True Love

di baka_tenshi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Is it a goodbye? ***
Capitolo 2: *** Going mad for love ***



Capitolo 1
*** Is it a goodbye? ***


introduzione: Tokyo, giorni nostri. Le vicende trattano di due ragazzi, Hazuki Miouji e Makoto Megumi. Hazuki, vent'enne, ha abbandonato gli studi per andare a lavorare in un'officina, dove si riparano veicoli, per mantenere un piccolo appartamento che condivide con la sua fidanzata, Makoto, sedicenne, che studia in un'istituto superiore a Tokyo. Il capitolo presenterà la versione di Hazuki. I due si trovano in appartamento e lui, tornato a casa malconcio, inizia a litigare con lei.

sbam! aprii la porta con tanta forza che tremò l'intero stabile.
Mi avrebbero sentito anche dall'altra parte di Tokyo, se non fosse stata per quell'incessante pioggia che copriva tutto col suo gran fragore; scrosciava veloce e violenta, obliqua, inzuppando ogni cosa che trovava sul suo passaggio. Era dalla mattina che pioveva e non dava segno di cessare. Ero fradicio, puzzavo come un cane bagnato. Dalla testa mi scendeva una riga di sangue, la felpa, l'unica cosa che mi copriva il torace anche se in pieno inverno, era squarciata interamente a partire dalla spalla destra, sul davanti. Stavo zitto, con la testa bassa, ascoltando i rumori.
« Sei tu tes... » Non finì la frase, non ebbe neanche il tempo di squadrarmi da capo a piedi che caddero i piatti dalle mani morbide e delicate di Makoto. Si mise a piangere. Nella casa vagava un silenzio di tomba, interrotto dalla pioggia e dai suoi singhiozzi. Non volava neanche una mosca.
« Quanto pensi possa durare prima di farti ammazzare? »
« ... »
« Sei uno stupido! Rispondi alla mia domanda!
»
Si avvicinò e mi tirò un ceffone con tutta la mano. Mi portai la mano sulla guancia, accarezzandomela, ancora in silenzio ed a capo chino. Era da qualche mese che frequentavo una banda di teppisti, la mia vita non dipendeva solo da lei e volevo svagarmi, ma ogni volta, ogni sera, tornavo a casa da lei, ancora giovane, malconcio ed ubriaco. Questo non le faceva di certo bene.
Mi levai le scarpe ed entrai, poggiando i calzini umidi sul pavimento di legno, freddo. Presi una valigia, la riempii con le poche cose che mi ero permesso di comprare. La guardai, con occhiate veloci, senza distrarmi dal fare i bagagli, che ora della fine era la sacca della società di calcio che frequentavo da bambino e che non restituii mai. Mi guardavo, sbigottita, appoggiata al muro con una mano. Quasi le mancavano le forze, era pallida e non voleva, come non la volevo io, una situazione del genere.
« Dove vai? »
« ... »
« Hazuki, dove stai andando? »
« A prendere le sigarette ... »
Mi avviai verso la porta, senza guardarla negli occhi.
« Che fai, scappi? »
« ... »
«
Non mi vuoi più bene?! » Era infuriata, ma io la ignorai comunque, continuando per la mia strada ed uscendo da quella porta. In un istante m'inzuppai di pioggia, acqua che copriva le mie lacrime e faceva scorrere via il sangue dalla pelle. Camminavo, senza voltarmi. Scesi le scale che portavano al nostro piccolo appartamento, o meglio, camera. Perchè era una camera con due porte scorrevoli che separavano il bagno e la cucina dalla grande stanza soggiorno e da letto. Avevamo un letto singolo, normale, ma cercavamo di starci in due. Purtroppo, con una paga da operaio in officina ed una studentessa non potevamo permetterci molto, ma eravamo comunque felici, anche con situazioni come queste.
Continuavo, ignorando quei passetti che stavano subito dopo di me. Avevo paura per lei, avevo paura che rischiasse guai per colpa mia. M'era venuto mal di stomaco, sempre più forte, ad ogni passo di distanza che si aggiungeva. Scese le scale arrivai in quella specie di giardino, senza erba, infangato dalla pioggia che lo bagnava. Lo attraversai, non volevo prendere il vialetto, volevo tagliare corto, ma quei passetti li udivo ancora, appena dietro di me. Scivolavano a volte, interrompendo il ritmo costante che seguiva i miei passi. Ma lei s'ostinava a seguirmi, anche sotto quel diluvio. Arrivai in strada, non c'era nessuno. Come al solito quel quartiere era deserto, percui, anche circolare in mezzo alla strada non era un pericolo. Chi mai frequenterebbe un quartiere malfamato come questo? Con teppisti e coppie così giovani che non sanno ancora affrontare la vita quotidiana? Mi veniva da ridere solo a vedere tutto questo in rovina, siamo la parte oscura di Tokyo, quella peggiore, ma nessuno se ne cura di questo. Le risate, però, non erano adeguate ad una situazione del genere. Non era la prima volta che succedeva, ma questa sembrava essere l'ultima. Speriamo in un lieto fine. Gridava, urlava, sbraitava il mio nome per strada, ma facevo finta di non sentirla, andando avanti per il mio cammino. Mi strinse il braccio; mi fermai, piangendo e singhiozzando, voltandole ancora le spalle.
« ... Lasciami ... »
« Credi che così risolverai qualcosa? »
Mi girai, lentamente, guardandola e chinandomi di pochi gradi, per darle un bacio in fronte. Rimase shockata, ad occhi spalancati, guardandomi che diventavo sempre più lontano. Ma ricominciò a correre, sotto quella pioggia incessante che la faceva scivolare e sbattere la faccia, ma lei si rialzava e continuava.
Piangeva, disperata, non per il dolore procurato dalle cadute, ma il dolore procurato dall'allontanamento dei due pezzi di cuore, spezzati da me, un orribile mostro che non dovrebbe aver mai incontrato in vita sua. Mi dispiace lasciarti li, ma se non lo faccio soffrirai ancora di più. Mi riprese il braccio, mi raggiunse sfinita.
« Sei proprio ostinata, eh? »
« Hazuki, mi dispiace. Qualsiasi cosa sia che ti spinge in quest'azione, ti prometto, la cambieremo in meglio insieme! Io e te! »
« Devo andare ... »
« L'importante è che tu possa tornare ... »
« Non tornerò. Non aspettarmi, non illuderti di una cosa che non avverrà mai. »

