My unintended choice di NeverThink (/viewuser.php?uid=61554)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: irrazionalità ***
Capitolo 2: *** Capitolo uno: solo una risposta. ***
Capitolo 3: *** Capitolo due: il bacio. ***
Capitolo 4: *** Capitolo tre: ragazzina. ***
Capitolo 5: *** Capitolo quattro: ancora tu? ***
Capitolo 6: *** Capitolo cinque: reperto storico. ***
Capitolo 7: *** Capitolo sei: Bob e Rachy. ***
Capitolo 8: *** Capitolo sette: vegetariana. ***
Capitolo 9: *** Capitolo otto: facile come respirare. ***
Capitolo 10: *** Capitolo nove: musicista. ***
Capitolo 11: *** Capitolo dieci: amici. ***
Capitolo 12: *** Capitolo undici: giornata no. ***
Capitolo 1 *** Prologo: irrazionalità ***
Prologo
Irrazionalità
Si dice che
non ci sia niente di meglio dell’amore.
Si dice che l’amore elevi l’animo
dell’uomo, ingentilendolo.
Si dice che l’amore ti trascina, ti travolge e ti sconvolge.
In fondo è vero, lo so perché l’ho
provato.
Ma soprattutto si di dice che l’amore sia
irrazionale…
I suoi occhi, freddi come il ghiaccio mi osservavano crudeli. Grigi
come il
cielo in tempesta, impenetrabili come le nubi.
Sapevo di averla delusa, sapevo di non essere stato colui di cui lei
aveva bisogno.
Sapevo di non aver mantenuto le promesse fatte, sapevo che lei contava
su di
me.
Sapevo di averla ferita, e in quel momento tale consapevolezza mi
logorava
l’anima. Strascinandomi nell’uragano dei suoi
occhi, scuotendomi come solo lei
sapeva fare.
Avevo tradito la sua fiducia.
L’osservai allontanarsi lentamente, dolce e bellissima come
sempre, fiera ed
orgogliosa.
Fra la moltitudine di persone.
Avrei lottato, perché era lei, la mia scelta involontaria,
tale consapevolezza
mi colpii con la forza di una slavina.
Perdonami…
Dedicata alla mia
Ely… grazie di tutto.
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Capitolo 2 *** Capitolo uno: solo una risposta. ***
La canzone è unintended,
dalla quale ho preso spunto per alcuni aspetti della fiction.
You
could be my unintended
Choice to live my life extended
You could be the one I'll always love
You could be the one who listens to
my deepest inquisitions
You could be the one I'll always love
I'll be there as soon as I can
But I'm busy mending broken pieces
of the life I had before.
Muse, unintended.
Capitolo uno
Solo una risposta
Ci
sono dei giorni in cui ti alzi al mattino e vorresti solo rimanere sul
divano
di casa a fare zapping, mangiando pop-corn e bevendo coca-cola.
Ci sono giorni in cui ti alzi al mattino e vorresti scappare lontano,
lontano
da tutto. Rifugiarti ai Caraibi ed immergerti nel mare cristallino e
limpido.
Goderti la sensazione ed il calore dei raggi solari sulla pelle, i
capelli
incrostati e le labbra screpolate dalla salsedine.
Ci sono in giorni in cui invece non desideri altro che lavorare, fare
ciò che,
in fondo, ami , ciò che desideri da una vita. Ciò
che ti ha reso ciò che sei.
Vorresti andare sul set ed interpretare il personaggio che, facilmente
o
difficilmente sei riuscito a far tuo.
Ci sono dei giorni in cui vorresti prendere la tua chitarra e suonare
ai piedi
di una grande quercia, con la mente priva di pensieri, ricolma solo
delle note
che, immaginarie ti si presentano dinanzi agli occhi, e diffonderle
nell’aria,
attraverso le dita che, piano o veloci, si muovono sulla tastiera.
Poi ci sono giorni in cui, invece, non ti va di fare ciò che
dovresti fare. Ed
era ciò che stava succedendo a me in quel momento.
Mentre con la mente mi perdevo in spazi infiniti, nel mare azzurro dei
Caraibi,
nella bianca e sottile sabbia della spiaggia, qualcuno bussò
crudelmente alla
porta. Riemersi dall’oceano di fantasia e immaginazione mi
ero immerso
ritornando alla realtà… che di certo non era
tanto dolce ed assolata come
quella dei Caraibi.
Ero steso sul piccolo divano, con la testa che penzolava dal bracciolo
e
spirali di fumo che si alzavano nell’aria. La luce della
luna, pigra e chiara,
filtrava attraverso il vetro, illuminando la piccola stanza.
Si, quello non era decisamente una spiaggia caraibica. Sospirai e
spensi la
sigaretta nel posacenere poggiato ai piedi del divano, accanto alla
finestra
aperta.
Bussarono ancora alla porta.
-Sii?-, chiesi passandomi una mano fra i capelli, cercando inutilmente
di
dargli un ordine.
-Signor Pattinson, siamo pronti. -, disse una voce sottile.
Mi passai le mani sull’addome, sistemandomi la camicia
celeste. Facendo vento con
le mani cercai di cacciare via i residui di fumo dalla stanza,
chiudendo poi la
finestra. Afferrai la maniglia e aprii. Una ragazza, avrà
avuto ventotto anni,
o trenta, mi guardava con un sorriso che le andava da un orecchio
all’altro.
Aveva un auricolare, collegato ad un microfono che le sfiorava
l’angolo della
bocca, i capelli biondo platino e occhi castani.
-Salve. Allora, viene con le sue gambe e dobbiamo trascinarla con un
lettino?-,
chiese.
Alzai le sopracciglia e la guardai incredulo, -Direi che vengo con le
mie
gambe. -
-La prossima volta che decide di fumare apra la finestra. Mi sorprende
che non
sia scattato l’allarme antincendio. -, disse in tono
perentorio.
Corrugai la fronte, -Mi scusi. -, dissi chiudendomi la porta alle
spalle.
-Era al buio?-, chiese cominciando a camminare a passo svelto lungo il
corridoio.
-Si. -
-Perché?-, chiese svoltando un angolo.
Chiusi un attimo gli occhi, -Non sapevo l’intervista fosse
già iniziata. -,
dissi.
-Mi perdoni. -, rispose alzando le mani, come per difendersi.
Quella ragazza, dal gentile aspetto, mi dava ai nervi.
C’erano persone che caotiche si muovevano a destra, altre a
sinistra.
Chiamavano altre, ne mandavano via altre. Erano tutti pronti, tutti in
procinto
di iniziare. Una grande squadra. Per un attimo provai uno strano senso
di
deja-vù.
-Allora, -, disse la ragazza, -lei deve aspettare qui, guardai, -,
disse
indicandomi con l’indice un preciso punto del pavimento,
-quando la chiameranno
entrerà. -
Guardai confuso il punto che indicava con il dito.
Le sue sopracciglia si unirono, in un’espressione
d’attesa, -Cosa aspetta? Si
muova!-
Sgranai gli occhi, scioccato, -Scherza, vero?-
Sbuffò e afferrandomi per le spalle mi fece posizionare sul
punto da lei
indicato.
E’ pazza, pensai.
-Non si muova, arrivo. -, disse poi, allontanandosi. La seguii con lo
sguardo,
quasi sconcertato. Osservai la sua figura alta allontanarsi
sinuosamente,
facendo oscillare i capelli chiari e lisci.
Scossi il capo e guardai dinanzi a me. Allungai il collo, sbirciando
nello
studio gremito di gente. Si poteva chiaramente udire il
chiacchiericcio,
saranno state quattrocento, massimo seicento persone. Un numero
notevole di
persone.
Lo studio aveva una forma a semicerchio. Da un lato il pubblico
eccitato,
dall’altro ad estremità un divano rosso cardinale,
un paio di poltrone,
all’altra estremità, quella sinistra, opposta al
punto in cui mi era stato
ordinato di attendere, delle sedie girevoli, bianche, senza schienale.
Lì, un uomo
dai capelli sale e pepe, un abito grigio e una cravatta color salmone,
parlava
con un ragazza, sfogliando i fogli su una cartellina. In ragazzo mi
indicò ed
il signor sale e pepe, si
voltò a
guardarmi alzano un sopracciglio, poi annuii tornando a guardare i
ragazzo.
Sbuffai e mi mossi nervoso sul posto, incrociando le braccia.
-Ehi, Rob. -, mi voltai riconoscendo quella voce. D'altronde, come
dimenticarla?
-Ciao, Kris. -, dissi voltando il capo e osservandola mentre mi
affiancava.
Rimasi ancora incantato ancora un volta, come mille altre in
precedenza, sai
suoi occhi color del prato, limpidi, dolci e tentatori allo stesso
tempo.
-Tutto okay?-, chiese passandosi la mano fra gli ormai corti capelli
corvino.
-Si. -, in fondo, mentii. Mentii perché, ora, nulle era
okay. I suoi occhi, le
sue labbra, si erano insinuate nella mia mente, un chiodo fisso che non
riuscivo ad eliminare.
Quel bacio. Quel bacio era stato un
errore. Lo sapevo, eppure, togliermi dalla mente quelle labbra morbide
era un
impresa titanica, arduo il lavoro che nell’ultimo mese
cercavo di compiere… ma
togliermi Kristen dalla testa era… era difficile, se non
impossibile.
-A te?-, chiesi guardando lo studio.
-Anche. Solo un po’ stanca. -, disse sospirando.
-Tra set, interviste e set fotografici, il tempo libero è
poco. -
-Ed, a volte, del tutto assente. -, aggiunse con un mezzo sorriso.
-Esatto. -, risposi dandole una leggera gomitata. Lei perse appena
l’equilibrio, e sorridendo, a capo appena chino,
ritornò in equilibrio.
-Ci pensi mai a quella sera?-, chiesi d’un fiato voltandomi
verso di lei.
I suoi occhi si fusero con i miei in attimi infiniti, mi persi in quel
verde
dalle mie sfaccettature, nelle pagliuzze dorate intorno alle pupille.
-Robert, io… Michael… -, balbettò con
voce tremante.
-Ci pensi mai?-, insistetti.
Rimase a guardarmi negli occhi, seria. Cercai di scorgere nel suo
sguardo i
segni di una qualunque risposta, un speranza alla quale potermi
aggrappare con
i denti, con le unghie, ma non vidi nulla. I suoi occhi cristallini
erano
impenetrabili.
-E tu ti metti esattamente qui. -, entrambi ci voltammo di scatto verso
una
voce. La stessa voce di quella ragazza irritante che mi aveva ordinato,
nemmeno
fossi un bambino di otto anni, di rimanere fisso in un punto.
-Ma, signorina Sullivan, non trovo necessaria tutta questa violenza. -,
latrò
una voce sottile. La signorina Sullivan, ne dedussi, doveva essere la
bionda,
tenendo una ragazza per le spalle, la spingeva verso di noi.
-Oh, si invece, signorina Stevens. È troppo lenta. -,
sbuffò, -Ecco, lei si
metta qui. -, disse posizionandola accanto a Kristen alla mia sinistra.
-Ci riesco da sola. -, disse la ragazza scrollandosela dalla spalle.
Guardai la
scena con la fronte corrugata, esattamente come Kristen.
-Non ne dubito. Ma è lenta. -, disse Sullivan.
-Ah-ah, -, rise sarcastica l’altra, -come siamo divertenti,
Mary. -, ed si
portò le mani sui fianchi stretti.
-Taci, mostro. -, disse Mary, -Prova muoverti e sei fritta. -, disse
poi
allontanandosi.
Sgranai gli occhi, incredulo.
Che gentilezza, pensai.
La ragazza accanto a noi sbuffò.
-Ti odio. -, sibilò. Poi si voltò a guardarci,
come se si fosse resa conto
della nostra presenza solo ora, fissò i nostri visi
sconcertati.
Fece un risolino isterico, -E’ mia cugina. -, disse facendo
poi spallucce, -Ha
fatto così anche con voi?-
Il programma iniziò.
-Più o meno. -, mormorai ricordati quello che era successo
poco prima.
-Ehm… no. Sono venuta con un certo Chuck. -, rispose Kristen.
-Tu si che hai fortuna. -, disse la ragazza, sospirando.
-Si… direi di si. -, aggiunse perplessa Kristen. La ragazza
annuii e per un
momento calò il silenzio, interrotto ancora da lei.
-Oh, ma che maleducata. Io mi chiama Rachel. -, disse porgendoci una
mano.
Entrambi al stringemmo.
-Kristen. -
-Robert. -
Lei fece un risolino, -Lo so. Vado al cinema anch’io. -
Kristen sorrise, annuendo, -Giusto. -, ed io mi passai una mano fra i
capelli,
imbarazzato.
Rachel sorrise e poi scrutò nello studio.
-C’è parecchia gente. -, disse.
-Abbastanza. -, risposi e Kristen mi rivolse un’occhiata
fugace, che non
riuscii a ricambiare.
Poi mi resi conto della domanda che avrei dovuto fare a Rachel minuti
precedenti, una domanda stupida ed ovvia, che per educazione avrei
dovuto
porgere. Ma una domanda dettata anche dalla curiosità.
Perché lei era accanto a noi?
Il suo viso non mi era familiare, non lo avevo mai visto in tutta la
mia vita,
ne ero certo. Giovane d’età, era evidente, forse
anche più piccola di Kristen,
ma non potevo esserne sicuro.
Aprii la bocca per chiedere cosa facesse nella vita e come mai fosse
lì, ma una
voce stroncò la mia domanda sul nascere.
-Bene, dopo questo full immersion, nel mondo di Twilight, facciamo entrare i
primi ospiti di oggi. Amati da milioni di ragazzine, da mamme e nonne.
Coloro
che hanno fatto innamorare il mondo di questo magnifico mondo fatto di
magia e
misteri. Accogliamo con un applauso Robert Pattinson e Kristen
Stewart!-
-Tocca a voi!-, esclamò una voce alle nostra
spalle.
Sospirai ed ci dirigemmo in studio.
-Buona fortuna. -, ci disse in un sorriso Rachel, strizzando un occhio.
Prima che mettessi piede oltre le quinte mi voltai verso Kristen, -Mi
devi una
riposta. -, mormorai, prima di sorridere e sedermi sul quel divano.
*
Ed
eccomi qui. Ma
che pizza!, esclamerete voi, ma non importa,
non mi libererete di me tanto
facilmente gente.
Comunque, veniamo a noi. Non chiedetemi da dove mi sia uscito questo
capitolo perché
non ne ho assolutamente idea. Era un po’ che volevo fare una
fiction, o una
one-shot ambientata in uno studio televisivo…
così ecco qui questo sclero che,
spero, vi sia piaciuto almeno un po’.
Ci tengo davvero tanto a ringraziare quei sei angeli che hanno
recensito lo
scorso capitolo, perciò:
Luxi: ciao!
Sono felicissima tu abbia letto il prologo, davvero, credimi! Non
concordo con te su alcuni punti sei troppo buona!
Ma sono contentissima che,
leggendo ciò che scrivo, ti venga voglia di aprire word!
Insomma, solitamente è
una cosa che succede a me… grazie davvero per la recensione.
Mi ha fatto un
immenso piacere. Spero ti sia piaciuto il capitolo. A presto!
Roxisnotdied: ciao, bella! *_* ma che piacere la tua
recensione! Solo che…
questa fiction non è propriamente Robsten… fra
non molto, appena ne finisco
una, metto una fiction fra loro due, che sarà un
po’ strana, come struttura e
cose varie intendo. Spero di non averti delusa, ed in tal caso mi
rifarò XD E
ricorda che attendo ancora di leggere qualcosa di tuo. A presto! Grazie
di tutto,
davvero.
Xx_scrittrice_xX: ciao, Ely! Ed ecco
l’inizio effettivo della storia, che spero non abbia deluso
le tue aspettative.
D’altronde, te l’ho dedicata. Non devi ricambiare
nulla, sono io che ricambio
con questo, credimi. Fai così tanto per me… anche
se mi prendi in giro. Ti
voglio bene, sciocca.
Railen: ciao! Ma… le mie
prefazioni
sono sempre così oscene! E poi se tu ad essere il triplo
più brava di me, non
si discute. Comunque, sono contenta ti sia piaciuta, la prefazione! Mi
ha fatto
tanto piacere leggere la tua recensione, perché, come ben
sai, ti reputo una
delle autrici più brave. Spero di non averti delusa con
questo capitolo. E’
solo un inizio, okay… però… boh, non
so. Grazie mille per al recensione, Ire.
Grazie davvero di cuore <3
Nessie93: cia, Chià! Dai,
magari ci
hai preso… oppure no, di certo io non parlo. Come sempre. Il
mio è solo un
tentativo di ricordare la poesia, non è poesia, se lo
sarebbe… vabè, questi
sono altri discorsi. Aspetto con ansia le tue ipotesi, eh! Beh,
l’uragano… non
so se è sua amico, ma mi è uscita
così, di getto, come l’intero prologo,
più o
meno. Sono contenta ti piaccia! E spero di non averti delusa con
questo! Grazie
di tutto, Chiarì, ti voglio bene.
Fairwriter: mia amata, Juls! Non sai
quanto tu mi renda felice con la tua recensione, sul serio! Sono
contentissima!
*_* Sul serio
sembrano personaggi miei?
Cioè, si, infondo lo sono, però… ho
paura che Robert risulti sempre uguale. Sei
sempre troppo buona con me, socia. Spero ti sia
piaciuto anche questo primo capitolo. Ti
voglio bene, Cip, davvero. Non scordarlo,
anche se non ci sentiamo più tanto spesso <3
A
voi, mille grazie.
Un bacio, Panda.
|
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Capitolo 3 *** Capitolo due: il bacio. ***
You could be
my unintended
Choice to live my life extended
You could be the one I'll always love
You could be the one who listens to
my deepest inquisitions
You could be the one I'll always love
I'll be there as soon as I can
But I'm busy mending broken pieces
of the life I had before.
Muse, unintended.
Capitolo due
Il bacio
-Allora,
come ci si sente ad essere considerato il vampiro più sexy
del mondo?-, chiese
il signore sale e pepe in un
sorriso,
mostrando una schiera di denti bianchi, talmente perfetti che di sicuro
era
merito di capsule di porcellana.
Feci un risolino, passandomi una mano fra i capelli. Quante volte mi
era stata
fatta quella domanda? Oramai avevo perso il conto.
Kristen sorrise e si voltò a guardarmi, tirandomi una
leggera gomitata, come se
mi avesse letto nel pensiero, complice di quell’uomo. George,
si chiamava.
-Prossima domanda?-, chiesi imbarazzato. Tutti nello studio risero.
Scossi il capo e risposi. Per circa quindici minuti parlammo del film,
dei
personaggi, del cast, della storia, di piccoli divertenti aneddoti.
Evitai di guardare Kristen,
limitandomi a vederla.
Che di prende, Robert, continuavo a
ripetermi.
Come è possibile? Andiamo,
è tua amica.
Toglitela dalla testa.
Come se fosse possibile, rispose scettica una vocina nella
mia testa.
Era ufficiale, la pazzia stava facendo il suo crudele corso.
Si scherzava, si rideva, come nostro solito. C’era
complicità, ed una era la
risposta: l’alcool gioca davvero brutti scherzi.
Scende
giù per la cosa, fresca e frizzante, buona e rinfrescante.
Non sono un’amante delle feste, non lo sono mai stato, eppure
sono riusciti a
trascinarmi a questo party. Nikki, Jackson, Kristen.
Espiro del fumo che si alza in spirali sopra la mia testa,
nell’aria fredda del
giardino di questo… non ricordo nemmeno dove sono.
Le testa mi duole, pulsa di dolore. Mi passo una mano sul viso,
strizzando
forte gli occhi.
Dalla gola mi esce un gemito, poi una voce mi costringe ad alzare il
capo.
-Tutto okay?-, chiede, dolce e quasi preoccupata. Guardo i suoi occhi
verdi,
limpidi e cristallini, lucidi.
-Se riesci a spegnere il tir che si aggira nella mia testa…
alla grande. -,
dicco sorridendo appena.
Lei ride e si avvicina a me, passandosi una mano fra i capelli scuri.
-Sei troppo vecchio, Rob. -, dice premendo una mano sulla mia guancia.
-Sono troppo stanco, è diverso. -, mormoro perdendomi in
quel prato.
Sorride, e mi rendo conto di quanto sia bella.
Non cosa mi spinga a farlo, cosa mi spinga famelico verso il suo viso,
catturando
le sue labbra, quelle labbra che già altre volte, per altre
ragioni, si era
fuse alle mie.
Stringe la mani fra i miei capelli, mentre la sigaretta oramai finita
mi cade
dalle mani. Poggio la bottiglia sugli scalini del portico e avanzo,
camminando
verso il muro bianco alle sue spalle.
La sua schiena tocca il muro, e facendo leva su di esso, incrocia le
gambe alla
mia vita. Le mie mani su muovono dietro la sua schiena, sotto la
leggera maglia
bianca.
Non esiste altro che lei… le sue labbra, il suo
corpo… i suoi occhi.
Poi una voce chiama il suo nome. Deve essere Nikki… credo.
Sobbalza fra le mie braccia, e allontana di colpo il mio viso dal suo.
Si volta
verso la fonte di disturbo. Poi mi guarda e sgrana gli occhi, come
svegliandosi
da un sogno o… un incubo.
-Dio no, no, no…- , mormora quasi nel panico, quando si
rende conto di quanto
stretta sia al mio corpo.
Confuso, mi allontano appena, e si rimette in piedi.
-Io… Rob… -, balbetta.
-Kris?-, ancora la voce di Nikki. Si volta e scuote il capo.
-Devo andare. -, sussurra.
-Aspetta. -, le dico afferrandola per un braccio, sfugge alla mia presa
e si
allontana, con il peso delle menzogne sulle spalle.
-E tu Robert?- , alzo lo sguardo su
George, riaffiorando da quell’amaro
ricordo, estraniatomi per pochi attimi dal mondo reale.
-Io cosa?-,
chiesi confuso.
Sally, la co-presentatrice, che sedeva sulla poltrona accanto a quella
di
George, alzò un sopracciglio e George corrugo la fronte.
-Se conosci gli Awake the fallen.
-,
disse ovvio.
Scossi la testa, -Mi spiace, ma non li conosco. -
-E’ un gruppo rock-pop emergente. Ha lavorato per la colonna
sonora di un film
drammatico uscito nella sale questo venerdì, Golden.
Vuoi parlarcene tu, Sally?-, chiese il signor sale e pepe
alla donna dai capelli lunghi e castani, accanto a lei.
Lei sorrise, -Perché non farlo raccontare direttamente dalla
cantante degli Awake the Fallen?-,
chiese eccitata,
-Facciamo entrare Rachel Stevens!-, esclamò voltandosi verso
il punto in cui
eravamo entrati io e Kristen.
Rachel. Fu allora che alzai la testa, curioso. La vidi entrare, un
largo
sorriso ad illuminarle il viso sottile.
