C'eri una volta...

di Valpur
(/viewuser.php?uid=2169)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** -1-Get the party started ***
Capitolo 2: *** Venerdì mattina ***
Capitolo 3: *** E possa Dio avere pietà delle nostre anime! ***
Capitolo 4: *** Di prede, predatori e soprattutto dissenteria. ***
Capitolo 5: *** Din Don Dan ***
Capitolo 6: *** Fame e cagnotti ***



Capitolo 1
*** -1-Get the party started ***



Tic-tic-tic… tic.

Le grosse dita colpivano la tastiera con entusiasmo. La scrivania di nuvole attutiva il suono.

Tic… tic-tic. Tic.

Una mela morsicata lampeggiava dietro lo schermo color alluminio.

“Papà!”

Tic-tic-tic.

“Papà, dove ti sei cacciato?”

Tic.

Il pavimento bianco e soffice inghiottiva lo sciabattare. Passi rapidi. Uno sbuffo.

“Che palle… papà!”

“Eh! Cosa c’è? Sto scrivendo!”

Dietro un cumulonembo grigio fece capolino una faccia, seguita a ruota dal resto del corpo.

Gesù roteò lo sguardo.

“Da quando hai il Mac nuovo sembri un ragazzino, papà. Ti stai fomentando con ogni stupido gadget tecnologico… a cosa ti serve quell’iPad che ti ha portato Gabriel l’altro giorno?”

Dio stese le gambe ed agitò le dita; con un colpo di talloni fece ruotare la sedia e si voltò verso il figlio. Alzò le mani e le fece roteare.

“Ho le dita grosse! L’iPhone non riuscivo a usarlo!”

“E infatti lo hai scaricato a me… vabbÈ, cosa stavi scrivendo?”

Un sorriso radioso si schiuse sul volto del Creatore, facendogli fremere i baffi bianchi. “Una festa!”

Questo promette poco di buono, pensò Gesù passandosi una mano tra i capelli. L’aureola ballonzolò al contatto. Con un dito la tenne ferma mentre si spettinava.

“Che tipo di festa?”

Dio alzò le spalle (da qualche parte sulla Terra ci fu un terremoto) e, con la più innocente delle espressioni, fissò il figlio.

“Oh, bÈ, sai… musica, luci colorate, qualcosa da bere. A proposito, potresti pensare tu al vino?”
Gesù strinse le labbra. Incrociò le braccia, le ampie maniche della tunica che sventolavano.

“Il fatto che lo abbia fatto una volta –peraltro perché tu me lo avevi chiesto- non significa che… oh, che diamine, va bene, lo farò. Bianco o rosso?”
“Che domande, entrambi!”

Un sospiro.

“E sia. Comunque, stavo dicendo che…”
Qualcosa passò sopra le divine teste, proiettando una fugace ombra sulle nubi.

“Ehi, ciao Jay!”

Gesù agitò distratto la mano verso l’angelo in armatura che era già passato oltre.

“Ciao, Mike. Dicevo… papà, di preciso chi intendi invitare?”
“Tutti!”

Gli occhi azzurri del Figlio si spalancarono.

“Cosa intendi?”
“Tutti vuol dire tutti”.

“Ma solo quelli di questo Distretto, vero? Non vorrai trasformare Casa in un rave party!”

Dio annuì solennemente, incrociò a sua volta le braccia e assunse un’espressione decisa. Il triangolo sopra la sua testa brillò più luminoso.

“Quando hai annuito… era in riferimento alla prima parte della mia frase, vero?” chiese Gesù con un fremito di speranza nella voce.

“No. Mi riferivo al rave party. Sennò perché avrei invitato anche Cerridwen e le sue amiche?”

Gesù si portò la mano alla fronte e la fece scorrere in giù fino alla punta della barba. Avrebbe voluto coprirsi gli occhi con le mani ma sapeva bene che le stigmate hanno qualche inconveniente (se solo Tom –San Tommaso, tra amici lo chiamavano così- l’avesse smessa di lanciargli piccoli oggetti per poi ridere quando cadevano al suolo sarebbe stato più contento).

Respirò a fondo.

“Quindi tutti sono proprio… tutti. Posso vedere l’elenco degli invitati, pa’?”

“No no, sorpresa! Ovviamente devi venire, figliolo! Sarà la festa più divertente che questo lato della realtà si ricordi da sempre. Non mancherai, vero?”

E come faccio a dirgli di no?

“Va bene, ci sarò. Però ti prego, non esagerare. Sai che poi la Mamma si arrabbia… l’ultima volta che hai bevuto troppo hai fatto esplodere il Vesuvio. È arrivata qui un sacco di gente e mamma ha dovuto stare a sentire tutte quelle persone che non capivano cosa fosse successo e che portavano in giro un sacco di fuliggine. Ho più paura di lei che di te, quando si arrabbia…”
“Non preoccuparti. Essere Dio ha i suoi vantaggi, e a cosa serve essere onnipotenti se non posso neanche divertirmi coi miei amici? Andrà tutto bene, fidati di me”.

Detto ciò si rigirò verso il computer e riprese a digitare rapidamente.

Gesù guardò giù attraverso uno squarcio tra le nuvole e sperò vivamente in un’assenza di cataclismi nei giorni successivi.

 

Di una cosa si deve rendere atto a Dio. È di parola. Aveva detto che avrebbe bruciato Sodoma e Gomorra, quelli hanno provato a deflorargli l’angelo e lui le ha bruciate.

Gesù, seduto su un pouf di stelle un po’in disparte, sorseggiava un mojito e guardava la folla.

Suo Padre lo aveva detto, che avrebbe invitato tutti. E lo aveva fatto.

Probabilmente non avrebbe mai saputo quanta gente era presente.

“Ehi, ragazzo, il mio bicchiere è vuoto!” berciò una voce alle sue spalle.

Facendo appello a tutta la propria santità Gesù si voltò lentamente con un sorriso amabile.

Spongebob gli stava agitando un calice sotto il naso. Il Messia lo prese e all’istante fu colmo di Chardonnay.

“Per la cronaca, comunque, sarei il Figlio di Dio, non il barman…” protestò debolmente, ma la sagoma gialla si era già smarrita in mezzo alla folla.

“Tutti. Li ha invitati tutti”, sussurrò sgomento mentre Batman e Robin gli passavano davanti mano nella mano; poco più in là Anubi cercava di montare la gamba di un Odino alle prese con Xena, una Valchiria e una discinta Ishtar.

La musica era davvero alta, ma Gesù non riuscì a lamentarsene: quei Valar sapevano il fatto loro, quando si trattava di cantare.

Un cerchio gli strinse la testa. Controllò subito di non aver stretto troppo la corona di spine, ma non era quella la causa.

In mezzo a tutta quella gente si sentiva soffocare. La folla si estendeva fino all’orizzonte visibile e probabilmente oltre. Inclinò il bicchiere e scolò l’ultimo sorso di rum, schioccò le labbra e si alzò.

Un barcollante Pippo gli oscillò davanti e stramazzò sul pavimento, venendo parzialmente inglobato dalle nuvole. Gesù lo scavalcò e si allontanò di qualche passo.

A una certa distanza dai Valar e dalla folla ululante riuscì a respirare meglio. Si rese conto di essere uno dei pochi, lì dentro, a sapere cosa volesse dire “respirare” e la cosa lo depresse un po’. Abbassò le spalle e sospirò.

“Tutto bene, amico?”

Gesù spostò lo sguardo.

“Ah, sei tu, Mike. Mi chiedevo perché non fossi alla festa”.

L’Arcangelo Michele stirò le braccia e le ali, scrollando la chioma bionda.

“Sono di turno. Lou –Lucifero- ha fatto carte false per poter venire alla festa e cercava di imbucarsi. Si era travestito da Wolverine, patetico. Comunque mi tocca fare servizio di sicurezza, una palla”.

“Forse un po’ti invidio…”
Michele inclinò la testa e si puntellò alla spada. Era più alto di Gesù di almeno trenta centimetri.

“Jay, che ti prende?”

“Mah, mi sento un po’di troppo qui…”

L’Arcangelo gettò indietro la testa e rise. Le stelle presero a cadere, sfrecciando nel cielo.

“Tu? Di troppo? Sei il figlio del Capo! Chi più di te dovrebbe sentirsi a casa, qui?”

“È… strano. Forse io sono strano. Vedi, tutta quella gente non è mai…”
“Non dirlo”, lo interruppe Michele. “So cosa intendi. Sei come tua madre, anche lei i primi tempi che era qui si faceva di queste domande. E un paio di lustri fa ne discutevo con Maometto. Non è un cattivo ragazzo, sai? Ostinato come pochi, ma ha un gran cuore. Secondo me anche Frank –sai, San Francesco- e tutti gli altri provano le stesse cose”.

Gesù si girò, sagomò un angolo di nuvola e ci si accomodò.

“Mike, mi spiace averti intristito. E tu di sicuro hai altro da fare, mentre io ti faccio perdere tempo…”

San Michele fece spallucce.
“Non dirlo neanche, amico”. Si lasciò cadere su un cirro sfaccendato di passaggio e lo fermò piantando la spada. “Lou si è offeso troppo quando ho scoperto il suo travestimento e non si farà vedere per qualche tempo. Poveraccio, ogni tanto mi fa pena. Un grosso errore di tuo Padre, ma forse non dovrei dirlo”.

Gesù sorrise.

“Non dovresti, ma tanto lui sta brindando ed è distratto e comunque sia io potrei assolverti. Ma non c’è nulla da perdonare, hai ragione. Povero Lou, è diventato il capro espiatorio e ora gli tocca fare il lavoro più sporco. Papà dovrebbe persino ringraziarlo, se non fosse per lui non avrebbe tutto ‘sto successo”.

Sospirò e abbassò lo sguardo.

“Jay, c’è qualcos’altro di cui vorresti parlare?”

Sbuffo.

“… tipo, problemi con Madda?”

Michele vide distintamente il collo del Messia virare allo stesso color porpora della tunica che indossava. Alzò di scatto la testa.

“BÈ, non mi sembra il caso di…”
“Tu e Maddalena siete insieme da tanto tempo, e la gente parla spesso della crisi del terzo millennio. Io e Uriel ci siamo passati. L’importante è voler stare assieme e tutto si…”
“No, non è quello. Io adoro Madda, è un angelo…”

L’Arcangelo inarcò un sopracciglio dorato e Gesù si concesso una mezza risata.

“Per modo di dire, dai! È solo che… bÈ, è fortunata. A lei non la venera nessuno, o quasi. Non ha responsabilità. Anche per mio Padre è facile, e con Mamma preferirei non parlarne, che poi si agita e le sue statue in giro piangono e la gente va in crisi. Non saprei, è che…”
“È che l’umanità non brilla per intelligenza, vecchio mio! Li ho sentiti, l’altro giorno, negano persino l’evoluzione!”

“Forse”, lo interruppe Gesù fissando una stella lontana, “mi servirebbe qualcuno che sappia cosa vuol dire venire fraintesi, magari a un livello diverso da quello che potrebbe essere…”

L’Arcangelo Michele non disse una parola. Mise la lunga mano sulla testa del Cristo e gliela girò di lato.
“Lei”.

“Eh?”

“Guardala. Capelli castani, fiori, piedi nudi. Lì, su quella panchina”.

“Chi è?”

“Lo scoprirai. E Madda non sarà gelosa, ti sto mandando da una persona a cui della gente importa poco… su, va’ da lei”.

“Ma io… cioè, non passerò per maniaco? Non so chi sia e vado lì ad attaccare bottone come se niente fosse!”

Michele si schiaffeggiò la fronte. A Santo Domingo iniziò a piovere.

“Certo che per essere figlio di Dio ogni tanto sei lento. Non passerai per stalker, tranquillo. E soprattutto scoprirai che la conosci benissimo, solo che non ci hai mai fatto molto caso. Su, sono sicuro che potrà aiutarti”, concluse spingendolo delicatamente avanti.

“Mike…”
“Eh”.

“Sei un buon amico. E non maltrattare troppo Lou. Fagli avere un bicchiere di qualcosa, così si sente meno escluso”.

L’Arcangelo sorrise e sollevò la spada in gesto di saluto.

Gesù si allontanò verso la sconosciuta, titubante ma incuriosito.

 

Era seduta su una panchina. Le gambe, nude dal ginocchio in giù, erano tese in avanti, cosicché i piedi non toccassero terra.

Ed era pure piuttosto carina, pensò Gesù. Non gli era nuova… folti capelli castano scuro, mossi e lunghi fino alla vita, tempestati di fiori colorati; fianchi abbondanti, seno generoso, viso pieno e dalle guance rosse. Gli occhi verde scuro erano fissi sugli alluci.

“Ehm… ciao”, esordì incerto.

La quasi sconosciuta trasalì e abbassò i piedi, che si posarono sulle nuvole. Da sotto le piante iniziarono a spuntare fili d’erba e a sbocciare fiori, tanto che in pochi secondi l’intera panchina era circondata da un grazioso, piccolo giardino con tanto di farfalle, scoiattoli e insetti vari.

Gesù capì al volo.

“Tu sei Madre Natura, vero?”

La giovane annuì con un sorriso e si spostò sulla panchina per fargli spazio.

“Sì. Puoi chiamarmi Gaia, se vuoi. È più comodo”.

Gesù si accomodò al suo fianco. Sapeva di terra umida e muschio.

Rimasero in silenzio per qualche istante. Lei gli sembrava ancora più abbattuta di lui.

“Non ti stai divertendo alla festa?” le chiese col tono più gentile che avesse.

“Oh, è molto bella. Priapo mi ha inseguita per qualche tempo, è stato carino”. Sorrise brevemente, poi tornò pensierosa.

Tacquero per un po’.

“Sei Gesù, dico bene? Tuo Padre mi ha invitata e non so perché, ho sempre avuto l’impressione di stargli antipatica…”
“No! Ma figurati! Lui vuole davvero bene a tutti, senza distinzioni, è solo che… che…”

Le parole gli morirono in gola. Gaia si sporse di fianco e lo osservò a lungo.

