Frammenti di scenografia

di Alkimia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Lo squarcio nel buio ***
Capitolo 3: *** forse invece sai già tutto ***
Capitolo 4: *** L'onestà della paura ***
Capitolo 5: *** La medesima discesa ***
Capitolo 6: *** Aspettando domani ***
Capitolo 7: *** Tieni il braccio avanti agli occhi ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


STORIA SECONDA CLASSIFICATA AL PAHNTOM OF THE OPERA CONTEST INDETTO DA KENJINA E GIULYRDEROSE

Titolo: Frammenti di scenografia
Personaggi: Erik + Personaggi secondari (Meg Giry; Joseph Buquet; Carlotta Giudicelli&Ubaldo Piangi; Maestro Reyer; Andrè & Firmin; Madame Giry)
Genere: Drammatico; Introspettivo
Rating: Giallo
Avvertimenti: Raccolta di one-shot
Note dell'autore: Per una volta ho deciso di scrivere di tutti quei personaggi secondari che nessuno considera (quasi mai), per raccontare "la magia" dell'Opera Populaire e gli avvenimenti legati alla presenza del Fantasma dell'Opera attraverso i loro occhi... un punto di vista diverso dal solito. I vari capitoli sono tutti brevi racconti a sé e sono collocati in momenti diversi della vicenda che conosciamo, per ognuno ho dato un'indicazione cronologica giusto per essere più chiara.
Anche se la citazione che ho scelto è presa dal romanzo, la fanfiction fa unicamente riferimento al film. 

Citazione scelta: "È davvero difficile riuscire a farsi amare in una tomba" (dal romanzo)
Prompt scelto:
Teatro


NOTE bis: Storia diversa da quello che scrivo di solito, più un esperimento che altro.
Ringrazio le "giudicesse" del contest per aver ideato la gara e per il meraviglioso giudizio che hanno scritto (che riporto alle fine perchè contiene spoiler) e faccio i miei complimenti alla vincitrice, Keyra93 ^^

FRAMMENTI DI SCENOGRAFIA

Prologo


"È davvero difficile riuscire a farsi amare in una tomba"

Quel posto conosceva il buio.
Lo conosceva e lo nascondeva. Lo teneva chiuso dentro di sé, avvolto tra i velluti, sepolto tra gli stucchi e i marmi.
Alle volte quel teatro sembrava una tomba e i morti non risorgono dalle tombe o, se lo fanno, allora sono dei fantasmi.
E lui per il mondo era anche meno di un fantasma. Ma in quel teatro... nel suo teatro...
Avrebbero potuto amare il suo genio, ma nel fondo di una tomba non arriva l'amore.
Se non potevano amarlo, avrebbero imparato a temerlo.
Ma che importava? Ogni castello fatato ha i suoi spettri, spiriti irrequieti che assumono la forma della paura di chi li guarda. La magia sfavillante dell'Opera Populaire valeva qualche ombra, lo splendore poteva farsi sudario di un fantasma senza perdere nulla della sua gloria.
Il problema si pone quando le ombre, i fantasmi, sono troppo assetati di quelle magie e di quelle glorie.



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Capitolo 2
*** Lo squarcio nel buio ***


Lo squarcio nel buio (Joseph Boquet)

[AMBIENTATA DURANTE LA SERA DELLA RAPPRESENTAZIONE DE IL MUTO]

Nervosismo. Serpeggiava nei camerini, dietro le quinte del teatro, ben nascosto dalla sfarzosa scenografia, dal trucco, dai costumi, dalla mimica degli attori...
Dietro le loro solite facce, erano tutti nervosi anche se non volevano ammetterlo.
Affermare di avere paura significava rendere la paura reale e nessuno voleva che accadesse realmente qualcosa durante la prima de Il Muto.
Erano tutti ansiosi. Anche lui.
L'uomo mandò giù una lunga sorsata di cognac. Il liquore era di qualità scadente ma scaldava lo stomaco e alleggeriva i pensieri.
Sulla scia bruciante dell'alcol l'ansia divenne meno pressante.
Dopo essersi scolato mezza bottiglia non restava altro che un lieve prurito in mezzo ai pensieri, molto simile alla pressione contro il cavallo dei pantaloni quando indugiava più del dovuto nello spiare le ballerine.
Quando la bottiglia fu quasi vuota, tutta l'ansia era ormai sparita. Joseph Buquet cominciò a trovare la situazione persino divertente. Del resto spaventare le ragazzine lo faceva ridere e qualsiasi cosa il Fantasma dell'Opera avesse in mente per quella sera, di certo lui non ne sarebbe stato danneggiato.
C'era una cosa di cui Buquet era certo: il Fantasma aveva bisogno di lui. Aveva bisogno che qualcuno raccontasse storie paurose sul suo conto, perché i fantasmi si nutrono del timore che riescono a incutere e per incutere spavento c'è bisogno che il buio resti un guscio intatto attorno alle favole. E Buquet era quello che teneva accesa la brace della superstizione, quello che manteneva il buio intatto, che manteneva vivo il terrore. Terrore che il Fantasma seminava come briciole di pane lungo il sentiero. Un sigillo a forma di teschio sulle sue lettere, incidenti più o meno gravi ai membri della compagnia teatrale, sparizioni di oggetti... anche sparizioni di ballerine, ultimamente.
Che fine avesse fatto la piccola Christine Daae dopo la serata dell'Annibale sarebbe rimasto un mistero...
Buquet rise, una risata roca come lo scricchiolio delle assi di legno su cui camminava. Evidentemente il Fantasma aveva i suoi stessi gusti, gli piacevano le giovani ballerine, quelle fanciulle minute, donne nascoste sotto strati di raso e organza e seni e fianchi ancora troppo piccoli.
Il Fantasma doveva essersela spassata con la piccola svedese!
Buquet rise di nuovo. Pensieri sporchi per un'anima sporca.
Sempre ridendo, il macchinista si avviò al suo posto.
Lo spettacolo ebbe inizio. Buquet pensò che la serata sarebbe stata tremendamente noiosa.

