Amelia amava i treni di Morea (/viewuser.php?uid=92264)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Peanuts ***
Capitolo 2: *** Sette e Nove ***
Capitolo 3: *** La Busta Gialla ***
Capitolo 4: *** Orchi e Streghe ***
Capitolo 5: *** Occhi ***
Capitolo 6: *** Fragole ***
Capitolo 7: *** Vampiri e Camicie ***
Capitolo 1 *** Peanuts ***
Amelia amava i treni
Amelia
amava i treni
§One:
Peanuts
* Uno dei miei regali di
compleanno in ritardo.
Lo
sai che è per te.
Amelia amava i treni.
Li amava di un amore ignorante, viscerale, ingiustificato: quell'amore
che ti rende cieco e felice, sordo e sereno, muto e contento.
Amava affacciarsi alla finestra e vederli passare, uno ogni dieci
minuti, a volte ogni mezzora, amava quando faceva buio e le luci dei
vagoni si accendevano, illuminando volti, evidenziando movimenti,
immortalando sospiri.
E lei lo sapeva chi c'era a bordo. C'era la professoressa coi temi da
correggere, c'era lo studente con un esame da preparare, c'erano donne
spendaccione con borse griffate sui sedili e negli angusti corridoi,
mentre tutti gli altri in cerca di un posto imprecavano loro contro
scavalcando con difficoltà bauletti, scarpe e accessori
chiusi
in scatole grandi e piccole; c'erano avvocati che usavano parole
misteriose, c'erano turisti a biascicare suoni gutturali tenendo le
cartine a rovescio, c'erano cuochi, commesse, impiegate, dottori e poi
c'erano i passeggeri silenziosi, dai volti imperscrutabili, quelli su
cui potevi inventarti una storia, renderli principi o cavalieri, fate o
cortigiane, salvo poi vederli alzarsi in maniera scomposta e
disordinata, grugnendo richieste di permesso frettolose e scortesi.
Amelia tutte le volte si immaginava scenari simili, fissando le
figurine nere stagliate contro sfondi gialli accesi. Di quell'unica
gita a Firenze, ricordava il chiacchiericcio caotico della gente, il
fracasso destabilizzante delle gallerie, le orecchie che si
riabituavano a qualcosa di vagamente simile al silenzio quando il treno
faceva di nuovo capolino tra campi di girasoli opposti a fabbriche
fatiscenti: Firenze l'aveva scordata, sepolta tra biglietti e
obliteratrici, controllori e capotreni, ma soprattutto sepolta da un
peluche nuovo di zecca appoggiato qualche sedile avanti a lei, e dalla
piccola mano - poco più grande della sua - che lo custodiva
gelosamente.
Tutte le volte che si affacciava alla finestra, immaginava che le
sagome meno umane
fossero Snoopy giganteschi, abbracciati da una bambina fortunata ed
orgogliosa.
Tutte le volte che si affacciava alla finestra, la mamma le chiedeva
cosa stesse facendo, e lei rispondeva niente.
La mamma si era arrabbiata quando Amelia aveva dimostrato di non
ricordarsi niente di quella gita fuori porta: non ricordava il Duomo,
nè Piazza della Signoria, nè il Ponte Vecchio. Ma
non era
quel ponte a essere vecchio, era la mamma: era troppo vecchia per
capire la bellezza di un treno, per capire le storie dei suoi
passeggeri, per innamorarsi di uno Snoopy di stoffa, per invidiare
quella mano che lo stringeva a sè.
Poi, il treno spariva dentro la galleria ed Amelia tornava sul divano,
a disegnare professori, studenti, cuochi, dottori. Non li colorava mai,
non le riusciva. E poi, tutto ormai era drappeggiato nella sua mente
nei toni del giallo e del nero, e non poteva certo trasformare quelle
persone in api.
Quella era una scusa bella e buona, lei odiava
colorare. Forse era anche per questo che adorava le strisce dei
Peanuts: erano incolori, semplici, lineari; forse era per questo che
amava alla follia Snoopy, che restava semplicemente bianco e nero anche
nella trasposizione animata.
Amava pensare che pochi tratti potessero lasciare a chi osservava i
disegni piena libertà d'interpretazione: quando era
costretta
a colorare qualcosa per quelle stupide
maestre, le matite che impiegava variavano a seconda del suo umore,
tanto che quando era triste o arrabbiata trasformava tutti in becchini o Mangiamorte.
Per Amelia, la Pigrizia era un forte incentivo alla
Fantasia - ed in questo era Sally Brown.
Nonostante chiamasse fratellone
quello strano soggetto sangue del suo sangue, nonostante si fosse presa
una cotta di un giorno per un bambino dalla maglia a righe rosse e
nere, si rese conto di non assomigliare per niente a Sally quando
capì quanto le piacesse scrivere: a lei i temi piacevano,
per
quanto odiasse doverli comporre per
forza. Le
piaceva anche la scuola, anche se ogni tanto si ritrovava ad urlarle
contro, inascoltata: in realtà lì urlava
più o
meno contro tutti, tiranneggiando i bambini delle classi inferiori e
prendendosi i ruoli migliori in tutti i giochi inscenati
durante la ricreazione. Lasciava il ruolo di capo a qualcun
altro solo quando si giocava a
Sailor Moon. Non
sopportava quella piagnucolona di Usagi: si lamentava troppo per i suoi
gusti, e quell'amore con Mamoru era così stucchevole...
Lei voleva Sailor
Jupiter e, regolarmente, la interpretava. Stranamente, era lei a
risolvere molti duelli, stravolgendo la trama di cinque stagioni
televisive: preferiva le saette al potere dell'amore e blablabla, e
provava un certo sadico piacere nel fulminare ogni volta la nemica di
turno che, guarda caso, era Sara Banchi, Miss Boccoli d'Oro, a cui i
Banchi glieli avrebbe volentieri tirati in testa, dopo che le aveva
soffiato di sotto il naso l'onore di tenersi per mano con Andrea per
dieci secondi, tutte le ricreazioni.
Il giorno in cui li aveva visti per la
prima volta insieme, aveva
trascorso tutto il pomeriggio a casa di Frédéric,
sedendosi al suo fianco sul panchetto ed imprecando contro il suo
stupido pianoforte, che di tanto in tanto martoriava suonando una nota
qua e là, con la determinazione di un rullo compressore.
Il suo migliore amico sbuffava, nel
veder violentati i pianissimo
suggeriti dal suo spartito.
La madre di lui scuoteva la testa
sconsolata, mentre dal piano superiore udiva un tale scempio nei
confronti del suo Chopin,
che guarda caso aveva dato il nome all'estroso figlio.
Invece
Amelia parlava. E inveiva, e urlava, e stringeva i pugni, soffocando
quella rabbia che neanche un soave valzer poteva rilassare.
Poi, di punto in bianco, tacque.
Frédéric
continuò a suonare per altri cinque minuti,
perché sapeva
che in quei trecento secondi guardare Amelia era off limits, come era
off limits fissarla mentre mangiava o beveva, o darle torto in
qualsiasi situazione.
Terminato
il suo valzer - e sicuro che quelle lacrime di cui Amelia si vergognava
così tanto fossero ben nascoste e dimenticate -, la prese
per
mano. « I treni ci aspettano, Amelia. »
Frédéric era
l'unico a sapere di quella passione, forse lo sarebbe sempre stato.
Uscirono
e si sedettero sul marciapiede della via tranquilla in cui abitavano,
controllando rapidamente gli orologi ai loro polsi fini. «
Le cinque e venticinque. »
« Più o meno tra
dieci minuti. »
Aspettarono in religioso silenzio,
finché le prime finestrelle gialle fecero capolino nel buio
di inizio gennaio.
Amelia amava i treni anche
perché poteva condividerli con il suo migliore amico.
Frédéric amava i
treni perché poteva condividerli con lei, ma non
gliel'aveva mai detto.
Del resto, a Schroeder Lucy Van Pelt non
era mai piaciuta.
Amo
i Peanuts, e ogni bracchetto, Brown o Van Pelt nominato in questa
storia non è certo farina del mio sacco.
Tutto il resto sì.
Soprattutto la mia Lucy,
Amelia.
Lei è mia
in modo particolare.
Il titolo è volutamente all'imperfetto.
Anch'io i treni li amavo.
Volete sapere cosa ne penso ora?
Meglio di no: dovrei alzare il rating per turpiloquio.
Ringrazio Agathe, Chiara e Barbara, che hanno letto in anteprima e mi
hanno incoraggiato.
Ringrazio Valaus che ancora non lo sa, ma mi ha dato la spinta
fondamentale, una boccata d'ispirazione dopo un mese di silenzio.
E poi ringrazio chi questa storia la ispira da mesi.
« Buon compleanno » ♥
Mi trovate QUI,
se volete.
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Capitolo 2 *** Sette e Nove ***
Amelia amava i treni 2
Amelia
amava i treni
§Two:
Sette e Nove
Amelia non guardava più i
treni.
Non quando ci saliva ogni santa mattina
a capo basso,
sfidando le porte a non chiudersi proprio mentre posava il piede sullo
scalino - che poi, avrebbe dato volentieri due pugni nello stomaco a
chi aveva progettato un dislivello così ampio tra il piano
del
treno ed il marciapiede della banchina; non quando ogni santa mattina
la sveglia suonava alle sei, proprio mentre il dannato treno che
l'avrebbe raccolta alle sette e nove partiva da una stazione
imprecisata, buia, fredda e tetra, così come doveva essere
ogni
benedetta stazione in una gelida mattina di gennaio.
In realtà, Amelia non
aspettava mai molto a lungo
l'arrivo del convoglio, dal momento che per qualche strana patologia
congenita le era di fatto impossibile presentarsi alla stazione con
più di trenta secondi di anticipo rispetto all'orario di
partenza: così facendo, aveva perso il sette e nove
solamente una volta, contando anche la carriera universitaria, e di
questo riusciva a vantarsi con chiunque le rinfacciasse la sua
disorganizzazione, ormai da anni.
