My unintended choice

di NeverThink
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: irrazionalità ***
Capitolo 2: *** Capitolo uno: solo una risposta. ***
Capitolo 3: *** Capitolo due: il bacio. ***
Capitolo 4: *** Capitolo tre: ragazzina. ***
Capitolo 5: *** Capitolo quattro: ancora tu? ***
Capitolo 6: *** Capitolo cinque: reperto storico. ***
Capitolo 7: *** Capitolo sei: Bob e Rachy. ***
Capitolo 8: *** Capitolo sette: vegetariana. ***
Capitolo 9: *** Capitolo otto: facile come respirare. ***
Capitolo 10: *** Capitolo nove: musicista. ***
Capitolo 11: *** Capitolo dieci: amici. ***
Capitolo 12: *** Capitolo undici: giornata no. ***



Capitolo 1
*** Prologo: irrazionalità ***


 

 

 

Prologo

Irrazionalità




Si dice che non ci sia niente di meglio dell’amore.
Si dice che l’amore elevi l’animo dell’uomo, ingentilendolo.
Si dice che l’amore ti trascina, ti travolge e ti sconvolge.
In fondo è vero, lo so perché l’ho provato.
Ma soprattutto si di dice che l’amore sia irrazionale…
I suoi occhi, freddi come il ghiaccio mi osservavano crudeli. Grigi come il cielo in tempesta, impenetrabili come le nubi.
Sapevo di averla delusa, sapevo di non essere stato colui di cui lei aveva bisogno. Sapevo di non aver mantenuto le promesse fatte, sapevo che lei contava su di me.
Sapevo di averla ferita, e in quel momento tale consapevolezza mi logorava l’anima. Strascinandomi nell’uragano dei suoi occhi, scuotendomi come solo lei sapeva fare.
Avevo tradito la sua fiducia.
L’osservai allontanarsi lentamente, dolce e bellissima come sempre, fiera ed orgogliosa.
Fra la moltitudine di persone.
Avrei lottato, perché era lei, la mia scelta involontaria, tale consapevolezza mi colpii con la forza di una slavina.
Perdonami…

 

Dedicata alla mia Ely… grazie di tutto.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo uno: solo una risposta. ***


 La canzone è unintended, dalla quale ho preso spunto per alcuni aspetti della fiction.

 

 

 

You could be my unintended
Choice to live my life extended
You could be the one I'll always love
You could be the one who listens to
my deepest inquisitions
You could be the one I'll always love
I'll be there as soon as I can
But I'm busy mending broken pieces
of the life I had before.
Muse, unintended.

 

Capitolo uno

 Solo una risposta

 


Ci sono dei giorni in cui ti alzi al mattino e vorresti solo rimanere sul divano di casa a fare zapping, mangiando pop-corn e bevendo coca-cola.
Ci sono giorni in cui ti alzi al mattino e vorresti scappare lontano, lontano da tutto. Rifugiarti ai Caraibi ed immergerti nel mare cristallino e limpido. Goderti la sensazione ed il calore dei raggi solari sulla pelle, i capelli incrostati e le labbra screpolate dalla salsedine.
Ci sono in giorni in cui invece non desideri altro che lavorare, fare ciò che, in fondo, ami , ciò che desideri da una vita. Ciò che ti ha reso ciò che sei. Vorresti andare sul set ed interpretare il personaggio che, facilmente o difficilmente sei riuscito a far tuo.
Ci sono dei giorni in cui vorresti prendere la tua chitarra e suonare ai piedi di una grande quercia, con la mente priva di pensieri, ricolma solo delle note che, immaginarie ti si presentano dinanzi agli occhi, e diffonderle nell’aria, attraverso le dita che, piano o veloci, si muovono sulla tastiera.
Poi ci sono giorni in cui, invece, non ti va di fare ciò che dovresti fare. Ed era ciò che stava succedendo a me in quel momento.
Mentre con la mente mi perdevo in spazi infiniti, nel mare azzurro dei Caraibi, nella bianca e sottile sabbia della spiaggia, qualcuno bussò crudelmente alla porta. Riemersi dall’oceano di fantasia e immaginazione mi ero immerso ritornando alla realtà… che di certo non era tanto dolce ed assolata come quella dei Caraibi.
Ero steso sul piccolo divano, con la testa che penzolava dal bracciolo e spirali di fumo che si alzavano nell’aria. La luce della luna, pigra e chiara, filtrava attraverso il vetro, illuminando la piccola stanza.
Si, quello non era decisamente una spiaggia caraibica. Sospirai e spensi la sigaretta nel posacenere poggiato ai piedi del divano, accanto alla finestra aperta.
Bussarono ancora alla porta.
-Sii?-, chiesi passandomi una mano fra i capelli, cercando inutilmente di dargli un ordine.
-Signor Pattinson, siamo pronti. -, disse una voce sottile.
Mi passai le mani sull’addome, sistemandomi la camicia celeste. Facendo vento con le mani cercai di cacciare via i residui di fumo dalla stanza, chiudendo poi la finestra. Afferrai la maniglia e aprii. Una ragazza, avrà avuto ventotto anni, o trenta, mi guardava con un sorriso che le andava da un orecchio all’altro. Aveva un auricolare, collegato ad un microfono che le sfiorava l’angolo della bocca, i capelli biondo platino e occhi castani.
-Salve. Allora, viene con le sue gambe e dobbiamo trascinarla con un lettino?-, chiese.
Alzai le sopracciglia e la guardai incredulo, -Direi che vengo con le mie gambe. -
-La prossima volta che decide di fumare apra la finestra. Mi sorprende che non sia scattato l’allarme antincendio. -, disse in tono perentorio.
Corrugai la fronte, -Mi scusi. -, dissi chiudendomi la porta alle spalle.
-Era al buio?-, chiese cominciando a camminare a passo svelto lungo il corridoio.
-Si. -
-Perché?-, chiese svoltando un angolo.
Chiusi un attimo gli occhi, -Non sapevo l’intervista fosse già iniziata. -, dissi.
-Mi perdoni. -, rispose alzando le mani, come per difendersi.
Quella ragazza, dal gentile aspetto, mi dava ai nervi.
C’erano persone che caotiche si muovevano a destra, altre a sinistra. Chiamavano altre, ne mandavano via altre. Erano tutti pronti, tutti in procinto di iniziare. Una grande squadra. Per un attimo provai uno strano senso di deja-vù.
-Allora, -, disse la ragazza, -lei deve aspettare qui, guardai, -, disse indicandomi con l’indice un preciso punto del pavimento, -quando la chiameranno entrerà. -
Guardai confuso il punto che indicava con il dito.
Le sue sopracciglia si unirono, in un’espressione d’attesa, -Cosa aspetta? Si muova!-
Sgranai gli occhi, scioccato, -Scherza, vero?-
Sbuffò e afferrandomi per le spalle mi fece posizionare sul punto da lei indicato.
E’ pazza, pensai.
-Non si muova, arrivo. -, disse poi, allontanandosi. La seguii con lo sguardo, quasi sconcertato. Osservai la sua figura alta allontanarsi sinuosamente, facendo oscillare i capelli chiari e lisci.
Scossi il capo e guardai dinanzi a me. Allungai il collo, sbirciando nello studio gremito di gente. Si poteva chiaramente udire il chiacchiericcio, saranno state quattrocento, massimo seicento persone. Un numero notevole di persone.
Lo studio aveva una forma a semicerchio. Da un lato il pubblico eccitato, dall’altro ad estremità un divano rosso cardinale, un paio di poltrone, all’altra estremità, quella sinistra, opposta al punto in cui mi era stato ordinato di attendere, delle sedie girevoli, bianche, senza schienale. Lì, un uomo dai capelli sale e pepe, un abito grigio e una cravatta color salmone, parlava con un ragazza, sfogliando i fogli su una cartellina. In ragazzo mi indicò ed il signor sale e pepe, si voltò a guardarmi alzano un sopracciglio, poi annuii tornando a guardare i ragazzo.
Sbuffai e mi mossi nervoso sul posto, incrociando le braccia.
-Ehi, Rob. -, mi voltai riconoscendo quella voce. D'altronde, come dimenticarla?
-Ciao, Kris. -, dissi voltando il capo e osservandola mentre mi affiancava. Rimasi ancora incantato ancora un volta, come mille altre in precedenza, sai suoi occhi color del prato, limpidi, dolci e tentatori allo stesso tempo.
-Tutto okay?-, chiese passandosi la mano fra gli ormai corti capelli corvino.
-Si. -, in fondo, mentii. Mentii perché, ora, nulle era okay. I suoi occhi, le sue labbra, si erano insinuate nella mia mente, un chiodo fisso che non riuscivo ad eliminare.
Quel bacio. Quel bacio era stato un errore. Lo sapevo, eppure, togliermi dalla mente quelle labbra morbide era un impresa titanica, arduo il lavoro che nell’ultimo mese cercavo di compiere… ma togliermi Kristen dalla testa era… era difficile, se non impossibile.
-A te?-, chiesi guardando lo studio.
-Anche. Solo un po’ stanca. -, disse sospirando.
-Tra set, interviste e set fotografici, il tempo libero è poco. -
-Ed, a volte, del tutto assente. -, aggiunse con un mezzo sorriso.
-Esatto. -, risposi dandole una leggera gomitata. Lei perse appena l’equilibrio, e sorridendo, a capo appena chino, ritornò in equilibrio.
-Ci pensi mai a quella sera?-, chiesi d’un fiato voltandomi verso di lei.
I suoi occhi si fusero con i miei in attimi infiniti, mi persi in quel verde dalle mie sfaccettature, nelle pagliuzze dorate intorno alle pupille.
-Robert, io… Michael… -, balbettò con voce tremante.
-Ci pensi mai?-, insistetti.
Rimase a guardarmi negli occhi, seria. Cercai di scorgere nel suo sguardo i segni di una qualunque risposta, un speranza alla quale potermi aggrappare con i denti, con le unghie, ma non vidi nulla. I suoi occhi cristallini erano impenetrabili.
-E tu ti metti esattamente qui. -, entrambi ci voltammo di scatto verso una voce. La stessa voce di quella ragazza irritante che mi aveva ordinato, nemmeno fossi un bambino di otto anni, di rimanere fisso in un punto.
-Ma, signorina Sullivan, non trovo necessaria tutta questa violenza. -, latrò una voce sottile. La signorina Sullivan, ne dedussi, doveva essere la bionda, tenendo una ragazza per le spalle, la spingeva verso di noi.
-Oh, si invece, signorina Stevens. È troppo lenta. -, sbuffò, -Ecco, lei si metta qui. -, disse posizionandola accanto a Kristen alla mia sinistra.
-Ci riesco da sola. -, disse la ragazza scrollandosela dalla spalle. Guardai la scena con la fronte corrugata, esattamente come Kristen.
-Non ne dubito. Ma è lenta. -, disse Sullivan.
-Ah-ah, -, rise sarcastica l’altra, -come siamo divertenti, Mary. -, ed si portò le mani sui fianchi stretti.
-Taci, mostro. -, disse Mary, -Prova muoverti e sei fritta. -, disse poi allontanandosi.
Sgranai gli occhi, incredulo.
Che gentilezza, pensai.
La ragazza accanto a noi sbuffò.
-Ti odio. -, sibilò. Poi si voltò a guardarci, come se si fosse resa conto della nostra presenza solo ora, fissò i nostri visi sconcertati.
Fece un risolino isterico, -E’ mia cugina. -, disse facendo poi spallucce, -Ha fatto così anche con voi?-
Il programma iniziò.
-Più o meno. -, mormorai ricordati quello che era successo poco prima.
-Ehm… no. Sono venuta con un certo Chuck. -, rispose Kristen.
-Tu si che hai fortuna. -, disse la ragazza, sospirando.
-Si… direi di si. -, aggiunse perplessa Kristen. La ragazza annuii e per un momento calò il silenzio, interrotto ancora da lei.
-Oh, ma che maleducata. Io mi chiama Rachel. -, disse porgendoci una mano. Entrambi al stringemmo.
-Kristen. -
-Robert. -
Lei fece un risolino, -Lo so. Vado al cinema anch’io. -
Kristen sorrise, annuendo, -Giusto. -, ed io mi passai una mano fra i capelli, imbarazzato.
Rachel sorrise e poi scrutò nello studio.
-C’è parecchia gente. -, disse.
-Abbastanza. -, risposi e Kristen mi rivolse un’occhiata fugace, che non riuscii a ricambiare.
Poi mi resi conto della domanda che avrei dovuto fare a Rachel minuti precedenti, una domanda stupida ed ovvia, che per educazione avrei dovuto porgere. Ma una domanda dettata anche dalla curiosità.
Perché lei era accanto a noi?
Il suo viso non mi era familiare, non lo avevo mai visto in tutta la mia vita, ne ero certo. Giovane d’età, era evidente, forse anche più piccola di Kristen, ma non potevo esserne sicuro.
Aprii la bocca per chiedere cosa facesse nella vita e come mai fosse lì, ma una voce stroncò la mia domanda sul nascere.
-Bene, dopo questo full immersion, nel mondo di Twilight, facciamo entrare i primi ospiti di oggi. Amati da milioni di ragazzine, da mamme e nonne. Coloro che hanno fatto innamorare il mondo di questo magnifico mondo fatto di magia e misteri. Accogliamo con un applauso Robert Pattinson e Kristen Stewart!-
-Tocca a voi!-, esclamò una voce alle nostra spalle.
Sospirai ed ci dirigemmo in studio.
-Buona fortuna. -, ci disse in un sorriso Rachel, strizzando un occhio.
Prima che mettessi piede oltre le quinte mi voltai verso Kristen, -Mi devi una riposta. -, mormorai, prima di sorridere e sedermi sul quel divano.

*

Ed eccomi qui. Ma che pizza!, esclamerete voi, ma non importa, non mi libererete di me tanto facilmente gente.
Comunque, veniamo a noi. Non chiedetemi da dove mi sia uscito questo capitolo perché non ne ho assolutamente idea. Era un po’ che volevo fare una fiction, o una one-shot ambientata in uno studio televisivo… così ecco qui questo sclero che, spero, vi sia piaciuto almeno un po’.
Ci tengo davvero tanto a ringraziare quei sei angeli che hanno recensito lo scorso capitolo, perciò:

 Luxi: ciao! Sono felicissima tu abbia letto il prologo, davvero, credimi! Non concordo con te su alcuni punti                    sei troppo buona! Ma sono contentissima che, leggendo ciò che scrivo, ti venga voglia di aprire word! Insomma, solitamente è una cosa che succede a me… grazie davvero per la recensione. Mi ha fatto un immenso piacere. Spero ti sia piaciuto il capitolo. A presto!
Roxisnotdied: ciao, bella! *_*  ma che piacere la tua recensione! Solo che… questa fiction non è propriamente Robsten… fra non molto, appena ne finisco una, metto una fiction fra loro due, che sarà un po’ strana, come struttura e cose varie intendo. Spero di non averti delusa, ed in tal caso mi rifarò XD E ricorda che attendo ancora di leggere qualcosa di tuo. A presto! Grazie di tutto, davvero.                          
Xx_scrittrice_xX: ciao, Ely! Ed ecco l’inizio effettivo della storia, che spero non abbia deluso le tue aspettative. D’altronde, te l’ho dedicata. Non devi ricambiare nulla, sono io che ricambio con questo, credimi. Fai così tanto per me… anche se mi prendi in giro. Ti voglio bene, sciocca.
Railen: ciao! Ma… le mie prefazioni sono sempre così oscene! E poi se tu ad essere il triplo più brava di me, non si discute. Comunque, sono contenta ti sia piaciuta, la prefazione! Mi ha fatto tanto piacere leggere la tua recensione, perché, come ben sai, ti reputo una delle autrici più brave. Spero di non averti delusa con questo capitolo. E’ solo un inizio, okay… però… boh, non so. Grazie mille per al recensione, Ire. Grazie davvero di cuore <3
Nessie93: cia, Chià! Dai, magari ci hai preso… oppure no, di certo io non parlo. Come sempre. Il mio è solo un tentativo di ricordare la poesia, non è poesia, se lo sarebbe… vabè, questi sono altri discorsi. Aspetto con ansia le tue ipotesi, eh! Beh, l’uragano… non so se è sua amico, ma mi è uscita così, di getto, come l’intero prologo, più o meno. Sono contenta ti piaccia! E spero di non averti delusa con questo! Grazie di tutto, Chiarì, ti voglio bene.
Fairwriter: mia amata, Juls! Non sai quanto tu mi renda felice con la tua recensione, sul serio! Sono contentissima! *_*  Sul serio sembrano personaggi miei? Cioè, si, infondo lo sono, però… ho paura che Robert risulti sempre uguale. Sei sempre troppo buona con me, socia. Spero ti  sia piaciuto anche questo primo capitolo.  Ti voglio bene, Cip, davvero. Non scordarlo, anche se non ci sentiamo più tanto spesso <3

 A voi, mille grazie.
Un bacio,
Panda.

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Capitolo 3
*** Capitolo due: il bacio. ***


 

 

 

You could be my unintended
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You could be the one I'll always love
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But I'm busy mending broken pieces
of the life I had before.
Muse, unintended.

 

 

Capitolo due

Il bacio






-Allora, come ci si sente ad essere considerato il vampiro più sexy del mondo?-, chiese il signore sale e pepe in un sorriso, mostrando una schiera di denti bianchi, talmente perfetti che di sicuro era merito di capsule di porcellana.
Feci un risolino, passandomi una mano fra i capelli. Quante volte mi era stata fatta quella domanda? Oramai avevo perso il conto.
Kristen sorrise e si voltò a guardarmi, tirandomi una leggera gomitata, come se mi avesse letto nel pensiero, complice di quell’uomo. George, si chiamava.
-Prossima domanda?-, chiesi imbarazzato. Tutti nello studio risero.
Scossi il capo e risposi. Per circa quindici minuti parlammo del film, dei personaggi, del cast, della storia, di piccoli divertenti aneddoti.
Evitai di guardare Kristen, limitandomi a vederla.
Che di prende, Robert, continuavo a ripetermi.
Come è possibile? Andiamo, è tua amica. Toglitela dalla testa.
Come se fosse possibile,
rispose scettica una vocina nella mia testa.
Era ufficiale, la pazzia stava facendo il suo crudele corso.
Si scherzava, si rideva, come nostro solito. C’era complicità, ed una era la risposta: l’alcool gioca davvero brutti scherzi.


Scende giù per la cosa, fresca e frizzante, buona e rinfrescante.
Non sono un’amante delle feste, non lo sono mai stato, eppure sono riusciti a trascinarmi a questo party. Nikki, Jackson, Kristen.
Espiro del fumo che si alza in spirali sopra la mia testa, nell’aria fredda del giardino di questo… non ricordo nemmeno dove sono.
Le testa mi duole, pulsa di dolore. Mi passo una mano sul viso, strizzando forte gli occhi.
Dalla gola mi esce un gemito, poi una voce mi costringe ad alzare il capo.
-Tutto okay?-, chiede, dolce e quasi preoccupata. Guardo i suoi occhi verdi, limpidi e cristallini, lucidi.
-Se riesci a spegnere il tir che si aggira nella mia testa… alla grande. -, dicco sorridendo appena.
Lei ride e si avvicina a me, passandosi una mano fra i capelli scuri.
-Sei troppo vecchio, Rob. -, dice premendo una mano sulla mia guancia.
-Sono troppo stanco, è diverso. -, mormoro perdendomi in quel prato.
Sorride, e mi rendo conto di quanto sia bella.
Non cosa mi spinga a farlo, cosa mi spinga famelico verso il suo viso, catturando le sue labbra, quelle labbra che già altre volte, per altre ragioni, si era fuse alle mie.
Stringe la mani fra i miei capelli, mentre la sigaretta oramai finita mi cade dalle mani. Poggio la bottiglia sugli scalini del portico e avanzo, camminando verso il muro bianco alle sue spalle.
La sua schiena tocca il muro, e facendo leva su di esso, incrocia le gambe alla mia vita. Le mie mani su muovono dietro la sua schiena, sotto la leggera maglia bianca.
Non esiste altro che lei… le sue labbra, il suo corpo… i suoi occhi.
Poi una voce chiama il suo nome. Deve essere Nikki… credo.
Sobbalza fra le mie braccia, e allontana di colpo il mio viso dal suo. Si volta verso la fonte di disturbo. Poi mi guarda e sgrana gli occhi, come svegliandosi da un sogno o… un incubo.
-Dio no, no, no…- , mormora quasi nel panico, quando si rende conto di quanto stretta sia al mio corpo.
Confuso, mi allontano appena, e si rimette in piedi.
-Io… Rob… -, balbetta.
-Kris?-, ancora la voce di Nikki. Si volta e scuote il capo.
-Devo andare. -, sussurra.
-Aspetta. -, le dico afferrandola per un braccio, sfugge alla mia presa e si allontana, con il peso delle menzogne sulle spalle.