*

La voce aveva un'eco strana, come se il suono si fosse fatto cristallo e stesse assorbendo i riflessi dei pendagli del lampadario. Come se ogni barlume di luce obbedisse alla figura in nero comparsa sull'ultimo anello del loggione.
“Non avevo forse dato istruzioni che il palco numero cinque venisse lasciato libero?”.
La luce si fece silenzio, il silenzio si fece stupore, lo stupore si fece paura.
“Paura di cosa, branco di idioti?”, Buquet sibilò le parole tra i denti, snocciolando le sillabe con la voce impastata dalla sbornia. Sentì il Fantasma dire qualcosa a proposito di un rospo e lo vide dileguarsi in un movimento fluido, sparendo dietro la piccola porta che immetteva nel sottotetto, dove c'erano le leve per muovere il lampadario.
“E' solo un uomo...”, Buquet ghignò. Stava cominciando di nuovo a trovare la cosa terribilmente divertente.
Giocare a rincorrersi, come dei bambini. La sua mente annebbiata dal cognac gli fece sembrare la cosa davvero davvero spassosa. Sarebbe stato ancora più spassoso quando avrebbe acciuffato quel tizio, quando tutti avrebbero detto di lui che era l'uomo che aveva liberato il teatro dai suoi spettri.
Il macchinista si lanciò all'inseguimento della figura mascherata.
“Quel pagliaccio travestito crede davvero di essere l'unico a sapersi muovere?”, Buquet sbuffò come un toro pronto alla carica.
Aprì la porta della saletta con le leve del lampadario: niente. Ma un attimo dopo avvertì uno scricchiolio in lontananza e riprese a correre.
“Vedi amico? Ci so fare anche io” disse muovendosi senza paura sulle assi sospese sopra al palco.
Poi un foro minuscolo si aprì nella trama di buio e un riflesso bianco fece capolino per un solo istante e sparì. Buquet inseguì il bianco attraverso il buio.

Il macchinista ci mise tempo a capire che i ruoli di inseguito e inseguitore si erano ribaltati, ma quando lo capì smise di trovare la cosa divertente. Avrebbe voluto fermarsi ed esclamare: “D'accordo! Il gioco è bello quando dura poco...”. Ma era troppo tardi.
Si voltò di scatto richiamato da un fruscio alle sue spalle. Il buio si aprì di nuovo, stavolta fu un vero e proprio squarcio, ne emerse un volto ghignante. Non il volto mostruoso di cui raccontava alle ballerine, ma quegli occhi e quel sorriso... quella doveva essere la faccia di benvenuto che il diavolo riservava alle anime dannate sulla soglia dell'inferno.
L'uomo pensò di scappare. Inutile, tutto inutile...
Un pensiero gelido e tagliente come una lama affiorò nella mente di Buquet, fendendo la nebbia dell'alcol e della paura. Il Fantasma dell'Opera aveva bisogno di lui, perché lui era quello che manteneva vivo il terrore con le sue storie. Ma nessuna storia sarebbe stata più terrificante della sua morte.
Era così che il Fantasma si sarebbe servito di lui. Per l'ultima volta.
Lo squarcio nel buio si allargò ancora di più. Ora c'era un uomo e c'era qualcosa che gli serrava la gola. Poi il buio si richiuse per sempre.


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Capitolo 3
*** forse invece sai già tutto ***


Capitolo secondo
“... forse invece sai già tutto” (Meg Giry)

[NON HA UNA COLLOCAZIONE CRONOLOGICA PRECISA, MA COMUNQUE PRECEDENTE A QUANTO SI VEDE NEL FILM]

Quando hai solo diciott'anni, quante cose che non sai...

Le assi di legno non emisero nemmeno uno scricchiolio quando i piedini fasciati dalle scarpine di raso atterrarono sul palco.
Meg aveva eseguito una piroetta impeccabile. Un salto pulito, preciso che le aveva regalato un istante perfetto, quell'attimo in cui le ballerine sognano di essere sul punto di spiccare il volo.
Volare via era un sogno recondito che si agitava spesso nella sua mente, poi scivolava sulla seta dorata dei suoi capelli e si dileguava, sparendo come una bolla di sapone. Volare via era il sogno di tutti i cuori giovani.
Dal crocchio delle sue compagne si levò un breve applauso. Alcune applaudivano più svogliatamente di altre: invidiose! Piccole serpi con i visi di bambole.
“Molto bene, Meg” disse Madame Giry in tono piatto, quasi senza guardarla.
La ragazza trattenne un sospiro e tornò al suo posto, insieme alle altre. Sapeva che sua madre non le avrebbe dato troppo soddisfazione, non si aspettava niente di più e niente di meno.
Quando tua madre è anche la tua maestra si creano distanze grandi come oceani.
“Tocca a te, Christine” disse ancora Madame Giry con il suo tono soave e insieme autoritario.
Meg scambiò un'occhiata complice con la fanciulla che sua madre aveva chiamato.
Christine si umettò le labbra e fece un passo avanti, poi si preparò a eseguire la sua piroetta.
Piccola, insicura, dolce Christine, che la sera sgattaiolava via verso la cappella sul retro del teatro, e restava sola con il ritratto di suo padre e con il suo Angelo della Musica.
Meg scuoteva il capo quando la sentiva parlare di angeli. Racconti trasognati di fiabe irreali era tutto ciò che Christine le aveva confessato ogni volta che Meg le aveva chiesto chi era il suo misterioso maestro, come era possibile che il suo canto migliorasse giorno dopo giorno.
Spesso la fanciulla bionda era rimasta interdetta, poi aveva capito che Christine aveva diritto ai suoi segreti.

Quando hai solo diciott'anni, quante cose che non sai...