Che poi, a lei l'aggettivo disorganizzata non
piaceva per niente. Non era lei a non avere precise regole di condotta,
era il mondo a darle incontrovertibilmente fastidio, come
quando decideva di piovere e lei non aveva l'ombrello, o il treno si
fermava qualche metro più avanti del solito. Sì,
perchè se c'era una cosa di cui Amelia poteva davvero vantarsi,
era l'assurda capacità di calcolare al millimetro il punto
preciso in cui le porte del treno si sarebbero aperte: mai una volta
che non fosse la prima a salire - di fronte a quella spoglia aiuola
ormai trasformata in un immenso posacenere -, mai una volta che non
azzeccasse il vagone che avrebbe spalancato le sue porte proprio ad un
passo dalla tromba delle scale del binario due. Odiava camminare,
Amelia. Soprattutto alle sette e quaranta.
Li conosceva tutti, ormai, gli inquilini del primo
vagone - era quella la carrozza
magica, quella che risparmiava passi e fatica inutili.
E tutti conoscevano lei.
Amelia non aveva mai risparmiato le sue
occhiatacce a
nessuno, quando con le mani occupate da fondotinta e cipria era stata
costretta a spostare la sua borsa per liberare il sedile che aveva di
fianco; non si era fatta problemi a dispensare rispostacce, quando le
facevano notare che il treno era di
tutti. Non poteva non odiare quelli che salivano tre
fermate dopo la sua, e che pretendevano addirittura un posto: quegli esseri indegni
dormivano quindici minuti più di lei, ogni santo giorno.
Cedeva
solamente dopo tre richieste formali: la prima la ignorava, fingendo di
avere i timpani troppo occupati ad ascoltare gli Arcade Fire, alla
seconda fingeva di non capire, strabuzzando gli occhi con aria
minacciosa, alla terza spostava tutti i suoi averi dalla sua parte,
sbuffando.
Paradossalmente, era con quel modo di
fare scontroso che
aveva conosciuto l'Avvocato. Saliva una sola fermata dopo la sua, e nel
giro di una settimana aveva preteso per tre volte il posto accanto al
suo, ovvero l'aveva supplicata
nove
volte di concederle l'onore della sua vicinanza. Le stava simpatico,
l'Avvocato: era l'unico ad avere il privilegio di poterla chiamare Strega,
senza contare il fatto che tutti i giorni trovava sempre un buon
argomento di cui discutere, che fosse letteratura o
attualità. A
dire il vero, spesso le discussioni tra la Strega e l'Avvocato facevano
indignare gran parte dei passeggeri: finivano tra urla ed insulti, con
il secondo che si alzava ridacchiando una fermata prima di quella di
Amelia, e lei che incrociava le braccia scocciata, appoggiandosi contro
il finestrino e facendogli la linguaccia attraverso di esso.
A pochi decimetri da lei, Sara rideva.
Sara Banchi
rideva, quella che le aveva soffiato Andrea, quella che ancora aveva
boccoli d'oro, occhi azzurri e una piccola cicatrice sopra il
sopracciglio destro, che Amelia le aveva procurato inseguendola per
tutta l'aula armata di cimosa, finchè non era inciampata
sbattendo la testa contro lo spigolo di un banco,
messo sacrosantamente al posto giusto da delle bidelle accorte. Amelia
aveva beccato una nota sul diario e compiti extra, Sara aveva rimediato
due punti. Amelia era stata costretta - pena l'allungamento della
punizione inflittale dai suoi genitori da uno a due mesi - a chiederle
scusa portandole un regalo, Sara era stata costretta -
perchè
lei era una brava bambina - ad accettare quelle scuse e quel regalo,
smettendo di guardarla in cagnesco da sotto la benda che indossava. In
tutta quella questione, come ogni quasi-uomo
che si rispetti, Andrea se ne era rimasto beatamente per i cavoli
propri, magari scambiando qualche Pokemon raro con amici altrettanto maturi:
Sara e Amelia, senza smettere di lanciarsi occhiate torve, avevano
trovato simpatico e costruttivo occupare il tempo degli 'incontri
pro-amicizia' in un'attività che non avrebbero mai
più
abbandonato, e ad Andrea fischiarono le orecchie per mesi.
Negli anni successivi, le orecchie erano
fischiate a molti altri molluschi;
l'ultimo della lista - il loro attuale bersaglio preferito - era il
Vampiro, seduto sempre
sempre sempre
nell'unico sedile disaccoppiato del primo vagone, distanziato
più del normale dai seggiolini di fronte: in poche parole, il Posto.
Chiunque ambiva a quella poltroncina, e chiunque restava
quotidianamente deluso nel realizzare che il Vampiro ci si attaccava
come un pipistrello, se si trascurava il fatto che la testa la teneva
regolarmente sopra le spalle. Come il piccolo mammifero negli antri
tenebrosi, il Vampiro era ormai un tutt'uno con quel sedile, e nessuno
provava più a vedere se fosse libero: nessuno tranne Amelia,
che
tutte le sante mattine provava a soffiarglielo, inutilmente. Lei gli
aveva giurato silenziosamente guerra, lui neanche l'aveva notata: lei
scrollava le spalle, fingendo indifferenza, Sara Banchi sospirava,
fissando il Vampiro con aria sognante. Nessuno l'aveva mai sentito
parlare, o anche solo ridere: era sempre vestito di nero, che
indossasse una giacca a vento, o un completo, o una maglietta, e
nessuno in tutto il primo vagone sapeva dove salisse o dove scendesse.
A Nilla piacevano i misteri: non a caso
i suoi occhi,
celati da lenti scure per tutto l'anno, puntavano in un'unica
direzione, quella che culminava nel Vampiro. « Parola mia,
bambine, quello un giorno ci fa fuori tutti » sentenziava di
tanto in tanto, bisbigliando a mezza bocca. «
Guanti neri di pelle. E' chiaramente un serial killer. »
Metà del vagone rideva ogni volta in cui la bidella ripeteva
queste parole, ed era così che Amelia aveva conosciuto anche
Simone, Juan, Dora, Carmen e Pippo - che forse si
chiamava Filippo, ma nessuno lo sapeva con certezza.
Però ad Amelia, su quel
treno, qualcuno
mancava.
In cuor suo aveva sempre sperato di
notare un profilo meno umano,
una massa informe trattenuta da una piccola mano, tra quelle figurine
nere su sfondo giallo di cui ora faceva parte anche lei, ma nel primo
vagone non c'era traccia di Snoopy.
C'era solo Lucy, spesso vestita di blu e
con gli stessi capelli neri di quasi vent'anni prima.
E Lucy scendeva da quel treno tutte le
mattine alle sette
e quaranta, insieme a Carmen, Nilla, Juan e Pippo, inspirando smog ed a
volte imprecando contro la pioggia - perchè quando pioveva,
lei
l'ombrello non ce l'aveva mai.
Non c'era niente di peggio di una
sveglia alle sei, di un
treno spesso in ritardo e di uno scontro all'ultimo sangue con
l'Avvocato di prima mattina, o almeno così pensava.
Poi, un Beagle le
saltò addosso, con le zampe sporche ed il proprietario a
profondersi in mille scuse, bloccate sul nascere da pupille saettanti.
E fu lì
che si rese conto che la giornata non sarebbe potuta essere delle
migliori, mentre i suoi amici si dileguavano, per non incorrere nella
sua ira: non era salutare starle vicino mentre cominciava a piovere, e
lei non aveva l'ombrello, mentre il bus passava, e lei non riusciva a
prenderlo - avrebbe potuto perderne sei e sarebbe stata
lo stesso in anticipo, ma lei aveva sempre preso quell'autobus, e
sempre l'avrebbe preso.
Amelia si spolverò i
pantaloni e si coprì la
testa con la sciarpa, determinata a non lasciarsi scoraggiare da
quell'infelice serie di eventi.
Ignorò il tizio che si era
offerto di pagarle il conto della lavanderia, e saltò sul secondo bus,
ripetendosi come un mantra che tutto
è bene quel che finisce bene.
Quando all'autobus si bucò
una gomma e dovette aspettare quello successivo - dovendo
però camminare
per metri e metri fino alla fermata successiva - Amelia
cominciò a credere che una giornata no poteva capitare
anche a lei, e che non doveva buttarsi giù.
Quando giunse al suo distributore
automatico di caffè e lo trovò guasto,
capì che quella sarebbe stata ufficialmente una giornata di merda, e
accartocciò il bicchiere di plastica vuoto che la
macchinetta le aveva bastardamente rifilato.
Poi, si trovò sulla scrivania
un quintale di fogli da esaminare.
E scaraventò la penna fuori
dalla finestra.
« Fréd? »
sospirò al telefono poco dopo. L'altro non le rispose,
aspettando che fosse lei a dirgli ciò che già si
aspettava. «
Suona per me. »
*Snoopy è un Beagle. Non so quanto sia necessaria
questa
nota, ma visto che ho citato questa razza di cani, preferivo far
chiarezza.
Grazie per l'accoglienza ♥
Mi trovate QUI,
se volete.
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Capitolo 3 *** La Busta Gialla ***
Amelia
amava i treni
§Three:
La Busta Gialla
Forse ad Amelia non piacevano
più i treni.
Ma le piacevano ancora i punti dove le
loro strade di
ferro si intersecavano con quelle d'asfalto. Era buffo: fin da piccola
aveva visto in quei punti il punto di contatto tra il suo mondo e quello
degli altri, tra banalità e novità, tra
realtà e fantasia.
Di tutta questa poesia non trovava
neanche un accenno nel
groviglio di fili che le intasava la scrivania. Parevano divertirsi a
gettarla nella disperazione più cupa, annodandosi e
scivolando,
formando ingorghi sempre più pesanti che prima o poi
finivano
per arpionare qualcosa e trascinarlo nell'oblio, in quel baratro
polveroso e inesplorato celato dal cassone del computer. Negli ultimi
giorni, Amelia aveva perso in quel modo tre penne, una memoria USB ed
una decina di fogli, che nessuno avrebbe mai più ritrovato:
era
più o meno sicura che tra quella carta che aveva
sbrigativamente
bollato come inutile ci fossero almeno un paio di documenti importanti,
ma preferiva non porsi il problema.