“Ti pesa essere uno dei pochi, qui dentro, a dover sopportare il peso della devozione avendo vissuto, vero? Ti pesa essere reale ma dover vedere la gente fare cose stupide in tuo nome”.

Gesù alzò la testa e la fissò con gli occhi sgranati. Da vicino sembava un po’ più vecchia, ma era difficile a dirsi. Sembrava senza età.

Gaia si accorse di quello sguardo e piegò le labbra in un sorriso di sbieco.

“Esisto da prima di chiunque altro, qui dentro. Io ero già quando non c’era nessuno se non qualche stupida alga monocellulare a rendere l’aria più respirabile. Sono vecchia e un po’ più furba di quanto si possa credere”.

“Io credo che tu sia incredibile. E hai ragione”.

Gesù si alzò in piedi e si mise a camminare nervosamente con le braccia intrecciate dietro la schiena.

“La gente capisce sorprendentemente poco. Guarda!”

Così dicendo agitò il piede nelle nuvole e fece un buco. Quindi mosse la mano come per scacciare un insetto e spostò il paradiso, portandolo sopra una grande città.

“Io l’avevo detto chiaro e tondo: ama il prossimo tuo. Questo è sufficiente. E invece guarda quei poveri stupidi: si arrabattano con cose inutili come i santini e i rosari e intanto guardano male la ragazza che chiede l’elemosina fuori dal supermercato. Guarda, ti prego!”

Gaia si avvicino al buco. Gesù stese la mano e si avvicinarono.

In effetti signore attempate con borse della spesa cariche di ogni tipo di cibo, con al collo crocefissi e medagliette votive, passavano schifate di fianco a una giovane donna con un braccio un bambino infreddolito. Tendeva la mano e chiedeva un po’di latte. Tutti la ignoravano.

“E poi… ecco, guarda qui. Questo mi fa imbestialire!”

Spostò la mano e la visuale cambiò. San Pietro, a Roma. Cardinali con migliaia di euro di croci al collo, grassi e paciosi.
“Non parlano in nome mio! Non voglio che sia così! Questi non capiscono nulla… o, peggio ancora, prendono tutto alla lettera. Quando ho detto “Lasciate che i bambini vengano a me” non intendevo questa… schifezza!” terminò indicando una scena turpe poco più in basso.

Gaia non si era scomposta per il resto, ma lì si trovò a distogliere lo sguardo. Era troppo persino per lei.

Si rialzò. Gesù era rimasto inginocchiato con aria afflitta.

“Sai, a me interessano relativamente queste cose. Il più forte vince, il più debole muore. Tu servi per ‘bilanciare’, per far sì che il più debole non lo sia troppo. Però so bene cosa intendi”.

“Come puoi capirlo? Tu… tu non sai quanto siano noiose le preghiere e le richieste e le lamentele. Ah, se potessi filtrare le chiamate, praticamente darei retta solo ai bambini. Loro hanno capito perfettamente cosa intendo. Si arrabbiano per le ingiustizie e danno un soldino a chi ha bisogno senza che questo li renda orgogliosi. Se tutti fossero come loro, io non servirei più, e nemmeno mio Padre, e il mondo sarebbe perfetto. Se la gente avesse davvero capito cosa intendevo dire non avrebbero bisogno di pregare perché sarebbero felici. Tutti, ciascuno di loro”.

Gaia si riaccomodò sulla panchina e incrociò le braccia.

“Come posso capirlo? Guarda che io esisto davvero! Sono più reale di ogni altra cosa, perché non sono solo nel cuore della gente, sono sopra le loro teste, sotto i loro piedi e nei loro piatti (be’, questo ormai non è più tanto vero, forse). Quando decido di lasciar sfogare la mia forza la gente piange e cerca conforto in quelli come te!”

Si stava arrabbiando, era evidente. I lampi cominciarono a solcare il cielo.

Gesù si rialzò e mise i pugni sui fianchi.

“Ok, ok, un punto per te. Però almeno non hai dei cretini che ti invocano e ti chiedono cose stupide!”

Madre Natura si alzò e sogghignò.

“Scommettiamo?”

Agitò la mano verso il buco. La visuale si strinse su un quartiere di villette a schiera e sui loro giardini ben curati.

Gesù e Gaia si misero comodi a osservare.

 

 

*******

 

La gestazione di questa storia è durata un mese esatto. Proprio quanto il NaNoWriMo (per chi non sapesse di cosa parlo, c'è Google).

L'ho sistemata qua e là, senza stravolgere troppo l'idea iniziale. Ma una premessa è necessaria: NON intendo offendere nessun appartenente a un qualsivoglia credo religioso. Ciò che scrivo è solo funzionale alla trama e non vuole essere blasfemia. Non che io abbia qualcosa contro la blasfemia, anzi, ma questo caso in particolare non lo è. Anzi, spero di aver mantenuto i personaggi non originali (i vari Gesù e compagnia bella) il più IC possibile^^

Enjoy!

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Venerdì mattina ***



Il trillo della sveglia le trapanava le orecchie.

Sbuffando si girò nel letto; il raso delle lenzuola, nere non solo nella semioscurità della stanza, le frusciò sulla pelle.

“Che palle…”

Sfilò la mano da sotto il cuscino e la allungò verso il comodino. Lo spigolo le urtò la nocca. Agitò le dita nell’aria ringhiando imprecazioni e fece cadere la sveglia. L’impatto con il pavimento la spense.

Uno sbadiglio la scosse tutta mentre si sollevava a sedere, agitando la mano offesa.

Il sole filtrava incerto da uno spiraglio tra le pesanti tende di velluto chiuse davanti alla grande finestra.

Imprecando a bassa voce scostò le coperte con un fruscio e mise giù i piedi, muovendo le dita contro il soffice pelo del tappeto. Sporgendosi indietro armeggiò contro la testiera di ferro battuto del letto fino a incontrare la sagoma ovale e rigida dell’interruttore. Lo premette, e una luce tenue invase la stanza, rimbalzando sul viola delle tende, sul nero del tulle che penzolava dal baldacchino e sui quadri e stampe dalle cornici barocche. Un agnello morto occhieggiava da quello più vicino alla porta, un angelo dalle ali nere e dal volto solcato da lacrime di sangue da quello sopra al letto.

Una voce di donna salì lungo le scale.

“Sara, tesoro, è ora di alzarsi!”

Sara non rispose, avviandosi a passi strascicati sul parquet di legno scuro. La corta camicia da notte di seta nera svolazzava attorno alle ginocchia, aggiungendo il suo fruscio a quello delle cosce grassocce che sfregavano tra di loro.

In pochi passi raggiunse una porta. Chiusa.

“Tommy, muoviti. Devo usare il bagno”, brontolò con voce arrochita dal sonno.

Da oltre la porta la risposta risuonò attutita.

“Cazzi tuoi. Ora aspetti”.

Sara strinse le labbra.
“Senti, non so se hai presente che ho appena dormito una notte intera e ho la vescica piena. Se proprio non puoi fare a meno di leggere Topolino mentre caghi vorrà dire che andrò a pisciare sulla tua collezione di Naruto”.

Passò un istante.

“T-tanto non lo faresti mai”.

“Bene, ti stai masturbando. A giudicare dalla voce hai quasi finito. Posso aspettare ancora qualche secondo”.

Nel giro di un attimo si udì il suono dello sciacquone, la chiave girò nella serratura, la porta si aprì e se ne affacciò un viso arrossato e brufoloso. Sara sogghignò.

“Buongiorno, fratellino, e benvenuto in un’altra imbarazzante giornata della tua sempiterna verginità”.

Tommy trasalì e guardò la sorella, riacquistando un po’di dignità.

“Certo che appena sveglia fai davvero cagare”.

“Wow, sono fortunata, tu fai cagare a ogni ora del giorno e della notte. Spero tu non abbia lasciato segni in giro, sarebbe disgustoso”.

Il ragazzino scoccò a Sara un’ultima occhiata sprezzante.

“Strega”

“Sei carino a dirmelo. Grazie!”

Così dicendo spostò il fratello dalla porta, entrò e si chiuse la porta alle spalle.

La finestra del bagno era spalancata. Mentre si sedeva sulla tazza strinse gli occhi, riparandoseli con la mano. La luce del mattino di Ottobre non era particolarmente forte, ma comunque fastidiosa.

Dopo aver finito si sciacquò e si avvicinò al lavandino e al grande specchio.

Armeggiò distratta con la mano alla ricerca del proprio spazzolino da denti e del dentifricio mentre si osservava spassionatamente allo specchio. Il viso rotondo era di un bianco cadaverico su cui spiccavano occhiaie bluastre e un grosso brufolo rosso sulla tempia. I capelli corvini iniziavano ad arricciarsi sulle punte.

Dopo essersi lavata i denti si sciacquò con cura la faccia; si assicurò che lo smalto nero fosse scheggiato a dovere e prese la spazzola. Si pettinò i capelli finché non ricaddero lisci e leggermente unti fino a oltre metà schiena.

Poi venne l’ora del trucco.
Era un rito: un guerriero si metteva l’armatura, Sara si pitturava la faccia.
Si sbiancò il volto con della cipria fino a farlo somigliare a una maschera di gesso e annerì e ingrandì gli occhi con ripetute passate di eyeliner nero. Un velo di rossetto viola intenso e, dopo solo venti minuti, era pronta.

“Sara, datti una mossa! Tra dieci minuti tuo padre parte”, l’ammonì la stessa voce di donna di poco prima, in corridoio.

Aprendo la porta si trovò davanti la madre già in tailleur. E la solita solfa mattutina cominciò.

“Santo cielo, ma perché ti conci così? Non è carnevale! Tu stai andando a scuola, non fuori coi tuoi amici! Io non tollero che…”
Il resto della ramanzina si perse per strada mentre Sara, la schiena rigida e la testa china, superava la madre con stizza e tornava in camera. Ovviamente, la voce si alzò e la seguì.

“… e quest’anno hai la maturità! Se non passi con un voto decente e non ti decidi a studiare ne patirai le conseguenze, non credere! E… ma non hai ancora aperto le finestre?”

“Mamma piantala! Devo vestirmi!”
“Ma almeno apri le imposte, cavolo! C’è una puzza tremenda qui dentro, fai entrare un po’di aria”.
“Questa ‘puzza tremenda’ sono i miei incensi per meditare, e sai benissimo che non tollero la luce del sole, quindi per favore…”
“Sono stufa di queste fisime! Non hai alcun problema col sole, sei solo fissata di essere un vampiro o qualcosa del genere! E la tua camera è un porcile, Sara!”

Sara pestò il piede e si imbronciò ancor di più.

“Tu non mi capisci, non mi hai mai capita! Mi disprezzi perché ho un livello di consapevolezza più acuto del tuo, mi temi per il mio potere! E ti ho detto mille volte che devi chiamarmi…”

“Ma quale potere! E quali nomi strani! Ti chiamo come mi pare, perché io ti ho fatta e io decido della tua vita finché vivi sotto questo tetto! Io…”

Una terza voce, maschile e profonda, interruppe il litigio.
“Sara, io vado tra quattro minuti e trentadue secondi esatti. O ti fai viva o vai coi mezzi pubblici oggi. Tuo fratello è già pronto, quindi vedi di darti una mossa”.

Sara lanciò un’ultima occhiata sprezzante alla madre, che strinse le labbra e le voltò le spalle.

Le ci vollero pochi istanti per vestirsi: la corta gonna nera di tulle, le calze smagliate e la camicia di pizzo nero erano già pronte; si infilò gli anfibi, li allacciò e corse giù dalle scale.

Suo padre, ventiquattr’ore alla mano, era fermo davanti alla porta. Tommaso, al suo fianco, ascoltava musica dagli auricolari con il cappuccio della felpa tirato su.

“Fai colazione in fretta, e non fare storie: bevi il caffelatte e mangia due biscotti, è già tardi”.

“Non toccherò niente che provenga da qualcosa di animato. Lo sai. Piuttosto digiuno”.

“Bene, buon per me. Prima o poi ti passerà anche questa fissazione del vegetarianismo…”
“Vegana, pa’. Sono vegana, è diverso”. Si gettò lo zaino su una spalla e uscì.

La macchina era già aperta e i tre quarti della famiglia vi salirono.

 

Un quarto d’ora più tardi arrivarono a destinazione.

“Buona giornata, ragazzi”, li salutò il padre mentre i due figli scendevano dall’ auto.

Nessuno dei due rispose al saluto. Tommy si affrettò  verso la grande porta a vetri all’ingresso, dove un gruppetto di ragazzi lo salutava con la mano.

Sara si avviò più lentamente, strusciando i tacchi degli anfibi contro l’asfalto.

Tanto nessuno mi sta aspettando…

Mentre si avvicinava all’ingresso passò di fianco alle aiuole verdi che affiancavano il viale d’ingresso. Si spostò sull’erba verde e si inginocchiò in silenzio, sfiorò con la punta delle dita un fiore di dente di leone un po’rattrappito e, con un sorriso vago, mormorò una preghiera.

Un paio di ragazze, passando, la indicarono ridacchiando.

“Quella è la tipa fuori di testa della quinta C, te l’ho detto che era svitata!”

“Sì, sì! Ma hai visto come si concia?”
“È matta come un cavallo!”

Sara strinse i denti e si rialzò, incurante dell’erba che le sporcava le ginocchia.

“Stupide! La mia Dea vi punirà per la vostra cecità! Lei è ovunque, anche in voi, anche se non volete ascoltarla! E lei mi ha chiamata, io ho il potere di parlare coi  suoi figli!”
Così dicendo indicò con un gesto imperioso il dente di leone, appassito e squallido tanto quanto prima.

Le due ragazze la guardarono con gli occhi sgranati e si allontanarono di qualche passo, intimorite; quindi la lasciarono lì in mezzo all’aiuola. Se ne andarono parlottando tra loro e lanciandole occhiate sgomente.