Finalmente capii chi era e perché fosse
lì.
La osservai, mentre si avvinava. Era alta quanto Kristen, se non
più bassa,
forse un metro e sessanta cinque, anche di meno. Aveva del color della
notte,
neri come la pece, ondulati e le ricadevano morbidi sulle spalle. I
capelli
davanti più corti, le coprivano un occhio, tanto che fu
costretta a portarseli
inutilmente dietro un orecchio per vedere dinanzi a sé.
Aveva ciglia lunghe,
folte e nere, che facevano da sipario a grandi occhi azzurri, lo stesso
colore
del mar dei Caraibi. La pelle rosea, le labbra piene.
Strinse la mano che Sally e George le porsero, poi sollevò
la mano salutandoci,
e sedendosi accanto a Kristen, poiché io ero ad un
estremità, vicino il
bracciolo.
Rachel rivolse una fugale occhiata ai cameraman e deglutì
rumorosamente. Fra le
varie telecamere, Mary, stringeva al petto una cartellina e la guardava
con
sguardo omicida, mentre si passava un dito davanti alla gola.
E’ pazza, pensai ancora un
volta.
-Allora, Rachel, vuoi parlarci tu del film?-, chiese Sally.
La ragazza dagli occhi azzurri sorrise, -Beh, parla di un ragazzo, un
pubblicitario che perde il lavoro. La ragazza ama, e che credeva lo
amasse lo
lascia. Si ritrova solo in balia di eventi poco piacevoli. Alla fine
trova la
sua ragione per continuare a vivere, e capisce che nella vita bisogna
guardare
oltre, guardare al di là delle cose, oltre
l’orizzonte. Ed è di questo che la
canzone da noi composta cerca di comunicare. -, disse incrociando la
gambe
affusolate, fasciate in scuri jeans scoloriti, -Anche se le cose vanno
male,
c’è sempre una via d’uscita. -
-Quindi il testo verte sulla voglia di ricominciare a vivere?-, chiese
George.
-Esatto. -, annuii Rachel.
-Parlaci degli Awake the Fallen, Rachel. -, e così la
ragazza prese a
raccontare della sua band e di come arano stati chiamati per il la
colonna
sonora del film.
Era un tipo eccentrico, Rachel, estroversa e divertente. Si trovava a
suo agio
su quel divano, facendo ridere i due presentatori, il pubblico e anche
me e
Kris, rendendoci partecipe di un discorso che nemmeno ci apparteneva.
-Non è facile scrivere una canzone d’effetto
attenendoti alle tematiche del
film. E’ come se tu sia costretto a scrivere su un
determinato argomento… il
tutto può apparire forzato. -
-Giusto. -, aveva annuito Sally.
-Magari Robert può trovarsi d’accordo con me.
Insomma, se la memoria non mi
inganna si è occupato anche lui della composizione di alcune
canzoni per un
film, no?-, chiese conferma voltandosi a guardarmi.
-Beh si… ma basta lasciarsi andare alle musica, alle
note… e… a ciò che hai nel
cuore, -, chinai appena il capo, evitando lo sguardo di Kristen,
sentendone
sulla pelle la potenza, -ed è fatta. -, alzai lo sguardo ed
incontrai quello di
Rachel. Mi fissava, con quegli occhi da cerbiatto, e non so
perché, ma non
riuscii a sfuggire alla catena invisibile che mi legò per
attimi infiniti ad
essi, come se volesse entrarmi dentro, cogliere ciò che
nelle mie parole
nessuno aveva colto, come a volermi comunicare cose che le parole non
erano in
grado si spiegare. E per la prima volta, mi sentii disarmato, nudo
davanti ai
suoi occhi di ghiaccio.
Poi Sally riprese a parlare e Rachel voltò il capo verso lei.
Scosso dall’intensità di quel suo sguardo,
ritornai a guardare la
presentatrice, chiedendomi che diavolo ci facessi lì.
-E’
stato un piacere conoscerla, signor Pattinson. -, esordì il
signore sale e pepe
porgendomi una mano.
-Piacere mio, signor Miller. -, dissi stringendogli la mano.
-Buona fortuna per l’uscita del film. Anche e lei, signorina
Stewart. -,
aggiunse ancora in modo formale, porgendo al mano anche a lei.
Kristen sorrise, stringendola e ringraziandolo.
Ci voltammo, uscendo dal palco e non desiderando altro che stendermi,
anche
solo per due soli minuti, sul divano di pelle finta del mio camerino.
Intorno a
noi c’era gente, troppa per i miei gusti in quel momento in
cui desideravo
avere intimità con lei, bisognoso di riposte.
-Non hai ancora risposto alla mia domanda. -, sussurrai al suo
orecchio,
piegandomi leggermente di lato, mentre camminavamo.
-Non credo sia il momento. -, rispose impassibile, fredda, glaciale.
-Non sarà mai il momento, Kris. Non fai altro che sviare il
discorso. -,
risposi allontanandomi.
-Più tardi. -, rispose a disagio, passandosi una mano fra i
capelli e guardando
in basso.
Sapevo che quel momento non sarebbe
mai arrivato. Avrebbe cercato un modo per sviare il discorso, una scusa
per
andare via, una scusa per non rispondere.
Scossi il capo, sbuffando. Poi qualcuno sentii qualcuno posare la mano
sulla
mia spalla e costringermi a voltarmi.
-Mi sa dire dov’è diretto, signor Pattinson?-,
chiese Mary, con un sopracciglio
alzato.
-Nel mio camerino?-, farfugliai confuso.
Mary si portò una mano su un fianco, poggiando tutto il suo
peso sulla gamba
destra, -E’ dall’altro lato. -
Sbattei la palpebre, -Oh. -
-Chuck, -, esordì lei schioccando le dita e chiamando
all’attenti un ragazzo
dai capelli color del grano che attendeva paziente alle sue spalle,
-Accompagna
la signorina Stewart nel suo camerino. -, disse senza scostare lo
sguardo dal
mio.
-Certo. -, rispose lui roteando gli occhi, senza che Mary se ne
accorgesse e
cominciò a camminare lungo il corridoio. Rivolsi un ultimo
sguardo a Kristen
che, bella come sempre, si allontanava. Rimasi a fissarla per attimi
infiniti,
prima che si voltasse, rivolgendomi un’occhiata fugace ed
indecifrabile. Rimasi
immobile, incapace di muovere un solo muscolo, mentre la guardavo
allontanarsi
al fianco di Chuck.
-Ehi? C’è nessuno?-, sentii sbuffare alle mie
spalle, -Ci vogliamo muovere?-,
insistette Mary, lei fonte di grande nervosismo e inquietudine. Non
risposi, mi
limitai ad annuire svogliatamente col capo e seguirla lungo il
corridoio che si
snodava sulla mia destra, speranzoso di mettere così a
tacere quella odiosa
voce sottile, col mio silenzio. E sembrò funzionare. Mentre
ci dirigevamo verso
il mio camerino, Mary si voltò a guardarmi, a pochi passi da
lei, senza dire
nulla, e fui grato a Dio, se mai esistesse, che dalle sue labbra non vi
uscisse
suono.
Fu inevitabile, per me, tornare con la mente a pochi minuti prima,
quando gli
occhi di Kristen sfiorarono i miei e, la mia mente, oramai
entità con vita
proprio vago, in spazi illimitati e senza che me ne accorgessi, gli
occhi che
essa ricordava non erano verdi, ma bensì turchesi, sotto i
riflettori dello
studio. Alla strana luce che essi emanavano, come consapevoli della
bellezza
del mondo, della felicità che attende ognuno di noi dietro
l’angolo. Erano…
luminosi… pieni di vita. Si ecco cosa avevano di
particolare, erano… vivi.
-Allora, fra mezz’ora passerà a prenderla il suo
autista. Perciò veda di non
addormentarsi. E di non fumare dentro per favore. -
-D’accordo. -, dissi roteando gli occhi, -Posso almeno
sedermi?-, chiesi
aprendo il camerino.
-Se può evitare… -
Mi voltai di scatto, sgranando gli occhi, scioccato.
-Era una battuta, Pattinson. -, disse lei, poi sbuffando e, scuotendo
il capo,
si allontanò, facendo oscillare i lunghi capelli biondi.
-Grazie. -, mormora interdetto, più a me stesso che a lei,
troppo lontana per
potermi sentire.
Mi chiusi la porta alle spalle, poggiandomi un attimo su di essa e
sospirando,
prima di dirigermi a verso il divano, prendendo il pacchetto delle
sigarette.
Mi stesi sul divano per qualche minuto, fissando il bianco soffitto.
Alzandomi
mi portai una sigaretta una fra le labbra, mentre cercavo
l’accendino nei
meandri delle tasche dei miei jeans, e mi diressi verso la finestra
accanto al
bagno. L’aprii tutta e l’aria pungente mi colpi in
pieno viso, facendomi
rabbrividire.
Fuori tutto era silenzioso. Il mio camerino dava sul parcheggio
deserto,
situato sul retro della struttura. Mi beai di quel meraviglioso
silenzio,
accendendo l’accendino, illuminando appena la stanza buia,
pronto a rilassare i
miei muscoli tesi.
Ma, ovviamente, non vi è pace nella vita di Robert Pattinson.
Ringhiai quando qualcuno bussò alla porta.
*
Hola gente! Allora non
ho molto tempo, anzi, ne ho davvero poco… ho una
cameretta da rifare ç_ç
Perciò
ringrazio i cinque angeli che hanno recensito lo scorso capitolo, con
la
promessa di rifermi nel prossimo!
Un grazie a SweetCherry, Lucy_Scamorosina, Railen, Xx_scrittrice_xX,
Nessie93.
Grazie,
ragazze, grazie di cuore! <3
A
voi, con immenso affetto,
Panda.
|
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Capitolo 4 *** Capitolo tre: ragazzina. ***
You
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But I'm busy mending broken pieces
of the life I had before.
Muse,
unintended.
Capitolo tre
Ragazzina
Fissai la
porta di legno bianco e maledii il colpevole di
tanto baccano. Tenendo a sigaretta fra le dita, dimenticandomi che da
un
momento all’altro avrebbe potuto scattare l’allarme
antincendio, mi diressi a
passo pesante verso la porta.
Afferrai la maniglia e aprii la porta con forse troppa forza, tanto che
i miei
capelli furono spostati dall’aria da essa mossa. Aprii la
bocca pronto a
maledire acidamente l’autore del soprassalto improvviso, ma
la voce mi morii in
gola per la confusione e non ebbi il tempo di formulare una domanda di
cortesia, o per richiedere semplici spiegazioni, che fui sballottato
dentro in
camerino. La porta si chiuse con un suono a dir poco sordo.
La sentii sospirare di sollievo, mentre si passava una mano fra i
capelli,
scostandoli dalla fronte. Poi alzò lo sguardo su di me e
sorrise, imbarazzata.
«Scusa. Ma era questione di vita o di morte».
Il viso di Rachel era illuminato da un timido raggio di luna che
filtrava
attraverso le fronde degli alberi nel parcheggio. Illuminava gli occhi
chiari,
rendendoli quasi simili al ghiaccio.
La osservai torvo, mentre aspettavo che l’irritazione e la
rabbia, provate
qualche attimo prima, tornassero. Ma così non fu. Ero
pervaso dalla confusione.
«Tecnicamente dovrei cacciarti», dissi torvo.
«Lo farai?», chiese stringendosi nelle spalle, come
un cucciolo spaventato e
tremante, pronto ad una possibile sfuriata da parte del padrone.
Quell’immagine
mi fece sorridere di tenerezza.
«Se mi dici perché hai osato rovinare il mio
momento di relax,», mi ricordai
della sigaretta che stringevo fra le dita e mi diressi verso la
finestra, prima
che scattasse l’allarme, «credo che non lo
farò», dissi aspirando del fumo e
espirandolo fuori, nell’aria gelida.
Rachel sorrise, portandosi una ciocca di capelli neri dietro un
orecchio.
«Allora, la questione è semplice. Sono stata
beccata a fumare in camerino.
Okay, c’era anche una birra, ma questi sono dettagli. E mia
cugina è una un
po’… inquadrata, non so se mi spiego.
Perciò sono, letteralmente, fuggita da
lei, prima che l’uragano si scatenasse. Ehi, guarda che in
camerino non si
fuma. Se ti vedesse sarebbe capace di denunciarti», disse, e
le parole le
uscirono come cascata dalla bocca.
Alzai un sopracciglio. «Da che pulpito viene la predica.
Attenta a come parli,
ragazzina, ti sto dando asilo politico, ricordarlo».
Lei incrociò le braccia al petto e corrugò la
fronte. «Non sono una ragazzina»,
disse.
«Quanti anni hai?», chiesi inclinando il capo.
«Diciotto. Diciannove a Dicembre».
«Vedi? Sei una ragazzina», dissi in un risolino,
scuotendo il capo e aspirando
ancora del fumo.
«Le ragazze maturano prima dei ragazzi. Teoricamente io
avrei… circa vent’un
anni. Tu quanti anni hai? Ventitré, no? Beh, teoricamente ne
avresti… ventuno.
Perciò è come fossimo coetanei», annuii
alle sue stesse parole.
La guardai, quasi scioccato da tale ragionamento, fissai i suoi occhi
chiari,
poi scossi il capo. «Ma in pratica tu hai diciotto anni, ed
io ventitré», dissi
in un risolino poggiandomi al muro.
«Dettagli, Pattinson», disse arricciando le labbra.
«Allora, me la offri una
sigaretta?», chiese prendendo a dondolare sui piedi muovendo
le braccia in
avanti ed indietro.
Sorrisi e presi il pacchetto dal tavolo per poi lanciarglielo. Lo prese
al
volo. Ne astrasse una portandosela alle labbra piene e mi
guardò negli occhi,
in attesa.
«Se avessi due
pietre l’accenderei da sola».
«Oh, si,
certo», farfugliai cercando l’accendino in tasca,
non trovandolo. Mi
guardi intorno cercando di ricordare dove l’avessi messo.
«Non ricordo… »,
mormorai, corrugando la fronte. Rachel sbuffò e
roteò gli occhi. Sentii i suoi
passi leggeri farsi sempre più vicini fino a che i suoi
occhi color del mare
non mi furono davanti. Si avvicinò e potei sentire profumo
di vaniglia, mentre
l’estremità della sua sigaretta veniva a contatto
con la mia. Aspirò, con aria
concentrata, lo sguardo fisso sulle sigarette.
Il fumo si alzò in spirali, quando si allontanò,
guardandomi negli
occhi.
Era giovane, ed era
evidente, ma dai suoi occhi trapelava una maturità che mi
lasciò interdetto, lì, a fissarli.
«Forte»,
disse sorridendo e poggiandosi con un gomito sul davanzale della
finestra.
«Cosa?»,
chiesi riemergendo dal mare di pensieri in sui mi ero momentaneamente,
ed involontariamente, immerso.
«Robert
Pattinson mi ha offerto una sigaretta nel suo camerino. Le mie
ex-compagne del corso di spagnolo avrebbero venduto anche la nonna per
essere
al mio posto», disse pensierosa, prendendosi il mento fra le
dita e
massaggiandoselo appena, e sembrava parlasse più a se stessa
che a me.
«Giusto, tu
hai preso il diploma a giugno», la stuzzicai ancora,
soffiando
dalla bocca fumo denso.
«E bisogna
aggiungere che non è facile coltivare la passione per la
musica ed
andare a scuola. Ho rischiato un esaurimento a Maggio. Esperienza
orribile»,
rabbrividì, scuotendo le spalle, e non potei non ridere.
«Il diploma
è importante».
«Se poi tua
madre fa il medico sei obbligata a finire la scuola. Credo
però ora
si sia rassegnata e non mi veda più, in un futuro
inesistente, in una sala
operatoria o dietro il bancone di un tribunale», disse
facendo spallucce.
Sorrisi.
«Non hai un bel rapporto con tua madre.».
«La tua non
è una domanda», osservò.
«Lo
so».
Mi guardò,
per un attimo con sguardo indecifrabile, poi arricciò le
labbra. «Molti
la chiamerebbero presunzione».
«Lo
so».
«Lo
è?», chiese prima di aspirare ancora del fumo.
«No».
Si passò
una mano fra i capelli color della notte, quasi distrattamente, come
fosse un gesto involontario. «Bene, perché se
così fosse», mentre parlava, con
voce bassa e suadente, osservò la sigaretta fra le sue dita
sottili, «ti
lascerei un bel marchio di fabbricazione fra gli occhi, qui
guarda,», disse poggiandosi
un dito sulla fronte, «appena sopra il naso» ,
sorrise e mi strizzò un occhio.
Buttai la mia sigaretta, oramai finita, fuori dalla finestra e la
guardai,
aspirare gli ultimi tre tiri della sua.
«Allora
posso dirmi salvo».
Annuii con la testa,
poi soffiando del fumo fuori dalla finestra buttò il
mozzicone.
Per alcuni secondi
rimasi a fissare i suoi occhi, puntati nei miei. Azzurro
nell’azzurro.
«Un
po’… sei come mi aspettavo», disse
inclinando la testa verso destra.
Corrugai la fonte.
«A cosa ti riferisci?»
«Beh,
sei… sembri sincero, quasi genuino. E’ difficile
da spiegare. Forse
ingenuo. No, no, ingenuo no.», si corresse scuotendo il capo,
«Si, sincero è la
parola adatta».
«Potrebbe
non essere così», dissi incrociando le braccia al
petto.
«Ovvio che
mi riferisco al primo impatto. Dalle foto sembri un tipo okay.
Abbiamo un parlato un po’, e la mia idea non è
cambiata. Parlo di una “conoscenza”
superficiale, Pattinson».
«E’
bello poter parlare con qualcuno senza che ti chieda
l’autografo», sorrisi.
«Cosa vuoi
che me ne faccia di una firma su un pezzo di carta?», chiese
strizzandomi ancora un occhio.
Feci un risolino,
scuotendo il capo. La sentii sospirare.
«Mary mi
starà cercando. Andrà su tutte le furie. E tu
dovrai riposarti
suppongo».
«Nah. Mi
preoccuperei più della giovane megera».
Rachel fece un
risolino, sommesso e quasi ricolmò di dolcezza.
«Sei troppo
gentile con lei».
Mi passai una mano fra
i capelli, fino a posarla sulla nuca, massaggiandomela.
«Allora
scappo. Mi piacerebbe poterti dire che mi dispiace di aver fatto
irruzione nel tuo camerino, ma non è
così», disse annuendo a dirigendosi verso
la porta.
«Vorrei
poterti dire che mi dispiace che tu abbia fatto irruzione nel mio
camerino, e che mi dispiace che non ti dispiaccia, ma non è
così», ridacchiai.
«Perciò
direi che è stato un piacere Pattinson», disse
sorridendo, indugiando
sulla porta.
«E’
stato un piacere Stevens».
Sorrise.
«Allora ricordi il mio nome per intero».
«Ovvio!».
Annuii col capo e si
portò una mano sulla fronte, a mo’ di saluto.
«Addio,
signore», disse con un largo sorriso sul viso, un sorriso che
illuminò
i suoi occhi turchese.
«Addio,
ragazzina», ridacchiai.
Mi fece la linguaccia
e uscii, chiudendosi la porta alla spalle. Lasciandomi,
lì, solo con ricordo del suo viso, ignaro del futuro.
Mi infilai la giacca di pelle
nera, e ficcando alla rinfusa
la mia roba nello zaino uscii dal camerino, diretto alla macchina.
Ero stanco. Sentivo la
stanchezza giungere piano fino alle ossa, crudele.
Sbadigliai e mi passai una mano sul viso e poi fra i capelli. Era tutto
il
giorno che ero in giro, svegliatomi prima che il sole sorgesse.
Stringendomi
nella giacca mi immaginai nel letto della mia temporanea casa, sotto le
lenzuola color del latte, calde e morbide. Sorrisi.
L’aria
fredda mi colpii in pieno viso, quando fui fuori, come una secchiata
d’acqua gelata. Il mio respiro si condensava
nell’aria.
Ancora sorrisi, questa
volta per un motivo differente. Nella mia mente si fece largo
il ricordo del
viso di Rachel, il suo sorriso sincero e spensierato, di chi si gode la
vita al
meglio, di chi sa cogliere le occasioni… di chi sa
divertirsi. Forse era
proprio quello che mi mancava: del sano e semplice divertimento. Forse
era
quello che dovevo fare, godermi la vita, ora, nel fiore dei miei anni.
Sospirai, dirigendomi
verso l’auto che parcheggiata mi attendeva. Volsi un
ultimo sguardo alle mie spalle e feci per rigirarmi, ma qualcosa
attirò la mia
attenzione. Oltre il vetro dell’entrata una ragazza, di circa
un metro e
sessanta, mi osservava, attorcigliandosi una ciocca di capelli fra le
dita. Mi
sorrise sa mi salutò con l’altra mano rintanata
nella tasca della felpa rossa.
Risposi, sorridendo e muovendo la mano anche io.
Rachel mi fece una
smorfia. Scossi il capo e feci un risolino. Le rivolsi un
ultima occhiata e salii in auto, pensando che Rachel Stevens fosse una
ragazza
fuori dai ranghi. Una ragazza che nell’ora nella
mezz’ora precedente e nell’ora
successiva riuscii a non farmi pensare a… Kristen.
*
SweetCherry:
ciao! Beh, Rachel… non lo so, mi diverte
un sacco scriver su di lei. Spero di non averti fatto attendere troppo.
Riguardo Kristen… di certo non parlo! A presto, cara! Grazie
*_*
Xx_scrittrice_xX: ciao, Ely! Che
farei senza te? *fa gli occhi dolci* Spero questo capitolo non ti abbia
delusa
e che il tuo parere su Rachel non sia cambiato. Ti voglio bene.
Lucy_Scamorosina: ciao! Ed ecco
svelato chi era alla porta! Spero il capitolo ti sia piaciuto, cara!
Sono
contenta la fiction sia di tuo gradimento, davvero! A presto! E grazie
mille
per la recensione!
Railen: ciao, Ire! *_* Sei sempre così
troppo gentile con me! Spero
di non averti delusa e, se così non fosse, che la
curiosità sia rimasta! Tu sei
fantastica. Grazie, di cuore. Il tuo parere per me conta davvero molto.
Nessi93: ciao, Chiarì! Le
tue
recensioni sono sempre così… ooooh *_*
Non invento similitudini bellissime O.o
e sono piuttosto comuni, credo. Sono contenta la scena del
bacio ti sia
piaciuta, avevo il terrore di renderla stupida e banale. Le tue ipotesi
e le
tue osservazioni è sempre un piacere leggerle. Su un paio di
cose ci hai preso,
però. Non ti dirò quali, ovviamente. Grazie
infinite per la magnifica
recensione. Ti voglio bene.
Qui è Panda che vi parla,
Appuntamento alla prossimo puntata.
|
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Capitolo 5 *** Capitolo quattro: ancora tu? ***
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Capitolo quattro
Ancora tu?