Di certo, non era mai riuscita a perdere
il prezioso
contenuto del cassetto in basso a destra. Da quando aveva messo piede
in quell'ufficio, tutti glielo avevano presentato come incontrovertibilmente rotto.
E poteva pur sembrare vero, ad una prima occhiata: se si provava ad
aprirlo, si incastrava quasi subito, opponendosi a qualunque
sollecitazione. Eppure Amelia era riuscita a violarlo - bisognava solo
fargli fare un movimento particolare, sollevarlo e poi tirare - e
soprattutto a riempirlo:
quello
spazio era unicamente suo e, come tale, lo adorava. Tra le altre cose,
c'era tutto ciò di cui aveva bisogno in quel momento: mentre
Mozart riecheggiava ancora nelle sue orecchie, si allungò
fino a
raggiungerlo, aprendolo in un secondo.
« Fréd? »
L'altro mugolò, giusto per
far sentire che c'era ancora, nonostante il trasporto del suo pezzo per
clavicembalo.
« Cosa diceva Lucy? »
Inspirò a fondo
ciò che teneva tra le dita,
prima di percepire l'ilarità nel tono di
Frédéric,
ancor prima che aprisse bocca.
« Tutto ciò di cui ho
bisogno è amore. Ma un po' di cioccolata, ogni tanto, non fa
male. »
« Bravo tesoro! »
Scartò un cioccolatino, ma
Fréd fu più veloce di lei - nonostante i mezzoforte del
suo piano, sentiva ogni sua parola come se fosse scandita ad un
millimetro dal suo timpano.
« Tu hai bisogno di amore,
Lucy. Non
di cioccolata. »
Ad Amelia si gonfiò una vena
sulla tempia, come del resto accadeva ogni volta in cui si sentiva
offesa. « Mi
stai dicendo che sono grassa? »
« Solo che potresti diventarlo. »
« Sei uno stronzo,
Fréd. »
« Touché. »
L'aveva detto mentre accarezzava
l'ultima nota, con quella
delicatezza che si poteva percepire anche al di là di un
altoparlante non eccelso come quello del suo telefono, in un sospiro
che aleggiava sopra i tasti, che della banalità della
plastica
non conservavano altro che le fattezze.
« Ti voglio bene,
Fréd. »
« Vorrei potertelo dire
anch'io. »
« Stronzo. »
E riattaccò.
Non sapeva che lui un ti voglio bene
non glielo poteva dire davvero. Perchè utilizzare tre parole
quando ne bastavano due era un oltraggio.
Perchè parlare di affetto al posto di amore era un oltraggio
alla sua Lucy.
Fréd scroccò le
dita, tornando a letto. Solo
per lei si alzava anche per cinque minuti, ogni mattina, verso le otto
- andava a letto alle
quattro, sempre: si
infilò sotto le coperte e le sognò di nuovo, lei
e la
cioccolata. Non era neanche troppo sicuro che lei fosse vestita.
Amelia, nel suo ufficio, sorrise
- per poco.
« Ameliuccia! »
Finse di essere immersa in una lettura
più che avvincente, con il naso ad un millimetro dal primo
foglio che si era trovata a portata di mano - Hook up with a sexy single woman
or man tonight! -, ritrovandosi a pensare che doveva
davvero smetterla di stampare tutta la posta elettronica senza prima
verificarla.
« Amelia, tesoro? »
Odiava
visceralmente essere chiamata tesoro. Quasi
più di quanto odiasse i carciofi. E le cipolle. E
Trenitalia. Alzò solo per un attimo la testa dal foglio
- There are so
many people in your city that want to meet new people just like
you! - ma non si sforzò di sorridere,
neanche un po'.
« Sei meravigliosa,
tesoro. »
You
decide who you want to flirt with and hook up with! Di
certo, lei non aveva deciso né di flirtare né di
accalappiare quell'idiota di Marelli, che dalla sua assunzione si
dedicava instancabilmente alla conquista di ogni essere di sesso
femminile del terzo piano: il suo motto doveva essere 'basta che
respiri' dato che si vociferava che avesse contribuito, almeno per un
giorno, al calo di acidità della segretaria del capo, scelta
personalmente dalla moglie del suddetto per il suo essere piatta come
una tavola da surf e l'avere imbarazzanti orecchie a sventola.
« Non ti sei sforzato nemmeno
un po', stamani. Hai lasciato la fantasia nel letto della
bionda? »
Marelli la guardò
interrogativo ed ammirato allo stesso tempo; Amelia
riabbassò lo sguardo, prima di riprendere a parlare - You will be surprised by all of
the women or men that will want to hook up with you!
« Avete parcheggiato
insieme »
ed accennò alla finestra che dava sul parcheggio interno
dello stabile. «
Ho visto lei scendere subito. Ma a giudicare dal fatto che sei venuto a
rompere le scatole a me solamente ora, ne deduco che hai aspettato un
po' prima di imitarla. E lei »
fece un rapido cenno del capo verso la porta aperta della sua stanza,
dove giusto in quell'istante aveva fatto capolino una spalla ricoperta
di capelli chiari «
pare nervosa, molto nervosa. »
La spalla si irrigidì, colta in fallo, prima di sparire
velocemente dalla loro vista.
Marelli sghignazzò. «
Stanotte non era così rigida. »
« Neanche
tu, scommetto. »
Lo guardò di traverso, sorridendo malignamente. «
Hai finito qui, o vuoi scendere nei dettagli? »
« Dipende da che effetto quei
dettagli potrebbero avere su di te. »
« Hai presente le tartarughe,
Marelli? »
L'altro tacque, alzando gli occhi al
cielo.
« Hanno una sola espressione
ed è annoiata, perplessa e pare chiederti in ogni istante
che diavolo vuoi da loro. Ecco, considerami una tartaruga. E, a
proposito, oggi mi va un'insalata per pranzo: voglio quella con
pomodori, mozzarella ed olive, un filo d'olio e un po' di sale. Niente
aceto, che mi fa schifo, niente carciofi o cipolle, sennò te
le faccio ingoiare dopo averle inzuppate nel terriccio del cactus
dietro di me. »
Marelli scrollò le spalle,
appoggiandosi alla scrivania con quella che credeva fosse un'aria da
seduttore. «
Quando fai così... ah, tesoro, un giorno ti avrò »
concluse strizzandole il naso e passandole un dito sulle labbra.
« Fuori, Marelli »
sbraitò, racimolando tutta la calma che aveva in corpo per
non urlare più del necessario.
E l'altro, finalmente, la
lasciò libera di dedicarsi a ciò che fino ad
allora aveva ignorato: prima di tutto, il secondo cioccolatino, poi, il suo lavoro.
Nel giro di tre ore, Amelia
cestinò sette e-mail, due raccomandate e tre
inserti.
Al termine di quei centottanta minuti le
capitarono in mano dieci fogli, chiusi in una busta gialla, anonima:
quelli non li cestinò. Li lesse avidamente, bevendo ogni
parola: li analizzò a fondo, attenta ad ogni virgola. E alla
fine li amò. E li rinchiuse in un cassetto. In quel cassetto.
Quando arrivò il suo
supervisore a chiederle se aveva trovato qualcosa di interessante da
sottoporre al Capo, lei rispose di no.
E quando la sua insalata le
arrivò sulla scrivania direttamente dalle mani di Marelli,
che avevano provveduto a salarla più del dovuto, neanche si
accorse del suo sapore tremendo.
Del resto, aveva già sete.
Sete di altre buste gialle.
*
"Tutto
ciò di cui ho bisogno è amore. Ma un po' di
cioccolata, ogni tanto, non fa male." Citazione da una striscia dei
Peanuts, di Charles M. Schultz.
Le frasi
in inglese, scritte in corsivo, fanno parte di una delle ottocento
e-mail di spam che ogni giorno mi trovo nella mia casella di posta.
Ogni tanto servono anche a qualcosa, a quanto pare.
Grazie per l'accoglienza ♥
Mi trovate QUI,
se volete.
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Capitolo 4 *** Orchi e Streghe ***
Amelia
amava i treni
§Four: Orchi e
Streghe
Ad Amelia i treni parlavano ancora.
Non solo con il frastuono dei loro
motori, con l'eco delle
gallerie, con i sogni di chi era a bordo e che lei immaginava nitidi e
chiari come rivelazioni.
Ad Amelia ormai i treni parlavano chiaro.
« Buongiorno Strega.
»
Doveva essere svizzero, l'Avvocato:
puntuale come un orologio e insopportabile come l'Emmenthal - irrinunciabile, come la
cioccolata, ma quello era un dettaglio.
« Orco. »
Lo salutò con un cenno del capo, senza nemmeno voltarsi
verso di lui.
« Orchi e streghe sono
soli. »
« E non riescono a dormire,
perchè qualcuno
si diverte ad urlar loro il buongiorno ad un millimetro dai timpani.
Cazzo, sono le sette e venti! »
L'Avvocato ignorò quelle
rimostranze, sedendosi accanto a lei - era buffo, quel posto
non era mai occupato, se non da lui. «
Ti ricordi anche come finisce, la canzone? »
« Me »,
rispose scocciata.
« Intrattabile come
la Signora De Santis. »
Lei alzò un sopracciglio.
« La causa di divorzio che sto
seguendo... una vecchia megera, più o meno come Dora. »
Una mano spuntata dal sedile posteriore
gli colpì
la testa con forza inaudita: lui ridacchiò, massaggiandosi i
capelli. «
Tutte in sindrome premestruale, donne? »
« Ti conviene tacere, se non
vuoi ritrovarti a sanguinare per capire come ci si sente! »
« Carmen cara, anch'io ti
voglio bene! »
Le lanciò un bacio sporgendosi oltre il proprio sedile,
giusto
in tempo per ricevere un'occhiata di fuoco resa ancora più
incandescente dai riccioli corvini che la rendevano vagamente simile a
Medusa.
