L'assassina stonata.

di AmetistaCassandra
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nascere stonati. ***
Capitolo 2: *** La stanza del silenzio ***
Capitolo 3: *** Giona. ***
Capitolo 4: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Nascere stonati. ***






Avevo sempre pensato di non provare molta simpatia per i musicisti a causa della loro eccessiva meticolosità o del loro esagerato amore per una sola branca dell'arte. La verità era un'altra. A distrurbarmi davvero era la loro totale competenza in un campo a me del tutto ignoto.
La cosa non era molto diversa da quando ci si ritrova a dover dividere il conto in pizzeria davanti a una tavolata di matematici cordiali, o da quando si invita a cena la famiglia di uno chef. Era proprio così che mi sentivo ogni volta che aprivo bocca di fronte a uno di quegli omuncoli musicali tutti presi dalle loro cinque righe parallele orizzontali: mi sentivo giudicata.
Credo che la cosa ebbe inizio il giorno in cui le mie infime nozioni musicali mi portarono a realizzare che qualsiasi suono emesso da qualsivoglia oggetto è direttamente riconducibile a una nota; questa folgorante rivelazione fece nascere in me dapprima la sensazione e in seguito la cieca convinzioine di essere intimamente stonata.
Non mi riferisco all'essere stonata di una persona che non sa cantare: quella era una cosa che avevo accettato e superato molto tempo addietro. Io mi riferisco a una totale e lampante disarmonia di suoni innata e interna.
Ero assolutamente certa che il mio stesso cuore battesse fuoritempo, che l'insieme delle mie cellule intonasse una melodia sbagliata e che le mie ossa schioccassero senza un metodo mentre un cervello sordo dirigeva quell'orchestra allo sbaraglio verso l'irrimediabbile rovina.
Questa ben radicata convinzione aveva preso piede giorno dopo giorno senza disturbarmi più di tanto: preso atto della mia disarmonia di fondo, mi ero circondata di persone che non volessero sentire in modo da poter vivere la mia vita con serenità, senza dover rendere conto in continuazione a questo o a quell'altro del mio essere stonata.
Non avevo perso tempo alla disperata ricerca di qualche altro mio simile: come avrei potuto riconoscere un altro stonato, proprio io che non avevo orecchio?
Avevo semplicemente scelto di continuare a stonare per il resto della mia vita, pregando che Iddio volesse darmela lunga e con il minor numero possibile di musicisti disseminati lungo di essa.
Perchè era davanti a quegli odiosi invasati che il mio disagio tornava acuto e lampante come nel primo periodo della mia consapevolezza. Mi sforzavo di frenare l'istinto di abbassare la voce o tacere e di parlare il più possibile per dissimulare quanto in realtà stessi aspettando con tribolazione che il mio interlocutore iniziasse a strizzare gli occhi, a tapparsi le orecchie e mi intimasse di tacere asserendo che la mia parlata disturbava enormemente il suo orecchio sensibile. Non accadde mai ma fu solo perchè conobbi, nella mia vita, soltanto musicisti beneducati e sensibili che scelsero di non farmi pesare questa mia invalidità.
In ogni caso, le cose nella mia vita si fecero più dure quando scoppiò intorno a me la febbre della musica.
Per quasi tre anni della mia vità non riuscii a trovare un solo amico che mi assecondasse nella mia ostinata quarantena musicale, non un solo conoscente che condividesse con me il desiderio di silenzio, non un solo familiare che non arrivasse a casa mia tutto trafelato, con un sorriso a chissà quanti intonatissimi denti, rivelandomi di aver deciso orora di diventare musicista.
Sembrava che l'intera umanità condividesse un segreto di cui mi voleva ostinatamente all'oscuro ma la cosa più strana di tutto questo era che a me del segreto in sè non importava proprio niente: volevo soltanto essere parte di quel complotto totale o smantellarne l'esistenza.
Volevo solo poter parlare al mondo senza che il mondo si accorgesse che ero stonata.
Fu in quel periodo della mia vita che iniziai a concepire l'idea del piano malefico che avrebbe per sempre cambiato la faccia, per non dire la voce, del mondo.
Fu in quel periodo della mia vita che decisi che avrei assassinato la musica.

