Underworld - La Croix du Lac

di Lacus Clyne
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I - Un canto dal passato ***
Capitolo 3: *** II - Che sta succedendo? ***
Capitolo 4: *** III - Un nuovo incubo ***
Capitolo 5: *** IV - Il ritorno di un'antica minaccia (1 parte) ***
Capitolo 6: *** IV. 2 parte ***
Capitolo 7: *** V - La fuga (1 parte) ***
Capitolo 8: *** V. 2 parte ***
Capitolo 9: *** VI - Preparativi di partenza (1 parte) ***
Capitolo 10: *** VI. 2 parte ***
Capitolo 11: *** VI. 3 parte ***
Capitolo 12: *** VI. 4 parte ***
Capitolo 13: *** VI. 5 parte ***
Capitolo 14: *** VII - Il mondo in cui la luce non splende (1 parte) ***
Capitolo 15: *** VII. 2 parte ***
Capitolo 16: *** VII. 3 parte ***
Capitolo 17: *** VIII - Rivelazioni e promesse (1 parte) ***
Capitolo 18: *** VIII. 2 parte ***
Capitolo 19: *** VIII. 3 parte ***
Capitolo 20: *** IX - La notte della Renaissance (1 parte) ***
Capitolo 21: *** IX. 2 parte ***
Capitolo 22: *** X - Una famiglia segnata da un infausto destino (1 parte) ***
Capitolo 23: *** X. 2 parte ***
Capitolo 24: *** XI - In viaggio verso la verità (1 parte) ***
Capitolo 25: *** XI. 2 parte ***
Capitolo 26: *** XII - L'inganno (1 parte) ***
Capitolo 27: *** XII. 2 parte ***
Capitolo 28: *** XII. 3 parte ***
Capitolo 29: *** XIII - Passaggio di consegne (1 parte) ***
Capitolo 30: *** XIII. 2 parte ***
Capitolo 31: *** XIII. 3 parte ***
Capitolo 32: *** XIII. 4 parte ***
Capitolo 33: *** XIII. 5 parte ***
Capitolo 34: *** Speciale disegni :3 ***
Capitolo 35: *** XIV - Di nuovo insieme (1 parte) ***
Capitolo 36: *** XIV. 2 parte ***
Capitolo 37: *** XIV. 3 parte ***
Capitolo 38: *** XV - Dietro la maschera (1 parte) ***
Capitolo 39: *** XV. 2 parte ***
Capitolo 40: *** XV. 3 parte ***
Capitolo 41: *** XV. 4 parte ***
Capitolo 42: *** XVI - L'incontro con la Croix du Lac (1 parte) ***
Capitolo 43: *** XVI. 2 parte ***
Capitolo 44: *** XVII - Braccati nell'oscurità ***
Capitolo 45: *** XVIII - Celia (1 parte) ***
Capitolo 46: *** XVIII. 2 parte ***
Capitolo 47: *** XVIII. 3 parte ***
Capitolo 48: *** XVIII. 4 parte ***
Capitolo 49: *** XVIII. 5 parte ***
Capitolo 50: *** XVIII. 6 parte ***
Capitolo 51: *** XVIII. 7 parte ***
Capitolo 52: *** XIX - Tra le rovine dei Delacroix (1 parte) ***
Capitolo 53: *** XIX. 2 parte ***
Capitolo 54: *** XIX. 3 parte ***
Capitolo 55: *** XIX. 4 parte ***
Capitolo 56: *** XX - Il nuovo Despota (1 parte) ***
Capitolo 57: *** XX. 2 parte ***
Capitolo 58: *** XXI. L'alba del nuovo corso (1 parte) ***
Capitolo 59: *** XXI. 2 parte ***
Capitolo 60: *** XXII. Ritorno a casa (1 parte) ***
Capitolo 61: *** XXII. 2 parte ***
Capitolo 62: *** XXIII. Il ballo scolastico (1 parte) ***
Capitolo 63: *** XXIII. 2 parte ***
Capitolo 64: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Cominciò con un incubo. Un incubo tornato dalle profondità dell’anima in cui avevo cercato di relegarlo innumerevoli volte, da quando ne ho memoria. Non c’era un luogo, non c’era un tempo che riuscissi a definire, solo un susseguirsi di passi e di respiri, incalzanti, sempre più, nell’oscurità. Non ero mai riuscita a capire quante persone ci fossero, due, o forse tre, forse non erano nemmeno persone, ma erano indiscutibilmente terrorizzate, in fuga da qualcosa o da qualcuno, un nemico ignoto di cui non conoscevo l’identità. Le prime volte l’incubo non mi dava altre sensazioni che non fossero terrore assoluto e preoccupazione. E anche quella volta, non era diverso. Sentivo crescere l’ansia, sentivo qualcosa di pungente, un dolore forte al petto, tangibile tanto quanto la percezione del vento sulla pelle. Avevo i brividi, sapevo, ormai fin troppo bene, che il momento stava arrivando. E poi, crescente, come la marea montante durante le burrasche, arrivava. Inciampavo, rovi taglienti mi laceravano la carne: una sofferenza acuta pervadeva ogni singola cellula del mio corpo e desideravo con tutte le mie forze di rialzarmi, di porre fine al tormento, una volta per tutte. Nell’oscurità più completa, un guizzo improvviso, dita oscure che si protendevano minacciose verso di me. Chiusi gli occhi, li strinsi più forte che potei, prima di abbandonarmi alla sola reazione umana che potevo permettermi. Urlare.

- Aurore.

Una voce, una voce rassicurante che chiamava il mio nome. Aprii gli occhi, il mio sguardo ricadde verso la luna che era proprio lì, di fronte a me, splendente nel suo candido pallore, enorme sfera luminosa in grado di rischiarare le tenebre più potenti e rendere limpida la notte più buia. Sentivo gli occhi pungermi, la vista della luna, così nitida, cominciò a incrinarsi, lentamente, fino a che non trovai il coraggio di trarre un profondo respiro e mi voltai.

Misi a fuoco lentamente, due figure mi osservavano preoccupate.

- Un’altra volta.

- Va tutto bene, tesoro.

Guardai meglio, mentre le forze tornavano e le lacrime, che erano prepotentemente sgorgate dai miei occhi, tracciarono due solchi umidi lungo le mie guance.

- Sto… sto bene.

Un sospiro di sollievo, mentre la mano gentile di un’affascinante donna dall’età indecifrabile mi accarezzava la fronte, tranquillizzandomi e quella sensazione che poco prima attanagliava il mio cuore svaniva, lasciando il posto a una rinnovata serenità.

- Mamma.

Pronunciai in un soffio. Troppe volte la facevo preoccupare, sin da quando avevo cinque anni e memoria di quel visitatore ricorrente.

Sorrise, i suoi occhi cerulei si ravvivarono, un sorriso riaccese il viso di porcellana che mi squadrava. Era bellissima, la mia mamma. Risposi al sorriso, sinceramente sollevata e mi sollevai, notando che una mano calda stringeva la mia, ma non era quella della mamma. Accanto a lei, la voce che mi aveva riportata alla realtà della mia vita sicura mormorava parole di disappunto. Evan, mio fratello maggiore. La solita storia, fine dell’idilliaco momento di ritrovo familiare.

- Sempre la solita. Ma è mai possibile che tu non riesca a dormire normalmente? Non ci vuole tanto, sai? Sarà il caso che ti porti una camomilla.

Istintivamente, gli strinsi la mano. Mi guardò, i ciuffi castani ribelli che gli ricadevano sulla fronte ebbero un sussulto, i suoi occhi, di una singolare tonalità amaranto, mi guardavano, rispecchiandosi nei miei, singolarmente ametista. Una discendenza di mio padre, mi era stato detto.

- Non… non lasciarmi, per favore…

Mi osservò, scrutandomi per un lunghissimo istante. In quel frangente realizzai che dovevo avere una faccia davvero sbattuta. Se avessi avuto l’umorismo giusto mi sarei fatta i complimenti da sola, nel cuore della notte, svegliarsi urlando e svegliare l’intera casa era davvero un gran bel colpo. Eppure, era sempre stato così, mai una volta ero stata abbandonata a quell’incubo, ma al contrario, prima di venire catturata, la voce di Evan mi salvava. Gli ero grata, ma per una sorta di reverenziale timore non osavo dirglielo. Evan non amava esporsi particolarmente, non aveva mai legato con nessuno tranne che con noi, nella sua vita. Da che ricordo, siamo sempre stati in viaggio, dunque non facevamo in tempo a stabilirci in un luogo che già dovevamo cambiarlo. Penso che gran parte della mia paura in quell’incubo fosse la materializzazione della mia sofferenza. Vivevamo la nostra vita come se perennemente inseguiti da qualcuno, costretti a fuggire e a nasconderci. Era una sensazione, sapevo che non era la realtà, ma spesso la finzione supera la realtà stessa. Lo vedevo nella vaghezza delle spiegazioni di mia madre. Avevo smesso di porle domande, le sue risposte ai miei perché sfumavano nell’ignoto, ma negli stessi momenti, scorgevo nei suoi occhi una traccia di antica tristezza. Non avevo il coraggio di domandarle il motivo. Mio padre, forse. Una figura avvolta dal mistero, né Evan né io l’abbiamo mai conosciuto, di lui so soltanto che ci ha voluto bene, ma la mamma non ci ha mai detto altro. Chissà, forse è un ricordo per lei troppo, infinitamente doloroso. Ho già detto di quanto sia bella mia madre. E’ un enigma, meravigliosamente perfetta nonostante lo scorrere del tempo, che sembra non toccarla particolarmente se non nel rendere più accentuata la sua bellezza. E’ saggia, arguta e spiritosa, ma anche molto dolce e piena di premure. Non ci ha mai fatto mancare nulla, ha orgogliosamente, a volte anche testardamente, cresciuto me e mio fratello, senza farci pesare mai, più di tanto, l’assenza di nostro padre. Evan, del canto suo, non ha mai chiesto spiegazioni. Procedo per supposizioni, in realtà non abbiamo mai affrontato direttamente l’argomento, ma credo che a suo modo, provi verso di lui risentimento, se non odio. E’ sempre stato l’uomo di casa, colui che doveva proteggere me e la mamma. Una sorellina che sin da piccola era una gran rompiscatole e una mamma che a volte mandava al diavolo la saggezza per scelte scriteriate, aveva detto una volta, precisamente quando lasciammo la Francia per recarci in Patagonia. Mia madre ha sempre adorato viaggiare, così come adora le leggende che popolano i posti in cui abbiamo abitato. Da circa un paio di mesi ci eravamo trasferiti in una nuova città, Darlington. Una bella cittadina, molto curata ed elegante. Devo dire che è sicuramente uno dei migliori posti in cui abbiamo mai vissuto. Non gliel’ho detto, ma mi piacerebbe davvero poterci restare.

Guardai Evan, che continuava a fissarmi.

- Scusami, sono la solita egoista. Dovrei ricordarmi che non ho più cinque anni, vero?

- Soltanto se questo implica non chiedermi di portarti in spalla fino a che non ti addormenterai. Senza offesa, ma stai diventando davvero pesante.

Sorrise beffardo.

Gli strinsi più forte la mano, desiderosa di fargliela pagare, ma l’unico risultato che ottenni fu quello di vederlo storcere la bocca in un ghigno. Mi faceva ridere quando faceva così, assumeva una strana espressione che sembrava deformargli il volto in una maschera divertente. Scoppiai a ridere, la tensione svanì completamente e la mamma mi accarezzò i capelli, corvini come la notte più profonda, e si rialzò.

- Credo che per stanotte sarà meglio che tu rimanga con lei, Evan, così non ci sarà bisogno di farti venire il colpo della strega.

Sorrise divertita, mentre si dirigeva all’armadio, non esattamente il massimo dell’ordine, e facendosi largo tra i miei vestiti, recuperava una coperta.

Evan la guardò di sottecchi. Si arrabbiava davvero quando la mamma lo prendeva in giro. Era orgoglioso, mio fratello. Eppure, nel broncio che ne seguì, rividi il suo volto di bambino, un volto che avevo sempre amato, pervaso di una dolcezza unica sotto quello sguardo accigliato. Un tempo, sorrideva più spesso, ma da qualche tempo, riservava i suoi sorrisi sinceri soltanto a sporadiche occasioni, limitandosi, nella maggior parte dei casi, a sorrisi di sufficienza e di circostanza, che attiravano l’antipatia dei suoi compagni di scuola. Ma la cosa, in fin dei conti, non lo toccava, Evan era sempre stato immune alle reazioni altrui, non si scomponeva, né si lasciava coinvolgere. La sola occasione in cui l’avevo visto perdere il controllo, mostrando un lato di sé che normalmente non lasciava mai emergere, era stata quando Damien Warren, figlio del professore di storia della sezione di Evan, nonché Responsabile delle classi del terzo anno, l’aveva canzonato, facendogli notare che non avevo bisogno di una balia (ovviamente, in una nuova scuola, senza alcun punto di riferimento, era il solo a cui potessi affidarmi). Quella volta, vidi per la prima volta uno sguardo estremamente freddo, tagliente, udii la sua voce abbassarsi in un tono di minaccia, mentre gli intimava di girare al largo da noi. Odiavo Warren per questo. Non soltanto si era permesso di speculare sulla nostra vita, ma per giunta, cosa non meno grave, aveva permesso che emergesse un lato di mio fratello che, ne ero sicura, lui stesso non desiderava lasciare uscire. Evan non era mai stato crudele, lo sapevo e l’idea che un signorino so-tutto-io lo attaccasse in quel modo, mi faceva male. Era mio fratello, nessuno avrebbe mai dovuto insinuare che fosse qualcuno che non era. Da allora, evitavo quel ragazzo che con aria sprezzante e superiore si era permesso di criticarci. Non era male, devo ammetterlo, anzi, sapevo che era considerato uno dei più promettenti ragazzi della scuola, ma intelligenza e superbia non sono un connubio destinato a durare particolarmente, a meno che non ci sia una buona dose di furbizia e Warren… lo conoscevo troppo poco per individuare con certezza quale dei due casi fosse, ma per quel poco, ci avrei messo la mano sul fuoco.

- Aurore, rimettiti giù, è tardi e abbiamo bisogno di dormire.

Disse Evan, distogliendomi dai miei pensieri. Chissà, forse aveva intuito qualcosa, ma il suo tono era cambiato, tornando gentile.

- Vi porto la camomilla, ragazzi.

Gli fece eco la mamma, posando la coperta sulle spalle di Evan e uscendo dalla mia stanza. La luce della luna che aveva rischiarato la stanza al mio rapido e traumatico risveglio, aveva lasciato il posto alla luce della mia abat-jour, regalo che la mamma mi aveva fatto durante una permanenza a Parigi. La mia stanza era un festival di souvenir, pensai. C’era di tutto, dai peluche alle lampade, dai libri ai vestiti, ma la cosa che più preferivo era il mio angolo delle foto. Le osservai, ripensando velocemente ai nostri viaggi. L’Europa era sempre stata la nostra meta preferita, ma le ultime erano quelle che preferivo, perché accanto a noi tre compariva finalmente una persona, la mia migliore amica, Violet. Ogni mattina non vedevo l’ora di rincontrarla, era davvero simpatica, ed era stata la prima, nella mia nuova classe, ad accettarmi, aiutandomi ad ambientarmi. Sorrisi e guardai Evan, poi ripresi posto sotto le coperte.

- Pensi che tornerà?

- La mamma? A meno che non si addormenti in cucina, penso proprio di sì.

Commentò.

- Non prendermi in giro!

Protestai.

Sorrise.

- Non lo permetterò. Ti terrò la mano stretta per tutta la notte, così se accadesse, sarei lì pronto a combatterlo.

- Mi dici sempre così…

- Non è forse mio dovere proteggere la mia sorellina così facilmente soggetta alle suggestioni?

Lo guardai, una sensazione di delusione immotivata mi pervase.

- Secondo te sono suggestioni?

- E’ scientificamente dimostrato. La mente umana gioca brutti scherzi. Puoi immaginare di avere una moneta in tasca, ma non è detto che tu ce l’abbia davvero, no?

- Odio la tua razionalità.

- Non è razionalità, Aurore. E’ soltanto un dato di fatto. Ma ciò non toglie che nel momento in cui si manifestano, sono la cosa più reale che tu stia vivendo. Per questo motivo, non avere paura, io ci sono e ci sarò sempre.

Annuii, era sempre stato così e quella conferma mi calmò. Chiusi gli occhi, desiderosa di sonno. Sentivo la stanchezza che mi riprendeva, le membra si rilassavano, le palpebre diventavano pesanti.

La voce di Evan, un sussurro.

- Non… dimenticarlo mai… io… sarò sempre con te…

 

 

 

NDA:

Con un giorno di differenza... XD Approfittando di un piccolo edit (word a volte non è il massimo dell'aiuto)... son curiosa di sapere qualche opinione, se vi va, le aspetto! P.S. Nel capitolo 34 c'è lo speciale disegni, con alcuni disegni dei personaggi, che aggiornerò man mano che farò gli altri! <3

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Capitolo 2
*** I - Un canto dal passato ***


ANGOLO DELL'AUTRICE: Primo, vero capitolo! Aspetto qualche recensione se vi va!

 

 

La vita nella scuola che frequentavamo Evan e io proseguiva. Era una bella scuola privata, mi piaceva. Anche l’uniforme, per quanto fossi abituata a cambiare, mi sembrava la migliore tra tutte quelle che avevo indossato fino al nostro trasferimento. Era stato davvero strano, particolare, specchiarsi e vedere la figura riflessa così felice. Eppure lo ero, entusiasta come non mai, felice di essere in quel luogo, in quel momento, accanto alle due persone che amavo più al mondo. Non ne capivo a pieno il motivo, ma questo bastava a far passare ogni timore per il nostro primo giorno di scuola. Eravamo stati assegnati a due classi ad anno già cominciato, anche se questo era frequente, considerati i nostri spostamenti. Evan era capitato nella classe di Warren e io in quella di Violet. Come ho avuto modo di dire, Evan è mio fratello maggiore, ci togliamo circa due anni, lui ne ha diciotto e io quasi sedici, ma per certi versi, sembrerebbe che lui sia anche più vecchio. Non fisicamente, o almeno non in modo così evidente, ma più che altro mentalmente. Credo che sia il risultato della vita condotta fino a quel momento, che lo ha costretto a crescere troppo in fretta. A volte ero arrivata persino a chiedermi se non fosse umano.

Devo ammetterlo, era stato divertente fantasticare, assieme a Violet, nella pazzesca confusione di pupazzi della sua stanza, di un ipotetico fidanzamento tra lei e Evan. Saremmo diventate indiscutibilmente sorelle, inseparabili come lo eravamo state sin dall’inizio della nostra bella amicizia, complici e pronte a vagliare ogni ipotesi ideale su come realizzare il progetto. Eppure ogni ipotesi, anche la più rosea, si concludeva infelicemente. Evan era un muro, non sembrava minimamente interessato alla mia amica e non volevo che questo le causasse un dispiacere. Non so se Violet effettivamente provasse qualcosa per lui, ma di sicuro, mi aveva detto, lo trovava piuttosto carino. Definire mio fratello carino era qualcosa che non avevo mai sentito. In passato, avevo capito che le ragazze delle scuole che frequentavamo lo trovavano attraente. Aveva qualcosa di particolare, un fascino insito nei suoi modi, che per quanto potessero apparire distaccati, in realtà, sembravano agli occhi delle ochette che gli andavano dietro, irresistibili. Forse erano i suoi occhi, avevano uno strano magnetismo, tanto che spesso ad ogni sua occhiata, orde di ragazze impazzite sembravano cadergli ai piedi. Ma era in assoluto la prima volta che sentivo definirlo carino. Lo faceva davvero… umano.

- Ta-dan!

Alzai pigramente lo sguardo verso una locandina nelle mani di Violet. Mi ero addormentata, la notte prima, ma non avevo dormito a sufficienza. La mia conseguente risposta fu un enorme sbadiglio.

- Aurore! Insomma, è tutto qui il tuo entusiasmo?

Protestò, un guizzo felino nei suoi occhi color caramello.

- Scusami, è che… è che sono davvero assonnata, vorrei soltanto… dormire…

Bisbigliai, stendendo le braccia sul banco.

- Sveglia! C’è una festa sabato prossimo!

- Una festa?

Non è che amassi particolarmente le feste, in realtà.

- E’ per l’apertura di un nuovo locale!

L’occhiata complice si trasformò in un altrettanto complice occhiolino.

La osservai, lunghi capelli castani le ricadevano in boccoli morbidi sulle spalle, era davvero una gran bella ragazza. Ed Evan non era proprio umano. Mi sollevai, il suo entusiasmo traspariva visibile. Non era una festaiola, ma ai ragazzi il ritrovo piace, e per quanto le mie abitudini fossero differenti, l’idea di trascorrere una serata fuori casa, in un nuovo posto, mi solleticava. Dopotutto, avrei avuto Violet, pensavo.

- Un locale?

Violet annuì, mi stava convincendo, sembrava felice della sua riuscita. Accidenti, ci voleva così poco a circuirmi?

- E se saremo particolarmente fortunate ci sarà anche un karaoke!

- Non ho mai cantato al karaoke… è obbligatorio?

Domandai, in leggero imbarazzo.

- Dipende dalle canzoni, ovviamente!

Spiegò, prima di lasciarsi andare a un teatrale elogio dei suoi gusti musicali. Cercando di evitare improbabili contagi, domandai alla mia amica se la locandina fosse arrivata anche nelle altre classi, ottenendo che la sua espressione si volgesse verso un sincero “sicuramente”. La probabilità che ci fosse gente della scuola era alta, quindi l’idea di cantare davanti a un pubblico che in qualche modo ti conosceva era per me l’equivalente del camminare nuda in mezzo alla strada. Le rare volte in cui avevo canticchiato qualcosa avevo finito col suscitare gli apprezzamenti poco felici di Evan e sinceramente, c’era una cosa che preferivo fare, ascoltare la mamma, che conosceva canzoni molto belle, ma allo stesso tempo così incredibilmente antiche, tanto che se non fossi sicura di averle sentite in questo secolo, penserei fossero di qualche secolo fa. Mia madre adorava cantare, le si leggeva in viso, era felice, come se quelle canzoni la riportassero al periodo migliore della sua vita, ma allo stesso tempo, a volte, assumevano un tono malinconico.

- La pierre qui brille dans le noir…

Commentai, sovrappensiero.

- Francese?

Domandò, stupita.

- Sì, è… niente, mi è venuta in mente una cosa, nulla di particolare, non farci caso.

- Allora, ci vieni?

- Va bene, sia per l’uscita. Ma prima dovrò chiedere il permesso… i minorenni sono ammessi?

- Tranquilla, nonostante tutto sembra sarà davvero un posto sicuro, suppongo di sì!

Sorrise divertita.

- Non mi tranquillizzano affatto quei “sembra” e “suppongo”, Violet…

- Allora sperimenteremo!

- Adesso sono terrorizzata.

- Vedrai, sarà divertente!

- Lo spero… o domenica mi ritroverò in punizione e chissà per quanto tempo…

Confessai, sinceramente turbata dal pensiero. Violet sorrise e io le restituì il sorriso. Non importa quale sia il tuo stato d’animo, ma un sorriso è sempre la cura migliore ed è estremamente scortese non ricambiarlo. Prese posto nel banco di fronte al mio e mi raddrizzai, osservando svogliatamente i ragazzi della mia classe.

All’inizio, la presenza di una nuova studentessa, per di più non del luogo, aveva suscitato interesse e sincera curiosità. Devo ammetterlo, era la prima volta che mi capitava, non ero una straniera qualunque, ma una straniera che aveva viaggiato molto più di quanto ciascuno di loro avesse fatto nella sua vita. Mi piaceva raccontare brevi e particolari resoconti dei viaggi più interessanti, ed era altrettanto piacevole vedere l’entusiasmo dipinto su quei volti, desiderosi di conoscere i dettagli, soprattutto quelli che avevano componenti sovrannaturali. Il fascino immorale delle superstizioni... certo, non che mi fosse mai capitato di incrociare un fantasma, o chissà quale strana creatura, nemmeno in Scozia, che si dice sia la patria degli spiriti. L’argomento mi metteva un po’ a disagio, però, avevo già a che fare con gli spettri dei miei incubi, per cui cercavo di evitare di scendere nel merito di storie particolarmente scabrose, che per giunta, aggiungo per fortuna, non avevo mai vissuto. Nel corso del tempo, credo che questa mia attitudine abbia fatto scemare l’interesse verso di me, così, dalla nuova studentessa, ero diventata la compagna di classe, né più né meno. Evan del canto suo non se la cavava meglio di me. Da che ne sapevo, trascorreva parte delle sue mattine a sonnecchiare, nemmeno fosse una sorta di animale notturno, ma si era sempre giustificato dicendo che il banco era piuttosto comodo.

Le ore passarono veloci, ma fu durante la pausa pranzo che accadde un fatto piuttosto singolare. Evan si era letteralmente accampato nel banco vuoto dietro al mio, per sfuggire alle numerose e pressanti richieste di ragazze che desideravano conoscerlo. Solo un minuto, aveva detto, e concederglielo mi sembrava il minimo doveroso da fare. Senza contare l’incondizionato appoggio di Violet che aveva provvidenzialmente deviato le ragazze del terzo anno verso il cortile. Sfortunatamente, il cortile era uno dei regni di Warren, che, al pari di mio fratello, adorava trascorrere la pausa pranzo all’esterno della sua aula. Ci godemmo lo spettacolo dalla finestra, Evan osservava Warren che, apparentemente distolto dalla sua lettura sotto un pesco in fioritura, balzava in piedi per riportare tutto all’ordine. Devo confessare che ci sapeva fare, a quanto pare era portato per impartire ordini. Probabilmente l’avere un padre professore era l’equivalente del sentirsi responsabili a ogni costo, volenti o nolenti, cosa che in un certo senso, me lo fece compatire. Mai commento fu più vano. Lo vedemmo rivolgerci un veloce sguardo e tornare all’interno della scuola, Violet e io ci guardammo, poi rivolgemmo lo sguardo verso Evan, che sembrava il solo a non aver capito cosa fosse accaduto.

- Sei nei guai, Evan…

Disse Violet, a metà tra l’ammissione e il velato divertimento.

- Non potevi restare nella tua classe? Adesso se la prenderà anche con noi.

Protestai.

Mi guardò, per un attimo ebbi l’impressione che fosse sinceramente pentito della sua irresponsabilità, subito smorzata da un laconico commento.

- Sei stata tu ad accordarmi il permesso di rimanere qui.

Sorrise sadicamente divertito, mi posò una mano in fronte e si allontanò verso la porta.

- Dove stai andando?!

Domandai, percependo un misto di furia e curiosità fare capolino nel mio cuore.

- Parlaci tu, digli che mi fa male lo stomaco.

- Come?! Ti ha dato di volta il cervello?!

- No, mai stato più lucido.

- Evan!!

- Ci si vede.

Un ciao stentato con la mano, a cui Violet rispose stupita e la mia espressione shockata fecero da teatro alla sua uscita.

- Sono nei guai…

- Non credo, è assai probabile che si incrocino nei corridoi.

Spiegò Violet.

Mi voltai meccanicamente verso la mia amica che sorrideva serafica. Beata lei, avrei voluto essere al suo posto in quel momento. Evan e le sue trovate, odiavo quando mi lasciava gestire i suoi pasticci. Ma era troppo tardi.

- Kensington, Evan Kensington!

Tuonò minaccioso. Ingoiai e osservai quel ragazzo così… stranamente posato nella sua furia omicida. Devo ammettere che era davvero un bel ragazzo. Damien Warren aveva su per giù la stessa corporatura di Evan, e come se non bastasse possedeva un’eleganza innata nei movimenti e nelle parole. Non che questo bastasse a renderlo meno scortese, ma quantomeno lo faceva apparire autoritario quanto bastava per non replicare alle sue parole. I capelli erano di un castano molto scuro, ciuffi ricci ricadevano lungo la sua fronte, facendo da cornice a degli stupendi occhi verde smeraldo. Per quanto potessi odiarlo, Damien aveva qualcosa di fascinoso. La sua voce tuonò nuovamente, mentre si rivolgeva a me, persa in una quantomai fuori luogo contemplazione di quel ragazzo che si avvicinava sempre più.

- Per fortuna che doveva starci al largo…

Mormorai, sostenendo il suo sguardo. Bello per quanto fosse, era un gran bastardo e questo non cambiava. E poi… dalla volta in cui aveva sfidato Evan, mi ero ripromessa che mai avrei dato un’occasione di replica a quel bell’imbusto.

- Ho visto tuo fratello in questa classe.

- E allora?

Chiesi, accigliandomi.

- Dov’è andato?

- Aveva mal di stomaco, tu dove vai quando hai mal di stomaco?

Scorsi con la coda dell’occhio l’espressione di Violet, in quel momento, immagino dovesse essere la stessa che aveva il resto dei presenti. Stavo sfidando pubblicamente il Responsabile delle classi del terzo anno. Sapevo che lo chiamavano despota, ma non ci sarebbe stato despota in grado di fermarmi, se avessero toccato mio fratello. Non volevo essere la sola a essere protetta e sebbene non gliel’avessi mai chiesto, Evan lo faceva, sempre.

- Ho chiesto… dov’è andato tuo fratello. Non farmi ripetere le cose due volte, non mi piace.

- Scusa tanto, non è nelle mie abitudini fare la Caina della situazione.

Mi guardò, un’occhiata inintelligibile.

- Digli che il professor Warren lo aspetta dopo le lezioni.

- Come?

- Sei sorda, forse?

- Eh?!

Lo guardai sinceramente stupita. Che diavolo di gioco stava giocando?!

- Cosa vuole tuo pad--  il professor Warren da mio fratello?

- Consegna il messaggio, se è davvero in infermeria, allora va’ e portaglielo.

- In infermeria? Che cavolo dovrebbe farci in infermeria?

- Non ha mal di stomaco?

- Come? Ah… sì, certo… ovviamente… se hai mal di stomaco vai in infermeria, giusto…

Riflettei.

Ebbi la soddisfazione di vederlo osservarmi stupito. Era anche altamente probabile che mi considerasse svitata.

- Allora?

- E’ tutto qui?

- Perché?

- Rispondi alle domande con altre domande?

- Tu fai lo stesso.

- Sì, hai ragione.

Sbuffò apparentemente spazientito.

- Fa’ come ti ho detto.

- Non darmi ordini.

Aguzzò lo sguardo.

- Fallo.

Sentenziò, prima di girare i tacchi e andar via. Sospirai non appena scomparve dalla mia vista. Per qualche strana ragione, mi sentivo delusa. Non mi piaceva attaccare briga, ma rispondere così sfacciatamente a quel ragazzo mi veniva naturale, quasi fosse la cosa più facile e necessaria del mondo. Oltretutto, non si poteva certo dire che Damian Warren fosse accondiscendente. Eppure, credevo che mi avrebbe trattata male, come al nostro primo incontro, mentre invece, stavolta sembrava aver scelto una via molto meno aggressiva. Forse l’intimidazione di Evan era davvero servita a qualcosa, motivo per cui lui stesso non aveva ritenuto necessario il rimanere. E dopotutto, chi accidenti aveva bisogno di una balia? Ma ciò che urgeva in quel momento era consegnare il messaggio. Ci riflettei, che cosa poteva mai volere il professor Warren da Evan? Un richiamo disciplinare? Un sospetto balenò nella mia mente, tutto stava prendendo forma. E io che avevo persino creduto che non c’entrasse niente… era evidente tanto quanto il fatto che fosse giorno. Warren aveva deciso di rivolgersi a suo padre in modo che richiamasse concretamente all’ordine mio fratello, sicuramente avendo saputo dei suoi pisolini diurni. Era chiaro, tutto spiegato. Oltre che bastardo era incapace, davvero un bel colpo doppio, riferire al padre una situazione che non riusciva a risolvere da sé. Avrei dovuto capirlo prima. Guardai Violet, dovevo assolutamente ritrovare Evan, prima che la nota disciplinare lo colpisse.

- Vado a cercarlo, ti spiace coprirmi se tardo?

- Fa’ pure, ma cerca di non esagerare, abbiamo Biologia, oggi c’è in programma l’osservazione dell’impollinazione dei fiori di pesco.

Mi ricordò. La osservai confusa. I fiori di pesco… impollinazione… che Warren stesse studiando? No, impossibile, decisamente impossibile se consideravamo il fatto che Warren fosse dell’ultimo anno.

- Tornerò il prima possibile!

Conclusi, correndo a tutta velocità verso l’uscita.

Raggiunsi l’infermeria poco prima del suono della campanella, mi affacciai, ma di Evan nemmeno l’ombra. Davvero geniale, se proprio vuoi fingere, Evan, almeno fallo bene. E invece, a quanto pareva mio fratello era poco portato anche per il mentire. Sentii un fruscio alle mie spalle, che mi fece sobbalzare e mi voltai repentinamente, vedendo una mano ergersi minacciosa contro di me. Un istante, il ricordo del mio incubo e urlai terrorizzata, facendomi indietro e coprendomi il viso con le braccia.

- Ti prego, ti prego!!

Urlai.

- Ti ho spaventata?

Chiese un’apprensiva voce femminile. Per niente rassicurata, scostai poco poco il braccio e di fronte a me vidi una donna con indosso un camice, un tipo piuttosto ordinario, a prima vista, la responsabile dell’infermeria, con la mano a mezz’aria.

- E’ tutto a posto, signorina?

Chiese di nuovo, lasciando ricadere il braccio lungo il fianco.

- S-Sì, mi… mi scusi, credo di sì…

Confessai, nascondendo il viso rosso di vergogna per aver anche solo pensato di paragonare una mano gentile alla minacciosa entità oscura che popolava i miei incubi. Mi rialzai, sforzandomi di mantenere il contegno per non fare nell’occhio.

- Hai bisogno di qualcosa, cara?

Domandò, gentile, sorridendo.

- No, non io… sto cercando… ecco, Evan Kensington, della terza sezione, è stato qui, per caso?

- Kensington? Sì, certo, sei sua sorella?

- Sì, Aurore Kensington.

Confermai, ponendole il mio tesserino scolastico.

- Molto bene. Ha chiesto dove fosse la caffetteria, ma suppongo che a quest’ora sia già tornato in classe. Sarà il caso che anche tu faccia altrimenti, se non hai bisogno d’altro.

- Va bene, la ringrazio.

Sorrisi, facendo un cenno e uscendo. Mi guardai intorno, la faccenda si faceva misteriosa. I corridoi ormai si erano svuotati, le classi avevano ripreso l’attività, tutto sembrava così tranquillo. Mentre percorrevo gli androni deserti, riflettei sul fatto che da quando ci eravamo trasferiti a Darlington, Evan era sempre stanco, come se non dormisse abbastanza. Forse, la colpa era mia, i miei incubi si erano fatti più frequenti, le volte in cui Evan trascorreva le notti accanto a me erano tante e se già io ero stanca, chissà lui... che razza di peso ero… avrei dovuto parlarne con la mamma, sarebbe stata sicuramente la soluzione migliore, non volevo affatto diventare la causa dello scarso rendimento di Evan.

Mi appoggiai al davanzale di una finestra aperta, osservando il cortile interno della scuola. Il panorama era meraviglioso, mi ricordava tanto quelle scuole giapponesi che si vedono in tv, ed era strano pensarci in un tipico campus. L’istituto era rinomato per la sua classicità, sapevo che molti studenti iscritti entravano in università prestigiose, probabilmente anche Warren ci sarebbe entrato. Chissà, forse anche Violet, se si impegnava era in gamba.

Chiusi gli occhi, lasciando che la brezza mi accarezzasse il viso, dolcemente, era come una carezza gentile. Era davvero una bella giornata. Poi, un rumore molesto proveniente dall’esterno mi riportò alla realtà. Qualcuno stava sbadigliando. Riaprii gli occhi e cercai di focalizzare il colpevole e per poco non rimasi sconvolta. Evan era sdraiato sotto un pesco, riparato dalle folate meno gentili, timidi raggi di sole gli illuminavano il viso rilassato, sembrava dormire beatamente. Accanto a sé, un libro lasciato aperto, mentre la brezza sfogliava le pagine.

- Evan…

Sussurrai, perfettamente conscia che quel fiato era inutile se speravo di farmi sentire. Avrei dovuto svegliarlo? Se si era appisolato in un luogo come quello, sicuramente era sfinito, non sarebbe stato giusto, magari, stava anche facendo un bel sogno. Ma avrei dovuto avvisarlo o mi avrebbe rimproverata per non averlo fatto. Feci per chiamarlo, ma mi bloccai, voltandomi. Non mi ero accorta del rumore di passi nel corridoio fino a quando non era cessato e l’ombra era abbastanza vicina da incrociare la mia. Un uomo, ben vestito e con una cartellina sotto il braccio, mi guardava. Ricambiai lo sguardo, cercando di definirlo, i capelli scuri, ordinati, all’incirca sulla cinquantina, un’espressione curiosa dipinta negli occhi castano scuro.

- Ti sei persa?

Chiese. Era la giornata delle domande? Pensai, senza accorgermi che gesticolavo.

- No, no, affatto! Sto per tornare in classe!

Mentii, sorridendo come un’idiota. Che figura…

Sorrise cortese.

- Sei Aurore Kensington, vero?

Annuii, più imbarazzata che mai.

- Non ci conosciamo di persona, sono Leonard Warren.

- Il professor Warren?!

Esclamai stupita.

- Sì, proprio lui.

Confermò, mantenendo inalterato il sorriso.

Era davvero diverso dal figlio, non gli somigliava per niente. Forse aveva preso dalla madre, chissà… feci un inchino, non avevo il coraggio di andare oltre.

- Mi scusi, torno subito in classe!

Dissi, incamminandomi velocemente.

- Avete un bel rapporto.

Disse. Mi fermai, voltandomi subito dopo, ormai ero alle sue spalle.

- Prego?

- Tu e tuo fratello, siete molto legati.

- E’… un male?

Domandai, stupita da quell’osservazione.

- No, non lo è. Anzi, a volte è una forza.

- Non capisco cosa voglia dire.

Mi stava facendo insospettire. Si voltò, ebbi un’improvvisa esitazione. Per qualche motivo a me ignoto, quell’uomo mi stava mettendo in soggezione.

- Aurore… hai un bel nome, la luce del primo mattino, il chiarore soffuso che si diffonde tra le tenebre.

Non avevo mai riflettuto sull’origine del mio nome, ma sicuramente, sentito così, in virtù dei miei incubi, assumeva una strana valenza.

- Cosa vuole da me, professor Warren?

- Niente, desideravo soltanto conoscere la sorellina di Evan. So che non avete un padre.

Sobbalzai, il cuore prese a battermi forte. Era più che logico che lo sapesse, dal momento che aveva accesso ai nostri file personali, ma farlo notare, così, su due piedi, senza motivo era decisamente fuori luogo.

- E con questo?

- Vivete con vostra madre… Celia, non è così? Celia Kensington.

Lo scrutai, le sue domande avevano un tono che non mi piaceva. Storsi la bocca e aguzzai lo sguardo, decisa a smorzarlo.

- Sì, ma mi spiace, non è in cerca di marito.

- Mpf.

- “Mpf”?

Si mise a ridere, una risata divertita.

- Va bene, prendo atto.

Disse. Non capivo quell’uomo tanto quanto non capivo suo figlio.

- Bene, dato che abbiamo assodato, posso andare?

- Naturalmente. Scusami per averti fatto perdere tempo. Dì pure che è colpa mia, penserò io a confermare le tue parole.

- Non si scomodi, non ne ho bisogno.

Dissi.

- Come desideri.

Sorrise, facendo un cenno col capo, poi guardò dalla finestra.

- A giudicare da come dorme, sta davvero facendo un bel sogno. Ce n’è davvero necessità, di questi tempi.

Un altro cenno e si allontanò, fino a scomparire. Rimasi lì, ferma, come inchiodata al pavimento, completamente impotente davanti a quelle parole. Cosa voleva dire? Non appena potei, un’eternità più tardi, mi voltai verso la finestra, Evan non c’era più.

 

La sera stessa, era tutto stranamente silenzioso. Una strana cappa aleggiava sulla nostra sala da pranzo, dove ci eravamo riuniti per la cena. La mamma aveva preparato un piatto che ci piaceva molto, retaggio di uno dei nostri viaggi in Italia, lasagne. Era piuttosto brava, ma del resto, erano poche le cose che non sapeva fare, e tra queste figuravano il non saper cucire e poca familiarità con la tecnologia. Normalmente ci chiedeva com’era andata la giornata, ma questa volta non chiese niente, il che non era assolutamente normale. Rigirai nel piatto la forchetta col boccone e ruppi il silenzio, guardando mia madre, che ricambiò.

- Mamma?

- Sì?

Domandò.

Evan sollevò lo sguardo dal piatto volgendolo verso di noi. Avevo catturato l’attenzione di tutti.

- E’ tutto a posto? Sei così silenziosa… non vuoi sapere com’è andata la giorn--     

Un calcio assestato sulla mia caviglia mi interruppe.

- Ahi!!

Imprecai, sgranando gli occhi verso Evan, che mi guardava di sottecchi.

- Tu…

- Se non l’ha chiesto ci sarà un motivo, non credi?

Mi fece notare.

- E c’è bisogno di prendermi a calci per farmelo capire?!

- E’ colpa tua che non leggi tra le righe.

- Oh, scusa tanto, mente fine, non sono così sottile.

Replicai.

- Comunque è andata bene, mamma, se non fosse che Ev--    

Un pizzicotto sul braccio, stavolta.

- Evan, piantala, mi fai male!!

Sbottai, pizzicandogli la mano.

- Anche tu.

- Allora smettila.

- Dopo di te.

- Posso continuare.

- Anch’io e non ti conviene.

- Ti odio!!

Esclamai, lasciando la presa e guardando la mamma, che ci guardava a metà tra stupita e divertita.

- Voi due… è mai possibile che non riusciate proprio ad andare d’accordo?

Sospirò, posando la guancia sul palmo della mano. Era davvero bella quando assumeva quella posa.

- Scusaci… è colpa sua.

Lo indicai.

- Senti chi parla, quella che scappa durante le lez--   

Un calcio estremamente ben assestato sul piede di Evan e lo vidi contorcersi. Evvai! Uno a zero, fratellone!

- Non c’era bisogno di metterci tanta enfasi…

Protestò nello scostare il piede.

La mamma si mise a ridere, la guardammo. Era una cosa particolare, ma quando litigavamo, era sufficiente che lei ridesse per far sparire tutto, come per magia. Probabilmente doveva trovarci davvero buffi…

- E va bene… allora, ragazzi, com’è andata oggi a scuola?

Domandò allegra, sollevando la forchetta e mangiando il boccone.

- Sì!! Allora… è andata bene, tutto nella norma, se non fosse che Violet mi ha proposto di andare a una festa sabato prossimo… posso andarci?

Chiesi sforzandomi di mostrare una faccia responsabile. Evan mi guardò improvvisamente serio.

- Una… festa?

Annuii, raccontando loro della locandina e dell’opera di convincimento di Violet.

- Non siete mai andati a delle feste… ma in questo momento, non so se sia una buona idea, Aurore.

Commentò la mamma.

- Perché?

Chiesi, stupita.

- E’ soltanto che… sarà il caso che vi impegniate maggiormente negli studi, tutti e due, dato che tu, signorina, hai saltato una lezione, e tu, signorino, ti sei appisolato nel cortile.

Calò il gelo.

Un gelo fuori stagione che durò per un tempo imprecisato.

Un gelo che faceva da cornice a due facce impietrite e a una che sorrideva serafica.

- Mamma…

Esordii.

- Possiamo spiegarti, non… non è così, Evan? Evan?

Nel nanosecondo di ripresa, Evan si era alzato e procedeva spedito verso la sua stanza.

- Evan!!

- Devo finire un capitolo di storia, Warren è piuttosto… esigente. Buonanotte.

Si giustificò. Giustifica, giustifica!! Evan, maledetto fratello scaricabarili…

Mi voltai verso la mamma, che aveva posato la forchetta nel piatto.

- Mamma, ma l’hai sentito?!

- Sarà meglio che… mi aiuti a togliere le stoviglie, che ne dici?

- Togliere le stoviglie? Adesso? E lui?

- E’ giusto che recuperi, no?

- Ma…

Guardai Evan, ma di lui era rimasta soltanto la porta che si chiudeva alle sue spalle.

Sospirai, a quanto pare il mio destino era quello di immolarmi a causa di un fratello sconsiderato. Rassegnata alla mia sorte infausta aiutai a rassettare la cucina, ma la ricompensa che ne ottenni fu molto più gratificante di quanto immaginassi.

Presi posto sul divano, subito raggiunta dalla mamma e mi accoccolai sulle sue gambe, mentre mi accarezzava i capelli. Da piccola, a causa dei miei incubi, avevo preso l’abitudine di farmi coccolare in quel modo. Il tocco gentile delle sue mani era così piacevole…

- Mamma?

- Mh?

- Posso chiederti una cosa?

- Certamente, piccola mia.

- Perché… mi hai chiamata Aurore?

Percepii un’incertezza, che però scomparve quasi all’istante.

- Perché mi piaceva. Trovavo che rispecchiasse bene ciò che eri. Sai, Aurore… quel periodo della mia vita fu il più… instabile, in un certo senso. Tu ed Evan eravate le sole cose belle e certe che avessi e in particolare, tu, tesoro, nascesti nelle prime ore della mattina, così che la prima luce che si diffondeva mi dette la sensazione che forse anche le cose peggiori finivano. Eri così piccola, indifesa, non avevi nemmeno ancora aperto gli occhi. Ricordo come se fosse ieri, ti strinsi forte e tu mi accarezzasti il viso con la manina e apristi gli occhi, erano i più belli e puri che avessi mai visto in vita mia… erano della stessa tonalità ametista di quelli di tuo padre…

Si fermò, incerta. Quale dolore le stavo dando per quel ricordo?

- Mamma, non…

- Tuo padre, bambina, sarebbe stato felice di vederti. Ti avrebbe sicuramente amato molto.

Sussurrò, riprendendo ad accarezzarmi i capelli. Qualcosa era cambiato, era la prima volta che la mamma parlava di papà, così esplicitamente, ma quelle parole mi facevano male, percepivo la sua assenza forte come un pugno nello stomaco, lo desiderai, desiderai con tutte le mie forze di avere una persona di cui non avevo mai conosciuto nulla, ma che era sicuramente importante, tanto quanto lo erano la mamma ed Evan.

- Com’era, mamma? Com’era mio padre?

Domandai a denti stretti, cercando di soffocare le lacrime che mi pungevano gli occhi.

Silenzio, ci fu silenzio. Volevo davvero conoscere chi era davvero? E se la risposta non mi fosse piaciuta? Ma quale uomo capace di provare sicuramente amore sarebbe stato un mostro? Però ci aveva abbandonati, non c’era mai stato, forse non era nemmeno vivo, chi lo sa…

Ingoiò, poi mi prese la mano, stretta sul petto.

- Era tutto ciò che avessi mai potuto desiderare. Tuo padre e io ci siamo amati, molto, abbiamo vissuto un amore profondo al punto da diventare l’una l’anima dell’altro, è qualcosa che un giorno, chissà, proverai anche tu e quando accadrà lo capirai, Aurore.

Arrossii, in sedici anni, non avevo mai avuto un ragazzo. Non ne avevo il tempo, non ne avevo la possibilità. Non che non piacessi, certo. Se avevo qualche somiglianza con mio padre, devo dire che si esauriva a qualche particolare, per quanto ne sapessi, ma per il resto, ricordavo la mamma, avevamo una corporatura simile, esile, ma non troppo, laddove il confine tra armonia della forma e fragilità si confonde.

Strinse più forte la mia mano, mi voltai verso di lei, vedendo spuntare un sorriso su quel viso angelico dagli occhi lucidi.

- Mamma…

- Ti piace questa città, Aurore?

- Come? Ah… sì, mi… mi piace, è tranquilla.

Dichiarai.

- Tranquilla, eh?

- Sì, tranquilla.

Sorrisi e ricambiò.

- Ma c’è qualcosa… che vorrei dirti…

Confessai.

- Di che si tratta?

Ripensai alla bizzarra conversazione avuta in mattinata col professor Warren, quell’uomo strano che con le sue osservazioni mi metteva in soggezione. Era il caso di parlargliene? O forse in quel momento non lo era? Già, probabilmente era proprio così, almeno stavolta, avrei dovuto avere tempismo. Mi sollevai, guardandola.

- Mamma, ovunque, mi basta stare con te e con Evan per essere felice.

Mi guardò, poi mi strinse forte a sé. Ricambiai l’abbraccio, respirando a fondo il suo profumo, sapeva di fiori. Era così rilassante, mi piaceva.

- Ho una cosa per te, Aurore.

Disse, scostandosi e prese dalla tasca una catenina, alla cui estremità brillava un ciondolo a forma di goccia, della grandezza di un cerchietto.

- Per… me?

Lo sollevò e notai i particolari che a prima vista non avevo realizzato vi fossero. Apparentemente era d’argento, antico, come un vecchio cimelio di famiglia. Sulla superficie vi erano dei ghirigori incisi, di una tonalità più scura, mentre al centro faceva capolino un minuscolo brillante, che per quanto piccolo risplendeva quasi avesse luce propria.

- E questo… da dove viene?

Chiesi, raccogliendolo nelle mani.

- Se te lo dicessi perderebbe la sua aura di fascino, non credi?

Replicò sorridendo.

- Più che altro… direi aura di antico, sembra un cimelio… non sarà qualche vecchio oggetto di famiglia che si tramanda di generazione in generazione? A occhio e croce avrà quanto, duecento anni?

Mi guardò, sinceramente stupefatta per quell’osservazione.

- Non ci avevo mai fatto caso…

Confessò.

- Ma è bello… molto delicato…

Osservai, scrutando quel minuscolo oggettino tra le mie mani.

- Prendila così, come se si trattasse di un cimelio, allora.

- Stai dicendo che non è un cimelio, mamma?

- Qualcosa del genere.

- Un cimelio che è qualcosa del genere… non quadra.

Mi accarezzò i capelli, prendendolo dalle mie mani. Mentre fluttuava nell’aria, durante quello spostamento, mi tornò alla mente il verso che avevo canticchiato la mattina stessa in classe.

- La pierre qui brille dans le noir…

Farfugliai.

- Ricordi quella canzone, Aurore?

- No, soltanto… mi è tornata in mente, la cantavi quand’ero piccola…

- Quanto tempo è passato, una volta, era una gran compagnia.

- E’ una canzone molto vecchia, non è così?

- Solo il ricordo di un tempo, bimba.

- Mamma, non chiamarmi bimba, son grande!!

Sbuffai, mentre mi metteva al collo quel gioiello. Pesava.

- E’ pesante, c’è qualcosa dentro?

- Soltanto il mio amore, Aurore.

Spiegò, baciandomi sulla fronte.

- E’ tardi, va’ a dormire, mh?

- Va bene, mamma. Ti voglio bene!

- Sogni d’oro, Aurore, anch’io.

Mi alzai e sorprendentemente contenta del mio nuovo, particolare regalo, corsi in camera, nel cuore una rinnovata serenità. Quando mi sdraiai, sentii quel peso scivolare lungo la clavicola, e mi accoccolai tra le coperte, pensando a quella canzone.

La pierre qui brille dans le noir… suivez la route qui mène au lac des diamants… ici la Croix reste…

Ici la Croix reste… la Croix du Lac.

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** II - Che sta succedendo? ***


Secondo capitolo! :D

 

Spiegare a Violet che non sarei andata alla festa fu la cosa più complicata che mi toccò fare l’indomani. Avrei dovuto raccontarle della disavventura capitatami il giorno prima, ma non volevo coinvolgerla nei misteriosi commenti del professor Warren. Avrei dovuto parlarle dei nostri trascorsi e decisamente né la scuola né la giornata erano una buona occasione. Forse prima o poi l’avrei fatto, del resto, era la mia più cara amica, ma sarebbe stata la prima volta e non ero affatto pronta ad aprirmi così tanto con qualcuno che non fosse la mia famiglia. Oltretutto, Evan si sarebbe arrabbiato e dopo lo scontro della sera precedente non era davvero il caso. Quando si trattava di faccende familiari diventava intransigente. Per quel che ci riguarda, non avevamo parlato granché, ma dalla sua espressione nel vedere la mia catenina, qualcosa lo aveva colpito. Pensandoci, forse ne conosceva la provenienza, ma sicuramente, non mi avrebbe detto niente, nemmeno se l’avessi messo sotto tortura. Alle volte odiavo avere un fratello così silenzioso. Ma se lui non ci fosse stato, non avrei mai saputo immaginare il mio mondo. Un mondo senza Evan non mi sarebbe mai appartenuto. Parlai a Violet della chiacchierata con la mamma riguardo all’impegnarsi a scuola, ma questo non la convinse particolarmente. Era determinata ad averla vinta. La mia amica sapeva davvero essere combattiva, dovevo riconoscerlo. Ma finora, nessuno mai l’aveva spuntata contro Celia Kensington.

- Parlerò con lei, vedrai, la convincerò, so come fare!

Esclamò, appoggiandosi al muro dirimpetto alla nostra aula.

- Battaglia persa in partenza, credimi.

- Basterà andare bene alla prossima verifica di biologia, vedrai, sarà facile, così dovrà assolutamente premiarti!

- Una parola… non è una materia che si possa dire adori particolarmente…

Confessai. Non ero mai stata molto portata.

- Ti darò ripetizioni, che ne dici?

- Ripetizioni?

- Sì, quelle sedute di studio che tra buoni compagni di classe ci si dà per migliorare le capacità scolastiche, ti dice niente?

- Mai fatte in vita mia.

Sospirò.

- Aurore!! Sei così… così…

- Ignorante?

- Ingenua.

- Ingenua? Perché?

- Perché non conosci i trucchi del mestiere.

Mormorò.

- Non ti seguo… sinceramente, non ti seguo, Violet.

- Chiederemo aiuto a chi è più avanti di noi, in questo modo se ci sarà qualche punto oscuro lo illumineremo.

- Non dovevi essere tu a farlo?

- In realtà nemmeno a me piace particolarmente la biologia, cioè… più che altro non mi ispira, faccio quanto basta per tirare avanti decentemente, ma considerando che hai saltato una lezione, sono di una lezione più avanti di te.

- Contro di te non c’è storia, vero?

Risi.

- Assolutamente vero! Vieni!

Esclamò, prendendomi per mano.

- Dove andiamo? Abbiamo lezione tra poco!

- Sarà sufficiente, una capatina in biblioteca per procurarci il necessario e passeremo alla fase 2!

Sentenziò, trascinandomi per i corridoi luminosi della scuola. Percorremmo velocemente gli spazi che ci dividevano dalla grande sala, che si presentò in tutto lo splendore di una delle più belle e complete biblioteche del posto. Come lo stile generale della scuola, anche la biblioteca era classica, con maestosi scaffali in legno che emanavano profumo di cultura. Probabilmente per un patito avrebbe rappresentato il non plus ultra del paradiso.

- Non l’avevo ancora vista…

Osservai in tutta franchezza.

- Ti piace? E’ rinomata per la mole di testi antichi che contiene.

- Testi antichi?

- Sì, ci sono anche sezioni sfiziose, tipo… “Alchimia”, “Magia nera”, “Mondi perduti” e via discorrendo.

- E’ la biblioteca di Harry Potter?

Rise a quel commento, probabilmente era un’osservazione frequente in chi vi metteva piede per la prima volta.

- Molti di questi libri sono stati donati dal professor Warren, lo sai?

Chiese, andando a cercare dei libri nella sezione “Biologia”.

- Davvero?

- Sì, e si tratta di veri e propri capolavori d’altri tempi. Non li ho mai letti, ma molti sono davvero vecchissimi e figurano nelle sezioni che ti ho nominato prima.

- Ma Warren non insegna storia?

- Sì, certo.

Recuperò agevolmente un paio di testi che posò su una grande scrivania collettiva. Alcuni ragazzi presenti lamentarono il tono delle nostre voci, intimando un minaccioso silenzio, per cui abbassammo la voce.

- E cosa c’entra con questi argomenti? Deve essere un gran…

- … fissato.

Completò una voce maschile alle mie spalle. Sobbalzai, chiunque fosse mi aveva appena colta nel momento in cui stavo pubblicamente insultando un eccellente professore. Ma non tutto era perduto.

- In realtà stavo per dire intendi--    

Mi voltai per scoprire chi era stata la mia spalla e con orrore vidi nientemeno che il professor Warren. Come sempre, il mio tempismo aveva del surreale e tutto era perduto, altro che.

Violet posò un altro paio di libri, salutandolo educatamente, un saluto a cui lui rispose cortesemente, prima di rivolgere nuovamente lo sguardo verso di me.

- Ti trovo sempre in giro.

- In realtà stavamo cercando dei testi di biologia. Si è definito “fissato”?

- Esattamente. Ho una vera e propria fissazione per questo genere di libri. Trovo che facciano ugualmente parte della storia, sia essa conosciuta, sia essa ignota.

Uno strano bagliore negli occhi avvampò mentre pronunciava la parola ignota.

- Non credi?

- Non mi interesso di queste cose, a dire il vero…

- E’ un peccato, penso sarebbero estremamente istruttive.

- Solo per alimentare la superstizione.

- E’ così? Conosci l’origine del ciondolo che porti al collo?

- Cosa?!

Istintivamente raccolsi in mano il mio ciondolo, stringendolo.

- E’ soltanto un vecchio cimelio di famiglia.

- Ovviamente.

Sorrise, prendendo un libro con la copertina nera dalla cartellina.

- Evan me l’ha restituito poco fa.

Sgranai gli occhi. Il libro che leggeva Evan era del professor Warren? Osservai quel pezzo d’antiquariato cartaceo tra le mani del professore. Era molto vecchio, sembrava quasi che stesse per sgretolarsi. Non riuscivo nemmeno a leggerne il titolo. Lo aprì, sfogliandolo rapidamente, al punto che mi stupì della sua resistenza. Se poteva sfogliarlo in quel modo, sicuramente non era poi così vecchio.

- Cosa sta cercando?

Chiesi, mentre Violet si avvicinava a me, incuriosita.

Si fermò su una pagina precisa, voltando il libro verso di noi affinchè potessimo capire. Peccato che non si capisse assolutamente nulla. Simboli indecifrabili riempivano le pagine sorprendentemente bianche. Le parole, ammesso che lo fossero, erano incise con l’oro. A giudicare dall’apparenza era un testo sacro.

- Che lingua è?

- Rune, Aurore.

- Rune? Non so leggere il runico, mi spiace.

Sorrise, poi prese a leggere, traducendo all’istante quel linguaggio incomprensibile.

- La pietra che risplende nell’oscurità… segui la strada che conduce al lago di diamanti… qui la Croix riposa … qui la Croix riposa… la Croix du Lac.

Sobbalzai, che diavolo stava succedendo?! Nessuno a parte noi Kensington conosceva quella canzone… non era possibile che quell’uomo fosse al corrente di quelle parole. Eppure, era sicuro mentre leggeva, come fosse qualcosa che conosceva da sempre. Cercai di darmi una spiegazione quanto più logica possibile. Forse era stato lo stesso Evan a parlargliene… ma per quale motivo avrebbe dovuto farlo, per di più con una persona che non conoscevamo e con cui non avevamo certamente un rapporto idilliaco. No, dovevano esserci altri motivi. Ma per quanto desiderassi conoscerli, sentivo che non avrei dovuto espormi particolarmente con quell’uomo, poteva essere pericoloso, motivo per cui, mi limitai a replicare che non conoscevo quelle parole e che non mi interessava neanche conoscerle. Bugiarda, ero davvero una bugiarda, perché quelle parole mi trasmettevano qualcosa, sensazioni che non riuscivo a decifrare, ma che mi attraevano, misteriosamente, inesorabilmente, verso l’ignoto. Troppe volte l’ignoto aveva caratterizzato la mia vita, non volevo aggiungere un’altra pagina bianca, non volevo soffrire oltre. Guardai il professor Warren, sembrava compiaciuto di aver fatto breccia, a modo suo, nelle mie difese. Odiai quell’uomo, odiai improvvisamente l’averlo incontrato.

- Oh.

Cambiò tono, guardando il suo orologio.

- Tempo scaduto, dovreste tornare in classe.

Era passato così poco?

- Sì, è meglio.

Risposi, raccogliendo i libri di Violet.

- Andiamo.

Le suggerii, guardandola. Violet non aveva capito, per fortuna. Desiderai di essere come lei, ingenua rispetto a quel mondo misterioso che cercava di farsi largo nelle mie certezze. Mi aiutò, ci incamminammo.

- E’ importante conoscere le proprie origini, quando vorrai, potrai rivolgerti a me, Aurore.

Disse Warren, con un tono nient’affatto rassicurante. Era furbo quell’uomo, probabilmente aveva cercato di rivolgersi a Evan nello stesso modo. Ma mio fratello, come aveva risposto?

- Le conosco già, professore e mi creda, sono molto più normali di quanto lei pensi.

Tagliai corto, dirigendomi quanto più rapidamente potevo, verso l’uscita. Lontana da quell’uomo, lontana da quelle parole, lontana da quell’abisso.

Nelle ore che seguirono, seguii le lezioni che si avvicendavano sforzandomi di non pensare a quanto successo, ma il turbamento non accennava a passare. Rigirando tra le dita il mio ciondolo, pensai alla sua origine. Un cimelio di famiglia di chissà quale secolo. Osservai la lavagna, mentre il professore di letteratura scriveva, decantandoli allo stesso tempo, versi di poeti d’altri tempi. La mia mente si perse in elucubrazioni, mentre sulla lavagna prendevano forma le rune che avevo visto. Non ero capace di leggerle, ma il loro significato era evidente come se fossero state scritte nella mia lingua. Quelle parole, quella canzone… cos’era la Croix du Lac?! Perché quel nome mi era così stranamente familiare? Perché avevo l’impressione di conoscere ciò di cui non avrei dovuto nemmeno immaginare l’esistenza? Ma soprattutto, esisteva davvero? O era soltanto la fantasia materializzata di una canzone? Volevo ricordarne il continuo, mi sforzai di provarci, ma niente, soltanto il buio, pesto più che mai, pesto come lo scenario del mio incubo ricorrente.

Il tempo trascorse velocemente, così che non mi accorsi nemmeno della fine delle lezioni. Fu Violet a farmelo notare, ricordandomi l’incontro di studio che avremmo dovuto avere.

- Che ne dici di questo pomeriggio?

Mi fece notare.

- Pomeriggio? Sì, va… va bene, sia per pomeriggio.

- Ne sei sicura? Non mi sembri molto convinta… tutto a posto?

Chiese, posandomi una mano sulla fronte.

- Non hai la febbre…

- Perché dovrei avere la febbre?

- Perché da quando siamo tornate dalla biblioteca non fai altro che languire, avevi quasi gli occhi cerchiati… e normalmente capita se si ha febbre.

- Davvero? Non me n’ero resa conto… ma no, non ne ho, sta’ tranquilla.

La rassicurai.

- Senti, ti spiace se mi fermo ancora un po’?

- Hai impegni?

- No, vorrei soltanto fare un salto in biblioteca, pensavo che nonostante tutta la spesa che hai fatto manca ancora qualcosa.

- Dici?

Chiese, controllando tra i vari libri. Non se la beveva…

- Cosa manca?

Mi interrogò, i grandi occhi color caramello posati su di me.

- Soltanto una sciocchezza, un compendio… di biologia molecolare, che te ne pare?

- Biologia molecolare… non rientra nei nostri programmi…

Riflettè.

- Non importa, faremo una figura migliore, te lo assicuro!

Confermai, raccogliendo in fretta le mie cose e sistemando la cartella.

- Ci vediamo a pomeriggio!

- Da me?

- Da te, va bene!

Sorrisi, uscendo di corsa. Tuttavia, mi ricordai improvvisamente di avere un fratello con cui solitamente rincasavo, cosa che mi fece tornare sui miei passi. Mi affacciai all’aula, Violet era ancora lì.

- Potresti avvisare mio fratello che torno da sola, per favore?

- Va bene, lascia fare a me, devo proprio andare da quelle parti.

- Come mai?

- Abbiamo bisogno di aiuto, no?

- Aiuto? Ah, sì, certo. Ti adoro!

- Anch’io!

Sorrise e tornai di corsa sui miei passi. Dovevo fare presto. Per prima cosa, mi assicurai di essere se non sola, almeno in compagnia di pochi intimi, vale a dire, le frequentazioni abituali della biblioteca che avevano all’incirca la mia stessa età. Fui fortunata, all’orizzonte c’era solo una decina di ragazzi, sparsa tra scaffali e scrivanie, potevo agire indisturbata. Salii la scala in legno che collegava i piani intermedi, su cui facevano bella figura di loro scaffali ricchissimi e variegati. Cercai di ricordare le sezioni che mi aveva detto Violet, stupendomi ancora una volta dell’esistenza, in una scuola normale, di materie del genere. Ma in quale sezione poteva trovarsi il libro di Warren, ammettendo che l’avesse lasciato al suo posto? Effettivamente non avevo tenuto in considerazione il fatto che potesse aver deciso di tenere con sé il libro, dopotutto, gli apparteneva e in quella mole indiscussa di testi, chi avrebbe avuto interesse a cercare libri del genere. Oltretutto, non conoscevo nemmeno il titolo di quell’opera, era come, no, anzi, molto peggio, del cercare un ago in un pagliaio.

Sospirai, mi ero lanciata in un’azione decisamente suicida… per quale motivo poi? Non avevo forse deciso di lasciar perdere? Ma il richiamo, la tentazione, erano davvero forti. In fin dei conti, non avrei fatto altro che trovare qualcosa che non capivo, ma che mi era familiare per qualche motivo. Magari Evan avrebbe saputo spiegarmelo, ammesso che avesse capito qualcosa di ciò che c’era scritto. Cominciai a gironzolare attraverso i corridoi separati dai vari scaffali. Era stupefacente constatare quanto l’uomo amasse scrivere. Non sono mai stata particolarmente portata per la scrittura, ho provato a tenere un diario per qualche tempo, ma a parte scarabocchiarlo, non ero il massimo né della costanza, né della loquacità. Certe così, si sa, preferisci tenerle dentro. Osservai attentamente alcuni titoli, senza rendermene conto ero finita nella sezione “Mondi perduti”. Presi alcuni volumi in mano, erano davvero vecchi. Non ne riconobbi nessuno, sebbene fossero più o meno nomi famosi… c’era un libro su Atlantide, scritto da Platone, c’era anche un libro sul continente di Mu, mai cose più lontane dalla realtà. Se qualcosa era realmente esistita, aveva lasciato una traccia, da qualche parte, una traccia concreta, non era possibile che nessuno, mai, in migliaia di anni, l’avesse anche solo fiutata. Riposi i libri al loro posto, sicuramente, ciò che avrebbe potuto interessarmi non era lì. Presi il ciondolo, osservandolo.

- Nemmeno tu puoi essermi d’aiuto, vero?

Bisbigliai. Perfetto, mi stavo rivolgendo a un ciondolo, la mia sanità mentale era davvero a un passo dalla pazzia. Detti un’ultima occhiata, prima di uscire dal corridoio, quando scorsi, un po’ più in alto, un libro non allineato con gli altri.

- Massì, tanto che ci perdi?

Mi chiesi, sporgendomi per prenderlo. Peccato che fosse un po’ più in alto di quanto un po’ più in alto avessi immaginato. Non ci sarei arrivata senza un aiuto. Un misto di sclero e di delusione colorò le mie guance di rosso, mentre mi sollevavo sulle punte in un ultimo, maldestro tentativo di raggiungere quel maledetto libro.

- Accidenti… accidenti… perché ce l’hai con me, stupido libro?!

Bofonchiai.

- Quando la volpe non arriva all’uva dice che è acerba, no?

Mi punse una voce alle mie spalle, mentre un braccio, visibilmente più lungo del mio si ergeva e la mano prendeva con facilità il libro. Notai dal colore della manica che era sicuramente uno studente, cosa che mi tranquillizzò, almeno per il tempo di voltarmi e di riconoscere Damien Warren.

Raggelai.

Magnifico, da Warren padre a Warren figlio, ma cos’era, una persecuzione?! Con molta tranquillità, sfogliò il libro, speravo quantomeno di essere stata abbastanza fortunata da non aver trovato qualunque libro stessi cercando, in modo da non dovergli delle spiegazioni.

- Potresti dirmi che libro è?

Chiesi.

- E tu potresti almeno ringraziare?

Colpita.

- Tsk…

Sbuffai, non l’avrebbe avuta vinta.

- Molto gentile, mi dai il libro?

- Per favore.

Lo odiavo.

- Non ho tempo da perdere, dammi quel libro.

Mi osservò, ma non riuscii a decifrare la sua espressione. Credo che mai nessuno avesse risposto in modo così irrispettoso al despota ed ero già alla seconda volta. Sarei stata un precedente. Forse era il caso di non tirare troppo la corda, eravamo praticamente soli su quel piano, se avesse deciso di prendersi una rivincita, non so se ce l’avrei fatta a contrastarlo. Distolsi lo sguardo.

- Per favore.

Pronunciai a denti stretti. Certamente, non poteva sapere quanto mi costasse essere gentile con lui. Non potevo dimenticare la sua arroganza e come se non bastasse, suo padre perseguitava me ed Evan. Continuava a guardarmi, senza scomporsi.

- Hanno sicuramente sbagliato sezione.

Commentò.

- Eh?

Chiuse il libro, porgendomelo. Sulla copertina, campeggiava il titolo “Othello – Shakespeare”. Raggelai di nuovo, non so se più per aver sbagliato testo o se per aver dato dello “stupido libro” a un’opera di un grande maestro. Lo presi, sospirando.

- Posso aiutarti?

Chiese, stranamente gentile. Lo guardai, mi sentivo come una bambina stupida che aveva pianto per delle caramelle e assaggiatele, aveva scoperto che facevano schifo.

- No, non credo…

Sospirò.

- In realtà… non so nemmeno io cosa sto cercando. E’ soltanto che tuo padre mi ha mostrato un lib--  

- Un libro?

Mi interruppe.

Sobbalzai, il suo tono era alterato.

- Cosa ti ha detto?

Non potevo… non dovevo parlargliene. Non lo conoscevo, non era una buona idea. Eppure…

- Mi ha fatto delle domande, sull’origine del mio ciondolo… e poi, conosce una canzone, o meglio, le parole di una canzone che conosco anch’io, ma sul suo libro sono scritte in runico e io non capisco il runico. So che è una canzone molto vecchia, ma non--    

- Aspetta, rallenta, non ti seguo.

Senza volerlo gli stavo raccontando tutto. Stupida!!

- Ehm… non è niente, niente di particolare! Dimenticalo, ok? Non è importante!

Farfugliai, nel disperato tentativo di salvare ciò che stavo mandando in frantumi.

Fortunatamente, mi venne incontro, forse aveva capito che ero in difficoltà.

- Ascolta… lascialo perdere. Quell’uomo è fissato.

Quell’uomo? Aveva definito suo padre quell’uomo?

- Si diverte, è un sadico. Ma non dargli peso, anzi, se puoi evitalo, sa essere davvero seccante quando vuole.

Non potevo crederci, Damien Warren mi stava mettendo in guardia dal suo stesso padre?

- E’ tuo padre…

- E io sono suo figlio, allora?

Strinsi i pugni, per quanto odioso, era suo padre. Lui l’aveva, io no.

- Tu sai… cosa vuole da mio fratello?

Chiesi, cercando di cambiare discorso. Ci riuscii, ma lo lasciai spiazzato.

- No, non lo so. Ma è da quando vi siete trasferiti qui che si interessa a voi.

E’ da quando vi siete trasferiti qui che si interessa a voi. Il cuore prese a battermi più velocemente. Cosa diavolo stava accadendo?! Qualunque cosa bollisse in pentola, di sicuro, Damien Warren non avrebbe potuto aiutarmi a scoprire cosa fosse dato che la cosa sembrava per lui più che normale. A quanto pare il professor Warren aveva l’abitudine di vessare i nuovi studenti.

- Senti, Aurore… stai lontana dai guai. Anzi, state, sia tu che tuo fratello.

- Che vuoi dire?

- E’ solo un cons--    

Non concluse la frase, il suo cellulare squillò.

- Non dovresti spegnerlo?

Mi fulminò con lo sguardo, nemmeno avessi detto un’eresia. Gran faccia tosta, chi credeva di essere? Si allontanò repentinamente, ma nel silenzio della sala, riuscii a sentire qualche parola. Il suo tono era cambiato all’improvviso, era allarmato, doveva essere accaduto qualcosa.

- Cos’è successo?! Sì, arrivo subito, non fate niente!

Concluse, terminando la chiamata.

Mi affacciai, era scosso.

- Tutto… bene?

Chiesi timidamente.

Mi guardò, poi distolse lo sguardo per un secondo, prima di riprendere il controllo.

- La sezione “Biologia” è al piano inferiore, prendi quello che ti serve, ci vediamo questo pomeriggio.

- C-C-C-osa?!

Esclamai, ottenendo per tutta risposta un generale “shhhhhh!” dal piano inferiore. Dannazione, avevano sentito il cellulare squillare e non avevano detto niente, avevo avuto una normalissima reazione di shock e mi zittivano?! Ma come girava il mondo in quella scuola?

Non disse altro e corse via di fretta, senza nemmeno curarsi del rumore che faceva nello spalancare il portone per uscire. Mi affacciai alla ringhiera, notando i presenti che non si erano affatto scomposti. Ok, la scuola girava ufficialmente intorno a Damien Warren e mi si prospettava il peggior pomeriggio della mia vita.

Guardai il libro ancora nelle mie mani, aprendolo. Ciò che vidi mi sconvolse. Non era Shakespeare, era esattamente il libro del professor Warren. Riconobbi le stesse rune che mi aveva mostrato. Com’era possibile? E soprattutto, com’era possibile che Damien non se ne fosse accorto? Mi stava prendendo in giro, era assolutamente così. Scesi al piano inferiore, mostrando il libro a un ragazzo che seduto alla scrivania, era circondato da testi di storia. Con tutta probabilità stava scrivendo una qualche tesina. Sollevò gli occhiali, per sistemarli e mi guardò. L’avevo interrotto.

- Cosa vuoi?

Chiese.

- Cosa leggi qui?

Domandai, indicando la pagina con le rune.

Guardò il libro.

- “Otello - Domandate di grazia a quel demonio lì per che cagione mi ha così rovinato anima e corpo.
Iago -  Non domandatemi più nulla. Quel che sapete sapete. Da ora in là non aprirò più bocca.” E’ dalla seconda scena dell’atto V, qual è il problema?

Rimasi senza parole. Qual era il problema? Qual era?

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Capitolo 4
*** III - Un nuovo incubo ***


Capitolo un po' lungo, ma mi dispiaceva dividerlo in più parti... ç_ç

 

Durante il pomeriggio, mi recai a casa di Violet, sebbene alla luce degli ultimi eventi non avessi poi tanta voglia di studiare. Ero confusa, non ci capivo niente, e cominciai a chiedermi se anche la mia amica non avesse visto in quel libro, altro che non fossero i versi di Shakespeare. Come se non bastasse, Evan non era rincasato. Avrei voluto parlargli, ma al mio arrivo, la mamma mi aveva informato che si sarebbe trattenuto a studiare a scuola. Quella bugia era così fragile. Temevo di sapere dove fosse andato davvero, dal momento che non l’avevo nemmeno visto in biblioteca. Qualunque cosa ci fosse dietro, era chiaro che il professor Warren aveva un inquietante ascendente su mio fratello e la cosa non mi piaceva affatto. Ma prima ancora di parlarne alla mamma, dovevo saperne di più, dovevo affrontare l’argomento direttamente con Evan. Tuttavia, avevo bisogno di fare mente locale, motivo per cui, qualche ora di pausa sarebbe stata ben accetta.

Arrivai da Violet nel primo pomeriggio, mi aspettava. Vederla al di fuori della scuola non era differente dal vederla a scuola, era sempre impeccabile, ma al tempo stesso semplice. Non amava particolarmente l’abbigliamento elaborato, eravamo piuttosto simili in questo. Mi accolse con un bel sorriso, sembrava soddisfatta della riuscita della sua impresa.

- Violet…

Esordii.

- Perché proprio Warren?

- Perché è uno dei migliori studenti e in quanto Responsabile delle classi del terzo anno conosce molto bene tutti i programmi, ci potrà aiutare meglio di chiunque altro. Che strano… non ti avevo detto che era lui…

- L’ho incrociato in biblioteca, mi ha dato la bella notizia.

Spiegai.

- Peccato, avrei voluto vederti mentre lo scoprivi.

- Avrei avuto una faccia molto arrabbiata, sadica che non sei altro.

Intimai, molto poco seriamente, dal momento che la mia minaccia la fece ridere.

- Hai preso il libro che ti serviva?

Il libro… che mi serviva… dannazione, con tutto quello che era successo me n’ero completamente scordata…

- Va bene lo stesso se ho portato dei dolcetti?

- Più che perfetto, zucchero e studio vanno d’accordo!

Rise, mentre entravamo nel salone della sua casa. Una casetta piccola, Violet era figlia unica, viveva coi suoi genitori, una famiglia molto normale, si direbbe, ma per me, una famiglia meravigliosa. Salutai sua madre, impegnata in faccende dell’ultim’ora, anche se la sua presenza mi fece pensare più alla curiosità verso il ragazzo che stava per arrivare, o almeno così pensavo, che al gruppo di studio, dato che Violet, proprio come me, non aveva mai avuto un ragazzo.

Prendemmo posto, posai i miei quaderni, godendo della tranquillità della casetta, mentre il volpino di Violet, ormai abituato alla mia presenza, sonnecchiava in una cesta di vimini ai piedi del divano. Era davvero una gran bella sensazione essere liberi da qualunque preoccupazione.

Per qualche ora, non avrei pensato ai miei problemi, il che sarebbe stato un miracolo.

Aspettammo Warren chiacchierando del più e del meno, Violet in particolare, pregustava la buona riuscita della verifica per l’uscita della prossima settimana. Tutto mi sembrava così facile, ma il pensiero di un pericolo imminente, per quanto cercassi di scacciarlo, era sufficiente a fare apparire ogni cosa come rischiosa. Forse la mamma aveva capito qualcosa… poi ricordai che avevo portato con me il libro del professore, così, per fugare il dubbio, decisi di mostrarlo a Violet. Non feci nemmeno in tempo a tirarlo fuori dalla borsa, che il campanello suonò. Era Warren.

- Maledetto… scegli sempre i momenti meno opportuni...

Bisbigliai, riponendolo a posto, mentre nell’ingresso, Violet e sua madre facevano gli onori di casa. Non si poteva certo dire che fosse scortese, al di fuori del contesto scolastico. Si presentò con dei fiori in mano, calendule, per scusarsi di essere arrivato in ritardo. A giudicare dal tono della madre di Violet, aveva colpito nel segno, sembrava incantata da quel giovane cavaliere. Esibizionista, pensai, posando la guancia sul palmo della mano, in attesa del loro ritorno. Non tardarono, di lì a poco, li vidi entrare nel salone.

Era la prima volta che lo vedevo in tenuta diversa dall’uniforme. Solitamente in giacca e cravatta, aveva abbandonato quella mise per un dolcevita nero su cui faceva pendant  un giubbino lungo blu scuro. Il contrasto con la sua pelle avorio mi stupì, non me n’ero mai accorta. Fece un cenno, scusandosi del ritardo. A quanto pare aveva avuto faccende da sbrigare prima, ed ero sicura che fossero legate alla misteriosa telefonata che aveva ricevuto in biblioteca. Prese posto accanto a noi, tirando fuori dalla borsa i suoi libri. Erano molto ben curati, si vedeva che ci teneva. Sarebbe stato davvero un colpo se fosse stato il contrario e non nascondo che in qualche modo mi avrebbe fatto piacere, l’avrebbe reso meno perfettino di quanto sembrasse.

Rimasi sorpresa, nelle ore che seguirono, della sua maestria. Era davvero bravo, ci spiegò dettagliatamente, con la precisione di chi ha cognizione di causa, tutti i punti oscuri del programma, facendo in modo che laddove la spiegazione fosse troppo complicata, fossimo in grado di capire. Lo ascoltavo attentamente, sembrava quasi una persona diversa. Sempre sicuro di sé, ma allo stesso tempo pronto ad accogliere e a risolvere ogni nostro problema. Si dimostrò perfino gentile nell’aiutarci a svolgere degli esercizi. In altre parole, Damien Warren aveva una doppia personalità. Il despota, temuta leggenda della scuola, che godeva di poteri assoluti entro il perimetro dell’istituto (e chissà, magari non solo lì), e la modalità ragazzo disponibile, che non so quali e quante volte uscisse allo scoperto. Credo che Evan avrebbe tratto giovamento da quelle lezioni. Non che non fosse bravo, ma più che altro, era disinteressato.

- Non siete male, come allieve, intendo.

Disse Warren, durante un momento di pausa.

Eravamo alle prese con i dolcetti, dei bigné al cioccolato, e notai con ben celato piacere che avevano riscosso successo. Warren era già al secondo.

- Più che altro cerchiamo di impegnarci per non fare brutta figura con te.

Replicò Violet, in tutta sincerità.

- Non è vero!!

Protestai. E non lo era, almeno per me.

- Perché ti scaldi tanto?

Mi chiese.

- Perché… perché… perché non è così, Violet!!

Mi stavo scaldando, aveva ragione. Warren ridacchiava, sembrava piacevolmente divertito, mentre gustava il suo bigné.

- E tu non ridere.

Lo guardai di sottecchi, sperando che gli andasse di traverso. Emanavo onde negative da tutti i pori.

- Non sto ridendo, sto ridacchiando, è diverso.

- Non parlare con la bocca piena, è da maleducati.

Osservai, nella speranza di averlo punto. Sfortunatamente per me, aveva finito di mangiare.

C’era qualcosa, in quel nostro strano interagire, che mi ricordava il discutere con Evan. Mi chiesi come potevamo apparire agli occhi della mia amica, che continuava a osservarci sorniona.

Sornione allo stesso modo, il piccolo, adorabile batuffolo rossiccio che passava le sue giornate a festeggiare la sua padroncina e a dormire si era svegliato. Che vita beata, non si era nemmeno accorto dell’ospite…

- Come si chiama?

Chiese Warren, osservandolo.

- Tutankhamon. Si chiama Tutankhamon.

Era un nome davvero strano per un cane, ma se a Violet piaceva… guardai Warren, ero curiosa di carpirne la reazione e di immortalarla. Una faccia strana? Shock? Schifato?

Niente di tutto questo, si limitò a un laconico “Ah”, mentre tendeva la mano verso Tutankhamon, che fiutatala, si alzò dal suo giaciglio e raggiunse Warren. Lo annusò, come d’uso presso le razze canine e si lasciò accarezzare docilmente. A quanto pare gli piaceva.

- Sembra che tu gli sia simpatico.

Osservò Violet.

- Così sembra.

Sorrise Warren.

Era davvero carino quando sorrideva, sembrava più rilassato.

Gli fece delle giocose carezze dietro le orecchie appuntite, poi accontentò Tutankhamon che chiedeva coccole sul pancino. Sembrava ci sapesse fare.

- Ti piacciono i cani, Warren?

Domandai.

- Se sono piccoli sì. Non amo particolarmente le bestie grosse. Trovo che sporchino troppo.

Davvero un’osservazione pratica.

- Che ne dite di riprendere lo studio?

Propose, ricomponendosi. Tutankhamon guaì.

- Ne vuole ancora, se gli vai a genio non c’è modo che tu possa sottrarti, Warren.

Disse Violet.

- Mpf. Dovrà aspettare. Vero, piccolo?

Disse rivolgendosi al batuffolo, che mesto, andò a elemosinare coccole dalla sua padroncina.

- E’ un po’ viziato, non credi?

Osservò.

Violet lo prese in braccio, coccolandolo.

- E’ vero, ma i vizi li merita tutti.

Sorrise, alzandosi.

- Dove vai?

Chiesi.

- Lo porto in camera, potete aspettare ancora cinque minuti?

- Certo.

Confermai, guardando Warren, che del canto suo, le rivolse giusto un cenno di assenso. Violet sollevò la zampetta di Tutankhamon a mo’ di saluto, divertita, poi si allontanò. Era stato un bel momento ricreativo. Ne approfittai per mettere un po’ d’ordine sulla scrivania, mentre Warren osservava i dolcetti rimasti.

- Se ti vanno li puoi prendere, sai?

- Mh?

- I bigné.

Gli feci notare.

Mi guardò come se l’avessi preso in contropiede. Perfetto, fu una grande soddisfazione.

- E’ la prima volta che li mangio.

- La prima… volta? Possibile?

- Sì, sono buoni.

Disse, prendendone un altro.

- Ah, beh… mi fa piacere.

- Meglio così.

Lo addentò, lo trovava davvero gustoso. Un ragazzo, proabilmente ricco sfondato, che non aveva mai mangiato bigné al cioccolato in vita sua. E io che mi lamentavo delle stranezze di Evan…

- Tu non mangi?

- Già fatto, ne ho mangiati fin troppi a casa…

Confessai in colpevole imbarazzo.

- Li hai fatti tu?

- Non esattamente…

In realtà, era opera di mia madre.

- Capisco.

Mr Loquacità al massimo della sua forma, eh?

- Ma quando torna Violet?

Chiesi, in modo da ravvivare l’attenzione che stava pericolosamente scemando.

- Credo stia volutamente temporeggiando.

- Perché?

- Secondo te?

- Non ne ho idea…

Mi guardò, posando il mento sui dorsi delle mani incrociate.

- Per farci parlare.

- Di cosa?

- Non lo so, dimmelo tu.

- Senti, detective, non sono una sospetta.

- Infatti, sei già sospettata.

- E di grazia, di quale grande crimine?

- Di aver insultato il Gran Capo del terzo anno.

- Grancosa, prego?

Manie di grandezza, andavamo davvero bene. Posai i gomiti sul tavolo, assumendo la sua stessa posa.

- Mi son sempre chiesto perché mi chiamassero despota.

- Non ti sei mai accorto del terrore che incuti?

- Sinceramente no.

- Metti gli occhiali, che ne dici? Magari la prossima volta ti accorgerai di come sia sufficiente una tua sola parola per far suicidare la gente.

- Hai assistito personalmente a una scena del genere?

- Era figurato.

- Mpf.

- Smettila di fare “mpf”, è fastidioso.

- Continuerò a farlo allora.

- Mi stai infastidendo.

- Lo so.

- E allora perché lo fai?

- Perché sei divertente.

Divertente?! Ma che cavolo ero diventata, un fenomeno da baraccone?!

- Tu…

Mi alzai, raggiungendolo. Dava sicurezza guardarlo dall’alto in basso, per quanto mi parve che per lui non cambiasse niente.

- Sei più rilassata.

Esitai.

- Come?

- Oggi… eri davvero tesa… in biblioteca intendo.

Grazie per avermelo ricordato, idiota.

- Va meglio?

- Non lo so…

- Non lo sai?

- Se te lo sto dicendo è così, no?!

- Non alterarti.

- E’ colpa tua, non posso farci niente. Mi irriti.

- Dovresti cambiare bagnoschiuma, magari l’irritazione passerà.

- Ma ci prendi gusto?

Si alzò, seguii la sua figura che si ergeva di fronte a me. A confronto ero più bassa di quasi due spanne. Adesso era lui a guardarmi dall’alto in basso. Non dovevo esitare, ma il battito del mio cuore accelerò, il respiro si fece più corto. Era così vicino…

Non mi era mai accaduto prima, l’unico ragazzo che mi si era avvicinato così tanto era Evan, ma era diverso, noi eravamo fratelli, non mi provocava la stessa emozione. Sentivo la pelle in fiamme, soprattutto sulle guance, era una sensazione sconosciuta e in un certo senso piacevole, quella dell’attesa. Ero in attesa… di qualcosa?

Guardavo Warren che continuava a fissarmi, i miei occhi di amestista si rispecchiavano nei suoi di smeraldo, era come guardarsi allo specchio, ma con la consapevolezza che quello specchio emanava un’inconsueta forza che mi impediva di muovermi, di parlare, di reagire come avrei dovuto. Non so cosa mi aspettassi, ma qualunque cosa fosse, lui forse la intese. La sua espressione si ammorbidì.

- Il colore dei tuoi occhi… non l’avevo mai visto prima.

Mi risvegliai dal torpore. Scossi la testa, facendo un passo indietro.

- E… allora?

Se ne accorse, tornò a sedersi.

- Niente, è un bel colore.

Giudicò, riprendendo in mano il libro.

Qualunque cosa stessi aspettando… non l’avrei avuta certo in quel momento. Distolsi lo sguardo, sebbene fosse la prima volta che qualcuno all’infuori di mia madre mi diceva che il mio bizzarro colore degli occhi era un bel colore.

Tornai a sedermi anch’io, prendendo un quaderno. Il batticuore si era placato, lasciando il posto a battiti più regolari, stavo riprendendo il controllo di me stessa. Rimanemmo in silenzio per un po’, ciascuno perso nei propri pensieri. Ah, quanto desideravo che Violet si muovesse…

- Vado a chiamarla.

Decisi, stanca di quella situazione che stava diventando pesante a causa dell’imbarazzante silenzio tra noi.

- Non ce n’è bisogno, è là, dietro lo stipite.

Rispose Warren, muovendo velocemente le dita e facendo ruotare la penna che aveva in mano affinchè la punta indicasse la mia amica che s’era provvidenzialmente nascosta.

- Violet…

Sbottai, mentre si affacciava.

- Lo ammetto, eravate così carini, volevo vedere come andava a finire.

Confessò innocentemente.

Tsk, l’avrei uccisa volentieri, ma finii col compiere l’azione meno indicata: l’arrossire.

- Potremmo riprendere a studiare, per favore?

Chiesi, nascondendo la faccia tra i libri. Troppo tardi perché Warren non se ne accorgesse. Da parte sua, tuttavia, non vi fu alcuna reazione, quasi si aspettasse un gioco del genere. Violet doveva essere piuttosto prevedibile ai suoi occhi, ma per me era diverso, nessuno mai aveva combinato delle situazioni come quelle, ero praticamente una novellina.

E poi, cosa non meno importante, dovevo essere grata a Warren di essere stato così… discreto? Per la prima volta in vita mia, mi sentivo davvero combattuta nei suoi confronti. Non mi piaceva quel ragazzo, ma mi piaceva ancora meno l’essere stata succube della sua influenza.

Trascorremmo ciò che rimaneva del pomeriggio a studiare, molto tranquillamente, sebbene cercassi il meno possibile di incrociare direttamente lo sguardo di Warren. Non volevo dargli la soddisfazione di avermi vista così vulnerabile. Ciononostante, a suo onore va detto che non fece mai in modo di fissarmi come aveva fatto prima, mantenendo decorosamente le distanze.

Erano circa le 20:00 quando concludemmo il sit-in, chiudendo ufficialmente i libri. Qualunque cosa fosse uscita in quella verifica, sicuramente non sarebbe stata più oscura e complicata di ciò che era successo.

Notai che Warren, da circa mezz’ora, controllava periodicamente l’orologio, con aria sempre più impaziente. Chissà quali impegni aveva lasciato in sospeso per aiutarci. In ogni caso, ci aiutò a sistemare ogni cosa, sincerandosi che avessimo bene in mente tutte le nozioni che ci sarebbero servite l’indomani. Era discretamente soddisfatto, e devo ammettere che la cosa mi aveva fatto piacere, era stata una seduta fruttuosa per tutti.

- Fatemi sapere come va.

Disse, prima di congedarsi da noi.

- Assolutamente!

Gli assicurò Violet, nel porgergli la borsa.

Riflettei, in quell’istante, sul fatto che potessero essere una bella coppia quei due. Mi sentii di troppo, soprattutto quando lo sguardo di Warren si posò nuovamente su di me.

- Se ti va ti accompagno a casa.

Sussultai.

- Perché?!

Mi affrettai a chiedere.

- E’ tardi, non è sicuro per te.

- Grazie, ma mi so difendere.

Storsi la bocca, ci mancava anche la modalità cavalier servente…

- Come preferisci. In bocca al lupo per domani. Arrivederci, ragazze.

Fece un cenno col capo, uscendo.

- Ciao…

Risposi stentatamente, aspettando il momento in cui Violet avrebbe chiuso la porta per regolare i conti. Purtroppo/per fortuna quel momento non arrivò.

Guardai meglio, dietro il cancello, alla fine del corridoio di bouganville rampicanti, c’era nientemeno che Evan, in attesa.

- Evan!

Esclamai, mentre mio fratello faceva segno di avermi riconosciuta con la mano. Il mio sguardo si spostò velocemente su Warren, che di spalle, era rimasto fermo a metà del tragitto.

Evan indossava il suo cappotto nero, con una sciarpa bianca attorno al collo. Nonostante fosse ormai aprile, la sera era ancora un po’ fredda, certe volte. Uscii di casa, oltrepassando Warren e raggiungedolo.

- Si può sapere che ci fai tu qui?

- Son venuto a prenderti. E lui invece?

Accennò con un gesto del mento.

- Ehm… che ne dici se te lo racconto strada facendo?

Sospirò.

- Va bene. Ti aspetto qui.

- Ok… torno subito.

Acconsentii, rientrando di corsa. Avevo il timore che quei due si mettessero a litigare, il che sarebbe stato un gran bel casino, dato che nei quartieri delle cittadine la gente tende a chiacchierare, e non volevo che Violet ci andasse di mezzo. Avevo proprio un bizzarro modo di proteggere la mia amica, pensavo. Raccolsi le mie cose, guardandola.

- Che stanno facendo?

- Niente, Warren è appena uscito.

Rispose Violet, osservando fuori.

- Niente sbranamenti?

- Niente sbranamenti, tranquilla.

Sorrise.

- Meglio così…

Tirai un sospiro di sollievo.

- Però…

Consumai il sospiro di sollievo appena tirato.

- Niente, Evan non si è scomposto. Che sfortuna, volevo vedere un bello street-fight

- Violet…

Mi misi a ridere, raggiungendola.

- Grazie di tutto.

Dissi, dandole un bacio sulla guancia.

- Figurati, anzi, è un peccato che non sia andata in porto… non ti ha baciata, vero?

Dio, che voglia di sprofondare… Violet era la franchezza fatta persona quando voleva. A costo di essere completamente priva di tatto, se si trattava di scoprire la verità, era disposta a tutto.

- No, non l’ha fatto!! E se l’avesse fatto avrebbe avuto il segno delle cinque dita stampato sulla guancia!!

Esclamai, arrossendo e correndo verso Evan, che mi aspettava.

- A domani!

Disse. C’era solo la luce dell’ingresso ad illuminare, ma fu sufficiente a farmi notare il sorriso più che complice della mia amica.

- Eccomi, andiamo pure…

Dissi a Evan, che mi guardava perplesso.

- E’ tutto a posto?

- Certo, qualcosa ti fa pensare che non sia così?

Chiesi, tutto d’un fiato.

- Sì, stai parlando velocemente.

- No, non è vero!

Contestai, nel chiudere il cancello alle nostre spalle e incamminandomi.

Sorrise, raggiungendomi all’istante.

Darlington di sera era suggestiva. Villette con parchi facevano da sfondo ai lunghi viali illuminati, c’era molto verde ed erano poche le auto che circolavano. A volte sembrava di essere in un posto d’altri tempi, ma credo che questo fosse dovuto al fatto che era la prima volta che stavamo in un luogo in pianta stabile, almeno per il momento. La mamma non aveva ancora parlato di trasferimenti, quindi suppongo che avesse intenzione di trattenersi ancora a lungo. Poi il fatto che mi avesse chiesto cosa pensassi di Darlington era sicuramente un incentivo positivo a qualunque decisione lasciata in sospeso. Forse, aveva capito che stavamo mettendo radici, che finalmente avevamo trovato un equilibrio, ed era così, mi sentivo a casa.

Respirai a fondo l’aria aprilina, era fresca e delicata. Mi sentivo di nuovo bene, tanto da credere quasi di aver scordato tutti gli strani eventi che erano accaduti in quei giorni.

- Dovresti coprirti meglio, Aurore.

Disse all’improvviso Evan.

- Perché?

Domandai, facendo un giro su me stessa e fermandomi proprio davanti a lui. Ero così contenta.

- Rischi un raffreddore, non è una serata così calda.

- Ma non è nemmeno così fredda, no?

Tolse la sua sciarpa, avvolgendomela intorno al collo.

- E’ soltanto che non voglio che tu corra rischi.

Lo guardai, stava sorridendo. Il sorriso che conoscevo, quello che avevo imparato a riconoscere tra tutti, quello che amavo.

- Grazie…

Sussurrai, era bello sentirlo parlare così.

Raccolse il mio ciondolo nella mano, guardandolo.

- Oggi… hai fatto una faccia strana quando l’hai visto…

Confessai.

- Mi ha solo stupito. Avevamo deciso… di regalartelo per il compleanno, la mamma e io.

Sgranai gli occhi, quello era… il mio regalo di compleanno? Ma non sarebbe stato prima di una settimana, perché anticipare? C’era qualche motivo particolare? Non era mai accaduto prima d’allora…

- Avrà avuto i suoi motivi. Forse, voleva richiamare un po’ la mia attenzione, sono stato assente, in questi giorni…

Osservai mio fratello che guardava il mio ciondolo. Aveva un’aria colpevole, era la prima volta che lo vedevo così. Istintivamente, gli accarezzai la guancia, costringendolo a rivolgere lo sguardo su di me.

- Va tutto bene, Evan?

Mi guardò per un lunghissimo minuto, senza proferire parola. Il suo volto era un misto di emozioni, ma riconobbi la tristezza, su tutte. Evan, che sin da quand’eravamo bambini, mi era stato vicino, proteggendomi. Evan, che era cresciuto troppo presto. Evan, che non mi aveva mai mentito. Evan, tutto ciò che avevo mai desiderato in tutta la mia vita.

Posò la guancia sul palmo della mia mano, era fredda, come se fosse stato fuori per chissà quanto tempo. Sentii le lacrime inondarmi gli occhi, desiderando di alleviare in qualunque modo qualsiasi sofferenza stesse attraversando il suo animo. Troppe volte Evan l’aveva fatto con me, e io non avevo mai saputo ricambiare.

Non importa in che modo la si vedesse, io ero una palla al piede per lui, qualcosa di cui avrebbe dovuto fare a meno. A volte avrei voluto scomparire, non essere mai esistita, non avergli mai condizionato la vita. Forse, senza di me sarebbe stato più felice, avrebbe trovato anche una ragazza che lo amava e che avrebbe potuto ricambiare. A causa mia, questo era impossibile, era troppo impegnato a farmi da fratello maggiore e da padre e a salvarmi dalle svariate volte in cui ero preda dei miei incubi.

Le lacrime sgorgarono inesorabili, solcandomi le guance. Non volevo, mi aveva vista piangere troppe volte, si sarebbe preoccupato di nuovo, ma non riuscivo a farne a meno. La sua espressione non era cambiata granché, ma vi si era aggiunta una nota di sospetto.

- Aurore, perché stai piangendo?

Mi chiese, addolcendo la voce quanto più poteva.

- Non lo so… scusami, non lo so…

Singhiozzai.

Ero in confusione più completa, volevo soltanto piangere.

Mi accarezzò la testa, una cosa che sia lui che la mamma facevano sempre, che aveva il potere di calmarmi, e mi asciugò le lacrime.

- Non è il caso… primo perché se ci vedesse qualcuno potrebbe pensare che è successo qualcosa e secondo perché… perché sto bene, Aurore, non devi preoccuparti per me.

Sorrise, ogni traccia di quel misto di emozioni era scomparsa.

Ricacciai indietro le ultime lacrime, ritrovando il contegno.

- Ne sei sicuro?

Chiesi, timidamente. Ero così in pena per lui…

- Sì, lo sono.

Mi sentivo la testa pesante per quello stress, tutta la felicità di poco prima, sembrava sparita totalmente. Mi aggrappai al suo braccio, stringendolo forte a me. Avevo la tremenda sensazione che prima o poi, sarebbe scomparso.  

Intuì la mia paura, così non sindacò, incamminandosi.

Eravamo tornati nuovamente silenziosi.

- E’ stata la mamma a chiederti di venirmi a prendere?

Chiesi, mentre attraversavamo i viali alberati. Sembravano i boulevards francesi, era davvero molto suggestivo.

- Non esattamente, ho pensato che avessi scordato la sciarpa e così…

- Mi sembrava fuori stagione per uno come te, infatti…

Sorrise nuovamente.

- Già, è vero. Com’è andata?

- Bene… credo…

- Credi?

- Sì, lo stabilirà la verifica di domani…

- Tieni davvero tanto a quella festa, eh?

In realtà me n’ero completamente scordata…

- E’ una bella occasione per conoscere gente nuova, no?

- Mh… se la metti così…

- Dovresti venire anche tu.

- Chi lo sa, può darsi.

Sollevai lo sguardo, guardava dritto davanti a sé.

- Tu vuoi andarci?

Non ne avevo poi così tanta voglia, ma in fondo Violet si era prodigata tanto. C’era da considerare anche l’ipotesi che fosse stato tutto pianificato, ma in quel momento non mi andava di darmi alle supposizioni, considerando che andavano a concludersi sempre con un buco nell’acqua.

- Sì, perché no?

- Allora cercherò di convincere la mamma.

- Sai che succede quando cerchi di convincerla, vero?

Sorrisi, divertita.

- Beh, se sarò fortunato, questa volta prenderà la mia insubordinazione come una ribellione post-adolescenziale.

- Ehi, guarda che hai solo diciotto anni.

- Appunto.

Sbuffai, non era il caso di attaccarsi ai dettagli.

- Che ne dici se ci fermiamo a prendere una pizza?

- Non la ordiniamo?

- Mangiamo fuori, ho il permesso.

- Scritto?

- No, ma è assicurato. La mamma aveva del lavoro da sbrigare e così possiamo rientrare un po’ più tardi.

- Davvero? Non capita spesso…

Osservai.

- In realtà non capita mai.

Osservò lui.

- Sì, è vero. Pensi che ci nasconda qualcosa?

- Non ne ho idea.

Confessò sinceramente.

- Magari le portiamo qualcosa al rientro, che ne dici?

- Ho la carta di credito.

- Vuoi svaligiare qualche negozio? Perché, sai, avrei visto certi vestiti…

- Pizza. Hai la facoltà di scegliere il dolce.

Il dolce… già, Evan non sapeva dei bigné. Sorrisi, ripensando all’espressione soddisfatta di Warren nell’assaggiarli.

- Ti rende felice scegliere il dolce?

- Mh… sì, trovo che i dolci siano capaci di realizzare miracoli.

- C’è qualcosa che devo sapere?

- Mh… chi lo sa.

Insinuai, mentre gli stringevo nuovamente il braccio. Chissà se gli stavo facendo male. Dalla sua espressione non riuscivo a capirlo, ma era bello vederlo nuovamente sereno.

Raggiungemmo la pizzeria, che si trovava nei pressi del locale in cui avremmo dovuto recarci il sabato seguente, e sulla cui insegna troneggiava un “Prossima apertura”. A prima occhiata sembrava piuttosto gotico, non mi era mai capitato di vedere edifici come quello, se escludevo Notre Dame. In realtà, come il resto della cittadina, era elegante, non stonava affatto. La mia sola speranza era che non diventasse un posto frequentato da bevitori di professione.

Oltrepassammo il locale, raggiungendo la pizzeria. Due giovani commesse ci accolsero. Su per giù avevano l’età di Evan, probabilmente vi lavoravano per pagarsi gli studi. Una delle due, capelli corti, castani, occhi azzurri, ci fece strada, accompagnandoci al tavolo. Fu insolitamente divertente notare che fremeva dalla voglia di parlare a Evan, che del canto suo, non mostrava minimo interesse. Ma poi, il ricordo del mio egoismo fece capolino. Se volevo che Evan fosse felice, allora era il caso di essere meno assillante. Lasciai il suo braccio, che fino a quel momento non avevo mollato, e guardai la cameriera.

- Si chiama Evan, siamo fratelli.

Dissi, soddisfatta, ottenendo di vedere scolpita sul suo volto l’espressione dello stupore. Un po’ meno scolpita, ma altrettanto stupefatta l’espressione di mio fratello.

- Che c’è?

Chiesi, prendendo posto.

- Ehm… piacere, io sono Vivien.

Si presentò la cameriera, tendendogli la mano. Era timida, a dispetto delle apparenze.

- Beh… la mia sorellina ha già fatto le presentazioni, a quanto pare.

Replicò Evan, gentile, ma sorridendo per cortesia. Le strinse la mano, vidi la ragazza sussultare. Evan faceva una strano effetto alle ragazze…

- Puoi portarci i menu, per favore?

- S-Subito!

Esclamò, correndo verso il bancone. Evan rimase ad osservarla per qualche istante e prese posto di fronte a me.

- Si può sapere che intenzioni hai?

- Beh… pensavo che sarebbe stata una buona occasione… siete sicuramente coetanei. Ci sono più possibilità di riuscita nelle relazioni tra coetanei, no?

Stavo sproloquiando.

- E l’hai capito dall’aspetto?

- Eh?

- Sai quanti anni ha la mamma?

- Ovviamente, ne ha trentasei.

- Sbagliato.

Colpita e affondata, feci spallucce.

- Ehi, credi che non conosca l’età della mamma? Guarda che fino a prova contraria non sono io quella che va male in matematica.

- Mpf.

- Non fare “mpf”, mi ricorda War--    

Mi interruppi, aguzzò lo sguardo, io lo distolsi.

- Non mi hai detto cosa ci faceva a casa di Violet, a proposito.

Riprese, giocando con un grissino. La cameriera intanto tornò, portandoci i menu.

- Torno tra poco, scegliete pure.

Disse, arrossendo leggermente prima di tornare al suo posto, confabulando con la collega.

- Ecco… ci ha aiutate a studiare biologia… è davvero bravo, lo sapevi?

- Sinceramente in classe ho ben altro a cui pensare, che a prestargli attenzione.

- Intendi dormire?

Mi guardò.

- Da quando siamo venuti in questa città sei sempre stanco… è per colpa mia?

- No.

Era lapidario.

- Evan, se ci fosse qualcosa che non va… me lo diresti?

Di nuovo silenzio.

- Ti prego… ho bisogno di sentirlo.

Lo guardai, cercando nei suoi occhi amaranto anche solo un cenno. Ci fu, battè le palpebre e addolcì lo sguardo ancora una volta.

- Te lo prometto, Aurore.

- Allora dimmi… che relazione c’è tra te e il professor Warren?

Sussultò, spezzando il grissino che aveva tra le dita. Qualunque cosa avesse promesso, non poteva sapere dei miei trascorsi con il professore.

- Ha cercato di abbordarmi, a quanto pare è un fissato di storie senza alcun senso.

- Eh?

- L’ha fatto anche con te, vero?

Annuii, prendendo dalla borsa il libro che avevo recuperato in biblioteca. Sapevo che l’aveva letto, quindi mi aspettavo qualche reazione, ma rimase calmo, almeno per quanto riuscissi a capire. Il grissino del resto, l’aveva già rotto. Glielo porsi.

- Ti prego, dimmi che vedi delle rune illegibili e non l’Otello, sto diventando pazza!

Lo prese, sfogliandolo. Aveva familiarità con quel libro, poi posò il gomito sul tavolo e rivolse un’occhiata alla grande vetrata che dava sulla strada di fronte. Eravamo a pochi passi dal locale in costruzione, l’insegna si vedeva abbastanza bene.

- Evan!

- E’ inchiostro simpatico.

- Sì, certo, e quello non è un grissino.

- Guarda.

Si voltò, facendo cenno a Vivien di raggiungerci. La sua collega ridacchiò, spingendola verso di noi. Sicuramente avevano fantasticato in quell’intervallo di tempo. Ci raggiunse, chiedendo se avessimo ordinato. Evan prese dalla tasca un accendino, dove l’avesse recuperato non so, dal momento che non fumava, e avvicinò la fiamma che scaturì ai fogli.

- Cosa leggi?

Una stupita Vivien, spiazzata davanti a quell’insolita richiesta, dette un’occhiata al libro.

- E’ Shakespeare?

Aguzzai lo sguardo, qualunque cosa avesse in mente Evan non mi avrebbe convinta. Poi Vivien notò qualcosa, vidi i suoi occhi focalizzare meglio e spalancarsi in un’evidente meraviglia.

- Ma… che lingua è?

Chiese, guardando Evan, che spense l’accendino e richiuse il libro.

- Soltanto scarabocchi, stavo mostrando a mia sorella un gioco di prestigio. Abbiamo deciso, due pizze con wurstel.

- Va bene!

Ancora incredula, tornò per la terza volta al bancone. La stavamo facendo lavorare quella sera. Guardai Evan, anche ammettendo che avesse vinto il primo round, non avrebbe vinto il secondo e avrei smontato la sua teoria.

- Come la spieghi?

- E’ causato da una differenza di temperatura, non conosco i dettagli, ma non è nient’altro che un giochetto.

- E il runico?

- Le società segrete scrivevano in codice, sarà qualcosa del genere.

- Che ne dici del fatto che Warren leggeva le parole della canzone che ci cantava la mamma?

- Sei riuscita a riconoscerle?

- A dire il vero no…

- Sapresti farlo?

- Non lo so… non penso…

Mi stava battendo.

- Ha inventato.

- Credi?

- Sta’ tranquilla, Aurore. Non è niente di mistico, quella è una vecchia canzone, dati i suoi studi ne sarà venuto a conoscenza e avrà cercato di raggirarti. Dovresti essere meno credulona.

Ripensai alle parole di Damien Warren, che mi metteva in guardia dal suo stesso padre. Ora anche Evan lo faceva, forse, mi stavo davvero complicando inutilmente la vita. Ero davvero una causa persa.

- Scusami…

- Non devi scusarti, va tutto bene. Ma promettimi che starai alla larga da queste cose, mh?

Annuii, era sicuramente la sola cosa da fare. Lo guardai, mesta, mentre riponeva il libro in un angolo.

- Domani vado a sbatterlo in faccia a quel deficiente.

Sentenziò.

- Evan…

- Che c’è?

- Grazie…

Mi strinse la mano, usai quella libera per prendere il ciondolo, che oscillò tra di noi. Il brillantino al centro del ciondolo risplendeva alla luce delle lampade al neon, ma nonostante ciò, emanava un brillio molto naturale.

- E… anche per questo.

- Ti piace?

- E’ un po’ pesante, ma ci si fa l’abitudine. E poi, sì, trovo che sia particolare.

- Meglio così, mi fa piacere.

Sorrisi, stringendogli la mano. Riflettei sul fatto che dei presenti in sala, solo la cameriera Vivien e la sua collega sapevano che Evan e io eravamo in realtà fratello e sorella. Agli occhi degli altri, e a causa della nostra molto scarsa somiglianza, probabilmente potevamo passare per una coppia di fidanzati, il che era davvero inquietante. Scostai la mano, sistemando il ciondolo, poi lo guardai.

- Quanti anni ha la mamma?

Ricambiò il mio sguardo, poi si mise a ridere. Era l’Evan di sempre. La serata sarebbe stata davvero all’insegna del divertimento.

Rincasammo un paio d’ore più tardi, dopo aver fatto un giro nel parco di Darlington. Non avevo mai riflettuto sul fatto che fosse una città piena di storia. Nel corso dei nostri viaggi ero sempre stata affascinata dalle bellezze architettoniche d’altri tempi, in particolare, il luogo che maggiormente mi aveva colpita era stata la Loira, coi suoi castelli meravigliosi. Immaginavo, da bambina, di essere una principessa del castello di Chambord, il più affascinante che avessi mai visto. Mi piacevano le atmosfere magiche dei tempi lontani, era come essere immersi in una dimensione totalmente nuova, in cui tutto era possibile. Sognavo di percorrere i lunghi corridoi illuminati, giocando con Evan, a sua volta principe, di salire e scendere maestose scalinate, di correre spensierati nei giardini curatissimi, raccogliere tutti i fiori che potevamo, variopinti, nelle loro splendide fioriture, e riempire l’aria di petali profumati, mentre i raggi del sole filtravano illuminandoci il viso. Mi piaceva osservare la distesa d’acqua che si estendeva di fronte al castello, il fiume Cosson, era come osservare un lago, che scorreva placido. Le sue acque erano limpide come uno specchio, era facile indovinare il riflesso della rigogliosa natura circostante, con dovizia di particolari. Sognavo poi di risalire, correndo per le scale a doppia elica inseguita da mio fratello e raggiungere i giardini interni, dove si ergevano dei gazebo e altre dame erano impegnate in civettuole conversazioni. Era bello immaginarle nell’atto di chiacchierare, sembrava tutto molto realistico. E poi, seminascosti da ombrellini parasole, due figure che ci raggiungevano, in abiti eleganti, di cui non riuscivo tuttavia a definire lo stile. Ma sapevo fin troppo bene chi erano, così come sapevo che si trattava soltanto della fantasia di una bambina.

A quel tempo, il desiderio di avere un padre era particolarmente forte, sebbene non avessi l’esatta cognizione di ciò che realmente fosse questa figura, dunque il fatto che accanto a mia madre ci fosse una figura maschile diversa da mio fratello, era giustificabile con quella innocente volontà infantile. Era così in tutte le storie, “C’erano una volta un re e una regina…”, ma soltanto nella mia storia era la regina la sola a esserci. Per questo motivo, desideravo che almeno nei miei sogni lui ci fosse, perché quello era il solo dominio in cui diventava reale, anche se non riuscivo nemmeno a immaginarne il viso.

Purtroppo il solo dettaglio che conoscevo era il colore dei suoi occhi, troppo poco per darvi una forma, troppo poco per immaginare altro. Nel corso del tempo, avevo smesso di provarci, non era giusto, mi sarei creata aspettative impossibili da soddisfare e il vuoto dentro di me avrebbe finito col diventare incolmabile. Non che non mi mancasse più, certo, ma ignorando la curiosità, avrei certamente probabilmente evitato di pensarci più del dovuto. A volte il pensiero tornava prepotente, soprattutto quando vedevo delle famiglie complete, papà che stringevano teneramente al petto le proprie bambine, che le sollevavano in una giocosa altalena, che compravano loro un gelato, una crépe. Pensare alla sua mancanza nei miei confronti era una debolezza che non potevo permettermi, pena il rendere la vita impossibile alla mamma e a Evan.

Mi sedetti su una panchina, proprio dietro a un laghetto artificiale, osservando le statue che campeggiavano dietro di noi. Sembravano poste a guardia di quel bacino, avevano un fascino antico.

Evan si appoggiò alla ringhiera, il vento tirava indietro i suoi capelli, la luce della luna, che illuminava la nostra visuale, conferiva ai suoi occhi amaranto una lucentezza del tutto nuova. Era bellissimo.

Avvolsi la sciarpa attorno al collo, per coprirmi meglio. Era aprile, certo, ma a quell’ora, faceva davvero freddo. Aveva messo in conto tutto.

- Evan?

Chiesi, distogliendo la sua attenzione rivolta alla contemplazione meditabonda dello scenario.

- E’ bello, vero?

Sorrise.

- Sì, molto.

Non so per quale motivo, ma mi misi a canticchiare. Il motivetto mi si formò in testa, le parole le conoscevo già. Mentre giocherellavo col ciondolo che portavo appeso al collo, la voce mi uscì limpida e dolce, in quella serata di primavera.

- La pierre qui brille dans le noir… suivez la route qui mène au lac des diamants… ici la Croix reste…

Ici la Croix reste… la Croix du Lac.

Un’altra folata di vento, la superficie del laghetto si increspò, onde d’argento risplendettero alla luce tremula della luna.

Era una melodia diversa da quella che ricordavo, più sommessa e musicale, al contrario della cadenza da filastrocca che avevo avuto in mente fino a quel momento. Sulle prime non ci avevo fatto caso, e a giudicare dal fatto che non aveva battuto ciglio, nemmeno Evan se n’era reso conto. Era una bella melodia, comunque. Peccato che non ricordassi il continuo.

Rivolsi nuovamente lo sguardo verso di lui, mi accorsi di un impercettibile movimento delle sue labbra, stava mormorando qualcosa, ma qualunque cosa fosse, non riuscii a capirla. Poi, dopo aver rivolto un’ultima occhiata al laghetto, mi raggiunse, tendendomi la mano.

- Torniamo a casa?

Mi sollevai, prendendola. Era davvero tardi, sicuramente la mamma ci avrebbe rimproverati. Per giunta, avendo ulteriormente temporeggiato in pizzeria, non avevamo fatto in tempo a comprare il dolce, motivo per cui avremmo dovuto giocare le carte migliori per evitare discussioni. Fortunatamente, la mamma non era attaccabrighe come me ed Evan, anzi, una sua grande dote era la diplomazia. Se c’erano occasioni in cui proprio non si poteva fare diversamente, aveva un singolare modo di metterci alle strette, quello di costringerci, letteralmente, a sostenere il suo sguardo indagatore senza proferire alcuna emozione (il che sembrerebbe facile, ma Celia Kensington aveva un tale potere ipnotico che sarebbe stato impossibile resisterle senza esplodere), ma fortunatamente, devo dire che è stato Evan a pagarne le spese più spesso, nella maggior parte dei casi, soprattutto quand’eravamo più piccoli, accollandosi le mie colpe, con la conseguenza che a modo mio, passavo per impunita. Innocenti bugie, in genere, non avremmo mai potuto nasconderle niente di realmente serio o importante. Dopotutto, eravamo soltanto noi tre e la nostra forza stava nell’armonia che regnava nella nostra famiglia.

Al nostro rientro, era tutto buio. Feci fatica a trovare l’interruttore della luce, non era mai accaduto che tornassimo più tardi della mamma. Evan fu più veloce, anticipandomi. Si muoveva bene al buio, costretto a trascorrere gran parte delle sue notti al mio capezzale ormai doveva aver sviluppato un vero e proprio sesto senso. Accese la luce, che si diffuse in breve in tutto l’ambiente. Era tutto in ordine, come sempre, quindi non era sicuramente successo niente. Notai la porta della stanza da letto della mamma socchiusa, probabilmente si era addormentata aspettandoci. Evan fece segno di fare silenzio, affacciandosi silenziosamente allo spicchio di stanza visibile. Non mi avvicinai, ma percepii una strana esitazione in mio fratello, che richiuse la porta alle sue spalle, tornando da me.

- E’ tutto a posto?

Domandai.

- Sta dormendo, sarà il caso di lasciarla riposare.

Bisbigliò a voce bassa. Istintivamente la abbassai anch’io.

- Ma sta bene?

- Certo, perché me lo chiedi?

- Hai esitato.

- Dorme profondamente, solitamente si sveglia subito appena sente qualche rumore.

- Forse è stanca…

- Può essere, sì. Andiamo anche noi?

Annuii, sfiorandomi il ciondolo. Se ne accorse.

- La ringrazierai domani, che ne dici?

- Va bene… buonanotte.

- Anche a te. E cerca di non sognare formule di biologia stanotte, quelle non le potrei combattere.

Lo guardai spiazzata, ogni tanto i suoi commenti erano davvero fuori luogo. Sospirai, assestandogli un buffetto sulla spalla, prima di tornare nella mia stanza.

- E io cosa posso combattere?

Mi domandai, andando a gettarmi sul letto e affondando la faccia tra i cuscini. Rimasi ferma così per qualche secondo, poi mi voltai, stringendone uno al petto. I miei occhi si stavano abituando alla luce della luna che filtrava dalla finestra, osservai il soffitto. Era un soffitto basso. Inconsapevolmente, portai le dita sulle labbra socchiuse, scoprendole morbide al tatto, le parole di Violet mi tornarono in mente, così come il ricordo degli occhi di Damien Warren fissi nei miei. Il cuore accelerò, una vampata di calore mi investì il volto. “Non ti ha baciata, vero?”. Il mio… sarebbe stato il mio primo… dannazione!! Era imbarazzante… orribilmente imbarazzante il solo pensarci. Mi piantai il cuscino in faccia, sperando di cancellare quel ricordo, quelle sensazioni. Tra tutti, non avrei mai permesso a Damien Warren di rubarmi il primo bacio. Doveva essere d’amore, non poteva essere la vittoria di un viziato che credeva di essere il re della scuola. Anzi, il despota.

Balzai a sedere, sbuffando. Era davvero inutile, non riuscivo a scacciare quei pensieri. Guardai la sveglia a forma di panda sul mio comodino, segnava le 23:30 ormai. Forse riprendere i libri di biologia non sarebbe stata una cattiva idea, ma non mi andava per niente. Mi alzai, optando per una doccia. Badando a non fare rumore, mi affacciai dalla porta. Tutto taceva, molto bene.

Cercando di mantenere i miei passi quanto più felpati possibile, raggiunsi il bagno, togliendomi velocemente di dosso gli abiti e sgattaiolando nel box doccia. Il getto d’acqua calda che mi investii fu una benedizione. Di lì a poco mi ritrovai a lavar via tutti i pensieri negativi che avevano atraversato la mia mente in quei giorni. Era una sensazione davvero piacevole. Lasciai che l’acqua cadesse sul viso, i capelli, che avevo sempre portato lunghi, scesero a coprirmi i seni, era strano il contrasto tra quel nero e la mia pelle chiara, sembrava quasi di vedere solchi neri che prendevano forme su di me, diffondendosi come l’acqua dei fiumi nelle vallate. Riflettei su quella strana analogia, prima che un’altra, inconsapevole ma molto più sgradita, prese forma. I rovi, i rovi spinosi che facevano da teatro alla strada oscura che percorrevo fuggendo dando fondo a tutto il mio fiato, erano scuri come la notte più nera, neri come i miei capelli corvini.

Non so in che momento, né perché, ma vidi che si avvolgevano, rampicanti, attorno alle mie gambe, alle mie braccia, a tutto il mio corpo, trafiggendomi, squarciandomi la pelle. Il dolore mi invase, vidi soltanto rosso, il rosso del sangue che colava dalle mie ferite ancora aperte. Terrore. Stavo per morire. Ma dovevo reagire, dovevo diventare più forte, non potevo lasciarmi sconfiggere dall’incubo, lo dovevo alla mamma, a Evan. Sono più forte io, sono più forte, hai capito?! Spalancai gli occhi nella notte più buia. La luna era così lontana, minuscola sfera incapace di rischiarare le tenebre, aveva una sfumatura violacea, così innaturale.

Raccolsi tutte le mie forze per cercare di rialzarmi, c’era sangue dappertutto, ma non ce n’era più sul mio corpo. Un familiare peso sul torace mi tranquillizzò, avevo il ciondolo appeso al collo. Mi guardai intorno, sforzandomi di orientarmi. Non riconoscevo niente di familiare, soltanto rovi neri intorno a me, una distesa sconfinata di rovi neri. L’aria era molto rarefatta, era difficile persino respirare. Ogni tanto, folate di vento solleticavano le mie narici, ma la sensazione che producevano non era affatto piacevole, anzi, era come essere colpiti da ondate ghiacciate, per cui, mi coprii il naso e la bocca con la mano. Cercai poi di muovermi prestando attenzione ai rovi, non volevo tagliarmi di nuovo, ma stavolta non avevo paura. E in più, fortunatamente, la sensazione di non essere sola non c’era, in quel luogo, qualunque esso fosse, ero totalmente, assolutamente l’unica forma di vita visibile e percettibile. Mi feci strada, ponendo il braccio libero in avanscoperta, ma non trovai particolari ostacoli che già non conoscessi. Ma per andare dove? Completamente priva di orientamento e di appoggi, quanta strada avrei mai potuto fare? E soprattutto, quanto tempo sarebbe passato prima che qualcuno, o qualcosa, mi avvistasse. Certo, era difficile in quella notte oscura, senza luce, ma ero così pallida che forse un occhio allenato avrebbe potuto anche intravedermi. A che prezzo non volevo nemmeno saperlo. Continuavo a muovermi, indossavo un vestito piuttosto lungo, a giudicare dai pesanti brandelli che mi portavo avanti, ma non riuscivo nemmeno a vederlo, potevo soltanto sentire il fruscio e gli strattoni della stoffa nelle spine. Cosa peggiore, non riuscivo ad adattare la mia vista, il che era un incentivo all’essere un bersaglio più o meno appetibile per eventuali visitatori. La cosa positiva, per quanto potesse essere positivo il ritrovarmi in un luogo assurdo e al di fuori di ogni coordinata spazio-temporale conosciuta, era che i rovi di lì a poco lasciarono il posto a un sentiero battuto. Cercai nuovamente di focalizzare qualcosa, qualunque cosa sarebbe andata bene, stavolta fui più fortunata. Riuscii a intravedere alle mie spalle la distesa di rovi oscuri, di fronte a me, una lunga strada sterrata. Sospirai, sarebbe stata una lunga strada. Mi rimboccai letteralmente le maniche, non importava dove sarei finita, in quel momento, dovevo andare avanti. Per giunta compresi di essere scalza, nel momento in cui mossi un altro passo e qualcosa mi punse la pianta del piede. Poteva essere di tutto, temevo in particolar modo gli scorpioni. Feci un salto all’indietro, per poi notare un bagliore, del tutto simile a quello emanato dal brillante sul mio ciondolo, ma più lieve. Seguii con lo sguardo una linea tracciata da bagliori messi in fila, lungo la strada.

La pierre qui brille dans le noir… suivez la route qui mène au lac des diamants… ici la Croix reste…

Ici la Croix reste… la Croix du Lac.

Non era possibile, non poteva essere… eppure, la pietra stava brillando nell’oscurità. Un viale di pietre che brillavano nell’oscurità, una strada intera. Non poteva essere una coincidenza. Mi misi a correre, con tutte le mie forze, ignara di cosa stessi facendo, seguendo la strada che conduceva al lago di diamanti. E lo trovai. Alla fine di una lunga, lunghissima, per quel che potevo saperne, eterna, strada, giunsi davanti a uno spettacolo unico. Un lago naturale, la cui superficie risplendeva d’argento, sembrava costellato di diamanti. Ai suoi estremi, cinque fontane riversavano acqua, formando cascatelle luminose che riempivano la grande vasca, scossa da onde cangianti. Era uno spettacolo meraviglioso, come vedere le mille facce di un diamante risplendere contemporaneamente. Era la sola fonte di luce in quel luogo, ma emanava una luminosità del tutto simile alla luna. Osservai poi le cinque fontane, mentre mi avvicinavo. Erano stupende, raffiguravano cinque donne bellissime, dalle forme morbide, come se fossero vive. Ognuna di esse portava nella mano sinistra un’otre da cui usciva l’acqua, nella destra una pietra preziosa. Riconobbi il rubino, l’ambra, lo smeraldo, il lapislazzulo e l’ametista, quella che meglio conoscevo tra tutte. Chiunque avesse creato quella fontana era un artista, osservarla era un piacere per gli occhi. Mi sporsi per toccare la superficie del lago, ma a causa della sua luminosità, non riuscivo a specchiarmici. Tuttavia, intravidi un fioco bagliore in direzione del centro, in profondità. Non sapevo cosa fosse, ma le parole della canzone sì.

Ici la Croix reste… la Croix du Lac.

La Croix du Lac era lì. Nell’istante in cui ne presi coscienza, un bagliore improvviso mi tolse completamente la vista. Mi persi, persi di nuovo ogni appiglio, lasciandomi cullare, questa volta, dal calore che era subentrato all’aria ghiacciata. Poi una voce. Aprii gli occhi per identificare chi avesse sussurrato, ma era flebile come il vento, non vi riuscii. Eppure piansi, sentendomi infinitamente triste. Mi rannicchiai in posizione fetale, dalle mie labbra, un sussurro:

Il suo destino è nelle tue mani…

 

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Capitolo 5
*** IV - Il ritorno di un'antica minaccia (1 parte) ***


Nuovo capitolo, stavolta lo divido. =D

 

 

Quando mi svegliai era già mattina. Mi sembrava di aver dormito pochissimo, ma ero rilassata, come se avessi bevuto una tazza di camomilla prima di andare a dormire. A dispetto della tranquillità fisica, però, la mia mente era in preda alla confusione. Cos’avevo sognato stavolta? Era stato tutto diverso, più nitido, ma allo stesso tempo più misterioso. Per giunta, le parole che avevo udito mi risuonavano in testa, martellanti. Chi si stava riferendo a chi? Un destino nelle mie mani era roba da romanzo rosa, altro che… oltretutto, cosa non meno importante, l’immagine di quel lago meraviglioso e delle sue fontane era impressa nel mio cervello, dove invece avrebbero dovuto essere impresse le nozioni di biologia. Perché i miei incubi avevano una precisione svizzera?

- Dimentichi la colazione!

Esclamò la mamma, mentre sbuffando e protestando lottavo contro i libri che non uscivano dalla mia cartella. Dovevo proprio incastrarli a dovere, che idiota.

- Mangerò qualcosa al bar!!

Non avevo proprio tempo per fermarmi. Per giunta avrei dovuto raccontare la novità, ma sicuramente sarebbe stata necessaria più di mezz’ora, oltre che un’accurata riflessione sul significato di quel sogno, cosa che avrebbe richiesto un extra che non potevo assolutamente permettermi.

- Evan!!

Urlai nell’indossare il cappotto. Una veloce occhiata allo specchio per sistemare i capelli, il libro in mano, mio fratello che ancora non si vedeva e l’orologio sul muro che segnava trionfale il mio ritardo.

- Evan, ti vuoi muovere?!

La mamma mi raggiunse, sistemandomi la fascetta fermacapelli.

- Non c’è, è già uscito, tesoro.

Evan… prima o poi l’avrei trucidato con le mie stesse mani.

- Perché non me l’hai detto prima?!

- Perché stavi dormendo quando è andato via. Ha detto che ti precedeva.

Sorrideva, era un sollievo.

Sospirai, mentre mi baciava sulla fronte.

- Va’ e scaccia via dalla mente ogni pensiero non attinente alla prova.

Sobbalzai, il ricordo del lago di diamanti balenò fulmineo davanti ai miei occhi. Chissà se intese qualcosa. Cacciai via all’istante ogni immagine, cercando di mantenere alta l’attenzione sulla seduta di studio del pomeriggio prima. Era strano come gli eventi che vi erano seguiti l’avevano fatta passare in secondo piano. Ma pensarci non era davvero qualcosa che potevo permettermi, anzi, se volevo avere la possibilità di capirci davvero qualcosa, dovevo prima di tutto impegnarmi nella riuscita della prova, in modo da avere un pensiero in meno.

La mamma mi era di fronte, i suoi capelli biondi rilucevano alla luce del sole che filtrava dalle tende, indossava un cardigan viola lavanda che le dava un’apparenza molto delicata, quasi evanescente.

- Vuoi stare ancora qui a fissarmi?

Chiese, la voce intenerita.

Che stupida, avevo il vizio di incantarmi a volte. Arrossii, ultimamente capitava anche troppo frequentemente per i miei gusti, ma quanto a figuracce ero imbattibile.

- Vado, prega per me!

- Andrà tutto bene, fidati delle tue capacità e non ignorare le tue intuizioni.

Mi diede un affettuoso buffetto sulla testa, mi tranquillizzai all’istante e garantii il mio successo, correndo via. Non so perché, ma mentre varcavo la soglia di casa, ebbi la sensazione che quelle parole non fossero soltanto un consiglio per la verifica, quanto più un consiglio di vita. Solitamente la mamma non era così filosofica, anzi, era piuttosto portata per l’azione. Qualunque cosa le stesse succedendo, sicuramente qui si era acuita. Non pensarci, non pensarci!, mi ripetevo, nel percorrere il tragitto che mi separava dalla scuola. Non era particolarmente lontano, in genere impiegavamo circa venti minuti a passo lento. Nella migliore delle ipotesi e quella avrebbe dovuto esserlo, considerato il fatto che la verifica mi attendeva a prima ora, avrei dovuto impiegarci più o meno la metà del tempo se non di meno. Diedi fondo a tutte le mie energie, ripassando ad alta voce, correndo, le formule e i concetti più importanti. Quasi quasi era più facile percorrere la via di diamanti… in ogni caso, arrivai a scuola esattamente al suono dell’ultima campanella. Ben consapevole del fatto che fosse proibito correre nei corridoi, optai per il menefreghismo più completo. Male che fosse andata avrei finito con l’investire qualcuno e mi sarei scusata oppure avrei incontrato sulla mia strada Warren (sperando più figlio che padre), contando sul fatto che chiudesse un occhio. Fortunatamente, non incorsi in nessuno dei due casi, ma giunsi sulla soglia della porta qualche secondo prima del professore di biologia, che con un’occhiata eloquente, mi accordò il permesso di precederlo. Non so cosa pensasse di me, ma di sicuro non dovevo avere un aspetto particolarmente sano in quel momento. Ciononostante, presi posto, sistemando le mie cose. Non appena ebbi abbastanza fiato, mi accorsi di Violet che si era voltata e mi osservava.

- Credevo non venissi.

- Ho rischiato.

- Tutto bene?

Domandò, apprensiva.

- Sì, sto bene. Hai visto Evan in giro?

- No, non siete venuti insieme?

Bene, se mio fratello aveva deciso di farmi preoccupare ci stava riuscendo benissimo.

- In realtà mi ha preceduta.

- Allora sarà in classe, tranquilla.

Annuii, ripromettendomi di andare a verificare che fosse effettivamente così dopo la verifica. Il professor Leighton richiamò l’attenzione della classe, spiegando le modalità della prova e passando tra i banchi consegnandoci i fogli. Lessi attentamente il contenuto non appena fu possibile cominciare, ma sulle prime, non ci capii assolutamente niente. Troppe formule. Deglutii, sforzandomi di fare mente locale, ma fu ancora peggio. E’ vero che avevo cercato di non pensare all’incubo e di focalizzare la mia attenzione sulla seduta di studio, ma fui solleticata dal pensiero di Warren e del suo sguardo. Evidentemente, per tutta la durata del pomeriggio seguente all’incidente, non avevo prestato l’attenzione che il programma necessitava, il che era un serio problema se cercavo di applicare le leggi di Mendel ai bigné e al colore degli occhi di Warren.

Come se non bastasse, il tempo a disposizione era limitato e si stava pericolosamente riducendo. Calmati, calmati e pensaci bene, non può essere così drammatico, mi ripetevo, cercando di convincermi. In realtà, tra autoconvinzione e scarabocchi non stavo ottenendo nulla di concreto. Sollevai lo sguardo di fronte a me, in cerca di sostegno psicologico, ma persino Violet scriveva senza problemi. Non era possibile, incubi per quanto tali, cominciavo a pensare che fossero più piacevoli del vuoto totale che attraversava la mia mente in quel momento. Oltretutto, Leighton continuava a guardarmi, nemmeno fossi la migliore candidata al voto più basso della classe, che se continuava così, avrei finito per prendere.

Sospirai, abbassando nuovamente lo sguardo sul foglio, poi notai che c’era qualcosa scritto sul mio banco, laddove era possibile vedere controluce e per poco non mi venne un accidenti nel momento in cui riconobbi la grafia. Era veloce, ma allo stesso tempo perfettamente leggibile, molto familiare, era la scrittura di Evan. Sgranai gli occhi, cercando di coprire tutto al più presto. Alla fine dell’apparente lista, un messaggio: “Cerca di non farti scoprire”. Raggelai, Evan era ufficialmente diventato la mia salvezza.

Badando a non farmi beccare con le mani nel sacco, approfittai dei momenti in cui il professor Leighton era voltato verso i miei compagni per guardare i suggerimenti. Sapevo bene che non era leale, ma Evan aveva preso le sue precauzioni, non c’era scritto tutto, soltanto degli imput. Furono sufficienti a farmi ricordare ciò che avevo dimenticato, così mi affrettai a rispondere a tutte le domande, prendendo per buona la prima risposta che mi si formava in mente. Fu così che conclusi la prova a ridosso della scadenza del tempo. Ero stata scorretta, ma almeno avevo un motivo in più per credere alla buona fede di mio fratello. Quanto gli ero debitrice…

In seguito, approfittai della pausa per andare a ringraziarlo. E in realtà, dovevo ringraziare anche Warren, sebbene il fatto di aver avuto bisogno di suggerimenti mi faceva sentire davvero in colpa verso di lui. Violet al contrario, era riuscita a giovare dei suoi insegnamenti senza necessitare d’altro, il che era la prova del fatto che quel ragazzo fosse un eccellente insegnante. Certo, la mia amica non doveva combattere contro strane visioni e un mondo che sembrava aver preso la piega dell’ignoto, ma chi mai mi avrebbe creduto?

Salimmo le due rampe di scale che collegavano il piano intermedio con quello superiore parlando di come avremmo detto a Warren della buona riuscita dell’impresa. C’erano molti ragazzi, notai che il piano del terzo anno era più popolato del nostro, anche se c’era la possibilità che non fossero tutti coetanei di mio fratello e del despota. E cosa non meno importante, il fatto che fossero tutti estremamente ordinati, come se seguissero uno schema, faceva pensare al fatto che lui fosse in giro.

Raggiungemmo l’aula, era semivuota. Mi affacciai, sia Evan che Warren erano all’interno. Non so se fosse un bene o un male, dal momento che dubitavo fortemente che avessero concordato la strategia da seguire. Non appena ci videro, si voltarono verso di noi,  all’istante imitati da alcune compagne di classe, i cui sguardi intimavano un “andatevene o crepate”, a cui risposi con un’occhiata sardonica. Warren fece per raggiungerci, ma Evan fu più rapido.

- Com’è andata?

Retorico, come se non lo sapesse. Il suo tono era sinceramente interessato, era piuttosto bravo a fingere quando voleva.

- Bene.

Replicai, guardandolo nella speranza che capisse. Violet di sicuro non lo intese, Warren ci raggiunse.

- Allora?

Chiese, senza badare alla presenza di mio fratello.

- E’ stato molto semplice, ti siamo eternamente debitrici.

Confessò Violet, io mi morsi le labbra.

Warren approvò, poi mi guardò.

- Non mi sembri convinta.

- Se ti aspetti che ti sia debitrice a vita te lo puoi scordare; quanto al ringraziarti… beh, grazie, i tuoi insegnamenti sono stati utili.

Ignoravo che espressione potessi avere in quel momento, ma mi guardarono tutti come se fossi un’aliena, compreso Evan. Era la prima volta che mi sentiva rispondere così a Warren, che si limitò a un sorrisetto compiaciuto.

- Non c’è di che.

Annuii, guardando Violet.

- Andiamo?

- S-Sì, certo…

- Tutto ok?

- Naturalmente…

Stava esitando, non se l’aspettava.

In quel momento ero fin troppo confusa per realizzare l’arroganza con cui avevo risposto a Damien Warren, che al contrario, aveva dimostrato di essere molto disponibile. Indietreggiai, cominciavo a sentirmi a disagio.

- Aurore?

La voce di Evan.

Troppo lontana.

- Che succede?

Violet era in pena.

Troppo poco.

Feci cenno di non saperlo, non sapevo cosa dire, non sapevo cosa fare, avevo esagerato, ma non avevo il coraggio di ammetterlo. Codarda, bugiarda… corsi via, ultimamente mi riusciva bene. Cosa mi stava succedendo? Che cosa stavo diventando?! Davanti a me, maschere bianche, soltanto maschere bianche e un vociare interminabile. Smettetela!! Non poteva avere fine. Ovunque cercassi di scappare, ero sempre, continuamente, maledettamente inseguita dal mio destino, ciò che mi stava pericolosamente allontanando dalla mia realtà. Come potevo salvare il destino di qualcun altro se non ero nemmeno padrona del mio?! Padrona di vivere la mia vita nel modo più normale possibile, di sognare per una volta soltanto, di essere una ragazza come tutte le altre, di avere un padre che mi sostenesse nei momenti bui, che mi tendesse la mano e mi stringesse a sé, che mi rendesse tanto forte da far sgretolare qualsiasi ostacolo? Papà

- Aurore, attenta!!

Spalancai gli occhi, il mio ciondolo brillò a mezz’aria, mentre la scalinata di granito prendeva forma sotto di me. E poi due braccia protese, forti, a trattenermi, a salvarmi da quello slancio letale. Mi ritrovai in un batter d’occhio contro un petto pulsante, respirai a fondo il profumo che quella figura emanava, intravidi, nella confusione più completa, un’altra figura raggiungerci e aiutarci, ricacciandoci indietro. Cademmo a terra, incolumi, tra lo stupore dei presenti.

Non appena potei recuperare la vista, mi accorsi che Evan mi stringeva forte. Stavamo tremando entrambi. Accanto a noi, Damien si ricomponeva, la mano destra a massaggiarsi il gomito, probabilmente aveva sbattuto allo spigolo del passamano.

Ero sconvolta.

- Ehi.

Evan mi accarezzava i capelli, dolcemente, mentre uno stuolo di ragazzi ci circondava, tra curiosità e preoccupazione.

- Warren, ti sei fatto male?

Alcune voci indistinte di ragazzi che aiutavano il loro despota. Desiderai che non rispondesse affermativamente,  in quel momento non sarei riuscita a farmi carico anche di quella colpa.

- No, niente di che

Si rialzò, avvicinandosi.

- Aurore, e tu?

Chiese, il tono inaspettatamente dolce.

Lo guardai, le sopracciglia disegnavano sulla sua fronte un’espressione interrogativa.

Sentii un mugolare dietro di me, non riuscii a capire se fossero le ragazze intervenute o altro. In ogni caso, un’occhiata gelida di Warren fece sì che smettesse.

Violet ci raggiunse di lì a poco, accompagnata da Leonard Warren, mentre le braccia di Evan mi serrarono con più forza al petto.

- Va tutto bene… è stato solo un calo di zuccheri…

Rivolsi lo sguardo verso mio fratello.

- Non ho fatto in tempo a fare colazione stamattina…

- Stavi per volare dalle scale, te ne sei accorta?

Bisbigliò, la voce così bassa che dubito che qualcun altro dei presenti l’avesse sentito. Lo riconobbi, ma non sapevo che giustificazione dare. Se avessi deciso di suicidarmi almeno l’avrei ricordato e invece, la mia testa era una tabula rasa. Cominciavo persino a dubitare di avere qualche facoltà mentale attiva.

- Signorina Hammond, per cortesia, avvisi la signora Beaugard di preparare un letto in infermeria. Sarà il caso che la signorina Kensington passi a farsi visitare e riposi.

La voce di Leonard Warren era imperativa verso Violet tanto quanto quella del figlio verso chiunque.

Sollevai lo sguardo verso quell’uomo, ma per qualche ragione, dubitavo della sua bontà. Oltretutto, non degnò nemmeno Damien di uno sguardo, come se fosse un qualunque studente presente su quel piano e non suo figlio. Mi rendevo conto che la parentela non doveva dare luogo ai favoritismi, ma Damien aveva corso un rischio ben peggiore del mio e di quello di Evan cercando di salvarci. Se non fosse stato abbastanza forte, saremmo caduti tutti e tre, e immagino che nella sua posizione avrebbe avuto la sorte peggiore.

- Non ne ho bisogno.

Dissi, allontanandomi da Evan, che mi guardò stupito. Poi mi rialzai, facendo leva sulle braccia, quantomeno riuscivo a stare in piedi, era già una buona notizia. Tesi le mani a mio fratello e a Damien Warren, che mi fissarono per un istante senza capire, poi afferrarono quel debole appiglio che potevo offrire loro e si rialzarono.

- Scusate per lo spettacolo, spero che sia stato di vostro gradimento.

Dissi al mio involontario pubblico. Si alzò un mormorio, ero diventata oggetto di chiacchiere. La cosa non mi toccava, ma con tutta probabilità avrei finito col diventare la ricercata numero uno sulla lista nera delle sostenitrici di mio fratello e di Warren, che stringevano le mie mani. Mi accorsi in quel momento della differenza di temperatura. La mano di Evan era più fredda, quella di Damien più calda. E la mia, per quanto ne sapessi, era fredda esattamente tanto quella di mio fratello, motivo per cui sfilai la presa, guardandoli.

- Grazie.

Mi uscii naturale, come se fosse la cosa più facile del mondo, quando “grazie” e “scusa” sono le parole più difficili da pronunciare.

- Sei sicura di non voler andare in infermeria?

Chiese Violet, avvicinandosi a me.

- Sì, ma… vorrei tornare a casa, per oggi.

Evan fece spallucce, ma credo che avesse capito che rimanere ancora a scuola non sarebbe stata una buona idea.

- Chiamo la mamma.

- Ok…

- Violet, aspettatemi in classe, vi raggiungo tra poco.

La mia amica acconsentì, Evan guardò Damien, che del canto suo, non ebbe da ridire. Poi si voltò verso il professor Warren. Non vidi nulla, ma di lì a poco, il professore ordinò a tutti di rientrare nelle proprie aule e la campanella segnò la fine dell’intervallo.

Poco dopo, quando l’atrio si fu svuotato, rimanemmo soltanto noi quattro. Il silenzio ricoprì le voci che avevano rumoreggiato fino a poco prima, era come avere la testa completamente svuotata.

- Andiamo?

Chiese Violet, stringendomi a sé.

- Sì, certo.

Guardai Warren, mentre Evan si era allontanato per chiamare la mamma e il professore stava scendendo le scale. Le mie labbra pronunciarono un muto “scusa” a cui lui rispose con un cenno del capo.

- Fa’ colazione la prossima volta… e stai attenta alle scale.

Poi andò via, verso la sua aula.

Quanto a me e Violet, tornammo in classe, ci aspettava un’ora di letteratura, ma dopo circa venti minuti la mamma arrivò a scuola, così che potei saltare il resto delle lezioni.

- Ti chiamo più tardi.

Mormorò la mia amica, nell’aiutarmi a sistemare la cartella.

- Ok, a dopo. Buona continuazione.

- Ti voglio bene.

- Anch’io.

Sorrisi e raccolsi tutto, uscendo. Quando raggiunsi l’ingresso della scuola, la mamma ed Evan erano lì ad aspettarmi.

- Aurore!

La voce di mia madre risuonò nell’atrio.

- Grazie per essere venuta…

- Evan me l’ha praticamente intimato. Che è successo?

- Ha avuto un calo di zuccheri.

Le spiegò mio fratello, prendendo la mia cartella.

- Esci anche tu?

- No, ho ancora da fare.

Mi accarezzò la testa, mentre la mamma ci guardava.

- Allora ci vediamo a casa, tesoro.

Sorrise.

Evan annuì, dandole la mia cartella. Con la mano libera mi cinse la vita, poi, nell’atto di muoverci, mi accorsi che stava temporeggiando.

- Mamma?

Aveva lo sguardo fisso su qualcosa, mi voltai e vidi il professor Warren ai piedi della prima scalinata.

- Ma… che ci fa qui?

Mi chiesi.

- Avrà un’ora di buco.

Osservò Evan, mentre il professore ci raggiungeva.

- Buongiorno.

Sorrideva cortese, era fastidiosa quell’espressione.

- Buongiorno.

Rispose educatamente la mamma, ma qualcosa nel suo tono, mi lasciava pensare che non fosse così entusiasta di averlo fatto.

- Celia Kensington, immagino.

- In persona.

- E’ un piacere incontrarla, sebbene le circostanze siano così formali.

Ovviamente, il fatto che sia io che mio fratello fossimo presenti non importava niente a quell’uomo. Si fermò davanti a noi, tendendo la mano a mia madre.

- Sono Leonard Warren, il professore di storia di suo figlio Evan.

- Mi scuserà, ma ho le mani impegnate in questo momento.

Senza scomporsi, la mamma ribatteva colpo su colpo.

- Naturalmente.

Sorrideva come un beota, era irritante.

- Immagino che sia difficile aver cura di due adolescenti da sola. So che non ha un marito accanto.

Sia io che Evan lo guardammo di sottecchi, mentre la mamma rimase calma, non so come ci riuscì.

- Beh, necessità aguzza l’ingegno, professore. I miei figli sono molto più maturi di quanto lei possa credere. Quanto all’assenza del padre, non è un parametro di giudizio nella valutazione del rendimento scolastico, non è così? Dunque, il fatto che lei mi stia facendo notare qualcosa che già so e per di più non è inerente al contesto didattico, è perfettamente inutile, proprio come questa discussione.

Due a zero, Warren rimase in silenzio per un po’ prima di riprendere la parola.

- In effetti, avrei dovuto immaginare che tipo di persona fosse, dal momento che Aurore le somiglia molto. Non fisicamente, anzi, se dovessimo basarci soltanto su questo, direi che ha davvero preso molto poco da lei, quanto più sul piano caratteriale. Anche se in realtà, devo confessare che la facevo molto più accondiscendente.

Pronunciò quelle parole con un tono tagliente, ponendo particolare enfasi sull’ultima parola, cosa che fece aguzzare lo sguardo a mia madre. Per la prima volta, c’era una sfumatura di rabbia nei suoi occhi cerulei.

- Lo prenderò come un complimento.

- Come desidera… signora.

-  … se non c’è altro, allora andiamo.

- Certamente. Aurore.

Mi guardò, i suoi occhi scuri fissi sui miei. Diversamente dall’effetto che gli occhi di Damien avevano su di me, quello che aveva suo padre non mi piaceva.

- Cosa vuole?

- Rimettiti presto. Magari un giorno, potremo conversare amabilmente davanti a una buona tazza di the alle rose… il preferito di tua madre.

Sobbalzai, come faceva a saperlo? Rivolsi alla mamma un’occhiata interrogativa, ma non ottenni risposta.

- Professor Warren, sarà il caso che le lasci andare.

Intervenne Evan, avvicinandosi a lui.

- Molto bene. Arrivederci allora… a presto, Celia.

Giurerei in quel momento di aver sentito mia madre sussurrare un “Va’ all’inferno”, ma conoscendola mi sembravano le parole più improbabili. Ciononostante, gli rivolse un cenno di saluto piuttosto stentato, mentre il professore si chinò in un accennato inchino d’altri tempi. Poi, uscimmo da scuola, l’aria fresca era un toccasana contro l’atmosfera infuocata che s’era creata all’interno.

Il tragitto fu silenzioso. Non avevo molta voglia di parlare di quello che era successo, né la mamma me lo chiese. La guardai mentre camminavamo lungo i viali alberati, sembrava serena, ma io la conoscevo bene, e avevo imparato a capire quando il suo sguardo tradiva le sue emozioni. Non accadeva sempre, questo in qualche modo era un fattore positivo nel riconoscerlo. Qualunque cosa volesse da noi, da lei, il professor Warren l’aveva scossa. Era come se lui la conoscesse. Non era certamente scritto sui file della scuola che a mia madre piaceva il the alle rose, e se anche lui fosse stato un abile lettore di menti, sicuramente non avrebbe potuto saperlo, dato che la mamma si concedeva questo piccolo piacere soltanto in alcune, sporadiche occasioni e da quando ci eravamo trasferiti a Darlington, non era mai successo. Ripensai alle parole di Damien, riguardo al fatto che eravamo diventati mire di suo padre, ma anche questa ipotesi era fin troppo vaga, avrebbe al massimo potuto interessarsi del nostro passato, ma non c’era nulla di misterioso, salvo i miei incubi, e a meno che non fossero stati resi di dominio pubblico, nessuno avrebbe potuto conoscerli.

Camminai a testa bassa, riflettendo su quale motivo poteva esserci dietro a quell’interessamento morboso, il più elementare era anche il più scontato: quell’uomo avrebbe potuto essere interessato a mia madre. Una donna sola, con due figli sicuramente meno bisognosi di cure, bellissima e per giunta indipendente. Un invito a nozze per qualunque uomo.

- Ti va di andare a fare shopping?

L’insolita voce allegra mi distolse momentaneamente dai miei pensieri inconcludenti.

- Shopping?

- Sì, compreso di colazione, abbuffata di dolci e di cappuccino, che ne dici?

L’idea era intrigante, il suo tono incredibilmente sereno.

- Mi stai invitando a mangiare schifezze?

- Sì, diciamo di sì.

Sorrise.

- E poi dopo avremo un bel da fare per smaltire. Dovremmo rinnovare il guardaroba, pensandoci.

- Mamma, stai parlando seriamente?

- Certo, perché?

Ero davvero stupita. Mi aveva tirata fuori da scuola… per darci allo shopping? Se Evan fosse stato con noi l’avrebbe presa per pazza. Ma era sicuramente un pensiero gentile, ed era tanto che non ci capitava di dedicarci ad azioni tipicamente femminili.

- Niente, niente.

- Tesoro, non pensarci più.

La sua voce si fece più ferma.

- Non ne vale la pena, mh?

- A cosa ti riferisci?

Sorrise, poi mi indicò il portone del centro commerciale.

- A qualunque cattivo pensiero. Prendiamoci un po’ di tempo per noi, poi… avremo modo di parlarne con calma, va bene?

- Mamma, io…

L’aveva capito? Lo sapeva?

Mi strinse la mano.

- Ricorda, nemmeno l’oscurità più profonda può cancellare la luminosità della tua anima. Per quanto le tenebre possano essere fitte, il tuo cuore è splendente, Aurore, splendente come il primo raggio di sole al mattino. Promettimi che lo terrai a mente, sempre.

Che strano discorso… era tutto così irreale. Strinsi la sua mano, desiderosa di non lasciarla andare, e deglutii.

- Mamma, c’è qualcosa che devo sapere? Ti prego… Evan ha detto che non c’è niente, ma… ma non riesco a fare a meno di pensarci…

Il suo sguardo si fece improvvisamente triste, la stessa antica tristezza che riuscivo a scorgere di tanto in tanto.

- Aurore…

Sgranai gli occhi, alcune figure si fecero avanti alle spalle della mamma. Inizialmente non riuscii a definirne i contorni, poi, man mano che si avvicinavano a noi, riconobbi un abbigliamento piuttosto comune, indossavano lunghi impermeabili scuri senza particolari decorazioni. Ciò che invece colpiva lo sguardo era il contrasto tra il nero degli abiti e il pallore dei visi, tanto accentuato da farle sembrare quasi albine. Erano tre uomini, perfettamente identici.

- Mamma?!

Le strinsi la mano con più forza, mentre mi tirava dietro di sé.

- Non ci voleva…

Bisbigliò.

Li conosceva… chiunque fossero, li conosceva. Terrorizzata, il ricordo della mano oscura che cercava di catturarmi nei miei incubi si ripresentò nel momento in cui notai dei guanti neri. C’era anche un sigillo sul guanto, che prima non avevo visto, apparentemente raffigurante una croce stilizzata.

- La Croix du Lac?

Sussurrai, alla disperata ricerca di un qualunque indizio utile a identificarli nella mia testa. Sfortunatamente, non riuscii a ricollegare quel sigillo a niente di familiare, mentre le tre figure si avvicinavano progressivamente.

- Aurore… fa’ finta di niente.

- Come?

- Fa’ come ti dico, non preoccuparti.

Era facile a parole, e anche se era mia madre stessa a chiedermelo, non potevo ignorare la paura che mi attanagliava e mi aveva letteralmente paralizzata.