« Hai ancora voglia di
parlare, Orco? »
« Orchi e streghe sono soli, e io
invece ora ho te... »
« Che fortuna. »
« Dormi, hai voglia di sognare...
Bimba fallo anche per me! »
« Te l'avevo detto che finiva
con me. Buonanotte. »
« Strega? Marelli mi ha detto
che ti ha finalmente portata a letto. »
Amelia rialzò la testa di
scatto. « Che
cazzo ti ha detto Marelli? »
« Oh, niente »
replicò lui sornione. « Era l'unico modo per
far ridestare la bella addormentata. Neanche lo conosco, Marelli.
»
Si dette mentalmente della stupida.
« Hai ascoltato i nostri discorsi tutte le sante mattine? »
« E' difficile non sentirvi,
oche. »
Nilla gli lanciò un libro,
rischiando di tramortire anche Pippo, seduto incautamente vicino a lei.
«
Spero che il Vampiro abbia designato te come sua prossima vittima.
Anzi, vado immediatamente a suggerirgli di darti una morte lenta e
dolorosa. Con permesso. »
Scavalcò Pippo con
facilità, ma fu il braccio teso di Sara a bloccarla. «
Non ci provare, sai? »
Era arrossita fino alla punta dei capelli.
« Sarina... alla tua
età io ero già sposata e tu vai dietro ad uomini
misteriosi. Ah, la gioventù! »
Le scompigliò i capelli, per poi riprendere possesso del
proprio
sedile, lamentandosi di chissà quale dolore alla schiena
- fresco come
il pesce incartato nel giornale di quel giorno, dato
che ogni ventiquattr'ore ne aveva uno nuovo.
« Cos'avrà mai di
speciale quel becchino... »
Amelia scrollò le spalle. «
E' misterioso, è affascinante e, soprattutto, tace. E'
l'uomo
ideale: non fa rumore, non sporca, è un bel soprammobile,
esclusivamente atto alla riproduzione e non al bacare le palle. »
L'Avvocato accennò un
sorriso, mentre indossava la sciarpa. «
Ti lascio sola, Stregaccia. Dormi pure! »
In un solo balzo fu in piedi e a debita
distanza da Amelia. Non farla dormire in treno ed augurarle
beffardamente di fare dei sogni
d'oro a cinque minuti dalla fermata successiva equivaleva
più o meno a firmare la propria condanna a morte.
L'Avvocato non voleva certo morire, dato
che amava ripetere di essere troppo
giovane e troppo bello per
farlo. Amelia evidentemente non era d'accordo, dato che dal finestrino
mimò all'Orco uno sgozzamento di prima categoria, con
annessa
lingua di fuori ed occhi rovesciati.
« Siete proprio fatti l'uno
per l'altra »
sospirò Carmen, mentre Sara annuiva con fervore.
E Amelia dette loro ragione, a modo suo.
« Come due
mantidi religiose. Non vedo l'ora di portarmelo a letto per staccargli
la testa a morsi. » Si
infilò il cappotto ed il cappello di lana, pronta ad
affrontare la bufera. « Andiamo? »
Carmen, scuotendo la testa, la
seguì. Mentre anche
Nilla, Juan e Pippo si alzavano, Sara riportò i suoi occhi
sognanti sul Vampiro. Sorrideva, quel giorno. E Sara se ne
stupì
in maniera incredibile, perchè non l'aveva mai fatto prima,
almeno di fronte a lei.
Amelia uscì dal treno con un
balzo - aveva sempre paura che le porte si richiudessero prima che lei
riuscisse ad essere fuori. « Juan, sei vivo? »
Lui annuì, accennando un
sorriso, ma ovviamente non
rispose:
non parlava mai prima delle otto, comunicava con cenni della testa e
con la mimica facciale, che in lui era sviluppata in maniera
impressionante. I suoi lineamenti potevano esser letti in qualunque
momento: le
sue emozioni trasparivano limpide come se fossero state immerse in
acqua cristallina.
« Santo cielo, ragazzo.
Finirai per perderla, quell'inutile lingua. »
Pippo controllò l'orologio,
mentre aspettavano. «
Mancano dieci minuti, Nilla. Non puoi chiedergli uno sforzo enorme come
quello di anticipare lo sfruttamento delle corde vocali. »
Si accese una sigaretta e, puntualmente, arrivò il suo bus.
« Non l'hai ancora capito che
non è intelligente fumare mentre si aspettano i mezzi
pubblici? »
sbottò Carmen.
« Non rompere, piaga »
sputò acido mentre saliva sul bus. «
Se avessi avuto una sfera di cristallo, non l'avrei accesa. »
La guardò burbero, perfino mentre le porte dell'autobus gli
si chiudevano di fronte agli occhi.
« Non siamo le uniche ad
attendere visite »
sentenziò Amelia.
« Spero che abbia con
sè qualche assorbente. Io, di certo, non glieli
presterò. »
Anche lei, Juan e Nilla sparirono,
inghiottiti dal sempre strapieno autobus 28.
E Amelia rimase da sola ad aspettare il
suo - da sola finchè un Beagle, quel
Beagle, decise di passare due minuti della sua mattinata ad annusarle i
piedi. Si guardarono a lungo, quando lui alzò il capo: lo
sfidò a fare solo una mossa, e a Snoopy parve
più saggio non osare.
Snoopy
se ne
andò non appena il bus di Amelia apparve all'orizzonte:
svoltò l'angolo, da solo com'era arrivato, ma a lei rimase
impressa nel cuore la sensazione che l'avrebbe rivisto molto presto.
...Come avrebbe rivisto molto presto lui.
Quando aprì la busta,
già sapeva chi avrebbe trovato. Chi,
perchè con un po' di esperienza, dentro ogni parola si
poteva trovare un nome.
Amelia voleva poter dare un volto alle
emozioni. Voleva immaginare le mani che le avevano create.
E lui
la aspettava, con altre dieci pagine. E lei preferì la sua
compagnia perfino alle note di Rachmaninoff, o agli ovetti al cacao
fondente.
*
De
Santis: è un omaggio idiota al personaggio di Cetto
Laqualunque, di Antonio Albanese, che ha come avversario politico
l'integerrimo De Santis, per l'appunto.
Orchi
e Streghe Sono Soli è una canzone degli Afterhours,
contenuta nell'album 'I Milanesi ammazzano il Sabato'. Il suo testo
è qui.
Mi trovate QUI,
se volete.
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Capitolo 5 *** Occhi ***
Amelia
amava i treni
§Five: Occhi
Dei treni, Amelia adorava i finestrini e
ciò che riflettevano.
Ricordava di averci premuto contro il
naso, quando il suo primo ragazzo le aveva detto di amare il colore dei
suoi occhi. A lei quegli occhi erano sempre sembrati banalmente
marroni, simili a ovetti di cioccolata al latte, a castagne selvatiche,
a tronchi di cipressi; non erano screziati di sfumature perlacee,
brillanti come l'ambra o luminosi quanto il sole: erano semplicemente
marroni, infimi ed ordinari come la cacca. Nel turbine di luci e colori
provenienti da fuori, man mano che il treno si spostava, Amelia aveva
visto diventare quegli occhi gialli come i girasoli, grigi come la
nebbia, verdi come i campi ed azzurri come il cielo: le sagome sfocate
ma pulsanti dei passeggeri erano quel contorno che le donava
vitalità, quel vortice che le illuminava lo sguardo, quel
tumulto che le infuocava l'anima.
Nel rileggere per l'ennesima volta
l'ultima riga della decima pagina di quel giorno, non appena fu
arrivata in ufficio, Amelia decise che il suo autore preferito doveva
avere occhi ambigui come l'oceano: non blu, non azzurri e nemmeno
celesti, ma cangianti e mutevoli come una tempesta improvvisa, come un
mare agitato, come abissi sconquassati da sottili e coraggiose linee di
luce.
Li aveva di fronte, quei fili dorati che
aveva immaginato: li vedeva snodarsi tra le parole, legandone alcune ed
evidenziandone altre, in quella trama che la rapiva sempre di
più. Quel manoscritto era un vortice, un gorgo travolgente e
quasi asfissiante, quando si ritrovava a trattenere il respiro per poi
scoprire che pagina dieci era ormai già arrivata e doveva
aspettare il giorno successivo, trascorrere ventiquattr'ore a bramare
il momento in cui si sarebbe svegliata di nuovo, per salire sul sette e
nove, prendere il bus e raggiungere l'ufficio.
Niente e nessuno l'avevano mai coinvolta
tanto da farle perdere il sonno, l'appetito, tanto da monopolizzare la
sua attenzione in un modo quasi morboso. Si era imposta come regola di
vita di pensare prima a se stessa e poi a tutto il resto, per non
annullarsi travolta da emozioni potenti e totalizzanti: si era sempre
categoricamente rifiutata di soffrire per amore, perchè
nessun uomo valeva un decimo della sua personalità. Ogni
volta che era stata subissata da una passione, da un istinto o da
qualche sofferenza, aveva sempre agito razionalmente, riflettendo sul
problema e mirando a superarlo: si era liberata così di
ossessioni, di patimenti e dubbi, andando alla radice di ogni questione
ed estirpandola, con una brutalità che talvolta stupiva
anche lei.
Lo ripeteva spesso, si liberava dei suoi
problemi con la stessa facilità con cui si cambiava i
calzini: era naturale per lei, lasciarsi tutto alle spalle e guardare
avanti, andare dritta per la propria strada e non fermarsi di fronte a
nulla.
Sapeva benissimo cosa fare anche in
quella situazione: l'aveva appena deciso, dopo sette buste gialle e
settanta pagine d'agonia.
Avrebbe
trovato l'oceano, così come l'oceano aveva trovato lei.