«So
che fra voi è finita.» dico fissandola negli occhi
verdi, afferrando la maniglia della porta d’ingresso di casa
sua.
La sua espressione
è indecifrabile, e vorrei, anche se pochi attimi, leggere i
suoi pensieri, capire i suoi più profondi segreti. Ma non ne
ho il potere, posso solo ammirare i suoi occhi limpidi e agognare le
sue labbra.
Sospiro, consapevole
che con un solo passo posso varcare la porta del mondo della follia.
«Robert…
è finita da tempo, in fondo.» mormora.
«Allora
perché?» insisto avvicinandomi a lei e sfiorendole
il viso con i polpastrelli.
«Non…
non ce la faccio… tu sei Rob, io e te lavoriamo
insieme…e», non le do il tempo di finire la frase
che poso le mie labbra sulle sue, morbide e delicate.
E’ inerme
dinanzi a me, il suo corpo rigido. Le mie labbra si muovono sulle sue,
con estrema delicatezza incitando le sue. Risponde al bacio.
E’ ciò che voglio. Le sue mani giocano fra i miei
capelli.
Mi ricamo un piccolo
spazio, un angolo di finta perfezione. Ciò che
verrà domani non mi importa… perché
è un altro giorno.
Si stacca, piano,
prendendo fiato, «Lasciamo del tempo, ti prego.»
dice con voce rotta e tremante.
Guardo i suoi occhi
sinceri e chiari… e non posso dire di no. Il cuore mi si
stringe in una dolorosa morsa di fonte al suo sguardo supplichevole e
disperato.
Premo il palmo della
mano sulla sua guancia e le bacio la punta del naso.
«Tutto il
tempo che vuoi.», e mi costa dirlo, dio se mi costa.
Disarmato dai suoi
occhi non posso fare altro che arrendermi.
Era
sorprendente come le mie mani si muovessero sulla tastiera di Charlie,
la mia amata, vecchia e secolare chitarra. Era sorprendente
perché la mia mente era altrove, mentre pigiavo sulle corde
sottili e le pizzicavo. Eppure si muovevano, armonicamente, prima
veloci, poi piano, poi di nuovo veloci.
La mia mente era come entrata in standby, allontanatasi dal mondo per
perdersi in spazi infiniti… per perdersi nelle bianche
spiagge caraibiche, il sogno di una vita, la vacanza perfetta.
Era passata poco più di una settimana dal giorno in cui
Kristen mi aveva fatto quella amare richiesta. New Moon era uscito
nelle sale. Le prime erano iniziate, le interviste ed i servizi
fotografici aumentati… e l’irrazionale forza
d’attrazione perso Kristen non era cessata. Forse avevo solo
bisogno di staccare la spina, di… svagarmi. Si, forse era
quella la chiave di tutto.
Mi passai una mano fra i capelli, dopo aver poggiato la chitarra sul
letto, mi diressi in cucina per un caffè.
L’orologio segnava le dieci del mattino, e nel giro di
quindici minuti sarei dovuto andare ad incontrare il regista di un
nuovo film. Avrei fatto parte del cast, una personaggio secondario. E,
a quanto capito, mi sarei dovuto occupare di una parte della colonna
sonora, o addirittura suonare all’interno del film. Era tutto
un forse, certo, ma il dover
integrare la musica con la recitazione era qualcosa che mi
rendeva… felice. Anche se non totalmente. Avevo come
l’impressione che qualcosa nella mia vista non fosse nel
verso giusto, come l’impressione di aspettare qualcosa di
indefinito, qualcosa che solo il tempo avrebbe portato. Era strano,
oppure folle, tale consapevolezza mi fece ridere d’isteria,
mentre mi versavo del caffè in una tazza.
Con la tazza fumante in mano mi diressi in soggiorno. Afferrai il
telecomando, sintonizzandola su un canale di musica, prima di ritornare
in camera per prendere una felpa. Dalla tv si diffondevano note
energiche di stridenti chitarre. Una voce femminile cantava, chiara
fino a farsi suadente.
Corrugai la fronte, non era una voce a me familiare, esattamente come
la canzone. del tutto nuova alle mie orecchie. Girando sui talloni, con
il busto rigido, ritornai in soggiorno incuriosito da quella voce e
dalla melodia.
Quando fu inquadrato il viso della cantante sentii il mio corpo
irrigidirsi, prima che un sorriso mi colorasse il viso. I capelli neri,
lunghi e lisci le incorniciavano il viso, i grandi occhi turchese,
sorridevano, eco della bocca.
Rachel. Quand’era stata
l’ultima volta che avevo visto il suo viso? Un mese? Si, un
mese.
La guardai, cantare con le labbra poggiate sul microfono
argentato, i capelli muoversi a ritmo di musica, mille sorrisi
illuminare il viso dalla pelle rosea.
Gioia.
Feci un risolino, scuotendo il capo, quando la canzone
terminò. Per qualche inspiegabile motivo, forse per la
musica, o per il sorriso di Rachel, contagioso anche dalla tv, tornai
in camera da letto, con l’ombra di un sorriso sul viso.
Vita.
Scesi dall’auto, infilandomi gli occhiali da sole dalle
spesse lenti nere. Affondai le mani nelle tasche della giacca di pelle
che indossavo, quando sentii il cellulare vibrarmi nella tasca.
Lo afferrai e lessi il nome che lampeggiava imperterrito sul display.
Corrugai la fronte confuso e portai il telefono all’orecchio.
«Pronto?»
«Ehi, Rob. Come te la passi?»
«Al solito, Kellan. Tu? Devo questa telefonata ad un preciso
motivo?» chiesi perplesso.
«Io, tutto okay. Ehi, non posso chiamare un amico per sapere
come sta? Ci deve essere per forza un doppio fine?»
Entrai nella struttura, fermandomi un attimo davanti
all’ingresso. «Kellan.»
«Okay, okay. Ti va una birra? Eliza è partita per
lavoro e sento il bisogno di affogare i miei dispiaceri
nell’alcool.», il suo tono di voce, rigorosamente
teatrale, mi fece sorridere e scuotere il capo quasi divertito.
«Io dovrei… »
«Dai Rob, non esci più di casa. Chi ti vede
più ormai? Ti farà bene, re della birra.
Dai.»
Guardai l’orizzonte oltre la grande vetrata
dell’entrata, perdendomi nel sole che illuminava il paesaggio
filtrato un sottile strato si nuvole.
Si, in fondo, non mi avrebbe fatto male. Era l’occasione
giusta per staccare, anche solo per poche ore. Prenditi
ciò che la vita di offre. Era una buona filosofia
e sapevo che dovevo seguirla. Piano, stavo diventando ciò
che non ero, mi stavo allontanando da… Robert.
La verità era che, guardandomi allo specchio, non
riconoscevo più il Robert di un tempo. Quello che usciva la
sera per divertirsi, che si godeva la vita attimi per attimo,
così, come si presentava ai suoi occhi. Stavo sbagliando e
sapevo che dovevo riprendere in mano le redini della mia vita. Uscire
quella sera sembrava una buona occasione e dire di no ad un Kellan
supplicante era del tutto impossibile.
Ai miei stessi occhi, la mia apparve una patetico tentativo di auto
convincimento.
Sospirai, sfilandomi gli occhiali. «Okay,
verrò.»
«Ti farò un monumento, Rob. Passo da te
per le nove.» disse esultante.
«D’accordo.» risposi con una nota di
passività nella voce.
«E per favore, abbandona almeno per una sera la maschera da
zombie.», ma, ora, il suo tono di voce non era
più scherzoso, era serio, lo sentivo, ed immaginai
l’espressione del suo viso, quella che non ammetteva repliche.
Sospirai. «Non c’è nessuno
zombie.» mentii.
«Ci vediamo dopo.» dissi riappendendo. Non gli
diedi il tempo di rispondere, o semplicemente non sentii la sua
risposta, data nel momento in cui allontanai il cellulare dal mio
orecchio.
D’un tratto, chissà per quale motivo, la serata mi
si prospetto dannatamente triste.
«Perciò,
direi che possiamo vederci domani. Proviamo qualche scena, per vedere
come ve la cavate, tutti insieme.» disse quello che era il
mio nuovo regista sistemandosi gli occhiali sul naso aquilino.
Annuii col capo, con viso inespressivo.
Ero seduto ad un tavolo ti vetro e metallo laccato di bianco, in una
stanza per le riunioni. Sparpagliati al tavolo, numerosi, eravamo forse
una ventina. Tutti i posti erano occupati, eccetto uno,
all’angolo in fondo. Non conoscevo nessuno, lì, se
non qualche nome udito per caso in tv o letto su una rivista. Ascoltavo
lo staff organizzare la giornata successiva, parlare delle prove, degli
accorgimenti che erano riusciti a fare quel giorno, sul copione,
provandone un paio di battute fra i protagonisti.
Non avevo ancora letto l’intero copione, l’indomani
mi sarebbe stato consegnato per farmi un’idea chiara e
precisa della trama, dei sentimenti e le preoccupazioni dei vari
personaggi. Così, avrei potuto passare ai testi, alla
musica. Il mio essere conosciuto anche come… musicista,
grazie a Twilight avrebbe agevolato la vendita del
film, secondo i dirigenti. Ma al riguardo nutrivo seri dubbi. Forse non
ero la persona adatta per un incarico del genere.
Ero perso nelle mie congetture tanto da non accorgermi più
di ciò che accadeva intorno a me, da non accorgermi delle
persone che mi stavano intorno, da non accorgermi della porta che si
apriva e si richiudeva, del sospiro di sollievo comune, delle battute
di un paio di attori, delle scuse per il ritardo, dovuto al traffico.
Fissavo con lo sguardo un punto indefinito del tavolo.
«Ora, Robert,», quando sentii pronunciare il mio
nome, seguito da un colpo di tosse, alzai il capo, guardando alla mia
destra, ad un capo del tavolo, «inizierà a
lavorare con la signorina Stevens al più presto. Le scene vi
saranno dato da Adam,», un uomo accanto a sé,
alzò la mano, «si occupa lui della colonna sonora.
Ci serve quella sottospecie di duetto.» continuò.
Trattenni un sorriso, quando lo senti pronunciare
“Stevens”, ricordandomi di quella stramba ragazza
esuberante.
«D’accordo.» dissi annuendo. Poi John,
l’uomo che aveva appena parlato, guardando di fronte se,
dall’altro lato del tavolo, alla mia sinistra.
«E le sarei enormemente grato, signorina se evitasse di fare
ritardo, in futuro.» aggiunse in tono perentorio.
«In mia difesa posso solo dire che non è stata
colpa mia, ma del traffico inaspettato». Di scatto voltai la
testa, al suono di quella voce assente per tutta la durata della
riunione, una voce decisamente familiare. Guardai accigliato il posto
che prima era vuoto, per dare conferma a ciò che mi
balenò nella testa nel giro di mezzo secondo. E la vidi.
Mi guardava con occhi luminosi, turchesi, l’ombra di un
sorriso sulle labbra rosee e piene.
Incredulo sorrisi e corrugai la fronte.
«Tu…» mimai con le labbra.
Un sorriso sghembo colorò il viso dio Rachel, e poi fece
spallucce.
Scosse il capo, piano e quasi impercettibilmente, guardandomi le mani
poggiate sul tavolo. Era lei, la Stevens con la quale avrei lavorato
per i mesi successivi. Probabilmente la mia poca sanità
mentale avrebbe preso il volo per il paese del non ritorno. Se era
davvero così allegra ed esuberante, come appariva, sarei
impazzito nel giro di poche settimane. Eppure, fissando il suo sorriso
ingenuo e amichevole, l’idea non mi spaventava.
«Bene, direi che per oggi abbiamo finito. Ci vediamo
domani.», John guardò i diretti interessati, tra
cui me e Rachel. «Puntuali.» precisò
soffermandosi su quest’ultima che, portandosi i capelli
davanti al viso scivolò sulla sedia, facendo ridere un
ragazzo dai capelli color dell’oro che le sedeva accanto.
«Otto del mattino.» sentii Rachel
scattare sulla sedia, drizzandosi e guardando ad occhi sgranati John.
«Qualche problema, signorina?» chiese lui
inclinando il capo di lato.
«Oh, no, no.» si affrettò a dire
poggiandosi allo schienale della sedia.
«Perfetto. A domani gente.» concluse dirigendosi
verso la porta. Tutti si alzarono dalle proprie sedie, diretti anche
loro all’uscita. Con la coda dell’occhio vidi
Rachel poggiare la testa sulle sue braccia incrociate, poggiate sul
tavolo.
Così, mi avvicinai a lei. «Ciao,
ragazzina.» dissi in un risolino.
*
Ringraziamenti.
SweetCherry: ciao!
Sono contenta di piaccia Rachel… è un
personaggio… un po’ difficile da maneggiare, non
so se mi spiego. Magari sarà più chiari con i
prossimo capitoli. Ad ogni modo, una ventata fresca fa bene a tutti.
Grazie per la recensione. A presto!
Lucy_Scamoarosina: ciao! Oh, davvero ti piace la
storia? *-* non sai quanto mi rendi felice! Grazie, grazie davvero di
cuore! Spero che anche questo capitolo ti sia piaciuto. A presto!
Railen: ciao, Ire! Io faccio 19 anni fra undici
giorni! Fico! Comunque… tu sei troppo gentile!
Insomma… cioè… davvero ti piace
così tanto? Detto da te poi è fonte di immenso
piacere, lo sai! Spero di non averti fatta aspettare troppo! E spero,
soprattutto, di non averti delusa con questo capitolo. Milla abbracci,
cara!
Nessie93: ciao, Chiarì! Beh, beh, sono
contenta ti sia piaciuto il capitolo, davvero tanto! Creare giochi di
sguardi in una fiction è piuttosto difficile, ma sono
contenta di non averti delusa. Diciamo pure che in alcuni punto ci hai
preso… ma figurati se te li dico. Come sempre la tua
recensione è meravigliose. Mi mette tanta gioia! Grazie,
cara, grazie davvero. Ti voglio bene.
Xx_scrittrice_xX: ciao, Ely! Ancora un
volta… che farei senza te? Sei un tesoro, sul serio! Oh,
sono contenta ti sia piaciuto lo scorso capitolo! Cavolo se mi fa
piacere *-* Sei troppo buona Ely. Spero di non averti in qualche modo
delusa con questo capitolo. A presto! Ti voglio bene.
KeLsey: Eri! Davvero ti piace la fiction? Davvero ti
piace Rachel? Ah, non sai quanto mi abbia reso felice leggere la tua
recensione! Spero di non averti fatto attendere troppo e che il tuo
interesse non sia scemato. Grazie mille, Eri. Grazie di tutto. (L)
A
voi, con affetto,
Panda.
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Capitolo 6 *** Capitolo cinque: reperto storico. ***
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my deepest inquisitions
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But I'm busy mending broken pieces
of the life I had before.
Muse,
unintended.
Capitolo
cinque
Reperto
storico
Rachel alzò il capo, guardandomi con occhi limpidi e
cristallini.
«Non sono una ragazzina.» disse con tono atono.
«Ho quasi diciannove
anni.» aggiunse poggiando il mento
sulle braccia ed alzando gli occhi per guardarmi in viso.
«Si, quello che è.» dissi muovendo la
mano in aria come se la cosa fosse
irrilevante, poggiandomi al tavolo con un fianco.
«Ti toccherà lavorarci con una
ragazzina.»
«Mmm… sopravvivrò.» dissi
facendo spallucce.
Rachel si mise dritta, poggiando i gomiti sul tavolo e sporgendosi in
avanti.
«Oh, Pattinson, credo che sarà io a dover
sopravvivere a te.» ridacchiò
alzandosi dalla sedia, portandosi poi la borsa rossa a tracolla.
L’osservai un
attimo. Era snella, minuta. Jeans chiari le fasciavano le gambe, ed una
maglia
bianca le scendeva leggermente larga lungo la vita stretta.
Corrugai la fronte, seguendola mentre si dirigeva verso la porta.
«Che intendi
dire?» le chiesi affiancandola.
«Beh,» sospirò, quasi affranta,
«la povera ragazza dovrà tener duro per non
impazzire, a causa di una delle star più importanti del
momento.» disse
annuendo poi alle sue stessa parole.
«Non sono un tipo esigente.»
Rachel si prese il mento fra le dita, accarezzandoselo. «Si
vedrà.» concluse
poi guardandomi negli occhi. Sorrisi, mentre i miei occhi ancora
fissavano il
turchese dei suoi.
«Lo sapevi?» chiesi dopo alcuni secondi.
«Cosa?»
«Che avrei lavorato con te. Si, insomma, quel che
è.»
Un angolo della sua bocca si sollevò verso l’alto
mentre si portava
una ciocca di capelli neri dietro
l’orecchio.
«Si, lo sapevo.»
«Prima che ci… conoscessimo?» chiesi.
Lei scosse il capo. «No, no. Due giorni dopo. Tu…
tu non lo sapevi?» farfugliò,
mentre scendevamo una scalinata.
«Avevo sentito dire che non avrei lavorato da
solo… ma non pensavo avrei
trovato te.»
«Deluso, eh?» chiese fissandosi la punta delle
scarpe da tennis.
«Sincero?» chiesi, ormai all’ingresso,
accanto alla grande vetrata che dava sul
parcheggio.
«Sempre.», e sorrisi delle sue gote intinte di
rosso.
«No.»
Sollevò lo sguardo, posandolo sui miei occhi. I suoi erano
impenetrabili,
cercai di andare oltre il vivido azzurro, ma mi fu impossibile.
«Bene.» disse sorridendo ed annuendo piano con la
testa.
«Lo so che lavorare con un ragazzo maturo come me
può… mettere in soggezione.»
dissi passandomi una mando fra i capelli e spostando tutto il peso del
mio
corpo sulla gamba destra.
«Maturo?» chiese scettica alzando un sopracciglio.
Annuii col testa prima di fare un sorriso a trentadue denti.
Lei scosse il capo, in un risolino. «Ragazzo molto maturo
direi.» disse poi
spostando il peso sulla gamba destra e passandosi una mano fra i lunghi
capelli
neri, scompigliandosi la frangetta.
«Cerchi per caso di imitarmi?»
Rachel spalancò la bocca, in un espressione scioccata e si
portò le mani sulle
guance. »Io? Non oserei mai, signor Pattinson.»
Risi, risi di gusto e nemmeno ricordavo da quando non succedeva. Era
semplice
parlare con la ragazzina, ogni cosa
veniva spontanea, e non mi sentivo in soggezione, non mi sentivo in
dovere di
dire cosa intelligenti o non mostrarmi per l’idiota che a
volte ero. Lei
scherzava, lei sorrideva, era naturale per me ricambiare.
Calò, fra noi, un momento di silenzio, e la vidi muoversi
sul posto, mentre cercava
di trattenere un sorriso guardandomi negli occhi. Poi, d’un
tratto sposto il
suo sguardo sull’orologio da polso che indossava e fece una
smorfia.
«Credo sia giunto il tempo di andare.» disse
ritornando a guardarmi. «Maledette
prove.» disse in un sibilo, sembrava che stessa parlando
più a se stessa.
Fu allora che ricordai. «Ehi!» dissi alzando una
mano, il palmo aperto verso
l’alto.
Rachel mi guardò, confusa.
«Ti ho sentita, in tv intendo». Mi guardava ancor
più confusa.
«Cantare. Ti ho sentita cantare.»
«Oh. Oh. Potevi dirlo
prima.» rispose
scuotendo il capo. «Suppongo sia stato traumatico per
te.»
«Nah, non più di quanto pensassi, a dire il
vero.»
«Grazie mille.» disse con voce squillante.
«Tu rimani qui?» chiese corrugando la fronte,
cercando qualcosa nella grande
borsa rossa.
«No, dovrei chiamare un taxi.» dissi grattandomi la
nuca.
«Hai già chiamato?» chiese guardandomi
in volto, tenendo ancora una mano nella
borsa. Scossi il capo. Ritornò a guardare e cercare dentro
la borsa. Solo
allora notai la fossetta del mento. Non era pronunciata, né
molto evidente, ma
c’era era lì e si vedeva illuminata dai deboli
raggi del sole. Le sentii
sbuffare e borbottare qualcosa di incomprensibile, mentre cercava nella
borsa.
«E’ tutto okay?» chiesi chinandomi appena
per poterla guardare meglio in viso.
«Ti accompagno io!» esclamò con forse
troppa voce, facendomi sobbalzare, tanto
che dovetti allontanarmi di un passo, colto di sorpresa da tele
reazione. Dalle
sue dita sottili ciondolavano delle chiavi. «Ops. Non era mia
intenzione
spaventarti.» rispose imbarazzata.
Feci un segno con la mano, per farle capire che la cosa non aveva
importanza.
Sorrise e prese a camminare verso l’ingresso.
La fissai, immobile, confuso e perplesso, senza sapere se fosse seria o
no. Ne
ebbi la conferma quando si voltò e mi guardò con
sguardo inquisitore. «Allora?
Devo portarti sulle spalle?»
Sì, era seria. Era la seconda occasione in sui parlavo con
Rachel Stevens , ad
essere sincero, quella ragazza non faceva che… sorprendermi.
Mi fece segno con la testa di seguirla e, sbattendo le palpebre
più volte
incredulo, la seguii fuori, nel parcheggio.
Camminava con movimenti fluidi davanti a me, non era goffa come poteva
magari
apparire a primo impatto. Era atletica, ecco. I capelli oscillavano,
mossi dal
vento fresco, così si infilò la felpa che teneva
in mano e potei sentire lo
scatto della cerniera.
Ponderai in quel frangente, durate il percorso alla sua auto, su
ciò che mi
stava succedendo. Da quando ero così aperto a nuova gente?
Ma soprattutto da
quanto non lo ero? Meditai sul poco tempo dedicato a me stesso, sul
tempo che
non passavo più fuori casa, sul tempo passato a crogiolarmi
nel dolore di una
fantasia irrealizzata, a rotolarmi nel pensiero di un futuro dove le
mie labbra
si sarebbero posate sulle sue ogni qualvolta ne avevo voglia. Non
c’era dubbio.
Kristen Stewart mi avrebbe mandato in manicomio. Le redini delle mai
vita
sembravano essersi rotte e sostituirle mi sembrava assurdo ed
impossibile. A
forse non avevo ancora ammesso a me stesso che in realtà non
volevo farlo. Ed,
in fondo, era così. Ma miope non me ne rendevo conto.
Mi liberai dalla fitta rete di pensieri in cui ero accidentalmente
caduto,
scuotendo il capo, come se potessi scrollarmeli dalla mente e vidi
Rachel,
dietro un maggiolino Volkswagen, fissarmi perplessa.
Sgranai gli occhi. «La tua auto è un reperto
storico… giallo canarino.» dissi
in un sussurro.
«Sul serio? Credevo fosse celeste?» disse
arricciando le labbra e facendo
spallucce, poi entrò in auto. Rimasi lì, fermo ad
osservare l’auto dal colore
più orribile del mondo.