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Capitolo 2
*** La stanza del silenzio ***


Molti anni dopo, davanti alla corte d'appello, il mio avvocato avrebbe cercato con ogni mezzo a sua disposizione di farmi dichiarare che era stata la musica a iniziare le ostilità.
A onor del vero avrei ammesso che nella mia scelta non vi fu l'ombra di un'emozione o di un movente.
Fredda e indifferente come il più esperto dei sicari avevo accettato la realtà delle cose con l'indifferenza di chi sa con certezza di non avere scampo né alternativa. Come l'uomo che si sa per natura mortale, avevo scelto di vivere consapevolmente la mia invalidità, cercando di menomare il mondo di ciò che avrebbe potuto ricordarmela ogni istante. Mandante di me stessa, non mi ero promessa premio o compenso: sarei riuscita nel mio intento o sarei perita nel silenzioso fallimento.
Non amavo il silenzio.
Per quanto fosse l'unica bolla di fluido sordo capace di lenire in me l'estraniamento da suono, quella strana tregua confusa risvegliava in me sensazioni fastidiose e sbagliate. Nei momenti di vero silenzio, mi sentivo parte della specie umana, quando il suono non era determinante, diventavo una di loro.
A Berlino esiste una stanzetta piccola ma famosa chiamata "la stanza del silenzio". I meccanismi del mio ordigno mortale erano già in moto da tanto tempo il giorno in cui, più per caso che per intenzione, mi ero ritrovata a entrare e a guardami intorno cercando di frenare la parte di me che mi diceva di fuggire. In mezzo al vuoto più totale, tre vecchie signore lasciavano riposare le borse sulle panchette, godendo a occhi chiusi di quel momento in cui persino il loro animo sembrava concordare con il loro corpo nel tacere. Assaporando in anticipo la morte, se ne stavano immobili e incoscienti con le calzamaglie arrotolate alle caviglie e le sottane spiegazzate sotto le gonne da tutti i giorni. Nessuna di loro aveva aperto gli occhi o voltato la testa verso di me quando, a passi leggeri ma scostanti, mi ero avvicinata a una panca per fare silenzio in mezzo a loro, come era uso lì dentro.
Era stato allora che mi ero accorta che tutte loro si stavano sforzando.
La più vecchia delle tre, una signora grassoccia infagottata in un grande impermeabile verdognolo, strizzava gli occhi e respirava a fatica come se temesse che l'aria che usciva dalle sue narici avrebbe potuto disturbare le persone a fianco a lei. Pensai che fosse talmente presa dal non far rumore da non accorgersi della calma che era andata a cercare là dentro.
Non so dire per quanto tempo rimasi in quella stanza ma fu sicuramente molto meno di quanto credetti di sentirne trascorrere. Eravamo tutte là, sedute il più lontano possibile l’una dell’altra, e niente sembrava preoccuparci più del non farci sentire.

Il tempio della pace si era trasformato nell’arena dei leoni. Era una sfida, una lotta spietata senza esclusione di colpi. Inaspettatamente avevo sorriso quando la donna alle mie spalle si era lasciata sfuggire un colpo di tosse contro il fazzoletto bianco premuto sulle labbra. Pur senza vederla sapevo che aveva abbassato lo sguardo sulle ginocchia mordendosi il labbro per la sconfitta. Era proprio in quella lotta senza esclusione di colpi, in quel torneo fatto di regole non dette, che mi ero ritrovata, per la prima volta in piena consapevolezza, spiazzata. Anche la nota più bella e pura avrebbe fatto stonare la sinfonia di silenzio a cui stavamo assistendo.
Ero una di loro. Non diversa, non peggiore.
Avevo le loro stesse possibilità di fallire, le loro stesse possibilità di sconfiggere le altre, prendendomi la rivincita su quell’insormontabile schiera di anziane intonate. Nel silenzio cessavano la mia diversità e il mio scopo, tornavo a essere una persona apparentemente normale che, ormai da anni, dedicava la sa vita alla rovina della propria specie.
Non mi ero pentita, non avevo nemmeno accarezzato l’idea, allora, di poter risparmiare l’umanità dal supplizio di una vita senza musica: avevo lasciato scivolare la mano nella tasca, assaporando il contatto con il metallo freddo del revolver silenziato che nell’ultimo anno aveva freddato un primo violino dell’opera, sei clarinetti, due noti pianisti e dodici direttori d’orchestra. Mi ero chiesta se sarei stata in grado di battere anche loro al gioco del silenzio.
Uscita da quel buco nero di familiarità col genere umano avevo ucciso un oboe senza troppe esitazioni, giusto per confermare il fatto che la danza delle anime silenziose della saletta di Berlino non era che un ricordo.