L'aveva sempre saputo, che bisognava
dare un nome alle cose per affrontarle e risolverle. E lei avrebbe
battezzato quegli abissi, dritta e penetrante come le linee di luce che
illuminavano qualche murena uscita dal suo anfratto per cacciar seppie.
Quelle buste avevano bisogno di un
mittente, e lei l'avrebbe trovato.
« Marelli, qui. Subito
» sbraitò all'interfono.
Lo sentì arrivare prima
ancora di vederselo comparire davanti, appoggiato alla porta con il suo
solito atteggiamento da patetico tombeur de femmes.
« Mi desideri, tesoro?
»
« Quanto un vampiro desidera
la luce del sole. Dimmi chi consegna la posta la mattina. »
« Il postino, forse?
» rispose sghignazzando, passandosi una mano tra i capelli.
« Sei più idiota di
quanto pensassi. Pensi che te lo chiederei, se fosse così
ovvia la risposta? Ricevo buste non affrancate, senza timbri o
indicazioni di alcun tipo. »
« Pacchi bomba, tesoro? Non ci
avevo mai pensato a farti fuori così... »
« Sarebbe proprio da te,
Marelli. Caotico ed appariscente. Molto più banale della
stricnina che ti ho messo in quel caffè. »
Marelli sputò nel cestino la
sorsata che aveva appena assaporato, accarezzando le papille con il
liquido denso e tiepido.
« Sì, sei
decisamente più idiota di quanto pensassi. Fuori, dato che
sei inutile e snervante quanto un telecomando senza pile. »
« Le buste che trovi ogni
mattina sul tavolo sono smistate dalla segreteria, giù.
Chiedi a loro. Ma...? »
« Non ti ho avvelenato il
caffè, mentecatto. »
Marelli parve effettivamente
più sollevato, tanto che non riuscì a togliersi
un'espressione distesa e più ebete del solito dal volto. «
Dovrai offrirmene un altro allora » mormorò
lentamente.
« Non morirai per trentacinque
centesimi. »
« Intendevo che mi devi
portare fuori
a prenderlo, uscendo con me. »
« Avviati in Brasile, tesoro. Ci sono
delle deliziose piantagioni che non vedo l'ora di testare. »
Amelia si alzò, ricomponendo i fogli che aveva sulla
scrivania e chiudendoli in una cartellina. «
Se vuoi scusarmi. »
Mentre gli sfilava davanti, Marelli non
riuscì a non pensare che le avrebbe toccato volentieri una
mela, o forse due. Il solo pensiero di ritrovarsi fatto a pezzi in una
valigia in volo per Rio de Janeiro lo trattenne dal farlo,
sospingendolo come una mano giudiziosa e protettiva fuori di
lì.
Non appena fu al piano terra, Amelia si
fiondò in segreteria, senza neanche bussare. In
realtà, nessuno fece caso alla sua entrata trafelata, tra
telefoni che squillavano, impiegati che si aggiravano fra i tavoli e
che urlavano sempre di più per sovrastare le altre voci -
magari spaccando i timpani ai loro incolpevoli interlocutori al di
là delle cornette. Individuò subito colei che le
interessava: inveiva contro una collega, chissà per quale
motivo: le tremavano le guance, ammorbidite dall'età
piuttosto avanzata, e i lunghi orecchini che portava si agitavano
insieme ad esse, in un ritratto grottesco che non riuscì a
non strapparle una risata silenziosa. Amelia attese il suo turno,
facendosi comunque notare: non amava cacciarsi nei guai prendendo le
parti dell'una o dell'altra contendente, senza contare che aveva ben
altro a cui pensare, mentre appoggiata al muro studiava lo scenario che
aveva di fronte.
« Lei cosa vuole? »
gridò dopo un po' l'impiegata, che si era appena liberata
della presenza fastidiosa della sua collega ma non certo delle sue
occhiatacce risentite e vendicative, che le fioccavano ancora addosso.
« E' lei che consegna la posta
negli uffici? »
« Cos'è,
un'intervista? Certo che sono io, chi dovrebbe farlo altrimenti?
»
Amelia respirò profondamente,
ripetendosi di stare
calma. Fosse stato Marelli a parlarle così, lo
avrebbe già attaccato al muro con un pugno ben assestato.
« Mi sono state recapitate
delle buste senza mittente e senza affrancatura. Buste gialle. Volevo
sapere se poteva darmi qualche informazione. »
« Pensa forse che io mi metta
a indagare sulla storia di ogni pezzo di carta che entra qui dentro?
C'era il suo nome su quelle buste, e questo mi basta e avanza per
buttarle nell'ufficio giusto. »
« Di certo però non
erano mescolate alla posta ordinaria, o sbaglio? »
incalzò, un po' più furiosa.
« Certo che no, sciocca. Come
pensa che farebbe ad infilarle nella casella postale senza un misero
francobollo? Le trovo nella vecchia cassetta della posta, e sono le
uniche ad entrarci, a parte qualche volantino pubblicitario. »
« Ogni mattina? »
« Sì. »
« Ma lei a che ora arriva?
»
« Vuole sapere anche il mio
codice fiscale, gruppo sanguigno e IBAN, per caso? »
Appellò tutta la pazienza in
suo possesso. « La prego. »
« Alle sette, tutti i giorni.
Se ne va, adesso? »
Amelia neanche le rispose, voltandosi e
uscendo quasi di corsa dalla segreteria. Le sette. Cazzo,
era troppo presto! Non c'erano treni che non violassero qualche norma
sui diritti umani che arrivassero prima di quell'ora: erano tutti
lenti, lentissimi, e partivano ad orari improponibili e crudeli.
Avrebbe dormito in ufficio,
più volentieri. O non avrebbe dormito affatto, che forse era
anche più sicuro, dato il suo sonno più che
pesante.
Annuì a se stessa, risoluta,
impugnando il telefono con una determinazione degna di un'Amazzone.
« Fréd? »
L'altro le rispose con un grugnito,
prima ancora che il telefono squillasse per la seconda volta. «
Lucy. »
« Stanotte devi far tardi con
me. »
Un'emozione accarezzò il
cuore assonnato di Fréd come una stilla di benzina sul
fuoco. Proprio come il carburante, evaporò in una fiammata,
quando Amelia ricominciò a parlare. «
Devo scoprire chi è. »
« Chi è chi?
»
« Un autore anonimo,
meraviglioso. Devo prendere il treno delle cinque e due, a tutti i
costi. »
« Ma sei impazzita? Forse sto
sognando. Sì, dev'essere così. »
« Mai stata così
seria, Fréd. Mi conosco, se puntassi la sveglia alle
quattro, non la sentirei di certo. Devi farmi star sveglia tu, tanto
non dormi mai fino all'alba. »
Frédéric si morse
il labbro, mentre conficcava i gomiti nel cuscino, appoggiando il mento
sui propri palmi. «
Perché? »
« Fréd, te l'ho
detto: devo scoprire... »
« Lo so. Voglio capire perché
vuoi scoprire chi è questo scrittore. »
Anche Amelia si morse il labbro: aveva
cominciato a farlo da piccola, quando era indecisa, proprio imitando la
smorfia che Fréd articolava quando non gli riusciva un
particolare passaggio di qualche Sonata. «
Mi prenderesti in giro. »
E Fréd capì,
mentre una strana morsa gli attanagliava lo stomaco. «
Vieni da me anche a cena? »
« No, non sai cucinare.
Arriverò intorno alle dieci, che poi saranno le undici, come
al solito. »
« Ti aspetto, Lucy. »
Nell'esatto momento in cui spinse il
tasto rosso, i gomiti non lo ressero più. Finì
con la faccia contro il cuscino, senza più riuscire a
chiudere gli occhi.
*
Ti
amo.
Mi trovate QUI,
se volete.
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Capitolo 6 *** Fragole ***
Amelia
amava i treni
§Six: Fragole
* Te
l'avevo detto!
Quando Amelia bussò alla
porta di Fréd,
pensò che il treno delle cinque e due fosse già
troppo
vicino.
C'era qualcosa di magico nell'aria che
si respirava oltre
quella soglia, qualcosa per cui provare un timore quasi reverenziale
pur considerandolo quanto più di familiare si potesse avere
al
mondo; qualcosa da considerare come proprio,
eppure da toccare con i guanti: qualcosa in cui materializzarsi in
silenzio, cosa che misteriosamente non escludeva grida di giubilo o
pianti disperati. Qualcosa in cui vivere,
e al diavolo orari, scadenze e ritardi.
Al
diavolo il treno delle cinque e due, si disse in un
soffio, mentre Frédéric apriva la porta.
« Sei in ritardo »
disse semplicemente lui, almeno provando a non sorridere.
« Abiti qui, è
facile arrivare in orario. E poi sono solo le undici e venti.
»
« Dovevi essere qui alle
dieci, se ricordi. Solo un'ora e venti di... »
« Non un'ora e venti. Ti
avevo detto alle dieci e avvertito che sarebbero state le undici.
»
« Di venti minuti? »
sbuffò lui, chiudendole la porta alle spalle.
« Affatto. » Si
fiondò in cucina ad aprire il frigo, sicura di
ciò che ci avrebbe trovato. «
I primi cinque minuti non mi sono presentata perché non sta
bene
essere i primi a un qualunque appuntamento. »
« Siamo io e te, Amelia.
» Alzò gli occhi al cielo, prendendo posto su uno
sgabello della cucina. «
I primi tra chi? »
Lei lo ignorò. «
Altri dieci minuti per il parcheggio, quelli non potevo certo
calcolarli. »
Lui alzò un sopracciglio,
muovendosi per scostare la tenda quel tanto che bastava per scorgere la
strada. « Non
c'è un cane, giù. »
La sentì ridacchiare con il
naso, espirando due
sbuffi d'aria rapidi e ravvicinati: quel modo che aveva solo lei di
esprimere il suo divertimento sommesso, quella maniera bastarda di
sottolineare le sue piccole menzogne, quelle che lui riusciva ad
individuare non appena apriva bocca, senza che neanche terminasse le
frasi. «
E gli ultimi cinque? »
chiese quasi sovrappensiero, mentre il suo sguardo si posava per caso
su un uomo a spasso con il cane - e quindi aveva ragione lei
un'altra volta, perché un cane c'era eccome, giù.
