Frammenti di scenografia di Alkimia (/viewuser.php?uid=47113)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Lo squarcio nel buio ***
Capitolo 3: *** forse invece sai già tutto ***
Capitolo 4: *** L'onestà della paura ***
Capitolo 5: *** La medesima discesa ***
Capitolo 6: *** Aspettando domani ***
Capitolo 7: *** Tieni il braccio avanti agli occhi ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
STORIA
SECONDA CLASSIFICATA AL PAHNTOM OF THE OPERA CONTEST INDETTO DA KENJINA
E GIULYRDEROSE
Titolo:
Frammenti
di scenografia
Personaggi: Erik +
Personaggi secondari (Meg Giry; Joseph Buquet; Carlotta
Giudicelli&Ubaldo Piangi; Maestro Reyer; Andrè
& Firmin;
Madame Giry)
Genere:
Drammatico; Introspettivo
Rating: Giallo
Avvertimenti:
Raccolta di one-shot
Note
dell'autore: Per una volta ho deciso di scrivere di tutti
quei
personaggi secondari che nessuno considera (quasi mai), per
raccontare "la magia" dell'Opera Populaire e gli
avvenimenti legati alla presenza del Fantasma dell'Opera attraverso i
loro occhi... un punto di vista diverso dal solito. I vari capitoli
sono tutti brevi racconti a sé e sono collocati in momenti
diversi
della vicenda che conosciamo, per ognuno ho dato un'indicazione
cronologica giusto per essere più chiara.
Anche se la citazione che
ho scelto è presa dal romanzo, la fanfiction fa unicamente
riferimento al film.
Citazione
scelta: "È
davvero difficile riuscire a farsi amare in una tomba" (dal romanzo)
Prompt scelto: Teatro
NOTE bis: Storia diversa da quello che scrivo di solito, più
un esperimento che altro.
Ringrazio le "giudicesse" del contest per aver ideato la gara e per il
meraviglioso giudizio che hanno scritto (che riporto alle fine
perchè contiene spoiler) e faccio i miei complimenti alla
vincitrice, Keyra93
^^
FRAMMENTI DI SCENOGRAFIA
Prologo
"È
davvero difficile riuscire a farsi amare in una tomba"
Quel
posto conosceva il
buio.
Lo conosceva e lo
nascondeva. Lo teneva chiuso dentro di sé, avvolto tra i
velluti,
sepolto tra gli stucchi e i marmi.
Alle volte quel teatro
sembrava una tomba e i morti non risorgono dalle tombe o, se lo
fanno, allora sono dei fantasmi.
E lui per il mondo
era anche meno di un fantasma. Ma in quel teatro... nel suo
teatro...
Avrebbero potuto amare il
suo genio, ma nel fondo di una tomba non arriva l'amore.
Se non potevano amarlo,
avrebbero imparato a temerlo.
Ma che importava? Ogni
castello fatato ha i suoi spettri, spiriti irrequieti che assumono la
forma della paura di chi li guarda. La magia sfavillante dell'Opera
Populaire valeva qualche ombra, lo splendore poteva farsi sudario di
un fantasma senza perdere nulla della sua gloria.
Il problema si pone
quando le ombre, i fantasmi, sono troppo assetati di quelle magie e
di quelle glorie.
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Capitolo 2 *** Lo squarcio nel buio ***
Lo
squarcio nel buio
(Joseph Boquet)
[AMBIENTATA
DURANTE LA SERA DELLA RAPPRESENTAZIONE DE IL MUTO]
Nervosismo.
Serpeggiava
nei camerini, dietro le quinte del teatro, ben
nascosto dalla
sfarzosa scenografia, dal trucco, dai costumi, dalla mimica degli
attori...
Dietro le loro solite
facce, erano tutti nervosi anche se non volevano ammetterlo.
Affermare di avere paura
significava rendere la paura reale e nessuno voleva che accadesse
realmente qualcosa durante la prima de Il Muto.
Erano tutti ansiosi.
Anche lui.
L'uomo mandò giù una
lunga sorsata di cognac. Il liquore era di qualità scadente
ma
scaldava lo stomaco e alleggeriva i pensieri.
Sulla scia bruciante
dell'alcol l'ansia divenne meno pressante.
Dopo essersi scolato
mezza bottiglia non restava altro che un lieve prurito in mezzo ai
pensieri, molto simile alla pressione contro il cavallo dei pantaloni
quando indugiava più del dovuto nello spiare le ballerine.
Quando la bottiglia fu
quasi vuota, tutta l'ansia era ormai sparita. Joseph Buquet
cominciò
a trovare la situazione persino divertente. Del resto spaventare le
ragazzine lo faceva ridere e qualsiasi cosa il Fantasma dell'Opera
avesse in mente per quella sera, di certo lui non ne sarebbe stato
danneggiato.
C'era una cosa di cui
Buquet era certo: il Fantasma aveva bisogno di lui. Aveva bisogno che
qualcuno raccontasse storie paurose sul suo conto, perché i
fantasmi
si nutrono del timore che riescono a incutere e per incutere spavento
c'è bisogno che il buio resti un guscio intatto attorno alle
favole.
E Buquet era quello che teneva accesa la brace della superstizione,
quello che manteneva il buio intatto, che manteneva vivo il terrore.
Terrore che il Fantasma seminava come briciole di pane lungo il
sentiero. Un sigillo a forma di teschio sulle sue lettere, incidenti
più o meno gravi ai membri della compagnia teatrale,
sparizioni di
oggetti... anche sparizioni di ballerine, ultimamente.
Che fine avesse fatto la
piccola Christine Daae dopo la serata dell'Annibale sarebbe rimasto
un mistero...
Buquet rise, una risata
roca come lo scricchiolio delle assi di legno su cui camminava.
Evidentemente il Fantasma aveva i suoi stessi gusti, gli piacevano le
giovani ballerine, quelle fanciulle minute, donne nascoste sotto
strati di raso e organza e seni e fianchi ancora troppo piccoli.
Il Fantasma doveva
essersela spassata con la piccola svedese!
Buquet rise di nuovo.
Pensieri sporchi per un'anima sporca.
Sempre ridendo, il
macchinista si avviò al suo posto.
Lo spettacolo ebbe
inizio. Buquet pensò che la serata sarebbe stata
tremendamente
noiosa.