Segreti già.
Meg spiò sua madre con la coda dell'occhio, la vide sollevare lo sguardo per un rapido istante e fissare l'ombra che si era mossa furtiva tra le assi, dove lavoravano i macchinisti. Durante le prove del corpo di ballo non c'erano mai i macchinisti, su quelle assi non avrebbe dovuto esserci nessuno.
E invece qualcuno c'era. Sua madre lo sapeva e lo sapeva anche lei.
Qualcuno c'era sempre. Il Fantasma dell'Opera vegliava sul suo teatro, allungava dita di spettro e occhi spenti su ogni angolo di quel luogo.
Meg ebbe come l'impressione che sua madre avesse rivolto all'ombra nera un cenno di saluto, il saluto di una coppia di vecchi amici, con il viso disteso dall'abitudine.
Era una cosa che le procurava un brivido ogni volta che ci pensava.
Ma come Christine, anche sua madre aveva diritto ai suoi segreti.
E anche il Fantasma.
Forse era solo un'anima tormentata che ogni tanto strisciava via dalla sua tomba e cercava di cogliere qualche frammento di vita. Frammenti piccoli, minuscole sfere di luce, come quelle che si vedono quando si spia dal buco della serratura.
Ma lei cosa poteva saperne?

Quando hai solo diciott'anni, quante cose che non sai...

Cosa poteva saperne?
Ogni tanto Meg se lo chiedeva. Cosa poteva saperne del perché sua madre osava guardare il Fantasma negli occhi. Aveva provato a parlarle una volta, a farle capire che ormai era troppo grande per le favole. Sua madre non si era presa il disturbo di risponderle.
Ci aveva provato anche lei. Aveva provato a guardarlo negli occhi e aveva visto cose... cose a cui non sapeva dare un nome.
Era stato solo per un istante, talmente breve che a volte la fanciulla credeva di averlo immaginato: aveva visto degli occhi chiari, o meglio piccole scintille di tempesta che avevano brillato di primavera quando Christine si era staccata dal gruppo di ballerine per raggiungere il centro della scena.
Era questo il segreto del Fantasma? L'amore platonico.
Tutto qui? Così poco?
Oh ma forse, l'amore di uno spettro ha un colore diverso. Troppo difficile farsi amare in una tomba, troppo facile sognare l'amore dal fondo di una bara.
E allora che amasse, che lasciasse battere il suo cuore nero di ombra, che rubasse il sole spiando Christine, che sfiorasse la vita nello sguardo di sua madre... che esistesse dentro e fuori le leggende macabre dei macchinisti. Ma che non osasse soffiare morte su quel teatro! Che non osasse fare del male a nessuno...
Perché c'era una cosa che Meg sapeva con certezza, che riusciva a vedere, oltre la coltre di tutti quei segreti: se ce ne fosse stato bisogno, lei lo avrebbe affrontato.
E sapere certe cose era un peso che era stanca di portare...

Quando hai solo diciott'anni, forse invece sai già tutto, non dovresti crescer mai.



NOTE: La citazione (dalla canzone “Lettera a G” di Ligabue) mi sembrava molto molto adatta e mi sono presa la “licenza poetica” di immaginare che Meg abbia diciotto anni, del resto nel film l'età non è specificata e anche se sapere condiviso che Christine ha sedici anni, non è detto che Meg debba avere esattamente la sua stessa età.
Questa è un'interpretazione molto personale del personaggio di Meg. Nella mia mente malata la piccola Giry è una “tosta”, una che sa stare al mondo (del resto il teatro era un ambiente in cui se ne vedevano un po' di tutti i colori) e ha capito che è meglio lasciare le cose come sono. Ma è anche una disposta a lottare per il proprio mondo, per questo, quando la storia prenderà la brutta piega che conosciamo (quando Erik comincerà a dare di matto, cioè), la ragazza si sentirà in diritto di agire (e di mostrare alla folla il modo di raggiungere i sotterranei e acciuffare il Fantasma e farne scatolette di simmenthal... meno male che Erik se la da a gambe prima che loro arrivino...). L'ho immaginata in un giorno normale, in un momento di “ordinaria amministrazione” alle prese con le sue idee e le sue consapevolezze, idee e certezze più forti di quanto il mondo fuori, il “mondo dei grandi”, possa immaginare (come spesso succede). 

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Capitolo 4
*** L'onestà della paura ***


Capitolo terzo
L'onestà della paura (Maestro Reyer)

[AMBIENTATA DURANTE LA SERA DELLA RAPPRESENTAZIONE DEL DON JUAN]

“Dove cammina il mio destino, c'è un filo di paura”

La paura è tante cose, ma soprattutto è un sentimento onesto.
Di cose oneste nella sua vita monsieur Reyer ne aveva parecchie. O meglio, la sua vita era abbastanza vuota, ma ciò che ne faceva parte era limpido e pulito come il fazzoletto che portava nella tasca del doppiopetto.
In mezzo a queste poche cose, monsieur Reyer, aveva un paio di certezze niente male. La prima certezza riguardava il fatto che tenere il capo chino, la lingua al suo posto e i pensieri ben chiusi dentro la propria testa, fosse il modo migliore per andare avanti. Un modo, tutto sommato, onesto.
Monsieur Reyer era un uomo onesto. Onesto come la paura.
Il tempo gli aveva dato ragione, del resto. Essere il direttore d'orchestra di uno dei più famosi teatri del mondo era una bella soddisfazione. Anche questa, una soddisfazione onesta.
Se avesse voluto essere onesto fino in fondo, monsieur Reyer, avrebbe dovuto raccontare che la sua posizione non era poi così invidiabile. Vista da fuori l'Opera Populaire sembrava un grande scrigno fatato, ma le ansie che tutti quelli che vi lavorano dovevano sopportare per mantenerne vivo lo splendore erano cose di cui non si poteva parlare, cose che avrebbero rovinato la magia. E comunque, c'era una sola cosa che interessava alla gente: il Fantasma.
Anche monsieur Reyer si era sentito rivolgere domande riguardo al famigerato spettro che infestava il prestigioso teatro di Parigi: “Cosa ci dite del Fantasma dell'Opera, Maestro Reyer?”
Ogni volta aveva risposto allo stesso modo, con un rapido sorrisetto e la voce leggermente più acuta: “Se davvero esiste questo Fantasma, egli non si è mai curato di me, perché mai io dovrei curarmi di lui?”. Del resto, la persona... essere... entità... che dirigeva il teatro restando nell'ombra si era sempre dimostrato lungimirante nelle sue direttive, ad esempio aveva ordinato il licenziamento di vecchi musicisti il cui udito cominciava a diventare scarso, ma mai che avesse menzionato lui, il direttore dell'orchestra, nelle sue missive, e questo, monsieur Reyer ne era certo, era un bene.  
Da buon uomo onestamente pauroso, monsieur Reyer seguiva una semplice filosofia: non stuzzicare il Diavolo ed egli non comincerà ad interessarsi alla tua anima.
Tuttavia, non curarsi del Fantasma dell'Opera era pressoché impossibile quando persino il direttore del teatro cedeva al volere di quel personaggio sconosciuto. Il maestro le aveva viste quelle missive, fogli di pergamena sigillati con un teschio di ceralacca. Aveva sbirciato quei fogli, aveva intravisto la calligrafia elegante ma insicura in alcuni tratti come se quelle parole fossero state scritte da una mano che tremava. E aveva avuto paura, come tutti, che le minacce di quella voce invisibile venissero messe in atto.
Sapeva anche che i curiosi incidenti che capitavano alla signora Giudicelli non erano frutto della negligenza di qualche macchinista o della disattenzione di qualche inserviente. Anche lì aveva paura, come tutti, della conseguente sfuriata della primadonna.