« Li ho passati davanti alla
porta » rispose
lei con naturalezza, mentre addentava una fragola. E non
mancavano mai
le fragole a casa di Fréd, neanche a febbraio quando
costavano
un occhio della testa, perché a lei quei frutti rossi
piacevano
anche acerbi o troppo maturi, marci o perfetti, e vederle dipinta sul
viso quella smorfia di soddisfazione così totalizzante
valeva ogni
singolo euro uscito dal portafoglio.
« Davanti alla porta?
»
« Pensavo. » Non
disse altro, mentre lottava
per eliminare le foglie della sua seconda fragola - ed era buffa,
perchè il picciolo le rimaneva sempre conficcato nella
polpa, e le toccava mangiare anche quello.
« Al legno? Alle maniglie? E'
febbraio, Amelia, e tu pensi agli stipiti di una porta congelandoti
senza entrare? »
Lei tremò per un secondo,
quasi ricordandosi del freddo che avrebbe
dovuto patire fuori da quell'uscio, poi scrollò
le spalle. «
Pensavo a te. Pensavo a noi. » Digrignò i denti,
lottando
con il terzo frutto della serata: non un tremito fuori posto, non un
ripensamento a farla sobbalzare, solo un mugugno di liberazione quando
riuscì nel suo intento, non senza sporcarsi di rosso le
unghie.
E lui gliele avrebbe succhiate ad una ad una quelle dita, dopo averle
sentito pronunciare quel noi
di cui forse non si era nemmeno accorta.
« A noi? » chiese
mordendosi la lingua,
cercando di non far trasparire tutta l'ansia di quelle quattro lettere.
Provò a rubarle una fragola, beccandosi uno schiaffo sul
dorso
della mano - da quelle dita che avrebbe volentieri succh... non doveva pensarci.
Lei lo fulminò, ancora
stizzita per quel tentato furto. «
A noi, sì. Al fatto che qui mi sento come a casa, al fatto
che
posso contare su di te in qualunque momento, e non te lo
dirò
un'altra volta, quindi imparati bene a memoria queste parole.
»
Giocò per un po' con la quarta fragola, prima di rimetterla
nel
piatto. «
Alla nostra amicizia, ecco. E'... bella. » Si alzò
per rimettere la frutta avanzata nel frigorifero. «
Mi mancheresti, se non ci fossi » sussurrò a un
cartone di
latte e a qualche etto di burro, come al solito senza trovare il
coraggio di guardare l'amico in faccia, per non rendersi troppo
vulnerabile ai suoi occhi.
E Frédéric si
alzò e la raggiunse,
con quel pizzico di strafottenza che riservava solo all'unica persona
con la quale non avrebbe mai voluto sfoggiarla. «
Anch'io ti amo, maionese. » Passò il braccio sulle
spalle
di Amelia, finendo per osservare lo stesso punto su cui si era
fossilizzata lei. «
Oh, ma tu dicevi alla birra? Dovevo immaginarmelo, Lucy! »
« Stronzo. » Si
spostò di scatto, pestando i piedi finché non fu
uscita dalla cucina.
Le fu dietro in un balzo. «
Dai, scema! » La abbracciò, rischiando di farla
inciampare - ergo,
di procurarle un buon motivo per fargli male. «
Cosa vuoi fare, Lucy? »
« Dormire. »
Saltò sul letto,
atterrandoci di pancia - come faceva da più di un ventennio,
ormai: il letto era cambiato, lei non era cambiata per niente. O forse era cambiata perfino troppo, pensò Fréd,
scorgendo forme non esattamente abbozzate, oltre
la stoffa dei suoi vestiti.
« Non sei venuta qui per
resistere sveglia fino a
domattina? Avevo già preparato cinque o sei damigiane di
caffè... »
La vide corrugare la fronte per un
attimo, per poi rialzarla, risoluta. « Ce la faremo!
» urlò alzando un pugno verso il soffitto.
Si lasciò ricadere con la
testa fra i cuscini, e lui le fu accanto. «
E' meraviglioso, Fréd, non puoi capire » la
sentì sussurrare dopo qualche minuto.
« Cosa? » Sorrise,
aspettandosi tutto fuorché un...
« Lui. »
E in quel momento odiò i
treni, odiò le fragole, odiò perfino lei.
Perché era un'egoista, perché era cieca,
perché era sua.
Finse di ascoltarla, mentre elogiava il suo autore, finse
perfino di fare il tifo per lui, quando si ritrovò a dargli
dell'uomo perfetto,
perché pareva intelligente, e misterioso, e accattivante.
Si ritrovò a crogiolarsi nel
profumo del suo shampoo alle fragole, quando una ciocca gli
finì accanto al naso, disordinata ed impertinente come la
legittima proprietaria; inspirò troppo forte quell'odore, e
lei lo smascherò come un bambino di fronte ad un vassoio di
biscotti ormai sbriciolati. Lo guardò interrogativa, e lui
non potè che pensare a quelle strisce che tante volte
avevano letto insieme, a quelle vignette che li avevano raccontati
prima ancora di vederli cresciuti. E la prese in giro di nuovo,
perché era l'unica cosa che riusciva a fare. «
E' un tipo di profumo
che non ho mai sentito nominare... »
Inspirò di nuovo. «
Bracchetto bagnato?
»
Si beccò una gomitata e la
vista della sua schiena, dato che lei si voltò sul fianco
opposto alla velocità della luce. «
Sono fragole, idiota. » Finse di non sapere che quella era la
fragranza del suo shampoo e del suo bagnoschiuma da più o
meno un decennio. «
Lui
l'avrebbe capito al volo... » sussurrò sognante.
Pensò che lui non avrebbe mai
capito che Amelia odiava le date e le ricorrenze perché
sembravano quantificare tutto, che quando taceva era solamente o
irrimediabilmente scossa o tremendamente incapace di esprimere i suoi
pensieri con le parole che amava così tanto: lui non avrebbe mai
scoperto quella sua pagina di fanfictions che la raccontavano per filo
e per segno, non avrebbe mai imparato che odiava lo zucchero
perché snaturava il vero sapore delle cose, che aborriva la
rucola perché sua madre una volta aveva provato a fargliela
mangiare con l'inganno, o che si era vergognata del suo seno a tredici
anni, nascondendolo con spalle ricurve perché non era ancora
pronta per diventare una donna, e che ora pregava per avere almeno una
o due taglie in più. E si rivide ad abbracciarla per il suo
infortunio al ginocchio, a chiederle scusa per averle rubato il suo
pennarello preferito, a regalarle del pongo perché,
nonostante fosse una schiappa, amava almeno far finta di modellarlo,
quando in realtà andava semplicemente pazza per il suo odore.
« Ti stai creando troppe
aspettative... » Era un suono amaro, quello uscito dalla sua
bocca, una sentenza diretta e per questo dolorosa: gli parve di vederla
stringere il lembo del cuscino, forse improvvisamente cosciente che lui
aveva davvero ragione, e gli si strinse talmente tanto il cuore che il
coraggio gli venne meno e la voce gli si spense in gola. «
Ma del resto, se non verifichi di persona... »
« Lo sapevo, che avresti
capito! » Lei gli gettò le braccia al collo, gli
saltò addosso come quando aveva nove anni, sorrise talmente
tanto che lui se ne innamorò di nuovo. E la trovò
ancora più sua,
eppure così cieca,
e soprattutto così egoista.
Poi la sentì tacere, un po'
troppo a lungo; sentì il suo respiro farsi più
regolare, la sua stretta allentarsi. E le cinque e due gli parvero
così vicine...
Fréd, per la prima volta,
ebbe sonno prima dell'una. E si ritrovò abbracciato a lei
anche quando si svegliò di soprassalto alle due,
intenzionato a puntare quella sveglia di cui lei aveva assolutamente
bisogno: la vide con la bocca aperta, i capelli arruffati, la posa
scomposta e le coperte miracolosamente finite solo sopra il suo corpo,
in un'improbabile disposizione di lenzuola e trapunte, e le cinque e
due gli parvero ancora più
vicine, tremende, inesorabili.
Amelia odiava dormire a bocca aperta:
pretendeva che lui la svegliasse quando la beccava a farlo, e si
assicurava sempre di avere una mano in prossimità delle
labbra tutte le volte che si coricava, per quanto fosse impensabile che
riuscisse a mantenere la solita posizione per una notte intera. Per un
momento, gli venne quasi automatico svegliarla anche solo per darle
fastidio, sentirla imprecare qualcosa di imprecisato nel dormiveglia,
lasciarsi insultare per cinque secondi di puro piacere e vederla
riaddormentarsi, chiudendo la bocca e riaprendola inesorabilmente pochi
secondi dopo, in preda ad un istinto quasi essenziale.
In quello stesso istante, seppe anche
che quelle buste gialle sarebbero arrivate nel suo ufficio prima di
lei, per l'ennesima volta.
Cercò di districare il
groviglio delle coperte senza svegliarla, la coprì fino al
naso e si voltò sull'altro fianco. Non riuscì
neanche a sentirsi egoista, quando i sensi gli vennero meno per la
seconda volta, quando perfino il pensiero di averla nel suo letto
divenne un'eco lontana e modulata da sospiri sempre più
rari, quando se la immaginò la mattina dopo su tutte le
furie, a dargli la colpa di tutto e a giurargli che non gli avrebbe
più rivolto la parola per un mese, salvo poi ripresentarsi
sotto casa sua un paio d'ore dopo - e talvolta, chiamarlo in cerca di
note anche prima.