- Li conosci, mamma?!

- Vecchie seccature… a quanto pare non possiamo proprio vivere in pace.

Altri misteri… cosa diavolo era la mia vita, una caccia al tesoro?! Con la mano libera strinsi forte il mio ciondolo.

- Cosa facciamo, allora?

- Rimani qui, non ti muovere per nessuna ragione.

- Non… e tu?!

- Fidati di tua madre, mh?

Sorrise nervosamente, poi lasciò scivolare facilmente la sua mano dalla mia, nonostante cercassi di trattenerla con tutte le mie forze, e raggiunse i tre uomini, che si fermarono all’istante, in attesa.

Mamma

Quanto desideravo che Evan fosse presente…

Mamma

Cosa vogliono quelle persone da noi?

Mamma

Il suo destino è nelle tue mani…

- Mamma!!

Urlai, la parola mi uscì in un grido strozzato, mentre ferma al centro della scena, fu circondata dalle tre figure. In quell’interminabile attimo di terrore, solo la sua voce riuscì a sovrastare la mia.

- E’ me che cercate?

Proclamò, solenne, mentre uno dei tre uomini fece cenno positivo. Non parlava.

- Potete riferire al vostro signore che è un vero maleducato a farci pedinare, che venga di persona, la prossima volta.

Si fermarono, guardandosi dubbiosi, la mamma li osservò tutti e tre.

- Inoltre, vi sarei grata se evitaste di creare confusione, non è certamente l’occasione per una rimpatriata.

Disse, indicando alcune persone sul piazzale antistante il centro commerciale che osservavano insospettite nella nostra direzione. Era un’occasione da non perdere, avrebbero sicuramente distolto l’attenzione, quindi perché non farglielo notare? Eppure, il tono di mia madre divenne improvvisamente gelido, sconosciuto.

- Andate, adesso. E’ un ordine.

Mi parve di vederli inchinarsi, poi veloci, si dispersero in direzione del parco.

Sospirò, sollevando il braccio verso le persone che avevano assistito alla scena per tranquillizzarle, poi mi raggiunse. Ero rigida, tremavo, ma non me ne sarei resa nemmeno conto se non me l’avesse fatto notare.

- E’ tutto a posto, non torneranno.

Disse, il suo tono era tornato ad essere il solito rassicurante che conoscevo.

- No…

- Aurore?

Feci cenno di no, non era affatto tutto a posto, ero stanca di sentirmi ripetere una monotona, assurdamente priva di significato e patetica scusa per nascondermi la verità. Ansimai, il respiro in gola era troppo corto, il cuore, che per qualche minuto avevo creduto si fosse fermato, galoppava. Sollevai lo sguardo verso la donna che mi era di fronte, un tripudio di emozioni stava per farmi esplodere il petto a causa di quanto stava succedendo.

- Devi dirmi la verità, mamma. Devi dirmi la verità.

Mi osservò, si fece forza. Per una volta riuscii a sostenere lo sguardo di Celia Kensington senza esitare. Ero determinata più che mai a conoscere ogni ragione dietro tutte quelle menzogne.

 

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Capitolo 6
*** IV. 2 parte ***


Conclusione del capitolo! >.< Grazie alle ragazze che hanno aggiunto la storia tra i preferiti e le seguite, spero di non deluderne le aspettative! *-*

 

Era ora di pranzo quando Evan rientrò a casa. Dopo quell’inaspettato incontro, eravamo tornate a casa senza proferire parola sull’accaduto. Non sapevo cosa pensare. Eravamo dei sorvegliati speciali? Avrebbe spiegato la segretezza, magari quei tizi erano agenti in incognito come i Men in black. Troppo fantasioso. E poi, quelle riverenze, il sigillo sui guanti, l’aver obbedito senza batter ciglio all’ordine della mamma, poteva essere la regina di un qualche Paese lontano? Ancora peggio dell’idea che fosse la donna di chissà quale boss. Avrei preferito l’idea di essere parte di un programma di protezione, magari la mamma o Evan in passato avevano assistito a qualche scena scottante ed era stato necessario proteggerli in qualche modo. Troppo vago.

Sospiravo, rigirando i pollici, mentre la mamma accoglieva Evan, il mio bugiardo fratello maggiore.

- Cosa?!

Lo sentii esclamare, con un tono stupito.

Bentornato, è ora di essere sinceri, Evan, avrei voluto dirgli, ma non riuscii a far altro che guardarlo, mentre rivolgeva il suo sguardo indagatore verso di me, che seduta sul divano, aspettavo di conoscere finalmente la verità… o quantomeno, ciò che c’era dietro agli eventi accaduti negli ultimi tempi.

- A quanto pare ci hanno trovati anche qui.

Disse la mamma, un discorso molto più frequente di quanto avessi potuto immaginare, non sapevo nemmeno se esserne felice.

- Vi hanno fatto qualcosa?

- Per fortuna no.

Evan mi raggiunse.

- Stai bene?

- Puoi smetterla di chiedermi se sto bene dato che conosci già la risposta?

Tagliai corto, guardandolo di sbieco.

- Aurore…

- Aurore, Aurore, so benissimo chi sono!

Sbottai, alzandomi in piedi. Ero stanca, delusa, amareggiata… arrabbiata.

- Smettetela di preoccuparvi per me, non sono più una bambina! Smettetela di trattarmi come una povera deficiente! Non ho anch’io il diritto di sapere cosa sta succedendo?!

La rabbia cominciava a salire, ma per contro, il timore di dire qualcosa di cui mi sarei potuta pentire si rintanò in un lontano angolo del mio cuore, troppo pieno di emozioni contrastanti e di dubbi per supportare la ragione.

- Tesoro, ascolta…

La mamma era preoccupata, ma nel suo sguardo stavolta c’era una consapevolezza nuova, quella di non potermi più proteggere con le menzogne.

- Avanti… avanti, mamma, dimmelo. Dimmi, siamo forse dei ricercati? Perché se così fosse, avrei trovato una ragione al nostro essere sempre in viaggio. E’ così?! Magari c’entra anche mio padre, è lui che mandava quei tizi?! Cos’è?! Mio padre è un qualche ass--   

Non feci nemmeno in tempo a finire di formulare quello sproloquio che un sonoro ceffone mi sbattè a terra. Sgranai gli occhi, il dolore si propagò nella mia guancia con la stessa furia della rabbia che stavo provando in quel momento. Rantolai, posando la mano sul volto in fiamme, mentre un’ondata di lacrime prese forma nel mio occhio destro. Feci uno sforzo immane per ricacciarla indietro, mentre Evan lasciava scivolare il braccio lungo il fianco. Mai prima di allora aveva alzato un dito su di me. E’ vero, avevamo l’abitudine di pizzicarci, ma quello era soltano un giochino, niente di più innocente, non c’era mai stato odio in quel gesto, mentre quella volta percepii tutta la sua ira.

Deglutii a forza, avevo la gola secca.

- Vuoi sapere la verità, Aurore?

- Io…

- Vuoi sapere la verità, Aurore?!

Gridò, un tono gelido e iracondo che mi fece trasalire, tanto che ebbi la sensazione che le stesse mura di casa stessero vibrando.

Mi rivolse un’occhiataccia, solo in un’occasione l’avevo vista sul suo volto, verso Damien Warren.

- Evan, no… non agitarti.

La mamma cercava di calmarlo, ma la collera era palese negli occhi amaranto di mio fratello.

- Tu non vuoi essere trattata come una povera deficiente, ma pretendi di trattare gli altri come tali, sputando sentenze su argomenti che nemmeno conosci! Questo è essere una deficiente, Aurore! Cosa vuoi sapere?! Cosa diavolo pensi che volessero quei tizi?!

Senza rendermene conto, strinsi il mio ciondolo, la mamma se ne accorse.

- N-Non lo so…

Mormorai, sentendomi improvvisamente debole.

- Piantala di vedere congiure dove non ce ne sono. Sei troppo infantile.

- Evan…

La mamma gli posò la mano sulla spalla, facendo cenno negativo. Forse non voleva che infierisse ancora, ma ero sicura di quello che avevo visto, ero certa che quelle figure stessero mirando a noi.

Strinsi i pugni, cercando di recuperare il controllo di me e di analizzare razionalmente la situazione, ma in quel momento, riuscivo a realizzare soltanto il pulsare del sangue nella mia guancia bollente. Non so cosa passò nelle loro menti in quel momento, ma la mamma mi raggiunse, sollevandomi di peso e accarezzandomi la guancia. La sua mano era fresca, fu un sollievo.

- Scusa, Aurore, abbiamo esagerato.

Distolsi lo sguardo, le lacrime che avevo forzatamente ricacciato indietro scesero senza che potessi far nulla per impedirlo. Mi odiavo, odiavo la mia debolezza, odiavo il fatto di essere stata la causa di quel litigio, odiavo quelle stramaledette lacrime, eppure, non potevo fare a meno di costringere chiunque mi fosse vicino a occuparsi di me, ero il trionfo dell’inutilità. Mi scansai, mordendomi le labbra e guardando mia madre e mio fratello, per la prima volta così incredibilmente ostili, distanti anni luce da tutto ciò che la mia vita sicura era stata fino a quel momento.

Desideravo soltanto una cosa, ancor più della verità in quel momento. Scappare.

Lo feci, non si opposero.

 

 

 

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Capitolo 7
*** V - La fuga (1 parte) ***


Buonasera! :D Posto ora la prima parte del V capitolo!

 

Non so per quanto tempo corsi, né dove andai, inizialmente. Il mio corpo obbediva soltanto al desiderio di fuggire via da ogni cosa. Pensandoci, non avevo né soldi nè indumenti caldi, se avessi voluto realizzare la fuga del secolo sarei stata fermata dalla mia stessa impulsività. Non avevo un luogo dove rifugiarmi, tornare a casa mi sembrava la scelta peggiore, proseguire era impossibile, tutto sembrava volgere contro di me. Sapevo che se mi avessero voluto cercare, casa di Violet sarebbe stata la meno indicata, per cui evitai anche solo di sostare davanti al suo cancello, ma sapevo anche che se gli altri fossero stati sulle nostre tracce sarei stata un bersaglio piuttosto facile. Era bizzarro, ma mi sentivo esattamente come nel mio ultimo incubo, sola in un luogo sconosciuto, senza appigli, senza sapere cosa fare. Per la prima volta, era la realtà. Era facile essere cullata da tutti, era difficile prendere coscienza del fatto che dietro a quelle azioni ci fosse una motivazione misteriosa che probabilmente non ero degna di conoscere.

Vagai nel parco per ore, mentre le voci dei frequentatori si altalenavano. Giocose grida di bambini, chiacchiericcio di mamme, complici commenti di amiche in giro, suggestivi racconti di anziani. La vita in tutte le sue forme era qualcosa di meraviglioso e unico al mondo, in tutta la sua variegata essenza. Rimasi seduta su una panchina per molto tempo, riflettendo distrattamente su argomenti disparati. La mia mente, per qualche ragione sconosciuta, evitava di affrontare direttamente la questione, quasi fosse quel mondo, un’oasi serena. Di tanto in tanto, osservavo i pettirossi cinguettare e giocare con le molliche di pane. Avevo persino saltato il pranzo, alla fine non avevamo nemmeno avuto tempo per abbuffarci di schifezze al centro commerciale. Ciononostante, avevo lo stomaco chiuso, non avrei accettato nemmeno il miglior pranzo del mondo.

In più, l’aria cominciava a farsi più fredda, e io avevo addosso soltanto un maglioncino di cachemire e la gonna. Cercai di scaldarmi tirando su le calze, ma alcuni fischi molto poco educati da parte di un gruppo di ragazzi nelle vicinanze mi costrinse a evitarlo. Dopotutto, una ragazza sola, scarmigliata, che cercava di sistemare le calze, non era esattamente il massimo dell’affidabilità. Non mi era mai importato delle opinioni altrui, ma quel pensiero non mi piaceva. Mi rialzai, facendo finta di niente, e feci per prendere il cellulare, trovando la tasca vuota. Che stupida, non avevo nemmeno fatto in tempo a prenderlo. Maledissi ancora una volta la mia impulsività, soprattutto quando vidi che il gruppo si stava dirigendo pericolosamente verso di me, sghignazzando.

- Accidenti…

Bisbigliai, incamminandomi velocemente in direzione opposta. Se fossi stata abbastanza veloce, sarei anche riuscita a uscire dal parco e a dirigermi verso nuove, sconosciute destinazioni, sicuramente migliori della situazione in cui mi trovavo in quel momento.

 Ma come al solito, avevo cantato vittoria troppo presto. Nel voltare l’angolo sbagliato, mi ritrovai davanti alla fontana che avevo visto con Evan la sera precedente. Il mio cuore si fece protagonista di una poderosa accelerata. O mi buttavo in acqua o ero in trappola, in ogni caso, sarei rimasta fregata. Per di più, gli schiamazzi si facevano sempre più vicini, tanto che udii anche commenti volgari. Merda!! Da sola ero davvero incapace di fare qualcosa di buono senza andarmi a cacciare nei guai?! Mi avvicinai alla panchina, il gruppo oltrepassò l’angolo e mi raggiunse. Erano cinque, supponevo studenti, dato che indossavano gli zaini, ma non appartenevano alla mia scuola. Alcuni di essi avevano in mano delle lattine di birra, molte delle quali quasi consumate. Ci mancavano anche i bulli, non mi facevo davvero mancare nulla… sogghignavano, ero una preda davvero facile. Due di loro tirarono fuori dei coltellini, tremai al pensiero di come li avrebbero usati. Mi feci indietro, ma trovai soltanto il bordo della fontana.

- Vuoi fare un bagno, signorinella?

Chiese uno, in apparenza più grande, capelli troppo cresciuti e barba incolta. Alla faccia dell’ordine

- Sicuramente a te servirebbe più che a me.

Osservai, lanciandogli un’occhiata sadica. Si misero a ridere, tranne il diretto interessato, che storse la bocca. Serrai i pugni, forse potevo fare qualcosa, se si fossero avvicinati abbastanza avrei potuto cercare di farli cadere nella fontana. In realtà dubitavo che sarei riuscita a essere così convincente da attirarli, e anche ammettendo che ce l’avessi fatta, sarei forse riuscita a farne cadere giusto un paio, i più esili.

- Ehi, ragazzina, dovresti portare più rispetto ai fratelli maggiori, sai?

Bofonchiò un altro, più alto, dietro il primo. Sobbalzai alle parole fratelli maggiori, in un certo senso, non aveva affatto torto, sebbene il tono con cui lo disse non poteva sortire l’effetto che sperava. Poi veloce, oltrepassò il suo compagno, per correre ad afferrarmi, mentre i più esili si misero a guardia. Ovviamente, il magro fa il palo

- Lo faccio, se i fratelli maggiori non mi fanno arrabbiare!

Saltai sul bordo della fontana, ricordando le mosse base dell’acrobazia. Mi era stato utile un corso di ginnastica artistica da piccola, in Inghilterra. Peccato che l’avessi lasciato troppo presto. Un altro trasferimento, come al solito. Mi era piaciuta Londra, era una città che emanava fascino e magia, oltre che grande eleganza.

- Oop!

Esclamai, recuperando all’istante l’equilibrio e osservando le facce sconvolte di quei ragazzi.

- Che c’è, non fai più lo spavaldo?

Domandai, sentendomi molto sicura, forse anche troppo, rispetto al solito.

- Vieni qui!

Esclamò, cercando di afferrarmi.

- Troppo lento!

Mi detti la spinta e saltai, arrivando esattamente con la pianta del piede sulla testa del ragazzo.

- Troppo stupida!

Fu il commento oscenamente divertito dei due che avevo ignorato, nell’afferrarmi le caviglie e tirarmi giù. Sbattei sul selciato, fu un dolore acuto e bruciante, per qualche istante sentii la testa girarmi. Mi sentii voltare, su di me, almeno tre facce libidinose stavano assaporando il pensiero di cosa li aspettasse. Evan… mamma… no! Non potevo dare a quei cinque maiali la soddisfazione di diventare il loro trastullo. Cercai di liberarmi scalciando quanto più forte potessi, ma la presa sulle mie caviglie era ferrea e nemmeno con le braccia andava meglio, in quanto uno di loro mi teneva stretti i polsi.

- Lasciatemi, bastardi!

Imprecai, sputando in faccia al ragazzo lercio che mi aveva chiesto se volessi fare un bagno nella fontana. Sentivo la rabbia crescere tanto più l’umiliazione si rifletteva negli sguardi lascivi di quei ragazzi. Non si scompose particolarmente, con tutta probabilità ci era anche abituato.

- Veloce, dai, prima che arrivi qualcuno.

Una voce indistinta, gracchiante.

- Tienile tappata la bocca, così non urlerà più, questa puttanella.

Gridare, la sola cosa che potessi fare, non mi fu concesso. Cercai di divincolarmi, ma la stretta diventava più forte a ogni movimento che cercavo di fare. Il cuore voleva uscirmi dal petto, sarebbe stato facile morire in quel momento. Vidi con orrore e disgusto lo stesso ragazzo che sbottonava i pantaloni, era un gesto incredibilmente osceno. Non avevo mai visto nemmeno mio fratello uscire dalla doccia, mi sembrò una scena talmente ributtante che quasi mi venne un conato di vomito.

Poi, un altro, uno dei due che teneva i coltellini, sollevò la mia catenina.

- Ehi, forse è di valore.

Commentò, nell’esaminare il ciondolo.

No!! Non toccatelo, mi appartiene!! E’ un regalo!!, avrei voluto disperatamente urlare, ma mi uscii soltanto un mugolio disperato.

- Lo prenderemo come souvenir, tu ce lo darai, vero, signorinella?

Gracchiò l’altro, con un tono schifosamente suadente. Feci cenno di no, cercando di mordere la mano al tizio che mi impediva di parlare, ma non ci riuscii, i miei denti non potevano agguantare il palmo.

- Dai, muoviti!

Disse un altro, imprecando.

Serrai gli occhi, realizzando improvvisamente che non c’era più alcuna speranza. Mi ero sopravvalutata e allo stesso tempo, avevo sottovalutato ogni cosa. Del resto, non c’era ragione per cui io dovessi continuare a vivere. Sarebbe stato un bene per tutti se me ne fossi andata.

Mamma… perdonami per averti aggredita in quel modo…

Evan… scusami per essere stata un peso…

Vi voglio bene…

- Lasciatela!

Spalancai gli occhi, una voce imperiosa talmente reale da spezzare all’istante il silenzio a cui avevo deciso di abbandonarmi.

Facendomi forza, reclinai quanto più potevo il viso all’indietro, cercando di capire cosa stesse succedendo, ma quello che vidi era esattamente l’ultima cosa che mi potessi aspettare. Un uomo, mi parve vestito esattamente allo stesso modo dei tre che avevamo visto la stessa mattina. Tremai, la speranza morì così com’era nata, in un batter d’occhio.

I ragazzi sopra di me si allontanarono all’istante. Intravidi le figure degli altri due che facevano da palo a terra, ai piedi dell’uomo, che avanzava verso di noi. Avrei dovuto scappare, ma non riuscivo nemmeno a muovermi.

- Che diavolo vuoi tu?!

Imprecò uno dei due coi coltellini, sollevandolo. Un’arma dava sicurezza, ma avevo la sensazione che non gli sarebbe bastata se avesse deciso di attaccare briga con quell’uomo. Riuscii a sollevarmi facendo appello a tutte le mie forze. Mi ricomposi, notando per la prima volta le escoriazioni della caduta. Mi bruciavano, ma non era il momento di pensarci.

La figura alle mie spalle mi oltrepassò, fermandosi esattamente davanti a me, senza voltarsi. Mi stava forse… proteggendo?

Non so cosa accadde, cosa disse loro, ma di lì a poco, vidi il terrore sui loro volti. Senza nemmeno curarsi di ricomporsi, si dettero alla macchia, scomparendo dalle nostre viste.

Lasciandomi sola con la figura misteriosa.

Sollevai lo sguardo, indossava anche lui un impermeabile nero. Si voltò, mi feci indietro, cercando di difendermi. Strinsi forte il ciondolo, per fortuna non l’avevano preso.

Era diverso dagli altri, per quanto fossi riuscita a capire di quegli uomini. Era pallido, molto più giovane, apparentemente sui venticinque anni, gli occhi avevano screziature ambrate, i capelli una sfumatura calda del castano legati in una corta coda che gli scendeva lungo la spalla sinistra.

- Niente di rotto?

Mi chiese, inginocchiandosi e tendendomi la mano. Indossava gli stessi guanti neri, ma il sigillo era differente, rappresentava un giglio dorato. Non presi la sua mano, per quel che ne sapevo avrebbe potuto catturarmi e riservarmi anche una sorte peggiore di quella a cui ero appena sfuggita. Invece, mi rialzai, barcollando. Le ginocchia mi facevano male, ma mi sforzai di non darlo a vedere.

- Cosa volete da noi?

- Prego?

Chiese educatamente, rialzandosi a sua volta. Dovevo avere un aspetto orribile, ma non me lo fece notare.

- Tu e i tuoi compagni. Stamattina avete attaccato me e la mamma. Chi siete?!

Mi guardò senza capire per qualche secondo, poi forse comprese.

- I miei… compagni? Sono rammaricato per ciò che è accaduto. Non credevo che si sarebbero spinti a tanto, sono stati più sconsiderati di quanto potessi immaginare. State bene?

- Se mi spieghi di cosa stai parlando forse posso risponderti.

Mi guardò, poi a sorpresa, si inchinò.

- Vi prego, non lasciate che i seguaci della Croix du Lac vi abbiano in pugno. Purtroppo non sono riuscito ad arrivare in tempo, lasciate al più presto questa città, penserò io a fermarli, se dovessero ripresentarsi.

Sgranai gli occhi, quell’uomo inchinato davanti a me stava parlando con naturalezza estrema di qualcosa di a me totalmente sconosciuto. E poi, che voleva dire con “i seguaci della Croix du Lac”?

- Non ti seguo.

Teneva lo sguardo basso, lo sollevò per lanciarmi un’occhiata dubbiosa.

- Voi non siete a conoscenza dell’esistenza della Croix du Lac? Com’è possibile?

Feci cenno di no. Mi stava spaventando.

- Forse è il caso… che mi svegli. Sì, decisamente. Stavolta questo incubo è fin troppo reale.

- Di cosa state parlando?

- Vuoi smettere di darmi del voi?

Domandai.

- Perdonatemi, non posso.

- Perché?

- Ovviamente perché voi siete…

Trasalii improvvisamente, sentendo un violento brivido risalirmi lungo la schiena. Istintivamente, mi strinsi forte le braccia, il respiro si fece corto e affannato, la vista mi venne quasi  meno, quando mi resi conto che stava succedendo qualcosa.

- Mamma…

- Come?

Chiese l’uomo davanti a me.

- Mamma!

Esclamai, mettendomi a correre. Ignoravo se mi stesse seguendo, ignoravo il motivo che mi aveva spinta a fuggire mentre quell’uomo stava per rivelarmi qualcosa di importante, ignoravo il perché di quel dolore improvviso che aveva intrappolato il mio cuore in una morsa. Sapevo soltanto che la mamma era in pericolo.

Fa’ che arrivi in tempo!, continuavo a ripetermi, nel correre come una forsennata. Chissà dove avevo preso tutte quelle energie improvvise. Era pomeriggio inoltrato ormai, correvo tra la folla senza far caso a cosa avrebbero potuto pensare di quella strana ragazza in fuga come se avesse un demonio alle calcagna. Non mi accorsi nemmeno quando la mia fuga fu fermata da due braccia incredibilmente vigorose a dispetto della magrezza.

- Mi faccia passare!!

Urlai, nel divincolarmi. Dovevo far presto…

- Aurore?!

Una voce familiare, la sola che avesse compreso il mio shock.

Guardai il ragazzo davanti a me, i suoi occhi verdi increduli.

- W-Warren?!

Esclamai, impaziente. Anche se era lui, non potevo farmarmi. Ma le sue mani erano più convincenti e le mie forze non erano infinite.

- Lasciami andare, per favore!

- Che diamine ti è successo?!

Dovevo essere il volto dello sconvolgimento.

- Te lo spiego dopo, fammi andare a casa!

- Ma ti sei vista?! Che cavolo è successo stavolta?!

Mi scuotè.

- Warren, lasciami, ho detto!

Urlai, mentre alcune persone si fermarono a guardarci.

- Ehi, tutto ok?

Intervenne un uomo, avvicinandosi a noi.

- S-Sì, credo…

Commentò Damien Warren, guardando verso di me, che ricambiai lo sguardo. Qualunque cosa vide, sicuramente bastò a fagli capire che non mentivo.

- La accompagno a casa, è inciampata ed è un po’ scossa.

Stringendomi a sé, non so se più per evitare che scappassi nuovamente che per altro, si incamminò con me in direzione del mio isolato.

Non parlò, tranne che quando fummo soli. Era rassicurante, per quanto fosse proprio lui a farlo, sentire il calore del suo corpo contro il mio. Stavo tremando, se ne accorse e tolse il cappotto che indossava, mettendomelo addosso.

- Che stai facendo?

Chiesi.

- Così dovrebbe andare meglio. Mi dici che ti è successo?

- No.

Abbassai lo sguardo, era tutto troppo incasinato.

- Come preferisci.

Era una gran cosa che non insistesse. Arrivammo a casa, la luce era accesa, lo notai guardando le finestre del nostro secondo piano, quello su cui era costruito l’appartamento.

- Vedendoti in quelle condizioni dovrai dare certamente delle spiegazioni, pensi di poterlo fare?

Chiese, neutrale.

- Non lo so… scusami.

Tolsi di dosso il suo cappotto, restituendoglielo.

- Grazie.

- Vuoi che venga con te?

In realtà lo desideravo. Ero troppo combattuta, in quel momento il suo sostegno mi sarebbe stato gradito, ma non volevo coinvolgerlo. Nonostante tutto, fidarmi di lui era difficile.

- No. Beh, ci si vede.

Abbozzai un sorriso, poi entrai nel palazzo, salendo le scale. Ogni passo che facevo era così pesante, sofferto, come la consapevolezza di non essere arrivata in tempo, qualunque cosa fosse accaduta. Tremando, lacerata tra paura e dolore, mi ricordai di non avere le chiavi, nel momento in cui posai la mano sui pomelli d’ottone del portone di casa, trovandolo però, aperto.

La Croix du Lac… i suoi seguaci… troppi misteri… chi sono io? Perché non posso vivere la mia vita come chiunque? Non voglio più sapere altro… mamma, mi basta soltanto avere accanto te ed Evan per essere felice…

Quando entrai, non c’era nessuno. La mia casa era totalmente vuota. Potevo sentire i rintocchi dell’orologio di legno che avevamo comprato in Svizzera. I più precisi al mondo, diceva il venditore. Forse saranno usciti a cercarmi, mi sforzai di pensare. Troppi forse e nessuna certezza nel mio mondo.

Camminai trascinandomi a forza attraverso le stanze vuote, niente che facesse pensare a una sparizione improvvisa, era tutto molto ordinato, come al solito. Entrai nella stanza della mamma, mi era sempre piaciuta, era una stanza molto delicata, le piacevano gli arredamenti classici, quelli che richiamavano i secoli passati. Niente di niente. Mi sedetti sul suo letto, stringendo forte il suo cuscino. Era così dolce il suo profumo.

- Mamma…

Sussurrai, liberando finalmente le lacrime, tanto da piangere fino a che non fui esausta.

- Per favore, tornate presto…

Mi lasciai cadere, le federe e le lenzuola di seta inumidite da quel pianto copioso.

Non so quando mi ritrovai in un sogno.

Era lo stesso luogo che avevo sognato la notte precedente, ma il mio stato d’animo era molto diverso. Mi sentivo inquieta, molto più del solito, senza riuscire a capirne il motivo. Ero seduta sulla riva del lago di diamanti, lasciando che la mia mano disegnasse onde lucenti sulla superficie. Era così incredibilmente fresca. Guardai le donne scolpite nelle fontane che riversavano cascate dai cinque lati, erano severe nella loro bellezza senza tempo.

- Potete dirmi qualcosa almeno voi?

Mormorai scioccamente, come se avessero potuto rispondermi.

Sorrisi di quel tentativo vano, ero davvero patetica. Rivolsi poi il mio sguardo verso il centro del lago, alla ricerca del bagliore che avevo visto nel sogno passato, ma non vidi nulla. A quanto pare avevo perso anche il favore della Croix du Lac.

- La pierre qui brille dans le noir… suivez la route qui mène au lac des diamants… ici la Croix reste…

Ici la Croix reste… la Croix du Lac.

Canticchiai, prendendo in mano il mio pesante ciondolo.

Poi fui colpita da un suono in lontananza. Si diffondeva sempre più nell’aria circostante, sebbene non riuscissi a capire da dove provenisse. Sembrava simile al rumore di zoccoli di cavalli in corsa. C’erano cavalli in quel luogo? Com’è era possibile? Non potevano certamente vedere dove stavano andando, si sarebbero ammazzati prima o poi. Sorrisi, era forse l’inferno?

- Aurore.

Una voce vicina.

Senza scostarmi, sollevai lo sguardo.

- Ricorda, nemmeno l’oscurità più profonda può cancellare la luminosità della tua anima. Per quanto le tenebre possano essere fitte, il tuo cuore è splendente, Aurore, splendente come il primo raggio di sole al mattino. Promettimi che lo terrai a mente, sempre.

Sobbalzai, davanti a me, mia madre. Indossava un lungo abito chiaro, avrei detto panna, se non fosse stato falsato dalla luce che il lago di diamanti emanava. Il suo sguardo era triste.

- Mamma!

Esclamai, alzandomi di scatto e cadendo subito dopo. Ero improvvisamente troppo debole.

- Mamma, che ti è successo?!

Gridai, la voce rotta dalla paura.

- Non ho saputo proteggervi… perdonami Aurore, perdonami.

La sua voce, un sussurro triste.

- Mamma! Ti prego, mamma! Non lasciarmi!

Supplicai, nel tentativo di sollevarmi, ma la gravità era diventata troppo, troppo forte e io ero inchiodata a terra.

- Dov’è Evan, mamma?! Te lo prometto, ti aiuteremo! Mamma, te lo prometto!!

La mia voce, troppo fioca.

- Aurore, ricorda… Aurore, ti vogliamo bene.

Sobbalzai, mentre il riflesso di mia madre scompariva ingoiato dalle tenebre e poi, nascosto da quelle stesse tenebre, intravidi mio fratello. Senza proferire alcuna parola, si dirigeva verso la strada di diamanti, lontano da noi, da me, mentre l’oscurità divorava ogni cosa.

La fine… la fine di tutto…

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Capitolo 8
*** V. 2 parte ***


Buonasera! Posto ora la seconda parte del 5 capitolo, sperando non ci siano problemi con l'html... >_>" Buona lettura, e come sempre, spero in qualche parere! >_<

 

 

 

 

 

Poi un canto sommesso, da lontano.

Riaprii gli occhi, la luce del giorno mi ferì gli occhi. Cos’era successo? Mi sentivo languida, il tepore di una coperta calda mi faceva stare bene. Tutto intorno, un delizioso profumo di biscotti. Era come essere tornati a quando ero ancora una bambina. Evan che aveva tra le mani un vassoio pieno di biscotti appena sfornati, barcollando. Da bambino era piuttosto maldestro. Sorrideva, procedendo solenne verso di me, fingendo di essere un piccolo maggiordomo intento a servire la sua altrettanto piccola signorina. Quanto giocavamo, a quei tempi…

Sollevai il braccio verso il soffitto, era decorato da volte a stella. Sussultai, quando mi resi conto di essere ancora nel letto della mamma. E quel profumo, proveniente dalla cucina, accompagnato da una voce dolce che canticchiava. Cercai di prestare orecchio per riconoscere il tono, ma non mi sembrava affatto quello di mia madre, sebbene fosse altrettanto cristallino. Mi sollevai, indossavo ancora gli stessi abiti del giorno precedente, ma qualcuno mi aveva coperta. In più, metà del letto era ordinata, come se nessuno avesse dormito accanto a me.

- Mamma?

Chiesi, timidamente.

Non vi fu risposta, così mi alzai. Barcollavo ancora, il dolore dell’aggressione che avevo subito si faceva sentire in modo più acuto, ero tutta indolenzita. Ciononostante, mi feci forza e raggiunsi la cucina. Vidi di spalle qualcuno che conoscevo bene. I lunghi capelli castani tirati su in una coda, una figura slanciata su per giù della mia stessa altezza.

- Violet?

Domandai, senza capirci granchè.

Si voltò, rivolgendomi uno sguardo infinitamente sollevato. Si allontanò dai fornelli, correndo a stringermi forte. Era così dolce…

- Aurore, grazie al cielo!

Continuavo a non capire, ma il suo abbraccio era un appiglio con la vita. Lo ricambiai.

- Si può sapere che ci fai qui?

Le chiesi, in tutta onestà.

- Ecco… sarà meglio che tu faccia colazione prima, che ne dici? Ti dico tutto mentre mangi, c’erano dei biscotti in forno, li ho scaldati. Immagino li abbia fatti tua madre.

Annuii, il profumo era inconfondibile.

- Su, siedi e niente storie, ok?

- Va bene, capo.

Sorrisi, era quasi come avevamo sognato, andare al college insieme e dividere un appartamento. Ma sapevo anche che i sogni più belli non erano la realtà. Presi posto, mentre mi serviva una colazione completa di tutto punto. Ormai erano due giorni che non toccavo cibo, ma sebbene non avessi grande appetito, costrinsi me stessa a mangiare qualcosa. Quantomeno, avrebbe fatto piacere a Violet, che si sedette di fronte a me, mangiando a sua volta un biscotto.

- E’ davvero buono.

Commentò.

- Sì, la mamma se la cava bene in cucina. Allora, mi dici che ci fai qui?

- Purchè non ti arrabbi. E’ stato Warren a chiamarmi ieri sera. Mi ha detto di venire subito a casa tua, che eri svenuta e dato che lui… beh, sì, insomma, dato che non era il caso che rimanesse, mi ha chiesto di occuparmi di te.

Quasi sputai il caffelatte.

- Come?!

- Non arrabbiarti… è stato gentile. Ha detto inoltre, che sarebbe andato a cercare tua madre ed Evan, mi ha intimato di non farti uscire di casa. Ha aggiunto anche che passerà questa mattina. Penso che non dovrebbe tardare più di tanto, ormai.

- Questa… mattina? Ma che ore sono?

Chiesi, guardando l’orologio svizzero. Segnava le 10:00 in punto.

- Ma… e la scuola?

- Ho detto ai miei che ci davamo a un gruppo di studio per prepararci molto bene alla prossima verifica.

Sorrise.

- Violet…

La guardai rassegnata, contro di lei non c’era davvero storia.

- Grazie…

- Figurati, non posso certo lasciare sola la mia migliore amica, no?

- Sei un tesoro, lo sai?

- Qualche volta.

Mi strinse la mano, poi si fece più seria.

- E adesso mi dici che ti è successo?

Era quello che volevo sapere anch’io, in realtà. Sospirai, era il momento di raccontarle tutto. Lo feci, partendo dall’inizio. Le raccontai del primo incubo di cui avevo memoria, dei nostri trasferimenti, di mio padre, il mio misterioso padre, della scoperta, proprio a Darlington, che qualcuno ci stava cercando, o cercava mia madre forse, e delle mie assurde teorie su chi fosse, del professor Warren e dei suoi tentativi di abbordarci, che col senno di poi, non mi sembravano più così da fissato. Nel raccontare, mi rendevo conto di quanto la mia storia dovesse risultare folle a chi non mi conosceva, e forse, in qualche misura, anche a chi mi conosceva, ma devo ammettere che Violet ascoltò tutto con grande interesse, come se fosse normale, in un certo senso. Mi dava coraggio, e in più, non lasciò mai la mia mano… come invece aveva fatto Evan. Il ricordo del mio ultimo incubo si fece più vivo nel pensare a mio fratello che si allontanava, ingoiato dalle tenebre, ma cercai di non pensarci, almeno in quel momento. Troppi tasselli da ordinare, ma per la prima volta, raccontando quello che mi tenevo dentro, quella confusione sembrò prendere un po’ d’ordine, tanto che quando finii di raccontare, Violet mi osservò pensierosa, facendomi notare qualcosa che fino a quel momento non avevo capito.

- E se quegli uomini non volessero farvi del male, in realtà?

- Perché lo pensi?

- Se così fosse stato, immagino che vi avrebbero già uccisi, no?

- Non capisco.

- Forse avevano soltanto l’ordine di condurvi da qualche parte.

Ripensai all’uomo che il pomeriggio precedente mi aveva salvata dal branco di maniaci, alle sue parole, le sue riverenze, e le collegai alle parole di mia madre, che aveva ordinato ai tre uomini in nero di riferire “al vostro signore” di presentarsi di persona. C’era qualcun altro che tirava le fila, ma chi poteva essere? Guardai Violet, avevo una sola occasione per sapere la verità.

- Devo parlare con il professor Warren.

- Credi sia una buona idea?

Mi domandò, poco convinta.

Sicuramente aveva capito che genere d’uomo fosse, e anche se la cosa non mi allettava per niente, era l’unico che potesse aiutarmi a far luce una volta per tutte sulla vicenda.

- Non lo è, ma non posso fare diversamente.

Confessai.

- Sì che potete, invece.

Ci voltammo di scatto verso chi aveva parlato. Eravamo sole, in casa, o almeno pensavo, dato che non avevo visto nessuno e Violet non aveva menzionato altri che non fossero Damien Warren, che in quel momento era assente. Per giunta, conoscevo quella voce. Ci raggiunse entrando dall’ingresso, con indosso lo stesso impermeabile nero, il viso pallido che alla luce del sole appariva quasi albino.

- Ancora tu?! Come diavolo hai fatto a entrare?!

Sbottai, alzandomi e parandomi di fronte a Violet.

- Perdonate l’intromissione, non era mia intenzione origliare. Quanto all’entrata… ho semplicemente usato la porta.

- Era chiusa, non si entra da una porta chiusa, a meno che tu non sia un fantasma.

- Pallido com’è…

Osservò Violet, sbirciando da sopra alla mia spalla.

- In realtà, io…

- Che vuoi stavolta? Sii rapido e conciso, non ho tempo da perdere con te.

- Vedete, non posso proprio permettervi di compiere azioni sconsiderate. Ritengo che al momento, incontrare quell’uomo sia estremamente controproducente.

Tsk, ci mancava anche l’economista. Lo guardai di sottecchi, per quanto mi parve che non gli cambiasse granchè. Violet mi strinse il braccio.

- Lo conosci, Aurore?

- A dire il vero no. Quindi, signor si-fa-come-dico-io, fuori dai piedi.

- Sono mortificato, ma non posso obbedire a quest’ordine.

Disse, perentorio.

Sbuffai, mi stava dando davvero fastidio.

- Chi cavolo sei tu, eh?!

Si inchinò, un inchino molto elegante, diverso da quello del giorno prima, che lasciò intravedere sotto l’impermeabile nero, degli abiti scuri riccamente decorati e non esattamente dei giorni nostri.

- Mi chiamo Shemar. Shemar Lambert, signorina Aurore, per servirvi.

Mi ritrovai in un attimo più confusa di quanto lo fossi fino a quel momento. Una miriade di punti interrogativi stava invadendo la sala, mentre per quell’uomo inchinato sembrava tutto infinitamente naturale.

- Ti ha dato… di volta il cervello? Ci sono! Sei scappato da un ospedale psichiatrico! Sarà meglio chiamare il 911…

- Sembra un cavaliere…

Osservò Violet, facendomi notare l’elsa di una spada che si intravedeva dall’impermeabile.

- Potrebbe essere un pazzo omicida!

Sibilai, indietreggiando.

- Dobbiamo andarcene, Violet, questo ci ammazza!

- No, non lo farei mai, signorina, sono stato mandato a proteggervi.

Si affrettò a spiegare.

- Sì, certo, dicono tutti così. Senti, facciamo una cosa. Adesso noi ce ne andiamo, tu rimani fermo lì e non ti muovi. Se sei stato mandato a proteggermi o qualunque altra follia tu intenda, rimani lì.

Non si mosse.

- Vi prego, non costringetemi a essere scortese, non mi piace. Vi chiedo soltanto pochi minuti, vi spiegherò tutto quello che volete sapere, e anche… cos’è successo a vostra madre…

Sobbalzai, poi distolsi lo sguardo.

- Di che stai parlando?

Si rialzò, era davvero alto, più di Evan.

- Innanzitutto, sono mortificato, non sono riuscito ad arrivare in tempo per fermarli. Purtroppo, quando sono arrivato alla Porta di Pietra, vostra madre stava già per essere condotta nell’Underworld. Ha cercato di dire qualcosa, ma non sono riuscito a capire di cosa si trattasse, mi dispiace.

- Ti vogliamo bene…

Sussurrai, sperando che non mi avessero sentita. La Porta di Pietra, l’Underworld… tutti nomi di cui non conoscevo l’esistenza, ma che per qualche ragione sconosciuta mi sembravano familiari.

- E… mio fratello?

Esitò, poi chinò il capo.

- Potrebbe essere morto. Non ve n’era traccia quando sono arrivato e generalmente, le guardie imperiali non lasciano traccia dei loro lavori.

Strinsi i pugni con tanta forza da incidermi la pelle con le unghie. Desideravo sentire il dolore entrarmi dentro e straziarmi, più che udire quelle parole. Evan non poteva essere morto. Evan era sempre stato forte, non avrebbe permesso a nessuno di fare del male a me e alla mamma. Non si sarebbe mai lasciato sopraffare, non era il tipo. Ma il ricordo del mio incubo cozzava con la realtà. Se ero capace di vedere cos’era successo, allora perché desideravo con tutte le mie forze che quelle parole non fossero la verità? Certo, ne stava dubitando anche lui, ma un dubbio, davanti alla certezza schiacciante della mia visione, era come l’onda di un fiumiciattolo davanti alla potenza delle onde dell’oceano in tempesta. Mi morsi le labbra, desideravo piangere, ma avevo già consumato tutte le mie lacrime la sera prima.

- Aurore?

Fu Violet a ridestarmi, impedendomi di farmi ulteriormente male. Prese le mie mani, stringendole forte tra le sue.

- Evan non può…

Sussurrai.

- Purtroppo non ho trovato tracc-- 

- Sta’ zitto!

Interruppi Shemar, che cercava di ribadire la sua spiegazione, la sola che non volevo sentire in quel momento. Il mio tono era abbastanza tagliente da costringerlo a rispettare la mia richiesta.

- Guardie… imperiali, piuttosto?

Chiesi.

- Sì, signorina. Le guardie della Croix du Lac.

- La Croix du Lac? Non è la stessa della tua canzone, quella di cui ti ha parlato anche il professor Warren?

Domandò Violet.

- Era un motivetto che mia madre mi cantava quand’ero piccola. A pensarci adesso, sembra quasi che sia un’indicazione.

- Può essere, in effetti. Ricordate tutta la canzone?

- No.

- Immagino che vostra madre vi abbia voluto tenere all’oscuro anche di questo per proteggervi. Conoscete l’origine del ciondolo che portate al collo, signorina Aurore?

Lo raccolsi in mano, ripensando alle parole di mia madre sul suo contenuto.

- No, non la conosco. Ma il professor Warren mi ha posto la stessa domanda, tempo fa.

- Capisco.

- No, tu non capisci niente.

Mi guardò interrogativo.

- Nessuno capisce. Nessuno.

Mi sedetti, stringendo forte il ciondolo. Il brillante risplendeva, non aveva mai smesso di farlo, ma nemmeno la sua luce in quel momento non mi era di conforto.

Violet mi guardò, poi si rivolse al misterioso Shemar. Sembrava stupita da quell’uomo dai modi cortesi.

- Ha fame, signor Shemar? Le va di assaggiare un biscotto?

Chiese, mentre Shemar la guardò incredulo.

- Desolato, signorina, ma dubito di avere i vostri stessi gusti.

- Non mi dire, sei un cannibale?

Domandai, sospirando. Dato che la mia vita aveva preso una piega imprevedibile, tanto valeva cominciare dalle fondamenta. Per tutta risposta, Shemar si mise a ridere. Non fu una risata sguaiata, quanto più una risatina divertita.

- Sono così buffa?

- Niente affatto, signorina Aurore.

Mi rispose, poi si voltò verso Violet.

- Semplicemente, credo di non poter carpire sapori… così tipicamente umani.

- Umani?

Perfetto, ci mancava anche questa.

- Esattamente. In ogni caso, apprezzo la gentilezza. Signorina Aurore, provvederò immediatamente a organizzare il vostro trasferimento.

- Come sarebbe a dire, scusa?!

Lo fulminai.

- Non potete restare qui. Ora che l’ametista è in mano vostra, sicuramente torneranno a cercarvi e da solo non credo che sarò capace di proteggervi.

- Di che diavolo stai parlando? L’ametista?!

Chiesi tutto d’un fiato, ripensando istantaneamente al bizzarro colore dei miei occhi.

- A quanto pare con voi dovremo davvero cominciare dalle basi…

Borbottò.

- Stavo pensando la stessa cosa.

Gli comunicai, quando il campanello di casa suonò. Violet e io ci guardammo, poi guardai Shemar. Chiunque fosse, non doveva vederlo. Sarebbe stato un problema spiegare che ci faceva uno sconosciuto tizio pallido in impermeabile nero in casa con due ragazze.

- Dev’essere Damien.

Suggerì Violet.

- Va bene, a questo qui ci penso io!

Dissi, alzandomi e raggiungendo Shemar.

-  Tu, vieni con me e non osare fiatare!

Gli intimai, spingendolo verso la stanza di Evan, la più lontana. Lo feci entrare e socchiusi la porta, sbirciando quanto meglio potevo. Per fortuna, si trattava proprio di Damien. Indossava lo stesso cappotto del giorno prima, provai un calore gradito al ricordo e sembrava desolato. Come facile ipotizzare, non aveva trovato nessuno in giro.

Strinsi con la mano lo stipite della porta, non sapevo come spiegargli la situazione. In più, Shemar mi aveva esplicitamente consigliato di non parlare con il professor Warren, il che significava che doveva conoscerlo. La cosa mi insospettii, così mi voltai verso quello strano ragazzo.

- Come fai a conoscere Leonard Warren?

Sospirò, le mie domande dovevano apparirgli davvero fuori luogo.

- Warren? Mpf, a quanto pare non è stato poi così saggio. Ve lo spiegherò non appena il vostro ospite sarà andato via. Lo conoscete?

- E’ Damien Warren, il figlio di Leonard Warren.

Non so cos’avessi detto. Una blasfemia forse, perché Shemar cambiò in un attimo la sua espressione, mutandola in una maschera gelida. Afferrò l’elsa tirando fuori una spada d’argento scintillante.

- Che… che stai facendo?!

- Dovreste fare attenzione a chi fate entrare, signorina Aurore!

Protestò, scansandomi e uscendo di corsa dalla stanza di mio fratello. Fu tutto molto veloce. Si fiondò verso Damien, che inconsapevole di quello a cui stava andando incontro fece appena in tempo a scostarsi, tanto che la lama prese soltanto un ciuffo di capelli.

- Ehi, che diavolo…

Urlò, incredulo.

- Non mi sfuggirai!

Replicò Shemar, facendo ruotare agilmente la spada e lanciandosi nuovamente all’attacco. Damien rivelò un’agilità nient’affatto male nello schivare i fendenti di Shemar, ma la sua impresa ebbe termine nel momento in cui inciampò nel piede della poltrona del mio soggiorno e cadde riverso all’indietro.

- Sei morto!

Sentenziò Shemar, nell’atto di infilzarlo.

- NO!!

Urlai, correndo fuori dal mio nascondiglio e afferrando Shemar alle spalle sotto gli occhi stupiti di Violet e di Damien.

- Aurore?!

Gridarono all’unisono.

- Lasciatemi!

Sbottò il mio davvero troppo fedele protettore.

- Non provarci nemmeno! E’ un mio amico, idiota!

Gli spiegai, trattenendolo per quanto potevo. Troppo poco, perché si liberò facilmente, abbassando la spada.

- Un vostro… amico?

Chiese.

- Sì, qualcosa del genere.

Sbuffai, raggiungendo Damien, che ci guardava, ancora incredulo.

- Scusalo, questo qui non ha il concetto di limite.

Lo informai, tendendogli la mano. Sotto lo sguardo seccato di Shemar, aiutai Damien ad alzarsi. Si ricompose, prima di rivolgermi contro il suo sfogo.

- Tu… sei davvero una calamita per i guai, te l’hanno mai detto?!

- E tu sei un gran cafone! Dal momento che ti ho appena salvato la vita potresti degnarmi anche solo della parvenza di riconoscenza, no?

- Senti chi parla.

- Ehi, non intendo attaccare briga.

- Sei tu che cominci, ragazzina.

- Punto primo: hai soltanto un anno e qualche mese in più di me. Punto secondo: non rivolgerti a me con quel tono.

- Punto terzo e non meno importante: chi diavolo è il tuo amico e perché ha appena cercato di uccidermi?

Imprecò, indicando Shemar che sembrava non riuscire a realizzare la situazione. Fu Violet a pensarci, raggiungendolo e bisbigliandogli qualcosa all’orecchio.

- Violet, che diamine stai facendo?!

Le chiesi, immaginando con terrore quello che avrebbe potuto raccontargli.

- Ah.

Commentò seccamente Shemar, riponendo la spada nel suo fodero e facendola scomparire sotto l’impermeabile.

- Vi chiedo perdono, signorina. Non sapevo che quest’uomo fosse il vostro cavaliere. Mi chiedo però, per quale motivo abbiate scelto proprio lui.

La uccido, la uccido!!!, pensai nel contemplare almeno dieci modi diversi per torturarla. Mi limitai soltanto a dissentire, spiegando che Damien Warren non era il mio cavaliere e che nel nostro mondo le donne non avevano bisogno di cavalieri. Probabilmente, alle sue orecchie questa storia suonava come una sorta di ribellione, dal momento che sembrava più disposto ad accettare Damien come mio cavaliere che come mio amico. Qualunque cosa fosse l’Underworld, sicuramente non apparteneva a questo tempo.

Dopo che le acque si furono calmate, raccontai a Damien di quello che era successo, della scomparsa di mia madre e di Evan, e lui ascoltò senza porre domande. Solo alla fine si fece avanti.

- In altre parole, tua madre sarebbe stata rapita e tuo fratello…

Abbassai lo sguardo, sperando che non pronunciasse quella parola.

- Mi dispiace…

La sua voce era sincera, ma allo stesso tempo, potei riconoscere una nota di irritazione.

- Dannazione… se l’avessi capito prima avrei fermato quel pazzo psicopatico.

- Di che stai parlando?

Gli chiesi, cercando di sbrogliare la matassa di pensieri che avevo in testa in quel momento.

- O meglio… di chi sto parlando. Ricordi che t’avevo detto che da tempo mio padre vi stava seguendo? Lui… beh, è sempre stato strano. Un vero fissato, certo, al punto da preferire il suo lavoro alla sua famiglia. Era convinto di riuscire a trovare una persona, ne era praticamente ossessionato.

- Una persona?

Domandai, temendo di conoscere già la risposta.

- Vostra madre, signorina Aurore.

Guardai brevemente Shemar, poi tornai a osservare Damien. Sembrava che per quanto fosse difficile per lui parlare di suo padre, fosse una sorta di liberazione. A quanto pareva, non erano in buoni rapporti, ma sarei una sciocca a non dire che l’avevo già intuito.

- Non sapevo che si trattasse di tua madre. Credevo ce l’avesse più con te e tuo fratello, in realtà.

Confessò.

- E invece era lei il suo obiettivo. A questo punto subentri tu, Shemar. Perché il padre di Damien ha preso mia madre?

- In realtà non sono sicuro che sia stato lui in persona. Quando sono stato mandato qui, le guardie imperiali dellaCroix du Lac erano già sulle vostre tracce. Ritengo che Warrenheim non abbia l’autorità sufficiente a comandare le truppe imperiali. Piuttosto, se è stato lui, l’avrà fatto per reclamare il prestigio che non ha ottenuto in passato.

Damien e io ci guardammo, poi lui guardò Shemar, che evidentemente rifletteva ad alta voce.

- Hai detto… Warrenheim?

Chiese, stupito.

- Sì, certo.

Misi una mano in faccia. Si prospettava davvero una lunga mattinata.

 

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Capitolo 9
*** VI - Preparativi di partenza (1 parte) ***


Nuovo capitolo, buona lettura! :D

 

 

Era impossibile ascoltare le parole di Shemar Lambert senza domandarsi se avesse capito che aveva davanti a sé dei ragazzi e non i suoi simili. Ci raccontò dell’Underworld, il mondo in cui la luce non splendeva, dei governi oligarchici dei singoli territori che componevano l’Impero, delle dinastie che si succedevano al trono imperiale e delle dispute tra le famiglie che davano i natali ai futuri sovrani. Era come ascoltare un bel racconto antico se non fosse che quel racconto prendeva forma nei miei incubi più nascosti ed era infinitamente reale, tanto quanto il mio mondo.

- Ogni territorio è governato da un’oligarchia facente capo a una famiglia ben precisa. Io provengo dalla regione di Shelton, e sono al servizio della famiglia Trenchard.

Sollevò la mano guantata, su cui era ben evidente il sigillo del giglio ambrato.

- Che bello…

Commentò Violet. E lo era. Era un sigillo estremamente delicato, che risaltava sul nero dei suoi guanti.

- Ogni territorio ha un suo sigillo distintivo. Non importa quante siano le famiglie che compongono i governi oligarchici, ogni territorio ha un suo sigillo d’appartenenza. Tranne Adamantio, il cuore dell’Impero, il cui sigillo è la Croce di diamante e che vale come simbolo stesso dell’Underworld.

- La Croce di diamante?

Avevo già visto quel sigillo, esattamente sui guanti dei tre uomini che erano venuti a cercare me e la mamma.

- E’ un controsenso.

Contestò polemicamente Damien. Stava pensando qualcosa già da un po’, avevo notato che non aveva ancora preso parte alla discussione.

- Cosa, Warrenheim?

Domandò Shemar, guardandolo di sottecchi. A quanto pare il despota non gli piaceva particolarmente.

- Hai parlato di oligarchia e di Impero, si tratta di differenti e non conciliabili forme di governo. In altre parole è come affermare che esista una dittatura in un contesto di democrazia. Un paradosso.

Non aveva tutti i torti, effettivamente, ma la risposta di Shemar ci stupì non poco.

- Nel vostro mondo forse. Ma l’Underworld non risponde a regole comunemente definite umane. Per usare le vostre stesse parole, il Despota che governa l’Underworld è l’equivalente del vostro concetto di Imperatore. La sola differenza è che è scelto tra i successori delle famiglie al governo dei cinque territori che compongono il nostro mondo.

Ci guardammo increduli.

- Despota?

Domandai incredula.

- Sì, certo.

Mi rivolsi a Damien, indicandolo.

- Quindi tu saresti un candidato?

- Non dire assurdità.

Borbottò il nostro despota. Era quasi divertente quella parola alla luce delle rivelazioni di Shemar.

- Ovviamente lui non potrebbe essere un candidato. I Warrenheim non sono ben visti nell’Underworld.

Riprese Shemar, rispondendomi.

- Perché?

Si interessò Violet. Sembrava che la storia la stesse appassionando. C’era qualcosa di incredibile nelle parole di Shemar. Qualcosa di assolutamente incomprensibile, ma per quanto potesse suonare come tale, purtroppo per me sapevo che era la verità.

- Perché i Warrenheim sono dei mercenari. Hanno prestato fedeltà alla Croix du Lac, e al momento… la Croix du Lac non ci concede più il suo favore.

- Che vuoi dire?

Chiesi.

- C’è un motivo preciso per cui sono qui, signorina Aurore. Per conto della mia casata, ho il compito di proteggervi. Proteggere voi e l’ametista. Se dovesse cadere in mani sbagliate, la nostra speranza di vedere tornare la luce nel nostro mondo svanirebbe completamente e saremmo condannati. E’ molto tempo che la luce non splende più nell’Underworld.

- E’ per questo che sei così pallido?

Chiese Violet.

- Dal mio punto di vista siete voi ad essere più… scuri.

Sorrise Shemar, meravigliato di quella domanda. Mi resi conto che dal suo punto di vista, dovevamo apparirgli davvero bizzarri.

Strinsi forte il ciondolo, prendendolo in mano.

- Non voglio nemmeno sapere altro. Se vuoi proteggermi, allora facciamo a modo mio.

Suggerii, alzandomi.

- Se permettete, non se ne parla. Ho già un piano ben preciso.

- Anch’io, e si fa come dico io.

Proclamai, cercando di conferire alla mia voce un tono quanto più possibile convincente.

- Signorina Aurore…

- Si va nell’Underworld.

- Sei impazzita?

La faccia scettica di Damien era tutto un programma.

- Ti sembra che io stia scherzando? Dato che questo qui è totalmente inutile, sarà il caso di andare personalmente in quel luogo e ritrovare mia madre e mio fratello.

- Signorina Aurore, non…

- Non sindacare, è la mia decisione.

Violet si alzò a sua volta, stringendomi forte. Lei era fatta così. Non le importava che fossero i momenti meno indicati, se desiderava fare qualcosa lo faceva in barba a tutto.

- Prima però… sfogati.

Mi suggerì, coccolandomi. Soltanto Evan e la mamma sapevano riconoscere la verità che mi riguardava quando io stessa non riuscivo nemmeno a immaginarla. Stavo correndo troppo, senza rendermene conto. La strinsi forte, in quel momento, il suo sostegno era ciò di cui avevo più bisogno. Se avessi avuto una coscienza in grado di farmi riflettere, quella sarebbe stata proprio Violet. In più, mi sentii improvvisamente bisognosa di conforto e di sicurezza. Anche se cercavo di dimostrarmi determinata, stavo cominciando a realizzare quanto fosse davvero accaduto. Era così innaturale ritrovarmi in casa mia, con Damien Warren, Violet e un bizzarro tizio che sosteneva di essere venuto da un altro mondo quando poco prima, c’erano mia madre e mio fratello. La paura che avevo provato e la morsa al cuore si fecero risentire, quando tornai con la mente al mio ultimo incubo, alla mamma che mi aveva lasciato un quantomai oscuro indizio, a Evan, che si allontanava ingoiato dalle tenebre più nere. L’idea che gli fosse accaduto qualcosa di brutto però, non volevo nemmeno più contemplarla. Evan non poteva essere morto, doveva esserci per forza un’altra spiegazione.

Strinsi più forte la mia amica, fissando la foto che ritraeva la mia famiglia durante un viaggio in Giappone. Era la più divertente, avevamo costretto Evan a indossare un kimono, ma non era particolarmente entusiasta e facemmo un grande sforzo per costringerlo a sorridere in quell’occasione. La mamma aveva voluto incorniciarla, nonostante il suo parere contrario, ma quando ci mettevamo d’impegno, nemmeno lui poteva opporsi. E così, quella foto aveva finito per troneggiare sul comò del nostro soggiorno, ricordandoci sempre quel momento così divertente e piacevole. Non credo di aver mai riso tanto quanto in quell’occasione. Sorrisi nuovamente al ricordo, giurando a me stessa che avrei fatto di tutto per ritrovarli e riportarli a casa. Che arrivassi all’inferno, se necessario, che vendessi l’anima al diavolo, non mi importava, ma avrei assolutamente ritrovato mia madre ed Evan.

- Grazie, Violet.

La guardai, sorrideva anche lei. Poi mi rivolsi a Damien e a Shemar, che ci guardavano. Il volto pensieroso del despota e quello incuriosito dello strano cavaliere, che con tutta probabilità stava chiedendosi quanto fossimo contro corrente rispetto al suo modo di intendere la realtà. Chissà che razza di usanze avevano nell’Underworld

 - Warren, te la senti di indagare su tuo padre?

Chiesi, determinata più che mai a cominciare a mettere insieme i tasselli.

Per tutta risposta, Damien prese un sospiro. A quanto pare aveva già cominciato prima di me.

- Se sapessi dov’è in questo momento. Ho provato a telefonargli ieri e non mi ha risposto. Stamattina il suo appartamento era vuoto e a scuola non ce n’era traccia. In compenso ha avvisato che sarebbe mancato qualche giorno. Comincio ad avere qualche idea su dove sia finito.

Strinse il pugno, tremando. Qualunque cosa ci fosse dietro, probabilmente doveva avere ragioni profonde.

- In ogni caso… a meno che non sia tornato nell’Underworld, non potrà accedervi per il momento.

Aggiunse Shemar, portando la mano al mento.

- Che vuoi dire?

- Non si entra ed esce a piacimento dall’Underworld. Un tempo, grazie al favore della Croix du Lac, l’accesso al vostro mondo e viceversa, era più facile, ma da quando l’abbiamo perso, abbiamo a disposizione solo poche occasioni a nostra disposizione e la maggior parte di queste sono destinate alle guardie imperiali ai suoi stessi ordini. Il motivo per cui sono riuscito ad accedere a questo mondo è stato l’intervento della mia signora, Lady Amber Trenchard.

Pronunciò quel nome con sincera venerazione, accarezzando il sigillo ambrato sul suo guanto nero. Doveva esserle davvero fedele. Lo osservai attentamente, mentre ci raccontava di come era riuscito a farsi passare per un membro delle squadre imperiali e a raggiungere il nostro mondo, mettendosi immediatamente alla nostra ricerca.

- Perché… ci stavate cercando? Non è la prima volta, vero? Mia madre… ha detto che ci avevano trovati anche qui, dunque…

Chiesi.

- Credo che sarà il caso di discuterne in altra sede.

Sospirò, alzandosi.

- Purtroppo, io non sono a conoscenza di tutti i dettagli. So soltanto che la vostra famiglia possiede l’ametista e immagino che le guardie della Croix du Lac abbiano supposto che sia in mano di vostra madre. Sono estremamente spiacente di non potervi essere d’aiuto più di così, ma in certi casi, è necessario precludere la verità, perché se fosse divulgata a persone sbagliate, sarebbe un vero guaio.

- Se ti riferisci a me, puoi stare tranquillo, non mi interessa.

Commentò Damien, alzandosi a sua volta.

- Non ricomincerete a litigare, spero.

Dissi, guardandoli entrambi.

- No.

Si affrettò a precisare il despota, raccogliendo il suo cappotto e mettendolo addosso.

- Vai via?

Chiese Violet.

- Sì. Questa storia ha dell’assurdo, ho ascoltato fin troppo. Insomma, non ha alcun senso, è peggio che stare a sentire quell’invasato di mio padre.

- Non osare paragonarmi a lui, Warrenheim!

Contestò Shemar, accendendosi di rabbia per quel commento molto poco gradito. Evidentemente questa famiglia Warrenheim doveva godere di una davvero pessima reputazione e valutando le azioni di Leonard Warren c’era ben poco da dubitare. Quell’uomo era subdolo ed estremamente viscido.

- Non chiamarmi in quel modo!

Tagliò corto Damien, con un tono minaccioso. L’avevo sentito già in passato, ma questa volta la sua irritazione era molto più forte, al punto da conferigli un’aura spaventosa. Il suo sguardo era diventato gelido e soltanto in un’occasione avevo visto uno sguardo assolutamente identico. Trasalii, stringendo forte il mio ciondolo. In quel momento, era come avere davanti agli occhi Evan.

- Il mio nome è Damien Warren, mettitelo bene in testa.

Pronunciò il suo nome con particolare freddezza, deciso a fare in modo che Shemar lo ricordasse per sempre. Era una sua caratteristica, mettere in chiaro le cose. Poi si rivolse a me.

- Non dovresti fidarti troppo. Al posto tuo mi rivolgerei alle forze dell’ordine.

L’avrei fatto, se avessero creduto ai miei incubi. Sfortunatamente, se avessi anche soltanto provato a raccontarlo a qualcuno meno pazzo di me, mi sarei ritrovata con una camicia di forza a vita. Non era esattamente la prospettiva più rosea, senza contare che non avevo bisogno di alcuna conferma per sapere cos’era accaduto alla mia famiglia.

- Non posso.

- In tal caso, ti auguro di riuscire a ritrovarli.

Disse, prima di allontanarsi verso l’uscita. Mentre si apprestava ad uscire, vidi che aveva preso il cellulare e stava per chiamare qualcuno. Per un attimo ebbi la sensazione che ci stesse ripensando, poi lo sentii all’istante cambiare tono, abbandonando la freddezza per una voce più allegra, mentre varcava la soglia e richiudeva la porta alle sue spalle. Abbassai lo sguardo, pensando a quanto fossi stata stupida a credere anche per un solo istante che mi avrebbe aiutata. Ma la posta in gioco era troppo grande e coinvolgere altre persone era impensabile. Ero stata sciocca, a me e a me soltanto spettava di farmi carico di quella responsabilità. Guardai Violet, poi le strinsi le mani.

- Quando tornerò, ti prometto che mi sdebiterò per tutto quanto.

Le dissi, cercando di dare alla mia voce un’impronta speranzosa e felice.

- Verrò con te, Aurore. Ho davvero paura che tu compia qualche azione sconsiderata… in questo periodo soprattutto, è come se tu non fossi più in te…

Mi disse, preoccupata.

In qualche modo aveva ragione, il mio mondo aveva subito una centrifuga a piena potenza e cominciavo anch’io a dubitare delle mie piene facoltà mentali. Sorrisi, non potevo proprio permettere che la mia amica stesse male per me.

- Non puoi venire, Violet. Ma apprezzo la tua buona volontà. Facciamo così, ti porto un souvenir, che ne dici?

Poi mi rivolsi a Shemar.

- Ci sono negozi di souvenir nell’Underworld?

Dalla sua espressione shockata capii che non ce n’erano.

- Ok, ti porterò qualunque cosa potrò. E in più, quando torneremo, convinceremo la mamma a mandarci alla festa. Vedrai, verrà anche Evan! Sai, in fondo lui ci teneva, mi ha detto che… mi ha detto che ci sarebbe venuto… e lui, sai… mio fratello mantiene sempre le sue… promesse…

Senza nemmeno rendermene conto, avevo cominciato a tremare. Mi strinsi forte le braccia, cercando di farmi forza. Dovevo essere forte, ma il ricordo di Evan che guardava la fontana, il suo sguardo sereno, le sue parole mi ferivano come se fossi stata frustata mille volte. Gli occhi mi si riempirono finalmente di lacrime, quelle lacrime che avevo represso disperatamente cercando in tutti i modi di farmi forza. Non so quanto piansi, ma Violet mi tenne stretta a sé fino a che non mi calmai e Shemar ci lasciò insieme, dicendomi che sarebbe tornato nel momento in cui l’avessi voluto.  

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Capitolo 10
*** VI. 2 parte ***


Buonasera! Posto un'altra piccola parte del sesto capitolo, ultimamente non ho molto tempo per scrivere, ma... ne ho approfittato! Grazie ancora a Phoebe per la recensione! :D Buona lettura!

 

Fu piuttosto difficile nei giorni a seguire, prepararmi psicologicamente a quello che mi aspettava. Non avevo più nemmeno avuto incubi. Era come se la mia mente avesse deciso di erigere un muro di cemento armato tra la mia realtà di ogni giorno e il mondo senza luce, proprio nel momento in cui ne avevo più bisogno. Era paradossale come ne sentissi il desiderio. Qualcosa di cui avrei sempre fatto volentieri a meno, che mi terrorizzava al punto da farmi svegliare urlando nella notte, adesso era diventato qualcosa di cui sentivo la necessità. Era il solo modo che avessi per comunicare con mia madre, e sebbene non potessi prevedere cosa avrei sognato, nutrivo la disperata speranza che fosse proprio ciò che volevo. Ma sperare non era una garanzia. Non sognai proprio nulla. Trascorrevo le notti in bianco, fissando il soffitto bianco che risplendeva di luce argentea per via dei raggi della luna. Mi chiedevo come sarebbe stato quel mondo, ma quando ci pensavo, la risposta era scontata. Lo conoscevo già fin troppo bene.

- Il mondo in cui non splende la luce… come fanno a vedere in quel mondo?

Mi domandai, stringendo un cuscino.

Ovviamente, aspettarmi una risposta era impossibile. Era così silenziosa la mia casa senza la mamma ed Evan. Mi alzai, nel cuore della notte, osservando attentamente ogni cosa. Non ero mai stata sola prima d’ora e nonostante Violet mi avesse proposto di trasferirmi per qualche giorno da lei, non me la sentivo di andarci. Non era mancanza di rispetto, ma in cuor mio, avevo paura che se la mamma ed Evan fossero tornati e non mi avessero trovata in casa, si sarebbero impensieriti. Com’è folle la mente, fa degli scherzi sadici e crudeli a volte. Allo stesso modo, non volevo che la mia amica rimanesse a dormire da me, perché se mai qualcuno avesse deciso di tornare a prendermi e l’avesse trovata… beh, non volevo che le accadesse qualcosa di male. Era così triste voler proteggere qualcuno tenendolo lontano… richiedeva uno sforzo immane e in più di un’occasione il mio egoismo l’avrebbe avuta vinta, se non fosse stato per la a suo modo rassicurante presenza di Shemar Lambert che perlustrava le zone vicine alla mia casa incessantemente.

- Ma questo non è proprio umano…

Mormorai, scostando la tenda e osservandolo dalla finestra.

Non sapevo proprio che pensare, era così assurdo il fatto che non avesse bisogno né di mangiare né di dormire. Col tempo, pensavo, me ne sarei fatta una ragione. Se gli andava bene così, non ero nessuno per criticarlo. E poi, il fatto che lui fosse così, significava forse che anche noi eravamo simili? Eppure, avevamo sempre condotto una vita così normale, era impossibile dubitare del fatto che fossimo umani, perché lo eravamo. Tranne Evan, un po’, dato che certe sue tendenze erano davvero bizzarre. Sorrisi al ripensarci. A volte mi capitava di addormentarmi in camera sua. Era sempre stata piuttosto spartana, a differenza della mia, così riccamente decorata, e di quella della mamma, che profumava d’altri tempi. La sua stanza era semplice. Un letto, un armadio, una scrivania e un tappeto. Non gli piacevano le cose pompose, e a volte, trovavo che riflettesse ciò che mio fratello era, solitario e schivo.

- Sai, Evan… quando tornerai, ti preparerò uno zabaione. Così smetterai di sonnecchiare tutto il giorno.

Bisbigliai, raccogliendo la felpa che era rimasta sul suo letto. Non avevo voluto toglierla, avrebbe potuto aver freddo una volta tornato. Ormai mancavano tre giorni al mio compleanno. Avrei compiuto sedici anni e gli sarei stata distante soltanto di due anni. Era strano, ma la mamma non ha foto di Evan da piccolo. Le sole che avevamo partono da quando mio fratello aveva circa dieci anni. Non so per quale motivo, si è sempre giustificata dicendo che a quel tempo non aveva particolare dimestichezza con le macchine fotografiche. Strinsi forte la sua felpa, aveva ancora il suo profumo addosso.

- E se la portassi con me? Potrebbe servire…

Mi dissi.

Poi mi sedetti sul suo letto, osservando le pareti spoglie. Pensai che avremmo dovuto riempirle in qualche modo, ero pronta a scommettere che persino la stanza di Warren sarebbe stata meglio arredata di quella di Evan, e sorrisi al pensiero di mensole piene di cd e di libri. Gli piaceva la musica, in particolare quella classica, diceva che lo rilassava. Del resto, non avrei saputo attribuirgli niente di più azzeccato, considerando la sua indole. Mi mancava. Mi mancavano le sue frecciatine, i nostri litigi, la sua voce, il suo sorriso. Avrei dato qualunque cosa per vedere di nuovo quel volto sorridere gentilmente. Ma pensarci in quel momento avrebbe soltanto accresciuto la mia tristezza e se volevo ritrovare lui e la mamma, non avrei dovuto esitare. Avevo pianto troppo, ero sempre stata debole. Era il momento di rendermi utile.

L’indomani mattina, Shemar mi informò che il portale si sarebbe aperto durante la notte. Per un attimo esitai, quelle parole significavano che era aveva ufficialmente cambiato il suo piano ed era davvero determinato a condurmi nel luogo in cui i miei incubi prendevano forma. Sarei dovuta essere terrorizzata, avrei dovuto sentire il richiamo della coscienza che mi avvisava di non imboccare quella strada, ma la voglia di riabbracciare la mia famiglia era più forte di tutto, e forse, chissà, sarei stata anche fortunata a scoprire la verità sulle mie origini, per quanto incredibili esse fossero.

- C’è ancora una cosa che devo fare, prima di andare, Shemar.

Comunicai al mio interlocutore impegnato a valutare attentamente il modo migliore per condurmi nell’Underworld senza che la Croix du Lac lo scoprisse. A quanto avevo avuto modo di capire, la Croix du Lac governava quel mondo, ma ciò che non mi tornava era cosa fosse esattamente. Ma ogni cosa a suo tempo, avrei avuto modo di scoprirlo quando sarebbe stato il momento.

- Non avete ancora preparato i vostri bagagli?

- Quello l’ho già fatto. Si tratta di una cosa, anzi due importanti. Devo salutare Violet, altrimenti ci rimarrà male… in questi giorni si è davvero preoccupata per me e se me ne andassi senza salutarla… beh, insomma, non sarebbe giusto.

Mi guardò per qualche istante, cercando di visualizzare che tipo di relazione mi legasse alla mia amica. Dubito che l’avesse capito, dal momento che dissentì.

- Se lo farete, la metterete in pericolo.

- Perché?

- Perché è meglio che nessun altro sappia dove siete. Scrivetele una lettera, ci penserò io stesso a recapitarla e ditele di bruciarla dopo averla letta.

Wow, teatrale, pensai.

- E se le mandassi una mail?

- Una… cosa?

- Lascia stare, facciamo a modo tuo, per quanto retrogrado. Anche perché se ci sono altri come Warren c’è il serio rischio che qualcuno sappia usare il pc.

- Il… pc?

- Vuoi smettere di farmi il verso?

- Mi scuso, ma parlate di cose di cui ignoro persino l’esistenza.

- Ma guarda, non l’avevo nemmeno capito.

Canzonai, tirando verso il basso la zip del mio zaino e chiudendolo.

- Spero di aver preso tutto.

- Potrete disporre delle risorse di Lady Amber, una volta arrivati. Sono sicuro che vi accoglierà a braccia aperte.

- Sì, sì, certo.

Spero non a fauci, riflettei, posando lo zaino a terra. Chiunque fossero le famiglie governanti dell’Underworld, non ero sicura di potermi fidare, anche se Shemar era stato dalla mia parte sin dall’inizio. Ovviamente, ero consapevole che c’era la possibilità di stare finendo dritta in una trappola, ma non avevo altra scelta, dovevo correre anche quel rischio. Ormai non avevo più niente da perdere e la mia vita non avrebbe avuto alcun senso senza la mia famiglia. Era come essere stata privata di due forze portanti, ero totalmente in balia degli eventi, ma Shemar mi aveva offerto un appiglio rischioso. Dovevo provarci, a costo di ferirmi, a costo di perdere la vita.

- E la seconda cosa?

Mi domandò, senza perdere il filo del discorso.

- Devo recuperare un libro.

- Un libro?

Chiese incuriosito.

- Il professor Warren mi ha mostrato un libro e io l’ho dato a mio fratello che avrebbe dovuto restituirglielo. Immagino l’abbia fatto e credo che si trovi a scuola ora.

- Desiderate che vada a prenderlo?

- Conosci l’Otello, Shemar?

- No, signorina, mi spiace.

Commentò onestamente.

- In tal caso, sta a me andarlo a recuperare.

Gli spiegai.

Era meglio non metterlo al corrente di troppe informazioni. Dopotutto, non aveva avuto torto quando aveva deciso di non raccontarmi tutto. Del resto, se fossimo stati catturati, non so cosa ci sarebbe accaduto. Per questo motivo, era meglio premunirsi e non lasciare nulla al caso.

- Prima però, va’ a farti un giro per un’oretta. Ho da fare.

Mi guardò senza schiodarsi, la cosa non mi sorprese, in verità. Io presi carta e penna, sperando che avesse capito.

- Ah, la lettera. Come desiderate, vi lascio sola. Niente colpi di testa, però, sia chiaro. Sarò nelle vicinanze, non appena avete finito, sarà sufficiente farvi intravedere dalla finestra, come fate di solito.

Lo guardai di sottecchi, era bravo a notare le cose. Ma del resto, quello era il suo lavoro, o almeno così credevo. In ogni caso mi limitai a a sbuffare e Shemar se ne andò, lasciandomi sola con un foglio del tutto vuoto. Mi sedetti al tavolo, gustando quel calore piacevole che veniva dall’esterno. Era una bella giornata, finalmente, la primavera cominciato a farsi sentire, per fortuna. Sarebbe stato un vero peccato andarsene col freddo, pensavo. Solitamente i luoghi caldi mi piacevano, tranne che quelli smisuratamente afosi, che oltretutto non erano nemmeno salutari. Allo stesso modo i luoghi troppo freddi non mi ispiravano, e nemmeno alla mamma, dal momento che non ci aveva mai trascinati in posti dove le temperature glaciali la facevano da padroni. E così, i soli pinguini che avessi mai visto in vita mia, erano tra i peluche della mia stanza. Sorrisi al ripensarci, per la mamma era importante conoscere la natura e tutti i suoi abitanti, tranne che quelli particolarmente ributtanti. Devo dire che non potevo darle torto.

Sospirai, guardando il foglio. In realtà non sapevo cosa scrivere. Fino a quel momento non avevo mai avuto veri amici, o almeno, niente di così importante come Violet. Mi era totalmente sconosciuto il modo di dire addio. Avrei potuto perdermi in mille parole parlando dei ricordi, ma sarebbe stato troppo penoso. Avrei potuto parlare del futuro, ma quel futuro era talmente incerto da rendermi impossibile anche soltanto pensare ad esso. Avrei potuto parlare di quanto mi aveva reso felice incontrarla, diventare amiche, essere inseparabili. Quei due mesi a Darlington mi avevano cambiato la vita, rendendomi per la prima volta parte di qualcosa al di fuori della mia famiglia. Parte di una grande amicizia, parte di un bene infinito. Ma le cose belle finiscono troppo presto e rimuginarci non era il miglior modo per salutare Violet. Scarabocchiai il foglio, lasciando correre l’immaginazione alla festa a cui avremmo partecipato, e mi venne in mente che il giorno prescelto era proprio quello. Come vola in fretta il tempo, pensai. Tutto era cambiato nell’arco di pochissime ore.

- Shemar ha ragione… se dovessi lasciare tracce, queste ricondurrebbero sicuramente a Violet… 

Commentai tra me e me, decidendo istantaneamente cosa fare. Lasciai tutto, correndo a raccogliere tutte le fotografie e tutti i ricordi che mi legavano alla mia amica e li riposi in una scatola. Poi tornai nel mio soggiorno, raccogliendo il foglio bianco. Non mi ero nemmeno accorta di cosa avessi scritto, tanto ero sovrappensiero.

Violet… grazie di tutto. Ti auguro ogni bene.

Strinsi forte quel biglietto, realizzando che la voce del cuore era la più saggia, più di quanto le parole della mente potessero essere.

Sistemai ogni cosa, senza dimenticare nulla. Se avessero voluto cercarmi, Violet sarebbe stata l’ultima persona a cui avrebbero potuto pensare di rivolgersi.

Poi mi avvicinai alla finestra, scrutando la strada in attesa di vedere Shemar. La vita proseguiva tranquilla in quella cittadina d’altri tempi. Quanto mi era piaciuta, quasi mi dispiaceva di lasciare quel mondo tranquillo. A pensarci, la mia sensazione di essere sempre in fuga non era poi così sbagliata e il motivo mi sembrava davvero evidente, sebbene non conoscessi ancora tutti i dettagli. Nemmeno in paradiso avremmo potuto essere salvi.

Mi voltai, Shemar era già vicino al tavolo. Quell’uomo era un mistero, non riuscivo a capire come facesse a spostarsi senza farsi né sentire né vedere e il fatto che non gli importasse minimamente del rischio di farmi venire un infarto aveva dell’irritante.

- La prossima volta sei pregato di suonare il campanello come tutte le persone normali.

Gli ordinai, raggiungendolo.

- Motivi di sicurezza.

Si giustificò.

- Qualcuno penserà che sei un ladro.

- Non paragonatemi a simili creature, signorina. Non ho interesse in questo tipo di diversivi.

- Va’ all’inferno.

Bofonchiai, consegnandogli tutto.

- Dovrei consegnarlo all’inferno?

Cominciavo a credere che mi prendesse in giro e lo trovasse molto divertente. Oltretutto, la sua espressione stupita aveva qualcosa di seccante. Alla luce del giorno, Shemar appariva ancora più pallido, sebbene i suoi lineamenti non fossero male. Era affascinante, in un certo qual modo. Ovviamente, a chi piacciono tipi simili. Dal mio punto di vista, non ero esente dal riconoscere che fosse un bell’uomo, ma non era esattamente il mio ideale. Non che ne avessi, in realtà, o almeno, non ci avevo mai fatto caso. Ma qualunque cosa fosse in realtà Shemar Lambert, sicuramente non avrebbe mai potuto avere a che fare sentimentalmente con degli umani. Oltretutto, da come parlava della sua signora, era chiaro che nutriva per lei qualche sentimento, quindi in ogni caso sarebbe stata una battaglia persa in partenza, per chi avesse avuto voglia di combattere. Conoscevo solo Violet, in questo caso, dal momento che Shemar sembrava interessarle.

- Portalo da Violet, lei saprà. Quanto a me… è ora di fare un giro a scuola.

Dissi, infilando il giubbino.

- Non potete andarci da sola.

- Non ti ho forse detto che è qualcosa che posso fare solo io? Oltretutto, a meno che tu non indossi un’uniforme scolastica e dubito che quella di Evan ti entri dato che sei più alto di lui, non potrai entrare. Quindi, in ogni caso sarei ugualmente sola lì dentro. Ma sta’ tranquillo, so come muovermi.

Gli assicurai.

- Piuttosto, fa’ in modo che tutto vada secondo i piani. Ci vediamo più tardi.

- Con voi non c’è modo di far sì che le cose vadano secondo i piani, signorina Aurore.

Mi rispose, con un tono volutamente ironico.

Sorrisi, non l’avrebbe avuta vinta. Giocavo a quel gioco secondo le mie regole… almeno fino a quando mi fosse stato possibile.

 

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Capitolo 11
*** VI. 3 parte ***


Buonasera! 3 parte del sesto capitolo, questo è piuttosto lungo e sto spezzettando! ç_ç Buona lettura! :D

 

 

Era circa mezzogiorno quando arrivai a scuola, facendo attenzione a non farmi beccare. Non fu particolarmente complicato, dato che a quell’ora le classi erano nel bel mezzo delle lezioni. Quella scuola mi piaceva per la sua quiete, era un posto davvero pacifico. Avevo con me un calendario scolastico, l’avevo preso appena dopo l’iscrizione, ma non avevo avuto bisogno di usarlo. Era stata una gran fortuna che l’avessi conservato, mi era tornato utile anche se non per lo scopo per cui era stato creato. Lo sfogliai velocemente, per fortuna a quell’ora il professor Warren sarebbe stato impegnato in una lezione. Sospirai, rassicurata. Quantomeno avrei evitato sgraditi incontri.

Mi recai in biblioteca, trovandoci soltanto un paio di studenti impegnati in una ricerca e alcuni ai piani superiori, ma nessuno nel settore che mi interessava. Salii velocemente, raggiungendo la sezione “Mondi perduti”, alla ricerca del libro mascherato. Dall’ultima volta che ci ero stata, non era cambiato granchè, ma alcuni libri erano stati spostati. Cercai quello che mi interessava, ma in quella confusione era davvero complicato e non avevo a disposizione tutta la giornata. Oltretutto, c’era il serio rischio che qualcuno che mi conosceva mi vedesse, e dare spiegazioni in quel momento non era quello che desideravo.

- Tsk, dannatissimo libro, vuoi farmi dannare, eh?

Borbottai, osservando gli scaffali.

Ne intravidi uno che gli somigliava in alto, più in evidenza rispetto agli altri. Purtroppo per me, non c’era limite alle imprese che ero costretta a compiere per ottenere la cosa più semplice. Sospirai, guardandomi alle spalle. Assicurarsi che non sarebbe spuntato Damien Warren era un’altra priorità. Mi aveva già ripresa una volta per il mio comportamento e dopo quello che mi aveva detto qualche giorno prima non avevo voglia di incontrarlo. Sarebbe stato più facile, se lui non fosse stato tra i piedi.

- Il despota della scuola…

Bisbigliai, pensando alle parole di Shemar sull’Underworld.

- Non è il momento, Aurore.

Mi dissi, cercando uno sgabello. Non lo trovai, ma mi accorsi di una scaletta in fondo al corridoio che separava gli scaffali. Era davvero lungo e molto buio, al punto che pensai che se qualcuno fosse morto, sarebbe stato facile farlo sparire. Era una prospettiva inquietante. Sollevai la scaletta, trascinandola poi verso la zona più interna, fino a posizionarla esattamente accanto ai libri che mi interessavano.

- A noi.

Dissi, salendo e prendendo il libro che avevo adocchiato. Sfortunatamente, non era quello che mi interessava.

- Maledizione… non è questo.

Bofonchiai, riponendolo.

Poi mi venne in mente che poteva essere nella sezione “Letteratura” , ma sarebbe stato ugualmente strano. Se il professor Warren l’aveva messo lì c’era una ragione e cominciavo a pensare che fosse proprio il permettere a mio fratello e a me di trovarlo. Ma se né io né Evan eravamo capaci di leggere le rune, a cosa serviva? Scesi dalla scaletta, sedendomi sull’ultimo gradino e raccolsi la testa tra le mani. Troppa confusione, non ci capivo niente. Per un istante pensai che avevo fatto male a recarmi a scuola, non avrei dovuto. Poi, sentii improvvisamente la porta aprirsi, era entrato qualcuno. Badando a non farmi vedere, mi sporsi a guardare. Erano alcune ragazze della classe di Evan, le stesse che avevano letteralmente fulminato con lo sguardo me e Violet quando ci eravamo recate a comunicare la riuscita del compito di biologia.

Meraviglioso, pensai, tornando al mio posto. Almeno non si trattava del professor Warren e dubitavo fortemente che quelle ragazze sarebbero state interessate alle oscure sezioni del piano superiore. Ma da un po’ di tempo, la mia pessima abitudine di fare i conti senza l’oste si stava rivelando un’arma a doppio taglio, perché dopo poco le sentii salire le scale. Sarebbe stato un fastidio se mi avessero vista, dati i nostri trascorsi, così pensai di allontanarmi, nascondendomi nella parte più interna. Lo feci, accertandomi che il mio ciondolo non mi tradisse, stringendolo tra le mani.

- Non c’è nessuno.

Commentò una di loro, la più alta, coi capelli rossicci, presumibilmente tinti, a giudicare da un’accennata ricrescita.

Mi chiesi che ci potevano fare delle studentesse normali in un’ala solitamente dedicata agli svitati. La risposta non tardò ad arrivare.

- Ascoltate. Dovremmo preparare un grande evento per quest’anno. E’ l’ultimo in cui saremo fianco a fianco con Warren, quindi ci vuole qualcosa di indimenticabile.

Parlò la solita.

- Cosa facciamo? Che ne dite di una recita?

Propose la seconda, una ragazzetta più bassa di me.

- L’abbiamo già data l’anno scorso, consumando tutti i fondi.

Le rispose la prima, che doveva necessariamente far parte del Consiglio studentesco.

- E se dessimo un ballo?

Si intromise la terza, una brunetta.

- Ve lo immaginate Damien Warren in smocking?

Chiese con voce trasognata la seconda.

Mpf, Damien Warren in smoking. Se avessero saputo che il despota s’era fatto fregare da Shemar rischiando di diventare uno spiedino non avrebbero certo sognato tanto su di lui. Non riuscivo a capire cosa ci trovassero di tanto affascinante in un ragazzo antipatico che piantava in asso le conversazioni per attaccarsi a un cellulare. Poteva essere un bel ragazzo, ma i suoi modi erano sufficienti a rendere la sua bellezza assolutamente inutile. E i ragazzi tutta forma e niente sostanza non mi andavano a genio, nemmeno se fossero stati gli ultimi sulla faccia della Terra.

- Io, a dire la verità, ho immaginato anche quel Kensington…

Bisbigliò la rossa, e strinsi forte il ciondolo. Non era la prima volta che sentivo commenti su Evan, ma adesso che lui non era con me, erano così strani…

- E’ assente da qualche giorno, chissà cosa gli è successo…

- Se è per questo anche la sorella non c’è. Manca da quando hanno avuto quello strano incidente, sembra che quella ragazza abbia manie suicide.

Aguzzai lo sguardo, cercando di ascoltare meglio. Non mi piaceva origliare, ma detestavo il fatto che si parlasse alle spalle di chi non poteva difendersi. Era stata la brunetta a parlare, la cosa mi irritò non poco.

- Ma hai visto quando si è gettato per salvarla? Dev’essere davvero dura avere a che fare con una disturbata del genere. Se fossi io sua sorella di certo saprei farlo rilassare, altro che dargli problemi.

Aggiunse la rossa, ridacchiando.

Cercai di soffocare la rabbia che stava velocemente sopraggiungendo. Le avrei volentieri affrontate a viso aperto, sarebbe stata una sfida ad armi pari e non un’ignobile pugnalata alle spalle. E’ vero, ero la prima a pensare di essere una palla al piede per mio fratello e proprio perché ero un intralcio per lui, dovevo imparare a badare a me stessa e a non gravare sulle sue spalle. Ma quelle ragazze non potevano sapere cosa avessimo vissuto, tutto cià che Evan aveva sempre fatto, quanto fosse importante per me… no, loro non conoscevano nulla.

Strinsi forte il pugno, battendolo a terra. Produsse un rumore sordo, non mi sentirono.

- Però è fortunata…

Aggiunse la seconda, che era rimasta in disparte fino a quel momento.

- Avere un fratello così… e poi, avete visto, non si somigliano per niente…

- Magari non lo sono, che ne sai?

Commentò la rossa ridendo, e io tremai. Era troppo.

Balzai in piedi, decisa ad affrontarle. Al diavolo il fatto che avessero potuto vedermi, non mi importava, non dovevano permettersi di parlare in quel modo. Uscii dal mio nascondiglio, provando una segreta soddisfazione nel vedere le facce sconvolte di quelle tre, nemmeno avessero visto il peggiore degli spettri. Non avrebbero dovuto sfidarmi così, mai avrei permesso loro di averla avuta vinta.

- Spiacente di deludervi, Evan e io siamo fratelli. E non ho tendenze suicide. Oltretutto mio fratello detesta le oche, quindi se volete sperare di farvi notare, sarebbe meglio se cominciaste a cambiare atteggiamento.

Suggerii, ironica. Non so nemmeno come mi venne in mente di usare quel tono con delle ragazze più grandi, dato che l’ultima volta che avevo risposto male a dei ragazzi più vecchi avevo seriamente rischiato, ma ero a scuola, la cosa peggiore che sarebbe potuta succedermi al massimo sarebbe stata un volo dal piano superiore.

Mi guardarono incredule, probabilmente stavano ancora cercando di realizzare il fatto che fossi sbucata dal nulla.

- Sono stata chiara?

La rossa mi guardò di sottecchi, avvicinandosi.

- Non ti hanno detto che non si origlia?

- Non è mia abitudine, ma non ho potuto fare a meno.

Le risposi.

- Penso che il preside sarà felice di sapere che salti le lezioni per recarti clandestinamente in biblioteca. Che stai cercando, qualche libro svitato come te? Se vuoi posso aiutarti.

Mi disse, con un tono più ironico del mio.

- Non lo metto in dubbio, ma sfortunatamente il libro che cerco non è qui. E già che ci sei, mi faresti un favore ad andare dal preside. Penso che sarebbe altrettanto felice di sapere che alcune ragazze saltano le lezioni… se non sbaglio, a quest’ora dovreste avere Educazione Fisica, vero?

Domandai, guardando il foglio degli orari.

Le altre due storsero la bocca, raggiungendoci.

- Non farti la superiore, ragazzina.

Disse la seconda, rivolgendomi un’occhiataccia.

- Non lo faccio, siete voi che avete cominciato.

- E allora che ci facevi qui, nascosta per giunta?

Mi chiese la brunetta.

- Mi ero appisolata.

Mentii, ma la mia messinscena era debole, dal momento che non mi ero neppure premurata di indossare la mia uniforme scolastica.

- Sei davvero un pessimo elemento… quando Warren tornerà sarà un piacere per lui raddrizzarti.

- Tornerà? Non è qui?

Chiesi, stupita.

- No, è assente da un paio di giorni.

Mi comunicò la seconda. Per quanto oche potessero essere, almeno erano utili a qualcosa. L’assenza di Warren era sospetta. Perché mancare se non voleva sapere niente dell’Underworld? Nemmeno suo padre c’era, era stato lui stesso a dire che aveva preso qualche giorno di permesso, quindi c’era la possibilità che fosse in combutta con il professore. Che fosse tutta una presa in giro ai miei danni? Del resto, non che Damien Warren fosse stato un grande alleato. Strinsi i pugni, non l’avrei sopportato.

- Ehi, a che pensi?

Mi strattonò la rossa, afferrandomi per la manica del giubbino.

- Non toccarmi!

Protestai, strattonando a mia volta per liberarmi.

- Ora che ci penso… tu e Warren sembrate in confidenza… sei innamorata di lui?

Spalancai gli occhi cercando di non scoppiare a ridere. Fu un’impresa, quella domanda era talmente stupida che nemmeno una bambina delle elementari avrebbe potuto pensarla. Dovevano essere membri del suo fanclub, altro che…

- No. E se vuoi saperlo, non ci tengo nemmeno.

Dissi, con sicurezza. Era la verità, e comunque, non avrei più avuto tempo per pensarci, quella stessa sera avrei abbandonato quella vita, Dio solo sapeva se per sempre.

- Allora perché chiedi di lui?

Mi chiese la brunetta.

- Oltretutto sei stata una gran maleducata l’altro giorno, con lui. Non credi di essere troppo arrogante?

Continuò.

Non aveva affatto tutti i torti, ma in certi casi la migliore difesa è proprio l’attacco.

- Non è certo a voi che devo giustificazioni.

Dissi, cercando di passare, ma tutto ciò che ottenni fu vedermi scaraventata contro lo scaffale. Alcuni libri caddero, richiamando l’attenzione dei ragazzi al piano terra. La rossa si affacciò alla ringhiera, rassicurandoli sul fatto che stessero soltanto cercando dei libri e il poco ordine avesse fatto sì che cadessero.

- Che volete?

Chiesi, sostenendo gli sguardi delle altre due fissi sul mio.

- A te serve una bella punizione. Stavolta non c’è nemmeno tuo fratello a difenderti, no?

- Patetiche. Siete patetiche. Prendersela con una ragazza più piccola è davvero patetico.

Replicai.

- Se credete che mi metterò a piangere sol perché mio fratello non è qui, allora non avete capito un accidente!

Protestai, alzando la guardia.

Mi guardarono, forti del loro essere più numerose, ma non avevo paura. Al contrario, ero desiderosa di farla pagare a quelle stupide che credevano di poter fare il bello e cattivo tempo senza tenere in considerazione i sentimenti di chi avevano di fronte. Avevo sempre avuto un profondo disprezzo per coloro che usavano la forza verso i più deboli, ma sapevo bene di esserlo a mia volta e di non poter far nulla per cambiarlo. I miei incubi ne erano la testimonianza. Era Evan a salvarmi, non io. Era la sua voce a risvegliarmi dall’oscurità, le sue mani a proteggermi. Dovevo imparare a diventare forte, in modo da rendere mio fratello fiero di me. Stavolta toccava a me salvarlo e io non avevo nessuna intenzione di esimermi. A costo di cominciare proprio da quel momento.

- Se ti succedesse qualcosa… non sospetterebbero nemmeno, dato che ufficialmente non sei a scuola, vero?

Intervenne la seconda, sollevando il bavero del mio giubbino.

- Tu provaci e poi ne riparliamo, che ne dici?

Le suggerii.

Il mio atteggiamento era davvero insofferente, lo sapevo bene, tanto che finì con l’acuire il loro disprezzo verso di me.

- Impara ad essere più umile, stupida!

Mi rimproverò, scaraventandomi verso la zona più scura.

Mi risollevai, ma un calcio ben assestato nel mio stomaco mi fece piegare nuovamente mentre un dolore acuto si diffondeva nel mio addome. Non avevo visto chi era stato, ma le tre si erano avvicinate ed erano ben determinate a infliggermi una lezione con i fiocchi.

- Sai solo parlare, tu?!

Sbraitò la rossa, continuando a sferrare calci.

Mi scostai, posando la mano sullo stomaco.

- Niente affatto… niente affatto!

Esclamai, rialzandomi pronta a ingaggiare battaglia, ma fui fermata da due mani più forti. Trasalii, il ricordo della mano oscura che si protendeva verso di me si fece sentire, al punto che il sangue mi si gelò nelle vene e il respiro si fermò. Strattonai, cercando di liberarmi, mentre il terrore mi scuoteva dalla testa ai piedi.

- Shh!

Bisbigliò la persona alle mie spalle, posando la mano sulla mia bocca per evitare che urlassi. Un guanto… Shemar?!

- Qualcosa che potete fare solo voi, eh?!

Mi disse all’orecchio, intimandomi subito dopo di fare silenzio e di rimanere calma. Riprendere il controllo di me stessa era un’impresa in quel momento. Oltretutto, non avevo ancora nemmeno sbollito la rabbia, per cui fu ancora più difficile. Mi spinse alle sue spalle, nemmeno mi ero accorta di come fosse stato veloce. Le tre ragazze del terzo anno si guardavano perplesse nella penombra, chiedendosi che fine avessi fatto. L’umiliazione di un salvataggio non richiesto si era aggiunta a tutto, era davvero impossibile da sopportare.

- Shemar, che cavolo vuoi fare?! Perché sei venuto qui?!

Chiesi, mantenendo il tono quanto più basso possibile, sebbene la mia arrabbiatura fosse sufficiente a renderlo convincente come se stessi parlando a voce normale.

- State un po’ zitta.

Sibilò, muovendo qualche passo verso la penombra. Un gran disastro, se lo avessero visto non avrebbero certo avuto la reazione di Violet e di Warren. Avrei finito col fare saltare tutto, non avrei avuto la possibilità di recarmi nell’Underworld e di scoprire cosa davvero era successo…

Mamma… Evan…

Con tutte le mie forze, afferrai Shemar, riuscendo a farlo indietreggiare.

- Che state facendo?!

Mi chiese, voltandosi a guardarmi.

- Non è… compito tuo. Stai indietro, per favore.

Dissi, guardandolo. La luce che filtrava fu sufficiente a farmi vedere il suo sguardo sbalordito. Se volevo essere in grado di salvarli, allora dovevo cominciare ad assumermi la responsabilità delle mie parole e delle mie azioni. Funzionò, si fece indietro, seppure con aria contrariata. Per uno abituato a difendere le persone doveva essere davvero qualcosa di immorale. Ma nel mio mondo, ogni essere umano è responsabile delle sue azioni. Presi un respiro, il dolore stava velocemente scomparendo, poi tornai dalle tre, che mi guardarono sbigottite.

- Dov’eri finita? Stavi forse cercando di scappare?

Mi chiese la brunetta.

- O forse stavi asciugando le lacrimucce?

Aggiunse la seconda.

- Niente di tutto questo.

Risposi, guardandole tutte e tre.

- Potete umiliarmi quanto volete… potete picchiarmi, farmi male, fare tutto quello che volete, ma non piegherò la testa. Non conoscete niente di me, di mio fratello Evan, ciononostante sparate a zero come se sapeste ogni cosa. Se pensate che questo basti a farvi belle agli occhi di un ragazzo, allora sappiate che vivere per qualcuno non è così facile. Voi non avete mai provato sulla vostra pelle il desiderio di non essere mai esistite, di non aver mai reso impossibile la vita di qualcuno, non è così? Ma io sì. Avevate ragione, sapete? Sono sempre una palla al piede per mio fratello, per mia madre… per questo motivo non ho più intenzione di piangermi addosso e di lasciare che le cose rimangano come sono. Non mi piegherò a voi, non lascerò che nessuno mi sottragga più ciò che di più prezioso ho al mondo. Se volte pestarmi, accomodatevi, ma non aspettatevi che chieda scusa a delle sciocche che pensano che la sola ragione importante nella vita sia dare una festa per un ragazzo che il prossimo anno avrà preso una strada completamente diversa dalle vostre. Se volete lasciare il segno della vostra esistenza, almeno sforzatevi di farlo usando metodi meno idioti. In caso contrario, la sola cosa che lascerete sarà la foto sull’annuario destinata a decomporsi.

Non so come mi vennero quelle parole, ma per la prima volta in vita mia mi sentii un fiume in piena. Volevo scoppiare, tutto il risentimento, la paura, la tristezza che avevo dentro si riversarono in quelle frasi. Avevo voglia di gridare al mondo, quel mondo che stavo per lasciare, proprio io che non avrei lasciato alcun segno, se non le lacrime della mia amica Violet.

Non staccarono mai gli occhi da me, la loro espressione valeva più di mille parole e di altrettanti calci. Non so se in seguito quelle frasi avrebbero sortito qualche effetto, ma in quel momento, risultarono convincenti. Si guardarono tra loro, in un susseguirsi di occhiate dubbiose, poi mi rivolsero lo sguardo nuovamente, prima di abbassarlo in silenzioso pentimento e andare via, lasciandomi sola con Shemar, che nell’oscurità, aveva assistito alla scena. Non mi sentii soddisfatta. Non c’è soddisfazione nel far riflettere, ma sentivo come se una parte di me si fosse liberata. Forse avevo represso la mia frustrazione per troppo tempo, ma il modo in cui era uscita, per quanto inaspettato e diplomatico fosse stato, fu sufficiente a farmi sentire più tranquilla e pronta ad affrontare quello che mi attendeva.

Poi mi voltai verso Shemar, nascosto nella penombra, ormai.

- Si può sapere come hai fatto a entrare?

Sorrise, sembrava che rispondere alle mie domande non fosse necessario per lui.

- E voi avete trovato quello che cercavate?

- No.

Confessai, sospirando e sistemando i libri che erano caduti.

- Ma forse so dove posso trovarlo.

- Non crederete che vi dia retta.

- Lo farai, altrimenti ti sorbirai un altro discorso sulla responsabilità.

- Correrò il rischio.

- Pensi di essere una testa dura, Shemar?

- Se intendete essere una persona ostinata… sì, lo sono.

Mi rispose candidamente.

- Lo immaginavo. Fa’ come vuoi, ma sarà meglio che ti tenga a distanza. Intanto sarà il caso di uscire senza farsi beccare. Hai un piano?

Sorrise ancora, facendo cenno di no, prima di inchinarsi e andar via. Giurai a me stessa che avrei fatto una bella chiacchierata con Lady Amber una volta arrivata nell’Underworld.

Guardai per l’ultima volta tutti quei libri. Quella biblioteca in qualche modo era stata un punto di partenza. In fondo, ciò che mi aspettava poteva davvero essere un mondo perduto. Poi andai via, osservando ancora una volta i corridoi luminosi che avevo percorso tante di quelle volte. Fu forte anche la tentazione di affacciarmi alle aule, la mia e quella di Evan, ma mi resi conto che era un’idea tanto nostalgica quanto pericolosa, così desistii. Senza nemmeno sapere come fosse andata la mia verifica di biologia, senza poter vedere la vita di tutti i giorni, nella sua meravigliosa normalità. Stavo per perdere tutto quanto, ma c’era ancora una speranza che non volevo perdere.

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Capitolo 12
*** VI. 4 parte ***


Buonasera! >__< Altra parte del capitolo! Arriva un nuovo personaggio! >_< Buona lettura, aspetto pareri se vi va!! :D

 

 

Fu così che qualche ora più tardi mi recai all’ultima porta a cui mi sarei aspettata di bussare. Un appartamento, vicino alle scuole medie di Darlington e al nostro liceo. Mi ero accorta solo in quel momento che si trovava anche nei pressi del mio isolato. Suonai il campanello, dopo essermi data una veloce risistemata e dopo un paio di minuti, ad aprirmi fu Damien Warren.

- Ciao…

Dissi, nel notare la sua espressione perplessa.

- Pensavo tu… fossi andata via.

- Non ancora. Ti disturbo?

- No, non… che sei venuta a fare?

- Rispondi a una domanda con un’altra domanda.

- E’… è vero.

Era inaspettatamente a disagio, la cosa non era affatto da lui.

- Pensi di farmi stare sulla porta tutto il tempo o hai cinque minuti da dedicarmi?

Gli domandai, sperando in una risposta positiva, dal momento che era il solo a cui potevo rivolgermi in quel momento a mio rischio e pericolo. Per fortuna, in caso di problemi, avrei avuto Shemar appostato da qualche parte, ma pronto all’azione.

- Cinque minuti, va bene. Entra.

Disse, scostandosi e lasciandomi entrare.

Era un appartamentino piccolo, molto ordinato e ben pulito. Probabilmente la madre di Warren doveva essere una donna di buon gusto, dato che i diversi quadri appesi alle pareti erano raffigurazioni di paesaggi dalle tinte estremamente delicate e nitide. Le pareti avevano colori caldi, c’era molto legno, e di legno era anche il pavimento, coperto da tappeti.

- Hai una bella casa…

Osservai, mentre Warren faceva strada.

- Grazie.

Mi rispose.

Era tornato ad essere Mr Loquacità.

- Ho saputo che non sei andato a scuola in questi giorni…

- E sei venuta a sincerarti che non stia cospirando con mio padre, vero?

Colpita e affondata. Quel ragazzo aveva intuito, mio malgrado dovevo ammetterlo. Feci un enorme sforzo per non fargli capire che aveva ragione.

- Non busserei alla porta del nemico se così fosse, non pensi?

- Con le tue manie suicide non lo penso affatto.

Mi rispose, in tono assolutamente neutro. Feci un altro enorme sforzo per non gettargli le mani al collo e strozzarlo per quel commento, sopprimendo quella voglia con un gran respiro che gli strappò un nervoso sorriso.

Arrivammo nel salotto di casa, era molto diverso dal mio, aveva tinte più calde. Si sedette al divano, facendomi cenno di fare altrimenti. Lo feci, prendendo posto sul divano di fronte al suo, senza distogliere lo sguardo da lui. Avevo sempre più la netta impressione che fosse a disagio in mia presenza.

- Cosa posso fare per te, Aurore Kensington?

- Ho bisogno del libro… dell’Otello.

Gli dissi, sperando che capisse.

- E io cosa c’entro?

- L’ho cercato in biblioteca, ma non l’ho trovato. Ricordi? Era il libro che stavo cercando la settimana scorsa…

- Hai provato nella sezione “Letteratura”?

- In realtà non ho avuto tempo…

Sospirò, guardandomi.

- E quindi?

- Ho bisogno di quel libro entro stasera, è importante.

Confessai, stringendo l’orlo del mio giubbino tra le mani.

- Non so come aiutarti, mi spiace. Hai chiesto a Hammond?

- Ovviamente no, non voglio coinvolgerla!

Mi affrettai a rispondere.

- Ancora quella storia…

- Stasera… secondo Shemar il portale si aprirà, quindi… non ho più tempo… e quel libro mi serve.

- Non so se è più assurdo il fatto che tu voglia recarti in… insomma, in qualche luogo la cui esistenza è totalmente impossibile da credere o che voglia portarti l’Otello appresso.

Sgranai gli occhi, deglutendo nervosamente.

- Non sono venuta per farmi prendere in giro. Che tu ci creda o no, non mi importa, ma ho bisogno di quel libro! Per favore, Damien!

- Probabilmente è a casa di mio padre.

Disse, guardando distrattamente verso la finestra.

- Cosa?

Poi ricordai che Leonard Warren non viveva con suo figlio. Guardai la stanza, non c’erano neanche foto.

- Puoi portarmici?

- No.

- Ti prego!

- Non posso muovermi da casa, mi dispiace.

- Perché?!

- Perché no, basta.

Tagliò corto, seccamente.

Non l’avevo mai visto così. Mi alzai, era stata una pessima idea rivolgermi proprio a lui.

- Grazie lo stesso.

Continuava a guardarmi, senza parlare. Il suo volto, una maschera priva d’espressione.

- Non so nemmeno perché continuo a sperare che tu mi capisca…

Dissi, sempre più consapevole che quel ragazzo non avrebbe mai neppure pensato di scendere dal suo dannatissimo piedistallo per muovere un dito. Era un vero despota, non sbagliavano a scuola. Pensai che sarebbe stata l’ultima persona al mondo di cui avrei sentito la mancanza, una volta giunta nell’Underworld, dove chissà, magari avrei incontrato suo padre. L’avrei quasi preferito.

Girai i tacchi, capacitandomi a ogno passo che facevo verso l’uscita. E poi, vidi qualcosa che mi stupì e che mi fece realizzare in un istante il motivo del disagio di Warren.

Un ragazzino smilzo, con indosso un pigiama e una giacca decisamente più grande di lui, i capelli scuri, più di quelli di Damien, quasi neri, ma altrettanto ricci, seduto su una poltrona di vimini nel soggiorno della casa. Mi guardava incuriosito.

- E tu… chi sei?

Chiesi, ma la risposta era quasi scontata.

Sollevò la mano, salutandomi.

Presa da quel momento non mi ero accorta che Warren si era alzato. Mi oltrepassò, raggiungendolo.

- Tutto bene, Jamie?

Jamie

Li raggiunsi anch’io, era un ragazzino davvero molto carino, aveva gli occhi grandi, di un azzurro cielo meraviglioso.

- Sto bene, ma questo libro non mi piace per niente.

Disse, con voce del tutto innocente, sollevando il libro di Pinocchio, che nelle sue manine sembrava davvero enorme.

- Davvero? Allora cercherò qualcosa di più gradevole, che ne dici?

Gli propose Damien, con un tono molto dolce, che strideva davvero molto con la freddezza di poco prima.

- Non piace nemmeno a me, sai? Le bugie sono davvero un brutto affare.

Commentai.

- Sì, son d’accordo!

Convenne il piccolo Jamie, rivolgendomi un enorme sorriso che costrinse Damien a voltarsi verso di me come se avesse visto un fantasma.

- Che c’è? E’ così, non mi piace quel libro. Non posso farci niente, è più forte di me.

Spiegai.

Jamie mi tese la manina, a occhio e croce quel bambino doveva avere nove o dieci anni. Gliela strinsi, era morbida e calda.

- Piacere, io sono Jamie Warren!

Si presentò.

Sorrisi, quel gesto così spontaneo e la voce gentile di quel bambino erano davvero una nota positiva dopo tutti gli eventi che avevo vissuto fino a quel momento.

- Piacere mio, io sono Aurore Kensington!

Gli risposi.

- Scusalo… mio fratello è scortese, vero?

Mi chiese, guardandolo.

- Lui non è sempre così… è solo nervoso perché sono ammalato.

- Davvero? Non preoccuparti, è normale, in quel caso…

Pensai a tutte le volte che avevo preso la febbre, Evan era sempre rimasto al mio capezzale, preoccupandosi per me. Era sempre lì, termometro e bagnoli pronti all’uso, non mi lasciava mai sola. Sorrisi a quel ricordo, anche se mi sentii triste.

- Che ne dici di tornare a letto ora?

Chiese Damien, prendendolo in braccio.

- No, aspetta!

Protestò il bambino, facendosi mettere giù.

- Che succede, Jamie?

Riprese il fratello, sistemandogli la giacca.

- Aurore, puoi abbassarti?

Mi domandò, e lo feci.

Sentii la sua boccuccia posarsi sulla mia guancia. Fu un gesto talmente inaspettato che rimasi perplessa e lo guardai non appena si scostò. Ricambiò educatamente lo sguardo, aggiungendo un sorriso.

- Sei davvero bella quando sorridi, dovresti farlo più spesso.

Mi suggerì, e rimasi stupita nel sentire quella richiesta. Un bambino, per giunta fratello di Damien Warren, mi aveva baciata e per giunta mi aveva fatto un complimento. Il mondo ogni tanto aveva uno strano andazzo.

- Jamie, non essere impertinente.

Lo riprese Damien, ma avrei giurato che fosse stupito forse più di me.

- Perché? E’ la verità.

Poi mi abbracciò, e un misto di sensazioni mi pervase. Era bello sentirsi importanti per qualcuno. Essendo poi la più piccola di casa, per me era qualcosa di completamente nuovo. Ricambiai quell’abbraccio, quel bambino era davvero incredibile.

- Ci vediamo presto, Aurore. La prossima volta giocheremo insieme, ti va?

Lo guardai, accarezzandogli il cespuglietto ribelle che aveva in testa. Chissà se avrei avuto quella possibilità, un giorno…

- Mi va, piccolo, mi va. Sogni d’oro, Jamie.

- Sogni d’oro anche a te.

Disse, sfiorando il mio ciondolo.

- E’ bello… spero che ti protegga sempre.

Si voltò verso il fratello, tendendogli le mani e Damien lo riprese nuovamente in braccio, mentre io mi rialzai. Lo speravo anch’io, ne avevo davvero bisogno.

- Torno subito.

Mi disse Damien, andando verso la stanza del fratellino, che nell’allontanarsi, faceva cenno di saluto con la manina. A volte la vita riserva incontri che portano la felicità. Jamie Warren era uno di questi. Sarebbe stato bello poterci parlare ancora, provare la sensazione di essere per una volta la sorella maggiore, per qualche minuto, mi aveva fatto pensare a cosa si provava, proprio io che avevo sempre avuto da mio fratello. E Damien, il despota, sembrava così premuroso verso il suo fratellino, come se per lui fosse un tesoro prezioso. In quell’istante capii che in realtà, lui sapeva molto bene come si sentiva Evan.

- Fratello mio…

Bisbigliai tra me e me, stringendo il mio ciondolo nel pugno. A qualunque costo, l’avrei ritrovato.

Attesi che Damien tornasse, guardandomi intorno. La casa era piuttosto ordinata, ma fino a quel momento avevo visto soltanto lui e il suo fratellino in giro. Raccolsi poi il libro, rimasto sulla poltroncina, sfogliandolo velocemente e rimasi stupita. Si trattava di una copia piuttosto datata, per giunta in italiano, una lingua che conoscevo, dato che nei nostri viaggi eravamo stati anche in Italia. Certo, non così bene da leggere un libro, ma me la cavavo un po’.

Damien non si fece attendere a lungo, tornò dopo pochi minuti, scusandosi per l’attesa. Poi, vedendomi col libro in mano e con quella faccia stupita, mi sventolò la mano davanti agli occhi.

- Non dirmi che hai cambiato programma e vuoi quel libro adesso.

- Eh?

Balbettai, restituendoglielo.

- Affatto, è solo che… Jamie capisce le lingue straniere?

- Che t’aspettavi, che fosse un bambino piccolo? Ha quasi tredici anni. E i libri gli piacciono.

- Quasi tredici anni? Sembra più piccolo…

- Sì, lo dicono tutti, la prima volta.

Spiegò, rassettando.

- Ah…

- Mi dispiace per tutto quello che è successo, Aurore.

Disse, inaspettatamente, voltandosi verso di me. Era incredibile quanto fossimo vicini, quasi come a casa di Violet, ma questa volta, non mi suscitò nessuna emozione. Riuscii a sostenere il suo sguardo, che a sorpresa, era incerto.

- Potrei darti la chiave dell’appartamento di mio padre, se vuoi. Verrei con te, però anche se ora Jamie è sfebbrato, non me la sento di lasciarlo solo. La nostra cameriera non si trattiene fino a tardi, solitamente mi occupo di lui quando torno da scuola e quindi…

Era sincero, lo si poteva capire dal suo tono, per la prima volta così spontaneo, mentre parlava del suo fratellino.

- Non preoccuparti.

Gli dissi.

- In fondo, forse nemmeno importa. Non so cosa stessi davvero cercando, pensavo che avere quel libro mi sarebbe stato di una qualche utilità, ma adesso non ne sono più così convinta.

- Cosa c’è di così importante in quel libro?

Dirgli tutto, poco prima di partire, avrebbe significato metterli in pericolo, probabilmente. E dopo aver conosciuto Jamie avevo capito che c’era del buono in suo fratello. Mi limitai a fare cenno negativo.

- Niente, era soltanto una compagnia.

Mi guardò attentamente, scrutando a fondo. Sentii per un attimo la sensazione dei suoi occhi fissi nei miei, per cui distolsi lo sguardo. Sapevo di stare mentendo, ma a volte, le bugie sono necessarie. Sarei stata un pessimo esempio per Jamie, dato che poco prima gli avevo detto che le bugie non mi piacevano, e lo pensavo ancora, ma ci sono casi in cui sono il solo modo per proteggere qualcuno.

Chissà se lo comprese, ma di lì a poco, lo vidi allontanarsi verso un comò di legno intagliato. Pensai che quei disegni sarebbero piaciuti a mia madre, se li avesse potuti vedere. Tornò tenendo tra le mani un mazzetto di chiavi, da cui prese quella dell’appartamento del padre.

- Cosa stai facendo?

Domandai.

Non rispose, mi prese la mano e posò sul mio palmo la chiave.

- Non cacciarti nei guai.

- Non capisco… prima hai detto che…

- Ho detto che non posso lasciare solo mio fratello. Ma se per te va bene e quel pazzo scriteriato del tuo amico non ha obiezioni in merito, potrebbe accompagnartici. L’appartamento è nei pressi della nostra scuola, a Chapman Street.

- Perché… lo fai?

- Piombi senza preavviso a casa mia, credendo che io sia in combutta con mio padre, è semplice, do conferma ai tuoi sospetti in modo da lasciarti il ricordo di me che più preferisci. Quello del despota senza alcun sentimento.

Quelle parole non me le aspettavo proprio, furono una zappata sui piedi, così tanto che non ne colsi neanche l’ironia.

- Io… ecco… scusami…

Mormorai, stringendo la chiave in mano.

- Grazie, Damien. Ma preferisco ricordare il volto del fratello premuroso.

Dissi, mentre un velo di lacrime confuse alla mia vista il volto di Damien con quello di Evan. Dovevo andare via, prima di rivelare ancora una volta la mia debolezza.

- Arrivederci, spero di rivedervi un giorno.

Sorrisi, correndo via.

Stavo fuggendo, ancora, fuggendo, ma in quel momento, non riuscii a capire per quale motivo lo stessi facendo. So soltanto che mi fermai nei pressi della scuola, mentre ormai era quasi l’imbrunire.

Non c’era nessuno per strada a quell’ora, tanto che mi sentii sola anch’io, ma sapevo, o almeno speravo, di non esserlo.

- Shemar!

Pronunciai, raggiunta da lui dopo pochi istanti.

- Mi sembrate stravolta, signorina.

Osservò, ma non avevo intenzione di replicare a quell’affermazione.

Gli detti la chiave, spiegandogli brevemente quello che mi aveva detto Damien Warren. Sapevo che non si sarebbe fidato, soprattutto quando le sue opinioni riguardo i Warren erano costellate di traditori, mercenari, pericolosi e la mia faccia stravolta non andava a mio favore. Tuttavia, che mi credesse o no, si limitò a chiedere l’indirizzo.

- Aspettatemi qui.

- No.

- Se c’è qualcuno in quella casa, sarà meglio che non vi veda.

- Mi hanno già vista, a quest’ora tutto l’Underworld saprà che faccia ho, quindi non mi interessa, prima o poi dovremo fronteggiarli.

-  Signorina Aurore…

- Mi sembra di avertelo già detto, Shemar. Si gioca alle mie condizioni.

- Preferirei condurvi viva nell’Underworld.

- Rimarrò viva abbastanza a lungo da ritrovare la mia famiglia. Quello che accadrà dopo, non mi interessa, per il momento. Non perdiamo tempo.

Conclusi, dirigendomi verso Chapman Street.

Fu facile trovare l’appartamento, era soltando il secondo della strada. Quando entrammo, non vi trovammo nessuno, Era molto diverso da quello dei figli, un monolocale quasi vuoto, con soltanto alcuni scaffali pieni di libri e un tavolino nella zona giorno, illuminata da una grande vetrata che dava sulla zona residenziale.

Mentre Shemar ispezionava scrupolosamente l’appartamento io mi misi alla ricerca del libro. Questo fu più difficile, dal momento che Leonard Warren possedeva testi dalle copertine molto simili e confondersi era facile.

- Sembra che da qui si intraveda la vostra casa, signorina.

Mi fece notare Shemar, vicino alla grande vetrata.

Mi avvicinai, scoprendo con non desiderata sorpresa che Shemar aveva ragione. Chissà da quanto tempo ci spiava quell’uomo. Le parole di Damien mi tornavano alla mente, ma c’era il rischio che fosse sulle nostre tracce da molto più tempo. Odiai ancora di più quell’uomo, poi tornai alla mia ricerca, scorgendo il libro che cercavo proprio sullo scaffale più alto.

- Eccolo!

Esclamai, sollevandomi sulle punte dei piedi per prenderlo, ma come al solito, mi fu impossibile. Mi voltai verso Shemar, che si voltò a sua volta. Chissà cosa stava pensando, se non si era nemmeno accorto della mia esclamazione.

- L’avete trovato?

Chiese, raggiungendomi.

- Sì, ma non ci arrivo. Puoi provarci tu?

- Qual è?

- Su, quello con la copertina nera, è il quindicesimo da destra.

Per sicurezza, lo indicai con il dito, sperando che la numerazione nell’Underworld non fosse diversa dalla nostra.

Rivolse una veloce occhiata, poi lo prese, porgendomelo.

- E’ questo?

Riconobbi la copertina, ma lo sfogliai per avere conferma. Le rune erano ancora lì, così girai il libro verso Shemar, mostrandoglielo.

- Puoi dirmi cosa leggi?

Lo osservò attentamente, poi mi guardò.

- Voi non riuscite a leggerlo?

- Se te lo sto chiedendo è perché non ci riesco, no?

- Capisco. In ogni caso si tratta di un vecchio testo sacro. Soltanto raccolte di antiche preghiere, solitamente erano utilizzate per esorcizzare i peccati.

- E riesci a riconoscere la canzone?

- Quella di cui avevate parlato alla signorina Violet?

Annuii, poi gli ripetei le parole che ormai conoscevo fin troppo bene.

- La pierre qui brille dans le noir… suivez la route qui mène au lac des diamants… ici la Croix reste…

Ici la Croix reste… la Croix du Lac.

- No, qui non c’è niente del genere, mi spiace.

Lo guardai sconvolta. Non potevo sbagliarmi, il libro era quello, le rune, anche se non riuscivo a leggerle, erano proprio le stesse che mi aveva mostrato. Cosa mai poteva voler dire? Doveva esserci uno sbaglio da parte di Shemar, una mancanza, come il fatto che non conoscesse quella canzone.

- Mi prendi in giro?!

Sbraitai.

- No, niente affatto. Mi dispiace, non conosco quelle parole, ma qui non ci sono.

Continuò a sfogliare il libro, fornendo una descrizione dettagliata e una traduzione sicura di tutto ciò che c’era, ma niente somigliava alle parole della canzone.

Lo ascoltai, in silenzio, cercando di trovare una spiegazione che non riuscivo a darmi.

- Signorina Aurore?

- Mi ha presa in giro…

Bisbigliai, realizzandolo improvvisamente.

- Mi dispiace…

- Che scema, ci sono cascata in pieno…

- Vi avevo detto di non fidarvi dei Warrenheim, signorina…

Annuii, guardando il libro e ignorando l’ultima parte.

- Mi spieghi perché riesco a vedere quelle rune?

- Perché possedete l’ametista.

- No, è accaduto prima che la mamma mi desse il ciondolo…

- Davvero?

- Secondo mio fratello, è una specie di inchiostro simpatico…

- Non so di cosa si tratti, a dire il vero.

- E’ un tipo d’inchiostro che reagisce al cambio di temperatura, lasciando comparire scritti che normalmente non si potrebbero vedere.

- Ma vostro fratello era in grado di leggerle, non è vero?

Sollevai lo sguardo verso di lui.

- Come? No, lui non…

- Se si è accorto di questo “gioco”, significa che in ogni caso, era capace di notare la differenza. Diversamente, avrebbe visto soltanto ciò che questo libro è per gli umani.

- L’Otello

Evan mi aveva mentito… perché? Presi quel maledetto libro, riponendolo nello scaffale più vicino alla mia altezza.

- Andiamo via. Non abbiamo più niente da fare qui.

- Come desiderate.

Uscii, mentre i dubbi si affollavano velocemente nella mia mente cancellando la delusione per il raggiro di Leonard Warren.

- Riporta la chiave a Damien, ti aspetto a casa. Ho bisogno di fare una doccia, quindi non tornare prima di almeno un’ora.

Ordinai a Shemar, che mi seguiva.

- Permettete almeno che vi riaccompagni a casa.

- No. Voglio fare quattro passi da sola. Ti prometto che starò alla larga dal parco, ma non voglio che tu mi segua, sono stata chiara?

- Va bene.

Acconsentì di malavoglia, facendo un breve inchino e allontanandosi verso casa di Damien Warren.

Sospirai, ero davvero sola.

Mi incamminai verso casa, a passo lento. Sapevo che Shemar ci avrebbe messo poco e sarebbe stato più probabile rientrare e trovarlo lì, più che attendere il suo arrivo. Non che mi importasse più di tanto, ormai stavo per lasciare tutto quanto e quell’ultima delusione non era certo stata il migliore degli auspici per ciò che sarebbe venuto. Tuttavia, aspettarmi dei successi era altrettanto improbabile, dato che chiunque agisse nell’ombra faceva bene il suo lavoro. Una volta arrivata nell’Underworld, magari la situazione mi sarebbe stata più chiara.

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Capitolo 13
*** VI. 5 parte ***


Buon pomeriggio! >_< A seguito dei frenetici mesi estivi, non ho molto tempo per scrivere... ç_ç Intanto, ecco la continuazione! >__< Un grazie a chi mi segue e buona lettura! <3

 

 

Raggiunsi sovrappensiero la mia casa, era così triste l’idea di lasciarla. Era il primo luogo in cui avevamo davvero messo radici e mi dispiaceva davvero abbandonarla. Ma non potevo fare altrimenti. Quando varcai la soglia, mi accorsi di quanto fosse perfetta per noi. La mamma aveva sempre avuto buon gusto nelle scelte e quella casetta aveva qualcosa di particolare. Chissà se l’avrei mai rivista un giorno. Chiusi la porta alle mie spalle, c’era un incredibile silenzio.

- Mamma? Evan?

Chiesi, ma non arrivò risposta.

- Sto impazzendo…

Mi stiracchiai, tirando dritta verso il bagno. Mi concessi una piacevole doccia, che se non scrollò via tutte le mie preoccupazioni, se non altro mi aiutò a rilassarmi. Accertatami che Shemar non fosse già tornato, corsi in camera, rivestendomi. Non sapendo che tipo di clima ci fosse in quel luogo, avevo pensato di portarmi appresso una vasta gamma di vestiti, dai più leggeri ai più pesanti. Per cambiarmi in quel momento, scelsi qualcosa di primaverile, optando per un abitino rosa che la mamma mi aveva regalato in occasione del mio quindicesimo compleanno abbinato a una camicia bianca. Non ero cresciuta particolarmente in un anno, mi stava bene. Scelsi anche delle calze più lunghe, indossando infine degli stivali scuri. Avevo l’impressione di stare per recarmi in un posto dove l’aspetto fisico era importante e sarebbe stato un problema rischiare di risultare volgare. Anche se in ogni caso, tutto sarebbe passato in secondo piano davanti al motivo del mio viaggio. Dopo aver asciugato e legato i capelli, mi risistemai il ciondolo al collo. Cominciava ad essermi chiaro anche il motivo per cui mia madre me l’aveva dato. Ma anche se ci fossero state motivazioni più profonde, il fatto che fosse un regalo anticipato per il mio compleanno rimaneva la principale.

- Grazie, mamma…

Dissi, guardandomi allo specchio.

Poi raccolsi il mio zaino, era diventato piuttosto pesante. Tornai in soggiorno dando un’occhiata all’orologio che indicava quasi le 20:45 ormai, ed erano passati circa tre quarti d’ora da quando ero tornata.

- Sembra proprio che abbia ancora un quarto d’ora di pace.

Mi dissi, dirigendomi o in cucina per mangiare qualcosa.

Non appena varcai la soglia, trasalii. Una persona che conoscevo, che non avrebbe dovuto essere in quel luogo, in quel momento era comodamente seduta al mio tavolo sorseggiando del the. Non fu difficile riconoscerla nonostante l’abbigliamento fosse totalmente diverso e molto simile a quello di Shemar, se non fosse per il sigillo della Croce di diamante sulla mano. Sorrideva compiaciuta.

- P-Professor Warren?

Pronunciai, incerta.

- Aurore.

Mi salutò gentilmente.

Mi ritrassi, alzando la guardia.

- Che ci fa qui?! Come diavolo è entrato?!

- Non si saluta, signorina?

Deglutii. Dove diamine era Shemar?! Non mi ero accorta di nulla…

- E lei non risponde alle mie domande?

- Beh… ho pensato che sarebbe stato piacevole scambiare quattro chiacchiere con te. Sei in partenza, ho visto.

- Cos’è successo a mia madre e a mio fratello?!

- Vedo che sei impaziente come sempre.

Battei il palmo della mano sul tavolo.

- Lei mi ha mentito…

- Niente affatto. Sei tu ad aver deciso che le mie erano menzogne.

- Non cerchi di prendermi in giro!

Si alzò, raggiundendomi.

Indietreggiai, quella presenza così vicina mi inquietava.

- Desideri andare nell’Underworld? La Croix du Lac sarà molto felice di incontrarti.

- La Croix du Lac… incontrare me?

- Sembra che Celia non ti abbia davvero detto niente… c’era da immaginarlo.

- Lei è un suo seguace, non è così?!

- Un seguace…

Pronunciò, accarezzando il sigillo sul guanto nero. Poi scoppiò in una fragorosa risata.

- Il potere di decidere il destino di un intero mondo. Colui che otterrà il favore della Croix du Lac, otterrà il potere di decidere il destino di ogni essere vivente in quel mondo senza luce. Un tempo, vi fu una grande ribellione. Una sola persona fece sì che il nostro mondo fosse scaraventato nell’oscurità più completa, ma grazie alla Croix du Lac ci fu concesso di continuare a vivere. Io conquisterò il suo favore e spianerò la strada per il prossimo Despota.

- Il prossimo Despota?! Non si rende conto di quant’è egoista?! Ha idea di quanto Jamie abbia bisogno di lei?! E Damien… Damien non può farcela da solo! I suoi figli… lei ha la fortuna di poter stare con loro e nonostante questo preferisce abbandonarli per rincorrere un desiderio malato?!

Sbottai tutto d’un fiato.

Quelle parole mi facevano male. Quale padre era capace di arrivare ad abbandonare i figli pur di ottenere un potere così malvagio? Decidere il destino di un intero mondo… nessuno aveva quel diritto…

Mi guardò, il suo sguardo era divertito.

- Non ho parlato di me.

- Come?

- Uno come me non potrebbe mai diventare il Despota.

Un terribile sospetto si fece strada nella mia mente quando pronunciò enfaticamente quella parola.

- D-Damien?

Sorrise.

- Mia cara, hai ancora molta strada da fare.

Tese la mano verso il mio ciondolo, reggendolo con le dita.

- Sembra che la missione sia compiuta. Devo ammettere che ho sottovalutato il tuo amico Lambert… ma è ancora troppo giovane per intralciarci.

Sgranai gli occhi, ritraendomi e stringendo il ciondolo tra le mani.

- Cosa vuol dire?! Che gli ha fatto?!

- Piangerai, Aurore. Piangi coloro che hai perso, piangerai coloro che daranno la vita per te.

Disse, incamminandosi.

- Ci rivedremo nell’Underworld, Milady.

Si inchinò davanti a me, per poi andar via nel silenzio più completo, lasciandomi sconvolta.

Rimasi senza parole, con gli occhi ancora sgranati, fino a quando la voce disperata di Shemar non risuonò nell’aria, invocando il mio nome.

- Shemar… Shemar!

Urlai tornando alla realtà, correndo ad aprire la finestra e affacciandomi al balcone che dava sul cortile interno.

La visione che mi si presentò mi fece trasalire. Shemar era ferito, ma ancora in piedi, mentre aggrappato alla sua spalla, sorretto dallo stesso uomo che aveva cercato di ucciderlo solo pochi giorni prima, c’era Damien.

- Aurore, state bene?!

- Sì!

Mi affrettai a tranquillizzarlo, prima di scendere al pianterreno e raggiungerli.

Quando arrivai, vidi ferite da taglio sulle braccia e sul viso di Shemar, dovute inequivocabilmente a un combattimento.

- Che cos’è successo?!

Chiesi, aiutandolo a sollevare Damien, che al contrario di lui non aveva nessuna ferita apparente, sebbene fosse incosciente.

- Siamo stati attaccati…

- Jamie dov’è?!

Ripresi, sentendo all’improvviso una morsa al cuore.

Lo sguardo di Shemar fu più eloquente di ogni spiegazione. Avevo appena conosciuto quel bambino meraviglioso e il solo pensiero che gli fosse successo qualcosa bastò a terrorizzarmi.

Rientrammo in casa, ero spaventata e infinitamente preoccupata, ma la mia reazione sarebbe state niente di fronte a quella che avrebbe avuto Damien una volta svegliatosi.

- Ti fanno male, Shemar?

Chiesi, indicando le ferite aperte.

- No, affatto.

Disse, massaggiando le zone più indolenzite.

Proabilmente doveva esserci abituato, ma per me era qualcosa di totalmente nuovo. Guardai Damien, poi tornai a guardare Shemar, in attesa di una spiegazione.

- Siamo stati attaccati da alcune guardie imperiali, suppongo sotto il comando di Warrenheim. Inizialmente ho pensato che fossero lì per difendere quei ragazzi, ma a quanto pare mi sbagliavo. Avevano l’ordine di prendere il ragazzino, al punto che non hanno esitato a colpire il fratello pur di farlo.

- Jamie…

Bisbigliai, ripensando alle parole del professore riguardo al prossimo Despota.

Che avesse in mente di porre su quel trono maledetto un bambino innocente? Più il tempo passava, più mi convincevo di quanto quell’uomo fosse pericoloso. Damien l’aveva capito, e anche mia madre ed Evan. Strinsi forte i pugni, pensando al destino che la Croix du Lac avrebbe riservato a Jamie una volta giunto in quel luogo e nessuna, assolutamente nessuna delle ipotesi mi piaceva. Pensai a Damien, che in quel bambino aveva trovato il motivo della sua esistenza, pensai a noi due, privati degli affetti più importanti, per una volta, simili.

- Shemar, pensi che Damien possa venire con noi?

Chiesi, sicura che una volta compresa la situazione sarebbe stato disposto a mandare al diavolo ogni sua teoria pur di salvare il suo fratellino.

- E’ un Warrenheim, anche se venisse, non gli sarebbe certo riservata la stessa accoglienza che avreste voi.

- Non importa.

- Voi non avete idea di quanto i Warrenheim siano detestati nell’Underworld.

Disse a denti stretti.

Non avevo smesso di osservare quel volto frustrato e irritato allo stesso tempo.

- Tu odi quella famiglia molto più di quanto tu voglia far credere, vero?

-  Suppongo che non vi sia bisogno di rispondere.

- Beh, allora sappi che la odio anch’io. Ma Damien e soprattutto Jamie non fanno parte di quella famiglia. Il loro cognome è Warren ed è la sola cosa che deve bastarti per credere che non hanno niente a che fare con quell’uomo.

Ricambiò il mio sguardo, poi fece un piccolo inchino.

- Ai vostri ordini, signorina Aurore.

Ma non chiedetemi di diventare suo amico… non era così, Shemar?

- Se vuoi, puoi usare la doccia. Immagino che presentarti in quel modo al cospetto di Lady Amber sarà umiliante per te, quindi se volessi approfittarne, fa’ pure. Mi occupo io di Damien.

Gli proposi.

- Grazie, ma preferisco portarmi addosso la prova di quanto accaduto.

Disse, sistemando il soprabito.

- Come preferisci.

Non era il caso di sindacarne le abitudini.

Di lì a poco, il respiro di Damien si fece più accelerato, stava riprendendo i sensi.

- Si sta svegliando.

Osservò Shemar.

- Portami dell’acqua, per favore.

Ordinai, guardando Damien.

Cosa gli avrei detto? Come avrei potuto spiegargli che mentre il suo fratellino veniva portato via, suo padre mi comunicava che ne avrebbe fatto il prossimo Despota? Era così difficile, ma non potevo dimenticare che quel ragazzo mi aveva aiutata più di quanto potessi immaginare. A modo suo, certo, ma l’aveva fatto e una minuscola particina del mio cuore sentiva che non potevo abbandonarlo in quel momento. A Jamie non piacevano le bugie, non potevo mentire a suo fratello.

- Ja… mie…

Mormorò. Un sussurro pieno d’ansia.

Strinsi il vestito tra le mani.

- Damien?

Aprì gli occhi, lo smeraldo fisso nell’ametista. Ma c’era una sfumatura mai vista prima in quegli occhi, il dolore. Damien sapeva, l’aveva capito.

- Mi dispiace…

Sussurrai, distogliendo lo sguardo dal suo.

- Dove?

Chiese, voltando il viso verso di me e costringendomi a guardarlo, ancora.

- Lo porterà nell’Underworld

Sospirò, fu un sospiro profondo.

- Non doveva…

Strinse il pugno, nella sua voce, la rabbia era palese.

- Non potevi fare nulla…

Shemar ci raggiunse portando con sé un panno inumidito.

- Eccomi.

- Ah, bent-- 

Non feci in tempo a terminare la frase che mi ritrovai in mezzo a una contesa. Damien fu incredibilmente rapido, al punto di farmi persino dubitare che fosse stato incosciente fino a pochi istanti prima. Si avventò contro Shemar, costringendolo con le spalle al muro.

- Warren!

Urlai, spaventata vedendo che Shemar non reagiva.

- Perché diavolo mi hai fermato?!

Urlò, la sua voce profonda sovrastò completamente la mia, ignorandola. Ma quelle parole mi colpirono.

- Se non l’avessi fatto a quest’ora saresti morto.

- Non dovevi metterti in mezzo!!

Protestò Damien, sollevando il bavero dell’impermeabile di Shemar, che replicò mollando la presa e afferrandolo per il polso.

- Se davvero desideri salvare qualcuno che ritieni importante, allora impara la prima lezione, ragazzino. Da morto non servi a niente!

Scandì quelle parole con un tono imperioso incredibilmente distaccato, poi scaraventò Damien sul divano, raggiungendolo all’istante e afferrandogli la gola.

- Shemar!

Gridai, ma fui nuovamente sovrastata.

- Le seconda. Impara a odiare coloro che ti hanno fatto del male e incanala l’odio nella tua anima affinchè diventi la tua arma più potente. Solo allora potrai sperare di dominare ogni emozione diversa e a non lasciarti sopraffare. Fino allora sarai soltanto uno stupido suicida come un altro che pensa di poter ottenere ciò che vuole lasciandosi guidare dalle sue inutili e patetiche emozioni!

Pronunciò quelle parole con la stessa forza di chi crede fermamente in ciò che dice. L’Underworld doveva essere davvero un luogo dove la speranza non esisteva…

Ciononostante, lo sguardo di Damien rimase fisso in quello di Shemar.

- Lasciami…

Lo lasciò libero e gli lanciò addosso il panno umido, raggiungendomi.

- Non abbiamo più tempo da perdere, signorina.

- Lo so…

Mi voltai verso Damien.

- Vuoi venire con noi?

Mi guardò, accarezzando la gola arrossata, pronunciando le parole con voce estremamente distaccata.

- Hai bisogno di domandarlo?

- Va bene. Shemar, si parte.

 

Non sapevamo se le guardie comandate da Leonard Warren fossero ancora lì. Dato che il portale si sarebbe aperto di lì a poco, c’era una buona probabilità di incontrarli di nuovo, o almeno era questo ciò che pensavo. Shemar si accertò che la nostra strada fosse completamente sgombra, dal momento che aveva fallito, non accorgendosi della presenza del commando, rivelandoci in seguito che probabilmente erano già riusciti a tornare nell’Underworld. La notizia non piacque affatto a Damien, sul cui volto era ben visibile la preoccupazione per la sorte del fratellino. Come lo capivo… ciononostante non potevo far altro che limitarmi al silenzioso compatimento di quel ragazzo dato che qualunque parola di conforto sarebbe stata assolutamente vana. Ciò che mi colpì maggiormente, e in qualche modo, suppongo colpì anche Damien, fu il luogo in cui era ubicata la Porta di Pietra. Avevo già visto quel luogo, qualche giorno prima e se tutto fosse andato bene, quella sera ci saremmo dovuti recare, Violet e io, assieme a Evan. Il pub in stile gotico era appena stato inaugurato, sull’insegna coperta fino a poche ore prima, troneggiava la scritta “Stonedoor”.

- Potevano essere più originali…

Constatai nel guardarla. Damien la guardò  a sua volta, spiegandone l’origine di lì a poco.

- Si dice che nei sotterranei di questo antico palazzo ci sia una porta di pietra che nessun umano è mai riuscito ad aprire. Vecchie leggende dicono che sia la porta che conduce all’aldilà e che possano accedervi soltanto gli spiriti. Mpf, alla luce di queste nuove rivelazioni sembra che la porta si possa aprire e che oltre che entrare si possa anche uscire.

- E’ inquietante, se ci pensi…

- Beh, anche se questo qui può passare tranquillamente per uno spettro, sembra che non siano solo gli spiriti a poterne far uso.

Continuò, indicando Shemar.

- Però… in fin dei conti, l’Underworld è il regno in cui la luce non splende, no?

- Un tempo, l’Underworld non era un luogo simile.

Replicò seccamente Shemar.

Ripensai alle parole del professor Warren, chissà cosa voleva dire parlando della grande ribellione che aveva fatto sprofondare l’Underworld nelle tenebre.

- Come entriamo, Shemar?

Chiese Damien, distogliendomi da quel pensiero.

- Passeremo più che inosservati con questa confusione.

Spiegò il nostro accompagnatore.

- In realtà non credo sarà così facile.

- Perché?

Domandai.

- La maggior parte dei ragazzi di Darlington mi conosce.

Disse Damien, e in quelle parole percepii un tono a metà tra il compiaciuto e il seccato.

- Guardacaso… avrei dovuto immaginarlo. Hai un impermeabile anche per lui, Shemar?

- No, mi spiace.

Sospirai.

- Certo che con voi anche le migliori missioni fallirebbero, eh?

- Sono desolato, signorina Aurore, ma il qui presente Warren non era previsto.

- Non ricominciamo…

Guardai i due, a quel punto, la sola cosa da fare era entrare e mischiarsi alla folla, correndo il rischio che Damien fosse riconosciuto. Non potevamo aspettare oltre e lasciare che Shemar intervenisse per sgombrare il campo era fuori questione, considerato l’alto rischio di assistere alla fuga terrorizzata di almeno una cinquantina di persone.

- Entriamo lo stesso.

Dissi, scompigliando i capelli a Damien.

- Che diavolo fai, idiota?!

Sbraitò scostandosi.

- Comincia col renderti meno riconoscibile.

- Tu sei completamente pazza.

- E’ l’unico modo, non capisci?

- Ovviamente no, dal momento che esiste qualcosa nota come scale di sicurezza. Entreremo dal retro, se Sua Maestà e il fido cavaliere non hanno da ridire sulla mancanza di un’entrata trionfale.

Spiegò, premurandosi di porre particolare enfasi sui nostri appellativi.

L’avrei volentieri preso a calci, se non fosse che in quel momento, era sicuramente il più sicuro sul da farsi tra noi.

- Sei d’accordo, Shemar?

Chiesi, ottenendo un cenno positivo. Quantomeno avrei risparmiato ai presenti la peggiore serata della loro vita.

Scendemmo inosservati lungo le scale che circondavano il retro dell’edificio in pietra. Diversamente dal resto della costruzione erano in ferro, piuttosto vecchie e traballanti, al punto che in certi passaggi dovetti chiedere l’aiuto di Shemar per paura di cadere. Si trattava di una scala a chiocchiola, probabilmente risalente a un paio di secoli prima, che non veniva più usata per evitare crolli, mentre dal lato opposto della facciata si potevano intravedere delle scale nuove di zecca, sicuramente opera degli attuali padroni di quel locale. Mi chiesi chi avesse avuto il barbaro coraggio di rilevare un luogo non certo nato sotto i migliori auspici e per giunta dalle fondamenta maledette, ma sapevo che mai avrei trovato risposta a quella domanda. Shemar mostrò una certa sicurezza nel procedere lungo quella scalinata, scendendo sempre più nell’oscurità, dove i miei occhi e quelli di Damien facevano una gran fatica ad adattarsi. In qualche occasione, diventatata più frequente man mano che scendevamo, ebbi modo di sfiorare la sua mano, scoprendola attaccata al passamano tanto quanto la mia. Dopo essere scesi per almeno un centinaio di scalini, o almeno tanti mi era sembrato di riuscire a contarne in quell’oscurità, ci ritrovammo davanti a una prima porta, illuminata da vecchie lampadine dalla scarsa luce intermittente. Probabilmente, non ci scendevano spesso. Shemar l’aprì con facilità, spiegandoci che era la stessa strada che aveva fatto al suo arrivo, ma nel salire, aveva scelto una via diversa, che prendeva le forme di un oscuro tunnel proprio di fronte a quella porta. Deglutii, avrei preferito ugualmente la scala. Entrammo in una piccola sala, piuttosto umida, eravamo sottoterra ormai e avevo la sensazione che mi mancasse il respiro. Non mi piaceva l’idea di rimanere in quel luogo. Oltretutto, avevo la sensazione che proprio lì dentro fossero accaduti fatti terribili e ne ebbi la conferma poco dopo, quando Shemar spalancò la porta che ci condusse direttamente alla sala della Porta di Pietra.

L’odore era diverso da quello umido di poco prima, più acre, come se in quel luogo fossero stati presenti dei cadaveri. Rabbrividii al pensiero di cosa mai potesse essere successo, ma era facile immaginare che vi fossero stati scontri… probabilmente qualcuno che aveva cercato di ribellarsi e ne era uscito sconfitto. Un lavoro pulito… ma non abbastanza da cancellare quel fetore insopportabile di morte. Con la coda dell’occhio scorsi Damien, sconvolto tanto quanto me. Aveva capito, temeva per la vita del suo fratellino e del resto, come biasimarlo, quando io stessa temevo più di ogni altra cosa che in quel luogo fosse accaduto qualcosa di male, di irreparabile, alla mia famiglia? Il presentimento ebbe conferma quando Shemar si avvicinò al muro perimetrale e raccolse una torcia, accendendola. La stanza si illuminò all’istante, svelando i segni della lotta. Non c’era distruzione, ma scolpiti sul suolo e sulle mura di pietra, solchi simili ai rovi che avevo sempre visto nei miei incubi percorrevano ogni angolo della stanza.

- Che diavolo è?!

Domandò Damien, avvicinandosi e tastando quei solchi stupito.

- Sono pieni di polvere…

Constatò.

La polvere che si sollevò aveva uno spiacevole odore dolciastro.

- Shemar, che significa?

Domandai.

Non rispose, avrei dovuto capirlo da sola. Damien intanto raggiunse un angolo vicino alla zona in cui i solchi convergevano, chinandosi a raccogliere un braccialetto e a portarmelo. Non appena me lo porse in mano, ebbi la sensazione che il mio orizzonte oscillasse. Sentii il calore invadermi completamente, per poi svanire nell’istante in cui compresi. L’avevo regalato a Evan il giorno del suo diciottesimo compleanno, era un braccialetto d’argento, avevo impiegato tutti i miei risparmi per poterlo comprare e mi ero sentita incredibilmente felice quanto l’aveva messo al polso, sorridendo come più desideravo, nel ringraziarmi di quell’inatteso regalo. Non l’avevo mai visto così contento come quel giorno, così contento da decidere di non toglierlo mai. Da allora, aveva sempre mantenuto la sua promessa. Sempre… perché mio fratello manteneva sempre le sue promesse… sempre…

- Q-Questo…

Balbettai, mentre un’ondata di emozioni faceva del suo meglio per sopraffarmi.

Shemar si avvicinò a noi, osservando ciò che in quel momento era diventato per me la prova più tangibile del fatto che Evan fosse stato in quel luogo. Damien fugò qualunque dubbio.

- E’ di tuo fratello, vero?

Annuii, sicuramente l’aveva notato a scuola.

- Non significa nulla però, no?

Domandai incerta, stringendolo tra le mani.

- Non c’è nient’altro… potrebbe averlo perso, non è così?

Il ricordo bruciante del mio ultimo incubò mi sbattè davanti agli occhi la risposta che non volevo sentire. Tremai, sebbene cercassi di convincermi che non dovevo farlo. Shemar se ne accorse.

- Vorrei che fosse così, signorina, credetemi.

Mi voltai a guardarlo, il suo sguardo era sincero, ma altrettanto franco nel cercare di spegnere sul nascere tutte le mie speranze. Del resto, se avevano addirittura colpito Damien, il figlio del loro capo, per rapire il piccolo Jamie, cosa mi impediva di rendermi conto che se Damien si era salvato era stato grazie a Shemar, mentre mio fratello non aveva avuto nessuno che lo proteggesse? In quel momento, avevo un disperato bisogno di credere che non fosse necessariamente quella la verità. Non avrei mai potuto dire addio a Evan in quel luogo, quella non poteva essere la sua tomba, era una stanza maledetta, che ben si addiceva ad essere l’ingresso degli inferi, ma Evan non poteva essere morto lì, lui non poteva essere morto…

- Aurore.

Damien mi dette una pacca sulla spalla, richiamando la mia attenzione. Sollevai lo sguardo verso di lui, non vi colsi note di rimprovero, ma soltanto lo stesso silenzioso compatimento che avevo cercato di offrirgli io poco prima. Lo apprezzai per questo.

- Scusate… siete pronti?

Chiese Shemar, richiamandoci.

- Va’ pure.

Disse Damien, io mi limitai ad annuire.

All’improvviso, tutta la mia baldanza era un ricordo. Sentii il peso di quel braccialetto, come se volesse trattenermi, così come Evan aveva fatto nell’impedirmi di gettarmi dalla scala a scuola, ma per quanto una parte di me desiderasse accontentarlo, l’altra, quella più nascosta, oscura come la notte dei miei incubi, come quei solchi scavati nel muro, mi diceva che l’unico modo per conoscere la verità era varcare la soglia della porta maledetta. Osservai Shemar avvicinarsi alla porta, ponendosi esattamente di fronte e sollevare la mano sul cui guanto era impresso il giglio dorato. Non avevo notato che quella porta era grande quanto un terzo del muro dirimpetto a noi. Era enorme, bordata da pesanti stipiti in ferro e pietra nera. La luce della torcia illuminava i particolari che prendevano forma man mano che i miei occhi si adattavano alla scarsa luce. Riconobbi dei sigilli, quelli delle pietre che avevo visto incastonate nelle fontane del mio ultimo sogno, ma più stilizzati, quasi rovinati dallo scorrere impietoso del tempo. Chissà da quanto tempo esisteva. Tuttavia, il mio più grande stupore fu quando quelle pesanti ante si spalancarono di fronte a noi. Non mi ero mai chiesta, fino a quel momento, cosa avrei incontrato una volta che quella porta si fosse aperta, ma di sicuro, nemmeno i miei incubi mi sarebbero venuti in soccorso. Misi in tasca il braccialetto di Evan, mentre il buio che proveniva dall’altra parte era pronto a ingoiarci. Mi sentivo tanto Alice attraverso lo specchio, ma quella porta non era uno specchio, né io ero Alice. Cosa avrei trovato? Sarei arrivata viva? Non lo sapevo, ma ciò che sapevo in quel momento era che potevo soltanto fidarmi di Shemar. Si voltò a guardarci, la mia espressione e quella di Damien un tutt’uno. Poi, sentii un bizzarro verso provenire dal vuoto oscuro dentro la porta.

- Che diavolo è?!

Domandò Damien, facendo un passo indietro.

- Vi presento Varon.

Esordì Shemar, sollevando la mano inguantata su cui di lì a poco si posò un lungo becco.

Deglutii, avvicinandomi a Damien, mentre un animale grande quasi quanto Shemar usciva dalle tenebre per entrare in quella sala.

- Ma quello è… un grifone?

Chiese incredulo Damien, mentre la belva dal manto pennuto pezzato di nero e di bianco, si fermava accanto a Shemar, che lo accarezzava come se stesse accarezzando un pulcino.

- Sì, è così. Non è vero, Varon?

Chiese conferma il nostro tranquillo cavaliere, incurante della paura e dello stupore che ci aveva provocato la visione di un animale che avevamo a stento conosciuto sui libri, ottenendo in risposta lo stesso verso che ci aveva spaventati poco prima.

- So che è chiederti di fare uno strappo alla regola, amico mio, ma abbiamo due ospiti con noi.

Riprese, mentre il grifone ci rivolse un’occhiata attenta con gli occhi d’aquila.

Avevo il terrore che ci attaccasse, magari era come i cani, che percepita la paura degli umani li prendevano di mira, ma se da un cane avrei potuto difendermi, non ero convinta di poter riuscire a fare altrettanto con una creatura che fino a quel momento avevo visto soltanto disegnata su dei libri. Damien era impietrito tanto quanto me, per giunta, al punto che dovetti spingerlo in avanti per paura di essere la prima e feci un grande sforzo, sembrava inchiodato. Non che la cosa fosse rassicurante, ma anche il despota aveva paura di qualcosa.

- Si può sapere che stai facendo?

Borbottò quando si rese conto del mio tentativo di farmi scudo di lui.

- Non lo immagini? Vai avanti tu, sei un uomo, no?

Col tallone mi pestò la punta del piede, percepii stizza in quel gesto, ma non fui l’unica a cui non piacque, dato che il grifone Varon ringhiò contro Damien, tanto da farci trasalire entrambi.

- Perché fa così?!

Chiesi a Shemar, che continuava a osservarci stupito, poi ridacchiò.

- Non approva che si tocchi una signora.

- Ma quale signora? Come se capisse.

Mormorò Damien, al punto che fui io a pizzicargli il fianco, facendolo scostare improvvisamente.

- Vuoi smetterla?!

- Invece sembra che capisca molto più di te, maleducato.

Ringhiai contro, guardando poi Shemar.

- Non morde, vero?

- Soltanto chi gli piace e sembra che voi gli andiate a genio, signorina.

Rispose, tendendomi la mano.