 

Gaia guardò Gesù scuotendo la testa.
“Cioè, ti rendi conto di che razza di mentecatti mi ritrovo? Cecità, immanenza… figli! Io non ho figli! E se anche li avessi non permetterei a una cerebrolesa come quella di parlare con loro!”

Gesù annuì pensieroso e le batté delicatamente sulla spalla.

“Però ammetterai che è divertente. Possiamo andare avanti a guardare ancora per un po’?”

Madre Natura fece una smorfia e si sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, facendo scappare un paio di colibrì.

“Se proprio ci tieni…”

 

L’aula era piena. Di ragazzi e del classico brusio da assenza di professore.

Sara era intenta a scrivere su un diario con una stilografica rosso scuro.

“Che fai?” chiese la sua compagna di banco.

“Nulla. Scrivo poesie”.

La ragazza le rivolse uno sguardo indifferente.

“Ancora?”
“Sempre. È il solo modo per sfogare tutta la potenza che ho nel cuore… mi capisci, Anna? No, vero?”

Anna sorrise.

“Sei bislacca, ma ti voglio bene lo stesso. Dai, fammi leggere…”
“Solo perché sei mia amica. Potrei uccidere per una simile offesa da parte di chiunque altro. Ecco, tieni”.

Nere lacrime di sangue

Cuore infranto di fronte all’eccidio

Un gemito, il nulla

Per nutrire i tuoi nemici

Sporgendo le labbra, le sopracciglia sollevate, Anna riconsegnò il diario alla compagna di banco.

“Carina, eh. Cosa vuol dire?”
Sara guardò sognante fuori dalla finestra.

“Pensavo alla macellazione dei polli, una pratica così orrenda… tu saresti una strega eccellente, sai? Però dovresti smettere di mangiare carne, offusca le tue percezioni!”

Anna si contorse un po’per togliersi la felpa rossa, ridacchiando.

“Guarda, sto bene così, ma ti ringrazio per la proposta… oh, sta arrivando la DeAngelis, la sento parlare in corridoio”.

“Secondo te oggi interroga?”
“Probabile. Non so nulla, ieri avevo l’allenamento di pallavolo e quando sono tornata non avevo proprio voglia di mettermi a fare la versione. Tu invece…?”
“Io mi affido alla lungimiranza della Dea, non permetterà che alla sua serva capiti qualcosa di male”.

Anna si morse la lingua e si gettò a capofitto nella cartella alla improvvisa ricerca di qualcosa di estremamente importante ed estemporaneo. In quel momento il trillo della campanella fece sobbalzare svariati studenti. La porta si richiuse alle spalle dell’alta, segaligna professoressa in giacca di tweed.

“Buongiorno ragazzi”.

Qua e là risuonarono dei vaghi, borbottati “’Giorno prof”.

La professoressa spostò la sedia dietro la cattedra e sistemò la valigetta, estraendone il registro blu.

“Bene. Spero sarete preparati per l’interrogazione di oggi. Ci sono volontari?”

Nella classe rimbombò il silenzio attonito dei bovini da latte.

“Lo sospettavo. Vorrà dire che estrarrò a caso”. Prese un libro e lo aprì a caso.

“Pagina 241… facciamo la somma, esce il numero 7, che nell’elenco corrisponde a…”
Sara abbatté la testa contro lo spigolo del banco e cercò di mimetizzarcisi.

“Sara, puoi venire?”
Rassegnata, la ragazza alzò la testa.

“Prof, almeno lei. Non mi chiami così”.

La professoressa inarcò le sopracciglia dietro gli occhiali dalla montatura di metallo.

“Curioso. Il registro dice esattamente che ti chiami in questo modo”.

“Sì, ma lo sa che preferisco Guinevere Absinthe Sidhe. È il mio vero nome”.

“Direi che Sara possa andare bene, ti va? Su, avvicinati. Mi piacerebbe tanto sapere cosa sai dirmi di Euripide…”

Venti minuti e un cinque e mezzo più tardi Sara tornò al banco.

 

La campanella strillò l’inizio dell’intervallo.

“Anna, è una congiura. Questo non è il mio mondo!”

“Ah”.

“Voglio dire, pensaci. Per gli standard di questo millennio sono troppo pallida e troppo grassa, mentre –chessò- mille anni fa sarei stata la più bella del mondo. Avevano canoni di bellezza più attinenti alla natura, sarei stata l’immagine della Madre che dona la vita, avrei partecipato ai riti per la fertilità nei campi della Britannia e… e sarei stata me stessa!”

Anna, impegnata a mandare rapidi SMS a destra e a manca, bofonchiò un assenso. Sara si sistemò meglio sulla panchina e frugò nella cartella; infilò una sigaretta in un lungo bocchino nero e l’accese.

“Qui essere una strega è socialmente squalificante, nessuno mi capisce e la gente mi teme, hanno tutti paura di ciò che sono e del fatto che posso davvero comunicare col mondo vivente. Io sento il vento che mi parla, percepisco il terrore della mosca nella tela del ragno e la vita che scorre nei petali dei fiori. Le persone comuni”, proseguì infondendo una nota di disprezzo nella parola “non capiscono che il ciclo delle stagioni rappresenta tutti noi e le nostre esistenze e…”

“Già, già…”

“Vedi, anche solo il fatto che nessuno mi chiami col mio nome spirituale mi ferisce. Questo epiteto che mi è stato affibbiato dai miei genitori terreni non mi rappresenta, è come tenere in gabbia una cinciallegra, le piccole ali che frullano contro le sbarre agognando una libertà che non può…”
La campanella suonò di nuovo.
Anna si rientrò in aula senza mai smettere di mandare messaggi col piccolo cellulare; Sara spense la sigaretta e la seguì, sospirando di affranta malinconia.

 

“Vedi? Vedi cosa intendevo? Lo capisci che è una deficiente? A me non interessa della gente, o meglio, non mi interessa più di quanto mi importi dei lemuri o dei camosci. Anzi, questi li preferisco perché non danno fastidio a nessuno, non si mettono a demolire le cose che costruisco, non appestano il pianeta con esalazioni fetide e cemento e schifezze varie!”

“Gaia, io…”
“No, devo sfogarmi! Te ne ho fatta vedere una, ma hai idea di quante ce ne siano in giro per il mondo?”
Gesù alzò una mano e la zittì.

“Alt, alt. Ora, non venire a raccontarlo a me. I miei sono di sicuro di più e più accaniti. L’hai sentita, la tizia? Di Medioevo, parla lei. Medioevo! Non li chiamano “secoli bui” tanto per dire. È lì che i miei –ehm- fedeli hanno cominciato a travisare tutto, dalla prima all’ultima parola”.

Madre Natura si sedette sul bordo del buco tra le nuvole e fece spenzolare giù le gambe.

“Lo vedi il paradosso? Lei non capisce nulla, i tuoi non capiscono nulla… avrebbero bisogno di una bella lezione”.

Gesù scosse la testa.

“Ho chiuso coi miracoli. E, lo so bene, sono sempre stato l’unico autorizzato a farne. Non servirà”.

“Ma pensa un po’: se almeno una persona potesse rendersi conto di cosa è davvero quello che portiamo avanti sarebbe un inizio, una testa di ponte… capisci?”
“E cosa vorresti fare?”

Gaia guardò giù. L’oggetto del loro disquisire stava china sul libro di storia e fissava sognante l’immagine di una scena di vita intorno all’anno mille.

“Ti ricordi… ti ricordi il vecchio detto? ‘Attento a quello che chiedi perché potresti ottenerlo’… Ecco, potremmo concederle quello che desidera. Ora. Subito”.

Lentamente, Gesù voltò la testa.
“Dici sul serio? Non sarebbe dannoso o pericoloso o…”
“O incredibilmente divertente?”

I due si guardarono per un attimo mentre due sorrisi sardonici si aprivano sui loro visi.

“Si può fare!”

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** E possa Dio avere pietà delle nostre anime! ***


Un campanile lontano batté tredici rintocchi.

Sara camminava a testa china sul marciapiede e sapeva che ne avrebbe avuto ancora per almeno dieci minuti, oltre i venti che aveva già macinato. Suo fratello non la aveva aspettata –come al solito, del resto- ed era uscito un’ora prima per una supplenza. Così, di nuovo, si ritrovava a tornare a casa da sola.

I piccoli auricolari, infilati a fondo nelle orecchie, rimbombavano di musica celtica a volumi intollerabili per chiunque non vi fosse più che abituato. Sara non ascoltava musica se non riusciva a farla sentire anche ai passanti.

Una farfalla sbiadita e stanca le passò vicino. Concentrandosi, Sara cercò di comunicare con l’insetto, che finì dritto in bocca a una delle ultime rondini ritardatarie.

Sia fatta la tua volontà, Madre.

Il marciapiede svoltò a sinistra, fiancheggiando una lunga fila di villette con giardini ben curati.

Qualche cane abbaiò al suo passaggio, lanciandosi contro le recinzioni scodinzolando o ringhiando.

In breve Sara raggiunse un incrocio; sull’angolo più vicino campeggiava una  casa intonacata di giallo, con un pino di dimensioni ragguardevoli nel piccolo giardino davanti. Sara raggiunse il cancelletto, spense il lettore mp3 e si frugò in tasca per qualche istante, estraendone un mazzo tintinnante di chiavi agganciato a un piccolo pipistrello di peluche nero. Infilò la chiave più lunga nella toppa e la girò, senza mai alzare gli occhi.

Entrò, si chiuse la porta alle spalle e, ancora voltata verso la porta, allungò il braccio verso sinistra per lasciar cadere le chiavi nella solita, piccola ciotola sulla cassapanca.

Il mazzo di chiavi si schiantò al suolo con un sonoro sferragliare.

Sara trasalì e guardò per terra.

Le chiavi campeggiavano, lucide e scintillanti, contro il marrone fangoso di un pavimento di terra battuta.

Restando immobile la ragazza trasse un lungo, tremulo respiro e quasi soffocò per l’intenso odore di sudore stantio, urina e fumo. Lentamente voltò la testa e la mandibola le calò progressivamente lasciandola con l’espressione stupita del cefalo a primavera.

Davanti ai suoi occhi non c’era il lindo salotto con il televisore a schermo piatto, la Wii, il lettore dvd, il divano rosso e i tappeti. Al loro posto si estendeva una squallida stanza dalle pareti di pietra annerita da anni di fuliggine; era, nel complesso, molto più piccola della stanza che ricordava, e le scale per il piano di sopra erano sparite.

Sulla parete di fronte alla porta faceva mostra di sé un grosso camino incrostato di sporco, la grossa trave di sostegno ormai nera. Il fuoco era acceso ma la cappa, apparentemente, funzionava male.

Appeso all’interno c’era un grosso calderone di peltro grigio scuro, pieno di una sostanza dall’intenso odore di cavolo che sobbolliva lentamente.

Non c’erano mobili, solo un tavolo con rozze sedie di legno e una madia.

E lì, su uno sgabello posto sotto l’unica, piccola finestra priva di vetro, c’era un mucchio di stracci.

Sara si appoggiò con le spalle alla porta, ansimando.

Quella non era casa. Decisamente non era casa.

Si rigirò verso la porta e cercò una maniglia che non c’era. Spinse il battente di legno rovinato e consunto che cigolò in maniera allarmante e si affacciò verso l’esterno.

La luce cruda la investì e la abbagliò per un attimo. Ebbe una fugace visione di una via non lastricata immersa in un paesaggio verde –ben diverso dall’orizzonte di case e palazzi che campeggiavano nella sua via, in fila dietro la lingua d’asfalto nero della strada- quando fu distratta. Prima dal passaggio di un gruppo di tre uomini a cavallo, il cui incedere pesante e affrettato sollevò nuvole di polvere tali da farli quasi sparire alla vista; poi, con suo sommo terrore, dall’abbaiare furioso di un cane nero e macilento. Ebbe giusto il tempo per fare un passo indietro e richiudersi la porta alle spalle, tirando il paletto del chiavistello, prima che il cane infuriato la raggiungesse. I latrati rabbiosi non cessarono, accompagnati dal suono di unghie canine che raspavano contro la porta.

Dove sono finita? Dove cazzo sono finita? si chiese Sara mentre il fiato le usciva a rantoli acuti.

Non aveva sbagliato strada, quella era la solita via che percorreva ogni santo giorno da cinque anni per andare a scuola. Non aveva bevuto o fumato o assunto farmaci… forse la febbre? Si portò la mano alla fronte, ma, a parte uno strato appiccicoso di sudore, era fresca.

Si fece avanti nella stanza, guardandosi attorno senza parole.

Quella decisamente non era casa sua. E nemmeno una casa che conoscesse, o che almeno teoricamente avrebbe potuto conoscere o frequentare. Niente TV, e vabbÈ, ma il pavimento era di fango, e non c’erano lampade o un rubinetto o nient’altro!

L’istinto le suggerì di scappare… ma dove?

Lacrime isteriche iniziarono ad affollarsi contro le sue palpebre. Girò su se stessa per un istante, con lo zaino che le scivolava inesorabile lungo la spalla grassoccia.

“C’è… c’è nessuno?” pigolò. La voce non era più che un sussurro. Roco, per giunta.

Tossicchiò. Non ottenne nessuna risposta.

Prese un lungo respiro e ci riprovò.

“Ehi! C’è qualcuno in casa? Chiunque?”

In quel momento, il mucchio di stracci si mosse.
Sara fece un balzò indietro urlando. Il mucchio di stracci perse un pezzo, rivelando un volto giallastro e rugoso.

La vecchia guardò Sara. Sara guardo la vecchia. Negli occhi di entrambe una certa paura.

E poi, all’unisono, urlarono.

 

“Ehi ehi ehi… aspetta”.

Gesù si riscosse. “Che c’è? Cosa succede?”

“Non può capire!”
“Mi sembra che fin qui ci fossimi già arrivati”.