Quella sera la paura era forte, ed era di tutti, in maniera così tangibile che monsieur Reyer per un po' si sentì persino tranquillo in mezzo a tutta quell'apprensione, il timore degli altri non era un timore onesto, era l'agitazione istintiva dello scolaro il giorno prima di un esame che già sa di poter superare. Le persone che avevano lavorato alla realizzazione della serata sapevano che dopo i primi momenti di panico tutto si sarebbe risolto: il Don Giovanni Trionfante sarebbe andato in scena, in qualche modo il Fantasma si sarebbe tradito e sarebbe stato catturato. I buoni avrebbero vinto.
“Non importa...” pensò il maestro Reyer quando il sipario si sollevò e lui cominciò a dirigere l'orchestra.
Il coro cantò la prima aria.
“... egli non si è mai curato di me...”.
Reyer sollevò la bacchetta con un gesto secco fermando la musica mentre il tenore Ubaldo Piangi e un altro attore entravano in scena.
Il direttore mosse appena il polso e la musica ripartì. Le note erano nuvole di zucchero filato che si avvolgevano attorno a quella bacchetta.
E poi la fanciulla, mademoiselle Daae.
E poi...
Il maestro Reyer continuava a tenere lo sguardo basso sul leggio, seguendo la partitura. Non ebbe bisogno di guardare il palco per rendersi conto che la voce con cui ora stava cantando il Don Giovanni non era più quella di Ubaldo Piangi. Era una voce diversa... una voce la cui bellezza avrebbe spaventato anche un cuore coraggioso. Il cuore di coniglio di monsieur Reyer invece non ne ebbe paura, come qualsiasi uomo che aveva messo la propria vita al servizio dell'arte, il vecchio direttore d'orchestra poteva ammirare incondizionatamente le cose belle, senza alcuna paura.
“Non importa... egli non si è mai curato di me...” un pensiero onesto, anche stavolta.
Il Visconte aveva avuto coraggio a mettere in atto quel piano disperato, ancora più coraggio aveva avuto forse Christine Daae nel decidere di stare al gioco. Ma a cosa serviva il loro coraggio? Monsieur Reyer se lo chiese mentre la voce dell'uomo (perché di un uomo si trattava, ora potevano esserne tutti certi) intonava una straziante dichiarazione d'amore.
E poi... l'urlo, l'orrore e l'istante di silenzio prima del tuono che annuncia la tempesta.
“Non importa... egli non si è mai curato di me, perché mai io dovrei curarmi di lui?”, di nuovo quel pensiero, codardo ma onesto. Poi il lampadario che stava per abbattersi sulla buca dell'orchestra insegnò a monsieru Reyer che faccia avesse la paura vera.   
 

____


NOTE: La citazione iniziale è presa dalla canzone “Canto del servo pastore” di Fabrizio De Andrè.
Il Maestro Reyer è un altro personaggio senza nome, non ho voluto inventargliene uno perché l'ho immagino come un tipo anonimo, chiuso dietro ai suoi timori. Anche se compare per mezzo minuto in tutto il film, mi ha sempre fatto simpatia, quindi l'ho voluto inserire nella raccolta, anche se ho dovuto inventarmi quasi tutto di sana pianta (a parte il fatto che sia molto ansiogeno e timoroso, non si evince molto altro su di lui guardando il musical), però ho pensato: se Erik non scrive mai lettere in cui chiede che venga mandato via, si vede che è in gamba XD  

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Capitolo 5
*** La medesima discesa ***


Capitolo quarto
La medesima discesa (Andrè&Firmin)

[AMBIENTATA DURANTE LA SERA DELLA MASQUERADE]

“Pour une bonne fois séparons-nous,
trés chers messieurs et si belles mesdames.”