*
La
voce aveva un'eco
strana, come se il suono si fosse fatto cristallo e stesse assorbendo
i riflessi dei pendagli del lampadario. Come se ogni barlume di luce
obbedisse alla figura in nero comparsa sull'ultimo anello del
loggione.
“Non avevo forse dato
istruzioni che il palco numero cinque venisse lasciato
libero?”.
La luce si fece silenzio,
il silenzio si fece stupore, lo stupore si fece paura.
“Paura di cosa, branco
di idioti?”, Buquet sibilò le parole tra i denti,
snocciolando le
sillabe con la voce impastata dalla sbornia. Sentì il
Fantasma dire
qualcosa a proposito di un rospo e lo vide dileguarsi in un movimento
fluido, sparendo dietro la piccola porta che immetteva nel
sottotetto, dove c'erano le leve per muovere il lampadario.
“E' solo un uomo...”,
Buquet ghignò. Stava cominciando di nuovo a trovare la cosa
terribilmente divertente.
Giocare a rincorrersi,
come dei bambini. La sua mente annebbiata dal cognac gli fece
sembrare la cosa davvero davvero spassosa. Sarebbe stato ancora
più
spassoso quando avrebbe acciuffato quel tizio, quando tutti avrebbero
detto di lui che era l'uomo che aveva liberato il teatro dai suoi
spettri.
Il macchinista si lanciò
all'inseguimento della figura mascherata.
“Quel pagliaccio
travestito crede davvero di essere l'unico a sapersi
muovere?”,
Buquet sbuffò come un toro pronto alla carica.
Aprì la porta della
saletta con le leve del lampadario: niente. Ma un attimo dopo
avvertì
uno scricchiolio in lontananza e riprese a correre.
“Vedi amico? Ci so fare
anche io” disse muovendosi senza paura sulle assi sospese
sopra al
palco.
Poi un foro minuscolo si
aprì nella trama di buio e un riflesso bianco fece capolino
per un
solo istante e sparì. Buquet inseguì il bianco
attraverso il buio.
Il
macchinista ci mise
tempo a capire che i ruoli di inseguito e inseguitore si erano
ribaltati, ma quando lo capì smise di trovare la cosa
divertente.
Avrebbe voluto fermarsi ed esclamare: “D'accordo! Il gioco
è bello
quando dura poco...”. Ma era troppo tardi.
Si voltò di scatto
richiamato da un fruscio alle sue spalle. Il buio si aprì di
nuovo,
stavolta fu un vero e proprio squarcio, ne emerse un volto ghignante.
Non il volto mostruoso di cui raccontava alle ballerine, ma quegli
occhi e quel sorriso... quella doveva essere la faccia di benvenuto
che il diavolo riservava alle anime dannate sulla soglia
dell'inferno.
L'uomo pensò di
scappare. Inutile, tutto inutile...
Un pensiero gelido e
tagliente come una lama affiorò nella mente di Buquet,
fendendo la
nebbia dell'alcol e della paura. Il Fantasma dell'Opera aveva bisogno
di lui, perché lui era quello che manteneva vivo il terrore
con le
sue storie. Ma nessuna storia sarebbe stata più terrificante
della
sua morte.
Era così che il Fantasma
si sarebbe servito di lui. Per l'ultima volta.
Lo squarcio nel buio si
allargò ancora di più. Ora c'era un uomo e c'era
qualcosa che gli
serrava la gola. Poi il buio si richiuse per sempre.
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Capitolo 3 *** forse invece sai già tutto ***
Capitolo secondo
“... forse invece sai
già tutto” (Meg Giry)
[NON HA UNA COLLOCAZIONE CRONOLOGICA PRECISA, MA COMUNQUE PRECEDENTE A
QUANTO SI VEDE NEL FILM]
Quando hai solo
diciott'anni, quante cose che non sai...
Le assi di legno non emisero nemmeno uno scricchiolio quando i piedini
fasciati dalle scarpine di raso atterrarono sul palco.
Meg aveva eseguito una piroetta impeccabile. Un salto pulito, preciso
che le aveva regalato un istante perfetto, quell'attimo in cui le
ballerine sognano di essere sul punto di spiccare il volo.
Volare via era un sogno recondito che si agitava spesso nella sua
mente, poi scivolava sulla seta dorata dei suoi capelli e si dileguava,
sparendo come una bolla di sapone. Volare via era il sogno di tutti i
cuori giovani.
Dal crocchio delle sue compagne si levò un breve applauso.
Alcune applaudivano più svogliatamente di altre: invidiose! Piccole
serpi con i visi di bambole.
“Molto bene, Meg” disse Madame Giry in tono piatto,
quasi senza guardarla.
La ragazza trattenne un sospiro e tornò al suo posto,
insieme alle altre. Sapeva che sua madre non le avrebbe dato troppo
soddisfazione, non si aspettava niente di più e niente di
meno.
Quando tua madre è anche la tua maestra si creano distanze
grandi come oceani.
“Tocca a te, Christine” disse ancora Madame Giry
con il suo tono soave e insieme autoritario.
Meg scambiò un'occhiata complice con la fanciulla che sua
madre aveva chiamato.
Christine si umettò le labbra e fece un passo avanti, poi si
preparò a eseguire la sua piroetta.
Piccola, insicura, dolce Christine, che la sera sgattaiolava via verso
la cappella sul retro del teatro, e restava sola con il ritratto di suo
padre e con il suo Angelo della Musica.
Meg scuoteva il capo quando la sentiva parlare di angeli. Racconti
trasognati di fiabe irreali era tutto ciò che Christine le
aveva confessato ogni volta che Meg le aveva chiesto chi era il suo
misterioso maestro, come era possibile che il suo canto migliorasse
giorno dopo giorno.
Spesso la fanciulla bionda era rimasta interdetta, poi aveva capito che
Christine aveva diritto ai suoi segreti.
Quando hai solo
diciott'anni, quante cose che non sai...
Segreti già.
Meg spiò sua madre con la coda dell'occhio, la vide
sollevare lo sguardo per un rapido istante e fissare l'ombra che si era
mossa furtiva tra le assi, dove lavoravano i macchinisti. Durante le
prove del corpo di ballo non c'erano mai i macchinisti, su quelle assi
non avrebbe dovuto esserci nessuno.