Non ero mai più tornata nella stanza del silenzio. Mi piaceva pensare che fosse perché i miei affari mi avevano portato lontano da Berlino ma sapevo bene che sarebbe rimasta un’incognita irrisolta per tutta la mia vita: la mia mente provava un certo, sadico, piacere a tornare sull’argomento ogni qual volta la mia ragione abbassasse la guardia. L’immagine delle panchette vuote immerse nella quiete mi sarebbe riapparsa nella mente il giorno in cui sarei rimasta immobile, bloccata tra compiacimento e orrore, a osservare con quale grazia e con quale musicalità il sedicesimo direttore d’orchestra abbandonava questo mondo contorcendosi nel sangue.
L’ennesimo musicista morto in un perfetto connubio di suoni, senza stonare una sola nota mentre balbettava, sputacchiando una sucida richiesta di mercé.
Si era spento senza privare la musica di un solo momento di gloria, portando nella tomba un orecchio assoluto, due concerti per pianoforte di sua composizione ancora incompiuti e quarantatre anni di onorati studi musicali. Il tutto senza stonare una sola nota.
Ero tornata a casa inspiegabilmente nervosa e per dieci giorni non avevo sparato un solo colpo di pistola.
Talvolta parlavano dei miei omicidi al telegiornale ma la cosa non mi aveva mai preoccupata molto: ero stata abbastanza astuta da non uccidere più di un musicista a stato per ogni mese e nessuno aveva ancora collegato tutte le morti tra di loro. I commissari di polizia non erano molto svegli nell‘epoca dell‘ipod, e, mentre quelli seguivano piste improbabili che li portavano sempre più lontano da me, io non facevo un solo passo avanti verso l’effettiva eliminazione del mio nemico, troppo impegnata a fare il bagno nel sangue dei suoi scagnozzi.

Mi ci vollero duecentosessantasette musicisti con altrettante morti intonate per capire che quella non era la via giusta.

La notte dell’uccisione del sedicesimo direttore d’orchestra non avevo chiuso occhio. L’immagine della stanza del silenzio continuava a riapparirmi negli occhi spenti, riflessa sulle tende opache e polverose della mia camera d’albergo. Avevo bruciato i suoi spartiti nel caminetto.

La Bohéme scoppiettava allegra nel caminetto mentre sedevo alla scrivania rileggendo il cartellone dell’Opera di Parigi. La musica mi scaldava la stanza mentre progettavo l’ennesima stoccata contro di essa. Avevo tracciato una grande croce sopra la programmazione del Rigoletto: il decesso del direttore d’orchestra mi sembrava una ragione sufficiente per l'annullamento dello spettacolo. L’Opera di Parigi avrebbe dovuto rimborsare il prezzo di molti biglietti. Dopo aver calcolato mentalmente il danno che la chiusura di un teatro dell’Opera avrebbe potuto causare alla musica, avevo sorriso compiaciuta e immaginato quelli che sarebbero potuti essere i titoli delle testate francesi, qualche mese dopo, quando avrebbero annunciato la morte del più famoso tenore di Francia, attualmente occupato nell’allestimento del terzo spettacolo in cartellone. Mi ero annotata il nome dell’uomo su un fazzoletto di carta e lo avevo infilato nella tasca dell’impermeabile. Sapevo che non avrei potuto ucciderlo prima di due mesi ma niente mi avrebbe impedito di fare qualche ricerca sul suo conto.