Le salite non sono altro che discese guardate nel verso sbagliato.
Monsieur Andrè e Monsieur Firmin avevano avuto davanti a loro una salita e l'avevano percorsa. Ora avrebbero dovuto guardarsi alle spalle e prendere nota della strada in discesa, della rapidità con la quale poteva essere percorsa. Forse un giorno lo avrebbero fatto, ma non questa sera: c'è troppa luce intorno a loro.  
La luce è quella della miriade di candele, fiammelle scintillanti come diamanti che si riflettono negli specchi, sul dorato degli stucchi e degli arredi. E in mezzo alla luce maschere, e sotto alle maschere i sorrisi di Parigi. Quella bella, ricca e potente. Quella che sa, che conosce il sapore di una coppa di champagne e del tabacco di un sigaro proveniente dall'Italia.
Il foyer del teatro questa sera è come lo scrigno del tesoro, come il portagioie della regina.
Andrè e Firmin sono troppo occupati a compiacersi per volgere lo sguardo verso il nero, la crosta di ruggine sotto il dorato. È strano, in quel teatro sembra che in certi punti la luce finisca di colpo, come un sentiero di montagna interrotto da un dirupo. La luce esplode fino a un certo punto, poi a distanza di un passo comincia il buio.
Il buio c'è anche questa notte. È ovunque, circonda la luce come un castello sotto assedio. È sotto di loro e anche sopra le loro teste a pendere come una lama. E in mezzo al buio un'altra maschera, e sotto alla maschera un altro sorriso, diverso da quello di tutti gli altri. Il sorriso di qualcuno che ha assaggiato coppe di champagne e tabacchi italiani, e acqua di colonia costosa, e vesti di seta, ma che sulla lingua conserva il sapore del fango, che sulla pelle porta le cicatrici del bastone. E dietro a quella maschera c'è un uomo che rotola giù ogni volta che tenta di superare la sua salita. Arriva a metà strada, resta in sospeso tra la cima e il fondo, poi il vento lo ributta indietro.
Ma ora quell'uomo guarda dall'alto la gente festante raccolta nel suo teatro. E guarda i due direttori trovandoli ridicoli, ma ridicoli in modo tenero, come sanno esserlo i bambini quando giocano a fare i grandi. Se non fosse stato divertente osservarli giocare con i suoi giochi, il Fantasma dell'Opera non sarebbe rimasto in sordina così a lungo. È stato interessante, quei due uomini si sono rivelati così testardi, insolenti, superbi, sciocchi...
“Sciocchi...” sibila il sorriso sotto la maschera a forma di teschio. Le dita stringono una cartella di cuoio con dentro la partitura di un'opera.
“Sciocchi... non più di quanto lo sia io” capitolano infine i suoi pensieri.
Nella penombra i suoi occhi hanno il colore del cielo quando nevica.
“Ma ora basta”.
Sbatte le palpebre, il cielo nei suoi occhi ora è color tempesta. Il buio vince la sua guerra contro la luce: nel suo teatro è così che vanno le cose.
Le candele della balconata si spengono facendo piombare una strana coltre di penombra sulla sala. L'ombra spegne l'allegria, toglie il dorato e lascia la ruggine. La musica tace, le danze si fermano.
Lui è sopra di loro, li guarda dall'alto come un dio vendicativo pronto a far piovere folgori.
Ora è in cima alla salita e loro, tutti loro, sono ai piedi della discesa.
Ma sotto il cuoio dei guanti i palmi della mani sono sudati. Il Fantasma sta riscuotendo il suo tributo di terrore, ma l'uomo dietro la maschera si sente così... testardo, insolente, superbo, sciocco. Proprio come quei due.


NOTE (quasi più lunghe della storia): La citazione all'inizio è di una poesia di Paul Verlaine “Le derniére fête galante”: per una buona volta separiamoci, \ signori carissimi e belle signore
Qui ho voluto far trasparire più il punto di vista di Erik che non parlare di Andrè e Firmin, le cui caratteristiche (l'avidità, la superbia, la stupidità) rese palesi dai pochi minuti in cui compaiono nel film sono già state ampiamente messe in luce in altre fanfiction (compresa la mia Quanta più notte che può). La storia è un po' strana, leggermente diversa dalle altre, la “morale della favola” voleva essere: tutti gli uomini sono uguali perché tutti a loro modo desiderano qualcosa e arrivano a fare anche cose stupide per ottenerlo, non sono sicura di essere stata chiara nel racconto. Comunque sia, il Maestro ora desidererà la mia morte per averlo in qualche modo paragonato ai “due stolti che dirigono il suo teatro”, ma alla volte mi viene da pensare che, in fondo in fondo, Erik fosse consapevole di quanto il suo modo di fare fosse sbagliato.

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Capitolo 6
*** Aspettando domani ***


Capitolo quinto
Aspettando domani (Carlotta Giudicelli & Ubaldo Piangi)

[AMBIENTATA DURANTE LA SERA DEL DEL DON JUAN, PRIMA DELLA RAPPRESENTAZIONE]