«Senti,» alzai lo sguardo oltre il tettuccio
dell’auto, guardando Rachel il
viso, il mento sfiorava il tettuccio, «lo vuoi un passaggio o
no?» il tono
della sua voce era serio e nei suoi occhi non vi era traccia di ironia.
«Se
reputo la mia auto non degna…»
«Oh, no, no, no!» mi affrettai a dire agitando le
mani in aria. «Non volevo
offendere né te né la tua auto. Ma di certo non
capita spesso di salire su un
maggiolino giallo canarino.»
«Il taxi è giallo.»
Alzai un sopracciglio. «Effettivamente…»
La sentii sospirare e scuotere in capo in un risolino.
«Sali.» disse in tono
che non ammetteva repliche.
Seguii gli ordini e salii al posto del passeggero. Mise in moto e
partì lo
stereo. Vecchie note di chitarra di diffusero nell’abitacolo.
«Rolling Stons?» chiesi mentre usciva dal
parcheggio.
«Ci sono cresciuta. Ti piacciono?»
«Come fanno a non piacere?»
Le diedi il mio indirizzo. Sorrise e sterzò a destra prima
di premere di colpo
il piede sull’acceleratore.
«Ehi!» esclamai. «Vuoi per caso
ucciderci?» chiesi sgranando gli occhi e
tenendomi al sedile.
«Oh, cavolo, Pattinson. Rilassati.» disse
sbuffando. «La macchina è mia, decido
io come guidare.»
«No, perché sai… ci terrei ai miei
arti, o meglio, ci terrei alla mia vita.»
ironizzai mentre di immergeva nel traffico di LA.
«La mia bambina è sicura. E’ il
maggiolino più resistente al mondo, sai? E’
senza un graffio, ciò vuol dire che non ho fatto nessun
incidente.» ridacchio,
divertita.
«Molto rassicurante.»
Girò in un viale e sbattei la testa contro il finestrino.
«Ti spiace rallentare o guidare in maniera
consona!» esclamai con leggere
isteria nella voce.
«D’accordo, d’accordo.»
sbuffò e rallentando prese a guidare normalmente.
«Nuovo appunto. Non accettare mai passaggi da
estrani.» dissi guardandola, «…
su una macchina giallo canarino.» la provocai.
«Ehi, lascia stare la mia signora macchina.» disse
puntandomi un dito contro.
«Potresti tenere entrambe la mani sul volante?»
«Sei peggio di mia madre.» sbuffò.
«Maleducato.
Non si parlo così a persone che hai appena
conosciuto.»
Si, effettivamente quella era la verità, ma Rachel aveva
stravolto tutti gli
schemi di una civile conversazione. Lei era, davvero, fuori dal comune.
«Hai attentato alla mia vita. Si chiama tentato omicidio. La
gente finisce in
carcere per questo.»
«Certo, certo.» rispose riluttante.
Calò il silenzio, mentre la musica, bassa ci avvolgeva. Il
traffico era
scorrevole e Rachel sembrava sicura alla guida, padrone della sua auto
color
giallo canarino. Sembrava totalmente a suo agio al volante, e sembrava
quasi
costarle attenersi alle regole stradali. Sorrisi la notai guardarmi con
la coda
dell’occhio.
«Perché ridi?» chiesi corrugando la
fronte.
«Perché proprio gialla?» chiesi senza
pensarci. La parole era sgorgate dalle
mie labbra senza premeditazione. Fui sorpreso da me stesso, ma
soprattutto dal
momento di ilarità in sui sembrò cadere Rachel.
«Per non dare nell’occhio.» disse fra
risolini.
«Sul serio?» chiesi scioccato.
«No, certo che no. Non sono così idiota. Mi
piaceva. Il giallo, inoltre è uno
dei miei colori preferiti. E caldo, allegro, felice…
è il colore del sole,
dell’allegria, della gioia.»
«Si, credo tu abbia ragione. E’ anche uno dei miei
preferiti.»
«Quali sono i tuoi preferiti?» chiese rivolgendomi
una fugace occhiata.
Aprii la bocca per rispondere, ma Rachel mi ammonì.
«Anzi, non
me lo dire, proverò ad
indovinare.»
«Okay.»
«No, no! Ho un’altra ide! Suppongo che per il
prossimo mese io e te passeremo
molto tempo…a contatto, per via delle riprese e della
musica.»
«Reciti?» chiesi sgranando gli occhi. Lei annuii
col capo. «Waw, non lo sapevo.
E’ la prima volta?»
Annuii ancora col capo. «Mi lasci parlare, per
favore?»
«Si, scusa.»
«Allora, dicevo… dato che per ovvi motivi ci
vedremo spesso nel prossimo mese,
proverò ad indovinare i tuoi colori preferiti.»
«Come farai?» chiese inclinando il capo di alto e
corrugando la fronte.
«Sono una brava osservatrice, signore.»
«Vedremo ragazzina. »
L’auto si fermò ed io mi voltai verso Rachel, che
sorrideva… come sempre.
«Grazie per il passaggio.»
«Nah, figurati.» disse facendo spallucce e
mostrando i denti bianchissimi in un
largo sorriso.
«Sono sempre più convinto che mi farai
impazzire.» disse ridacchiando e
scuotendo il capo, mentre aprivo la portiera.
«Ed io che sarai tu a farmi impazzire.» rispose e
una strana espressione colorò
per pochi attimi il suo viso. Un’espressione che non riuscii
a decifrare, che
mi lasciò, lì, un attimo perplesso.
«A domani, Robert.»
«A domani, ragazzina» risposi sorridendo,
richiudendo la portiera. Mi fece la
linguaccia e ripartì, sgommando. Sospirai, sempre
più convinto che sarei
impazzito. E la cosa non mi dispiaceva.
*
Purtroppo,
mie care, non posso ringraziarvi come vorrei. Dato che ci tengo a
postare oggi
(me l’ero infatti prefissato), non riesco a ringraziarvi. Non
sto molto bene ed
il letto è molto felice di aiutarmi. Magari fra le braccia
di Morfeo il mal di
pancia passerà.
Un grazie particolare agli angeli che hanno recensito lo scorso
capitolo.
Grazie a Nessie93.
Grazie a Xx_scrittrice_xX.
Grazie a Lucy_Scamorosina.
Grazie a Railen.
Grazie a Ryry_ .
Dal profondo del cuore.
Al prossimo ringrazio per ‘bene benino’.
A voi, Panda.
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Capitolo 7 *** Capitolo sei: Bob e Rachy. ***
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But I'm busy mending broken pieces
of the life I had before.
Muse,
unintended.
Capitolo sei
Bob
e Rachy
«Una
birra.» disse Kellan prendendo posto su uno sgabello,
davanti al bancone di legno logoro ed invecchiato.
«Anche per me.» dissi poggiandomi on un gomito
sulla superficie. La barista,
una ragazza dai capelli rosso fuoco, annuì e ci sorrise,
strizzando un occhio e
allontanandosi per riempire due bicchieri.
Eravamo in un tipico bar irlandese, costituito da pareti di legno e
luci
soffuse, anche se nella periferia di Los Angeles. Era una buona
ricostruzione,
quel pub, in fondo. Kellan era passato a prendermi, come deciso, e
durante il
tragitto non aveva fatto altro che parlare. Distrattamente gli prestavo
ascolto. Inutile dire che già aveva scelto la meta,
perciò volente o nolente,
mi sarei dovuto adeguare.
«Te l’avevo detto che questo posto era
magnifico.» disse su di giri Kellan,
voltandosi verso di me.
Corrugai la fronte. «E’ passabile.»
ammisi guardandomi velocemente intorno.
Rise e scosse il capo. Aprì la bocca per replicare ma da
essa non vi uscii
suono, poiché la barista arrivò con due enormi
bicchieri di birra fredda. I
suoi occhi indugiarono sui miei, e una luce maliziosa lampeggio in
essi. Guardo
Kellan e poi, sorridendo, si allontanò.
«Eh, Rob, adesso fai colpo anche su innocenti ragazze dietro
un il bancone di
un bar.» scherzò Kellan.
«Ha guardato te allo stesso modo, quando siamo
entrati.» disse prima di bere un
sorso di birra. Fredda scese fino allo stomaco, solleticandomi
l’esofago.
«Non me ne sono accorto.» disse corrugando la
fronte e guardando la ragazza
che, dall’altro lato della stanza, gli sorrise maliziosamente.
«Ricordati di Eliza.» lo canzonai.
Kellan si voltò di scatto. «Non potrei mai
dimenticarla.», ed una strana luce
gli illuminò gli occhi chiari. «Che idea
assurda.»
Quella luce era il leggero canto del suo cuore, ne ero certo. Vi era
dolcezza,
quando pronunciava il suo nome, il tono di voce era morbido e denso
come il
miele. Sorrisi. Non era da Kellan essere così.
«Qualcosa mi dice che te ne sei innamorato.» dissi
bevendo ancora una sorsata
di birra.
«E’ così evidente?» chiese
quasi imbarazzato.
«Solo per un buon osservatore.» risposi. Quelle
parole, uscite senza
premeditazione dalla mia bocca, mi riportarono al pomeriggio, al viso
di Rachel
alla sua voce sottile e i suoi strambi discorsi. Fissando un punto
indefinito
del bancone, sorrisi a me stesso.
«Pensi a qualcuno in particolare?» chiese curioso.
Alzai il capo e feci segno di no con la testa, mentendo. Non mi andava
di raccontare
a lui di Rachel… anche perché non c’era
nulla da raccontare.
«E’ strano vederti così.»
«Così come?» chiese confuso.
«Così… così innamorato.»,
e sorrisi.
«Arriva il tempo, Rob, in cui l’amore ti ruba
l’anima.» disse. E sembrava
essere sincero, credere davvero a quel semplice, ma complicato,
concetto. Io,
in fondo, ci credevo. Avevo perso la testa per Kristen, ero convinta di
amarla,
di desiderala con tutto me stesso. Ed in quel momento era
così. Ma la vita
riserva sempre un sacco di sorprese, avvenimenti che non ci
è dato conoscere.
«Ma come siamo profondi oggi.» ridacchiai.
«Il momento arriva per tutti.» disse serio.
Lo guardi negli occhi per istanti interminabili, poi feci un risolino e
scioccai la lingua prima di affondare il viso nel bicchiere.
Forse… arriva per tutti…
La mattina
successiva la sveglia suonò alle sei ed, io, ero
andato a dormire solo quattro ore prima.
Presi un foglio dal taccuino in cucina, vicino a telefono e, con una
grafia da
far invidia ad una scimmia, scrissi disordinatamente “non
farsi abbindolare
dalle crisi esistenziali di Kellan Lutz”. Presi una semplice
calamita nera e
appesi il foglio al frigo, lì, in bella mostra. Sorrisi
soddisfatto di me
stesso, prima di bere un buon caffè, che riuscì
appena a darmi la forza per
chinarmi ad allacciarmi le scarpe.
La solita macchina, mi lasciò davanti
quell’edificio che antro poco avrei considerato
la mia seconda casa… forse. Scesi, e sospirando salutai
Oliver, l’autista, e mi
diressi verso la grande entrata affiancata da grandi vetrate. Arrancai
sui
pochi scalini che mi separavano dall’entrata, quando udendo
lo stridio delle
ruote, mi fermai e
mi voltai di scatto.
Una macchina sgommò prima di premere il freno e fermarsi di
colpo in un posto
macchina del parcheggio.
Osservai ad occhi spalancati la piccola macchina gialla, sapendo bene
di chi
fosse. Lì, diversa fra la moltitudine di macchine nere e
grigie. Sì… diversa.
La portiera della macchina canarino
si aprì di scatto, per poi essere sbattuta con violenza.
Rachel, con i capelli
arruffati, borsa e felpa fra la braccia, si
precipitò verso l’edificio.
D’un tratto, però,si voltò e
ritornò alla macchina,
chiudendola con la chiave. Risi, dell’immagine di quella
ragazzina con i
capelli arruffati e la fronte corrugata di preoccupazione.
Prese a correre, saltando agilmente un’aiuola che divideva
l’entrata
dell’edificio dal parcheggio, senza esser costretta ad
aggirarla. Quando arrivò
in prossimità dei gradini si bloccò, incontrando
il mio viso.
Arricciai le labbra e inclinai il capo di lato. «Il
traffico?» chiesi alzando
poi un sopracciglio.
Rachel sbuffò e rabbrividì quando una leggera
folata di vento mattutino le
sfiorò le spalle. «Okay, okay, ho fatto
tardi.» sbuffò alzando gli occhi al
cielo e infilandosi la felpa. «Scusa, ti dispiace
tenermela?» disse lanciandomi
la borsa rossa che riuscii a prendere per un soffio.
«Ma certo.» mormorai trattenendo una risata.
«So che vuoi ridere.
Perciò fallo. Ma
ricorda, la testa è tua.» aggiunse come fosse un
insignificante dettaglio.
Sorrise amorevolmente, facendo spallucce.
Sospirai, e gli porsi la borsa quando allungò il braccio.
«Buono a sapersi.» dissi osservandola. Gli occhi
chiari erano turchese vivo
alla luce del mattino. I capelli erano color della pece anche alla
luce…
involontariamente mi ricordarono quelli di Kristen e scossi il capo,
cercando
di cacciare via dalla mente l’immagine del suo viso. Rachel
se ne accorse, e
fraintese. Si spostò appena col busto, per guardare la sua
immagine riflessa
nella vetrata dietro di me. Sgranò gli occhi e
indietreggiò col capo,
scioccata. «Oh, cavolo.» disse poi affinando lo
sguardo e avvicinando
nuovamente il capo, con gli occhi ridotti a due fessure. «Ma
sono io quella?»
chiese prendendo una ciocca di capelli e sollevandola in aria, quasi
fin sopra
il capo.
Feci un risolino. «Ti chiami Rachel? Occhi chiari e capelli
scuri?»
Annuì ed alzò lo sguardo su di me.
«Bene, allora sei tu.» dissi sorridendo.
«Ah-ah, divertente. Sto morendo dalle risate.»
disse mettendosi eretta e
salendo gli scalini, passandosi la mano fra i capelli, nel tentativo di
domarli.
Sorrisi e scuotendo appena il capo la seguii dentro
l’edificio.
«Ehi, armadio a due ante, mi fai entrare?» chiese
Rachel con voce angelica
quando fu davanti ad un addetto alla sicurezza.
«Certo signorina Stevens.» rispose lui accennando
un inchino degno dei tempo
del seicento. Scordante con l’aspetto burbero
dell’uomo. Rachel rispose anch’ella
con un inchino, fingendo di tenersi un vestito immaginario con le dita
esili.
L’uomo ci fece entrare.
«Buona giornata, Steve!» esclamò allegra
e raggiante Rachel.
«Buona giornata anche a te Raky!» tuonò
l’uomo.
«Oh andiamo, Steve! Non credi basti?»
«Mmm… no, Raky.», e le
strizzò un occhio. Rachel sbuffo e alzò la
braccia al
cielo per poi farle ricadere sui fianchi, borbottando qualcosa di
incomprensibile, mentre la porta alle nostre spalle veniva chiusa. La
risata
sommessa di Steve svanì.
«Raky?» chiese confuso corrugando la fronte.
Rachel, che camminava davanti a me, si voltò di
scattò.
«Sssh!» sibilò portandosi un dito sulla
labbra. Si guardò un attimo intorno
accigliata, poi si ricompose, mettendosi dritta.
«E’ un… soprannome che mi ha
affibbiato Steve e non voglio che circoli. La mia carriera potrebbe
essere
troncata sul nascere.» spiegò voltandosi
teatralmente e prendendo a camminare,
fiera.
«Rachel?» la chiamai incrociando le braccia al
petto.
«Si?» si voltò lei. Le indicai un
cartello con le indicazioni per la stanza
occupata il giorno precedente.
«Oh, sì.» disse scuotendo il capo,
«giusto. », e prese a camminare dalla parte
opposta, verso di me. Fu allora che non riuscii a trattenermi, sfociai
in un
momento di forte ilarità e Rachel mi guardò
scioccata. Poi l’espressione sul
suo viso mutò e, nel giro di due secondo, si
piegò su stessa tenendosi l’addome
per le troppe risate.
«Adiamo, ragazzina.» disse poi aiutandola a
mettersi eretta e cercando di darmi
una controllata.
«Grazie… Bobby.» disse prendendo a
camminare ancora fra le risate.
Sconcertato la fissa per alcuni istanti… Bobby?
«Ehi!» esclamai.
Entrammo nella stanza dalla pareti color del latte e il grande tavolo
di vetro
e metallo, in perfetto orario… più o meno. Tutti
erano già seduti ai loro
posti, quelli del giorno prima, e parlavano fra loro, sollevando nella
stanza
un fastidioso chiacchiericcio, più simile ad un insistente
cicaleccio.
John e Adam, parlavano fra loro, maneggiando scartoffie e annuendo, o
scuotendo, di tanto in tanto, la testa. In silenzio Rachel prese posto
ed, io,
girando attorno al tavolo raggiunsi il mio, guardando la ragazzina
con la coda dell’occhio. Fissava un punto indefinito,
oltre la finestra, ma non potei vedere e capire quale. A tracolla aveva
ancora
la borsa rossa, un colore che sembrava una costante in lei…
almeno, nelle poche
occasione in cui ero stato giovato della sua compagnia.
Scuotendo il capo, come riprendendosi dal momento di ipnosi nel quale
era
caduta, si tolse la borsa e la felpa. Rise.
Corrugai la fronte e mi voltai a guardarla e nello stesso istante i
suoi occhi
turchesi incontrarono divertiti i miei.
«Ridi da sola, adesso, ragazzina?»
sibilai senza voce, aggrottando la fronte e sorridendo appena.
«E’ un reato… nonnino?»
mimò con le
labbra, prima che un angolo della sua bocca si sollevasse verso
l’alto.
«Raky.», ed incrociai soddisfatto le braccia,
poggiandomi allo schienale della
sedia. Fece una smorfia di disapprovazione.
«Bobby.» ribatté poi facendomi la
linguaccia.
«Signorina Stevens, crede per caso di essere al
circo?», la voce di John fece
sobbalzare Rachel sul posto. Lei voltò il capo con occhi
sgranati e bocca
spalancata. Soffocai un risolino portandomi una mano sulle labbra.
«Ma io…»
«Non cerchi scuse.»
«Ma…»
«Niente ma.»
«Si, però…»
«Stevens!» sbottò John sgranando gli
occhi. Rachel sobbalzò e poggiando un
gomito sul tavolo, si appoggiò con mento sul palmo della
mano.
«Mi perdoni, capo.» disse in una smorfia, e non
potei non pensare ai tempi del
liceo, in cui venivo costantemente ripreso dagli insegnati per la mia
scarsa
attenzione.
Con un sorriso a colorarmi il viso, fissai Rachel che, dopo ave
sbuffato,
poggiata ancora alla mano, scomposta sulla sedia, mi lanciò
uno sguardo
inceneritore. Feci spallucce e le strizzai un occhio.
Era evidente che si sforzava di tenere il broncio e rimanere seria, ma
le sue
labbra piene alla fine si incresparono in un sorriso che
illuminò i grandi
occhi turchese.
Poi tornai a guardare, con mio grande dispiacere John e ne fui sorpreso.
Perché i miei occhi desideravano i suoi?
Per tutto il pomeriggio non facemmo altro che provare
delle scena che sarebbero state girate nei
gironi successivi, in modo tale che sia io che Rachel avremmo potuto
lavorare
con tranquillità alle canzoni che sarebbero stare inserite
nella colonna sonora
del film.
Ad ogni modo, dopo aver parlato e provato per ore, fummo rilasciati ad
una vita
normale, anche se per solo mezz’ore. In sintesi, avemmo una
pausa.
Quando John disse: «Pausa. Ci vediamo qui fra trenta minuti
esatti.» sperai di
poter passare quel tempo con Rachel e bearmi della sua risata
contagiosa. Ma
quando mi alzai per andarle incontro, le sparì, oltre la
porta bianca della
stanza. Sbattei più volte le palpebre, corrugando confuso da
fronte. Così mi
diressi verso la porta ed uscii anch’io dalla stanza. Mi guardai intorno in
cerca di Rachel, ma il
corridoio era vuoto e di lei non vi era traccia.
Perché desideravo così tanto vederla?
Perché desideravo ridere con lei? Forse,
semplicemente, volevo… sentirmi in pace con me stesso e, per
qualche
inspiegabile motivo, con lei ci riuscivo. Forse era la sua
semplicità, la sua
allegria a farmi sentire… il ragazzo di ventitré
anni che ero. Forse era quella
la chiave di tutto: avevo perso me stesso, mi ero dimenticato chi ero e
non mi
stavo godendo quella giovinezza che mai più sarebbe tornata.
Sospirai, poggiandomi al muro e passandomi una mano fra i capelli,
indugiando
sulla nuca, ignorando le persone che si dirigevano verso le scale o
l’ascensore.
«Bob?» alzai di scatto il capo, guardando prima a
destra, ma non notando
nessuno. Così guardai a sinistra e la vidi infondo al
corridoio. Aveva la mani
penzoloni all’altezza del ventre.
«Rachel.» risposi sorridendole.
«Cosa ci fai qui?» chiese inclinando il capo.
Feci spallucce. «Pausa, ricordi?»
«Oh, giusto.» annuì. Si
avvicinò saltellando, fino a che non mi fu di fronte.
«Che hai intenzione di fare?» mi chiese scrollando
le mani bagnate davanti al
mio viso. Mi allontani istintivamente quando goccioline
d’acqua bagnarono il
mio viso.
«Non lo so.» dissi passandomi una mano per
asciugarmi.
Rachel corrugo la fronte, preoccupata, guardandosi le mani.
«Aspetta non sono
ancora asciutte.» disse poi strofinandosi le mani sulle mie
guance.
«Rachel!» l’ammonii scrollandomi le sue
mani di dosso ed allontanandola. Lei
rise e si poggio con una spalla al muro.
«Scusa. Non ho resistito.» rispose cercando di
reprimere le risate.
Alzi un sopracciglio e le roteò gli occhi scuotendo il capo.
«Tu non hai fame?»
chiese.
Accennai un sorriso. «A dire il vero… un
po’.»
«Bene, perché prima di andare alla toilette per
donne,» disse indicando con
pollice dietro di sé, la fine del corridoio,
«avevo intenzione di chiederti se
ti va una cioccolata calda. Oggi non credo di aver ingerito abbastanza
zuccheri.»
«Mi piace… Rachy.»
Lei sbuffò e afferrandomi per un braccio mi
trascinò lungo il corridoio, verso
le scale.
*
Ringraziamenti.
Ryry_ : ciao,
Sò! Ooooh, sono contenta ti sia
piaciuto lo scorso capitolo! E spero ti sia piaciuto anche
queste… un po’
molto noioso. Tu sei troppo buona,
davvero! Oh, non sai quanto mi abbia resa felice la tua recensione,
davvero. Un
bacio, ragazza sfacciata XD
Xx_scrittirce_xX: ciao, Ely!
