terra. A
quel
punto ero ormai giunta a destinazione.
Sfrecciai sotto
l’ampio ingresso, per poi arrestarmi di
colpo con il fiatone.
Di fronte a me, due
statue bianche e perfette. La prima era
alta, bionda e leonina.
Jasper ovviamente.
Stava giocherellando con quelle che
supponevo fossero le chiavi di un’auto, senza badarci troppo.
Per il resto era
totalmente immobile, almeno fino a quando non mi sentì
entrare, ansimante.
Come suo solito,
indietreggiò visibilmente, fino a toccare
il muro.
La seconda, molto
più piccola, stava mettendo le ultime cose
nel bagagliaio quando si accorse di me. Riconoscendola al primo
sguardo,
abbandonai velocemente il suo viso. Sapevo che di lì a pochi
secondi mi avrebbe
rivolto la consueta occhiata colma d’odio che mi riservava
sempre.
Lasciai
così vagare i miei occhi all’interno della grande
struttura, attenta per la prima volta ai particolari presenti.
Tuttavia qualcosa di
insolito catturò il mio interesse,
qualcosa che mai avrei pensato di vedere.
Infatti,
l’occhiata tanto attesa non arrivò a perforarmi la
schiena. Stupefatta, mi voltai lentamente verso Alice, ora di fronte a
me. Il
solito sguardo pressoché assassino e irritato non
c’era.
Al contrario, un
sorriso a dir poco smagliante era dipinto
sul suo minuto volto da elfo.
Il suo viso si
illuminò, con un ghigno da tempia a tempia
che mi intimorì.
A cosa dovevo tutta
quella simpatia? La fissai confusa.
Alice, sempre
sogghignando, si portò l’indice davanti alle
piccole labbra, facendomi segno di stare in silenzio. Stavo per
chiederle il
perché, ma l’occhiata che rivolse verso un punto
indeterminato dietro di lei me
ne fece afferrare il motivo.
Eccola, la terza
figura tanto ricercata, per me la sola che
contasse: Edward.
Un sorriso si
disegnò automaticamente sul mio viso e feci
per avvicinarmi.
Era accovacciato
sotto la macchina, una Mercedes berlina, e
sembrava stesse imprecando qualcosa. Mi arrestai, stupita.
Era la prima volta
che lo sentivo parlare in quel modo,
doveva essere nervoso.
“Diamine!
Sarà la sesta volta questo mese”. Sì,
decisamente
nervoso.
“Edward,
dovresti lasciarlo fare a Rose. Lo sai”, consigliò
Jasper, ancora più lontano da me rispetto a
dov’era prima.
Mi chiesi quale
fosse il suo problema. Se non gli andavo a
genio, bastava dirlo, senza fare tutte quelle scene. Lo incenerii con
lo
sguardo.
“Ehi
Edward”, cinguettò allegra Alice, saltellandomi al
fianco.
La fissai a bocca
aperta per la sorpresa. Ancora non mi
capacitavo di quell’improvviso cambio d’umore nei
miei confronti.
Lei mi
guardò, palesemente divertita dalla mia espressione e
rise di gusto.
Il suono che
uscì dalle sue labbra chiare e sottili
riecheggiò tutto intorno, come amplificato, e giunse a me
come un’eco di
campane. Scossi la testa per riprendermi dallo stupore.
“Che
c’è, Alice?”, chiese frustrato Edward da
sotto la
carrozzeria scura della macchina.
Doveva avere qualche
problema con le candele.
“Non senti
un insolito silenzio nella tua testa?”, domandò.
Il suo sorriso si tese sul finale.
In effetti Edward
non si era ancora accorto di me, probabilmente
era troppo nervoso.
“Alice ma
che cosa stai...”. La sua voce melodiosa ma
attutita dal metallo che lo avvolgeva si andò perdendo,
confusa.
Con la coda
dell’occhio mi accorsi che Jasper era sulla
porta adesso, come se volesse respirare meglio. Eppure il mio velo era
a posto,
non c’era niente che non andasse. Era davvero strano quel
ragazzo.
Era passato poco
meno di un secondo, quando sentii un lieve
rumore metallico provenire da sotto la carrozzeria, come se qualcuno
avesse
lasciato cadere una chiave inglese o qualcosa di simile.
Tornai con lo
sguardo alla macchina, ma mentre mi rendevo
conto che ormai sotto l’auto non c’era
più nessuno, una leggera brezza mi
scompigliò i capelli e braccia fredde mi avvolsero.
“’Giorno”,
mormorò una voce inconfondibile al mio orecchio.
Prima che me ne
rendessi conto, il mio cuore aveva già
cominciato a galoppare incoerente.
“Ciao”,
abbozzai balbettando.
Non era possibile
che reagissi a quel modo ogni volta che mi
rivolgeva la parola o mi sfiorasse semplicemente. Era imbarazzante.
Il problema era
proprio che in quel preciso momento avevo le
sue braccia allacciate ai fianchi, il suo respiro fresco sul mio collo
che mi
scompigliava i capelli e i pensieri.
Mi voltai a cercare
il suo viso, e ne rimasi stupita.
Era diverso,
raggiante come non l’avevo mai visto,
nonostante l’opprimente nero nei suoi occhi.
Aveva lo sguardo
divertito, gli angoli delle labbra piene
piegate leggermente all’insù.
Sorrisi ampiamente
in risposta. Era così semplice star bene
vicino a lui, ogni mio singolo problema o insicurezza svaniva
all’improvviso,
come cancellato dalla sua sola presenza.
Tuttavia non potevo
non domandarmi da cosa nascesse tutto
quel buonumore.
Era insolito da
parte sua, e soprattutto da parte di Alice.
Lo fissai
interrogativa, cercando con tutta me stessa di
sostenere il suo sguardo senza confondermi. Impresa impossibile.
Dovetti
rinunciare, abbassando il viso verso il pavimento.
Osservai le
piastrelle bianche, sulle quali disegnai
fantasie inesistenti ed astruse. Con la coda dell’occhio, mi
accorsi di un
movimento alle mie spalle. Jasper stava uscendo dal garage e Alice
saltellava
divertita al suo fianco, il suo viso dipinto con un gran sorriso.
Mi voltai a
guardarli meglio. Alice si accorse del mio
sguardo e mi rivolse un’espressione complice, alternando
occhiate tra me ed
Edward. Mi fece l’occhiolino.
Stupefatta, la
fissai. Era totalmente assurdo il modo in cui
era cambiata nei miei confronti.
Tuttavia, stupore a
parte, la guardai in cagnesco per la sua
ovvia allusione a me ed Edward.
Una risatina le
sfuggì dalle labbra, che coprì
all’istante
con la piccola mano marmorea.
Abbassai velocemente
lo sguardo, sentendomi arrossire.
Edward sciolse l’abbraccio di ghiaccio che fino a pochi
secondi prima era
bruciato come una scossa elettrica e mi si mise davanti, fissandomi con
curiosità.
Mantenni il capo
abbassato, lo sguardo fisso sul suo petto,
in silenzio.
Dopo pochi istanti,
mi prese il mento tra le mani,
sollevandomi delicatamente il viso fino a quando i miei occhi
incontrarono i suoi,
neri e fiammeggianti.
“Ehi, a
cosa stai pensando?”, mi chiese con palese
curiosità.
Ero imbarazzata da
quella strana conversazione, dalla sua
insolita vicinanza e dal suo umore così inconsueto.
“A
niente”, mentii rapidamente.
Un’altra
voce, chiara e squillante, si intromise nel
discorso.
“Ehm…
credo proprio che andrò a chiamare Rose”, disse
Alice,
ostentando innocenza.
“Jazz,
aspettami!”, aggiunse subito dopo, ma non prima di
rivolgermi un altro ampio sorriso e una risatina.
Un leggero sbuffo
che mi colpì il viso mi ricordò che
qualcuno era in attesa di una risposta.
Non risposi,
tentando di sfuggire al suo sguardo indagatore.
E poi, non avrei
potuto rispondere in ogni caso. Stavo
pensando a lui, ovviamente, e non mi sembrava una grande trovata
ammetterlo.
Optai così per l’opzione mutismo.
Tentai di fuggire da
quella domanda, lasciando vagare i miei
occhi per l’immenso locale.
Era arredata in modo
totalmente diverso dalla grande casa
bianca, ma lo stile era pur sempre impeccabile.
Le pareti rimanevano
sulle medesime tinte chiare, ma invece
dei numerosi quadri, alle pareti spiccavano diverse mensole di legno,
stracolme
di ogni genere di libro.
Era così
grande quel garage. Con una semplice occhiata, mi
resi conto del fatto che avrei potuto benissimo vivere lì
dentro, macchine
comprese, senza alcun problema.
E le auto non erano
poche. Riconobbi al primo sguardo ogni
modello presente, cercando di analizzare marca e modello al meglio.
Quella che
più di tutte catturò la mia attenzione fu una
BMW, decapottabile e rossa fiammante. Probabilmente una M3. Non avevo
mai visto
auto del genere, se non su qualche giornale di motori. Costava un
patrimonio.
Quella a cui subito dopo rivolsi lo sguardo era enorme.
Stranamente non ne
riconobbi il modello, ma era sicuramente
una Jeep. Forse una Wrangler, ma non potevo esserne sicura. Tuttavia
seppi alla
prima occhiata chi fosse il proprietario di quel gigante.
Emmett. Era
l’unico che potessi immaginare al volante di
quel fuoristrada, mi sarebbe piaciuto fare un giro in auto con lui.
Sorrisi
brevemente al pensiero.
In un angolo, la
più vicina all’ingresso, c’era una Volvo
S60. La più anonima, ma anche quella che più di
tutte rispettava il concetto di
auto comune.
Poi c’era
ovviamente la Mercedes berlina, che tanto aveva
innervosito Edward. I vetri erano così scuri che non si
riusciva a scorgerne
l’interno.
Per ultima notai una
sagoma lunga e scura, posteggiata in un
angolo buio del garage. Incuriosita, feci un passo verso quella
macchina
sconosciuta.
Il mio mento era
ancora fermo tra le mani di Edward, che
sembrava restio a lasciarmi andare.
Così
aguzzai semplicemente lo sguardo, tentando di
indovinarne il modello.
Quando la riconobbi,
non potevo crederci.
“Quella
è una Vanquish?”,
mormorai incredula.
Era una macchina
introvabile, non ne producevano più così da
un pezzo.
Mio padre me ne
aveva parlato spesso. Sorrisi al ricordo del
suo sguardo sognante quando ne parlava, come se fosse il gioiello
più prezioso
che avesse mai visto.
A quella mia
domanda, allentò notevolmente la presa sul mio
viso, lasciandomi andare.
Con la coda
dell’occhio vidi il suo volto assurdamente
perfetto illuminarsi di un sorriso beffardo, che mi fermò il
respiro.
“Direi di
sì”, mi rispose, palesemente compiaciuto.
Avanzai velocemente
fino a fronteggiare l’auto.
“E’
tua?”, domandai, facendo scorrere le dita sulla vernice
nera e lucida della portiera.
“Già,
così sembra”.
Si stava divertendo,
un sorriso più che evidente nella sua
voce musicale.
Mi voltai a
guardarlo e lo trovai di fronte a me, che mi
fissava, un ghigno stampato in faccia.
Non mi ero
sbagliata, se la stava spassando.
Tuttavia, quando
incontrai il suo sguardo, si fece
leggermente più serio, sforzandosi di trattenere il sorriso
che già gli curvava
le labbra sottili.
Mi fissò
con tutta l’intensità del suo sguardo scuro,
fiammeggiante.
Respira,
mi dissi.
Dopo alcuni istanti,
dopo aver riordinato i miei pensieri,
riuscii a parlare.
“Che
c’è?”, domandai.
I suoi occhi mi
scrutavano, come in cerca di risposte.
“Niente”,
disse, scrollando leggermente le spalle.
“A cosa
pensi?”, aggiunse subito dopo, avvicinandosi e bloccandomi
con la
schiena contro la portiera, chiudendomi così ogni via di
fuga e allungando le lunga
braccia bianche contro i finestrini.
Accidenti, e io che
pensavo di averla scampata.
“Niente”,
ripetei, cercando di imitare il suo tono di voce.
Le sue labbra si
tesero a trattenere un nuovo sorriso, poi
si ricompose tornando serio.
“E’
così frustrante non riuscire a sentire quello che
pensi”, commentò con un sospiro.
Già,
povero te,
pensai con sarcasmo.
“Potresti,
volendo. Tuttavia non penso sia una grande idea
se non vogliamo fare disastri”, lo presi in giro, facendo una
smorfia.
Mi rispose con una
smorfia degna della mia, poi sorrise.
“Hai
ragione anche tu”.
Annuii, cercando un
modo nel frattempo per sgusciare via di
lì.
Mi imbarazzava la
sua vicinanza e soprattutto le mie
reazioni a tutto ciò. Il mio cuore sembrava stesse per
prendere l’iniziativa e
uscirmi dal petto da quanto batteva forte. Sentivo i battiti nelle
orecchie,
che quasi coprivano la sua voce perfetta.
Ad un tratto si
voltò verso l’ingresso. Non c’era
nessuno,
almeno così sembrava.
Sospirando, si
scostò dall’auto, lasciandomi finalmente
libera, e si passò una mano nei capelli bronzei e
scompigliati.
Non riuscivo a
capire cosa l’avesse distratto, ma ora un po’
rimpiangevo la vicinanza di poco prima. Dopo alcuni istanti, mentre
rimuginavo
mesta, sentii anche io dei passi leggeri provenire dalla porta. Poi
comparve
Rose, affiancata dalla saltellante Alice.
Era davvero
minuscola di fianco a Rosalie, sembrava un
folletto.
Stavano
chiacchierando, Alice ogni tanto si lasciava andare
a qualche sua risatina angelica. Probabilmente era quella la norma,
Alice era
sempre stata l’allegro folletto che ora danzava attraverso
l’ingresso,
probabilmente ero stata io a trasformare la sua allegria innata in odio
per un
certo periodo. Chissà poi perché.
“Ciao
El”, mi salutò Rosalie, sorridendo ampiamente.
Poi
guardò Edward e tornò a me, con aria sospetta. Le
rivolsi un gran sorriso, sperando così di evitare troppe
domande dopo.
“Ciao
Rose”.
“La tua
colazione è ancora di là, se hai fame”,
mi informò,
con un’occhiata complice.
“La
colazione! Me ne ero dimenticata”, dissi, battendomi
lievemente la fronte con il palmo della mano.
A dire la
verità non me ne ero totalmente scordata, anzi
avevo quasi fame. Ma non avevo alcuna intenzione di andarmene da quel
garage,
almeno finché lui era lì con me.
“Sì,
certo”, mormorò Rosalie, ostentando indifferenza.
Aveva
sicuramente capito.
“Ehi,
El”, mi saltellò al fianco Alice, sorridendo e
agitando la piccola mano in saluto.
Non ero sicura di
cosa rispondere, o se dovevo rispondere.
Fino a quella mattina non mi aveva neanche rivolto la parola,
così mi limitai a
rivolgerle un sorriso.
“Che ci
fate qui voi due?”, chiese brusco Edward, rimasto in
silenzio vicino a me fino a quel momento.
“Alice ha
detto che non sei capace di aggiustare la S55,
così ha chiamato un vero meccanico”, rispose
Rosalie, prendendolo in giro.
Edward
sbuffò, ma poi si fece da parte.
“Deve
avere qualche problema al motore, come al solito. Non
so cos’abbia quella macchina”.
“Sono qui
per questo”, disse Rose, sorridendo e
avvicinandosi alla berlina nera poco distante da noi. Non capii cosa
stesse
facendo fino a quando non si accovacciò fino a strisciare
sotto la carrozzeria.
Rose? Rose meccanico?
Non riuscivo a immaginarmela, neanche avendone la prova
davanti agli occhi.
La guardai rapita
mentre armeggiava sotto la carcassa di
metallo.
Non poteva essere la
stessa Rosalie che la mattina passava
le ore davanti allo specchio a scegliere i vestiti, non era possibile.
Dopo qualche secondo
di silenzio, una risata giunse da sotto
la macchina.
Edward fece un passo
in avanti, confuso, e così feci anche
io.
Alice si era
appollaiata invece su una mensola parzialmente
vuota, il suo peso era talmente minimo da non impensierire
l’asse di legno.
“Edward
non è il motore, sono solo le candele!”, disse
Rosalia ridendo, mentre si faceva beffa di lui.
Un sorriso comparve
sul mio volto, anch'io l’avevo pensato
all’inizio. Avere un padre che fa il rivenditore d'auto a
volte aiuta.
“Così
è a posto”, disse Rose, uscendo da sotto la
macchina,
un ghigno soddisfatto sul suo viso.
“Bene,
Rose”, commentò Edward, palesemente infastidito
dalla
sua mancanza in materia.
“Non
c’è di che”, lo punzecchiò
lei, passandosi una mano nei
capelli dorati.
“Ora credo
che dovremmo andare, Edward”, disse un’altra
voce, interrompendo la breve discussione.
Alice
saltò giù dalla mensola velocemente, con grazia
sovrumana. Atterrò sulle punte, nonostante si trovasse a
più di un metro e
mezzo dal suolo, senza fare alcun rumore.
Io, oltre a prendere
una storta, avrei sicuramente
trascinato con me l’asse di legno, creando il più
totale frastuono. A quel
pensiero mi rabbuiai, ero invidiosa della loro assoluta perfezione.
Sembrava non volesse
andarsene. A quel pensiero recuperai il
buonumore; forse voleva restare per stare con me.
Che cosa stupida e
egocentrica pensarlo. Tuttavia non potei
negarmelo, mi faceva felice.
Un nuovo sorriso,
più ampio del precedente, si disegnò sul
mio viso.
“Jazz!
Jazz, muoviti, andiamo!”, chiamò Alice, a bassa
voce.
Nonostante
l’avesse chiamato con poco più di un sussurro, la
sua voce risuonò chiara e squillante come sempre. Ero sicura
che l’avesse
sentita. Pochi istanti dopo, infatti, Jasper comparve.
Alice era
già in macchina, al posto del passeggero, Jasper
sul sedile posteriore, quando Edward mi si avvicinò.
“Devo
andare”, disse serio.
Non potei negare
alla felicità di avvolgermi, come una
bolla, a quell’affermazione dispiaciuta.
Forse gli sarei
davvero mancata. Combattei un sorriso.
Poi, rendendomi
conto finalmente del vero significato della
sua frase, mi sentii delusa.
Stava andando via,
lontano da me. A me sarebbe sicuramente
mancato.
“Già”,
fu la risposta più decente che riuscii a dare.
La mia delusione era
evidente anche nella mia voce, forse
troppo.
“Torno
presto”, mormorò al mio orecchio, avvicinandosi
fino
a solleticarmi il collo con il suo respiro dolce e fresco. Un brivido
leggero
mi scese lungo la schiena.
“Sì”,
dissi, col fiato corto.
Speravo davvero che
i battiti del mio cuore non fossero così
evidenti come sembravano a me, mentre riecheggiavano nelle mie orecchie.
Poi, dopo aver
posato la mano sulla mia guancia, fece
scorrere lentamente le dita fredde lungo il profilo del mio viso, dalle
tempie
al mento e poi fino alla base del collo.
Respira,
mi
ricordai una volta ancora. Non era il caso di collassare proprio adesso.
Mi fissò
a lungo negli occhi, così intensamente
che persi il filo di ogni pensiero, per poi allontanarsi con un sospiro
e salire in
macchina.
Rimasi a guardare,
con la bocca spalancata, la sagoma scura
dell’auto che ripartiva con un ronzio leggero e si
allontanava a velocità
impossibile.
Una risata alle mie
spalle mi riportò alla realtà.
Eccomi di nuovo qui. Beh,
che dite? Spero abbia rispettato - e magari anche superato, non si
spera mai troppo - le vostre aspettative. A sabato prossimo! Buon
weekend :)
Buongiorno a tutti :)
Questa settimana...beh, non è stata una passeggiata proprio
per niente, anzi. In ogni caso eccovi il capitolo! Buona lettura e
fatemi sapere che ne pensate :)
Capitolo
9. Nascondino.
“Guarda
che è andato, puoi anche rilassarti
adesso”, disse Rose,
tra una risatina e l’altra.
Mi voltai. Avrei
voluto guardarla in cagnesco per quel
commento, ma ero totalmente bloccata.
La mia espressione
era rimasta la stessa che avevo avuto fino a
pochi attimi prima e non ne voleva sapere di andarsene.
“El, stai
bene?”, chiese Rosalie ridendo.
La divertivo
probabilmente.
Paralizzata
com’ero, non riuscii a spiccicare parola, quindi
mi limitai ad annuire con un debole cenno del capo. Mi sentivo come
completamente staccata dal resto del corpo.
Mi si
avvicinò lentamente, trattenendo un sorriso evidente
e
mi mise un braccio intorno alle spalle.
“Adesso mi
devi raccontare ogni cosa che vi siete detti, lo
sai questo, vero?”.
Trasalii
all’istante. Non avevo nessuna intenzione di dire a
Rose quello che era
successo; nonostante le volessi bene, non era proprio quella che si
dice una
tomba per certe cose.
A quel punto riuscii
a rivolgerle l’occhiata assassina che
desideravo. Scoppiò a ridere di nuovo.
“Dai El,
solo un pochino”, mi supplicò, trafiggendomi con
il
suo sguardo intenso e dorato.
Non aveva certamente
lo stesso effetto che mi provocava ben
altro paio di occhi, ma era difficile negare loro qualcosa.
Vedendo la mia
espressione, capì di aver vinto.
“Su, dai,
racconta!”, esclamò euforica, stringendo
lievemente la presa attorno alle mie spalle.
Forse voleva
assicurarsi che non tentassi la fuga. Non potevo negare di non averci
pensato.
Grugnii qualcosa di
incoerente e cercai di sfuggire al suo
braccio.
In quel momento,
altri passi annunciarono l’arrivo di
qualcuno.
“Rose?”,
chiamò una voce familiare, la mia unica salvezza.
Quanto volevo bene a
Emmett.
“Sì,
sono qui”, disse Rose, alzando il braccio libero.
“E’
davvero fastidioso il fatto che non possa sentire il tuo
odore vicino a El”, commentò, facendomi una
boccaccia.
Risposi con una
linguaccia più che degna della sua, anche se
non altrettanto spaventosa.
“Ciao
Emm”, dissi poco dopo, sgusciando finalmente via da
sotto il braccio di Rosalie.
“Rose hai
voglia di andare a fare un giro nella foresta? Mi
annoio”, domandò Emmett.
Sembrava un bambino
a volte.
“Veramente
io e El stavamo parlando”, rispose Rosalie,
lanciandomi un’occhiata colma di significati.
Rabbrividii al solo
pensiero ed escogitai alla svelta una
soluzione.
“Ehi Emm,
vengo io con te”, proposi con fin troppo
entusiasmo, saltellandogli al fianco e aggrappandomi al suo braccio
enorme.
“Non credo
che potremmo fare le stesse cose che faccio con
gli altri”.
Beh era ovvio, io
non cacciavo e non correvo alla velocità
della luce. L’unica cosa che riuscivo a fare abbastanza bene
era non farmi
trovare da loro, quando volevo. Idea.
“Che ne
dici di una sfida?”, lo punzecchiai, sicura che
avrebbe accettato.
Non mi deluse.
“Che tipo
di sfida?”, mi domandò, acceso da
un’improvvisa
curiosità.
“Tu. Io.
Nascondino”, lo sfidai, guardandolo negli occhi,
ormai ridotti a fessure.
“El, non
sono un bambino io!”, disse, scoppiando a ridere. Ah no?
“Secondo
me non mi trovi”, lo provocai di nuovo, contando
sulla sua competitività per sfuggire a Rose.
“Vedremo”,
mi sfidò, fissandomi divertito, un gran sorriso
sul suo volto nonostante lo sguardo di sfida.
Vittoria!
Mi
voltai verso Rose con un ghigno trionfante stampato in faccia.
Mi rivolse
un’occhiataccia degna della vecchia Alice ed io
le sorrisi, beffarda.
Dopo neanche un
secondo mi ritrovai a mezz’aria, caricata
come un sacco di patate sulle spalle di Emmett.
“Ehi!”,
mi lamentai, dimenandomi nel tentativo di tornare
con i piedi per terra.
“Lasciami
giù, Emm!”, continuai, senza alcun risultato.
Scoppiò a
ridere, frastornandomi con la sua risata, così
vicina al mio orecchio.
In un attimo fummo
di nuovo in casa, in cucina per
l’esattezza.
Rimanevo sempre
sorpresa dalla loro velocità sovrumana,
nonostante avessi dovuto farci l’abitudine dopo due settimane.
Tuttavia ero sicura
del fatto che non avrei mai potuto
abituarmi alla perfezione dei Cullen.
Emmett
riuscì a scaricarmi direttamente su una sedia della
cucina, forse con più forza del necessario. Rischiai di
volare per terra
insieme alla sedia, ma in qualche modo mi abbarbicai al grande tavolo
di legno
e rimasi seduta. Emmett non la smetteva di ridere; mi sarebbe piaciuto
fargli
cambiare espressione con un bel pugno, ma sapevo che non sarebbe
servito a
molto. A meno che non sentissi la mancanza del gesso.
“Allora?”,
domandai esasperata, allargando le braccia.
“Andiamo o no?”, lo esortai.
“Devi
mangiare prima, a meno che tu non voglia farti
scoprire per colpa del tuo stomaco, come al solito”, mi
punzecchiò, facendomi
una smorfia.
Beh non potevo
dargli torto, avevo fame. E come aveva detto,
era un classico ormai che il mio stomaco si ribellasse nei momenti meno
opportuni.
A confermarlo, un
ruggito riecheggiò in tutta a stanza. Mi
portai una mano allo stomaco, imbarazzata, ed abbassai il viso,
nascondendolo
al meglio nei capelli.
“Come
volevasi dimostrare”, disse Emmett sghignazzando.
“Okay,
okay”, acconsentii, ancora rossa di vergogna. “Ora
mangio”.
E così
dicendo mi allungai verso i biscotti in mezzo al
tavolo. Ne mangiai più di quanti avessi dovuto,
più di quanti avessi bisogno.
Mi ingozzai.
Quando ebbi finito,
o meglio non riuscii più a mandare giù
nulla, mi alzai a fatica dalla sedia, trascinandola sul pavimento
chiaro.
Mi sembrava di
pesare venti chili in più. Goffamente
raggiunsi le scale e le salii.
“Dove
pensi di andare scusa?”, mi domandò Emmett,
divertito
dalla mia andatura. “Alzi già bandiera bianca? Mi
deludi così, El”.
“Bagno”,
borbottai, ormai già in cima alle scale, con un
cenno della mano.
“Se non ti
muovi, ti vengo a prendere”, mi minacciò
scherzoso.
Non risposi, annuii
soltanto.
Ripresi la mia
normale velocità, più o meno, ed percorsi
buona parte del lungo corridoio bianco con grandi falcate. Arrivata
davanti al
bagno, spinsi la porta ed entrai.
Mi sconvolgeva
sempre quella stanza, era semplicemente
enorme. Lo specchio, di fronte a me, rivestiva tutta la parete, coperto
solo in
parte da un mobiletto chiaro su cui era posato ogni genere di prodotto
per il
trucco. Rose si era attrezzata al meglio da quando ero arrivata,
convinta che
la mia pelle chiara, quasi trasparente, fosse perfetta per quei
prodotti.
I primi giorni ci
era anche riuscita, aiutata dal fatto che
cercassi ogni stratagemma possibile per farmi notare da Edward. Mosse
che poi
si erano rivelate inutili e che quindi avevo preferito risparmiarmi.
Non mi piaceva
truccarmi. Evitavo qualunque cosa potesse mettermi al centro
dell’attenzione.
Senza pensarci mi
specchiai, guardando con sospetto le
strane occhiaie sotto i miei occhi castani.
In effetti, non
avevo dormito poi molto da quando ero lì.
Anche i miei capelli
apparivano stanchi e sfibrati, quasi
opachi. Passai una mano nella mia chioma castana, spostandomi il grosso
ciuffo
che mi copriva in parte l’occhio destro. Erano
morbidi, nonostante l’aspetto, senza neanche un nodo.
Erano cresciuti
parecchio dall’ultima volta che ci avevo
fatto caso, dall’ultima volta che li avevo tagliati. Ora mi
arrivavano quasi a
metà della schiena, formando lievi boccoli informi con
riflessi dorati. Ad
essere obiettivi, erano belli, anche se a me non erano mai piaciuti.
Il loro unico e
stupido difetto era di non mantenere la
piega, oltre al piccolo e irrilevante
fatto che si arricciassero con l’umidità. Ecco
perché in quel posto c’erano
giorni in cui assomigliavo più a un leoncino spelacchiato
che a una sedicenne.
Sospirai, e
cominciai a lavarmi la faccia. L’acqua fresca mi
aiutò a svegliarmi definitivamente e a darmi modo di
pensare, finalmente con
razionalità, a ciò che era successo in garage.
Non potevo ancora
crederci, sembrava surreale. Come molte
cose in quel luogo magico, dopotutto. Perché Alice era
cambiata così di colpo?
Che cosa era successo per farla cambiare in quel modo? E Edward? Come
mai era
stato così… amichevole? Qualcosa non tornava.
Mi asciugai
accuratamente il viso con l’asciugamano appeso
in un angolo e presi lo spazzolino.
Mentre mi lavavo i
denti, ebbi modo di rimuginare ancora su
quel fatto, su Edward e la sua strana, strana sorella. Una
volta finito, mi
spazzolai i capelli e mi catapultai fuori dal bagno.
Andai a sbattere
contro qualcosa di enorme e duro come la
pietra.
Alzai lo sguardo,
massaggiandomi lentamente la testa dove
avevo sbattuto.
Emmett. Ovvio che
fosse lui.
“Pensavo
fossi caduta un’altra volta, stavo venendo a
recuperarti”, mi prese in giro, rivolgendomi un ghigno.
Grugnii qualcosa,
borbottando contro quel gigante nerboruto
e indistruttibile. Mi faceva male la testa, era proprio duro
come il marmo.
Corsi in camera di
Rose, recuperando la mia amata giacca a
vento bianca di quando ero arrivata e cercando di non pensare alla
macchia di
sangue che aveva avuto quella sera.
Infilai le braccia
dentro le maniche, fino a far uscire le
mani dai polsini. Profumava di buono, come qualunque cosa in quella
casa. Aveva
un odore particolare, un intreccio tra floreale e qualcosa di dolce,
qualcosa
che non ero mai riuscita ad identificare.
“Ti
muovi?”, mi esortò la voce esasperata di Emmett,
da
sotto le scale.
Un’ultima
occhiata al gigantesco specchio di Rosalie, e
corsi a perdifiato fuori dalla stanza.
“Arrivo”,
esclamai, mentre fluttuavo pericolosamente lungo
il corrimano.
Appena toccai terra,
mi sentii nuovamente sollevata. Il mio
stomaco protestò con un lamento.
Sperai di non
vomitare addosso a Emmett, sarebbe stata la
mia rovina. Mi avrebbe presa in giro fino alla fine dei miei
giorni.
Chiusi gli occhi e
strinsi la presa intorno a Emmett. Era
come abbracciare una pietra, un enorme macigno freddo e
indistruttibile. Quando
lo sentii ridere, sollevai leggermente le palpebre, incuriosita. Era
stata una
risata euforica, elettrizzata.
Mi resi conto che
stavamo sfrecciando attraverso l’ampia radura di fronte alla
grande casa bianca, così velocemente che fui in grado di
delinearne solo i
confini.
Affascinata da
quella straordinaria velocità, mi aggrappai
meglio alla schiena di Emmett ed appoggiai il mento
nell’incavo della sua
spalla per poter vedere meglio.
Tutto era come una
gigantesca parete verde che correva
dietro, di fronte e di fianco a noi.
Mi lasciai sfuggire
una risatina, entusiasta. Il vento che
si creava al nostro passaggio mi frustava il viso e mi scompigliava i
capelli,
ma mi piaceva.
Ad un tratto,
così velocemente che in un solo battito di
ciglia avrei potuto perdermelo, Emmett sembrò spiccare il
volo. Saltò così in
alto da avvicinarsi paurosamente al cielo, in modo da superare con un
solo
enorme balzo il fiume che scorreva intorno alla casa. Sperai di non
fare la stessa fine di Icaro.
L’acqua
era di un azzurro piuttosto scuro, ma non abbastanza
da celarne il fondo coperto di pietre chiare e lisce. Chissà
com’era l’acqua,
probabilmente freddissima. Al pensiero, rafforzai la presa
strangolatrice
attorno al collo di Emmett, stringendo le mani l'una con
l’altra fino a quando
non le sentii indolenzite. Non avevo alcuna voglia di finire
nell’acqua gelata.
“Bello,
eh?”, disse Emmett, un sorriso evidente nella sua
voce profonda.
Forse pensava che
fossi spaventata da quell’altezza o dalla
velocità.
In meno di due
secondi fummo nuovamente a terra, in mezzo
alla foresta.
Gli alberi
dall’aspetto secolare mi sfioravano con la loro
corteccia spessa e ruvida, tuttavia senza mai toccarmi. Mi chiesi come
facesse a
correre a quella velocità senza andare a sbattere, tutto era
così indistinto e
sorprendentemente verde.
“E’
fantastico”, dissi in un sospiro, la mia voce portata
via dal vento.
Emmett rise e, se
possibile, accelerò.
A quel punto chiusi
gli occhi, il vento che si creava al
nostro passaggio era troppo forte e mi frustava il viso. Gli occhi mi
lacrimavano.
Era come aprire il
finestrino di un aereo in piena corsa;
per quanto affascinante potesse essere, non era certamente la cosa
migliore da fare. Anche
senza vedere, percepivo l’eccessiva velocità con
cui sfrecciavamo in mezzo alla
foresta. La velocità mi inebriava, mi entusiasmava.
Dopo quello che non
mi sembrò neanche un minuto, Emmett mi chiamò,
ridacchiando soddisfatto.
“El salta
giù, siamo arrivati”.
Aprii gli occhi
all’istante, preda della curiosità.
Tutto intorno a noi
era un labirinto senza fine di alberi
giganteschi, scuri e dall’aspetto inquietante.
Tuttavia, era come
magico. Il colore delle foglie era di un
verde particolare, differente da quello familiare delle piante nei
dintorni
della grande casa bianca. Aveva un che di oscuro, di opprimente, ma
nonostante
tutto mi affascinava.
Feci qualche passo
in avanti per guardare meglio e levai lo
sguardo verso l’alto.
Cominciava a cadere
una leggera pioggia che preannunciava
l’arricciamento istantaneo dei miei capelli. Tirai su il
cappuccio,
avvolgendomi al meglio.
Tornai con lo
sguardo a Emmett che sorrideva, beffardo.
“Non
barare”, gli dissi con fare minaccioso, puntandogli il
dito contro.
“Ai suoi
ordini”, mi prese in giro, imitando un saluto militare.
“Tanto vinco lo stesso, non ne ho bisogno”,
aggiunse subito dopo.
“Vedremo”.
E così dicendo lanciai la sfida.
“Se vinci
tu, farò quello che vuoi per una settimana”, mi
propose, guardandomi di sottecchi.
“Invece se
vinco io, non dormirai più in camera mia”,
aggiunse, con un sorriso che già pregustava la vittoria
imminente.
Non potevo di certo
tirarmi indietro, ma la sua scommessa
non mi attirava più di tanto.
Anche se mi sarebbe
sicuramente piaciuto avere Emmett ai
miei ordini per una settimana intera, in caso di improbabile
vittoria...la vedevo piuttosto dura.
Dopotutto io avevo proposto quella sfida solo per liberarmi di Rosalie!
Con un sospiro,
acconsentii.
“Okay, va
bene”, dissi, suonando già sconfitta.
“Affare fatto”.
Tesi la mano destra
a stringere la sua. Quasi me la stritolò, mentre
sogghignava divertito dalla mia
espressione.
Massaggiandomi le
dita, dopo che mi ebbe liberato dalla sua
presa, lo esortai.
“Allora,
conti o no?”, dissi esasperata, cominciando a fare
qualche passo per avvantaggiarmi.
“Fino a
quanto?”, mi domandò, beffardo.
“Conta
fino a cinquecento, dovrebbe bastare”, dissi, facendo
qualche conto.
Poi aggiunsi alla
svelta. “Ma lentamente”.
“Sarà
fatto, ora muoviti”.
Emmett si
avvicinò ad un tronco, se possibile più grande
degli altri, al centro della minuscola radura in cui ci trovavamo e
cominciò a
contare ad alta voce.
“Uno...
Due… Tre... ”.
Era evidente che mi
stesse prendendo in giro, ma lo ignorai.
Girai rapidamente i
tacchi e cominciai a correre veloce nel
cuore della foresta.
“E non
barare, Emm!”, lo avvisai da sopra le spalle, sicura
che mi avrebbe sentito.
In conferma, la sua
risata fragorosa proveniente da un punto
imprecisato dietro di me.
Mi ero
già allontanata parecchio.
Svoltai a sinistra,
appena dopo un grande tronco. In quel
modo avrei potuto facilmente ritrovare la strada verso il punto di
partenza, se
avevo intenzione di vincere.
Sfrecciai tra i
rami, saltando qua e là per evitare le
radici che spuntavano dal terreno.
Mi mancava correre;
correre senza una meta precisa, senza
una buona ragione per farlo, solo per il gusto di far muovere le gambe.
Mi sentivo
iperattiva, ancora su di giri per quello che era
avvenuto in garage, molto probabilmente. Sentivo che avrei potuto
correre per
ore, senza sentire alcun affaticamento. Ero troppo euforica per
accorgermene.
Dopo alcuni secondi, tuttavia, rallentai. Meglio non allontanarsi
più di quanto avessi già fatto.
Sbucai in un piccolo
spiazzo, in cui gli alberi erano più
radi anche se all’apparenza più imponenti.
Lontano da me, al
limitare della minuscola radura, scorsi un
albero caduto da poco.
Lo riuscii a capire
dal fatto che il tronco non fosse ancora
ricoperto di muschio, come invece erano gli altri. Formava una sorta di
panchina naturale con il tronco d’albero adiacente, creando
una minuscola rientranza.
Proprio quello che
cercavo, un posto piccolo e comodo per
nascondermi.
Ad un tratto, mentre
lasciavo vagare lo sguardo tra gli
alberi, qualcosa cambiò. Qualcosa che mai e poi mai mi sarei
sognata in quel
posto.
Un leggero fascio di
luce filtrava tra i grandi rami degli
alberi, che cercavano di impedire a quel piccolo miracolo di giungere a
terra. Sole!
Levai lo sguardo
verso l’alto.
La pioggia era
sempre presente anche se lieve, quasi
piacevole, ma in cielo, tra l’impenetrabile coltre di nubi
grigie e perenni,
faceva ora capolino una timida sfera gialla.
Non era come lo
ricordavo, sembrava quasi malato, spento, ma
era certamente sole.
Sorrisi ampiamente,
meravigliata.
La sua debole luce
illuminava quasi perfettamente il tronco;
il mio tronco.
Colmai lo spazio tra
me e il mio rifugio a grandi falcate,
quasi di corsa, entusiasta del piccolo bagliore giallognolo che
giungeva
dall’alto, smorzato dalle foglie.
Mi appollaiai sul
tronco, piegando le ginocchia al petto e
cingendole con le braccia.
Indietreggiai fino a
quando la mia schiena non fu contro
l’albero adiacente, usandolo come schienale di quella
perfetta panchina
naturale.
La luce leggera che
mi illuminava il viso era tiepida,
gradevole.
Chiusi gli occhi e
rimasi a scaldarmi per quanto fosse
possibile, in silenzio.
Rimasi
così per diversi secondi, fino a quando un fruscio
richiamò la mia attenzione.
Aprii gli occhi e mi
guardai in giro - forse Emmett era già
da queste parti. Meglio nascondersi bene.
Così, mi
infilai rapidamente nella piccola fessura nel
tronco dietro di me e tornai a rilassarmi, godendomi quei brevi istanti
di
sole, attenta e in ascolto.
Ero pronta a
nascondermi al primo avvistamento di Emmett;
non ci tenevo a perdere.
Un altro rumore,
questa volta nettamente più vicino, giunse
dal mezzo della foresta, in mezzo agli alberi. Aguzzai lo sguardo, ma
era
troppo scuro, nonostante il sole, per capire se ci fosse qualcuno.
Cercai di calmarmi,
non era detto che fosse Emmett.
Poteva essere solo
un cervo o qualche altro animale, niente
di cui preoccuparsi.
Eppure mi sentivo
inspiegabilmente all’erta, troppo vigile
per una semplice sfida, una stupida scommessa.
Quando il rumore mi
raggiunse nuovamente, era ancora più
vicino e, soprattutto, più irritante.
Passi.
Passi
pesanti ed energici, probabilmente in corsa.
Sospirai, sconfitta.
Mi aveva già trovata. Non c’era verso
che una volta lì sarebbe potuto andare oltre senza
scoprirmi. Mi sarebbe
toccato trovarmi un altro posto dove dormire. Grugnii qualcosa di
incoerente e
sgusciai fuori dal mio rifugio, restando però seduta sul
tronco.
Ormai era inutile
nascondersi, probabilmente mi aveva anche già
visto.
Tanto valeva godersi
i pochi raggi di sole che rimanevano.
Ad un tratto, con
mia grande delusione, il sole sparì,
nascondendosi dietro ad una gigantesca nuvola temporalesca.
Perfetto,
pensai
sarcastica.
Ci mancava solo
quello, chissà quando avrei rivisto quel
debole bagliore.
Sospirai,
raggomitolandomi ancora di più su me stessa.
Faceva freddo,
adesso lo sentivo. Ora che l’unica fonte di
tepore era svanita nel nulla.
Uno scalpiccio, come
di rami calpestati, poco lontano da me,
catturò la mia attenzione, costringendomi a voltarmi.
Soffocai un gemito.
Al limitare di quella piccola radura,
tra gli alberi, era comparsa una figura.
Sulle prime pensai
che fosse Emmett. Era ovviamente abbastanza
grosso da poter essere lui, ma il colore della sua carnagione mi fece
cambiare
velocemente idea.
Anche se era circa a
più di dieci metri da me, era evidente
che non fosse Emm.
La sua pelle era
troppo scura, quasi bronzea, e la postura,
adesso che ci facevo caso, era diversa da quella di Emmett.
Quella strana figura
era in piedi, ma lievemente accucciata
sulle ginocchia, con un braccio intorno ad un tronco, come a
sorreggersi.
Sembrava che non stesse bene, le sue mani tremavano violentemente, in
spasmi
continui.
Sciolsi leggermente
la presa intorno alle mie gambe; forse
aveva bisogno di aiuto, non stava bene. Tuttavia appena mi
mossi, un
ringhio minaccioso eruppe dalle sue labbra.
Non ero sicura del
perché, ma quel ringhio mi spaventò.
Calma,
mi dissi, Emmettè
qui in giro. Non succederà niente.
O
almeno spero.
La luce era scarsa,
non si vedeva quasi nulla, ma riuscii a
scorgere l’espressione rabbiosa dello sconosciuto.
Aveva una
corporatura a dir poco impressionante, solo Emmett
avrebbe potuto tenergli testa. Sarà stato alto un metro e
novanta, forse più
vicino ai due metri, con fasci di muscoli evidenti.
Mi accorsi solo
allora di come era vestito, mi ero
soffermata solo sul suo volto ostile.
I suoi unici
indumenti erano un paio di jeans, tagliati al
ginocchio, logori e sgualciti.
Feci correre lo
sguardo sul suo corpo.
I muscoli delle
braccia erano ben visibili, tesi, come
pronti a scattare. Gli addominali e i pettorali erano evidenti anche da
lontano e risaltavano a causa della carnagione scura.
Era scalzo e, legata
ad una caviglia, c’era una piccola
funicella nera con un sacchettino scuro.
Mi chiesi il
perché di quello strano abbigliamento. Faceva
freddissimo, come poteva non congelare?
Appariva rigido,
immobile e in attesa. Mi sporsi verso di
lui, senza pensarci, ed un nuovo ringhio mi raggiunse.
Questa volta,
però fece alcuni grandi passi verso di me,
fermandosi a circa metà strada.
La sua espressione
mi intimoriva. Sembrava che mi stesse
alla larga, come se fossi un pericolo o un nemico. Ma dov’era
Emmett?! Doveva
trovarmi, e alla svelta.
Esitante, mi alzai
in piedi, barcollando un poco.
Era meglio che mi
preparassi alla fuga, in ogni caso. Potevo
farcela; se partivo con un certo vantaggio, ero veloce. Sperai con
tutta me
stessa di non inciampare.
Feci un respiro
profondo e tornai a fissare lo sconosciuto.
Mi guardava con aria confusa, ma pur sempre ostile. Non seppi il
perché, ma
feci un altro passo avanti, incerta.
Studiai la sua
espressione, che da dubbiosa si fece decisa
in un solo istante, appena mi vide avanzare. Il tremore alle mani
aumentò
all’improvviso, spaventandomi, mentre il vento mi soffiava
nei capelli. Il
ragazzo si portò le mani tremanti alle tempie, digrignando i
denti.
Intimorita, tornai
immediatamente sui miei passi, arretrando.
In quel momento,
mentre le sue mani continuavano a muoversi
convulsamente ed il suo corpo ne sembrava quasi contagiato, il sole
tornò ad
illuminare lo spiazzo che ci conteneva.
Sentii il tepore di
nuovo sul mio volto, ma ero troppo
sconvolta per potermene accorgere.
Rimasi a fissare il
ragazzo di fronte a me, con gli occhi
spalancati.
Tuttavia la luce che
ci raggiungeva portò con sé un
cambiamento improvviso.
Il giovane mi
guardò, stupefatto, e in un attimo smise di
tremare.
Riportò
le braccia sui fianchi e sul suo viso si disegnò
un’espressione incerta. Un sorriso incredibilmente amichevole
spuntò poi sul
suo volto.
In pochi secondi,
con grandi falcate, colmò lo spazio tra di
noi e tornò a fissarmi, con
un’intensità sconcertante. Il suo strano sorriso
non accennava a svanire, le guance sporgenti sollevate leggermente.
Ero confusa. Come
poteva essere passato da un’ostilità
così
evidente all’amicizia?
Ad un tratto,
sembrò ricordarsi di qualcosa e il suo sorriso
sparì in un attimo, rimpiazzato dal dubbio. In meno di un
secondo, mi prese con
forza il viso tra le mani.
Il suo sguardo era
cauto ma deciso, mentre mi squadrava,
inclinando lievemente il capo da un lato, come per poter vedere meglio.
Le sue mani erano
bollenti e, al contatto con la mia pelle
congelata dal vento e dalla pioggerellina leggera, mi fecero venire la
pelle
d’oca.
Mi ritrassi
automaticamente al suo tocco, senza pensarci, ma
senza esito. Il mio viso era bloccato tra le sue mani roventi. Ero
sbigottita
dal suo comportamento.
Non riuscivo a
capacitarmene, aveva disordini da personalità
multipla? No, non capivo.
Rimanemmo fermi, in
quel modo, in silenzio, per diversi
istanti.
Avrei voluto urlare,
andare via, scappare, qualunque cosa,
ma ero totalmente bloccata. E non solo a causa della sua presa ferrea e
ustionante, io stessa ero paralizzata.
Non ero mai stata
quello che si dice coraggiosa, ma neanche
una codarda. Tuttavia, in quel momento, non riuscivo a districare i
miei
pensieri in modo da renderli sensati.
Il suo volto, ora a
pochi centimetri dal mio, era totalmente
diverso da come lo avevo immaginato vedendolo da lontano.
La sua pelle, di un
color ruggine incredibilmente bello, era
perfetta. Aderiva al profilo del suo viso, seguendo la forma degli
zigomi
sporgenti.
Gli occhi erano
scuri, accesi di curiosità ed interesse,
leggermente infossati e incorniciati da sopracciglia folte e nere. I
capelli
corvini erano più lunghi del normale e gli ricadevano in
ciocche scure
all’altezza del mento. I suoi lineamenti rimandavano
chiaramente ai nativi
americani, doveva esserci una riserva da qualche parte, lì
vicino.
Aveva un viso
giovane, avrà avuto sì e no la mia
età. Il
fisico, invece, dimostrava totalmente il contrario. Poteva sembrare un
venticinquenne dalla corporatura, mentre il suo volto, magro ed ancora
infantile, mi portava a pensare che avesse all’incirca
sedici, diciassette
anni.
Era incredibilmente
alto. Per riuscire a guardarlo in
faccia, ero costretta ad alzare il viso, bagnandomi della pioggia che
cominciava a cadere sempre più fitta.
Dopo qualche
interminabile secondo di silenzio, parlò.
“Conosci i
Cullen”,
disse con voce roca e in qualche modo intimidatoria.
Mi sorpresi. Non era
una domanda.
Il suo tono di voce
mi lasciò perplessa. Non mi piaceva per
niente il modo in cui aveva pronunciato il loro nome, con odio,
disprezzo.
Avrei voluto
ribattere in modo brillante alla sua frase,
pronunciata in maniera così ostile e sprezzante, ma non
riuscii a trovare la
voce. Mi limitai ad annuire, inebetita.
Sorrise malamente in
risposta, scuotendo la testa. Ancora
non mollava la presa sul mio viso, era irritante. Sbuffai, cercando di
sgusciare via dalle sue mani, ma non ci riuscii.
Il suo sorriso si
tese. A quel punto il mio nervosismo era
maggiore della paura di quel ragazzo.
“Che
c’è?”, chiesi palesemente irritata.
Lo conoscevo da
circa dieci minuti e già non riuscivo più a
sopportarlo. Vedendo la mia espressione cambiare radicalmente, insieme
al mio
tono di voce, il suo sguardo si fece più serio, anche se il
sorriso beffardo
non accennava a svanire dal suo volto.
Mi sarebbe piaciuto
farglielo sparire con un bel pugno.
“Conosci
la famiglia del Dottore?”,
mi domandò sarcastico.
Sull’ultima
parola aveva fatto trasparire tutto lo sdegno
che gli riempiva la voce. Non capivo il perché di tutta
quell’ostilità.
Carlisle era una
persona fantastica, anche se non
propriamente un essere umano.
Oh. Forse
allora…
Forse allora sapeva.
Ma come era possibile?
Rose mi aveva detto
che nessuno sapeva di loro, della loro
vera natura e soprattutto della loro esistenza. Nessuno a parte quelli
della
loro… specie.
Era anche lui un
vampiro? Fuggii all’istante da quel
pensiero, con un brivido.
A quanto ne sapevo,
da quanto Rosalie mi aveva raccontato
durante i monotoni pomeriggi nella grande casa bianca, i Cullen erano
gli
unici, a parte un piccolo clan in Alaska, ad avere una dieta differente
dalla
norma. E quel ragazzo non veniva certamente dall’Alaska...
No, non poteva
essere un vampiro. Non doveva esserlo.
I miei pensieri
corsero a Edward. Chissà se sarei uscita da
quella foresta per rivederlo. Speravo di sì. No, doveva
essere così, dovevo
rivederlo.
Annuii a me stessa,
raccogliendo il poco di coraggio latente
che avevo.
Feci un respiro
profondo ed espirai.
“Sì,
sono loro ospite”, dissi con voce arrogante, imitandolo,
“e conosco il Dottore”,
continuai.
“E’
davvero una brava persona,
tu lo conosci?”, lo provocai sprezzante.
Era chiaramente
sorpreso dalla mia momentanea audacia;
anch’io ne ero un po’ stupita a dire il vero. Il
suo sorriso finalmente vacillò
un poco, per essere sostituito da un’espressione nuovamente
ostile ed allo
stesso tempo beffarda.
“Non
direi”, disse, “non ho avuto ancora questo onore, ma me ne hanno parlato”.
Il suo modo di fare
stava per farmi venire un attacco
isterico.
Lo guardai in
cagnesco, mentre la pioggia mi inzuppava.
Silenzio.
Per diversi attimi
rimanemmo immobili, a fissarci. Poi,
all’improvviso, un sorriso tornò ad illuminargli
il volto.
“Non sei
una di loro”, disse compiaciuto.
“No, direi
di no”, risposi acida.
“Non era
una domanda”, aggiunse compiaciuto, “solo una
constatazione”.
“E allora
cosa vuoi?”, domandai esasperata, cercando per
l’ennesima volta di sfuggirgli.
Le mie guance
bruciavano sotto il suo tocco.
Il suo sorriso si
spense all’istante, diventando per la
prima volta un’espressione seria.
“Non sei
una di loro”, ripeté serio, “ma hai il
loro odore”.
Ah. Ancora questa
storia dell’odore. Eppure a me sembrava di
averlo, come tutti gli altri.
Eppure, a parte il
profumo che mi spruzzavo ogni mattina,
Rose diceva di non sentire niente da me. Il che era una cosa buona, in
una casa
abitata da vampiri. Il fatto che nessuno sentisse l’odore del
mio sangue o della mia
pelle aveva sicuramente facilitato la mia permanenza, ma ancora non
riuscivo a capacitarmene.
Perché
io? Perché era possibile tutto questo? La mia mente
era un groviglio di domande senza risposta. Era frustrante.
Feci queste
considerazioni in pochi istanti, prima di poter
organizzare una risposta degna di quel nome. Eppure ne ero sprovvista,
non
sapevo cosa avrei dovuto dirgli.
“Già”,
fu la cosa migliore che riuscii a pronunciare, preda
nuovamente delle mie domande senza esito.
La risposta non
sembrò soddisfarlo. Bene,
neanche io lo ero.
Rimase a fissarmi,
incuriosito.
Una domanda mi sorse
spontanea e, senza nemmeno
accorgermene, uscì dalle mie labbra.
“Tu come
fai a saperlo?”.
Forse avevo fatto
male a chiederglielo, non era il genere di
conversazione che mi sarebbe piaciuto avere. Il suo sguardo si fece
cauto e
dubbioso, mentre con una mano, liberando finalmente una parte del mio
viso, si
spettinava i lunghi capelli corvini. Sospirò.
“Dei Cullen?”,
domandò sulla difensiva.
Annuii con
decisione, intenzionata a non far cadere la discussione.
“Beh,
dalle mie parti si parla parecchio della famigliadelDottore”, ammise sorridendo, come di una battuta
personale.
“E tu
invece?”, mi domandò, “tu come fai a
saperlo?”.
Non sapevo neanche
esattamente di cosa stessimo parlando, ma
ero decisa a non lasciar perdere.
“Te
l’ho detto, sono loro… ospite per un po’
di tempo”.
Anche io ero sulla
difensiva adesso, senza nemmeno saperne il
vero motivo.
“Beh
questa non è una cosa che di solito si dice ai propri
ospiti”, costatò divertito, “a meno che
non ci si voglia sbarazzare di loro”.
In effetti, non
aveva tutti i torti. Adesso che avevamo finalmente chiarito di
cosa stessimo parlando, la cosa non mi faceva comunque sentire
meglio.
Restava una domanda
fondamentale ancora senza risposta: come
faceva lui a saperlo? Chi era per conoscere il loro segreto?
Forse la soluzione
era davanti a me, chiara e visibile, ma
ero talmente confusa che a malapena riuscivo a comprendere di cosa
stessimo
discutendo. L’unica immagine che continuava a susseguirsi
nella mia mente, nei
miei pensieri, era un viso.
Un viso
straordinariamente bello, così perfetto da togliermi
il fiato ogni volta che ci pensavo. Un viso che avrei voluto avere
lì con me in
quel momento. Un viso assurdamente familiare, per quanto poco lo
conoscessi.
Sveglia
El,
pensai, non è il momento di
sognare a
occhi aperti.
Tornai al presente,
controvoglia. E risposi allo
sconosciuto.
“Forse hai
ragione”, ammisi, “ma tu come fai a
saperlo?”.
Dal mio tono di voce
era chiaro che non avrei ammesso una
risposta vaga come la precedente.
Finalmente
lasciò cadere anche l’altra ustionante mano dal
mio viso. Era una sensazione strana quella che percepivo sulle mie
guance.
Bruciavano letteralmente, e il contrasto con la temperatura esterna e
la lieve
brezza nell’aria mi dava i brividi.
“Forse
è il caso che te lo spieghino i tuoi amichetti”,
disse brusco, scrollando le grandi spalle.
Mi massaggiai le
guance, ancora roventi.
“E cosa
dovrei chiedergli di preciso?”, domandai innocente,
facendo un mezzo passo verso di lui. Era più facile del
previsto mantenere un
tono di voce regolare, senza lasciare trasparire alcun timore.
“Questo
dovresti saperlo tu”, sussurrò piano, riducendo
gli
occhi a due fessure e piegandosi verso di me. Subito dopo si
allontanò di
scatto, tornando in posizione perfettamente eretta.
“Non so
ancora come ti chiami”, costatò.
Stava palesemente
cercando di distrarmi, senza neanche fare
lo sforzo di nasconderlo. Tuttavia, non avevo voglia di discutere,
forse era
meglio lasciar perdere per il momento.
“Nemmeno
io”, dissi abbozzando un sorriso, poi continuai.
“In ogni caso, mi chiamo Elizabeth. Però tu
chiamami El”.
Sorrideva, senza
dire una parola, con lo sguardo nel vuoto.
Chissà cosa stava pensando.
“E tu come
ti chiami?”, lo esortai dopo qualche secondo di
attesa.
Trasalì
un poco, sorpreso forse
della mia domanda.
Era
evidentemente distratto da
qualcosa, ma ignoravo cosa fosse.
Feci
un cenno con il capo,
cercando di farlo parlare.
“Scusa,
mi ero distratto”, ammise,
abbassando lo sguardo. “Mi chiamo Jacob comunque,
piacere”. Jacob. Okay.
E io che pensavo di avere un nome strano.
“Quanti
anni hai, Jacob?”, chiesi.
Ero
curiosa, il suo fisico
dimostrava un’età troppo contrastante rispetto al
suo viso giovane.
Probabilmente, anzi sicuramente, mi sbagliavo.
“Sedici”,
disse sorridendo, “e
tu?”.
Sgranai
gli occhi. Quella specie di gigante aveva la
mia età? Non era possibile.
Scrollai
la testa avanti e
indietro, cercando di immagazzinare quell’informazione ai
miei occhi
impossibile. Dopo qualche attimo, fui in grado di rispondergli.
“Anch’io
sedici”, mormorai, ancora
perplessa.
Jacob
mascherò una risata con un
colpo di tosse.
“Che
c’è?”, domandai esasperata.
“Sedici?
Davvero?”, chiese
divertito, “ma sei minuscola!”.
Ah
certo, ero io quella fuori
misura. Non lui, il ragazzo mutante.
Grugnii
qualcosa, notevolmente
irritata. L’altezza era sempre stato il mio punto debole. Non
ero bassa, cioè
non troppo, ma avevo sempre desiderato essere alta. E non lo ero.
Abbassai
lo sguardo, colpevole, e
rimasi a fissarmi le mani.
Erano
talmente bianche che
sarebbero potute passare per quelle di Rosalie - in effetti la mia
carnagione
non era poi così differente dalla sua. Solo che il
colore della mia pelle
non mi identificava in una specie mitologica e dall’aspetto
bellissimo, ma
soltanto in una ragazza dalla carnagione albina. Forse da
lontano avrei potuto confondermi
con loro.
Intrecciavo
le dita,
ripetutamente, voltando i palmi all’insù di tanto
in tanto. Ero così persa nei
miei pensieri, che quasi non mi accorsi del movimento repentino di
fianco a me.
Le
mani di Jacob, improvvisamente,
avevano ripreso a tremare. Ma non era come poco prima, un
tremore limitato alle sole mani o le braccia, adesso tutto il suo
enorme corpo
sembrava esserne contagiato.
Si
allontanò di scatto, balzando
lontano da me in poco più di un attimo.
Con
il passare dei secondi, gli
spasmi convulsi non accennavano minimamente a diminuire. Al contrario.
Mi
chiesi cosa stesse accadendo; cosa aveva Jacob?
Feci
un passo incerto verso di
lui, tendendo le braccia in avanti, pronta ad aiutarlo. Tuttavia, la
risposta
al mio gesto fu, come all’inizio, un profondo ringhio
minaccioso e ostile.
Ero
paralizzata, non sapevo cosa
avrei dovuto, o potuto, fare.
“Jacob?”,
azzardai esitante, con
voce rotta e tremante.
Provai
a fare un altro mezzo
passo, ma senza esito. Le mie gambe erano immobilizzate a terra, ancora
non mi
era chiaro se fosse per paura o per stupore.
Un
rumore, un suono sordo, in
lontananza, catturò la mia attenzione. Avrei voluto
voltarmi, ma come pochi
istanti prima, ero paralizzata. Tesi le orecchie. Ora c’era
solo silenzio.
Un
silenzio che tuttavia non
poteva mettermi a mio agio, era fin troppo tranquillo, fin troppo
silenzioso.
Era assordante tutto quel silenzio.
Nonostante
la calma apparente, non
potevo fare a meno di pensare a Jacob. Lo stavo ancora fissando, con
occhi
vuoti ed inespressivi, immobile come non ero mai stata.
Tremava,
ancora e ancora. Era
leggermente accovacciato in avanti, piegato sulle ginocchia come a
sorreggersi
dopo un enorme sforzo.
Le
sue labbra si muovevano senza
sosta, socchiudendosi e schiudendosi rapidamente.
Sembrava
stesse parlando, eppure
non lo sentivo. Mi concentrai al meglio, curiosa.
“No,
no, no, no, no…”, ripeteva in
continuazione, angosciato.
“No,
non adesso, non ora”,
proseguì, supplicando.
L’espressione
del suo viso mi
tormentava, sembrava quasi che stesse soffrendo, ma ne ignoravo
totalmente il motivo.
Fu
mentre rimuginavo, agitata,
sull’enorme ragazzo di fronte a me, che sentii un nuovo
rumore.
Per
quanto fosse nuovo, tuttavia,
mi era parso familiare. Un ruggito, minaccioso e profondo, in
lontananza. Sì,
decisamente familiare.
Le
mie gambe si sbloccarono a quel
punto, mentre il sollievo prendeva posto nel mio corpo.
Mi
voltai lentamente verso quel
punto indefinito nella foresta.
Forse
Emmett mi aveva finalmente
trovata, forse mi stava ancora cercando. Di certo era vicino.
Sospirai
di sollievo, Jacob
probabilmente aveva bisogno di aiuto.
Un
altro ringhio, poco dietro di
me, mi ricordò la sua inaspettata ostilità.
“Fuori
dal nostro territorio,
stupidi succhiasangue”, sibilò Jacob a denti
stretti.
Oh.
Quindi era per questo? Forse
era spaventato da Emmett, lui dopotutto conosceva la loro vera natura.
Purtroppo non sapeva come fosse Emmett, che per quanto pericoloso era
soltanto
poco più di un gigantesco bambino dispettoso.
“Jacob...”,
azzardai.
Mi
fermai, paralizzata dallo
sguardo che mi rivolse. Mi trafisse.
Rimasi
a fissarlo, pietrificata,
incapace di aprire bocca, mentre i miei pensieri erano un groviglio
sempre più
incoerente di domande. Dopo qualche istante, riprovai.
“Jacob…non...
non devi
preoccuparti di Emmett, non ti farà nulla”, lo
rassicurai con un breve sorriso.
Non
ero stata molto convincente,
la mia voce era rotta dalla preoccupazione, ma sperai che fosse bastato
a
calmarlo.
Un
altro rumore spezzò il
momentaneo silenzio. Qualcuno chiamava il mio nome.
Senza
pensarci, feci alcuni passi
in avanti, avvicinandomi al margine della foresta. Tuttavia, era strano
che
Emmett avesse bisogno di cercarmi, poteva trovarmi benissimo
se…
Come
avevo fatto a non pensarci?
Emmett
mi cercava perché non mi
aveva ancora trovata, era ovvio, ma quello a cui non ero ancora
arrivata era il
perché di tutto ciò. Un motivo insulso, a cui io
per prima avrei dovuto
pensare.
Il
mio stupido coperchio, come lo
chiamava Rosalie.
Sarebbe
bastato abbassarlo e mi
avrebbe trovata. Perfetto.
Mi
concentrai, socchiudendo gli
occhi, e lentamente feci scivolare il velo che mi rivestiva.
Non
mi ero ancora abituata a tutto
ciò, a dover mantenere una costante attenzione a tutto
quello che facevo. I
primi giorni era stato particolarmente sfiancante dover badare a
così tante
cose, tutte nuove per me, ma alla fine mi ero abituata piuttosto di
buon grado.
Appena
il velo scomparve, mi
sentii stranamente scoperta, vulnerabile. Mi afferrai il braccio con la
mano
destra, stringendomi nelle spalle. Era sciocco sentirsi
così, lo sapevo, ma non
potei impedirmelo.
Subito
dopo, un movimento tra gli
alberi, chiaramente in avvicinamento, mi fece capire che ce
l’avevo fatta.
Nello stesso istante, gli occhi di Jacob scattarono sul mio viso,
spalancandosi
in sorpresa. Il suo tremore rallentò lievemente per un
attimo e, nell’istante
in cui sentii una voce familiare chiamare il mio nome, vicino a me,
crebbe a
dismisura.
Il
mio sguardo rimase fisso in
quello di Jacob, mentre sussurrava in continuazione.
“No,
le farei del male”,
mormorava, “no, no, no”.
Ma
cosa stava dicendo?
“El!”,
mi chiamò Emmett a pochi
passi da noi.
Si
fermò sul limitare della
piccola radura che ci conteneva, al confine con l’ombra
creata dai giganteschi
alberi secolari intorno a noi.
La
sua espressione mi sconcertò.
Non avrei mai pensato di riuscire a scorgere un’emozione del
genere sul viso di
Emmett.
Il
suo sorriso sollevato stonava
con lo sguardo scuro e preoccupato che gli colmava il volto.
Ma non era tutto. Per la prima
volta aveva un’espressione seria e ostile, pari solo a come
l’avevo visto la
prima sera, durante l’incontro con Amos.
Che
pericolo c’era questa
volta? Rimasi ferma, incerta.
“El,
vieni qui”, mi disse Emmett,
lasciando trasparire una strana ansia nella sua voce.
Avrei
dovuto muovermi, ne ero
certa, ma non riuscivo a trovare le gambe.
Rimasi
ferma, lo sguardo ancora
negli occhi di Jacob.
Con
la coda dell’occhio, vidi
Emmett fare un lieve passo in avanti.
La
reazione di Jacob fu immediata.
I suoi occhi si accesero di una luce assurdamente brillante appena
prima di
diventare completamente neri, ed il suo corpo sembrò sul
punto di spezzarsi da
quanto tremava. Si accasciò in ginocchio, portandosi i polsi
alle tempie,
mentre le mani erano scosse da spasmi convulsi e continui.
Emmett
mi fu al fianco in meno di
un secondo e, ancora prima che mi rendessi conto dell’assurda
scena davanti ai
miei occhi, il tutto sparì dalla mia vista.
Ok, ecco tutto. Wo!, è stato piuttosto lungo questo capitolo. Le cose per
El continuano a complicarsi, quasi mi sento in colpa. Quasi xD Farmi sapere se vi
ha fatto schifo o meno è sempre apprezzato :) Altrimenti a
sabato prossimo. Buon weekend e buona settimana!
Ebbene! Eccomi di nuovo qui
come al solito xD Settimana prossima sarà un vero disastro
con la scuola, spero di riuscire ad aggiornare. Se così non
fosse posterò il prima possibile :) Detto questo! Ah niente,
non lo so. Io rinnovo come al solito la richiesta di lasciarmi una
recensione. Buona lettura! :)
Capitolo
10. Chiarimenti.
Quando riuscii a
capire cosa stava
accadendo, ci trovavamo già nei pressi della piccola radura
che ci aveva
ospitato all’inizio, prima di giocare a nascondino.
Non potevo credere a
quello che
avevo appena visto, era surreale, impossibile.
Un attimo prima che
Emmett mi
sollevasse da terra, caricandomi in spalla davanti ai miei occhi
increduli, mi
era parso di vedere la figura di Jacob oscillare.
Oscillare, tremante, ed esplodere
letteralmente in qualcosa di indefinito e inquietante mentre mi
allontanavo,
avvinghiata alla schiena di Emmett.
Dovevo essermelo
immaginata, ecco tutto.
Rimasi a fissare
confusa il vuoto
di fronte a me, mentre la parete impenetrabile di alberi secolari
scorreva
veloce e scura di fianco a me. Tutto era così assurdamente
verde.
Chiusi gli occhi,
stringendomi
nelle spalle. Ero confusa, sconvolta. Era successo tutto
così velocemente.
“El?”,
mi chiamò Emmett a mezza
voce, ancora un’ombra di insolita serietà nella
sua voce.
Aprii gli occhi,
sollevando
leggermente le palpebre. Non avevo voglia di stare ad ascoltare una
ramanzina
inutile.
“Che
c’è?”, mugugnai spazientita.
Ridacchiò
divertito, facendo rimbombare quel
suono nelle mie orecchie. Scostai il viso dalla sua schiena, intontita.
Rallentò
visibilmente la sua
andatura fino a fermarsi, ormai nei pressi della grande casa bianca.
Con un movimento
talmente rapido
da essere pressoché impercettibile, mi fece scivolare dalle
sue grandi spalle
nelle sue braccia. Erano come sempre gelide e, al contatto, mi venne la
pelle
d’oca.
Confusa, rimasi a
fissarlo negli
occhi, con aria scocciata e arrogante.
Incrociai le braccia
sul mio
petto, sbuffando.
I suoi occhi erano
ancora seri e
in qualche modo preoccupati; contrastavano fortemente con il sorriso
che gli
piegava gli angoli della bocca.
“El...”,
cominciò a dire, “vuoi
dirmi cosa ti è saltato in mente?”,
domandò brusco.
Mi accigliai; che
avevo fatto di
sbagliato stavolta?
Abbassai lo sguardo,
restando a
fissare le mie mani.
Vedendo la mia
espressione,
continuò subito più sereno.
“Vedi El,
è complicato. Quello che
è successo…beh, non sarebbe dovuto
accadere”, abbassò anche lui lo sguardo, come
colpevole.
“Non te ne
faccio una colpa, non
potevi certamente saperlo”, mormorò sorridendo,
“la tua sfortuna a volte è più
forte della legge delle probabilità”.
A quella frase,
levai nuovamente
il viso per incenerirlo con lo sguardo.
“Emmett
io...”, cominciai a dire,
in parte irritata, in parte confusa.
“In ogni
caso, non voglio essere
io a farti la paternale, quindi ora è meglio
andare”.
Così
dicendo, mantenendomi tra le
sue braccia fredde, ricominciò la sua corsa attraverso la
foresta. In
lontananza era già possibile scorgere il riflesso della
debole luce del sole,
smorzata dalle nubi, che si rifletteva sulla superficie del breve
ruscello
intorno alla casa.
Mentre si
allontanava, più veloce
che mai, mi parve di sentirlo mormorare qualcosa.
“Tanto
appena arriveremo a casa,
saranno gli altri a farcela”, sussurrò, la sua
voce portata via dal vento in
corsa.
Ignoravo il senso
delle sue
parole, ma nonostante ciò mi preoccupò
leggermente. Ancora non capivo cosa
avessi fatto di male, dopotutto mi ero solo allontanata un
po’, nulla di che.
Dopo appena qualche
secondo, fummo
in vista della casa.
Emmett non
saltò, come aveva fatto
prima, il piccolo ruscello intorno alla casa.
Semplicemente lo
ignorò,
sfrecciandovi attraverso e provocando enormi spruzzi d’acqua.
Conseguenza: mi
bagnai come un pulcino.
Mi lamentai,
mugugnando qualcosa,
mentre Emmett rideva divertito.
Corse rapidamente
fino a giungere
davanti all’ampia veranda, resa inutilizzabile a causa dei
grandi alberi che si
estendevano verso la casa, come a nasconderla volontariamente.
Arrivati
lì, mi fece scendere per
terra e, con un ampio ghigno, aprì lentamente la porta
d’ingresso.
In un secondo, il
salotto fu
riempito dal suono di ruggiti minacciosi e insoliti.
Che c’era
che non andava adesso?
Mi guardai attorno, sbigottita.
Poi una voce acuta e
squillante mi
raggiunse da sopra tutto quel frastuono.
“El!”,
mi chiamò Rose, con
evidente sollievo, “che ti è successo?”,
mi domandò sorpresa e apparentemente arrabbiata.
Che mi era successo?
Non mi
sembrava di aver fatto nulla. Mi fermai, allargando le braccia,
interrogativa.
“Rose...”,
provai a dire, ma mi
fermai.
Davanti a me,
così velocemente che
non fui nemmeno in grado di accorgermene, adesso c’erano
anche Carlisle, Esme,
Jasper e Alice.
L’unico ad
avere un comportamento
ostile era Jasper, accucciato protettivo al fianco di Alice, mentre
digrignava
i denti. La sua espressione m’intimoriva; feci un passo
indietro.
“Jazz,
è tutto a posto”, disse
Alice tranquilla, rivolgendomi un gran sorriso a cui non mi ero ancora
abituata.
Tutti gli altri,
Carlisle
compreso, mantenevano un’espressione cauta, guardinga...e
davvero insolita.
Emmett
andò a sistemarsi al fianco
di Rose, che nel frattempo si era portata di fronte a me, con passo
tranquillo
e rilassato. Sempre sorridente.
Rosalie mi fece un
cenno con la
testa, a indicarmi che ora potevo parlare.
“Rose…che
sta succedendo?”, fu
l’unica cosa che riuscii a forzare fuori dalle mie labbra,
farfugliando.
Tutti si voltarono
all’unisono
verso Emmett, che si stava defilando in fretta e furia senza dare
nell’occhio.
Sembrava colpevole.
“Emm?”,
lo chiamò Rosalie.
Quando vide che il
suo amato non
aveva nessuna intenzione di stare a sentirla, si fece seria.
“Emmett”,
sembrò minacciarlo,
“dimmi cosa è successo a El, subito”.
A quel punto Emm si
voltò
leggermente, un sorriso di scuse sul suo volto.
“Niente di
che”, disse scrollando
le spalle, “siamo solo andati nella foresta a fare un
giro”.
Stava omettendo un
paio di cose,
ma la sua strana dimenticanza mi fece pensare che forse fosse meglio
così.
Non mi piaceva il
modo in cui mi
guardavano tutti, come se fossi appena uscita da un film sugli alieni.
Beh,
tutti tranne Alice, che continuava ad abbagliarmi con quello strano
sorriso
complice. Che avesse visto quello che era successo? Probabile. Di certo
non era
mia intenzione chiederglielo, non ora almeno.
“Perché
allora puzza di-”,
cominciò a sbraitare Rose.
Sembrava
sull’orlo di una crisi
isterica.
A quel punto, prima
ancora che
potesse terminare la frase, Carlisle le mise una mano sulla spalla,
facendole
cenno di no con il capo.
“Non
è il momento, Rose”, disse
calmo Carlisle.
Mi rivolse poi un
gran sorriso.
“Emmett,
Jasper, Esme?”, li chiamò
con voce serena, “Io, Rosalie e Alice dobbiamo fare due
chiacchiere con El, se
per favore potete andare in salotto…”.
Annuirono subito,
allontanandosi
velocemente e proseguendo verso il salotto a grandi passi.
Esme, prima di
andarsene, mi
sfiorò una guancia con la sua mano fredda.
“Stai
tranquilla, tesoro”, mi
disse sorridente.
Sorrisi in risposta,
forse con un
attimo di ritardo.
Ero preoccupata dal
loro modo di
fare, ma soprattutto di una cosa in particolare. Una mancanza,
più che altro.
In casa
c’erano solamente sei
vampiri, ma nessuna traccia del settimo. L’unico di cui in
realtà m’importasse.
Dov’era Edward?
“El?”,
mi chiamò Rosalie a qualche
passo da me. Probabilmente si stava chiedendo cosa facessi ancora
lì, immobile,
con lo sguardo fisso nel vuoto.
Trasalii,
spalancando gli occhi in
sorpresa. Non me lo aspettavo.
“Eh?”,
domandai confusa,
giocherellando con una ciocca di capelli che mi cadeva ribelle sulle
spalle.
Mi guardò
spazientita,
probabilmente non avevo sentito una domanda.
“Vieni,
andiamo”, disse scuotendo
la testa, spostando in questo modo le cascate di boccoli dorati sulla
sua
schiena.
Rimasi a fissarla,
colpita ogni
volta sempre di più dalla sua assurda bellezza e perfezione.
Dato che non
accennavo a muovermi,
Rosalie mi prese delicatamente per mano e mi guidò su per le
scale. Salii
attentamente i gradini, persa ancora una volta nelle mie domande e
incertezze.
Che cosa stava per
dire Rose prima
che Carlisle la fermasse? Cosa sapeva Alice? Cosa aveva fatto Emmett di
grave?
E dov’era Edward? C'erano fin troppe domande senza risposta.
Giunte a
metà del lungo corridoio
bianco, proprio davanti ad un’anonima porta di legno, ci
arrestammo. Dietro di
noi, così silenziosi e aggraziati che sembravano non toccare
terra, Alice e
Carlisle. Tornai con lo sguardo a Rosalie, in piedi di fianco a me,
statuaria.
Sembrava assorta, preda di mille pensieri, gli occhi dorati persi nel
vuoto.
Non appena incontrò il mio sguardo, mi sorrise e,
incomprensibilmente, arricciò
il naso.
In quei pochi
attimi, Alice e
Carlisle ci avevano già raggiunti.
Quest’ultimo
si arrestò ed aprì la
porta di quella stanza. Non ci ero mai entrata, non aveva mai attirato
la mia
attenzione come la camera di Alice o di Rose. Solo ora la vedevo per la
prima
volta.
Aveva
l’aspetto di uno studio,
forse un ufficio. Il soffitto era molto alto, le pareti dipinte con gli
stessi
toni della casa. Contro la parete di fronte a noi
c’era un’enorme libreria in quello che sembrava
legno massiccio, stracolma di
ogni genere di volume.
Poco distante dall’ampia
biblioteca, prendeva posto una grande scrivania dai colori scuri. Su di
essa
era appoggiato un portapenne nero con delle incisioni dorate ed alcuni
libri.
Tra questi ne spiccava uno, aperto
al centro del tavolo, di dimensioni davvero notevoli. Era rilegato in
pelle,
anch’essa scura, e dall’aspetto doveva essere un
volume di un’enciclopedia.
La stanza era
illuminata grazie ad
una portafinestra sulla sinistra, che dava sulla foresta
tutt’intorno alla
casa. Mi accorsi che faceva più caldo ora.
Appena volsi lo
sguardo verso
destra, ne capii il motivo.
In un angolo
scoppiettava un
piccolo camino, il fuoco che ardeva e crepitava vivo. Davanti, a poco
più di
qualche centimetro, c’erano tre poltrone dalle piccole
dimensioni disposte a
cerchio.
Mi sentii prendere
delicatamente
per un braccio e rifocalizzai l’attenzione su quello che
stava accadendo. Rose
era in piedi, lo sguardo serio, di fianco a me. Le sue dita
lunghe e fredde chiuse
intorno al mio avambraccio.
Alice ci
superò velocemente, saltellando con grazia
fino a raggiungere la sedia più distante da noi. Si
appollaiò su di essa,
incrociando le gambe ed appoggiando i gomiti sulle ginocchia, con fare
soddisfatto. Sorrise.
Rose mi
tirò per la manica,
annuendo lievemente in incoraggiamento.
“Siediti”,
mi disse gentile.
Abbozzò
un sorriso che non riuscì
al pieno. Sembrava preoccupata.
Arricciò
nuovamente il naso. Ma
che diavolo…?
Feci come aveva
detto, senza
obbiettare, e fluttuai confusa fino alla poltrona più vicina
al caminetto
crepitante. Mi tolsi senza pensarci la giacca a vento, ancora fradicia
per il
viaggetto nel ruscello con Emmett, e mi sedetti. Si stava bene e,
infreddolita,
cercai di avvicinarmi ancora di più al camino, attenta a non
farmi vedere da
Rosalie.
Se avesse visto che
avevo freddo,
avrei temuto per la sorte di Emm.
Mi sarebbe piaciuto
accostare le
mani alle fiamme, che ardevano vivaci, ma a quel punto mi avrebbe
certamente
visto. Mi accoccolai semplicemente su un lato, allungandomi verso il
camino, e
portai le ginocchia al petto, cingendole con le braccia.
Tutto era avvolto da
un insolito
silenzio. Troppo silenzio.
Carlisle si era
seduto nella
poltrona di fronte a me, così silenziosamente che non me ne
ero neanche accorta.
Si fissava le mani, rigirandole continuamente, come indeciso sul da
farsi.
Alice rimaneva sulla
mia destra,
sorridente - come avevo scoperto essere sua abitudine.
Quando
incrociò il mio sguardo
incerto, le sue labbra sottili si tesero ancora di più in un
sorriso abbagliante. Rosalie
invece si era semplicemente appoggiata al bracciolo della mia poltrona,
la sua
figura perfetta tesa da qualche strana ed evidente preoccupazione.
Tornai con lo
sguardo sulla
piccola Alice, l’unica dei presenti a mantenere un
atteggiamento sereno.
Appoggiò
il mento tra le mani,
guardandomi.
Ad un tratto, il suo
sguardo si
fece vuoto, come concentrato su qualcosa di lontano ed indefinito. Il
suo
sorriso si affievolì un poco. Stupita, rimasi a fissarla.
Dopo pochi secondi,
tuttavia,
rifocalizzò nuovamente i suoi occhi su di noi - sul
presente. Probabilmente era
riuscita ad avere una visione, anche se in mia presenza.
La sua voce
suonò chiara e
squillante come sempre, ma velata d’impazienza, quando
parlò.
“Okay,
parliamo”, disse Alice, “Racconta”.
Non mi aspettavo una
cosa del
genere.
Non erano loro a
voler parlare con
me? Perché adesso dovevo raccontare io? Cosa poi, di
preciso? Rimasi a guardare
Alice, interrogativa.
Spostai lo sguardo
su Carlisle,
immobile sulla poltrona di fronte a me. Fissava le fiamme dietro di me
con aria
assorta, forse preoccupata. In quel momento, sollevò lo
sguardo su di me, poi
verso Alice, e di nuovo a me, così velocemente che non fui
nemmeno sicura di
averlo visto.
“Alice,
non è questo il momento”,
disse Carlisle apatico. Non l’avevo mai sentito
così.
“No,
Carlisle, è anche questo
parte del motivo”.
La voce fredda di
Rose giunse
dalla mia sinistra, autoritaria. Mi sorprese.
“Hai
ragione, forse però... ”,
disse Carlisle con un sospiro, senza concludere la frase.
“No, ora
dobbiamo chiarire, è per
questo che siamo qui”, disse questa volta Alice.
“Chiarire
cosa?”, la mia voce
sfuggì alle mie labbra senza alcun comando, semplicemente
confusa.
Gli occhi dei
presenti si spostarono immediatamente su di me.
Vidi Rose, con la
coda
dell’occhio, annuire a Carlisle in una sorta di
incoraggiamento, mentre Alice
si metteva comoda nella poltroncina su cui era seduta.
Il mio sguardo era
bloccato sui
lineamenti incredibilmente belli di Carlisle, rigidi e preoccupati.
Sospirò e,
con estrema lentezza, dischiuse le labbra chiare e sottili a parlare.
“Elizabeth”,
sillabò lentamente,
con serietà. “Cosa…”, disse
con apparente difficoltà, “chi hai visto nella
foresta?”.
Sembrava che quella
domanda gli
costasse molto. Immediatamente feci un collegamento con il
comportamento ostile
di Jacob nella radura. Esitai un secondo, facendo mente locale, incerta
su cosa
dire esattamente.
“Nulla di
che”, mentii con fin
troppa innocenza, “io ed Emm siamo solo andati a fare un giro
nella foresta,
non abbiamo visto nessuno”.
Ricordavo
perfettamente lo sguardo
che Rosalie aveva rivolto ad Emmett appena rientrati e speravo che
mantenere il
suo stesso profilo basso mi avrebbe aiutata.
Tuttavia, qualcosa
mi diceva che
gli occhi di Rose, al momento, mi stessero perforando la schiena.
“El…”,
mi ammonì la sua voce,
proprio dietro di me.
La sua voce era
proprio come il suo
sguardo, fredda, di ghiaccio, quasi assassina avrei azzardato.
Okay, okay. Forse
era meglio non
rischiare la sorte.
“Ecco, ci
siamo messi a giocare,
io e Emmett…”, farfugliai, alla ricerca delle
parole migliori per raccontare il
tutto. Mi sentivo inspiegabilmente colpevole, come se stessi
confessando
qualche strana sorta di crimine.
“Poi mi
sono messa a correre e
sono sbucata in un piccolo spiazzo. E c’era il sole...
”, dissi quasi sognante,
al ricordo di quel breve tepore e dei deboli raggi che mi avevano
illuminato.
Esitai qualche
istante, rievocando
l’inquietante presenza di Jacob, all’inizio.
“E?”,
mi esortò Alice, con
impazienza.
Sembrava infastidita
da qualcosa,
ma ne ignoravo il motivo.
“A un
certo punto è arrivato un
ragazzo, Jacob”, dissi velocemente.
Poi, dopo una breve pausa, domandai,
“c’è
qualche riserva da queste parti per caso?”.
Carlisle si
accigliò.
“Sì,
una vicino a First Beach”,
mormorò, quasi rassegnato, “La Push”.
“Ah ecco,
forse era di lì”.
Carlisle
annuì, senza convinzione.
“Va’
avanti”, disse seria Rosalie.
Forse stava
progettando l’omicidio
di Emmett.
“Ehm,
Jacob è stato un po’…strano,
ecco”, esitai, omettendo la prima sequenza di ringhi ostili.
“Poi
però abbiamo parlato un po’,
senza problemi. Era anche abbastanza simpatico”, dissi,
sorpresa della mia
conclusione.
In effetti, era
stato simpatico,
anche se non ci avevo mai pensato fino a quel momento.
Certo, senza
prendere in considerazione
tutte le stranezze.
“Mi
è parso che vi conoscesse”,
ammisi con un filo di voce.
Non volevo scatenare
una reazione
simile a quella di Jacob.
“Ah
sì?”, domandò Alice, con fin
troppa innocenza.
Annuii lentamente,
mordicchiandomi
il labbro inferiore. Sembrava che la sapesse lunga, su qualunque cosa
fosse.
Almeno non avevano avuto nessuna reazione strana.
Tutti a parte
Rosalie che, non
appena recepì la mia affermazione, scattò in
piedi. I suoi occhi saettarono sul
mio viso, accesi d’ira.
“Cosa ti
ha detto esattamente?”,
domandò infuriata, passando una mano nella folta chioma
bionda.
“Rose…non
ti preoccupare, non gli
ho detto niente”, la rassicurai subito con voce rotta.
Sembrava sul punto
di urlarmi
addosso, quindi decisi di raccontarle tutto quello che era successo, se
era
quello che voleva.
“All’inizio
Jacob è stato…strano.
Voglio dire, si comportava in modo insolito. Pensava che fossi una di voi”, mimai
l’impossibilità di
quell’affermazione con ampie virgolette con le dita.
“Poi il
sole è tornato e Jacob è
cambiato radicalmente. Sembrava sapere il vostro
segreto…”, continuai a
farfugliare.
“Ma io non gli ho detto niente,
giuro!”, aggiunsi subito dopo, in fretta.
“Non
è colpa tua El, non ti
preoccupare”, disse Alice, “va’ pure
avanti”.
Annuii, poco
convinta.
“Ehm…ecco,
dopo abbiamo parlato un
po’ e ha fatto qualche riferimento a Carlisle. E’
stato strano. Gli ho chiesto
come faceva a saperlo, ma ha detto che sarebbe stato meglio se me lo
aveste
detto voi”.
Feci oscillare lo
sguardo tra i
presenti, con aria interrogativa. Me lo avrebbero detto?
Alice mi sorrise.
“Questo te
lo spiegheremo più
avanti, ora è il caso che tu sappia tutto a proposito della
tua…natura”, disse con aria pensierosa.
Rimasi sorpresa
dalla frase di
Alice. Ne avevamo già parlato, anche se brevemente, la prima
sera. C’era
qualcos’altro da sapere?
“Cosa?”,
balbettai stupita,
passandomi nervosamente una mano nei capelli ancora umidi alle
estremità.
A quel punto fu
Carlisle a
parlare.
“El, ti
abbiamo solamente
accennato le mille sfaccettature del tuo potere e della tua specie.
Inoltre,
facendone in qualche modo parte, devi sapere qualcosa di più
sulla nostra
specie e sulle regole che regolano i rapporti tra di noi”.
Quindi era di questo
che si
trattava. Annuii decisa, pronta ad ascoltare se era quello che volevano.
“Devi
sapere che il mondo in cui
vivi, il tuo mondo, è molto diverso da come te lo potevi
essere immaginato. Di
questo certamente te ne sei resa conto anche tu”, disse
Carlisle, sorridendomi
leggermente.
Quando riprese a
parlare, i suoi
occhi sembrarono concentrarsi su scene lontane e passate.
“Quando
capii cos’ero diventato,
cercai in tutti i modi di distruggermi, poiché disgustato da
ciò che ero. Un
mostro, un assassino. Con il tempo, scoprii che c’era un
altro modo di vivere,
un’alternativa a tutto questo, e così cambiai
anche il modo di vedere la mia
esistenza. Per prima cosa, tuttavia, fuggii dall’Inghilterra,
dov’ero nato.
Vedere a poco a poco la gente che amavo e conoscevo invecchiare e
morire,
davanti ai miei occhi, era diventato impossibile. Andai così
in Scozia per
qualche tempo. Lì non incontrai quasi nessuno della mia
specie, poiché era una
zona quasi disabitata a quell’epoca. Tuttavia, mi imbattei in
un clan molto
numeroso e conobbi il capo di quella grande famiglia”. Si
fermò, rifocalizzando
lo sguardo sul mio volto solo per scoccarmi un’occhiata piena
di significati.
Collegai subito,
senza neanche
pensarci.
“Amos”,
dissi in un sibilo.
Carlisle annuì e tornò al suo racconto.
“Passai
qualche tempo con Amos,
poiché mi trovavo abbastanza bene con loro: nonostante
alcuni membri del suo
clan fossero ancora umani, non avevano alcun odore che mi tentasse. In
quel
periodo Amos mi spiegò diverse cose, tra cui la sua natura.
“Il suo clan non era una famiglia
di veri e propri vampiri, erano qualcosa di più, ma anche
qualcosa di meno.
Erano Ubach, il che significava che leggevano tutti nel pensiero ed
erano
capaci di cambiare forma, trasformarsi in chiunque a loro
piacimento. Fu quando un giorno mi ritrovai a
cacciare con loro nei boschi, anche se la loro preda era totalmente
differente,
che mi accorsi della loro debolezza.
"Un giovane, infatti, appena arrivò alle
spalle di un anziano pescatore sulla riva di un fiume, non
riuscì ad ucciderlo
al primo affondo. L’uomo, ferito e spaventato,
cercò
di sfuggire al giovane. E fu proprio quello che mi sorprese: nonostante
quello
Ubach lo avesse morso, era ancora in grado di correre perfettamente.
Non avevo
mai sperimentato il mio veleno su qualcuno, ma ne avevo visti gli
effetti su di
me, all’epoca della mia trasformazione. Il dolore,
l’agonia che il veleno
provoca è talmente forte, talmente schiacciante, che se mai
qualcuno dovesse
riuscire a scampare ad un primo attacco, sarebbe costretto a pentirsi
di non
essere morto subito quando questo comincia a diffondersi nel
corpo”.
Il viso di
Carlisle si contrasse in una smorfia di disgusto, di orrore, e mi
chiesi cosa
esattamente vedesse nei suoi ricordi. Molto probabilmente, cose di cui
avrei
preferito non essere a conoscenza.
“Ed
è così che ho capito: gli
Ubach non sono velenosi”, disse Carlisle solenne.
Le mie mani corsero
automaticamente alla base del mio collo, veloci, dove era ancora ben
visibile
la mia piccola, bizzarra cicatrice.
Carlisle
annuì. Ero sconcertata.
Non avevo mai
pensato, forse per
mia stupidità, a quello che era successo la prima notte,
quando Edward mi aveva
portato a casa. Mi aveva detto, anche se tra le righe, che Claude mi
aveva
morsa, ma non avevo mai pensato a quello che voleva dire essere ancora
viva, o
comunque umana.
Da quello che
Carlisle mi aveva
detto quella sera, e Rosalie nei giorni successivi, si diventava
vampiri solo
grazie al loro veleno, trasmesso con un morso. Solo pochi avevano
l’autocontrollo necessario per poterlo fare, ma Carlisle e
altri prima di lui
vi erano riusciti.
Mi ero sempre
fermata a quella
considerazione, senza andare mai più a fondo.
Claude mi aveva
morsa. Io ero
ancora umana. Erano due cose che avrebbero dovuto farmi capire quello
che
Carlisle aveva appena finito di dirmi, forse fin troppo ovvie.
Claude non era riuscito a
uccidermi perché era arrivato Edward, ma, essendo stata
morsa, sarei dovuta
essere un vampiro, a quest’ora. Gli Ubach non erano velenosi,
ecco il perché di
tutto.
La mia confusione
era talmente
ovvia sul mio volto, che Carlisle aspettò prima di
continuare.
“Quando ne
parlai con Amos”, riprese poco dopo, “egli mi
spiegò dei loro poteri e, soprattutto, mi parlò
dei loro
nemici. I principali sono, come i nostri, i licantropi e gli Hoser.
Questi
ultimi sono particolarmente pericolosi a causa delle loro
capacità.
“Gli Hoser, come ti ho già detto,
possono leggere nel pensiero e, anche se in casi molto rari, ucciderci.
Inoltre, sono impossibili da rilevare dai nostri sensi, come ad esempio
l’olfatto”.
Mi sorrise gentile.
“Tu sei una
Hoser, come sai”.
Una nuova domanda mi
sorse spontanea, sfuggendo alle mie
labbra.
“Io potrei
leggere nel pensiero?”,
domandai incredula e, soprattutto, eccitata.
Mi ero sempre
chiesta come sarebbe
stato avere il potere di Edward.
“Gli Hoser
più anziani sono tutti
in grado di farlo, nella loro forma sia umana che vampira.
Sia gli Ubach che gli Hoser,
infatti, manifestano i loro poteri già da umani. In questo
modo entrano a far
parte dei clan prima della trasformazione, così che possono
accrescere al
meglio le loro capacità.
“Ma come
fanno a trasformarsi
se…se non sono…velenosi?”, domandai
confusa.
“Gli Hoser
sono come noi, nella
loro bocca c’è veleno. Solo gli Ubach non lo sono,
o meglio, tutti tranne uno.
E’ per questo che Amos è il capo del clan,
poiché è l’unico Ubach
velenoso”.
Come la prima sera,
mi sentivo
come se la mia testa avesse raggiunto il massimo di informazioni
possibili.
“Quindi…quindi
io…”, balbettai in
cerca d’aria.
“Esatto”,
disse Alice, “anche se
non capisco ancora perché negli ultimi giorni le mie visioni
siano tornate più
frequenti, anche se in tua presenza”.
“Dici sul
serio, Alice?”, domandò
Rosalie, incuriosita. Alice annuì.
“Sì,
è così, anche se non ne so il
motivo”.
“E’
per questo che sei…cambiata
con me?”, chiesi curiosa, sporgendomi leggermente in avanti.
“Sì
e no”, ammise con un sorriso,
“diciamo che oltre alla frequenza è cambiato anche
il tema principale”. Sul
finire della frase la sua voce si era fatta stranamente seria, come
persa in
ricordi ed immagini sgradite.
“Cosa
vorrebbe dire, Alice?”,
chiesi nuovamente.
Il suo sguardo si
fece
improvvisamente serio e deciso, i suoi lineamenti rigidi.
Chinò il capo a fissare le sue piccole mani che rigirava
nervosamente.
“Ti
ricordi qualche tempo fa,
quando ero…quando ti evitavo?”.
Ovviamente
ricordavo. Ricordavo
tutto. Come avrei potuto dimenticare il modo ostile con cui mi
guardava, giorno
dopo giorno, all’inizio? Annuii semplicemente, lanciandole
uno sguardo pieno di
significati. Mi rivolse un tenue sorriso di scuse, sollevando il viso.
“All’inizio
è stato…difficile.
Vicino a te mi era pressoché impossibile avere delle
visioni, a volte di più, a
volte meno”, disse con voce piatta, senza emozioni.
“Tuttavia,
sono riuscita a vedere
l’arrivo di Amos e un’altra scena, anche se
così confusa da non riuscire a
distinguere niente in particolare. Dopo quello che
è successo la
prima sera, ti ricordi, Edward è venuto da me chiedendomi
spiegazioni sulla
visione che avevo avuto. Né io, né tantomeno lui
eravamo riusciti a capire
quello che stava succedendo”.
Sperai che il mio
sussulto, al
ricordo di quella sera, di Edward - con gli occhi infiammati di
desiderio e
dolore - non fosse stato evidente come era parso a me.
“Fu solo
più tardi, fuori all’aria
aperta, lontano da te, che ebbi un’altra visione. Era
certamente la stessa
scena, ma quella volta riuscii a distinguere quasi ogni cosa, anche se
forse
avrei preferito non farlo.
“Quella visione aveva due
conclusioni diverse, ma entrambe avevano a che fare con te, con Edward
e tutti
noi”.
“Perché
non me l’hai detto,
Alice?”, intervenne Rosalie, che nel frattempo si era
appoggiata al muro alla
mia sinistra, la sua pelle candida che s’intonava
perfettamente ai toni chiari
della parete.
“Non
volevo farti preoccupare per
qualcosa che non capivo esattamente neanche io, scusami Rose”.
Rosalie sembrava
particolarmente
irritata, mi intimoriva un po’.
“Che cosa
vedevi nelle visioni?”,
domandò bruscamente Rosalie, tuttavia era evidente la sua
curiosità.
Alice sembrava
restia a parlare,
ma lo fece ugualmente, forzando le parole fuori dalle sue labbra
sottili.
“La prima
visione comprendeva solamente
Edward e te”, disse rivolgendosi a me.
“C’eravate voi due e tu…tu eri in
pericolo, El. Edward cercava di proteggerti, di nasconderti da qualcosa
che non
sono riuscita a vedere, ma…”, la sua voce si perse
debole, in un sussurro.
Avevo paura di
sapere cosa volesse
dire quel “ma”, quella frase, quella visione, ma
dovevo sapere.
“Cosa?”,
sussurrai in un sibilo
pressoché muto.
Stentai a cogliere
la mia voce.
Tuttavia, non avevo il minimo dubbio che lei non l’avesse
udita.
“Nella
prima visione venivi uccisa,
El”, mormorò Alice, così
silenziosamente che dovetti ripetere più volte le sue parole
nella mia mente
per comprenderle al meglio.
Quest’azione
mi prese qualche
secondo, mentre assimilavo il significato della frase.
Uccisa.
Ero…non spaventata, forse.
Non ne ero sicura. Forse l’emozione più esatta era
lo sgomento, la confusione. Il
mio primo pensiero, tuttavia, corse a Edward.
“E Edward?
Cosa…lui…?”, ero così
disorientata da non riuscire a formulare una frase con un senso logico.
Sperai
mi capisse ugualmente, e così fece.
“Non lo
so, la visione si
interrompeva troppo in fretta, ogni volta nello
stesso…momento”, sembrava
esitare, i suoi occhi di onice liquida, puntati su di me, cauti e
attenti.
“Non sono
riuscita a vedere quello
che gli accadeva”, mormorò triste, scuotendo la
testa.
Percepii Rose, poco
lontana da me,
affrettarsi ad alleviare l’evidente tensione
nell’aria.
“E la
seconda?”, la sollecitò
Rosalie, con voce stridula e angosciata.
Probabilmente era
preoccupata per
me. Capii al volo perché Alice non ne aveva parlato con
Rose: si sarebbe
preoccupata inutilmente, diventando iperprotettiva nei miei confronti.
Come rischiava, del
resto, di
divenire da quel momento in poi.
Alice non rispose. I
suoi occhi
erano ancora puntati su di me, analizzando ogni mia reazione ed
espressione.
Tentai, senza esito, di sorridere, cercando di tranquillizzarla.
Con ogni
probabilità feci
semplicemente una smorfia.
“Alice?”,
insistette Rose.
Alice
sollevò il suo piccolo viso
di scatto a fissare Rosalie. No, non fissare, incenerire era il termine
più
azzeccato. C’era ovviamente qualcosa, qualcosa forse peggiore
della prima
visione, che mi stava nascondendo.
“Alice”,
dissi lentamente,
esitante. “Cosa…cosa hai visto nella seconda
visione?”, riuscii finalmente a
dire.
Alice
sospirò profondamente, come
rassegnata, e lanciò un’ultima occhiata a Rosalie
prima di tornare con i suoi
grandi occhi dorati nei miei.
“El…né
la prima, né la seconda
visione hanno più importanza. Il futuro è
cambiato. Non è niente”, disse in un vano
tentativo di
sviare l’argomento.
“No Alice,
voglio…devo sapere.
Cosa hai visto che non vuoi dirmi?”.
Sospirò
di nuovo, respirando
profondamente.
“Ho avuto
la seconda visione poco
dopo la prima, appena qualche secondo. Non riuscivo a capire da cosa
dipendesse
tutta quel caos, quella confusione. Solitamente, le mie visioni seguono
le
decisioni degli altri; quando questa viene presa, la visione cambia in
un modo
o nell’altro, a seconda della scelta. Tuttavia, quella sera,
avevo avuto due
visioni completamente diverse, e allo stesso tempo…uguali,
senza che nulla di
apparente fosse cambiato.
“Nella
seconda visione…”, disse
con voce debole, “c’eravate sempre tu e Edward.
Eravate nella foresta, poco
lontano da qui, in un piccolo spiazzo”.
Rimasi ad
ascoltarla, assorta. Non potevo credere che fosse
spaventata dal raccontarmi che Edward ed io fossimo in una radura,
doveva esserci di più.
Forse la radura che aveva visto
nella sua visione era la stessa in cui avevo incontrato Jacob. Forse
era per
quello che tutti loro erano preoccupati. Forse pensavano che qualunque
cosa mi
fosse accaduto nella visione, sarebbe potuto succedermi oggi.
“Alice”,
la rimproverai.
Tuttavia, non
riuscii ad imprimere
nella mia voce l’irritazione che desideravo.
Il piede sinistro di
Rosalie prese
a scandire nervosamente il tempo, mentre il silenzio cresceva
d’intensità.
“El…”,
sembrò implorarmi, la forza
del suo sguardo di onice riversa nel mio.
Scossi la testa
energicamente,
tentando di fare chiarezza nella mia mente. Finalmente si decise a
parlare.
“La
visione terminava allo stesso
modo, El. Tuttavia…”, sembrava le costasse molto
dirlo. “Tuttavia, era Edward…era lui
ad ucciderti”.
TAN TAN TAAAAAAAAAAN! Eh
sì, è un po' quello che si dice un cliffie
xD Ringrazio come al
solito Carli e Fà che mi sopportano e postano i
capitoli in pagina. Questa storia non avrebbe nemmeno un decimo delle
visualizzazioni che ha senza di loro. Eeee...poi basta.
A sabato prossimo, si spera! Buon weekend :)
Eqquindi...mi potrei essere
dimenticata dell'aggiornamento xD Ah niente! Però me ne sono
ricordata e sono qui alle due di notte ad aggiornare, qualche punto lo
recupero u.u In ogni caso, settimana prossima aggiorno di
venerdì perchè sarò via durante il
weekend, così dovrete aspettare un giorno in meno :) Eeee
nient'altro da dire! Vi avevo lasciato un po' in sospeso, ora il
seguito.
Capitolo
11. Inaspettato.
Rimasi
immobile, senza lasciar
cadere lo sguardo dal viso di Alice. Ad ogni modo, non sarei riuscita a
fare
altrimenti.
Rose
mi sfiorò delicatamente il
braccio, cercando di darmi conforto con il suo gelido tocco.
Mi
sforzai di pensare. Avevo
sensazioni strane…discordanti, incompatibili tra loro.
Ora
più che mai avrei dovuto
essere terrorizzata, o come minimo intimorita da quello che aveva
appena detto
Alice. Tuttavia, oltre allo stupore, allo sgomento che mi dominava in
quel
preciso istante, non riuscivo in alcun modo ad avere paura di loro. Di
lui.
Ripensai
in un attimo a quella
mattina, nel garage.
Osservai
nuovamente il suo viso,
nei miei ricordi. Un viso così bello da togliere il respiro,
i capelli bronzei
e spettinati, il suo tratto più umano, gli occhi scuri
dall’intensità
sconcertante.
No. Non sarei mai riuscita ad avere paura
di lui.
L’unica
cosa che appariva ovvia,
continuando a riflettere - a vedere quel volto nella mia mente - era
che le
uniche sensazioni che suscitava in me fossero sempre le stesse, dalla
prima
volta che il mio sguardo aveva incontrato il suo.
Ogni
volta che i miei occhi
correvano al suo viso, che incrociavano il suo sguardo cauto, che le
sue dita
fredde e leggere mi sfioravano, non c’era paura,
né timore. C’era solo
scompiglio, agitazione, ma l’origine era totalmente
differente da quella che
avrebbe probabilmente dovuto essere.
Lentamente
feci scivolare il viso
nelle mie mani, abbassando lo sguardo e socchiudendo le palpebre.
Inspirai
profondamente, e attesi.
Lasciai
scorrere qualche secondo
ancora, mentre sentivo crescere l’ansia di Rosalie al mio
fianco. Tuttavia,
avevo bisogno di quegli attimi, e nessuno mi interruppe.
“Dov’è?”,
mormorai fioca,
balbettando, la voce attutita dalla mia mano.
Aprii
nuovamente gli occhi, a
fissare Alice di fronte a me.
“Dov’è
Edward?”, ripetei
meccanica. Avevo bisogno di sapere dov’era, di parlare con
lui. Semplicemente
di stare con lui.
Carlisle
rispose con voce quasi
sorpresa, sollevata per alcuni aspetti.
“Edward
è andato a Seattle a
recuperare qualche documento, El”. Oh.
“Sarà
comunque qui prima di sera”,
disse Alice con un gran sorriso.
Quel
pensiero mi risollevò
immediatamente, facendo comparire un tenue sorriso agli angoli della
mia bocca.
Lasciai cadere le mani dal mio viso e mi voltai verso Rosalie,
prendendole la
mano ancora appoggiata alla mia spalla.
“Rose?”,
chiesi incerta,
preoccupata dalla sua espressione.
Non
era più arrabbiata, questo era
ovvio. La rabbia aveva ceduto posto all’ansia,
alla…tristezza? Sembrava fosse
così.
“Rose,
tutto okay?”, ripetei,
cercando una risposta nei suoi occhi lontani e dorati.
Apparivano
distanti, distaccati.
Tuttavia, alla mia domanda si rifocalizzarono sul mio viso.
Abbozzò
un lieve sorriso.
“Sì,
certo El”, disse con voce
intenzionalmente allegra. Fin troppo.
Non
ero per nulla convinta e le
scoccai un’occhiata indagatrice. Tornai a fronteggiare Alice,
ancora sorridente
e serena, con un sospiro, tenendo la mano fredda di Rosalie tra le mie.
“Hai…”,
farfugliai, “hai detto che
le tue visioni sono cambiate, giusto?”.
Alice
annuì, sospirando.
“Sì,
non del tutto, a dire la
verità”.
Trasalii
immediatamente, al
pensiero che la mia morte comprendesse ancora un futuro prossimo. Non
ero
spaventata da Edward, ma, come ogni essere umano, l’istinto
di sopravvivenza è
spesso più forte di ogni razionalità.
Sentii
Rosalie irrigidirsi al mio
fianco ed ero certa che non stesse respirando in quel breve istante.
Alice
si lasciò sfuggire una
risatina.
“No,
non ti preoccupare”, disse
cinguettando, “da quel punto di vista la mia visione
è piuttosto diversa”. Rise
nuovamente e quella volta, sollevata dalla sua affermazione, sorrisi
anch’io.
“E’
stato…strano”, continuò Alice,
“ho avuto questa visione ieri sera, dopo aver parlato con
Edward. Era
arrabbiato con me per voler continuare…a evitarti; lui non
voleva, mentre io
ero ancora convinta che fosse necessario.
“C’eravate
sempre tu e Edward,
nella foresta, ma quella volta eravamo tutti lì a
proteggerti ed eri al sicuro”,
concluse Alice, il suo sorriso più teso che mai.
“Sai...”, riprese Alice,
“sembri stanca”.
“No,
è tutto okay”, dissi, “non
sono stanca”.
“Forse
sarebbe meglio se facessi
una doccia, in ogni caso”, mormorò Alice,
lasciandosi sfuggire una risatina.
Carlisle
e Rosalie si unirono a
lei discretamente. Sembrava stessero ridendo di una battuta personale,
qualcosa
che non riuscii a cogliere.
“Ehm…okay”,
farfugliai confusa.
Lentamente
mi alzai dalla poltrona
su cui ero raggomitolata, le mie gambe indolenzite e addormentate per
aver
mantenuto quella posizione troppo a lungo.
Avevo
ancora tante, troppe domande
a cui dovevo dare una risposta.
Tuttavia,
la maggior parte era per
Edward. Avrei dovuto attendere ancora.
Fluttuai
fino alla porta,
voltandomi appena prima di uscire per rivolgere un sorriso ad Alice e
Carlisle.
Rosalie era appena dietro di me, come sempre.
Non
appena ci fummo allontanate di
qualche metro dall’anonima porta in legno dello studio, Rose
mi afferrò per un
braccio, costringendomi a fermarmi.