« Non importa ciò che chiedi, farò ciò che ritengo giusto per me ... Ti aspetterò, fosse l'ultima cosa che faccio! »
« Ma allora non capisci! »
Mollai la presa e la spinsi a terra, facendola cadere sull'asfalto bagnato. « Vedi di dimenticarmi! »
« Come faccio a dimenticare la persona che amo?! HAZUKI, RISPONDI! » Si rialzò, ma la spinsi al muro.
Digrignai i denti, alzai il pugno, teso, pronto a colpire qualcosa e...
Sbam!
Colpii il muro, a pochi centimetri dalla sua faccia terrorizzata. Abbassai la testa, lasciando che i capelli bagnati mi coprissero gli occhi. Mi mise una mano sulla guancia, alzandomi il viso e portandolo a pochi centimetri dal suo, labbra contro labbra. La guardai negli occhi, lucidi, per qualche istanti; fissi tutti e due, l'uno sull'altro, distanti pochi centimetri. Il mal di pancia mi svanì, ora c'era solo lei. Mi ri-innamorai di lei, come per la prima volta che vidi quel faccino dolce e quegli occhi a mandorla, profondi, che mi scrutavano dentro l'anima.
« Torna da me ... »
« ... Sì ... »

Non esitai altro tempo in più: la baciai, come in una scena del film, sotto quella pioggia malinconica che ritraevano il quadretto che dipingevamo. Le portai la mano alla guancia, accarezzandola dolcemente e lievemente, sentendo la sua pelle fredda, che riscaldava comunque il mio cuore, ricomponendolo. Chiusi gli occhi e mi abbandonai alle sue labbra soffici. Sembrava il paradiso e lei era il mio angelo, che mi salvava sempre dai momenti più difficili.
Makoto, ti amo.

 

Hazuki

(grazie ad Asuka Soryu Langley per aver interpretato il ruolo di Makoto)

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Capitolo 2
*** Going mad for love ***


introduzione: Tokyo, giorni nostri. Le vicende trattano di due ragazzi, Hazuki Miouji e Makoto Megumi. Hazuki, vent'enne, ha abbandonato gli studi per andare a lavorare in un'officina, dove si riparano veicoli, per mantenere un piccolo appartamento che condivide con la sua fidanzata, Makoto, sedicenne, che studia in un'istituto superiore a Tokyo. Il capitolo presenterà la versione di Makoto. Dopo la litigata di qualche settimana precedente il rapporto inizia a dileguarsi sempre più ed Hazuki perde la testa quando vede la sua compagna uscire con altri ragazzi senza dirgli niente.