Madre Natura sbuffò.

“Non hai capito…”
“Nemmeno io? Certo che qui nessuno capisce niente!” ridacchiò Gesù con un sorrisetto.

“Uffa! Smettila! Allora, noi abbiamo scaraventato la scemetta mille anni indietro. E come pensi che possa comunicare?”
“Ma così è più divertente, dai!”
“Invece no, già non capisce una fava di suo, se poi neanche la lasciamo parlare con la gente questa ci muore di fame in quattro e quattr’otto… e io non credo di volerlo”.

Questa volta fu il turno di Gesù di fare un piccolo sbuffo.

“E va bene, che ci vuole? Tanto il dono delle lingue ormai va di moda. To’, tieni”, concluse agitando la mano verso il buco tra le nuvole.

“Ora possiamo tornare a guardare?”
“Ok!”

 

“Strega!” gridò la vecchia.

Sara si strozzò col grido. Ormai piangeva apertamente, ma quel singolo epiteto riuscì a farle recuperare un minimo di autocontrollo.

“Sì, e allora?”

“Tu… tu sei una…”
“Strega, sì. Da quando sono nata. E non me ne vergogno neanche un po’. Problemi?”
“No! Ti prego, non farmi del male!” gemette l’anziana facendosi convulsamente il segno della croce. “Non far inacidire il latte, non rendere sterili le mie vacche, non uccidere i miei figli!”

Sara inarcò un sopracciglio.

“Io non… non sono quel tipo di strega! Io non…”
Ma si interruppe. Che la temessero, dunque! Un senso di orgoglio la pervase, nonostante il naso arrossato e gocciolante per il pianto appena terminato.

“Non trasformerò nessuno in rospo se…”
La vecchia si rannicchiò un po’di più e squittì.

“Ai rospi non avevo pensato! Santa madre di Dio proteggimi tu!”

“Dicevo. Non ti trasformo in rospo se tu mi dici dove sono. Devo… aver commesso un errore con un incantesimo e sono arrivata nel posto sbagliato”.

“Q-questa è Aruna”, e si segnò di nuovo. “Siamo… siamo… insomma, sull’altura c’è il monastero e…”
“Questa non è Arona! Io vivo a Arona e posso garantirti che non è affatto così! Ci sono strade e macchine e lampioni e…”
“Oh per l’amor di San Graziano! Una formula oscura! Che gli angeli ci proteggano tutti!”

La vecchia ormai era talmente appallottolata su se stessa da non essere poi molto diversa da un porcospino pelato.

“Smettila!” strillò Sara, isterica. “Mi dai i nervi! Sa la Dea se ci sto capendo qualcosa…”
Per un attimo regnò un silenzio molto pesante, rotto solo dallo scoppiettare del fuoco, dal borbottare della sbobba di cavolo e dagli ansiti dell’anziana terrorizzata.

Sara guardò brevemente fuori dalla finestra. Le fu sufficiente: intravide il lago. E se quello era il lago… dov’era la stazione? Lì c’era un campo con una folta siepe, ma… no, non poteva essere.

Si affrettò verso la finestra, facendo quasi cadere la vecchia dal suo trespolo, e si aggrappò alla cornice di pietra che la circondava.

Lì doveva esserci la stazione, lo sapeva benissimo. Da casa sua la vedeva… era lontana, ma la vedeva. E il grande parcheggio poco più avanti… era solo un pantano. Fece arretrare lo sguardo. Il libraio. Non c’era, al suo posto una casupola di legno… anzi, neanche proprio al suo posto.

Le venne di nuovo da piangere.

Quella non era casa sua. Non era la sua città.

Lo sarebbe stata… in futuro.

Le tremavano le mani.

Lo zaino le scivolò fino all’incavo del gomito e si schiantò a terra, riversando sul pavimento quaderni, penne e portafogli.

“Che…”
“AAAHHH! Non uccidermi!”
“No, ‘spetta. Che…”
“Non voglio finire all’inferno!”
“Sì, vabbÈ… che…”
“Indietro da me, demonio!”
“Senti, io…”
“AAAAHHHH!”

“BASTA!”

La vecchia tacque.

Sara non si spostò dalla finestra.

“Che… che giorno è?”
“M-m-m…”
“Martedì?”
“Eh?”
“No?
“No. M-Mancano quattro giorni all’equinozio d’autunno”.

Sara fece una smorfia.

“Lo sapevo. Ma che…”
Le si incastrarono le parole in gola. Sospettava drammaticamente di aver capito, o almeno intuito, dove –anzi, quando- fosse finita.

“Che anno è?”

La vecchia si accigliò, e il viso rugoso si accartocciò su se stesso come una vecchia prugna. Sembrava perplessa.

“Come ‘che anno è’?”

“Mi sembra chiaro”.

“È il… bho, non so contare molto bene. Qualcosa come poco dopo l’anno mille, comunque. Mille e qualcosa dopo la nascita di Nostro Signore Gesù Cristo che scaccerà i demoni e le streghe come te e ti manderà negli inferi dove soffrirai e ti pentirai per le tue stregonerie tra le fiamme e le grida dei dannati!”

“Mille e… mille e qualcosa? Intendi Duemila, dico bene?”
“Mah… no, sono abbastanza convinta. Due è così, no?” chiese sollevando due dita artritiche.

“Sì”.

“E allora ho ragione io. Il prete dice che siamo sopravvissuti all’anno Mille, quindi il mondo non finirà ancora per un po’.”

Anno Mille.

Sara si staccò dalla finestra e travolse la vecchia mentre indietreggiava precipitosamente. Le sembrava di non vederci più, di non sentirci, di essere circondata solo da un mondo strano e grigio e deforme.

Abbandonò lo zaino per terra e corse fuori, dimentica del cane ringhioso. Che tutto sommato rimase un po’sconvolto da un grassoccio tifone di tulle nero e viola che correva attraverso il prato secco e la strada polverosa, tanto da limitarsi a un paio di latrati perplessi.

Sara scappò via, a stento consapevole delle svariate paia di occhi che si affacciavano dalle povere case circostanti, incuriosite e spaventate da quell’insolita apparizione. Corse oltre le case e in mezzo ai campi e non si voltò mai indietro.

Se l’avesse fatto, forse si sarebbe accorta che la vecchia si era staccata dal muro e si era messa a tocchicciare i resti dello zaino e del suo contenuto con le molle del camino.

“Cosa sta succedendo?” chiese una voce maschile dalla finestra. “Ti ho sentita urlare”.

“Figliolo”, disse la vecchia senza guardare l’uomo barbuto e col viso segnato dalle intemperie, “c’è una strega in paese. Abbiamo le prove. Vai a parlare con l’abate Felino, sono sicura che vorrà saperlo. E mentre vai chiama il prete, voglio far ribenedire la casa… e possa Dio aver pietà delle nostre anime”.

 

“Stavate parlando di me?” chiese Dio comparendo alle spalle del figlio e di Gaia con il triangolo di sghimbescio sulla testa e un cocktail con ombrellino rosso in mano.

“No, papà”, borbottò Gesù guardando altrove. “Sbronzo?”
“Nah, non ancora. Che fate di bello, ragazzi?”
“Ciao, Dio”, lo salutò Madre Natura. “Guardiamo la Terra così, per sfizio”.
“E succedono cose carine laggiù?” continuò sporgendosi. Sporgendosi un po’troppo, visto che incespicò in una nuvola e finì mezzo affacciato dal buco.

“Papà, cacchio, stai attento! Lo sai che quando fai così compari sulle fette di pane ammuffito! Torna su, dai!” Gesù afferro il Padre per la tunica bianca e lo tirò con vigore finché, con una mano da parte di Gaia, riuscì a riportarlo al suo posto.

“Oooops! Grazie, ragazzi. Siete in gamba. Oh, io torno alla festa. C’è Alì Babà che racconta le barzellette sconce. Venite con me?”
Gesù e Gaia si guardarono per un attimo.

“Tra un minuto, pa’. Grande festa, fighissima, ma vorrei stare un po’lontano dalla ressa”.

Ma Dio si era già allontanato cantando con voce tenorile “Bella Ciao”.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Di prede, predatori e soprattutto dissenteria. ***


Sara non aveva mai visto un bosco del genere.

Certo, lei era ben abituata al contatto con la natura. D’estate, o comunque quando il tempo lo permetteva, svolgeva con disciplina i suoi riti. Soprattutto in occasioni delle grandi festività, durante i solstizi e gli equinozi, era solita sgattaiolare fuori dalla sua stanza, con, nello zaino, un mantello nero, candele e tutto il necessario per i rituali. Offerte per gli spiriti, ghirlande di fiorni, latte, miele, cose così. Poi prendeva la sua vecchia bicicletta e correva il più veloce possibile verso il grande parco poco distante. Attraversava la città, superava la scuola e si inoltrava nella periferia fino a raggiungere le due casupole di legno dei guardaparco. Lì li intravedeva gli specchi calmi dei piccoli laghi. Serviva solo trovare un luogo appartato e tranquillo, inginocchiarsi e accendere le candele. Circondata dai quattro elementi –l’aria del cielo sopra la testa, l’acqua del lago, il fuoco delle candele e la terra su cui poggiava- pregava ed entrava in sintonia con la natura, sentendosi parte di essa. I suoi genitori la prima volta erano impazziti di preoccupazione trovando il letto vuoto, poi ci si erano abituati. Anche se la costringevano sempre a portarsi dietro il cellulare.

Le piacevano, quei boschi: betulle e prati soffici, qualche felce odorosa, il canto di una civetta lontana.

Ma quel bosco era diverso. Era spaventoso. Sebbene fosse giorno pieno le querce erano tanto fitte da chiudersi sopra la sua testa in una volta impenetrabile dalla luce del sole. Il sottobosco era selvatico, irto di rovi e rami morti che si impigliavano nella sua gonna e la strappavano.

Da qualche parte, poco distante, risuonò un ululato. Un altro rispose dal lato.

Lupi. Non posso crederci: ci sono i lupi!

Il canto agghiacciante delle bestie si intonò in un solo, unico gemito. Quasi in risposta, dal fitto della foresta si udì un trapestio incredibilmente forte. Per un istante Sara scorse gli ampi palchi di un paio di corna, che però sparirono subito tra la vegetazione.

Avanzava a fatica. Le bruciavano le gambe, graffiate da centinaia di spine, e aveva il fiatone.

Ma doveva allontanarsi ancora… forse, fuori da quel groviglio di rami e foglie scure, si sarebbe svegliata. Era tutto assurdo, surreale eppure dettagliato come nei sogni, quelli particolarmente sgradevoli. Il problema, si trovò a pensare, era che nei sogni la pelle non sanguinava e non faceva male, quando si lacerava.

Continuò ad avanzare sempre più lentamente, deviando a destra e a manca appena il sottobosco si faceva troppo fitto per attraversarlo.

Da quanto stava correndo in giro per quel bosco maledetto?

Un corvo prese il volo da un ramo lì vicino, passandole a una spanna dalla testa e strappandole uno strillo. Angosciata si portò le mani alla bocca, cercando di attutire i suoni rauchi che ne fuoriscivano.

Sara si costrinse a fermarsi.

Calma. Ora ti calmi. Ti fermi un attimo, respiri a fondo e ti calmi. Era solo un corvo, solo un corvo. Un figlio della Dea, non ti farà alcun male se tu non gliene fai. È solo ciò che è, non ti vuole male, lo hai solo spaventato.

Si appoggiò al tronco umido e viscido di muschio di un albero. Il cuore le batteva così forte che se lo sentiva rimbombare in gola e nelle orecchie. Sentiva in bocca il sapore metallico del sangue e aveva le labbra intorpidite. E sete, tantissima sete.

L’esigenza fisiologica del momento le riportò un attimo di razionalità.

Si guardò intorno. Il bosco era rigoglioso. Sentiva gracidare le rane: doveva esserci dell’acqua, lì vicino: non doveva fare altro che trovarla e berla, e almeno un problema lo avrebbe risolto.

Questa era la parte semplice.

Si mosse cautamente. A qualche decina di metri di distanza sentì distintamente lo starnazzare delle anatre; deviò con decisione verso quella direzione, sentendosi che avrebbe trovato di che dissetarsi.

Almeno in quello, aveva ragione: c’era un laghetto. Un piccolo lago che, in condizioni più calme, avrebbe riconosciuto come uno dei tanti sulle cui rive aveva pregato più di una volta.

La differenza era la boscaglia circostante. Le canne e le tife sulle rive erano più alte di un uomo, spesse e fitte.

Spinta dalla necessità si avvicinò, ignorando il fango che le incollava le suole degli anfibi al terreno.

Qualcosa di molto leggero e molto fastidioso le si appiccicò alla faccia mentre iniziava ad inoltrarsi tra i lunghi steli rigidi. Sbuffando cercò di spostare quei filamenti collosi.

“Ma che pall…”
Il ragno proprietario della tela, offeso a morte nel vedere la sua opera d’arte e d’ingegneria demolita dal passaggio di quel grosso essere goffo, le si infilò in bocca.

Sara urlò e sputò e iniziò ad agitarsi. Si prese a schiaffi la faccia, incurante del male che si faceva al naso a furia di botte; il ragno, perplesso, semplicemente saltò fuori da quel buco umido e caldo e pieno di rumore e tornò alle proprie faccende. Sara non smise di andare nel panico ancora per parecchio.
Con il fiato corto, quasi accecata dai capelli che le spiovevano davanti agli occhi, iniziò a brancolare tra le canne. Una radice sporgente le si avvolse attorno alla punta del piede. Mulinò le braccia per mantenersi in equilibrio, ma si rivelò essere una mossa inutile. In pochi secondi finì per scivolare e schiantarsi a faccia in giù nel fango melmoso della riva.

Ormai aveva già ricominciato a piangere. Versi convulsi, pieni di angoscia, che non riusciva ad articolare e a controllare. Si sentiva il labbro inferiore teso in fuori e verso il brasso in una smorfia da bambinetta disperata, e in quel momento si sentiva esattamente così.