 

-E tu Robert?- , alzo lo sguardo su George, riaffiorando da quell’amaro ricordo, estraniatomi per pochi attimi dal mondo reale.
-Io cosa?-, chiesi confuso.
Sally, la co-presentatrice, che sedeva sulla poltrona accanto a quella di George, alzò un sopracciglio e George corrugo la fronte.
-Se conosci gli Awake the fallen. -, disse ovvio.
Scossi la testa, -Mi spiace, ma non li conosco. -
-E’ un gruppo rock-pop emergente. Ha lavorato per la colonna sonora di un film drammatico uscito nella sale questo venerdì, Golden. Vuoi parlarcene tu, Sally?-, chiese il signor sale e pepe alla donna dai capelli lunghi e castani, accanto a lei.
Lei sorrise, -Perché non farlo raccontare direttamente dalla cantante degli Awake the Fallen?-, chiese eccitata, -Facciamo entrare Rachel Stevens!-, esclamò voltandosi verso il punto in cui eravamo entrati io e Kristen.
Rachel. Fu allora che alzai la testa, curioso. La vidi entrare, un largo sorriso ad illuminarle il viso sottile.  Finalmente capii chi era e perché fosse lì.
La osservai, mentre si avvinava. Era alta quanto Kristen, se non più bassa, forse un metro e sessanta cinque, anche di meno. Aveva del color della notte, neri come la pece, ondulati e le ricadevano morbidi sulle spalle. I capelli davanti più corti, le coprivano un occhio, tanto che fu costretta a portarseli inutilmente dietro un orecchio per vedere dinanzi a sé. Aveva ciglia lunghe, folte e nere, che facevano da sipario a grandi occhi azzurri, lo stesso colore del mar dei Caraibi. La pelle rosea, le labbra piene.
Strinse la mano che Sally e George le porsero, poi sollevò la mano salutandoci, e sedendosi accanto a Kristen, poiché io ero ad un estremità, vicino il bracciolo.
Rachel rivolse una fugale occhiata ai cameraman e deglutì rumorosamente. Fra le varie telecamere, Mary, stringeva al petto una cartellina e la guardava con sguardo omicida, mentre si passava un dito davanti alla gola.
E’ pazza, pensai ancora un volta.
-Allora, Rachel, vuoi parlarci tu del film?-, chiese Sally.
La ragazza dagli occhi azzurri sorrise, -Beh, parla di un ragazzo, un pubblicitario che perde il lavoro. La ragazza ama, e che credeva lo amasse lo lascia. Si ritrova solo in balia di eventi poco piacevoli. Alla fine trova la sua ragione per continuare a vivere, e capisce che nella vita bisogna guardare oltre, guardare al di là delle cose, oltre l’orizzonte. Ed è di questo che la canzone da noi composta cerca di comunicare. -, disse incrociando la gambe affusolate, fasciate in scuri jeans scoloriti, -Anche se le cose vanno male, c’è sempre una via d’uscita. -
-Quindi il testo verte sulla voglia di ricominciare a vivere?-, chiese George.
-Esatto. -, annuii Rachel.
-Parlaci degli Awake the Fallen, Rachel. -, e così la ragazza prese a raccontare della sua band e di come arano stati chiamati per il la colonna sonora del film.
Era un tipo eccentrico, Rachel, estroversa e divertente. Si trovava a suo agio su quel divano, facendo ridere i due presentatori, il pubblico e anche me e Kris, rendendoci partecipe di un discorso che nemmeno ci apparteneva.
-Non è facile scrivere una canzone d’effetto attenendoti alle tematiche del film. E’ come se tu sia costretto a scrivere su un determinato argomento… il tutto può apparire forzato. -
-Giusto. -, aveva annuito Sally.
-Magari Robert può trovarsi d’accordo con me. Insomma, se la memoria non mi inganna si è occupato anche lui della composizione di alcune canzoni per un film, no?-, chiese conferma voltandosi a guardarmi.
-Beh si… ma basta lasciarsi andare alle musica, alle note… e… a ciò che hai nel cuore, -, chinai appena il capo, evitando lo sguardo di Kristen, sentendone sulla pelle la potenza, -ed è fatta. -, alzai lo sguardo ed incontrai quello di Rachel. Mi fissava, con quegli occhi da cerbiatto, e non so perché, ma non riuscii a sfuggire alla catena invisibile che mi legò per attimi infiniti ad essi, come se volesse entrarmi dentro, cogliere ciò che nelle mie parole nessuno aveva colto, come a volermi comunicare cose che le parole non erano in grado si spiegare. E per la prima volta, mi sentii disarmato, nudo davanti ai suoi occhi di ghiaccio.
Poi Sally riprese a parlare e Rachel voltò il capo verso lei.
Scosso dall’intensità di quel suo sguardo, ritornai a guardare la presentatrice, chiedendomi che diavolo ci facessi lì.

 

-E’ stato un piacere conoscerla, signor Pattinson. -, esordì il signore sale e pepe porgendomi una mano.
-Piacere mio, signor Miller. -, dissi stringendogli la mano.
-Buona fortuna per l’uscita del film. Anche e lei, signorina Stewart. -, aggiunse ancora in modo formale, porgendo al mano anche a lei.
Kristen sorrise, stringendola e ringraziandolo.
Ci voltammo, uscendo dal palco e non desiderando altro che stendermi, anche solo per due soli minuti, sul divano di pelle finta del mio camerino. Intorno a noi c’era gente, troppa per i miei gusti in quel momento in cui desideravo avere intimità con lei, bisognoso di riposte.
-Non hai ancora risposto alla mia domanda. -, sussurrai al suo orecchio, piegandomi leggermente di lato, mentre camminavamo.
-Non credo sia il momento. -, rispose impassibile, fredda, glaciale.
-Non sarà mai il momento, Kris. Non fai altro che sviare il discorso. -, risposi allontanandomi.
-Più tardi. -, rispose a disagio, passandosi una mano fra i capelli e guardando in basso.
Sapevo che quel momento non sarebbe mai arrivato. Avrebbe cercato un modo per sviare il discorso, una scusa per andare via, una scusa per non rispondere.
Scossi il capo, sbuffando. Poi qualcuno sentii qualcuno posare la mano sulla mia spalla e costringermi a voltarmi.
-Mi sa dire dov’è diretto, signor Pattinson?-, chiese Mary, con un sopracciglio alzato.
-Nel mio camerino?-, farfugliai confuso.
Mary si portò una mano su un fianco, poggiando tutto il suo peso sulla gamba destra, -E’ dall’altro lato. -
Sbattei la palpebre, -Oh. -
-Chuck, -, esordì lei schioccando le dita e chiamando all’attenti un ragazzo dai capelli color del grano che attendeva paziente alle sue spalle, -Accompagna la signorina Stewart nel suo camerino. -, disse senza scostare lo sguardo dal mio.
-Certo. -, rispose lui roteando gli occhi, senza che Mary se ne accorgesse e cominciò a camminare lungo il corridoio. Rivolsi un ultimo sguardo a Kristen che, bella come sempre, si allontanava. Rimasi a fissarla per attimi infiniti, prima che si voltasse, rivolgendomi un’occhiata fugace ed indecifrabile. Rimasi immobile, incapace di muovere un solo muscolo, mentre la guardavo allontanarsi al fianco di Chuck.
-Ehi? C’è nessuno?-, sentii sbuffare alle mie spalle, -Ci vogliamo muovere?-, insistette Mary, lei fonte di grande nervosismo e inquietudine. Non risposi, mi limitai ad annuire svogliatamente col capo e seguirla lungo il corridoio che si snodava sulla mia destra, speranzoso di mettere così a tacere quella odiosa voce sottile, col mio silenzio. E sembrò funzionare. Mentre ci dirigevamo verso il mio camerino, Mary si voltò a guardarmi, a pochi passi da lei, senza dire nulla, e fui grato a Dio, se mai esistesse, che dalle sue labbra non vi uscisse suono.
Fu inevitabile, per me, tornare con la mente a pochi minuti prima, quando gli occhi di Kristen sfiorarono i miei e, la mia mente, oramai entità con vita proprio vago, in spazi illimitati e senza che me ne accorgessi, gli occhi che essa ricordava non erano verdi, ma bensì turchesi, sotto i riflettori dello studio. Alla strana luce che essi emanavano, come consapevoli della bellezza del mondo, della felicità che attende ognuno di noi dietro l’angolo. Erano… luminosi… pieni di vita. Si ecco cosa avevano di particolare, erano… vivi.
-Allora, fra mezz’ora passerà a prenderla il suo autista. Perciò veda di non addormentarsi. E di non fumare dentro per favore. -
-D’accordo. -, dissi roteando gli occhi, -Posso almeno sedermi?-, chiesi aprendo il camerino.
-Se può evitare… -
Mi voltai di scatto, sgranando gli occhi, scioccato.
-Era una battuta, Pattinson. -, disse lei, poi sbuffando e, scuotendo il capo, si allontanò, facendo oscillare i lunghi capelli biondi.
-Grazie. -, mormora interdetto, più a me stesso che a lei, troppo lontana per potermi sentire.
Mi chiusi la porta alle spalle, poggiandomi un attimo su di essa e sospirando, prima di dirigermi a verso il divano, prendendo il pacchetto delle sigarette.
Mi stesi sul divano per qualche minuto, fissando il bianco soffitto. Alzandomi mi portai una sigaretta una fra le labbra, mentre cercavo l’accendino nei meandri delle tasche dei miei jeans, e mi diressi verso la finestra accanto al bagno. L’aprii tutta e l’aria pungente mi colpi in pieno viso, facendomi rabbrividire.
Fuori tutto era silenzioso. Il mio camerino dava sul parcheggio deserto, situato sul retro della struttura. Mi beai di quel meraviglioso silenzio, accendendo l’accendino, illuminando appena la stanza buia, pronto a rilassare i miei muscoli tesi.
Ma, ovviamente, non vi è pace nella vita di Robert Pattinson.
Ringhiai quando qualcuno bussò alla porta.

 

 


*

 
Hola gente! Allora non ho molto tempo, anzi, ne ho davvero poco… ho una cameretta da rifare ç_ç
Perciò ringrazio i cinque angeli che hanno recensito lo scorso capitolo, con la promessa di rifermi nel prossimo!
Un grazie a SweetCherry, Lucy_Scamorosina, Railen, Xx_scrittrice_xX, Nessie93.

Grazie, ragazze, grazie di cuore! <3

 A voi, con immenso affetto,
Panda.

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Capitolo 4
*** Capitolo tre: ragazzina. ***


 

 

 

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Muse, unintended.

 

 

Capitolo tre

Ragazzina

 

 

Fissai la porta di legno bianco e maledii il colpevole di tanto baccano. Tenendo a sigaretta fra le dita, dimenticandomi che da un momento all’altro avrebbe potuto scattare l’allarme antincendio, mi diressi a passo pesante verso la porta.
Afferrai la maniglia e aprii la porta con forse troppa forza, tanto che i miei capelli furono spostati dall’aria da essa mossa. Aprii la bocca pronto a maledire acidamente l’autore del soprassalto improvviso, ma la voce mi morii in gola per la confusione e non ebbi il tempo di formulare una domanda di cortesia, o per richiedere semplici spiegazioni, che fui sballottato dentro in camerino. La porta si chiuse con un suono a dir poco sordo.
La sentii sospirare di sollievo, mentre si passava una mano fra i capelli, scostandoli dalla fronte. Poi alzò lo sguardo su di me e sorrise, imbarazzata.
«Scusa. Ma era questione di vita o di morte».
Il viso di Rachel era illuminato da un timido raggio di luna che filtrava attraverso le fronde degli alberi nel parcheggio. Illuminava gli occhi chiari, rendendoli quasi simili al ghiaccio.
La osservai torvo, mentre aspettavo che l’irritazione e la rabbia, provate qualche attimo prima, tornassero. Ma così non fu. Ero pervaso dalla confusione.
«Tecnicamente dovrei cacciarti», dissi torvo.
«Lo farai?», chiese stringendosi nelle spalle, come un cucciolo spaventato e tremante, pronto ad una possibile sfuriata da parte del padrone. Quell’immagine mi fece sorridere di tenerezza.
«Se mi dici perché hai osato rovinare il mio momento di relax,», mi ricordai della sigaretta che stringevo fra le dita e mi diressi verso la finestra, prima che scattasse l’allarme, «credo che non lo farò», dissi aspirando del fumo e espirandolo fuori, nell’aria gelida.
Rachel sorrise, portandosi una ciocca di capelli neri dietro un orecchio. «Allora, la questione è semplice. Sono stata beccata a fumare in camerino. Okay, c’era anche una birra, ma questi sono dettagli. E mia cugina è una un po’… inquadrata, non so se mi spiego. Perciò sono, letteralmente, fuggita da lei, prima che l’uragano si scatenasse. Ehi, guarda che in camerino non si fuma. Se ti vedesse sarebbe capace di denunciarti», disse, e le parole le uscirono come cascata dalla bocca.
Alzai un sopracciglio. «Da che pulpito viene la predica. Attenta a come parli, ragazzina, ti sto dando asilo politico, ricordarlo».
Lei incrociò le braccia al petto e corrugò la fronte. «Non sono una ragazzina», disse.
«Quanti anni hai?», chiesi inclinando il capo.
«Diciotto. Diciannove a Dicembre».
«Vedi? Sei una ragazzina», dissi in un risolino, scuotendo il capo e aspirando ancora del fumo.
«Le ragazze maturano prima dei ragazzi. Teoricamente io avrei… circa vent’un anni. Tu quanti anni hai? Ventitré, no? Beh, teoricamente ne avresti… ventuno. Perciò è come fossimo coetanei», annuii alle sue stesse parole.
La guardai, quasi scioccato da tale ragionamento, fissai i suoi occhi chiari, poi scossi il capo. «Ma in pratica tu hai diciotto anni, ed io ventitré», dissi in un risolino poggiandomi al muro.
«Dettagli, Pattinson», disse arricciando le labbra. «Allora, me la offri una sigaretta?», chiese prendendo a dondolare sui piedi muovendo le braccia in avanti ed indietro.
Sorrisi e presi il pacchetto dal tavolo per poi lanciarglielo. Lo prese al volo. Ne astrasse una portandosela alle labbra piene e mi guardò negli occhi, in attesa.

«Se avessi due pietre l’accenderei da sola».
«Oh, si, certo», farfugliai cercando l’accendino in tasca, non trovandolo. Mi guardi intorno cercando di ricordare dove l’avessi messo. «Non ricordo… », mormorai, corrugando la fronte. Rachel sbuffò e roteò gli occhi. Sentii i suoi passi leggeri farsi sempre più vicini fino a che i suoi occhi color del mare non mi furono davanti. Si avvicinò e potei sentire profumo di vaniglia, mentre l’estremità della sua sigaretta veniva a contatto con la mia. Aspirò, con aria concentrata, lo sguardo fisso sulle sigarette.  Il fumo si alzò in spirali, quando si allontanò, guardandomi negli occhi.
Era giovane, ed era evidente, ma dai suoi occhi trapelava una maturità che mi lasciò interdetto, lì, a fissarli.
«Forte», disse sorridendo e poggiandosi con un gomito sul davanzale della finestra.
«Cosa?», chiesi riemergendo dal mare di pensieri in sui mi ero momentaneamente, ed involontariamente, immerso.
«Robert Pattinson mi ha offerto una sigaretta nel suo camerino. Le mie ex-compagne del corso di spagnolo avrebbero venduto anche la nonna per essere al mio posto», disse pensierosa, prendendosi il mento fra le dita e massaggiandoselo appena, e sembrava parlasse più a se stessa che a me.
«Giusto, tu hai preso il diploma a giugno», la stuzzicai ancora, soffiando dalla bocca fumo denso.
«E bisogna aggiungere che non è facile coltivare la passione per la musica ed andare a scuola. Ho rischiato un esaurimento a Maggio. Esperienza orribile», rabbrividì, scuotendo le spalle, e non potei non ridere.
«Il diploma è importante».
«Se poi tua madre fa il medico sei obbligata a finire la scuola. Credo però ora si sia rassegnata e non mi veda più, in un futuro inesistente, in una sala operatoria o dietro il bancone di un tribunale», disse facendo spallucce.
Sorrisi. «Non hai un bel rapporto con tua madre.».
«La tua non è una domanda», osservò.
«Lo so».
Mi guardò, per un attimo con sguardo indecifrabile, poi arricciò le labbra. «Molti la chiamerebbero presunzione».
«Lo so».
«Lo è?», chiese prima di aspirare ancora del fumo.
«No».
Si passò una mano fra i capelli color della notte, quasi distrattamente, come fosse un gesto involontario. «Bene, perché se così fosse», mentre parlava, con voce bassa e suadente, osservò la sigaretta fra le sue dita sottili, «ti lascerei un bel marchio di fabbricazione fra gli occhi, qui guarda,», disse poggiandosi un dito sulla fronte, «appena sopra il naso» , sorrise e mi strizzò un occhio. Buttai la mia sigaretta, oramai finita, fuori dalla finestra e la guardai, aspirare gli ultimi tre tiri della sua.
«Allora posso dirmi salvo».
Annuii con la testa, poi soffiando del fumo fuori dalla finestra buttò il mozzicone.
Per alcuni secondi rimasi a fissare i suoi occhi, puntati nei miei. Azzurro nell’azzurro.
«Un po’… sei come mi aspettavo», disse inclinando la testa verso destra.
Corrugai la fonte. «A cosa ti riferisci?»
«Beh, sei… sembri sincero, quasi genuino. E’ difficile da spiegare. Forse ingenuo. No, no, ingenuo no.», si corresse scuotendo il capo, «Si, sincero è la parola adatta».
«Potrebbe non essere così», dissi incrociando le braccia al petto.
«Ovvio che mi riferisco al primo impatto. Dalle foto sembri un tipo okay. Abbiamo un parlato un po’, e la mia idea non è cambiata. Parlo di una “conoscenza” superficiale, Pattinson».
«E’ bello poter parlare con qualcuno senza che ti chieda l’autografo», sorrisi.
«Cosa vuoi che me ne faccia di una firma su un pezzo di carta?», chiese strizzandomi ancora un occhio.
Feci un risolino, scuotendo il capo. La sentii sospirare.
«Mary mi starà cercando. Andrà su tutte le furie. E tu dovrai riposarti suppongo».
«Nah. Mi preoccuperei più della giovane megera».
Rachel fece un risolino, sommesso e quasi ricolmò di dolcezza. «Sei troppo gentile con lei».
Mi passai una mano fra i capelli, fino a posarla sulla nuca, massaggiandomela.
«Allora scappo. Mi piacerebbe poterti dire che mi dispiace di aver fatto irruzione nel tuo camerino, ma non è così», disse annuendo a dirigendosi verso la porta.
«Vorrei poterti dire che mi dispiace che tu abbia fatto irruzione nel mio camerino, e che mi dispiace che non ti dispiaccia, ma non è così», ridacchiai.
«Perciò direi che è stato un piacere Pattinson», disse sorridendo, indugiando sulla porta.
«E’ stato un piacere Stevens».
Sorrise. «Allora ricordi il mio nome per intero».
«Ovvio!­».
Annuii col capo e si portò una mano sulla fronte, a mo’ di saluto.
«Addio, signore», disse con un largo sorriso sul viso, un sorriso che illuminò i suoi occhi turchese.
«Addio, ragazzina», ridacchiai.
Mi fece la linguaccia e uscii, chiudendosi la porta alla spalle. Lasciandomi, lì, solo con ricordo del suo viso, ignaro del futuro.

Mi infilai la giacca di pelle nera, e ficcando alla rinfusa la mia roba nello zaino uscii dal camerino, diretto alla macchina.
Ero stanco. Sentivo la stanchezza giungere piano fino alle ossa, crudele. Sbadigliai e mi passai una mano sul viso e poi fra i capelli. Era tutto il giorno che ero in giro, svegliatomi prima che il sole sorgesse. Stringendomi nella giacca mi immaginai nel letto della mia temporanea casa, sotto le lenzuola color del latte, calde e morbide. Sorrisi.
L’aria fredda mi colpii in pieno viso, quando fui fuori, come una secchiata d’acqua gelata. Il mio respiro si condensava nell’aria.
Ancora sorrisi, questa volta per un motivo differente.  Nella mia mente si fece largo il ricordo del viso di Rachel, il suo sorriso sincero e spensierato, di chi si gode la vita al meglio, di chi sa cogliere le occasioni… di chi sa divertirsi. Forse era proprio quello che mi mancava: del sano e semplice divertimento. Forse era quello che dovevo fare, godermi la vita, ora, nel fiore dei miei anni.
Sospirai, dirigendomi verso l’auto che parcheggiata mi attendeva. Volsi un ultimo sguardo alle mie spalle e feci per rigirarmi, ma qualcosa attirò la mia attenzione. Oltre il vetro dell’entrata una ragazza, di circa un metro e sessanta, mi osservava, attorcigliandosi una ciocca di capelli fra le dita. Mi sorrise sa mi salutò con l’altra mano rintanata nella tasca della felpa rossa. Risposi, sorridendo e muovendo la mano anche io.
Rachel mi fece una smorfia. Scossi il capo e feci un risolino. Le rivolsi un ultima occhiata e salii in auto, pensando che Rachel Stevens fosse una ragazza fuori dai ranghi. Una ragazza che nell’ora nella mezz’ora precedente e nell’ora successiva riuscii a non farmi pensare a… Kristen.

 

*

SweetCherry: ciao! Beh, Rachel… non lo so, mi diverte un sacco scriver su di lei. Spero di non averti fatto attendere troppo. Riguardo Kristen… di certo non parlo! A presto, cara! Grazie *_*
Xx_scrittrice_xX: ciao, Ely! Che farei senza te? *fa gli occhi dolci* Spero questo capitolo non ti abbia delusa e che il tuo parere su Rachel non sia cambiato. Ti voglio bene.
Lucy_Scamorosina: ciao! Ed ecco svelato chi era alla porta! Spero il capitolo ti sia piaciuto, cara! Sono contenta la fiction sia di tuo gradimento, davvero! A presto! E grazie mille per la recensione!
Railen: ciao, Ire! *_*  Sei sempre così troppo gentile con me! Spero di non averti delusa e, se così non fosse, che la curiosità sia rimasta! Tu sei fantastica. Grazie, di cuore. Il tuo parere per me conta davvero molto.
Nessi93: ciao, Chiarì! Le tue recensioni sono sempre così… ooooh *_*  Non invento similitudini bellissime O.o  e sono piuttosto comuni, credo. Sono contenta la scena del bacio ti sia piaciuta, avevo il terrore di renderla stupida e banale. Le tue ipotesi e le tue osservazioni è sempre un piacere leggerle. Su un paio di cose ci hai preso, però. Non ti dirò quali, ovviamente. Grazie infinite per la magnifica recensione. Ti voglio bene.


Qui è
Panda che vi parla,
Appuntamento alla prossimo puntata.

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Capitolo 5
*** Capitolo quattro: ancora tu? ***


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Capitolo quattro

Ancora tu?