“Che
cosa c’è?”, chiesi
spazientita e perlopiù confusa.
“El,
sei…sei sicura che sia tutto
okay?”.
I
suoi occhi erano cauti, attenti,
come se avesse paura di toccarmi o farmi del male.
“Sì
Rose, è tutto okay, non ti
preoccupare”, la confortai.
Le
sfiorai la mano con cui mi
bloccava i fianchi, per farle capire che era davvero così.
“Come…non
hai paura che possa
farti del male?”.
Una
risatina isterica sfuggì alle
mie labbra.
“Rose!”, esclamai,
“non ne ho mai avuta e non credo che ne avrò mai”.
Probabilmente
suonava fin troppo
spavaldo – ridicolo, forse -, ma era la verità.
Non sarei mai riuscita ad avere
paura di loro, come poteva anche solo pensarlo? Non erano dei mostri,
di questo
ne ero certa. Me lo avevano già dimostrato in più
di un’occasione.
Rosalie
allentò la presa dal mio
braccio e dai miei fianchi, lasciandomi libera.
Rimasi
a fissarla, dubbiosa.
Sorrise.
Ormai
era pomeriggio inoltrato, o
forse sera, le nuvole che coprivano completamente il cielo mi
impedivano di
esserne certa. Lentamente, riprendemmo a camminare.
Avevo
un pensiero fisso che,
nonostante tutte le domande e i dubbi che avevo, continuava ad
ossessionarmi.
Edward. Non era affatto buono l’effetto che aveva su di me.
Ormai era diventato
controproducente, deleterio…malsano quasi il modo in cui ero
assuefatta dalla
sua presenza.
Tuttavia,
non m’importava. Sapevo
che mi sarebbe bastato vederlo per stare meglio, proprio come a un
drogato
basta vedere il proprio spacciatore per sentirsi meglio.
Scossi
leggermente la testa come
per liberarmi di quel pensiero insistente.
Senza
accorgermene, eravamo già
arrivate in cucina. Mi ritrovai, quasi senza pensarci, davanti al
frigorifero
con una barretta in mano. Risi di me stessa, sorridendo tra me e me.
“Ehi,
El!”.
“E’
parecchio che non ti fai vedere”, risposi
con voce piatta, senza emozione.
Rise.
“Oh sì, direi di sì. Sai
com’è Rose…”
Un’altra
voce lo interruppe. Una
voce che, in quel momento, avrebbe potuto far tremare chiunque.
“No,
Emmett, dimmi.
Com’è Rose?”, disse.
Mi
voltai di scatto, lasciando
chiudere da sola la porta del frigo che tenevo aperta con la mano
destra. Non
appena vidi l’espressione di Rose e Emmett di fronte a me,
scoppiai a ridere.
Emmett
mi lanciò un’occhiata
ostile ma scherzosa.
Rosalie
era appoggiata allo
stipite della porta della cucina, le sue labbra sottili piegate in un
sorriso
angelico quanto diabolico.
“Accidenti
a te e al tuo
maledettissimo potere, El”, mormorò Emm sotto il
suo respiro.
Risi
ancora, mentre sgattaiolavo
fuori dalla cucina, abbandonando i due piccioncini ai loro litigi.
“Ma…Rose…era
solo così, per
divertirsi. Non è successo niente”.
“Niente! Niente? Allora dimmi se niente
è trovare quel…quel ragazzino
nei boschi”, sibilò Rosalie,
la sua voce gelida e tagliente. Mi chiesi nuovamente il
perché della sua furia
omicida.
A
dire la verità, non me ne
importava molto. Lasciai andare avanti la discussione senza
più ascoltare.
Guardai fuori dalla grande vetrata che dava sulla foresta. Era ormai
buio,
forse il tramonto. Così, confortata dal fatto che entro
poche ore avrei rivisto
Edward e ancora divertita dall’immagine di Emmett preda di
Rosalie, mi diressi
saltellando verso il salotto, dove mi appollaiai sul piccolo divano
bianco.
Fu
solo quando mi accorsi dei
titoli di coda che scorrevano sullo schermo del televisore al plasma di
fronte
a me, che mi resi conto che qualcuno aveva acceso la tv.
Mi
voltai. Dietro di me, Esme era
abbracciata teneramente a Carlisle, seduti su una poltrona poco
distante da
dov’ero. Mi sentivo di troppo in quell’atmosfera.
Tuttavia,
non c’era molto da fare.
Lasciai vagare i miei occhi stanchi e annoiati per la grande stanza
finché la
scena riflessa dall’enorme vetrata non catturò la
mia attenzione. Quell’immagine
mi fece rimpicciolire, sentire ancora una volta di più di
non appartenere a
quel luogo.
Vedevo
perfettamente una copia
esatta di Carlisle e di Esme. Erano bellissimi, come sempre. I loro
sorrisi
brillavano anche semplicemente in un riflesso. E poi c’era
una piccola, esile
figura raggomitolata su un divanetto bianco. Era totalmente differente
dalle
altre due, non avrebbe potuto neanche lontanamente competere con loro.
Ma la
cosa che più di tutte mi lasciò perplessa fu come
quella figura, dall’aspetto
così fragile e debole, risultasse diversa anche da come la
ricordavo io.
Era
diversa, il suo volto appariva
pallido e stanco. Tuttavia, i suoi occhi - i miei occhi -, erano accesi
di una
strana luce, qualcosa di cui non mi ricordavo.
Lasciai
nuovamente vagare lo
sguardo per la stanza, in cerca di qualcosa che attirasse la mia
attenzione,
qualcosa da fare. All’improvviso, la trovai. I miei occhi si
fermarono immediatamente
sul profilo del grande pianoforte nero e lucido che sembrava aspettarmi
in
fondo alla stanza, in un angolo contro la parete. Il contrasto tra la
vernice
scura del piano e quella del muro era forte, ma non stonava minimamente.
Senza
nemmeno prendere una
decisione volontariamente, mi alzai in piedi e mi diressi verso lo
strumento.
Colmai lo spazio velocemente, poi mi fermai, incerta. Mi voltai.
“Posso?”,
chiesi esitante,
rivolgendomi a Carlisle ed Esme, con un breve sorriso.
“Certamente
cara, quando vuoi”, mi
rispose prontamente Esme.
“Sei
davvero brava”, aggiunse
Carlisle, completando la sua frase.
Annuii
imbarazzata, calando il
viso nei miei capelli castani e arruffati.
“Grazie…credo”,
mormorai con un
filo di voce.
Mi
sedetti velocemente sulla pelle
liscia e nera del sedile di fronte al piano, incespicando un poco nelle
sue
gambe, ansiosa di togliere al più presto gli sguardi dei
presenti dal mio viso
imbarazzato. Non era passato poi molto tempo dall’ultima
volta in cui avevo
preso posto su quella seggiola e avevo lasciato scorrere le mie mani
sui tasti.
Tuttavia, mi accorsi in quel preciso istante che mi era mancato.
Sollevai con
cura il copri- tastiera e cominciai a suonare.
All’inizio
fu semplicemente un
susseguirsi di singole note, lieta solamente di far correre le mie dita
sull’altalenarsi di tasti neri e bianchi. Solo in seguito mi
accorsi che, senza
nemmeno pensarci, le mie mani stavano disegnando sull’ampia
tastiera le note
della mia melodia preferita.
Un
brusio dietro di me colse la
mia attenzione e sbirciai da sopra le spalle.
Rosalie
ed Emmett si erano
rapidamente avvicinati, insieme a Alice e Jasper e, con aria divertita
e allo
stesso tempo rapita, mi osservavano. Preda nuovamente
dell’imbarazzo, mi voltai
rapidamente a fronteggiare di nuovo i chiaroscuri della tastiera
davanti a me.
Notai
con sollievo che, tuttavia,
la discussione tra Rose ed Emm era finita bene o, se non altro, senza
spargimenti di sangue. Proprio in quel momento, con la coda
dell’occhio, mi
accorsi che Emmett stava bisbigliando qualcosa all’orecchio
di Rosalie e lei,
con una risatina argentea, rispondeva con una lieve gomitata giocosa.
Lieve…beh
almeno per Emmett lo era.
Tornai
alle mie note, mentre il
mio piccolo pubblico prendeva posto alle mie spalle sulle poltrone
presenti.
Probabilmente, se non fossi stata così assorta nel suonare,
mi sarei accorta
del lievissimo toc- toc alla porta e, allo stesso modo, avrei fatto
caso al
sorriso radioso, e tuttavia complice, di Carlisle che si accingeva ad
aprirla.
Proprio
mentre mi apprestavo a
concludere la mia melodia, una sagoma scura fece capolino dalla porta
ed entrò
nel salotto. Si fermò e così feci
anch’io.
Un
sorriso raggiante mi tese
immediatamente le labbra ed incorniciò il mio viso,
automaticamente, mentre il
mio sguardo si posava su quell’incredibile figura.
Lo
guardai, e fu come vederlo per
la prima volta. Il mio cuore sembrò subire un brusco cambio
di marcia e, di sua
volontà, decidere di uscire dal mio petto. La vista del suo
volto mi accelerò
il respiro e, mentre i miei occhi indugiavano sul suo viso, timidi e
incerti,
mi resi conto dell’innaturale silenzio intorno a noi. Ma non
m’importava.
I
miei ricordi, per quanto
recenti, non gli avevano reso giustizia. Non a un viso così
incredibilmente
perfetto, con cui nemmeno il più bello degli angeli avrebbe
potuto competere,
che nemmeno la più fervida fantasia avrebbe potuto
immaginare.
La
mascella quadrata e scolpita,
la curva morbida delle labbra sottili ma piene, la linea dritta del
naso, l’angolo
netto che creavano gli zigomi leggermente sporgenti…
La
fronte marmorea era occupata da
lunghi ciuffi di capelli ramati che la pioggia aveva reso
più scuri ed alcune
gocce scendevano lentamente lungo il suo splendido profilo.
I
suoi occhi, come sempre,
indussero il mio cuore ad un udibile sprint. Il colore che avevano
acquistato
dopo quella mattina di caccia era il più caldo che avessi
mai visto.
Era oro. Oro liquido, incorniciato da una
lunga e folta cornice di
ciglia scure. In altro modo non avrei saputo descriverlo. Il suo
sguardo si
fermò su di me e le sue labbra, prima socchiuse leggermente,
si tesero in un
sorriso che parve rispecchiare il mio.
“El”,
mi disse, con una voce che
rivelava sollievo.
“Ciao
Edward”, farfugliai, un
sorriso timido impresso sul mio viso.
Perché
dovevo sembrare così
costantemente imbranata?
Mi
accorsi che l’espressione di
Rose e Alice sembrava…assente. Come se stessero cercando una
botola nel
pavimento per poter sparire il più presto possibile.
Ma
al momento avevo di meglio da
fare. Primo tra tutti, ricordarmi come si faceva a respirare.
Edward
mi si avvicinò con velocità
sovrumana e, prima che me ne resi conto, era seduto con me sulla
seggiola di
fronte al piano.
“Suoni
bene, sai?”, mi mormorò
sorridendo.
Riecco
il sorriso truffatore che
mi era mancato. Sorriso che accelerò ulteriormente il mio
battito. Ormai
faticavo a sentire le persone accanto a me. I colpi ripetuti e costanti
del mio
cuore sembravano rimbombare nella mia testa come martelli pneumatici.
“Ehm…grazie”,
sussurrai abbozzando
un sorriso.
“Ti
dispiacerebbe ricominciare?
Così suoniamo insieme”, disse.
Poi
aggiunse subito dopo, come
ricordandosi di qualcosa di vitale importanza. “Certo, se ti
va”.
“Sì,
certamente”, mi affrettai a
dire.
Forse
troppo in fretta. Sorrise di
nuovo.
“Non
so quanto possa starti
dietro…”, aggiunsi, sicura che le sue innumerevoli
abilità comprendessero anche
il pianoforte.
“Saprò
regolarmi”, disse
ammiccando.
E
cominciò a lasciar correre le
sue dita sui tasti. Sembrava che quella musica, quella melodia, fosse
grata ad
Edward per suonarla. Mi fece un cenno con la testa, per incoraggiarmi.
Mi unii
a lui.
Suonammo
in perfetta armonia,
anche se io feci ben poco. Tuttavia, non ci badai. In quel momento
eravamo
insieme, come in una gigantesca bolla di sapone solo nostra.
Ma
come ogni bolla, era destinata
prima o poi a scoppiare. E scoppiò.
“Alice!”,
esclamò furioso
Edward, abbandonando la tastiera con forza.
Prima
che potessi solo rendermi
conto di quello che stava accadendo, Edward era già in
piedi, all’altro capo
dell’enorme stanza, davanti ad Alice, che sembrava
più che mai in cerca della
sua botola.
“Prima
o poi avrebbe dovuto
saperlo comunque, Edward”, cercò di argomentare
Alice, sulla difensiva,
indietreggiando fino a toccare la parete bianca con la schiena.
Edward
emise un lamento molto
simile ad un ruggito, lanciando le braccia in aria.
“E
per questo hai deciso di
dirglielo oggi? Proprio mentre io non c’ero?!”,
sbraitò.
“E’
stata colpa mia, Edward”, intervenne
prontamente Carlisle, mettendo un braccio sul petto di Jasper che
sembrava
pronto a scattare da un momento all’altro.
Un
sentimento misto tra
preoccupazione e rabbia mi investì.
“Ho
deciso di informare proprio
oggi El perché sapevo che altrimenti tu non me
l’avresti mai permesso. E per
questo ti chiedo scusa, figliolo”, aggiunse con uno sguardo
colmo di scuse.
Edward
parve riuscire a calmarsi.
Un po’, almeno.
Inspirò
a lungo, portandosi una
mano tra i folti capelli umidi nervosamente.
Carlisle
raggiunse Edward con una
grazia che mi lasciò stupefatta, come se fosse non toccasse
terra, ma
fluttuasse semplicemente nell’aria.
“Figliolo,
credo che tu abbia
bisogno di parlare con lei adesso”, sussurrò
piano, ma abbastanza forte da
darmi modo di sentire. Ero sicura che l’avesse fatto di
proposito.
Edward
mi lanciò uno sguardo
dapprima allarmato che parve tuttavia ammorbidirsi quando si rese conto
della
mia espressione rilassata e serena. Perché lo ero. In quel
momento, anche se
tutti gli occhi erano puntati su di me, il suo sguardo bastava a
tranquillizzarmi.
Edward
tornò a fronteggiare
Carlisle, poi Alice e Rosalie - che tuttavia sembrava la meno toccata
dal tutto
- e poi ancora Carlisle. Annuì rassegnato.
“El”,
mi chiamò dolcemente mentre
mi si avvicinava.
“Sì,
certo. Okay”, mi affrettai a
dire, abbozzando sorriso nel tentativo di rassicurare il suo volto
angosciato.
Mi
alzai e mi diressi verso di
lui. Rose fu al mio fianco in un battito di ciglia.
“Cosa...”,
cominciai a chiederle,
leggermente frustrata dalla sua apparente iperprotettività.
Sapevo
cavarmela benissimo anche
da sola e non mi andava di avere la baby-sitter. Inoltre Rosalie sapeva
perfettamente quanto desiderassi passare del tempo da sola con Edward,
ma
pareva sorvolare abilmente su questo particolare. Se fosse stata capace
di
leggermi nel pensiero, forse si sarebbe offesa del risentimento che
provavo
verso di lei in quell’istante. Sembrava un cane da guardia.
Edward parve
irritato allo stesso modo, ma non proferì parola.
Percorremmo
in silenzio le scale e
buona parte del lungo corridoio bianco, senza che nessuno avesse
espresso ad
alta voce la volontà di andarci.
Ci
arrestammo davanti alla porta
della stanza dorata, mentre una strana sensazione cominciava ad
assalirmi.
Ansia. Ma per cosa? Non avevo nemmeno idea di cosa stessimo facendo.
Levai
lo sguardo verso Edward e
questo bastò a rasserenarmi. Mi sorrise gentile quel ghigno
truffatore e
mozzafiato che tanto amavo, mentre mi avvolgeva le spalle con il suo
braccio
freddo, avvicinandomi al suo petto. Era freddo, come sempre, e i suoi
vestiti
erano ancora leggermente umidi dalla pioggia. Tuttavia, lungi da me
ritrarmi
dal suo tocco invernale.
“Rose,
ora puoi anche smetterla”,
disse brusco Edward, dopo un lungo sospiro.
“Io
da qui non mi muovo”, ribatté
aspra Rosalie.
Mi
chiesi il motivo di
quell’improbabile comportamento. Era mia amica, certo, e come
tale era sempre
stata molto attenta a me. Tuttavia, ignoravo completamente il motivo di
tutta
questa preoccupazione nei miei confronti.
Edward
sbuffò, visibilmente
irritato. Aprì la porta con un unico colpo e la
lasciò sbattere sgraziatamente
contro il muro. Irritato, decisamente.
Poi
mi guardò, come se volesse
scusarsi della sua maleducazione. Restituii il fugace sorriso che mi
rivolse e
quello bastò ad accelerare il mio battito.
Guardai
Rose, chiaramente
indispettita.
Un
silenzio di tastabile imbarazzo
calò su di noi. Credetti di poterlo agguantare con una mano.
Siccome
nessuno dei due insieme a
me, le due persone- anche se nel senso relativo del termine-
più belle che
avessi mai visto e che mai, senza ombra di dubbio, avrei mai visto, non
accennavano a muoversi o a rompere il silenzio, presi il coraggio a due
mani e
mi andai a sedere sul piccolo divanetto nero nella stanza.
Fui
travolta per un secondo
infinitesimale dai ricordi legati a quello stupido e scomodo divano
nero.
Sorrisi
tra me e me. Mi appollaiai
su di esso, avvicinando a me le ginocchia e cingendole con le braccia.
Soddisfatta della precaria comodità che avevo ottenuto, mi
voltai verso Rosalie
ed Edward.
“Bene,
allora?”, cinguettai con
incredibile facilità nell’apparire calma.
Forse
era solamente la vicinanza
di Edward. I due si guardarono, prima con intesa, poi in cagnesco.
Sempre i
soliti. Rose sorrise arrogante ad Edward e mi si avvicinò,
pressoché danzando.
“Io
sono venuta per ascoltare”,
disse, sfidando Edward con lo sguardo, “tocca a lui
parlare”. Aggiunse un altro
sorriso provocatore, tanto angelico quanto diabolico.
“Okay”,
disse pacatamente Edward.
Poteva
sembrare calmo, ma sapevo
che le provocazioni di Rosalie avevano colpito nel segno.
Inspirò profondamente
dalle narici e, dopo un istante forse fin troppo lungo,
espirò con un sospiro.
Mi sembrò di avvertire la sua pazienza incrinarsi
all’ennesimo sguardo di
Rosalie. Così, decisi di intervenire prima di assistere ad
un Caporetto.
“Rose,
per favore, per favore, per favore,
potresti lasciar parlare me
e Edward da soli?”, chiesi supplichevole, tentando di emulare
lo sguardo che
lei spesso mi proponeva per esaudire i suoi desideri.
Rosalie
mi guardò, una finta ombra
di innocenza sul suo volto angelico.
“Ora”, intimai con un sibilo,
anche la mia pazienza non più così
disponibile.
“Okay,
ho capito, ho capito”,
mormorò Rosalie, evidentemente sconfitta.
Si
alzò con grazia e fluttuò
dolcemente fino alla porta. Lì si voltò verso di
me e mi rivolse uno sguardo
dapprima palesemente offeso ma, quando fu chiaro che Edward non la
stesse
guardando, più complice che mai.
Mi
fece l’occhiolino, lanciandomi
un sorriso mozzafiato e scomparve dietro la porta. Rose…
Sorrisi ancora una
volta.
“Grazie”,
mormorò una voce
melodiosa al mio orecchio, più vicina di quanto immaginassi
possibile.
Sobbalzai.
Ed eccolo, seduto
vicino a me, rannicchiato su quello stupido divanetto nero che,
solamente con
la sua presenza, acquistava un aspetto totalmente diverso.
Feci
mente locale di - la prossima
volta che mi fosse capitato - sedermi dov’era accovacciato
lui in quel momento.
Okay, forse era un po’- molto - morboso. Tuttavia, non
m’importava.
“Devo
parlarti”, disse, la sua
voce aveva assunto uno strano tono preoccupato che non mi piaceva.
“Bene”,
tentai di suonare calma e
distaccata, “dimmi”.
Il
mio tentativo non fu molto
brillante. Respira, con calma, mi
dissi.
“Quello
che ti ha detto Alice…”,
sembrava stesse affogando, che le parole fossero intrappolate nella sua
gola.
Ebbi lo strano impulso di premere una mano sul suo viso freddo per
poter
permettere ai suoi lineamenti di ammorbidirsi.
“Non
ha nessuna importanza,
Edward”, mi affrettai a dire, nascondendo le mani dietro la
schiena e
ricacciando indietro quella stramaledetta forza che sembrava
avvicinarmi al suo
viso come un magnete. Mi sentivo come un piccolo pianeta isolato che,
preda
della legge di gravità, non poteva fare a meno di orbitare
intorno alla stella
più bella che esistesse nella galassia.
“Ha
importanza, invece!”, esclamò,
ridestandomi dai miei pensieri.
“No
che non ne ha, non m’importa”,
ribattei testarda.
“Come
fa a non averne? Hai ascoltato
quello che ti ha detto Alice?”.
“Oh
sì, ogni parola. E fidati se ti
dico che non m’interessa”.
“Io…Alice
ha visto…”, ed eccolo
affogare nuovamente. Serrai i pugni dietro la schiena.
“Sì,
ha visto, ma non è accaduto.
Non ha importanza”, la cocciutaggine era un mio forte,
soprattutto se ero più
che mai convinta della mia posizione.
“Io
avrei potuto ucciderti”, disse
tutto d’un fiato, come liberandosi di un gran peso.
Annuii,
consapevole.
“Io…”,
continuò, come cercando a
tutti i costi di intimidirmi ed allontanarmi da lui.
Non
sapeva che non poteva bastare.
“Io
potrei ucciderti”, disse,
guardandomi negli occhi, “ora”.
“Ma
non lo farai”, sorrisi.
Non
seppi il perché, ma sorrisi
genuinamente, sicura della mia affermazione. C’era qualcosa
dentro di me che
era totalmente convinto di questo, anche se era perfettamente
consapevole di
tutto il resto.
Annuii,
ancora una volta conscia
di quello che diceva. Sorrisi debolmente.
Edward,
per tutta risposta,
scivolò il più lontano da me, fino a finire sul
minuscolo bracciolo del
divanetto. In quel momento, come intento ad ascoltare la nostra
conversazione,
il sole decise di fare capolino tra la spessa coperta di nubi opache e
grigiastre che opprimeva il cielo.
Mi
ero sbagliata, non era sera.
Era già l’alba.
Rischiarò
dolcemente la stanza,
portando con sé un lieve tepore. Con la luce, quella camera
sembrava ancora più
grande e magnifica. Guardai rapidamente il grande armadio sulla mia
destra,
l’immensa libreria stracolma di ogni genere di libro e CD, il
sofisticato
stereo nero di fronte a me, all’altro capo della stanza, e la
vetrata che
faceva da grande parete sulla nostra sinistra.
Solo
allora mi accorsi di un lieve
arcobaleno che illuminava lo spesso vetro, con migliaia di riflessi e
sfaccettature.
Tornai
con lo sguardo su Edward,
meravigliata.
“Brilli”, dissi con voce
sognante e incantata.
“Sono
un mostro, un fenomeno da
baraccone”, mormorò colmo di disprezzo verso se
stesso.
Come
poteva un angelo odiare se
stesso?
Miriadi
di piccoli rubini
sembravano prendere vita sulla sua pelle chiara e dovetti combattere
una volta
ancora contro quel magnetismo costante.
Chissà
se questo magnetismo avesse
due poli, o fossi solo io a subirne gli improbabili effetti.
“No”,
mormorai dolcemente,
spezzando il breve silenzio che si era creato.
“Tutt’altro”.
Edward
mi guardò, come per
accertarsi del mio stato mentale ed io, ancora una volta, mi trovai a
sorridere. L’angelo a pochi centimetri da me nascose il suo
viso tra le sue
ginocchia, raccolte come le mie, e portandosi un braccio davanti in
modo che me
ne fosse impossibile la vista.
Emise
una sorta di lamento e, in
quel preciso istante, il magnetismo ebbe la meglio su di me.
Le
mie mani sciolsero i pugni,
ancora doloranti per la presa a cui le avevo costrette, e, come animate
di vita
propria, senza bisogno di prendere una decisione cosciente, raggiunsero
l’angelo.
Indugiarono
sul suo profilo,
incerte se toccare quell’essere così incredibile
per paura che potesse
dissolversi al contatto. Forse era fatto
della stessa sostanza deisogni.
Bello, ma irraggiungibile.
Posai,
infine, una mano sulla sua
spalla. Era come toccare il marmo, la stessa durezza, la stessa
temperatura,
liscio allo stesso modo, ma a differenza di quest’ultimo, si
modellava sotto il
mio tocco come qualunque pelle è capace di fare.
“Edward”,
lo chiamai, cercando di
distoglierlo dalla sua autocommiserazione. Impresa vana.
Lasciai
scorrere le mie dita
nell’incavo del suo collo, dove i piccoli arcobaleni erano
ancora visibili,
giocherellando con le luci che si venivano a creare.
Chissà
perché mi ero sempre
immaginata che l’arcobaleno fosse caldo, tiepido quantomeno.
Invece la
temperatura emanata dalla sua pelle non differiva minimamente dal
solito,
eccezion fatta per il lieve tepore che ci regalava il pallido sole che
lottava
per un posto nel cielo colmo di nubi opache.
Tuttavia,
feci attenzione a non
toccarlo mai propriamente. Avevo paura che avrebbe potuto reagire male,
allontanarmi ulteriormente. Purtroppo, ero troppo vicina alla mia
stella per
poter essere immune all’attrazione gravitazionale che
esercitava su di me.
La
mia mano corse dal suo collo ai
suoi capelli di quel colore così improbabile, assaporandone
la consistenza con
i polpastrelli. Si ritrasse impercettibilmente e questo
bastò a fermarmi. Mi
sentivo come se mi avessero appena tirato un pugno in pieno stomaco,
lasciandomi senza fiato.
Feci
per alzarmi, lentamente,
quando Edward sembrò risorgere dal pieno delle sue ceneri.
I
suoi occhi brillavano, più
ardenti e liquidi che mai nel loro oro, in sintonia con la sua pelle
sfavillante.
“No”,
disse con voce ferma e allo
stesso tempo dolce, prendendomi per un braccio.
Mi
sedetti nuovamente ed attesi
una sua brillante spiegazione.
“Non
andare”, mi implorò. “E’ solo
che ho sempre…paura di farti del male, di
ferirti”, ammise abbassando lo
sguardo, colpevole.
“Potrei
farlo in qualsiasi
momento, anche ora”, disse con voce mesta, alzando nuovamente
lo sguardo. “E
sarebbe così semplice”, aggiunse con un sorriso
malinconico, giocherellando con
una ciocca dei miei capelli fuori posto.
Quel
contatto così casuale fece
schizzare il mio cuore in uno sprint senza precedenti.
“Sembra
che tu non stia facendo
altro che ripeterlo”, riuscii a sussurrare, non senza
difficoltà, dopo qualche
attimo.
“Perché
è la verità”, disse
triste, i suoi occhi riversi nei miei. “E
poi…”, aggiunse poco dopo, “di cosa
vorresti parlare?”, chiese con voce carezzevole.
Rimasi
colpita dal modo in cui mi
guardava. Sembrava assorto, rapito. Forse c’erano davvero due
poli in questo
strano magnetismo.
“La
tua pelle brilla”, dissi, la
mia voce ancora sognante nel vedere la sua pelle sfavillare alla fioca
luce del
sole.
“Già”,
commentò cupo. “E’ qualcosa
che facciamo quando ci esponiamo al sole. È anche per questo
che viviamo qui a
Forks”.
“Pioggia,
pioggia, pioggia”,
commentai. Sorrise.
C’era
stato un solo momento, oltre
a quella strana alba a cui stavamo assistendo, in cui un tiepido raggio
di sole
mi aveva raggiunto, timido. Improvvisamente, mi tornarono in mente
tutte le
domande che necessitavano di una risposta.
“Ehm…Edward?”,
chiesi dubbiosa.
“Sì?”.
“Mi
chiedevo…Alice ti ha già…fatto
sapere quello che è successo stamattina?”, chiesi
esitante, per paura di
scatenare un’altra reazione poco piacevole.
“Cioè, ieri mattina direi, a questo
punto”, mi corressi.
Il
suo sorriso truffatore gli tese
gli angoli delle labbra, illuminandogli il volto.
“Alice
no, ma ci ha pensato
Rosalie mentre era qui”, disse con una smorfia.
Ripensare
a Rose e a poco prima mi
fece sorridere.
“Quindi
sai tutto?”, chiesi
conferma.
“Sì,
direi di sì”.
“Mi
chiedevo…come mai Jacob
sembrava avercela così tanto con voi?”.
Sembrò
pensarci su un attimo.
“Non
è con noi in particolare, ma
con quello che siamo. Non riescono ad accettare la nostra
esistenza”.
“Ma
voi non…non siete come gli
altri. Non fate del male a nessuno, giusto? Perché
dovrebbero essere così
ostili senza motivo?”.
Non
riuscivo a capire come delle
persone potessero odiare i Cullen senza prima conoscerli, senza sapere
quanto
fossero buoni e, spesso e volentieri, meglio di molte persone.
“E’
la loro natura, come noi
abbiamo la nostra”.
“Non
capisco”, ammisi. “Come
faceva Jacob a sapere chi siete?”, chiesi, per una volta
dritta al punto.
“E’
una storia lunga”, disse
Edward sospirando.
Forse
sperava che non glielo
chiedessi. O almeno così sembrava.
Guardai
teatralmente fuori dalla
finestra. Poi, lentamente, con un ampio sorriso stampato in faccia,
tornai a
guardare Edward.
“E’
solo l’alba, ho ancora tempo”,
dissi ammiccando.
Ammiccavo,
e da quando? Mi
sorpresi di me stessa, pentendomi di quell’eccesso di
confidenza. Stupida, pensai.
Edward
parve non risentire del mio
bizzarro atteggiamento. Anzi, contrariamente a quanto pensavo, si
avvicinò a
me, cingendomi le spalle con un braccio e affondando il volto nei miei
capelli
scompigliati. Effetto: ennesima volata del mio cuore ormai senza
controllo.
Levai
lo sguardo imbarazzato verso
il suo viso e mi accorsi appena in tempo che storceva il naso. Proprio
come
aveva fatto Rosalie la sera prima. Ma che diavolo…?
Mi
scostai leggermente da lui,
cosa che mi costò non poco, e lo guardai in cagnesco.
“Che
c’è?”,
chiesi esasperata.
“Niente”,
disse, scrollando
lievemente le spalle.
Incrociai
le braccia sul petto,
testarda.
“Mi
faresti un favore?”, chiese
sogghignando.
“Quello
che vuoi, ma mi devi
ancora spiegare la tua lunga storia”.
“Certo,
ma prima potresti farti
una doccia?”, mi domandò, lasciandosi sfuggire una
dolce risata che risuonò
come un’eco di campane.
“Puzzi decisamente di
licantropo”.
Wo-oh. Edward ha
fatto un'uscita un po' fuori luogo xD Comunque! E' decisamente troppo
tardi per scrivere qualcosa di anche lontanamente sensato.
Spero solo che qualcuno si degni di lasciarmi una recensione(vi
preeeeego!), altrimenti a venerdì prossimo! Buon weekend e
buona settimana :)
Salve a tutti! Oggi sono
in anticipo :) Questo weekend sono via e quindi posto prima,
così non vi lascio senza aggiornamento u.u
Comuuuunque...avevamo lasciato quei due con una rivelazione fatta con
(molto) poco tatto, ora vediamo come va a finire. A voi! :)
Capitolo
12. Alchimia.
Rimasi
qualche istante a fissarlo,
con espressione vitrea, mentre le sue parole - pronunciate con
così tanta
casualità - prendevano posto nel mio cervello,
già oltremodo sottosopra.
“Cosa, scusami?”, esclamai
stridula, quando ebbi recuperato la
facoltà di formulare pensieri coerenti.
“Scusami, battuta infelice”, mormorò
Edward, l’espressione ancora vagamente
divertita.
Dovevo
aver sentito male, non
c’era altra spiegazione.
Gettai
la testa all’indietro,
ispirando profondamente e scuotendo il capo a destra e a sinistra, come
a
cercare di chiarirmi quel caos che si era venuto a creare nella mia
mente.
“Mi
dispiace”, sentii dire, la
voce di Edward ora poco più di un flebile sussurro.
“Non... ”, cominciò.
Con
più energia di quanto pensavo
a quel punto di avere ancora, tornai a fronteggiare Edward, lo sguardo
deciso e
attento, nonostante la mia confusione.
“Che
cosa vorresti dire con
questo?”, domandai seria, ancora chiaramente scossa.
“E’…complicato”,
disse. “Speravo
di riuscire a renderlo più semplice, ma sembra non sia
servito poi a molto”,
aggiunse con un tenue sorriso di scuse.
“Spiegami”, ordinai, anche se la
mia voce debole e ancora
notevolmente distratta dal bagliore della sua pelle faceva sembrare
tutt’altro.
“Noi”,
cominciò con un lungo
sospiro di rassegnazione, “…i vampiri, abbiamo
pochi nemici”.
“Sì,
questo l’ha detto Carlisle
almeno cinque volte”, mormorai annuendo.
Ero
improvvisamente scocciata
dalla quantità di informazioni della quale ero
all’oscuro.
“Esattamente”,
aggiunse Edward.
“Ti ricordi chi sono?”.
Annuii
con decisione e feci mente
locale. Ricordavo perfettamente quella prima sera, nei particolari.
Aveva
cambiato così tante cose,
era palese che la ricordassi.
“Vediamo…ci sono quelli come me, gli
Hoser…”, cominciai, chiedendo conferma con
lo sguardo.
Edward
annuì, indicandomi con una
mano di andare avanti.
“Poi,
ecco, ci sono quelli come
Amos, gli Ubach, giusto? E un altro paio di nomi strani”.
Edward
ripeté il gesto di prima ed
io obbedii.
“Ah
sì, e ci sono i licantropi”,
conclusi.
In
quel momento mi parve quasi di
sentire il click che producevano le tessere del puzzle che avevo in
testa, incastrandosi
alla perfezione e dandomi modo di capire.
“Ah”,
fu l’unica cosa che seppi
dire.
Edward
non fu di molte più parole.
“Già”,
mormorò.
Dopo
qualche attimo di silenzio,
ripresi a parlare.
“Quindi
Jacob ce l’aveva tanto con
voi, non perché gli avete fatto qualcosa, ma
perché siete…vampiri”, sentenziai.
Usare
quella parola ad alta voce –
vampiri – mi faceva
sentire strana.
Sembrava ricordarmi che ero diversa, che non appartenevo a quel mondo
magico
popolato di figure mitologiche e, più di tutto, che avrei
dovuto esserne
terrorizzata.
Stupidavocina,
pensai.
La
ricacciai indietro, dove non
avrebbe più potuto assillarmi con le sue prediche da Grillo
Parlante.
Sbuffai.
“Che
hai?”, domandò Edward, il suo
viso leggermente teso dalla preoccupazione.
“No,
nulla. Davvero”, ammisi con
sincerità. Ero solo esasperata dal Grillo Parlante.
“Jacob…”,
ripresi, cercando
conferma dei miei dubbi, anche se ormai erano certezze.
“Sì,
è un licantropo”, disse
mesto, “Beh, più precisamente, è un
mutaforma, ma il problema non cambia.
Probabilmente non si è trasformato da molto, è
troppo giovane. Poco più di un
bambino. Cosa che fa di lui un pericolo ancora più grande
per gli umani”.
“Perché?”,
domandai di getto. “Ehi,
aspetta. Io non sono poco più di una bambina”,
sibilai con disappunto.
Rise
di gusto della mia
espressione. Cocciuta, incrociai le braccia sul petto, dando mostra
della mia
infantilità appieno.
“No,
scusami. Con questo intendevo
il fatto che è un licantropo molto giovane.
Troppo”.
“E
questo è un problema?”.
“Sì”,
si limitò a rispondere.
Notando
la mia espressione
interrogativa riprese la sua spiegazione.
“I
licantropi sono creature
molto…volatili. Temporanee. Con questo non intendo il fatto
che abbiano vita
breve, ma che le loro trasformazioni possono avvenire di frequente,
solo a
causa di uno sbalzo d’umore. E questo li rende potenzialmente
pericolosi per
chi gli sta accanto”.
“Ma
come, niente luna piena e
paletti d’argento?”, domandai ironica.
Ridacchiò
brevemente.
“Hollywood
è una gran beffa”.
Sorrisi
anch’io. Quel momento sarebbe
potuto essere così perfetto, se solo non fosse stato che
stessimo parlando di
licantropi e vampiri. Ma in che razza di posto vivevo?
Vampiri,
licantropi e chissà
quanti altri nemici con nomi bizzarri e impronunciabili. Ero incredula.
Sbalordita. E tuttavia affascinata.
“Jacob
non è l’unico, vero?”,
domandai ad un tratto.
Edward
si fece subito serio.
“No,
ci sono altri come lui. Giù
alla riserva Quilleute”.
“Tutti
lì?”, chiesi rapita.
“Perché,
qui come siamo messi?
Anche noi siamo tutti insieme”, disse ridacchiando.
“Beh,
sì. Ma voi siete…diversi”,
ammisi.
Lui
sfoderò un gran sorriso, di
quelli che avrebbero potuto fermare un treno in corsa o sciogliere un
iceberg.
Non fece nessuna delle due cose, almeno per quello che ne seppi, ma
bastò a
fermare il mio cuore, che ripartì subito dopo ad un ritmo
non consentito.
Sembrava
palesemente felice che io
li considerassi diversi. Gli rivolsi a mia volta un sorriso, che
tuttavia non
poté neanche lontanamente competere con il suo.
“Come
mai nella riserva?”, chiesi.
Che
domanda stupida. La risposta,
invece, mi sorprese.
“Gli
antenati dei Quilleute si
sono rifugiati lì tempo fa e da sempre hanno
questa…caratteristica. Di
trasformarsi. Abbiamo stabilito un patto con loro, per cui noi non
possiamo
entrare nel loro territorio e viceversa. Se succedesse, il patto
sarebbe rotto
e uno scontro pressoché inevitabile”.
“Perché
sono pericolosi?”.
“Perché
noi siamo pericolosi”,
precisò Edward sottovoce.
Non
fui sicura che si stesse
rivolgendo a me, quindi non commentai oltre.
“Quello
che è successo ieri”,
riprese Edward dopo poco, “quello non sarebbe dovuto
accadere”.
Lo
fissai con sguardo
interrogativo, ancora una volta. Stentavo a ricordare cosa fosse
successo poche
ore prima.
“Quando
Emmett è venuto a…recuperarti”,
disse con un filo di voce, “tu non ti trovavi più
nel nostro territorio, ma nel
loro”.
“Non
lo so”, rispose con voce
mesta. “So solo che se Emmett non fosse intervenuto
probabilmente ora
saresti…morta nel bel mezzo della foresta a causa di quel
cane”.
Giungendo
verso la fine, la sua
voce si era fatta da triste a minacciosa.
Avrebbe
potuto farmi venire i
brividi, ma la sua vicinanza mi tranquillizzò. Non era mai
stato così vampiro
prima d’ora. I suoi occhi erano persi nel vuoto, concentrati
su una scena
lontana che lo costringeva a stringere i pugni e serrare la mascella.
“Mi…mi
dispiace”, abbozzai in un
lamento.
Solo
in quel momento mi accorsi
che avevo cominciato a piangere.
Bene, perfetto, pensai. Ci mancavano solo
le mie stupide lacrime.
Mi
affrettai ad asciugarle con il
dorso della mano, ma qualcosa di freddo e liscio lo fece prima di me.
Alzai lo
sguardo.
Edward
aveva completamente
abbandonato il suo sguardo assassino – il suo essere vampiro
– e, in quel
preciso istante, era inginocchiato davanti a me ai piedi di quello
stupido,
scomodo divanetto, a soli pochi centimetri, con gli occhi dorati
riversi nei
miei.
“Non
piangere”.
“E’
colpa mia”, singhiozzai.
Abbassai
nuovamente lo sguardo
sulle mie mani attorcigliate.
“No,
non è vero”.
“Sì,
invece!”, mi intestardii.
Ridacchiò
dolcemente, scostandomi
i capelli umidi di lacrime dal viso.
“El,
guardami”, mormorò.
Obbedii.
I suoi occhi erano così
sinceri, così profondi che pensai di poterci annegare.
“Non
è colpa tua, ce ne occuperemo
noi”.
Per
un attimo gli credei. Non
perché fosse la verità, sapevo che era successo
tutto a causa mia. Ma perché
quegli occhi erano così sinceri da far apparire quella
menzogna vera anche ai
miei occhi lucidi.
“Mi
dispiace”, mi ripetei ancora.
E
crollai. Il magnetismo ebbe la
meglio su di me, ancora una volta. Mi ritrovai con le braccia attorno
al suo
collo freddo, la sua camicia bagnata dalle mie lacrime tiepide.
Pensavo
mi avrebbe allontanata, o
più che altro frenata. Tuttavia, non fece nulla di tutto
ciò.
Mi
strinse al suo petto,
cullandomi lievemente avanti e indietro, strofinandomi una mano sulla
schiena
nel tentativo di darmi conforto.
“E’
tutto okay, El. Tutto okay”, mi
ripeté dolcemente all’orecchio.
Solo
dopo qualche istante di
silenzio, mentre il sole combatteva per mantenere un piccolo posto nel
cielo
già stracolmo di nubi, mi resi conto
dell’incredibilità di quel momento. Della
sua perfezione. E, soprattutto, della sua intimità.
Sollevai
il viso, con un sorriso
imbarazzato, quel tanto che bastava per vedere il profilo di Edward.
Quel tanto
che bastava per accorgermi che stava storcendo il naso.
Mi
scostai lentamente, non senza
difficoltà, e sorrisi brevemente.
“Scusami”,
mormorai, “la doccia. Vado”.
Feci per alzarmi.
Edward
ridacchiò e, quando mi fui
certa di riuscire a stare in piedi senza che la stanza girasse, lui era
già in
piedi, davanti a me, con la mano protesa verso di me. Quello non me
l’aspettavo.
Mi
incoraggiò con un sorriso a
prendere la sua mano e l’afferrai, esitante.
“Forse
dovresti mangiare prima”,
mi consigliò.
“Forse”,
acconsentii. “Ma dovrei
costringervi al mio odore per metà mattinata”.
“Tu
non…”, cominciò a
contraddirmi, ma lo fermai con un gesto della mano.
“Quindi
andrò prima a farmi una
bella doccia e poi verrò giù a mangiare
qualcosa”, conclusi con un sorriso.
“Tu
non hai odore, ricordi? È solo
colpa di quel cane se puzzi”, terminò la sua frase.
“Vorrà
dire che farò una doccia
lunga e rigenerante, così eliminerò ogni
traccia”, replicai.
Mi
piaceva avere l’ultima parola.
Edwardsorrise e mi
lasciò la mano. Il suo sguardo
tradiva qualche nuova emozione, ma non le seppi identificare.
“Okay,
a dopo”, mi congedai, ormai
giunti alla porta del bagno.
“A
dopo”, acconsentì con un cenno
della testa.
Sembrò
esitare, appena prima di
voltarsi e allontanarsi da me.
Si
fermò qualche passo dopo e fece
marcia indietro. Lo osservai, impietrita, avvicinarsi fino a quando non
fu a
pochissimi centimetri.
“Non
metterci troppo. Ti aspetto
di sotto”, mi mormorò all’orecchio,
mentre un brivido che non aveva nulla a che
vedere con freddo e paura mi percorreva la schiena.
Mi
baciò la guancia di sfuggita.
Lo
guardai, ancora paralizzata,
mentre sfilava via. Lasciai scorrere qualche secondo. O forse
più.
“Okay”,
sussurrai balbettando,
troppo tardi perché potesse udirmi.
Alienata,
entrai in bagno, e
fluttuai fino alla doccia. Mi sentivo come sollevata da terra, leggera
e senza
pensieri. Rimasi sotto il getto d’acqua bollente per molto
tempo. Forse troppo.
Temevo
che da un momento all’altro
Rosalie si sarebbe precipitata in bagno, con il pretesto di assicurarsi
che
stessi bene, interrogandomi senza pietà fino a quando non
avrei raccontato
tutto quello che era successo.
Con
un lamento che avrebbe potuto sembrare
benissimo un grugnito, uscii di malavoglia dalla doccia e mi avvolsi
rapidamente nell’asciugamano, prima che il caldo vapore che
mi avvolgeva
potesse essere divorato dal freddo di fine Marzo.
Mi
guardai allo specchio, per più
di metà completamente appannato. Se solo non avessi saputo
che quello era uno specchio,
probabilmente non mi sarei riconosciuta. Sembravo uno zombie, con tanto
di
occhiaie cangianti. Variavano da un tenue azzurro-blu ad un
più consono viola
grigiastro. Uno zombie, insomma. O un pugile appena pestato.
C’era un’ampia
scelta.
Certo,
probabilmente se in quella
casa fossi riuscita a dormire invece di saltellare qua e là
per i boschi,
probabilmente non sarei stata conciata così. Mi avvicinai
allo specchio,
passandomi entrambe la mani sul viso e lasciandole scivolare fino al
collo,
dove le lasciai, coprendomi la mia cicatrice relativamente nuova. Non
mi ero
ancora abituata a vederla, e ogni volta mi faceva rabbrividire. Sentii
bussare
alla porta.
Mi
affrettai, infilandomi nei
vestiti con una rapidità che mi sorprese.
Un
altro colpo. Toc- toc.
“Un
attimo!”, intimai con quanta
gentilezza potessi esprimere in quel momento, mentre saltellavo per
entrare nei
jeans e al contempo avevo una scarpa dispersa per l’immenso
bagno.
“El?”,
domandò una voce che non riconobbi
subito.
Ma
non era Rose, come avevo
pensato. Meglio così,
pensai.
Mi
guardai un’ultima volta allo
specchio per sistemarmi e mi ravviai i capelli umidi.
Aprii
la porta.
“El”,
disse in un sussurro dal
quale tuttavia trapelava sollievo.
Presi
immediatamente colore. Anche
se non avevo modo di controllare il mio viso allo specchio, non ne
avevo
bisogno per affermare che il mio volto aveva assunto toni che andavano
dal rosa
scuro al più appropriato rosso scarlatto.
Mi
passai nervosamente nei
capelli, spostandoli da un lato.
“Stai
molto meglio così”, ammise
con un sorriso, “lascia scoperto di più il tuo
viso”.
Mi
sentii sciogliere.
“Ciao
Edward”, mormorai abbozzando
un sorriso, fluttuando a circa un metro da terra. “Come mai
qui?”.
“Non
uscivi più, ero venuto a
controllare che stessi bene”, mi rivolse un mezzo ghigno.
“Ah,
divertente. Stai cercando di
rubare il mestiere a Emm?”, chiesi, saltellando fuori dal
bagno.
“Pensavo mi preferissi a lui”, disse scherzando,
“ma non importa”.
Fece
spallucce, fingendo
un’espressione avvilita e guardandomi di sottecchi.
“Come
fai a esserne così certo?”, lo
stuzzicai avvicinandomi.
Probabilmente
ero stata troppo
sotto l’acqua calda. Ma che diavolo stavo facendo?
“Non
è così?”.
Feci
anch’io spallucce, mentre il
mio personale Grillo Parlante mi urlava nella testa, chiedendomi cosa
diamine
stessi combinando.
Non lo so!, avrei voluto rispondergli.
Tuttavia,
un monologo ad alta
voce, in quel momento, non mi sembrava l’idea migliore.
“Potrebbe”,
acconsentii con un
sorriso.
Il
sorriso truffatore comparve
all’unisono anche sul suo volto. Quel sorriso aveva il potere
di stregarmi.
“Avrai
fame”, disse Edward.
“Non
molta”, mentii.
Una
sottospecie di ruggito
squarciò il silenzio e fece scoppiare entrambi in una risata.
“Oh
sì, non molta”, commentò
Edward divertito.
“Stupido
stomaco”, borbottai.
Sembrava
mi aspettasse al varco,
che attendesse sempre il momento migliore per mettermi al meglio in
imbarazzo. Tuttavia,
non potevo ignorarlo. Per questo mi fiondai in cucina a recuperare
qualche
biscotto e un paio di barrette al cioccolato. L’espressione
“qualche biscotto”
forse non era la più esatta. Divorai quasi tutto il
pacchetto e, una volta
finito, mi sentii finalmente sazia.
Trotterellai
fino al divano, che
ormai era diventato il mio rifugio quotidiano.
Edward
si era defilato abilmente
dicendo che “aveva ancora dei documenti da
ritirare”, lasciandomi sola, ed io
ero rimasta a guardare, come un vegetale, il susseguirsi delle immagini
proiettate dal televisore, senza vedere nulla in realtà.
Senza
rendermene conto, ricominciai
a pensare a quella mattina, alla bizzarra alchimia che si era creata
tra di noi
e una strana sensazione mi avvolse. Anzi, sarebbe più
corretto dire che m’investì.
Dopo
qualche minuto che ci
rimuginavo, fui costretta ad alzarmi. Mi sentivo iperattiva, come una
molla
pronta a scattare da un momento all’altro.
“’Giorno
piccoletta”, mi disse
ridacchiando Emmett mentre scendeva le scale con un ghigno stampato in
faccia.
Quando
mi fu vicino, mi spettinò i
capelli con una mano, schiacciandomi la testa.
“Ehi!”, esclamai, ritraendomi
velocemente da quel gigante forzuto e
dispettoso.
“Buongiorno
anche a te”, aggiunsi
sarcastica.
Poco
dopo arrivò anche Rose,
seguita a ruota da Alice e Jasper.
“Carlisle
e Esme?”, domandai dopo
che li ebbi salutati.
“Carlisle
è in ospedale, al
lavoro, mentre Esme ha accompagnato Edward a Seattle”, mi
rispose Alice, con il
sorriso sulle labbra.
“Seattle?”,
ripetei sorpresa.
“Sì,
doveva occuparsi di alcune
pratiche e documenti da ritirare”.
Feci
spallucce, cercando di
mascherare in qualche modo la mia sorpresa.
Seattle
era abbastanza lontana,
non sarebbe tornato presto. E io mi sentivo ancora una molla caricata.
“El?”,
mi chiamò Rosalie con
quello sguardo implorante che avevo imparato a riconoscere.
“No”,
tagliai corto. Non avevo
voglia di raccontarle i fatti miei, filo per segno.
“E
dai, per favore”, supplicò
guardandomi negli occhi con intensità bruciante.
“Ah!”, esclamai esasperata,
alzando le braccia al cielo, “e va bene!”.
“Dai,
almeno aiutami a scegliere
cosa mettere”, e con quella scusa mi trascinò a
forza al piano di sopra. “Allora,
raccontami!”, mi incitò Rosalie una volta che
fummo in camera sua, davanti
all’armadio pieno di vestiti.
Le
raccontai a grandi linee quello
che era accaduto, mentre lei si provava decine e decine di capi.
Il
resto della giornata trascorse
all’incirca allo stesso modo, in maniera diversa a seconda
dei momenti, ma con
un pensiero che era sempre lì, pronto a fare breccia nella
mia mente con la
violenza di un ariete. Sempre lui.Sempre
Edward.
Qualcuno
è giusto un po' ossessionato xD Ah niente! Spero sempre che
qualcuno mi degni di recensioni e/o opinioni di qualunque natura. In
caso contrario ci si becca la prossima settimana . Buon weekend a
tutti! :)
Buonasera a tutti! Ho
deciso di postare in anticipo perchè questo sarà
un finesettimana parecchio movimentato - eufemismo! - e quindi
rischierei di dimenticarmi o non avere tempo. Spero non vi dispiaccia :)
Capitolo
13. Memoria.
Quella
sera, quando Alice mi
accompagnò in camera di Rosalie per dormire, era ancora
molto presto.
Approfittai della breve assenza di Rose ed Emmett per appropriarmi
della loro
stanza.
Mi
sentivo stravolta, come se
avessi spostato una montagna.
Augurai
la buonanotte a tutti gli
abitanti della casa e, dopo essermi lavata i denti e pettinata i
capelli fino all’esasperazione,
nella speranza vana che riuscissi a renderli lisci, andai a letto
rapidamente.
Nonostante
la stanchezza, riuscivo
ancora a percepire la molla pronta a scattare. Era strano sentirsi
così, ma non
del tutto spiacevole. Mi sentivo viva e all’erta. Rimasi nel
letto,
raggomitolata sotto le coperte, mentre un mare di pensieri mi affollava
la
mente. E proprio come un mare, come un’onda insistente sotto
la forza dell’alta
marea, il pensiero di Edward continuava ad assillarmi. Ero
improvvisamente
scocciata dall’effetto che aveva su di me. Tuttavia, sapevo
di non poterci fare
niente. Rimasi a crogiolarmi nei miei pensieri, nelle mie domande, fino
a
quando, vinta dalle quaranta ore che avevo alle spalle senza chiudere
occhio,
la stanchezza ebbe la meglio sulle mie palpebre, che si chiusero
docilmente.
Non
fu come la volta prima, e per
questo mi resi conto sin da subito di quello che stava succedendo.
Era
il genere di sogno in cui sai
che stai sognando, e tuttavia sai che non potrai svegliarti
finché il sogno non
si conclude. Perciò attesi, consapevole.
Fu
da subito ovvio che cosa stessi
sognando: la foresta era uguale alla precedente. Tuttavia,
c’era qualcosa di
radicalmente diverso. La foresta era la stessa, ma stavolta mi trovavo
già nel
piccolo spiazzo dove il fuoco ardeva e scoppiettava. Ma non era deserto
come la
volta prima, c’erano diversi ragazzi sparsi per la piccola
radura. Notai
diverse figure, tra cui la mia. Questa volta appariva sana, sorridente,
a
differenza dell’ultima volta. Mi osservai con attenzione
mista a curiosità,
mentre a poco a poco riuscivo a ricomporre il puzzle della mia memoria.
C’erano
proprio tutti: Jess, Sue,
Eric, Cindy, Grace, Daniel. Daniel.
Sentii un tuffo al cuore nel vederlo.
Notai
Eric che mi si avvicinava,
una strana espressione sul suo volto pallido, celata malamente dagli
occhiali sottili
poggiati sul naso. Eric era il classico secchione carino. Intelligente,
senza
dubbio, e di bell’aspetto. Tuttavia era dotato
dell’umorismo di un’ape rimasta
intrappolata nel costume, e questo bastava perché la mia
stima del suo
quoziente intellettivo calasse vertiginosamente.
Mi
si avvicinò.
“Due
passi?”, sbottò con la sua
consueta delicatezza.
Annuii
semplicemente, mentre si
incamminava in tutta rapidità verso il bosco.
Mi
afferrò il braccio, appena
sotto il gomito, e prese a trascinarmi attraverso lo spiazzo.
Sfilammo
velocemente davanti a
tutti gli altri. Scorsi Daniel in un angolo, che mi guardava
incuriosito. Mi
limitai a rispondergli con un cenno della mano ancora libera e uno
sguardo
confuso, mentre facevo il verso a Eric alle sue spalle. Sorrise
divertito.
Daniel
era il mio migliore amico,
da sempre. Non mi ricordo di aver mai avuto un amico migliore di lui.
Era il
classico bel ragazzo, sportivo e sveglio, quello che tutte le ragazze
desiderano portare al ballo di fine anno e presentare ai propri
genitori. Io,
invece, mi limitavo a considerarlo quasi un fratello. Tuttavia, non
potevo
negare di aver avuto anch’io il mio momento “cotta
per il migliore amico”, che
però era passato, per mia fortuna, alla svelta.
Era
biondo, con folti capelli
sparati e drizzati in tutte le direzioni nelle più disparate
creste. Aveva un
fisico davvero notevole e occhi cangianti, che oscillavano tra il verde
ed il
marrone.
Eric
prese a trascinarmi più
veloce e lanciai a Daniel uno sguardo esasperato. Lui
ridacchiò.
Eric
camminò a passo di marcia
fino a quando, ormai irritata, non lo superai in velocità e
mi fermai davanti a
lui.
“Allora?”,
chiesi scocciata.
Sospirò
profondamente.
“Ho
bisogno di parlarti”, disse con
lo sguardo piantato sui suoi piedi.
“Sono
qui, illuminami”, commentai
acida.
L’espressione
che c’era nei suoi
occhi quando si decise a sollevare il volto mi sconcertò.
Cercai
di calmarmi.
“Eric”,
sospirai, “dimmi pure, ti
ascolto”.
Mi
condusse ad un piccolo masso,
piatto e grigio, su cui ci sedemmo.
“Ecco,
vedi…è per Sue”, ammise
timidamente, forse arrossendo un poco.
Non
potevo esserne sicura, a causa
del buio che c’era tra gli alberi.
Sue
aveva una cotta segreta per
Eric da mesi, forse dal primo giorno in cui era arrivata nella nostra
scuola. Era
l’ultima arrivata, e trovata Eric spiritoso ed intelligente,
oltre che carino.
L’aggettivo che più mi sorprendeva accanto al nome
di Eric era spiritoso.
“Tu
sei sua amica e…”, il suo
farfuglio si andò perdendo nel silenzio della foresta
intorno a noi.
“Sì?”,
lo esortai.
“Beh
volevo chiederle di uscire, ma
volevo sapere prima da te se era una cosa…da
fare”, mormorò. “Se ne vale la
pena, ecco”.
“Eric,
non pensarci, sono sicura che
Sue accetterà di uscire con te”, lo rassicurai con
un mezzo sorriso imbarazzato.
Dovevo dirgli che Sue aveva una cotta per lui?
Mi
ravviai i capelli con una mano,
spostandoli da un lato, e mi alzai. Meglio sfuggire in fretta alle
situazioni
imbarazzanti.
“Okay”,
annuì con poca convinzione.
“Se lo dici tu”.
Tornammo
in silenzio alla radura
dove tutti gli altri ci aspettavano e vidi con soddisfazione che Eric
si
avvicinava timidamente a Sue. Saltellai vicino a Daniel che mi
squadrò curioso.
Feci
spallucce, rassicurandolo con
un gesto della mano. Era meglio non alimentare i pettegolezzi.
“Dov’è
Mel?”, chiesi ad un tratto,
notando la mancanza di qualcuno.
“Non
so, è andata con Jess un
attimo via”.
“Ah”,
risposi.
Ripresi
a parlare con gli altri, ma
mi fermai all’improvviso. C’era qualcosa che non mi
quadrava.
“Sai
dov’è andata?”, domandai
nuovamente a Daniel.
“Credo
di là, verso il fiume nel
bosco”, mi indicò con un cenno disinteressato.
“Vado
a cercarla, tienimi il
posto”.
“Okay”.
Mi
alzai rapidamente, senza badare
a Eric e Sue che chiacchieravano allegramente in un angolo vicino al
fuoco. Le
fiamme illuminavano in modo singolare la piccola radura che ci
ospitava.
Gli
alberi, così tanti che si
perdeva il conto degli innumerevoli tronchi tutt’intorno a
noi, erano
rischiarati solo in parte. Le foglie che ne occupavano i rami
brillavano di un
rame acceso, come se fossero fatte di metallo arrugginito.
Mentre
mi incamminavo verso il
punto indicato da Daniel, mi resi conto della sconcertante
consapevolezza di
non essere in grado di richiamare alla memoria il viso di Mel. Avevo
solo un
vago ricordo, debole, e temevo potesse scomparire con il primo soffio
di vento
tra i miei capelli. Mi affrettai a cercare Mel e Jess; ora
più che mai avevo
bisogno di vederla.
“Mel?”,
chiamai esitante, dopo che
il buio della foresta mi ebbe avvolta.
Nessuna
risposta, il silenzio
cresceva.
“Jess?”,
riprovai. Niente.
Sentii
il panico affiorare e feci
dietrofront, spaventata di non riuscire più a trovare la
strada per tornare
allo spiazzo d’erba.
“El?”,
una voce familiare mi
avvolse nella sua familiarità.
“Dan?
Daniel dove sei?”, lo
chiamai.
Riuscii
a scorgere un bagliore
fioco in lontananza, tra gli alberi, e poco dopo notai una figura che
veniva
verso di me.
“Oh,
eccoti finalmente”, mormorai
sollevata.
“Mi
sono accorto che eri andata
via senza la lanterna e sono venuto a cercarti”.
“E’
troppo buio qui, non le ho
trovate”, dissi avvilita.
“Sono
arrivate qualche secondo
dopo che te ne sei andata”, ridacchiò Daniel.
Anche
con quella debole luce
riuscivo a vedere il suo sorriso brillare nel buio.
“Oh,
perfetto! Solita fortuna”,
borbottai.
“Dai,
torniamo indietro”, concluse
Daniel dandomi un colpetto sulla spalla.
Mi
limitai ad annuire e lo seguii,
accodandomi al fascio di luce.
Fu
a quel punto, mentre una lieve
brezza soffiava dietro di noi, che sentii dei passi. Altri
passi.
“Dan?”,
chiamai esitante.
Non
ero il genere di persona
facilmente impressionabile, non per così poco. Dopotutto
avrei potuto benissimo
essermelo immaginata. Tuttavia, nel buio della notte che faceva da
padrona,
quel lieve rumore mi provocò un brivido lungo la schiena non
da poco.
“Che
c’è?”, domandò Daniel
fermandosi davanti a me.
Mi
arrestai di colpo, andando a
sbattere contro la sua schiena.
“Scusa”,
bofonchiai, “è solo che
mi è sembrato di sentire dei passi”.
“Io
non ho sentito nulla, dai
muoviti”.
A
prova della mia tesi, altri
passi silenziosi tornarono a riempire il silenzio del bosco.
Ci
guardammo in silenzio,
scambiandoci uno sguardo dapprima spaventato e poi sempre
più teso.
“El,
muoviti”, mi esortò Dan,
afferrandomi per un braccio con più foga del necessario e
spingendomi davanti a
lui.
Riuscivo
a scorgere il limitare
della radura, illuminata dall’allegro fuoco scoppiettante,
dove quell’ansia che
mi stava divorando era solo una stupida fantasia. Incespicai,
affrettandomi per
raggiungerla. Quando ormai ero a pochi, pochissimi metri dalla mia
meta, mi
accorsi di un insolito silenzio alle mie spalle. Troppo, troppo
silenzio.
Percepii
la stretta al mio braccio
allentarsi.
Nessun
altro rumore ad eccezion
fatta per il rimbombo sordo e affrettato del mio cuore, che sembrava
rimbalzare
nella mia testa. Avevo paura di voltarmi, nonostante sapessi che dovevo
farlo.
“Dan?”,
farfugliai.
Mi
sentivo come impietrita, la
mente vigile, forse fin troppo, mentre il corpo sembrava totalmente
staccato ed
indipendente da essa. La presa che mi strinse il braccio subito dopo,
con forza
che non mi aspettavo, mi diede un sollievo momentaneo. Nel tempo che
impiegai a
costringermi a voltarmi e realizzare che quella presa non poteva
certamente
essere di Daniel, cominciarono le grida.
Davanti
a me c’era una figura scura,
con un cappuccio portato fino ad oscuragli il volto.
Inizialmente
prestai attenzione
solo alle urla che mi circondavano, come un’immensa bolla
ovattata, ma quando
mi parve di vedere le labbra di quell’individuo piegarsi in
un ghigno, riuscii
a riconcentrarmi. Riuscivo solo a delinearne i confini, tuttavia avrei
potuto
giurare che stesse sorridendo. Un sorriso che mi raggelò
dalla testa ai piedi,
fino a quando non mi forzai a respirare.
“Come
stiamo, signorina?”, mi
chiese con voce suadente.
“Dov’è
Daniel?”, balbettai.
L’uomo
di fronte a me si limitò ad
indicarmi un punto imprecisato sul terreno, tra i tronchi, con un gesto
noncurante della mano.
“Dan!”,
gridai.
Tentai
di sfuggire alla presa
ferrea che mi tratteneva il braccio in una morsa simile a ghiaccio ed
acciaio. Senza
successo.
Mi
inginocchiai il più vicino
possibile a Daniel, accasciato in un angolo, apparentemente svenuto.
“Cosa…cosa
gli è successo? Che gli
hai fatto?”, domandai balbettando.
Cercai
di inghiottire il groppo
che mi si era formato in gola.
“Non
ti preoccupare, non è lui che
mi interessa”, sussurrò dolcemente.
Quella
frase mi spiazzò.
Rimasi
in silenzio, accovacciata
di fianco al mio amico, senza alzare lo sguardo, per diversi istanti.
Quell’uomo
sembrava attendere di
buon grado. Sentii la sua mano infilarsi tra i miei capelli,
percorrendone la
lunghezza. Inspirai a fondo, mentre un brivido gelido, solo una debole
eco
della paura che provavo in quel momento, mi percorse.
Alzai
lo sguardo fino ad
incontrare il suo.
La
lanterna di Daniel era per
terra, a qualche passo da noi, ed illuminava solo parzialmente il suo
profilo.
Vidi ancora una volta il suo sorriso riempirgli il volto, di cui non
vedevo gli
occhi, e capii che ero in pericolo.
Non
il genere di pericolo legato
ad un uomo misterioso in un bosco. Quel sorriso mostrava una
crudeltà che non
ero nemmeno riuscita a credere di immaginare.
“Starà
bene”, disse sorridendo,
“di questo non devi preoccuparti”.
Il
modo in cui aveva formulato
quella frase completò il puzzle. Lui
sarebbe
stato bene. Io no.
“Cosa
vuoi?”, domandai nel breve
lampo di coraggio che mi restava.
“Oh,
è semplice”, sogghignò,
“te”.
“Sai…”, continuò,
“hai un buon odore, e vorrei accertarmi del sapore se non ti
dispiace”.
Lo
guardai attonita, trattenendo
il respiro.
Avrei
voluto gridare, muovermi,
scappare fino a quando non fossi stramazzata al suolo, con il fiato
corto ed i
muscoli in fiamme. Tuttavia, i miei arti sembravano non rispondere ai
miei
comandi, paralizzati dalla paura, come se appartenessero a qualcun
altro.
La
lanterna a pochi metri da me
sembrava essere l’unico punto di luce nel raggio di
chilometri.
Non
mi sfioravano nemmeno più le
grida che avevo intorno. Raccolsi la volontà e mi feci
forza.
Mi
alzai con estrema lentezza,
mentre cercavo un qualsiasi appiglio in grado di prolungare la mia vita
abbastanza a lungo da trovare una soluzione.
“Chi
sei?”, domandai.
“Mi
chiamo Claude”, rispose con un
sorriso gentile, “e tu sei?”.
“Elizabeth”,
mormorai facendo un
passo di lato.
La
sua stretta non accennava ad
allentarsi e il suo sguardo, di cui non vedevo l’origine, ero
certa che mi
seguisse con estrema rapidità.
“Un
nome antico, molto bene”,
commentò senza smettere di sorridere, “posso
sapere il perché?”.
“Era
di mia nonna”, la mia voce
sembrava stesse lottando per un soffio d’ossigeno.
Mi
sentivo affogare, mentre il
panico mi avvolgeva e mi trascinava giù senza darmi modo di
reagire in alcuna maniera.
Mi feci coraggio, azzardando un altro passo verso la lanterna.
“Mi
sei simpatica, Elizabeth.
Peccato che…”, lasciò la frase in
sospeso, rimpiazzandola con un ghigno
crudele.
“Cosa
vuoi da me?”, lo interruppi.
Volevo
guadagnare tempo, ma più di
tutto volevo impedirgli di pronunciare quelle parole che avrebbero
segnato la
mia fine.
Un
altro passo.
“Niente
di che, dolcezza”, disse,
“O meglio, sarebbe più adatto dire niente
di personale in questi casi”.
A
quel punto caddi in ginocchio. La
lanterna era a meno di venti centimetri da me, potevo sentire il lieve
tepore
irradiarsi intorno a me.
“No,
non fare così”, mi accarezzò
nuovamente i capelli, inspirando profondamente.
Si
inginocchiò a sua volta,
portando il suo viso a pochi centimetri dal mio. Ormai non facevo
più caso ai
brividi che mi percorrevano. Per un breve istante incontrai i suoi
occhi e mi
parve di rivedervi il suo sorriso.
Rosso. Uno sconvolgente rosso cremisi
prendeva posto nelle sue
iridi brillanti e crudeli.
“Prometto
che farò veloce, non
sentirai nulla”, sussurrò avvicinandosi ancora al
mio viso.
Percepivo
la maschera d’orrore sul
mio volto, i miei occhi vitrei e le labbra secche. Lasciò
scivolare la sua mano
dai miei capelli fino ad accarezzarmi la guancia.
Sorrise
nuovamente prima di posare
le sue dita fredde nell’incavo del mio collo.
In
quell’istante di totale
silenzio mi accorsi che le grida erano cessate.
Mi
scostò i capelli e mi piegò il
collo leggermente all’indietro. Terrorizzata, non riuscivo ad
imporre
resistenza.
In
uno spasmo di lucidità cercai
tentoni la lanterna riversa al suolo e l’afferrai, per poi
lanciarla con quanta
forza mi fosse possibile contro il suo viso.
Percepii
il vetro che andava in
frantumi e la debole fiamma all’interno sprigionarsi.
Un
gemito nacque dall’uomo chinato
di fronte a me. Scattai in piedi, correndo via.
Sentivo
la terra volare sotto di
me; non avevo mai corso tanto veloce prima. Superai velocemente i
tronchi che
mi separavano dalla radura e, se possibile, accelerai. Sentivo
l’adrenalina
volare nelle mie vene.
Un
colpo, qualcosa di così forte
che non credevo possibile, mi fece perdere l’equilibrio.
Caddi
a terra bocconi, tentando di
sorreggermi con le braccia, che tremavano come foglie. Sentii la testa
pulsarmi
mentre il dolore prendeva posto nel mio corpo.
Vidi
quell’uomo, Claude, di nuovo
di fronte a me e capii che ormai non potevo fare più nulla.
“Avevo
appena detto che mi eri
simpatica”, disse con una calma che non fece che accrescere
la mia paura, “Così
hai appena complicato le cose, signorina”.
Sollevai
lo sguardo.
Una
figura in lontananza mi fece
sorridere e, tuttavia, provare ancora più paura.
Al
limitare della radura, dalla
quale ormai ero lontana, riuscii a scorgere il profilo di Daniel che si
sorreggeva ad un tronco. Mi fissava, come se volesse intervenire.
Raccolsi
la voce ed il coraggio
rimasti.
“Daniel,
corri!”, strillai con
quanta voce avessi ancora in corpo.
Sentii
la mia voce incrinarsi per
lo sforzo, salendo di parecchie ottave fino a toccare un acuto che fece
male ai
miei stessi timpani.
Claude
si voltò, quel sorriso
crudele che avevo imparato a temere come nient’altro stampato
in viso.
Daniel
mi fissò incerto e fece un
passo in avanti.
“Daniel,
vai via di qui!”, urlai
nuovamente mentre le lacrime che tanto avevo represso cominciavano a
sgorgare
senza fine.
“Ragazzo
ascoltala, non voglio
farti del male”, gli intimò Claude.
Per
un attimo, gli fui grata.
“Daniel,
ti prego!”, dissi
nuovamente, ma la mia voce sembrava rifiutarsi di uscire.
Claude
mi sorrise,
inginocchiandosi di nuovo accanto a me.
Prima
che la sua figura mi
oscurasse il resto della foresta, mi accorsi che Daniel aveva preso il
volo
verso la salvezza. Quasi sorrisi.
“Vediamo
signorina, perché hai
tentato di scappare?”, mi chiese gentilmente.
Notai
con sgomento che il fuoco
che gli aveva invaso il viso poco prima lo aveva semplicemente
scalfito,
procurandogli delle lievi abrasioni ma nulla di più.
“Che
domanda stupida, scusami”,
disse dopo qualche attimo di silenzio. “Solo che ormai non
posso lasciarti in
vita”, sussurrò al mio orecchio. “A
proposito, mossa furba quella del fuoco”.
Ero
terrorizzata, e cercai
inutilmente di scivolare via.
Mi
lasciò allontanare
semplicemente di qualche metro, giusto in tempo per giungere nuovamente
nella
radura dove il fuoco insisteva a scoppiettare, prima di afferrarmi con
forza
per i capelli.
Sentii
la sua mano che mi
strappava diverse ciocche prima di lanciarmi, con facilità e
velocità
sorprendente, contro il tronco di una quercia.
L’impatto
fu orribile. Percepii la mia testa
sbattere con forza contro il tronco
ed accasciarsi da un lato. Claude mi fu davanti in meno di un secondo.
A
quel punto sapevo perfettamente
come sarebbe finita, il lento susseguirsi degli eventi che di
lì a poco
sarebbero accaduti, ma non riuscivo a calmarmi.
“Come
stiamo, signorina?”, recitò
nuovamente.
Sapevo
che era inutile, stupido,
ma cercai ugualmente di strisciare via.
Con
un sospiro, Claude premette il
suo piede sul mio braccio. Inizialmente non percepii il dolore, ma solo
la
paura. Dopo alcuni istanti, un grido stracciò il silenzio.
Il mio.
“Bizzarro”,
mormorò il mostro
accovacciato ora di fronte a me, “Il tuo odore è
sparito nel nulla”.
Sembrò
rifletterci qualche
istante, pensieroso.
“Forse
è meglio che mi sbrighi”,
concluse sorridendo.
Tentai
nuovamente di strisciare
via, ma non potevo scappare.
La
sua figura scura e imponente
torreggiava sopra di me, con il viso ad un palmo dal mio.
“Stalle
lontano, Claude!”, ruggì una nuova voce, rompendo
il
silenzio.
Claude si
scostò di qualche centimetro dal mio volto,
abbastanza da vedere chi l’avesse disturbato.
“E tu chi
sei, scusa?”, domandò confuso, sorridendo
beffardo.
“Stalle.
Lontano. Ho. Detto.”, ripeté quella voce.
“Subito”,
gli intimò ancora una volta.
“Non credo
che lo farò, ragazzo. Non senti il suo sangue?”.
Alcune lacrime
ripresero a rigarmi le guance, senza che
potessi fermarle.
“Claude.
Allontanati”, minacciò la voce, adirata.
Sollevai
il viso quanto bastava
per osservare lo sventurato che stava cercando di fermare quel mostro.
Mi
sembrò di essere già morta.
Ero
morta e non me ne ero accorta?
Non c’erano altre spiegazioni possibili.
La
debole luce del falò che
stentava a crepitare in un angolo della radura bastava a svelare il
profilo di
quell’incredibile figura pallida e slanciata. In quel momento
mi parve di non
sentire alcun dolore.
Tuttavia,
bastò voltarmi e
rivolgere lo sguardo a Claude, i suoi occhi orribilmente rossi e
crudeli a solo
pochi centimetri dai miei, per farmi crollare la realtà
nuovamente addosso.
Ad
un tratto Claude mi sporse
verso di me, ignorando completamente quella creatura sfuggita ad un
sogno,
appoggiando una mano sulla mia spalla e l’altra sulla mia
nuca, per poi posare qualcosa
di gelido sul mio collo. Le sue labbra.
Mi
svegliai di soprassalto, le
labbra secche dischiuse in un grido muto.
Sentivo
il cuore volare, i suoi
battiti si rincorrevano con velocità impossibile,
rimbombando nelle mie tempie.
Mi sedetti sul letto, incrociando le gambe con un sospiro. Il debole
led verde
della piccola radiosveglia posta sul comodino mi avvertiva che la
mezzanotte
era passata da poco.
Solo un sogno, mi dissi, è
tutto okay.
Mi
passai una mano tra i capelli,
bagnati di sudore. Affondai il viso nelle mani, cercando di calmarmi.
Quando
riuscii a respirare più regolarmente, anche i battiti
cominciarono ad assumere
un ritmo più normale. Mi lasciai cadere nuovamente sul
materasso, preda dei
miei pensieri.
Mi
rannicchiai sotto le coperte, cercando
di riprendere sonno e di scacciare le immagini di
quell’incubo che altro non
era che un semplice, orribile ricordo.
Sentivo
la pioggia ticchettare
impaziente fuori dalla finestra, in attesa come me del nuovo giorno.
Nel
tentativo di riprendere sonno,
richiamai alla mente quello che era successo quella mattina.
Quelle
immagini, quei sorrisi,
quella strana alchimia creatasi tra di noi.
Poco
a poco, quasi con un sorriso
rilassato sulle labbra, mi riaddormentai mentre la pioggia non
accennava a
rallentare il suo ritmo accelerato ed incessante.
Beeeeeene! Allora, commenti?
Che dire, spero che Claude non vi abbia impressionato xD No,
vabbè. E' un tipo educato dopotutto. Comunque! Ci tengo a
ringraziare tutti i lettori silenziosi che mi seguono, senza
necessariamente commentare qualcosa. Grazie :)
Ah e poi vorrei ringraziare - visto che ci sono xD - Carli e
Fà che mi postano in pagina anche se ormai non mi
sopporteranno più, e Jen che mi recensisce e mi saluta
sempre. Tu sei meravigliosa! Eeee poi niente, a
sabato prossimo! Buona settimana a tutti :)
Bene,
buongiorno! Bando alle ciance, vi posto il capitolo in fretta che devo
andare a vedere Non Lasciarmi u.u Fatemi sapere cosa ne pensate, ok?
Questo capitolo è piuttosto lungo, e c'è una
piccola sorpresa per El.
Ci terrei a dedicare questo capitolo alla mia Angelica personale, che
sinceramente non so se legga o meno questa storia(probabilmente se
n'è dimenticata come al solito), però sono
dettagli.
(Meno male che avevo detto "bando alle ciance" xD)
Capitolo
14. Primo Giorno.
Mani
fredde mi toccarono il viso,
mentre riuscivo a percepire la debole luce filtrare dalle finestre.
“Ehi,
Bella Addormentata?”, mi
chiamò una voce fin troppo familiare.
Non
risposi in alcun modo, avevo
ancora troppo sonno.
“Ti
svegli da sola o devo chiamare
il tuo Principe Azzurro?”, scherzò ridacchiando.
Grugnii
scocciata, voltandomi
dall’altra parte e nascondendo la testa sotto il cuscino.
“Dai,
El, muoviti!”, mi esortò,
dandomi dei deboli spintoni per cercare di avere qualche risposta.
“Rose!”, esclamai esasperata,
aprendo gli occhi.
Non
mi mossi.
“Oh,
finalmente”, commentò
ridendo, “Dai muoviti che facciamo tardi”.
C’era
qualcosa che non mi tornava,
c’era troppa luce in quella stanza.
“Tardi
per cosa?”, bofonchiai da
sotto il cuscino.
Uscii
allo scoperto e capii cosa
non tornasse.
“Ehi,
aspetta”, dissi, “perché
sono nella stanza di Alice adesso?”.
Avrei
giurato di essermi
addormentata in quella di Rosalie.
Mi
voltai. Rosalie ridacchiò.
“Sì,
Emmett ti ha scarrozzata di
qua appena rientrati ieri sera”, ammise con un ampio sorriso.
La
fissai, fingendomi tradita.
“Scusami
El, sai com’è…io ed Emm
avevamo bisogno della stanza e…”.
Sgranai
gli occhi, lanciando un
braccio a mezz’aria nel tentativo di zittirla.
“Ah!”, esclamai, “non
voglio saperlo, Rose!”.
Rosalie
rise di gusto,
scompigliandomi i capelli.
“Dai,
muoviti che è già tardi”,
ripeté per poi scostarsi da me.
Con
grazia, si alzò dal letto e si
avviò verso l’uscita. Quando fu a pochi passi
dalla porta, la chiamai.
“Rose?”.
“Sì?”.
“Tardi
per cosa?”.
La
sola risposta che riuscii ad
ottenere fu un sorriso smagliante ed un’occhiata che
ricordava un bambino che
progetta furti di caramelle.
“Lo
vedrai”, ridacchiò una volta
uscita.
Confusa,
mi sedetti sul letto. Nonostante
la nottata, per più di un verso da incubo, mi sentivo
riposata e sveglia. Mi
passai una mano tra i capelli, spostandoli da un lato, e sbadigliai.
All’idea
di alzarmi, la stanchezza
sembrava tornare a farmi visita. Cercai di raccogliere un po’
di forza di
volontà e mi costrinsi ad alzarmi. Poco a poco, scivolai
placidamente giù dal
grande materasso sul quale ero stata scaricata durante la notte.
Arrancai
fino al bagno, dove
tentai di svegliarmi con ripetuti schizzi di acqua gelida sul viso.
Sciolsi poi
il groviglio che avevo in testa e mi diressi al piano di sotto, dove
tutti mi
stavano aspettando.
Il
modo in cui tutti mi guardavano
era strano, come se mi stessero nascondendo qualcosa.
Guardai
Esme con aria
interrogativa e lei si limitò a sorridermi, stringendosi
nelle spalle.
Qualunque
cosa stesse accadendo,
non me la raccontavano giusta.
Ingurgitai
una quantità di
biscotti impressionante. Evitai di domandarmi dove trovasse posto tutta
quella
roba nel mio corpo. Mentre mangiavo, i solleciti da parte di Alice,
Rose ed
Emmett furono frequenti ed impazienti.
“Dai,
su, sbrigati El!”,
continuavano a ripetermi, cantilenando senza sosta.
Quando
ebbi finito, Rose e Alice
mi afferrarono per i gomiti e mi trascinarono a forza di sopra.
Fui
sorpresa di non vedere ancora
alcuna traccia di Edward in casa. Avevano detto che sarebbe tornato
entro sera.
Evitai di pensarci mentre Alice e Rosalie mi trainavano qui e
là per le stanze.
“Prima
i vestiti”, costatò Alice.
“Giusto”,
le diede ragione
Rosalie, con un sorriso sulle labbra che parlava da sé.
Mi
ritrovai in camera di Rose,
immobile davanti allo specchio imprigionato tra le ante
dell’immenso armadio a
muro, mentre Alice e Rosalie sfrecciavano davanti a me con abiti di
ogni tipo. Li
esaminavano, avvicinandomi i capi al busto per poi gettarli via.
Andammo avanti
così per cinque minuti buoni. Alla fine, mi ribellai.
“Volete
spiegarmi chediavolo
succede?”, esclamai, gettando
le braccia in aria.
Le
due squilibrate al mio fianco si
scambiarono un ghigno complice, ignorandomi, e ripresero le loro
attività
maniacali. Dopo altri cinque minuti, che a me parvero
pressoché ore, Alice
esclamò soddisfatta.
“Questo è perfetto!”.
La
guardai attonita, mentre faceva
oscillare con aria soddisfatta una maglia dall’aspetto
costoso e soffice.
“Perfetto
per cosa?”, domandai
esasperata.
“Su,
mettitela”, mi intimò
Rosalie.
Era
una congiura. Grugnii qualcosa
di incomprensibile e la infilai, non senza difficoltà.
Per
la prima volta da quando mi
ero svegliata, quando la mia testa finalmente sbucò dal
collo della maglia,
rivolsi lo sguardo alla radiosveglia sul comodino. Segnava le sette e
venti.
“Aspettate.
Voi siete pazze”,
quasi strillai, “mi avete svegliata per giocare a
Barbie-vesti-e-trucca alle sette?”.
“Vedo
che hai già capito il
prossimo passo”, sogghignò Alice.
Rassegnata,
sbuffai e le lasciai
fare. Quando riuscii a guardare per la seconda volta la sveglia,
segnava che
mancava solo qualche minuto alle otto. Rosalie e Alice sembravano aver
concluso
la loro brillante sfilata e mi osservavano come se fossi un pezzo da
esposizione. I loro sorrisi brillavano nella penombra azzurrata della
stanza.
“Volete
per favore dirmi che cosa
state tramando voi due?”.
Per
tutta risposta, mi afferrarono
nuovamente per un braccio e mi trascinarono davanti
all’armadio di Rose.
“No,
di nuovo no”, supplicai.
Con
un ghigno, aprirono le ante,
in silenzio, e mi lasciarono alle presentazioni con la sconosciuta che
si
rifletteva nello specchio. Lasciai oscillare il mio sguardo tra quella
figura e
le due al mio fianco, che si lanciavano sguardi complici.
“Cosa…”,
cercai di dire, ma non
appena le labbra di quella sconosciuta si mossero all’unisono
con le mie, mi
fermai.
“Trucco,
magia e trucco”, ammise
Alice con un sorriso che avrebbe sciolto chiunque.
“Voi
siete pazze”, sussurrai con
un filo di voce, passandomi una mano tra i capelli, l’unica
cosa che non
avevano trasformato completamente.
Due
deboli colpi alla porta.
“Si
può?”, domandò una voce che
avrei riconosciuto ovunque.
“Entra”,
mi anticipò Rose,
strizzandomi l’occhio con un sorriso.
La
fissai, irritata. Le piaceva
proprio mettermi in imbarazzo.
“Ciao”,
riuscii a dire, con gli
occhi piantati a terra.
“El”,
mi chiamò con quell’abituale
sollievo che sembrava trapelare ogni volta che pronunciava il mio nome.
“Qualcosa
che non va?”, domandò innocente, senza riuscire
tuttavia a nascondere il
sorriso nella sua voce.
“Io”,
ammisi.
“Sei
bellissima”, mormorò qualche
secondo dopo.
Non
mi accorsi di come il mio
cuore avesse già cominciato a correre fino a quando, nel
sentire le sue parole,
i battiti accelerarono in modo impossibile. Prima o poi, la sua
presenza mi
avrebbe causato un bell’arresto cardiaco.
Non
sollevai gli occhi dal
pavimento. Sentii la sua mano fredda prendere con infinita delicatezza
la mia.
“Siamo
pronti?”, domandò.
“Pronti”,
risposero Rosalie e
Alice alle mie spalle.
Nell’entrare
in cucina, mi
ritrovai a sorridere. Tutto quel mistero mi stava mettendo una certa
curiosità
e allegria. Uscimmo di casa uno dopo l’altro, salutando
Carlisle e Esme che ci
guardavano con insolita apprensione. Il genere di preoccupazione che
assilla
normali genitori.
Seguii
Edward e gli altri fino al
garage, dove presero posto nella Volvo.
Considerai
lo spazio all’interno
dell’abitacolo e guardai dubbiosa Edward. Lui si
limitò a sorridere e ad
annuire, facendomi cenno di salire dopo Emmett. Quando il suo peso
giunse alle
sospensioni della macchina, questa sembrò schiacciarsi a
terra. Risi e,
pregando che non cedesse, salii in macchina.
Mi
ritrovai conficcata tra i
sedili, incastrata tra Emmett e Jasper, che sembrava intento a
diventare un
tutt’uno con il finestrino adiacente. Mi chiesi, ancora una
volta, cosa avesse
contro di me.
Alice
prese posto davanti ed
Edward al posto di guida. Quando fummo fuori dal garage, in mezzo alle
centinaia di alberi che ci circondavano, lasciai che i miei dubbi si
esprimessero.
“C’è
qualche anima buona che ha
intenzione di dirmi che diavolo state combinando?”.
Notai
Edward e Alice scambiarsi
uno sguardo complice.
“Ti
portiamo a socializzare”,
disse Emmett con un gran ghigno.
Non
capii cosa volesse dire quella
frase fino a quando non vidi che la macchina si era fermata in un
parcheggio
pieno di macchine.
In
alto, in un angolo
dell’edificio, un cartello.
ForksHigh School
Home of the
Spartans
Mi
precipitai fuori dall’abitacolo
per accertarmi di non aver avuto un’allucinazione.
Guardai
Edward, attonita.
“Benvenuta
alla Forks High
School”, mi informò.
“Scuola?”, esclamai balbettando.
“O
se preferisci istituto
studentesco”, il suo sorriso mi impedì di
rispondergli come avrei voluto.
Edward
mi prese delicatamente per
mano, mandando il mio cuore a mille, e mi spinse con dolcezza verso
l’ingresso
dell’edificio.
Era
un complesso davvero enorme,
composto da diversi edifici in mattoni rossi scuri posti saldamente uno
sopra
l’altro. Guardai tutte le persone in quel parcheggio, armate
di zaini e
quaderni, che ci fissavano in modo strano. Ero la nuova adesso.
“Edward,
aspetta”, lo trattenni
per un braccio.
“Che
c’è?”, domandò stupito.
I
suoi occhi mi fecero perdere il
filo del discorso.
“Ehm,
ecco…è che non ho lo zaino”,
ammisi timidamente.
Edward
ridacchiò.
“Rose
l’ha preso per te”.
“Ah”,
risposi brillantemente.
“Vieni
con me ora, dobbiamo
passare dalla segreteria per i moduli e l’orario”.
Lo
seguii in silenzio, incapace di
capire come fossi finita lì. La segreteria era riscaldata e
ben illuminata; mi
tolsi la giacca a vento. Le pareti della stanza erano di un particolare
color
mattone, che sembrava voler seguire i toni presenti
all’esterno. C’erano
diverse sedie pieghevoli che facevano pensare ad una sala
d’aspetto, e tre scrivanie
poste dietro un bancone che spezzava a metà la stanza, tutte
occupate da
diverse risme di fogli appoggiati uno sull’altro in un
bizzarro disordine ordinato.
Un pesante orologio a muro ticchettava rumorosamente, rompendo il
silenzio. Erano
presenti diversi vasi di piante, dalle più piccole alle
più grandi.
Dietro
una delle scrivanie
sembrava attenderci una minuscola donna dai capelli rossi.
L’etichetta
posta sulla sua
camicia verde scuro non lasciava scampo a incertezze.
Signorina Cope,
Segretaria
Forks High School
“Salve,
signorina Cope”, disse
Edward con voce suadente, “passate bene le
vacanze?”.
La
poveretta, per la quale provai
della compassione non indifferente nel vedere il modo in cui cercava di
farsi
notare, gli sorrise ampiamente.
“Bentornato,
signor Cullen. Sì,
molto bene, e lei?”.
Edward
sorrise e si sporse sul
bancone, fulminando la segretaria con tutta la potenza del suo sguardo.
Mi
sembrò di riuscire a sentire il suo cuore vacillare.
“Bene,
grazie. Tuttavia, sono qui –
oltre che per salutarla – per completare
l’iscrizione di un’amica”.
Mi
indicò, prendendomi per un
braccio ed accompagnandomi al bancone vicino a lui.
“Salve”,
la salutai.
“Buongiorno
signorina”, mi degnò
di un semplice sguardo cortese e distaccato prima di tornare a fissare
Edward.
“Dovrebbe
firmare dei moduli e
ritirare il suo orario”, le spiegò Edward affabile.
“Oh,
sì certo. Vado subito a
prendere i documenti, li ho messi insieme ai vostri”.
Mi
rivolse un sorriso gentile e a
Edward qualcosa che sembrava più un ghigno famelico.
“Torno
subito”, sorrise nuovamente
e sparì dietro il bancone.
Fissai
torva Edward per un minuto
buono, poi spezzai il silenzio con una domanda che urgeva risposta. Mi
avvicinai a lui.
“Come
avete fatto?”, bisbigliai lanciando
un’occhiata alle mie spalle per controllare che Ms. Cope non
fosse ancora
tornata.
Mi
guardò, forse ponderando una
risposta.
“Ricerche,
documenti…”, si strinse
nelle spalle.
“Seattle”,
intuii.
“E
per chi pensavi che fossero
quei documenti?”, sorrise truffatore.
“Ma…voglio
dire, come avete fatto
ad iscrivermi? Non avete indirizzo, documenti, niente di me. Nemmeno la
carta
d’identità. Come avete fatto?”.
Mi
guardò come se fossi giunta
alla domanda fondamentale troppo velocemente.
“Come
ho detto: ricerche”.
“E
avete trovato tutto?”.
“Non
sapendo dove cercare, no”.
“E
allora…?”.
“Un
amico ci ha fatto un favore e
ci ha procurato i documenti, senza dover toccare gli
originali”.
Lo
fissai stranita, perplessa. Poi
ci arrivai.
“Hai
falsificato dei documenti per
me?”, bisbigliai sotto voce.
“Benvenuta
alla Forks High School,
signorina Cooper”, ci interruppe la segretaria.
La
fissai basita. Era una vita che
qualcuno non mi chiamava per cognome.
“Grazie”,
le risposi sorridendo,
forse con un secondo di ritardo.
“Ecco
a te gli orari e, Edward?”,
reclamò la sua attenzione, “questi sono i tuoi e
quelli del signor…beh, di
Emmett. Ci sono stati dei cambi d’orario”.
“Nessun
problema”, le sorrise
cortese.
“Perfetto”,
aggiunse la signorina
Cope, che sembrava voler prolungare il più possibile quella
conversazione.
Firmai
i moduli velocemente.
“Noi
andremmo, iniziano le
lezioni. Torneremo a orario concluso per restituirle i moduli
firmati”, terminò
Edward.
“Buona
giornata”, disse
rassegnata, “e benvenuta”.
Benvenuta alla Forks High School, era
forse la quinta o sesta volta
che me lo ripetevano.
Nell’uscire
dalla segreteria,
diedi una gomitata a Edward.
“Che
fai?”, mi domandò
ridacchiando.
“Ti
approfitti della gente, e io
ti punisco”.
“Di
chi mi sarei approfittato?”.
“Della
povera signorina Cope, che
rischiava un infarto se le andavi un po’ più
vicino”.
“Tu
dici? Non mi è sembrato”.
“Dico,
so come si sente”.
Non
appena quelle parole
sfuggirono alle mie labbra, mi pentii di averle pronunciate.
Il
sorriso truffatore tornò a
colmare il suo viso.
“E
con questo cosa vorresti
dire?”, mi domandò con aria compiaciuta.
“Niente,
solo che non dovresti
approfittare del tuo aspetto per far colpo sulla gente”,
rimasi sulla
difensiva.
“Non
è mia intenzione”, rispose
ridendo.
“Bene”,
aggiunsi testarda.
Varcammo
la soglia dell’atrio
della scuola. Rose ed Emmett erano ancora lì ad aspettarci e
si scambiarono uno
sguardo complice quando ci videro arrivare vicini, ridendo e scherzando.
Non
me ne ero nemmeno resa conto.
Mi distanziai a malincuore.
Edward
mi guardò sorpreso, come se
anche lui si fosse accorto solamente allora della nostra vicinanza.
“Beh…ci
vediamo dopo, allora”,
disse Rosalie.
“Sì,
in mensa”, aggiunse Edward.
“Cerca
di non perderti almeno
qui”, si unì Emmett.
Risi,
consapevole della
possibilità della cosa.
“Ci
proverò. Se non mi vedete,
venite a cercarmi”.
Emmett
ridacchiò e si allontanò
prendendo per mano Rosalie. Edward mi fissò a lungo, il suo
sguardo perso nel
vuoto e nei pensieri, poi sembrò riprendersi.
“Ti
accompagno a lezione”, disse
con voce decisa.
Annuii
con un sorriso.
“Che
lezione hai adesso?”, mi
chiese.
Tirai
fuori il foglio con gli
orari, con le dimensioni di una cartina topografica, e la esaminai.
“Credo…credo
di avere spagnolo
alla prima”, dissi, quasi sicura della mia affermazione.
Edward
diede uno sguardo veloce al
foglio e annuì.
“Vieni,
da questa parte”.
Lo
seguii per l’edificio,
affrettandomi a volte per mantenere il suo passo.
“Edificio
7, Spagnolo. Buona
permanenza”, disse con un sorriso.
“Dovresti
fare la guida turistica,
hai una vocazione”, mormorai sarcastica.
Edward
ridacchiò.
“Ci
vediamo dopo”, sussurrò serio,
cambiando completamente il suo umore. “A mensa”.
“A
mensa”, ripetei.
Lo
guardai allontanarsi e sfilare
via mentre la campanella echeggiava come un rumore lontano smorzato dai
battiti
nelle mie tempie. Feci un respiro profondo ed entrai in aula.
Forza, mi dissi.
Notai
con sollievo che la
professoressa era già in aula, così che non sarei
stata costretta ad
intrattenere misere e stupide conversazioni con gli altri studenti. Mi
avvicinai a piccoli passi alla cattedra, esitante.
“Ehm…salve”,
esordii a bassa voce.
“Oh
buongiorno, tu devi essere la
nuova arrivata”, intuì la professoressa.
Era
una donna minuta, sulla
cinquantina, dall’aspetto amabile. I capelli, una volta di un
bel color mogano,
cominciavano a lasciar spazio a timide ciocche argentee, intrecciate in
una
coda di cavallo a mezz’altezza. Era leggermente strabica, ma
il suo sguardo,
ovunque guardasse, era straordinariamente gentile.
“Sì”,
ammisi annuendo.
“Bene,
dammi pure il modulo e
prendi posto dove preferisci”.
Le
sorrisi cordialmente, sorpresa.
Quella donna mi ispirava una strana simpatia. Le porsi gentilmente il
modulo,
che firmò con una sigla decisa e tondeggiante.
“Vai
pure a sederti vicino a Morrison”.
La
guardai interrogativa. Mi
indicò sorridendo uno dei posti liberi vicino a un ragazzo
che si aprì in un
sorriso quasi spiacevole.
“Oppure,
se preferisci, vicino a
Hunt”, si corresse notando la sua espressione.
Seguii
il suo dito con lo sguardo fino
ad imbattermi in una ragazza dal volto niveo e nascosto in parte dai
capelli.
“Grazie
mille”, mormorai con un
sorriso.
Mi
diressi vicino alla ragazza,
che non osava sollevare lo sguardo dal suo quaderno.
Le
rivolsi il migliore dei miei
sorrisi, nel tentativo di metterla a suo agio, ma ci riuscii ben poco.
Sembrò
scomparire sempre di più risucchiata da forze invisibili
sotto il banco. Sospirai
e tirai fuori il quaderno che Rose aveva messo nello zaino.
Presi
appunti quasi tutta la
lezione, cercando di non pensare agli sguardi curiosi che sentivo
perforarmi la
schiena continuamente. Non appena suonò la campanella, un
rumore di sedie
trascinate a terra riempì l’aria come una
tempesta. Rimasi seduta, nell’attesa
di far defluire il traffico che si era creato all’uscita.
Guardai
la ragazza di fianco a me.
E che diavolo, mi dissi, forza,
socializza.
Feci
un respiro profondo ed
espirai.
“Ciao”,
abbozzai.
La
ragazza tirò su la testa di
colpo, come se fosse sorpresa che qualcuno si stesse rivolgendo a lei.
“Ciao”,
mi rispose timidamente.
“Sono
El, piacere”, le porsi la
mano, ma la ritirai subito dopo.
“Io
Angelica”, sorprendendomi,
sorrise.
“Che
cos’hai adesso?”, domandai.
“Ginnastica”,
rispose avvilita,
“tu?”.
Presi
ad armeggiare con la
piantina, dispiegandola sul banco.
“Ginnastica”,
dissi con un sorriso
che conteneva soddisfazione e sconforto.
La
mia prima conoscenza aveva con
ogni probabilità il mio stesso orario, ma avevamo ginnastica.
“Dai,
andiamo”, mi invitò,
“altrimenti Copp ci ammazza”.
Sorrisi
nuovamente, sentendo la
mascella implorarmi di smetterla. La seguii, lasciandola andare avanti.
Angelica
era una ragazza dalla
semplicità e dalla bellezza, a mio parere, intimidatoria.
I
lunghi capelli color mogano le
ricadevano sulle spalle formando lievi boccoli dai riflessi
più chiari,
tendenti al rosso. Il suo volto, forse dalla pelle poco più
chiara della mia,
contrastava fortemente con il colore dei capelli, ma non stonava
minimamente. Gli
occhi, timidi ed espressivi, erano marroni come i miei, ma sembravano
contenere
più segreti e solitudine di chiunque avessi mai conosciuto.
Camminando al suo
fianco, mi accorsi di essere una spanna più alta di lei.
Almeno quello.
Fummo
costrette ad attraversare,
con mio grande disappunto, il prato bagnato per giungere alla palestra.
Mi
tuffai in spogliatoio e costatai che Rosalie aveva pensato proprio a
tutto. C’era
tutto, persino una spazzola. Sorrisi brevemente.
Ginnastica
a parte, dove la mia
nuova classe apprese velocemente che a pallavolo era consigliabile
tenermi
lontana - o da loro, o almeno dal pallone -, il tempo trascorse veloce
fino
alla pausa pranzo.
L’insegnante
di Matematica, il
professor Varner, era l’unico ad avermi creato problemi,
presentandomi alla
classe e obbligando tutti a salutarmi. Io, colorandomi di scarlatto,
ero andata
spedita fino in fondo alla classe per prendere posto, di fianco a un
ragazzo di
nome Thomas. La matematica lo interessava quanto me, quindi avevamo
passato la
lezione a bisbigliare sottovoce. Quando suonò la campanella,
era ora di pranzo.
Thomas mi accompagnò in mensa, dove incontrammo anche
Angelica, da sola.
Mi
chiesero se volessi mangiare
con loro, ma risposi che avevo già il posto
“prenotato” con degli amici. Quando
Thomas mi chiese chi fossero, risposi con un sorriso compiaciuto.
Quello che mi
stupì fu la sua reazione.
“Davvero?
Sei amica dei Cullen?”.
“Sì,
perché?”.
“No,
così. È strano, loro non
hanno amici. Sono sempre e solo loro cinque”.
“Ah”,
fu la cosa più eloquente che
riuscii a dire.
Li
ringraziai dell’invito,
invitandoli a mia volta a mangiare con noi, ma declinarono entrambi
rapidamente.
Dopo che ebbi comprato qualcosa - qualunque cosa fosse - da mangiare,
mi
guardai in giro. Alice si sbracciava da un tavolo, in un angolo della
sala. Sorrisi
scuotendo la testa e li raggiunsi.
“Ciao”,
li salutai.
“Vieni,
siediti”, disse Rose.
Mi
fece sedere nell’unico posto
libero intorno al piccolo tavolo rotondo. Quello vicino a Edward.
“Ciao”,
gli dissi.
“Ciao”,
sorrise gentilmente. “Com’è
andata? Sopravvissuta alle tue prime tre ore scolastiche?”,
aggiunse dopo una
breve pausa.
“Sono
qui, quindi sì. Anche se a
Ginnastica è stata un’impresa”.
“Che
orario hai?”.
“Ehm…Spagnolo,
Ginnastica e
Matematica per ora. Poi non so”.
Tirai
fuori quella sorta di
cartina topografica con annotati i miei orari.
“Okay,
dopo ho Inglese e
Biologia”.
Annuì
pensieroso, mentre
giochicchiava con le posate e il suo pranzo intonso.
“Non
dovresti stare qui”, mormorò
poco dopo.
“Cosa?”,
domandai sorpresa,
strabuzzando gli occhi.
“Dovresti
restare con i tuoi amici,
non con noi”.
“Gli
ho chiesto se volevano venire
qua, ma non hanno voluto”.
“Gli
umani riescono a capire qual
è la cosa giusta da fare senza volerlo”, disse.
“Generalmente”, aggiunse subito
dopo con un sorriso.
Gli
mostrai la lingua in una
smorfia.
“Edward
ha ragione, El. Devi farti
degli amici, oltre a noi”, la voce di Rosalie mi distrasse.
“Ti
abbiamo iscritta a scuola
anche per questo”, concluse Alice sorridendo.
“Oh”, mormorai, “Ehm
okay”.
Feci
per alzarmi, ma Edward mi
afferrò per un braccio.
“Da
domani”, sorrise,
riaccompagnandomi sulla sedia al suo fianco.
Mangiai
in silenzio, assistendo ai
brevi battibecchi tra Emmett e Rosalie e osservando Jasper e Alice
fissarsi a
lungo negli occhi, senza una parola, ma trasmettendone più
di mille. La loro
intensità mi sconcertava. Fui più volte costretta
a distogliere lo sguardo.
Quando
mi voltavo verso Edward, lo
trovavo sempre lì, a guardarmi. Non lo capivo, ma quello
sguardo mi faceva
sentire speciale.
Quando
il ronzio insistente della
campanella spezzò il silenzio, ci alzammo lentamente. I loro
vassoi, ancora
pieni, furono gettati via.
“Ti
accompagno?”.
Mi
voltai.
“Ehm
sì, certo”, risposi.
Edward
sembrava stranamente
incerto su come comportarsi. Sembrava umano. Si fermò
all’uscita della mensa,
ondeggiando sui talloni.
“Ehi,
El!”, la voce di Thomas
parve riportarmi brutalmente alla realtà.
“Oh,
ciao Thomas”, dissi sorpresa,
“non hai lezione ora?”.
“Sì,
certo. Inglese”, ammise
soddisfatto. “Insieme”, sillabò
lentamente come per testare le mie capacità
mentali.
“Ah,
sì! Non avevo realizzato,
scusa”.
“Nulla,
andiamo?”, si affrettò a
dire.
A
quel punto parve accorgersi di
quella splendida statua incisa nel marmo alle mie spalle, che lo
fissava cupo. Il
suo umore si affievolì all’istante.
“Oh,
ti accompagna lui. Non
importa, ci vediamo in classe allora”, e fece per andarsene.
Quando
ormai stavo per sospirare
di sollievo, Edward parlò.
“Ehi,
Duke aspetta!”, lo chiamò
gentilmente, “Fai tu, io sono già in
ritardo”.
Mi
voltai verso di lui,
incenerendolo con lo sguardo. A che gioco stava giocando?
Se
non fossi stata sicura di
procurarmi solamente dei lividi, gli avrei rifilato una bella gomitata.
“Grazie
Cullen”.
Thomas
si aprì in un sorriso
dall’ampiezza invidiabile. Edward annuì e mi
sorrise.
Un
sorriso strano, diverso.
Tramava qualcosa, ci avrei giurato.
“Noi
ci vediamo dopo”, si rivolse
a me, evitando di proposito Thomas.
Si
avvicinò a me fino a sfiorarmi
la guancia con le labbra e sparì dietro l’angolo.
Rimasi
alcuni istanti - che a me
parvero minuti, se non ore - ferma, immobile a fissare il corridoio
dietro il
quale era scomparso. Mi sembrò di sentire la sua risata
compiaciuta provenire
da lontano.
“El,
ora siamo davvero in
ritardo”, mi informò Thomas, “dobbiamo
andare”.
Il
suo umore sembrava essersi
incupito, ma Tom continuava a sfoggiare il suo sorriso imperturbabile.
“Sì,
andiamo”, farfugliai.
Se
non ci fosse stato Thomas,
sicuramente mi sarei persa. Avrei potuto finire in Egitto, e non me ne
sarei
accorta minimamente. Era la seconda volta che mi baciava la guancia a
quel
modo. Sembrava non ci pensasse, non vi badasse. Io, al contrario, gli
davo fin
troppa importanza. Questa volta mi ero risparmiata dal cercare di
calmare il
mio cuore impazzito. Ormai era la norma. Si sarebbe abituato anche lui.
Quando
entrammo in classe, dopo
aver fluttuato per i corridoi in fretta e furia, il prof. aveva
già cominciato
la lezione.
Bel modo di iniziare, pensai sarcastica.
Cercai
di recuperare la mia
entrata trionfale presentandomi con il migliore dei miei sorrisi al
professore.
Era un uomo che da molto tempo aveva abbandonato la
mezz’età e i capelli, solo
alcuni ciuffi si ostinavano a fargli compagnia su quella testa dalle
sembianze
di un gigantesco uovo.
“Buongiorno,
scusi molto il
ritardo, non trovavo la classe e il mio amico mi ha aiutato. Questa
scuola è un
labirinto”, abbozzai come scusa.
Poteva
reggere, forse.
Il
prof si limitò a guardarmi in
silenzio e, dopo poco, annuì.
“Duke,
signorina, avete bussato
quando siete entrati?”, la sua voce non dava a intendere
alcun indizio sulla
risposta da dare.
“Cooper”,
gli suggerii.
“Come
sia, avete bussato?”, la sua
voce rimaneva distaccata, calma.
“No,
scusi professore, eravamo di
fretta”, intervenne prontamente Thomas.
“Allora
per favore accomodatevi
fuori e ripetete questo breve principio di educazione che avete
dimenticato”,
ci intimò senza alterare il suo tono.
Prima
di uscire, il viso nascosto
timidamente tra i capelli, gli porsi il modulo da firmare.
“Scusi
ancora”, mormorai avvilita.
Bell’inizio, non c’è
che dire, dissi a me stessa.
Quando
finalmente riuscii a
rientrare in classe, dopo aver bussato elegantemente alla porta, mi
abbandonai
sulla sedia, esausta.
Se
il primo giorno mi distruggeva
a quel modo, non osavo immaginare i seguenti.
Il
professor Watt continuò a
lanciarmi occhiate tutta l’ora, senza però
interpellarmi in alcun modo. La
lezione di Inglese, bene o male, trascorse velocemente. Durante
l’ora di
Biologia, con il professor Varner, assistemmo alla proiezione di un
video sugli
stadi della divisione cellulare. Quell’argomento
l’avevo già fatto a scuola -
nella mia vecchia scuola - a Miami, e lasciai semplicemente sfilare
davanti a
me il susseguirsi di immagini, senza che avessero alcun senso. Al suono
della
campanella io e Angelica, ancora una volta la mia compagna di banco,
scattammo
in piedi e ci catapultammo fuori dalla classe. Il mio primo giorno di
scuola
era ufficialmente finito.
Il
sollievo che provai e mi
disegnò un sorriso raggiate sul viso, fu rimpiazzato
all’istante dallo stupore
quando, nella foga di uscire dalla classe, andai a sbattere contro
Edward.
Era
venuto a prendermi. Ancora una
volta, sollievo.
Lo
guardai incuriosita, mentre ci
allontanavamo dal traffico verso le uscite.