Ovviamente a te va un ringraziamento speciale – per ovvi
motivi. Non credevo la
reazione di Rachel ti facesse questo effetto! Waw. Comunque
è una cosa che non
posso spiegare ora, saranno i capitoli successivi a mostrarti il tutto
^.^
Grazie davvero di cuore, tesoro.
Nessie93: ciao, Chirè! Se
mi scrivi
cose del genere è normale che poi mi gongolo e mi sciolgo.
Sono contenta di
sapere che il capitolo precedente è stato di tuo gradimento!
Quella macchina è
la mia preferita, sai? Dovevo per forza inserirla in qualche
fiction… e quale
meglio di questa? Secondo me, rispecchia a pieno il personaggio. Spero
di non
averti troppo annoiata con questo capitolo Grazie, mille, ancora.
Railen: ciao, Ire! Oh, non sai
quanto mi renda felice leggere le tue recensioni! Ci tengo al tuo
parere, sul
serio. E lo sai. Ad ogni modo, sono contenta ti piaccia la storia! *-* Spero ti sia piaciuto
anche questo capitoli,
in caso contrario, ti prego dimmelo. Grazie davvero di cuore, cara.
Grazie davvero.
Lucy_Scamorosina: ciao! *-* Sono contenta ti sia
piaciuto il capitolo e
che tu abbia riso! Spero di non averti annoiata con questo! Grazie di
cuore per
la recensione!
A
voi, con affetto,
Panda.
|
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Capitolo 8 *** Capitolo sette: vegetariana. ***
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Capitolo sette
Vegetariana
«Dolce
o salato?»
Mi voltai verso Rachel che mi scrutava oltre la sua tazza di cioccolata
calda,
fumante.
«Come?» chiesi corrugando la fronte, circondando la
mia tazza azzurra e blu con
entrambe le mani.
«Preferisci una barretta di cioccolato o un hot dog?
Sì, insomma… dolce o
salto?» chiese poggiando la tazza sul tavolino del bar,
situato all’interno
della grande struttura.
«Un hot dog.» risposi immergendo un cucchiaino
nella tazza, per poi portarmelo
in bocca.
Rachel fece una smorfia, prima di bere un altro sorso.
«Che c’è?» chiesi,
mordicchiandomi il labbro inferiore.
«Dai.» disse agitando una mano in aria.
«Come si fa a preferire il salato al
dolce? Insomma… senti.» disse chiudendo gli occhi
ed inebriandosi del profumo
della cioccolata fumante, «Come fai a non
preferirlo?» concluse poi poggiandosi
con la schiena alla sedia e guardandomi negli occhi.
Feci un risolino e mi passai la mano destra fra i capelli. «E
come resistere
all’odore di un hot dog o cheeseburger?»
Rachel corrugo la fronte, seria. «E come fai a dormire la
sera sapendo di aver
mangiato un povero vitello? Un povero maialino indifeso?»
chiese con labbro
tremulo.
Spalancai gli occhi, indietreggiando appena con il capo. «Sei
vegetariana.»
«E ne vado fiera.» annuì alle sue stesse
parole. «E dovresti farlo anche tu,
Bob. Convertirti alla verdura ed il cioccolato.»
«Come ti ho detto, Rachel,
preferisco
i panini al cioccolato.»
«Oh beh, la coscienza è tua.» disse
facendo spallucce. «Non dire che non ti ho
avvisato quando sognerai le mucche assassine.»
«Mucche assassine?» chiesi alzando un sopracciglio
e portandomi in cucchiaino
in bocca.
Lei annuì col capo. «Esatto.»
«Mi prendi in giro?»
«No, certo che no, Bobby.» disse, le labbra distese
in un largo sorriso.
Alzai un sopracciglio.
«Okay. Beh, i fantasmi delle mucche passate, e che hai
mangiato, verranno a
darti il tormento nel sonno, un giorno.»
Accigliato, spalancai la bocca. «Se finirò in un
ospedale psichiatrico darò la
colpa a te, sappilo.» dissi bevendo un sorso ci cioccolata e
poggiandomi con i
gomiti al tavolino di metallo.
«Si, certo. Ed io sarò già sparita.
Nascosta in qualche villaggio del
Bangladesh.» ridacchiò.
«Verrò a cercarti. Dovessi passare tutta la vita
sulle tue tracce.»
«Ti prendo in parola.» mi sfidò.
«Difficilmente ti libererai di me, Rachel.»
mormorai sporgendomi sul tavolino.
Fui sorpreso dalle mie stesse parole, da ciò che mi uscii di
bocca senza
premeditazione, dalla strana piega che aveva preso la conversazione.
«E’ una bella prospettiva, tutto
sommato.» mormorò suadente sporgendosi,
poggiata sui gomiti.
Sorrisi, in maniera maliziosa, poi le strinsi il naso fra
l’indice ed il
pollice. «Ma che carina, questa ragazzina.»
ridacchiai.
Rachel si scollò dalla mia presa e si allontanò,
sobbalzando sulla sedia. «Ehi!
Cavolo, mi hai fatto male!» latrò coprendosi con
una mano il naso.
Risi, bevendo ancora della cioccolata. «Era il mio
intento.»
Lei poggiò le mani sul tavoli e mi fece la linguaccia. Poi,
inclinò il capo e
sentii uno stinco pulsarmi, colpito da qualcosa. In preda ad un dolore
lancinante mi chinai gemendo, massaggiandomi la parte colpita.
«Mi hai colpito!» esclamai guardandola da sotto il
tavolo.
«Ti ho fatto male?» chiese innocentemente, e mi
parve tanto una bambina colta
in fragrante, mentre faceva qualcosa che le era permesso fare.
«Certo!» dissi una smorfia mettendomi dritto, sulla
sedia.
«Beh… era il mio intento.» rispose
sorridendo e facendo spallucce.
La guardai serio, ma non riuscii molto a trattenere le risate. Mi
lasciai,
così, andare ad un piccolo momento di forte
ilarità, seguito da Rachel.
«Comunque, dovresti provare la cucina vegetariana. Sul serio,
non è male.»
disse fra le risate.
«E tu sana cucina a base di carne.»
Di colpo Rachel ritornò seria, fulminandomi con lo sguardo.
Alzai le mani.
«Stavo scherzando.» mi affrettai a dire e le mi
sorrise teneramente.
«Mi ricorderò di cenare vegetariano una di queste
sere.» aggiunsi.
«Sai, non è molto difficile. Verdure e
tofu.»
«Molto allettante.», feci una smorfia.
«Ehi, guarda che ci sono un sacco di ricette e, ormai, sono
diventata un capo
in cucina!» esclamò.
«Non fai più cucinare alla mamma?» la
stuzzicai con un sorriso sghembo.
«Ah, ah. Sei molto diverte. No, vivo da sola.»
Mi accigliai. «Davvero?»
Lei annuì col capo. «Da settembre. Sono sempre
stata piuttosto indipendente.
Perciò sono io a badare a me stessa.»
«Mi sa che ti ho sottovalutata.» ponderai
prendendomi il mento fra due dita e
guardandola.
Lei rise. «Sì, direi di sì.»
«Qualche ricetta da consigliarmi? Magari posso cimentarmi in
qualcosa.» dissi
bevendo l’ultimo sorso di cioccolata.
Lei si mordicchiò il labbro, e sembrava nervosa.
«Sì. Ma sono terribilmente
complicate.»
«Dici che da solo non ci riesco?» chiesi con
l’ombra di un sorriso. Rachel
scosse il capo e fece spallucce.
«Magari posso chiudere a qualcuno se può darmi una
mano. Ma non saprei a chi
rivolgermi.» dissi fingendomi affranto e cercando di
reprimere un sorriso,
sapendo benissimo dove, la frase che stavo per dire, mi avrebbe
portato.
Schioccai la lingua. «Tu conosci qualcuno?»
Sembrò pensarci un po’ su. «Beh,
c’è una ragazza… è molto
simpatica, sai… e se
la cava anche in cucina. Magari posso chiederle se le va di darti una
mano.»
«Ne sarei felice.» risposi in un sorriso.
Ad un tratto Rachel si schiarì la voce e si voltò
col busto verso destra. «Ehi,
ciao, Rachel.» disse e sgranai gli occhi sorpreso.
«C’è un tipo qui, molto
strano, che ha bisogno di un aiuto con la cucina vegetariana. Visto che
tu sei
un capo, gli daresti una mano?»
Spalancai la bocca, mentre Rachel si spostava con busto verso la parte
opposta,
poggiando un gomito sul tavolino. «Ah si? Potrei farci un
pensierino. Chiedigli
se vuole venire a casa mia.» disse prima di mettersi dritta.
Scossi il capo e risi, risi di gusto. «Sei da
studiare.» ridacchiai.
Lei sorrise e gli occhi le si illuminarono. «Bene o
male?»
La guardai negli occhi turchese un attimo. «Bene.»
«Quindi… ti va di aiutarmi a cucinare, domani
sera?» chiese con voce tremante,
quasi preoccupata, che stonava con la spavalderia che aveva avuto negli
attimi
precedenti.
Sorrisi. «Sì.»
«Fiù.» sospirò.
«Credevo non avresti mai accettato l’invio di
una… ragazzina»
disse quest’ultima parole con una smorfia,
«apparentemente fuori di testa.»
«Oh, cara ragazzina… è proprio per
questo che ho accettato.» le sorrisi.
«Credevo fosse per la mia innata simpatica e allegria, per il
piacere della mia
compagnia.»
«E’ tutto consequenziale.» ridacchiai.
Sorrise. «O per la cena.»
«Anche.»
«Anche… bene. Alle otto e mezzo. E non fare
tardi.» disse puntandomi l’indice
contro.
«Potrebbe non essere colpa mia… ma del traffico
improvviso!» esclamai cercando
di imitarla.
«Ah, ah. Divertente. Andiamo, idiota di una star.»
rispose alzandosi.
Era semplice parlare con Rachel. Non mi preoccupavo di fare colpo o
risultarle
simpatico ed affascinante. Era come… bere acqua. Semplice.
Le parole sgorgavano
dalla mia bocca e non potevo fare nulla per evitarle. Ero…
me stesso, e mentre
mi alzavo non potei non faci caso, ed ammetterlo a me stesso. Non
c’erano doppi
fini. Non c’erano complicazioni. Era facile parlare, e pensai
che probabilmente
faceva questo effetto su tutti.
I suoi occhi turchese mi guardavano incuriositi e non potei non
sorridere,
prima di tirarle uno spintone amichevole. Lei fece lo stesso e rise.
«Ti seguo, ragazzina.»
«Bravo… Bobby.»
Si, Rachel, riusciva a farmi ridere. A farmi ridere di cuore,
davvero… dopo
tanto.
Inserite le chiavi nella serratura, entrai in casa buttando la giacca
di pelle
sulla sedia. Gettai le chiavi sul tavolino accanto alla porta e mi
diressi
lungo il corridoio diretto in camera. Mille erano i pensieri che mi
vorticavano
in testa. Il viso di Rachel non faceva che tornarmi alla mente, ed il
suono
della sua risata mi risuonava nelle orecchie. Poi il viso di Kristen
prendeva
il suo posto, bello e dolce come sempre. Mi mancavano i suoi occhi,
sentivo il
bisogno di udire la sua voce ed ammirare i suoi occhi verde prato.
Afferrai il cellulare dalla tasca e composi il suo numero, che oramai
conoscevo
a memoria. Al quinto squillo, mentre camminavo avanti e indietro per la
stanza,
Kris rispose.
«Ciao.» disse con voce ferma. Chiusi per un momento
gli occhi, immaginando che
mi fosse vicino.
«Ciao.» risposi in un sorriso.
«C’è qualche problema, Rob?»
chiese. In sottofondo le fusa di un’auto.
«No, in realtà no. Per quanto possa risultare
folle… volevo sentire il suono
della tua voce.» ammisi passandomi una mano fra i capelli e
accennando un
sorriso.
Kristren fece un risolino. «Davvero?»
«Sì.»
«Ne sono felice.»
Sorrisi. «Anche io. Mi manchi.» ammisi con un nota
di malinconia nella voce.
Kristen sospirò. «Rob… non rendere le
cose più difficili di quanto già lo
siano. Puoi non credermi, ma mi manchi anche tu.»
«Certo. Certo che ci credo.» sospirai sedendomi sul
letto.
«Ora devo andare. Ho un’intervista.»
«Promettimi che verrai a trovarmi una volta ritornata a Los
Angels.
Promettimelo, Kris. Qualunque sia la tua decisione.»
«Okay. Ciao, Rob.»
«Ciao, Kris.», e riappese. Per alcuni istanti
rimasi seduto sul letto, una mano
a reggermi per la fronte, mentre meditavo su noi. Mi mancava,
terribilmente, ed
io mancavo a lei. Forse
c’era speranza
in fondo, e scioccamente me ne convinsi. Sorridente mi diressi in bagno
per una
doccia calda.
Seduto comodamente sul divano facevo distrattamene zapping. Sul
tavolino un
cartone di pizza vuoto, in mano la seconda bottiglia di birra della
serata. Più
tardi ne avrei aperta una terza. Indossavo un paio di pantaloni di tuta
e una
maglietta a mani corte. L’acqua calda era riuscita a
distendermi i muscoli e a
farmi rilassare… almeno un po’. Grazie anche al
ricordo del suono della sua voce e
ciò che aveva mormorato al
telefono.
Sorrisi, involontariamente, mentre poggiavo la testa allo schienale del
divano.
Fui costretto, però, a scattare in avanti quando su un
canale di musica mi
imbattei nel viso di Rachel. Era lo stesso video, la stessa canzone che
avevo
visto il giorno prima.
Scossi il capo, osservando i suoi occhi ed il suo viso da bambina. La ragazzina…
Solare, allegra, gioiosa. Ed, in un certo qual modo…
affascinante.
Scossi il capo, cercando di eliminare certi miei pensieri dalla mente.
Era
bella, sì, senza dubbio. Ma era… Rachel, la
ragazzina conosciuta in uno studio
televisivo che sapeva farmi star bene.
Ignaro di ciò che il futuro aveva in serbo per me, continuai
a guardare quel
video, pensando che Rachel era forse una delle ragazza più
strane che avessi
mai conosciuto.
*
Okay,
so già che sarò odiata. Purtroppo non posso
ringraziarvi a modo, perché ho da
ripetere un sacco per la terza prova che, ahimè,
verrà valutata. Perciò vi
ringrazio di cuore, davvero, e prometto di ringraziare a modo nel
prossimo
capitolo.
Perciò grazie mille Piccola Ketty,
Nessie93,
Xx_scrittrice_xX, Ryry_,
Lucy_Scamorosina, Railen.
A voi, con immenso affetto,
Panda.
|
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Capitolo 9 *** Capitolo otto: facile come respirare. ***
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Capitolo otto
Facile
come respirare
«Buon
giorno!» esclamai avvicinandomi a Rachel, da dietro.
Il mio viso vicinissimo ai suoi capelli color della pece.
Lei
sobbalzò e si voltò di scatto, allontanandosi di
un paio di passi.
Soddisfatto sorrisi.
«Ops, ti ho spaventata?» chiesi fingendomi
preoccupato.
Rachel, con le mani
poggiate sul petto, all’altezza del cuore, mi guardava con
occhi sgranati a bocca spalancata. «No, certo che no. Ho solo
finto.» ansimò.
Sorrisi.
«Attrice magnifica.»
Deglutì
lisciandosi la maglia nera sul
ventre piatto. Si riavviò i capelli ribelli e poi, chiudendo
gli occhi per un
attimo ed ispirando profondamente, tornò a guardarmi in
volto. «Ma sei
impazzito?» sbottò portandosi le mani sui fianchi.
Risi di gusto.
«Ho detto che sarebbe accaduto.»
Rachel
corrugò la fronte e aprii la bocca per replicare, alzando
l’indice, ma
la richiuse. La riaprì ancora e dopo qualche secondo, in cui
trattenne il
respiro e tenne la bocca spalancata, disse: «Credevo
sarebbero dovute passare
almeno un paio di settimane.»
Incrociai le braccia
al petto. «E invece no. Cosa vuol dire?»
Lei
arricciò le labbra prima di fissarmi confusa. «Che
hai visto una gallina
volare?»
«Sbagliato.»
«Era una
mucca?»
«A far
cosa?»
«A volare,
genio.»
«Oh. No, no.
Sbagliato. Che avevo ragione io.»
«Oh.»
sussurrò annuendo piano con la
testa e carezzandosi il mento. «No, non ho capito.»
Sbuffai ed iniziai a
camminare dirigendomi verso la grande stanza per le prove.
«Che sei stata tu a farmi impazzire per prima.»
Rachel sorrise e
scosse lentamente il capo. «E’ ciò che
tu credi.» disse e la
sua voce parve celare concetti sconosciuti.
«Che
intendi?» chiesi corrugando la fronte, d’un tratto
serio.
Per alcuni secondi
Rachel si fissò la punta delle scarpe da tennis logore, poi
alzò lo sguardo mostrandomi un allegro e dolce sorriso.
«Quanti caffè hai
bevuto, Bob, oggi?»
Corrugai la fronte,
confuso. «Questo non è lecito saperlo.»
«Dai, spara.
A me puoi dirlo.» ridacchiò sbattendo le palpebre
con fare
civettuolo.
«Un…
paio, credo.»
«Solo?»
«Okay,
tre.»
«Ora spiega
tutto». Rise.
Agitai le mani in
aria. «C’è una giusta
spiegazione.» annuii alle mie stesse
parole.
«Cioè?»
chiese portandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio e
salendo la
grande scalinata.
«Beh, sono
in piedi dalle quattro e il caffè era l’unico
amico capace di
tenermi compagnia.»
«E ti sei
alzato così presto per scorgere delle galline volere nel
cielo
mattutino?» ridacchiò.
«No, certo
che no.»
«Giusto…
erano mucche.»
«Ma come
siamo simpatiche oggi.» ironizzai.
«Ma come
siamo esaltati oggi.»
«Colpa del
caffè, delle poche ore di sonno e di un amico in piena
crisi.»
«Esistenziale?»
chiese con tono preoccupato.
Feci un risolino,
passandomi una mano fra i capelli e scuotendo il capo.
«Sarebbe stata una buona ragione per svegliarmi alla
quattro.»
Di scatto apro gli occhi.
Il cellulare sul
comodino non fa che vibrare ed il suo rumore è terribile ed
assordante. Mi perfora i timpani.
Impreco con voce
impastata e allungo una mano. Non guardo nemmeno chi osa
disturbare il mio sonno. Mi porto il cellulare all’orecchio,
mentre affondo
parte del mio viso nel cuscino.
«Pronto?»
mugugno chiudendo gli occhi.
«Mi
tradisce.»
«Non ti
tradisce.» sbiascico le parole, corrugando la fronte.
«Sì,
invece. Rob, me lo sento!»
Sospiro e mi metto a
sedere, accendendo la lampada sul comodino.
La radiosveglia segna
le quattro del mattino.
Spalanco gli occhi.
«Che tu sia dannato, Kellan! Hai idea di che ora
sia?»
esclamo.
«Certo.»
fa una breve pausa. «Le sette del mattino.»
Taccio. Non
è possibile.
«Okay…
le quattro. Ma sono in piena crisi ed ho bisogno di parlare con
qualcuno.»
«E devi
chiamare per forza me?»
«Certo. Chi
altri sennò?»
Sbuffo e scoprendomi,
gettando il lenzuolo di lato, esco dalla mia camera
dirigendomi verso la cucina.
«Dovresti
comprarti un cane, amico. Magari puoi raccontare a lui dei tuoi
squilibri mentali.» ironizzo prima di sbadigliare ed andare a
sbattere contro
lo stipite della porta della cucina. Mi massaggio il braccio con una
smorfia,
prima di accendere la luce in cucina.
«Ehi, tutto
okay?» chiede.
Sbuffo. «No.
Ti pare che possa andare bene svegliato alle quattro del mattino
da un pazzo psicotico in preda ad una, Dio solo sa, idiota ed
inesistente crisi
esistenziale?»
«Parli di
me?»
Scuoto il capo,
passandomi una mano sul viso. «No, del tuo cane.»
«Ma non ho un
cane, Robert.» risponde innocentemente.
Mi fermo ponderando
sulle sue parole, prima si scuotere il capo ed aprire il
frigo in cerca di un vasetto di yoghurt.
«Allora, da cosa nasce questa tua
“crisi”?» domando afferrando un
cucchiaino dal cassetto della cucina e sedendomi sul tavolo.
«Non mi ama
più.»
Sgrano gli occhi e mi
blocco, il braccio e mezz’aria mentre mi porto il
cucchiaino alla bocca. «Cosa?» chiedo con voce
strozzata.
«Sì,
non mi ama più.» mugugna, quasi fosse un bambino
ed è questo tono a
mettermi in allarme. Poggio il barattolo sul tavolo e premendo la
cornetta,
stretta tra spalla e orecchio, in mano, mettendomi dritto. Chiudo gli
occhi per
poi riaprirli. «Perché non parti dal
principio?»
«Oggi non mi
ha chiamato! Ha un altro, lo so!» urla con isteria nella
voce.
Scioccato guardo un
punto indefinito della cucina, spalancando la bocca. «Non
ti ha chiamato. Mi hai svegliato per questo?» chiedo con voce
estremamente
tranquilla.
«E ti sembra
poco?»
«Kellan?»
ringhio.
«Dimmi.»
mugola.
«Va al dia
volo, amico!»
«Oh,
ma è terribile!» esclamò portandosi una
mano
sulle labbra.
«Lo so!» sospirai alzando le braccia al cielo per
poi farle ricadere.
«Non so come tu abbia fatto. Devi una grande forza
interiore.» disse
poggiandomi una mano sul un braccio e sorridendomi con dolcezza e
comprensività. Si avvicinò alzandosi in punta di
piedi e mi baciò una guancia.
Il suo profumo di fragola m’inondo straordinariamente i
polmoni e per pochi
istanti fu come essere a casa.
«Mi dispiace.» sorrise poi battendomi piano la mano
sul capo, poi si voltò ed
entrò nella grande sala.
Rimasi per alcuni istanti, immobile, ripensando alle sue labbra morbide
sulla
mia guancia e… al suo sguardo. E poi capii.
«Mi ha preso in giro.» mormorai scioccato. Di
scatto mi voltai, accigliato.
«Rachel!»
Era ora di pranzo e morivo di fame. Il mio stomaco non faceva che
brontolare,
mentre, diligentemente, cercavo di fare il mio lavoro.
Quando finalmente arrivò l’ora di pranzo tirai un
sospiro di sollievo. Quel
giorno nel menù offertoci c’era pasta e
polpettone. Davvero molto leggero. Ad
ogni modo, non avevo alternative.
Mi diressi all’uscita della grande stanza diretto alla
toilette per lavarmi le
mani, ma, quando uscii dal bagno diretto al lavandino, sobbalzai, colto
di
sorpresa dalla singolare figura poggiata al muro di mattonelle bianche
ed
azzurre.