Il teatro non avrebbe potuto reggere due cancellazioni dal programma in un solo trimestre. L’idea di centinaia di musicisti licenziati a causa mia mi elettrizzava. Mi sembrava già di vederli, all'ufficio di collocamento mentre stringevano tra le mani i loro curriculum monotoni o mentre telefonavano a qualche loro vecchio amico per chiedere di qualche posto vacante presso questa o quell'altra orchestra destinata a fallire. Mi feci portare dello champagne in camera.

Uccidevo soltanto musicisti impegnati nella diffusione attiva della propria arte: le mie regole erano molto severe a riguardo.

Non avevo tempo da perdere con amatori, ragazzini, bande di paese o complessi rock. Selezionavo le mie vittime con estrema attenzione: insegnanti di conservatorio, musicisti professionisti, compositori. Una volta avevo fatto saltare un pulmino a due piani con un’intera orchestra sinfonica in trasferta. Non uccidevo minorenni né persone prive di certificazione. Non avevo tempo da dedicare ai pesci piccoli. Non avevo mai toccato un pensionato né chi, almeno una volta nella sua vita, aveva commesso un errore in pubblico.

Non rubavo mai. La mia nobile missione non doveva per nulla al mondo essere scambiata per un lavoretto da morto di fame. Lasciavo al cadavere tutto il suo armamentario di preziosi e mi limitavo a confiscare ciò che era strettamente attinente al mio mandato: strumenti, spartiti, registrazioni di vecchi concerti, onorificenze ricevute. In otto anni di servizio avevo raccolto il corrispettivo in musica del patrimonio di una piccola banca. Naturalmente avevo distrutto ogni cosa.

Fare fuori gli strumenti musicali era la parte che preferivo di ogni colpo; non mi limitavo mai a romperli materialmente: li sottoponevo a un vero e proprio stupro morale.
Mi divertivo come una bambina a lerciare e macchiare nell’anima quegli oggetti che erano stati considerati il tesoro e lo spirito dei loro legittimi proprietari.
Godevo nell’abbruttirli quando erano ancora al massimo del loro splendore.
Inficcavo flauti d’oro nei bidoni dei rifiuti organici, li imbottivo di prosciutto avariato e formaggio stantio e lasciavo cadere manciate di terra bagnata sopra di essi, lerciandomi di puzza sino ai gomiti e impastando senza pietà.  Spalmavo marmellata e olio della macchina sulle corde dei violini, dopo averli gettati a fare il bagno nel catrame e buttavo corni e fagotti delle pozze di fango dei maiali, con le ghiande. Avevo costruito una cuccia per cani con il legno ricavato da un contrabbasso da venticinquemila euro e per qualche mese avevo steso il mio bucato tra le corde di un’arpa; una volta preso il giro di servirmi in una lavanderia, avevo fatto un bel rogo e ti saluto stendibiancheria.   

 
 

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Capitolo 3
*** Giona. ***



Non ero una persona cattiva.
Per un certo periodo della mia vita avevo persino frequentato un gruppo di attivisti politici per la pace nel mondo e, quando ero giovane, detestavo la vista del sangue.
Era stata la morale a rovinarmi: ero cresciuta convincendomi giorno dopo giorno che una cattiva azione, se compiuta a fin di bene, era auspicabile quanto la migliore delle opere di carità.
Uccidere gli uomini non mi piaceva, ma era necessario.
Non credo di essere mai stata sfiorata dall’idea, in tutti quegli anni, che la Musica potesse essere una setta, una confraternita di singoli elementi da neutralizzare. La vedevo come una vera e propria entità astratta e nemica che meritava l’eliminazione per la sua natura intrinseca, i suoi adepti non erano altro che un mezzo.
Durante la notte, infestava i miei incubi. La vedevo danzare negli spazi bianchi e cantare il mio fallimento mentre abbracciava i suoi martiri. Talvolta aveva la forma di una donna minuscola, circondata da suoni sottili che non riuscivo a cogliere; altre volte era un uomo ferito con uno zufolo spezzato tra le mani fredde. Nei miei sogni migliori appariva come un ratto spiaccicato sulla strada, moribondo. L’idea di essere l’auto che lo aveva schiacciato mi faceva sempre svegliare di buon umore. In ogni caso, non riuscivo mai a guardarla negli occhi: la donna minuta mi appariva di spalle, l’uomo ferito non distoglieva lo sguardo dal suo strumento martoriato e gli occhi del ratto dovevano essere ridotti in poltiglia da qualche parte sull’asfalto bollente; non che mi interessasse guardare la Musica in faccia, sia ben chiaro, ma avrei voluto che quella cosa spregevole vedesse il sorriso trionfante della sua assassina beffarsi di lei giorno dopo giorno.