- Venite, non temete. Varon e io ci conosciamo sin da quand’eravamo picccoli. Siamo cresciuti insieme, in un certo senso e i miei amici sono i suoi amici. Ovviamente, il discorso vale per i nemici.

Disse con voce volutamente ironica nel guardare Damien, che ricambiò l’occhiata aggiungendo un broncio. Io mi avvicinai, prendendo la mano di Shemar e nascondendomi dietro di lui. Varon mi seguì con lo sguardo, suppongo stesse cercando di inquadrarmi per bene.

- State tranquilla, non vi farà male.

Sorrise, voltandosi e prendendomi in braccio. Sentii le sue mani forti stringermi i fianchi e sollevarmi per poi sedermi con una certa facilità in groppa all’animale.

- Shemar!

Sbraitai, irrigidendomi all’istante quando Varon voltò la testa per osservarmi.

- Ehm… c-ciao bello…

Balbettai cercando di fare del mio meglio per non apparirgli estranea. Dubito di esserci riuscita, ma almeno si voltò nuovamente verso Damien.

- Allora?

Chiese Shemar.

- Hai bisogno d’aiuto anche tu?

Damien gli rivolse un’occhiata di sufficienza, poi si diresse con apparente sicurezza verso di noi, fermandosi a pochi passi da Varon.

- Non sono un suo nemico.

Shemar ridacchiò, era divertito da quella situazione, ma potrei giurare che Damien fosse davvero molto spaventato in quel momento. Tuttavia, mantenne lo sguardo fermo su Varon, i suoi occhi di smeraldo e quelli neri del volto d’aquila. Funzionò, perché il grifone si chinò, lasciandolo salire in groppa.

- Però, devo ammettere che non mi aspettavo tanta accondiscendenza.

Commentò, nel sistemarsi dietro di me.

- Ringrazia Shemar, sono più che certa che se ti avesse incontrato da solo non saresti qui.

Replicai, sentendo uno sbuffo alle mie spalle.

Poi guardai Shemar, mancava solo lui.

- Vieni?

Annuì, poi salì in groppa a sua volta e passando il mio zaino a Damien, poi raccolse le redini dorate che pendevano dal collo del grifone. Le maneggiò con sicurezza estrema, poi ci raccomandò di tenerci stretti a lui. Lo facemmo. Mi strinsi forte ai suoi fianchi e dietro di me, Damien fece lo stesso, stringendomi altrettanto forte. Era una sensazione indescrivibile, potevo sentire il suo petto contro le mie spalle, quasi riuscivo a percepire anche il suo battito accelerato, ma a pensarci, non so se fosse realmente il suo o il mio che batteva per due. Poi, prima ancora che potessi prendere un respiro, Shemar schioccò le redini e il grifone nero spalancò le sue ali, fino a quel momento confuse con il resto del pennaggio, si spalancarono. Fu questione di pochi istanti, abbandonammo la luce per librarci nell’oscurità più completa e tutto ciò che era stato il mio mondo fino a quel momento scomparve quando la Porta di Pietra si richiuse alle nostre spalle.

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Capitolo 14
*** VII - Il mondo in cui la luce non splende (1 parte) ***


Buongiorno! :D Dopo una vita, finalmente torno ad aggiornare! Aaaah, quanto vorrei che l'ispirazione non fosse una vena che si gonfia e si sgonfia a suo piacimento e non a comando... ç_ç Comunque, nuovo capitolo, nuovi personaggi, finalmente Underworld, il mondo in cui la luce non splende. Divido il capitolo perchè troppo lungo! >_< Buona lettura! >_<

Sognai. Immersa nel buio più profondo durante quel viaggio che sembrava infinito, privo di ogni punto cardinale, di ogni orizzonte, sognai. L’unico rumore di sottofondo era costituito dallo sbattere le ali del grifone Varon, ma nemmeno nel mio sogno c’erano suoni. Vidi l’Underworld, in tutta la sua interezza, un immenso, gigantesco continente solcato da canali che tracciavano i confini dei vari territori che lo componevano e ponti che posti a distanze apparentemente regolari congiungevano le varie terre. Vidi un mondo immerso nella notte, una notte diversa da quella che ero abituata a conoscere, era una notte eterna, senza la luce della luna a rischiarare il cielo. Le uniche fonti di luminosità erano costituite da un sistema di illuminazione artificiale, che conferiva all’ambiente una luminosità soffusa, ma efficace per rischiarare le tenebre. Era molto gotico, in un certo senso, popolato da creature che nell’immaginario collettivo definiremmo magiche o mostruose. Non mi ero mai chiesta realmente quale fosse la loro origine, pensavo fossero la materializzazione delle paure e dai pensieri più profondi degli esseri umani, ma in quel momento, compresi che erano degli esseri viventi tanto quanto me. Creature mitologiche, i grifoni e gli ippogrifi che solcavano i cieli dell’Underworld, unicorni che pascolavano tranquillamente nelle lande vicine alle città. Erano meravigliosi, visti nei loro ambienti, così puri e innocenti da non riuscire affatto a suscitare terrore, ma solo un sincero stupore.

Vidi persone svolgere le loro attività quotidiane, vivere quella notte come se fosse giorno, con semplicità, come se fosse qualcosa di estremamente naturale. Vidi le case, un crogiolo di abitazioni, come nel mio mondo, variabili dalla più umile alle residenze dei più ricchi. Un mondo d’altri tempi, dove ci si spostava con le carrozze, un sogno, come quello sul castello di Chambord, che d’improvviso fu interrotto da una luce più abbagliante che mi riportò alla realtà. Aprii gli occhi, stavamo ancora volando. Spiazzata per qualche istante, strinsi più forte la presa attorno Shemar, che continuava a reggere le redini di Varon saldamente. Percepì il mio gesto, alzando la voce per farsi sentire.

- Tutto bene, signorina?

Senza sporgermi, per paura di cadere, poggiai la fronte contro la sua schiena, annuendo. Comprese, dal momento che di lì a poco rivolse la stessa domanda a Damien, che diversamente da me, rispose a voce.

- Sto bene. Dove siamo ora?

Domandò.

Non avevo il coraggio di voltarmi e guardare, ma a giudicare dal tono, Damien stava vedendo qualcosa sotto di noi.

- Potete vedere Shelton, ormai siamo vicini.

Rispose Shemar, mentre il grifone scendeva di quota. La sensazione che avevo in quel momento era la stessa dell’essere in aereo, ma mentre l’aereo a suo modo era sicuro, il mio terrore di cadere mi impediva di fare qualsiasi mossa che avrebbe potuto compromettere il mio equilibrio. L’istinto di sopravvivenza assumeva forme strane a volte.

- E’ meraviglioso…

Commentò Damien, potei riconoscere una nota di sincerità nel suo tono.

Avrei voluto guardare, ma ero ancora spaventata.

- Signorina Aurore, perché non ci provate?

Chiese Shemar, intuendo il mio stato d’animo.

- Scordatelo! Non ce la farei mai!

Dissi, tutto d’un fiato.

- Così facendo però finirete per frantumarmi una costola.

Rise e io arrossii. Era così imbarazzante che se fosse stato possibile sarei scesa e avrei continuato il tragitto a piedi.

- Scusami, è solo che... ho paura…

Damien sospirò alle mie spalle.

- Prova, sei in mezzo, non ti succederà niente.

Mi suggerì.

Non so se fosse stata più la sua voce a rincuorarmi o l’imbarazzo dello stare stringendo in un modo barbaro il povero Shemar, ma trassi un profondo respiro e cercai di dominare la mia paura, aprendo un occhio e dando una velocissima occhiata al paesaggio. Non scorsi molto, ma il cielo non era così scuro come immaginavo e come avevo sognato poco prima. Aveva una sfumatura simile alla primissima luce del mattino, ma era molto più debole, come se non fosse abbastanza forte da illuminare tutto quanto. Fu qualcosa che mi colpì molto

Poi aprii anche l’altro occhio, osservando meglio. C’era una piacevole brezza che colpiva il mio viso, era fresca, vitale, in un mondo in cui credevo che la vita fosse l’ultima cosa che esisteva. Man mano che scendevamo, il paesaggio appariva sempre più nitido, lasciando intravedere più chiaramente in una vegetazione rigogliosa e lussureggiante, una rete di cittadine collegate tra loro.

- E’ bellissimo…

Mormorai, mentre i miei occhi si abituavano alla scarsità di luce e potei distinguere meglio i contorni delle case.

- E’ pieno giorno, a quest’ora.

Ci comunicò Shemar.

- Possibile?

Domandò Damien, incredulo tanto quanto me.

- Ve l’ho detto che in questo mondo la luce non splende più da molti anni.

Riprese il nostro cavaliere, tirando le briglie di Varon verso di sé. Il grifone ebbe un’esitazione, fermandosi di colpo e facendoci trasalire al punto che tornai a stringere Shemar con forza.

- Che succede?!

Chiesi in preda al panico.

- I messi della Croix du Lac.

Disse.

Damien si sporse.

- Messi? Non vedo nessuno.

Provai a guardare anch’io, sebbene fossi piuttosto preoccupata di cosa avrei potuto vedere. In realtà, proprio come Damien, non vidi nulla se non una sfocatissima sagoma scura e non meglio precisata molto più in alto di noi. Shemar ordinò a Varon di scendere ancora, ordine subito eseguito dal fidato grifone, che scese in picchiata costringendomi a urlare terrorizzata.

- Shemar, che diavolo ti passa per la testa?!

Sbottai non appena il pericolo fu passato e tornammo a volare in piano.

- Scusatemi, non è sempre così.

- La prossima volta avvisaci, mi gira lo stomaco.

Riprese Damien e stavolta mi voltai. Era pallido.

- Non mi vomiterai addosso, vero?

Gli chiesi, mi guardò di sottecchi, poi si voltò a guardare il paesaggio. Ormai eravamo alla stessa altezza dei tetti dei palazzi. Tornai a guardare anch’io, era un panorama molto suggestivo, ma credere che fosse pieno giorno era difficile. Poi mi voltai verso Shemar.

- Cosa sono i messi? Non siamo riusciti a vedere…

- Ovviamente, voi non siete abituati a questa luce, dunque è già tanto se riuscite a scorgerli. Sono ovunque nel nostro cielo, osservano e riferiscono.

- Sono grifoni?

Domandai.

- Quando li vedrete, lo capirete signorina. Sono qualcosa di più.

- Evasivo come sempre, grazie mille.

- Mpf.

- Volete smetterla con questo “Mpf”?

Sbuffai, mentre Varon riprendeva velocità.

La brezza si fece sentire con più forza, era una bella sensazione. Respirai a fondo e distinsi  profumi svariati, su tutti quello di fiori, molto simile a quello della mamma. Sussultai, poi misi la mano in tasca e raccolsi il braccialetto di Evan, osservandolo. Ero arrivata in quel luogo, ma chissà dov’erano. Sarei stata capace di trovarli? Damien si sporse ad osservare il braccialetto, potei vedere il suo viso vicino al mio braccio.

- Dovresti fare attenzione a non perderlo.

- Sta’ zitto, gufo.

Bofonchiai, avvolgendolo al polso. L’argento risplendette nella notte eterna, il suo peso era familiare tanto quanto quello del mio ciondolo. Evan, mamma… tutto ciò che mi era rimasto di loro erano quei due monili, avrei fatto di tutto per non perderli e se fosse accaduto, allora non sarebbe stato per mia volontà, avrebbero dovuto strapparli dal mio corpo esanime. Avevo buone possibilità di morire in quel mondo, e l’avrei preferito, se avessi dovuto scegliere, al morire nel mio mondo, ormai privo di tutti i miei legami più importanti. Pensai a Violet, alla tristezza che la avevo dato, chissà se Shemar le aveva detto altro. Ma era difficile crederlo, in fondo, desiderava che la mia amica non fosse in pericolo, tanto quanto lo desideravo io e non avrebbe mai detto niente che la potesse esporre al rischio. Tuttavia, avevo imparato a mie spese che le guardie imperiali non lasciavano nulla al caso, dunque un margine di pericolo ci sarebbe stato ugualmente. Speravo ardentemente che lasciando per sempre il mio, il nostro mondo, lei sarebbe stata viva. Chissà, magari un giorno si sarebbe dimenticata di me, la vita è lunga e mi auguravo che la sua fosse la più lunga possibile e che vivesse felice. Quanto siamo disposti a perdere per salvare la vita di coloro che amiamo? Non l’avevo mai capito prima di quel momento. Pensai a Damien, alla sua tenacia, alla sua rabbia, al suo coraggio, al fortissimo desiderio di ritrovare il suo fratellino il prima possibile. Mi domandai quanto fosse impaziente, cosa quel viaggio per lui potesse rappresentare. Una speranza, ma anche l’angoscia e il contrattempo. Ci stavamo recando al cospetto di Lady Amber Trenchard e dubitavo che lei conoscesse la sorte dei nostri congiunti. Ma come era stato per noi, sicuramente anche per Jamie il viaggio era ancora in corso, magari in un’altra regione, diametralmente opposta dal luogo in cui ci trovavamo noi, ma pregavo con tutte le mie forze che fosse vivo. Anime innocenti trascinate negli inferi… un destino comune, mentre noi avevamo scelto di nostra volontà di recarci in quel mondo senza luce. Accarezzai il braccialetto. Evan, proteggimi, ho paura…

Non so per quanto tempo volammo. In quel mondo, quantificare lo scorrere del tempo sembrava impossibile per chi come me e Damien era abituato ad usare degli orologi e nemmeno quelli ci erano d’aiuto, sembravano impazziti. Shemar ci comunicò che eravamo nei pressi della residenza, ma riuscire a scorgerla era ancora difficile. Avevamo abbandonato da un pezzo le cittadine, stavamo sorvolando una distesa di cedri. Planavamo sopra a un viale che li spezzava, quando si aprì ai nostri occhi una meravigliosa oasi d’altri tempi. Il verde circondava uno specchio d’acqua argentea, le fronde assumevano tonalità differenti man mano che l’angolazione cambiava, ma giocavano a modificare i riflessi sulla superficie facendoli ondeggiare e risplendere cristallini. Era uno spettacolo meraviglioso, mi riportò alla mente il mio sogno, soprattutto quando intravidi un lungo corso d’acqua, più su, che aveva la sua sorgente in una fontana con custode una statua dalle fattezze femminili. Eravamo entrati nella residenza ormai e stavamo procedendo verso il cuore, che finalmente cominciava a prendere forma. Vidi torrini svettare alti, un’architettura molto elegante, fatta di arcate e bouganville rampicanti e lampioni accesi. Vidi dei gazebo finemente arredati, sembrava un sogno a occhi aperti stavolta. Avevo sempre desiderato vivere in un posto simile, ma ora che lo vedevo coi miei occhi, era così surreale che quasi non me ne rendevo conto. Ci sarebbe voluto un pizzicotto, ma non so quanto Damien Warren potesse essere affidabile nel non farsi prendere la mano. Dopotutto, doveva essere incredulo tanto quanto me.

- E’ quella la residenza?

Domandò a Shemar, indicando l’abitazione, che a prima occhiata ricordava un palazzo di stile rinascimentale.

- Sì, proprio così.

Confermò Shemar con tono soddisfatto. Stava tornando a casa…

Proprio nel momento in cui stavamo per arrivare, però, vi fu un altro brusco scossone che ci fece spaventare.

- Shemar! Che succede stavolta?!

Sbraitai, mentre Damien mi strinse più forte.

- Scusate, è soltanto che… abbiamo visite.

- Visite?

Domandai, pensando subito all’incontro con gli invisibili messi della Croix du Lac.

Cercai di focalizzare meglio, ormai eravamo abbastanza bassi da vedere meglio, aiutati dalle luci dei lampioni. All’orizzonte, provenienti dalla residenza, vidi chiaramente un altro grifone. Già Varon mi era bastato, che ce ne fossero altri era scontato, ma non ero pronta a vederne un altro in quel momento.

- Non possiamo evitarlo?

Chiesi a Shemar, ma non sembrava volerlo fare.

Al contrario, dette una pacca a Varon, sorridendo.

- No, signorina, mi spiace. Va’.

Ordinò, e il grifone, contemporaneamente seguito dal suo compagno dirimpetto, si prestò a una gara di velocità. Strinsi più forte Shemar, Damien fece lo stesso con me, sembrava essere a bordo di una moto, ma volare era sicuramente un valore aggiunto molto più eccitante. Tuttavia, l’eccitazione del momento non bastò a farmi trasalire quando vidi il grifone di fronte a Varon non cambiare la sua traiettoria nemmeno quando fu a pochi metri da noi, così vicino da farci intravedere il suo cavaliere, che indossava un mantello rosso scuro e portava i capelli biondi legati allo stesso modo di Shemar. Eseguendo una virata all’ultimo momento che ci fece rischiare di perdere l’equilibrio, si scambiarono un’occhiata complice e di sfida, si conoscevano, a quanto pareva. Poi il nostro cavaliere sollevò il braccio in un gesto teatrale, quasi a dire “Tanto di cappello” e ordinò a Varon di raggiungere lo spiazzo. Ci arrivammo in pochi istanti, raggiunti un soffio dopo dal rivale, che toccò terra prima di noi. Shemar si mise a ridere, poi Varon toccò terra a sua volta, incrociando il becco con quello del grifone che gli stava di fronte, quasi fosse un bacio. Era più chiaro, il manto aveva una sfumatura beige, mi chiesi se fosse la sua compagna. Poi il misterioso cavaliere scese, raggiungendoci e accarezzando il manto del nostro grifone.

- Mai una volta che t’impegni seriamente contro di me, sei il solito.

Disse una voce femminile piuttosto seccata.

- Se lo facessi, non ci sarebbe divertimento, non è così?

Chiese Shemar, sorridendo.

Poi scese dalla groppa, mentre Damien e io osservavamo la ragazza che ci era di fronte. Non l’avevo capito, a prima occhiata, a causa dell’abbigliamento piuttosto maschile. La guardai meglio, indossava un corsetto bordeaux con maniche a sbuffo bianche, tenuto stretto da una fascia alla vita e dei pantaloni dello stesso colore più attillati, probabilmente in seta. Ai piedi degli stivali bianchi bordati d’oro. Era alta su per giù poco più di me, doveva essere più grande, a occhio e croce di un paio d’anni, forse era coetanea di Evan. Ci guardò, era molto bella, la pelle chiara, probabilmente doveva essere pallida tanto quanto Shemar, aveva occhi grandi, il cui colore oscillava tra il nocciola e l’ambrato. Sorrise, io la guardai stupita.

- Possibile che sia lei?

Domandai.

- Venite, signorina.

Mi disse Shemar, aiutandomi a scendere e dando una mano anche a Damien, che portava ancora in spalla il mio zaino. Non appena lo tolse, lo posò a terra e sentii lo scricchiolare delle sue ossa. Doveva essere sato un fardello fastidioso, come se fosse stato portato a lungo, ma non riuscivo a quantificare quanto tempo avessimo volato. Mi sarei scusata più tardi, per il momento, rivolsi di nuovo il mio sguardo verso la ragazza, ma fu Shemar a ufficializzare le presentazioni.

- Signorina Aurore, vi presento la mia signora, Lady Amber Trenchard.

Disse, rivolgendole un inchino, poi si rialzò e la guardò, lei restituì lo sguardo in attesa.

- Lady Amber, vi presento la signorina Aurore Kensington, attuale custode dell’ametista e Damien Warren, un suo… amico.

Pronunciò con difficoltà quell’ultima parola, come se fosse qualcosa di contrario al suo codice.

Amber aggrottò per un istante le sopracciglia, poi mi guardò.

- Aurore Kensington, è un piacere fare la tua conoscenza. Per molto tempo abbiamo cercato l’ametista, ma non credevamo che fosse più vicina di quanto pensassimo. Spero che Shemar ti abbia portato tutto il rispetto che meriti, diversamente, provvederò di conseguenza.

Quelle parole mi stupirono, della ragazza gioviale di poco prima non era rimasto granché. Quella era Lady Amber, la stessa persona di cui Shemar parlava con ammirazione, la stessa che avrebbe potuto facilmente tenerlo in pugno.

- Vi ringrazio, ma è stato estremamente gentile con me.

Damien, dietro di noi, sbuffò, Amber se ne accorse.

- Warren? Sei legato ai Warrenheim, forse?

- Lionhart Warrenheim è suo padre, Milady.

Precisò Shemar, costringendoci a voltarci verso di lui.

- Lionhart, hai detto?

Chiese Damien, non realizzando quello che aveva sentito.

- Ha adattato il suo nome, Lionhart Warrenheim è la sua reale identità.

Continuò Shemar.

Damien fece cenno negativo, potevo capire come si sentiva, troppe scoperte in un colpo solo, era troppo anche per lui.

- Non ho legami con mio padre.

Riprese, cercando di scollare di dosso quei dubbi, mentre si rivolgeva ad Amber.

- Come ha detto Shemar, mi chiamo Damien Warren.

Lei non si scompose, ma accennò un sorriso.

- Se Shemar si fida di te, allora non ho motivo di temere.

- Vi ringrazio.

Disse Damien, sebbene non credo che gli importasse particolarmente ciò che pensava di lui quella ragazza. In questo, anche in questo, somigliava tanto a Evan…

- Lady Amber, vorrei parlarvi del motivo per cui siamo qui…

Esordii, desiderosa di cominciare al più presto le ricerche di mia madre e di mio fratello, ma quando pensavo di aver conquistato l’attenzione della ragazza, fui interrotta da una poderosa voce di donna che invocava il suo nome, proveniente dall’interno del palazzo.

Amber ci rivolse un’occhiata, poi guardò Shemar.

- Sembra che la mia fuga sia stata scoperta anche questa volta.

Sospirò rassegnata.

- Siete di nuovo uscita dal palazzo?

Chiese allertato.

- Sapete bene che non è sicuro per voi!

- So bene fin troppe cose e conosco i miei doveri, tu più di tutti dovresti saperlo, Shemar.

Replicò Amber.

Si guardarono, fu un’occhiata che esprimeva empatia, ma c’era una nota di sfida, proprio come poco prima.

Nel frattempo, una donna nerboruta di circa mezza età, con indosso un largo grembiule, comparve sullo spiazzo, fermandosi a pochi passi da noi. Nonostante la grandezza fisica, era elegante. Sul suo viso a forma di cuore l’espressione accigliata parzialmente nascosta dagli occhiali cozzava, ma la faceva apparire abbastanza convincente.

- Milady! La cena sarà servita tra qualche ora, non potete uscire senza avvisare, mi hanno detto che avete persino liberato Varon, non è possibile, sapete che quella bestiaccia famel-- 

Poi guardò meglio, prima Varon che la osservava con la sua compagna, poi noialtri. Esplose in un pianto dirotto non appena riconobbe Shemar, al punto che si chinò a baciare la terra, poi rialzatasi, si avvicinò a Shemar posandogli la mano sulla fronte.

- Oh giglio d’ambra, numi di Shelton, ragazzo mio, perché non mi hai avvisato prima del tuo ritorno?! Guardati! Ma guardati, che aspetto poco rispettabile! Ti sembra questo il modo di presentarti al cospetto della tua signora?!

Imprecò, mentre Shemar distoglieva lo sguardo e Amber soffocava una risatina.

- Mi spiace, la prossima volta sarò più accorto.

Si scusò. Avevo l’impressione che quella donna fosse una delle poche persone al mondo che Shemar temeva.

- E voi?

Chiese, voltandosi a squadrarci.

- Piacere…

Farfugliai, abbozzando un saluto di senso compiuto, sebbene non avessi la minima idea di chi avessi davanti. La donna mi guardò bene, poi si avvicinò a me, raccogliendo in mano il mio ciondolo. Fulminea, molto più di quanto fossi abituata a fare, mi ritrassi, stringendolo istintivamente in mano.

- Scusate, ma questo è mio.

Dissi.

Mi guardò in viso, sgranando gli occhi. Erano grandi, neri, contrastavano con la pelle candida.

- L’ametista? Hai trovato l’ametista, Shemar?!

Chiese, rivolgendosi nuovamente a lui.

- Sì, Sybille.

Sorrise, stanco.

- Adorato ragazzo, lo sapevo che eri un portento!

Esclamò, prima di voltarsi di nuovo verso di me.

- E qual è il tuo nome, piccola cara?

- Aurore… Aurore Kensington…

Bisbigliai.

- Aurore… è un nome molto suggestivo. Quanto al tuo cognome, non ho mai sentito una casata che si chiamasse così. Da dove vieni?

- Ehm…

Balbettai, in difficoltà, cercando un appoggio che non arrivò da parte di Damien.

- Da Darlington, Sybille. Nel mondo umano.

Mi aiutò Shemar.

- Mondo umano?

Chiese Sybille, incredula. Poi ci squadrò meglio, realizzando che Shemar non aveva poi tutti i torti.

- Avrei dovuto capirlo da questi abiti.

Sindacò, quasi a non poterci fare nulla.

E pensare che avevo scelto i meno appariscenti…

- Dicevi che la cena sarà servita tra qualche ora, Sybille?

Intervenne Amber, mentre la donna si voltò a guardarla.

- Sì, Milady. Ovviamente non pensate che transigerò sul fatto che siete uscita senza avvisare nessuno. Se i vostri poveri genitori fossero qui, cosa direbbero di voi? Non hanno certo operato per tirare su una figlia così ribelle. Povera la mia signora, povero il mio signore, cosa avrebbero pensato di me nel vedervi mortificare in quel modo la vostra femminilità?

Borbottò, ma a vedere Amber in quella tenuta, non mi sembrava affatto che la mortificasse, anzi, era molto bella.

- Penso che mio padre sarebbe stato più felice e ti avrebbe fatto i complimenti, dopotutto, gradiva un erede maschio che non è mai arrivato.

Sorrise, poi ci guardò.

- Aurore, ne parleremo con calma non appena vi sarete sistemati. Sybille, accompagna nelle loro stanze i nostri ospiti e fa’ in modo che abbiano tutto ciò di cui hanno bisogno. Aurore, Damien, benvenuti a Shelton.

Sentenziò, noi la ringraziammo. Poi si rivolse a Shemar.

- Quelle ferite andrebbero curate, non credi?

Shemar sorrise, inchinandosi.

- Milady, sono ferite da niente, passeranno con un po’ di riposo. Vi chiedo il permesso di potermi ritirare per qualche ora.

- Accordato.

Gli rispose.

Il nostro, il suo cavaliere si rialzò, guardandola.

- Vi ringrazio. Quanto a voi, seguite pure Sybille. E’ un po’ rude a volte, ma è la migliore.

Ci disse, meritandosi a pieno titolo uno scappellotto dalla donna. Doveva conoscere quei due da molto tempo.

- Grazie Shemar, per tutto quello che hai fatto per me…

Dissi, accennando un sorriso.

- Per noi.

Intervenne Damien, mantenendo però, il suo distacco.

Shemar si limitò a un cenno di assenso, poi prese con sé i due grifoni e si allontanò.

- Bene, quanto a noi… che ne dite di andare?

Propose Amber.

- Seguitemi, vi accompagno nei vostri alloggi.

Suggerì Sybille, per poi rivolgersi alla sua signora.

- Vi preparerò un cambio d’abito al più presto. Quanto a quei vestiti, li farò sparire.

Amber rise.

- Dovrai prima trovarli. A più tardi, vi aspetto a cena.

Ci salutò, rientrando a palazzo.

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Capitolo 15
*** VII. 2 parte ***


Bonsoir! <3 Pubblico oggi la continuazione del capitolo! >_< Anche questa è piuttosto lunga... u_u Aspetto pareri, se vi andasse di spendere qualche parola per farmi sapere che ne pensate, ne sarei davvero felice!! Buona lettura!!

 

 

 

 

 

 

 

 

Avrei voluto chiederle tante cose, ma su una cosa aveva ragione Shemar, c’era bisogno di un po’ di riposo. Raccolsi il mio zaino prima che Damien lo riprendesse, stavolta toccava a me e quando se ne accorse mi guardò stupito, quasi l’avessi preso per qualche motivo arcano. Disegnai un “grazie” con le labbra, capì e sollevò le mani in gesto di resa, poi seguimmo Sybille all’interno della residenza. Era un luogo affascinante, molto caratteristico. I lunghi corridoi erano illuminati da lampadari di cristallo con candele che bruciavano incessantemente rischiarando gli ambienti, nei quali i giochi di luce erano suggestivi. Le mura erano in pietra, ampie vetrate si alternavano a volute e tendaggi. Sui mobili non mancavano mai dei vasi di fiori, non riconobbi nessuna specie a me nota, ma i colori e i profumi erano deliziosi. Sybille ci spiegò anche che andavamo verso la bella stagione, ma non sentivo poi così caldo, anzi, con indosso il mio giubbino stavo piuttosto bene. Proseguimmo per le scalinate fino a raggiungere il piano superiore, rischiarato da lucerne, finemente arredato con tappeti e mobilio delicato. C’era molto legno stavolta. Proprio come al piano inferiore, non mancavano i fiori, ad Amber dovevano piacere molto. Ci fermammo davanti alla prima porta, più grande e pesante di quelle a cui ero abituata, motivo per cui non mi stupì particolarmente del perché Shemar non avesse particolari problemi ad aprire una porta chiusa senza chiavi. Sybille l’aprì, dava su una camera da letto molto ampia, con letto a baldacchino, armadi a muro e dei comodini riccamente lavorati.

- Questa è la tua stanza, cara.

Mi comunicò.

- E’ molto grande…

Osservai. Non ero abituata ad avere stanze così grandi, era persino il doppio della stanza della mamma, sebbene per certi versi, la ricordasse.

- Non è il caso di protestare.

Mi bisbigliò Damien all’orecchio e lo guardai. In fondo, non aveva tutti i torti, tanto che mi rivolsi a Sybille.

- Grazie, siete gentile.

- Dovere, piccola mia. Non capita spesso avere ospiti da queste parti, un tempo però questa residenza era molto più frequentata.

Disse, con tono nostalgico.

- Capisco… bene, allora ci vediamo a cena.

- A dopo.

Salutò Damien, mentre Sybille ci comunicò che avrebbe mandato qualcuno a chiamarci quando fosse stata l’ora di metterci in tavola.

Dopo averli salutati a mia volta, entrai in quella stanza, chiudendo la pesante porta alle mie spalle. La facilità con cui quella donna l’aveva aperta era incredibile, io feci uno sforzo pazzesco. Gettai poi lo zaino a terra, poco lontano e gironzolai per la stanza, scoprendo tutto l’occorrente per la toeletta e persino un bagno attiguo. Era davvero la camera di una principessa. Le pareti erano decorate con delle delicatissime greche floreali e vertevano sull’avorio, intervallate ogni due o tre metri da lucerne in ottone, i pavimenti erano in moquette bordeaux, molto morbida. C’era anche un’ampia finestra che dava su un balcone, coperta da una lunga tenda con calate color rosa pesca. Nemmeno nei miei sogni più infantili avrei potuto immaginare di avere una stanza così. Certo, preferivo in ogni caso la mia, dato che sui comodini non c’era traccia di peluche, ma soltanto profumi e anche in questo caso, fiori. Mi avvicinai a osservarli meglio, potei riconoscere a stento delle mediline.

- Beh, quantomeno c’è qualcosa che conosco…

Mormorai, gettandomi poi sul letto. Era un letto a due piazze, con tre cuscini con merletti, un lenzuolo e una copertina di seta. Ovviamente, eravamo in estate, ma temetti di aver freddo. Per fortuna avevo con me la felpa di Evan, sarebbe stato un toccasana. Osservai le cortine penzolanti, bordate di intagli dorati, poi il mio sguardo cadde sulla parete di fronte, dove semicoperto da una tenda più corta, c’era uno specchio a grandezza d’uomo. Scorsi il mio riflesso, potevo vedere che faccia avrei avuto dopo il viaggio, così mi rialzai e mi ci avvicinai, scostando la tenda. Ero spettinata, più che altro, ma avrei sfidato chiunque a non esserlo dopo aver volato per chissà quante ore. In più, la stanchezza cominciava a farsi sentire, per cui optai per una doccia, ma quando aprii la porta del bagno, non ne vidi nemmeno l’ombra.

- E adesso come diavolo faccio?

Borbottai, cercando qualcosa che forse mi stava sfuggendo. In realtà, quel piccolo, caratteristico bagno, con sanitari in porcellana e decorazioni ai muri, non aveva nessun box doccia, ma soltanto una vasca. Ovviamente, in un mondo in cui salvo sorprese non conoscevano le auto e l’energia elettrica sembrava destinata ad altri usi, ipotizzare che vi fosse acqua corrente era forse un po’ troppo. Che meraviglia, ero tornata indietro nel tempo. Sbuffai, non amavo particolarmente le vasche, ma capii di dovermi adattare. Del resto non potevo presentarmi a cena con la stanchezza del viaggio addosso. Sorse però spontaneo un altro problema. Se non c’era acqua corrente, dove avrei potuto trovare dell’acqua? Mentre rimuginavo sul da farsi, qualcuno bussò. Forse Sybille si era ricordata di avermi lasciata senz’acqua? Sperando di ottenere risposta alla mia domanda, tornai in camera e aprii, di nuovo a forza, la pesante porta, trovandomi davanti una ragazza di circa quattordici anni. Doveva essere una cameriera, dato che indossava degli abiti simili a quelli di Sybille.

- E tu?

La ragazzina si inchinò, porgendomi degli asciugamani.

- Milady, se desiderate rinferscarvi, vi prego di seguirmi.

Mi disse, umilmente. Mi stupii di quel tono e di quel comportamento, non ero abituata a essere riverita.

- Grazie, mi chiedevo proprio come avrei fatto… non c’è acqua corrente da queste parti, vero?

Mi rivolse uno sguardo dubbioso, risposta negativa.

- Mi spiace, non so di cosa parliate…

- Lascia stare, come non detto. Io mi chiamo Aurore, e tu?

Abbassò nuovamente lo sguardo, se io non ero abituata alle riverenze, lei non doveva esserlo alla confidenza.

- S-Sono Milene, per servirvi.

Balbettò timidamente, strappandomi un sorriso.

- Piacere di conoscerti, Milene.

Le dissi, per poi chiederle di accompagnarmi. Mi scortò lungo una seconda scalinata che con tutta probabilità dava verso la zona più interna del palazzo. Non scorsi stavolta, particolari decorazioni, ma come il resto dell’ambiente, era tutto molto fine. Intravidi soltanto una galleria in lontananza, scorgendo sulla parete alcuni quadri, ma non era il caso di ficcare il naso, sebbene mi incuriosissero. Continuammo a camminare per un po’, la residenza era molto più grande di quanto pensassi.

- Manca ancora molto?

Domandai alla ragazza che mi precedeva.

- Siamo quasi arrivate.

- Meglio così…

Bisbigliai.

Dopo qualche minuto finalmente arrivammo a destinazione. Lo spettacolo che mi si presentò agli occhi era qualcosa di superbo. Una grande arcata di pietra bianchissima e levigata faceva da ingresso a una sala molto grande, illuminata artificialmente, divisa in due da un muro e delle piante acquatiche. C’era molto vapore, ma le esalazioni erano delicatamente profumate.

- Terme?

Chiesi, sentendo anche lo scrosciare dell’acqua.

- Sono i bagni della residenza, Milady. Lady Amber ci ha ordinato di prepararli per voi.

- Tutto questo?

Domandai incredula, posando la mano su una colonna altrettanto bianca e levigata. Era marmo.

- Sì, certamente. Non appena avrete finito, vi porterò un cambio d’abito, potete rilassarvi quanto volete intanto.

- Un cambio d’abito? Ma ho già i miei abiti…

Milene mi guardò confusa, non era stata proprio una buona idea parlarle a quel modo.

- Scusami, è soltanto che non vorrei creare disturbo, ho portato i miei abiti, per il momento preferisco indossare quelli, ma grazie per la tua gentilezza, Milene, grazie davvero.

Le rivolsi un sorriso, dopo avermi rivolto un’occhiata stupita, ricambiò timidamente.

- Preparerò i vostri, allora. Scusatemi.

Si inchinò e andò via, lasciandomi sola.

Forse ero stata scortese, ma non volevo adattarmi in nessun modo a quel mondo. La mia priorità era un’altra, non certo indossare dei begli abiti d’altri tempi. Raggiunsi l’interno della sala, spogliandomi velocemente dei miei vestiti. L’aria era piacevolmente calda, si stava molto bene, decisamente meglio che nel resto del palazzo. Entrai in acqua saggiando prima la temperatura, per fortuna era l’ideale. Man mano che avanzavo in quella grande vasca, potei osservare meglio i dettagli. Sul grande muro divisorio spiccava in particolare un bellissimo dipinto che raffigurava la villa in una giornata di luce, era così bello da rimanere a bocca aperta. Tutto intorno, le decorazioni floreali scendevano fino alla superficie dell’acqua, rispecchiandosi in essa. Raggiunsi una cascatella, ma non riuscii a individuarne la sorgente, ciononostante vi entrai, lasciando che l’acqua scorresse a lavare via tutta la stanchezza. Fu un toccasana, quell’acqua aveva qualcosa di curativo, tanto che già pochi istanti dopo mi sentii più rilassata. Quando uscii dal getto, mi sedetti a giocare con la superficie, creando delle piccole onde con le mani, un gesto che avevo già fatto seduta sul bordo della fontana nel mio sogno. Ripensai a Evan, alla mamma, poi guardai il braccialetto. Mi mancavano. Mi mancavano tanto, chissà dov’erano in quel momento… e inevitabilmente il mio pensiero andò al piccolo Jamie, anche lui portato in qualche luogo sperduto di questo mondo senza luce. Avrebbe pianto? Avrebbe avuto paura del buio senza la mano del suo adorato fratello a risvegliarlo dagli incubi? E io, avrei avuto paura? Mi strinsi le ginocchia con le braccia, lasciando che l’acqua mi sommergesse fino al collo, quel caldo era avvolgente. Chiusi gli occhi, immaginando l’abbraccio e il calore che più mi mancavano, poi sentii un rumore, qualcuno dall’altro lato si era immerso. Li riaprii, avvicinandomi al muro, cercando di captare qualcosa in più. Purtroppo per me, a parte lo scrosciare dell’acqua e i movimenti del corpo in acqua, non sentii altro, nemmeno una voce. Avrei potuto chiedere chi fosse, ma non era il caso, il silenzio era parte fondamentale del rilassamento. Così, mi appoggiai con la schiena al muro, osservandomi le ginocchia, su cui c’erano ancora i graffi dovuti all’aggressione che avevo subito. Se Shemar non fosse arrivato in tempo, di sicuro la mia sorte sarebbe stata molto diversa, ma non volevo più pensarci, era finita bene e questo bastava. Certo, a volte la curiosità su cosa quei ragazzi avessero visto di così spaventoso in quell’uomo da scappare terrorizzati mi solleticava, ma sentivo che se l’avessi saputo non avrei mai più potuto avvicinarmi tranquillamente a lui. Mi bastava sapere che era dalla mia parte, e così come Lady Amber si era fidata di lui, allora io avrei dovuto fare altrimenti. Pensai a quei due, chissà che razza di rapporto doveva esserci tra loro… A Shemar Amber sembrava piacere, ma non ero pronta a dire lo stesso di lei, nonostante fosse indiscutibile il fatto che fossero molto legati l’uno all’altra. Era bella l’empatia, forse persino più forte dell’amore, chissà. Per me che non lo conoscevo ancora, era un paragone azzardato. Intanto, unii le mani a coppa, raccogliendo dell’acqua e lasciandola ricadere come cascatella per poi perdermi nell’increspatura prodotta dallo scrosciare. Pochi istanti dopo, sentii qualcuno picchiettare sul muro dietro di me.

- C’è nessuno?

Chiese, riconobbi la voce indispettita di Damien Warren. Mi ero completamente scordata della sua esistenza, ma mi voltai, picchiettando a mia volta sul muro.

- Non azzardarti a spiare.

Ridacchiai.

- Aurore, anche tu qui?

- Come puoi sentire, sì.

Sorrisi, avrei dovuto immaginare che era lui.

- Tutto bene? Com’è la tua stanza?

Domandai.

- Non c’è l’acqua corrente.

Protestò, lo capivo.

- Però questa sala termale è bella, non trovi?

- Se ti piace il genere sì, certo. C’è qualcun altro con te?

Chiese e io mi guardai intorno.

- No. Da te?

- Sono solo anch’io.

Mi comunicò.

Soli, nudi, in una vasca separata da un muro, era davvero una bella premessa. Cercai di scacciare quel pensiero, ma mi coprii comunque, sentendo le guance più calde.

- Aurore?

- Che c’è?

Tacque per un lungo momento, al punto che mi domandai se fosse ancora lì o pronto a qualche azione da maniaco. Alla fine si sa, l’occasione fa l’uomo ladro e Damien Warren era un uomo, in fin dei conti.

- Secondo te… Jamie sta bene?

Il calore si propagò più velocemente nel mio corpo, il battito del mio cuore subì un brusco colpo e accelerò. Era la domanda più innocente e ovvia del mondo, quella di un fratello preoccupato per la sorte del suo fratellino, aggravata da un tono angosciato e impotente. Gli occhi mi si velarono di lacrime, avrei voluto rispondergli che era assolutamente così, che non doveva temere, ma la verità era che qualunque cosa potessi dirgli per rincuorarlo sarebbe stata vana, dal momento che condividevamo lo stesso dolore.

- Non lo so… lo spero tanto…

Non rispose, ma sentii il movimento dell’acqua.

- Come facevi a sapere che l’avrebbero portato qui?

Mi chiese poi.

Avrei dovuto raccontargli della conversazione avuta con suo padre, avrei dovuto dirgli del suo folle proposito di trasformare quel bambino nel Despota che avrebbe governato l’Underworld, ma mi avrebbe mai creduta?

- Hai bisogno che ti risponda?

Domandai infine, osservandomi le mani.

- No, forse non lo voglio sapere.

Gli fui grata per non avermi messo in difficoltà. Poi a sorpresa, fu lui a rincuorarmi.

- Li ritroveremo. Li riporteremo a casa a qualsiasi costo.

Accennai un sorriso, mentre le lacrime che si erano formate nei miei occhi scesero silenziose.

- Grazie…

Mormorai, non volevo che mi sentisse. Rimanemmo in silenzio per un po’, persi nei nostri pensieri, io continuai ad osservare l’acqua, quello specchio limpido che si increspava, brillante, la luce in quel mondo che non l’aveva più. Poi lo sentii alzarsi e sollevai lo sguardo.

- Vai via?

- Credo sia passato un po’ troppo tempo, ho le mani palmate.

Quell’osservazione mi fece ridere.

- Le mani palmate?

- Sì, non le conosci?

- Si può sapere da quanto sei qui?

- Ho perso la cognizione del tempo.

- Idiota.

- Guarda anche le tue mani e poi ne riparliamo.

Lo feci, mi sembravano a posto, salvo qualche piccola rughetta sui polpastrelli.

- Le mie stanno bene.

- Buon per te.

Sentenziò, lo sentii allontanarsi.

- Ehi!

Protestai, alzandomi di colpo. Dei crampi si fecero sentire, facendomi vedere le stelle in quell’istante. Superato il momento, mi trascinai con un po’ di fatica fino al bordo della vasca, fermandomi prima della fine del muro.

- Non osare farti vedere!

Gridai, imbarazzata.

- Tranquilla, non mi interessano le ragazzine.

Ragazzine? Mi aveva definita ragazzina? Ancora una volta, quel maledetto non faceva altro che burlarsi di me…

- Warren!

- Siamo tornati al cognome?

Domandò, capii che stava camminando sul pavimento.

- Ti odio!

- Mpf.

- Smettila con quel verso, accidenti a te!!

- Continuerò a farlo, che ti piaccia o no.

Contestò, ma a giudicare dal tono, stava ridacchiando.

Se soltanto fossimo stati vestiti…

- Muoviti a sparire, maledetto!

Protestai, raccogliendo il mio asciugamano e avvolgendolo addosso, prima di uscire dalla vasca.

Quando l’ebbi fatto, sincerandomi che Damien Warren fosse sparito dalla mia vista, sospirai.

- Razza di maleducato… e io che sono stata così gentile con lui…

- Sei stata gentile?

Domandò, mi voltai verso di lui. Sobbalzai, tenendo stretto l’asciugamano intorno a me, quando vidi quel ragazzo, con indosso l’asciugamano a sua volta, affacciarsi da dietro al muro. Anche se lo detestavo, avevo sempre ammesso che era un gran bel ragazzo, non mi ricredetti nemmeno questa volta. I capelli scuri, scompigliati, gli incorniciavano il viso, negli occhi verdi c’era un’aria di sfida, così come nelle labbra che disegnavano un ghigno. L’acqua e il vapore avevano lasciato sulla sua pelle di porcellana delle minuscole gocce che scendevano lungo il petto, gli addominali perfetti, fino all’asciugamano che lo copriva fino al ginocchio. Arrossii, vergognandomi come una matta di quella situazione, io che non avevo mai nemmeno visto Evan in quel modo. Lui se ne accorse.

- Fa’ vedere le mani.

Mi disse e lo guardai imbarazzata.

- No…

- Perché?

Domandò stupito al mio rifiuto.

- Se lo faccio l’asciugamano mi cade di dosso.

- Allora solo una, ti dimostrerò che hai le mani palmate.

A quel punto lo guardai di sottecchi, tendendogli restia la mano. Lui scrutò il mio palmo attentamente, poi mi mostrò la sua mano. Era grande, ma ben curata.

- Palmate, sono uguali.

- Si può sapere perché per te è tanto importante dimostrare una sciocchezza simile?

Gli chiesi, osservando il suo palmo e poi il mio.

- Perché ho bisogno di credere che sono davvero in questo luogo e che non sto sognando.

- E credi che sia un buon modo?

Mi guardò per qualche istante, cercando di decifrare la mia espressione. La sua non era più un ghigno.

- Non lo so, ma aiuta.

- Contento tu.

- Aurore?

- Sì?

- Pace?

Domandò, tendendomi la mano.

Quel ragazzo mi stupiva ogni momento che passava, al punto che cominciai ad aggiungere prove al fatto che potesse soffrire di qualche disturbo della personalità. Sospirai, poi gli presi la mano, stringendola nella mia. Erano della stessa temperatura.

- Pace.

Dissi, acconsentendo. Eravamo i soli che si capivano in quel mondo, avremmo dovuto imparare a collaborare, l’aveva riconosciuto prima di me. Guardai il suo viso, non c’era sorriso, la sua espressione era tornata la solita, neutrale. Chissà a cosa stava pensando veramente.

- Ci vediamo a cena.

- Ok.

Conclusi, allontanandoci poi in direzioni opposte.

Quando mi apprestai ad uscire, Milene mi stava aspettando. Mi mise sulle spalle un mantello molto largo e piuttosto caldo.

- Il bagno è stato di vostro gradimento, Milady?

- Sì, molto rilassante, era la prima volta che ne facevo uno così.

Le confermai, sistemandolo.

- I vostri abiti sono già stati preparati, se volete seguirmi, vi riaccompagno nelle vostre stanze.

- Grazie.

Dissi, seguendola. Pochi momenti e vidi un ragazzo dai capelli color nocciola, sembrava avere su per giù la mia età e reggeva tra le mani un mantello simile al mio. Ci riservò una breve occhiata, inchinandosi, poi proseguì verso la sala da bagno. Supponevo di sapere cosa ne dovesse fare.

- Chi è quel ragazzo, Milene?

- Intendete Hiram? E’ mio fratello maggiore, Milady.

- Tuo fratello maggiore?

Domandai, giocando con il braccialetto. Loro erano così vicini…

- Sì. Siamo entrambi al servizio di Lady Amber.

- Capisco… sai, Milene… anch’io ho un fratello maggiore…

- Davvero?

Mi chiese, incuriosita.

- Proprio così, si chiama Evan.

- Non è il ragazzo che è con voi, vero?

- No, non lo è…

Dissi tristemente, guardando davanti a me la scalinata che ci attendeva.

- Perdonate la mia curiosità, Milady!

Esclamò, inchinandosi.

- Va tutto bene, tranquilla. E’ bello poter scambiare quattro chiacchiere, no?

- Ecco…

Mormorò, nuovamente in difficoltà.

- Scusami, prometto che starò al mio posto e non mi comporterò in modo inappropriato.

Le dissi, sperando che questo bastasse a risollevarle il morale. Non so se ci riuscii, ma vidi un breve cenno e riprendemmo il tragitto.

Una volta in camera, mi comunicò di aver sistemato i miei vestiti, poi andò via.

- Grazie…

Sussurrai, chiudendo la pesante porta. Chissà se a Damien era andata meglio, anche se i due fratelli sembravano poco loquaci. Eppure, mi riusciva difficile credere che Amber fosse dispotica. Certo, era autoritaria, ma sembrava ben disposta verso il suo seguito. Per quanto mi riguardava, scelsi degli abiti quanto più sobri possibile, non volevo indispettire Sybille, già la sua faccia nel vedermi esprimeva perplessità pura.

Dopo essermi cambiata, mi avvicinai alla finestra, era ancora più buio di quando eravamo arrivati, la notte era quella che avevo sognato durante il viaggio. Aprii la porta, c’era una grande balconata con vista sui giardini della residenza, era un bel panorama. Ad illuminare il viale, tracciando la strada, c’erano anche dei faretti che prima non avevo notato. Seguii con lo sguardo il sentiero, era molto lungo, al punto da confondersi con la vegetazione che nella notte più scura, appariva confusa, ma affascinante. Annusai i profumi delicati dell’estate, erano profumi di fiori notturni, mi piacevano. E poi, nell’angolo sempre vigile del mio cuore, sperai che coloro che amavo fossero al sicuro così come lo ero io in quel momento. Rimasi a rimuginare a lungo, con le braccia incrociate, appoggiate sulla balaustra, fino a quando non sentii bussare nuovamente alla porta.

- Avanti!

Esclamai, senza scostarmi.

La porta si aprì.

- Aurore, è permesso?

La voce di Lady Amber risuonò squillante.  

- Lady Amber?

Chiesi, voltandomi a guardare la ragazza all’interno della stanza. Presa contropiede, senza sapere cosa fare, abbozzai un malriuscito inchino. I giorni passati con Shemar non mi erano stati poi così utili quanto all’imparare il rispetto del portamento. A suo onore, dovevo ammettere che Amber non ci fece caso, o molto più probabilmente, non volle farci caso.

- Stai osservando il panorama?

- Sì, è molto bello…

Ammisi, ricomponendomi.

- Un tempo era molto più bello

- Non lo metto in dubbio. Ho visto il dipinto sul muro della sala da bagno.

Sorrise, poi mi raggiunse.

- Sono passati così tanti anni da allora, ma mi sembra di vedere la luce in questo mondo ogni volta che osservo quel dipinto.

Confessò, osservando a sua volta il panorama.

Era molto bella, aveva cambiato l’abito, stavolta indossava un vestito stile impero di seta celeste, fermato sotto il seno da una fascia poco più scura. I capelli biondi erano raccolti in una elegante treccia, tutta la sua figura era quasi eterea.

- Fu mia madre a chiedere che quel dipinto fosse realizzato. A quel tempo, questa era la residenza estiva della mia famiglia, ma eravamo mia madre e io, con a seguito parte del personale, a venirci. Gli impegni tenevano mio padre lontano, nella capitale e così trascorrevamo molto tempo da sole. Ovviamente, come Sybille ti ha fatto notare al vostro arrivo, c’era sempre via vai, davamo delle feste, era molto piacevole, ma sentivo la mancanza di mio padre, nonostante tutto.

Continuai a osservarla mentre mi raccontava quelle parole, rispecchiandomi, per certi versi. Anch’io, come lei, sentivo la mancanza di mio padre…

- Posso darvi del tu, Amber?

Si voltò a guardami, poi annuì.

- Sembra che siamo quasi coetanee, vero?

Mi chiese.

- In realtà credo che tu sia un po’ più grande di me.

Osservai, in leggero imbarazzo.

- Non di troppo, credimi.

Mi disse, poi si mise a ridere. Io la seguii, sebbene non vi fosse un motivo particolare, soltanto un momento d’intesa. Ne fui contenta, poi la guardai.

- Com’è vivere qui?

Ricambiò il mio sguardo con stupore dapprima, poi sospirò.

- Impegnativo. Al momento è così. Sai, Aurore… una volta era più facile, ma chi possiede il potere di comandare, ha una responsabilità immane. Una volta, credevo che il lavoro di mio padre fosse a suo modo interessante, per quanto fosse sempre lontano da noi. Sia lui, che i nobili di Shelton godevano di prestigio e questo ai miei occhi lo rendeva incredibile, un modello da seguire. Ma a quel tempo non conoscevo l’altra faccia della moneta. Ero piccola, ingenua, vivevo nella spensieratezza che il mio titolo mi consentiva. Oggi, in quanto custode dell’ambra e legittima erede del casato Trenchard, posso affermare con sufficiente certezza che si tratta di una responsabilità unica, a volte impossibile da sopportare.

- Sei molto giovane, del resto…

- Proprio per questo devo guardarmi le spalle. In un certo senso, sono l’anello debole della catena. I nobili, e non soltanto quelli di Shelton, mi stanno col fiato sul collo, pronti ad approfittare di un mio errore per estromettermi dai giochi, ma se ci riuscissero perderei la possibilità di portare avanti i sogni della mia famiglia e le speranze della mia gente e di quella dell’Underworld, finirebbero per crollare. Immagina la mia vita come un castello di sabbia. Sto cercando di rafforzarlo, quanto più possibile.

Non capivo molto di quel discorso, ma Shemar ci aveva già parlato del sistema di potere dell’Underworld. Un impero basato su territori governati da oligarchie che eleggevano il Despota. Una ragazza così giovane portava sulle sue spalle il peso di un nome importante e delle speranze del suo popolo. Era un compito gravoso per chiunque.

- Non so molto a riguardo, Shemar ci ha accennato qualcosa, ma per me è tutto completamente nuovo.

- Lo immaginavo. E invece, il tuo mondo com’è?

Mi chiese, cambiando tono.

Sorrisi a quella strana domanda, descrivere il mio mondo era qualcosa che neanche con la più fervida fantasia avrei mai pensato di dover fare.

- Strano. E’ molto caotico, qui almeno è tranquillo.

Riflettè sul senso delle mie bizzarre parole, pensai che con tutta probabilità non avevo reso l’idea.

- Dovresti vedere la capitale allora.

Sorrise, poi tornò dentro.

- Allora, andiamo? Sybille diventa irascibile se tutto non è fatto secondo i tempi.

- Arrivo!

Esclamai, raggiungendola.

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Capitolo 16
*** VII. 3 parte ***


Buonasera! >__< Ecco la continuazione del capitolo! Mi spiace aggiornare col contagocce, ma ho tantissimo da fare... ç___ç Comunque, spero di leggere qualche parere, mi farebbe piacere sapere cosa vi sembra dei personaggi e della piega degli eventi!! >______< In ogni caso, grazie per le visite!!

Buona lettura!!

 

 

 

 

Raggiungemmo uno dei saloni della residenza, illuminato da due grandi lampadari formati da candele e diamanti pendenti che conferivano alla stanza una luminescenza particolare. Sulle mura rivestite osservai degli splendidi arabeschi risalire lungo le pareti, intervallati da quadri con cornici d’oro. C’erano tende in seta lucente, molto sottili che ondeggiavano sulle finestre aperte, e proprio come nel resto della villa, molti fiori. C’era anche una lunga tavolata apparecchiata per quattro, con una tovaglia in lino, bordata con motivi floreali e un bellissimo candelabro d’oro a tre punte. Era tutto come nei miei sogni di bambina. Poi, vicino alla finestra, vidi Damien conversare con un uomo voltato di spalle. Non lo riconobbi subito a causa dei capelli sciolti, che ricadevano in onde fluenti sulle spalle e per via degli abiti, molto diversi da quelli che ormai mi ero abituata a vedere. Si voltarono verso di noi, al nostro arrivo. L’uomo sorrise, rivolgendoci uno sguardo gentile con i meravigliosi occhi ambrati, finalmente rilassati. Poi ci raggiunse, inchinandosi.

- My Ladies.

Spogliato dell’impermeabile nero, Shemar sembrava un nobile in tutto e per tutto. Indossava un completo scuro che ne metteva in risalto l’eleganza, richiamava un tight, sebbene fosse poco più corto. Quando si rialzò, notai sul risvolto sinistro della camicia beige che indossava sotto la giacca, un giglio dorato, il sigillo dei Trenchard che non l’abbandonava mai, simbolo di assoluta devozione alla famiglia di Amber. Era più affascinante senza l’impermeabile, tanto che non potei guardarlo senza arrossire. Se ne accorse, ma non fece commenti in merito.

- E’ bello rivedervi, signorina Aurore. Vi siete ambientata?

- Sembra di sì, grazie…

Dissi.

Amber mi guardò con la coda dell’occhio, poi si rivolse a Damien, che era rimasto ancora davanti alla finestra.

- Quegli abiti sono di tuo gradimento?

- Abbastanza, anche se non fanno parte del mio guardaroba. Purtroppo non ho fatto in tempo a preparare dei bagagli.

Rispose, avvicinandosi.

Lo osservai, stupendomi ancora di più di quanto avevo fatto pochi istanti prima per Shemar. Damien indossava un gilet nero, bordato da intagli ornamentali verde scuro su una camicia con maniche larghe, strette in dei polsini fermati da bottoni argentati. In coordinato con il gilet, aveva indosso dei pantaloni stretti infilati in degli stivali scuri. Se avesse avuto i capelli più lunghi e legati, sarebbe potuto passare tranquillamente per un nobile di quel mondo.

- Sembri uscito da una recita…

Osservai con un stupore.

Non si scompose, sebbene credo che non fosse il commento che si aspettava. Mi rivolse un’occhiata distaccata.

- Beh, dopotutto sono stato protagonista di recite sin dal primo anno di liceo.

Disse e ricordai le tre ragazze che in biblioteca parlavano della recita che aveva finito col consumare tutto il budget scolastico dell’anno prima.

- Recite scolastiche?

Chiese Amber, interessata.

- Sì, la nostra scuola ha vinto anche dei premi per questo. Rientra nelle usanze di fine anno per gli intermedi, mentre per l’ultimo, solitamente si dà un ballo.

- Un ballo?

Chiesi stavolta, non mi era mai capitato di parteciparci.

- Non lo sapevi?

Domandò lui.

- Ovviamente no. Ho viaggiato molto, ma non sono ancora all’ultimo anno.

- Avrei dovuto immaginarlo.

- Avresti, sì.

Lo guardai di sottecchi, ma in qualche modo aveva ragione. Evan però, non mi aveva mai nemmeno parlato di cose simili, penso che non gli interessassero. Un gran ballo, abiti eleganti, l’orchidea al polso, un cavaliere che ti scortava… chissà perché nel pensarci immaginavo proprio i miei due benefattori. Guardai proprio loro, Amber e Shemar, ma soltanto lei mi sembrava interessata a conoscere quel tipo di usanza. Forse Shemar, più abituato al lavoro sporco, non era poi così avvezzo a queste cose. A sorpresa, però, fu proprio lui a riprendere il discorso.

- E’ molto tempo che non vi partecipiamo, vero, Amber?

Chiese, con un tono insolitamente colloquiale verso la sua signora. Lei annuì.

- Non capitano spesso, del resto. L’ultimo invito risale a circa cinque anni fa… eravamo i più giovani, ricordi?

- Certo. Ma più di questo ricordo che tu non facevi altro che pestarmi i piedi.

Touchée per Amber.

- Da quando vi date del tu?

Chiesi.

Amber gli rivolse uno sguardo impietoso, poi si voltò verso di me.

- Ci sono molte cose che non sai su noi due, Aurore.

Ammise candidamente.

Intanto, i due fratelli, Milene e Hiram, entrarono in sala spingendo dei carrelli. La cena era pronta.

Li osservai attentamente, erano molto simili, con gli stessi capelli color nocciola e gli occhi chiari. Anche gli atteggiamenti erano comuni, ma mentre Milene tendeva alla timidezza, Hiram sembrava più sicuro di sé.

- Prendiamo posto?

Domandò Shemar e mentre annuivo, un dubbio mi si insinuò nella mente. Quando Violet gli aveva proposto di assaggiare i biscotti, aveva detto che non capiva i gusti tipicamente umani. Questa osservazione, unita al fatto che non si fosse nutrito per tutto il tempo che era rimasto nel nostro mondo, mi fece impallidire.

- Che cosa… c’è sotto quelle campane?

Chiesi sconvolta, nel guardare i coperchi che proteggevano le pietanze.

Damien mi guardò.

- Sei impazzita?

Mi voltai meccanicamente verso di lui, poi sotto lo sguardo dubbioso dei presenti, lo tirai per la manica verso la porta.

- Che stai facendo?!

Protestò, io mi scusai, poi gli bisbigliai all’orecchio.

- Questi non mangiano cibi umani, sai che vuol dire?!

- Ti ha dato di volta il cervello con questa domanda?

- Affatto! Potrebbe esserci qualunque cosa là sotto! Pensaci un attimo… Shemar non ha mangiato niente, non gli piacciono i nostri cibi, cosa pensi che ci sia in quei piatti?!

- Perché non glielo chiedi?

- Perché sarebbe da maleducati!

- E trascinarmi in un angolo parlandomi all’orecchio mentre quei due ci osservano ti sembra normale?

Strinsi più forte la presa, aveva ragione, ma il problema era serio.

- E se ci fosse carne di qualche strano animale mitologico? O di serpente, peggio ancora! O uno scorpione, larve… sento di stare per vomitare…

- Non sul mio vestito.

Si lamentò, scostandosi.

- In ogni caso, ci sono Paesi nel mondo dove sono prelibatezze.

- Non lo metto in dubbio, ma non potrei mai mangiarle!

- Allora non mangiare.

- E se ci fossero esseri umani? Magari sono dei cannibali?! Shemar non ha detto no quando gli ho chiesto se lo fosse o meno!

- Tu guardi troppa televisione.

Mi disse, per poi tornare da Amber e Shemar scusandosi del siparietto.

Intanto, nel mio infervorato sfogo, non mi ero accorta che Milene aveva sollevato i coperchi. Un profumo delizioso si sprigionò nell’aria, ma non era niente di macabro, almeno in apparenza.

Ero rimasta nell’angolo, ma Amber aveva capito il motivo del mio disagio, così fece chiamare Sybille che arrivò dopo poco. Le cucine dovevano essere vicine al salone.

- Che succede?

Domandò.

- Sybille, ti spiacerebbe esporre ai nostri ospiti il menu della cena?

Chiese.

- Affatto, anche se le mie ricette sono un segreto di famiglia.

Rise.

- Ma a qualcuno dovrò pur tramandarle, no?

Dopodichè, mentre tutti prendevano posto e Damien mi trascinò di peso a tavola, Milene e Hiram ci servirono, mentre Sybille declamava passo per passo il suo menu. Probabilmente, nel nostro mondo, sarebbe potuta essere una grande chef, maestra d’alta cucina e candidata a premi, ma nell’Underworld, in quel momento, era la cuoca e governante della villa Trenchard. Quella sera, il menu prevedeva carpaccio di cinghiale in salsa rosa (sapevo che solitamente era ricavata da un certo tipo di pepe, ma in questo caso, ci spiegò che si trattava si salsa di frutti di bosco, che a suo dire addolcivano quel tipo di carne), contorno di verdure miste e per dolce, una sorta di torta alla frutta, che a prima vista non riuscii a riconoscere, ma dal sapore mi parve esotica. Dovevo ammetterlo, era tutto davvero squisito, persino la carne, che normalmente era immangiabile, aveva un buonissimo sapore e non era nemmeno particolarmente dura. A ripensarci, non so se fu la fame a farmi trovare tutto molto squisito, ma nemmeno Damien protestò per quella cena, anzi, la gustò con piacere. Mentre ero alle prese con la frutta, mi rivolsi a Shemar, impegnato a scontornare il piatto.

- Si può sapere perché hai detto che non capisci il sapore dei cibi umani?

Chiesi.

Sollevò lo sguardo verso di me, prima di quel momento, aveva parlato soltanto Sybille. La sua risposta fu singolare.

- Perché non hanno niente a che vedere con questo tipo di cucina. Ho visto molta gente mangiare pani ripieni dall’odore troppo forte e dei pani circolari molto grandi conditi con strane salse, tutte pietanze che non ho mai mangiato in vita mia.

Sbattei più volte le palpebre nell’ascoltare quella strampalata spiegazione. Non soltanto Shemar non conosceva un accidente del modo di mangiare che avevamo nel nostro mondo, in più aveva sacrilegato i panini e la pizza, cibi re della nostra alimentazione. Guardai Damien, che continuava a mangiare imperterrito. Sembrava avere a che fare con una fetta d’ananas.

- Hai sentito?

- Ovviamente sì.

Rispose, mangiando il pezzo di frutta e gustandolo.

- Tu non mi sei proprio d’aiuto…

Bofonchiai. Poi tornai a guardare Shemar, che ricambiò.

- Panini, pizza. Cibi umani.

- Sono dunque i loro nomi?

- Non li ho mai mangiati nemmeno io…

Intervenne Amber, posando un bicchiere di vino rosso molto più dolce del normale. Un vino fruttato, aveva detto Sybille.

- Un giorno li assaggerai, Amber!

Esclamai, lei mi guardò incuriosita.

- Potrei insegnare a Sybille a prepararli… oppure potresti venire nel nostro mondo e mangiarli tu stessa!

- Ma se non sei nemmeno capace di preparare dei bigné…

S’intromise Damien, sorseggiando dal suo calice.

Gli pestai il piede, tanto il solo ad accorgersene sarebbe stato lui. Mi guardò con la coda dell’occhio, emanava onde negative. Se gli sguardi avessero potuto uccidere a quest’ora sarei già stata sottoterra, ma replicai a quello sguardo con una linguaccia che fece stupire i nostri commensali. Amber si mise a ridere, poi sospirò.

- Voi due andate davvero d’accordo.

Disse con un tono divertito.

- Niente affatto. E’ soltanto reciproca sopportazione per un bene comune. In realtà lei non mi sopporta.

Disse Damien, indicandomi.

- Cafone, non si indicano le persone.

Controbattei, ruotando il tallone sul suo piede.

- Smettila.

Mi disse.

- Dopo che avrai smesso tu.

Abbassò la mano, io mollai la presa. Momento di tregua, stavamo dando una pessima impressione ai nostri interlocutori.

- Scusateci.

Dissi, per poi finire la mia cena. Mi sentivo piena e soddisfatta. Ma mancava ancora qualcosa.

- Amber, non appena sarà possibile, potremmo parlare del motivo per cui siamo qui?

Chiesi, attirando l’attenzione di tutti.

- In realtà, Shemar me ne ha già parlato mentre voi eravate nella sala da bagno.

Rispose, mentre io sussultai, arrossendo all’istante al ricordo. Eravamo stati piuttosto incauti. Non osai però incrociare lo sguardo di Damien in quel momento.

- Quindi… sai già cos’è successo…

- Sì, e sono estremamente dispiaciuta per ciò che è accaduto.

Disse, posando le mani sul tavolo.

- Come pensate di agire?

Domandò poi.

- Io vorrei cercare il mio fratellino, Jamie.

Disse Damien, la voce improvvisamente tornata fredda e preoccupata.

- Capisco… e tu, Aurore?

- Io vorrei trovare mia madre… e mio fratello Evan…

Pronunciai quel secondo nome con tutta la tristezza che sentivo, guardando il braccialetto al mio polso.

- Ti andrebbe di venire con me?

Chiese, i suoi grandi occhi ambrati nei miei d’ametista.

- Dove?

Domandai.

- C’è qualcosa che vorrei mostrarti.

- Amber.

Shemar le fece cenno di no, ma era troppo tardi, aveva già catturato la mia attenzione.

- Va bene.

Dissi alzandomi.

- Signorina…

- Va bene, Shemar.

Non rispose, ma guardò Amber.

- Lascia fare a me per una volta.

Disse, poi si alzò a sua volta e mi raggiunse, facendo strada.

- Noi abbiamo finito per questa sera. Domattina concorderemo il da farsi. Buonanotte.

Concluse, allontanandosi.

Mi voltai verso Damien e Shemar, augurando la buonanotte anche a loro, poi seguii Amber. Troppo presto per vedere una qualsiasi espressione sui loro volti. Troppo tardi per rinunciare.

Amber mi portò al piano superiore, dove c’erano le stanze da letto, ma non proseguì in direzione della mia, al contrario si recò verso l’ultima stanza, sulla cui porta erano incisi dei gigli dorati, il sigillo dei Trenchard, ancora una volta.

- E’ la tua stanza?

Chiesi, mentre si fermava davanti al portone, posando la mano nivea sul legno liscio e bianchissimo.

- No.

Disse, il suo tono era diventato serio.

- E di chi è?

- Di mia madre. E’ tutto ciò che mi rimane di lei.

Sobbalzai. Mi aveva detto che quella era la residenza estiva, dove lei e sua madre trascorrevano gran parte del loro tempo, lontane dalla capitale di Shelton, ma le sue parole avevano qualcosa di malinconico.

- Amber, tutto bene?

- Sì, è soltanto che non mi piace venire qui. Avevo ordinato che la porta fosse chiusa per sempre qualche anno fa. Il ricordo si faceva sentire ogni volta che mi fermavo qui davanti come se fosse aperta, e ho capito che era inutile. In realtà è il solo modo che ho per sentirla davvero vicina.

- Non capisco, che vuoi dire?

Non rispose subito, ma si allontanò verso un comodino dirimpetto, raccogliendo dal cassetto una chiave d’ottone, poi aprì la porta, spalancando le ante possenti. Non vidi nulla, era tutto buio, le finestre non venivano aperte da chissà quanto tempo e nemmeno la luce delle candele sul muro del corridoio era d’aiuto. Amber esitò per qualche istante, poi entrò, accendendo delle lanterne all’interno della stanza. Entrai anch’io non appena ebbe finito, ma quello che vidi mi rimase impresso per sempre. Senza nemmeno riuscire a rendermene conto, mi sentii mancare le forze, il respiro mi si mozzò in gola e dovetti appoggiarmi alla porta per non cadere.

- Oddio, Amber…

Riuscii a farfugliare, confusa.

La stanza da letto di sua madre, meravigliosa nella sua eleganza barocca, era attraversata da solchi neri profondi nel pavimento che esplodevano in diramazioni disordinate sul muro.

Amber si avvicinò, sedendosi sul letto e seguendoli con le dita in una muta carezza.

- Non ho visto niente. Quel giorno avevo chiesto a Sybille di poterla accompagnare a fare compere e aveva acconsentito. Ero molto capricciosa allora. Mia madre mi chiese di portarle dei fiori, mi avrebbe preparato una coroncina, era molto brava a realizzarle… quando tornammo, era tutto molto… molto pulito…

- Le guardie imperiali…

Sussurrai, mentre i miei occhi si velavano di lacrime al pensiero di quello che era accaduto. Tutto così simile a quello che avevo visto nella sala della Porta di Pietra

- Sei sicura… che sia lei?

Domandai, cercando di spiegarmi qualcosa che era fin troppo evidente.

- Le guardie della Croix du Lac eseguono ciecamente gli ordini. Non eliminano coloro che non sono destinati all’eliminazione, salvo che non diventino un ostacolo al compimento del piano. Mia madre era il bersaglio, così come lo era mio padre, così come lo erano i nobili accusati di aver cospirato contro l’Impero. Sai, quando arrivai, la servitù era stata risparmiata… lessi l’accaduto negli occhi di Milene e di Hiram, che a quel tempo erano ancora più piccoli di me che ero una ragazzina… e Shemar ha visto con i suoi occhi le guardie sterminare la sua famiglia… quindi non ho motivo di dubitare di quello che è accaduto… non l’ho fatto allora, non lo faccio adesso né lo farò mai.

Mentre parlava, continuava ad accarezzare dolcemente quei solchi, quasi a voler coccolare la mamma che non c’era più.

- Da allora, ogni anno, per il giorno dell’anniversario, cerco di intrecciare una coroncina di fiori, ma finora non ci sono mai riuscita… sembra che io sia negata per queste cose…

Sorrise tristemente la ragazza.

Non so cosa mi prese in quel momento, ma mi sentii completamente avvinta dai miei sentimenti e mandai al diavolo persino l’essere in presenza di una giovane nobile di quel mondo di dolore. Corsi ad abbracciarla, istintivamente, piangendo, lasciando che le lacrime lavassero via tutte le incertezze. Non avevo capito, all’inizio, perché Amber avesse voluto portarmi in quella stanza, a vedere la morte in faccia, sfidando quel dolore che per lei doveva essere insopportabile. Poi, le sue parole mi avevano aperto gli occhi. Evan, il mio Evan, il mio adorato fratello, probabilmente si era opposto, aveva lottato per proteggere la mamma, ma aveva perso. Quale che fosse la verità, Amber mi stava chiedendo di accettare ciò che i miei sogni mi avevano già rivelato: Evan era morto, avrei dovuto imparare a convivere con questo dolore… a nutrirmi del ricordo, ad andare avanti mantenendolo sempre vivo in me. Se soltanto non fossi scappata, quel pomeriggio, se fossi rimasta accettando le conseguenze del mio comportamento egoista, forse a quest’ora anch’io sarei morta o forse ci saremmo salvati tutti e non mi sarei mai trovata nell’Underworld, chi lo sa. C’erano troppi forse nella mia vita, ma in quel momento, la sola certezza che avevo era che dovevo fare di Evan la mia forza più grande, per combattere, per ricordare a me stessa che mio fratello era vivo dentro di me e che mi avrebbe aiutata a trovare una ragione valida per non perdere di vista ciò che per noi era importante: salvare la mamma.

Mi resi conto di quanto Amber e io fossimo simili… entrambe avevamo perso le nostre famiglie, entrambe non avevamo avuto tempo di dire loro parole scontate, retoriche, ma importanti sopra ogni cosa. Mi tenne stretta sopportando il mio pianto, mi accarezzò i capelli, come una sorella maggiore, cullando con mormorii silenziosi la mia anima in pena. Vidi lei, bambina, piangere disperata, mi rividi in quella ragazzina, e poi vidi Sybille coccolarla così come lei stava facendo con me, e capii che non era rimasta sola. Non so quanto tempo rimasi così, ma quando finalmente smisi di piangere, mi sentii meglio, più tranquilla. Amber aveva capito di cosa avessi bisogno, ed era qualcosa che né Shemar né Damien avrebbero potuto darmi. Noi condividevamo un destino.

- Grazie, Amber…

Dissi, tirandomi su e asciugando le ultime lacrime.

- Va meglio, vero?

Mi chiese, dolce.

- Adesso sì…

Confidai, respirando. Ero rimasta in apnea.

- Mi spiace averti messa davanti a questa situazione… Shemar mi ha detto di tuo fratello, e credimi, capisco come ti senti.

- Non ne dubito…

Mi strinse le mani, guardandomi. Le sue mani erano molto fredde, come quelle di tutti gli abitanti di quel mondo senza luce, ma ormai ci ero abituata.

- Potrai contare sempre su di me, Aurore.

- Grazie…

Sorrisi, era bello sentire quelle parole, ne avevo bisogno.

- Ma verranno giorni in cui maledirai il momento in cui hai deciso di varcare quella soglia… voglio essere sincera fino all’ultimo con te. La mia famiglia e quella di Shemar sono state sterminate per tradimento. Non vi fu nemmeno un processo, fu emesso l’ordine senza che potessero difendersi. Furono i primi di una lunga serie di delitti, che finì col decapitare totalmente i precedenti capifamiglia. Non abbiamo mai saputo quale fosse la vera ragione di tutto questo, a quel tempo, eravamo ragazzini… cominciò circa diciassette anni fa, quando vi fu la grande ribellione.

La grande ribellione… il professor Warren mi aveva già parlato di questo…

- E’ stata causata da un uomo, non è così?

Amber mi scrutò con attenzione.

- Non sei poi così a digiuno, vedo.

- In realtà, è stato il professor Warren a parlarmene, mi ha accennato qualcosa…

- Non fidarti dei Warrenheim, non sono affidabili.

- Lo so.

Replicai.

- L’ho già sperimentato di persona.

- Mi dispiace.

- Tutto ok.

- Cosa ti ha detto?

- Nulla di utile per capire qualcosa in più. Mi ha soltanto accennato a questa storia.

- Meglio così. Vedi, circolano molte leggende su quello che è accaduto, e in realtà, nessuno a parte coloro che sono morti conosce la verità assoluta, sempre ammesso che lo sia. I sopravvissuti furono resi innocui, a cominciare dai nostri stessi sacerdoti. Noi veneriamo la Croix du Lac, che dà prosperità e vita al nostro mondo, ma da quella volta, ne abbiamo perso il favore. Tuttavia, continua a far sì che questo mondo viva, e puoi vederlo dalla vegetazione lussureggiante nonostante l’assenza di luce naturale. Ovviamente, per far sì che questo duri, abbiamo creato dei sistemi di illuminazione artificiale, mentre l’acqua, grazie al sistema di canali che attraversa l’intero territorio, non manca mai.

- Sì, Shemar ce l’ha detto… ma c’è una cosa che non capisco… la Croix du Lac… che cos’è?

Chiesi, sperando di riuscire a interpretare così la visione del mio sogno in cui riuscivo a vederla all’interno della grande fontana.

- Nessuno lo sa con precisione. C’è chi dice che sia un’entità, ma nessuno a parte il Despota l’ha mai vista, nemmeno i più alti sacerdoti. Personalmente, ritengo che quale che sia la sua natura, si  tratti di un essere malvagio.

- Perché lo pensi?

Domandai stupita. In fondo la Croix du Lac aveva dato la vita a quel mondo.

- Se fossi al mio posto cosa penseresti di ciò che ha reso questo mondo quello che è ora?

Riflettei su quelle parole, aveva ragione, ma c’era di più.

- La colpa non è forse dell’uomo che ha scaraventato questo mondo nell’oscurità?

Rimase in silenzio per qualche istante, poi sialzò dal letto e andò verso la finestra, scostando la tenda. Non c’era alcuna luce fuori di lì, l’Underworld era piombato nella notte più nera.

- Una sola persona avrebbe davvero potuto fare tutto questo? Me lo sono domandata spesso, quando ho cominciato a cercare la verità. Sai, credo che le leggende, in fin dei conti abbiano un fondo di verità, ma la verità può essere multiforme, e questa versione potrebbe essere soltanto una faccia.

- Non credo…

Intervenni, raggiungendola.

- La verità non è multiforme. E’ lì, in attesa di essere rivelata, ma può essere nascosta… sta a noi scoprirla.

Amber sorrise.

- E’ un’osservazione interessante, ma empirica. Aurore, i giochi della politica sono molto più complessi… nel momento in cui ho ereditato il casato Trenchard, quando ho ereditato il giglio ambrato, sono entrata in un mondo di cui non conoscevo nulla. Vivo in mezzo agli intrighi, ma non posso sottrarmene di mia spontanea volontà. La verità in questo mondo è soggetta alla volontà della cerchia di nobili che risiedono ad Adamantio, il cuore pulsante dell’Impero. Io sono soltanto una pedina… ma una pedina pensante.

- Se ti asservissi… non potresti più portare il nome della tua famiglia, vero?

Annuì, i suoi occhi scrutavano seri il buio infinito.

- Finora, con Shemar e alcuni altri nobili che hanno patito il nostro stesso destino, abbiamo messo insieme delle informazioni. Dimmi una cosa. Cosa sai degli oligarchi?

- Shemar ci ha detto che governano ed eleggono il Despota.

Si voltò a guardarmi, poi si allontanò per aprire un piccolo scrigno intagliato sul piano della toeletta. Era rimasto tutto come se la madre di Amber se ne fosse appena servita, probabilmente era anche questo un modo per sentirla vicina.

Mentre raccoglieva il prezioso contenuto, ripensai alla stanza della mamma, così elegante, e sperai che ovunque fosse, fosse trattata col riguardo che meritava. Poi Amber tornò da me, mostrandomi tra i palmi uniti, una splendida collana d’oro dal ciondolo a forma di farfalla. Era luccicante, molto classico, ma quello che mi colpi maggiormente fu il cuore del ciondolo, in cui era incastonato un giglio ambrato. Presi allora la mia catenina, avvicinandola alla sua, e il brillante assunse all’istante una colorazione inequivocabile, quasi come se reagisse e così avvenne per il suo. L’ambra, come la mia ametista.

- E’ bellissimo…

Balbettai, estasiata da quello spettacolo.

- E’ ciò che fa di noi i capifamiglia.

- Cosa?

Chiesi, sollevando lo sguardo verso di lei. Sorrideva.

- I governi oligarchici sono… anzi, sostanzialmente erano basati su un sistema di famiglie governanti. Originariamente, le famiglie erano undici, divise tra i vari territori che formavano l’Underworld. Ma anche all’interno dei singoli territori, tra le famiglie vigeva un legame di vassallaggio, basato sul prestigio maggiore di una famiglia rispetto alle altre e simboleggiato dal sigillo. Questo non diventa così soltanto il simbolo di un casato, ma anche il simbolo dell’intero territorio. Il giglio ambrato, sigillo di Shelton, governato dalle famiglie Trenchard, Zilliacus e Vanbrugh. Il cuore dell’oceano, sigillo di Wiesen, governato dai casati Devereaux e Oliphant. La foglia di smeraldo, sigillo di Dourand, retto dalle famiglie Ealing e Dobrée. La stella cremisi, sigillo di Camryn, governato dalla famiglia Cartwright e infine la lacrima d’ametista, sigillo di Challant, governato dalle famiglie Valdes, Rosenkrantz e Warrenheim.

- Warrenheim? Ma…

- Proprio così. E come ti ho detto prima, Adamantio, il cuore pulsante dell’Impero, è il luogo in cui risiede il Despota, eletto tra i membri delle famiglie. L’ultimo Despota, Ademar Valdes, proveniva da Challant.

Pensai alle parole del professor Warren, al suo insano desiderio di mettere sul trono Jamie. Se l’ultimo Despota apparteneneva a una famiglia di Challant, allora avrebbe potuto facilmente mettere sul trono quel bambino, soprattutto se non fosse stata necessaria un’elezione. Guardai il mio ciondolo, che risplendeva ancora di luce ametista, e pensai al motivo per cui era in mano di mia madre. Poteva forse provenire da Challant? E se così fosse, perchè avrebbe deciso di abbandonare tutto? Amber intuì i miei dubbi e mi dette una pacca sulla spalla.

- Che ne dici di dormirci un po’ sopra?

- Credo di averne davvero bisogno…

Le risposi.

- Domattina, ne riparleremo. Sono sicura che anche Damien lo troverà interessante.

- Credo che a lui non importi poi così tanto di chi è… o chi è suo padre. La sola cosa che desidera è riportare a casa il piccolo Jamie, e lo capisco…

- Spero che accada presto. Farò tutto quanto in mio potere per permetterlo.

- Grazie…

Bisbigliai.

Poi ci congedammo, lasciando quella stanza che aveva fatto da teatro a un momento molto importante per me e per Amber. Feci ritorno nella mia grande camera, così silenziosa, così elegante… e mi lasciai cadere sul letto, tra mille pensieri e una sola certezza: il mio primo giorno di permanenza nell’Underworld era terminato.

 

 

 

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Capitolo 17
*** VIII - Rivelazioni e promesse (1 parte) ***


Buon pomeriggio! >_< Dopo un po'... ecco il nuovo capitolo! >_< Mi spiace di non sentire mai nessuno, ma spero comunque che ai miei silenziosi lettori la storia stia piacendo! >_< Intanto, ne approfitto anche per far gli auguri di buona Pasqua a tutti! :D 

Alla prossima e buona lettura! :)




 

Mi svegliai a causa del rumore di spade che proveniva da fuori. Per qualche istante ebbi la sensazione di essere ancora nel cuore della notte, dal momento che mancava qualsiasi parvenza di luce solare a rischiarare la stanza, tanto che misi la testa sotto i cuscini e cercai di riprendere sonno. Sfortunatamente per me, ai colpi di spada si aggiunsero le urla di Sybille e la voce di Shemar. Evidentemente, anche dormire era un optional per quell’uomo. Riluttante ad alzarmi, provai persino a sprofondare nelle coperte, ma quando si aggiunse il battito di pentole non ce la feci più e mi alzai, correndo ad affacciarmi sul balcone. Il cielo aveva assunto una colorazione più chiara, era sgombro dalle nubi, ma la luce era ugualmente insufficiente a renderlo cielo di giorno. Il sistema d’illuminazione artificiale era attivo più di quando eravamo arrivati, tanto che lo spiazzo sottostante era facilmente visibile. Ancora mezza addormentata, non compresi però immediatamente quello che stava succedendo, nemmeno quando vidi Sybille rientrare, Shemar tornare verso il centro dello spiazzo e Damien farsi avanti per raggiungerlo con una spada in mano.

- Che diavolo stanno facendo quei due?

Mi chiesi, sbadigliando.

Poi, la voce di Shemar sembrò quasi rispondermi.

- In guardia!

Esclamò sollevando la spada verticalmente fino a farne brillare la punta.

- E’ impazzito?!

Esclamai, sporgendomi dal parapetto.

Damien rispose all’invito, sollevando a sua volta la spada e li vidi correre l’uno verso l’altro determinati a duellare. Erano ufficialmente impazziti. L’ultima volta Shemar l’aveva quasi impalato, come diavolo gli saltava in mente di lanciarsi in un’azione suicida come quella? Preoccupata, osservai la scena che si svolgeva sotto i miei occhi e a sorpresa, Damien Warren si rivelò un discreto spadaccino. Avrei dovuto immaginarlo dato che era figlio di Leonard Warren, anzi, Lionhart Warrenheim, che faceva parte delle guardie imperiali della Croix du Lac. Tuttavia, per quanto discreto potesse essere, avevo la certezza assoluta che non sarebbe stato all’altezza di Shemar Lambert. E così in effetti fu. Inizialmente riusciva a sostenere il ritmo, ma Shemar sembrava essere nato con una spada addosso, tanto che schivava con facilità ogni fendente di Damien e ribatteva, colpo su colpo, costringendolo a indietreggiare. Del canto suo, Damien cercava di controbattere, mantenendo l’equilibrio per quanto possibile, ma non durò molto. Con un veloce scatto, Shemar gli passò alle spalle, tendendo la spada contro la sua schiena. Se avesse voluto, se avesse fatto sul serio, l’avrebbe trafitto. Invece, si limitò a dargli una pacca e a spingerlo in avanti, costringendolo poi a voltarsi. La rabbia negli occhi di Damien era palese. Non era abituato a essere trattato in quel modo, detestava essere umiliato, proprio lui che era il despota della scuola, a cui si doveva obbedienza. Devo ammetterlo, fu quasi divertente vederlo in quelle condizioni, per una volta. Tuttavia, non si arrendeva e ogni volta che cadeva era pronto a rialzarsi e a tornare all’attacco. Quantomeno era caparbio. Probabilmente le parole che Shemar gli aveva rivolto a casa, quando l’aveva riportato svenuto dopo l’attacco da parte delle guardie imperiali aveva fatto scattare in lui una molla che lo spingeva a battersi al meglio delle sue capacità. Il pensiero di Jamie nelle mani del loro padre, quel bambino solo e per giunta ammalato doveva essergli di sprono a dare il massimo, anche se il suo massimo in questo caso, non era sufficiente a contrastare una volta per tutte Shemar.

- In piedi, Warren!

Ordinò, dopo averlo messo nuovamente al tappeto.

Senza protestare, Damien si rialzò, pronto di nuovo all’azione. Io mi godetti la scena fino a che i morsi della fame non si fecero sentire. Mi chiesi per quanto tempo avessi mai potuto dormire, visto che familiarizzare con le ore dell’Underworld era ancora qualcosa che non avevo avuto occasione di fare. Lasciai quei due ai loro allenamenti per andare a vestirmi, poi raggiunsi il salone, apparecchiato per la colazione. Almeno ero in tempo. Fu Hiram ad affacciarsi non appena sentì i miei passi, tanto che ebbi il sospetto di aver camminato in modo troppo pesante, quando vidi la sua faccia indispettita.

- Buongiorno…

Salutai, un po’ incerta sul modo di fare con quel ragazzo taciturno.

- Buongiorno, Milady.

Disse, inchinandosi.

Era simile alla sorella in questo. Ripensai alle parole di Amber… quei due avevano visto coi loro occhi un massacro. Così giovani e così adulti allo stesso tempo, doveva essere un’esistenza davvero dolorosa la loro.

- Milene mi ha detto che ti chiami Hiram… penso che abbiamo la stessa età noi due, sai?

Si limitò a un breve cenno di assenso col capo, poi mi fece accomodare al tavolo.

- Vi porterò subito la colazione.

- Grazie… Amb--    Lady Amber ha già mangiato?

Mentre accennava a rispondere, la voce di Amber rispose alla mia domanda.

- In realtà non ancora.

Mi voltai, aveva appena varcato la soglia. Indossava un abito in lino molto chiaro, quasi bianco. I capelli biondi le ricadevano lungo la schiena, li aveva lasciati sciolti, erano molto belli.

- Buongiorno.

Dissi, ripensando alla sua vicinanza la sera prima. Le sarei stata eternamente grata.

- Buongiorno a te. E anche a te, Hiram.

Sorrise cordiale, mentre Hiram si inchinò davanti alla sua signora, per poi accompagnarla a tavola, dove prese posto.

- Hai dormito bene?

- Come un ghiro, devo dire.

- Mi fa piacere.

- Posso chiederti una cosa?

Domandai, mentre nel frattempo Hiram si allontanava verso le cucine.

- Certamente.

- Shemar fa tutto quel trambusto ogni mattina?

Mi guardò perplessa, poi si mise a ridere.

- Si allena ogni giorno, per migliorare. Sai, suo padre era un eccellente combattente, molto abile con la spada e lui non vuole essere da meno. E poi ora ha trovato un allievo da torturare, quindi credo che si stia divertendo davvero molto.

Sbattei le palpebre, avevano un modo di pensarla davvero bizzarro.

- Pensi che Damien sia in pericolo?

- Se Shemar si facesse prendere la mano non ne dubito, ma a suo onore devo dire che è piuttosto controllato nei suoi comportamenti.

Aveva cercato di uccidere Damien, l’aveva messo k.o. per almeno un paio di volte, era incline a far fuggire la gente terrorizzata e dedito alla guida spericolata dei grifoni… le parole di Amber mi facevano pensare che in realtà conoscesse ben poco del suo cavaliere.

Hiram tornò di lì a poco, servendo la colazione. Sybille aveva preparato dei magnifici biscotti che mi ricordarono gli ultimi che aveva preparato la mamma e per accompagnamento, c’era del the. Inizialmente feci un po’ di fatica a mandare giù quella bevanda a causa del sapore forte, ma dopo un po’ mi abituai, trangugiandolo senza problemi. Amber mi spiegò che era ricavato da alcuni fiori che crescevano nei giardini della residenza.

- Mia madre adora particolarmente il the alle rose, sai?

Le dissi, ripensando al fatto che il professor Warren conoscesse il suo gusto.

- E’ molto delicato, ma preferisco sapori un po’ più forti.

Rispose, sorseggiando.

- Dopo un po’ è buono.

Osservai, posando la mia tazza.

- Shemar e Damien ci raggiungono?

- Credo che abbiano già fatto colazione. Potremmo raggiungerli noi, che ne dici?

- Volentieri!

Esclamai, aspettando che finisse per poter andare. E finì dopo poco, alzandosi e raggiungendomi. Quando uscimmo, scorsi i due fratelli mettersi all’opera per rassettare ogni cosa. Erano molto dediti al lavoro. Amber fece strada ancora una volta, fino a che raggiungemmo lo spiazzo in cui i due si stavano ancora allenando. Shemar non si distrasse nemmeno per un istante, al contrario di Damien che si voltò non appena arrivammo.

- Buong-- 

Accennò a dire, quando un fendente di Shemar lo sfiorò per richiamarne l’attenzione.

- Non distrarti!

Ordinò imperioso.

- Maledetto…

Borbottò Damien, ruotando la sua spada e correndo all’attacco.

Per un attimo ebbi l’impressione che lo stesse facendo per mettersi in mostra, ma dovetti ricredermi. In realtà lo stava facendo proprio perché non sopportava l’essere umiliato. Guardai con la coda dell’occhio Amber che osservava divertita lo scontro tra i due e pensai che quantomeno per solidarietà avrei dovuto fare il tifo per Damien. Oddio, ributtante… l’ultima persona al mondo per cui avrei mai pensato di fare una cosa del genere… feci un enorme respiro e cominciai a saltellare come una scema.

- Mettici più impegno, Warren! Sei moscio!!

I due si fermarono contemporaneamente, voltandosi verso di me con un’espressione molto simile, quasi inorridita.

- Moscio?

Biascicò Damien.

- Signorina Aurore… vi pregherei di non interromperci.

Disse Shemar.

- Scusate, volevo motivare un po’ Damien… insomma, sta facendo una pessima figura…

Mormorai e il despota sollevò il sopracciglio irritato.

- Moscio… pessima figura… perché non provi tu allora?

Domandò seccato.

- Ovviamente perché non sono capace, idiota.

Replicai.

- Allora sta’ zitta e non rompere.

Sussultai, non lo sopportavo quando faceva l’autoritario in quel modo. Poi, Amber si fece avanti.

- Che ne dici se ti sostituissi io?

Chiese a Damien, con un’espressione che avevo già visto negli occhi, quella della sfida. Sembrava molto sicura di sé.

- Non so se sia il caso…

Le rispose, improvvisamente incerto, poi si rivolse a Shemar, che del canto suo, fece un piccolo inchino.

- Se Milady desidera battersi…

Non capivo proprio che razza di rapporto di servaggio esistesse tra quei due. A volte si davano del tu, come vecchi amici, a volte Shemar era mostruosamente formale, era difficile stabilire che ci fosse davvero tra loro. Amber raggiunse Damien, raccogliendone la spada e maneggiandola con facilità. Sembrava a suo agio, la cosa in fondo non mi stupiva dal momento che sapeva cavalcare un grifone. Attese pazientemente che Damien si facesse da parte e si posizionò di fronte a Shemar, che assunse la posa da combattimento.

- En garde!

Esclamò, la voce risuonò squillante nell’aria mattutina della notte eterna.

Shemar le rivolse un sorriso di sfida, poi Amber si lanciò all’attacco, ingaggiando battaglia con Shemar sotto i nostri occhi increduli. La prima cosa che mi lasciò sconvolta fu l’agilità di movimento di Amber che nonostante l’abito lungo era agile e veloce come una gazzella. Shemar poi, non sembrava assolutamente determinato a lasciarla vincere, motivo per cui non sembrava calibrare i colpi come aveva precedentemente fatto con Damien. Era una danza la loro, letale e sensuale allo stesso tempo. Vidi le loro mani intrecciarsi e lasciarsi, le spade brillare, i volti vicini e poi lontani, gli occhi negli occhi, i sorrisi complici e nemici. Quei due, per quanto si potesse dire che erano dama e cavaliere, erano l’immagine vivente della passione.

- Pazzesco…

Commentò Damien, seguendo passo passo le loro evoluzioni.

- Già…

Dissi. Se fossero stati in una sala da ballo, sarebbero stati una coppia meravigliosa.

Shemar affondò un fendente, l’ennesimo, e Amber controbattè con straordinaria forza. Ridevano, divertiti, di quel combattimento. Poi, rapida, si voltò, eseguendo una piroetta e finendo con la nuca appoggiata al petto di Shemar, che lasciò cadere la spada, mentre la punta della spada di Amber era poggiata sulla sua gola nuda.

- Ho vinto.

Bisbigliò la Lady, voltandosi verso di lui e abbassando la spada offensiva.

- Così pare.

Rispose Shemar, raccogliendo la mano di Amber e baciandola in segno di omaggio e resa. Era un saluto così romantico, il cuore mi battè più forte e sorrisi. Per la prima volta in vita mia desiderai di essere baciata in quel modo, ma fui fortunata che nessuno l’avesse capito, sarebbe stato imbarazzante, e sbagliato.

- Siete stati davvero bravi…

Dissi invece, raggiungendoli timidamente. Mi sentivo piuttosto fuori luogo in quel momento. Shemar si allontanò da Amber, che mi guardò.

- Non fa altro che farmi vincere…

- Ti ha fatto vincere?

Chiesi incredula. Non era proprio possibile…

- Lui si diverte a prendermi in giro. E’ piuttosto bravo a fingere, non è così?

Chiese, voltando la testa verso Shemar che non rispose, ma raccolse la sua spada. Non l’avevo notata bene prima di quel momento, ma era riccamente decorata. L’elsa era consumata, come se fosse stata in mano a più persone, quindi dedussi che doveva essere un’eredità familiare e la lama era percorsa in lungo da una serie di intagli scuri.

- Quella spada…

- Appartiene alla mia famiglia, signorina.

Disse, riponendola nel fodero.

- E’ molto bella…

- Grazie.

Disse, raggiungendo Damien.

- Per il momento basta così.

Il suo tono era improvvisamente tornato molto serio. Damien si limitò a un cenno.

- Che ha?

Chiesi ad Amber, un po’ preoccupata di quello strano comportamento.

- Niente, è solo che quella spada è molto importante per lui.

Mi informò, poi lo raggiunse. Non riuscii a sentire niente di quello che si dissero, ma credo che fosse qualcosa di fin troppo personale, non sarebbe stato il caso di ficcanasare oltre. Al contrario, tornai da Damien.

- Sei stanco? Ti sei svegliato presto stamattina…

- Mattina? Ti sembra mattina questa?

Riprese seccamente. Doveva davvero avercela con me.

- Scusa per prima… non volevo offenderti…

Tentai di giustificarmi, ma in realtà da quando eravamo nell’Underworld, ogni passo avanti ne facevamo due indietro sul piano del nostro rapporto.

- Lascia stare, sono soltanto nervoso.

Disse, posandomi una mano in testa e facendomi una carezza sui capelli. Quel gesto… avrebbe potuto fare tutto, trattarmi male, l’avrei accettato. Schiaffeggiarmi, rispondermi volgarmente, avrei accettato anche quello… ma quel gesto era il solo che non potevo accettare. Mi scostai all’istante, leggendo la perplessità nei suoi occhi verdi. Solo Evan e la mamma potevano farlo e io non ero ancora pronta a lasciarlo fare a qualcun altro. Distolsi lo sguardo, biascicando uno “scusa”, poi raggiunsi Amber, maledicendomi per quel mio modo di fare, per averlo lasciato indietro a scusarsi per me.

- Che ne dici di vedere il santuario dell’ambra, Aurore?

Mi chiese Amber, distogliendomi da quel pensiero.  

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Capitolo 18
*** VIII. 2 parte ***


Uuuh, finalmente EFP è tornato al suo posto! >_< Ne approfitto per pubblicare un nuovo pezzo, con le rivelazioni al santuario dell'ambra! >_<<3 Prossimamente, ispirazione permettendo, cercherò di pubblicare anche alcuni disegni dei personaggi! >__< Buona lettura, miei silenziosi amici! <3

 

 

 

 

 

 

Il santuario dell’ambra si trovava all’esterno della residenza Trenchard. Impiegammo oltre due ore per raggiungerlo, o almeno così ci disse Shemar. Non potevamo usare i grifoni, per l’alto rischio di imbatterci nei messi della Croix du Lac. Sarebbe stato un problema, dal momento che se avessero saputo che mi trovavo nell’Underworld avrei automaticamente esposto colei che mi aveva preso sotto la sua tutela, e non potevo essere così sconsiderata da farmi scoprire. Certo, c’era anche la possibilità che il professor Warren avesse spifferato ogni cosa, visto che sembrava piuttosto in confidenza con le alte sfere dell’Impero, ma in quel momento non volevo prendere in considerazione quell’eventualità. Mentre viaggiavamo a bordo di una carrozza, guardavo Damien che osservava pensieroso il paesaggio eternamente notturno. Non era difficile immaginare cosa stesse pensando, ma non conoscevo nessun modo per essergli d’aiuto se non lo stare zitta. Durante il lungo tragitto sui sentieri sconcesi, Amber ci parlò della presenza di santuari dedicati agli amuleti leggendari presenti su tutto il territorio dell’Underworld. Il più importante si trovava ad Adamantio, ed era il luogo in cui risiedeva la Croix du Lac, nel cuore del palazzo imperiale. Tutti gli altri santuari vi facevano capo, e ognuno di essi godeva di prestigio tale da impedire qualunque affronto e attacco esterno, salvo quello degli imperiali, che avevano già in passato operato per rendere inoffensivi coloro che conoscevano la verità. Indugiai sulla collana che aveva al collo, la stessa che mi aveva mostrato la sera prima, il simbolo evidente della sua proprietà. Raccolsi poi il mio ciondolo, che da quando aveva reagito, brillava del colore che meglio conoscevo, l’ametista, come se si fosse risvegliato da un lungo sonno. Chissà se mia madre conosceva tutte queste storie…

- Siamo arrivati.

Ci informò Shemar, alla guida della carrozza, quando il viaggio fu terminato. Ci aiutò a scendere, e la prima cosa che vidi non appena ebbi messo piede a terra, fu la bellezza di quel santuario. Altissime torri svettavano nel cielo notturno, bianchissime, completamente in marmo. L’intera facciata era decorata con vetrate e finestre, ma quello che mi colpì più di ogni cosa fu il giglio ambrato in evidenza sul frontale, in alto, a simboleggiare la magnificenza e la potenza di quel sigillo sacro.

- E’ davvero molto tempo che non vengo qui… suppongo che Lady Octavia mi rimprovererà per questo.

Sospirò Amber, per poi sistemare un leggerissimo e decorato mantello color pesca sulle spalle. Così fece anche Shemar e così anche noi. Si trattava pur sempre di un luogo sacro, occorreva portare rispetto. Sybille aveva scelto personalmente per noi quei mantelli, erano di seta, molto semplici. Il mio era glicine, dello stesso colore del vestito che indossavo, quelli di Shemar e di Damien neri. Per una volta, guardandoli entrambi, mi sembrarono molto simili. Quando varcammo la soglia del santuario, un piacevole profumo incensato mi colpì le narici. L’interno rispecchiava l’esterno, cambiava soltanto la consistenza della pavimentazione, in granito e il gioco di luci donava all’ambiente una meravigliosa sequenza di luci colorate. Per il resto, silenzio e calma celestiale. Avanzammo seguendo Amber che camminava sicura lungo il colonnato centrale, fino a giungere a una nicchia con un altarino. Si inchinò, pregando silenziosamente e noi rimanemmo alle sue spalle.

- La luce che dirada l’oscurità… segui il sentiero che porta alla fonte dell’ambra... qui il giglio riposa…

Qui il giglio riposa… il giglio ambrato.

Ascoltai quelle parole bisbigliate col batticuore. Erano così simili alle parole della canzone… così vicine da sembrare quasi identiche se non fosse per il soggetto che cambiava. Avrei voluto chiederle il motivo, ma quel momento era troppo importante per parlare. Un altro tassello che prendeva forma nella mia mente.  

Nel silenzio rotto soltanto da quelle parole, un secondo rumore, passi. Ci voltammo, una figura esile con indosso un lungo abito color panna con strascico dorato stava venendo verso di noi. Amber si rialzò, oltrepassandoci per accoglierla.

- Lady Octavia, perdonate questa visita improvvisa.

Disse, sorridendo.

La donna ci raggiunse, fermandosi di fronte ad Amber. Era molto bella nonostante i lineamenti scavati che ne indicavano inequivocabilmente l’età. La pelle adamantina, gli occhi fulvi, i capelli ingrigiti raccolti in uno chignon dietro la nuca. Sulla veste, proprio in mezzo al petto, spiccava un giglio ricamato.

- Amber Trenchard?

Chiese, con voce stupita.

-  Sì, signora, sono proprio io.

- Amber… la piccola Amber…

Bisbigliò e dagli occhi fulvi presero a scorrere lacrime.

- Bambina adorata, ho tanto pregato per te!

Esclamò, abbracciandola.

Guardammo la scena con silenziosa commozione, Lady Octavia doveva conoscere Amber da quand’era piccola.

- Vi ho portato un’amica, signora.

Sorrise, senza sciogliere quell’abbraccio e guardando verso di me. L’anziana sollevò il viso, sgranando gli occhi.

- Santi numi…

Pronunciò incredula, tendendo verso di me le dita febbrili.

- Santi numi… l’ametista nelle mani di quella bambina…

Quelle parole mi agitarono, per qualche istante esitai ad avvicinarmi, percepivo una strana sensazione.

- I-Io sono Aurore… Aurore Kensington!

Mi affrettai a precisare, stringendo nella mano il mio ciondolo.

- Prego, cara?

Domandò, ancora più confusa.

- Sarà il caso che vi spieghi tutto con calma, Lady Octavia.

Propose Amber, poi ufficializzò le presentazioni secondo un copione che già conoscevo.

- Aurore, Damien, questa è Lady Octavia Zilliacus, la gran sacerdotessa del santuario dell’ambra di Shelton.

Damien fece un breve cenno col capo, io mi limitai ad annuire. Ero stranamente inquieta.

Poi, come se d’improvviso di fosse ripresa, l’anziana Lady mi raggiunse, sfiorandomi il viso con le mani fredde. Solo allora potei vedere chiaramente che i suoi occhi erano velati da una patina che nascondeva completamente la pupilla. Quegli occhi non potevano vedere.

- Bambina cara… perdona lo stupore di questa vecchia senza vista. E’ passato così tanto tempo da quando ho potuto vedere l’ametista coi miei occhi, non credevo che mi sarebbe stato ancora concesso.

Confusa, mi rivolsi ad Amber, che prontamente ci tese le mani.

- Andiamo, desidero proprio bere un buon the, Lady Octavia.

Suggerì, e la donna prese le sue mani, conducendoci all’esterno del santuario, in una dimora altrettanto sacra, la sua. Era finemente arredata, si respirava un profumo di violette del pensiero. Ci disse che erano i suoi fiori preferiti, ma da tempo non crescevano più.

- In quest’epoca è quasi vietato pensare.

Rise amaramente, facendoci accomodare sui divani.

- Allora, caro Shemar, sono questi i due giovani che hai condotto qui? Hai avuto difficoltà in quel mondo estraneo?

Chiese, rivolgendosi a Shemar che sedeva accanto ad Amber.

- A dire il vero è stato più difficile abituare gli occhi alla troppa luce.

Sorrise imbarazzato, la donna annuì. In effetti era una cosa a cui non avevo pensato, ma anche per noi era stato difficile abituare gli occhi alla condizione opposta. Però potevo solo immaginare che per Shemar era stato come spalancare gli occhi da una lunga cecità. Al contrario, Lady Octavia sembrava perfettamente a suo agio nonostante questa.

- Sai bambina… ho perso presto la vista, quand’ero soltanto una ragazza. Accadde molti anni fa ormai, ma non temo il buio, perché il ricordo della luce è sempre dentro di me.

Disse poi, volgendosi verso di me.

- Sono belle parole…

Commentai, ma mi sentivo davvero a disagio in quel momento. Fuori luogo, forse. Lo percepì e mi rassicurò.

- Originariamente, io vivevo a Challant, in una zona periferica, proprio vicino al secondo grande canale.

- Davvero? Lei viene da Challant? Ma… il suo cognome…

Annuì, poi sorrise al ricordo dei suoi anni giovanili.

- A quel tempo l’Underworld era meraviglioso, un Impero prospero e lussureggiante. Troppo presto perché lo spettro del tradimento e della morte lo corrompesse. Allora, nonostante una malattia mi avesse portato via la vista, incontrai colui che cambiò la mia vita, mio marito, Lord Alistair Zilliacus, di Shelton e così mi trasferii qui. Ci amammo molto, ma non avemmo figli. Ho vissuto una vita meravigliosa, nonostante ciò che non ho mai potuto avere. Alla sua morte, avvenuta troppo precocemente, ne ereditai il nome e i possedimenti, ma non desideravo onorificenze e beni materiali, che al contrario utilizzai per dare lustro maggiore a questo meraviglioso santuario, portato avanti dalla famiglia Zilliacus da generazioni. Sai, piccola cara, ho visto molte coppie passare da qui chiedendo una preghiera per poter mettere al mondo dei figli o per essere felici. Ho visto nascere amori, ho visto nascere bambini meravigliosi e ho aiutato qualcuno di essi a crescere. Purtroppo, ho visto anche gente morire, tanta, ingiustamente.

Mi colpiva la facilità con cui usava la parola “vedere”, quando le era impossibile, almeno fisicamente. Ma gli occhi del cuore erano più forti di quelli della mente, e nessuna barriera era d’ostacolo a chi era capace di vedere col cuore. Mi commosse vederla accarezzare la mano di Amber, così giovane al contrario della sua, così rugosa e compresi a chi si riferiva, per poi avere conferma da parte della ragazza.

- Mia madre era una sua allieva, sai, Aurore?

- L’avevo immaginato.

Sorrisi, poi tornai a guardare l’anziana.

- E non soltanto lei. Vere Vanbrugh e Fenella Ashworth. Erano grandi amiche quelle due.

- Quale delle due è tua madre, Amber?

- Fenella. Mia madre era Fenella Ashworth. Mentre Lady Vere Vanbrugh…

Esordì, guardando Shemar, che abbassò lo sguardo.

- T-Tua madre? U-Una Vanbrugh?

Domandai incredula, mentre Damien cercava di mettere ordine in qualcosa che doveva sicuramente apparirgli piuttosto confuso. Del resto lo potevo capire, Amber mi aveva parlato delle famiglie, ma non credevo che fossero anche imparentate tra loro.

Improvvisamente Lady Octavia sobbalzò, facendoci spaventare.

- Che succede, signora?

Chiese Amber, con la preoccupazione dipinta sul suo bel viso di porcellana.

- Ho scordato il nostro the.

Si scusò, e noi tutti ci tranquillizzammo. L’età in fondo era avanzata anche per quella donna, sebbene non potessi stabilire con esattezza quanti anni potesse avere.

- Lorraine! Puoi portarci del the, per favore?

Chiese e una ragazza smilza, dai lunghi capelli castani, si fece avanti. Doveva essere un’apprendista, a occhio e croce aveva circa diciassette anni.

- Subito, signora.

Rispose pacatamente, poi s’inchinò a salutarci e si allontanò. La servitù nell’Underworld era certamente silenziosa, ma non si poteva dire che fosse ribelle. Pensai a tutte le volte che mi ero opposta alle richieste della mamma in nome del troppo studio, mi sentii davvero in colpa. Una volta tornati a casa, tutto sarebbe cambiato, me lo ripromisi. Poi, ripresi la parola.

- Voi avete detto di aver visto l’ametista molti anni fa, non è così?

- Certo, nel santuario di Challant. Era meravigliosa, a quel tempo ne rimasi incantata. Ero molto giovane, ma è la sola che ho potuto vedere con i miei propri occhi, e la sola che riconoscerei tra tutte, senza esitazione. La sua scomparsa fu una delle cause che portarono Challant alla rovina…

Sussultai, Challant… era in rovina? Il luogo da cui l’ametista proveniva… era in rovina?

- Signora, potreste parlarci del Despota?

Domandò Damien, cambiando completamente discorso. Ma del resto, era ciò che gli premeva maggiormente sapere. Lady Octavia si voltò verso di lui, sembrava volerlo scrutare a fondo, ma Damien rimase imperturbabile.

- Cosa desideri sapere, giovane Warrenheim?

Chiese e mi stupì del fatto che conoscesse il suo nome, dato che non gliel’aveva detto. Damien sollevò il sopracciglio, rimanendo a braccia conserte, sebbene potessi giurare che fosse piuttosto seccato del sentirsi chiamare nuovamente a quel modo.

- Qualunque cosa riguardi questa figura.

Rispose, monocorde.

- Un tempo, il Despota era la personalità più potente dell’Underworld. Colui che possedeva il potere, ma soprattutto, colui a cui era permesso l’accesso al Sancta Sanctorum. Soltanto a lui era concesso di accedervi e venerare personalmente la Croix du Lac. Entrambi governavano sul nostro mondo, ma ciononostante, egli doveva in ogni caso prostrarsi alla Croix du Lac.

- Cos’è la Croix du Lac?

Domandò, incalzando. Era determinato a conoscere quante più informazioni possibili, ma non credevo che la risposta che avrebbe avuto sarebbe stata differente da quella che avevo avuto io. Lady Octavia sorrise, poi gli tese la mano.

- Dammi la mano, ragazzo.

Damien la guardò perplesso, proprio come io avevo guardato lui nella sala da bagno della residenza Trenchard, poi dopo aver valutato attentamente il rischio, sciolse la posa composta e le tese la mano. Non appena la raccolse, il contrasto tra la pelle più scura di Damien e quella bianchissima dell’anziana fu evidente quasi a sottolineare una natura diversa, ma fu poca cosa rispetto alla reazione di Damien, che si tirò immediatamente indietro come se avesse preso una scossa elettrica.

- Che è successo?!

Domandò irrigidendosi.

- Desideravo poter appurare se fosse possibile fidarmi oppure no.

Rispose tranquillamente Lady Octavia.

- Non temete, signora. Questo ragazzo non ha niente a che vedere con la famiglia Warrenheim.

La rassicurò Amber, mentre Damien sfregava nervosamente il dorso della mano.

- Tutto bene?

Sussurrai ricevendo un’occhiata per risposta.

Lady Octavia ridacchiò, poi posò le mani in grembo tornando seria.

- Sei molto diverso, ragazzo e porti un grande dolore nel cuore. Possa esso trovare sollievo, un giorno.

Damien sbottò, scostando il viso con un gesto di stizza.

- Sarei andato da un prete se avessi avuto bisogno di conforto. Per favore, potete rispondere alla mia domanda?

Chiese nuovamente, con un tono più arrogante. Evidentemente la donna aveva toccato un tasto dolente per lui, anche se risponderle in quel modo era stato un po’ troppo, tanto che vidi sia Amber che Shemar stupirsi.

- Nessuno ne conosce la vera natura, ragazzo.

Un buco nell’acqua, come pensavo. Strinsi i pugni, chiedendomi in che modo mai avremmo potuto scoprire cosa diavolo fosse. Al silenzio che venne a crearsi, subentrò il rumore dei passi. Lorraine tornò in sala, reggendo un vassoio con delle tazze fumanti.

- Grazie, cara.

Disse Lady Octavia, non appena l’ebbe posato sul tavolo.

- Signora, se non avete bisogno di me, potrei andare?

Chiese educatamente.

- Certamente.

Sorrise, per poi congedarla.

Davanti a quel the profumatissimo, l’anziana ci raccontò che da molti anni i santuari erano rimasti quasi vuoti ed era una rarità trovare giovani apprendisti, Lorraine era un’orfana di un villaggio vicino che aveva deciso di consacrare la sua vita al santuario. Quei luoghi tuttavia, originariamente nati per dare speranza, dopo la ribellione erano diventati luoghi testimoni di grande dolore, a causa della repressione attuata persino sui propri ministri.

- Voi siete stata graziata, però.

Osservai, sorseggiando il delizioso the, dal sapore dolcemente speziato.

- Soltanto perché non ero un bersaglio. Una cieca che non aveva potuto vedere… che non poteva conoscere la verità…

- Che successe, Lady Octavia?

Domandai.

Strinse il manico della tazza con più energia, senza bere, poi sollevò il viso verso di me.

- Bambina, puoi cantare la tua canzone per me?

- Quale canzone?

Chiesi stupita di quella richiesta, poi compresi. Una vecchia cieca in grado di vedere oltre… nemmeno le guardie della Croix du Lac non avevano intuito di cosa fosse capace davvero. La guardai, poi posai la mia tazza di the, quasi vuota, e cantai quei versi che conoscevo, che erano impressi nella mia mente… nel mio cuore.

- La pierre qui brille dans le noir… suivez la route qui mène au lac des diamants… ici la Croix reste…

Ici la Croix reste… la Croix du Lac.

Cercai di intonarli al meglio, anche se non riuscivo a ricordare benissimo la melodia e temetti che la mia performance canora non fosse tanto piaciuta ai miei ascoltatori, soprattutto ad Amber che mi guardava sbalordita.

- La pietra che brilla nell’oscurità… segui la strada che porta al lago di diamanti… qui la Croix riposa…

Qui la Croix riposa… la Croix du Lac.

Riprese la sacerdotessa. Quelle parole, pronunciate dalla sua voce roca, assumevano una sfumatura solenne e magica.

- Che significa questo, Lady Octavia? Soltanto ad Adamantio è permesso intonare quel canto, non è così?

Domandò Amber, incredula e io riflettei su quelle parole. Ogni territorio aveva un suo sigillo distintivo e se il canto di Amber parlava del giglio ambrato, era perché si riferiva a Shelton, la sua terra d’origine. Allora perché io che portavo l’ametista conoscevo quel canto? Era la canzone che la mamma cantava quand’ero piccola, non tornava. Mi rivolsi verso l’anziana, attendendo una riposta anch’io.

- Bambina cara, come conosci questo canto?

Mi chiese.

- M-Mia madre, signora… mia madre me lo cantava quand’ero piccola… non tutto, soltanto qualche verso… questi per l’esattezza… ma quando ho sentito Amber intonare quella preghiera, così simile eppure diversa, non ho più capito nulla…

- Tua madre? Qual è il suo nome?

- Celia… Celia Kensington, signora.

Portò la mano al mento, pensierosa. Cercai di intuire qualcosa, ma era era difficile riuscire, sembrava troppo assorta. Così, mi rinchiusi anch’io nei miei pensieri, riflettendo su quante cose mi erano state taciute, cercando di capire il motivo di tutto questo. Era indubbio che la mamma volesse proteggermi, ma era altrettanto oscuro il perché. Non possedevo nessun valore, se non quello che una figlia possa possedere per i propri genitori, non avevo capacità particolari, escludendo i miei incubi che più che capacità mi sembravano una maledizione, perciò, per quale motivo dovevano avere qualche interesse per me in questo mondo? Era molto più plausibile che stessero cercando proprio mia madre, probabilmente convinti che fosse ancora in possesso dell’ametista, altrimenti, per quale ragione il professor Warren non mi aveva catturata quando ne aveva avuto l’occasione? E poi il piccolo Jamie, altra vittima di quella follia… guardavo Damien, teso dopo le strane parole rivoltegli dalla donna che continuava a rimuginare. Non era difficile immaginare che stesse pensando al motivo per cui si era rivolta a lui in quel modo. Poi, Lady Octavia si mosse impercettibilmente, come risvegliatasi.

- Sembra che sia impossibile leggere nei tuoi ricordi più profondi, piccola. E’ come se fossero protetti da qualcosa.

Sobbalzai, nel sentire quelle parole pronunciate con incredibile tranquillità.

- L-Leggere?

- Lady Octavia ha sviluppato un senso particolare in concomitanza con la perdita della vista. Può vedere quello che c’è dentro al cuore di una persona.

Spiegò Amber, ma ero troppo concentrata su quel “ricordi”. I miei ricordi erano soltanto miei, preziosi e intimi, ma non erano così misteriosi al punto da leggervi dentro.

- Perdonate la mia maleducazione…

Esordii, rigirando nervosamente i pollici.

- Non sono venuta qui per farmi scrutare nell’animo… ma soltanto per scoprire qualcosa in più su mia madre. E’ stata portata via dalle guardie della Croix du Lac dopo avermi donato questo ciondolo e il mio desiderio più grande è quello di ritrovarla e riportarla a casa sana e salva. Vedete, io ho sempre convissuto con i miei incubi… ma non ho mai saputo niente di questo mondo fino a che Shemar Lambert si è presentato al mio cospetto chiedendomi di impedire che i seguaci della Croix du Lac mi trovassero… ma io non so niente di niente riguardo a tutto questo… e sono confusa, perché mi sono ritrovata catapultata in un mondo di cui ignoravo l’esistenza e per di più privata delle persone per me più importanti.  

Amber posò la mano sulla mia, dandomi coraggio. Ne avevo molto bisogno in quel momento. La guardai, mi ricordava Violet, la dolce amica che avevo abbandonato in preda al dubbio più assoluto.

- Scusami…

Mormorai, incapace per un attimo di realizzare a chi volessi dirlo davvero.

- Ascolta, piccola Aurore… tutto ciò che posso dirti in questo momento è di non lasciare che la paura ti impedisca di aprire il tuo cuore.

- Lo faccio già, signora…

Dissi a bassa voce, poi cominciai a parlare, lasciando scorrere tra le parole le immagini e le sensazioni dei miei incubi peggiori.

- Sin da piccola ho sofferto di incubi. Uno in particolare, quello ricorrente… mi ha sempre terrorizzata. Mi trovo al buio, senza riuscire a definire né il luogo né il tempo. La sola cosa che riesco a sentire sono i passi, sempre più incalzanti di più persone spaventate. Riesco a sentirne quasi il terrore, a percepirlo come se lo stessi provando in prima persona. Non ho mai tanta paura e tanta ansia quanta ne ho in questo caso e poi, improvvisamente sento dolore, un dolore lancinante, dovuto a una caduta in mezzo a dei rovi… quando cerco di rialzarmi mi lacerano e il sangue mi scorre addosso… e poi ciò che mi terrorizza più di ogni cosa, all’improvviso, una mano oscura che si protende verso di me e mi… mi…

Senza rendermene conto cominciai ad agitarmi, come se stessi rivivendo quell’incubo ancora una volta. Sola, senza Evan, senza la mamma, in un mondo estraneo… sola… sola… fino a spalancare gli occhi e vedere davanti a me i miei ascoltatori sbigottiti.

- S-Scusate, credo di essermi lasciata prendere dalla foga…

- Va tutto bene, Aurore…

Mi rassicurò Amber, che non aveva mai smesso di stringermi la mano. Non me n’ero accorta, ma stavo piangendo.

- Sembra che sia molto nitido… nonostante la totale assenza di luce.

Intervenne Lady Octavia.

- In realtà è più un insieme di sensazioni…

Spiegai, ripensando allo strano seguito.

- E poi, in un altro, più recente, ho visto una strada costellata di diamanti, lontano dai rovi e alla fine del sentiero, una fontana…

- Una fontana?

Domandò Amber, perplessa, io annuii.

- Una fontana bellissima, molto grande… e cinque statue raffiguranti delle donne che versano acqua, continuamente. Ora che ci penso su ognuna spiccava una pietra. Ma quello che mi ha colpito maggiormente, è stato un riflesso… per un attimo ho avuto la sensazione di vedere la Croix du Lac, ma adesso non sono più così certa che fosse proprio quella.

Mormorai suscitando ancora più confusione in Amber e in Shemar, mentre Damien si limitò ad osservarmi.

- Che vuol dire? Com’è possibile qualcosa del genere?

Chiese Shemar.

- Sembra proprio che tu sia in connessione con la Croix du Lac. Aurore, sei per caso una discendente dei Delacroix?

Domandò l’anziana, costringendo i nostri compagni dell’Underworld a voltarsi sgomenti verso di lei.

- Chi sono i Delacroix?

Chiesi.

- Non si parla più di loro da anni ormai…

Commentò Amber, guardando Shemar che annuì silenziosamente.

- La prima famiglia. La più antica di tutto l’Underworld, nonché i primi custodi della Croix du Lac.

Riprese l’anziana.

- Effettivamente… Croix e Delacroix somigliano molto…

Intervenne Damien.

- E’ vero…

Riconobbi, guardandolo.

- Fu quella meravigliosa famiglia a dare origine a tutto. In questo mondo, un tempo, non vi erano governi oligarchici, ma soltanto una famiglia che governava su tutto, da Adamantio. Fu l’epoca d’oro del nostro mondo, ogni cosa era in sintonia, ogni creatura vivente, tutto era in armonia.

- E poi cos’accadde?

Chiese Damien, interessato da quel discorso. Era la prima volta che lo vedevo così preso da qualcosa, solitamente era sempre molto scettico.

- Poi vennero le altre famiglie e dettero vita ai singoli governi, basati su sistemi di alleanze fondati sui matrimoni tra i membri delle varie casate. Nel corso del tempo, divennero sempre più potenti, ma i Delacroix, che detenevano ancora il potere, non accettarono la brama di potere sempre crescente di alcuni esponenti. Allora, le famiglie si coalizzarono, dando vita per la prima volta all’elezione del Despota, che avrebbe contrastato l’Imperatore dei Delacroix.

- Dunque originariamente esisteva un Imperatore?

Domandai.

- Sì, è così. Vi fu una grande guerra, secoli fa, da cui i Delacroix uscirono sconfitti e furono costretti ad abbandonare Adamantio per sempre, mentre il primo Despota sedette sul trono di Adamantio, dando vita al sistema attuale.

- Perché furono cacciati?

Chiesi, stupita. Anche se erano sconfitti, non avevano fatto niente di male.

- Ovviamente perché lo sconfitto deve sottostare al vincitore, no?

Mi fece notare Damien con aria di sufficienza. Lo guardai di sbieco.

- Non è esattamente così, Warrenheim.

Rispose Lady Octavia.

- Furono messi nella condizione di non nuocere, privati della Croix di Lac che proteggevano. Lontani da Adamantio, non avrebbero più potuto venerarla e così sarebbero stati estromessi da ogni possibile scenario politico in quanto ne avrebbero perso per sempre il favore.

- Ed è stato così…

Continuò Amber.

- Ricordo alcuni discorsi di mio padre su quella famiglia, anche se in modo molto confuso dato che ero molto piccola a quel tempo… questo però risale a circa cinquecento anni fa… col tempo, i Delacroix si sono ridotti a pochi sopravvissuti, fino a diciotto anni fa, quando furono completamente annientati, non è vero?

Lady Octavia annuì, poi si voltò verso di me.

- Ma se tu sei collegata ai Delacroix allora sei una speranza per questo mondo senza luce…

- Non è possibile, il mio nome è Aurore Kensington, io non vengo da questo mondo, signora…

Ribadii.

Sorrise gentile davanti alla mia perplessità.

- Nemmeno il giovane Warrenheim credeva nelle sue origini, e invece suo padre è uno dei più importanti membri del Consiglio di governo di Adamantio.

- Nonché traditore e assassino.

Intervenne Shemar, con voce rabbiosa che ci fece trasalire.

- Che vuoi dire?

- Chi credi che sia stato a ordinare la morte dei nostri genitori? La madre e il padre di Amber, mia madre… e chissà quanti altri nobili hanno perso la vita a causa dei suoi folli ordini!

Disse, irato.

- Shemar…

Sussurrò dolcemente Amber, stringendogli la mano che tremava.

Guardai Damien, i suoi occhi verdi erano improvvisamente spenti.

- Damien?

Chiesi preoccupata.

- Come ti ho già detto, Shemar… io non ho legami con quel bastardo. Anzi, non appena avrò la possibilità di incontrarlo faccia a faccia, ti giuro che lo ucciderò con queste stesse mani.

Parlò, la voce fredda su quel volto inespressivo, quasi cadaverico, che ci costrinse al silenzio.

Quanto odio doveva nutrire dentro di sé quel ragazzo… chissà cosa aveva fatto quell’uomo di così terribile da costringerlo a odiare il suo stesso padre al punto tale da desiderarne la morte. Poi pensai a me, a questa nuova rivelazione, al fatto che potessi essere in qualche modo legata ai Delacroix.

- Lady Octavia, posso chiedervi un’ultima cosa?

Domandai, alzandomi.

Quasi come se avesse letto nel mio cuore ciò che desideravo chiederle, si alzò e mi strinse le mani. Fu una sensazione unica, mai provata prima, incredibilmente rilassante. Mi sentii tranquilla, per la prima volta da quando ero arrivata in quel mondo.

- Pregherò per lui. Sono certa che troverà la pace che merita. E mi auguro che anche tu possa trovare ciò che cerchi. Ti chiedo soltanto di prestare molta attenzione. Se sei davvero legata ai Delacroix, ti aspettano prove difficili, bambina. L’ametista ti proteggerà, ma tu fa’ in modo che non ti accada niente.

Disse, io acconsentii, stringendole le mani a mia volta.

- Grazie di tutto.

Sorrisi, mentre anche gli altri si alzarono.

- Che la luce della speranza vi accompagni, bambini cari.

Disse l’anziana.

Amber le strinse le mani, inchinandosi.

- E che voi possiate darci ancora buoni consigli, signora.

Non rispose a quella richiesta, ma si limitò a stringere a sua volta le mani di Amber.

Dopodichè, andammo via, con una rinnovata serenità nel cuore e una traccia da cui cominciare. Facemmo ritorno alla tenuta Trenchard nel pomeriggio, ma al nostro arrivo, ci attese una inaspettata quanto sgradita sorpresa. Avevamo superato da tempo i cancelli, eravamo ormai nei pressi del grande spiazzo d’ingresso, quando Shemar fermò la carrozza di colpo.

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Capitolo 19
*** VIII. 3 parte ***


Buon pomeriggio! >_< Nuova parte dell'ottavo capitolo... anche se non ho ancora finito i disegni, almeno i principali... ma ci sto lavorando e spero di poterli pubblicare già la prossima volta! ç__ç Questa parte è abbastanza lunga, arriva fino a fine capitolo, per cui, vi chiedo scusa se la troverete infinita,  ma mi dispiaceva davvero dividerla... ç_ç Ringrazio per le visite e Taiga-chan che in privato, mi ha detto delle parole bellissime! <3 Sei stata adorabile, tesoro! <3 Spero di sentire qualcuno, e intanto, buona lettura! :D

 

 

 

 

 

 

 

 

- Che succede?

Chiese Amber, affacciandosi al finestrino.

- Gli imperiali.

Rispose Shemar, con voce fredda.

Quelle parole erano una mazzata, non avevamo tenuto in considerazione il fatto che potessero arrivare così presto ad Amber. Preoccupata, cercai di sporgermi per valutare personalmente la situazione, ma Damien mi trattenne prontamente.

- Non provarci nemmeno.

Ordinò, stringendomi il polso. Gli rivolsi un’occhiataccia, ma aveva ragione, se ci avessero visti, avremmo dato loro la prova che cercavano.

- Che facciamo allora?

Gli chiesi, ma mi ignorò per rivolgersi ad Amber.

- Lady Amber, voi che ne dite?

Senza scostarsi, Amber analizzò la situazione.

- Lasciami pensare… sono in tre, possiamo vedercela noi. Damien, porta Aurore fuori di qui, se dovessero vedervi, dirò che si trattava di Hiram e di Milene. Rientrate dalle cucine e cercate Hiram, vi porterà alle mie stanze, nascondetevi lì finchè non vi avviseremo.

- E se li avessero già visti?

Domandai, incerta su quel piano dell’ultimo momento. Amber si voltò a guardarmi.

- Credi che dopo aver assistito al massacro della mia famiglia abbiano voglia di farsi vedere da loro?

Sobbalzai a quelle parole dette con tanta sincerità. Non poteva essere diversamente, ero stata sciocca a pensarlo.

- Andate, non fateci perdere tempo.

- S-Sì!

Esclamai, guardando Damien, che annuì.

- Ah, Aurore?

Mi voltai verso Amber.

- Che succede?

- Ho bisogno di prendere in prestito l’ametista.

Sgranai gli occhi, una richiesta assurda veniva proprio da lei.

- C-Cosa? No, non… questa è… non posso, Amber…

Balbettai, distogliendo lo sguardo.

Avrebbe potuto chiedermi qualunque cosa, ma non separarmi dall’ametista.

- Sta’ tranquilla, te la restituirò non appena saranno andati via. Ci serve prendere un po’ di tempo per il momento, capirai presto per quale motivo ne ho bisogno. Aurore, fidati di me, per favore.

Rialzai lo sguardo, i suoi occhi ambrati erano assolutamente sinceri.

- Aurore, presto!

Incalzò Damien, mentre lo scalpitio dei cavalli al giogo di Shemar era più forte.

- Va bene…

Per la prima volta da quando la mamma me lo aveva regalato, tolsi quel ciondolo per porgerlo a qualcun altro. Separarmene, anche se momentaneamente, fu stranamente difficile, come se fosse incastonato nel mio petto e avessi dovuto strapparlo. Riluttante, lo porsi in mano ad Amber, che lo strinse con venerazione e molta cura, proprio come se fosse la sua ambra. In quel momento, ebbi la certezza di potermi assolutamente fidare di lei.

- Vi prego, non fate azioni avventate voi due.

Ci raccomandò poi, indugiando soprattutto su Damien, ma non saprei dire se in quel momento l’avesse inteso. Al suo comando, tirammo su i cappucci, scendendo rapidamente dalla carrozza, che proseguì il suo cammino non appena ci dileguammo tra i cespugli, e ci inoltrammo nel bosco notturno. Avevo sempre avuto paura del buio pesto a causa dei miei incubi, ma quella volta fu peggio che affrontare una prova di coraggio. L’idea che alcune guardie imperiali fossero alla villa poi era un pensiero sufficiente ad allertarci tanto da renderci le cose ancora più difficili. Oltretutto, non conoscevamo quel bosco se non per il sentiero che avevamo attraversato e più ci inoltravamo, meno luce c’era. Fu difficile anche per Damien, ma non lasciò mai la presa della mia mano.

- Pensi che abbiano scoperto che noi siamo qui?

Domandai mentre correvamo in mezzo ai cespugli.

- Non lo so, ma anche se fosse, non possiamo rischiare che ci trovino adesso!

Rispose, facendosi largo nella vegetazione crescente.

- Ma sai dove stiamo andando almeno?!

- Vado a intuito!

- Che?!

Dannato Damien, mi rimaneva solo da sperare che il suo senso dell’orientamento fosse abbastanza buono da non farci perdere o peggio ancora, giungere esattamente nello spiazzo antistante la villa. Oltretutto, avevo la netta impressione che ci stessimo allontanando, perché vedevo la fontana molto più vicina rispetto a quando l’avevo vista per la prima volta.

- Damien, stiamo perdendo l’orientamento!

Sbottai, fermandomi di colpo e costringendolo a fermarsi a sua volta. Si voltò, non era necessaria la luce per capire che era davvero arrabbiato.

- Che stai dicendo?!

- Guarda!

Esclamai, indicando la fontana. Lo fece, poi si voltò verso il palazzo, cercando di calcolare la distanza.

- Dobbiamo proseguire, è il solo sentiero questo.

Spiegò, calpestando il terreno battuto sotto di noi.

- Come te ne sei accorto?

- Se guardassi dove metti i piedi te ne accorgeresti anche tu. Sembrerebbe una strada per condurre dalla residenza alla fontana.

- Quindi se la percorriamo verso sinistra arriviamo a destinazione.

Osservai.

- Qualcosa del genere. Andiamo.

Ordinò, tendendomi nuovamente la mano. La presi, stringendola forte. Sarebbe stato un serio problema perdersi in quel luogo, non potevo far altro che fare affidamento su di lui.

Riprendemmo la nostra corsa attraverso il fitto bosco notturno. Le ombre delle chiome scosse dal vento formavano chiazze oscure sul selciato e insieme alle sagome nere degli alberi ricordavano figure spettrali che si agitavano nell’oscurità. Il mio respiro si faceva più affannoso a ogni passo che facevo, sentivo crescere la paura di quel luogo, di quelle figure. Era tutto come nel mio incubo, soltanto che questa volta stavamo fuggendo verso qualcosa. Ciononostante serrai gli occhi, per non vedere ciò che mi terrorizzava in quel momento. Pessima idea, inciampai più volte, costringendo Damien a rallentare la sua corsa e a sbroccare più volte.

- Aurore, dannazione!!

Imprecò alla fine, sollevandomi il viso con un gesto rabbioso. Spalancai gli occhi quasi automaticamente, spaventata da quella reazione, vedendolo fissarmi iracondo.

- Che cos’hai?!

Latrò.

Feci cenno di non avere niente, non volevo dirgli qual era il motivo, avrei rischiato di risultare patetica, ma imbastii un’altrettanto patetica spiegazione.

- Le scarpe… sono scomode…

Balbettai.

- Allora levale.

Rispose seccamente.

Solo allora capii che non voleva attendere oltre. Qualunque indizio su cosa fosse accaduto a Jamie, su dove potesse essere, su come potesse stare, era lì, a portata di mano.

- Scusa… lasciami qui, Damien, vai tu!

Esclamai. Non so come mi vennero quelle parole, dato che più di ogni altra cosa temevo di rimanere ancora in quel luogo, prigioniera dei miei fantasmi. Mi scrutò, poi mi posò una mano in fronte per sincerarsi che non avessi la febbre e sospirò.

- Smettila di fare l’eroina della tragedia, idiota. Credi che possa lasciare un’impedita come te qui? Ho una reputazione da difendere io.

Lo guardai sconvolta, non me l’aspettavo. Poi, come se avesse dissolto per magia la mia paura, mi venne da ridere. Damien Warren era davvero un tipo bizzarro.

- Grazie…

Mormorai, per poi scostarmi da quella presa e rimettermi in marcia.

- Andiamo, non manca più tanto. Degli indizi ci stanno aspettando, non è così?

- Lo spero.

Concluse lui, seguendomi.

Arrivammo di lì a poco alle spalle della residenza, nel cortile interno. Era meno illuminato, perciò a guidarci fu il profumo della cucina di Sybille. Per fortuna, ad attenderci c’erano i due fratelli. Ci fermammo davanti a loro, affannati.

- Bentornati, Milord, Milady.

Ci salutarono, inchinandosi.

- Dove sono… le guardie?

Chiese Damien, riprendendo fiato.

- A colloquio con Lady Amber e Lord Shemar, Milord.

Disse Milene.

- Vi scorterò nelle stanze di Milady, ma per favore, cedeteci i vostri mantelli.

Sopraggiunse Hiram.

- Perché?

Domandò Damien, incerto, nel toglierlo di dosso.

- Lady Amber ha detto che le persone che erano con lei non erano altri che noi. Così facendo non sorgeranno altri dubbi.

Amber non ci aveva traditi, era davvero meravigliosa. Tolsi anch’io il mio mantello cedendolo a Milene, che lo raccolse con cura.

- Andiamo, ora, seguitemi.

Disse Hiram, entrando.

Lo facemmo, raggiungendo tramite la zona destinata alla servitù il piano che ospitava le stanze di Amber. Mentre camminavamo, vidi ancora una volta il corridoio dei quadri, ma ancora una volta non ebbi tempo di fermarmici. Hiram ci scortò fino alle stanze, e stabilii a occhio e croce che dovevano trovarsi all’opposto della mia. Entrammo e la prima cosa che mi colpì fu il profumo, dolce e intenso, dei fiori.

- Perdonate, ma non posso accendere le luci. Dovrete rimanere qui fino a che non tornerò.

Spiegò, facendoci entrare.

- Va bene…

Dissi, sebbene la prospettiva di rimanere al buio non mi allettava. Almeno non ero sola.

Dette quelle parole, comunque, Hiram chiuse, lasciandoci soli, con la sola, flebile luce filtrata dalle tende a rischiarare per poco l’ambiente. Damien si mosse, facendo attenzione, lo vidi stendere il braccio per orientarsi e cercare, trovando il muro.

- Sembra che non potremo assistere in alcun modo…

Bisbigliai incapace di nascondere la mia delusione, ma mi zittì posandomi la mano libera sulla bocca.

- Mmmm…

Mugolai per protestare, ma non la tolse, poi sussurrò.

- Ascolta.

Feci mente locale, si sentiva qualcosa, delle parole. Prestando più attenzione, compresi finalmente per quale motivo Amber ci aveva ordinato di nasconderci proprio nella sua stanza. Ci avvicinammo silenziosamente al muro dietro cui si udivano le voci e ascoltammo. Si sentiva tutto molto chiaramente, in quel punto doveva essere meno spesso rispetto al resto, tanto che fu piuttosto facile riuscire persino a riconoscere chi stava parlando, dal momento che si trattava di voci incredibilmente familiari. Mi voltai verso Damien, i miei occhi ormai si erano abituati alla flebile luce, quindi non fu difficile vedere lo shock nel suo sguardo.

- E’ tuo padre…

Bisbigliai.

Non mi guardò nemmeno, ma notai che si era irrigidito. Come avevamo fatto a non accorgercene prima? Senza rispondermi, si avvicinò al muro, ascoltando la conversazione. Il professor Warren, Lionhart Warrenheim, colui che aveva rapito mia madre e il fratellino di Damien era lì, a pochi passi da noi. Un muro sottile ci separava da lui e dalla verità.

- Come vi ho detto, Milord, ho preferito fare ritorno a Shelton prima di tornare ad Adamantio. Ero preoccupato per la mia signora, suppongo che al mio posto avreste fatto lo stesso.

Era stato Shemar a parlare. Nella sua voce potevo percepire tutta la rabbia che provava per quell’uomo. Era difficile per lui rivolgersi in tono tanto rispettoso a qualcuno che odiava, ma non poteva fare diversamente, a quanto pareva, il professor Warren gli era superiore.

- Giovane Lambert, dovrei forse ricordarti quali sono i tuoi doveri in quanto membro della guardia imperiale?

Replicò Warren, pungente.

- Ovviamente no. Ma dovrei forse chiedere lo stesso di voi, dal momento che non avete esitato a ordinare di eliminare qualunque ostacolo alla missione, compreso me. Fino a prova contraria, non avevate l’autorità per emanare quell’ordine fino a che non foste rientrato nell’Underworld. Devo forse ricordarvi che le guardie imperiali hanno cercato di uccidere me e vostro figlio maggiore?

- Mio figlio, eh? Conosci bene la regola. Qualunque ostacolo dev’essere eliminato. Avresti dovuto occupartene personalmente.

Damien strinse forte i pugni, per qualche istante ebbi paura che facesse qualche sciocchezza, ma per fortuna non accadde. Poi intervenne Amber.

- Milord, perdonate la franchezza, ma come ha detto Shemar, le guardie imperiali non avrebbero dovuto fare capo a voi, sebbene, immagino, la missione sia stata ugualmente portata a termine. C’è una cosa che non mi spiego, tuttavia. Per quale motivo prendere con voi una donna e un bambino? Non c’entravano niente, l’obiettivo della missione era ritrovare l’ametista, non è così?

Ascoltai attentamente quelle parole, ma non posso nascondere che le temevo. Se Amber si fosse esposta troppo avrebbe rivelato al professore molto più di quanto lui avrebbe potuto fare e Warren sapeva essere un abile manipolatore.

- Milady, avete forse bisogno che risponda a una domanda di cui conoscete già la risposta? Piuttosto, i due ospiti, desidererei incontrarli personalmente, se possibile.

Rispose e noi trasalimmo. L’aveva scoperto…

- Ospiti? Come ho avuto modo di spiegare alle vostre guardie si tratta della mia servitù. Hiram e Milene, voi non li avete conosciuti personalmente, ma se lo desiderate posso chiamarli. Shemar, puoi occupartene tu, per favore?

- Ai vostri ordini, Lady Amber.

Sentii i suoi passi allontanarsi, ma Amber era probabilmente da sola con Warren e questo mi preoccupava molto. Rimasero in silenzio per un po’, tanto che fino a che non parlarono di nuovo, la sola cosa che potei sentire era il battito ansioso del mio cuore. Damien, probabilmente, doveva essere ancora più agitato di me, ma non lo dimostrò, non fino a quando suo padre non tornò a parlare.

- Pensate di trattenervi ancora per molto nella villa, Milady?

Chiese.

- In verità non ho ancora deciso. Mi piace stare qui, dopotutto, vi sono cresciuta, come mia madre prima di me.

- Ah, vostra madre… che disgrazia.

Sobbalzai a quelle parole, avrei voluto averlo davanti e torcergli il collo. Amber invece non si scompose, il suo tono mantenne la dignità che aveva avuto da quando li stavamo ascoltando.

- Forse sarebbe più appropriato parlare di follia, non trovate, Lord Warrenheim? La follia di chi si è messo contro il potere.

- Vedo che comprendete.

- Pensavate forse che decidessi di compiere di stessi errori dei miei genitori? Vedete, Milord, io non sono né mio padre né mia madre, ma sono tuttavia l’erede del casato Trenchard, che governa Shelton da generazioni ormai. Porgo alla Croix du Lac il rispetto e la venerazione che chiede, così come facevano i miei genitori e vorrei che capiste che non nutro né rancore per ciò che è successo, né intendo tradire il favore che Sua Grazia ci ha accordato. Dopotutto, io sono la custode dell’ambra.

- Ritengo che questa parole saranno gradite ad Adamantio. Dopotutto, sarebbe un grave peccato distruggere un fiore di così rara bellezza.

Amber non rispose subito, ma sapevo che quelle parole le facevano male, anche se non tanto quanto il rispondere in quel modo a quell’uomo così sfacciato.

- Ora, perché non mi dite cos’è accaduto ad Aurore Kensington, Milady?

Chiese poi, e io trasalii.

- La precedente custode dell’ametista? Shemar mi ha raccontato com’è andata la storia, ovviamente, non conosco i dettagli, ma…

Sentii il fruscio dei suoi vestiti, poi Amber raccolse il mio ciondolo, mostrandolo al professore. Instintivamente incrociai le mani in preghiera, sperando che andasse tutto per il meglio. L’uomo scoppiò in una poderosa risata.

- L’ametista… nelle vostre mani?

Chiese, senza scomporsi particolarmente. Tuttavia, immagino che non se l’aspettasse.

- Shemar sa essere molto convincente. Vedete, credo che non sempre i metodi coercitivi siano ideali per ottenere qualcosa, a volte è sufficiente utilizzare giuste parole.

- E sarebbero state quali?

- Troverà sua madre.

- In cambio dell’ametista? Milady, ritengo che non conosciate quella ragazza.

Guardai Damien, mi guardò a sua volta. Amber, nella stanza accanto, si mise a ridere.

- C’è qualcosa di ilare nelle mie parole?

Domandò incuriosito il professore.

- Avete appena avuto la risposta alle vostre domande, Lord Warrenheim. Non conosco quella ragazza.

Tacque, noi continuammo a guardarci. Speravo che quelle parole sarebbero state sufficienti a placare la curiosità di Warren, anche se era un azzardo, conoscendo quell’uomo e le sue parole. Ci rivedremo nell’Underworld, aveva detto. Era troppo semplice sperare che rinunciasse, ma almeno in quel momento, desideravo che lo facesse.

Nel frattempo, Shemar rientrò assieme ai due fratelli.

- Eccoci.

Rumore di passi, i soli a farci intendere la presenza di più persone.

- Dunque voi sareste i due membri della servitù di Lady Amber Trenchard?

Non risposero, immagino però che si fossero inchinati. Poi Hiram prese la parola.

- Mi chiamo Hiram, Milord. E questa e mia sorella Milene. Serviamo Milady da quando eravamo bambini.

- Ditemi, allora… dovrei fidarmi delle sue parole?

Chiese, in tono divertito.

- Quali che siano, Milord, la nostra signora non mente.

- E per quale motivo allora, la vostra signora non ha avuto problemi a mostrarvi a me, dal momento che temete la guardia imperiale? Oltretutto, non mi pare che voi siate terrorizzati dalla mia presenza.

- Milord… noi eseguiamo gli ordini.

- E da questo potrei dunque supporre che se la vostra signora vi chiedesse di mentire lo fareste senza batter ciglio, non ho forse ragione?

Sobbalzai, aveva intuito anche questo. Il gioco si stava facendo pericoloso, se avesse voluto, il professor Warren avrebbe potuto metterli in scacco in qualunque istante e a quanto pareva ci stava riuscendo molto bene. Tutto a causa mia, stava accadendo tutto per colpa mia. Avrei pianto la morte di coloro che avrebbero dato la vita per me e in questo momento, ero la sola che poteva porre fine a quel gioco maledetto. Non potevo permettere che delle persone morissero per proteggermi, non era giusto… Decisi perciò di raggiungerli e così avrei fatto se Damien non mi avesse stretto il polso così saldamente da impedirmi persino di muovere un passo lontano da lui.

- Che stai facendo?!

Protestai.

- Non farlo.

- Non hai capito, Damien?! Tuo padre non è stupido! Sa che io sono qui, e quasi sicuramente sa che ci sei anche tu, è inutile nascondersi! E così, forse… forse potremo raggiungere mia madre e Jamie, no?

Non mutò espressione nemmeno quando pronunciai il nome del suo fratellino, rimase imperturbabile, come se le mie parole gli scivolassero sopra.

- Damien!

Fu un’esclamazione muta la mia, dato che non potevo urlare, ma se avessi potuto, l’avrei fatto, sperando che almeno questo lo scuotesse.

- No.

- Perché?!

Sbraitai, cercando di liberarmi dalla ferrea presa.

- Non capisci?! Li ucciderà, li ucciderà tutti!

- Mantieni la calma, Aurore! Li ucciderebbe ugualmente se uscissi, perché avrebbe la prova della menzogna di Amber. Vuoi mandare al diavolo gli sforzi che sta facendo per te?! Anch’io vorrei uscire, ma se lo facessi ora, sarebbe la fine, per loro, per noi e per i nostri cari, perché non capisci?!

Fu come ricevere una doccia fredda. Vergognandomi della mia mancanza di fiducia in Amber, desiderai sprofondare. Avevo sottovalutato Damien per giunta, ritenendo che non fosse abbastanza motivato, quando invece fremeva quasi più di me in quel momento. Ero stata sciocca e superficiale, così facendo, se non ci fosse stato lui a trattenermi, li avrei condannati sicuramente. Così, mi sedetti a terra, in attesa della prossima mossa di Amber, ritrovandomi a pregare, disperatamente, che il professor Warren non facesse loro del male. La mossa, incredibilmente, arrivò dall’esterno. Fu prima un susseguirsi crescente di passi, poi la poderosa e familiare voce di Sybille risuonò nella stanza accanto alla nostra.

- Shemar, è mai possibile che tu non abbia riguardo per questa povera vecchia?!

Urlò con tono minaccioso che ci costrinse a prestare particolare attenzione. Non capivamo cosa volesse intendere.

- Sybille, non è il momento…

Cercò di giustificarsi Shemar, qualunque fosse la sua motivazione.

- Non è mai il momento per te, eh? Mh?

Qualcosa parve attirare l’attenzione di Sybille, che dopo nemmeno un secondo urlò, rimettendomi sull’attenti.

- Non mi dire che le bestiacce fuori appartengono alla guardia imperiale… santi numi, avrei dovuto capirlo prima! Perdonate, My Lords, non avevo compreso! E’ così tanto che non vediamo altri all’infuori della gente del villaggio che credevo che Shemar avesse raccattato altri grifoni e li avesse portati alla residenza. Sapete, questo bambino ha sempre un’insana passione per quegli animalacci, ma sporcano ovunque, non posso certo tollerare che proliferino nella residenza dei duchi Trenchard. Oh, se il mio povero padrone fosse ancora qui certamente lamenterebbe il comportamento sconsiderato di questi giovani. Non credete anche voi, Milord? E voi due ragazzetti, non è possibile che debba fare sempre tutto da sola, ho una certa età io! Andate, avanti, sto aspettando le bacche di ginepro, dal momento che non siete stati capaci di trovarle né al villaggio né nei boschi, andate in città e procuratemele prima di stasera. My Lords, desiderate trattenervi a cena? Ho in mente un menù speciale per gli ospiti, dato che siete i primi che mi capitano da quando ci siamo trasferiti qui nella residenza estiva.

Ascoltai Sybille sbalordita. Sapeva farci, era indubbio, ma sarebbe bastato? Incredibilmente, bastò. La risposta del professor Warren non si fece attendere, ma immagino che anche lui fosse sconvolto davanti a una donna come Sybille. Del resto, era tranquillamente capace di minacciare Amber e Shemar, non avrei dovuto stupirmi particolarmente.

- No, vi ringrazio. Ad ogni modo, Lady Amber, spero di avere presto la possibilità di rivedervi, magari nella capitale. Ci tratterremo lì per qualche giorno, prima di ripartire per Adamantio. Lambert, quanto a te, immagino che dato il tuo risultato, passeranno sopra al tuo comportamento, ma sia chiaro, non tollereremo insubordinazioni di nessun genere. Ma dopotutto, cosa posso aspettarmi di diverso dal figlio di Gregor?

Calò il silenzio dopo quelle parole, pronunciate con gelida ironia. Il professore adorava infierire sulle sue prede. Shemar non gli dette soddisfazione, comunque, ma credo che in quel momento, qualche antica ferita si fosse riaperta in lui.

- Diversamente, Lord Warrenheim…

Esordì Amber, e sentii il fruscio del suo abito mentre si alzava per congedarlo.

- Mi auguro che non dubitiate più della lealtà del mio casato. Io sono l’attuale capofamiglia nonché custode legittima dell’ambra. Desidererei che lo teneste sempre a mente prima di pronunciare altre illazioni contro me e la mia servitù.

Amber pronunciò quelle parole con fermezza, tanto che non dubitai del fatto che Warren avesse inteso. Guardai Damien, che non si era scomposto dopo avermi fatto riflettere sul mio essere incauta, ma la sua espressione era tornata a essere la maschera senza emozioni che avevo imparato a conoscere. Cosa stai pensando? Avevo davvero bisogno di chiederglielo? Le risposte che cercavamo stavano andando via, veloci quanto i passi di Leonard Warren e dei suoi scagnozzi. Non avremmo saputo dove i nostri cari si trovavano quel giorno. Rimanemmo seduti, in silenzio, ad attendere che Hiram venisse a chiamarci, a riflettere sulla pericolosità dell’impresa in cui ci eravamo avventurati. E dopo una lunga eternità, Hiram aprì la porta che ci separava dal resto del mondo, permettendoci di uscire da quella prigione forzata.

- Potete uscire.

Ci disse e così facemmo, tornando alla luce.

- Dov’è Amber?

Chiesi.

- Eccomi.

Salutò, affacciandosi alla porta della stanza attigua.

Non appena ci dette il permesso, la raggiungemmo, entrando in un piccolo salone molto spartano.

- E questa stanza?

Domandai.

- Apparteneva a mio padre, era il suo studio personale. Sai, a lui non piacevano particolarmente le decorazioni, preferiva la linearità.

- Mi ricorda molto mio fratello…

Osservai, pensando alla stanza di Evan. Sulla parete tuttavia, spiccava un meraviglioso quadro che ritraeva la famiglia Trenchard al completo. La madre di Amber, Fenella, suo padre e lei, bambina. Tutti e tre inequivocabilmente simili, biondi, pallidi e meravigliosi.

- Ti piace?

Chiese, notando che mi ero fermata a osservarlo.

- E’ molto bello…

- E’soltanto uno dei tanti, ma era quello che preferisco. Mi ricorda che un tempo siamo stati felici.

 Almeno tu puoi ricordarlo… pensai. Poi mi rivolsi a lei cambiando totalmente discorso.

- Credi che siamo in pericolo?

Mi guardò per un lunghissimo istante, attenta a valutare con attenzione le parole che voleva dire, poi guardò Damien, che scrutava attentamente la stanza.

- Tu che ne pensi?

Gli chiese.

- A dire il vero, credo che mio padre non vi abbia affatto creduta.

- Lo immaginavo.

Ammise, poi tornò da me, prendendomi le mani e porgendomi il mio ciondolo.

- E’ ora che torni nelle mani della legittima custode.