 

«So che fra voi è finita.» dico fissandola negli occhi verdi, afferrando la maniglia della porta d’ingresso di casa sua.
La sua espressione è indecifrabile, e vorrei, anche se pochi attimi, leggere i suoi pensieri, capire i suoi più profondi segreti. Ma non ne ho il potere, posso solo ammirare i suoi occhi limpidi e agognare le sue labbra.
Sospiro, consapevole che con un solo passo posso varcare la porta del mondo della follia.
«Robert… è finita da tempo, in fondo.» mormora.
«Allora perché?» insisto avvicinandomi a lei e sfiorendole il viso con i polpastrelli.
«Non… non ce la faccio… tu sei Rob, io e te lavoriamo insieme…e», non le do il tempo di finire la frase che poso le mie labbra sulle sue, morbide e delicate.
E’ inerme dinanzi a me, il suo corpo rigido. Le mie labbra si muovono sulle sue, con estrema delicatezza incitando le sue. Risponde al bacio. E’ ciò che voglio. Le sue mani giocano fra i miei capelli.
Mi ricamo un piccolo spazio, un angolo di finta perfezione. Ciò che verrà domani non mi importa… perché è un altro giorno.
Si stacca, piano, prendendo fiato, «Lasciamo del tempo, ti prego.» dice con voce rotta e tremante.
Guardo i suoi occhi sinceri e chiari… e non posso dire di no. Il cuore mi si stringe in una dolorosa morsa di fonte al suo sguardo supplichevole e disperato.
Premo il palmo della mano sulla sua guancia e le bacio la punta del naso.
«Tutto il tempo che vuoi.», e mi costa dirlo, dio se mi costa.
Disarmato dai suoi occhi non posso fare altro che arrendermi.

Era sorprendente come le mie mani si muovessero sulla tastiera di Charlie, la mia amata, vecchia e secolare chitarra. Era sorprendente perché la mia mente era altrove, mentre pigiavo sulle corde sottili e le pizzicavo. Eppure si muovevano, armonicamente, prima veloci, poi piano, poi di nuovo veloci.
La mia mente era come entrata in standby, allontanatasi dal mondo per perdersi in spazi infiniti… per perdersi nelle bianche spiagge caraibiche, il sogno di una vita, la vacanza perfetta.
Era passata poco più di una settimana dal giorno in cui Kristen mi aveva fatto quella amare richiesta. New Moon era uscito nelle sale. Le prime erano iniziate, le interviste ed i servizi fotografici aumentati… e l’irrazionale forza d’attrazione perso Kristen non era cessata. Forse avevo solo bisogno di staccare la spina, di… svagarmi. Si, forse era quella la chiave di tutto.
Mi passai una mano fra i capelli, dopo aver poggiato la chitarra sul letto, mi diressi in cucina per un caffè.
L’orologio segnava le dieci del mattino, e nel giro di quindici minuti sarei dovuto andare ad incontrare il regista di un nuovo film. Avrei fatto parte del cast, una personaggio secondario. E, a quanto capito, mi sarei dovuto occupare di una parte della colonna sonora, o addirittura suonare all’interno del film. Era tutto un forse, certo, ma  il dover integrare la musica con la recitazione era qualcosa che mi rendeva… felice. Anche se non totalmente. Avevo come l’impressione che qualcosa nella mia vista non fosse nel verso giusto, come l’impressione di aspettare qualcosa di indefinito, qualcosa che solo il tempo avrebbe portato. Era strano, oppure folle, tale consapevolezza mi fece ridere d’isteria, mentre mi versavo del caffè in una tazza.
Con la tazza fumante in mano mi diressi in soggiorno. Afferrai il telecomando, sintonizzandola su un canale di musica, prima di ritornare in camera per prendere una felpa. Dalla tv si diffondevano note energiche di stridenti chitarre. Una voce femminile cantava, chiara fino a farsi suadente.
Corrugai la fronte, non era una voce a me familiare, esattamente come la canzone. del tutto nuova alle mie orecchie. Girando sui talloni, con il busto rigido, ritornai in soggiorno incuriosito da quella voce e dalla melodia.
Quando fu inquadrato il viso della cantante sentii il mio corpo irrigidirsi, prima che un sorriso mi colorasse il viso. I capelli neri, lunghi e lisci le incorniciavano il viso, i grandi occhi turchese, sorridevano, eco della bocca.
Rachel. Quand’era stata l’ultima volta che avevo visto il suo viso? Un mese? Si, un mese.
La guardai, cantare con le labbra poggiate sul microfono argentato, i capelli muoversi a ritmo di musica, mille sorrisi illuminare il viso dalla pelle rosea.
Gioia.
Feci un risolino, scuotendo il capo, quando la canzone terminò. Per qualche inspiegabile motivo, forse per la musica, o per il sorriso di Rachel, contagioso anche dalla tv, tornai in camera da letto, con l’ombra di un sorriso sul viso.
Vita.


Scesi dall’auto, infilandomi gli occhiali da sole dalle spesse lenti nere. Affondai le mani nelle tasche della giacca di pelle che indossavo, quando sentii il cellulare vibrarmi nella tasca.
Lo afferrai e lessi il nome che lampeggiava imperterrito sul display. Corrugai la fronte confuso e portai il telefono all’orecchio.
«Pronto?»
«Ehi, Rob. Come te la passi?»
«Al solito, Kellan. Tu? Devo questa telefonata ad un preciso motivo?» chiesi perplesso.
«Io, tutto okay. Ehi, non posso chiamare un amico per sapere come sta? Ci deve essere per forza un doppio fine?»
Entrai nella struttura, fermandomi un attimo davanti all’ingresso. «Kellan.»
«Okay, okay. Ti va una birra? Eliza è partita per lavoro e sento il bisogno di affogare i miei dispiaceri nell’alcool.», il suo tono di voce, rigorosamente teatrale, mi fece sorridere e scuotere il capo quasi divertito.
«Io dovrei… »
«Dai Rob, non esci più di casa. Chi ti vede più ormai? Ti farà bene, re della birra. Dai.»
Guardai l’orizzonte oltre la grande vetrata dell’entrata, perdendomi nel sole che illuminava il paesaggio filtrato un sottile strato si nuvole.
Si, in fondo, non mi avrebbe fatto male. Era l’occasione giusta per staccare, anche solo per poche ore. Prenditi ciò che la vita di offre. Era una buona filosofia e sapevo che dovevo seguirla. Piano, stavo diventando ciò che non ero, mi stavo allontanando da… Robert. La verità era che, guardandomi allo specchio, non riconoscevo più il Robert di un tempo. Quello che usciva la sera per divertirsi, che si godeva la vita attimi per attimo, così, come si presentava ai suoi occhi. Stavo sbagliando e sapevo che dovevo riprendere in mano le redini della mia vita. Uscire quella sera sembrava una buona occasione e dire di no ad un Kellan supplicante era del tutto impossibile.
Ai miei stessi occhi, la mia apparve una patetico tentativo di auto convincimento.
Sospirai, sfilandomi gli occhiali. «Okay, verrò.»
«Ti farò un monumento, Rob.  Passo da te per le nove.» disse esultante.
«D’accordo.» risposi con una nota di passività nella voce.
«E per favore, abbandona almeno per una sera la maschera da zombie.»,  ma, ora, il suo tono di voce non era più scherzoso, era serio, lo sentivo, ed immaginai l’espressione del suo viso, quella che non ammetteva repliche.
Sospirai. «Non c’è nessuno zombie.» mentii.
«Ci vediamo dopo.» dissi riappendendo. Non gli diedi il tempo di rispondere, o semplicemente non sentii la sua risposta, data nel momento in cui allontanai il cellulare dal mio orecchio.
D’un tratto, chissà per quale motivo, la serata mi si prospetto dannatamente triste.

«Perciò, direi che possiamo vederci domani. Proviamo qualche scena, per vedere come ve la cavate, tutti insieme.» disse quello che era il mio nuovo regista sistemandosi gli occhiali sul naso aquilino.
Annuii col capo, con viso inespressivo.
Ero seduto ad un tavolo ti vetro e metallo laccato di bianco, in una stanza per le riunioni. Sparpagliati al tavolo, numerosi, eravamo forse una ventina. Tutti i posti erano occupati, eccetto uno, all’angolo in fondo. Non conoscevo nessuno, lì, se non qualche nome udito per caso in tv o letto su una rivista. Ascoltavo lo staff organizzare la giornata successiva, parlare delle prove, degli accorgimenti che erano riusciti a fare quel giorno, sul copione, provandone un paio di battute fra i protagonisti.
Non avevo ancora letto l’intero copione, l’indomani mi sarebbe stato consegnato per farmi un’idea chiara e precisa della trama, dei sentimenti e le preoccupazioni dei vari personaggi. Così, avrei potuto passare ai testi, alla musica. Il mio essere conosciuto anche come… musicista, grazie a Twilight avrebbe agevolato la vendita del film, secondo i dirigenti. Ma al riguardo nutrivo seri dubbi. Forse non ero la persona adatta per un incarico del genere.
Ero perso nelle mie congetture tanto da non accorgermi più di ciò che accadeva intorno a me, da non accorgermi delle persone che mi stavano intorno, da non accorgermi della porta che si apriva e si richiudeva, del sospiro di sollievo comune, delle battute di un paio di attori, delle scuse per il ritardo, dovuto al traffico. Fissavo con lo sguardo un punto indefinito del tavolo.
«Ora, Robert,», quando sentii pronunciare il mio nome, seguito da un colpo di tosse, alzai il capo, guardando alla mia destra, ad un capo del tavolo, «inizierà a lavorare con la signorina Stevens al più presto. Le scene vi saranno dato da Adam,», un uomo accanto a sé, alzò la mano, «si occupa lui della colonna sonora. Ci serve quella sottospecie di duetto.» continuò.
Trattenni un sorriso, quando lo senti pronunciare “Stevens”, ricordandomi di quella stramba ragazza esuberante.
«D’accordo.» dissi annuendo. Poi John, l’uomo che aveva appena parlato, guardando di fronte se, dall’altro lato del tavolo, alla mia sinistra.
«E le sarei enormemente grato, signorina se evitasse di fare ritardo, in futuro.» aggiunse in tono perentorio.
«In mia difesa posso solo dire che non è stata colpa mia, ma del traffico inaspettato». Di scatto voltai la testa, al suono di quella voce assente per tutta la durata della riunione, una voce decisamente familiare. Guardai accigliato il posto che prima era vuoto, per dare conferma a ciò che mi balenò nella testa nel giro di mezzo secondo. E la vidi.
Mi guardava con occhi luminosi, turchesi, l’ombra di un sorriso sulle labbra rosee e piene.
Incredulo sorrisi e corrugai la fronte.
«Tu…» mimai con le labbra.
Un sorriso sghembo colorò il viso dio Rachel, e poi fece spallucce.
Scosse il capo, piano e quasi impercettibilmente, guardandomi le mani poggiate sul tavolo. Era lei, la Stevens con la quale avrei lavorato per i mesi successivi. Probabilmente la mia poca sanità mentale avrebbe preso il volo per il paese del non ritorno. Se era davvero così allegra ed esuberante, come appariva, sarei impazzito nel giro di poche settimane. Eppure, fissando il suo sorriso ingenuo e amichevole,  l’idea non mi spaventava.
«Bene, direi che per oggi abbiamo finito. Ci vediamo domani.», John guardò i diretti interessati, tra cui me e Rachel. «Puntuali.» precisò soffermandosi su quest’ultima che, portandosi i capelli davanti al viso scivolò sulla sedia, facendo ridere un ragazzo dai capelli color dell’oro che le sedeva accanto.  «Otto del mattino.» sentii Rachel scattare sulla sedia, drizzandosi e guardando ad occhi sgranati John. «Qualche problema, signorina?» chiese lui inclinando il capo di lato.
«Oh, no, no.» si affrettò a dire poggiandosi allo schienale della sedia.
«Perfetto. A domani gente.» concluse dirigendosi verso la porta. Tutti si alzarono dalle proprie sedie, diretti anche loro all’uscita. Con la coda dell’occhio vidi Rachel poggiare la testa sulle sue braccia incrociate, poggiate sul tavolo.
Così, mi avvicinai a lei. «Ciao, ragazzina.» dissi in un risolino.

 

*

Ringraziamenti.

SweetCherry: ciao! Sono contenta di piaccia Rachel… è un personaggio… un po’ difficile da maneggiare, non so se mi spiego. Magari sarà più chiari con i prossimo capitoli. Ad ogni modo, una ventata fresca fa bene a tutti. Grazie per la recensione. A presto!
Lucy_Scamoarosina: ciao! Oh, davvero ti piace la storia? *-* non sai quanto mi rendi felice! Grazie, grazie davvero di cuore! Spero che anche questo capitolo ti sia piaciuto. A presto!
Railen: ciao, Ire! Io faccio 19 anni fra undici giorni! Fico! Comunque… tu sei troppo gentile! Insomma… cioè… davvero ti piace così tanto? Detto da te poi è fonte di immenso piacere, lo sai! Spero di non averti fatta aspettare troppo! E spero, soprattutto, di non averti delusa con questo capitolo. Milla abbracci, cara!
Nessie93: ciao, Chiarì! Beh, beh, sono contenta ti sia piaciuto il capitolo, davvero tanto! Creare giochi di sguardi in una fiction è piuttosto difficile, ma sono contenta di non averti delusa. Diciamo pure che in alcuni punto ci hai preso… ma figurati se te li dico. Come sempre la tua recensione è meravigliose. Mi mette tanta gioia! Grazie, cara, grazie davvero. Ti voglio bene.
Xx_scrittrice_­xX: ciao, Ely! Ancora un volta… che farei senza te? Sei un tesoro, sul serio! Oh, sono contenta ti sia piaciuto lo scorso capitolo! Cavolo se mi fa piacere *-* Sei troppo buona Ely. Spero di non averti in qualche modo delusa con questo capitolo. A presto! Ti voglio bene.
KeLsey: Eri! Davvero ti piace la fiction? Davvero ti piace Rachel? Ah, non sai quanto mi abbia reso felice leggere la tua recensione! Spero di non averti fatto attendere troppo e che il tuo interesse non sia scemato. Grazie mille, Eri. Grazie di tutto. (L)

 

A  voi, con affetto,
                            Panda.

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Capitolo 6
*** Capitolo cinque: reperto storico. ***


 

 

 

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Capitolo cinque

Reperto storico




Rachel alzò il capo, guardandomi con occhi limpidi e cristallini.
«Non sono una ragazzina.» disse con tono atono. «Ho quasi  diciannove anni.» aggiunse poggiando il mento sulle braccia ed alzando gli occhi per guardarmi in viso. 
«Si, quello che è.» dissi muovendo la mano in aria come se la cosa fosse irrilevante, poggiandomi al tavolo con un fianco.
«Ti toccherà lavorarci con una ragazzina.»
«Mmm… sopravvivrò.» dissi facendo spallucce.
Rachel si mise dritta, poggiando i gomiti sul tavolo e sporgendosi in avanti.
«Oh, Pattinson, credo che sarà io a dover sopravvivere a te.» ridacchiò alzandosi dalla sedia, portandosi poi la borsa rossa a tracolla. L’osservai un attimo. Era snella, minuta. Jeans chiari le fasciavano le gambe, ed una maglia bianca le scendeva leggermente larga lungo la vita stretta.
Corrugai la fronte, seguendola mentre si dirigeva verso la porta. «Che intendi dire?» le chiesi affiancandola.
«Beh,» sospirò, quasi affranta, «la povera ragazza dovrà tener duro per non impazzire, a causa di una delle star più importanti del momento.» disse annuendo poi alle sue stessa parole.
«Non sono un tipo esigente.»
Rachel si prese il mento fra le dita, accarezzandoselo. «Si vedrà.» concluse poi guardandomi negli occhi. Sorrisi, mentre i miei occhi ancora fissavano il turchese dei suoi.
«Lo sapevi?» chiesi dopo alcuni secondi.
«Cosa?»
«Che avrei lavorato con te. Si, insomma, quel che è.»
Un angolo della sua bocca si sollevò verso l’alto mentre  si portava una ciocca di capelli neri dietro l’orecchio.
«Si, lo sapevo.»
«Prima che ci… conoscessimo?» chiesi.
Lei scosse il capo. «No, no. Due giorni dopo. Tu… tu non lo sapevi?» farfugliò, mentre scendevamo una scalinata.
«Avevo sentito dire che non avrei lavorato da solo… ma non pensavo avrei trovato te.»
«Deluso, eh?» chiese fissandosi la punta delle scarpe da tennis.
«Sincero?» chiesi, ormai all’ingresso, accanto alla grande vetrata che dava sul parcheggio.
«Sempre.», e sorrisi delle sue gote intinte di rosso.
«No.»
Sollevò lo sguardo, posandolo sui miei occhi. I suoi erano impenetrabili, cercai di andare oltre il vivido azzurro, ma mi fu impossibile.
«Bene.» disse sorridendo ed annuendo piano con la testa.
«Lo so che lavorare con un ragazzo maturo come me può… mettere in soggezione.» dissi passandomi una mando fra i capelli e spostando tutto il peso del mio corpo sulla gamba destra.
«Maturo?» chiese scettica alzando un sopracciglio.
Annuii col testa prima di fare un sorriso a trentadue denti.
Lei scosse il capo, in un risolino. «Ragazzo molto maturo direi.» disse poi spostando il peso sulla gamba destra e passandosi una mano fra i lunghi capelli neri, scompigliandosi la frangetta.
«Cerchi per caso di imitarmi?»
Rachel spalancò la bocca, in un espressione scioccata e si portò le mani sulle guance. »Io? Non oserei mai, signor Pattinson.»
Risi, risi di gusto e nemmeno ricordavo da quando non succedeva. Era semplice parlare con la ragazzina, ogni cosa veniva spontanea, e non mi sentivo in soggezione, non mi sentivo in dovere di dire cosa intelligenti o non mostrarmi per l’idiota che a volte ero. Lei scherzava, lei sorrideva, era naturale per me ricambiare.
Calò, fra noi, un momento di silenzio, e la vidi muoversi sul posto, mentre cercava di trattenere un sorriso guardandomi negli occhi. Poi, d’un tratto sposto il suo sguardo sull’orologio da polso che indossava e fece una smorfia.
«Credo sia giunto il tempo di andare.» disse ritornando a guardarmi. «Maledette prove.» disse in un sibilo, sembrava che stessa parlando più a se stessa.
Fu allora che ricordai. «Ehi!» dissi alzando una mano, il palmo aperto verso l’alto.
Rachel mi guardò, confusa.
«Ti ho sentita, in tv intendo». Mi guardava ancor più confusa.
«Cantare. Ti ho sentita cantare.»
«Oh. Oh. Potevi dirlo prima.» rispose scuotendo il capo. «Suppongo sia stato traumatico per te.»
«Nah, non più di quanto pensassi, a dire il vero.»
«Grazie mille.» disse con voce squillante.
«Tu rimani qui?» chiese corrugando la fronte, cercando qualcosa nella grande borsa rossa.
«No, dovrei chiamare un taxi.» dissi grattandomi la nuca.
«Hai già chiamato?» chiese guardandomi in volto, tenendo ancora una mano nella borsa. Scossi il capo. Ritornò a guardare e cercare dentro la borsa. Solo allora notai la fossetta del mento. Non era pronunciata, né molto evidente, ma c’era era lì e si vedeva illuminata dai deboli raggi del sole. Le sentii sbuffare e borbottare qualcosa di incomprensibile, mentre cercava nella borsa.
«E’ tutto okay?» chiesi chinandomi appena per poterla guardare meglio in viso.
«Ti accompagno io!» esclamò con forse troppa voce, facendomi sobbalzare, tanto che dovetti allontanarmi di un passo, colto di sorpresa da tele reazione. Dalle sue dita sottili ciondolavano delle chiavi. «Ops. Non era mia intenzione spaventarti.» rispose imbarazzata.
Feci un segno con la mano, per farle capire che la cosa non aveva importanza. Sorrise e prese a camminare verso l’ingresso.
La fissai, immobile, confuso e perplesso, senza sapere se fosse seria o no. Ne ebbi la conferma quando si voltò e mi guardò con sguardo inquisitore. «Allora? Devo portarti sulle spalle?»
Sì, era seria. Era la seconda occasione in sui parlavo con Rachel Stevens , ad essere sincero, quella ragazza non faceva che… sorprendermi.
Mi fece segno con la testa di seguirla e, sbattendo le palpebre più volte incredulo, la seguii fuori, nel parcheggio.
Camminava con movimenti fluidi davanti a me, non era goffa come poteva magari apparire a primo impatto. Era atletica, ecco. I capelli oscillavano, mossi dal vento fresco, così si infilò la felpa che teneva in mano e potei sentire lo scatto della cerniera.
Ponderai in quel frangente, durate il percorso alla sua auto, su ciò che mi stava succedendo. Da quando ero così aperto a nuova gente? Ma soprattutto da quanto non lo ero? Meditai sul poco tempo dedicato a me stesso, sul tempo che non passavo più fuori casa, sul tempo passato a crogiolarmi nel dolore di una fantasia irrealizzata, a rotolarmi nel pensiero di un futuro dove le mie labbra si sarebbero posate sulle sue ogni qualvolta ne avevo voglia. Non c’era dubbio. Kristen Stewart mi avrebbe mandato in manicomio. Le redini delle mai vita sembravano essersi rotte e sostituirle mi sembrava assurdo ed impossibile. A forse non avevo ancora ammesso a me stesso che in realtà non volevo farlo. Ed, in fondo, era così. Ma miope non me ne rendevo conto.
Mi liberai dalla fitta rete di pensieri in cui ero accidentalmente caduto, scuotendo il capo, come se potessi scrollarmeli dalla mente e vidi Rachel, dietro un maggiolino Volkswagen, fissarmi perplessa.
Sgranai gli occhi. «La tua auto è un reperto storico… giallo canarino.» dissi in un sussurro.
«Sul serio? Credevo fosse celeste?» disse arricciando le labbra e facendo spallucce, poi entrò in auto. Rimasi lì, fermo ad osservare l’auto dal colore più orribile del mondo.
«Senti,» alzai lo sguardo oltre il tettuccio dell’auto, guardando Rachel il viso, il mento sfiorava il tettuccio, «lo vuoi un passaggio o no?» il tono della sua voce era serio e nei suoi occhi non vi era traccia di ironia. «Se reputo la mia auto non degna…»
«Oh, no, no, no!» mi affrettai a dire agitando le mani in aria. «Non volevo offendere né te né la tua auto. Ma di certo non capita spesso di salire su un maggiolino giallo canarino.»
«Il taxi è giallo.»
Alzai un sopracciglio. «Effettivamente…»
La sentii sospirare e scuotere in capo in un risolino. «Sali.» disse in tono che non ammetteva repliche.
Seguii gli ordini e salii al posto del passeggero. Mise in moto e partì lo stereo. Vecchie note di chitarra di diffusero nell’abitacolo.
«Rolling Stons?» chiesi mentre usciva dal parcheggio.
«Ci sono cresciuta. Ti piacciono?»
«Come fanno a non piacere?»
Le diedi il mio indirizzo. Sorrise e sterzò a destra prima di premere di colpo il piede sull’acceleratore.
«Ehi!» esclamai. «Vuoi per caso ucciderci?» chiesi sgranando gli occhi e tenendomi al sedile.
«Oh, cavolo, Pattinson. Rilassati.» disse sbuffando. «La macchina è mia, decido io come guidare.»
«No, perché sai… ci terrei ai miei arti, o meglio, ci terrei alla mia vita.» ironizzai mentre di immergeva nel traffico di LA.
«La mia bambina è sicura. E’ il maggiolino più resistente al mondo, sai? E’ senza un graffio, ciò vuol dire che non ho fatto nessun incidente.» ridacchio, divertita.
«Molto rassicurante.»
Girò in un viale e sbattei la testa contro il finestrino.
«Ti spiace rallentare o guidare in maniera consona!» esclamai con leggere isteria nella voce.
«D’accordo, d’accordo.» sbuffò e rallentando prese a guidare normalmente.
«Nuovo appunto. Non accettare mai passaggi da estrani.» dissi guardandola, «… su una macchina giallo canarino.» la provocai.
«Ehi, lascia stare la mia signora macchina.» disse puntandomi un dito contro.
«Potresti tenere entrambe la mani sul volante?»
«Sei peggio di mia madre.» sbuffò. «Maleducato.  Non si parlo così a persone che hai appena conosciuto.»
Si, effettivamente quella era la verità, ma Rachel aveva stravolto tutti gli schemi di una civile conversazione. Lei era, davvero, fuori dal comune.
«Hai attentato alla mia vita. Si chiama tentato omicidio. La gente finisce in carcere per questo.»
«Certo, certo.» rispose riluttante.
Calò il silenzio, mentre la musica, bassa ci avvolgeva. Il traffico era scorrevole e Rachel sembrava sicura alla guida, padrone della sua auto color giallo canarino. Sembrava totalmente a suo agio al volante, e sembrava quasi costarle attenersi alle regole stradali. Sorrisi la notai guardarmi con la coda dell’occhio.
«Perché ridi?» chiesi corrugando la fronte.
«Perché proprio gialla?» chiesi senza pensarci. La parole era sgorgate dalle mie labbra senza premeditazione. Fui sorpreso da me stesso, ma soprattutto dal momento di ilarità in sui sembrò cadere Rachel.
«Per non dare nell’occhio.» disse fra risolini.
«Sul serio?» chiesi scioccato.
«No, certo che no. Non sono così idiota. Mi piaceva. Il giallo, inoltre è uno dei miei colori preferiti. E caldo, allegro, felice… è il colore del sole, dell’allegria, della gioia.»
«Si, credo tu abbia ragione. E’ anche uno dei miei preferiti.»
«Quali sono i tuoi preferiti?» chiese rivolgendomi una fugace occhiata.
Aprii la bocca per rispondere, ma Rachel mi ammonì.
 «Anzi, non me lo dire, proverò ad indovinare.»
«Okay.»
«No, no! Ho un’altra ide! Suppongo che per il prossimo mese io e te passeremo molto tempo…a contatto, per via delle riprese e della musica.»
«Reciti?» chiesi sgranando gli occhi. Lei annuii col capo. «Waw, non lo sapevo. E’ la prima volta?»
Annuii ancora col capo. «Mi lasci parlare, per favore?»
«Si, scusa.»
«Allora, dicevo… dato che per ovvi motivi ci vedremo spesso nel prossimo mese, proverò ad indovinare i tuoi colori preferiti.»
«Come farai?» chiese inclinando il capo di alto e corrugando la fronte.
«Sono una brava osservatrice, signore.»
«Vedremo ragazzina. »