Ora di punta, pensai.
Edward
si strinse nelle spalle.
“Pensavo
ti servisse una mano per
trovare l’uscita”.
“Credo
che ci sarei riuscita lo
stesso”, replicai.
“Tu
credi”, insistette
ridacchiando.
Un
lieve colpo di tosse.
“Ehm,
El? Io vado, ci vediamo
domani a Spagnolo”.
Era
Angelica. Mi ero completamente
scordata che fosse lì, come il resto del mondo.
“No,
cioè okay. Però aspetta”, le
feci cenno di avvicinarsi.
Angelica
fece qualche piccolo
passo, celando il viso e lo sguardo tra i lunghi capelli color mogano.
Se
fossi riuscita a convincere la
mia amica che i Cullen non erano da evitare, forse non avrei dovuto
rinunciare
a nessuno dei due. Angelica prese più colore di quanto ne
avessi mai visto sul
suo volto in un attimo, non appena incontrò gli occhi sereni
di Edward.
Lui
mi guardò, lanciandomi
un’occhiata e strinse delicatamente la mano della mia amica.
Sorrisi
compiaciuta.
“A
domani El, ti aspetto
all’entrata”, mormorò,
“Edward”.
E
in pochi secondi sparì tra la
massa di persone sparse nel corridoio che si affrettavano verso
l’uscita.
“Dai,
andiamo anche noi.
Altrimenti Emmett farà storie”, disse Edward con
un sorriso.
Ci
incamminammo verso il
parcheggio, senza lasciare tuttavia che la fretta ci preoccupasse.
Il
tempo, con Edward, sembrava
scorrere di sua volontà, facendosi beffa delle lancette.
Passava sempre troppo
velocemente.
Sbucammo
troppo presto nel
parcheggio, dove Rosalie e gli altri ci aspettavano accanto alla Volvo.
“Si
era persa?”, chiese Emmett
sghignazzando.
“No”,
rispose con un sorriso,
“anche se probabilmente ci era vicina”.
Lo
fulminai con lo sguardo.
Prendemmo
posto in macchina,
stringendoci forse più del dovuto. Ora potevo capire come si
sentivano le
sardine ad essere inscatolate. Tuttavia, mi impuntai e questa volta mi
sedetti
vicino al finestrino. Inoltre, Jasper non sembrava risentire della mia
lontananza.
Il
tragitto verso casa fu
silenzioso, eccezion fatta per qualche scambio di battute da parte di
Alice e
Emmett. Nel silenzio che mi avvolgeva, mi limitai ad osservare le
immagini che
sfrecciavano all’esterno del finestrino, sfocate e confuse a
causa
dell’eccessiva velocità.
Quando
ci fermammo ad un semaforo,
riuscii a delineare i confini del paesaggio che ci circondava. Sembrava
uno di
quei piccoli paesi delle fiabe, lontano dal mondo e da tutto il resto.
In
effetti, non era una descrizione tanto sbagliata. Le strade erano
piccole e
strette, l’asfaltatura ormai quasi non visibile ed erano
l’unico segnale di
civiltà in quel minuscolo universo circondato di verde. La
foresta, che
circondava tutta Forks, faceva da padrona. Le case, che io immaginavo
costituite di complessi come lo erano a Miami, erano invece solamente
delle
villette isolate incastonate nel verde.
Magico, pensai.
L’auto
ripartì e tutto si sfocò,
perdendone i contorni. Come il risveglio da un sogno.
Non
appena varcammo la soglia di
casa, Esme corse ad abbracciarmi.
“El,
tesoro! Come è andata oggi?”,
il suo tocco era gelido, al contrario del suo gesto, che avrebbe
scaldato
chiunque.
Ricambiai
l’abbraccio, respirando
profondamente quel profumo che li caratterizzava.
“Tutto
bene”, sorrisi.
“Dopo
ci racconterai”.
“Certo”.
“Ora
vai pure di sopra se
preferisci”.
Salii
due gradini alla volta, per
poi precipitarmi in camera di Rose e togliermi finalmente quella maglia
che
sembrava avesse deciso di farmi da seconda pelle.
“Si
può?”, Rosalie bussò alla
porta.
“Ehm
sì, sì. Certo”.
“Vuoi
un’altra maglia?”, mi offrì
gentilmente, vedendomi armeggiare con la mia solita felpa.
“Rose,
sai che mi scoccia usare
sempre i tuoi vestiti”.
“Non
essere stupida, El. Sai che
puoi usarli quando e come vuoi, tanto sarebbero comunque da dar via.
Alice non
ce li fa tenere”.
La
guardai, scuotendo la testa.
“Quella
lì”, indicai alla fine,
sorridendo imbarazzata.
Rosalie
scoppiò a ridere e mi
porse la maglia che preferivo in assoluto tra tutti i suoi abiti.
Una
maglia rossa, a maniche
lunghe, di seta con una piccola scollatura a V che scendeva dolcemente
dal
collo. La stoffa era morbida e l’accarezzai più
volte prima di infilarla.
“Ti
sta benissimo”, mormorò
Rosalie.
“Grazie,
è la mia preferita”.
“Ne
parli come se fosse tua”, ridacchiò
Rose divertita.
Le
mostrai la lingua nella
migliore delle mie smorfie.
“Dai,
vieni che ti tolgo tutto
quel trucco che hai in faccia. Si è sciolto ormai”.
Mi
trascinò in bagno, dove mi
struccò completamente e mi truccò di nuovo.
Tuttavia, il trucco questa volta
era molto meno evidente. Più naturale. Lo preferivo di gran
lunga.
“Ora
scendiamo, devi mangiare”,
disse Rosalie una volta che ebbe finito.
Ok, ora scappo! Spero vi
sia piaciuto. Un grazie alle solite, non posso citarvi sempre o divento
noiosa(più di quanto sia già). Buona giornata e
buon weekend! Alla prossima :)
Buonasera! Ho deciso di
postare con qualche ora d'anticipo perchè domani rischierei
di non avere tempo. A proposito, domani è il compleanno di
KStew! Quant'è bbbella lei. Comunque! Passiamo a
noi xD Questo capitolo mi sta uccidendo i nervi, sono un po' nervosa
sull'ultima parte sinceramente. Spero vi piaccia e, nel caso, non
fatevi problemi a dirmi che fa schifo! Detto questo, vi lascio leggere.
Buona lettura! :)
Capitolo 15. Sorpresa.
Una
volta a tavola, Esme mi
obbligò a raccontarle per filo e per segno ogni singolo
istante della giornata
appena trascorsa; le lezioni, le mie impressioni, le mie nuove e
ridotte amicizie.
Durante il pranzo, avevo trovato più di una volta lo sguardo
di Edward fisso su
di me, un’espressione concentrata sul suo viso –
come se stesse cercando di
decifrarmi. Quando poi incrociavo il suo sguardo, si limitava ad
offrirmi un
lieve sorriso, quasi a ridere di una battuta personale, per poi volgere
gli
occhi altrove. Era… strano.
Nonostante
fosse il mio primo
giorno di scuola, purtroppo, i compiti non mi avevano di certo
risparmiato.
Rose
mi aiutò con matematica e
così impiegai meno tempo del previsto, anche se ci
impiegammo quasi tutto il
pomeriggio. Quando scesi in salotto per la cena, mi accorsi che la
pioggia
bussava con insistenza ai vetri, come se volesse mettersi al riparo da
se
stessa. Non avevo granché fame, così mi limitai a
gironzolare senza meta per la
cucina con una mela in mano.
“Dovresti
mangiare”, la voce di
Edward mi fece cadere la mela dalle mani.
“Sto
mangiando”, replicai,
chinandomi a raccoglierla.
Quando
abbassai lo sguardo, era
già lì, accovacciato per restituirmi la mela.
Il
suo sguardo mi distrasse un
secondo.
“Sai
cosa intendo”, si rialzò
velocemente.
Sbuffai.
“Sì,
mamma”, lo presi in giro
alzando gli occhi al cielo.
“Molto
divertente”, disse sorridendo.
“Ora mangia”.
Sbuffai
di nuovo, rassegnata. Ero
certa che non mi avrebbe fatto uscire dalla cucina senza che avessi
mandato giù
qualcosa di consistente.
“Cosa
dovrei mangiare quindi?”, lo
sfidai.
Lo
vidi sorridere prima che si
voltasse e prendere a cercare qualcosa nel freezer. Ne estrasse
qualcosa dalla
forma squadrata, smussata leggermente ai lati, che non riconobbi.
Me
lo porse con il suo solito
sorriso truffatore. Lo ricambiai, anche se ancora ignoravo cosa fosse
quella
scatola fredda. Abbassai così lo sguardo, posandolo
finalmente sull’oggetto che
stava tra le mie mani.
Non
appena mi resi conto di cosa
fosse, sgranai gli occhi in stupore.
“Mi
hai comprato del gelato?”,
pressoché urlai.
Sentii
gli occhi inumidirsi. La sua
espressione sfumò in meno di un secondo, colorandosi di
apprensione.
“Stai
piangendo? Non ti piace? C’è
qualcosa che non…”, cominciò a chiedere
preoccupato.
Lo
fermai con un gesto della mano.
“E’…grazie”, mormorai.
Ero
senza parole. In realtà, non
era niente di che, niente che avrebbe dovuto farmi sentire in quel
modo, eppure
era un gesto così… non avrei saputo descriverlo.
Il sorriso di Edward si tese.
“Vieni,
andiamo a mangiarlo sul
divano”, mi propose posandomi una mano sulla mia schiena e
sospingendomi verso
il salotto.
Rabbrividii,
e non solo per il
freddo.
“Andiamo?”,
chiesi alzando un
sopracciglio nella sua direzione.
“Tu
mangi, io ti controllo”,
sfoderò un mezzo sorriso quasi accecante.
Annuii
con un gran sorriso, per
poi dirigermi verso il divano, dove mi sedetti incrociando le gambe.
“Grazie”,
dissi sincera.
Era…
quant’era che non mangiavo un
gelato? Sembrava lontano una vita.
Edward
mi raggiunse con un
cucchiaio, che mi porse gentilmente. Sorrisi di nuovo ed aprii quel
miracolo
che tenevo tra le mani.
Mangiai
in silenzio, assaporandone
ogni singolo boccone. Quando ebbi finito, avanzandone un po’
e programmando
mentalmente quando avrei potuto finire la parte restante, mi accoccolai
sul
divano.
Rimasi
sorpresa quando Edward mi
offrì la spalla per appoggiarmi a lui.
Sgranai
gli occhi, ma non dissi
nulla. Non avrei fatto nulla per interrompere quel momento.
Certo,
io non avrei fatto nulla, ma qualcun
altro ci pensò al posto mio.
“El,
spostati”, mi intimò Emmett
con estremagentilezza varcando la
soglia. “C’è la partita”.
Mi
voltai verso di lui, assonnata.
Il
suo sguardo non lasciava spazio
a repliche. Sbuffai e scivolai giù dal divano.
“Emm”,
lo ammonì Edward.
“No,
non fa niente”, lo
interruppi. “Chi gioca?”.
“White
Sox – Tigers”.
“Oh,
baseball”, mormorai facendo
spallucce.
Edward
mi guardò sorpreso, così
come Emmett.
Vidi
il piano nel suo angolo del
salotto ed escogitai velocemente la mia vendetta. Mi alzai velocemente
e lo
raggiunsi, sedendomi con un sorriso.
“Ti
dà molto fastidio se suono,
Emm?”, chiesi raggiante.
“Sì”,
replicò infastidito.
“Bene”,
sorrisi e portai le mani
alla tastiera.
“El!”, esclamò Emmett
esasperato. “Lo fai apposta!”.
Scoppiai
a ridere.
“Complimenti
Sherlock, avevi
qualche dubbio?”.
Edward
si unì alla mia risata,
accostandosi a me sulla panca.
Suonammo
nuovamente insieme,
scambiandoci di quando in quando sguardi e sorrisi complici.
Era
divertente, ma più di tutto
era magico, speciale. Era come se una bolla ci avvolgesse, isolandoci
dal resto
del mondo. Quando la partita si concluse, Emmett si alzò con
un sorriso che
progettava vendetta. Ci avrei scommesso.
Mi
riappropriai del mio posto, con
Edward nuovamente al mio fianco.
“Adesso
te la farà pagare”,
mormorò dopo una lunga pausa.
“Lo
so”, sorrisi.
“Ma
ne valeva la pena”, ridacchiò.
“Già”,
sussurrai, appoggiando di
nuovo la testa sulla sua spalla.
Mi
rannicchiai su un lato e chiusi
gli occhi, respirando profondamente.
Edward
non si mosse minimamente,
riuscivo solo a percepire il suo respiro regolare che spezzava il
silenzio. Così,
con gli occhi chiusi e il buio tutt’intorno, mi
tornò in mente la prima volta
che avevo sentito quel respiro. Sorrisi a quel breve ricordo.
“Dormi?”,
mi chiese sussurrando al
mio orecchio.
Mi
provocò un brivido e sorrisi di
nuovo.
“Quasi”,
risposi a bassa voce.
“Allora
forse è meglio che tu vada
a dormire”, mormorò.
Sospirai
e dischiusi gli occhi.
“Buonanotte”,
dissi una volta che
fui in piedi.
Mi
regalò il suo sorriso
truffatore, che mi accelerò il cuore.
“Buonanotte”,
mi augurò a sua
volta.
In
silenzio, mi allontanai verso
le scale, dove sembrava aspettarmi Rosalie.
Era già
tardi, ormai la mezzanotte passata da qualche
minuto, quando mi accompagnò in camera sua per dormire.
Senza sorprendermi più
di tanto, trovai Emmett sulla porta della camera, le braccia incrociate
sul
petto, i pugni stretti e lo sguardo degno di un bambino dispettoso.
Mi
fermai, sbuffando. Ero
stravolta, il primo giorno di scuola mi aveva stancata più
del dovuto.
Ci mancava solo questa, pensai con
sarcasmo.
Sfidai
Emmett con lo sguardo, in
silenzio, mentre Rosalie alternava strane occhiate tra noi due.
Emmett
scosse la testa, con un
sorriso compiaciuto sulle labbra. Era impossibile quanto fosse
infantile e
vendicativo.
“Ti
ho trovata, ho vinto io”,
disse soddisfatto. “Quindi qui dentro stasera ci sto
io”.
“Mi
hai trovata solo perché te
l’ho permesso io”,
ribadii.
“Altrimenti a quest’ora saresti a lavare i piatti
giù in cucina con un bel
grembiule”.
“Sarà
quel che sarà, ho vinto
comunque”, insistette il gigante davanti alla porta.
“Emmett!”,
esclamai esasperata.
“Spostati, ho sonno!”.
“Non
è un mio problema”, mormorò
con aria di sfida, facendomi una boccaccia.
Rose
intervenne in quel duello che
sembrava appartenere ai tempi dell’asilo.
“Voi
due, piantatela”, disse. “La
stanza è anche mia, Emm, e decido anch’io.
Scommessa o no”.
Lo
sguardo ed il tono di voce che
usò bastò a far sparire quel sorriso compiaciuto
dal volto di Emmett. Sorrisi
soddisfatta e gli mostrai la lingua, facendo una smorfia. Mi sentii
più che mai
infantile, ma anche pienamente soddisfatta della mia inaspettata
vittoria.
“Dai,
Rose! Non fare la
guastafeste!”, esclamò Emmett, con un grugnito.
Passò
alle suppliche, con mio
grande stupore.
“Per
favore Rose, dai”, mormorò
con una dolcezza che mi sorprese.
Mi
accorsi di un breve scambio
d’occhiate tra i due ed improvvisamente mi resi conto di non
avere più una
stanza dove dormire.
Bene, perfetto, pensai.
“El,
magari puoi chiedere ad Alice
se ti presta la sua stanza”, mi disse Rosalie con voce
distratta, ancora
intenta in quella conversazione silenziosa con il suo ragazzo.
Grugnii
qualcosa di incoerente,
mentre Rose mi rivolgeva uno sguardo strano, nuovo, che non riuscii a
cogliere.
“E
va bene!”, esclamai lanciando
le braccia in aria. “Ma questa me la segno, Emm”,
lo minacciai riducendo gli
occhi a due fessure e puntandogli un dito contro.
“Oh,
sto tremando”.
Con
un ultimo ruggito esasperato
mi allontanai da quel bambino troppo cresciuto.
Sentii
dei passi affrettati alle
mie spalle e mi resi conto che Rosalie mi stava seguendo.
“Che
vuoi, Rose?”, sbottai ancora
irritata dal suo tradimento.
“El,
perdonami”, mi disse mentre
mi raggiungeva con disinvoltura.
“Certo,
certo”, tagliai corto con
stizza.
Mi
voltai e ripresi a camminare
per il salotto, in cerca di Alice.
“No,
aspetta”.
Mi
afferrò per un braccio.
“Alice
è già in camera sua…con
Jasper”, mormorò con uno strano sorriso.
“Non so quanto ti convenga”.
La
sua espressione fu abbastanza
eloquente. Rabbrividii un attimo e scossi la testa.
“Okay,
allora dormo in salotto”.
Forse
c’era la speranza che Edward
fosse ancora lì, seduto ad aspettarmi.
Chissà
se lui aveva già capito
quel che voleva fare Emmett. Feci spallucce, mentre una strana furia
omicida mi
montava dentro. Emmett mi avrebbe sentita, e presto.
“Andiamo
a cercare un letto in
garage, credo che lì ci siano ancora delle vecchie cose di
Edward, tra cui un
letto”.
Rassegnata
e allo stesso tempo
incuriosita, annuii a testa bassa.
Percorremmo
velocemente il lungo
corridoio bianco, senza badare agli innumerevoli quadri che ne
decoravano le
pareti, e giungemmo all’ingresso, dove ci attendeva
l’uscita.
Cercai
rapidamente la figura di
Edward in salotto, ma non la trovai. Mi chiesi dove fosse sparito
stavolta. Rose
mi aprì la porta e lasciò che passassi prima di
lei, forse sperando di
addolcirmi un minimo. La superai velocemente e mi diressi al garage
senza
alcuna esitazione.
Ovviamente
pioveva ancora. Senza
mostrarmi minimamente intimidita dalla pioggia che scendeva veloce,
pungente
come spilli e pesante come monete, mi tirai su il cappuccio della
giacca a vento
che avevo con me e mi incamminai rapidamente. Quando giunsi in
prossimità della
casetta che dava sulla radura davanti a casa Cullen, mi accorsi che
alcune luci
che non avevo mai notato erano accese. Conferivano a quel piccolo
edificio un
aspetto molto più accogliente, familiare.
Varcammo
la soglia e mi fermai. C’era
uno strano tepore, come se ci fosse il riscaldamento acceso.
Tuttavia
dubitavo che le macchine
percepissero il freddo.
Rosalie
mi guardò, una strana
smania nei suoi occhi.
“Prova
a vedere in quegli
scatoloni lì nell’angolo, io vado a vedere di
sopra”, disse entusiasta, come se
non vedesse l’ora di frugare in mezzo alla polvere.
“Se hai bisogno, chiamami”.
Annuii,
perplessa.
La
vidi sparire per le scale del
garage, che portavano, supponevo, al piano di sopra.
Mi
avventurai nella penombra azzurrata
che avvolgeva quella stanza. La carrozzeria delle macchine riluceva
anche nel
buio. C’erano mensole, scaffali, ma nessuna traccia degli
scatoloni che aveva
detto Rosalie.
“Rose?”,
la chiamai.
“Sì?”,
la sua voce suonò divertita.
“Quali
scatoloni?”.
Con
un lieve click la stanza si
illuminò.
Rosalie,
accanto alla scala e le
dita sull’interruttore, mi osservava con il sorriso sulle
labbra.
“Oh,
si vede che Carlisle li ha
spostati”, disse. “Prova a vedere se negli armadi
trovi qualcosa”.
Annuii
di nuovo, senza capire cosa
esprimesse il suo sguardo.
“Io
torno di sopra”.
“Okay”,
mormorai a nessuno in
particolare.
Cominciai
a rovistare qui e là,
senza trovare assolutamente niente di quello che cercavo.
“Ehi,
El!”, mi chiamò Rose
all’improvviso. “Ho trovato qualcosa!”,
esclamò.
“Arrivo!”,
dissi abbandonando gli
scatoloni e scattando in piedi.
Corsi
di sopra, salendo due
gradini alla volta. Quando raggiunsi la cima delle scale, trovai tutto
al buio.
Cercai tentoni l’interruttore, ma non lo trovai. Sospirando,
mi avventurai nella
stanza.
“Rose?”,
chiamai esitante.
Nessuno
mi rispose.
“Rose,
dove sei?”, ripetei.
Sentii
una risatina dietro di me e
mi voltai di colpo. La luce riempì la stanza ed io rimasi
senza fiato.
Una
stanza di dimensioni
sorprendenti pareva stendersi ai miei piedi.
I
toni alle pareti erano chiari, che
oscillavano dal giallo all’arancione, donandole un aspetto
semplice e
familiare. La luce principale era data da una lampada alogena in un
angolo, ma
erano presenti piccole abat-jour che rischiaravano debolmente
l’atmosfera,
conferendo all’insieme un aspetto magico. Un letto bianco,
circolare,
circondato da una grande testiera in legno scuro, spiccava in fondo
alla
stanza. Contro la parete, in fondo, torreggiava un immenso armadio
scuro, dalle
cui ante faceva capolino uno specchio intero. Sulle pareti, alcuni
quadri di
piccole dimensioni, colorati e vivaci. Una grande porta finestra dava
sull’ampia radura di fronte all’edificio e lasciava
penetrare qualche raggio di
luna, che riusciva a filtrare dalla spessa coltre di nubi scure.
Era
splendida.
“Buon
compleanno”, la voce di
Edward mi avvolse, lasciandomi ancora una volta senza fiato.
Mi
voltai verso la sua voce, gli
occhi sbarrati in stupore.
“Cosa,
scusa?”, farfugliai.
“La
mezzanotte è passata da un
pezzo, quindi buon compleanno”.
“Che…che
giorno è?”
Edward
sorrise, divertito dalla
mia espressione sbigottita.
“E’
il venti da ormai…”, controllò
teatralmente l’orologio al suo polso, “esattamente
trentadue minuti”.
“Di
Marzo?”, non riuscivo a
capacitarmi di quello che stava accadendo.
“Sì,
di Marzo”, mi guardò come per
verificare se fossi pazza.
Non
me ne ero resa conto. Mi ero
totalmente dimenticata. Assurdo.
Mi
passai una mano tra i capelli,
spostandoli come al solito da un lato.
“Dov’è
Rose?”.
“Ti
ha confezionato il regalo ed è
scappata via”, disse sorridendo.
“Regalo?”,
ripetei.
Edward
non mi rispose, si limitò a
volgere lo sguardo verso la stanza che ci comprendeva.
Sentii
la mia bocca spalancarsi,
seguita subito dopo dagli occhi per lo stupore.
“Mi...”,
mi fermai.
Rimasi
in silenzio a lungo, lo
sguardo perso nel vuoto. Ci riprovai.
“Mi
avete regalato un appartamento…
per il mio compleanno?”,
chiesi balbettando.
Stentavo
a crederci. Era difficile
solo pronunciarlo.
Edward
sorrise e si strinse nelle
spalle, come se non fosse importante. Poi annuì.
“Direi
che si può dire così, sì”,
rispose Edward dietro di me.
“Abbiamo
pensato che non fosse il
caso di lasciarti litigare con Emmett ogni sera per dormire”.
Ripensai
immediatamente allo
sguardo d’intesa che si erano scambiati Rose e Emm.
Emmett… sorrisi.
“Non
ci credo”, riuscii a dire
dopo qualche minuto di silenzio.
Edward
mi raggiunse
silenziosamente, ponendosi al mio fianco.
“Ti
sta bene questa maglia”,
commentò dopo qualche istante. “Questo colore ti
dona molto”.
Imbarazzata,
abbassai lo sguardo.
“Grazie”,
mormorai. “E’ di Rose”.
“Già,
ma non è lei che mi piace
con questa maglia”, replicò con un mezzo sorriso.
Sentii
il cuore distrarsi e
perdere qualche battito, per poi ripartire più forte che mai.
Seguì
un lungo silenzio, che
nessuno dei due osò rompere. Dopo qualche istante, fu Edward
a parlare.
“Vieni,
dai un’occhiata qui in
giro”, mi offrì con un gran sorriso.
“Qualcuno mi ha detto che ho una vera
vocazione per fare la guida turistica, è giusto che la metta
in pratica”.
Sorrisi
a mia volta alle sue
parole, ma non dissi nulla. Poi, senza una sola parola, presi la sua
mano tesa
verso di me e m’incamminai. Mi guidò per
l’appartamento, indicandomi le stanze
e gli oggetti, i mobili e tutto il resto. Il bagno, la cucina, la
stanza degli
ospiti, il piccolo balcone sul retro che dava sulla foresta…
Mi
sorpresi di quanto fosse
grande. Non l’avevo immaginato così. Per ultima,
lasciammo la camera da letto. Ci
fermammo sulla soglia.
“Benvenuta
a casa, signorina
Cooper”, disse sorridendo.
Ricambiai
il sorriso e mi voltai
verso la stanza che, tuttavia, era la prima che avevo visto. Mi fermai
al
centro della camera, girando su me stessa per osservarla al meglio.
Il
parquet ai miei piedi era
parzialmente celato da un grande tappeto chiaro dall’aspetto
morbido. Mi chinai
ad accarezzarlo, affascinata.
Edward,
ancora sulla porta, mi
osservava apparentemente rapito. Incorniciato dalla cornice della
porta,
sembrava più irreale che mai, come dipinto sullo sfondo di
quel paesaggio
fiabesco. Sorrisi imbarazzata quando mi sorprese ad osservarlo.
Nascosi
rapidamente il viso tra i
capelli, piantando lo sguardo a terra e sentendomi arrossire.
Zzz!
Un
suono familiare ed oltremodo
irritante mi sfiorò l’orecchio. Voltai la testa di
scatto, cercandone con lo
sguardo la fonte. Seguii con lo sguardo quel piccolo mostro
svolazzante.
Avrebbe avuto vita breve. Mi alzai, senza perderlo l’occhio.
“Che
fai?”, mi domandò Edward alle
mie spalle con aria divertita.
La
sua voce mi distolse momentaneamente
dalla mia momentanea furia omicida.
“Mi
preparo a commettere un
omicidio”, risposi concentrata, facendo girare la testa qui e
là per la stanza.
Non
persi di vista nemmeno un
secondo quel mostriciattolo succhiasangue che minacciava di regalarmi
una notte
insonne.
“Ci
sono testimoni?”, scherzò
Edward.
“Solo
tu”, mormorai sottovoce.
“Non lo racconterai in giro, vero?”.
“Oh,
no”, rise. “Muto come una
tomba”.
Seguì
un momento di perfetto
silenzio.
La
zanzara si era finalmente
appoggiata sulla sua ultima superficie, dopo ripetuti saltelli qua e
là. Mi
appiattii al muro e scivolai lungo la parete, così da
avvicinarmi
silenziosamente.
“Che
stai tentando di fare?”,
chiese Edward chiaramente divertito.
“Ora
lo vedi”, tagliai corto,
concentrata.
Mi
spinsi lentamente sulle punte e
sollevai il braccio in silenzio, fino a che non fu allo stesso livello
della
mia vittima. Sfoggiai un sorriso compiaciuto che già
pregustava la vittoria
imminente.
Mentre
mi preparavo ad assestare
il colpo di grazia, sentii qualcosa di freddo afferrarmi il gomito ed
abbassarmi gentilmente il braccio. Il movimento fece volare via la
zanzara.
“Da
te non me l’aspettavo”,
scherzò, fingendosi sconvolto. “E’ una
creatura innocente”.
“Sì,
innocente fino a quando non
mi dissangua”, borbottai.
Edward
ridacchiò.
Lo
fissai con un sorriso, fingendo
di pensare a qualcosa.
“Dopotutto
non siete poi così
diversi”, conclusi, senza riuscire a trattenere un mezzo
sorriso.
“Mi
stai dando della zanzara?”,
replicò divertito.
“Così
sembra”, mi strinsi nelle
spalle con aria innocente.
“Mmm”.
Mi
fissò a lungo, con intensità
sconcertante. Poi ad un tratto, il suo sguardo mutò
rapidamente. C’era sempre
un’ombra divertita nei suoi occhi dorati, ma ora
c’era qualcosa di diverso,
qualcosa in più. Temetti di averlo ferito con la mia
boccaccia.
Tuttavia
quel pensiero, in un
attimo, scomparve insieme a tutti gli altri. La zanzara non
c’era più, la
stanza, io stessa non c’ero più, insieme al resto
del mondo. In quell’istante
le sue labbra toccarono le mie.
Rimasi
ferma, immobile, mentre le
sue labbra esitavano sulle mie, sfiorandole appena per poi ritrarsi e
sfiorarle
di nuovo con una delicatezza disarmante. La sua mano si posò
con dolcezza sul
mio viso, come se fossi l’oggetto più fragile al
mondo, mentre l’altra
stringeva la mia.
Con
un attimo di ritardo, reagii.
Ripresi
controllo dei miei muscoli
e chiusi gli occhi, come tante volte avevo visto fare nei film.
Tuttavia, un
attimo di ritardo di troppo. Edward si era già allontanato
dal mio viso,
un’espressione triste e confusa sul suo volto perfetto,
celata da un sorriso. Come
un’idiota andai avanti nel vuoto creatosi tra di noi. Sorrise
di nuovo. Un
sorriso triste, infelice, che minacciò di incrinarmi il
cuore.
Rimasi
a fissarlo negli occhi per
qualche secondo, troppo scossa per poter fare o dire qualunque cosa.
Il
silenzio che seguì fu uno dei
più pesanti che avessi mai vissuto.
Intuii
che Edward non avrebbe più
preso nessuna iniziativa e decisi quindi di fare qualcosa. Cosa, di
preciso,
rimaneva ancora un mistero.
Mi
costrinsi a fare un passo in
avanti, colmando lo spazio tra di noi. Riuscii a riempire il vuoto
creatosi
fisicamente tra noi, ma avevo paura di non poter più colmare
quello che
sembrava riempire i suoi occhi tristi.
Sollevai
timidamente una mano, nel
tentativo di accarezzargli il volto.
Le
sue dita mi fermarono, quel
sorriso triste di nuovo sulle sue labbra mentre scuoteva la testa.
Riportò la
mano sul mio fianco, dove lasciò entrambe.
Evitai
di pensare alla scossa
elettrica che mi percorreva. Lasciai scivolare la mia mano sopra la
sua,
posandola sul suo avambraccio freddo. Sollevai la testa, incatenando il
mio
sguardo con il suo.
Sorrisi
imbarazzata. Non avevo la
minima idea di come comportarmi, nonostante l’obbiettivo
fosse chiaro. Decisi
semplicemente di non pensare.
Non
pensare alla sua mano che si
posava gentile sul mio collo, con un sospiro fresco che mi confuse,
alle mie
dita che risalivano timidamente il suo braccio, per poi posarsi
tremanti sulla
sua nuca. Non pensare, mentre le mie dita s’intrecciavano ai
suoi capelli e le
sue mani mi stringevano a sé, alla corrente elettrica che
sembrava avvolgerci e
correre tra di noi. Non pensare ai miei battiti accelerati, che si
rincorrevano
senza sosta, mentre rimbombavano nella mia testa e contro il suo petto,
come
echi sordi del tempo che sembrava solo scivolarci addosso.
Non
pensai nemmeno quando vidi
gradualmente il suo volto avvicinarsi al mio e la sua bocca
incontrò nuovamente
la mia, regalandomi un brivido lungo la schiena. Percepii le sue labbra
dischiudersi appena, lentamente, e lo seguii.
Il
mio respiro si trasformò poco a
poco in affanno e mi sembrò, nonostante lui non ne avesse
bisogno, che anche
Edward fosse in cerca di aria. Troppo presto, ci allontanammo
l’uno dall’altra.
Fece
un passo indietro, mantenendo
entrambe le mani sui miei fianchi. Aveva un’espressione
combattuta, ma
sorrideva come non avevo mai visto.
Lo
guardai sorridere e mi sentii
speciale, perfetta, come se quel sorriso racchiudesse il segreto del
mondo. Mi
prese la mano ed ebbi la sensazione che nei suoi occhi ci fossero
più parole di
quante ce ne fossimo mai detti. Sapevo di essere ferma, immobile, ma
avevo
l’impressione di essere ad un palmo da terra. Dopo un breve
silenzio composto
semplicemente dei nostri sguardi, Edward fece un passo avanti e mi
avvolse tra
le sue braccia, stringendomi a sé senza una parola.
Nascosi
il mio viso contro il suo
petto, lasciandomi circondare dal suo abbraccio.
“Tu
sei decisamente meglio di una
zanzara”, mormorai con la voce attutita dal suo torace.
Affondò
il viso tra i miei
capelli. Percepii le sue labbra tendersi in un sorriso a contatto con
il mio
capo.
“Anche
tu”, sussurrò lentamente,
la sua voce smorzata. “Meglio di qualunque altra cosa al
mondo”.
Restammo in silenzio, lasciando che il mio cuore riprendesse a scandire
il tempo con un ritmo più regolare.
TAN TAN TAAAAAAAAN! Essì, finalmente ce l'hanno fatta. Spero davvero che non
sia risultato pesante da leggere o blablabla non ne ho idea, ma non
sapevo bene come riprodurre il momento xD Si accettano consigli! Beeeh
detto questo, ci si becca come al solito la settimana prossima. Buon
weekend! :)
Buon
pomeriggio! Prima di tutto vorrei ringraziarvi davvero di cuore per il
responso all'ultimo capitolo, non potete capire quanto mi abbia fatto
piacere. Grazie mille!
Detto questo, riprendiamo da dove avevamo lasciato quei due.
Ahimé le cose non funzionano sempre come si vorrebbe... Buon
capitolo! :)
Capitolo
16. Allenamento.
Le
cose da quel giorno
cominciarono a scorrere con più velocità, in una
routine che non minacciava
minimamente di stancarmi. Scuola, casa. Casa, scuola. E compiti,
immancabilmente compiti.
La
mia nuova casa – a cui ancora
stentavo a credere – era fantastica. Mi ci ero abituata
abbastanza velocemente,
anche se tendevo ancora a passare la maggior parte del mio tempo in
casa
Cullen.
Tuttavia,
nei giorni seguenti non
riuscii mai a trovarmi da sola con Edward e non riuscivo a capire se
questa
fosse una semplice coincidenza o un abile tentativo di evitarmi da
parte sua.
Forse
si era accorto di aver
commesso un errore, quella sera. Forse voleva evitarmi per lasciar
svanire in
me le speranze che si erano inevitabilmente create. Forse,
semplicemente, la
fortuna era impegnata altrove.
Dopotutto,
cosa mai avrebbe potuto
trovare in me? Una ragazza semplice, senza abilità o
interessi particolari. Non
ero particolarmente bella, non lo ero mai stata. Di questo me
n’ero fatta una
ragione. Rientravo nella norma, come per tutto il resto.
Eccezion
fatta per quella inutile
capacità di mantenere la mia testa, con relativi pensieri
connessi, al sicuro.
Tuttavia, non ero così sicura in quegli ultimi giorni che
fosse qualcosa di
buono. Se Edward avesse percepito cosa pensavo, i miei dubbi e le mie
incertezze, forse sarebbe venuto da
me per rassicurarmi. O, al contrario, per confermare i miei dubbi.
Edward,
invece…lui sì che era
speciale. Era un angelo. Fino a quella sera, che ormai, anche se solo a
distanza di qualche giorno, appariva lontana anni luce e appartenere ad
un
altro mondo, non mi ero mai chiesta cosa fosse Edward per me. Cosa provassi per lui. Non ne avevo
mai sentito il bisogno,
poiché forse ai miei occhi la risposta era ovvia. Almeno da
parte mia.
Quando
finalmente mi ero
interpellata, avevo sostenuto una lunga conversazione con il mio
personale
Grillo Parlante, che aveva cercato di persuadermi ad ammetterlo. Alla
fine,
esasperata, gli avevo dato ragione. Lo amavo. Aveva ragione, ero solo
restia ad
ammetterlo, a causa della paura e, in minor parte, della cocciutaggine.
Avevo
paura del dopo.
Una
volta che l’avessi ammesso a
me stessa, non sarei più potuta tornare indietro. Non avrei
più potuto negare alla
speranza di avvolgermi e annebbiarmi. Avevo paura che proprio quella
speranza,
che aveva cominciato a mettere radici dentro di me e cresceva ogni
volta che
incrociavo il suo sguardo, mi potesse ferire. Non avrei potuto
lamentarmi e
piangere, a causa dei sentimenti che avevo deciso di provare. Per
questo,
restavo in silenzio davanti a lui quando camminavamo insieme agli
altri, a
testa bassa. Non c’erano risposte alle ulteriori domande che
mi affollavano la
testa.
Tuttavia,
riuscii in qualche modo
a gestire la situazione, alternando silenzi a falsi sorrisi e
lasciandomi
travolgere e distrarre da quella routine che ormai avevo fatto mia.
Rosalie,
nel frattempo, non era
d’aiuto. Cercava in ogni modo di farlo, tentando di
sostenermi e assillandomi
per raccontarle cosa fosse successo quel lunedì sera per
“sconvolgermi tanto”.
Non
mi sentivo sconvolta. Più che
altro confusa. Tanto, troppo confusa. Dopotutto, io
ero semplicemente umana.
Nei
giorni seguenti cercai così di
passare il minor tempo possibile da sola, tentando in questo modo di
evitare i
miei problemi. Trovai una vera amica in Angelica, che divenne per me
più
importante di quanto avessi mai pensato. Diventammo inseparabili,
contro ogni
mia previsione. Completavamo le frasi una dell’altra, avevamo
interessi molto
simili e con lei, come riuscivo forse ad essere solo con Rose, ero
semplicemente me stessa. Sembravamo completarci come due
metà di un intero, e
spesso scherzavamo sull’essere due gemelle separate alla
nascita.
Thomas
si dimostrò un buon amico,
ma temevo che ci fossero alcune incomprensioni dietro
l’angolo. Dimostrava fin troppe
attenzioni nei miei
confronti, cosa che all’inizio non mi aveva minimamente
infastidita. Pensavo –
o meglio, mi ero auto convinta – che quello fosse solamente
il suo modo di
essere, di comportarsi. Ormai sembrava non accorgersi nemmeno della
presenza
dei Cullen e aveva preso l’abitudine, ogni mattina, di
aspettarmi davanti al
posto auto della Volvo per accompagnarmi in classe.
Mi
piaceva pensare che la cosa
infastidisse in qualche modo Edward, e speravo fosse per gelosia.
Tuttavia,
cercavo di evitare certi pensieri. A mensa ormai non pranzavo quasi
più con i
Cullen, sostenendo la scusa di “mantenere amicizie
umane”.
All’inizio
avevo accettato di buon
grado le attenzioni di Thomas, credendo - o almeno, sperando - che
potesse
scatenarsi una qualche reazione di gelosia. Tuttavia, l’unico
risultato che
avevo ottenuto era il fatto che Tom si era irreparabilmente appiccicato
a me,
senza perdermi di vista un secondo. Nonostante ciò, cercavo
di non dare a
vedere quanto mi innervosisse il suo comportamento oltremodo morboso e
mi
lasciavo scivolare addosso le giornate primaverili senza che me ne
accorgessi
più del dovuto. Così, quando una mattina di fine
Aprile Alice mi buttò giù dal
letto, ne rimasi sorpresa.
“El,
salta giù dal letto. Ho
deciso che voglio insegnarti a controllare il tuo potere!”,
mi cinguettò
allegramente a un palmo dal naso. “Su, svegliati!”,
m’intimò poco dopo,
scostando le tende dalla grande porta finestra e lasciando che la
debole luce
del mattino mi abbagliasse.
“Cosa?”,
farfugliai con la voce
impastata dal sonno.
“Hai
sentito benissimo”, disse
allegra.
“Alice,
è domenica!”, bofonchiai
coprendomi il viso con il braccio.
“Lo
so”.
“Quindi
muoviti”, aggiunse subito
dopo.
Mi
voltai, scoprendomi il viso e
scoccandole un’occhiata eloquente.
“Visto?
Sei già sveglia”,
ridacchiò vedendomi.
“Alice…”,
la supplicai.
“Niente
Alice, alzati!”.
Grugnii
qualcosa, ma ormai sapevo
di non potermi più riaddormentare, quindi strisciai fino al
bordo del letto.
“Cosa
intendevi prima, Alice?”,
domandai quando fui in grado di sostenere un discorso sensato.
“Voglio
insegnarti a controllare
il tuo potere”.
“E
come vorresti fare, scusa?”.
Si
strinse nelle spalle.
“Ancora
non lo so”, disse. “Mi
verrà in mente”.
La
prospettiva di riuscire a
sfruttare questo mio ipotetico potere mi entusiasmava. Volevo imparare,
e in
fretta.
“Cosa
facciamo?”, chiesi dopo che
ebbi finito di prepararmi.
“Andiamo
nella foresta”, rispose
decisa, annuendo a se stessa.
“Nella…”,
feci per domandare, “Oh,
va bene”.
Sapevo
che era meglio non frenare
Alice quando aveva quell’espressione.
Alice
mi sfoderò un sorriso
raggiante e in meno di un secondo mi ritrovai in casa Cullen.
“Non
dovevamo andare nella
foresta?”, chiesi scocciata.
Non
avevo voglia, o coraggio
almeno, di incontrare Edward per casa.
Alice
mi squadrò, nonostante la
sua piccola statura, dall’alto al basso. Un moto di lieve
disgusto apparve sul
suo viso da elfo.
“Con
quei vestiti no di certo”, mi
rispose.
A
me suonò come una minaccia.
“No,
Alice”, la implorai. “Non di
nuovo”.
Sorrise
beffarda.
“Se
vuoi che ci sia io, sì”.
Mi
dovetti mordere la lingua per
non risponderle male. Io non le avevo proprio chiesto niente, tantomeno
che ci
fosse lei. Tuttavia, se ci fosse stata Rose la cosa non sarebbe stata
poi molto
diversa, quindi mi zittii.
Salimmo
le scale velocemente per
poi ritrovarmi, come ormai era norma, davanti al grande armadio di
Rosalie. Alice
mi vestì in modo normale,
cosa che da
lei non mi aspettavo certamente. Questo la diceva lunga su cosa avesse
in mente
di fare.
Nel
scendere le scale, mentre
Alice ed io scherzavamo allegramente, incrociammo Edward. Il mio
sorriso si
affievolì immediatamente, rimpiazzato da
un’espressione avvilita ed
imbarazzata.
L’espressione
di Edward non era
molto distante dalla mia, anche se celata meglio.
“Ciao
Edward”, cinguettò Alice al
mio fianco.
“Buongiorno
Alice”, mormorò Edward
rivolgendole una strana occhiata. “El”.
Mi
salutò con un cenno del capo,
evitando accuratamente i miei occhi.
“Edward”,
lo salutai con poco più
di un sussurro.
Strinsi
le mani l’una con l’altra,
rigirandole nervosamente.
“Dove
state andando?”, chiese ad
Alice.
“Un
giretto nella foresta”,
annunciò con un ampio sorriso.
Tuttavia,
non fece parola di
quello che dovevamo in realtà fare.
Mi
stupì, ma evitai di darlo a
vedere. Rimasi con lo sguardo fisso sui gradini delle scale,
contemplando i
miei piedi.
“Vorresti
venire anche tu?”,
chiese Alice squillante.
Il
mio sguardo scattò avanti,
accendendosi di una luce particolare. Imbarazzo. Imbarazzo e, non potei
impedirmelo, speranza.
I
miei occhi incrociarono i suoi e
si scambiarono una lunga occhiata. Il loro colore dorato,
così come
l’intensità, mi dava alla testa. Tuttavia, cercai
di sostenere il più a lungo
possibile il suo sguardo e di celare, per quanto mi fosse possibile
avendolo a
pochi centimetri da me, ciò che provavo per lui.
“Dovrei?”,
mormorò con un mezzo sorriso
ad Alice, senza staccare gli occhi dai miei nemmeno un istante.
“Secondo
me, sì”, rispose allegra.
Avrei
voluto zittirla. Arrischiai
un’occhiata eloquente verso di lei e sorrisi, compiaciuta.
Sembrava
che Alice stesse cercando
di comunicare qualcosa ad Edward, ma che, tuttavia, non ci stesse
riuscendo. Il
mio potere a volte risultava davvero
utile.
Tornai
a fissare Edward, ancora
immobile davanti a me. Mi stava guardando. Provai una fitta allo
stomaco, come
se anche lui stesse improvvisamente ricordando tutto quello che era
successo.
Lo
guardai negli occhi e per un
attimo mi sembrò di rivedere lo stesso sguardo che mi aveva
rivolto quella
sera, solo più tormentato. Fiammeggiava per la sua
intensità, lasciandomi
perplessa. L’oro fuso che sembrava sprofondare nelle sue
iridi brillanti mi
confondeva.
Ad
un tratto, tuttavia, chiuse gli
occhi impedendomi così di giungere alla via più
diretta per i suoi sentimenti.
Quando li riaprì, l’oro si era di nuovo congelato.
Abbassai lo sguardo,
percependo gli angoli delle mie labbra piegarsi automaticamente verso
il basso.
Non sarebbe venuto.
“Non
credo che sarebbe una buona
idea”, mormorò. “Magari la prossima
volta”.
Sospirai
in silenzio, sconfitta.
“Alice,
El”, ci salutò e proseguì
lungo il corridoio.
Non
potei impedirmi di seguirlo
con lo sguardo finché non sparì
all’interno della sua stanza, così come non
potei impedire ai miei occhi di gonfiarsi di lacrime tristi.
Sbattei
le palpebre velocemente
per impedirgli di traboccare.
“Mi
dispiace, El”, mi sussurrò
Alice avvolgendomi con un braccio intorno alla vita.
Mi
arrabbiai. Come se lei non
avesse saputo che l’avremmo incontrato. Come se non
l’avesse previsto.
“Già,
anche a me”, dissi in poco
più di un sospiro.
Si
alzò sulle punte, affondando il
viso nei miei capelli e respirando profondamente.
“Molto,
molto utile”, ridacchiò.
Sbuffai.
“Dai,
andiamo”, disse poco dopo
recuperando il suo consueto umore.
Feci
per ribattere, ma
m’interruppe con un cenno della mano.
“Prima
impari a controllare il tuo
potere, prima riuscirai a leggere cosa gli frulla in testa”.
Sbarrai
gli occhi. Non ci avevo
ancora pensato.
“Davvero?”,
mormorai entusiasta.
“No,
per finta”, scherzò.
“Muoviti, El, andiamo ora!”.
Annuii
decisa e corsi giù per le
scale.
La
Volvo era già di fronte a casa,
parcheggiata in mezzo all’ampia radura.
La
raggiunsi e mi catapultai sul
sedile del passeggero, cercando di sfuggire alla pioggia che sembrava
volermi
inseguire. Chiusi la porta dietro di me, sentendomi finalmente
all’asciutto.
Mi
lasciai sfuggire un sospiro.
“Bene,
allacciati la cintura”,
cinguettò Alice. “Si parte!”.
Feci
come diceva, senza dire una
parola.
“Alice?”,
dissi ad un tratto,
mentre il ruggito del motore riempiva l’abitacolo.
“Sì?”.
“Non
sarebbe stato meglio…”, dissi
gesticolando verso l’esterno. Mi fermai.
Ripensai
alla volta scorsa,
aggrappata alla colossale schiena di Emmett e rimpiazzai quel gigante
che tanto
adoravo con la piccola, minuscola Alice. L’idea non mi
attirava più di tanto,
nonostante sentissi la mancanza dell’ebbrezza della
velocità.
“No,
niente”, aggiunsi alla
svelta.
Alice
si strinse nelle spalle,
sorridendo. Era eccitata quanto me, a quanto sembrava.
Rimasi
in silenzio a guardare
fuori dal finestrino, mentre l’auto sfilava lungo strade e
sentieri invisibili,
circondata solo dal silenzio e dal ticchettare della pioggia.
“Alice?”,
domandai per la seconda
volta in poco più di cinque minuti.
“Sì?”,
rispose allo stesso modo,
voltandosi appena verso di me.
“Credi
davvero che sia il caso con
la pioggia? Credi che ce la possa fare?”.
Il
suo sorriso, se possibile, si
tese ancora di più rivelando i suoi denti perfetti e lucenti.
“Non
pioverà”, disse
picchiettandosi la fronte con l’indice e il medio in modo
eloquente. “E sono
abbastanza certa che tu possa farcela, per quanto non sia in grado di
vederlo”.
Annuii
senza aggiungere niente. Il
silenzio riprese, ma senza pesare.
Alice
sembrava avere l’espressione
paralizzata nel suo consueto sorriso, senza tuttavia apparire forzata.
Spesso
stentavo a credere che fosse stata davvero lei quei primi giorni. Alice
era
così…solare, così sorridente nei
confronti della vita stessa.
Rosalie
considerava una sorta di
maledizione, un forzare il regolare svolgimento del mondo, diventare
immortali.
Per Alice pareva tutto il contrario; come se non avesse mai avuto una
vita
diversa all’infuori di questa, come se fosse nata per quello.
“Siamo
arrivate”, disse Alice con
voce squillante, distogliendomi dai miei pensieri.
Una
volta fuori dall’abitacolo, mi
guardai attorno. Come tutto in quel luogo, aveva qualcosa di magico.
Qualcosa
di spaventoso e affascinante allo stesso tempo. Gli alberi secolari
tutt’intorno a noi sembravano volerci inghiottire in un moto
volontario, le
loro fronde colossali mosse dal vento che soffiava leggero ma
insistente. Era
tutto così assurdamente verde.
Camminammo
velocemente attraverso
gli alberi, affrettandomi per mantenere il passo di Alice. Dopo poco
sbucammo
in un ampio spiazzo circolare pressoché simmetrico. Gli
alberi qui erano
praticamente assenti, come se si fossero ritirati per lasciarci posto.
Ai
confini di quella radura, si mantenevano tuttavia compatti ad ergere
una
muraglia impenetrabile.
Alzai
i palmi verso il cielo e
sorrisi. Aveva avuto ragione, come sempre. Non pioveva più.
“Pronta?”,
mi chiese Alice.
“Pronta”,
replicai decisa.
Alice
annuì con fermezza e
m’indicò di posizionarmi di fronte a lei, sul lato
più a nord dello spiazzo.
“Bene”,
disse una volta che ebbi
preso posto.
Alice
appariva concentrata, gli
occhi chiusi e il capo chino.
Rimasi
in silenzio a guardarla,
aspettando. Nonostante non piovesse più, il vento gelido
soffiava ancora,
frustandomi il viso. Mi strinsi nella giacca a vento.
“Alice?”,
azzardai.
“Ssshh!”,
m’intimò sollevando un dito. “Sto
pensando”, mi disse.
Dopo
qualche breve istante,
sollevò la testa con un gran sorriso.
“Okay,
credo di aver capito come
fare”, dichiarò orgogliosa.
La
fissai dubbiosa, le labbra
premute in scetticismo.
“Non
so ancora se funzionerà, ma
ho la mia teoria”, disse soddisfatta, “quindi
funzionerà”.
Sembrava
davvero molto compiaciuta
e sicura di se stessa.
“El,
ora abbassa il tuo scudo”, la
sua voce decisa mi raggiunse insieme al vento dall’altra
parte della radura.
“Cosa?”,
domandai sorpresa.
“Ti
ho detto che ho la mia
teoria”.
Strabuzzai
gli occhi,
interrogativa.
“Posso
sapere di cosa si tratta,
Alice?”, la esortai.
“Okay,
ma non…”, si fermò come a
cercare la parola migliore, “non offenderti”.
Offendermi?
Rimasi
a fissarla, le braccia
strette sul petto per il freddo.
“Credo
che il tuo potere sia più
forte quando Edward è vicino a te”, disse seria.
“Credo che sia questa la
ragione per cui riesco ad avere le visioni anche quando sono con te. Se
Edward
è lontano, il tuo scudo è come se diminuisse di
spessore”, concluse
soddisfatta.
La
ascoltavo a bocca aperta. Era
impossibile, ma probabile allo stesso modo. Sentii il mio stomaco
contorcersi
quando mi tornò in mente il mio compleanno.
Trasalii,
facendo una smorfia.
“Quando,
invece, ti è vicino, per
me è pressoché impossibile avere visioni chiare.
Non ho ancora capito il
perché, ma è come un carburante per te”.
Sorrisi.
Forse si poteva vedere
così, nonostante non fosse solo quello per me.
“Alice,
sei sicura?”, domandai
cambiando velocemente argomento. “Devo abbassare lo scudo?”.
La
teoria di Alice non aveva fatto
altro che accrescere in me la voglia di riuscire a controllare meglio
il mio
potere. Dovevo e volevo sapere cosa pensava Edward.
“Sì”,
mi rispose Alice.
“Ma
sei sicura che…”, mormorai
dubbiosa.
Le
poche volte che l’avevo fatto,
non era andata poi molto bene. Quasi assalita da un vampiro e quasi
attaccata
da un licantropo. Le percentuali non giocavano a mio favore.
“El,
non sono Jasper e non sono
Edward. Posso farcela, non sei poi molto diversa dagli altri
umani”.
Controvoglia,
abbassai il velo che
mi ricopriva. Avevo imparato a percepirlo, a controllarlo anche se non
del
tutto. Come la volta prima, mi sentii immediatamente vulnerabile e
indifesa.
Alice
fece un lungo e profondo
respiro, chiudendo gli occhi.
“Non
ti ricordavo così buona,
sai?”, disse scherzosa.
Tentai
di sorridere, ma non
riuscii granché nell’intento. Alice rise.
“El,
non preoccuparti! Scherzavo”,
ridacchiò.
“Ora
che faccio?”, domandai
curiosa.
“Ora
sbircio nel tuo futuro”,
sorrise ampiamente.
“Alice!
Avevi detto che…”.
M’interruppe.
“L’ho
detto e lo farai, ma adesso
lasciami fare”.
“Intanto
cerca di concentrarti per
dopo”, consigliò poco dopo.
La
osservai mentre i suoi occhi
diventavano vuoti ed impenetrabili ad intervalli di tempo quasi
regolari,
alternando sorrisi raggianti ad espressioni serie.
Quando
i suoi occhi tornarono a
focalizzarsi su di me, un gran sorriso le illuminava il viso.
“Qualcosa
di buono?”, chiesi curiosa.
“Diciamo
di sì”, i suoi occhi
sembravano volermi dire qualcosa, ma riuscivo a leggervi solo una
grande
allegria.
“Me
lo dirai?”.
“Ah,
no”, disse ridacchiando.“Non
ti rovinerò la sorpresa”.
“Sorpresa?
Alice, che sorpresa?”.
“El,
niente di cui agitarsi. Ora
puoi rimettere lo scudo al suo posto”.
Obbedii
alla svelta, sentendomi
immediatamente più al sicuro.
“Ora
devi cercare di potenziarlo
più che puoi”, mi disse seria.
“E
come…”.
Mi
fermai. Il sorriso di Alice era
più eloquente delle parole.
“Ah,
no”, mi affrettai a dire. “Alice,
fa già abbastanza male pensarci ogni tanto”.
“E
invece devi”, m’intimò.
“Costringimi”,
la sfidai.
“Vuoi
imparare o no?”.
“Sì”,
mormorai incerta, “ma
Alice…”.
“El, devi pensare a Edward. Questo
è quanto”.
Grugnii
esasperata e
obbedii, anche se controvoglia.
Mi
strinsi nella giacca a vento,
aumentando la presa attorno al mio stomaco, mentre richiamavo alla
mente quei
brevi episodi di un tempo che ormai appariva lontano.
“Bene
così, El”, esclamò
entusiasta Alice.
Incoraggiata
da
quell’esclamazione, riportai nei miei pensieri i momenti
precisi di quella sera, quando
tutto era stato così
perfetto ed irreale da desiderare di non svegliarmi da quel sogno. Ad
un
tratto, sentii qualcosa cambiare. Non d’improvviso, piuttosto
un lieve e
graduale cambiamento che percepii in ritardo.
Cercai
il mio scudo, intimorita.
Non c’era. O meglio, non riuscivo a trovarne i contorni, ma
era sempre intorno
a me. Fu con non poco stupore che mi resi conto che i bordi
più esterni del mio
scudo arrivavano ad accarezzare Alice, che sorrideva soddisfatta.
“Oh!”, esclamai stupefatta.
Alice
scoppiò a ridere.
“Come
diavolo…”, cercai di
domandare a me stessa, ma senza esito.
Non
riuscivo a spiegarmi in alcun
modo cosa stesse accadendo. Come poteva essere possibile? Non mi
sembrava di
esserci mai neanche lontanamente riuscita, eppure…
“El,
ora devi concentrarti”, mi
distrasse la voce di Alice.
Tirai
su la testa di scatto,
pronta ed attenta. Mai come ora desideravo di imparare a gestire questo
incredibile scudo, a me ancora in parte sconosciuto. Annuii decisa, con
un
sospiro. Ora che me ne rendevo conto, mantenere lo scudo a quei livelli
era
faticoso. Come lo era stato d’altronde agli inizi, anche solo
per mantenerlo
attivo.
Ti ci abituerai, mi dissi,
è
troppo importante adesso.
“Che
cosa devo fare?”, chiesi, la
mia voce ferma e risoluta.
“Devi
semplicemente avvolgermi con
il tuo scudo”, la voce di Alice rispecchiava la mia.
Con
un gemito di fatica sospinsi
quel velo, tanto invisibile quanto tastabile che si frapponeva tra noi,
verso
di lei. Fu più impegnativo di quanto avessi pensato, potevo
sentire il mal di
testa lievitare nel mio cranio. Tuttavia, alla fine, ci riuscii. Me ne
accorsi
immediatamente, e fui da subito sicura che me ne sarei resa conto anche
senza
guardare Alice sorridere compiaciuta e formare il segno di vittoria con
le
piccole dita sottili e chiare. Non appena riuscii nel mio intento,
percepii
come un debole bagliore, un punto di luce all’interno del mio
scudo.
“Incredibile”,
mormorai più a me
stessa che ad Alice.
-…fosse stato Edward-
La
mia testa scattò in avanti, lo
sguardo a cercare la provenienza di quel suono.
Quel
nome era inconfondibile nella
mia mente, così come la voce che le aveva pronunciate.
“Cosa
hai detto?”.
“Non
ho detto nulla”.
“Alice,
qui ci sei solo tu. Non
prendermi in giro”.
“Davvero,
io non ho detto nulla”,
enfatizzò il termine.
La
guardai a bocca aperta, mentre
lo stupore si faceva strada insieme alla consapevolezza nel mio corpo.
Un gran
sorriso mi tirò gli angoli della bocca, senza che i miei
muscoli prendessero la
decisione di farlo.
“Stai
scherzando!”, quasi
strillai. “E’ impossibile!”.
Mi
passai una mano tra i capelli,
sbalordita.
“Incredibile”,
sentii mormorare
Alice.
Poi,
come un elastico troppo teso,
percepii il mio scudo tornarmi indietro con la violenza di un
boomerang.
Sobbalzai per la sorpresa e sospirai, in parte soddisfatta e
altrettanto
contrariata.
Posai
le mie mani tremanti sulle
ginocchia, respirando profondamente.
“Ancora”, affermai decisa.
Alice
sorrise, scuotendo la testa.
“Riprendi
fiato prima”.
Attendemmo
all’incirca un minuto
prima di decidere che era inutile aspettare che mi riprendessi
completamente
dallo sforzo. Tanto valeva battere il ferro quando era caldo.
I
due tentativi successivi si
rivelarono un profondo buco nell’acqua. Cominciavo a dubitare
di riuscirci.
Forse me l’ero immaginata?
Quando
iniziai a perdere le
speranze, ci riuscii.
-
El, tra poco comincerà a piovere di
nuovo -
Esultante,
sorrisi.
“Da
quando fai le previsioni del
tempo, Alice?”, domandai elettrizzata.
“Ci
sei riuscita!”, il sorriso di
Alice seguiva il mio.
“Sì,
anche se mi fa male la
testa”, mi massaggiai la fronte.
“Direi
che per oggi può bastare”,
concluse.
Annuii
il minimo indispensabile.
Anche
solo il più insignificante
dei movimenti del capo mi faceva pulsare le tempie.
“Se
mi esplode il cervello, è
colpa tua”, mormorai ad Alice una volta tornate in macchina.
Alice
ridacchiò, e quel suono,
come di campane in festa, risuonò nella mia testa come
amplificato.
Appoggiai
la fronte contro il
vetro freddo del finestrino, traendone un minimo di sollievo.
Sospirai,
soddisfatta. Ce l’avevo
fatta. Per poco, ma ci ero riuscita.
“Cosa
riesci a sentire di
preciso?”, domandò Alice a metà del
viaggio. “Sono curiosa”.
“E’
come…”, farfugliai in cerca
del termine più consono. “E’ come se ci
fosse qualcuno che mi parla attraverso
un vetro. Lo sento, ma non riesco a distinguere bene le
parole”, abbozzai un
mezzo sorriso, compiaciuta della mia analogia.
“Quindi
non vedi immagini, non
vedi niente”, costatò Alice.
Tuttavia,
mi sembrò una domanda e
mi sentii in dovere di rispondervi.
“No,
non vedo…nulla. Dovrei?”.
“Edward
riesce a vedere le mie
visioni, e le immagini mentali che le persone creano”.
“Oh”,
fu la cosa più brillante che
riuscii a dire.
“Sono
sicura che è solo questione
di esercizio, il resto verrà da sé”, mi
confortò sorridendo.
Quella
volta, mi limitai a
chiudere le palpebre. La testa mi faceva un male
dell’accidenti, non me la
sentivo di rispondere.
“Tutto
bene la testa?”, sembrò
rendersi finalmente conto di come stavo.
“Sì”,
mentii alla svelta.
“Appena
torniamo a casa, ti fai
dare un’occhiata da Carlisle”.
“Mh-mh”,
fu il mio responso.
Se
fosse un’affermazione o meno,
quello non lo capii nemmeno io.
In
breve tempo, molto meno di
quello che mi era apparso all’andata, sbucammo
nell’ampia radura ormai a me
familiare. Entrammo in casa appena in tempo perché iniziasse
il temporale. La
pioggia, armata di lampi e tuoni, sembrava urlare contro il vento, che
non
tardava a rispondere.
Mi
portai le mani alle orecchie,
frastornata. Un toccasana per il mio mal di testa.
“Carlisle?”,
chiamò Alice,
accompagnandomi sul divano. “Siediti qui e
rilassati”, mi sussurrò piano.
Mi
limitai a fissarla, pregando di
non sembrare il vegetale che mi sentivo.
“El!”,
una voce inconfondibile
riempì l’aria come colpi di cannone per la mia
povera testa.
“Che
ti è successo?”, esclamò.
“Ssshhh!”, la zittì
Alice.
“Rose,
non è niente”, la confortai.
“Però tu abbassa il volume, ok?”.
“Niente?
Sembri un cadavere”,
disse a bassa voce, con mio grande sollievo. “Sei
più pallida di me!”,
continuò.
Sbuffai,
scocciata. Per fortuna,
la presenza di Carlisle sembrò rischiarare la stanza ed il
mio umore tetro.
“Emicrania?”,
chiese gentilmente.
“Non
lo so”, risposi sincera. “So
solo che fa un male cane”.
“Dovresti
prendere del Tylenol”,
affermò. “Poi vediamo”.
“Mh-mh”,
convenni.
Rosalie
insistette per portarmi di
sopra in braccio, in camera sua, ma grazie a Dio c’era Emmett.
“Stia
male quanto vuole, ma i
patti sono patti”, affermò ridacchiando.
Evidentemente,
il mio mal di testa
lo divertiva.
“Ecco
Rose, ascolta l’amore della
tua vita”, sogghignai.
“Non
me la sento di lasciarla
dormire da sola, in garage”, replicò testarda.
“Starò
benissimo”, mi affrettai a
dire. “Promesso”.
Alla
fine Rose acconsentì, e mi
portò con mio grande disappunto fino in garage. In braccio.
Ovviamente
accompagnata dalle fragorose risate di Emm. Prima o poi, quel bambino
troppo
cresciuto me l’avrebbe pagata.
Esausta,
mi sdraiai sul letto, ancora
completamente vestita. Non mi sentivo in grado nemmeno di togliermi le
scarpe,
così lasciai perdere.
Mi
addormentai poco dopo, mentre
lasciavo che la mia giornata scorresse davanti ai miei occhi. Edward
non vi
aveva fatto parte, ma ero comunque contenta. Mi sentivo
inspiegabilmente
soddisfatta, un sorriso stanco sempre sul mio volto. Edward non
c’era stato, ed
io ne avevo fatto a meno. Ero sopravvissuta, giusto? Anche se era
ancora da
vedere quest’ultimo particolare, vista la mia
emicrania.
Mentre
l’incoscienza
si faceva strada verso di me, ero sempre più convinta di
poter ormai riuscire a
stare senza Edward. Forse potevo farcela, era possibile. Forse sarei
riuscita a comportarmi come lui. Ne ero convinta, ma dopotutto ero
ancora sotto
Tylenol.
Ebbene! ...Spero che
nessuno di voi mi stia odiando. Insomma, El sembra aver capito che deve
svegliarsi un po'. Eeee niente! Non ho nient'altro di particolare da
dire, a parte invitarvi come sempre a farmi una visitina nello spazio
recensioni e ringraziare come al solito le quattro disperate(in senso
buono!xD) che mi commentano sempre. Un grazie anche ai lettori
silenziosi in pagina! Che altro...ah sì, buon
weekend! A sabato prossimo :)
Modifica dell'ultimo secondo: AUGURI GIOVANNA!xD Se me lo dicevi prima magari era meglio u.u Buon compleanno!
Buon pomeriggio e buona
Pasqua a tutti! La mia connessione è a dir poco instabile,
quindi sarò veloce. Le cose per El non vanno alla grande,
poverina xD Eeee niente, buon capitolo! :)
Capitolo
17. Giornataccia.
Era
chiaro che non dovessi
riuscire a dormire. Qualcuno doveva avercela con me, probabilmente.
Il
sogno cominciò lentamente,
dandomi la possibilità di capire tutto quello che accadeva
intorno a me. Non mi
trovavo nella solita radura, che ultimamente faceva da scenario fisso
nei miei
sogni.
Era
un luogo nuovo, familiare in
un certo senso, tuttavia non abbastanza da farmi sentire al sicuro. Era
sempre
una radura, ma come notai con grande sollievo, non la stessa degli
incubi
precedenti. Era grande, leggermente ovale e circondata da giganteschi
alberi.
Mentre
vagavo per quell’immenso
spiazzo d’erba, notai un particolare che catturò
la mia attenzione. Una pietra
abbastanza grande, dalle forme nette e tondeggianti, nera come la pece.
Risaltava
sul manto erboso, non per il suo colore, bensì per lo strano
simbolo che
sembrava esservi inciso sopra con grande cura. Eppure, quella pietra
sembrava
non essere mai stata toccata da anima viva. Mi chinai a raccoglierla e
mi
sorpresi di quanto fosse liscia e levigata la sua superficie.
Soffiai
via la polvere ed il
terriccio, prendendola tra le mie mani. Era pesante, nera e lucida. E
quello
strano simbolo sembrava appartenere a un’epoca distante,
lontana. Mi
affascinava. Tre lunghe linee, piegate in semicerchio, parevano
intrecciarsi a
voler dipingere qualcosa. Ogni arco s’intersecava con
l’altro in punti diversi,
formando un simbolo davvero suggestivo.
Sentii
il vento soffiarmi tra i
capelli e, con un sussulto, mi resi conto di non essere sola. Scattai
in piedi,
levando lo sguardo e facendolo vagare attentamente lungo tutto il
perimetro
dell’ampia radura. Ed eccolo. Immobile come sempre, quel
sorriso crudele a
riempirgli il volto.
Il
suo viso, diversamente
dall’ultima volta, era scoperto, lasciando che il suo sguardo
s’intonasse al
sorriso. Percepii un lungo brivido gelido percorrermi la schiena.
Il
luogo era diverso, la
situazione era diversa, ma lì, nei miei sogni,
c’era sempre lui. Claude.
Mi
guardò, inclinando il capo da
un lato e tendendo il suo sorriso. Recitò la sua consueta
frase, impeccabile e
gentile come sempre.
“Come
stiamo, signorina?”, chiese
pacato.
Non
sapevo cosa rispondere, o se
dovessi anche solo dire qualcosa, quindi mi limitai ad annuire. Almeno
qui non
mi faceva male la testa.
Claude
si avvicinò lentamente,
percorrendo il perimetro della radura. Sembrava studiarmi, come un
animale in
gabbia pronto ad attaccare. Seguii ogni suo movimento, senza lasciare
soli i
suoi occhi per un attimo.
“Come
sta il tuo amico,
Elizabeth?”, domandò ad un tratto, fingendosi
realmente interessato.
“A
quanto so, benissimo”, cercai
di sembrare il più sicura possibile. “Non lo sento
da un po’”.
Sentivo
le mani sudare freddo e
formicolare lungo i miei fianchi. Le strinsi con forza in pugno.
“L’ultima
volta che l’ho visto
stava benissimo, in effetti”, sussurrò dolcemente,
avvicinandosi in modo più
vistoso adesso.
Sentii
la rabbia crescere in un
secondo, spodestando la paura.
“Tu
non devi toccarlo”, minacciai
seria.
Claude
sorrise, e quel sorriso
bastò a far riaffiorare il mio terrore.
“Non
ho intenzione di fare nulla”,
replicò suadente. “Al tuo amico”,
aggiunse precisando.
Non
potei impedirmi di
rabbrividire, nonostante cercassi di mascherare tutto ciò
scuotendo la testa e
stringendomi nella giacca a vento.
“Qualcosa
non va?”, chiese. “Hai
forse freddo?”.
Mi
venne voglia di sorridere. Se
sapevamo entrambi come sarebbe finita, perché continuare con
i convenevoli?
Eppure, non avevo nessuna intenzione di dire nulla.
“No,
non è niente”, replicai con
quanta più decisione potessi.
“Ti
fa forse male la testa?”.
I
miei occhi si sbarrarono in
stupore, mentre mi affrettavo a chiudere ogni via d’accesso
al panico. Possibile
che fosse solo una coincidenza, la sua domanda? Possibile che il panico
che
sentissi mi urlasse di scappare, non importava dove? Dopotutto,
se era sempre lo stesso sogno, Edward
sarebbe arrivato.
“No,
la testa non mi fa male”.
“Non
più”, mi corresse lui.
Non
potei impedirmi di
indietreggiare visibilmente, lasciando cadere la pietra ai miei piedi e
correndo via. Diedi retta al panico nella mia testa, non
c’era altro modo.
“Come
sei testarda”, sentii dire
alle mie spalle.
Urlai,
l’ultima cosa che mi
sarebbe servita in quel luogo. Non c’era nessuno ad
ascoltarmi.
“Fai
sempre così”, mormorò Claude
al mio orecchio, accarezzandomi il collo con il suo respiro gelido.
“Cosa
vuoi da me?”, domandai
mentre le prime lacrime cominciavano a percorrermi il viso.
“Mi
sembrava che fosse già
chiaro”, rispose posando lentamente le sue labbra sul mio
collo.
Volevo
muovermi. Dovevo muovermi, ma non
potevo. Non
riuscivo.
“Voglio
te”, la sua voce gentile e
mielata mi dava allo stomaco, mentre le lacrime sgorgavano dai miei
occhi come
fiumi in piena. “Ssshh”, mormorò
dolcemente al mio orecchio.
“Sarò
veloce, non posso dirti che
non sentirai niente, ma non sarà troppo doloroso”,
mi rassicurò.
Mi
strinse, avvolgendomi con un
braccio, il suo corpo ancora alle mie spalle.
E
fu a quel punto che mi resi
conto del perché del mio panico. Il sogno era
diverso.
Così,
quando Claude portò per
l’ennesima volta le sue labbra sul mio collo e, questa volta,
affondò i suoi
denti nella mia carne, non provai stupore. Non provai nemmeno dolore.
Mi
svegliai di colpo, i miei occhi
spalancati in orrore e già colmi di lacrime.
Percepivo
la maschera di terrore
affiorare sul mio viso, i capelli impastati di sudore e la fronte
madida. Mi
sedetti sul letto, quasi sorpresa di trovarmi in camera mia.
Come
una stupida, tastai con le
dita la superficie del mio collo. Ed eccola, la mia cicatrice. Quasi
sorrisi,
meravigliata dal fatto di non averne un’altra.
Poi,
quando la consapevolezza
giunse insieme allo sconforto, scoppiai a piangere. Il gesto
più stupido ed
inutile che potessi fare. Dopotutto, a cosa sarebbe servito? Avevo
promesso a
me stessa che non avrei pianto, non per lui. Mi portai le mani sul
viso,
cercando di nascondere al mio pubblico invisibile quella scena patetica.
Il
sogno era stato diverso. Il luogo
era stato diverso, la situazione era
stata diversa. Il finale era stato diverso. Quasi sorrisi
all’ironia della
cosa, tra i ripetuti singhiozzi.
Edward
non c’era più nel sogno,
come non c’era più per me.
Quelli
che a me sembrarono
solamente minuti, se non secondi, furono invece ore. Prima del
previsto, il
ronzio insistente della sveglia riempì l’aria come
una palla di cannone.
Grugnii
qualcosa, cercando tentoni
quell’arnese maledetto, ma non lo trovai.
Trovai
invece quella che – nell’annebbiamento
più totale da coma mattutino – sembrava una mano.
Seguii il suo profilo con i
polpastrelli, la pelle liscia e marmorea.
La
mano sfuggì alla mia presa ed
io aprii gli occhi.
“Sveglia,
sveglia!”, cantilenò
Alice.
Era
seduta sul bordo del mio
letto, la pelle candida che s’intonava con i toni delle
lenzuola chiare.
Sfoggiava
un sorriso invidiabile e
stringeva tra le dita la mia odiata sveglia.
“Buongiorno,
El!”, continuò senza
perdere il buon umore.
La
sua voce squillante risultava
oltremodo fastidiosa quella mattina. Avevo già capito che
oggi non sarebbe
stato un buon giorno. A peggiorare le cose, la debole luce che filtrava
attraverso le tende. Era troppo intensa. Non faceva presagire nulla di
buono.
“Sì,
El, oggi c’è il sole”, mi
confermò Alice. “Tutto il giorno”.
Sembrava
dovesse essere una buona
cosa. E lo sarebbe stata, se questo non avesse voluto dire che i Cullen
non
sarebbero venuti a scuola.
“Come…”,
cominciai a chiedere.
Alice
mi interruppe prontamente.
“Rosalie
ti accompagna e ti viene
a prendere in macchina, nessun problema”.
Annuii,
il mio morale sottoterra.
Una
volta in cucina, mi accorsi
che non c’erano più i miei biscotti. Dovetti
ripiegare su un’insulsa barretta
insapore. Oggi era proprio cominciato male.
“El,
farai tardi”, mi ricordò
Rosalie mentre salivo a cambiarmi.
Sbuffai,
rimproverandomi per come
mi stavo comportando. Dopotutto non era certo colpa di Rose. Tuttavia,
non
potei impedirmi di essere scontrosa con chiunque avesse la sfortuna di
incrociarmi quella mattina. Ovviamente mi guardai bene
dall’incontrare lo
sguardo di Edward.
Avevo
deciso come comportarmi.
Avevo deciso di ignorarlo. E se volevo continuare con la mia strategia,
era
vitale che non sprofondassi in quegli occhi
dall’intensità sconcertante che
riuscivano a farmi dimenticare tutto e tutti.
Così
lo ignorai. Mentre uscivo di
casa, salutando uno ad uno i presenti ed evitando intenzionalmente
Edward,
quasi mi parve che fosse notevolmente infastidito.
Bene, pensai.
Senza
accorgermi del tutto dello
scorrere del tempo, mi ritrovai in macchina con Rosalie, diretta a
velocità
impressionante a scuola. Scuola,
sbuffai.
“El?”,
domandò incerta Rose.
Non
spostai di un millimetro lo
sguardo dal paesaggio che scorreva all’esterno del finestrino.
“Sì?”,
domandai con apatia.
“Potresti
spiegarmi che cosa è
successo con mio fratello?”, domandò evidentemente
preoccupata. “Magari potrei
aiutare, magari…”, continuò, ma la
interruppi.
Tirai
su la testa di scatto,
distolsi lo sguardo e mi voltai verso Rosalie con la mia miglior
espressione
rassicurante e serena.
“Rose,
lascia stare”, abbozzai un
sorriso. “Non è il momento”.
La
mia voce era suonata così
triste e malinconica come era sembrata a me?
“Dev’essere
un momento piuttosto
lungo allora”, borbottò stizzita.
Le
rivolsi uno sguardo
scoraggiato, sentendo le lacrime affiorare agli occhi.
“El…”,
mormorò Rosalie
dispiaciuta.
“No,
lascia stare”, dissi in poco
più di un sussurro.
Mi
accorsi che eravamo ferme, la
macchina posteggiata appena dietro l’angolo del parcheggio
della scuola. Era il
momento della fuga.
“Devo
andare”, mi apprestai ad
aprire la portiera. “Rose…”, la
rimproverai quando mi resi conto che le porte
erano chiuse.
“Vorrei
solo aiutarti, El. Capire
che sta succedendo”, disse sincera.
Quasi,
per un secondo, mi convinse.
Poi
scossi la testa. Inutile che
coinvolgessi anche Rose.
“Apri”,
le intimai esasperata.
“Neanche
Edward capisce quello che
sta succedendo”, continuò imperterrita.
A
quel punto scoppiai a ridere.
Una risata strana, quasi isterica.
“Ah,
questo è davvero perfetto”,
dissi sarcastica. “Tuo fratello è davvero un
attore migliore di quanto avessi
mai pensato”, mi guardai bene dal pronunciare il suo nome.
Scossi
la testa con quello strano
sorriso sul volto che nemmeno io capivo da dove provenisse.
Rosalie
mi guardò come se avessi di
colpo tre mani e una coda.
“El”,
mi chiamò.
“Faccio
tardi”.
Mi
sporsi a schiacciare il
pulsante per sbloccare le portiere e mi catapultai fuori
dall’abitacolo. Questa
volta mi lasciò fare. Avevo improvvisamente fretta di andare
a scuola, sempre
meglio che restare a pensare a Edward.
Svoltai
rapidamente l’angolo che
ancora mi separava dalla mia meta e tirai un sospiro di sollievo,
asciugandomi
con il dorso della mano le lacrime che mi avevano gonfiato gli occhi.
Angelica.
La sua figura sembrava
risaltare come un diamante in mezzo a semplici vetri. Mi affrettai per
raggiungerla, ansiosa di vederla.
“El!”,
si sbracciò sorridente
quando mi scorse.
Un
sorriso spontaneo si disegnò
sul mio volto. La salutai con un gesto della mano, mentre attraversavo
il
parcheggio per raggiungerla.
Il
rumore di una brusca frenata mi
riportò alla realtà.
“Ehi!”,
sbottò una voce stizzita.
“Fai attenzione a dove vai!”.
Volsi
lo sguardo verso il mio
irritato interlocutore e vi riconobbi – all’interno
dell’abitacolo di una jeep
dalle modeste dimensioni – la figura di Dean Morrison.
“Cooper!”,
esclamò quando mi
riconobbe.
“Morrison!”,
ripetei la sua
espressione e il suo tono sorpreso.
Rise
e si sporse fuori dal
finestrino.
“Non
ti avevo riconosciuta”,
ammise sfoggiando un bel sorriso.
“Meglio
così”, mi strinsi nelle spalle.
Il
suo sorriso si trasformò in
poco meno di un secondo nel ghigno spiacevole che ricordavo del mio
primo
giorno, mentre mi squadrava come se potesse vedermi attraverso.
“Ehi,
Coop”, disse ad un tratto,
mentre mi allontanavo con un cenno della mano.
Mi
voltai di nuovo, sorpresa.
“Se
vuoi mi aspetti e mi
accompagni a lezione”, propose inarcando un sopracciglio.
“Che dici?”.
“Non
dovresti essere tu ad
accompagnarmi? Sono pur sempre la nuova arrivata”, replicai
abbozzando un
sorriso e infilandomi le mani nelle tasche della giacca a vento.
Tuttavia,
non appena notai il suo
sguardo ed il suo sorriso spalancarsi in modo proporzionale, feci
marcia
indietro alla svelta.
“Comunque
non posso, c’è già
Angelica che mi aspetta. Sarebbe scortese”.
“Oh,
dai! Raccontala a qualcun altro”.
La
testardaggine di certa gente,
non la capirò mai.
“Ciao
Coop!”, una voce familiare
sembrò venirmi in soccorso.
“Ehi
Tom”, mi voltai e lo salutai
con un cenno.
“Duke”,
mormorò Morrison,
improvvisamente di umore tetro.
“Non
ti trovavo, ti stavo aspettando,
ma la macchina dei Cullen non c’era e sono venuto a
cercarti”, disse Tom come
se avesse fretta di finire la frase.
“E
mi hai anche trovata”, replicai
forse un po’ troppo acida.
“Andiamo
a lezione?”, domandò Tom,
ignorando del tutto Dean che ancora ci fissava.
Annuii
svogliata, cercando con lo
sguardo Angelica che ancora mi aspettava sotto il portico.
“Ehi,
non così! C’ero prima io”,
s’intromise Morrison infastidito.
“Arrangiati”,
replicò Thomas senza
badargli troppo.
Perché
avevo l’improvvisa sensazione
di essere il premio di una corsa per cani?
Dean
fece per aprire lo sportello
e Thomas gli andò incontro.
“Piantatela”,
quasi urlai. “Non è
giornata!”.
Così
detto, mi voltai stizzita e
raggiunsi quasi di corsa Angelica, che mi attendeva impaziente con il
sorriso
sulle labbra.
“Ma
che hanno quei due?”, fu la
prima cosa che mi domandò quando avemmo oltrepassato il
portone d’ingresso.
Sospirai,
sorridendo lievemente.
Angelica sapeva come trattarmi.
“Non
ho davvero idea”, feci
spallucce.
“Sembrava
stessero per saltarsi al
collo per vincerti”.
“Esattamente”,
sbuffai.
La
campanella non rischiarò il mio
umore.
“Dai,
facciamo tardi”.
“Io
posso accompagnarti senza che
qualcuno mi stacchi un braccio?”, chiese ridacchiando
Angelica.
Risi
anch’io.
“Andiamo”.
La
mattinata scorse veloce,
compresa l’ora di Ginnastica, dove tutti rimasero sorpresi
delle mie doti
calcistiche. Dopotutto, non potevo fargliene certo una colpa. Dopo aver
passato
quasi un mese a fare pallavolo, evitando le mie pallonate dalla
traiettoria
improbabile, era ovvio che pensassero che fossi una specie di pericolo
pubblico
in qualunque tipo di sport si trattasse.
Quando
giunsi a mensa, insieme
all’imperturbabile Tom, trovai come sempre Angelica ad
aspettarmi. Il nostro tavolo
era già quasi pieno, mancavamo solo noi.
Avevo
imparato a riconoscere bene
quasi tutti gli studenti di quella minuscola scuola, sapendo il nome e
l’orario. Tuttavia, non avevo legato con molta gente. Anzi,
gli unici con cui
ero in grado di sostenere una vera e propria conversazione erano solo
Angelica,
Tom, Claire e pochi altri.
Claire
era una delle “barbie”
della scuola, la classica ragazza bella e popolare. Bionda, dagli occhi
di un
colore ancora indeciso se essere verdognolo o marrone, fisico
ovviamente statuario,
forse un po’ abbondante sui fianchi. Tuttavia,
per quanto gli altri potessero credere, Claire era dotata anche di un
cervello.
Salutai
i presenti con un cenno,
sedendomi vicino ad Angelica.
“Non
mangi, El?”, chiese Tom al
mio fianco.
“Non
ho fame oggi”, tagliai corto
infastidita.
“Oh”,
rispose mortificato. “Sei
proprio sicura?”.
Sbuffai
esasperata. Voleva davvero
continuare ad assillarmi?
“Tom?”.
“Sì?”.
“Finiscila”,
gli intimai con tono
che non ammetteva repliche.
Angelica
dovette trattenere una risata
portandosi un trancio di pizza alla bocca.
“Ang?”,
domandai ad un tratto.
“Sei riuscita a fare matematica?”.
“Sì,
mi ha aiutato mio fratello”,
dichiarò sorridente. “Io non ci capisco
niente”.
Ad
un tratto, la conversazione che
andava avanti a qualche decina di centimetri da me colse la mia
attenzione.
“Potremmo
andarci questo sabato”,
Jackson sembrava ponderare una risposta molto accurata.
“Ho
sentito che farà bel tempo”,
s’intromise Tom.
“Andiamo
con la mia macchina?
Dovremmo starci tutti”, Anne Scott sembrava entusiasta della
proposta,
qualunque fosse.
Mi
sporsi in avanti, curiosa.
“Ehi,
ma giù alla riserva ci sarà
un centro commerciale?”, chiese ad un tratto Claire, ansiosa.
E
tanti saluti alla mia teoria sul
cervello.
“No”,
replicò Jackson stizzito. Poi
tornò a rivolgersi a Anne, “Sì,
potrebbe essere un’idea”.
“Claire,
noi andremmo comunque per
vedere First Beach, non per fare shopping”, la voce gentile
di Angelica la
confortò.
“Oh,
okay. Mi piace l’idea”,
sorrise raggiante.
“Giù
a First Beach?”, domandai
sorpresa. “Alla riserva?”.
“Sì,
ci sei mai andata?”, domandò
Thomas stupito.
“No,
mai”, mormorai. A dire la
verità, non ero neanche sicura di poterci andare.
“Però sarei curiosa”, ammisi.
“Perché
non vieni anche tu?”,
propose Jackson.
“Sì,
vengono tutti”, si unì Anne.
“Ehm
okay. Direi di sì”,
acconsentii. “Quando di preciso?”.
“Pensavamo
sabato, perché sembra
che ci sarà bel tempo. Tu sei libera?”.
“Credo
proprio di sì”, sorrisi
ampiamente.
“Allora
d’accordo”, concluse Tom
raggiante.
La
campanella sembrò spezzare quel
momento con brutalità, riportandoci al presente.
“A
domani”, salutai Jackson e
Anne.
Poi
mi rivolsi a Angelica.
“Con
te, a dopo”, sorrisi.
Poi
m’incamminai con Thomas al mio
fianco, sempre allegro e quasi scodinzolante, verso la lezione
successiva.
“Ehi,
Coop!”, mi chiamò una voce
che, quel giorno, era ormai divenuta familiare.
“No,
non di nuovo”, mormorai
avvilita sottovoce.
“Morrison”,
borbottò Tom di fianco
a me, avvicinandosi a me fino a che le nostre braccia non si toccarono.
“Duke”,
lo salutò Dean.
“Abbiamo
un’altra lezione
insieme”, dichiarò entusiasta Dean, come se fosse
una cosa di cui vantarsi.
“Evviva”,
mormorai sarcastica,
lanciando le braccia in aria esasperata.
“Ci
sono anch’io”, s’intromise
Tom.
Lo
ignorammo entrambi.
“Dai
Coop, faremo tardi”, mi prese
per un braccio.
A
quel punto, arrivò alle mie
spalle la mia salvezza.
“El!”,
mi urlò Claire, prendendomi
per il braccio che stringeva Dean.
Sia ringraziato il Cielo, pensai
sospirando di sollievo.
“Claire!”,
le sorrisi affabile e
mi lasciai trascinare via.
Mi
affrettai lungo il corridoio,
camminando al fianco di Claire.
“Grazie”,
le mormorai sottovoce.
Ridacchiò
divertita.
“Di
niente”.
Entrammo
in classe ancora ridacchiando,
precedendo di qualche secondo Dean e Tom.
Fui
più rapida che mai a prendere
posto al fianco di Allison Moore, con cui avevo scambiato poco
più di qualche
saluto, la quale mi sorrise e tornò a seguire la lezione.
La
lezione di Inglese trascorse
velocemente, senza lasciarmi tempo di pensare a nient’altro
che non fossero i
miei appunti. L’ora
di Biologia fu ben
altra storia. Il professor Varner non mi fu d’aiuto,
facendomi una domanda a
cui non sapevo rispondere, né avevo ascoltato.
“Signorina
Cooper?”, mi chiamò
stizzito, forse per la seconda volta.
Mi
voltai, sobbalzando e tirando
su la testa di colpo.
Non
avevo assolutamente sentito
cosa mi avesse chiesto e arrossii, abbassando lo sguardo.
“Sì,
professore?”.
“Saprebbe
rispondere adeguatamente
alla domanda di Moore?”.
Mi
voltai verso Allison, che mi
fissava dispiaciuta dall’altro lato della classe.
Abbozzò un sorriso di scuse,
che non mi sentii di ricambiare.
“No,
professore”, risposi
avvilita.
“Vorrebbe
invece spiegarci in modo
altrettanto brillante quello di cui si stava occupando?”.
“No,
professore”, ripetei, questa
volta scocciata.
La
lezione riprese, ed io cercai
questa volta di non perdermi nei miei pensieri.
Anche
stavolta Edward era tornato
con prepotenza nella mia testa, senza che decidessi volontariamente di
farlo. Presi
appunti, cercando di stare attenta, ma a fine lezione sapevo che non
sarei
stata in grado di ripetere una sola parola detta.
Quando
suonò la campanella mi
precipitai all’uscita, preceduta da Angelica che tentava in
ogni modo di
rallegrarmi. Non era successo niente di particolare, certo, ma
quell’episodio
non aveva fatto altro che confermare una volta per tutte che quella
giornata
aveva qualcosa di storto.
Una
volta fuori da quell’edificio,
mi sentii quasi meglio.
Respirai
a pieni polmoni l’aria
tiepida che mi avvolgeva come una bolla, e sorrisi. Tutto questo
durò solo
qualche secondo, prima di accorgermi che Tom mi seguiva.
“El!”,
mi chiamò, raggiungendomi
di corsa e afferrandomi il braccio.
“Angelica”,
la salutò con un
sorriso.
“Ciao
Tom”, rispose lei, gentile.
“Sai,
stamattina non ho avuto
tempo di chiederti una cosa”, ammise Thomas sorridente.
“Dimmi”,
mormorai acida, mentre
cercavo con lo sguardo la Volvo che mi avrebbe riportata a casa.
“Mi
chiedevo…come mai i Cullen non
sono venuti oggi?”.
Lo
guardai in cagnesco,
chiedendomi cosa potesse interessargli.
“Oggi
è una bella giornata, e
quindi sono andati a fare trekking”, risposi cercando di
apparire rilassata.
“Io ho insistito per venire a scuola e Rose mi ha
accompagnata”.
“Rose?
Rosalie? La bionda bella e
glaciale?”, domandò stupito Tom.
“Sì,
lei”, non avevo voglia di
iniziare una discussione inutile con lui.
“El,
io vado. Ci vediamo domani”,
mi salutò Angelica con un sorriso.
“A
domani Ang, magari ti chiamo
stasera”.
“Okay,
allora a più tardi”, disse.
“Tom”.
La
guardai allontanarsi, percependo
che l’effetto benefico che aveva su di me cominciava a
svanire.
“Quindi
sabato vieni?”, sentii
Thomas domandare alle mie spalle.
Mi
voltai verso di lui.
“Ho
detto che vengo, quindi direi
di sì”, tagliai corto.
“Sei
sicura che ti vengano a
prendere? Magari posso darti io un passaggio”.
A
quel punto la vidi, la mia tanto
attesa Volvo scintillante.
Indicai
con un sorriso l’auto che
aveva appena spento il motore in un angolo del parcheggio.
“Sicura”,
risposi trattenendo una
risata.
L’espressione
affranta di Thomas
era impagabile.
“A
domani”, mi congedai
sorridendo.
O
almeno così speravo.
“No,
ti accompagno fino alla
macchina”, dichiarò cocciuto.
Mi
costrinsi a non urlare, anche
se ne avevo una voglia matta. Mi passai semplicemente una mano nei
capelli, nervosa,
spostandoli da un lato. Camminammo in silenzio, veloci. Ora avevo
fretta di
tornare a casa. Qualunque cosa per togliermi di dosso
quell’essere appiccicoso
e insistente.
Quando
arrivammo davanti alla
macchina, mi voltai sfoggiando un gran sorriso. Speravo non sembrasse
così
falso come lo sentivo.
“Grazie
di avermi accompagnata,
Tom”, dissi rapidamente. “A domani”.
A
quel punto non seppi esattamente
cosa o come accadde, ma le labbra di Tom si posarono sulle mie, ruvide
e
insistenti almeno quanto lui.
Quando
me ne resi conto, appoggiai
le mani al suo petto e lo spinsi via, cercando di non apparire troppo
rude. Tom
sorrideva, io ero più che furiosa.
Mi
accorsi che stava per dire
qualcosa, così alzai un dito per zittirlo.
“No”,
quasi ringhiai. “No”.
Aprii
di scatto il bagagliaio e vi
lanciai all’interno il mio zaino.
Quando
per la prima volta scorsi
la figura che mi attendeva all’interno, sentii il mio stomaco
contorcersi in
protesta. Strinsi i pugni, facendo appello all’ultimo
briciolo di autocontrollo
che mi rimaneva, e mi feci forza.
Lanciai
un’ultima occhiata feroce
a Thomas, ancora imbambolato dove lo avevo lasciato, e scossi la testa.
Questa
giornata era proprio destinata a peggiorare.
Aprii
la portiera con forse più foga
del necessario, preparandomi ad affrontare Edward.
O,
nel mio caso, ad ignorarlo.
Tan tan taaaaaaaaaan! E
ora? Muhahaha. Comunque! Fatemi
sapere cosa ne pensate u.u Non vi terrò ancora molto sulle
spine, giuro! Buona Pasqua a
tutti! A sabato prossimo :)
Buonasera mondo! Oggi sono
andata a vedere 'Cappuccetto
rosso sangue', un po' per curiosità e un po'
per "sostenere moralmente" la Hardwicke. Carino, niente di particolare.
Una nota negativa va sicuramente alla mancanza di chimica tra la
Seyfried e Fernandez(lui gran bel pezzo di figliolo però,
non c'è che dire xD), alla recitazione un po' carente e al
continuo senso di déja-vù nei confronti di
Twilight. Quel "Hai paura?" - "No" è stato agghiacciante da
sentire in particolare. Però tutto sommato è
stato carino. Billy Burke è il migliore!(Team Charlie FTW!) In ogni caso! Ho
finito con la mia recensione non richiesta xD Passiamo a noi u.u
Avevamo lasciato quei due in una situazione che sembrava promettere
qualche scintilla. Buona lettura! :)
Capitolo
18. Speciale.
Entrai
in macchina, chiudendomi la
portiera alle spalle con forza. Evitai accuratamente il suo sguardo
indagatore,
che percepivo tuttavia sul mio viso imbronciato. Non seppi se mi
salutò, o se
mi evitò completamente. Avevo ancora i timpani compressi da
quel ronzio
assillante che avevo nelle orecchie. Nessun dubbio che fosse per la
rabbia.
Mi
accoccolai sul sedile,
raccogliendo le gambe e stringendole con le braccia. Appoggiai il mento
sulle
ginocchia, mentre la macchina prendeva il volo verso casa. Restammo in
silenzio
a lungo, l’unico suono a riempire l’aria era il
rombo del motore. Tuttavia,
quel rumore sembrava non fare altro che amplificare il silenzio.
Strinsi i
pugni, costringendomi a non
voltarmi
e non incontrare il suo sguardo che sapevo seguirmi.
Rimasi
con gli occhi fissi sul
paesaggio oltre il parabrezza, riuscendo a scorgere, tuttavia, solo
ricordi.
Ricordi che in quel momento non avrebbero dovuto venire a galla,
ricordi che
era vitale tenere chiusi in un cassetto della mia mente, per evitare di
tradirmi. Ricordi che stentavo a credere di aver vissuto. Ormai non
riuscivo
nemmeno più a pensare che fosse vero.
Dopotutto,
come potevo esserne
sicura? Se non fosse stato per il mio corpo, che sembrava ricordare
meglio di
me quella sera, probabilmente sarei giunta alla conclusione che me
l’ero
immaginato.
Ma
ricordavo. Ricordavo il lieve
tremore nelle sue mani, come nelle mie, mentre si posavano sul viso
dell’altro;
la consistenza dei suoi capelli bronzei, stretti alle mie dita; il modo
in cui
sembrava stessi andando a fuoco, percorsa da una scossa elettrica che
ancora
riuscivo a percepire, anche se solo una debole eco di quello che era
stato.
Anche tu, meglio di qualunque altra cosa al mondo.
Quelle
parole, come impresse sulla
carta, sembravano fluttuare ancora nella mia mente. In quel momento ci
avevo
creduto. Le avevo credute vere, sincere.
La
rabbia, pari in quel momento solo
allo sconforto, ebbero il sopravvento. Spezzai il silenzio, senza
alzare lo
sguardo di un millimetro dalle mie mani strette in pugni.
“Perché?”,
mi limitai a sillabare
attentamente, lettera per lettera, furente.
“Rosalie
è andata a caccia con
Emmett, e Alice non poteva”, rispose brusco.
La
sua voce, nonostante fosse
aspra, era pur sempre più vellutata e perfetta di qualunque
voce umana. Sorrisi
affranta, scuotendo la testa lievemente.
“Perché?”,
ripetei.
Sentii
i miei occhi gonfiarsi di
lacrime di rabbia.
“Non
credo di seguirti”, ammise.
Mi
morsi un labbro, pentendomi
all’istante della mia decisione. Mi voltai ad incontrare il
suo sguardo. Notai
le sue nocche stringersi sul volante, ma non dissi nulla. Non avrei
più detto
nulla.
Distolse
gli occhi freddi dai
miei, tornando ad osservare la strada tra gli alberi.
Scoppiai
a piangere in silenzio,
nascondendomi ai suoi occhi, tenendo lo sguardo annebbiato dalle
lacrime fisso
fuori dal finestrino.
Con
mia sorpresa, sentii i freni
dell’auto stridere e fermarsi. L’auto era ferma,
ancora nascosta tra gli alberi
che sembravano avvolgerla. Senza pensarci, mi voltai smarrita verso
Edward. Lui
era lì a fissarmi, l’espressione sul suo volto
colma di risentimento e
tristezza.
Mi
affrettai ad asciugarmi gli
occhi con il dorso della mano. Poi mi limitai a fissarlo, a lungo ed in
silenzio, mentre la rabbia tornava a farmi visita.
“Vorrei
andare a casa, se non ti
dispiace”, sbottai ad un tratto, irritata.
“Perché
ti stai comportando
così?”, domandò lui.
Mi
venne da ridere, ma mi limitai
a scuotere la testa, affranta.
“Portami
a casa, Edward”, il mio
tono di voce sembrava una supplica.
“Dobbiamo
parlare”, continuò testardo.
“Ora”.
Lo
fissai in cagnesco, incrociando
le braccia sul petto.
“Bene,
parla”, sbottai
infastidita.
“Dovresti
dirmi tu cosa c’è che
non va”.
A
quel punto, la rabbia e tutto il
resto accumulati in quella giornata esplosero.
“Io? Dovrei spiegarti io
cosa c’è che non va? Dovrei spiegarti io
perché sono più di venti giorni che mi
eviti, dopo quello che è successo?
Tu…”, la mia voce si perse tra un singhiozzo
e l’altro.
Odiavo
le mie lacrime da rabbia.
Scossi la testa in silenzio.
Edward
mi fissava costernato, ma
ormai sapevo che era un bravo attore.
“Portami
a casa”, ordinai con la
voce più ferma di cui ero capace in quel momento.
“El…”.
Lo
ignorai completamente.
“Portami
a casa”, ripetei.
“Elizabeth!”,
la sua voce
riecheggiò in tutto l’abitacolo, costringendomi a
dargli retta.
Seguì
un lungo silenzio, in cui
tutto mi sembrò completamente immobile. Il suo sguardo era
perso oltre il
vetro, pensieroso. E dopo, improvvisamente, si voltò di
nuovo verso di me. Prese
un lungo respiro.
“Tu
non sai, non puoi
capire…quanto mi costi evitarti, non chiederti nulla,
nemmeno quando ti vedo
tesa o infelice. Non puoi capire”.
“Già.
Non capisco”, mormorai
asciugandomi le lacrime per l’ennesima volta. “Ora
portami a casa”.
“Non
ho finito”, disse accennando
un sorriso.
Mi
sforzai di non pensare quanto
fosse bello quel sorriso, quanto mi mancasse.
“Ho…ho
capito che non posso
evitarti. Per me sei un’ossessione, cerco di evitarti, ci
provo, ma non ci
riesco. Vedo il tuo viso ovunque, il tuo sorriso, i tuoi
occhi…”, la sua voce
aveva cambiato nuovamente tono, diventando seria e di nuovo vellutata.
E, mio
malgrado, intrisa di sincerità.
Per
un attimo, affogai in quella
sincerità, costringendomi a credere che fosse vero, che non
fosse semplicemente
un attore migliore di quanto avessi mai pensato. Decisi di cambiare
tattica.
“Perché
hai deciso di evitarmi, se
ci tieni davvero così tanto?”.
Sospirò,
avvilito.
“Non
mi credi”, disse.
Non
era una domanda. E aveva
ragione.
“Sto
aspettando una risposta”,
continuai cocciuta.
“E’
proprio perché ci tengo,
perché tengo a te, che l’ho fatto. Non potevo
sopportare di farti del male
e...”, sembrò fermarsi per prendere aria.
Non
riuscivo a staccare lo sguardo
dal suo viso.
“Quando
quella sera mi sei stata
così vicina, troppo
vicina, avevo
paura anche solo di toccarti. Sarebbe bastato un niente per ucciderti e
così mi
ripromisi di non cercarti più. Preferisco vivere ed amarti
da lontano che avere
anche solo la più lontana possibilità di farti
del male”.
Percepii
la mia mascella
spalancarsi.
“Cosa,
scusa?”, la mia voce salì
di alcune ottave.
Mi
guardò, confuso, ed abbozzò un
sorriso mozzafiato.
“Credo
di non aver capito cosa
intendi, soprattutto l’ultima frase”.
Il
suo sorriso truffatore gli
illuminò il volto, sollevandogli gli zigomi scolpiti nel
marmo.
Sentii
il debole, invitante tepore
della speranza cominciare a farsi strada dentro di me e mi costrinsi a
fermarla.
Nonostante tutto quello che mi aveva appena detto, non potevo crederci.
Non
volevo crederci.
Sospirò
profondamente, passandosi
una mano tra i folti capelli ramati.
“Non
mi credi ancora”.
“Non
posso crederci”.
“Perché?”,
apparve sinceramente
confuso.
Presi
un respiro profondo,
premendo le labbra una sull’altra con forza.
“Perché
non lo sopporterei”.
I
suoi occhi si spalancarono,
senza capire.
“Che…mi
lasciassi”, precisai. “Di
nuovo”.
Sembrò
rilassarsi. Chiusi gli
occhi, respirando profondamente per calmarmi.
Alcune
lacrime, le più insistenti
e testarde, si ostinavano ancora a scorrermi lungo le guance quando
sentii la sua
mano bloccarmi il mento, con infinita delicatezza. Dischiusi gli occhi
e lo
trovai a pochi centimetri da me. Il suo sguardo bruciava e questa volta
non lo
evitai.
Sentivo
di non avere la volontà
necessaria a resistergli, né l’avrei voluta. Era
quasi incredibile come ogni
singola cellula del mio corpo percepisse la vicinanza di Edward, come
sembrasse
volersi avvicinare il più possibile, fino a toccarlo di
nuovo.
Preda
di quel magnetismo che ormai
mi stava divorando, alzai timidamente una mano per posarla sul suo
viso. Le sue
guance si sollevarono in quello splendido sorriso che tanto mi era
mancato.
Accostò
il suo volto al mio, fino
a sentire il suo respiro sulla mia pelle. Il mio cuore sembrava volermi
uscire
dal petto, ne sentivo gli echi confusi ed incespicati colmare il poco
spazio
rimasto tra di noi.
Poi
avvicinò le sue labbra sempre
di più alle mie, finché non ne presero la stessa
forma. In quel momento capii
che non sarei più riuscita a vivere solo di ricordi. Non mi
sarebbero bastati.
Le
mie labbra sembravano bruciare
sotto le sue, che si muovevano lente ma con decisione, rabbia, come se
cercassero di recuperare in un istante il tempo perduto. Quel bacio
finì troppo
in fretta, senza darmi nemmeno il tempo di rendermene conto.
Staccò la bocca
dalla mia, con infinita gentilezza – come se fossi la cosa
più fragile che
avesse mai toccato – ed appoggiò la fronte contro
la mia. La punta del mio naso
sfiorava il suo, ed ero certa che sarei potuta sprofondare
nell’oro dei suoi
occhi, tornato finalmente caldo e brillante.
“Ora
sei convinta che non ti
lascerò?”, sussurrò piano, come se
anche lui avesse timore di interrompere quel
momento.
“Sì,
ora sì”, risposi con un filo
di voce. “Almeno spero”.
Accennò
un sorriso, al quale
risposi senza sforzo. Non sembrava volersi muovere, quindi decisi di
cercare
nuovamente le sue labbra. Tuttavia, me le lasciò appena
sfiorare, giusto il
tempo di far impazzire il mio cuore un’altra volta.
Mugugnai
scocciata.
“Non
è giusto che solo tu possa
baciarmi”, borbottai facendo una smorfia.
Edward
rise.
“Non
credo che tu debba tentare la
sorte inutilmente”, ribadì serio.
Poi,
dopo l’ennesimo sbalzo
d’umore, ridacchiò.
“E
poi pensavo che due baci al
giorno bastassero”, sogghignò divertito.
“Questo
non valeva”, replicai.
Si
avvicinò nuovamente,
scompigliandomi i capelli e raccogliendo una lacrima, ormai
dimenticata, con le
labbra.
“Io
mi riferivo al tuo amico,
infatti”, nonostante i battiti assordanti che sentivo nelle
orecchie, riuscii a
percepire il sorriso nella sua voce.
Mi
stava prendendo in giro, e si
stava anche divertendo. Sbuffai, le mie labbra contro le sue.
“Oggi
è stata proprio una
giornataccia”, ammisi seccata.
“Ah,
davvero?”, domandò innocente.
“A
parte quest’ultimo
particolare”, dissi toccando la punta del suo naso con
l’indice della mia mano.
“E’ stata davvero una giornata orribile”.
“Non
solo per Duke, vero?”, vidi
il suo sorriso tendersi ulteriormente.
Sospirai,
questa storia me
l’avrebbe riproposta all’infinito.
“Tu
non dovresti essere geloso,
invece di continuare a prendermi in giro?”, domandai
fingendomi indignata.
Si
avvicinò di nuovo, facendomi
perdere il filo del discorso.
“E
lo sono”, mormorò tra i miei
capelli. “Credimi”.
Ad
un tratto, mi sentii
preoccupata.
“Ehi,
domani non c’è il sole,
vero?”, chiesi agitata.
Un’altra
giornata così non l’avrei
sopportata di certo. Tuttavia, sembrava aver altro da fare; non mi
rispose. In
effetti, quella risposta avrebbe potuto aspettare. Le sue labbra
parevano voler
recuperare il tempo perso, e per quanto mi riguardava ci riuscivano.
“Domani
sarà una splendida
giornata di nubi qui a Forks”, mi disse poco dopo.
Troppo,
troppo poco.
“Forks”,
gli feci eco, pensierosa.
Chissà
che tempo c’era a Miami in
quel momento. La mia Miami...
Mi
bastò uno sguardo al mio fianco
per lasciar dissolvere quel pensiero in mezzo agli altri.
“Direi
che possiamo andare a casa
adesso”, disse Edward sfoggiando un gran sorriso.
Annuii
decisa.
“Casa”,
ripetei, per la prima
volta da chissà quanto, felice.
Me
ne rendevo conto mentre salivo
i gradini uno ad uno – lentamente – della grande
casa bianca, mentre le dita
infinitamente fredde di Edward stringevano le mie. Ero felice. Ero a
casa. E il
sorriso che avevo sul volto ne era una prova.
“El!”,
la voce di Rosalie sembrò
riportarmi alla realtà.
Mi
venne incontro sorridendo, per
poi fermarsi, alternando sguardi scettici tra me, Edward e le nostre
mani
ancora strette. Inarcò un sopracciglio, aprendo la bocca per
parlare.
Alzai
un dito, fermandola appena
in tempo. Sapevo già cosa avrebbe detto.
“Sì,
Rose”, mi affrettai a dire.
“Poi ti spiego tutto”.
Sembrò
rilassarsi visibilmente.
Sospirò.
Forse
quella mattina l’avevo
trattata peggio di quanto pensassi. Edward mi guardò,
improvvisamente
allarmato, e sembrò cercare sul mio volto indizi di qualcosa
che ignoravo.
Sorrise, scuotendo lievemente la testa, e lasciò la mia mano
con dolcezza. Lo
guardai, senza capire.
Poco
dopo apparve Emmett. Sorrisi
ad Edward, complice. Lui si strinse nelle spalle, innocente.
Non
era ancora tempo di far sapere
ad Emm ogni cosa.
“Oh”,
esclamò Emmett fingendosi
sorpreso. “Allora sei sopravvissuta!”.
Gli
feci una smorfia.
“Non
grazie a te”, replicai
mostrandogli la lingua.
Rispose
alla mia smorfia in modo
più che adeguato, solo più terrificante.
“Ehi!”,
strepitò nuovamente
Emmett. “Voi due siete vicini!”.
Ci
indicò spalancando gli occhi.
Senza che me ne fossi resa conto, il mio sguardo era tornato a cercare
Edward.