In ogni caso, non avevo tempo da perdere rimuginando sui sogni o sugli ideali astratti; il colpo al teatro dell’Opera di Parigi mi aveva portato via molto tempo e molte energie. Era stato il mio primo lavoro studiato per colpire un’intera organizzazione e non un singolo musicista. Non era stato facile: i cortei di protesta, i finanziamenti statali e le donazioni delle ONLUS ficcanaso mi avevano decisamente complicato le cose, ma alla fine ero riuscita a far chiudere baracca a quella topaia lussuosa. Era stato un successo eclatante e incredibilmente soddisfacente.
Quella sera il mio umore era incredibilmente buono: avevo comprato due biglietti in platea per l’ultimo spettacolo della storia del teatro; considerando che ero la causa del suo licenziamento anticipato, mi sembrava doveroso pagare alla Musica la sua pensione di liquidazione.
Mi ero seduta su una poltrona pagata quattrocento euro con le cuffie dell’ipod nelle orecchie e, mentre i personaggi e i cantanti si avvicendavano sul palco, avevo ascoltato registrazioni di rumori per tutta la serata. La signora seduta accanto a me - una vecchia imparruccata che sembrava avesse fatto il bagno in una vasca di profumo di bassa qualità- si era accorta che portavo le cuffie ma non aveva detto niente, riservandosi il privilegio di lanciarmi occhiatacce a tempi alterni. Sull’altro lato, Giona schizzava ritratti a matita delle figure più eccentriche e sgraziate che riuscisse a cogliere tra quelle sedute in platea, aveva un talento strabiliante con la matita. Gli avevo sorriso.