Lo strinsi forte, abbassando lo sguardo. Come potevo essere stata così egoista fino a quel momento?

- Andrà tutto bene. Per il momento, abbiamo guadagnato un po’ di tempo, ma presto dovremo fare ritorno nella capitale. Fino ad allora, qui sarete al sicuro. Per quanto in mio potere farò di tutto per garantire la vostra incolumità.

- Però…

Contestai, preoccupata che questa sua decisione la mettesse nei guai più di quanto già fosse.

- Va tutto bene. Aurore, non preoccuparti per me, mh?

Chiese, sorridendo dolcemente. Poi raggiunse Damien, che la guardò, silenziosamente.

- Credo che per il momento il tuo fratellino stia bene. Hai ascoltato la conversazione, vero?

Damien annuì, ma notai sorpresa nei suoi occhi.

- Come potete dirlo?

Domandò.

- Non c’entra niente con la missione, ma al tempo stesso, non era un ostacolo da eliminare, al contrario di te. Quindi desumo che per il momento, lui sia protetto, e se siamo fortunati, potrebbe essere perfino con la madre di Aurore.

Sobbalzai a quel pensiero, ma in qualche modo, mi sentii rincuorata. Se erano insieme, allora avrebbero potuto darsi manforte a vicenda.

- Mamma…

Bisbigliai, raggiungendoli.

- Adesso, comunque, quello che conta è che impariate tutto ciò che c’è da sapere. Damien, tu continuerai gli allenamenti con Shemar, ti insegnerà qualche trucco. Tempo un mese e faremo ritorno nella capitale.

Ci comunicò.

- Dubito che mio padre attenderà tanto.

Contestò Damien.

- Beh, dovrà farlo, dal momento che questo periodo è uno dei più importanti dell’anno.

- Che vuoi dire?

Domandai incuriosita.

- Oh, vedrai presto. Sarà il caso di parlarti della cerimonia della Renaissance.

- Renaissance?

Damien sospirò, scrollando le spalle.

- Perdonate la mia sfacciataggine, Lady Amber, ma se pensate che mio padre si fermerà davanti a una cerimonia dal nome suggestivo, qualunque essa sia, vi posso assicurare che non avete idea di chi sia l’uomo con cui avete a che fare.

Amber lo guardò, poi si avvicinò a lui, sollevandogli il viso con l’indice. Quel gesto così inaspettato sorprese sia me che Shemar, ma non Damien, che rimase impassibile.

- Ascoltami bene. Non conosci niente di questo mondo né delle sue tradizioni e per questo posso capire che tu sia così scettico, ma tuo padre è nato e cresciuto qui, che ti piaccia o no, dunque conosce molto bene ogni singola storia che riguarda l’Underworld. Esiste una tradizione per cui nel periodo della Renaissance, ogni guerra in corso, ogni singola controversia sia messa in sospeso. Chiunque violi questo precetto si ritroverà a fare i conti con la giustizia della Croix du Lac, chiunque sia. Tuo padre è subdolo, ma non è così sciocco da rischiare di essere maledetto a vita, non credi?

Con un altrettanto inaspettato gesto, Damien scrollò l’indice di Amber dal suo mento, voltandole le spalle, allontanandosi verso la porta e fermandosi sulla soglia.

- Se ne siete così convinta… ma non provate a convincere me su ciò che mio padre sa e non sa. A lui importa soltanto ottenere ciò che vuole, con ogni mezzo, se necessario, anche contravvenendo alle regole. Quell’uomo… è capace di tutto.

Concluse, uscendo e lasciandoci soli, nel silenzio più assoluto.

Quelle parole, così taglienti e gelide mi trapassarono il cuore, tanto che ebbi la sensazione di un mancamento d’aria. Damien Warren nutriva un odio profondo per suo padre, profondo come un abisso oscuro, più di quello in cui ci eravamo avventurati. Mi faceva paura, quel ragazzo.

Qualche ora più tardi, dopo la cena, ci ritirammo silenziosamente nelle nostre stanze. Sembrava quasi che fosse calato il gelo dopo quell’ultima conversazione, tanto che nessuno aveva voglia di commentare oltre ciò che era successo. Ognuno rinchiuso nei propri pensieri, tutti pensando ai propri problemi, primi tra tutti, Damien e Shemar. Chiusi la pesante porta della mia stanza, appoggiando la schiena lungo l’anta liscia. Quella sera, sentii particolarmente freddo. Non appena mi decisi a trascinarmi all’armadio, recuperai la felpa di Evan. Era calda, morbida, di pile, e il suo profumo era sempre lì. Gli occhi mi si annebbiarono di nuovo, ogni volta che aspiravo quella fragranza, avevo la sensazione di essere abbracciata da mio fratello e ogni volta che vedevo il brillio del braccialetto d’argento, mi rendevo conto che lui non c’era più. Maledirai il giorno in cui hai deciso di intraprendere questa strada, Aurore… non era così vero, in quel momento, ma maledivo il momento in cui avevo varcato la soglia di casa per scappare via. Indossai la felpa, percependo nuovamente quella dolorosissima sensazione al cuore. In fondo, me lo meritavo, pensavo. Quel dolore, poi, mi faceva sentire terribilmente viva, dovevo accettarlo a ogni costo, volente o nolente. Non so dopo quanto tempo, raggiunsi il mio enorme e morbido letto, stendendomici in posizione fetale. Avevo voglia di conservare quanto più possibile quel calore, anche se sentivo gli occhi bruciare e la testa girarmi. Il pianto faceva un brutto effetto, ma poco alla volta, mi calmai, fino a sentire le palpebre pesanti. Poi, poco prima di lasciarmi andare al sonno, sentii bussare alla porta. Spalancai gli occhi all’istante, stringendomi nella felpa e tirandomi su. Sistemandomi alla bene e meglio, sgusciai fuori dal letto e raggiunsi la porta, aprendo. Davanti a me, Damien, ancora vestito con gli abiti che Sybille gli aveva dato durante la mattina. Dovevo ammetterlo, era l’ultima persona che mi sarei aspettata di vedere, tanto che fui davvero sorpresa e non ne feci mistero.

- Che ci fai tu qui?

Domandai.

Mi scrutò, poi prese un respiro, guardandomi.

- Ti spiace se scambiamo quattro chiacchiere?

Sbattei le palpebre più volte, senza riuscire a credere a quel ragazzo.

- Perché?

Chiesi, diffidente, aguzzando lo sguardo. Non avevo poi tanta voglia di parlarci, per giunta il sonno che avevo faticato a prendere stava cominciando a sparire e non volevo passare la notte in bianco.

- Hai pianto di nuovo?

Chiese lui, aggrottando le sopracciglia.

- Perspicace…

Risposi, asciugando le lacrime residue.

Non mi rispose, e mi tese la mano.

- E’ di nuovo uno dei tuoi giochetti per capire se sei davvero in questo mondo o se è un sogno? Perché in questo caso avrei in mente di prenderti a calci per fartelo scoprire.

Vidi un angolo delle sue labbra sollevarsi in un sorrisetto.

- Ah beh, a dire il vero credo che non ci sia più molto da dubitare. Nemmeno nei miei peggiori incubi avrei potuto immaginare quel bastardo di mio padre conversare così amabilmente con quei due.

Rimanemmo in silenzio per qualche istante, riflettendo su quella impossibile quanto dannatamente reale situazione. Perché lo odi così tanto?, avrei voluto chiedergli, ma credo che la risposta sarebbe stata un muto distogliere lo sguardo da parte sua. Non era intenzionato a dirmelo, ma anch’io odiavo  quell’uomo e questo ci accomunava. Presi la sua mano, stringendola.

- Dove vuoi portarmi?

Chiesi. Almeno per quella sera, eravamo sulla stessa barca.

Fece un cenno con la testa e uscimmo dalla mia stanza, percorrendo i corridoi del palazzo nella notte infinita. Era strano pensare come fosse facile capire qual era il giorno e quale la notte in quel mondo senza luce, dopo un po’ ci si abituava e anche il corpo reagiva diversamente al passare delle ore. Scendemmo la scalinata interna, fino a raggiungere i giardini del palazzo. Una piacevole brezza sferzò il mio viso e mi strinsi più forte nella felpa di Evan. Guardai Damien, il vento gli scompigliò i capelli, che in quella notte scura, sembravano assolutamente neri. Tutti i colori, apparivano così falsati lì. Fissava il panorama di fronte a noi, una splendida sequenza di giochi di siepi, alberi e viali. In lontananza, lo scrosciare dell’acqua della fontana.

- Che meraviglia…

- Dalla finestra della mia stanza è ancora più suggestivo, ma non mi sembrava opportuno portartici.

Rispose, senza scomporsi e io arrossii. Che stupido, rovinare così un momento tanto delizioso, chi mai aveva intenzione di andare nella sua stanza?! Mi imbronciai e mi accorsi solo allora che avevo ancora la mano stretta nella sua, tanto che la tolsi precipitosamente, costringendolo a voltarsi verso di me.

- Tutto ok?

Chiese e io annuii. In realtà, ero incredibilmente imbarazzata, quasi come nella sala da bagno. Quel pensiero mi mandò sull’orlo della follia e il batticuore si fece sentire con più forza.

- Senti, tu, che pensi di fare?

Sbottai, ponendomi sulla difensiva. Non so che faccia potessi avere, ma dalla perplessità iniziale, scoppiò a ridere. Una risata divertita, ma totalmente inaspettata.

- Ti sembro così buffa? Dovresti smetterla di trattarmi come una povera scema.

Bofonchiai.

- Scusami.

Sorrise, tornando il Damien Warren controllato che conoscevo.

- Ho riflettuto e ho chiesto a Shemar di spiegarmi come funziona il sistema orario in questo mondo.

Quasi un po’ delusa da quella rivelazione, rimasi ad ascoltarlo. Lui tornò a guardare i giardini.

- Mi ha spiegato che inizialmente, dovendosi adattare alla nuova situazione, hanno dovuto utilizzare un sistema orario simile ai nostri, poi hanno stabilito che un giorno intero fosse scandito da speciali orologi che si trovano nelle capitali e il sistema è stato universalmente adottato da tutti. Sostanzialmente, da ciò che ho capito, si basa sulla maggiore e minore luminosità del cielo.

- Più o meno come il nostro alternarsi del giorno e della notte, no?

- Esattamente. Mi ha dato questo, però…

Disse, raccogliendo uno strano orologio a ingranaggi dalla tasca della giacca.

- Che cos’è?

- Sembra che sia uno dei pochi che non si è bloccato a quel tempo a causa delle modificazioni del campo magnetico di questo mondo. Dev’essere molto più vecchio di quanto sembri, lui stesso non ne conosce l’origine.

- E cosa significa per noi?

Domandai, senza capire.

- L’ho visto una volta, da bambino, su un libro di mio padre. Credo che venga dal nostro mondo.

Sgranai gli occhi, osservando quel gingillo così vecchio. Impossibile da credersi, ma poteva essere davvero un appiglio con la nostra realtà?

- Perdona il mio scetticismo… ma tu credi a tuo padre?

Quella domanda sembrò coglierlo di sorpresa, ma abbassò ugualmente lo sguardo su quel piccolo oggetto.

- No, io non gli credo… ma quand’ero piccolo, mi piaceva sfogliare i libri con mia madre e davanti a questo, mi disse che lei stessa un tempo, l’aveva visto di persona.

Sollevai lo sguardo e vidi per la prima volta la tristezza sul volto di quel ragazzo. Qualunque cosa fosse accaduta nella sua famiglia, stava parlando di un tempo in cui, forse, erano stati tutti felici.

- Damien…

- Comunque…

Riprese lui, l’emozione scomparsa dai suoi occhi verdi.

- Ho provato a fare qualche calcolo e… beh, tenendo conto di quando siamo partiti, credo che oggi sia il giorno del tuo compleanno, quindi, auguri, Aurore.

Lo guardai come se avessi visto il cielo notturno aprirsi tutto d’un tratto e spuntare il sole. Tutto, mi sarei aspettata tutto, tranne che questo. Damien Warren aveva un dono: l’imprevedibilità più completa. Incredula, non riuscii nemmeno ad articolare due sillabe, ma continuai a fissarlo in preda allo stupore.

- Che c’è? Credi che non sia così? Si dà il caso che in matematica sia piuttosto bravo, sai?

- Non è questo…

Balbettai, cercando di spiegare la situazione. Non soltanto il mio compleanno era l’ultimo dei miei pensieri in quel momento, o forse, non c’era nemmeno nei miei pensieri, ma Damien mi aveva appena fatto gli auguri, come se fosse una cosa naturale. Tre giorni, erano passati tre giorni da quando avevamo lasciato il nostro mondo, la nostra vita, e questa era cambiata al punto tale da ritrovarmi, nel giorno, anzi, nella notte del mio compleanno davanti a Damien Warren che mi faceva gli auguri. Quel mondo girava al contario.

- Grazie…

Sussurrai, tuttavia. In fondo, per quanto inaspettato, mi faceva piacere. Anche se quel giorno, avrei dovuto trascorrerlo diversamente… avrei voluto, ma non mi era più possibile. Abbassai gli occhi, lottando disperatamente con le lacrime che volevano uscire, di nuovo. Non volevo piangere davanti a lui, non volevo più farlo. Eppure, fu stranamente comprensivo e con dolcezza, mi attirò a lui, stringendomi forte al petto. Fui sopraffatta da quel profumo, così diverso da quello di Evan, ma altrettanto dolce, e dalla forza delle sue braccia, che mi serravano teneramente. Ebbe un effetto inconsueto, ma servì a placare le lacrime prima che sgorgassero.

- Non devi piangere, è un giorno felice, no?

Sollevai il viso verso di lui, stava sorridendo, e annuii.

- Hai ragione…

- Sì che ce l’ho.

Mi punzecchiò, con la sua solita spocchia, ma stavolta, soltanto per quella volta, non mi arrabbiai.

- Posso chiederti un favore?

Domandai, invece.

- Purchè non si tratti di cantare canzoni di buon compleanno. Non mi piace.

Ridacchiai sotto i baffi per quella bizzarra risposta, così acconsentii.

- La festeggiata non dovrebbe avere diritto almeno a un desiderio?

- Dipende dal desiderio. Tuttavia, per questa sera, cercherò di esaudire qualunque cosa, tranne la suddetta, nelle mie possibilità.

- Come genio non sei così bravo, sai?

Osservai e lui convenne.

- In tal caso…

Mi sollevai sulle punte dei piedi e gli detti un bacio sulla guancia. Giuro, mai nella mia vita, avrei sognato una cosa simile. Damien Warren era tutto ciò che io non volevo, oltretutto, suo padre era il folle bastardo che aveva stravolto la mia vita, e soltanto per questo avrei dovuto odiarlo, ma quella sera, soltanto per quella sera, desiderai un po’ d’affetto. Mi guardò stupito, senza capire perché l’avessi fatto e io mi scostai dal suo abbraccio, guardandolo seria.

- Promettimi che non mi mentirai mai, Damien.

Rimase in silenzio, a valutare la mia richiesta, poi probabilmente ricollegò quel mio gesto a quello che il piccolo Jamie aveva fatto con me e annuì.

- Lo prometto.

- Bene.

Dissi, sorridendo.

- E prometti anche che non faremo mai niente d’impulsivo…

- Ci proverò.

Rispose, una nota di rigidità nella voce.

- Non è proprio quello che avevo chiesto, ma va bene… e ancora…

- Lista lunga?

Mi interruppe e io risi.

- Prometti che sorriderai più spesso. Sei bello quasi quanto Jamie quando sorridi.

Dissi e stavolta, sul suo viso, vidi un sorriso triste, al pensiero del suo fratellino lontano, condotto chissà dove. Jamie, vivi, ti prego… mamma, Evan, proteggetelo voi… almeno finchè suo fratello non potrà farlo di persona…

-  Buonanotte, Damien Warren.

Un solo istante di silenzio, il soffio del vento tra noi.

- Buonanotte, Aurore Kensington.

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 20
*** IX - La notte della Renaissance (1 parte) ***


Buon pomeriggio!! In questa stupenda giornata di pioggia XD, e disegni finalmente alla mano, ecco il nuovo capitolo! <3 Ne approfitto per ringraziare ancora una volta Taiga-chan, mia fonte di speranza, incoraggiamento e di preziosi consigli! <3 Tesoro, grazie ancora per aver recensito e avermi dato un motivo in più per andare avanti!! >___<<3 Grazie anche alle visite silenziose! >_<

Qui di seguito, allego alcuni disegni (almeno quelli che ho fatto finora, ma prossimamente, ne farò altri, in quanto ci saranno nuovi personaggi >_<)! Spero vi piacciano e se vi fa di fare un fischio anche solo per commentare, fate per favore!! Recensiteeeeeeeeeeeeeeeee!! Grazie!

 

http://imageshack.us/a/img51/8404/aurorep.jpg  

http://imageshack.us/a/img27/452/evann.jpg  

http://imageshack.us/a/img254/216/damienh.jpg  

http://imageshack.us/a/img5/7814/jamief.jpg  

http://imageshack.us/a/img716/6363/violetqm.jpg  

http://imageshack.us/a/img708/5509/celiaqe.jpg  

http://imageshack.us/a/img29/9076/amberrt.jpg  

http://imageshack.us/a/img405/2088/warrenz.jpg  

http://imageshack.us/a/img837/20/shemar.jpg  

 

 

Ok, ed ecco il capitolo! :D E' piuttosto lungo e finalmente, si parte per Karelia, la capitale di Shelton! Fanno la loro comparsa dei personaggi nuovi, a cominciare dall'eccentrico vecchietto Angus all'affascinante Blaez e al pungente Leandrus! Cosa mai riserveranno queste new entry? Scopritelo leggendo! :D

Buon pomeriggio!!

 

 

 

 

 

 

 

 

Nelle settimane che seguirono, non accadde nulla che fosse degno di nota. Tutto sembrava essersi fermato proprio come diceva Amber, tanto che nemmeno le guardie di Warren si fecero vedere nei paraggi. Ciò che si muoveva, tuttavia, era il nostro addestramento. Shemar, determinato più che mai a istruire Damien nel combattimento era un insegnante implacabile. Ogni mattina, la mia sveglia era costituita dalle loro urla di battaglia presto associate alle urla di Sybille, e gli allenamenti procedevano senza sosta per buona parte della giornata. Damien del canto suo, era ben disposto a imparare nuove tecniche, ma soprattutto a incrementare la sua resistenza. A scuola non l’avevo mai visto prender parte ad attività sportive, ma Evan mi aveva detto che era bravo anche in questo, e dato che mio fratello non era tipo da elargire complimenti a destra e a manca, se l’aveva riconosciuto allora doveva esserci davvero un fondo di verità. Ovviamente, affrontare duelli di spada con un veterano nato con in mano una spada era ben diverso dagli innocenti esercizi scolastici, dunque il fatto che Damien desse l’anima nei suoi allenamenti era sicuramente dovuto a qualcosa in più e non era difficile immaginare cosa. Mi piaceva osservarli, uno contro l’altro. Durante i primi tempi, Shemar sembrava riversare su Damien tutta la frustrazione dell’incontro col professor Warren, tanto che in più di un’occasione avevo temuto per la sua stessa incolumità e qualche volta anche Amber era stata costretta a interrompere le azioni offensive del suo cavaliere per evitare che si lasciasse prendere troppo la mano. Anche Damien però non era da meno e ogni volta che finiva a terra, si rialzava prontamente per ripartire all’attacco. Non era facile per lui, e anche se i riflessi erano piuttosto buoni, spesso peccava d’arroganza e di presunzione, con la conseguenza che non stimava a pieno le capacità del suo avversario, cosa che rendeva facile a Shemar il metterlo al tappeto. Tuttavia, anche con una spada puntata alla gola, lo sguardo di Damien non cambiava. Rabbioso, fiero, implacabile. Non aveva importanza quante volte fosse finito a terra, si sarebbe rialzato, sempre e questa cosa, mi rendeva segretamente orgogliosa di lui.

Per quel che mi riguardava, invece, trascorrevo le mie giornate nella residenza estiva dei Trenchard studiando. Non che mi fosse mai piaciuto particolarmente lo studio, ma non avrei mai immaginato che il contenuto sarebbe stato incredibilmente interessante. Amber mi aveva già parlato delle famiglie governanti e dei sigilli, ma per la prima volta, compresi cosa significasse essere il possessore delle cinque pietre. Erano chiamate Pièces de la Croix, in quanto si riteneva che originariamente fossero parte stessa della Croix du Lac. Certo, era difficile immaginare che questo corrispondesse al vero, dal momento che secondo il professore e buona parte della popolazione dell’Underworld la Croix du Lac esisteva tutt’ora, ed era con tutta probabilità, un’entità a se stante. Mi chiedevo spesso cosa volesse intendere con quelle parole. La Croix du Lac sarà felice di incontrarti… e a volte, ero curiosa di verificare personalmente cosa ci fosse dietro questa leggenda. Tuttavia, non dimenticavo mai quale fosse il motivo per cui mi trovavo in quel luogo, e ogni mio singolo pensiero era rivolto al modo migliore per ritrovare mia madre e Jamie. Quando era possibile, poi, Amber e io ci recavamo da Lady Octavia, che sembrava alquanto felice di ricevere visite. Era una donna squisita, mi piaceva conversarci e dopo ogni incontro con lei, mi sentivo rinfrancata. Grazie ai suoi insegnamenti compresi anche il motivo per cui ogni territorio che componeva l’Underworld (con altro studio scoprii che i territori erano dei ducati e delle contee) aveva una sua preghiera distintiva. Avevo sentito Amber intonarla, io conoscevo quella di Adamantio per qualche ragione ignota, ma ve ne erano altre, tutte destinate alla venerazione del sigillo d’appartenenza.

Poi una sera, verso la fine di quell’interminabile mese sempre uguale, Amber mi mostrò la galleria dei ritratti che avevo avuto modo di intravedere al mio arrivo, ma che fino a quel momento non avevo ancora potuto ammirare. Rimasi estasiata da quei quadri d’altri tempi. Molti di essi ritraevano l’Underworld ai tempi in cui la luce splendeva ancora e osservarli era l’equivalente dell’avere davanti quei paesaggi incantevoli, proprio come se il pennello avesse dato vita a quei dipinti.

- Questo mi piace particolarmente.

Disse Amber, indicando il più illuminato, che raffigurava due donne sedute sotto un gazebo nell’atto di bere del the.

- E’ bellissimo…

Osservai, riflettendo su quelle figure eteree. Una delle due era indiscutibilmente la madre di Amber, l’avrei riconosciuta tra mille, con lunghi capelli biondissimi che le ricadevano in boccoli morbidi lungo le spalle. La sua espressione era pensierosa, ma al tempo stesso, molto dolce. Accanto a lei, una giovane donna dai capelli castani, raccolti in una delicata acconciatura intrecciata da fermagli di fiori rosa. Il suo sguardo, caldo e dorato, mi fece intuire facilmente di chi si trattasse.

- E’ la madre di Shemar, vero?

Domandai, lei sorrise dolcemente, ma con molta nostalgia.

- Lady Vere, sì. A quel tempo, erano molto giovani, e incredibilmente legate. Sai, c’era anche Shemar in quel quadro.

- Davvero?

Chiesi, cercandolo, ma non riuscii a vedere niente che lo ricordasse. Lo sfondo era verde, rigoglioso, immortalato in un giorno di sole splendente, era estate, a giudicare dai vestiti leggeri, ma di Shemar, nemmeno l’ombra.

- Non lo vedo…

Confessai, temendo di fare la figura dell’idiota nonostante tutto.

Amber si mise a ridere, dando risposta ai miei dubbi.

- Non puoi vederlo, perché a quel tempo Lady Vere lo stava aspettando. Guarda bene la posa delle sue mani.

Indicò e così feci. In effetti, con una mano reggeva la tazzina da the, decorata finemente in tutti i suoi particolari, mentre la mano libera era dolcemente posata in grembo, quasi ad accarezzare il bambino che c’era dentro. La trovai un’immagine infinitamente stupenda, il miracolo della vita e l’amore di una madre tutto immortalato per sempre su quella tela.

- Shemar lo sa?

Chiesi poi, guardandola.

- Sì, certo. Purtroppo non ama particolarmente ricordare il passato, però. E’ raro vederlo qui anche soltanto di sfuggita, per lui si tratta di ricordi troppo tristi.

- Come mai?

La storia mi stava intrigando, avevo già capito che Shemar aveva più di una ragione per essere quel che era, ma l’idea che un giovane nobile avesse deciso di mettere la sua spada al servizio di un’altra nobile era piuttosto strana e immotivata, dal momento che avrebbe potuto tranquillamente ambire ad altro. Tuttavia, non mi risultava nemmeno che i Lambert rientrassero nella schiera delle famiglie governanti, al contrario dei Vanbrugh. La questione era piuttosto intricata.

- Vedi, Aurore… probabilmente nel tuo mondo, funziona diversamente, ma qui… i matrimoni sono strettamente legati alla successione dinastica. Lady Vere ha scelto di sposare il padre di Shemar, anche se lui non possedeva un titolo particolarmente prestigioso, motivo per cui, ha finito con l’essere quasi ripudiata dalla sua famiglia ed è stata privata del suo titolo. Tuttavia, a lei non importava, era felice, accanto a Gregor  e il bambino che era nato da quell’unione aveva avuto tutto l’amore possibile, fino a che Lionhart Warrenheim non ci ha messo lo zampino.

- Sempre lui…

Mormorai, lei fece cenno positivo.

- Sai, quando ho visto Damien per la prima volta, ho pensato che potesse essere come quell’uomo, ma prima le parole di Shemar, poi l’aver visto la determinazione nei suoi occhi, mi hanno fatta ricredere. Tuttavia, penso anche che in qualche modo, ci sia somiglianza tra loro, come se Damien fosse disposto a tutto pur di ottenere il suo obiettivo, allo stesso modo del padre.

La guardai, valutando le sue parole, ma il ragazzo che stavo imparando a conoscere, non era così. Sorrisi, posando la mano sulla cornice del quadro.

- No. Damien ha qualcosa che il professor Warren non ha. La fiducia del suo fratellino. Chi non ha niente da perdere è pronto a tutto, ma chi ha qualcosa su cui contare, allora ci pensa due volte prima di fare follie.

Ricambiò il mio sguardo.

- Chi lo sa, spero che tu abbia ragione, però.

- Sarà così, assolutamente.

La rassicurai e prendemmo congedo dai ritratti.

L’indomani, durante la prima mattinata, lasciammo la residenza estiva per trasferirci nella capitale, Karelia, e per la prima volta in vita mia, compresi cosa voleva dire trovarsi in un mondo completamente diverso dal solito. Amber mi aveva accennato alla confusione della capitale, ma non avrei mai potuto immaginare che si riferiva a uno scenario veramente unico. Diversamente dalle tenute periferiche, Karelia era una città davvero molto grande. Percorsa da strade sorrette da pilastri a chissà quanti metri d’altezza, sorgeva sul fiume Shelton, che aveva dato il nome allo stesso continente e che si ramificava, all’interno della città. Esattamente nel cuore della città, il fiume era sovrastato da un enorme ponte, sulla cui piazza maggiore cui sorgeva il tempio dell’Ambra. Se era vero che richiamava molto l’architettura del tempio di Lady Octavia, di certo era vero che lo superava in grandezza e luminosità, grazie al sistema di illuminazione che garantiva alla città la vita nella forma che più ci era vicina. Sulla facciata, un grande orologio, che riconobbi come uno dei principali, destinato a scandire il tempo in quel luogo senza luce naturale. Osservavo estasiata i palazzi, erano tutti molto eleganti, con volute e fiori ovunque. Tutto in quella città sembrava voler gridare “vita”, quasi a voler esorcizzare una vita che non c’era più. Amber ci spiegò che gran parte della popolazione sopravvissuta alla ribellione si era riversata nelle capitali, le sole in grado di mantenere l’ordine, grazie alla presenza degli imperiali stanziati su tutto il territorio. La prospettiva di ritrovarci presto faccia a faccia con Warren non mi allettava sicuramente, ma forse, e lo desideravo con tutta me stessa, c’era qualcuno che era diverso da lui, qualcuno come Shemar. Ci spostavamo in carrozza, e per l’occasione Amber aveva ordinato che fosse preparata proprio la più importante, quella che utilizzavano i suoi genitori, tanto che al nostro passaggio, la gente si riversò per strada, rendendo omaggio alla propria signora tornata in città. Fino a quel momento, non avevo capito quanto Amber Trenchard fosse preziosa per il suo popolo, così giovane, adorata, ma il ricordo delle sue parole, delle dispute e degli intrighi contro chi non la voleva erano forti. Tuttavia, Amber sorrideva cortese, illuminando con il suo bel sorriso i volti di quella gente. Damien e io, coperti dai cappucci dei mantelli, non potevamo esporci. Troppo il rischio, potevamo essere scoperti da chiunque. Giungemmo al palazzo Trenchard nel pomeriggio, e quando fummo scesi, ci trovammo davanti una residenza molto diversa da quella estiva. Più formale, lineare, ma al tempo stesso molto elegante. Gli interni erano in marmo, i colori molto chiari. L’arredamento faceva pensare molto allo stile impero, tutto era estremamente curato. Tra le due residenze, tuttavia, preferivo quella estiva, che aveva qualcosa di più intimo, di più familiare. Ad accoglierci, all’ingresso del palazzo, trovammo tutta la servitù. Inizialmente mi ero meravigliata del fatto che fossero soltanto in tre a servire Amber, escludendo Shemar per ovvi motivi… beh, quella volta mi meravigliai del vedere uno stuolo di almeno quaranta persone disposte su due file, inchinate al nostro cospetto. Quella strana posa mi fece impressione, non mi ci sarei mai abituata. Ci fu cortesia, ma anche molta formalità, poi Sybille battè le mani dando ufficialmente il bentornato.

- Gente, siamo a casa!

Esclamò e la servitù, comprendente cuochi, camerieri e paggi, rispose al battimani della nostra Sybille, prorompendo in un applauso di saluto.

- Grazie.

Rispose gentile Amber, indicandoci.

- Venite avanti, ragazzi.

Un po’ timidamente, nonché preoccupata di tutti quegli sguardi, la raggiunsi, mentre Damien, un po’ sulle sue, ci impiegò qualche secondo in più di me, poi, sotto lo sguardo stupito di quel pubblicò, lasciammo cadere i nostri cappucci, rimanendo in attesa.

- Vi presento Lady Aurore, una mia cara amica. Desidero che sia trattata col massimo riguardo e che la notizia della sua presenza rimanga privata, tra le mura del palazzo. Con lei, miei cari, c’è Damien, un… giovane allievo di Shemar. Vi prego di trattare anche lui col massimo della stima.

Rivolsi uno sguardo a Damien, ma non battè ciglio. Chissà che stava pensando dopo quella presentazione sui generis. Del canto mio, auspicavo che tutti in quel luogo fossero fedeli ad Amber tanto quanto lo erano i suoi tre sottoposti. Mi rivolsi poi alla servitù, cercando di fare un inchino che non tradisse la mia mancata appartenenza alla nobiltà dell’Underworld, ma ero davvero molto emozionata.

- Grazie…

Accennai, accorgendomi per la prima volta della curiosità che stavo suscitando. Probabilmente molto di questo era dovuto ai miei abiti, che Sybille aveva cucito per me cercando di sintetizzare il modello “ragazza dei miei giorni” e quello ragazza “di altri tempi”… al contrario di Damien, che in abiti d’altri tempi si trovava davvero a suo agio.

- Bene, che ne dite di procedere alle sistemazioni?

Domandò Sybille, ma prima ancora che potessimo accettare, fummo interrotti da una buffa figura che attraversò l’ampio salone con la testa tra i libri.

- Oh no…

Bofonchiò Sybille, visibilmente contrariata, mentre si sollevavano risatine e mormorii dalle due file. Amber e Shemar sospirarono, per poi ridacchiare.

- Chi è?

Domandai io, perplessa, quando la figurina si rivelò essere un vecchietto arzillo con tutta l’aria di un intellettuale.

- Ragazzi, questo è Angus, l’archivista di Shelton. Penso che non ci sia altra persona in tutto l’Impero che conosca così bene gli archivi come lui.

Presentò Amber, sollevando il libro che l’anziano aveva davanti al volto. Era un gran bel volto, nonostante l’età, ma da quando eravamo nell’Underworld, non avevo ancora visto creature mostruose, se non in modo figurato. Gli occhi blu scuro del vecchio Angus si aprirono in un’espressione di sorpresa quando ci vide, al punto che per qualche istante ebbi paura che mi scoprisse, proprio come aveva fatto Sybille riconoscendomi come custode dell’ametista, ma poi si limitò a protestare per la presenza di nuova gente a palazzo.

- Per di più giovani… questi giovani che non apprezzano l’arte… ah, possa la pietosa Croix illuminarli.

Bofonchiò, tendendo le mani al cielo.

- Ehm… forse lavora un po’ troppo…

Bisbigliai a Shemar che assentì.

- E’ sempre stato così.

Mi spiegò, raccontando che quell’anziano era una sorta di topo da biblioteca senza pari, e che tutta la sua vita si svolgeva negli archivi del palazzo.

- Dunque qui c’è qualcosa che potrebbe aiutarci…

Mormorò Damien, subito interrogato da Angus, che tirata fuori dal farsetto una bacchetta gliela tese contro.

- Ma guarda, è uscito anche lui da Harry Potter?

Bisbigliai divertita mentre Damien si volgeva verso di me spazientito. Non so dire se fosse più per la mia osservazione che per l’essere costantemente inquisito da chiunque, però.

- Tu, ragazzo!

Esclamò il vecchio.

- Ho un nome, signore.

Rispose, guardandolo di sottecchi.

- Nomi, nomi… ci sono così tanti nomi che abbiamo perso la capacità di capire cosa sia davvero qualcosa.

- Che vuol dire?

Chiesi ad Amber.

- Parla sempre così, non farci particolarmente caso.

Mi rispose, a sorpresa. Perplessa, tornai a guardarlo, mentre Sybille, ignorando completamente la presenza di Angus, cominciò a dirigere le attività quotidiane del palazzo seguita da Hiram e Milene che si diressero verso le scale.

- Voi, ragazzi d’oggi, non potete comprendere, voi non vedete.

- Si dà il caso che abbia 10/10 di vista, per fortuna.

Replicò Damien, deciso a non darla vinta al vecchio. Mai fare impuntare il despota, l’avevo imparato a mie spese, voleva sempre avere ragione. Ipotizzando che l’avrebbero tirata alle lunghe, mi stiracchiai e chiesi ad Amber di poter fare qualcosa.

- Che ne dici di giocare un po’?

Mi domandò, sorridendo.

- Giocare?

Domandai, poco rassicurata dalla sua espressione beffarda.

- Non avrai intenzione di farle provare quel gioco?

Intervenne Shemar, con un tono tra curioso e preoccupato che non mi piacque molto.

- Di che state parlando?

- Beh… vieni con me.

Propose, strizzando l’occhio e incamminandosi.

La seguii dubbiosa fino a raggiungere un’ampia sala del palazzo, la più grande che avessi mai avuto modo di vedere in vita mia, probabilmente a causa della mancanza di mobilio. La sola cosa che sembrava far di quella stanza ciò che presumibilmente fosse, erano delle armi. Quando Amber si avvicinò ai foderi, traendo due spade, compresi cos’aveva in mente.

- Vuoi combattere?

Domandai, avvicinandomi. Lei sorrise.

- Credevi che soltanto Damien dovesse allenarsi? E’ compito di ogni capofamiglia difendere tutto ciò che ad essa appartiene.

- Quindi devo imparare a combattere? E’ questo il gioco?

Chiesi, prendendo la spada. Osservai la lama lucente, d’argento e acciaio. L’elsa era più leggera di quanto sembrasse, ossedeva intagli ornamentali che richiamavano l’edera che si avvolge attorno a ul fusto, era molto delicata. Amber raccolse la sua, impugnandola e tendendomi contro la lama scintillante, poi annuì.

- Sto cominciando a preoccuparmi…

Confessai, io che mai prima di quel momento avevo tenuto in mano una spada. Per di più avevo avuto già modo di vedere Amber che combatteva e questo mi preoccupava ancor di più, sapevo quanto potesse essere pericolosa. Ciononostante, sollevai la mia spada fino a che le due punte non si incrociarono tra loro.

En garde, giusto?

Chiesi e lei sollevò in verticale la spada, nella posa tipica della guardia.

- En garde!

Esclamò, ingaggiando battaglia.

Il mio istinto di sopravvivenza si risvegliò improvvisamente, costringendomi a indietreggiare di diversi passi e a valutare la situazione. Sapevo che non mi avrebbe fatto del male, ma allo stesso modo, non avrebbe tollerato scarso impegno. Attenta a schivare i fendenti che cadevano in una sequenza di lampi luminosi, cercavo di respingerli facendo appello ai miei riflessi, ma alcuni erano così potenti che a volte mi era impossibile persino andare oltre l’incrociarli. Per fortuna, cadevano nel vuoto, così non rischiavo di ferirmi in alcun modo. In quella pioggia di luce, mi era difficile orientarmi, poi. Mi rendevo conto di stare indietreggiando, ma non avevo idea di quanto né di dove stessi andando indietro. Improvvisamente, misi un piede in fallo, inciampando e ritrovandomi a terra, in mezzo all’acqua. I lampi di luce erano scomparsi.

- Che cavolo…

Bisbigliai, sollevando le mani fradicie.

- Ti sei fatta male?

Domandò Amber, tendendomi la mano libera.

Sollevai lo sguardo verso di lei, si era fermata. Tutto intorno, non c’era più traccia della sala in cui eravamo fino a pochi istanti prima. Al contrario, tutto ricordava le strane ambientazioni dei miei incubi più recenti.

- Dove siamo finite? Mi sono… addormentata?

Chiesi, prendendo la sua mano e sollevandomi.

- No, diversamente io non sarei qui.

Mi spiegò, raccogliendo la mia spada e cedendomela.

- Fa’ attenzione, va bene?

La guardai perplessa, aggrottando le sopracciglia.

- Amber, sto cominciando ad avere paura…

Dissi, guardando le lande desolate che ci si prospettavano.

- E anche freddo…

Osservai, dal momento che i miei abiti erano bagnati.

- E’ qualcosa di simile a un’illusione, dovuta ai poteri delle due pietre.

Mi disse.

- Un’illusione?

Domandai, tirando fuori dal vestito la mia collana. Il ciondolo risplendeva, la lucentezza era persino più forte di quella che conoscevo. Anche il ciondolo di Amber stava brillando, ma a causa dei suoi vestiti più pesanti non me n’ero resa conto prima.

- Come mai le pietre possono fare questo? Quindi, possono creare dei mondi?

- Non è proprio così… in realtà, non c’è una spiegazione ufficiale. Personalmente, credo che possano fungere da chiavi, in un certo senso, per l’accesso ad altri mondi.

- Come per la Porta di Pietra?

Chiesi, affiancandola.

- Probabilmente.

Rispose, incamminandosi. Io la seguii.

- Questo posto è così lugubre…

Sussurrai, nel guardare quello scenario. La luna, alta nel cielo, così tanto da sembrare soltanto un punto, era così lontana da rendere impossibile il rischiarare quel luogo e col passare del tempo, assumeva colorazioni che spaziavano dal rosso sanguigno al cremisi. Era inquietante.

- E’ vero…

Riprese Amber, con voce triste.

- Anche tu sogni spesso questi posti?

Domandai.

- Mi è capitato, la prima volta che ho tenuto in mano l’ambra. In quel momento ho capito che avrei dovuto impegnarmi a cambiare le cose, per evitare che quel che rimane del mio mondo diventi come questo posto.

L’Underworld non possedeva più luce, era vero, ma questo posto era persino peggiore. Compatii gli abitanti di quel mondo, io che venivo da un mondo in cui la vita non era apprezzata.

- E’ ammirevole…

Le dissi, sinceramente, osservando il suo bel viso pensieroso.

- No, è folle, in realtà. Ma se tu fossi madre un giorno, Aurore… te la sentiresti di far nascere un figlio in un mondo in cui non c’è più la speranza?

Quell’osservazione mi colpii e arrossii. Non ci avevo mai pensato. Ero sempre stata la più piccola di casa, troppo impegnata ad essere figlia per pensare anche soltanto lontanamente di poter essere madre. Ci riflettei, immaginai cosa potesse significare l’idea di stringere un bambino tra le braccia e ripensai alle parole di mia madre. Un tempo anche lei se lo sarà domandato, forse. E poi, ricordai il significato del mio nome e del primo raggio di luce al sorgere del sole che illumina le tenebre. Sospirai, rivolgendo gli occhi al cielo.

- Credo che un figlio possa portare speranza. E questo mondo ha bisogno di tanta speranza per ritrovare la luce che ha perso.

Si voltò verso di me, stupita, poi si addolcì, tornando a guardare il cielo a sua volta e raccogliendo il suo ciondolo in mano.

- E’ vero. Tuttavia, per far sì che questo sia possibile, occorre impegnarsi e lottare dando fondo a tutte le nostre forze. Amber, io voglio riportare la luce in questo mondo, a qualunque costo.

Asserii, interrompendo il cammino. Si fermò anche lei.

- Grazie…

Disse.

- Grazie per avermelo fatto capire. Ora so cosa posso fare… e cosa voleva dirmi mia madre.

Sorrisi, raccogliendo la mia ametista e avvicinandola all’ambra.

- E per prima cosa, devo scoprire chi sono io.

- Aurore. Tu sei Aurore, e io sono incredibilmente felice di averti incontrata.

Sorrise.

In quell’istante, la luce si sprigionò dalle pietre accostate, ma non tanto velocemente da impedirmi di scorgere, in lontananza, appena messo in evidenza dalla fioca luce della luna rossa, un bagliore simile a quello che avevo visto durante la pioggia di fendenti. Un lampo di luce, simile a un fulmine. Un fulmine d’argento. Poi, riaprii gli occhi. Eravamo tornate nella sala degli allenamenti, le spade incrociate, in assoluta parità.

- Amber?

Domandai nel vederla di fronte a me, quasi riprendendomi da quel momento e dubitando per un istante che quel che avessi visto poco prima fosse stato reale.

- Siamo tornate indietro.

Mi tranquillizzò e nei suoi occhi, vidi l’assoluta certezza di quel che avevamo vissuto poco prima.

- E siete in parità.

Proclamò Shemar, raggiungendoci.

Ci voltammo verso di lui, abbassando le spade.

- Non ho ben capito che è successo…

Dissi, guardandolo.

- Avete combattuto molto bene, tutte e due. E devo ammettere, signorina Aurore, che siete davvero brava in difesa. Suppongo sareste un ottimo cavaliere.

Mi imbronciai a quelle parole, non erano il massimo per una ragazza. Amber si mise a ridere.

- Devi credermi, Shemar… è molto brava anche in attacco.

Disse, dandomi una pacca sulla spalla.

- Riponiamo le spade per oggi. Avremo tempo per affinare la tecnica.

Mi propose. Strano a dirsi, ma ero davvero molto stanca. Tuttavia, sembrava che le attività di palazzo fossero molto più frenetiche di quanto avessi visto fino a quel momento. Difatti, mentre ci incamminavamo verso l’uscita, fummo praticamente bloccati da un paio di figure sulla soglia. Erano due ragazzi, presumibilmente della stessa età di Shemar o giù di lì. Dagli abiti stabilii che si trattava di nobili. Uno dei due doveva essere senza dubbio il più importante, dato che si avvicinò a noi, inchinandosi davanti ad Amber e prendendole la mano. Quando sollevò lo sguardo, vidi un bel ragazzo dagli occhi blu cobalto, i capelli lisci, di un castano scurissimo, che scendevano lungo il collo, molto elegante, ma dall’aria piuttosto indolente.

- Mia cara, ho atteso tanto il tuo ritorno. Non mi sembra quasi vero di poter contemplare ancora una volta la tua bellezza. Mi sei mancata infinitamente.

Il tono era adorante, ma per qualche ragione mi infastidiva e a giudicare dall’espressione seccata di Amber non ero la sola. Per curiosità mi voltai a guardare Shemar, che non battè ciglio. O era sicuro della reazione di Amber o non aveva capito che quel tizio ci stava provando.

Prontamente, la mia amica fece scivolare via la mano prima che il ragazzo la baciasse in omaggio.

- Mi dispiace averti causato tutta questa pena, Leandrus. Come vedi, ora sono qui, non dovrai più soffrire.

Rispose e mi scappò una risatina che non passò inascoltata.

- C’è qualcosa di divertente?

Mi chiese Leandrus, sollevando un sopracciglio scuro verso di me.

- Non esattamente, perdonate la mia scortesia.

- Chi hai raccattato, Amber?

Domandò poi, tornando a guardare Amber.

- Ti prego di portare rispetto alla mia cara amica. Si chiama Aurore.

- Aurore? Che razza di nome poco elegante è questo?

Commentò, rialzandosi. Era piuttosto alto, quasi come Shemar.

- Di certo è più elegante del tuo, Leandrus. Porta rispetto e non farti riconoscere sin da subito.

Intervenne a sorpresa il giovane dietro di lui, raggiungendoci e facendo un piccolo inchino. Inizialmente non me n’ero accorta, ma aveva lo stemma dell’ambra sul farsetto.

- Perdonate l’insolenza del mio amico, Milady.

Disse pacatamente, io lo guardai perplessa, mentre Leandrus sbottò.

- Sempre il solito.

Borbottò, incrociando le braccia.

- Lasciate che mi presenti. Mi chiamo Blaez Vanbrugh, è un piacere conoscervi.

- Vanbrugh?

Domandai stupita, guardando ancora una volta Shemar e poi Blaez. Non si somigliavano per niente. Blaez aveva i capelli biondo scuro, più corti, il colore dei suoi occhi oscillava tra l’indaco scuro e il blu, aveva qualcosa di piuttosto affascinante, probabilmente dovuto ai modi, e la voce suadente. E a quanto pareva, il capo era proprio lui.

- Siete parenti?

- Una sorta di cugino.

Rispose Shemar, guardandolo.

- Non ci si vede spesso, Lord Blaez.

- Se tu avessi rinnegato il tuo cognome forse avremmo avuto più possibilità, mio caro.

Dispute familiari…

- Preferisco così.

Asserì Shemar, facendo spallucce.

- In ogni caso, nonostante tu sia nella guardia imperiale, hai la possibilità di proteggere la nostra Lady, dovresti esserne comunque soddisfatto.

- Molto più di quanto voi crediate, Milord.

- Ne sono lieto. Ma dite, Aurore, da dove venite?

Mi domandò, sorridendo in un modo talmente dolce che mi fece arrossire. Accidenti, era una cosa che detestavo, ma sembrava proprio che con gli abitanti dell’Underworld stessi mettendo in luce lati di me che non credevo nemmeno esistessero.

- Ecco… io a dire il vero…

Esordii, rigirando i pollici nella speranza di un aiuto.

- Viene dalla campagna.

Spiegò Amber, la mia salvatrice.

- Campagna?

Chiese Leandrus, stupito, poi scoppiò a ridere.

- Ma certo, c’era da immaginarlo, guarda com’è rozza!

A quel punto, avrei voluto sferrargli un pugno in piena faccia sperando di essere così fortunata da rompergli qualche dente, ma mi limitai a digrignare i denti, sapendo che quel gesto avrebbe finito col compromettere Amber. Che cosa non si faceva per il quieto vivere… Blaez comunque, ignorò molto signorilmente il commento dell’amico.

- Ho avuto modo di visitare spesso le campagne, ma se avessi avuto la possibilità di cogliere un così raro fiore non avrei esitato.

Gli lanciai un’occhiata perplessa, non capivo quel discorso, e lui probabilmente se ne accorse. Non fece altri accenni, ma si rivolse ad Amber.

- Ad ogni modo, siamo venuti a porgerti i saluti e a inoltrarti un invito formale alla festa per la Renaissance. Siete tutti invitati, ovviamente. Quest’anno, sarà data al palazzo Vanbrugh, spero che ci farete quest’onore.

- Quando sarà di preciso?

Chiese Amber. Una parte di me, nell’osservarli, pensò che insieme erano davvero belli, chissà se anche Shemar l’aveva notato. Se l’aveva fatto, di certo non dava alcun segno, era piuttosto stoico.

- Domani sera. Ovviamente avrete tutto il tempo di prepararvi al meglio.

- Mi raccomando, Amber, non accetterò un rifiuto per il ballo questa volta.

S’intromise arrogantemente Leandrus, a cui la mia amica rispose con uno sguardo di sufficienza.

- Accetto il tuo invito, Blaez, ti ringrazio. Porta i miei saluti alla tua famiglia e qualche volta, fermati anche a salutare tuo nonno, passa più tempo negli archivi che a palazzo.

Il nonno… archivi?

- Vostro nonno è Angus?

Domandai stupita. Ero davvero sorpresa.

- Sì, mia cara.

Sorrise Blaez, poi acconsentì.

- Mi fermerò a salutarlo mentre andiamo via.

- Bene. Vi accompagneremo noi.

Comunicò Amber, incamminandosi e raggiungendo in poco il lungo corridoio illuminato. I due nobili la seguirono, io rimasi indietro con Shemar.

- Non ti dà fastidio?

- Cosa, signorina?

- Il fatto… beh… tutto questo.

Shemar continuò a guardare la figura slanciata di Amber che si perdeva in lontananza.

- Perché dovrebbe? In fondo, io non posso ambire a ciò che non mi è concesso.

- Che vuoi dire?

- Vedete… mia madre è stata diseredata per aver sposato mio padre. Ciononostante, alla mia nascita, ero l’unico maschio su cui la famiglia Vanbrugh potesse contare, fino a che non nacque Blaez. Avrei potuto in qualche modo tornare a far parte della famiglia se avessero avuto bisogno di un candidato alla carica di Despota per la nuova generazione, ma mai avrei desiderato essere un Vanbrugh se questo avesse dovuto significare rinnegare mia madre e mio padre… so che ho dovuto rinunciare a una condizione agiata e al titolo, ma lo farei mille altre volte se questo volesse dire essere l’amato figlio di Vere e di Gregor. I miei genitori mi hanno insegnato cosa sia la felicità e il mondo degli oligarchi non fa per me, è soltanto un gioco al massacro.

- Ma allora Amber?

- Amber è diversa. Lei è nata e cresciuta in quel mondo e sa come difendersi. E se non dovesse farcela, allora sarei io a farle da scudo e da spada. Ma se un giorno dovesse decidere di sposare qualcuno, allora non potrebbe scegliere liberamente e io non potrei farmi avanti. Ma la sola cosa che desidero è che lei sia felice.

- Credo che sarebbe felice accanto a te…

Mi guardò con la coda dell’occhio, poi intravidi l’ombra di un sorriso.

- Chi lo sa. Ma per quanto in mio potere, renderla tale è ciò che cerco di fare.

- Spero che un giorno venga il tempo in cui potrete stare insieme, Shemar.

Sussurrai, dandogli una pacca sulla spalla. Non replicò, ma mi propose di raggiungere il gruppo e così facemmo, percorrendo i corridoi del palazzo. Marmo ovunque, era tutto davvero magnificente e luminoso. Raggiungemmo gli archivi dopo poco, e rimasi stupita della grandezza. Se mi ero meravigliata di quanto fosse ben fatta la biblioteca della mia scuola, beh, era niente davanti alla mia faccia nel vedere tutto quel ben di Dio.

- Qui è contenuta tutta la conoscenza di Shelton.

Spiegò Shemar, scendendo le scale che portavano all’interno della sala.

- Non è stata toccata dalle guardie imperiali?

- Purtroppo sì, nulla ne è stato esentato.

- Cosa poteva esserci di così compromettente?

Mi chiesi, guardando gli scaffali che salivano per metri lungo le pareti. Il soffitto riproduceva un’elegante volta stellata, mentre il pavimento raffigurava dei sentieri.

- La strada che conduce al giglio dorato…

Riflettei a bassa voce, mentre camminavamo lungo quella strada dipinta. Raggiungemmo il gruppo, trovando anche Damien alle prese con la lettura di alcuni libri.

- Hai trovato qualcosa di interessante?

Chiesi, avvicinandomi a lui. Sollevò lo sguardo verso di me, facendo cenno di no.

- Lascia stare… almeno per oggi…

- Non posso farlo, lo sai.

- Come preferisci…

- Vi conoscete?

Ci richiamò Leandrus, avvicinandosi incuriosito.

- E questo chi è?

Borbottò Damien, seccato.

- Te lo spiego dopo…

Risposi.

- Sì, siamo amici, Lord.

- Tsk, un altro della schiatta…

Continuò a bofonchiare Damien e io gli assestai una gomitata non vista.

- Piantala, Aurore.

Protestò, sibilando.

- Oh… che stai leggendo, contadino?

- Come mi hai chiamato, prego?

Il despota lo guardò di sottecchi, io deglutii.

- Vieni dalla campagna, preferivi forse che ti chiamassi Milord?

Si mise a ridere, divertito di quel punzecchiamento. Si vedeva che era abituato a trattare la gente come voleva, incurante di chi avesse davanti. Damien chiuse il libro, alzandosi.

- Ehi… calma, ok?

Cercai di prevenire qualunque azione, avendo già visto Damien arrabbiato. Mi misi tra loro, ma se avessero potuto incenerirmi l’avrebbero fatto.

- Ti fai difendere da una donna?

Insinuò con tracotanza e vidi un ghigno sinistro comparire sul volto di Damien.

- Ascoltami bene, idiota. Se pensi di avere davanti a te un tuo pari lascia che ti dica che sei completamente fuori strada.

Damien Warren… dannazione, era mai possibile che questo ragazzo non perdesse occasione per attaccare briga?! E per di più con un nobile stavolta… in che guaio mi ero cacciata?!

- Mi hai dato dell’idiota? Questo sarebbe sufficiente a farti sbattere in cella a vita, lo sai?!

Gli animi si stavano scaldando e io ero ancora in mezzo. Cercai di calmarli entrambi ma ormai era come se fossi invisibile. Damien mi scansò, spingendomi dietro di lui e fermandosi di fronte a Leandrus. Era di poco più basso, ma non per questo intimidito.

- Devi soltanto provarci e io ti giuro che ti farò pentire di averci anche soltanto pensato.

C’era qualcosa di minaccioso nel suo tono, qualcosa che conoscevo e che mi spaventò.

- Damien, basta…

Leandrus aguzzò lo sguardo.

- Non mi dimenticherò di te. Stai attento, ragazzino.

- Al contrario, io me ne dimenticherò presto. Non sei degno di rimanere nei miei pensieri più di questo momento.

Preso in contropiede, Leandrus si ritrasse, come se fosse stato punto nell’orgoglio, ma avevo la sensazione che non sarebbe finita lì. Infatti, fummo raggiunti da Blaez che prontamente posò la mano sulla spalla di Leandrus, tirandolo indietro e ammonendolo.

- Smetti di infastidire gli ospiti di Amber.

Ordinò con tono gelido, ma a chi doveva essere abituato, come Leandrus, quell’ammonizione parve la solita e così sbuffò, facendosi indietro.

- Non so davvero come fare con lui.

- Non importa… è tutto ok…

Mormorai. Damien rimase impassibile.

- Tu dovresti essere Damien, non è così?

- Sì.

- Mio nonno dice che saresti un buon apprendista. Perché non valuti l’idea di intraprendere la carriera dell’archivista?

- Perché non mi interessa.

- Vedo che sei piuttosto schietto.

- Ho la pessima abitudine di dire in faccia ciò che penso, Lord.

- Beh, credo che sia una buona qualità, invece… soprattutto in un mondo di menzogne.

Quelle parole mi colpirono nuovamente, era come se Blaez avesse capito qualcosa. Il che era un rischio.

- Può darsi. Se volete scusarmi.

Si limitò a rispondere, tornando alla sua lettura.

- Damien…

Mormorai.

- Bene, cara Aurore, ci vediamo domani sera allora.

- V-Va bene… grazie per l’invito…

Balbettai, a disagio. Ero davvero imbarazzata. Blaez mi rivolse un piccolo inchino, poi afferrò per la collottola Leandrus e si incamminò verso gli scaffali dove Angus, Amber e Shemar stavano conversando. Dopo averli salutati, i due andarono via. E io, ancora una volta, ebbi la sensazione che ciò che mi aspettava era ancora tutto da scoprire.

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Capitolo 21
*** IX. 2 parte ***


Bonjour! <3 Seconda e ultima parte del 9° capitolo! <3 Dal momento che non avevo voglia di dividerlo ulteriormente, eccolo per intero! <3 Notte della Renaissance a palazzo Vanbrugh! <3 Cosa accadrà? <3 Devo dire che mi sono divertita parecchio a scrivere questo capitolo, spero che vi piaccia e di leggere qualche commento! ç_ç<3 E intanto un grazie di cuore alla mia Taiga-chan che con le sue parole, la sua verve e gli incoraggiamenti mi sta dando davvero una grande mano!! *___* E ha contribuito a far sì che la mia ispirazione tornasse! <3 Grazie, tesoro!! *---*

Buona lettura!! >_<

 

 

 

 

 

 

 

L’indomani trascorremmo la giornata a provare vestiti. Sybille si era data piuttosto da fare nel mese che avevamo trascorso nella residenza estiva, motivo per cui potevamo contare su una vasta (e quando dico vasta intendo proprio enorme) collezione di abiti da provare. Se mi ero stupita della versatilità di Sybille in precedenza, lo feci anche stavolta. Quella donna era in grado di fare tutto, nel verso senso della parola. Forse era una caratteristica della servitù dell’Underworld, chissà. In ogni caso, non avevo mai provato tanti vestiti fino a quel momento e tutti diversissimi tra loro. La sola cosa che avevano in comune era la mano elegantissima che li aveva creati. Alla fine, nel pomeriggio, scegliemmo finalmente gli abiti adatti per la festa. Quando vidi Amber uscire dal separé con indosso un vestito rosso scarlatto che ne metteva in risalto tutto lo splendore rimasi a bocca aperta. Il corsetto, ben stretto attorno alla sua vita, aveva una scollatura profonda che ne metteva in evidenza il seno prosperoso, ed era decorato con motivi floreali dorati che risalivano seguendo le sue forme. Acanto a prima vista. La gonna, molto ampia, si apriva come una sorta di calla rovesciata, sotto cui si intravedeva una sottoveste rosata. Con gli accessori appropriati sarebbe stata sicuramente la più bella della serata.

- Che te ne pare, Aurore?

- Davvero bellissima, ti invidio molto…

Confessai, pensando che al confronto avrei sicuramente sfigurato.

- Non devi. Son certa che sarai molto più bella di me, se accetterai di affidarti a Sybille.

Rispose, indicando la nostra aiutante, che annuiva.

- Mi lascerai fare, Aurore?

- Se proprio devo…

- Bene!

Esclamò divertita e raggiungendomi.

- Però…

Cercai di protestare, ma me lo impedì il suo sguardo sadico.

- Niente però, né ma, nè niente. Hai accettato, signorina. E voi, Milady, non provate nemmeno a farvi vedere con quegli abiti prima che abbia finito di acconciarvi. Anzi, Milene?!

Urlò e dovetti sincerarmi che quell’urlo non mi avesse lasciata sorda. Di lì a poco, Milene si affacciò alla soglia della stanza, inchinandosi di fronte a noi.

- Cosa posso fare?

- Sei ufficialmente assegnata ad Amber, falla splendere.

Amber ridacchiò, io guardai Sybille terrorizzata. Quando voleva quella donna era dispotica, ma credo che se fosse stata diversa non avrebbe potuto essere la governante dei Trenchard.

- Milady, volete seguirmi?

Domandò con pudore Milene e Amber la raggiunse.

- Mi raccomando, fa’ splendere anche la nostra Aurore, Sybille.

Sorrise poi, uscendo.

- Sarà fatto.

Concluse Sybille, prendendo congedo per poi rivolgersi verso di me.

- Sei pronta, cara?

- Sono nelle vostre mani.

Dissi, poco convinta, prima di abbandonarmi alle sue “cure”.

Mentre procedeva con i preparativi, io pensavo alla Renaissance. Avevo letto diverse cose al riguardo. Sembrava quasi una sorta di rito di passaggio, una festa d’epoca antica e diventata annuale col passare del tempo, per festeggiare un evento particolare, la manifestazione della potenza della Croix du Lac, che dava segno della sua presenza nel mondo attraverso un rituale che prevedeva la rigenerazione della natura. Da molti anni, però, questo non avveniva più, e in molti ritenevano che fosse dovuto all’ira della Croix du Lac che voleva in qualche modo punire il mondo che l’aveva tradita, scaraventato nell’oscurità più completa. Ancora una volta tutto riconduceva alla grande ribellione. Non avevo scoperto nulla di nuovo su questa, invece, era come se fosse tutto scomparso nel buio all’epoca in cui successe. Volatilizzato. Ciononostante, i nobili della nuova generazione e gli oligarchi fedeli all’Impero, amavano festeggiare la Renaissance, in attesa che la Croix du Lac desse ancora una volta un segno. Per loro, doveva essere qualcosa di davvero importante, se si prodigavano tanto. Per me, questo appariva come una cosa davvero strana. In più l’idea di prendere parte a una festa non mi piaceva particolarmente, soprattutto dal momento che avremmo rivisto Leandrus, e sarei dovuta stare attenta a soppesare bene i miei atteggiamenti, senza contare il rischio dovuto alla mia esposizione. E poi quel ragazzo non mi piaceva per niente. Al contrario di Blaez, probabilmente, che sembrava sicuramente più affidabile. Trascorse circa un’ora quando Sybille mi comunicò che aveva finito e mi ordinò di voltarmi verso il grande specchio che faceva da cornice a un armadio di ciliegio. Quando mi girai, vidi per la prima volta una persona estranea, qualcuno che non conoscevo, che mi ricordò, per qualche istante, i miei sogni di bambina a Chambord. Una figura slanciata, dalla pelle chiarissima, i capelli neri come l’ebano acconciati in un’elegante coda alta laterale, con riccioli che scendevano lungo i lati del viso lievemente truccato e il collo, attorno al quale brillava il ciondolo d’ametista, dal colore identico a quello degli occhi sorpresi. Un abito viola chiaro fasciava il tronco, con intagli più scuri, a prima vista foglie, che si diramavano lungo i bordi superiori. Le maniche a sbuffo scendevano in volute sulle braccia, al polso, il braccialetto d’argento. La gonna si apriva dal fianchi sino a coprire totalmente le gambe, era ampia, un po’ meno di quella di Amber, ma incredibilmente delicata. Seta su seta, i riflessi della luce sull’abito davano la sensazione di un’immagine in movimento, conferendole un’aria eterea. Incredula, portai la mano al viso per cercare un contatto. Non potevo essere io quella. Eppure, ero io.

- Che ne dici, cara? Ti piace quest’abito?

Se mi piaceva? Certo, come avrei potuto dire che non mi piaceva? Solo… che per qualche istante, avevo dovuto fare i conti con ciò che ero in quel mondo.

- E’ bellissimo, Sybille… grazie…

Sussurrai timidamente quando ripresi il controllo di me. Lei annuì compiaciuta.

- Sapete fare davvero tante cose…

- Certo, o non sarei quella che sono, no?

Domandò, retorica.

Sorrisi e l’abbracciai, lei rimase sorpresa per qualche istante, poi mi rivolse una dolce carezza.

- Non sgualcire il vestito o giuro che te la faccio pagare.

Minacciò poi, con dolcezza che mi fece ridere.

- Va bene, farò attenzione. Posso andare?

- Va’ pure, e divertitevi.

- Grazie!

Esclamai, uscendo dalla stanza dopo aver rivolto un’ultima occhiata allo specchio e contemplando ancora una volta quell’immagine che mi piaceva, tanto. Raggiunsi il salone del palazzo, dove Damien e Shemar ci attendevano, seduti sui divani. Non vidi Amber, probabilmente doveva ancora finire, e così salutai i due.

- Ragazzi!

Si voltarono non appena sentirono la mia voce ed ebbi la soddisfazione di vederli sgranare gli occhi per un istante. Quantomeno la mia mise non era indifferente. Quando si alzarono per raggiungermi, però, anch’io non rimasi indifferente. Se mi ero stupita di quanto Shemar potesse essere bello con indosso degli abiti da nobile, quando lo vidi in uniforme rimasi senza parole. Avevo già intravisto quegli abiti sotto l’impermeabile nero, ma stavolta, tolto quello, vidi il vero aspetto che avevano le guardie imperiali. Il soprabito, molto scuro, era bordato da fasce argentate ricche di intagli. Sulle spalle, i gradi presumibilmente, rappresentati da una treccia che scendeva fino a metà del braccio incurvandosi verso la spalla opposta, dov’era poi fissata da un bottone d’oro bianco. Stretto in vita da una cintura, scendeva come un tight lungo i fianchi, coprendo i pantaloni neri infilati in alti stivali fermati da ganci. Le mani erano coperte dai guanti che conoscevo, e ancora una volta, vidi il sigillo del giglio ambrato, a differenza della Croce di diamante, che invece spiccava sulla manica sinistra. Grazie a Blaez tuttavia, avevo capito che a Shemar era concesso scegliere quale sigillo portare in quanto cavaliere personale di Amber, cosa che probabilmente era avvenuta prima del suo debutto come guardia imperiale. Vidi ancora una volta i capelli castani legati in una coda che scendeva lungo la spalla libera, era molto elegante. Al fianco, la spada che aveva quasi ammazzato Damien una volta. Quest’ultimo, diversamente da Shemar, indossava degli abiti più classici, blu scuro. Sotto al gilet, una camicia candida di seta, alla vita una cintura argentata. Era un abito molto semplice e sarei stata pronta a scommettere che fosse stato lui stesso a chiedere qualcosa del genere. Damien non era tipo da lasciarsi influenzare, ma dovevo ammettere che anche così, faceva la sua figura.

- Accidenti, state davvero bene…

Commentai, sperando che non avvertissero la mia sincera meraviglia. Quella sera avrei dovuto avere più contegno del solito.

- Anche voi, signorina Aurore.

Rispose con un sorriso incredibilmente cortese Shemar, prima di inchinarsi a baciarmi la mano. Sentii il tocco lieve delle sue labbra sul dorso della mia mano destra ed ebbi la sensazione di avere il viso in fiamme. Chissà se ero arrossita. Abbassai lo sguardo per qualche istante, poi aprì un occhio in direzione di Damien, che ci osservava senza batter ciglio. Di lì a poco, Shemar si risollevò, notando il mio palese imbarazzo. A quel punto, successe qualcosa che non mi aspettavo.

- Dovresti onorare la dama, Warren.

Disse Shemar, rivolgendosi verso Damien, che sollevò un sopracciglio.

- Perché? Ti faccio presente che noi due non siamo di qui, dunque le convenzioni non ci riguardano.

- Non è questione di convenzioni. Ma davanti a una simile creatura, è una grave mancanza di rispetto da parte del cavaliere.

- Francamente non mi interessa.

Inarcai anch’io un sopracciglio, questa se la poteva risparmiare.

- E certo, chi vorrebbe farsi baciare la mano da uno come lui?

Chiesi, sarcastica.

- Io, ad esempio.

La voce di Amber risuonò nella sala. Ci voltammo, era sulla soglia, con la mano in quella di Hiram, che la scortava. Se prima avevo detto che era stupenda, questa volta non avevo davvero parole per descrivere come quella ragazza risplendesse. L’acconciatura, mista a fermagli che ne mettevano in risalto i capelli biondissimi, accompagnata a un trucco leggerissimo, era assolutamente divina. Tutto in Amber Trenchard gridava la sua nobiltà. Con leggiadria percorse i passi che ci dividevano, giungendo davanti a noi.

- Grazie, Hiram.

Disse, e Hiram lasciò la sua mano, inchinandosi.

- Milady.

- Puoi andare.

Ordinò poi, prima di rivolgersi a noi. Non mi ero accorta di essere rimasta con la bocca aperta per la meraviglia, ma un colpo di tosse studiato ad arte da parte di Amber mi fece rinsavire.

- Sei meravigliosa, Amber…

Le dissi, incredula.

- Ti ringrazio, Aurore, e lo sei anche tu.

- Grazie…

Risposi, arrossendo.

Poi guardò Shemar per un secondo, e si rivolse a Damien, che la osservava.

- Allora, saresti così gentile da farmi da cavaliere, questa sera?

- Ca--- Cavaliere?!

Esclamai, stupita.

- E tu?!

Domandai a Shemar, che si limitò ad annuire.

- Damien… Damien non è capace… insomma, si rifiuta persino di fare il bacia---

Non feci nemmeno in tempo a terminare la parola che Damien Warren si inchinò, con una grazia mai vista in quel ragazzo e raccolse la mano vellutata di Amber, baciandola con delicatezza.

- Che… che cavolo…

Non so cosa mi successe, ma fui sopraffatta da un impeto di rabbia nei confronti di quel ragazzo. Sconfitta. Non me l’aspettavo, ma si era rifiutato prima, con me. Strinsi forte il pugno, cercando di soffocare il tremore che mi stava per invadere, ma che Shemar, prontamente, fece scomparire, dandomi una pacca sulla spalla.

- Rifiuterete questo cavaliere, signorina?

Domandò, gentile.

Non l’avrei certo fatto, ma in quel momento, ero davvero arrabbiata… o forse soltanto delusa. Raggranellando un po’ d’orgoglio, mi feci forza.

- Ovviamente no.

- Grazie. Cercherò di non deludervi.

Sorrise e io ricambiai stentatamente quel sorriso.

Damien intanto si era rialzato ed era di fronte a noi assieme ad Amber.

- Se non ci sono altre obiezioni, possiamo andare.

Disse lei, e noi annuimmo.

 

Quando arrivammo, a bordo della carrozza di gala della famiglia Trenchard, mi ritrovai a contemplare una deliziosissima dimora finemente arredata. La prima cosa che mi colpì fu il gioco di luci e di acqua. C’erano infatti numerose fontane che attraversavano il viale che portava alla residenza. Gli zampilli creavano degli archi luminosi molto suggestivi, e il tutto era amalgamato dal verde delle piante. Nell’Underworld la vita era apprezzata molto più che nel mio mondo, troppo abituato alla frenesia. Era davvero estasiante vedere tutte quelle meraviglie.

Quando arrivammo alla soglia del palazzo, Blaez ci raggiunse, inchinandosi e così fecero gli altri nobili intervenuti. Stavano salutando Amber.

- Ben arrivata, Lady Amber. Shelton vi pone i suoi più deliziosi omaggi, nella notte della Renaissance.

Pronunciò, con voce suadente il giovane padrone di casa.

Amber replicò a quel saluto con un inchino formale, poi pose la mano a Blaez che la baciò e si rialzò.

- La nostra Lady, my Lords.

Disse, rivolgendosi agli invitati che applaudirono.

Ad occhio e croce, dovevano essere almeno una cinquantina di persone. C’era molta eleganza, ma Amber superava di gran lunga ogni donna di quella sala.

- Ben trovati, cari amici.

Disse poi, rivolgendo un radioso sorriso. Era felice.

- Prego, continuate pure la festa.

Concluse, e così avvenne.

- Però, sembra proprio che Amber sia molto amata dai suoi sudditi…

Osservai.

- E’ così. Come i suoi genitori prima di lei, signorina Aurore.

Rispose Shemar.

Lo guardai mentre pronunciava quelle parole, lo sguardo sulla sua signora, quello di un innamorato. Arrossii, sentendomi quasi a disagio e lasciai la mano che aveva stretto la mia fino a quel momento, costringendo Shemar a voltarsi verso di me.

- C’è qualcosa che non va?

Soltanto l’imbarazzo, pensai, ma feci ugualmente cenno di no.

- E’ molto bello, tutto quanto, non è così?

- Se ti piace il genere…

Intervenne Damien, e io aggrottai le sopracciglia.

- Guarda chi c’è.

Lo punzecchiai, ma non si scompose. Odiavo quella sua stramaledettissima compostezza.

- Sei rimasto senza dama, Damien?

Gli chiesi.

- Sembra che Amber debba adempiere ai suoi doveri.

- E tu invece sei rimasto fregato. Ben ti sta.

Risposi, sollevando un sopracciglio. Non mi rispose, ma ricambiò silenziosamente lo sguardo fino a che Shemar non si mise a ridacchiare.

- E tu che hai da ridere?

Domandò Damien.

- Mentre voi continuate questa schermaglia, non vi accorgete del clamore che state suscitando?

- Clamore?

Chiesi, guardando verso gli invitati che effettivamente, parlottavano tra loro.

- Tsk, ci mancava essere un fenomeno da baraccone.

Dissi.

- Lo fanno perché è la prima volta che ti vedono.

Rispose Amber, tornando verso di noi con Blaez.

- Miei cari.

Salutò educatamente il giovane, con una cadenza che mi fece quasi arrossire.

- Lord Blaez… grazie ancora per l’invito…

Cercai di articolare, con scarso successo, devo dire.

- Anche da parte mia. Sebbene non capisca per quale motivo abbiate voluto che ci fossimo anche noi.

Intervenne Damien.

Blaez Vanbrugh gli rivolse uno sguardo attento. Era evidente che aveva capito che Damien non poteva essere un contadino, e probabilmente, aveva capito lo stesso anche nei miei riguardi.

- Perché desidero che tutti abbiano la possibilità di osservare il miracolo della Renaissance, mio giovane amico.

- Miracolo?

Chiese Damien.

- Esatto. Si dice che prima o poi, durante la Renaissance, il miracolo della luce si manifesterà. Al momento lo stiamo attendendo da diversi anni, ma mi auguro che sia la volta buona. E credo, se me lo permettete, che questa lo possa essere. Aurore, puoi concedermi l’onore del primo ballo, se il tuo cavaliere acconsente?

Chiese poi, ponendo particolare enfasi su quella parola, così tanta che Shemar affilò lo sguardo verso di lui, prima di acconsentire.

- Se la mia Lady lo desidera…

In quel momento guardai Amber, che non fece alcun cenno, poi realizzai che si stava riferendo a me e mi trovai davvero in imbarazzo. Non erano certamente cose che facevano per me. Tuttavia, dopo aver preso un gran respiro, acconsentii. Blaez mi tese la mano, che io raccolsi un po’ titubante, per poi condurmi, attraverso il manipolo mormorante di nobili intervenuti, al centro della sala. Fremetti quando mi avvinse a sé, stringendomi per la vita e fissando i suoi occhi dal colore delle profondità oceaniche sui miei.

- Prego, che siano aperte le danze!

Esclamò poi con voce gioiosa. E quando questo avvenne, cominciammo a danzare.

Se c’era una cosa che non sapevo fare era proprio questa. Sin da piccola, sebbene mi piacesse, ero piuttosto negata, senza contare che Evan non era mai stato il fratello che incitava. Al contrario, era sempre pronto a farmi notare più o meno affettuosamente che certe cose non facevano per me. A volte, spesso, ci rimanevo male, ma poi ci pensava la mamma a tirarmi su il morale, e a insegnarmi delle danze. Forse un tempo non ci avrei fatto caso, tanto mi sembravano antiquate, ma in quell’occasione, quelle lezioni mi tornarono molto, molto utili. Sorrisi al ripensare a quando era lei a farmi da cavaliere, sotto lo sguardo a volte un po’ seccato di mio fratello…

- E uno e due e tre, il cavaliere e la dama battono la mano e si cambia il giro. E uno e due e tre, un altro battimano e si cambia cavaliere.

Mi diceva, con lo sguardo felice di chi aveva danzato, in tempi lontani, diversi, magici.

- Mamma, oggigiorno si balla tutt’altro…

Confessavo, un po’ dispiaciuta all’idea di dover imparare schemi che non mi interessavano più di tanto.

- Davvero? E cosa si balla? Sentiamo.

Mi chiedeva poi la mamma, sinceramente incuriosita, con le mani sui fianchi in attesa di poter provare.

- Evan, vieni anche tu!

- Scordatelo, mamma. Sai che queste cose non fanno per me.

Sbadigliava annoiato il mio poco socievole fratello maggiore.

- Molto bene, se non vuoi venire, vorrà dire che casualmente, dimenticherò nel forno una certa quiche e un certo qualcuno rimarrà a digiuno questa sera. Non credi ci sia questo rischio se Evan non ci dà una mano, Aurore?

Un’occhiata complice e un bel calcio nell’orgoglio di mio fratello.

- Assolutamente, mamma!

- Tsk. Non è proprio normale… mamma scriteriata…

Protestava Evan, ma poi ci raggiungeva pronto a ballare assieme a noi.

- Siamo al completo, che ballo ci insegni, tesoro?

Allora ci pensavo, cosa mai sarebbe potuto piacere alla mamma? Provavo con dei balli di gruppo, provavo con qualunque musica commerciale si potesse anche solo provare a ballare, e lei incuriosita ascoltava, studiava tutte le mie mosse e ballava, ballava felice, e io con lei. Evan, musone, muoveva qualche passo per tenerci contente, fino a che quegli sciocchi balletti non diventavano pian piano quegli schemi da cui tanto rifuggivo, e che in realtà, con una maestra così, avevo imparato senza nemmeno rendermene conto.

- Sei brava, Aurore, complimenti.

Sbattei le palpebre, poi un battito di mani tra me e Blaez Vanbrugh mi riportò al presente.

- Grazie.

Sorrisi.

- Non c’è di che.

Un gioco di piedi, si cambiò giro.

- E’ quasi come se fosse naturale…

- Non dovrebbe esserlo?

- Non lo so… cioè, sì!

Mi affrettai a dire.

- In realtà non sono così portata…

- Credimi, lo sei molto di più di quanto immagini.

Sorrise, per poi battere nuovamente le mani, in un fugace saluto, prima di allontanarci. Lo seguii con lo sguardo, mentre accompagnava un’altra dama, e un’altra ancora, e io ero accompagnata da un altro cavaliere, e da un altro ancora, prima di ritrovarmi davanti Damien. Battemmo le mani, poi prendemmo a girarci intorno secondo lo schema.

- Conosci questa danza?

Chiesi stupita.

- Sybille non ha seviziato soltanto te…

Bofonchiò, io mi misi a ridere.

- Non ti ci vedo proprio a prendere ordini di questo tipo…

- E invece sono stato costretto…

Battemmo le mani un’altra volta, cambiammo giro.

- Stai attenta, dietro c’è quell’idiota… non sai che voglia di prenderlo a pugni.

Mi scostai, intravidi Leandrus che ci guardava e raggelai.

- Che orrore…

- Non pestargli i piedi. Lo farò io appena ne avrò l’occasione.

- Così verrò a trovarti in qualche strana prigione di questo mondo.

Risi, per poi congedarmi dal suo broncio e passare a Leandrus.

- Ma guarda, ci rivediamo.

- Sembra di sì.

Cercai di non dargli alcuna soddisfazione, fui piuttosto brava in tal senso, tanto che non proferì parola, ma si limitò a danzare. Chissà, forse era stato ammonito di nuovo da Blaez, o forse non voleva fare brutta figura con Amber. Notai infatti che il suo sguardo era praticamente fisso su di lei, che danzava con Shemar. Sorrisi nel vederli, erano bellissimi ed era quasi divertente vedere Leandrus rodere perché non poteva averla. C’era giustizia in quel mondo, in qualche modo.

Poco prima della fine della musica, mi ritrovai come cavaliere un nobile di mezz’età, dall’aria piuttosto severa, o almeno così mi parve. Si presentò come Helias Delgado.

- Non siete di queste parti, vero, mia cara?

Chiese, gli occhi cerulei che mi osservavano.

- In realtà, sono un’amica di Lady Amber, sono cresciuta nelle campagne di Shelton…

- Avrei detto che avevate qualcosa di più esotico, in un certo senso…

- Esotico?

Gli feci eco, stupita.

- Mi chiedevo da dove provenisse quel ciondolo, il suo bagliore argenteo mi ricorda molto alcune pietre che ho visto ad Adamantio.

Istintivamente, non appena la musica si concluse, sciolsi la presa, allontanandomi.

- Non capisco cosa vogliate dire…

Risposi, farfugliando e guardando il mio ciondolo. Per un attimo sgranai gli occhi, non mi ero accorta del fatto che avesse cambiato colore. Ora, la luce che emanava, era un pallido argento, come se si fosse nuovamente assopito. Sussultai, mentre la mia mente pullulava di domande alle quali non potevo dare risposta.

- Siete stata ad Adamantio, Milady?

- I-Io non… no…

Indietreggiai, sentendo improvvisamente l’attenzione troppo interessata di quell’uomo e avendone paura. Poi, alle mie spalle, sentii due mani forti fermarmi. Mi voltai sconvolta, per poi rilassarmi quando vidi il volto rassicurante di Shemar.

- Tutto bene?

- Shemar…

Sussurrai, sorridendo, mentre quello spavento di poco prima scemò.

- Che succede?

Domandò poi, rivolgendosi a Lord Delgado.

- Niente, giovane Lambert. Chiedevo alla signorina se per caso fosse stata ad Adamantio.

Rispose, con aria del tutto innocente. Io posai la mano su quella di Shemar. Lo notò e voltò la sua, stringendo la mia.

- Vi prego, Milord, di non recarle disturbo. E’ ospite della mia signora, e dunque vi chiedo di trattarla con la stessa cortesia con cui trattate Lady Amber.

- Non mancherò.

Rispose, rivolgendoci un accurato inchino a cui risposi con un cenno imbarazzato.

- Godetevi la festa, miei cari.

Disse poi, allontanandosi in direzione del buffet.

- Shemar?

Dissi, richiamando la sua attenzione.

- Cosa c’è, signorina?

- Grazie…

Sussurrai, stringendogli più forte la mano. Sorrise, poi mi rivolse un mezzo inchino e mi propose di raggiungere Amber e Damien. Non ci avevo fatto caso, ma quando li vidi, capii che avevano assistito alla scena e sul volto di Amber, intravidi la preoccupazione.

Quando li raggiungemmo, infatti, mi domandò cos’era successo, e glielo spiegai.

- Delgado, eh?

Si chiese, rimuginando.

- Credo di aver capito chi è. Non è di queste parti, viene da Camryn, dunque…

Poi si interruppe, guardandosi intorno, alla ricerca di qualcosa o di qualcuno.

- Chi cerchi?

Chiesi, ancor più confusa.

- Probabilmente Lady Cartwright, Amber?

Intervenne Blaez, accompagnato da Leandrus, raggiungendoci con in mano un calice di vino rosso.

- Lady Cartwright?

Chiese Damien, aggrottando le sopracciglia.

- Proprio così. Sfortunatamente, ci ha già preceduti nei giardini, dal momento che non aveva molta voglia di danzare, stasera, nemmeno con me.

Comunicò il giovane nobile, con un tono che poco aveva di dispiaciuto.

- Era la vostra dama, Lord?

Domandai.

- Qualcosa del genere, mia cara.

Rispose, sorseggiando il vino.

- Ad ogni modo, non mi stupirebbe se se la fosse presa per averti visto ballare con questa ragazzina.

Punzecchiò Leandrus e io sollevai un sopracciglio. Prima ancora che potessi rispondere, però, Amber lo zittì con un’occhiata gelida. Molto stupidamente, Leandrus sembrò essere comunque felice di quel gesto. In qualche modo, Amber gli aveva rivolto un cenno. Dopo averlo osservato a sua volta, Blaez tornò a guardarci.

- Che ne dite di una caccia al tesoro? I giardini della residenza sono già stati predisposti e se lo desiderate, potete prendervi parte, tutti.

Sorrise poi, divertito.

- Una caccia al tesoro? Con quale scopo? Ero convinto che fossimo qui per assistere alla Renaissance.

Commentò Damien, scettico.

- Oh, vi assisteremo senza dubbio, a tempo debito.

Aguzzò lo sguardo verso di lui, Damien si stava esponendo troppo per essere un comune intervenuto alla festa.

Lo tirai per la manica, sperando che capisse, e probabilmente, ci riuscii, anche se si limitò a un cenno di assenso.

- Bene, allora…

Si rivolse poi agli invitati in sala, richiamando l’attenzione.

- Do ufficialmente inizio alla caccia al tesoro. Si svolgerà a coppie, dunque mie care dame, vi prego di scegliere il cavaliere che vi accompagnerà. E’ tassativo che si tratti di qualcuno diverso dal cavaliere con cui siete arrivate, proprio per rendere più divertente il gioco. Ho nascosto un manufatto, la chiave di diamante, e desidererei che voi la ritrovaste per me. Ovviamente, alla coppia vincitrice, sarà concesso un premio. Detto questo, vi prego di divertirvi, per recuperare lo spirito di gioia che la Renaissance ci offre in questa notte.

Mentre parlava, Blaez Vanbrugh era incredibilmente sicuro di sé, oltre che cordiale. Chissà se quel ragazzo era davvero sincero, ma per qualche ragione, aveva un non so che di misterioso, troppo per fidarmi. Quando dette il via, i nobili presenti si mossero, parlottando tra loro per decidere gli abbinamenti. Effettivamente non ci avevo pensato sulle prime, ma dal momento che avremmo dovuto cambiare cavaliere, era chiaro che non avrei fatto coppia con Shemar.

- E adesso che facciamo, Amber? Credi sia sicuro cambiare cavaliere?

Domandai, trovandola sovrappensiero. Dopo pochi istanti mi rivolse la parola, chissà a cosa stava pensando.

- Come dici? Ah, certo… beh, con un cavaliere come Damien non dovresti avere problemi… dopotutto, è giusto che sia lui il tuo, non ho ragione?

Inaspettatamente mi sentii arrossire, non so se più per il tono o per le parole.

- I-Io…

Rivolsi una timida occhiata a Damien, che ricambiò.

- Per me va bene.

Disse, tranquillo.

- Tuttavia, cerchiamo di non allontanarci troppo gli uni dagli altri. I giardini sono composti da siepi labirintiche, quindi c’è il rischio che vi perdiate.

Osservò Shemar, posando le dita sul mento.

- Perdersi?

Si intromise Leandrus, posando una mano sulla spalla di Amber.

- Non lo permetterei mai, se Milady mi facesse l’onore di scortarla.

Shemar affilò lo sguardo, ricordandomi per un istante Blaez. Dopotutto, erano parenti. Amber scostò graziosamente la sua mano, rivolgendogli un breve cenno.

- Mi spiace, Leandrus, ma dovrai occuparti di Lady Cartwright, se proprio desideri fare qualcosa, dal momento che Blaez è super partes in questo gioco.

Disse.

- Non è giusto… sei crudele, Amber… perché devi sempre maltrattarmi in questo modo?

Si lamentò, petulante, mentre si allontanava da noi in direzione dei giardini, dove molti nobili ci avevano già preceduti. La sala era ormai quasi del tutto deserta.

Amber sospirò, poi si rivolse a noi e prese sotto braccio Shemar.

- Non lo sopporto proprio certe volte, è davvero insistente.

- Dimmi una sola parola e lo spedisco ai confini dell’Underworld.

Propose Shemar allettato, e io mi misi a ridere. Era davvero geloso.

- Ti ringrazio, ma le persone a cui dobbiamo rendere conto sono fin troppe e non voglio avere a che fare anche con la sua famiglia.

Rispose, poi si incamminò assieme a lui, verso i giardini, e li vidi parlare tra loro, complici. Mi faceva stare bene guardarli, erano così affiatati che era una gioia starli a guardare.

- Andiamo anche noi, Aurore?

Domandò all’improvviso Damien. Sollevai il viso verso di lui, eravamo rimasti soli.

- S-Sì… però, prima…

Presi in mano il mio ciondolo, che ancora risplendeva d’argento.

- L’avevo notato, in effetti… sembra quasi che reagisca a qualcosa…

- Credi tornerà normale?

- Non lo so, ma almeno così nessuno sospetterà che non sei di queste parti… se non per il tuo modo di porti.

- Ehi, che vuoi dire?

Mi imbronciai, e stavo quasi per ricordargli che lui sembrava molto peggio di me, in questo. Poi ripensai alle parole di Lord Delgado, che mi aveva chiamata esotica… se era così facile smascherarmi, allora perché avevo accettato di prender parte a quella festa, quella sera? E la Renaissance, cos’era davvero? Non sapevo perché, ma sentivo che avrei scoperto qualcosa in più, durante quella strana festa.

Quando varcammo la soglia dei giardini, pochi istanti più tardi, i lampioni accesi quasi mi ferirono la vista. Dopo tanto tempo, vedere tanta luce era quasi fastidioso, tuttavia, i miei occhi si abituarono in fretta, e potemmo ammirare il panorama che si estendeva davanti a noi. Un gioco di piante creava un meraviglioso sistema di labirinti che si intrecciavano in lunghezza e in larghezza a partire dalla discesa delle scale di marmo dal color avorio. Blaez, comodamente seduto su una poltroncina, le lunghe gambe fasciate in calzoni bianchi incrociate, era impegnato a sorseggiare il suo vino e a osservare divertito il suo gioco. I nobili, Amber e Shemar compresi, avevano già imboccato i sentieri che si perdevano nell’oscurità. Ebbi un leggero brivido, poi la mano di Damien trovò la mia, stringendola e dandomi coraggio.

- Damien…

- Andiamo.

Disse, e raggiungemmo l’imbocco del sentiero accanto a quello di Amber. Mentre ci inoltravamo, rivolsi un ultimo sguardo a Blaez che sembrava guardarmi. Sollevò il calice in segno di in bocca al lupo, e poi scomparve dalla nostra vista. Eravamo ufficialmente all’interno del labirinto.

Cosa mi aspettassi là dentro, non lo sapevo, ma non avevamo fatto i conti con ciò che avremmo dovuto cercare, né con le insidie che ci aspettavano. In onore di Damien, devo dire che era sempre il primo a porsi davanti agli ostacoli, e in qualche occasione, gli fui davvero grata di aver voluto farmi da cavaliere. Così accadde quando mentre avanzavamo in quella folta vegetazione, udimmo grida di spavento più disparate provenire da lontano, ad esempio. Spesso si trattava di donne, probabilmente erano dame facilmente suggestionabili che non riuscivano a superare gli ostacoli, ma qualche volta sentimmo anche voci maschili. Chissà, forse il nobile panciuto che gustava le prelibatezze del buffet, o magari Leandrus spaventato da Shemar. Quel pensiero mi faceva quasi ridere, anche se Shemar era capace di incutere terrore, almeno così era stato quando mi aveva salvata dai maniaci nel mio mondo. Di certo, la sola che non avrei mai sentito urlare era Amber. Mentre ci affrettavamo, incontrammo il primo ostacolo da superare: un laghetto artificiale abbastanza largo da sembrare un pantano. Chissà, magari alcune dame si erano ingolfate là dentro.

- E adesso?

Chiese Damien, rivolgendosi a me.

- Saltiamo, qual è il problema?

Risposi, memore della mia agilità.

- Con indosso quei vestiti? Sybille esigerà la tua testa se lo rovinerai…

Punta. Non ci avevo pensato, ma effettivamente Sybille mi aveva già minacciata… e non era certo quello che volevo, tenevo ancora alla mia testa. Decisamente, Damien aveva sollevato una questione importante.

- Quel nobile maniaco… sarai costretta a toglierlo…

Mi suggerì, squadrandomi.

- Niente affatto!!

Mi affrettai a puntualizzare, coprendomi istintivamente.

- E allora?

- Saltiamo lo stesso.

Dissi, tirando su le gonne.

- Pensi davvero di farcela?

- Ovviamente, con chi credi di avere a che fare?

Mi studiò per qualche istante, e percepii i suoi occhi verdi addosso, come una doccia gelata. Poi mi raggiunse, prendendomi in braccio.

- D-Damien?! Che diavolo stai facendo?!

Protestai, incredula.

- Accidenti, ma quanto pesi?

- Che vuoi dire?!! Fammi scendere subito!!

Sbottai, arrossendo fino alla punta dei capelli.

- Non sia mai che manchi di rispetto a una dama, o chissà cosa potrebbe dirmi, la prossima volta.

- Damien!! Smettila di fare lo scemo, per favore!!

Sorrise, probabilmente della mia faccia imbarazzatissima, e prese la rincorsa, per poi correre verso il pantano. Chiusi gli occhi, temendo che saremmo cascati tutti e due, il che era ancora peggio di quanto pensassi, ma quando li riaprii, eravamo già dall’altra parte.

- Tu… tu hai…

Lo guardai incerta, i nostri volti vicinissimi.

- Non che ci volesse tanto, ma…

Si voltò, indicando con un cenno del mento i pesci che sguazzavano in quel laghetto. Chissà perché ma nessuno di quelli mi sembrava amichevole, tanto che deglutii a fatica, prima che mi mettesse giù.

- Se fossi caduta là dentro, non oso immaginare cosa ne sarebbe stato del tuo bel vestito.

Ridacchiò, lasciandomi scendere. Mi sistemai l’abito, guardando ancora incredula il lago.

- Questi fanno sul serio…

- Sembra proprio di sì…

- Andiamo?

- Proseguiamo, sì…

Così, proseguimmo nel nostro cammino, trovando man mano indizi utili al ritrovamento della chiave. E per ogni indizio un ostacolo. Bisognava dire che Blaez non mancava certo di fantasia. Dai fossati, che avremmo dovuto oltrepassare aggrappandoci a dei poderosi rami ai passaggi scavati nelle siepi, una vera tragedia se pensavo al mio povero abito. Sarei stata molto più comoda se avessi avuto un paio di jeans, ma avrei dovuto comunque accontentarmi. Damien, del canto suo si lamentava molto poco, sembrava portato per quella sorta di percorsi di guerra, e la sua agilità era incredibile, al punto che quando lo vidi scavalcare una siepe più robusta, non mi spaventai affatto. Si guardò intorno, dall’alto di quella postazione, cercando di orientarsi, ma poi scese con un balzo, scrollando le spalle.

- Niente, eh?

Domandai retorica, guardando gli indizi che avevo tra le mani.

- “Là dove la pietra risplende, la chiave di diamante che spalanca le porte riposa. Il sentiero è impervio, ma solo ai prescelti è concesso dissipare l’oscuro.”

Lessi, cercando di riflettere su quelle parole. Che razza di furbo quel Blaez, se quello era un indizio…

- La chiave di diamante che spalanca le porte… che sia la chiave della residenza? E poi, che vuol dire che la pietra risplende?

Domandò Damien.

- Forse si riferisce a una parte illuminata della residenza?

- Non ne ho idea, ma vista da qui, sembra tutta illuminata…

- E poi… “solo ai prescelti è concesso dissipare l’oscuro”?

- Probabilmente si riferisce a quelli che riusciranno ad arrivare alla fine del gioco.

- Tu dici? Non ci è di grande aiuto…

- In ogni caso, sarà meglio cambiare strada.

Annuii, sconsolata. Stavo cominciando a stancarmi, eravamo in giro già da diverso tempo e non sapevamo più dove trovare qualcosa di utile. Inoltre, c’era buona speranza che ci fossimo persi.

- Da che parte?

Damien si guardò intorno, poi il suo sguardo fu attratto da qualcosa in particolare, qualcosa che veniva verso di noi. Si parò di fronte a me, mentre cercavo di guardare la figura che si stagliava davanti a noi. Un bagliore familiare ridette vita al mio ciondolo che tornò a splendere del colore dell’ametista, quando la persona che ci aveva raggiunti si fermò. Conoscemmo in quell’occasione Lady Rose Cartwright. Non ho mai fatto mistero del fatto che in quel mondo vi fossero individui bellissimi. Ebbene, nemmeno in questo caso mi ricredetti.

- Chi siete?

Domandò Damien, tenendo alta la guardia. Poteva essere chiunque, del resto, anche una trappola di Blaez. La giovane donna, probabilmente sulla ventina, sorrise, sollevando un ventaglio argentato a farsi vento. Il viso, che alla luce delle lanterne poste sul tracciato risplendeva di un morbido avorio, era divertito, tanto che i suoi occhi color lavanda si aprirono piacevolmente stupiti. I capelli, di un rosso molto scuro, scendevano in boccoli lungo le spalle, mentre delle ciocche erano fermate sulla fronte da una tiara di brillanti che ne metteva in risalto lo splendore. Il corpo snello era fasciato da un abito in tulle color pesca, ma ciò che mi colpì particolarmente  fu il ciondolo che portava al collo, un rubino.

- La stella cremisi… possibile che voi siate…

- La conosci?

Chiese Damien, poi sembrò capire.

- Mi chiamo Rose. Rose Rubinia Cartwright.

Si presentò, la voce un trillo melodioso. Trasalii nel sentire quella voce, che sembrò trapassarmi, così come il suo sguardo acuto seminascosto dal ventaglio che ondeggiava.

- E’ la persona di cui parlava Blaez, non è così?

Damien fece qualche passo avanti verso di lei.

- Come siete arrivata qui? Credevo non prendeste parte al gioco.

Rose si mise a ridere, una risata cristallina e divertita, poi si mosse con leggerezza, raggiungendoci e fermandosi proprio davanti a Damien, tendendo il ventaglio fino a posarne l’estremità frastagliata sulle labbra. Quel gesto mi dette una strana sensazione, e a giudicare dalla reazione di Damien, che si zittì di colpo, non ero stata la sola.

- Mio caro, sei così sicuro che io non sia parte stessa del gioco? Potrei venirvi in aiuto.

Sorrise.

- Oppure… potreste trarci in inganno… non è così?

Domandai io, guardinga.

- Aurore… Aurore Kensington.

Pronunciò il mio nome completo con divertita curiosità, io sobbalzai. Tese la mano libera fino a sfiorare il mio ciondolo, che risplendette, proprio com’era successo con Amber.

- L’ametista… come pensavo, sei proprio il nuovo possessore.

Incapace di scostarmi, rimasi a fissarla impietrita, mentre ritirava le dita affusolate e sollevava il suo rubino, incastonato in un piccolo ciondolo a forma di stella. Improvvisamente, questo cominciò a risplendere.

- Come… com’è possibile?

Domandai.

- Esattamente come per te. E’ un vero peccato che il mio fratellino non sia qui… credo che avrebbe trovato molto interessante vedere con i suoi occhi la Lady dell’ametista. Sfortunatamente, era piuttosto impegnato in affari privati a Camryn, e non è potuto venire. Tuttavia, vedo con piacere che sei molto più in forma di quanto immaginassi.

- Che volete dire?

Chiesi, stupita di quell’osservazione. Rose non rispose, ma mi rivolse un sorriso, poi scostò il ventaglio e lo aprì, tornando a farsi vento, mentre Damien mi guardò con aria interrogativa. Non sapevo davvero cosa rispondere. Poi, la giovane donna riprese la parola.

- Toh, ma guarda chi sta arrivando.

Senza scomporsi, fece qualche passo indietro, verso la siepe, mentre in lontananza, vedemmo finalmente arrivare Shemar e Amber. Sollevata, presi un bel respiro, ma le parole di Rose erano davvero un enigma. Quando giunsero da noi, inoltre, scoprii che tra le due non correva esattamente buon sangue.

- Aurore, stai bene?

Mi chiese Amber, che sembrava non aver affatto risentito del gioco, proprio come immaginavo. Annuii, spiegando che ci eravamo persi, e che Lady Rose ci aveva raggiunti poco prima.

- Capisco…

Commentò, nel voltarsi a guardarla. Rose era ancora vicino alle siepi.

- Ti ringrazio per averla aiutata, Rose.

- E’ un piacere per me, soprattutto dal momento che è la dama di Shemar, questa sera.

Stupita, lo osservai. Era stranamente silenzioso, a momenti sembrava una statua, più o meno.

- Non mi saluti, Shemar?

- Milady…

Pronunciò a denti stretti, mentre il sopracciglio biondo di Amber si sollevò in segno di contrarietà. Con mia grande perplessità, vidi Rose avvicinarsi a Shemar e scostargli un ciuffo dal viso.

- Ma… che fa?

Chiesi ad Amber, che stentava non poco a trattenersi.

- Te l’ho sempre detto che mi piacevi di più coi capelli corti, ma sembra che tu non voglia proprio darmi retta… quando verrai a Bregenz, penserò io a te.

Sussurrò civettando.

- Voi… ma… Amber, cosa? E tu, Shemar?

Domandai sempre più incredula per ciò che stavo vedendo. Ero persino tentata di farmi dare un pizzicotto da Damien.

- Spiacente, Milady, dubito che sarò assegnato nuovamente alla guardia di Bregenz. Al contrario, è più probabile che sia mandato ad Adamantio.

Rispose Shemar, rivolgendole un mezzo inchino e scostandosi per raggiungerci.

Lo osservai, ma quella risposta non me l’aspettavo. Perché non le aveva detto chiaramente che amava Amber? Poi, le sue parole a palazzo mi risuonarono nelle orecchie. Non poteva farlo, dal momento che non poteva ambire a nient’altro che a proteggerla. Tutto mi sembrò infinitamente triste, fino a che Amber, rimasta silenziosa, prese la parola.

-  Ti ricordo che Shemar è il mio cavaliere, dunque rivolgi i tuoi begli occhi altrove. Oltretutto, hai già Blaez, ho bisogno di ricordartelo?

Rose chiuse nuovamente il ventaglio, scrollando le spalle.

- Beh, ma non c’è nulla di male a desiderare qualcun altro ogni tanto, no?

Domandò, voltandosi a guardare Damien.

- Ad esempio, tu…

- No!!

Mi ritrovai a precisare con inconsueta foga, tanto che costrinsi tutti a voltarsi verso di me.

- I-Io… Damien non è in vendita, Milady!

Esclamai. Oh Dio, stavo impazzendo… difendere Damien Warren da una probabile mangiatrice di uomini…

- Che stai dicendo, Aurore?!

L’espressione allibita di Damien era tutta un programma.

- E’ solo che… ecco…

Rigirai i pollici tra loro, qualunque cosa avessi detto sarebbe stata sicuramente equivocata.

- Mpf. Davvero una ragazza interessante, proprio come pensavo. Dimmi, Aurore… cosa sei disposta a perdere per salvare chi ti è caro?

Domandò, distogliendo la mia attenzione da quel pensiero momentaneo e costringendomi a portarla su quella improvvisa domanda. Il pensiero di mia madre si affacciò prepotentemente in me, al punto da farmi quasi tremare.

- A… a tutto…

Bisbigliai.

- Non credo di aver sentito.

Rispose, nella voce il solito tono divertito.

- A tutto!

Esclamai stavolta, con più energia.

- Aurore…

La voce di Damien, preoccupata che potessi dir troppo.

- In questo caso… sappi che non troverai qui la chiave di diamante. E neppure tu, Amber.

- Che vuoi dire?

Chiese, inarcando le sopracciglia.

- Ad Adamantio, la Croix du Lac si mostrerà, portando con sé la chiave di diamante che spalancherà le porte del palazzo imperiale e finalmente, la Renaissance avrà inizio.

- Di che state parlando? La Renaissance non è forse questa notte?

Intervenne Damien.

- Oh… questa notte è soltanto un innocente inizio… dal momento che le cinque gemme sono riunite sotto questo cielo. La mia stella cremisi, il giglio ambrato, la lacrima d’ametista, la foglia di smeraldo e il cuore dell’oceano… questa notte, tutte le Pièces de la Croix sono testimoni del ritorno della Croix du Lac in questo mondo.

Spiegò Rose, con un tono canzonatorio.

- La potenza che abbatte gli ostacoli… segui la strada che porta alla stella cremisi… qui la stella riposa…

Qui la stella riposa… la stella cremisi.

Un altro tassello prendeva forma, un altro canto.

- I prescelti… siamo noi?

Chiesi, lei mi rivolse uno sguardo curioso con quegli occhi color lavanda, quasi simili ai miei. Annuì, poi si voltò nuovamente verso Damien.

- Un nuovo Despota verrà incoronato. Uno per generazione… sembra che stavolta, potrebbe saltarne una, tuttavia.

- Che vuol dire?!

Sbottò, agitandosi, mentre le parole del professor Warren si fecero sentire nella mia testa. Warren desiderava porre sul trono di Adamantio il piccolo Jamie. Un bambino innocente… un fantoccio, probabilmente.

- Che forse è la nostra occasione di trovare i nostri cari, Damien…

Mormorai, mentre un timore crescente si impadroniva di me. Non rispose, ma la sua espressione accigliata mi fece intendere che non ero la sola a cui i pensieri stavano marciando a ritmo sostenuto in mente. Rose Cartwright, Amber, io… le cinque statue del mio sogno, che versavano acqua incessantemente nella fontana in cui la Croix du Lac riposava… e poi, senza che nemmeno me ne rendessi conto, il buio pervase il mio campo visivo, così, improvvisamente, lasciando dietro di sé tutti i presenti. Mi ritrovai a tremare, di freddo e di paura, ero disorientata, senza alcun appiglio, non riuscivo a vedere nulla. Sensazioni che tuttavia, conoscevo. Un’altra volta… perché ora? , mi domandai, cercando di scaldarmi le braccia con le mani, mentre il freddo lasciava il posto al suono dell’acqua che scrosciava incessante. Soffuso, inizialmente, poi man mano più forte, così come la luce che faceva capolino dal fondo di quella dimensione oscura. Eppure, sapevo dove stavo andando, o almeno così credevo, fino a che la luce, intensa, non invase il mio campo visivo, accecandomi per qualche istante, nonostante mi fossi parata gli occhi con il braccio. E poi, quando li riaprii, mi ritrovai in un giardino, il più curato e incantevole che avessi mai potuto vedere… ed era giorno. Per un attimo temetti che la mia vista fosse stata lesa, dal momento che la troppa luce era davvero inaspettata e forte, ma dopo un po’, mi riabituai. Fu così che potei contemplare quel gioiellino d’architettura, una piccola oasi verde in cui i bounganville rampicanti facevano da cornice a giochi floreali che si dipanavano in vasi incastonati in nicchie create con delle pietre. Seguii dapprima con lo sguardo il breve tratto che dal centro di un gazebo in ferro e oro (una specie di gabbia dorata, a prima occhiata), conduceva a una porta socchiusa, più lontana, in legno massiccio, che probabilmente doveva costituire l’entrata di una villa, poi mi incamminai, cercando di raggiungerla, e dietro alle piccole siepi che facevano da perimetro al sentiero, proprio di fronte alla porta, vidi una fontana, sulla cui estremità troneggiava una piccola statua in marmo raffigurante una ragazzina. Poi un fruscio, alle mie spalle e mi voltai, spalancando gli occhi con violento stupore. Mia madre, la mia adorata mamma, così come la ricordavo, con indosso un lungo abito in stile impero color fiordaliso, mi era appena passata accanto. Disperata, lacerata tra dolore e speranza, con le lacrime che in men che non si dica mi annebbiarono gli occhi, la chiamai, ma non si voltò. Incredula, col cuore che stava per esplodermi nel petto, la raggiunsi, posando la mano sulla sua spalla. Mamma, voltati! Mamma, sono io, sono Aurore!! Ti prego… ti prego… , ma una sola sillaba non uscì dalla mia bocca e capii che non aveva potuto sentirmi, né sentire il mio tocco, dal momento che rimase impassibile anche a quello. Ansimai, non capivo cosa stesse succedendo. Perché le mie visioni erano così terribilmente crudeli?! Perché nessuno mi sentiva?! Perché… nessuno si accorge della mia presenza?

Poi, sentii qualcuno ridere. Una debole risatina divertita, e mi voltai verso il gazebo. Mia madre era sparita, ma seduta su un elegante divanetto all’interno del gazebo, vestita esattamente allo stesso modo della mamma, vidi una ragazza molto giovane, sebbene fisicamente sembrasse più grande di me. Aveva il volto coperto da un velo bianco sui cui bordi si intrecciavano delle decorazioni dorate, con le mani bianche e delicate intrecciava fili rossi che avrebbero dovuto costituire parte di una maschera nera, adagiata accanto a lei. Intravidi dei lunghi capelli biondi, con boccoli che scendevano sul seno candido, e mi avvicinai, incerta.

- Riesci a vedermi?

Domandai, la ragazza annuì.

- Chi sei?

Per qualche ragione, avevo l’impressione di averci già avuto a che fare.

Interruppe il paziente lavoro, sembrava indispettita, forse, era stata una pessima idea il rivolgermi a lei in modo così colloquiale.

- Vi prego di scusarmi… io sto cercando mia madre… era qui pochi istanti fa… se questa è una visione, allora, vi prego di guidarmi affinché la possa ritrovare…

Chiesi, sperando che potesse aiutarmi, chiunque fosse.

Poi si alzò, leggiadra, e i lunghi capelli le ricaddero sulla schiena. Nell’istante in cui sollevò le braccia per scostare il velo dal viso, notai un singolare disegno d’argento che partiva dal dorso della mano sinistra per poi risalire lungo il braccio. Non seppi identificare cosa fosse, ma era molto elegante, una sorta di tatuaggio delicato che ricordava il diramarsi dei bouganville, ma più sottile. Distolta per un istante, non mi accorsi che aveva tolto il velo che le copriva il volto. Quando la mia attenzione tornò su di lei, vidi un volto meraviglioso, il cui candore rasentava l’opale, con solo un tocco di rosa sulle guance. Sorrideva, le labbra rosate che sembravano incredibilmente morbide, il naso fine, lo sguardo dolce, del colore che meglio conoscevo…

- Tu… noi ci conosciamo?

Chiesi, mentre una marea di sensazioni sconosciute mi pervadeva l’anima. Calore, curiosità, paura su tutte. Sollevò la mano su cui era inciso il tatuaggio, mi sentii mancare. Sul dorso, una croce di diamante faceva bella mostra di sé, scintillante, diversa da tutte quelle che avevo visto fino a quel momento…

- La Croix du Lac…   

Sussurrai totalmente sopraffatta, prima di perdere i sensi, nella testa soltanto un suono echeggiava.

Aurore, ti stavo aspettando…

 

 

 

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Capitolo 22
*** X - Una famiglia segnata da un infausto destino (1 parte) ***


Buon pomeriggio! >_< Prima parte del 10° capitolo! <3 Ringrazio come sempre la mia Taiga-chan che è sempre fonte di commenti e di spunti! *---*<3 Senza di te, tesoro, sarei davvero persa! ç_ç Come sempre, se c'è qualcun altro che volesse esprimere qualche parere, è il benvenuto! >_< E grazie anche per le visite silenziose che sono sempre tante!! >__< Buona lettura!! :D

 

 

 

 

Spalancai gli occhi in preda all’agitazione più completa. Era come se all’improvviso fossi stata risucchiata nuovamente indietro, nel mio corpo, che sentivo pesante come non mai, mentre la mia anima cercava disperatamente di tornare in quel luogo… che poco alla volta cominciò a sfiorire dai ricordi. Voltai lo sguardo all’insù, riconoscendo le cortine del mio letto, a palazzo. Cos’era successo? Non riuscivo a darmi una spiegazione logica, almeno per quanto si potessero definire “logici” i miei incubi. Eppure stavolta era diverso, come se fosse ancora più reale, ed era una sensazione diversa da quelle a cui ero abituata. Attesi che il mio cuore placasse il galoppo, poi respirai. Fu benefico, mi calmai, e potei realizzare che ero al sicuro, in un luogo che conoscevo. Poi, un rumore inatteso, simile a un fruscio di coperte, mi fece quasi trasalire. Mentre decidevo se fosse meglio fiondarsi sotto le coperte o afferrare il primo sconosciuto oggetto utile per difendermi, sentii un leggero russare provenire da destra, proprio accanto al mio letto.

- Che diavolo…

Mormorai, tirandomi su fino a sedermi.

Poi, quando intravidi una sagoma scura appollaiata sul mio letto, fui sopraffatta da un’ondata di ricordi, su tutti, quello di Evan. Che strano, era così naturale pensare che mio fratello fosse lì accanto a me, a ricordarsi della sua promessa, quella di stare sempre con me. Forse era stato tutto un sogno, magari avevo sognato fin dall’inizio, ed Evan non era affatto morto. Lui era vicino a me, era stato lui a richiamarmi indietro, come faceva sempre, nonostante la sua mano non stesse stringendo la mia com’era abituato a fare. Il cuore, che si era calmato con tanta difficoltà, tornò a battermi con più forza, quando tesi la mano verso i suoi capelli, che in quella notte senza luce apparivano nerissimi. Volevo affondare le dita, poterglieli accarezzare ancora una volta, sentirlo mormorare di lasciarlo dormire, sentire la sua voce, la sola in grado di risvegliarmi dalle tenebre più profonde. Desiderai come non mai di rivedere i suoi occhi amaranto, il suo sorriso, quello vero, quello che mi scaldava il cuore.

- Evan…

Bisbigliai, con gli occhi gonfi di lacrime che caddero senza riserva sulle mie coperte di seta.

- Evan, sei tu, vero?

Posai la mano su quei capelli morbidi, ottenendo in risposta un mormorio. Sorrisi, incredula, quando lo sentii borbottare, senza riuscire a capire quel che diceva. Troppa felicità in quel momento, così tanta che riuscivo soltanto a sentire ciò che volevo.

- Scusami… sono stata egoista… ti voglio bene, fratello mio…

Sussurrai, chinando la testa fino a posare la fronte contro i suoi capelli. Singhiozzavo, di felicità, di incredulità, mentre un’insolita tristezza mi attanagliava il cuore. Perché? Evan è qui, vicino a me… Evan è… lui…

- Aurore?

Sobbalzai, nel sentire il mio nome pronunciato da Damien Warren. Non feci in tempo a scostarmi di mia volontà che fu lui a sollevarsi, scostandomi con molta facilità. Frustrata.

- Ti sei svegliata…

La sua voce, nonostante il sonno, era sollevata, per qualche ragione. Forse ero svenuta, chi lo sa. Non riuscii a replicare, ma tornai al mio posto, abbassando lo sguardo nella speranza che non si rendesse conto di quanto stessi male. Delusa.

Cercò la lanterna, muovendosi piuttosto velocemente e devo dire, molto a suo agio nonostante il buio, trovandola e accendendola. All’istante, la zona vicina al mio letto si illuminò, svelando il mio volto bagnato di lacrime.

- Che succede? Ti senti bene?

Scrollai la testa, senza rispondere, lui sembrò preoccupato, soprattutto quando mi costrinse a incrociare il suo sguardo.

- Aurore, guardami!

Ordinò e io lo feci controvoglia, cercando di soffocare il pianto. Umiliata.

Non so dire cosa lo mosse a pietà, ma vidi sul suo volto un’espressione che non conoscevo a fondo, più profonda della dolcezza, che su di lui, appariva davvero strana da accettare. Mi accarezzò lievemente le guance infiammate, per poi asciugare le lacrime con i pollici, e mi liberò il viso dai capelli che vi si erano attaccati. Attese in silenzio che mi calmassi, fino a che non realizzai che mi ero illusa. Presa di coscienza.

- S-Scusami…

Balbettai. Mi sentivo la gola secca, tanto avevo singhiozzato.

- E di cosa?

Domandò, tranquillo.

- Per essere stata così stupida…

A chi parlavo in quel momento? A Damien… oppure a Evan? Eppure, le parole mi uscivano senza che nemmeno ci riflettessi. Forse, avevo solo bisogno di sfogarmi, di esorcizzare la mancanza di mio fratello.

- E’ tutto a posto, se per te lo è.

Rispose, sfiorandomi la guancia col dorso delle dita. L’ombra di un sorriso spuntò sul suo viso.

- Ero convinta che tu fossi Evan…

Le sue sopracciglia fremettero, ma non aggiunse nulla in proposito.

- Non so perché… ma quando ho visto che eri accanto a me, ho pensato… ho creduto che mio fratello fosse tornato…

Stavo per ricominciare a piangere, la solita stupida sentimentale.

- E cosa farebbe Evan se fosse qui?

Sollevai lo sguardo, stupita per quella domanda del tutto inaspettata.

- Mi direbbe… mi direbbe che sono una scema a piangere così e che avrei dovuto lasciarlo dormire…

Mormorai immaginando che lo dicesse veramente. Sorrisi in quel momento, era così paradossalmente divertente. Quante volte l’avevo rimproverato per quel suo modo di fare? Eppure, mi mancava tanto…

Damien ascoltava, poi sembrò rifletterci per qualche istante. Alla fine, mi guardò e con un tono alla Evan (molto malriuscito, devo dire), mi rivolse la parola.

- Sei una scema a piangere in quel modo, davvero. La notte si dorme e domani a causa tua avrò delle occhiaie mostruose. Adesso se non vuoi che mi ritrovi simile a un pand--    

Non gli permisi di andare oltre. No, era troppo, decisamente. Scoppiai in una risata liberatoria, e non ricordo nemmeno per quanto tempo risi, ma so solo che alla fine, anche Damien stava ridendo.

- Va meglio, eh?

Mi chiese, quando l’ultimo eco della risata si spense. Asciugai le lacrime, ma stavolta almeno erano di divertimento.

- Non sei affatto credibile… ma sì, grazie…

Risposi.

- Meno male.

Fece per accarezzarmi i capelli, poi la sua mano si fermò a qualche centimetro dalla mia testa, memore, sicuramente, del fatto che una volta ero scappata per questo gesto. Prima che la scostasse, io la raccolsi, stringendola forte tra le mie. Vidi sorpresa sul suo viso.

- Ho visto mia madre… e poi la Croix du Lac. Aveva l’aspetto di una ragazza, sai? Però… non so dove si trovi in questo momento. Mi ha detto che mi stava aspettando…

Troppe informazioni, mentre raccontavo quel che ricordavo di quel sogno così diverso, che lui sembrò incamerare. Poi il suo sguardò si incupì per qualche secondo.

- Hai visto…

Jamie. Senza che lo dicesse, lo sapevo. Gli strinsi con più forza la mano.

- No, mi dispiace…

Avrei disperatamente voluto dirgli che lui c’era, e stava bene. Assorbì quest’altro colpo.

- Damien… andiamo ad Adamantio?

Una sola domanda, una sola risposta.

- Sì.

Poi, cadde il silenzio tra noi. Rimanemmo a guardarci, lui e io, per alcuni minuti. Chissà che pensieri passavano nella sua mente, fino a che non mi resi conto che qualcosa non quadrava.

- Ma tu… che ci fai qui?

Chiesi, aggrottando le sopracciglia, mentre finalmente la lucidità mi faceva vedere le cose con più chiarezza.

- Perché me lo domandi ora?

- Sei nella mia stanza…

- E allora?

- E io sono in questo letto…

- Infatti.

Mi osservai. Indossavo una camicia da notte, e probabilmente doveva essere stata Sybille a farmela indossare. Tirai più su le coperte, fino a coprirmi il collo.

- Non hai caldo, così?

Mi chiese, stupito.

- Preferisco aver caldo piuttosto che tu mi guardi!!

Risposi, imbarazzata.

- Io non ti sto guardando… o almeno, non in quel senso.

Precisò, perplesso.

- Damien Warren… tu…

- Se vuoi che me ne vada, lo faccio subito.

Si affrettò a dire, con voce improvvisamente fredda.

- No!

Mi ritrovai a contestare. La realtà era che non volevo rimanere da sola. Avevo paura che succedesse di nuovo qualcosa e in qualche modo, mi illudevo che così facendo, avrei avuto accanto Evan.

- Allora dormi.

Ordinò, incrociando le braccia sul letto e posando la testa, voltato in direzione opposta alla mia.

- Eeeeh?!

Esclamai, incredula, arrossendo.

- Che cavolo stai facendo?!

- Cerco di dormire. Ho sonno.

- Tu vuoi davvero dormire qui?!

- Tu non mi hai cacciato.

- Ma questo non vuol dire che devi dormire qui…

Bofonchiai, posando la testa sul cuscino. In risposta, sentii uno di quei “Mpf” che tanto non mi piacevano.

- Sei un pervertito…

Cercai di protestare, sistemandomi in modo che le sue braccia non mi toccassero. Poi la lanterna si spense, lasciandoci al buio.

- Buonanotte.

Mormorai.

- Buonanotte.

Sussurrò e mi abbandonai anch’io al sonno. Fu un sonno senza sogni, ma recuperai le energie e la lucidità e quando mi risvegliai, compresi che doveva essere mattina. L’aria era più fresca, la luce soffusa che stranamente, illuminava la mia stanza con più intensità.

- La Renaissance… la Croix du Lac ha dato un segno… possibile?

Mi domandai a voce bassa, mentre mi accorsi che Damien era ancora addormentato vicino a me. Sospirai, era così indifeso in quel momento, così innocente… e chissà che sogni stava facendo. Facendo attenzione a non fare movimenti bruschi, mi sollevai fino ad alzarmi dal letto, poi raggiunsi l’armadio, in cui Milene aveva ordinato i miei abiti, alla ricerca di una coperta da mettergli addosso. Non volevo certo che prendesse un malanno, dal momento che saremmo dovuti partire di lì a poco. Riflettei su quella decisione, come l’avrebbe presa Amber? Eppure, non potevo più temporeggiare. Frugando, mi imbattei nella felpa di Evan, che era stata riposta ordinatamente in un angolo. Evan… il mio Evan… pensarci con altra nostalgia in quel momento era qualcosa che non potevo permettermi, dal momento che avevo passato la notte a piangerlo di nuovo. Quanto ero cambiata da quando ero arrivata nell’Underworld… un tempo, piangevo per i dispetti che mio fratello mi faceva… poi avevo imparato a controbattere e adesso piangevo perché lui non era più con me. Ero davvero una stupida sentimentale. Passai la mano a carezzare ancora una volta quella felpa, poi raccolsi una coperta e tornai da Damien, che per fortuna, era ancora assopito. Dopo avergliela posata sulle spalle, lo sentii scrollarle, probabilmente doveva stare piuttosto scomodo.

- Dormi ancora un po’…

Bisbigliai cercando di rimboccargli la coperta, per poi uscire.

Nell’attraversare i corridoi mi ritrovai inizialmente un po’ spaesata, a causa del fatto che non capivo che ora fosse precisamente. Il palazzo era ancora silenzioso, ma in sottofondo, riuscivo a udire dei suoni ovattati, come se qualcuno stesse armeggiando con dei libri. Cercando di fare quanta più attenzione possibile, raggiunsi la biblioteca, trovandola illuminata dalle lanterne e occupata da Angus, alle prese con diversi libri sparsi sui larghi tavoli.

- Cosa state facendo?

Chiesi, guardinga e incuriosita.

Sollevò il sopracciglio canuto, poi il viso rugoso, squadrandomi come se avesse visto un intruso.

- Dovresti chiedere se disturbi, tanto per cominciare.

Colta in fallo, mi scusai. Certo che erano davvero fissati con la precisione…

- Sono mortificata, non volevo interrompere… è soltanto che ho sentito dei rumori e così… insomma, eccomi qui.

Cercai di giustificarmi, poi sollevò un mano, facendo cenno di raggiungerlo. Perplessa, obbedii, sedendomi accanto al suo scranno e osservando il suo lavoro. Sembrava che stesse esaminando delle mappe.

- Di che si tratta?

Domandai.

- Delle antiche strade, quelle che congiungevano ogni capitale ad Adamantio.

- Potrebbero servire, pensandoci…

Nel momento in cui tentai di sporgere la mano per prendere una di quelle mappe, una sonora bacchettata sul dorso mi fece recedere dal proposito.

- Ahi!

Protestai, accarezzando la mano dolorante.

- Voi giovani proprio non avete pazienza, non è così?

Domandò con un accento beffardo, mentre indicava un percorso. Prestai attenzione senza proferire parola, poi riconobbi i simboli dei cinque sigilli. In altre parole, doveva esistere una linea di congiunzione tra i vari templi e il più importante, il Sancta Sanctorum in cui risiedeva la Croix du Lac. Notai che dall’intersezione dei vari percorsi, si creava una sorta di disegno a forma di stella.

- In questo modo Adamantio controlla ogni cosa…

Osservai.

- Esattamente. Ma quest’antica via porta al cuore originale di Adamantio.

- Sarebbe a dire?

Domandai, incuriosita.

- Là, dove l’ultimo Imperatore sedette.

Rispose, indicando un punto molto meno centrale rispetto all’attuale capitale. Tendeva verso Challant, a ovest.

- L’ultimo Imperatore… un Delacroix…

- Brava bambina.

Sollevai lo sguardo fino a incrociare il suo, la luce del divertimento era accesa in quegli occhi azzurri.

- Voi sapete qualcosa, non ho forse ragione?

- Niente più di quanto un vecchio studioso possa sapere, mia cara. In ogni caso, se desideri andare ad Adamantio, è bene che ti rechi a Challant prima. Sono certo che lì troverai quello che cerchi.

Il pensiero di mia madre si affacciò prepotentemente nella mia mente, e il cuore prese a battermi forte. Angus tolse con cautela le mappe che giacevano sul tavolo, pronte ad essere riposte negli scaffali curati della biblioteca.

- Angus, posso farvi una domanda?

Senza interrompere la sua attività, rispose affermativamente. Presi a rigirare i pollici, nervosa, e anche un po’ inquieta per la probabile risposta. Ma ero certa che quel vecchio nascondesse molto più di quanto volesse far credere.

- Perché non siete stato eliminato anche voi, dal momento che siete così sapiente?

Notai un leggero fremito nelle mani rugose, poi posò l’ultima mappa al suo posto e si voltò, osservandomi pacato. Ero a disagio, sentivo che per qualche strana ragione, stavo giocando col fuoco.

- Perché fui io stesso a dare l’ordine di distruggere i testi più importanti di Shelton.

Rispose innocentemente.

Sgranai gli occhi, senza sapere cosa rispondere e senza riuscire a capire per quale motivo tutto ciò che accadeva nell’Underworld sembrava una sconnessa serie di strani eventi e comportamenti. Tornò a sedersi sullo scranno, proprio di fronte a me, che lo guardavo incredula.

- Molti anni fa, ero uno dei dignitari di Shelton. In quanto membro della famiglia Vanbrugh, ero a capo della divisione militare. Ogni famiglia provvede a creare una milizia e i più promettenti sono mandati nella guardia imperiale, così com’è stato per il giovane Shemar.

- Capisco…

Commentai, pensando al nostro amico e al momento in cui mi si era presentato.

- Ho supportato io stesso la sua candidatura, un anno fa. Quel ragazzo non ha nulla da invidiare al padre, e Blaez dovrebbe prendere esempio da lui, al posto di poltrire. Ho un nipote davvero pigro.

Borbottò tra sé e sé, io ridacchiai.

- Povero Blaez… si tratta soltanto di diverse abilità.

Spiegai.

- Ognuno fa quello per cui è portato, no?

Mi rivolse un’occhiata indagatrice.

- Sì, lo so… io sono portata per combinare guai…

Mormorai, lui sospirò.

- Ad ogni modo, ai tempi della grande ribellione, io ero piuttosto… in vista, come si direbbe oggigiorno. Gestivo i rapporti con Adamantio per conto di Lord Trenchard, e avevo libero accesso alle sale del Despota.

- Il Despota? Intendete Ademar Valdes?

- Esatto. Vedo che Amber ti ha parlato di lui.

- So soltanto che si chiamava così… e che adesso non c’è più…

- E’ così. Tuttavia, le circostanze della sua morte non sono mai state chiarite del tutto. La leggenda vuole che la Croix du Lac reclami come propria la vita del Despota, una volta che questi ha posto fine al suo regno.

- Cosa?!

Esclamai, pensando al piccolo Jamie che nei piani del padre sarebbe dovuto essere il prossimo Despota.

- Beh, fondamentalmente, la Croix du Lac esiste da sempre, in questo mondo.

Continuò, ignorando la mia domanda. Cominciavo a essere piuttosto preoccupata. In più, non riuscivo a scacciare dalla mente l’immagine di quella ragazza che sorrideva.

- Dimmi, Aurore… sai chi era il precedente possessore della pietra che porti al collo?

Stupita, raccolsi il ciondolo tra le mani.

- Mia madre… Celia Kensington…

Angus sogghignò, poi sfiorò il ciondolo con la punta dell’indice.

- La famiglia Valdes, piccola. Tuttavia, non ricordo che in quella famiglia vi fossero figlie femmine.

- Che vuol dire?

- Soltanto che i miei ricordi si sono affievoliti col passare del tempo. Ma i ricordi di quando detti l’ordine di distruggere tutto ciò che riguardava la conoscenza dei cinque ducati è ancora qui, nella mia testa. Se chiudo gli occhi, vedo ancora il fuoco che dilaniava case e persone… se non ascolto altro, le voci, le urla disperate riecheggiano dentro di me. La morte… in quel momento, io ne sono stato responsabile.

Ascoltavo quel racconto di dolore in preda allo sconcerto. Era così difficile credere che quel vecchio bonaccione che faceva sorridere la gente che lo vedeva e arrabbiare Sybille fosse l’artefice dello stato attuale. E poi, se così era, perché Amber e Shemar lo accettavano, tollerandone la presenza come fosse di famiglia?

- Tuttavia… quello era niente rispetto a ciò che Lionhart Warrenheim fece qui a Shelton. Presta molta attenzione, Aurore. Tu sei splendente, in questo mondo d’oscurità.

Quelle parole, simili a quelle che mi aveva detto la mamma tempo fa…

- Perché è successo tutto questo?

Domandai tutto d’un fiato.

- Perché la tua famiglia è stata segnata da un destino infausto che si ripercuote su questo mondo ogni giorno, da quando l’Underworld è caduto nel caos più completo.

Sentii risuonare ogni singola parola dentro di me, come se si trattasse di lettere incise col fuoco dentro l’anima. La mia famiglia… responsabile di tutto questo…

Non so dire per quanto rimasi a riflettere su quelle parole, ma quando ripresi il controllo di me stessa, il palazzo aveva già ricominciato da un po’ la sua frenetica attività.

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Capitolo 23
*** X. 2 parte ***


Buon pomeriggio! >_< Seconda e ultima parte del 10° capitolo! E' abbastanza lunga, ma le cesoie oggi sono state utilizzate abbastanza... *riferimenti a Taiga-chan puramente casuali XD*... *cough cough* Oooooooooooooooooh, accorato appello a chi legge silenziosamente, dal momento che oggi sono in vena di ultimatum... PER FAVORE, COMMENTATE!!! Intanto, buona lettura e buona serata! :D

 

 

 

 

 

 

Quando tornai nelle mie stanze, Damien non c’era più. Aveva riposto la coperta ben piegata al suo posto, e se non fosse stato per il ricordo ben nitido, avrei quasi potuto pensare che non fosse nemmeno mai stato accanto a me. Dopo essermi rinfrescata e aver indossato i miei abiti, raggiunsi la sala da pranzo, dove trovai Amber assieme a Blaez e Leandrus. Fu una sorpresa, dal momento che non mi ero resa conto di quanto tempo avessi dormito e mi sembrava di averli visti esattamente la sera prima.

- Aurore.

Salutò Amber, apparendo sollevata. Blaez si voltò verso di me, rivolgendomi un cenno sorridente.

- Ci hai fatti preoccupare. Come stai?

Perplessa, cercai di fare mente locale.

- Adesso meglio, grazie. Piuttosto, cosa ci fate voi qui?

Prima che Blaez rispondesse, Amber si diresse veloce verso di me, prendendomi le mani.

- Aurore… sembra che ad Adamantio stia succedendo qualcosa. Qualcosa di piuttosto importante, dal momento che tutti i governanti sono stati invitati a palazzo.

Sbattei più volte le palpebre cercando di collegare i pezzi, ma la verità è che non riuscivo a immaginare niente di più importante del ritorno della Croix du Lac. Tuttavia, la cosa più strana era il fatto che Amber parlasse tranquillamente davanti a Blaez.

- Voi due mi state nascondendo qualcosa, o sbaglio?

Domandai, scrutando gli occhi pensierosi di Amber. Leandrus sbuffò, sollevando un braccio a mezz’aria con fare melodrammatico.

- Non dirmi che non l’avevi capito… i nobili della nuova generazione stanno cospirando contro Adamantio. Se lo scoprono, siamo tutti condannati.

Mi sporsi verso Leandrus, sembrava piuttosto compunto. Chissà quanto gli doveva dar fastidio l’idea di perdere i suoi titoli, quali che essi fossero.

- Temi che questo possa mettervi in pericolo, Amber?

Chiesi poi. Rimase in silenzio per qualche istante, valutando attentamente la situazione. Una mente come la sua, abituata agli inganni dopo la morte dei genitori, era piuttosto sopraffine in queste circostanze.

- Non è detto. O meglio, non finchè Angus è dalla nostra parte.

Di nuovo lui. Il vecchio Angus. Colui che aveva fatto distruggere la conoscenza di Shelton.

- Lui…

Biascicai, ma Blaez tagliò corto.

- Non ci tradirà. Conosco bene mio nonno. Fino a che sarà qui, nessuno oserà sfidare la sua autorità. Se ci proveranno, avranno pane per i loro denti.

- Che volete dire?

Guardai interrogativa Blaez, che nel frattempo, si era avvicinato alla finestra e osservava i cortili interni del palazzo.

- Mio nonno ha commesso molti errori in passato, primo tra i quali, dare l’ordine di distruggere la biblioteca di Shelton e tutto ciò che avrebbe potuto diventare fonte di conoscenza per i ribelli. Ma ha anche fatto in modo di preservare dentro di sé tutto ciò che poteva essere conosciuto. Se morisse prima di aver trasmesso quelle conoscenze, sarebbe un guaio anche per Adamantio, dal momento che è uno dei pochi rimasti a conoscere l’esatta ubicazione delle Pièces de la Croix.

- Non sono forse le nostre gemme?

Domandai, dubbiosa. Da quel che avevo letto, erano considerate come tali sin dal passato, e per questo motivo, data la loro importanza, rappresentavano un pegno di potere.

- Secondo te se fossero quelle le vere Pièces sarebbero al collo di una come te?

Mi punzecchiò Leandrus, sollevando le spalle. Per conto mio, gli risposi con un’occhiataccia, ma cercai di ignorarlo, sperando in una risposta di Blaez.

- Beh, quello che so è che formalmente sono considerate come tali dalla maggioranza della popolazione. Dopotutto, è bene che la gente abbia qualcosa in cui credere. D’altro canto, è indubbio che quelle gemme siano importanti. Sono i sigilli dell’Underworld, e ciò che rende i capifamiglia tali.

Spiegò, per poi raggiungere Leandrus.

- Quanto a te, piantala di dare fastidio ad Aurore, te l’ho già detto.

Ridacchiai, mentre Leandrus sbuffava, punto per l’ennesima volta nell’orgoglio.

- Senza contare che le nostre pietre sono una sorta di chiave…

Proseguì Amber, la preoccupazione dipinta sul suo bel viso. Me ne accorsi e cercai di rincuorarla, stringendole le mani tra le mie. Era la prima volta che la vedevo così in pena e cominciavo a credere che ci fosse altro, oltre questo, che la preoccupasse.

- Che cos’è successo, Amber?

Ricambiò il mio sguardo, restia, poi compresi.

- Riguarda Shemar?

Un ulteriore sbuffo di Leandrus, stavolta di sollievo, mi servì come risposta.

- E’ stato richiamato ad Adamantio…

- Era qualcosa che sarebbe accaduto presto, Amber, non dimenticarlo.

Disse Blaez, rigirando l’indice sul collo di Leandrus, che si contorse.

- Vuoi tenere le mani a posto? Mi fai male!

Protestò.

- E tu impara a tenere la bocca chiusa.

Lo fulminò con uno sguardo tutt’altro che cordiale e un tono minaccioso. Cominciavo a capire cosa accomunasse Blaez e Shemar, dal momento che Leandrus non ebbe il coraggio di replicare. Questo gesto fece sorridere per un istante anche Amber, ma fu soltanto momentaneo, e tornò a incupirsi.

- Quando partirà?

Domandai.

- Oggi stesso… e temo che possa accadergli qualcosa una volta tornato nella capitale…

- Pensi che il professor Warren possa attuare ritorsioni?

- Mi auguro di no… ma non sarebbe la prima volta…

- Che vuoi dire?

- Io…

Distolse lo sguardo, combattuta. Blaez sospirò.

- E’ storia passata, Amber. Piuttosto, Aurore, saresti così gentile da dirci da dove vieni… davvero?

Silenzio. Gelo. Ripresa.

- Ecco… dire da Darlington è sufficiente?

- Ovviamente no.

Rispose seccamente.

Accidenti, Blaez Vanbrugh era tutt’altro che facile da soddisfare.

- Aurore viene dal mondo della luce, il mondo da cui tutto è cominciato, secoli e secoli fa.

Rispose Amber, e io mi soffermai ad ascoltare quelle strane parole. L’Underworld, il mondo dell’oscurità, il mio mondo, il mondo della luce, un tempo erano legati?

- Sei sicura che possiamo fidarci davvero di lui, Amber?

Mormorai, lei mi osservò con la coda dell’occhio, poi tornò a rivolgersi a Blaez, impegnato a versare del the dalla fragranza dolce in una tazza di porcellana.

- Blaez è fidato, stai tranquilla. Dopotutto, non avrebbe alcun interesse a giocare sporco, dal momento che la nomina a Despota non prevede macchie d’alcun tipo sul comportamento.

Blaez ridacchiò a quell’affermazione, poi annusò il profumo del the e bevve un sorso.

- Tuttavia… hai giocato d’anticipo, dicendomi che Aurore apparteneva all’Underworld.

Ribattè.

- Evidentemente, non ti fidavi al punto da dirmi ogni cosa la prima volta che l’ho vista… o forse, stai mirando anche tu al trono, Amber Trenchard?

Domandò, affilando lo sguardo sulla mia amica. Del resto, Amber sarebbe stata una sovrana perfetta per quel mondo, ma in tutto questo, io cosa c’entravo? La tensione tra quei due era qualcosa di incredibile. Sembrava che tra loro ci fosse un’invisibile rete di elettricità.

- Dovresti smetterla di dire assurdità. Da che mondo e mondo, una donna non è mai salita al trono.

Rispose tagliente.

- Però le cose potrebbero cambiare, no?

Si voltarono a guardami come se avessi detto un’eresia.

- Beh… non è poi così avulso… In Gran Bretagna, ad esempio, c’è una reg---

Colpita dal loro scetticismo, lasciai morire lì la mia brillante spiegazione.

- Come non detto…

Borbottai.

- Aurore, capisco che nel tuo mondo funzioni diversamente… ma qui non è mai accaduto prima d’ora.

- Eppure, la Croix du Lac regna accanto al Despota, se non sbaglio…

 Osservai.

- La Croix du Lac… il mio desiderio è quello di diventare il nuovo Despota soltanto per vederla.

Confessò provocatoriamente Blaez.

- Io l’ho vista…

Confessai, catturando la loro attenzione.

- E’ stato dopo il gioco nei giardini della vostra residenza, Blaez… credo di aver perso i sensi, o qualcosa del genere, ma sono sicura di averla vista, in sogno.

- Questo non fa altro che rafforzare la teoria di Lady Octavia…

Mormorò sovrappensiero Amber.

- E che aspetto aveva, se posso?

Chiese Blaez.

- Era una ragazza, su per giù dell’età di Amber, ed era davvero molto bella.

- Non è che ti sei confusa con la stessa Amber, vero?

Incalzò scettico Leandrus.

- Fino ad ora, nessuno di noi ha mai visto la Croix du Lac. Soltanto al Despota è concesso.

- Sì, lo so… perché al Despota è permesso l’ingresso del Sancta Santorum. Ma posso giurarvi che era lei. Aveva una sorta di tatuaggio, molto particolare, sul braccio sinistro. Sul dorso della mano risplendeva il sigillo della Croce di diamante, ma era molto più vivido e scintillava, come se fosse vivo, in qualche modo.

Mentre lo raccontavo, il ricordo della ragazza del mio sogno si fece più forte. Lei sapeva di me, questo mi esponeva automaticamente al rischio di mettere ancora più in pericolo i miei amici. Ripensai a Violet, che avevo lasciato nel mio mondo senza una parola di conforto. Chissà cos’aveva pensato di me, che ero sparita in quel modo. Pensai a Evan, che era stato ucciso a causa mia. Pensai alla mamma, chissà se era con la Croix du Lac in quel momento. Tutto ciò che era intorno a me, sembrava volteggiare allo stesso tempo intorno a quella misteriosa ragazza.

- Se così fosse, Aurore, sembra proprio che tu sia una sua prescelta. Sarebbe davvero interessante assistere a un tale cambiamento di prospettiva.

Rimuginò Blaez, sedendosi sull’elegante sedia d’oro e di stoffa pregiata accanto alla tavola imbandita.

- Che vuoi dire?

Chiese Leandrus.

- Soltanto che a quanto pare, la Croix du Lac ha deciso di intervenire in prima persona questa volta. Mi chiedo se un giorno non ci ritroveremo a competere per la carica di Despota. Al momento, per questa generazione gli unici maschi in linea di successione siamo io e Ruben Cartwright. Ma se la Croix du Lac desidera che anche le nostre giovani ereditiere competano… beh, in quel caso, saremmo due contro quattro. Certo, Livia è ancora una ragazzina, e dubito che sarebbe in grado di sostenere una tale responsabilità…

Commentò, con un tono tra l’incredulo e l’allettato.

- Poco fa non prendevi nemmeno in considerazione quest’idea, Blaez.

Ribadì Amber.

- Chi è Livia?

Le chiesi.

- Livia Devereaux, la Lady del lapislazzuli. Ha soltanto dodici anni, è nata dopo la grande ribellione. Lei non ha mai visto la luce in questo mondo, sai?

Spiego tristemente, e mi tornarono alla mente le sue parole sul far nascere un figlio in quel mondo oscuro. Probabilmente, aveva già avuto modo di conoscere quella bambina.

- Capisco… allora dovremo impegnarci affinchè la luce torni, così che anche Livia possa apprezzarla, non ho forse ragione?

Dissi solennemente.

Blaez e Leandrus mi osservarono nuovamente stupiti, Amber sorrise.

- Sì. E’ quello che faremo.

Rispose.

- Quand’è prevista questa… riunione, Blaez?

- Tra una settimana. Sembra che vogliano darci il tempo di organizzarci come si deve.

- Come se ce ne fosse bisogno… siamo sempre stati impeccabili…

Bofonchiò indolente Leandrus. Blaez si rialzò e mi raggiunse. Era piuttosto alto, e guardarlo da vicino mi metteva un certo disagio.

- Aurore… spero che accetterai le mie scuse.

Disse senza particolari inflessioni nel tono. Era soltanto sincero.

- P-Perché?

Balbettai incerta.

- Perché non ti ho trattata col rispetto che si deve a una Lady del tuo rango. Lo ammetto. Ero curioso di vedere che tipo di persona fossi, ma adesso che ho visto la tua onestà e il tuo spirito d’iniziativa, voglio che tu sappia che avrai in me un alleato fedele.

Ascoltai incredula quelle parole. Blaez Vanbrugh mi stava dando prova di fedeltà, il che era tutto un programma, considerato che mi era piuttosto difficile concedergli fiducia. Tuttavia, quando si inchinò al mio cospetto e mi raccolse la mano, baciandola delicatamente, compresi che potevo fidarmi, quantomeno dal punto di vista “politico”. Eravamo sulla stessa barca, e nessuno di noi poteva permettersi un passo falso. Concedendomi la sua lealtà, Blaez voleva farmi capire che mi considerava una pari dell’Underworld, esattamente come Amber e gli altri governanti. Dal punto di vista di “ragazza senza alcuna esperienza in materia”, arrossii e cominciai a balbettare come una scema.

- G-G-Grazie… io non… n-non so che dire…

- Non c’è bisogno di dire nulla.

Sorrise, rialzandosi.

- Adesso sarà meglio che ci prepariamo per la partenza.

Amber fece un cenno d’assenso, poi mi guardò.

- Vieni con me, Aurore.

Ordinò, incamminandosi velocemente verso il corridoio. Solo un attimo prima di seguirla, il mio stomaco brontolò. Pessimo tempismo, decisamente. Sperai che non mi avessero sentita, ma se Blaez non lo dette a vedere, non fu lo stesso per Leandrus, che ridacchiò e mi lanciò un morbidissimo panino imbottito preparato da Sybille.

- Mangia, non vorrei certo che deperissi.

Mi punzecchiò, prima di uscire a passo piuttosto svelto per evitare l’ira di Blaez. Quest’ultimo si limitò a fare spallucce e lo seguì, lasciandomi sola col panino.

- Stupido Leandrus… qualche giorno me la paga.

Borbottai, addentando quel tozzo di pane così morbido e dolce e raggiungendoli. Quando fummo tutti all’esterno, trovammo Shemar intento a finire di raddrizzare la sella di Varon. Accanto a lui, Damien accarezzava il manto di piume del grifone. Era strano vederli tanto in confidenza, ma se c’era stata qualcosa che avevamo imparato, era proprio l’aver superato la paura per quegli animali.

- Oh, signorina Aurore.

Mi salutò Shemar con un sorriso. Varon sollevò la testa producendo un suono gutturale che qualche mese fa mi avrebbe sicuramente terrorizzata, ma che ora avevo capito essere un saluto. Mi avvicinai ad accarezzarlo, offrendogli l’ultimo pezzo di pane che m’era rimasto. Gradì, dal momento che avvicinò il becco al mio viso in un gesto che sembrava quasi un bacio. Risi, scostandomi divertita, e guardai Shemar. Era elegantissimo nella sua uniforme.

- Sei in partenza allora…

- Già. E andando ad Adamantio, cercherò di scoprire qualcosa in più su vostra madre… e sul fratello di Warren.

Rivolsi un’occhiata a Damien, che ricambiò.

- Grazie, Shemar… ma ti prego, fai attenzione.

Dissi poi, congedandomi per far posto a una persona molto più importante. Sorrise annuendo, poi mi oltrepassò con lo sguardo, fissandolo in quello di Amber.

- Amber?

Chiese. Lei esitò per qualche istante, poi, sotto gli occhi nostri e di Blaez e Leandrus, raggiunse il suo cavaliere, tendendogli la mano. Shemar si inchinò obbediente, raccogliendo la sua mano e portandola alle labbra. Quanto sarebbe stata romantica quella situazione, se non fosse stata preludio di una separazione. Mi strinsi nelle spalle, pensando a quanto doveva essere difficile per loro questo momento, e osservai Shemar trattenere qualche secondo più del dovuto la mano di Amber sotto le sue labbra, quasi a voler fissare nel suo cuore quella sensazione. Poi si sollevò, gli occhi fissi gli uni negli altri.

- Milady, avete la mia fedeltà, sempre e comunque.

Dichiarò, formale. Amber ebbe un’incertezza, e vidi tanta tristezza nel suo sguardo, a dispetto della voce che rimase determinata.

- E voi il mio rispetto e il mio appoggio, Shemar.

Stranamente, quelle parole sembravano voler dire “Il mio cuore è con te”, ma forse ero io ad essere troppo sognatrice. Ciononostante, dopo quel saluto formale, li vidi scambiarsi un ritrovato sguardo complice, poi Shemar si allontanò per salutare Blaez e Leandrus. Io raggiunsi Damien, che mi fece posto accanto a lui.

- Grazie…

Sussurrai.

- Per cosa?

Domandò incuriosito.

Rimasi in silenzio a guardare Shemar che prendeva congedo, pensando bene a cosa dire, ma le uniche parole che mi uscirono furono queste.

- Per essere qui con me… per non avermi lasciata da sola…

Vidi spuntare l’ombra di un sorriso sul suo volto, ma non commentò. Al contrario, mi prese con sé, allontanandoci entrambi da Varon. Shemar tornò dal suo grifone, salendo in groppa e tirando le briglie, gesto che fece scalpitare il possente animale.

- A presto allora!

Esclamò, spronando Varon, che si librò in aria sbattendo le massicce ali nere. Al suo grido d’incitamento, il grifone prese a volare vero l’uscita del palazzo, scomparendo dalla nostra vista in pochi minuti. Rimasi a osservare quel momento, pensando a Shemar che era stato la prima persona ad avermi parlato dell’Underworld, a quanto l’avevo trovato strano per il suo modo di fare, alla sua gentilezza e alla sua determinazione e mi augurai di poterlo rivedere presto, ma soprattutto, pregai che non gli accadesse mai nulla di male. Troppo aveva rischiato a causa mia. E in quel momento, toccava a me prendermi le mie responsabilità.

- Amber, è tempo di andare anche per noi.

Dissi, sforzandomi di apparire quanto più possibile credibile. Sbattè le palpebre delicatamente rosate e ci raggiunse. Dietro di lei, Blaez cercava di decifrare le mie parole.

- Non possiamo aspettare che trascorra una settimana intera prima di partire… almeno per noi due.

Dissi, incontrando lo sguardo di Damien.

- Però… perdonami, Damien, ma prima di andare ad Adamantio, c’è un luogo che forse potrebbe esserci utile…

Continuai, sperando di non deluderlo. Mi lanciò un’occhiata inintelligibile, poi rimase in attesa.

- Challant.

Concluse Blaez, con un tono incuriosito.

- Challant? Non mi sembra molto sicuro per Aurore, quel luogo… non ancora…

Contestò Amber, preoccupata.

- Ad Adamantio non mancherà la sorveglianza, e sicuramente, Aurore e il suo amico sarebbero identificati subito… il che non è esattamente il modo migliore di tutelarci, Amber. Oltretutto, le attenzioni convergeranno su quest’evento, qundi per loro sarà più facile passare inosservati in quelle zone più che ad Adamantio.

- Blaez ha ragione…

Dissi io, rincuorata dalle sue parole.

- Amber, l’ultima cosa che voglio è metterti nei guai… tu hai fatto tanto per me, mi hai dato speranza… ma adesso è il mio turno di fare qualcosa… e poi, finchè avremo al collo queste pietre, noi saremo sempre legate, no?

Sorrisi, sollevando la mia catenina. Per qualche istante sembrò riflettere su cosa dire, poi prese un respiro e si fece animo.

- Avevi… anzi, avevate già deciso voi due, eh?

Domandò, lanciando un’occhiata anche a Damien.

- In realtà… pare che abbiamo cambiato destinazione all’ultimo.

Commentò Damien.

- In questo caso, suppongo di non potervi fermare…

- No, infatti.

Risposi.

- Beh, allora se permettete… avrei qualche regalo per voi, ragazzi.

Rise Blaez, e noi ci voltammo perplessi.

- Avrete certamente bisogno di mezzi di trasporto. E si dà il caso che il sottoscritto abbia ciò che fa al caso vostro.

- Di che parli, Blaez?

Domandò Leandrus. Per tutta risposta, Blaez Vanbrugh ci rivolse un cordiale sorriso.

- Vedrete presto, amici miei. Leandrus, quanto a te, sono più che sicuro che sarai felice all’idea di accompagnarli a Challant, non è così?

Un condiviso urlo di incredulità e di shock risuonò in quel momento nell’aria.

- Per quale motivo dovrei accompagnarceli io, eh?!

Protestò animatamente Leandrus.

- Già, perché proprio lui?!

Incalzai io. L’idea di andare a Challant con Leandrus era per me l’equivalente del ritrovarmi a dover riordinare la mia stanza, ovvero, una vera seccatura.

- Perché Leandrus viene da Challant.

Rispose Amber, innocentemente.

- Da Challant? Lui?

Rincarai, incredula.

- Certo, ignorante.

Rimarcò Leandrus e io sbottai. Che grandissimo arrogante, per giunta cafone, che mi era capitato… stavo per mandare al diavolo la finezza e il rispetto, quando Damien lo agguantò, scoccandogli un’occhiata gelida, con gran sorpresa di tutti, compresa me, che rimasi senza parole.

- Che diavolo stai facendo, tu?

Sputò Leandrus, cercando di togliere la mano di Damien dal bavero arricciato della sua camicia, senza riuscirci.

- Un’altra parola. Una sola e quant’è vero Dio ti riduco poltiglia senza possibilità di appello, bastardo.

Sibilò, e Leandrus si ammutolì di colpo. Evidentemente, le minacce del despota non erano roba da prendere alla leggera, nemmeno per uno come Leandrus. Quando si fu sincerato che le sue parole avessero ottenuto l’effetto sperato, Damien mollò la presa e si rivolse a Blaez.

- Non ho altro tempo da perdere. Cosa volete farci vedere, Lord?

Blaez rimase per qualche istante a osservarlo, quasi a voler studiare le reazioni e gli atteggiamenti di Damien. Quantomeno, non ero la sola a rimanerne stupita. Poi, si decise a parlare, e probabilmente per non incappare anche lui nell’ira nefasta del malumore di Damien, ci invitò a raggiungerlo nella sua residenza. Fu così che poche ore più tardi, facemmo la conoscenza di due splendidi esemplari di grifone, proprietà personale di Blaez.

- Vi presento Harundia e Hibernia, i miei due grifoni preferiti. Li allevo da quand’erano ancora dei cuccioli, sapete?

Spiegò, accarezzando il manto fulvo di uno e quello nero dell’altro. Entrambi i grifoni sembravano felici delle attenzioni del loro padrone, così tanto da non degnarci nemmeno di uno sguardo. Il che, se avevo indovinato le intenzioni di Blaez, sarebbe stato un problema.

- Sarebbero loro i “mezzi di trasporto”?

Domandò Damien.

- Sono i più veloci in circolazione, e credetemi, quando dico “veloci”, intendo così veloci che nemmeno i messi della Croix du Lac possono vederli. Per voi, al momento, sono l’ideale.

Deglutii all’idea di montare in groppa a uno di quei due animali possenti, soprattutto dal momento che Shemar non ci aveva esattamente “incoraggiati” a servircene. Ma se potevano eludere i messi, allora erano il solo modo che avevamo per spostarci in sicurezza. Mi avvicinai a uno dei due, quello col manto nero, che voltò la testa verso di me. Aveva gli occhi dorati e un’espressione acuta e intelligente. Avvicinò il becco adunco alla mia guancia, poi si scostò, chinando il capo perché potessi accarezzarlo. Così feci, sorprendendomi nonostante tutto di aver acquisito una sicurezza tale da non spaventarmi.

- Sembra che Harundia ti abbia presa in simpatia.

Disse Blaez, fintamente meravigliato. Evidentemente, aveva già capito che quel grifone non mi avrebbe fatto del male.

- Harundia? Che strano nome…

Commentai, continuando a lisciare quel manto morbido.

- Quindi, quest’altro è Hibernia…

Disse Damien, avvicinandosi al grifone fulvo. Anche lui, aveva gli occhi dorati. Chissà, magari erano fratelli. Hibernia lo squadrò attentamente, percependo all’istante la naturale diffidenza del despota, che contrariamente alle mie aspettative, aveva superato la sua paura soltanto con Varon. Ridacchiai, ricevendo un’occhiataccia in risposta.

- Grazie, Blaez…

Dissi poi, mentre quest’ultimo ci osservava divertito.

- Non c’è di che, mia cara. In fin dei conti, voglio proprio vedere cosa sarete capaci di fare, voi due. Penso che la vostra venuta qui abbia davvero smosso le cose, molto più di quanto abbiamo potuto fare noi in questi anni. E se sarete in grado  di riportare la luce in questo mondo… allora non esiteremo a supportarvi in ogni vostra azione.

Quante responsabilità sulle nostre spalle. Davvero ce l’avremmo potuta fare? Era così strano sentire quelle parole di speranza pronunciate da Blaez Vanbrugh, ma al tempo stesso, mi sentivo come se dovessi dimostrare qualcosa. Cosa sarebbe accaduto se non fossimo stati in grado di adempiere a questo compito?