Lui, d’altronde, non si stava comportando diversamente.
Emmett
fece oscillare una grande
mano tra i nostri visi, fingendo un’espressione sbalordita.
“E
riuscite anche a vedervi!”,
scoppiò a ridere prima di finire la frase.
Edward
lo seguì, così come Rose.
Io mi limitai a sorridere, imbarazzata e pensierosa.
Era
davvero stato così evidente? E
soprattutto, quanto era stato evidente per far sì che anche
Emmett se ne
accorgesse?
“El?”,
la voce di Emmett mi
riportò sulla terra.
Tirai
su la testa di scatto,
disorientata.
“Eh?”,
chiesi confusa.
“Bentornata
sulla Terra”,
m’informo ridacchiando.
Grugnii
infastidita e sbuffai.
“Che
ore sono?”, chiesi ad un
tratto.
La
luce fuori dalle finestre era
ormai fioca, forse era il crepuscolo. Ad un tratto, non avevo
più così fretta
che quella giornata finisse.
“Le
cinque”, rispose Rosalie.
“Devo
fare i compiti”, ammisi.
“Hai
bisogno di una mano?”, fu
l’automatico responso di Rose.
Rosalie
alternava occhiate perplesse
tra me ed Edward, soffermandosi sul mio viso con fare apprensivo. Le
sorrisi,
scuotendo la testa.
“No,
non credo di avere bisogno”,
la rassicurai. “Nel caso ti chiamo”.
Rosalie
annuì, scoccando
un’occhiataccia ad Edward.
Sorrisi,
sinceramente divertita da
quella scena. Mi voltai e mi allungai verso la porta. Tuttavia,
qualcuno fu più
veloce di me nell’aprirla. Edward mi fissava, il suo volto
sereno e splendido. Con
le labbra disegnò quel suo sorriso truffatore che era capace
di togliermi il
fiato.
“Ti
accompagno”, m’informo senza
che potessi replicare.
E
non avrei replicato. Camminammo
in silenzio fino a raggiungere il garage. Ancora stentavo a
considerarla casa mia.
“Pensierosa?”,
mi sussurrò Edward
all’orecchio, senza preavviso.
Sobbalzai,
passandomi una mano nei
capelli come ero solita fare. Feci spallucce.
“Non
più di tanto”, risposi vaga.
“Sembrava”,
imitò il mio tono.
Risi
della sua espressione.
Quando
fummo sulla porta del
garage, sfilai la chiave dalla tasca e l’aprii. Entrai senza
pensarci,
lanciando le chiavi sul mobile. Sentendomi avvolta dal silenzio, mi
voltai in
cerca di Edward.
Era
ancora là, immobile e
bellissimo, che mi osservava sorridendo, un’espressione quasi
insicura sul suo
volto.
“Che
c’è?”, domandai imbarazzata.
“Niente”,
si strinse nelle spalle.
“Non
entri?”.
“Dovrei?”.
Esibii
la mia migliore espressione
indignata.
“Oh
beh, se non vuoi…”, mi
apprestai a chiudere la porta, trattenendo un sorriso evidente.
Fu
dietro di me prima che la porta
fosse anche solo a metà della strada. Le sue braccia si
allacciarono ai miei
fianchi ed ebbi qualche difficoltà nell’impormi di
respirare.
“Vuoi
una mano con i compiti?”, mi
propose con voce mielata.
Al
momento, avevo in mente tutto
fuorché i compiti.
“Compiti”,
sbuffai.
Ridacchiò
divertito.
“Devo
farli per forza, secondo
te?”.
“Hai
intenzione di farmi fare
brutta figura con i professori?”, chiese fingendosi offeso.
“Dopotutto abbiamo
dato noi la tua iscrizione alla signorina Cope”,
continuò.
Questa
volta non riuscì a
trattenere il sorriso che si faceva largo sulle sue labbra.
“Oh,
sì”, dissi con enfasi.
“Povera signorina Cope!”.
Ridacchiammo
insieme, senza
staccare gli occhi l’uno dall’altra.
Mi
sentivo così
straordinariamente…felice. Perfetta, speciale. Bastava il
suo sguardo a farmi
sentire così. Mi faceva apparire il premio, invece della
vincitrice.
Qualche
minuto dopo, in camera –
seduta alla mia scrivania – tentavo di farmi entrare in testa
la lezione di
Biologia. Volevo evitare di farmi trovare nuovamente impreparata e
distratta ad
una domanda, ma non c’era verso. Biologia sembrava
repellermi, così come
riusciva solo la Matematica.
“Una
mano?”, sussurrò ad un tratto
Edward contro i miei capelli.
“Anche
due”, risposi sospirando.
“Prova
a concentrarti, non mi
sembri molto attenta”, percepii il sorriso nella sua voce.
“Oh,
certo. La fai semplice tu”.
In
effetti non ero granché attenta
alla quantità impressionante di paragrafi sul mio libro.
Questo, in gran parte,
era dovuto alle labbra di Edward posate sulla mia testa, che sentivo
tendersi
in un sorriso ogni volta che sbuffavo o sospiravo.
“Non
mi stai aiutando molto così”,
sbottai petulante.
La
Biologia non aveva effetti
benefici su di me. Il suo sorriso si tese nuovamente, lasciandosi
sfuggire un
sospiro. Sospirai anch’io, mentre percepivo le sue labbra
scivolare fino a
raggiungere il mio collo. Rabbrividii, inarcando il collo e sorridendo.
“No,
nemmeno così”, riuscii a dire
mentre l’unica cosa che sentivo era il mio cuore pulsare
nelle orecchie.
“E
così?”, la sua voce era dolce,
bassa. Perfetta.
Mi
bastò quella per rabbrividire.
Feci
finta di ponderare una
risposta, mentre le sue labbra scorrevano lungo l’incavo del
mio collo e sulla
mandibola. Il mio cuore probabilmente aveva deciso di abbandonarmi,
stava
correndo all’impazzata.
“No”,
farfugliai, costringendomi a
respirare. “Neanche così”.
Sospirò
contro la mia pelle,
sentivo il suo respiro fresco e perfetto...
“Peccato”,
mormorò, ritraendosi
troppo in fretta.
Mi
costrinsi a non fare il broncio
non appena si scostò da me.
“Forse
però mi serviva”, abbozzai
dopo qualche secondo.
Edward
ridacchiò divertito.
“Ne
dubito”.
“Come
fai a saperlo?”, lo sfidai,
voltandomi verso di lui e incrociando le braccia sul petto.
“Non
mi tentare”, replicò lui
sorridendo il mio sorriso preferito.
Sostenni
qualche istante il suo
sguardo prima di decidere che non avevo più voglia di fingere di studiare. Chiusi il libro di
scatto, sorridendo
ampiamente.
“Ho
finito”, annunciai alzandomi.
Mi
allontanai, sicura che ne
sarebbe rimasto sorpreso. Infatti non mi deluse.
“Dove
vai?”, domandò incuriosito.
Scoppiai
a ridere.
“Che
c’è?”, chiese.
“Sei
prevedibile”, lo presi in
giro.
“Dove
vai?”, ripeté.
“Ho
voglia di chiamare un’amica”.
“Angelica”,
decretò lui.
“Pensavo
non mi sapessi leggere
nel pensiero”.
“Sei
prevedibile anche tu”, mi
sorrise compiaciuto.
Gli
feci una smorfia.
“E
oggi ho sentito che l’avresti
chiamata”, si strinse nelle spalle con fare innocente.
“Che
fai, mi spii?”, domandai fingendomi
offesa.
Sfoderò
un sorriso nuovo,
malizioso.
“Può
darsi”, ammise.
“Come
sarebbe può darsi?”,
esclamai indignata, senza riuscire tuttavia a trattenere una risata.
Il
telefono che prese a vibrare
tra le mie mani mi distrasse dalla conversazione. Sorrisi quando lessi
il
numero sul display. Lo dicevo sempre che sapeva leggermi nel pensiero.
“Tu
e Angelica dovreste mettere su
una compagnia”, gli suggerii sorridendo.
Poi
risposi al cellulare, il
sorriso ancora sulle labbra.
“Ehi
Ang”, esordii.
La
telefonata durò a lungo, come
sempre.
Parlammo
di tutto e, quando
conclusi la telefonata, era ormai ora di mangiare per me. La notizia
più
importante, tuttavia, era però che Claire non sarebbe venuta
sabato a First
Beach.
“Andiamo
a mangiare?”, propose
Edward una volta che ebbi messo giù il cellulare.
“Io vado a mangiare, tu
mi
controlli”, precisai citando una sua vecchia frase.
“Come
sempre”.
Quel
sorriso, prima o poi, mi
avrebbe fermato il cuore. Ne ero piuttosto certa.
Ebbene! Ce l'hanno fatta.
Era ora direi! Vi avevo detto che non vi avrei tenuti sulle spine per
molto u.u Cosa non darei per fare i compiti anch'io con Edward ._. Ah niente, spero
vi sia piaciuto. Ringrazio per il responso al capitolo precedente -
ricevere recensioni e sapere cosa ne pensate mi fa sempre davvero
piacere! Vi invito a ripetervi anche stavolta xD Eee che altro, GRAZIE
A CARLI E FA' che nonostante non mi sopportino più, lo fanno
lo stesso(non so bene come). Ok, ho concluso! Oggi parlo troppo. A
sabato prossimo! :)
Buonasera mondo! Sono un
po' in ritardo rispetto alla solita tabella oraria, chiedo perdono. Ma
ho un alibi: oggi sono andata a (ri)vedere Water for Elephants!(Mi
rifiuto categoricamente di chiamarlo con il titolo tradotto, ennesima
prova di quanto possiamo essere squallidi in questo campo). Vi
risparmierò dall'ennesima recensione di film non richiesta,
vi dico solo che è tanta roba - sia il film che il Roberto
xD Buona lettura! :)
Capitolo
19. Questione di persuasione.
Da
quel pomeriggio tutto sembrò
riprendere un ritmo più regolare e salutare. Io ed Alice ci
allenammo poco in
quella settimana, e solamente vicino a casa. Non tornammo
più a quella bizzarra
radura simmetrica dall’aspetto familiare. Tutto
ciò era in parte dovuto al
fatto che quella settimana la pioggia sembrava non voler dare tregua al
cielo,
continuando a far scrosciare ripetute e fitte cascate
d’acqua. D’altra parte, e
soprattutto, era però dovuto al fatto che il mio magnetismo
ormai sembrava aver
preso il sopravvento su tutto il resto. Edward ed io stavamo insieme
quanto
possibile, sempre.
Ai
ripetuti appelli di Alice e
alle incessanti prese in giro di Emmett riuscivo a rispondere
semplicemente con
un sorriso imbarazzato o una smorfia. Mi andava più che bene
così, non mi
importava.
A
scuola, Edward sembrava ancora
divertirsi nel vedere lo sguardo avvilito ma imperturbabile del mio
amico
Thomas. A dire la verità, la cosa un po’ divertiva
anche me. L’unica persona
che pareva più che scioccata, se non irritata, da questa
novità era Rose. Le
occhiate che mi riservava erano preoccupate, contrariate. Non capivo il
perché
del suo comportamento, ma cercavo in ogni caso di non badarci. Edward
sembrava accorgersi
di qualunque cosa provassi, e più di una volta mi aveva
chiesto se avevo
qualcosa che non andava.
Quel
venerdì, quando mi svegliai,
ero più che agitata. Il giorno dopo sarei andata a First
Beach. A La Push. Ancora
non sapevo se fosse giusto andarci, se potevo o se avrei violato
qualche altro
strano patto tra creature mitologiche. Accordi a parte, ero
più curiosa che mai
di vedere la riserva e Jacob.
Jacob. Chissà come stava.
Chissà se quello strano, enorme ragazzo
mi ricordava ancora. La sua espressione combattuta e tormentata, la
sorpresa
sul suo viso nell’istante in cui il mio velo si era
abbassato, erano ancora
presenti nei miei ricordi. Impressi come marchi a fuoco.
Quella
mattina mi alzai di
buonumore, nemmeno la lieve pioggerellina che scendeva timida dalle
nuvole pesanti
e grigie sembrava riuscire a scalfire la mia eccitazione. Una volta a
scuola,
tuttavia, mi sorpresi nel non vedere Angelica ad aspettarmi sotto il
portico,
come sempre.
Strano, mi dissi. Tuttavia, faceva
piuttosto freddo. Probabilmente
era in corridoio o nell’atrio, il suo bel sorriso pronto a
salutarmi.
“Non
c’è”, un sussurro di velluto
mi sfiorò l’orecchio, facendomi rabbrividire.
Sobbalzai,
voltandomi verso quella
splendida voce.
Edward. Possibile che tutto
ciò fosse per me? Che lui potesse anche
solo lontanamente provare quello che io sentivo?
Il
suo sorriso truffatore sembrava
celare uno sguardo lievemente malinconico.
“Cosa?”,
domandai.
Non
lo seguivo.
“Angelica”,
chiarì dispiaciuto. “Non
c’è”.
“Oh”,
risposi.
Non
riuscivo a capire. L’avevo
sentita la sera prima, me l’avrebbe detto se avesse avuto da
fare.
“Ha
preso l’influenza”, precisò,
percependo la mia preoccupazione.
“Oh”,
ripetei.
Gli
sorrisi, stringendo le sue
dita che mi avevano raggiunta.
“Mi
dispiace”.
“Già”,
dissi. “Ma tu come fai a
saperlo?”.
Il
suo sorriso mozzafiato di
sempre gli sollevò le labbra. Si picchiettò in
modo eloquente la fronte con le
lunghe dita sottili, per poi scompigliarmi dolcemente i capelli.
“Credevo
che con me vicino ti
fosse impossibile”.
“Certamente”,
si strinse nelle
spalle.
“E
quindi?”, continuai testarda.
“Prima
non ero poi così vicino”,
sorrise nuovamente. “E poi tu eri concentrata
altrove”.
“Non
sei poi così potente come
pensi”, mi prese in giro.
Gli
feci una smorfia, notando con
la coda dell’occhio la figura statuaria di Rosalie. Mentre il
suo viso si
avvicinava visibilmente al mio, non riuscivo a staccare lo sguardo
dall’espressione contrariata e pressoché ostile di
Rose. Edward se ne accorse,
fermandosi.
Mi
guardò negli occhi, seguendo il
mio sguardo fino a trovare Rosalie. Si allontanò lentamente,
fissando a lungo la
sorella. Quella situazione cominciava a mettermi a disagio.
“Vieni”,
mormorò ad un tratto.
“Andiamo a lezione, ti accompagno”.
Annuii
distrattamente, ancora un
po’ turbata.
Oltre
al fatto che Rosalie
sembrasse avercela con me – cosa che continuavo a non capire
– Angelica non
c’era. E cosa ancora più preoccupante al momento,
Angelica non sarebbe venuta
alla riserva. Da un punto di vista egoistico, quella era la cosa che
più mi
angosciava.
Durante
la lezione di Spagnolo,
con il posto accanto al mio completamente vuoto, le lancette sembravano
volermi
prendere in giro, scorrendo al contrario. Matematica, se possibile, fu
anche
peggio. Il mio amico Thomas Duke non mi diede tregua, parlando senza
sosta. Mi
chiesi se quel pomeriggio lontano solo qualche giorno, quando le sue
labbra
avevano toccato con prepotenza le mie, fosse svanito dalla sua memoria.
Come
era possibile, altrimenti, che si comportasse così?
La
pausa pranzo scivolò via
velocemente, senza che nemmeno me ne accorgessi. Edward ancora
insisteva che
mangiassi con gli altri, quindi mi unii controvoglia al solito tavolo.
Stavano
ultimando i preparativi per il giorno seguente, cosa che ormai non
m’interessava più di tanto. Il mio umore era
calato vertiginosamente nelle
ultime ore.
Poco
prima che suonasse la
campanella, tuttavia, Edward si avvicinò al mio tavolo. La
sua espressione era
seria, leggermente preoccupata.
Mi
stupii ed osservai con cura i
suoi lineamenti perfetti.
“El”,
mi chiamò con voce seria.
Non
mi ero sbagliata, c’era
qualcosa che lo preoccupava. Senza neanche che lo dicesse, mi alzai di
scatto e
gli andai vicino.
“Edward”,
mormorai a bassa voce,
sicura che mi avrebbe ugualmente sentita. “Che
succede?”.
“Vieni
un secondo”, il suo tono mi
allarmò.
Mi
scusai rapidamente con i
presenti, abbandonando il tavolo e seguendo Edward. Eravamo sempre
attenti a
scuola – o in pubblico – a non dare troppo
nell’occhio, a non stare troppo
vicini. Tuttavia, in quell’occasione, preferii avvicinarmi a
lui per guardarlo
al meglio negli occhi.
“Dimmi”,
cercai di suonare decisa.
Si
guardò attorno, poi scosse la
testa lentamente.
Con
mia sorpresa, mi prese per
mano e mi trascinò in corridoio, appena dietro una grande
colonna bianca
tappezzata di annunci colorati, in modo che fossimo fuori dal campo
visivo del
resto del corpo studentesco. Ci fermammo e Edward mi lasciò
la mano, espirando
pesantemente.
“Perché
non mi hai detto che vuoi
andare a La Push?”, non suonò quasi una domanda.
Mi
morsi il labbro. Sospettavo di
aver sbagliato, ora lo sapevo.
“Hai
idea a quanti problemi puoi
andare incontro?”.
I
suoi occhi fiammeggiavano, fissi
nei miei.
“Non
vi metterò in pericolo
ancora”, mormorai con decisione. “Io
non…”.
Edward
alzò gli occhi al cielo,
scuotendo la testa. Quando i suoi occhi tornarono nei miei, Edward
sorrideva –
un sorriso malinconico, quasi amaro, che lo rendeva splendido nella sua
apparente tristezza e incredulità.
“Non
è per noi che mi
preoccupo”, precisò. “Sei tu
il pericolo pubblico”.
“Molte
grazie”, sbuffai.
“El”,
sussurrò con dolcezza mentre
le sue dita correvano sul mio braccio, provocandomi la pelle
d’oca. “Non andare
a First Beach”, il suo tono ora era quasi una supplica.
“Per favore”.
“Ma…”,
azzardai. Mi fermai,
notando il suo sguardo.
Riprovai,
facendomi coraggio.
“Io
volevo andarci”, mi sentivo
tanto una bambina capricciosa.
Tuttavia,
era la verità. Il fatto
che me lo stesse impedendo sembrava aver risvegliato in me la voglia e
la
curiosità di visitare la riserva.
“Per
favore”, supplicai anch’io.
Il
suono della campanella coprì in
parte la mia voce. Edward sospirò. Sembrava combattuto.
Sentii che quello era
il momento dell’offensiva.
“Edward”,
sussurrai con dolcezza,
posandogli una mano sul braccio. “Per favore”.
Si
portò le dita alle tempie,
sospirando nuovamente.
“No”,
disse alla fine.
“Edward”,
implorai.
“No”,
ripeté risoluto, i suoi
occhi bruciavano d’intensità. “Non posso
lasciarti andare”.
Non
riuscivo a capire il motivo di
tutto ciò. Non capivo che problema ci fosse nel lasciarmi
andare da sola alla
riserva. Perché doveva impedirmelo? Tuttavia, non me la
sentii di replicare.
Rimanemmo
a fissarci, a lungo,
senza che nessuno parlasse.
“Ehi,
Coop!”, sentii qualcuno
chiamarmi.
Quando
riconobbi la voce, sbuffai.
“Ciao
Morrison”, non mi preoccupai
di apparire allegra o amichevole.
Edward
si allontanò da me
lentamente, sfiorandomi semplicemente il braccio. In silenzio. Avrei
tanto
voluto urlare.
“Hai
voglia di accompagnarmi a
lezione?”, domandò Dean sorridendo beffardo.
I
suoi modi non facevano che
irritarmi, ma evitai di rispondere come avrei voluto.
“Fai
come vuoi”, dissi apatica,
incamminandomi senza voltarmi.
“Oh,
Coop, aspettami!”, mi gridò.
Percepii
i suoi passi affrettati
alle mie spalle e poi al mio fianco.
“La
tua amica?”, chiese ad un
tratto.
“Angelica
è ammalata”, mormorai
distaccata.
“Oh”,
rispose. “Quindi non viene
domani, peccato”.
Perché
non mi sembrava che fosse
realmente dispiaciuto?
“Già”.
“Se
vuoi posso passarti a
prendere, così facciamo la strada insieme”,
propose su di giri.
Per
la prima volta da quando era
arrivato, mi voltai verso di lui a fissarlo.
“Non
credo che ci sarò, Dean”,
ammisi stanca. “Spiacente”.
Si
accigliò visibilmente.
Arrivammo appena in tempo per la lezione.
Tom,
già seduto al posto di
Angelica - e quindi di fianco a me -, non appena mi vide si
sbracciò,
sorridendo ampiamente. Sospirai.
Ancora due ore, mi feci forza.
Per
mia fortuna durante Inglese il
professore si limitò ad un breve ripasso, senza spiegare o
interrogare. Quando
giunsi alla fine della giornata, mi stupii di trovare Edward davanti
alla porta
dell’aula, pronto come sempre ad accompagnarmi fino alla
macchina.
Mi
accolse in silenzio,
accarezzandomi semplicemente la guancia ed abbozzando un sorriso. Come
ogni
volta che cercavo di fare la sostenuta, tentai di non fissarlo troppo a
lungo
negli occhi. Quando arrivammo davanti all’auto, mi
aprì gentilmente la
portiera. Tuttavia, invece di avvicinarsi al posto di guida, si
allontanò dalla
Volvo.
“Edward”,
lo chiamai stupita.
Si
voltò, un sorriso mal celato
sulle sue labbra.
“Devo
andare in segreteria a
recuperare dei documenti, torno subito”.
Annuii
rapidamente, appoggiandomi
alla portiera.
“Gli
altri?”, chiesi prima che se
ne andasse.
“Arrivano
tra poco”, mi sorrise e
si allontanò velocemente.
Lo
osservai sfilare via, rapita da
tanta grazia e bellezza.
Dopo
poco più di un minuto, Jasper
ed Alice comparvero nel parcheggio. Con mia sorpresa, tuttavia, Alice
si
allontanò verso la segreteria, come aveva fatto Edward.
Sospirai. Non mi
entusiasmava stare con Jasper.
Jasper
mi raggiunse lentamente,
restando come suo solito ad una insolita distanza di sicurezza. A volte
pensavo
mi odiasse. Sbuffai, incrociando le braccia sul petto ed appoggiando la
schiena
alla carrozzeria della Volvo. Stavo cercando impazientemente Rose e
Emmett tra
la folla, quando il silenzio tra me e Jasper, che riusciva a sovrastare
con
facilità il vociare degli altri studenti, si
spezzò.
“Sai
che non è così”, la sua voce
bassa e profonda mi distrasse dai miei pensieri.
Mi
guardai attorno, stupita da
quella voce familiare ma insolita. Lo fissai interrogativa.
“Cosa?”,
domandai senza capire.
“Non
è vero che ti odio”, la sua
espressione sembrava tesa, i suoi occhi guardinghi. “Lo
sento”, proseguì calmo.
“Sento che pensi che non ti sopporti, che credi che ti odi,
ma non è così”.
Mi
limitai a fissarlo, le mie
labbra spalancate in stupore. Era il discorso più lungo che
avessi sentito
provenire da lui.
“Non
sei tu, sono io”, continuò
dispiaciuto. “Il problema è…la sete.
La mia sete è diversa da quella di tutti gli altri.
Probabilmente è colpa di
tutti gli anni passati ad uccidere, senza pensare a quello che in
realtà
facevo. Tuttavia non…non riesco a starti vicino senza
desiderare di ucciderti”.
Nonostante
la sorpresa, cercai di
replicare.
“Ma
io non…”, farfugliai.
“No,
tu non hai odore. Non ora. Ma
quando quella prima sera il tuo odore mi ha colpito, anche se solamente
per un
istante, si è impresso nella mia mente, nella mia gola,
nella mia essenza
di…mostro. E ti reclama. Ogni volta, ogni singola volta che
ti sono vicino,
sento di rischiare di ucciderti”.
Il
suo sguardo era fisso nel
vuoto, pensieroso, mentre parlava con voce sommessa. Non sembrava
temere di
spaventarmi con le sue parole, come avrebbe fatto Edward. Si
voltò a fissarmi
in volto, gli occhi dorati che spiccavano sulla carnagione pallida.
“Non
posso, non potrei mai
ucciderti. Non me lo perdonerei. Questa è la mia famiglia e
uccidere te sarebbe
come ucciderne un membro”.
Non
avevo idea di cosa dire. Anche
solo se dovevo dire qualcosa.
Ero
totalmente stupefatta e
riuscivo a percepire la maschera di stupore fissa sul mio viso. Le sue
parole
mi facevano piacere, in uno strano modo. Certo, aveva appena ammesso di
volermi
uccidere, ma mi aveva anche considerata come un membro della sua
famiglia.
Senza nemmeno accorgermene, sorrisi.
“Sei
strana”, costatò Jasper,
nessuna traccia di offesa nella sua voce profonda.
Il
mio sorriso si tese
ulteriormente. Simulai un inchino, sentendomi per la prima volta a mio
agio con
Jasper.
Mi
voltai di scatto e Alice era
già dietro di me, un ghigno soddisfatto sul suo volto da
elfo.
“Ciao
El”.
Alice
mi degnò semplicemente di un
rapido saluto prima di tuffarsi tra le braccia di Jasper. Era difficile
vederli
mostrare la loro relazione, non erano certamente come Emmett e Rosalie.
Un
braccio mi cinse da dietro,
stringendomi a sé. La sua temperatura bastava a farmi capire
che fosse. Mi
accostai al suo corpo freddo e marmoreo, inspirandone profondamente
l’aroma
fresco ed inconfondibile.
“Ci
hai messo parecchio”, dissi
trattenendo un sorriso.
La
discussione a mensa sembrava
essere lontana anni luce, facevo fatica a tenere il broncio se era
così vicino.
“Non
è vero”, mormorò al mio
orecchio.
Sospirai.
“Okay,
non è vero. Ma a me è
sembrato un’infinità di tempo”.
Nonostante
fosse alle mie spalle, era
facile capire che stesse sorridendo. Più che probabilmente
di un sorriso
mozzafiato e compiaciuto.
“Potrai
perdonarmi?”, sussurrò
contro la mia pelle.
Respira, ordinai a me stessa.
“Può
darsi”, risposi con un filo
di voce. “Ora andiamo”, aggiunsi in fretta.
Edward
ridacchiò e mi lasciò
andare.
“Ai
suoi ordini”.
Sorrisi
divertita.
Aspettai
che salisse Jasper e
lasciai che occupasse il posto più lontano possibile da me.
Non perché avessi
paura, ma volevo evitare che soffrisse più di quanto facesse
già. Il tragitto,
schiacciata contro il corpo ingombrante di Emmett, non fu dei migliori.
Tuttavia,
evitai di lamentarmi.
Edward
e gli altri, una volta a
casa, decisero che era tempo di andare a caccia. Stare in
quell’enorme casa da
sola non mi entusiasmava, ma di certo non mi spaventava, quindi cercai
di
convincere Edward.
“Sei
sicura di non volere che io
rimanga qui con te?”.
“Edward”,
lo rimproverai con
un’occhiata. “Non puoi non andare a caccia
perché non vuoi lasciarmi da sola”.
Sembrava
sul punto di
interrompermi, quindi gli accarezzai il viso con delicatezza, portando
le dita
sulle sue labbra.
“Starò
benissimo”.
“Posso
stare qui, andrò la
prossima settimana”.
“Edward”,
lo rimproverai
nuovamente, osservando attentamente le occhiaie livide sotto i suoi
occhi. “Ne
hai bisogno. Vai”.
Sospirò
rassegnato, premendo la
sua guancia fredda sul mio palmo e socchiudendo gli occhi. Sapeva che
avevo
ragione.
“Sarò
a casa prima che faccia
buio”, mi promise.
“Non
ho paura del buio, sai?”, lo
sfidai.
Mi
sorrise quello splendido
sorriso truffatore che era capace di sciogliermi.
“Ci
sarò comunque”, ripeté
giocherellando con una ciocca dei miei capelli che ricadeva ribelle
sulle
spalle.
Annuii
senza convinzione. Ora che
se ne stava andando, cominciavo a realizzare che non sarebbe stato con
me.
“Edward!”,
la voce seccata di Emmett
tuonò nell’aria.
Sbuffai
scocciata. Edward sorrise.
“A
stasera”, mormorai
controvoglia.
Il
suo sorriso si tese, sembrava
compiaciuto.
“Non
starò via molto”.
“Lo
so”.
Mi
baciò velocemente, senza darmi
realmente il tempo di rendermene conto. Le sue labbra lasciarono le mie
troppo
presto. Troppo, troppo presto.
“Edward!”,
la voce di Rosalie
avrebbe potuto congelare un vulcano.
“Devo
andare”, sussurrò
dispiaciuto.
Il
suo tono amareggiato mi fece
sorridere. Gli passai con dolcezza le dita tra i capelli,
scompigliandoli un
poco.
“Vai”,
suggerii con un filo di
voce.
Sfiorò
nuovamente le mie labbra e,
il secondo dopo, era già sparito. Rimasi qualche istante
– forse più del
necessario – ferma a fissare il punto da cui supponevo fosse
scomparso.
Quando
sentii il motore potente
della jeep di Emmett e della BMW di Carlisle prendere vita ed
allontanarsi, fui
certa di essere sola.
Ero
sola. In casa. C’era ancora
luce, ma non sarebbe durato ancora molto. Andai in cucina ed ingurgitai
qualcosa.
Cosa, di preciso, non ci feci caso. Non avevo granché fame e
ancor meno avevo
voglia di cucinare. Non avendo molte alternative, feci i compiti. Li
finii,
facendone forse più del necessario. Quando tirai su la testa
dai libri, ormai
era già buio. Decisi così di non tornare a casa
mia: l’idea di attraversare
l’ampia radura, da sola e al buio, non mi entusiasmava
particolarmente.
Mi
sedetti sul divano, accoccolandomi
contro uno dei braccioli ed accesi la TV.
Per
un attimo, pensai a cosa
sarebbe successo se quel giorno, che sembrava lontano anni luce, Claude
non mi
avesse attaccata. Probabilmente a quest’ora sarei stata a
casa di Daniel a
guardare la TV, o magari da Mel. Non avrei mai trovato tutto quello che
ora
appariva ai miei occhi come irrinunciabile. La mia stessa vita,
l’avevo
trovata.
Mi
resi conto, senza sorprendermi,
che non sarei mai potuta tornare alla mia vita di prima. Non avrei mai
più
potuto vivere senza Edward. Se lui fosse scomparso, il mio mondo
sarebbe
svanito insieme a lui. Non c’era un motivo semplice e
razionale che mi legasse
a lui, sapevo semplicemente di dover stare con lui, sentirlo vicino a
me per
poter continuare ad esistere.
Lui
era il mio mondo. Senza la
terra su cui poggiare i piedi o l’aria da respirare non sarei
potuta sopravvivere.
E lui era tutto ciò; tutto ciò di cui avevo
bisogno e tutto ciò che avrei mai
desiderato.
Rimasi
seduta, lo sguardo fisso
sulle immagini che si rincorrevano sullo schermo, senza senso.
Che
strano. Non avrei mai creduto
possibile tutto questo. Pensai alla prima sera, ad Amos e alla sua
frase. In
quel momento mi aveva colpita.
“Vedo
che tuo figlio
si è legato molto a questa giovane, Carlisle. Il sentimento
reciproco tra i due
è pressoché tastabile. Affascinante”.
Sorrisi
appena al ricordo. Era
passato così tanto tempo…o almeno,
così appariva ai miei occhi stanchi.
Fu
quando vidi il viso di Claude,
il suo sorriso crudele e le sue iridi cremisi – un volto che
compariva fin
troppo spesso per i miei gusti quando chiudevo gli occhi –
che mi resi conto di
essermi addormentata. Mi svegliai lentamente, il mio corpo indolenzito
dalla
posizione scomoda e prolungata. Guardai fuori dalla finestra e sbuffai.
Pioveva
a dirotto, cosa non insolita per quel luogo.
“Siamo
di cattivo umore?”, mormorò
una voce inconfondibile al mio orecchio.
Il
mio cattivo umore sparì con
tutto il resto, lasciando solo un sorriso sulle mie labbra.
“Sei
tornato”, esclamai,
sinceramente sollevata.
“Dormivi
e non ho voluto
svegliarti”, ammise. “Anche se Emmett avrebbe
gradito buttarti giù dal divano”.
Sorrise divertito, e così feci anch’io.
“Grazie
mille, Emm!”, alzai la
voce quanto bastava perché mi sentisse.
A
conferma, le sue risate giunsero
poco dopo.
“Com’è
andata la caccia?”,
domandai curiosa.
“Al
solito”.
A
volte sembrava avere paura di
dirmi qualcosa su di lui, qualcosa sulla sua vera…essenza.
“Puoi
dirmelo, non mi
scandalizzo”.
“Ma
potresti”, replicò mesto. “Ho
sempre la sensazione di sbagliare, che non sia giusto tutto
questo”, aggiunse
con lo stesso tono, accarezzandomi una ciocca di capelli.
“Tutto
questo?”.
“Io…e
te”, precisò con un gesto
della mano. “Noi due”.
Sgranai
gli occhi, la sensazione
di un pugno nello stomaco vivida nel mio corpo.
“Non…capisco”,
farfugliai con un
filo di voce.
“Non
preoccuparti”, mi rassicurò,
le sue labbra tendendosi in uno splendido sorriso. “Sono
troppo egoista per
privarmi di te, non potrei farcela senza”.
Sorrisi,
senza tuttavia sentirmi
rassicurata.
“Non
m’importa cosa sei, se sei un
cane a tre teste o un essere mitologico. Sei tu, e questo
basta”.
Edward
mi guardò a lungo negli
occhi, accesi da una strana luce che non riuscii a riconoscere. Poi,
con
delicatezza infinita, portò le sue labbra sulle mie. Fu un
bacio semplice, ma
mi disse tutto quello che avevo bisogno di sentire. Non c’era
bisogno di
parole.
Quando
dopo poco, come sempre, si
allontanò da me con uno sguardo combattuto, mi strinsi al
suo petto. Era
freddo, duro come il marmo.
“Ti
amo”, sussurrai piano, la mia
voce attutita dal suo corpo.
Mi
sentii strana, imbarazzata per
più di un verso, ma nel momento in cui le parole sfuggirono
alle mie labbra,
seppi che non c’era nulla di più vero.
Mi
strinse a sé, cingendomi con un
braccio ed accarezzandomi i capelli con una mano.
“Ti
amo”, mormorò a sua volta, le
labbra premute sulla mia fronte.
Mi
sentii leggera, speciale. Come
mai nella mia vita ero stata.
Quel
momento sarebbe potuto durare
in eterno e a me sarebbe andato bene così.
“Devo
vedere la partita”, annunciò
la voce seccata ma giocosa di Emmett. “Quindi andate a fare i
piccioncini
altrove”.
E
tanti saluti al momento eterno.
“Direi
che mi è venuta voglia di
suonare il piano”, la mia era una minaccia bella e buona.
Sorrisi
divertita all’espressione
inorridita di Emm.
“Non
pensarci nemmeno”.
Risi
di gusto.
“Sto
scherzando, Emm!”.
“Meglio
per te”.
“Certo,
certo”, tagliai corto e mi
accomodai al suo fianco.
Mi
guardò. Anzi, mi bruciò con lo
sguardo.
“Non
può interessarmi il
baseball?”, chiesi innocente.
“No”,
rispose secco e visibilmente
indignato.
Poi
sospirò, come rassegnato, e si
strinse per lasciarmi posto sul divanetto.
“Ma
sta’ zitta”, ordinò.
“Sissignore”,
lo presi in giro.
Edward
ci osservava con la stessa
espressione compiaciuta di un genitore che guarda i figli giocare al
parco. Gli
feci cenno di avvicinarsi e di sedersi vicino a me.
Mi
strinsi contro Emmett, che
sbuffò irritato.
“Vieni
qui”, propose Edward allargando
le braccia in segno d’invito.
Invito
che non avevo intenzione di
rifiutare.
Mi
accoccolai tra le sue braccia,
contro il suo petto che risultava gelido anche attraverso i vestiti.
Guardammo
la partita in religioso silenzio, eccezion fatta per alcune
esclamazioni di
Emmett qui e là. A dire la verità, il concetto di
“guardare” non era il più
appropriato per me. Non avevo visto un solo secondo della partita.
Nemmeno uno.
Avevo solo distrattamente notato le figure dei giocatori armate di
mazze e
guantoni. Ero continuamente distrattadalle
labbra dell’angelo vicino a me, che mi sfioravano i capelli,
il collo, i polsi…
“Dovresti
mangiare”, la sua voce
mi distrasse nuovamente.
“Cosa?”,
domandai disorientata.
“Non
hai fame?”, chiese di nuovo,
la sua voce morbida a solo pochi centimetri dal mio orecchio.
“A
dire la verità”, ammisi
sorridendo. “Parecchia”.
Mi
prese per mano e mi condusse in
cucina, dove scaldai le lasagne che Esme aveva comprato il giorno
prima. Masticai
la mia cena in silenzio, lanciando solo qualche occhiata sognante di
tanto in
tanto ad Edward. Ogni volta che alzavo lo sguardo, era sempre
lì, i suoi occhi
sul mio viso.
Quando
ebbi finito di mangiare, mi
alzai per lavare i piatti e le stoviglie.
“Faccio
io”, offrì Edward.
“No,
mi piace”.
“Allora
ho il permesso di
aiutarti?”.
“Accordato”,
sorrisi ampiamente.
Seguì
una breve pausa, un silenzio
confortevole rotto solo dal rumore delle stoviglie e il suono
dell’acqua che
scorreva nel lavandino.
“Hai
chiamato la tua amica?”,
chiese Edward ad un tratto.
Mi
battei il palmo sulla fronte.
“Oh!”,
esclamai. “Mi sono
dimenticata!”.
“E
ora ti sei sporcata invece”,
ridacchiò Edward divertito.
Lo
guardai interrogativa.
“Ti
sei sporcata tutta la fronte
di schiuma”, precisò con un ghigno.
“Ah”,
mormorai. “Così dici?”. E
così dicendo lo schizzai completamente.
La
sua finta espressione
inorridita fu impagabile. Scoppiai a ridere.
Subito
dopo notai la sua
espressione cambiare.
“Non
oseresti”, lo avvisai
indietreggiando.
“Tu
credi?”, mormorò sfoderando un
ghigno malizioso.
Cominciammo
a schizzarci,
riempiendoci di schiuma in un modo che non avevo creduto possibile. Non
era da
Edward questo comportamento, non il solito Edward almeno. Questo nuovo
lato di
lui non faceva che accrescere la mia infatuazione.
“Okay,
okay”, esclamai stremata.
“Hai vinto!”.
Edward
rise, stringendomi tra le
sue braccia – i vestiti fradici pressoché
incollati ai nostri corpi.
“Visto?”,
sussurrò soddisfatto.
Ridacchiai
un poco, per poi
voltarmi verso di lui.
“Ora
dobbiamo pulire”, annunciai
senza perdere il sorriso.
“Detto
fatto”, mormorò la sua voce
al mio orecchio.
Il
secondo dopo, lui non c’era
più. Al suo posto, un tornado era comparso nella cucina, che
lasciava ordine
invece di distruzione al suo passaggio. Sentivo le posate tintinnare,
l’acqua
scorrere, ma non riuscivo a vedere nulla. Dopo pochi secondi Edward
riapparve
davanti ai miei occhi, la cucina perfettamente in ordine. Mi voltai
verso il
frigorifero, dandogli le spalle.
“E
ora dove vai?”, domandò curioso
fingendosi offeso.
“Mi
è venuta in mente una cosa”.
Aprii
la porta del freezer,
esaminandone il contenuto.
“Sarebbe?”,
mi esortò dopo qualche
secondo di pausa.
“C’è
una cosa che devo finire”,
non potei fare a meno di sorridere. “Eccolo”,
aggiunsi trionfante.
Le
labbra di Edward si tesero a
combattere uno splendido sorriso.
“Tutto
questo per un gelato?”,
chiese beffardo.
“Il
mio gelato, per la
precisione”, precisai facendogli una smorfia.
Mi
armai di cucchiaio e tornai in
salotto, seguita a ruota da un Edward apparentemente divertito. Mi
acciambellai
sul divano, incrociando le gambe.
“E’
ancora buono?”, domandò
dubbioso.
“Certo”,
farfugliai con la bocca
piena.
Arricciò
il naso, come se lo
disgustasse.
“Che
cos’hai contro il gelato?”,
domandai piccata.
Si
strinse nelle spalle.
“Niente”,
ammise. “Solo che non ha
un aspetto invitante”.
Sorrisi
appena.
“Per
te, forse”, replicai.
“Direi
di sì”.
“Non
vuoi assaggiarlo?”.
La
sua espressione disgustata mi
fece ridere.
“Saresti
in grado di mangiare del
cibo umano però, giusto?”.
“Ovviamente”,
rispose.
La
sua risposta lasciava ad
intendere la restante parte della frase: “Ma non ho
assolutamente intenzione di
farlo”.
Ridacchiai
di nuovo.
“Che
c’è?”, chiese esasperato.
“Niente,
mi chiedevo come sarebbe
vederti mangiare del gelato”.
Portai
l’ennesimo boccone alle
labbra.
“Potrei
provare”.
“Ah
davvero?”, chiesi inarcando un
sopracciglio in sfida.
La
sua espressione maliziosa mi
disorientò. Si chinò su di me, prendendomi il
viso tra le sue mani fredde, per
poi posare le sue labbra sulle mie. Mi baciò a lungo, come
forse mai aveva
fatto.
Il
mio respiro era ormai un
affanno incontrollabile, il mio cuore che tentava di tenere il ritmo
senza
dover fuoriuscire dal mio petto. Mi sembrò che potesse
farlo. Intrecciai le
dita ai suoi capelli di bronzo, sentendo il suo corpo gelido a contatto
con il
mio. Quando si allontanò da me, ero ormai senza fiato. Lui,
nonostante non ne
avesse bisogno, sembrava in cerca d’aria quanto me.
I
suoi occhi dorati e appena
nutriti splendevano e bruciavano come piccole stelle infuocate. Mi
passai una
mano tra i capelli, la mia espressione decisamente sorpresa.
“Mmm”,
mormorò Edward con un
sorriso appena accennato agli angoli della bocca.
“Cosa?”,
chiesi ancora senza
respiro.
“Non
è poi così male il gelato”.
“Il
gelato”, ripetei.
Con
le labbra disegnò il mio
sorriso preferito.
“Il
gelato”, ripeté a sua volta.
“Sei
incredibile”, mormorai
scuotendo la testa, un sorriso sbalordito sul mio volto.
“Hai
cominciato tu”.
“Non
mi sto lamentando, infatti”,
replicai. “Affatto”.
Posai
la testa sulla sua spalla,
accostandomi al suo corpo freddo. Socchiusi gli occhi.
Come
spesso succedeva nei momenti
di assoluto silenzio, nella mia mente s’intrufolò
con prepotenza il viso di mia
madre, di mia sorella, mio padre. La mia famiglia, i miei amici. Come
una
presentazione fotografica della mia vita precedente. Non potevo negare
che mi
mancassero. I loro volti sorridenti, parzialmente abbronzati, mi
sorridevano in
un modo che solo un familiare può fare. Sorrisi familiari,
gentili. Senza
critiche.
Sospirai,
nostalgica.
“Qualcosa
non va?”.
Certamente
se ne era accorto, come
sempre.
“Niente”,
feci spallucce.
“Pensavo”.
Edward
picchiettò delicatamente le
sue dita contro la mia fronte.
“Questa
faccenda a volte risulta
davvero, davvero
frustrante”.
“Cosa?”.
“Sarebbe
semplice capire come
aiutarti se sapessi cosa stai pensando”.
Sospirai,
socchiudendo nuovamente
gli occhi.
“Non
vuoi dirmelo?”, domandò con
semplice curiosità.
“No,
non è quello”, ammisi sincera.
“E’ solo che non vorrei…preoccuparti,
ecco”.
“Preoccuparmi?”,
chiese inarcando
un sopracciglio perfetto.
“Pensavo…”,
mormorai con lo
sguardo basso. “A mia madre, alla mia famiglia”.
Percepii
il suo corpo irrigidirsi
al mio fianco, tramutandosi in una splendida scultura di ghiaccio.
“Ti
mancano, non è vero?”, chiese
qualche secondo dopo. La sua voce era forzatamente tranquilla.
Abbassai
nuovamente lo sguardo,
mantenendolo sulle mie mani intrecciate tra loro.
Mi
strinsi nelle spalle,
mormorando un “Sì” muto.
Edward
era ancora troppo rigido.
Troppo silenzioso. Tuttavia, a poco a poco, il suo corpo
sembrò rilassarsi. Mi
cinse la vita con un braccio.
“Parlami
di loro”.
Parlammo
tutta la sera. Dei miei
genitori, dei miei amici, della mia famiglia. Di tutto. Della mia
vecchia
scuola, dei miei pochi veri amici e, con non poco imbarazzo, della mia non vita sentimentale. Rimase
apparentemente sorpreso di quest’ultimo argomento.
Tuttavia,
alla fine la stanchezza
ebbe la meglio sulla mia forza di volontà. Appoggiai la
testa nell’incavo della
sua spalla di ghiaccio e chiusi gli occhi, sospirando. Mi risvegliai
solo dopo,
in camera mia, mentre le braccia di Edward mi posavano tra i cuscini e
mi
avvolgevano tra le coperte.
“Scusami”,
lo sentii dire in un
sussurro. “Ti ho svegliata”.
Improvvisamente,
nonostante il mio
cervello fosse rallentato dalla stanchezza, mi tornò alla
mente qualcosa di
importante.
Ora o mai più, mi dissi,
tanto vale tentare.
“Edward”,
lo chiamai, la mia voce
impastata dal sonno.
“Sono
ancora qui”, era poco
distante da me.
Con
fatica, sollevai le palpebre
quanto bastava per scorgere la sua splendida figura nella penombra
azzurrata
della stanza.
“Posso
andare…”, mi sentivo tanto
una bambina capricciosa e testarda. “A La Push?”.
“Domani”,
aggiunsi. “Per favore”.
Le
mie palpebre si richiusero
contro la mia volontà. Non me la sentii di combatterle.
Seguì
un breve silenzio in cui
temetti di addormentarmi. Poi, inaspettatamente, le sue labbra mi
sfiorarono la
fronte. Lo sentii sospirare.
“Va
bene”, mormorò, un’ombra di un
sorriso nella sua voce. “Ora dormi”.
L’ultima
cosa che la mia mente
riuscì a registrare, prima di cadere nel mondo dei sogni, fu
la voce di Edward
che mi sussurrava qualcosa all’orecchio. Una melodia, forse.
Ma ero troppo
stanca per farmi domande, troppo stanca per rimanere sveglia oltre.
Credo
che potrei rischiare di innamorarmi di questo lato di Edward xD Che
dire, spero come al solito che il capitolo vi vada a genio. Voglio
ringraziare le mie recensitrici più assidue:
Effy92, Kelley, Marta Stew, Paola,
Giada e ovviamente Jen :D Grazie perchè ci siete sempre -
senza di voi rischierei di perdere la voglia di postare! Ultima cosa:
la scena del gelato è "tratta da una storia vera" - cedo
tutti i diritti d'autore alla mia Angelica personale xD Buon sabato
sera e buon weekend! Alla prossima :)
Buonasera
gente! Beeeh sono di nuovo di fretta, quindi m'intrattengo poco. Faccio
gli auguri a quel grand'uomo del Roberto che oggi fa 25 anni e deve
tenermi bene la mia donna, o lo gambizzo :D
Detto ciò, qualcuno tra le recensioni(a proposito, scusatemi
ma non ho avuto il tempo di rispondervi) diceva che non prometteva
granché bene la gita a La Push...chissà u.u
Vi lascio al capitolo! :)
Capitolo
20. La Push.
Mi
svegliai presto, dopo un sonno
senza sogni. Mi sentivo bene, riposata. Il mio corpo sembrava rigido,
come se
non volesse interrompere quel momento perfetto della mattina, quando
sei
sveglio e intorno a te c’è solo un assoluto
silenzio.
“Buongiorno,
Bella Addormentata”,
la sua voce non fece altro che migliorare quell’istante.
Strizzai
gli occhi, arricciando il
naso e facendo una smorfia mio malgrado.
“Buongiorno”,
farfugliai ancora
assonnata.
Dita
fredde mi scostarono i
capelli dal viso.
“Dormito
bene?”.
“Mmm”,
bofonchiai.
Lo
sentii sorridere, senza ombra
di dubbio quel perfetto sorriso truffatore capace di lasciarmi senza
respiro. Aprii
gli occhi, sbattendo più volte le palpebre per vedere
nitidamente. Lui era lì,
splendido come sempre, quel sorriso che avevo appena immaginato che
splendeva
sul suo volto. Era troppo, qualcosa di cui era impossibile abituarsi.
Ed era assurdamente
destinato a me.
Improvvisamente
mi tornò alla
mente la sera prima. Aveva acconsentito a farmi andare a La Push.
Perché
l’aveva fatto… giusto? Non me lo ero sognato,
vero? Il dubbio s’insinuò
prepotentemente nel mio cervello, disegnando sul mio viso
un’espressione
confusa e probabilmente pensierosa.
Mi
tirai su, voltandomi su un lato
ed appoggiandomi su un gomito. Lo guardai dubbiosa, in silenzio,
aggrottando la
fronte.
“Qualcosa
non va?”, mi scostò
l’ennesima ciocca ribelle dal viso.
“Mmm”,
mormorai. “Mi chiedevo solo
una cosa”.
Aspettò
in silenzio che
continuassi, sollevando un sopracciglio.
“Ecco…”,
sperai in tutti i modi di
non sembrare un’emerita idiota. “Non sono sicura di
una cosa”.
“Tu…”,
continuai, sentendomi
arrossire. “Tu ieri sera mi hai davvero dato il permesso di
andare a La Push,
vero? Non me lo sono sognato”.
Edward
sorrise divertito.
“No,
non l’hai sognato”, ridacchiò
tentando di nascondere un nuovo sorriso.
“Oh”,
mormorai. “Davvero?”.
Era
difficile pensare che avesse
acconsentito così facilmente. Lo conoscevo abbastanza bene
da sapere che era
testardo quanto Rosalie.
“Voglio
dire”, continuai. “Come
mai?”.
Sorrise,
abbassando lo sguardo
sulle nostre mani intrecciate.
“Ho
solo pensato a cos’è meglio
per te”.
Mi
guardò negli occhi. Brillavano
d’oro, ma c’era qualcos’altro. Qualcosa
di nascosto che sembrava voler venire
fuori.
“Mi
nascondi qualcosa?”, domandai
curiosa. Conoscevo quello sguardo.
“Proprio
niente”, nei suoi occhi
sinceri non c’era ombra di menzogna.
Gli
credetti, anche se qualcosa,
nella mia testa, mi diceva il contrario. Alice varcò la
porta della stanza come
un treno in corsa, tuttavia con la grazia di una ballerina classica.
“Buongiorno,
El”, disse in tutta
fretta. “Preparati, devi muoverti”.
Mi
lasciai trascinare giù dal
materasso, la mia espressione vuota e confusa allo stesso tempo.
“Sei
in ritardo per andare a La
Push”, le sue parole si rincorrevano. “I tuoi amici
saranno all’uscita dalla
statale tra venti minuti, vuoi arrivare con loro o no?”.
Annuii
senza capire realmente.
Avevo ancora troppo sonno. Mi ritrovai in cucina, già
vestita e pettinata,
appena quindici minuti dopo. Rosalie mi stava fissando, seduta davanti
a me con
l’ormai abituale espressione ostile.
“Divertiti
con i cani”, sibilò
sotto il suo respiro.
“Rose,
che cosa c’è che non va?”,
trovai finalmente il coraggio di dirle.
“Niente”,
fece spallucce,
minimizzando.
“Rose”,
la rimproverai. “E’ da
quando…da quando Edward ed io abbiamo ripreso a parlarci che
sei così, come se
la cosa ti infastidisse”.
“Forse
mi infastidisce”.
“E
perché mai?”.
“Chiedilo
alla tua migliore amica,
forse lei lo sa”, bofonchiò acida.
Sgranai
gli occhi, sbalordita.
“E’
di questo che si tratta?”,
domandai stupita. “Di Angelica?”.
Rosalie
sostenne il mio sguardo
per qualche istante, prima di lasciarlo cadere sul tavolo.
“Rose?”,
la esortai.
Si
strinse nelle spalle, come se
la cosa avesse poca importanza.
“El,
muoviti!”, Alice mi prese per
un braccio, alzandomi dalla sedia. “Sei in
ritardo!”.
“Alice,
no!”, esclamai
innervosita. “Ora no, La Push può
aspettare”.
Alice
abbandonò il mio braccio, il
suo umore neanche lontanamente scalfito dalla mia risposta.
“Okay,
ma sbrigati”, cinguettò
allegra e si diresse al piano di sopra.
“Rose”,
riportai il mio sguardo su
di lei.
“Non
ha importanza, vai pure”.
“Ne
ha eccome”.
Dal
mio tono di voce si capiva che
non avrei accettato un’altra risposta come la precedente.
“El”,
sospirò guardandomi negli
occhi. “Ho solo paura di vederti soffrire di nuovo, non mi
è piaciuto l’ultima
volta”.
Fui
incapace di rispondere come
avrei voluto. Rose. Per lei ero
sempre stata importante, non importava come lo dimostrasse. Si era
sempre
preoccupata per me, aiutandomi in ogni modo.
“Rose,
non succederà. Davvero”, la
rassicurai.
Le
mie parole erano di conforto,
ma sapevo che erano vere. Edward non mi avrebbe abbandonato, non
più. Sospirò
di nuovo, come rassegnata. Poi si alzò e mi
abbracciò, come non faceva da
tanto.
Mi
era mancata. Più di quanto
avessi ammesso a me stessa.
“Va
bene, basta con le smancerie”,
annunciò con un ampio sorriso. “Ora vai o Alice ci
uccide”.
Alice,
per l’appunto, era già
sulla porta, le chiavi della macchina che roteavano pericolosamente sul
suo
indice.
Fu
un viaggio piuttosto breve. Lo
avevo immaginato più lungo, ma di certo non mi lamentai.
Eravamo troppo in
ritardo per raggiungere gli altri all’uscita dalla statale,
quindi Alice decise
di andare direttamente a La Push ed aspettarli lì. Inoltre,
la debole luce che
ogni tanto riusciva a filtrare le nubi costituiva per Alice un
intralcio
notevole, nonostante riuscisse a prevederlo in tempo.
“Devi
promettermi che starai
attenta”, m’informò per quella che
probabilmente era la ventiduesima volta.
“Alice,
l’ho già promesso, anzi
giurato, a Edward”, bofonchiai. “Lo sai che
starò attenta, non c’è bisogno di
ripeterlo all’infinito”.
Alice
sogghignò.
“Stavo
solo controllando”.
Sbuffai.
Mi sentivo come una
bambina dell’asilo.
Stai attenta, aveva ripetuto Edward fino
all’esasperazione, giuramelo. Per
favore, fallo per me.
Poco
prima di raggiungere La Push,
a quelli che a me sembravano circa trecento metri, accostammo.
“Posso
arrivare fin qui”, disse
Alice allegra. “Mi dispiace, devi fartela a piedi”.
“Non
c’è problema”, dissi in
fretta.
Avevo
già la mano sulla maniglia.
“Se
aspetti qui, tra due minuti
arriveranno i tuoi amici”, m’informò.
“Oh”,
mormorai. “Okay”.
“Allora
a dopo”, aggiunsi aprendo
la portiera.
“A
dopo”, ripeté sorridendo.
Richiusi
la portiera dietro di me.
Il rumore di un finestrino in movimento catturò la mia
attenzione.
“El”,
mi chiamò sporgendosi verso
di me.
“Sì?”,
mi voltai.
“Stai
davvero attenta. Edward non mi
perdonerebbe se ti accadesse
qualcosa, e non perdonerebbe nemmeno te”.
Annuii
decisa.
“Allora
ci vediamo qui…”, chiuse
gli occhi sorridendo. “Direi alle cinque”.
Ridacchiai.
Sapeva sempre tutto.
“A
più tardi, Alice”, la salutai.
“Grazie”.
Il
motore riprese vita e, qualche
istante dopo, era già andata via. Non sapendo che fare,
cominciai a camminare. M’incamminai
verso la piccola cittadina che s’intravedeva tra la densa
foschia, gli alberi
ad incorniciarla. Sembrava uscire direttamente da un libro di fiabe.
Quando fui
abbastanza vicina da riuscire a distinguere ogni abitazione, mi fermai.
Le
case, tutte simili ma diverse
allo stesso tempo, variavano tra l’intenso color mattone e il
debole giallo
ocra. Le dimensioni erano ridotte, le diverse stanze davano
l’impressione di
accatastarsi una sull’altra. Sbirciai attraverso una finestra
aperta. La cucina
era accogliente, dall’aspetto familiare.
“Coop!”,
mi sentii chiamare. “Che
ci fai qui?”.
Quella
voce curiosa, insistente e
in qualche modo arrogante, sembrava sorpresa di trovarmi lì.
Mi voltai di
scatto e trovai un fuoristrada verde scuro, il suo motore
scoppiettante,
proprio davanti a me. Lo riconobbi all’istante.
“Morrison”,
dissi apatica.
Si
sporse dal finestrino fino ad
essere a pochi centimetri da me.
“Mi
avevi detto che non saresti
venuta”, sembrava sorpreso. “Cambiato
idea?”.
“Sono
qui, quindi direi di sì”.
“Oh”,
mormorò, forse non era la
risposta che si era aspettato. “Gli altri?”.
“Per
ora ho visto solo te”, ammisi
senza preoccuparmi del tono scoraggiato della mia voce.
Mormorò
qualcosa che non riuscii
del tutto a comprendere, ma che mi sembrò somigliasse a un
“Ancora meglio”.
“Beh,
hai voglia di andare a fare
una passeggiata?”.
Non
avevo la minima voglia di fare
una passeggiata da sola con lui, ma
acconsentii ugualmente. Sempre meglio che rimanere a sbirciare nelle
cucine
altrui.
“Va
bene”, bofonchiai senza
enfasi.
Cominciammo
a camminare,
apparentemente senza meta.
“Sai
dove stiamo andando, vero?”,
chiesi ad un tratto, esitante.
Mi
guardò con la solita
sufficienza ed arroganza di sempre.
“Ovvio,
io vengo qui da una vita”.
“Sbruffone”.
“Quindi?”,
chiesi dopo qualche
istante.
“Quindi
cosa?”.
“Quindi
dove stiamo andando?”.
“Alla
spiaggia”.
L’idea
non mi allettava. Senza
dubbio il concetto che avevo io di spiaggia
e quello che avevano quaggiù era sostanzialmente
diverso. Lo guardai in
viso. Stava osservando la strada dietro di me, senza prestarmi
attenzione. Quando
stava zitto, era quasi semplice passare del tempo con lui. Sorrisi
appena. In
quel momento tornò con lo sguardo su di me. Non sembrava
sorpreso di trovarmi a
fissarlo, solo…soddisfatto. Compiaciuto.
“Dean, El!”,
esclamò una voce familiare.
Ci
voltammo all’unisono. La mia
espressione sollevata, la sua infastidita. Il minivan blu scuro che
aveva
accostato davanti a noi fu un vero e proprio sospiro di sollievo.
C’erano
tutti. Jackson, Anne,
Thomas,
Peter, Allison e Claire.
“Claire!”,
esclamai vedendola. “Che
ci fai qui?”.
“Avevi
detto che non saresti
venuta”, aggiunsi entusiasta.
La
giornata sembrò rischiararsi
visibilmente dopo la sua apparizione.
“Lo
so!”, disse euforica quanto
me, catapultandosi fuori dalla macchina. “Ma i miei hanno
cambiato idea
all’ultimo momento!”.
Sorrisi
ampiamente. Ne sapevo
qualcosa anch’io.
“Scusateci
se abbiamo fatto
tardi”, disse Jackson. “Anne era in ritardo e senza
macchina non potevamo
muoverci”.
Le
rivolse uno sguardo scherzoso,
al quale lei rispose con una linguaccia.
“Non
è colpa mia”, si giustificò
Anne ridendo.
“Sì,
certo”, intervenne Peter.
“Direi che è colpa di Claire”.
“Perché
mia?”.
“Perché
ho deciso così”.
Li
osservavo ridere, scherzare.
Erano divertenti, ma era come se fossi semplicemente uno spettatore.
Distante.
Non ne facevo parte.
Ci
incamminammo verso la spiaggia,
dove ammucchiammo della legna. Accendemmo un falò
gigantesco. Non ne avevo mai
visto uno del genere, forse anche perché, da dove venivo io,
non c’era granché
bisogno di falò. Miami... Come sempre, quando mi capitava di
pensarci, persi la
cognizione del tempo.
“El?”,
la mano di Tom ondeggiò
davanti ai miei occhi.
Sobbalzai.
“Oh”,
mormorai. “Tom”.
Rise
della mia espressione
disorientata.
“Che
fai, dormi ad occhi aperti?”,
mi prese in giro.
“Sì,
direi di sì”, sorrisi.
“Scusami”.
“Ti
va di venire a fare un giro
alle pozze?”, propose senza nascondere il suo entusiasmo.
“Le
pozze?”, ripetei. “Oh, no”,
dissi. “Adesso no, grazie, magari più
tardi”.
“Okay,
io, Peter e Allison andiamo
ora”, m’informò. “E anche
Dean”.
“Motivo
in più per stare qui”, gli
sorrisi complice.
“Pensavo
ti piacesse”, mormorò con
evidente sollievo.
“A
me?”, esclamai sorpresa.
Poi
sorrisi. Se solo avesse saputo
dove era diretto il mio cuore, avrebbe sicuramente cambiato
espressione. Scossi
la testa divertita.
“No
di certo”.
Non
potei fare a meno di pentirmi
delle mie parole. Il suo volto si illuminò di quelle che,
probabilmente, erano
speranza e soddisfazione.
“Tom,
andiamo!”, gli gridò Allison.
Sorrisi,
notando le attenzioni che
Allison aveva per il mio amico.
“Allora
a dopo”, si congedò
velocemente.
“A
dopo”, gli sorrisi.
Restammo
solo Claire ed io. Anne e
Jackson erano presenti, ma la loro attenzione era decisamente impiegata
altrove.
Era ora che quei due si mettessero insieme,
pensai sospirando.
L’unico
pensiero che, tuttavia, mi
veniva in mente guardandoli, era Edward. Mi sarebbe piaciuto averlo qui
con me,
la sua mano intrecciata alla mia. Purtroppo, vecchi e stupidi patti con
gli
esseri mitologici della zona avevano impedito tutto ciò.
Licantropi. Sospirai di nuovo. Se solo
questo luogo non sembrasse
far parte di un film di fantascienza, sarebbe tutto più
semplice. Claire mi
guardò, preoccupata forse da tutti i miei sospiri.
La
rassicurai con un sorriso e lei
tornò ad arrostire il suo marshmallow. Stare con Claire era
semplice. Sapeva
che non c’era bisogno di parlare, il silenzio era
confortevole. Spesso le
persone lo trovano imbarazzante.
Guardai
– per la prima volta da
quando ero arrivata – il paesaggio intorno a me. Era
incredibile. La spiaggia
sembrava grigia, così come le rocce, ma le sfumature erano
totalmente diverse
l’una dall’altra. La scogliera cadeva a strapiombo
sull’oceano, tuffandosi in
un’acqua scura e densa. Le onde creavano il solo rumore
udibile, ritmico e rilassante.
Alcuni gabbiani volavano sull’acqua, sfiorandola appena,
indecisi se
avvicinarsi o no a quella superficie dall’aspetto
inquietante. Le nubi, pesanti
e grigie, sembravano incorniciare quello che appariva un luogo
incantato.
“Ciao
ragazze”, una voce a me
sconosciuta mi distrasse dai miei pensieri.
Alzai
rapidamente lo sguardo,
cercandone la fonte. Un gruppo di ragazzi – probabilmente del
posto, decisi,
notando il loro abbigliamento – si stava avvicinando a noi.
“Ciao”,
abbozzò Claire.
Non
parlai, mi limitai a fissarli
incuriosita. Strinsi gli occhi per cercare di vederli meglio oltre la
foschia. Non
appena riuscii a delinearne i lineamenti, mi pietrificai. Erano tutti
spaventosamente simili. Gli stessi capelli scuri, tagliati corti. La
stessa
muscolatura evidente e robusta. La stessa espressione apparentemente
ostile,
che cercava tuttavia di apparire rilassata. Poi lo riconobbi. Era
più alto
dell’ultima volta che l’avevo visto, più
grosso. Aveva anche tagliato i
capelli. Ma era lui, nessun dubbio in proposito. Quando anche lui mi
vide, ci
scambiammo una lunga occhiata.
“Ciao”,
mormorai, mantenendomi sul
casuale.
“Non
dovreste accendere fuochi qua
intorno, rischiate di appiccare un incendio”, ci
informò il più grande dei
nuovi arrivati.
Aveva
un’espressione diversa,
paziente. Rassegnata.
“Sì,
scusateci”, si affrettò a
dire Claire.
Mi
limitai a sbuffare, trattenendo
un sorriso beffardo. Dubitavo che con un’umidità
del genere qualcosa riuscisse
a prendere fuoco.
“Beh,
ormai è acceso”, continuò il
ragazzo, sorridendo. “Tanto vale approfittarne”.
“Possiamo
unirci a voi?”, domandò
prima di prendere posto sul tronco di fronte al nostro.
“Sì,
certamente”, rispose Claire.
Avrei
voluto che ci fosse stato un
buon motivo per farle dire di no. Jacob continuava a mantenere il suo
sguardo
vigile su di me. Lo sentivo bruciare sul mio viso, come una volta
avevano fatto
le sue mani.
“Mi
chiamo Sam”, disse poco dopo
il giovane sconosciuto.
“E
questi sono”, li indicò uno a
uno. “Paul, Jared, Quil, Jacob ed Embry”.
I
pochi dubbi che mi ordinavo di
mantenere su di lui, vennero sfatati con quella semplice presentazione.
“Io
sono Claire”, si presentò. “E
questa è la mia amica El”, mi indicò
con il pollice puntato verso di me. Mi
diede una leggera gomitata.
“Oh”,
mormorai. “Piacere”.
Mentre
parlavo, continuavo ad
osservare l’espressione tesa di Jacob. Parlai poco durante la
conversazione che
seguì. Claire bastava per entrambe.
Ad
un tratto, mi alzai. Non sapevo
esattamente il motivo di quello che stavo facendo, o cosa stavo facendo
in
realtà, ma evitai di chiedermelo. Improvvisamente, non avevo
più voglia di
stare ferma.
“Dove
vai?”, domandò Claire, un
po’ offesa forse dal mio comportamento.
“Voglio
raggiungere gli altri alle
pozze”, dissi la prima cosa che mi era passata per la mente.
“Gli
altri ormai staranno già
tornando”, insistette.
“Non
importa, voglio vederle”,
continuai testarda. “Tom mi ha messo
curiosità”.
“Non
sai nemmeno come andarci”,
disse lei. “Ti perderai”.
“Se
non ti dà fastidio, può
accompagnarti uno dei ragazzi”, s’intromise Sam.
Grandioso, pensai con sarcasmo.
Tuttavia,
se volevo andarmene di lì,
sembrava l’unica via d’uscita.
“Okay”,
bofonchiai stringendomi
nelle spalle.
“Vado
io”, la sua voce fu come una
martellata.
Mi
sentivo come un bambino a cui è
appena volato via il suo palloncino.
Senza
aspettare, salutai tutti con
un cenno della mano e mi voltai, accelerando il passo per lasciarlo il
più
indietro possibile da me. M’incamminai nella foresta. Gli
alberi sembravano
stringersi attorno a me, cercando di impedire il passaggio a chiunque
altro. La
foschia qui era più densa, mi arrivava al ginocchio,
impedendomi di vedere il
terreno.
Stai attenta, le parole di Edward mi
pungevano nelle orecchie, giuramelo. Fallo
per me.
“Stai
sbagliando strada”, era
ancora troppo vicino.
Come
faceva a tenere il mio passo?
Avevo quasi il fiatone e lui era a pochi passi da me, il suo respiro
perfettamente regolare.
“Non
importa”, tagliai corto.
“Dove
stai andando, allora?”.
“Non
lo so”, ammisi senza voltarmi
verso di lui.
“Non
ho voglia di seguirti in
mezzo alla foresta”.
“Allora
non farlo”.
“Ti
perderesti”, la sua voce aveva
un’ombra di divertimento.
Mi
voltai ad osservarlo.
“Se
senti una che urla, sono io”,
mormorai brusca. “In quel momento puoi venire a
cercarmi”.
Gli
angoli della sua bocca si
sollevarono in un sorriso.
“Non
volevi vedere le pozze?”.
“Era
una scusa per andarmene”.
“Però
dovresti vederle, sono
interessanti”.
Sospirai.
Non avrebbe ceduto al
mio umore tetro.
“Okay,
andiamo”.
Camminammo
in silenzio, i nostri
passi l’unico suono ad accompagnarci. La distanza tra noi era
tale che, se
qualcuno ci avesse incontrati, avrebbe pensato che stessimo
semplicemente
andando nella stessa direzione. Dovetti prestare attenzione ad ogni
passo per
non rischiare di inciampare. Ad un tratto, sbucammo fuori dalla
foresta. La
luce grigiastra e pallida mi accecò, costringendomi a
socchiudere gli occhi. Poi,
poco a poco, li riaprii. E rimasi senza parole.
Interessanti, aveva detto Jacob. Non meravigliose, nonostante
quest’ultimo aggettivo fosse il più
appropriato. Un piccolo torrente scorreva davanti a noi e, sulle sue
sponde,
piccole piscine colme di vita brillavano alla scarsa luce del giorno.
Mi sporsi
con attenzione sul bordo di ognuna, osservando il piccolo acquario
sotto di me.
Le anemoni ondeggiavano alla corrente invisibile, piccole conchiglie
animate si
muovevano caute sulla roccia. Alcuni pesci erano abbastanza coraggiosi
da
mostrarsi a me, mentre altri, i più piccoli, guizzavano
rapidamente da un capo
all’altro della pozza, impedendomi di vederli con chiarezza.
“Non
male, non è vero?”, la voce
di Jacob mi distrasse.
Ero
completamente assorbita da
quei piccoli acquari naturali.
“Già”,
acconsentii con un sorriso.
“Sono splendide”.
In
quel momento, il sole fece
capolino da dietro le nubi. Qualcosa che non mi aspettavo di certo.
“Ehi”,
esclamai. “Il sole”.
“Ogni
tanto ci ricorda che esiste
anche qui”, ridacchiò Jacob.
“Che
strano”, dissi sorridendo.
“Cosa?”.
“E’
la seconda volta che ti vedo,
e la seconda volta che spunta il sole”.
Non
era del tutto vero, ma la
coincidenza mi sembrò divertente. Jacob si limitò
a sorridere. Era strano come
il mio umore fosse cambiato, come mi sentissi a mio agio ora.
“I
succhiasangue quando vengono a
prenderti?”, domandò ad un tratto.
Non
c’era intenzione di offesa
nella sua voce, ma bastò a innervosirmi nuovamente. E tanti
saluti al mio
umore.
“Alle
cinque”, risposi gelida.
“Spero
non si facciano vedere”,
mormorò con disprezzo.
La
presenza del sole non bastò a
non farmi arrabbiare. Sbuffai e feci per andarmene. Dove, rimaneva
ancora un
mistero.
La
sua mano fu attorno al mio
braccio talmente in fretta che mi sembrò impossibile.
“No”,
disse serio.
Alzai
lo sguardo per osservare la
sua espressione. Sembrava invecchiato. Non nei lineamenti, ma nella
pazienza e
nella serietà che dimostrava.
“No?”,
ripetei.
“Suppongo
che i tuoi amici ti abbiano
informata”, portò su
quel termine tutto il suo disprezzo.
“Sì”,
risposi con il suo stesso
tono.
“Non
dovrebbero farsi vedere nei
dintorni, dopo quello che è successo”.
“Non
è successo niente”,
insistetti.
“Il
patto è stato rotto”,
disse. “Ti sembra niente?”.
“Abbiamo
deciso di passarci su, di
fare finta che non sia successo niente, ma la verità non
cambia”, continuò
serio.
“Emmett
l’ha fatto per salvarmi”.
“Non
mi sembravi granché in
pericolo”.
“No?
Io invece credo di ricordare
un grosso lupo scuro che esplode davanti a me”.
Il
mio tono era gelido. La sua
espressione mi fece capire di averlo punto nel vivo.
“Solo
perché quella sanguisuga era
entrata nel nostro territorio”.
Ci
fissammo in cagnesco, a lungo.
“Allora
lo sai”, disse poco dopo.
Mi
portò una mano rovente sulla
guancia, come aveva fatto tempo prima. Mi innervosiva, ma non la
scrollai via.
“So
cosa?”, domandai confusa.
La
sua temperatura era talmente
alta da provocarmi la pelle d’oca.
Mi
sorrise ampiamente. Quel
ragazzo aveva dei cambi d’umore troppo repentini per poterlo
seguire.
“Quello
che…sono”, ammise.
Sembrava
meravigliato. Annuii in
silenzio, abbassando lo sguardo.
“E
non hai…paura?”.
Lo
fissai negli occhi, abbozzando
un sorriso beffardo.
“Dovrei?”,
chiesi inarcando un
sopracciglio.
“Non
è da tutti avere a che fare
con lupi e mostri succhiasangue”.
Sbuffai.
Non mi piaceva quando li
chiamava così.
“Perché
avete fatto finta di
niente con il patto?”.
“Pensi
sia stato uno sbaglio?”,
domandò, un’ombra di divertimento nei suoi occhi.
“No!”,
esclamai ritraendomi. “Solo
mi stavo chiedendo il perché”.
“Il
primo sbaglio è stato mio. Non
avrei mai dovuto mettere in pericolo la tua vita. Quando mi
sono…trasformato,
ho avuto paura di poterti uccidere”.
“Ma
non l’hai fatto”, lo
confortai.
Mi
chiesi perché ultimamente tutti
avevano paura di potermi uccidere. Sorrisi sarcastica.
“Se
il tuo succhiasangue…”.
“Emmett”,
lo interruppi.
“Se
il tuo succhiasangue”, continuò
come se non avessi parlato. “Non fosse arrivato, tuttavia,
non sarebbe successo
niente”.
“Certo,
certo”, tagliai corto.
“I
succhiasangue non possono
entrare nel nostro territorio”, sibilò con rabbia.
Ad
un tratto, sembrò ricordarsi di
qualcosa di vitale importanza.
“Perché
sei qui?”, domandò brusco.
Ero
sorpresa. Che razza di domanda
idiota era?
“Ioposso
venire qui”, gli
ricordai. “Non sono…un vampiro”.
Mi
risultava ancora difficile
utilizzare quella parola in una conversazione. Mi guardò in
silenzio,
analizzando il mio viso con attenzione.
Sembrava…dispiaciuto. Non capii il
perché. Lasciò cadere la mano dal mio viso.
“No,
non ancora”, lo sentii
mormorare.
TAN TAN TAAAAAAAAAAAAN!
Cosa intenderà Jacob con quella frase, cosa sa lui? Il mio solito
noioso grazie va alle persone che sostengono la mia ff e che mi dicono
cosa ne pensano. E poi a quelle due che mi lasciano riempire la bacheca
della loro pagina xD Buon sabato e buon weekend! Alla prossima :)
Buon pomeriggio. Questi
ultimi due giorni sono stati davvero uno schifo, quindi sarò
breve. Chiedo scusa se il capitolo non è particolarmente
lungo, ma credo sia abbastanza concentrato. Buona lettura :)
Capitolo
21. Destino.
Sentii
la confusione più totale
emergere sul mio viso. Sgranai gli occhi.
“Cosa?”, domandai confusa,
un’ombra isterica nella mia voce.
Mi
guardò stupito, come se non
capisse. Inclinò il capo da un lato.
“Cosa
hai appena detto?”, ripetei,
la mia voce salita di parecchie ottave.
Jacob
sembrava più confuso di me.
“Hai
sentito”, mormorò cupo.
Si
ritrasse e si allontanò
velocemente. Rimasi qualche istante a fissarlo, inebetita. Poi mi
ripresi.
“Jacob!”,
urlai, gettandomi con
qualche secondo di troppo di ritardo al suo inseguimento.
Era
incredibile quanto camminasse
veloce quel ragazzo, e con quanta agilità. Temetti di cadere
per terra, o di
finire in acqua, mentre saltavo da una roccia all’altra per
tenere il suo
passo. Quando fu in cima alla scogliera, sembrò avere
pietà della ragazza che
arrancava tra le rocce. Si fermò, il suo volto teso.
Accelerai per gli ultimi
metri.
“Sei
veloce”, disse vedendomi,
un’ombra cupa di divertimento.
Mi
fermai anch’io, appoggiando le
mani alle ginocchia per sostenermi e respirando profondamente.
“Non
quanto te”, ansimai senza
fiato. “Perché sei scappato
così?”, chiesi improvvisamente irritata.
Non
rispose alla mia domanda, o
almeno non a questa. Scosse la testa con fare pensieroso, calciando una
pietra
davanti ai suoi piedi e scagliandola un centinaio di metri
più in là.
Seguii
con lo sguardo la scena
prima che cominciasse a parlare, come se avesse bisogno di togliersi un
peso
dallo stomaco.
“Dalla
prima volta che ti ho
vista, nella radura, ho capito che c’era qualcosa in te.
Qualcosa di diverso,
di… strano. Non riuscivo a percepire il tuo odore, intorno a
te non c’era nient’altro
che quell’orribile puzzo di vampiro. Quando poi il
succhiasangue è entrato nel
nostro territorio per riprenderti, tu hai fatto… non lo so,
qualcosa – e sono
riuscito a sentirlo. Persino per me il tuo odore umano era troppo forte. Mi sono reso conto che
c’era davvero qualcosa che non
andava in te”, mi rivolse un mezzo sorriso beffardo.
“Così decisi di raccontare
tutto a Sam e, una volta tornato alla riserva e spiegato cosa era
accaduto,
abbiamo cominciato a cercare qualcosa che parlasse di esseri come te
nelle
nostre leggende”.
Non
riuscivo a trovare la voce per
dire qualunque cosa. Sentivo la maschera di stupore farsi strada sul
mio viso,
nient’altro.
“Non
abbiamo trovato quasi nulla,
finché non abbiamo cominciato a cercare tra quelle dei freddi. A quel punto è
diventato tutto estremamente chiaro”.
Il
suo sguardo, perso in
lontananza ad osservare le onde infrangersi contro la scogliera, era
corrucciato e all’apparenza preoccupato. Non mi piaceva.
C’era qualcosa che mi
sentivo nello stomaco – che nemmeno io riuscivo a spiegarmi
– che in quel
momento mi stava dicendo che dovevo fare dietrofront e tornarmene al
campo dov’era
rimasta Claire.
Come
una stupida, ignorai quella
sensazione e forzai la mia voce a sfuggire alle labbra.
“Cosa…”,
mi interruppi, poi
riprovai. “Cosa avete trovato?”.
“Non
avevamo mai dato peso a
quelle leggende, poiché narravano delle diverse…specie di succhiasangue. Come se ci fosse
bisogno di distinguerli
uno dall’altro…”, sbuffò
alzando gli occhi al cielo. “Il nostro nemico è
uno
solo, non c’importava a quale specie appartenesse. Tuttavia,
non appena ho
letto di quella piccola popolazione costretta a nascondersi e sfuggire
ai suoi
stessi simili… gli Hoser, mi è stato chiaro che
tu fossi una di loro”, terminò
la frase e mi fissò. Il suo sguardo bruciava.
Non
potei non fare a meno di
tirare un sospiro di sollievo. Quella storia la sapevo già,
mi ero preoccupata
per niente.
“Sembri…non preoccupata”,
costatò Jacob.
“So
già cosa sono”, ammisi senza
troppo entusiasmo.
Questo
discorso era già stato
affrontato troppe volte per i miei gusti.
“Quindi
sai anche cosa accadrà dopo”,
disse scettico, quasi come se fosse una domanda.
M’incupii.
Cosa c’era che non
sapevo ancora?
“E
cosa dovrebbe succedere dopo?”,
domandai con il suo stesso tono
di voce, inarcando un sopracciglio.
Jacob
mi fissò per un secondo
interminabile, come per cercare qualcosa sul mio volto. Poi
sospirò
pesantemente, passandosi le mani sul viso a stropicciarsi gli occhi.
“Gli
Hoser sono predestinati, il
loro destino è già scritto. Non appena mostrano i
primi poteri, i primi
sintomi, è impossibile interrompere il cambiamento.
Può bastare un niente, un
evento inaspettato, uno sbalzo d’umore…e cambia
tutto. Per questo aspetto,
somigliate molto a noi. A quel punto il ragazzo, o la ragazza, continua
a
diventare sempre più forte, a sviluppare ed incrementare i
suoi poteri e
l’unica cosa possibile è aspettare”.
La
voce di Jacob si perse
nell’aria, portata via dalla brezza leggera che soffiava
dall’oceano.
“Aspettare?”,
chiesi esitante.
Sapevo
che mi sarei pentita di
quella risposta, i suoi occhi mi avvertirono. Dopotutto si era
interrotto
proprio per questo, per impedirmi di capire, sperando forse che il buon
senso
avesse il sopravvento sulla curiosità. Ma dovevo sapere. Volevo sapere.
Jacob
sospirò, sconfitto.
“Aspettare
finché non saranno gli
Hoser stessi a…trovarla”, sembrò
affogare nelle sue stesse parole, indeciso se
pronunciarle. “E trasformarla”.
Mi
sentii mancare il respiro, la
sensazione di un pugno nello stomaco. Uno di quei colpi da cui
è difficile
riprendersi, la testa gira e la botta pulsa sotto la tua stretta,
l’unica cosa
che sembra tenerti unita ed impedirti di cadere a pezzi.
Così come avrei fatto
con un vero colpo, strinsi il mio braccio intorno alle costole cercando
di
respirare in modo regolare.
“Trasformarla”,
ripetei dopo
qualche attimo di puro silenzio.
“Mi
dispiace”.
Mi
sedetti sul bordo della roccia,
tra l’erba fresca e umida, a fissare il vuoto che si stendeva
davanti a me. Era
tutto così assurdo. Giocherellai con i ciuffi
d’erba che mi solleticavano i
polsi.
“Non avrei dovuto
dirtelo”, la sua voce era
colma di risentimento.
“No”,
mi affrettai a dire.
L’immagine,
il ricordo del morso
di Claude s’intrufolò con prepotenza nella mia
mente, portandosi in primo piano
tra i miei pensieri. Il dolore, quella sensazione di essere
lacerata…
Le
mie dita si strinsero attorno
ai deboli ciuffi d’erba. Li sentii strapparsi e contorcersi
sotto la mia presa.
Gli
ero grata per quello che aveva
detto. Dovevo solamente assimilare la notizia al meglio.
“Come
facevi a non saperlo?”,
domandò con rabbia.
“Non
lo so”, bofonchiai con un
filo di voce.
Riaprii
la mano, osservando i
ciuffi d’erba sul mio palmo. Distrutti, strappati - come me.
Jacob
si sedette al mio fianco, il
suo sguardo indagatore a cercare il mio.
“Jake!”,
una nuova voce chiamò
alle nostre spalle.
Mi
voltai, e Jacob era già in
piedi di fronte a me.
“Oh,
eccoti”, esclamò la figura
comparsa dagli alberi.
Sospirai
di sollievo quando mi
resi conto che era solo un ragazzo, avrà avuto
all’incirca l’età di Jacob. I
capelli erano lunghi – come Jacob, la prima volta che lo
avevo visto – che gli
ricadevano all’altezza del mento. Erano castano scuro, come i
suoi occhi. Nonostante
somigliasse a Jake, il loro aspetto fisico era totalmente diverso. Quel
ragazzo
era più magrolino, nonostante fosse alto quasi come lui.
Allampanato poteva
andare per descriverlo.
Mi
notò fissarlo con occhi curiosi
e mi sorrise al lieve imbarazzo.
“Ciao”,
mi salutò con un cenno
della mano, sfoggiando un gran sorriso.
Mi
limitai a sollevare la mano ed
abbozzare un sorriso.
“Cosa
vuoi, Seth?”, ci interruppe
Jacob, evidentemente infastidito.
“Sam
ti cercava”.
Lo
vidi sospirare pesantemente.
“Allora
torniamo indietro”.
Osservai
i due lanciarsi strane
occhiate prima di rivolgersi a me. Jacob si allontanò
velocemente, senza
aspettarci.
“Andiamo”,
disse Seth tendendomi
la mano.
La
afferrai con qualche secondo di
ritardo.
“Andiamo”,
gli feci eco.
“Così…”,
mormorò il ragazzo al mio
fianco. “Tu sei amica di Jake”.
Stavamo
camminando in tutta calma,
senza che nulla ci pesasse.
“Mmm”,
acconsentii. “Penso che si
possa anche dire così”.
Il
ragazzo mi rivolse un gran
sorriso.
“Beh
io sono Seth”, mi tese la mano.
“Clearwater”.
Ci
stringemmo la mano.
“E
io Elizabeth”, gli sorrisi a
mia volta, imitando la sua presentazione, “Cooper”.
Il
tragitto fu più breve di quanto
mi ricordassi. La compagnia di Seth, inoltre, era di gran lunga
preferibile.
Jacob era così…prevenuto. Mi metteva a disagio a
volte.
“El!”,
esclamò Claire non appena
mi vide. “Ero preoccupata! Dov’eri
finita?”, continuò tutto d’un fiato.
“Alle
pozze”, le ricordai. “Te
l’ho anche detto”.
“Quando
ho visto quell’altro
ragazzo tornare qui senza di te mi sono preoccupata”.
Le
sorrisi nel tentativo di
tranquillizzarla.
“Mi
ha riaccompagnata Seth”, le
indicai il ragazzo al mio fianco.
Gli
altri, così come Claire,
furono sorpresi di vedermi tornare con Seth. Dean e Tom, in
particolare, non ne
furono piacevolmente colpiti, a giudicare dalle loro espressioni.
Troppo
preda dei miei pensieri, mi
allontanai dai miei amici per sedermi su un tronco da sola. La persona
più vicina
a me era una ragazza che mi osservava con un’espressione
gelida. Era così… emanava
una rabbia e un odio che non riuscivo a spiegarmi. Mi chiesi se fossi
davvero
io il bersaglio di tanto disprezzo.
I
suoi occhi castani, colmi di
quello che mi apparve come risentimento misto ad un’infinita
tristezza, mi
studiavano da lontano. I capelli scuri, tagliati piuttosto corti, le
coprivano
in parte un viso dalla bellezza esotica. Zigomi alti e labbra sottili,
ricoperti da una splendida carnagione ambrata.
Mi
rannicchiai sul tronco,
portando le ginocchia al petto, come per difendermi dal mondo intorno a
me. Ero
ancora scossa dal discorso di Jacob. Trasformata,
pensai disorientata.
In
poco più di un istante, con
quella semplice costatazione, il mio futuro sembrava essersi
sbriciolato e
svanito nel nulla. Certo, avrei potuto accettarlo. E l’avrei
accettato, perché a
quanto pare era così che doveva andare. Ma non ero ancora
pronta per diventare…
un vampiro. Come potevo? Non mi sentivo pronta. E soprattutto, lo sarei
mai
stata? Alla vita, fino a quel momento, non avevo chiesto altro che
un’esistenza
semplice, senza grandi difficoltà o intoppi. Il problema
è che a volte la vita
non ti riserva ciò che aspetti.
Sospirai.
Forse la stavo facendo
più difficile di quello che forse era in realtà.
Era il mio destino? Benissimo,
sarei andata incontro al destino a testa alta. Finché il
destino avesse
compreso anche Edward, l’avrei accettato senza lamentarmi.
Alzai
lo sguardo, asciugandomi la
lacrima che tentava prepotentemente di scivolare lungo la mia guancia.
La
ragazza aveva ancora gli occhi puntati su di me. Qualcosa, nella mia
espressione, parve mutare il suo sguardo radicalmente. Si
alzò e mi si
avvicinò, la sua espressione indecifrabile.
Sembrava…indecisa su come
comportarsi. Si guardò attorno, cercando di apparire
rilassata.
“Tutto
bene?”, mi chiese in un
sussurro, sedendosi al mio fianco.
Presi
un respiro profondo,
sperando che la voce non mi si spezzasse.
“Più
o meno”, ammisi.
Seguì
un breve silenzio in cui mi
chiesi perché anche i suoi occhi sembravano lucidi.
“Qualcosa
non va?”.
“Direi
di sì”, dissi sincera. “Ma
credo che ora vada meglio”.
“Non
sembra”, abbozzò un sorriso.
Quel
sorriso mi stupì. E mi
intristì. Era un sorriso arrugginito, come se non fosse
stato usato da
parecchio tempo. Un sorriso che, per più di un verso, mi
sembrò più una smorfia
di dolore.
“Sono
Leah, comunque”, annunciò la
ragazza, tendendomi la mano. “Clearwater”.
Gli
angoli della mia bocca si
sollevarono automaticamente in un mezzo sorriso. Sorriso che si
completò di fronte
alla sua espressione confusa.
“Che
c’è?”, domandò incuriosita.
“Tu
e tuo fratello vi presentate
allo stesso modo”, le dissi stringendole la mano.
“Sono
Elizabeth comunque, cioè
El”.
Quello
strano sorriso spuntò
nuovamente sul suo bel viso.
“Conosci
Seth?”.
“Già”,
annuii.
La
sua espressione, ad un tratto,
tornò seria.
“Mi…dispiace”,
mormorò. “Per la
storia della trasformazione”, precisò con un filo
di voce.
Ero
certa che fosse sincera.
“Come
fai…”, cominciai.
“Me
l’ha detto Jacob”, mi
anticipò.
“Sei
sua amica?”.
Fece
una smorfia.
“Non
credo sia la definizione più
esatta”, ammise con un ghigno. “Ma penso di
sì”.
Sorrisi
anch’io, senza volerlo. Tuttavia,
il mio umore tornò quello di prima non appena mi ricordai di
cosa stavamo
parlando. Non riuscivo a spiegarmi perché, ma sentivo di
potermi confidare con
Leah.
“E’
che non mi sento pronta
per…quello che deve accadere”, ammisi, lo sguardo
fisso sulle mie mani.
“Nessuno
di noi lo è”, disse in
poco più di un sussurro.
La
guardai incuriosita, inarcando
un sopracciglio. Sorrise amaramente.
“Io…sono
come Jacob”.
“Questo
vorrebbe dire che…”,
esclamai forse a voce troppo alta.
Mi
interruppi, rivolgendole un
sorriso di scuse e guardandomi attorno circospetta.
“Questo
vorrebbe dire che anche tu
sei…un licantropo?”, sibilai di nuovo, quasi
impercettibilmente.
Il
sorriso arrugginito sollevò
leggermente i suoi zigomi. Annuì.
Mi
passai una mano tra i capelli,
sbalordita. Possibile che tutte le persone che incontravo fossero delle
creature mitologiche? Scossi la testa, incredula.
“Ehi,
ti va di restare qui a
mangiare?”, propose ad un tratto, come se fosse la cosa
più normale del mondo.
Nonostante
la proposta mi allettasse,
in un modo che non fui capace di spiegarmi, rifiutai gentilmente
l’offerta.
Dopotutto, Alice sarebbe venuta a prendermi alle cinque. Quando fu ora
di
andarmene, il sole brillava ancora timido nel cielo grigio. Aveva un
che di
opprimente. Claustrofobico.
Seth
si offrì di accompagnarmi
fino al confine, dove mi attendeva una scintillante Volvo argentata.
Chissà da
quanto era già lì. Improvvisamente, ero smaniosa
di tornare a casa.
Quando
arrivammo alla macchina,
Alice mi sorrise ampiamente.
“Divertita?”,
chiese allegra.
Subito dopo arricciò il naso. “Chi è
lui?”.
Avevo
fatto bene a farmi
accompagnare? Ad un tratto non ne ero più così
certa.
“Sono
Seth”, si presentò
raggiante.
“Clearwater”,
finii io per lui,
ridacchiando.
“Alice”,
si presentò a sua volta, osservandolo
attentamente.
Ovviamente
non si strinsero la
mano.
“Andiamo?”,
mi esortò Alice.
Sembrava
su di giri per qualcosa. Annuii.
Casa finalmente.
“Ciao
El”, mi salutò Seth.
Mi
voltai verso di lui e, senza
davvero pensarci, lo abbracciai.
“Ciao
Seth”.
Lui
ridacchiò.
“Ci
si vede”.
Stavo
ancora sorridendo quando
richiusi la portiera dietro di me e il motore prese vita. Quando fummo
abbastanza lontane da La Push, cominciai a sentirmi a disagio.
Loro
avevano sempre saputo la
verità. E non me l’avevano detta. Avrei dovuto
dirgli cosa avevo scoperto? O
avrei dovuto tenerlo per me? Come avrei dovuto parlarne, nel caso? Non
sapevo
davvero dove sbattere la testa.
“Pensierosa?”,
chiese Alice quando
fummo in vista della casa.
“Mmm”,
acconsentii.
“Sono
proprio curiosa”, la sentii
mormorare elettrizzata.
Mi
voltai verso di lei per
rivolgerle un’occhiata inquisitoria, ma eravamo
già arrivate. Alice era già
fuori dalla macchina, il suo sorriso che riusciva a risplendere anche
nella
penombra del garage. Mi spalancò la portiera prima che
avessi il tempo anche
solo di mettere la mano sulla maniglia.
“Su,
muoviti!”, mi esortò.
“Alice
perché devi sempre farmi
fretta?”, domandai esasperata.
Richiusi
la portiera dietro di me,
sospirando.
“Cosa
c’è di così importante?”,
chiesi sospirando.
Per
tutta risposta, Alice mi mise
le sue mani alla base della mia schiena e iniziò a spingermi.
“Alice!”,
esclamai ridacchiando.
“Muoviti,
muoviti!”, continuava a
dire.
Attraversammo
la radura davanti
alla casa, per poi fermarci sulla porta d’ingresso. Mi
bloccai, incuriosita. Non
mi ero accorta che la macchina di Carlisle fosse parcheggiata fuori.
Strano. Non
l’aveva mai fatto. Probabilmente
è
arrivato tardi dal lavoro, decisi.
In
quel momento sentii una voce
all’interno della casa. Troppo roca, troppo bassa, troppo
normale per
appartenere a chiunque di loro.
“Chi
c’è, Alice?”.
Mi
sorrise un ampio ghigno
soddisfatto. La sua espressione era strana. Compiaciuta, curiosa ed
entusiasta
allo stesso tempo.
Bussò
tre volte alla porta. Un
colpo distanziato, due vicini.
“Alice?”,
la esortai di nuovo.
Qualche
istante dopo sentii la
serratura scattare e la porta aprirsi. Feci scivolare lo sguardo dal
viso di
Alice alla figura sulla porta.
“Bentornata”,
disse, il solito
sollievo nella sua voce perfetta.
Gli
sorrisi, prendendogli la mano
e intrecciando le dita alle sue.
“Edward,
ma…”, la mia voce si
perse nell’aria.
Stavo
per chiedergli cos’aveva
Alice di strano, ma notai la stessa espressione sul suo viso.
“Chi
c’è in casa?”, domandai
inarcando un sopracciglio.
Mi
sorrise il mio sorriso
preferito, accarezzandomi la guancia con il dorso della sua mano,
ancora
intrecciata alla mia. Nei suoi occhi c’era qualcosa di
diverso, una strana luce
che pareva accenderlo ed elettrizzarlo. Alice, che era rimasta a
fissarci,
cominciò a battere il piede, spazientita.
A
quel punto Alice spalancò la
porta, che fino a quel momento era rimasta aperta solo in parte, e
saltellò in
salotto. Non mi ero accorta che mi avesse presa per un braccio
finché non mi
sentii tirare come una bambola di pezza.
“Alice,
ma che…”, cominciai.
Non
riuscii a finire. In quel
momento riuscii a riconoscere la voce di prima e sentii gli occhi
gonfiarsi di
lacrime, sicuramente di un tipo diverso da quello di appena qualche ora
prima –
lacrime di felicità.
“Mamma!”,
gridai correndole incontro, sentendomi
completa come non riuscivo da molto.
Ebbene, spero sia stato di
vostro gradimento. Cosa ne pensate voi? Cosa dovrebbe fare El, o come
dovrebbe sentirsi? Un grazie come sempre alle recensitrici e ai lettori
silenziosi - buon weekend gente :)
Eccomi
qui! Sono leggermente in anticipo, ma ci tengo ad aggiornare stasera
perchè devo fare un "regalo di nozze" a Jen e Bubu u.u
(Anche se a Bubu non gliene frega niente, quindi è solo per
Jen praticamente xD) Quiiiiindi...ecco qui un capitolo un po' smielato.
Fatemi sapere che ne pensate! Buon capitolo :)
Capitolo
22. Luna.
Le
andai incontro tanto forte da
farla indietreggiare di qualche passo. Per un secondo temetti di
cadere. Tuttavia,
non mi lasciò andare. Mi strinse così forte da
temere che le mie costole si
sbriciolassero da un momento all’altro. Sentivo il suo cuore
martellare contro
il mio petto, il suo battito accelerato quanto il mio. Ma non
m’importava delle
mie costole, che si spezzassero pure. Quell’abbraccio. Per
quello avrei dato
qualsiasi cosa in quel momento.
Sentivo
il corpo contro il mio, la
sua mano accarezzarmi i capelli, il suo odore familiare ed
inconfondibile nelle
narici e non desideravo altro. La mia
mamma.
Non
credevo mi fosse mancata così
tanto.
“El, El, El, El,
El…”, continuava a sussurrare al mio orecchio.
La
sua voce tremava d’emozione,
così come ero sicura che avrebbe fatto la mia se fossi stata
anche solo in
grado di parlare.
Notai
con la coda dell’occhio Esme
e Carlisle stringersi a loro volta in un abbraccio,
un’espressione compiaciuta
sul loro volto amabile e dai lineamenti perfetti. Avevo imparato a
considerarli
la mia seconda famiglia. Lo erano. Ma quello che stavo provando in quel
momento…era totalmente diverso. Più assoluto.
Edward
mi osservava con un lieve
sorriso sulle labbra. Mi sembrava più bello che mai,
qualcosa che nemmeno la
più fervida immaginazione sarebbe mai riuscita a sognare.
Troppo presto, ci
allontanammo quanto bastava per guardarci negli occhi. Non mi
lasciò andare –
mi tenne strette le mani sulle braccia, come se avesse paura che
potessi
sparire di nuovo nel nulla. Anche il suo viso, come il mio, era rigato
da
profondi solchi di acqua salmastra. Si asciugò velocemente
le lacrime,
sorridendomi.
Il
suo viso. Mi era mancato anche
quello. I capelli scuri, legati in una coda ribelle che lasciava
intravedere
alcune timide ciocche argentee. Gli zigomi alti, non troppo sporgenti,
che
sostenevano gli occhi di un colore particolare, che avevo sempre
invidiato –
ancora indeciso se essere blu o del tutto castano. La pelle era
leggermente
abbronzata, come sempre – con timide lentiggini a disegnarla
– ma si vedevano
ugualmente le piccole rughe che cominciavano a comporre il suo viso,
come
piccole tessere di un puzzle infinito.
Mi
asciugò l’ennesima lacrima con
un dito, posando la sua mano sulla mia guancia.
“Guardati”,
mormorò. “Sei
bellissima”.
“Mamma”,
la rimproverai con un
filo di voce, abbozzando un sorriso imbarazzato. “Non
cominciare”.
Notai
gli angoli della bocca di
Edward sollevarsi in un nuovo sorriso.
“Quanto
mi sei mancata,
scricciolo”, mi strinse forte a sé.
Respirai
profondamente il suo
profumo. Mi era mancato anche quello. Sapeva di casa, di
infanzia…di nostalgia.
“Anche
tu, mamma”.
“Che
ci fai qua?”, chiesi ad un
tratto, realizzando appieno la situazione.
Inarcò
un sopracciglio,
sorridendo.
“Delusa
di trovarmi qui?”.
“Non
scherzare, ti prego”.
Sorrise
di nuovo, per poi voltarsi
verso i nostri spettatori. Indicò Edward, sfoggiando un gran
sorriso.
“Mi
ha contattata lui. Anzi, a dire il
vero mi è proprio
venuto a prendere a casa per poi portarmi qui”,
ridacchiò nel terminare la
frase.
Lo
guardai. Quello sguardo… Mi
aveva tenuto nascosto tutto, nonostante il suo sguardo mi avesse
lasciato
capire qualcosa, che tuttavia non avevo afferrato. L’aveva
fatto per me.
“Grazie”,
mormorai con quanta
sincerità e gratitudine riuscissi ad imprimere nella voce.
“E’…è splendido
averti qui, mamma”.
Mi
spettinò i capelli.
“Non
immagini quanto”, convenne
lei.
“Ma
papà?”, chiesi ad un tratto.
“E Sarah?”.
Si
strinse nelle spalle.
“Sono
rimasti a casa, stanno bene.
Manchi anche a loro”.
“Già”,
sospirai.
Ero
rimasta lontana dalla mia
famiglia così tanto.
Ci
sedemmo sul divano, senza
staccarci neanche un secondo l’una dall’altra.
Avevo paura che potesse svanire
da un secondo all’altro.
“Suppongo
tu sia stanca, Marie”,
disse Carlisle dopo che mia madre ebbe raccontato tutto ciò
che era successo in
mia assenza.
Era
molto tardi, ma non riuscivo
ancora a percepire la stanchezza.
“A
dire il vero no”, ammise con un
sorriso. “Ma penso che sia comunque ora di andare a
letto”.
Rivolsi
a Rose un sorriso complice.
Lei non dormiva dal millenovecentotrentatre, eppure non sembrava
granché
stanca.
“Vi
accompagno io”, propose
Edward.
Per
tutta la serata mi era stato
vicino, senza tuttavia toccarmi in particolar modo. Mi aveva sfiorato
la mano
un paio di volte, ma aveva evitato di farsi vedere da mia madre.
Attraversammo
la radura che ci
separava da casa in silenzio, il rumore dei nostri passi
nell’erba umida ad
accompagnarci.
Levai
lo sguardo al cielo. Le
nuvole erano rade, coprivano la notte soltanto in parte. La luna
splendeva,
così luminosa che mi abbagliò. Il sole stesso non
aveva mai brillato così in
quel luogo. Sembrava guidarci, come un grande faro appostato nel bel
mezzo del
cielo.
“El,
tesoro, sbrigati ad entrare o
prenderai freddo”, mi avvisò mia madre.
Annuii
e mi affrettai verso la
porta. Edward era lì, in piedi, pronto a salutarci. Mi
dispiaceva non salutarlo
come avrei voluto.
“Buonanotte,
Marie”, si rivolse a
mia mamma.
Si
voltò verso di me, accennando
un sorriso.
“Buonanotte,
El”.
“’Notte,
Edward!”, si congedò in
fretta mia madre, intrufolandosi in casa. Sicuramente a mettere a posto
qualcosa di mio.
Edward
trattenne una risata. Gli
presi la mano.
“Allora
a domani”, mormorai
alzando lo sguardo verso il suo viso.
Stava
trattenendo un sorriso, era
evidente.
“Perché
fai quella faccia?”,
domandai, sorridendo a mia volta a causa della sua espressione
divertita.
“Niente”,
si strinse nelle spalle.
“E’ solo che io ti rivedrò molto prima
di domani”.
Spalancai
gli occhi.
“Tu…cosa?”.
Edward
inarcò un sopracciglio in
modo significativo.
“Vorresti
dirmi che la notte
rimani qui?”.
Fece
spallucce.
“Non
c’è molto altro da fare”, mi
abbagliò con il suo sorriso truffatore.
“Allora
riformulo la mia frase”,
gli sorrisi beffarda. “A più
tardi”.
Mi
baciò la fronte rapidamente,
così veloce che ebbi appena il tempo di respirare il suo
profumo.
“A
più tardi”, acconsentì prima di
sparire nella notte.
Ancora
disorientata dalla sua
presenza, mi diressi su per le scale, dove ero sicura che mi attendesse
mia
madre. Come sospettavo, infatti, la trovai appollaiata sul divanetto
all’ingresso, un enorme sorriso sul suo volto instancabile.
“Credo
che quel ragazzo abbia
perso la testa per te”, affermò convinta.
Mi
sentii arrossire e,
prontamente, nascosi in parte il viso nei capelli.
“Ne
sei convinta?”, domandai
innocente.
“Oh,
El! Non prendermi in giro, ho
visto come ti guarda”.
Sbuffai.
“Ok,
credo che tu abbia
ragione”.
“E
tu?”, chiese curiosa, come solo
una madre sa fare.
“Potrei
aver perso anch’io la
testa, mamma”, ammisi, acquistando un imbarazzante colorito
scarlatto.
Ridacchiò.
“Sono
pur sempre la tua mamma, io
so tutto”.
“Già”,
mi unii alla sua risata. “Mi
sei mancata”, la strinsi in un abbraccio.
“Anche
tu, scricciolo”, mormorò
tra i miei capelli. “Ti abbiamo cercata così tanto”.
A
quel momento perfetto si
aggiunse qualcosa. Qualcosa di scomodo, fastidioso.
“Continuavamo
a pensare, a sperare
che tu fossi ancora viva, che ti fossi salvata e fossi scappata via, ma
non lo
sapevamo. Nessuna chiamata, nessuna lettera, nessun recapito. Niente di
niente.
Avevamo cominciato a pensare, a temere che tu
fossi…”, s’interruppe.
La
sua voce sembrava potersi
spezzare da un momento all’altro.
“Oh,
tesoro, non sai quanto mi
dispiace per averlo solo pensato!”, mi strinse forte, tanto
da farmi mancare il
respiro.
Ecco
cos’era. Rimorso, senso di
colpa. Mi sentii una stupida. Che razza di figlia ero? Da quando ero
arrivata
qui, sembravo aver perso i contatti con il mondo reale –
quello della mia
vecchia vita. Erano davvero passati solo due mesi? Il cambiamento era
stato
così radicale che appariva ai miei occhi come una vita
intera.
“Mi
dispiace mamma”, era la cosa
più banale che potessi dire in quel momento, ma ugualmente
vera.
Non
ero in grado di dirle perché
non l’avevo chiamata. Non ero in grado di spiegarlo nemmeno a
me stessa. A cosa
avevo pensato negli ultimi due mesi? Che cosa diavolo era stato
più importante
della mia vecchia vita? Il suo nome scattò davanti ai miei
occhi con una
velocità sorprendente, rispondendo in modo automatico alle
mie domande.
Sospirai.
La mia nuova vita, ecco
cos’era stato più importante. Dopotutto, Edward era la mia vita ora.
“Mi
dispiace di non aver
chiamato”, ripetei.
Mi
sorrise, regalandomi quel
sorriso che era impresso nei miei ricordi e che non attendeva altro che
tornare
a splendere.
“Ora
non importa”.
Annuii
decisa. Ora che la mia vita
– quella vecchia e quella nuova – erano tornate
insieme, niente avrebbe potuto
essere più perfetto.
“Adesso
però è ora che tu vada a
dormire”.
“Forza,
vai”, mi esortò
dolcemente.
Sospirai
di nuovo e mi alzai.
“La
tua camera è quella sulla
destra, in fondo al corridoio”, la informai.
“Dovrò
fare attenzione a non
perdermi, è enorme questo posto”.
“Buonanotte,
mamma”.
“’Notte,
El”.
Mi
baciò la fronte e, senza
smettere di sorridere, si diresse verso la sua stanza.
Quella
sera mi sembrava di
fluttuare. Mia madre era con me,
qualcosa
cui mi ero imposta di non pensare, né tantomeno sognare. E
invece era lì, sotto
il mio stesso tetto. Mi sentivo completa, felice.
Se
solo non fosse stata per quella
piccola sensazione di…disagio che mi punzecchiava lo
stomaco. Non riuscivo a
spiegarmela.
Mi
lavai e mi cambiai il più
veloce possibile. Ero ansiosa di passare del tempo con Edward, qualcosa
che
oggi non ero riuscita ancora a fare.
Scelsi
un pigiama pulito,
accartocciando e lanciando sotto il lavandino quello della sera prima.
Volevo
qualcosa di più di maglietta e pantaloni da ginnastica.
Edward mi aveva
sicuramente vista anche con quelli, ma tanto valeva migliorare un
po’ l’aspetto
generale. Ancora avvolta nel gigantesco asciugamano bianco, aprii il
cassetto
dove tenevo i vari vestiti.
Rimasi
a bocca aperta. Alice aveva
detto che mi avrebbe comprato qualcosa di
nuovo, ma certamente non avevo potuto immaginare una
quantità tale di capi.
Più che pigiami, quelli sembravano vestiti per andare ad una
serata di gala. La
maggior parte erano neri, con inserti in pizzo che mi facevano
rabbrividire
alla sola vista. Richiusi il cassetto, scuotendo la testa.
Era
troppo tardi per recuperare il
mio vecchio pigiama? Sbuffai.
Non
avrei mai più accettato di
farmi comprare qualcosa da Alice, se non con la mia supervisione.
Mi
sedetti sul bordo del letto,
sperando che Edward non arrivasse proprio in quel momento. Mi sorpresi
quando
trovai una busta che spuntava da sotto il cuscino.
Ho pensato ti servisse.
Sospirai.
Mia madre pensava sempre
a tutto.
Aprii
la busta e trovai all’interno
– come avevo sospettato – il mio pigiama preferito.