Lavorava con me da quasi cinque anni ed era un ragazzo incredibilmente intelligente: un assassino nato oltre che un’artista impareggiabile. Lo avevo trovato in Medio Oriente nell’estate del duemilacinque, un cervello sprecato sino al giorno in cui mi aveva conosciuto. Doveva avere una trentina d’anni, ma sembrava più giovane. Principalmente per merito della sua dote, era stato assunto come uomo delle pulizie e tuttofare nel più prestigioso conservatorio di Gerusalemme e laggiù aveva dimorato, nutrendo in segreto il suo odio per i musicisti, per molti anni prima di incontrarmi.
Ricordo piuttosto bene la prima volta che mi vide, ero sporca di sangue sino ai gomiti e la sua presenza non faceva parte dei miei piani.
Lo stupido concertista aveva provato a difendersi brandendo come una spada quel suo insulso clarinetto e mi aveva colpito più volte alla spalla prima che io riuscissi a conficcargli il piccolo tagliacarte che avevo portato con me nello stomaco.
Lo avevo lasciato rantolante a terra e stavo controllando l’entità del danno che avevo subito: la spalla mi faceva male, probabilmente non mi sarei liberata del grosso livido violaceo per molti mesi.
L’improvvisa entrata di Giona era stata una brutta sorpresa, per me. Non mi risultava che ci fosse qualcuno nel vecchio edificio oltre a me e alla mia preda. Non sapevo ancora niente della dote di Giona ma nemmeno allora mi chiesi come mai non avesse sentito le urla del moribondo. I miei occhi si puntarono sull’ospite non gradito e, per l’unica volta in tutta la mia carriera, temetti di dover violare i miei principi per impedire che un pericoloso testimone intralciasse i miei piani. Rimasi immobile mentre, per niente turbato dalla vista del sangue e completamente incurante della mia presenza, Giona si avvicinava al musicista sofferente e si chinava su di lui. Pensai che volesse soccorrerlo e lasciai che la mano scivolasse lentamente sul revolver. Avrei freddato quel poveretto nel modo più indolore e veloce possibile, non sembrava un pericoloso musicante e, comunque, non era sulla mia lista; non lo avrei fatto soffrire.
Ora penserete che io abbia indugiato troppo, in tutta questa storia.
Insomma, il testimone era lì e non sembrava avere paura dell’assassina con cui divideva l’aria della stanza: mi aveva addirittura voltato le spalle, quasi invitandomi a colpire.
Vi chiederete come mai io non sia stata veloce: credo che ormai abbiate capito che non sono il tipo di persona che aspetta chissà cosa per rispedire un’anima al creatore. Perché allora quell’esitazione?
Credo che sia stata la tranquillità di quello strano ragazzo a spiazzarmi. Se ne stava lì, chino su quell’ammasso di carne con due piedi nella fossa tutta preghiere e richieste di aiuto, e non faceva assolutamente niente per arginare la perdita di sangue o per difendersi da me.
Rimase immobile ad aspettare che la mia vittima spirasse come chi non ha niente di meglio da fare che guardare una farfalla morente su un fiore.
Furono quasi venti minuti di perfetto silenzio intramezzati dai gemiti e dai lamenti del poveretto. Nessuno dei due si mosse: il giovane genio e l’assassina si stavano godendo lo spettacolo di quel patetico trapasso con l’entusiasmo di chi va a teatro per la prima volta in vita sua.
Quando quello fu morto, Giona sfilò lentamente il clarinetto dalle mani fredde e, per la prima volta, si voltò verso di me. I suoi occhi erano grandi e solenni, non dimenticherò mai il suo sguardo mentre si portava il clarinetto alla bocca: era odio e timore, rispetto e blasfemia.
Soffiò dentro con tutte le sue forze e ne uscì qualcosa di meraviglioso e terribile. Non una sola nota al suo posto, un lamento scoordinato e atroce prese il possesso della stanza. Ne godetti come mai mi era successo, lui rimase impassibile e continuò a soffiare dentro al tubo . Fu per un tempo interminabile, continuò a spingere aria nello strumento sino a che le sue forze non furono prosciugate, infine cadde a terra stremato lasciando rotolare a terra il piccolo tubo che aveva prodotto tutto quel terribile rumore. Ero pietrificata.
D’istinto, raccolsi lo strumento da terra e lo portai alla bocca, solo per sentire il sapore di tanto genio. Mentre i miei occhi rimbalzavano tra il cadavere e il ragazzo stremato, capì, forse con un lampo di genio, forse con una divina intuizione, quale fosse la grande dote di Giona.
Quasi meccanicamente, senza nemmeno rifletterci troppo, gli porsi la mia mano per aiutarlo ad alzarsi e lui la strinse con la sua.

Fu con quella stretta di mano che ebbe inizio la nostra collaborazione.

Fu a causa del suo dono che, per qualche tempo, dividemmo il letto. A causa del suo dono che lo presi con me come alleato e compagno.
Sarebbe tuttavia sbagliato definire quella tra me e Giona una vera e propria relazione. Che rapporto romantico sarebbe potuto nascere tra un’assassina psicopatica e un ragazzo sordo, accomunati soltanto dai litri di sangue che lordavano le loro mani?
Il nostro era prima di tutto un rapporto d’affari, in secondo luogo un incontro tra menti malate. Potevamo essere compagni di letto, non di certo amanti. In ogni caso, Giona fu l’unica persona che mi tenne compagnia per tutto questo tempo. Presto imparai a comunicare con lui nonostante la sua dote e lui apprese in modo incredibilmente veloce quali fossero i meccanismi dei miei colpi.
Diventammo una squadra terribilmente efficiente e la sua compagnia fu un grande stimolo per me. Tuttavia sapevo benissimo che, se lo avessi perso, non ne avrei sofferto. Né lui con me.