Ubaldo Piangi fischiettava, placido come un elefante, come suo solito. Aveva finito di indossare il costume di scena e guardava la sua immagine nello specchio: quello che aveva davanti era un improbabile Don Giovanni che di trionfante aveva ben poco.
Dal camerino accanto al suo provennero un insieme di suoni molesti, rumori di qualcosa di pesante che cadeva.
Piangi sorrise e cominciò a contare: “Uno... due...”.
Al suo tre, come se fosse il segnale di un prestigiatore, lo schianto. Un monile di porcellana che veniva scagliato contro il muro e poi gli strilli di Carlotta.
Chissà le costumiste che diamine avevano combinato con le forcine. La signora Giudicelli odiava le forcine.
In verità erano ben poche le cose che la signora Giudicelli odiava davvero, ma erano tante quelle che diceva di detestare tanto per avere un pretesto per sbraitare. Del resto quello era un teatro e ognuno doveva recitare la sua parte, anche quello delle primadonna capricciosa era un ruolo da sostenere. A Ubaldo non dispiaceva, alle volte trovava persino divertente scommettere con se stesso quanti secondi Carlotta avrebbe impiegato ad esplodere e quanti minuti i direttori avrebbero impiegato per cedere alle sue richieste.
Quella sera, la primadonna dell'Opera Populaire era più nervosa del solito, perché per la prima volta i suoi capricci non erano stati esauditi.
Quando si era vista assegnare quella parte così marginale all'interno della rappresentazione di quel maledetto Don Giovanni Trionfante i suoi strilli erano echeggiati per tutto il palazzo come se fossero le Trombe dell'Apocalisse. Le avevano spiegato che era importante che tutto fosse fatto secondo le disposizioni del Fantasma, che quella era solo una messa in scena per catturarlo, che una volta consegnato alla giustizia quel criminale tutto sarebbe tornato come prima... ma lei non aveva voluto sentir ragioni e aveva continuato ad abbaiare e inveire contro il teatro, Parigi, la Francia, l'Europa e l'intera umanità per tutti i giorni dell'allestimento dello spettacolo, e mai una volta che durante le prove fosse stata collaborativa.
Durante una delle sue sfuriate, uno dei barboncini si era sentito talmente solidale con la sua padrona che si era messo a ringhiare e aveva finito per azzannare ad un polpaccio il Maestro Reyer.
Ma questa era Carlotta Giudicelli, la sua Carlotta. E Ubaldo Piangi trovava che che quello sguardo arrabbiato e che quei suoi strilli avessero un che di adorabile, come il pianto dei bambini. A lui piaceva prendersi cura di lei, forse era l'unica cosa che sapeva fare davvero bene.
Passato l'uragano di strilli e rimproveri che aveva imperversato nel camerino della primadonna, ci fu silenzio. Un silenzio lungo e pesante, come quello che si può udire in un cimitero.
Un brutto presentimento colse Ubaldo Piangi come uno spiffero sulla nuca e lo fece rabbrividire, una morsa di superstiziosa angoscia gli serrò la gola per qualche secondo e il corpulento tenore fu costretto a passare un dito all'interno del colletto della camicia di batista per respirare meglio.
Si guardò attorno, immerso nel silenzio e nella luce tremula del lume e di poche candele. Deglutì nervosamente ed uscì dalla stanza. Attorno a lui tutto era come sempre: ballerine che correvano avanti e indietro, sarti armati di ago e filo per rimediare ai danni di qualche attore maldestro che si era strappato il costume, macchinisti e inservienti che si scambiavano le ultime istruzioni.
Allora Piangi ebbe una chiara idea di cosa fossero le maschere: ritagli di normalità fittizia su distese sconfinate di straordinario. Perché quella sera aveva un che di straordinario in effetti, quella poteva essere la sera in cui sarebbe stato catturato il Fantasma dell'Opera, e a dirla tutta Ubaldo non si sentiva poi tanto soddisfatto della cosa. Aveva sempre avuto l'impressione che quell'individuo fosse l'anima di quel teatro, il trucco dietro lo stupore della magia ma senza il quale la magia non si compie. Ma quell'uomo aveva minacciato e ucciso, forse era giusto che venisse fermato.
“Sembro una sciocca vedova!” una voce alle spalle del tenore lo strappò ai propri pensieri e rese quegli stessi pensieri stupidi, irrazionali, inconsistenti.
Carlotta si lisciava la seta nera della gonna, dietro di lei c'era una cameriera inginocchiata a terra che tentava di sistemarle i pizzi dell'abito. La cantante batté il ventaglio sulle mani dell'inserviente e sospirò infastidita.
Ubaldo la guardò inclinando il capo,
“E invece questo abito ti dona, mia cara” le disse
“Sciocchezze! È lugubre e non si intona né al mio incarnato né ai miei capelli. Persino i miei cani hanno stentato a riconoscermi poco prima... ah, ma dopo stanotte...”
“Dopo stanotte,” la interruppe l'uomo con lo sguardo che si faceva profondo e tenero “perché non ce ne andiamo? Torniamo in Italia e...”.
Il tenore lasciò la frase incompiuta, pronto a sentire la donna sbraitare qualche frase ironica su quanto fosse assurda quella proposta. E invece Carlotta se ne stava lì, a fissarlo perplessa.
“E cosa?” chiese con un filo di voce, con la sua voce dolce, quella che in quel teatro nessuno a parte lui conosceva,
“E, non so... ci sposiamo...”.
La donna ammutolì, stupita, smarrita. Boccheggiò incapace di rispondere. Conosceva la risposta, semplicemente non si aspettava che qualcuno, un giorno, le avrebbe rivolto quella domanda.
“Signori! In scena tra un minuto!” esclamò il Maestro Reyer, seguito dai suoi orchestrali.
Carlotta Giudicelli era ancora lì, per una volta la voce le era stata tolta davvero, e senza la diavoleria di nessun Fantasma.
Ubaldo sorrise,
“Non rispondermi adesso. Dopo stanotte ci sarà tutto il tempo...”.
Tutto il tempo, sì. Pensò Carlotta mentre qualcuno la prendeva sottobraccio e la portava verso il palco.



NOTE: Allora. Il mio collo sarà a disposizione dei vostri plassi, ma prima lasciatemi spiegare.
Io sono convinta che quei due lì si vogliono veramente tanto tanto bene. Piangi potrà apparire come un inetto, ma la sera della Masquerade quando Erik arriva tuonando contro il mondo intero e punta (assai poco galantemente, diciamocelo) la spada contro Carlotta, lui che si fa avanti e si frappone tra lei e la lama è tenerosissimo. E Carlotta, che mentre il teatro va a fuoco, cerca Piangi, lo trova morto e incurante dell'incendio e tutto il resto si butta sul cadavere e scoppia in lacrime è... è... romantica.  Per una volta ho pensato che potesse essere carino raccontare il retroscena “dolce”, e anche triste se vogliamo, della storia di questi due.
Prossimamente il capitolozzo conclusivo con la star dei personaggi secondari ;-)

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Capitolo 7
*** Tieni il braccio avanti agli occhi ***


Capitolo sesto
“Tieni il braccio avanti agli occhi” (Madame Giry)

[AMBIENTATA IN VARI MOMENTI, LA PRIMA PARTE SI SVOLGE PRIMA DELLA MASQUERADE, POI C'E' UNA CARRELLATA SU QUELLO CHE SUCCEDE DOPO LA MASQUERADE E INFINE IL “DOPO” CONCLUSIONE DELLA STORIA ]