«Mi hai fatto prendere un colpo.» disse con tono
grave avvicinandomi al
lavandino.
«Femminuccia». Fece spallucce per poi sorridere.
«Che ci fai qui, Rachel?» chiesi corrugando la
fronte ed insaponandomi le mani.
«Dovevo andare in bagno.» disse rimanendo a
fissarmi.
«Ora è libero.» dissi voltandomi a
guardarla. Alla luce del neon i suoi occhi
erano turchese vivo.
«Lo so.» annuì. Aprii l’acqua
e mi lavai le mani.
«E perché rimani a fissarmi?» ridacchiai.
«Perché sei strano.»
«Io? Oh, se ne sei convinta.»
«Certo, chi altrimenti? Qui ci siamo solo io e te, e sai bene
che io sono
assolutamente normale.», sorrise. «E poi ho una
cosa per te.»
Mi voltai a guardarla, dapprima corrugando la fronte, poi sorridendo.
«Cosa?»
«Mi permetti di andare in bagno prima?» chiese
staccandosi dal muro e
mettendosi dritta.
«Okay, te lo permetto.» dissi afferrando un pezzo
di carta.
«La ringrazio, Bobby. Sa, lei è davvero una
persona di buon cuore.» disse
fingendosi commossa e portandosi le mani al petto.
Feci spallucce e le indicai il bagno con un cenno del capo. Lei sorrise
e si
avvicinò a me, usando la mia spalla come appendiabiti per
sua borsa di stoffa
rossa. Con movimenti sinuosi entrò in bagno, chiudendosi la
porta alla spalle.
Osservai il riflesso del legno chiaro nello specchio. Come faceva? Non
ne avevo
la più pallida idea. Riusciva a farmi sorridere con una tale
naturalezza da
lasciarmi quasi sconvolto. Riusciva a farmi sentire… a casa
come pochi,
nell’ultimo periodo, erano riusciti a farmi sentire, ma, cosa
più sorprendente,
con lei riuscivo a non pensare. Riuscivo ad estraniarmi dalle
preoccupazioni
giornaliere vertenti sul lavoro o su… Kristen. Ed era
strano… maledettamente
strano. Forse cercava di dirmi qualcosa, qualcosa che ingenuamente non
riuscivo
a cogliere, o forse ero io stesso che cercavo di dirmi qualcosa, di
giungere ad
una conclusione ben chiara al mio cuore, o al mio animo, ma ancora
troppo cieco
per vedere. Magari mi sbagliavo su tutto, per via delle infinte
congetture
nella quale mi perdevo. Riaffiorai dall’immenso oceano di
pensieri quando la
serratura scatto e Rachel uscì dal bagno, rivelandomi il suo
viso.
Non so cosa mi successe, non ho idea di cosa fosse scattato in quel
momento, ma
ai miei giovani occhi apparve la ragazza più bella e dolce
mai conosciuta.
Osservai il suo viso di bambina, armonioso e solare, quel viso di cui
non puoi
non fidarti, quel viso che guarderesti sorridere, o ridere, per ore
senza mai
distogliere lo sguardo né da esso né dai suoi
occhii limpidi e cristallini.
«Ehi, sta bene?» sussurrò d’un
tratto poggiandomi una mano su un braccio. Solo
allora mi accorsi che si era avvicinata.
Deglutii riaffiorando da quel mondo fatto di sole sensazioni, scostando
quel
velo che mi copriva il viso e mi offuscava la vista.
«Sì.» soffiai guardandola negli occhi,
dallo specchio.
Lei inclinò il capo ed i capelli le finirono oltre la
spalla. «Sicuro?»
«Sì.» mormorai abbozzando un sorriso.
«Okay.» disse mentre un sorriso sghembo le colorava
il viso sottile. Poi si
avvicinò al lavandino per lavarsi le mani.
«Comunque… cos’hai per me?»
chiesi votandomi a guardarla e affondando le mani
nelle tasche dei jeans.
«Se mi lascia lavare ed asciugare le mani, te la recupero
dalla borsa, genio.»
disse indicando la borsa di stoffa poggiata alla mia spalla.
Feci un risolino. «Perdòn.»
«No importa.»
«Qualcosa mi dice che al liceo non sono stato
l’unico a seguire un corso di spagnolo.»
«Arguto il ragazzo.» annuì fissandomi
negli occhi ed incrociando le braccia al
petto.
Quasi impacciato rimasi, lì, immobile, fissando il turchese
dei suoi occhi.
«Hai intenzione di uscire di qui?» chiese alzando
un sopracciglio.
Risi e mi grattai la nuca prima di voltarmi ed uscire dal bagno.
«Allora, Bob…»
«Rachy…»
Si voltò e mi fulmino con lo sguardo, prima di tornare a
guardare davanti a sé.
«Allora, Robert… vieni con me. E non
fiatare.» disse e, d’un tratto la sua mano
strinse la mia, in un gesto del tutto casuale. Per un attimo la guardai
sorpreso, ma sembrò non accorgersene mentre mi trascinava
lungo il corridoio e
poi in ascensore. Quando fummo dentro non lasciò la mia
mano. La sua stretta
era delicata ma allo stesso tempo salda. La tipica stretta di chi sa
ciò che
vuole, di chi non ha paura di rapportarsi agli altri e non potei fare a
meno di
chiedermi cosa ella pensasse in quel momento.
Quando arrivammo all’ultimo piano, Rachel mi
trascinò fuori.
«Il tetto?» chiesi accigliandomi.
«Sta zitto.» sbuffo aprendo la grande porta di
metallo.
«E’ aperta?» chiesi sorpreso.
«Sì, ho chiesto all’addetto alla pulizie
di lasciarla aperta. Certo che tu ed
il silenzio non andate d’accordo, eh?»
roteò gli occhi mentre avanzava sul
grande terrazzo. Il vento le sfiorava i capelli che si muovevano come
onde del
mare. Il campanello legato alla borsa tintinnava e sorrisi, scuotendo
appena il
capo.
Ad un tratto, Rachel si fermò nel punto in cui il cornicione
incontrava il
muro. «Direi che qui va benissimo.» disse saltando
sul cornicione e sedendosi
appoggiandosi al muro. Per un attimo lo stomaco mi si strinse in una
morsa.
«Ma non sarà pericoloso?»
«Non sono una bambina, Bob. Non cado.»
sbottò afferrando la borsa.
Sospirai. «Okay, se lo dici tu.» dissi sedendomi a
gambe incrociate sul
pavimento.
«Ecco a te.» disse porgendomi una busta di carta.
«Cos’è?» chiesi corrugando la
fronte ed afferrando il sacchetto.
«Un… assaggio.» disse scrollando le
spalle e facendo oscillare i piedi.
«Ehi, da questa angolazioni sembri più
alta.» ridacchiai.
«Ah-ah, divertente.»
Aprii il sacchetto e spalancai gli occhi, prima di afferrare il panino.
«E’ un hamburger vegetariano!»
esclamò sorridente.
Spalancai la bocca e repressi una risata. «Oh, ma
è… è fantastico, Rachel.»
«Non fare così, scemo. Magari ti
piacerà.» disse facendo spallucce e tirando
fuori dalla borsa un altro sacchetto di carta. «Ho bisogno di
nutrirmi anche
io.» aggiunse quando si accorse che la guardavo.
«Okay, proviamo.» disse addentando il pane.
Masticai molto lentamente cercando
di assaporare al meglio il panino.
«Allora?» chiese saltando già dal
muretto e sedendosi accanto a me, a gambe
incrociate.
Mi grattai la nuca e feci una smorfia. «Perdonami,
Rachel… ma la carne è al
carne.»
«Uhm… ciò vuol dire che non ti
piace?» sbuffò inarcando la schiena.
Mi voltai e le sorrisi. «Ciò vuol dire che
preferisco la carne, non che non mi
piaccia.»
«Giusto.», e gli angoli della bocca si sollevano
piano verso gli occhi mentre
chinava il capo, giocando con un filo del taglio dei jeans.
«Questa sera vedremo se ti piacerà la mia
cucina.» disse tirandomi un leggero
spintone con la spalla.
«Spero solo di arrivare al dolce.»
«Come fai ad essere così sicuro che ci sia il
dolce?» chiese corrugando la
fronte.
La guardai alzando un sopracciglio. Lei rise. «Sì,
scusa.» aggiunse portandomi
una ciocca di capelli dietro un orecchio.
«E sono io quello strano.» osservai tirando un
altro morso al panino.
«Certo!» esclamò lei seria, annuendo col
capo.
«Qual è stata la cosa più…
cattiva che hai fatto, Robert?» chiese lei dopo un
minuto di silenzio.
«Uhm… non saprei.» mormorai rovistando
nel cassetto dei ricordi.
«Dai… da bambino non hai mai fatto nulla di
perfido?» chiese spostandosi e
posizionandosi davanti a me, senza mai alzarsi e rimanendo con le gambe
incrociate.
«Okay. Ho… ho consumato un pranzo e sono scappato
senza pagare.» dissi annuendo
alle mie stesse parole.
Rachel schioccò la lingua e fece una smorfia.
«Questo l’ho fatto anch’io… e
non
una volta. Dai, scommetto che hai fatto di peggio.» disse
mordendosi il labbro
inferiore.
Feci spallucce. «Ho introdotto alcolici nella scuola. Avevo
sedici anni quando
in bagno bevvi della vodka. E’ una cosa che non sa
nessuno.» dissi più a
me stesso che a lei.
«Perché me lo dici?» chiese con
espressione imperscrutabile.
«Non lo so.» ammisi.
«Interessante.» annuì accarezzandosi il
mento.
«E tu, Rachel?» chiesi mangiando altro panino.
«Azionato l’allarme antincendio.»
«Scommetto che non bruciava nulla.» osservai mentre
prendeva una bottiglietta
d’acqua dalla borsa.
Rise. «Perspicace.»
«Grazie.»
Lei si avvicinò la bottiglia alle labbra e, per qualche
strano motivo, dovetti
faticare per non osservarle a lungo.
«Ne vuoi un po’?» chiese porgendomi la
bottiglia. Annuii e l’afferrai. Dopo
essermi dissetato le restituii la bottiglia.
«Credo sia ora di andare, Bob, altrimenti Sam non
può chiudere.», sorrise,
alzandosi.
«D’accordo, ragazzina.»
ghignai
alzandomi. Rachel scosse il capo e cominciò a camminare.
Sì, stare con Rachel era facile come respirare.
*
Ed
eccomi qui… ancora.
Mi scuso per il ritardo, ma purtroppo non posso aggiornare tanto in
fretta.
Colgo l’occasione per dirvi che gli aggiornamenti saranno
rallentati perché,
con la scuola che volge al termine e gli esami che si avvicinano, il
tempo è
davvero poco… senza contare che la testa è
altrove.
Chiedo davvero scusa.
Ora, via le ciarle e passiamo a
ringraziare gli angeli che hanno recensito lo scorso
capitolo. Ma prima…
un meraviglioso ed enorme grazie ad
Ire… e
lei sa benissimo perché.
Ryry_ :
ciao, So! Beh, sì… chi non ha paura delle
mucche assassine! E Robert piano capisce tante cose… grazie
mille per la
recensione, cara, davvero, mi ha fatto un immenso piacere. Spero che
questo
capitolo sia stato di tuo gradimento.
KeLsey: ciao, Eri! *-* sono felice di sapere che
Rachel ti piaccia
come personaggio, davvero! Il tuo parere conta molto, e lo sai
mostriciattolo!
Spero di non averti annoiata con questo. Grazie, Eri, davvero. Ti
voglio bene.
(L)
Piccola Ketty: ciao, Kè!
*-* oh, non
sai che piacere ricevere le tue recensioni! (nah, non è
vero, lo sai!) Guarda
quel pezzo ha un fondo di verità… ma non
diciamolo a nessuno XD Sono contenta
ti sia piaciuto… avevo il timore di essere ridicola e
noiosa. Spero ti sia
piaciuto il capitolo, davvero. Oramai il tuo parere…
è il tuo parere. Grazie di
tutto, tesoro, davvero. <3 ti voglio bene.
Nessie93: ciao, Chià!
Alla fine ce
l’ho fatta. Stupida scuola. Sono contenta ti sia piaciuta la
scena al bar, mi
sono divertita un sacco a scriverla XD il calcio sotto il tavolo
è quasi un
classico… che in realtà non funziona
mai… te lo dico per esperienza personale.
Beh, qui l’allarme anti-incendio c’è, ma
in un altro contesto. Grazie, tesoro,
davvero. Grazie di tutto. Ti voglio bene.
Railen: ciao, Ire! *-* ti devo
ringraziare di cuore, e lo sai! Grazie, grazie, grazie! Sono contenta
ti
piaccia la mia fiction, ci tengo molto al tuo parere, bello o brutto
che sia.
Ebbene sì, Rachel è una parte positiva e questo
capitolo sta un po’ a
dimostrarlo. Eh eh, qualcosa di hot… mmmh, si
vedrà. Grazie, tesoro, davvero.
Grazie di cuore (scusa le ripetizioni XD).
Xx_scrittrice_xX: ciao, Ely! Sono
contenta il capitolo ti sia piaciuto, e spero ti sia piaciuto anche
questo. Il
tuo sclero è stato fenomenale, davvero, mi ha fatto morire
dalle risate XD Spero
che questo capitolo ti abbia fatto
comunque ridere. Grazie per la recensione, davvero. Grazie.
Lucy_Scamorosina: ciao! *-* oh, che
piacere ricevere la tua recensione, davvero! *-* Sono contenta ti sia
piaciuto
il capitolo, davvero! Mi spiace solo aver postato così in
ritardo, ma la scuola
ha effetto risucchio e purtroppo non ho più molto tempo
disponibile. Dopo le
ore di studio non connetto più e ho difficoltà a
scrivere. Spero ti sia
piaciuto questo capitolo. Grazie, sul serio.
ginevrapotter: ciao! *-* sul serio
ti è piaciuta? Okay, ora comincio a gonogolare come una
scema. Chiedo scusa per
il ritardo, ma come ho detto per Lycy, la scuola ha effetto risucchio. Grazie.
A
voi, un bacio,
Panda.
|
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Capitolo 10 *** Capitolo nove: musicista. ***
You could be my
unintended
Choice to live my life extended
You could be the one I'll always love
You could be the one who listens to
my deepest inquisitions
You could be the one I'll always love
I'll be there as soon as I can
But I'm busy mending broken pieces
of the life I had before.
Muse, unintended.
Capitolo nove
Musicista
Uscii
dalla doccia e perle trasparenti caddero sul pavimento dai capelli.
Così presi
un asciugamano per eliminare l’acqua che me li schiacciava
sulla fronte.
Avvoltomi un salvietta in vita mi diressi in cucina ed azionai la
macchinetta
del caffè, ma, mentre tornavo in camera, il cellulare
squillò.
Mi voltai di scatto verso il tavolo, sul quale era poggiato il telefono
e
sperai fosse lei. Quando lessi il
nome scossi il capo e sorrisi. Sbagliato.
«Ragazzina.» dissi dirigendomi in camera.
«Ehi, Bob. Ascolta, potresti portare del vino?»
«Okay. Sì, non preoccuparti sto benissimo. Anche tu? Oh, beh, mi fa
piacere.» dissi aprendo il
cassetto della biancheria.
«Ti hanno mai detto che fa male bere durante il pomeriggio,
signor Pattinson?»
«No, credo di no. Bianco o rosso?»
«Bianco.»
«Okay.»
«A dopo, Bob. Non fare tardi!» esclamò e
l’immaginai sorridere.
«Se il traffico me lo permetterà.»
«Divertente.», e riappese.
Scossi il capo ridacchiando e, poggiato il telefono sul tavolo, mi
diressi in
camera. Indossai un paio di jeans ed una maglia grigia a manica corta,
afferrai
le chiavi della macchina e la giacca in pelle poggiata sulla sedia
all’ingresso
ed uscii di casa, ignaro della serata che mi si prospettava davanti.
Bussai ripetutamente alla porta di legno scuro, dondolando sui talloni,
fino a
che, Rachel, non aprì la porta dopo diverse imprecazioni.
«Ti reputo responsabile del mio scontro con il
divano.» disse spostandosi per
farmi entrare.
«Ciao, anche a te, ragazzina.»
dissi
entrando e fermandomi dinanzi a lei, che si spostò appena
per chiudere la
porta. Quando si mise dritta, notai che la distanza fra noi non era
molta, con
un passo avrei potuto eliminarla del tutto.
«Ciao, Bobby.»
disse sorridendo.
La fioca luce proveniente dalla cucina si rifletté nei suoi
occhi turchese e la
sua pelle sembrava aver la stessa consistenza della seta. Aveva alcune
ciocche
di capelli raccolte dietro la testa, così da scoprirle parte
del viso, altre
ricadevano in grandi onde sulle spalle esili. Fu strano, ma la trovai
bellissima.
Sorrisi. «Mi spieghi come hai fatto?»
«E’ semplice Pattinson: afferri la maniglia e tiri
la porta.»
Scossi il capo. «Bella questa. No, idiota, lo scontro col
divano.»
Fece spallucce. «Sono inciampata mentre correvo. Non
chiedermi come ho fatto
perché non ne ho idea.» disse prima di voltarsi e
dirigersi in cucina dalla
quale proveniva un odore di verdure grigliate. Solo allora mi resi
conto che
indossava un grembiule con sopra disegnati dei biscotti, che le copriva
parte
della canotta color della notte e pantaloni scuri.
«Tenuta da lavoro?» chiesi indicandola ed entrando
nella cucina. Mi bloccai di
colpo e sgranai gli occhi.
«Cosa c’è?» chiese corrugando
la fronte.
«La tua cucina è… rossa e
gialla.» dissi scioccato.
«Due dei miei colori preferiti.» disse sorridendo.
«Lo so, è un po’ eccentrica.
Tutta la casa lo è. C’è colore
ovunque.» disse avvicinandosi al piano della
cucina e tagliando delle zucchine.
Sorrisi e mi tolsi la giacca poggiandola su una sedia.
«Il vino?» chiesi mostrandole la bottiglia.
«Poggialo sul tavolo.» disse indicandomi col
coltello.
«Ehm… Rachel, ti sarei grato se facessi attenzione
con quella lama.» dissi
avvicinandomi con cautela.
«Hai paura?» disse in un risolino.
«Molta.»
«Femminuccia.» sospirò ritornando al
lavoro.
«Decisamente cortese.»
«Perché invece di ciarlare inutilmente non mi dai
una mano?» chiese. «Nel
secondo cassetto accanto al frigo ci sono le posate, prendi un
coltello.» disse
guardandomi e sorridendo con dolcezza.
Abbozzai un sorriso ed aprii il cassetto prendendo un coltello,
aiutandole poi
ad affettare dei pomodori.
«E così vivi sola.» dissi voltandomi
appena verso lei, che invece non distolse
lo sguardo dalle verdure.
«Sì.» rispose impassibile, poi dopo
alcuni istanti, poggiò le mani sul piano
della cucina. Si voltò verso me, alzando il capo per potermi
guardare negli
occhi, rivelandomi il cielo turchese dei suoi. «Ti rendi
conto di quanto sia
sciocca la tua domanda?» chiese alzando le sopracciglia.
Mi morsi il labbro inferiore, reprimendo un sorriso.
«Effettivamente.»
Rachel scosse il capo prima di chinarsi ed aprire l’anta di
un pensile della
cucina. Ne estrasse una padella prima di scattare diritta.
«Ecco.» disse sorridente.
Sorrisi di rimando e, prima di tornare a tagliare i pomodori,
l’osservai
versare verdure a cubetti nella padella e posarla sui fornelli.
«Invece
di osservarmi inebetito, perché non continui a tagliare a
fette i pomodori?»
chiese accendendo il gas.
Sbattei più volte le palpebre udendo le sue parole e,
scuotendo il capo, risi.
«Perdonami, ragazzina. Non credevo fossi
così… agile in cucina.» ironizzai
cercando di nascondere l’improvviso, irrazionale, imbarazzo.
Lei si voltò corrugando le sopracciglia. «Certo,
come no. Ti va una birra, star?»
«Con molto piacere.» risposi finendo di tagliare
l’ultimo pomodoro.
Rachel si voltò e, quasi saltellando si diresse verso il
frigo bianco ricoperto
di calamite, aprendone l’anta.
«Collezione?» chiesi prima di dirigermi verso il
lavabo e sciacquarmi le mani.
«Sì. Provengono da ogni parte
dell’America e del mondo… più o
meno.», afferrò
le birre e le poggiò sul piano della cucina, cercando in un
cassetto il
cavatappi.
Mi asciugai le mani con una salvietta appesa accanto al lavandino e mi
diressi
verso il frigo per osservarle. Era un’esplosione di colori,
di forme, di
riproduzioni. Avvicinai il viso ignorando Rachel che stappava le
bottiglie ed
osservai le calamite. Osservai in particolare la riproduzione di una
salice,
dannatamente reale.
«Tieni.» mormorò Rachel passandomi la
bottiglia. Mi voltai verso lei per afferrarla.
Solo allora mi accorsi che guardava la stessa calamita con un sorriso a
colorarle il sottile viso.
«Me la regalò la nonna.»,
chinò appena lo sguardo fissandosi la punta della
scarpe. «Da bambina Pocahontas era
il
mio film d’animazione preferito, e lo è
tutt’ora. Consideravo nonna
Sally, come… nonna Salice, e io la
chiamavo così. Insomma, la classica nonna che sa darti buoni
consigli, che
parla con citazioni, saggia, che ti induce a fare la cosa giusta, anche
ti
sembra la più sbagliata.» bevve un sorso di birra,
prima di alzare gli occhi
sul mio viso. «E’ la mia preferita.»
«Cos’è l’è
successo?» mormorai. Per alcuni istanti i sui occhi limpidi,
d’un
tratto fattisi impenetrabili e simili ad uragano, solcarono i miei, in
cerca
forse di conferme di un qualcosa a me sconosciuto. Poi si
voltò e si diresse
verso i fornelli, girando le verdure con un mestolo di legno.
Quando parlò la sua voce era seria, quasi sembrava non
appartenerle. Alle mie
orecchie apparve d’un tratto la donna che in
realtà era. «Cancro allo stomaco.
E’ morta l’anno scorso.»
«Mi dispiace.» mormorai con sincerità.
Mi avvicinai ai fornelli, affiancandola.
«Oh, beh, prima o poi tocca a tutti, no?» disse e
quando si voltò nei suoi
occhi guizzarono sofferenza e dolore, che inutilmente cerco di
nascondere con
un amabile sorriso. Bevve
un sorso di
birra. «Allora? Ti va di fare un giro della casa?»
«E questa
era la mia camera.» disse uscendo dalla stanza e
soffermandosi in
corridoio. «Lo so, è un’umile dimora, ma
per una persona è perfetta. Per me, è
perfetta. Ci entrano tutte le mie cose e se mia madre viene a trovarmi
dorme
sul divano.» disse sorridendo.