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Capitolo 4
*** Epilogo ***


Ho passato ore a cercare una buona storia da raccontarvi.

Diciamocela tutta, ci ho preso gusto a scrivere tutte quelle cazzate sulla musica e sull'assassinio. So bene che, sotto sotto, mi avete preso in simpatia perché vi sembro una pazza di quelle serie, una di quelle che hanno metodo e recitano bene la propria parte. Probabilmente il fatto che vi abbia raccontato tutto in prima persona vi rassicura e volete che sia la mia voce a continuare a narrare quelle avventure. E' da me che volete sapere come tutto finì.
Volete la bella storia. Non vi importa nulla della verità.
Come lei.
Posso garantirvi un finale sorprendente, ma credo che voi stessi già sappiate che la mia missione era destinata a fallire.
La mia, come la sua.
Ho deciso di darvi la verità, di imporre il mio punto di vista sul suo come lei lo ha fatto sulla mia vita.
E' ora che sappiate che lei non ha scritto una sola riga di tutte queste porcherie. Come avrebbe potuto, il suo cadavere è ancora caldo e temo dovrà aspettarmi qualche minuto, dopotutto avete il diritto di conoscere l'epilogo.

Mi sono già presentato ma probabilmente eravate troppo presi da lei per accorgervi di me e di quanto il mio personaggio potesse, in effetti, essere interessante. Un povero ragazzino sordo di fronte a una grande assassina senza scrupoli. Non avevo mai ucciso prima di questa sera, era sempre lei a sporcarsi le mani. La ho amata dal primo momento.
Ricordo di averla vista sgattaiolare dietro al pulmino della banda con quella sua grazia da assassina. Non avrebbe mai saputo che io la guardavo, mentre fissava le cariche sotto al paraurti della vettura e si allontanava, insospettabile, dal parcheggio dell'auditorium verso il grande centro commerciale da cui avrebbe osservato tutto. La seguii per quasi un anno, prima di osare avvicinarla. Non ricapitolerò tutto il teatrino che costruii per farmi accettare da lei: fingermi sordo per tutti quegli anni, improvvisare un incontro casuale e seguirla per mesi furono solo alcuni dei sacrifici che feci per lei.
Quando si ha a che fare con i pazzi non si può fare altro che assecondarli nella loro pazzia e io ero completamente pazzo di lei. Ero pazzo di lei mentre programmavo a tavolino la morte di centinaia di innocenti per la sua folle missione, ero pazzo di lei mentre stringevo le mie mani intorno al suo collo e mettevo fine a quella nostra vita insieme.
Mi fa sorridere pensare che dopo essere scampata a una corte d’appello e a quattro investigatori privati, sia dovuta morire per mano di uno come me.
Non sono ebreo e non sono sordo, naturalmente non ho mai lavorato come tuttofare in nessun conservatorio. Non cercò mai di sapere quale fosse la mia storia o dove avessi imparato a disegnare. Dividevamo letto e l’ appartamento senza sentimentalismi o interessi, mi usava e non faceva nulla per nasconderlo. Andava bene a lei e a me.
Sino a ieri.
Mio caro lettore, devi sapere che iniziai a scrivere questo racconto e alcune poesie così per gioco e, senza che lei sapesse niente, presi il vizio di pubblicarle su uno stupido sito internet con un falso nickname ( femminile naturalmente, che senso avrebbe avuto scrivere tutta questa storia su di lei in prima persona e presentarmi come uomo?). Tutto sembrava andare bene, poche recensioni ma carine, incentivi a scrivere continui e confronto con persone interessanti.
Mentre continuavamo a girovagare per l’Europa e a freddare musicisti, tra una scopata e l’altra, trovavo il tempo di buttare giù questa smielata celebrazione di lei, tenendola all’oscuro di tutto.
Piuttosto soddisfacente e assolutamente gratuito, non credevo mi avrebbe portato dove mi portò.
E' stata la pubblicazione del terzo capitolo a cambiare tutto. Toccava a me entrare in scena.
Ho preso un sacco di tempo per pensare a come raccontare il me personaggio, quasi cinque mesi per elaborare il capitolo in cui Giona il ragazzino sordo sarebbe stato introdotto nel racconto.
Mi sono tratteggiato interessante ma non troppo centrale, pieno di pregi e carico di interesse come effettivamente sono ma senza rivelare nemmeno alla carta il mio segreto.
Con un certo orgoglio, mi sono dedicato il titolo del capitolo e buona parte del suo contenuto.
Di fronte alla carta, però, ho dovuto ammettere per la prima volta che non ci sarà mai stato amore tra me e lei. Era troppo concentrata sul suo progetto folle per vedermi davvero, per sentirmi davvero. Ho inziato a odiarla.
La scorsa notte è tornata in albergo furibonda: la giovane suonatrice di trombone che aveva deciso di mandare all'altro mondo era deceduta con una grazia decisamente superiore alla media, e lei non riusciva a sopportare l'ennesimo fallimento.
Come se non bastasse, a ritorno la polizia l’aveva fermata per un controllo all’auto. Non si era spaventata né aveva perso la calma ma il suo umore ne era stato danneggiato ulteriormente. Non era stata una bella giornata.
Come spesso succedeva, mi aveva ignorato e si era infilata nel bagno per togliersi la puzza di musica dai vestiti.
Mentre ricontrollavo il numero di recensioni dal mio computer, l’avevo sentita imprecare in diverse lingue e con diversi stili da dentro al bagno. Non si faceva mai problemi a dire cose inappropriate in mia presenza, sapeva che non potevo sentirla.
Mi sono sempre domandato se in realtà non fosse a conoscenza della mia simulata sordità e non si prestasse semplicemente al gioco; se non fosse il suo modo di amarmi, fingere di non sapere solo per poter continuare a ignorarmi.
So benissimo che sono tutte illusioni, non sono mai stato niente più del ragazzino sordo.