Me lo infilai, per poi andare
in bagno a controllare come mi stesse. Ero piuttosto soddisfatta,
quindi mi
spazzolai i capelli e tornai in camera sfoggiando un lieve sorriso. Lui
era già
lì. Come se fosse rimasto appostato fuori dalla finestra ed
avesse atteso il
momento migliore per entrare. Sdraiato sul letto, immobile, con lo
sguardo
verso la foresta che si stendeva oltre la finestra, appoggiato solo sui
gomiti,
somigliava più ad una statua di marmo. Poi la mia statua
prese vita, voltando
il capo verso di me e sollevando gli angoli della bocca a disegnare un
sorriso
mozzafiato.
Saltai
sul letto, raggomitolandomi
accanto a lui.
“Ciao”,
lo salutai raggiante.
“Siamo
su di giri stasera”,
mormorò mentre attorcigliava un mio boccolo tra le sue dita.
“Tu
dici?”, chiesi inarcando un
sopracciglio.
Alzò
gli occhi al cielo,
mettendosi a sedere in modo da vedermi in viso.
“Ne
sono convinto”, mormorò
inchiodando i suoi occhi ai miei.
Quando
lo faceva, mi sentivo
sempre le gambe molli, come se le mie ossa si trasformassero in spugna.
Distolsi lo sguardo poco dopo, sentendo che il mio cuore non avrebbe
retto un
attimo di più. Trattenne un sorriso consapevole.
“Sai…somigli
a tua madre in
maniera piuttosto singolare”.
Lo
fissai, scettica.
Io
e mia madre ci somigliavamo
molto, ma sapevo che lui intendeva qualcosa di diverso.
“Certo,
solo che lei da giovane
era molto più carina”, mi strinsi nelle spalle.
Sembrò
quasi che ruggisse. Alzò
gli occhi al cielo, scuotendo la testa.
“Sei
impossibile”.
Gli
feci una smorfia.
“Lo
so”, replicai testarda.
Mi
piaceva avere l’ultima parola.
“Cosa
intendevi prima, comunque?
Dalla tua faccia non sembrava ti riferissi
all’aspetto…fisico”.
“Era
così evidente?”, ridacchiò
tranquillo.
Feci
spallucce.
“No,
ma ti conosco abbastanza bene
da capire cos’hai in mente”.
“Pensavo
che dei due fossi io
quello che sa leggere nel pensiero”.
“Per
ora”.
Sbuffò,
esasperato dalla mia
cocciutaggine.
“Quindi…”,
disse, cercando un
nuovo argomento. “Com’è stata la tua
giornata?”.
Ero
sul punto di rispondere, ma mi
fermai. Eccola di nuovo, quella sensazione di disagio.
“Suppongo
non interessante quanto
la tua”, replicai, improvvisamente sulla difensiva.
Mi
sorrise il suo sorriso
truffatore, che riuscì ad alleviare leggermente quella
strana sensazione. Non
riuscivo a spiegarmelo. Sapevo che era stupido, che non aveva senso.
Avrei
dovuto semplicemente ignorarla. Edward inarcò un
sopracciglio, interrogativo.
Solo
qualche secondo dopo, quando
le sue dita gelide tracciarono il profilo del mio viso, mi resi conto
di cosa
non andasse. Sarei diventata anch’io fredda come lui. Un freddo.
Mi
accigliai, abbassando lo
sguardo sulle mie mani.
“Qualcosa
non va?”, chiese
dolcemente.
Certamente
non immaginava.
Probabilmente, se fosse stato capace di leggermi nel pensiero, stavolta
sarebbe
stato tutto più semplice. Indossai la mia maschera
impassibile in viso.
“Oggi
a La Push ho incontrato
Jacob e gli altri Quilleute”, lo informai distaccata.
Il
mio improvviso cambio nel tono
di voce sembrò preoccuparlo. Rimase in silenzio, aspettando
che continuassi.
“Ho
avuto una conversazione
davvero interessante con Jacob”, lo sfidai con lo sguardo, la
voce tagliente.
“Mi
ha parlato di alcune leggende
locali”, sibilai. “E anche di alcune leggende
riguardo ai freddi”.
Il
suo sguardo era attento,
impenetrabile, ma riuscivo a scorgere la sua paura.
“Quali
leggende?”, mi esortò dopo
un lungo istante.
“Quelle
che raccontano degli
Hoser”, mormorai gelida. “Quelli come me”.
L’aria
intorno a noi sembrava
essersi improvvisamente congelata. Quel silenzio, per quanto breve,
minacciava
di spaccarmi i timpani.
“Sai”,
buttai lì, come a
minimizzare. “E’ stato interessante scoprire il mio
destino da uno
sconosciuto”.
I
suoi occhi si accesero come
legna al fuoco – ardevano. Erano allarmati e tristi allo
stesso tempo. Mi
guardò a lungo, indeciso su cosa fare. Probabilmente stava
riflettendo.
Poi,
forse più istintivamente che
altro, mi strinse tra le sue braccia fredde, cosa che non fece altro
che
aumentare la mia rabbia. Lacrime – lacrime di rabbia e
frustrazione, di
tradimento e rassegnazione – gonfiarono i miei occhi, pronte
a sgorgare senza
fine. Mi sentii la gola bruciare e chiudersi, come se qualcosa mi
soffocasse.
“No!”,
esclamai, sfuggendo alla
sua stretta.
Per
un breve istante sperai di non
svegliare mia madre, che dormiva nella sua stanza, all’oscuro
di tutto quello
che stava accadendo. Mantenni lo sguardo alto sui suoi capelli
– nel vano
tentativo di non far traboccare le lacrime –, senza
incontrare i suoi occhi. Sapevo
di non poter riuscirci.
Percepivo
il suo sguardo su di me,
i suoi occhi d’oro liquido che osservavano ogni espressione
che si susseguiva
sul mio viso. Sembravano bruciare come il falò sulla
spiaggia. Senza sosta,
senza controllo. Mentre lasciavo cadere il mio sguardo sul materasso,
incrociai
appena il suo sguardo. Vidi nei suoi occhi che il mio gesto
l’aveva ferito, ma
non riuscii a pentirmene.
Ero
furente. Furente perché
sembrava realmente dispiaciuto, perché avevo dovuto sapere
cosa sarebbe
successo da una persona che conoscevo appena. Furente perché
loro non me
l’avevano detto e, con ogni probabilità, non
l’avrebbero mai fatto.
“Mi
dispiace, El”, sussurrò
Edward, il fuoco ancora nei suoi occhi.
Mi
impedii di lasciarmi distrarre
da quello sguardo dorato che tanto amavo. Tuttavia, mi bastò
fissarlo un altro
attimo per sentire la mia maschera sbriciolarsi in tante schegge di
malinconia.
Mi morsi un labbro, trattenendo un singhiozzo.
Rimasi
in silenzio e così anche
lui. Sembrava che avesse paura di toccarmi, di ferirmi. Non volevo
cedere, non
volevo dimostrarmi debole.
Orgoglio, che cosa stupida.
Scossi
la testa, liberandomi di
ogni pensiero inutile e lasciai che fosse il mio corpo, e non la mia
mente, a
decidere per me. Nascosi il viso contro il suo petto, lasciandomi
stringere e
cullare. Lacrime tiepide, ma senza significato questa volta, mi
rigarono il
viso.
“Mi
dispiace”, mormorò.
Sapevo
che era la verità, che era
sincero. Lì, tra le sue braccia, ogni problema sembrava
ridursi fino a
scomparire.
“Mi
dispiace che tu l’abbia
scoperto così, mi dispiace che non sia stato io stesso a
dirtelo, mi dispiace.
Mi dispiace, El. Ti chiedo scusa. Se solo potessi
evitarti…questo, farei qualunque
cosa”.
Sollevai
lo sguardo quanto bastava
per sprofondare nei suoi occhi.
“Questo?”,
chiesi confusa.
“Quello
che sono. Non te l’ho
detto perché forse speravo che non ammetterlo, non dirlo ad
alta voce, potesse
non renderlo realtà. Non voglio che tu soffra”.
Abbozzai
un sorriso amaro.
“Pensi
davvero che tutto questo
sia perché non voglio diventare…un
vampiro?”.
Mi
fissò, senza espressione. Sospirai.
“E’
il mio destino. Sono quello
che sono, sono pronta ad accettare quello che deve accadere. O almeno
credo che
lo sarò al momento opportuno. E’ che non mi sento
pronta, non ancora. Sapevo
che prima o poi sarebbe comunque successo, io voglio restare con te per
sempre,
e quello sarebbe l’unico modo, ma non…non avevo
mai pensato concretamente alla
cosa. Ma quello che mi ha fatto infuriare è che non sia
stato tu a dirmelo. Me
l’ha detto Jacob! Jacob!”,
feci una smorfia, alzando le
mani in aria.
Appariva
sorpreso dalle mie
parole, come se qualcosa non gli tornasse.
“Tu…”,
sembrava che qualcosa lo
soffocasse. “Tu saresti disposta a…morire
per restare con me?”
“Non
è proprio morire, tecnicamente”,
precisai abbozzando un
sorriso.
Alzò
gli occhi al cielo, per poi
affondare il viso tra i miei capelli.
Poi
sospirai. Il peggio era
passato.
“Elizabeth”,
disse con voce ferma,
tuttavia insicura. “La cosa a cui tengo di più
è la tua vita, pensi che potrei
mai disfarmene per un capriccio?”.
Mi
scostai dal suo corpo freddo
per lanciargli un’occhiataccia.
“Capriccio?”,
chiesi scettica,
inarcando un sopracciglio.
“Se
tu diventassi un vampiro, non
ci sarebbe nessuno più
felice di me.
Non avrei più paura di perderti, di farti del male, ma
l’unica cosa a cui tengo
più di me stesso sei tu. E non permetterò che tu
butti via la tua vita così”.
Ero
sul punto di replicare
brillantemente, quando le sue labbra furono sulle mie e i miei pensieri
si
persero nell’aria intorno a noi. Quell’aria, che
prima sembrava essersi
congelata, ora stava andando a fuoco. Lo baciai con rabbia,
intrecciando con
forza le mie mani tra loro dietro al suo collo, in modo da impedirgli
di
andarsene. Con le dita sembrava memorizzare ogni tratto del mio volto,
mentre
io faticavo a costringermi di respirare. Sentii la sua bocca ritrarsi
dalla mia
e sapevo di non poter fare niente. Inutilmente, rafforzai la mia presa.
Tuttavia,
come se la mia stretta
fosse costituita di semplice gas, si liberò rapidamente.
Sospirai, sconfitta.
Qualcosa,
però, nella sua
espressione, cambiò radicalmente. Pensavo si sarebbe
scostato da me, come
faceva sempre, per darsi il tempo di riprendere il controllo dei sensi
che
sentiva di essere sul punto di perdere. Invece mi stupì. Mi
sollevò con
facilità sorprendente e mi stese sul letto.
Il
mio cuore cominciò a tremare
con quanta forza gli fosse concesso. Mi sovrastava, le sue mani
appoggiate sul
materasso ai lati del mio capo. Sentivo il suo corpo gelido contro il
mio, ma
sapevo che si stava controllando, che le sue braccia erano ancora in
tensione
per non schiacciarmi con il suo peso. I suoi occhi bruciavano di una
strana
luce.
Sapevo
che il mio desiderio
inespresso non si sarebbe realizzato quella sera, il suo sguardo lo
diceva più
che chiaramente, ma la mia mente e il mio corpo rispondevano a due
impulsi
totalmente diversi. Sentivo l’aria entrare ed uscire dai miei
polmoni troppo
velocemente, la sentivo bruciare lungo la mia gola. Le sue labbra
continuavano
a muoversi dall’incavo del mio collo fino alla clavicola,
facendomi
rabbrividire.
Se
avesse parlato, non avrei
sentito niente. Nelle mie orecchie c’erano solo i battiti
accelerati del mio
cuore. Temevo che si sarebbe fermato da un momento all’altro.
Se fossi morta in
quel momento, sarebbe stata una morte piacevole.
Ad
un tratto si fermò, portando le
labbra al mio orecchio. Un altro brivido, l’ennesimo, mi
scese lungo la
schiena.
“Qualcosa
non va?”, chiese, un
sorriso nella sua voce.
“Cosa?”,
domandai senza fiato.
Ridacchiò
dolcemente sulla mia
pelle, scostandomi una ciocca di capelli.
“Ti
vedo perplessa”.
Sapevo
che non sarei riuscita a
parlare, mi mancava la voce.
Mi
limitai a fare un lieve cenno
con il capo, socchiudendo gli occhi.
“Se
non ti va…”, ero sicura che
stesse sorridendo, nonostante la penombra mi impedisse di esserne certa.
Per
tutta risposta, gli misi le
braccia al collo, attirandolo a me. Sorrise di nuovo.
“Cosa
faresti se ti dicessi che ti
amo?”, anche se la luce era scarsa, riuscivo a vedere i suoi
occhi con
chiarezza. Gli sorrisi.
“Ti
direi che ti amo anch’io”.
“Risposta
esatta”, mi diede un
lieve baciò prima di scivolare con leggerezza al mio fianco.
“Dormi ora”,
mormorò tra i miei capelli.
“Certo,
come se potessi riuscirci”,
bofonchiai.
Sentivo
ancora il sangue pompare
troppo veloce nelle mie vene, l’adrenalina scorrere con
rapidità ed accelerarmi
i battiti.
“Concentrati”,
ridacchiò. “Io sarò
qui”.
Sbuffai.
“È
proprio quello a rendermi
difficile addormentarmi”.
Mi
sembrò quasi di sentirlo alzare
gli occhi al cielo. Mi sollevò delicatamente, scostando le
coperte. Poi mi
stese nuovamente, coprendomi. Mi sentivo molto una bambina, ma,
lì tra le sue
braccia, non avevo la minima intenzione di lamentarmi.
Si
sdraiò nuovamente accanto a me,
cingendomi con un braccio. Sbadigliai appena, raggomitolandomi su un
fianco in
modo da incastrarmi perfettamente nell’incavo creato dal suo
corpo.
“Buonanotte,
El”, sussurrò piano,
tra i miei capelli.
Ascoltai
il suono della sua voce
dissolversi nel silenzio. Non dissi nulla, rimasi ad osservare il cielo
fuori
dalla finestra. La luna ormai era alta al centro del cielo. Le cime
degli
alberi parevano tingersi d’argento, rendendo un po’
meno buia ed inquietante quella
notte. Il suo riflesso sembrava avere vita propria, mentre scivolava da
una
cima all’altra nel suo itinerario nel cielo notturno, creando
a volte strane
ombre sul terreno. Ripensai alla mia giornata, a ciò che era
successo. A quello
che sarebbe successo.
Mi
sentivo come la luna. Ora
splendeva, più forte che mai, e si sentiva splendida,
perfetta – perché sapeva
di essere nel posto giusto. Tuttavia, sapeva altrettanto bene che prima
o dopo
sarebbe tramontata. Non lo faceva pesare, perché sapeva che
sarebbe tornata a
brillare, ancor più di prima, la sera dopo. Avrebbe brillato
insieme alla sua
stella e, finché ci fosse stata lei, non avrebbe temuto
nulla. Nemmeno l’alba.
Beeeh...che
dite, smielato o ci può stare? Questi due sono pieni di
casini, ma sono un sacco carini insieme xD Mi sono sentita anche
abbastanza poetica con l'ultima frase, vabbè. Detto questo,
grazie a tutti come al solito, blablabla buon weekend e alla prossima!
Non vedo l'ora finisca la scuola ._. A sabato! :)
Bene, sono in anticipo. Ogni
settimana ce n'è una, sembra - e questa non è da
meno. Almeno di buono c'è che la scuola sta finendo, che tra
due giorni ci sono gli MTV movie awards e che tra due settimane
c'è il concerto dei 30stm. Che altro dire...questa storia ha
due anni suonati e ormai stento quasi a riconoscerla come mia a volte,
ma sono in situazioni come questa - quando il mio umore va a braccetto
con il capitolo - che mi rendo conto che così non
è. Comunque niente paura, non è un capitolo
taglia-vene nella sua interezza; ha i suoi punti di luce. Buona lettura
:)
Capitolo
23. Favola.
Mi
svegliai con una sensazione
strana. Tutto sembrava così assurdamente perfetto, in
equilibrio. Era quasi
irreale, forse fin troppo. Il mio ultimo ricordo della sera prima, per
quanto
vago ed annebbiato, erano le labbra di Edward che si avvicinavano alla
mia
fronte prima di scomparire nella debole luce del mattino, cosa che non
faceva
che accrescere in me l’impressione di prendere vita
direttamente dalle pagine
di un libro di fiabe.
“Buongiorno”,
salutai allegra mia
madre, una volta uscita dalla mia stanza.
Chissà
da quanto era sveglia.
“Siamo
di buon umore stamattina”,
costatò sorridendomi.
“Già”,
le rivolsi un ampio
sorriso. “Dormito bene?”, chiesi poco dopo, mentre
attraversavamo in tutta
calma la radura per raggiungere casa Cullen.
“Splendidamente,
quei materassi
sono un sogno”.
Sorrisi,
immaginando mia madre
chiedere ad Esme consigli sulla casa. In cucina, durante la colazione,
parlammo
del più e del meno. Era dovuta partire talmente in fretta,
quando Edward
l’aveva contattata, che non aveva avuto il tempo per poter
spiegare a mio padre
e mia sorella dove stava andando. Mi aveva detto che era sparita nel
nulla, proprio
come avevo fatto io.
Mi
raccontò che quando Daniel era
tornato a casa, la sera dopo la mia scomparsa, non era riuscito a dire
altro
che “L’ho lasciata
lì, l’ho lasciata lì”.
Il mio stomaco si contrasse violentemente al ricordo del mio amico. Non
potevo
impedirmi di rabbrividire ogni singola volta che ci pensavo.
Avevo
raccontato a mia madre
quello che era successo quella sera. O meglio, quello che lei sarebbe
riuscita
ad accettare su quella sera. La verità, a volte, non
è la migliore delle
soluzioni.
La
versione ufficiale era che ci
eravamo persi, finendo preda di alcuni orsi che avevano colto
l’occasione di
attaccarci. Avevamo tentato di scappare, ma l’unico a
riuscirci era stato
Daniel. Io ero rimasta in balia dell’animale fino a quando
Edward e la sua
famiglia, la quale era casualmente e fortunatamente in campeggio in
quella
zona, non mi aveva trovata e salvata, portandomi a casa loro.
A
quanto disse mia madre, anche
gli altri ragazzi erano tornati a casa sani e salvi, anche se
evidentemente
sotto shock. Tutti a parte uno, oltre me. Cindy.
Cindy
quella sera non era tornata
a casa. Notai lo sguardo di mia madre riempirsi di tristezza.
“Povera
ragazza”, mormorò
scuotendo la testa, affranta.
I
miei occhi, oltre ad inumidirsi
di lacrime di sconforto, si riempirono di puro terrore. Non ero mai
stata molto
amica di Cindy, ma la conoscevo abbastanza da sentirmi male in quel
momento.
Sapere, inoltre, cosa poteva esserle successo, non mi faceva sentire
affatto
meglio. Scossi la testa, cercando di non pensarci.
“Vado
di sopra”, annunciai a mia
madre, una volta terminata la colazione.
Mantenni
la voce bassa, per paura
che si spezzasse in un singhiozzo. Mi affrettai verso le scale,
sperando di
trovare Rose in camera sua. Al piano di sopra non trovai nessuno,
così ne
approfittai per sciacquarmi nuovamente la faccia. Avevo bisogno di
schiarirmi
le idee.
Il
continuo pensiero che, se non
ci fosse stato Edward, sarei morta, non era qualcosa di nuovo per me.
Sapevo di
dovergli la vita dal primo momento in cui l’avevo visto.
Quindi perché mi
sentivo così colpevole? Mi presi la testa tra le mani,
impedendo che
esplodesse. No, non avrei dovuto sentirmi così. Non aveva
senso. Era egoistico
da parte mia, ma perché pensare a qualcosa che mi faceva
star male quando
appariva tutto finalmente perfetto? Quella era finalmente la mia
favola, non
c’era motivo di andare a cercare la strega cattiva.
Ripercorsi
il corridoio
lentamente, osservando con attenzione i dipinti appesi alle pareti.
Quando
raggiunsi la cima delle scale, sentii le voci dei Cullen in salotto.
Sorrisi
appena e scesi alcuni scalini per ascoltare meglio, riuscendo ad
individuare la
voce di Carlisle quasi subito.
“Se
pensi che sia la cosa più
giusta da fare, credo che non ci sia altro di cui discutere”.
Seguì
un breve silenzio. Inclinai
la testa da un lato, cercando di capire cosa stesse succedendo. La voce
di
Carlisle mi era sembrata così malinconica.
“E’
la cosa giusta”.
In
un primo momento non riuscii a
riconoscere quella voce. Forse ne ero rimasta lontana fin troppo tempo.
“Marie”,
continuò Carlisle. “Ti
capiamo perfettamente, solo che è difficile per
noi”.
Mi
sporsi da un lato, osservando
l’intera scena riflessa nella vetrata. Erano tutti
lì, insieme a mia madre. La
cosa che più colse la mia attenzione fu
l’espressione di Rose. Sembrava che,
per quanto impossibile, stesse per scoppiare a piangere. Edward era in
piedi,
al suo fianco, la stessa espressione tormentata sul suo viso
d’angelo.
“Sono
stata troppo tempo lontana
da mia figlia, ora desidero solo riportarla a casa con me. Vi ringrazio
per
tutto ciò che avete fatto, davvero, dal più
profondo del mio cuore. Ma è ora di
tornare a casa per me ed El”.
I
miei occhi si spalancarono in
sorpresa. Subito dopo, arrivò la fitta allo stomaco.
“No”, mormorai muta.
Ricacciai
indietro le lacrime con
quanta forza avessi. In quel momento, sperai con tutte le forze di non
incrociare nessuno dei loro sguardi. Quello sarebbe stato il colpo di
grazia, la
parola fine sulla mia fiaba. Mi
sedetti sugli scalini, prendendomi la testa tra le mani.
La
strega cattiva era arrivata, e
prima di quanto avessi previsto. Prima di quanto temessi. Non avevo
neanche
avuto il tempo di prepararmi alla battaglia. La strega aveva vinto a
tavolino,
senza darmi il tempo di decidere o di combattere. La mia fiaba non
avrebbe
avuto un lieto fine.
Mi
morsi un labbro, trattenendo un
singhiozzo.
Il
mio mondo mi era assurdamente
apparso come una splendida illusione, il mio momento perfetto. Tutto
era
sembrato coesistere in semplicità… a quanto pare
non era così che doveva
andare.
Appoggiai
la testa alle ginocchia,
chiudendo gli occhi. Forse le lacrime, non vedendo una via
d’uscita, sarebbero
tornate al loro posto.
Sospirai
pesantemente, faticando
per reprimere l’ennesimo singhiozzo. Cercai di pensare
razionalmente a quello
che stava succedendo. Sarei tornata dalla mia famiglia, dai miei amici.
Avrei
dovuto essere felice. Perché, quindi, mi sentivo come se
stessi per essere
sospinta in un baratro senza fine? Mi sentivo come se non riuscissi ad
incamerare abbastanza aria nei polmoni.
“Signora
Cooper”, sentii la voce
di Edward quasi supplicare.
“Marie”,
lo corresse mia madre.
“Marie”,
acconsentì lui con voce
atona e al tempo stesso intrisa di sofferenza. “La prego,
potrebbe trovare
un’alternativa, un compromesso. Non è necessario
che torniate a casa, almeno
non subito”.
Edward. Sentire la sua voce in quel modo,
spezzata dal tormento che
sembrava torturarlo dall’interno, fece contrarre nuovamente
il mio stomaco.
Sentii
la gola bloccarsi e
restringersi sempre più. La sentivo pizzicare, come se
qualcuno mi stesse
pungendo con una lama invisibile. Il fatto che sapessi che quella,
probabilmente, sarebbe stata una delle ultime volte in cui avrei udito
la sua
voce fu la goccia che fece traboccare il vaso. Ma il vaso non
traboccò, più
semplicemente si frantumò in mille pezzi.
Sapevo
che non sarei più riuscita
a reprimere le lacrime. Mi alzai, traballante, la vista offuscata dalle
lacrime
che mi gonfiavano gli occhi, e mi diressi al piano di sopra. Percorsi
gli
scalini in fretta, rifugiandomi nell’unico posto in cui
potevo andare.
La
sua stanza era come la
ricordavo. La prima che mi aveva ospitato e che aveva assistito al mio
pianto.
E sentivo che ci sarebbe stata una seconda volta. Mi raggomitolai a
terra sulla
moquette dorata e scivolai indietro fino a quando la mia schiena non
incontrò
il profilo freddo e duro del divanetto nero. Cinsi le ginocchia con le
braccia,
avvicinandole al petto e mi dondolai un poco, per tranquillizzarmi
– invano. Piansi.
Piansi parecchio e in silenzio.
Tuttavia,
nemmeno tra le lacrime
riuscivo a rallentare quel enorme flusso di pensieri che mi
attanagliavano in
quel momento. Sarebbe stata questa l’ultima volta che avrei
visto quella
stanza? Sarebbe stata questa l’ultima volta che avrei vissuto
in quello
splendido luogo incantato, racchiuso dalle nuvole? Cercai di non
pensare alla
domanda più importante, la vera ragione del mio sconforto.
Sarebbe davvero
stata l’ultima volta che avrei visto Edward?
No,
era impossibile. Lui mi
avrebbe cercata, sarebbe venuto con me. Sarebbe stato con me.
L’avrebbe fatto,
vero? Doveva. Mi costrinsi a non considerare nemmeno
l’alternativa, forse
quella più facile per lui. Me l’aveva promesso,
no? Era stato lui a dirmelo. Non
mi avrebbe lasciata.
Sospirai,
rassicurata un poco da
quelle parole impresse nella mia memoria. Tuttavia, non riuscivo a
spiegarmi
cosa provassi. Perché quella separazione, ormai
così imminente, pareva ferirmi
in quel modo? Non era normale, era quasi un dolore fisico. Certamente
la mia
assuefazione per lui non era salutare. Ma quale drogato abbandonerebbe
mai la
sua droga preferita semplicemente perché fa male? Era da
mettere in conto,
quando l’avevi provata la prima volta, che ti avrebbe fatto
male. Avrebbe
potuto ucciderti – era ovvio – ma nonostante
ciò avevi cercato la tua dose
quotidiana, senza mostrare il minimo dubbio. Coraggio? O forse
semplicemente
mancanza di buon senso. Oppure era soltanto la ricerca di quella
sensazione,
quella strana sensazione di pace ed equilibrio perfetto che riuscivi ad
avere solo quando avevi la tua dose
tra le
mani.
Sospirai,
scuotendo la testa e
sorridendo quasi a me stessa.
Edward.
Non importava che potesse
uccidermi, che stare con lui fosse contro ogni regola e ogni
razionalità. Io
potevo sopravvivere solamente se sapevo di avere lui al mio fianco.
Altrimenti
sarei stata preda della mia crisi d’astinenza. Sarei morta.
Morta. No, forse no. Non letteralmente,
almeno. Sarei più semplicemente
rimasta svuotata, privata di ogni sentimento ed emozione. Ci sarei
stata, ma
sarei stata invisibile. Più di quanto fossi mai stata.
Sospirai nuovamente,
sentendomi una stupida. Era tutto così assurdo.
Avevo
trascorso sedici anni di
mediocrità; ero solamente rimasta a galla, annaspando per
non affondare. Mi ero
confusa tra la folla, beccandomi spintoni e gomitate qui e
là, ma senza mai
reagire. Avevo paura di farlo. Paura che, se non fossi riuscita ad
uscire dalla
folla, ne sarei stata inghiottita. E poi, senza che nemmeno me ne
accorgessi,
la mia vita era cambiata. Avevo trovato il mio posto, le mie persone,
il mio
destino – e brillavo. Ero ancora solo un piccolo bagliore in
lontananza, di
quelli che se chiudi gli occhi per un secondo sembrano essere spariti,
ma
c’ero. E stavo imparando a splendere.
Inspirai
profondamente, stringendo
le ginocchia al petto. La mia luna stava forse tramontando ora? E
quando
sarebbe tornata ad ardere nel cielo? Perché doveva tornare;
sarebbe tornata. Sapevo
che sarebbe stato impossibile tornare alla vita di prima, alla mia
vecchia
vita. Ero cambiata, avevo per la prima volta aperto gli occhi sul mondo
che mi
circondava e non sarei stata capace di tornare indietro. Appoggiai la
testa tra
le ginocchia, sospirando profondamente.
“Si
può?”, chiese una voce
picchiettando sulla porta.
Grugnii
contrariata, sbuffando.
“El,
tesoro, posso entrare?”,
insistette mia madre.
“No”,
mugugnai.
Mi
ignorò completamente, entrando
nella stanza e richiudendo la porta alle sue spalle.
“Oh”,
mormorò sbalordita. “Questa
stanza è splendida”.
Non
risposi, sentendo la mia gola
annodarsi.
“Scricciolo,
devo parlarti”.
“Non
ho voglia”, risposi cocciuta.
“Non
importa, tanto parlo io. Tu
sta’ a sentire”.
Borbottai
qualcosa di
incomprensibile, lamentandomi. Mi asciugai velocemente gli occhi e il
viso con
il dorso della mano, eliminando le tracce visibili del mio sconforto.
“Okay,
il fatto è questo”, si
sedette accanto a me.
Sapevo
che non era tipo da girare
attorno alle cose, ma a volte avrei preferito il contrario.
Mantenni
il capo chino, evitando
accuratamente il suo sguardo. Aspettai in silenzio.
“Tesoro,
facciamo le valigie,
dobbiamo tornare a casa”.
Speravo
che il fatto di sapere
cosa mi aspettasse diminuisse la fitta allo stomaco. Passò
qualche secondo
prima che riuscissi a respirare regolarmente.
“Ma…”,
farfugliai senza fiato.
“Perché?”.
La
senti prendere un respiro
profondo.
“El,
non posso rimanere qui per
sempre, e nemmeno tu. I Cullen hanno già fatto fin troppo
per noi, ora è tempo
di tornare a casa. E’ giusto così”.
La
mia fitta allo stomaco sembrava
togliermi il respiro. Non sentivo più i polmoni.
“Ma
loro…”
“Tesoro,
lo so che per te sarà
difficile. Ho notato i vostri sguardi, ho visto come state vicino
l’uno
all’altra, ma sai anche tu che non è possibile. Se
avessi la possibilità di non
farti soffrire sai che farei di tutto, ma non posso”.
Ci
fu un breve silenzio. Rimasi a
fissare senza espressione il vuoto fuori dalla finestra. Lo stesso che
sembrava
riflettersi dentro di me. Il fiume scorreva veloce, incurante di tutto
il
resto.
“Non
piangere”, sussurrò poco
dopo, raccogliendo qualcosa di umido sulla mia guancia.
“Non
sto piangendo”, replicai, la
voce rotta sull’ultima parola.
“Oh,
El”, sorrise baciandomi la
fronte. “Succederà tante altre volte. Purtroppo
succederà ancora, ci si lascia,
ma si sopravvive lo stesso. Ci siamo passati tutti”.
Scossi
la testa, improvvisamente irritata.
“Non
è lo stesso”, risposi a denti
stretti.
Sapevo
di avere ragione,
nonostante mia madre credesse il contrario.
Mi
morsi un labbro, respirando
profondamente. Mi guardò a lungo negli occhi, cercando
qualcosa che non riuscii
a capire. Quando distolse lo sguardo, annuì a se stessa.
“Forse
hai ragione tu, non è lo
stesso”, acconsentì con voce triste. “E
credo sia per questo che mi sento così
colpevole. Non voglio essere la cattiva della tua storia”.
Sorrisi,
scuotendo la testa,
affranta. La mia storia a quanto pare aveva già il suo
finale ben scritto.
“Se
ci fosse un modo per averti
con me e saperti felice allo stesso tempo…sai che lo farei,
vero?”.
Annuii,
appoggiando la testa alla
sua spalla.
“Mi
dispiace toglierti tutto
questo, ma siamo stati troppo a lungo senza di te”.
Sembrava
chiedermi scusa. Doveva
sentirsi in colpa. In quel momento, tuttavia, in me c’era
troppa tristezza per riuscire
a provare il senso di colpa che ero consapevole di dover provare verso
la mia
famiglia e la mia assenza prolungata.
“Non…”,
annaspai per mentire nel
modo migliore. “Non importa, mamma”.
“Sopravvivrò,
l’hai detto anche
tu”, aggiunsi abbozzando un sorriso triste.
La
sua espressione mi fece capire
che non l’aveva bevuta. Si passò una mano tra i
capelli, pensierosa. Un gesto
che avevo ereditato da lei.
“Scusatemi”,
la voce di Carlisle
sopraggiunse leggera, quasi irreale. Faceva quasi male sentirla.
“Posso?”,
chiese gentilmente, battendo debolmente le nocche sulla porta.
“Certo,
Carlisle”, acconsentì in
tutta fretta mia madre. “Oh, ma cosa mi fai dire”,
aggiunse ridacchiando. “E’
casa tua questa!”.
Carlisle
si limitò a sorridere, studiandomi
con una strana espressione.
“Buongiorno,
El”, mi salutò dopo
un lungo sguardo.
“’Giorno”,
risposi forzatamente.
Entrambi
si voltarono a fissarmi
con un’espressione preoccupata.
“Suppongo
che tu abbia già parlato
con El”, disse esaminando il mio volto.
Mia
madre si limitò ad annuire
senza troppa convinzione.
“Marie,
ne sei davvero convinta?”.
Apparve
sorpresa di quella
domanda, forse si aspettava che il discorso fosse ormai chiuso. O forse
sperava
semplicemente di non doverne più parlare con me presente.
“Carlisle
sai anche tu che non è
possibile…”.
“Ospitarvi
qui in casa”, finì la
frase per lei. “Lo so perfettamente. Ma mio figlio ha avuto
un’idea che io
trovo particolarmente brillante”.
Si
fermò, rivolgendoci un sorriso
trionfante.
“Edward?”,
chiese mia madre,
stupita.
Carlisle
annuì, visibilmente
compiaciuto.
“Nessun
dubbio in proposito”, borbottò
lei con un sorriso.
Carlisle
sembrava sicuro di sé, come
se sapesse cosa sarebbe successo con certezza. Che Alice…?
Cercai di non
pensarci, evitando di darmi false speranze.
“Sappiamo
perfettamente che non è possibile
ospitarvi tutti qui, tuttavia credo
che sia una piacevole alternativa quella di trovarvi un alloggio
stabile nei
dintorni”.
Mi
rivolse un ampio sorriso, che
non potei fare a meno di ricambiare almeno in parte. Sapevo di
sbagliare, stavo
facendo galoppare la speranza a briglia sciolta.
“Carlisle,
viviamo in Florida”, mia
madre fece pesare
quell’ultima parola quanto una montagna.
La
Florida, la mia Florida, non mi
era mai apparsa così detestabile. Improvvisamente, volevo
con tutte le mie
forze restare lì. Non avrei permesso alla strega cattiva di
vincere, non le
avrei permesso di compiere il suo incantesimo. Principe o non principe,
avrei
vinto.
O
almeno, lo speravo.
“Mamma…”,
intervenni implorante.
“El,
non è possibile”.
“Mamma,
chi c’è a Miami? Siamo
semplicemente io, te, papà e Sarah. Di chi altri abbiamo
bisogno?”.
Mia
madre sembrò cercare la
risposta più esatta nell’aria sospesa sopra di me.
Poi sospirò.
“Non
abbiamo nemmeno i soldi per
trovare una casa qui”.
Abbassai
lo sguardo, sconfitta. Su
questo punto non potevo dire niente che fosse d’aiuto. Quella
era una partita
che volevo giocare, ma sapevo di non poter vincere.
“Per
quello non ci sono problemi”,
anche la sua voce fece ingresso nella stanza, mandando il mio cuore
– malgrado tutto
– in fibrillazione.
“Giusto,
papà?”, mi sorrise il mio
sorriso preferito.
Risposi
a quel sorriso senza
nemmeno accorgermene.
“Scusatemi,
sono entrato senza
bussare”.
Alzai
gli occhi al cielo. Solo lui
avrebbe potuto pensare ad una cosa del genere in quel momento.
“Mio
figlio ha ragione, Marie. Per
l’acquisto della casa non ci sono problemi, ci fa
piacere”.
“Non
potrei mai chiedervi una cosa
simile”.
“Nessuno
ha chiesto niente
infatti”, intervenne Edward sorridendo compiaciuto.
“Lo facciamo noi perché ci
teniamo”.
“Io
vi ringrazio, davvero, ma
non…”.
“Sì,
che puoi”, concluse Carlisle
per lei.
Non
riuscivo a dire nulla, rimasi
ad osservare la scena davanti ai miei occhi increduli e speranzosi.
Quel
silenzio irreale sembrava creare una pressione sui miei timpani,
minacciando di
romperli. C’era troppo, troppo
silenzio.
Sentivo di non avere la forza, il coraggio per poter incontrare gli
occhi di
Edward. Li sentivo. Erano lì, li sentivo esaminare il mio
volto e le mie
guance, ancora rigate dalle lacrime di poco prima. Mantenni
così lo sguardo
fisso sul volto di mia madre, che appariva pensierosa e combattuta allo
stesso
tempo.
Ad
un tratto notai l’espressione
di mia madre cambiare. Un sorriso si disegnò automaticamente
sul mio volto,
sentendo il sollievo farsi spazio dentro di me. Sollievo insieme a
qualcos’altro, qualcosa che non riuscii ad identificare.
Conoscevo quello
sguardo. Aveva preso una decisione.
La
abbracciai senza pensare,
stringendola forte.
“Grazie,
grazie, grazie”, mormorai
entusiasta al suo orecchio.
“Ehi,
io non ho ancora detto
niente”.
“Ti
conosco fin troppo bene”, il
mio sorriso si tese ancora di più.
Sembrava
che il cuore potesse
uscirmi dal petto.
“E
devo ancora parlarne con tuo
padre. Dio, tuo padre…”, mi strinse più
forte a sé.
Poi
sospirò, sorridendomi.
Sembrava sollevata in qualche modo.
“Dovresti
ringraziare loro”,
aggiunse.
Sospirai
anch’io, respirando il
suo profumo inconfondibile. Poi mi voltai ad osservare le due statue di
marmo
dai lineamenti perfetti che avevo davanti. Cercai per qualche secondo
qualcosa
da dire, qualcosa che realmente esprimesse la gratitudine che provavo
in quel
momento per loro.
“Grazie”,
fu l’unica cosa che, per
quanto semplice e banale, riusciva a racchiudere tutto.
“E’
un piacere, El”, mi rispose
Carlisle. “Sai che per te faremmo qualunque cosa”.
Sentivo
di non poter parlare senza
che la mia voce si spezzasse. Era troppo, qualcosa che non avevo
immaginato. Abbracciai
Carlisle, senza pensarci. Rispose all’abbraccio e lo sentii
sorridere.
“Grazie”,
ripetei di nuovo
scostandomi da lui.
Poi
guardai Edward. Era lì – ed
era lì per me. Qualsiasi principe delle fiabe sarebbe
impallidito a vedere un
viso come il suo. E io…non mi ero mai sentita una
principessa. Non lo ero. Ma
nonostante ciò, questa era la mia favola. Nessun dubbio in
proposito.
Edward
mi fissò, i suoi occhi che
analizzavano con attenzione ogni mio minimo movimento e ogni singola
lacrima di
gioia che mi rigava il volto.
“Marie,
vorresti venire un secondo
con me nel mio ufficio? In questo modo potremo decidere al meglio dove
farvi
alloggiare”, sentii Carlisle proporre a mia madre.
Non
li guardai nemmeno mentre
sfilavano via, fuori da quella stanza che, per più di un
verso, era davvero magica.
I miei occhi erano impegnati altrove.
Edward,
senza distogliere lo
sguardo dal mio, mi prese una mano, intrecciando le sue dita con le mie
e si
alzò in piedi, in modo da essere di fronte a me. Sorrisi
quando la sua
temperatura mi fece rabbrividire leggermente. Con dolcezza mi
tirò a sé,
stringendomi tra le sue braccia fredde. Non sapevo se dovessi parlare,
se
dovessi dire qualcosa. Quel momento mi sembrava perfetto senza il
bisogno delle
parole.
“Pensi
che riusciremo a passare
del tempo senza aver paura di dividerci?”, chiesi nascondendo
il viso contro il
suo petto.
Lo
sentii sorridere, senza dubbio
quel sorriso truffatore che tanto amavo. Affondò il volto
tra i miei capelli,
sospirando.
“Non
è possibile dividerci”,
sussurrò appoggiando le labbra sulla mia testa.
Sospirai,
stringendomi a lui il
più possibile.
“Forse
dovresti andare giù da Rose”,
respirò dopo qualche lungo, perfetto istante di silenzio.
“Era davvero
preoccupata”.
Sorrisi,
diminuendo la mia presa.
“Okay”,
acconsentii controvoglia.
Sorrisi
nuovamente quando mi accorsi
che le sue braccia sembrassero restie a lasciarmi allontanare da lui.
Lo
guardai, inarcando un sopracciglio. Si strinse un poco nelle spalle e
sorrise a
sua volta, mozzandomi il respiro.
“Speravo
non acconsentissi così in
fretta”.
“L’hai
detto tu”, replicai
beffarda.
“Lo
so”.
“E
allora…”, non ebbi nemmeno il
tempo di formulare la mia domanda quando mi baciò.
Doveva
aver temuto che me ne
andassi, che lo lasciassi. Sapevo che mi avrebbe seguito, come sapevo
che per
lui sarebbe stato difficile abbandonare la sua famiglia. La sua mano
rimase
sulla mia schiena, avvicinandomi, se possibile, ancora di
più al suo corpo
freddo, mentre l’altra mi teneva saldamente il viso
– come se avesse realmente
paura che sparissi. Quando cominciò a mancarmi
l’aria, mi allontanò
leggermente. Affondai qualche istante nei suoi occhi, incapace di dire
nulla.
“Ora
andiamo da Rose”, sorrise
quello splendido sorriso in grado di fermarmi il cuore.
Temevate un disastro eh?
Ahimè sono fin troppo buona, non vi tengo nemmeno in
sospeso. Mi merito qualche recensione magari? Ok, scherzavo. Buon
weekend e buona ultima settimana di scuola! :)
Buongiorno e buon
pomeriggio! Ci potete credere che è finita la scuola? Io
sono certa di non aver ancora realizzato - ho fatto l'ultima verifica
di filosofia circa due ore fa. Non mi sembra vero di essere in vacanza!
Detto questo, ormai dovreste sapere che non riesco a far filare tutto
liscio per più di un capitolo, quiiiiindi...beh buona
lettura :)
Capitolo
24. Intruso.
“Era
fallo, diamine!”.
Sorrisi
per l’ennesima volta alle
imprecazioni di Emmett. Forse sperava che, alzando la voce,
l’arbitro lo
sentisse. La partita di football era ormai alla fine ed eravamo sotto
di sei
punti. E, da come Emmett si agitava sul divanetto, sembrava volesse
entrare in
campo per dare una mano.
Sentii
Edward sospirare alle mie
spalle, le sue braccia stringersi ancora di più attorno ai
miei fianchi. Mi
sembrò di poterlo sentire alzare gli occhi al cielo.
“Non
credi sia ora di andare a
dormire?”, la voce di Alice mi fece sobbalzare.
“No,
non credo”.
“Eppure
dovresti”, mi fece una
smorfia.
“E
voi non dovreste?”.
Realizzai
solo dopo che la mia era
la domanda più stupida che potessi fare.
“Okay,
lascia perdere”, tagliai
corto. “Ma fammi finire di vedere la partita”.
“Nemmeno
per sogno”.
Sembrava
divertirsi un mondo.
“Alice,
ho già una madre”.
“Sì,
e ora non c’è”, rispose
compiaciuta. “E le ho promesso di tenerti
d’occhio”.
Sbuffai,
alzando gli occhi al
cielo. Sentii il corpo di Edward tremare sotto una risata soffocata.
“Alice,
per favore”.
Mi
fissò in cagnesco, nonostante
la sua espressione divertita. Edward sospirò. Sperai che
dicesse qualcosa, ma
evidentemente non voleva scatenare l’ira di Alice su di
sé. Mi tese la piccola
mano pallida, sorridendo un ghigno soddisfatto.
“Sai
che posso trascinarti a casa
anche di peso, non c’è problema per me”.
Da
quando era diventata così? Sospirai
esasperata e, controvoglia, mi alzai. Le braccia di Edward allentarono
solo la
presa, senza lasciarmi andare. Si alzò insieme a me,
ponendosi poi al mio
fianco.
“Non
hai avuto paura nemmeno un
po’ che me ne andassi?”, la punzecchiai sarcastica.
“Neanche
un po’”, il suo sorriso
si tese ulteriormente.
“Lo
sapevi”, dedussi dalla sua
espressione.
Si
strinse nelle spalle,
ostentando modestia.
“Può
darsi”.
Sorrisi,
scuotendo la testa
divertita.
“Volete
smetterla? C’è gente che
sta guardando una partita qua”, ci rimproverò
Emmett senza staccare gli occhi
dal televisore. Scoppiai a ridere, per poi sospirare. Sospirai di
felicità, finalmente
serena come non lo ero da molto. Mia madre e Carlisle erano ancora via,
in
strada verso la mia Miami. Stavano andando a prendere la mia famiglia.
E poi
sarebbero tornati qui. Tutti.
Edward
mi cinse in fianco,
avvicinandomi a lui.
La
mia vita, quella nuova, era
qui. E stava per unirsi a quella vecchia. Non c’era niente
che potesse scalfire
il mio umore. Solamente l’idea di poter riabbracciare mio
padre, mia sorella…mi
mandava su di giri.
“Andiamo?”,
propose Edward al mio
orecchio.
Il
suo respiro fresco sulla mia
pelle mi mandò un brivido lungo il collo. Annuii docilmente,
scostandomi da lui
per poter salutare gli altri.
“Buonanotte
Rose”, la abbracciai
come ogni sera, nascondendo il mio viso nei suoi innumerevoli,
splendidi
boccoli dorati.
“Sogni
d’oro, El”.
Anche
Rosalie era tornata quella
di sempre. La mia amica, la persona su cui potevo sempre contare. Se
Angelica
era la parte mancante di me che ero riuscita a trovare, lei era la una
sorella
maggiore che non avevo mai avuto.
Per
salutare Emmett mi posizionai
davanti allo schermo, in modo da infastidirlo. E funzionò.
“Spostati
di lì, pulce!”, esclamò
alzandosi per spostarmi lui stesso.
Scoppiai
a ridere di nuovo,
saltando in avanti in modo da schivarlo. Non avrebbe mai usato la sua
forza su
di me. O almeno, lo speravo.
“’Notte,
Emm!”, gridai mentre
fuggivo oltre il divano.
Lo
sentii borbottare qualcosa come
“piccola peste”,
ma non ne ero
totalmente sicura. Ridacchiavo ancora mentre Edward mi accompagnava a
casa.
“Siamo
di buonumore”, costatò,
apparentemente soddisfatto del mio umore.
“Già”,
sospirai levando lo sguardo
al cielo.
La
luna era ancora lì e, se
possibile, ancora più brillante dell’ultima sera.
Come promesso, era tornata a
splendere come non aveva mai fatto. Sembrava felice di essere nel bel
mezzo del
cielo, circondata da tutte quelle stelle. Una, in particolare, brillava
al suo
fianco. Era splendida, forse persino più della luna.
Dopotutto, la luna brilla
solo di luce riflessa e non propria. Tuttavia, brillavano insieme con
semplicità, senza oscurarsi a vicenda.
“Ma
non di molte parole, come
sempre”, lo sentii sorridere.
Sorrisi
anch’io, stringendomi
nelle spalle.
“Cosa
guardi?”.
“La
luna”.
“E’
bellissima, non c’è dubbio”,
acconsentì prendendomi la mano.
“Anche
la sua stella”, mi volsi a
guardarlo, indicandola con una mano.
“Ci
sono molte stelle nel cielo,
ma solamente una luna. E quella è decisamente più
importante”.
Il
suo sguardo mi fece perdere il
filo del discorso. Mi scostò una ciocca di capelli dal viso,
sospirando
profondamente. Chiusi gli occhi per poter riprendere il discorso.
Faticavo a
mantenere la concentrazione con il suo volto così vicino al
mio. Sentii le sue
labbra chiudersi sulla mia fronte e poi le sue mani sulle guance.
“Tu sei decisamente più
importante”, sussurrò piano.
La
sua voce parve confondersi con
i suoni della notte, portata via dal vento e dallo scorrere del fiume.
Improvvisamente,
non sentii più la terra sotto i miei piedi. Riaprii gli
occhi velocemente,
disorientata. Mi ci volle un attimo per rendermi conto di
dov’ero.
“Mettimi
giù!”, sibilai divertita.
Ovviamente,
non era mia intenzione
liberarmi delle sue braccia.
“E’
tardi e Rose mi sta
praticamente urlando nella testa di mandarti a dormire”.
Mi
accigliai.
“Non
dovrei impedirti di leggere
nel pensiero?”.
Ridacchiò,
scuotendomi sotto la
sua risata.
“Di
solito, ma Rosalie me lo sta davvero
urlando”.
Mi
unii alla sua risata, smettendo
di divincolarmi. Non mi resi perfettamente conto di dove fossimo fino a
quando
Edward non accese la luce.
“Ecco”,
mi mise a terra,
accompagnandomi con dolcezza.
Gli
feci una smorfia, dirigendomi
verso la camera.
“Resti
stasera?”, proposi con
disinvoltura, nonostante il solo pensarci mi mandasse il cuore a mille.
Lo
sentii soffocare una risata con
un colpo di tosse. Sicuramente aveva sentito i miei battiti aumentare
notevolmente.
“Ho
alternative?”.
Recuperai
tutto ciò che mi serviva
e mi voltai verso di lui.
“Mmm”,
finsi di pensarci su. “No,
direi di no”.
“Allora
direi proprio di sì”, il
suo sorriso truffatore aumentò i miei battiti ulteriormente.
Mi
lavai i denti velocemente,
impaziente di andare in camera mia, dove sapevo che avrei trovato
Edward ad
aspettarmi. Rimasi sotto il getto caldo della doccia forse
più del dovuto,
beandomi di quel tepore che sembrava lavare via ogni ansia.
Quando
uscii, mi avvolsi
rapidamente nell’enorme asciugamano bianco piegato sul
mobiletto, il più in
fretta possibile in modo da non disperdere il calore. Mi misi il
pigiama, mi
spazzolai i capelli e mi catapultai in tutta fretta fuori dal bagno,
consapevole di averlo fatto aspettare troppo a lungo. La sua
espressione
tuttavia era serena e rilassata.
“Ciao”,
mi salutò con un sorriso.
Il
tempo con lui quella sera
sembrò volare via senza che me ne rendessi conto. Parlammo
di tutto, di quello
che ci piaceva, di quello che odiavamo. Prima di quanto pensassi,
scivolò giù
dal letto. Lo guardai stranita, inarcando un sopracciglio.
“Dove
stai andando?”, chiesi
sorpresa.
“E’
tardi, e tu devi dormire”.
Sembrò
piacevolmente colpito dal
fatto che non mi fossi accorta dello scorrere del tempo.
“Quanto
tardi è
esattamente?”.
“Abbastanza
perché tu domani non
ti regga in piedi”, mi sorrise truffatore.
Sbuffai,
lasciandomi cadere tra le
coperte. Mi coprii il viso con un braccio. Lo sentii soffocare una
risata; qualche
secondo dopo era al mio fianco.
“Domani
arriverà la tua famiglia”,
respirò contro la mia pelle. “Non posso fare
brutta figura davanti a tuo
padre”.
Mi
baciò la fronte, tenendo la mia
testa stretta tra le sue mani fredde.
“Buonanotte,
El”, mormorò
sedendosi sul bordo del letto e cingendomi le spalle con un braccio.
“’Notte”.
Mi
svegliai di colpo, la fronte
madida di sudore. Sentivo il cuore pompare con più forza del
necessario, i suoi
battiti nelle mie orecchie l’unico rumore nella notte. Questa
volta era stato
così vivido, così reale. Cercai Edward facendo
scorrere le mani sulle lenzuola
stropicciate, sapendo che mi sarebbe bastato sentire il suo odore per
riuscire
a calmarmi. Ma non lo trovai.
Aprii
gli occhi, aspettando qualche
secondo interminabile che si adattassero nella debole penombra
azzurrata che
filtrava dalla finestra. La mia radiosveglia segnava le due e venti.
Niente,
non c’era. Mi sedetti sul materasso, scrutando attentamente
ogni singolo angolo
della stanza. Mi fermai ad un tratto, spalancando gli occhi e fissando
quel
punto davanti a me.
Il
mio cuore riprese a volare. Era
stato lì. Nel mio sogno Claude era proprio in quel punto. La
paura che sentivo
mi batteva forte in gola, pulsando all’unisono con il mio
cuore. Mi passai una
mano tremante tra i capelli, inspirando profondamente.
Era
solo un sogno. Solo un sogno,
ripetei a me stessa.
A
dire la verità, la maggior parte
dei miei sogni ormai riguardava Claude. Mi ossessionava, non mi dava
tregua
nemmeno durante la notte. Quell’ultimo sogno,
quell’ultimo incubo ad essere più
precisi, mi aveva spaventata più del solito. Mi era apparso
tutto così assurdamente
reale. Non era stato niente di terrificante in realtà. Era
semplicemente
rimasto in piedi a fissarmi mentre dormivo, completamente ignara di
tutto,
mentre il suo sorriso crudele risplendeva alla fievole luce della luna.
Si era
avvicinato fino a sfiorarmi i capelli, fino a respirare vicino al mio
collo, ma
a quel punto mi ero svegliata.
Solo un sogno, mi dissi per
l’ennesima volta, lasciandomi cadere di
nuovo sul cuscino.
Mi
raggomitolai nelle coperte,
stringendo forse con forza eccessiva il lembo del lenzuolo tra le mie
dita, nel
tentativo di tranquillizzarmi. Quando fui abbastanza certa di essermi
calmata,
altre domande affiorarono alla mia mente. Sapevo che non era il
momento, che
avrei dovuto dormire, o almeno provarci. Tuttavia, il mio cervello
sembrava
andare a più di cento all’ora, e decisamente senza
freni.
Dove
diavolo era finito Edward?
Aveva detto che sarebbe rimasto, non era forse così?
Forse
era la sua assenza che
rendeva quel sogno paurosamente simile alla realtà, a
preoccuparmi realmente.
Sospirai profondamente, socchiudendo gli occhi.
Domattina non mi reggerò proprio in piedi,
fu l’ultima cosa che
pensai prima di addormentarmi nuovamente, questa volta senza sogni.
Mi
svegliai con una strana
sensazione a cui non riuscivo a dare un nome. Mi alzai lentamente,
strofinandomi gli occhi. C’era fin troppa luce. Scostai la
tenda che lasciava
filtrare quel bagliore inusuale, costringendomi a socchiudere gli occhi.
Sospirai.
Sole. Non era certo un buon modo di
cominciare il lunedì mattina. Mi
lavai e vestii velocemente, ansiosa di tornare nella grande casa
bianca. Quella
sensazione era davvero strana, e l’essere da sola in casa non
l’aiutava a
svanire. Anche il mio stomaco, nei suoi borbottii, sembrava volesse
raggiungere
al più presto quella meta. Tuttavia, dubitavo che la
motivazione fosse la
stessa.
Attraversai
la piccola radura a
grandi falcate, quasi di corsa. Il vento era fresco e la temperatura
piacevole.
Una bella giornata, se non si prendeva in considerazione il fattore
vampiro-scintillante.
“Buongiorno!”,
chiamai appena
entrata.
Varcando
la soglia, mi sentii a
casa. Ormai, per più di un verso, lo era.
“Ciao
El!”, mi salutò Emmett dalla
cima delle scale.
Scese
in fretta gli scalini,
sorridendomi apertamente.
“Rose,
Edward e gli altri sono fuori”,
m’informò.
“Colazione”,
dedussi facendo una
leggera smorfia.
Emmett
mi fece l’occhiolino,
scompigliandomi i capelli.
“A
proposito, dovresti mangiare
anche tu”.
“Saranno
qui a momenti, in ogni
caso”, aggiunse notando la mia espressione pensierosa.
“Come
mai sei rimasto qui da
solo?”, chiesi mentre m’incamminavo verso la cucina.
“Beh,
prima di tutto perché devo
fare da balia a qualcuno, e in
secondo luogo non sono del tutto da solo. Io, Esme e Carlisle andiamo a
cacciare più tardi, ma Carlisle è già
uscito quindi…”.
“Capito”,
tagliai corto,
allungandomi verso un pacchetto di biscotti.
“Hai
bisogno di qualcosa?”.
“Emm,
non ho davvero bisogno di una
baby-sitter”.
“Ehi,
faccio solo il mio lavoro!”.
Inarcai
un sopracciglio, curiosa. La
sua espressione colpevole lasciava capire che si era fatto sfuggire
qualcosa di
troppo.
“Edward”,
sospirai trattenendo un
sorriso.
“E
Rose”,
pronunciò il suo nome con un’ombra di
esasperazione.
Ridacchiai
divertita, masticando
la mia colazione. Cercai di ignorare Emmett il più possibile
mentre sentivo i
suoi occhi pesare sulla mia figura.
“Guarda
che puoi anche andare”, lo
rassicurai sorridendogli.
Ondeggiò
sui talloni, indeciso.
“Non
lo dirò a Rose”, promisi.
Il
suo sorriso si spalancò,
illuminandogli il viso.
“Perfetto”,
mi sorrise prima di
voltarsi e scappare verso il televisore.
Scossi
la testa, divertita. Finita
la colazione, mi alzai per rimettere a posto ogni cosa. Guardai
l’orologio
velocemente. Avevo ancora tempo, quindi feci tutto con estrema calma.
Tuttavia,
prima ancora che potessi
allungarmi verso la piccola credenza per riporre al suo posto la
scatola dei
biscotti, mi sentii afferrare i fianchi. Sobbalzai, lasciando andare
istintivamente quello che avevo in mano. Strinsi la testa tra le
spalle,
socchiudendo gli occhi. Mi aspettavo un tonfo, qualcosa. Mi voltai e
lui era
lì. Ovviamente lo era. Reggeva tra le mani la scatola dei
biscotti, il suo
splendido sorriso a sollevargli gli angoli della bocca.
“Buongiorno”,
mi salutò facendo
oscillare il suo sguardo divertito tra me e la scatola tra le sue mani.
Sospirai,
trattenendo un sorriso.
“Ciao”.
Mi
sorrise il suo splendido
sorriso truffatore, spostando l’oggetto nella sua mano destra
ed osservandolo
dubbioso, come se stesse cercando di capire cosa ci trovassi di
così appetibile.
“Così…stanotte
sei sparito”,
mormorai indugiando sul suo volto d’angelo.
Mi
sentivo quasi imbarazzata ad
ammettere che mi aveva sorpreso non trovarlo al mio fianco. Il suo
sorriso si
affievolì un poco, lasciando intravedere
un’espressione mortificata.
“Mi
dispiace…Alice aveva bisogno
di me”.
Con
la mano libera mi sfiorò la
guancia, facendomi venire la pelle d’oca.
“Non
importa”, lo rassicurai alla
svelta. “Mi sono semplicemente…preoccupata non
trovandoti”.
Mi
sorrise, compiaciuto.
Percorsi
con le dita il profilo
del suo viso, solcando le occhiaie che fino al giorno prima erano state
di un
blu profondo. Ora i suoi occhi erano tornati di quello splendido oro
liquido
che minacciava sempre di fermarmi il cuore. Il suo sorriso si tese
leggermente
mentre si avvicinava al mio volto con lentezza infinita. Mi sollevai
sulle
punte, così da raggiungere le sue labbra più
velocemente.
“El, Edward, siamo
in ritardo!”, ci esortò
Rosalie.
Sospirai,
ondeggiando sui talloni.
Edward trattenne una risata.
“Ciao
Rose!”, m’incamminai verso
di lei una volta che Edward mi ebbe lasciata andare.
“Ciao”,
mi salutò raggiante.
“Ora
muoviti che facciamo tardi”.
Mi
voltai verso Edward, poi verso
il bagliore che filtrava dalla finestra con espressione confusa. Poi di
nuovo
verso Rosalie.
“Non
ti preoccupare, ti portiamo
soltanto”, ridacchiò lei.
Ovviamente
sembrava che avessi
bisogno della scorta per andare a scuola.
“Dai,
andiamo”, mi cinse per i
fianchi Rose, spingendomi verso l’esterno.
Mi
affrettai verso il garage,
preceduta da Rose, che non perdeva occasione per dirmi di sbrigarmi.
Non capivo
perché, ma sembrava che ogni volta fossi in ritardo
– e forse era anche vero. Edward
mi seguiva a passo lento, mantenendo la mia andatura. Sapevo che per
lui era
una tortura. Mi accorsi solo davanti alla portiera della macchina di
aver
dimenticato qualcosa.
“La
giacca!”, esclamai battendomi
il palmo sulla fronte. “Torno subito!”.
Mi
precipitai su per le scale,
avvertendo nuovamente quella strana sensazione. Era disagio,
soggezione. E la
voce nella mia testa sembrava urlarmi di stare attenta. Forse il
comportamento
iperprotettivo di Edward aveva finito per mandarmi in paranoia.
Non
appena giunsi in cima alle
scale, lo trovai lì. Aveva la mia giacca appoggiata sul
braccio. Sospirai con
un mezzo sorriso; ancora non ero riuscita ad abituarmi alla sua
velocità.
Mi
avvicinai a lui, osservandolo
attentamente. C’era qualcosa che non andava nel suo sguardo,
nella sua postura.
La sua mascella era tesa, lo sguardo attento e, in un modo che non
riuscii a
spiegarmi, spaventato. Afferrai la giacca con esitazione, sollevandola
e
raggomitolandola contro il mio petto.
“Edward?”,
domandai.
Non
si voltò. Non diede neanche
l’impressione di aver sentito. Impossibile.
“Edward?”,
riprovai, afferrandogli
il braccio ancora teso in avanti.
Un
profondo sibilo sembrò
fuoriuscire dalle sue labbra, talmente impercettibile che non fui
sicura di
averlo sentito. Tuttavia, riuscì a farmi rabbrividire.
Che
diavolo…? Mi sporsi verso di
lui, intercettando i suoi occhi.
Il
suo sguardo sembrò focalizzarsi
di nuovo su quello che gli stava attorno ed osservò
attentamente il mio viso.
Quella che prima mi era semplicemente apparsa paura, ora lo era. Nessun
dubbio
in proposito.
“Rosalie”,
chiamò in un sussurro.
La
sua voce era assurdamente calma,
fin troppo. Sembrava che non volesse alzare la voce, come per paura che
si
spezzasse. Rose arrivò in poco più di un secondo.
Anche lei, come Edward, si
arrestò di colpo. Il suo sguardo tuttavia era rabbia, rabbia
mista a sconforto.
“Rose?”,
mi avvicinai al lei.
Sentivo
il panico montare dentro
di me, nonostante non capissi cosa stesse succedendo.
“Rose!”,
le scossi il braccio
cercando di farmi notare. “Dimmi cosa sta
succedendo!”.
Quel
silenzio minacciava di
bucarmi i timpani.
“E’
lo stesso”, sentii Edward in
poco più di un sussurro.
Mi
voltai verso di lui, la mia
espressione totalmente confusa e disorientata.
“Cosa
è lo stesso?”.
La
mia voce suonava strana,
stridula. Cercai di calmarmi prendendo un respiro profondo.
“Edward”,
mormorai con dolcezza,
prendendogli la mano.
Mi
guardò negli occhi. La sua
espressione mi lasciò senza fiato.
“E’
lo stesso”, ripeté.
“L’odore
che ho sentito quella sera”, le sue labbra sembravano restie
alla verità. “E’ lo stesso”.
Tan tan
taaaaaaaaaaaan! Sapete cosa significa questo? Che le cose si complicano
ulteriormente, mi pare ovvio xD Una piccola cosa, non so bene quando
aggiornerò, ma nelle prossime due settimane potrebbero
insorgere dei ritardi piuttosto sostanziali o esserci degli anticipi,
ancora non so bene. Sicuramente fra due settimane l'aggiornamento
salterà, ma appena torno posto! Scusate
per il disagio. Beeeh
che altro dire, un grazie a tutti come al solito. E BUONE VACANZE!
Mioddio
davvero, buone vacanze - un'altra settimana a scuola e sarei stata
portata al suicidio. Alla prossima! :)
P.s. Non ho ben capito perchè mi mette l'ultima frase
più grande - beh pace xD
Beeeeh buonasera! Sono un
po' in ritardo, ma spero mi perdonerete. Ho una giustificazione
però: ero al concerto dei 30stm! Mammammmia *fangirling
overload* Ah niente, questo capitolo è piuttosto concentrato
anche se breve. Che dire, spero sia di vostro gradimento. Buona
lettura! :)
Capitolo
25. Pericolo.
Rimasi
a fissarlo, la mia
espressione congelata in qualunque cosa fosse presente fino a poco
prima sul
mio viso. Mi sentivo bloccata, paralizzata in quella che riconobbi come
paura. Riuscivo
a percepire il mio corpo immobilizzato, la mia postura rigida ed
innaturale, le
braccia tese come ad afferrare qualcosa che era scomparso
all’improvviso. Erano
passati solamente pochi secondi, e a me sembravano trascorse ore.
“Cosa…”,
tentai di formulare.
Mi
sentivo come se ci fosse
qualcosa nella mia gola, come se stessi soffocando.
“Di
cosa stai parlando?”, riuscii
a chiedere con voce malferma.
Mi
sentivo ancora congelata, non
riuscivo a muovermi. Battei le palpebre con decisione, cercando di
scacciare
quella strana sensazione e di riprendere il controllo di me stessa.
C’era
qualcosa di sbagliato, qualcosa che non andava. Non sapevo cosa fosse,
ma
qualcosa c’era.
Evitò
accuratamente la mia
domanda, i suoi occhi ancora concentrati su qualcosa di lontano.
“Devo
parlare con Alice”.
Improvvisamente
si girò verso di
me, posandomi entrambe le mani sulle spalle. Mi fissò
attentamente e a lungo.
La
paura che avevo visto nei suoi
occhi fino a qualche istante prima scomparve rapidamente, lasciando
posto alla
rabbia. Per un lungo attimo, apparve ai miei occhi come un vampiro. Un
vero
vampiro, il genere di creatura spaventosa ed assassina dei libri
lasciati a
prendere polvere sugli scaffali delle biblioteche.
“Rosalie”,
pronunciò attentamente
il suo nome senza staccare i suoi occhi dai miei. “Stai
attenta a El, e portala
a scuola”.
Ci
impiegai più del necessario per
capire cosa avesse detto esattamente. Con un secondo di ritardo, reagii.
“No!”,
esclamai stringendo i
pugni.
Lo
sguardo di Edward si spalancò
in sorpresa, e dopo sospirò amaramente.
“Ho
bisogno di parlare con Alice”,
forzò tutta la potenza del suo sguardo su di me.
Chiusi
gli occhi e scossi la testa
velocemente. Non volevo cedere e non avrei ceduto. Inspirai
profondamente nel tentativo
di calmarmi il più possibile.
“E
allora verrò con te”, lo fissai
cocciuta, stringendo i pugni fino a quando non mi fecero male.
“No”,
replicò secco.
Mi
mordicchiai il labbro, per
evitare che le lacrime di rabbia raggiungessero i miei occhi.
“Edward”,
la voce calma di Rose ci
interruppe. “Non posso portarla a scuola. Non se devo
lasciarla da sola, non
se…”, non finì la frase.
La
sua voce sfumò semplicemente
nell’aria, lasciando un vuoto soffocante al suo posto.
“Cosa?”,
domandai voltandomi verso
di lei.
Non
mi rispose. Abbassò lo
sguardo, contemplando il pavimento. Tornai a fissare Edward.
“Cosa?!”.
Inspirai
profondamente.
“Edward”,
riprovai con più calma.
“Per favore, per favore,
dimmi cosa
sta succedendo”.
Mi
guardò nuovamente, i suoi occhi
ancora colmi di rabbia e sconforto. Scosse la testa, ma senza negarmi
una
risposta. Era semplicemente rassegnato.
“Qualcuno…”,
rispose piano, ponderando
ogni singola sillaba. “Qualcuno è stato
qui”.
Feci
automaticamente un passo
indietro, portandomi una mano al petto. Sentivo il mio stomaco
contorcersi, a
disagio.
“La
traccia è fresca, non è stato
più tardi di ieri notte”, continuò
Rosalie per lui.
Ieri notte, ripetei nella mia mente. La
mia bocca si spalancò con
un piccolo pop.
“Qualcuno
è stato qui”, ripetei
con un filo di voce.
Edward
annuì, i suoi occhi
spaventati dalla mia espressione.
“Ieri
notte”, continuai sentendomi
instabile.
Ci
fu una lunga pausa nella quale
pensai di svenire. O forse lo speravo. Le pareti della stanza
sembravano
inclinarsi paurosamente.
“El,
respira”.
I
miei occhi terrorizzati
osservarono il suo viso attentamente. Mi costrinsi a respirare
profondamente. Quel
qualcosa di sbagliato, quella strana sensazione di
disagio…ora sembravano
essersi riassestati come un puzzle. Un puzzle che mi spaventava per
quanto
fosse semplice e al tempo stesso pericoloso.
“Claude”,
mormorai muta.
Le
mie labbra non volevano
pronunciare quel nome, la mia mente non voleva ripensare a quella
figura, a
quell’immagine. Era così impossibile. Le mie
orecchie sembravano vibrare di uno
strano, snervante suono. A parte quello, riuscivo a sentire solamente
il
battito continuo ed accelerato del mio cuore. Socchiusi gli occhi per
un
istante che mi parve infinito, per poi riaprirli di nuovo.
L’espressione
di Edward non era
cambiata. Non avevo sbagliato.
Quella
consapevolezza, tuttavia,
non mi fece sentire affatto meglio.
“Edward,
Rose!”, una voce nuova
s’intromise tra i ronzii. “Ciao El”,
aggiunse in tutta fretta.
Era
stranamente agitata, qualcosa
che non avevo mai associato alla sua voce.
“Edward…”,
cominciò a dire.
Edward
la fermò, sollevando una
mano.
“Ha
già capito”.
“Oh”.
“Come
hai fatto a non vederlo,
Alice?”, nella sua voce era visibile la rabbia.
“Sono
riuscita a vederlo solo
quando ho sentito il suo odore qui, non prima…mi
dispiace”.
“Io…io
non so perché…mi dispiace”,
aggiunse come se fosse suo dovere scusarsi.
“Ormai
è tardi”, tagliò corto
Rose.
Seguì
una breve pausa, accompagnata
da un silenzio pesante. Mi sentivo come se dovessi cominciare ad urlare
da un
momento all’altro. Assistevo semplicemente alla scena davanti
a me senza fare
niente – totalmente incapace di dire o fare niente. Mi
sentivo congelata.
Congelata nella paura e nella consapevolezza. Quel sogno…era
stato veramente
solo un sogno? C’era davvero qualcosa di più? La
mia testa girava senza sosta
attorno ai medesimi interrogativi, senza trovare risposta.
“El”,
finalmente qualcuno mi
interpellò, distogliendomi dai miei pensieri.
Alice
mi osservava, i suoi grandi
occhi dorati ad analizzare il mio volto. Sbarrai gli occhi, attenta.
“Ti
dispiacerebbe saltare un
giorno di scuola?”.
Quella
domanda mi fece quasi
sorridere. Scuola? Me ne ero totalmente dimenticata. Sembrava una cosa
così
distante dalla mia realtà.
“Non
vado da nessuna parte”,
risposi cercando di apparire decisa.
Annuì
a se stessa più volte,
cominciando a camminare avanti e indietro davanti a noi.
“Non
riesco a vedere niente con te
vicino, però è l’unico modo per averti
al sicuro”, mormorò tra sé a voce
abbastanza alta perché sentissi. “E non sono
nemmeno sicura che senza di te
riuscirei a vedere qualcosa. Forse non sono in grado di
vedere…quelli come
loro. Non mi era mai capitato, a parte con i cani”.
Ci
impiegai un attimo in più del
necessario per capire che si riferiva all’episodio della
foresta, quando avevo
incontrato Jacob. Pensare a Jacob, a Seth, a Leah…sembrava
così irreale.
“Edward,
cosa dobbiamo fare?”,
domandò Rosalie esasperata.
“Ho
bisogno di parlare con
Carlisle, è l’unico che li conosce”.
“Carlisle
è ancora…”.
“Lo
so”, la interruppe
bruscamente.
Edward
sembrava completamente
impazzito. I suoi occhi erano spalancati in quella che per lui era
stata una
totale sorpresa, la rabbia e la paura al loro interno ben visibili.
Non
appena varcammo la soglia di
casa Cullen, scomparve rapidamente su per le scale. Rimasi in silenzio
al
fianco di Alice e Rose, consapevole dei loro sguardi fissi su di me. Mi
strinsi
nelle spalle e continuai a fissare il pavimento, ripensando al mio
strano sogno
e perdendo il senso del tempo.
La
cosa che mi spaventava più di
ogni altra era il pensiero che potesse succedere qualcosa alle persone
che
amavo. Sapevo che Edward o Rosalie non erano deboli, né
facili da scalfire, ma
non potevo impedirmi in alcun modo di preoccuparmene. Cosa sarebbe
successo se
per colpa mia fosse accaduto qualcosa? Se Alice, o Emmett, o
Rose…- forzai il
suo nome nella mia mente -, o Edward fossero rimasti in qualche modo
feriti, se
gli fosse accaduto qualcosa, qualunque cosa… non sarei
riuscita a sopportarlo.
Ma tutto ciò non aveva senso. Per quanto continuassi a
pensarci, ancora ed
ancora, non riuscivo a capirlo. Che senso aveva quello che stava
succedendo?
Perché ora, perché io? La voce nella mia testa
sembrava conoscere la risposta,
ma la evitai accuratamente.
“Oh,
El, tesoro!”, sentii Esme
chiamarmi preoccupata.
Alzai
lo sguardo verso di lei,
disorientata. Mi corse incontro, abbracciandomi forte.
Dietro
di lei, Edward era al
telefono, bisbigliando così velocemente da apparire
semplicemente un lieve
rumore di sottofondo. Lo vidi scuotere tristemente il capo.
“Stai
bene?”, mi chiese ansiosa,
spostandomi i capelli dal viso.
Annuii
velocemente, cercando di
non rimuginare troppo sulla risposta.
Non
stavo bene. Forse sì,
non ne ero totalmente sicura. Ma mi sentivo strana,
spezzata. Come se mancasse qualcosa.
“El”,
mi chiamò.
Sentii
distintamente il piccolo click del
telefono che si richiudeva. Alzai
lo sguardo verso di lui, esitante. Socchiuse gli occhi, prendendo un
respiro
profondo.
Scese
le scale rapidamente,
superandomi in un breve secondo ed entrando in salotto. Si
voltò a guardarmi. I
suoi lineamenti, per quanto perfetti e mozzafiato, erano contratti e
rigidi.
“Dobbiamo
parlare”, mormorò senza
emozione.
Mi
limitai a fissarlo, senza sapere
esattamente cosa fare. Dopo un istante di silenzio, mi tese la mano.
Abbozzò un
sorriso, che tuttavia non riuscì e sformò in una
smorfia di preoccupazione. Impiegai
qualche secondo per ricordare come riuscire a muovere le gambe.
Mi
mossi lentamente, evitando con
cura di incontrare lo sguardo di Edward. Compii ogni movimento con
estrema
attenzione, mantenendo lo sguardo incollato al pavimento. Sentii una
mano
fredda sulla mia spalla sospingermi verso di lui. Rosalie era dietro di
me.
Presi
la mano di Edward e la
strinsi quanto forte potessi. Alice si appollaiò velocemente
sul bracciolo
della poltrona occupata da Jasper, Emmett e Esme nelle restanti. Edward
mi
condusse fino al divanetto, dove mi strinse al suo fianco senza dire
una parola.
Quel silenzio cominciava a pesare.
Rose,
in piedi a qualche passo da
me, si schiarì la voce.
“Che
diavolo sta succedendo”,
sillabò con cura tra i denti.
La
sua voce era aspra di
risentimento. Fissò Edward in cagnesco, per poi passarsi una
mano tra i capelli
biondi.
“Lo
sai già”, mormorò Edward.
“Rose,
sai che non potresti mai riuscire ad ucciderlo da sola”,
aggiunse con un’ombra
di umorismo nero subito dopo.
Emmett
ridacchiò in silenzio.
“Così
mi piaci, Rose”, ghignò
divertito.
“Oh,
sta’ zitto!”.
Nonostante
la situazione, mi
lasciai sfuggire un sorriso.
“Non
penso”.
Mi
voltai verso Edward per capire
a chi stesse rispondendo. Il suo sguardo era fisso in quello di Jasper.
Si
lasciò sfuggire un sorriso anche lui.
“Così
potrebbe andare, ma non sarà
assolutamente facile…No, dobbiamo risolverlo, e al
più presto”.
Edward
sembrava quasi…confortato.
Più sereno di prima.
Che
cosa gli stava dicendo Jasper?
Ero improvvisamente innervosita da quella conversazione silenziosa ed
ero certa
di non essere la sola. Rosalie cominciò a battere il piede,
irritata.
“Qualcuno
vuole dirmi che sta
succedendo?”, li interruppi, sull’orlo
dell’esasperazione.
Un
breve sorriso illuminò il volto
di Edward.
“Cosa?”,
mi aggrappai alla sua
manica in modo più che infantile.
“Jasper
stava solamente valutando
le possibilità in modo interessante”, quel sorriso
truffatore nascondeva
qualcosa.
Tuttavia,
finché fosse rimasto sul
suo viso, sapevo che l’ansia non sarebbe tornata.
“Sapete,
è piuttosto snervante non
avere la minima idea di ciò che state dicendo”,
intervenne Alice sorridendo.
Si
voltò verso di me, facendomi
una smorfia.
“Tutta
colpa tua”, mi accusò con
falso risentimento.
Sorrisi
un poco, voltandomi prima
verso Edward e poi verso Jasper.
“Allora?”,
insistetti, quasi
implorante.
Fu
tutto calmo per un lungo
istante, poi Edward prese un respiro profondo.
“Gli
Ubach non ci attaccheranno”, la
sua voce era serena, ma c’era qualcosa che lo preoccupava.
Di
questo ero sicura. Tuttavia,
non potei impedirmi di sospirare di sollievo.
“Non
è nel loro stile, non lo
farebbero mai. O almeno, se non provocati”, lanciò
un’occhiata eloquente ad
Emmett, che sbuffò incrociando le possenti braccia sul petto.
“Claude
e Demetri sono i loro
segugi, il loro compito è quello di…trovare le
persone di cui hanno bisogno. Ho
letto nella mente di Amos quanto ho potuto la prima sera, ma non
abbastanza.
Avevo capito che sarebbe tornato, che non aveva intenzione di lasciare
qui qualcuno
di così…”, si voltò verso di
me, fissandomi come a cercare qualcosa sul mio
viso. “… interessante. La loro proposta, quando
arriveranno, sarà una sola: o
lei, o tutti noi”.
Lo
fissai negli occhi, spaventata
dalle sue parole. Sentivo la gola stringersi ogni secondo di
più, la sensazione
di soffocare sempre più viva.
“Per
questo non c’è problema”,
sogghignò Emmett.
In
un’altra situazione, avrei
probabilmente ridacchiato con lui. Ma questa volta era diverso.
C’erano le loro
vite in gioco, e a causa mia.
“No!”,
esclamai sporgendomi in
avanti.
“El
ha ragione, Emm. Non possiamo
sconfiggerli tutti”.
“Quanti
riusciamo”, sorrise
ampiamente al pensiero.
Edward
sembrò apprezzare l’idea
per un istante troppo lungo per tranquillizzarmi. Strinsi la manica
della sua
camicia, stropicciandola con forza.
“Non
ci pensare nemmeno”,
intervenne Rose, definitiva.
Emmett
la ignorò completamente,
scambiando una lunga occhiata con Jasper e Edward. Jasper sorrise,
apparentemente tentato dall’idea.
“Idioti”,
bofonchiai.
“Cretini”,
mi fecero eco Alice e
Rose.
“Stavamo
solo prendendo in
considerazione tutte le possibilità”,
scherzò Emm, dando di gomito a Alice. “Il
che ci riporta a ciò di cui voi due stavate blaterando
prima”.
Edward
annuì, riprendendo il
discorso di poco prima.
“Come
dicevo, gli Ubach non ci
attaccheranno, ma questo non vuol dire che non faranno nulla per
metterci in
difficoltà, forse più di uno scontro. Combattere
non è nel loro stile,
piuttosto giocheranno con noi, con
le
nostre menti. Cercheranno di creare una falla nella nostra famiglia,
confondendoci, e aspettando la minima distrazione per
approfittarne”.
La
sua voce, sul finire della
frase, si era fatta più minacciosa, più cupa.
“Quindi
non dobbiamo farci
fregare”, concluse Emmett sorridendo.
“Semplice
per te”, borbottò
Rosalie, pessimista.
“Jasper
stava valutando come poter
restare uniti senza lasciare El senza protezione”.
Mi
fissò in volto, studiando la
mia espressione.
“Questo
significa che dovrò essere
sotto sorveglianza ventiquattro ore su ventiquattro?”, chiesi
scettica e
parzialmente contrariata.
Non
mi entusiasmava l’idea di
avere Emmett o Jasper come guardie del corpo ogni secondo della
giornata.
“No”, quello che
fuoriuscì dalle labbra di Edward fu quasi un
ruggito.
Sembrava
nascere dal centro del
suo petto. Indietreggiai automaticamente, spaventata. Che era successo?
Dubitavo fortemente che quella fosse una risposta alla mia domanda. Il
suo
intero corpo sembrava congelato, teso come per prepararsi ad un
attacco.
Tornai
con lo sguardo verso il
viso di Edward, ma ora non era più voltato verso di me.
Stava osservando
Emmett, la sua espressione furente.
“No”,
ripeté, la sua voce
terrificante nella sua calma e fermezza.
Per
un momento temetti che potesse
attaccarlo. Non mi era mai apparso tanto arrabbiato.
“Ehi,
ehi!”, Emmett alzò i palmi
verso l’alto in segno di resa. “Stavo solo
pensando! Non è colpa mia se non sei
capace di farti gli affari tuoi”.
Gli
sorrise, tentando di addolcire
la sua espressione. Sembrò rilassarsi un poco, la statua al
mio fianco
ammorbidirsi per tornare alla vita.
“Dovresti
cercare di tenerli per
te questi pensieri”, disse tra i denti.
“Mi
piacerebbe riuscirci”, gli
fece una smorfia.
Continuai
ad osservarli, senza
comprendere.
“Scusami,
ho avuto una reazione
eccessiva”.
Emmett
si strinse nelle spalle,
minimizzando l’accaduto.
“Di
niente, fratello”.
Scambiai
un’occhiata veloce con
Rosalie. Nemmeno lei sembrava capire cosa stesse accadendo.
“E’
solo che…non posso sopportare
di metterla neanche lontanamente in pericolo e soprattutto non voglio
che si
possa sentire nemmeno un secondo…un mostro”.
Un
mostro? Ma di che stavano
parlando?
“Ehi?”,
cercai di attirare
l’attenzione di Edward, stringendogli la manica.
“Ci sono anch’io quaggiù”.
Mi
sorrise gentilmente, stringendo
la presa attorno ai miei fianchi.
“Ovviamente
ci sei”.
Sorrisi
anch’io, e poi sospirai. Era
così bravo a distrarmi.
“Di
cosa stavate parlando?”.
Lo
supplicai con lo sguardo,
sentendomi totalmente infantile. Non m’importava.
Sorrisi,
senza abbandonare il mio
sguardo da cerbiatto abbandonato.
“Emmett
stava pensando…a come tu
potresti aiutarci. Il tuo potere
potrebbe esserci enormemente d’aiuto, ma non sappiamo come e
quanto possiamo
spingerlo senza rischiare. Potrebbe essere pericoloso, per te quanto
per noi. E
se così fosse, non voglio che tu ti senta un mostro.
Inoltre, non posso
permettere che tu ti metta in pericolo, è mio compito
proteggerti”.
Lo
fissai in volto mentre le sue
parole acquisivano significato nella mia testa.
Potevo
essere d’aiuto. Quel
pensiero, per quanto piccolo, sembrava diventare più forte
ogni secondo che
passava. Prima che me ne rendessi conto, avevo già deciso.
“Edward,
voglio aiutarvi”, dissi,
cercando di suonare decisa.
“No,
invece”.
“Perché
no? Hai detto anche tu che
potrei essere d’aiuto! Non posso stare dietro di voi
aspettando che qualcuno
venga qui a prendermi”.
“Non
succederà, infatti”, ribatté.
“Non lo permetterò”.
“Grandioso.
E nel frattempo dovrei
essere il peso sulle vostre spalle?”.
“Edward,
vi aiuterò”, ribadii
testarda.
“No,
non lo farai”.
Ruggii
esasperata, cercando aiuto
sui volti dei presenti.
Sapevo
di non poter contare su
Rose. La mia protezione sembrava essere la prima cosa per lei. Mi
sorpresi
quando vidi che Alice era d’accordo con Edward. Jasper invece
sembrava essere
dalla mia parte, così come Emmett.
“Sei
così testardo!”, lo accusai
irritata.
“Sì”,
mi sorrise truffatore,
passandomi una mano sul collo.
“E
sempre così bravo a distrarmi”,
sospirai.
“Sì”,
ripeté compiaciuto.
Grugnii
qualcosa di
incomprensibile, sconfitta. Per il momento. Sarei tornata alla carica
quanto
prima, avrei solamente dovuto aspettare il momento giusto.
“E
quindi, nel frattempo, cosa
sono tenuta a fare?”, chiesi stizzita.
“Tu niente, noi
terremo te
e la tua famiglia al sicuro”.
Sentii
la mia bocca spalancarsi in
sorpresa. La mia famiglia. Mi ero completamente dimenticata di loro, ancora. E ora stavano venendo qui. Dove c’ero io, dove
c’era il
pericolo.
“El?
Cosa c’è?”, la voce di Edward
suonò storpiata dal ronzio nelle mie orecchie.
“Qualcosa non va? Ti senti
male?”.
Mi
scostò i capelli dal viso,
sentendomi la fronte. Ogni suono sembrava pungermi la testa con
intensità
inaudita.
“Shhh!”,
lo zittii tappandogli la
bocca con una mano.
Parve
rilassarsi visibilmente dopo
la mia reazione.
“La
mia famiglia sta venendo qui”,
mormorai dopo un breve silenzio, in cui il ronzio sembrò
trasformarsi in un
fastidioso ma sopportabile rumore di sottofondo.
Alzai
lo sguardo verso Edward,
spaventata.
“Non
possono venire qui!
Potrebbero farsi del male, potrebbero mettersi in pericolo,
potrebbero… Non
possono! Edward, non possono…”.
Mi
accorsi che il mio respiro
cominciava ad accelerare, cercando di competere con i battiti del mio
cuore.
Lentamente, senza che potessi fermarlo in alcun modo, si
trasformò in un
singhiozzo. Le sue braccia mi strinsero, lasciando che la mia testa
affondasse
contro il suo petto.
“Non
possono”, mugugnai senza
fiato.
Cercò
di calmarmi, strofinandomi
il braccio con la sua mano fredda.
“E’ tutto
okay, non permetterò che gli succeda niente. Lo
giuro”.
Non so perchè, ma l'ultima frase continua a venirmi di
dimensioni sballate ._. Ah niente! El è un po' in panico,
Edward non è da meno e Emmett rimane sempre il migliore xD
Per il resto non c'è molto da dire. Come al solito grazie a
tutti, settimana prossima posterò più o meno come
oggi o comunque lunedì! Buona settimana e godetevi le
vacanze! Alla prossima :)
Buonasera. Sono in
ritardo, quindi mi scuso. Mi scuso anche per la mancanza di
vitalità e di qualunque tipo di introduzione a questo
capitolo, ma sono appena tornata da cinque giorni di vacanza e sto
dormendo in piedi. E visto che ci siamo, mi dispiace di non aver
risposto alle recensioni della settimana scorsa - non ce l'ho fatta
proprio. Buona lettura :)
Capitolo
26. Guai in vista.
“Oh,
per favore! Non fare la
difficile!”, ripeté Alice per l’ennesima
volta.
Ormai
avevo perso il conto.
“Alice”,
mugugnai cercando aiuto
con lo sguardo.
Emmett
sembrava fin troppo divertito.
Grugnii
qualcosa di
incomprensibile, cercando di sfilare il braccio dalla sua presa.
“Sarà
divertente!”, cantilenò
imperturbabile mentre mi sospingeva verso l’ingresso.
Dubitavo
sinceramente che la sua
idea di divertente fosse simile
alla
mia. E soprattutto, mi sarebbe piaciuto evitare un bel mal di testa.
Ogni volta
che ci andavamo avevo bisogno del Tylenol per riuscire a dormire.
“Hai
detto che vuoi aiutarci, no?
Vuoi aiutare Edward? E allora sbrigati!”.
Ruggii
esasperata. Era così
ingiusto. Quello era giocare sporco.
“Non
so ancora quando, o come, ma
questa me la paghi Alice”.
Sentii
la risata soffocata di
Emmett a pochi passi da me. Alice mi sorrise un enorme ghigno malefico,
sembrando quasi compiaciuta.
“Questa
sarebbe una minaccia?”, il
suo sorriso si tese ulteriormente.
“Questa
è una minaccia”.
Ridacchiò,
palesemente divertita.
“Oltre
ad essere una promessa”, aggiunsi
senza riuscire a trattenere l’ombra di un sorriso.
“Oh,
tanto ne abbiamo di tempo!”.
Così
dicendo, mi agguantò per il
gomito e mi trascinò fuori. Cercai di opporre resistenza,
piantando saldamente
i miei piedi per terra e sporgendomi di lato per aggrapparmi a
qualsiasi cosa
in grado di sorreggermi.
“Edward!”,
esclamai cercando
aiuto.
Emmett
scoppiò a ridere,
riempiendo tutta la stanza con la sua risata.
Edward
era sparito poco dopo la
discussione in salotto, Jasper e Rose al suo seguito. Mi aveva detto
che voleva
seguire le tracce, scoprire da dove era arrivato. Aveva detto che
sarebbe
servito a non farci trovare impreparati la prossima volta.
La prossima volta, pensai accigliandomi.
Questo significava che ci
sarebbe stata un’altra
volta. Forse l’ultima,
forse…
Bloccai
con forza quel pensiero,
sforzandomi di pensare ad altro.
“Edward
non ti aiuterà,
soprattutto se tiene alla sua testa”.
Mi
sarebbe piaciuto essere un
vampiro in quel momento, abbastanza forte da riuscire a restare ferma
dove
volevo, senza essere trasportata via. Abbastanza forte da dare una
mano…
Sospirai,
lasciandomi trascinare
fuori casa.
Alice
sembrava non vedere l’ora di
raggiungere la piccola radura dove non ci recavamo da tempo per
allenarci. Salimmo
velocemente in macchina ed appoggiai la testa contro il finestrino, lo
sguardo
lontano, perso oltre il vetro senza vedere nulla in realtà.
Lasciai vagare i
miei pensieri da soli e, prima che me ne rendessi conto, stavo pensando
di
nuovo ad Edward. La sua espressione, impressa nei miei ricordi come
marchi a fuoco,
ancora mi spaventava. Sospirai di nuovo.
“So
che lo eviteresti volentieri,
e che Edward non sarebbe mai
d’accordo se lo venisse a sapere, ma abbiamo bisogno ora
più che mai del tuo
potere”, la sua espressione seria mi confuse.
Mi
sorrise leggermente, portando
nuovamente gli occhi sulla strada.
“Alice
io…”.
“Ne
abbiamo bisogno; sai che, se
così non fosse, non te lo chiederei”.
“Alice
io voglio aiutarvi. Lo
farò, davvero”.
Abbozzai
un sorriso al quale Alice
rispose immediatamente.
“Grazie”.
Mi
strinsi nelle spalle, cercando
di apparire rilassata.
Il
viaggio fu più breve di quanto
ricordassi. Il silenzio durò poco prima che Alice
cinguettasse un allegro
“Siamo arrivate”, seguito da un enorme sorriso
scintillante.
Il
luogo era lo stesso,
ovviamente. Tuttavia, la presenza del sole lo faceva sembrare un posto
meno
misterioso di quanto mi fosse parso la prima volta. Le fronde degli
alberi,
tutt’intorno allo spiazzo colorato di un intenso verde scuro,
sembravano
animarsi al leggero vento che soffiava, scompigliandole e creando un
lieve,
rilassante rumore di sottofondo. Presi un respiro profondo, passandomi
una mano
tra i capelli.
“Okay”,
mi sforzai di apparire
decisa. “Cominciamo”.
Indirizzai
lo sguardo verso Alice,
gli occhi socchiusi e il capo chino al centro della radura. La sua
pelle
candida sembrava guizzare nei suoi riflessi arcobaleno. Alzò
la testa,
incontrando i miei occhi e mi sorrise.
“E’
davvero piacevole il calore”.
Calore. Cercai di non fare smorfie alle
sue parole. Decisamente
Alice non aveva mai sperimentato il caldo soffocante della Florida.
“Bene,
cominciamo”, tagliò corto,
il suo sorriso a brillare nella debole luce. “E’
passato molto tempo
dall’ultima volta, quindi dobbiamo ricominciare da capo. Ti
ricordi come avevi
fatto le prime volte?”.
Annuii
in silenzio, ripassando
mentalmente ogni singola azione.
“Okay,
allora con calma. Un bel
respiro, raccogli e poi…lentamente”, mi
incoraggiò.
Cercai
di concentrarmi il più
possibile, tentando di individuare con chiarezza i confini del mio
velo. Quando
lo trovai, lo sospinsi gentilmente sempre più lontano da me,
fino ad
accerchiare Alice. Guadagnai ogni singolo centimetro con immensa
difficoltà,
trattenendo il respiro per concentrarmi maggiormente. Finalmente ci
riuscii,
espirando velocemente in una piccola nuvoletta d’aria
condensata. La sua
piccola scintilla parve riscaldare il mio scudo, illuminandolo
immediatamente.
Mi
faceva sentire…protetta, e al
tempo stesso in grado di proteggere. Finalmente solo me stessa, e
nessun altro.
- El?-
Sorrisi
al suo pensiero, annuendo
subito.
-
Fantastico. Okay, come ci si sente?
Dev’essere pazzesco sentire i
pensieri! Avrei dovuto chiedere a Edward…-
Chiusi
gli occhi, massaggiandomi
le tempie. Questo era già più di quanto ero
abituata a fare.
Il
mal di testa stava arrivando,
lo sentivo. Le mie tempie pulsavano sotto lo sforzo. Mi sembrava di
avere un
intero esercito, con tanto di cavalleria, nel mio cervello.
Strinsi
i denti, costringendomi a
respirare.
-
Potrebbe essere così utile! E
finalmente saprei sempre cosa regalare a
Esme per Natale…-
“Shhh!”,
sibilai portandomi le
mani alle orecchie.
La
mia testa sembrava sul punto di
esplodere.
-Ops, mi dispiace-
Il
velo tornò indietro come una
molla in tensione, rimbalzandomi addosso con estrema violenza. Le mie
mani
tremavano per lo sforzo.
“Alice
io…”, quasi pregai,
passandomi una mano sulla fronte per asciugare il velo di sudore
creatosi.
“Ancora
una volta”, insistette
sorridendo.
Quel
pomeriggio continuammo così,
svariate volte, finché quasi non caddi stremata a terra.
Ormai cercavo di non
fare caso al dolore che minacciava di farmi esplodere la testa. Non era
diventato più sopportabile con il passare delle ore, ma
semplicemente più facile
da gestire. Se non ci pensavo, riuscivo a non provarlo in tutta la sua
intensità. Alla fine, Alice ebbe pietà di me.
“Okay,
okay. Direi che per oggi è
abbastanza”.
“Direi”, cercai di imitarla,
senza grandi esiti.
“Posso
solo chiederti un’ultima
cosa?”, cinguettò sfoderando un sguardo implorante.
Sapevo
che, qualunque cosa fosse,
avrebbe trovato il modo di convincermi.
“Dimmi
Alice”, sospirai
esasperata.
“Mi
chiedevo soltanto…posso
sbirciare nel tuo futuro?”.
Alzai
gli occhi al cielo,
sospirando.
“Dai!
Dai, dai, dai!”, cantilenò
con piccoli saltelli.
“E
va bene”, acconsentii.
Non
avevo voglia di oppormi alla
sua testardaggine.
“Oh”,
disse sorpresa. “Questo è
stato più veloce di quanto avessi pensato”.
Forse
a volte era ancora possibile
sorprendere Alice. Sfoderò un ghigno compiaciuto, facendomi
segno con le mani
di sbrigarmi. Sbuffai pesantemente, ma obbedii. Tuttavia,
fu molto più facile di prima.
Quasi…rilassante. Il sollievo che mi provocò
riuscì a compensare il senso di
vulnerabilità che mi assaliva ogni volta che mi trovavo
costretta ad abbassare
le mie difese. Mi sentii di colpo più leggera ed iniziai a
camminare avanti e
indietro per il piccolo spiazzo d’erba, osservando per la
prima volta con
attenzione ciò che mi circondava.
Quella
radura aveva un che di
magico, non riuscivo a spiegarmelo.
“Oh!”,
esclamò Alice.
Mi
voltai immediatamente,
inizialmente preoccupata. C’era qualche novità?
Aveva visto qualcosa di nuovo
su…Claude? E poi sbuffai di nuovo, palesemente scocciata. Un
nuovo, enorme
ghigno soddisfatto le colmò il viso, illuminandolo. Mi
fissò sorridente, apparentemente
ansiosa di raccontarmi ciò che aveva appena visto -
sicuramente qualcosa che la
riguardava da vicino. Forse una giornata di shopping, forse una
sfilata. Rabbrividii
con orrore al pensiero.
“Che
succede, Alice?”, mi sforzai
di chiedere allegramente.
Il
suo sorriso si tese.
“Jasper
mi chiederà di sposarlo!
Di nuovo!”, cinguettò felice.
“Ehm…congratulazioni”,
abbozzai.
“Di nuovo”.
Ridacchiò
da sola per qualche
istante, per poi farmi segno di continuare a fare ciò che
stavo facendo prima.
Ripresi quindi a girovagare, spingendomi verso il lato più a
nord dello
spiazzo.
Alcune
gocce di pioggia
cominciarono ascendere
lentamente dal
cielo, e levai lo sguardo per osservare le grandinuvole opache che confermavano l’arrivo di un
bell’acquazzone. Sentii qualcosa colpirmi la punta della
scarpa e spostai lo
sguardo nuovamente verso il suolo.
Una
piccola pietra scura giaceva a
qualche decina di centimetri da me, nascosta tra i ciuffi
d’erba. La osservai
qualche istante, inclinando la testa da un lato, cercando di capire il
perché
di quella strana sensazione – di nuovo quella sensazione.
Scossi la testa,
cercando di scacciare via quel pensiero. Stavo davvero
diventando paranoica.
Mi
chinai così a raccogliere il
piccolo sasso che riluceva a terra e l’afferrai, per poi
osservarla meglio
adagiandola sul palmo. Era umida e liscia. La sua superficie era
così lucida
che probabilmente mi ci sarei potuta specchiare, se non fosse stato per
quegli
strani segni incisi…
Improvvisamente,
tutto acquistò
senso.
Rimasi
ad osservare la piccola
pietra che giaceva sul mio palmo, mentre la consapevolezza, seguita a
ruota
dalla paura, si faceva strada dentro di me.
Quella
pietra. Quella radura.
Tutto.
Ora
capivo perché mi era apparsa
così familiare, perché quella strana sensazione
aveva ripreso ad assalirmi nel
bel mezzo del nulla. Avevo già visto quella radura, come
avevo già visto quella
pietra. Tempo fa, in un sogno lontano vite da quella che credevo di
vivere ora.
Ricordavo
anche come finiva il
sogno. Non potei impedirmi di rabbrividire violentemente al pensiero,
stringendo quel piccolo oggetto nel mio pugno. Lasciai scorrere qualche
attimo,
sperando con tutte le mie forze di svegliarmi da un momento
all’altro. Forse
era solo l’ennesimo incubo. Eppure mi sentivo sveglia,
all’erta. Non era un
sogno.
“A-Alice…”,
riuscii a dire dopo
qualche secondo di silenzio. “Dove siamo qui,
esattamente?”.
Avevo
bisogno di sapere, di
prepararmi in qualche modo.
Alice
non sembrò fare caso alla
mia espressione, senza dubbio troppo presa dai suoi nuovi progetti.
Aveva un
matrimonio da organizzare. Il suo, per giunta.
“Come
sarebbe dove…?”, iniziò a
chiedere, ma finalmente sembrò accorgersene. “El,
che succede?”, domandò
preoccupata, quasi volando al mio fianco.
Stringevo
ancora nel mio pugno la
piccola pietra scura, le sue incisioni sembravano bruciare a contatto
con la
mia pelle per i pensieri e i ricordi che suscitavano in me. Mi sforzai
di
sciogliere il pugno, allentando la presa un dito alla volta e le
mostrai quello
che giaceva sul mio palmo.
“Che
cosa dovrebbe significare
questo sasso?”, mi chiese quasi spazientita.
Non
le piaceva non essere al
corrente di tutto.
“Alice
io…io ho già visto questo
posto, questa pietra. In un sogno”.
“Un…un
incubo”, mi corressi con un
filo di voce.
Sembrava
confusa dalle mie parole,
ma al tempo stesso sinceramente preoccupata.
“Cosa
accadeva nel sogno? Ho
bisogno di saperlo”.
Si
guardò attorno, assumendo una
leggera posizione accucciata.
“Vieni,
andiamo via. Dobbiamo
dirlo agli altri”.
Il
tragitto verso casa fu più
breve di quanto mi aspettassi. Alice non accennava a sollevare il piede
dall’acceleratore, i suoi occhi concentrati su qualcosa di
confuso e lontano da
noi, e dal presente stesso.
Per
quanto riguardava me, rimasi a
fissare gli alberi che scorrevano veloci fuori dal finestrino. La mia
vita
sembrava scorrere alla stessa velocità. Impossibile da
distinguere, confusa e
offuscata. Era ovvio che ci fosse, ma i suoi confini sembravano
scomparire e
confondersi con quella successiva. In tutto quel verde, era difficile
trovarmi.
“Vieni”,
mormorò in tutta fretta
Alice una volta sbucate davanti a casa.
Prima
ancora che potessi
slacciarmi la cintura, era davanti alla mia portiera, già
spalancata.
“Oh,
e…”.
“Sì,
lo scudo”, tagliai corto,
riportando le mie difese al loro posto.
Mi
sentii meglio, e peggio. Ma non
era il momento giusto per pensare ad uno stupido mal di testa.
Stringevo ancora
tra le mani quella piccola pietra nera e lucente.
“Edward,
Jasper, Rose, Esme,
Emmett”, chiamò rapidamente i presenti appena
varcata la soglia di casa. Il suo
tono probabilmente li allarmò, poiché furono al
mio fianco tutti in meno di un
secondo, le loro posizioni rigide e pronte all’attacco.
“No,
non c’è nessun pericolo”, li
tranquillizzò dirigendosi verso il salotto.
Non
c’è nessun pericolo ora,
avrei voluto precisare, ma optai
per l’opzione mutismo – non ero ancora sicura di
poter parlare senza che la mia
voce si rompesse per lo stress.
Edward
era dietro di me,
protettivo, un braccio che mi cingeva i fianchi con troppa forza
perché potesse
tranquillizzarmi. Evitai il suo sguardo per non allarmarlo
ulteriormente.
“Che
succede, Alice?”, sbottò
Rose, fissandomi in viso. “Sembra che abbia appena visto un
fantasma”, aggiunse
ansiosa.
“Non
mi stupirei se ci riuscisse”,
borbottò con un ghigno Emmett.
“El?”,
mi chiamò Alice, facendomi
un rapido gesto con la mano.
Inspirai
profondamente,
costringendomi ad aprire nuovamente il mio palmo. Questa volta non
volevo
vederla, non volevo avere l’ennesima prova che quello che mi
stava accadendo
era reale.
“Mi
volete spiegare cosa c’entra
un sasso?”, esclamò Rosalie, palesemente
infastidita.
“Rose,
calmati”, mormorò Edward
alle mie spalle, scoccando una veloce occhiata a Jasper.
In
pochi attimi, l’atmosfera
sembrò alleggerirsi e diventare più respirabile.
Presi
un nuovo, lungo respiro.
“El
ha detto di aver già visto
questa pietra, e
anche il luogo dove
siamo state oggi…in un sogno”.
“Ma questo non ha senso”, borbottò di
nuovo Emm.
L’occhiata
di ghiaccio che Rosalie
gli riservò fece rabbrividire anche me.
“In
quel sogno…”, non finì la sua
frase.
Percepii
il corpo di Edward
tramutarsi in marmo, e capii che il mio potere questa volta non era
stato
abbastanza potente da nascondergli ciò che Alice stava
pensando.
“A
quanto pare è più vicino di
quanto pensassimo”, ruggì lui tra i denti.
“…Claude
uccideva El, nessuno di
noi era abbastanza vicino per salvarla”, concluse Alice.
Cercai
di spiegarmi perché,
proprio in quel momento, la frase chiara e concisa, non riuscissi a
provare
paura. Solo… rassegnazione. Come se fosse un fatto, e non
solamente una reale
possibilità. Qualcosa di assoluto, il cui contrario era
impossibile. Il
silenzio creatosi nuovamente nella stanza sembrava esserne
l’ennesima conferma.
L’aria era congelata, sembrava non circolare. E forse era
vero, in parte,
poiché ero l’unica a respirare in quel preciso
istante.
“Era
un sogno, diamine!”, esclamò
ad un tratto Emmett. “Come se fosse possibile che lasci
morire El!”.
Cercai
di rispondere al suo
sorriso solare, ma probabilmente le mie labbra riuscirono a formare
solamente
una debole smorfia.
“Emmett
ha ragione, questo non
significa nulla”, gli fece eco Rosalie.
Nonostante
il suo stentato
ottimismo, nei suoi occhi era chiara la preoccupazione. Avrei voluto
semplicemente dirle di tranquillizzarsi, che era tutto okay. Ma non
credevo di
esserne in grado, senza mentire a me stessa.
Certo,
era solo un sogno. Lo
stesso genere di sogno che avevo fatto la notte scorsa, quando avevo
visto
Claude nella mia stanza. Quanto potevano ancora considerarsi sogni, o
incubi? La
mia testa sembrava sul punto di esplodere, e non solo metaforicamente
.Portai
entrambe le mani alle tempie, massaggiandole lentamente. Il contatto
con le mie
dita fredde provocò un leggero sollievo, che durò
purtroppo solo poco più di
qualche secondo.
Edward
se ne accorse e posò il suo
palmo gelido contro la mia fronte. Sospirai, sollevata.
“A
dire la verità…”, abbozzai.
“Io
credo che significhi qualcosa”.
Le
dita di Edward scivolarono
sulla mia guancia, e mi strinsi contro di loro.
“Cosa
intendi?”, insistette Alice,
dopo qualche secondo di silenzio.
Sorrisi.
Era così semplice
dimenticare tutto il resto vicino a Edward.
“Ecco…”,
ma mi fermai.
Avrei
fatto la figura della pazza.
Forse lo ero, non era da escludere.
“Cosa,
amore?”
Mmm.
Amore. Mi ci sarei anche potuta
abituare.
“Okay,
il fatto è che…ho già
sognato Claude, ma ieri notte l’ho sognato in camera
mia…e poi stamattina…”,
non finii la frase.
Non
ce n’era bisogno.
“Questo
sembra…serio”, mormorò
Emmett.
Edward
mi trascinò con lui verso
il divano, accompagnandomi gentilmente.
“Vorrei
parlare da solo con El, se
possibile”.
Il
suo tono gelido e al tempo
stesso colmo di angoscia fece contorcere il mio stomaco. Non volevo
essere costretta
a vederlo sempre in questo modo per colpa mia. Non lui e soprattutto
non a
causa mia. Gli altri rimasero a fissarci un attimo, prima di svanire
come
fantasmi. Nessun suono, nessun rumore. Rosalie rimase un attimo in
più sulla
porta, indecisa. Sapevo con certezza che avrebbe voluto sapere cosa
stava
accadendo esattamente. Voleva proteggermi, come sempre.
Le
sorrisi, tentando di
rassicurarla per quanto mi fosse concesso. Mi rispose con un breve
sorriso, per
poi sparire insieme agli altri. Un tempo era stato tutto
così semplice. Lasciai
vagare per un lungo istante la mia mente, permettendole di ripescare
ricordi
che sembravano appartenere ad un’altra me. Quante cose erano
cambiate in così
poco tempo.
Sentii
un sospiro alle mie spalle,
e mi ricordai tutto il resto.
Oh.
Certo. Mi voltai lentamente
verso di lui, abbassando lo sguardo. Mi sentivo stranamente colpevole,
come se
sapessi di avergli tenuto nascosto qualcosa di importante. In un certo
senso,
era la verità.
“El”,
mormorò lasciando che il suo
respiro s’infrangesse sul mio volto.
Mi
prese il volto tra le mani,
costringendomi a fissarlo negli occhi. La loro intensità mi
lasciava sempre
sconcertata. Non era possibile che qualcuno potesse influenzare la
mente altrui
solo con uno sguardo.