- Blaez, noi…

- E se dovessimo fallire… ci voltereste le spalle, non ho ragione? Dopotutto, nessuno vuol perdere il proprio status quo, pur se fasullo.

Mi voltai di scatto verso Damien, che guardava glaciale Blaez. Il suo tono era tagliente.

- Sai, ragazzo… tu mi piaci. Credo proprio che Aurore abbia bisogno di un cavaliere come te, al suo fianco.

Tornai a guardare Blaez, che non si era scomposto, incredula.

- Che diavolo c’entra adesso questo discorso?!

Protestai. C’era tensione, all’improvviso.

- La prendo come un’affermazione. E comunque… non permetterò a nessuno di toccare Aurore.

- Damien?!

Sbottai palesemente a disagio. Odiavo quei discorsi.

- Bene, perché il mondo là fuori è più pericoloso di quanto pensiate. Potete partire quando volete. Quanto a Leandrus, nonostante tutto, è il più indicato a scortarvi, avrete bisogno di uno come lui, quindi, vi prego di accettare la sua presenza.

Continuò Blaez, per poi prendere congedo da noi e lasciarci con la compagnia dei nostri due nuovi compagni. Rimanemmo in silenzio per un po’, poi mi feci coraggio.

- Damien… credi che ci tradirà?

Studiò la mia domanda, poi posò la mano sulla testa di Hibernia, lasciandola scivolare fino alle redini appese al collo.

- Non importa se lo farà o meno… finchè sarà utile alla nostra causa, tanto vale servircene.

La calcolatrice indole del despota era improvvisamente riemersa. Ma in qualche modo, le parole di Blaez erano state una doccia fredda e non potevo biasimarlo. Nessuno ci sarebbe corso in aiuto se avessimo fallito. Avremmo finito con l’ottenere un destino peggiore della morte stessa, e in quel momento, non era esattamente il migliore auspicio con cui cominciare qualcosa. Tuttavia, sapevo che c’era qualcuno di cui poterci fidare, e si trattava di Amber, e proprio per l’affetto che nutrivo per lei, non avrei mai potuto dubitarne.

- Però…

Prima che potessi dire altro, mi inchiodò con una domanda a bruciapelo.

- Perché hai deciso di cambiare destinazione senza consultarmi?

Aveva ragione. La notte precedente avevamo stabilito di andare ad Adamantio. Come avrei potuto spiegargli il motivo? Sai, Damien, Angus mi ha consigliato di andare a Challant… e poi, mi ha detto che anni fa fu lui stesso a ordinare di distruggere la conoscenza di Shelton… però nonostante tutto, cerco di fidarmici ugualmente… davvero una gran bella argomentazione. Tutto quello che mi uscii invece fu:

- Perché a Challant avremo più possibilità di rimanere vivi abbastanza a lungo per scoprire cosa ne è stato dei nostri cari.

Sospirò, tirando le briglie di Hibernia, che scalpitò al contatto.

- Che ne dici di tornare da Amber adesso? E’ ora di prepararci, anche per noi.

Concluse.

 

Tornammo a palazzo nel pomeriggio inoltrato. Tutto era ripiombato nel buio più fitto, come se i timidi raggi di luce che avevo visto al mio risveglio non ci fossero mai stati, e la cosa mi fece intristire. Chissà se l’indomani avrei assistito di nuovo a quel miracolo. Quando raggiungemmo Amber, la trovammo assieme a Sybille. La nostra governante stava finendo di trasformare il mio zaino in una bisaccia, cosa che sulle prime mi lasciò assolutamente basita, ma nel vedere il risultato, finii col ricredermi. Era riuscita a far diventare il mio moderno zaino una borsa d’altri tempi, dalla fattura ben curata. In effetti, se fossi andata in giro con lo zaino, non ci avrei messo molto a mandare al diavolo la mia copertura. Invece così, avevo qualche possibilità in più di passare per una qualunque ragazza dell’Underworld. Certo, dovevo dire che fino a quel momento non ero stata molto fortunata… Blaez aveva capito subito che non ero quella che fingevo di essere nonostante Amber avesse cercato di coprirmi, e alcuni nobili mi avevano trovata “esotica”, ma fino allora, non avevano dubitato che appartenessi a quel mondo, il che era positivo, in un certo senso. Se mi fossi impegnata a dovere, con tutta probabilità avrei potuto far sì che la mia finzione fosse quanto più veritiera possibile. E poi, mi venne in mente che stando alle parole di Lady Octavia, io in realtà, come anche Damien, ero a tutti gli effetti una ragazza proveniente dall’Underworld. Certo, eravamo cresciuti in un mondo diverso, ma se davvero discendevo dai Delacroix, allora non potevo avere alcun dubbio. Quella storia era così assurda, dovevo assolutamente saperne di più.

- Partendo questa  notte, guadagnereste un po’ di tempo… ci vogliono circa cinque giorni per arrivare a Challant.

Ci spiegò Amber, inquieta. La nostra scelta l’aveva contrariata, ma sapevamo bene che questo momento sarebbe arrivato prima o poi. Certo, nemmeno io stessa pensavo che avrebbe finito col coincidere con la partenza di Shemar, ma gli eventi che si stavano verificando erano la prova che qualcosa stava succedendo, e non potevamo più crogiolarci oltre nel guscio di protezione della famiglia Trenchard.

- Grazie, Amber…

Balbettai. Amber scosse la testa, preoccupata.

- Angus vi manda queste…

Disse poi, raccogliendo le preziose mappe che il nostro archivista stava studiando.

- Ma quelle…

- Ha detto che siete in grado di leggerle… soprattutto tu, Damien.

- Davvero?

Chiesi, guardandolo.

- Sì, ho avuto modo di studiare abbastanza, in questo periodo.

Rispose, prendendole e riponendole con cura nel mio zaino/bisaccia.

- Amber… grazie per ciò che hai fatto per noi.

Disse poi.

- Proteggi Aurore, io cercherò di fare lo stesso da qui.

Damien annuì, io ebbi ancora una volta la certezza che Amber Trenchard era la nostra più sincera alleata, e sperai che quelle parole rincuorassero anche Damien. Non so dire se fu effettivamente così, ma di sicuro, lo aiutò a tranquillizzarsi. Poi, toccò a me. Mi avvicinai e la strinsi forte, così tanto che mi inebriai del suo profumo, e Amber ricambiò la stretta, a metà tra quella di un’amica e quella di una sorella. Mai, per nulla al mondo, avrei scordato tutto ciò che aveva fatto per me. Quella sera, giurai a me stessa che avrei fatto qualunque cosa per far sì che l’Underworld diventasse un posto sicuro e un mondo di luce, il mondo che Amber sognava. Sciolsi l’abbraccio e mi rivolsi a Sybille, che aveva atteso pazientemente il suo turno.

- Sybille… grazie… per tutto…

Mormorai, e vidi sul suo volto paffuto un crogiolo di emozioni, prima tra tutte la commozione. Spalancò le braccia corpulente e prima che Damien riuscisse a scansarsi (e la sua faccia sconvolta fu così divertente che non potei fare a meno di scoppiare a ridere), ci avvolse in un abbraccio collettivo da lasciarci senza fiato.

- Promettetemi che non farete azioni stupide!!

Ordinò, e Damien e io ci scambiammo un’occhiata complice al ricordo della promessa che ci eravamo scambiati la notte del mio compleanno, e annuimmo.

- E poi…

Continuò, stritolandoci nel suo affetto.

- Sybille, così ci soffochi!

Strillò Damien, cercando un modo per liberarsi.

Amber ci guardava incredula, poi si mise a ridere.

- Grazie mille…

Mormorò seccato il despota, ma prima che potesse dire altro, Sybille stampò un bacio in fronte a me e uno a lui, lasciandolo assolutamente interdetto, anche dopo che ci lasciò liberi.

- Grazie, Sybille…

Ridacchiai, rivolgendo poi lo sguardo su Damien, che sembrava aver letteralmente perso l’anima.

- Ma smettila, per un bacio fai tutte quelle storie, Damien Warren?

Il suo sguardo minaccioso mi servì di risposta.

- Come non detto…

- Vi ho preparato anche qualcosa da mangiare, in modo che non rimaniate a digiuno, e ci sono anche dei cambi.

Riprese poi Sybille e la ringraziai nuovamente. Era davvero molto simile a una mamma, e ripensai a tutte le attenzioni che mi madre mi dava. Avrei fatto di tutto per riaverle ancora. Poi, mentre ultimavamo i preparativi, fummo raggiunti da Leandrus.

- Allora, si parte, ragazzini?

Domandò seccato mentre varcava la soglia del palazzo.

- A quanto pare ha obbedito davvero a Blaez…

Mormorai, tirando su lo zaino.

- Lascialo a me, lo tengo io.

Disse Damien, prendendolo e mettendolo in spalla.

- Pare proprio di sì… ma mi auguro che non osi infastidirci o giuro che lo ucciderò io stesso.

- Ehm…

- Ho una cosa per te, Warren.

Comunicò poi, quando ci ebbe raggiunti.

- Di che si tratta?

Domandò Damien, guardingo, anche quando Leandrus gli lanciò un corto fodero di cuoio, che Damien prese al volo, scoprendo la lama finissima e lucente di un pugnale.

- Era necessario lanciarlo in quel modo?

Contestò. Leandrus ridacchiò sotto i baffi.

- Non ricominciate, voi due…

Mi intromisi, beccandomi un’occhiataccia da ambo le parti. Almeno erano in sintonia su qualcosa quei due.

- Leandrus!

Esclamò poi Amber, richiamandone l’attenzione. Era capace di catalizzarla totalmente, perché Leandrus si sciolse all’istante, tornando il deficiente che tutti conoscevamo. Corse da lei, inchinandosi al suo cospetto e scusandosi all’infinito di aver mancato di rispetto non salutandola per prima come si conveniva a una Lady del suo rango. Non contento, si offrì di farle da zerbino per tutto il tempo che sarebbe rimasto a palazzo (cosa che sarebbe durata ben poco, dal momento che saremmo partiti di lì a poco in ogni caso) e di farle da servo quando fossimo tornati. Ero inorridita da quel ragazzo, ma rimasi ancor più sconvolta quando vidi Damien raggiungerlo a grandi passi, afferrarlo per la collottola e tirarlo via.

- Odio questo servilismo, quindi vedi di darti una regolata, idiota.

Tuonò con un’autorità da fare invidia a Blaez.

- Ti ho già detto di non rivolgerti a me con quel to-- 

Si ammutolì di colpo, mentre Damien aveva il suo sguardo più sadico puntato nei suoi occhi blu. Se avevo ancora qualche riserva, dopo quella volta non ebbi più dubbi: il despota non doveva essere mai contrariato, pena la vita stessa.

Sospirai, poi dopo che ci fummo ricomposti, prendemmo congedo da Amber e Sybille. Intravidi sulla soglia delle cucine anche Hiram e Milene, che erano stati così gentili nei nostri confronti. Per qualche istante, invidiai Milene, che aveva ancora suo fratello vicino a sé, mentre io ormai, non potevo più contare su Evan. Quanto mi mancava… feci segno di saluto con la mano, a cui Hiram rispose con un formale inchino, mentre Milene mi rivolse un timido cenno al mio stesso modo. Quel gesto, a suo modo, mi fece felice. Sorrisi e uscimmo sul piazzale del palazzo, dove ci attendevano sellati i nostri grifoni e quello di Leandrus, un esemplare pezzato, Hezekiel. Guardai per l’ultima volta la residenza ufficiale della famiglia Trenchard, sperando di poterci tornare, un giorno o l’altro. Quando montammo, poi, Amber mi si avvicinò.

- Tra una settimana, noi saremo ad Adamantio. Cercherò di contattarti non appena mi sarà possibile.

- In che modo?

Domandai perplessa. Non mi risultava che avessero cellulari o Internet nell’Underworld.

- Utilizzeremo le gemme. Ricordi, nella palestra?

Certo che lo ricordavo. Ci eravamo ritrovate improvvisamente in una dimensione che non avevo mai visto, e la cosa mi aveva spaventata non poco.

- E’ sicuro, Amber?

- Certamente più di quanto lo siano le comunicazioni ufficiali. Tieni stretta la tua ametista, Aurore… e lei ti proteggerà.

Mi ricordò, posando la mano bianca sul manto di Harundia.

- Sì… in bocca al lupo, Amber!

Esclamai, sorridendo. Era quello il ricordo migliore da lasciarle. Prima o poi, ci saremmo sicuramente riviste, lo sentivo. Al comando di Leandrus, che si mise in testa al nostro gruppo, spronammo i nostri grifoni e prendemmo il volo, alla volta di Challant. Alla volta del luogo da cui proveniva l’ametista. Dietro di noi, le maestose architetture di Karelia sbiadirono fino a perdersi nell’oscurità più completa.

 

 

 

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Capitolo 24
*** XI - In viaggio verso la verità (1 parte) ***


Buon pomeriggio!! Prima parte del nuovo capitolo! <3 Il viaggio finalmente è cominciato! >_< Ringrazio come sempre Taiga-chan per il sostegno e anche le visite silenziose!! >_< Naturalmente, se qualche altra anima pia volesse lasciare un commento, è la benvenuta! ç_ç<3

Buona lettura!!

 

 

 

 

 

 

Volare di notte era una cosa che non mi ispirava particolarmente. Ricordo ancora quando prendemmo il volo della American Airlines con partenza dal London Gatwick per Boston. Fu uno degli ultimi trasferimenti, ma per certi versi, il più significativo, in quanto si trattava dell’ultimo viaggio intercontinentale che avevamo fatto. Il viaggio in sé e per sé non era stato male, ma nonostante la stanchezza, durante le ore di volo notturne non riuscivo mai a prendere sonno, al contrario di Evan, che se la passava dormendo in continuazione. Mio fratello non amava gli aerei. Per lui era come trovarsi a bordo di una bara volante, e sebbene fossimo abituati a viaggiarci, non faceva i salti di gioia ogni volta che la mamma ci comunicava una nuova partenza su larga scala. Per questo motivo, una volta allacciate le cinture, aggrappava saldamente le mani ai braccioli e si dava alle tecniche di respirazione, in modo da calmarsi quanto più possibile. Superato il decollo, con mia grande invidia, finiva puntualmente con l’addormentarsi e col risvegliarsi quando eravamo ormai in dirittura d’arrivo. Quand’ero piccola, stupita del suo sonno profondo, cercavo in tutti i modi di svegliarlo, e a volte ero davvero spaventata dal fatto che nonostante i miei tentativi non si svegliasse. Allora scoppiavo a piangere, pensando che fosse morto, e mi disperavo, ma poi, sentivo la sua voce rassicurante che mi tranquillizzava, dicendo di non preoccuparmi perché stava soltanto cercando di dormire. E quand’ero inconsolabile, apriva gli occhi e tendeva la mano sulla mia testa, accarezzandomi pacatamente i capelli.

- Va tutto bene, Aurore. Non piangere.

Mi diceva, sorridendo.

Rincuorata, mi calmavo e mi lasciavo stringere forte. Il suo calore era l’antidoto perfetto alle mie paure e grazie a lui riuscivo ad addormentarmi, anche se solo per poche ore. Al contrario, la mamma adorava viaggiare in aereo. Sceglieva sempre il posto vicino al finestrino, e quando eravamo in volo, osservava estasiata la sconfinata distesa di nuvole e cielo. Amava molto il susseguirsi di forme e di paesaggi che si apriva sotto di noi, e il suo sguardo rapito mi faceva immaginare che stesse sognando scenari meravigliosi. Si estraniava completamente dal resto del mondo, salvo che per le mie necessità o per i convenevoli di rito al passaggio delle hostess o degli stewart di bordo. Ma ogni volta che poteva, tornava a perdersi in quell’immensità. Erano le volte in cui la mamma era più lontana, e adesso, volando nella notte più scura, mentre sotto di noi le luci di città e villaggi ci ricordavano che c’era vita, riuscivo a capirne il motivo. Ricordava. Ricordava qualcosa che aveva sicuramente vissuto, e che l’immensità del cielo aiutava a immaginare. Accadeva lo stesso per me, e mi era già successo quando con Shemar avevamo varcato la soglia dell’Underworld in groppa a Varon. Era facile perdersi nei pensieri, e avrei continuato a farlo, se Damien non mi avesse ricordato di mantenere salde le redini di Harundia.

- Scusami!

Esclamai, imbarazzata, nello stringere con più energia le briglie.

- Hai sonno?

Domandò, mentre il vento contrario gli scompigliava i capelli.

- N-No, non ancora!

Risposi, ed era la verità, nonostante le apparenze potessero dire il contrario. Erano circa tre ore che eravamo in volo e ci fermavamo ogni ora per fare una pausa. Avevo capito che più che per i nostri grifoni, che non davano affatto segno di stanchezza, Leandrus lo faceva per noi, che certamente non eravamo abituati a viaggi di giorni, per giunta in quelle condizioni. Ma l’ultima cosa che volevo era che mi considerassero una palla al piede, motivo per il quale continuavo a tenere alta l’attenzione, almeno fino a che i pensieri non si facevano più forti. Del resto, volare in quel modo, senza avere idee certe della rotta che stessimo percorrendo, era piuttosto complicato, ma Leandrus si manteneva a testa della compagnia, e tutto ciò che dovevamo fare era seguire lui. Per tutto il tempo, non l’avevo sentito nemmeno aprire bocca, se non per ordinarci di scendere o per riprendere il viaggio. Era strano vederlo così silenzioso, e pensavo che facesse così perché seccato all’idea di doverci accompagnare. Mi ricredetti quando ordinò una nuova discesa, nei pressi di un lago dal quale aveva origine uno degli affluenti del fiume Shelton, e decise di montare lì l’accampamento.

- E’ un posto tranquillo qui. Possiamo trascorrere il resto della notte.

Spiegò, accompagnando Hezekiel ad abbeverarsi.

- Se è per me, non è necessario, Leandrus. Sono perfettamente in grado di continuare a volare.

Ribattei, facendo lo stesso con Harundia, e Damien con Hibernia.

L’acqua del lago rifletteva il nero di quel cielo senza stelle, ma le increspature avevano assunto una colorazione violacea. Compresi all’istante. Era il mio ciondolo che emanava luce.

- Non fraintendere… non è di te che mi preoccupo, ragazzina. Sono io che ho bisogno di riposare.

Rispose, e dopo che Hezekiel ebbe finito di bere, legò le briglie a un albero vicino all’acqua, in modo che qualora avesse voluto bere, avrebbe potuto farlo tranquillamente.

- Non hai dormito a sufficienza prima di partire, tu?

Bofonchiai, cercando un albero vicino a mia volta. Sfortunatamente, non ne trovai, ma Damien intervenne e raccolse le mie briglie, assieme a quelle di Hibernia, portando i due grifoni più lontano da noi, vicino a un albero dal tronco sottile, in modo da poter tenere le briglie quanto meno legate possibile e aumentando la lunghezza disponibile. In quel modo, i due animali potevano accedere all’acqua senza sforzo.

- No, mi spiace. Ho avuto altro da fare io. Non passo le mie giornate dormendo, contrariamente a quanto voi possiate pensare.

Si lamentò, grattandosi la testa.

Per quel commento, mi aspettavo che Damien sbottasse, ma non lo fece. Evidentemente, era stanco anche lui e non aveva voglia di attaccar briga. Tolse lo zaino dalle spalle e lo posò accanto a un albero dalle radici larghe, poi si stiracchiò, lasciando scricchiolare la colonna vertebrale e si gettò a sedere con un enorme sospiro.

- Mi dispiace, Damien…

Dissi, raggiungendolo e sedendomi vicino a lui.

- Ti fa male la schiena?

- No, non preoccuparti.

Rispose, per poi rivolgersi a Leandrus, che frugava nella sua borsa da viaggio.

- Che stai facendo?

- Prendo qualcosa per fare luce e da mangiare. Quanto a te, Aurore, fai sparire quel ciondolo, se non vuoi attirare qui tutti i messi della Croix du Lac.

Mi intimò, e preoccupata dall’idea, feci in modo di nascondere la mia ametista sotto i vestiti.

- Così non si vede…

Osservai.

- Chissà perché a terra è più luminoso, quel ciondolo.

- Perché percepisce la vicinanza a Challant. Man mano che ci avviciniamo, il bagliore aumenta. Ma in volo, è come se fosse una specie di meccanismo d’autodifesa.

Spiegò Leandrus, tirando fuori delle lucerne e accendendole. Mi accorsi che non erano ad olio, ma funzionavano a energia elettrica.

- Wow…

- Ti stupisce tanto una cosa del genere? Andiamo bene.

Pizzicò, con fare provocatorio.

- Affatto! Ma avevo immaginato che l’energia elettrica fosse usata per altri scopi che non fossero l’illuminazione domestica… oltretutto mi chiedo come sia possibile….

- Credevi di trovarti in un mondo antico di secoli? Mio padre va e viene da qui, quindi non mi stupisce che abbiano portato qui delle tecnologie del nostro mondo, Aurore.

Sopraggiunse Damien, osservando incuriosito la lanterna.

- C’è una pila dentro, vero? Con cos’è alimentata?

- L’esperto è Blaez, io mi limito a usare. Ma posso dirti che la durata è illimitata. 

- Davvero?

A quel punto mi tornò in mente una cosa. Da quand’ero arrivata, m’ero completamente scordata di aver portato con me il mio cellulare. Stare in quel mondo privo di qualunque tecnologia aveva finito col far passare in secondo piano le cose che solitamente utilizzavo, ma dopo un mese, la mia batteria avrebbe dovuto comunque essere completamente scarica. Così, mi misi a frugare nel mio zaino, sotto lo sguardo perplesso di quei due.

- Che stai facendo, Aurore?

Domandò Damien.

- Voglio controllare una cosa…

Spiegai, e trovai il mio cellulare in fondo allo zaino, relegato sotto i vestiti e le provviste di Sybille e lo raccolsi.

- Eccolo qua!!

Esclamai trionfante.

- E quello che diavolo è?

Domandò perplesso Leandrus.

- Hai portato il cellulare… ti aspetti anche che prenda qui?

- E che ne so? Almeno ci provo…

Borbottai, aprendo lo sportellino del mio cellulare a conchiglia.

- Modelli più recenti no, eh?

Mi punzecchiò Damien.

- Va’ all’inferno.

Protestai, e mi stupii quando lo schermo si illuminò, lasciandomi vedere lo sfondo. Una violenta vampata di calore invase le mie guance, e gli occhi mi si velarono, costringendo Damien a sporgersi verso di me preoccupato. Sospirò.

- Credevo che avessi una foto di famiglia, non una con Violet Hammond.

Annuii, emozionata.

- L’abbiamo fatta a casa mia, qualche giorno prima che succedesse tutto quel che è successo…

- Sembri molto più serena, infatti.

- Già…

Sorrisi mestamente, nel ripensare a un pomeriggio in cui ci eravamo divertite come due matte a provare vestiti e ad acconciarci i capelli. Giochi innocenti, per due ragazze come noi che non erano affatto abituate alla vita mondana e si divertivano davvero con poco. Quanto avevamo riso quel giorno immaginandoci sposa e damigella, sognando che Evan fosse lo sposo, uno sposo in perenne ritardo. E poi le giocose chiacchiere, e i ruoli si scambiavano. Arrossii, pensando ai progetti di Violet su un misterioso ragazzo mi sarebbe potuto piacere, qualcuno di inatteso, di assolutamente fuori dalla mia cerchia di gusti, il ragazzo che in quel momento era accanto a me a osservare quella foto che ci ritraeva abbracciate e sorridenti, complici come solo due amiche che conoscono l’una l’anima dell’altra possono essere.

- La piantate di escludermi, voi due?

Bofonchiò Leandrus, raggiungendoci e osservando stupito la foto.

- Che diavoleria è questa? Quella sei tu?

Chiese perplesso.

- Sì, mentre questa ragazza è la mia migliore amica, Violet.

Spiegai, mostrandogli lo sfondo.

- Non capisco… che accidenti è quell’oggetto? Un quadro portatile?

Damien ridacchiò sotto i baffi a quel commento, io lo guardai stupita.

- No, è un telefono cellulare… serve per comunicare a distanza.

Leandrus mi guardava come se stessi parlando in una qualche lingua incomprensibile.

- In pratica… se tutti e tre ne avessimo uno, e fossimo lontani, basterebbe comporre il numero e potremmo comunicare. Almeno, questa è la base, i nuovi modelli sono molto meglio… mi manca Internet…

Singhiozzai, in realtà molto poco convinta.

- Scommetto che sei il tipo di persona che non ne fa uso smodato.

Commentò Damien, io lo guardai incuriosita.

- In effetti… e tu, invece?

- Solo lo stretto necessario. Ho già abbastanza a cui pensare.

- Come terrorizzare gli altri studenti?

Lo pungolai.

- Ancora con questa storia? Non capisco cosa ci sia di cosa strano nel volere solo un po’ d’ordine. Probabilmente adesso la nostra scuola sarà nel caos più completo.

- O magari avranno trovato un nuovo despota.

Ridacchiai, lui mi degnò di un’occhiata di sufficienza.

Era divertente immaginare le facce dei compagni di classe di Damien, e soprattutto quelle delle tre ragazze che avevo incrociato in biblioteca. Eppure, una parte della mia mente corse a pensare a cosa poteva essere accaduto nei giorni seguenti alla nostra scomparsa. Due famiglie scomparse, nessuna traccia utile. Ogni pista valida dove avrebbe potuto portare? Al retro di un locale gotico ristrutturato? Alla Porta di Pietra? Al nulla. Eravamo spariti, non appartenevamo più al mondo che conoscevamo.

- Ehi, ti sei incantata, ragazzina?

Mi richiamò Leandrus.

- No, stavo soltanto pensando…

- Sì, sì, dicono tutti così. Piuttosto, abbiamo già queste a far luce, non serve anche il tuo… come l’hai chiamato?

Rigirai il cellulare tra le mani, stupita che quel ragazzo arrogante l’avesse scambiato per una sorta di torcia. Damien invece, mise una mano in faccia.

- Il mio cellulare, Leandrus. E comunque… è strano, ma dovrebbe essere scarico, invece la batteria è a posto… non è normale…

Borbottai sovrappensiero.

- Non avevi con te il caricabatteria?

Chiese Damien.

- No, l’avevo scordato…

- Allora è davvero strano. Posso vedere?

Un po’ incerta, glielo passai. Osservò con attenzione, ma era chiaro che qualunque fosse la causa di quello strano comportamento del mio cellulare, non poteva essere chiara soltanto con un’occhiata.

- Ricordi… l’orologio, Aurore?

Chiese poi, e io feci cenno positivo. Anche quell’oggetto veniva dal nostro mondo, stando a Damien, e stranamente funzionava.

- Mi chiedo se non ci sia qualche problema legato ai campi magnetici, un’anomalia, in questo mondo…

Disse, carezzando con le dita il labbro inferiore.

- Che vuoi dire?

- Loro pensano che la Croix du Lac sia responsabile di tutto qui, ma se si trattasse davvero di una persona, potrebbe avere un potere tale da influenzare persino l’alternarsi del giorno e della notte? Insomma, è pura superstizione…

Di nuovo il Damien scettico, che meraviglia.

- Superstizione? Ma che accidenti stai dicendo?!

Imprecò Leandrus, con piglio nervoso. Temevo che si sarebbero messi a litigare, ma Damien rimase impassibile alle sue provocazioni.

- Dev’esserci altro, sicuramente…

Continuò a elucubrare.

- Oh, certo. Arrivate qui, da un mondo di… di diavolerie oscure che farebbero impallidire persino la Croix du Lac e pretendete di sputare sentenze senza sapere niente!

- Diavolerie oscure? Guarda che non c’è niente di strano, è soltanto un cellulare…

- Mettiti nei suoi panni, Aurore. Ricordi come siamo rimasti shockati noi nel constatare che non usano l’acqua corrente?

Mi fece notare Damien, io ci ripensai e feci spallucce.

- Ma la situazione è diversa. A me dà l’impressione di essere tornata indietro nel tempo, per certi versi…

Spiegai imbarazzata.

- Non lo è. E’ esattamente la stessa cosa. Per Leandrus la tecnologia è l’equivalente della magia nera, non ho ragione?

Chiese puntandolo. Leandrus non rispose a voce, ma la sua espressione seccata servì di risposta. Sospirai, osservando sconsolata la foto nel mio sfondo, poi tornai a frugare nel mio zaino e raccolsi dei panini imbottiti e le cuffiette.

- E quelle che sono?

Incalzò Leandrus, ancor più stranito.

- Cuffiette. Servono ad ascoltare la musica. Quantomeno non dovrò sorbirmi oltre le vostre dispute filosofiche.

- Hai portato le cuffiette e non il caricabatteria… Aurore, tu sei senza speranza.

Sospirò Damien, rassegnato. Avrei anche potuto dirgli che aveva ragione da vendere, ma non mi andava di intavolare altre discussioni, motivo per il quale mi alzai e mi allontanai verso la riva del lago, al riparo da quei due, nella speranza di godermi almeno per un po’, qualche momento di relax. 

 

Mi rannicchiai infreddolita nel mio giaciglio sbattendo le palpebre. Avevo il sonno leggero a causa dei rumori di sottofondo che si percepivano in quel molto poco familiare bosco. Dovevo ammetterlo. Nonostante la presenza di due ragazzi (di cui uno del posto) dovesse aiutarmi a stare tranquilla, dormire in una sorta di sacco a pelo ricamato, nel bel mezzo del nulla, in balia di chissà quali esseri (a esclusione dei nostri tre grifoni che sembravano a loro agio in quell’ambiente), era qualcosa che non mi incentivava affatto a fare sogni tranquilli. Il minimo rumore poteva diventare una minaccia nascosta nell’ombra, soprattutto per me che avevo fatto incubi su situazioni del genere. Era un po’ come viverli a occhi aperti, e nel mio caso, chiuderli per sconfiggere la paura era altrettanto difficile. Esasperata, aprii gli occhi. Ero voltata verso Damien, che mi dava le spalle, coperto fino alla nuca dal manto scuro di tela, mentre quando mi voltai, di Leandrus, che doveva dormire dal lato opposto (i due avevano accettato la mia richiesta di poter dormire in mezzo a loro senza troppe storie), non c’era traccia. Che fine aveva fatto? Dovevo confessarlo. Non mi fidavo davvero di lui, e così la mia mente corse al pensiero che quel ragazzo potesse averne approfittato per tradirci, in qualche modo. Spaventata e preoccupata all’idea, mi alzai prudentemente, facendo attenzione a non muovermi troppo goffamente. Damien non si accorse di nulla, ma Hezekiel, poco più lontano, drizzò il collo possente.

- Shhhhh!

Bisbigliai, sperando che il suo udito fosse migliore del mio tono di voce. Quantomeno, il grifone era ancora là. Mi allontanai, seguendo la riva, con il cellulare acceso per fare luce. Era tutto così tranquillo, ma in quel mondo, qualunque insidia sarebbe potuta sbucare da un momento all’altro, sia dai folti cespugli che facevano da base ai sottili e fitti alberi, sia da quello specchio oscuro che era il lago. Seguendo lo scrosciare dell’acqua, mi diressi verso una cascatella. C’erano pietre sopraelevate, sembrava una sorta di fontanella.

- Ma dove sarà?

Mi domandai, poi osservai il flusso d’acqua che scorreva imperituro. C’era bellezza in quella scena, e mi sarei sicuramente persa nella contemplazione se all’improvviso non avessi sentito uno strano fruscio proveniente da dietro. Sobbalzai facendo luce e Leandrus sollevò le braccia, apparentemente stupito.

- Che accidenti stai facendo?!

Sbottò. Non lo era solo apparentemente, lo era per davvero.

- Scusa!

Mi affrettai a esclamare.

- Tutto bene?

Domandai poi, abbassando il cellulare. Leandrus mi raggiunse e mi guardò di sbieco, si avvicinò alla fontanella e si lavò le mani, poi bevve.

- Sì. Dovresti dormire, al posto di andare a zonzo.

Disse, asciugandosi col dorso della mano.

- Fosse semplice… è come stare in campeggio, ma senza tenda…

Mi guardò come se all’improvviso stessi parlando in una lingua aliena. Era strano, ma in un certo senso, cominciavo a capire gli abitanti dell’Underworld. Non doveva essere affatto semplice per loro immaginare concetti ai loro occhi sicuramente astratti. Mi chiesi se anche per mia madre fosse stato così, un tempo. Leandrus fece un sospiro e io misi il broncio.

- Posso chiederti dove sei stato?

- Ovviamente no. Ci sono domande che puoi fare e domande che non puoi fare.

Ribadì, sollevando il sopracciglio.

- Ho capito. Ti serviva la toilet.

- Toi--  cosa?

Toccò a me sospirare.

- Lascia stare.

Non rispose, ma si sedette sulle pietre che circondavano la fontanella. Notai che osservava il placido scorrere dell’acqua.

- E’ così pacifico…

- Challant…

Esordì, con tono nostalgico. Sobbalzai al pensiero, ma non proseguì e al contrario, stette in silenzio per qualche istante. Forse stava ricordando qualcosa. Dopotutto, Challant era la sua terra natia, e a giudicare dal tono con cui aveva pronunciato quel nome, non doveva tornarci da un po’.

- Com’è?

Domandai.

- E’… era un posto stupendo, una volta.

- Una volta? Intendi… prima della ribellione, giusto?

Mi rivolse un’occhiata pigra, poi sollevò la mano a mezz’aria e annuì.

- Amber ti ha detto che l’ultimo Despota proveniva da Challant, non è così?

Interessata, mi sedetti accanto a lui e annuii. Dovevo ammettere che nemmeno Leandrus era brutto, ma il suo carattere impossibile lo rendeva fastidioso e irritante, al punto da far passare in secondo piano persino il suo bell’aspetto.

- Ademar Valdes, era così che si chiamava.

Proclamai solennemente. Almeno qualcosa l’avevo imparata.

- So anche che i Valdes, i Warrenheim e i Rosenkrantz provengono tutti da Challant.

- L’oligarchia dell’Underworld, sempre in lotta per il potere. Quando Ademar Valdes prese il potere, era già il secondo Despota consecutivo che proveniva da Challant. Per la nostra terra, quello fu motivo di prosperità e di lustro. Il Despota precedente, Tantris Rosenkrantz, aveva governato per molti anni, e aveva sempre goduto della fama di reggente forte e saggio. Ademar sembrava destinato a seguirne le orme, ma ben presto, si dimostrò un uomo totalmente privo di scrupoli. Fu lui stesso a ordinare al proprio fratello che i discendenti della prima famiglia, i Delacroix, venissero sterminati. Per anni ci siamo chiesti il perché di quella decisione, dal momento che si trattava di poco più che un piccolo gruppo ormai. La sola cosa che mi viene in mente è che non volesse rischiare di perdere il favore della Croix du Lac, qualora i Delacroix fossero tornati a prosperare. Era letteralmente ossessionato da loro.

Ero impressionata dalle parole di Leandrus. Quel ragazzo sapeva molto più di quanto volesse far credere, ma soprattutto, raccontava quella storia con incredibile cognizione di causa.

- Come fai a sapere tutte queste cose?

Domandai. Leandrus sorrise ironicamente, continuando a guardare l’acqua.

- Perché quando i Delacroix furono uccisi, le cose cominciarono a cambiare. Presagi infausti, morti, e soprattutto, il cielo cominciò a oscurarsi. Si disse che la famiglia Valdes aveva sfidato la Croix du Lac, facendo uccidere coloro che un tempo erano stati i suoi custodi. A quel tempo, ero un bambino, ma ricordo chiaramente la tensione e i tumulti che ne scaturirono. Sorsero focolai di ribellione, nel corso degli anni, ma Ademar fece reprimere nel sangue ogni tentativo. Persino Challant, che aveva accolto con gioia un Despota del luogo, venne messa e ferro e fuoco. Durante un attacco, i miei genitori mi nascosero in un pozzo prosciugato da anni, e questo mi permise di salvarmi. Fui trovato dopo la notte in cui il mio villaggio venne distrutto, da Angus Vanbrugh. Fu lui a portarmi a Shelton, con l’intenzione di mettermi al servizio di Blaez, suo nipote e mio coetaneo. In realtà, diventammo amici, e ci mettemmo all’opera per scoprire le ragioni che avevano portato questo mondo a finire nel caos più completo.

- E della tua famiglia cosa ne fu?

- Per fortuna, sopravvissero. Non li vedo da diverso tempo, tuttavia.

Tirai un sospiro di sollievo. Almeno una storia in cui c’era una specie di lieto fine. Leandrus si decise a guardarmi, studiandomi con espressione perplessa.

- Perché hai sospirato?

Ricambiai lo sguardo con imbarazzo.

- Perché… perché almeno hai ancora la tua famiglia…

Sembrò esitare per un momento, poi tornò a guardare lo scorrere dell’acqua.

- Tu, Aurore Kensington, somigli incredibilmente a Greal Valdes, il fratello di Ademar, lo sai?

Sgranai gli occhi a quella strana e inaspettata domanda. Greal Valdes. Era la prima volta che sentivo quel nome.

- I tuoi occhi sono del suo stesso colore.

Deglutii a fatica pensando alle parole di mia madre riguardo a mio padre, e al fatto che la cosa che mi accomunava a lui era il colore ametista degli occhi. Greal Valdes, il fratello del Despota, colui che aveva sterminato i Delacroix. Mia madre non avrebbe mai e poi mai accettato un uomo del genere al suo fianco. E mi tornarono alla mente le parole di Angus, sul destino infausto che pendeva sulla mia famiglia. No, non potevo accettarlo.

- M-Mio padre… probabilmente è morto…

Balbettai.

- Anche Greal Valdes è morto.

- E allora? Perché mi dici queste cose?!

In quel momento, mi tornò in mente Amber, e le sue parole riguardo all’uomo che aveva scaraventato l’Underworld nel caos. Trasalii e mi alzai, indietreggiando. Non volevo sentire più niente sull’argomento. Leandrus mi rivolse lo sguardo, d’improvviso privo d’espressione.

- Perché mi chiedo se in realtà tu non sia una Valdes.

Scossi la testa.

- Smettila!

Si alzò a sua volta, muovendo alcuni passi verso di me, che continuavo a indietreggiare.

- Tu…

- Smettila, Leandrus! Smettila, ti prego!!

Urlai, tappandomi le orecchie con le mani. Inciampai all’indietro, senza rendermene nemmeno conto, ma Leandrus fu veloce e mi tirò via prima che cadessi in acqua. Il suo sguardo tornò acceso, e la sua espressione si fece seria. Mi ritrovai a balbettare, incapace di parlare decentemente e sentii le lacrime salirmi agli occhi.

- S-Scusami.

Disse, lasciandomi. Annuii, poi raccolsi il mio ciondolo dal vestito. Il bagliore era simile a una pulsazione, e descriveva il battito del mio cuore in quel momento.

- Io non so chi sia mio padre… quando sono nata, lui non c’era. Mia madre non parla spesso di lui, ma so che si sono amati molto e per lei non c’è mai stato nessun altro. Una persona in grado di provare un amore così grande non può essere malvagia. Non importa che i miei occhi siano uguali a quelli di questo Greal Valdes… io so che mio padre non era una persona cattiva… per questo, ti prego, smettila di insinuare cose del genere…

- Va bene. Ti chiedo scusa.

Disse, distogliendo lo aguardo.

- Grazie…

Mormorai. Leandrus annuì, poi fece un cenno in direzione del nostro accampamento.

- Sarà il caso di tornare a dormire.

- Sì...

Dissi, incamminandomi. Mi sentivo ancora un po’ stordita, ma soprattutto, triste al pensiero di questa nuova, inaspettata ipotesi. Quasi quasi avrei preferito litigare per qualche stupida battutaccia.

- Ragazzina?

- Che c’è?

Domandai, continuando a camminare.

- Challant comunque, è il posto più bello dell’Underworld.

Accennai un sorriso.

- Non lo metto in dubbio. La propria casa è sempre il posto più bello.

Sentii il suo tono sincero, poi tornammo ai nostri giacigli.

 

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Capitolo 25
*** XI. 2 parte ***


Buongiorno!! *__* Ed ecco la seconda parte del nuovo capitolo! *__* Entra in scena il misterioso comandante Liger~ <3 E i ragazzi si ritrovano con una nuova traccia da seguire... cosa accadrà? Un grazie di cuore alla mia Taiga-chan, fonte di sostegno e risate continue e anche alla dolcissima Ema, grazie davvero per le tue parole!! >___<<3 E come sempre, grazie anche ai miei silenziosi lettori! >_<<3

Per ora, buona lettura a tutti e buon proseguimento di giornata!! :D 

 

 

 

 

 

 

Riprendemmo il viaggio alle prime, scarse, luci dell’alba. In realtà, non ero riuscita a chiudere occhio, ma non potevo, né volevo, rallentare i miei compagni. In più, prima fossimo giunti a Challant, prima avrei avuto la possibilità di sapere di più su Greal Valdes, colui che a detta di Leandrus, sarebbe stato mio padre. Non mi resi conto che Damien si era accorto del mio malessere, fino a quando non fu lui stesso a riprendermi. Stavamo sorvolando delle colline, e il paesaggio continuava a cambiare man mano che avanzavamo.

- La luce del tuo ciondolo diventa ancora più forte.

Mi disse, facendo avvicinare Hibernia al mio Harundia, tanto che le ali dei due grifoni si sfiorarono.

- Davvero?

Gli feci eco.

- Non me n’ero accorta.

Lui aggrottò le sopracciglia brune.

- Cosa c’è?

Domandò.

Gli rivolsi uno sguardo, sperando che non insistesse, ma non mi scrollò gli occhi di dosso.

- Sono solo un po’ stanca. Stanotte non ho dormito bene.

Confessai, guardando istintivamente verso Leandrus, che incitava Hezekiel qualche metro più avanti.

- C’entra quell’idiota?

Mi affrettai a guardare nuovamente Damien, il cui sguardo si era fatto più acuto.

- Non mi va di parlarne ora, per favore.

Sospirò, poi acconsentì e sporse la mano fino a prendere le briglie di Harundia, che scalpitò. Più avanti, Leandrus si voltò di scatto.

- Che succede?!

- Damien, che stai facendo?!

Domandai, perplessa. Mi ignorò, ma rispose a Leandrus.

- Niente, aspettaci lì!

Ordinò. Poi scendemmo di quota, fino a toccare terra.

- Damien!!

Sbottai, nell’istante in cui scese.

- Scendi.

Disse.

- Non fare lo stupido! Posso volare!

- Non farmi venire a prenderti.

Mi imbronciai. Non lo sopportavo proprio quando faceva il despota. Ciononostante, scesi dalla groppa. Harundia voltò il collo, col muso puntato verso di noi, e lo accarezzai.

- Sta’ tranquillo. Questo testardo dispotico che non è altro dà sempre ordini.

Damien rispose con uno di quei “Mpf” che tanto destestavo, poi guardò Hibernia.

- Sali.

- Eh?

- Sali, ho detto.

- Damien. A che gioco stai giocando?

Alzai gli occhi al cielo, riuscendo a scorgere Leandrus che aspettava. Chissà quant’era seccato.

- Al gioco del “Si fa come dico io”. Quindi sali e non discutere.

- Sei un despota.

Bofonchiai, poi salii. Hibernia guardava suo fratello. Dopo aver legato per bene i nostri zaini alla sella di Harundia, anche Damien salì e solo allora compresi che cos’aveva in mente.

- Harundia, seguici.

Ordinò, poi Hibernia si librò in volo. Quando fummo tornati in alto, si voltò a guardarmi.

- Riposa fino a che ne avrai bisogno.

Arrossii e dopo avergli dato un paio di pugni sulla schiena per il suo maledettissimo modo di mettermi in imbarazzo, acconsentii. Leandrus ci guardò scettico, ma non aggiunse nulla. Del canto mio, posai la guancia sulla spalla di Damien e mi aggrappai a lui. Il suo calore mi aiutò a rilassarmi, e ben presto, finii con l’addormentarmi. Stupido Warren…

Quando mi risvegliai, stavamo sorvolando un grosso villaggio, circondato da un sistema di lunghi canali. Lo scrosciare dell’acqua si sentiva forte e dava la sensazione di essere nei pressi di una cascata. Sbadigliai e mi stropicciai gli occhi.

- Ben svegliata.

Mi salutò Damien.

- Grazie.

Sorrisi, ancora un po’ intontita.

- Dove siamo?

- Questo è Fellner. E’ un nodo di scambio, siamo vicini sia a Challant, sia a Wiesen. Ci fermiamo qui, per il momento.

Spiegò Leandrus.

- Perché dobbiamo fermarci? Possiamo continuare, Leandrus. Non credo sia il caso di perdere tempo.

Ribadì Damien. In un certo senso, lo capivo, perché anch’io desideravo arrivare a Challant il prima possibile. Ma Leandrus fu irremovibile. Ci lanciò un’occhiataccia e ordinò a Hezekiel di scendere. Così, privati della nostra guida, fummo costretti, volenti o nolenti, a fare una pausa. Scendemmo anche noi, e quando smontammo dalla groppa, tirammo su i cappucci. C’erano diverse persone nei paraggi, e non era il caso di rischiare. Per quanto ne sapevamo, le guardie della Croix du Lac potevano essere lì in mezzo.

- Ci rivediamo qui tra un’ora.

Disse Leandrus, legando Hezekiel vicino a un abbeveratoio.

- Dove vai?

Domandò Damien, aggrottando le sopracciglia. Nemmeno lui si fidava di Leandrus, e il suo comportamento era decisamente strano.

- C’è qualcuno che devo incontrare.

- Chi?

Leandrus eluse la risposta, e sollevando il braccio a mezz’aria in segno di saluto, si allontanò.

- Cercate di non farvi scoprire.

Fu tutto ciò che disse.

- E’ veramente insopportabile…

Mormorai. Damien rispose con un grugnito, poi raggiunse Hezekiel e legò le briglie dei nostri due grifoni accanto alle sue.

- Lo seguiamo?

Chiesi, accarezzando i manti di Harundia e di Hibernia.

- E’ ciò che si aspetta che facciamo, Aurore, pertanto non intendo farlo. Al contrario, ne approfitterò per cercare informazioni utili.

- Che informazioni?

Mi lanciò un’occhiata laconica.

- Hai bisogno che te lo dica?

- Sei il solito…

Sbuffai, camminandogli accanto quando si inoltrò attraverso le strade del borgo. Era davvero un posto molto caratteristico, con case in muratura dai colori caldi, che risaltavano grazie al sistema di illuminazione che percorreva le vie con lampioni alti e scuri. Era piacevole guardarsi intorno e osservare la gente affaccendata nel compiere i lavori più disparati. C’erano diversi viaggiatori, che potevo riconoscere dal tipico abbigliamento con lunghi mantelli e dal fatto che erano accompagnati da grifoni. Fellner dopotutto era pur sempre un nodo di scambio. Damien proseguiva dritto, con aria piuttosto sicura di sé.

- Come facciamo a reperire le informazioni che cerchi? Almeno questo puoi dirmelo? Non conosciamo nessuno qui…

Mi guardò con la coda dell’occhio, continuando a camminare, poi indicò una taverna.

- Solitamente gli scambi si concentrano maggiormente nelle locande, soprattutto davanti a qualcosa da bere.

- Oh, come nei film…

Osservai. Damien si voltò a guardami, sconvolto.

- Che c’è?

- Niente, lascia stare.

Mise la mano in faccia, poi entrammo nella taverna che, come da previsione, era piena di gente. C’era gran fermento, oltre che un persistente odore di vino talmente forte da dare l’impressione di trovarsi in una cantina. Osservavo attentamente le figure che conversavano più o meno animatamente intorno ai tavoli, cercando di carpire qualche parola, ma ciò che potevo sentire era fondamentalmente legato alla sfera dei commerci. Trasporto un carico di spezie da circa cinque giorni, e Dourand è ancora lontana…, diceva un allampanato signore di circa mezz’età, con in spalla un sacco intagliato. Dovresti provare la via dell’acqua. Il canale di Boer in questo periodo è l’ideale per gli spostamenti veloci. Rispondeva il suo dirimpettaio, parte di una compagnia di trasporto. Continuavo a non capire come Damien sperasse di reperire qualcosa di utile, eppure lui prestava ascolto a tutto, senza parlare. Nell’attesa, mi avvicinai al bancone, un’imponente struttura in legno su cui troneggiavano vivande e boccali. La vista del cibo mi fece ricordare che avevo fame, e mi sporsi a contemplare un piatto pieno di polpette enormi. Non ne avevo mai viste di così grandi, ma soprattutto, non avevo mai sentito un profumo così squisito. Avevo l’acquolina in bocca, ma non sapevo se fosse il caso di farmi avanti. Fu allora che udii casualmente due voci alle mie spalle.

- Sono davvero curioso di vedere cos’ha in mente Warrenheim stavolta.

- Qualunque cosa sia, certo è che è una bella seccatura dover scortare quel ragazzino. Dovrebbe occuparsene personalmente, e invece demanda come sempre.

Sgranai gli occhi nel sentire quelle parole e mi voltai. Davanti a me, c’erano due guardie imperiali. Le riconobbi per l’abbigliamento, ma stavolta, notai che i loro volti erano coperti da una maschera che adombrava metà viso, nascondendone gli occhi. Sconvolta e temendo di essere in qualche modo riconosciuta, mossi qualche passo indietro, urtando col gomito il piatto che giaceva sul bancone. Alcune polpette rotolarono sul piano, e il gestore mi urlò contro.

- Tu, stai attenta!

- S-Scusi!!

Mi affrettai ad esclamare, cercando di rimettere a posto le polpette, mentre le due guardie presero posto accanto a me. Deglutii col cuore in gola. Non avevo destato sospetti, ma in quel momento, il terrore era misto alla voglia di saperne di più. Cercai con lo sguardo Damien, ma non lo trovai. Dove diavolo era andato a cacciarsi proprio in quel momento?! E io, in che modo potevo cercare informazioni?

- Allora, ordini?

Mi domandò il gestore, avvicinandosi con fare seccato.

- N-Non ancora, a dire il vero… sto… sto aspettando una persona!

Esclamai, cercando di risultare il più naturale possibile e sedendomi accanto alla guardia che aveva nominato il professor Warren. Il gestore, nerboruto e dall’espressione tutt’altro che gentile, sbuffò. Poi si voltò verso le guardie.

- Idromele. Oggi è davvero una giornataccia.

Disse uno dei due. Quando il gestore si fu allontanato, prestai attenzione al discorso. Finalmente cominciavo a capire cosa intendesse Damien, anche se continuavo a chiedermi che fine avesse fatto proprio ora che avevamo tra le mani le informazioni che cercavamo. Sfortunatamente per me, i due cambiarono discorso e si misero a conversare di feste e riposo.

- Maledizione…

Borbottai, raccogliendo una polpetta.

- Avete detto qualcosa?

Mi sorprese la guardia più vicina a me.

Sollevai lo sguardo stravolta e balbettai un no in risposta. Allora compresi che se volevo saperne di più, dovevo provare a forzare la mano e correre il rischio, nonostante la paura.

- Vi chiedo scusa, ma ho casualmente sentito che oggi è una pessima giornata… eppure, da qualche tempo il cielo è più limpido, e sembra aver ritrovato una nota di luminosità che non si vedeva da tanto…

I due si guardarono, poi scoppiarono a ridere. Per un attimo temetti di aver fatto il passo più lungo della gamba, ma proprio quella guardia che mi aveva rivolto la parola, richiamò il gestore, ordinando che mi fossero serviti un boccale di idromele e un piatto di quelle succulente polpette. Non feci in tempo a dire di no che cibo e bevande ci vennero serviti.

- N-Non posso accettare…

Dissi, ma lui fu irremovibile.

- Come vi chiamate, Milady?

Mi domandò.

- Ah… ecco…

Eccomi nei guai. Cosa potevo inventarmi? Avrei potuto dire un nome qualunque, ma in quel momento, non me ne veniva nemmeno uno in mente.

- Tutto bene?

Mi incalzò, notando il mio crescente disagio.

- S-Sì, tutto bene! Tutto bene, grazie!!

Gesticolai.

L’altra guardia sembrava studiarmi, e la situazione rischiava di sfuggirmi di mano, quando fui raggiunta da Damien.

- Che sta succedendo?

Grazie al cielo, Damien!, avrei voluto esclamare, ma mi limitai a stringergli un lembo del mantello.

- Oh, la persona che stavate aspettando?

Domandò la solita guardia. Damien mi rivolse un’occhiataccia, poi fece un piccolo inchino.

- Chiedo perdono per il disturbo arrecato dalla mia sposa.

Si spiegò. Io mi affrettai ad annuire, grata per il suo intervento, fino a che non realizzai come mi avesse presentata. Un’ondata di calore violento mi invase le guance e mandò a zero la mia salivazione.

- S-S--   

Prima che potessi pronunciare quella parola, Damien mi fulminò con lo sguardo, poi sorrise cortesemente. Io deglutii. Quel sorriso era inquietante.

- Ci aspettano all’ostello. Sarà il caso di andare, che ne dici, mia cara?

Domandò, ponendo sadica enfasi sulle ultime due parole. Per tutta risposta, gli strinsi con più forza il mantello e lui rispose con un mugugno.

- Una giovane coppia di sposi...

Osservò la prima guardia.

- Già, novelli.

Rincarò Damien, del tutto incurante dell’imbarazzo da morte in cui mi aveva fatta precipitare.

- In che ostello alloggiate?

Chiese l’altra.

- In realtà siamo diretti a Camryn, è lì che abbiamo l’ostello. Oh, ma lasciate che mi presenti. Mi chiamo Will e vengo da Dourand. Sono un pittore, al momento in viaggio di nozze. E questa è la mia sposa, Gracie.

Will? Gracie? Sbattei le palpebre guardando con che naturalezza Damien simulava di essere una persona del tutto ignota. Considerando i suoi trascorsi con le recite a scuola, non gli veniva affatto male. Probabilmente, doveva essere qualche personaggio che aveva interpretato, e aveva improvvisato sul resto.

- Un pittore, eh?

- Di bassa lega. Più che altro, dipingo per me stesso.

Sorrise tranquillamente. Mi vennero in mente i dipinti che avevo visto a casa sua, che erano tutt’altro che di bassa lega, ma non erano nemmeno opera sua. A meno che Damien Warren non sapesse fare anche quello. Del canto mio mi limitai ad annuire, fino a che, dopo aver bevuto i loro boccali di idromele, le due guardie si alzarono per congedarci.

Mentre salutavamo lo scampato pericolo, tuttavia, fece il suo ingresso una terza guardia, entrata a recuperare le due che si erano intrattenute con noi, nonché fonti di preziose informazioni.

- Pausa finita.

Bofonchiò la seconda.

Rivolsi un’occhiata al nuovo entrato, che diversamente dai compagni, indossava un soprabito bianco sui quali spiccavano inserti argentati. Sobbalzai nel vedere il disegno della Croce di diamante che risaliva lungo la manica sinistra, cosa che mi ricordò non poco il tatuaggio che avevo visto sul braccio della ragazza del mio sogno. Nonostante i colori differenti, tuttavia, l’abbigliamento era piuttosto simile, seppur più ricercato ed elegante. Ed esattamente come i compagni, anche quella guardia indossava una maschera, nera, che gli copriva metà viso. Per qualche istante percepii una sensazione di freddo irreale, soprattutto quando mi accorsi che guardava nella nostra direzione. Mi voltai verso le due guardie, che lo raggiunsero e si misero sull’attenti.

- Comandante Liger, agli ordini.

- Andiamo.

Disse. Girati i tacchi, i tre andarono via.

Accertatosi che non vi fosse più pericolo, Damien mi afferrò per il polso e mi trascinò fuori dalla taverna, nel disinteresse generale. Solo quando fummo abbastanza lontani, mi mollò, rivolgendomi il suo tono più gelido.

- Che diavolo ti eri messa in testa, eh?

Tuonò.

- Di scoprire qualcosa, e credo di aver--    

- Non importa!

- Cosa?

- Non ti ha nemmeno sfiorata l’idea che le guardie imperiali potessero sapere che faccia avessi?!

- No, certo che no!

Damien sbraitò.

- Tu sei pazza!

- Io sono pazza?! E tu che ti sei inventato di sana pianta una storia del genere?! Sposi… ma da dove ti è venuta?! Potevi dire che eravamo fratelli!

Ribattei.

- Certo. La somiglianza balza all’occhio.

Replicò seccamente.

- Evan e io non ci somigliamo, eppure siamo fratelli!

- Su questo ho sempre avuto qualche dub-- 

Non gli permisi di andare oltre, e lo schiaffeggiai. Il ceffone sulla sua guancia risuonò con uno schiocco. Mai come in quel momento, desiderai di fargli male, ma sapevo che niente sarebbe stato abbastanza, se paragonato al male che quella frase faceva a me, da chiunque la sentissi, e soprattutto, visto il modo in cui le cose si erano evolute tra noi, da lui.

- Non dirlo mai più! Mai più, Damien!

Ordinai.

Dal canto suo, Damien posò la mano sulla guancia, e riuscii a intravedere i segni rossi sulla sua pelle. Rimanemmo in silenzio per qualche istante, poi aggiunsi.

- Quelle guardie scortano un bambino. Credo che si tratti di Jamie.

Il suo sguardo riprese improvvisamente colore.

- Credi o ne sei sicura?

- Hanno nominato tuo padre. A proposito di qualcosa che lui ha in mente, e dicevano che aveva demandato loro il doverlo scortare… però non hanno detto altro, purtroppo.

- Jamie…

Mormorò. Poi, si avvicinò a me.

- Scusa. Mi dispiace averti parlato in quel modo.

- Lascia stare, dovrei esserci abituata…

Risposi, abbassando lo sguardo fino a incrociare le punte dei miei stivaletti di camoscio scuri.

- Quando ti ho vista con quelle guardie ho temuto che potesse accaderti qualcosa di brutto.

- Non è successo, per fortuna.

- Sì, ma se fosse successo… non me lo sarei mai perdonato.

- Smettila, Damien…

- Eh?

Rialzai lo sguardo, mentre nel mio cuore si agitava una moltitudine di sentimenti contrastanti, primi tra tutti, l’incertezza e la tristezza. Eppure, mi uscii una risata aspra, cosa che non avrei mai creduto possibile.

- Davvero, Damien Warren, non ti capisco! Perché sei così… così maledettamente scostante?! Un attimo prima sei dolce e premuroso, e poi all’improvviso mi tratti come se fossi feccia sotto le tue scarpe… mi umili, poi mi coccoli e poi mi tratti in questo modo… Dio, Damien, tu mi fai paura!

Urlai, tutto d’un fiato.

Damien rimase muto, fermo come una statua in quel silenzio interrotto solo dalle mie parole singhiozzate.

- Sin dall’inizio, ho sempre creduto che tu odiassi me ed Evan… e sai, anch’io ti odiavo… perché tu non sapevi niente su di noi, su quello che io e la mia famiglia avevamo passato. Eri così sfacciato e arrogante, e la sola cosa che desideravo era che tu ci lasciassi in pace. Eppure, nonostante tutto, sei entrato nella mia vita, e l’hai scombussolata al punto che in così poco tempo, sei diventato il mio punto di riferimento… ho visto il tuo lato gentile, quello del fratello premuroso, e credimi, ciò che desidero più di ogni altra cosa è che tu possa riabbracciare il tuo fratellino… ma mi sono resa conto che è Jamie la sola persona che per te è davvero importante… per cui non fingere che io lo sia per te, perché in realtà io non sono altro che ciò che ti serve per riaverlo! Ma questo non ti autorizza a trattarmi come se fossi uno strum-- 

Prima che finissi di parlare, Damien si mosse e mi attirò a sé, stringendomi così forte da farmi male e rendendomi difficile respirare. Ero quasi in debito d’ossigeno, ma a lui non sembrava importare.

- Dam--

- Sta’ zitta.

Sgranai gli occhi, mentre affondava la guancia nei miei capelli. Sentivo il suo calore, il suo profumo, ed era una sensazione strana, inebriante, contraddittoria. Per quanto il mio cuore desiderasse quel contatto, la mia mente rifuggiva, e mi ricordava che poco prima, anche lui mi aveva fatto del male. Ciononostante, le mie mani furono sulla sua schiena, e strinsero la giacca di tela sotto al mantello.

- Io non ti odio affatto. Non odio né te né tuo fratello. O almeno, non dopo avervi incontrati. Prima di allora, non mi ero mai spiegato il perché mio padre si ostinasse a cercarvi. Cinque anni fa, vidi una foto che ritraeva te e la tua famiglia e gli chiesi spiegazioni, che ovviamente non arrivarono. E così, cominciai a pensare che forse voi poteste essere… insomma, una sua seconda famiglia, ecco…

Avvampai a quella del tutto assurda e quanto mai folle idea, cercando di scostarmi, ma Damien continuò, senza mollare la presa.

- Quando arrivaste a Darlington, e vi incontrai, capii che non era così. Eravate così diversi, ma al tempo stesso, vedevo il modo in cui Evan ti proteggeva, un modo simile a quello di un padre, in un certo senso, e ne rimasi stupito. Proprio come me con Jamie… e poi, quando vidi tuo fratello incontrare mio padre per la prima volta, compresi che voi non avevate niente a che fare con lui. Evan non nutriva rabbia, ma semplicemente, si limitava a ignorarlo completamente, cosa che tuttavia, infastidiva mio padre. Per questo, ho cercato di mettervi in guardia da lui, perché sapevo quello di cui era capace e non riuscivo a capacitarmi della sua insana attrazione nei vostri confronti, ma che ora, alla luce di quanto ci sta accadendo, finalmente mi appare più chiara.

- Tuttavia… questo non ti giustifica, Damien…

Sussurrai amaramente.

- Lo so. E non cerco scusanti.

Disse, lasciandomi finalmente libera. Quando lo guardai, il rossore sulla sua guancia era quasi scomparso, ma nel suo sguardo c’era una nota di tristezza.

- La bambina in quella foto aveva undici anni, e possedeva il sorriso più bello che avessi mai visto, insieme a degli occhi meravigliosi della sfumatura dei lillà. Occhi che ho visto solo su di te.

Ascoltai quelle parole in tralice, soprattutto quando aggiunse il particolare della sfumatura. Inconsciamente, mi portai le mani agli occhi. Mai nessuno mi aveva detto che i miei occhi avevano la sfumatura dei lillà. Con le dita sfiorai le guance bollenti, poi tornai a guardarlo.

- S-Sono dello stesso colore degli occhi di mio padre…

Dissi.

- Secondo Leandrus, io potrei essere la figlia di Greal Valdes… l’uomo che annientò i Delacroix…

Damien fremette.

- Cosa?

- Ha detto che i miei occhi sono del suo stesso colore… ma una persona così malvagia, come potrebbe essere mio padre?

Si soffermò a riflettere per qualche momento, poi tese la mano quasi ad accarezzarmi la testa, ma si defilò, memore della mia reazione.

- Chiunque sia tuo padre, Aurore Kensington, non dimenticare mai che i geni non sono tutto.

- Eh?

Sorrise.

- Te lo posso garantire. Jamie è figlio di mio padre, eppure non è uno stronzo.

Lo guardai sconvolta.

- Jamie? Non capisco…

- Beh, non sono il massimo come esempio. Il mio fratellino è molto meglio di me.

- Mpf…

- Hai fatto “Mpf”.

Mugolò. Io accennai un sorriso. Parlare di Jamie, in qualche modo, mi metteva di buonumore.

- Mi dici chi sono Gracie e Will?

Gli domandai, addolcendo la voce. Si irrigidì per un istante, poi sollevò la mano, fino a farla scivolare sulla mia guancia, accarezzandomi, per poi lasciar ricadere il braccio lungo il fianco.

- Hai detto che le guardie della Croix du Lac stanno scortando un ragazzino, vero? E’ ora di trovare Leandrus. Ci mettiamo sulle loro tracce. Voglio sapere se si tratta di Jamie.

Disse, eludendo la mia domanda. La cosa mi insospettì, ma evitai di andare oltre. Circa mezz’ora più tardi, trovammo Leandrus che ci aspettava assieme ai nostri grifoni.

- Ehilà, ragazzini!

- Abbiamo una traccia.

Comunicò Damien, raccogliendo le briglie di Hibernia.

- Una traccia?

Gli fece eco Leandrus. Io annuii, raggiungendo Harundia e accarezzandogli la testa.

- Le guardie imperiali stanno scortando un bambino. Credo si tratti di mio fratello.

Leandrus sbattè le palpebre, valutando, poi si grattò il collo.

- Avete visto delle guardie imperiali?

- Sì, erano due, alla locanda. Anzi, dopo se n’è aggiunta una terza…

Aggiunsi, ripensando all’abbigliamento così particolare di quel comandante.

- Anche se erano diverse dal solito… indossavano delle maschere e uno dei tre aveva un abito bianco, con la Croce di diamante sul braccio…

Adesso l’espressione di Leandrus si era fatta allarmata.

- A quanto pare avete incontrato la guardia personale della Croix du Lac.

Constatò. Damien e io ci guardammo increduli.

- La guardia personale della Croix du Lac?!

Leandrus annuì.

- Comunque, so che c’è una spedizione diretta a Wiesen. A causa del clamore non ho potuto avvicinarmi e verificare di persona, ma mi è stato detto che il carico è importante. A questo punto, credo proprio che le due cose coincidano. Tuttavia, non capisco perché scomodare direttamente la guardia della Croix du Lac.

Guardai nuovamente Damien, che contraccambiò. Sapevamo che Leonard Warren voleva far del suo stesso figlio il nuovo Despota, motivo per cui, era più che giustificata la presenza della guardia personale della Croix du Lac.

- Hai detto che vanno a Wiesen…

Osservò poi Damien.

- Proprio così.

- Allora…

Continuò, senza staccare lo sguardo dal mio. Compresi, Damien voleva andare a Wiesen.

- Andiamo.

Dissi, per poi rivolgermi a Leandrus.

- Tu sai come si arriva a Wiesen, vero?

Leandrus fece spallucce.

- Certo che sì. Ma ho il compito di portarvi a Challant.

- Ci andremo. Dopo che avremo scoperto se si tratta di Jamie.

Dopo averci lanciato un’occhiata seccata, salì in groppa a Hezekiel, che spalancò le ali possenti. Harundia e Hibernia scalpitarono.

- Non intendo mettermi nei guai per colpa vostra, sia chiaro. La guardia personale della Croix du Lac non è come la guardia imperiale. Si tratta di un corpo scelto, e incontrarlo è già di per sé rischioso. Quindi, andremo a Wiesen, ma ci terremo a distanza. Il tempo di verificare se sia davvero tuo fratello, e poi valuteremo il da farsi con Blaez. E niente colpi di testa, o ve la vedrete personalmente con me.

Annuimmo a quell’ordine, sebbene sapessimo che se si fosse trattato di Jamie, non saremmo certo rimasti con le mani in mano attendendo di consultarci con Blaez. Tuttavia, in quel momento, assentire era la sola cosa che potessimo fare. Così, partimmo per Wiesen.

 

 

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Capitolo 26
*** XII - L'inganno (1 parte) ***


Ciao a tutti! *----* Capitoletto breve breve! <3 Che poi, pensandoci, si tratta più di paragrafi... o_O Mandando un grande abbraccio a Taiga-chan... <3 Buona lettura!! >_<<3 E ovviamente, se volete commentare, fate pure!! >_<

 

 

 

Wiesen. Un tempo si diceva che fosse il luogo in cui nascevano i corsi d’acqua dell’Underworld. Rispetto a Shelton, che brulicava di vegetazione, Wiesen era ricca di laghi, bacini e fiumi, molti dei quali davano origine a meravigliose cascate e a prodigiosi giochi d’acqua. Era lì che veniva prodotta gran parte dell’energia utilizzata nell’Underworld, ed era nella capitale, Boer, che eravamo arrivati dopo un giorno intero di viaggio. Avevo sentito diversi mercanti parlare del canale di Boer, che tagliava la città in due isole. Era una bella città, diversa da Karelia, la capitale di Shelton, le cui strutture marmoree erano imponenti. Boer era più piccola, più luminosa, con abitazioni più proporzionate e palazzi antichi dai colori vividi e dai lunghi colonnati.

- Mi ricorda Venezia…

Mormorai, osservando le imbarcazioni che solcavano il canale.

- Venezia?

Mi domandò Leandrus, incuriosito. Era bello riuscire a suscitare la sua attenzione. Mi ricordava la curiosità dei miei nuovi compagni di classe quando arrivavo in una nuova scuola.

- E’ una città che ho visto durante i miei viaggi. Ci sono dei canali che la attraversano e la gente si sposta utilizzando le gondole.

- Ci sei mai salita?

Chiese Damien.

- Sì, insieme alla mamma. Evan si era rifiutato, soffriva il mal di mare.

Sorrisi nel ricordare quella scena. La mamma mi aveva abbracciata forte, e mentre il gondoliere si allontanava dal molo, Evan ci salutava con la mano. Sorrideva anche lui, ed era bellissimo. Passando sotto al ponte dei Sospiri, la mamma mi aveva baciato in fronte, spiegandomi che secondo una leggenda, chi si baciava al passaggio, sarebbe stato benedetto dall’amore eterno. Arrossii al pensarci nuovamente, soprattutto quando vidi un ponte sotto di noi, e una barca che trasportava una giovane coppia in abiti nuziali.

- Oh, beati loro.

Commentò Leandrus, con un sorrisetto sghembo.

- Già…

Sussurrai, scoprendomi a lanciare una timida quanto imbarazzata occhiata verso Damien, che si guardava intorno. Fortunatamente, non si era accorto della scena, ma il ricordo del giorno precedente nella locanda e successivamente fuori, era davvero forte, e più di quanto volessi, tornava a farsi sentire.

- Guardate!

Esclamò, indicando un gruppo di persone con dei lunghi mantelli scuri che entravano in un palazzo poco lontano. Erano le guardie della Croix du Lac, che potevo riconoscere dalle maschere sul volto. Guardai il palazzo, che probabilmente doveva essere una residenza nobiliare.

- Non possiamo avvicinarci oltre, Warren.

Disse Leandrus, improvvisamente serio.

- Lo so. Lo so bene, ma devo sapere se c’è Jamie lì in mezzo.

- Se ci mischiassimo alla popolazione forse riusciremmo ad avvicinarci, no?

Proposi.

- E’ il palazzo della famiglia Devereaux quello. E’ escluso.

- La famiglia Devereaux? Quindi… lì potrebbe esserci Livia Devereaux?

- La Lady del lapislazzuli, sì. Ma per quanto ne so, non alloggia spesso in città.

Spiegò Leandrus.

Mentre cercavamo una soluzione al problema, e Damien scalpitava all’idea che il suo fratellino potesse essere molto più vicino a lui di quanto lo era stato finora, fummo sorpresi dall’andirivieni di carrozze dirette alla residenza e dal vociare crescente per strada. Scendemmo a terra, e prestando attenzione al susseguirsi di voci, scoprimmo che quella sera era in previsione un ballo in maschera a palazzo.

- Il ballo del Doge!

Esclamai. Damien e Leandrus mi guardarono perplessi.

- Scusate, ho sempre sognato di parteciparci…

Leandrus sospirò.

- Non so a cosa tu ti riferisca, ma è escluso che ci partecipiamo. Lì dentro sarà pieno di guardie imperiali e di nobili del posto, dunque, come pensi anche solo di potervi entrare, soprattutto dal momento che non abbiamo inviti né possiamo esporci?

Aveva ragione. Eppure, avevo la soluzione a portata di mano.

- Potremmo parteciparvici come parte della servitù.

I due ragazzi si guardarono tra loro. Ok, pessima idea.

- E’ un’idea suicida…

- Ma al momento è l’unica così folle da poterci essere utile.

Disse Damien.

- Potete scordarvelo. E comunque, come ho già detto, non faremo niente senza la consultazione di Blaez.

Ci smontò Leandrus, incrociando le braccia. Sembrava pronto allo sciopero con quella posa. Tuttavia, Damien fu più convincente, avanzando una controproposta.

- Aurore e io cercheremo mio fratello mentre tu contatterai Blaez. Capisco che per te sia pericoloso, e credimi, sarei il primo a oppormi se non fosse una questione così importante e avessi quest’unica possibilità. Jamie è un bambino, e ha solo me. Faresti lo stesso se tu avessi un fratello.

Leandrus studiò la sua espressione ferma, rivolgendogli uno sguardo scettico che mi scoraggiava non poco, poi a sorpresa, acconsentì.

- Grazie!

Esclamai, facendo un saltello.

- Tuttavia, ricordate che le tre guardie vi hanno visto. Inoltre, Warren, hai preso in considerazione l’idea che possa esserci anche tuo padre?

Damien si irrigidì di colpo. Non l’aveva certamente considerata, né l’avevo fatta io, in effetti.

- Non ha importanza.

- Lo avrà se verrete smascherati.

- Non accadrà. E se dovesse, beh, allora puoi stare tranquillo. Né io né Aurore esporremo te, Blaez e chiunque altro.

Leandrus scosse la testa.

- Non è per questo. O almeno, non soltanto. Se dovesse accadervi qualcosa mentre siete sotto la mia responsabilità, Blaez mi torturerà. Sapete che adora gli attrezzi di tortura? Ci tengo alla pelle, io.

Ero davvero shockata per il tono con cui Leandrus aveva espresso la sua paura, anche se l’idea di Blaez che lo torturava mi solleticava non poco. Ma quello che mi stupì maggiormente fu la faccia di Damien in quell’occasione. Se l’avevo visto sempre disinteressato nei confronti di Blaez Vanbrugh, vidi per la prima volta il suo sguardo illuminarsi al sentire parlare di lui.

- Damien, tu…

Damien mi guardò.

- Blaez comincia seriamente a piacermi.

Deglutii. Leandrus si fece indietro di qualche passo.

- E poi ti chiedi perché ti chiamano despota.

Sospirai, voltandomi a guardare il palazzo Devereaux.

Poco dopo, Leandrus ci illustrò come accedere alle cucine, sfruttando la confusione della festa e da lì, come raggiungere le sale ai piani superiori, evitando i saloni, dove si sarebbe certamente concentrata la maggior parte degli invitati. Secondo l’accordo, ci saremmo ritrovati alle ventitré sull’ultima barriera del canale di Boer, che divideva la città come una sorta di muro perimetrale e favoriva la fuga. Niente di sconsiderato, niente che ci esponesse. Leandrus intanto avrebbe contattato Blaez e avremmo valutato il da farsi dopo esserci ricongiunti. Damien e io ci guardammo un’ultima volta. Era ora di andare. 

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Capitolo 27
*** XII. 2 parte ***


Buongiorno a tutti!! *---* Seconda parte del nuovo capitolo... come anticipavo, ho pensato di dividerlo perché è davvero lungo... intanto c'è abbastanza da leggere! XD Nel palazzo Devereaux, Aurore e Damien, infiltratisi, si ritrovano alle prese con una grande festa... a cui partecipa un invitato d'onore! Chi mai sarà? <3 Ringrazio come sempre i miei silenziosi lettori e la mia Taiga-chan, sperando che il brutto quarto d'ora non me lo faccia passare... ho aggiornatooooooooo!! XDDD Ovviamente, se vi va di lasciare un commento, scrivete!! >_< Buona lettura!!

 

 

 

 

Nascosti dai mantelli, riuscimmo a raggiungere le cucine del palazzo. Fummo fortunati, perché come da previsione nessuno fece caso a due infiltrati. Anzi, il nostro folle piano si rivelò vincente, almeno in quella fase, perché fummo prontamente scambiati per due membri della servitù e una volta cambiatici, fummo spediti a contribuire ai preparativi della festa. Con in mano un vaso di profumatissime peonie bianche, fui mandata nel corridoio antistante il salone della festa, mentre Damien, portando dei vassoi, avrebbe dovuto servire le prime portate. Tuttavia, sapevamo che il nostro obiettivo era salire ai piani superiori evitando i saloni, e Damien fu piuttosto abile a fare cambio di portata con una cameriera, dicendole che dal momento che si trattava di una festa in maschera e non avevamo ancora indossato le nostre, non eravamo pronti. La giovane, che sembrava avere su per giù la mia età, acconsentì, e potei notare il rossore sulle sue guance, seminascoste dalla mascherina in pizzo nera. Per qualche ragione, quella timidezza mi riportò alla mente la sera alla tavola calda con Evan e con Vivien. Una volta ottenuto lo scambio, comunque, Damien e io salimmo al piano superiore, dove si trovavano le stanze degli ospiti. Mentre ci inoltravamo nei corridoi della residenza Devereaux, sui quali spiccavano affreschi porporati, indossammo le maschere. Io riuscii anche ad intrecciare i capelli e a tirarli su in uno chignon, e dovetti ringraziare la mamma per avermi insegnato anche questo. Quante cose avevo imparato grazie a lei senza rendermene nemmeno conto a momenti…

Mentre cercavamo Jamie, il vociare dal piano inferiore aumentava, e quando sentimmo le prime note, ci rendemmo conto che la festa era iniziata, cosa che, dal nostro punto di vista, era un serio problema.

- Che facciamo?

Domandai a Damien, che ascoltava attentamente le voci provenienti dall’interno delle stanze, alla ricerca di quella inconfondibile del fratellino.

- Continuiamo a cercare.

Disse, avvicinandosi all’ultima porta del piano.

- Ma potrebbe essere giù in questo momento…

- Potrebbe, o potrebbe non ess--  

Non fece in tempo a terminare la frase, che una donna di mezz’età, il cui doppio mento faceva più bella mostra di sé che dei vistosi abiti e della maschera intagliata con inserti di stoffa blu di Prussia e oro, uscì dalla stanza, rivolgendoci un’occhiataccia.

- Che state facendo?!

Sbottò, con una voce piuttosto stridula rispetto alla stazza.

Io mi affrettai a spiegare che ci stavamo sincerando che tutto andasse secondo il programma, ma la donna mi scoccò uno sguardo del tipo “Non osare replicare” e si rivolse a Damien.

- Stavi spiando?

Inorridii. Damien non perse il controllo, e al contrario, profuse lo stesso impeccabile inchino che avevo visto alla locanda.

- Milady, vi prego di perdonare questo servo. Stavo per bussare, per avvertirvi che la festa è cominciata.

La donna aguzzò lo sguardo, gli occhi neri ben visibili sotto la pesante maschera. Le labbra carnose di carminio si chiusero in una smorfia compiaciuta.

- Fatti vedere, ragazzo.

Ordinò, avvolgendo meglio uno scialle di chiffon intorno alla spalla. Era incredibilmente florida. Damien annuì e si raddrizzò, sostenendo il suo sguardo indagatore. Del canto mio, avevo il cuore che mi batteva forte, tant’era la tensione. Se per caso si fosse resa conto che non eravamo del posto, proprio come era accaduto a me con Lord Delgado durante la notte della Renaissance?

- Avessi qualche anno in meno… hai un così bel viso…

Deglutii. Ci mancava solo la pervertita. Sollevai un sopracciglio, sperando che Damien mantenesse il controllo abbastanza da non risponderle col suo solito tono spocchioso, sebbene quell’impudente lo meritasse, soprattutto quando la nobile gli sollevò il viso con la punta del ventaglio che portava con sé.

- Permettete che vi scorti fino al salone, Milady.

Propose Damien, con nonchalance, ma soprattutto, con una cadenza bassa e seducente.

- M-Ma…

Balbettai, quando la donna si sporse oltre le spalle di Damien per guardarmi.

- C’è qualche problema?

- N-No, certo che no! Perdonatemi, Milady!

Esclamai, inchinandomi.

La donna sbuffò, poi tornò a rivolgersi a Damien.

- Andiamo.

Disse, incamminandosi. Damien le rivolse un altro inchino, poi si voltò a guardarmi con la coda dell’occhio. Il suo sguardo fu eloquente. Sebbene fosse rischioso, l’unico modo per capire se Jamie fosse o meno in quel palazzo, era dividerci e di certo, rispetto a me, lui era il più indicato a entrare nei saloni. Annuì e mi rassettai al volo. Damien mormorò qualcosa che non riuscii a comprendere, poi si allontanò con la grassoccia verso le scale. Rimasta sola, quando vidi gli ultimi nobili in maschera lasciare le stanze, mi nascosi nel sottoscala del piano, attendendo il momento giusto per salire al piano superiore. Così feci, notando come il palazzo Devereaux fosse diverso dal palazzo Trenchard. L’arredamento era molto più lussuoso, mentre Amber preferiva i fiori, tanto che il profumo che si sentiva nei corridoi della sua residenza, così difficile da replicare, era pressoché assente. Imboccato il corridoio, sul cui fondo spiccava una elegante porta finestra con delle vetrate colorate, mi accorsi di essere nella solitudine e nel silenzio più assoluto. C’era soltanto una porta ad arco coperta da un leggero tendaggio blu notte, e mi avvicinai prudentemente. Una volta scostata, mi ritrovai in una galleria, sulla cui parete destra spiccava un dipinto che raffigurava la famiglia Devereaux. Sebbene non li conoscessi, avevo capito di chi si trattava, dal momento che anche a Karelia avevo visto qualcosa di simile, e rappresentava la famiglia di Amber. C’erano la Lady del lapislazzuli, che potevo riconoscere dal pendente noto come “cuore dell’oceano”, una donna alta, snella, dai capelli ricci e nerissimi, e dagli occhi azzurro cielo. Dietro di lei, un uomo che riconobbi come Lord Devereaux, su per giù della stessa età del padre di Amber, dai lunghi capelli bianchi, intrecciati lungo la spalla sinistra, l’aria composta. Abbracciata alla Lady, una bambina dagli occhi azzurri e dai capelli di un biondo chiarissimo che sorrideva felice.

- Livia Devereaux…

Mormorai. Notando poi che non c’erano stanze in quella galleria, uscii, ritrovandomi nel corridoio vuoto e sperando che al piano di sotto, Damien avesse avuto più fortuna di me. Raccolsi la mia catenina, che avevo nascosto sotto i vestiti da cameriera, e notai che aveva assunto la sua colorazione argentata. Mi affrettai a nasconderlo nuovamente e stetti all’erta, tirando dritta verso le scale, per tornare ai piani inferiori. Non appena scesi il primo scalino, vidi movimento al piano delle stanze e in particolare, vidi alcune guardie imperiali muoversi. Impallidii quando vidi un ragazzino con loro. I capelli neri, poco più lunghi di quanto ricordassi, una mascherina blu scuro che gli copriva metà viso, e gli abiti, del tutto diversi dal pigiama che aveva indosso l’ultima volta. Una camicia bianca dal collo alto e dalle maniche a sbuffo rivestita da un farsetto scuro con i bottoni dorati, dello stesso colore dei pantaloni che arrivavano a metà polpaccio, bordati di calzini con delle piccole rouches.

Jamie… Jamie era lì, a pochi scalini da me e conversava con le guardie della Croix du Lac che lo scortavano. Sembrava tranquillo, segno che era stato trattato bene, dopotutto, durante tutto questo tempo. Ringraziai il cielo per questo, ma poi mi chiesi come avrei potuto fare. Ero letteralmente bloccata tra i piani. Non potevo scendere senza passare loro in mezzo, e Jamie mi avrebbe riconosciuta, probabilmente. Avrei rischiato di compromettere tutto, e se da una parte, Damien stava girando a vuoto nei saloni, in mezzo a chissà quanti invitati mascherati, alla ricerca del suo fratellino, fuori dal palazzo, Leandrus ci aspettava per stabilire il da farsi assieme a Blaez, e più lontano, avevamo amici che stavano rischiando tanto per noi, e per creare un futuro migliore. Mossi un passo indietro, aspettando, col cuore in gola. Poi Jamie si voltò verso le scale, e mi vide. Quell’istante fu probabilmente tra i più lunghi della mia vita. Sentivo tutto il peso della catenina premermi sullo sterno, e forzatamente, gli rivolsi un inchino. Non rispose né fece cenni di avermi riconosciuta, ma al contrario, si voltò e si allontanò seguito dalle guardie. Tirai un sospiro di sollievo, soprattutto quando quella strana sensazione di oppressione di diradò, ma poi pensai a Damien, e alla sua reazione se si fosse trovato davanti Jamie. Così, prestando quanta più attenzione potessi, scesi e raggiunsi il corridoio principale, quello che dava sul salone. Mentre mi accingevo a entrare nella sala sfolgorante di luci, voci e musica, fui richiamata da uno dei maître che mi affidò un vassoio con dei calici scintillanti. Champagne, o qualcosa di simile, supposi. Quando entrai in sala, i partecipanti alla festa, in pomposi abiti e maschere possenti, stavano discorrendo tra loro, chi mangiando, chi danzando. Cercai subito con lo sguardo Damien, e quando lo intravidi, vicino alla tavolata principale, imbandita con ogni ben di Dio, notai che aveva lo sguardo fisso verso una grossa poltrona, che, ci avrei giurato, sembrava d’oro massiccio con intarsi in stoffa. Jamie era seduto comodamente, e accanto a lui, c’erano due guardie. Cercai di raggiungere Damien facendomi largo, quando fui fermata da due donne, una delle quali piuttosto giovane e un uomo, che le teneva entrambe sottobraccio.

- Oh, finalmente qualcosa di fresco.

Disse quest’ultimo, ridacchiando sotto il baffo scuro. Era un uomo di mezz’età circa, di corporatura media e, sotto la maschera piumata, si intravedevano gli occhi blu. Le donne sorrisero.

- Prego, Milord, My Ladies.

Dissi, allungando il vassoio verso di loro.

Una delle due donne, sotto la cui maschera dorata di intravedevano occhi di un verde intenso, mi zittì posandomi un dito sulle labbra. Quel gesto mi stupì, tanto che il vassoio vacillò sopra il mio palmo.

- E’ bella. Guarda che capelli, più neri dell’ebano. E le labbra, poi, sono morbide. Sembrano fatte apposta per essere baciate.

Ridacchiò, con un tono giocoso che mi fece trasalire. Istintivamente, mi ritrassi, accorgendomi di essere arrossita. Quelle parole mi mettevano a disagio, e per di più, dovevo raggiungere Damien, che del canto suo, non sembrava nemmeno essersi accorto che ero lì anch’io.

- Che c’è, mia cara? Sembri preoccupata.

Osservò la seconda donna, mora, bassa almeno di una spanna rispetto al nobile baffuto. Prese due calici, e ne porse uno alla compagna e uno al compagno.

- Niente, Milady… è soltanto che sono una semplice cameriera…

Risposi, abbassando lo sguardo, sperando che mi lasciassero in pace il prima possibile. La donna che mi aveva accarezzato le labbra fece un risolino.

- Qual è il tuo nome?

Mi domandò. Ancora quella domanda. Ma stavolta, sapevo cosa rispondere.

- Gracie, Milady. Mi chiamo Gracie.

- Gracie? Un nome alquanto grazioso.

Intervenne l’uomo, divertito.

- Mi piace. Dovremmo prenderla. Sembra così pura… sarebbe davvero interessante vederla servirci in un altro contesto.

Esclamò. A quel punto sollevai lo sguardo, sconvolta. Prendermi? Servire in un altro  contesto? Che diavolo di gente era quella?

- Mi dispiace, non so-- 

- Non vi sembra di scherzare un po’ troppo, My Lords?

Sopraggiunse una voce più profonda, alle mie spalle. Prima che mi voltassi a vedere chi aveva parlato, i tre nobili si guardarono tra loro, poi rivolsero un inchino alla persona che aveva parlato e si scusarono, dicendo che non avevano cattive intenzioni. Sono più che certa che non ci avrebbero messo la mano sul fuoco, tuttavia. Mi voltai tirando un mezzo sospiro di sollievo, che rimase in gola quando vidi una delle guardie della Croix du Lac, precisamente, quella che era entrata nella locanda, proprio di fronte a me. Se non ricordavo male, il suo nome era Liger. Comandante Liger. Indossava la stessa maschera e gli stessi abiti che avevo visto alla locanda. Con fare sicuro, prese un calice, e me lo agitò davanti al viso. Il liquido trasparente all’interno si mosse, liberando le bollicine frizzanti.

- Delizioso.

Disse, in tono assolutamente neutro, dopo averlo trangugiato. Mi limitai a un cenno d’assenso, quando rimise al suo posto il calice.

- Con permesso, Milord.

Mi scusai, defilandomi. Avevo il cuore che mi batteva all’impazzata, e speravo che non si fosse accorto della mia tensione. Per qualche motivo ancora ignoto, il comandante Liger mi inquietava. Finalmente riuscii ad affiancare Damien, e dovetti dargli un colpetto sul braccio per farlo rinsavire. Capivo, del resto, che il suo shock andava oltre l’aver scoperto che il su fratellino stava bene. E Jamie in effetti stava bene, ma c’era qualcosa in quell’aria divertita e sicura di sé mentre osservava compiaciuto la festa, che sembrava innaturale.

- Dobbiamo andare via…

Mormorai, posando il vassoio su uno dei grandi tavoli del buffet.

- Q-Quello…

Balbettò.

- Damien, lo so, ma non possiamo fare niente ora! Torniamo da Leandrus. A quest’ora avrà sicuramente un piano migliore…

Suggerii a voce bassa, tirandolo per la manica della camicia di seta scura. Si decise a guardarmi, gli occhi verdi che risaltavano sotto la maschera di pizzo nero. Sperai che il mio sguardo fosse altrettanto convinto.

- Ci sono troppi occhi indiscreti. Non possiamo fare niente adesso. Ti prego…

Mormorai.

A malincuore, e sapevo quanto questo gli stava costando, Damien annuì.

- Sai che sta bene…

Continuai, accennando un sorriso, nella speranza che almeno questo bastasse, anche se solo momentaneamente, a rincuorarlo. Si lasciò sfuggire uno strano verso, poi si diresse velocemente verso l’uscita del salone, passando in mezzo ai nobili che ridevano e scherzavano tra loro, ignari di quale dramma interiore stesse vivendo il mio amico. Lo seguii, guardando il profilo che ogni tanto compariva, quando si voltava verso Jamie nella vana speranza che si voltasse, e forse, che lo riconoscesse. Suo fratello era lì, ma non poteva mantenere la promessa di stargli accanto. Quel pensiero mi riportò alla mente il mio Evan, e feci un enorme sforzo per non piangere in quel momento. Avvistai ancora una volta Liger, con la maschera nera che gli copriva metà viso e il sigillo della Croix du Lac sulla manica del soprabito, e vidi che era voltato verso di noi. Deglutii e feci un piccolo inchino, augurandomi che non avessimo dato troppo nell’occhio. Quando lasciammo la sala, ci rendemmo conto che non potevamo passare dalle cucine per uscire, né potevamo scegliere l’uscita principale. Damien si guardò intorno, studiando la situazione alla ricerca di una via di fuga, poi andammo a riprendere i nostri abiti, lasciati in una stanza al pianterreno.

- Potremmo uscire dalla finestra.

Suggerii, raccogliendo il mio vestito, gettato sul letto.

- E con le grate come la mettiamo? Immagino che soltanto ai piani superiori non ce ne siano. Guarda.

Disse, avvicinandosi all’imposta e aprendola. Effettivamente, delle grate a maglia stretta rendevano impossibile una via di fuga. Per giunta, si sentiva lo scorrere dell’acqua poco lontano. Il canale doveva sicuramente lambire la residenza.

- Accidenti…

Mormorai. Poi prestai maggior attenzione e feci mente locale. In effetti, al secondo piano, non mi sembrava che ci fossero delle grate di sicurezza. Ma scappare dal secondo piano non mi sembrava tuttavia un’idea plausibile, almeno, non senza i nostri grifoni.

- Che facciamo allora?

Domandai. Damien sospirò. Fu un sospiro frustrato, poi sbattè l’anta della finestra, che si richiuse con un rumore secco e forte.

- Damien!

Esclamai, trasalendo.

- Merda!

Imprecò lui, sbattendo il pugno sul muro. Fu allora che posai i miei vestiti, raggiungendolo. Aveva lo sguardo basso e si stava mordendo con forza il labbro inferiore. Quel gesto mi intristii, ma capii che in quel momento, la sua impotenza aveva raggiunto il limite. Raccolsi le sue mani, stringendo i pugni nei miei palmi.

- Damien…

Non mi guardò, nè i pugni si allentarono.

- Ascolta… so che adesso è difficile. Avresti voluto raggiungerlo, non è così? Dirgli che sei qui, e che sei venuto per riportarlo a casa… per proteggerlo…

Un fremito tra le sue sopracciglia brune e nelle labbra. Addolcii la voce.

- Verrà il momento giusto, Damien, vedrai. Devi soltanto avere pazienza… ricordi quando volevo irrompere per affrontare tuo padre, da Amber? Tu mi hai fermata, e mi hai detto che non era quello il momento giusto, o avrei mandato al diavolo tutti gli sforzi della nostra amica. Se fossi intervenuto ora, le guardie della Croix du Lac ti avrebbero catturato subito, e Dio solo sa cosa ti avrebbero fatto…

Trasalii a quel pensiero, e mi ritrovai a tremare, all’idea che gli potesse accadere qualcosa di male. Perché mi sentivo così se ci pensavo? La voce mi vacillò all’improvviso, e il viso di Damien mi apparve velato, tra le lacrime.

- Ricordi? Niente di sconsiderato… no?

Sentii la morsa dei suoi pugni allentarsi, poi le sue dita sfiorare le mie, facendosi largo nei miei palmi, e stringendomi le mani. Il braccialetto d’argento, un tempo appartenuto a mio fratello, toccò l’incavo del suo polso. Poi i suoi occhi verdi furono nei miei. Smeraldo liquido.

- Stai piangendo.

Mormorò. Annuii, sorridendo.

- Scusami…

- Grazie.

Disse, lasciando la presa di una mano e raccogliendo sul dorso le mie lacrime. Alcune, cadendo, avevano bagnato la mia mascherina, che pizzicava. Poi, aprì la mano, accarezzandomi la guancia. Istintivamente, chiusi gli occhi, sentendo il calore del suo palmo e accomodando metà del mio viso in quella culla morbida. Col pollice, mi sfiorò gentilmente le labbra, percorrendole dal centro sino all’angolo più esterno. Il tempo, in quell’istante, era scandito soltanto dai battiti accelerati del mio cuore in subbuglio. Mi sentivo accaldata e quella sensazione era terribilmente piacevole. Ingoiai, mentre la mano che aveva stretto nella mia, finì con l’incrociarsi alla stessa, così che ci trovammo con le dita affondate l’uno nella mano dell’altra. Eravamo così vicini che potevo sentire il suo corpo atletico premuto contro il mio, il battito del suo cuore, petto contro petto, e il suo respiro sul viso. Dischiusi le labbra, e per un istante, un solo attimo, ebbi quasi l’impressione di sentire le sue labbra che sfioravano appena le mie. Poi, all’improvviso, tutto fu immerso nel buio. Non facemmo in tempo a rendercene conto, perché di lì a poco sentimmo grida terrorizzate, come mai sentite prima d’ora, provenire dal salone.

- Il cellulare, Aurore!

Ordinò Damien, sconvolto, correndo fulmineo a riaprire la finestra per avere un po’ di luce.

- S-Sì!

Annuii, correndo a prenderlo dallo zainetto che portavo con me. In poco, ritrovammo la luce, e ci guardammo. Cosa diavolo era successo? Un black out… ma le urla? Poteva essere la reazione di panico, ma perché all’improvviso non si sentiva più nulla? Guardai Damien terrorizzata e compresi che aveva provato la mia stessa sensazione. Che cosa ci aspettava?

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Capitolo 28
*** XII. 3 parte ***


Ok, e dopo la follia della storia sui Black Hawks, si torna al serio! u___u Conclusione del capitolo, ad alto tasso di dramma... qualcuno mi odierà per quello che accadrà, ma abbiate fiducia in me!! >__< Ne approfitto per uppare tre disegni, in attesa degli altri: 

http://imageshack.us/a/img839/3600/5pxl.jpg  (Rose)

http://imageshack.us/a/img191/5968/ozn7.jpg  (Livia)

http://imageshack.us/a/img801/4722/vn93.jpg  (Blaez) 

Mi raccomando, fatemi sapere che ne pensate!! Uuuuuuuuuuuuuuuuuun grande abbraccio alla mia Taiga-chan, dopo i fazzoletti Jempo usati per *tamponare il naso* la commozione u_ù, ora serviranno per le lacrime, mi sa!! E se qualcuno volesse commentare, faccia pure!! >_< Buona lettura!!

 

 

 

 

- Andiamo.

Disse, io acconsentii. Mi prese per mano, poi prese il mio cellulare, ordinandomi di fare attenzione e uscimmo dalla stanza, raggiungendo cautamente il salone. Dalle finestre al pianterreno, vidi lo sbattere di ali e sentii i versi dei grifoni. Qualunque cosa fosse successa, con tutta probabilità all’esterno stava continuando. Ero davvero spaventata, tanto più che camminare nel buio era qualcosa che non mi piaceva. Ma non potevo fare altrimenti e poi, Damien era con me. Strinsi più forte la sua mano, ma quando entrammo nel salone, la scena che ci si presentò davanti agli occhi, mi costrinse a lasciare la presa e a coprirmi lo sguardo. Avrei urlato, se non mi avesse sibilato di fare silenzio tappandomi la bocca, ma quella scena era troppo, anche per lui. Damien stava tremando tanto quanto me, nel vedere la moltitudine di cadaveri sgozzati riversi sul pavimento. Lungo i muri perimetrali, c’erano dei solchi che avevamo imparato a conoscere bene. Mi mancava l’aria, e una sensazione di disgusto risaliva nel mio stomaco, torcendomi le budella. Damien riconobbe distrattamente il cadavere della donna che aveva accompagnato, ma il suo sguardo cercava altro. Tuttavia, nessuna traccia di Jamie.

- Dove sarà?!

Domandai.

- Jamie!!

Urlò Damien, ormai infischiandosene di essere sentito. Da qualche parte, in quel silenzio spettrale, anche la servitù era stata tolta di mezzo.

- Jamie, dove sei?!

Urlai io.

Poi, proveniente dal corridoio, sentimmo una risatina tetra e crudele. Ci guardammo, perplessi. Chi poteva ridere in quel modo? Tornammo indietro, ritrovandoci davanti alle scale che davano ai piani superiori.

- Chi c’è?! Chi sei?!

Gridò Damien, facendo luce col cellulare. Per poco non gli venne un colpo. Jamie sorrideva, in cima alla scala.

- Jamie!!

Esclamai. Non poteva aver riso lui. No, non poteva essere lui. Mi rifiutavo anche soltanto di credere che Jamie Warren, quel bellissimo ragazzino un po’ cagionevole, che mi aveva baciata su una guancia, sorrideva in quel modo.

- Vuoi giocare con me, Aurore Kensington? O forse dovrei dire… Lady dell’ametista?

Boccheggiai, mentre il mio ciondolo prese a risplendere del colore viola. Damien esitò, improvvisamente confuso, nel sentire quella voce che di maschile non aveva nulla. Conosceva bene la voce del suo fratellino, e quella non era certamente la sua. Al contrario, era squillante, divertita e femminile. La voce di una ragazzina.

- Livia?

Domandai. Damien si voltò a guardarmi incredulo.

- Livia? Livia Devereaux?

- In persona. A quanto pare siete caduti in trappola. Che peccato aver dovuto sacrificare tutta quella gente… ci vorrà un bel po’ per pulire.

Sorrise, togliendo la maschera nera. Sfilò la parrucca riccia che aveva in testa scuotendo i capelli, biondo chiarissimo, che ricaddero appena sulle spalle. Strinsi il gilet di Damien, che si voltò nuovamente verso la ragazzina, il cui sorriso si aprì ancor di più. Aveva qualcosa di terrificante.

- Dov’è mio fratello?! Che vuol dire che siamo caduti in trappola?!

Domandò con rabbia, ma anche confuso più che mai.

- Quello che ho detto. Credevate davvero di poter aggirarvi indisturbati nell’Underworld? Per rispondere alla tua prima domanda, Jamie sarà a palazzo, a quest’ora.

Jamie… quanta confidenza. Avrei giurato che lo conoscesse.

- Livia, ascolta…

Esordii, ma mi bloccò, scoccandomi un’occhiataccia gelida.

- Non provare nemmeno a rivolgerti a me con quel tono.

Impallidii, non me l’aspettavo.

- Anche se possiedi l’ametista, non sei una di noi.

Mi ricordò, freddamente.

- Dunque, sarà bene che impari a stare al tuo posto.

- E quale sarebbe il mio posto?

Domandai, muovendo qualche passo in avanti e affiancando Damien. Livia tramutò il viso in una maschera inespressiva.

- Non lo capisci da te? Tu che sei soltanto un’intrusa senza speranza non saresti mai dovuta giungere nell’Underworld.

Ma se non fossi mai giunta nell’Underworld, non avrei mai potuto scoprire la sorte della mia famiglia, né avere la possibilità di saperne di più su di essa. Tuttavia, Livia mi aveva appena definita intrusa. Nonostante tutto, continuai a guardarla. Sapevo anch’io di esserlo, ma se ero arrivata fino a lì, c’era una ragione.

- Mi dispiace.

- Il tuo dispiacere è inutile.

- Aurore.

La voce di Damien. Passai oltre.

- Non ti ho ancora detto il motivo per cui mi dispiace.

Un angolo della bocca di Livia si sollevò, arcigno. Per essere così giovane, era totalmente disillusa.

- Quale sarebbe?

Sorrisi, pensando a mia madre, a Evan e al piccolo Jamie.

- Io… io non ho nessuna intenzione di tornare a casa senza prima aver riportato la luce in questo mondo d’oscurità.

Livia aggrottò le sopracciglia, poi affilò lo sguardo.

- Riportare la luce in questo mondo… davvero patetico. Più patetico del tentativo di Amber Trenchard di coprirti. Mi chiedo proprio per quanto ancora Angus riuscirà a impedire che quella traditrice venga giustiziata.

Deglutii, poi Damien incalzò.

- Come puoi parlare così? Non si tratta forse di una tua pari?

- Per quanto mi riguarda, lei non è nessuno.

- Smettila, Livia!

Sbottai. Livia mi fulminò, poi scoppiò a ridere.

- Ti ho chiesto se volevi giocare con me. La tua risposta?

Le rivolsi uno sguardo interrogativo. Per qualche ragione, quella parola mi riportò alla mente il “gioco” nella palestra di palazzo Trenchard. Vidi giusto, perché prima ancora di rendermene conto, la mia ametista e il suo lapislazzuli presero a brillare, gettandoci in un luogo brullo e oscuro, un posto che avevo già visto. Solo che stavolta, assieme a noi, c’era anche Damien. Il suo sguardo sconvolto era probabilmente lo stesso che dovevo avere io la prima volta che ci ero giunta.

- D-Dove diavolo… siamo?

Domandò, nello scrutare la distesa infinita di terra oscura. In cielo, la luna continuava a brillare, lontanissima, opaca, del tutto incapace di rischiarare.

- E’ una sorta di interspazio, credo…

Provai a spiegare.

- I confini dell’Underworld. Ciò che c’è al di là della terra. Il luogo del non ritorno.

Mi corresse Livia, camminando spedita verso di noi.

- Suppongo che non sappiate che qui venivano esiliati i criminali, né che morivano, per la follia. Questo posto rende matti. Eppure, non ne comprendo ancora il motivo, dato che non è poi così differente dal resto.

In realtà, era ovvio che fosse differente. Ma Livia era nata dopo la ribellione, e non poteva conoscere la differenza tra un mondo di luce, meraviglioso, e un mondo tetro, dove l’oscurità dell’esterno finiva col divorare anche le anime più luminose, dunque, figurarsi quelle di chi aveva già una macchia. Prima che potessi dire che in realtà c’era modo di tornare, almeno per noi, e dunque di esporre Amber, dal momento che era con lei che ci ero stata per la prima volta, mi ritrovai Livia davanti. Era piccola, più bassa di me di almeno quindici centimetri, ma il suo atteggiamento la faceva sembrare molto più matura, per certi versi.

- Tu sai rispondermi?

Feci cenno di no, ma senza fingere nel mostrarle che mi metteva a disagio quella vicinanza.

- Risposta sbagliata.

Non appena ebbe finito di dirlo, voltò la testa verso Damien, che si ritrovò improvvisamente attirato alle spalle e bloccato da qualcosa che sulle prime non seppi riconoscere.

- Ma cos-- 

- Damien!!

Esclamai, quando i miei occhi si abituarono alla fioca luce, rendendomi conto che si trattava di rovi. Trasalii nel ricordare il mio incubo. Rovi neri che laceravano la carne. Quando Damien urlò, urlai a mia volta.

- Livia, che diavolo stai facendo?!

Rimase impassibile, e al contrario, continuò col suo “gioco”. Avevo capito. La posta in gioco era Damien, e Livia Devereaux sembrava ben determinata a divertirsi davvero.

- Per quale motivo l’ametista è in mano tua?

Domandò. I rovi che stringevano Damien disegnavano spirali sempre più fitte intorno al suo corpo, tagliandolo, man mano che Livia formulava le domande. Era fatto in modo che provassi disagio, se non terrore. Una sorta di tortura, ma nei confronti di una persona a me cara.

- Lascialo stare, lui non c’entra!! Prendi me al suo posto!!

La pregai.

- Ti ho fatto una domanda.

Mi ricordò e, per rimarcare il concetto, una spina si conficcò nel deltoide destro di Damien, che lanciò un’imprecazione strozzata.

- Non risponderle!

Mi ordinò.

- Taci.

Ordinò a sua volta Livia.

- Se non vuoi che ti faccia ingoiare la lingua, naturalmente. Sarebbe un peccato, hai una bella voce.

Aggiunse, con ipocrita gentilezza.

- Allora?

Riprese.

Guardai Damien, la sua espressione, il sangue che gli colava dal braccio. Poco prima, in quella stanza al pianterreno, eravamo così vicini. Gli sorrisi. Fidati di me.

- Non so perché l’ametista sia in mano mia. E’ stata mia madre a regalarmi questo ciondolo, qualche giorno prima del mio compleanno.

Damien rispose con un gesto di stizza col volto, mentre Livia sollevò il sopracciglio.

- Le pietre vengono trasmesse di generazione in generazione.

- Forse mia madre era il precedente possessore…

- Impossibile.

- Perché?

- Faccio io le domande qui.

Per tutta risposta, un’altra spina finì col conficcarsi nel braccio sinistro di Damien, all’altezza del polso, straziandolo. Mi sentii il mondo cadere addosso mentre urlava per il dolore, mentre avevo ancora l’odiosa e bruttissima sensazione che quelle scene mi riportavano alla mente. Istintivamente, mi strinsi le braccia.

- Lascialo stare, Livia, per favore!! Non farò domande, ma ti scongiuro di lasciarlo stare!!

- Perché? E’ così divertente.

Si mise a ridere, sadicamente eccitata.

- Non c’è niente di divertente nel fare del male a chi non può difendersi!! Sono sicura che Jamie soffrirebbe moltissimo nel sapere quello che stai facendo a suo fratello!!

Le urlai. Interruppe la risata, poi sollevò a mezz’aria il braccio e mi tirò il ciondolo con forza, costringendomi a bloccarla. Nel toccare la sua mano, le nostre pietre emisero un bagliore e Livia urlò, mollando la presa e proteggendosi gli occhi.

- Che mi hai fatto?!

Gridò. I rovi intorno al corpo di Damien si allentarono e io corsi a sostenerlo. Sentii addosso tutto il suo peso, ma durò poco, perché si mantenne in piedi. Ciononostante, le ferite sulle braccia dovevano di certo fargli male.

- Non ti ho fatto niente, Livia. Sono state le nostre gemme. Sono più che certa che non desiderano che un’anima come la tua si macchi di altri crimini.

- Cosa credi che me ne importi, eh?!

Domandò, con un tono insolitamente lamentoso, nonostante immagino, volesse sembrare sdegnosa. Quando poté togliere le mani dagli occhi, vidi una ragazzina cresciuta presto, ma in fin dei conti, sempre una ragazzina.

- Livia… non lasciare che l’oscurità ti divori. Aiutami, aiutami a riportare la luce in questo mondo.

Livia scosse la testa.

- Non c’è nessuna luce che possa essere riportata. Questo mondo è e sarà sempre il regno in cui la luce non splende.

- Se sconfiggiamo la Croix du Lac

- Lei non può essere sconfitta!

- Non è c-- 

Non potei finire, perché d’improvviso ci ritrovammo nell’Underworld, nello stesso posto dov’eravamo poco prima.

- Siamo… siamo tornati.

Osservò Damien.

- Già…

Confermai. Livia, in cima alle scale, ci guardò truce, poi corse via.

- Livia!!

Urlai, mollando la presa. Damien gemette. Mi voltai a guardarlo, mentre portava la mano insanguinata al braccio. Aveva altri tagli profondi e graffi sul corpo, nei punti in cui i rovi l’avevano stretto maggiormente, ma quelle ferite sembravano molto più dolorose.

- Damien…

Sussurrai. Lui mi guardò.

- Rimani qui, ok?

- No.

- Devi farlo.

- Non se ne parla, Aurore. Andiamo.

Disse, superandomi. Lo bloccai, poi gli accarezzai il braccio.

- Che stai facendo?

Quando strinsi la presa, imprecò, voltandosi di scatto verso di me. La sua espressione era a dir poco sofferente. Il braccio gli faceva male.

- Aurore?!

 - Lo vedi? Come pensi di poter fare qualcosa in queste condizioni?

- Tu non preocc-- 

Non potevo non farlo. Gli posai un dito sulle labbra. Erano morbide e calde. Avrei potuto utilizzare mille modi per tentare di convincerlo, ma finii col dirgli la sola cosa di cui avrei potuto pentirmi.

- Mi dispiace, Damien… ma non sei forte abbastanza, adesso. Saresti d’ostacolo.

Fremette, rivolgendomi un’occhiata incredula. Io stessa mi stupii di quello che avevo detto. Eppure, avevo capito che l’unico modo per impedire a Damien di fare qualcosa era colpirlo nell’orgoglio. Imprecò, scostandosi con un mugugno. Mi morsi le labbra, poi salii di corsa le scale, lasciandolo alle mie spalle. Scusa, scusa. Mi ripetei, sperando che non mi seguisse, ma soprattutto, che avesse compreso la motivazione dietro alle mie parole. Raggiunsi il secondo piano, attirata dal vento che soffiava lungo le scale. In fondo al corridoio, la porta con vetrata era spalancata. Mi feci forza, poi raggiunsi la terrazza che si estendeva al di là della porta. Eravamo in alto, ma si sentiva lo scorrere del fiume sotto di noi, e poco lontano si intravedevano le luci della capitale. Livia era di fronte a me, pericolosamente in piedi sul cornicione dirimpetto.

- Livia!!

Urlai.

- Che ti sei messa in testa?!

- Sai cosa pensavo? Se adesso cadessi, sicuramente morirei. Nonostante sia nata a Boer, io non so nuotare.

Disse, passeggiando con disinvoltura sul cornicione.

- Non dire assurdità!!

Gridai, cercando di avvicinarmi.

- E sai quale sarebbe la cosa più divertente? Se accadesse, sia tu che il tuo cavaliere sareste accusati della mia morte… e di quella dei partecipanti alla festa.

- Come puoi anche solo pensare una cosa del genere?!

- Come? Immagino che i vostri abiti a quest’ora siano già nelle mani di Liger.

Mi irrigidii. Nella fretta, non ci eravamo cambiati. Mi tornarono alla mente le parole di Shemar, quando ferito, mi aveva detto che preferiva presentarsi al cospetto di Amber con gli abiti sporchi, come prova di quanto accaduto. Evidentemente, una prova del genere era più che sufficiente per incastrare qualcuno nell’Underworld. E così facendo, se fossi stata accusata ufficialmente, il mio legame con Amber sarebbe uscito ugualmente, anche se Livia fosse morta.

- Sacrificheresti la tua vita pur di distruggere la mia? Cosa ne ricaveresti, Livia?! La mia vita non è così importante!

Le dissi, quando la raggiunsi. Saltellò all’indietro, mentre salivo anch’io sul muretto. Evitai di guardare in basso, ma avrei giurato che fossimo ad altezza considerevole. Per fortuna il mio senso dell’equilibrio era buono.

- La tua vita è importante per lei!

Esclamò Livia.

- Per lei? Lei chi?!

Domandai, perplessa.

- Numi, sei davvero ottusa.

Quel commento acre mi punse.

- E tu sei testarda!

Affilò lo sguardo e storse la bocca.

- Ti ho già detto di non rivolgerti a me con quel tono.

- Lo farò ancora, fino a che non la smetterai di gridare aiuto nel modo sbagliato.

Mi guardò con aria interrogativa, soprattutto quando tesi la mano verso di lei.

- Ho visto il quadro che raffigura la tua famiglia. Eri ancora piccola, ma avevi un sorriso dolce e radioso. Non so cosa sia accaduto, ma dietro quell’espressione, sono certa che c’è ancora quella bambina… permettimi di aiutarti a farla uscire, Livia Devereaux.

Scansò la mia mano con un gesto di stizza, ma una forte folata di vento le sollevò il mantello, sbilanciandola. Oscillò pericolosamente, e in quel frangente, la sua espressione era terrorizzata. Terrore puro. Livia non voleva affatto morire. Ne fui rincuorata e la raggiunsi, spingendola in direzione opposta, verso l’interno, facendola cadere sul pavimento in pietra del terrazzo. Il mantello la coprì del tutto. Ringraziai il cielo per lo scampato pericolo, ma quando sollevai lo sguardo e vidi sulla porta Liger, con una spada sguainata che gocciolava sangue in mano, il fiato mi abbandonò. Se avesse trovato Damien… se lui avesse… e io l’avevo lasciato da solo, senza nemmeno pensare alle conseguenze. Dio, perché? Non volevo perdere anche lui. “Piangi coloro che hai perso, piangerai la vita di coloro che daranno la vita per te.”, mi aveva detto il professor Warren. E suo figlio, ora poteva… no, non Damien. Il vento soffiava forte, agitando il mantello bianco di Liger, mentre camminava verso di noi a larghe falcate. Vidi il braccio libero, quello con la Croce di diamante, ergersi verso di me come nel ricordo del mio incubo e mi ritrassi stringendo il mio ciondolo, in preda al terrore di quella mano che forse, due piani più sotto, aveva ucciso Damien. In pochi istanti l’orizzonte vorticò sopra i miei occhi e la terra mi mancò sotto i piedi. Liger era lontano e ancora più lontano, fino a che non fu cancellato dall’acqua fredda. Scomparve dalla mia vista mentre la corrente infernale mi trascinava chissà dove. L’ultimo, glaciale ricordo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 29
*** XIII - Passaggio di consegne (1 parte) ***


Buon pomeriggio!! :D Prima parte del nuovo capitolo, brevissima! >_< Condito di spupazzata a Taiga-chan e di buona lettura alle visite silenziose, enjoy it! *___* 

Alla prossima!!

 

 

 

 

Sin da quand’ero bambina, amavo l’acqua. Mi piaceva il suono musicale delle onde che si infrangevano sul bagnasciuga, così come il sussurro prodotto dalle increspature ogni volta che incontravano un ostacolo. Adoravo trascorrere il tempo accanto alla mamma, sedute sotto un grande ombrellone bianco panna sul quale spiccavano più rossi di quelle vere, dei disegni di fragole, contemplando i colori cangianti del mare durante le varie ore della giornata, incantata dai riflessi adamantini che ne facevano brillare la superficie. Spesso mi appisolavo, cullata dal brusio pacifico delle onde, fino a che Evan non veniva a prendermi in braccio a tradimento, e incurante delle mie urla di protesta, mi gettava in acqua, gettandosi a sua volta con una capriola. Quante maledizioni gli mandavo… mio fratello sapeva essere del tutto senza cuore quando voleva. Così, non appena riemergevo, gli saltavo addosso determinata a farlo affogare ed Evan rideva, rideva divertito come non mai. Poi, passata la fase di euforia, ci mettevamo a galla, a godere di quelle meravigliose e pacate sensazioni che l’acqua ci donava. Allora osservavo il viso di mio fratello, rilassato e sorridente. Apriva gli occhi di rado, e quando lo faceva, era per sincerarsi che non fossi pronta a correre all’attacco. Io guardavo la mamma, che ci salutava da lontano, sorridendo a sua volta. D’estate portava spesso i capelli biondi e lucenti fermati in uno chignon dietro la testa, e amava indossare dei cappelli a falda larga, insieme a un pareo chiaro. Poi spesso faceva lunghe passeggiate lungo la riva, e io la seguivo, da lontano, nuotando. Ero bravina, me la cavavo abbastanza. Eppure, l’esperienza che stavo vivendo non aveva niente di pacifico, anzi. Cercavo di ricordare i fondamentali del nuoto, sperando di essere abbastanza forte per applicarli. Mantenersi a galla, respirare solo quando si era fuori. Ma era un’impresa disperata, tanto la corrente del fiume Boer era forte. Non osai nemmeno aprire gli occhi, ero terrorizzata. Mi dibattevo, muovendo braccia e gambe nella speranza di trovare almeno un appiglio, speranza che sfumava ogni qualvolta sbattevo contro gli ostacoli che la corrente stessa incontrava. Per non so nemmeno quanto tempo, ma avrei potuto definirla un’eternità, non riuscii nemmeno a respirare. Sapevo soltanto che in mano stringevo più forte che mai la mia ametista. Ero precipitata in un vortice, nell’oscurità più nera, da almeno dieci, o quindici metri d’altezza. Se fosse stata una rupe almeno, sarei morta più velocemente di quanto avessi potuto immaginare, e l’avrei preferito, piuttosto che vivere quell’agonia. Ogni tanto, il mio corpo rispondeva all’istinto di autoconservazione, e quando riemergevo, per pochi istanti, riuscivo a riprendere fiato, per poi essere ingoiata nuovamente in quel gorgo infernale. Lontana. Chissà dove quella corsa folle mi avrebbe portata. Lontana da Leandrus, a cui avremmo dovuto dare ascolto e che invece avevamo finito con l’ingannare. Lontana da Livia, che avrebbe annunciato al mondo che Aurore Kensington, la Lady dell’ametista, era un’assassina. Lontana da Amber, che sarebbe stata uccisa per colpa mia. Proprio lei, che mi aveva aiutata e che era stata per me una preziosa amica, una confidente, quasi una sorella, sebbene avessimo trascorso così poco tempo insieme, avrebbe avuto di che disperarsi a causa mia. Non me lo sarei mai potuto perdonare. Ero lontana da mia madre, a cui si sarebbe spezzato il cuore nel sapere che sua figlia era giunta nell’Underworld per salvarla e invece, con tutta probabilità, sarebbe stata ritrovata cadavere in qualche angolo sperduto di quel mondo, se le bestie fossero state clementi. Lontana da tutto ciò che desideravo scoprire. Greal Valdes, mio padre, secondo Leandrus. Sarei morta, come assassina, proprio come lui? Non avrei potuto nemmeno scoprire chi aveva ucciso mio fratello, il mio amato Evan? E poi… Damien. I polmoni mi scoppiavano e sentivo il cuore stretto in una morsa sempre più tenace, che non lasciava scampo. Damien. I suoi occhi verdi incorniciati dalla mascherina nera. Damien. La sua mano che mi accarezzava gentilmente la guancia. Damien. Le sue labbra a pochi millimetri dalle mie. Le ultime, crudeli parole che gli avevo detto prima di lasciarlo indietro. Avevo infranto la nostra promessa. Ero lontana, così lontana che il solo desiderio che avevo era che quell’agonia finisse, in qualche modo, il prima possibile. Non volevo più soffrire. Non volevo più piangere la morte di qualcuno che amavo. Pregai. E le mie parole furono ascoltate. Quando oramai mi ero rassegnata, mollando la presa e lasciandomi trascinare passivamente dalla corrente, sentii qualcosa avvolgermi intorno al torace e tirarmi su. Andavo verso l’alto, ma ero totalmente incapace di stabilire a che profondità fossi e di quanto stessi risalendo. Le mie facoltà mentali erano ottenebrate ed ero totalmente stordita. La mancanza d’ossigeno e l’acqua che avevo ingoiato mi avevano trascinata al limite. Sarei potuta morire senza quasi rendermene più conto. Eppure, quando mi ritrovai con la testa fuori dall’acqua, sentii un groppo alla gola, talmente forte da farmi riavere, anche se non ero in grado di dire per quanto. Percepivo qualcosa alle mie spalle, ma non avevo né forza né intelletto per provare anche solo a ruotare la testa. Ciononostante, avevo la sensazione di muovermi fuori dall’acqua, o forse, le bracciate che riuscivo a sentire non erano le mie. Ne ebbi la conferma quando sentii una voce, all’orecchio, ordinarmi con forza qualcosa.

- Respira!

Disse, la voce profonda del mare. E lo feci. Respirai a pieni polmoni, nonostante il dolore, come se si fosse trattato di un riflesso condizionato talmente forte da squarciare le mie resistenze. Respirai ancora e ancora, fino a che, esausta, non mi ritrovai a terra. Nonostante fossi ancora del tutto disorientata, provai a riaprire gli occhi per fare mente locale. Non avevo più la mascherina, strappata a chissà quale punto del giro della morte. Intravidi una sagoma scura a pochi passi da me. Avrei urlato, se non mi fosse venuto da tossire proprio in quel momento. Buttai fuori l’acqua che avevo dentro, mentre la persona che mi aveva salvata si chinò, aiutandomi. Non riuscii a capire niente di più. Poco prima di perdere i sensi, però, vidi un leggero bagliore. Argento, vicino a me. Un piccolo ciondolo con una runa d’argento. Sapevo cosa significava. Protezione. 

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Capitolo 30
*** XIII. 2 parte ***


Il mio Jack in giardino: maaaaau miaaaau! Mau? :3

 

XDDDD Buon mamau a tutti! XDDD Ok, sto sragionando di brutto! u_u E' che il mio gattino mi fa una tenerezza ogni volta che miagola... <3 Sì che in quanto reincarnazione felina di Jack Vessalius è un ruffiano e appena può ti graffia/azzanna... XDD Ma è adorabile lo stesso! *-* Ok, finito lo sfogo di cui non vi importerà niente XD, ecco qui la seconda parte del nuovo capitolo! *_* Les jeux sont faits, e Aurore, risvegliandosi in una dimora diroccata, si ritrova faccia a "faccia" con qualcuno che le farà un'importante rivelazione sul passato dei Delacroix e non soltanto... <3 La seconda parte del capitolo è divisa per motivi di lunghezza, pubblicherò presto il resto comunque! *_* Una spupazzata a Taiga-chan, un grazie a _Yoru_ che ha aggiunto la storia alle seguite e che dire, grazie anche a voi, silenziosi lettori! E se vi va di dare suggerimenti, fate pure!! >_<

Buona lettura e buona serata, nyaaaaa! :3

 

 

 

 

Quando ripresi i sensi, mi ritrovai immersa in qualcosa di soffice. Riaprii lentamente gli occhi, scorgendo una fioca luce provenire da una finestra velata. L’odore che si respirava era di vecchio, stantio, tanto che non appena potei mettere in fila qualche pensiero di senso compiuto, immaginai di essere finita in qualche scantinato. Mi voltai lentamente, ero indolenzita e avevo i muscoli contratti, e mi costò una certa fatica riuscire a sollevarmi. Quando ci riuscii, mi ritrovai in un letto piuttosto grande, dal baldacchino di legno scuro, forse d’ebano, e dalle cortine strappate. Tutto intorno, la stanza era scarna, fredda. Il genere di stanza più adatta a una prigione che a un palazzo antico. Tuttavia, ero coperta da un mantello scuro, pesante abbastanza da non farmi morire di freddo. Indossavo ancora i vestiti che avevo la sera della festa, ma non riuscivo a capire quanto tempo fosse trascorso. Certo era che erano asciutti, sebbene strappati in più punti. Controllai di avere ancora sia il mio ciondolo che il braccialetto di Evan. Grazie al cielo, erano salvi anche loro. Una fitta alla testa quando provai a rialzarmi mi fece intendere che avevo dovuto sbattere da qualche parte, così fui costretta a mantenermi a uno dei pesanti pilastri del letto per sollevarmi. Mi accorsi che c’erano bruciature lungo gli intagli, ma non ci feci più caso di quanto ne avessi fatto al resto della stanza. Quando fui in grado di mantenermi in equilibrio, mi avvicinai alla finestra, contornata di un tendaggio polveroso quanto logoro e mi chiesi dove diavolo fossi finita. E lì, mi tornò alla mente la prima mattina nell’Underworld e un’altra fitta, stavolta al cuore, mi ricordò improvvisamente la mancanza di Damien. Mi morsi le labbra con forza per evitare di piangere, ma quella sensazione era così forte e al tempo stesso così trascendente dalla mia volontà che mi colpì con violenza. La conoscevo, in un certo senso, avendola già provata con Evan, ma stavolta, sentivo qualcosa scavarmi ancora più in profondità e non riuscivo a smettere di piangere. Il dolore della perdita era terribile. Il mio ciondolo prese a brillare, pulsando al ritmo del mio cuore in tempesta, così, lo raccolsi in mano.

- Sei triste anche tu, eh?

Domandai. Che stupida, come se avesse potuto rispondermi. Distolsi lo sguardo, frustrata e abbattuta, poi rivolsi lo sguardo sul mantello adagiato sul letto. Di chi era? Mi sovvenne soltanto in quel momento che qualcuno mi aveva tirato fuori dall’acqua. Quando mi decisi a farmi forza, per quel poco possibile, uscii dalla stanza, cercando di soffocare quella sensazione di vuoto che mi aveva assalita, e percorsi il corridoio completamente vuoto, buio, se non fosse stato per la debolissima luce che proveniva dall’esterno. Scesi le scale, che scricchiolavano e a ogni passo riuscivo a sentire la mia stessa eco. Probabilmente, se ci fosse stato qualcuno oltre me, l’avrei sentito. Eppure, sembrava che in quel luogo non ci fosse anima viva, da parecchio tempo. C’erano polvere e distruzione ovunque. Muri abbattuti, mobilia distrutte, vecchi quadri schermati da almeno uno o due dita di sporco. Dov’ero finita? Camminavo tra suppellettili infrante e macerie senza rendermi nemmeno conto di dove stessi andando. Poi, vidi una tenda, l’unica meglio conservata rispetto al resto, in una piccola saletta che originariamente doveva essere un salottino, a giudicare dai resti di vecchi triclini e antiche anfore spaccate. Mi avvicinai prudentemente, era di un rosso sanguigno, molto cupo. Deglutii e feci per scansarla, ma qualcuno me lo impedì.

- Sei davvero sicura di voler vedere?

Mi voltai di scatto, in difensiva, afferrando un candelabro che faceva bella mostra di sé in un angolo.

- Chi sei?!

Domandai. Davanti a me, c’era un uomo, a giudicare dalla voce, piuttosto anziana e roca, coperto da un mantello grigio antracite, con un cappuccio che gli oscurava il volto. Era incurvato, nella mano destra portava una lanterna e probabilmente non doveva essere nemmeno granché forte. Quantomeno sarei riuscita a difendermi.

- Ti ho chiesto chi sei!

Domandai di nuovo, ma a dispetto del tono imperativo, non ero affatto tranquilla.

- Soltanto un vecchio in cerca di redenzione.

Mi rispose, avvicinandosi alla tenda. Quando posò la mano rugosa libera sul drappo, compresi che non mentiva, almeno sull’età.

- Che vuoi dire con “redenzione”?

Chiesi. Ero piuttosto perplessa.

- Sei stato tu a salvarmi?

- Salvarti? Oh, bambina, avessi potuto salvarti, l’avrei fatto tanto tempo fa.

Lo guardai davvero confusa. Oltretutto, la voce aveva qualcosa di familiare, sebbene non riuscissi a capire cosa, considerando il modo in cui risuonava con l’eco. Abbassai il candelabro, ma lo mantenni in mano, pronta per ogni evenienza. Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio, diceva il proverbio.

- Dove siamo? Cosa c’è sotto quella tenda?

- Quanta impazienza.

Mi contestò.

Mugolai qualcosa in segno di protesta, ma l’anziano non mi dette retta.

- Vuoi sapere perché cerco la redenzione?

Mi chiese, riprendendo la mia domanda. Io annuii, poi mi fece segno di sedermi. Inizialmente, non accettai quella richiesta, ma dal momento che il vecchio sembrava determinato a non dirmi nulla se non avessi acconsentito, fui costretta a farlo. Così, mi sedetti su uno dei triclini, quello poco più stabile. Il vecchio approvò, poi cominciò a raccontare.

- C’è stato un tempo, bambina, in cui questo mondo era prospero e pacifico. L’Underworld, l’Impero dal cuore di diamante, era il mondo migliore che esistesse. Molto più luminoso e più florido del mondo della luce, da cui arrivarono i fondatori.

L’Impero dal cuore di diamante, i fondatori. Ricordai le parole di Lady Octavia, e compresi che si stava riferendo alla prima famiglia, i Delacroix.

- Grazie a essi, il nostro mondo diventò un luogo di splendore, così rigoglioso, grazie alla sinergia tra gli esseri umani e la natura. A quel tempo, non si venerava ancora la Croix du Lac. Questo accadde in seguito, poiché con lo scorrere dei secoli, gli abitanti di questo mondo cominciarono a perdere la speranza. Troppi intrighi, troppe dispute. La sinergia che aveva reso l’Underworld così prospero, scomparve, e nacque nei cuori della gente il bisogno di rivolgersi a qualcosa di superiore, che potesse riportare lo splendore nel mondo. La famiglia Delacroix, che deteneva il potere, si mise alla ricerca delle leggendarie Pièces de la Croix, che secondo le leggende, riposavano ai cinque angoli dell’Underworld. Una volta trovate, la Croix du Lac si sarebbe manifestata, ridando gioia e prosperità a quella terra martoriata.

- E ci riuscirono?

Domandai, stringendo il mio ciondolo d’ametista nella mano.

- Oh, sì che ci riuscirono. Ma la Croix du Lac esigé un prezzo da pagare.

- Un prezzo?

Il vecchio annuì.

- Per realizzare quel desiderio, la Croix du Lac volle un corpo. I Delacroix erano sconvolti, e mai avrebbero potuto acconsentire, ma le famiglie nobili, nate e cresciute nel corso dei secoli, che mal sopportavano il prestigio e il potere della prima famiglia, ordirono una congiura, e rapirono la figlia dei Delacroix, offrendola in sacrificio alla Croix du Lac. Essa stessa lo diventò, e fu soltanto la prima di una sanguinosa e crudele tradizione, che continuò per i secoli a seguire.

Ascoltavo quelle parole inorridita e angosciata. Era così incredibilmente difficile crederci. Lady Octavia non mi aveva parlato di questo. Sapevo soltanto che le famiglie dell’oligarchia elessero un Despota in grado di contrastare l’Imperatore dei Delacroix e che questi ne uscì sconfitto, così che la famiglia perse il favore della Croix du Lac, ma questo andava oltre ogni mia immaginazione. Sacrifici nati dal peccato e perseverati nel corso del tempo solo per permettere alla Croix du Lac di manifestarsi… cos’era quell’essere così malvagio? E la ragazza che avevo visto nella mia visione era forse l’ultimo sacrificio che aveva chiesto la Croix du Lac per farsi viva? Guardai l’anziano, di cui era del tutto impossibile stabilire come stesse reagendo al racconto, ma ero sicura che avesse notato il mio shock. Balbettai, ripensando alle parole che Lady Octavia mi aveva detto riguardo me e le mie origini. Se fossi stata legata ai Delacroix, allora… forse anch’io sarei potuta essere un sacrificio? Forse era per questo che la mamma ed Evan volevano proteggermi, tenendomi all’oscuro della situazione e conducendo una vita sempre in movimento?

- I… i Delacroix sono scomparsi, tuttavia…

Sussurrai.

L’anziano annuì.

- C’è una leggenda in proposito. Si dice che un Delacroix fosse venuto a conoscenza della congiura e che avesse cercato di impedire il sacrificio. Era un cavaliere, nonché amante della prima Croix du Lac e purtroppo non riuscì nel suo intento. Tuttavia, giurò in punto di morte che dato che non era riuscito a proteggerla in vita, un suo discendente avrebbe fatto in modo di spezzare la maledizione. Quando questo fosse accaduto, allora la sua amata sarebbe stata liberata e il dominio dei Despoti avrebbe avuto termine.

Ricordai che Leandrus mi aveva parlato dell’ossessione di Ademar Valdes nei confronti dei Delacroix, gli ultimi sopravvissuti.  Allora compresi a cosa si riferiva. Ademar non voleva perdere il trono, e ne era diventato ossessionato al punto da farli sterminare.

- Questo è successo, in qualche modo, non è così? Non c’è più un Despota, ora…

Il vecchio sollevò la mano, mostrandomi l’indice e facendo segno negativo.

- Non ancora. Un nuovo Despota sarà eletto.

Dunque l’ultimo desiderio del cavaliere dei Delacroix non poteva essere esaudito.

- Non mi avete detto perché cercate redenzione, tuttavia…

Ripresi.

L’anziano, che non aveva ancora abbassato la mano, indicò il drappo rosso alle nostre spalle.

- Anni fa, fui responsabile di una terribile ingiustizia.

Aggrottai le sopracciglia. Non capivo come la storia dei Delacroix potesse essere connessa alle sue attuali parole. Sospirò, rauco.

- Va’, scosta quel drappo. E’ troppo pesante per me.

Disse. Mi alzai, perplessa, sollevando un mucchietto di polvere che mi pizzicò il naso. Chissà da quanto tempo quel posto non vedeva una scopa. Posai la mano sulla bocca, poi raggiunsi il drappo. Per qualche ragione, avevo il cuore che mi batteva all’impazzata. Forse era dovuto alla portata delle parole che mi aveva detto fino a quel momento, forse era la paura di scoprire cosa si celasse sotto quella tenda. Facendo attenzione, posai la mano. Era un drappo di taffetà, molto sottile, per cui non capivo per quale motivo il vecchio l’avesse definito troppo pesante per lui. Gli rivolsi un’occhiata, ma non si era scomposto. Era rivolto verso di me, ma avrei giurato che stesse fissando il drappo, facendo luce con la lanterna. Lo scostai lentamente, scoprendo una cornice dorata, stranamente ben conservata rispetto al resto e molto simile a quelle che avevo visto a palazzo Trenchard e nella residenza Devereaux. Doveva essere sicuramente un quadro di famiglia. Ne ebbi conferma quando vidi quattro persone. Due, madre e padre, sedute, e due figli maschi, in piedi. L’uomo poteva avere una cinquantina d’anni. Era piazzato, dai lineamenti alteri e dai lunghi capelli ingrigiti, legati in una coda laterale, come si portava nell’Underworld. Molto elegante, aveva la mano guantata posata su quella della moglie. Quando vidi la donna, istintivamente portai la mano alla gola. Ero stupita e non riuscii a parlare subito. Molto più delicata del marito, nonché più giovane di almeno dieci anni, portava i capelli neri fermati in un perfetto chignon. Aveva lo sguardo gentile e compassionevole, il colore di un tono più scuro del mio, ornato da folte e lunghe ciglia scure. Le labbra erano chiare, con un tocco leggero di rosa, e indossava un lungo abito stile impero, viola. Al collo, portava un ciondolo assolutamente identico al mio. Mi voltai nuovamente verso il vecchio.

- Q-Quella donna è… è la precedente Lady dell’ametista?

Udii una specie di “Mpf” che mi servì da risposta. Tornai a guardare il quadro, deglutendo più volte. I due ragazzi potevano avere all’incirca l’età mia e di Evan. Il più grande era accanto al padre. Somigliava a entrambi i genitori, con lunghi capelli scuri, gli occhi viola e un’aria indolente e maliziosa che mi fece pensare a Blaez. Il secondo ragazzo, in piedi accanto alla madre, aveva il portamento ritto e fiero. I lineamenti erano dritti e orgogliosi, le labbra generose e serie. Aveva i capelli nerissimi, d’ebano, legati allo stesso modo del padre, ma più corti e lievemente mossi. Ma quando i miei occhi si posarono sui suoi, di una singolare quanto familiare tonalità ametista, mi sentii mancare e dovetti mantenermi al quadro stesso per non perdere l’equilibrio. Tremavo senza nemmeno rendermene conto, fissando quegli occhi, così incredibilmente uguali ai miei, e sporsi le dita incerte per toccarli, percorrendo la guancia e fermandomi nel sentire la sensazione della ruvidità della tela sotto i polpastrelli. Quanto avevo desiderato di vedere quel volto? E ora, potevo forse sbagliarmi? Desiderai ancora, con tutta me stessa, di avere accanto a me la mamma. Cos’avrebbe fatto nel vedere quel quadro? Quale sarebbe stata la sua reazione? E io avrei trovato il coraggio di chiederle “E’ questo mio padre?”? Perché in fondo al cuore lo sentivo. Quello era il volto di mio padre. Un volto che stava scomparendo dietro le mie lacrime. Mi voltai ancora verso l’anziano, che si era alzato. Aveva capito il mio stato d’animo.

- Ademar Valdes era l’ultimo Despota.

Disse, indicando il più grande. Di riflesso, il più giovane era senza dubbio Greal. Annuii.

- Greal era il figlio minore. Lord Leutwin e Lady Annabelle amavano molto quel figlio, che in quanto secondogenito, avrebbe intrapreso la carriera del cadetto. Un giorno, sarebbe diventato un grande condottiero, ma sicuramente, sarebbe stato molto più adatto del fratello a governare. Quei due avevano caratteri molto diversi. Laddove Ademar era sfacciato e ambizioso, Greal era riservato e indifferente, e la sola cosa che gli importava era rendere Challant un posto sicuro. Ricordo bene con quanta dedizione serviva la sua terra e il suo popolo. Non gli importava di essere giudicato. La sola cosa che per Greal contava era far sì che la sua gente fosse al sicuro.

Greal Valdes, mio padre, voleva proteggere il suo popolo… non gli importavano i giudizi, proprio come Evan. Cercai di ricacciare indietro il pianto, invano. Le lacrime scendevano copiosamente, mentre il vecchio mi raccontava di come fosse benvoluto da tutti, di quanto Lord Leutwin si rammaricasse al pensiero che il figlio secondogenito non volesse concorrere alla carica di Despota, e di come Greal non sembrava curarsene. Eppure, le parole di Leandrus avevano dipinto un’altra figura, diversa da quella che l’anziano misterioso mi stava presentando fino a quel momento. E io avevo bisogno di sapere anche questo.

- Se Greal era davvero così gentile, allora per quale motivo ha obbedito all’ordine di sterminare i Delacroix? Perché ha gettato questo mondo nel caos? Perché… perché è lui la causa, non è così? Mi è stato detto che sulla mia famiglia grava un destino infausto… e la colpa è sua, no?

Domandai, tutto di botto.

Il vecchio tornò a sedersi, attendendo qualche secondo prima di rispondermi. Forse stava formulando la sua argomentazione, ma quei momenti furono una vera e propria agonia.

- Greal commise un unico, fatale peccato.

Sgranai gli occhi, soffocando un singhiozzo.

- Per la sua famiglia, obbedì all’ordine di suo fratello, quand’egli fu eletto il nuovo Despota. Quanti presagi infausti avevano sconvolto l’Underworld prima di allora. Ademar era stato disposto a tutto pur di diventare Despota, anche a uccidere il suo predecessore, Tantris Rosenkrantz, e a sposarne l’unica figlia, Lady Cerulea.

- C-Cerulea?

Domandai, esterrefatta.

- Colei che tu conosci con il nome di Celia.

Mi disse. Mossi qualche passo indietro, finendo con le spalle sul quadro. Il drappo rosso mi cadde addosso, oscurandomi per un momento la vista. Lo scansai meccanicamente, ma d’improvviso sentivo ogni singola parte del mio corpo pesante e incapace di reagire. Cerulea, Celia… mia madre, la figlia del penultimo Despota. La moglie di Ademar Valdes. Strinsi le mani alla testa. Avevo una tale confusione nel cervello che anche il solo pensiero di srotolare la matassa mi provocava dolore. Volevo che fosse stato un incubo, che mi fossi risvegliata e che tutto fosse stato come sempre, con Evan accanto che mi tranquillizzava e la mamma che mi sorrideva. Sarei andata a scuola, come sempre, mezza morta di sonno e lì avrei scherzato con Violet, programmando un’uscita per il pomeriggio. Avrei incontrato Damien nei corridoi, e avrei odiato la sua irritante aria da leader indiscusso della scuola. Ma non era un incubo, purtroppo. Anzi, il mio desiderio di tornare alla normalità era quasi un sogno, da cui mi ero risvegliata troppo presto. Ero crollata a sedere sotto il quadro, ed ero stravolta.

- Aurore.

Disse l’anziano, dolcemente. Rialzai lo sguardo verso di lui, notando che mi tendeva la mano.

- Chi sei tu?

Mugolai, incerta più che mai.

- Come fai a conoscere tutte queste cose?

- Te l’ho detto. Sono soltanto un vecchio in cerca di redenzione. Hai ascoltato abbastanza, per ora. Ma sappi che tuo padre è innocente. Qualunque cosa si dica adesso di lui, Greal è sempre stato dedito alla sua famiglia, e per essa era disposto a tutto. Non odiarlo, ma monda il suo nome. Sei la sola che possa farlo.

Osservai la sua mano rugosa, poi mi rialzai piano, prendendola tra le mie.

- Perché dovrei farlo?

Domandai. Sotto il cappuccio, notai l’ombra di un sorriso.

- Perché sei animata dal suo stesso desiderio. Tu, Aurore Kensington, sei tale e quale a tuo padre Greal. Saresti disposta a tutto pur di proteggere coloro che ami.

- Non a uccidere persone innocenti…

Sussurrai, tristemente. Quel pensiero era talmente forte che non riuscivo a cacciarlo via. L’anziano non rispose, ma mi strinse le mani. A dispetto di quanto aveva detto poco prima riguardo alla poca forza, aveva una stretta vigorosa.

- Il giorno in cui non potrò più proteggere le persone che mi sono care giungerà presto. Quando accadrà, ti prego, redimi questo mondo dilaniato e fa’ sì che l’Underworld torni a risplendere di luce, come una volta. Così che anche il destino infausto che pende sulla tua famiglia possa essere cancellato, una volta per tutte. E così, anche Challant potrà tornare a prosperare.

- C-Cosa?

Mollò la presa, poi fece qualche passo indietro. In quel momento, mi vennero in mente le parole del saggio Angus. Mi aveva detto che a Challant avrei trovato le risposte che cercavo. Dunque, ero a Challant in quel momento? Mi voltai di nuovo verso il quadro. Certamente, un quadro che raffigurava la famiglia Valdes non poteva trovarsi in altro luogo. Ma da Wiesen, come ci ero arrivata? Quando mi apprestai a chiedere all’anziano misterioso cosa fosse accaduto, però, non c’era più. Lo cercai nelle sale attigue, ma non ce n’era ombra. Poi corsi all’esterno, ritrovandomi in un grande spiazzo con la pavimentazione in pietra dissestata. Cercai ancora, chiamando quell’anziano che non mi aveva nemmeno detto il suo nome, ma non ebbi risposta. Ero di nuovo sola, in un palazzo diroccato. Il palazzo della famiglia Valdes. Il luogo in cui avevo scoperto chi era mio padre.

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Capitolo 31
*** XIII. 3 parte ***


Buongiorno a tutti!! Oh cavoli, oggi sono alquanto inquieta perché ho letto gli ultimi spoiler di 07-Ghost e... voglio necessariamente il capitolo!! nyargh *prende fiato* Ok, tornando a noi, pubblico la terza parte del capitolo! >__< Anche questa è abbastanza lunga, ma spero risulti interessante! >_< Ringrazio come sempre Taiga-chan e non vedo l'ora di risentirti, tesoro! <3 E un grazie anche ad _Alexandra98_ che ha aggiunto la storia nelle preferite!! Oh, aggiungo anche un nuovo disegno: http://imageshack.us/a/img801/3493/4qrt.jpg ecco Arabella! <3 Buona lettura!! *--------*<3

 

 

 

 

 

Nel silenzio, improvvisamente, udii un suono simile allo sbattere d’ali e istintivamente, sollevai gli occhi al cielo. Nel corso del tempo passato nell’Underworld, i miei occhi si erano abituati all’oscurità e ora mi veniva più semplice riuscire a vedere anche in quella situazione, proprio come accadeva a Shemar, nel mio mondo. Vidi una strana creatura, per certi versi simile a un uccello, ma molto più rigida, quasi meccanica, con ali lunghe dalla punta acuminata. Emanava dei fiochi bagliori chiari, come se risplendesse, in qualche modo. Compresi istantaneamente di cosa si trattasse. Era uno dei messi della Croix du Lac. Sperando di essere fortunata abbastanza da non esser vista, corsi all’interno della villa, nascondendomi dietro l’unica anta sopravvissuta del portone. Cercai di trattenere il fiato, soprattutto quando sentii quel battito scendere, assumendo una sfumatura quasi metallica, simile a uno stridio. Chiusi gli occhi, pregando che andasse via lasciandomi in pace, poi sentii un forte rumore, come se qualcosa l’avesse colpito. Il messo lanciò un suono acuto e fastidioso, quasi si stesse lamentando. Subito dopo sentii un altro fruscio, che riconobbi come quello delle ali dei grifoni. Il primo pensiero corse al mio Harundia, che avevo lasciato con Leandrus, assieme a Hibernia ed Hezekiel. Prudentemente, mi affacciai quanto bastava per scorgere un grosso grifone dal manto nero, tanto scuro da mimetizzarsi perfettamente con l’ambiente circostante, e il suo cavaliere, a sua volta vestito di nero. Brandì una spada con perizia e rapidità, tranciando le ali del messo di netto e infilzandolo. I fendenti scintillavano nell’oscurità, come fossero dei fulmini. Quando ebbe finito, del messo non rimase altro che una serie di solchi sparpagliati per terra. Ero sconvolta e a dir poco terrorizzata. Non riuscivo a vedere le fattezze del cavaliere, però uscire allo scoperto non mi sembrava una buona idea. Nel farmi indietro, pestai dei cocci di vetro e maledissi dentro di me la mia disattenzione. Sperai che non mi avesse sentita, ma se così fu per l’uomo non fu lo stesso per il grifone, che ringhiò. Avevo quasi dimenticato che avevano un udito prodigioso. Ero ufficialmente nei guai. Sentii i passi decisi che venivano verso di me, così mi decisi a rientrare del tutto nel palazzo, sperando di riuscire almeno a nascondermi da qualche parte. Il guaio era che non conoscevo il posto, quindi c’era la possibilità che stessi correndo a vuoto. Ripercorsi il tragitto che avevo fatto al contrario, tornando nella stanza in cui mi ero svegliata e nascondendomi sotto al letto. Da piccola lo facevo spesso quando giocavamo a nascondino, anche se Evan mi trovava con facilità. Tuttavia, da quella posizione potevo vedere comunque cosa l’avversario stesse facendo. Quando vidi i neri stivali varcare la soglia della stanza, trattenni il fiato il più possibile, pregando che non gli venisse in mente di piegarsi a guardare sotto il letto. Sentii che tirava il mantello e poco dopo vidi che se lo rimetteva addosso. Il colpo d’aria che ne seguì mi ricordò la voce che mi ordinava di respirare una volta fuori dall’acqua. Se quello che avevo addosso era il mantello del cavaliere, allora doveva essere stato lui a trarmi in salvo. Girò i tacchi e mentre se ne andava, strisciai fuori dal letto.

- Aspetta, per favore!

Esclamai, rialzandomi. Probabilmente, nello gettarmi sotto al letto dovevo essermi graffiata le ginocchia, perché le sentivo bruciare. L’uomo era voltato di schiena. Era alto e aveva le spalle larghe, coperte dal mantello che gli arrivava fino alle caviglie. Portava i lunghi capelli brizzolati legati in una treccia che gli arrivava a mezza schiena, leggermente scompigliati. Si voltò lentamente, così vidi un soprabito scuro sotto al mantello, incredibilmente simile a quello che indossava il professor Warren quando lo incontrai a casa mia. Ma diversamente da lui, sui guanti scuri spiccava un sigillo differente, che non seppi ricondurre a nessuno dei sigilli che avevo visto in passato. Al collo portava lo stesso ciondolo con la runa che avevo scorto prima di perdere i sensi. Il volto, come Liger e le altre guardie, era coperto per metà da una maschera. Quell’uomo era una guardia imperiale, indiscutibilmente.  Mi si mozzò il fiato. Ero stata troppo avventata e adesso mi ero giocata ogni possibilità di salvezza. Che mi era saltato in mente? E soprattutto, come avrei potuto farla franca? Con la coda dell’occhio, cercai qualche oggetto che potesse tornarmi utile per difendermi, ma la stanza era talmente scarna che non trovai nulla. Ero ufficialmente spacciata.

- Stai bene?

Mi domandò, a sorpresa. La voce era sicuramente la stessa che avevo sentito mentre venivo tirata fuori dall’acqua.

- S-Sì…

Risposi. Una guardia imperiale che si preoccupava per me. Ma la spada al fianco non mi rincuorava per niente.

- S-Sei stato tu a salvarmi, vero? Perché?

Sentii i suoi suoi occhi addosso, nonostante non potessi vederli. Mi raggiunse, fermandosi a pochi passi da me. Sollevai lo sguardo. Avevo sfidato la sorte. Adesso non potevo far altro che andare fino in fondo. Raccolse il mio ciondolo tra le dita guantate. Da vicino, vidi il suo, con la runa d’argento. Protezione.

- Perché devi vivere. Custode dell’ametista.

- Sono soltanto una ragazza che vuole ritrovare la sua famiglia…

Mormorai, pensando a mia madre.

- La tua famiglia?

Annuii, pensando alle parole dell’anziano. Celia Kensington, Cerulea Rosenkrantz.

Lasciò scivolare la mia ametista al suo posto.

- Posso conoscere il tuo nome?

Mi domandò. Lo guardai incerta. Gracie, avrei detto, ma quel nome mi ricordò ancora una volta Damien e il dolore si fece strada prepotentemente nel mio cuore e nei miei occhi, velandomi lo sguardo.

- Aurore.

Dissi, semplicemente.

- Aurore.

Ripeté.

- Da quanto questo mondo non vede l’aurora.

Distolsi lo sguardo, ripensando al motivo per cui la mamma mi aveva dato quel nome. Quando ne avevamo parlato, avevamo parlato anche di mio padre, e mia madre mi aveva detto che si erano amati così tanto da diventare l’uno l’anima dell’altra. Alla luce delle parole dell’anziano, i dubbi che mi erano venuti a causa di Leandrus, erano scomparsi.

- Tuttavia, non c’è modo che essa ritorni.

Riprese poi, con tono totalmente disilluso.

Ripensai a Livia, al suo atteggiamento così crudele, nonostante la giovane età. Ma se potevo capirlo vista la sua condizione, com’era possibile che fosse lo stesso anche per qualcuno che ricordava com’era quel mondo quando ancora vi splendeva la luce?

- Non è così.

Contestai. Ebbe un piccolo fremito. Io sorrisi. Stavo sorridendo a una guardia imperiale.

- Fino a che non cambierete il modo di pensarla, allora sarà come dici. Ma se pensate anche soltanto una volta a come sarebbe riavere la speranza, senza temere il prezzo da pagare, allora forse…

- Ideali sciocchezze.

Contestò lui.

Strinsi i pugni.

- Allora se è davvero così… che senso ha avuto la vita di mio padre? Lui ha combattuto per proteggere la sua terra, per far sì che Challant fosse un posto sicuro… sono certa che credesse in questo più di qualunque altra cosa al mondo, e per questo motivo, Challant pros--  

- Nonostante tutto, quell’uomo è stato giustiziato per alto tradimento quasi diciassette anni fa. Ha pagato con la vita il suo voler “proteggere” ciò che gli era caro.

Mi interruppe.

Sobbalzai, sconvolta da quelle parole così taglienti. Sapevo che era morto, ma sentirlo dire così faceva tutt’altro effetto.

- T-Tu… conoscevi mio padre?

Prima che potesse rispondere, dall’esterno, sentimmo i versi di richiamo del grifone nero.

- Devi tornare nel tuo mondo. Ne va della tua stessa vita. Sei ancora troppo giovane per pagare un prezzo così alto.

Scossi la testa, si stupì.

- Non lo farò. Sono disposta anche a questo, se significa riavere la mia famiglia e aiutare le persone che mi sono care. Qualunque cosa accada, ormai ci sono dentro fino al collo e non intendo rinunciarci.

- Sei testarda e ostinata.

- Lo so.

Sorrisi. Avevo preso da mia madre in questo.

- Cavaliere?

- Mh?

- Posso conoscere il nome della persona che mi ha salvato la vita?

Domandai. Attese qualche istante prima di rispondermi.

- Adam.

- Adam. Il Fulmine d’argento.

Notai lo stupore nel modo in cui arricciò le labbra. Ma quando l’avevo visto battersi contro il messo, la sua spada emanava fendenti tanto luminosi da sembrare fulmini d’argento.

- Grazie per avermi salvata.

Dissi. Nonostante l’uniforme che indossava, avevo la sensazione che ci fosse del buono in quell’uomo. Un po’ come Shemar, che prima di essere una guardia imperiale, era il cavaliere di Amber. La fedeltà alla sua signora veniva prima di qualunque altro giuramento. Sapevo che non mi avrebbe mai fatto del male. E in qualche modo, sentivo che era lo stesso per l’uomo che avevo davanti, chiunque egli fosse. Adam fece un cenno d’assenso.

- Questo posto non è sicuro. Arriveranno altri messi molto presto, e sarà meglio che non ti trovino qui.

- Perché l’hai ucciso?

Domandai.

- Perché la Croix du Lac ha visto fin troppo. Vieni con me, ti porterò in un luogo più sicuro.

Concluse, uscendo dalla stanza. Ripensai all’anziano che mi aveva parlato della famiglia Valdes, ma non mi sembrò una buona idea parlargliene. Considerando la facilità con cui aveva eliminato il messo, non sapevo quanto potesse essere positivo raccontargli di quell’uomo. Ciononostante, mi ripromisi di farlo a tempo debito, sperando che quel vecchio fosse in salvo, da qualche parte. Quando passammo davanti al ritratto, mi fermai, costringendolo a fermarsi a sua volta. L’avrei rallentato, lo sapevo, ma ci tenevo a lasciare tutto com’era prima di scoprire la verità. Sollevai il drappo rosso che era caduto a terra, e prima di coprire il quadro, accarezzai con le dita il volto di mio padre. Un volto giovane, determinato. Non l’avrei mai visto da adulto, e prendere coscienza del fatto che con tutta probabilità era morto senza nemmeno sapere della mia esistenza, mi intristì oltre ogni misura. Ma d’altro canto, adesso avevo scoperto che Greal Valdes era innocente, e avrei fatto in modo di riabilitarlo.