Una ragazza aveva recensito il capitolo che portava il mio nome, qualche giorno prima. Le era piaciuta soprattutto la parte sui sogni. Le avevo risposto con un messaggio chiedendole che cosa ne pensasse del personaggio di Giona. La mail di risposta mi era arrivata proprio mentre lei imprecava in bagno.
Avevo cliccato sul tasto che l’avrebbe aperta a mani tremanti:

“Il ragazzo sordo? Sì, è un bel personaggio che si adatta bene a lei anche se, naturalmente, resta in secondo piano di fronte a una personalità come quella dell’assassina. E’ impossibile concentrarsi su quel personaggio quando lei è così lucida e contorta”
La svolta.
Era dunque quello il mio ruolo? Il narratore silenzioso che rinunciava persino alla voce narrante destinato a rimanere nell’ombra?
Dopo aver riletto il messaggio qualche volta mi ero alzato e avevo raggiunto la porta del bagno proprio mentre lei usciva. L’avevo abbracciata, prima di stringere le dita intorno al suo collo.
Era talmente stupita che non aveva neppure provato a difendersi mentre la strangolavo.

Lettore, sarai contento di sapere che la tua eroina ha fatto una bella morte. Intonata, oserei dire. Persino per lei la morte è stata intonata, come tutte quelle di tutti coloro che ha ucciso. Che la morte sia intonata di natura?
Non ho toccato ancora il cadavere, ma credo che mi concederò il lusso di farlo. E’ ancora molto bella.
Commentatrice, mi rivolgo direttamente a te, ora. Non vorrei che tu pensassi di essere stata la causa della morte del tuo personaggio preferito, anche se tecnicamente è così. Sappiamo bene che era solo questione di tempo prima che io mi rendessi conto che la protagonista del mio racconto era una soltanto e che “l’assassina stonata” non sarebbe mai stata la storia d’amore tra la serial killer e il ragazzo sordo come avevo per tanto tempo pianificato.
Non mi rimane molto altro da dire, a questo punto: così trapassa l’assassina stonata e la sua missione fallisce miseramente come la mia.
La musica esce di scena insieme alla sua acerrima nemica, non sconfitta ma gravemente indebolita.
Quanto a me, non sono abbastanza interessante per voi e lo so.

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