“Perché
non mi hai detto niente di
questo?”.
Cercai
di sfuggire ai suoi occhi,
chinando la testa, ma senza esito. Non accennava a lasciarmi andare.
“Edward
io…”, boccheggiai cercando
una risposta degna di questo nome, mentre il suo sguardo bruciava nel
mio.
“Mi
dispiace”, ammisi infine.
“Pensavo…non so nemmeno cosa
pensavo!”.
“So
solo che ero spaventata, e tu
eri al telefono con Carlisle, e Claude…”,
cominciai a gesticolare.
Le
sue braccia mi circondarono
prima che me ne rendessi conto, il suo petto premuto contro la mia
guancia a
calmare il mio respiro accelerato.
“Shh,
shh”, mi cullò un poco. “Non
importa, sistemeremo tutto”.
Annuii
contro il suo maglione,
respirando profondamente il suo odore inconfondibile.
“Credo
che questo faccia parte dei
loro giochi”, sull’ultima parola fece ricadere
tutto il suo disprezzo. C’era
disprezzo, ma anche rabbia.
Impiegai
un attimo di ritardo per
capire cosa intendesse. Il mal di testa sembrava rallentare qualunque
cosa
facessi.
“Pensi
che siano loro?”, domandai
insicura.
“Ne
sono quasi sicuro, purtroppo”.
“Che
genere di giochi?”.
“Gli
Ubach sono particolarmente
dotati d’inventiva quando vogliono qualcosa. Sono in grado di
influenzare la
nostra mente incosciente, quelli che chiamiamo sogni”.
“Come
ci riescono?”, chiesi
stupita.
Com’era
possibile una cosa del
genere? Improvvisamente, mi sentii usata. Stavano giocando con la mia
testa.
“Come
riesco io a leggere il
pensiero, o Jasper a controllare le emozioni, o Alice a vedere nel
futuro? E’
un dono, non si sa esattamente come funzioni”.
“Ma
solo tu hai questo potere,
mentre loro…”, lasciai sfumare la frase.
Lo
sentii annuire.
“Sì,
loro sono tutti in grado di
farlo”.
“Promettimi
che non permetterai
che ti succeda niente”, mormorai decisa.
Alzai
lo sguardo per controllare
la sua espressione. Mi sorrise.
“Prometto”,
disse teatralmente.
“E
tu evita di metterti in
pericolo”, aggiunse. “Sai che non potrei vivere
senza di te”.
“Mmm”,
bofonchiai in risposta.
Era
difficile non sentirsi in
qualche modo imbarazzata ogni volta che pronunciava frasi simili.
Ci
fu un breve silenzio, in cui i
nostri respiri e il battito del mio cuore sembravano essere gli unici
nel
raggio di chilometri. Affondai di nuovo contro il suo torace.
“A
cosa stai pensando?”, chiesi
qualche secondo dopo, la mia voce attutita dal suo petto.
“Questa
frase è del mio
repertorio”, replicò, un sorriso nella sua voce.
“Cosa stai pensando tu?”.
Mi
scostai da lui quanto bastava
per scoccargli un’occhiataccia.
“Non
ti hanno insegnato che ad una
domanda non si risponde con una domanda?”.
Mi
sorrise il suo sorriso
truffatore, che mi accelerò il respiro.
“Te
l’ho chiesto prima io”,
insistetti, cocciuta.
Si
strinse nelle spalle, e poi si
avvicinò notevolmente al mio viso.
“Posso
avere la precedenza?”,
sentii a fatica, i battiti del mio cuore nelle tempie e nella gola.
Perché
doveva essere così bravo a
distrarmi? Perché io non riuscivo mai ad ottenere
quell’effetto? Era così
ingiusto. A volte mi faceva infuriare.
Sbuffai
sulle sue labbra,
socchiudendo gli occhi. Lo sentii sorridere.
“Sai
cosa penso?”, chiesi
inarcando un sopracciglio. “Dovresti lasciare che vi
aiuti”.
Le
sue braccia, che fino ad allora
erano rimaste attorno alle mie spalle, scivolarono via.
“Sai
che non posso”.
“Perché
non puoi?”.
“El,
hai promesso”.
“No,
non l’ho fatto”, non potei
fare a meno di sentirmi in colpa.
Sospirò
profondamente, esasperato.
Continuai ugualmente con la mia arringa.
“Non
sarei un problema, anzi,
magari potrei essere anche d’aiuto!”.
“El,
no”.
“Ma
tu…”, mi chiuse le labbra tra
pollice eindice
prima che potessi
finire la mia frase.
Alzai
gli occhi al cielo, cercando
di liberarmi. Quel piccolo movimento mi ricordò la fitta
continua e pulsante
nella mia testa.
Strinsi
gli occhi, facendo una
smorfia e incassando la testa tra le spalle come per proteggermi dal
chiasso
che proveniva dall’interno del mio cranio.
“Tylenol?”,
chiese, un misto di
divertimento e apprensione sul suo viso.
“Tylenol”,
acconsentii.
Che ne dite? Le cose si
complicano sempre di più ormai - cosa dovrebbero fare El e i
Cullen? Spero che il capitolo vi sia piaciuto, ora vado davvero a
dormire. Buonanotte e alla prossima! :)
P.s. La storia ha raggiunto e superato le 100 recensioni, grazie di cuore!
Capitolo 27 *** La calma prima della tempesta. ***
Buon
pomeriggio! Eccomi qui con un nuovo aggiornamento estivo. Ho notato che
le visualizzazioni sono un po' calate, e suppongo sia perchè
siamo in periodo di vacanze - credo che potrei fermare gli
aggiornamenti durante il mese di agosto in modo da riprendere bene a
settembre. In ogni caso! Grazie a quelli che rimangono sempre e
comunque e buona lettura :)
Capitolo
27. La calma prima della
tempesta.
Era
forse la quindicesima volta
che il mio sguardo scattava verso le pesanti lancette
dell’orologio appeso al
muro in meno di cinque minuti.
Con calma, mi dissi, tornerà.
Edward
era uscito da appena
qualche minuto, e il tempo sembrava scorrere con una lentezza
impensabile. Il
mio mal di testa andava un po’ meglio ora, ma non abbastanza
da riuscire a fare
i compiti. O forse quella era semplicemente mancanza di voglia.
In
ogni caso, il mio corpo si
rifiutava categoricamente di abbandonare il piccolo divanetto bianco.
La
coperta in cui ero avvolta sembrava trattenermi ai cuscini con
più forza di
quanto avessi mai pensato. Mi sentivo un po’ una bambina.
La
luce, all’esterno, era ormai
del tutto scomparsa dietro le cime degli alberi, e la pioggia che
rigava i
vetri rendeva tutto più offuscato. Rimasi qualche minuto a
fissare le gocce che
scivolavano lungo le finestre, creando strane e diverse composizioni.
Lanciai
un’altra occhiata all’orologio, per poi sbuffare
quando mi resi conto che erano
trascorsi sì e no trenta secondi. Non sarebbe mai passato
abbastanza
velocemente. Tuttavia, era impossibile costringerlo a rimanere a casa.
Sapevo
che aveva bisogno di cacciare e di passare del tempo con i suoi
fratelli.
Mi
raggomitolai, se possibile,
ancora più stretta su me stessa e presi un respiro profondo.
Socchiusi gli
occhi, cercando di rilassarmi. Forse, se mi fossi addormentata, il
tempo
sarebbe passato più velocemente.
“Va
un po’ meglio ora?”.
Non
volevo aprire gli occhi per
controllare, e sentivo la mia voce mancare in gola. Così mi
limitai a
stringermi nelle spalle, sperando che Rosalie mi lasciasse riposare.
Forse
speravo troppo.
“Ti
fa ancora male la testa? Io
l’avevo detto a Alice, di non portarti più
lì, ma è così
cocciuta…”
Strinsi
gli occhi al breve flash
dovuto ad una luce accesa.
“Non
sei eccitata? Domani a
quest’ora Carlisle sarà tornato e la tua famiglia
sarà qui! Non vedo l’ora di
conoscere tua sorella, da come l’hai descritta
dev’essere un bel tipo”.
Il
monologo di Rose continuava
imperterrito. Lungi da me, tuttavia, interromperla. A quel punto sarei
stata
costretta a farlo diventare un discorso.
“Okay,
lo so. Hai mal di testa e
sei in crisi d’astinenza da Edward-manca-da-ben-dieci-minuti,
ma sono qui ed è
parecchio che non parliamo”.
Sospirai,
ma non potei darle
torto. Come amica, ultimamente, avevo proprio fatto schifo.
Mi
stiracchiai leggermente,
aprendo gli occhi appena per guardarmi intorno.
Era
seduta per terra, le gambe
incrociate sul pavimento, i suoi grandi occhi dorati ad osservarmi ed i
lunghi
capelli biondi ad incorniciare il suo splendido viso. Una figura del
genere
sarebbe potuta benissimo appartenere ad una favola, il genere di favola
che
tutti sognano per sé. Buffo che per Rosalie la sua vita
fosse tutto tranne che
una favola.
Abbozzai
un sorriso, che ricambiò
velocemente.
“Bentornata
nel mondo degli esseri
pensanti”, mi accolse con una smorfia.
“Non
stavo dormendo”, mi
giustificai mostrandole la lingua.
“Certo,
certo”.
“Quindi…”,
avviai il discorso,
senza avere idea di come continuarlo.
Ridacchiò
un istante, passandosi
una mano tra i capelli.
“Non
vedo l’ora che arrivi qui la
tua famiglia!”, la sua voce cristallina rimbalzò
nella mia testa come una palla
di cannone.
Incassai
la testa nelle spalle,
sperando forse di attutire quel suono.
“Sì,
anch’io”, sospirai.
Il
mio tono senza emozione sembrò
sorprenderla.
“Non
sei contenta?”.
Cercai
di rispondere nel modo più
onesto possibile.
“Sì,
certo. È solo che… sono un
po’ preoccupata, tutto qui”.
Annuì
a se stessa, facendo
scivolare i boccoli dorati lungo le sue spalle.
“Mi
chiedo se sia la cosa più
giusta… Sono sicura al cento per cento delle mie decisioni,
ma quelle decisioni
riguardano solamente me. Non ho preso in considerazione nessun altro. E
ora mi
chiedo se non abbia sbagliato, se non sarebbe stato più
giusto tornare a casa
ed evitare a voi e alla mia famiglia questo pericolo
e…”.
“Sai
che non è vero”, mi
interruppe.
“Non
ne sono più tanto sicura”.
Rose
sospirò, offrendomi una mano.
Ero restia ad abbandonare il mio rifugio tiepido, ma avevo bisogno
della sua
vicinanza. L’afferrai, e lei mi tirò a
sé sul pavimento freddo.
Rabbrividii
al contatto con le sue
braccia gelide e mi affrettai ad interporre la mia calda coperta tra di
noi.
Come poteva fare così freddo agli inizi di Maggio?
“El,
se fossi andata via con tua
madre, l’avrei capito. Davvero. Ma non posso giurarti che non
ti avrei seguita
fino in Florida, perché sarebbe stata una delle mie
alternative”.
Mi
sorrise sincera, e non potei
impedirmi di fare altrettanto.
“E
in ogni caso ormai sarebbe
troppo tardi per lasciarti tornare in Florida adesso. Anzi, sarebbe
stato uno
sbaglio anche allora. Se è vero che Claude è
sulle tue tracce, tu e la tua
famiglia sareste stati senza la nostra protezione”.
Rabbrividii
appena alle sue
parole, sforzandomi di ignorarle e impedire loro di fare breccia nei
miei
pensieri. Presi un respiro profondo.
“Quali
alternative?”, chiesi
ignorando la sua ultima frase.
“Mmm,
vediamo…o seguirti, o il
lavaggio del cervello a tua madre”.
Risi
al pensiero, appoggiando la
testa contro la sua spalla. Mi sentii bene.
“Rose!
Rose!”, la voce di Alice ci
interruppe.
Non
badai a voltare il mio sguardo
verso di lei. Rimasi dov’ero, combattendo un sorriso.
Conoscevo quel tono, e
sapevo che aveva qualcosa in mente.
“Devi
aiutarmi assolutamente! Jazz
è fuori con Emm e Edward, e Esme ha detto di chiedere a
te”.
Rosalie
non riuscì a trattenere un
sorriso esasperato, lanciandomi un’occhiata eloquente.
Ridacchiai
in silenzio, cercando
di non farmi notare. Se Alice avesse chiesto anche il mio
aiuto…rabbrividii al
pensiero.
“Che
c’è, Alice?”.
“Jasper
mi sta per chiedere di
sposarlo di nuovo e io non ho assolutamente niente da
mettere!”.
Alzai
gli occhi al cielo.
“Alice,
così sembri davvero una
sedicenne al primo appuntamento”, la prese in giro Rosalie.
Le
tirai una gomitata, borbottando
un “che hai contro le sedicenni tu?”.
Ero
sicura di essermi appena procurata
un bel livido.
“Non
ho chiesto cosa sembro, ho
chiesto una mano per disegnare il vestito più perfetto di
sempre”.
Sentii
il peso di Rose svanire da
dietro di me, e raddrizzai velocemente la schiena. Il secondo dopo, era
in
piedi.
“Scusami,
lo sto facendo anche per
te. Se si accorge che ha un’altra vittima a disposizione, non
esiterà oltre”,
mi sussurrò all’orecchio.
Sorrisi,
e un attimo dopo ero di
nuovo da sola nel grande salone. Lanciai l’ennesima occhiata
all’orologio e
sospirai nuovamente. Ancora troppo tempo.
Rimasi
a fissare la scena riflessa
nell’enorme vetrata, osservando con attenzione i piccoli
particolari che non
sembravo capace di cogliere solitamente. La superficie lucida del
pianoforte, i
colori vivaci dei quadri appesi alle pareti, gli strani riflessi creati
dalle
luci. Tutto sembrava uguale e diverso allo stesso tempo.
Sbadigliai
profondamente, senza
badare a coprirmi la bocca con la mano. Stavo cominciando ad annoiarmi
seriamente.
Cercai di pensare a qualcosa che mi permettesse di ignorare la sua
assenza, o
almeno di non esserne così ossessionata. Siccome sembrava
che dormire non mi
fosse concesso, mi alzai e mi diressi verso la cucina – tanto
valeva mettere
qualcosa sotto i denti.
Sul
mobile della cucina trovai il
mio cellulare. Senza pensarci, lo presi in mano e composi velocemente
il
numero. Prima ancora di rendermene conto, stavo aspettando la risposta
di
qualcuno.
“Pronto?”,
la sua voce era
sorpresa.
“Oh,
ehi Ang!”, esclamai allegra.
Era
così tanto che non la sentivo.
Avevo avuto troppi, troppi
contrattempi negli ultimi giorni.
“El!”,
mi salutò entusiasta. “Come
stai? E’ passato troppo tempo, scusami se non mi sono fatta
sentire”.
“Niente di
che”, cercai di suonare sincera. “Se
non prendi in considerazione un mal di testa che potrebbe portarmi
all’esasperazione. Tu piuttosto, ti è passata la
febbre?”.
“No,
purtroppo. L’influenza è uno
schifo”.
“Comunque…sei
sicura che vada
tutto bene?”, aggiunse poco dopo.
Accidenti. Non l’aveva bevuta.
“Beccata”,
ammisi, “Sono solo un
po’ agitata…i miei arrivano domani”.
Sperai
questa volta di riuscire
meglio. Facevo pena a mentire.
“Davvero?”, esclamò
elettrizzata. “E quanto aspettavi a dirmelo?!
Oh, devi essere così eccitata!”.
“Sì,
infatti”, mormorai con un
filo di voce.
“Scusa,
sto urlando. Hai preso
qualcosa per il mal di testa?”.
Sorrisi
debolmente.
“Sì,
non…”.
“El,
scusami, ti richiamo più
tardi. Mio fratello ha deciso di giocare con i miei trucchi!
Ciao!”.
“Sì,
a dopo”, risposi al telefono
già attaccato.
Sbuffai
profondamente,
appoggiandomi al mobile della cucina.
Sarei
mai riuscita a non mentirle,
o sarei stata costretta a fingere con la mia migliore amica? Cercai di
non
pensare alla risposta più ovvia. E, soprattutto, alle sue
conseguenze. Non
avrei mai potuto dirle tutta la verità, per paura di
metterla in pericolo. Ma
egoisticamente c’era una cosa che mi preoccupava
più di quello. Quando sarei
diventata un…vampiro, non
avrei più
potuto vederla. Telefonate ed e-mail sarebbero state le uniche cose che
avrei
potuto garantirle. Mi sentii male al pensiero – come lei,
anche la mia stessa
famiglia avrebbe subito le stesse conseguenze. Sarei sparita di nuovo,
e questa
volta per sempre. L’avrei sopportato? L’avrebbero
sopportato? Da parte mia, ero sicura che per me sarebbe stato
possibile, se non
pensarci, almeno non soffrire quanto loro. Edward sarebbe stato con me.
Tuttavia,
sapevo dai racconti di Carlisle cosa avrei provato, vedendo le persone
che
amavo pian piano sparire e lasciare un vuoto dietro di loro, mentre io,
congelata nella mia eternità, sarei rimasta ad osservare
quel vuoto diventare
sempre più grande, fino a quando non sarebbe diventato
insopportabile. Quel
pensiero portò con sé qualche piccolo brivido.
Faceva male solo a pensarci.
Mi
passai una mano tra i capelli,
inspirando profondamente.
In
ogni caso, non c’era molto da
fare. Era qualcosa di già deciso – deciso senza
avvisarmi, ma pur sempre
deciso. Quando sarebbe stato? Tra una settimana, un mese, un anno? Due
anni? Di
più?
Quando
avrei perso il familiare
battito del mio cuore per scambiarlo con qualcosa di totalmente
sconosciuto ed
infallibile? Non mi sentivo ancora pronta, nonostante cercassi di
convincermi
del contrario.
Certo, pensai con pessimismo, se
non mi uccidono prima.
Il
mio umorismo nero era davvero
irritante. Ma, alla fine, non era qualcosa da ignorare. Cosa sarebbe
successo
se…
Fermai
il pensiero a metà,
riprendendolo con una diversa conclusione. Non riuscivo ad immaginarmi quella conclusione. Non potevo.
…se
le cose non fossero andate
come avrebbero dovuto? Se quello che ormai davo per scontato, non lo
fosse poi
stato? Dopotutto, è quando ti viene tolto anche il peggiore
degli scenari, che
capisci di aver finito. La mia testa sembrava non reagire bene a tutti
questi
pensieri, e il mio stomaco, allo stesso modo, si contorceva, a disagio.
Forse
era meglio trovare qualcosa da fare. Pensare non era il massimo nel mio
caso.
Sospirai,
lasciando ricadere le
braccia sui fianchi.
“Ogni
volta che torno, ti trovo
sempre di cattivo umore. Devo stare fuori dai piedi ancora un
po’?”.
Il
suo tono scherzoso rischiarò i
miei pensieri, facendo scattare la mia testa verso l’origine
di quel suono. Cattivo
umore o no, la sua voce mandò una scarica elettrica lungo la
mia schiena.
Sorrisi
immediatamente, voltandomi
verso di lui.
Era
come se riuscissi a respirare
solamente vicino a lui. Tutto sembrava assumere toni e colori
più naturali
quando ero con lui, e sembrava più semplice da affrontare.
Non c’era modo per
me di guarire dalla sua dipendenza, né avevo intenzione di
farlo.
Inspirai
profondamente, senza
lasciare svanire il sorriso. In meno di un secondo, era davanti a me,
il suo
viso incredibile a poco più di centimetri dal mio. Non
c’era modo per me di
abituarmi a lui, alla sua bellezza impossibile o alla sua
velocità sovrumana.
Cercai di apparire rilassata mentre il cuore perdeva qualche battito.
“Io
ho un’idea migliore. Potresti
non andartene mai”.
Mi
sorrise il suo sorriso
truffatore, avvicinando la mia fronte alla sua. Finse di pensarci su
qualche
istante, per poi tornare ad affondare nei miei occhi.
“Mmm”,
mormorò senza perdere il
sorriso.
Mi
sospinse con dolcezza,
stringendomi la vita con entrambe le mani. La sua espressione era
soddisfatta
in uno strano modo nel vedere il mio sguardo perplesso mentre mi
rendevo conto
di ciò che stava facendo. Le sue labbra si avvicinarono alle
mie, ma senza
sfiorarle. Rimase così qualche istante per poi spostarsi sul
mio collo, dove
riprese quella tortura infinita. Il mio petto continuava ad alzarsi e
abbassarsi freneticamente, senza mantenere uno schema. Stava cercando
di farmi
venire un infarto? Era sulla buona strada.
Sospirò
nell’incavo del mio collo,
per poi ritrarsi e scoccarmi un’occhiata divertita. Il suo
sorriso si tese. Sentii
il profilo freddo del frigo contro la mia schiena, e mi arresi al suo
magnetismo costante. Allacciai le braccia al suo collo e lo attirai a
me con
quanta forza potessi. Non molta, rispetto alla sua. Se avesse voluto,
sarebbe
potuto rimanere perfettamente immobile. Tuttavia, l’altro
polo della calamita
non si oppose.
Mi
ritrovai aggrappata alla sua
giacca, ancora bagnata dalla leggera pioggia che cadeva fitta, mentre
le sue
labbra cercavano le mie con impazienza e una strana smania. Mi
ricordò per un
secondo l’insistenza di Tom, ma non aveva niente a che fare
con quello – affatto.
Il mio respiro correva, cercando di rincorrere i miei battiti, che
incespicavano affannati. Mi allungai sulle punte, per prolungare quanto
possibile quel miracolo. Mancavano ancora pochi secondi, e avrebbe
deciso che
era abbastanza per quel momento. A volte era così semplice
dimenticare che la
mia vita dipendeva da quello.
Le
sue mani mi tenevano stretta,
impedendomi di scappare via. Come se avessi una ragione al mondo per
andarmene
o fossi abbastanza pazza da volerlo. La sua mano
s’inchiodò con forza sulla mia
schiena, facendomi rabbrividire per la temperatura, e mi
tirò a sé – se
possibile, ancora di più.
Ad
un tratto, si fermò. Si scostò
leggermente da me, inchiodando il mio sguardo al suo. I suoi occhi
splendevano
di oro liquido, acceso di quella natura che cercava di tenermi nascosta
per il
mio stesso bene. A poco a poco, ritornarono quelli di sempre.
Sollevò
un sopracciglio,
combattendo un sorriso.
“Okay,
se il bentornato è questo,
puoi anche andare…ogni tanto”,
ansimai senza fiato.
Ridacchiò
divertito, chinandosi
per toccare le mie labbra ancora una volta.
“In
ogni caso, bentornato”, gli
sorrisi sincera.
Attesi
che il mio respiro si
stabilizzasse.
“Com’è
andata la…cena?”,
chiesi con nonchalance.
Stavo
migliorando su questo
aspetto. Mi sorrise, inclinando la testa da un lato per osservarmi.
“Bene,
piuttosto…movimentata”,
ridacchiò alla sua battuta personale.
“Ehi!”,
mi salutò Emmett con un
cenno.
Scoppiai
a ridere non appena mi
resi conto di come era ridotta la sua maglia.
“Lo
sai che Rose ti ucciderà, non
è vero?”.
Sembrava
che si fosse divertito un
mondo a lottare con la sua cena, o qualunque cosa fosse. Era tagliata
orizzontalmente più volte, lasciando della stoffa solo
qualche brandello che
penzolava senza vita sul suo enorme torace.
Gli
lanciai un’occhiataccia. Si
unì alla mia risata.
“Non
credo che sia possibile, ma
in ogni caso sarà furiosa”.
“Penso
anch’io”, mormorò Edward
senza staccare gli occhi dal mio viso.
“Sentiamo,
per cosa dovrei essere
furiosa?”, il tono gelido di Rosalie, proveniente dal piano
di sopra, mi
procurò un’altra risata.
“Oops”.
“Emm!”,
lo chiamò di nuovo.
Lui
sorrise ampiamente, per poi
sparire verso le scale. Stavo ancora sorridendo quando riportai il mio
sguardo
verso Edward. I suoi occhi erano ancora lì ad osservarmi.
“Che
c’è?”, chiesi imbarazzata.
“Niente”,
si strinse nelle spalle.
Lo
fissai, scettica.
“Lo
sai, sei splendida”.
Sentii
le mie guance scaldarsi e
fui rapida nel nascondere il viso tra i capelli.
“Bugiardo”,
gli tirai un leggero
pugno sul petto.
“Sì”,
acconsentì. “Lo sono spesso.
Ma non ora”.
“Smettila”,
mugugnai con un
sorriso, appoggiando la testa sul suo torace.
“Come
preferisci”, il sorriso
nella sua voce era più che evidente.
Quella
sera andò tutto come al
solito. Cena, Rosalie, tv, Edward. La mia monotonia era perfetta.
Speravo che tutto questo fosse normale, che questo fosse
finalmente il modo in cui tutto doveva andare. Tuttavia, una parte
della mia
mente non poté non chiedersi se questa non fosse
semplicemente la calma prima
della tempesta.
Ero
piuttosto stanca, ed evitai di
rimanere sveglia troppo a lungo.
“Resti
qui?”, gli chiesi come ogni
sera.
Annuì.
“Stasera soprattutto”.
“La
testa non mi fa più così
male”.
Non
volevo che si preoccupasse
troppo. Non che mi dispiacesse il fatto che sarebbe rimasto.
“Non
è solo questo. Ricordati che
sei sotto sorveglianza”, mi fece l’occhiolino.
“Oh, giusto”.
“E
in ogni caso, mi piace
guardarti dormire”, cercò di alleggerire
l’atmosfera. “Quindi ora dormi”, mi
sorrise e poi mi baciò la fronte.
“Ai
suoi ordini”, non potei
impedirmi di sorridere a mia volta, raggomitolandomi al suo fianco.
“Buonanotte”.
“’Notte”.
Con
il suono della sua voce, che
sembrava canticchiare una canzone, e la sua vicinanza, mi addormentai
velocemente. Questa volta, senza sognare.
“Sveglia,
sveglia!”, mi sentii
canticchiare all’orecchio.
Mugugnai
qualcosa di
incomprensibile, voltandomi dall’altra parte. Quel movimento
mi ricordò che
avrei dovuto sentire una fitta, che invece era scomparsa. Niente mal di
testa. Forse
la giornata incominciava con il piede giusto.
“Dai,
svegliati!”.
O
forse no.
“Alice”,
ruggii ancora con gli
occhi serrati.
“La
parola scuola ti dice niente? Forza,
sbrigati”.
Siccome
non accennavo a muovermi
di un millimetro, usò la parola magica.
“Edward
è in cucina che ti
aspetta, vuoi fare attendere anche lui?”.
Sorrisi
leggermente,
costringendomi con estrema fatica
ad
aprire gli occhi.
“Oh,
era ora. E adesso muoviti”.
Mi
lanciò quello che supponevo
fossero i miei vestiti e svanì nel nulla, come era arrivata.
Alzai
gli occhi al cielo. Indugiai
ancora qualche istante tra le coperte, ma alla fine riuscii a
strisciare giù
dal letto. Come mi dispiaceva abbandonarlo la mattina.
Evitai
di rovinarmi il buonumore
mattutino guardando la mia immagine allo specchio o i capi che Alice
aveva
scelto per me. Mi diressi verso il bagno, passandomi una mano tra i
capelli per
districarli. Una volta che ebbi finito di lavarmi, fui costretta ad
esaminare
il mio vestiario.
Ugh. Non potevo aspettarmi che Alice
avesse un minimo di buon
senso, ma l’avevo quantomeno sperato. Una lunga maglia di
cotone elasticizzato
nera, con piccoli dettagli bianchi e grigi, era la cosa che la mia
vista
sopportava con più facilità. Per quanto
riguardava la gonna… beh, quella era
un’altra storia. Ripescai velocemente i jeans del giorno
prima, rifiutandomi
categoricamente anche solo di immaginarmi con addosso quella.
Una
volta indossati i jeans, mi
infilai la maglia, arrangiandola in modo che non sembrasse troppo
elegante. La
ripiegai su se stessa, in modo che creasse una certa piega cadendo sui
pantaloni. Da quando ero diventata così attenta a questo
genere di cose?
Evitai
di rimuginarci sopra,
afferrando lo zaino e affrettandomi verso casa. Verso Edward.
“Buongiorno
a tutti”, mi annunciai
con un lieve fiatone.
Non
potevo negare di aver corso,
era evidente. Esme e Carlisle mi sorrisero gentili.
“Buongiorno,
El. Dormito bene?”.
Annuii,
guardandomi attorno.
“Sì,
grazie”, risposi con voce
assente.
Sapevo
che era scortese, e sperai
che non vi badassero troppo.
Esme
sorrise, notevolmente
compiaciuta.
“E’
in camera sua”.
A
stento trattenne una risata. Mi
sentii arrossire, e cercai la mia via di fuga.
“Ehm…grazie.
Vado”.
Mi
affrettai verso le scale,
salutando con un cenno Emmett e Rosalie, abbracciati teneramente sul
divano.
Non sembravano molto interessati alla tv, nonostante fosse accesa.
Intravidi
anche Jasper, che si
limitò a sorridermi cordialmente. Mi fece sentire in colpa,
ma evitai di
pensarci.
Probabilmente
mi aveva sentita
avvicinare, i miei passi erano molto più rumorosi di quelli
dei membri della
sua famiglia. Persino Emmett riusciva a creare meno scalpiccii di me.
Quando
fui appena a metà del corridoio, lo vidi fare capolino dalla
sua stanza.
Il
suo sorriso era vagamente
soddisfatto.
“Buongiorno”,
mormorò al mio
orecchio in meno di un battito di ciglia.
Sobbalzai.
Nonostante lo facesse
spesso, non riuscivo ad abituarmi alla sua velocità.
“Ciao”,
abbozzai frastornata.
Mi
baciò teneramente la fronte,
per poi prendermi per mano.
“Facciamo
colazione?”, propose.
“Facciamo?”.
Gli
scoccai un’occhiata scettica. Mi
sfiorò il collo con le labbra, percorrendolo nella sua
lunghezza.
“Se
non ti dispiace”, respirò a
contatto con la mia clavicola.
Lo
sentii sorridere mentre il mio
cuore effettuava il primo sprint della giornata.
Socchiusi
gli occhi, inarcando
leggermente la schiena. Il suo tocco sembrava lasciare fiamme sulla mia
pelle,
che si contrapponevano alla pelle d‘oca.
“Rientro
nella tua colazione?”,
scherzai, cercando di non apparire totalmente assente.
Si
ritrasse immediatamente,
lasciando solo la sua mano nella mia.
“Ovviamente
no. Mai”, sibilò tra i
denti, i suoi occhi ora seri e quasi congelati.
Io
e la mia boccaccia. Se solo ne
fossi stata in grado, mi sarebbe piaciuto tirarmi un calcio in faccia.
Mi
morsi la lingua, costringendomi
a non dire qualcosa che avrebbe potuto peggiorare la situazione.
Il
suo buonumore mattutino era già
sparito.
Sospirai,
rafforzando la stretta
delle nostre mani.
“Dai,
ora andiamo. Devi fare
colazione”, enfatizzò il
soggetto.
Annuii,
seguendolo lungo il
corridoio.
Notai
Alice osservarmi nello
specchietto retrovisore, un moto di disgusto sul suo piccolo volto.
Inarcai
un sopracciglio, dubbiosa.
“Quando
imparerai a vestirti
decentemente, sarà sempre troppo tardi”.
Mi
rivolse un’occhiataccia.
“Alice,
dalle un po’ di tregua”,
s’intromise Rosalie rivolgendomi un gran sorriso.
“Certo,
difendila sempre, tu”.
Ridacchiammo
entrambe alla sua
espressione indignata.
Tornai
ad osservare il paesaggio
fuori dal finestrino. La velocità era tale da non
permettermi di distinguere
quasi nulla. Per quella strana cittadina che era Forks, oggi era una
bella
giornata.
Il
cielo grigio permetteva di
scorgere un bagliore leggermente più intenso del solito
oltre la coltre di
nubi. Non era troppo umido, ma nemmeno secco. Chissà quanto
sarebbe durato.
“El?”,
il mio cervello registrò
l’enorme mano di Emmett dondolarmi davanti agli occhi.
“Terra chiama El?”.
“Okay,
è fatta. Chi le ha dato
troppo Tylenol ieri sera?”, rise alla sua stessa battuta.
Mi
ripresi, scuotendo leggermente la
testa.
“Piantala
Emm”, lo rimbeccò
Rosalie.
Ero
sorpresa di vederlo già fuori
dall’abitacolo, la sua enorme figura che incombeva su di me.
Non mi ero accorta
di essere arrivata a scuola.
Edward
si sporse verso di me,
spostando quel gigante dalla sua visuale.
“Tutto
okay?”.
“Mmm,
credo di sì”, abbozzai un
sorriso. “Solo un po’ stanca forse”.
Mi
offrì la mano, che accettai
subito. Ignorai la pelle d’oca che creò il
contatto, e ci incamminammo verso le
prime lezioni.
“Non
hai Matematica, tu?”, lo
fissai perplessa mentre mi seguiva nella classe di Spagnolo.
Le
espressioni dei miei compagni
erano le stesse, solamente più sorprese e sognanti. O
almeno, speravo di non
avere sempre quella espressione. Mi accompagnò in fondo alla
classe, dove
prendemmo due posti liberi. Ridacchiò del mio sguardo
confuso.
“Ricordi
venerdì, quando io e
Alice siamo andati in segreteria?”.
Annuii
velocemente, senza capire.
“Ecco,
abbiamo fatto dei cambi
strategici di orario”.
Sollevai
le sopracciglia.
“Non
capisco il perché”, ammisi sincera.
“Beh,
stavo solamente cercando di
starti vicino il più possibile”, mi sorrise.
“In ogni caso, adesso sei sotto
sorveglianza, quindi…”.
Sorrisi
ampiamente.
“Direi
che mi ci potrei abituare”.
Tuttavia,
non riuscii a non
lanciare uno sguardo malinconico al posto vuoto di Angelica.
La lezione trascorse
velocemente, e quando
alle mie orecchie giunse il suono insistente della campanella, seguito
dal
pesante strisciare delle sedie sul linoleum bianco, lanciai
più di un’occhiata
all’orologio alla parete. Da quando il tempo aveva messo il
turbo?
“Sopravvivrai
alla prossima ora?”,
mi chiese Edward una volta in corridoio.
“Suppongo
di sì, perché?”.
“Storia
è l’unica lezione che hai
da sola, la signorina Cope non ha potuto spostarti in un altro
corso”.
Sbuffai.
“Bene”,
mormorai con sarcasmo.
Eccoci qua! Questo capitolo
- come si capisce parecchio anche dal titolo - è un po' di
passaggio, "di pausa", se vogliamo chiamarlo così. Quei due
hanno bisogno di prendere un po' di fiato prima di farli cominciare a
preoccupare sul serio muhahaha. Ah niente, alla prossima settimana!
Godetevi le vacanze :)
Buonasera mondo! Ecco
l'aggiornamento come sempre. Come promesso, da qui iniziano gli
scossoni - sarà poi un crescendo fino alla fine muhahahaha.
Ok non so già più che dire ._. Ah niente, buon
capitolo! :) Fatemi sapere che ne pensate.
Capitolo
28.Morte.
La professoressa
continuava a spiegare ormai da più di
quaranta minuti, e a me sembravano trascorse ore. A volte desideravo
solo di
poter dormire in santa pace, senza aver paura di fare figuracce o
essere
rimproverata. Quell’ora, l’unica che avevo da sola,
sembrava non voler
terminare.
Ero praticamente
sdraiata sul banco, la testa appoggiata su
una mano che ormai non sentivo più. Con l’altra
scarabocchiavo su un piccolo
foglietto bianco con la matita - l’unica cosa che mi
impedisse di andare in
letargo seduta stante. Ogni tanto alzavo lo sguardo e lo dirigevo verso
il
grande orologio appeso alla parete di fronte a me, che sembrava
prendersi gioco
del tempo con le sue enormi lancette.
La prof
posò il suo sguardo su di me, per poi scivolare via
velocemente. Era una donna stramba; davvero, davvero
stramba. I capelli corti e ricci incorniciavano un viso minuto
solcato da piccole ma infinite rughe di un colorito più
scuro rispetto al suo
viso.
“La crisi
del ‘300…”, il suo monologo continuava
imperterrito.
Quella voce
così impassibile, così assolutamente noiosa mi
irritava. Sembrava aver voglia quanto me di starla a sentire.
“La peste
fu il colpo di grazia. Giunse intorno al 1348,
provocando la morte di quasi un terzo della popolazione in continue
ondate…”.
Guardai il resto
della classe – non c’era nessuno che la
stesse seguendo. Mi sfuggì un sorriso.
“Cambiò
radicalmente il modo in cui veniva concepita la
morte stessa. Vennero stravolti gli ideali cristiani: la morte non era
più una
casualità che apriva le porte al regno celeste, ma qualcosa
di comune e
inarrestabile, qualcosa da temere”.
Riportai gli occhi
sulla prof. La sua voce era cambiata,
animandosi un poco.
“Si
accentuò il sentimento dell’attaccamento alla
vita. La
morte era solo la fine, non più l’inizio di
qualcosa di più grande. Ed era
soprattutto una fine tastabile, visibile, qualcosa che poteva accadere
da un
momento all’altro.
“Questo
concetto, il concetto della morte, è differente da
quello dei giorni d’oggi. Oggi la morte è vista
più come…qualcosa di eccezionale,
un incidente, qualcosa che non dovrebbe succedere. Ognuno di noi sa
perfettamente che non è così, ma siamo portati a
crederlo, a considerarlo in
questo modo. La prima cosa che proviamo davanti alla morte di qualcuno
è la
sorpresa. Perché? Perché è accaduto?
Non sarebbe dovuto succedere. Sappiamo che
avrebbe potuto, perché è così che va
la vita, ma non siamo portati a pensarlo.
La società è cambiata radicalmente rispetto a
quella di allora. C’è chi
sostiene ancora che la morte sia un nuovo inizio, un modo per vivere
senza
temere nuovamente questa morte che ci spaventa da sempre, ma la maggior
parte
della gente possiede ancora l’attaccamento alla vita che
hanno sviluppato gli
europei del ‘300. Nessuno vuole morire, nessuno vuole perdere
quello che ha, perché
ha paura di quello che potrebbe trovare o di quello che, forse,
potrebbe non
trovare. Se siamo umani, la temiamo.
“Ma
dopotutto, ci basiamo sull’esperienza. Se le cose sono
andate così fino ad ora, chi può assicurarci che
sarà così per sempre? Persino
la morte, secondo questo punto di vista, potrebbe non essere
logicamente
necessaria”.
La campanella
smorzò il suono delle ultime parole della
prof.
“Bene, per
la prossima volta voglio un riassunto del
capitolo quindici e sedici, e rispondete alle domande in fondo alla
pagina”, la
sua voce tornò rapidamente il cupo sospiro annoiato di
sempre.
La stavo ancora
fissando ad occhi spalancati quando mi
accorsi che tutto intorno a me era di nuovo in movimento. Sedie,
banchi,
cartelle…cambio dell’ora. Il vociare dai corridoi
era forte, ma allegro.
Ero stupita. Non
credevo che una lezione di storia potesse
interessarmi. Avevo perso la cognizione del tempo.
Raccolsi le mie
cose, i miei movimenti lenti e ponderati
mentre riflettevo su quello che avevo appena finito di ascoltare. Ogni
singola
parola che aveva detto era vera. Al pensiero che potessi perdere la
vita
domani, o in un prossimo futuro, faceva rigirare il mio stomaco in modo
strano.
Forse perché ci ero andata vicina già una volta.
E poi le parole di Jacob tornarono
alla mia mente come un campanello d’allarme, premuto con
insistenza per
attirare l’attenzione – impossibile da ignorare.
“Aspettare
finché non
saranno gli Hoser stessi a…trovarla. E
trasformarla”.
Trasformarla. Sarei
morta. Non era una morte definitiva, ma
lo era abbastanza da spaventarmi.
Mi sarei
risvegliata, sarei rimasta la stessa di prima…più
o
meno. O almeno speravo. Dopotutto, non sapevo assolutamente come mi
sarei sentita,
cosa avrei provato. Sarei stata anche io come la peste? Una piaga da
cui
fuggire, impossibile da fermare?
No, Edward non me lo
avrebbe mai permesso. Ma cosa sarebbe
successo se non fosse andato tutto come doveva? Se qualcosa fosse
andato storto
e fossi morta realmente? Morta di una morte definitiva, assoluta. Non
riuscivo
a pensarci. Tutto sembrava programmato, già scritto in
quello che sembrava un
destino dotato di grande ironia. L’unica cosa che volevo era
vivere la mia
vita.
Perché
questa piccola, semplice e comune pretesa sembrava
così impossibile per me? Avevo fatto qualcosa di sbagliato,
rotto qualche
strano equilibrio tra mortale ed immortale? Questo strano destino mi
stava solo
prendendo in giro, o cercava di punirmi per qualcosa?
Così
tante domande…e nessuna risposta. Era così
frustrante.
Mi misi lo zaino in
spalla e abbracciai i libri. Mi diressi
verso la massa in corridoio, che sembrava sfrecciare a
velocità inumana.
Pensai ai Cullen, a
tutti loro. Apparivano felici, in
qualche modo appagati dalla loro bizzarra esistenza. Tuttavia, sapevo
bene che
avrebbero dato qualsiasi cosa per tornare umani ed affrontare la morte
che noi,
deboli umani, temevamo sopra ogni cosa. Rose mi aveva detto che la sua
vita, o
esistenza, era una favola, come la mia. Ma la sua non aveva un lieto
fine.
Nonostante lei amasse Emmett ed avesse una famiglia splendida su cui
contare,
avrebbe dato tutto, persino Emmett, in cambio del suo lieto fine
– la morte.
Quindi la mia favola
non aveva un lieto fine? Poteva averlo?
E soprattutto, lo volevo?
Il viso di Edward
sembrava galleggiare davanti ai miei occhi
mentre procedevo a passo lento verso la lezione successiva.
“Ehi”,
sentii la voce di Rose improvvisamente al mio fianco.
Mi guardai attorno
per capire come fosse riuscita ad
arrivare lì, tra tutta quella gente.
“Ehi”,
risposi con un attimo di ritardo.
“Edward mi
ha chiesto…”, abbozzò quasi imbarazzata.
“Di
scortarmi, sì ho capito”.
Sorrise leggermente,
abbassando lo sguardo.
“Com’è
stata la lezione?”.
Mi strinsi nelle
spalle, cercando di suonare disinteressata.
“Al
solito, niente di particolare”.
Mi sorrise di nuovo,
alzando lo sguardo verso il mio viso.
“Noiosa?”.
“No, non
direi”, ammisi. “Almeno non tutto il
tempo”.
Ridacchiò
al mio tono di voce e dopo fece una smorfia. La
guardai stranita.
“I tuoi
due amichetti ti vogliono salutare”, quasi ringhiò
attraverso i denti.
Sorrisi alla sua
espressione, voltandomi per seguire il suo
sguardo. Subito dopo sbuffai, alzando gli occhi al cielo. Ero certa di aver visto
Rosalie sorridere,
soddisfatta della mia reazione.
“Ehi,
Coop!”, guardai in cagnesco il ragazzo che si
sbracciava in mezzo al corridoio per farsi notare. L’istinto
mi consigliava di
voltarmi nuovamente e fare finta di non averli visti, ma ignorai quel
buon
suggerimento.
“Ciao
Dean”, mi fermai, cercando di sorridere.
“Peter”,
feci un cenno con il capo nel tentativo di salutare
il suo amico.
“Pensavo
che mi avresti ignorato e saresti scappata via”,
sogghignò compiaciuto.
“Lo
pensavo anch’io”, bofonchiai contrariata.
“Cosa?”,
chiese sporgendosi verso di me.
“Oh,
niente”.
Ripresi a camminare,
cercando di tenere il loro passo. Erano
così lenti, sicuramente non avevano paura di arrivare in
ritardo. O meglio, non
gli importava.
Alzai lo sguardo dal
pavimento per cercare Rose. Era andata
avanti, ma si era fermata per osservarmi. Ovvio che l’avesse
fatto – ero sotto
sorveglianza.
“Come mai
ieri non c’eri?”, chiese Morrison ad un tratto.
“Ehm…motivi
di famiglia”, abbozzai con un tono che non
ammetteva repliche.
Ovviamente, lui lo
ignorò.
“Cioè?”,
insistette alzando la voce per farsi sentire sopra
il baccano.
Mi voltai quanto
bastava per sfoderare un ghigno beffardo.
“Non sono
affari tuoi”.
Si
accigliò e il mio sorriso si tese ulteriormente.
Motivi di
famiglia…Beh,
in effetti si poteva anche considerare così. Era un problema
di tutti noi, tutta
la mia famiglia. Mi impedii di visualizzare nella mia mente il volto di
Claude,
che già minacciava di tornare a trovarmi questa notte.
Sospirai profondamente,
stringendo i libri contro il petto.
Sentivo Dean e Peter
ridacchiare sommessamente alle mie
spalle, i loro bisbigli chiari anche nella confusione del cambio
dell’ora. Tuttavia,
non riuscivo a distinguere cosa stessero dicendo. Aguzzai
l’orecchio, in cerca
di qualcosa in grado di distrarmi dai miei problemi. Trattenni il
respiro,
nella speranza di udire meglio senza il debole suono del ricambio
d’aria nei miei
polmoni. Niente, non riuscivo a sentirli.
Espirai
pesantemente, contrariata.
Non appena quel
pensiero colpì la mia mente, mi sentii
colpevole. Ascoltare i loro pensieri sarebbe stato come violare la loro
privacy, non potevo farlo.
Li sentii di nuovo
sghignazzare alle mie spalle e mi voltai
ad osservarli con sguardo curioso e in qualche modo colpevole. Trovai
entrambi
i loro sguardi su di me.
Mi voltai
immediatamente, riportando lo sguardo davanti a
me. Sentivo il mio viso leggermente più caldo nella zona
delle guance. Sperai
con tutte le mie forze di non essere arrossita. Stavano parlando di me?
Ero
abbastanza egocentrica da pensarlo. La mia curiosità era
stata violentemente
stuzzicata.
Cercai di
reprimerla, usando le scuse di cui ero provvista. Alla
fine, tuttavia, mi arresi alla curiosità.
Con un sospiro,
chiusi gli occhi e ricordai quello che avevo
messo in pratica il giorno prima.
“Un bel respiro,
raccogli e poi…lentamente”.
Mi risultava ancora
difficile trovare il mio scudo, ma ormai
sapevo come fare. Non era più difficile come prima. A poco a
poco, mentre
lasciavo andare con attenzione quello strano velo che mi ricopriva,
sentii come
dei piccoli bagliori accendersi sotto di esso.
Improvvisamente, la
confusione spacca timpani che
caratterizzava il cambio dell’ora sembrava essersi triplicato
nella mia testa.
Frenai l’istinto di portare le mani alle orecchie e smetterla
immediatamente.
Tutto era un susseguirsi di immagini, sfumature, parole assordanti.
Pensieri.
Mi concentrai sui
due piccoli fuochi alle mie spalle,
cercando di isolare tutto il resto.
-
Io l’avevo detto-.
Ascoltai con
attenzione, stringendo gli occhi nello sforzo. Non
mi ero sbagliata.
Nella mia mente si
susseguivano immagini diverse,
appartenenti a menti diverse, ma ero in grado di riconoscere a chi
appartenevano immediatamente. Repressi un ruggito quando mi ritrovai ad
osservarmi dalla loro prospettiva. Non mi piaceva il modo in cui
stavano
pensando.
- Guardala!-
-
Ti avevo detto che
era bella-
-
Amico, tu sei pazzo.
Hai visto come la guarda quel mostro di Cullen? Farai anche parte della
squadra
di football, ma non credo che la spunteresti.
Con la coda
dell’occhio li osservai mentre cominciavano a
spingersi.
-
Bella fiducia,
grazie mille!-
-
Di nulla, dovere-
Attraverso
quell’immagine notai me stessa passarmi nervosamente
una mano nei capelli – non me ne ero nemmeno accorta. Mi
voltai verso di loro,
palesemente irritata, salutandoli con un cenno stizzito della mano per
poi
dirigermi quasi di corsa verso Rose. Volevo sfuggire il prima possibile
a quei
due.
Come un elastico
troppo teso, il mio velo tornò al suo posto
appena gliene diedi l’occasione. La mia prima prova non era
andata granché a
buon fine.
Accelerai il passo,
stringendo con forza i libri contro il
petto e cercando di sfuggire a quella situazione imbarazzante il prima
possibile.
Trovai Rose davanti
alla porta della classe, un sorriso
compiaciuto stampato in faccia.
“Problemi?”,
ridacchiò senza preoccuparsi di nascondere la
sua soddisfazione.
“Al
momento solo quei due”, sospirai facendo un cenno sopra
la spalla.
“Vuoi che
me ne occupi?”, domandò innocente,
un’ombra
minacciosa nella sua voce.
“Grazie,
ma no grazie”, le rivolsi un breve sorriso.
“Dai,
entriamo che è già tardi”.
La
lezione durò fin troppo. A
qualche minuto dal tanto sospirato suono della campanella, mi accorsi
che il
mio stomaco reclamava a gran voce il pranzo.
Stupido, insistente, inopportuno stomaco.
Con
mio grande imbarazzo, mi resi
conto dall’espressione divertita di Rosalie, che tentava in
ogni modo di
mascherare la sua risata con dei deboli colpi di tosse, che se
n’era accorta. Eccome.
Alzai
gli occhi al cielo, cercando
per quanto mi fosse concesso di seguire gli ultimi minuti della
lezione.
Matematica era sempre stato un supplizio e ora, con il nuovo argomento
appena
iniziato, non sembrava essere migliorata. Finalmente, la campanella
suonò,
riempiendo l’aria di sospiri di sollievo e rumori di sedie.
Ora di pranzo.
Riposi
velocemente le mie cose
nello zaino e lo misi in spalla, dirigendomi a grandi falcate verso il
corridoio. Ero pronta a tuffarmi nella folla che confluiva verso la
mensa.
“Che
fai, non mi aspetti
nemmeno?”, sentii Rosalie chiamarmi.
Le
sorrisi, fermandomi sulla porta
per aspettarla. Il mio stomaco ruggì impaziente.
“Mmm”,
mormorò mentre
attraversavamo il corridoio affollato.
“Che
c’è?”.
“Niente,
pensavo che è strano che
oggi non ci sia il tuo amichetto appiccicoso, quello che ti insegue la
mattina…come si chiama? Duke?”.
Alzai
la testa di scatto,
voltandomi indietro e poi di nuovo avanti.
“Wow”,
ridacchiai. “Non me ne ero
nemmeno accorta”.
Ero
davvero distratta, forse
cominciavo a pensare troppo. Mi ero dimenticata di Tom?
L’insistente, sempre
presente Tom? Scossi la testa. Non lo credevo possibile. Quantomeno, mi
sarei
dovuta accorgere del sollievo dovuto alla sua assenza.
“Non
pensare troppo, altrimenti
rischi l’autocombustione”, mi prese in giro.
“Molto
divertente”, le mostrai la
lingua.
“Molto
maturo”, replicò lei.
Alzai
gli occhi al cielo,
accelerando.
“Okay,
ora vai pure al tuo
tavolo”, mi disse quando arrivammo in mensa. “Ci
vediamo dopo”.
“Certo”,
mormorai sarcastica.
“Come se avessi la speranza che mi perdiate di vista anche
solo un secondo”.
Rise
e se ne andò via, ondeggiando
con grazia fino al tavolo dove erano già tutti seduti.
Ricordai a me stessa di
non apparire troppo…sognante nel guardare Edward. Era
necessario che a scuola
non pensassero nulla su noi due. Così, mi limitai a fare un
cenno con la mano
verso il suo tavolo, sorridendo ampiamente.
I
suoi occhi mi studiarono, come
per assicurarsi che fossi ancora nello stesso stato in cui mi aveva
lasciata, e
poi mi sorrise. Quel
sorriso…prima o
poi sarei morta.
“El!”,
sentii una voce familiare,
ma del tutto inappropriata a quel luogo.
Una
voce che ricordavo solamente,
di cui non riuscivo a richiamare il viso… Mi voltai di
scatto, sbarrando gli
occhi in sorpresa.
“Mel!”,
quasi gridai.
La
osservai scioccata mentre
correva verso di me. Quando mi arrivò contro, quasi persi
l’equilibrio.
“Cosa…oddio
Mel! Cosa ci fai
qui?”.
Potevo
sentire le lacrime
gonfiarmi gli occhi, mentre il ricordo di quella sera tornava alla mia
mente.
Mi sentivo così stupida, così inutile. Come avevo
potuto scordare il suo viso? E
invece era lì, tra le mie braccia. I suoi occhi chiari mi
osservavano euforici,
i lunghi capelli rossicci che le coprivano in parte le guance. Mi
scostai da
lei, posandole entrambe le mani sulle spalle. Dovevo osservarla, ora
che
potevo. Avevo il terrore di poter dimenticare ancora il suo volto.
“Non
fare la solita sentimentale”,
mi canzonò divertita.
“Non
posso crederci”, mormorai
passandomi una mano tra i capelli. “Che diavolo ci fai
qui?”.
“Devo
andarmene?”, sollevò
entrambe le sopracciglia.
In
risposta, strinsi la presa
sulle sue spalle.
“Ok,
ok. Comunque anch’io sto
bene, grazie mille”, mi prese in giro.
“Sì,
lo so, scusami. Come stai? E’
solo che…non capisco”.
Ero
così confusa. Fece spallucce.
“Mmm,
niente di nuovo. A casa è
una noia, così quando ho sentito che i tuoi stavano venendo
qui, ho deciso di
fare un salto”.
“El,
chiudi la bocca”, ridacchiò
poco dopo. “Non è niente di che, sono io e sono
qui”.
“Niente di che”, ripetei
scettica. “Certo”.
“Dai,
raccontami qualcosa”, mi
trascinò al tavolo più vicino.
La
seguii come un automa, incapace
di capire cosa accadesse attorno. Tutto sembrava susseguirsi alla
velocità
della luce, senza darmi modo di accorgermene.
“Tipo…”,
riprese il discorso.
“Dimmi chi è quel pezzodi
ragazzo
laggiù che ti osserva come se avesse paura che ti
rubassi”.
Mi
ritrovai a sorridere. Non avevo
bisogno di voltarmi per capire di chi stesse parlando.
“Edward
Cullen”, mormorai, un po’
compiaciuta.
Il
mio sorriso si tese
ulteriormente. Pronunciare il suo nome, sapendo che era interamente mio, non era qualcosa a cui mi ero
abituata. Faceva sempre un certo effetto.
“Mmm”,
mormorò pensierosa.
“Qualcosa mi dice che hai uno scheletro
nell’armadio”.
Ridacchiai,
lanciando un’occhiata
a Edward dietro di me.
La
mia amica poteva sapere di noi
due? O rientrava negli “altri”?
Dopotutto,
Angelica sapeva che c’era qualcosa. Non poteva sapere tutto,
ovviamente – ma qualcosa
sapeva.
“No,
non…”, non conclusi la frase.
I
miei occhi si spalancarono non
appena registrarono l’espressione stampata sui visi dei
Cullen. C’era,
disprezzo, rabbi, indecisione – ma soprattutto paura.
Rosalie, Edward ed Alice
erano in piedi, rivolti verso di me, mentre Emmett e Jasper erano
seduti, con
il busto completamente girato verso il mio tavolo. Qualcosa, nelle loro
espressioni, mandò un brivido lungo la mia schiena.
Scoccai
a Edward uno sguardo
interrogativo, inclinando la testa di lato.
Perché
ora erano tutti così
all’erta? C’era qualcosa di cui preoccuparsi? O
forse… ma perché mai avrei
dovuto tradire il loro segreto, e esporli così al mondo? Se
non l’avevo fatto
fino ad ora, mi sembrava così inutile. Persino
all’inizio, quando la cosa mi
spaventava enormemente, sapevo di non poter raccontare di loro a
nessuno.
Quindi perché? Non ero così stupida. Tuttavia, la
loro posizione accucciata
sembrava consigliare alla mia mente un'altra ragione.
La
campanella cominciò a suonare,
riscuotendomi dalla mia catatonia. Mi voltai velocemente verso Melanie,
cercando di nascondere il mio sguardo spaventato.
“Quindi…Bella
Addormentata nel
Bosco, ti va ti saltare quest’ora e venire a fare un giro con
me? Lo so, lo so,
non è giusto e bla bla bla…però
è una vita che non passiamo del tempo insieme”.
Aprii
le labbra per parlare, ma
non uscì alcun suono. Avevo paura, questa volta veramente.
“Devo…devo
chiedere a loro,
sai…sono loro che mi riportano a casa”, riuscii a
farfugliare.
“Okay,
ma sbrigati. Non abbiamo
troppo tempo. Se il preside mi trova qui, mi sbatte fuori”.
La
mensa si stava svuotando
rapidamente, e ormai non c’era altro rumore che le commesse
pronte a ripulire i
tavoli. Osservai Edward e Rose scambiarsi una veloce occhiata e
annuire, per
poi dirigersi verso di me, seguiti da Alice e gli altri. Jasper rimase
protettivo
dietro Alice, i suoi occhi che analizzavano la figura seduta al tavolo
con me.
“Ehi,
strano il biondino lì”,
mormorò Mel. “Carino, ma strano”.
Annuii
senza pensarci granché,
alzandomi dal tavolo e indietreggiando di qualche passo. Sentii Edward
posarmi
una mano sulla schiena, e sospirai di sollievo.
“Vieni,
andiamo in classe”,
suggerì Emmett mettendomi un braccio intorno alle spalle. Il
tono della sua
voce era insolitamente serio e inquietante.
“Oh,
e dai! Solo un’ora, poi puoi
tornare benissimo a fare la brava scolaretta”.
“Mi
dispiace, ma non credo sia il
caso”, sibilò Edward tra i denti.
La
sua voce era gelida. Mi strinsi
a lui senza pensarci.
“Per
favore?”, chiese Mel,
insistente.
Tuttavia,
la sua voce era
cambiata. Mi accorsi con un brivido di ciò che stava
succedendo.
“No”, ringhiarono Edward e Rose
in sincrono.
Qualcosa
simile ad un ruggito
sembrò scuotere il suo petto.
“Oh,
beh”, ci sorrise. “Non
importa”.
Rabbrividii
di nuovo nel
riconoscere la crudeltà in quel sorriso. Quello non era
riuscito a cambiarlo.
“Vorrà
dire che tornerò a trovarvi
un’altra volta”, continuò. “E
magari la prossima volta riesco a portarti con
me”, si fermò ad osservarmi. “Fino ad
allora, arrivederci, signorina”,
mormorò prima di scomparire.
Sentii
il respiro mancarmi in
gola, e le gambe molli.
Mi
accorsi solo distrattamente del
ruggito soffocato di Emmett e Jasper, e dell’avvertimento
velato di Rosalie,
mentre Edward mi faceva sedere su una sedia.
“No”,
la sentii dire. “Noi non
possiamo renderci così visibili. Se spariste entrambi,
desteremmo troppi
sospetti”.
“El?”,
la voce di Edward era poco
distante da me, ma non riuscivo a capire da dove provenisse
esattamente. Tutto
girava troppo veloce.
“El,
calmati, è finita. Se n’è
andato”, cercò di tranquillizzarmi, sostenendomi
con un braccio.
A
poco a poco, tutto sembrò
stabilizzarsi e riprendere i propri confini.
Sollevai
lo sguardo, e trovai
Edward davanti a me, inginocchiato. I suoi occhi erano fiamme di rabbia
e odio.
Distolsi lo sguardo da quei due bracieri – mi spaventavano.
Appoggiai
la testa contro la sua
spalla, espirando profondamente.
“Ho
avuto paura”, mormorai a
fatica.
“Anch’io”,
mi strofinò il braccio
nel tentativo di calmarmi. “Anch’io”.
“Questa
volta ci è andato così
vicino…”, farfugliai, la mia voce rotta nei punti
più strani.
Regnò
il silenzio per qualche
lungo, interminabile istante.
“So
che non è il momento più
adatto, ma dovremmo andare a lezione”, s’intromise
Jasper.
Annuii
docilmente, alzandomi. Un’aura
di tranquillità sembrò avvolgermi e abbracciarmi.
Tentai di sorridere.
“Grazie,
Jasper”.
Questa
volta Claude ci era andato
così vicino… rabbrividii di nuovo.
TAN
TAN TAAAAAAAAAAAAAAAN!
Ve lo aspettavate?
Insomma, è un po' un casino.
Ci
tengo a dire che la parte iniziale - quella relativa alla lezione di
storia - mi sta parecchio a cuore dal momento che è "tratta
da una storia vera", ovvero la mia xD La mia prof di storia
è una donna meravigliosa, non credo di aver mai amato tanto
una materia(soprattutto se noiosa quanto può esserlo Storia
._. ) Insomma, quella lezione mi ha fatto riflettere parecchio, e forse
spero che lo faccia anche con voi, seppur in minima parte.
Detto
questo, non ho più niente da dire! Grazie come sempre alle
solite quattro o cinque disperate(lo dico con amore!)che si prendono la
briga di lasciarmi anche solo due righe, non sapete davvero quanto sia
importante per me. Eeeee poi basta, alla prossima! :*
Buongiorno!
Posto con un giorno d'anticipo perchè non ci sarò
questo
weekend, quindi non voglio farvi aspettare troppo. Questo capitolo
è piuttosto leggero, soprattutto in confronto al precedente
- mi
diverto troppo a far succedere casini xD Beeeh buon capitolo! :)
Capitolo
29. Famiglia.
Mi
sentivo quasi congelata mentre
osservavo Edward discutere con Carlisle al telefono su ciò
che era accaduto
appena qualche ora prima, troppo velocemente perché io
potessi capire. Sembrava
completamente assorto, nonostante continuasse a mantenere un braccio
intorno
alla mia vita e, occasionalmente, rafforzasse la sua stretta
– probabilmente a
seconda di cosa stessero dicendo.
Per
quanto mi riguardava, non
avevo la minima idea di cosa pensare. Sembrava quasi che il mio
cervello si
rifiutasse di stare al passo con gli avvenimenti, che continuavano a
susseguirsi senza rendere conto a nessuno.
“Quindi
cosa possiamo fare?”,
sentii Rosalie aggiungersi alla conversazione.
Grugnii
contrariata, alzando gli
occhi al cielo.
Avevo
ascoltato questa storia fino
all’inverosimile. Ero vicina all’esasperazione
ormai.
“El,
amore, va tutto bene ora”.
“Sì,
lo so”, bofonchiai
raggomitolandomi su me stessa.
“Allora
cosa c’è che non va?”.
“Vorrei
solo riuscire ad avere una
giornata normale”.
Non
chiedevo molto. Solo ventiquattro
dannatissime ore
senza strane creature pronte a saltarmi al collo alla prima occasione.
Era
troppo, forse?
“Mi
dispiace, El”, mi baciò la
fronte. “Davvero. Mi dispiace”.
“Per
cosa ti stai scusando ora?”.
Era
tutto il giorno che si scusava
con me per ogni genere di cosa. Se mi fosse caduto un fulmine in testa,
probabilmente si sarebbe assunto la colpa anche di quello.
“Per
impedirti di avere una vita
normale”.
Sbuffai.
Riusciva sempre a trovare
il modo di dare la colpa a se stesso.
Mi
alzai, dirigendomi verso il piano
di sopra.
“E
ora dove vai?”.
“A
cercare qualcuno meno
autolesionista di te”, mi sforzai di fargli una smorfia.
Il
mio viso sembrava ancora
paralizzato nella stessa espressione che avevo avuto in mensa, e non
ero
totalmente sicura di essere riuscita nel mio intento.
Ovviamente,
Rosalie mi seguì
qualche secondo dopo. Salii le scale velocemente, percorrendo il
corridoio a
grandi falcate. Indecisa su dove rifugiarmi, mi appoggiai semplicemente
al muro
più distante dall’ingresso. Qui era buio, la luce
del salotto non arrivava con
chiarezza, ma semplicemente sembrava filtrare e riflettersi grazie agli
oggetti.
Rosalie
si avvicinò di nuovo,
rimanendo però a distanza. Se non avessi realmente temuto
per la mia vita,
questa storia avrebbe potuto cominciare a darmi sui nervi. Forse lo
faceva già.
Non
avevo bisogno della
baby-sitter. E nemmeno del cane da guardia. Tuttavia, la cosa che
più mi
rendeva furiosa era tutt’altra. Era il fatto che Claude fosse
riuscito con
tanta facilità a penetrare nella mia
quotidianità, fingendo di farne parte e
prendendosi gioco di me. E io c’ero cascata. Non riuscivo a
capacitarmi di
quanto fossi stata stupida, di come gli avessi creduto immediatamente.
Melanie,
la mia amica Mel. Si era finto lei
per arrivare a me.
Da
un certo punto di vista, gli
ero grata. Ero grata a quell’orribile, psicotica creatura che
tanto voleva
portarmi via la vita perché grazie a lui, ora, ero riuscita
ad imprimere nella
mia mente il viso della mia amica.
Strano.
Non mi ero mai chiesta perché
le persone uccidono. Tutti, bene
o male, viviamo a contatto con questo genere di episodi. La
televisione, la
radio, i giornali ne sono stracolmi. Eppure, non mi ero mai interrogata
sulle
cause prima. Spesso si tende a concludere l’argomento con un
semplice “E’
pazzo”, come se bastasse a giustificare
l’avvenimento o per capire il perché di
tutto ciò. Qualcuno era stato disposto a fingere di essere
qualcun altro, solo
per tentare di uccidermi. In uno strano, stranissimo
modo, mi faceva sentire quasi importante. Valevo la pena di tutto
questo?
Questa finzione, questa continua protezione da parte delle persone che
mi
volevano bene?
Presi
un respiro profondo,
facendomi scivolare contro il muro con la schiena fino a toccare terra.
Quindi
– feci mente locale – un
vampiro assetato del mio sangue vuole uccidermi, e oggi ci è
andato molto più
vicino di quanto avessi mai voluto. In più, la mia famiglia
sta venendo qui.
Bene.
Perfetto. Fantastico.
Il
mio sarcasmo mi sconvolgeva. Ma
che diavolo avevo fatto per arrivare a tutto questo? Scossi la testa,
cercando
di calmarmi. Le mie mani tremavano per rabbia mista a paura.
“El”,
sentii Rose mormorare alle
mie spalle.
“Per
favore, Rose”, sibilai. “Per
favore, non ora”.
“Mi
piacerebbe poterti aiutare,
non sai quanto, ma mi sento inutile”.
Bene. Così eravamo in due.
La
fissai in cagnesco mentre
ignorava le mie suppliche e si avvicinava, la sua figura assurdamente
mozzafiato anche nella debole luce. Si inginocchiò davanti a
me, tendendomi una
mano e sfiorandomi la guancia con un polpastrello. Era umida.
“Dai”,
mi incitò, forzatamente
allegra. “Vieni in bagno che ti tolgo tutta quella roba che
hai in faccia”.
Mi
strofinai un occhio conil
dorso della mano, notando con una smorfia
le strisce nere di trucco che si era portato via.
“Mmm,
Alice è riuscita a beccarmi
stamattina”.
Afferrai
la sua mano e mi lasciai
trascinare in bagno.
Contro
ogni pronostico, il lento
processo di togliere e poi rimettere il trucco- qualcosa che avrei
evitato
volentieri- riuscì a calmarmi. Sembrava…normale.
Qualcosa di normale mi
serviva. Qualcosa di sicuro su cui poter contare, per quanto stupida o
insignificante
fosse.
“Va
meglio, ora?”, mi chiese
Edward non appena tornammo in salotto.
“Mi…”.
“Non
dire che ti dispiace. Non
azzardarti a dirlo”, lo minacciai con un mezzo sorriso,
puntandogli un dito
contro.
Sentii
Emmett ridacchiare
divertito alle mie spalle. Tornai a sedermi sul divanetto,
accoccolandomi al
suo fianco. Non disse nulla, si limitò ad affondare il viso
nei miei capelli e
cingermi con un braccio.
“Oh”,
sentii Rosalie mormorare.
“Che
c’è?”, domandai.
L’espressione
sul suo viso era
strana. Un misto di eccitazione e sorpresa. Rose si portò
rapidamente l’indice
davanti alle labbra, facendomi segno di stare zitta.
Inclinò
la testa da un lato,
socchiudendo gli occhi. Gli altri sembrarono tendersi allo stesso modo,
concentrati. Stavo per chiedere spiegazioni, quando Jasper
sembrò darmi la
risposta che cercavo.
“Sono
vicini”, sospirò forzando un
sorriso nella mia direzione.
Fissai
Emmett, e poi ancora
Jasper, incuriosita. Cosa, questa volta? Cosa stava succedendo? Avevo
quasi
timore di chiederlo. Poi notai l’espressione di Alice.
“Diavolo!”,
esclamò Alice,
seccata. “Come riesci a sopportarla?! È
impossibile riuscire a vedere qualcosa
in anticipo!”, puntò il piccolo pugno verso di me,
e poi verso Edward.
Sentii
le sue labbra tendersi in
un sorriso a contatto con i miei capelli.
“Non
è semplice come sembra”,
ridacchiò allacciandomi un braccio ai fianchi.
“Mi
spiegate che succede?”,
chiesi leggermente esasperata.
“Prometti
di non andare in panico
o niente del genere”, mi avvisò Rosalie scherzando.
Almeno
speravo stesse scherzando.
Mi
scostai da Edward quanto
bastava per fissarlo in viso. Premette le labbra insieme, beandosi
della mia
espressione scocciata. Perlomeno, sapevo che non era nulla di
preoccupante.
Nessuno mi avrebbe ucciso stasera.
“Oh,
come siete lunghi”, sbuffò
Emmett. “Pulce, mammina e papino stanno arrivando”.
Fissai
a lungo il ghigno
compiaciuto di Emmett, senza vederlo in realtà. Il mio
sguardo era perso nel
vuoto, come il mio cervello.
“Fra
quanto?”, sentii Esme
chiedere.
Sapevo
di dover portare lo
sguardo verso di lei ed ascoltare la risposta a quella domanda, ma non
riuscivo
a far altro che fissare; fissare un punto fisso e boccheggiare.
“Poco
più di cinque…sei minuti se
c’è il semaforo rosso”,
chiarì Jasper con voce sicura.
Come
potevano essere tanto certi?
Come potevano anche solo sentire le
macchine fino all’autostrada? Mi sembrava impossibile.
Totalmente, assurdamente
impossibile.
Alla
fine, riuscii a sbattere le
palpebre. Il mio corpo riprese a lavorare nel modo in cui avrebbe
dovuto,
carburando poco a poco. Mi passai una mano tra i capelli, spostandoli
nervosamente da un lato.
Il
braccio di Edward si strinse
attorno ai miei fianchi, ricordandomi la sua presenza.
“Sì,
io…lo so”, incespicai nelle
mie stesse parole nella fretta di farle uscire. “Credo solo
di essere un po’
nervosa”.
Udii
Rosalie borbottare a
proposito del mio “un po’”, ma cercai di
non badarci.
“El,
amore, andrà tutto bene. Non
devi essere preoccupata”, mi prese il viso tra le mani in
modo da piantare i
suoi occhi nei miei.
“Lo
so”, sospirai sentendo i
nervi allentarsi grazie al suo sguardo dorato.
“Sono
qui per te. Lo siamo
tutti”.
Sentii
Emmett sbuffare in un
angolo e lottai contro un sorriso.
“Sì,
anche Emm”, ridacchiò
Edward.
Alzai
gli occhi al cielo,
sospirando di nuovo.
“Spero
solo di piacere a tuo
padre”, mi abbagliò con un sorriso.
Avrei
voluto alzare di nuovo gli
occhi al cielo.
“Come
se tu potessi non farlo”.
“Tu
sei troppo di parte, il tuo
giudizio non conta”.
“E
di chi, allora?”, incrociai le
braccia sul petto, fissandolo in cagnesco. “E poi non hai
bisogno del giudizio
di nessuno”, brontolai prima che potesse rispondermi.
Sembrò
lottare contro un gran
sorriso che gli tendeva gli angoli della bocca.
“Sai
di essere più importante di
qualsiasi altra cosa al mondo per me, quindi non ti stupire se voglio
che con
te ci sia la persona giusta”, mi spostò una ciocca
dietro l’orecchio.
Abbassai
lo sguardo, un po’
imbarazzata. Poi la mia testa scattò nuovamente verso
l’alto.
“Come
sarebbe a dire la persona giusta?”,
domandai, la mia
voce stridula per l’irritazione.
Si
strinse nelle spalle,
minimizzando la cosa.
“Non
ti preoccupare, sono
abbastanza egoista da non volerti cedere a nessun altro. Mai”.
Gli
lanciai un’occhiataccia e
sostenni il suo sguardo.
“Lo
spero per te”, lo minacciai. “E
comunque”, addolcii il mio tono e lasciai cadere lo sguardo.
“Tu sei la persona
giusta”.
Mi
sembrò di sentirlo alzare gli
occhi al cielo.
“Non
sono nemmeno sicuro di
rientrare nella definizione”.
Questa
volta, fui io ad alzare
gli occhi al cielo. Poi tornai a fissarlo, inchiodando il mio sguardo
al suo.
“Senti,
Edward, credi quello che
vuoi. Ma io voglio te, qualunque cosa tu sia o faccia, per il resto
della mia
vita. La persona giusta posso lasciarla a chi ne ha davvero bisogno,
tipo Tom o
Morrison, ma non m’importa. E se solo pensi che-”.
Stavo
per dirgli una volta per
tutte che non m’importava, che poteva fare o essere quello
che più gli piaceva,
che non m’importava che fosse una creatura mitologica o un
mostro a tre teste,
io l’avrei voluto sempre e per sempre. Tuttavia, non riuscii
a terminare la mia
brillante arringa, perché mi mise a tacere con un bacio.
Non
fu come quello del giorno
prima, in cucina, ma piuttosto qualcosa di infinitamente più
dolce. Mi spostò
di nuovo i capelli, per poi accarezzarmi la guancia. Il mio cuore
sembrava aver
deciso di fuoriuscire dalla mia gola, e ogni battito sembrava
rimbalzarmi in
testa con la testa forza di un ariete. Come riusciva a farmi tutto
questo?
Sentii
un lieve colpo di tosse
alle mie spalle e Edward sorrise sulle mie labbra.
“Ti
amo”, disse fissandomi
intensamente negli occhi. “Davvero”.
Il
colpo di tosse successivo fu
più insistente, costringendomi a tornare al presente. Avevo
totalmente
dimenticato di non essere la sola al mondo in questo momento.
“Prendetevi
una camera”, brontolò
Emmett sottovoce.
“Chiudi
il becco, Emm”, lo zittii
senza staccarmi da lui.
Tuttavia,
fu Edward a scostarsi
da me, alzandosi in piedi e offrendomi una mano. Lo fissai per un lungo
istante,
perplessa.
“Apro
io”, sentii Esme offrirsi e
dirigersi verso l’ingresso.
Mi
congelai, guardandomi
disperatamente intorno. La preoccupazione, l’ansia che ero
riuscita ad arginare
ritornarono ad opprimermi in modo claustrofobico.
“Comincia
lo spettacolo”,
annunciò Emmett, sorridendo ampiamente.
Forzai
le mie labbra a formare lo
stesso sorriso ed afferrai la mano di Edward, ancora tesa verso di me.
Raccolsi
quel poco di coraggio che speravo di avere, inspirando profondamente.
“E
spettacolo sia”, mormorai
senza staccare gli occhi dalla porta all’ingresso.
Quei
brevi secondi, in cui
persino per me fu possibile sentire il ronzio del motore della Mercedes
di
Carlisle arrivare davanti a casa e parcheggiare, furono un piccolo
inferno
ghiacciato. Non potei fare a meno che osservare il modo in cui ognuno
di noi
prendeva posto, come in un campo di battaglia, e si preparava al
meglio. Eravamo
disposti in modo strano, fin troppo normale
per apparirmi così. Con me non avevano mai badato a
nascondere la loro natura,
così che ora i loro movimenti, piccoli spostamenti di peso o
battiti di ciglia
ravvicinati, mi sembravano innaturali e quasi sgraziati.
Esme,
davanti alla porta,
sembrava contare mentalmente quanti secondi mancavano a riabbracciare
Carlisle.
Le sorrisi, e strinsi la mano di Edward.
Sentii
distintamente le portiere
sbattere, e moltiplicai la mia stretta.
“Rilassati,
o ti farai venire un
infarto”, mormorò Edward al mio orecchio.
“Il tuo cuore sta volando”.
Annuii
in silenzio, ascoltando il
rumore dei passi che rimbombava nel porticato.
“Certo
che un posto peggiore dove
finire non poteva sceglierlo”, sentii una voce borbottare.
Il
mio respirò prese ad
accelerare non appena la riconobbi.
“E’
da quando siamo entrati in
questo schifo di stato che piove a dirotto”.
“Shh,
Sarah, per favore!”.
“Però
devo ammettere che la casa
ha il suo perché”, la sua voce mi
arrivò ovattata, ma chiara.
“Ti
ringrazio”, sentii Carlisle
commentare.
“Mi
dispiace, mia figlia…”, la
voce di mia madre salì di qualche ottava,forse per l’agitazione.
“Marie
non ti preoccupare”, ogni
passo più vicino alla porta sembrava aumentare il volume dei
miei battiti.
“Ora, invece, direi di entrare…piove davvero a
dirotto”.
Mi
concentrai sulla voce calma e
rilassata di Carlisle, mentre aspettavo che qualcuno bussasse alla
porta.
Quando sentii quel suono, Edward mi strinse la mano, per poi lasciarla
andare.
Stavo
per chiedergli il perché,
quando notai il pomello della porta ruotare sotto la spinta di Esme.
Fu
diverso da quando avevo
rivisto mia madre. L’altra volta ero corsa ad abbracciarla,
senza nemmeno
riuscire a pensarci. Questa volta camminai lentamente, ponderando ogni
singolo
passo e sguardo verso di loro. L’effetto sorpresa aveva
probabilmente un
risultato migliore su di me. Mentre mi avvicinavo, non riuscivo a
staccare i
miei occhi dai loro. C’era sorpresa, insicurezza, sollievo e,
per quanto mi
sembrava, felicità.
Sorrisi
a mia madre, giungendo
finalmente davanti a lei.
“Ciao,
mamma”, sorrisi
debolmente.
Piccole
lacrime paffute
cominciarono a gonfiarle gli occhi e strinsi la sua mano tra le mie. Mi
voltai
verso mia sorella, cercando di mascherare la mia felicità
nel vederla. Non era
da noi mostrare l’affetto che avevamo l’una per
l’altra, nonostante entrambe lo
sapessimo perfettamente.
Era
cresciuta. Non molto, ma
abbastanza da poterlo notare. I suoi lunghi capelli castani formavano
boccoli
più lunghi, ricadendo quasi a metà della sua
schiena. La sua corporatura era
quella di sempre, solo più longilinea, mentre il viso
appariva meno rotondo e
infantile. Ormai non era molto più bassa di me
“Ehi”,
mi salutò con un sorriso,
osservandomi con i suoi grandi occhi marroni.
Le
sorrisi ampiamente,
abbassandomi quanto bastava per stringerla in un abbraccio e tentare di
sollevarla. Ovviamente, non me lo permise.
“El,
mollami!”, ridacchiò
allontanandosi. “Sei sempre la solita”, mi
fissò fingendo un’espressione
scocciata. “E poi guarda fuori, c’è il
diluvio. Solo con la tua sfortuna
saresti potuta finire in un posto del genere”.
“Anche
tu mi sei mancata”, la
interruppi con una smorfia.
“Sì,
anche tu”.
Il
mio sorriso si tese
ulteriormente mentre mi voltavo verso mio padre.
Mio
padre – il mio grande eroe,
quello che fin da piccola avevo ammirato e assillato con le mie domande
senza
fine, che mi aveva sempre accontentata e rassicurata. Osservai la sua
figura a
lungo, risalendo lentamente dal suo busto fino a raggiungere le spalle
e poi il
viso. Quando lo raggiunsi, il mio sorriso s’incupì
un poco. La sua espressione
era dura, lo sguardo severo e quasi arrabbiato. Le braccia incrociate
sul
petto, le mani strette in pugni, sembravano un chiaro indizio della sua
rabbia.
Gli posai una mano sul braccio, cercando di sostenere il suo sguardo.
“Papà,
io…”.
Sapevo
perfettamente perché ce
l’aveva con me.
Un
flash di indecisione passò
velocemente dietro i suoi occhi, per poi tornare la maschera di prima.
Scoccai
un’occhiata veloce dietro di me, cercando Edward. Mi
annuì, incoraggiandomi.
Tornai a fissare mio padre. Presi un respiro profondo, sperando che la
mia voce
non si spezzasse.
“Mi
dispiace”, riuscii a dire,
abbassando lo sguardo.
Scosse
la testa, mettendomi
entrambe le mani sulle spalle.
“No”,
la sua voce uscì quasi
strozzata. “Prima ho bisogno
che tu
mi dica perché non ci hai chiamato, perché non ti
sei fatta sentire tutto
questo tempo. Ho bisogno di saperlo, perché io ti credevo
morta e tu non hai
avuto il minimo riguardo di avvisarci, dirci almeno che respiravi
ancora. Non
hai idea di cos’hai fatto passare a tua
madre…”.
Fissai
i suoi occhi stringersi
nel vedere i miei diventare umidi. Niente lo spaventava quanto le
lacrime.
Non
riuscivo a far altro che
guardarlo negli occhi. Non sapevo cosa rispondergli, perché
nemmeno io avevo
idea di cosa fosse successo in quegli ultimi mesi. Ogni volta mi
colpiva come
un treno in piena corsa; come avevo fatto a dimenticarmi di loro? Non
erano
scomparsi dai miei pensieri, erano semplicemente passati in secondo
piano. Sapevo
che la spiegazione a tutto ciò era esattamente alle mie
spalle, e in questo
momento stava osservando attentamente come i miei respiri accelerassero
in un
silenzio che minacciava di diventare assordante. Tuttavia, non riuscivo
a
capire come fosse possibile.
“Scusami”,
farfugliai mentre
stringevo le braccia intorno al suo busto.
Rimase
rigido per qualche
secondo, nel quale temetti di venire respinta, ma poi lo sentii
sospirare
pesantemente e, l’istante dopo, le sue braccia mi strinsero
in un abbraccio che
non avrei scambiato per nulla al mondo.
“Non
farmi mai più una cosa del
genere”, mi baciò la fronte.
Sentii
mia madre al mio fianco
posarmi una mano sulla spalla.
“Grazie”,
mormorò a qualcuno.
“Ancora. Grazie per esservi presi cura di lei”.
“Sì,
per tutto”, le fece eco mio
padre.
La
sua voce rimbombò con forza
contro il mio orecchio, appoggiato contro il suo petto.
“Carlisle,
ti prometto che ti
restituirò tutto non appena…”.
“Non
credo sia questo il momento
di cui parlarne, Michael. Goditi la tua famiglia, ora”.
Oooh
la famigliola felice è tornata insieme, yay! Fossi stata il
padre di El non so se l'avrei perdonata così facilemente ._.
però in effetti bisogna capirla, con tutto quello che le
è capitato magari cambiano anche le priorità
xD Beeeh divento
noiosa dopo un
po' a ringraziarvi sempre, però grazie alle solite: Paola,
Jen, Giada(anche se ora sei in vacanza e sei sparita! D:) e
Giò principalmente - che ci sono sempre e non so come farei
senza i vostri commenti - e poi tutte quelle che lasciano anche solo
due righe occasionalmente. Ok queste note finali stanno diventando
troppo lunghe. Buon weekend a tutti e alla prossima! :)
Buon pomeriggio. Ho
deciso di aggiornare oggi - nonostante l'enorme anticipo -
perchè domani parto e conoscendo la mia sfiga generale la
connessione non funzionerà. Quiiiiindi ho pensato che forse
è meglio assicurarvi l'aggiornamento. Spero che vi piaccia,
e quasi credo che lo farà. Se siete per Edward potrebbe
essere di vostro gradimento questa parte u.u Vabbè basta,
buona lettura :)
Capitolo
30. Pronta.
“Incredibile”,
sentii mia sorella
mormorare. “Questo posto è incredibile!”.
Annuii
senza prestarle molta
attenzione. Fissavo in silenzio la piccola casa che sembrava sbucare
dal nulla,
sul limitare della foresta, da circa un minuto intero. Avrei potuto
giurare che
non ci fosse nessuna casa lì
fino al
giorno prima…
Mi
ripresi dallo stupore solo per
lanciarle un’occhiata beffarda.
“Schifo
di posto, eh?”, le diedi
una leggera spinta.
Si
strinse nelle spalle.
“Schifo
di tempo? Sì. Schifo di
posto? Anche. Ma la casa…”, sembrò
cercare la parola più adatta. “Assurda”.
Non
potei impedirmi di suonare un
po’ compiaciuta.
“Già.
E riguardo al tempo, ti ci
abituerai”.
“Mmm”.
Fuori
dalla macchina faceva
freddo e mi strinsi nella giacca.
Emmett,
Rose, Alice e Jasper
avevano preferito rimanere a casa, mentre noi – divisi tra la
macchina di
Edward e quella di Carlisle – ci eravamo diretti verso casa. Non avrei mai potuto immaginare di
trovarmi davanti a
un’abitazione del genere. Sembrava sorgere direttamente
dall’ambiente
circostante, fondendosi con la foresta in perfetta armonia. Non
appariva
grande, ma avrei potuto giurare che all’interno ci fossero
più stanze di quanto
immaginassi. Le tinte erano chiare, simili a quelle di casa Cullen, ma
più accese.
Osservai
l’auto di Carlisle
accostare appena dopo la Volvo sulla quale eravamo arrivati. Il ronzio
del
motore cessò velocemente, per poi lasciare spazio ai
mormorii striduli ed
entusiasti di mia madre.
“Non
è possibile!”, squittì.
“E’
splendida”.
Edward
si voltò verso di me, per
poi sorridere. Sembrava soddisfatto anche lui.
Mia
madre quasi corse verso
Edward per abbracciarlo. L’espressione stupita sul suo viso
era probabilmente
la fotocopia della mia. Ci scambiammo uno sguardo confuso e al tempo
stesso
divertito.
“Grazie”,
disse mia madre. “Non
ci posso credere”.
“Non
deve ringraziare me”.
Sarah
mi lanciò un’occhiata
esasperata. Tuttavia, riuscii a notare l’eccitazione dietro
quell’espressione.
“Volete
entrare?”, propose
prontamente Esme.
“Ovviamente
sì”, si affrettò a
dire mia sorella, salendo gli scalini e arrestandosi davanti alla
porta,
impedendo a sé stessa di saltellare sul posto per
l’eccitazione.
“Esme,
chi ha progettato questa
casa? Davvero, è magnifica”, domandò
mia madre, curiosa.
Sorrise
ampiamente, piuttosto
compiaciuta.
“Non
saprei, l’abbiamo comprata
anni fa perché ci era sembrata splendida, non abbiamo fatto
altro che
arredarla”.
Trattenni
un sorriso.
Probabilmente Esme si era fatta aiutare da Emmett a costruirla, e
questo al
massimo ventiquattro ore prima.
Ci
incamminammo lentamente verso
l’ingresso, sobbalzando tutti – o quasi –
al tintinnio delle chiavi che si avvicinavano
alla porta.
“Ci
siamo”, squittì mia madre
entusiasta.
Mio
padre mi appoggiò una mano
sulla spalla, abbozzando un sorriso quando lo fissai in volto.
La
serratura scattò velocemente.
“Tocca
a voi aprirla ora”, ci
invitò Carlisle.
Non
avevo pensato che una casa
potesse essere bella quanto la villa dei Cullen. Questa, in uno strano
modo, lo
era. Era più piccola, più famigliare ed
accogliente, ed i toni chiari alle
pareti riuscivano ugualmente a trasmettere calore. Alcuni quadri, che
ero
sicura di aver già visto nel garage, erano appesi con
infinita precisione ai
muri. I mobili in legno apparivano moderni e semplici, ma avevano al
tempo
stesso un aspetto antico e prezioso. I loro toni scuri contrastavano
con il
colore delle pareti, ma creavano un’armonia perfetta con
tutto il resto. Nulla
sembrava stonare.
“Questo
è…”, annaspai per trovare
la parola più adatta.
“Ti
piace?”, chiese Edward alle
mie spalle, un gran sorriso nella sua voce.
Annuii
con gli occhi sgranati,
incapace di rispondere.
“Sarah,
vorresti vedere la tua
camera?”, lo sentii proporre.
“Subito!”,
fu la replica di mia
sorella.
Mi
sentii afferrare per un gomito
e notai che Sarah si era prontamente aggrappata alla mia giacca. Quando
fu
certa che la stessi seguendo, lasciò la mia manica e
sfrecciò verso il piano di
sopra.
Edward
ridacchiò, prendendomi per
mano non appena fummo fuori portata dagli altri.
“Non
dovreste fare tutto questo”,
gesticolai con la mano libera indicando la casa.
“No,
non dobbiamo, ma lo facciamo
ugualmente”, mi sorrise gentile, stringendomi a sé.
Il
corridoio ricordava vagamente
quello di casa Cullen, così mi diressi decisa verso quelle
che supponevo
fossero le camere da letto.
“El!
Guarda qui!”, sentii Sarah
quasi gridare. “Una stanza tutta per me!”.
Soppressi
una risata, scuotendo
la testa divertita. Edward si fermò, bloccando il mio
braccio e tutto ciò che
vi era collegato con lui.
“Questa è la tua
stanza”, indicò con indifferenza la porta alle sue
spalle.
“Oh,
okay”.
Una
stanza tutta per me. Anche
qui.
“Stavo
pensando”, dissi
tamburellando con le dita sul suo braccio. “Che cosa ne
sarà del garage? Mi
mancherà”.
“Credo
che qualche volta tu possa
passare una notte da Rose”, mormorò avvicinandomi
a lui.
“Mmm”,
bofonchiai distratta
mentre il suo viso si faceva sempre più vicino al mio.
“Magari
potreste invitare anche
me”, sorrise sulle mie labbra.
“Buona
idea”.
Le
sue labbra toccarono le mie
una, due, tre volte teneramente, per poi spostarsi sul mio collo.
Sobbalzai impercettibilmente
alla sua temperatura, e lo sentii sorridere. Mi faceva sentire un
po’
colpevole, baciarlo lì, in casa, senza che i miei genitori
ne avessero la
minima idea. Non che avessi intenzione di informarli, ovviamente.
Tra
il rumore assordante dei miei
battiti, riuscii a distinguere alcune voci che si avvicinavano alle
scale.
Edward si ritrasse, toccando di nuovo le mie labbra con le sue per poi
appoggiarsi contro il muro con fare disinteressato.
Il
secondo dopo, mio padre sbucò
dal piano di sotto. Ci osservò con aria dubbiosa, scoccando
un’occhiata piuttosto
indispettita verso Edward. Molto…paterna. Non
l’avevo mai visto comportarsi in
quel modo. Forse anche perché non ce n’era mai
stato bisogno.
Abbassai
lo sguardo in silenzio,
contemplandomi i piedi.
“Papà!
Guarda la mia stanza!”,
esclamò prontamente Sarah, togliendomi dal grande imbarazzo.
Con
un’ultima occhiata
sospettosa, mio padre si allontanò a grandi falcate.
Sospirai di sollievo,
appoggiandomi al muro al fianco di Edward.
“Questo
risulterà più difficile
d’ora in poi”, borbottai senza nascondere il mio
tono dispiaciuto.
“Decisamente,
ma non è detto che
non sia divertente”.
Divertente? Lo adocchiai dubbiosa.
Si
strinse nelle spalle, senza
darmi una risposta a parte il suo splendido sorriso truffatore.
Quella
sera, mangiammo tutti
insieme qui in casa. Ci raggiunsero anche Rose e gli altri,
probabilmente
piuttosto a malincuore sapendo a cosa andavano incontro. La cena non
doveva
entusiasmarli particolarmente, o almeno la cena
intesa come pasto con cibo solido. Fortunatamente, questo posto
sembrava meglio
fornito in quanto a risorse alimentari. Per più di una
volta, quella sera,
osservai i Cullen, chiedendomi dove andasse a finire tutto quel cibo.
Non
credevo di voler sapere la risposta. Non sembravano disgustati dai
piatti sulla
tavola, nonostante sapessi quanto in realtà il cibo umano
fosse per loro
qualcosa di rivoltante.
Ogni
tanto, lanciavo un’occhiata
verso i presenti a tavola e mi accorgevo di qualche smorfia, per la
quale
riuscivo a stento a trattenere un ghigno. Tuttavia, finsero con
mirabile
destrezza di apprezzare il pasto. Oltre a questo, la cena ed il resto
della
serata trascorse in tutta tranquillità, tra chiacchiere
rilassate e qualche
scambio di battute. Mio padre sembrava aver fatto subito amicizia con
Carlisle,
mentre mia sorella sembrava avere una sottospecie di forma di
adorazione per
Alice.
“Ehi,
Edward! Avresti potuto
portare Sarah a casa, invece di El!”, mi mostrò la
lingua, per poi ridere della
sua stessa battuta.
Le
feci una smorfia.
“Tutto
sarebbe stato molto più
divertente”, cinguettò mentre
volteggiava attorno a mia sorella con il metro in mano.
Aveva
deciso di disegnarle un
vestito, a quanto pareva. Sorrisi all’espressione estatica di
Sarah. Forse non
mi sarei sentita troppo in colpa per averla portata via da Miami. Forse.
Più
di una volta, mi accorsi delle
occhiate che i miei genitori alternavano in perfetta sincronia tra me
ed
Edward. Ormai non avevo più dubbi che, nonostante quella
sera ci fossimo
evitati quasi completamente e sedessimo ben distanziati l’uno
dall’altra, mia
madre avesse sputato il rospo non appena le si era posta
l’occasione. Non
potevo fargliene una colpa, ma non potei impedirmi di sbuffare
piuttosto
pesantemente. Oltre ad essere sotto sorveglianza, ora avrei avuto
costantemente
gli occhi puntati addosso.
Quel
pensiero mi riportò
controvoglia a ciò che era accaduto appena qualche ora
prima. Il clima che
aleggiava in casa era totalmente diverso, come se fossi stata
catapultata da
un’altra parte, dove tutti quei problemi non sembravano
esistere. Doveva essere
così – la mia famiglia non doveva sospettare
nulla, altrimenti i Cullen
avrebbero rischiato di rivelare il loro segreto, esponendoli
così ad ulteriori
problemi e pericoli. Tuttavia, in quel momento, non riuscii a non
sentirmi
felice. Almeno un po’.
Tutte
le persone a cui volevo
bene erano qui con me, finalmente insieme.
Mi
passai una mano tra i capelli,
spostandoli da un lato. Edward, seduto sulla poltrona più
lontana da me, mi
adocchiò incuriosito. Sapeva che era qualcosa che facevo
solo quando ero
nervosa.
“Beh”,
annunciò Carlisle. “Direi
che ormai è ora di andare a dormire”.
Io
e Rose ci scambiammo un
sorriso complice.
“Dovete
essere piuttosto
stanchi”, disse alzandosi dal divano.
“Domani
sarà una giornata impegnativa”,
gli fece eco Esme. “Saremo qui in mattinata per aiutarvi a
disfare i bagagli e
mettere in ordine, se avete bisogno”.
“Grazie
mille”, rispose mia
madre. “Non riesco ancora a capire come possiate essere tanto
gentili. È
sovrumano”.
Il
sorriso di Esme assunse una
piega amara.
“Buonanotte
a tutti, è stato un
piacere”, si affrettò a dire Jasper.
Ci
rivolse un sorriso gentile,
per poi dirigersi verso la porta, seguito a ruota da Emmett e Alice.
“Sarah,
ci vediamo domani, non
dimenticartelo”, cinguettò entusiasta Alice prima
di uscire.
“Buonanotte
anche a te, Alice!”,
alzai la voce, imprimendo tutto il mio sarcasmo in quelle poche parole.
La
sentii ridere.
“’Notte!”,
gridarono lei e Emmett
insieme.
Sorridendo,
mi diressi verso
Rosalie per salutarla.
“Ci
vediamo tra meno di dodici
ore”, disse quando non accennai ad allontanarmi dal suo
abbraccio.
“Lo
so”, ridacchiai.
“Buonanotte,
El”.
“’Notte,
Rose”.
La
osservai uscire di casa,
seguita da Esme e Carlisle. Dietro di loro, anche Edward. Trattenni a
stento un
ghigno quando alternò lo sguardo tra me e mio padre,
visibilmente indeciso su
cosa fare.
“’Notte,
Edward”, decisi io per
lui.
Strinse
le labbra, salutandomi
semplicemente con un gesto della mano.
“A
domani, ragazzo”, disse mio
padre, invitandolo ad uscire e decretando così la fine della
sua permanenza in
casa nostra. Sembrava piuttosto stizzito.
“Ciao
Edward, grazie ancora”,
cantilenò mia madre, addolcendo il saluto.
La
porta si chiuse prima di darmi
il tempo di guardarlo un’altra volta. Sospirai, alzando gli
occhi al cielo.
“Di
questo dobbiamo discutere”,
minacciò mio padre.
“Dai,
Michael. Non essere così
burbero”, lo canzonò mia madre.
Decisa
a non rischiare eventuali
prediche o discorsi imbarazzanti, cominciai a dirigermi verso il piano
di
sopra.
“Dove
credi di andare,
signorina?”, mi sentii chiamare.
Accidenti.
“A
dormire?”, suonai indecisa
mentre ero restia a voltarmi verso i miei genitori.
“Non
si saluta più?”, mi rimbeccò
mio padre con dolcezza.
Sospirai
di sollievo. Forse per
oggi sarei riuscita ad evitare quel genere di conversazione.
“Va
bene che non ti sei fatta
viva per mesi, però le buone abitudini non si dovrebbero
perdere mai”.
“Ho
detto che mi dispiace”, mi
scusai ancora, avvicinandomi ai miei.
“Lo
so, e non sto facendo niente
per ribadire quanto tu ci abbia fatto stare in pensiero”,
sogghignò
abbracciandomi.
“Certo,
certo. Non lo stai
facendo”, alzai gli occhi al cielo con un mezzo sorriso.
“Buonanotte, papà”,
aggiunsi stampandogli un bacio sulla guancia. “Buonanotte,
mamma”, allungai il
braccio intorno alla sua spalla.
Mi
scostai da loro, per poi
dirigermi nuovamente al piano di sopra.
“’Notte,
Sarah!”, gridai per
farmi sentire, ormai in cima alle scale.
Quasi
corsi in camera mia,
catapultandomi verso la finestra e aprendola di scatto completamente.
Inspirai
a pieni polmoni, sporgendomi oltre il bordo per osservare la notte. Mi
ritrovai
a sorridere, e scossi la testa rientrando in camera. Come potevo
sentirmi così
felice, nonostante tutti i problemi? Mi sembrava sbagliato. Eppure non
riuscivo
a sentirmi diversamente. La consapevolezza di avere la mia famiglia al
piano di
sotto riusciva a creare in me una felicità schiacciante,
quasi opprimente.
Tamburellai
con le dita sul bordo
della finestra, per poi raccogliere le mie cose e andare in bagno.
Nonostante
fosse tardi, decisi di farmi una doccia calda per cercare di calmarmi.
Mi
sentivo come se avessi bevuto troppi caffè. Ero iperattiva,
e sicura che, se
non fossi riuscita a tranquillizzarmi almeno un po’, non
avrei chiuso occhio
questa notte.
Sembravo
non riuscire a pensare
ad altro che a Claude. Era vicino, più di quanto mi piacesse
e di quanto avessi
immaginato. Non potevo permettere che la mia famiglia ci andasse di
mezzo.
Rabbrividii,
nonostante il vapore
caldo della doccia mi avvolgesse ancora.
Non
l’avrei permesso. Se Claude
cercava me, avrebbe trovato ciò che voleva. Non mi sarei
nascosta. Avrei fatto
qualunque cosa per tenere al sicuro le persone che amavo, e non solo
quelle con
un cuore che batteva. Dopotutto, avevo a disposizione dei poteri. Non
avevo
ancora idea di come ci sarei riuscita, ma dovevo imparare ad usarli,
qualunque
cosa fossero. Avrei chiesto aiuto ad Alice, o anche Emmett, se Edward e
Rose si
fossero opposti. Non potevo sopportare l’idea di perderli,
nemmeno uno di loro.
Passai
un’ultima volta la
spazzola tra i capelli, sospirando pesantemente. Lanciai
un’occhiata alla mia
immagine riflessa nello specchio, per poi tornare in camera.
Il
secondo dopo, mi ritrovai con
la schiena contro la porta chiusa alle mie spalle.
“Starti
lontano troppo a lungo mi
uccide”, mormorò Edward allungando le braccia ai
lati della mia testa,
impedendomi ogni via d’uscita.
“Sappi
che è qualcosa che non ho
intenzione di rifare”, aggiunse, la sua bocca al mio
orecchio. Rabbrividii appena.
“Mh-mh”,
bofonchiai confusamente,
giocherellando con una sua ciocca di capelli e sperando con tutto il
cuore di
non andare in iperventilazione.
Percorse
l’incavo del mio collo
con le labbra, lasciandomi piccoli brividi. Chiusi gli occhi, forzando
un
respiro profondo nei miei polmoni.
“Edward”,
lo chiamai con un filo
di voce.
“Mmm”,
mi rispose, sfiorandomi il
profilo della mascella con la punta del naso.
Mantenere
la concentrazione stava
diventando davvero difficile a quel punto. Sentii la punta della sua
lingua fredda
tracciare un breve tratto sul mio collo, e mi sembrò che le
mie gambe si
trasformassero in gelatina.
“Voglio…devo
parlarti di una
cosa”, cercai di suonare decisa mentre sentivo ogni tipo di
volontà venire
meno.
“Di
che cosa, esattamente?”,
sorrise sulla mia pelle, senza accennare a muoversi.
Dovetti
utilizzare tutta la mia
forza di volontà per trovare la forza di posargli entrambe
le mani sulle spalle
e cercare di spostarlo. Sospirò pesantemente, ma mi
lasciò fare.
“Ecco…voglio
che tu mi insegni ad
usare i miei poteri”, studiai la sua espressione mentre
speravo che non mi
rispondesse come sapevo che avrebbe fatto.
“El”,
mi rimproverò con
un’occhiata esasperata.
Non
avevo sbagliato. Il suo
sguardo si raffreddò di colpo.
“Non
voglio che Claude si
avvicini più di quanto non abbia già fatto alla
mia famiglia. E se vuole me,
beh allora andrò da lui”.
“No”,
ringhiò tra i denti. “Sai
che ti ucciderebbe”.
Alzai
gli occhi al cielo.
“Ed
è proprio per questo che mi
serve che tu mi aiuti. Se non lo farai, chiederò a Alice o
Emm. Volevo solo che
tu lo sapessi prima”.
Sembrò
faticare a reprimere un
ruggito.
“Tu
non capisci”, mormorò dopo
qualche attimo di silenzio, lasciando cadere le braccia sui fianchi e
liberandomi dalla sua morsa.
La
sua espressione triste mi
sconcertò.
“Allora
spiegami”, allungai la
mano per raggiungere la sua.
Scosse
la testa, per poi fissarmi
negli occhi con un’espressione scoraggiata e fiera allo
stesso tempo.
“Non
posso perderti”, disse fra
i denti. “Non posso nemmeno rischiare di
perderti. Il solo pensare di non averti
più…”, chiuse gli occhi, scuotendo
lievemente la testa come a scacciare il pensiero.
Strinsi
la sua mano, prendendola
tra entrambe le mie e portandola contro il mio petto.
Sospirò
pesantemente, per poi
tornare a fissarmi.
“Non
posso perderti, e tu sembri
cercare in ogni modo di ucciderti”, mi sorrise amaramente.
Non
sapevo esattamente cosa dire
o fare, perché tutto in quel momento mi sembrava totalmente
inopportuno. Avrei
voluto dirgli che lo facevo per lui, per la sua famiglia e la mia, che
non
volevo uccidermi, ma semplicemente rendermi d’aiuto.
Tuttavia, sapevo che in
ogni caso non avrei cambiato la situazione.
Con
una mano, gli accarezzai
lentamente il viso, cercando di trasmettergli con quanta
intensità mi fosse
concesso quanto lo amassi, e quanto fossi disposta a fare per lui.
“Edward
non…non preoccuparti. Non
c’è bisogno di essere paranoico”,
abbozzai un sorriso, tentando di alleggerire
l’atmosfera.
Osservai
la sua espressione
cambiare radicalmente. Il suo sguardo, da triste e sconfortato, si
accese di
una strana luce. Il secondo dopo, mi ritrovai sul letto. Non ebbi
nemmeno il
tempo di rendermi conto di quanto morbido fosse il materasso, o di
quanto
soffici fossero le coperte.
Il
cuore prese a martellarmi nel
petto ancor prima che le sue labbra si scontrassero con le mie.
“Vediamo…”,
mi mormorò languido all’orecchio,
afferrandomi i polsi e stendendomi le braccia sopra la testa.
Percepivo
la mia espressione, un
misto di panico e agitazione, mentre cercavo di capire cosa stesse
facendo. Mi
tremavano le gambe.
“Pensi
che un uomo abbia il
diritto di difendere la propria vita, di proteggerla?”.
Riuscii
semplicemente ad annuire,
distratta completamente dal modo in cui le sue labbra si aprivano e si
chiudevano nel parlare. La mia testa girava a causa di quella vicinanza.
“Lo
biasimeresti?”, chiese di
nuovo mentre scendeva con le labbra lungo il mio collo.
Non
riuscivo a capire dove
volesse arrivare, ma in quel momento ero sicura di non riuscire nemmeno
a
pensare in modo lineare. Sentivo il suo corpo contro il mio, immobile
sotto la
sua presa d’acciaio, e non riuscivo a concentrarmi su
nient’altro. Scossi la
testa, rispondendo alla sua domanda.
“Lo
considereresti pazzo se
tentasse di farlo? Un paranoico?”, risalì al mio
orecchio con estrema lentezza.
Forzai
un lungo respiro nei miei
polmoni, che sembravano aver preso fuoco.
“No”,
sussurrai frastornata,
sorprendendomi della mia stessa voce.
Era
bassa, rauca, come se
qualcosa m’impedisse di parlare. Lo sentii sorridere sulla
mia pelle, per poi
ritrarsi e fissarmi in viso.
“Allora
come fai a non capirmi,
dopo averti detto più di una volta che sei tutta la mia
vita”, mi fissò a
lungo, i suoi occhi bruciavano come legna al fuoco.
Faticai
per riprendere una
respirazione normale. Il mio cuore continuava a battere
all’impazzata contro le
costole, senza accennare minimamente a rallentare. Sembrava che ci
fossero
delle scariche elettriche lungo tutto il mio corpo, intente ad
incendiarmi.
Sospirai,
combattendo un sorriso.
Quando voleva qualcosa, era difficile non dargli ragione. Sapeva
perfettamente
come farsi ascoltare.
“Sei
impossibile”, sibilai
alzando gli occhi al cielo.
“Io
ho sempre ragione, e te l’ho
dimostrato”.
“Dimostrare
di avere ragione e
costringere qualcuno a farlo è ben diverso”, lo
accusai con una smorfia. “Questa
è coercizione”.
“Io
non ho costretto proprio
nessuno”, ammise innocente, sfoderando un gran sorriso.
“Certo,
certo”.
Lo
vidi alzare gli occhi al cielo
prima di chinarsi a baciarmi.
“Sai”,
mormorò con un ghigno
tornando a sedersi sul letto. “Non credo di aver fatto una
grande impressione
su tuo padre”.
Sbuffai.
“E’
solo iperprotettivo”, lo
giustificai poco convinta. “Tu dovresti saperne
qualcosa”.
Mi
prese la mano, portandola al
suo viso e inspirando profondamente ciò che non poteva
sentire. Il mio odore.
“Mi
dispiace di essere troppo
protettivo, so che a volte tendo un po’ ad
esagerare…”.
“Un
po’?”, lo interruppi,
lanciandogli un’occhiata scettica.
Mi
ignorò.
“Mi
dispiace di farti sentire in
trappola a volte, sappi che non è questa la mia intenzione.
È solo che l’istinto
di autoconservazione spesso è più potente di ogni
ragione”, mi sorrise sincero.
Abbassai
lo sguardo, come sempre
imbarazzata dalle sue parole. Non mi ero ancora abituata, per quanto
fosse
solito a farlo, a sentirlo paragonare la sua vita con la mia. A dargli
persino più
importanza della sua. Sembrava irreale.
Sentii
la sua mano posarsi sotto
il mio mento, sollevandolo per costringermi a guardarlo negli occhi.
“Non
mi sento in trappola,
solo…limitata, a volte. Vorrei aiutarti, davvero”.
Per
quanto sapessi che le mie
parole l’avrebbero irritato, non potei impedirmi di provarci
di nuovo. Tuttavia,
non si mostrò toccato dal mio ennesimo tentativo. Al
contrario, si chinò verso
di me, baciandomi ancora con delicatezza infinita. Spesso dimenticavo
che la
mia vita dipendeva anche da quello. Presto, troppo
presto, interruppe il bacio.
“Comunque”,
lo informai quando si
scostò da me. “Questo non cambia le
cose”.
Capì
immediatamente a cosa mi
riferivo, e stavolta reagì diversamente.
“Dormi,
El”, disse esasperato.
“Non
ignorare quel che dico”.
“Buonanotte”,
mi baciò la fronte,
stendendosi al mio fianco.
“Edward!”,
sibilai irritata.
Lo
sentii ridacchiare in
silenzio.