E invece qualcuno c'era. Sua madre lo sapeva e lo sapeva anche lei.
Qualcuno c'era sempre. Il Fantasma dell'Opera vegliava sul suo teatro,
allungava dita di spettro e occhi spenti su ogni angolo di quel luogo.
Meg ebbe come l'impressione che sua madre avesse rivolto all'ombra nera
un cenno di saluto, il saluto di una coppia di vecchi amici, con il
viso disteso dall'abitudine.
Era una cosa che le procurava un brivido ogni volta che ci pensava.
Ma come Christine, anche sua madre aveva diritto ai suoi segreti.
E anche il Fantasma.
Forse era solo un'anima tormentata che ogni tanto strisciava via dalla
sua tomba e cercava di cogliere qualche frammento di vita. Frammenti
piccoli, minuscole sfere di luce, come quelle che si vedono quando si
spia dal buco della serratura.
Ma lei cosa poteva saperne?
Quando hai solo
diciott'anni, quante cose che non sai...
Cosa poteva saperne?
Ogni tanto Meg se lo chiedeva. Cosa poteva saperne del
perché sua madre osava guardare il Fantasma negli occhi.
Aveva provato a parlarle una volta, a farle capire che ormai era troppo
grande per le favole. Sua madre non si era presa il disturbo di
risponderle.
Ci aveva provato anche lei. Aveva provato a guardarlo negli occhi e
aveva visto cose... cose a cui non sapeva dare un nome.
Era stato solo per un istante, talmente breve che a volte la fanciulla
credeva di averlo immaginato: aveva visto degli occhi chiari, o meglio
piccole scintille di tempesta che avevano brillato di primavera quando
Christine si era staccata dal gruppo di ballerine per raggiungere il
centro della scena.
Era questo il segreto del Fantasma? L'amore platonico.
Tutto qui? Così poco?
Oh ma forse, l'amore di uno spettro ha un colore diverso. Troppo
difficile farsi amare in una tomba, troppo facile sognare l'amore dal
fondo di una bara.
E allora che amasse, che lasciasse battere il suo cuore nero di ombra,
che rubasse il sole spiando Christine, che sfiorasse la vita nello
sguardo di sua madre... che esistesse dentro e fuori le leggende
macabre dei macchinisti. Ma che non osasse soffiare morte su quel
teatro! Che non osasse fare del male a nessuno...
Perché c'era una cosa che Meg sapeva con certezza, che
riusciva a vedere, oltre la coltre di tutti quei segreti: se ce ne
fosse stato bisogno, lei lo avrebbe affrontato.
E sapere certe cose era un peso che era stanca di portare...
Quando hai solo
diciott'anni, forse invece sai già tutto, non dovresti
crescer mai.
NOTE: La
citazione (dalla canzone “Lettera a G” di Ligabue)
mi sembrava molto molto adatta e mi sono presa la “licenza
poetica” di immaginare che Meg abbia diciotto anni, del resto
nel film l'età non è specificata e anche se
sapere condiviso che Christine ha sedici anni, non è detto
che Meg debba avere esattamente la sua stessa età.
Questa è un'interpretazione molto personale del personaggio
di Meg. Nella mia mente malata la piccola Giry è una
“tosta”, una che sa stare al mondo (del resto il
teatro era un ambiente in cui se ne vedevano un po' di tutti i colori)
e ha capito che è meglio lasciare le cose come sono. Ma
è anche una disposta a lottare per il proprio mondo, per
questo, quando la storia prenderà la brutta piega che
conosciamo (quando Erik comincerà a dare di matto,
cioè), la ragazza si sentirà in diritto di agire
(e di mostrare alla folla il modo di raggiungere i sotterranei e
acciuffare il Fantasma e farne scatolette di simmenthal... meno male
che Erik se la da a gambe prima che loro arrivino...). L'ho immaginata
in un giorno normale, in un momento di “ordinaria
amministrazione” alle prese con le sue idee e le sue
consapevolezze, idee e certezze più forti di quanto il mondo
fuori, il “mondo dei grandi”, possa immaginare
(come spesso succede).
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Capitolo 4 *** L'onestà della paura ***
Capitolo terzo
L'onestà della
paura (Maestro Reyer)
[AMBIENTATA DURANTE LA SERA DELLA RAPPRESENTAZIONE DEL DON JUAN]
“Dove cammina
il mio destino, c'è un filo di paura”
La paura è tante cose, ma soprattutto è un
sentimento onesto.
Di cose oneste nella sua vita monsieur Reyer ne aveva parecchie. O
meglio, la sua vita era abbastanza vuota, ma ciò che ne
faceva parte era limpido e pulito come il fazzoletto che portava nella
tasca del doppiopetto.
In mezzo a queste poche cose, monsieur Reyer, aveva un paio di certezze
niente male. La prima certezza riguardava il fatto che tenere il capo
chino, la lingua al suo posto e i pensieri ben chiusi dentro la propria
testa, fosse il modo migliore per andare avanti. Un modo, tutto
sommato, onesto.
Monsieur Reyer era un uomo onesto. Onesto come la paura.
Il tempo gli aveva dato ragione, del resto. Essere il direttore
d'orchestra di uno dei più famosi teatri del mondo era una
bella soddisfazione. Anche questa, una soddisfazione onesta.
Se avesse voluto essere onesto fino in fondo, monsieur Reyer, avrebbe
dovuto raccontare che la sua posizione non era poi così
invidiabile. Vista da fuori l'Opera Populaire sembrava un grande
scrigno fatato, ma le ansie che tutti quelli che vi lavorano dovevano
sopportare per mantenerne vivo lo splendore erano cose di cui non si
poteva parlare, cose che avrebbero rovinato la magia. E comunque, c'era
una sola cosa che interessava alla gente: il Fantasma.
Anche monsieur Reyer si era sentito rivolgere domande riguardo al
famigerato spettro che infestava il prestigioso teatro di Parigi:
“Cosa ci dite del Fantasma dell'Opera, Maestro
Reyer?”