Le foglie che cadono quando arriva l'autunno non fanno mai rumore, eppure stanno cadendo, il tempo muta, muta il paesaggio.
Il silenzio è solo un'illusione.
Lo pensò anche quella sera, seduta davanti allo specchio, circondata dai suoi ricordi che prendevano forma nelle tante fotografie incorniciate sul ripiano: suo marito in divisa, se stessa da bambina con la sua famiglia, una foto di gruppo delle sue compagne di collegio, lei da giovinetta con il viso innocente e i capelli legati in una treccia, un'abitudine che non aveva mai perso.
E tutto intorno silenzio. Un'assenza di rumore che coincideva con un'altra assenza.
Il Fantasma dell'Opera era sparito. La scia di sangue che si era lasciato dietro dopo l'uccisione del macchinista era stata spazzata via sepolta dalla tranquillità e dalla neve di quell'inverno tutto sommato ancora mite.  
Alla gente spesso basta il silenzio per dimenticare, per prendere nota di un'assenza e rallegrarsene.
A Madame Giry il silenzio non piaceva. Specie se quel silenzio era il sintomo della sua assenza.
Il Fantasma dell'Opera non aveva lasciato il teatro, come avrebbe potuto? In che altro posto poteva andare?
Ah già, ma tutto questo lei era la sola a saperlo.
Che cosa sgradevole il silenzio! Rende più pesanti i segreti e più spaventoso il buio.
E i segreti di Madame Giry non erano cose da poco, come non da poco erano le sue paure, i suoi timori.
C'era stato un tempo in cui aveva creduto che essere il solo tramite tra il Fantasma e il mondo esterno le servisse per tenerlo a bada... quand'era successo che la situazione si era rovesciata? Da quand'è che era lui a tenere a bada lei come faceva con tutti gli altri?
Cos'è che rende un uomo incapace di frenarsi?
“L'amore”, la donna rispose a se stessa in un filo di voce.
Era sempre stata pragmatica lei, una donna dedita al fare, capace di decidere su due piedi di nascondere un bambino nei sotterranei del teatro e di tenere celata una verità così mostruosa a chiunque, anche alla sua famiglia.
Si era sposata all'età giusta, come tutti si aspettavano che facesse. Aveva messo al mondo una figlia. Era rimasta vedova ma non si era persa d'animo, aveva rispolverato il suo unico vero amore: la danza, era diventata la maestra del corpo di ballo dell'Opera Populaire. Era andata avanti a testa alta, malgrado il suo sguardo ogni tanto corresse a quegli occhi di ghiaccio che si accendevano nella penombra come fiamme.
Credeva di essere in grado di... controllarlo.
“Tieni il braccio avanti agli occhi”, l'unica, minuscola scheggia di verità che poteva permettersi di rivelare.
Ora, quel monito che aveva ripetuto durante quegli anni le sembrava assumere un significato diverso, come di un ordine rivolto a se stessa: tieni il braccio avanti agli occhi, sii cieca, non guardare.
Già, si era imposta di non guardare. Aveva coperto gli occhi, era andata avanti come sapeva fare.
E adesso, cosa stava accadendo? Perché? Fin dove...?
la risposta che le sue labbra mimarono all'immagine nello specchio fu di nuovo la stessa:
“L'amore”.
Come si ferma un uomo innamorato?
Stavolta il silenzio non dette alcuna risposta, se non un pensiero, sconnesso e appena accennato:  è davvero difficile riuscire a farsi amare in una tomba.

*

Il Fantasma non era sparito.
Erano trascorsi mesi di silenzio e buio, in cui tutti quelli che lavoravano nel teatro avevano messo a riposo i loro pensieri, le loro riserve, le loro paure.
Il Fantasma era tornato.
Non era più tempo di silenzio e segreti. Non era più tempo di attese, di speranze, di notti insonni a chiedersi quale fosse la scelta migliore.
I giorni avevano preso a rincorrersi. “L'Angelo vede, l'Angelo sa...” li aveva ammoniti Madame Giry, ma loro ancora una volta non avevano ascoltato. Avevano allestito quel suo spettacolo, disposti a rischiare il tutto per tutto pur di catturarlo. Ma come si ferma un uomo innamorato?
Nessuno aveva una risposta. Nessuno si era nemmeno posto la domanda: i mostri non amano. Ci credevano tutti, meno lei, meno Madame Giry, che di quel mostro aveva visto qualcosa che nessuno aveva mai visto: le sue lacrime.
E certe lacrime bruciano, bruciano e divorano. Come quell'incendio, come il fuoco a cui alla fine aveva lasciato il suo teatro. Perché quella era la fine...
E alla fine Madame Giry aveva dovuto scegliere. Scegliere di togliere il braccio dagli occhi, tentare di vederci chiaro tra le spire di fumo che salivano verso il soffitto. Aveva scelto di aiutare il visconte, mostrargli il modo di raggiungere i sotterranei... dargli la possibilità di fermare il Fantasma.
Ma come si ferma un uomo innamorato?

*

Cos'era accaduto? La brigata antincendio stava spegnendo ciò che rimaneva dell'Opera Populaire.
Un'alba incerta si levava sopra Parigi.
Madame Giry era lì. Il braccio avanti agli occhi gli impediva di guardare fin dove arriva il dolore.
Poi la fanciulla e il visconte emersero da una botola. Stretti l'uno all'altra per mettere insieme quel po' di coraggio rimasto. Piangevano entrambi, piangevano di un pianto diverso di cui nessuno dei due avrebbe mai più domandato conto all'altro.
Madame Giry non gli andò incontro, non disse nulla, non si mosse.
E così l'avevano fermato. Come?
Come si ferma un uomo innamorato?
Di nuovo quella risposta, una risposta che non ammetteva cecità, che urlava in mezzo al silenzio ed esplodeva in mezzo al buio.
L'amore si ferma con l'amore.



______


NOTE: E questo era l'ultimo. Madame Giry forse è il personaggio secondario “meno secondario” che ci sia. Tra l'altro nelle fanfiction è una presenza quasi irrinunciabile, è una specie di star quindi mi sembrava giusto lasciarle la scena finale e far pronunciare a lei  quella che ho sempre ritenuto essere la “morale della favola” di POTO: l'amore si ferma con l'amore. Nelle fanfiction viene sempre descritta come la vecchia amica che continua ad aiutare Erik malgrado tutto, ma guardando bene il film ho sempre pensato che fosse anche lei una vittima del Fantasma, soggetta alla paura che il Fantasma incute e con la quale riesce a “governare” il teatro. Per una volta ho voluto mettere Madame Giry in questa veste, invece che in quella di complice arguta e disponibile, non dimentichiamoci che quando la nostra donna realizza che Erik ha passato il segno aiuta Raoul, anche se mentre lo conduce ai sotterranei non ha il coraggio di arrivare fino in fondo...
Questa era delirevole e anche “ermetica”, ma mi piaceva che i pensieri di Madame Giry fossero un po' la summa di tutta la vicenda.