“Buonanotte,
El”, mormorò prima
di spegnere la luce.
Tutto
assunse ombre e colori
diversi, ma era facile individuare il lieve bagliore che emanava la sua
pelle
anche in quella debole penombra.
Sbuffai.
Testarda, mi rifiutai di
infilarmi sotto le coperte come avrei fatto normalmente. Incrociai le
braccia
sul petto, assumendo un’espressione indignata.
“Non
fare il muso”, lo sentii
sorridere. “Tanto sai di
non esserne capace”.
“Questo
lo credi tu”.
Seguì
un breve silenzio, spezzato
solamente dai miei respiri. Cercai di respirare il più
lentamente possibile, in
modo da fare meno rumore. Forse sarei apparsa più risoluta,
se mi fossi
dimostrata meno umana possibile. Ridussi i miei respiri al minimo,
prendendoli
lunghi e distanziati.
“E
va bene”, sibilò esasperato.
“Mi arrendo, parla”.
Mi
voltai verso di lui,
stendendomi su un fianco. Mi schiarii la voce, cercando di tornare
seria.
“Edward,
qui non si tratta
solamente di me o di te, ma di tutti noi. Sai che posso aiutarvi,
perché non
vuoi permettermelo? Pensi davvero che se succedesse qualcosa a chiunque
di voi,
riuscirei a sopportarlo, sapendo che è colpa mia? Io
non-”.
Mi
chiuse le labbra tra indice e
pollice.
“Non
accadrà niente a nessuno.
Baderemo noi alla tua famiglia, non devi preoccuparti”.
“E
chi penserà a voi? La mia
famiglia siete anche voi”, biascicai
lottando per aggirare le sue dita.
Alla
fine mi lasciò andare.
Le
sue labbra si tesero in un’espressione
indecisa e pensierosa al tempo stesso.
“Non
mi merito tutto questo”,
scosse la testa con un lieve sorriso. “In ogni
caso”, tornò a fissarmi negli
occhi. “Tu non devi
preoccuparti per
noi. È inutile e senza senso. E tu
non aiuterai nessuno con i tuoi poteri. Non avrai nemmeno
l’opportunità di
essere ferita da qualcuno, te lo prometto”.
“Ma…”,
cercai di obbiettare.
“Ma niente, la cosa che più mi
aiuterebbe è sapere che sarai qui, al
sicuro, senza che io debba preoccuparmi di una piccola adolescente
cocciuta”,
mi fece una smorfia. “Anche se sono sicuro che lo
farò lo stesso”. Mi abbagliò
con il suo sorriso truffatore.
I
suoi sbalzi d’umore mi facevano
girare la testa.
“Edward”,
lo rimproverai
scocciata, fulminandolo con lo sguardo. “Se sei
così preoccupato che qualcuno
possa ferirmi, beh allora…allora trasformami in un vampiro,
così non avrai di
che preoccuparti”, buttai lì la prima cosa che mi
saltò in mente.
Notai
solo distrattamente lo
sguardo sconcertato di Edward mentre ragionavo su ciò che
avevo appena detto. I
suoi occhi si spalancarono in sorpresa, e per un secondo temetti che
avesse
bisogno di aiuto per respirare. Se fosse stato umano, probabilmente mi
sarei
avvicinata per praticare qualche manovra di rianimazione. Ma non ci
badai
granché, avevo la testa da un’altra parte.
Un
vampiro. A quel punto nemmeno Claude
avrebbe più avuto una ragione
per uccidermi. Sarei stata forte, perfetta, immortale. Indistruttibile.
Da un
punto di vista esclusivamente egoistico, non vedevo l’ora di
vedere la mia
immagine riflessa nello specchio. Finalmente qualcuno che non avrebbe
stonato
al fianco di Edward.
Ma,
più di ogni altra cosa,
sentivo di essere pronta questa volta. Sentivo ancora lo stomaco
aggrovigliarsi
al pensiero, e il cuore pompare un po’ più forte
– come se avesse fretta di
battere, sapendo che di lì a poco avrebbe terminato la sua
corsa – ma niente di
tutto questo generava rassegnazione o terrore. C’era paura,
ovviamente. Una
paura così forte e irrazionale da non riuscire a capire da
dove arrivasse, ma
non abbastanza da essere in grado fermarmi.
Mi
aggrappai al suo braccio,
tirandolo a me fino a quando i suoi occhi non furono allo stesso
livello dei
miei. Occhi confusi e spaventati.
“Trasformami
in un vampiro”,
dissi più decisa, quasi apprezzando il suono di quella frase.
Un
suono, simile ad un ruggito,
sembrò nascere al centro del suo petto, appena a qualche
centimetro da me.
Serrò la mascella, cercando di reprimere quel suono.
“Non
se ne parla nemmeno”,
ringhiò tra i denti.
“Perché?
Edward, è la cosa
migliore, Claude non avrebbe più ragione di-”.
“Smettila,
El. Non è un gioco”.
“So
perfettamente che non è
un gioco. Non sei tu che continui a
sognarlo, o che viene continuamente inseguito”, strinsi gli
occhi a due
fessure, imprimendo quanta acidità potessi in quelle poche
parole. “Sai anche
tu che è la cosa più logica”.
“Non
metterò fine alla tua vita”,
scandì con rabbia ogni sillaba.
“E
chi lo farà, allora?”,
esclamai arrabbiata. Per un secondo mi domandai se i miei genitori
fossero già
a letto.
Lo
sapeva. Sapeva, come me, che
prima o poi sarebbe successo. Mi avrebbero trasformato, se non loro,
quelli
come me. Non c’era modo di scappare.
“No”,
sibilò serio, fissandomi
così duramente da spaventarmi.
Indietreggiai
di qualche
centimetro, lasciandogli il braccio. Si accorse del mio sguardo
spaurito e
addolcì la sua espressione.
“No”,
ripeté con più calma.
“E’
l’unico modo”, sussurrai con
un filo di voce.
Alzò
gli occhi al cielo,
scuotendo la testa.
“Ma
tu i modi per farti ammazzare
li sogni di notte, o ti vengono in mente al momento?”.
Gli
sorrisi debolmente,
avvicinandomi di nuovo a lui.
“Scusa
se ti ho spaventata, mi
hai preso alla sprovvista”, mi portò un braccio
attorno alle spalle.
“Non
mi hai spaventata”.
“Certo,
certo”.
“Edward”,
lo chiamai in poco più
di un sussurro. “Pensaci, è la cosa più
giusta”.
“Per
favore, dormi”, mi strinse a
sé con voce strozzata. “Per favore”.
Lo
osservai di sottecchi per
qualche istante, analizzando la sua espressione tormentata. Qualcosa mi
diceva
che non avrei dovuto vedere quello sguardo.
“Okay”,
acconsentii rigirandomi
nel letto così che fossi accoccolata contro di lui.
“Buonanotte”.
“Buonanotte”,
mormorò tra i miei
capelli, la sua voce insicura nella penombra della mia stanza.
...E
insomma, il ragazzo ha i suoi modi per farsi ascoltare xD Beh spero vi
sia piaciuto, la decisione di El credo sia totalmente giustificata ora,
dal momento che non c'è più in ballo solo lei.
Preferisce dar via tutto ciò che conosce per proteggere le
persone che ama e credo che la cosa le faccia onore, nonostante lei
abbia ancora una paura fottuta di essere trasformata(come credo
è giusto che sia, il fatto che Bella non fosse minimamente
spaventata non mi ha mai convinto sinceramente. Va contro ogni istinto
umano - come detto precedentemente nel capitolo 28). Ok sto diventando
troppo prolissa ultimamente. Ringrazio le 5 belle donne che hanno
recensito la volta scorsa, siete meravigliose.
Vi
lascio con questa canzone - una nuova cover dei 30stm della canzone
degli U2 "Where the streets have no name", che sinceramente trovo
meravigliosa. C'è una passione dentro che fa venire la pelle
d'oca, non so se è lo stesso per voi.
Rieccoci
qui! Bentornati per chi è ancora con me :) Spero abbiate
passato
delle belle vacanze! (Sono curiosa di sapere dove siete stati e
com'è andata, quindi sentitevi liberi di raccontarmi i fatti
vostri nello spazio recensioni) Ho deciso di sospendere gli
aggiornamenti durante il mese di Agosto perchè ovviamente
quasi
nessuno li avrebbe visti, ma ora si riprende con il solito ritmo -
ovvero una volta a settimana, solitamente il Sabato o comunque intorno
al week-end. Ringrazio in
anticipo chi legge e
continuerà a leggere questa storia fino alla fine, ormai non
manca molto. E ovviamente - e soprattutto - chi recensisce; siete
meravigliose donne. Ok basta, buona lettura! :)
Capitolo
31. Mal di testa.
La
luce fioca che filtrava dalla
finestra mi colpì il viso, e l’unica cosa che
potei fare fu stringere le
palpebre con forza.
Non voglio svegliarmi, implorai nella mia
testa.
“El,
tesoro, è ora di
svegliarsi”, sentii una voce chiamarmi.
Non
sembrava reale, quindi non
l’ascoltai, ignorandola completamente e affondando la testa
nel cuscino. Una
mano tiepida mi solleticò il braccio, e quel tocco
sembrò ancor meno reale.
Troppo caldo per la temperatura che ero abituata a sentire.
“Mmm”,
mugugnai quando quella
mano mi scostò i capelli dal viso, permettendo alla luce di
raggiungermi
meglio.
“Scricciolo,
farai tardi a
scuola”.
Aprii
gli occhi di scatto,
trovando mia madre davanti a me. Sospirai di sollievo alla sua vista.
Era
reale.
“Buongiorno,
mia bella
addormentata”, mi salutò con un bacio in fronte.
Sorrisi
ampiamente. Alice non mi
aveva di certo mai svegliata così, ed ero piuttosto certa
che non ne avrei
sentito la mancanza.
“Mmm”,
la salutai a mio modo.
Ridacchiò
qualche istante, per
poi dirigersi verso la porta. Mi resi conto in quel momento che
qualcosa
mancava. Feci oscillare lo sguardo da un capo all’altro della
stanza,
aspettandomi di vederlo sbucare da qualche angolo nascosto.
“Dov’è
Edward?”, chiesi più a me
stessa che a mia madre.
A
giudicare dalla sua espressione
scioccata, quella non era la cosa più giusta che avrei
dovuto dire.
“Non
saprei. E non so cosa o come
tu abbia passato i tuoi mesi di permanenza qui, mia cara, ma spero
proprio che
quel ragazzo non sia in questa casa in questo momento,
perché se tuo padre lo
beccasse perderesti ogni possibilità di vederlo
ancora”.
Il
suo tono mi fece che capire
che con “tuo padre”
potevo
comprendere perfettamente anche lei. Le immagini che stava producendo
la sua
mente sembravano impresse sulla sua fronte, in bella vista. Immagini
che, a
dirla tutta, mi dispiaceva non aver vissuto.
“No,
no!”, esclamai, sorpresa
dalla velocità con cui aveva tratto le sue conclusioni.
“Non è come pensi!”, mi
affrettai a dire. “E’ solo che di solito venivano
lui o Alice a svegliarmi”, mi
giustificai, sperando che la mia mezza verità risultasse
abbastanza credibile.
“Mmm”,
mormorò scettica, per poi
ricordarmi di affrettarmi e uscire dalla stanza.
Sospirai
di sollievo, passandomi
una mano tra i capelli.
Lasciai
vagare lo sguardo per la
camera, apprezzandola nei dettagli per la prima volta. Le dimensioni
modeste e
l’arredamento semplice dovevano essere state
un’idea di Esme, così come i
colori. Alice avrebbe optato per qualcosa più tendente al
rosa o al viola
acceso. Le tinte, invece, rimanevano sui toni di un debole giallo
appena
accennato. L’armadio nell’angolo aveva la
superficie totalmente ricoperta di
specchi interi, così da far apparire la stanza
più grande e luminosa. Un’idea
di Rosalie, sicuramente. Sulla scrivania c’era uno stereo che
urlava fragile e al suo fianco pile
di CD,
ordinati meticolosamente per quello che sembrava anno e genere. Sorrisi
–
Edward.
Controvoglia,
lanciai un’ultima
occhiata alla mia nuova stanza prima di scivolare lungo il letto e
posare i
piedi per terra. Il parquet freddo a contatto con la mia pelle mi fece
venire
voglia di sotterrarmi sotto le coperte e non uscirne mai
più. Tuttavia, mi
costrinsi a trascinarmi in bagno e a prepararmi.
Quella
notte avevo fatto
finalmente un sogno normale. Avevo sognato la solita radura, ma questa
volta
non c’era Claude ad aspettarmi, bensì Edward
– cosa che cambiava lo status del
mio sogno radicalmente. C’era qualcosa che non mi tornava, ma
evitai di badarci
troppo. Forse ero semplicemente troppo abituata a fare incubi, e un
sogno
normale risultava strano.
Scesi
in cucina con un sorriso
stampato in faccia. Era incredibile quanto fosse facile sorridere con
la mia
famiglia attorno.
“Dormito
bene?”, chiese mio padre
con noncuranza.
Riuscii
ugualmente ad individuare
il tono dubbioso della sua voce, e lanciai un’occhiataccia a
mia madre. Non
riusciva a tenere la bocca chiusa nemmeno una volta.
“Benissimo”,
replicai allegra.
“Voi, piuttosto?”.
Scompigliai
giocosamente i
capelli di Sarah, per poi agguantare la mia colazione.
“Magnificamente”,
rispose mio
padre.
Ebbi
appena il tempo di finire la
colazione e di lavarmi i denti, che due colpi di clacson reclamarono la
mia
attenzione con prepotenza. L’espressione di mio padre la
diceva lunga.
“Saluta
tutti da parte nostra”,
mi raccomandò mia madre.
Mio
padre sbuffò, esprimendo in
silenzio la sua scarsa simpatia per almeno un membro della famiglia
Cullen. Non
potei fare a meno di sorridere.
“Saluta
Alice!”, insistette
Sarah.
“A
più tardi!”, gridai da sopra
le spalle, salutandoli con un gesto della mano.
Mi
affrettai verso la macchina,
tirandomi su il cappuccio non appena mi accorsi delle gocce di pioggia,
discontinue ma pesanti, che minacciavano di far lievitare la mia
capigliatura.
“Sei
un disastro”, fu il primo
commento che mi sentii rivolgere quando richiusi la porta dietro di me.
“Anche
per me è un piacere
vederti, Alice. Ti saluta Sarah”, replicai sarcastica.
Non
era la cosa più semplice
stare in sei in una macchina omologata per cinque, soprattutto con
Emmett al
proprio fianco. Mi schiacciai contro il finestrino, abbozzando un
saluto per
ognuno di loro. Io e Edward ci scambiammo solo una lunga occhiata.
Prima
di accorgermene, eravamo a
scuola. Le sospensioni della Volvo sembrarono essere più che
grate quando
scendemmo dall’auto.
Sapevo
di non poter salutare
Edward come avrei voluto, lì davanti a tutta la scuola,
quindi mi limitai a
sostenere il suo sguardo a lungo, sapendo che sarebbe bastato quello.
Mi
sorpresi quando notai Edward serrare la mascella e produrre uno strano
sibilo. Cinque
secondi dopo, Thomas Duke fece il suo ingresso nel parcheggio. Sorrisi
compiaciuta della sua gelosia. Mi faceva sentire importante.
“Ciao
Coop”, mi salutò come
sempre, sprizzando entusiasmo da tutti i pori.
Ero
abbastanza di buonumore da
evitare il sarcasmo.
“Ciao
Tom, tutto bene? Ieri non
ti ho visto a scuola”.
“Già,
visita medica. Niente di
che, esami del sangue”.
Notai
le labbra di Edward
sollevarsi in un sorriso truffatore. Sorrisi anch’io.
Ci
incamminammo verso scuola, il
nostro gruppo reso in qualche modo eterogeneo dalla presenza mia e di
Tom.
Sembravamo non appartenervi.
“Così…che
fai sab-”, lo sentii
cominciare, prima che lo interrompessi alzando una mano.
“Ang!”,
mi affrettai verso di
lei, sorpresa e al tempo stesso felice di trovarla come sempre sotto il
portico
ad aspettarmi.
“Ciao
El”, mi sorrise.
Mi
voltai rapidamente verso
Edward per controllare la sua espressione. Questa situazione sembrava
fin
troppo simile a ieri. Ma il suo sguardo era sereno, quindi mi rilassai.
Ci
dirigemmo velocemente verso Spagnolo,
seguite da un Tom che sembrava non volersi arrendere. Apparve piuttosto
sorpreso, e non piacevolmente, quando ci vide entrare in classe seguite
da
Edward. Mi sfuggì un ghigno.
Edward
prese posto in fondo,
lasciando me e Angelica prendere i due posti liberi nella fila davanti.
Non
riuscii a badare granché attenzione alla lezione, passando
la maggior parte del
tempo a bisbigliare con Angelica di qualunque cosa ci passasse per la
mente.
Ad
un tratto, mi accorsi di un
piccolo pezzo di carta ripiegato che era apparso sul mio banco. Lo
presi in
mano, cercando di non farmi notare. Sapevo perfettamente di chi fosse
quel
biglietto ancora prima di aprirlo.
Non
dovrestistare
attenta alla lezione ?,diceva.
Sorrisi
brevemente, affrettandomi
per recuperare una penna dal mio astuccio senza fare rumore.
Potrei farti
la stessa domanda , risposi
rapidamente.
Lo
osservai con la coda
dell’occhio sorridere e poi far scorrere la penna sul pezzo
di carta
stropicciato.
Mi
piace la tua calligrafia
Sospirai
pesantemente,
assicurandomi che sentisse.
Nonquanto
la tua, scrissi
disordinatamente. ecomunqueciao…ogginontiavevoancorasalutato.
Lasciai
scivolare distrattamente
il biglietto sul banco alle mie spalle, tenendo d’occhio la
professoressa.
Ciao.
Scusami se sono sparito stamattina.
Scossi
la testa. Trovava sempre
un modo per prendersi una colpa per qualcosa.
Meglio cosi,
non c e stato bisogno di leggere nella testa
di mia madre per capire che si e fatta idee piuttostostrane.
Per quanto mi piacerebbe che fossero vere,
avrei voluto aggiungere.
Gli
passai velocemente il
biglietto. Sentii una risata camuffata da un lieve colpo di tosse.
“Signor Cullen?
Què tienes allì? Por favor, los dos”,
gesticolò indicando
anche me.
“Perdone”,
rispose Edward alle
mie spalle con un accento impeccabile.
Sapevo
che sguardo sarebbe
seguito a quel tono di voce, come sapevo la reazione che avrebbe avuto
la
povera signora Moreno.
Abbassai
lo sguardo, incollandolo
al quaderno. Non lo rialzai fino alla fine della lezione, conscia delle
occhiate che continuava a lanciarmi l’insegnante. Suonata la
campanella, tirai
un sospiro di sollievo e cominciai a mettere a posto le mie cose.
Salutai
Angelica, piuttosto confusa dal mio cambio d’orario,
assicurandole che l’avrei
rivista a pranzo. La guardai incamminarsi verso la palestra.
“Scusami”,
sentii dire al mio
fianco una volta in corridoio.
“Per
cosa?”, strabuzzai gli
occhi.
“La
professoressa si è accorta
del biglietto”.
Alzai
gli occhi al cielo,
accelerando per evitare di sorbirmi ulteriori giustificazioni per
drammi
inesistenti. Ovviamente, non riuscii a distanziarlo. Quello che per le
persone
normali era un passo più che veloce, per lui non lo era.
“Pronta
per storia?”, mi chiese
davanti alla classe.
La
prof non era ancora arrivata,
quindi mi fermai ondeggiando sui talloni.
“Cercherò
di sopravvivere e di
non farmi travolgere dal passato”, lo rassicurai con un
sorriso.
“Allora
a dopo?”, suonò quasi
come una domanda.
Da
quando era così insicuro? Lo
squadrai dubbiosa.
“Ovviamente”,
mi affrettai a
dire. “Anche se preferirei che restassi qui”.
Sembrò
rilassarsi un po’.
Lentamente, mi raccolse una ciocca di capelli e me la spostò
dietro l’orecchio.
“Anch’io,
ma non penso che il
preside accetterebbe di buon grado”.
“Quindi
a dopo”, decretai
avvicinandomi a lui.
Sapevo
che a scuola non l’avrebbe
mai fatto, ma speravo di avere un buongiorno come si deve. Si
limitò ad
accarezzarmi il braccio, stringendo le dita fredde attorno ad esso.
“A
dopo”, disse in un sospiro,
prima di voltarsi e sfilare via.
L’ora
di Storia, come anche
Matematica, passò come se non fosse mai arrivata. Il mio
cervello sembrò non
registrare nemmeno il ronzio di sottofondo che corrispondeva alla voce
della
prof, preferendo fluttuare come in assenza di gravità.
Solamente a metà
dell’ora di Matematica mi accorsi che il mio mal di testa
stava diventando
ingestibile. Le tempie pulsavano e tenevo la mascella così
serrata da farmi
male.
Quando
la campanella decretò
l’inizio della pausa pranzo, avevo ormai raggiunto un certo
livello di
squilibrio mentale. Cominciavo a immaginarmi il sollievo dovuto ad una
salutare
testata contro il muro, non esattamente la cosa più sana da
fare.
Fluttuai
in corridoio, senza
nemmeno registrare gli spintoni che ricevevo di tanto in tanto da
alcuni
ragazzi che si affrettavano verso la mensa. Ogni suono, ogni mormorio,
ogni
anta di ogni dannato armadietto sembrava giungere alle mie orecchie con
la
forza di un ariete che cercava in ogni modo di trapanarmi il cervello.
Sembrava
di avere un cantiere in testa, con tanto di motoseghe e martelli
pneumatici.
Sbucai
in mensa e me ne pentii
quasi subito – qui il rumore era amplificato. Le sedie
strisciavano sul
linoleum, le posate sbattevano nei piatti, i vassoi slittavano sui
tavoli.
Inferno.
“El”,
sentii una voce chiamarmi.
Perfetto.
Ora sentivo anche le voci.
Non sembrava reale, mi arrivava ovattata, confusa. Come se fosse
lontana
chilometri. Mi portai le mani alle tempie, cercando di alleviare in
qualche
modo la pressione all’interno del cranio.
“El?”,
chiamò di nuovo, più forte
questa volta.
Mi
riscossi, riuscendo a
focalizzare il mio sguardo su Angelica.
“Oh”,
mormorai. “Scusami, ero
sovrappensiero”.
“Tutto
bene? Non hai una bella
cera”.
Abbozzai
un sorriso, che a
giudicare dall’espressione di Angelica non riuscì.
“Solo
un po’ di mal di testa”, mi
strinsi nelle spalle.
“Vieni
a sederti, è meglio che
prendi qualcosa”.
“Magari
dopo faccio un salto in infermeria
per vedere se hanno del Tylenol”.
Mi
osservò scettica, per poi
afferrarmi un braccio e trascinarmi al nostro tavolo. Doveva avere
paura che
svenissi da un momento all’altro.
“Non
mangia?”, sentii Tom
chiedere dopo qualche minuto.
“Non
credo stia molto bene, non
mi sembra il caso”, rispose Angelica con calma.
“Sta
male?”, insistette Thomas.
“Tom,
la vedi anche tu. Non credo
sia al massimo della forma”.
Avevo
la faccia completamente
affondata tra le braccia e la fronte appoggiata contro il tavolo
freddo.
Tuttavia, non riuscivo a trarne sollievo. Invece di migliorare,
sembrava
continuare ad andarepeggio.
Ignorai
i discorsi confusi di
Thomas, sforzandomi di sollevare la testa quanto bastava per cercare
Edward
dall’altra parte della sala. Trovai i suoi occhi su di me,
un’espressione preoccupata
sul suo volto. In quel momento, agognavo per il suo tocco freddo sulla
mia
fronte.
Ogni
secondo che passava, la
pressione all’interno della mia testa sembrava diventare
sempre più forte,
sempre più rumorosa. Come se ci fossero più suoni
dentro che fuori dalla mia
testa.
Basta, mi dissi, cerca
di non
pensarci e passerà.
Forse
sarei anche riuscita a
saltare l’ora d’Inglese e a rifugiarmi in
infermeria. Sospirai pesantemente,
raddrizzandomi sulla sedia.
“Okay”,
farfugliai confusa quando
notai che mi girava la testa. “Di che stavate
parlando?”.
Volevo
provare ad inserirmi nella
loro conversazione, così che forse sarei riuscita a
distrarmi.
Fui
costretta a chiudere gli
occhi per le vertigini. Ero sicura di essere ferma, eppure mi sentivo
cadere
continuamente. A quel punto, ero anche piuttosto spaventata. Che mi
stava
succedendo?
Ignorai
i pigolii preoccupati dei
ragazzi al tavolo con me mentre cercavo di ricordarmi con esattezza
cosa avessi
mangiato la sera prima. Forse qualcosa mi aveva fatto male –
ma non avevo la
nausea. E, nonostante la mia scarsa esperienza medica, trovavo poco
plausibile
l’ipotesi di un’intossicazione alimentare senza la
nausea.
Non
riuscii a trovare alcuna
risposta, probabilmente anche perché il mio mal di testa me
lo rendeva alquanto
impossibile. L’unica cosa con cui riuscivo a paragonarlo
erano le emicrania
dovute agli allenamenti con Alice. La pressione era la stessa, ma mai
ero
arrivata a questo punto – di solito mi imbottivano di Tylenol
prima.
Mi
sforzai di riaprire gli occhi,
sentendomi instabile. Mi aggrappai al bordo del tavolo, cercando di
focalizzare
ciò che mi stava attorno.
“El?
Guardami. Ti senti male?
Devo chiamare l’infermiera?”, le mani di Angelica
mi tenevano il viso con
forza, ma non mi sembrava di riuscire a sentirle.
Le
vedevo, certo, ma non le
sentivo chiaramente. Solo una pressione fredda e umida sulle guance.
“Chiamate
l’infermiera”, sentii
qualcuno dire.
Mi
schiacciai nelle spalle quando
il suono di una sedia trascinata sul pavimento arrivò alle
mie orecchie.
Tuttavia, questa volta non lo sentii in tutta la sua forza.
C’era un ronzio di
sottofondo ora, qualcosa di cui ero grata in un certo senso. Con un
breve lampo
di lucidità, mi accorsi verso dove mi stavo dirigendo. Mal
di testa, giramenti,
orecchie che fischiano. L’offuscamento della vista che giunse
qualche istante
dopo completò il quadro alla perfezione. Stavo per svenire.
“Ang”,
farfugliai appena. “Credo
di stare per svenire”, la informai, sperando di aver parlato
correttamente.
Poi,
con mia sorpresa, per un
attimo tutto sembrò diventare silenzioso. Nessuna sedia,
nessuna posata, nessun
mormorio fastidioso, niente di niente. Mi portai le mani alle tempie,
apprezzando quel breve istante di pace. Non sentivo assolutamente niente. La vocina nella mia testa mi
informò dispiaciuta: la calma
prima della
tempesta.
Il
secondo dopo, tutto riesplose
con violenza, portando con sé immagini, voci e odori che non
appartenevano a
quel luogo.
Appena
prima di svenire, riuscii
a sentire distintamente una voce accanto a me. Mi voltai, sperando di
trovarla
al mio fianco, ma Edward era là al suo tavolo, in piedi come
se fosse indeciso
su cosa fare. La sua espressione era strana. Non capii che cosa
esprimesse
esattamente, se paura, confusione, sorpresa o semplicemente indecisione.
-Riesco a sentirti- , riuscii a sentirlo
dire prima di perdere
conoscenza.
Ero
sicura di non aver visto le
sue labbra muoversi.
TAN
TAN TAAAAAAAAN! E ora?
Ok no, scherzi a parte, la povera El ne ha una dietro l'altra. Che
succederà ora secondo voi? Spero che la storia non vi stia
annoiando o cose del genere, nel caso fatemi sapere, mi raccomando.
Come
ho detto sopra, ormai non manca molto alla fine. La storia si compone
di 36 capitoli più l'epilogo finale, quindi ci siamo quasi.
Come
credete che finirà? Avete qualche idea/dubbio/supposizione
varia? Io sono qui per rispondere a qualunque domanda - o almeno ci
provo. Detto ciò, vi ringrazio e vi auguro un buon week-end!
:)
Buongiorno e buon sabato :)
Vi avevo lasciato un po' in sospeso la volta scorsa, quindi
sarò breve. Questo capitolo
è piuttosto importante per gli sviluppi che apporta alla
trama, e racchiude anche il titolo della storia stessa. Spero quindi
che vi piaccia :) Buona lettura!
Capitolo
32. Anticipo.
Non
mi sembrava di essere
completamente cosciente. Forse lo ero. Forse no.
Il
mio corpo era schiacciato a
terra come se pesasse tonnellate, e non avevo la minima intenzione di
provare a
muovermi di un solo millimetro. La pressione all’interno
della mia testa
m’informò che ero completamente cosciente.
Mi
sforzai di mantenere il
respiro lento e prolungato mentre cercavo di capire dove fossi. Ero
chiaramente
su un letto – riuscivo a sentire qualcosa di simile a tessuto
sotto le mie mani
– ma era troppo duro e scomodo per poter essere anche
lontanamente simile ad un
materasso. Ero in ospedale? No, niente strani bip
da tutte le parti, né irritanti voci
dall’altoparlante che
parlavano ininterrottamente. Fu quando strinsi il lenzuolo di carta tra
le mie
dita che mi resi conto di essere in infermeria.
Una
mano calda coprì la mia.
-Ti prego, ti prego, ti prego fa che stia bene.
Spero di non averle
attaccato l’influenza. L’infermiera ha detto che
è solo svenuta, forse per un
calo di zuccheri. Speriamo stia bene.-
Continue
immagini si
susseguivano, ripetendo senza sosta come una moviola calcistica la
scena in cui
perdevo conoscenza, per poi cadere sgraziatamente a terra.
Nell’immagine,
Edward si materializzava al mio fianco per impedirmi di sbattere la
testa.
“Ang”,
bofonchiai con voce
impastata cercando di aprire gli occhi.
“Oh,
sei sveglia. Meno male”,
disse sollevata.
-Dio grazie, meno male-
“Che
diavolo è successo?”,
chiesi, nonostante lo sapessi già.
“Dov’è Edward?”, avevo bisogno
di sapere che
diamine mi stava succedendo.
“L’infermiera
non l’ha voluto far
entrare, credo che avesse paura di lasciare una ragazza sola con un
ragazzo,
sai com’è”,
m’informò sorridendomi appena.
“Oh”,
mi accigliai.
“E’
fuori dalla porta, l’ultima
volta che l’ho visto continuava ad andare avanti e indietro
come se stesse per
impazzire. Era piuttosto nervoso, l’ho sentito imprecare un
paio di volte…”.
Sorrisi
all’immagine che seguì
quella frase, evitando di domandarmi come diavolo riuscissi a leggere
nella
mente di Angelica in quel momento.
“Forse
è meglio che lo lasci
entrare, volevo solo assicurarmi che stessi bene”.
“Grazie,
Ang”, risposi sincera.
“Mi
hai fatto spaventare a morte.
Non farmi mai più una cosa del genere”.
I
suoi pensieri non la tradivano.
Si era spaventata davvero.
“Mi
dispiace. Ci proverò”.
“Ti
chiamo stasera, cerca di
rimetterti”, mi diede un rapido bacio sulla fronte prima di
uscire dalla
stanza.
Mi
guardai attorno. Come
infermeria era piuttosto deprimente. I toni verde scuro alle pareti non
facevano che accrescere la mia tesi. Non c’erano mobili di
alcun genere, fatta
eccezione per un paio di sedie, il lettino incredibilmente scomodo su
cui ero
ancorata, e una libreria piena zeppa di libri inutili.
-Signorina Cullen, sarebbe meglio che lei andasse a
lezione-, sentii
la signorina Cope informare Rosalie dalla segreteria.
L’occhiataccia che
spaventò la segretaria mi fece quasi ridere.
Ero
sorpresa. Il mio scudo
arrivava fino in segreteria? Lo tastai attentamente, seguendone i
contorni fino
a trovarne i limiti fino a cui era esteso. Era più ampio di
quanto fossi mai
riuscita ad estenderlo e non mi stava costando alcuna fatica. Il mal di
testa
sembrava svanire a poco a poco, mentre io mi rafforzavo.
Mi
ero immaginata il mio scudo
come una sfera, certamente non come l’ovale che era adesso.
Era lungo circa
dieci metri, per quanto mi sembrava, ma largo appena due.
C’era qualcuno che
continuava a passeggiare, avanti e indietro, dentro e fuori il mio
scudo. Era
irritante. Non riuscivo a sentire con esattezza i suoi pensieri. Ci
impiegai
qualche secondo per capire chi fosse. Quel qualcuno si
fermò, con mio grande
disappunto fuori dal mio raggio d’azione.
Con
il mio debole udito umano
riuscii semplicemente a sentire un silenzioso scambio di battute,
seguito da un
rumore di passi.
“Edward”,
mormorai sollevata
quando lo vidi entrare.
-Grazie a Dio-
“El”,
richiuse la porta alle sue
spalle, per poi materializzarsi al mio fianco.
Non
disse niente, ma potevo
capire dai suoi pensieri quanto fosse preoccupato e al tempo stesso
sollevato.
-Mi senti, non è vero?-,
domandai nella mia testa, sentendomi
incredibilmente stupida.
Annuì,
ma ancora preferì il
silenzio.
-Com’è possibile?-,
chiesi allungandomi per raggiungere la sua
mano.
Avevo
bisogno di un contatto, seppur
minimo.
“Non
lo so”, rispose apatico.
Potevo
dire con certezza che
c’era qualcosa che mi stava nascondendo. Il suo tono era
senza vita, i suoi
occhi svuotati e spenti. Come se l’oro al loro interno si
fosse congelato in un
grande iceberg dorato.
-Edward, che succede? Che c’è
che non va?-, strinsi la sua mano,
sperando inutilmente di ricevere una risposta da parte sua a quel
contatto.
“E’
tutto okay. Non c’è niente
che non va”.
“Edward”,
questa volta parlai ad
alta voce. “Non prendermi in giro”.
Sospirò
pesantemente, chiudendo
gli occhi per poi riaprirli. In quel breve processo, i suoi occhi
cambiarono
espressione, scaldandosi un poco.
“Mi
hai fatto quasi prendere un
infarto, che non è esattamente la cosa più
semplice da fare”.
“Mi
dispiace”, abbozzai. “Non so
nemmeno che diavolo è successo”.
“Sì,
ma ti ho sentita. E ti sento
ora”.
Sembrava
scioccato quanto me da
quello che era accaduto.
-Mi piace la possibilità di fare delle
conversazioni silenziose-,
pensai con entusiasmo.
Mi
sorrise un ghigno.
-Anche a me non dispiace come idea-,
finalmente reagì alla mia
stretta di mano, portandola sul lettino e stringendo la mia tra
entrambe le
sue.
-Mi chiedo come funzioni quest’affare-,
domandai più a me stessa che
a lui.
-Questo non ti deve preoccupare. Stai bene? Sei
caduta piuttosto male
prima. Ti fa male qualcosa?-
-Giusto-, pensai con una smorfia, -Ah. A proposito, grazie per avermi evitato un bel
bernoccolo-
-Di niente. Come stai?-, insistette
chinandosi a sfiorare il dorso
della mia mano con le labbra.
Alzai
gli occhi al cielo.
-Bene, direi. Un po’ frastornata. Beh a
dire il vero un po’ più di
frastornata, ma credo che abbia a che fare con il fatto che di colpo
riesco a
leggere i pensieri delle persone che mi stanno attorno-
Mi
sorrise compiaciuto.
-Ci farai l’abitudine-
-Lo spero-
Per
un breve istante, riuscii a
vedere nella sua mente un’immagine che mi fece sorridere.
Mi
tirai su dal lettino,
strisciando indietro fino a quando non mi ritrovai quasi seduta.
Lasciai
scivolare via la mia mano dalla sua, apprezzando
l’espressione confusa sul suo
volto.
“Che
stai facendo? Dovresti stare
sdraiata ancora un po’, sei svenuta da poco”.
“Sto
facendo quello che volevi
che facessi”, mi avvicinai a lui fino a quando il suo viso
non fu a pochi
centimetri dal mio.
Mi
sorrise il mio mezzo sorriso
preferito.
“Mh-mh”,
mormorò colmando la
distanza tra di noi. “Mi piace questa faccenda dei
pensieri”, disse sulla mia
bocca.
-Mi piace questa faccenda dei pensieri-,
gli feci il verso nella mia
testa.
Sorrise
ancora mentre le sue
labbra premevano sulle mie. Feci scivolare una mano alla base del suo
collo, e
con l’altra gli accarezzai il volto. Cercavo sempre di
imprimere ogni momento,
ogni tocco, ogni linea del suo volto nella mia memoria, consapevole che
prima o
poi avrei rischiato di ricordarli con meno precisione.
Le
sue dita s’intrecciarono ai
miei capelli, per poi scendere alla base della mia schiena e
avvicinarmi
ulteriormente a lui. Non era mai abbastanza. Volevo sempre essere
più vicino. E
ancora, e ancora, e ancora.
Ad
un tratto, notai qualcosa
cambiare nei suoi pensieri. Cercava di controllarsi. Gli stampai un
altro bacio
leggero prima di allontanarmi. Non volevo rendergli le cose difficili.
Restammo
qualche istante a fissarci negli occhi con un sorriso ebete prima che
qualcuno
bussasse alla porta. L’infermiera era venuta a controllare il
mio stato, o così
aveva in mente di giustificarsi. In realtà, voleva sapere
perché il bel ragazzo ci
stava mettendo così tanto
ad accertarsi di come stavo.
“Vediamo
se posso mandarti a
casa”, mi disse avvicinandosi e toccandomi la fronte.
“A
casa?”, le feci eco, confusa.
“Non
penserai di certo di andare
a lezione dopo essere svenuta”.
Mi
accigliai, abbassando lo
sguardo.
Edward
stava pensando a come il
mio labbro inferiore, già solitamente più in
fuori rispetto a quello superiore,
sporgesse in quel momento. Era affascinato
dal mio broncio, o questo era quello che pensava. Sospirai alzando gli
occhi al
cielo.
“Allora,
come ti senti?”, chiese
la piccola donna paffuta al mio fianco.
“Direi
bene, abbastanza normale”.
Lettura del pensiero a parte, certo,
pensai sarcastica.
Edward
camuffò una mezza risata
con un colpo di tosse.
“Anche
tu malato, ragazzo?”,
chiese scettica.
“No,
grazie signora Miller. Sto
bene”, rispose affabile.
Avrei
voluto alzare gli occhi al
cielo di nuovo. Era impossibile.
“Beh,
vediamo signorina Cooper… ora
sta bene. Magari quando arriva a casa mangi qualcosa di zuccherato. Ha
già
chiamato i suoi genitori?”.
La
osservai confusa.
“Ehm,
no. A dire il vero no”.
“Sarò
più che felice di rendermi
utile e riaccompagnare la signorina Cooper a casa”.
Sollevai
un sopracciglio nella
sua direzione.
“Mmm”,
rifletté l’infermiera.
Pensava
non fosse sicuro
lasciarmi andare in macchina da sola con lui. Avrebbe potuto…
“Per
me va bene”, mi affrettai a
dire prima che le sue fantasie intaccassero il mio cervello.
Ci
adocchiò per qualche attimo,
per poi decidere che se ero così sicura come sembravo,
allora non c’era nessun
problema.
“Okay,
quindi voi due ragazzi
passate in segreteria a ritirare il permesso dalla Cope e uscite
pure”.
Ricevuta
la sua benedizione,
fummo liberi di uscire dall’infermeria.
“Vuoi
che ti porti in braccio?”,
propose Edward con un gran sorriso.
“Grazie,
ma no. Cammino da sola”.
“Aiuterebbe
a convincere la
signorina Cope che hai bisogno di un passaggio a casa”.
“Certo,
come se non bastassero i
tuoi battiti di ciglia per farla sciogliere ai tuoi piedi”.
Ridacchiò
in silenzio, per poi
allontanarsi un attimo per ritirare i permessi.
Fu
indietro in meno di due minuti,
e rimpiansi di non averlo seguito in segreteria e aver assistito alla
scena con
la Cope. Mi sarebbe piaciuto sapere che cosa pensava, almeno per un
minimo di
solidarietà femminile. Sapevo cosa significava essere
sottoposta alla potenza
del suo sguardo.
“Stai
bene? Hai avuto altri
giramenti?”, mi chiese appena prima di aprire le porte della
segreteria.
Pioveva,
quindi mi infilai la
giacca e mi tirai su il cappuccio.
“Sto
bene”, gli risposi mentre
respiravo l’aria fresca e impregnata dell’odore
della pioggia.
Mi
piaceva quell’odore. Era quasi
qualcosa di nuovo per me, a Miami non pioveva molto spesso. O almeno,
non tutti
i giorni.
“Oh”,
esclamai quando
raggiungemmo la Volvo.
“Che
c’è? Ti fa male la testa?”,
chiese preoccupato.
“E
piantala, sto bene. Mi stavo
solo chiedendo… come faranno Rose e gli altri a tornare a
casa senza
macchina?”.
Ridacchiò
per qualche secondo.
“Vorrà
dire che tornerò a
prenderli, oppure faranno una corsa a casa”.
Di
certo Emmett avrebbe gradito
una bella gara, possibilmente con scommessa, fino a casa. Tuttavia, ero
abbastanza certa che Alice e Rose avrebbero avuto altro da dire,
soprattutto
vista la pioggia. Edward mi aprì elegantemente la portiera,
aspettando che
salissi per poi richiuderla silenziosamente una volta entrata. Lo
guardai
richiudere la portiera dietro di sé appena un secondo dopo.
Mi allacciai la
cintura, per poi accoccolarmi sul sedile mentre il motore prendeva
rapidamente
vita. Appoggiai un gomito sul bordo del finestrino, sorreggendomi la
testa con
una mano mentre lasciavo vagare lo sguardo oltre il parabrezza.
Sul
vetro, cadevano continuamente
piccole gocce di pioggia. Erano talmente tante che riuscivano a creare,
nel
loro infrangersi, un piacevole rumore di sottofondo. Nel loro procedere
lungo
il vetro formavano strane fantasie e intrecci.
Le
osservai con attenzione,
seguendone una in particolare. Era piccola, tonda, semplice. Non
avrebbe
attirato lo sguardo di nessuno. Seguii il suo percorso lungo il vetro,
notando
come fosse attorniata dalle altre, quasi a proteggerla dalla sua stessa
fragilità.
Guadagnava pochi centimetri ad ogni movimento, scivolando sempre
più verso il
basso. La osservai continuare il suo tragitto, arricchirsi e privarsi
ad ogni
contatto con le altre gocce. Cominciava a prendere velocità,
a scendere con più
rapidità verso la fine del vetro. Non c’era stato
nessun segnale, nessun
avviso, eppure aveva accelerato senza motivo, forse cercando di
arrivare al
traguardo prima delle altre. Speravo che ci riuscisse. Ad un tratto, il
tergicristalli se la portò via.
Scioccata,
rimasi ad osservare il
punto in cui era sparita. A poco a poco, altre gocce ripresero a
riempire lo
spazio creatosi, tuttavia senza mai ricoprire perfettamente il punto
dove la
mia goccia di pioggia era scomparsa. Gli intrecci ripresero, ma il
vuoto rimase
tale.
Sentii
qualcosa di strano
pizzicarmi dentro. Quindi era così. Non c’era modo
di sapere come sarebbe
finita. Potevi correre, affrettarti lungo il vetro e superare gli
altri,
protetta da chi ti stava intorno, ma non c’era alcun modo di
sapere quando il
tergicristalli ti avrebbe spazzato via.
Abbassai
lo sguardo, sconfitta.
Edward ingranò la retro ed uscimmo dal parcheggio.
Quando
arrivammo a casa, il
silenzio era ancora intatto. Non mi disturbava, e ovviamente nemmeno
Edward.
Era confortevole in un certo senso.
Dopo
tutti quei pensieri, quelle
voci e tutto il resto, era piacevole un po’ di silenzio.
Evitai di leggergli
nel pensiero, cercando di rispettare la sua privacy, mentre entravamo
in
salotto.
“El,
tesoro, che ci fai a casa?”,
domandò Esme preoccupata non appena mi vide.
Si
voltò a chiedere spiegazioni a
Edward.
“Ha
avuto un giramento ed è
svenuta, ma ora sta bene”, la tranquillizzò.
Esme
mi portò una mano sulla
fronte.
“Sei
sicura?”, mi chiese conferma.
Annuii
docilmente.
“Esme,
dov’è Carlisle?”, disse
Edward qualche secondo dopo.
Entrambi
sapemmo la risposta non
appena finì di parlare. Edward annuì in silenzio.
“Fra
quanto pensi che sarà qui?”.
“Dovrebbe
arrivare a momenti”,
abbozzò Esme. “Edward, è successo
qualcosa?”.
Non
gli lasciai tempo di
rispondere.
“Diciamo
di sì”, le sorrisi.
“Diciamo
che riesce a leggere nel
pensiero ora”, completò la frase per me, imitando
il mio tono.
Esme
si portò la mano davanti
alla bocca in stupore.
Carlisle
arrivò appena due minuti
dopo. Comprese l’espressione di Edward non appena mise piede
in casa. Annuì
serio e gli mise una mano sulla spalla.
“Buongiorno,
Elizabeth”, mi
salutò con un gran sorriso.
Mi
limitai a rispondere con un
gesto della mano e l’accenno di un sorriso. Non riuscivo a
togliere gli occhi
dallo sguardo preoccupato di Edward. Stava cercando di non pensarci, ma
non
poteva prendermi in giro.
“Vieni”,
mi disse, prendendomi
per mano e trascinandomi in salotto.
Vidi
Carlisle annuire di nuovo e
poi seguirci.
“Che
succede, Edward?”, espresse
i suoi pensieri una volta seduti.
Ovviamente
non sapeva che potevo
sentirlo perfettamente anch’io.
“El
ha… migliorato le sue
potenzialità oggi a pranzo. È svenuta e da allora
riesce a leggere i pensieri
come me”.
-Oh-, pensò Carlisle,
voltandosi verso di me.
-Beh un po’ me lo aspettavo, figliolo.
Ricordi anche tu quanto Amos
fosse rimasto impressionato quella prima sera-
Edward
annuì serio.
“Anch’io,
ma… non mi aspettavo
che fosse così
presto”.
-Capisco. Questo anticiperà ogni cosa-
“Aspettate.
Anticipare cosa?”,
m’intromisi nella loro
conversazione.
Edward
sospirò rassegnato.
“Più
velocemente sviluppi i tuoi
poteri, prima gli Hoser verranno a… reclamarti”.
Carlisle
si portò una mano dietro
la testa con fare pensieroso.
“Oh”,
mormorai sorpresa.
Tuttavia,
nonostante mi
aspettassi, probabilmente come tutti loro, di esserne spaventata, mi
ritrovai
ad esserne quasi grata. Sorrisi ampiamente verso Edward.
“Beh,
allora è perfetto. Mi
trasformeranno, così Claude non potrà
più uccidermi”.
Era
perfetto. Sembrava che tutto
s’incastrasse alla perfezione, come un puzzle su misura per
me.
Edward
ruggì al mio fianco,
circondandomi un polso con le dita.
“No!”,
esclamò con rabbia. “Ne
abbiamo già discusso. Non ho nessuna intenzione di
ucciderti”.
Il
suo sguardo fisso nel mio era
feroce, brillante quanto tizzoni ardenti.
“Calmati,
Edward”, lo avvertì
Carlisle. “Le farai del male”.
Edward
allentò la stretta attorno
al mio polso fino a lasciarlo ricadere sul divano.
Solo
dopo che la circolazione ebbe
ripreso a scorrere, mi resi conto di quanto forte avesse stretto.
Rimasi ad
osservare le linee bianche dove fino ad un istante prima erano state le
sue
dita e il contorno scuro che le circondava.
“A
dire la verità, El”, disse
Carlisle con voce calma e misurata. “Non è proprio
così semplice”.
Alzai
lo sguardo verso di lui,
portandomi entrambe le mani in grembo e stringendo il polso offeso con
l’altra.
Faceva male.
“Se
gli Hoser…”, si fermò,
scuotendo la testa amaramente. Ci riprovò. “Quando
gli Hoser si accorgeranno delle tue capacità, è
molto probabile che decidano di
tenerti con loro. Saresti il loro fiore all’occhiello, o per
meglio dire la
loro arma migliore”.
Ci
fu un profondo sibilo al mio
fianco. Lo ignorai.
“C’è
un modo per evitarlo? Voglio
dire, non c’è un modo per fare sì che
non abbiano pretese su di me?”.
Lanciò
uno sguardo di scuse verso
Edward. Sibilò un’altra volta.
-Perdonami, figliolo-, pensò
sincero prima di tornare a me.
“Un
modo c’è, ed è quello a cui
stiamo pensando da parecchio tempo. Ma Edward continua ad opporsi, e
non sembra
esserci modo di smuoverlo”.
Repressi
un sibilo a mia volta,
guardando nella direzione di Edward in cagnesco, ma senza posare
davvero i miei
occhi su di lui. Il mio polso pulsava ancora al ricordo della sua
stretta.
“E’
la mia vita, non la sua”,
scandii con attenzione.
Poco
importava che lui mi
considerasse la sua vita. Il cuore che batteva all’impazzata
in quel momento,
quello che aveva i battiti contati – non importava il modo in
cui sarebbero
terminati – era pur sempre il mio.
Carlisle
annuì mestamente, per
poi sospirare.
“Dovremmo
trasformarti noi. A
quel punto, apparterresti alla nostra famiglia e avremmo un vincolo da
rivendicare nel caso volessero toglierti a noi. Non avvierebbero mai
uno
scontro che rischierebbe di attirare troppa attenzione su di
loro”.
Annuii
decisa.
“Quando?”,
domandai impaziente.
Prima
era, meglio era. Non potevo
sopportare oltre tutti quei problemi, quelle paure.
Un
altro ruggito riempì la stanza
e l’attimo dopo Edward torreggiava sopra di me, le sue
braccia allungate lungo
entrambi i lati del divano in modo da non lasciarmi via
d’uscita.
“No!”, esclamò
furente. “Perché tutta questa fretta?! Sei
impazzita?”.
Evitai
i suoi occhi
deliberatamente, sporgendomi verso Carlisle.
“Hai
sbattuto la testa troppo forte
oggi a mensa? Non pensi ai tuoi genitori, alla tua famiglia, a me?!”, mi bloccò il
viso tra le mani,
costringendomi a fissarlo negli occhi.
Cercai
di sgusciare via, ma era
impossibile.
Sostenni
il suo sguardo a lungo,
impedendomi con decisione di affondare in quell’oro
incandescente come avrei
fatto di solito. Non aveva il diritto di trattarmi così.
“Riflettici”,
ripeté, quasi
ringhiando tra i denti.
“Toglimi
le mani di dosso”,
sibilai riducendo gli occhi a due fessure.
Allentò
la sua presa all’istante,
fino a quando le sue braccia non ricaddero sui suoi fianchi. Il suo
sguardo era
triste, dispiaciuto. Cercò il mio con occhi colmi di scuse.
Ero pronta a
sostenere il suo sguardo infuriato, ma non quello dispiaciuto.
Mi
rifiutai di chinare il capo –
l’orgoglio a comandarmi – ma sentivo la mia
risolutezza venire meno ogni
secondo passato a specchiarmi in quei due pozzi dorati.
“Mi
dispiace”, disse in un
sussurro, la sua voce malinconica e carezzevole, avvicinandosi fino a
quando
non toccò la fronte con la mia.
Chiusi
gli occhi, ripiegando
leggermente la testa, per poi spingere contro la sua. Riaprii gli
occhi,
abbozzando un sorriso. Sospirò di sollievo.
-Mi dispiace. Perdonami-,
ripeté ancora.
Annuii
senza staccare la fronte
dalla sua.
Con
dolcezza, mi prese il polso
che aveva stretto troppo forte prima, circondandolo con le sue dita e
applicando la più leggera pressione. Accarezzò
gentilmente con il pollice le
linee bianche che lui stesso aveva impresso.
-Scusami-.
Entrambi
udimmo il richiamo
silenzioso di Carlisle.
Si
scostò da me, baciandomi tra
gli occhi per poi tornare a sedersi accanto a me.
Carlisle
annuì a se stesso.
-Elizabeth, finché Edward si
opporrà in questo modo, sai tu meglio di me
o di chiunque altro quanto sia impossibile fare ciò che
vorresti-
“Non
dico “no, mai”,
semplicemente “non
ora”. Vi prego. Sembra così poco il
tempo che riuscirò a passare con te,
non voglio strappare via la tua vita e rischiare così che tu
ce l’abbia con me
per il resto della tua esistenza”, mi circondò la
vita con un braccio. “Non
puoi esserne certa”.
Mi
lanciò un’occhiata tormentata.
-Non voglio rischiare la tua anima-
“Quindi
non c’è soluzione”,
esclamò Carlisle, la sua voce incupita di uno strano tono
amareggiato.“Lascerai
che qualcun altro si porti via la
sua vita e la sua anima. Sono sicuro che ti ringrazierà,
Edward, di averle impedito
di fare la sua scelta. Succederà comunque prima o poi,
questo lo sai bene”.
Edward
sospirò cupo, scuotendo la
testa. Non mi sarei mai aspettata di vedere Carlisle reagire a quel
modo. Seguì
un lungo silenzio, in cui mi sembrò di essere
l’unica a respirare.
Mantenni
lo sguardo basso sulle
nostre mani intrecciate.
“Okay”,
scandì Edward in poco più
di un sussurro. “Quando?”.
Era
incerto. Sapevo che per lui
questa era ancora la scelta sbagliata, ma lo stava facendo per me.
Strinsi la
sua mano tra le mie. Carlisle si passò una mano tra i
capelli, riflettendo
attentamente.
“Non
lo so”, ammise fissandomi in
volto. “I suoi genitori si sono appena trasferiti qui, non me
la sento di
portargli via la loro figlia dopo così poco”.
“Ma
non ce ne andiamo, resteremo
qui, giusto? Vedrò lo stesso la mia famiglia,
no?”, chiesi insicura. Edward e
Carlisle sospirarono in sincrono.
“Resteremo
qui, sì”, mi confortò
Carlisle. “Ma non posso dire quando o se potrai rivedere i
tuoi genitori.
Potresti essere troppo pericolosa per loro”.
Oh. Per un secondo me ne ero dimenticata.
Sarei diventata un vampiro.
“Possiamo
rimandare questa
conversazione a più avanti. Non c’è
motivo di decidere ora”, mi rassicurò
Edward, sfregandomi il braccio con la mano. “Sono successe
parecchie cose oggi,
è meglio che tu ci rifletta e che ti riposi. Ne riparleremo
quando sarà il
momento più adatto”, disse incatenando lo sguardo
al mio.
Il
pomeriggio passò lentamente.
Edward mi aveva riportato a casa dei miei genitori, accennando al fatto
che
probabilmente avevo avuto un calo di zuccheri durante la mattinata e
non mi ero
sentita bene. Mia madre quasi diede fuori di matto.
Tuttavia,
siccome la presenza di
Edward era notevolmente poco gradita all’interno delle mura
domestiche, fu
costretto ad uscire, lasciandomi così da sola per il
pomeriggio.
Sapevo
che sarebbe rimasto a
tenermi d’occhio e mi sarebbe bastato salire le scale e
raggiungere la mia
stanza per trovarlo lì, ma mia madre mi obbligò a
restare con lei in salotto,
sfoderando la scusa del
è-poco-tempo-che-sei-qui-stai-con-la-tua-mamma, in
forza del mio precario stato di salute.
Passai
così il pomeriggio
ancorata al divano insieme a mia madre, impegnata in una telefonata
dietro
l’altra. L’espressione “stai
con la tua
mamma” comprendeva solamente il fatto di trovarci
nella stessa stanza.
La
sentii più volte borbottare al
telefono, mentre cercava di contattare il suo vecchio posto di lavoro
per
velocizzare il trasferimento alla sede più vicina. Olympia
non era molto
lontana e non sembrava dispiacerle lavorare lì. Mio padre
invece era già
riuscito ad effettuare il trasferimento alla modesta concessionaria di
Port
Angeles. Niente a che vedere con quella di Miami, ma nemmeno lui
mostrava
grandi segni di pentimento. Sarah si era già fatta un paio
di amiche a scuola,
riuscendo a farsi invitare a casa loro sin dal primo giorno. Come ci
riuscisse,
per me rimaneva un mistero.
Quando
notai che la luce del sole
cominciava a svanire da dietro la pesante coltre di nubi, decisi che
era tempo
di rifugiarmi in camera mia.
“Vado
in camera”, informai mia
madre mentre era ancora al cellulare, impegnata ad annotare su un
post-it
diversi indirizzi e numeri di telefono.
Mi
rivolse uno sguardo di scuse,
dispiaciuta del poco tempo passato insieme. Le sorrisi per
tranquillizzarla e
salii al piano di sopra. Edward era già lì ad
aspettarmi.
Ecco
fatto, ancora meno uno. Che ne pensate? Ve lo aspettavate in qualche
modo? Come ho
già detto, questo capitolo è piuttosto importante
per
me soprattutto perchè racchiude il titolo stesso, quindi
fatemi sapere
che cosa ne pensate - per favore?
Mi rendo conto che la trama è un po' contorta, quindi se a
qualcuno non fosse perfettamente chiara la faccenda
trasformazione/Hoser o qualunque altra cosa io sono sempre qui :)
Vi ringrazio per il bentornata del capitolo scorso, mi fa sempre
piacere vedervi recensire - soprattutto dopo così tanto
tempo. Non so che altro dire, quindi buon weekend e alla prossima! :)
Vi
lascio con questa canzone meravigliosa, che per il titolo direi che
può anche andare a braccetto con il capitolo xD
Buonasera!
Aggiorno stasera perchè domani sono fuori tutto il giorno.
Stiamo procedendo piuttosto spediti verso la fine, ormai manca davvero
poco. Questo capitolo è piuttosto lungo, e nell'ultima parte
si fa protagonista uno dei personaggi che più preferisco
nella Saga - probabilmente non per voi però xD Non so che
dire, quindi buona lettura :)
Capitolo
33. Sola.
Quando
uscii di casa, la mattina
seguente, fui quasi sorpresa del fatto di essere in largo anticipo. Di
solito
ero costretta a catapultarmi fuori dalla porta e correre in macchina,
grata del
fatto che la guida di Edward fosse ben più veloce di quella
normale.
Raggiunsi
a grandi falcate la
Volvo ferma a poco più di qualche metro, il motore ancora
acceso. Tuttavia, mi
sorpresi quando, aprendo la portiera posteriore, trovai la macchina
vuota. Fatta
eccezione per Edward.
“E
questo…?”, cercai di domandare
gesticolando, piuttosto sorpresa.
“Pensi
di usarmi come tassista
oppure salire qui di fianco a me?”, m’interruppe
sfoderando un gran sorriso.
Inarcai
un sopracciglio nella sua
direzione, squadrandolo scettica. Lui si limitò a
picchiettare il sedile del
passeggero, invitandomi a salire. Non riuscii a non sorridere. Lanciai
lo zaino
sul sedile posteriore e richiusi la portiera, per poi salire davanti.
Non
appena allacciai la cintura, alzai lo sguardo e lo trovai
lì, a pochi
centimetri da me.
La
bellezza del suo viso così
vicina al mio si portò via il mio respiro, lasciandomi
boccheggiante. Cercai di
ricompormi, rimuovendo gli occhi dai suoi.
“A
cosa devo tutto questo?”,
domandai ostentando indifferenza.
Non
la bevette. Si avvicinò
ulteriormente, chiudendo la distanza tra noi fino a lasciare
semplicemente lo
spazio per formare sospiri ravvicinati.
“Mmm,
Emmett si era stufato di
stare stretto e io ho pensato che dopotutto non era una cattiva idea
accontentarlo”.
La
sua voce nascondeva un’ombra
divertita che mi rivelava quanto gli piacesse farmi impazzire.
“Mh-mh”,
lasciai che le sue labbra
sfiorassero appena le mie, senza in realtà toccarle.
“Sono sicura che ora
Emmett è felice”.
Sentii
quasi un ruggito, confuso
dalla sua risata, giungere dalla sua gola mentre annullava la distanza
tra noi,
schiacciandomi contro di lui con impazienza. Ero stupita dal suo
comportamento,
ma lungi dal lamentarmene. Stavo bene dov’ero.
Mi
strinse con forza, affondando
le mani tra i miei capelli e avvicinandomi al suo viso con insistenza,
convinto
di potermi avvicinare a lui oltre ogni limite imposto dalla fisica. Ad
un
tratto, le sue labbra cambiarono atteggiamento, diventando dolci e
caute nei
movimenti. Potevo sentire il mio cuore rimbombare nel suo petto, tanto
forte da
pensare che sarebbe riuscito a risvegliare il suo, ormai dormiente da
diverso
tempo. Infine, si scostò da me, entrambi affannati dal
respiro accelerato.
Non
mi lasciò allontanare, mi
tenne stretta tra le braccia quanto la macchina poteva concedergli.
“Buongiorno”,
mi disse baciandomi
la fronte.
Dopo
un buongiorno del genere,
non mi sarei più accontentata di qualcosa di diverso.
“Ciao”,
abbozzai trattenendo a
stento una risata imbarazzata.
Poi
mi accigliai.
“Ehi!”,
esclamai sgusciando via
dalle sue braccia per lanciargli un’occhiata confusa. Non
riuscivo a capire.
“Non riesco più a sentirti”.
Mi
sorrise compiaciuto.
“L’avevi
già capito”, costatai
dalla sua espressione.
“Sì,
e anche sospettato”, ammise.
“E’ normale che dopo aver manifestato il tuo potere
per la prima volta, nei
giorni successivi sembri sparire nel nulla”.
Il
suo sorriso truffatore mi
stava dicendo qualcosa di più.
“Ma?”,
insistetti, sicura che ci
fosse qualcosa da aggiungere.
“Ma
a quanto pare tu sei speciale
anche in questo”.
Inarcai
un sopracciglio, confusa.
Non riuscivo a sentirlo, era impossibile che stesse dicendo il
contrario. Nella
mia testa c’era il vuoto più assoluto. Solo i miei
soliti pensieri
aggrovigliati.
“Edward,
io non ti sento”.
Annuì
sorridente. “Ora”.
“Cosa?”.
Per
tutta risposta si avvicinò di
nuovo a me, così velocemente che mi sembrò di non
averlo visto.
“Edw-”,
cercai di lamentarmi,
nonostante non riuscissi a convincere nemmeno me stessa.
“Shh”,
mormorò. “Stai attenta”.
Appoggiò
la sua bocca sulla mia,
rendendomi difficile qualunque tipo di concentrazione. Chiusi gli
occhi. Ci
avrei provato, almeno.
-Vedi?-, lo sentii chiedere nella mia
testa.
Sobbalzai,
ritraendomi. A
giudicare dalla sua espressione, sembrava avere qualche
difficoltà nel
trattenere la risata che minacciava di scoppiare.
“Alice
è convinta che tu sia più
forte con me vicino… beh, questo
direi che dimostra la sua teoria”.
Era
assolutamente, completamente
compiaciuto di se stesso. Mi lanciò un’occhiata
soddisfatta e al contempo
divertita.
Alzai
gli occhi al cielo.
“E’
possibile”, acconsentii
controvoglia. “Ora portami a scuola, siamo in
ritardo”.
Quella
settimana trascorse
velocemente, risucchiata com’ero dagli impegni e dalla mia
nuova routine. A
scuola c’era una strana atmosfera, quel misto di allegria e
voglia di libertà
che avvolgeva come una bolla di sapone le ultime settimane di lezione.
Tutti sembravano
non attendere altro.
Le
giornate passavano così
velocemente che quasi non mi resi conto che la fine della scuola si
avvicinava
sempre di più. L’estate portava cambiamenti; non
ero sicura di volerla.
Il
mio scudo ebbe alti e bassi,
ma non si manifestò più come la prima volta. Ogni
tanto riuscivo a percepire
qualche immagine, qualche pensiero, ma niente di più.
Tuttavia, alla fine
preferivo che fosse così. A volte è meglio non
sapere ciò che la gente pensa di
te, a meno che tu non voglia cambiare l’opinione che hai su
di essa.
Quella
settimana cercai di stare
con la mia famiglia il più possibile. Non volevo perdere
nemmeno un secondo con
loro. Solo ora riuscivo a rendermi conto di quanto mi fossero mancati.
Mia
madre era riuscita ad
ottenere il trasferimento e, con sua grande sorpresa, anche un buon
aumento.
Nonostante Edward negasse spudoratamente, sospettavo che i Cullen
c’entrassero
qualcosa con tutto ciò.
“Oh,
El!”, mi chiamò Angelica
appena dopo che ci fummo salutate dopo l’uscita a scuola.
“Sì?”,
le chiesi quando mi
raggiunse.
“Mi
sono dimenticata di dirti che
sabato i ragazzi hanno organizzato un’altra uscita a La Push,
vieni con noi?”.
“Ehm…
non saprei”, abbozzai con
un sorriso.
“Dimmi
di sì”.
“Ang,
non lo so. Devo chiedere ai
miei e…”, mi zittii prima di dire cose di cui mi
sarei pentita.
“Fa
venire anche lui”, mi sorrise.
Mi
maledii mentalmente. Come
faceva Angelica a conoscermi così bene? A volte sembrava
fosse lei quella
capace di leggere nel pensiero.
“Dimmi
che ci penserai…?”, la sua
supplica sembrò quasi una domanda.
Le
sorrisi. “Okay, ci penserò, ma
non ti prometto niente”.
“Va
bene. Chiamami, a domani!”.
“Ciao
Ang”, la salutai di nuovo.
La
osservai correre verso la sua
macchina.
“Salve”,
la sua voce fu seguita
dalle sue dita fredde che s’intrecciavano alle mie.
Abbassai
lo sguardo sulle nostre
mani, inorridita, e sobbalzai lasciando la sua. Sembrava che il mio
cuore
stesse cercando un modo per perforare la cassa toracica e prendere il
volo. Non
l’avevo sentito arrivare.
“Che
diavolo fai?!”, sibilai
fissandolo in cagnesco.
Mi
guardò con un’espressione
confusa.
“Ti
saluto?”, domandò con un
mezzo sorriso.
Alzai
gli occhi al cielo.
“Vuoi
farmi venire un infarto?
Non puoi comparire così dal nulla!”, mi portai una
mano al petto come prova, riuscendo
a percepire il mio cuore anche attraverso la giacca a vento.
Le
sue labbra si tesero a
trattenere un altro sorriso.
“Cercherò
di non farlo più”,
promise con un’espressione tutt’altro che seria.
“E
poi che diamine stavi cercando
di fare?”, gesticolai senza motivo.
“Dovrei
dire qualcosa in questo
momento? Non ho idea di cos’altro abbia sbagliato”,
ridacchiò tra sé.
Gli
afferrai il polso,
accostandolo al mio e rendendo così ovvio a cosa mi
riferissi.
“Sbaglio
o eravamo d’accordo che
non avremmo dovuto mostrarci in pubblico?”.
A
quel punto rise della mia
espressione. Avevo avuto una giornata piuttosto pesante, mi sentivo
sull’orlo
di una crisi isterica.
“Allora?”,
insistetti esasperata
dalla sua noncuranza.
Si
strinse nelle spalle con
sguardo innocente. “Ho deciso che non
m’importa”.
“Cosa…
perché?”, domandai
stupita, i miei occhi spalancati in sorpresa.
Senza
abbandonare i miei occhi,
con la mano libera afferrò il mio polso con dolcezza,
costringendomi così a
sciogliere la mia presa.
Mi
sorrise, per poi far scivolare
le sue dita nuovamente tra le mie e lasciarle così a
mezz’aria.
“Voglio
che tutti sappiano che
sei mia e di nessun altro”.
In
quel momento, avrei voluto
quasi urlare. Sapevo che mi amava, nonostante mi sembrasse sempre
incredibile,
ma il fatto che ora volesse farlo sapere a tutti… sembrava
renderlo ancora più
reale.
Ero
consapevole degli sguardi che
proprio in quell’istante mi stavano perforando la schiena
come minuscoli
pugnali, ma non riuscivo ad interessarmene minimamente.
“Nessun
altro”, ripetei convinta.
“Nessun
altro”, mi fece eco,
avvicinandosi a me quanto bastava per baciarmi.
Non
potei impedirmi di sorridere
all’“ooooh” sorpreso che si
levò quasi in coro dal parcheggio della scuola, e
nemmeno Edward ci riuscì. Senza badare a nessuna delle facce
stupite che ci
guardavano senza neanche batter ciglio, salimmo entrambi sulla Volvo.
“Ehi
El, ho saputo che avete dato
spettacolo nel parcheggio della scuola”, mi accolse Emmett
non appena misi
piede in casa.
Non
avrebbe sicuramente perso quest’occasione
per prendermi in giro.
“Già”,
gli sorrisi, sperando che
dargli corda sarebbe bastato a zittirlo.
Ovviamente
mi sbagliavo.
“Mi
sarebbe piaciuto assistere,
peccato che Rose abbia voluto subito correre a casa
per…”
Edward
lo interruppe con un ruggito.
“Sta
zitto, Emm”.
Emmett
trattenne a stento una
risata, ma non continuò con la sua tortura. Non capivo il
perché della reazione
di Edward, ma ero grata che fosse riuscito a far smettere Emm.
Quel
pomeriggio avevo detto a mia
madre che sarei andata a fare i compiti da Rose e che, forse, sarei
rimasta lì
fino a dopo cena. Cosa non del tutto falsa, ma dubitavo che avrei
passato tutto
il mio tempo con Rosalie. Nel complesso, passai una bella giornata e
una serata
anche migliore, anche se un po’ particolare.
Quella
sera, ad un tratto, Alice
scattò in piedi affrettandosi per spegnere le luci e
accendere una debole
musica di sottofondo con un gigantesco sorriso stampato in faccia.
Edward
alzò gli occhi al cielo,
scuotendo la testa lievemente con una risata.
Notai
gli altri allontanarsi
discretamente da Alice – che nel frattempo si era appollaiata
su una delle
poltrone vicino alla vetrata – la sua espressione entusiasta
mentre si lisciava
distrattamente il vestito sulle ginocchia.
Edward
mi strinse la mano con
dolcezza, avvicinandomi al suo petto. Mi accostai a lui sul divano.
Stavo
per chiedere spiegazioni,
quando Jasper scese le scale dal piano di sopra, il suo sorriso che
rispecchiava quello di Alice. Non avevo nemmeno notato la sua assenza
silenziosa.
A
quel punto, nell’osservare
l’espressione di entrambi, capii quello che stava succedendo.
“Pensavo
mi avresti lasciata qui”,
cinguettò Alice con una risatina.
Jasper
camminò lentamente verso
di lei fino a starle di fronte.
“E’
sempre impossibile riuscire a
farti una sorpresa”, mormorò con un sorriso.
Poi
si voltò brevemente verso di
me, lanciandomi una breve occhiata per poi scrollare le spalle
impercettibilmente. Oh, certo. Adesso era colpa mia se la sua ragazza
era una
veggente. Gli angoli della bocca mi si curvarono in un sorriso
involontario e
sentii anche Edward sorridere in silenzio.
Jasper
accarezzò lentamente il
braccio di Alice, dalla spalla fino al polso, per poi prenderle la mano.
“E
comunque, sai bene che ti
faccio sempre aspettare parecchio”, riprese il discorso.
Alice
sorrise ampiamente, come se
dietro quella frase ci fosse molto di più.
“Temevo
che non saresti mai arrivato”,
disse in un sussurro.
“E
invece eccomi qui”, si
inginocchiò lentamente, i suoi occhi che scintillavano con
eccitazione. “Eccoci
qui”.
Si
fissarono a lungo, in
silenzio, e mi sentii uno spettatore indesiderato.
L’intensità con qui i loro
occhi restavano in quelli dell’altro, colmi di parole e
promesse silenziose, mi
faceva sentire quasi a disagio. Rose e Emmett, in un angolo,
osservavano con
superficialità la scena davanti a loro –
probabilmente perché l’avevano già
vissuta più di una volta –, mentre Esme e Carlisle
avevano preferito andare in
cucina. Riportai di nuovo lo sguardo su Alice e Jasper.
Fu
Jasper a rompere nuovamente il
silenzio.
“Alice
Cullen, vuoi rendere la
mia esistenza più felice di quanto avessi mai
pensato?”.
Alice
cominciò ad annuire ancor
prima che finisse la frase.
“Allora
sposami di nuovo”, disse
solennemente, sollevando la piccola mano di Alice fino a quando non
sfiorò le
sue labbra.
Fui
costretta ad allontanare lo
sguardo.
“Sì”,
la sentii squittire
entusiasta.
Sospirai
lievemente, cercando di
capire perché sentivo gli occhi umidi. Edward mi strinse di
nuovo la mano. Abbassai
lo sguardo sulle nostre dita intrecciate e fu semplice capire che era
questo
quello che volevo. Anch’io volevo un momento in cui qualcuno
sarebbe stato
costretto a guardare altrove, un momento mio e solo mio. E sapevo anche
con chi
volevo vivere quel momento.
Strinsi
anch’io la sua mano con
forza, sperando di trasmettergli ciò che provavo almeno in
parte.
Non
volevo il matrimonio. Non
ancora, almeno. Volevo semplicemente essere sua in modo indiscutibile,
in modo
che nessun altro avrebbe tentato di portarmelo via. Volevo che la gente
sapesse
che lui era mio, che questa splendida, introversa, testarda creatura
immortale
mi aveva donato l’anima che credeva di non avere, legandola
alla mia con fili
invisibili.
Con
le dita della mano libera
disegnai sul suo braccio un intreccio confuso, avvicinandomi al suo
orecchio
per sussurrargli quello che ormai appariva quantomeno scontato.
“Ti
amo”.
Sembrò
irrigidirsi e per un
attimo temetti di aver fatto un errore. Forse non voleva questo, forse
gli
bastava quello che avevamo ora. Tuttavia, dopo qualche secondo il suo
corpo
tornò a prendere vita, e si sporse a sfiorarmi la fronte con
le labbra
teneramente.
“Ti
amo”, mormorò a sua volta.
“Mamma?”,
chiesi la mattina dopo
prima di uscire.
“Sì,
tesoro?”.
“Ecco…
so che siete qui da poco e
mi dispiace non stare con voi, ma Angelica e gli altri ragazzi mi hanno
chiesto
di andare con loro a La Push, la riserva Quilleute a First
Beach”.
Ondeggiai
sui talloni, esitante.
“Posso
andare?”, domandai,
esplicitando la mia richiesta.
“First
Beach, hai detto?”.
Annuii
in silenzio, indecisa se
alzare lo sguardo o continuare a contemplarmi i piedi.
“Con
chi dovresti andare?”.
Oh,
per carità divina. La santa
inquisizione no.
“Mamma…”,
mi lamentai alzando gli
occhi al cielo. “Dovrei andare con Angelica e altri compagni
di scuola, te l’ho
già detto”.
“E
Edward?”.
Ah,
colta nel segno.
“Che
c’entra Edward ora?”,
replicai sulla difensiva.
“Niente,
pensavo solo che venisse
anche lui”, mi sorrise come se fosse compiaciuta della mia
reazione. “Sai, dato
che è la tua ombra ovunque tu vada”.
Sbuffai.
“Non viene, non può”.
Ti prego non chiedermi perché,
pensai supplichevole.
“Mmm”,
sembrò soddisfatta.
“Quando hai detto che volete andare?”.
“Sabato”,
risposi. “L’idea era di
andare lì la mattina presto e stare lì fino al
pomeriggio”, dissi anticipando
la sua domanda successiva. “Non so quando si torna”.
Mia
madre annuì lentamente. “Per
me va bene, ne parlerò con tuo padre”.
Esultai
internamente. Metà del
lavoro era fatto e, nonostante mi disturbasse il fatto che avesse
acconsentito
solo perché non c’era Edward, preferii
concentrarmi su come affrontare la
questione con Edward stesso. Non sarebbe stato così facile.
Mi
decisi a parlargliene durante
il tragitto verso scuola. Di certo non avrebbe potuto scappare o
evitarmi così.
Avevo voglia di rivedere Seth e Leah, e forse anche Jacob, anche se non
ero
totalmente sicura di quest’ultimo.
“Quindi…”,
farfugliai
mordicchiandomi nervosamente l’interno della guancia.
Lasciai
la voce perdersi nel
vuoto. Mi passai una mano tra i capelli, espirando profondamente.
“El?”,
mi chiamò Edward
portandomi una mano sotto il mento e sollevandomi il viso fino a che
non
incontrai i suoi occhi. “Dimmi”.
Cercai
di evitarli, guardando
alle sue spalle il paesaggio oltre il finestrino.
“Io…niente,
mi chiedevo solo…”,
dissi inciampando sulle mie stesse parole, chiedendomi se riuscisse a
distinguerle. “Guarda la strada. Angelica mi ha chiesto di
uscire questo
sabato, ma volevo prima chiedere a te se era okay?”, la mia
voce suonò come una
domanda.
La
macchina rallentò visibilmente
ed Edward accostò, lasciando il motore acceso e voltandosi
verso di me. I suoi
lineamenti seri si rilassarono quasi subito ed espirò
profondamente prima di
rivolgermi un mezzo sorriso che mi mozzò il fiato.
“Sono
davvero così opprimente?”,
chiese inclinando la testa di lato.
“No!”,
mi affrettai a dire. “E’
solo che...”.
“El,
io mi fido di te. Non voglio
che ogni volta che vuoi fare qualcosa tu abbia paura di dirmelo
perché pensi
che io sia contrario e te lo impedisca. Voglio solo che tu sia al
sicuro,
nient’altro”.
Sorrisi
timidamente.
“Ecco,
il problema è quello
credo”.
I
suoi occhi bruciavano sul mio
viso.
“Ovvero?”.
“Diciamo
che la tua idea di sicuro non
corrisponde a quella della
maggior parte della gente”, mormorai lasciando cadere lo
sguardo.
Lo
sentii sospirare, sicura che
stesse alzando gli occhi al cielo.
“Angelica
mi ha chiesto di andare
a La Push”, confessai dopo qualche secondo di silenzio.
Notai
le sue dita stringersi
intorno al volante, ma non osai alzare lo sguardo per osservare la sua
espressione.
“Allora
meno male che non sono
“la maggior parte della gente””,
commentò.
Ancora
silenzio. Lo vidi
ingranare la marcia e ripartire, riportando la macchina in carreggiata.
Poco
dopo, notai il profilo della scuola avvicinarsi lentamente davanti a
noi, la
foresta cedere spazio agli edifici, il verde delle cime arrendersi al
grigio
cupo della civiltà.
Avevo
bisogno di una risposta. Esitante,
alzai lo sguardo verso di lui e lo fissai da sotto le ciglia. La sua
espressione era pensierosa, i suoi lineamenti tesi e contratti. Quando
scesi
dalla macchina, davanti a scuola, stavo ancora aspettando una sua
risposta.
“Edward”,
lo chiamai, trattenendolo
per la manica della giacca. “Per favore, almeno
rispondimi”.
Inspirò
profondamente come per
calmarsi.
“Okay”,
sospirò rassegnato.
Lo
fissai confusa.
“Okay
mi rispondi o okay posso
andare?”.
Gli
angoli della sua bocca si
sollevarono verso l’alto.
“Okay,
puoi andare”, chiarì,
un’ombra divertita nella sua voce.
Rilasciai
un respiro che non mi
ero resa conto di trattenere.
“Davvero?”.
Come
era possibile? Così
facilmente? Doveva esserci qualcosa sotto.
“Davvero”,
mi sorrise di nuovo.
“E’ così incredibile da
credere?”.
“Beh,
a dire la verità sì”,
ammisi ridacchiando.
“Okay,
forse me lo merito”, alzò
gli occhi al cielo. “Ma promettimi che starai attenta. Se ti
dovesse succedere
qualcosa, qualunque cosa, ti considererò la diretta
responsabile”, mi prese per
mano, avvicinandomi a lui fino a che non fui quasi contro il suo petto.
“Promettimelo”, insistette fissandomi a lungo negli
occhi.
“Te
lo prometto”, sospirai.
“Bene”,
mi baciò la fronte.
“Allora direi che possiamo andare in classe”.
“Hai
preso tutto?”, mi domandò
sulla porta di casa.
“Sì,
papà”.
“Bene,
stai attenta allora”, mi
baciò la fronte. “E divertiti”.
Ridacchiai
alla sensazione di
deja vù. “Ci vediamo più
tardi”.
Quei
due avevano molto più in
comune di quanto pensassero o, nel caso di mio padre, di quanto gli
sarebbe
piaciuto sapere.
Alice
era già in macchina ad
aspettarmi. Purtroppo Edward non aveva potuto accompagnarmi
perché Emmett e
Jasper lo avevano trascinato in una battuta di caccia e Alice aveva
impedito a
Rose di accompagnarmi, offrendosi lei volontaria.
“Ciao”,
la salutai.
“Ciao,
El”, mi sorrise gentile.
Il
silenzio durò appena il tempo
di mettere in moto la macchina.
“Jasper
mi ha chiesto di sposarlo
di nuovo! Ci pensi?”.
“Alice,
c’ero anch’io. Ero
presente”.
“Sì,
lo so. Stavo solo gongolando”,
tamburellò con le dita sul volante per qualche istante.
“Voglio che tu sia la
mia damigella d’onore”.
Strabuzzai
gli occhi.
“Tu
cosa? Io che cosa?”,
quasi strillai. “Non se ne parla”.
“Oh,
lo sapevo che avresti fatto
così”, alzò gli occhi al cielo.
“Sei proprio un caso disperato”.
“Dai,
ti prego! Ti prego, ti
prego, ti prego. Mi vuoi bene, giusto?”, continuò
imperterrita.
“Ah,
no! Non usare la carta del
ti voglio bene, Alice”.
“Se
non vuoi farlo per me,
potresti almeno farlo per Edward”.
Stavo
per risponderle, ma mi
limitai a fissarla confusa. Aprii la bocca per parlare, ma fui
costretta a
richiuderla un paio di volte prima di riuscire a formulare una risposta.
“Cosa?
Che cosa c’entra Edward
adesso?”.
“Sono
sicura che a lui farebbe
davvero molto piacere partecipare ad un evento ufficiale insieme a
te”, disse
sorridendo ampiamente.
Strinsi
gli occhi nella sua
direzione, osservandola con sospetto.
“Alice,
cosa sai che io non so?
Ti ha detto lui qualcosa?”.
Il
suo sorriso si tese.
“Può
darsi, non ne sono sicura”.
Alzai
gli occhi al cielo.
“Senti
Alice, a me farebbe
piacere aiutarti, però… non sono il genere di
persona a cui piacciono le feste.
E io non piaccio alle feste”.
“Tu
pensi troppo”.
Sospirai.
Aveva ragione.
“Lo
so”.
“Ti
prego, sii la mia damigella.
Edward sarà il testimone”, insistette ancora.
L’idea
di percorrere la navata
insieme a lui bastava ad aggrovigliarmi lo stomaco nel modo
più strano e a far
accelerare il mio cuore.
“Ho
visto come vi guardate. Rose
e Emmett non faranno in tempo a ripetersi”.
La
guardai incredula, incapace di
formulare una frase con un senso logico.
“Non
fingere di non sapere di
cosa parlo. Prima che tu te ne accorga, sarai con una fede al dito e di
cognome
farai Cullen, sorellina”,
enfatizzò
l’ultima parola con un gran sorriso compiaciuto.
Mi
limitai a fissarla, gli occhi
spalancati e la mandibola che oscillava pericolosamente verso il
pavimento.
Dopo qualche istante, ritornai in me.
Cosa
voleva dire tutto questo?
Lei sapeva qualcosa? Lui le aveva
detto qualcosa?
“El?”,
la voce di Alice mi
riportò alla realtà.
“Eh?”.
“Siamo
arrivate”.
“Oh,
sì. Okay”, farfugliai mentre
armeggiavo con la cintura di sicurezza e scivolavo fuori
dall’abitacolo. Le mie
gambe all’improvviso sembravano essere diventate di gelatina.
“El”,
mi chiamò di nuovo.
“Sì?”.
“Stai
di nuovo pensando troppo.
Divertiti e stai attenta”, mi sorrise. “E dimmi che
sarai la mia damigella”.
Mi
sentivo troppo scombussolata
per argomentare oltre.
“Va
bene, Alice”, presi un
respiro profondo. “Va bene, sarò la tua
damigella”.
“Sì!”,
esultò con una risatina.
“Grazie El”.
Alzai
gli occhi al cielo. “Non
c’è di che”.
“Allora
torno a prenderti più
tardi, chiama quando vuoi che ti venga a prendere e sarò qui
subito”.
“Va
bene”, annuii tamburellando
con le dita sulla tasca dove tenevo il cellulare.
“Stai
attenta ai cani, questi
mordono”, mormorò prima di ingranare la retro e
sfilare via.
Fissai
per alcuni istanti il
punto in cui era sparita, quasi confusa dalle sue parole. A volte
sembravo
scordarmi quanto il mio mondo fosse diverso da quello che appariva.
Mi
incamminai in silenzio verso
la spiaggia, dove sapevo che avrei trovato gli altri. Ad un tratto
scorsi una
figura venire nella mia direzione e, quando si accorse di me, mi
salutò con un
ampio movimento del braccio. Il lieve sole alle sue spalle non mi
permetteva di
riconoscere chi fosse, riuscivo semplicemente a delineare i contorni di
una
figura alta e slanciata.
“Eccoti
qui!”, esclamò
accelerando il passo verso di me.
Riconobbi
subito la voce.
“Seth!”,
sorrisi ampiamente,
affrettandomi a mia volta per raggiungerlo. “Dio mio, Seth,
sei tu?”, domandai
incredula una volta davanti a lui.
Come
aveva fatto a crescere così?
Si
indicò orgoglioso il petto.
“Proprio io”.
Alla
faccia della crescita
adolescenziale. Sembrava che l’avessero nutrito con i fagioli
magici delle
favole. Era cresciuto di quasi dieci centimetri, le braccia
visibilmente più
robuste e le linee dei muscoli del torace evidenti anche attraverso la
maglietta che indossava.
“Ti
prego, dimmi che tua sorella
non è cresciuta anche lei così tanto”,
dissi gesticolando nella sua direzione.
Ridacchiò
leggermente, per poi
scompigliarmi i capelli.
“No,
tranquilla”, mi rassicurò
con un sorriso. “Ah, Jake mi ha detto di salutarti”.
“Oh”,
mormorai. “Ehm… okay.
Salutalo anche tu da parte mia, credo”.
“Dai,
andiamo. Ti porto dagli
altri”.
Il
tragitto fu tranquillo,
accompagnato da qualche breve scambio di battute e piccoli
aggiornamenti sulle
novità della riserva. A quanto pareva non c’era
molto di nuovo.
“El!”,
Angelica mi corse incontro
non appena giungemmo sulla spiaggia. “Sei
arrivata!”.
L’abbracciai
brevemente, per poi
prendere posto vicino a lei su uno dei tronchi disposti in cerchio
sulla
sabbia. Poco dopo notai un’altra ragazza seduta in disparte,
il busto rivolto
verso la scogliera. Leah. Decisi di raggiungerla, sperando di riuscire
a
strapparle anche solo un rapido sorriso arrugginito. Forse, con il
tempo,
sarebbe tornato a sembrare naturale.
“Ciao”,
mi annunciai sedendomi al
suo fianco.
Mi
sorrise parzialmente, solo un
angolo della bocca sollevato verso l’alto. Dopo un lungo
silenzio, cominciammo
a chiacchierare distrattamente, senza parlare di nulla in particolare.
Sembrava
quasi spensierata mentre ridacchiava in silenzio al nostro scambio di
battute,
ma l’espressione all’interno dei suoi occhi la
tradiva.
“Quindi
non ci andrai?”, mi
chiese perplessa ad un tratto.
“Assolutamente
no!”.
“Perché,
El? Il ballo di fine
anno è importante per una ragazza”.
Scossi
la testa con un sorriso.
“Beh,
non per me”, chiarii con
una smorfia nella sua direzione. “E poi non ho nulla da
mettermi”, mentii
velocemente.
Non
era esattamente una bugia, in
realtà non avevo molto da mettermi, ma sapevo che sarebbe
bastato anche
soltanto suggerire a Rose e Alice di andare a fare shopping
perché il mio
problema scomparisse.
“Mmm”,
mormorò pensierosa.
“Questo significa che però non hai il problema
dell’accompagnatore”. Mi rivolse
un gran sorriso.
“Uhm,
ecco, no. Cioè, sì. No. Non
ho questo problema”, farfugliai senza senso.
Ridacchiò
in silenzio, per poi
osservarmi con una strana espressione.
“Quindi
è vero. Stai con una
delle sanguisughe”, la sua non era una domanda.
“Sì”,
ammisi timidamente. “A
quanto pare”.
Seguì
un breve silenzio, in cui
entrambe rimanemmo assorte nei nostri pensieri. Studiai il suo viso con
attenzione. Non sembrava disgustata, nonostante sapessi che lo era.
Sembrava
più… dispiaciuta, quasi mortificata. I suoi
lineamenti gentili erano piegati in
un’espressione corrucciata.
“Perché
li odiate così tanto?”, domandai
senza rendermene conto. “I Cullen, voglio dire”.
Mi
guardò con aria desolata.
“Non
è loro che odio,
è più il fatto che siano delle
sanguisughe”, mormorò
per poi abbassare lo sguardo sulle sue mani. “Ma non
è nemmeno quello il
motivo”.
Aspettai
in silenzio che
continuasse.
“Se
loro non esistessero, se
davvero il mondo fosse come dovrebbe essere, senza mostri e assassini,
allora
io potrei avere una vita normale e non essere… questo”, disse con disprezzo
indicando il suo corpo.
“Non
ti piace essere… quello che
sei?”, domandai incerta.
Sembrò
pensarci su per un attimo.
“No.
Sì”, sospirò pesantemente.
“Non lo so”.
Le
sorrisi debolmente.
“E’
complicato”, mormorò ancora.
Prese
un respiro profondo, incassando
la testa nelle spalle come per preparare a sollevare un gran peso.
Vedere la
sua espressione distrutta mi strinse lo stomaco.
“Ti
ricordi Sam, il ragazzo che
voleva farvi spegnere il falò?”, chiese
d’un tratto con voce forzatamente
allegra.
Mi
limitai ad annuire.
“Io…
stavo con lui”, sussurrò
così piano che non fui sicura di averla sentita
correttamente.
Scosse
la testa
impercettibilmente, per poi abbozzare un sorriso.
“Quando
mi lasciò, si limitò a
dire che gli dispiaceva. Che non poteva dirmi molto altro, ma che se
c’era una
cosa che poteva dirmi era che gli dispiaceva e che, se avesse potuto,
non mi
avrebbe mai fatto una cosa del genere. Disse che a
me non l’avrebbe mai fatto”.
Notai
le sue mani stringersi
l’una con l’altra con forza e mi chiesi cosa stesse
provando in quel momento.
Una parte di me non era certa di volerlo sapere.
“Da
quel momento, fu come se… il
mio mondo si fosse diviso in due, a metà. C’era il
passato e i suoi ricordi, e
poi c’era una strana dimensione del presente, in cui non ero
sicura di voler
vivere. Per non so nemmeno più quanto tempo, mi limitai a
rimanere sul confine
di entrambi. Spesso scivolavo indietro e rivivevo i ricordi; era
più forte di
me, ma sapevo di non poter continuare a farlo se volevo vivere. Il
futuro non era
nemmeno in vista, non c’era più. Se
l’era portato via lui”.
La
sua espressione era vuota,
persa in un periodo lontano. Non sembrava nemmeno essere qui con me.
“Ogni
giorno passavo davanti a
casa di Emily e lo vedevo, anche se per poco. Quando erano insieme, era
ancora
peggio. Lui non mi aveva mai baciata così, non mi aveva mai
stretta così… e lei
era esattamente tutto quello che io non sarei mai potuta essere. Era
felice,
era bella, era sua”.
La
sua voce monotono si spezzò
sull’ultima parola, e le sue mani si strinsero attorno alle
sue costole, come
per tenerla insieme.
“Leah,
tu sei bellissima”, la
interruppi, dandole torto.
Per
le altre due cose non avrei
potuto contraddirla. Il suo sguardo si rifocalizzò su di me
ed abbozzò un
debole sorriso.
“Lo
pensavo anch’io”, sospirò
pesantemente. “Ma a quanto pare una persona si sente bella
solo quando si sente
voluta e amata. L’autostima e il proprio egocentrismo servono
a poco in questo
caso”.
Sospirò
di nuovo, per poi
scuotere la testa come per liberarsi di quel pensiero.
“Se
non avessi avuto Seth, in
quel periodo, non so nemmeno dove sarei a quest’ora.
Tuttavia, un giorno si
ammalò. Aveva la febbre alta e non riuscivo in alcun modo ad
abbassargliela.
Sembrava stare bene, ma la sua temperatura era troppo alta. Non
riuscivo a
capire perché mia madre non si preoccupasse, pensavo che
sarebbe morto. Poi,
qualche giorno dopo, Seth cambiò radicalmente.
Guarì nel giro di una notte, e
cominciò ad allontanarsi da me e a seguire Sam.
All’inizio pensavo che fosse uno scherzo di cattivo
gusto”, scosse di nuovo la
testa. “Ma poi mi ammalai anch’io, e appena due
giorni dopo mi ritrovai piena
di pelliccia, con quattro zampe e una coda”,
sogghignò amaramente. “Pensavo di
essere diventata pazza, sentivo le voci nella mia testa. Sentivo la sua voce nella mia testa dirmi di stare
calma, che tutto sarebbe andato bene, che gli dispiaceva…
proprio come aveva
fatto quando mi aveva lasciata.
“Solo
dopo mi resi conto di
quello che era successo, ma l’unica cosa che ricordo
chiaramente è la rabbia di
quel momento. Nel momento in cui ho visto nei suoi
pensieri perché mi aveva lasciata, perché lei era il suo dannato imprinting, e il
dispiacere, la compassione
quasi che provava nei miei confronti-”, le sue mani si
strinsero in piccoli
pugni, mentre la sua figura sembrava tremare di rabbia.
Conoscevo
quel tremore, l’avevo
già visto una volta.
“Leah,
per favore, calmati”,
mormorai cercando di afferrarle una mano.
Sembrò
accorgersi della mia
presenza solo allora; prese un respiro profondo e i tremiti cessarono
quasi
immediatamente.
“Scusami”,
sussurrò quasi senza
voce.
Le
sorrisi timidamente,
aspettando che continuasse.
“In
ogni caso, da quel momento in
poi le cose migliorarono. Non avevo ancora un futuro, ma avevo uno
scopo. Mi
faceva sentire… meglio. Non bene, ma meglio”.
Inspirò
profondamente, per poi
rilassare le spalle mentre rilasciava un respiro stanco.
“Non
mi piace essere un mostro,
ma è l’unica cosa che ho”, concluse con
un sospiro. “Tuttavia, se i Cullen non
fossero mai arrivati qui, probabilmente tutto questo non sarebbe mai
successo e
avrei una vita normale”.
“Mi
dispiace, Leah”, strinsi la
sua mano con forza.
“Anche
a me”, acconsentì con un
debole sorriso. “Ma ormai è fatta”.
Rimasi
ad osservare le onde che
si infrangevano sulla scogliera lontano da noi, una brezza leggera che
mi
solleticò il viso e mi fece rabbrividire.
Mi
strinsi a lei, cercando al
tempo stesso di darle conforto e scaldarmi.
“Hai
freddo?”, chiese dopo poco.
Annuii
contro la sua spalla.
“Vieni”,
disse alzandosi
velocemente.
La
osservai allontanarsi di
qualche passo, per poi aspettarmi.
“Vieni
o no?”.
“Arrivo!”.
La
raggiunsi velocemente, facendo
cenno ad Angelica che mi allontanavo insieme a Leah per non farla
preoccupare.
Lei si limitò ad annuire, totalmente presa dalla
conversazione con Seth. Leah
mi trascinò rapidamente lungo la spiaggia, fino a risalire
il sentiero ed
entrare nel villaggio. Lo attraversammo per lo più in
silenzio, senza scambi di
parole, per poi trovarci davanti a una piccola casa rossiccia
dall’aspetto simile
a tutte le altre.
“Benvenuta
a casa Clearwater”, mi
disse solennemente, forzando un sorriso, prima di salire gli scalini di
casa e
invitarmi all’interno.
L’abitazione
era quasi più
piccola di come poteva apparire dall’esterno, ma le tinte
chiare alle pareti e
la luce che filtrava dalle grandi finestre sembravano renderla
più spaziosa.
Un
tavolo di legno dalla forma
squadrata occupava gran parte della sala principale, in fianco al quale
era
posto un divanetto rosso dall’aspetto vissuto. Quattro sedie
circondavano il
tavolo, ma solamente tre erano fuori posto, mentre la quarta,
appoggiata
accuratamente contro la superficie laterale del tavolo, sembrava
semplicemente
inutilizzata.
“Vieni,
andiamo in camera mia”.
La
seguii lungo lo stretto
corridoio, attenta a non toccare nulla.
La
camera di Leah era minuscola,
composta semplicemente di un letto e di una scrivania posta sotto il
davanzale
della finestra che la illuminava. In un angolo, c’era un
armadio lungo e
stretto, le cui ante sembravano faticare a stare chiuse.
Nell’insieme, era
confortevole, nonostante fosse piuttosto claustrofobica.
“Mi
dispiace che non sia
all’altezza degli standard delle sang-”, si
fermò prima di terminare la frase.
“Scusa”,
mormorò.
Annuii,
abbozzando un sorriso.
“Qual
è il Cullen con cui stai?
Sai, mi è capitato di vederli una volta sola, ma credo di
ricordarli abbastanza
bene”.
Spalancai
gli occhi alla sua
domanda, poi deglutii rumorosamente.
“Edward”,
risposi con voce fioca.
Perché
sembrava così definitivo e
importante il modo in cui avevo risposto alla sua domanda? Non mi aveva
chiesto
chi volevo portare all’altare con me, tuttavia il mio cuore
sembrava pensarla
diversamente dal modo in cui prese a battere non appena pronunciai il
suo nome.
“Mmm”,
sembrò pensarci su un
attimo. “Ah! Sì, credo di ricordare”,
sbottò qualche attimo dopo.
“Il
ragazzino solitario con i
capelli rossicci e l’espressione colpevole?”,
domandò con un mezzo ghigno.
Ridacchiai
alla sua descrizione,
veritiera seppur sintetica, per poi annuire di nuovo, imbarazzata.
“E’
carino”, costatò dopo un
breve silenzio.
Fissai
i miei occhi su di lei,
sollevando entrambe le sopracciglia nella sua direzione, certa che non
avrebbe
mai detto una cosa del genere su di lui.
Beh, molto più che carino, la
vocina nella mia testa commentò
aspramente.
Scosse
la testa, un’ombra
divertita sul volto, per poi ridacchiare silenziosamente.
“No”,
chiarì. “Non intendo
quello”.
Il
suo sorriso sbiadì
rapidamente.
“E’
carino il fatto che non sia
più solo”, la sua bocca si curvò in una
piega amara. “Ho… una certa simpatia
per lui. Lo capisco. Sai, dopotutto non era l’unico ad essere
solo… un tempo,
almeno”.
Il
mio petto si strinse nel
vedere la sua espressione. Leah si lasciò cadere sul letto,
affondando tra i
cuscini con un sospiro stanco.
Mi
sedetti sul bordo, in
silenzio.
“Leah?”,
chiesi qualche minuto
dopo.
“Mmm?”.
Sapevo
di non poterglielo
chiedere, ma la curiosità mi spingeva a farlo.
“Cos’è
l’imprinting?”.
Il
suo gemito strozzato mi fece
capire di aver sbagliato. E molto.
“E’
soltanto un modo crudele per
rendere le nostre vite ancora più difficili di quello che
già sono”, rispose
con un filo di voce.
“Scusami,
non-”, dissi, ma
m’interruppe.
“No,
è… okay. Pensavo solo che i
tuoi amici te l’avessero
già
spiegato”.
Scossi
la testa, aspettando un
qualche suo tipo di risposta.
Poco
dopo, Leah prese un respiro
profondo e si sedette sul letto, incrociando le gambe sotto di
sé. Mi fissò per
un istante, per poi lasciare cadere lo sguardo.
“Vedi,
l’imprinting è… complicato”,
inspirò profondamente di nuovo. “E’
amore fraterno, familiarità, amicizia e
l’amore più puro allo stesso tempo”.
La
sua voce era spezzata, quasi
dovesse piangere da un momento all’altro. Tuttavia, ero
sicura che non
l’avrebbe mai fatto. Non davanti a qualcuno.
Questa
volta toccò a me fare un
respiro profondo.
“Edè
così male?”, provai ad alleggerire
l’atmosfera, abbozzando un sorriso.
“Non
per chi ha l’imprinting”,
mormorò in un sussurro colmo di lontano risentimento.
Scosse
la testa
impercettibilmente, come per liberarsi di un pensiero scomodo.
“E’
la cosa migliore e quella
peggiore possibile. E’ come… un cambio di
gravità improvviso. Quando lo
incontri, o la incontri, il mondo
si
capovolge. Senza nemmeno accorgertene, ti ritrovi sottosopra, e non sai
nemmeno
come ci sei arrivato. E non te ne potrebbe importare meno.
Vieni… privatodi te
stesso. Tutto ciò che sei, ciò
che ti lega a ciò che sei, o che eri, la tua famiglia, i
tuoi amici, cosa o chi pensavi di
amare… persino te stesso,
non importa più. C’è lui, e solo
lui”, concluse con un sospiro. “O lei”.
Come
si fa a non amare Leah? E' meravigliosa questa donna.
Mi ricordo di aver scritto quest'ultimo dialogo sull'imprinting sul
banco a scuola - in inglese così che la gente non avrebbe
capito o sarebbe stata troppo pigra per farlo xD Comunque! Mi ha fatto
davvero piacere leggere le recensioni - come sempre - e do il benvenuto
alle new entry u.u
Che
altro dire... non so, cosa credete che succederà
ora? Vi è piaciuto il capitolo? Che ne pensate di Edward, o del (ri)matrimonio di Alice e Jasper? Vi informo che nel
prossimo capitolo ci sarà il boom finale, quindi restate con
me, mi raccomando u.u Beeeh vi lascio con una canzone che ultimamente
mi sta divorando il cervello. Buon weekend e alla prossima! :)
'Sera
a tutti! Ok, this is it - questa è la resa dei conti.
Finalmente le carte si scoprono, e neanch'io posso più
temporeggiare per impedirvi di capire cosa succede.
Mancano due capitoli, e ovviamente è qui che
scatterà
l'ultimo cambio di marcia. Restate con me, mi raccomando u.u Buona
lettura e fatemi sapere che ne pensate :)
Capitolo
34. Impossibile.
In
quel momento, provai vergogna
per aver tirato fuori un argomento tanto sensibile e pesante per Leah.
Potevo
vederlo nei suoi lineamenti contratti – dal momento che
rifiutava di incrociare
i miei occhi – che stava soffrendo. Cosa avrei potuto dire?
“Mi dispiace”?
Non era neanche
lontanamente abbastanza. Non lo sarebbe mai stato.
Mi
allungai per afferrare la sua
mano e stringerla tra le mie, cercando di farle capire quanto mi
dispiacesse.
Tuttavia, sentivo che dovevo lasciarla da sola qualche istante per
darle modo
di calmarsi e sfogarsi da sola. Il lieve tremore che le percorreva le
braccia
ne era la prova.
“Uhm…
Leah?”, la chiamai dopo un
lungo minuto di silenzio.
Un
silenzio così assordante che
premeva sui miei timpani, minacciando di romperli. Non aveva ancora
alzato lo
sguardo da prima, i suoi occhi vuoti fissi sulla coperta sgualcita ai
piedi del
letto.
Alzò
la testa al suono del suo
nome, ma non abbastanza da incrociare il suo sguardo.
Lungo
una guancia fui sicura di scorgere
un percorso appena segnato, irregolare ma ben visibile a causa della
luce che
vi si rifletteva sopra. Quel sentiero proseguiva lentamente fino al
mento, dove
terminava in una piccola goccia, appena tremante.
Mi
mancò il fiato.
“Posso…
mi potresti dire dov’è il
bagno?”, chiesi esitante, senza lasciar cadere il mio sguardo
dalle sue
lacrime.
Codarda, mi urlò la vocina
dentro di me. Hai fatto questo, e ora scappi
via.
Leah
prese un respiro profondo,
per poi lasciar cadere le spalle come se il peso che sostenevano fosse
peggiore
del mondo intero. La piccola lacrima ondeggiò lentamente,
per poi precipitare
sul suo ginocchio, creando una minuscola macchia scura.
“L’ultima
porta a sinistra in fondo
al corridoio”, alzò il braccio per indicarmi,
senza guardare, dove dovevo
andare.
Volevo
semplicemente sparire.
“Grazie”,
sussurrai imbarazzata,
pentendomi delle mie parole appena uscirono dalla mia bocca.
L’ultima
cosa che Leah voleva
ora, con ogni probabilità, era un ringraziamento.
Quasi
fuggii dalla stanza,
accostando la porta alle mie spalle non appena ne fui fuori. Non andai
nemmeno
in bagno, mi serviva solo una scusa per scappare dalla sua camera.
Codarda, ribadì la vocina.
Ma
non potevo fare altro. C’era
così tanto lì dentro, come se i ricordi custoditi
all’interno di quella stanza
riempissero l’aria, rendendola quasi irrespirabile. Forse era
Leah che l’aveva
resa così, attaccandosi ai suoi ricordi così
forte da non lasciare spazio per
nient’altro.
Mi
ritrovai in cucina, confusa ed
emotivamente distrutta. Girovagai in silenzio, ascoltando il lieve
scalpiccio
che le mie scarpe creavano al loro passaggio sul pavimento in legno. In
quel
momento, ero sola. Nonostante Leah fosse nella stanza in fondo al
corridoio,
sembrava che ci fossi solamente io.
Seguii
con le dita il profilo dei
mobili della cucina, osservando distrattamente le venature del legno e
le sue
pieghe. Ad un tratto, mi fermai e mi sporsi per afferrare un piccolo
orologio
da taschino dall’aspetto vissuto appoggiato sul bordo del
tavolo. Non mi
sembrava di averlo visto prima.
Lo
osservai con attenzione,
rigirandolo ripetutamente per studiare quel piccolo oggetto dalle
lancette
immobili sulla mezzanotte. Tuttavia, qualcosa attirò la mia
attenzione e fui
costretta a sollevare gli occhi.
Mi
si mozzò il respiro non appena
ne distinsi i contorni e aguzzai lo sguardo, sperando di potermi
smentire.
Lucida e nera come me la ricordavo, la piccola pietra incisa era sul
piano
della cucina, ad appena poco più di mezzo metro da me.
Cominciai
a scuotere la testa in
cenno di diniego, chiudendo gli occhi rapidamente e sperando di non
ritrovare
la pietra davanti ad essi, una volta aperti di nuovo. Invece era sempre
lì. Non
era possibile che fosse in casa sua; non lì, non ora. Nello
stesso momento, un
suono lungo e ripetuto riempì la stanza. Mi servì
qualche secondo per rendermi
conto che era il telefono.
Notai
Leah uscire dalla sua
stanza qualche istante dopo, affrettandosi a raggiungere la cornetta e
a sollevarla.
Ma non riuscivo a concentrarmi su nient’altro che quella
pietra davanti a me.
“Pronto?”,
sentii Leah
rispondere. “Mamma, che c’è?
Sì, sono in casa. Visto che ho risposto mi pare
ovvio”.
Cercai
di prendere respiri lunghi
e controllati, mentre sentivo uno strano formicolio percorrermi le
braccia fino
alla punta delle dita. Paura, adrenalina?
“No,
sono con un’amica. Si chiama
El, non la conosci. Sì, lei. Okay, ciao”.
Volevo
avanzare, spingere le mie
gambe fino a permettermi di afferrare quella piccola pietra che
sembrava
ossessionarmi e scagliarla il più lontano possibile da me,
ma l’unica cosa che
riuscivo a fare era indietreggiare in modo instabile con il respiro
affrettato.
“El?
Tutto bene?”, sentii la voce
di Leah avvicinarsi.
Dov’era
la mia voce? Sembravo non
riuscire a trovarla. Strinsi i pugni e mi costrinsi a voltarmi,
allontanando lo
sguardo da quell’ossessione nera.
Leah
era in piedi, praticamente
al mio fianco, le sue braccia tese verso di me, forse spaventata che
potessi
svenire da un momento all’altro. In quel momento, non ne ero
sicura.
“Stai
bene?”, mi chiese
preoccupata.
Mi
limitai a scuotere la testa.
“El,
mi stai spaventando”, mosse
un altro passo verso di me. “Che sta succedendo?”.
Strinsi
ulteriormente i pugni,
così forte che sentii le unghie premere
all’interno del palmo.
“Quella…”,
deglutii a fatica il
nodo che si era formato in gola. “Quella
pietra…è tua?”, chiesi con un filo di
voce, indicando l’oggetto della mia domanda.
Seguì
il mio sguardo fino a
focalizzarlo su ciò che stavo indicando,
un’espressione confusa sul suo viso.
“No,
uhm, io… non credo di averla
mai vista prima”.
Un
brivido freddo mi percorse la
schiena, e mi portai i pugni alle tempie nel tentativo di concentrarmi.
Non
potevo farmi prendere dal panico.
“El,
che c’entra quella pietra
con…”, gesticolò nella mia direzione.
“Che diavolo sta succedendo?”.