L’auto si fermò ed io mi voltai verso Rachel, che sorrideva… come sempre.
«Grazie per il passaggio.»
«Nah, figurati.» disse facendo spallucce e mostrando i denti bianchissimi in un largo sorriso.
«Sono sempre più convinto che mi farai impazzire.» disse ridacchiando e scuotendo il capo, mentre aprivo la portiera.
«Ed io che sarai tu a farmi impazzire.» rispose e una strana espressione colorò per pochi attimi il suo viso. Un’espressione che non riuscii a decifrare, che mi lasciò, lì, un attimo perplesso.
«A domani, Robert.»
«A domani, ragazzina» risposi sorridendo, richiudendo la portiera. Mi fece la linguaccia e ripartì, sgommando. Sospirai, sempre più convinto che sarei impazzito. E la cosa non mi dispiaceva.

 

 

*

Purtroppo, mie care, non posso ringraziarvi come vorrei. Dato che ci tengo a postare oggi (me l’ero infatti prefissato), non riesco a ringraziarvi. Non sto molto bene ed il letto è molto felice di aiutarmi. Magari fra le braccia di Morfeo il mal di pancia passerà.
Un grazie particolare agli angeli che hanno recensito lo scorso capitolo.
Grazie a Nessie93.
Grazie a Xx_scrittrice_xX.
Grazie a Lucy_Scamorosina.
Grazie a Railen.
Grazie a Ryry_ .
Dal profondo del cuore.

Al prossimo ringrazio per ‘bene benino’.

A voi,
Panda.

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Capitolo 7
*** Capitolo sei: Bob e Rachy. ***


 

 

 



You could be my unintended
Choice to live my life extended
You could be the one I'll always love
You could be the one who listens to
my deepest inquisitions
You could be the one I'll always love
I'll be there as soon as I can
But I'm busy mending broken pieces
of the life I had before.
Muse, unintended.

 

Capitolo sei

Bob e Rachy

 

 

«Una birra.» disse Kellan prendendo posto su uno sgabello, davanti al bancone di legno logoro ed invecchiato.
«Anche per me.» dissi poggiandomi on un gomito sulla superficie. La barista, una ragazza dai capelli rosso fuoco, annuì e ci sorrise, strizzando un occhio e allontanandosi per riempire due bicchieri.
Eravamo in un tipico bar irlandese, costituito da pareti di legno e luci soffuse, anche se nella periferia di Los Angeles. Era una buona ricostruzione, quel pub, in fondo. Kellan era passato a prendermi, come deciso, e durante il tragitto non aveva fatto altro che parlare. Distrattamente gli prestavo ascolto. Inutile dire che già aveva scelto la meta, perciò volente o nolente, mi sarei dovuto adeguare.
«Te l’avevo detto che questo posto era magnifico.» disse su di giri Kellan, voltandosi verso di me.
Corrugai la fronte. «E’ passabile.» ammisi guardandomi velocemente intorno.
Rise e scosse il capo. Aprì la bocca per replicare ma da essa non vi uscii suono, poiché la barista arrivò con due enormi bicchieri di birra fredda. I suoi occhi indugiarono sui miei, e una luce maliziosa lampeggio in essi. Guardo Kellan e poi, sorridendo, si allontanò.
«Eh, Rob, adesso fai colpo anche su innocenti ragazze dietro un il bancone di un bar.» scherzò Kellan.
«Ha guardato te allo stesso modo, quando siamo entrati.» disse prima di bere un sorso di birra. Fredda scese fino allo stomaco, solleticandomi l’esofago.
«Non me ne sono accorto.» disse corrugando la fronte e guardando la ragazza che, dall’altro lato della stanza, gli sorrise maliziosamente.
«Ricordati di Eliza.» lo canzonai.
Kellan si voltò di scatto. «Non potrei mai dimenticarla.», ed una strana luce gli illuminò gli occhi chiari. «Che idea assurda.»
Quella luce era il leggero canto del suo cuore, ne ero certo. Vi era dolcezza, quando pronunciava il suo nome, il tono di voce era morbido e denso come il miele. Sorrisi. Non era da Kellan essere così.
«Qualcosa mi dice che te ne sei innamorato.» dissi bevendo ancora una sorsata di birra.
«E’ così evidente?» chiese quasi imbarazzato.
«Solo per un buon osservatore.» risposi. Quelle parole, uscite senza premeditazione dalla mia bocca, mi riportarono al pomeriggio, al viso di Rachel alla sua voce sottile e i suoi strambi discorsi. Fissando un punto indefinito del bancone, sorrisi a me stesso.
«Pensi a qualcuno in particolare?» chiese curioso.
Alzai il capo e feci segno di no con la testa, mentendo. Non mi andava di raccontare a lui di Rachel… anche perché non c’era nulla da raccontare.
«E’ strano vederti così.»
«Così come?» chiese confuso.
«Così… così innamorato.», e sorrisi.
«Arriva il tempo, Rob, in cui l’amore ti ruba l’anima.» disse. E sembrava essere sincero, credere davvero a quel semplice, ma complicato, concetto. Io, in fondo, ci credevo. Avevo perso la testa per Kristen, ero convinta di amarla, di desiderala con tutto me stesso. Ed in quel momento era così. Ma la vita riserva sempre un sacco di sorprese, avvenimenti che non ci è dato conoscere.
«Ma come siamo profondi oggi.» ridacchiai.
«Il momento arriva per tutti.» disse serio.
Lo guardi negli occhi per istanti interminabili, poi feci un risolino e scioccai la lingua prima di affondare il viso nel bicchiere.
Forse… arriva per tutti…

 

La mattina successiva la sveglia suonò alle sei ed, io, ero andato a dormire solo quattro ore prima.
Presi un foglio dal taccuino in cucina, vicino a telefono e, con una grafia da far invidia ad una scimmia, scrissi disordinatamente “non farsi abbindolare dalle crisi esistenziali di Kellan Lutz”. Presi una semplice calamita nera e appesi il foglio al frigo, lì, in bella mostra. Sorrisi soddisfatto di me stesso, prima di bere un buon caffè, che riuscì appena a darmi la forza per chinarmi ad allacciarmi le scarpe.
La solita macchina, mi lasciò davanti quell’edificio che antro poco avrei considerato la mia seconda casa… forse. Scesi, e sospirando salutai Oliver, l’autista, e mi diressi verso la grande entrata affiancata da grandi vetrate. Arrancai sui pochi scalini che mi separavano dall’entrata, quando udendo lo stridio delle ruote,  mi fermai e mi voltai di scatto. Una macchina sgommò prima di premere il freno e fermarsi di colpo in un posto macchina del parcheggio.
Osservai ad occhi spalancati la piccola macchina gialla, sapendo bene di chi fosse. Lì, diversa fra la moltitudine di macchine nere e grigie. Sì… diversa.
La portiera della macchina canarino si aprì di scatto, per poi essere sbattuta con violenza. Rachel, con i capelli arruffati, borsa e felpa fra la braccia, si  precipitò verso l’edificio. D’un tratto, però,si voltò e ritornò alla macchina, chiudendola con la chiave. Risi, dell’immagine di quella ragazzina con i capelli arruffati e la fronte corrugata di preoccupazione.
Prese a correre, saltando agilmente un’aiuola che divideva l’entrata dell’edificio dal parcheggio, senza esser costretta ad aggirarla. Quando arrivò in prossimità dei gradini si bloccò, incontrando il mio viso.
Arricciai le labbra e inclinai il capo di lato. «Il traffico?» chiesi alzando poi un sopracciglio.
Rachel sbuffò e rabbrividì quando una leggera folata di vento mattutino le sfiorò le spalle. «Okay, okay, ho fatto tardi.» sbuffò alzando gli occhi al cielo e infilandosi la felpa. «Scusa, ti dispiace tenermela?» disse lanciandomi la borsa rossa che riuscii a prendere per un soffio.
«Ma certo.» mormorai trattenendo una risata.
«So che vuoi  ridere. Perciò fallo. Ma ricorda, la testa è tua.» aggiunse come fosse un insignificante dettaglio. Sorrise amorevolmente, facendo spallucce.
Sospirai, e gli porsi la borsa quando allungò il braccio.
«Buono a sapersi.» dissi osservandola. Gli occhi chiari erano turchese vivo alla luce del mattino. I capelli erano color della pece anche alla luce… involontariamente mi ricordarono quelli di Kristen e scossi il capo, cercando di cacciare via dalla mente l’immagine del suo viso. Rachel se ne accorse, e fraintese. Si spostò appena col busto, per guardare la sua immagine riflessa nella vetrata dietro di me. Sgranò gli occhi e indietreggiò col capo, scioccata. «Oh, cavolo.» disse poi affinando lo sguardo e avvicinando nuovamente il capo, con gli occhi ridotti a due fessure. «Ma sono io quella?» chiese prendendo una ciocca di capelli e sollevandola in aria, quasi fin sopra il capo.
Feci un risolino. «Ti chiami Rachel? Occhi chiari e capelli scuri?»
Annuì ed alzò lo sguardo su di me.
«Bene, allora sei tu.» dissi sorridendo.
«Ah-ah, divertente. Sto morendo dalle risate.» disse mettendosi eretta e salendo gli scalini, passandosi la mano fra i capelli, nel tentativo di domarli.
Sorrisi e scuotendo appena il capo la seguii dentro l’edificio.
«Ehi, armadio a due ante, mi fai entrare?» chiese Rachel con voce angelica quando fu davanti ad un addetto alla sicurezza.
«Certo signorina Stevens.» rispose lui accennando un inchino degno dei tempo del seicento. Scordante con l’aspetto burbero dell’uomo. Rachel rispose anch’ella con un inchino, fingendo di tenersi un vestito immaginario con le dita esili. L’uomo ci fece entrare.
«Buona giornata, Steve!» esclamò allegra e raggiante Rachel.
«Buona giornata anche a te Raky!» tuonò l’uomo.
«Oh andiamo, Steve! Non credi basti?»
«Mmm… no, Raky.», e le strizzò un occhio. Rachel sbuffo e alzò la braccia al cielo per poi farle ricadere sui fianchi, borbottando qualcosa di incomprensibile, mentre la porta alle nostre spalle veniva chiusa. La risata sommessa di Steve svanì.
«Raky?» chiese confuso corrugando la fronte.
Rachel, che camminava davanti a me, si voltò di scattò.
«Sssh!» sibilò portandosi un dito sulla labbra. Si guardò un attimo intorno accigliata, poi si ricompose, mettendosi dritta. «E’ un… soprannome che mi ha affibbiato Steve e non voglio che circoli. La mia carriera potrebbe essere troncata sul nascere.» spiegò voltandosi teatralmente e prendendo a camminare, fiera.
«Rachel?» la chiamai incrociando le braccia al petto.
«Si?» si voltò lei. Le indicai un cartello con le indicazioni per la stanza occupata il giorno precedente.
«Oh, sì.» disse scuotendo il capo, «giusto. », e prese a camminare dalla parte opposta, verso di me. Fu allora che non riuscii a trattenermi, sfociai in un momento di forte ilarità e Rachel mi guardò scioccata. Poi l’espressione sul suo viso mutò e, nel giro di due secondo, si piegò su stessa tenendosi l’addome per le troppe risate.
«Adiamo, ragazzina.» disse poi aiutandola a mettersi eretta e cercando di darmi una controllata.
«Grazie… Bobby.» disse prendendo a camminare ancora fra le risate.
Sconcertato la fissa per alcuni istanti… Bobby?
«Ehi!» esclamai.


Entrammo nella stanza dalla pareti color del latte e il grande tavolo di vetro e metallo, in perfetto orario… più o meno. Tutti erano già seduti ai loro posti, quelli del giorno prima, e parlavano fra loro, sollevando nella stanza un fastidioso chiacchiericcio, più simile ad un insistente cicaleccio.
John e Adam, parlavano fra loro, maneggiando scartoffie e annuendo, o scuotendo, di tanto in tanto, la testa. In silenzio Rachel prese posto ed, io, girando attorno al tavolo raggiunsi il mio, guardando la ragazzina con la coda dell’occhio. Fissava un punto indefinito, oltre la finestra, ma non potei vedere e capire quale. A tracolla aveva ancora la borsa rossa, un colore che sembrava una costante in lei… almeno, nelle poche occasione in cui ero stato giovato della sua compagnia.
Scuotendo il capo, come riprendendosi dal momento di ipnosi nel quale era caduta, si tolse la borsa e la felpa. Rise.
Corrugai la fronte e mi voltai a guardarla e nello stesso istante i suoi occhi turchesi incontrarono divertiti i miei.
«Ridi da sola, adesso, ragazzina?» sibilai senza voce, aggrottando la fronte e sorridendo appena.
«E’ un reato… nonnino?» mimò con le labbra, prima che un angolo della sua bocca si sollevasse verso l’alto.
«Raky.», ed incrociai soddisfatto le braccia, poggiandomi allo schienale della sedia. Fece una smorfia di disapprovazione.
«Bobby.» ribatté poi facendomi la linguaccia.
«Signorina Stevens, crede per caso di essere al circo?», la voce di John fece sobbalzare Rachel sul posto. Lei voltò il capo con occhi sgranati e bocca spalancata. Soffocai un risolino portandomi una mano sulle labbra.
«Ma io…»
«Non cerchi scuse.»
«Ma…»
«Niente ma.»
«Si, però…»
«Stevens!» sbottò John sgranando gli occhi. Rachel sobbalzò e poggiando un gomito sul tavolo, si appoggiò con mento sul palmo della mano.
«Mi perdoni, capo.» disse in una smorfia, e non potei non pensare ai tempi del liceo, in cui venivo costantemente ripreso dagli insegnati per la mia scarsa attenzione.
Con un sorriso a colorarmi il viso, fissai Rachel che, dopo ave sbuffato, poggiata ancora alla mano, scomposta sulla sedia, mi lanciò uno sguardo inceneritore. Feci spallucce e le strizzai un occhio.
Era evidente che si sforzava di tenere il broncio e rimanere seria, ma le sue labbra piene alla fine si incresparono in un sorriso che illuminò i grandi occhi turchese.
Poi tornai a guardare, con mio grande dispiacere John e ne fui sorpreso.
Perché i miei occhi desideravano i suoi?


Per tutto il pomeriggio non facemmo altro che provare  delle scena che sarebbero state girate nei gironi successivi, in modo tale che sia io che Rachel avremmo potuto lavorare con tranquillità alle canzoni che sarebbero stare inserite nella colonna sonora del film.
Ad ogni modo, dopo aver parlato e provato per ore, fummo rilasciati ad una vita normale, anche se per solo mezz’ore. In sintesi, avemmo una pausa. 
Quando John disse: «Pausa. Ci vediamo qui fra trenta minuti esatti.» sperai di poter passare quel tempo con Rachel e bearmi della sua risata contagiosa. Ma quando mi alzai per andarle incontro, le sparì, oltre la porta bianca della stanza. Sbattei più volte le palpebre, corrugando confuso da fronte. Così mi diressi verso la porta ed uscii anch’io dalla stanza.  Mi guardai intorno in cerca di Rachel, ma il corridoio era vuoto e di lei non vi era traccia.
Perché desideravo così tanto vederla? Perché desideravo ridere con lei? Forse, semplicemente, volevo… sentirmi in pace con me stesso e, per qualche inspiegabile motivo, con lei ci riuscivo. Forse era la sua semplicità, la sua allegria a farmi sentire… il ragazzo di ventitré anni che ero. Forse era quella la chiave di tutto: avevo perso me stesso, mi ero dimenticato chi ero e non mi stavo godendo quella giovinezza che mai più sarebbe tornata.
Sospirai, poggiandomi al muro e passandomi una mano fra i capelli, indugiando sulla nuca, ignorando le persone che si dirigevano verso le scale o l’ascensore.
«Bob?» alzai di scatto il capo, guardando prima a destra, ma non notando nessuno. Così guardai a sinistra e la vidi infondo al corridoio. Aveva la mani penzoloni all’altezza del ventre. 
«Rachel.» risposi sorridendole.
«Cosa ci fai qui?» chiese inclinando il capo.
Feci spallucce. «Pausa, ricordi?»
«Oh, giusto.» annuì. Si avvicinò saltellando, fino a che non mi fu di fronte. «Che hai intenzione di fare?» mi chiese scrollando le mani bagnate davanti al mio viso. Mi allontani istintivamente quando goccioline d’acqua bagnarono il mio viso.
«Non lo so.» dissi passandomi una mano per asciugarmi.
Rachel corrugo la fronte, preoccupata, guardandosi le mani. «Aspetta non sono ancora asciutte.» disse poi strofinandosi le mani sulle mie guance.
«Rachel!» l’ammonii scrollandomi le sue mani di dosso ed allontanandola. Lei rise e si poggio con una spalla al muro.
«Scusa. Non ho resistito.» rispose cercando di reprimere le risate.
Alzi un sopracciglio e le roteò gli occhi scuotendo il capo. «Tu non hai fame?» chiese.
Accennai un sorriso. «A dire il vero… un po’.»
«Bene, perché prima di andare alla toilette per donne,» disse indicando con pollice dietro di sé, la fine del corridoio, «avevo intenzione di chiederti se ti va una cioccolata calda. Oggi non credo di aver ingerito abbastanza zuccheri.»
«Mi piace… Rachy.»
Lei sbuffò e afferrandomi per un braccio mi trascinò lungo il corridoio, verso le scale.

 

*

Ringraziamenti.