Provò ad alzarsi. La mano sdrucciolò di nuovo quando era ormai quasi in ginocchio e cadde nuovamente.

“Vaffanculo!”

L’urlo riecheggiò nel silenzio quasi sacro del bosco, spaventando due cormorani che se ne andarono gridando.

Sara restò lì, inginocchiata nella palta che odorava di marcio e di fermentato; contò lentamente fino a dieci, aspettò che le lacrime la smettessero di gocciolarle addosso, quindi con movimenti cauti e lenti provo a rimettersi in piedi. Rischiò di cadere un altro paio di volte, e quando alla fine capì che aggrapparsi alle canne era perfettamente inutile riuscì a riacquistare una posizione eretta.

Abbassò desolata lo sguardo. Era quasi uniformemente ricoperta di fanghiglia verdastra, puzzava da morire, le calze erano ridotte a brandelli.

In quel momento, quando era abbastanza ferma da rappresentare una preda appetibile, arrivarono le zanzare.

“No! Anche questo no!”

Il tempo di imprecare un paio di volte e il polpaccio sinistro era già punteggiato da cinque ponfi rossi e pulsanti.

Aggrottando le sopracciglia, Sara uscì dal fitto canneto. Aggirò per qualche centinaio di metri il perimetro del lago e si rese conto che, poco più in là, la riva era più dolce, una sorta di spiaggetta di sassi priva di piante acquatiche. Si avviò a passi decisi e rapidi, grata di avere un terreno solido e stabile sotto i piedi invece dell’infido pantano di poco prima.

Finalmente poté inginocchiarsi sulla riva; l’acqua ferma le restituì la sua immagine riflessa, e Sara fu lì lì per rimettersi a piangere. Aveva il viso pallido, a chiazze rosse per il pianto, graffiato; il trucco nero era sbavato fino al mento, lasciandole lunghe righe scure e spalmate su tutte le guance. Gli occhi erano gonfi e arrossati, i capelli arruffati e pieni di foglie, rametti e terriccio.

Sembrava un cadavere in putrefazione. Forse un po’più zozza, persino di un corpo appena riesumato dalla nuda terra.

Ma era arrivata all’acqua. Immerse gli avambracci, ringraziando il clima ancora mite, si sciacquò alla meglio e bevve lunghe sorsate dalle mani a coppa.

Il primo pensiero fu che quell’acqua faceva schifo. Tanto, tantissimo schifo. Sapeva di fango e alghe e di qualcosa di un po’ più disgustoso, vagamente putrido.

Ma questo primo pensiero fu rapidamente scacciato dalla sensazione piacevole del liquido fresco che le scorreva giù per la gola riarsa. Bevve fino allo sfinimento, riempiendosi la pancia d’acqua come se non ci fosse un domani.

Quando finalmente si rialzò, si rese conto che le ombre erano lentamente strisciate dentro al bosco. Il sole era scomparso dietro le chiome degli alberi e la foresta aveva un aspetto più cupo.

Si sta facendo tardi, pensò Sara con un brivido che era solo per metà di paura. La penombra infatti stava portando con sé un alito fresco, l’aria fredda delle notti d’autunno. Sconsolata, la ragazza si guardò. Non aveva nulla per coprirsi ulteriormente, nessuna coperta per scaldarsi e nessuna idea di dove andare. Pensò per un attimo di mettersi a urlare e implorare aiuto, ma aveva la certezza matematica che nessuno l’avrebbe sentita. E se anche l’avessero sentita, non era poi così convinta di voler essere trovata magari da un rude boscaiolo a digiuno di donne da mesi e incredulo davanti a una così facile preda.

Aveva paura, e tanta, ma tremando si rese conto che l’unica alternativa era quella di rannicchiarsi da qualche parte e aspettare che passasse la notte.

Si allontanò dal lago e dalle relative, sempre più insistenti zanzare. C’era una gran quantità di alberi da scegliere, e alla fin fine per Sara uno valeva l’altro. Si acciambellò tra le radici di una quercia particolarmente grande e cercò di calmarsi.

Era scomodo. Umido. Aveva una radice che le premeva ostinatamente contro la schiena, e girarsi era inutile perché qualche altro legnol’ avrebbe pungolata da qualche altra parte, quindi cercò di rassegnarsi all’inevitabile disagio.

La luce del sole svanì definitivamente dal bosco, lasciandolo avvolto nel grigio e lungo crepuscolo dei giorni attorno all’equinozio d’autunno. Un gufo si svegliò e tubò mesto dai rami alti. L’intero bosco era un risvegliarsi di piccoli suoni striscianti.

Le foglie marce, i cadaveri degli anni precedenti, scricchiolavano, impossibile sapere se per il vento o il passaggio di animali notturni.

Per un momento Sara riuscì a calmarsi, o almeno ci si costrinse. Si rannicchiò contro il tronco, portandosi le ginocchia al petto, e chiuse gli occhi. Respirò lentamente, imponendosi di controllarsi e ascoltando il battito del suo cuore.

Lì non c’era nulla che potesse farle male. Era nel grembo della Madre Dea, e lei sapeva di essere la sua prescelta. Altrimenti perché sarebbe stata discriminata dagli altri, se non per la sua superiore capacità di Vedere e Comprendere? Era nel suo elemento, un mondo ancora vergine, o quasi, lontano dal cemento e dalla smania di conquista dell’uomo.

Poi sentì di nuovo il rumoroso frusciare tra le fronte. Questa volta il cervo maschio le passò davanti di corsa, ansimando. Sara lo vide chiaramente nonostante fosse ormai buio. Era un colosso, oltre due metri con quelle corna spropositate. E stava scappando.

Non ci volle molto perché Sara capisse da cosa stesse scappando. I lupi, molto probabilmente gli stessi che aveva udito ululare qualche ora prima, comparvero quasi dal nulla e si misero alle calcagna del cervo. Un istante e tutti erano di nuovo svaniti nel folto degli alberi.

Sara era impietrita. Erano stati poco più che un lampo di grigio contro il nero del bosco, ma ne aveva contati almeno sei. Grossi e ringhianti.

Laddove il gruppo era scomparso il rumore divenne frenetico, quasi assordante. Il bramito del cervo, dapprima un basso verso gutturale, salì di tonalità andando a somigliare pericolosamente al grido di un uomo morente. I lupi grugnivano e ringhiavano e l’aria si riempì di suoni umidi e laceranti, e, infine, uno schiocco.

Poi, il silenzio.

Il labbro inferiore le tremolava, battendo contro quello superiore. Quel suono acuto e continuativo, poco più del guaito di un cucciolo… sì, era lei che lo produceva.

Doveva spostarsi. Sapeva perfettamente di essere in un posto pericoloso. Il problema è che, per quanto ne sapeva, c’erano svariati chilometri di “posto pericoloso” tutt’attorno. E una quercia valeva l’altra.

Pensa. Pensa. Pensa.

Le tornarono alla memoria tutte le puntate di Superquark che i suoi le facevano sorbire quando era piccola. Si ricordò svariati dettagli delle migrazioni degli gnu nel Serengeti, ma questo era poco utile.
Dovevano esserci dei ricordi più utili da qualche parte!
Strinse ancora di più le spalle e chiuse gli occhi, strizzando le palpebre.

I campi scuola! Li faceva da bambina, li aveva frequentati ogni santa estate per tutte le elementari. Doveva assolutamente accendere un fuoco. Le avevano spiegato tutta quella menata dei due legnetti da sfregare e delle lenti per il sole, ma era tutto umido e ormai era notte.

Ma, se ne ricordò di punto in bianco, lei aveva un accendino!
Senza alzare i magnanimi lombi dal suo incavo scomodo allungò la mano tutt’attorno, raggruppando qualche foglia morta e dei legnetti. Li ammucchiò alla bell’e meglio davanti ai propri piedi, quindi trovò il coraggio di inginocchiarsi. Frugò nella tasca del giubbotto di pelle e reperì l’accendino. Anche al buio riusciva a intravedere il testone bianco di Hello Kitty. Fece ruotare la pietrina, premette il piccolo tasto e una tenue fiammella gialla illuminò poco più di un metro tutt’attorno a lei. Avvicinò la fiamma alle foglie e non successe nulla.

Mai disperarsi: tenne l’accendino in posizione per qualche istante, poi il metallo divenne troppo caldo e si scottò il pollice. Le foglie si erano a malapena accartocciate producendo un odore acre.

Ma ci riprovò. Una volta, due, dieci… alla fine aveva una bolla da ustione sul polpastrello del pollice, era circondata da un puzzo sgradevole e le veniva da piangere. Di nuovo.

Era così stanca, così spaventata da aver male alle gambe. Si tolse la giacca e se la gettò addosso, cercando di coprirsi il più possibile. I lupi, dopo tutto, avevano di che mangiare per quella sera, no? Non sarebbero venuti a tormentare proprio lei!

Le prime stelle fecero l’occhiolino nel cielo blu scuro. Sara appoggiò la testa al tronco e guardò in su. Tra le foglie vide il bagliore di una falce di luna, lucente come non l’aveva mai vista. E il cielo era scuro, tutto scuro, non c’era il bagliore aranciato dell’aeroporto di Malpensa all’orizzonte.

Rabbrividì per il freddo umido del bosco. Ma aveva sonno, così sonno…

Le palpebre le divennero improvvisamente pesanti.
Devo stare sveglia. Potrebbero arrivare i lupi. Io devo… resistere… tenere gli occhi… aperti…

Ma era una resistenza inutile. Chiuse gli occhi e si addormentò di un sonno animalesco, leggero e senza sogni.

La svegliò la sensazione orrenda di qualcosa di gelido, viscido e vivo sulla guancia. Si alzò di scatto, lasciando cadere il giubbotto e urlando. Agitò la mano, si schiaffeggiò e riuscì a spiaccicarsi sulla faccia la piccola lumaca grigia senza guscio che ci stava placidamente pascolando.

Il rumore dell’animale che le si spalmava sulla pelle e la sensazione delle interiore che le si spandevano addosso fu troppo. La colse un conato di vomito che non riuscì a trattenere. Non produsse nulla, non avendo mangiato da… oddea, da quanto?

Come risvegliato a quel pensiero il suo ventre diede in un sordo brontolio.

Ma non era lo stomaco che si lamentava per la fame.

Ruoooaah.

Sara si portò le mani al basso ventre mentre il sangue le defluiva dal viso.

Un secondo borbottio le vibrò contro le mani, accompagnato da una fitta incredibilmente dolorosa.

Fece appena in tempo a sollevarsi la gonna che l’implacabile maledizione di Montezuma le si riversò addosso, rendendo i residui di collant davvero, davvero impresentabili.

L’odore, a questo punto, era ufficialmente insostenibile.

Coperta di sudore gelido, tremante e con dei crampi devastanti Sara si spostò di qualche passo. Fece a malapena in tempo a rendersi conto che il cielo era ancora buio quando una seconda scarica la colse di sorpresa.

E continuò a coglierla per un tempo che le sembrò eterno.

Ormai era sporca, mostruosamente sporca e puzzolente. Si sentiva la febbre, era calda, appiccicosa di sudore gelido che le ricopriva tutto il corpo come una pellicola di bava di lumaca.

Il pensiero della lumaca le sconvolse di nuovo lo stomaco e provò a vomitare; riuscì a buttar fuori solo una boccata di acido e saliva che le bruciarono l’esofago.

Tremando riuscì a rimuovere gli avanzi di collant. Non fu un’operazione semplice: le tremavano le mani e si sentiva malissimo. In più si vergognava come una ladra. Buttò i collant in un cespuglio, e con essi le mutande taglia XL.

Sopra le cime degli alberi cominciò a farsi strada un’ombra grigio pallido. L’alba stava sorgendo.

Con le ginocchia molli, la pelle completamente accapponata da brividi di freddo e ondate di caldo insopportabile, Sara si trascinò fino alla sponda del lago. Si lavò alla meglio, e anche nella luce incerta dell’aurora vide chiazze di sudiciume allontanarsi sul pelo dell’acqua.

E lì capì quale era stato il suo tragico errore. Pur ardendo dalla sete non si avvicinò all’acqua, non ne bevve neanche un sorso: quella lezione, almeno, la aveva imparata al volo.

Si sentiva debolissima. Dopo aver restituito al proprio corpo un minimo di dignità –pur interrotta da altre tre emergenze che aveva risolto praticamente lì, seduta stante- si sedette e attese che la testa smettesse di girarle.

Faceva freddo, davvero freddo, e non era soltanto la febbre che la faceva tremare come una foglia.

Dopo tutte le disavventure del risveglio si trovò a pensare dove fosse capitata e che cosa ci facesse in quel posto.

E poi se ne ricordò.

Quello era l’anno Mille. E lei aveva una diarrea fulminante.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Din Don Dan ***


Le ore successive potevano comodamente essere annoverate tra le più drammatiche della sua breve vita.

Aveva trasformato un’area di superficie non trascurabile in zona inavvicinabile; fortunatamente era riuscita a controllare le coliche evitando così di  insozzare ulteriormente i vestiti, già abbastanza laceri, contusi e sporchi.

Quando, ormai svuotata di ogni sorta di metabolita di cibo appartenente al millennio successivo (il solo pensiero le mozzava il fiato in gola), di liquido dissetante e, auspicabilmente, anche di ogni possibile parassita, riuscì finalmente a restare in posizione eretta per più di cinque minuti e a muovere qualche passo esitante, il sole era già alto, seppur celato dietro il velo sottile di nubi bianche.

Le girava la testa, aveva la vista annebbiata da tanto era debole; la bocca le sembrava foderata di moquette, impastata e impregnata di un sapore davvero pessimo.

Con l’impressione di avere la testa infilata dentro un casco da motociclista particolarmente imbottito si avviò nel bosco, dando le spalle a quel dannato lago che le aveva causato tutto quel malessere. Aveva ancora sete, anzi, ne aveva pure più di prima, ma non osava bere.