Ogni volta aveva risposto allo stesso modo, con un rapido sorrisetto e
la voce leggermente più acuta: “Se davvero esiste
questo Fantasma, egli non si è mai curato di me,
perché mai io dovrei curarmi di lui?”. Del resto,
la persona... essere... entità... che dirigeva il teatro
restando nell'ombra si era sempre dimostrato lungimirante nelle sue
direttive, ad esempio aveva ordinato il licenziamento di vecchi
musicisti il cui udito cominciava a diventare scarso, ma mai che avesse
menzionato lui, il direttore dell'orchestra, nelle sue missive, e
questo, monsieur Reyer ne era certo, era un bene.
Da buon uomo onestamente pauroso, monsieur Reyer seguiva una semplice
filosofia: non stuzzicare il Diavolo ed egli non comincerà
ad interessarsi alla tua anima.
Tuttavia, non curarsi del Fantasma dell'Opera era pressoché
impossibile quando persino il direttore del teatro cedeva al volere di
quel personaggio sconosciuto. Il maestro le aveva viste quelle missive,
fogli di pergamena sigillati con un teschio di ceralacca. Aveva
sbirciato quei fogli, aveva intravisto la calligrafia elegante ma
insicura in alcuni tratti come se quelle parole fossero state scritte
da una mano che tremava. E aveva avuto paura, come tutti, che le
minacce di quella voce invisibile venissero messe in atto.
Sapeva anche che i curiosi incidenti che capitavano alla signora
Giudicelli non erano frutto della negligenza di qualche macchinista o
della disattenzione di qualche inserviente. Anche lì aveva
paura, come tutti, della conseguente sfuriata della primadonna.
Quella sera la paura era forte, ed era di tutti, in maniera
così tangibile che monsieur Reyer per un po' si
sentì persino tranquillo in mezzo a tutta quell'apprensione,
il timore degli altri non era un timore onesto, era l'agitazione
istintiva dello scolaro il giorno prima di un esame che già
sa di poter superare. Le persone che avevano lavorato alla
realizzazione della serata sapevano che dopo i primi momenti di panico
tutto si sarebbe risolto: il Don Giovanni Trionfante sarebbe andato in
scena, in qualche modo il Fantasma si sarebbe tradito e sarebbe stato
catturato. I buoni avrebbero vinto.
“Non importa...” pensò il maestro Reyer
quando il sipario si sollevò e lui cominciò a
dirigere l'orchestra.
Il coro cantò la prima aria.
“... egli non si è mai curato di me...”.
Reyer sollevò la bacchetta con un gesto secco fermando la
musica mentre il tenore Ubaldo Piangi e un altro attore entravano in
scena.
Il direttore mosse appena il polso e la musica ripartì. Le
note erano nuvole di zucchero filato che si avvolgevano attorno a
quella bacchetta.
E poi la fanciulla, mademoiselle Daae.
E poi...
Il maestro Reyer continuava a tenere lo sguardo basso sul leggio,
seguendo la partitura. Non ebbe bisogno di guardare il palco per
rendersi conto che la voce con cui ora stava cantando il Don Giovanni
non era più quella di Ubaldo Piangi. Era una voce diversa...
una voce la cui bellezza avrebbe spaventato anche un cuore coraggioso.
Il cuore di coniglio di monsieur Reyer invece non ne ebbe paura, come
qualsiasi uomo che aveva messo la propria vita al servizio dell'arte,
il vecchio direttore d'orchestra poteva ammirare incondizionatamente le
cose belle, senza alcuna paura.
“Non importa... egli non si è mai curato di
me...” un pensiero onesto, anche stavolta.
Il Visconte aveva avuto coraggio a mettere in atto quel piano
disperato, ancora più coraggio aveva avuto forse Christine
Daae nel decidere di stare al gioco. Ma a cosa serviva il loro
coraggio? Monsieur Reyer se lo chiese mentre la voce dell'uomo
(perché di un uomo si trattava, ora potevano esserne tutti
certi) intonava una straziante dichiarazione d'amore.
E poi... l'urlo, l'orrore e l'istante di silenzio prima del tuono che
annuncia la tempesta.
“Non importa... egli non si è mai curato di me,
perché mai io dovrei curarmi di lui?”, di nuovo
quel pensiero, codardo ma onesto. Poi il lampadario che stava per
abbattersi sulla buca dell'orchestra insegnò a monsieru
Reyer che faccia avesse la paura vera.
____
NOTE: La citazione iniziale è presa dalla canzone
“Canto del servo pastore” di Fabrizio De
Andrè.
Il Maestro Reyer è un altro personaggio senza nome, non ho
voluto inventargliene uno perché l'ho immagino come un tipo
anonimo, chiuso dietro ai suoi timori. Anche se compare per mezzo
minuto in tutto il film, mi ha sempre fatto simpatia, quindi l'ho
voluto inserire nella raccolta, anche se ho dovuto inventarmi quasi
tutto di sana pianta (a parte il fatto che sia molto ansiogeno e
timoroso, non si evince molto altro su di lui guardando il musical),
però ho pensato: se Erik non scrive mai lettere in cui
chiede che venga mandato via, si vede che è in gamba XD
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Capitolo 5 *** La medesima discesa ***
Capitolo
quarto
La medesima discesa
(Andrè&Firmin)
[AMBIENTATA DURANTE LA SERA DELLA MASQUERADE]
“Pour une
bonne fois séparons-nous,
trés chers
messieurs et si belles mesdames.”
Le salite non sono altro che discese guardate nel verso sbagliato.
Monsieur Andrè e Monsieur Firmin avevano avuto davanti a
loro una salita e l'avevano percorsa. Ora avrebbero dovuto guardarsi
alle spalle e prendere nota della strada in discesa, della
rapidità con la quale poteva essere percorsa. Forse un
giorno lo avrebbero fatto, ma non questa sera: c'è troppa
luce intorno a loro.
La luce è quella della miriade di candele, fiammelle
scintillanti come diamanti che si riflettono negli specchi, sul dorato
degli stucchi e degli arredi. E in mezzo alla luce maschere, e sotto
alle maschere i sorrisi di Parigi. Quella bella, ricca e potente.
Quella che sa, che conosce il sapore di una coppa di champagne e del
tabacco di un sigaro proveniente dall'Italia.
Il foyer del teatro questa sera è come lo scrigno del
tesoro, come il portagioie della regina.
Andrè e Firmin sono troppo occupati a compiacersi per
volgere lo sguardo verso il nero, la crosta di ruggine sotto il dorato.