Ryry_ : ciao, Sò! Ooooh, sono contenta ti sia piaciuto lo scorso capitolo! E spero ti sia piaciuto anche queste… un po’ molto noioso. Tu sei troppo buona, davvero! Oh, non sai quanto mi abbia resa felice la tua recensione, davvero. Un bacio, ragazza sfacciata XD
Xx_scrittirce_xX: ciao, Ely! Ovviamente a te va un ringraziamento speciale – per ovvi motivi. Non credevo la reazione di Rachel ti facesse questo effetto! Waw. Comunque è una cosa che non posso spiegare ora, saranno i capitoli successivi a mostrarti il tutto ^.^ Grazie davvero di cuore, tesoro.
Nessie93: ciao, Chirè! Se mi scrivi cose del genere è normale che poi mi gongolo e mi sciolgo. Sono contenta di sapere che il capitolo precedente è stato di tuo gradimento! Quella macchina è la mia preferita, sai? Dovevo per forza inserirla in qualche fiction… e quale meglio di questa? Secondo me, rispecchia a pieno il personaggio. Spero di non averti troppo annoiata con questo capitolo Grazie, mille, ancora.
Railen: ciao, Ire! Oh, non sai quanto mi renda felice leggere le tue recensioni! Ci tengo al tuo parere, sul serio. E lo sai. Ad ogni modo, sono contenta ti piaccia la storia! *-*  Spero ti sia piaciuto anche questo capitoli, in caso contrario, ti prego dimmelo. Grazie davvero di cuore, cara. Grazie davvero.
Lucy_Scamorosina: ciao! *-*  Sono contenta ti sia piaciuto il capitolo e che tu abbia riso! Spero di non averti annoiata con questo! Grazie di cuore per la recensione!

A voi, con affetto,
                          
Panda.

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Capitolo 8
*** Capitolo sette: vegetariana. ***



 

 

 

 
 

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Capitolo sette

Vegetariana

 

«Dolce o salato?»
Mi voltai verso Rachel che mi scrutava oltre la sua tazza di cioccolata calda, fumante.
«Come?» chiesi corrugando la fronte, circondando la mia tazza azzurra e blu con entrambe le mani.
«Preferisci una barretta di cioccolato o un hot dog? Sì, insomma… dolce o salto?» chiese poggiando la tazza sul tavolino del bar, situato all’interno della grande struttura.
«Un hot dog.» risposi immergendo un cucchiaino nella tazza, per poi portarmelo in bocca.
Rachel fece una smorfia, prima di bere un altro sorso.
«Che c’è?» chiesi, mordicchiandomi il labbro inferiore.
«Dai.» disse agitando una mano in aria. «Come si fa a preferire il salato al dolce? Insomma… senti.» disse chiudendo gli occhi ed inebriandosi del profumo della cioccolata fumante, «Come fai a non preferirlo?» concluse poi poggiandosi con la schiena alla sedia e guardandomi negli occhi.
Feci un risolino e mi passai la mano destra fra i capelli. «E come resistere all’odore di un hot dog o cheeseburger?»
Rachel corrugo la fronte, seria. «E come fai a dormire la sera sapendo di aver mangiato un povero vitello? Un povero maialino indifeso?» chiese con labbro tremulo.
Spalancai gli occhi, indietreggiando appena con il capo. «Sei vegetariana.»
«E ne vado fiera.» annuì alle sue stesse parole. «E dovresti farlo anche tu, Bob. Convertirti alla verdura ed il cioccolato.»
«Come ti ho detto, Rachel, preferisco i panini al cioccolato.»
«Oh beh, la coscienza è tua.» disse facendo spallucce. «Non dire che non ti ho avvisato quando sognerai le mucche assassine.»
«Mucche assassine?» chiesi alzando un sopracciglio e portandomi in cucchiaino in bocca.
Lei annuì col capo. «Esatto.»
«Mi prendi in giro?»
«No, certo che no, Bobby.» disse, le labbra distese in un largo sorriso.
Alzai un sopracciglio.
«Okay. Beh, i fantasmi delle mucche passate, e che hai mangiato, verranno a darti il tormento nel sonno, un giorno.»
Accigliato, spalancai la bocca. «Se finirò in un ospedale psichiatrico darò la colpa a te, sappilo.» dissi bevendo un sorso ci cioccolata e poggiandomi con i gomiti al tavolino di metallo.
«Si, certo. Ed io sarò già sparita. Nascosta in qualche villaggio del Bangladesh.» ridacchiò.
«Verrò a cercarti. Dovessi passare tutta la vita sulle tue tracce.»
«Ti prendo in parola.» mi sfidò.
«Difficilmente ti libererai di me, Rachel.» mormorai sporgendomi sul tavolino. Fui sorpreso dalle mie stesse parole, da ciò che mi uscii di bocca senza premeditazione, dalla strana piega che aveva preso la conversazione.
«E’ una bella prospettiva, tutto sommato.» mormorò suadente sporgendosi, poggiata sui gomiti.
Sorrisi, in maniera maliziosa, poi le strinsi il naso fra l’indice ed il pollice. «Ma che carina, questa ragazzina.» ridacchiai.
Rachel si scollò dalla mia presa e si allontanò, sobbalzando sulla sedia. «Ehi! Cavolo, mi hai fatto male!» latrò coprendosi con una mano il naso.
Risi, bevendo ancora della cioccolata. «Era il mio intento.»
Lei poggiò le mani sul tavoli e mi fece la linguaccia. Poi, inclinò il capo e sentii uno stinco pulsarmi, colpito da qualcosa. In preda ad un dolore lancinante mi chinai gemendo, massaggiandomi la parte colpita.
«Mi hai colpito!» esclamai guardandola da sotto il tavolo.
«Ti ho fatto male?» chiese innocentemente, e mi parve tanto una bambina colta in fragrante, mentre faceva qualcosa che le era permesso fare.
«Certo!» dissi una smorfia mettendomi dritto, sulla sedia.
«Beh… era il mio intento.» rispose sorridendo e facendo spallucce.
La guardai serio, ma non riuscii molto a trattenere le risate. Mi lasciai, così, andare ad un piccolo momento di forte ilarità, seguito da Rachel.
«Comunque, dovresti provare la cucina vegetariana. Sul serio, non è male.» disse fra le risate.
«E tu sana cucina a base di carne.»
Di colpo Rachel ritornò seria, fulminandomi con lo sguardo. Alzai le mani. «Stavo scherzando.» mi affrettai a dire e le mi sorrise teneramente.
«Mi ricorderò di cenare vegetariano una di queste sere.» aggiunsi.
«Sai, non è molto difficile. Verdure e tofu.»
«Molto allettante.», feci una smorfia.
«Ehi, guarda che ci sono un sacco di ricette e, ormai, sono diventata un capo in cucina!» esclamò.
«Non fai più cucinare alla mamma?» la stuzzicai con un sorriso sghembo.
«Ah, ah. Sei molto diverte. No, vivo da sola.»
Mi accigliai. «Davvero?»
Lei annuì col capo. «Da settembre. Sono sempre stata piuttosto indipendente. Perciò sono io a badare a me stessa.»
«Mi sa che ti ho sottovalutata.» ponderai prendendomi il mento fra due dita e guardandola.
Lei rise. «Sì, direi di sì.»
«Qualche ricetta da consigliarmi? Magari posso cimentarmi in qualcosa.» dissi bevendo l’ultimo sorso di cioccolata.
Lei si mordicchiò il labbro, e sembrava nervosa. «Sì. Ma sono terribilmente complicate.»
«Dici che da solo non ci riesco?» chiesi con l’ombra di un sorriso. Rachel scosse il capo e fece spallucce.
«Magari posso chiudere a qualcuno se può darmi una mano. Ma non saprei a chi rivolgermi.» dissi fingendomi affranto e cercando di reprimere un sorriso, sapendo benissimo dove, la frase che stavo per dire, mi avrebbe portato. Schioccai la lingua. «Tu conosci qualcuno?»
Sembrò pensarci un po’ su. «Beh, c’è una ragazza… è molto simpatica, sai… e se la cava anche in cucina. Magari posso chiederle se le va di darti una mano.»
«Ne sarei felice.» risposi in un sorriso.
Ad un tratto Rachel si schiarì la voce e si voltò col busto verso destra. «Ehi, ciao, Rachel.» disse e sgranai gli occhi sorpreso. «C’è un tipo qui, molto strano, che ha bisogno di un aiuto con la cucina vegetariana. Visto che tu sei un capo, gli daresti una mano?»
Spalancai la bocca, mentre Rachel si spostava con busto verso la parte opposta, poggiando un gomito sul tavolino. «Ah si? Potrei farci un pensierino. Chiedigli se vuole venire a casa mia.» disse prima di mettersi dritta.
Scossi il capo e risi, risi di gusto. «Sei da studiare.» ridacchiai.
Lei sorrise e gli occhi le si illuminarono. «Bene o male?»
La guardai negli occhi turchese un attimo. «Bene.»
«Quindi… ti va di aiutarmi a cucinare, domani sera?» chiese con voce tremante, quasi preoccupata, che stonava con la spavalderia che aveva avuto negli attimi precedenti.
Sorrisi. «Sì.»
«Fiù.» sospirò. «Credevo non avresti mai accettato l’invio di una… ragazzina» disse quest’ultima parole con una smorfia, «apparentemente fuori di testa.»
«Oh, cara ragazzina… è proprio per questo che ho accettato.» le sorrisi.
«Credevo fosse per la mia innata simpatica e allegria, per il piacere della mia compagnia.»
«E’ tutto consequenziale.» ridacchiai.
Sorrise. «O per la cena.»
«Anche.»
«Anche… bene. Alle otto e mezzo. E non fare tardi.» disse puntandomi l’indice contro.
«Potrebbe non essere colpa mia… ma del traffico improvviso!» esclamai cercando di imitarla.
«Ah, ah. Divertente. Andiamo, idiota di una star.» rispose alzandosi.
Era semplice parlare con Rachel. Non mi preoccupavo di fare colpo o risultarle simpatico ed affascinante. Era come… bere acqua. Semplice. Le parole sgorgavano dalla mia bocca e non potevo fare nulla per evitarle. Ero… me stesso, e mentre mi alzavo non potei non faci caso, ed ammetterlo a me stesso. Non c’erano doppi fini. Non c’erano complicazioni. Era facile parlare, e pensai che probabilmente faceva questo effetto su tutti.
I suoi occhi turchese mi guardavano incuriositi e non potei non sorridere, prima di tirarle uno spintone amichevole. Lei fece lo stesso e rise.
«Ti seguo, ragazzina.»
«Bravo… Bobby.»
Si, Rachel, riusciva a farmi ridere. A farmi ridere di cuore, davvero… dopo tanto.


Inserite le chiavi nella serratura, entrai in casa buttando la giacca di pelle sulla sedia. Gettai le chiavi sul tavolino accanto alla porta e mi diressi lungo il corridoio diretto in camera. Mille erano i pensieri che mi vorticavano in testa. Il viso di Rachel non faceva che tornarmi alla mente, ed il suono della sua risata mi risuonava nelle orecchie. Poi il viso di Kristen prendeva il suo posto, bello e dolce come sempre. Mi mancavano i suoi occhi, sentivo il bisogno di udire la sua voce ed ammirare i suoi occhi verde prato.
Afferrai il cellulare dalla tasca e composi il suo numero, che oramai conoscevo a memoria. Al quinto squillo, mentre camminavo avanti e indietro per la stanza, Kris rispose.
«Ciao.» disse con voce ferma. Chiusi per un momento gli occhi, immaginando che mi fosse vicino.
«Ciao.» risposi in un sorriso.
«C’è qualche problema, Rob?» chiese. In sottofondo le fusa di un’auto.
«No, in realtà no. Per quanto possa risultare folle… volevo sentire il suono della tua voce.» ammisi passandomi una mano fra i capelli e accennando un sorriso.
Kristren fece un risolino. «Davvero?»
«Sì.»
«Ne sono felice.»
Sorrisi. «Anche io. Mi manchi.» ammisi con un nota di malinconia nella voce.
Kristen sospirò. «Rob… non rendere le cose più difficili di quanto già lo siano. Puoi non credermi, ma mi manchi anche tu.»
«Certo. Certo che ci credo.» sospirai sedendomi sul letto.
«Ora devo andare. Ho un’intervista.»
«Promettimi che verrai a trovarmi una volta ritornata a Los Angels. Promettimelo, Kris. Qualunque sia la tua decisione.»
«Okay. Ciao, Rob.»
«Ciao, Kris.», e riappese. Per alcuni istanti rimasi seduto sul letto, una mano a reggermi per la fronte, mentre meditavo su noi. Mi mancava, terribilmente, ed io mancavo a lei.  Forse c’era speranza in fondo, e scioccamente me ne convinsi. Sorridente mi diressi in bagno per una doccia calda.

Seduto comodamente sul divano facevo distrattamene zapping. Sul tavolino un cartone di pizza vuoto, in mano la seconda bottiglia di birra della serata. Più tardi ne avrei aperta una terza. Indossavo un paio di pantaloni di tuta e una maglietta a mani corte. L’acqua calda era riuscita a distendermi i muscoli e a farmi rilassare… almeno un po’. Grazie anche al ricordo del suono della sua voce e ciò che aveva mormorato al telefono.
Sorrisi, involontariamente, mentre poggiavo la testa allo schienale del divano. Fui costretto, però, a scattare in avanti quando su un canale di musica mi imbattei nel viso di Rachel. Era lo stesso video, la stessa canzone che avevo visto il giorno prima.
Scossi il capo, osservando i suoi occhi ed il suo viso da bambina. La ragazzina
Solare, allegra, gioiosa. Ed, in un certo qual modo… affascinante.
Scossi il capo, cercando di eliminare certi miei pensieri dalla mente. Era bella, sì, senza dubbio. Ma era… Rachel, la ragazzina conosciuta in uno studio televisivo che sapeva farmi star bene.
Ignaro di ciò che il futuro aveva in serbo per me, continuai a guardare quel video, pensando che Rachel era forse una delle ragazza più strane che avessi mai conosciuto.

 

*

Okay, so già che sarò odiata. Purtroppo non posso ringraziarvi a modo, perché ho da ripetere un sacco per la terza prova che, ahimè, verrà valutata. Perciò vi ringrazio di cuore, davvero, e prometto di ringraziare a modo nel prossimo capitolo.
Perciò grazie mille Piccola Ketty, Nessie93, Xx_scrittrice_xX, Ryry_, Lucy_Scamorosina, Railen.

A voi, con immenso affetto,
                                        
Panda.

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Capitolo 9
*** Capitolo otto: facile come respirare. ***


 

 

 

 

 

You could be my unintended
Choice to live my life extended
You could be the one I'll always love
You could be the one who listens to
my deepest inquisitions
You could be the one I'll always love
I'll be there as soon as I can
But I'm busy mending broken pieces
of the life I had before.
Muse, unintended.

 

 

Capitolo otto

Facile come respirare



«Buon giorno!» esclamai avvicinandomi a Rachel, da dietro. Il mio viso vicinissimo ai suoi capelli color della pece.
Lei sobbalzò e si voltò di scatto, allontanandosi di un paio di passi.
Soddisfatto sorrisi. «Ops, ti ho spaventata?» chiesi fingendomi preoccupato.
Rachel, con le mani poggiate sul petto, all’altezza del cuore, mi guardava con occhi sgranati a bocca spalancata. «No, certo che no. Ho solo finto.» ansimò.
Sorrisi. «Attrice magnifica.»
 Deglutì lisciandosi la maglia nera sul ventre piatto. Si riavviò i capelli ribelli e poi, chiudendo gli occhi per un attimo ed ispirando profondamente, tornò a guardarmi in volto. «Ma sei impazzito?» sbottò portandosi le mani sui fianchi.
Risi di gusto. «Ho detto che sarebbe accaduto.»
Rachel corrugò la fronte e aprii la bocca per replicare, alzando l’indice, ma la richiuse. La riaprì ancora e dopo qualche secondo, in cui trattenne il respiro e tenne la bocca spalancata, disse: «Credevo sarebbero dovute passare almeno un paio di settimane.»
Incrociai le braccia al petto. «E invece no. Cosa vuol dire?»
Lei arricciò le labbra prima di fissarmi confusa. «Che hai visto una gallina volare?»
«Sbagliato.»
«Era una mucca?»
«A far cosa?»
«A volare, genio.»
«Oh. No, no. Sbagliato. Che avevo ragione io.»
«Oh.» sussurrò annuendo piano con la testa e carezzandosi il mento. «No, non ho capito.»
Sbuffai ed iniziai a camminare dirigendomi verso la grande stanza per le prove. «Che sei stata tu a farmi impazzire per prima.»
Rachel sorrise e scosse lentamente il capo. «E’ ciò che tu credi.» disse e la sua voce parve celare concetti sconosciuti.
«Che intendi?» chiesi corrugando la fronte, d’un tratto serio.
Per alcuni secondi Rachel si fissò la punta delle scarpe da tennis logore, poi alzò lo sguardo mostrandomi un allegro e dolce sorriso. «Quanti caffè hai bevuto, Bob, oggi?»
Corrugai la fronte, confuso. «Questo non è lecito saperlo.»
«Dai, spara. A me puoi dirlo.» ridacchiò sbattendo le palpebre con fare civettuolo.
«Un… paio, credo.»
«Solo?»
«Okay, tre.»
«Ora spiega tutto». Rise.
Agitai le mani in aria. «C’è una giusta spiegazione.» annuii alle mie stesse parole.
«Cioè?» chiese portandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio e salendo la grande scalinata.
«Beh, sono in piedi dalle quattro e il caffè era l’unico amico capace di tenermi compagnia.»
«E ti sei alzato così presto per scorgere delle galline volere nel cielo mattutino?» ridacchiò.
«No, certo che no.»
«Giusto… erano mucche.»
«Ma come siamo simpatiche oggi.» ironizzai.
«Ma come siamo esaltati oggi.»
«Colpa del caffè, delle poche ore di sonno e di un amico in piena crisi.»
«Esistenziale?» chiese con tono preoccupato.
Feci un risolino, passandomi una mano fra i capelli e scuotendo il capo. «Sarebbe stata una buona ragione per svegliarmi alla quattro.»

Di scatto apro gli occhi.
Il cellulare sul comodino non fa che vibrare ed il suo rumore è terribile ed assordante. Mi perfora i timpani.
Impreco con voce impastata e allungo una mano. Non guardo nemmeno chi osa disturbare il mio sonno. Mi porto il cellulare all’orecchio, mentre affondo parte del mio viso nel cuscino.
«Pronto?» mugugno chiudendo gli occhi.
«Mi tradisce.»
«Non ti tradisce.» sbiascico le parole, corrugando la fronte.
«Sì, invece. Rob, me lo sento!»
Sospiro e mi metto a sedere, accendendo la lampada sul comodino.
La radiosveglia segna le quattro del mattino.
Spalanco gli occhi. «Che tu sia dannato, Kellan! Hai idea di che ora sia?» esclamo.
«Certo.» fa una breve pausa. «Le sette del mattino.»
Taccio. Non è possibile.
«Okay… le quattro. Ma sono in piena crisi ed ho bisogno di parlare con qualcuno.»
«E devi chiamare per forza me?»
«Certo. Chi altri sennò?»
Sbuffo e scoprendomi, gettando il lenzuolo di lato, esco dalla mia camera dirigendomi verso la cucina.
«Dovresti comprarti un cane, amico. Magari puoi raccontare a lui dei tuoi squilibri mentali.» ironizzo prima di sbadigliare ed andare a sbattere contro lo stipite della porta della cucina. Mi massaggio il braccio con una smorfia, prima di accendere la luce in cucina.
«Ehi, tutto okay?» chiede.
Sbuffo. «No. Ti pare che possa andare bene svegliato alle quattro del mattino da un pazzo psicotico in preda ad una, Dio solo sa, idiota ed inesistente crisi esistenziale?»
«Parli di me?»
Scuoto il capo, passandomi una mano sul viso. «No, del tuo cane.»
«Ma non ho un cane, Robert.» risponde innocentemente.
Mi fermo ponderando sulle sue parole, prima si scuotere il capo ed aprire il frigo in cerca di un vasetto di yoghurt.  «Allora, da cosa nasce questa tua “crisi”?» domando afferrando un cucchiaino dal cassetto della cucina e sedendomi sul tavolo.
«Non mi ama più.»
Sgrano gli occhi e mi blocco, il braccio e mezz’aria mentre mi porto il cucchiaino alla bocca. «Cosa?» chiedo con voce strozzata.
«Sì, non mi ama più.» mugugna, quasi fosse un bambino ed è questo tono a mettermi in allarme. Poggio il barattolo sul tavolo e premendo la cornetta, stretta tra spalla e orecchio, in mano, mettendomi dritto. Chiudo gli occhi per poi riaprirli. «Perché non parti dal principio?»
«Oggi non mi ha chiamato! Ha un altro, lo so!» urla con isteria nella voce.
Scioccato guardo un punto indefinito della cucina, spalancando la bocca. «Non ti ha chiamato. Mi hai svegliato per questo?» chiedo con voce estremamente tranquilla.
«E ti sembra poco?»
«Kellan?» ringhio.
«Dimmi.» mugola.
«Va al dia volo, amico!»


«Oh, ma è terribile!» esclamò portandosi una mano sulle labbra.
«Lo so!» sospirai alzando le braccia al cielo per poi farle ricadere.
«Non so come tu abbia fatto. Devi una grande forza interiore.» disse poggiandomi una mano sul un braccio e sorridendomi con dolcezza e comprensività. Si avvicinò alzandosi in punta di piedi e mi baciò una guancia. Il suo profumo di fragola m’inondo straordinariamente i polmoni e per pochi istanti fu come essere a casa.
«Mi dispiace.» sorrise poi battendomi piano la mano sul capo, poi si voltò ed entrò nella grande sala.
Rimasi per alcuni istanti, immobile, ripensando alle sue labbra morbide sulla mia guancia e… al suo sguardo. E poi capii.
«Mi ha preso in giro.» mormorai scioccato. Di scatto mi voltai, accigliato. «Rachel!»