Feci un risolino.
«E’ davvero bella. Come ho già detto:
un’esplosione di
colori.»
Lei dondolò
sui talloni, scostandosi una ciocca di capelli dal viso.
«C’è
ancora una stanza da vedere: il seminterrato.»
Inclinai il capo di
lato. «E cosa c’è, lì?
Scheletri e cadaveri?»
«Ah-ah.
No.», roteò gli occhi e, percorrendo il corridoio
fino al piccolo
soggiorno, dove vi era un divano a tre
posti rosso, ed una poltrona blu, davanti ad un televisore ed un
tavolino
orientale, aprii una porta che quasi si confondeva col muro…
giallo. Al buio
scendemmo una piccola rampa di scala, fino a che Rachel non accese una
luce.
«Voilà.» disse aprendo le
braccia. In
fondo alla stanza, vicino al parete, vi era una batteria. Mi guardai
intorno
notando le mura color della crema.
«Camera
insonorizzata?» chiesi stupefatto.
Lei annuì e
si poggio allo stipite della porta, incrociando le braccia al
petto. «Dai entra.» disse con un cenno del capo.
Sorrisi ed entrai.
Quando le passai accanto il suo profumo mi colpì ancora con
delicatezza.
«Suoni la
batteria?» chiesi guardando lo strumento, ma notando subito
un basso.
«Ed il basso?»
«Sì…
più o meno. Suono la batteria e chitarra da quando avevo
dieci anni. Ed
ora sto cercando d’imparare il basso. Nella band sono solo
voce e chitarra
ritmica –delle volte.» disse mentre sfiorar avo le
corde del vecchio Fender.
«Waw.»
dissi voltandomi a guardarla e solo allora mi resi conto che si era
avvicinata, distanziando a de appena cinquanta centimetri.
«Oh, beh,
è il vecchio, e quasi defunto, basso di Nick, il bassista
della band.
Non a caso da sempre problemi.» aggiunse in un risolino.
«Potrei
sentirti suonare?» chiesi senza distogliere il mio sguardo
dal suo.
Rachel
arricciò le labbra in una smorfia.
«Dai, ragazzina.» dissi dandole un
leggero spintone.
«Okay,»
sbuffò,«Bob.»
Camminando, evitando
accuratamente i diversi cavi, giunse alla batteria, per
poi prendere posto. Con la testa mi fece cenno di chiudere la porta,
così
scattai eseguendo i muti ordini.
Mi voltai,
guardandola. Sembrava ancor più piccola dietro i tamburi, ed
il suo
viso quasi era dissonante con l’imponente strumento.
Imbronciata lei mi guardò
e alla luce del neon i suoi occhi erano quasi celeste. Le feci cenno di
iniziare mentre mi sedevo sulla moquette blu, con un gomito poggiato su
una
gamba piegata. Per un attimo i suo occhi parvero perdersi nei miei,
come se
stesse perdendosi in infinite congetture, in personali pensieri a me
ignoti.
Poi sbatté ripetutamente le palpebre come per riprendersi da
quegli attimi di
amnesia e prese in mano le bacchette.
Sorrisi di quella
stramba ragazza.
«Pronto per
l’inferno?» chiese alzando ritmicamente le
sopracciglia.
Risi.
«Assolutamente sì.»
«Maledetto.»
ringhiò.
«Dai,
ragazzina, non casca di certo il mondo!»
«Okay,
okay!» esclamò lei alzando le mani, come in segno
di difesa. Chiuse gli
occhi e quando gli aprì batte con violenza sui tamburi. Con
lo sguardo fisso
sulla batteria cominciò a muovere energicamente le braccia e
non potei non
chiedermi dove trovasse tutta quella forza, tutta quella energia. Un
susseguirsi di apparenti rumori, creatori di un straordinario ritmo,
inondarono
la stanza. I capelli ondeggiavano ad ogni suo movimento finendole
davanti al
viso. Con il viso rivolto verso destra batteva con violenza le
bacchette sui
tamburi sinistri, e poi il charleston, e ancora la gran cassa.
L’energia che il
suo fragile corpo conteneva sembrava sprizzarle da ogni poro. Con occhi
sgranati
l’osservavo muoversi con agilità, quasi saltare
sullo sgabello. Poi il ritmo si
fece sempre più debole, fino a cessare.
Fui sorpreso dalla sua
bravura, dalla passione che ella ci metteva nel muovere
le braccia, nel creare ritmi e nel perdersi in ciò che
faceva. Apparve in quel
momento la ragazza ribelle che per molti era, quella che infrange le
regole,
sicura di se stessa e mi chiesi se fossi solo io, invece, a riconoscere
in lei
dolcezza e semplicità. Mi chiesi come apparisse Rachel agli
occhi del pubblico
o degli altri che avevano avuto modo di conoscerla. Dolce e simpatica
come si
presentava ai miei occhi, o ribelle e forte come appariva in quel
momento,
dietro il grande strumento?
«Allora?
E’ abbastanza per una ragazzina?» chiese e un lampo
di malizia le
attraversò gli occhi chiari.
Alzai le sopracciglia.
«Mi hai sorpreso, Rachel.» dissi sincero.
«Come
tutti.» disse alzandosi e posando le bacchette su un tamburo.
Mi alzai e lei mi
venne incontro, le labbra appena dischiuse per permetterle di
respirare con la bocca.
«Quanta
modestia.» la canzonai.
«Senti chi
parla.» disse passandosi una mano fra i capelli, scoprendo la
fronte
dalla scura frangetta, rivelandomi il suo viso sottile, per intero.
Risi. «Sul
serio, Rachel, sei stata… divina. Credo tu abbia
talento.»
«Grazie,
Bob.» disse lei sorridendo, indugiando con lo sguardo nel
mio.
Scrollai le spalle.
«Solo verità.»
«Dai, genio,
andiamo a mangiare. Muoio di fame.» disse poi raggiante,
prendendomi sottobraccio.
«Sai, mia
cara, Rachel, dovrei venire più stesso da te.»
«Certamente
per il piacere della mia compagnia, no?» chiese in un
risolino.
«Certo!»
esclamai cominciando a salire la scale, il suo braccio ancora
intrecciato al mio.
«Meno male.
Io credevo per via della mia camera insonorizzata.»
«Ma cosa ti
passa per la mente. Ovvio che è per le came-… per
il piacere della
tua compagnia.» mi corressi scuotendo il capo e facendola
ridere.
«Idiota.»
disse dandomi un leggero spintone e facendomi scontrare con lo
stipite della porta.
«Ahi, mi
sono fatto male.»
Lei si
voltò e alzò le sopracciglia. «Povero Bobby, su, tanto passa.»
disse sorridendomi e carezzandomi la
spalla dolorante.
«Malefica.»
mormorai.
Rachel fece spallucce.
«Nah.»
Poi si
voltò dirigendosi in cucina. E non potei non pensare che
Rachel era
l’amica mai avuta.
*
Eccomi
qui… ancora.
Allora, chiedo
umilmente perdono se non posso ringraziare a modo coloro che
hanno recensito, ma, davvero, oggi sono incasinatissima… e
questa settimana non
si prospetta di certo migliore –stupido quinto anno.
Ad ogni modo, ci tengo
tantissimo a regalare un piccolo spazio agli angeli che,
gentilissimamente hanno recensito lo scorso capitolo.
Grazie, Xx_scrittrice_xX,
Nessie93,
ginevrapotter,
PiccolaKetty,
KeLsey,
Railen,
Ryry_.
Grazie, gradi di cuore.
E grazia soprattutto a
te, mia galattica uditrice.
E ricorda che per
qualunque cosa io ci
sono.
Ti voglio bene.
A voi, un bacio,
Panda.
|
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Capitolo 11 *** Capitolo dieci: amici. ***
You could be my
unintended
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You could be the one I'll always love
You could be the one who listens to
my deepest inquisitions
You could be the one I'll always love
I'll be there as soon as I can
But I'm busy mending broken pieces
of the life I had before.
Muse, unintended.
Capitolo dieci
Amici
«Di
cosa sono ripiene?»
«Miglio, Bob, miglio. Sarà la terza volta che te
lo ripeto.» disse roteando gli
occhi e portandosi in bocca un altro pezzo di zucchina.
«No, perché,» cercai di dire ingoiando,
«sono molto più buone di quanto
pensassi.» annuii.
Lei rise, incrociando le gambe sulla sedia di plastica trasparente ed
afferrando il bicchiere di vino.
«Te l’avevo detto. Sono un capo in
cucina.» disse soddisfatta di sé.
Sorrisi e feci spallucce. «Probabile.»
Lei roteò gli occhi, sospirando. «La mia insalata
di verdure miste tiepide, mi
pare tu ne abbia mangiato due porzioni.» osservò.
«Oh, beh… ma, insomma…
perché è leggera come pietanza e per saziarmi ho
bisogno
di quantità maggiori.» dissi agitando la forchetta
in aria.
Rise. «Certo, certo.»
«No, seriamente. Ancora esterrefatto dalla mille ed ignote
qualità di Rachel
Stevens.» sorrisi guardandola in volto, prima di fissare le
zucchine nel
piatto.
«Me la cavo.» ripose portandosi ancora la forchetta
alle labbra.
«Okay, te la cavi.» dissi scuotendo il capo e
poggiandomi allo schienale della
sedia.
«No, non è sicuramente il bianco.» disse
d’un tratto guardandomi. Alzai lo
sguardo, bassi sul piatto, puntando i miei occhi nei suoi.
«Scusa?» chiesi confuso.
«Non è il bianco. Ne sono certa.»
annuì alle sue stessa parole.
«Dovrei sapere di cosa stai parlando?» chiesi
ancora confuso.
«Il tuo colore preferito. Non è il
bianco.»
Arricciai le labbra. «Come fai a saperlo?» chiesi
inclinando il capo.
«Beh… il bianco, per me, rispecchia limpidezza,
estrema tranquillità… e un po’
di monotonia. E tu non
sei così.» si
spiegò facendo spallucce.
«E quindi quale sarebbe?» chiesi poggiandomi con le
braccia sul tavolo di legno
chiaro.
«Ancora non lo so. Vado per esclusione.» rispose
poggiandosi allo schienale
della sedia ad affondando il viso nel bicchiere.
«Allora attenderò, da bravo ragazzo.»
«Ciò vuol dire che non è il
bianco.»
«Già.»
«Ti spiace se metto un po’ di musica?»
«No, fa pure.» dissi annuendo e prendendo il
bicchiere per bere.
Rachel lasciò il suo e scattò in piedi, correndo
in soggiorno.
«Vuoi decidere tu, o decido io?» urlò,
ed in sottofondo sentii il rumore delle
custodie dei cd.
«Tu!» risposi voltandomi verso la porta della
cucina, come per permetterle di
sentirmi meglio.
«Okay!»
Pochi attimi e il cd partì. Riconobbi subito le prime note.
Sgranai gli occhi.
In quell’esatto momento Rachel tornò in cucina
sedendosi sulla sedia.
«Aerosmith?» chiesi alzando le sopracciglia.
«Hai detto che potevo decidere io. Vuoi che… che
cambi?» chiese corrugando la
fronte.
«Oh, no, no. Va benissimo. Credevo fossi più il
tipo da pop rock.»
«Uhm… no. Sono cresciuta con i Rolling Stones,
ricordi?»
Risi e scossi il capo. «Ti prendo in giro, ragazzina.»
«Oh.»
mormorò portandosi il
polpastrello dell’indice sulle labbra.
«Beh,» disse poi agitando le mano in
aria, «l’avevo capito.»
Repressi una risata mordendomi il labbro inferiore. «Certo,
non avevo dubbi al
riguardo.»
Per alcuni istanti rimanemmo l’uno negli occhi
dell’altra ed ero sicuro volesse
ridere anche lei. Istante dopo le nostre risate inondarono la stanza
confondendosi con le note di
Falling in Love.
«Tieni.» alzai
lo sguardo e afferrai
il grande bicchiere di vetro,
contenente mousse al cioccolato.
«Grazie.» dissi sorridendole ed affondando il
cucchiaino nel cioccolato.
Rachel si sedette accanto a me, sul divano color del fuoco.
«Prego.» disse poi
sfilandosi le scarpe direttamente dal tallone ed incrociando le gambe.
«Le tue calze con le nuvole sono…
meravigliose.» osservai assaggiando la
mousse. «E questa,»
dissi indicando
con il cucchiaino il bicchiere, «è…
paradisiaca.» dissi chiudendo gli occhi e
godendomi il buonissimo e meraviglioso sapore del cioccolato.
Lei rise. «Sono contenta ti piaccia. E’ la cosa che
mi riesce meglio in
assoluto.»
Poggiai la testa allo schienale del divano.
«Sì.» mormorai gustandone ancora il
sapore sulle lingua.
«E piantala!» esclamò in un risolino
Rachel dandomi un leggero spintone sulla
spalla.
Aprii gli occhi e mi voltai verso lei, sorridendole. «Okay,
okay.»
«Quando era piccola nonna Salice me
la faceva sempre, ogni sabato, quando andava a dormire da lei. Poi mi
ha
insegnato a farla. E non è difficile, anzi è
piuttosto semplice.» disse
portandosi il cucchiaino alle labbra e fissando il cuscino del divano.
Con la
schiena era poggiata al guanciale.
«Ti manca.»
«Non è una domanda.»
«Lo so.»
«Non vorrai metterti a fare lo psicologo con me.»
disse e la sua voce era
fredda. Alzò lo sguardo sul mio viso e i suoi occhi
s’illuminarono quasi di…
rammarico misto a rabbia, come un lampo nel cielo notturno in tempesta.
«No, non lo farei mai.» dissi con fare dolce, un
angolo della bocca rivoltò
verso l’alto.
«Bene.» disse annuendo piano, abbassando ancora lo
sguardo e, in quel momento,
apparve una bambina, dolce ed indifesa, desiderosa di calore umano.
«Comunque,
sì, mi manca. Terribilmente.» mormorò.
Provai l’irresistibile impulso di stringerla a me, e
sussurrarle che lei era
comunque lì.
«Odio parlarne, sai?» disse guardandomi in volto.
«Tutti ti guardano con
compassione, della serie “che pena”. E’
irritante.» ammise portandosi una
ciocca di capelli dietro un orecchio.
Rimasi lì, immobile, con sguardo indecifrabile, e guardarla,
ad osservare un
altro lato di Rachel Stevens, quello fragile come cristallo.
Non avevo ben idea di cosa fare, cosa dire. Così, mormorai
ciò che mi passò per
la testa, in quello stesso istante. «Sai, Rachel…
a volte la gente ha solo
paura di aggravare la situazione e cerca di dire cose che ritengano
facciano
piacere, ma in realtà, non fanno che aggravare le cose,
accorgendosene solo in
un secondo momento. Certe cose sono le uniche da poter dire, in certe
occasioni.»
«Forse.» sussurrò. «Questa non
l’avevo ancora sentita. Sei un pozzo di saggezza.»
cercò di ironizzare abbozzando un sorriso.
Sorrisi e le presi una ciocca di capelli neri come la pece, giocandoci
un
istante, per poi lasciarla andare oltre la sua spalla.
«Sorrideresti per me,
ragazzina?» chiesi, ed istintivamente le sue labbra si
aprirono in un sorriso.
«Grazie.» disse. «Qualcuno che mi abbia
parlato… con… con…
maturità.» disse
annuendo.
Mi passai una mano su un sopracciglio, indugiando poi sulla mandibola.
«Robert?» disse. La guardai, sorpreso. Non mi
chiamava così dal primo incontro
agli studi. La sua voce era titubante ed armoniosa, morbida come il
miele.
«Posso abbracciarti?» chiese e gli angoli della sua
bocca si sollevarono verso
gli occhi, giungendo agli occhi turchesi.
Di rimando sorrisi, intenerito. Scossi il capo e feci un risolino.
«Oh, certo che puoi, sciocca ragazzina!» dissi
allargando le braccia e
stringendola con delicatezza al mio petto.
Rachel vi si accoccolò contro e sentii la sua guancia
premere sulla mia
maglietta leggere.
Respirò a fondo ed alzò lo sguardo, cercando il
mio. «Amico Bobby. Suona
bene, no?»
«Sì, direi di sì, amica
Rachel.»
«E’ strano… però,
è come se ti conoscessi da sempre. Cioè, so che
può sembrare
una frase scontata ed idiota, ma mi rendo conto che è vera,
è reale. Delle
volte succede. Non prendermi per pazza.» ridacchiò.
«Sai, Rachel… credo tu abbia ragione. Delle
volte… è reale. E sei pazza tu,
beh, allora lo sono anch’io.»
Mi portai la
sigaretta alle labbra, aspirai il fumo, ed
osservai il fumo che in spirali si alzava nell’aria calda
della stanza.
L’orologio segnava l’una di notte, ed io ero ancora
a casa di Rachel. Seduto
sulla poltrona blu, la gambe sul guanciale e la schiena poggiata allo
schienale, buttai indietro la testa lasciandomi cullare dalle note dei
Pink
Floyd.
«Questa musica… ti fa entrare in trans.»
osservai portandomi ancora la
sigaretta alle labbra. Con lo sguardo, senza spostarmi di un centimetro
guardai
Rachel. Le gambe erano poggiate allo schienale, ricadendo oltre esse,
mentre la
testa penzolava dai grandi cuscini, i capelli ricadevano sulle tavole
di legno
del pavimento.
Alzai un sopracciglio e lei mi guardò.
«Dici?» chiese con aria innocente.
Risi sommessamente. «Sì.»
«Ti fa sentire leggero. Come se… come
se… fossi sotto effetto di cannabis, non
credi?»
«Sì.»
«Devo farlo più spesso, è rilassante,
sai? Solo che, col sangue che fluisce
alla testa, conversare è un po’
difficile.» osservò agitandosi le mani davanti
agli occhi.
Risi, aspirando ancora del fumo. «Forse dovresti alzarti,
Rachel.»
«Sì, credo lo farò.» disse
senza però spostarsi, guardandomi.
«Allora?»
«Stavo notando che al contrario sembri bello.»
disse corrugando la fronte e
cercando di inclinare il capo, con grande insuccesso.
«Ehi, io sono bello.» dissi alzando il capo.
«Okay, devo alzarmi.» mormorò sbattendo
ripetutamente la palpebre e mettendosi
a sedere sul divano.
«Io sono bello.» mi difesi. «Secondo
molti l’uomo più sexy sul pianeta.» la
stuzzicai.
«Certo… “uomo”…
“più bello”… “del
pianeta”. Credici finché puoi.» disse
stendendosi sul divano, con la testa rivolta verso la mie gambe.
«Tanto lo so che lo pensi anche tu.»
Inclinò il capo leggermente all’indietro,
guardandomi. «Cosa te lo fa pensare?»
Feci spallucce. «Sesto senso.», e spensi
l’ormai finita sigaretta nel
posacenere sul tavolino.
«Ed un terzo occhio sul mento.»
Risi e scossi il capo. «Scema.» e poggiai il
polpaccio sulla sua testa.
«Ehm… Bob?» disse lui intrecciando le
mani sul ventre ed incrociando i piedi.
«Dimmi.»
«Ti spiace togliere questa zampaccia dalla mia
fronte?»
«Non lo so. Questa posizione è dannatamente
comoda. Non trovi?»
«No, non trovo.» disse afferrando la mia gamba e
lasciandola cadere oltre la
sua testa. Poi incrociò le dita sul ventre piatto, fasciato
da una canotta
nera.
Sghignazzai e alzai nuovamente la gamba poggiandola ancora sulla sua
fronte.
«Quale parte del “no” non ti è
chiara, Bob?», e con forza spostò la mia gamba.
Risi. «Sei
uno spasso.» dissi
scompigliandole i capelli.
«Oh, grazie. Questo sì, che è un
complimento.» disse
«Non c’è di che.»
«Nonnino?»
«Dimmi, ragazzina.»
«Ti va una birra?»
«Perché no.»
«Bene, arrivo.» disse e scattò
giù dal divano con agilità, prima di saltare
oltre le mie gambe e camminare a passo svelgo verso la cucina.
Chiusi un attimo gli occhi cercando di distinguere i rumori provenienti
dalla
cucina, sovrastati dallo stereo.
Dopo pochi secondi la sua voce irruppe nel silenzio della mia testa,
tanto
vicina ed inaspettata da farmi sobbalzare.
«Uh, ti ho spaventato?» chiese sbattendo le
palpebre con fare civettuolo e
porgendomi la bottiglia.
«Nah, sono un uomo io.» dissi bevendone un sorso.
Rachel mi guardò, alzando le sopracciglia e mordendosi il
labbro inferiore.
«Ah, sì.» annuì poi.
«Uomo sexy. Scusa, dimenticavo. Chissà dove ho la
testa
oggi.» mormorò, ma sembrava parlasse
più con se stessa che con me.
«Probabilmente con le mucche assassine.»
Rise e mi lanciò un cuscino, prendendomi in pieno viso.
«Tu sei il vero
assassino.»
«Idiota.» ridacchiai lanciandole il cuscino, che
afferrò con una mano,
poggiandolo sul divano.
«Esci mai, Bob?»
«La smetteresti di chiamarmi, Bob?»
Rachel alzò un sopracciglio. «E come vorresti ti
chiamassi?»
«Non so… Rob?» chiesi bevendo un sorso
di birra.
«Nah, troppo comune.»
«Robert?»
«Troppo serio.»
Sbuffai. «Okay, ci rinuncio.»
Rachel represso un gridolino di vittoria. La fulminai con lo sguardo e
lei
tossi annuendo col capo prima di portarsi la bottiglia alle labbra.
«Dicevo prima che mi interrompessi, Bob…
esci?»
«No… cioè, sì. Non
spesso.»
«Perché?» chiese inclinando il capo
verso per guardarmi meglio. I capelli le
finirono danti la spalla, quasi accarezzandogliela.
«Non lo so, in verità.»
«Quanti anni hai detto di avere?»
«Ventitré.»
«Dovresti darti alla vita notturna, amico.»
disse bevendo ancora.
«E’ ciò che dicono.» ammisi
con un cenno del capo.
Rachel si portò una mano sul mento, accarezzandoselo appena,
prima di fissare
con aria concentrata il pavimento. «Bene, domani verrai con
me.»
Sgranai gli occhi. «Cosa? Dove?»
Fece spallucce. «In nessun posto.»
«In nessun posto?» chiesi alzando un sopracciglio.
«Beh… in giro, non so bene dove. Domani esco con i
ragazzi della band. E verrai
anche tu.» disse portandosi le ginocchia al petto.
«Non credo sia il caso.»
«Dai, Bob, ti farà bene. Ci
divertiremo.» m’implorò lei gattonando
sul divano
ed avvicina dosi a me. Sbatté più volte le
palpebre, sporgendo il labbro
inferiore.
Istintivamente feci un risolino. «Okay,
d’accordo.»
«Ti passo a prendere io per le dieci.» disse
sedendosi a gambe incrociate.