È strano, in quel teatro sembra che in certi punti la luce
finisca di colpo, come un sentiero di montagna interrotto da un dirupo.
La luce esplode fino a un certo punto, poi a distanza di un passo
comincia il buio.
Il buio c'è anche questa notte. È ovunque,
circonda la luce come un castello sotto assedio. È sotto di
loro e anche sopra le loro teste a pendere come una lama. E in mezzo al
buio un'altra maschera, e sotto alla maschera un altro sorriso, diverso
da quello di tutti gli altri. Il sorriso di qualcuno che ha assaggiato
coppe di champagne e tabacchi italiani, e acqua di colonia costosa, e
vesti di seta, ma che sulla lingua conserva il sapore del fango, che
sulla pelle porta le cicatrici del bastone. E dietro a quella maschera
c'è un uomo che rotola giù ogni volta che tenta
di superare la sua salita. Arriva a metà strada, resta in
sospeso tra la cima e il fondo, poi il vento lo ributta indietro.
Ma ora quell'uomo guarda dall'alto la gente festante raccolta nel suo
teatro. E guarda i due direttori trovandoli ridicoli, ma ridicoli in
modo tenero, come sanno esserlo i bambini quando giocano a fare i
grandi. Se non fosse stato divertente osservarli giocare con i suoi
giochi, il Fantasma dell'Opera non sarebbe rimasto in sordina
così a lungo. È stato interessante, quei due
uomini si sono rivelati così testardi, insolenti, superbi,
sciocchi...
“Sciocchi...” sibila il sorriso sotto la maschera a
forma di teschio. Le dita stringono una cartella di cuoio con dentro la
partitura di un'opera.
“Sciocchi... non più di quanto lo sia
io” capitolano infine i suoi pensieri.
Nella penombra i suoi occhi hanno il colore del cielo quando nevica.
“Ma ora basta”.
Sbatte le palpebre, il cielo nei suoi occhi ora è color
tempesta. Il buio vince la sua guerra contro la luce: nel suo teatro
è così che vanno le cose.
Le candele della balconata si spengono facendo piombare una strana
coltre di penombra sulla sala. L'ombra spegne l'allegria, toglie il
dorato e lascia la ruggine. La musica tace, le danze si fermano.
Lui è sopra di loro, li guarda dall'alto come un dio
vendicativo pronto a far piovere folgori.
Ora è in cima alla salita e loro, tutti loro, sono ai piedi
della discesa.
Ma sotto il cuoio dei guanti i palmi della mani sono sudati. Il
Fantasma sta riscuotendo il suo tributo di terrore, ma l'uomo dietro la
maschera si sente così... testardo, insolente, superbo,
sciocco. Proprio come quei due.
NOTE (quasi più lunghe della storia): La citazione
all'inizio è di una poesia di Paul Verlaine “Le
derniére fête galante”: per una buona
volta separiamoci, \ signori carissimi e belle signore
Qui ho voluto far trasparire più il punto di vista di Erik
che non parlare di Andrè e Firmin, le cui caratteristiche
(l'avidità, la superbia, la stupidità) rese
palesi dai pochi minuti in cui compaiono nel film sono già
state ampiamente messe in luce in altre fanfiction (compresa la mia
Quanta più notte che può). La storia è
un po' strana, leggermente diversa dalle altre, la “morale
della favola” voleva essere: tutti gli uomini sono uguali
perché tutti a loro modo desiderano qualcosa e arrivano a
fare anche cose stupide per ottenerlo, non sono sicura di essere stata
chiara nel racconto. Comunque sia, il Maestro ora desidererà
la mia morte per averlo in qualche modo paragonato ai “due
stolti che dirigono il suo teatro”, ma alla volte mi viene da
pensare che, in fondo in fondo, Erik fosse consapevole di quanto il suo
modo di fare fosse sbagliato.
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Capitolo 6 *** Aspettando domani ***
Capitolo quinto
Aspettando domani
(Carlotta Giudicelli & Ubaldo Piangi)
[AMBIENTATA DURANTE LA SERA DEL DEL DON JUAN, PRIMA DELLA
RAPPRESENTAZIONE]
Ubaldo Piangi fischiettava, placido come un elefante, come suo solito.
Aveva finito di indossare il costume di scena e guardava la sua
immagine nello specchio: quello che aveva davanti era un improbabile
Don Giovanni che di trionfante aveva ben poco.
Dal camerino accanto al suo provennero un insieme di suoni molesti,
rumori di qualcosa di pesante che cadeva.
Piangi sorrise e cominciò a contare: “Uno...
due...”.
Al suo tre, come se fosse il segnale di un prestigiatore, lo schianto.
Un monile di porcellana che veniva scagliato contro il muro e poi gli
strilli di Carlotta.
Chissà le costumiste che diamine avevano combinato con le
forcine. La signora Giudicelli odiava le forcine.
In verità erano ben poche le cose che la signora Giudicelli
odiava davvero, ma erano tante quelle che diceva di detestare tanto per
avere un pretesto per sbraitare. Del resto quello era un teatro e
ognuno doveva recitare la sua parte, anche quello delle primadonna
capricciosa era un ruolo da sostenere. A Ubaldo non dispiaceva, alle
volte trovava persino divertente scommettere con se stesso quanti
secondi Carlotta avrebbe impiegato ad esplodere e quanti minuti i
direttori avrebbero impiegato per cedere alle sue richieste.
Quella sera, la primadonna dell'Opera Populaire era più
nervosa del solito, perché per la prima volta i suoi
capricci non erano stati esauditi.
Quando si era vista assegnare quella parte così marginale
all'interno della rappresentazione di quel maledetto Don Giovanni
Trionfante i suoi strilli erano echeggiati per tutto il palazzo come se
fossero le Trombe dell'Apocalisse. Le avevano spiegato che era
importante che tutto fosse fatto secondo le disposizioni del Fantasma,
che quella era solo una messa in scena per catturarlo, che una volta
consegnato alla giustizia quel criminale tutto sarebbe tornato come
prima... ma lei non aveva voluto sentir ragioni e aveva continuato ad
abbaiare e inveire contro il teatro, Parigi, la Francia, l'Europa e
l'intera umanità per tutti i giorni dell'allestimento dello
spettacolo, e mai una volta che durante le prove fosse stata
collaborativa.