- Papà… tornerò, te lo prometto. Insieme alla mamma...

Sussurrai. Avrei tanto desiderato potergli dire che sarei tornata anche insieme a Evan, ma mio fratello sicuramente l’aveva già rivisto.

- Dobbiamo andare.

Mi ricordò Adam. Annuii, e dopo aver rimesso il drappo al suo posto, andammo via, lasciandoci alle spalle la residenza Valdes, in una campagna sconfinata e in decadenza. In volo nel cielo notturno, protetta dal mio misterioso salvatore, vidi Challant, un paese in rovina. Senza più la famiglia Valdes a governare saggiamente, senza più i Rosenkrantz, la famiglia di mia madre. Mi chiesi se il professor Warren avesse mai avuto qualche pretesa su Challant, ma ne dubitavo, visto il grado di abbandono in cui quella regione verteva. Leandrus mi aveva detto che un tempo era il territorio più bello dell’Underworld, ma ora, ciò che ne era rimasto era soltanto lo spettro di ciò che era. Le maestose residenze, i villaggi, le mura, erano tutti distrutti o abbandonati al loro destino. L’incuria aveva fatto sì che la vegetazione divorasse quei luoghi. I templi apparivano in disuso da molti anni, e ovunque metri e metri di rovi avevano rimpiazzato le storiche architetture. Non sapevo dove stavamo andando, ma man mano che volavamo, la mia ametista brillava, come se stesse piangendo nel vedere quel che era accaduto alla sua terra d’origine. Anch’io mi sentivo triste. Sapevo cosa volesse dire abbandonarsi, e più spesso di quanto volessi, finivo col poggiare la testa, singhiozzando, contro il petto di Adam, che dal canto suo, non protestò mai. Volammo a lungo, ma avevo perso ogni cognizione temporale. Non sapevo nemmeno quanto tempo era trascorso da quando ero precipitata dalla torre del palazzo Devereaux. Intravedemmo la capitale di Challant, Velsen, il solo centro che sembrava essere stato risparmiato dallo scorrere del tempo. Tuttavia, quando chiesi se ci saremmo fermati lì, il mio compagno di viaggio rispose negativamente. Compresi le sue motivazioni quando vidi uno stuolo di guardie imperiali intente a perlustrare i dintorni.

- Toglimi una curiosità.

Gli dissi, ottenendone l’attenzione.

- Perché indossi l’uniforme degli imperiali?

Il grifone, che avevo scoperto chiamarsi Lughoir, fiutò l’aria, poi si diresse in basso, planando verso una radura all’esterno della città, lontana abbastanza per non essere trovati.

- Perché un tempo anch’io ero uno di loro. Ma più che per un qualche sentimento d’appartenenza, al momento è il miglior modo per passare inosservati. Nessuno fa più caso alla presenza di una guardia imperiale in giro.

Non sapevo quanto potesse esser vero per gli altri, ma di certo io ci facevo caso. Probabilmente, considerando l’alto numero di miliziani non c’era da stupirsi, però.

- E il sigillo che porti sul guanto?

- Questo?

Chiese, sollevando la mano. Era molto più elaborato degli altri che avevo visto fino a quel momento, una sorta di croce con dei rami intrecciati e con delle sfumature che sulle prime non avevo notato, un’alternanza di chiaro e di scuro. Istintivamente, tesi le dita a toccarlo.

- E’ molto bello…

Osservai.

- E’ il mio giuramento di fedeltà.

Rispose. Lo guardai.

- Non togli mai la maschera?

- A un imperiale è concesso togliere la maschera soltanto a casa propria. Fino a che si è all’esterno, siamo tenuti a indossarla.

Mi chiesi se valeva lo stesso per Shemar, dal momento che l’avevo sempre visto senza. Anche le guardie che avevano trovato me e la mamma, nel mio mondo, non l’avevano, ma effettivamente, se avessero portato delle maschere anche lì, sarebbero risultati tutti sicuramente molto più sospetti, e dunque non avrebbero potuto portare a compimento la missione assegnata. Chissà se anche il professor Warren la indossava. Quando finalmente potei scendere e mettere i piedi a terra, mi stiracchiai con sollievo. Anche il mio accompagnatore smontò dalla groppa, poi accompagnò Lughoir a bere da una sorgente poco lontano. Io mi guardai intorno. Dalla luminosità del cielo, immaginavo dovesse essere pomeriggio inoltrato. Ma nonostante l’ora, non avevo sonno. Avevo dormito abbastanza, sebbene la stanchezza che avvertivo era di tipo psicologico, per la maggiore. Avevo scoperto così tante cose in così poco tempo, e non era trascorsa nemmeno una settimana da quando avevo lasciato la residenza di Amber.

- Quanto tempo è passato da quando mi hai trovata?

Domandai, quando tornò.

- Due giorni, all’incirca. Come mai?

Feci rapidamente due conti. Da quando eravamo partiti a quando ci eravamo fermati a Wiesen erano trascorsi tre giorni. La sera del terzo giorno c’era stata la finta festa a palazzo Devereaux ed erano trascorsi altri due giorni da quando Adam, il Fulmine d’argento, mi aveva salvata. In totale, erano passati cinque giorni, e prima della cerimonia ad Adamantio ne rimanevano soltanto due. Due giorni in cui avrei dovuto scoprire cos’era successo a Damien. In cuor mio speravo e pregavo con tutta me stessa che lui fosse ancora vivo, e che la spada di Liger non fosse intrisa del suo sangue. Era un pensiero orribile ed egoista, desiderare che un altro innocente fosse stato ucciso al suo posto, ma in quel momento, era il solo modo che avessi per non cedere al dolore ancora una volta. Era una soluzione di comodo, ne ero ben consapevole, ma l’idea di non rivederlo più era troppo straziante. Avevo ancora davanti agli occhi la scena della tortura di Livia, il suo sorriso sadico e divertito mentre i rovi affondavano nella pelle di Damien. Mi morsi le labbra al ricordo delle sue urla di dolore. Lui che era il despota della scuola, la persona più ammirata e temuta del liceo di Darlington. Lui che era l’amorevole fratello maggiore del piccolo Jamie. Il mio cuore batté più forte. Lui che era…

- La persona di cui ti sei innamorata?

Trasalii nel sentire una voce femminile, familiare, alle mie spalle. Mi voltai di colpo. Ero di nuovo nello stesso luogo in cui le pietre avevano portato me e Livia. Solo che stavolta, c’era la Croix du Lac. Aveva gli stessi lunghissimi e lucenti capelli biondi e indossava un leggero vestito bianco, che contrastava del tutto con il resto dell’oscurità, quasi a volerla squarciare. Lungo il braccio nudo, il tatuaggio scintillante che culminava nella Croce di diamante sulla mano.

- Croix du Lac!

Esclamai.

Mi camminò intorno con fare sicuro, poi si fermò davanti a me. Era più alta di almeno una spanna e il suo viso era molto dolce, a dispetto della crudeltà che era capace di dimostrare.

- E’ dura, vero? Perdere le persone che si amano… è così doloroso, al punto tale che ti senti morire anche tu.

Aveva descritto bene quello che provavo, ma che fosse proprio lei a dirlo, sembrava quasi l’ennesima beffa. Lesse il mio stato d’animo dalla mia espressione accigliata e poco disposta a darle retta, poi mi accarezzò gentilmente il viso. Aveva le dita gelide della morte, ma incredibilmente delicate. Non appena mi toccò, il tatuaggio si diradò di colpo nella mano, fino a diventare un minuscolo segno luminoso proprio al centro del dorso. Le sue dita riacquistarono calore, e il suo sguardo si fece improvvisamente più umano. Sembrava sofferente. Che si trattasse della ragazza che era stata offerta in sacrificio?

- C-Chi sei?

Le domandai con un po’ d’esitazione.

Mi guardò con infinita tristezza. Quegli occhi, così incredibilmente simili ai miei, li avevo visti in passato, sul volto di mia madre, quando parlava di papà.

- M-Mamma?

Domandai, incredula.

Scosse la testa e cercò di parlare, ma sembrava costarle fatica. Presi la sua mano, notando che tremava.

- P-Puoi fidarti di me!

Le dissi.

Dall’occhio sinistro scese una lacrima.

- A-Aurore…

Mormorò, con un tono sollevato e al tempo stesso preoccupato. Era come se non avesse tempo a sufficienza. Quella ragazza stava riacquistando coscienza, ma chissà per quanto tempo sarebbe durata.

- Coraggio! Ce la puoi fare! Sii forte, la sconfiggerai!

Esclamai.

- Qual è il tuo nome?!

Le chiesi.

- A-Arabella…

Arabella. Che nome gentile. Sorrisi. Avevamo le stesse iniziali.

- Arabella, fidati di me! Vedrai che riusciremo a eliminarla!

Scosse nuovamente la testa, poi posò la fronte contro la mia. Fu una strana, ma piacevole sensazione.

- Non ho molto tempo. Lei mi controlla. Quando raggiungerai Adamantio, lei si mostrerà al popolo e proclamerà l’ascesa del nuovo Despota. Devi trovare Jamie prima che accada. Lui è…

- Dove?!

Deglutì e respirò con fatica, mentre il segno sulla mano pulsava. Anche la mia ametista prese a pulsare a sua volta.

- I-Il palazzo di diamante. Loro sono… sono…

- Ho capito. Ho capito, Arabella! Grazie…

Sussurrai, chiudendo gli occhi e stringendo forte la sua mano.

- Ti prometto che farò di tutto per aiutarti!

- Lui… lui è vivo… ti prego… salvalo…

Mi chiese, in un ultimo, enorme sforzo prima di perdere il dominio di sé stessa e riconsegnarmi alla Croix du Lac, che si scostò da me inveendo.

- Arabella…

Disse cantilenando il nome. Io la guardai.

- A quanto pare non riesci a mantenere il controllo totale su quella ragazza.

Osservai. Replicò con uno sguardo pungente, che strideva con la bellezza e la dolcezza di quel viso.

- Questione di tempo.

Rispose, poi mi sollevò il viso con le dita, che erano tornate fredde.

- Non vedo l’ora di poterti incontrare di persona, Aurore.

Deglutii.

- Accadrà presto. Ma sappi che non ti lascerò fare il tuo comodo.

- Sai cosa mi è sempre piaciuto di te?

Aggrottai le sopracciglia. Lei sorrise.

- Esatto. Quello sguardo. Determinato e fiero. Esattamente lo stesso che aveva tuo padre, quando presi la sua vita.

Spalancai gli occhi in preda allo shock. Mentre Mente il viso sorridente della Croix du Lac scompariva dalla mia vista, mi ritrovai ad agitarmi, urlando, quando sentii le mani di Adam serrarmi forte per le spalle.

- Aurore!

Esclamò, e la sua voce forte mi risvegliò all’improvviso.

- Aurore, va tutto bene.

Ansimai, quando i miei occhi tornarono a vedere e il suo volto mascherato ricomparve alla mia vista.

- E’ stato…

Mugolai, spaventata e sconvolta.

- Un incubo. Sì, lo so. Sei svenuta di colpo, poco fa.

Mi guardai attorno. Eravamo nella radura ed ero seduta, sostenuta dalle braccia di Adam.

- Devo… devo andare…

Balbettai, cercando di sollevarmi, ma le sue mani furono più forti e mi tennero a terra.

- Non così. Sei troppo agitata.

Aveva ragione. Avevo il respiro corto e difficoltoso, e il torace mi faceva male. La Croix du Lac aveva ucciso mio padre…

- Assassina…

Sussurrai, scoppiando in un pianto dirotto. Strinsi forte il soprabito nero di Adam, piangendo disperata contro il suo petto. Lui non era nessuno di familiare, ma in quel momento, ero talmente sconvolta che desideravo soltanto potermi sfogare. Dapprima esitanti, le sue braccia mi cinsero e posò la mano col sigillo argentato sulla mia testa, accarezzandomi lievemente i capelli. Piangevo e piangevo, senza sapere come spiegargli la mia angoscia e il mio dolore. Assassina. Dannata assassina senza cuore che aveva strappato la vita della persona che più mi mancava al mondo. Per molto tempo non disse niente, ma si limitò soltanto a stringermi, fino a che le lacrime, che non volevano smettere di uscire, lasciarono il posto alla desolazione e al silenzio rotto soltanto dai miei deboli singulti.

- Va meglio, ora?

Mi chiese poi, quando mi calmai. Scossi la testa. Non andava meglio, ma cominciavo a sentirmi affaticata e stanca.

- Sin da piccola ho sofferto di incubi. Di recente, ho scoperto che si riferivano all’Underworld. Ma solo da quando sono qui sono diventati vividi al punto da poter interagire con ciò che vedo.

Spiegai.

- Non so nemmeno perché te lo racconto… scusami…

Aggiunsi. Avevo addosso anche una buona dose di mortificazione.

- Non hai niente di cui scusarti. Ciò che conta è che sia passato, adesso.

- Fino a che non si ripresenteranno. E’ sempre così. Quando abbasso le difese, in qualche modo, si insinuano nella mia mente.

- E sembrano reali.

Annuii. Evan mi aveva detto che nonostante fossero soltanto immagini della mia mente, ciò non toglieva il fatto che fossero la cosa più reale che stessi vivendo.

- La Croix du Lac. L’ho vista, di nuovo.

Non dette cenni evidenti di reazione, sospirò soltanto.

- Non importa, ora. Sei stanca, hai bisogno di riprendere le forze.

- Ma…

- Rimani qui, assieme a Lughoir. Nel frattempo, cercherò di trovare qualcosa per te.

- No. No, è rischioso! Se ti dovessero trovare…

Esclamai, preoccupata. Per quanto fosse una ex guardia imperiale e non conoscessi praticamente nulla sul suo conto, non volevo che corresse rischi, a causa mia, anche lui. Per qualche ragione che non riuscivo a comprendere, forse per via del fatto che gli dovevo la vita, forse per via del suo atteggiamento, temevo che potesse accadergli qualcosa.

- Stai parlando con qualcuno che si sa difendere.

Mi ricordò. Distolsi lo sguardo mestamente. Anche Evan e nostro padre probabilmente, anzi no, sicuramente, si erano difesi, eppure erano stati uccisi. Il pensiero mi gettò di nuovo nello sconforto. Tirai una cinghia del soprabito nero di Adam.

- Sarò di ritorno molto prima di quanto immagini.

Scossi la testa. Lui posò la mano sulla mia, sciolse la presa, poi si alzò.

- Lughoir.

Il grifone nero ci raggiunse.

- Rimani qui. Devi proteggerla. Hai capito?

Lughoir emise un verso d’assenso. Chissà, da qualche parte, il mio Harundia forse mi stava cercando. Adam accarezzò il manto scuro del suo compagno, poi si dileguò nell’oscurità della vegetazione circostante, lasciandomi da sola con il suo grifone. Lughoir si sedette accanto a me, poggiando il lungo muso sulle mie gambe.

- Vuoi farmi da guardia?

Domandai, accarezzando il manto morbido.

- Il tuo padrone è davvero una persona gentile…

Lughoir mi osservò con la coda dell’occhio marrone.

- Anch’io ho un grifone, sai? Si chiama Harundia. In realtà stiamo insieme da poco… e quindi…

Stiamo insieme… La persona di cui ti sei innamorata… in quel momento il mio cuore prese a battere velocemente. Posai la mano sul petto, sperando che i battiti in corsa si calmassero. Damien, la persona di cui mi ero innamorata? Com’era possibile che fosse così? Proprio pochi giorni prima avevamo litigato, e il suo comportamento era così altalenante da mandarmi in confusione. Forse era proprio quello il problema. Eppure, ogni volta che ero con lui, mi sentivo al sicuro. Ripensai alla mamma, a quando mi aveva detto che mi sarei accorta da me se avessi incontrato la persona giusta, ma erano successe così tante cose da quando eravamo nell’Underworld che non avevo avuto nemmeno il tempo di pensarci, benché meno di rendermene conto. Con l’altra mano, carezzai ancora il piumaggio di Lughoir. Mi ricordò quando mi svegliai nel cuore della notte a palazzo Trenchard e Damien era lì, addormentato vicino a me. Aveva trascorso al mio fianco tutta la notte, incurante del prendere freddo e per farmi sorridere, aveva imitato Evan. Strinsi le piume con forza, tanto che Lughoir protestò.

- S-Scusami!

Esclamai, mollando la presa. E poi, quando mi aveva abbracciata forte, dicendo che i miei occhi avevano la sfumatura dei lillà. Il colore dei tuoi occhi, non l’avevo mai visto prima. Mi aveva detto, a casa di Violet. Alzai lo sguardo al cielo. Dio, ti prego, fai che stia bene. Aiutami a ritrovarlo.

Non ero mai stata molto religiosa, ma cominciavo a capire cosa intendesse l’anziano quando mi aveva detto che privati della speranza, gli abitanti dell’Underworld sentirono il bisogno di votarsi a qualcosa di superiore. Ripensai ai canti di preghiera di quel mondo, e chiusi gli occhi, intonando la canzone che mi aveva insegnato la mamma, il canto di Adamantio. La mia voce risuonava nel silenzio di quel luogo pacifico, nella notte eterna, fino a che, esausta, poggiai la testa sul manto di Lughoir. Era così caldo e morbido che mi sembrava di stare appoggiata su un cuscino. Canticchiai più sommessamente, cercando di non addormentarmi. Oltretutto, avevo paura di poter rivedere la Croix du Lac. Dopo quello che mi aveva detto, non ce l’avrei fatta ad affrontarla di nuovo, in quel momento. Sperai che Adam tornasse presto. Avrei voluto chiedergli di mio padre, dal momento che non aveva potuto rispondermi quando gli avevo chiesto se l’avesse mai conosciuto. Sarebbe stato bello se così fosse stato. Cullandomi su quel pensiero, sentii che la stanchezza stava prendendo il sopravvento, quando Lughoir sollevò la testa, scostandomi. Si sollevò sulle zampe possenti, rizzando il muso verso la boscaglia.

- E’ il tuo padrone?

Domandai, alzandomi a mia volta. Avevo i crampi alle gambe, e per di più, ero affamata. Fino a quel momento non ci avevo fatto caso, ma una volta rilassatami, mi ricordai di non aver mangiato a lungo. Lughoir si voltò nuovamente verso di me, poi tornò a sedersi. Falso allarme. Mi sedetti nuovamente anch’io, cercando di non addormentarmi. Tuttavia, quando rividi Adam, la luminosità del cielo indicava che era mattina. Alla fine mi ero addormentata. Mi tirai su, dopo esser stata accoccolata nel manto piumato di Lughoir.

- Ben svegliata.

Mi salutò Adam.

Sbattei le palpebre. Avevo un leggero mal di testa, ma quanto meno la stanchezza era andata via.

- Grazie…

Mormorai.

- E’ giorno…

Osservai, guardando il cielo. Adam annuì, poi prese un paio di mele, allungandomele.

- Mh?

- Immagino tu abbia fame.

Le guardai. Erano scure, più piccole di quelle che ero abituata a mangiare. Mi ricordai la fiaba di Biancaneve. Quand’ero piccola, per il mio quinto compleanno, la mamma mi regalò un libro di fiabe. Amavo osservare i disegni, ma più di tutto, amavo ascoltarla mentre me le leggeva. Ogni volta che si immergeva nella lettura di una storia, sembrava quasi di assisterne alla proiezione come se si fosse al cinema, tanto era realistica. La mamma era davvero incredibile. E la fiaba che più preferivo era La Bella addormentata, che portava il mio stesso nome. Anche se a differenza di lei, il cui sonno era stato lungo e pacifico, ogni volta che mi addormentavo, io rischiavo di fare soltanto tremendi incubi.

- Non sono avvelenate, vero?

Domandai. Credo che le mie parole lo sorpresero, tanto che osservò le mele. Mi chiesi come si vedesse attraverso la maschera, data la poca luce. Poi, ne addentò una, trangugiandola senza problemi.

- E’ buona.

Confermò.

- Sembra che non ne mangi da un po’…

Commentai, prendendo l’altra, nel vedere il modo in cui gustava quel boccone. Rigirai la mia tra le mani, poi la addentai a mia volta. Probabilmente, data la facilità con cui era in grado di uccidere, non avrebbe avuto bisogno di avvelenarmi per togliermi di mezzo. Scacciai quel pensiero, notando invece che la mela era davvero saporita, a dispetto dell’apparenza. Tuttavia, riuscii a mangiarne solo un pezzetto, perché sentii subito una fitta allo stomaco.

- Che succede?

Mi domandò. Lughoir rizzò il collo. Io scossi la testa.

- Niente… è solo che ho lo stomaco chiuso…

Dissi, posando la mano dove sentivo dolore.

- Che vuol dire?

Posai la mela sul mio vestito logoro, abbassando lo sguardo.

- Succede, quando ti accadono cose brutte…

Confessai. Adam addentò un altro boccone.

- E’ molto tempo che non ne mangiavo.

- Eh?

Tornai a guardarlo.

- Ma il sapore è rimasto lo stesso. Il tempo passa, ma certe cose non cambiano.

- Non è sempre così…

- No. Ma almeno è confortante sapere che ci sono cose che rimangono le stesse. Dovresti darle un’altra possibilità.

Sollevai di nuovo la mela, guardando il segno del morso. Ne detti un altro, sentendo la dolcezza in bocca. Lasciai che quel sapore mi si diffondesse dentro. In quel momento, mi fu d’aiuto. Seguirono altri bocconi, fino a che lasciai il torsolo.

- Va meglio, vero?

Mi chiese, quando ebbi finito.

Ci pensai un po’ su, poi annuii.

- Grazie…

- Non ringraziarmi. Va bene così.

Si alzò, lanciando il resto della sua mela a Lughoir, che accettò di buon grado.

- Adam?

- Sì?

Non era più tempo di crogiolarsi. Avevo qualcosa di molto importante da fare.

- Riportami a Wiesen, per favore.

Adam studiò la mia espressione. Speravo di apparirgli più determinata che masochista.

- Hai qualcuno che ti aspetta, lì?

Pensai a Damien e a Leandrus. Chissà se nel sonno avevo parlato di loro. Annuii.

- Allora muoviamoci.

Rispose, afferrando le redini di Lughoir, che scalpitò. Fu così che lasciammo Challant per tornare a Wiesen.

 

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Capitolo 32
*** XIII. 4 parte ***


Buonasera a tutti! >_< Dopo quasi un mese, ecco qui il nuovo capitolo, o meglio, la quarta parte del 13°! E' piuttosto lunga e succedono un bel po' di cose, tra cui l'entrata in scena di Ruben e dei suoi! *_* Ora che ci penso, devo disegnare anche loro... aaaaah, tante idee e poca voglia di realizzarle causa insoddisfazione! ç_ç Comunque, spero che questa parte, che è alquanto avventurosa, vi piaccia! >_< Fatemi sapere che ne pensate!! Ringrazio Taiga-chan che oramai è la mia sola voce di commento e grazie anche a chi ha aggiunto la storia alle seguite! Anzi, se vi va di farvi sentire, ragazzi/ragazze, per favore, fatelo! ç__ç/ E poi son curiosa di sapere che ne pensate dei vari personaggi, se avete critiche/suggerimenti, insomma, qualunque segno di vita! >_< *si sente alquanto scema a farlo notare* 

Ad ogni modo, un grazie ancora a tutti e buona lettura, alla prossima! >_< 

 

 

 

 

Il viaggio fu molto più rapido di quanto mi aspettassi. Lughoir era un grifone possente, molto più di Harundia, e persino di Varon. Spronato al massimo da Adam, volò senza mai fermarsi, fino a quando giungemmo nei pressi di Boer. In cuor mio, non ero certa di quello che avrei fatto una volta arrivata in città, dal momento che immaginavo che Leandrus fosse già andato via. Speravo che quanto meno fosse con Damien. Chi lo sa, magari mi stavano cercando. Mi sarebbe andato più che bene, purchè Damien fosse stato vivo. Quando atterrammo, Adam si assicurò che non ci fossero guardie imperiali in giro. Nascosti nei viottoli secondari della città, non correvamo alcun rischio, ma era increbilmente prudente e scrupoloso. Mi domandai se fosse per deformazione professionale. Qualunque fosse la ragione, tuttavia, mi rendevo conto che Adam era una guardia eccellente, e con lui non avevo motivo di temere. Ero stata fortunata a incontrarlo. Quando tornò, rassicurandomi sulla completa assenza di guarnigioni nemiche, gli raccontai quello che era successo. Tralasciai la parte che riguardava il mio legame con i Trenchard, sebbene fossi consapevole che Livia sapesse di Amber, e con tutta probabilità, molto presto tutto sarebbe venuto a galla. Tuttavia, mi ero ripromessa di non lasciar trapelare nulla, e che avrei protetto Amber fino alla fine. Gli raccontai che ero giunta nell’Underworld per ritrovare mia madre, Celia, e mio fratello Evan, e che con tutta probabilità lui era morto prima ancora di giungere in quel mondo. Raccontarlo ogni volta faceva sanguinare la ferita che avevo nel cuore e che mai si sarebbe rimarginata, ma per qualche insana ragione, ne avevo bisogno, perché era l’unico modo che avessi per convincermene, sapendo che mai avrei rivisto il suo volto. Gli dissi che ero stata accompagnata da Damien Warren, che cercava il suo fratellino Jamie, e che eravamo giunti insieme fino a Wiesen, seguendo le tracce, che ci avevano condotti dritti nella trappola ordita da Livia Devereaux. Così, dopo che ci eravamo infiltrati nella residenza, avevamo scoperto l’inganno, e mentre Damien era rimasto indietro, io avevo raccolto l’ennesima provocazione di quella ragazzina, finendo per precipitare nel vuoto, fino a che Adam mi aveva salvata. Lui ascoltò la storia con attenzione, e sebbene non potessi vedere la sua espressione, il modo in cui arricciò le labbra mentre gli raccontavo della mia famiglia e di Damien, mi fece intendere che l’aveva scosso. Ero sicura che sotto quella maschera si nascondesse una persona buona, che aveva sofferto, ed era capace di provare compassione per chi gli stava intorno. Mi lasciò raccontare ogni cosa, pazientemente.

- Warren… è forse un Warrenheim?

Mi domandò, alla fine.

- Sì. E’ il figlio di Lionhart Warrenheim.

Spiegai. Adam strinse il pugno. Un’altra conoscenza del professore.

- Forse sarebbe meglio se evitassi di cercarlo.

Disse, con voce ferma. Quelle parole così inaspettate mi indispettirono.

- No. Lui non ha niente a che fare con il padre. Damien è… beh, ecco… lui è un ragazzo dispotico, arrogante e presuntuoso, la maggior parte delle volte, ma è anche… ecco…

Certo, non stavo affatto parlando bene di lui, cosa che non mi aiutava, ma quando pensavo a Damien, provavo tante di quelle sensazioni che non riuscivo a essere univoca. Mi resi conto di essere arrossita quando portai le mani alle guance, sentendole bollenti.

- Lui è anche una persona gentile e determinata… e vuole molto bene al suo fratellino. Noi siamo arrivati insieme qui, e io voglio ritrovarlo… a qualunque costo.

Adam sembrava perplesso, e piuttosto stupito, a tratti contrariato. Immaginavo che la sua reazione dipendesse dal fatto che si trattava pur sempre di un Warrenheim.

- Se non vuoi aiutarmi, lo capisco. Va bene così, non ti costringerò. Ho già approfittato fin troppo, e ti sono debitrice… io…

- Non è questo.

- Eh?

- Un Warrenheim… chi l’avrebbe mai detto.

Bisbigliò tra sé e sé, così tanto che ebbi qualche difficoltà a intendere quel commento, sulle prime.

- Damien Warren. E’ questo il suo nome.

- Damien Warren.

Mi fece eco.

- Chi va là?

Una voce in lontananza, maschile, proveniente dalla strada più vicina, quella che costeggiava uno dei canali che confluivano nel fiume Boer, risuonò nel vicolo. Adam mi passò davanti, nascondendomi alla vista col suo stesso mantello.

- Rimani in silenzio.

Mi intimò.

Seguito da un manipolo di compagni, un uomo, quello che aveva parlato, si fece strada, rischiarando l’oscurità con delle fiaccole.

- Una guardia imperiale?

Disse qualcuno.

- Pensavo foste già tornati ad Adamantio.

Aggiunse perplesso qualcun altro.

- Non tutti.

Disse semplicemente Adam.

Riflettei per qualche istante sul fatto che il nome di Adam era incredibilmente simile al nome del cuore dell’Impero, Adamantio. Chissà se era da lì che proveniva.

- Chiediamo scusa per il disturbo, Milord.

- Aspettate.

Adam li fermò prima che potessero andar via. Il suo tono era secco ed essenziale. Il tono di chi era abituato a dare ordini. Qualcuno come Damien… o come Liger. Guardai il mio braccialetto, ripensando a mio fratello. Il mio Evan. Sentii i passi interrompersi.

- La mia squadra era sulle tracce del Cavaliere Nero, la sera della festa. Sfortunatamente, non c’è stato modo di trovarlo. Cos’è accaduto qui?

Sentii dei brusii, accompagnati da voci perplesse e preoccupate. Poi, la persona che aveva parlato per prima riprese la parola.

- Non lo sapete? Lady Livia è stata salvata dal comandante Liger, durante uno scontro contro il Cavaliere Nero. E’ stato piuttosto astuto, soprattutto se è stato in grado di far perdere le proprie tracce persino con voi, ma certo è che il massacro che ha compiuto non resterà impunito.

Sgranai gli occhi, poggiando la testa contro la schiena di Adam, che rimase impassibile. Aveva un grande autocontrollo, tutto ciò che mi serviva in quel momento. Il Cavaliere Nero… accusato di aver compiuto un massacro. Un massacro perpetrato dalla stessa Livia Devereaux. Ma chi era il Cavaliere Nero? Perché Adam sembrava conoscerlo?

- Dunque la piccola Lady del lapislazzuli è salva.

I presenti assentirono.

- C’è altro?

- Ora che ci penso… alla festa era intervenuta anche Lady Amelia Dobrée, ma la sua partecipazione è stata tenuta segreta e si è scoperto soltanto in seguito all’annuncio ufficiale. A quanto ne so, quella ragazza adora certi giochetti, non è la prima volta che lo fa.

Amelia Dobrée. Ricordavo che la famiglia Dobrée reggeva Dourand assieme alla famiglia Ealing. Mi sovvennero gli occhi verdi della ragazza che alla festa mi aveva avvicinata insieme a un uomo baffuto e a un’altra donna. Possibile che fosse lei? Una persona dall’indole più maliziosa di Rose Cartwright… deglutii rabbrividendo al pensiero.

- Lo stato del palazzo? Vi è ancora qualcuno?

- Che io sappia è del tutto vuoto, adesso.

Il palazzo era del tutto vuoto. Dunque, non avrei trovato Damien lì… ero angosciata e in pena come non mai.

- Come mai vi interessa, Milord?

Domandò d’improvviso un’altra voce, ancora non udita, più giovane, quella di un ragazzo.

- Puro interesse artistico. Sarebbe stato un gran peccato se una delle residenze più antiche avesse riportato danni.

- Mpf. Sembra che anche il vostro sigillo sia antico.

Sobbalzai, ma cercai di non muovermi.

- Oh, questo.

Disse Adam, sollevando il braccio. Un mormorio generale si sollevò a sua volta.

- Quello è…

- P-Possibile?

- Il… il Cavaliere Nero?!

Non appena sentii quelle parole, mi mancò il fiato. Adam estrasse rapidamente la sua spada, mentre i malcapitati emisero un verso di stupore. Mi voltai appena in tempo per vederlo lanciarsi contro il gruppo, i cui membri avevano sguainato le spade a loro volta. Si trattava di cinque persone, compreso il ragazzo che lo aveva riconosciuto. Il Cavaliere Nero… con un’agilità di tutto rispetto, Adam puntò la spada verso di loro, pronto a farli fuori. Tuttavia, quegli uomini erano pronti a ingaggiare battaglia. Colui che mi aveva salvata… no, non avrei potuto permettergli di sporcarsi le mani. Non così. Un altro innocente a cui era stata data una colpa non commessa. Fu così che prima che potesse portare a termine la sua azione, urlai.

- Non farlo!!

La mia voce risuonò ferma e decisa, e Adam, come anche i suoi nemici, si bloccò di colpo, e le punte delle spade brillarono a mezz’aria, illuminate dalle lanterne. Gli uomini mi guardarono. Sorprendentemente, il ragazzo si fece avanti, sorridendo. Lo guardai esterrefatta. Alto e snello, con i capelli di un rosso scuro, a spina, gli occhi color lavanda, e tre orecchini al lobo sinistro e cinque sull’elice destro, quel ragazzo era la versione maschile di Rose Cartwright.

- R-Ruben Cartwright?

Mormorai, incredula.

- Aurore Kensington, la ragazza che porta l’ametista, ne deduco.

Mi rispose, cortese. Sollevò una mano, così che il resto del gruppo si mise in disparte, poi sostenne lo sguardo di Adam, che abbassò la spada.

- Vi prego di non spargere sangue, Cavaliere Nero. Sono qui in incognito, a quanto pare come voi. Sappiate che non ho intenzioni ostili.

- Lo vedo, Milord.

Rispose Adam.

Mi avvicinai prudentemente, posando la mano sul braccio di Adam.

- Lord Cartwright?

Ruben mi guardò. Diversamente dalla sorella, la cui espressione era maliziosa per natura, sembrava molto più spontaneo.

- Chiamami soltanto Ruben. Ti ho cercata a lungo, Aurore.

- Mi… mi avete cercata?

Domandai, incerta.

- Aurore.

La voce di Adam. Gli rivolsi uno sguardo severo, consapevole che prima o poi, gli avrei chiesto cosa significava quell’appellativo, di cui non mi aveva fatto parola.

Ruben ci osservò, poi si grattò il mento, stupito.

- Chi l’avrebbe detto che eri proprio con la persona che di recente sta mettendo i bastoni tra le ruote alla guardia imperiale?

- Davvero?

Guardai Adam, che ripose la spada nel fodero. A quel gesto, le persone che accompagnavano Ruben fecero lo stesso. Del canto suo, lui non replicò.

- Ad ogni modo, sembra che qui non ci sia più nulla.

Sospirai frustrata alle parole di Adam. Ruben comprese il mio stato d’animo, poi mi guardò.

- Cerchi ancora tua madre?

Alzai lo sguardo fino a incontrare il suo.

- Certo. Ma cerco anche i miei compagni…

Ruben ricambiò il mio sguardo, poi annuì.

- Allora credo di poterti aiutare.

Disse, cortesemente.

- Gente, si torna a casa!

Annunciò poi, prima di rivolgersi a me e ad Adam.

- Cavaliere Nero, volevo essere sicuro che si trattasse proprio di voi. Sappiate che qualunque azione volta a fermare quel dannato essere è ben accetta. Dunque, siamo dalla stessa parte. Vi andrebbe di unirvi a noi?

Chiese, tendendogli la mano.

Era la prima volta che sentivo qualcuno esporsi con tanta facilità. Eppure Ruben non sembrava affatto un tipo superficiale. Guardai la sua mano, poi Adam. Non ricambiò la stretta, non so se più per diffidenza che per prudenza.

- La sola cosa che mi va ora è di portare questa ragazza in un luogo sicuro, al riparo dalla Croix du Lac.

- Allora venite pure con noi. Camryn è il luogo più sicuro, al momento.

Replicò, deciso. Non so se fu il tono a convincerlo, o il suo portamento sicuro, ma Adam mi riprese con sé, e una volta in groppa a Lughoir, ci alzammo in volo. Ruben e i suoi fecero lo stesso.

Mentre lasciavamo Boer, mi ritrovai a pensare a Livia, che era stata tratta in salvo da Liger. Tuttavia, mi chiedevo per quale motivo non mi avesse denunciata. Perché la colpa di tutto era stata fatta ricadere su Adam, il Cavaliere Nero? Lo guardai, mentre procedeva impartendo ordini al suo Lughoir. Il vento contrario gli tirava indietro i capelli, lasciando fluttuare la lunga treccia. Quell’uomo era un vero mistero. Mi chiesi persino come mai mi avesse portata proprio nella residenza dei Valdes. Ma supposi che il motivo fosse l’abbandono di quel luogo e il suo totale isolamento, l’ideale per chi doveva nascondersi. Per di più, aveva conosciuto mio padre, dunque c’era la possibilità che conoscesse quel luogo già da diverso tempo. Non abbassò mai il volto verso di me, mentre al contrario, Ruben, in groppa a un grifone maculato, ci volò vicino, rivolgendosi a me.

- Aurore? Posso chiamarti così, vero?

Lo guardai. Era affascinante, con quegli occhi di un colore quasi simile al mio. Annuii.

- Avete detto che potete aiutarmi. I miei compagni… loro stanno bene?

Domandai, alzando la voce per farmi sentire.

- Credo che potrai stabilirlo tu stessa una volta arrivati.

- Il fatto che non mi rispondiate mi lascia perplessa… per favore, Ruben, sono davvero preoccupata!

Sorrise, posando una mano sul cuore e rivolgendomi un inchino con la testa.

- Sta’ tranquilla. Stanno bene.

- Grazie…

Mormorai, sollevata. Damien

Due degli uomini che accompagnavano Ruben ci raggiunsero. Erano piuttosto giovani, vicini alla trentina e ci osservavano curiosi. Ricambiai lo sguardo, sorridendo. Dovevo ammetterlo, mi sentivo molto più sicura al pensiero di essere in gruppo.

- Lieta di conoscervi!

 Esclamai.

I due si guardarono, poi mi rivolsero un inchino con la testa, allo stesso modo di Ruben. I grifoni oscillarono, sfiorando le ali di Lughoir, che mugugnò.

- Oh!

Lo riprese Adam.

- Scusate!

Disse uno dei due, ridendo, così come Ruben. Le loro risate mi strapparono un altro sorriso.

- Mi chiamo Einer, e questo è Eyde. Dietro di noi, ci sono Zarvos e Gourias.

Continuò. Aveva lunghi capelli color cioccolato e occhi neri. Eyde, al contario, era biondo e i suoi occhi erano verde scuro. Mi voltai verso Zarvos e Gourias, scorgendoli appena a causa del mantello fluttuante di Adam. Mi fecero un cenno, inchiandosi a loro volta. Erano sicuramente fratelli, con gli stessi capelli color rame.

- Io sono Aurore, ma conoscete già il mio nome!

Dissi, chinando appena il capo, cercando di imitare il loro inchino.

- Siete bella come vi descrivono. E’ un piacere conoscervi.

Disse Eyde.

Adam si voltò verso di lui.

- Calma i bollenti spiriti. Non è il momento di porgere avances a una giovane Lady.

Lo rimproverò, seccamente.

Eyde lo guardò di sottecchi, mentre io mi voltai verso di lui.

- Non ha detto niente di imbarazzante…

Dissi, imbronciandomi. Non mi capitava spesso di ricevere complimenti del genere, e la mia parte più femminile ne era felice, sarei stata disonesta a non ammetterlo.

Ruben ridacchiò.

- Sembra proprio che il Cavaliere Nero sia insolitamente protettivo verso di te. Posso chiedere come mai?

Mi voltai nuovamente a guardare Ruben, poi cercai la risposta guardando Adam. E al diavolo la maschera, avrei tanto voluto vedere la sua espressione. Oramai avevamo lasciato Boer da un po’ ed eravamo diretti a tutta velocità verso Camryn. Stavamo sorvolando i boschi di Wiesen, accompagnati dal rumore dei battiti d’ali e dal sottofondo dei corsi d’acqua.

- Siamo seguiti.

Disse.

- Eh?!

Esclamai, voltandomi istintivamente all’indietro. Zarvos e Gourias erano voltati. Bloccarono il volo dei loro grifoni nello stesso istante in cui Ruben dette ordine di fermarci.

- I messi?!

- No. Non sono loro.

Continuò Adam.

- E allora chi… ?

- Liger.

Disse, indicando in lontananza il brillio di una figura bianca.

- Liger?!

Feci eco io. Spaventata, strinsi il suo soprabito nero, ma non riuscii a definire i contorni della figura, troppo era lontana. Per loro, invece, abituati del tutto a quell’oscurità,  avere la vista da falco era praticamente naturale.

- Che diavolo ci farà qui? Il suo posto è ad Adamantio!

Contestò Eyde.

- Evidentemente non ci è ancora tornato.

Osservò Ruben, tirando le briglie del suo grifone.

- Cavaliere nero, ve la sentite di portare Aurore a Camryn?

Lo guardai, preoccupata. Ruben aveva un tono piuttosto agitato. Mentre i grifoni si agitavano a loro volta, la figura diventava sempre più nitida. Non avevamo tempo.

- Ad-- 

Adam mi zittì.

- No. Sarai tu a farlo.

Disse. Io sgranai gli occhi.

- No!

Esclamai.

- Dobbiamo andarci insieme! Non voglio separarmi da te, no!

Dissi, sentendomi improvvisamente persa. Non che non mi fidassi di Ruben, ma il pensiero di Adam che combatteva contro Liger… no, non volevo lasciarlo.

- Invece lo farai.

Mi disse, con un tono serio che non ammetteva repliche.

- Non voglio!

Protestai, stringendo più forte il suo soprabito.

- Arriva!

Urlò uno dei due fratelli, non so se Zarvos o Gourias.

- Ruben!

La voce di Eyde.

- Vai!

Ordinò seccamente, scostandomi con forza e spingendomi verso Ruben, che mi prese tra le braccia. Istintivamente, tesi le braccia verso Adam, che spronò Lughoir, costringendolo a voltarsi.

- Proteggi questa ragazza a costo della tua stessa vita, Cartwright, o la tua testa sarà la prossima a cadere!

Minacciò. Ruben mi strinse con forza annuendo e io mi morsi le labbra, fino a sentire il sapore del sangue in bocca.

- Nei boschi, continuate da lì. Ci vorrà più tempo, ma è sempre meglio che per aria.

Consigliò, per poi lanciarsi a folle velocità verso Liger, il cui grifone bianco era ormai a portata di tiro.

- Andiamo!

Ordinò Ruben, urlando.

Scendemmo con tale velocità che sentii tutto il vuoto d’aria che ne seguì, mentre sia Liger che Adam scomparvero alla mia vista. Avrei voluto raggiungerlo, Dio solo sa quanto, per impedire che si battesse con quel cavaliere così pericoloso, ma il grifone di Ruben procedeva spedito attraverso la fitta boscaglia. Vidi fiumiciattoli e cascate che intervallavano cespugli e alberi frondosi. Vidi l’oscurità più tetra, l’unica in grado di celarci perfettamente e sentii più di una volta i mormorii preoccupati dei miei compagni di viaggio. Liger non era uno con cui scherzare. Anche Ruben era agitato. Lo potevo vedere nell’espressione turbata del volto. Sebbene il contendente fosse il Cavaliere Nero, colui che a suo dire stava mettendo i bastoni tra le ruote alla guardia imperiale, probabilmente anche lui si chiedeva se Liger non fosse un avversario troppo potente. Deglutii più volte, ritrovandomi a pregare che andasse tutto bene. Spesso, rivolsi gli occhi in alto, sperando di vederlo arrivare, anche quando il panorama cambiò. Volammo così a lungo, nel silenzio infranto dalle voci di Ruben e dei suoi che parlavano di Adam e di Liger e che stabilivano strategie e piani B. Volammo fino a quando la nostra folle corsa fu interrotta da un manipolo di guardie imperiali, probabilmente al servizio dello stesso Liger.

- Accidenti!

Sbottò Einer, tirando le briglie del grifone fulvo, che scalpitò. Anche Ruben e gli altri fecero lo stesso. Davanti a noi si ergevano minacciose quelle figure. Non ci eravamo accorti di niente fino a quel momento, ma evidentemente, quelle guardie ci stavano seguendo già da un po’. Ricordai le parole di Leandrus. Dopotutto, erano un corpo scelto e non avrei dovuto stupirmi.

- Lord Ruben Cartwright!

Esclamò all’improvviso la guardia al centro della formazione, composta da sei individui.

Ruben non indietreggiò, ma al contrario, si mantenne fieramente ritto. Io strinsi il mio ciondolo, che prese a luccicare. Pulsava con forza, a ritmo del mio cuore.

- State pronti.

Mormorò ai suoi.

Einer e gli altri si chiusero in difesa attorno al loro signore, sguainando le spade.

- A quanto pare intendete combattere.

Commentò la stessa guardia. Dalla voce, avrei detto che fosse un uomo di mezz’età. Sperai con tutto il cuore che non fosse il professor Warren.

- Dal momento che la situazione lo richiede, sì.

- Consegnate la ragazza, Milord, ed eviteremo spiacevoli conseguenze.

Sobbalzai. Alla fine, il momento era arrivato. Per quanto fossi stata fortunata e l’avessi evitato, era ora di fronteggiare le guardie imperiali, che sapevano fin troppo bene chi fossi e cosa portassi addosso. Guardai Ruben e gli altri, pensando a Rose, ad Amber e a tutti i miei amici. Sapevo quanto i nostri avversari fossero pericolosi e non volevo che Rose provasse il dolore di perdere un fratello. Guardai il braccialetto di Evan, invocando il suo coraggio, poi presi la parola prima che Ruben potesse rispondere.

- Mi promettete che non sarà fatto loro del male?!

Ruben e gli altri mi guardarono stupiti.

- Aurore?!

La guardia si mise a ridere.

- Non avete l’autorità per avanzare richieste, Milady.

- Forse Aurore Kensington non ce l’ha… ma ve lo ordino in quanto Lady dell’ametista. Se volete che venga con voi, comando che non sia torto un solo capello a queste persone.

La guardia smise di ridere. D’improvviso regnò il silenzio.

- Reclamare il possesso della gemma equivale a…

Commentò poi sottovoce Eyde, senza continuare. Stavo tremando, ma dentro di me, si fece strada il ricordo di mio padre. Un uomo che era stato condannato ingiustamente, ma che amava profondamente il suo popolo e la sua famiglia. Un uomo animato dal senso di giustizia, che non si sarebbe certo fermato di fronte al pericolo.

-  Vi state forse ergendo a capofamiglia?

Chiese la guardia. Io deglutii.

- Io sono Aurore V-- 

- Basta adesso!

Tagliò corto Ruben.

- Qui non c’è nessun capofamiglia escluso il sottoscritto. Dunque, con l’autorità che il mio titolo mi garantisce, ordino a voi, membri della guardia imperiale, di recedere e di lasciarci passare. Sono Ruben Cartwright, Lord del rubino, e vi comando di farvi da parte, altrimenti non esiterò a incrociare la mia spada con la vostra.

Urlò, con un tono incredibilmente controllato e autoritario. Cominciavo a capire cosa significasse essere un capofamiglia e soprattutto, cosa volesse dire competere per la carica di Despota. Poteva esserlo soltanto chi era in grado di farsi valere e rispettare.

- Sfortunatamente, Milord, non posso accontentare la vostra richiesta.

Fece cenno col capo ai suoi compagni, che si lanciarono all’attacco. Sgranai gli occhi interdetta, mentre Ruben prese in mano la situazione, ordinando il contrattacco.

- Sai come cavalcare un grifone, vero?

Mi chiese, tirando le briglie con una mano e sguainando la spada con l’altra. Nel frattempo, Einer e gli altri avevano ingaggiato battaglia. Le urla violente si sommavano ai fendenti. Acciaio contro acciaio, uomini contro uomini. Gli scontri si svolgevano sia a terra che per aria, e il grifone di Ruben sembrava in fibrillazione. Lo guardai sconvolta, poi annuii. In realtà non ero per niente sicura di come comportarmi, ma dovevo assolutamente fare qualcosa per aiutarli. Presi le briglie del grifone, mentre Ruben puntò la spada verso la guardia che ci aveva parlato.

- Siete voi il mio avversario, allora. Sarà un gran piacere togliervi di mezzo, Cartwright.

- Spiacente, non sono affatto pronto a lasciare questo mondo. Valls!

Urlò e il grifone si lanciò all’attacco. Subii il contraccolpo, urlando a mia volta, ma cercai di tenere ferme le briglie quanto più possibile.

- Valls, non farci cadere!

Gli ordinai.

Davanti ai miei occhi, o forse, per meglio dire, direttamente vicino a me, Ruben e la guardia si sfidarono. Dovevo stare attenta a mantenere l’equilibrio del grifone, che sembrava piuttosto irrequieto e al tempo stesso, dovevo evitare di diventare io stessa la debolezza di Ruben. Dal modo in cui si ergeva, mi ero resa conto che cercava di proteggermi quanto più possibile. I fendenti vibrati dalla guardia imperiale erano precisi e potenti, tanto che in più di un’occasione, Ruben finì con l’essere ferito, seppur di striscio. Vedere il sangue scorrere mi provocò più volte delle fitte al cuore. Quante persone ancora avrebbero dovuto soffrire? Quanto sangue ancora avrebbe dovuto essere versato?

- Ne arriva un altro!

Esclamai, nel vedere un’altra guardia arrivarci addosso da dietro. Tirai le briglie di Valls, costringendolo a scostarsi di botto. Quell’azione ci sbilanciò, disarcionando Ruben, che finì a terra malamente. Gourias, il solo fino a quel momento ad aver sconfitto una guardia, ci raggiunse, scatenandosi contro il nemico che ci aveva colto alle spalle.

- Ruben!

Urlai, saltando giù. Fu un gesto imprudente e sconsiderato, ma ero troppo preoccupata che si fosse fatto male. Ruben gridò il mio nome, quando mi sentii afferrare senza troppa grazia per il vestito logoro.

- Ugh!

Imprecai, riconoscendo il rivale.

- Presa!

Rise.

- Niente affatto!

Gli risposi, anche mentre le ali del suo grifone nero sbattevano possenti sollevando un turbine d’aria e sollevandoci da terra. Mi divincolai e quando mi resi conto che la presa era troppo ferrea, mi voltai con tutta la forza che avevo in corpo e compii l’azione più folle che avessi potuto fare in quel momento: affondai i denti nel braccio della guardia.

Ruben nel frattempo si era rialzato e quando la guardia sbraitò, sollevando la spada che aveva in mano, pronta a colpirmi, spiccò un salto e con un’abile quanto inattesa mossa, vibrò un fendente profondo ed efficace, che tranciò di netto l’avambraccio armato della guardia, la quale mollò subito la presa su di me, lasciandomi cadere addosso a Ruben, che mi resse.

- Però, davvero temeraria.

Mi disse, stupito.

- Riparliamone dopo…

Gli risposi.

- Ruben!

Le voci dei ragazzi si susseguivano l’una l’altra, così il giovane Lord li tranquillizzò. Al contrario, la guardia a cui aveva appena tranciato metà braccio, non sembrava affatto tranquilla. Col braccio che avevo morso, si reggeva il moncone insanguinato.

- Lord Cartwright… voi…

Sputò quel nome tra i denti stretti.

- Spero che vi siate reso conto di quanto sia folle mettersi contro di noi. Guardate. I vostri compagni sono stati sconfitti. Vi offro la resa.

- Non ci sarà alcuna resa fino a che quella ragazza non sarà al cospetto della Croix du Lac.

Smontò dalla groppa, malfermo.

- Vi prego, basta!

Gli dissi, in risposta.

- Non vi reggete nemmeno, come pensate di averla vinta in queste condizioni?!

Corsi a sostenerlo, nonostante Ruben avesse cercato di fermarmi. Anche se non potevo vederne il volto, l’esitazione del suo corpo non appena lo strinsi per aiutarlo, mi fece intendere che il mio gesto l’aveva sconvolto.

- Cosa… state facendo?

- Potete anche catturarmi, non scapperò. Ma al vostro stato attuale, non sopravvivrete oltre se proverete a fuggire. Lasciate che vi aiuti. Ruben?

Ruben mi guardava incredulo. Sapevo che il mio comportamento aveva dell’assurdo per lui, e probabilmente, anche per gli altri, che ci raggiunsero non appena ebbero finito di sistemare la questione con le altre guardie. Non l’avevano passata liscia, comunque, dal momento che erano feriti a loro volta. Tuttavia, avevano vinto contro la guardia imperiale e questo dato di fatto era ineluttabile. Ruben si grattò il collo, perplesso, poi sospirò.

- Sei davvero come mi sei stata descritta, Aurore.

Mi disse. Di chiunque stesse parlando, immaginavo che l’aggettivo in questione fosse “pazza”.

- Aiutatemi, per favore!

Ruben assentì, poi mi raggiunse, guardando il braccio sanguinante della guardia.

- Però, precisione chirurgica.

Osservò Eyde. La guardia rispose con un insulto non replicabile.

- Prendi dell’acqua.

Rispose Ruben.

- Gourias, aiutami.

Gourias si avvicinò, inizialmente riluttante, poi insieme, aiutammo la guardia a sedersi vicino a un albero. Zarvos ne raccolse la spada, poi si accertò che non avesse altre armi addosso.

- E’ pulito.

- Ma la ferita rischia di non esserlo per molto.

Commentò Ruben.

La guardia intanto, aveva il fiato corto. Il dolore doveva essere insopportabile.

- Aurore, sarà meglio che non guardi.

Mi consigliò Ruben, ma io scossi la testa. Certo, sapevo che non mi aspettava un bello spettacolo, ma non volevo che affrontassero tutto da soli.

- Posso?

Domandai alla guardia, avvicinando le mani alla maschera. Si scostò con un gesto di stizza, io esitai.

- S-Scusate…

- Ehi, tu. Non è il caso di fare gli schizzinosi.

Intervenne contrariato Einer, tendendo la mano a sua volta.

- No!

Lo bloccai. Per una guardia imperiale, la maschera era importante. Non potevamo forzarlo a toglierla, se non voleva. Per quanto avessi voluto vedere il volto di Adam, avevo capito che sarebbe stata una grave mancanza di tatto da parte mia. E non volevo che quell’uomo, per di più ferito, si trovasse in una situazione ancor più difficile.

- La maschera vi impedisce di respirare… posso almeno sollevarla un po’?

Chiesi. Si voltò verso di me. Quegli occhi, attraverso la patina nera, mi stavano scrutando. Mi sforzai di mantenere un atteggiamento quanto più neutrale possibile. Alla fine, acconsentì. Con delicatezza la sollevai appena, affinchè potesse respirare meglio. Prese un gran respiro, poi si lamentò. Gourias, accanto a noi, prese una lanterna dalla bisaccia, esattamente uguale a quella che aveva Leandrus, e quando avemmo la luce, vedemmo finalmente il terribile risultato dell’azione di Ruben. Sentii un violento conato di vomito risalirmi lungo l’esofago, ma avevo mangiato così poco che non avevo neppure cosa vomitare e l’istinto di voltarmi dall’altro lato era così forte che dovetti aggrapparmi allo stesso Gourias per mantenermi forte. Ruben se ne accorse, ma non disse niente. Poi, quando anche Eyde fu tornato con l’acqua, esaminò il moncone. Il fendente aveva reciso perfettamente metà braccio, troncando l’arteria. Come potesse essere ancora vivo quell’uomo, questo non lo sapevo. Forse gli abitanti dell’Underworld erano più resistenti, o magari lo erano le guardie imperiali, che erano sicuramente state addestrate severamente. Non appena il braccio gli fu liberato dalla presa, il sangue prese a scorrere più copiosamente. Le energie defluivano così come quel fiotto rosso. Mi avvicinai alla guardia, prendendogli la mano ancora sana, quella che mi aveva afferrato. Gemeva e respirava sempre pù affannosamente. Ruben ordinò che la ferita fosse lavata, e fu lo stesso Eyde a occuparsene. Poi, nonostante nessuno di noi, a quanto avessi capito, possedesse conoscenze mediche, si optò per bloccare l’emorragia tramite cauterizzazione e fasciando il moncone. Einer e Zarvos tennero fermo quell’uomo, che urlò come un ossesso quando Ruben gli cauterizzò i tessuti con il suo stesso pugnale, arroventato sul momento con una sorta di accendino (era la prima volta che vedevo un oggetto del genere, poi Ruben mi spiegò che si trattava di un vecchio cimelio appartenuto al suo bisnonno, che portava sempre con sé). Il dolore fu così forte che le sue dita si chiusero ad artiglio intorno alla mia mano, e mi fece un male cane. Tuttavia, non mollai la presa. Era davvero surreale il fatto che stessimo curando, o se vogliamo dirla tutta, provando a ricucire, una ferita a qualcuno che poco prima ci aveva attaccati senza remore e che era disposto a tutto pur di assolvere il suo compito. Eppure, se avessi lasciato che Ruben e gli altri lo uccidessero, scegliendo la soluzione più sicura per me, non avrei più potuto vivere serenamente. Non era soltanto perché si parlava della vita di un uomo, ma anche perché quell’uomo eseguiva degli ordini, e non agiva per sua volontà, o almeno, non strettamente. Non sapevo niente di lui, nemmeno il suo nome, ma immaginavo che da qualche parte, aveva una famiglia che lo aspettava. Magari una moglie, dei figli, che non l’avrebbero mai più rivisto, se fosse morto. Proprio come mio padre. Aveva eseguito degli ordini. Suo fratello, il Despota, l’aveva costretto a uccidere i Delacroix sopravvissuti, dando origine a una catena di eventi che erano culminati nel ritorno della Croix du Lac e nella caduta di quel mondo nell’oscurità. Dopotutto, chi era davvero colpevole?

- Ugh!

La guardia imperiale tossì, sputando sangue, mentre Ruben e Einer finivano di medicarlo. Con un po’ di fortuna, quella rudimentale medicazione gli avrebbe consentito di vivere.

- Abbiate pazienza… vedrete che presto starete meglio…

Gli dissi, addolcendo il tono quanto più possibile.

- V-Voi… perché?

Mi domandò, continuando a stringere la mia mano.

Già, perché? Una domanda così semplice, ma al tempo stesso, così spaventosa. Quante volte avevo chiesto a mia madre il perché dei nostri spostamenti? Quante volte avevo chiesto a Evan perché non avevamo vicino un papà, come per tutti i bambini? Quanti perché senza risposta…

- Perché non voglio che un altro figlio pianga la morte di suo padre…

I ragazzi mi guardarono sconvolti. La morsa sulla mia mano si allentò lentamente, poi, sotto i nostri occhi increduli, l’uomo si tolse la maschera. Aveva un viso stanco e stravolto, e piccole rughe gli incorniciavano lo sguardo annebbiato.

- A-Acqua…

Biascicò.

Eyde lo aiutò a bere, poco per volta. Poi, quando ebbe finito, tornò a guardarmi.

- Voi non vi ricordate di me, non è così?

Scossi la testa, dubbiosa. Non c’era modo che mi ricordassi di qualcuno che non avevo mai visto.

- Lo immaginavo…

Rispose, poi riprese fiato, stringendo col braccio sano il braccio appena medicato.

- Non possiamo restare qui. Dobbiamo muoverci.

Ci ricordò Einer.

- Sì, ma adesso cosa ne facciamo di lui?

Incalzò Zarvos.

- Una volta tolta la maschera, una guardia…

- M-Mi chiamo Micheu Joel.

Disse, parlando a stenti, ma richiamando la nostra attenzione.

- Vi ho vista, insieme a vostra madre, poco prima che fosse condotta nell’Underworld. Io… io partecipavo a quella spedizione…

- C-Cosa?!

I ragazzi esclamarono in risposta.

Feci mente locale e ricordai che quel giorno, la mamma e io incontrammo delle guardie imperiali, proprio mentre avevamo lasciato la scuola e progettavamo di darci a una pazza mattinata di shopping. Allora, mi ero stupita del pallore dei loro volti, ma quegli uomini mi sembravano assolutamente identici gli uni agli altri.

- C-Credo di ricordare…

Dissi, incredula.

- Allora… mia madre vi aveva ordinato di rispondere al “vostro signore” di presentarsi di persona…

Micheu annuì.

- Tuttavia, il nostro signore, il Despota Ademar, era morto. Ma vostra madre non poteva saperlo.

Poi seguì un altro lamento. Ruben mi guardò, scuotendo la testa pensieroso. Ricambiai lo sguardo, ricordando il tono con cui mia madre aveva parlato quella volta. Freddo e autoritario. Degno del rango che di recente avevo scoperto avesse. Poi, tornai a guardare Micheu.

- Perchè solo ora? Per quale motivo non mi avete catturata prima?

Micheu si tirò un po’ su, mentre gli altri erano in tensione. Evidentemente, non si fidavano di lui. E dopotutto, come avrebbero potuto, dal momento che era intenzionato a vincere ad ogni costo? Eppure, in quello stato non avrebbe potuto far nulla, neanche se avesse voluto. E per di più, quegli stessi uomini l’avevano aiutato a non morire.

- Perché lei l’ha chiesto esplicitamente.

- Lei?

Mi tornarono in mente le parole di Livia. Sei importante per lei, aveva sbraitato, come se ne fosse infastidita e gelosa. Ma non capivo a chi si riferisse.

- Intendete la Croix du Lac?

Gli domandai. Einer e gli altri erano perplessi. Micheu scosse la testa.

- Non so nulla della Croix du Lac. Eseguo semplicemente gli ordini. Vostra madre, è stata lei stessa a chiedere che non vi fosse fatto del male.

- Mia madre? E… e come sta?!

Gli chiesi, col cuore in gola. Finalmente, qualcuno che aveva notizie di mia madre.

- Lei… lei ha…

Non fece in tempo a rispondere che fu colto da violenti spasmi dovuti alla tosse.

- Micheu!

Lo chiamai, cercando sostegno nei ragazzi.

- Aurore. Sarà meglio che non si stanchi oltre.

Disse Ruben.

- S-Sì…

Risposi, tornando a guardarlo. Poi gli accarezzai delicatamente il braccio monco.

- M-Mi dispiace, Micheu… mi dispiace tanto…

Bisbigliai, tremando.

Zarvos si avvicinò a Ruben, bisbigliandogli qualcosa all’orecchio e indicando i grifoni agitati, poi Ruben mi posò la mano sulla spalla.

- Dobbiamo andare via. Stanno arrivando dei rinforzi.

- M-Ma…

- Andate.

Disse debolmente Micheu.

- Non possiamo lasciarlo qui! Morirà!

- In realtà la frase corretta è “Non possiamo lasciarlo qui! Quando lo troveranno, se vivrà abbastanza, spiffererà tutto e saremo tutti nei guai!”.

Subentrò Eyde, incrociando le braccia.

- Non dire assurdità!

Protestai.

Micheu rise. Fu un risolino stanco e stentato, ma ciononostante ci costrinse a voltarci verso di lui.

- Che hai da ridere?

Domandò seccamente Gourias.

- Ad Adamantio… chiedete di Andres Oliphant e dite che Micheu gli manda questo.

Con difficoltà, riuscì a tirar fuori dal soprabito una catenina con un ciondolo. Avrei detto che si fosse trattato di una sorta di lastra identificativa. Sopra c’era un sigillo, sicuramente di Wiesen, considerando la goccia incisa sopra.

- Venite da Wiesen, dunque…

- Ero al servizio della famiglia Oliphant, un tempo…

Presi la catenina dalla sua mano, stringendola.

- G-Grazie…

- E… e sappiate che vostra madre vi ama, più di chiunque altro…

Annuii, ricacciando indietro le lacrime che premevano per uscire. Poi si rivolse a Ruben.

- Proseguite verso est. Quando arriveranno, seguiranno certamente questa rotta. Andando verso est, non vi raggiungeranno. Siate veloci.

Ruben annuì, zittendo i compagni pronti a protestare, poi mi prese con sé.

- Muoviamoci.

- Ruben…

- Muoviamoci, ho detto.

Concluse, con un tono di voce molto simile a quello di Adam.

Guardai Micheu Joel, che chinò il capo in segno di saluto, per l’ultima volta, prima di salire in groppa a Valls insieme a Ruben. Anche gli altri fecero lo stesso, per poi ripartire, lasciandoci alle spalle quell’uomo che nonostante tutto, ci aveva affidato il suo sigillo, segno forse, di una piccola, nuova speranza per poter cambiare le cose. 

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Capitolo 33
*** XIII. 5 parte ***


Buongiorno! >_<

Ok, intanto, a tutti mi miei lettori, chiedo scusa per il ritardo, ma quest'ultimo mese è stato alquanto impegnato... ebbene sì, ho studiato per i test d'ammissione per l'università e ho rallentato con la scrittura... e posso capire che può non importarvi niente, ma volevo dirvelo lo stesso! *si inchina chiedendo scusa* Tornando a noi, ecco qui il finale (alleluja), del capitolo! Avrà avuto ragione la mia adorabile e dolcissima Taiga-chan o no? Lo scoprirete leggendo! E tesoro mio, spero di risentirti presto... non ti dedico questo capitolo perché quello per te sarà più avanti, ma te ne ho riservato uno! >_< Ringrazio anche Yoru, che è stato così gentile a recensire, e boh, se vi va di commentare (anche se mi sa che ormai è inutile scriverlo visto che non ne avete voglia, a quanto pare... ç_ç), fatelo pure! Grazie a chi ha aggiunto tra i preferiti/seguite e alle visite silenziose! Buona lettura!

 

 

 

 

Durante il resto del viaggio, man mano che ci allontanavamo dai boschi di Wiesen, esattamente nella direzione che Micheu ci aveva indicato, mi ritrovai a pensare al motivo per cui alla fine, aveva deciso di aiutarci. Cominciavo a pensare che forse, nonostante tutto, c’era del buono anche nelle guardie imperiali. Stringevo forte il ciondolo col sigillo di Wiesen, sperando che sopravvivesse abbastanza da essere portato in un luogo più sicuro, dove sarebbe stato curato a dovere. Chissà, forse Liger l’aveva trovato… scossi la testa al pensiero. Se fosse stato Liger, avrebbe significato sicuramente la sconfitta di Adam. Anche lui, oramai da diverse ore, era impegnato su un altro fronte. Pregai che fosse vivo e che presto si fosse rifatto vivo. Il Cavaliere Nero, l’uomo che mi aveva salvata perché ero la nuova custode dell’ametista. Per la prima volta da quando ero giunta nell’Underworld, sentivo il peso di questa responsabilità. Con quanta facilità stavo per reclamarne il possesso effettivo e quanto difficile sarebbe stato farmene carico? Pensavo ad Amber, comprendendo finalmente la portata delle sue parole e la sofferenza che si celava dietro a quegli occhi determinati. Amber, che aveva visto la sua famiglia sterminata, che era cresciuta in un mondo dorato che l’aveva tradita, infine, ma che nonostante tutto, si impegnava a far sì che la verità fosse ristabilita, una volta per tutte. I nobili della nuova generazione erano la chiave per dare una svolta a quel presente oscuro. E io? Io che ero giunta in quel luogo per ultima, portando assieme a me il ciondolo d’ametista, già insita nei miei occhi, e avevo scoperto di essere la figlia di Greal Valdes, l’uomo che sterminò i Delacroix e di Cerulea Rosenkrantz, la figlia del penultimo Despota… io ero davvero pronta ad assumermi una tale responsabilità? 

- Aurore?

La voce di Ruben.

- Mh?

Mi sporsi a guardarlo, aggrappata alla sua schiena.

- Cosa stavi dicendo prima che ti interrompessi?

Già, stavo proprio per presentarmi come Aurore Valdes, in quel momento. E Ruben me l’aveva impedito. Certo, nessuno dei ragazzi sapeva chi fossi davvero, e nemmeno io lo sapevo fino a quando mi ero ritrovata nella residenza Valdes. Eppure, su quella famiglia, sulla mia famiglia, pendeva la spada di Damocle. Se si fosse scoperto, mi avrebbero accettata ugualmente?

- Mh… niente… niente, Ruben…

Ruben rimase in silenzio per qualche istante, mentre il vento contrario soffiava man mano che proseguivamo, facendo da sottofondo.

- Non esporti con tanta facilità. Non se non ti senti pronta.

Deglutii. Evidentemente, aveva capito.

- Essere un Lord… o una Lady delle Pièces, non è cosa da poco. Sia io che Rose… e vale anche per Amber, per Amelia e per quella ragazzina viziata di Livia, siamo molto cauti nell’usare la nostra autorità. Se alzassimo troppo la testa, finiremmo per ritrovarci decapitati prima ancora di rendercene conto.

- Eppure, prima potevi fare schiattare d’invidia Vanbrugh con la tua presentazione, Ruben.

Rise Eyde, volandoci accanto. Ruben rise a sua volta.

- Blaez mira a ben altro titolo, Eyde.

Lo rabbonì.

- Al titolo di Despota, vero?

- Ah, ma questa volta sarà sicuramente Ruben a diventarlo. E quando accadrà, noi saremo la sua guardia personale.

Continuò Eyde, facendomi l’occhiolino.

- E quando accadrà, chiederà anche la mano della sua bella.

Subentrò Einer, dando una leggera botta col gomito a Ruben, che si voltò verso di lui fulminandolo. A quanto pare, si poteva scherzare sul diventare Despota, ma era piuttosto suscettibile riguardo ai temi d’amore. Chissà se dipendeva dall’essere il fratello di Rose.

- Avete una fidanzata, dunque?

- Non ti ci mettere anche tu, eh? Diciamo… diciamo, beh… che lo vedrai da te.

Mi chiesi che tipo di ragazza potesse essere. Da quel poco che avevo visto fino a quel momento, Ruben sembrava l’opposto della sorella. Per quanto lei fosse maliziosa e incline ai giochi, lui sembrava spontaneo e responsabile. Del resto, ricordavo che la stessa Amber aveva detto che affinchè qualcuno fosse eletto Despota, non dovevano esserci macchie d’alcun tipo nel comportamento. Mi chiesi allora se la stessa cosa fosse valsa per Ademar Valdes, che a detta dell’anziano che mi aveva rivelato la storia della mia famiglia e di Leandrus, aveva fatto in modo di ingannare il Despota precedente, per ottenere il trono.

- E voi avete un fidanzato, Aurore?

Mi chiese inaspettatamente Einer. Arrossii fino alla punta dei capelli, totalmente presa in contropiede e mi ritrovai a balbettare come una scema.

- I-Io? F-F-Fidanzato? N-Niente affatto!!

Gesticolai, mollando la presa da Ruben. Valls scalpitò e fui costretta a riprenderla subito.

I ragazzi risero, e imbarazzata più che mai, affondai la faccia nel mantello del giovane nobile.

- Piantala di metterla in imbarazzo, Einer.

In realtà, dopo l’imbarazzo, era subentrata un’altra sensazione, che probabilmente, fino a poco tempo prima, non avrei nemmeno saputo riconoscere. Desiderio. Già, era proprio il desiderio forte e straziante che mi attanagliava il cuore. Strinsi forte Ruben, pensando a Damien. Ogni volta che mi veniva in mente, mi sentivo in subbuglio. Volevo così tanto rivederlo…

- Ahi, Aurore!

Esclamò Ruben, ricordandomi quando, in groppa a Varon, avevo stretto così forte Shemar da farlo lamentare.

- S-Scusate!

Dissi, allentando la presa.

- Figurati. Piuttosto… potresti evitare quel “voi”? E’ davvero antiquato.

Sbattei le palpebre leggermente stupita. Non me n’ero nemmeno accorta… mi veniva naturale, oramai, rivolgermi agli abitanti dell’Underworld in quel modo. Mia madre sarebbe stata contenta di sapere che almeno un minimo di buone maniere l’avevo imparato.

- V-Va bene… ti ringrazio, Ruben…

Sorrisi.

- Quanto manca per Camryn?

Chiesi poi.

- Ci siamo già entrati.

Mi fece osservare Einer, indicando sotto di noi, il cambio di vegetazione. C’era sempre molto verde, ma a farla da padrone erano le colline. Da quello che avevo studiato, Camryn era da sempre rinomata per le sue colture.

- Wow, è stupendo!

Esclamai. Era così bello, tanto da ricordarmi il panorama sconfinato di colline che avevo visto in Italia. Ricordai quando, dopo aver visitato Venezia, la mamma portò me ed Evan a Verona, la città in cui Shakespeare aveva ambientato la meravigliosa e struggente tragedia di Romeo e Giulietta. Rimasi incantata nel vedere il balcone, che credevo essere molto più basso, in realtà, e mi stupii quando salitaci, vidi Evan guardarmi, dal basso, mezzo nascosto dagli arbusti. Sembrava proprio Romeo.

- Oh, Romeo, Romeo… perché sei tu Romeo? Rinnega tuo padre e rifiuta il tuo nome, oppure se non vuoi, giura che sei mio e smetterò io d’essere una Capuleti.

Pronunciai solennemente, percependo con ogni fibra del mio essere tutta la magia che pervadeva quel luogo. Evan sorrise, poi si inchinò magistralmente.

- Aurore?

La voce di Eyde e poi una risata generale.

- C-Che c’è?

Domandai, perplessa. Avevo fatto o detto qualcosa senza rendermene conto?

- Tranquilla. Soltanto una battuta di dubbio gusto da parte di Einer. A quanto pare non l’hai sentita.

Rispose Ruben.

Scossi la testa. Effettivamente era così e probabilmente, era meglio così. Una pessima battuta avrebbe spezzato l’incanto di quel ricordo.

- Ci dirigiamo a Bregenz?

Domandai poi a Ruben.

- No. Al momento alloggiamo nella residenza campestre. E’ più sicuro.

- Capisco…

- E’ vero che Amber vi ha presentata come una sua amica proveniente dalla campagna di Shelton, Aurore?

Annuii alla domanda che Einer mi aveva posto. Persino Blaez era rimasto perplesso, ma almeno inizialmente, sembrava se la fosse bevuta. Fu così, che nel giro di un’ora, ci ritrovammo in vista della residenza campestre della famiglia Cartwright. Non vedevo l’ora di arrivare e rivedere Leandrus (che di certo mi avrebbe rimproverata, se non fosse già stato torturato da Blaez) e Damien. Non sapevo cosa gli avrei detto. Immaginavo che sarebbe stato piuttosto arrabbiato, e non avrei certo potuto dargli torto. Per di più, il pensiero di provare qualcosa per lui contribuiva a farmi sentire agitata come non mai. E poi, avrei dovuto raccontare di Adam, di ciò che avevo scoperto e di Micheu Joel… quante cose da dire, e come fare? Guardai il ciondolo che mi aveva dato Micheu. Oramai i suoi compagni l’avevano sicuramente trovato. E Adam? Sospirai profondamente, mentre atterravamo nel largo spiazzo antistante il palazzo. Proprio nello stile della famiglia Cartwright, il parco della residenza era largo, con mattoni in pietra che disegnavano un mosaico contenente il sigillo. L’abitazione stessa era maestosa e barocca, con numerose finestre intarsiate, un vero gioiello d’architettura. Smontammo e Ruben chiamò a gran voce la sorella. Dovevo ammetterlo, non ero proprio molto tranquilla quando si parlava di Rose, soprattutto perché la sua indole incline al flirt con chicchessia era risaputa. Chissà, forse andava d’accordo con Amelia Dobrée. Mentre i ragazzi si stiracchiavano, Rose comparve sulla soglia. Era una visione celestiale. I capelli rossi, acconciati in trecce fermate da spilloni dorati, risaltavano alla luce dei lampioni accesi. Indossava un abito lungo, stile impero, color panna, ornato da intagli rosso cremisi.

- Bentornati.

Ci salutò, raggiungendoci.

- Lady Rose.

Risposero i ragazzi.

- Sorella mia.

Ricambiò Ruben, baciandola sulla guancia. Erano incantevoli e identici.

- Sei sporco di sangue.

Gli fece notare, carezzando le croste sul suo viso. In realtà erano schizzi del sangue di Micheu, ma Rose non sembrava particolarmente preoccupata. Evidentemente, conosceva le capacità del fratello.

- Abbiamo avuto un incontro ravvicinato con delle guardie imperiali.

- Che suppongo non siano più di questo mondo, adesso.

Sorrise, compiaciuta.

- Proprio così.

Intervenne Eyde, facendo l’occhiolino.

Rose proruppe in una risatina, poi posò lo sguardo color lavanda su di me.

- Aurore.

- Lady Rose…

- Santi numi, hai un aspetto orribile.

Arrossii di colpo, sentendomi avvampare. Rose… Rose Cartwright era fin troppo diretta.

- N-Non ho avuto tempo di c---

 Non feci in tempo a finire che di colpo mi sentii avvinghiare da dietro. Un abbraccio che mi lasciò totalmente sconvolta e priva di fiato. Le braccia mi serravano con forza, nonostante il tremore. Dopo l’iniziale reazione di irrigidimento, mi lasciai cullare dal profumo inebriante. L’avevo già sentito. Era così familiare e nostalgico… un profumo dolce, che tante e tante di quelle volte avevo condiviso con una persona in particolare. Ma non poteva essere… no, nemmeno quando vidi i ragazzi mettersi a ridere divertiti e Rose aprire il ventaglio che aveva in mano per nascondere il sorriso. Neppure quando vidi quel sorriso che lei aveva nascosto sul volto di suo fratello, ma con una sfumatura di dolcezza. Nostalgia, rimpianto, dolore. Quando ero andata via dal mio mondo, l’avevo abbandonata lasciandole soltanto poche righe scritte su un foglio. Le braccia intorno a me erano nude e mi tenevano stretta con affetto e con sollievo al tempo stesso. Mi ritrovai a piangere, incredula e spaventata all’idea di voltarmi. Sentivo solo la sua voce, dietro di me, rotta dal singhiozzo a sua volta. E seppi che era lei. Non avevo la benché minima idea di come potesse essere lì in quel momento. Di come fosse arrivata nell’Underworld e cosa ci facesse dai Cartwright. Il mio cervello era totalmente incapace di connettere ed elaborare una qualunque teoria. Quando finalmente mi voltai, fronte contro fronte, vidi i suoi grandi occhi color caramello di pieni di lacrime, proprio come i miei.

- Stupida…

Mi disse, sorridendo.

- Lo so… lo so, Violet! Scusa!

Violet e io ci abbracciammo fortissimo, mentre intorno a noi, il vento spirava agitando i rami frondosi con un inquietante brusio.

 

 

 

 

 

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Capitolo 34
*** Speciale disegni :3 ***


Bonsoir, mes amis! <3

Allora... dal momento che in questo periodo sto studiando e paradossalmente l'ispirazione mi viene meglio quando sono impegnata in altro e stasera sono alquanto felice per aver visto il secondo OAV di Code GEASS - Akito the exiled (e sbavato su Suzaku e Akito :Q____), ehm... u_u ... ne approfitto per dare una sistematina ai disegni di Underworld! *_* Ergo, potete vederli da qui, visto  che nei vari capitoli sono alquanto alla rinfusa... ç__ç Un consiglio, ci sono spoiler rispetto all'inizio, dunque indicherò i personaggi a seconda dei capitoli! :3 A rischio e pericolo l'andarli a vedere! XD Per il momento, si tratta ancora di alcuni dei personaggi principali (e ho rifatto Rose), me ne mancano altri, ma spero di riuscire a farli presto... impegni permettendo! u_u

 

 

CAPITOLI 1-13

 

Aurore Kensington: http://imageshack.us/a/img51/8404/aurorep.jpg

 

Celia Kensington: http://imageshack.us/a/img708/5509/celiaqe.jpg

 

Evan Kensington:  http://imageshack.us/a/img27/452/evann.jpg

 

Damien Warren:   http://imageshack.us/a/img254/216/damienh.jpg

 

Jamie Warren: http://imageshack.us/a/img5/7814/jamief.jpg

 

Leonard Warren:    http://imageshack.us/a/img405/2088/warrenz.jpg

 

Violet Hammond: http://imageshack.us/a/img716/6363/violetqm.jpg

 

Shemar Lambert: http://imageshack.us/a/img837/20/shemar.jpg

 

 

CAPITOLI 14-23

 

Amber Trenchard: http://imageshack.us/a/img29/9076/amberrt.jpg

 

Blaez Vanbrugh:  http://imageshack.us/a/img801/4722/vn93.jpg 

 

Rose Rubinia Cartwright e Ruben Cartwright: http://imageshack.us/a/img27/5158/si5o.jpg 

 

 

 

CAPITOLI 24-34

 

Liger:  http://imageshack.us/a/img706/7511/ay4f.jpg 

 

Livia Devereaux: http://imageshack.us/a/img191/5968/ozn7.jpg 

 

Arabella: http://imageshack.us/a/img801/3493/4qrt.jpg

 

Amelia Dobrée: http://imageshack.us/a/img703/2772/1eb6.jpg 



Aggiunti (ho dovuto cambiare formato perché imageshack mi chiedeva l'iscrizione ç_ç):

 

 

Hiram e Milene:  http://i58.tinypic.com/29m2043.jpg  

 



Man mano che disegnerò gli altri, cercherò di inserirli! :D Per il momento, spero che vi piacciano! :D

Alla prossima!! *___*/ 

*canticchia More than Words pensando che spera di riuscire a scrivere qualcosa su Akito e Leila prima o poi* 

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Capitolo 35
*** XIV - Di nuovo insieme (1 parte) ***


Buongiorno!! *__* Nuovo capitolo, alquanto lungo, tanto che dividerò anche questo in parti... ci sarà un bel po' da leggere e tante, taaaaaaaante rivelazioni! <3 E' tempo di ricongiungimenti, che nel bene e nel male, aiuteranno Aurore a vederci più chiaro nella storia della sua famiglia e non soltanto! u_u

Intanto, ringrazio Taiga-chan, Yoru-kun e Giacchan e ragazzi miei, vi adoro tantissimo!! Mi fa piacere leggere le vostre recensioni, amo sapere cosa ne pensate e i vostri commenti! <3 In altre parole, grazie infinite per il vostro sostegno e il vostro affetto!! >____<<3 Grazie anche ai silenziosi e intanto, buona lettura!! *-*

 

 

 

 

 

 

- Si può sapere che ci fai tu nell’Underworld, Violet?

Fu la prima domanda seria che riuscii a fare alla mia migliore amica quando fui nuovamente in grado di pensare decentemente. Eravamo immerse nella piscina termale della residenza, per esplicita volontà di Rose. Le acque, che possedevano proprietà curative (cosa di cui avevo bisogno considerando le diverse escoriazioni che avevo addosso da quando ero finita in acqua a Wiesen), erano riscaldate da un sistema artificiale che passava al di sotto della stessa sala da bagno. Niente a che vedere con quella della dimora campestre di Amber, a confronto molto più delicata. Quella sala era una sorta di sauna immersa in un’opera d’arte di sculture. A farla da padrone erano le sculture che troneggiavano sui bordi della grande vasca, rifornendola continuamente. A pensarci, le statue erano molto simili a quelle che avevo sognato, diverso tempo prima, e raffiguravano delle donne, in questo caso coperte soltanto da un velo che ne celava le intimità, nell’atto di far scorrere quei fiumiciattoli d’acqua, provenienti dalle loro mani. L’ultima volta che avevo fatto un bagno così rilassante, ero con Damien… quando avevo chiesto di lui, tuttavia, Rose mi aveva detto di pazientare. Né lui né Leandrus erano lì. Ma nonostante ciò, eravamo in attesa dell’arrivo di Amber e di Blaez, che certamente li avrebbero portati con loro.

- Prima di tutto, dovresti scusarti per avermi lasciata soltanto con un biglietto.

Mi fece notare la mia amica, imbronciandosi.

- S-Scusami…

Dissi, sinceramente mortificata. Sapevo che avrei dovuto darle delle spiegazioni, ma non immaginavo che sarebbe stato quello il momento, né tantomeno che sarebbe stata la sala da bagno dei Cartwright il luogo in cui sarebbe successo.

Violet mi schizzò dritta in faccia con un getto caldo.

- Ehi!

Protestai, sbattendo le palpebre e parandomi con le mani. Poi si mise a ridere.

- Il giorno in cui andasti via…

Riprese poi, seriamente. Io la guardai.

- … Shemar mi portò il tuo biglietto. In realtà, quando me lo dette, senza nemmeno aprirlo, capii all’istante cosa avessi deciso di fare. E ne fui incredibilmente preoccupata…

“Credetemi, signorina Violet. La signorina Aurore è molto addolorata all’idea di lasciarvi”, mi disse. Non ne avrei dubitato per niente al mondo. Per questo motivo decisi di venire anch’io insieme a voi. Non volevo lasciarti andare con anche questo dolore nel cuore… ma Shemar fu irremovibile, dicendo che ti avrebbe protetta a qualunque costo e che non avrebbe mai permesso a nessuno di farti del male.

- Ha mantenuto la sua promessa…

La rincuorai, stringendole le mani. Almeno fino a che non era stato richiamato ad Adamantio, quasi una settimana prima. Violet addolcì lo sguardo, poi mi strinse le mani a sua volta.

- Quando andò via, rimasi per diverso tempo a riflettere. Seppure non avessi dubbi sul fatto che non mentisse sul proteggerti, l’idea di te che andavi in un luogo del tutto sconosciuto, senza sapere niente se non quello che lo stesso Shemar ci aveva detto, mi spaventava a morte. Se ti fosse successo qualcosa, non ti avrei mai più rivista e questo pensiero mi terrorizzava… e se per caso fosse stato tutto un tragico errore? Se la tua famiglia non si fosse trovata in un mondo totalmente diverso dal nostro, ma fosse stato tutto un inganno ordito da altri ai vostri danni? Quando finalmente mi decisi, corsi subito a casa tua, ma arrivai troppo tardi. Non so descriverti la sensazione che provai in quel momento, se non dicendoti che quando vidi il sangue nel cortile il primo pensiero che mi venne fu che ti era successo qualcosa di terribile e che avrei ritrovato Shemar per fargliela pagare con le mie stesse mani. Per giunta, non riuscivo a contattarti e la cosa non contribuiva affatto a tranquillizzarmi. Così, mi venne in mente di chiamare Warren… ma il suo cellulare squillava a vuoto. La cosa mi sembrò molto strana, dal momento che lo portava sempre con sé, sia a scuola, sia fuori.

Già. Damien portava sempre con sé il tuo telefono, per essere reperibile ogni qualvolta Jamie avesse bisogno di lui. Eppure, nell’Underworld, non ce l’aveva. Quando le guardie di suo padre avevano attaccato lui e Shemar, per prendere Jamie, Damien aveva avuto la peggio e Shemar si era preoccupato di mettere in salvo lui per primo, senza pensare a eventuali mezzi di comunicazione, di cui per altro, ignorava l’esistenza. E quando avevamo lasciato il nostro mondo, non gli era stato possibile tornare a casa e fare rifornimento, motivo per cui, il suo stesso cellulare era rimasto a casa a squillare a vuoto, per chissà quante volte.

- Damien è venuto insieme a me e a Shemar nell’Underworld, dopo che il suo fratellino, Jamie, è stato portato via dalle guardie agli ordini del professor Warren…

Violet annuì.

- Lo so. Mi resi conto che qualcosa era successo il giorno seguente, quando a scuola si diffuse la notizia che il professore avesse rassegnato le dimissioni e fosse partito coi suoi figli.

- Cosa?!

Sobbalzai e quel gesto provocò increspature nell’acqua calda intorno a noi. Quel bastardo aveva detto che era partito coi suoi figli? E come metterla con i segni dello scontro nell’appartamento di Damien e Jamie?

- La motivazione ufficiale fu che il professor Warren dovesse raggiungere la moglie, Grace, che attualmente risiede all’estero. Così, puoi immaginare il clamore che ne seguì, soprattutto dal momento che Warren, il despota, avrebbe concluso gli studi lontano da Darlington.

- Hai detto… Grace?

Domandai, incerta. “Mi chiamo Will e vengo da Dourand. Sono un pittore, al momento in viaggio di nozze. E questa è la mia sposa, Gracie”, aveva detto Damien, presentandoci in quel modo alle guardie della Croix du Lac che mi avevano chiesto il nome. Gracie. Grace. Cosa mi stavi nascondendo, Damien? Portai le mani al cuore, sentendolo battere con più forza. Quel gesto non passò inosservato e Violet mi guardò preoccupata.

- Stai bene, Aurore?

Annuii senza replicare, riprendendo fiato. In realtà, ero più confusa che mai, ma Violet non aveva ancora finito di raccontare quello che era accaduto quando avevamo lasciato il nostro mondo.

- Continua a raccontare, per favore… ci sono state voci anche sul conto della mia famiglia?

Le chiesi, puntando lo sguardo nel suo. Violet era in pena, poi assentì.

- Per qualche giorno, nessuno si era domandato il motivo dell’assenza tua e di Evan… penso che il motivo dipendesse dal clamore suscitato dalla partenza improvvisa di Warren, ma i giorni passavano e presto sorsero le domande anche su di voi. Conoscendo la vostra vita girovaga, alcuni pensarono che vi foste trasferiti nuovamente, ma le malelingue cominciarono a serpeggiare e alcuni insinuarono che la vostra partenza fosse collegata in qualche modo a quella dei Warren. Ci misi un po’ per cercare di sedarle, fino a quando a scuola non arrivarono dei documenti che ufficializzavano il vostro trasferimento.

- Eh?

La guardai interdetta. Chi avrebbe mai potuto fare qualcosa del genere? Non poteva essere stata mia madre, dal momento che era prigioniera nell’Underworld, né io, certo. Ed Evan… per un solo istante fui sopraffatta dalla vana e illusoria speranza che mio fratello si fosse salvato e che fosse stato lui, ma le parole che seguirono infransero quel pensiero che morì sul nascere.

- Erano firmati a nome di Victor Kensington. Lo conosci?

Victor Kensington… Victor Kensington… ero sicura di non aver mai sentito quel nome in vita mia, ma ciononostante mi sentii girare la testa. La temperatura cominciava a essere fin troppo calda. Respirai quanto più possibile, avvicinandomi al bordo in cerca di sollievo. Violet mi stette accanto, poi mi invitò a uscire dalla vasca.

- Aurore, credi possa essere tuo padre?

- No.

Risposi, quasi istantaneamente. Poi uscimmo, e mi aiutò a indossare l’asciugamano. Quando anche lei l’ebbe indossato, la guardai. Era la Violet di sempre, con gli stessi lunghi capelli castani che ora erano legati all’indietro. La mia Violet, con cui avevo condiviso tutto da quando ero arrivata a Darlington. La mia unica, insostituibile migliore amica. L’unica persona a cui avevo detto tutto di me. Ignorai le lacrime che mi si erano formate negli occhi e sorrisi.

- Violet… m-mio padre… il nome di mio padre è Greal Valdes… ed è morto prima che io nascessi… senza nemmeno sapere di me, probabilmente…

Vidi i suoi grandi occhi sgranarsi, poi portò la mano davanti alla bocca, e dopo mi attirò a sé, abbracciandomi. Mi sentii confortata, tra le braccia di una persona che conoscevo… qualcuno del mio mondo, di cui avevo quasi la sensazione di non appartenerci più. Violet mi accarezzò la guancia, rivolgendomi uno sei suoi sorrisi caldi e rassicuranti, quando finalmente ci guardammo.

- Hai scoperto così tante cose in così poco tempo, Aurore… non dev’essere stato facile…

Scossi la testa. In effetti non lo era stato affatto e non potevo nascondere di esserne ancora sconvolta.

- Ma neanche per te… devo ancora capire come hai fatto ad arrivare qui…

Le risposi, asciugando le ultime lacrime.

- Che ne dici di parlarne alla presenza di Ruben? In realtà… è stato proprio lui a portarmi qui…

Il rossore sulle sue guance si fece più intenso di quanto non fosse fino a quel momento. Mi tornarono in mente le parole dei ragazzi e la guardai incredula.

- N-Non sarai mica tu la fidanzata di Ruben Cartwright?

Un timidissimo sorriso mi fece capire che avevo visto giusto.

Fu così che dopo esserci rivestite (e fui incredibilmente grata a Violet, che aveva portato con sé i suoi abiti, dunque avevo avuto modo di poter indossare anch’io dei vestiti decisamente più confortevoli e familiari), raggiungemmo Ruben e Rose nella veranda. Era davvero molto elegante, con grandi colonne bianche avvolte da rampicanti, diversi vasi traboccanti di fiori e grandi giare di coccio. Al centro della veranda, c’erano un tavolo rotondo in legno di noce e quattro sedie. Rose aveva fatto apparecchiare e quando vidi quella tavola sostanziosamente imbandita, potei finalmente rilassarmi del tutto. Non appena ci videro, i due fratelli ci salutarono. Rose aveva cambiato abito, optando per un vestito con un ampio spacco sulla lunga gamba e uno scialle traforato che le velava le spalle. Aveva ancora i capelli intrecciati, ma al posto degli spilloni, aveva messo dei fermagli dorati. Ruben aveva scelto un abbigliamento meno vistoso, ma ugualmente elegante, con una camicia bianca e un gilet rosso, abbinato ai pantaloni che gli fasciavano le gambe. Al polso portava un bracciale dorato.

- Bentornate.

Disse Rose, con un sorrisetto malizioso.

- Spero che il bagno sia stato di vostro gradimento.

- Sì, molto… grazie, Rose…

Risposi, facendo un piccolo inchino.

- Vale anche per me.

Sorrise Violet, che guardò Ruben. Non appena i loro sguardi si incrociarono, compresi subito che quei due erano cotti a puntino l’uno dell’altra. Non avevo grande esperienza in materia amorosa, ma avevo già visto qualcosa del genere, in Amber e Shemar, ma sebbene non ci fosse quello stesso livello d’intensità nel loro sguardo, avevo davvero l’impressione che tra Violet e Ruben ci fosse una grande attrazione. Guardai intenerita la mia amica. Per tanto tempo, da quando ero arrivata a Darlington, avevamo complottato insieme pensando che avrebbe sposato mio fratello. Eppure, alla fine, non c’era mai stato nulla tra loro. Evan le era affezionato, certo, per quanto si potesse pretendere da lui, che solitamente non mostrava grande interesse verso chi ci stava intorno. Violet però gli piaceva, e spesso ci eravamo ritrovati a scherzare e a conversare tutti e tre insieme, magari sgranocchiando qualcosa davanti a un film o giocando a carte. Mio fratello era sinceramente divertito e qualche volta l’avevo persino ridere insieme a Violet. Probabilmente, tutto questo ci aveva portate a fantasticare, ma tra realtà e fantasia c’era un grosso divario. Quando si trattava di ragazze, Evan diventava un muro insondabile. E vedere Violet sorridere insieme a Ruben, adesso, mi rendeva davvero felice per lei. Meritava qualcuno che la amasse come si conveniva e Ruben era sicuramente una persona capace di farlo. Però, d’altro canto, non potevo nascondere né lo stupore, né la vena di preoccupazione che mi affliggeva. Ruben apparteneva all’alta nobiltà dell’Underworld e per di più era un candidato a diventare il prossimo Despota. Violet sarebbe stata al sicuro tra le sue braccia?

- Aurore?

- Mh?

Incontrai i suoi occhi color lavanda. Era davvero contento.

- Adesso capisco perché mi hai detto che avrei visto da me chi era la tua fidanzata…

- Beh… non volevo rovinarti la sorpresa.

Disse, prendendo la mano di Violet, che arrossì.

- Devo ancora digerirla del tutto… Violet mi ha detto che sei stato tu a portarla nell’Underworld.

Ruben annuì.

- Ma spero ti abbia anche detto che questo adorabile faccino mi ha ingannato.

La redarguì, con un tono affettuoso. Violet lo guardò, imbronciandosi, poi gli rivolse un largo sorriso.

- Tu hai voluto credermi, però.

Mentre Ruben stava per rispondere, Rose ci richiamò all’attenzione con qualche colpetto di tosse studiato ad arte.

- Parliamone mentre mangiamo. Non so voi, ma desidererei poter cenare, quantomeno.

Confessò, prendendo posto. Così facemmo anche noi e i camerieri, rispondendo al pronto ordine della padrona, cominciarono a servire. Spiedini di carne, verdure grigliate, polpette miste, persino dei deliziosi soufflé e piccole quiche, c’era davvero di che leccarsi i baffi. Quando cominciammo a mangiare, pensai che avevo toccato cibo soltanto con Adam. Quando desideravo sapere come stesse… per non parlare di Micheu…

- Il cibo non è di tuo gradimento, Aurore?

Domandò Rose, notando che rigiravo la forchetta nel piatto senza toccare granché.

- Eh? N-No, è squisito… è solo che pensavo… pensavo al Cavaliere Nero e a Micheu…

Rose mi guardò stupita, Violet mi prese la mano e Ruben bevve un sorso di vino rosso.

- Non preoccuparti per loro. Sono più che certo che stanno bene. Le guardie imperiali erano nei paraggi, per cui suppongo che Joel sia già stato soccorso. Per sicurezza, ho mandato Gourias a verificare, e non appena avrà notizie me le comunicherà. Per quanto riguarda il Cavaliere Nero, non ho dubbi che sia riuscito a farcela, in qualche modo.

- Ma il suo avversario era pur sempre Liger!

- Il cavaliere della Croix du Lac?

Chiese Rose, incuriosita.

- Ho sentito voci a riguardo. Mi piacerebbe davvero incontrarlo di persona, sapete? Dicono che provenga da un’antica famiglia di Adamantio e che abbia imparato da solo i rudimenti del combattimento. Certo, mi chiedo come abbia potuto scalare le vette del potere così velocemente… chissà quante camere da letto ha avuto modo di visitare. Deve avere un animo ardente… e detto tra noi, sarei davvero curiosa di saggiarlo.

Ridacchiò, lasciando me e Violet del tutto sconvolte. Ruben mise la mano in faccia.

- Sorella…

- Il vostro fidanzato non ne sarebbe molto felice, credo…

Le fece notare Violet. Rose sollevò il sopracciglio. Effettivamente, per quanto quei due potessero essere strani come coppia, erano assolutamente perfetti. Stesso carattere e stesso modo di fare. In fondo, Blaez voleva diventare il nuovo Despota solo per vedere che faccia avesse la Croix du Lac, e considerando che dire che fosse stupenda era riduttivo, immagino che sarebbe stato felicemente ripagato. Certo, se avesse saputo qual era il triste destino che era spettato ad Arabella, la cui anima generosa era intrappolata, da qualche parte, nel suo stesso corpo, controllato da uno spirito infausto e crudele, sarebbe stato ugualmente attratto da lei? Il fascino del pericolo era indiscutibile, ma ciò che c’era dietro era persino in grado di cambiare le carte in tavola.

- Beh, Blaez e io abbiamo gli stessi gusti, in questo senso. Dunque, dal momento che lui non si fa alcun tipo di problema, non vedo perché dovrei farmene io.

Violet andò per replicare, ma Ruben glielo impedì.

- Lascia perdere, è fiato sprecato. Ad ogni modo, Aurore, il Cavaliere Nero ha già avuto modo di fronteggiare Liger, e come dire… per quei due è una sorta di ritrovo. Dunque, non avere paura per lui, perché sono più che certo che stia bene.

E così Adam e Liger si erano già scontrati prima d’ora? Eppure, non avevo mai saputo nulla a riguardo…

- Piuttosto, non ho ancora capito come vi siete incontrati.

- Mi ha salvata, dopo che sono precipitata dalla torre del palazzo Devereaux.

Rose mi guardò stupita. Violet portò una mano al cuore. Sorrisi a entrambe.

- Come vedete sono viva e vegeta.

Le rassicurai.

- Ma vi racconterò quello che è successo dopo che anche Amber e Damien saranno qui, va bene?

- Avete fatto progressi? Da ciò che mi ha detto Violet, sembra proprio che ci sia un legame particolare tra te e il giovane Warrenheim, sin da quando frequentavate la scuola.

Rose mi strizzò l’occhio, costringendomi ad arrossire all’improvviso.

- M-M-Ma… Violet!!

Esclamai, mentre la mia furba migliore amica mi faceva la linguaccia.

- Sei tremenda!!

- Posso confermare.

Intervenne Ruben, addentando un kiwi maturo.

- Raccontami di come sei arrivata qui, piuttosto!!

Violet si mise a ridere, poi, mentre affondavo i denti in un morbidissimo soufflè, riprese il suo racconto.

- Dopo che a scuola ricevettero i documenti riguardanti il trasferimento della tua famiglia, cominciai a pensare a cosa fare. Decisi di spulciare i libri che il professor Warren aveva donato alla nostra biblioteca, alla ricerca di qualche indizio utile. Ricordavo bene quelli che ci aveva fatto vedere, con le rune, ma non trovai niente del genere, purtroppo. Evidentemente, aveva trovato il modo di farli sparire.

- O forse, senza le pietre, non era possibile riconoscerle…

Osservai, raccogliendo in mano la mia ametista. Ricordavo quando Evan mi aveva tratta in inganno, imputando a una sorta di gioco fatto con l’inchiostro simpatico, ma era evidente che non poteva essere così. Rimpiansi di non essere stata più accorta prima. Forse avrei potuto smascherare le bugie di mio fratello, se avessi avuto il buonsenso di indagare più a fondo e di non lasciarmi condizionare.

- Ad ogni modo, sentii dire da alcuni ragazzi che da qualche tempo, nei pressi dello Stonedoor si vedevano strani individui. Dal momento che la struttura era stata eretta su quello che si diceva essere un tempio secoli fa, pensai che forse si trattava delle guardie che dall’Underworld erano giunte nel nostro mondo…

Annuii.

- Sì, infatti è dai sotterranei dello Stonedoor che abbiamo avuto accesso all’Underworld.

- L’avevo immaginato, in effetti, soprattutto quando cominciarono a diffondersi le voci che quel luogo fosse infestato. Dal momento che gli abitanti di questo mondo sono così pallidi, rispetto a noi, e visto che vivono prevalentemente… per quanto così si possa definire, di notte, il loro andirvieni è stato scambiato per infestazione.

Trattenni una risatina, ma la cosa era piuttosto divertente. Ma del resto, io stessa mi ero stupita di quanto Shemar fosse nottambulo e di come potesse vedere con tanta facilità al buio, ma principalmente, ricordavo che lo stesso Damien mi aveva fatto notare come la Porta di Pietra sembrasse l’ingresso degli inferi e dunque l’ideale per il passaggio degli spiriti. Ma che gli abitanti dell’Underworld fossero stati scambiati per veri e propri fantasmi era davvero incredibile.

- Pensa che lo Stonedoor è stato persino chiuso…

- Povero locale, nemmeno battezzato, già chiuso.

Commentai. Violet assentì. Quando ci rendemmo conto di star parlando di qualcosa di totalmente alieno a Rose e Ruben, Violet tornò a raccontare.

- Comunque, fu proprio lì che mi recai, più o meno un mese dopo la vostra scomparsa, quando il clamore passò. In realtà ci sarei voluta andare molto prima, ma devo ammetterlo, ero piuttosto spaventata…

- Non avevi torto… anch’io lo sarei stata… se non avessi avuto Shemar e Damien con me, da sola, avrei avuto una paura matta… non che non ne avessi, certo, ma sapere che loro erano con me, mi ha aiutato…

Violet sorrise.

- Comunque, fu proprio lì, che incontrai Ruben.

Lo guardò, addolcendo lo sguardo, poi gli chiese di continuare. Il giovane Cartwright rigirò il suo bracciale d’oro, poi continuò il racconto.

- E’ stato poco prima della Renaissance. Ad Adamantio, si diceva che l’ametista fosse stata finalmente trovata e portata nell’Underworld da Shemar Lambert. Tuttavia, in molti erano curiosi di sapere dove fosse finita per tutto questo tempo. Del resto, la sola cosa che si sapeva, era che era scomparsa, circa diciassette anni prima, quando questo mondo fu scaraventato nell’oscurità. Sapevo che né Amber né Shemar avrebbero detto niente in proposito, e per questo motivo, decisi di recarmi di persona nel mondo della luce, alla ricerca della verità.

- Sapevi chi fosse il precedente custode, almeno?

Gli domandai. Rose affilò lo sguardo.

- La famiglia Valdes. Sapevo che la precedente Lady dell’ametista era Annabelle Valdes, e che la pietra le fu donata dal marito, Lord Leutwin, come pegno d’amore. Alla sua morte, sarebbe dovuta andare in eredità ad Ademar, in quanto primogenito, ma per qualche ragione, fu affidata al fratello Greal.

Deglutii, e Violet mi guardò tanto preoccupata quanto stupita.

- Cominciai ad arrovellarmi il cervello alla ricerca di qualche appiglio, e alla fine, chiesi al vecchio Vanbrugh, il solo che conoscesse fino in fondo gli avvenimenti accaduti diciassette anni prima. Noi purtroppo eravamo troppo piccoli per ricordare, e l’essere cresciuti in gabbie dorate ci ha impedito di avere accesso a quelle informazioni per molto tempo. Purtroppo per me, Vanbrugh non mi disse granché. Fece riferimento soltanto al fatto che la storia si era ripetuta, ma quando gli chiesi di più, cominciò a delirare come suo solito, cacciandomi via in malo modo.

La storia si era ripetuta? Angus sapeva essere davvero criptico quando voleva… e forse, proprio questo suo modo di fare gli aveva permesso di rimanere in vita così a lungo. Dunque l’ametista non apparteneva per nascita a Lady Annabelle, mia nonna, ma le era stata donata da Lord Leutwin come pegno d’amore… se la storia si ripeteva, forse Angus voleva intendere che mio padre l’aveva regalata a mia madre per lo stesso motivo? Ma mia madre, nonostante tutto, aveva sposato Ademar… questo significava che la loro storia era clandestina? Mi tolsi il ciondolo e lo guardai. Brillava leggermente. Questo piccolo oggetto era stato testimone di due grandi amori e di una tragedia.

- Aurore?

- Scusami… continua pure il tuo racconto.

Gli dissi, sollevando lo sguardo.

- Beh… con quelle praticamente nulle informazioni, mi recai nel mondo umano. Arrivai di pomeriggio, da solo. I ragazzi avevano insistito, ma non avrei potuto lasciare indifesa la tenuta. Non che ci fosse qualche rischio definito, ma l’allontanamento di un capofamiglia è praticamente straordinario. Così giunsi nel vostro mondo, e se non fui accecato in quell’occasione, beh… diciamo che si è trattato di un’esperienza abbastanza traumatica.

- Così come per me lo è stato ritrovarmi all’improvviso nell’oscurità più completa.

Intervenne Violet.

Ruben sorrise, poi mi guardò.

- Fu allora che la incontrai. Avevo appena salito le scale che portavano in superficie e tutta quella luce mi aveva scombussolato al punto da farmi venire la nausea. Cercavo una zona d’ombra in cui ripararmi, quando sentii la sua voce che mi chiedeva se andasse tutto bene.

- Sembrava praticamente ubriaco per il modo in cui barcollava… non ti dico che spavento mi ha fatto prendere sulle prime…

- Però, nonostante tutto, sei rimasta e mi hai aiutato.

Violet annuì. Guardarli raccontare il loro primo incontro, per quanto strano, e vedere il modo in cui si guardavano, così teneramente e con tanta complicità, era bello, ma allo stesso tempo, per me, era triste. Dentro di me, scandivo il tempo, sperando di vedere al più presto Damien varcare la soglia del palazzo Cartwright.

- Sai, Aurore… avendo vissuto praticamente di notte per tanti anni, rivedere improvvisamente quella luce, così forte, mi aveva sconvolto, ma la cosa che mi sconvolse ancor di più fu il poter vedere in modo così nitido i colori di Violet. Quei lunghi capelli color nocciola, per non parlare dei suoi occhi, di quello stupendo color caramello che mai in vita mia avevo visto… beh, se mi avessero detto che sarei stato totalmente conquistato da quegli occhi, mi sarei recato nel mondo della luce molto prima.

Sorrisi, così come Violet, sulle cui guance comparve un velo di porpora. Era una dichiarazione d’amore così dolce…

- Quando finalmente mi ripresi, Violet mi riconobbe subito come un abitante dell’Underworld.

- E tu mi dicesti “Milady, siete forse una dea venuta a soccorrermi?”.

Ruben sorrise, poi continuò.

- Quando capii che non era così, avevo soltanto due possibilità. La prima era quella di ucciderla, ma uccidere qualcuno incapace di difendersi è sempre stato qualcosa che ho profondamente aberrato. La seconda era quella di catturarla e farmi dire tutto. Ma anche questa opzione non era soddisfacente. Se l’avessi forzata agendo contro la sua volontà, non avrei ottenuto nulla se non farmi dire ciò che volevo sentire, che non era detto corrispondesse a verità.

Un ragionamento da far rivoltare nella tomba persino Machiavelli, secondo cui il fine giustificava i mezzi… ma d’altro canto, da un tipo come Ruben Cartwright, c’era da aspettarselo. Dopotutto, aveva acconsentito e provveduto personalmente a salvare un uomo a cui poco prima aveva tranciato di netto un avambraccio, sebbene le circostanze del duello l’avessero portato a una tale azione senza possibilità di evitarlo. Guardai Violet, cominciando a realizzare il motivo per cui Ruben le piaceva. Non era soltanto per la bellezza di quel ragazzo, ma era anche perché era una persona incredibilmente ponderata, oltre che divertente, a suo modo.

- Tuttavia, Violet mi battè sul tempo, chiedendomi di poterla accompagnare nell’Underworld.

- Eh? Violet? Tu hai… hai davvero fatto una cosa del genere? Senza pensare alla tua famiglia?! Lasciando persino il tuo Tutankhamon?!

- Tuta-- che?

Mi fece eco Rose, perplessa.

- Il mio cagnolino.

Le rispose Violet, poi mi guardò.

- In effetti sono stata piuttosto incauta, in quel momento… ma avevo visto il ciondolo che Ruben portava al collo, la stella cremisi, e avevo pensato che potesse aiutarmi…

- Ma senza conoscerlo nemmeno… se fosse stato un nemico?!

- Tu ti sei fidata di Shemar senza sapere nulla di lui…

- S-Sì, ma se ricordi, avevo intenzione di chiamare il 911, prima di venire a conoscenza di tutto! C’eri anche tu!

- Certo, ma diversamente da te, conoscevo qualcosa sull’Underworld, dal momento che Shemar ci aveva raccontato dell’oligarchia e del motivo per cui si trovasse nel nostro mondo.

- Però…

- Ad ogni modo… Ruben rifiutò la mia proposta.

Tirai un momentaneo sospiro di sollievo, ma considerando che Violet non era a casa, ma era di fronte a me, a raccontarmi com’era arrivata in quel mondo, il rifiuto doveva essere stato momentaneo.

- Ora che ci penso… hai detto che sei stato ingannato, vero?

Chiesi a Ruben, che assentì.

- Ebbene, mentre stavo per andare via, Violet mi ha detto che apparteneva alla famiglia che possedeva l’ametista.

La guardai in tralice. Violet era ufficialmente impazzita.

- Come ti è saltato in mente?!

La mia amica mi fece la linguaccia.

- Era il solo modo per convincerlo.

Misi la mano in faccia. Se io ero stata imprudente, Violet era suicida.

- Tuttavia, penso che tu non te la sia affatto bevuta, vero, Ruben?

- In realtà… sapevo che l’ametista era in mano di Amber, ma dal momento che la cosa che mi interessava maggiormente era scoprire che fine avesse fatto nel tempo in cui non era stata nell’Underworld… beh, ho colto l’occasione.

- E così questi due si sono messi in combutta e cosa tira cosa, è sbocciato l’amore, al punto che il mio sentimentale fratellino ha acconsentito a portarla nell’Underworld.

Intervenne Rose, agitando la mano per aria, con fare scocciato.

- La stavate tirando troppo per le lunghe.

Si giustificò, quando suo fratello protestò per aver interrotto il racconto. Mi venne da ridere e guardai Violet.

- In altre parole, adesso sei qui, da quanto?

- Ho perso la cognizione del tempo, a dire il vero…

- Considerando che Ruben è partito prima della Renaissance

In quel momento mi sovvennero proprio le parole di Rose alla festa. Aveva detto che suo fratello era impegnato in affari privati a Camryn. E da allora, era passato poco più che una settimana.

- Così poco tempo…

Commentai sovrappensiero.

- Eppure, in questa notte eterna, sembra che il tempo non passi mai…

Osservò Violet. Io annuii.

- Ma alla fine, cosa hai detto alla tua famiglia?

Un sorriso spuntò sul viso della mia amica.

- La scuola è impegnata nei preparativi per il festival di primavera, e per di più, la gita prevista per maggio è stata anticipata. Mia madre pensa che sia in gita con gli altri. Non che tecnicamente le abbia mentito, dal momento che sono con te, per cui…

Sospirai disperata. Violet sarebbe stata capace di dar filo da torcere persino a mia madre, che già di per sé era capace di farci schiodare da un luogo con appena pochi giorni di preavviso.

- Devi tornare a casa, Violet! Se ti accadesse qualcosa…

- Non lo farò, mi dispiace. Torneremo insieme, tu, io, Warren, il suo fratellino, tua madre ed Evan e…

Guardò Ruben, che distolse lo sguardo per qualche istante, poi tornò a guardare me.

- Insomma… non ti lascerò affrontare tutto da sola!

- Violet…

Tornare a casa, tutti insieme. Chissà perché, ma da quando avevo varcato la soglia dell’Underworld, questo pensiero era l’unico che consideravo irrealizzabile. Anche se ce l’avessimo fatta, alla fine, mio fratello era morto…

- Evan è… lui non c’è più, Violet…

Mormorai. Il silenzio che ne seguì mi attanagliò il cuore, ricordandomi che a tutto c’era rimedio, tranne che alla morte. Evan non era nemmeno entrato nell’Underworld… Violet si alzò e venne ad abbracciarmi. Lei era fatta così, non le importava di dove si trovava o con chi avesse a che fare. Se voleva fare qualcosa, lo faceva e basta. E i suoi abbracci erano così protettivi e gentili, che non c’era nemmeno bisogno di parlare. Ricambiai la stretta, quando la governante dei Cartwright, Alanora, ci raggiunse. Rispetto a Sybille, che era l’abbondanza fatta persona, Alanora era molto più magra e alta, nonché più giovane.

- Sono arrivati?

Domandò Rose. Alanora assentì, annunciandoci l’arrivo di Amber.

Mi ritrovai improvvisamente a percepire un tuffo al cuore. Guardai Violet, che mi sorrise, poi sciogliemmo l’abbraccio e ci alzammo per accoglierli. Tuttavia, la mia amica mi fermò prima che potessimo muoverci, mentre sia Ruben che Rose andavano avanti assieme alla loro governante.

- Che succede, Violet?

- Stai bene, Aurore?

Mi domandò, preoccupata. Annuii perplessa a quella strana domanda. Stavo bene, per quanto si potesse dire star bene dopo aver scoperto così tante novità in così poco tempo.

- Sì, fisicamente non c’è dubbio, a parte qualche livido qua e là, ma… quando Alanora ha annunciato l’arrivo di Warren e degli altri, hai fatto una faccia strana.

- Una faccia strana? In che senso?

Violet mi tese le mani, poi mi afferrò le guance e me le tirò affettuosamente.

- Eh?

Mi rivolse un dolce sorriso.

- Una faccia del tipo “Ho una paura matta di rivederlo”!

Arrossii fino alla punta dei capelli, protestando.

- N-Nieffe affaffo!!

 Violet inarcò il sopracciglio.

- Invece sì! Dì la verità, cosa mi sono persa tra te e Warren in tutto questo tempo?

Scossi la testa, liberandomi dalla sua presa. Sentivo il cuore in gola e la mia salivazione era scesa sotto i livelli di guardia per l’imbarazzo. Era persino più facile parlarne con la Croix du Lac che con lei. E non perché non mi fidassi o chissà che cosa, ma proprio perché si trattava di Violet, che aveva la capacità di sparare la verità in faccia a chi aveva di fronte con la stessa grazia di un elefante in tutù al Bolshoi, e per questo, mi metteva di fronte a quello che io stessa avevo difficoltà a realizzare.

- Niente!

Mi affrettai a risponderle, per poi sostenere il suo sguardo indagatore. Mi faceva pensare a mia madre e al modo serafico di estorcere inesorabilmente quello che voleva.

- Non guardami così! E va bene…

Mormorai, imbronciandomi.

- Ti ha baciata?

Avvampai e scossi la testa un migliaio di volte.

- N-Non proprio…

Balbettai, portando le dita alle labbra. Quella sera, alla festa a palazzo Devereaux…

- Ci è andato vicino?

- Vuoi smetterla con queste domande da terzo grado? Stai diventando imbarazzante, Violet!

Lei ridacchiò.

- Scusa, è solo che… insomma, l’ultima volta che te l’ho chiesto mi hai risposto che se ci avesse provato avrebbe avuto il segno delle cinque dita stampato sulla guancia.

Me lo ricordai. Avevamo finito il sit-in di studio e Damien era andato via, mentre Evan mi aspettava nel cortile di casa Hammond. E alla fine, quello schiaffo se l’era beccato ugualmente, ma per aver detto che secondo lui, Evan e io non eravamo neppure davvero fratelli. Portai la mano sul cuore, cercando di calmarmi. Quanti sentimenti si erano agitati in quel cuore da quando ero giunta nel mondo senza luce. Quanto mi sconvolgeva adesso, ritrovarmi a pensare a Damien Warren con la consapevolezza di provare qualcosa per lui. Era bastato che qualcuno me lo facesse notare… no, non era così. Violet si ostinava a farmi capire cosa provassi già da prima che accadesse tutto questo. Forse, allora non riuscivo a vedere oltre. Damien era il despota della scuola, colui che aveva fatto arrabbiare il mio perennemente stoico fratello. E invece, sotto quella facciata di potere e pericolo, c’era un animo in grado di mandare al diavolo tutte le proprie convinzioni per amore del suo fratellino. Sorrisi, nel pensare a quanto sarebbe stato bello vederlo felice insieme a Jamie e a quanto desiderassi aiutarlo a realizzare il suo sogno.

- La verità, Violet… la verità è che lui mi spiazza. Con Damien è un po’ come essere sballottati da un uragano. Ha un sacco di problemi da risolvere, come me, del resto. Ora come ora, ci sono delle priorità e perciò…

- Aurore.

- S-Sì?

- Guardami.

Alzai lo sguardo, incontrando il suo. Ametista e caramello.

- Lui ti piace?

Sorrisi in maniera così timida che non l’avrei mai creduto possibile. Se lo ammettevo, voleva dire che era vero? Mi ritrovai in difficoltà, ma prima ancora di rendermene davvero conto, annuii. Sì, Damien mi piaceva.

- E tu gli piaci?

- N-Non lo so…

Ecco un altro problema di Damien. Non mi aveva mai detto niente che me lo facesse capire. Era più il tipo di persona che agiva, al posto di perdersi in parole. Certo, non che questo fosse un male, ma non riuscivo a capirlo. Non sempre, almeno.

- Lascia che ti dica una cosa. Prima che ti trasferissi a Darlington, Warren era considerato un dongiovanni.

Impallidii di colpo, sgranando gli occhi. Un dongiovanni… Damien? Sì che era piuttosto bravo a flirtare, ma addirittura al punto da essere un dongiovanni… scossi la testa.

- Non ci credo… insomma, lui ha sempre avuto occhi solo per il suo fratellino… dubito fortemente che abbia potuto anche solo concedersi il lusso di pensare a delle ragazze. Insomma, se penso a Evan che…

Violet sospirò.

- Aurore.

- Che c’è?

- Warren non è un sostituto di Evan.

- C-Cosa? Io non ho mai detto che lo è!

Protestai, punta.

- Ma lo lasci intendere. Non fai altro che paragonarli… loro sono molto diversi, credimi.

- Lo so, Violet. Evan è sempre stato musone… mentre Damien… beh, anche lui spesso non è il massimo della loquacità…

- Lo stai facendo di nuovo.

Mi azzittii, risentita. In fondo, Violet non aveva tutti i torti. Mi ritrovai a prendere in considerazione l’ipotesi che Damien pensasse la stessa cosa. Eppure, era stato lui stesso a offrirsi di “fare una faccia alla Evan” quando mi ero risvegliata, spaventata dopo esser svenuta nel palazzo di Blaez, per calmarmi. Però… possibile che tendessi a paragonarli? Sapevo fin troppo bene che quei due erano diversi, ma per qualche ragione, ogni tanto, mi sembrava di rivedere mio fratello in Damien. E questo, non contribuiva affatto a sbrogliare la matassa che mi si agitava dentro. Guardai Violet con gli occhi della morte.

- Vuol dire… che inconsciamente mi piace Evan?

Violet mise la mano in faccia.

- No. Vuol dire che hai le idee confuse e devi imparare a scindere l’amore fraterno… dall’amore vero e proprio.

- I-Io non amo Damien!!

Sollevò il sopracciglio. Io arrossii di nuovo.

- B-Beh…

- Ti batte forte il cuore quando lo pensi?

Posai la mano sul martello pneumatico che avevo in petto e annuii.

- Ti senti in subbuglio quando siete insieme?

Di recente mi era capitato. Annuii.

- Vorresti baciarlo se ne avessi l’occasione?

Ripensai ai suoi occhi verdi nascosti dalla mascherina e alle sue labbra così calde e morbide. Mi umettai le mie, sentendole calde e vi posai sopra la mano libera, tremante d’emozione, guardando Violet stupita.

- I-Io…

- Sì o no?

Incalzò.

Annuii.

- Amica mia, se anche non sei innamorata, è evidente che ti sei presa una bella cotta. Ed era anche ora…

- Violet!!

- Che c’è?

- L-Lui è a pochi passi da m--   da noi… c-cosa devo fare adesso?

Se avevo qualche certezza, tutto quel discorso contorto aveva fatto sì che crollasse. Ero terrorizzata all’idea di rivederlo, nonostante lo desiderassi.

- Stai parlando sul serio?

Annuii meccanicamente.

- Oh mamma mia… ho creato un mostro.

Mi prese per mano.

- Come si suol dire, via il dente, via il dolore!

Senza mezzi termini, Violet mi trascinò dritta sotto al porticato esterno della residenza Cartwright, dove Ruben e Rose erano impegnati a parlare con i loro ospiti. Avevo gli occhi chiusi, sperando di non incrociare subito lo sguardo di Damien, ma quando sentii qualcuno pronunciare il mio nome, li riaprii.

- Ah numi, Aurore!

Amber, i biondi capelli intrecciati dietro la nuca, un mantello bordeaux che le copriva il completo da viaggio, lasciò momentaneamente i suoi interlocutori e corse a prendermi le mani.

- Amber…

Era passato così poco tempo, eppure mi sembrava di non vederci da una vita. Era davvero preoccupata e mi guardava con aria profondamente colpevole.

- Non avrei dovuto acconsentire a mandarvi con Leandrus… se ci fosse stato Shemar, forse… mi dispiace tanto, Aurore…

Le sorrisi, sperando di rassicurarla.

- Va bene così. Ho scoperto così tante cose durante questa settimana… e poi, la Croix du Lac sapeva già di me da molto, per cui, era soltanto questione di tempo…

- L’hai incontrata di nuovo?

Mi chiese.

- L’ho vista, in un’altra visione…

- Sembra che il vostro legame si rafforzi ogni giorno che passa.

Intervenne Blaez, raggiungendoci. Indossava una lunga giacca bianca con dei gigli intarsiati color oro, che si intonavano bene coi suoi capelli biondi.

- Blaez…

- Mi dispiace molto per quel che vi è accaduto, Aurore.

Annuii.

- Non preoccuparti… stiamo bene, come vedi. Ma…

Lo oltrepassai con lo sguardo, cercando Damien e Leandrus.

- Dove sono Damien e Leandrus?

Domandai, non vedendoli.

- Aurore, c’è qualcosa che dovresti sapere.

Mi disse Amber. La guardai sospettosa, e quando il sospetto diventò timore lasciai le sue mani, ritrovandomi a tremare.

- D-Dov’è Damien?

Domandai di nuovo.

- Lui…

- Leandrus lo sta ancora cercando.

Rispose Blaez.

- Che significa?!

Alzai la voce, più di quanto avessi dovuto, tanto che sia Ruben che Rose si avvicinarono a noi.

- Quello che ho detto. Non c’è più traccia di Damien Warrenheim da-- 

- Warrenheim… che strano sentirlo chiamare così.

Commentò Violet. La guardai sconvolta, poi mi rivolsi a Blaez.

- Noi eravamo insieme, al palazzo Devereaux. Lui era ferito…

- Questo non depone a favore, purtroppo. Non con Liger nei paraggi.

Il ricordo della spada insanguinata del comandante Liger mi colpì forte al cuore e indietreggiai.

- No… no, non può essere… non Damien… non lui! E’ una bugia, vero? Damien?! Damien, se vuoi farmela pagare va bene, ma adesso smettila di fare lo stupido ed esci! Vieni fuori, avanti!

Gridai, ma fu solo il vento a rispondere.

- Aurore, mi disp-- 

- Non dirlo nemmeno, Amber!

Mi ritrovai a rispondere, con la testa che man mano si riempiva di pensieri su quello che potesse essere accaduto. Intorno a me, i ragazzi parlavano di rapimento, di uccisione, persino di fuga, nella migliore delle ipotesi. Ma la sola cosa che contava era che Damien non era lì. Caddi in ginocchio, e Ruben mi sostenne, ma la sua voce era così lontana, all’improvviso. E di colpo, fu tutto di nuovo buio. Nel silenzio e nell’oscurità, riuscivo a sentire soltanto i passi. Uno, due, uno, due. Ero io che stavo camminando nel buio?

- Croix du Lac! Rispondimi!

Urlai e la mia voce distorta dall’eco risuonò estranea nelle mie stesse orecchie.

- Sei di nuovo tu, non è così?! Cos’è successo a Damien?!

Purtroppo, stavolta non ottenni alcuna risposta. Quella strega maledetta si divertiva a comparire a suo piacimento, come potevo sperare che rispondesse al mio appello? Mi ritrovai a camminare nel vuoto più assoluto e poi a correre, mentre il dolore e il terrore attanagliavano quello che rimaneva della mia anima. Perché le persone che mi stavano intorno finivano col fare una brutta fine? Era sempre parte della maledizione che aleggiava sulla mia famiglia? Perché proprio Damien, tra tutti? Non riuscivo a trovare le parole per descrivere quella sensazione di angoscia che mi cresceva dentro a ogni passo che facevo. Sarebbe stato più facile lasciarmi andare all’ottenebramento, ma continuavo a correre, sperando in qualche segno, qualcosa che mi facesse capire che Damien era ancora lì, vicino a me, da qualche parte.

- Damien!!

Urlai, e d’improvviso fui colta da una luce accecante e potente, che diradò le tenebre fitte, per poi ritirarsi davanti alle fontane che avevo visto nel mio sogno, la stessa notte che mia madre e mio fratello erano scomparsi. Era tutto così pacifico e serafico. L’acqua scorreva placida dalle giare delle cinque statue di donna, riversata nell’ampio laghetto di diamanti. Mi avvicinai lentamente. Ero scalza, e indossavo un abito bianco con dei larghi spacchi. Al collo, la mia fedele ametista brillava fioca. Quando giunsi sul bordo, mi sedetti e carezzai l’acqua fresca, che si increspò al tocco. Sporsi il viso fino a che non lo vidi riflesso nell’acqua. Ero così stanca e avevo gli occhi cerchiati. Se solo avessi potuto avere un po’ di pace…

- Aurore?

Mi voltai appena, riconoscendo la voce che mi aveva chiamata. Era Amber e assieme a lei, c’era Rose.

- Immagino di non dovermi stupire della vostra presenza qui…

- Se vuoi farlo, fallo pure, ma no.

Rispose Rose. Entrambe indossavano degli abiti semplicissimi, identici al mio, e al collo portavano le pietre. Amber si sedette accanto a me.

- E’ un posto così tranquillo… sarebbe bello stare qui per sempre.

Distolsi lo sguardo, mentre lo dicevo.

- Damien non è morto.

Mi disse.

- Non puoi saperlo.

Risposi.

- Nemmeno tu puoi.

- Tuttavia, rimanere qui non ti aiuterà a trovare la risposta che cerchi.

Disse Rose, raggiungendoci.

- Però… qui non c’è niente…

- Appunto. Non c’è niente. Se Leandrus troverà il tuo Damien, da che parte starai?

Il mio Damien… mio, mio, mio, mio. Mi morsi le labbra, sentendo un dolore fortissimo al petto. Volevo rispondere, ma le parole mi morivano in gola e non ce la facevo. Amber mi rivolse uno sguardo rassicurante e mi prese la mano.

- Quando Shemar ha preso parte alla sua prima missione, ed era la prima volta in assoluto che noi due ci separavamo, per parecchie settimane non ho ricevuto sue notizie. Ero terrorizzata al pensiero che potesse accadergli qualcosa. Gli addestramenti delle guardie imperiali sono rinomati per la durezza e la crudeltà e durante le prime missioni, non mancavano i colpi bassi per mettere alla prova le future guardie. Non è raro che alcune di loro possano perdere la vita e Shemar, in virtù della sua storia familiare, era il bersaglio perfetto. Per tutto quel tempo fui attanagliata da questo pensiero e l’idea che qualcuno potesse venire a bussare alla mia porta dandomi la notizia che più temevo mi angosciava oltre ogni misura.

- Però, sapevi dov’era, almeno…

- No. Non lo sapevo, Aurore. Sarebbe potuto essere ovunque, in qualsiasi zona sperduta dell’Underworld e se gli fosse accaduto qualcosa di male, non ci sarebbe stato nessuno ad aiutarlo.

Pensai a Micheu Joel, che era rimasto da solo in una foresta sconfinata tra Wiesen e Camryn. Se non ci fossero stati i suoi compagni nei paraggi, sempre ammesso che fossero arrivati in tempo, sarebbe morto e nessuno l’avrebbe più ritrovato.

- Amber, ho tanta paura che gli sia accaduto qualcosa di brutto…

Confessai.

- Non possiamo escluderlo, certo, ma rimanere qui non è la soluzione giusta, Aurore. Torniamo a casa, mh?

- E poi, domani ci sarà la cerimonia ad Adamantio. Di certo, sarà più facile scoprire là qualcosa di utile su quello che può essergli accaduto.

Suggerì Rose.

Le guardai entrambe, poi Amber si alzò, tirandomi su. Vidi Rose osservare le statue.

- Sapete… anch’io mi rifugiavo spesso qui quando desideravo stare da sola coi miei pensieri.

Confessò.

- Mi riesce difficile immaginarlo, a dire il vero.

Disse Amber. Ed effettivamente, pensare a Rose Cartwright che desiderava rimanere da sola in un luogo così lontano dal resto del mondo, era davvero qualcosa di strano e di difficile immaginazione. Ma alla fine, tutti noi abbiamo delle coscienze e i momenti in cui si ha bisogno di rimanere soli con se stessi ci sono per chiunque.

- Ragazze…

- Che c’è, Aurore?

Mi domandò dolcemente Amber.

- Grazie per non avermi lasciata da sola…

Sussurrai.

Un sorriso spuntò sui loro volti.

- Credevi che non saremmo venute a prenderti? Dopotutto, siamo tutte delle pari.

Disse Rose. Scossi la testa e mi guardò stupita.

- No. Non è per questo… io non vi considero delle pari… o meglio, mi viene ancora difficile accettare quello che sono… per me, voi siete delle amiche.

Rose arricciò le labbra, Amber mi guardò intenerita.

- E’ lo stesso anche per noi. Vero, Rose?

La Lady del rubino sospirò, portando all’indietro i lunghi capelli rossi.

- Beh… diciamo che sei un tipo alquanto singolare, Aurore Kensington. E di certo, trovo interessante la tua compagnia.

La guardai perplessa, poi mi rivolsi ad Amber, che fece spallucce.

- E’ il suo modo di dirti che ti considera un’amica.

Sorrisi.

- Grazie, Rose…

- Non diventare piagnucolosa. Risparmia le lacrime per quando rivedrai il tuo cavaliere dagli occhi verdi. Piuttosto… è strano, ma quegli occhi mi ricordano molto gli occhi di Amelia…

- Rose, smettila…

Le fece eco Amber.

Dopotutto, però, non aveva tutti i torti. Gli occhi di Amelia erano così simili a quelli di Damien, della stessa tonalità di verde. Ma aggrapparsi a delle osservazioni era quanto di meno affidabile avessi in quel momento.

- Torniamo a casa… domani, ci aspetta una lunga giornata.

Concluse. E fu così che Amber e Rose mi riportarono alla vita.

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Capitolo 36
*** XIV. 2 parte ***


Buonasera! *---* Seconda parte del capitolo! Siccome devo farmi perdonare (Taiga-chan, aggiungi alla lista delle cose da perdonare perché Damien tarderà ancora un po' a farsi vedere... ç___ç), questa parte è bella lunga e con un bel po'... e intendo  davvero un bel po', di rivelazioni... e di ritorni! <3

Ringrazio di cuore, davvero, non so come dirvelo, ragazzi, se non dicendo che vi adoro, Taiga-chan, Giacchan, TheDarkness, per la pazienza e la costanza nel seguirmi nonostante ci metta così tanto ad aggiornare... ringrazio chi mi segue anche solo silenziosamente e chi ha aggiunto questa storia alle seguite! >_< Se volete dire la vostra, fatelo pure!! >_< Ok, alla prossima e buona lettura!! :D

 

 

 

Il mattino seguente, il cielo aveva un chiarore soffuso che mai, da quando ero nell’Underworld, avevo visto. Vivendo oramai nell’oscurità rischiarata dalle luci artificiali, era diventato piuttosto semplice distinguere le variazioni di luminosità, ma quella volta, mi resi conto che stava succedendo qualcosa di straordinario. Era il segno che la Croix du Lac aveva deciso di fare una nuova mossa. Durante la notte precedente, rinfrancata dal supporto di Violet, di Amber e di Rose, avevo deciso di raccontare loro quello che avevo scoperto. Sapevo bene che non avrei provato alcuna sensazione di liberazione nel dirlo e immaginavo che raccontare loro che mio padre era l’uomo che aveva scaraventato l’Underworld nell’oscurità avrebbe significato rischiare di perdere il loro favore, ma mi resi conto che loro avevano già intuito qualcosa e che le mie parole erano state la conferma alle loro ipotesi. Quando domandai loro cosa comportava questa notizia, fui rincuorata da Amber, che già in passato, mi aveva fatto notare come sembrasse strano per loro che una sola persona fosse stata responsabile della situazione in cui l’Underworld si era ritrovata. Per giunta, scoprii che i nobili della nuova generazione non credevano nella colpevolezza assoluta di mio padre e persino che la stessa famiglia Trenchard aveva aiutato i miei genitori, quando avevano avuto bisogno d’aiuto. Per giunta, Amber mi fece notare che Angus era partito da Shelton qualche giorno prima, per recarsi ad Adamantio. Quella strana coincidenza mi fece ripensare all’anziano che mi aveva rivelato la storia della mia famiglia… possibile che fosse Angus? E perché nascondersi? Ma soprattutto, perché cercare redenzione nei confronti di mio padre? Sperai che a tempo debito, anche quelle domande potessero trovare risposta. Fino allora, stabilimmo che una volta arrivati ad Adamantio, avremmo cercato di trovare mia madre e Jamie, che secondo Arabella erano prigionieri nel palazzo di diamante. Quando raccontai loro di quella ragazza, sembrò come se quel nome fosse loro familiare, ma per qualche motivo, nessuno ricordava con precisione dove l’avesse sentito. Per di più, dovevamo trovare anche Andres Oliphant, che stando alle parole di Blaez, era un membro del Consiglio degli oligarchi, esattamente come Angus e il professor Warren. In che modo avrebbe potuto aiutarci? Così, decidemmo che mentre Amber, Rose, Ruben e Blaez avrebbero preso parte alla cerimonia in quanto capifamiglia e custodi delle Pièces, io e Violet, assieme alla scorta di Ruben, avremmo cercato la mamma e Jamie. Certo, c’era la possibilità, per non dire la certezza, che entrambi prendessero parte alla cerimonia e persino che fossero i pezzi forti, motivo per cui, occorreva agire più velocemente possibile. Fu così che quella mattina ci recammo finalmente ad Adamantio, la capitale dell’Underworld. Già da quando varcammo i confini del cuore dell’Impero, tutto sembrava diverso. Mentre i quattro territori che circondavano Adamantio erano, in un certo senso, selvaggi, per via della vegetazione fitta e rigogliosa, il centro dell’Underworld era caratterizzato da pochissimi elementi naturali, se si escludevano le convergenze dei quattro fiumi principali, che facevano da divisori tra i vari confini. Adamantio era incredibilmente popolato. Cittadine ovunque, gente da ogni dove, confluita certamente per la cerimonia, ma di sicuro, c’era da tenere in considerazione i residenti. Era tutto affascinante, molto più moderno, anche, ma con un occhio di riguardo per la tradizione. In corrispondenza delle convergenze dei fiumi sorgevano i templi dedicati alle Pièces, ed esattamente al centro della capitale, Chalange, sorgeva il palazzo imperiale, col Sancta Sanctorum in cui viveva Croix du Lac. Rimasi davvero a bocca aperta, così come Violet, nel vedere quella città. Più grande persino di Darlington, trionfo di architetture maestose e classicheggianti. Ovunque, dove si guardasse, si poteva rimanere senza parole nell’osservare le pregiatissime costruzioni in granito rosato, uno dei più belli esistenti, ricche di porticati finemente dipinti. Era come se Adamantio fosse una sorta di compendio di tutte le bellezze e gli stili che coesistevano in quel mondo. Nelle grandi piazze c’erano fontane che raffiguravano animali mitici, e carrozze, carrozze ovunque. I ponti poi, erano stupendi. Grandi e in pietra, con torrette che un tempo, probabilmente, servivano da guardia. Per non parlare del profumo di magia che si respirava… era come se quel luogo ne fosse intriso, ed era pieno di vita. Era da così tanto che non ne vedevo...

Quando arrivammo presso la residenza che i Cartwright possedevano ad Adamantio (e in quell’occasione scoprii che tutte le famiglie nobili facenti parte dell’oligarchia avevano almeno un possedimento in città), Ruben ci propose di rimanere lì. Dal momento che in molti sospettavano il coinvolgimento di Amber nella vicenda che mi riguardava, non era il caso di esporla ad altri rischi. Personalmente, fui d’accordo, sebbene fossimo tutti consapevoli che la verità sarebbe venuta a galla, e probabilmente era solo questione di tempo. Poi fu il turno di Blaez, che mi fece vedere un ciondolo in tutto e per tutto uguale al mio. Sulle prime, ebbi per un istante il dubbio che fosse proprio quello, ma l’originale era al mio collo. Blaez spiegò che quel ciondolo sarebbe stato in mano ad Amber, che formalmente era in possesso dell’ametista smarrita. La precisione con cui era riprodotto e il brillio avrebbero ingannato chiunque avesse pensato male. Non sarebbe stata una soluzione duratura, certo, ma quantomeno, avremmo preso tempo. Fu così che prendemmo congedo da Blaez e Amber, almeno per qualche ora, fino alla cerimonia. La mia amica mi strinse forte, prima di salutarmi.

- Credi in te stessa, Lady dell’ametista, mia cara Aurore.

Mi disse.

- Grazie, Amber… fa’ attenzione, ti prego.

Risposi, ricambiando quell’abbraccio.

Poi, quando ci congedammo, varcammo la soglia del palazzo, in perfetto stile Cartwright. Trovammo ad attenderci Gourias, che era stato mandato da Ruben a verificare le sorti di Micheu Joel. Quando il Lord del rubino gli chiese l’esito della sua indagine, Gourias rispose che al suo arrivo, non vi era più alcuna traccia né di Micheu né dei cadaveri delle guardie imperiali che erano state fatte fuori. Quella risposta mi tranquillizzò, in un certo senso, ma sapevo che per i ragazzi, c’era sempre un margine di rischio, nonostante Micheu si fosse rivelato sincero con noi. Poi, una volta ricomposti i gruppi, fu il nostro turno di congedo.

- Aurore, Violet. Voi due starete insieme a Einer ed Eyde. Ci penseranno loro a proteggervi, ma non lasciateli per nessun motivo. Aurore, niente colpi di testa, qualunque cosa accada, stavolta.

Disse Ruben. Violet annuì e così feci io. Einer e Eyde si scambiarono un’occhiata determinata.

- C’è dell’altro. La Croix du Lac si mostrerà, dunque sarà meglio che tu non ti trovi nei paraggi quando questo accadrà. Altrimenti, tutti i nostri sforzi di segretezza risulteranno vani e beh…. qui basta poco per essere condannati.

Continuò Rose. Compresi bene la portata di quell’ammonimento, considerando la sorte che era toccata a mio padre e ai nobili della penultima generazione.

- Cosa proponi, Rose?

Le domandai. I suoi occhi color lavanda si strinsero in riflessione.

- Il modo migliore per nascondersi è confondersi nella mischia.

Osservò Violet. Rose e Ruben la guardarono perplessi.

- Se Aurore nasconde il ciondolo, non corre rischi, no? Dunque, sarà sufficiente stare tra la gente. Non potete impedirle di vedere coi suoi occhi cosa accadrà, del resto.

- Escluso.

Rispose Rose, tagliente.

- Sorella, aspetta. Dopotutto, Violet non ha torto.

Rose rivolse un’occhiataccia al gemello.

- Tu diresti che va bene anche solo se lei ti dicesse di puntarti la spada alla gola e sgozzarti.

- Non è così.

Contestò Ruben, rivolgendole la stessa occhiata. Quei due erano il giorno e la notte e più li guardavo, più ne avevo conferma.

- In fondo, Aurore è qui per una ragione. E forse, il momento di lasciar cadere le nostre maschere è prossimo. Dopotutto, avevamo già deciso di fare qualcosa, e si tratta solo di attendere il momento migliore. Quando la Croix du Lac si mostrerà e conosceremo le sue intenzioni, almeno avremo la possibilità di vedere in faccia il nemico e di agire. Che male c’è a darvi un’accelerata? E comunque, mischiarsi alla popolazione che interverrà alla cerimonia è un ottimo modo per nascondersi. Non darà nell’occhio, se il ciondolo sarà nascosto.

- Ruben…

Mormorai.

Il ragazzo mi sorrise gentilmente.

- Tuttavia, vale sempre il non fare di testa propria. Anche perché, di certo non mancheranno Liger e i suoi.

Annuii, cercando di nascondere il fremito all’idea di rivedere quell’uomo.

- Quanto a tua madre e al fratello di Warrenheim… di certo, al momento non possiamo fare nulla per portarli via. Non abbiamo agganci, né aiuto. Sarebbe una missione suicida adesso. Per ora, limitiamoci a osservare. In più, cercherò Andres Oliphant, per capire se sarà dei nostri. Hai ancora con te il ciondolo di Joel?

- Sì, naturalmente!

Esclamai, raccogliendolo dalla tasca e porgendoglielo. Il sigillo di Wiesen spiccava in tutto il suo valore. Ruben lo prese in mano, sotto lo sguardo scettico di Rose.

- Ruben?

Lo chiamò Violet, con un tono piuttosto preoccupato. Lui la guardò, rivolgendole uno sguardo rassicurante. Per quanto sembrasse sicuro di sé, tuttavia, era piuttosto facile immaginare quanto fosse inquieto. Tuttavia, fu piuttosto bravo a non darlo a vedere. Rose sospirò.

- Beh, sarà il caso che vada a prepararmi. Ci rivediamo.

- Grazie, Rose… ci rivediamo, sì…

Sussurrai, cercando di farmi forza.

- E piantala di fare quell’espressione così mogia, è snervante. Sei pur sempre una Lady delle Pièces. Dignità e orgoglio, ricordatelo.

Dopo aver detto quelle parole, che in qualche modo mi ritrovai ad apprezzare, considerando che si trattavano di una sorta di incoraggiamento, Rose se ne andò verso le sue stanze.

Mi ritrovai a guardare Ruben e Violet. Lui l’aveva stretta in un forte abbraccio e Violet era dolcemente appoggiata al suo petto. Istintivamente, mi strinsi le braccia, pensando a Damien e alle volte che mi aveva stretta a sé. Quanto l’avevo detestato un tempo… poi sentii dei brusii dietro di noi e voltandomi, vidi i ragazzi. Quasi quasi m’ero scordata che erano stati lì per tutto il tempo. Ridacchiavano, persino quando Ruben fece loro segno di andar via e lasciarli soli. Divertiti, obbedirono all’ordine del loro signore. Sorrisi, poi li lasciai soli anch’io. Quel momento era solo loro e non era giusto rimanere a fare il terzo incomodo. Mi sedetti sugli scalini, in disparte, a guardare il cielo di Adamantio e a sperare che poco distante, nel palazzo di diamante, la mamma e Jamie stessero guardando a loro volta quel panorama.

 

Circa un paio d’ore più tardi, nascoste dai mantelli e opportunamente camuffate con abiti e acconciature popolane, Violet e io, scortate da Eyde e Einer, giungemmo al palazzo di diamante provviste di cesti colmi di fiori freschi. Com’era facilmente prevedibile, la sorveglianza era alta e il posto brulicava di guardie imperiali. Il palazzo era enorme, molto più grande delle residenze delle famiglie nobili che avevo visto fino a quel momento. Dopotutto, si trattava pur sempre del luogo in cui si stabiliva il Despota per regnare sull’Underworld. “Una sorta di Casa Bianca”, mi fece notare Violet, bisbigliando. Quel commento mi fece sorridere. Rimasi davvero stupita nel vedere la maestosità di quel colonnato di marmo scultoreo che circondava la facciata del palazzo, per aprirsi sull’entrata, che a sua volta troneggiava su un ampio spiazzo che si diramava a stella, nelle direzioni che indicavano i vari territori che formavano l’Underworld. Compresi che si trattava proprio di quello poiché all’inizio di ogni corridoio alberato vi era un arco, con sopra una statua con sembianze femminili, nelle cui mani aperte a coppa vi era una pietra, di diverso colore. Istintivamente, fui attratta da quella viola. La strada per Challant. Per giunta, impresso nella pietra, su ogni arco era inciso il canto di ognuno dei territori, con l’esclusione di quello di Adamantio. Al centro dello spiazzo, poi, vi era una fontana molto grande, a tre piani, con in cima un sigillo molto elaborato a forma di croce. La Croix du Lac, così com’era probabilmente stilizzata per gli artisti, immaginai. Tutto intorno alla residenza, poi, si ergeva un muro perimetrale di circa due metri, intervallato spesso da aperture che componevano disegni armoniosi e perfettamente in linea con la natura. Era così suggestivo che era facile incantarsi. Lo stesso valeva per la residenza stessa. I balconi, tanti, si ergevano come dei baldacchini, ed era facile immaginare quante volte il Despota e la sua famiglia si erano affacciati, a contemplare lo spettacolo che si estendeva davanti ai loro occhi. Si diceva perfino che dal palazzo di diamante era possibile vedere i confini di quel mondo. Pensai a mia madre, che aveva sicuramente vissuto in quel luogo, e mi feci forza. Lei era lì, a pochi passi da me e non potevo più esitare. Eyde fece un colpetto di tosse, e lo guardai. Sia lui che Einer avevano indossato le uniformi degli imperiali, comprese di maschere. Alanora aveva cucito sui guanti il sigillo di Adamantio, probabilmente per evitare che fossero collegati a Camryn se fossero stati scoperti.

- Andiamo.

Disse. Violet e io ci guardammo, poi ci rivolgemmo alle guardie di servizio all’entrata.

- Mi chiamo Maeve e lei è mia sorella Enora. Siamo venute a portare dei fiori per la cerimonia.

Dissi, inchinandomi. Così fece anche Violet, delicatamente.

- Dobbiamo controllare.

Disse una delle guardie e io assentii. Ovviamente, all’interno dei cesti non c’era nulla tranne che dei meravigliosi fiori tipici di Adamantio, molto simili a delle calle bianche. Dopo aver controllato, ci dettero l’autorizzazione ad entrare. Senza mai alzare lo sguardo, sia Violet che io varcammo la soglia del palazzo, seguite dai nostri guardiani, che di sicuro, non avevano avuto bisogno di verifiche. Se mi ero meravigliata dell’esterno, non potei non farlo dell’interno. C’era una tale raffinatezza negli arredamenti e negli accostamenti di colore che non potei non pensare al gusto di mia madre. Il suo lavoro, dopotutto, era quello di arredatrice, e aveva grande successo, considerando il suo occhio per la bellezza e per la finezza. Vedendo quel luogo, non mi stupii più del motivo per cui aveva scelto quell’occupazione. Lungo le pareti, in marmo anche quelle, c’erano diverse nicchie, nelle quali qua e là si trovavano dipinti squisiti che raffiguravano l’Underworld in tutta la sua gloria e dei maestosi candelabri in oro e diamanti illuminavano tutti i corridoi che si diramavano nel palazzo. C’erano poi una moltitudine di vasi pieni di fiori, e dei tappeti rossi che proseguivano sino alle scalinate che cingevano il grande atrio che portava al piano superiore. Tutto intorno c’era un affaccendarsi di servitù impegnata negli ultimi preparativi.

- Dove andiamo adesso?

Bisbigliò Violet.

La guardai con la coda dell’occhio, poi mi voltai verso Eyde.

- Le stanze di Lady Cerulea si trovano al secondo piano. Ma immagino che sarà difficile avvicinarsi così tanto.

Certo, l’avevo messo in conto, e Ruben era stato chiaro. Per di più, quello che era successo a palazzo Devereaux era stato già abbastanza e non volevo che accadesse altro ai miei amici. Annuii a Eyde.

- Portiamo questi fiori al maître e vediamo cosa ci dirà lui. Mi basta sapere che mia madre e Jamie stanno bene.

Dissi, dirigendomi verso l’atrio. Violet e i ragazzi mi seguirono e ci ritrovammo ben presto in quell’ampio salone, sul cui soffitto si estendeva una cupola di cristallo che rifletteva la luce. Un tempo, quella sala doveva essere stata luminosissima.

- Cosa ci fate voi qui?

Chiese una voce femminile che ci fece trasalire. Per un attimo temetti che qualcuno ci avesse scoperto, poi quando ci voltammo, vidi una donna di più di mezz’età che ci guardava con un’espressione niente affatto accondiscendente, che mi ricordava Sybille arrabbiata quando non venivano rispettati i suoi dettami. Dall’abito, ipotizzai che si trattasse di una governante. Sarà lei!, pensai, e mi inchinai.

- Vi chiedo scusa per l’intromissione. Il mio nome è Maeve e insieme a mia sorella Enora, ho portato dei fiori freschi.

Violet si inchinò a sua volta.

La donna ci studiò ben bene, poi rivolse un’occhiata a Einer e Eyde.

- In realtà mi riferivo a voi. Non avete altro da fare se non andar dietro a delle ragazzine?!

Sobbalzai, ma evitai di voltarmi.

Fu Einer a rispondere.

- Signora, è nostro dovere scortare chiunque entri nel palazzo di diamante, oggi soprattutto.

La donna sbuffò.

- Voi e tutta questa smania di controllo. Aspettate qui. Lady Cerulea non vuole vedere guardie, almeno fino alla cerimonia. Voi due, venite con me.

Disse, girando i tacchi e incamminandosi sulle scale.

Rimasi senza parole. La mamma non voleva vedere delle guardie… e quella donna aveva sicuramente avuto contatti con lei. Il cuore mi batteva tanto forte da non riuscire a tenerlo sotto controllo. Violet mi sorrise, poi si alzò a sua volta. Mi alzai anch’io, raccogliendo il cesto e guardando Einer e Eyde. I due annuirono appena, nascosti dalle maschere sul volto. Poi seguimmo la donna, che era oramai arrivata al piano superiore.

- Quanta fatica… oramai ho una certa età io.

Si lamentò, sollevando le gonne per evitare di inciampare. Era piuttosto bella, nonostante le rughe che conferivano al viso tondo un aspetto severo. Aveva i capelli bianchi raccolti in uno chignon identico a quello che spesso vedevo anche su mia madre. Nel corridoio che portava al secondo piano, incrociammo altre guardie, e d’improvviso, quando sembrava che avessimo tutto a portata di mano, una seconda voce, tra le guardie, mi fece irrigidire.

- Questa sera, finalmente…

Disse.

Non mi voltai, ma anzi, tirai più su il cappuccio. Persino Violet l’aveva riconosciuto. Diversamente dalle altre guardie, non portava la maschera. Era da tanto che non lo vedevo, ma non avrei mai potuto sbagliarmi. Aveva i capelli castani più lunghi dell’ultima volta che l’avevo visto, ma il sorriso era infido tanto quanto lo ricordavo. Il professor Warren era a pochi passi da noi. Pregai con tutta me stessa che non decidesse di fermarsi. Guardò la donna che ci accompagnava, rivolgendole un saluto a mezzo inchino.

- Cara Alizea, andate a far visita a Milady?

Alizea, questo era il nome della donna dunque, sbuffò.

- Dovrei portarle i vostri saluti, Milord?

- Mpf. Ci ho già pensato io.

A quelle parole, strinsi più forte il cesto e sentii il peso del ciondolo che avevo ben nascosto sotto i vestiti, premermi sullo sterno. Non avrei mai creduto potesse essere possibile provare tanto odio per una persona, ma quell’uomo era quanto di più perfido esistesse al mondo.

- Andiamo.

Ordinò Alizea, e la ringraziai col pensiero per aver evitato di andare oltre. Non sapevo per quanto avrei potuto sopportare anche solo il sentire la voce di quel bastardo che non solo aveva catturato mia madre e Jamie, ma aveva provocato la morte di mio fratello e sorrideva, senza nemmeno curarsi del fatto che il suo primogenito potesse essere nell’Underworld, chissà dove. Violet mi urtò appena col gomito, una volta che fummo al secondo piano e io la guardai.

- Tutto ok?

Disse, senza voce, ma solo col labiale. Annuii, prendendo fiato.

Eravamo giunte nelle stanze in cui risiedeva mia madre. C’erano diversi archi in legno in quel corridoio, perfettamente incastonati nel marmo, che facevano da contrasto al bianco. C’era profumo, uno squisito e nostalgico profumo di the alle rose, il preferito della mamma. Mi vennero le lacrime agli occhi, tanto che dovetti asciugarle in fretta, prima che Alizea se ne accorgesse. Quando aprì la porta, bianca, con inserti e maniglie in oro, fu la prima a entrare.

- Muovetevi.

Ordinò e noi obbedimmo. Poi richiuse la porta. All’interno, la stanza era grande e vi troneggiava un baldacchino dalle cortine pesca. C’erano un grande comò d’avorio e un tavolo per la toeletta seminascosto da un separé, pieno di trucchi e profumi. Vicino alla finestra, con la tenda leggera chiusa, c’era un tavolino, su cui vi era ancora fumante una tazza di the.

- E’ stupenda…

Osservò Violet, incantata.

Cercai di non piangere di nuovo, nemmeno quando riconobbi lo stile inconfondibile della mia mamma.

- D-Dov’è Lady Cerulea?

Chiesi ad Alizea.

Si voltò a guardarmi, poggiando le mani sui fianchi. La sua espressione si accigliò nuovamente, e pensai di essere stata sfacciata e imprudente. Per di più, dovevo essere pallidissima.

- V-Vi chiedo perdono, non volevo…

La donna affilò lo sguardo, poi si voltò verso i bagni.

- Celia. Sono io!

Esclamò, con un tono alquanto informale.