Era ora di pranzo e morivo di fame. Il mio stomaco non faceva che brontolare, mentre, diligentemente, cercavo di fare il mio lavoro.
Quando finalmente arrivò l’ora di pranzo tirai un sospiro di sollievo. Quel giorno nel menù offertoci c’era pasta e polpettone. Davvero molto leggero. Ad ogni modo, non avevo alternative.
Mi diressi all’uscita della grande stanza diretto alla toilette per lavarmi le mani, ma, quando uscii dal bagno diretto al lavandino, sobbalzai, colto di sorpresa dalla singolare figura poggiata al muro di mattonelle bianche ed azzurre.
«Mi hai fatto prendere un colpo.» disse con tono grave avvicinandomi al lavandino.
«Femminuccia». Fece spallucce per poi sorridere.
«Che ci fai qui, Rachel?» chiesi corrugando la fronte ed insaponandomi le mani.
«Dovevo andare in bagno.» disse rimanendo a fissarmi.
«Ora è libero.» dissi voltandomi a guardarla. Alla luce del neon i suoi occhi erano turchese vivo.
«Lo so.» annuì. Aprii l’acqua e mi lavai le mani.
«E perché rimani a fissarmi?» ridacchiai.
«Perché sei strano.»
«Io? Oh, se ne sei convinta.»
«Certo, chi altrimenti? Qui ci siamo solo io e te, e sai bene che io sono assolutamente normale.», sorrise. «E poi ho una cosa per te.»
Mi voltai a guardarla, dapprima corrugando la fronte, poi sorridendo. «Cosa?»
«Mi permetti di andare in bagno prima?» chiese staccandosi dal muro e mettendosi dritta.
«Okay, te lo permetto.» dissi afferrando un pezzo di carta.
«La ringrazio, Bobby. Sa, lei è davvero una persona di buon cuore.» disse fingendosi commossa e portandosi le mani al petto.
Feci spallucce e le indicai il bagno con un cenno del capo. Lei sorrise e si avvicinò a me, usando la mia spalla come appendiabiti per sua borsa di stoffa rossa. Con movimenti sinuosi entrò in bagno, chiudendosi la porta alla spalle.
Osservai il riflesso del legno chiaro nello specchio. Come faceva? Non ne avevo la più pallida idea. Riusciva a farmi sorridere con una tale naturalezza da lasciarmi quasi sconvolto. Riusciva a farmi sentire… a casa come pochi, nell’ultimo periodo, erano riusciti a farmi sentire, ma, cosa più sorprendente, con lei riuscivo a non pensare. Riuscivo ad estraniarmi dalle preoccupazioni giornaliere vertenti sul lavoro o su… Kristen. Ed era strano… maledettamente strano. Forse cercava di dirmi qualcosa, qualcosa che ingenuamente non riuscivo a cogliere, o forse ero io stesso che cercavo di dirmi qualcosa, di giungere ad una conclusione ben chiara al mio cuore, o al mio animo, ma ancora troppo cieco per vedere. Magari mi sbagliavo su tutto, per via delle infinte congetture nella quale mi perdevo. Riaffiorai dall’immenso oceano di pensieri quando la serratura scatto e Rachel uscì dal bagno, rivelandomi il suo viso.
Non so cosa mi successe, non ho idea di cosa fosse scattato in quel momento, ma ai miei giovani occhi apparve la ragazza più bella e dolce mai conosciuta. Osservai il suo viso di bambina, armonioso e solare, quel viso di cui non puoi non fidarti, quel viso che guarderesti sorridere, o ridere, per ore senza mai distogliere lo sguardo né da esso né dai suoi occhii limpidi e cristallini.
«Ehi, sta bene?» sussurrò d’un tratto poggiandomi una mano su un braccio. Solo allora mi accorsi che si era avvicinata.
Deglutii riaffiorando da quel mondo fatto di sole sensazioni, scostando quel velo che mi copriva il viso e mi offuscava la vista.
«Sì.» soffiai guardandola negli occhi, dallo specchio.
Lei inclinò il capo ed i capelli le finirono oltre la spalla. «Sicuro?»
«Sì.» mormorai abbozzando un sorriso.
«Okay.» disse mentre un sorriso sghembo le colorava il viso sottile. Poi si avvicinò al lavandino per lavarsi le mani.
«Comunque… cos’hai per me?» chiesi votandomi a guardarla e affondando le mani nelle tasche dei jeans.
«Se mi lascia lavare ed asciugare le mani, te la recupero dalla borsa, genio.» disse indicando la borsa di stoffa poggiata alla mia spalla.
Feci un risolino. «Perdòn
«No importa
«Qualcosa mi dice che al liceo non sono stato l’unico a seguire un corso di spagnolo.»
«Arguto il ragazzo.» annuì fissandomi negli occhi ed incrociando le braccia al petto.
Quasi impacciato rimasi, lì, immobile, fissando il turchese dei suoi occhi.
«Hai intenzione di uscire di qui?» chiese alzando un sopracciglio.
Risi e mi grattai la nuca prima di voltarmi ed uscire dal bagno.
«Allora, Bob…»
«Rachy…»
Si voltò e mi fulmino con lo sguardo, prima di tornare a guardare davanti a sé. «Allora, Robert… vieni con me. E non fiatare.» disse e, d’un tratto la sua mano strinse la mia, in un gesto del tutto casuale. Per un attimo la guardai sorpreso, ma sembrò non accorgersene mentre mi trascinava lungo il corridoio e poi in ascensore. Quando fummo dentro non lasciò la mia mano. La sua stretta era delicata ma allo stesso tempo salda. La tipica stretta di chi sa ciò che vuole, di chi non ha paura di rapportarsi agli altri e non potei fare a meno di chiedermi cosa ella pensasse in quel momento.
Quando arrivammo all’ultimo piano, Rachel mi trascinò fuori.
«Il tetto?» chiesi accigliandomi.
«Sta zitto.» sbuffo aprendo la grande porta di metallo.
«E’ aperta?» chiesi sorpreso.
«Sì, ho chiesto all’addetto alla pulizie di lasciarla aperta. Certo che tu ed il silenzio non andate d’accordo, eh?» roteò gli occhi mentre avanzava sul grande terrazzo. Il vento le sfiorava i capelli che si muovevano come onde del mare. Il campanello legato alla borsa tintinnava e sorrisi, scuotendo appena il capo.
Ad un tratto, Rachel si fermò nel punto in cui il cornicione incontrava il muro. «Direi che qui va benissimo.» disse saltando sul cornicione e sedendosi appoggiandosi al muro. Per un attimo lo stomaco mi si strinse in una morsa.
«Ma non sarà pericoloso?»
«Non sono una bambina, Bob. Non cado.» sbottò afferrando la borsa.
Sospirai. «Okay, se lo dici tu.» dissi sedendomi a gambe incrociate sul pavimento.
«Ecco a te.» disse porgendomi una busta di carta.
«Cos’è?» chiesi corrugando la fronte ed afferrando il sacchetto.
«Un… assaggio.» disse scrollando le spalle e facendo oscillare i piedi.
«Ehi, da questa angolazioni sembri più alta.» ridacchiai.
«Ah-ah, divertente.»
Aprii il sacchetto e spalancai gli occhi, prima di afferrare il panino.
«E’ un hamburger vegetariano!» esclamò sorridente.
Spalancai la bocca e repressi una risata. «Oh, ma è… è fantastico, Rachel.»
«Non fare così, scemo. Magari ti piacerà.» disse facendo spallucce e tirando fuori dalla borsa un altro sacchetto di carta. «Ho bisogno di nutrirmi anche io.» aggiunse quando si accorse che la guardavo.
«Okay, proviamo.» disse addentando il pane. Masticai molto lentamente cercando di assaporare al meglio il panino.
«Allora?» chiese saltando già dal muretto e sedendosi accanto a me, a gambe incrociate.
Mi grattai la nuca e feci una smorfia. «Perdonami, Rachel… ma la carne è al carne.»
«Uhm… ciò vuol dire che non ti piace?» sbuffò inarcando la schiena.
Mi voltai e le sorrisi. «Ciò vuol dire che preferisco la carne, non che non mi piaccia.»
«Giusto.», e gli angoli della bocca si sollevano piano verso gli occhi mentre chinava il capo, giocando con un filo del taglio dei jeans.
«Questa sera vedremo se ti piacerà la mia cucina.» disse tirandomi un leggero spintone con la spalla.
«Spero solo di arrivare al dolce.»
«Come fai ad essere così sicuro che ci sia il dolce?» chiese corrugando la fronte.
La guardai alzando un sopracciglio. Lei rise. «Sì, scusa.» aggiunse portandomi una ciocca di capelli dietro un orecchio.
«E sono io quello strano.» osservai tirando un altro morso al panino.
«Certo!» esclamò lei seria, annuendo col capo.
«Qual è stata la cosa più… cattiva che hai fatto, Robert?» chiese lei dopo un minuto di silenzio.
«Uhm… non saprei.» mormorai rovistando nel cassetto dei ricordi.
«Dai… da bambino non hai mai fatto nulla di perfido?» chiese spostandosi e posizionandosi davanti a me, senza mai alzarsi e rimanendo con le gambe incrociate.
«Okay. Ho… ho consumato un pranzo e sono scappato senza pagare.» dissi annuendo alle mie stesse parole.
Rachel schioccò la lingua e fece una smorfia. «Questo l’ho fatto anch’io… e non una volta. Dai, scommetto che hai fatto di peggio.» disse mordendosi il labbro inferiore.
Feci spallucce. «Ho introdotto alcolici nella scuola. Avevo sedici anni quando in bagno bevvi della vodka. E’ una cosa che non sa nessuno.» dissi più a  me stesso che a lei.
«Perché me lo dici?» chiese con espressione imperscrutabile.
«Non lo so.» ammisi.
«Interessante.» annuì accarezzandosi il mento.
«E tu, Rachel?» chiesi mangiando altro panino.
«Azionato l’allarme antincendio.»
«Scommetto che non bruciava nulla.» osservai mentre prendeva una bottiglietta d’acqua dalla borsa.
Rise. «Perspicace.»
«Grazie.»
Lei si avvicinò la bottiglia alle labbra e, per qualche strano motivo, dovetti faticare per non osservarle a lungo.
«Ne vuoi un po’?» chiese porgendomi la bottiglia. Annuii e l’afferrai. Dopo essermi dissetato le restituii la bottiglia.
«Credo sia ora di andare, Bob, altrimenti Sam non può chiudere.», sorrise, alzandosi.
«D’accordo, ragazzina.» ghignai alzandomi. Rachel scosse il capo e cominciò a camminare.
Sì, stare con Rachel era facile come respirare.

 

*

Ed eccomi qui… ancora.
Mi scuso per il ritardo, ma purtroppo non posso aggiornare tanto in fretta. Colgo l’occasione per dirvi che gli aggiornamenti saranno rallentati perché, con la scuola che volge al termine e gli esami che si avvicinano, il tempo è davvero poco… senza contare che la testa è altrove.
Chiedo davvero scusa.
Ora, via le ciarle e passiamo a  ringraziare gli angeli che hanno recensito lo scorso capitolo. Ma prima… un meraviglioso ed enorme grazie ad Ire… e lei sa benissimo perché.

Ryry_ : ciao, So! Beh, sì… chi non ha paura delle mucche assassine! E Robert piano capisce tante cose… grazie mille per la recensione, cara, davvero, mi ha fatto un immenso piacere. Spero che questo capitolo sia stato di tuo gradimento.
KeLsey: ciao, Eri! *-*  sono felice di sapere che Rachel ti piaccia come personaggio, davvero! Il tuo parere conta molto, e lo sai mostriciattolo! Spero di non averti annoiata con questo. Grazie, Eri, davvero. Ti voglio bene. (L)
Piccola Ketty: ciao, Kè! *-* oh, non sai che piacere ricevere le tue recensioni! (nah, non è vero, lo sai!) Guarda quel pezzo ha un fondo di verità… ma non diciamolo a nessuno XD Sono contenta ti sia piaciuto… avevo il timore di essere ridicola e noiosa. Spero ti sia piaciuto il capitolo, davvero. Oramai il tuo parere… è il tuo parere. Grazie di tutto, tesoro, davvero. <3 ti voglio bene.
Nessie93: ciao, Chià! Alla fine ce l’ho fatta. Stupida scuola. Sono contenta ti sia piaciuta la scena al bar, mi sono divertita un sacco a scriverla XD il calcio sotto il tavolo è quasi un classico… che in realtà non funziona mai… te lo dico per esperienza personale. Beh, qui l’allarme anti-incendio c’è, ma in un altro contesto. Grazie, tesoro, davvero. Grazie di tutto. Ti voglio bene.
Railen: ciao, Ire! *-* ti devo ringraziare di cuore, e lo sai! Grazie, grazie, grazie! Sono contenta ti piaccia la mia fiction, ci tengo molto al tuo parere, bello o brutto che sia. Ebbene sì, Rachel è una parte positiva e questo capitolo sta un po’ a dimostrarlo. Eh eh, qualcosa di hot… mmmh, si vedrà. Grazie, tesoro, davvero. Grazie di cuore (scusa le ripetizioni XD).
Xx_scrittrice_xX: ciao, Ely! Sono contenta il capitolo ti sia piaciuto, e spero ti sia piaciuto anche questo. Il tuo sclero è stato fenomenale, davvero, mi ha fatto morire dalle risate XD  Spero che questo capitolo ti abbia fatto comunque ridere. Grazie per la recensione, davvero. Grazie.
Lucy_Scamorosina: ciao! *-* oh, che piacere ricevere la tua recensione, davvero! *-* Sono contenta ti sia piaciuto il capitolo, davvero! Mi spiace solo aver postato così in ritardo, ma la scuola ha effetto risucchio e purtroppo non ho più molto tempo disponibile. Dopo le ore di studio non connetto più e ho difficoltà a scrivere. Spero ti sia piaciuto questo capitolo. Grazie, sul serio.
ginevrapotter: ciao! *-* sul serio ti è piaciuta? Okay, ora comincio a gonogolare come una scema. Chiedo scusa per il ritardo, ma come ho detto per
Lycy, la scuola ha effetto risucchio. Grazie.

A voi, un bacio,
                    
Panda.

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Capitolo 10
*** Capitolo nove: musicista. ***


 

 

 

 

 

 

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Muse, unintended.

 

Capitolo nove

Musicista

 

Uscii dalla doccia e perle trasparenti caddero sul pavimento dai capelli. Così presi un asciugamano per eliminare l’acqua che me li schiacciava sulla fronte. Avvoltomi un salvietta in vita mi diressi in cucina ed azionai la macchinetta del caffè, ma, mentre tornavo in camera, il cellulare squillò.
Mi voltai di scatto verso il tavolo, sul quale era poggiato il telefono e sperai fosse lei. Quando lessi il nome scossi il capo e sorrisi. Sbagliato.
«Ragazzina.» dissi dirigendomi in camera.
«Ehi, Bob. Ascolta, potresti portare del vino?»
«Okay. Sì, non preoccuparti sto benissimo. Anche  tu? Oh, beh, mi fa piacere.» dissi aprendo il cassetto della biancheria.
«Ti hanno mai detto che fa male bere durante il pomeriggio, signor Pattinson?»
«No, credo di no. Bianco o rosso?»
«Bianco.»
«Okay.»
«A dopo, Bob. Non fare tardi!» esclamò e l’immaginai sorridere.
«Se il traffico me lo permetterà.»
«Divertente.», e riappese.
Scossi il capo ridacchiando e, poggiato il telefono sul tavolo, mi diressi in camera. Indossai un paio di jeans ed una maglia grigia a manica corta, afferrai le chiavi della macchina e la giacca in pelle poggiata sulla sedia all’ingresso ed uscii di casa, ignaro della serata che mi si prospettava davanti.


Bussai ripetutamente alla porta di legno scuro, dondolando sui talloni, fino a che, Rachel, non aprì la porta dopo diverse imprecazioni.
«Ti reputo responsabile del mio scontro con il divano.» disse spostandosi per farmi entrare.
«Ciao, anche a te, ragazzina.» dissi entrando e fermandomi dinanzi a lei, che si spostò appena per chiudere la porta. Quando si mise dritta, notai che la distanza fra noi non era molta, con un passo avrei potuto eliminarla del tutto.
«Ciao, Bobby.» disse sorridendo.
La fioca luce proveniente dalla cucina si rifletté nei suoi occhi turchese e la sua pelle sembrava aver la stessa consistenza della seta. Aveva alcune ciocche di capelli raccolte dietro la testa, così da scoprirle parte del viso, altre ricadevano in grandi onde sulle spalle esili. Fu strano, ma la trovai bellissima.
Sorrisi. «Mi spieghi come hai fatto?»
«E’ semplice Pattinson: afferri la maniglia e tiri la porta.»
Scossi il capo. «Bella questa. No, idiota, lo scontro col divano.»
Fece spallucce. «Sono inciampata mentre correvo. Non chiedermi come ho fatto perché non ne ho idea.» disse prima di voltarsi e dirigersi in cucina dalla quale proveniva un odore di verdure grigliate. Solo allora mi resi conto che indossava un grembiule con sopra disegnati dei biscotti, che le copriva parte della canotta color della notte e pantaloni scuri.
«Tenuta da lavoro?» chiesi indicandola ed entrando nella cucina. Mi bloccai di colpo e sgranai gli occhi.
«Cosa c’è?» chiese corrugando la fronte.
«La tua cucina è… rossa e gialla.» dissi scioccato.
«Due dei miei colori preferiti.» disse sorridendo. «Lo so, è un po’ eccentrica. Tutta la casa lo è. C’è colore ovunque.» disse avvicinandosi al piano della cucina e tagliando delle zucchine.
Sorrisi e mi tolsi la giacca poggiandola su una sedia.
«Il vino?» chiesi mostrandole la bottiglia.
«Poggialo sul tavolo.» disse indicandomi col coltello.
«Ehm… Rachel, ti sarei grato se facessi attenzione con quella lama.» dissi avvicinandomi con cautela.
«Hai paura?» disse in un risolino.
«Molta.»
«Femminuccia.» sospirò ritornando al lavoro.
«Decisamente cortese.»
«Perché invece di ciarlare inutilmente non mi dai una mano?» chiese. «Nel secondo cassetto accanto al frigo ci sono le posate, prendi un coltello.» disse guardandomi e sorridendo con dolcezza.
Abbozzai un sorriso ed aprii il cassetto prendendo un coltello, aiutandole poi ad affettare dei pomodori.
«E così vivi sola.» dissi voltandomi appena verso lei, che invece non distolse lo sguardo dalle verdure.
«Sì.» rispose impassibile, poi dopo alcuni istanti, poggiò le mani sul piano della cucina. Si voltò verso me, alzando il capo per potermi guardare negli occhi, rivelandomi il cielo turchese dei suoi. «Ti rendi conto di quanto sia sciocca la tua domanda?» chiese alzando le sopracciglia.
Mi morsi il labbro inferiore, reprimendo un sorriso. «Effettivamente.»
Rachel scosse il capo prima di chinarsi ed aprire l’anta di un pensile della cucina. Ne estrasse una padella prima di scattare diritta.
«Ecco.» disse sorridente.
Sorrisi di rimando e, prima di tornare a tagliare i pomodori, l’osservai versare verdure a cubetti nella padella e posarla sui fornelli.
«Invece di osservarmi inebetito, perché non continui a tagliare a fette i pomodori?» chiese accendendo il gas.
Sbattei più volte le palpebre udendo le sue parole e, scuotendo il capo, risi. «Perdonami, ragazzina. Non credevo fossi così… agile in cucina.» ironizzai cercando di nascondere l’improvviso, irrazionale, imbarazzo.
Lei si voltò corrugando le sopracciglia. «Certo, come no. Ti va una birra, star
«Con molto piacere.» risposi finendo di tagliare l’ultimo pomodoro.
Rachel si voltò e, quasi saltellando si diresse verso il frigo bianco ricoperto di calamite, aprendone l’anta.
«Collezione?» chiesi prima di dirigermi verso il lavabo e sciacquarmi le mani.
«Sì. Provengono da ogni parte dell’America e del mondo… più o meno.», afferrò le birre e le poggiò sul piano della cucina, cercando in un cassetto il cavatappi.
Mi asciugai le mani con una salvietta appesa accanto al lavandino e mi diressi verso il frigo per osservarle. Era un’esplosione di colori, di forme, di riproduzioni. Avvicinai il viso ignorando Rachel che stappava le bottiglie ed osservai le calamite. Osservai in particolare la riproduzione di una salice, dannatamente reale.
«Tieni.» mormorò Rachel passandomi la bottiglia. Mi voltai verso lei per afferrarla. Solo allora mi accorsi che guardava la stessa calamita con un sorriso a colorarle il sottile viso.
«Me la regalò la nonna.», chinò appena lo sguardo fissandosi la punta della scarpe. «Da bambina Pocahontas era il mio film d’animazione preferito, e lo è tutt’ora. Consideravo  nonna Sally, come… nonna Salice, e io la chiamavo così. Insomma, la classica nonna che sa darti buoni consigli, che parla con citazioni, saggia, che ti induce a fare la cosa giusta, anche ti sembra la più sbagliata.» bevve un sorso di birra, prima di alzare gli occhi sul mio viso. «E’ la mia preferita.»
«Cos’è l’è successo?» mormorai. Per alcuni istanti i sui occhi limpidi, d’un tratto fattisi impenetrabili e simili ad uragano, solcarono i miei, in cerca forse di conferme di un qualcosa a me sconosciuto. Poi si voltò e si diresse verso i fornelli, girando le verdure con un mestolo di legno.
Quando parlò la sua voce era seria, quasi sembrava non appartenerle. Alle mie orecchie apparve d’un tratto la donna che in realtà era. «Cancro allo stomaco. E’ morta l’anno scorso.»
«Mi dispiace.» mormorai con sincerità. Mi avvicinai ai fornelli, affiancandola.
«Oh, beh, prima o poi tocca a tutti, no?» disse e quando si voltò nei suoi occhi guizzarono sofferenza e dolore, che inutilmente cerco di nascondere con un amabile sorriso.  Bevve un sorso di birra. «Allora? Ti va di fare un giro della casa?»