Grazie a Nakara e a Keyra per i commenti, e grazie a chiunque sia passato di qui ;-)
Alla prossima.
Elby
____

At last, riporto il giudizio ottenuto al contest

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Giudizio di Kenjina

Correttezza grammaticale 10/10
Italiano impeccabile, non ho trovato neanche il più piccolo errore. Non posso aggiungere altro, bravissima!

Stile e il lessico 10/10
- Idem come sopra, hai uno stile fluido e curato, senza scadere nel banale e nella pesantezza.

Caratterizzazione dei personaggi 10/10
L'idea di entrare nella mente di quei personaggi "snobbati" dal film mi è piaciuta e la trovo in linea con quelli che, secondo me, sono i caratteri di ognuno di loro. Quello che mi ha colpito, poi, è la presenza sempre costante del Fantasma - e come potrebbe essere altrimenti? Lui stesso, d'altronde, è il Teatro, e ha influenzato le loro vite dal primo momento in cui vi hanno messo piede.

Originalità 10/10
Sarà che sono una patita di personaggi secondari (oltre che di cattivi, ma questa è un'altra storia), ma l'idea spostare l'attenzione su di loro, come già detto, è ottima, perché attraverso i loro occhi hai potuto raccontare scene di quotidianità (tenerissima quella tra Piangi e Carlotta!) che magari vengono tralasciate solitamente per dare più spazio a Erik e alle sue vicende.

Gradimento personale 5/5
Una raccolta ben scritta, ben articolata (geniale l'idea di lasciar per ultimo la parola a Madame Giry, anche se personaggio secondario, in realtà, lo è ben poco) e molto piacevole da leggere. Sei riuscita a far trasparire la figura di Erik in ogni loro pensiero, in ogni loro passo; d'altra parte

Utilizzo coerente dei prompt e delle citazioni 5/5
Superfluo dire che prompt e citazione sono inseriti alla perfezione. Come detto prima il teatro, luogo dell'ambientazione, secondo me non esprime solo il posto fisico, ma anche l'essenza stessa dell'Opera, Erik. Non ho altro da aggiungere se non un bravissima!

TOTALE: 50/50

Giudizio GiulyRedRose

Correttezza grammaticale ( 10 / 10)
Grammatica impeccabile, non ho trovato nulla fuori posto o che stonasse con il racconto: segni di punteggiatura, tempi verbali, pronomi… Tutto perfetto. Ergo, mi sembra che il minimo sia darti il massimo dei voti e farti i complimenti!

Stile e lessico ( 9 / 10)
Mi piace molto lo stile semplice e lineare che hai usato, hai descritto con chiarezza i sentimenti e i luoghi (mi è piaciuto molto come hai parlato del teatro nel quarto capitolo) e la lettura scorreva che era un piacere. Un’unica ‘pecca’, ma comunque non gravissima: io avrei usato forse un linguaggio un po’ più attento e ricercato, dato che stiamo pur sempre parlando di una vicenda accaduta nell’Ottocento, ma comunque il lessico che hai usato è abbastanza a metà strada tra l’”antico” e il “moderno”, perciò va bene lo stesso.

Caratterizzazione dei personaggi ( 10 / 10)
In realtà qui potrebbe essere un po’ difficile decidere, visto che hai interamente focalizzato l’attenzione su personaggi secondari e di cui si hanno poche – o addirittura nessuna – notizie. Ad ogni modo, volendo basarci su quanto traspare dal film (visto che è su di esso che ti sei basata), direi che anche la caratterizzazione dei personaggi è ineccepibile: Joseph Buquet, Meg, la Carlotta, persino il maestro Reyer che in genere non si fila praticamente nessuno, li ho visti reali e tangibili per la prima volta, come se ti fossi limitata a raccontare dei piccoli aneddoti di persone realmente esistite. Insomma, anche qui caratterizzazione perfetta.

Originalità ( 10 / 10)
Assolutamente molto originale, non avevo mai letto una cosa simile – soprattutto perché hai focalizzato l’attenzione non sui personaggi per così dire ‘standard’, ma su quelli di contorno, quasi sempre in secondo piano, che nessuno si degna mai di considerare perché si tratta, generalmente, di antagonisti. Ho adorato in particolar modo la one-shot dedicata a Carlotta, l’ho trovata tenera e allo stesso tempo drammatica, visto che tutti noi sappiamo bene che il suo sogno d’amore non si è potuto concludere felicemente. Davvero brava.

Gradimento personale ( 5 / 5)
La parte che mi è piaciuta di più è stata quella ambientata durante la sera della Masquerade, ovvero il capitolo quarto: come hai detto anche tu nelle note, qui traspare più di tutti il punto di vista di Erik, senza dubbio il più ‘oscuro’ di tutta la faccenda. Comunque, nel complesso mi sono piaciute tutte le storie, nessuna esclusa – mi ha fatto molto piacere leggere questa raccolta. Una parentesi che forse non c’entra niente con il gradimento personale né con il voto, ma dovevo dirtelo: anche io ho apprezzato parecchio il fatto che tu abbia lasciato il compito di concludere questa raccolta a madame Giry, concordo appieno con quello che hai scritto nelle note – e bellissima la frase finale, la ‘summa’: l’amore si ferma con l’amore.

Utilizzo coerente dei prompt e delle citazioni ( 5 / 5)
La storia è interamente ambientata a teatro, che è il fulcro di tutta la vicenda: ergo, il prompt è stato utilizzato e sfruttato coerentemente. Anche la citazione (tra parentesi, complimenti per la scelta, visto che è una delle mie preferite!), presente nel prologo, ha un suo ruolo – per amore, qui, non si intende solo quello di Christine ma anche di tutti gli altri esseri umani che avrebbero potuto amarlo per il suo genio – perciò anche questa è ben usata.

Totale: 49 / 50

VOTO FINALE: 99/100

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