Se tutto fosse andato secondo i suoi calcoli approssimativi, continuando in quella direzione sarebbe arrivata al villaggio. Forse. Possibilmente. Era da sperare.

L’unica cosa che poteva fare nel frattempo era mettere con cautela e ostinazione un piede davanti all’altro, aggrappandosi a ogni sostegno che riusciva a raggiungere e non mollare, non mollare mai. Se fosse caduta non si sarebbe rialzata.

No, in realtà le venne in mente che c’era qualcos’altro che poteva fare. Per l’esattezza doveva inventarsi una scusa plausibile per la sua presenza lì.

Ovviamente, pensò, nessuno la conosceva. E in un piccolo centro già questo era complicato, visto che un estraneo poteva sempre rappresentare un qualche tipo di minaccia. A questo bisognava aggiungere poi il suo abbigliamento bizzarro, assolutamente fuori luogo in un periodo come quello che si trovava –inspiegabilmente- a vivere.

Tra l’altro… come era arrivata lì? Aveva attraversato, per caso, un varco spazio temporale? Sapeva, lo aveva letto, che chi è particolarmente sensitivo può percepire l’assottigliarsi del velo della realtà in corrispondenza delle grandi feste del sole (appunto, equinozi e solstizi, le tradizionali feste celebrate dai celti in tempi remoti); era però convinta che tale passaggio potesse avvenire solo in alcune zone speciali, come i cerchi di pietre o i templi delle civiltà precolombiane… insomma, lo sapevano anche i sassi che gli antichi erano molto più esperti e pratici in queste faccende metafisiche. Lei  però era entrata dalla porta di casa, di questo era sicura! Aveva percorso il vialetto della scuola, poi il tratto di strada fino alla curva e da lì aveva persino attraversato il proprio stesso giardino. E poi era entrata in casa. Solo che non era più casa sua, ma la stamberga di una vecchia incartapecorita e tutta strana.

Le palpebre le bruciavano e si sentiva gli occhi pulsare; un mal di testa agghiacciante le premeva contro le tempie. Probabilmente le stava salendo la febbre.

Sara si sforzò di allungare il passo. Avrebbe dovuto raggiungere il villaggio il prima possibile; in questo modo, almeno avrebbe potuto risolvere il primo dei problemi: i vestiti.

Ci mise quella che le sembrò un’eternità; quando finalmente, con i polpacci insanguinati e terra e fango infilati dappertutto, riuscì a intravedere i tetti malconci delle case più vicine il sole non era più allo zenith.
Sara si acquattò tremante dietro un cespuglio; c’erano voci e suoni, troppi per poter osare un movimento. Si accasciò tra i rami dell’arbusto, leccandosi le labbra secche. Tremava. In realtà, se ripensava alle ultime, deliranti ore, le sembrava di non aver fatto altro che piangere e tremare. E star male, pure.

Chiuse gli occhi cercando di controllare il feroce capogiro. Escludendo dalla vista tutti i dettagli irrilevanti riuscì a identificare l’inatteso suono di acqua corrente.

Un torrente! Quella poteva essere la sua salvezza!

Si alzò appoggiando le mani a terra; spine e sassi le graffiarono i palmi, ma ormai non ci faceva neanche più caso. Lentamente, quasi strisciando, seguì quel suono cristallino.

Il luccichio dell’acqua in corsa la sorprese, e fu un bene: la aiutò a notare il gruppo di donne chine sulla riva, intente a chiacchierare a gran voce e a cantare.

Sara si nascose alla meglio e le osservò. Quasi tutte portavano fazzoletti legati sulla testa a celare i capelli; indossavano abiti di colori spenti, marrone e color lana non tinta. E non sembravano particolarmente pulite, anche se osservate da alcune decine di metri.

Guardando meglio, Sara notò che erano impegnate a battere e immergere nell’acqua grosse sagome indistinte. Le ci vollero alcuni minuti, ma alla fine comprese: stavano facendo il bucato!

Bene, questo rendeva l’acqua, da quel lato di fiume, assolutamente imbevibile. O forse no, ma Sara non osava rischiare dopo l’esperienza della notte. D’altro canto, però, se fosse riuscita a rubare dei vestiti…

Si sentiva troppo debole per tentare la mossa; inoltre sarebbe stato poco utile: sarebbe passata per ladra (cosa che, a conti fatti, sarebbe stata se si fosse comportata come si prefiggeva) e avrebbe solo finito con l’aggravare i propri problemi. L’ideale, insomma. Ma aveva bisogno di abiti.

Quasi in misericordiosa risposta alle sue esigenze, qualcosa di bianco fluttuò verso di lei e la superò lentamente. Nessuna delle donne più a monte sembrava essersi accorta della perdita.

Era un’occasione impedibile. Sara si mise a correre inciampando ovunque e facendo, ne era certa, decisamente troppo rumore. Ma era necessario farlo.

Fu fortunata. Il lembo di stoffa bianca si impigliò in un ramo sporgente. Sara si lanciò ad afferrarlo prima che le donne la raggiungessero.

Si infilò sotto braccio il fagotto inzuppato e scappò veloce. Appena in tempo: ridendo e sbuffando alcune donne lasciarono il loro lavoro e seguirono la corrente del fiume per recuperare quanto perso.

Ma Sara era lenta… così lenta… si strinse al petto la stoffa e si acquattò tra l’erba alta, pregando di non essere vista. Non era a più di venti metri dalle lavandaie, che, perplesse, guardavano il corso d’acqua.

“Sarà andato ancora più in giù, andiamo a cercarlo”, le sentì dire.

In fretta si allontanarono. Sara si accorse di aver trattenuto il fiato. Ora che il pericolo più immediato si era allontanato si permise il lusso di aprire il fagotto. Era una specie di sottoveste, bianca, a maniche lunghe, piuttosto accollata. E bagnata come una spugna. Un buon inizio, ma sicuramente non sufficiente.

Ricominciò a risalire il fiumiciattolo, tenendosi a debita distanza dalle donne. Il torrente si inoltrava tra le case, quindi sarebbe stato impossibile bere senza essere vista.

La bocca era riarsa, le bruciava persino la gola da tanta sete aveva. Ma doveva darsi delle priorità.

In paese risuonò il suono di una campana. Attirate da quel richiamo, le donne al fiume raccolsero i loro cesti, attesero le altre che si erano allontanate e se ne andarono verso le case.

Sospirando di sollievo, Sara attese qualche istante e si precipitò al fiume, lanciando attorno occhiate preoccupate. Si inginocchiò sulla riva umida poco oltre il punto in cui venivano lavati i panni e bevve.

L’acqua era gelida ma abbastanza buona: non aveva il sentore paludoso di quella del lago che aveva bevuto la sera precedente. Bevve fino allo sfinimento, tanto che la sua vescica le ricordò la propria esistenza e la spinse ad accucciarsi tra la vegetazione per liberarsi.

E da lì si accorse di un’eventualità meravigliosa. Le donne che aveva visto, ma anche gli uomini –contadini con i loro attrezzi, uomini a cavallo, un omone col grembiule di pelle- stavano sciamando via dal paese, diretti tutti sulla strada di terra battuta al centro del villaggio. La campana continuava a suonare. Sara seguì il suono con lo sguardo e notò la chiesetta posta in alto rispetto alle case.

Stavano andando a messa! Poveri, stolti villici superstiziosi, pensò, schiavi di una religione che li umiliava e puniva i loro stessi istinti! Stolti villici utili, però: le strade erano praticamente deserte.

Le ci vollero alcuni minuti per raccattare tutto il coraggio necessario. Ma alla fine riuscì, pur tremante, ad avvicinarsi alla prima casa visibile. Rimase addossata al muro posteriore per un tempo indefinibile, le orecchie tese, ogni muscolo –debole e sfinito- pronto allo scatto.

La casa puzzava di escrementi anche dall’esterno, ma non era particolarmente diversa dalle altre.
In punta di piedi fece qualche passo e si alzò sulle punte per sbirciare dall’unica finestra presente sul retro. Vuota, grazie alla Dea! E non solo: di fianco era steso un cavo di corda, su cui penzolavano vestiti appena lavati. Erano tanti, tuniche e sopravvesti e persino calze.

Sara si precipitò in avanti, agguantò la veste più brutta che le riuscì di trovare e un fazzoletto bianco e, terrorizzata dalla propria stessa audacia, tornò a nascondersi sul retro. Tremava tanto che i vestiti le caddero di mano dritti in una pozzanghera, infangandosi.

Poco male, pensò: più credibile.

Lo stomaco, in quel momento, riprese a brontolare. Si umettò le labbra, posò a terra i vestiti e si sporse di nuovo dalla finestra. Non si vedeva molto, il sole entrava di sbieco a quell’ora del pomeriggio. Però tanto valeva provare.

Nascose con la punta del piede il fagotto di vestiti tra l’erba e tentò di aggirare l’edificio. Non aveva ancora superato l’angolo che udì il suono di zoccoli sulla strada. In fretta e furia tornò a nascondersi, giusto in tempo per vedere un uomo a cavallo di un magro asinello grigio passare per la strada.

Sara sentiva il respiro uscirle a rantoli soffocati. Le era andata appena bene!

Ok, niente cibo, almeno per ora. Sarebbe stato proprio il caso di cambiarsi, già che era lì. I vestiti andavano dal fradicio pulito al quasi asciutto-sporco, ma non ci fece molto caso. Strizzò la sottoveste bianca e la stese per terra. Un po’di sporco non poteva che aiutarla nel non far riconoscere abiti che aveva, comunque, appena rubato alle legittime proprietarie. Si chinò per recuperare il fagotto dall’erba e si intravide nella pozzanghera. Il trucco ormai era andato via, restava solo l’impressione di occhiaie particolarmente profonde. I capelli erano un vero disastro.

Era necessario darsi una mossa: si tolse giubbotto e maglietta, gettò via la gonna e si rivestì tremando. Non faceva particolarmente freddo, ma era malata e la sensazione della stoffa umida sulla pelle era davvero fastidiosa. L’abito le era stretto in vita e sul seno. Ovviamente c’era poco di cui lamentarsi. Si legò il fazzoletto in testa, sentendosi l’ultima delle massaie sfigate.

Ormai poteva dire di essere a posto. Abbassò lo sguardo e si vide i piedi. Gli anfibi non c’entravano assolutamente nulla con il resto dell’abbigliamento.

Riluttante se li levò. I piedi si erano già rovinati per la camminata: fiacche e vesciche sul tallone e sui lati spiccavano laddove il cuoio aveva sfregato contro la pelle. Le spiaceva abbandonare le scarpe: le adorava, e se usate con le calze erano anche comode.

E così, sporca, scalza e malvestita, si sentiva davvero una mendicante. Forse, si fece presente da sola, però, l’ultima cosa che le rimaneva da fare era proprio quello: mendicare.

Sentendosi meno appariscente si concesse, titubante, di passare non già per i boschi e le fratte ma per la via principale.

Il paese era vuoto. Quasi vuoto, visto che nelle stalle di fianco ad alcune abitazioni dei cavalli macilenti e qualche asino sporco agitavano le code per scacciare nugoli di mosche.

Sara rabbrividì mentre il sole calava. Avrebbe potuto… no, dai, questo le faceva davvero troppo schifo. Ma aveva freddo, e l’istinto di autoconservazione prevalse sull’impulso schizzinoso. Si intrufolò in una delle povere stalle e trovò un mucchio di coperte. Raccolse l’ultima, l’ultima nella pila, evitò i denti gialli di un mulo poco felice dell’intrusione e scappò via.

La coperta era di lana calda, puzzava tremendamente di stalla ed era di un indefinito color marrone grigiastro. Se la avvolse attorno alle spalle e si sentì subito meglio.

In quell’istante, dalla chiesetta cominciarono a defluire i fedeli. Sara sgranò li occhi come un animale braccato. Stavano tornando!

Si infilò nello stretto vicolo tra due casupole e si tirò la coperta puzzolente fin sulla testa.

Non si sentiva assolutamente pronta a farsi vedere da quella gente. E doveva anche inventarsi una storia plausibile!

Nessuno sembrò notarla mentre le passava di fianco ad alcuni metri di distanza.

Una storia. Devo pensare a un motivo per cui sono qui, senza un soldo, vestita da barbona, affamata e malconcia.

Era una donna e viaggiava da sola. Questo le fece ricordare vagamente una vecchia lezione di storia… come aveva detto la prof? Che il ruolo della donna nel corso dei secoli era cambiato, che ora si poteva votare ma prima no, che la donna in passato era considerata solo moglie e mamma e...

E una donna in giro da sola sarebbe stata malvista! Chissà cosa potevano farle!

Bene, si disse: se in quell’epoca una donna non era giustificata ad andare in giro da sola, tanto valeva approfittarne. I briganti le sembrarono subito un’idea adeguata. Lei era in viaggio coi genitori, che erano… erano… che razza di mestiere faceva la gente, in quel periodo? I mercanti esistevano? Eh, avrebbero fatto i mercanti, doveva andare bene. E i briganti li avevano attaccati e uccisi e lei era scappata come una matta. Qualcuno, diamine, si sarebbe impietosito e le avrebbe dato da mangiare e da dormire!

Il villaggio era deserto, almeno per il momento. Sara fece un paio di rapidi calcoli, neanche particolarmente complicati: sì, era domenica. Ecco spiegata l’affluenza della popolazione alla messa.

Si prese qualche istante. La strada vuota si dipanava tra casette tutte uguali, o almeno così a lei sembrava, bassi edifici di pietra sporca di terra coperti da un tetto di quello che sembrava legno. Tra le travi, qua e là, sbucavano ciuffi di erba rinsecchita. I polli razzolavano nelle piccole aie delimitate da palizzate un po’sbilenche. Il loro chiocciare e il becchettio sul terreno sembravano essere onnipresenti, interrotti di quando in quando solo dal ragliare di un asino o dall’offeso belato di qualche capretta al momento non visibile.