Si svegliò alle sei e mezzo
grazie a una pedata ben piazzata su uno stinco. Se la trovò
di fronte, armata di dentifricio, asciugamano e sguardo assassino. La
sentì urlare, la vide pettinarsi da una stanza all'altra
rischiando persino di strapparsi i capelli, tanta era la foga con cui
maneggiava la spazzola. Beccò una ginocchiata dopo che lei
fu salita di nuovo sul letto in cerca di vendetta, e si
ritrovò a massaggiare due lividi in via di formazione, prima
di vederla sparire senza dire una parola dalla camera e sentirla anche
sbattere la porta d'ingresso.
E fu allora che capì cosa
diamine intendesse Snoopy,
nel dire che il suo cuore forse non era infranto, ma di certo gli
facevano male le gambe.
« Mi dispiace »
mormorò mezz'ora dopo al parmigiano, o forse al succo di
frutta, o magari ai funghi sott'olio.
Il frigorifero restò
atrocemente in silenzio.
*
Le
frasi in corsivo sono tratte dalle strisce di Charles M. Schulz.
Credo che quando si ama qualcuno sia inevitabile diventare un po'
egoisti. Ed è difficile essere l'amico
perfetto, quando tutto
quello che si vorrebbe fare è la cosa più
difficile ed impensabile del mondo. Non colpevolizzate Fréd:
è e resta sempre l'amico più meraviglioso che si
possa avere. :)
Mi trovate QUI,
se volete.
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Capitolo 7 *** Vampiri e Camicie ***
Amelia amava i treni 7
Amelia
amava i treni
§Seven: Vampiri e
Camicie
* A chi
sarà sempre nel mio Oceano Mare.
Quando il sette e nove di quella mattina
divenne un sette
e trentadue, Amelia maledì Trenitalia, i quindici minuti di
ritardo taroccati che segnalava e tutti quelli che riuscirono a
precederla sul primo vagone.
Si gettò sul primo sedile che
le capitò a
tiro, appoggiò la testa contro il finestrino ed
alzò il
volume del suo i-pod finchè la musica non fu talmente alta
da
impedire l'accesso ai suoi timpani a ogni altra voce, rumore, perfino
al respiro di chiunque avrebbe di lì a poco preso posto
accanto
a lei. Per fortuna, nessuno ebbe per cinque minuti l'ardire di farlo.
Cinque minuti dopo, intravide l'Avvocato
nella folla che
premeva per salire sul treno. Le venne automaticamente da chiudere gli
occhi, strizzando le palpebre fino a sigillarle.
« Si vede che fai finta »
sentì poco dopo, da una voce che conosceva fin troppo bene.
« Non è aria »
rispose stancamente, senza neanche voltarsi.
« Lo vedo. Non ti sei accorta
neanche del... »
« AMELIA! »
squittì un'altra voce, questa volta di donna.
Alzò gli occhi al cielo,
infastidita. «
Dio santo, Sara, lo sai quanto sia fastidioso sentir urlare qualcuno
alle sette... »
Sara non la prese neanche in
considerazione. «
Ma tu non... tu non... »
Si scostò per far passare un uomo nel corridoio, senza
però distrarsi neanche un secondo dalla visione che l'aveva
sconvolta.
Fu allora che Amelia si rese conto di
aver scaraventato la borsa su un sedile che neanche esisteva, quando
era salita sul treno.
Perchè quello era l'unico
sedile disaccoppiato in tutto il vagone.
« Avete intenzione di gridare
al miracolo? O di strapparvi i capelli come preficae? »
« Taci! »
urlarono in due. «
Dov'é? »
sbraitarono insieme.
« L'avrà ucciso un
raggio di sole »
sentenziò l'Avvocato, prima di scuotere la testa,
scocciato. «
Dovrò anche stare in piedi, per colpa vostra, maledette. »
« Oh, quanto mi dispiace »
bofonchiò Amelia, mentre tentava, inutilmente, di far
riprendere Sara dallo shock.
« Oh, fai bene a non dolertene
troppo, perchè non resterò in piedi. »
Scostò delicatamente Sara, fino a sospingerla verso
Nilla. «
Ti ha tenuto un posto. »
Poi, guardò Amelia
sogghignando. «
Strega, spero tu conosca un sortilegio che renda i corpi più
leggeri... »
« Non ti... »
Prima che finisse la frase, si
ritrovò l'Avvocato seduto sulle cosce. «
Dovremo proporli a Trenitalia, questi sedili. Non ho mai provato niente
di più comodo. »
« Che cazzo...? »
« Taci, tesoro. »
In quell'istante, Amelia si
ritrovò talmente
incazzata da non saper neanche da che insulto cominciare. Tacque
davvero, appoggiandosi a sua volta contro la schiena dell'Avvocato e
chiudendo gli occhi. Si stupì non poco, quando si rese conto
di
non aver nemmeno voglia di conficcargli le unghie nella schiena, o di
fargli il solletico, o di strangolarlo.
E si addormentò in quella
posizione, mentre il
treno si fermava ancora, meravigliandosi non poco di quanto riuscisse a
rilassare le membra, abbandonando il nervosismo di quella
mattina.
Quando lui la svegliò prima
di scendere, lo
ripagò con un saluto veloce e con il solito cipiglio
arrabbiato
e infastidito: si chiese se fosse stata abbastanza da abile da
dissimulare tutto quello che le frullava per la testa, per poi
scacciare da sola quei pensieri, rapita dalla visione di qualche goccia
di pioggia che si stava abbattendo sui vetri.
Anche la busta gialla era bagnata,
quella mattina. C'erano dei polpastrelli umidi sulla carta, e nei fogli
al suo interno c'erano delle sbavature imprecise, come se l'autore
fosse andato troppo di fretta perfino per trattare la sua opera con
cura.
Forse anche quell'uomo misterioso si era
svegliato troppo tardi, inciampando nei suoi passi. Forse aveva perso
il treno.
« Come sei pallida stamattina,
tesoro. »
« Come sei fastidioso stamani,
sembri Marelli. »
« Simpatica, pallida ma
simpatica come un calcio nelle palle »
fece Marelli, entrando. « Qualche manoscritto interessante,
Vampira? »
Forse
aveva perso il treno.
« Niente per cui valga la pena
investire. »
« Li avrai cestinati tutti,
gentile come sei. Sei una
succhiasangue, spremi quella povera gente e poi... »
Forse
aveva perso il treno.
« Se vogliono pubblicare
boiate adolescenziali, hanno sbagliato casa editrice. Abbiamo
già troppi Babi
e Step in circolazione, non fomentiamo l'idiozia. »
« Quanto mi arrapi quando fai
così... »
« Fuori, Marelli. »
« Se non fossi accondiscendente e affettuosa come una
donna mestruata, ti controllerei i canini. Sicura di non aver morso
qualcuno? »
Il
Vampiro aveva perso il treno.
E
Amelia sbiancò per davvero. «
Fuori! »
urlò, scagliando un portapenne contro la porta, per poi
lanciarsi sul telefono.
« Fréd... ce l'ho. »
« Cosa, il mio stinco? E' da
quando me lo hai amputato stamani che... »
« No, cretino. L'autore! »
strillò eccitata.
Fréd imprecò in
quattro o cinque lingue diverse. «
Sarebbe? »
scandì piano, con un filo di voce.
« Te lo dico dopo. Vengo da te
appena torno, aspettami! »
« Non mi volevi morto, stamani?
»
« Mi serve un testimone per le
mie nozze, Fréd. E tu sei l'unico che non si
scomporrà quando mi sposerò in reggiseno e
mutande. Di seta bianca, ovviamente, sono così... pura »
sghignazzò.
« Sul serio ne sei ancora
convinta? Amelia, sei da rinchiudere. »
« Ci tengo a semplificare le pratiche, lo sai. »
« Lucy, non esci con un uomo
da... »
Da quel momento in poi, Fréd
sentì solo il tu
tu tu con cui la cornetta si era premurata di salutarlo.
La cornetta, non di certo Lucy, che l'aveva maledetto dall'altro capo
del telefono con parole talmente educate da far impallidire anche
Marelli, tre uffici più in là.
« Tesoro, hai bisogno di
qualcosa? Una camomilla, della cioccolata, un assorbente, sesso? »
« Vattene. Sono talmente
eccitata che... »
« Perfetto, cominciamo? »
Questa volta la spillatrice lo
colpì in pieno viso. E se ne andò, davvero.
Quando Amelia arrivò da
Fréd, la porta era già aperta e un odore
irresistibile volteggiava nell'aria, tanto che le pareva di vederlo.
Seguì quella scia di piacere, mentre varcava la soglia,
andò avanti col naso all'insù finchè
non fu di fronte al forno, ad occhieggiare con desiderio ciò
che c'era al suo interno. Fréd la trovò
inginocchiata di fronte al vetro, con lo sguardo adorante e le narici
tese.
« E' lei? »
chiese semplicemente.
« Lì c'è
la crema, lì le fragole. E' lei, sì. »
« Hai un favore da chiedermi?
Devo comprarti i preservativi, un test di gravidanza, una pomatina per
la favina, qualunque cosa di cui ti vergogni? Devo rigare una macchina,
fare un colpo in banca, uccidere qualc...? »
« Amelia, sei talmente fuori
di testa che le opzioni sono due: o sei sicura di aver trovato l'Autore
con la A maiuscola, o hai fatto sesso »
rispose a malincuore.
« La prima,
Frééééééééd!
E' lui! E comunque, dove l'avresti trovata quella camicia da giocatore
di briscola? »
« Lui chi? »
sputò astioso, ignorando volutamente l'ultima parte del
discorso.
« Fréd, tu di certo
non hai fatto sesso nè hai bisogno di preservativi.
Perché quella faccia? Hai perso 61 a 59? »
« Mi sono svegliato
così. Anzi, mi hai
svegliato così. »
Si strinse nelle spalle, cercando di capire cosa diamine avesse di
sbagliato quella camicia.
« Pronto per lo scoop? O stai
ancora pensando che avresti fatto meglio a giocare il re di picche? »
Tirò fuori la pastafrolla dal forno, attenta a non
distruggerla. « E' il Vampiro! »
Per la prima volta, Fréd si
sentì più felice di lei. Scoppiò a
ridere incontrollatamente, lasciò che i suoi lineamenti
tirati si allargassero in smorfie di puro piacere, perse ogni contegno
di fronte alla faccia sempre più sconvolta della sua Lucy.