«Okay.» sospirai.
Per alcuni istanti i suoi occhi indugiarono nei miei e, alla fioca luce
dalla
lunga lampada di cartone poggiata accanto al divano, la sue pelle parve
essere
della stessa consistenza della seta, priva di qualsiasi imperfezione.
Ed in
fondo, lo era.
Sorrisi fra me.
«Che c’è?» chiese lei quasi
avvampando di rossore, portandosi una ciocca di
capelli dietro un orecchio.
«Non lo so.» mormorai. Poi scostai lo sguardo
sull’orologio e feci una smorfia.
«Devi andare?», e nella sua voce potei quasi udire
delusione.
«Credo di sì.» dissi alzandomi e
dirigendomi in cucina, seguito da lei. Poggiai
la bottiglia accanto al lavabo, che l’ora precedente avevamo
ben pulito, ed
afferrai la giacca dalla sedia.
«E’ stata una bella serata, Rachel.»
dissi sorridendole. Lei alzo lo sguardo
sul mio viso ed annuì col capo.
«Sì, sono stata bene.» rispose
incrociando le braccia al petto e dondolando sui
talloni.
«Allora ci vediamo domani.» disse dirigendomi verso
al porta d’ingresso.
«Certo. E ricordati della serata.»
«Lo farò.»
«Bene.»
Afferrai la maniglia, ma prima di aprire la porta, mi voltai verso
Rachel. I
suoi occhi turchesi erano impetrabili, avrei voluto leggervi qualcosa,
ma non
ci riuscii.
«Grazie.» mormorai.
«Grazie.» rispose lei reggendo il mio sguardo. Poi
piano si avvicinò, con
strema lentezza ed alzandosi in punta di piedi si avvicinò
al mio viso,
baciandomi una guancia.
«’notte, amico mio.» mormorò
prima di allontanarsi.
«’notte, ragazzina.»
Uscii, chiudendomi la porta alle spalle, felice di aver trovato
qualcuno che mi
facesse sentire… me.
*
Purtroppo
non posso ringraziare a modo. E’ tardi e domani mattina
presto ho un treno… ed
io sono ancora qui.
Un grazie speciale e chi ha recensito lo scorso capitolo: Nessie93, Piccola
Ketty,
ginevrapotter, Ryry_
e KeLsey.
E
grazie a te, Ely.
E grazia a te, Kate.
A
voi, un bacio,
Panda.
|
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Capitolo 12 *** Capitolo undici: giornata no. ***
You
could be my unintended
Choice to live my life
extended
You could be the one I'll
always love
You could be the one who
listens to
my deepest inquisitions
You could be the one I'll
always love
I'll be there as soon as I
can
But I'm busy mending broken
pieces
of the life I had before.
Muse,
unintended.
Capitolo undici
Giornata no
Quando
rientrai in casa mi sentivo… vivo, nonostante la
stanchezza. Non seppi descrivere altrimenti il mio stato emozionale. Mi
sentivo
vivo. Tutto, in casa, mi metteva una strana allegria, il che, dovetti
ammettere, era piuttosto inquietante.
Mi sfilai la giacca e, con l’ombra di un sorriso a colorarmi
il viso, mi
diressi in cucina per un po’ d’acqua.
La risata di Rachel non faceva che echeggiarmi nella mente.
Scossi la testa al ricordo della serata passata con lei, delle battute,
parole
celate dietro profondi sguardi e sorrisi donatomi gratuitamente, come
quelli
dei bambini. Non c’erano perché, o ma, doppi fini.
Sorrideva, e basta.
Aprii il frigorifero ed estrassi una bottiglia, portandomela alle
labbra bevvi
due grandi sorsate. In quel momento, con la coda dell’occhio
vidi la luce della
segreteria lampeggiare. Corrugai la fronte e pigiai il pulsante.
«Ehi, Rob. Mi spiace, ritorno
rimandato.
Mi fermerò una settimana in più. Richiamami.»
Nel giro di pochi istanti sentii l’irritazione montare e,
stranamente spegnersi
all’istante.
Scossi il capo e l’unica cosa che borbottai fu: «Va
al diavolo, Kris.»
L’indomani
mi svegliai alle cinque del mattino. Avevo sonno,
terribilmente sonno. Tutta colpa di Rachel… tutta colpa mia,
ne ero al
corrente. Fare le ore piccole certamente non giovava.
Aveva accettato l’invito a cena di Rachel. Avevo mangiato
vegetariano, fumato
ascoltando i Pink Floyd e mangiato cioccolato. Avevo riso con lei,
avevo
giocato e scherzato con lei… l’avevo sentita e
vista suonare… al ricordo,
sorrisi. E quella sera sarei andato a bere qualcosa con lei e i suoi
amici.
Grugnai. Quanto avrei dormito?
Sospirai e scesi dal letto. Azionai la caffettiera e mentre aspettavo
che il
caffè fosse pronto –il bello delle macchinette
automatiche- mi andai a fare una
doccia calda. L’acqua parve svegliarmi in parte, ma il mio
risveglio, quello
definitivo, sarebbe avvenuto a caffè ingerito.
Così infatti fu.
Una volta indossata una camicia a quadri ed un paio di vecchi jeans
scoloriti,
m’infilai il berretto e la giacca, uscii di casa e la luce
del sole parve
colpirmi in pieno viso, come se mi stesse crudelmente schiaffeggiando.
M’infilai gli occhiali e le cose migliorarono. In certi
momenti, sì, mi mancava
terribilmente l’Oregon. Scesi le scale, saltellando e
canticchiando. Quando fui
davanti l’auto, che avevo noleggiato qualche girono prima, mi
tastai le tasche
in cerca delle chiavi… ma non c’erano.
Sbuffai ed alzai il capo verso il cielo. Non era possibile,
così, mentre
risalivo il vialetto, mi tastai ancora le tasche in cerca della chiavi
di casa …
ma non trovai nemmeno quelle.
Sbuffai, imprecai d’irritazione mentre sbattevo un piede per
terra, come fanno
i bambini per ottenere qualcosa.
«Idiota, idiota, idiota!» esclamai alzando le
braccia al cielo. Mi voltai verso
la strada e mi bloccai. Sul marciapiede una signora sui
quarant’anni ed un
bambino di circa quattro anni mi fissavano con occhi sgranati,
sconvolti.
M’accigliai, guardandomi intorno e poi sorrisi imbarazzato,
grattandomi la
nuca. «Oh… ehm… buongiorno.»
dissi facendo spallucce.
La donna non rispose e trascinandosi il figlio impaurito si
allontanò quasi
correndo.
«Ehi, non sono uno squilibrato!» esclamai verso la
signora che si allontanava
in fretta.
Scossi il capo e mi passai una mano sul viso?
Fantastico, meraviglioso, pensai.
Afferrai il cellulare e chiamai un taxi. La giornata, certamente,
cominciava
nel migliore dei modi.
Quando arrivai al lavoro ero irritato, tremendamente irritato.
Seduto su una poltroncina in pelle nera, in attesa che uno dei
musicisti
arrivasse, mi presi il capo fra le mani e chiusi gli occhi.
La testa cominciava a dolermi. Non avevo richiamato Kristen. Nei gironi
precedenti non avrei attesi un secondo di più, avrei colto
l’occasione per
sentirla, ma in quel memento, nervoso ed adirato con me stesso per la
colossale
disattenzione che avevo mostrato quel primo mattino, non ne avevo
voglia.
Esatto, non ne avevo voglia. Non avevo voglia di ascoltare le solite
scuse, i
soliti motivi per quel maledetto ritardo.
Sospirai e mi poggiai allo schienale della poltrona, quando aprii gli
occhi
sobbalzai. Immobile, dinanzi a me, con le mani inerti lungo i fianchi,
Rachel
mi fissava con sguardo indecifrabile. I lunghi capelli neri le
incorniciavano
il viso, avvolgendole le spalle. Indossava una felpa sopra una t-shirt e jeans chiari, la
borsa a tracolla
le scendeva su un fianco.
Inclinò il capo e corrugò la fronte.
«Che brutta cera hai, Bob.»
La fissai, senza proferire parola. Lei sospirò e
roteò gli occhi, poi batté il
ginocchio contro la mia coscia, aspettandosi che mi
spostassi… ma ciò non
accadde. Con sguardo serio continuai a fissarla.
Sbuffò e incrociando le braccia al petto si fece spazio
sulla poltrona,
sedendosi nello spazio angusto, fra me e il bracciolo.
«Ahi!» esclamai spostandomi un po’, per
farla sedere.
Compressi l’uno contro l’altra, sulla poltroncina,
ci guardammo. Mi sentivo
particolarmente “stretto”.
«Non posso muovermi. Ho le mani incastrate fra i nostri sue
corpi. Le mie
spalle urlano pietà.»
Lei sbatté più volte le palpebre. «Ti
lamenti sempre.»
Sbuffai. «Ti lamenteresti anche tu se fossi al mio posto
oggi.»
Gli occhi turchese le si illuminarono e, ancora una volta, notai quanto
bella
fosse. «Hai pestato un escremento di cane?» chiese
sorridendo.
Sgranai gli occhi e spalancai la bocca. L’immagine del suo
viso fu sostituita
da quella di un cane.
«Rachel! Dio, sei disgustosa!»
Lei mi guardò con innocenza, facendo spallucce
–per quanto le fosse possibile.
«Non è vero!»
Grugnii e scossi capo.
«Dai, cosa ti è capitato di così
terribile?» chiese sollecitandomi, muovendo
ritmicamente la spalla destra.
«Smettila di fare così.»
«Perché?» rise, «Sono
irritante?»
«Sì, molto.» disse fermandole la spalle
con una mano.
Sbuffò. «Okay.»
«Sono venuto in taxi.» dissi dopo alcuni istanti di
silenzio.
«Non avevi noleggiato un’auto?» chiese
aggrottando le sopracciglia.
«Sì.»
Mi guardò con espressione interrogativa.
«Ho lasciato le chiavi in casa.» dissi mordendomi
il labbro inferiore.
«E non potevi rientrare a prenderle?»
Feci una smorfia, prima di massaggiarmi la fronte. «Ho
lasciato anche quelle.»
Mi voltai a guardarla. La sua espressione era imperscrutabile, mi
fissava con i
suoi grandi occhi turchese ed io non avevo idea cosa stesse pensando.
«Scherzi, vero?» chiese infine.
Alzai un sopracciglio. «Ti sembra che stia
scherzando?»
Si morse il labbro inferiore e represse un sorriso, prima di scoppiare
in una
fragorosa risata. Buttò all’indietro la testa,
poggiandola allo schienale e
ridendo di gusto.
Mi mossi irritato. «Non ci trovo nulla da ridere, Stevens.
Assolutamente
nulla!» esclamai dandola una spallata.
«Oh, invece sì!» disse fra le risate.
«Oh, invece no!» esclamai facendomi in avanti col
busto e liberandomi dal suo
corpo compresso al mio. Mi presi il capo fra le mani e gemetti.
La mano di Rachel, piccola e affusolata, si posò sulla mia
spalla, ne potei
avvertire il calore. «Si risolve, Bob… non ti
è crollata la casa.»
Mi voltai appena per guardarla in volto e solo allora mi resi conto di
quanto
fosse vicina. Si era anch’ella sporta col busto ed i suoi
occhi turchese
brillavano alla luce del sole che filtrava attraverso la grande
vetrata,
gettando luce ovunque.
«Lo so…»
Le labbra piene si distesero in un sorriso, mostrando una schiera di
denti
bianchi come neve. Il suo profumo di vaniglia mi colpii
all’istante, come
trasportato da una folata di vento improvvisa. Chiusi gli occhi,
inspirando.
«Cosa c’è?» chiese lei in un
sussurro. La sua mano era ancora sulla mia spalla.
«Vaniglia.»
«Cosa?»
«Profumi straordinariamente di vaniglia.» mormorai
mentre un angolo delle mie
labbra si sollevava involontariamente verso l’alto.
Aprii gli occhi e fui sorpreso dall’espressione sul suo
volto. Gli occhi appena
sgranati, le iridi scintillanti ma cupe allo stesso tempo, le labbra
dischiuse
tanto che il suo respirò mi colpii in pieno volto. Emise un
singulto, forse
voleva parlare, ma dalla sua bocca non uscì altro suono.
I suoi occhi ardenti mi scossero, mi fecero fremere come poche volte
era
successo.
Non seppi darmi una spiegazione.
«Robert…» mormorò con voce
calda, tanto morbida da abbracciarmi.
In quel momento sentii l’irrefrenabile voglia di carezzarle
il viso e
stringerla a me. Ma non feci nulla di tutto ciò.
«Allora, ragazzi, pronti?» la voce di James, il
compositore, mi riportò alla
realtà.
«Okay, ragazzi, pausa pranzo.» esclamò
James con un battito di mani. Sospirai
di sollievo, mentre Rachel accanto a
me esultò agitando le braccia in aria.
«Signorina Stevens, se questa è la sua voglia di
lavorare…» esordì James
recuperando i suoi spartiti.
Lei spalancò gli occhi e balzò in piedi.
«Oh, no, no. Non intendevo dire
questo! E’ solo che ho fatto tardi questa mattina e ho
mangiato solo un toast.»
«Cerchi di svegliarsi presto allora… se vuole fare
questo lavoro…» continuò
avviandosi alla porta.
«Oh, ma… io… non…»
farfugliò lei mentre James usciva dalla stanza.
Il resto delle persone presenti nella stanza, circa cinque, uscirono
lasciando
me e Rachel soli.
Lei fissava ancora sbigottita la porta, gli occhi sgranati e la bocca
spalancata. Io soffocai una risata. All’istante si
voltò, fulminandomi con lo
sguardo.
«Stai ridendo?» chiese riducendo gli occhi a due
fessure.
Serrai la bocca e scossi il capo. «Non mi permetterei mai, Racky.» dissi facendo spallucce.
«Oh, al diavolo! Ma lo hai visto? Ha messo in dubbio
l’amore per ciò che
faccio!» sbraitò afferrando la borsa.
«Non è possibile!»
ringhiò dirigendosi a lunghe falcate verso la porta,
facendo oscillare i lunghi capelli color della pece.
Sorrisi accorgendomi che indossava solo la t-shirt bianca,
così mi voltai verso
la sedia sul quale era seduta e notai la felpa. L’afferrai e
la chiamai.
Rachel, oramai sulla soglia si voltò di scatto.
«Che c’è?» ringhiò.
Alzai la felpa e l’agitai in aria, sorridendo flebilmente.
L’espressione sul suo viso mutò. I muscoli
contratti per la rabbia si
rilassarono. Si ricompose, portandosi la tracolla della borsa sulla
spalla e
sistemandosi la maglietta, passandoci le mani sopra.
«Oh. Grazie.» disse con voce risoluta avvicinandosi
e afferrando la felpa, ma,
mentre si girava per uscire dalla stanza, l’afferrai per un
braccio e la
costrinsi a voltarsi.
«Cosa…» mormorò confusa.
Sorridendo le scompigliai i capelli e le schioccai un
bacio sulla guancia.
«Andiamo, Stevens, ti offro un pranzo vegetariano.»
Lei sospirò e scosse il capo, abbracciandomi la vita.
«Cosa farei se non ci
fossi tu a rallegrarmi le giornate?» disse in un risolino,
alzando lo sguardo
sul mio viso.
Le circondai le spalle con un braccio e feci spallucce.
«In questo momento staresti viaggiando per il più
vicino ospedale
psichiatrico.»
Erano le otto di sera quando la mia giornata lavorativa
finì. Ero stanco, ero
stremato ed avevo urgentemente bisogno di una doccia per
rigenerarmi… oltre ad
una pizza gigante. Dire che avevo fame era davvero poco. Mi alzai dal
tavolo e
riposi gli spartiti in una cartellina di carta gialla, mi alzai a mi
sgranchii
le gambe e sbadigliai.
«Allora ci vediamo domani, gente. Ottimo lavoro.»
disse James. Sorrisi ed
annuii col capo, prima di sedermi e lasciarmi andare sul tavolo,
incrociando le
braccia.
Un leggero mormorio inondò la stanza e piano sentii le sedie
strisciare sul
pavimento e la porta aprirsi e chiudersi.
Chiudendo gli occhi pensai a Kristen. Non l’avevo chiamata ed
in quel momento
desiderai farlo, così mi misi eretto per recuperare il
cellulare dalla tasca,
ma quando alzai il capo dal tavolo sobbalzai. Rachel era seduta di
fronte a me,
le mani giunte sul tavolo, le spalle diritte, un espressione
imperscrutabile
sul giovane viso.
«Dio!» esclama passandomi una mano sul viso.
«Potresti fare anche un po’ di
rumore quando entri.» dissi poggiandomi allo schienale della
sedia e
rinunciando alla telefonata. Avrei chiamato Kristen a casa, con
tranquillità.
«Scusa.» disse senza cambiare espressione.
Per alcuni istanti rimanemmo in silenzio, l’uno immergendosi
negli occhi
dell’altro.
«Cosa c’è?» chiesi infine
esasperato.
«Niente. Volevo assicurarmi che stessi bene. Sai, la
serata.»
Sospirai e feci un risolino, scuotendo il capo.
«Certo.»
Fu allora che ricordai di aver lasciato le chiavi dentro casa.
«No!» esclamai
prendendomi il viso fra le mani.
Rachel sobbalzò e si sporse verso me. «Cosa
c’è?» chiese allarmata.
«Le chiavi!» sbuffai.
Lei mi guardò un momento, poi scosse il capo ridendo.
«Vigili del fuoco, Bob.
Chiamali ora.»
Sbuffai. «Non è possibile. Idiota, Robert,
idiota!» mi dissi alzandomi in piedi
e afferrando il cellulare dalla tasca. «Devo chiamare un
taxi.»
«Taxi? Scherzi? Ti ci porto io!» esclamò
lei balzando in piedi.
«Ci tengo alla mia vita, Rachel.» dissi cercando di
reprimere un sorriso.
Lei mi fisso con sguardo indecifrabile, poi fece il giro del tavolo e
si
avvicinò a me. Mi guardò un’ultima
volta poi mi diede uno scappellotto.
«Idiota!»
«Ahi!» protestai massaggiandomi le testa.
«Te lo meriti. Ora chiama i vigili del fuoco, genio. Ti
aspetto all’uscita. Ho
bisogno di un brik di latte ad cioccolato.» disse seria
passandosi una mano fra
i lunghi capelli e voltandosi con fare teatrale.
Scossi il capo e sorrisi. Quella ragazza, sì, era una forza
della natura.
«Rachel rallenta!» urlai quando lei
imboccò la strada di casa a tutta velocità.
«Nah!» rispose con un ghigno prima di inchiodare
davanti casa. La cintura di
sicurezza parve segarmi in due il torace.
Con occhi sgranati, con la schiena che aderiva totalmente allo
schienale,
aggrappatomi al sedile con le mani, cercai di rallentare il mio
respiro, il mio
povero cuore spaventato.
«Tu sei pazza.» soffiai a corto di voce.
«Sei pazza.» ripetei voltandomi a
guardarla, scioccato.
Lei schioccò la lingua. «Ah,
com’è divertente!» disse in un gridolino
dondolando il capo.
«Sei pazza!» esclamai slacciandomi al cintura e
uscendo dall’auto.
M’inginocchiai sul vialetto di casa e tesi le mani verso
essa. «Casa… terra!»
esclamai alzando lo sguardo al cielo.
«Come sei melodrammatico.» sbuffò lei.
Mi voltai fulminandola con lo sguardo. Alzò gli occhi al
cielo e, sospirando,
si poggiò all’auto, incrociando le braccia al
petto.
«Potevamo fare un incidente!»
«Andavo pianissimo!» disse alzando un sopracciglio.
«No, invece! Ho rischiato un infarto!» dissi
alzandomi e andandole incontro.
Lei si morse l’interno della guancia, reprimendo un sorriso.
«Cosa c’è, ora?» chiesi
alzando le braccia al cielo e facendola poi ricadere
lungo i fianchi.
«Sei divertentissimo quando ti arrabbi. Scusa, Bob, ma non
hai credibilità.»
sorrise facendo spallucce.
«Oh, beh… sentiamo perché?»
Non rispose subito, rimase per attimi infiniti, immobile a guardarmi
negli
occhi, con espressione indecifrabile.
«I tuoi occhi parlano.» mormorò ed il
suo sguardo era un misto di cielo e
miele, i lineamenti del viso parevano esser scolpiti nella seta, sotto
la
debole luce di un lampione.
«Cosa?»
Le labbra le si distesero nuovamente in un sorriso sghembo,
abbassò un attimo
lo sguardo. «Ciò che esce dalle tue labbra
differisce da ciò che si legge nei
tuoi occhi.»
In quel momento mi chiesi chi fosse in realtà Rachel
Stevens. Mi chiesi come
potesse leggermi con una tale facilità, come potesse
coinvolgermi nelle sue
congetture, avvolgermi con le sue risate, risanarmi il cuore con parole
cariche
si significato, abbracciarlo con un solo sguardo. Per quale grazie
divina ella
mi fosse stata inviata, come a… permettermi di ritrovare
quella giovinezza
scemata.
Apparentemente era un ragazza normale eppure… eppure per me
non lo era. Rachel
non era una ragazza, era la ragazza.
Sorrisi ed allungai una mano verso il suo viso, accarezzandole una
ciocca di
capelli scuri, morbidi come seta.
«Ha chiamato lei per una porta bloccata?»
Ritrassi immediatamente la mano e mi voltai verso destra dove, un paio
di
uomini nerboruti, aspettavano una mia risposta.
«Sì. Salve, è questa qui.»
risposi indicando l’abitazione alle mie spalle.
I due annuirono ed imboccarono il vialetto.
«E’ meglio che vada, ora.» disse Rachel
raddrizzandosi.
Annuii col capo. «Sì.»
«Passo fra un’oretta, okay?» chiese
aggirando l’auto.
«No, passo con la mia macchina questa volta.»
Sbuffò. «Idiota. Non sai muoverti come me a Los
Angeles.»
Feci spallucce. «E’ il momento
d’imparare, non credi?»
«Certo, certo.» rispose lei agitando una mano a
mezz’aria, come a voler dar
poca importanza alle mie parole.
«Non fare tardi!» esclamò prima di
entrare in auto.
Sorrisi. «A dopo, Rachel.»
Il sorriso che le distese le labbra piene illuminò gli occhi
che, in quel
momento, parvero zaffiri al sole.
*
Salve,
gente! Eccomi qui, dopo una lunga assenza… ma le idee
scarseggiavano. D’ora in
poi dovrei essere più…
“presente”.
Voglio ringraziare di
cuore coloro che hanno recensito l’ultimo capitolo:
Nessie93,
uley,
Ryry_,
Elly4ever.
Alle recensioni
risponderò man a mano. :)
Grazie di cuore,
davvero!
Mi scuso per
l’affrettato saluto, ma Dickens è lì
sul tavolo che mi reclama.
Un bacio, Panda.
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