Lo avevo davanti, era fuori di se dalla rabbia, si controllava a mala pena dal colpirmi col suo grande pugno che mi avrebbe fatto decisamente male. Non mi sono accorta dei miei errori questa volta; perchè son sempre io a rimetterci nel rapporto? Perchè devo soccombere alla sua ira ogni volta e stare zitta, annuendo, ad ogni cosa che dice? Devo sempre soffrire, ma son testarda ad accettare questo dolore che mi perfora lo stomaco, cone una spada che mi trafigge con la sua lama lucente ed argentata, dal metallo freddo che sfrega contro il mio interno, delicato e caldo. Ma sto diventando sempre più fredda e, quando non ce la farò più, mi spegnerò diventando di ghiaccio. Allora si che si pentirà di avermi fatto soffrire fino ad adesso, facendo i propri comodi da tiranno e poi chiedendomi scusa con un bacio.
Le lacrime s'erano sciupate, non era rimasto neanche un goccio del fluido che sarebbe sceso dai miei lucenti occhi, scuri, in cui si perdeva ogni volta; si poteva anche vedere in essi, con il suo grande monopolio della situazione. Ero stanca, ma lasciarlo non portava a niente, oltre a più sofferenza ed a gesti di cui non potrebbe controllarne la natura.
 « ... Mi odi, vero? »
 « No che non ti odio, perchè mai dovrei? »
Quella domanda non mi piaceva, saltava fuori spesso ultimamente. Stavo per fargli un discorso premeditato per quest'evenienza, ma mi bloccò, porgendomi un dito sulle labbra.
 « Sh! Zitta. La mia non era una domanda retorica, la risposta è solo sì »
 « Dimmi perchè mai dovrei odiarti. »
 « Se non l'hai capito da te, vuol dire che non lo facevi apposta, quindi io per te non conto nulla. »
Si voltò, facendo qualche passo in avanti e distaccandosi sempre più da me. « Se permetti, me ne vado... » Se ne andava veramente, ma lo presi per il braccio.
 « NO! perchè devi sempre scappare da me? Smettila di fuggire, sono stanca di vederti andare via e doverti riprendere »
 « Perchè non mi vuoi »
 « Non lo capisci? Io voglio solo te, non mi interessa d'altro, né delle condizioni in cui viviamo, né dei soldi, a me interessi solo te »
Lo abbracciai, stringendolo. Iniziai a singhiozzare, come mio solito. Perchè devi sempre piangere Makoto? Sei debole, troppo debole, non riesci a reagire e reprimi nelle lacrime tutta la sofferenza, questa sei te Makoto; tu sei le tue stesse lacrime versate! Mi vergognavo di me stessa, il mio cervello mi diceva di lasciarlo andare, di dimenticarlo, ma non ce la facevo.
 « Non ti credo » Lasciai la presa, iniziando a piangere.
 « Lo so che non mi credi, in fondo, perchè dovresti credere ad una come me?  » Ma lui restava voltato, impassibile a quelle lacrime che mi scendevano rigandomi le guance. Non voleva più saperne di me, ero ormai indifferente a lui. « Ho capito, non hai più bisogno di me ... » Non mi restava che voltarmi e scappare da quell'incubo e così feci. Corri, corri dovevo scappare da lui e dal suo comportamento che mi faceva venire l'angoscia. Dovevo decidermi a rivoltare la situazione, se no non ce l'avrei più fatta a sopravvivere. Che qualcuno mi aiuti, perfavore.
Sei un'idiota pensavo, fra me e me, correndo a testa bassa, via da lui, per quelle strade deserte. Mi fermai, osservando il tramonto che sempre ci aveva affascinati e ci faceva meravigliare della bellezza che c'ha donato questo mondo. Forse dovevo ignorarlo, ma davanti al tramonto che ci faceva innamorare ogni giorno di più, decisi di voltarmi e correre contro a lui. Era ancora li, a pochi passi dal punto in cui lo lasciai poco prima. Mi fermai a qualche passo da lui, a testa bassa, sempre facendomi voltare le spalle.