«E questa era la mia camera.» disse uscendo dalla stanza e soffermandosi in corridoio. «Lo so, è un’umile dimora, ma per una persona è perfetta. Per me, è perfetta. Ci entrano tutte le mie cose e se mia madre viene a trovarmi dorme sul divano.» disse sorridendo.
Feci un risolino. «E’ davvero bella. Come ho già detto: un’esplosione di colori.»
Lei dondolò sui talloni, scostandosi una ciocca di capelli dal viso. «C’è ancora una stanza da vedere: il seminterrato.»
Inclinai il capo di lato. «E cosa c’è, lì? Scheletri e cadaveri?»
«Ah-ah. No.», roteò gli occhi e, percorrendo il corridoio fino al piccolo soggiorno, dove vi  era un divano a tre posti rosso, ed una poltrona blu, davanti ad un televisore ed un tavolino orientale, aprii una porta che quasi si confondeva col muro… giallo. Al buio scendemmo una piccola rampa di scala, fino a che Rachel non accese una luce.
«Voilà.» disse aprendo le braccia. In fondo alla stanza, vicino al parete, vi era una batteria. Mi guardai intorno notando le mura color della crema.
«Camera insonorizzata?» chiesi stupefatto.
Lei annuì e si poggio allo stipite della porta, incrociando le braccia al petto. «Dai entra.» disse con un cenno del capo.
Sorrisi ed entrai. Quando le passai accanto il suo profumo mi colpì ancora con delicatezza.
«Suoni la batteria?» chiesi guardando lo strumento, ma notando subito un basso. «Ed il basso?»
«Sì… più o meno. Suono la batteria e chitarra da quando avevo dieci anni. Ed ora sto cercando d’imparare il basso. Nella band sono solo voce e chitarra ritmica –delle volte.» disse mentre sfiorar avo le corde del vecchio Fender.
«Waw.» dissi voltandomi a guardarla e solo allora mi resi conto che si era avvicinata, distanziando a de appena cinquanta centimetri.
«Oh, beh, è il vecchio, e quasi defunto, basso di Nick, il bassista della band. Non a caso da sempre problemi.» aggiunse in un risolino.
«Potrei sentirti suonare?» chiesi senza distogliere il mio sguardo dal suo.
Rachel arricciò le labbra in una smorfia.
«Dai, ragazzina.» dissi dandole un leggero spintone.
«Okay,» sbuffò,«Bob
Camminando, evitando accuratamente i diversi cavi, giunse alla batteria, per poi prendere posto. Con la testa mi fece cenno di chiudere la porta, così scattai eseguendo i muti ordini.
Mi voltai, guardandola. Sembrava ancor più piccola dietro i tamburi, ed il suo viso quasi era dissonante con l’imponente strumento. Imbronciata lei mi guardò e alla luce del neon i suoi occhi erano quasi celeste. Le feci cenno di iniziare mentre mi sedevo sulla moquette blu, con un gomito poggiato su una gamba piegata. Per un attimo i suo occhi parvero perdersi nei miei, come se stesse perdendosi in infinite congetture, in personali pensieri a me ignoti. Poi sbatté ripetutamente le palpebre come per riprendersi da quegli attimi di amnesia e prese in mano le bacchette.
Sorrisi di quella stramba ragazza.
«Pronto per l’inferno?» chiese alzando ritmicamente le sopracciglia.
Risi. «Assolutamente sì.»
«Maledetto.» ringhiò.
«Dai, ragazzina, non casca di certo il mondo!»
«Okay, okay!» esclamò lei alzando le mani, come in segno di difesa. Chiuse gli occhi e quando gli aprì batte con violenza sui tamburi. Con lo sguardo fisso sulla batteria cominciò a muovere energicamente le braccia e non potei non chiedermi dove trovasse tutta quella forza, tutta quella energia. Un susseguirsi di apparenti rumori, creatori di un straordinario ritmo, inondarono la stanza. I capelli ondeggiavano ad ogni suo movimento finendole davanti al viso. Con il viso rivolto verso destra batteva con violenza le bacchette sui tamburi sinistri, e poi il charleston, e ancora la gran cassa. L’energia che il suo fragile corpo conteneva sembrava sprizzarle da ogni poro. Con occhi sgranati l’osservavo muoversi con agilità, quasi saltare sullo sgabello. Poi il ritmo si fece sempre più debole, fino a cessare.
Fui sorpreso dalla sua bravura, dalla passione che ella ci metteva nel muovere le braccia, nel creare ritmi e nel perdersi in ciò che faceva. Apparve in quel momento la ragazza ribelle che per molti era, quella che infrange le regole, sicura di se stessa e mi chiesi se fossi solo io, invece, a riconoscere in lei dolcezza e semplicità. Mi chiesi come apparisse Rachel agli occhi del pubblico o degli altri che avevano avuto modo di conoscerla. Dolce e simpatica come si presentava ai miei occhi, o ribelle e forte come appariva in quel momento, dietro il grande strumento?
«Allora? E’ abbastanza per una ragazzina?» chiese e un lampo di malizia le attraversò gli occhi chiari.
Alzai le sopracciglia. «Mi hai sorpreso, Rachel.» dissi sincero.
«Come tutti.» disse alzandosi e posando le bacchette su un tamburo.
Mi alzai e lei mi venne incontro, le labbra appena dischiuse per permetterle di respirare con la bocca.
«Quanta modestia.» la canzonai.
«Senti chi parla.» disse passandosi una mano fra i capelli, scoprendo la fronte dalla scura frangetta, rivelandomi il suo viso sottile, per intero.
Risi. «Sul serio, Rachel, sei stata… divina. Credo tu abbia talento.»
«Grazie, Bob.» disse lei sorridendo, indugiando con lo sguardo nel mio.
Scrollai le spalle. «Solo verità.»
«Dai, genio, andiamo a mangiare. Muoio di fame.» disse poi raggiante, prendendomi sottobraccio.
«Sai, mia cara, Rachel, dovrei venire più stesso da te.»
«Certamente per il piacere della mia compagnia, no?» chiese in un risolino.
«Certo!» esclamai cominciando a salire la scale, il suo braccio ancora intrecciato al mio.
«Meno male. Io credevo per via della mia camera insonorizzata.»
«Ma cosa ti passa per la mente. Ovvio che è per le came-… per il piacere della tua compagnia.» mi corressi scuotendo il capo e facendola ridere.
«Idiota.» disse dandomi un leggero spintone e facendomi scontrare con lo stipite della porta.
«Ahi, mi sono fatto male.»
Lei si voltò e alzò le sopracciglia. «Povero Bobby, su, tanto passa.» disse sorridendomi e carezzandomi la spalla dolorante.
«Malefica.» mormorai.
Rachel fece spallucce. «Nah.»
Poi si voltò dirigendosi in cucina. E non potei non pensare che Rachel era l’amica mai avuta.

 

*

Eccomi qui… ancora.
Allora, chiedo umilmente perdono se non posso ringraziare a modo coloro che hanno recensito, ma, davvero, oggi sono incasinatissima… e questa settimana non si prospetta di certo migliore –stupido quinto anno.
Ad ogni modo, ci tengo tantissimo a regalare un piccolo spazio agli angeli che, gentilissimamente hanno recensito lo scorso capitolo.
Grazie, Xx_scrittrice_xX,
Nessie93,
ginevrapotter,
PiccolaKetty,
KeLsey,
Railen,
Ryry_.
Grazie, gradi di cuore.

E grazia soprattutto a te, mia galattica uditrice.
E ricorda che per qualunque cosa  io ci sono.
Ti voglio bene.

A voi, un bacio,
                      Panda.

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Capitolo 11
*** Capitolo dieci: amici. ***


 

 

You could be my unintended
Choice to live my life extended
You could be the one I'll always love
You could be the one who listens to
my deepest inquisitions
You could be the one I'll always love
I'll be there as soon as I can
But I'm busy mending broken pieces
of the life I had before.
Muse, unintended.

 

 

Capitolo dieci

Amici

 

«Di cosa sono ripiene?»
«Miglio, Bob, miglio. Sarà la terza volta che te lo ripeto.» disse roteando gli occhi e portandosi in bocca un altro pezzo di zucchina.
«No, perché,» cercai di dire ingoiando, «sono molto più buone di quanto pensassi.» annuii.
Lei rise, incrociando le gambe sulla sedia di plastica trasparente ed afferrando il bicchiere di vino.
«Te l’avevo detto. Sono un capo in cucina.» disse soddisfatta di sé.
Sorrisi e feci spallucce. «Probabile.»
Lei roteò gli occhi, sospirando. «La mia insalata di verdure miste tiepide, mi pare tu ne abbia mangiato due porzioni.» osservò.
«Oh, beh… ma, insomma… perché è leggera come pietanza e per saziarmi ho bisogno di quantità maggiori.» dissi agitando la forchetta in aria.
Rise. «Certo, certo.»
«No, seriamente. Ancora esterrefatto dalla mille ed ignote qualità di Rachel Stevens.» sorrisi guardandola in volto, prima di fissare le zucchine nel piatto.
«Me la cavo.» ripose portandosi ancora la forchetta alle labbra.
«Okay, te la cavi.» dissi scuotendo il capo e poggiandomi allo schienale della sedia.
«No, non è sicuramente il bianco.» disse d’un tratto guardandomi. Alzai lo sguardo, bassi sul piatto, puntando i miei occhi nei suoi.
«Scusa?» chiesi confuso.
«Non è il bianco. Ne sono certa.» annuì alle sue stessa parole.
«Dovrei sapere di cosa stai parlando?» chiesi ancora confuso.
«Il tuo colore preferito. Non è il bianco.»
Arricciai le labbra. «Come fai a saperlo?» chiesi inclinando il capo.
«Beh… il bianco, per me, rispecchia limpidezza, estrema tranquillità… e un po’ di monotonia. E tu  non sei così.» si spiegò facendo spallucce.
«E quindi quale sarebbe?» chiesi poggiandomi con le braccia sul tavolo di legno chiaro.
«Ancora non lo so. Vado per esclusione.» rispose poggiandosi allo schienale della sedia ad affondando il viso nel bicchiere.
«Allora attenderò, da bravo ragazzo.» 
«Ciò vuol dire che non è il bianco.»
«Già.»
«Ti spiace se metto un po’ di musica?»
«No, fa pure.» dissi annuendo e prendendo il bicchiere per bere.
Rachel lasciò il suo e scattò in piedi, correndo in soggiorno.
«Vuoi decidere tu, o decido io?» urlò, ed in sottofondo sentii il rumore delle custodie dei cd.
«Tu!» risposi voltandomi verso la porta della cucina, come per permetterle di sentirmi meglio.
«Okay!»
Pochi attimi e il cd partì. Riconobbi subito le prime note. Sgranai gli occhi. In quell’esatto momento Rachel tornò in cucina sedendosi sulla sedia.
«Aerosmith?» chiesi alzando le sopracciglia.
«Hai detto che potevo decidere io. Vuoi che… che cambi?» chiese corrugando la fronte.
«Oh, no, no. Va benissimo. Credevo fossi più il tipo da pop rock.»
«Uhm… no. Sono cresciuta con i Rolling Stones, ricordi?»
Risi e scossi il capo. «Ti prendo in giro, ragazzina
«Oh.» mormorò portandosi il polpastrello dell’indice sulle labbra. «Beh,» disse poi agitando le mano in aria, «l’avevo capito.»
Repressi una risata mordendomi il labbro inferiore. «Certo, non avevo dubbi al riguardo.»
Per alcuni istanti rimanemmo l’uno negli occhi dell’altra ed ero sicuro volesse ridere anche lei. Istante dopo le nostre risate inondarono la stanza confondendosi con le note  di Falling in Love.


«Tieni.»  alzai lo sguardo e  afferrai il grande bicchiere di vetro, contenente mousse al cioccolato.
«Grazie.» dissi sorridendole ed affondando il cucchiaino nel cioccolato.
Rachel si sedette accanto a me, sul divano color del fuoco. «Prego.» disse poi sfilandosi le scarpe direttamente dal tallone ed incrociando le gambe.
«Le tue calze con le nuvole sono… meravigliose.» osservai assaggiando la mousse. «E questa,» dissi indicando con il cucchiaino il bicchiere, «è… paradisiaca.» dissi chiudendo gli occhi e godendomi il buonissimo e meraviglioso sapore del cioccolato.
Lei rise. «Sono contenta ti piaccia. E’ la cosa che mi riesce meglio in assoluto.»
Poggiai la testa allo schienale del divano. «Sì.» mormorai gustandone ancora il sapore sulle lingua.
«E piantala!» esclamò in un risolino Rachel dandomi un leggero spintone sulla spalla.
Aprii gli occhi e mi voltai verso lei, sorridendole. «Okay, okay.»
«Quando era piccola nonna Salice me la faceva sempre, ogni sabato, quando andava a dormire da lei. Poi mi ha insegnato a farla. E non è difficile, anzi è piuttosto semplice.» disse portandosi il cucchiaino alle labbra e fissando il cuscino del divano. Con la schiena era poggiata al guanciale.
«Ti manca.»
«Non è una domanda.»
«Lo so.»
«Non vorrai metterti a fare lo psicologo con me.» disse e la sua voce era fredda. Alzò lo sguardo sul mio viso e i suoi occhi s’illuminarono quasi di… rammarico misto a rabbia, come un lampo nel cielo notturno in tempesta.
«No, non lo farei mai.» dissi con fare dolce, un angolo della bocca rivoltò verso l’alto.
«Bene.» disse annuendo piano, abbassando ancora lo sguardo e, in quel momento, apparve una bambina, dolce ed indifesa, desiderosa di calore umano. «Comunque, sì, mi manca. Terribilmente.» mormorò.
Provai l’irresistibile impulso di stringerla a me, e sussurrarle che lei era comunque lì. 
«Odio parlarne, sai?» disse guardandomi in volto. «Tutti ti guardano con compassione, della serie “che pena”. E’ irritante.» ammise portandosi una ciocca di capelli dietro un orecchio.
Rimasi lì, immobile, con sguardo indecifrabile, e guardarla, ad osservare un altro lato di Rachel Stevens, quello fragile come cristallo.
Non avevo ben idea di cosa fare, cosa dire. Così, mormorai ciò che mi passò per la testa, in quello stesso istante. «Sai, Rachel… a volte la gente ha solo paura di aggravare la situazione e cerca di dire cose che ritengano facciano piacere, ma in realtà, non fanno che aggravare le cose, accorgendosene solo in un secondo momento. Certe cose sono le uniche da poter dire, in certe occasioni.»
«Forse.» sussurrò. «Questa non l’avevo ancora sentita. Sei un pozzo di saggezza.» cercò di ironizzare abbozzando un sorriso.
Sorrisi e le presi una ciocca di capelli neri come la pece, giocandoci un istante, per poi lasciarla andare oltre la sua spalla. «Sorrideresti per me, ragazzina?» chiesi, ed istintivamente le sue labbra si aprirono in un sorriso.
«Grazie.» disse. «Qualcuno che mi abbia parlato… con… con… maturità.» disse annuendo.
Mi passai una mano su un sopracciglio, indugiando poi sulla mandibola.
«Robert?» disse. La guardai, sorpreso. Non mi chiamava così dal primo incontro agli studi. La sua voce era titubante ed armoniosa, morbida come il miele. «Posso abbracciarti?» chiese e gli angoli della sua bocca si sollevarono verso gli occhi, giungendo agli occhi turchesi.
Di rimando sorrisi, intenerito. Scossi il capo e feci un risolino.
«Oh, certo che puoi, sciocca ragazzina!» dissi allargando le braccia e stringendola con delicatezza al mio petto.
Rachel vi si accoccolò contro e sentii la sua guancia premere sulla mia maglietta leggere.
Respirò a fondo ed alzò lo sguardo, cercando il mio. «Amico Bobby. Suona bene, no?»
«Sì, direi di sì, amica Rachel.»
«E’ strano… però, è come se ti conoscessi da sempre. Cioè, so che può sembrare una frase scontata ed idiota, ma mi rendo conto che è vera, è reale. Delle volte succede. Non prendermi per pazza.» ridacchiò.
«Sai, Rachel… credo tu abbia ragione. Delle volte… è reale. E sei pazza tu, beh, allora lo sono anch’io.»

 

Mi portai la sigaretta alle labbra, aspirai il fumo, ed osservai il fumo che in spirali si alzava nell’aria calda della stanza.
L’orologio segnava l’una di notte, ed io ero ancora a casa di Rachel. Seduto sulla poltrona blu, la gambe sul guanciale e la schiena poggiata allo schienale, buttai indietro la testa lasciandomi cullare dalle note dei Pink Floyd.
«Questa musica… ti fa entrare in trans.» osservai portandomi ancora la sigaretta alle labbra. Con lo sguardo, senza spostarmi di un centimetro guardai Rachel. Le gambe erano poggiate allo schienale, ricadendo oltre esse, mentre la testa penzolava dai grandi cuscini, i capelli ricadevano sulle tavole di legno del pavimento.
Alzai un sopracciglio e lei mi guardò. «Dici?» chiese con aria innocente.
Risi sommessamente. «Sì.»
«Ti fa sentire leggero. Come se… come se… fossi sotto effetto di cannabis, non credi?»
«Sì.»
«Devo farlo più spesso, è rilassante, sai? Solo che, col sangue che fluisce alla testa, conversare è un po’ difficile.» osservò agitandosi le mani davanti agli occhi. 
Risi, aspirando ancora del fumo. «Forse dovresti alzarti, Rachel.»
«Sì, credo lo farò.» disse senza però spostarsi, guardandomi.
«Allora?»
«Stavo notando che al contrario sembri bello.» disse corrugando la fronte e cercando di inclinare il capo, con grande insuccesso.
«Ehi, io sono bello.» dissi alzando il capo.
«Okay, devo alzarmi.» mormorò sbattendo ripetutamente la palpebre e mettendosi a sedere sul divano.
«Io sono bello.» mi difesi. «Secondo molti l’uomo più sexy sul pianeta.» la stuzzicai.
«Certo… “uomo”… “più bello”… “del pianeta”. Credici finché puoi.» disse stendendosi sul divano, con la testa rivolta verso la mie gambe.
«Tanto lo so che lo pensi anche tu.»
Inclinò il capo leggermente all’indietro, guardandomi. «Cosa te lo fa pensare?»
Feci spallucce. «Sesto senso.», e spensi l’ormai finita sigaretta nel posacenere sul tavolino.
«Ed un terzo occhio sul mento.»
Risi e scossi il capo. «Scema.» e poggiai il polpaccio sulla sua testa.
«Ehm… Bob?» disse lui intrecciando le mani sul ventre ed incrociando i piedi.
«Dimmi.»
«Ti spiace togliere questa zampaccia dalla mia fronte?»
«Non lo so. Questa posizione è dannatamente comoda. Non trovi?»
«No, non trovo.» disse afferrando la mia gamba e lasciandola cadere oltre la sua testa. Poi incrociò le dita sul ventre piatto, fasciato da una canotta nera.
Sghignazzai e alzai nuovamente la gamba poggiandola ancora sulla sua fronte.
«Quale parte del “no” non ti è chiara, Bob?», e con forza spostò la mia gamba.
Risi.  «Sei uno spasso.» dissi scompigliandole i capelli.
«Oh, grazie. Questo sì, che è un complimento.» disse
«Non c’è di che.»
«Nonnino?»
«Dimmi, ragazzina.»
«Ti va una birra?»
«Perché no.»
«Bene, arrivo.» disse e scattò giù dal divano con agilità, prima di saltare oltre le mie gambe e camminare a passo svelgo verso la cucina.
Chiusi un attimo gli occhi cercando di distinguere i rumori provenienti dalla cucina, sovrastati dallo stereo.
Dopo pochi secondi la sua voce irruppe nel silenzio della mia testa, tanto vicina ed inaspettata da farmi sobbalzare.
«Uh, ti ho spaventato?» chiese sbattendo le palpebre con fare civettuolo e porgendomi la bottiglia.
«Nah, sono un uomo io.» dissi bevendone un sorso.
Rachel mi guardò, alzando le sopracciglia e mordendosi il labbro inferiore. «Ah, sì.» annuì poi. «Uomo sexy. Scusa, dimenticavo. Chissà dove ho la testa oggi.» mormorò, ma sembrava parlasse più con se stessa che con me.
«Probabilmente con le mucche assassine.»
Rise e mi lanciò un cuscino, prendendomi in pieno viso. «Tu sei il vero assassino.»
«Idiota.» ridacchiai lanciandole il cuscino, che afferrò con una mano, poggiandolo sul divano.
«Esci mai, Bob?»
«La smetteresti di chiamarmi, Bob?»
Rachel alzò un sopracciglio. «E come vorresti ti chiamassi?»
«Non so… Rob?» chiesi bevendo un sorso di birra.
«Nah, troppo comune.»
«Robert?»
«Troppo serio.»
Sbuffai. «Okay, ci rinuncio.»
Rachel represso un gridolino di vittoria. La fulminai con lo sguardo e lei tossi annuendo col capo prima di portarsi la bottiglia alle labbra.
«Dicevo prima che mi interrompessi, Bob… esci?»
«No… cioè, sì. Non spesso.»
«Perché?» chiese inclinando il capo verso per guardarmi meglio. I capelli le finirono danti la spalla, quasi accarezzandogliela.
«Non lo so, in verità.»
«Quanti anni hai detto di avere?»
«Ventitré.»
«Dovresti darti alla vita notturna, amico.» disse bevendo ancora.
«E’ ciò che dicono.» ammisi con un cenno del capo.
Rachel si portò una mano sul mento, accarezzandoselo appena, prima di fissare con aria concentrata il pavimento. «Bene, domani verrai con me.»
Sgranai gli occhi. «Cosa? Dove?»
Fece spallucce. «In nessun posto.»
«In nessun posto?» chiesi alzando un sopracciglio.
«Beh… in giro, non so bene dove. Domani esco con i ragazzi della band. E verrai anche tu.» disse portandosi le ginocchia al petto.
«Non credo sia il caso.»
«Dai, Bob, ti farà bene. Ci divertiremo.» m’implorò lei gattonando sul divano ed avvicina dosi a me. Sbatté più volte le palpebre, sporgendo il labbro inferiore.
Istintivamente feci un risolino. «Okay, d’accordo.»
«Ti passo a prendere io per le dieci.» disse sedendosi a gambe incrociate.
«Okay.» sospirai.
Per alcuni istanti i suoi occhi indugiarono nei miei e, alla fioca luce dalla lunga lampada di cartone poggiata accanto al divano, la sue pelle parve essere della stessa consistenza della seta, priva di qualsiasi imperfezione. Ed in fondo, lo era.
Sorrisi fra me.
«Che c’è?» chiese lei quasi avvampando di rossore, portandosi una ciocca di capelli dietro un orecchio.
«Non lo so.» mormorai. Poi scostai lo sguardo sull’orologio e feci una smorfia.
«Devi andare?», e nella sua voce potei quasi udire delusione.
«Credo di sì.» dissi alzandomi e dirigendomi in cucina, seguito da lei. Poggiai la bottiglia accanto al lavabo, che l’ora precedente avevamo ben pulito, ed afferrai la giacca dalla sedia.
«E’ stata una bella serata, Rachel.» dissi sorridendole. Lei alzo lo sguardo sul mio viso ed annuì col capo.
«Sì, sono stata bene.» rispose incrociando le braccia al petto e dondolando sui talloni.
«Allora ci vediamo domani.» disse dirigendomi verso al porta d’ingresso.
«Certo. E ricordati della serata.»
«Lo farò.»
«Bene.»
Afferrai la maniglia, ma prima di aprire la porta, mi voltai verso Rachel. I suoi occhi turchesi erano impetrabili, avrei voluto leggervi qualcosa, ma non ci riuscii.
«Grazie.» mormorai.
«Grazie.» rispose lei reggendo il mio sguardo. Poi piano si avvicinò, con strema lentezza ed alzandosi in punta di piedi si avvicinò al mio viso, baciandomi una guancia.
«’notte, amico mio.» mormorò prima di allontanarsi.
«’notte, ragazzina.»
Uscii, chiudendomi la porta alle spalle, felice di aver trovato qualcuno che mi facesse sentire… me.