Rimasi per qualche istante perplessa e mi sporsi a guardare. Così fece Violet, e quando sentii la voce della mamma che sospirava mi si mozzò il fiato e il cesto mi cadde di mano.

- Au-- 

Violet si voltò immediatamente verso di me, preoccupata e così fece Alizea. Ma il mio sguardo era fisso sui bagni e tutto il resto, in quel momento, non esisteva. E poi la mamma comparve. Indossava un abito lungo in chiffon, color perla e senza maniche, e aveva i capelli biondi raccolti appena, con un fermaglio d’argento a forma di fiore sul lato. Sgranò i suoi meravigliosi occhi azzurri e la sua bocca rosea si aprì in una muta esclamazione. Era incredula tanto quanto me, persino quando ci ritrovammo a camminare febbrilmente l’una verso l’altra.

- A-Aurore?

Domandò, con la voce tremante.

- Mamma…

Sussurrai, senza più riuscire a trattenermi.

- Mamma!

Esclamai, correndo ad abbracciarla.  

- Angelo mio!

Esclamò a sua volta, stringendomi con tale forza da non riuscire quasi a respirare. Mi inebriai di tutto il suo profumo, mentre con le mani mi toglieva il cappuccio e mi accarezzava impazientemente i capelli. Piangevamo entrambe, e mi baciò la fronte e le guance così tante volte che mi sembrò di essere tornata bambina. Sorridevamo, incredule entrambe, e ci stringevamo, sotto gli occhi di Violet e di Alizea.

- Aurore, bambina mia… mi dispiace… mi dispiace!

- Va tutto bene, mamma!! Mi sei mancata così tanto!!

La mamma annuì, bisbigliando un “Anche tu”, tenendomi stretta a sé, poi guardò Violet.

- Violet, mia cara, ci sei anche tu, vedo…

La mia amica annuì, sorridendo felice e commossa. La mamma mi rivolse un altro sguardo, baciandomi ancora, poi si rivolse ad Alizea.

- Sei stata tu, eh?

Alizea agitò la mano a mezz’aria.

- Quegli occhi… non appena l’ho vista non ho potuto sbagliarmi. Me ne avete parlato così tante volte che era proprio come l’avevo immaginata. Devo dire che è davvero identica a suo padre.

- Già… è proprio così…

Sorrise, con la tristezza che conoscevo quando si parlava di papà. Chissà se sapeva qual era stata la sorte che gli era toccata, oppure se l’aveva appreso una volta tornata nell’Underworld. Certo era che non sapeva che io avevo scoperto chi fosse mio padre.

- Mamma?

- Mh?

Mi accarezzò la guancia, dolcemente.

- So tutto, mamma… so che mio padre era Greal Valdes… e so che è innocente…

Le dissi, cercando di rassicurarla. Vidi il suo bel viso sconvolgersi, e i suoi occhi ancora umidi si riempirono di lacrime. Portò la mano alla bocca, singhiozzando.

- Va tutto bene, mamma…

La abbracciai forte e ricambiò il mio abbraccio. Quando si riprese, mi strinse forte le mani, poi raggiungemmo Alizea e Violet.

- Hai dovuto affrontare tutto quanto da sola, bambina mia… e anche tu, Violet… sono davvero mortificata per tutto quello che avete dovuto superare…

- L’ametista che mi hai dato, mamma, mi ha protetta…

Dissi, raccogliendola da sotto al vestito. La mamma sorrise, annuendo, mentre il mio ciondolo risplendeva pulsando.

- Da quanto non vedevo l’ametista… dunque, non è in mano ad A---

Mia madre la zittì, facendo cenno di fare silenzio.

- Però, non sono sola… con me c’è… c’era anche Damien…

- Damien?

Mi fece eco Alizea.

- Il figlio di Lionhart.

Spiegò la mamma.

- Stiamo cercando anche Jamie… solo che Damien e io ci siamo separati, a un certo punto… anche se non per nostra volontà…

Spiegai, raccontandole pur sommariamente, ciò che era accaduto a Wiesen.

- Capisco…

- E poi, mamma… Evan è…

Abbassai lo sguardo, sperando di non doverlo dire di nuovo. Non ce ne fu bisogno, perché la mamma mi strinse forte, facendomi intendere di averlo già capito.

- Indossi il suo braccialetto…

- Sì… l’ho trovato nei sotterranei dello Stonedoor la sera che siamo partiti…

- Dunque, è già tanto che sei qui…

Annuii. Quante domande che necessitavano di risposte… e quanto poco tempo a disposizione.

- Mamma, Jamie sta bene, vero?

La mamma fece cenno di sì con la testa.

- Lui risiede in un’altra ala del palazzo, ma ho avuto modo di vederlo spesso. E’ un bambino meraviglioso, che ben poco ha del padre.

- Già… e anche Damien è così…

Osservai, accennando un sorriso.

Alizea ci guardava.

- C’è una cosa che non capisco. Come avete fatto ad arrivare fin qui? Quelle due guardie che vi scortavano non si sono accorte di niente?

Violet le fece l’occhiolino.

- Sono conoscenti.

Spiegò, senza andare oltre, ma sia Alizea che la mamma compresero a volo.

- Celia, vostra figlia è tale e quale a voi quando si tratta di macchinare complotti.

Disse, a sorpresa e con un tono alquanto accusatorio.

- Che vuol dire?

Domandai, stupita. La mamma sospirò, sorridendo appena.

- Beh… diciamo che quando avevo la tua età, ero piuttosto brava a muovermi senza destare sospetti. Almeno fino a che non ho incontrato Greal…

Sorrisi anch’io. Era la prima volta che la mamma parlava di papà con il sorriso sulle labbra e senza piangere. Avrei tanto voluto ascoltare quella storia, ma purtroppo per noi, non avevamo tempo a sufficienza.

- Mamma, ascolta… ora non possiamo portarvi via da qui. Dopo la cerimonia, cercheremo un modo per riuscirci. Ti prego solo di resistere ancora e di aver pazienza, va bene?

I suoi begli occhi mi guardarono improvvisamente preoccupati.

- Aurore, che stai pensando? Tesoro, non è un gioco, è pericoloso. E non voglio che accada qualcos’altro a te… né a Violet, certo… dovete tornare a casa, non è sicuro…

- No!

Esclamai, stringendola forte e guardandola, sperando di risultare risoluta abbastanza da farle capire che non avrei desistito per nulla al mondo. Oramai ero lì e avrei fatto di tutto per salvarli e per cambiare le sorti di quel mondo.

- Mamma… non sono sola, te l’ho detto. Ti prometto che non mi accadrà nulla. L’ametista mi proteggerà! E poi, sia tu, che papà, che Evan, siete tutti accanto a me.

- Bambina mia…

Alizea sollevò la mano a grattarsi il mento.

- Non sta dimenticando forse qualcuno?

Domandò. La mamma la redarguì. Violet e io la guardammo.

- Beh… mi riferisco a…

Improvvisamente, mi venne in mente Arabella, la ragazza che mi aveva detto che la mamma e Jamie si trovavano nel palazzo di diamante. Già, dopotutto, lei mi aveva aiutata, nonostante la difficoltà della sua situazione. Guardai la mamma.

- Arabella.

Ricambiò il mio sguardo con improvviso dolore e si morse le labbra.

- Mamma?

- Come conosci questo nome?

Mi domandò, in pena.

- E’ stata lei a dirmi dove eravate tu e Jamie. L’ho vista in sogno… lei è… l’altra parte della Croix du Lac, giusto?   

- Oh, numi di Adamantio!

Esclamò Alizea, sollevando entrambe le braccia al cielo.

La mamma mi accarezzò i capelli, giocando con una delle mie ciocche corvine, poi le sue dita scivolarono calde sulla mia guancia. Esitò per alcuni istanti, come se volesse dirmi qualcosa di importante, ma non riuscisse a trovare le parole giuste, o come se fosse un segreto e fosse combattuta. Ma c’erano stati così tanti segreti fino a quel momento, e dopo aver scoperto di mio padre, cosa poteva esserci di ancor più doloroso da non poterne parlare? Infine, la mamma si fece forza, deglutendo e guardandomi seriamente.

- Arabella non è l’altra parte della Croix du Lac. E’ più corretto dire che la Croix du Lac ha preso il suo corpo, quasi diciassette anni fa. Era così piccola…

Prese fiato, poi mi strinse forte le mani.

- Arabella è la mia prima bambina. La prima figlia mia e di Greal… tua sorella maggiore, Aurore.

Disse, appena sussurrando, come se avesse paura di dirlo ad alta voce. Sgranai gli occhi, avvampando. Arabella… mia sorella maggiore? Quella ragazza che avevo visto nelle mie visioni era mia… sorella? Per diversi, lunghissimi istanti la portata di quella nuova rivelazione mi sconvolse al punto che non riuscii nemmeno a immaginare come potesse essere possibile. Certo, per qualche strana ragione che non riuscivo a comprendere fino a quel momento, mi sembrava così familiare, così simile alla mamma, ma con gli occhi color ametista, sebbene appena appena più scuri dei miei. Arabella, la ragazza che mi aveva aiutata, rivelandomi dove si trovavano la mamma e Jamie, colei che era stata sacrificata alla Croix du Lac, la sua ultima vittima… era mia sorella? Era quello il motivo per cui eravamo così legate, sebbene non conoscessimo nulla l’una dell’altra? Era forse per questo che eravamo così in connessione? Arabella…

- Mia… sorella?

Domandai, sentendo la mia voce risuonare estranea nelle mie stesse orecchie mentre lo domandavo.

La mamma, che si era portata dentro questo segreto per tutti questi anni, sembrava così indifesa, in quel momento. Aveva fatto di tutto per crescere me ed Evan senza mai farci pesare la vita senza un padre, e adesso, avevo scoperto persino di avere una sorella di cui ignoravo l’esistenza, ma che per qualche motivo, sentivo che mi era stata accanto, da molto prima, probabilmente, di rendermene conto. Probabilmente un tempo mi sarei arrabbiata, o avrei provato delusione nei confronti di questo ennesimo e così importante segreto, ma alla luce di tutto ciò che era accaduto da quando le guardie della Croix du Lac erano giunte nel nostro mondo, distruggendo la mia vita così com’era stata fino a quel momento, mi era impossibile provare sentimenti del genere. Troppa sofferenza aveva scosso l’esistenza stessa di mia madre. Aveva perso l’amore della sua vita, e ciononostante, gli era rimasta fedele per tutti questi anni, senza mai anche solo frequentare altri uomini. Aveva cresciuto me ed Evan, le sole cose belle che le rimanevano di lui, il miracolo che era nato da un amore grande e sfortunato. E aveva perso anche una figlia. Non ero madre né potevo mai immaginare se lo sarei mai diventata in futuro. Ero troppo giovane e non potevo sapere cosa significava perdere un figlio. Ma la mamma lo sapeva e indietro, in questo mondo privato della speranza, aveva perduto la sua prima bambina, il primo frutto di quell’amore così importante. Non potevo nemmeno pensare a quale dolore si portasse dentro da così tanto tempo, ma nonostante tutto, capivo la sua decisione di risparmiare a se stessa il dover ammettere ad alta voce di aver perso due persone fondamentali della sua vita. Anch’io avevo ancora timore a dire che il mio Evan non c’era più. E comprendevo il suo voler risparmiare anche a me un altro, ulteriore dolore. Ma Evan… Evan, il cui cuore era un mistero, sapeva che avevamo un’altra sorella? Ripensai immediatamente a Rose e Ruben. Arabella avrebbe avuto la stessa età di Evan, probabilmente. Dunque… erano gemelli? Era per questo che mio fratello era sempre triste, come se gli mancasse una parte di sè?

- Mamma… Evan sapeva di lei?

Chiesi, così tanto bisognosa di risposte. La mamma fece per dire qualcosa, poi chiuse gli occhi. Accanto a noi, Alizea aveva l’espressione affranta di chi avrebbe voluto tacere a tempo debito, mentre Violet era incredula e confusa tanto quanto me. Povera la mia amica, che si era ritrovata suo malgrado testimone di tutta la mia folle storia familiare.

- Aurore, ti dirò ogni cosa, te lo prometto, angelo mio. Ti dirò tutto, una volta che il pericolo sarà passato. E’ troppo complicato da spiegare, adesso.

- Mamma, dimmi solo se Evan…

- Lo sapeva. Sì, Evan sapeva ogni cosa.

Mi rispose, dando conferma ai miei sospetti. Poi mi attirò a sé, stringendomi forte, mentre i singhiozzi la scuotevano.

- Ti chiedo scusa, Aurore… scusa…

Deglutii, cercando di ricacciare indietro le lacrime, nella speranza che anche la mamma facesse lo stesso. Non volevo vederla piangere. L’avevo sempre vista forte, nonostante il dolore che si portava dentro. Era sempre stata la nostra colonna portante, e ora, dopo aver aperto il suo cuore, era improvvisamente fragile e insicura. Per di più, mi chiedeva scusa… la mia mamma…

- Va tutto bene, mamma… va tutto bene…

Le sussurrai, cercando la sua guancia vellutata e inumidita con la mia. Per la prima volta in tutta la mia vita, ero io a doverla consolare. Per una volta, dopo tutte le volte che era stata lei ad asciugare le mie lacrime e a fermare i miei singhiozzi. Le presi il volto tra le mani, arrossato dal pianto, e sorrisi. Non avevo mai sorriso così in vita mia. Non sapevo nemmeno di esserne capace. Volevo solo che la mamma smettesse di piangere.

- Mamma… quando tu e Jamie sarete in salvo, allora promettimi che mi racconterai ogni cosa… di papà, di Arabella… di chi era Cerulea Rosenkrantz… e troveremo il modo di riportare tra noi Arabella, così che sia papà che Evan… sì, insomma, così che anche loro potranno essere felici, finalmente…

La mamma mi guardò interdetta, poi si fece coraggio, annuendo e baciandomi i palmi delle mani.

- Ricorda, mamma… sei stata tu a dirmi che nulla può cancellare lo splendore della mia anima… ma se la mia anima risplende è solo perché tu mi hai dato la forza di affrontare le avversità. Il tuo coraggio, la tua forza e anche la tua testardaggine… tutto questo ha fatto sì che arrivassimo fino a qui. Mamma, non possiamo fermarci ora. Per questo, credi in me… ti prometto che andrà tutto bene!

- Aurore…

Sorrise, finalmente, poi poggiò la fronte contro la mia. Un gesto che faceva sempre quand’ero bambina, e che aveva fatto anche Arabella, l’ultima volta che mi era apparsa in una visione.

- Lei sta bene, mamma… Arabella sta bene e quando la vedrò, la prossima volta, le dirò che sua madre non l’ha dimenticata e che la ama…

Bisbigliai, senza riuscire a trattenere le lacrime, stavolta. Per quanto mi ripromettessi di essere forte, alla fine, sembrava proprio che non riuscissi a non essere emotiva.

Alizea intanto, che si era avvicinata alla porta, ci interruppe.

- Mi spiace rovinare questo momento, ma è ora che andiate. Celia deve prepararsi e quello sbruffone di un Warrenheim tornerà presto. Non è il caso che vi trovi qui.

Disse.

Violet annuì e così feci io.

- Mamma…

- Aurore, stai attenta, mi raccomando.

Mi disse, con la voce apprensiva e dolce che conoscevo bene.

Annuii, asciugando le lacrime.

- E tu promettimi che non cederai mai al professor Warren. Non mi piacerebbe affatto ritrovarmi Damien come fratello…

Violet soffocò una risatina, mentre Alizea sbuffò. Al contrario, la mamma mi accarezzò la testa.

- Greal, tuo padre, è il solo uomo che abbia mai amato e che amerò per sempre, bambina mia. Non preoccuparti.

Mi rassicurò, sorridendo. Poi ci alzammo e Alizea si affrettò a metter via i fiori che avevamo portato. La mamma ne approfittò per rassettarmi i vestiti e per tirarmi su il cappuccio, in modo che non mi riconoscessero. Poi guardò Violet, e fece lo stesso con lei, baciandola in fronte.

- Grazie per quel che fai per Aurore, Violet…

- E’ un piacere, signora Kensington… o forse dovrei dire Lady Rosenkrantz? Sono un po’ confusa…

La mamma sorrise di nuovo.

- Celia va più che bene, tesoro. Aurore?

Mi misi quasi sull’attenti, quando mi chiamava col tono imperativo dovevo fare attenzione. A sorpresa, prese il mio ciondolo e vi scoccò un bacio.

- Che l’ametista ti protegga, vita mia.

Poi la rimise al suo posto, sotto ai miei vestiti e mi accarezzò le guance.

- Ti voglio bene, Aurore.

- Anch’io, mamma.

Sorrisi, poi la scalpitante Alizea ci scostò l’una dall’altra, e fu così che salutai mia madre, pregando dentro di me affinché presto ci saremmo potute ricongiungere.

Mentre scendevamo velocemente le scale per tornare alla sala della cupola di cristallo, pensierosa più che mai all’idea di tutto quello che avevo scoperto fino a quel momento e dell’aver lasciato la mamma e Jamie, non mi accorsi che Liger stava attraversando la sala. Fu Violet a farmelo notare, prendendomi per mano. Quando sollevai lo sguardo, lo vidi. Se prima mi ero irrigidita nel vedere il professor Warren, stavolta provai un forte brivido. Liger si fermò davanti ad Alizea. Strinsi più forte la presa, tanto che Violet mi guardò perplessa, il viso seminascosto dal cappuccio. Immaginavo che non avendo mai visto Liger, non sapesse chi fosse. Il comandante indossava abiti leggermente diversi da quelli che avevo visto in precedenza. Probabilmente anche lui si stava preparando per la cerimonia. Il lungo soprabito bianco, bordato da inserti e bottoni dorati, stavolta, era aperto, lasciando intravedere un gilet nero, con ornamenti spiraliformi appena più chiari. Dello stesso colore erano i pantaloni, infilati negli stivali di pelle scuri e lucenti che gli arrivavano appena sotto il ginocchio. Aveva in mano dei guanti, e per la prima volta, sotto la luce riflessa dalla cupola, notai che i capelli, che portava sciolti e appena ribelli, erano castano scuro. Non indossava la stessa maschera che portava durante le occasioni ufficiali, ma una che gli copriva appena gli occhi, nera con lievi sfumature rosse, con dei laccetti dello stesso colore che scendevano lungo il collo. Per un attimo, ebbi l’impressione di averla già vista. Poi, ricordai anche dove. Nella prima visione che avevo avuto della Croix du Lac, lei era seduta sotto a un gazebo e stava intrecciando dei fili rossi. Sollevò il viso, come se ci stesse guardando.

- Volete rimanere lì per tutto il tempo, comandante?

Domandò Alizea, seccata.

- Perdonate la mia scortesia, signora. Mi è stato detto che siete voi ad occuparvi del vestiario.

- Avete forse bisogno che vi ricucia i guanti?

 Liger sorrise appena, con un sogghigno che mi fece quasi trasalire.

- No. Naturalmente no. La mia Lady desidera un vostro consiglio.

La sua Lady doveva essere sicuramente la Croix du Lac. Dunque Liger, che era il suo cavaliere, da quanto avevo appreso, aveva avuto la possibilità di incontrarla di persona? Un onore che era concesso soltanto al Despota, eppure quel giovane uomo non lo era affatto. Poi, ricordai che il palazzo imperiale era pur sempre il luogo in cui la Croix du Lac risiedeva. Nel Sancta Sanctorum, che chissà dove si trovava. Alizea si profuse in un inchino.

- Come Sua Grazia comanda. Verrò non appena avrò terminato qui.

Liger si sporse di poco verso di noi, e sia Violet che io chinammo ancor di più il capo. Fu in quel momento che mi resi conto che il braccialetto di Evan era appena visibile, sotto la mia manica larga. Deglutii, nascondendo il polso quando più possibile.

- Siete forse a disagio in mia presenza?

Domandò Liger. Sì, certo che lo sono, sei inquietante da morire…, avrei voluto dire, ma feci cenno di no, forzatamente. Poi sentii i suoi passi, e vidi le punte dei suoi stivali neri proprio di fronte a me e a Violet. Sentii improvvisamente mancarmi l’aria. Avrei così tanto voluto prendere Violet per mano e scappare quanto più lontano possibile. Se solo la mia amica avesse saputo che razza d’uomo era quel comandante… Violet si inchinò e io feci per fare lo stesso, ma mi fermò, prendendomi la mano. Sperai che non avvertisse il mio disagio. Quel tocco era così freddo che mi fece irrigidire. Eppure la sua mano, senza quel guanto, sembrava quasi adattarsi alla mia.

- Che state facendo, comandante?!

Lo richiamò Alizea, raggiungendoci allarmata.

- Ero soltanto curioso di tastare l’effetto che faccio alle persone.

Disse, con tono neutrale, lasciando la mia mano. Mi affrettai a riprendere la presa del mio cesto, sperando che quel momento avesse presto fine.

- E’ questo che significa mettere a disagio. Ma immagino che uno sbarbatello viziato come voi non se ne renda conto sul serio.

Gli rispose, sorprendentemente tagliente. Quel tono avrebbe fatto sicuramente innervosire qualunque nobile. Per di più l’aveva definito uno “sbarbatello viziato”… sollevai appena lo sguardo. Con quella maschera addosso, non avrei saputo definire la sua età, ma immaginai fosse sulla ventina, o giù di lì. Eppure la sua voce sembrava grave, più adulta. Rose aveva detto che apparteneva a un’antica famiglia di Adamantio e che aveva scalato in fretta le vette del potere. Di certo, avrebbe fatto desistere chiunque dall’idea di ostacolarlo. E Adam… chissà cosa gli era accaduto…

-  Perdonatemi.

Dissi, suscitando la loro attenzione.

- Si è fatto tardi e non possiamo trattenerci oltre. Mia sorella e io abbiamo ancora tante cose da fare, perciò…

Liger si scostò, e Violet si rialzò, senza mai sollevare il viso.

- Prego, My Ladies.

Disse, impeccabile.

- Grazie, Milord…

Dissi io, chinando il capo.

- Signora, grazie per aver accettato i nostri fiori e per la disponibilità. Con permesso.

Feci un piccolo inchino e così fece Violet, poi uscimmo dal palazzo, col cuore in gola, sperando che Liger non ci seguisse. E così fu. Mi voltai soltanto una volta, lo sguardo teso a scorgere, appena visibile dietro la tenda di poco scostata, la mia mamma.

Mamma, sii la mia forza.

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Capitolo 37
*** XIV. 3 parte ***


Buon pomeriggio! :D Prima di darmi alla macchia per tornare a studiare, ne approfitto per velocizz mettere la parte finale del capitolo XIV! Ebbene, eccola qui, Taiga-chan, anche se so che mi odierai per una certa faccendina *coughDamcough*... eh, lo so, pazienta ancora un pochettino... poco poco, promesso!! Bene bene, la misteriosa cerimonia con convocazione della nuova generazione è cominciata... e per il popolo di Adamantio, è tempo per la prima volta, di incontrare colei che per secoli è stata considerata una divinità... e non soltanto! Cosa accadrà? Buona lettura!! *---*

 

 

 

 

Camminammo a lungo, senza dire nulla, fino a che, lontane dal palazzo di diamante e dalle ultime verità che avevamo scoperto, ci ricongiungemmo coi ragazzi. Eyde ed Einer avevano abbandonato la tenuta da imperiali e indossavano dei mantelli, esattamente come le altre persone che popolavano la città. Ero abituata a vedere tanta gente, poiché avevo viaggiato molto in vita mia, ma mai ero stata testimone di un evento come quello che l’Underworld si apprestava a vivere. La Croix du Lac, che possedeva il corpo di mia sorella maggiore, Arabella, si sarebbe mostrata. In tempi recenti, almeno, non c’erano stati precedenti e nemmeno le vecchie generazioni potevano anche solo immaginare quale fosse il volto della dea che veneravano. Cos’avrebbe fatto? E io, che non avevo potuto portare in salvo la mamma e Jamie come Arabella mi aveva chiesto?

- Com’è andata?

Domandò Eyde, sollevando la mano a mezz’aria in segno di saluto.

- Eyde! Beh…

Violet mi guardò, preoccupata.

- Non vi hanno scoperte, vero?

Le fece eco Einer.

- No. No, siamo state attente.

Li tranquillizzai.

- Mia madre sta bene… e anche Jamie Warren.

Pensai a Damien, e a quanto mi sarebbe piaciuto potergli dare personalmente quella notizia. Certo, non avevo incontrato il suo fratellino, ma la mamma mi aveva rassicurato personalmente circa il suo benessere.

- Quanto a voi? Come mai non ci avete aspettate a palazzo?

Domandò Violet, perplessa.

Einer si stiracchiò, poi si sistemò i lunghi capelli color cioccolato.

- In realtà vi abbiamo attese, ma dal momento che Liger era nei paraggi, abbiamo preferito fare quattro passi nei dintorni per evitare di attirarne le attenzioni.

- Ma se ci fosse successo qualcosa?

Eyde le fece l’occhiolino.

- Per questo eravamo nei paraggi. Non lasceremmo mai che accada qualcosa alla futura moglie del nostro signore.

Violet arrossì e io li guardai incredula. Come potevano parlare con tanta facilità di una cosa del genere? Dopotutto, la mia amica e Ruben si conoscevano da così poco…

- Eyde!!

Protestai.

- Oh, ovviamente nemmeno a voi, Aurore, beninteso.

Mi fece eco.

Lo guardai di sottecchi. Non era certo quello ciò a cui mi riferivo.

- Comunque, anche noi abbiamo scoperto qualcosa. Certo, non è stato facile, ma a quanto pare, il passaggio che collega il palazzo di diamante alla cattedrale esiste davvero. E il Sancta Sanctorum si trova proprio nel cuore della cattedrale.

- Nel cuore della cattedrale?

Einer mi fece notare, in lontananza, un’imponente costruzione che avrebbe fatto invidia persino alle architetture maestose di Karelia. Poi ricordai di aver letto qualcosa in proposito mentre studiavo la storia dell’Underworld. Quel luogo era stato eretto dai Delacroix ed era uno dei pochissimi edifici rimasti pressoché integri, risalenti alla loro epoca. Non sapevo tanto della prima famiglia, ma vedere coi miei occhi quello spettacolo, sicuramente mi era servito da conferma alle parole di Lady Octavia. I Delacroix avevano reso quel mondo florido.

- Andiamoci.

Dissi. I ragazzi annuirono, mentre Violet mi rivolse un’occhiata che ben poco nascondeva la sua preoccupazione.

- Aurore, non sarà il caso di tornare a palazzo Cartwright, prima?

La mia Violet, che desiderava la felicità di chi le stava intorno prima ancora che della sua. Le sorrisi.

- No. Non ora, Violet. Se tornassimo distrarremmo Ruben e Rose. Non possiamo permettercelo, adesso.

- Non è per questo… è solo che mi chiedevo se… beh, insomma… se stessi bene.

I ragazzi mi guardarono perplessi. Di certo quell’osservazione non era l’ideale.

- Sto bene. Ma starò ancor meglio quando la mamma e Jamie saranno al sicuro.

Le dissi. In realtà, non sapevo se lo dicessi più per autoconvincermi che per tranquillizzare soltanto Violet, ma quantomeno, il mio tono risultò abbastanza determinato da incitarci tutti quanti. Fu così che, cestini alla mano, ci inoltrammo nelle luminose e brulicanti vie del centro di Adamantio, mischiandoci alla popolazione in fermento, in attesa che la Croix du Lac facesse la sua comparsa. E se il mito della torre di Babele non mi era mai sembrato particolarmente eclatante, considerando tutte le persone che avevo avuto modo di vedere, rimasi stavolta particolarmente stupita, a tratti affascinata, dall’atmosfera così carica di speranza che si respirava. Era come partecipare a un gigantesco evento. Ogni singola città dell’Underworld, coi suoi usi, coi suoi costumi, con doni di ogni genere, e soprattutto, con tutta la diversità delle proprie genti, era lì. C’era musica, tanta, c’erano bambini in festa. Moltissimi di loro non avevano mai visto la luce, proprio come Livia Devereaux, eppure, non c’era alcuna nota di tristezza o di sconforto nei loro occhi. C’erano donne che intrecciavano corone di fiori e fanciulle che lanciavano petali per aria. Ci ritrovammo istintivamente a ridere, sotto quella pioggia profumata e a danzare con i ragazzi e le ragazze di quel luogo, come se fosse stata la cosa più naturale che potessimo fare. Già, dopotutto, nonostante fossi nata e cresciuta nel mondo della luce, i miei genitori erano originari dell’Underworld, e in un certo senso, era come se quella fosse allo stesso modo casa mia. Se fossi nata lì, cosa sarebbe stato di me? Ma c’era Violet, che osservava estasiata e felice tutto quanto. Se lei non mi fosse stata accanto in quel momento, avrei anche potuto chiudere gli occhi e dimenticare la realtà dalla quale provenivo. Violet era la mia ancora verso il nostro mondo. E poi, mentre la piazza gremita di gente continuava i festeggiamenti, mentre assaggiavo una delle specialità di Adamantio assieme ai ragazzi, il mio sguardo fu rapito da qualcuno che indossava un lungo mantello blu scuro, col cappuccio appena calato. I capelli ricci, così scuri… era lontano, certo, ma per qualche istante il mio cuore smise di battere. Mi guardai intorno, cercando di individuare la via migliore per arrivarci, mentre continuava a inoltrarsi tra la folla.

- Damien…

Sussurrai, quando Violet si accorse della mia espressione.

- Damien? Dove?

Si voltò a guardare anche lei, cercando tra migliaia di persone il volto che avevo scorto.

- Ne sei sicura?

- No. No, io… io…

Istintivamente, feci qualche passo per raggiungerlo, ma fui trattenuta per il polso.

- Non potete andare.

Mi ricordò Eyde, con aria severa.

Lo guardai in tralice.

- Vieni con me allora, per favore.

Lo tirai, cercando di non perdere d’occhio quello che speravo con tutta me stessa che fosse Damien. D’improvviso, com’era stato prima per mia madre, non c’era più nulla, soltanto il proposito di verificare che fosse lui. Camminai facendomi largo tra la gente, che continuava a festeggiare ignara del dramma che mi aveva appena scosso l’anima. Damien poteva essere lì, a pochi passi da me.

- Dam--

- Non urlate! Volete attirare l’attenzione?!

Sibilò il biondino.

- Scusami!

Mi affrettai a rispondere, e finalmente, intravidi il ragazzo di spalle, in procinto di voltarsi. Avevo il fiato corto e una moltitudine di sensazioni che non avrei saputo certamente definire una per una, optando per una generica “ansia”, mi pervase. Tesi il braccio verso di lui, quando si voltò. Sarei persino morta in quell’attimo, nel vedere che il viso di quel ragazzo, seppure somigliante a quello di Damien, non era lo stesso. Mi venne quasi da piangere, ma mi trattenni, sentendo tutta la delusione e lo sconforto dopo aver cantato vittoria troppo presto. Eyde se ne accorse, ma allo stesso tempo, se ne rese conto quel ragazzo.

- Tutto bene?

Mi domandò, notando il mio braccio teso ancora a mezz’aria. Lo lasciai ricadere sul fianco, deglutendo.

- S-Sì, vi ho scambiato per un’altra persona…

Confessai, mentre Eyde borbottò. Il ragazzo, dapprima stupito, mi sorrise. Aveva gli occhi scuri, troppo lontani dallo smeraldo degli occhi di Damien, ma il suo sorriso era gentile.

- Mi dispiace non esserlo. Ma certo è che visto quello sguardo così triste, dev’essere importante.

Annuii incredula, quasi interdetta. Quel ragazzo non poteva sapere chi ero, né chi era la persona di cui parlassi, eppure, aveva mi aveva appena messa a nudo, smascherando i sentimenti che provavo per Damien. Gli fui grata e ricambiai quel sorriso.

- Grazie… e scusatemi…

Lui prese un paio di dolcetti da un bancone vicino. Poi, scherzando, si fece dare un mazzetto di fiori viola, che tanto mi ricordavano le violette del pensiero. Nonostante la contrarietà di Eyde, me li porse entrambi, mettendoli nel cesto che portavo con me, stupendomi ancora una volta.

- Siate lieta, mia cara, in questa notte di festa!

Mi raccomandò, per poi allontanarsi, disperdendosi per sempre nella folla brulicante.

- Ma chi accidenti era?

Protestò poi Eyde, guardando i regali di quel ragazzo sconosciuto.

- Non ne ho idea… e certo non era Damien… ma è stato davvero gentile…

Dissi, voltandomi verso di lui.

Eyde mi osservò, puntando i suoi occhi verde scuro nei miei.

- Però dovreste essere più accorta.

- Lo so, mi dispiace…

Sospirò, poi si grattò la testa. Alla fine, mi dette un piccolo buffetto e mi risistemò il cappuccio.

- Su una cosa aveva ragione, però. Siate lieta.

Sorrisi e annuii anche a lui. Poi, facemmo per tornare da Violet ed Einer, ma finimmo con l’incrociare qualcuno di inatteso.

- Ma tu guarda. A quanto pare chi non muore si rivede, eh?

Eyde balzò in difesa, ma quel tono seccato e saccente era inconfondibile. Mi sporsi da dietro Eyde, scorgendo, sotto a un mantello blu scuro, niente poco di meno che Leandrus.

- Leandrus!

Esclamai, stupita.

- Ragazzina. E… c’è anche uno degli sguatteri del Lord rosso.

Disse, inarcando il sopracciglio bruno. Notai che rispetto a Eyde, era più alto di almeno una spanna e mezzo. Certo che… sguatteri del Lord rosso. C’era da immaginare rivalità anche tra loro, considerando quella tra Blaez e Ruben.

- Achard. Sono felice anch’io di vederti.

Rispose Eyde, con tono tagliente. Davvero non correva buon sangue tra di loro. Ma dopotutto, considerando il caratteraccio di Leandrus, c’era da immaginarlo.

- Il tuo cognome è Achard? Non me l’avevi mai detto…

Dissi a Leandrus.

- Tu non me l’hai mai chiesto.

Mi fece notare, poi indicò il mio cesto.

- Hai fatto la spesa?

- Non proprio…

Dissi, sollevandolo.

- Piuttosto… cosa ci fai tu qui?

Domandai, mentre si avvicinava e prendeva un dolcetto, per poi addentarlo sotto lo sguardo contrariato di Eyde, che affilò lo sguardo, preparandosi a rispondergli per le rime. Detti a lui il secondo dolcetto, sperando di scongiurare la contesa. Mentre quei due mangiavano, Leandrus fece strada, dicendo che avrebbe risposto alla mia domanda una volta che fossimo stati più isolati. Fu così che raggiungemmo un porticato meno affollato, e lì ritrovammo anche Violet ed Einer.

- Aurore!

Esclamò la mia amica, abbracciandomi, quando li raggiungemmo.

- Allora? Era lui?

Feci cenno di no, ricambiando l’abbraccio.

- Mi dispiace…

Rispose, con voce triste. Dopotutto, anche per lei Damien era una persona in qualche modo importante. Violet lo conosceva da più tempo di me, da prima che mi trasferissi a Darlington, e sapeva cose di lui che ignoravo io stessa.

- Va bene così…

La rassicurai, poi guardai Leandrus, che nel frattempo chiacchierava con Einer e Eyde.

- E lui chi è?

Domandò Violet.

- Leandrus.

Dissi.

- Leandrus? Questo nome mi è familiare…

- E’ il ragazzo che ha accompagnato me e Damien a Wiesen.

Spiegai.

- Mh?

Chiamato in causa, Leandrus si voltò a guardarci. Violet lo salutò con la mano, lui si avvicinò, riconoscendo Violet come la ragazza che aveva visto nell’aggeggio demoniaco. Quando gli ricordai che il nome di quell’aggeggio era cellulare, fece spallucce e si rivolse a lei.

- Lieto di conoscervi, ma non ricordo il vostro nome…

- Violet. Violet Hammond.

Si presentò la mia amica, sorridendo gentilmente. Leandrus le rivolse un perfetto inchino. Quel gesto mi costrinse a storcere la bocca. Era sempre screanzato soltanto con me?

- Leandrus Achard. Per servirvi, Milady.

- Ehm…

Violet ridacchiò mentre gli tiravo l’orecchio.

- Senti un po’… non hai ancora risposto alla mia domanda.

- Ahi!

Si lamentò Leandrus, mentre i ragazzi scommettevano in lontananza su chi potesse vincere in un ipotetico scontro tra me e lui. Poco male, non avrei avuto molti dubbi considerando il tipo. Lasciai la presa, e lui si massaggiò l’orecchio.

- Sei sempre la solita… avresti dovuto chiedermi scusa per avermi lasciato ad ammuffire mentre tu e il tuo compare ve ne andavate a seminare zizzania.

- Ti ricordo che sei stato tu a dire che avresti contattato Blaez.

Mi guardò di sottecchi, poi guardò verso la piazza centrale, sul sagrato della cattedrale, parecchio distante da noi, ma ben in vista.

- Ad ogni modo. Dopo che s’è scatenato il putiferio a palazzo Devereaux, sono subito corso a vedere cosa fosse successo. Potete immaginare la mia preoccupazione nel sentire che le guardie imperiali al comando di Liger stavano controllando i paraggi. Devo ammetterlo, ho temuto che vi foste fatti scoprire. Quando sono arrivato, comunque, ho scoperto che stavano dando la caccia al Cavaliere Nero, che a quanto pare, era a Wiesen, quella sera. E’ stata un’ecatombe. Non si vedevano tanti nobili uccisi dai tempi del massacro voluto da chi sapete… e poi, non appena mi è stato possibile, vi ho cercati, anche se con risultati pressoché nulli. Dannati ragazzini, se non ho perso la testa quella volta, non la perderò mai. Comunque, Blaez era a dir poco furioso dopo aver saputo che vi avevo persi e mi ha ordinato di cercarvi. Ma le tue tracce, Aurore, erano labili. Al contrario di quelle di Warren, che sono riuscito a seguire fino a Fellner.

- Fellner? Dunque Damien è vivo?!

Domandai tutto d’un fiato, aggrappandomi al suo mantello. Anche Violet tirò un sospiro di sollievo. Tuttavia, Leandrus smorzò il nostro entusiasmo.

- Lo è. Ma sono arrivato fin lì. Dopodichè l’ho perso.

Nonostante quella rivelazione, la conferma che Damien fosse vivo e non fosse morto per mano di Liger quella sera era ciò che più desideravo sentire.

- E poi cos’è successo?

Domandai, ansiosa.

- Beh… proprio un paio di giorni fa, dopo essermi consultato con Blaez, son venuto ad Adamantio e lì, ho potuto seguire una pista. Peccato che sia sfumata poco fa, col tizio che non si è rivelato Warren, ma solo un semplice popolano.

- Oh, intendi il ragazzo di poco fa? In effetti, ho notato anch’io una certa somiglianza… per questo motivo, mi sono affrettata a raggiungerlo.

Dissi.

- E a quanto pare non era lui. Buco nell’acqua. Ad ogni modo, so per certo che è qui. Le mie fonti non sbagliano. Il punto è che non ho idea di dove possa essere, tra tutte queste persone.

Riprese, guardando la folla in festa.

- Damien è qui…

Mi soffermai su quell’osservazione, sentendo un rinnovato calore nel cuore. Se Damien era lì, allora significava che stava bene e che forse, chissà, stava cercando Jamie, e magari anche me. Posai il cesto a terra e con un improvviso quanto inaspettato moto, strinsi forte Leandrus, che mi guardò con gli occhi sgranati. Violet si mise a ridere, così come i ragazzi, stupiti.

- Grazie, Leandrus, grazie!

Esclamai, così incredula all’idea di poter provare tutto d’un tratto una sensazione come quella. La speranza, che brillava fioca ogni istante che passava senza alcuna notizia su Damien, prese a scintillare ardentemente. Ero inebriata e al tempo stesso piena di dubbi riguardo alla capacità del mio stesso cuore di contenere così tanta gioia. Erano state così tante le volte in cui avevo pianto la morte di qualcuno, e così poche quelle in cui ero stata davvero felice, che temevo fosse quasi irreale.

- N-Non c’è di che…

Rispose a tratti Leandrus, sempre più perplesso. E non mi importava che credesse fossi matta, perché probabilmente un po’ lo ero. Ma la verità era che su tutto, ero felice di sapere che Damien fosse ancora vivo. E ora, non vedevo l’ora di rivederlo, e di salvare insieme Jamie e la mamma. Saltellai, poi ripresi il mio cesto. Violet sorrise, sistemandomi per bene il cappuccio che era sceso, poi d’improvviso, sentimmo risuonare le campane. Calò un silenzio reverenziale e tutti, noi compresi, attendemmo. Poi, sul sagrato della cattedrale, preceduto dalla sfilata degli oligarchi dell’Underworld, compreso Angus Vanbrugh, il professor Warren fece il suo ingresso. Indossava abiti da cerimonia, un lungo soprabito bianco, con una croce argentata sul petto e non portava la maschera, ma la mia attenzione non fu sollecitata tanto da lui, quanto dalle persone che erano con lui. Riconobbi Amber e Blaez, seri e composti, così come Rose e Ruben. Livia, sprezzante e orgogliosa, accompagnata da una donna che immaginai essere la sua stessa governante. Vidi Amelia Dobrée, la Lady dello smeraldo, col suo sorriso malizioso e poi, scortati dalle guardie imperiali, vidi finalmente il piccolo Jamie, con indosso un farsetto blu scuro e un mantello dello stesso colore, e mia madre, incantevole nel suo abito color panna, coi capelli raccolti. Tra tutti, spiccava come un diamante e somigliava incredibilmente alla Croix du Lac, Arabella… mia sorella. Il fiato mi rimase in gola, così come a tutti gli intervenuti. Poi, sorsero brusii.

- Quella non è forse… la Lady del diamante?

Domandò un uomo, poco lontano da noi. Leandrus lo guardò, poi guardò me. Qualcosa nella mia espressione l’aveva insospettito. Violet mi prese la mano, mentre il professor Warren prese la parola.

- Miei carissimi concittadini dell’Underworld. Con grande gioia e con grande letizia, vi ringrazio di essere convenuti in questa importante occasione. A nome del Consiglio di Adamantio, io, Lionhart Warrenheim, vi do il benvenuto.

Si profuse in un inchino magistrale, poi continuò.

- Vedo che siete stupiti tanto quanto lo fui io non appena mi ritrovai di fronte la Lady del diamante. Ebbene, miei cari amici, posso confermarvi che si tratta proprio di lei. La nostra diletta Lady Cerulea Rosenkrantz, sposa del compianto Despota Ademar. Dopo tanti anni di lontananza dal nostro mondo, finalmente la nostra signora ha fatto ritorno, con la ferma intenzione di rimanere al nostro fianco. Lasciate che vi dica che a lei vanno tutto il nostro calore e il nostro amore. Milady, sappiate che ora niente e nessuno vi costringerà più a compiere azioni che vanno contro il vostro volere. La follia che attraversò la mente del traditore Greal Valdes, l’abominevole essere che sterminò la prima famiglia e rapì la nostra Lady, oramai è un lontano ricordo. Da oggi in poi, Lady Cerulea vivrà assieme a noi, la sua gente, e confido che il suo sorriso torni presto a dilettare e a donare speranza alle genti di questo mondo, ahimè così martoriato.

Detto ciò, raccolse la mano di mia madre e la accompagnò allo scranno più importante, sedendosi al suo fianco. Quel bastardo, bugiardo e folle. Ora capivo perché Shemar nutriva così tanto odio verso di lui. Warren era un manipolatore provetto e a giudicare dalla reazione entusiasta che seguì le sue parole, all’annuncio del ritorno di mia madre, aveva certamente colto nel segno. E soltanto allora mi resi conto di quanto l’Underworld amasse Cerulea Rosenkrantz. Tutta quella felicità mi rese segretamente orgogliosa della mamma. Non che non lo fossi stata fino a quel momento, certo, ma vedere con i miei occhi la reazione di tutte quelle persone mi fece realizzare d’improvviso quanto importante e benvoluta lei fosse. Eppure, sul viso di mia madre non c’era felicità. Sorrideva appena al suo popolo, ma dietro quel sorriso c’erano la tristezza, l’angoscia e la preoccupazione.

- Mamma…

Mormorai.

- Ci avviciniamo?

Mi propose Violet.

- No, meglio di no.

Le dissi, sebbene avessi tanto voluto farmi largo in mezzo alla folla e correre da lei. Ma non potevo farlo, o per la mamma, per Jamie e per tutti i miei amici sarebbe stata la fine. Strinsi il pugno libero, sperando che quell’agonia avesse presto fine. Era paradossale come potesse esistere una contrapposizione così netta tra la gioia e il dolore. Come mai nessuno si rendeva conto di quanto la mamma stava soffrendo? E di quanto il professor Warren fosse terribile? Forse, era vero che in un mondo senza alcuna speranza, ci si aggrappava a tutto ciò che sembrava un’ancora di salvezza. E poi mi resi conto che la mamma, così amata dalla sua gente, era quella speranza. Già… in un mondo in cui tutti i mali avevano fatto strage, finendo col privarlo della stessa luce, lei era un raggio flebile che era tornato a brillare. Ripensai alla mia ametista, al suo fioco brillio e alla forte luce emanata a Challant, nonostante il dolore causato dalla distruzione. Già, sul fondo del Vaso rimane solo la speranza.

Poi, rispondendo a un cenno della mano di uno degli oligarchi, sul sagrato apparvero dei giocolieri, che rallegrarono i presenti coi loro giochi. Mi ricordai quando con la mamma ed Evan andammo a vedere il circo per la prima volta. Che strana esperienza… riportai la mente a una sera d’inverno, la sera del dodicesimo compleanno di mio fratello. A quel tempo, eravamo in Gran Bretagna, e dopo aver visto la magnificenza dei Cirque du Soleil in tv, l’idea che un circo si fosse stabilito in città era bastata a convincere la mamma ed Evan a festeggiare in modo diverso. Non vidi mai così tanti animali e così tanti giochi tutti in una volta. Ricordo ancora il fiato sospeso mentre i trapezisti compivano le loro evoluzioni a mezz’aria, così come i saltimbanchi che eseguivano i balletti più disparati tutto intorno allo spiazzo centrale. C’erano anche delle ragazzine della mia età. E fu proprio quello il motivo che mi spinse a desiderare di prendere lezioni di danza. E poi c’era Evan, che osservava incuriosito gli animali. Cammelli, scimmie, coccodrilli perfino. E ricordo anche le tigri e i leoni, che gli piacquero particolarmente. “Vedi, Aurore? Quelli sono gli animali più forti e letali al mondo.” Mi aveva detto, lasciandomi alquanto stupita. E ricordo anche la risatina della mamma, divertita al pensiero di non aver preso un cucciolo di cane per lui. E ora, guardandola in lontananza, su quello scranno, tra il professor Warren e il piccolo Jamie, sembrava impassibile alle evoluzioni dei giocolieri, che con fiamme, lance e spade, si dilettavano nelle acrobazie più disparate, rallegrando e incitando la gente dell’Underworld. E vidi anche Jamie, che al contrario della mamma, sorrideva divertito, come solo un bambino innocente poteva fare.

E ancora, dopo quello spettacolo che durò all’incirca mezz’ora, quello stesso oligarca, un uomo sulla sessantina passata, che dai mormorii compresi poi essere Andres Oliphant, annunciò il momento che tutti attendevano. D’improvviso la piazza intera si ammutolì e mentre i nobili intervenuti si alzarono, il resto della popolazione si inchinò in preghiera. Così fecero anche i giocolieri, che dopo essersi allontanati dal sagrato, si chinarono in attesa. I ragazzi, accanto a me e Violet, ci suggerirono di seguire il cerimoniale, cosa che facemmo. Sentii crescere la tensione dentro di me. Pochi istanti e la Croix du Lac si sarebbe mostrata al suo popolo, annunciando l’elezione del prossimo Despota.

Damien… ti prego, ovunque tu sia, non fare nulla di sconsiderato… pensai tra me e me.

E poi, il portone centrale della cattedrale, di mastodontico ferro battuto, venne aperto da diverse guardie imperiali. Dall’abbigliamento, stabilii che si trattava delle guardie personali della Croix du Lac. Vidi il comandante Liger, il volto sempre nascosto dalla maschera nera che avevo riconosciuto, con indosso gli abiti che avevo visto al palazzo di diamante, con un lungo mantello bianco. Spiccava, in mezzo ai colori della notte rischiarata dalle luci artificiali. Deglutii e sentii il cuore stringersi in una morsa d’acciaio, quando rivolse il suo inchino dapprima alle genti dell’Underworld, e poi dietro di sé, raccogliendo il braccio d’opale su cui scintillava, perfettamente visibile anche a distanza, il tatuaggio che meglio conoscevo. Calò il silenzio più assoluto, come se d’improvviso chiunque avesse smesso di respirare. E mi accorsi di trattenere il fiato a mia volta, quando leggiadra e delicata, la Croix du Lac fece il suo ingresso, tra la riverenza e l’incredulità più assolute, mostrandosi per la prima volta al suo popolo.

 

 

 

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Capitolo 38
*** XV - Dietro la maschera (1 parte) ***


Buon pomeriggio! :D Come state, ragazzi? Ebbene, sì, mi sto sbrigando. u__u Ed ecco la prima parte del capitolo 15, che credetemi, sarà mooooooooolto, molto illuminante su tante questioni. Vorrei chiedervi di dirmi se sto correndo troppo ora con gli aggiornamenti, pensavo di stabilire un giorno a settimana, magari, aiutatemi voi! >_< Intanto, vorrei ringraziare i miei cari Taiga-chan (tesoro mio, questo capitolo, in tutte le sue parti, te lo dedico, è tutto per te! <3), TheDarkness sempre gentile e tanto caro, Yoru-kun che spero di risentire presto (e che le lezioni stiano andando bene!! *_*), la dolce Giacchan impegnatissima, e anche color che seguono e basta e aggiungono di tanto in tanto questa storia alle loro liste! <3 Grazie! :D

Ok, ecco qui la prima parte, preparatevi alla prima rivelazione! u_u<3 Buona lettura e se volete commentare, fate pure!! *-*

 

 

 

 

 

- Sai che ti dico, Evan?! Avrei tanto preferito avere una sorella piuttosto che un fratello come te!

Quelle parole risuonarono forti scuotendomi, al ricordo di una furiosa litigata avuta con Evan. Ci eravamo trasferiti da poco in una nuova città e avevamo discusso proprio per qualcosa che in quel momento mi appariva assolutamente insulso, ma che allora, mi era sembrata la peggiore delle umiliazioni: la gelosia di Evan nei confronti di un compagno di scuola che mi aveva chiesto il numero di cellulare. Era la prima volta in vita mia che accadeva e la mia esuberanza era pari soltanto alla mia emozione. Prima di chiedere consiglio alla mamma, avevo chiesto un parere su cosa fare a mio fratello, che aveva risposto con un secco “Scordatelo”. Ricordai tutto lo sconforto che ne seguì, compreso di pianti e di insulti. Evan non soltanto mi aveva umiliata, facendomi sentire indesiderata, ma aveva per giunta stroncato sul nascere la mia speranza. E poi mi arrabbiai, riversandogli addosso tutta quella frustrazione. Per giunta, il suo sguardo apatico mi era sembrato l’ennesima beffa, come se fossi una seccatura per di più indegna di ricevere alcuna attenzione. E al colmo della rabbia, gli dissi quelle parole. Una sorella mi avrebbe certamente capita e magari mi avrebbe anche appoggiata. Evan era incapace di provare sentimenti, o almeno, così pensavo. Solo dopo mi resi conto che non si trattava di gelosia, o almeno, non soltanto di quello. Quel compagno di scuola aveva scommesso con gli amici che sarebbe riuscito ad avere il numero della nuova arrivata entro una settimana. Quando lo scoprii, mi risentii così tanto che volli sprofondare. Evan, a suo modo, voleva evitarmi una delusione. Non so come, ma aveva scoperto le intenzioni di quel ragazzo. E ancora una volta, ebbi la conferma di quanto mio fratello volesse proteggermi. Magari aveva dei modi strani di farlo, ma le sue intenzioni erano più che sincere. Ma quelle parole continuarono a restarmi dentro per sempre, insieme alla vergogna di aver dubitato di Evan e di averlo offeso in quel modo.

E ora che mio fratello non c’era più, in qualche modo, quelle parole avevano assunto un nuovo significato. Il mio sguardo, così come quello di tutti i presenti nella piazza centrale di Chalange, la capitale di Adamantio, era fisso sull’incantevole figura che si stagliava al centro stesso del sagrato, di fronte alla cattedrale. Arabella. La Croix du Lac.

- Quella è…?

- Santi numi…

- La dea ci ha benedetti!

- La Croix du Lac è tornata…

- Cosa significherà ?

Le voci del popolo si mischiavano tra loro, silenziose, eppure comprensibili. Tutti guardavano la fanciulla dai lunghi capelli dorati. Indossava una veste perlacea, stile impero, come le donne dell’Underworld, con un nastro d’argento che la cingeva appena sotto il seno. Sembrava speculare rispetto a Liger, che teneva la sua mano con riverenza. Al collo, portava una chiave dello stesso materiale, proprio come aveva predetto Rose durante la notte della Renaissance. Il suo viso, così giovane e incantevole, era praticamente identico a quello di mia madre, che a sua volta, la osservava con gli occhi sgranati. Dio solo sapeva quali sentimenti si stavano agitando nel suo cuore in quel momento.

La Croix du Lac ha preso il suo corpo, quasi diciassette anni fa. Era così piccola…

Mi aveva detto.

- O mio diletto popolo.

Disse all’improvviso, con voce celestiale. Ogni altra voce si spense, e tutti prestarono attenzione, incantati. Persino Violet, per non parlare dei ragazzi, era concentrata. E sul sagrato, Amber, Blaez, Rose e Ruben erano un fascio di nervi. La Croix du Lac lasciò la mano di Liger, che fece un passo indietro, poi sollevò le braccia candide al cielo. Rimasi sconvolta e senza parole nel vedere il prodigio che seguì. Probabilmente, se non l’avessi visto coi miei occhi, non ci avrei creduto nemmeno. Un raggio di luce si irradiò dal dorso della sua mano, luminoso e scintillante, salendo fino al cielo. Sotto lo sguardo impietrito di tutti noi, il cielo notturno cambiò in pochi istanti, scoprendo una lucentezza in tutto e per tutto simile a quella del primo mattino. Diversa da quella che perdurava dalla notte della Renaissance, più forte e nitida, come se il velo d’oscurità fosse stato squarciato e il giorno finalmente fosse potuto rinascere. Si alzarono urla di gioia e scesero lacrime. La gente di quel mondo, per troppi anni abituata all’oscurità, aveva finalmente avuto la prova che le cose potevano cambiare. E soprattutto, che a rendere possibile quel cambiamento, era la presenza di quella ragazza. Io stessa, da quando ero arrivata nell’Underworld, scettica a mia volta, ero del tutto incapace di elaborare qualunque pensiero razionale utile a giustificare ciò che stava succedendo.

- E’ un miracolo…

Sussurrò Violet, incredula tanto quanto me. Annuii, senza proferire parola.

E poi, così com’era comparso, quel raggio di luce si diradò, disperdendosi nell’aria. La popolazione, ancora inchinata, osservava con occhi sgranati il cielo appena mattutino. D’improvviso, sentii una forte pressione sul petto. Mi resi conto ben presto di cosa si trattava, nello stesso istante in cui vidi le gemme di Amber, Rose, Livia e Amelia risplendere. E temetti che l’inganno della falsa ametista potesse essere scoperto, quando di colpo, la stessa Croix du Lac esitò e perse l’equilibrio. Prontamente, Liger la sorresse. Probabilmente, considerando che il corpo era pur sempre quello di Arabella, non era in grado di reggere la tensione creata dal potere stesso che aveva dentro di sé. Subito, come se il cielo avesse reagito, il velo oscuro tornò ad adombrare la luce, facendo ripiombare l’Underworld nella notte eterna, con la stessa sottile e fragile luminosità che faceva da sfondo dopo la notte della Renaissance.

- E’ di nuovo buio!

Esclamò Leandrus, contrariato.

E mentre la piazza stessa era in pena per il mancamento della propria Lady e si era profusa nel canto di preghiera di Adamantio, la mamma si era alzata, pronta ad accorrere in soccorso di Arabella. Mi si strinse il cuore, in quel momento, soprattutto quando vidi il professor Warren bloccarla e impedirglielo. Poi, la Croix du Lac si riprese, tranquillizzando tutti quanti.

- Perdonatemi.

Disse, stringendo il braccio di Liger.

- Nel corso di tutto questo tempo, mi sono molto indebolita. Non mi è ancora concesso di riportare la luce in questo mondo. Qualcosa ancora me lo impedisce.

Istintivamente, portai la mano al petto, cercando di proteggere la mia ametista. Temevo che si riferisse proprio a me. Violet mi guardò, comprendendo al volo il mio stato d’animo, poi mi prese la mano, stringendola forte nella sua. Apprezzai quel gesto e lo ricambiai con un sorriso. Ma nonostante tutto, ero tesa come una corda di violino.

- Da molti anni oramai, il trono di Adamantio è vuoto. Nessun Despota ha più regnato sul nostro amato mondo. Oggi, ho deciso di mostrarmi a voi per annunciare il cambiamento. Famiglie dell’Underworld, alzatevi.

Disse, voltandosi verso i nobili intervenuti. Alla fine, quel momento era giunto. Mi ritrovai a pregare che non decidesse di smascherare pubblicamente Amber. Il solo pensiero che la mia amica, la prima ad avermi accolto e aiutato in quel mondo, patisse una sorte peggiore della morte stessa mi terrorizzava. I nobili della nuova generazione obbedirono all’ordine. Osservai la scena che mi si prospettava davanti con apprensione, al punto che non mi resi nemmeno conto di star stringendo tanto forte la mano di Violet da farla lamentare.

- Scusa…

Le dissi, sciogliendo la presa.

- Stai tranquilla, Aurore… abbi fiducia in loro…

Mi ricordò. E mi resi conto che anche lei era davvero tesa. Dopotutto, su quel sagrato, non molto lontano da noi, ma perfettamente in vista, c’era il suo Ruben.

- Chi sono i candidati per questa generazione?

Domandò la Croix du Lac.

Blaez fece un passo avanti, inchinandosi. Ma fu Amber a parlare. Rivolse uno sguardo verso Angus, che sedeva dirimpetto a loro, insieme agli anziani oligarchi. Poi, vidi che guardò oltre, in corrispondenza delle guardie imperiali. Compresi subito chi stesse cercando. Nonostante fossero vestiti allo stesso modo, di certo, Amber era perfettamente in grado di riconoscere, tra tutti, il suo Shemar. Esitò per qualche istante, poi riacquistò sicurezza e guardò la Croix du Lac, sollevando il braccio verso Blaez.

- Blaez Vanbrugh da Rhatos, trentasettesimo conte di Shelton.

La Croix du Lac li guardò entrambi e per tutto il tempo in cui lo sguardo fu fisso su di loro, pregai come mai avevo fatto in vita mia. Tirai un sospiro di sollievo quando passò oltre, raggiungendo Rose e Ruben. Fu Violet ad avere il cuore in gola, questa volta. Non avevo mai visto così tanta preoccupazione nei suoi occhi come in quel momento. Ma la compresi tutta. Ruben era inchinato e i ragazzi, i suoi compagni, erano attenti come non mai. Era il momento che aspettavano da tempo, quello in cui la candidatura del loro signore sarebbe stata ufficializzata. Rose parlò, eseguendo lo stesso gesto di Amber.

- Ruben Cartwright da Bregenz, ventinovesimo duca di Camryn.

Ancora una volta, la Croix du Lac assentì, poi passò a Livia, che si inchinò.

- Vostra Grazia. Wiesen non ha avuto eredi maschi. Sono la sola appartenente alla nuova generazione e pertanto, cedo il passo.

Disse, con determinazione che mal si accordava con la sua giovanissima età.

Stavolta, la Croix du Lac sorrise.

- Livia Devereaux. Mi auguro che in futuro, Wiesen possa fornirci sagge e preziose personalità, così come è sempre stato.

- Vi ringrazio dell’onore accordatomi. E’ anche mio desiderio.

Disse, chinando la testa biondo platino. Poi si rialzò, tornando a sedersi sullo scranno troppo grande per la sua minuta figura.

Dopodichè, toccò al professor Warren. Deglutii nel vedere il piccolo Jamie inchinarsi. Mi chiesi quale razza di lavaggio del cervello gli avesse fatto quel bastardo. Perché non scegliere Damien al posto di un bambino così piccolo? Cos’aveva suo figlio maggiore che non andava? Forse, Jamie era più facilmente manipolabile? La Croix du Lac guardò mia madre, in piedi, impietrita, davanti a lei. Erano bellissime, insieme. Sentii diversi bisbigli che nonostante la solennità della scena, attraversarono di bocca in bocca la piazza. La loro somiglianza non era sfuggita, eppure nessuno sembrava spiegarsi il motivo. Probabilmente, la nascita di Arabella doveva essere stata tenuta nascosta.

- Dimmi una cosa. Tu sai il perché Lady Cerulea e la Croix du Lac si assomigliano?

Mi mormorò Leandrus all’orecchio. Lo guardai con la coda dell’occhio.

- Credo che tu già lo sappia. E comunque… sappi che avevi ragione, Leandrus, su tutto.

Aggrottò le sopracciglia, perplesso, poi sul suo viso comparve lo stupore quando realizzò a cosa mi stavo riferendo. Non aggiunse altro, ma si limitò a fare spallucce.

- Che bel casino.

- Già… davvero un bel casino…

Confermai. Poi tornai a guardare il sagrato. In questo caso fu il professor Warren a parlare.

- Jamie Warrenheim da Agen, trentesimo conte di Challant.

Si sollevarono diversi mormorii in quel momento, richiamati da Andres Oliphant, che intimò di fare silenzio. Chiesi a Leandrus come mai specificassero dei nomi di città e lui mi spiegò che ogni famiglia aveva una propria sfera d’influenza, facente capo a una città in particolare. Ad esempio, i Trenchard provenivano da Karelia, mentre i Vanbrugh da Rhatos. Stesso dicasi per Challant. Scoprii anche che la mia famiglia proveniva da Velsen, la capitale stessa di Challant.

- Lord Warrenheim.

Disse la Croix du Lac.

- Vostra Grazia.

- Intendete porre sul trono di Adamantio un bambino così piccolo?

- Jamie è piccolo, certo, ma ha tutte le carte in regola per diventare il nuovo Despota.

- Mi è stato riferito che vostro figlio non è nato né cresciuto nell’Underworld.

Quell’osservazione scatenò una nuova ondata di mormorii. Quantomeno la Croix du Lac non era così sciocca da cedere alle folli idee del professor Warren e stando ad Amber, lui non era così pazzo da sfidarla.

- E’ così, Vostra Grazia. Mio figlio è nato e cresciuto nel mondo della luce. Nessuno meglio di lui può aiutarvi a riportarla nel nostro così amato e martoriato mondo.

Mi scappò una risatina isterica. Warren era davvero odioso. Come mai avrebbe potuto Jamie realizzare qualcosa che non era riuscita nemmeno alla stessa Croix du Lac? Ad ogni modo, lei si limitò a un cenno col capo, per poi passare oltre, arrivando ad Amelia Dobrée. Diversamente da Livia, era in piedi.

- Vostra Grazia. Dourand, per molto tempo, non ha avuto l’onore di vedere un proprio esponente sul trono di Adamantio.

Disse, con voce grave. Mentre parlava, guardai mia madre, il cui sguardo era rivolto sulla folla. Immaginai che tra tutte quelle persone, stesse cercando me. Avrei voluto tanto sventolare il braccio come facevo quand’ero piccola per richiamarne l’attenzione, ma sapevo che non mi era possibile.

Mamma, sono qui…

- Tuttavia, posso annunciare che anche Dourand ha un suo candidato.

Gli oligarchi si guardarono perplessi, confabulando. Quella notizia doveva suonare come una novità, sebbene non dovesse essercene motivo. Eppure, persino Ruben, Blaez e tutti gli altri si voltarono verso Amelia, stupiti.

- Davvero? Prego allora, di chi si tratta?

Domandò incuriosita la Croix du Lac.

Amelia sorrise. Avevo già visto quello sguardo malizioso. Poi si scostò voltandosi, sollevando il braccio. Al suo cenno, una figura con indosso un mantello scuro, salì sul sagrato, inchinandosi. Tutta la popolazione borbottava a voce più o meno alta. Anche noi eravamo incuriositi, tanto quanto lo erano i presenti. La Croix du Lac guardò Liger, che lasciò il suo braccio per avvicinarsi alla figura inchinata.

- Togliete quel cappuccio e dite il vostro nome.

Ordinò.

- Lasciate che sia io a presentarlo.

Intervenne Amelia, eccitata.

Liger guardò la Croix du Lac che assentì. Poi, si scostò, tornando vicino alla sua signora.

Amelia, al contrario, guardò verso il professor Warren, poi si rivolse alla Croix du Lac, assumendo un’aria solenne.

- Damien Ealing da Locronan, trentaseiesimo duca di Dourand.

Proclamò.

Damien… Ealing?

- No…

Sussurrai appena.

- Ealing?! Ma… ?

La voce incerta di Violet.

- Che diamine significa?!

Leandrus era incredulo, tanto quanto lo erano il professor Warren, Jamie e tutto il resto dei presenti. Ma nulla era paragonabile a quello che provai io quando quella persona abbassò il cappuccio, scoprendo il volto di Damien Warren.

- Dam-- !

Feci per urlare, senza rendermene conto, ma fui fermata da Leandrus, che mi tappò la bocca. Cercai di scostarmi, mentre le lacrime mi riempirono gli occhi e il respiro mi mancò. Damien era lì, vivo, inchinato di fronte alla Croix du Lac.

- Che sta succedendo, Leandrus?! Perché è lì?!

Domandai, quando riuscii a liberarmi dalla sua presa. Alcune persone nelle vicinanze ci guardarono, ma Leandrus le tranquillizzò, poi mi guardò.

- Vuoi farti scoprire?! Non ho idea di che diavolo ci faccia lì!

- E perché Ealing?

Domandò Violet.

- Forse sta fingendo…

Suggerì Eyde. Lo guardai in tralice. Ma quella spiegazione doveva essere la sola possibile. Eppure, perché diavolo si era esposto in quel modo? Era impazzito del tutto? Tornai a rivolgere lo sguardo su di lui, sperando di avere risposta in qualche modo.

- Damien Ealing?

- Dev’esserci un errore!

Esclamò tutto ad un tratto il professor Warren. Persino Jamie era incredulo. E come dargli torto. Suo fratello era finalmente lì, vicino a lui, ma fingendo di essere un’altra persona.

La Croix du Lac si voltò verso di lui, poi guardò Damien.

- Cosa intende?

- Vostra Grazia, lasciate che sia io a spiegare…

Esordì Amelia, ma la Croix du Lac le impedì di proseguire, intimandole di fare silenzio.

- Voglio sentirlo da lui.

Damien sollevò il viso.

- Vostra Grazia. Come Lady Amelia ha precedentemente affermato, il mio nome è Damien Ealing. Sono il figlio di Lord William Ealing e di Grace Lantis.

William Ealing e Grace Lantis? Mi chiamo Will e vengo da Dourand. Sono un pittore, al momento in viaggio di nozze. E questa è la mia sposa, Gracie. No. Non poteva essere una finzione. Non dopo quelle parole. Ma che diavolo significava allora? Damien, a che gioco stai giocando?!

Damien guardò verso suo padre, l’uomo con cui aveva sempre affermato di non avere legami.

- Lord Warrenheim, dovreste raccontare come sono andate davvero le cose. Non credete sia forse arrivato il momento di confessare la verità?

- C-Che diavolo…

Il professor Warren era sconvolto. E così lo erano tutti i presenti. Liger, tuttavia, smorzò la tensione.

- Adesso basta. Non siamo nella sede adatta per discutere di problemi di questo tipo.

Sentenziò.

- Damien Ealing di Dourand, verificheremo l’attendibilità di ciò che dici a tempo debito. Milady?

La Croix du Lac si rivolse pensierosa ad Amelia, poi annuì.

- Sia così. Mi ritiro in consiglio. Liger?

Liger le porse la mano.

- Quanto a voi, candidati e famiglie, ordino che non lasciate Chalange fino a che non avrò deliberato.

Tutti i nobili si inchinarono nuovamente, obbedendo. Poi, la Croix du Lac si rivolse verso gli oligarchi e il popolo.

- Prega, o mio popolo diletto. Prega affinché vi sia salvezza. Proteggerò questo mondo, qualunque cosa accada. Sii tu la mia forza.

Poi, mentre la Croix du Lac si allontanava, scortata da Liger, si alzarono maestosi i canti di preghiera di Adamantio, gravi più che mai, per il nuovo, fragile scenario che si stava prospettando. Non riuscii a vedere più nulla quando la confusione aumentò. Cercai di raggiungere il sagrato, ma Leandrus mi fermò ancora una volta.

- Andiamo via. Non è il momento ora.

- Perché?!

Protestai, impaziente al pensiero che non avrei potuto rivedere subito né la mamma, né Damien.

- Perché è pericoloso, ovviamente. E stavolta, non ti lascerò fare di testa tua.

Rispose, stringendomi il polso. Sbroccai, ma non servì a niente. Leandrus fu irremovibile. Allora, mollai il cesto che avevo in mano, tirandogli uno schiaffo, sotto gli occhi increduli di Violet e degli altri. Sapevo di starmi comportando come una bambina capricciosa, ma dannazione… dannazione, erano così vicini e poteva essere la mia sola occasione di raggiungerli, o anche solo di... non sapevo nemmeno io. Leandrus accusò il colpo, poi mi guardò, con lo sguardo improvvisamente spento.

- Questo non dovevi farlo.

E prima che potessi replicare, un pugno ben assestato nel mio stomaco pose fine alla mia sfuriata. 

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Capitolo 39
*** XV. 2 parte ***


Konbanwa! *---* Seconda parte del capitolo 15! u_u Intanto, SPUMANT-- no, non me ho! ç__ç LIMONCELLO PER TUTTI!! No, Damien l'ha scolato tutto... u_u *arrivano fulmini e saette* eheheh Scherzi a parte, spero che leggiate queste poche righe, perchè davvero, ragazzi, non so come dirvi la mia felicità! Quando ho cominciato a pubblicare questa storia, vedendo che nonostante il seguito, non c'erano commenti, ero davvero scoraggiata... sapete, ve l'ho detto, per me è davvero molto importante sapere cosa ne pensate, perché mi aiuta, molto, mi dà coraggio e a volte, anche idee nuove! Per questo, tagliato il traguardo delle prime cento recensioni che credetemi, solo pochi mesi fa non avrei mai nemmeno pensato di poter raggiungere, ci tengo a ringraziarvi per il vostro sostegno, sia per chi c'è sempre, sia per chi c'è ogni tanto, sia per chi non dice più nulla... quindi, grazie ad Alaire, a Echointhenight, a Ema, Fely, a Yoru, e alle mie dolcissime Taiga-chan e Giacchan, al carissimo TheDarkness che è il mio Signore Oscuro preferito, per esserci stati o per esserci! E un grazie ai silenziosi che continuano ad aggiungere ai preferiti/seguite! >_< Davvero, ragazzi, grazie di cuore!! 

Ok, che limonc-- storia sia! XDDD Buona lettura!! :D

 

 

 

 

 

 

 

 

Mi risvegliai a causa del suono delle campane. Quando riaprii gli occhi, ancora un po’ frastornata, vidi Violet e Rose vicino a me.

- Si sta svegliando…

Disse con voce sollevata la mia amica.

- … Violet?

Domandai, con voce roca. Rose sbuffò.

- Io non esisto?

Domandò, offesa. Quando misi meglio a fuoco, mi accorsi della sua espressione contrariata.

- S-Scusa…

Violet ridacchiò, mentre Rose sventolò la mano a mezz’aria.

- Come ti senti?

Ci riflettei su. Avevo tanta confusione in testa e dolore allo stomaco.

- Uno schifo.

La informai.

- Stai tranquilla… tua madre sta bene. E a quanto pare, anche il tuo caro Damien.

Mi disse. Mi tirai su, scostando le coperte di seta. Sul comodino accanto al letto c’era un vassoio con del cibo. A giudicare dalla portata, immaginai che fosse il pranzo. Dunque, avevo dormito per buona parte della giornata. Ripensai a quello che era successo, alla Croix du Lac che si era mostrata, alla mamma, ai candidati Despota… a Damien.

- Com’è possibile?

Chiesi, guardandole. Violet scosse la testa.

- Non sappiamo nulla. Da quando si sono ritirati, i membri della famiglia Dobrée, con Damien al seguito, si sono chiusi nella residenza di famiglia.

Già, in attesa dell’esito delle indagini su Damien.

- Però, in compenso, Andres Oliphant ha accettato di incontrarci.

Mi comunicò Rose, con un tono che suggeriva poco velatamente di concentrarsi su altro che non fosse la questione Damien.

- Davvero? Meno male…

Risposi.

- Quanto entusiasmo.

- Scusami, Rose… è soltanto che… non riesco a spiegarmi il motivo per cui Damien ha fatto una cosa del genere…

Violet mi accarezzò i capelli.

- Se c’è una cosa che so sul despota del liceo di Darlington è che non agisce sconsideratamente.

Mi disse.

Il despota del liceo… che ironia in quel momento, sentirlo definire così. Avevo scherzato così tante volte sul fatto che si comportasse davvero da despota, ma che si potesse addirittura comportare in quel modo, scegliendo deliberatamente di diventare il Despota dell’Underworld… abbassai lo sguardo, stringendo le lenzuola candide. Rose sospirò.

- Spiegami una cosa. Perché tua madre e la Croix du Lac sono due gocce d’acqua? Perché, detto tra noi, un’idea ce l’avrei, e me ne intendo di somiglianze. Ma preferisco verificare.

Rialzai lo sguardo, pensando a quella domanda che anche Leandrus mi aveva rivolto. A quanto pare non era sfuggito proprio a nessuno. E ripensai a mia madre, al dolore che aveva provato nel raccontarmi di Arabella. Ma ora che la Croix du Lac si era mostrata e la loro somiglianza era di dominio pubblico, era inutile nasconderlo.

- La Croix du Lac… il suo nome è Arabella… Arabella Valdes.

- Arabella Valdes? La figlia di Ademar?

Scossi la testa.

- No. E’ figlia di Greal. Arabella è mia sorella maggiore.

Le dissi, accennando un sorriso. Il bel volto di Rose si accese per la sorpresa.

- Bene, questo non l’avevo tenuto in considerazione. Oltretutto, non avevo idea che Lady Cerulea avesse avuto una figlia… almeno precedentemente a te e a tuo fratello.

La guardai.

- Questo cambia le cose?

Domandai, improvvisamente scettica. Rose ricambiò il mio sguardo, stupita. Poi si mise a ridere.

- Beh. Immagino che dal momento che hai scoperto di avere una sorella, tu voglia fare qualcosa per trarre in salvo anche lei, non è così?

Riflettei su quelle parole. Era certo che avrei voluto salvare anche Arabella, ma lei era la Croix du Lac, e non sapevo nemmeno se fosse possibile scindere le due cose. Per così tanti secoli, la Croix du Lac era stata l’entità che aveva governato l’Underworld insieme al Despota. E innumerevoli sacrifici le erano stati tributati affinché questa barbarie andasse avanti. In che modo avrei potuto aiutarla senza perderla? E la Croix du Lac stava cercando con ogni mezzo di annientare l’anima di Arabella dentro di sé. Ma in quella ragazza scorreva il sangue dei miei genitori, proprio come in me. E se Arabella non voleva arrendersi a quel mostro crudele, allora, non dovevo farlo nemmeno io. Mia sorella. Ogni volta che cercavo di realizzare questa verità, mi sentivo come se fosse qualcosa di estraneo, ma al tempo stesso, non riuscivo a dubitarne. Avrei tanto voluto che Evan fosse stato accanto a me. Anche lui, come la mamma, aveva tenuto dentro quel segreto. Forse, era per quello che era sempre così triste e così protettivo verso di me… aveva già perso una sorella, dopotutto…

- Anche se fosse un’impresa disperata, ci vorrei provare, Rose.

- Non avevo dubbi. In fin dei conti, al sangue non si comanda.

Rispose.

- Non era “al cuore non si comanda”?

Parafrasò Violet, dubbiosa. Rose rivolse verso di lei le sue lunghe ciglia nere.

- Violet. Il cuore è mutevole. I sentimenti possono cambiare nel tempo così come le intenzioni. Al contrario, il sangue è la sola cosa che ti condizionerà per sempre. Vedi me e Ruben.

Violet sembrò pensarci su, mentre io ripensai alla mia famiglia e a Damien e Jamie. Se le sue parole erano reali, questo significava che non erano nemmeno fratelli e paradossalmente, ricordai della sua perplessità riguardo me ed Evan. Alla fine, forse, chi mentiva era proprio lui. Ma nonostante tutto, non potevo dubitare in alcun modo della genuinità dei suoi sentimenti per il fratellino.

- No, Rose. Non è così.

Dissi. Sia lei che Violet tornarono a guardarmi.

- Credo che un legame di sangue non sia tutto. Non sempre.

Rose fece spallucce, poi si alzò.

- Ad ogni modo, mangia qualcosa, cambiati e scendi. Avviserò i ragazzi del tuo risveglio e chiamerò Amber. E poi vedremo di incontrare Oliphant.

Poi, se ne andò, lasciandomi sola con Violet.

Quando più tardi finalmente uscimmo, i ragazzi, tranne che la guardia di Ruben e Leandrus, erano nel salone della residenza. Vidi sollievo sui loro volti, soprattutto su quello di Amber, che era arrivata da poco. E con lei, c’erano anche Blaez e Shemar. Fui davvero felice di rivederlo. Sebbene non fosse passato granché, con tutto quello che era successo, mi sembrava davvero che fosse trascorsa una vita.

- Signorina Aurore, come state?

Mi domandò, con un rassicurante sorriso sul volto. Indossava sempre l’uniforme, ma non aveva la maschera. Lo raggiunsi, era al fianco di Amber, come sempre.

- Meglio, grazie… sono contenta di rivederti, Shemar.

Lui fece un cenno col capo e i capelli, che portava sempre legati in una coda laterale, ricaddero sulla sua spalla.

- Anch’io. Amber mi ha raccontato di vostra madre, e finalmente ho potuto ricollegare i pezzi.

Mi disse. Guardai Amber, che mi sorrise.

- Devi sapere che Gregor, il padre di Shemar, era un fidato compagno di tuo padre, Aurore.

Sobbalzai nel sentire quelle parole. Gregor Lambert, il padre di Shemar… compagno di mio padre?

- D-Dici davvero?

Domandai, incredula.

Shemar annuì.

- Non appena avremo l’opportunità, vi racconterò qualcosa in più. Ma entrambi facevano parte della stessa squadra.

- Come Lionhart Warrenheim, dopotutto.

Osservò Blaez, raggiungendoci. Vidi il volto di Shemar indurirsi, nel guardare di sbieco il suo quasi cugino.

- Blaez...

Blaez fece spallucce, poi cambiò discorso.

- Piuttosto, mentre noi conversiamo dei vecchi tempi, la Croix du Lac ci sta valutando come futuri candidati e c’è un altro problema da risolvere.

Lo guardai. Bello e indolente, Blaez Vanbrugh sarebbe stato un Despota alquanto vanesio, sebbene al tempo stesso, attento alle problematiche che coinvolgevano il suo rango. Motivo per cui, se fossi stata la Croix du Lac, non avrei scelto lui. Il Despota doveva avere a cuore l’intero Underworld e non solo una parte.

- Il problema Warren.

Aggiunse Ruben. Ci voltammo verso di lui.

- Aurore, capisco di metterti in una situazione scomoda, ma mi chiedo se per caso, Warren ti avesse dato avvisaglie a riguardo.

Chinai lo sguardo, pensando alle parole di Damien riguardo suo padre e soprattutto, alla sua presentazione alla locanda di Fellner. Sulle prime, non me la sentii di parlarne, poiché speravo, in cuor mio, che Damien avesse un piano ben preciso. Dopotutto, non aveva dato prova di conoscere nessuno di loro. Dunque probabilmente, aveva in mente qualcosa e non intendeva coinvolgere i ragazzi. Ma da lì a non parlarne nemmeno con me, mi sembrava passasse un po’. La verità era che Damien mi aveva deliberatamente tenuta all’oscuro riguardo ai suoi pensieri, salvo che fare piccoli accenni, troppo generici per essere collegati.

- Non proprio, Ruben. Damien è sempre stato un muro riguardo al suo passato. Tutto ciò che so è che è il figlio dell’uomo che nel nostro mondo si fa chiamare Leonard Warren e che ha un fratellino di nome Jamie.

- E sua madre si chiama Grace.

Ci fece notare Violet.

- Considerando che si è presentato come il figlio di William Ealing e di Grace Lantis, direi che qualcosa di vero c’è. Anche se Grace Lantis è scomparsa da diversi anni. Dovrebbero essere sedici, più o meno.

Disse Blaez, rimuginando.

- Conosci questa persona, Blaez?

Domandai, stupita.

Gli occhi blu di Blaez scintillarono.

- Hai mai visto i quadri che adornano i palazzi delle residenze?

Domandò. Io annuii. Erano dei veri e propri capolavori.

- Beh, quelli sono opera di Grace Lantis. Era una famosa pittrice, la più talentuosa di tutto il nostro mondo. E’ stata lei a dipingere i ritratti delle famiglie al potere.

Per poco non mi venne un accidente. Dunque anche il quadro della mia famiglia era opera di quella donna… la madre di Damien? Ricordai i quadri che facevano da sfondo all’arredamento fine dell’appartamento di Damien e Jamie. Erano meravigliosi, come se fossero vivi, nella loro squisita raffinatezza. E adesso, sembrava quasi un altro tassello che contribuiva a comporre il mosaico della storia di Damien. Un’altra prova che non stava mentendo.

- E perché si sarebbe presentato usando il cognome Ealing? A quanto ci risulta, la madre di Damien è sposata col professor Warren.

Osservai, guardando Violet, che annuì.

- William Ealing, ahimè defunto durante la ribellione, amava quella donna, ma a causa del suo status borghese, non gli fu concesso di sposarla.

Sobbalzammo nel sentire una voce dura e profonda provenire dal corridoio. E quando Andres Oliphant si fece avanti, scortato da un uomo a cui mancava metà braccio, se la maggior parte di noi trasalì, io fui la sola a rallegrarmi.

- Micheu!

Esclamai.

Micheu Joel fece un mezzo inchino. Non indossava più l’uniforme delle guardie imperiali, ma un farsetto blu scuro che scendeva come un tight, fermato in vita da una cintura dorata. Il braccio monco era coperto da una manica lunga, e il volto, senza maschera, era rilassato e composto.

- Lord Oliphant.

Disse Ruben, raggiungendolo e inchinandosi.

- Lord Cartwright. Mi spiace di aver interrotto la vostra riunione senza essere stato annunciato.

Rose sollevò il sopracciglio, soprattutto quando una giovane cameriera ci raggiunse scusandosi della mancanza.

- Non preoccupatevi, cara. La scortesia è stata mia, ma mi era parso di capire che c’era una certa urgenza.

Disse Oliphant, con irreprensibile classe. Nonostante l’età, sembrava davvero un uomo affascinante e dai modi eleganti. La cameriera, comunque, si congedò dopo essersi profusa in altre scuse.

- Allora, vedo proprio che ci siete tutti.

Disse poi, osservandoci uno per uno. Quando il suo sguardo si posò su di me, lo vidi accendersi di curiosità.

- Micheu? E’ lei la fanciulla di cui mi parlavi?

Domandò, senza staccarmi gli occhi di dosso. Quella domanda mi fece puntare gli occhi in basso, istintivamente. Al contrario, i ragazzi erano attenti e scettici.

- Sì, Milord.

Confermò Micheu.

- Lord Oliphant, vi chiedo di ascoltare ciò che abbiamo da dirvi senza preg-- 

Oliphant zittì Ruben con un cenno della mano.

- Fatemi capire. Lord e Lady Cartwright, Lady Trenchard e Lord Vanbrugh, il giovane Lambert e due ragazzine, di cui una non dovrebbe trovarsi in questo mondo, quantomeno formalmente, desiderano parlare con me, ben consapevoli che stanno deliberatamente contravvenendo a qualunque legge emanata da Adamantio?

D’improvviso, il suo tono cambiò, diventando cupo e minaccioso.

- Sapete bene cosa aspetta i traditori. Supponevo che la sorte toccata ai vostri familiari fosse stata sufficiente a farvi desistere, ma vedo che non soltanto siete recidivi, ma anche così sfacciati da sfidare alla luce del giorno la stessa legge.

Mi colpì il modo in cui disse “la luce del giorno”, ma in quel momento, mi resi conto che eravamo sul filo del rasoio. Lord Oliphant non era affatto ben disposto come credevamo. Dunque, Micheu ci aveva mentito. E io… io, fidandomi, avevo appena gettato i miei amici dritti in trappola. Fui sopraffatta dalla vergogna e dal terrore. Alla fine, ero stata proprio io, con la mia ingenuità, la responsabile di quello che stava accadendo. E ora, a causa mia, non ci sarebbe stato alcun futuro, per nessuno di loro.

Amber… Shemar…

Entrambi si erano stretti la mano, e guardavano preoccupati il loro interlocutore. Amber, che con la sua ferrea volontà sarebbe stata una stupenda e magnifica Imperatrice… e Shemar, così umile e coraggioso, il suo cavaliere fidato. Suo padre aveva conosciuto il mio… e ora, io avevo condotto il figlio davanti al patibolo.

Blaez…

Lo conoscevo così poco, eppure, dietro quell’aria così spavalda e calcolatrice, avevo scorto una persona che teneva alla sua terra tanto quanto Amber e Shemar.

Rose… Ruben…

La maliziosa Lady del rubino, che nonostante l’atteggiamento così superbo, mi aveva considerato una sua amica. E Ruben, che si era innamorato della mia migliore amica…

Violet

Li guardai uno ad uno, leggendo sui loro volti la consapevolezza di essere stati scoperti. Sapevano che quel momento sarebbe arrivato. Ruben aveva persino invocato un’accelerata, ma ora, il momento di scoprire le carte in tavola era arrivato e la mano di poker era stata sfortunata per i miei amici. Io ero l’ultima. E da ultima, mi feci avanti, costringendo Andres Oliphant a sospendere la sua filippica.

- Aurore!

Esclamarono Amber e Violet. E dietro di me, sentii tutta la preoccupazione dei ragazzi.

- Oh. Dunque, fanciulla, cos’hai da dire?

Domandò, aggrottando la fronte rugosa.

- Lord Oliphant. Sono ben consapevole che sarebbe retorico dirvi di prendervela con me e lasciarli stare. Se volete un pretesto per decapitare la nuova generazione, direi che l’avete trovato. Io sono Aurore Kensington e porto con me l’ametista, che mi fu donata da mia madre. Lasciate che vi racconti la mia storia, vi prego.

Oliphant inarcò il sopracciglio, poi tese la mano, aspettando che continuassi. Guardai severamente Micheu, poi, col cuore che mi batteva all’impazzata, presi fiato. Era come essere sottoposta a un’interrogazione, ma con la consapevolezza che dalla scelta delle mie parole dipendeva il destino dei miei amici. E scelsi di essere sincera, ricordando ciò che avevo detto ad Amber, una volta, e cioè, che la verità era lì, in attesa di essere rivelata.

- Sono nata e vissuta nel mondo che voi chiamate “mondo della luce”, per sedici anni, senza sapere nulla né di chi ero davvero, né di chi fosse la mia famiglia. Mia madre, Celia Kensington, mi ha cresciuta senza farmi mancare niente, salvo la presenza di un padre. Per tanti anni, abbiamo vissuto come nomadi, spostandoci da un continente all’altro. Non mi sono mai spiegata la ragione di questi spostamenti, ma solo di recente, soltanto quando le guardie della Croix du Lac sono giunte nel mio mondo, davanti a me e a mia madre, ho capito che c’era qualcosa che non andava dietro il nostro spostarci in continuazione. E poi, finalmente ho scoperto che non soltanto ci davate la caccia, o meglio, la davate alla pietra che porto al collo, ma soprattutto, tutto ciò che la mia vita era stata fino a quel momento nascondeva una verità che mai avrei potuto immaginare, nemmeno nei miei incubi peggiori. Immagino che a voi non importi quanto mia madre ha sofferto in tutti questi anni, privata dell’uomo che amava e della figlia nata da quell’unione. E immagino che voi sappiate perfettamente di chi sto parlando, Lord Oliphant.

- Aurore!

Ruben si precipitò a fermarmi, ma Violet lo trattenne. Le fui riconoscente e sostenni lo sguardo scettico di Oliphant.

- So bene di non avere alcuna autorità. Mio padre è morto prima della mia nascita, senza sapere nemmeno della mia esistenza, dunque non ho alcun diritto di fregiarmi del titolo della famiglia Valdes. Ma nelle mie vene scorre lo stesso sangue che scorre nelle vene della Croix du Lac. Mia sorella maggiore, Arabella Valdes. Non so come sia stato possibile, ma davanti a tutti i sacrifici perpetrati nel corso dei secoli dalle famiglie oligarchiche, e per ultimo, col sacrificio di una bambina innocente, la cui anima è stata relegata nei recessi più profondi del suo stesso cuore in nome di una follia che continua da così tanto tempo, avete ancora il coraggio di parlare di tradimento? E’ la cecità delle alte sfere che unita all’ossessione ha fatto sì che voi stessi tradiste la vita! Quanto altro sangue dev’essere sparso prima che capiate che tutto questo è sbagliato?! Guardate in che stato versa questo mondo. Senza più alcuna speranza, alcun punto fermo. La Croix du Lac, nemmeno voi sapete cosa sia davvero, eppure continuate a venerarla, distruggendo vite innocenti affinché questa credenza si perpetui nel tempo. Guardate la nuova generazione, proprio di fronte a voi. Molti di loro hanno perso le proprie famiglie, strappate loro senza alcuna ragione fondata. Eppure, nonostante tutto, tutti loro sono caparbi e continuano a brillare proprio come le pietre che portiamo al collo, che nonostante il dolore per la distruzione delle proprie patrie, non perdono la speranza. Il giglio di Shelton, la tenacia dietro la dolcezza. Il rubino di Camryn, il coraggio di perseguire l’ambizione. Il lapislazzuli di Wiesen, la fragilità dietro la forza. Lo smeraldo di Dourand, la caparbietà assieme all’ostinazione.

- E l’ametista?

Domandò. Inspirai, poi sostenni ancora una volta il suo sguardo indagatore. Pensai a mia madre, a mio padre, a Evan e Arabella. La mia famiglia.

- La compassione che dona la speranza. Segui la via che porta alla lacrima d’ametista… qui la lacrima riposa…

Qui la lacrima riposa… la lacrima d’ametista. 

Non avevo fatto in tempo a leggere il canto di Challant, a palazzo, ma quelle parole, senza che me ne rendessi nemmeno conto, risuonarono dentro di me, venendo fuori senza accorgermene. I ragazzi si stupirono, così come me, mentre la mia ametista pulsava con forza, risplendendo. Oliphant guardò Micheu, che annuì, qualunque cosa si fossero comunicata. Poi, si voltò nuovamente verso di me.

- Hai accusato l’oligarchia di perpetrare omicidi in nome di credenze che definisci blasfeme.

Amber e gli altri si prepararono a difendermi.

- Sì. E me ne assumo la responsabilità.

- Sei consapevole di cosa comporta il tuo atteggiamento?

- Naturalmente, Milord.

Mi studiò per lunghi istanti, tanto che percepii forte l’ansia. Non sapevo quanto ancora avrei retto, e pregai dentro di me affinché avessi la risolutezza di reggere ancora un po’. Vidi il suo sguardo inintelligibile e cercai di sondarlo, ma senza riuscirci.

- E riguardo all’incidente occorso al mio fidato Micheu?

Inarcai le sopracciglia, poi guardai Micheu, che non replicò in alcun modo.

- Questo è troppo!

La voce di Ruben risuonò nel salone prima che potessi rispondere. Ci raggiunse, affiancandomi.

- Lord Oliphant. La mia dimora non è luogo per interrogatori. Non credete di stare esagerando ora?

Oliphant sorrise.

- Siete così giovane, caro Cartwright, e talmente ingenuo da non rendervi conto che questa fanciulla non ha affatto bisogno di qualcuno che la difenda.

- Ciononostante…

- Aurore è nostra pari e nostra amica.

Aggiunse Amber, raggiungendoci.

- Amber…

Sussurrai, vedendo il suo sguardo determinato, mentre si esponeva fino al punto di non ritorno.

- Lord Oliphant. Chiunque in questo mondo, ha necessità di essere difeso. Soprattutto da chi abusa del proprio potere senza permettere alcuna espressione di difesa.

Shemar posò una mano sulla mia spalla e l’altra, quella col giglio dorato sul guanto, sulla spalla di Amber.

- Shemar…

- Dunque sappiate che non ci arrenderemo, qualunque cosa accada. Dovrete eliminarci tutti insieme, e rischiare una nuova ribellione. Solo che stavolta, non sono affatto sicuro che le cose andranno come sperate.

Disse Blaez, sorprendentemente, affiancando Shemar.

- Oh, Blaez…

- Pare che il mio fidanzato e mio fratello abbiano già deciso cosa fare. Per quel che mi riguarda, Milord, posso dirvi soltanto una cosa. L’ametista reagisce a questa ragazza. Sapete bene cosa significa. Nonostante suo padre, Greal Valdes, sia morto senza poterla riconoscere, se la pietra l’ha riconosciuta e accettata come sua custode, questo fa di lei l’ultima erede legittima del casato Valdes, nonché sorella della Croix du Lac, per ragioni che a quanto sembra, sono alquanto discutibili per la vostra cerchia. E aggiungo, in quanto Lady del rubino e come ha detto Amber, Aurore è una nostra pari e una nostra amica. Non la lasceremo affrontare tutta questa barbarie da sola.

Disse Rose, pungente e solenne tanto da lasciarmi senza parole. Mi commossi nel vedere tutti quanti pronti a dare la loro vita… anche solo per proteggermi. E quando Violet, accanto a Ruben, mi rivolse uno dei suoi più dolci e affettuosi sorrisi, ritrovai la forza di credere in me stessa, oltre che in tutti loro.

- Milord. Noi siamo la nuova generazione e siamo pronti a tutto pur di cambiare il destino di questo mondo. Vogliamo che la luce torni a risplendere e per far questo, non ci fermeremo davanti a nulla.

Dissi.

Gli occhi di Oliphant si ridussero a due fessure.

- Aurore Kensington. Anzi, Lady Aurore Valdes. Proprio ora mi sembra di vedere davanti ai miei occhi tua madre e tuo padre. Hai l’ostinazione di Lady Cerulea e l’implacabilità di Lord Valdes. E una buona dose di somiglianza con Annabelle.

Poi sospirò.

- Avevi ragione su di lei, Micheu. E’ davvero in grado di raggiungere i cuori di coloro che le stanno intorno.

La sorpresa ci stupì non poco.

- Non avevo dubbi, Andres. Per questo vi ho raccomandato di ascoltare ciò che aveva da dire. Questa fanciulla può aiutarci a salvare il nostro mondo.

- Micheu…

Mormorai, incredula per ciò che avevo appena sentito.

- M-Mi spiegate di cosa stanno parlando?

Domandai, perplessa quanto mai, cercando sostegno nei miei amici, che erano evidentemente, sbalorditi quanto me. Oliphant ci guardò nuovamente. I suoi occhi, bordati da pesanti rughe che ne incastonavano il pervinca, si riaccesero.

- Volevo mettervi alla prova. Micheu mi aveva detto tutto, dopo essere tornato a Wiesen, e mi ha chiesto di restare in attesa, fino a che qualcuno di voi non si fosse presentato a me col suo sigillo. Ero piuttosto curioso di conoscere di persona la Lady dell’ametista. Certo, non mi aspettavo che tutti voi giovani foste così coesi, al punto da mettere a repentaglio la vostra stessa vita e il vostro casato per questa fanciulla.

- Dunque ci avete presi in giro…

Bofonchiò Ruben, con un broncio alquanto infantile sul viso. Violet gli dette una pacca sulla spalla, mentre Blaez tirò un sospiro di sollievo. Alle mie spalle, Shemar era il solo ancora scettico. Vidi preoccupazione sul suo volto, la stessa che riscontrai in Amber. Evidentemente, ancora non si fidavano.

- Lady Trenchard, c’è qualche problema?

Domandò Oliphant, richiamando l’attenzione sulla mia amica.

- Mi auguro di no, Lord Oliphant. Aver preso coscienza di questa nuova situazione, cosa comporta per voi?

Replicò Amber.

Oliphant la scrutò attentamente.

- Siete molto attenta alle conseguenze, vedo. Per quanto mi riguarda, l’opinione di Micheu per me è la sola che conti. E dal momento che il mio fidato compagno crede in questa fanciulla, voglio dargli credito. Per ciò che concerne la vostra situazione, mi rendo conto che sebbene siete ancora così giovani, al tempo stesso, siete agguerriti. Ma questo non basta. Avete bisogno di un piano ben strutturato e soprattutto, di agganci potenti. Immagino che Angus Vanbrugh sia al corrente delle vostre scorribande e stia cercando di proteggervi, ma fregiarvi della sua protezione non è sufficiente. Oltretutto, è parecchio anziano e non gli resta molto da vivere. E non tutte le famiglie sono dalla vostra parte.

In fin dei conti, aveva ragione. A cominciare da Livia, che era una fervente avversaria. E Amelia non sembrava affatto interessata a cambiare lo status quo.

- Voi ci aiuterete, Lord Oliphant?

Domandai.

Mi guardò come se avessi detto un’ovvietà.

- Micheu?

Micheu si fece avanti, puntando i suoi occhi scuri nei miei.

- Voi mi avete fatto immaginare un mondo diverso. Un mondo libero dal terrore e dall’oppressione. E in più, mi avete dato la possibilità di tornare dai miei figli, perciò, avete la mia lealtà, Lady Aurore.

Quelle parole mi colpirono così tanto che mi ritrovai a commuovermi ancor più di prima. Nonostante avessi dubitato di Micheu, questi era sempre stato fedele. E sapere che aveva potuto far ritorno dalla sua famiglia fu la notizia più bella che avesse potuto darmi.

- Grazie, Micheu…

Bisbigliai, carezzando quel moncone oramai coperto.

- Mi dispiace così tanto…

- Sono ancora vivo. Questo conta.

- Ad ogni modo, potete contare su di me, My Lords e My Ladies.

Aggiunse Oliphant, e finalmente, potemmo avere qualcosa di cui rallegrarci. Poi, più tardi, avemmo modo di conversare tutti insieme, così come era stato l’effettivo desiderio di Ruben. Scoprii perfino un gossip, ovvero che molti anni fa, Lord Oliphant aveva chiesto la mano di mia nonna Annabelle, ma lei aveva rifiutato, in quanto innamorata di Lord Leutwin, mio nonno. Ecco perché sembrava conoscerla così bene. E per giunta, venimmo a sapere diversi particolari sulla scelta del nuovo Despota. A quanto pare, la Croix du Lac, che si era mostrata per la prima volta al suo popolo, aveva in mente di chiedere qualcosa ai candidati. Qualcosa però, su cui c’era assoluto riserbo. Immaginai che il solo a sapere di cosa si trattasse fosse Liger. Quando Rose chiese di lui (e mi stupii della totale assenza di reazione da parte di Blaez), ci disse che Liger era stato personalmente scelto dalla Croix du Lac come suo cavaliere. Questo fomentò alcuni dubbi sul ruolo del comandante, che, discendendo da una famiglia di Adamantio, poteva in qualche modo essere un avversario per i ragazzi. Secondo Oliphant, questa situazione era del tutto nuova, considerando che mai prima di allora, nessuno che non fosse il Despota aveva potuto vedere la Croix du Lac. Eppure, considerando il fatto che in qualche modo, la Croix du Lac prendeva possesso di un vessillo, c’era da immaginare che esistesse qualcuno in grado di effettuare questa transizione.

- No, non è così.

Spiegò Oliphant, sorseggiando del vino bianco, davanti alla mia perplessità.

- Ma Arabella…

- Per tua sorella è stato diverso. Le circostanze lo sono state… ma fondamentalmente, una volta che si chiude l’offerta nel Sancta Sanctorum, ciò che accade è relegato a quelle stanze. A nessuno è concesso di entrarvi e nessuno ha mai visto cosa succede davvero.

- Che significa che per la sorella di Aurore è stato diverso?

Domandò Violet. Notai tensione sul suo volto, così come su quello degli altri. Del resto, per quanto gli oligarchi potessero parlare con tanta facilità di sacrifici, per noi, quello rimaneva un tabù. Una tale crudeltà sarebbe dovuta finire. I Delacroix oramai non esistevano più, dunque, la leggenda che un discendente di quella famiglia avrebbe spezzato la maledizione non poteva trovare alcun riscontro. Toccava a noi porvi fine, una volta per tutte. Oliphant esitò a rispondere, tergiversando.

- Non è il momento né il luogo adatto, ora. Ad ogni modo, al mio arrivo, parlavate di Ealing.

Per quanto volessi sapere qualcosa in più su ciò che era successo ad Arabella, mi resi conto che Oliphant non era intenzionato a parlare di quella storia. Cercai qualche indizio di pentimento, ma quell’uomo non esprimeva emozioni. E contraddirlo non parve una buona idea, a nessuno. Dopotutto, mia madre sapeva cos’era successo, dunque, se non avessi saputo da lui come stavano le cose, di certo, molto presto sarebbe stata la mamma a raccontarmi tutto…

- Potete dirci qualcosa almeno su di lui?

Domandò Ruben.

Il vino nel calice oscillò.

- Ealing era una brava persona. Grande amante della bellezza della natura, fine intenditore d’arte e letterato. Molti scritti di letteratura sono stati vergati direttamente di suo pugno e la maggior parte di essi è ad Adamantio. Purtroppo, però, viveva in un mondo proprio, al punto da disinteressarsi delle questioni pratiche che riguardavano direttamente Dourand. Tuttavia, era il solo esponente maschio della famiglia Ealing, che possedeva lo smeraldo. Alla sua morte prematura, avvenuta senza eredi, almeno formalmente, il casato andò incontro alla sua estinzione, al punto che la foglia di smeraldo passò alla famiglia Dobrée. Ma a quanto pare, un erede c’era, seppur non riconosciuto.

Pensai a Damien, alla sua presentazione e ai pochi indizi che avevo raggranellato sulla sua identità. Ma nonostante le parole di Oliphant, desideravo sentire da lui quale fosse la verità.

- Voglio che sia Damien stesso a dirmelo.

Dissi, alzandomi dal divano stile rococò su cui ero seduta insieme a Violet.

- Aurore?

Mi fece eco la mia amica.

- E come pensi di fare?

Domandò Rose, sventolando il suo ventaglio, a un divano di distanza da noi. Accanto a lei c’era Blaez, pensieroso.

- Non lo so, ma certo è che non posso lasciar correre. Damien e io siamo arrivati qui insieme e abbiamo promesso di aiutarci a vicenda. L’ultima volta che l’ho visto, prima di separarci, io ho infranto quella promessa e ora… ora questa è la situazione. E’ colpa mia e a me tocca porvi rimedio. E poi, che il suo nome sia Ealing, o Warren… so soltanto che lui è il despota del liceo di Darlington e…

- … e sono innamorata di lui. Bla bla bla. Risparmia la tiritera, ragazzina.

Ci voltammo tutti, e io affilai lo sguardo, nel vedere Leandrus sulla porta mentre mi faceva il verso.

- Leandrus, non è il momento.

Lo ammonì Blaez, mentre le mie amiche lo fulminarono con lo sguardo, al punto da lasciare stupiti Shemar e Ruben. Micheu e Oliphant, invece si alzarono.

- Aurore.

Mi richiamò Oliphant. Guardai quell’uomo alto e austero, dai lunghi capelli bianchi intrecciati e mi avvicinai. Al suo fianco, Micheu osservava i miei compagni.

- Lord Oliphant.

- Ascoltami bene. Qualunque cosa tu decida di fare, ricorda che le tue forze non sono infinite. In quanto nipote della mia amata Annabelle, ti do un consiglio, in memoria di quei tempi passati. Non sfidare troppo la sorte, ma pensa bene alle conseguenze delle tue azioni, prima di agire. L’Underworld è stato funestato così a lungo che persino noi stessi abbiamo perso di vista la retta via. Se è davvero salvare questo mondo ciò che vuoi, allora rifletti bene su quello che devi fare.

Annuii, nel rendermi conto che quel consiglio, in quel momento, era destinato soprattutto a quello che mi stavo apprestando a fare. Notai un’antica sfumatura di tenerezza nel suo sguardo, quando mi porse la mano. La presi, stringendola tra le mie.

- Grazie, Lord Oliphant.

Lui annuì col capo, poi si rivolse ai ragazzi.

- Mi chiedo chi di voi sarà il prossimo Despota, giovani Lord.

Disse, guardando Ruben e Blaez. I due si guardarono, poi fecero un inchino verso Oliphant.

- Chiunque di noi sarà, Lord Oliphant, è certo che si impegnerà a rendere questo luogo un posto migliore.

Disse Ruben.

Guardai Violet, sul cui viso, al di là della fierezza per le parole del suo amato Ruben, c’era la tristezza. In fin dei conti, se Ruben fosse diventato il nuovo Despota, lei avrebbe dovuto rinunciare a lui. E mi resi conto di quanto fosse diversa la nostra situazione. Da quando ero arrivata in quel mondo, avevo sempre ripetuto a me stessa che quello non era il mio mondo. Ma la mia famiglia proveniva da lì e anche quella di Damien. Noi avevamo l’Underworld nel sangue, mentre Violet ci si era avventurata  per ritrovarmi. Avevo sempre detto che saremmo tornati a casa insieme, ma la mamma avrebbe voluto far luogo nel nostro mondo, una volta in salvo? E se per Arabella non fosse stato possibile scindersi dalla Croix du Lac, questo avrebbe condizionato la sua scelta? Per la prima volta mi ritrovai a riflettere su cosa fosse successo quasi diciassette anni fa. In che modo la mamma era giunta nel nostro mondo? E mio padre dov’era allora? Ancora una volta, avevo tante domande e nessuna risposta e questo mi rendeva più inquieta che mai. Poi, quando Oliphant e Micheu andarono via, lasciandoci con un nuovo accordo di cooperazione, mentre i ragazzi riflettevano sulle prossime mosse, Leandrus mi raggiunse. Sollevai lo sguardo fino a incrociare i suoi occhi blu cobalto che mi osservavano seccati.

- Che vuoi, Leandrus?

Domandai, facendo un passo indietro. Non avevo dimenticato lo schiaffo che gli avevo dato, ma nemmeno che mi aveva sferrato un pugno in piena pancia.

- Non ho sentito le parole che mi piacerebbe sentire, ovvero “Leandrus, scusa per il ceffone che ti ho mollato”.

Sollevai il sopracciglio, imbronciandomi.

- Forse avresti dovuto sentire meglio. In realtà dicevano “Dovresti scusarti per il pugno che mi hai dato”.

- Oh.

Lo sguardo del mio interlocutore si fece più acuto. Prima che potesse rispondere, feci appena in tempo a vedere un’ombra afferrare Leandrus per la gola e sbatterlo al muro. Sgranai gli occhi, così come tutti gli altri, quando sentii la voce di Amber alzarsi persino di più di quella di Blaez.

- Shemar!

Shemar aveva stretto la presa attorno al collo di Leandrus, che si dimenò imprecando contro di lui.

- Shemar!

Amber intervenne, così come feci io, ma sentii chiaramente le parole che il cavaliere della mia amica rivolse a Leandrus, prima di lasciarlo andare. Il suo sguardo era truce e spaventoso in quel momento. Fu allora che mi resi conto di come aveva messo in fuga i maniaci che avevano tentato di mettermi le mani addosso, nel parco di Darlington.

- Prova anche solo a toccare un’altra volta la signorina Aurore e giuro sulla mia stessa testa che non vivrai abbastanza a lungo da raccontarlo, Leandrus.

Deglutii, mentre mollava la presa e Leandrus tossiva.

- Mi dispiace molto per quello che vi ha fatto, signorina…

Disse.

- Sarei dovuto venire io con voi.

- Shemar, smettila adesso.

Lo richiamò Amber. Lui la guardò, aggrottando le sopracciglia scure.

- Lo sai. Lo sai, Amber. Non posso tollerare una cosa del genere.

Amber assentì e lo abbracciò. A qualunque cosa si stesse riferendo, certo era che Leandrus ne aveva pagato le conseguenze.

- Shemar, grazie…

Sia lui che Amber mi guardarono. Poi mi avvicinai a Leandrus, tendendogli la mano.

- Leandrus, mi dispiace di averti schiaffeggiato.

Leandrus mi guardò allibito. Gli avevo fornito un’ulteriore prova di essere matta. Guardò oltre, verso Blaez, poi si rialzò, senza prendere la mia mano. Sospirò, sistemandosi i vestiti sgualciti.

- Scusami per averti dato un pugno.

Poi, guardando Amber e Shemar, che a loro volta ci guardavano, ancora abbracciati, lasciò il salone.

- Aurore…

Violet mi raggiunse, e io abbassai la mano tesa a mezz’aria, voltandomi verso di lei. Sorrisi appena.

- Sono un’imbranata, eh?

Sospirò, poi vidi Blaez raggiungerci e fermarsi vicino a noi.

- Leandrus ha dei metodi alquanto rozzi, lo so.

- Me ne sono accorta… ma anch’io ho le mie parti di colpa.

- Sì, ma gli ho sempre detto che le donne non si toccano.

Guardò verso Shemar, che ricambiò.

- Sarà meglio che vada. Amber, Shemar, venite con me?

Amber annuì, poi lasciò Shemar per venire da me.

- Cosa pensi di fare per Damien, Aurore?

Mi chiese. Ci riflettei. Oliphant mi aveva suggerito prudenza, e la soluzione migliore sarebbe stata sicuramente lasciar stare, almeno per il momento. Ma temevo che se avessi lasciato passare altro tempo, la Croix du Lac avrebbe finito col condizionarlo, in qualche modo. Dovevo impedirlo. Su una cosa Leandrus aveva ragione. Damien era la persona di cui mi ero innamorata e non potevo lasciarlo al suo destino. Strinsi le mani al cuore, ripensando alla notte del mio compleanno e a quella in cui l’avevo perso. Amber comprese e mi sorrise dolcemente.

- Promettimi solo che starai attenta.

Mi raccomandò. Annuii, rincuorata.

- Amber, grazie…

Lei si limitò a un breve cenno, poi guardò Rose e Ruben.

- Ci vediamo, ragazzi.

Rose sollevò il ventaglio, mentre Ruben assentì.

- Arrivederci.

Ci salutò Blaez, precedendo Amber e Shemar. E prima che andassero via, mi rivolsi a Shemar.

- Shemar… grazie davvero. Promettimi che quando avremo l’opportunità, mi racconterai di mio padre e di tuo padre…

Shemar mi guardò sorpreso, poi la sua espressione si ammorbidì, ripensando evidentemente, a qualcosa che viveva ancora nella sua memoria, da qualche parte.

- Certamente, signorina Aurore.

E quando anche loro furono andati via, mi rivolsi ai Cartwright.

- Come faccio a raggiungere Damien?

Rose alzò gli occhi lavanda al cielo, sospirando nel dire qualcosa del tipo “Ah, l’amour…”, mentre Ruben guardò Violet, in cerca di aiuto.

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Capitolo 40
*** XV. 3 parte ***


Buonasera a tutti! Come state, amici? Io male, ma eccomi qui! Allora, intanto ho un piccolo avviso: siccome ho un po' di cose da organizzare, cercherò di pubblicare il lunedì (mattina/sera, dipende), almeno per un po'... niente, che dire? Aurore e il suo epic plan per salvare Damien... ma cosa troverà la nostra eroina nella residenza Dobrée? Preparatevi perché questa parte sarà lunga, MOLTO, davvero MOLTO forte, e... forse solo per Damien? Chi lo sa! Certo è che la vita di Aurore sta per cambiare... di nuovo. Ringrazio i miei carissimi recensori e chi ha aggiunto la storia alle seguite/preferite! Silenziosi, fatevi sentire, non mangio, eh? Cioè, oggi mangerei qualcuno... anzi no, mangiare no, dare in pasto a certe pantere sì, però... mi manca il mio Jack!! ;__________; Let's begin! Alla prossima e buona lettura! :)

 

 

 

 

 

Era notte fonda quando, aiutata dai ragazzi di Ruben, raggiunsi la residenza di Adamantio della famiglia Dobrée. Avevamo scelto di muoverci nell’oscurità più completa per evitare di essere scoperti e almeno fino a quel momento, ci eravamo riusciti. Dopo la cerimonia del giorno precedente, la vita nella capitale aveva ripreso a scorrere normalmente, sebbene si potesse respirare nell’aria una rinnovata speranza, data dalla Croix du Lac che si era mostrata, finalmente. Ma chi conosceva la verità era ben attento alle proprie mosse.

- Per l’ultima volta, siete sicura di volerlo fare davvero?

Domandò Einer, nel porgermi le mani per aiutarmi a scavalcare il muro. Più o meno, era la trentesima volta che mi si poneva quella domanda. Alla fine, però, era stata la stessa Violet a darmi coraggio e il benestare per intraprendere quella missione.

- Certo!

Esclamai, salendo sulla scaletta improvvisata e scavalcando il muro. Per fortuna, non era poi così alto e mi venne piuttosto facile, grazie anche al mio spericolato senso dell’equilibrio. Ero sempre stata piuttosto brava in Educazione Fisica. Mi sedetti sul bordo, guardando i quattro che si erano posti a guardia.

- Fate attenzione, ragazzi…

Raccomandai loro. Eyde mi dette il suo ok, poi vidi Zarvos e Gourias osservare tutto intorno. Quei due erano piuttosto silenziosi, pensai tra me e me.

- E se doveste avere bisogno di noi, ricordate il campanellino.

- Va bene!

Confermai, controllando che il campanellino che mi aveva dato Rose come segnale fosse ancora lì. Poi, non appena ebbi la sicurezza che fosse tutto tranquillo anche nel parco, saltai giù, correndo verso il palazzo che si stagliava a circa un centinaio di metri da me.

Mentre correvo, prestando attenzione al gazebo in ferro che abbelliva la strada che conduceva alla residenza, col cuore in gola al pensiero che oramai pochi metri mi dividevano da Damien, mi ritrovai a ricordare il nostro primo incontro.

Fu proprio il primo giorno di scuola, a Darlington. L’anno scolastico era cominciato da poco e noi ci eravamo trasferiti solo da un paio di giorni in quella nuova cittadina. Ero così felice, con indosso la mia nuova, stupenda uniforme. Evan era il solito morto di sonno, persino quella mattina. A furia di cambiare scuola, aveva perso perfino l’entusiasmo del primo, fatidico giorno. E così, a causa sua, avevamo fatto tardi. Varcato il cancello, vidi l’edificio scolastico più bello tra tutti quelli che avevo visto fino a quel momento, con un parco grande e ben curato, tagliato all’inglese e con siepi che facevano da contorno agli alberi di pesco. La struttura, costruita con mattoni rossi e bianchi, aveva dei lunghi colonnati lungo le ali laterali e delle torri che supportavano l’entrata principale, preceduta da una breve scalinata in pietra. E quello era il liceo di Darlington, classico così come quella stupenda cittadina. Evan e io ci separammo poco dopo aver preso le mappe della scuola e gli orari delle lezioni. Lui aveva Storia, e allora ancora non sapevo che il suo professore era Leonard Warren, mentre io avevo Letteratura Inglese. Cercai di raccapezzarmi nello studiare la mappa, ma per quanto elegante, quella scuola sembrava un labirinto, la prima volta. Avevo capito che i diversi anni erano smistati in base ai piani e avevo felicemente raggiunto il primo, ma non trovavo la mia aula. Per giunta, la scuola offriva diversi indirizzi, dunque le cose si complicavano. Dal momento che non c’era nessuno all’orizzonte in grado di aiutarmi e le lancette dell’orologio continuavano a scandire il ritardo, provai a raggiungere il terzo piano, sperando che a Evan fosse andata meglio. Poco male, quando lo vidi nell’atto di bussare, per poi ripensarci nel rendersi conto a sua volta che era tardi, lo raggiunsi.

- Non entri?

Domandai.

- Credo sia meglio aspettare la prossima ora. A quanto pare sono nel bel mezzo di una spiegazione.

Prestai orecchio e sentii per la prima volta la voce, sebbene ancora poco riconoscibile, del professor Warren, impiegato nella spiegazione della guerra di secessione. Guardai mio fratello.

- Io non riesco a trovare la mia aula… e non c’è nessuno che possa aiutarmi…

Confessai, colpevole. Evan mi accarezzò la testa.

- Andiamo, la cerchiamo insieme.

Annuii, ma mentre stavamo per imboccare la scala per tornare al primo piano, ci ritrovammo davanti Damien, che saliva. Fu la prima volta che vidi quel ragazzo. Diversamente da mio fratello, che portava spesso la cravatta allentata, Damien era molto attento al portamento. Nel vederci, affilò lo sguardo. Per un attimo ebbi quasi la sensazione che ci avesse già visti prima, ma ero sicura di non aver incrociato nessuno nei corridoi. Forse stava tornando dal bagno.

- Scusa, puoi indicarci la IC?

Chiesi.

- Siamo nuovi, e io mi sono persa…

Confessai, ignara di avere davanti a me il temutissimo e rispettato despota del liceo di Darlington. Damien affilò lo sguardo ed ebbi l’impressione che sogghignasse.

- Siete nuovi e tu ti sei persa. Come vi chiamate?

- Io sono Aurore Kensington! E lui è mio fratello Evan!

Esclamai, facendo le presentazioni. Damien salì di qualche gradino. Era davvero molto carino, con quegli occhi di smeraldo e quei capelli castani che gli incorniciavano l’ovale del viso.

- Kensington, eh? Siete inglesi?

Prima che rispondessi, Evan si rivolse seccato verso Damien.

- Non credi di essere un po’ troppo curioso? Siamo già in ritardo e non vorrei che mia sorella perdesse il resto dell’ora.

Disse. Damien inarcò il sopracciglio, sogghignando ancor di più.

- Oh. Senti senti. Rigirando la tua domanda… non credi di essere un po’ troppo grande per fare da balia a tua sorella?

Avvampai nel sentire quelle parole. Evan che mi faceva da balia? Ma chi diavolo era quel tizio? Di colpo, il fatto che fosse un bel ragazzo passò in secondo piano. Arrogante, presuntuoso sputasentenze che non sapeva un accidente di noi.

- Che diam---

Anche stavolta non potei rispondere, perché Evan tramutò tutto di botto la sua espressione in una maschera gelida. Se c’era una cosa che mio fratello odiava era che si criticasse senza ragione. E quel ragazzo gli aveva appena fornito un’eccellente occasione.

- Non osare nemmeno azzardarti a pronunciare un’altra mezza sillaba su di noi. Non ci conosci e noi non siamo interessati a conoscere te. Quindi, gira al largo e lasciaci in pace.

Poi Evan mi prese per mano e scendemmo velocemente le scale. Mi voltai appena per vedere quel ragazzo che sulle scale, si era voltato a sua volta e ci guardava, con sguardo acuto e pungente. Solo dopo scoprii chi era e cosa significava mettersi contro di lui. Ma anche cosa significava averlo dalla propria parte e sentirne la mancanza, forte al punto da decidere di avventurarsi nel cuore della notte in un luogo che nemmeno si conosceva, pur di ritrovarlo.

Damien, dove sei?, mi domandai, quando finalmente raggiunsi il palazzo Dobrée. Alzai lo sguardo, puntando le finestre. Ricordai che a palazzo Trenchard, Damien aveva avuto le stanze che davano sul cortile interno della residenza. Chissà se aveva mantenuto quella stessa disposizione anche in quel caso. Poi, sentii d’improvviso una finestra aprirsi. Scorsi la luce che illuminava il balcone al secondo piano, con una cascata di fiori notturni che lo addobbava. Mi nascosi dietro a un cespuglio, proprio in direzione del balcone, sperando che qualcuno uscisse. Poco dopo, sentii ridere e vidi Amelia Dobrée affacciarsi. Indossava una sottoveste rosa chiaro, e aveva i lunghi capelli castani sciolti. Pochi istanti e vidi anche un uomo uscire con lei, ridendo e porgendole due calici. Sospirai, senza rendermi conto che avevo trattenuto il fiato fino a quel momento. E poi passai oltre, raggiungendo un reticolato di rampicanti che saliva per diversi metri. Toccai i fiori che creavano disegni dalle forme più disparate, pensando al tatuaggio che spiccava sul braccio di Arabella, poi sollevai lo sguardo. C’era un altro balcone, accanto a una finestra aperta proprio vicino ai rampicanti, al primo piano. Pensai che potesse essere la finestra di un corridoio, così decisi di salirci. Certo, era davvero strano che non vi fosse sorveglianza, ma a parte le guardie personali, non avevo mai avuto modo di vedere alcun tipo di controllo nelle residenze.

- Ok, diamoci da fare…

Mi arrampicai facendo attenzione a non fare troppo rumore e a dove mettessi i piedi. In più di un’occasione, finii col graffiarmi, ma non ci feci caso. Dovevo raggiungere Damien e qualche graffio era il rischio minimo. Quando finalmente salii sul balcone, mi accorsi che la finestra era poco più lontana di quanto avessi calcolato. Il buio aveva falsato la misura e provare a raggiungerla non mi sembrò affatto una buona idea. Guardai dal balcone, notando le case che si intravedevano in lontananza e il bellissimo panorama del parco notturno.

- E adesso dove vado?

Mi voltai verso la porta-finestra che dava sul balcone e ci posai la mano.

- Oh Damien… dove sei finito?

Sussurrai. Spinsi appena appena la porta di vetro e notai che non era chiusa. Presi fiato e coraggio, pensando a quell’occasione e mi affacciai piano piano, oltrepassando le cortine che coprivano la porta. E fui dentro la stanza, trovandola vuota. C’erano una scrivania, con dei fogli appoggiati sopra, degli abiti poggiati sulla poltrona accanto al letto, che faceva pendant con altre tre, tutte poste ai quattro angoli, mentre il letto stesso, pieno di cuscini dorati, era disfatto. Sul muro, proprio sopra al giaciglio, c’erano due lanterne che emanavano una luce soffusa, impossibile da vedere dall’esterno. Mi avvicinai agli abiti, raccogliendo una camicia scura. E non appena la avvicinai a me, sentii la fragranza di Damien. Mi ritrovai a singhiozzare prima ancora di rendermene conto. E non seppi nemmeno quante volte ringraziai Dio perché era lì, da qualche parte, vivo.

- Damien…

Mormorai, inebriandomi del suo profumo.

- … sì?

Nell’istante stesso in cui sentii la voce alle mie spalle, cessai di compiere qualunque azione umana legata all’istinto di sopravvivenza: respirare, pensare, agire. In quel momento, il mio cervello era totalmente scollegato dal resto del corpo, che per quanto mi riguardava, rispondeva solo all’emozione suscitata da quella voce sorpresa. Tu-TumTu-Tum… a quanto stava battendo il mio cuore? Forte, piano, forse non batteva nemmeno? Non sapevo nemmeno cosa fosse giusto dire una volta che mi fossi voltata. D’improvviso, compresi cosa volesse dire essere innamorata. E mi ricordai della mamma, quando le chiesi, per la prima volta, cosa significasse amare qualcuno. “E’ come essere privati della propria anima e al tempo stesso, come averne acquistata una doppia. All’improvviso ti senti mancare la terra sotto ai piedi. E il cuore va per conto suo. Ti si offusca la mente e non riesci nemmeno a pensare lucidamente. E’ come se tutto ciò che sei si annullasse in un istante, per poi ritornare più forte di prima e farti impazzire di gioia non appena la persona che ami ti stringe forte a sé”, mi aveva spiegato. E io non avevo mai provato niente di tutto quello, prima di quel momento. Sentii le lacrime pungermi gli occhi e bagnare le mie mani e mi concentrai, per quanto possibile, sul respiro di Damien alle mie spalle. E quando finalmente fui in grado di connettere di nuovo, mi voltai e lo vidi. Vidi quell’ovale di porcellana appena illuminato dalle luci soffuse. Lo smeraldo nei suoi occhi era più scuro, data la poca luce, ma ciononostante, era quello che conoscevo. Sollevai la mano verso la sua guancia, così come aveva fatto lui con me, la notte alla residenza Devereaux. E percorsi il profilo dritto della mascella arrivando sino alle labbra piene. E poi, quando la sua vista si confuse, velata dalle mie lacrime ormai irrefrenabili, lo strinsi forte, come mai avevo fatto prima di quel momento, impregnandone la casacca chiara. E capii cosa volesse dire mia madre. Piansi, appoggiata al suo petto caldo, ascoltando il battito del suo cuore, piansi di gioia e di felicità. E mi resi conto che lo amavo.

- Mi dispiace tanto, Damien! Non dovevo dirti tutte quelle cose… sono stata davvero ingiusta con te e adesso… ecco, se fossi arrabbiato con me lo capisco… ho infranto la nostra promessa e… e…

Mentre farfugliavo quella quantomai confusa spiegazione, sentii le sue mani accarezzarmi i capelli e mi si mozzò il respiro. Sollevai lo sguardo, mentre mi fissava.

- Damien…

Mi accarezzò il viso con la punta delle dita, poi scese, raccogliendo tra quelle stesse dita il ciondolo che portavo al collo.

- Aurore.

Che strana sensazione sentirlo pronunciare il mio nome con un tono tanto cantilenante. Eppure, quando vidi comparire il ghigno che avevo visto la prima volta che l’avevo incontrato a scuola, qualcosa, in quell’idillio, si spezzò. E quando l’altra mano mi attirò con forza al suo viso e le sue labbra furono sulle mie, impetuose e maliziose, capii che ero in un incubo.

- Evan, hai mai baciato una ragazza?

Ricordai di averlo chiesto a mio fratello una volta. Stava giocando ad Assassin’s Creed, seduto sul divano angolare a quattro posti grigio, nel nostro salotto. Il telecomando gli cadde di mano mentre Desmond era nel bel mezzo dell’esplorazione dei ricordi di Ezio Auditore.

- Che domande fai tutto d’un tratto?

Mi domandò, sconvolto.

- Che c’è di strano? Sono solo curiosa…

Avevo quasi quattordici anni allora. Evan mise in pausa il gioco, poi si voltò verso di me, con sguardo indagatore.

- Cosa mi nascondi, Aurore?

Mi imbronciai. Doveva sempre pensare male.

- Niente, è solo una domanda… è che insomma… non ho mai visto la mamma baciare nessuno e non so se sia una buona idea chiederglielo…

- Lascia stare, meglio di no…

- Meglio di no cosa?

Ci fece eco la mamma, facendoci trasalire. Non l’avevamo sentita rincasare e per giunta, in mano aveva diverse buste della spesa.

- Niente, mamma!

Si affrettò a dire Evan. Ma per quanto mio fratello potesse essere indagatore, nulla poteva contro Celia Kensington, soprattutto quando inarcava il sopracciglio biondo.

- Vediamo. Non c’è nessun compleanno in programma, dunque è escluso che stiate complottando per qualcosa del genere. Considerando che non ci sono strani odori, non avete né bruciato qualcosa né distrutto degli elettrodomestici. Già, è tutto a posto. Quindi… rimane la scuola. Sono le 18:45 e non avete alcun compito davanti. Questo significa che avete già finito e se ci fosse stato qualche problema a scuola, conoscendovi, non avreste aspettato così tanto per confabularne. Ci sono, problemi di cuore!

Evan diventò rosso come un peperone e io battei le mani.

- Esatto, mamma! Evan non mi vuole dire come si b---

- Zitta!

Esclamò mio fratello, tappandomi la bocca.

- Lasciala perdere, mamma… eh?

La mamma sorrise così candidamente che sentii Evan sudare freddo, anche dopo aver sciolto la presa su di me.

- Dicevi, cara?

Mi chiese. Quando mi ricomposi, continuai la mia ricerca.

- Ho chiesto a Evan se ha mai baciato una ragazza!

Esclamai, innocentemente. La mamma si accese di curiosità.

- Oh, questa mi piace. Brava Aurore, è un’ottima domanda.

Mi disse, facendomi l’occhiolino.

- Smettetela, voi due!

Esclamò Evan, più imbarazzato che mai.

- Secondo me se arrossisce così è un sì… ma non capisco perché non voglia dirmelo… che c’è di strano?

Domandai alla mamma. Lei rimase per qualche istante a riflettere sulla mia domanda, poi guardò Evan che, mi accorsi, gesticolava come un addetto all’atterraggio degli aerei sulla pista di una nave ammiraglia. Li guardai perplessa, incapace di capire cosa potesse significare e perché mio fratello, che era sempre così controllato, sembrava così a disagio. Poi la mamma sorrise, lasciando le buste e raggiungendoci, sedendosi accanto a noi e abbracciandomi.

- Cosa vuoi sapere, tesoro?

Mi domandò, dolcemente.

- Ecco… mi piacerebbe tanto sapere come si bacia qualcuno…

La mamma mi guardò stupita, poi si mise a ridere, mentre Evan esalò ufficialmente l’ultimo respiro.

- Beh… non è una cosa che si possa spiegare… o meglio, non ci sono delle tecniche. Viene da dentro, è uno slancio, fondamentalmente. Quando qualcuno ti piace davvero tanto, quando ne sei innamorata, è uno dei gesti più naturali che si possano fare. E quando le labbra si incontrano… beh, diciamo che quando accadrà, saprai già da te come fare.

Sorrise sorniona, mentre mi accarezzava i capelli.

- Perchè volevi saperlo?

- Beh… perché alcune mie compagne hanno già dato il loro primo bacio…

- E tu non vuoi essere impreparata?

Annuii, convinta.

- Tesoro mio, accadrà quando incontrerai la persona giusta. Non avere fretta.

Allora la abbracciai forte e le scoccai un bacio sulla guancia. Mi guardò teneramente.

- Mamma, quanti anni avevi quando hai dato il tuo primo bacio?

Ci pensò, rimanendo in silenzio per qualche secondo. Immaginai che probabilmente stava ricordando quel momento, e vidi il solito antico velo di tristezza nei suoi occhi. Capii allora che doveva essere stato con papà.

- Mamma… non fa niente!

Lei mi strinse forte a sé.

- Avevo sedici anni. E fu il primo, meraviglioso gesto che venne da me e da tuo padre…

Sorrisi, quando anche lei lo fece. Ero così felice che mi avesse aperto il suo cuore, che quasi mi ero scordata di Evan.

- Evan?

- Oh…

La mamma si voltò a guardarlo, poi si mise a ridere.

- Sembra proprio che tuo fratello sia rimasto ancora a quand’era bambino su certe cose.

- Mamma, dacci un taglio…

- Dimmi, tesoro. Lo preferisci netto o seghettato?

E l’urlo terrorizzato di Evan pose fine a quel momento di ricerca sul tema bacio.

Lo schiocco secco della mia mano aperta sulla guancia di Damien mi riportò improvvisamente alla realtà. Mi scostai, portando le dita tremanti alle labbra. Il mio primo bacio… a Boer ci era andato così vicino, e nonostante ci fosse tensione, era tutto così perfetto… e adesso, invece, le sue labbra mi avevano rubato quel bacio con tanta arroganza al punto da non riuscire nemmeno a credere che fosse stato proprio lui a farlo. Mossi qualche passo indietro, rendendomi conto di stare tremando come una foglia.

- Che c’è? Non credevo fossi ritrosa a tal punto, Lady dell’ametista.

Disse, così malevolo che stentai a credere alle mie orecchie. Deglutii, sentendo le labbra ancora pulsanti sotto ai polpastrelli.

- C-Chi diavolo sei tu?

Domandai, tutto d’un fiato. Damien spalancò gli occhi, meravigliato.

- Mi sembra che tu sappia già chi sono, dal momento che mi hai chiamato per nome e mi hai trattato come se fossimo conoscenti di vecchia data.

Cercai di replicare, ma non riuscivo a capire cosa diamine stesse dicendo.

- Tu non sei Damien… no, è impossibile. Damien non avrebbe mai fatto una cosa del genere… eppure, sei identico a lui… ma no… no, non può essere… non capisco…

Misi le mani in testa, sperando che il mio cervello si decidesse a tornare a funzionare decentemente. Calma, Aurore, pensa. Lui si mise a ridere, divertito. Lo guardai in tralice.

- Amelia mi aveva detto che la nuova Lady dell’ametista era un tipo particolare. Che c’è? Non dirmi che non hai mai baciato nessuno prima d’ora. E’ alquanto triste.

Disse, maliziosamente.

- Ti ha dato forse di volta il cervello?!

Replicai, incredula per quello che stavo sentendo. Sì, non c’era altra spiegazione. Damien era impazzito. Il suo sguardo si fece acuto e mi afferrò fulmineamente per il polso, stringendo fino a farmi male.

- Ahi! Lasciami, Damien!

Esclamai. Ma lui non lo fece. Al contrario, mi sollevò il viso con l’indice della mano libera, puntando i suoi occhi verdi nei miei. Il cuore mi tradì, prendendo a battere forte. Nonostante tutto, l’effetto che Damien aveva su di me non era cambiato e anzi, era quasi amplificato, in un certo senso.

- Forse dovrei darti qualche lezione … si dà il caso che sia piuttosto bravo come insegnante.

Sgranai gli occhi ripensando al sit-in di studio a casa di Violet. Quella volta, mi ero stupita di quanto fosse in gamba. Ma in questo caso, ero più che sicura che non fossero materie scolastiche quelle che aveva in mente di insegnarmi. Cercai di scostarmi, ma la sua presa si fece più ferrea. E poi, mi vennero in mente le parole che Violet mi aveva detto su di lui. Dongiovanni, l’aveva chiamato.

- Dongiovanni un corno… razza di pervertito, che accidenti hai in testa, Warren?!

Vidi la sua bocca aprirsi in una muta esclamazione, e a giudicare dalla sua espressione del tutto esterrefatta, cercai di immaginare cosa gli fosse stato fatto. Il lavaggio del cervello mi sembrò l’ipotesi più plausibile. Allentò appena la presa e io continuai.

- Hai dimenticato chi sei? Ti ho sentito sul sagrato della cattedrale… Damien Ealing! Il solo Damien che conosco è Damien Warren, il despota del liceo di Darlington, il fratello maggiore di Jamie! Il… il mio… Damien…

Feci uno sforzo enorme per ricacciare indietro le lacrime e il magone, ma lui sembrava incredulo tanto quanto lo ero io nel dirlo.

- Warren? Liceo di Darlington? Jamie? Non ho idea di cosa tu stia dicendo.

Mollò la presa, lasciandomi libera e potei vedere i segni delle sue dita sul mio polso indolenzito.

- Non so cosa ti abbiano fatto, Damien… ma tu non sei la persona che ti hanno detto di essere. Il tuo nome è Damien Warren e noi siamo arrivati insieme in questo mondo! Ti prego, cerca di ricordare… non puoi aver dimenticato tutto! E poi, mi hai riconosciuta, sono Aurore…

- La Lady dell’ametista.

Mi fece eco.

- Lascia stare, non ha importanza! Ricordi cos’è successo a Wiesen?! Noi due eravamo insieme e siamo caduti nella trappola di Livia… e poi, poi io ti ho lasciato indietro…

Abbassai lo sguardo, vergognandomi per quello che avevo fatto. Lord Oliphant aveva ragione quando mi aveva detto di pensare alle conseguenze delle mie azioni. E rialzai gli occhi verso di lui, che continuava a guardarmi come se stessi parlando in una lingua straniera.

- Riprenditi, Damien, maledizione! Che diavolo ti hanno fatto?!

Urlai, e il grido di dolore si mischiò alle note alte della mia voce.

- Non ti hanno insegnato che non si urla nel cuore della notte?

Una voce femminile mi fece sobbalzare. Mi voltai di colpo e vidi Amelia sulla soglia della porta. Indossava ancora la sottoveste che ne metteva in luce il corpo sinuoso. Con disinvoltura, entrò nella stanza, giocando coi lunghi capelli castani. Alla sua vista, entrambe le pietre che portavamo al collo risplendettero.

- Ravviva quelle lanterne, per favore.

Disse, con voce gentile.

La guardai stupefatta, così come guardai Damien obbedire ciecamente a quella richiesta, per poi raggiungere e affiancare Amelia. Erano molto simili quei due, con gli stessi capelli castani e gli occhi verdi. Rose non si sbagliava quando diceva che entrambi si ricordavano l’un l’altra.

- Sei stata tu?

Domandai. Amelia ridacchiò, prendendo un ciuffo dei capelli ricci di Damien e avvolgendolo attorno all’indice.

- Damien, dimmi. E’ di tuo gradimento?

Domandò, ignorandomi. Sbuffai sgomenta.

- E’ bella, come dicevi. Ma non capisco per quale motivo sia convinta di avere a che fare con un certo Damien Warren. E poi… Warren? Questo nome somiglia a Warrenheim, pensandoci. Il che è un’offesa imperdonabile. Dimmi, è stato Lionhart Warrenheim a mandarti qui?

Chiese, accigliandosi.

- Niente affatto! Da quando in qua ti risulta che vada d’accordo con tuo pa---

Amelia richiamò la mia attenzione con un paio di colpetti di tosse.

- E’ opera tua, vero?! Che cosa gli hai fatto?!

- Dovresti lasciarci parlare un po’, mio caro.

Disse con voce suadente, accarezzando il viso di Damien.

- Cugina, non ho intenzione di lasciar correre!

- Cugina?!

Esclamai. Passasse il lavaggio del cervello, ma quello era troppo perfino per quanto potessi tollerare.

- Amelia!

Amelia Dobrée rise, poi mi rivolse un’occhiata di sfida, prima di tirare a sé il viso di Damien. Vidi rosso davanti ai miei occhi, quando quell’impudente lo baciò proprio dinnanzi a me, che mi ritrovai testimone di quella scena inaspettata. Sentii male al cuore, una fitta forte e penetrante, mentre Damien ricambiava quel bacio come se da esso dipendesse la sua capacità di respirare. E Amelia… La Lady dello smeraldo mi guardava con la coda dell’occhio, sfidandomi a reagire. Avrei potuto correre da loro, dividerli, ma ero paralizzata. Costretta, mio malgrado, ad assistere a quello spettacolo del tutto sbagliato.

- No… non baciarla così…

Mormorai appena, mentre una violenta ondata di dolore mi colpiva da dentro, irradiandosi in tutto il mio stesso corpo. Per la prima volta in vita mia, capii cosa fosse l’avere il cuore infranto. E se poco prima ero stata sul punto di impazzire per la gioia di avere ritrovato la persona che amavo, in quel momento, vedendo le labbra di Damien che cercavano fameliche quelle di Amelia, compresi cosa fossero la gelosia e il dolore della delusione. E non volevo provare anche quello. Poi, Amelia scansò Damien, che rimase con le labbra socchiuse, quasi a volerne ancora. Qualunque cosa lei gli avesse fatto, l’aveva trasformato nel suo burattino, pronto a eseguire ogni suo ordine. Era persino peggiore della Croix du Lac. Gli passò la mano tra i capelli, poi lo spinse via. Provai un istintiva sensazione d’odio nei confronti di quella ragazza e corsi verso Damien, che si appoggiò alla poltrona. Sembrava in trance, quasi catatonico.

- Damien?!

Esclamai, sorreggendolo. Mi rivolse uno sguardo vacuo, poi sorrise, per un istante, nel modo che conoscevo. Per un attimo pensai che mi avesse riconosciuta e gli sorrisi anch’io.

- Vattene. Non vali nemmeno come puttana.

Impallidii e rimasi col fiato mozzato. Quelle parole dette con tanta freddezza, ma più pesanti di un macigno, mi rimbombarono dentro alle orecchie, arrivando dritte fino al petto, pronte a sferrare l’ultimo colpo di piccone sul mio cuore che tanto era già stato martoriato. Un colpo di grazia sarebbe stata la giusta definizione, credo. Ma in quel momento, la sola cosa che riuscii a definire fu il vuoto che sentivo dentro. Era come se non ci fosse più nulla intorno. Non sentivo più nemmeno i miei stessi battiti, eppure, vedevo ancora chiaramente Damien ridacchiare follemente davanti a me, anche quando mi allontanai da lui. Avevo l’impressione di essere prigioniera nel mio stesso corpo. Amelia mi fece segno di uscire da quelle stanze maledette, e obbedii, del tutto incapace di reagire. Solo quando chiuse la pesante porta dietro di lei e quando non sentii più, almeno fisicamente, la risata spietata di Damien, mentre la devastazione faceva terra bruciata tutto intorno, annientando ogni mia speranza, Amelia mi portò in un piccolo salone pieno di finestre, mostrandomi l’ennesimo quadro di famiglia. Solo che in quel caso, accanto al quadro dei Dobrée, ce n’era uno più piccolo, a cui inizialmente non prestai attenzione. Guardai distrattamente, quasi incapace di focalizzare, i genitori di Amelia, con lei molto piccola. Aveva sin da allora uno sguardo attento e perspicace, molto meno spontaneo rispetto persino a quello di Livia. Poi, vidi il quadro più piccolo. Vi era ritratta una donna dai capelli castano scuro, quasi neri, acconciati in una lunga treccia molto morbida. Aveva dei grandi occhi verde acqua, cangianti, identici a quelli di Damien e del piccolo Jamie. C’era così tanta serenità sul suo viso. Sorrideva, stringendo tra le braccia un bambino di appena pochi mesi. Notai poi che lo stile dei due quadri era differente. Il grande ritratto della famiglia Dobrée era sicuramente opera di Grace Lantis, mentre il piccolo era meno dettagliato, ma al tempo stesso, prestava più attenzione ai soggetti. Guardai il bambino in braccio alla donna, coi pugnetti stretti, i ciuffi castani che incorniciavano quel visino ancora tondo, immerso nell’incoscienza dei primi mesi.

- Quelli sono…

Mormorai.

- Grace. La donna amata da mio zio, William Ealing. E quel bambino è il figlio nato dalla loro unione. Damien.

Come potevo dubitare davanti a quell’evidenza?

- Spiegami com’è possibile…

Dissi, senza riuscire a distogliere lo sguardo dal quadro.

Amelia scrollò le spalle e giocò con una lunga sciocca di capelli.

- Hai forse bisogno che ti spieghi come nascono i bambini? Non mi stupisce che Damien ti abbia stroncata, se non conosci nemmeno i gesti più ovvi.

Punta nell’orgoglio, mi voltai verso di lei, di scatto, afferrandola per le spalle. Amelia mi guardò stupita, poi sorrise.

- Ti dà fastidio, eh? Già. L’idea che il tuo Damien desideri un’altra ti fa ribollire il sangue nelle vene, non è così? Ebbene, lascia che ti riveli un piccolo segreto, mia cara.

Arricciò le labbra, avvicinandole al mio orecchio. Il suo respiro era controllato e la sentii ridere sommessamente, poi parlò con voce bassa e suadente.

- Non appena Damien salirà su quel trono maledetto, io lo sposerò e insieme ridaremo lustro a Dourand. Nel corso degli anni, mio padre, Nevius Dobrée, ha fatto di tutto per risollevare le sorti della nostra terra e degli Ealing. Sposando mia madre, la sorella maggiore di William, pensava di riuscire a ottenere potere sufficiente per riuscire nel suo intento. Ma mia madre era una povera sciocca, al pari del fratello. Troppo idealismo e poche azioni. Ma io sono diversa da loro. In questo mondo, devi agire se vuoi ottenere qualcosa. Devi essere pronta a tutto, anche a scendere a compromessi. Dimmi, Aurore. Rivorresti Damien?

Le code dei nostri occhi si incrociarono.

- Secondo te?

Amelia si avvicinò ancora, pericolosamente. Strinsi la presa, sperando di farle male, ma non dette alcun cenno di reazione.

- Non mi hai risposto. Cosa saresti disposta a fare per lui? Se ti dessi la possibilità…

Dal tono, immaginai che mi stesse proponendo una sorta di patto. Ma quella ragazza era pericolosa e non potevo certo fidarmi di lei. Possedeva astuzia e sadismo, un connubio alquanto letale.

- Sarei disposta a ucciderti, se questo servisse a riaverlo.

Dissi, memore di ciò che mi aveva detto l’anziano nella residenza Valdes. Secondo lui, sarei stata pronta a tutto per i miei cari, proprio come mio padre. E in quel momento, presi coscienza del fatto che quell’uomo aveva ragione. Amelia si mise a ridere.

- Non ne saresti in grado nemmeno se ti mettessi una spada in mano. Sei troppo pura, Aurore.

- Sfidami, allora.

Replicai, seccamente.

Il suo sguardo si accese di curiosità, poi mi afferrò i polsi, scrollandosi dalla mia presa. Fu rapida e forte, più di quanto potessi immaginare, nello sbattermi con le spalle al muro, vicino al quadro di Grace. Imprecai, cercando di divincolarmi, ma la sua forza era maggiore della mia, a dispetto del fisico apparentemente esile. Mi fissava interessata, e quello sguardo mi risvegliò, in un certo senso, da quella sorta di torpore in cui ero quasi scivolata, dopo le parole di Damien.

- Cosa potrei fare con te? Consegnarti a Liger, sperando che questo velocizzi la questione aperta sulla discendenza degli Ealing… ma certo, potrei farlo, ma voglio divertirmi un po’.

Consegnarmi a Liger come pegno era la scorciatoia ideale per risolvere i suoi problemi. Ad Amelia non importava niente del mio eventuale coinvolgimento con le famiglie Trenchard e Cartwright. La sola cosa che le interessava era ottenere il trono di Adamantio.

- Dimmi cos’hai fatto a Damien, prima!

Esclamai. Lei puntò i suoi occhi di smeraldo nei miei.

- Se me lo domandi, immagino che tu non conosca a pieno tutti i poteri delle gemme che portiamo al collo.

- Che vuoi dire?

Amber mi aveva spiegato che potevano fungere da chiavi per aprire nuovi portali e come mezzi di comunicazione, ma al di là di quello, non comprendevo il legame con quello che era successo a Damien.

- Beh… diciamo che ho soltanto sbloccato i suoi ricordi originali.

- Stai mentendo!

Mi affrettai a rispondere. Amelia si incupì. Evidentemente, essere contraddetta non le piaceva.

- Hai ancora dubbi a riguardo? La persona che conosci come Damien Warren è esistita sol perché Lord Warrenheim ha sposato Grace, dal momento che questa non poteva coronare il suo sogno d’amore con mio zio, e ha cresciuto quel bambino. Ma che ti piaccia o no, il suo vero nome è Damien Ealing e sarà il prossimo Despota. Una volta tolti di mezzo Warrenheim e quel ragazzino, sarà un gioco da ragazzi. Né Cartwright né Vanbrugh hanno le capacità per diventare Despota. Il solo che può riuscirci è Damien.

Inorridii nel sentire quelle parole, pronunciate con tanto ardore e convincimento.

- Quel ragazzino, come l’hai chiamato, è il fratellino di Damien! E lui non ci rinuncerà mai, qualunque cosa tu gli abbia fatto!

Amelia si mise a ridere.

- Non credi che l’abbia già fatto? Lui odia Warrenheim da così tanto tempo… non dirmi che non te n’eri mai accorta.

Sì che l’avevo fatto. Me n’ero resa conto già da prima di recarci in quel mondo. Ma questo non bastava a giustificare l’atteggiamento di Amelia.

- Anche se lui odiasse suo padre al punto da scegliere di essere un’altra persona, i sentimenti per il suo fratellino non cambieranno mai.

Così come accadeva a me ed Evan. Nonostante avessi scoperto così tanto sulla nostra storia, mio fratello rimaneva per me un punto fermo.

- Sei così convinta di ciò che dici… eppure, è servito più tempo per lavorare sui ricordi che ti riguardano che su quelli di Jamie. Pare proprio che Damien ti volesse molto bene. Dovevi vedere in che modo combatteva per trattenere dentro di sé quei ricordi.

Scoppiò a ridere, sadicamente, mentre lo shock mi scuoteva dalla testa ai piedi.

- Maledetta…

- Eh?

Affilò lo sguardo, poi lasciò la presa ferrea sui miei polsi, liberandomi, per poi scaraventarmi a qualche passo di distanza. Si allontanò di poco.

- Aurore, Aurore. Fammi divertire, Lady dell’ametista.

Premette un interruttore e il palazzo si illuminò. Tutte le lanterne si ravvivarono all’istante, e quasi rimasi accecata dall’intensità della luce, al punto da dovermi parare gli occhi. Amelia alzò la voce, che risuonò nei corridoi della residenza.

- La caccia al coniglio lilla è iniziata! Chiunque lo catturerà, lo potrà possedere.

La guardai sgomenta, quando i miei occhi si riabituarono alla luminosità.

- Che vuol dire?!

Amelia scoppiò a ridere.

- Faresti meglio a correre, al posto di fare domande.

Mi consigliò, dai corridoi attigui sbucava il personale della residenza. Deglutii meccanicamente, quando mi resi conto di cosa aveva in mente. Il coniglio lilla ero io. Col cuore in gola le rivolsi un ultimo sguardo.

- Non finisce qui, Amelia. Ti pentirai di quello che hai fatto a Damien.

Lei mi rivolse un largo sorriso, poi la sua espressione si fece truce, a tratti spaventosa, in un modo che mi ricordò Livia, ma terribilmente più consapevole. Livia era pur sempre una ragazzina. Amelia era una giovane donna che agiva con cognizione di causa.

- Corri, coniglietto.

Lo feci. Corsi per i corridoi infiniti e labirintici del palazzo Dobrée. In realtà non sapevo nemmeno dove dovessi andare, nè dove sarei sbucata. Ogni qualvolta incrociavo la servitù, cambiavo strada. Corsi a lungo, cercando persino di nascondermi nelle stanze, che purtroppo per me, trovai chiuse. Amelia stava progettando già da un po’ questo gioco malefico, evidentemente, e mentre cambiavo direzione, salendo le scale, mi ritrovai a pensare a come avesse potuto sapere della mia presenza lì, proprio in quel momento. Guardai istintivamente la mia ametista, riflettendo sui poteri che le pietre stesse avevano. Aiutami…, pensai tra me e me. L’ametista brillò, rispondendo alla mia richiesta, indicandomi un luogo scuro. Mi ci infilai. Era una sorta di intercapedine. Smise di brillare non appena mi fui nascosta, e sentii ben presto le voci e i passi degli uomini che mi cercavano. Feci uno sforzo enorme per trattenere il fiato, sebbene avessi la paura che il battito accelerato del mio cuore mi tradisse. Quando non sentii più nessuno, uscii da quel rifugio momentaneo, raggiungendo il fondo del corridoio, sulla cui parete si apriva una finestra.

- Dannazione… sembra proprio che di qui non si vada oltre…

Mormorai, sovrappensiero, mentre mi affacciavo alla finestra.

- Aurore.

La voce di Damien alle mie spalle mi fece trasalire. Mi voltai di colpo, terrorizzata. Il ricordo delle sue parole era così forte che mi scrollò di dosso l’esitazione, e cercai di sfuggirgli. Ma fu più forte e mi afferrò per il polso, torcendomi il braccio dietro la schiena. Urlai di dolore, ma a lui sembrava non importare. Sentii il suo respiro incalzante sul collo, mentre con la mano libera mi sollevava il viso, costringendomi a guardarlo. Smettila di guardarmi così… smettila, Damien! Svegliati, per favore!!

- Per quale motivo mi hai chiamato Warren, prima?

Mi domandò.

- Eh?

- Rispondimi!

Sentimmo dei passi in lontananza farsi sempre più forti, e Damien mollò la presa, afferrandomi la mano.

- Dannazione.

Esclamò, per poi portarmi con sé su per le scale fino a giungere in cima alla torretta est del palazzo. Quando vi fummo giunti, chiuse il portone dietro di noi e si voltò a guardarmi.

- Adesso rispondi alla mia domanda.

Ordinò, con voce fredda.

Mi ritrovai a tremare, non so se più per la paura o per la tensione, soprattutto quando lo vidi raggiungermi fino a fermarsi a due passi appena da me. Amelia non poteva aver mentito, ma al tempo stesso, io sapevo che tutto ciò che lui era stato prima di scoprire chi fosse davvero, non poteva essere una menzogna a sua volta.

- Damien Warren… il despota del liceo di Darlington…

- Ancora con questa storia.

Scrollò la testa, portando la mano tra i capelli castani ribelli. Era come se stesse combattendo con qualcosa, dentro di sé. Forse, non aveva perso del tutto i suoi ricordi. Come quelli originali, che erano stati sbloccati da Amelia, forse quelli che riguardavano la sua vita nel nostro mondo erano stati sigillati, da qualche parte. Mi avvicinai, posando la mano sul suo petto e sentendo la mia ametista pulsare. Mi guardò in tralice.

- Tu sei nato come Damien Ealing, in questo mondo. Ma sei cresciuto come Damien Warren, nel mondo della luce.

Dissi, semplicemente.

- Quell’abominio di Warrenheim ha sedotto mia madre e ci ha strappati alla nostra famiglia! Non mi piace essere associato a quel nome.

Nel sentirlo parlare in quel modo, così sprezzante e tanto freddo nei confronti del padre, realizzai che in fondo, l’odio per quell’uomo era rimasto costante.

- Ciononostante, Damien, tu hai un fratellino, che ami più di ogni altra cosa al mondo. Jamie…

- Il fantoccio di Warrenheim? Non ho legami con quel bastardo.

Sgranai gli occhi. Se si fosse sentito, probabilmente avrebbe rimpianto quella cattiveria.

- Non è così! Se sei venuto qui non è stato per scoprire chi eri, o almeno, non soltanto… la ragione prima è stata trovare tuo fratello, Damien! Non ti rendi conto che tutta questa furia ti sta accecando?! Ok, posso ammettere che tu sia sconvolto dall’aver scoperto la verità sulla tua famiglia, ma se c’è una cosa che so e su cui posso mettere la mano sul fuoco, è che tu daresti la vita per Jamie! E lui ti sta aspettando! Crede in te più di quanto tu immagini… ha fiducia in suo fratello e desidera riabbracciarlo il prima possibile! Tu almeno puoi ancora farlo…

Singhiozzai, mentre l’assenza di Evan si faceva risentire, costante a ricordarmi quanto mio fratello mi mancasse. Damien mi guardò. Il suo viso era un misto di emozioni. Era sconvolto, incredulo ed ero certa che dentro di sé, stesse continuando a lottare.

- Damien, ti prego, devi ricordare! Ricorda chi sei davvero!

Mi afferrò violentemente il polso, digrignando i denti. Aveva il fiato corto, tant’era angosciato. Sobbalzai, poi con la mano libera, gli accarezzai la guancia.