 « Davvero non t'importa più niente di me? » Speravo in una parola, una sola, ma aspettavo e passava il tempo, ma continuava ad ignorarmi. Gli tirai la camicia, per attirare l'attenzione che non mi dava.
 « Smettila, smettila di ignorarmi » Ma lui continuava quella tortura, non voleva parlarmi, non voleva guardarmi. Volevo morire in quel momento, non riuscivo più a respirare dai singhiozzi. Le lacrime diventavano sempre più grandi, come quel buco logorante che cresceva nel mio petto, disintegrando il mio povero cuore. Mi arrabbiai, dovevo fare qualcosa e lo feci. Gli andai davanti, guardandolo negli occhi e tirandoli il colletto della camicia.
 « Perchè tutta questa cattiveria? »
 « Mollami... »
 « Oh, allora ce l'hai la lingua! »
Gli strinsi ancora di più il colletto, fra le mani piccole e delicate che avevo.
Ma lui era più forte, ovviamente, e mi mise una mano sul petto, spingendomi con un accenno di forza, ma abbastanza forte da farmi cadere all'indietro e farmi sbattere la testa contro il marciapiede. Mi portai la mano alla nuca. Non capivo più niente, il dolore era così forte che nemmeno riuscivo a pensare. Portai la mano davanti agli occhi, che si facevano sempre più pesanti. Era sangue. Perdevo sangue dalla nuca. Lo guardai, da stesa. Era shockato dalla visione e scappò, con la coda fra le gambe, lasciandomi li. Chiusi gli occhi e vidi solo buio, senza sentire niente né vedere, lì, stesa a terra da sola, indifesa.
Bastardo.
Passavano i minuti ma nessuno mi vedeva, nessuno s'accorgeva di me. Dov'ero? Non sentivo più niente, volevo tornare a casa con il ragazzo che amavo, vivere una vita felice. Ma lui non desiderava tutto questo, si vede.
Una luce. Si aprì uno squarcio di luce flebile. Aprii gli occhi, ormai era sera. Mi massaggiai la testa, ero ancora confusa da quello che era successo e non mi ricordavo più niente: solo il momento della caduta. Ero sconvolta. Camminai, verso casa, barcollando qua e la sull'asfalto nero che si confondeva con il cielo ormai stellato della notte. Doveva essere un giorno di cui andarne fieri quello, avevo preso un cento all'esame ed ero passata al quadrimestre sucessivo. Ero fiera, volevo raccontargli tutto ad Hazuki col sorriso sulle labbra, ma tutta la gioia che avevo in corpo s'era spenta inevitabilmente per colpa sua, come è colpa sua, tutta la tristezza che rovina i bei momento, rari da vedere.
Eccomi, ero arrivata a quell'appartamento, piccolo, che avevamo comprato insieme, con tanta fatica, per vivere una vita felice. Chissà, magari un giorno avremo una casa più grande, ma a me va bene così se devo vivere con lui, ne sono felice ed a me conta solo quello. Salii le scale che portavano al secondo piano della facciata dello stabile.  I passi delle scarpette nere facevano un rumore stridulo a contatto con il ferro arruginito delle scale, sicuramente instabili, in cui non bisognava fare movimenti bruschi se no si poteva formare un grande buco; causando anche grossi problemi. Tirai fuori la chiave, dentro c'era gia qualcuno: era sicuramente lui. Cercai di infilarla nella serratura, ma non entrava. Ha cambiato la serratura? Ero sconcertata. Sicuramente quella era la porta che mi permetteva d'entrare nel mio appartamento, non mi sbagliavo, era quella.
 « Stupido, fammi entrare! Che scherzi son questi?! »
 « Non vogliamo niente ! »
 « Apri! »