« E, di grazia, qual
è stato l'indizio fondamentale che ti ha convinto? »
domandò senza riuscire a smettere di ridere.
« Beh, Marelli mi... oh, che
diamine, che cazzo hai da ridere? Una
mano fortunata? Hai mangiato tutti i carichi del tuo vicino di casa?
»
« Lucy, il Vampiro ogni
mattina prende il tuo treno
» rispose come
se fosse la cosa più ovvia del mondo. E anche la
più liberante. Quasi salvifica. « Oh certo, se poi
è Marelli a darti questi indizi... »
Il sorriso di Amelia si spense in un
istante, come tutte le volte in cui qualcun altro aveva ragione, e
quella ragione non la rendeva felice. E lo stesso fece anche il suo -
per quei dannati effetti collaterali che dovevano per forza scaturire
dall'amore non ricambiato. Dipendeva anche emotivamente da lei, adesso.
Avrebbe sbattuto la testa contro il muro fino a romperlo.
« Dai, Lucy... vieni qui... »
Lei non si mosse, evidentemente
incazzata come una iena per essersi illusa troppo. E Fréd
diventò se possibile ancora più triste, sapendo
di aver sfigurato quel sorriso che amava più del suo
pianoforte. E allora fu lui ad andarle incontro, ad abbracciarla,
sentendosi in colpa per non sapere chi fosse quel cazzo di Autore
maledetto. Glielo voleva presentare lui, voleva renderla felice,
voleva... cazzate. Lui
la voleva per sè, e basta. Al massimo, le avrebbe concesso
una notte di fuoco con lui, così, per essere magnanimo. O
no, a ripensarci nemmeno quella.
Amelia si staccò senza
provare nemmeno a dissimulare la tensione con una risata. «
Hai una faccia atroce, Fréd. Si intona alla camicia. E
comunque, sembra sia colpa tua. »
Lo
è, si disse lui, senza riuscire a pentirsi per
non averla svegliata.
« Voglio dire, era
così ovvio... Come farebbe ad arrivare lì prima
di me, se neanche scende alla mia fermata? Quanto sono
stupida... »
realizzò, contrariata.
« Può capitare
anche a te, a quanto pare. »
« Non ti ci abituare. »
Si interruppe un secondo, per poi riprendere un altro discorso senza
neanche avvertire. «
E ripensandoci, ce l'hai
sempre. Non la camicia, per fortuna, la faccia. E no, non sei brutto,
non fare quella smorfia. Hai la faccia da... scontento, ecco. »
Provò a smuovergli un labbro con il dito, per vedere se
acquistava un aspetto migliore. Poi, la ritirò come
scottata. « E comunque sei uno stronzo! »
« Solo perché il
mio fiuto da investigatore è lievemente più
sviluppato del tuo? »
« Di certo non il gusto nel
vestire. » Non
era mai stata così arrabbiata, mentre ricopriva di crema la
pastafrolla, aggredendola con cucchiaiate sempre più
violente. Anche perché Fréd gliel'aveva detto: i
dolci vanno fatti con cura, altrimenti vengono brutti. Oh, in
realtà gliel'aveva detto tipo vent'anni prima, quando ancora
'brutti' si diceva 'butti'
e sua madre non sapeva che scuse inventarsi per tenerlo
fuori dai piedi, mentre armeggiava ai fornelli. Ma ad Amelia piaceva
crederci ancora, soprattutto perché la rilassava, mentre
cucinava per non pianificare omicidi e pensare agli ingredienti di una
torta piuttosto che ai componenti di una bomba artigianale. Poi, si
fermò di nuovo.
« Certo che sei proprio un
artista »
sputò di punto in bianco, dopo averlo fissato in cagnesco
per una manciata di minuti.
« Lo dici come se fosse
un'atrocità. »
« Lo è »
rispose senza battere ciglio.
« Ma sentila. E
perché mai, di grazia? »
Non ci pensò neanche un
attimo. « Voi artisti
siete così... incompleti. » Fréd perse
un
battito. «
Pessimisti, perennemente
insoddisfatti... gorgoglianti, sì. Siete pentole a
pressione,
tanto borbottate. Mai niente che vi vada bene, sempre alla ricerca di
quel qualcosa in più.. cazzo, neanche Schroeder era
così
fanatico con Beethoven. »
« Eppure Lucy lo amava
» sibilò con una punta di risentimento - e una
di speranza
per la risposta che sarebbe arrivata.
« Lucy amava la sua Nemesi, mi
pare ovvio. Lo amava
perché erano complementari, lo amava perché
voleva
sentirsi completa. »
« Solo tu puoi arrivare a
concepire una cosa simile... »
« Pensaci, Fréd.
Nell'arte non c'è niente di determinato, si è necessariamente insoddisfatti.
Chi farebbe musica, se la perfezione fosse già stata
raggiunta?
Chi dipingerebbe, se una fotografia potesse davvero cogliere l'essenza
delle cose, o un quadro impressionista essere davvero quanto di
più vicino alla realtà possa esistere? Per un
artista,
tutto manca di qualcosa. »
« Non capisco dove tu voglia
arrivare. »
« Ti manca qualcosa,
Fréd. »
« A me non... »
Ridacchiò. « Ma non
lo vedi? Hai sempre qualcosa da ridire! »
« Dovevo nascere ingegnere,
per essere felice?
Secondo il tuo ragionamento non dovrebbe esistere neanche il progresso,
Lucy. »
« Sei l'unico artista
scemo che conosco. Sei
anche l'unico artista che conosco, a dire il vero, ma poco importa. Chi
si affida ai numeri sa di rasentare la perfezione. Sa di avvicinarsi il
più possibile al miglior risultato, e sa anche che ci
sarà sempre qualcuno disposto a proseguire il suo lavoro, a
limarlo, a renderlo più buono. Chi crea e progetta non
può non sentirsi bene, se lavora nel modo giusto, non come
chi
si rifa a qualcosa che già esiste, e che teme di rovinare.
»
« Tu selezioni manoscritti per
una casa editrice,
Amelia! Che diamine ne sai di come funzionano i numeri e chi li usa?
»
« Fréd, hai idea di
quanti bei lavori abbia
dovuto cestinare, facendo calcoli sulla quantità di persone
interessata dall'argomento, sulla difficoltà del linguaggio
e
dei temi trattati, e su chissà quante altre variabili?
»
Fréd scosse ripetutamente la
testa. «
Continuo a non capire cosa c'entri questo con me. »
« Ti manca una donna
» sparò lei con il tatto di un elefante. «
Ti stai inacidendo come yogurt avariato, e tocca a me sopportarti ogni
volta che ti lamenti di questo o di quello. E tocca a me bocciarti le
camicie inguardabili, per inciso. »
« Ma io non... »
« Taci, artista » lo
rimbrottò lei, mentre si incastrava con il braccio nella
fodera rotta del cappotto.
« E a te non manca un uomo?
» Fréd
alzò la voce, nel tentativo di bloccarla nella sua corsa
verso
la porta. E fu in quell'esatto istante che si sentì quasi
morire, realizzando quanto poco disinteressato fosse stato in
quell'uscita disperata.
E Amelia in effetti si fermò,
ad un passo
dall'attaccapanni. « Io sono una donna, Fréd
»
esordì con una naturalezza capace quasi di far
spavento. «
Ho un cervello funzionante, del sano istinto di sopravvivenza ed una
non trascurabile capacità di adattamento alla presenza di
saltuarie teste di cazzo nella mia imprevedibile esistenza. Ah, e anche
un paio di tette. »
« Cosa c'entrano le tue tette?
» chiese lui
allibito, fermando per un momento il flusso di pensieri imbizzarriti
che lo logoravano.
Amelia scrollò le spalle,
fissandosi il seno. «
Il giorno in cui scoprirò cosa voi uomini ci trovate di
così tanto stupefacente sarà un gran giorno:
imparerò a vivere col sorriso idiota che avete ogni volta in
cui
un paio di capezzoli vi sfiora il naso. Pretendo di rinascere uomo, un
giorno o l'altro, se basta così poco per essere felici.
»
Richiuse la porta dietro di
sè, e lui non
poté fare a meno che cercarla in strada non appena fu scesa
al
piano terra ed uscita dall'edificio. «
Sei un'artista anche tu, Amelia! » urlò con quanto
fiato aveva in corpo.
Lei lo guardò sorridendo. Mosse
appena le labbra, e lui non capì alcunché.
La vide sparire dietro l'angolo, nel
passo svelto che
aveva sempre e che mai avrebbe abbandonato - la infastidiva camminare
lentamente, gliel'aveva ripetuto un'infinità di volte. Il
suo
sguardo vagò poi su una madre esasperata da un bambino
urlante,
su un cane e poi sull'uomo che lo teneva al guinzaglio, su un gatto
sinuosamente furtivo e sulla ragazza che lo fissava sovrappensiero.
E poi, li chiuse tutti fuori da casa
sua. Li lasciò
esplodere in una bolla effimera, relegandoli allo status di ricordo
impalpabile e passeggero.
Si ritrovò ad insistere quasi
violentemente sulla
maniglia di ottone, si ritrovò perfino ad imprecarle contro,
eppure quella dannata finestra non ne voleva sapere di sigillarsi per
bene. Quel
vetro cacofonico e traballante l'aveva sempre lasciato,
quell'angusto spiraglio
aperto per lei.
Per lei che gli inviò un
messaggio, un attimo dopo.
Non
credere che mi sia dimenticata della torta: portala da me, che ceniamo
insieme. Vieni alle otto, e sii puntuale come me.
Ah, ho sillabato 'quella camicia fa
schifo', mentre me ne andavo. E poi te l'ho sempre detto, che non sai
giocare a briscola.
*
Mi trovate QUI,
se volete.
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