Durante una delle sue sfuriate, uno dei barboncini si era sentito
talmente solidale con la sua padrona che si era messo a ringhiare e
aveva finito per azzannare ad un polpaccio il Maestro Reyer.
Ma questa era Carlotta Giudicelli, la sua Carlotta. E Ubaldo Piangi
trovava che che quello sguardo arrabbiato e che quei suoi strilli
avessero un che di adorabile, come il pianto dei bambini. A lui piaceva
prendersi cura di lei, forse era l'unica cosa che sapeva fare davvero
bene.
Passato l'uragano di strilli e rimproveri che aveva imperversato nel
camerino della primadonna, ci fu silenzio. Un silenzio lungo e pesante,
come quello che si può udire in un cimitero.
Un brutto presentimento colse Ubaldo Piangi come uno spiffero sulla
nuca e lo fece rabbrividire, una morsa di superstiziosa angoscia gli
serrò la gola per qualche secondo e il corpulento tenore fu
costretto a passare un dito all'interno del colletto della camicia di
batista per respirare meglio.
Si guardò attorno, immerso nel silenzio e nella luce tremula
del lume e di poche candele. Deglutì nervosamente ed
uscì dalla stanza. Attorno a lui tutto era come sempre:
ballerine che correvano avanti e indietro, sarti armati di ago e filo
per rimediare ai danni di qualche attore maldestro che si era strappato
il costume, macchinisti e inservienti che si scambiavano le ultime
istruzioni.
Allora Piangi ebbe una chiara idea di cosa fossero le maschere: ritagli
di normalità fittizia su distese sconfinate di
straordinario. Perché quella sera aveva un che di
straordinario in effetti, quella poteva essere la sera in cui sarebbe
stato catturato il Fantasma dell'Opera, e a dirla tutta Ubaldo non si
sentiva poi tanto soddisfatto della cosa. Aveva sempre avuto
l'impressione che quell'individuo fosse l'anima di quel teatro, il
trucco dietro lo stupore della magia ma senza il quale la magia non si
compie. Ma quell'uomo aveva minacciato e ucciso, forse era giusto che
venisse fermato.
“Sembro una sciocca vedova!” una voce alle spalle
del tenore lo strappò ai propri pensieri e rese quegli
stessi pensieri stupidi, irrazionali, inconsistenti.
Carlotta si lisciava la seta nera della gonna, dietro di lei c'era una
cameriera inginocchiata a terra che tentava di sistemarle i pizzi
dell'abito. La cantante batté il ventaglio sulle mani
dell'inserviente e sospirò infastidita.
Ubaldo la guardò inclinando il capo,
“E invece questo abito ti dona, mia cara” le disse
“Sciocchezze! È lugubre e non si intona
né al mio incarnato né ai miei capelli. Persino i
miei cani hanno stentato a riconoscermi poco prima... ah, ma dopo
stanotte...”
“Dopo stanotte,” la interruppe l'uomo con lo
sguardo che si faceva profondo e tenero “perché
non ce ne andiamo? Torniamo in Italia e...”.
Il tenore lasciò la frase incompiuta, pronto a sentire la
donna sbraitare qualche frase ironica su quanto fosse assurda quella
proposta. E invece Carlotta se ne stava lì, a fissarlo
perplessa.
“E cosa?” chiese con un filo di voce, con la sua
voce dolce, quella che in quel teatro nessuno a parte lui conosceva,
“E, non so... ci sposiamo...”.
La donna ammutolì, stupita, smarrita. Boccheggiò
incapace di rispondere. Conosceva la risposta, semplicemente non si
aspettava che qualcuno, un giorno, le avrebbe rivolto quella domanda.
“Signori! In scena tra un minuto!”
esclamò il Maestro Reyer, seguito dai suoi orchestrali.
Carlotta Giudicelli era ancora lì, per una volta la voce le
era stata tolta davvero, e senza la diavoleria di nessun Fantasma.
Ubaldo sorrise,
“Non rispondermi adesso. Dopo stanotte ci sarà
tutto il tempo...”.
Tutto il tempo,
sì. Pensò Carlotta mentre qualcuno
la prendeva sottobraccio e la portava verso il palco.
NOTE:
Allora. Il mio collo sarà a disposizione dei vostri plassi,
ma prima lasciatemi spiegare.
Io sono convinta che quei due lì si vogliono veramente tanto
tanto bene. Piangi potrà apparire come un inetto, ma la sera
della Masquerade quando Erik arriva tuonando contro il mondo intero e
punta (assai poco galantemente, diciamocelo) la spada contro Carlotta,
lui che si fa avanti e si frappone tra lei e la lama è
tenerosissimo. E Carlotta, che mentre il teatro va a fuoco, cerca
Piangi, lo trova morto e incurante dell'incendio e tutto il resto si
butta sul cadavere e scoppia in lacrime è... è...
romantica. Per una volta ho pensato che potesse essere carino
raccontare il retroscena “dolce”, e anche triste se
vogliamo, della storia di questi due.
Prossimamente il capitolozzo conclusivo con la star dei personaggi
secondari ;-)
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Capitolo 7 *** Tieni il braccio avanti agli occhi ***
Capitolo sesto
“Tieni il
braccio avanti agli occhi” (Madame Giry)
[AMBIENTATA IN VARI MOMENTI, LA PRIMA PARTE SI SVOLGE PRIMA DELLA
MASQUERADE, POI C'E' UNA CARRELLATA SU QUELLO CHE SUCCEDE DOPO LA
MASQUERADE E INFINE IL “DOPO” CONCLUSIONE DELLA
STORIA ]
Le foglie che cadono quando arriva l'autunno non fanno mai rumore,
eppure stanno cadendo, il tempo muta, muta il paesaggio.
Il silenzio è solo un'illusione.
Lo pensò anche quella sera, seduta davanti allo specchio,
circondata dai suoi ricordi che prendevano forma nelle tante fotografie
incorniciate sul ripiano: suo marito in divisa, se stessa da bambina
con la sua famiglia, una foto di gruppo delle sue compagne di collegio,
lei da giovinetta con il viso innocente e i capelli legati in una
treccia, un'abitudine che non aveva mai perso.
E tutto intorno silenzio. Un'assenza di rumore che coincideva con
un'altra assenza.