Le case sembravano pulcini raggruppati attorno alla chioccia rappresentata dalle spesse mura alte decine di metri che cingevano la collina. Lassù, in cima, Sara riusciva a scorgere un edificio massiccio e sgraziato, pietra grigia e spigoli squadrati. Dei vessilli rossi sventolavano nel cielo grigio pallido dell’autunno.

Si avvicinò alla chiesa, più incuriosita che altro. Non ci sarebbe entrata, non lo faceva da anni… da quando aveva visto la luce, in sostanza, abbandonando una fede che non le apparteneva, seguita per abitudine e per coercizione da parte della famiglia, per seguire invece la vera Verità, la sua Dea, il ciclo delle stagioni e la dolce madre terra.
Era una costruzione piccola, goffa,  con la base larga e piccoli contrafforti a reggere i muri spessi e poco eleganti. Un accenno di campanile si innalzava per pochi metri dalla navata, in corrispondenza dell’abside, e all’interno di un foro a forma di semicerchio allungato faceva mostra di sé una campana di metallo brunito, ormai di colore quasi verde-azzurro.

Iniziava ad avere freddo ai piedi. Un  crampo alla pancia le ricordò ciò che aveva dovuto affrontare non più di poche ore prima. La sottoveste era ancora tremendamente umida e si stava facendo sgradevolmente fredda, incollata alla pelle. Passò lentamente, mantenendosi ad alcuni metri di distanza, davanti alla porta d’ingresso della chiesa. Solo in quel momento si accorse che dietro l’edificio si estendeva una lunga cerchia di mura basse e coperte di edera, con, all’interno –questo riusciva a vederlo distintamente- una specie di capannone, di dormitorio con tante finestrelle molto piccole. Non vide nessuno a quelle finestre e non si preoccupò più di tanto della loro natura.
Mentre ripercorreva lo stesso tragitto avanti e indietro, quasi attendendo che qualcuno uscisse da messa, guardò dentro la chiesa. Decine e decine di persone –così, a occhio e croce quasi un centinaio- erano in piedi, a testa doverosamente china, ascoltando le voci armonizzate di un coro di persone che non riusciva a vedere.

Sull’altare ardevano tante candele che circonfondevano di luce dorata una figura vestita di nero  e gettando sulla testa calva di suddetta persona bagliori lucenti.

Sara sbuffò dal naso, stringendo le labbra con disprezzo.

Poveri idioti, non avete capito nulla. Siete voi, voi i bigotti ignoranti che hanno cercato di bandire la mia Signora da questa terra! Voi, con le vostre preghiere e i chierichetti e i riti che avete rubato alla vera religione… è un miracolo che la Dea non si risenta con voi e non inaridisca i vostri campi e le vostre mogli! Blasfemi incapaci di Vedere, per voi non provo altro che pietà!

Il canto smise lentamente, perdendosi in un mormorio non esattamente sincrono.
L’uomo all’altare, evidentemente il prete, declamò qualcosa alla platea, che, questo Sara lo capì, rispose in coro con un “Amen” pieno di borbottii e colpi di tosse grassa.

E poi Sara sentì rumore di piedi che camminavano, abiti che strusciavano e panche che venivano mosse sul pavimento.

La messa era finita, e lei doveva assolutamente spostarsi! Si guardò in giro in preda al panico e fece per andarsene, quando un nuovo crampo le strinse le viscere in una morsa incandescente. Sentì distintamente il sangue defluirle dal viso e la pelle diventare bianchiccia e sudata, si strinse le braccia al ventre e si accasciò a terra, proprio di fianco al portone. Proprio nel momento in cui una fiumana di gente iniziava ad abbandonare la chiesa.

Sara, pur piegata in due dal dolore (e pregando ardentemente di riuscire a trattenere le budella al loro posto invece che sparpagliarle in giro come le era già capitato di fare) alzò gli occhi verso la gente.

Erano tutti vestiti poveramente, con gli stessi colori smorti che indossava lei –solo che tendenzialmente, e soprattutto gli uomini, erano molto meno puliti. C’erano donne col fisico cascante e stuoli di bambini di varie età e a vari livelli di sudiciume e moccio al naso, uomini con i cappelli in mano e le unghie sporche di fango, e persino –cosa che la spaventò non poco- quattro energumeni con strane armature che sembravano fatte di anelli metallici e farsetti rossi al di sopra. In mezzo a loro riuscì a malapena a intravedere una donna con i capelli coperti da un velo bianco e con un abito verde scuro al braccio di un signore di mezza età con la barba grigia ben curata.

Qualcuno le lanciò uno sguardo distratto e passò oltre, sospinto dalla massa delle altre persone dietro di loro. Dopo qualche momento la folla si dissipò e gli ultimi fedeli, in coda dietro la massa di gente, le sfilarono davanti più lentamente.

Sara si contorse leggermente, la testa che le girava leggermente, appoggiò una mano al muro e fece per alzarsi quando qualcuno le toccò la spalla.

“E tu chi sei?”

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Fame e cagnotti ***


Sara alzò lo sguardo, atterrita, e vide anche troppo da vicino un naso arrossato e coperto di venuzze in mezzo a una faccia piena di peli. Gli occhi erano acquosi sotto sopracciglia folte. E l’odore era davvero poco tollerabile: il fiato sapeva di cipolle e di stantio come se fosse una cantina chiusa da sempre. Insieme all’afrore dell’alito le arrivò quello della pelle, sudore vecchio e panni non lavati.

“I-io…”
“Stai mendicando, eh? Lo sai che ai signori non piace?”

In quel momento un’ombra scura passò alle spalle dell’uomo.

“Suvvia, Clodio, caro fratello. Non ricordi le parole di Nostro Signore? ‘Beati i poveri perché...’”
Sara si addossò al muro e cercò di vedere chi avesse parlato. Lo aveva visto sull’altare ma ora lo distingueva più da vicino. La testa presentava un anello di capelli grigio topo attorno a una chiazza rasata e lucida. Nel viso grassoccio e pallido, gli occhi erano gentili e un po’ bovini, le labbra grasse e pendule.

L’altro uomo sbuffò.

“Mph. Sì, padre Felino. Io… ecco… andrei…”

Il frate sorrise.

“E la pace sia con te, figliolo. Su, tua moglie ti sta aspettando”.

Clodio si infilò le mani in tasca e, ingobbito, si allontanò strusciando i piedi sul selciato davanti alla chiesa.

Sara rimase lì, gli occhi sgranati, mentre i dolori si attenuavano lentamente.

“Come ti chiami, figliola?” le chiese il frate, congiungendo le mani dentro le ampie maniche della tunica nera. Anche lui aveva un odore penetrante e sporco.

“Io… G-Guinevere. Mi chiamo Guinevere. Guinevere Absinthe Sidhe”.

Fra’ Felino inarcò le sopracciglia.
“Un nome insolito. Non sei di queste parti, vero? Non credo di averti mai vista alla funzione…”
Sara raddrizzò le spalle e finalmente riuscì ad alzarsi, sentendosi più padrona di sé.

“Io non seguo questo genere di buffonate! Seguo la vera fede, quella nella nostra unica, grande Madre!”
“Ah, mi fa piacere sentirti professare una simile devozione a Nostra Signora. Le preghiere a Lei sono sempre ascoltate, poiché è Madre di tutti noi”.

“No, forse non mi sono s-spiegata”. Un violento capogiro la costrinse a chiudere gli occhi e a riappoggiarsi al muro da cui era appena riuscita a staccarsi.

“Devi aver avuto sfortuna”, osservò il frate. “Sei stata derubata?”
“Io… io… ecco… potrei anche dire che… insomma…”

Le si riempirono gli occhi di lacrime. Stupida! Che stupida era stata a non prepararsi una scusa plausibile, a non impararsi un discorso da fare a chi l’avesse interrogata. Ma il buon frate fraintese la sua confusione.

“Ah, non temere, non è necessario che me ne parli qui. Puoi andare alla foresteria del monastero, ti daranno da mangiare e potrai riposare. E poi, se lo vorrai, ascolterò la tua confessione”.

Sara si accigliò.

“Confessione?”
“Certamente: se sei stata violata da qualche malfattore ti darò la mia assoluzione senza indugio, e il Signore non sarà più in collera con te”.

“Quindi tu credi che se una donna viene violentata il… il peccato sia suo?”
“Ovvio! Le caste vergini di Roma preferirono morire piuttosto che sacrificare la propria virtù, e così dovrebbe fare ogni buona donna devota. Ma ora coraggio, vai a farti dare qualcosa da mangiare”, concluse. Stese il braccio destro e indicò l’edificio alle spalle della chiesa. Sara si incamminò in quella direzione, al fianco di Fra’ Felino. Si sentiva ribollire di rabbia e frustrazione davanti a tanta ottusa cecità, ma si sforzò di tenere la bocca chiusa fino a che non avesse potuto usarla per ingurgitare del cibo.

Dopo pochi passi giunsero a un portone alto due volte lei, di legno scurito da anni di intemperie. Con uno scatto rasposo su uno dei battenti si aprì uno spioncino orizzontale.

“Oh, abate, che la pace sia con voi”, disse una voce, appartenente a un uomo con occhi scuri e infossati.

“E con il tuo spirito, caro fratello”.

Un rumore sferragliante annunciò la rimozione di un pesante chiavistello e la porta si aprì. L’uomo dietro allo spioncino –un altro frate, con il saio nero e un cappuccio calato su una testa rasata e un viso pallido e vizzo- si fece il segno della croce e fece passare Felino e Sara.

La ragazza continuò a seguire il frate in maniera stolida come una pecora, guardandosi blandamente attorno. Passarono sotto un basso architrave di legno ed entrarono in quello che –Sara se lo ricordava, sua mamma glielo diceva sempre durante quei noiosissimi, lunghissimi viaggi in giro per chiese e abbazie in Francia- era evidentemente un chiostro. Piccolo, angusto, piuttosto buio. Il prato al centro era mal tenuto e pieno di chiazze di terra nuda. Qualche pollo dalle zampe lunghe e tutto spennachiato razzolava in giro, poco convinto.

L’abate svoltò a destra e mise la mano su una maniglia.

“Ehm… figliola, non puoi seguirmi, quest’ ala è riservata ai confratelli”.

“Eh, e allora?”
“E allora le donne non sono ammesse ovviamente!” esclamò allargando le narici inorridito.

“Perché?”
“Ma come perché? Che domande fai? Perché siete tentatrici e infide e portate con voi il peccato originale trasmessovi da vostra madre Eva, mentre l’uomo discende direttamente da Dio Padre! Su, vai alla foresteria. È lì”, e indicò una porta nell’angolo in fondo a sinistra.

“Io non sono infida! Questo è puro e semplice sessismo immotivato!”
L’abate la guardò con aria vacua, abbassò la maniglia e sparì oltre la porta.

Sara fece spallucce. L’erba ispida le dava fastidio alle piante dei piedi nudi. La porta che le era stata indicata era aperta e dall’interno proveniva un sommesso chiacchiericcio.

Esitò qualche istante ferma sulla soglia. All’interno era piuttosto buio, soprattutto perché ormai anche il cielo andava scurendosi in un tramonto sempre più uggioso. La sala aveva il soffitto basso e lungo il pavimento vide correre un ratto marrone scuro. Si tese e sollevò l’orlo della gonna indietreggiando.

“Allora, tu sulla porta, entri o rimani lì a guardare la porta?” berciò una voce sgarbata dall’interno.

Sara appoggiò un piede all’interno. Anche il pavimento era di terra battuta, ma decisamente più freddo di quello all’esterno. Deglutì quasi a vuoto, terrorizzata all’idea di dover condividere il pasto con altri ratti.

Oltre la porta il soffitto era basso, quasi invisibile nella penombra (e l’immancabile fuliggine sicuramente non aiutava nell’opera). La sala, lunga una ventina di metri, ospitava tre lunghi tavoli disposti longitudinalmente rispetto al muro principale; ai due lati dei tavoli le panche erano occupate da poche persone. Sara si addentrò nella stanza; la voce che aveva sentito proveniva dalla persona in piedi dietro al tavolo perpendicolare a quelli più lunghi.  Un altro frate, basso e secco tranne che per una pancia flaccida che cascava sopra alla corda del saio, nascondendola alla vista.

“Eccoti qui. Trovati un posto e poi vieni qui a prendere un po’di brodaglia”. La voce era annoiata e acida, come di chi detesti fare il lavoro che sta facendo.

Sara si girò. Le panche erano semivuote, ma le persone che le occupavano rendevano la cosa solo un vantaggio: i poveri, si disse, in quell’ epoca erano persino peggio che nel terzo millennio. Puzzavano pure più di tutte le altre già maleodoranti persone che aveva incontrato in quei due giorni interminabili, ma erano anche vestiti di nulla più che stracci, bende zozze arrotolate attorno a mani scarne e piedi incrostati di sangue rappreso.

Ma non era quella la cosa peggiore. Ormai si era quasi rassegnata (non propri abituata, mai) al livello pessimo di igiene in cui era capitata. Ma gli sguardi… no, quelli non riusciva a tollerarli.

C’era una donna. Era magra come se fosse stata fatta di legno e paglia. E non poteva essere vecchia, a giudicare dai capelli ancora scuri che sfuggivano dal fazzoletto consunto e sporco che aveva legato in testa. Ma gli occhi erano infossati in un viso smagrito e segnato da rughe profonde, la pelle giallastra, le labbra esangui, lo sguardo vuoto e perso nel nulla. Sembrava non essere interessata al piatto di cibo fumante (ancorché non particolarmente appetitoso) o tanto meno al fagotto che stringeva al petto. Per un attimo Sara fu certa che fossero solo vestiti: era qualcosa di troppo informe e inerte per essere altro. Forse era così povera da temere che quei pochi stracci fossero i suoi soli averi e che fosse necessario proteggerli, mica che eventuali altri straccioni lì vicino potessero pensare di portarglieli via. Poi si accorse di qualcosa che un vestito non avrebbe mai potuto o dovuto avere.
Un piede. Piccolo, scarno e grigiastro. Penzolava molle come se fosse stato fatto di gomma. Sara trattenne un singulto. Quel piccolo arto  era immobile.