“Mi
piacerebbe saperlo”,
sussurrai.
A
quel punto, sentii le mani di
Leah afferrarmi con forza le spalle e scuotermi, costringendomi a
fissarla in
volto. Quando incrociai finalmente il suo sguardo arrabbiato e ferito,
qualcosa
sembrò scattare dentro di me. Percepii
l’espressione sul mio viso cambiare,
trasformandosi in determinazione e abbandonando a poco a poco la paura
incontrollata che mi aveva assalito.
“Dobbiamo
andarcene di qui”,
decretai con voce ferma, per poi cercare di sgusciare via dalla sua
presa.
Non
me lo permise, impedendomi di
muovermi anche solo di un centimetro.
“Perché?
Spiegami che sta
succedendo”.
Senza
abbandonare il suo sguardo,
inspirai profondamente.
“Leah,
fidati di me. Ti
spiegherò, ma solo quando saremo fuori di qui e al
sicuro”.
Sperai
che l’espressione sul mio
volto bastasse a convincerla. A quanto pare, lo fu.
“Perché
mai la mia casa non-”,
cominciò a dire, esasperata, ma si interruppe.
“Ah! Va bene”, sbuffò,
liberandomi dalla sua presa.
Camminai
decisa fino al piano su
cui era appoggiata la pietra, lanciandole un ultimo sguardo prima di
afferrarla
in mano e nasconderla con forza nel palmo, quasi sperando che sparisse.
Sembrava bruciare a contatto con la mia pelle – come se
persino il mio corpo
sapesse che doveva allontanarsene
“Andiamo”,
sospirai dirigendomi
verso la porta d’ingresso.
Leah
non esitò, seguendomi
rapidamente.
Non
appena fummo fuori da casa,
il sollievo fu quasi istantaneo. Quella strana pressione, la sensazione
di
disagio che non mi ero nemmeno resa conto di provare fino ad allora,
sparì non
appena misi piede sul terriccio umido fuori casa. Tuttavia, non era
abbastanza.
Era troppo vicino – troppo
vicino.
Mi
resi conto di aver cominciato
a correre quando notai la linea massiccia che creava la foresta
avvicinarsi con
velocità. Ero sorpresa dalle mie azioni, dal mio stesso modo
di agire. Mi sarei
aspettata di rimanere paralizzata dalla paura, troppo spaventata per
fare
qualunque cosa, e aspettare che Claude arrivasse. Invece ero riuscita a
sorprendermi, facendo scattare quello strano meccanismo interno che
riuscivo
solamente a definire come istinto di
sopravvivenza. Quello che mi garantiva, in quel momento, di
poter scappare.
Solo
qualche istante dopo mi
accorsi della figura slanciata di Leah che mi affiancava nella corsa, i
movimenti aggraziati e il respiro regolare nonostante la
velocità.
“Mi
devi una spiegazione”, si
limitò a dire.
Annuii
brevemente, per poi
rallentare visibilmente fino a camminare semplicemente in modo da poter
parlare. Camminai avanti e indietro lungo il confine con la foresta, i
fitti
alberi al suo interno di un colore insolito a causa della strana luce
che
filtrava attraverso le nuvole.
“Gli
Ubach. Stanno venendo qui”,
costatai dopo un breve silenzio. “Sono già
qui”, mi corressi, aprendo il mio palmo come prova.
I
suoi occhi si spalancarono, e
il suo corpo cominciò a essere percorso da fremiti.
“Non
è possibile. Ne avrei
sentito la puzza”.
Scossi
la testa.
“Hanno
un odore diverso. Diverso
quanto lo è il mio da un umano… normale”.
Non
potei impedirmi la smorfia di
amaro disgusto che si aprì sul mio volto.
“Vogliono…
vogliono me”.
“Merda”,
borbottò Leah sotto il
suo respiro.
Si
fermò completamente, bloccando
i miei movimenti con lei afferrandomi il braccio.
“Devo
avvisare gli altri. Subito”,
dichiarò con attenzione,
enfatizzando ogni sillaba. “Ma per farlo ho bisogno di
trasformarmi. E devo
portarti via di qui”.
Annuii
decisa. “Okay”.
Strinsi
la pietra nel palmo
un’ultima volta, per poi infilarla nella tasca dei jeans.
Edward, fu l’unica cosa che
riuscii a pensare quando le mie dita
sfiorarono il contorno freddo del cellulare nella mia tasca. Lo
estrassi
velocemente, affrettandomi a scorrere la rubrica per trovare il numero
che
cercavo.
“Che
stai facendo?”, domandò
Leah.
“Chiamo
Edward. Deve venirmi a
prendere. Qui non sono al sicuro, e nemmeno voi”.
“Non
possono venire qui!”,
esclamò, mentre i suoi fremiti s’incrementarono.
“Lo sai, El, che non possono”.
Poi
sembrò pensarci su un attimo.
“Ti
porterò al confine. Digli di
farsi trovare lì”.
Annuii
e premetti il tasto invio.
Al secondo squillo, fui salutata da un sospiro di sollievo che
conoscevo bene,
accompagnato dal suono del mio nome.
“El”,
sentii la sua voce
dall’altro capo del telefono.
Sospirai
anch’io di sollievo al
suono della sua voce.
“Edward,
non ho tempo per
spiegare. Ho bisogno che tu venga al confine con i Quilleutes il prima
possibile”.
“El,
che succede?”, la sua voce
ora era preoccupata, un’ombra minacciosa nel suo tono.
“Claude
è qui. Non so dove, ma è
qui”.
Un
ruggito basso e feroce giunse
dall’altra parte.
“Vengo
a prenderti”.
“No,
Edward. C’è il patto. Ti
prego, Leah mi porterà al confine. Tu vieni semplicemente a
prendermi”.
Sentii
un sospiro esasperato,
seguito da un rumore attutito.
“Okay.
Ma informa Leah che se ti
succede qualcosa, qualsiasi cosa,
la
ucciderò”.
Tremai
al suono della sua voce,
indubbiamente nel pieno della sua vera natura.
“Tranquillo,
sanguisuga. Nessuno
si avvicinerà a lei più di quanto la farei
avvicinare a te”, rispose Leah
alzando gli occhi al cielo, il suo avvertimento chiaro nonostante il
tono
rilassato.
“Bene”,
confermò Edward. Poi,
dopo un breve silenzio. “El, ti prego, stai
attenta”.
Annuii,
sollevata che in quel
momento non fosse in grado di vedere le lacrime che si stavano formando
alla
base delle mie ciglia, minacciose di scivolare lungo le guance.
“Lo
farò”, risposi con voce
decisa, sperando che non si spezzasse.
Terminai
la telefonata subito
dopo, quasi temendo che potessi dirgli di fregarsene del patto e
venirmi a
prendere prima che poteva e stringermi a lui.
“Non
ti preoccupare, andrà tutto
bene”, mi rassicurò Leah, abbozzando un sorriso.
Annuii
nuovamente, asciugandomi
gli occhi con il dorso della mano.
“Ora
fai attenzione, non voglio
ferirti”, mi avvertì prima di indietreggiare di
diversi passi.
Non
ebbi neanche il tempo di
aprire la bocca per chiederle il perché, quando il suo corpo
cominciò presto ad
essere scosso da tremori e fremiti incontrollabili che sembravano
avvolgere la
sua figura sempre di più fino a che, così
velocemente che se avessi chiuso gli
occhi per un secondo me lo sarei perso, la pelle lasciò il
posto alla pelliccia
grigia di un gigantesco lupo.
Le
zampe robuste affondarono nel
terreno, creando ampi solchi nel terriccio umido, mentre la schiena
s’inarcò
come per stendersi dopo essere stata rinchiusa tanto a lungo in quel
corpo
semplicemente umano. Il muso allungato era rivolto nella mia direzione,
gli
occhi brillanti e scuri che mi osservavano con attenzione,
probabilmente
ponderando la mia reazione.
Sbuffò
rumorosamente, emettendo
una nuvola di aria condensata, mentre ero intenta a cercare qualche
tratto di
Leah in quell’animale. Rimasi immobile qualche istante,
completamente sconvolta
da ciò a cui avevo appena assistito. Sapere che la tua amica
è un licantropo e vederla
effettivamente erano due cose
ben diverse con cui fare i conti. Tuttavia, non era quello il momento
per le
incertezze.
Leah
sbuffò nuovamente,
chinandosi sulle zampe anteriori e inclinando il grande muso verso il
terreno. La
osservai attentamente e a lungo, prendendo un respiro calmante e
profondo prima
di decidermi.
“Okay”,
risposi alla sua
richiesta silenziosa, dirigendomi verso di lei.
Mi
arrampicai lungo la pelliccia
sino ad incastrarmi tra le sue spalle possenti, abbassando le mani alla
base
del suo collo per stringere tra le dita due grandi ciocche di pelo in
modo da
non cadere.
“Puoi
andare”, le dissi dopo aver
stretto le ginocchia lungo i suoi fianchi, ancorandomi al suo corpo.
Il
secondo dopo, stavamo volando.
L’unica cosa a cui potevo paragonarla era la
velocità di Emmett, quando mi
aveva portata con lui. Leah emise un lungo ululato, per poi accelerare
ulteriormente.
La
foresta sfrecciava ai nostri
lati, e fui costretta ad abbassarmi fino a quando il mio petto non fu a
contatto con la sua schiena per evitare i rami che si protendevano
verso di
noi. Poco dopo, altri ululati sembrarono squarciare il cielo, e capii
che Leah
aveva chiamato il resto del branco.
A
causa della nostra velocità, il
vento mi colpiva in viso, frustandomi i capelli e facendomi lacrimare
gli
occhi. Li chiusi con forza, accostando ulteriormente il mio viso al suo
pelo.
Inspirai
profondamente. Sapeva di
legno, di terriccio umido e di pino. Mi calmò.
Sentii
poco più tardi dei suoni
cadenzati, attutiti dall’erba sul terreno. Ero certa che, se
avessi aperto gli
occhi e mi fossi guardata intorno, avrei visto diversi lupi correre al
nostro
fianco. Il rumore delle loro zampe pesanti che si muovevano
ritmicamente e il
respiro regolare di Leah riuscirono a calmare il battito frenetico nel
mio
petto; se fosse dovuto alla paura o alla velocità non avrei
potuto dirlo.
Dopo
quelli che parvero solamente
pochi secondi, percepii il corpo di Leah rallentare e gradualmente
fermarsi.
Strinsi la presa sul pelo che tenevo tra le dita e azzardai uno sguardo
intorno
a me. Il respiro mi si fermò in gola quando mi resi conto
che c’erano sette
giganteschi lupi intorno a noi, tutti più grandi di Leah.
Quest’ultima scrollò
le spalle con uno sbuffò prima di chinarsi sulle zampe
anteriori, invitandomi a
scendere. Lentamente, allentai la mia presa e scivolai giù.
Avevo stretto così
forte le ginocchia intorno al suo corpo che mi sentivo instabile.
Mi
guardai nuovamente intorno,
cercando di individuare i diversi lupi che conoscevo. Quali erano Seth
e Jacob?
Non
appena notai un lupo alto e
magro, l’unico dall’aspetto scoordinato nonostante
la stazza, lo riconobbi.
Avrei voluto sorridergli, ma il suo muso non era rivolto verso di me.
Nessuno
di loro lo era. Fissavano tutti un punto lontano, immobili e con i
denti
scoperti. Un basso ringhio di sottofondo riempiva l’aria.
Mi
voltai verso quel punto per
cercare la fonte di quell’agitazione e sentii il cuore
salirmi in gola.
“Edward!”,
quasi gridai, la voce
spezzata sul finale.
Le
mie gambe si mossero di loro
volontà, portandomi verso la figura che era in piedi ad una
ventina di metri da
me. Non mi accorsi di Leah finché non si parò
davanti a me, ringhiando
sommessamente e scoprendo i denti, i suoi occhi concentrati sul mio
viso con
una strana espressione.
“Leah,
che cosa stai facendo?”.
Fui
costretta a fermarmi,
alternando lo sguardo tra il grosso lupo davanti a me e la figura quasi
eterea non
molto lontano. Il suo viso era contratto, i suoi lineamenti
visibilmente rigidi
anche a quella distanza. Notai i suoi pugni stringersi ai fianchi,
così forte
che sembrava che le nocche potessero fuoriuscire dalla pelle.
Riportai
gli occhi su Leah,
guardandola completamente confusa. Perché si comportava
così?
“Leah”,
sospirai. “So che non ti
piacciono, ma devo andare con
lui”.
Leah
scosse la testa, sbuffando
rumorosamente, per poi avanzare lentamente verso di me fino a quando il
suo
muso non fu quasi all’altezza del mio viso. I suoi occhi mi
stavano dicendo
qualcosa, ma non ero sicura di capire. Stai
attenta, forse? Sì, decisamente. Lei non si fidava
di Edward, non sapeva
che con lui ero completamente al sicuro.
Abbozzai
un sorriso verso quel
grande muso grigio, percorrendo con le dita la base di esso e
stringendo con
forza due ciocche di pelo nei miei pugni. Mi feci vicina.
“Leah,
fidati di lui”, le
sussurrai all’orecchio. “Andrà tutto
okay”.
Un
lamento strangolato giunse dal
suo petto, che sembrò ripetersi in alcuni di quelli degli
altri lupi presenti. Un
ringhio profondo parve sovrastare gli altri, zittendoli
improvvisamente. Alzai
lo sguardo per cercarne la fonte e osservai con curiosa attenzione il
gigantesco lupo nero che sembrava studiarmi con una certa
ostilità. A quanto
pare l’alfa aveva parlato.
Cercai
di non badare agli occhi
che sentivo puntati sul mio viso e sulla mia schiena mentre mi scostavo
lentamente da Leah, dopo averla ringraziata silenziosamente per
ciò che aveva
fatto per me. Non appena mi allontanai da lei, i miei occhi tornarono a
cercare
Edward.
Era
esattamente dove l’avevo
lasciato prima, la mascella rigida in un’espressione
imperscrutabile e al tempo
stesso minacciosa. Non appena fui più vicino, un lieve
sorriso gli curvò gli
angoli della bocca e si passò una mano tra i capelli bronzei
perfettamente disordinati.
Non si mosse, e sospettai che fosse per non attraversare il confine.
Quando
gli fui davanti, gli
gettai le braccia attorno alla vita e nascosi il viso contro il suo
petto,aggrappandomi
alla sua giacca con quanta
forza riuscissi ad esercitare in quel momento. Inspirai profondamente
il suo
odore, e rilasciai il respiro che non mi ero resa conto di trattenere.
Le
sue braccia mi circondarono
lentamente la schiena, ma non mi strinsero. Mi resi conto che stavo
tremando.
Non mi ero mai sentita più vulnerabile.
“Sono
qui”, cercò di confortarmi, la sua voce
fredda e attenta.
Che
era successo alla me decisa e
coraggiosa?
“Stai
tremando”, costatò dopo
qualche istante, questa volta più dolcemente.
Annuii
senza parlare, conscia di
quanto orribile la mia voce sarebbe suonata in quel momento.
Sollevai
lo sguardo fino ad
incrociare i suoi occhi, sentendomi inspiegabilmente fragile e a
disagio. Mi
sentivo quasi stupida a sentirmi così debole dopo tutto
quello che era
successo. Tuttavia, il pensiero di essere finalmente tra le sue braccia
e al
sicuro mi rendeva le gambe molli.
I
suoi occhi, colorati di
quell’ombra dorata di cui mi ero innamorata, mi osservavano
con una strana
espressione mista di tensione e preoccupazione. C’era anche
qualcos’altro… qualcosa
che non riuscii a distinguere e che mi causò un brivido
freddo lungo la
schiena. Distolse rapidamente lo sguardo, per tornare a concentrarsi su
un
punto fisso alle mie spalle.
Dai
lupi giunse un nuovo ringhio,
più profondo, e uno della stessa natura sembrò
formarsi nella gola di Edward. Strinsi
con forza i pugni contro la sua schiena, cercando di distrarlo e
riportare la
sua attenzione su di me. Lentamente, tornò a fissarmi.
“Dobbiamo
andarcene”, sussurrai,
consapevole che se avessi parlato più forte la mia voce si
sarebbe spezzata.
Mi
osservò in silenzio, i suoi
occhi attenti e imperscrutabili. Non mi erano mai sembrati tanto
inaccessibili
fino a quel momento. Appariva lontano… distante. La
sensazione di disagio che
continuava ad ossessionarmi tornò ad avvolgermi, lasciandomi
confusa e
spaventata. Cercai di scacciarla, ma presto capii che potevo solo
cercare di
ignorarla.
Rimasi
in silenzio, aspettando un
qualche tipo di risposta. Sembrava quasi che si stesse accertando che
fossi
esattamente come mi aveva lasciata, ma la sua espressione diceva
tutt’altro – e
il fatto che non sapessi cosa fosse mi spaventava. I suoi occhi
incontrarono
brevemente i miei, causandomi di nuovo uno strano brivido, per poi
abbassarsi e
chiudersi lentamente.
Espirò
con uno sbuffo che sembrava
quasi un sospiro rassegnato.
“Vieni”,
disse brusco. “Andiamo
via di qui”.
Mi
afferrò per il gomito e, il
secondo dopo, mi ritrovai sulle sue spalle, alle quali mi ancorai con
forza,
quasi la mia vita dipendesse da quello.
Lo
vidi annuire nella direzione del
branco e lo sentii sorridere. A quel punto, cominciò a
correre, così veloce che
ero convinta che il mio stomaco fosse rimasto al punto di partenza. Non
mi
sembrava di aver mai corso così velocemente. Ad un tratto,
si fermò di colpo e
mi fece scendere dalle sue spalle.
La
mia testa sembrava girare su
se stessa, e mi sentivo instabile. Le sue mani si strinsero sui miei
fianchi
per stabilizzarmi, in modo che non cadessi. Quando il movimento nella
mia testa
sembrò calmarsi, azzardai uno sguardo intorno. Eravamo
già a casa? Impossibile.
Con
un sussulto sorpreso, mi resi
conto che ci trovavamo nella radura in cui Alice mi aveva portato per
allenarmi
più di una volta. Perché eravamo venuti qui? La
foresta appariva come sempre,
immancabilmente minacciosa e al tempo stesso familiare, il suo verde
che
avvolgeva tutto come se avesse vita propria. Probabilmente, mi dissi,
aveva
detto agli altri di trovarci qui. Forse, dopotutto, era più
sicuro che a casa.
Lasciai
che il mio sguardo
vagasse di sua volontà, seguendo i confini della radura fino
a quando non
incontrarono il punto esatto dove avevo trovato la pietra per la prima
volta. La
mano destra corse sulla tasca dov’era ora, per poi stringere
il tessuto con
forza. Un brivido mi percorse la schiena, ma ero certa che non fosse
per il
freddo.
Riportai
lo sguardo su Edward,
trovando i suoi occhi puntati su di me. Lentamente si
avvicinò a me, per poi
circondarmi con le sue braccia e affondare il viso tra i miei capelli.
“Non
avrei mai dovuto lasciarti
andare”, disse con un sospiro.
“No”,
mormorai di getto. “No,
Edward – non è colpa di nessuno questo”.
“Avrebbe
potuto ucciderti”.
“Ma
non l’ha fatto”.
Sospirò,
esasperato dalla mia
testardaggine.
“Perché
ci siamo fermati qui?”.
Non
rispose.
“Edward?”.
Niente.
Mi scostai da lui,
inclinando il capo per cercare di osservare la sua espressione.
Stavo
per chiamarlo di nuovo,
quando una vibrazione, seguita da una fastidiosa suoneria, giunsero dal
mio
cellulare. Il suono sembrò quasi squarciare il silenzio
assoluto della foresta,
e mi maledii mentalmente per non aver messo semplicemente la vibrazione.
Estrassi
il cellulare dalla tasca,
abbozzando un sorriso verso l’espressione ora piuttosto
perplessa di Edward.
C’era qualcosa però… qualcosa che
ancora non mi convinceva e mi spaventava
nella sua espressione; forse il suo sguardo o quella strana ombra
nascosta
abilmente al suo interno.
Riportai
gli occhi sul telefono
per leggere il numero sul display, per poi tornare a fissare Edward
confusa. Il
display leggeva chiaramente Edward,
mentre la suoneria continuava a suonare senza accennare ad
interrompersi. Doveva
aver dato il suo telefono a Emmett e Jasper perché ci
raggiungessero.
Premetti
il tasto di ricezione
della chiamata, accostando il cellulare all’orecchio.
“Pronto?”,
azzardai esitante.
Non
sapevo perché, ma qualcosa
non tornava. Il respiro mi si bloccò in gola quando
riconobbi il sospiro
sollevato dall’altra parte.
“El”,
si limitò a dire. “El, dove
sei?”, aggiunse subito dopo, un’ombra preoccupata
nella sua voce.
No.
Non poteva essere Edward.
Come poteva esserlo? La vocina nella mia testa stava cercando di
urlarmi
qualcosa, ma il battito del mio cuore che mi rimbalzava nelle orecchie
non mi
permetteva di ascoltarla come avrei dovuto.
Alzai
lentamente lo sguardo,
trovando Edward davanti a me esattamente dove l’avevo
lasciato.
“E-Edward?”,
farfugliai ad
entrambi.
“El,
che succede?”, chiese la
voce nel telefono.
Mantenni
gli occhi puntati su di
lui, cercando qualche segno, qualcosa…
Non è lui!, mi
gridò la voce nella mia testa.
“El?
Mi stai facendo spaventare.
Sono al confine coi Quilleutes e tu non ci sei”,
continuò la voce. “Ti
pregherei di dirmi dove sei prima che impazzisca”.
L’Edward
davanti a me inclinò il
capo da un lato, quasi ad osservarmi meglio, per poi sollevare gli
angoli della
bocca in un sorriso che ormai conoscevo più di quanto avrei
voluto.
Non
mi resi quasi conto di aver
smesso di respirare fino a quando la voce di Edward non mi riscosse.
“El!”,
quasi gridò nel
ricevitore.
Sono qui. Edward, sono qui. Aiutami. Vieni qui, ti
prego.
Avrei
voluto rispondergli. Oh, avrei
davvero voluto farlo, ma il mio cervello sembrava essersi semplicemente
disconnesso dal corpo, forse cercando di rifugiarsi in un angolo sicuro
in
attesa del peggio che sapevo prossimo.
Claude
tese il suo sorriso,
provocandomi la pelle d’oca, prima di azzardare un passo
verso di me. Era come
lui, esattamente come lui. Gli stessi occhi dorati, gli stessi capelli
ramati
che sembravano vivere di un disordine studiato, il profilo lineare e
scolpito,
la sua voce. Ogni cosa era uguale. Il mio cuore sembrò
battere più forte di
quanto avesse mai fatto al pensiero che, almeno, sarebbe stata lui
l’ultima
cosa che avrei visto, in qualche modo.
Istintivamente,
indietreggiai
anch’io di un passo, abbassando lentamente la mano che teneva
stretto il
telefono. Il mio corpo non rispondeva come avrei voluto, ma sembrava
che
percepisse il pericolo e fosse pronto a scappare. Sentivo
l’adrenalina correre
tra le vene; il formicolio che mi percorreva le braccia fino alla punta
delle
dita una chiara prova di questo. Le gambe erano tese, pronte a scattare
qualora
si fosse presentata l’occasione. Quello che il mio corpo non
sapeva era che
sarebbe stato completamente inutile.
Un
altro passo verso di me, un
altro indietro.
Tuttavia,
sembrava sempre più
vicino e non riuscivo a indietreggiare abbastanza velocemente.
“Stammi
lontano”, forzai fuori la
voce, cercando di suonare decisa, ignorando quello strano formicolio.
Paura
e adrenalina creavano un
mix pericoloso – il coraggio a volte non serve a nulla.
Sentii
un profondo ruggito provenire
dal cellulare, le sue vibrazioni quasi risalire lungo il mio braccio.
“Chi
c’è lì con te?”, riuscii a
sentire la voce di Edward al telefono.
Claude
avanzò di nuovo e questa
volta rimasi pietrificata per la sua velocità. Con estrema
gentilezza, mi prese
la mano e sfilò il cellulare dalle mie dita, per poi
portarselo all’orecchio.
“Salve,
Edward”, disse
allegramente, compiaciuto, premendo il tasto del vivavoce.
Chiuse
gli occhi brevemente per
godersi il ruggito furente di Edward, seguito da diverse imprecazioni
indistinte.
“Dov’è
lei? Non provare a farle
del male”, la sua voce furiosa e sofferente sembrò
quasi stringersi intorno al
mio petto, soffocandomi.
“Oh,
è qui con me… al sicuro”.
“Dimmi
dove sei, o quando ti
troverò ti ucciderò più lentamente di
quanto abbia intenzione di fare”.
Claude
alzò lo sguardo per
fissarmi in volto con espressione compiaciuta, per poi allungare il
cellulare
verso di me, quasi sfidandomi a parlare. Sapeva che non ne ero in grado.
“E-Edward”,
cercai di parlare.
“El,
dimmi dove sei. El!”, mi
sembrava di riuscire a sentire
il lieve rumore che creava il suo spostamento d’aria mentre
sfrecciava
attraverso la foresta.
Claude
sogghignò, e capii che era
ciò che voleva. Voleva essere trovato. Con
l’ennesimo sorriso crudele, portò le
dita a sfiorare il tasto di fine chiamata.
Il
mio stupido attaccamento alla
vita ebbe la meglio sul buon senso, e le parole fuoriuscirono dalle mie
labbra
prima di pensarci.
“La
pietra, Edward! Alice mi-”,
riuscii a dire prima che la telefonata terminasse bruscamente.
Rimasi
immobile a fissare il
piccolo cellulare argentato che stringeva in mano, per poi cercare un
po’ di
coraggio e risalire quel profilo perfetto fino ad incrociare i suoi
occhi.
Ero
certa che Edward mi avesse
sentita, ma non ero sicura di volere che mi trovasse ora. Non con
Claude che
sogghignava come se avesse appena vinto una scommessa. Il suo ghigno si
tese ed
ignorai la pelle d’oca che si formò alla base del
mio collo.
Inclinò
la testa da un lato come
per studiare meglio la sua preda.
“Come
stiamo, signorina?”, recitò
come il perfetto attore che era.
Indietreggiai
di mezzo passo
mantenendo gli occhi puntati nei suoi.
Sapevo
di dover trovare la voce
necessaria per intrattenerlo un po’ più a lungo.
Forse Edward sarebbe riuscito
a salvarmi anche stavolta, forse sarebbe arrivato in tempo.
“Mi
piacerebbe poterti dire che
va tutto bene”, forzai un sorriso, che tuttavia
risultò una smorfia.
Mi
sorrise di nuovo. Il suo viso,
i suoi occhi, la sua voce deformati da quel sorriso crudele erano
abbastanza da
farmi salire le lacrime agli occhi.
“Sono
onestamente dispiaciuto”,
rispose sincero, avvicinandosi ancora ed estendendo un braccio verso di
me,
quasi a volermi afferrare.
Questa
volta scattai indietro,
balzando quanto più lontano mi fosse possibile.
“Oh,
no”, disse con voce triste.
“Non avere paura di me”, sembrava realmente
dispiaciuto.
Sembrava
la sua voce, e ciò mi
faceva sentire male. Non potei impedirmi di fare
una smorfia alla sua affermazione.
“Beh,
non ancora almeno”, si
avvicinò di nuovo, ovviamente compiacendosi di
ciò che stava facendo.
Le
sue dita trovarono il mio
braccio destro e, il secondo dopo, ero di fronte a lui. La bellezza del
suo
volto mi tolse il respiro, e fui costretta a chiudere gli occhi per
impedirmi
di mettermi a piangere.
“Che
c’è, signorina? Non ti piace
il tuo Edward?”.
I
miei occhi si spalancarono
immediatamente per fissarlo in cagnesco, ma la mia volontà
si sbriciolò come un
castello di sabbia schiacciato dall’alta marea quando
incontrai due grandi
iridi dorate intente a guardarmi con un’ombra divertita.
Occhi che, con ogni
probabilità, conoscevo meglio dei miei. Ma, questa volta,
non conoscevo ciò che
vi era al loro interno.
“Ti
prego”, sussurrai in
silenzio.
Lo
sentii sorridere, ma il mio
sguardo era già fuggito dal suo viso.
“Che
cosa?”, chiese divertito.
“Basta.
Non… smettila di essere lui.
Ti prego”, la mia voce si ruppe
sull’ultima supplica.
Restò
in silenzio un istante, poi
sorrise di nuovo.
“Mi
dispiace”, mormorò al mio
orecchio, facendomi sussultare. “Ma credo di divertirmi
troppo per smetterla”.
Sentii
il suo respiro freddo sul
collo e strinsi automaticamente i pugni per costringermi a rimanere
immobile.
“Sai,
è davvero divertente vedere
come cambi espressione non appena vedi il suo viso, per poi ricordare
che non è
lui e sembrare quasi sul punto di scoppiare a piangere. Sentire il tuo
cuore
accelerare e il tuo sangue correre nelle vene alla sua sola
vista…”, si accostò
di nuovo al mio collo per inspirare profondamente.
“E’ un vero peccato che non
possa sentire il tuo odore ora”.
Rabbrividii
brevemente.
“Claude,
per cortesia, non
importunare la nostra giovane amica”, una nuova voce,
parzialmente familiare,
spezzò il silenzio.
...Ecco
qui! Ve lo sareste aspettato? Cosa pensate che succederà
adesso?
Sinceramente spero di avervi sorpreso, ma anche di non aver deluso le
vostre aspettative sui possibili avvenimenti. Per chi vuole vedere come
si risolve la faccenda, l'appuntamento è per settimana
prossima
u.u
Buonasera! Curiosi di sapere
come va a finire? Non dico nulla, vi lascio leggere sperando che vi
piaccia :)
Capitolo
35. Scommessa.
Ci
impiegai un secondo in più del
necessario per riconoscerla. Alzando lo sguardo, non mi stupii di
vedere Amos
camminare lentamente verso di noi, così con grazia che
sembrava non toccasse
nemmeno il terreno, circondato da altri quattro vampiri.
“Ovviamente,
Amos. Stavo solamente
ammazzando il tempo in attesa del vostro arrivo”, lo sentii
sogghignare di
nuovo.
Se
fossi stata in me stessa,
avrei probabilmente avuto voglia di fargli passare quel ghigno
compiaciuto con
un pugno. Gli angoli della bocca mi si curvarono verso l’alto
al pensiero.
Amos
ci raggiunse senza fretta,
per poi sorridermi brevemente. Solo a quel punto, quando il suo sguardo
color
cremisi mi costrinse a guardare altrove, mi accorsi degli altri vampiri
posti
lungo la linea immaginaria che seguiva i confini della radura. Non ne
avevo mai
visti così tanti tutti insieme. Ne contai diciassette, senza
prendere in
considerazione i sei che avevo intorno.
I
miei occhi spaventati cercarono
di studiare i loro volti, ma erano troppo lontani per delinearne
perfettamente i
contorni. L’unica cosa che mi sembrava di riuscire a vedere
era un paio di
occhi rossi che si ripeteva per ogni viso che analizzavo.
“Beh,
finalmente”, la voce di
Amos mi riscosse dai miei pensieri.
Riportai
lo sguardo su di lui,
guardandolo con espressione scettica. Il respiro mi rimase in gola
quando
incrociai le sue iridi cremisi studiarmi con la stessa attenzione che
ricordavo
avesse usato la prima sera. Sembrava un momento lontano anni…
Mi
sorrise educatamente,
ritirando la mano che non avevo notato estendere verso di me.
“E’
da un po’ che ti teniamo
sott’occhio”, sfoggiò un altro mezzo
sorriso, come se mi avesse appena fatto un
complimento. “A dire il vero, è stato Claude ad
occuparsene”, si corresse.
Mi
voltai di scatto verso di lui,
sperando di incenerirlo con lo sguardo.
“Eri
tu”, lo indicai riducendo
gli occhi a due fessure. “Per tutto
questo tempo, eri tu!”.
Non
si disturbò a rispondere, ma
sogghignò semplicemente. Ero stata così stupida.
Era ovvio che fosse stato lui.
Quella sensazione di disagio, il sentirsi osservata…
“Tu,
tu…”, balbettai in preda
alla rabbia, annaspando per trovare le parole giuste.
“Oh,
signorina, non c’è bisogno
di prendersela tanto”, mi rivolse un gran sorriso, per poi
farmi l’occhiolino.
Repressi
un ruggito stringendo
con forza i pugni. La paura di poco prima sembrava essersi eclissata
dietro la
forza della mia rabbia. Ero furiosa, forse più con me stessa
per esserci
cascata l’ennesima volta.
“Se
avessimo voluto, avrei potuto
ucciderti quando e come avrei ritenuto meglio”,
continuò, adocchiandomi come se
stesse costatando qualcosa di ovvio. “Ma abbiamo preferito
aspettare”.
Edward
mi aveva avvisato dei loro
giochi mentali, ma non l’avevo mai ritenuta una reale
possibilità. Le sue
parole tornarono con prepotenza nei miei pensieri.
“Credo che questo faccia parte dei loro
giochi”, sull’ultima parola
fece ricadere tutto il suo disprezzo.
“Pensi che siano loro?”,
domandai insicura.
“Ne sono quasi sicuro,
purtroppo”.
“Che genere di giochi?”.
“Gli Ubach sono particolarmente dotati
d’inventiva quando vogliono
qualcosa. Sono in grado di influenzare la nostra mente incosciente,
quelli che
chiamiamo sogni”.
Boccheggiai
spaventata quando
finalmente capii. Gli incubi non erano mai andati via, si erano
semplicemente
nascosti, mascherandosi senza destare sospetti e al tempo stesso quasi
avvisandomi di ciò che sarebbe successo, quasi prendendomi
in giro. Nei miei
sogni Claude non se n’era mai andato, si era semplicemente
finto Edward.
Mi
morsi l’interno della guancia
per impedirmi di piangere. Presi un respiro profondo.
“Perché?”,
mi limitai a dire,
rabbrividendo della mia stessa voce spaventata.
Mi
sentivo fragile mentre le mie
sensazioni balzavano dalla rabbia alla paura.
Amos
mi guardò come se avessi
fatto una domanda lecita, seppur ovvia.
“Perché?
Oh, Elizabeth, credo che
tu non sia a conoscenza del tuo potenziale. La prima sera, quando ti ho
incontrata
per la prima volta, ho capito subito che eri particolare,
speciale… e per
questo pericolosa. Non appena fui fuori da casa Cullen, avevo
già deciso che
sarei tornato ad ucciderti personalmente, per assicurarmi che il
pericolo che
rappresentavi venisse eliminato”.
Strinsi
i pugni con forza per
fermare il formicolio che mi percorreva le braccia.
Amos
mi sorrise brevemente.
“Questa
era l’unica cosa che
avevo in mente. Tuttavia, non appena ritornammo in Scozia, trovammo
alcuni
Hoser nel nostro territorio. Potrai immaginare la nostra sorpresa: la
maggior
parte di noi li considera praticamente estinti. Sapevamo che cercare di
ucciderli sarebbe stato inutile, quindi ci siamo limitati a chiedere
come mai
fossero venuti nel nostro territorio.
“Prova
a indovinare, signorina?
Avevano saputo che avevo incontrato te, e che a quanto pare eri
speciale. E per
questo ho cambiato idea; abbiamo fatto un patto”.
Amos
si fermò brevemente per
osservarmi con attenzione, apparentemente soddisfatto.
“Loro
non volevano esporsi ai
pericoli che avrebbe provocato un loro avvistamento, ma sarebbero stati
costretti a farlo per venire a reclamarti e trasformarti, prima o poi.
Così abbiamo
acconsentito a venire noi al posto loro a prenderti, a patto che loro
lasciassero il nostro territorio immediatamente”.
No, era l’unica cosa che
riuscivo a pensare. No, no, no, no. Questo
era peggio di venire uccisa da un mostro come Claude. Questo
significava che
non solo sarei morta, ma sarei stata costretta a rimanere per il resto
della
mia esistenza lontano da ciò che più amavo. La
morte, improvvisamente, sembrava
particolarmente invitante.
Istintivamente,
feci un passo
indietro. Claude seguì il mio movimento con gli occhi,
sorridendomi quando capì
dalla mia espressione sconfitta che sapevo di non poter scappare.
Dovetti
lasciar cadere lo sguardo rapidamente, il suo aspetto abbastanza da
stringermi
il petto fino a farmi mancare l’aria.
Amos
riprese il suo discorso come
se niente fosse.
“Ma
sai, spesso mi trovo a
prendere decisioni stupide. Me ne sono reso conto quando sono entrato
in questa
radura e ti ho vista per la seconda volta. La tua mente è un
luogo così
incredibile… irraggiungibile a chiunque, ma al tempo stesso
così fragile e
limitata. Umana. Sono certo che sarebbe un vero peccato
consegnarti-”, un suono
sordo e prolungato lo costrinse a lasciare la frase incompleta.
Il
mio corpo percepì la sua
presenza ancora prima che i miei occhi si focalizzassero sulla figura
che ora
era al confine della radura.
Il
sollievo che mi gonfiò il
petto impiegò poco a trasformarsi nuovamente in angoscia
quando mi resi conto
dei numerosi vampiri che circondavano Edward, un profondo ringhio di
sottofondo
a provare la mia paura. Si accucciò piegando le ginocchia in
posizione di
attacco, osservando attentamente chi lo circondava e scoprendo i denti.
“Edward”,
il mio fu appena un
sussurro, ma non appena il suo nome lasciò le mie labbra, la
sua testa scattò
verso di me, lasciandolo per un secondo senza difese.
Prima
che me ne rendessi conto,
tre dei vampiri che lo circondavano balzarono all’unisono
verso di lui,
cercando di colpirlo al collo con i denti scoperti. Osservai la scena
senza
essere in grado di battere neanche le ciglia, cercando di seguire ogni
mossa di
Edward mentre si divincolava tra tutti quei nemici. A causa mia.
Edward. “No”,
gemetti
impotente, incapace di allontanare lo sguardo per paura di non trovarlo
più.
Sembrava
quasi che cercasse di
non ferirli. Si stava difendendo quel tanto che bastava per non
soccombere.
Perché non reagiva? Perché non li stava uccidendo?
Due
Ubach gli si avventarono
addosso mentre Edward saltava verso l’alto per evitarne un
altro. I tre
precipitarono a terra con un rombo assordante, simile ad un tuono. Uno
dei due
lo immobilizzò, aggrappandosi con forza alla schiena di
Edward, mentre l’altro
cercò di attaccarlo direttamente. Sentii chiaramente il
rumore metallico dei
denti che affondavano nel suo braccio rimbalzare nell’aria ed
echeggiare nel
mio stomaco, nauseandomi.
Edward
ruggì nuovamente, questa
volta un suono misto a dolore.
“Stop”,
dissi di nuovo, sperando
che servisse a qualcosa. “Stop, stop!”.
Sentii
Claude ridacchiare al mio
fianco.
Non
ero certa se le mie ginocchia
mi sorreggessero ancora, oppure fossi semplicemente in ginocchio. Non
le
sentivo. Non mi importava in quel momento.
“Basta!”,
gridai con quanta
energia avessi. “Lo state uccidendo!”.
Amos,
che fino ad allora si era
limitato ad osservare la scena con espressione impassibile, si
voltò verso di
me con un mezzo sorriso.
“Charles,
Demetri”, si limitò a
dire, senza staccare gli occhi dal mio viso.
A
quel semplice ordine, i due
vampiri, insieme a tutti gli altri, si ritrassero di qualche metro.
Qualche
secondo dopo, Edward si sollevò rapidamente e
ritornò in posizione eretta,
guardandosi prima intorno e poi focalizzando gli occhi sul mio viso. La
sua
espressione cambiò immediatamente, rilassando i suoi
lineamenti e lo sguardo
nei suoi occhi dorati, ma la sua postura era ancora vigile e tesa,
pronta a
scattare non appena vi fosse stato bisogno.
I
miei occhi corsero lungo la sua
figura in cerca di qualunque tipo di ferita, ma non ne trovai. La
manica
sinistra della sua maglia era ampiamente lacerata, ma la pelle diafana
sotto di
essa era apparentemente intatta. Sospirai di sollievo.
“Ben
arrivato, ragazzo”, lo
salutò calorosamente Amos, come se quello che era appena
successo non fosse mai
accaduto. “Ti aspettavamo”.
Edward
sembrò reprimere un
ringhio, limitandosi a sorridere amaramente e annuire nella sua
direzione,
senza allontanare tuttavia i suoi occhi dai miei. Fece per muoversi
verso di
me, ma Amos alzò un braccio, facendogli cenno di fermarsi.
“Oh,
assolutamente no”, disse.
Poi
si voltò di nuovo verso di
me, formando un mezzo sorriso con le labbra sottili.
“Come
dicevo”, riprese il
discorso di prima come se nulla fosse. “Ho deciso che sarebbe
stato un vero
peccato consegnarti agli Hoser e lasciare che fossero loro a
trasformarti”.
Edward
digrignò i denti, ringhiando
sommessamente, ma rimase immobile. Qualche secondo dopo, incrociai
nuovamente il
suo sguardo tormentato. Sapevo cosa stava pensando in quel momento.
Quando ci
saremmo dovuti dire addio? Avrei avuto il tempo per farlo, o mi sarebbe
stato
strappato via senza preavviso?
“Così
abbiamo pensato di
prenderti con noi e trasformarti”, mi rivolse un sorriso
compiaciuto. “Se fossi
io a trasformarti, gli Hoser non potrebbero più costringerti
ad andare con
loro. Non la trovi un’idea grandiosa?”. Il suo
sguardo era colmo di
aspettativa, come se si aspettasse che mi congratulassi realmente con
lui.
“Ovviamente,
ti permetteremo di
visitare i Cullen ogni tanto”, aggiunse compiaciuto.
Mi
veniva da vomitare.
“No”,
sibilò Edward con voce
gelida.
Un
ringhio feroce proveniente
dagli altri vampiri seguì le sue parole, ma non capii a cosa
fosse dovuto fino
a quando non sentii delle voci chiamarmi alle mie spalle.
No!, pensai. Tutto
questo è
sbagliato. Non anche loro. Non per colpa mia.
Aspettai
in silenzio di
svegliarmi da quell’incubo, stringendo i pugni talmente forte
da tagliarmi i
palmi con le unghie.
Mi
voltai lentamente, cacciando
indietro le lacrime quando vidi tutta la famiglia Cullen avvicinarsi
velocemente. C’erano tutti, anche Esme. Erano tanti, ma non
abbastanza da
sovrastarli.
Alcuni
degli Ubach furono veloci
a chiudersi attorno a noi, effettivamente circondandoci in quella che
era a
tutti gli effetti una trappola letale.
“Stavamo
giusto dicendo che
permetteremo ad Elizabeth di venirvi a trovare una volta che
l’avremo
trasformata”.
Un
suono strangolato, a metà tra
un sibilo e un ringhio, echeggiò alla mia sinistra. Rimasi
immobile, sapendo
che se mi fossi voltata per vedere a chi apparteneva quel lamento sarei
scoppiata
a piangere.
“Amos,
in nome della nostra
amicizia, ti chiedo di ripensarci”, sentii la voce ferma di
Carlisle quasi
implorare dietro di me, mentre il mio sguardo ondeggiava tra il viso di
Edward
e quello di Rosalie.
Le
loro espressioni, sempre così
diverse, questa volta vestivano la stessa emozione. Erano distrutte.
“Lascia
la ragazza con noi, non
creerà problemi né a voi, né a nessun
altro”, continuò Carlisle.
“Ne
sono consapevole, ma ti sei
reso conto del suo potenziale? Sarebbe l’offensiva perfetta,e non lo sa nemmeno”.
Sentii
un sospiro profondo alla
mia destra. Così ero l’offensiva…
un
semplice mezzo per ottenere ciò che volevano.
“Dacci
qualcosa per poterti fare
cambiare idea”, s’intromise Edward, la sua
espressione illeggibile.
Claude
si voltò verso di lui con
uno sguardo incuriosito, sinceramente interessato. Guardarli nello
stesso
istante mi fece contorcere lo stomaco.
“Che
cosa hai in mente,
ragazzo?”, lo incoraggiò Amos.
Edward
trattenne a stento un
ghigno.
“Una
scommessa”, disse con un
mezzo sorriso.
Perché
improvvisamente sembrava
così sicuro di sé? Una scommessa?
“Che
genere di scommessa?”,
chiese incuriosito, avvicinandosi a Edward.
Edward
sorrise brevemente.
“Dovrò
riconoscere alcuni di voi
con l’aspetto di qualcuno della mia famiglia”,
disse facendo un cenno diretto
alle mie spalle.
Il
ghigno di Claude si tese in
maniera quasi impossibile.
“Se
vincerò io, lascerete
immediatamente il nostro territorio senza tornare mai più.
Sparirete come siete
arrivati, senza lasciare tracce del vostro passaggio. Se invece
vincerete
voi…”, la sua testa si volse leggermente nella mia
direzione, indirizzandomi un
breve sorriso che mi tolse il respiro. Non per la sua bellezza
esagerata, ma
per il dolore che vi era impresso. “Beh, in quel caso,
sarò io a venire con
voi. Lascerete in pace la mia famiglia e-”.
“No!”, gridai prima che potessi
rendermene conto.
Quel
suo sorriso mi stava
chiedendo scusa. Se fosse finita male, mi avrebbe detto addio.
“Edward,
non puoi fare sul
serio”, disse Alice, un’ombra arrabbiata nella sua
voce squillante.
“Edward,
figliolo, pensaci bene”,
le fece eco Carlisle.
Non
mi preoccupai nemmeno di
guardarmi attorno per vedere le loro espressioni; sapevo che sarebbero
state
una copia della mia, eccetto le lacrime che mi pungevano gli occhi.
“El,
mi d-”, mormorò, ma non lo
lasciai finire.
“No”,
ripetei. “No”.
No, no, no, no, continuai a ripetermi
come un mantra.
Edward
tese una mano verso di me,
come se fosse in grado di toccarmi nonostante la distanza che ci era
stata
imposta. Con le labbra formò in silenzio la parola scusa. Scossi la testa lentamente, il
debole movimento abbastanza
da farmi scivolare una lacrima lungo la guancia.
“Amos,
non credo che questa sia
l’idea migliore. Mio figlio è impulsivo, non ha
idea di quello a cui sta
andando incontro”, sobbalzai sorpresa al suono della voce di
Carlisle.
Volsi
il capo impercettibilmente
verso di lui, osservando il suo viso dai lineamenti tesi e contratti
dalla
preoccupazione.
“Carlisle”,
sembrò rimproverarlo
Edward, scuotendo la testa.
“Mmm”,
sembrò pensarci su Amos,
portandosi una mano sotto il mento. “Interessante”.
Non
sembrava per nulla toccato
dal piccolo scambio di battute appena avvenuto.
Edward
fece scorrere lo sguardo
su ogni membro della sua famiglia, soffermandosi un po’
più a lungo su Alice,
per poi fermarsi nuovamente su Carlisle.
Notai
i due scambiarsi uno
sguardo significativo. Quando Carlisle riprese a parlare, il suo tono
era
totalmente sconfitto. Sentii un gemito strozzato provenire da Esme, ma
non vi
badai.
“Spero
tu sappia quello che stai
facendo, Edward”.
Il
silenzio che seguì parve
regnare per un istante interminabile, disturbato solamente da un brusio
impercettibile proveniente dagli Ubach alle spalle di Amos e Claude.
Io
mi limitai a continuare a
fissare Edward, cercando di capire che cosa gli passasse per la testa.
Cosa
stava cercando di fare? Come poteva essere così sicuro di
sé? Avrei potuto
perderlo per sempre, un per sempre più lungo di quanto
qualunque umano avrebbe
mai immaginato. Avrei preferito sacrificarmi io, piuttosto che privare
la sua
famiglia della sua presenza.
Amos
e Claude si fissarono per un
breve secondo, scambiandosi uno sguardo eloquente.
Un
debole sorriso si aprì sulle
labbra di Edward e, lo stesso sorriso, sollevò quelle di
Claude. Faceva male
soltanto vederlo uguale a lui.
“Sapevo
che non avresti mai
rifiutato una buona scommessa”, disse Edward, visibilmente
compiaciuto e con
aria di sfida.
“Ah-ha,
ragazzo. Ho detto che
sono d’accordo, non che accetto la scommessa”, lo
corresse Amos.
Edward
represse un ruggito. “Che
cosa vorrebbe dire?”.
“Che
ho intenzione di rendere la
partita più… interessante, se per te”,
lasciò scivolare il suo sguardo cremisi
su di me, “per voi, va bene”.
Un
ringhio profondo sembrò
provenire dal petto di Edward, ripetuto da quello che credevo fosse
Emmett, a
giudicare dall’intensità del suono.
Amos
sorrise crudelmente, i suoi
occhi accesi di uno strano entusiasmo.
“Che
ne pensi, signorina?”, si rivolse
a me.
Lo
fissai, insicura su cosa fare.
Non avevo idea di cosa dover rispondere. A quel punto, era una partita
a
scacchi. Dovevo pensare ad ogni mossa con almeno due
d’anticipo, o sarei finita
schiacciata.
“Credo
che saresti d’accordo
anche tu se il tuo Edward non dovesse rischiare la vita”,
continuò con tono
suadente. Rabbrividii brevemente.
Annuii
decisa con rapidi cenni
del capo, incapace di fare altro.
“Lei
non c’entra”, irruppe Edward.
“Lasciala fuori. Parla con me”.
“Come
sbagli, ragazzo”, scosse la
testa Amos con un sorriso divertito. “Lei è
l’unica che qui c’entra davvero”.
“E
ora, vorrei proporti la mia
variante”, disse mentre notai Claude allontanarsi,
indietreggiando fino a
ricongiungersi con gli altri Ubach. “Come hai detto tu, se tu
vincessi, noi ce
ne andremmo immediatamente. Ma voglio sempre la ragazza. Se vinciamo
noi, è lei
che voglio”.
Amos
interruppe il ringhio di
Edward a metà con un gesto della mano.
“E
voglio che sia lei a
riconoscere te, sonosicuro che così sarebbe molto più
divertente”,
concluse con un sorriso sereno e, tuttavia, glaciale.
“No”, rispose
immediatamente Edward, seguita da Rose qualche
secondo più tardi.
Rimasi
in silenzio, cercando di
pensare correttamente.
E
se avessi potuto riuscirci?
Riconoscere Edward, in quel momento, sembrava qualcosa di assolutamente
semplice. Avevo sempre pensato di poterlo fare ad occhi chiusi.
Tuttavia con
Claude… E se ci fossi davvero riuscita? Se avessi potuto
impedire che la mia
famiglia venisse spezzata per colpa mia?
“No,
Edward”, m’intromisi con
voce decisa, più di quanto mi sarei mai aspettata.
“Voglio tentare”.
La
sua testa scattò nella mia
direzione, i suoi occhi bruciavano quanto tizzoni ardenti.
Distolsi
rapidamente lo sguardo,
rivolgendomi direttamente ad Amos.
“Okay,
lo farò”, dichiarai
decisa, annuendo a me stessa.
Amos
mi sorrise ampiamente,
palesemente compiaciuto della facilità con cui aveva
ottenuto ciò che voleva.
“No!”,
ruggì Edward, ignorando
completamente ogni buonsenso e interponendosi tra me e Amos, la sua
postura accucciata
e tesa ad indicare che era pronto all’attacco.
Quattro
dei cinque Ubach rimasti
intorno a me gli furono addosso in quello che mi parve un battito di
ciglia, e
il secondo successivo i miei occhi erano incollati alla figura di
Edward ancora
una volta intrappolato tra le braccia dei miei – nostri
– nemici. Tuttavia,
questa volta si lasciò completamente scuotere da una parte
all’altra, mostrando
a malapena i denti. Che diavolo stava facendo?
“Lasciatelo”,
intervenne Amos con
voce monocorde. “Se lo uccidete, fate fare la stessa fine
anche al mio
divertimento”.
Non
appena le parole lasciarono
la sua bocca, Edward fu di nuovo libero. Mi sorrise compiaciuto,
apparentemente
consapevole di ciò che aveva appena fatto.
“Edward,
devi smetterla di-”.
“El”,
mi interruppe. “Non ho
intenzione di permetterti di fare una cosa del genere. E’
troppo pericoloso”.
“Che
cosa?”, esclamai arrabbiata.
“Perché fare questa scenata solo per potermi dire
cosa posso o non posso fare
non lo è?”, gesticolai verso il punto
dov’era stato appena trattenuto.
Rilasciò
un sospiro esasperato.
“M’importa
soltanto di te, non di
me”, rispose come se fosse la cosa più ovvia del
mondo.
“Beh
a me invece sì, quindi
smettila!”, cercai di rendere la mia voce
autoritaria.
Mi
passai una mano velocemente
tra i capelli, prendendo un lungo respiro. Mi voltai di nuovo verso
Amos.
“Ho
detto che lo farò, e manterrò
la mia promessa. Potrei solo… avere un momento
per”, mi bloccai nel tentativo
di deglutire il nodo che mi si era formato in gola, “per
salutare?”.
Sapevo
che, se non fosse finita
come speravo, non avrei avuto l’occasione di farlo.
Il
basso ringhio di sottofondo di
Edward si arrestò immediatamente alle mie parole, in attesa
lui quanto me di un
responso positivo. Amos sembrò ponderare la sua risposta
qualche istante prima
di sorridermi amichevolmente.
“Ma
certo, signorina! Mi pare più
che giusto”.
“Ma
avete poco tempo”,
s’intromise Claude, la sua voce e il suo aspetto abbastanza
da causarmi un brivido
freddo lungo la schiena. “Poi si comincia”. Sorrise
crudele nella nostra
direzione.
Non
persi tempo. Mi voltai rapida
verso Edward, afferrandolo per il braccio e strattonandolo gentilmente
affinché
mi seguisse. Nonostante sapessi che era impossibile, volevo evitare di
avere
gli occhi di tutti puntati addosso.
Lanciai
una rapida occhiata verso
il resto della famiglia, abbozzando un debole sorriso di scuse. Non
potevo
salutarli come avrei voluto, non c’era abbastanza tempo; e se
dovevo scegliere,
ovviamente Edward era la mia priorità. Speravo lo capissero.
Ci
allontanammo di qualche decina
di metri, entrambi consapevoli che la distanza non sarebbe mai stata
abbastanza
perché non ci sentissero, per poi fermarci sotto un grande
albero, i suoi rami
che sembravano ripararci parzialmente dagli occhi altrui.
Sollevai
timidamente il capo
verso di lui, il mio coraggio scomparso ancora una volta senza
preavviso,
trovando i suoi occhi intenti sul mio viso, come a decifrarmi.
Le
sue mani risalirono lentamente
lungo le mie braccia fino a quando non si fermarono sulle mie guance,
accarezzandomi con tenerezza.
“Edward”,
sospirai, aggrappandomi
alle sue braccia.
Avevo
bisogno di sentirlo lì,
vicino a me. Questa volta davvero.
“Ho
paura”, confessai in un
sussurro invisibile.
La
sua espressione mi diceva che
provava anche lui la stessa cosa.
“Sai
che non sei costretta a
farlo”.
“Lo
so, ma voglio farlo”,
mormorai. “Se non lo faccio…”.
Non
mi disturbai a terminare la
frase. Entrambi sapevamo che gli Ubach avrebbero attaccato
immediatamente alla
prima occasione.
Edward
annuì pensieroso. “Se solo
potessi farlo io al posto tuo…”.
“E’
meglio così, allora.
Preferisco rischiare la mia vita, piuttosto che la tua”.
Le
sue labbra assunsero una piega
amara mentre le sue mani scendevano sulle mie spalle.
“Non
capisci, vero? La mia non è
vita. Non lo è stata per parecchio
tempo, prima di te. E non lo sarebbe più, se tu non fossi
più qui con me. Tu sei
ciò che mi tiene in vita, è solo
quando sono con te che sono vivo. Altrimenti, è soltanto un
lento sopravvivere.
Non ha senso, né scopo”.
Scossi
la testa con un debole
sorriso. “Tu sei fuori”, fu l’unica cosa
che riuscii a dire.
Mi
rivolse il mio mezzo sorriso
preferito, per poi lasciare scorrere le sue dita gelide lungo le mie
braccia.
Ne seguii il movimento con lo sguardo prima di tornare a cercare il suo
viso.
Lo
trovai di fronte al mio, i
suoi grandi occhi dorati colmi di emozioni ormai facili da comprendere
per me.
Com’era possibile conoscere una persona meglio di se stessi?
“Ti
amo”, dissi decisa senza
distogliere lo sguardo.
Sentii
gli occhi inumidirsi non
appena le parole sfuggirono alle mie labbra. Perché sembrava
quasi un addio?
Non volevo che lo fosse.
Le
sue mani arrestarono il loro
movimento, ripercorrendo il tratto percorso prima fino a che non furono
nuovamente sulle mie guance. Con i pollici tracciò le linee
umide sotto i miei
occhi, un’espressione quasi di scuse sul suo volto.
“Non
farlo sembrare un addio”,
disse in un sussurro.
Avvicinò
il suo viso al mio con
estrema lentezza, quasi a cercare di imprimere a fuoco nella memoria
ogni
singolo istante. Mi baciò con dolcezza, ma era facile
percepire l’ombra di
disperazione nascosta all’interno. La stessa che mi stava
consumando in quello
stesso istante.
Le
mie mani corsero a coprire le
sue, forse in un tentativo inconscio di trattenerlo a me il
più possibile,
mentre il respiro si faceva affrettato.
Quando
si allontanò da me sembrò
quasi che lo stesse facendo contro la sua volontà. Rimase a
qualche centimetro
dal mio viso, fissandomi negli occhi con un’espressione seria
e tormentata al
tempo stesso. Sapevo che in quel momento si stava controllando per
tenere a
bada il suo lato più nascosto, ma non riuscivo a
costringermi a fregarmene.
Accostai
di nuovo il mio viso al
suo e lo baciai ancora, sperando che non mi allontanasse. Non lo fece.
Mi strinse
a sé con forza, forse per impedirmi di sparire,
schiacciandomi contro il suo
petto gelido mentre le nostre bocche correvano l’una
sull’altra senza sosta.
Questa volta non c’era dolcezza, ma solo rabbia e
disperazione nel bacio.
Alla
fine, fui costretta a
staccarmi per riprendere fiato.
“Tempo
scaduto”, sentii chiamare
dal centro della radura.
Sospirai
affranta. Tempo scaduto.
Feci
per allontanarmi da Edward,
ma non me lo permise. Mi tenne ancorata a lui, trafiggendomi con le sue
grandi
iridi d’oro.
“Ti
amo”, il suo fu quasi un
ruggito. “Ora vai a vincere quella scommessa, e poi torna da
me”.
L’intensità
delle sue parole era
tale che mi ritrovai semplicemente ad annuire, incapace di formare
qualunque
tipo di pensiero.
Entrambi
riluttanti, tornammo
lentamente verso la radura con le dita intrecciate, dove Amos ci
aspettava con
un’espressione ansiosa ed eccitata.
“Oh,
eccovi!”, esclamò
soddisfatto non appena ci vide. “Perfetto”.
Ebbi
giusto il tempo di stringere
la mano di Edward un’ultima volta, prima che venisse
brutalmente allontanato da
me e posto in mezzo agli Ubach.
“Ciao”,
sussurrai in silenzio
verso di lui.
Mi
rivolse il mio mezzo sorriso.
“A dopo”.
Amos
si fregò le mani impaziente
con un gran sorriso.
“Bene,
bene. Cominciamo”.
Ok,
ditemi - cosa ne pensate? Edward ha fatto bene a proporre la scommessa,
o si è scavato la fossa da solo? E quest'ultimo "addio",
sempre che lo sia davvero? A me è venuto abbastanza il
magone mentre lo scrivevo, se devo essere sincera. Il prossimo capitolo
è l'ultimo - poi l'epilogo e ci si saluta :(
Come sempre vi ricordo che se la storia non è chiara nei
dettagli, sono più che disponibile a chiarirvi qualche passo
che - mi rendo conto - può sembrare
contorto/incomprensibile. Purtroppo per me, o forse più per
voi, mi piacciono le storie un po' contorte e/o complicate, quindi
dovete portare pazienza xD
Beeeeh
vi saluto, buon weekend e alla prossima! :) La canzone di oggi
è questa:
BUONASERA!
Siamo giunti alla fine, che tristezza D: Dopo questo capitolo, ci
sarà l'epilogo e poi ci salutiamo. Aaaaaah oddio che cosa
triste, vabbè.
Tornando a noi, ecco a voi l'ultimo capitolo - la resa dei conti. Buona
lettura :) Fatemi sapere che ne pensate!
Capitolo
36. Imperfetto.
Mi
sentii strattonare con forza
all’indietro e non opposi alcuna resistenza, mentre uno degli
Ubach mi
trascinava all’indietro fino a quando non fui davanti ai
Cullen. Ebbi appena il
tempo di osservarli brevemente quando mi venne posta sugli occhi quella
che
pensavo fosse una benda.
Sobbalzai
sorpresa e le mie mani
corsero a tastare il tessuto che mi rendeva momentaneamente cieca. La
benda in
sé era sottile, ma era ripiegata più volte su se
stessa fino a renderla quasi
spessa, tuttavia era soffice ed estremamente liscia –
probabilmente di seta.
Cercai
di calmarmi prendendo un
lungo respiro.
Potevo
farcela. Dovevo farcela. Non era
una possibilità,
era un obbligo.
Sapevo che in quel
momento avrei potuto morire, e sarebbe
stata probabilmente colpa mia. Bastava un semplice errore,
un’indecisione, una
scelta affrettata… e sarebbe finita nel modo sbagliato.
Sarei stata costretta a
lasciare tutto ciò che amavo per salvarli. Era un prezzo che
avrei pagato, ma che
volevo cercare di evitare. Sapevo che ne sarebbe andata anche della
vita, o
meglio, dell’esistenza, delle persone che avevo accanto in
quell’istante. Ero
certa che, se avessi perso, non sarebbero rimasti immobili a guardarmi
andare
via. Avrebbero tentato di riprendermi come potevano, rischiando con
ogni
probabilità la loro vita.
Un
senso di nausea mi avvolse
mentre pensavo a Edward, Rose e gli altri, i loro corpi ridotti in
pezzi ed
accatastati l’uno sull’altro in attesa di essere
trasformati in cenere.
Presi
un altro respiro profondo
nel tentativo di tranquillizzarmi.
Dovevo
soltanto seguire il mio
istinto, nient’altro. Fidarmi di quelle sensazioni che
faticavo a comprendere
ogni qual volta ero insieme ad Edward.
La
vocina nella mia testa mi
ricordò che non era poi così facile. Dopotutto
con Claude ci ero cascata; avrei
potuto sbagliare di nuovo, e stavolta non ci sarebbe stata una seconda
possibilità.
Un
altro respiro.
Che
cosa stavano aspettando? Non
avremmo dovuto cominciare? Sentii le mani intorno alla benda tremarmi
lievemente, in eco ai miei pensieri. Ero divisa. In quel momento avrei
cercato
qualunque scusa per poter posticipare la scommessa, eppure non vedevo
l’ora di
cominciare, in modo da svegliarmi il prima possibile da
quest’incubo.
“Siamo
pronti”, sentii chiamare
alle mie spalle.
Non
mi mossi; in un secondo
l’adrenalina prese a scorrere veloce nelle mie vene,
provocandomi un fastidioso
formicolio lungo le braccia fino alle punte delle dita. Chiusi e
riaprii i
pugni un paio di volte nel tentativo di arrestare quella strana
sensazione.
Sentii
qualcuno sciogliere il
nodo alla benda, ma trattenerla ferma dov’era.
“Giusto
un paio di regole”,
riconobbi la voce di Amos a qualche metro da me. “Ovviamente
hai il permesso di
toccare tutti gli Edward”, riuscii chiaramente a percepire il
sorriso nella sua
voce, “e puoi anche parlargli, se vuoi. Quando avrai
decretato che questo o
quello non è il tuo
Edward, dovrai
semplicemente alzare un braccio e l’individuo in questione
verrà allontanato. In
questo modo non creeremo troppo rumore né sarai costretta a
parlare – credo sia
a tuo vantaggio. Se sbaglierai,
beh,
penso che capisca anche tu cosa succederà”. Lo
sentii sospirare soddisfatto. “Inoltre,
mi sembra ovvio che tu non possa tentare di barare; ricordati che
possiamo
leggergli il pensiero. Lo sapremmo immediatamente”.
Annuii
in silenzio.
“Non
ci sono altre regole
particolari, credo. Che dire, buona fortuna allora”.
Molto
lentamente, mi sentii
sfilare la benda dagli occhi. Rimasi ferma dov’ero, lo
sguardo basso e fisso
sul terreno umido.
Sbattei
le palpebre un paio di
volte per adattarmi alla luce fastidiosa e grigiastra del cielo, il
sole poco
più di un cerchio sbiadito soffocato dalle nuvole opache
– un po’ come mi
sentivo io. Alzai lo sguardo poco a poco, stringendo i pugni per
cercare di
calmare quell’irritante formicolio.
Il
respiro mi si bloccò in gola
non appena i miei occhi registrarono la scena di fronte a me. A poco
più di una
decina di metri da me c’era Edward, ma era come moltiplicato.
Ne contai diciotto.
La stessa postura, la stessa espressione, lo stesso sguardo…
Mi
veniva da vomitare.
“Rose”,
chiamai con voce spezzata,
in preda al panico.
La
pressione che stavo mettendo
su me stessa sembrò schiacciarmi all’improvviso,
rendendomi le ginocchia molli
ed instabili.
“Ah
no. No, no, signorina. Niente
aiuti, qui siete solo tu e Edward… tutti quanti”,
Amos sorrise alla sua battuta
personale. “Ho permesso alla tua famiglia di guardare anche
per questo”, lo
sentii aggiungere con voce sottile quanto crudele.
In
quel momento mi sentivo così… inutile.
Non ci sarei mai riuscita. Come avevo anche solo potuto pensarci? Se
avessi
sbagliato? Non riuscivo nemmeno a immaginarlo, il pensiero abbastanza
da farmi
rigirare lo stomaco in modo strano.
“Forza,
Elizabeth. Il campo è
tutto tuo”, mi esortò Amos con voce gentile.
In
un secondo, ero furiosa.
Laggiù c’era Edward, ed io ero troppo stupida e
spaventata per riconoscerlo. E’
Edward!,urlai a me stessa, odiandomi da sola. Com’era
possibile che non riuscissi? Dovevo farlo. Lo conoscevo meglio di me
stessa;
ogni espressione, ogni lineamento, ogni piega di ogni
sorriso… era mia quanto
sua. Non era possibile che non fossi in grado di riconoscerlo.
Presi
un profondo respiro per
calmarmi.
La
paura non era sparita, era
sempre lì in agguato, pronta ad assalirmi alla prima
occasione, ma per il
momento ero riuscita a relegarla in un angolo. C’era qualcosa
di nuovo, di
diverso ora che mi correva nelle vene.
Mi
accorsi con uno strano senso
di compiacimento che non avevo paura di loro. Non di lui. E non era la
mia vita
quella per cui temevo. Volevo vivere, ovvio; tuttavia, nonostante in
quel
momento fosse la mia vita ad essere in pericolo, non riuscivo in alcun
modo a
temere per essa. O almeno a non temerne per mano loro – per
mano sua. Era stupido pensarlo, ma
ero
convinta che lui non mi avrebbe mai
ucciso.
Levai lo sguardo di
fronte a me, con il poco coraggio di cui
ero provvista, pronta. Guardai attentamente ogni singola figura davanti
a me e,
improvvisamente, mi tornarono in mente con prepotenza le parole
pronunciate da
Alice in un passato poco lontano. Le sue parole mi erano sempre suonate
assurde, quasi incomprensibili…
“Era
lui… era lui ad
ucciderti”.
Ora aveva un senso.
E tuttavia non riuscivo a costringermi a
crederci.
Un mezzo sorriso
dalla piega amara mi sollevò le labbra
senza che me ne rendessi conto. Anche Alice probabilmente aveva
già capito.
Prendendo un ultimo
lungo respiro cominciai ad avanzare
verso Edward. Quale fosse, in mezzo a tutti, ancora non lo sapevo.
Lasciai
correre lo sguardo sui diversi volti, sebbene uguali, davanti a me. Uno
di loro
incrociò i miei occhi e mi sorrise apertamente. Lo scartai
immediatamente,
dirigendomi verso di lui e poi alzando il braccio destro una volta
giunta davanti.
Un vampiro dai
capelli rossi quasi quanto i suoi occhi
sembrò materializzarsi al posto dell’Edward che
avevo di fronte in pochi
secondi. Mi osservò con attenzione mista a
curiosità, inclinando la testa di
lato, per poi rivolgermi lo stesso sorriso di qualche attimo prima ed
allontanarsi rapidamente.
Bene
così, dissi a
me stessa.
Continuai allo
stesso modo per diversi minuti, analizzando
ogni singolo tratto o espressione di ogni figura davanti a me,
spaventosamente
simile alle altre, e poi alzando ripetutamente il braccio destro.
Ogni volta
trattenevo il respiro, nervosa, aspettandomi da
un momento all’altro la voce di Amos che mi informava del mio
errore. Sarebbe
stato così facile, ci sarebbe voluto così
poco…
Quando ne rimasero
solamente cinque, mi resi conto che
cominciava a farmi male la testa.
Non
di nuovo,
pensai contrariata con una smorfia.
Mi portai una mano
alla tempia, massaggiandola lentamente
con una lieve pressione. Forse… la mia mente parve
cominciare a lavorare di
fantasia senza che le avessi dato l’ordine. Forse avrei
potuto usare questa
cosa a mio vantaggio. Forse… forse avrei potuto utilizzare
il mio potere per
riconoscere Edward, o per aiutarmi almeno. Tuttavia, sapevo che era
più rischioso
di ogni altra cosa, poiché se avessi sbagliato Edward,
questo avrebbe sentito a
sua volta i miei pensieri, e sarei stata scoperta. A quel punto,
sapendo quanto
il mio scudo poteva estendersi, ero certa che non se ne sarebbero mai
andati
senza di me.
Senza poterlo
impedire, feci una smorfia disgustata.
“Qualcosa
non va?”, la voce familiare di Edward mi
raggiunse.
Un brivido freddo
sembrò congelarmi la base del collo.
Alzai lo sguardo
verso di lui, inclinando il capo come per
studiarlo meglio. No, non era lui. La sua preoccupazione appariva
sincera, ma i
lineamenti erano rilassati nonostante tutto.
“No,
niente”, mi sforzai di sorridere. “Solo un
po’ di mal
di testa, tutto qui”.
Poco dietro di lui,
sulla sua sinistra, notai un Edward
abbozzare un mezzo sorriso appena percettibile, corretto immediatamente
da
un’espressione seria e concentrata.
Lo osservai per
breve attimo, poi mi costrinsi a distogliere
lo sguardo. Mi avvicinai a passi lenti verso l’Edward che
aveva parlato,
alzando il braccio senza una parola non appena gli fui davanti. Questo
distorse
la bocca, apparentemente deluso.
“Peccato”,
disse. “Mi stavo divertendo”.
In pochi secondi, un
vampiro dai capelli biondi che
ricadevano all’altezza del mento e l’aspetto
infantile prese il suo posto. Avrà
avuto all’incirca la mia età.
“Sai”,
continuò fissandomi con concentrazione evidente.
“Spero
quasi che tu riesca a vincere”.
Abbozzò
un sorriso al quale non potei non replicare.
Appariva così genuino.
“Grazie”,
sussurrai in risposta.
I suoi occhi
sembravano volermi dire qualcosa quasi
disperatamente, tuttavia era qualcosa che non ero in grado di cogliere
appieno.
Scappa, scappa appena puoi e il più
lontano da qui. Non lasciare che ti prendano, sembravano
dire, ma non
potevo esserne sicura.
Lo osservai incerta,
sperando che il mio sguardo bastasse a
rispondergli.
Non
posso senza la mia
famiglia. Non vedi? Ho bisogno di loro. Devo vincere la scommessa e poi
potrò
andarmene con loro, non prima.
“James,
lascia continuare Elizabeth”, intervenne la voce di
Amos, interrompendo il nostro strano scambio di sguardi.
James
annuì subito, sorridendomi appena prima di voltarsi e
allontanarsi per raggiungere gli altri.
Mi sentivo un
po’ confusa, impaurita forse dopo aver
ricevuto quello strano avvertimento. Che era successo a quel ragazzo?
Scossi la
testa rapidamente. Non ero sicura di volerlo sapere, e certamente non
era
questo il momento.
Annuendo a me
stessa, ripresi il mio compito. Ora ne
restavano solamente quattro, e uno di loro era Edward.
Presi un respiro
profondo prima di osservare attentamente le
figure davanti a me. Notai Amos fare loro un cenno veloce con la mano,
e subito
dopo tutti e quattro si mossero verso il centro della radura, verso di
me,
avvicinandosi a vicenda lungo una linea immaginaria, distanziati di un
paio di
metri l’uno dall’altro.
Rimasi immobile a
fissarli, respirando appena, osservando
con attenzione ogni piega ed espressione dei loro volti paurosamente
identici. Respirando
profondamente, mi avvicinai di qualche passo verso di loro per poterli
osservare meglio. Al primo sguardo, decisi di scartarne uno. I suoi
occhi
sembravano distanti, tuttavia venati di uno strano divertimento che
stentavo a
comprendere.
Non lo eliminai.
Decisi che era meglio concentrarmi sugli
altri.
Tre,
mi dissi, solo tre.
Sembrava così facile…
Tornai a fissarli,
studiandone le espressioni. Una in
particolare mi colpì; i suoi occhi sembravano quasi
fiammeggiare per la loro
intensità, un misto di rabbia e sofferenza velati al loro
interno.
Incrociai il suo
sguardo. Edward?
I suoi occhi parvero
attenuare le emozioni all’interno,
lasciando trasparire una strana gentilezza. Era davvero lui? Distolsi
lo
sguardo, cercando quello degli altri due.
Dovevo esserne
certa, non potevo rischiare di lasciarmi
ingannare nuovamente. L’espressione serafica di uno degli
altri mi spiazzò un
attimo; appariva calmo, controllato. Ero certa che quello non potesse
essere
Edward.
Spostai lo sguardo
sull’ultima figura, sperando con tutta me
stessa che fosse realmente facile com’era stato finora.
Ovviamente non lo era. Non
appena lo guardai in viso, trovai un paio di occhi che mi stavano
già fissando
da chissà quanto, la loro intensità abbastanza da
farmi sentire a disagio. I
lineamenti perfetti del suo volto erano contratti, come bloccati in una
smorfia
di preoccupazione e tormento. Ma la cosa che più faceva male
da vedere era la… speranza
– forse? – nascosta nei suoi occhi.
Distolsi lo sguardo
rapidamente, guardandomi un istante
attorno per poi ritornare a lui, rendendomi conto che era lo stesso che
mi era
parso trattenere un sorriso prima. Era Edward? Come potevo esserne
assolutamente certa? Mi passai nervosamente le mani nei capelli.
Notai entrambi
seguire i miei movimenti con estrema
attenzione, ma in modo diverso. Il primo sembrava quasi osservarmi con
adorazione, guardandomi con occhi preoccupati e sinceri, come se fosse
sul
punto di abbandonare il suo posto e raggiungermi, per poi scappare via;
mentre
il secondo pareva più accertarsi che fossi tutta intera, il
suo sguardo pareva
quasi bruciarmi.
Rimasi immobile a
pensare, le mani ancora intrecciate tra i
capelli, gli occhi fissi su un punto senza in realtà vedere
nulla. Quale dei
due? Suonava così semplice.
Avrebbe potuto
essere solo un’altra stupida scelta nella mia
vita. Destra o sinistra, sopra o sotto,giallo o blu, bianco o nero… ce ne sono
infinite. Questa era uguale alle
altre, e al tempo stesso così differente.
“El”,
mi sentii chiamare dalla sua voce. Suonava distrutta,
tormentata.
La mia testa
scattò nella sua direzione senza decisione
alcuna, e lo fissai con un misto di sorpresa e angoscia. Il primo
Edward, sulla
sinistra, mi osservava con un’espressione colma di
aspettativa e di
preoccupazione al tempo stesso. Avrei voluto urlare. Chi stavo
ascoltando ora?
“El,
amore, per
favore-”, un lamento strozzato, appena percettibile, lo
interruppe.
Spostai lo sguardo
sulla fonte del rumore, e trovai il
secondo Edward esattamente come l’avevo lasciato, immobile
nella sua posizione.
I suoi occhi erano ancora puntati nei miei, ma questa volta contenevano
anche
una rabbia che mi prese alla sprovvista.
“Chiudi
quella bocca”, le sue labbra si mossero appena, ma
la sua voce raggiunse entrambi come un veleno ghiacciato.
“El, non
dargli retta”, s’intromise l’altro.
“Ricorda cosa
ti ho detto sui loro giochi mentali. Sta giocando
con te, ti sta prendendo in giro. Ti prego, non
cascarci… non di nuovo”,
sul finale la sua voce si era fatta più fioca, quasi
spezzata sull’ultima
sillaba.
I miei occhi si
spalancarono in stupore. Era davvero Edward
allora? Mi ricordavo bene ogni parola che Edward mi aveva detto, ed
avevo
imparato a mie spese che aveva ragione. Ed era stato lui a dirmelo, non
c’era
stato nessun altro in quel momento…
“Edward?”,
domandai nella sua direzione, abbozzando un passo
verso di lui.
Ma non potevo
esserne comunque certa. Loro avrebbero potuto
facilmente leggergli il pensiero. Diamine. Perché doveva
essere tutto così
complicato?
“Sono qui,
El”, rispose sollevato, allargando le braccia in
segno d’invito. “Vieni qui”.
Mi guardai intorno,
sentendomi a disagio, e trovai per un breve
secondo lo sguardo dell’altro Edward, ancora immobile come
prima. I suoi occhi
mostravano ancora un cambiamento, questa volta c’era una
strana ombra di
sofferenza, mista a uno sguardo di scuse.
Il mio stomaco
sembrò aggrovigliarsi sotto quello sguardo. Ignorai
quella strana sensazione, particolare quanto familiare, e avanzai a
passi
incerti verso l’Edward sulla mia sinistra, che ancora mi
aspettava con
espressione sollevata.
Non appena gli fui
davanti, le sue braccia mi circondarono i
fianchi con estrema delicatezza, come se avesse paura di spezzarmi, e
nascose il
viso nel mio collo, inspirando profondamente. Ero totalmente
disorientata,
incerta se dovergli stringere le braccia al collo o semplicemente
aspettare
ancora. C’era qualcosa che ancora non andava, e non capivo
cosa fosse.
“Ti
amo”, lo sentii mormorare tra i miei capelli.
“Sapevo
che ce l’avresti fatta, non ho mai temuto che avresti
sbagliato. Ti amo”,
ripeté scostandosi un poco per potermi guardare in viso.
Poi capii. Non
c’era niente
che non andava, assolutamente niente…
Sentii un suono
soddisfatto provenire da qualche metro alle
mie spalle, e riconobbi la voce di Alice nel silenzio, proprio mentre
Edward
avvicinava il suo volto al mio con dolcezza, tenendomi per il mento.
Ero certa
di sapere a cosa fosse dovuto il suo gesto, e mi sentii sorridere
appena.
…ed era
proprio questo che era così sbagliato. Era tutto
troppo perfetto, troppo… irreale.
Edward chiuse la
distanza tra i nostri volti, toccando le
sue labbra fredde con le mie diverse volte prima di posarle realmente.
Rimasi totalmente
immobile, in attesa.
Era quasi divertente
il modo in cui il mio corpo reagiva,
come se capisse cosa stava succedendo meglio della mia stessa mente.
Forse
avrei semplicemente dovuto fidarmi di lui fin dall’inizio.
La sua mano
risalì la mia guancia fino a posarsi sulla nuca,
trattenendomi dov’ero, mentre l’altra affondava nei
miei capelli.
Mi sentii sorridere
senza nemmeno volerlo mentre sollevavo
lentamente il braccio destro fino a quando non fu totalmente esteso
sopra la
mia testa.
Sentii le sue mani
staccarsi da me lentamente e i suoi occhi
cercarmi, per poi assumere una strana espressione quando notarono il
mio
braccio sollevato. Mi osservò per qualche istante con uno
sguardo stralunato,
per poi sollevare le labbra in un sorriso che, mio malgrado, sapevo
riconoscere
bene.
“C’eri
quasi, Claude”, sorrisi, talmente fiera di me stessa
che non ero nemmeno in grado di essere spaventata, nonostante la
situazione.
La sua figura
cominciò a mutare rapidamente, perdendo i
lineamenti perfetti di Edward ed acquistandone altri, ugualmente belli,
ma non
altrettanto cari.
Claude rispose al
mio ghigno con il suo, per poi
indietreggiare di un passo e annuire.
“Mi
piacerebbe poterti chiedere la rivincita, ma non credo
di essere nelle condizioni di farlo”, mi sorrise parzialmente
divertito, quasi
compiaciuto nonostante la sua sconfitta.
I suoi occhi cremisi
mi osservavano con un misto di
curiosità e compiacimento; non ero sicura di capirlo. Ma non
era importante
ormai.
“Credo di
aver vinto”, decretai con voce sottile. Poi più
decisa, “Ho vinto”.
Quella
consapevolezza mi fece tremare le gambe. Ce l’avevo
fatta. Dio, ce l’avevo fatta!
Sentii la voce di
Amos rivolgersi a Carlisle come un vecchio
disco in sottofondo mentre cercavo di ripetere nella mia mente gli
avvenimenti
degli ultimi minuti, sentendomi così forte da poter credere
di volare.
Cercai di calmarmi,
tentando di pensare razionalmente. Dopotutto
Amos avrebbe ancora potuto venir meno alla sua promessa e attaccarci.
Il solo
pensiero mi fece rovesciare lo stomaco.
Mi voltai verso di
loro, cercando un contatto visivo che
speravo mi avrebbe aiutato a capire di cosa stessero parlando, troppo a
bassa
voce perché io capissi.
“Una
scommessa è una scommessa”, lo sentii dire.
“E questa
volta pare proprio che mi sia andata male. Amici come prima, Carlisle?
Non mi
piace serbare rancore”.
Percepii la mia
bocca spalancarsi per l’incredulità, per poi
sollevarsi in un gran sorriso euforico. Lo vidi offrire la mano a
Carlisle,
abbozzando un gran sorriso.
Carlisle la
fissò un attimo, poi sollevò la sua,
mantenendola però a una certa distanza.
“Certamente,
finché tu e il tuo clan rimarrete fuori dal
nostro territorio e manterrete la promessa”.
I due si guardarono
per un lungo istante, poi Amos annuì e
gli strinse la mano.
“Certo,
sarà fatto. Beh, alla prossima allora, è stato un
piacere”, disse con fare solenne, mentre mi accorgevo solo
vagamente degli
altri Ubach che sparivano rapidamente in silenzio.
Scorsi brevemente la
figura di James che si allontanava, e
la seguii con lo sguardo con una certa apprensione. Dovevo ricordarmi
di
chiedere a Edward cosa gli era successo.
La voce di Amos mi
riscosse dai miei pensieri.
“Mi auguro
che verrete anche a trovarci, ovviamente”. Poi si
voltò verso di me. “Elizabeth, spero di rivederti
prima o poi, in veste di
signora Cullen”.
Sparì
subito dopo, senza darmi nemmeno il tempo di
arrossire. Sorrisi vagamente imbarazzata, passandomi una mano tra i
capelli e
facendo una lieve smorfia prima di rendermi conto che non avevo ancora
raggiunto Edward. Edward!
Mi voltai di scatto,
dirigendomi verso di lui, ancora
immobile dov’era rimasto tutto il tempo. Questa volta i suoi
occhi celavano un
misto di commozione e scuse che sembravano mischiarsi alla sua gioia ed
incredulità evidenti.
Mi arrestai una
volta giunta davanti a lui. Sembrava così
diverso guardarlo in viso questa volta, rispetto a tutte le altre.
Levai
lentamente lo sguardo verso il suo viso, trovando un gran sorriso a
sollevargli
le labbra. Non credevo di averlo mai visto così…
felice. I suoi occhi dorati
sembravano risplendere, accesi di una luce che non ero sicura di avere
mai
visto.
“Ciao”,
mormorai stupidamente.
Lo sentii
ridacchiare appena, per poi percepire la sua mano
circondare la mia.
“Ciao”,
rispose con un sorriso nella voce, portandosi la mia
mano alla bocca e baciandone il dorso quasi in modo adorante.
La sua mano libera
risalì il mio braccio, facendomi venire
la pelle d’oca al passaggio, fino ad accarezzarmi la guancia;
il suo pollice
corse lungo il mio profilo, sfiorandomi dal contorno degli occhi fino
alle
labbra, dove si soffermò più a lungo, per poi
ripetere il percorso.
“Dovrai
spiegarmi come hai fatto, prima o poi. Per un
secondo, ho davvero avuto paura di perderti per sempre”,
disse con stentata
leggerezza, nonostante potessi avvertire ancora la sua preoccupazione.
Questo
era stato
lo sbaglio di Claude. Si era finto l’Edward perfetto, quando
sapevo che in
realtà non lo era del tutto – nonostante odiasse
ammetterlo, persino lui aveva
delle paure. Edward era perfetto per me, ma non era perfetto.
Mi limitai ad
annuire, per poi sollevare entrambe le braccia
ed aggrapparmi alla sua maglia. Avevo bisogno di sentirlo vicino, di
sapere che
era reale e mio.
“Ho avuto
paura da morire”, confessai quasi in silenzio.
Inspirai
profondamene contro il suo petto, sentendomi
finalmente sicura e protetta.
“Anch’io”,
percepii, più che sentii le sue labbra sussurrare
tra i miei capelli.
Mi scostai quel che
bastava per guardarlo in viso,
sorridendogli appena.
“Ti
amo”, dissi semplicemente, credendo in ogni singola
lettera.
Lo vidi scuotere la
testa, un mezzo sorriso a increspargli
le labbra sottili.
“Ti
amo”, rispose prima di chiudere la breve distanza tra
noi. “Davvero”.
...E quindi tutto
è bene quel che finisce bene. Come sono banale xD Fatemi
sapere che cosa ne pensate. Buon weekend e alla prossima! :)
La canzone
è What the water gave me, il nuovo singolo di Florence + the
machine. Quella donna è meravigliosa.
Okay... this is it.
E' davvero la fine gente D: Sono piuttosto disperata per questa cosa,
abbandonare definitivamente questi due non credo mi piacerà
molto. Nel caso qualcuno se lo stesse domandando, non ci saranno sequel
- la storia è conclusa così, cercare di forzare
un seguito in qualcosa che si sente finito sarebbe un fallimento in
partenza.
Detto questo, vi lascio al capitolo. Ci rivediamo in fondo che ho
parecchio da dire e qualche saluto da fare :)
Cercai di ritrarmi
dalla sua presa, ma l’unica cosa che
ottenni fu un aumento della sua stretta.
“Smettila
di divincolarti, o mi farai sbavare l’eyeliner”.
Mi lasciai affondare
nella sedia, sconfitta.
“D’accordo”,
bofonchiai.
Era più
di un’ora, o almeno così ero convinta, che Rose mi
teneva prigioniera nel suo bagno con la scusa di prepararmi per il
grande
evento della giornata: il matrimonio di Alice e Jasper.
Sbuffai. Se avessi
saputo che acconsentire ad essere la
damigella di Alice avrebbe significato indossare un vestito scelto
appositamente da lei e una sessione di trucco infinita, avrei opposto
più
resistenza. Decisamente più resistenza.
“Rose, non
c’è bisogno che mi metta tutta quella roba in
faccia. Farò sempre una figuraccia di fianco a tutti
voi”.
Rosalie
alzò gli occhi al cielo, in parte divertita ma anche
scocciata.
“Taci,
sarai perfetta”.
Questa volta fu il
mio turno per alzare gli occhi al cielo.
Mi sistemai sulla
sedia, guardandomi attorno con una certa
curiosità mentre Rose si apprestava ad applicarmi la cipria,
o qualunque cosa
fosse.
A giudicare dalla
luce che filtrava nella stanza, dovevano
essere all’incirca le due di pomeriggio. Alice stava
preparando Sarah nella sua
stanza – quelle due ormai erano impossibili da separare
– mentre Jasper, Edward
e Emmett erano andati “in campeggio”. Mia madre era
forse la più agitata di
tutti, cercando in ogni modo possibile di aiutare Esme e Carlisle ad
organizzare il matrimonio che Alice aveva pianificato in modo
già più che
perfetto. Mio padre si limitava a cercare di frenare il suo entusiasmo,
anche
se non con molto esito.
Sorrisi al pensiero.
Non era passato poi molto da quando
avevo pensato di perderli per sempre. Erano trascorse due settimane
dall’incontro con gli Ubach, e a quanto pareva avevano
mantenuto la loro
promessa. Erano svaniti nel nulla, lasciandosi alle spalle solo qualche
ricordo
spiacevole e parecchia paura. Jasper e Emmett andavano spesso a
controllare i
confini, per essere certi che non fossero tornati, ma finora non
c’erano state
sorprese, e di questo ero grata. Ero abbastanza certa del fatto che non
l’avrebbero
fatto, ma non potevo esserne totalmente sicura. Dopotutto,mi risultava alquanto difficile fidarmi di loro.
Dopo quella che
parve un’altra ora, Rose si scostò dal mio
viso con un gran sorriso compiaciuto.
“Ok, ho
finito”, annunciò sistemandomi una ciocca di
capelli
già acconciati dietro l’orecchio.
“Pensavo
non l’avresti mai detto”, sospirai teatralmente,
ignorando di proposito la sua smorfia.
Mi alzai dalla
sedia, voltandomi verso lo specchio.
“Ah,
no”, mi bloccò, fermandomi per un braccio e
riportandomi
con le spalle rivolte verso lo specchio. “Ti vedrai a lavoro
finito”.
Sospirai esasperata.
“Pensavo
fosse la sposa a cui erano riservati i trattamenti
snervanti”.
“Pensavo
sapessi a cosa stavi andando incontro quando hai
detto di sì ad Alice”, rispose con un gran ghigno.
Repressi un ruggito.
Feci per replicare, ma Rose
m’interruppe con un gesto della mano.
“Ah-ah.
Quando avrò finito, avrai tutto il tempo per
brontolare. Ora devi sbrigarti a mettere il vestito, o farai
tardi”.
Rassegnata e
sconfitta, obbedii in silenzio. La cerimonia
iniziava alle cinque – di tempo ce n’era ancora
parecchio – ma discutere con
Rose non portava mai ad alcuna vittoria.
Il vestito era
appoggiato sul bordo del letto, avvolto da
uno spesso rivestimento bianco di tessuto. Non mi era ancora stato
permesso di
guardarlo – non che ne avessi l’intenzione
– e ormai stavo diventando nervosa,
oltre che curiosa. Con Alice non si poteva mai sapere.
Annuii in silenzio,
forse più a me stessa che a lei. Sollevai
l’abito con cura, prendendo la cerniera
dell’involucro tra pollice ed indice e
facendola scorrere lentamente lungo la lampo. Cercai di non apparire
troppo
sorpresa davanti al vestito che mi trovai di fronte.
Era sicuramente
bello. Il tessuto di chiffon color caffè
partiva da una scollatura a cuore per poi ricadere elegantemente in
piccole
pieghe. Una cintura di tessuto più spesso lo avvolgeva
appena sotto il seno,
chiudendosi con un piccolo fiocco dello stesso materiale. Era semplice.
Era
perfetto.
“Alice
aveva pensato a qualcosa di più… sfarzoso, per
così
dire”, sentii chiaramente il sorriso nella sua voce,
“ma Edward ha insistito
per questo. Era convinto che ti sarebbe piaciuto”.
Registrai appena
quello che stava dicendo mentre osservavo
stupita quel pezzo di stoffa dall’aspetto tanto fragile. Lo
accarezzai con la
punta delle dita, facendo scivolare i polpastrelli sul tessuto delicato.
“Ti
piace?”, la voce di Rosalie mi riportò alla
realtà.
Mi limitai ad
annuire soltanto, un piccolo sorriso sulle mie
labbra.
“Che ne
dici di indossarlo, allora, invece di restare lì
impalata a fissarlo?”.
A quel punto la
realtà tornò a materializzarsi davanti ai
miei occhi.
“Cosa?
Io… no! Rose, non posso”, balbettai con gli occhi
sgranati, allontanando da me il vestito. “Non posso metterlo,
è troppo… troppo”.
Non potevo indossare
quel vestito. Era perfetto, sì. Ma non
per me.
“Oh, non
cominciare”, sbottò Rose. “Forza,
mettilo”.
Rimasi immobile a
fissarla, sconcertata.
“Non ti
farò uscire dalla stanza finché non sarai pronta,
a
te la scelta. Ti perderai la cerimonia e dovrai subire l’ira
di Alice per il
prossimo ventennio”.
Sbuffai alzando gli
occhi al cielo e mi maledii per aver
acconsentito a quella tortura.
“Okay,
okay”, mi arresi alzando le braccia in segno di resa
quando la vidi avanzare verso di me.
Mi infilai con cura
l’abito sotto lo sguardo divertito e
attento di Rosalie, sistemandomi le ciocche di capelli che tentavano di
sfuggire all’acconciatura intricata che aveva allestito.
“Perfetta”,
mormorò con un gran sorriso quando mi fui
infilata anche le scarpe, per poi prendermi per mano e trascinarmi
davanti allo
specchio. “Perfetta”, ripeté.
La mia prima
reazione fu di sorpresa. Ero davvero io quella riflessa
lì di fronte a me? Portai istintivamente la mano ai capelli,
prendendo una
ciocca ribelle tra le dita. Erano sollevati in
un’acconciatura elegante, ma non
troppo ricercata. Riuscivo a sentire, più che vedere, le
forcine che aveva
usato per mantenerli in quella posizione. Due lunghe ciocche ricadevano
lungo
le tempie, incorniciandomi il viso con dolcezza.
Un colpo alla porta
mi costrinse a voltarmi di scatto.
“Bene,
pronta?”, fece capolino Alice da dietro lo stipite.
Sorrisi timidamente,
annuendo appena.
“Edward e
i ragazzi sono di sotto, ci stanno aspettando.
Andiamo”, aggiunse vivace.
Non riuscivo a
comprendere la sua esuberanza, ma quelle
furono le parole magiche in grado di convincermi a muovermi. Notai Rose
e Alice
scambiarsi uno strano sguardo d’approvazione, ma decisi di
non badarvi. Sentii
la voce di Emmett provenire dal piano inferiore.
“El,
dobbiamo aspettarti ancora molto? Il povero Edward ti
attende impazientemente”, finse un tono petulante.
Sentii chiaramente
un colpo, forse un pugno, sferrato,
seguito da qualche risata soffocata.
“Emm,
taci!”, urlò di rimando Alice, mentre Rosalie si
limitava a ridacchiare in silenzio.
Quest’ultima
mi prese per mano, portandomi con sé fino in
cima alle scale.
“Rose,
puoi andare tu da Esme a chiederle se ha già disposto
tutti i fiori?”.
Dopodiché,
Alice si fiondò immediatamente in giardino, dove
l’aspettava un Jasper che appariva più entusiasta
di quanto l’avessi mai visto
fino a quel momento. A quanto pare non le importava di non farsi vedere
dallo
sposo prima della cerimonia – dopotutto era soltanto giusto
nei confronti di
Jasper, lei aveva già visto tutto.
Rosalie la
seguì rapidamente, ma non prima di aver stampato
un bacio sulle labbra di Emmett. Rimasi ad osservare la scena, immobile
sui
miei tacchi instabili fino a quando non scorsi una figura sorridente
che mi
osservava in fondo alla stanza. Mi sorrise, e il secondo dopo era ai
piedi
delle scale, lo stesso sorriso ad illuminargli quel bel viso che amavo.
“Sei…”,
sembrò per un secondo cercare le parole più
adatte,
per poi scuotere velocemente la testa. “Alice aveva ragione:
valeva la pena di
aspettare per vederti”.
Distolsi lo sguardo
dal suo, sorridendo appena al suo commento
e sentendo le mie guance scaldarsi.
“Grazie”,
lo sentii sorridere a sua volta, divertito dalla
mia timidezza.
Azzardai
un’occhiata di sottecchi verso di lui, e sentii il
mio cuore perdere un battito. Indossava un completo scuro, la cravatta
nera annodata
perfettamente al collo sopra la camicia bianca. L’abito nero
riusciva come non
mai a far risaltare il suo colorito niveo, accentuandone i lineamenti e
l’oro
brillante degli occhi, che ancora sentivo su di me. Era bellissimo, e,
in un
modo che ancora non comprendevo, mio.
“Forza,
andiamo”, disse tendendo una mano verso di me e
salendo con eleganza due gradini.
Annuii. Non riuscivo
a capire il perché del mio improvviso
nervosismo. Mi mordicchiai l’interno della guancia.
“Uhm,
sì. Ecco, a proposito… grazie per il vestito.
E’
davvero molto bello”, dissi sottovoce.
Iniziai a scendere
le scale, prestando attenzione ad ogni
gradino, aiutandomi con il corrimano a bilanciarmi sulle scarpe.
“Sei
davvero…”, la sua voce mi costrinse ad alzare il
capo
di scatto, il che si concluse con la mia prevedibile perdita di
equilibrio.
Due braccia dalla
presa forte e rigida mi impedirono di
rovinare al suolo, e mi strinsero a loro.
“Instabile”,
conclusi la sua frase con un mezzo sorriso una
volta che fui certa di essere in piedi.
Alzai lo sguardo per
trovare Edward a fissarmi con occhi
divertiti e forse adoranti, un mezzo ghigno a sollevargli le labbra.
“Stavo per
dire ‘splendida’, ma credo che anche
‘instabile’
possa funzionare visti gli ultimi eventi”, il suo sorriso si
tese
ulteriormente, e la sua presa sui miei fianco si intensificò
appena.
Edward si
limitò a scuotere la testa senza dire nulla, per
poi avvicinare il suo viso al mio con lentezza calcolata.
“Mi sei
mancata”, sussurrò strofinando il suo naso con il
mio.
“Mmhmh”.
“Edward,
non ci pensare nemmeno”, sentimmo entrambi la voce
di Alice provenire dall’ingresso. “Quel trucco deve
rimanere tale fino alla
fine del mio matrimonio, quindi non ci pensare nemmeno a
baciarla”.
Sbuffammo entrambi
scocciati, per poi scambiarci uno sguardo
divertito per la nostra reazione. Suo e mio malgrado, Edward si
raddrizzò e mi
prese per mano, conducendomi all’esterno. Meglio non
provocare Alice.
La cerimonia si
svolse rapidamente, per mia fortuna. Stare
in piedi a fianco dell’altare sui tacchi non era il modo
ideale di passare il
pomeriggio.
Ogni tanto mi
soffermavo a guardare Alice e Jasper, il loro
sguardo complice e totalmente adorante, ma senza essere romantico in
modo esagerato.
Tuttavia, la maggior parte del mio tempo la passai ad incrociare lo
sguardo di
Edward dall’altro lato dell’altare, la sua postura
rigida ed elegante.
Ogni qual volta lui
cogliesse il mio sguardo, i suoi occhi
parevano illuminarsi appena e il suo sorriso faceva capolino sulle
labbra
sottili e piene. E sentivo per me era esattamente la stessa cosa.
Mi sentivo
così stupida e infantile, ma non potevo
impedirmelo.
Quando finalmente la
cerimonia si concluse, ci dirigemmo
verso il ricevimento, dove la mia famiglia, alcuni invitati ed il resto
dei
Cullen stavano già chiacchierando.
Il misterioso clan
di Denali era stato invitato, e mi sentii
più che a disagio durante le presentazioni, soprattutto di
fronte a una certa
Tanya, che mi guardava come se mi fosse cresciuto un arto in
più dall’ultima
volta che mi ero vista allo specchio. Tuttavia, a parte questo,
andò tutto più
che bene. La mia famiglia si congratulò quasi esageratamente
con Alice e
Jasper, in particolare Sarah, che sembrava una piccola bambola di
porcellana
con il vestito che le aveva preparato Alice.
Ero di fronte al
buffet con i miei genitori quando mi sentii
picchiettare la spalla.
“Signor
Cooper, signora Cooper”, salutò Edward con un
cenno
del capo e un sorriso. “Potrei rubarvi vostra figlia per
qualche minuto?”.
Mio padre parve sul
punto di rispondere, ma mia madre
intervenne.
“Certamente,
Edward. E chiamami Marie”.
“Grazie,
Marie”, le sorrise cordiale. “Signor
Cooper”.
Dopodiché,
mi cinse la vita con un braccio e mi sospinse
verso il lato più isolato del giardino. Non appena fummo
fuori dalla vista dei
presenti, si fermò e prendendomi il viso tra le mani, mi
baciò rapidamente ma
con dolcezza.
“Ciao”,
mi sorrise, percorrendo con il pollice le mie
labbra.
“Ciao”,
sospirai trasognata.
Mi prese la mano e
mi trascinò con sé lungo un sentiero
appena visibile, camminando lentamente tra gli alberi che ci
circondavano. Ad
un tratto, stufa dei continui rischi di storte, sbuffai e fermai Edward.
“Che stai
facendo?”, chiese divertito quando notò la mia
espressione.
“Mi tolgo
i tacchi”, annunciai soddisfatta. “Mi stanno
uccidendo”.
Edward scosse la
testa ridacchiando.
“Sei
incredibile”.
“No, sono
stufa”, replicai con una smorfia.
Riprendemmo a
camminare, ma più lentamente.
“Sei
davvero molto bella con quel vestito”.
Annuii timidamente,
mormorando un “Anche tu” appena
pronunciato.
“Rose mi
ha detto che sei stato tu ad insistere su questo”,
aggiunsi poco dopo.
“Sì,
mi piaceva. Credevo che sarebbe stato perfetto su di
te, e alla fine avevo ragione”.
“Ovviamente
lo saresti stata anche con un paio di jeans e
una maglia, ma Alice non era molto propensa”,
continuò al mio silenzio.
Alzai gli occhi al
cielo.
Era una proposta
interessante, ma se mi fossi davvero
vestita così mi avrebbero tutti guardato come se fossi
uscita da un cartone
animato. Il che mi riportava…
“Ehi, chi
è Tanya?”, chiesi ricordandomi del modo in cui mi
aveva guardato.
Edward si
irrigidì inizialmente, per poi ridacchiare.
“E’
una dei nostri “cugini”
dell’Alaska che condividono il nostro stile di vita, pensavo
che-”.
“Non
intendevo quello, e lo sai”, lo interruppi. “Mi ha
fissata in modo strano, non mi è piaciuto”.
“Davvero?”,
finse di esserne totalmente all’oscuro.
“Edward”,
lo ammonii.
“El,
amore, Tanya non è nessuno di importante. E’ solo
che
probabilmente le è parso strano il fatto che io ti
presentassi a lei come ‘la
mia ragazza’, tutto qui”.
Sgranai gli occhi
immediatamente.
“Mi stai
dicendo che quella Tanya era la tua ragazza?”,
sbottai ad un volume forse più alto di quanto avessi voluto.
Riportai alla mente
il viso di quella ragazza dai capelli
biondo fragola, e desiderai di sprofondare nel terreno. Lei
era… perfetta. Un
attentato all’autostima di qualunque ragazza.
“No, no,
El”, si affrettò a rassicurarmi Edward.
“Ovviamente
no, tu sei stata la prima… e l’unica, per quanto
mi riguarda, ad avermi fatto
provare tutto questo”, disse accarezzandomi il viso
gentilmente.
“Ma
allora…”.
“Lei
voleva… mi
voleva, ma le ho fatto capire che non ero interessato. Fine della
questione”.
Rimasi a fissarlo ad
occhi sbarrati.
“Ma…
perché?”, fu l’unica domanda che riuscii
a formulare.
“Perché?
Che significa perché?”,
ridacchiò tranquillo.
“Lei
è così, così…”,
sospirai frustrata.
Edward mi
sollevò il mento con le dita, costringendomi ad
incontrare il suo sguardo.
“Non
è te”, mi sorrise sereno. “Questa
è una spiegazione
sufficiente”.
Mi sentii sciogliere
un pochino alla sua affermazione. Tuttavia,
non potei impedirmi di sbuffare.
Edward
scoppiò a ridere, chinandosi per baciare le mie
labbra imbronciate e poi raddrizzandosi subito.
“Sei buffa
quando sei gelosa”.
“Non sono
gelosa”.
“Okay”,
acconsentì con un mezzo ghigno che la diceva lunga.
Riprendemmo a
camminare, ma questa volta dirigendoci verso
casa. Edward mi strinse al suo fianco passandomi un braccio intorno
alla vita.
“Pensi mai
che prima o poi vorrai sposarti anche tu?”,
chiese d’un tratto Edward.
La sua domanda mi
mandò inspiegabilmente nel panico.
“No”,
mi affrettai a dire. “Cioè, sì. Ma non
spesso, capita
ogni tanto”, lasciai svanire la mia voce nel silenzio
ovattato della foresta.
Sapevo di dover
restare zitta, eppure la curiosità ebbe la
meglio.
“Come
mai?”, chiesi con un filo di voce.
“Non
saprei. Sai, con il matrimonio di Alice e Jazz e tutto
il resto…”.
“Mmm”,
mi limitai a dire.
Un silenzio strano
sembrò appollaiarsi sulle nostre spalle
fino a quando Edward non parlò di nuovo.
“Sai, fino
a non molto tempo fa ero convinto che per me
sarebbe stato impossibile. L’idea che ci fosse qualcuno
là fuori perfetto per
me era assurda”, mormorò pensieroso.
“Beh, almeno è stato così fino a quando
non ti ho conosciuta”, si corresse con un sorriso pensieroso.
“Sei
praticamente… entrata nella mia vita quasi di prepotenza, e
all’inizio mi
faceva quasi rabbia il modo in cui mi sentivo stregato da te, senza che
tu te
ne rendessi nemmeno conto”.
Edward si
fermò, prendendomi entrambe le mani tra le sue e
guardandomi in viso.
“Ci ho
messo così tanto a rendermi conto che ti amavo, e
ancora di più a fartelo capire”, scosse la testa
con un breve sorriso. “Ma ti
amo, e questo non cambierà mai. Nemmeno se un giorno tu
dovessi stancarti di me
e decidere che dopotutto non sono abbastanza, che non ti
merito… ti amerei lo
stesso, anche se probabilmente preferirei non farlo”.
Mi passò
il pollice sulle labbra. “Volevo solo che lo
sapessi”.
Cercai di combattere
il gran sorriso che minacciava di
spuntarmi sulle labbra, ma non riuscii ad impedirlo.
“Ti
amo”, risposi semplicemente. “Quando ti deciderai a
capirlo?”, aggiunsi dandogli un colpo sul petto, che gli
causò una risata.
Mi prese il viso tra
le mani e questa volta mi baciò
davvero, soffermandosi sulle mie labbra più a lungo. Riaprii
gli occhi per
trovarlo lì ad osservarmi, un’espressione strana
sul suo volto.
“Voglio
passare il resto della mia vita… della mia esistenza
con te”, mormorò.
Ah. Aiuto.
“Uhm…io,
ah…”, mi sentii farfugliare, per poi prendere un
respiro profondo nel tentativo inutile di calmarmi.
“E’ una proposta, la tua?”,
cercai di sdrammatizzare, rivolgendogli un sorriso.
“Solo se
vuoi che lo sia”.
Diavolo. Riuscivo a
sentire le mani formicolare fino alla
punta delle dita.
“Beh, in
questo caso, Edward Cullen… credo davvero che
passeremo l’eternità insieme”.
Fine.
Quiiiindi...
quanto fa strano vedere la parola fine su un proprio lavoro? Fin troppo
sinceramente.
Okay,
passiamo alle cose serie. Ho un paio di ringraziamenti e saluti vari da
fare.
Prima di tutto, voglio ringraziare Giuls e Elly che, nonostante non ci
si senta più come prima, hanno permesso a questa storia di
prendere il via e a me di continuarla, motivandomi nel
percorso.
Ovviamente devo ringraziare anche quelle due in pagina - per chi se lo
stesse chiedendo, Carli e Fabi - che mi sopportano e mi permettono di
postare la storia anche lì di tanto in tanto; se ho delle
visualizzazioni è solo grazie a voi. Di certo non avrei
fatto un bel niente da sola. (Senza contare il fatto che non avrei
nemmeno mai postato, ma questi sono dettagli xD)
Il che mi porta alle mie recensitrici. Quanto siete
meravigliose? Paola, Giò, Jen,
Marta, Giada, Ginevra,
Jujis (se ho dimenticato qualcuno siete libere di insultarmi) - se
grazie a quelle due ho iniziato a postare, è grazie a voi
che ho continuato a farlo. Senza i vostri commenti mi sarebbe passata
sicuramente la voglia - per non dire farsi prendere dalla depressione
più totale xD Quindi GRAZIE di cuore anche a voi,
soprattutto a voi.
Un grazie va anche a tutti i lettori silenziosi, che sinceramente spero
prendano il coraggio a due mani e si azzardino a scrivere anche solo
due parole per quest'ultimo capitolo - poi giuro che sparisco, quindi
non vi rompo più xD
L'ultimo grazie va alla mia Angelica personale - con la storia non
c'entra granché, ma poco importa visto che c'entra con me.
Probabilmente non leggerai mai questa nota/capitolo perchè
non te ne frega minimamente xD però sappi che ti voglio bene.
Ok, con le smancerie credo
di aver concluso. Credo eh - nel caso le aggiungo più tardi,
tanto posso modificare i post xD Eeeeh niente, ci vediamo spero. Prima
o poi torno a postare qualcos'altro, devo solo trovare il tempo
perchè le idee ci sono. Grazie ancora gente! :*