Il Fantasma dell'Opera era sparito. La scia di sangue che si era
lasciato dietro dopo l'uccisione del macchinista era stata spazzata via
sepolta dalla tranquillità e dalla neve di quell'inverno
tutto sommato ancora mite.
Alla gente spesso basta il silenzio per dimenticare, per prendere nota
di un'assenza e rallegrarsene.
A Madame Giry il silenzio non piaceva. Specie se quel silenzio era il
sintomo della sua
assenza.
Il Fantasma dell'Opera non aveva lasciato il teatro, come avrebbe
potuto? In che altro posto poteva andare?
Ah già, ma tutto questo lei era la sola a saperlo.
Che cosa sgradevole il silenzio! Rende più pesanti i segreti
e più spaventoso il buio.
E i segreti di Madame Giry non erano cose da poco, come non da poco
erano le sue paure, i suoi timori.
C'era stato un tempo in cui aveva creduto che essere il solo tramite
tra il Fantasma e il mondo esterno le servisse per tenerlo a bada...
quand'era successo che la situazione si era rovesciata? Da
quand'è che era lui a tenere a bada lei come faceva con
tutti gli altri?
Cos'è che rende un uomo incapace di frenarsi?
“L'amore”, la donna rispose a se stessa in un filo
di voce.
Era sempre stata pragmatica lei, una donna dedita al fare, capace di
decidere su due piedi di nascondere un bambino nei sotterranei del
teatro e di tenere celata una verità così
mostruosa a chiunque, anche alla sua famiglia.
Si era sposata all'età giusta, come tutti si aspettavano che
facesse. Aveva messo al mondo una figlia. Era rimasta vedova ma non si
era persa d'animo, aveva rispolverato il suo unico vero amore: la
danza, era diventata la maestra del corpo di ballo dell'Opera
Populaire. Era andata avanti a testa alta, malgrado il suo sguardo ogni
tanto corresse a quegli occhi di ghiaccio che si accendevano nella
penombra come fiamme.
Credeva di essere in grado di... controllarlo.
“Tieni il braccio avanti agli occhi”, l'unica,
minuscola scheggia di verità che poteva permettersi di
rivelare.
Ora, quel monito che aveva ripetuto durante quegli anni le sembrava
assumere un significato diverso, come di un ordine rivolto a se stessa:
tieni il braccio avanti agli occhi, sii cieca, non guardare.
Già, si era imposta di non guardare. Aveva coperto gli
occhi, era andata avanti come sapeva fare.
E adesso, cosa stava accadendo? Perché? Fin dove...?
la risposta che le sue labbra mimarono all'immagine nello specchio fu
di nuovo la stessa:
“L'amore”.
Come si ferma un uomo innamorato?
Stavolta il silenzio non dette alcuna risposta, se non un pensiero,
sconnesso e appena accennato: è davvero difficile
riuscire a farsi amare in una tomba.
*
Il Fantasma non era sparito.
Erano trascorsi mesi di silenzio e buio, in cui tutti quelli che
lavoravano nel teatro avevano messo a riposo i loro pensieri, le loro
riserve, le loro paure.
Il Fantasma era tornato.
Non era più tempo di silenzio e segreti. Non era
più tempo di attese, di speranze, di notti insonni a
chiedersi quale fosse la scelta migliore.
I giorni avevano preso a rincorrersi. “L'Angelo vede,
l'Angelo sa...” li aveva ammoniti Madame Giry, ma loro ancora
una volta non avevano ascoltato. Avevano allestito quel suo spettacolo,
disposti a rischiare il tutto per tutto pur di catturarlo. Ma come si
ferma un uomo innamorato?
Nessuno aveva una risposta. Nessuno si era nemmeno posto la domanda: i
mostri non amano. Ci credevano tutti, meno lei, meno Madame Giry, che
di quel mostro
aveva visto qualcosa che nessuno aveva mai visto: le sue lacrime.
E certe lacrime bruciano, bruciano e divorano. Come quell'incendio,
come il fuoco a cui alla fine aveva lasciato il suo teatro.
Perché quella era la fine...
E alla fine Madame Giry aveva dovuto scegliere. Scegliere di togliere
il braccio dagli occhi, tentare di vederci chiaro tra le spire di fumo
che salivano verso il soffitto. Aveva scelto di aiutare il visconte,
mostrargli il modo di raggiungere i sotterranei... dargli la
possibilità di fermare il Fantasma.
Ma come si ferma un uomo innamorato?
*
Cos'era accaduto? La brigata antincendio stava spegnendo ciò
che rimaneva dell'Opera Populaire.
Un'alba incerta si levava sopra Parigi.
Madame Giry era lì. Il braccio avanti agli occhi gli
impediva di guardare fin dove arriva il dolore.
Poi la fanciulla e il visconte emersero da una botola. Stretti l'uno
all'altra per mettere insieme quel po' di coraggio rimasto. Piangevano
entrambi, piangevano di un pianto diverso di cui nessuno dei due
avrebbe mai più domandato conto all'altro.
Madame Giry non gli andò incontro, non disse nulla, non si
mosse.
E così l'avevano fermato. Come?
Come si ferma un uomo innamorato?
Di nuovo quella risposta, una risposta che non ammetteva
cecità, che urlava in mezzo al silenzio ed esplodeva in
mezzo al buio.
L'amore si ferma con
l'amore.
______
NOTE: E questo era l'ultimo. Madame Giry forse è il
personaggio secondario “meno secondario” che ci
sia. Tra l'altro nelle fanfiction è una presenza quasi
irrinunciabile, è una specie di star quindi mi sembrava
giusto lasciarle la scena finale e far pronunciare a lei
quella che ho sempre ritenuto essere la “morale della
favola” di POTO: l'amore si ferma con l'amore. Nelle
fanfiction viene sempre descritta come la vecchia amica che continua ad
aiutare Erik malgrado tutto, ma guardando bene il film ho sempre
pensato che fosse anche lei una vittima del Fantasma, soggetta alla
paura che il Fantasma incute e con la quale riesce a
“governare” il teatro. Per una volta ho voluto
mettere Madame Giry in questa veste, invece che in quella di complice
arguta e disponibile, non dimentichiamoci che quando la nostra donna
realizza che Erik ha passato il segno aiuta Raoul, anche se mentre lo
conduce ai sotterranei non ha il coraggio di arrivare fino in fondo...