Prese mentalmente nota di non sedersi neanche per sbaglio lì vicino. Si accorse che un’intera panca contro la parete opposta all’ingresso era vuota, priva degli sguardi truci e disperati delle persone scarne che cercavano la carità.

Prima di sedersi però pensò fosse il caso di procurarsi da mangiare. Si avvicinò al frate con la pancia pendula e si fermò a qualche passo, incrociando le mani dietro la schiena e grattando il pavimento sudicio con la punta del piede.

“Salve. Io… io vorrei…”
“Lo so cosa vuoi. Vuoi riempirti la pancia, come tutti i disgraziati qui dentro”, rispose il frate sgarbatamente. Prese una ciotola di terracotta che, Sara se ne accorse, era decisamente unta: la superficie era liscia e un po’ troppo lucida. E puzzava di grasso rancido. Sollevò poi una mestolata di un qualcosa di marrone e liquido e la versò senza troppi complimenti nella ciotola.

“Ecco, tieni, e che Dio ti benedica”, bofonchiò molto poco incoraggiante.

Sara prese la ciotola e la squadrò con sospetto. Il contenuto era una sorta di brodo marrone chiaro con grossi occhi di unto che galleggiavano in superficie insieme a pezzi di carne dall’aspetto filaccioso. Una piccola zampa con cinque dita e minuscoli artigli fece capolino dalla superficie.

Represse un conato, questa volta non dovuto al malessere di prima.

“Io… no, ecco. Non… non mangio c-carne…”

Il frate, che si era girato, la guardò di sbieco.

“Che, hai fatto un voto? Bah, sei proprio una sciocca, ma rispetto la tua scelta. To’, e buon appetito”, e nel dir ciò le schiaffò in mano una fetta di pane duro come cemento. Sara lo annusò: sapeva di umido e vagamente di muffa. Che, effettivamente, punteggiava qua e là la crosta bruna.

“Potrei avere anche qualche cosa da bere, per favore?”
“In cortile c’è un lavatoio, l’acqua è abbastanza buona. Confido che tu possa arrangiarti, o no?”
Così dicendo le voltò le spalle e prese a ignorarla.

Sara, col tozzo di pane raffermo stretto al petto, si sedette sull’angolo più lontano della panchina.

Quel pane aveva un aspetto orrendo ma si decise a dargli un morso. Sapeva di muffa, in effetti, e quasi lasciò gli incisivi in quella che un tempo era mollica ma che ora somigliava più a una mattonella di granito. Però era quasi mangiabile, così si tappò il naso e ne prese qualche altro morso.

Mentre mangiava guardò meglio la foresteria. Poiché la porta era collocata nella parte anteriore della parete che racchiudeva la sala, non si era accorta di tutta quella parte in ombra oltre i tavoli e le panche.

C’erano dei pagliericci e della gente distesa sopra. Li sentiva tossire e gemere e non osò pensare che tipo di malattie potessero avere quelle persone.

Sara fece rapidamente mente locale: sono vaccinata contro il tetano, l’epatite e credo qualcos’ altro. Speriamo di non ammalarci!

Tra i malati c’era gente che camminava. Avevano la testa coperta da un velo, ma non indossavano gli abiti neri che Sara era abituata ad abbinare alle suore. Soprattutto perché se quello era un convento di frati non sarebbe stato probabile trovarci delle suore. Donne, per giunta.

“Oh”.

Sara trasalì e quasi saltò su dalla panca su cui sedeva. Si voltò di scatto alla propria sinistra e vide che le si era seduto vicino un vecchio. Una zazzera incollata dallo sporco di capelli grigi sgusciava fuori da un cappuccio tutto rosicchiato. Dai topi, a giudicare dallo squittio che regnava vicino alle “brande” di paglia dei malati.

“S-sì?”
“Non lo finisci?” chiese il vecchio indicando la mezza fetta di pane che Sara stringeva ancora tra le dita. La ragazza abbassò lo sguardo e notò un cagnotto bianco e grassoccio sbucare da un foro nella mollica.

“No”, sussurrò mentre un conato di vomito le stringeva la bocca dello stomaco.

“Ti scoccia se lo finisco io allora?”
“Tieni, tieni”, rispose in tutta fretta tendendogli il pane.

L’uomo allungò una mano con le dita incrostate di sudiciume, le unghie lunghe e spesse e piene di terra. Sorrise, e in mezzo alla barba arruffata e tutta tarlata sbucarono pochi denti gialli e orlati di residui marroncini. Ghermì il pane e se lo infilò in bocca senza aggiungere una parola, riempiendosi la barba di briciole. Quindi si leccò la punta dell’indice e le raccolse una ad una.

Sara distolse lo sguardo e tornò a fissare le donne. Non aveva decisamente più fame.

Erano in due, piuttosto ben tenute rispetto agli altri poveracci.

“Chi sono quelle?” chiese al suo  vicino di panca senza guardarlo, non distogliendo lo sguardo dalle due figure che si aggiravano tra i pagliericci e che porgevano acqua e qualche parola di conforto.

“Chi, quelle lì?” le chiese il vecchio indicandole con la testa. “Ah, gente ricca, quelle due sono mogli di mercanti o qualcosa del genere, comunque vivono su nel borgo e vogliono aiutare le loro anime ad andare a finire in paradiso quando le loro ossa marciranno sotto terra”.

“Ah, ok”.

“Eh?”
Sara lo guardò brevemente.

“Ho detto ok”.

“E che vuol dire?”
Sara sollevò le sopracciglia.

“Ma sei sordo?”
“No! Ci sento benissimo, solo non so cosa sia ‘ochei’”.

“Ah… ecco… volevo dire che ho capito, grazie”.

“Ma lo sai che sei carina?”

“Mhm”.

“Bella in carne… e hai tutti i denti!”

E così dicendo allungò la mano lercia e le palpeggiò un seno.

Sara strillò e si alzò di scatto. Quasi tutte le teste nella stanza si voltarono verso di lei, tranne quella della donna che stringeva il bambino presumibilmente morto.

Con un gesto rapido e non preventivato Sara tirò uno spintone al vecchio, facendolo cadere dalla panchina.

“Non mi toccare, brutto porco! Tieni giù le tue manacce!”

Il vecchio la guardò sconvolto, quindi si rialzò appoggiando le mani e gemendo e si allontanò, accomodandosi su una panca più distante, vicino ad altri due uomini.

Sara si rese conto di avere le guance in fiamme e il respiro affannoso.

“Figliola, ti sei spaventata?” chiese una voce femminile.

Sara si voltò. Era una delle due donne, alta qualche centimetro meno di lei e con i seni cascanti nella scollatura castigata della veste grigio chiaro.

“S-sì… io… non sono abituata a… a…”

“Vuoi bere un sorso d’acqua per riprenderti?”
Sara guardò fuori dalla porta e rabbrividì. L’idea di uscire da sola, ora che era buio, la terrorizzava. La donna sembrò capirlo.

“Ti posso accompagnare, qui ormai ho finito”.

“Grazie”, rispose investita dalla gratitudine.

Si affrettò verso la porta, la sconosciuta alle calcagna, grata di poter abbandonare quel luogo di miseria e l’odore stantio dell’ambiente chiuso.

Effettivamente il frate antipatico aveva detto il vero. Di fianco alla foresteria, contro il muro, c’era una vasca di sasso con un piccolo rivoletto d’acqua che andava a riempirla. L’acqua era gelida ma non aveva sapori strani, quindi Sara bevve dalle mani a coppa fino ad essere soddisfatta. Si pulì il viso col dorso della mano e si sedette sul bordo della vasca.

“Grazie”, ripeté. “Sei stata gentile”.

La donne sorrise. Le mancavano un incisivo inferiore e due denti nell’arcata superiore, e sorridendo mise bene in vista gli spazi vuoti.

“Sono Leonetta, la moglie del siniscalco. Io e mia sorella, che non ha marito, veniamo spesso ad aiutare la povera gente qui al monastero. I frati ci sopportano perché credo abbiano bisogno di noi”.

Sara chinò il capo e annuì.

“Tu però non sei una poveraccia, vero?”

La ragazza sollevò la testa e sbatté le palpebre.

“Da cosa lo hai capito?”
“Non sei pelle e ossa, E poi ho visto come hai reagito al vecchio Malachia. Chi vive in strada è abituato a queste cose, ma tu no. Che ti è successo?”

Sara esitò. Deglutì e si guardò le mani giunte in grembo.

“Io… io…”
Il suo cervello cominciò a lavorare a grande velocità, imbastendo una storia a casaccio.

“La mia… la mia famiglia era in viaggio. Non ricordo dove stavamo andando, ma dovevamo fare tappa qui. I miei genitori sono…”

Cazzo mi serve un mestiere adeguato a quest’epoca!
“… sono… mercanti. Vendono stoffe. O forse, a questo punto, vendevano…”
La donna le si sedette di fianco e le posò una mano sul braccio.

“Oh, povera cara. Siete stati aggrediti?”
“Sì. Dei briganti, a un giorno di cammino da qui. Non so che fine abbiano fatto fare alla mia famiglia, ma sospetto siano morti. Mio padre ha cercato di combattere, di reagire, eppure non… non…”
Le venne da piangere e non fermò l’istinto. Si prese il viso tra le mani e si lasciò andare a singhiozzi disperati.

Per qualche istante regnò un doloroso silenzio. La donna sospirò.

“È strano, il conte dice sempre che le strade qui sono sicure, e non ci sono giunte notizie di attacchi… fino ad adesso, almeno. È per questo che sei scalza e…”
“Sì, sì, sono fuggita nel bosco e ho perso le scarpe, ma non ho osato tornare indietro a cercarle!”

“Povero tesoro, che storia tragica! Ma non hai un marito che ti possa proteggere?”
Sara tirò su col naso ed emise un risolino umido.

“Un marito? Alla mia età? Ah! Ma ho solo diciotto anni!”

Leonetta si accigliò.

“’Solo’? Io quando mi sono sposata ne avevo tredici, e ora ho solo due anni più di te. I miei figli hanno sei e quattro anni. Ma forse non ti sei sposata perché vuoi una dote troppo alta?”
Sara si sentì avvampare. Quello era un passo falso.

“Io… è solo che… non ho ancora trovato nessuno che… che…”
“Tu? Ma tuo padre non ha contattato nessuno che… oh, scusami, sono stata indelicata, ti chiedo perdono. Forse ti mantieni casta per prendere il velo, un giorno?”

“No, non credo. Ma ora non ho comunque modo di sposarmi, sono in miseria!”

Si mise le mani tra i capelli, sospirò e si accasciò in avanti, appoggiando i gomiti sulle ginocchia.

Leonetta la fissò a lungo.

“Cosa sai fare?”

“Eh?”

“Sai tessere e filare, immagino, no?”
“Ecco… no, non proprio, mio padre non voleva che… insomma, che lavorassi. O qualcosa del genere”.

Leonetta scosse la testa con disapprovazione.
“Ah, questa è una sciocchezza. Ogni donna per bene deve saper tessere e filare! Ma sai fare qualcosa, no?”

“Oh sì, un sacco di cose! So leggere e contare e…”
“Cosa? Tu sai leggere e far di conto? E come mai?”
“Be’, diciamo che aiutavo nell’impresa di famiglia, ecco. Aiutavo… mh… mia mamma a tenere in ordine i conti del negozio, ecco. Sì”.

“Questo non è adeguato per una donna, almeno secondo me. Comunque è decisamente insolito. E poi?”
“Poi… bho, immagino di saper cantare e di saper truccare ed acconciare i capelli, diciamo. Mi capitava spesso di farlo per le sorelle di mia madre o per lei stessa”.

Un groppo le serrò la gola. I suoi trucchi, la spazzola, la piastra per i capelli… le mancavano, se ne rendeva conto solo ora. E le mancavano persino i suoi genitori, coi loro difetti… Ora che ne parlava come se fossero morti capì che era davvero così. Anzi, peggio ancora: non erano mai nati!

Un dolore sordo le colpì lo stomaco. Si strinse le braccia al ventre e pianse disperata. Persino Tommy, quell’ inutile piccolo moccioso coperto di brufoli, le mancava!

“Su, su, piccola cara… coraggio, la vita va avanti”, disse Leonetta. Le mise un braccio attorno alle spalle e le diede dei colpetti incoraggianti. Sara si rese conto che, seppur vestita con abiti puliti e intrisa di profumo, anche quella donna era sporca. Sentiva la puzza di sudore. Alzò lo sguardo e la osservò con cura. Non poteva avere solo vent’ anni! I capelli, la cui attaccatura sbucava da sotto il velo, erano abbondantemente striati di grigio, c’erano rughe agli angoli degli occhi e del naso. Non era decisamente una bellezza.

“Cosa farò ora? Dove andrò? Non mi è rimasto nulla al mondo!”

“Su su”, ripeté. “Hai dove dormire, questa sera?”
Sara scosse il capo.

“Chiederò alla contessa di ospitarti. È molto buona, e non rifiuta mai alloggio a chi ne ha bisogno. Soprattutto se ti presenterò io… oh, ma io ancora non so il tuo nome!”
“Guinevere Absinthe Sidhe”, mormorò Sara tirando su col naso.

“Gu-Guinevere? Che razza di nome è?”
“È… mio padre lo ha sentito mentre viaggiava nelle terre d’oltremare, oltre la… ehm… le terre dei Franchi, credo. E gli è piaciuto molto”.

“E che santa porta questo nome?”
“Oh sono certa che lassù, in Britannia, ci sia una santa del genere. Me ne parlò mio padre quando ero bambina”.

“Bene allora, saluterò la consorella e ti accompagno. Tu aspettami qui”.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=640008