 

*

Purtroppo non posso ringraziare a modo. E’ tardi e domani mattina presto ho un treno… ed io sono ancora qui.
Un grazie speciale e chi ha recensito lo scorso capitolo: Nessie93, Piccola Ketty, ginevrapotter, Ryry_ e KeLsey.

E grazie a te, Ely.

E grazia a te, Kate.

 

A voi, un bacio,
                       Panda.

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Capitolo 12
*** Capitolo undici: giornata no. ***


 

 

 

 

 

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Capitolo undici

Giornata no

 

 

Quando rientrai in casa mi sentivo… vivo, nonostante la stanchezza. Non seppi descrivere altrimenti il mio stato emozionale. Mi sentivo vivo. Tutto, in casa, mi metteva una strana allegria, il che, dovetti ammettere, era piuttosto inquietante.
Mi sfilai la giacca e, con l’ombra di un sorriso a colorarmi il viso, mi diressi in cucina per un po’ d’acqua.
La risata di Rachel non faceva che echeggiarmi nella mente.
Scossi la testa al ricordo della serata passata con lei, delle battute, parole celate dietro profondi sguardi e sorrisi donatomi gratuitamente, come quelli dei bambini. Non c’erano perché, o ma, doppi fini. Sorrideva, e basta.
Aprii il frigorifero ed estrassi una bottiglia, portandomela alle labbra bevvi due grandi sorsate. In quel momento, con la coda dell’occhio vidi la luce della segreteria lampeggiare. Corrugai la fronte e pigiai il pulsante.
«Ehi, Rob. Mi spiace, ritorno rimandato. Mi fermerò una settimana in più. Richiamami
Nel giro di pochi istanti sentii l’irritazione montare e, stranamente spegnersi all’istante.
Scossi il capo e l’unica cosa che borbottai fu: «Va al diavolo, Kris.»

 

L’indomani mi svegliai alle cinque del mattino. Avevo sonno, terribilmente sonno. Tutta colpa di Rachel… tutta colpa mia, ne ero al corrente. Fare le ore piccole certamente non giovava.
Aveva accettato l’invito a cena di Rachel. Avevo mangiato vegetariano, fumato ascoltando i Pink Floyd e mangiato cioccolato. Avevo riso con lei, avevo giocato e scherzato con lei… l’avevo sentita e vista suonare… al ricordo, sorrisi. E quella sera sarei andato a bere qualcosa con lei e i suoi amici. Grugnai. Quanto avrei dormito?
Sospirai e scesi dal letto. Azionai la caffettiera e mentre aspettavo che il caffè fosse pronto –il bello delle macchinette automatiche- mi andai a fare una doccia calda. L’acqua parve svegliarmi in parte, ma il mio risveglio, quello definitivo, sarebbe avvenuto a caffè ingerito. Così infatti fu.
Una volta indossata una camicia a quadri ed un paio di vecchi jeans scoloriti, m’infilai il berretto e la giacca, uscii di casa e la luce del sole parve colpirmi in pieno viso, come se mi stesse crudelmente schiaffeggiando. M’infilai gli occhiali e le cose migliorarono. In certi momenti, sì, mi mancava terribilmente l’Oregon. Scesi le scale, saltellando e canticchiando. Quando fui davanti l’auto, che avevo noleggiato qualche girono prima, mi tastai le tasche in cerca delle chiavi… ma non c’erano.
Sbuffai ed alzai il capo verso il cielo. Non era possibile, così, mentre risalivo il vialetto, mi tastai ancora le tasche in cerca della chiavi di casa … ma non trovai nemmeno quelle.
Sbuffai, imprecai d’irritazione mentre sbattevo un piede per terra, come fanno i bambini per ottenere qualcosa.
«Idiota, idiota, idiota!» esclamai alzando le braccia al cielo. Mi voltai verso la strada e mi bloccai. Sul marciapiede una signora sui quarant’anni ed un bambino di circa quattro anni mi fissavano con occhi sgranati, sconvolti.
M’accigliai, guardandomi intorno e poi sorrisi imbarazzato, grattandomi la nuca. «Oh… ehm… buongiorno.» dissi facendo spallucce.
La donna non rispose e trascinandosi il figlio impaurito si allontanò quasi correndo.
«Ehi, non sono uno squilibrato!» esclamai verso la signora che si allontanava in fretta.
Scossi il capo e mi passai una mano sul viso?
Fantastico, meraviglioso, pensai.
Afferrai il cellulare e chiamai un taxi. La giornata, certamente, cominciava nel migliore dei modi.


Quando arrivai al lavoro ero irritato, tremendamente irritato.
Seduto su una poltroncina in pelle nera, in attesa che uno dei musicisti arrivasse, mi presi il capo fra le mani e chiusi gli occhi.
La testa cominciava a dolermi. Non avevo richiamato Kristen. Nei gironi precedenti non avrei attesi un secondo di più, avrei colto l’occasione per sentirla, ma in quel memento, nervoso ed adirato con me stesso per la colossale disattenzione che avevo mostrato quel primo mattino, non ne avevo voglia. Esatto, non ne avevo voglia. Non avevo voglia di ascoltare le solite scuse, i soliti motivi per quel maledetto ritardo.
Sospirai e mi poggiai allo schienale della poltrona, quando aprii gli occhi sobbalzai. Immobile, dinanzi a me, con le mani inerti lungo i fianchi, Rachel mi fissava con sguardo indecifrabile. I lunghi capelli neri le incorniciavano il viso, avvolgendole le spalle. Indossava una felpa sopra una  t-shirt e jeans chiari, la borsa a tracolla le scendeva su un fianco.
Inclinò il capo e corrugò la fronte.
«Che brutta cera hai, Bob.»
La fissai, senza proferire parola. Lei sospirò e roteò gli occhi, poi batté il ginocchio contro la mia coscia, aspettandosi che mi spostassi… ma ciò non accadde. Con sguardo serio continuai a fissarla.
Sbuffò e incrociando le braccia al petto si fece spazio sulla poltrona, sedendosi nello spazio angusto, fra me e il bracciolo.
«Ahi!» esclamai spostandomi un po’, per farla sedere.
Compressi l’uno contro l’altra, sulla poltroncina, ci guardammo. Mi sentivo particolarmente “stretto”.
«Non posso muovermi. Ho le mani incastrate fra i nostri sue corpi. Le mie spalle urlano pietà.»
Lei sbatté più volte le palpebre. «Ti lamenti sempre.»
Sbuffai. «Ti lamenteresti anche tu se fossi al mio posto oggi.»
Gli occhi turchese le si illuminarono e, ancora una volta, notai quanto bella fosse. «Hai pestato un escremento di cane?» chiese sorridendo.
Sgranai gli occhi e spalancai la bocca. L’immagine del suo viso fu sostituita da quella di un cane.
«Rachel! Dio, sei disgustosa!»
Lei mi guardò con innocenza, facendo spallucce –per quanto le fosse possibile. «Non è vero!»
Grugnii e scossi capo.
«Dai, cosa ti è capitato di così terribile?» chiese sollecitandomi, muovendo ritmicamente la spalla destra.
«Smettila di fare così.»
«Perché?» rise, «Sono irritante?»
«Sì, molto.» disse fermandole la spalle con una mano.
Sbuffò. «Okay.»
«Sono venuto in taxi.» dissi dopo alcuni istanti di silenzio.
«Non avevi noleggiato un’auto?» chiese aggrottando le sopracciglia.
«Sì.»
Mi guardò con espressione interrogativa.
«Ho lasciato le chiavi in casa.» dissi mordendomi il labbro inferiore.
«E non potevi rientrare a prenderle?»
Feci una smorfia, prima di massaggiarmi la fronte. «Ho lasciato anche quelle.»
Mi voltai a guardarla. La sua espressione era imperscrutabile, mi fissava con i suoi grandi occhi turchese ed io non avevo idea cosa stesse pensando.
«Scherzi, vero?» chiese infine.
Alzai un sopracciglio. «Ti sembra che stia scherzando?»
Si morse il labbro inferiore e represse un sorriso, prima di scoppiare in una fragorosa risata. Buttò all’indietro la testa, poggiandola allo schienale e ridendo di gusto.
Mi mossi irritato. «Non ci trovo nulla da ridere, Stevens. Assolutamente nulla!» esclamai dandola una spallata.
«Oh, invece sì!» disse fra le risate.
«Oh, invece no!» esclamai facendomi in avanti col busto e liberandomi dal suo corpo compresso al mio. Mi presi il capo fra le mani e gemetti.
La mano di Rachel, piccola e affusolata, si posò sulla mia spalla, ne potei avvertire il calore. «Si risolve, Bob… non ti è crollata la casa.»
Mi voltai appena per guardarla in volto e solo allora mi resi conto di quanto fosse vicina. Si era anch’ella sporta col busto ed i suoi occhi turchese brillavano alla luce del sole che filtrava attraverso la grande vetrata, gettando luce ovunque.
«Lo so…»
Le labbra piene si distesero in un sorriso, mostrando una schiera di denti bianchi come neve. Il suo profumo di vaniglia mi colpii all’istante, come trasportato da una folata di vento improvvisa. Chiusi gli occhi, inspirando.
«Cosa c’è?» chiese lei in un sussurro. La sua mano era ancora sulla mia spalla.
«Vaniglia.»
«Cosa?»
«Profumi straordinariamente di vaniglia.» mormorai mentre un angolo delle mie labbra si sollevava involontariamente verso l’alto.
Aprii gli occhi e fui sorpreso dall’espressione sul suo volto. Gli occhi appena sgranati, le iridi scintillanti ma cupe allo stesso tempo, le labbra dischiuse tanto che il suo respirò mi colpii in pieno volto. Emise un singulto, forse voleva parlare, ma dalla sua bocca non uscì altro suono.
I suoi occhi ardenti mi scossero, mi fecero fremere come poche volte era successo.
Non seppi darmi una spiegazione.
«Robert…» mormorò con voce calda, tanto morbida da abbracciarmi.
In quel momento sentii l’irrefrenabile voglia di carezzarle il viso e stringerla a me. Ma non feci nulla di tutto ciò.
«Allora, ragazzi, pronti?» la voce di James, il compositore, mi riportò alla realtà.


«Okay, ragazzi, pausa pranzo.» esclamò James con un battito di mani.  Sospirai di sollievo, mentre Rachel accanto a me esultò agitando le braccia in aria.
«Signorina Stevens, se questa è la sua voglia di lavorare…» esordì James recuperando i suoi spartiti.
Lei spalancò gli occhi e balzò in piedi. «Oh, no, no. Non intendevo dire questo! E’ solo che ho fatto tardi questa mattina e ho mangiato solo un toast.»
«Cerchi di svegliarsi presto allora… se vuole fare questo lavoro…» continuò avviandosi alla porta.
«Oh, ma… io… non…» farfugliò lei mentre James usciva dalla stanza.
Il resto delle persone presenti nella stanza, circa cinque, uscirono lasciando me e Rachel soli.
Lei fissava ancora sbigottita la porta, gli occhi sgranati e la bocca spalancata. Io soffocai una risata. All’istante si voltò, fulminandomi con lo sguardo.
«Stai ridendo?» chiese riducendo gli occhi a due fessure.
Serrai la bocca e scossi il capo. «Non mi permetterei mai, Racky.» dissi facendo spallucce.
«Oh, al diavolo! Ma lo hai visto? Ha messo in dubbio l’amore per ciò che faccio!» sbraitò afferrando la borsa.  «Non è possibile!» ringhiò dirigendosi a lunghe falcate verso la porta, facendo oscillare i lunghi capelli color della pece.
Sorrisi accorgendomi che indossava solo la t-shirt bianca, così mi voltai verso la sedia sul quale era seduta e notai la felpa. L’afferrai e la chiamai. Rachel, oramai sulla soglia si voltò di scatto.
«Che c’è?» ringhiò.
Alzai la felpa e l’agitai in aria, sorridendo flebilmente.
L’espressione sul suo viso mutò. I muscoli contratti per la rabbia si rilassarono. Si ricompose, portandosi la tracolla della borsa sulla spalla e sistemandosi la maglietta, passandoci le mani sopra.
«Oh. Grazie.» disse con voce risoluta avvicinandosi e afferrando la felpa, ma, mentre si girava per uscire dalla stanza, l’afferrai per un braccio e la costrinsi a voltarsi.
«Cosa…» mormorò confusa. Sorridendo le scompigliai i capelli e le schioccai un bacio sulla guancia.
«Andiamo, Stevens, ti offro un pranzo vegetariano.»
Lei sospirò e scosse il capo, abbracciandomi la vita. «Cosa farei se non ci fossi tu a rallegrarmi le giornate?» disse in un risolino, alzando lo sguardo sul mio viso.
Le circondai le spalle con un braccio e feci spallucce.
«In questo momento staresti viaggiando per il più vicino ospedale psichiatrico.»


Erano le otto di sera quando la mia giornata lavorativa finì. Ero stanco, ero stremato ed avevo urgentemente bisogno di una doccia per rigenerarmi… oltre ad una pizza gigante. Dire che avevo fame era davvero poco. Mi alzai dal tavolo e riposi gli spartiti in una cartellina di carta gialla, mi alzai a mi sgranchii le gambe e sbadigliai.
«Allora ci vediamo domani, gente. Ottimo lavoro.» disse James. Sorrisi ed annuii col capo, prima di sedermi e lasciarmi andare sul tavolo, incrociando le braccia.
Un leggero mormorio inondò la stanza e piano sentii le sedie strisciare sul pavimento e la porta aprirsi e chiudersi.
Chiudendo gli occhi pensai a Kristen. Non l’avevo chiamata ed in quel momento desiderai farlo, così mi misi eretto per recuperare il cellulare dalla tasca, ma quando alzai il capo dal tavolo sobbalzai. Rachel era seduta di fronte a me, le mani giunte sul tavolo, le spalle diritte, un espressione imperscrutabile sul giovane viso.
«Dio!» esclama passandomi una mano sul viso. «Potresti fare anche un po’ di rumore quando entri.» dissi poggiandomi allo schienale della sedia e rinunciando alla telefonata. Avrei chiamato Kristen a casa, con tranquillità.
«Scusa.» disse senza cambiare espressione.
Per alcuni istanti rimanemmo in silenzio, l’uno immergendosi negli occhi dell’altro.
«Cosa c’è?» chiesi infine esasperato.
«Niente. Volevo assicurarmi che stessi bene. Sai, la serata.»
Sospirai e feci un risolino, scuotendo il capo. «Certo.»
Fu allora che ricordai di aver lasciato le chiavi dentro casa. «No!» esclamai prendendomi il viso fra le mani.
Rachel sobbalzò e si sporse verso me. «Cosa c’è?» chiese allarmata.
«Le chiavi!» sbuffai.
Lei mi guardò un momento, poi scosse il capo ridendo. «Vigili del fuoco, Bob. Chiamali ora.»
Sbuffai. «Non è possibile. Idiota, Robert, idiota!» mi dissi alzandomi in piedi e afferrando il cellulare dalla tasca. «Devo chiamare un taxi.»
«Taxi? Scherzi? Ti ci porto io!» esclamò lei balzando in piedi.
«Ci tengo alla mia vita, Rachel.» dissi cercando di reprimere un sorriso.
Lei mi fisso con sguardo indecifrabile, poi fece il giro del tavolo e si avvicinò a me. Mi guardò un’ultima volta poi mi diede uno scappellotto. «Idiota!»
«Ahi!» protestai massaggiandomi le testa.
«Te lo meriti. Ora chiama i vigili del fuoco, genio. Ti aspetto all’uscita. Ho bisogno di un brik di latte ad cioccolato.» disse seria passandosi una mano fra i lunghi capelli e voltandosi con fare teatrale.
Scossi il capo e sorrisi. Quella ragazza, sì, era una forza della natura.


«Rachel rallenta!» urlai quando lei imboccò la strada di casa a tutta velocità.
«Nah!» rispose con un ghigno prima di inchiodare davanti casa. La cintura di sicurezza parve segarmi in due il torace.
Con occhi sgranati, con la schiena che aderiva totalmente allo schienale, aggrappatomi al sedile con le mani, cercai di rallentare il mio respiro, il mio povero cuore spaventato.
«Tu sei pazza.» soffiai a corto di voce. «Sei pazza.» ripetei voltandomi a guardarla, scioccato.
Lei schioccò la lingua. «Ah, com’è divertente!» disse in un gridolino dondolando il capo.
«Sei pazza!» esclamai slacciandomi al cintura e uscendo dall’auto. M’inginocchiai sul vialetto di casa e tesi le mani verso essa. «Casa… terra!» esclamai alzando lo sguardo al cielo.
«Come sei melodrammatico.» sbuffò lei.
Mi voltai fulminandola con lo sguardo. Alzò gli occhi al cielo e, sospirando, si poggiò all’auto, incrociando le braccia al petto.
«Potevamo fare un incidente!»
«Andavo pianissimo!» disse alzando un sopracciglio.
«No, invece! Ho rischiato un infarto!» dissi alzandomi e andandole incontro.
Lei si morse l’interno della guancia, reprimendo un sorriso.
«Cosa c’è, ora?» chiesi alzando le braccia al cielo e facendola poi ricadere lungo i fianchi.
«Sei divertentissimo quando ti arrabbi. Scusa, Bob, ma non hai credibilità.» sorrise facendo spallucce.
«Oh, beh… sentiamo perché?»
Non rispose subito, rimase per attimi infiniti, immobile a guardarmi negli occhi, con espressione indecifrabile.
«I tuoi occhi parlano.» mormorò ed il suo sguardo era un misto di cielo e miele, i lineamenti del viso parevano esser scolpiti nella seta, sotto la debole luce di un lampione.
«Cosa?»
Le labbra le si distesero nuovamente in un sorriso sghembo, abbassò un attimo lo sguardo. «Ciò che esce dalle tue labbra differisce da ciò che si legge nei tuoi occhi.»
In quel momento mi chiesi chi fosse in realtà Rachel Stevens. Mi chiesi come potesse leggermi con una tale facilità, come potesse coinvolgermi nelle sue congetture, avvolgermi con le sue risate, risanarmi il cuore con parole cariche si significato, abbracciarlo con un solo sguardo. Per quale grazie divina ella mi fosse stata inviata, come a… permettermi di ritrovare quella giovinezza scemata.
Apparentemente era un ragazza normale eppure… eppure per me non lo era. Rachel non era una ragazza, era la ragazza.
Sorrisi ed allungai una mano verso il suo viso, accarezzandole una ciocca di capelli scuri, morbidi come seta.
«Ha chiamato lei per una porta bloccata?»
Ritrassi immediatamente la mano e mi voltai verso destra dove, un paio di uomini nerboruti, aspettavano una mia risposta.
«Sì. Salve, è questa qui.» risposi indicando l’abitazione alle mie spalle.
I due annuirono ed imboccarono il vialetto.
«E’ meglio che vada, ora.» disse Rachel raddrizzandosi.
Annuii col capo. «Sì.»
«Passo fra un’oretta, okay?» chiese aggirando l’auto.
«No, passo con la mia macchina questa volta.»
Sbuffò. «Idiota. Non sai muoverti come me a Los Angeles.»
Feci spallucce. «E’ il momento d’imparare, non credi?»
«Certo, certo.» rispose lei agitando una mano a mezz’aria, come a voler dar poca importanza alle mie parole.
«Non fare tardi!» esclamò prima di entrare in auto.
Sorrisi. «A dopo, Rachel.»
Il sorriso che le distese le labbra piene illuminò gli occhi che, in quel momento, parvero zaffiri al sole.

 

*

Salve, gente! Eccomi qui, dopo una lunga assenza… ma le idee scarseggiavano. D’ora in poi dovrei essere più… “presente”.
Voglio ringraziare di cuore coloro che hanno recensito l’ultimo capitolo:
Nessie93,
uley,
Ryry_,
Elly4ever.

Alle recensioni risponderò man a mano. :)

Grazie di cuore, davvero!

Mi scuso per l’affrettato saluto, ma Dickens è lì sul tavolo che mi reclama.

Un bacio, Panda.

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