Questa era delirevole e anche “ermetica”, ma mi
piaceva che i pensieri di Madame Giry fossero un po' la summa di tutta
la vicenda.
Grazie a Nakara e a Keyra per i commenti, e grazie a chiunque sia
passato di qui ;-)
Alla prossima.
Elby
____
At last, riporto il giudizio ottenuto al contest
Giudizio di Kenjina
Correttezza grammaticale 10/10
Italiano impeccabile, non ho trovato neanche il più piccolo
errore. Non posso aggiungere altro, bravissima!
Stile e il lessico 10/10
- Idem come sopra, hai uno stile fluido e curato, senza scadere nel
banale e nella pesantezza.
Caratterizzazione dei personaggi 10/10
L'idea di entrare nella mente di quei personaggi "snobbati" dal film mi
è piaciuta e la trovo in linea con quelli che, secondo me,
sono i caratteri di ognuno di loro. Quello che mi ha colpito, poi,
è la presenza sempre costante del Fantasma - e come potrebbe
essere altrimenti? Lui stesso, d'altronde, è il Teatro, e ha
influenzato le loro vite dal primo momento in cui vi hanno messo piede.
Originalità 10/10
Sarà che sono una patita di personaggi secondari (oltre che
di cattivi, ma questa è un'altra storia), ma l'idea spostare
l'attenzione su di loro, come già detto, è
ottima, perché attraverso i loro occhi hai potuto raccontare
scene di quotidianità (tenerissima quella tra Piangi e
Carlotta!) che magari vengono tralasciate solitamente per dare
più spazio a Erik e alle sue vicende.
Gradimento personale 5/5
Una raccolta ben scritta, ben articolata (geniale l'idea di lasciar per
ultimo la parola a Madame Giry, anche se personaggio secondario, in
realtà, lo è ben poco) e molto piacevole da
leggere. Sei riuscita a far trasparire la figura di Erik in ogni loro
pensiero, in ogni loro passo; d'altra parte
Utilizzo coerente dei prompt e delle citazioni 5/5
Superfluo dire che prompt e citazione sono inseriti alla perfezione.
Come detto prima il teatro, luogo dell'ambientazione, secondo me non
esprime solo il posto fisico, ma anche l'essenza stessa dell'Opera,
Erik. Non ho altro da aggiungere se non un bravissima!
TOTALE: 50/50
Giudizio GiulyRedRose
Correttezza grammaticale ( 10 / 10)
Grammatica impeccabile, non ho trovato nulla fuori posto o che stonasse
con il racconto: segni di punteggiatura, tempi verbali,
pronomi… Tutto perfetto. Ergo, mi sembra che il minimo sia
darti il massimo dei voti e farti i complimenti!
Stile e lessico ( 9 / 10)
Mi piace molto lo stile semplice e lineare che hai usato, hai descritto
con chiarezza i sentimenti e i luoghi (mi è piaciuto molto
come hai parlato del teatro nel quarto capitolo) e la lettura scorreva
che era un piacere. Un’unica ‘pecca’, ma
comunque non gravissima: io avrei usato forse un linguaggio un
po’ più attento e ricercato, dato che stiamo pur
sempre parlando di una vicenda accaduta nell’Ottocento, ma
comunque il lessico che hai usato è abbastanza a
metà strada tra l’”antico” e
il “moderno”, perciò va bene lo stesso.
Caratterizzazione dei personaggi ( 10 / 10)
In realtà qui potrebbe essere un po’ difficile
decidere, visto che hai interamente focalizzato l’attenzione
su personaggi secondari e di cui si hanno poche – o
addirittura nessuna – notizie. Ad ogni modo, volendo basarci
su quanto traspare dal film (visto che è su di esso che ti
sei basata), direi che anche la caratterizzazione dei personaggi
è ineccepibile: Joseph Buquet, Meg, la Carlotta, persino il
maestro Reyer che in genere non si fila praticamente nessuno, li ho
visti reali e tangibili per la prima volta, come se ti fossi limitata a
raccontare dei piccoli aneddoti di persone realmente esistite. Insomma,
anche qui caratterizzazione perfetta.
Originalità ( 10 / 10)
Assolutamente molto originale, non avevo mai letto una cosa simile
– soprattutto perché hai focalizzato
l’attenzione non sui personaggi per così dire
‘standard’, ma su quelli di contorno, quasi sempre
in secondo piano, che nessuno si degna mai di considerare
perché si tratta, generalmente, di antagonisti. Ho adorato
in particolar modo la one-shot dedicata a Carlotta, l’ho
trovata tenera e allo stesso tempo drammatica, visto che tutti noi
sappiamo bene che il suo sogno d’amore non si è
potuto concludere felicemente. Davvero brava.
Gradimento personale ( 5 / 5)
La parte che mi è piaciuta di più è
stata quella ambientata durante la sera della Masquerade, ovvero il
capitolo quarto: come hai detto anche tu nelle note, qui traspare
più di tutti il punto di vista di Erik, senza dubbio il
più ‘oscuro’ di tutta la faccenda.
Comunque, nel complesso mi sono piaciute tutte le storie, nessuna
esclusa – mi ha fatto molto piacere leggere questa raccolta.
Una parentesi che forse non c’entra niente con il gradimento
personale né con il voto, ma dovevo dirtelo: anche io ho
apprezzato parecchio il fatto che tu abbia lasciato il compito di
concludere questa raccolta a madame Giry, concordo appieno con quello
che hai scritto nelle note – e bellissima la frase finale, la
‘summa’: l’amore si ferma con
l’amore.
Utilizzo coerente dei prompt e delle citazioni ( 5 / 5)
La storia è interamente ambientata a teatro, che
è il fulcro di tutta la vicenda: ergo, il prompt
è stato utilizzato e sfruttato coerentemente. Anche la
citazione (tra parentesi, complimenti per la scelta, visto che
è una delle mie preferite!), presente nel prologo, ha un suo
ruolo – per amore, qui, non si intende solo quello di
Christine ma anche di tutti gli altri esseri umani che avrebbero potuto
amarlo per il suo genio – perciò anche questa
è ben usata.
Totale: 49 / 50
VOTO FINALE: 99/100
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