Scrock, la porta s'aprì, ma non del tutto: aveva tenuto la catenella e si limitò a guardare dal piccolo spazio aperto. Richiuse la porta, tirò via la protezione ed aprì. Era maledettamente bello. Con quei capelli lunghi, biondi, che continuavano fin dopo le spalle e scendevano sulle clavicole in due ciocche; gli occhi azzurri, comunque a mandorla, il fisico scolpito coperto solo da quella canottiera bianca e dal paio di jeans, scuri. Mi ero innamorata anche di quello, però lui era convinto che si trattasse solo dell'aspetto fisico il motivo del mio amore. Fumava, come al solito quando era stressato. Odiavo la puzza di quelle sigarette, non mi piaceva il tabacco, ma sopportavo per lui, tanto una cosa in più od in meno non faceva differenza, avevo ben altro di più importante da sopportare!
 « Vattene »
 « Come scusa? Vattene? »
 « Hai capito bene, fila stronza, non farti più rivedere qui »
 « S-str... Stronza? Ma che ti è preso?! Sei un mostro! »
Indietreggiai, mancava poco che cadessi dagli scalini.
Quella volta non piansi, non mi scendevano più le lacrime. Un po' perchè erano finite, un po' perchè non avevo più voglia di farmi venire un mal di testa enorme per uno stato che, speriamo, era solo momentaneo. Mi limitai a voltarmi ed a scappare. Non era una bella sensazione, quella parola mi penetrò nella mente. Stronza ...
Quando devo riflettere l'unico posto che mi aiuta è la stazione; ed andai proprio li, anche se di sera non era affidabile. Mi sedetti, guardando il pavimento dove i miei piedi, ancora dentro le scarpette della divisa scolastica, toccavano con la suola nera. Mi misi le mani fra i capelli, per la disperazione. La stazione era deserta, c'ero solo io: neanche i barboni non avevano voglia di venire in un posto dove, se si sbilanciavano un po' da ubriachi, potevano finire sotto un treno. Guardai malinconicamente i binari, illuminati dai pali della luce ricurvi su se stessi. La voglia di partire e mollare tutto non c'era, percui rimasi li, ad osservare ciò che accadeva. Molto probabilmente avrei dormito li quella notte, ma non mi importava, non poteva andare peggio di così. Mi coricai sulla panchina, poggiando la testa sulle mani, come un cuscino. Ed eccolo lì, lui che mi aveva spinto li mi era venuto anche a cercare. Si avvicinò, osservandomi, ma restai indifferente, senza neanche dargli un'occhiata, imbronciata.
 « Tsk, vieni a pensare qui? » Mi rimisi composta, osservandolo di sfuggita.
 « Cos'hai oggi? »
 « Niente, sto solo pensando a come ucciderti »
 « CHE?! »
Gridai, quella frase mi fece raggelare il sangue.
Mi prese i polsi, me li strinse e li portò contro il muro, immobilizzandomi. Puzzava d'alcool, aveva sicuramente bevuto.
 « Ehi, hai bevuto! Lasciami, dai, mi fai male! » Mi leccò il collo, senza che potessi fare niente.
 « Se no che fai? »
 «
Ti prego, lasciami! » Ero spaventata, tremavo.
Ma l'occasione arrivò, mi lasciò un polso per strapparmi la camicetta e gli mollai un ceffone, forte e secco, che rimbombò per tutta la stazione deserta. Ma lui era forte, fuori di se. Mi prese per il collo e mi alzò. Ero terrorizzata, da dove nasceva tutta questa violenza? Mi mancavano le forze, il respiro. Piangevo come un agnellino che stava per essere sgozzato vivo, la morte mi era vicina, la sentivo, la potevo toccare. Sicuramente avrebbe fatto un'azione irreparabile. Tirò fuori la pistola, gelida e nera, impugnandola salda con la mano sinistra e puntandomela alla pancia. Mi aggrappai al braccio che mi stava stritolando, cercando di levarlo con tutta la forza che potevo usare, ma era inutile combattere contro di lui, la presa non avrebbe allentato.
 « Come hai osato, puttanella?! »
 « T-ti prego... lasciami ... non respiro ... »

Chiuse gli occhi, nervoso e furioso. Sentii un grido di rabbia, che risuonò come eco nelle mie orecchie. Chiusi gli occhi, così sarebbe finita la tua vita Makoto. Ci siamo divertite insieme, ma adesso termina tutto. Addio mondo. Sentii lo sparo, non avevo il coraggio di vedere, ma non provai dolore. Aprii gli occhi, subito osservando la mia pancia, ma era completamente sana. Subito dopo capii: si era sparato alla pancia. Era immobile, nella sua stessa pozzanghera di sangue a sguazzare inerme, con un buco sull'addome. Ero senza forze, ma mi avvicinai a lui. « E' così che mi vuoi lasciare? »
Cercai aiuto, gridai, ed arrivò il treno, con mille luci che ci passavano davanti.
Hazuki, non mi lasciare.


 

Makoto


(grazie ad Asuka Soryu Langley per aver interpretato il ruolo di Makoto)

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