- Smettila... forse per l’altro Damien contavi qualcosa, ma per me…

- Sta’ zitto!

Esclamai, suscitandone la sorpresa.

- Tu conti per me… più di quanto immagini. Damien Warren, ti amo… ti amo più di quanto avessi mai immaginato possibile… e non rinuncerò a te sol perché una maledetta pietra ti ha sigillato i ricordi. Amelia può credere ciò che vuole, ma so che in fondo al cuore, in un angolo remoto, tu sai di cosa sto parlando e prima o poi, riuscirai a tornare il ragazzo di cui mi sono innamorata…

Addolcii la voce, senza rendermene nemmeno conto, e gli accarezzai le labbra, le stesse che mi avevano baciata a tradimento e che avevano baciato Amelia, poco prima. Damien mi sembrò improvvisamente così indifeso e fragile e desiderai proteggerlo, con tutta me stessa.

- Tu una volta mi hai detto che avevo gli occhi del colore dei lillà, un colore che non avevi mai visto prima. Sai, Damien… è stata la cosa più gentile e bella che potessi mai dirmi e non lo dimenticherò mai. Ti prego, cerca di ricordare…

La mia mano scivolò tra i suoi capelli scuri, e mi sollevai sulle punte, quanto più potei. E quando finalmente le nostre labbra si toccarono, in modo giusto, naturale, così come sarebbe dovuto essere, ci baciammo. Damien esitò per alcuni istanti, poi allentò la presa intorno al mio polso e la sua mano finì con l’incrociarsi alla mia. Con il braccio libero mi cinse la vita, trattenendomi contro il suo corpo. E per la prima volta, realizzai a pieno il senso delle parole della mamma. Le sue labbra erano così calde e morbide e si adattavano alle mie come se fossero nate per incontrarsi. Fu così dolce e intenso al tempo stesso che ebbi quasi la sensazione che intorno a noi, non ci fosse null’altro che non fossimo noi. Già… era come perdere la propria anima per poi acquistarne una doppia. Ed era squisitamente meraviglioso. Poi, dopo un tempo che non seppi nemmeno definire, tanto ero stordita da quel bacio, ci separammo. Riaprii gli occhi e così fece lui. Lo smeraldo e l’ametista insieme.

- Aurore…

Sussurrò, con voce stupita e tenera al tempo stesso.

Gli sorrisi, sentendo le guance caldissime. Avrei anche potuto avere la febbre, in quel momento.

Prima che dicesse qualunque cosa, tuttavia, sentimmo colpi provenire da dietro il grande portone.

- Ci hanno trovati!

Dissi, agitata. Damien mi spinse dietro di sé, poi corse al portone, cercando di bloccarlo.

- Non passeranno!

- Non puoi farcela, Damien!

- Scommettiamo?

Spinse il portone con tutta la forza che aveva dentro, ma non ci riuscì. La mia ametista prese a brillare con forza e la strinsi nel pugno, quando di colpo, vidi il portone spalancarsi e Damien scaraventato via, a pochi metri di distanza.

- Damien!

Urlai, correndo da lui, mentre Amelia e i suoi servi ci raggiungevano.

- Coniglietto, ti abbiamo trovato.

Canzonò Amelia.

Damien si tirò un po’ su, tenendo la mano sulla nuca.

- Stai bene?

- Secondo te?

Mi fece eco.

La Lady dello smeraldo ci guardò di sottecchi.

- Spero che ti sia divertita a credere di aver vinto, mia cara. Ma ti ricordo che Damien mi appartiene. Vieni da me, caro.

Disse, tendendogli la mano nivea.

Scossi la testa, stringendo la camicia di Damien, che si alzò.

- No, Damien, non farlo!

- Mh… in fondo ha ragione. Non farlo, sì… ho in mente un’idea migliore. Dal momento che hai catturato il coniglio lilla, puoi decidere cosa farne. Ho un suggerimento, però. La consegnerai a Liger, di persona, in modo da provare oltre ogni dubbio la tua fedeltà. Ops, non era un suggerimento. E’ un ordine.

Sgranai gli occhi, sconvolta. Damien si voltò a guardarmi e quando lo vidi tendere il braccio verso di me, capii che non aveva recuperato i ricordi. Era ancora al giogo di Amelia. Mi tirai indietro, correndo fino al muretto perimetrale.

- Vorresti gettarti di sotto come hai fatto a Boer? Peccato solo che non ci sia il canale a salvarti, stavolta.

Ridacchiò Amelia, incrociando le braccia.

Deglutii. Aveva ragione, ma non sapevo davvero come sfuggire a quella situazione. E quando vidi quegli uomini avvicinarsi, mi accucciai, terrorizzata. D’improvviso, in mezzo a quel vociare, sentii un tintinnio.

- Il campanellino!

Esclamai, ricordandomi tutto d’un tratto che Rose mi aveva dato quell’oggettino per le emergenze. Pensai che fosse stata provvidenziale e cercai di tenere a mente di ringraziarla se fossi sopravvissuta, poi lo presi dalla tasca, facendolo suonare.

Amelia rise, divertita.

- Cosa credi che possa fare un campanellino? Damien, prendila. Mi sono stancata di questo gioco, ora.

Damien mi raggiunse con pochi passi e io serrai gli occhi, sperando che i ragazzi fossero così veloci da intervenire. Ma del resto, erano così lontani e non potevano raggiungermi tanto in fretta… ero spacciata. Mi dispiace… mamma…

Una folata di vento mi colpì forte, e quando riaprii gli occhi, Damien e gli altri erano indietreggiati. Amelia per giunta, era impietrita. Inspirai, ringraziando la mia buona stella per quel miracolo e mi voltai.

- Rag---

Rimasi a bocca aperta quando vidi le ali nere e lucenti di Lughoir turbinare con forza e il suo cavaliere sguainare la spada scintillante. Il Fulmine d’argento

- Adam…

Sussurrai.

- Cavaliere Nero!

Esclamò Amelia, con voce stridula.

Adam si voltò verso di loro, poi saltò giù, ponendosi tra me e gli altri.

- Ma guarda… credevo che Liger ti avesse fatto fuori.

Disse Amelia.

- Come vedete, Lady dello smeraldo, sono ancora qui.

Mi rialzai, affiancandolo. Ero così felice di vederlo, in quel momento, vivo e in buona salute, che soprassedetti riguardo a come si trovasse lì.

- Attaccatelo, adesso!

Ordinò la giovane, e la servitù dei Dobrée si lanciò all’attacco. Adam respinse gli assalti con facilità incredibile, ed ebbi prova di tutto il suo valore, in quell’occasione. Tuttavia, non uccise nessuno di loro, ma si limitò a renderli inoffensivi e privi di sensi. Ma quando mirò a Damien, che era vicino ad Amelia in quel momento, corsi a fermarlo.

- No, non farlo! Non fargli del male!

Esclamai, aggrappandomi alle sue spalle possenti.

- Togliti!

Ruggì, cercando di scansarmi.

Amelia, stupita, ne approfittò per scappare, mentre Damien, fissando il sigillo che Adam portava sul guanto, sguainò il pugnale che Leandrus gli aveva dato e corse all’attacco. Adam mi scansò, ma non riuscì a pararsi del tutto dall’attacco di Damien, che finì per colpirlo in viso. Urlai nel sentire il rumore della lama che cozzava contro il metallo della maschera e nel sentire l’imprecazione di dolore di Adam. Ciononostante, afferrò Damien per il polso, disarmandolo e puntandogli contro la spada.

- Tu… quel sigillo è lo stesso di Warrenheim! Voi siete in combutta! Mi hai ingannato, maledetta!

Sbraitò, cercando di divincolarsi, ma Adam lo sbattè al muro.

Mi mancò il fiato, soprattutto quando vidi la maschera di Adam cadere a terra, rotta in almeno tre pezzi. Il mio cuore scandì gli istanti rimbombando all’interno del mio petto. Che cosa voleva dire Damien? Perché sosteneva che il sigillo era lo stesso del professor Warren? Avevo visto bene la Croce di diamante sul suo guanto, per cui, doveva esserci sicuramente un errore. E poi, Adam tirò a sé Damien, colpendolo con forza dietro al collo. Svenne e cadde a terra, accanto alla maschera. Il Cavaliere Nero si chinò, toccando i pezzi, poi tirò indietro le braccia, sollevando il cappuccio sulla testa.

- Adam…

Mormorai, raggiungendolo.

- I tuoi compagni sono qua sotto. Ho detto loro di aspettare e di fermare Amelia Dobrée. Puoi raggiungerli.

- A-Aspetta, per favore…

Dissi, quando si alzò. Era voltato di schiena e non sembrava intenzionato a rivelarmi chi fosse. Con quel lungo mantello scuro, era così simile alle rappresentazioni della morte. Non mi stupiva che godesse di una reputazione famigerata tra gli imperiali. Eppure, non aveva ucciso nessuno, nemmeno Damien.

- Sei ferito?

Domandai, fermandomi a qualche passo da lui. Lughoir, intanto, scalpitava, vicino al bordo del muretto.

Adam posò la mano su volto ormai smascherato, e vidi il sangue sul guanto nero, non appena la tolse.

- Non è niente.

Replicò con voce monocorde.

- Mi dispiace, Adam…

- Non devi.

- Non è vero! Io… tu ne hai passate così tante, per colpa mia… e adesso… adesso…

Tesi la mano verso il suo mantello, incerta.

- Stai piangendo?

Domandò.

Annuii, sforzandomi di soffocare i singhiozzi.

- Adam, grazie per non avergli fatto del male…

- L’ho fatto soltanto perché non è in sé. Se l’avesse fatto con cognizione di causa, non sarei stato così clemente.

Deglutii. Dopo mi chinai a raccogliere i pezzi della sua maschera. Nonostante volessi vedere il suo volto, evitai di sollevare lo sguardo.

- La tua maschera è distrutta…

- Non importa.

- Ma così ti riconosceranno!

- Non accadrà.

- Adam!

Adam si chinò a sua volta, posando la mano sulla fronte di Damien. Il cappuccio lo nascondeva, riuscivo soltanto a vedere il profilo del naso dritto. Sul guanto, spiccava il sigillo che Damien aveva associato a Warren.

- Tu conosci Lionhart Warrenheim, non è così?

Adam annuì.

- E conoscevi anche mio padre…

- Già.

Sospirai, guardando Damien.

- Cosa gli stai facendo?

La runa che portava al collo risplendette, tanto quanto la mia ametista. Che strano, reagivano tra loro.

- Adesso starà bene. Ma ci vorrà un po’ prima che recuperi tutti i suoi ricordi. Potrebbe essere confuso.

Lo guardai incredula. Adam aveva aiutato Damien nonostante lui l’avesse attaccato. Scostò la mano, e io la raccolsi nella mia, guardandolo. Si voltò appena, mantenendo basso il cappuccio. Sul suo viso colavano ancora dei rivoli di sangue.

- Sono così felice di rivederti…

- Credevi che non sarebbe accaduto?

Scossi la testa.

- No, lo temevo. Liger è pericoloso e avevo paura che ti uccidesse…

Non rispose, ma sentii il suo sguardo addosso, sebbene non potessi vederlo.

- Hai trovato tua madre?

Domandò, a sorpresa. Addolcii lo sguardo e sorrisi, al pensiero che avrei potuto rivederla, grazie a lui.

- Sì… e ho scoperto di avere una sorella…

Rimase in silenzio, mentre glielo dicevo.

- Adam?

Sollevai la mano libera, carezzandogli appena lo zigomo insanguinato. Lui fece per scostarsi, ma quando comprese che non avevo cattive intenzioni, mi lasciò fare, sebbene sembrasse a disagio. Mi strappai un lembo del mantello, poi cercai di ripulirgli il viso, stando attenta a non andare troppo oltre, ma mi resi conto che l’origine della ferita doveva essere più in alto, probabilmente vicino alla tempia.

- Non posso fare di più…

Adam scostò il viso, puntandolo verso Lughoir.

- Va bene così.

Disse, prendendo i cocci della maschera e alzandosi. Io rimasi vicino a Damien, ancora privo di sensi, mentre lui si allontanò verso il suo grifone. Tuttavia, un paio di servitori, rialzatisi, ed evidentemente ancora in grado di combattere, ci assalirono alle spalle. Strinsi forte Damien, ma fui tirata via.

- Lasciami!

Esclamai a quello che mi aveva afferrata.

- Il coniglio è mio!

Urlò, mentre l’altro mi puntò alla gola il pugnale di Damien.

Adam si voltò fulmineamente, stringendo con forza la spada e sollevandola verso di noi.

- Lasciatela immediatamente!

Ordinò, ma la lama mi carezzò con veemenza la gola nuda. Mi irrigidii, senza riuscire a respirare. Ma almeno, non si erano avventati su Damien o su Adam. Cercai di liberarmi con una gomitata, ma la punta del coltello mi tagliò, e sentii un dolore fitto e lancinante che mi fece urlare.

- Dove vuoi andare?!

Latrò l’altro servitore, mentre Adam corse verso di noi. Riuscii appena a vederlo mentre colpiva entrambi i servitori, con fendenti  rapidi e precisi, liberandomi. Respirai a malapena e quando vidi il cappuccio che nella corsa era calato, rivelando il suo volto, mi sentii mancare la terra sotto ai piedi.

Ricordo come se fosse ieri, ti strinsi forte e tu mi accarezzasti il viso con la manina e apristi gli occhi, erano i più belli e puri che avessi mai visto in vita mia… erano della stessa tonalità ametista di quelli di tuo padre…

Gli occhi che mi guardavano allarmati erano d’ametista.

Traballai, quando Adam mi prese in braccio, evitandomi una rovinosa caduta. Ero talmente incerta e confusa che esitai persino a guardarlo ancora in viso. Eppure, quelle braccia che mi serravano in quel momento erano così protettive che mi tranquillizzai. Per qualche frazione di secondo, la mia mente si mise a ragionare su cosa potessi aver visto. Probabilmente ero così shockata che avevo finito col vedere ciò che più desideravo. Già, non poteva esserci altra spiegazione. Magari la luce che proveniva dai piani inferiori aveva falsato la realtà e avevo scambiato i colori. Perché non poteva essere così. Adam non poteva essere lui. Mio padre era morto, ucciso dalla Croix du Lac e lui stesso me l’aveva confermato, dunque per quale motivo mentire? E se anche i suoi occhi fossero stati di quel colore, magari era un qualche parente dei Valdes, qualche cugino, nipote, zio… qualunque cosa, ma non poteva certo essere il mio così tanto desiderato papà. Sarebbe stato troppo bello per essere vero. E impossibile. Avevo smesso di illudermi già da tanto tempo e ogni volta che quel pensiero tornava a farsi vivo, la consapevolezza che non potesse realizzarsi era talmente distruttiva che mi faceva male. Sarebbe stata la stessa cosa ora. Eppure, Adam mi aveva salvata, in più occasioni e mi era stato accanto. Gli avevo aperto il mio cuore, raccontandogli la mia storia nonostante fosse una guardia imperiale e lui si era limitato ad ascoltarmi, pazientemente, sebbene avesse l’aria di chi non ha particolare pazienza. Ma no, non era possibile. Non…

- Aurore, stai bene?

Mi chiese.

Scossi la testa, cercando di capacitarmi.

- No, i-io…

Balbettai, tremando di nuovo. Sentivo tutto il suo profumo e mi ritrovai a piangere, portando le mani alla bocca per soffocare i singhiozzi. Adam mi posò, dapprima esitante, una mano in testa, accarezzandomi dolcemente i capelli. Quel gesto, che solo la mamma ed Evan potevano fare. Poi, tirò nuovamente su il cappuccio e fu allora che alzai lo sguardo. Prima che non lo vedessi più, prima che l’agonia del dubbio offuscasse ciò che restava della mia capacità di giudizio, lo fermai, posando le mani tremanti sulle sue. Non protestò, stavolta, quando abbassai nuovamente quel cappuccio, scorgendo per la prima volta, per bene, il volto ferito, nella carne e nell’anima, di Greal Valdes. L’avrei riconosciuto tra mille. Avevo impresso il suo viso ancora adolescente nel quadro nella residenza di famiglia a Challant. Per così tanti anni mi ero chiesta come fosse il volto di mio padre e mi ero convinta, dopo allora, che mai l’avrei visto da adulto. Con le dita, seguii il profilo delle palpebre socchiuse che incastonavano quegli occhi d’ametista identici ai miei. Carezzai le accennate rughe attorno a essi e gli zigomi alti, il naso dritto e posai i palmi aperti sulle sue guance scolpite. Osservai poi la ferita che si era procurato quando Damien l’aveva colpito. Non sanguinava più, ma aveva incrostato i capelli brizzolati che incorniciavano il viso perfetto. Sembrava stanco. Stanco di nascondersi, forse. Stanco di dover combattere. La linea delle sue labbra piene si allungò in un appena accennato sorriso. Il sorriso di mio padre. Quanto avevo desiderato di vederlo? Sorrisi anch’io, incapace di parlare.

- P-Papà?

Balbettai, con voce estranea nelle mie stesse orecchie. Stavo forse sognando?

Adam, Greal, annuì soltanto.

Scossi la testa, e tutto ciò che avevo represso, i miei desideri di bambina, la tristezza per non averlo mai conosciuto, il dolore del vedere la mamma piangere per lui, la speranza di poterlo abbracciare un giorno, tutto ciò che trattenevo dentro di me da sedici, lunghi anni, esplose tutto d’un colpo e lo strinsi forte, scoppiando a piangere.

- Papà!!

Mio padre ricambiò quell’abbraccio, e fu allora che dentro di me, nacque una nuova speranza. Ora avevo una ragione in più per ridare la vita a quel mondo. Poi, quando riacquistai un po’ di calma, tornai a fissare quel volto perfetto, che mi osservava a sua volta.

- C-Com’è possibile? T-Tu dovresti essere morto…

Balbettai. Papà (e pronunciare quel nome adesso mi sembrava talmente strano che non sapevo nemmeno definire la sensazione che mi provocava) mi scostò i capelli dal collo, controllando il taglio di cui avevo persino cancellato l’esistenza, in quel momento.

- Te ne parlerò non appena anche tua madre e Arabella saranno in salvo, Aurore. Adesso, devi raggiungere i tuoi compagni, prima che si insospettiscano.

- No! No, per favore…

D’improvviso, fui assalita dalla paura di non rivederlo più.

- Tornerò presto.

Disse, raccogliendo una ciocca del miei capelli scuri, identici ai suoi da giovane.

- Papà…

- Per tutto ciò che avete passato, mi dispiace.

Lo abbracciai forte, desiderando portare dentro di me tutto l’amore che provavo in quel momento.

- Va bene così… ora, va bene così…

Mormorai.

Mi accarezzò i capelli, poi mi scostò leggermente, guardandomi in un modo che non ammetteva repliche d’alcun tipo. Greal Valdes, l’uomo accusato di aver scaraventato questo mondo nell’oscurità. Il Cavaliere Nero… la persona che mia madre amava da sempre e che avrebbe amato per sempre.

- Va’, Aurore.

Annuii, sebbene a malincuore.

- Non tardare… abbiamo così tante cose da dirci…

La sua espressione si ammorbidì appena, facendosi rassicurante.

- Stai attenta.

Poi, tirò nuovamente il cappuccio sulla testa, salendo in groppa a Lughoir, che agitando le ali massicce, spiccò il volo. Così, mio padre e il suo grifone scomparvero in pochi istanti dalla mia vista, lasciandomi sola con Damien e tutta la servitù di Amelia, ormai fuori gioco. Posai la mano sul collo, sentendolo pizzicare, ma mi accorsi che la mia ferita non sanguinava più. E allora raggiunsi Damien. Papà mi aveva detto che i suoi ricordi erano ancora confusi, perciò evitai di svegliarlo e mi affacciai alla torretta, guardando in basso. Vidi i ragazzi insieme ad Amelia e richiamai la loro attenzione col campanellino. Poi, dopo diversi minuti, Zarvos si affacciò, facendosi largo tra i servi di Amelia.

- Aurore!

- Zarvos!

Mi raggiunse, guardando tutti quegli uomini svenuti.

- Sono morti?

- No… per questo motivo, è meglio andare via, ora.

- Lasciarli qui così è rischioso però.

Osservò, grattandosi la testa. Poi, optò per rinchiuderli nelle segrete del palazzo, almeno fino a che non avessero stabilito cosa farne definitivamente. Assentii e gli chiesi di aiutarmi con Damien, che era ancora svenuto.

- Dunque l’avete trovato. A quanto pare riuscite sempre a ottenere ciò che volete.

Disse, caricandolo in spalla. Lo aiutai, accarezzando la schiena di Damien, per poi andarcene.

- Non è proprio così… ma avrei fatto qualunque cosa…

Risposi, mentre scendevamo le scale. Raggiungemmo velocemente gli altri, trovandoli a parlare tra loro.

- Aurore!

Esclamò Eyde.

Amelia ci guardava, con aria seccata.

- Ragazzi… scusate per il gran casino…

Dissi. Loro sorrisero, poi Zarvos raccontò della servitù di Amelia, e ci voltammo tutti  a guardarla. Einer, che la tratteneva, fu il primo a rivolgerle la parola.

- Stavolta l’avete combinata davvero grossa, Milady.

Lei lo guardò con la coda dell’occhio.

- Io? Dovreste scervellarvi su come spiegare a Liger e alle guardie imperiali che vi siete introdotti nella mia residenza, stanotte. Ma soprattutto… come giustificherete la presenza di Aurore?

Sul suo viso spuntò un sorrisetto, quando mi rivolse il suo sguardo.

- Che vuoi dire? Liger non c’è, non può sapere cosa stia succedendo!

Esclamai. Lei si mise a ridere.

- Sai, Aurore? La tua capacità d’osservazione lascia molto a desiderare. Mentre voi cincischiate, il mio Cercis starà già tornando con lui.

I ragazzi si guardarono incerti, poi mi venne in mente l’uomo che era con Amelia sul balcone e mi prese un colpo.

- No, non può essere…

- Sapete chi è, Aurore?

Incalzò Eyde, preoccupato. Lo guardai, annuendo. In effetti, avevo visto quell’uomo giusto in quel momento e dopo, non ci avevo fatto più caso. Amelia ridacchiò divertita.

- Poveri stupidi. Credevate sul serio che mi sarei fatta mettere nel sacco in un modo così puerile?

- Andiamocene! Presto!

Esclamò Einer, tirandola.

- E con la servitù come facciamo?! Il Cavaliere Nero non ha ucciso nessuno di loro!

Già. Papà li aveva deliberatamente lasciati in vita. Magnanimo, certo, ma al tempo stesso, in questo momento, eravamo in pericolo.

- Dannazione… doveva farsi prendere dalla filantropia proprio ora?

Protestò Gourias. Lo guardai di sottecchi.

- Uccidere non è una soluzione!

Controbattei.

- Non è il momento delle dispute filosofiche!

Esclamò Zarvos.

Amelia continuava a ridere.

- Siete così patetici.

- Fate silenzio!

La richiamò Eyde.

Così, decidemmo di allontanarci, ma prima che potessimo varcare le mura del palazzo, fummo sorpresi dal fruscio dello sbattere di ali e dai versi dei grifoni. Alzammo gli sguardi. Liger, perfettamente riconoscibile sul suo grifone bianco, era in volo nei paraggi.

- Merda...

Imprecò Einer. Vidi tutta la tensione sui loro volti, al contrario di Amelia, che sorrise.

- Tempo scaduto, miei cari.

Pensai alle raccomandazioni di Lord Oliphant e compresi di aver fatto ancora una volta il passo più lungo della gamba. Ma ciononostante, se avessi lasciato Damien nelle mani della Lady dello smeraldo, non me lo sarei mai perdonata. Lo guardai, così indifeso in quel momento. Pensai alla mamma e a quanto sarebbe stata felice di rivedere papà vivo. Presto, lui sarebbe corso da lei e l’avrebbe salvata, assieme ad Arabella. Raccolsi la mia ametista, stringendola forte tra le mani.

- Andate avanti, ragazzi!

Esclamai. Si voltarono a guardarmi, increduli.

- Non se ne parla, Aurore! Muovetevi!

Controbattè Einer.

- No. Liger vuole me. Tornate da Ruben. Io cercherò di guadagnare un po’ di tempo.

I ragazzi erano perplessi. Per un istante, anche la stessa Amelia lo fu, poi affilò lo sguardo felino.

- Credimi, non farai nemmeno in tempo a contrattarlo quel tempo. Se pensi che Liger sia il tipo che si fa ingannare così, allora sei fuori strada.

Mi disse.

- Non importa! Andate, per favore!

Mentre parlavamo, tuttavia, Zarvos richiamò la nostra attenzione sul comandante. Quando vidi Lughoir di fronte al grifone bianco, oramai abbastanza vicino alla residenza, capii le intenzioni di mio padre.

- No!

Esclamai, col cuore in gola.

- Cavaliere Nero!

La voce del comandante Liger risuonò nell’aria notturna.

- Che intenzioni avrà?

Domandò Gourias, guardandoci.

Era evidente. Voleva permetterci di scappare facendo da esca. In qualche modo, come avevo intenzione di fare io stessa. Strinsi forte la mia pietra, guardando i ragazzi, prima di fissare lo sguardo in alto.

- Liger.

La voce profonda di papà non era affatto intimidita. Ma stavolta, la sua identità rischiava di essere svelata.

- Non farlo…

Mormorai.

- Sembra che le nostre strade siano destinate a incontrarsi in eterno.

Ribattè Liger.

- Così sembra.

Rispose semplicemente mio padre.

- Andiamocene!

Incalzò intanto Zarvos, ma quando vedemmo Liger puntare verso di noi, ci rendemmo conto che non avremmo fatto in tempo. Amelia, per giunta, si mise a sventolare le braccia al cielo, alzando la voce per farsi sentire meglio.

- Liger, siamo qui!

Esclamò, richiamandone l’attenzione. Quando il comandante si voltò verso di noi, avvistandoci, mi resi conto che qualunque tentativo di farla franca ormai non aveva più motivo di esistere. E per giunta, Amelia aveva appena vanificato lo sforzo di mio padre. Ma per qualche motivo del tutto ignoto, che tuttavia ci sorprese, Liger ci ignorò e sguainò la spada. Amelia, come noialtri, rimase a bocca aperta. Liger aveva accettato l’ennesima sfida da parte del Cavaliere Nero, che a sua volta, puntava contro di lui la sua spada. Stava per esserci un combattimento, ma nonostante la contrarietà di Amelia e la mia paura all’idea di andarcene in quel momento, i ragazzi ci trascinarono via, mentre a pochi metri da noi, sullo spazio aereo del palazzo Dobrée, mio padre e il comandante Liger avevano ingaggiato una nuova battaglia.

 

 

 

 

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Capitolo 41
*** XV. 4 parte ***


Buonasera! :) Ultima parte del capitolo, come promesso, di lunedì! :D Intanto, giusto per la cronaca, il mio Jack è tornato e sono felicissima!! *------* E capisco che non ve ne possa fregare niente, ma lo scrivo lo stesso! u_u Ok, che altro dire... un grazie a chi mi segue, a chi recensisce, a chi tace semplicemente... e boh, poi se vi va di dire qualcosa non mi offendo mica, eh? A Natale non siamo tutti più buoni?? ç____ç Siccome riceverò pochissimi regali, una recensioncina ina ina ina me la fa-- 

Damien: ehm... lasciatela perdere.

Aurore: sì, concordo! u_u

Uff, senti questi altri... e pensare che vi aspetta un momento dolce dolce... ç____ç Va beh, non date retta a loro, datela a me! Se ce la faccio, la settimana prossima vi faccio pure un pensierino natalizio! u_u Perché adorare Santa Klaus fa bene... :Q___ No, scherzo! XD Ok, sto delirando, la smetto! 

Buona lettura, alla prossima! :D

 

 

 

 

Quando tornammo alla residenza, Ruben organizzò il da farsi. Oramai erano passate diverse ore e il mattino era incipiente. Per prima cosa, portammo Damien in una stanza già fatta preparare da Rose (e Violet fu davvero felice nel rivederlo in buona salute, sebbene ancora privo di sensi). I ragazzi decisero di tornare nella dimora di Amelia, che del canto suo, protestò per il trattamento ricevuto.

- Non mi hanno nemmeno dato il tempo di rivestirmi.

Protestò, mentre Alanora le metteva addosso una coperta di seta lucida che ben si intonava con la sua carnagione. Rose la guardò di sottecchi.

- Come se ti dispiacesse, esibizionista.

Amelia affilò lo sguardo, sogghignando.

- Hai una servitù alquanto rozza, Rose, ma quantomeno riconosce la bellezza. Sai com’è, quando sei abituato a un certo standard e ti ritrovi davanti la vera meraviglia, non puoi esimerti dal riconoscerla.

L’espressione annoiata di Rose era tutto un programma.

- E immagino che la vera bellezza saresti tu, vero?

- Hai bisogno di chiederlo? Rose, sei sempre così insicura…

Violet, accanto a me, soffocò una risatina. Effettivamente, l’unica cosa che non si poteva affermare su Rose Rubinia Cartwright era che fosse insicura.

- Lascia che ti dica soltanto una cosa, Amelia Dobrée. Se vuoi parlare di insicurezza, riferisciti ad Amber, che maschera la sua dietro quel contegno irritante, ma se vuoi riferirti a me, cara, sappi che non ho alcun problema ad ammettere che, diversamente da te, che porti a letto gli uomini per ottenere qualcosa, dal momento che sei totalmente incapace di farcela con le tue sole forze, la sottoscritta lo fa per puro piacere. Dunque, se pensi ancora che io sia insicura, prova a chiedere a Maximien Audrun. Dovresti conoscerlo, ricordo che eravate insieme alla festa della Renaissance, l’anno scorso.

Non avevo idea di chi fosse la persona di cui Rose stesse parlando, ma a giudicare dal fatto che Amelia rimase a bocca aperta, incredula e poi rossa di rabbia, immaginai che dovesse essere qualcuno che per lei contava qualcosa. Guardai Rose che osservava la Lady dello smeraldo con aria compiaciuta, poi sospirai, pensando alla facilità con cui conversavano di certi argomenti. Per Violet e per me erano del tutto tabù. Io stessa avevo dato il mio primo bacio soltanto poche ore prima. Deglutii, arrossendo al pensiero di quel bacio… anzi no, quei baci. Nonostante Damien non fosse in sé, nonostante le parole così crudeli che mi aveva rivolto, le labbra che mi avevano baciata erano le sue e sue erano le braccia che mi avevano cinta. Violet mi urtò col gomito e sbattei le palpebre, guardandola.

- C-Che c’è?

La mia amica indicò Rose e Amelia, e mi voltai a guardarle. Entrambe mi stavano guardando.

- Perché mi guardate in quel modo?

Domandai loro.

Rose sospirò.

- Hai una faccia lasciva, sei imbarazzante.

- L-Lasciva?!

Mi affrettai a schiaffeggiarmi.

- Lascia perdere, Rose. Non è stata nemmeno capace di soddisfare Damien, dunque…

Arrossii violentemente alle parole di Amelia, mentre Rose e Violet mi guardarono incredule.

- C-Che vuol dire, Aurore?

Mi domandò Violet, sconvolta.

- N-Non è vero!

Gesticolai totalmente preda della voglia di sprofondare fino al centro della Terra.

- Tu e Warren… oh… va bene che tifo per voi, ma non mi aspettavo che sareste stati così celeri…

Continuò la mia amica, rimuginando.

- Violet, piantala! Non è successo niente!

- Ma se non fossi arrivata, forse… no, non sarebbe accaduto nulla lo stesso. Sei del tutto incapace, ragazzina.

- Amelia Dobrée, un’altra parola e non risponderò delle mie azioni!

Amelia accavallò le lunghe gambe nude, poi si stiracchiò sensualmente.

- Davvero? Cosa vorresti fare?

- Dio, questa è una pervertita!

Sbuffai, inorridita.

Rose mi dette una pacca sulla spalla.

- Ascoltami.

Mi disse, seriamente. Sostenni il suo sguardo, annuendo.

- Adesso che Amelia e Damien sono qui, è soltanto questione di tempo e molto presto, verrà il momento di affrontare il mondo esterno.

Annuii, pensando al fatto che oramai, non avremmo più potuto tergiversare.

- Rose…

- Pensavo che se tu non fossi mai giunta in questo mondo…

Sussultai, mentre rifletteva sulle parole da utilizzare. Amelia, dietro di lei, ancora morbidamente seduta sul divano, ci guardava interessata.

- … probabilmente avremmo potuto mantenere tranquillamente i nostri privilegi. Sai, i miei genitori tenevano particolarmente al nome della famiglia e al prestigio che ne conseguiva. I Cartwright sono la sola famiglia reggente di Camryn e possiedono il potere da generazioni. Siamo sempre stati molto orgogliosi di questo e sempre determinati a proteggerlo. E poi, sei arrivata tu. La figlia di Greal Valdes e della Lady del diamante, Cerulea Rosenkrantz, scombinando le nostre vite al punto da mettere in discussione l’intera gerarchia dell’Underworld. Potrei dire che buon sangue non mente, ma la verità è che se ci sei riuscita è perché c’è davvero necessità di cambiare. Questo mondo ha visto troppi massacri e le vecchie strutture sono obsolete. Aurore, oramai non puoi più tirarti indietro, così come non possiamo farlo noi. Ne sei consapevole?

Quella domanda così difficile, che tanto mi spaventava, considerando la mia innata capacità di mandare al diavolo la saggezza per scelte scriteriate, come diceva mio fratello alla mamma, in quel momento mi parve un tentativo da parte di Rose di avere una rassicurazione. Forse, Amelia non era del tutto in torto riguardo a lei, sebbene Rose apparisse sempre determinata. Annuii, pensando che adesso, avevamo anche degli alleati, primo tra tutti, mio padre. Non me l’ero ancora sentita di dire loro che si era nascosto dietro la maschera del Cavaliere Nero, l’uomo che stava ostacolando i piani di Liger e degli imperiali, ma sapere che lui c’era, finalmente e che era lì per combattere al nostro fianco, mi aveva donato una sferzata di fiducia, persino in me stessa.

- Sì, Rose, lo sono. E sono pronta ad affrontare Liger, la Croix du Lac o chi diavolo verrà, al vostro fianco.

Violet sorrise, prendendomi sottobraccio. Rose annuì soltanto, poi ghignò.

- Va bene. Allora comincia col risvegliare il tuo bel cavaliere, sperando che quest’idiota non gli abbia cancellato del tutto i ricordi. Ne ho abbastanza di personalità multiple.

Disse, rivolgendosi ad Amelia, che ne approfittò per sdraiarsi sul divano rosso cremisi.

- Ehi, non metterci i piedi sopra!

Protestò Rose.

- Non gli ho cancellato affatto i ricordi. Mi sono limitata soltanto a modificare qualcosa e a ristabilirne gli originali. E comunque, il fatto che lui sia un Ealing non cambia. Come non cambia il fatto che intendo fare di lui il nuovo Despota e rimanere al suo fianco per molto tempo.

Violet mi guardò perplessa, mentre Rose si limitò a rigirare una ciocca rossa attorno all’indice. Guardai Amelia, che mi osservava con aria di sfida.

- Sai qual è la differenza tra me e te, Amelia?

- Da cosa vuoi che cominci?

Mi chiese, arricciando le labbra allo stesso modo di Damien. Un segno inequivocabile del fatto che fossero realmente imparentati. Ma ciò non mi spaventava più, perché Amelia mi aveva appena fatto capire che non avrebbe mai potuto spuntarla contro il sentimento che provavo per Damien, qualunque cosa avesse fatto.

- Tu vuoi rimanere al suo fianco. Io voglio stare al suo fianco.

- Aurore…

Violet mi sorrise dolcemente, mentre Amelia incassò quel colpo con un laconico “Mpf” . Rose mi scoccò un’occhiata di approvazione, poi si rivolse ad Alanora, che per tutto il tempo, era rimasta nella stanza.

- Per favore, avvisa Amber che ci sono degli sviluppi. Sarà meglio non ricorrere alle pietre, per ora.

- Non ho ancora capito come funzionano, a dire il vero…

Dissi a Rose, mentre Alanora assentì e ci lasciò sole.

- Pensavo che te l’avesse spiegato.

Rispose.

- Non proprio… anzi, a dire il vero, non ho nemmeno ancora capito come facciate a comunicare a distanza senza dei telefoni…

- Telefoni?

Mi fece eco Rose.

- Ecco qui!

Violet prese dalla tasca il suo, mostrandoglielo. A differenza del mio, alquanto spartano e perso chissà dove a palazzo Devereaux, il suo era un tripudio di pon-pon e ciondoli.

- E questo cos’è?

Sospirai.

- Magari me lo spieghi un’altra volta…

Le dissi, dal momento che sembrava piuttosto interessata a quell’oggetto ignoto, proprio come Leandrus quando aveva visto il mio. Rivolsi un’ultima occhiata ad Amelia, scorgendola a guardare distrattamente dalla finestra e mi congedai dalle ragazze, per andare a trovare Damien.

Quando arrivai davanti alle sue stanze, esitai a entrare. Sapevo che era irrazionale avere timore, in quel momento, ma non potevo nascondere che mi sentivo inquieta. Ero più che mai sicura di voler stare con lui, ma avevo paura delle sue reazioni. Quel ragazzo era sempre stato un’incognita e adesso che la sua memoria aveva subito una shakerata tale da fargli definire il suo stesso, amato fratellino il fantoccio bastardo di Warrenheim, senza contare le parole che aveva detto a me e che mi facevano male, ogni volta che ci ripensavo, sebbene ripetessi a me stessa che fossero state dette sotto l’impulso di quello che Amelia gli aveva fatto, non potevo non pensare che in fin dei conti, una parte di lui era convinta di ciò che aveva detto. Nonostante papà avesse detto che sarebbe stato bene, temevo che qualcosa, dentro di lui, fosse ancora rotto. E pensai a Lady Octavia, quando gli aveva detto che portava un grande dolore nel cuore. Quante cose Damien mi aveva taciuto. Ma del resto, non potevo accusarlo di avermi mentito. Si era semplicemente limitato a non dirmi nulla. Posai la mano sul pomello. Il mio cuore batteva così forte che avevo l’impressione che stesse uscendomi dal petto.

- Coraggio, Aurore… hai detto ad Amelia che vuoi stare con lui, è ora di dimostrarlo!

Mi dissi, ad alta voce, sperando che sentire le mie stesse parole mi aiutasse a calmarmi. Presi un enorme respiro e mi feci coraggio, entrando. La stanza era in penombra, appena illuminata dalla flebile luce del mattino. Damien era ancora addormentato, per fortuna, e tirai un sospiro di sollievo, almeno per quel momento. Facendo attenzione a non fare rumore, chiusi la porta e lo raggiunsi, sedendomi sulla poltrona accanto al letto dall’alta testiera. Lo guardai, mentre ancora riposava, così serafico e tranquillo. Era come se il sonno gli avesse dato quella pace che la veglia non gli aveva concesso. Osservai il suo profilo rilassato, sperando che da qualche parte, dentro di sé, stesse vivendo un sogno piacevole.

- Damien…

Sussurrai appena, avvicinando le mie dita alle sue. Con l’indice, toccai il palmo aperto. Aveva l’avambraccio nudo, recante ancora le ferite inflitte da Livia, steso sul lenzuolo, ma non reagì. Rimasi a guardarlo per diversi minuti, fissando quel viso che soltanto un giorno prima, temevo di non vedere più. Mi chiesi come avesse fatto ad arrivare fino a Dourand, e poi ricollegai, pensando che fosse stata Amelia a portarcelo, in qualche modo. Sicuramente era stata aiutata, ma doveva essergli accaduto qualcosa, perché non ci sarebbe mai andato volontariamente. Non senza aver salvato Jamie prima. E magari, quando lo avesse salvato, entrambi vi sarebbero andati insieme. Mi chiesi come sarebbe stato quel momento, sfumato la sera prima, quando si era presentato alla Croix du Lac come Damien Ealing e ignorando del tutto Jamie. Chissà com’era stato triste nel vedere che suo fratello non l’aveva nemmeno degnato di uno sguardo. E chissà quali parole gli aveva detto il professor Warren per convincerlo dell’ennesima e assurda bugia. Quell’uomo aveva una carriera come bugiardo. Aveva persino circuito Evan con le sue menzogne. E mi ritrovai a pensare a mio fratello. Proprio durante la notte della Renaissance, quando mi ero risvegliata a palazzo Trenchard in preda all’ennesimo incubo, Damien mi aveva rassicurata imitando malamente Evan. E poi, era rimasto al mio fianco per tutta la notte. Quanto avrei voluto condividere tutto quello che mi stava accadendo con lui… probabilmente, conoscendolo, non avrebbe mai approvato ciò che provavo per Damien. Già, a lui non era mai piaciuto. Sai, Evan… nonostante tutto, Damien è una brava persona… avresti dovuto trascorrere più tempo con lui, magari l’avresti rivalutato… chissà, magari sareste diventati persino amici… mi ritrovai a fantasticare su una realtà in cui Evan era ancora vivo e la nostra famiglia era al completo, a Darlington. Immaginai Evan e Arabella. Era così strano pensare a loro come gemelli, eppure, era ciò che erano. Chissà, magari se Arabella fosse stata con noi, Evan sarebbe stato più diligente e meno scavezzacollo. Pensai a una giornata tipo, a scuola. Violet e io, amiche come sempre. Evan, Arabella e Damien… e se per caso Damien avesse rivolto le sue attenzioni alla mia stupenda sorella maggiore? Scacciai quel pensiero dalla mente come fosse stato un attacco di peste bubbonica, pensando non solo alla mia reazione, ma anche a quella di Evan. Se era geloso fino al midollo di me che ero sua sorella minore, quanto lo sarebbe stato di Arabella che era la sua gemella? Sarebbe stato peggio di una carneficina, conoscendo mio fratello. E addio ai miei sogni di vedere quei due amici. Decisamente, qualunque fosse stato lo scenario, Evan e Damien non erano nati per conversare davanti a una pizza… o a dei bigné.

- Che disastro!

Sbottai, per poi rendermi conto che non ero affatto in quella illusoria realtà del tutto inventata.

Damien mormorò qualcosa nel sonno e mi ritrovai a sudare freddo pensando di averlo svegliato. Non capii quello che stava dicendo, così mi avvicinai, cercando di stare attenta a non toccarlo.

- … or--  

- … or?

Gli feci eco.

- … ordine…

Ordine? Di che stava parlando? Lo guardai, portando indietro i capelli affinché non ricadessero sul suo viso. Sentii la sua mano stringersi ad artiglio attorno alle mie dita, e trasalii, quando si voltò sul fianco, verso di me. Cercai di togliere la mano, ma la sua presa era ferrea anche nel sonno.

- In… in classe… ora…

Mormorò ancora. Sgranai gli occhi, incredula, poi tornai a sedermi soffocando qualcosa a metà tra una risata e il pianto. Damien stava sognando il liceo. Il mio despota del liceo di Darlington.

- Non cambi mai, eh, despota?

Domandai, dolcemente, a voce bassa.

- Damien…

Con la mano libera, gli accarezzai piano la guancia.

- Quando torneremo a casa, prenderai di certo il diploma… già ti vedo, sai? Con tunica e tocco, aria compiaciuta per la riuscita di qualcosa che già sapevi di avere in tasca e dispiaciuta perché sarai costretto a lasciare la tua scuola nelle mani di qualcun altro. E già mi immagino i pianti delle tue ammiratrici… ah, io però sarò felice. Sì, perché francamente, non potrei sopportarti ancora a lungo come compagno di scuola.

Chissà se i documenti che provavano il trasferimento dei Warren potevano essere annullati. E lo stesso valeva per quelli che riguardavano noi. Victor Kensington. Chissà chi era… un parente, certamente, ma non ricordavo nessuno con quel nome, e visto il risvolto che la mia vita familiare aveva preso, non serviva certo a sbrogliare la matassa. E mentre pensavo a chi fosse Victor Kensington, Damien riaprì gli occhi, ancora offuscati dal sonno.

- Ehi… ben svegliato…

Dissi. Ci mise un po’ per mettere a fuoco, e poi probabilmente per capire dove fosse. Quando se ne rese conto, inspirò, guardandomi. Aveva un’espressione inintelligibile e feci un enorme sforzo per mantenermi concentrata. La verità era che quello sguardo era capace di abbattere tutte le mie difese.

- Quanto… parli?

- Eh?

Sbattei le palpebre, incerta. Spostai lo sguardo sulla mano che stringeva ancora la mia e deglutii, cercando di toglierla, ma lui mantenne salda la presa.

- Già… sei talmente chiacchierona che mi hai svegliato…

Disse, pungente nonostante avesse il tono roco di chi si fosse appena ridestato dal mondo dei sogni e si puntellò su un braccio, sollevandosi.

- B-Beh, tu parli nel sonno…

Mormorai, imbronciandomi.

- Anche tu.

- E questo che c’entra? Io non…

Sobbalzai. Si era ricordato qualcosa che sapevamo solo lui e io, in quel momento.

- D-Damien? S-Stai… stai dicendo che… tu ricordi?

Domandai, incerta.

Lui sospirò, poi mollò la presa, cosa che mi sbilanciò. Non feci in tempo a recuperare l’equilibrio che mi attirò a sé, stringendomi forte. Non riuscii nemmeno più a respirare, tanto ero incredula.

- C-Cosa…

- Non ti ho mai mentito, Aurore. Ma sono stato impulsivo e mi sono lasciato prendere dalla rabbia per ciò che mi avevi detto, a palazzo Devereaux. Ho infranto una sola delle tre promesse che mi hai strappato.

 Quelle promesse, durante la notte del mio sedicesimo compleanno. Se le ricordava, allora voleva dire che la sua memoria come Damien Warren era tornata, proprio come aveva detto papà. Mi morsi le labbra e lo strinsi con tutta la forza che avevo.

- Ehi, ehi… devo dedurne che non ti va bene?

Domandò, con un appena accennato tono scherzoso. Scossi la testa, soffocando le lacrime.

- Sei tornato… sei tu…

Non rispose stavolta, ma mi tenne stretta a sé, poi mi scostò delicatamente, guardandomi. La sua espressione era combattuta. Raccolse alcune delle mie ciocche d’ebano, portandomele dietro all’orecchio e mi sfiorò la guancia con le nocche.

- Sono io… ma al tempo stesso è come se non lo fossi. Non lo so, Aurore. Ho una grande confusione in testa, in questo momento. Come se i ricordi di due persone stessero ancora cercando di amalgamarsi tra loro.

Era strano, ma in un certo senso, riuscivo a capirlo. Sorrisi, guardandolo.

- E’ difficile, Damien… ma sono sicura che ne verrai a capo…

Mi guardò per un istante lunghissimo senza proferire parola, al punto che mi accigliai, preoccupata.

- Grazie.

Mi disse poi.

- F-Figurati, non c’è di che…

Dissi io, distogliendo lo sguardo.

- No, davvero, Aurore. Grazie… per non avermi abbandonato.

Sgranai gli occhi, singhiozzando. Non era vero. Io l’avevo abbandonato. Era colpa mia se era finito tra le grinfie di Amelia. Se non gli avessi detto quelle parole, non avrebbe sofferto così tanto. Io ero una persona terribile. Mi morsi con forza le labbra, sentendo il sapore ferroso del sangue in bocca.

- Non dirmi così… è colpa mia quello che ti è accaduto…

Dissi, senza più il coraggio di guardarlo in faccia. Lui attese, poi mi prese il viso tra le mani, costringendomi a guardarlo.

- E’ vero. Mi hai sorpreso a Boer. Non credevo che mi potessi parlare in quel modo e quelle parole mi hanno spiazzato. Io non sono abituato a essere ripreso così e in quel momento, mi sono ritrovato a fare i conti con qualcuno capace di mettermi davanti all’evidenza dei fatti. Eppure, quando ti ho vista correre via, inseguendo Livia, quando sei scomparsa dalla mia vista, ho capito che proprio questo tuo modo di fare ti rende unica, Aurore. Però… mentre mi apprestavo a raggiungerti, ho sentito un dolore forte dritto sulla nuca e non ho visto più nulla. Quando mi sono risvegliato, davanti a me c’era Amelia… e nella mia testa c’erano i ricordi del mio passato come Damien Ealing. Ma nonostante questo e tutto ciò che ne è conseguito, nonostante Amelia mi avesse messo in guardia su di te, tu non hai gettato la spugna, nemmeno dopo le parole che ti ho detto e ciò che ti ho fatto. Per questo… grazie, Aurore Kensington.

In quel momento, non ce la feci più e scoppiai in un pianto dirotto. Damien mi guardò incredulo, poi mi accarezzò dolcemente i capelli.

- Non è umanamente possibile che tu pianga così tanto, lo sai?

Mi disse.

Singhiozzai e lo guardai. Dovevo avere un’espressione terribile.

- E’ colpa tua che mi dici certe cose così, all’improvviso…

- Beh, tu hai detto che mi ami. Più all’improvviso di quello. Eppure non ho pianto.

Per poco non mi venne un colpo e al singhiozzo si aggiunse un’abbondante dose di imbarazzo, misto a vergogna, con una punta di batticuore talmente forte da provocarmi quasi un capogiro.

- C-Cosa c’entra ora? I-Io non… io…

Avevo la salivazione totalmente azzerata e la cosa peggiore era che Damien aveva ancora in pugno il mio viso.

- Vuoi dire che te lo rimangi, Aurore?

Aprii la bocca per provare a ribattere, ma non ci riuscii. Damien mi stava mettendo decisamente in una situazione senza alcuna uscita. In condizioni normali, avrei dovuto rispondere che non me lo rimangiavo affatto, che nonostante tutto, lui era la persona di cui mi ero innamorata e sì, lo amavo, e anche tanto. E gliel’avevo persino detto, ma in quel momento mi sembrava tutto così difficile… proprio come davanti a un compito di biologia.

- Allora?

Domandò, indagatore.

- I-Io…

Presi un enorme respiro, ma non riuscii a dirlo ancora una volta. Damien aveva affilato lo sguardo. Il despota pronto a tutto pur di ottenere quello che voleva. E invece, dopo pochi secondi i suoi pollici furono sulle mie labbra, percorrendole.

- Aurore Kensington.

- Eh?

- Il tuo amore è qualcosa di prezioso.

Mi sentii le guance bollenti, mentre lo diceva.

- Riporlo nei confronti di uno come me…

- No.

Dissi, prima ancora che potesse continuare. Mi stupii di quanto avessi pronunciato quel no in maniera determinata. A giudicare dall’antifona, immaginai cosa Damien mi avrebbe detto. C’erano troppe questioni da risolvere. E per lui non era il momento di impelagarsi in una storia, per giunta con me. Dopotutto, ero una buona a nulla, per come una certa parte di lui mi considerava. Mi studiò, con quegli occhi verdi così magnetici, e feci un enorme sforzo per recuperare un minimo di contegno. Se fino a quel momento mi aveva spiazzato, almeno adesso volevo avere quel poco di dignità necessaria per tenermi dentro almeno quel bel sentimento che era nato, quantomeno da parte mia.

- V-Va bene così, Damien… non andare oltre… eh?

Dissi, scostandomi.

- Aurore…

- E’ tutto ok… i-io ora torno di là… riposa ancora un po’…

Mi alzai, traballando per le troppe emozioni. Damien fu veloce nell’alzarsi dal letto e mi ritrovai con le spalle contro il suo petto. Deglutii, poi feci per scostarmi, ma mi trattenne. Sentii la sua fronte che si accomodava nell’incavo della mia spalla e trasalii. Una scarica di adrenalina mi attraversò l’intera colonna vertebrale.

- D-Damien…

- Lasciami finire.

Trattenni il fiato, e lui continuò.

- Riporre il tuo amore in uno come me, che riesce soltanto a farti piangere è davvero masochista da parte tua. Ma nonostante questo, per me… è qualcosa di inaspettato… e di prezioso. Quando sei arrivata a Darlington ero convinto che saresti stata una spina nel fianco, una minaccia per la mia famiglia… e invece, conoscendoti, vedendo il tuo lato buffo, quello infantile e quello determinato, quello gioioso e quello triste, persino… beh… possibile che ancora non ti sia resa conto di quanto tu sia diventata importante per me?

In quell’istante, non sentii altro che la sua voce. Non c’era nulla intorno, soltanto lui e io, proprio come quando ci eravamo baciati. Ci misi un po’ per realizzare quelle parole, tanto ero incredula per ciò che avevo appena udito. E ci misi ancora un po’ per rendermi conto che nonostante avessi la sensazione di trovarmi sospesa nel nulla più assoluto assieme a lui, non stavo affatto sognando né immaginando quello che stava accadendo. Inspirai a fondo, cercando di recuperare lucidità, ma era alquanto difficile, con le braccia di Damien che mi serravano e il suo viso praticamente incollato al mio. E quando voltai la testa verso di lui, vedendo i suoi occhi verdi che cercavano i miei, le mie paure si sgretolarono come un castello di carte.

- Damien…

Mi sorrise appena, nello stesso modo in cui sorrideva a Jamie. Il sorriso per una persona amata, proprio come quello che mio fratello riservava solo a me e alla mamma. E quando mi voltai, lui lasciò scivolare le braccia fino a cingermi la vita. Io gli avvolsi le braccia al collo e ci ritrovammo occhi negli occhi. Quanta felicità poteva esistere anche soltanto nello stare così vicini? Non avevo mai provato niente di tutto quello in tutta la mia vita. E mai avrei immaginato che sarebbe stato proprio con Damien. Quanta strada avevamo fatto da quando ci eravamo incontrati a scuola, per la prima volta? E quanta ironia in tutto questo. Noi, figli di un mondo d’oscurità, avevamo incrociato i nostri destini. Se nulla di tutto ciò che aveva scosso le esistenze delle nostre famiglie fosse accaduto, probabilmente, se anche le nostre strade si fossero incrociate, non saremmo mai stati così vicini come in quel momento. Pensai ai miei genitori, separati da un destino crudele. Pensai ai suoi genitori, separati dalle irragionevoli convenzioni di quel mondo. Quale futuro avremmo avuto? Oramai, ciò che ci attendeva era dietro l’angolo e scintillava in un modo così forte da riportare la luce in questo mondo, se solo avesse voluto. Il sentire le guance inumidite dalle mie stesse lacrime mi risvegliò da quei pensieri e Damien mi osservò, aggrottando appena le sopracciglia.

- Aurore?

Scossi la testa, scacciando via quel pensiero. Non importava il futuro in quel momento. Avremmo avuto tempo per curarcene. Ciò che importava era il fatto che lui era lì, a stringermi teneramente a sé. Gli sorrisi e si tranquillizzò.

- Mpf. Sei davvero un tipo strano, lo sai?

Domandò, punzecchiandomi con spocchia.

- E tu invece sei davvero un id-- 

Non riuscii a rispondergli, perché le sue labbra mi impedirono di continuare. Sgranai gli occhi per un istante e poi li chiusi, affidandomi soltanto alle sensazioni che quel bacio stava risvegliando dentro di me. Avrei potuto dire felicità, magari stupore, a volte imbarazzo, soltanto per cominciare, ma la realtà era che avevo l’impressione che si trattasse di una pioggia di sentimenti riflessi nelle migliaia di frammenti di uno specchio infranto. Già… quello specchio che intrappolava la donna che era dentro di me e che stava finalmente sbocciando. Quel bacio, le mani di Damien che risalivano lungo la mia schiena e che mi accarezzavano i capelli. I battiti condivisi dei nostri cuori così vicini. La pelle calda di Damien sotto i miei palmi. Oh mamma, se è così che ci si sente, vorrei averne per sempre…

E quando tornammo a guardarci, ancora un po’ col fiato corto per quel bacio così profondo, mi sentii incredibilmente bene, come se tutto ciò che avevo patito fino a quel momento fosse stato cancellato, in qualche modo.

- Era così che doveva essere…

Mi disse, dolcemente. Annuii, sentendo le labbra turgide e calde.

- S-Sono d’accordo…

Damien sembrò sul punto di ridacchiare, per un istante, e quando fece per baciarmi di nuovo, lo sentii mormorare in silenzio qualcosa di simile a un “Proprio ora”. Sbattei le palpebre, poi mi resi conto di che era successo. Qualcuno aveva bussato alla porta. Lo guardai, sorridendo. Poi, quando sentii la voce di Violet chiamarmi a voce bassa e vidi l’incredulità sul viso di Damien, capii che era il momento di raccontargli cos’era accaduto. Sciolsi l’abbraccio e mi guardò stupito, ma fu nulla rispetto alla faccia che fece quando, aprendo la porta, si ritrovò la nostra amica davanti a sé. Stropicciò gli occhi almeno un paio di volte, poi posò la mano sulla nuca, cercando di collegare i pezzi. Per sua sfortuna, quella visione non aiutava la sua confusione. Violet, del canto suo, sorrideva serafica.

- Ti trovo bene, Warren! Oh… sei Warren, vero?

Domandò poi, temendo un eventuale errore.

Damien fece per rispondere, ma poi si voltò verso di me.

- Che ci fa qui Violet Hammond?

Misi le mani sui fianchi, sospirando.

- Glielo dici tu o glielo dico io?

Domandai a Violet.

La mia amica si mise a ridere e fu così, che poco dopo, Violet e io sedute sul grande letto che Rose aveva riservato a Damien e lui in piedi di fronte a noi, gli raccontammo tutto ciò che era accaduto. Se mi ero stupita del suo scetticismo quando Shemar ci aveva messi al corrente dell’esistenza dell’Underworld, fu nulla rispetto al vederlo sgranare gli occhi più volte nel sentire il racconto di come Violet avesse raggiunto quel mondo, assieme  a Ruben (e lì Damien si rese conto di dove si trovasse in quel momento) e al vederlo davvero incredulo nell’ascoltare le peripezie che avevo vissuto in quegli ultimi giorni, compresa la rivelazione sulla mia famiglia.

- A-Aspetta. Ricordo di aver visto tua madre sul sagrato della cattedrale, e la Croix du Lac le somigliava davvero tanto… proprio come avevi detto tu… dunque, la spiegazione a tutto questo è che hai una sorella maggiore.

Scosse la testa più volte tentando di realizzare al meglio quella scena, poi portò nuovamente la mano alla nuca.

- Ti fa male?

Domandai, indicandolo. Mi guardò un po’ perplesso, poi capì a cosa mi riferivo.

- Sì, quando il Cavaliere Nero mi ha colpito, mi ha preso proprio qui.

Spiegò, accarezzando il punto ancora dolente. Sospirai, portando istintivamente la mano al collo. Con tutto quello che era successo, non avevo nemmeno messo un cerotto.

- Ragazzi… c’è una cosa che devo dire a entrambi… riguardo al Cavaliere Nero.

Dissi, facendomi coraggio. Mi fidavo ciecamente di loro, e sebbene fosse lo stesso anche per Rose, Ruben o Amber, la presenza di Amelia o di altre orecchie indiscrete mi aveva fatto desistere dal dire loro la verità, almeno per il momento. Ma Violet e Damien dovevano essere messi al corrente di quello che avevo scoperto. Li guardai entrambi, deglutendo.

- Il Cavaliere Nero mi ha salvata, portandomi con sé a Challant… e anche adesso, è stato lui a proteggermi… e ad aiutarmi con te, Damien… però, c’è dell’altro. L-Lui è…

Dirlo avrebbe significato ufficializzare che mio padre, che quel mondo credeva morto, era vivo, in realtà. E tutto ciò che ne sarebbe conseguito, sarebbe stato una mia responsabilità. Ma soprattutto, dirlo era l’equivalente dell’ammettere che finalmente, in qualche modo, una parte fondamentale del puzzle che era la mia vita, era tornata al suo posto, per renderlo quasi completo. Già, perché completo non lo sarebbe stato più, ma quantomeno, mio padre c’era. Il re della mia storia, colui che mi era sempre mancato. Sorrisi, pensando al suo sguardo.

- Il Cavaliere Nero è l’uomo che l’Underworld conosce come Greal Valdes. Mio padre.

Violet portò la mano alla bocca, sconvolta.

- T-Tuo padre? Il Cavaliere Nero? Ne… ne sei sicura, Aurore?

La guardai, annuendo.

- Mai stata più certa, Violet.

E poi guardai Damien, che scosse la testa, incerto. Portò le dita alla tempia, cercando probabilmente il ricordo dell’averlo visto in volto.

- Sotto quella maschera che tu stesso hai distrutto, Damien… ricordi il suo viso?

- Non esattamente… ero confuso, in quel momento, ma la cosa che mi ha colpito maggiormente è stato il sigillo sul suo guanto.

Annuii.

- Hai urlato che era in combutta con tuo padre… so che si sono conosciuti in passato, ma non mi ha detto nulla di più... ma sono sicura che non siano in buoni rapporti.

Damien sospirò.

- Come se ci fosse una sola persona in grado di tollerarne anche la sola presenza. Certo che è davvero assurdo. Alla fine, Leandrus aveva ragione.

- Già.

Dissi, pensando alle parole che mi aveva rivolto quando sospettava la parentela, data la nostra somiglianza.

- Quindi… tuo padre è vivo, Aurore…

Disse Violet.

- Sì… sì, Violet! Il mio papà è vivo…

Mi commossi a quel pensiero. Solo Violet sapeva quanto mi mancasse, a parte la mia famiglia, certo. Nemmeno a Damien avevo mai detto tanto riguardo a quello che provavo.

- E’ una cosa bella!

Esclamò la mia amica, sorridendo. Poi, con la spontaneità che solo lei aveva, mi abbracciò forte e mi scoccò un bacio sulla guancia.

- Sono davvero contenta, Aurore!

La guardai stupita, poi sorrisi.

- Anch’io!

Ci mettemmo a ridere, sotto lo sguardo appena aggrottato di Damien.

- Devi dirmi assolutamente com’è!

Continuò Violet.

- B-Beh… ha dei lunghi capelli brizzolati… li porta legati in una treccia, ma da giovane erano nerissimi, come i miei. E poi ha gli occhi del mio stesso colore…

Guardai Damien.

- Gli occhi del colore dei lillà…

- Mpf.

Sollevò un angolo delle labbra, disegnando un sorrisetto.

- Mh… allora mi chiedo… ma da chi ha preso Evan?

Sbattei le palpebre, guardandola. Effettivamente non aveva tutti i torti. Evan aveva ben poco di papà… tantomeno della mamma.

- Magari dai nonni materni…

Dissi.

- Boh…

Mi fece eco Violet, che guardò Damien.

- E tu a chi somigli, Warren?

Colpito da quella domanda, inizialmente Damien fu riluttante a rispondere, ma vedendo che Violet non accennava a distogliere né sguardo né attenzione, si vide costretto a farlo.

- A mia madre. Sia mio fratello che io le somigliamo. Anche se ho qualcosa di William Ealing. Il colore dei miei capelli e anche gli occhi, ad esempio… dobbiamo parlare per forza di somiglianze?

Violet sorrise sorniona.

- Potremmo parlare di voi.

Disse.

In quel momento, vidi l’anima del despota del liceo di Darlington lasciare il corpo. E la mia fece altrimenti.

- Violet, no!

Esclamai, e a giudicare dal modo in cui la mia amica mi guardò, dovevo essere più rossa degli occhi di mio fratello. Damien recuperò contegno con velocità, poi scoccò qualche colpetto di tosse.

- Ti hanno mai detto che chi si fa gli affari suoi campa cent’anni, Hammond?

Violet lo guardò. Era la verecondia fatta persona.

- Certo, ma non punto a vivere tanto. Insomma, aspettavo qualcosa tra voi due da quando Aurore si è trasferita a Darlington, e ora che finalmente qualcosa c’è stato non capisco cosa ci sia da nascondere… a meno che non abbiate la coscienza sporca, certo.

Giuro. Avrei voluto sprofondare e portarmela dietro per almeno cento chilometri.

- Non abbiamo la coscienza sporca!

Rivolsi un’occhiata timida a Damien che ricambiò bieco.

- Perché mi guardi così?

Domandai.

- Niente, lascia stare.

Si voltò dandoci le spalle, ma quando feci per replicare, qualcuno bussò alla porta.

- Sarà Rose…

Mormorai.

- E se fosse Amelia?

Mi fece notare silenziosamente Violet. Avvampai a quel pensiero, e quando Damien fece per aprire, all’idea di ritrovarcela davanti mi fiondai a precederlo. Aprii la porta di soppiatto, sotto il suo sguardo perplesso.

- Ro-- 

Non potei finire, perché quando guardai il nostro interlocutore, mi ritrovai davanti Alanora, assieme al professor Warren. Rimasi a bocca aperta, incapace di proferire parola. La mia ametista prese a brillare nell’istante stesso in cui Damien mi tirò indietro, senza mezzi termini, ponendosi tra noi e suo padre. Guardai Alanora, che si limitava a tenere lo sguardo basso, e poi il professore, che ci osservava compiaciuto.

- Tu… qui?

Domandò Damien, con un tono che trasudava rabbia.

Il professore lo guardò di sottecchi, poi sollevò la mano a mezz’aria.

- Damien. Aurore. Oh, c’è anche la signorina Hammond. Certo, non mi aspettavo una riunione scolastica al di fuori dei confini del mondo conosciuto. Ma di sicuro, sono alquanto contento di rivedervi. E mi auguro che abbiate buonsenso a sufficienza per non farmi innervosire.

- C-Come ha fatto, professore?!

Domandai, tutto d’un fiato. Era così assurdo che fosse proprio lì, davanti a noi. E Rose?

Puntò i suoi occhi scuri nei miei. Indossava l’uniforme che avevo imparato a conoscere, e al fianco portava la spada, segno inequivocabile che non avrebbe ammesso alcuna insubordinazione.

- Dovresti chiedere ad Alanora. Non è così, mia cara?

Aveva una voce talmente cantilenante che mi fece rabbrividire. Violet ci raggiunse, prendendomi per mano.

- Alanora, perché?!

Domandò, preoccupata. Dopotutto, lei l’aveva conosciuta da prima di me.

- Mi dispiace, signorina… non potevo fare altrimenti.

Disse soltanto, chinando il capo.

- Cosa le hai preso in cambio, eh, papà?

Domandò Damien.

Il professor Warren lo guardò stupito.

- Adesso mi chiami di nuovo papà? Devo dire, Damien, che mi hai davvero sorpreso, l’altra sera. E mi hai dato un’ulteriore prova di quanto tu sia inadatto a diventare il nuovo Despota. Sei stato così irresponsabile da rivelare la tua identità, pur sapendo che questo avrebbe messo a rischio Aurore e i vostri amici. Davvero, ragazzo, il tuo solo e unico regno è quel patetico liceo. Non puoi andare oltre. Sei tale e quale a quell’idiota di William.

- Dannato!

Damien strinse il pugno e, in un impeto di rabbia, si avventò contro il professore.

- Damien!

Esclamai, nello stesso istante in cui Violet lo chiamò per cognome. Ma Lionhart Warrenheim non era tipo da essere messo al tappeto, tantomeno da un ragazzo, che per giunta si era ripreso da poco. Bloccò l’attacco di Damien con rapidità ed efficienza, torcendogli il braccio e sbattendolo sulla pesante anta chiusa della porta. Vidi Damien subire il colpo e gemere di dolore. Il professore lo immobilizzò, poi si rivolse a me.

- Aurore. Devo andare oltre perché raccogliate il mio invito a palazzo? La Croix du Lac desidera incontrarvi di persona e non credo sia particolarmente saggio farla attendere. Oltretutto… immagino che anche tu voglia conoscere tua sorella, non è così?

Sgranai gli occhi, guardandolo. Con quanta freddezza pronunciava quelle parole? Nello stesso momento in cui parlava, suo figlio stava soffrendo e a lui non importava niente.

- Li lasci andare! Verrò soltanto io!

- Non dire stronzate, Aurore!

Incalzò Damien.

- Damien ha ragione. L’invito è rivolto a tutti, non soltanto a te. Alanora?

Alanora fece un cenno col capo, poi mi guardò.

- Per favore, seguitemi.

Disse, rivolgendoci un inchino. Poi fece strada.

Il professore lasciò libero Damien, che si rivolse a lui con piglio seccato. Poi, ci raggiunse, guardandomi con la coda dell’occhio mentre scendevamo per raggiungere gli altri.

- Il braccio?

Domandai.

- Sta bene. Sempre meglio che essere infilzato…

Mormorò, ricordando evidentemente quanto accaduto con Livia. Lo guardai, prendendogli la mano. E lo stesso feci con Violet.

- Credi che siamo in pericolo, Aurore?

Bisbigliò la mia amica.

Sospirai.

- Les jeux sont faits. Rien ne va plus.

Dissi, memore delle parole profetiche che Rose mi aveva detto, soltanto tre quarti d’ora prima. E quando raggiungemmo i ragazzi, trovammo altre guardie che ci attendevano. Rose ci guardò e lo stesso fece Amelia, ridacchiando.

- Ma guarda, eccoli qua. Sembrate dei bambini sperduti.

Damien le scoccò un’occhiataccia che non passò inosservata.

- Morditi la lingua, Amelia.

Replicò Rose, poi ci raggiunse, guardando storto il professore.

- Non la passerete liscia, Warrenheim.

- Milady. Non mi riguarda affatto. Mi limito semplicemente a esaudire la volontà di Sua Grazia. Se vogliamo andare, adesso…

Rose mormorò qualcosa, poi guardò Damien.

- Come stai?

- Prima la facciamo finita e prima starò meglio.

Disse, stringendomi la mano.

Lo guardai, sperando che non facesse niente di avventato. Aveva infranto una sola delle nostre promesse… e non volevo che accadesse di nuovo.

Fu così che all’ordine del professore, lasciammo la residenza Cartwright per recarci al palazzo di diamante. Là dove la Croix du Lac ci stava aspettando.

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 42
*** XVI - L'incontro con la Croix du Lac (1 parte) ***


Buon anno nuovo, amici! *---* Rieccoci qui e so che non è lunedì, ma torno operativa prima di partire per sostenere gli esami! >_< Comunque cercherò di pubblicare anche in quel periodo, in qualche modo! u_u Bene bene, ricordate dov'eravamo arrivati? Preparatevi a un nuovo capitolo con qualche rivelazione e non solo! :3 Intanto ne approfitto per augurarvi il meglio per questo nuovo anno e spero che ci sia qualche altra voce fuori dal coro a voler lasciare un commento ogni tanto... 

Intanto ringrazio i miei Taiga-chan, TheDarkness e Giacchan che adoro dal profondo! <3 Grazie per i vostri commenti, come sempre sono meravigliosi!! E mi aiutano tantissimo!!

De wa ikimasho! <3 Buona lettura! <3

 

 

 

Pensai che una volta messo piede nel palazzo di diamante, saremmo stati condotti direttamente al cospetto della Croix du Lac. Invece, quando varcammo la soglia di quel luogo così maestoso, trovammo ad attenderci Liger. Rabbrividii pensando che soltanto poco prima, era impegnato in uno scontro con mio padre. Non riuscii a nascondere la paura al pensiero che fosse potuto accadergli qualcosa, sebbene non fosse la prima volta che quei due si battevano e a quanto avevo avuto modo di capire, ogni loro scontro si risolveva con un nulla di fatto. Per di più, era la prima volta che affrontavo Liger a volto scoperto. Oramai, non potevo nascondermi dietro a un nome fasullo né dietro a un cappuccio. E com’era per me, era anche per i miei amici. Il comandante, a braccia conserte, ci attendeva proprio sotto la cupola di cristallo, nell’ampia sala centrale che fungeva da snodo per i vari ambienti del palazzo.

- Liger.

Lo salutò il professor Warren. Il comandante non replicò, ma si limitò a guardarci. Mi chiesi quale fosse la sua espressione, sotto quella dannata maschera.

- La Lady del rubino, la Lady dello smeraldo e la Lady dell’ametista. Sono molto felice di fare finalmente la vostra conoscenza, Milady.

Mi disse, sebbene il suo tono assolutamente monocorde non lasciasse affatto intendere felicità. Poi si rivolse a Damien, che mi teneva ancora per mano.

- Dunque colui che doveva essere il possessore dello smeraldo è il cavaliere della Lady dell’ametista. Eppure, sembra che questa fanciulla, che tanto ci ha fatto penare, non necessiti affatto di difesa. Ditemi, Damien Ealing, non è che invece desiderate consegnarmela di persona e la state tenendo per mano per questa ragione?

Damien affilò lo sguardo, esitando qualche istante prima di rispondere.

- Non credevo che foste un tipo così ironico, comandante. E se desiderate una risposta altrettanto ironica, sappiate che verde e viola si intonano abbastanza bene per essere separati.

Rispose. Lo guardai perplessa, poi realizzai che si riferiva allo smeraldo e all’ametista, dunque a noi e arrossii. Guardai di riflesso Amelia, che giocava con i lunghi capelli castani.

- Voglio sapere dove si trova mio fratello, il Lord del rubino.

Intervenne Rose, poi, facendosi avanti. Era alta quasi quanto Liger, e nonostante avesse asserito di voler saggiare quell’uomo, in quel momento era piuttosto seria. Nulla di quel contegno avrebbe fatto sospettare la sua propensione alla lussuria. Ma dopotutto, ricordavo anche le parole che lo stesso Ruben mi aveva detto parlandomi dell’autorità dei capifamiglia. Quando c’era da tirar fuori la determinazione, nessuno di loro si esimeva. E quella situazione richiedeva una buona dose di determinazione.

- Al momento è assieme a Lord Vanbrugh e a Lady Trenchard.

Rabbrividii al pensiero che anche Amber e Blaez erano lì. Certo, non c’era da sorprendersi. Rivolsi uno sguardo ad Alanora, che ci aveva consegnati tutti nelle mani del nemico. Aveva sicuramente parlato anche di Amber. Violet mi si avvicinò, preoccupata. Lessi il suo stato d’animo e cercai di rassicurarla.

- Vedrai che andrà tutto bene…

- Lo spero tanto, Aurore…

Cercai di sorriderle, poi le strinsi forte la mano.

- Ora, se volete seguirmi. Lord Warrenheim, immagino che voi vogliate occuparvi personalmente di vostro figlio. O in qualsiasi modo vogliate chiamarlo.

Damien arricciò le labbra, insofferente. In quel commento, Liger aveva calcato la mano.

- Naturalmente. Damien.

- Aurore e Hammond vengono con me.

Replicò, seccamente. Il professore sollevò il sopracciglio.

- Damien, non sei nella condizione di dettare condizioni.

- E tu non sei nella condizione di farmi ripetere due volte la stessa cosa.

Il professore si accigliò, digrignando i denti.

- Ragazzino insolente!

- Avanti. Prova a colpirmi, papà. Anzi, Lord Warrenheim.

Damien sogghignò.

- Non farlo innervosire!

Gli sibilai, e mi guardò con la coda dell’occhio.

Liger smorzò la tensione raggiungendoci. Sentii il suo sguardo addosso come fosse una doccia gelata e ne ebbi paura.

- Adesso basta.

Sentenziò, poi sciolse la presa di Damien e quella di Violet, prendendomi con sé.

- Lasciatemi!

Esclamai.

- Aurore!

La voce dei miei amici all’unisono. Vidi Violet tendermi la mano e Damien cercare di raggiungermi, ma entrambi furono bloccati dalle guardie imperiali che presidiavano la sala.

- Sarà meglio che non opponiate resistenza. Nel comune interesse di preservare la vita dei vostri compagni, Milady.

Mi irrigidii nel sentire le sue parole sussurrate nel mio orecchio e lo guardai in tralice. Ebbi la sensazione che sorridesse, sebbene quel sorriso fosse più simile a un ghigno che ad altro. Mi voltai verso i ragazzi, guardando Rose, Violet e Damien. Damien… proprio ora… mi sforzai di tirar fuori una qualche parvenza di espressione rassicurante.

- Andrà tutto bene…

Mormorai, annuendo.

Poi, il comandante girò i tacchi, accompagnandomi attraverso un corridoio illuminato, lasciandoci alle spalle i richiami dei miei amati amici, primo tra tutti, Damien.

Mentre percorrevamo le lunghe gallerie che attraversavano il palazzo, sui cui muri marmorei spiccavano i ritratti dei Despoti che avevano imperato in quel mondo per tanti secoli, oramai lontani dai ragazzi, mi ritrovai a guardare quell’uomo. Vidi il profilo serio seminascosto dalla maschera nera. Aveva un portamento davvero deciso. Pensai di chiedergli del Cavaliere Nero, ma decisi di non farlo. Qualunque cosa avesse fatto, non gli avrei mai rivelato nulla che potesse mettere in pericolo mio padre o chiunque altro. Nel guardarlo, non mi accorsi che eravamo davanti a una scalinata e finii con l’inciampare nel gradino, con buona pace del mio senso dell’equilibrio e dei riflessi. Liger fu rapido nell’impedirmi di cadere. Mi sostenne, tirandomi su.

- A-Ahia… stupido gradino!

Borbottai, mantenendomi al suo braccio. Poi mi resi conto della posizione in cui mi trovavo e lo guardai incerta per un attimo. Liger mi aveva aiutata. Ma nonostante quel gesto, che ne ero certa, era stato dettato dal riflesso più che altro, quell’uomo era letale e questo non cambiava. Mi ritrassi immediatamente, controllandomi le ginocchia. Per fortuna non ero finita faccia a terra.

- Andiamo.

Ordinò.

Appurato l’essere ancora intera, mi puntellai al passamano, ignorando il suo ordine.

- Ditemi una cosa. Voi sapevate chi ero… già da quando ci siamo incontrati per la prima volta, non è così?

Liger salì i primi gradini, poi si voltò verso di me. Il suo abito così bianco era un elemento di rottura con tutto il resto. Eppure, non c’era nulla di candido in lui. Dentro di lui c’era soltanto oscurità.

- Naturalmente. Ma desideravo vedervi senza maschera, prima di fare qualcosa. Sarebbe stato impari.

Mi uscì una risatina isterica.

- Proprio voi parlate di imparità? Voi che portate la maschera sul viso! Allora, per essere davvero pari, perché non mi mostrate il vostro volto?

Domandai, forse troppo avventatamente. Ma mi sentivo davvero presa in giro. Liger attese alcuni istanti, poi portò la mano al volto. Deglutii, pensando che aveva accettato con facilità la mia richiesta. Ma poi, si fermò.

- Vorreste davvero vedere il mio volto? Provate a togliermi la maschera, allora.

Mi stava forse sfidando?

- Non è il momento adatto per una sfida, comandante!

Replicai, incredula. Lui sogghignò, poi scese un gradino e avvicinò il suo volto al mio. Eravamo così vicini che potei scorgere il riflesso dei suoi occhi dietro quella maschera. Eppure, non riuscii nemmeno a carpirne il colore. Cercai di sostenere quello sguardo, ma mi sentivo a disagio. E non era soltanto perché era Liger, ma anche perché riuscivo a sentire il suo respiro a pochissimi millimetri da me. Mi faceva paura. Indietreggiai.

- Mi temete, forse?

Cercai di non dargliela vinta, ma la verità era che lo temevo eccome.

- Fate bene.

Disse, con voce bassa e musicale.

- Anche vostro fratello mi ha temuto, quando ha capito chi aveva di fronte.

Avvampai, colpita da quelle parole. Mio fratello… il comandante Liger aveva incontrato mio fratello?

- Di cosa state parlando?!

Chiesi, cercando di dare un senso a quelle parole. Il sorriso sul suo volto si allargò, poi tornò diritto.

- Comandante!

- Evan. Evan Kensington. Quando sono giunto nel vostro mondo, è stato il mio avversario.

Mi sentii male al pensiero di Evan che combatteva contro di lui. Il mio Evan… strinsi il suo braccialetto, tremando.

- N-No… non ditemi che…

- “Non toccare mia sorella o ti giuro che sarà l’ultima cosa che farai in vita tua”, mi ha detto questo. E si dà il caso che non ami particolarmente essere minacciato.

Ansimai. Quelle parole erano proprio da lui. Singhiozzai violentemente.

- Avete bisogno che vi racconti com’è andata?

In quell’istante, al dolore si aggiunse la rabbia e compresi la reazione inaspettata e rabbiosa di Damien nei confronti del padre. Avrei voluto agguantare quell’uomo e colpirlo. Salii velocemente gli scalini, fuori di me.

- Toglietevi quella maschera! Voglio guardare in volto l’assassino di mio fratello!

Urlai.

Liger non si scompose, poi continuò a salire gli scalini, arrivando in cima alla scalinata.

- Liger! Bastardo!

Continuai a urlare, inseguendolo.

- Sei un mostro! Un maledetto mostro che non merita di vivere! Sei il diavolo!

Lo tirai per il braccio, facendo forza affinché si voltasse.

- Liger!

Lui si limitò a scrollare la presa, afferrandomi per il polso e sollevandomi. Ansimai, quando mi ritrovai totalmente in sua balia.

- Parli con tanta facilità ignorando che in questo stesso istante potrei ucciderti senza che tu te ne renda conto.

Strinse la presa, mentre cercavo di divincolarmi. Sentivo il dolore diffondersi attraverso i nervi, e non riuscivo a fargli mollare la presa. Oltretutto, da quella posizione non potevo fare nulla, nemmeno provare a sferrargli un calcio. Mugolai, quando Liger usò la mano libera per prendere l’ametista.

- Non toccarla!

Esclamai, spaventata. Non volevo che la toccasse, né che la sporcasse con le sue maledettissime mani intrise del sangue innocente di Evan. Cercai di bloccarlo, schiaffeggiando la sua mano e strinsi forte la mia gemma.

- Prima o poi, ragazzina… quella pietra sarà mia, sappilo.

Sconvolta da quelle parole, fui scaraventata per terra senza alcuna grazia. Liger si risistemò i guanti.

- Alzati.

Riluttante, mi alzai, tenendo lo sguardo fisso su di lui. Con pochi passi, raggiunse una porta e vi si fermò davanti, poi la aprì. Rimasi stupita nel vedere tanta luce all’interno, e anche se titubante, lo raggiunsi. Liger fu il primo a entrare, poi lo seguii. Era un elegante salotto illuminato, con divani e poltrone di stoffa fine che batteva sui toni del panna e del nero. Le finestre erano numerose, a giudicare dalle tende che le coprivano, scendendo in volute morbide color panna assieme a delle mantovane più scure. C’erano vasi di piante agli angoli della stanza, e perfino alcuni tavolini con scacchiere e vassoi di the alle rose e pasticcini. Ma ciò che mi colpì maggiormente, al di là dell’arredamento, fu che la mamma era seduta su uno dei divani. Appena mi vide, si alzò, in pena.

- Aurore!

- Mamma!

Esclamai, correndo ad abbracciarla. Mi sentii così al sicuro quando le sue braccia mi strinsero che per qualche istante dimenticai persino che Liger era lì. La mamma mi guardò, con i suoi begli occhi azzurri dall’espressione preoccupata. Quanto avrei voluto dirle subito che avevo incontrato papà. Le sorrisi, sperando che facesse altrimenti. Invece, dopo avermi baciato in fronte, guardò Liger, che era fermo a diversi passi da noi. Chissà se sapeva che era stato lui a uccidere Evan. Poi, dopo poco, sentii le braccia della mamma farsi più strette attorno a me. Cercai la spiegazione sul suo viso, improvvisamente in allerta, e mi voltai di nuovo, comprendendola. Sulla soglia del salotto, finalmente in carne e ossa e non semplicemente un’illusione, la Croix du Lac stava sorridendo.

- Milady.

Disse Liger, inchinandosi.

Lei non gli rivolse nemmeno uno sguardo, ma ci raggiunse, fermandosi a pochi passi da noi. Vista in quel modo, così reale, era tutt’altra storia. Certo, era davvero incantevole, così simile alla mamma e anche a me, in qualche modo, con gli occhi appena più scuri dei miei e quella corporatura snella e agile, nonostante fosse poco più alta e più grande di me. Portava i lunghi capelli biondi sciolti, fatta eccezione per i boccoli che le scendevano fino al seno. Arabella. Quella ragazza era Arabella, mia sorella maggiore. Ma l’anima che abitava quel corpo era quella della Croix du Lac e a testimonianza di ciò, vi era il tatuaggio lungo il suo braccio sinistro.

- Una riunione di famiglia. Ho sempre desiderato qualcosa del genere. E’ un peccato che non siamo al completo, non credete? Madre, Aurore.

- Quando lascerete libera Arabella, soltanto allora sarà una riunione di famiglia.

Disse la mamma, sicura.

- E’ un piccolo dettaglio. Il corpo è il suo, e possiedo anche i suoi stessi ricordi. A dire il vero, Arabella è piuttosto testarda e non sono riuscita ad accedere a tutti. Ogni tanto mi esclude e tende a combattermi, il che è fastidioso, ma dopotutto, è il solo vessillo che non mi accetta passivamente. Dunque, perché annientare del tutto qualcuno che finalmente mi dà un po’ di soddisfazione? Non credi anche tu, Aurore? Dovrei chiamarti sorellina, forse… Liger, che ne pensi?

Domandò, voltandosi verso di lui. Il comandante, rialzatosi, si limitò solo a un cenno che non lasciò intendere alcun tipo di opinione.

- Sei sempre così loquace…

Borbottò la Croix du Lac, imbronciandosi. Quel broncio mi era così familiare… così identico al mio.

- Croix du Lac

Mormorai, e lei si voltò. Poi guardai anche la mamma, prendendo le sue mani nelle mie e sciogliendo il suo abbraccio protettivo.

- Tesoro…

Sussurrò la mamma. Le rivolsi un sorriso, poi guardai di nuovo colei che aveva preso il corpo di mia sorella.

- Per quale motivo mi hai lasciata libera di agire? L’hai fatto per così tanto tempo, senza mai intervenire.

Sembrò studiarmi per un momento. In quel modo di osservarmi, rividi sia la mamma che Evan, in un certo senso. Tese la mano fino ad accarezzarmi la guancia. Sia la mamma che Liger persino, ebbero per un attimo un’esitazione. Evidentemente anche il comandante aveva qualcosa da temere. Io, invece, rimasi ferma. Non era la prima volta che mi toccava, ma dovevo ammettere che la sensazione, in qualche modo era diversa. Come se ci fosse più sostanza, al di là del freddo della sua mano.

- La verità è che volevo vedere fino a che punto saresti arrivata. Tu che sei in possesso della mia lacrima sottratta quasi diciassette anni fa. Aurore, sai perché ho convocato tutti i possessori delle gemme e i candidati qui?

Aggrottai le sopracciglia, pensandoci. Aveva definito la mia ametista la mia lacrima. E quando si era mostrata al popolo, aveva detto che avrebbe deliberato in seguito riguardo alla carica di Despota.

- Hai deciso chi sarà il prossimo Despota?

Affilò lo sguardo.

- No. Non ancora, a dire il vero.

E poi mi ricordai che Andres Oliphant ci aveva detto che la Croix du Lac aveva intenzione di chiedere ai ragazzi qualcosa. Evitai di farglielo notare, dal momento che avrebbe provato un ulteriore coinvolgimento con i membri del Consiglio che ci erano d’appoggio.

- Secondo te chi potrebbe essere un candidato ideale?

Mi domandò, a sorpresa. La mamma ebbe un moto di stizza che lei si limitò a osservare per un istante, prima di guardarmi nuovamente.

- Hai deciso personalmente la scelta di centinaia di Despoti e hai bisogno del mio parere questa volta? E comunque, non credo che questo mondo abbia più bisogno di un Despota. Ha già visto troppo sangue… primo tra tutti il tuo, Croix du Lac!

Vidi il suo bel viso incupirsi, sinceramente colpito. Ma poi, riacquistò immediatamente contegno e freddezza, lasciando scivolare le dita lungo il mio collo, fino a sfiorare l’ametista, che reagì, al solo contatto.

- Che succede?

Domandai.

- E’ la risonanza.

Spiegò la mamma.

- Le gemme reagiscono con il diamante della Croix du Lac.

Guardai il dorso della sua mano, con al centro il diamante che pareva incastonato e che risplendeva.

- Cosa sei, Croix du Lac?

Le domandai. Mi osservò per diversi secondi, senza che riuscissi a decifrare la sua espressione. Alla fine, mi sorrise, compiaciuta.

- Sono la dea di questo mondo. Colei che decide il destino di ogni singola creatura in questa dimensione.

- Non è vero!

Inarcò il sopracciglio, allo stesso modo in cui lo faceva la mamma, sorpresa come mai, in quel momento. Pochi passi più in là, Liger continuava a osservarci impassibile.

- Osi contraddirmi?

- Giuro che scoprirò la verità, Croix du Lac! E quando accadrà, tu lascerai Arabella libera!

La mamma sbuffò. Chissà quante volte l’aveva detto anche lei, senza ottenere nulla.

- Mi stai proponendo un patto, Aurore?

Chiese, incuriosita. Deglutii.

- No. Non è un patto. Io voglio riavere la mia famiglia… non posso più riavere il mio amato Evan…

Guardai Liger, il bastardo che me l’aveva portato via.

- Ma almeno voglio riavere mia sorella. E se questo dovesse significare scoprire chi o cosa sei davvero, allora sono pronta ad andare fino in fondo!

La Croix du Lac sembrò valutare le mie parole, poi guardò la mamma.

- Sai, Cerulea… forse dovrei prendere in considerazione l’idea di cambiare vessillo.

La mamma sgranò gli occhi.

- No! Non lo permetterò! Non mi porterete via anche Aurore!

- Mamma…

La abbracciai forte, mentre la Croix du Lac si mise a ridere. Liger ci raggiunse, rivolgendosi alla sua signora.

- Milady. Perdonatemi, ma credo sia il caso di andare.

Lei sollevò il viso, inclinandolo verso di lui, poi con le dita gli sfiorò la maschera nera. Liger non dette alcun cenno di reazione.

- Non mi piace che mi si dica cosa fare.

- Mi vedo costretto a insistere, Milady.

Affilò lo sguardo, che diventò improvvisamente truce, schiaffeggiandolo. Lo schiocco secco mi fece rabbrividire ma al tempo stesso, dovevo ammetterlo, mi fece piacere. Liger non si mosse, stoico fino all’ultimo. Poi la Croix du Lac tornò a guardarci.

- Sembra proprio che non possa trattenermi oltre. Aurore, Cerulea, vi aspetto nella sala dell’incoronazione. A più tardi.

Dopo di che, se ne andò, seguita da Liger, lasciandomi sola con la mamma. Quando la porta alle nostre spalle si richiuse, potei respirare a fondo, lasciando uscire tutta le tensione che avevo accumulato. Strinsi forte la mamma, che ricambiò il mio abbraccio, poi mi accarezzò le guance, guardandomi con gli occhi umidi.

- Mamma… mi dispiace così tanto…

- Oh, Aurore… è a me che dispiace… tutto quello che è successo… non doveva andare così… per tutti questi anni, ho cercato di proteggerti da tutto questo… e alla fine non ci sono riuscita…

Mi scostò i capelli dal collo, notando il taglio sul mio collo.

- E questo?

Domandò ansiosa.

- Non è niente… non preoccuparti, mamma… non mi fa nemmeno male…

La tranquillizzai. Ma la conoscevo bene. Sin da quand’ero piccola, era sempre stata molto attenta. Era il tipo che sdrammatizzava per non farmi spaventare quando mi facevo male, ma era diverso allora. Ero una bambina in un mondo del tutto normale. Ora ero una ragazza in un mondo che minacciava la mia vita in ogni singolo istante. Carezzò con le dita la crosta che si era formata, poi mi mise le mani sulle spalle.

- Aurore, ascoltami bene. Non puoi stare qui… è troppo pericoloso. Devi prendere Violet con te e dovete andarvene. Purtroppo, non potendo contare nemmeno sul figlio di Lionhart i rischi sono aumentati… cercherò un modo per farvi scappare entrambe e non appena possibile, cercherò di mettere in salvo anche Jamie. Ma tu devi tornare a casa, tesoro, e cercare Victor Kensington. Lui ti aiuterà sicuramente.

Victor Kensington. Di nuovo quel nome. E quelle parole, poi… non avevo mai visto la mamma così disperata. Ma non potevo lasciare tutto così e andarmene semplicemente. Sapevo di essere solo una ragazza e di non avere granché di talento, ma non potevo, no, non volevo abbandonare coloro che mi avevano aiutata dal primo istante e che mi avevano trattata come una di loro, anche dopo aver scoperto chi ero. E non volevo abbandonare la mia famiglia. Avevo perso troppo per pensare anche soltanto a questa possibilità.

- No, mamma. Non lo farò. Noi torneremo tutti insieme a casa. Con Damien, con Jamie… e con…

- Aurore, non è un invito! Oh cielo, non ho mai usato in questo modo l’autorità genitoriale, ma stavolta… sono tua madre, Aurore e mi obbedirai. Farai come ti dico, è chiaro?

Quelle parole mi sbalordirono. In tanti anni, Celia Kensington non aveva mai avuto bisogno di ricorrere a frasi di quel tipo per farci fare quello che voleva. Era la prima volta che la sentivo parlare in quel modo e dovevo ammettere che faceva un certo effetto. Ma nonostante la sua determinazione dettata dalla necessità di proteggermi, non potevo proprio obbedirle.

- Prometto che mi potrai mettere in punizione per quanto vorrai, mamma, ma ora non posso proprio accettare il tuo ordine…

La strinsi forte, inspirando tutto il suo profumo. Volevo essere forte, ma ogni volta finivo col cercare il contatto.

- Aurore… perché devi essere così ribelle?

Domandò, poggiando la guancia sulla mia testa.

- Perché ho preso da te, mamma…

Mormorai. La sentii sorridere.

- Se tuo padre ti avesse visto gli avresti dato filo da torcere… ma sarebbe stato fiero di te.

- Ah…

La guardai, sorridendole. E quando feci per dirle che papà era ancora vivo e che finalmente l’avevo incontrato, fui interrotta da Alizea, che si affacciò senza nemmeno bussare.

- Alizea!

Esclamò la mamma.

- Accidenti, proprio ora…

Borbottai. Mi venne in mente Damien, che aveva detto qualcosa di simile quando Violet ci aveva interrotti e arrossii. Chissà dov’erano stati condotti… magari Damien era con Jamie… e Violet con Rose e gli altri… Alizea intanto ci raggiunse.

- Oh, la piccola Lady! Come state, piccina?

Mi chiese, apprensiva come solo una balia poteva essere. La mamma mi cinse la spalla col braccio.

- Sto bene, Alizea, grazie… a quanto pare la nostra copertura è saltata… sono preoccupata per i miei amici, però…

Lei annuì gravemente, poi mi squadrò per bene.

- Dovreste mangiare… e cambiare questi abiti, sì…

- Non ho tempo ora! Lo farò dopo…

- Ti vedo un po’ sciupata, tesoro, in effetti…

Disse la mamma, guardandomi.

- Non ti ci mettere anche tu, mamma…

Lei mi rivolse uno sguardo severo, poi assentì.

- Alizea. Procura degli abiti puliti e prepara qualcosa per lei e per i ragazzi… dopo che la Croix du Lac ci avrà detto quali sono le sue intenzioni, provvederò a loro.

Alizea annuì.

- Va bene, va bene. Quanto a voi, Celia… ho incrociato Warrenheim mentre venivo. Penso che più tardi si rifarà vivo, dato che al momento era piuttosto impegnato.

Evidentemente, aveva il suo da fare con Damien… immaginai che razza di discussioni sarebbero sorte tra loro due. Ma Damien non si sarebbe fatto mettere i piedi in testa da suo padre, ne ero certa. Guardai la mamma, che si imbronciò.

- Quello stalker.

- Eh?

Le fece eco Alizea. Mi venne da ridere, al pensiero che la mamma aveva ormai adottato dei modi di dire tipici del nostro mondo. Ma ciononostante, il fatto che fosse quella la sua realtà non cambiava.

- E’ assillante. Continua imperterrito a venirmi a trovare, cercando di convincermi a sposarlo. Tsk, come se potessi mai farlo. L’ho sempre detestato, mi dà l’orticaria anche soltanto guardarlo.

Stavolta ridacchiai.

- Lo conosci da tanto, mamma?

Lei sospirò.

- Era il cavaliere di Ademar nonché compagno di squadra di Greal, ma non sono mai andati particolarmente d’accordo. In realtà, a Greal non importava di lui, e penso che in qualche modo, questo gli desse particolarmente fastidio. Lionhart ha sempre adorato stare al centro dell’attenzione e non gradiva che Greal lo ignorasse.

- Com’è accaduto con Evan… Damien mi ha detto che il professor Warren lo cercava spesso a scuola, ma lui lo ignorava… e questo gli dava fastidio…

La mamma ci riflettè, poi annuì.

- Già… su per giù, siamo là…

- Secondo te cosa voleva da Evan?

Mi accarezzò la guancia, ma a dispetto del suo sguardo triste, il tono mi sembrò particolarmente distaccato.

- Non lo so, Aurore. Evan non me l’hai mai detto.

- Capisco…

- Ad ogni modo… penso che stavolta non si accontenterà di una scusa, Celia. Soprattutto ora che Aurore e i capifamiglia sono qui.

Intervenne Alizea.

- Lo so. E’ ora che Penelope smetta di scucire la tela. E che la usi per colpire quel Procio.

La guardai sbigottita. La mamma mi sorprendeva ogni giorno di più.

- Che c’è?

Mi domandò, mentre Alizea si grattava il mento, ignara del significato che si nascondeva dietro quella citazione omerica.

- Magari arriverà Ulisse col suo arco teso, no?

La mamma fece per replicare, ma poi desisté, rivolgendomi un sorriso triste.

- Sarebbe bello… ma non può accadere ormai… e comunque sappi che tua madre sa difendersi bene, signorina.

- Questo posso confermarlo. Dovreste vederla con in mano una spada. Quando aveva la vostra età è stata in grado di tener testa persino alle guardie imperiali.

Raccontò Alizea, con aria soddisfatta.

- Davvero, mamma?

- Già. E persino di contrastare Greal, anche se alla fine ha vinto lui… ma era un caso a parte.

Dal modo in cui l’aveva detto, immaginai come si fossero svolto quel combattimento. Ad ogni modo, mi faceva piacere sentire quei racconti. Per tanti anni non avevo mai saputo nulla di mio padre né del rapporto che c’era davvero tra lui e la mamma. E ora, in qualche modo, potevo immaginarlo. E riflettevo anche sul fatto che probabilmente non era stato del tutto rose e fiori. Considerando l’indole combattiva della mamma, associata alla sua grande testardaggine e la tendenza all’indifferenza da parte di mio padre, che a dirla tutta, mi sembrava fosse un solitario, doveva essere stata una bella sfida. E poi mi tornò in mente che la mamma in realtà, aveva sposato un altro uomo.

- Mamma… perché tu e papà non vi siete sposati?

Sussultò, colpita da quella mia improvvisa domanda. Alizea le rivolse un’occhiata compassionevole, poi la mamma mi prese le mani, stringendole nelle sue. Faceva così quando voleva farsi forza.

- Sono stata costretta a sposare Ademar… dopo la morte di mio padre. Tuo nonno era il Despota Tantris Rosenkrantz, tesoro…

Annuii.

- Lo so… ma per quale motivo papà non andava bene? In fondo era il fratello di Ademar ed era anche lui un Valdes, no?

La mamma si intristì, evidentemente ripensando a eventi del passato. Quante volte avevo visto quell’espressione sul suo viso? 

- S-Scusami mamma, non fa niente…

Mormorai colpevole, abbassando lo sguardo.

- No, Aurore, hai ragione. E avrei tanto voluto sposarlo. Ero così giovane allora… avevo solo diciassette anni quando mio padre morì. Sai, piccola mia… io non ho molti ricordi di mia madre. E’ morta quand’ero piccola, per malattia. E mio padre mi ha cresciuta tenendomi stretta a sé, per paura di perdermi. Sarà forse per questo che ho sviluppato un carattere così ribelle… ogni occasione era buona per allontanarmi dal palazzo. Alizea te lo può testimoniare, l’ho fatta disperare in ogni modo. Tuo padre è stato il mio primo e grande amore. E il mio più grande desiderio era trascorrere il resto della mia vita con lui. Ma alla morte di mio padre, la sua ultima volontà fu quella di vedermi sposata ad Ademar, che in tutto quel tempo, l’aveva circuito. Tuo nonno è stato un grande Despota, ma si era fidato delle persone sbagliate, nell’ultimo periodo della sua vita. E quando morì, non potei esimermi dal realizzare il suo ultimo desiderio.

Ascoltai quelle parole con attenzione, rendendomi conto di che vita triste avesse dovuto patire la mamma. Non parlava positivamente di quel matrimonio, che evidentemente, le aveva donato soltanto amarezza.

- Ademar era cattivo?

Domandai, guardandola.

La linea delle sue labbra rosate si allargò per un istante.

- No. Non lo definirei cattivo. Più che altro, era ossessionato dal potere. Per lui, io rappresentavo il mezzo ideale per ottenerlo. Ademar aveva giocato bene le sue carte, costruendo alleanze, prima tra tutte quella con Lionhart e con la famiglia Devereaux, che è sempre stata particolarmente fedele ad Adamantio. E ha fatto in modo di estromettere Greal dai giochi, costringendolo ad azioni che mai avrebbe compiuto, diversamente. Soprattutto dopo aver scoperto della mia gravidanza.

- Intendi per Arabella ed Evan?

Fece per dire qualcosa, ma si fermò. La vidi parecchio combattuta, e spesso cercò l’aiuto di Alizea, poi si morse le labbra, un gesto che facevo spesso anch’io quando ero disperata. Cosa c’era che non andava?

- Mamma?

Domandai.

I suoi occhi si riempirono di lacrime che cercò di soffocare, riprendendo fiato.

- Celia…

Alizea le accarezzò teneramente i capelli. La mamma sembrò farsi forza, poi tornò a guardarmi.

-  Quando mi hai chiesto di Arabella… ti ho detto che lei era la mia prima bambina, ricordi?

Annuii, ma mi sentivo inquieta.

- Ma non ho mai partorito due gemelli.

- Q-Quindi Evan è più piccolo? Quanti anni ha Arabella?

- Ne ha diciannove. In questo mondo, le donne si sposano molto giovani e hanno figli presto. Ma quando sposai Ademar, ero già incinta.

- Diciannove… ed Evan ne ha diciotto, dunque... aspetta, non sarà mica che hai avuto Evan di lì a poco? E’ per caso figlio di Ademar?

Riflettei su quella nuova, inquietante possibilità, ma la mamma negò.

- Amore mio, ascolta. Il sangue è importante. Ma non è tutto. Ed Evan è e sarà sempre mio figlio, così come tuo fratello.

Ebbe ancora qualche esitazione e dalle sue pause compresi che c’era qualcosa di troppo shockante dietro. E dopo tutte quelle rivelazioni, non ero certa di essere pronta ad ascoltarlo.

- B-Basta, mamma… non ce la faccio… non ora, per favore…

Dissi, accorgendomi che stavo sudando freddo. La mamma mi guardò preoccupata, poi annuì. In qualche modo, pensai che anche lei stava provando sollievo. D’altro canto, però, sapevo che il pensiero di cosa si celava dietro la nascita di Evan mi avrebbe torturata fino a che non avessi trovato la soluzione.

D’improvviso, fummo richiamate dai tocchi alla porta. Alizea andò ad aprire. Si trattava di due guardie imperiali che avevano l’ordine di scortarci della sala dell’incoronazione. La mamma mi accarezzò i capelli.

- Sei pronta, Aurore?

Deglutii, poi le rivolsi uno sguardo.

- No… no, ma almeno sapremo cos’ha in mente.

Dissi. 

 

 

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Capitolo 43
*** XVI. 2 parte ***


Buonasera! :D Seconda e ultima parte del capitolo! Per questa settimana è l'ultimo, dal momento che la prossima e per i giorni a seguire non ci sarò per partenza/mancanza di portatile, vhi chiedo di perdonarmi già in anticicipo se non ci sarò! ç_ç Oltretutto, ci sono gli esami, quindi dovrete aspettare per i prossimi aggiornamenti... ç_ç Comunque, penso che ci sarà già abbastanza da leggere, questa parte è piuttosto avventurosa! Non vedo l'ora di sapere cosa ve ne sembra (riferimenti ai miei soli, fedeli e sempre generosi due/tre recensori ç_ç<3)!! >_< Buona lettura intanto!! :)

 

 

 

 

E fu così che fummo condotte nella sala dell’incoronazione. Era un grande antro interamente scolpito nel marmo scuro. Alte colonne troneggiavano a circa un metro di distanza dalle mura perimetrali, definendo i contorni interni di quell’ambiente. In alto, sul soffitto, alcune cupole simili a quella che illuminava la sala centrale all’ingresso del palazzo, ma più piccole e riccamente decorate, lasciavano filtrare la debole luce dell’esterno e diversi lampadari, almeno cinque, illuminavano il resto. C’erano diversi vasi, ricchi di fiori alti e variopinti, posti ai vari angoli e alcune panche in ferro ma decorate in oro poste sui lati della sala, poco più avanti rispetto alle colonne. Il pavimento, anch’esso di marmo, recava una sorta di mosaico che ricordava un particolare diamante dal cui centro si diramavano delle linee. Compresi che rappresentava la forma stilizzata dell’Underworld. La linea principale, bordata da due strisce laterali che riflettevano la luce, mirava dritta, per almeno cinque o sei metri, alla zona più importante, separata dal resto della sala da cinque gradini. Al centro dell’area sopraelevata, dirimpetto al muro perimetrale su cui spiccava, incantevole nella fattura, la Croce di diamante, di grandezza tale da essere nitidamente vista da lontano, vi era il trono di Adamantio, su cui il Despota eletto sedeva. Era un trono grande ed elegante, in ferro battuto, legno e stoffa pregiata. Su di esso, in quel momento, non sedeva alcun sovrano. E là vicino vi era il professor Warren. Gli lanciai un’occhiataccia, poi vidi finalmente i miei amici. Violet fu la prima a chiamarmi e la sua voce risuonò nell’aria profumata della sala del trono.

- Violet! Ragazzi!

Esclamai, quando li raggiunsi.

Guardai Amber e Blaez, che mi ricambiarono.

- Alla fine, avevamo la serpe in seno.

Disse Blaez.

- Mi dispiace tanto…

Mormorai.

- Non è colpa tua, Aurore… sapevamo che sarebbe successo…

Intervenne Amber, con un tono quanto più possibile tranquillo. In realtà, sapevo che dietro quella corazza, anche lei stava tremando. L’abbracciai forte, così come feci con Violet. Vidi Rose e Ruben, che sembravano impazienti. Ruben in particolare, guardava Violet con apprensione. E poi vidi l’aria compiaciuta di Amelia e di Livia, anche lei intervenuta. La piccola Lady del lapislazzuli si avvicinò a noi, divertita.

- Alla fine tutto ciò che avete fatto è stato inutile.

- Ma almeno ci abbiamo provato.

Le disse Amber. Livia le rivolse uno sguardo bieco prima di rivolgersi a me.

- Perché mi hai salvata, a Boer?

Mi chiese. Sostenni il suo sguardo. Sebbene fosse così piccola, non potevo non pensare che fosse più grande dell’età anagrafica.

- Perché non volevo che gettassi via la tua vita inutilmente.

Aggrottò le sopracciglia quasi bianche.

- Sei un’irresponsabile. Una come te non merita di portare la lacrima d’ametista al collo.

- Può darsi. Ma se avessi lasciato che tu cadessi, non sarei stata diversa da coloro che hanno sparso sangue innocente in questo mondo.

- Come tuo padre?

Domandò, e il suo sorriso cinico e terrorizzante si aprì sul volto di bambina.

- Mio padre è innocente. E lo proverò.

- Certo, dalla forca magari.

Si mise a ridere e fece per andarsene, ma la fermai.

- Livia, aspetta.

Si bloccò, voltandosi verso di me.

- Che vuoi?

- Perché hai dato la colpa della strage a palazzo al Cavaliere Nero? Sei stata tu a fare uccidere tutte quelle persone innocenti.

Ridacchiò, mentre vidi Amelia voltarsi verso di noi, incuriosita.

- Parli tanto, ma non hai prove di quello che dici. Comunque, volevo sapere per quale motivo mi avessi salvata. E per farlo, mi servivi viva.

Dette quelle parole, si allontanò.

- Quella ragazzina mi fa paura…

Disse Violet, stringendomi.

- Non dirlo a me… eppure, sono certa che sotto sotto, non è così male…

- Non fidarti, Aurore. Livia non cambierà.

Intervenne Rose.

- Però…

- Ed ecco perché non desidero avere figli. Dovessi ritrovarmi qualcosa come Livia, non saprei come uscirne.

Osservò invece Blaez. Lo guardammo perplesse, a cominciare da Amber. Rose fece spallucce.

- Poco male, io non voglio perdere la mia linea.

Stavolta guardammo Rose. Poi, mi voltai cercando la mamma. Il professor Warren le si era avvicinato e stavano parlando.

- Scusate…

Dissi, allontanandomi, pensando che Damien e Jamie non c’erano ancora. Li raggiunsi, e il professore mi sorrise. Viscido, pensai.

- Dove sono Damien e Jamie, professore?

Domandai.

- Stanno arrivando, mia cara. Dimmi, cosa dovrei fare per convincere tua madre a concedermi la sua mano?

Sollevai il sopracciglio.

- Ha provato col suicidarsi? Magari da morto sarebbe più gradevole.

- Mpf. Immagino che Celia ne abbia abbastanza di amanti e mariti morti.

Strinsi i pugni.

- Ma come si permette?!

La mamma parò il braccio davanti a me, prima che mi compromettessi.

- Lionhart. Vuoi sapere perché dovresti metterti l’anima in pace una volta per tutte?

- Fammi indovinare. Hai deciso di diventare suora di clausura nel ricordo di Greal?

- No. Non è soltanto per Greal. E’ anche per Grace. Se hai mai nutrito un minimo d’amore per la madre dei tuoi figli, dovresti pensarci due volte prima di essere così insistente nei confronti di un’altra donna.

Grace… la mamma di Damien e Jamie. Ricordavo ancora bene quel quadro che la ritraeva, con Damien neonato. Era così bella… ma il professore sembrava di diverso avviso.

- Grace è storia passata. Non ho più rapporti con lei.

- Povera Grace… così sfortunata. Ad ogni modo, Lionhart, sarà meglio che tu ci dia un taglio. Non intendo sposare nessuno. E se proprio non intendi desistere, ti consiglio un abbonamento al quotidiano Due-Di-Picche.

Il professore ci mise qualche istante a realizzare le parole della mamma, mentre io mi compiacqui della sua verve. E mi rallegrai al pensiero che molto presto, papà avrebbe fatto diventare quel consiglio reale. Mentre stavo per esultare, un paio di guardie scortò Damien e Jamie all’interno della sala e la mia attenzione finì su di loro. Damien aveva l’espressione stanca, ma al tempo stesso, osservava guardingo la sala. Jamie era più tranquillo, accanto a suo fratello, finalmente. Era la prima volta che potevo vederlo così da vicino, perfettamente ristabilito. Aveva indosso gli abiti tipici dei nobili dell’Underworld.

- Jamie!

Esclamò Livia, raggiungendolo. Damien parò il braccio di fronte al fratellino.

- Damien!

Esclamai io, correndo da loro. I nostri amici ci guardarono.

- Aurore!

A giudicare dal tono severo, immaginai che presto o tardi mi avrebbe rimproverata. Non potevo biasimarlo, certo, ma non potevo fare diversamente, prima.

- Livia, Aurore.

Jamie scostò il braccio del fratello, guardando prima la Lady del lapislazzuli, che vicino a lui sembrava più piccola, e poi me.

- Sono contento di rivederti, Aurore.

- A-Anch’io, Jamie… come stai?

Domandai, sorridendogli. In realtà, sentivo tutto l’astio proveniente da Livia e dovevo ammettere che mi sentivo un po’ a disagio.

- Sto bene, grazie.

- Ne son felice…

C’era qualcosa di strano, però… Jamie era così delicato e gentile e in quel momento appariva distante e perentorio. Guardai Damien, affiancandolo, mentre Jamie e Livia si misero a chiacchierare.

- Che succede, Damien?

Lui scosse la testa, scoccando uno sguardo assassino al padre.

- Gli ha fatto qualcosa. L’ha circuito, in qualche modo e adesso si è convinto che diventerà lui il prossimo Despota. Ti rendi conto, Aurore? Mio fratello…

Vidi il bel viso del mio Damien rabbuiarsi, combattuto tra sentimenti contrastanti. Gli presi la mano, mentre con l’altra gli accarezzai la guancia.

- Se siamo riusciti a far desistere te, allora vedrai che ce la faremo anche con Jamie…

Ogni volta che si trattava del suo fratellino, Damien diventava fragile. Jamie era per lui una forza, certo, ma al tempo stesso, era il suo punto debole. E vederlo così in pena per ciò che gli stava accadendo mi rendeva triste. Ma al tempo stesso, sapevo che toccava a me essere forte per entrambi.

- Coraggio, Damien.

Guardò Jamie che conversava con Livia come se fossero amici di vecchia data. Persino lei sembrava rilassata, come se fosse una dodicenne qualunque.

- Senti, ma… pensi che ci sia qualcosa tra loro?

Domandai. Damien si irrigidì, voltandosi meccanicamente verso di me.

- No.

- Dici?

- Sì.

- Perché parli a monosillabi?

Sbattei le palpebre.

- No.

- Eh?

- No. Assolutamente no.

Sospirai, notando il suo sguardo fisso.

E poi, il professor Warren picchiettò la spada a terra, richiamando la nostra attenzione. La Croix du Lac, scortata da Liger, entrò nella sala da una porta laterale che dava direttamente sull’area del trono. Tutti ci voltammo a guardarla mentre percorreva la navata raggiungendo il trono del Despota. Lo carezzò con la mano, poi si sedette. Noialtri rimanemmo a distanza, con l’inquietudine che derivò dalla sua sola presenza. Oramai era giunto il momento di conoscerne le intenzioni e per qualche ragione avevo il presentimento che non sarebbe stato nulla di buono. Il professor Warren percorse la lunga linea che portava dritta al trono, fermandosi a pochi passi dagli scalini e inchinandosi.

- Vostra Grazia. Come richiesto, ecco a voi i capifamiglia.

La Croix du Lac annuì con aria grave, poi sollevò il braccio a mezz’aria.

- Capifamiglia e Ladies delle Pièces. Venite al mio cospetto.

Ordinò e la sua voce risuonò autoritaria in tutta la sala. Guardai Damien, poi la mamma, che annuì. Stava trattenendo il fiato, ne ero sicura. Poi mi rivolsi a Violet, che raggiunse il fianco di mia madre dopo aver guardato sia me che Ruben. E infine, traendo forza l’uno dagli altri, ci avvicinammo alla Croix du Lac, fermandoci davanti agli scalini, proprio dietro al professore, che si scostò, sogghignando. Tutti noi, oramai usciti allo scoperto, eravamo lì per affrontare il nostro destino.

- Amber Trenchard, Lady dell’ambra. Immagino che tu abbia qualcosa da dire.

Disse la Croix du Lac, accomodando la guancia sul dorso della mano. Amber si fece avanti, deglutendo. Mi si strinse il cuore pensando a come mi aveva sempre difesa. E ora, senza nemmeno Shemar a proteggerla, era come una farfalla nelle grinfie di un gatto.

- Ho protetto Aurore Kensington dal primo istante in cui ha messo piede nel nostro mondo.

- Amber! No!

Esclamai, beccandomi uno sguardo truce da parte della Croix du Lac.

- Rimani al tuo posto.

Tuonò. Poi tornò a guardarla.

- Vai avanti.

Amber proseguì determinata.

- Tutto ciò che ho fatto, l’ho fatto perché credo fermamente che Aurore sia un raggio di luce, in questo mondo d’oscurità. La mia intenzione è quella di proteggere quel raggio di luce, affinché esso riesca a splendere, un giorno e a ridare la vita al nostro mondo martoriato.

- In altre parole, stai mettendo in dubbio la mia autorità? Sai bene cosa accade a chi tradisce.

Livia ghignò. Io mi morsi le labbra.

- Lo so. E preferisco morire nella convinzione che Aurore riuscirà a spezzare la maledizione che da secoli affligge le vite di tutti noi, piuttosto che affidarmi alla speranza che voi cambiate lo stato delle cose!

Strinse i pugni e vidi le lacrime imperlarle il viso, che avevo sempre visto tanto controllato.

- Avete fatto sterminare le nostre famiglie, ridotto questo mondo allo spettro della gloria che fu, avete inflitto sofferenza a degli innocenti… quanti bambini avete reso orfani, ve lo siete mai chiesta?! Noi, la nuova generazione, abbiamo perso i nostri genitori… eppure, nonostante questo, alcuni di noi vi hanno donato la lealtà. Ma come possiamo concedervela tutti? Cos’avete fatto per meritarla?!

La voce della mia cara amica risuonava disperata nella sala dell’incoronazione. Pensavo a quando mi aveva raccontato di sua madre, di Milene e di Hiram e persino di Shemar… Amber aveva sempre avuto la morte attorno a sé, eppure era cresciuta con la speranza che un miracolo sarebbe potuto accadere, se si fosse impegnata ad agire. La Croix du Lac sollevò il viso impassibile.

- Io vi ho concesso di vivere. Se non fosse stato per me voi tutti non sareste qui, ora.

- Ma a che prezzo?! Questa la chiamate vita?!

- Non mi sembra che abbiate vissuto male, finora. Blaez Vanbrugh, puoi testimoniarlo?

Blaez si fece avanti, affiancando Amber.

- Non abbiamo vissuto male, Vostra Grazia. Ma non possiamo affermare di aver vissuto una vita normale.

La Croix du Lac inarcò il sopracciglio biondo. Quanto avrei voluto correre da Amber in quel momento e abbracciarla forte. Mi sentii dannatamente frustrata per tutto quello che stava accadendo.

- Sentiamo. Per quale motivo?

Blaez ne sostenne lo sguardo inquisitore.

- Un mondo senza luce equivale a un mondo senza vita. Possiamo far sì che la natura continui a vivere grazie alle tecnologie, ma prima o poi l’energia si esaurirà. Che sia tra dieci anni, cento, mille non ha importanza. Accadrà e sarà la fine per tutto. Un tempo, il nostro era il mondo più prospero e lussureggiante che esistesse. Ora, non possiamo dire di essere vivi, non davvero. Ogni giorno, una parte dell’Underworld muore. E voi stessa ve ne siete accorta. Non potete riportare la luce nel nostro mondo perché non ne siete in grado. Vi manca qualcosa.

La Croix du Lac affilò lo sguardo. Vidi Damien ascoltare attentamente il discorso di Blaez. Sin dall’inizio, lui non credeva alla tesi del sovrannaturale, ma sospettava che vi fossero state delle anomalie magnetiche alla base di quella situazione.

- Blaez Vanbrugh. Tuo nonno ha ragione su di te. Sei alquanto perspicace.

- Vi ringrazio, Vostra Grazia.

Poi, la Croix du Lac si chinò verso di noi.

- Voglio proporre qualcosa. Sapete bene che al momento, il Despota è scelto tra gli uomini delle casate dell’oligarchia. L’ultimo Despota, Ademar Valdes, proveniva da Challant. Ora, in segno di continuità, chiedo al candidato di Challant di farsi avanti.

Trasalimmo tutti a quella richiesta.

- C-Che significa?! Non avevi forse detto che non avevi ancora scelto il Despota?!

Incalzai. I ragazzi mi guardarono sbigottiti, non so se più per il tono informale con cui mi ero rivolta alla Croix du Lac o per quello che avevo detto, ma passò in secondo piano quando Jamie si fece avanti, inchinandosi.

- Vostra Grazia, sono il conte Jamie Warrenheim e sono ai vostri ordini.

Disse, con contegno e solennità non indifferenti per un ragazzino di soli tredici anni. Damien imprecò.

- Che pagliacciata è questa?! Jamie, vieni via!

La Croix du Lac ci raggelò entrambi con una sola occhiata, poi si rivolse a Jamie, ignorando del tutto lo sconvolgimento generale. Solo il professor Warren e Livia erano soddisfatti.

- Jamie Warrenheim. Se batterai il mio cavaliere, Liger, conoscerai la mia volontà.

- Come Vostra Grazia comanda.

Rispose, senza batter ciglio.

- Ma cosa?! Vostra Grazia, che significa?!

Incalzò Ruben.

- Quello che ho detto, Ruben Cartwright.

- Dovete concedere la possibilità a tutti!

Esclamò Amelia, corrucciata.

- Niente affatto, è un suicidio! E’ soltanto un bambino, come può anche solo combattere contro Liger?!

Intervenne Amber, col cuore in gola.

- Jamie, non farlo…

Dissi, pensando a mio fratello, che era stato ucciso da Liger. Se lui aveva perso la vita contro quel cavaliere, come poteva Jamie anche solo pensare di provare a tenergli testa?

- La legge è legge. E’ consuetudine che il primo candidato, in prosecuzione col precedente, abbia quest’onore. In realtà, in passato era il cavaliere personale del Despota a condurre lo scontro, ma dal momento che questa situazione è del tutto nuova, faremo un’eccezione. Liger.

Liger si fece avanti, sguainando la spada.

Ansimai terrorizzata, poi sbraitai contro il professor Warren, che si accingeva a porgere la propria spada a Jamie.

- Come può permetterlo?! Non si rende conto che lo ucciderà?! Liger è troppo pericoloso! Jamie non ha speranze! Morirà!

Il professore porse la spada al figlio, incurante delle mie parole. Jamie la raccolse, sotto lo sguardo fiero sia del padre che di Livia. Guardai Damien, che fissava in tralice il fratellino.

- Allora?

Domandò la Croix du Lac, impaziente.

- Damien!

Strinse il pugno, respirando affannosamente. Aveva digrignato i denti e sembrava sul punto di esplodere. E così fu, ma con quella pazzesca calma nonostante la furia che gli si agitava dentro.

- Basta! Sarò io a battermi!

Tuonò. Smisi di respirare, fissandolo in tralice.

- Oh? Tu, Damien Ealing?

Gli fece eco la Croix du Lac, stupita. Anche i ragazzi lo guardarono increduli. Solo Amelia sembrava finalmente contenta.

- Che stai dicendo? Non fare sciocchezze, Damien…

Mormorai, sentendo la mia voce rotta dal singhiozzo. Damien mi guardò. I suoi occhi verdi erano un crogiolo di emozioni.

- Non permetterò che accada qualcosa a mio fratello. Lo capisci, vero?

Evan. Lo rividi per un istante nei suoi occhi. Quando aveva combattuto contro Liger doveva essere stato così, sicuramente. Scossi la testa.

- No, non… ti prego, Damien…

Il suo sguardo si fece appena più dolce, probabilmente dopo aver visto le mie lacrime. Mi accarezzò il viso.

- Ti amo, Aurore Kensington. E per questo, ti chiedo di fidarti di me.

Il mio cuore in quel momento andò in frantumi così come tutto il mio autocontrollo. E quando mi baciò in fronte, disperato, provai l’impulso di tenerlo stretto a me con tutte le forze che avevo in corpo. Ma non sarebbe bastato. Damien aveva suo fratello, il solo legame di sangue forte in quel mondo. E avrebbe dato la vita per lui. Come Evan… singhiozzai senza riuscire a trattenermi quando si allontanò da me e raggiunse Jamie.

- Che intenzioni hai, fratello? Sono io quello che diverrà il nuovo Despota! E quando accadrà, potremo finalmente rivedere la mamma!

Rimanemmo tutti stupiti da quelle parole. Lo stesso Damien fissò il fratellino con gli occhi sgranati, poi lo accarezzò affettuosamente in testa. Dunque era questo il desiderio di Jamie.

- La mamma… ti prometto che quando finirà tutto questo, la raggiungeremo assieme, Jamie. Né despoti, né croci, né alcuna stronzata. Soltanto tu e io, nel mondo in cui siamo vissuti.

- No, non è vero… la mamma è qui, da qualche parte!

Damien sorrise amaramente.

- No. Lei non è qui, piccolo mio. Fidati di me, per favore. Ti ricordi, Jamie? Ti ho mai mentito?

Jamie rimase senza parole, poi distolse lo sguardo.

- N-No… non l’hai mai fatto… però…

- E non lo farò ora, Jamie. Quando torneremo a casa, trovare la mamma sarà la prima cosa che faremo, vedrai.

- Damien…

Jamie tornò a guardarlo. Avevo già visto Damien essere dolce col fratellino, e mi resi conto che aveva compreso che il modo migliore per aiutare Jamie era essere quello che era sempre stato con lui, ovvero l’amorevole fratello maggiore. E infatti, la tenerezza e la sicurezza delle parole di Damien fecero breccia nella coltre di menzogne che il professore aveva eretto attorno a lui. Jamie annuì, poi abbracciò forte il fratello. Damien sorrise dolcemente, poi sciolse l’abbraccio mormorando qualcosa all’orecchio di Jamie e si fece dare la spada, puntandola verso il padre, che aveva osservato la scena senza proferire parola.

- Sei sempre stato un bugiardo. Ma ora hai finito di nasconderti dietro le menzogne.

E poi, fece roteare la spada, rivolgendosi alla Croix du Lac.

- Sarò io a battermi.

Lei sorrise.

- In nome di quale casato? Warrenheim o Ealing?

Amelia corse da Damien, facendosi largo tra i ragazzi. Vidi i suoi lunghi capelli castani svolazzare nell’aria, per poi ricadere lungo le sue spalle.

- Ealing, ovviamente. Mi raccomando, Damien, metticela tutta.

Disse, eccitata, posandogli le mani sulle spalle. Quel gesto mi indispose, ma Damien rimase indifferente.

- Non è corretto! E’ stato Jamie il primo!

Contestò Livia, contrariata.

Rose mi raggiunse, mentre Amber aiutò Jamie e scostarsi, accarezzandolo in testa. Blaez e Ruben invece, fissavano Damien, che a sua volta, non distolse lo sguardo dai suoi obiettivi.

- Allora?

Chiese la Croix du Lac, impaziente.

- Nessuno dei due. Io sono Damien Warren, il despota del liceo di Darlington.

Un angolo delle labbra delicate della Croix du Lac si sollevò in un sorrisino, mentre Liger si allontanò verso il centro della sala. Provai una sensazione di puro terrore quando mi passò accanto. Probabilmente, alla rabbia ora si era frammista la paura per le sorti di Damien.

- Molto bene, Damien Warren. Così sia.

Damien aggrottò le sopracciglia, poi scansò agilmente Amelia, che ci rimase visibilmente male e senza batter ciglio, raggiunse il suo avversario.

Nell’istante stesso in cui sollevarono entrambi le spade, il professor Warren si avvicinò al trono, probabilmente per proteggere la Croix du Lac da eventuali attacchi, dal momento che il suo cavaliere era impegnato. Sentii crescere l’odio dentro di me e a giudicare dalla sua espressione interessata, lei l’aveva percepito. E dopo che entrambi i contendenti urlarono l’en garde, lo scontro cominciò. Sotto i nostri occhi portatori di emozioni diverse e contrastanti, dopo essersi osservati per alcuni minuti, Damien attaccò per primo, memore degli insegnamenti di Shemar. Nel corso del tempo che avevamo trascorso a palazzo Trenchard, Shemar l’aveva istruito nel combattimento. Certo, c’era da dire che Damien aveva dei buoni riflessi sin da prima di prendere una spada in mano, ma tendeva a essere impaziente. Invece, questa volta, dopo un mese intenso trascorso ad allenarsi ogni santo giorno, aveva imparato a studiare e a valutare le potenzialità dell’avversario. Ma ogni qualvolta le loro spade si incrociavano, vibrando fendenti luminosi e liberandone il clangore, sentivo una morsa al cuore. Guardai il braccialetto d’argento di Evan, pensando che mio fratello non aveva avuto una spada per difendersi. Guardai Jamie, che osservava preoccupato, ma al tempo stesso, fiducioso, suo fratello che si batteva per lui. Vidi Rose e Amber concentrate e la stessa Amelia persino, nel cui sguardo attento si leggevano l’ammirazione e la speranza riposte in Damien. Sentii i commenti di Blaez e Ruben, che avevano riconosciuto in quello stile di combattimento la mano di Shemar. Damien faceva roteare spesso la spada, creando dei cerchi di difesa ogni qualvolta Liger lo attaccava. A differenza sua, il comandante era più spartano e diretto negli attacchi. Ricordai che Liger aveva imparato da solo l’arte della spada. Vidi la mamma stringere forte Violet. Entrambe osservavano la scena con apprensione. E guardai anche il professor Warren, stupito nel vedere il figlio in grado di tenere testa al cavaliere della Croix du Lac. Ma tutto ciò non bastava a tranquillizzare il mio animo inquieto. Liger era formidabile e non si stava ancora impegnando del tutto. Tuttavia decisi di avere fiducia in Damien. Me l’aveva chiesto, dicendomi che mi amava. Avevo un forte batticuore e ogni volta che vedevo Liger affondare degli assalti precisi, mi sentivo morire. Ma Damien era determinato e spesso lo vidi sorridere, mentre metteva alla prova il suo nemico. Riuscì persino a fare indietreggiare Liger in un paio d’occasioni, suscitando la nostra meraviglia. Soltanto Livia era seccata da quella scena. Si avvicinò a Jamie, che la guardò. Per la prima volta, vidi su quel ragazzino la stessa espressione corrucciata del fratello. Qualunque rapporto ci fosse tra loro, era certo che Jamie non avrebbe più permesso a nessuno di parlare male di Damien. Quella consapevolezza, il sapere che adesso entrambi erano nuovamente dalla stessa parte, mi fece rallegrare.

- Warren, attento!

Esclamò all’improvviso Ruben. Lo cercai immediatamente, e urlai. Liger aveva eseguito una finta ed era passato alle spalle di Damien, puntandogli la spada contro la schiena. Tutti, in quel momento, eccezion fatta per l’impassibilità di pochi, tra cui la stessa Croix du Lac, avevamo il cuore in gola.

- Damien!

Gridai.

Era la stessa situazione che si era verificata con Shemar una delle prime volte che si erano battuti nel cortile della residenza Trenchard. Ma Shemar sapeva quando fermarsi. Liger sarebbe stato altrettanto clemente? Mi ritrovai a tremare e cercai di farmi largo per raggiungerlo, ma Blaez mi fermò.

- Blaez, che stai facendo?!

Chiesi, incredula.

- Lascialo stare. E’ la sua battaglia, non la tua.

- Ma…

Senza scomporsi, mi invitò a guardare.

- Ti arrendi, Damien Warren?

Domandò Liger, seccamente.

Fallo, fallo, ti prego!, pensai, pregando che accettasse la resa.

- Fratellone!

Esclamò Jamie.

- Damien!

Le voci di Amber e Amelia. Persino la mamma e Violet si erano avvicinate.

- Oh, Damien…

Mormorai, ignorando le lacrime che mi avevano riempito gli occhi. Damien si voltò appena verso Jamie e poi mi guardò. Sul suo volto comparve il ghigno che avevo visto a scuola per la prima volta.

- Dovrai infilzarmi, comandante!

Esclamò. E trascurando tutto il nostro sbalordimento, a sorpresa, si chinò in avanti, sferrando un calcio all’indietro alla spada di Liger, che volò via, scivolando a poca distanza da dov’eravamo noi. Liger sembrava sorpreso, soprattutto quando Damien si voltò, puntandogli la spada al petto.

- Nessuno sfida il despota del liceo di Darlington credendo di farla franca. Dovresti mettertelo in testa.

Disse, affilando lo sguardo.

Sospirai, pensando che non sarebbe mai cambiato. Ma paradossalmente, anche questo suo modo di porsi, così sicuro e a volte noncurante, era parte di ciò che lo rendeva affascinante. Liger sollevò le braccia, stupendo tutti.

- Si arrende?

Domandò Rose.

- Pare di sì…

Commentò Amber.

- Damien ha vinto! Lo sapevo, lo sapevo!

Esclamò Amelia, voltandosi verso la Croix du Lac.

- Vostra Grazia, Damien diverrà il prossimo Despota, non è così?

Mi soffermai un attimo su quella domanda di Amelia, così fiduciosa e su di giri. La Croix du Lac aveva posto una richiesta, ovvero, aveva chiesto una sfida tra un candidato e il suo cavaliere. Dunque, dal momento che Damien aveva sconfitto Liger, questo significava che aveva soddisfatto quella richiesta. Pertanto, Damien poteva davvero diventare il nuovo Despota? Guardai la Croix du Lac che sollevò il viso, picchiettando le dita sulla tempia.

- Beh? E’ tutto qui?

Domandò, a sorpresa. Noi tutti rimanemmo perplessi. Damien si voltò verso di lei.

- Preferivate che colpissi il vostro cavaliere, forse? Suppongo che sarebbe difficile per voi farne a meno.

Guardai Damien, che aveva abbassato la spada ed era distratto. Liger, intanto, si era allontanato, raccogliendo la propria. In quell’istante, nel vedere il modo in cui l’aveva impugnata, ebbi una pessima sensazione. “E si dà il caso che non ami particolarmente essere minacciato”, aveva detto. Quando compresi la sua intenzione, urlai.

- Damien, fai attenzione, vuole colpirti!

Gridai, con tutto il fiato che avevo in corpo.

Damien mi guardò con gli occhi sgranati, colto di sorpresa mentre Liger si lanciò all’attacco.

- Lig-- 

Non fece in tempo a imprecare che Liger gli sferrò un colpo secco col pugno stretto in pieno stomaco, facendolo finire a terra.  La spada che Damien aveva in mano gli cadde nella colluttazione.

- Damien!

Esclamammo. Persino il professor Warren adesso era agitato.

Quando fece per rialzarsi, Liger però lo bloccò, portandogli una mano alla gola, mentre con l’altro braccio teneva ben ferma l’elsa, puntata verso Damien come una spada di Damocle.

- Fregiarsi del titolo di Despota in un modo così semplicistico è disonorevole!

Ruggì.

- Non mi dire… sei così attaccato al titolo?

Punzecchiò Damien, stringendo le mani attorno all’avambraccio di Liger, affinchè mollasse la presa.

- Smettetela!

Esclamai a voce alta, in quell’atmosfera di tensione generale.

- Taci, Aurore Kensington!

Ordinò Liger, ignorandomi.

Mi morsi le labbra, colpita da quel richiamo. Ma non potevo permettergli di fare del male a Damien. Mi aveva già portato via Evan, non gli avrei permesso di portar via anche Damien. Né a me, né a Jamie. Cercai mia madre con lo sguardo, pur sapendo che non avrebbe mai approvato quello che stavo per fare. E quando la vidi e mi resi conto che aveva compreso, le sorrisi. E mi lanciai contro Liger, mentre sentivo dietro di me le voci sconvolte dei miei amici che chiamavano il mio nome.

- Aurore!

Esclamò Damien, mentre Liger strinse la presa sulla sua gola.

- Lascialo stare, maledetto assassino!

Urlai, afferrandolo per il braccio.

- Levati di mezzo!

Liger mi scansò, ma la mia presa era ferma. Damien approfittò di quel momento di sbilanciamento per scostarsi e riprendere la sua spada. Tutt’intorno, i ragazzi commentavano più o meno animatamente. A quel punto, Liger mi afferrò, rialzandosi e puntandomi contro la propria spada.

- Aurore!

La voce della mamma si alzò su tutte.

- Ugh

Annaspai, sentendo stretta la presa attorno a me.

- Lasciala immediatamente!

Ordinò Damien.

- Perché? Non è concesso a nessuno di interferire in combattimento.

- Non avrei mai permesso che tu lo uccidessi! Non me lo porterai via come hai fatto con Evan!

Esclamai. Damien apprese quella notizia con sbalordimento.

Avevo il braccio di Liger che mi risaliva lungo il torace, e la sua mano salì fino a farmi voltare il viso verso di lui. Sul suo volto era comparsa una smorfia.

- Vuoi che porti via te, allora?

- Croix du Lac, basta! Non è troppo, questo?!

La voce di Amber risuonò nella sala. Persino Rose e Ruben le si rivolsero chiedendo che Liger la smettesse. E io ero troppo sbilanciata per vederne la reazione.

- Liger… mi fai schifo, ma preferirei di gran lunga una cosa del genere alla morte di un’altra persona a me cara!

- In tal caso…

Liger alzò la spada e così fece Damien. In quegli istanti sentii come mai il terrore di morire. Ma la Croix du Lac si alzò, battendo le mani e interrompendo quel momento.

- Basta così.

Ordinò e Liger obbedì, lasciandomi libera. Traballai e Damien mi sostenne, stringendomi a sé.

- Sei del tutto pazza…

Mormorò, severo.

- Ma almeno stai bene…

Risposi, riprendendo fiato. Anche la mamma e Violet corsero subito da noi.

- Tesoro mio!

- Mamma!

Sorrisi a entrambe, rassicurandole, poi guardammo la Croix du Lac.

- Alla fine, sembra che sia un nulla di fatto.

Commentò, raggiungendoci.

- Non ho mai visto nessuno con le tue manie suicide… con l’eccezione di tuo padre.

Sia la mamma che io ci risentimmo. Chissà se la mamma sapeva cosa si diceva della morte di papà. E in quel momento pensai al fatto che la Croix du Lac mi aveva detto di averlo ucciso, quando in realtà, mio padre era vivo e vegeto. Chissà cos’era accaduto davvero.

- Croix du Lac… la scorrettezza di Liger dovrebbe far passare in secondo piano qualunque esito!

Esclamai. Lei mi guardò, richiamando a sé Liger.

- Considerando il fatto che ti sei gettata in mezzo allo scontro, sei stata tu stessa a invalidarne l’esito.

Probabilmente non aveva torto, ma di certo non mi aspettavo un tale giudizio. I ragazzi ci guardavano, incerti.

- Sono pronto a battermi di nuovo, se necessario.

Incalzò Damien, ma lo fulminai con un’occhiata truce.

- Non dirlo nemmeno per scherzo!

Damien inarcò il sopracciglio. Sapevo che detestava essere contraddetto, ma non gli avrei permesso di rischiare ancora la vita in quel modo.

- In ogni caso…

La Croix du Lac stava per parlare, quando sentimmo forti boati provenire dall’esterno. E una frazione di secondo dopo, fummo colti da una scossa di terremoto tanto forte da sballottarci tutti quanti. Livia urlò spaventata, portando le mani alla testa e Rose la prese con sé. Blaez e Ruben, vicini ad Amber e Amelia, le protessero. Damien mi strinse più forte e tese il braccio verso il fratellino, che ci abbracciò. Chi più chi meno, tutti quanti cercammo l’aiuto di chi ci era accanto. Dall’esterno, sentimmo  perfino provenire urla terrorizzate. Il professor Warren urlava di rimanere calmi e che sarebbe finito presto. Mi sincerai che la mamma stesse bene in quei pochi, ma intensi secondi e la vidi stringere Violet, spaventata più che mai. Persino Liger, così controllato, lasciò perdere il contegno per proteggere la Croix du Lac, stringendola a sé in un modo che mi colpì. Nonostante fossimo tutti in quella situazione, percepii la ferrea volontà da parte di quel cavaliere, di protezione nei confronti della sua Lady, ma a giudicare dal modo in cui le stava facendo da scudo, non si trattava di semplice dovere. Ebbi l’impressione che ci fosse qualcosa di più. E di colpo, il diamante incastonato nel dorso della mano sinistra della Croix du Lac smise di brillare.

- Arabella!

Esclamai, nel vedere il volto spaventato e umano di mia sorella. Qualunque cosa stesse accadendo, la Croix du Lac si era ritirata. Vidi Liger rivolgersi verso di me, a momenti impietrito. E poi guardò Arabella. Anche la mamma lo fece, e non appena la scossa ebbe termine fummo in grado di mantenere l’equilibrio. Vidi Arabella controllarsi le mani tremando e poi guardare Liger, che continuava a stringerla. Sembrava incredula e ben presto, le lacrime le rigarono il viso pallido. Poi, sollevò il braccio, accarezzando la guancia di Liger e si voltò verso di noi, sorridendo appena.

- M-Madre mia… Aurore…

- Arabella?

Sussurrò la mamma. Per la prima volta, mia sorella era lì, in carne e ossa. Mia sorella… lei era… non riuscivo a descrivere la sensazione che provai in quel momento. Troppa confusione. Felicità, assolutamente, ma anche tanta tristezza per il destino che le era toccato. Eppure era lì, meravigliosa e fragile. I ragazzi la guardarono stupiti.

- Tesoro mio…

La mamma si avvicinò a noi, a pochi passi da Arabella. Lei guardò Liger, che sciolse la presa senza opporre resistenza. E poi Arabella, sotto gli occhi di tutti, corse ad abbracciare la mamma, scoppiando a piangere.

- Oh, mamma!

- Arabella, bambina mia!

Vidi Amber commuoversi e così anche Violet. Potei notare una linea di tenerezza anche negli occhi di Rose e di Amelia persino e Livia distolse lo sguardo. Era la sola a sembrare triste. Il professor Warren si avvicinò, incerto.

- Dov’è la Croix du Lac?

Domandò, ma Damien lo guardò di traverso.

- Chi se ne importa ora? Devi sempre intervenire nel momento sbagliato.

Lo guardai, poi alzai lo sguardo su mia madre e mia sorella. Erano quasi diciassette anni che non si vedevano, o almeno, non così. Però, nonostante fossi incredibilmente felice per loro, una parte di me si sentiva fuori luogo, in un certo senso. Dopotutto, io non avevo mai conosciuto Arabella e non sapevo niente di lei, se non per quello che avevo scoperto e per la sensazione di familiarità che avevo percepito quando l’avevo vista in una visione, per la prima volta. Damien mi richiamò.

- Dovresti andare anche tu.

Incontrai il suo sguardo ammorbidito, ma esitai.

- Non so se…

- E’ tua sorella.

Disse.

Anche Violet e Amber mi rincuorarono.

- Vai, Aurore!

Mi feci coraggio, forte del loro appoggio e lasciai Damien assieme a Jamie. Guardai Liger, che era rimasto fermo lì dov’era. Mi resi conto che mi stava osservando, ma cercai di ignorarlo e mi avvicinai alla mamma e ad Arabella. Entrambe, così somiglianti l’una all’altra. E quando la mamma mi sorrise tra i singhiozzi e Arabella mi tese la mano, ogni esitazione scomparve e le abbracciai forte. Una parte della mia famiglia era finalmente riunita, mancavano soltanto papà ed Evan…

- Angelo mio, come ti senti?

Domandò la mamma ad Arabella.

- N-Non lo so, mamma… è strano, ma è come se si fosse addormentata… in qualche modo, è la stessa cosa che è accaduta a me prima che riuscissi a tenerle testa… solo che ora, ci sono io…

- Pensi che possa tornare?

Le domandai io, stringendole la mano.

Arabella mi baciò in fronte, accarezzandomi il viso con la mano libera. Quanta dolcezza c’era in quel gesto…

- Purtroppo, fino a che porterò la sua maledizione dentro di me, lei tornerà, sorellina mia…

Mi aveva chiamata “sorellina mia”… che strano e forte calore provocarono in me quelle parole.

- Lady Arabella.

La voce di Ruben.

Ci voltammo a guardarlo.

- Lord Cartwright… mi dispiace tanto per quello che la Croix du Lac vi ha costretto a subire… e mi riferisco a tutti voi… anche a te, piccola Livia. Non odiare te stessa e il mondo che ti circonda… c’è tanta bellezza che aspetta soltanto di essere riportata alla luce e tanto amore anche per te, se solo aprirai il tuo cuore a esso.

Livia distolse lo sguardo, ma Jamie la prese per mano. Lei lo guardò stupita. Una parte di quell’amore era lì, accanto a lei.

- Vi prego, ascoltatemi. Non so quanto tempo avrò a disposizione, perciò dovete andare via di qui.

- Cosa stai blaterando?!

Intervenne il professore.

- Come se potessi permetterlo!

- Sta’ zitto, Lionhart!

Lo rimproverò la mamma.

- Tu verrai con noi, però!

Esclamai.

- Adesso che ci siamo ritrovate…

- No. No, Aurore, non posso farlo. Il mio posto è qui, ora…

Si rivolse a Liger, che sembrò distogliere lo sguardo. Anche l’espressione di Arabella si fece triste.

- Arabella, non ti lascerò qui, tesoro mio! Non posso rischiare di perderti ancora…

La mamma le strinse le mani, baciandole.

- Mamma, se adesso venissi con voi e la Croix du Lac dovesse rifarsi viva, tutti voi sareste in pericolo. Per favore, andate via adesso che è possibile. Lei non sarà clemente…

- Ma se andassimo via ora, non saremmo diversi da chi vogliamo combattere…

Disse Amber.

- Lady Trenchard, voi avete protetto mia sorella e vi siete esposta per lei. Quello che non ho potuto fare io, l’avete realizzato voi e di questo ve ne sarò sempre grata. Ma proprio per non comprometterlo, voi dovete andarvene.

- Non ve lo permetterò mai!

Esclamò il professor Warren, afferrando la spada che poco prima aveva usato Damien, la sua. Quando ce la vedemmo puntata contro, scattammo in difesa. Ruben, Blaez e Damien si fecero avanti.

- Papà!

La voce di Jamie.

- Non ho fatto tutto questo perché tu, ragazzina, rovinassi tutto in questo modo! Ho atteso pazientemente e lasciato che Aurore, Damien e questi traditori circolassero liberamente nell’attesa che arrivasse il momento giusto per averli tutti in mio potere! E adesso, sol perché la Croix du Lac si è ritirata, peraltro a causa di questi stramaledetti terremoti che stanno sconvolgendo il nostro mondo, non ti permetterò di sabotare il mio piano!

Sbraitò.

- Papà, smettila immediatamente!

Esclamò Damien.

Sentii Blaez mormorare qualcosa a proposito dei terremoti e Ruben si preparò ad attaccare il professore. Ma fu Liger a impedirlo, sguainando nuovamente la sua spada, in mezzo alla nostra incredulità.

- C-Che significa?!

Domandò il professor Warren.

- Se la volontà della mia Lady è quella di lasciarli andare, così sia. Sarà soltanto per questa volta. Voialtri, andate via prima che ci ripensi.

- Non dire assurdità! Sei forse anche tu un traditore?! Devo ricordarti qual è il tuo posto, Liger?!

Il professore si avventò contro il comandante che contrariato, lo mise fuori gioco con un solo fendente.

- Papà!

Esclamò Jamie.

- Andate via!

Tuonò Liger.

- Andate, presto!

Amelia fu la prima a correre via. Guardammo Arabella, che ci sorrise dolcemente.

- Ci rivedremo… mamma, Aurore… non dovete temere per me. Non chinerò la testa alla Croix du Lac. E poi… lui mi protegge…

Disse, guardando Liger.

La mamma annuì, stringendola forte ancora una volta.

- Resisti, Arabella, troveremo il modo di riportarti tra noi definitivamente!

Esclamai, poi guardai Liger che teneva sotto tiro il professor Warren.

Anche Damien li guardò, ma sul suo viso c’era solo una smorfia di rabbia. Soltanto Jamie sembrava in pena, ma quando si rivolse a Livia, la sua voce non si incrinò.

- Vieni con noi.

Le disse, tendendole la mano.

La Lady del lapislazzuli era incredula.

- N-Non posso. Voi siete dei traditori… io non voglio esserlo!

Damien incalzò.

- Lasciala stare, Jamie. Non abbiamo tempo anche per lei.

Livia si risentì, aggrottando le sopracciglia chiarissime. Ma dietro a quell’espressione contrariata, vidi la ragazzina che voleva essere amata, proprio come diceva Arabella e come avevo visto a Boer. Jamie guardò il fratello con aria imbronciata, poi prese la mano di Livia, che lo osservò sbigottita.

- C-Che significa? Ti ho detto che…

- Non importa! Traditori o no, io ti voglio bene, Livia! E non ti lascerò qui da sola!

Livia sgranò gli occhi di ghiaccio, arrossendo. Sorrisi, così come Amber.

- Jamie… i-io…

- Andiamo insieme, Livia!

Per la prima volta da quando l’avevo incontrata, vidi la maschera sul viso di Livia sgretolarsi lasciando il posto al sorriso di una ragazzina che cominciava a provare i suoi primi sentimenti. E quando accettò, Jamie ricambiò quel bel sorriso, come solo lui sapeva fare. A quel punto, eravamo pronti.

- Andiamo!

La voce imperiosa di Ruben ci richiamò, così lasciammo la sala dell’incoronazione. Sentii un forte peso opprimermi il cuore al pensiero di star lasciando mia sorella con Liger e col professore, ma soprattutto, con la stessa Croix du Lac. Anche la mamma era triste, e in più di un’occasione, mentre scappavamo, la vidi piangere.

- Mamma, fatti coraggio!

Le dissi, prendendola per mano. Lei mi guardò, annuendo silenziosamente.

- Ragazzi, dove andiamo?!

Domandò Damien, tenendo vicino a sé Jamie. Anche loro avevano lasciato indietro qualcuno della loro famiglia, sebbene il professor Warren non avesse mai dimostrato loro alcun segno d’affetto. Jamie era quello più preoccupato, ma cercava di farsi forza, rassicurando anche Livia, che correva assieme a lui. Conoscevo bene quell’atteggiamento. Non voleva sentirsi di peso, esattamente come accadeva a me con Evan. Mentre percorrevamo i corridoi, tuttavia, fummo sorpresi dalle guardie imperiali dislocate all’interno del palazzo. In molte erano accorse per controllare che fosse tutto a posto dopo la forte scossa, ma quando ci videro scappare, compresero che eravamo dei fuggiaschi.

- Maledizione!

Sbottò Blaez.

- Cerchiamo di raggiungere il terrazzo!

Esclamò Ruben.

- Ma sei matto?! Ci chiuderemo in trappola!

Contestò Damien.

- Non possiamo usare l’entrata principale, è certamente più presidiata che gli altri posti.

- Mamma! Tu mi hai detto che eri specializzata nelle fughe quand’eri ragazza, giusto?

- S-Sì, è così.

Rispose la mamma, tenendo d’occhio le guardie che si avvicinavano. Blaez e Ruben afferrarono dei lunghi candelabri decorativi, contrastandole man mano. Con le fiammelle spente, tuttavia, ci ritrovammo in semioscurità.

- Ricordi qualche via di fuga particolare? Una che non possa essere scoperta?

- Fammici pensare…

La vidi pensierosa, mentre i ragazzi continuavano a tenere a bada le guardie.

- Mamma, sbrigati!

La incalzai.

- Separiamoci!

Propose allora Rose.

- Cosa?

Chiedemmo in coro Amber, Violet e io.

- Se lo facciamo, tanto di guadagnato. E’ più sicuro che spostarci tutti insieme. E così avremo più probabilità di non farci catturare!   

- Rose ha ragione!

Riflettè Damien, sferrando un calcio a una guardia che si era avvicinata un po’ troppo.

- Ragazzi, ascoltatemi!

La mamma richiamò la nostra attenzione.

- Damien ha ragione. Il terrazzo non è una soluzione accettabile. Esistono dei passaggi a cui si accede dai sotterranei del palazzo e dal foyer della sala dei concerti. E’ dietro al quarantacinquesimo specchio.

- La sala dei concerti? Che diavolo ci fa un passaggio nel foyer della sala dei concerti?

Borbottò Ruben, quando finì di mettere al tappeto l’ultima guardia.

- Ve lo spiego dopo, adesso andate!

- Ma non è pericoloso considerando la scossa di prima?

Fece giustamente notare Violet. Quell’osservazione ci rese titubanti.

- Non preoccupatevi. Le vie di fuga sono sicure tanto quanto lo è il palazzo. Sia mio padre che Ademar tenevano particolarmente a che ogni singolo antro di questa residenza fosse a prova di qualunque minaccia, e hanno fatto rinforzare i sotterranei affinché non cedessero né in caso di calamità né di attacchi. Dopotutto, una via di fuga dev’essere a prova di qualunque pericolo. Dunque, andate e non temete.

Rassicurati da quelle parole, fu così che decidemmo di separarci. Ruben, Rose e Violet, che mi abbracciò forte intimandomi di non farle scherzi, andarono verso i sotterranei. Amber e Blaez decisero per il foyer. Damien, Jamie e Livia, a cui ci saremmo dovute aggregare, avrebbero utilizzato l’altro passaggio disponibile nei sotterranei.

- Aurore, vai avanti.

- Che stai dicendo, mamma?!

Sbottai, quando la vidi ferma, mentre i ragazzi già si erano avviati.

- Amore mio, non me la sento di lasciare Arabella da sola, adesso.

- Aurore!

La voce di Damien risuonò dal fondo di quel corridoio.

- Stiamo arrivando!

Gli feci eco, poi presi per mano la mamma.

- Mamma, ti prego! Hai sentito cos’ha detto Arabella! Vuoi mandare all’aria quello che sta facendo?!

- Non posso abbandonarla così, Aurore… se solo tu sapessi, piccola mia… quanto mi sono sentita in colpa, in tutti questi anni…

Singhiozzò amaramente e compresi la ragione profonda della sua volontà.

- Se rimani tu rimango anch’io.

Dissi. Lei sgranò gli occhi, sconvolta.

- No!

- Aurore!

Damien tornò indietro, impaziente.

- Che diavolo state facendo?! Vi volete muovere?!

Guardai la mamma, poi mi voltai verso Damien. Quanto mi era mancato in quei giorni trascorsi lontani l’uno dall’altra. Ma tutto quel dolore, mi era servito per rendermi conto di quanto lo amassi. E poi ci eravamo ritrovati. Gli presi le mani, baciandole.

- Che stai… ?

Damien era perplesso.

- Uno. Non mentirmi mai. Due. Non faremo mai niente di impulsivo. Tre. Sorridi più spesso.

La sua bocca si aprì in una muta quanto sorpresa espressione.

- Adesso tocca a me. Vai avanti, Damien. Porta Jamie via di qui e tornate a casa. Devi ritrovare tua madre, l’hai promesso.

- Aurore, che stai blaterando tutto d’un tratto?

Mi tirò, ma fui più forte, per una volta. Mi feci animo e mi avvicinai al suo viso, baciandolo. Damien era incredulo, adesso. Quando mi scostai, vidi l’incertezza sul suo volto scomparire per far posto alla consapevolezza.

- Non vorrai mica… no, non te lo permetterò. Signora Kens--  o come diavolo si chiama, lascerà sua figlia nelle mani di questi matti?!

La mamma lo guardò. Quelle parole l’avevano certamente colpita. Sembrò essersi risvegliata, in qualche modo. Ma quando sentimmo Jamie invocare a gran voce il nome di Damien, quell’incanto finì. Damien lasciò le mie mani, in panico.

- Vai, Damien! Vai! Noi arriviamo!

Annuii, spaventata. Damien fece altrimenti.

- Sbrigatevi!

Disse, per poi correre più velocemente possibile scomparendo dalla nostra vista di lì a poco.

- Mamma, per favore!

Urlai, tirandola. E quando finalmente si decise, ci mettemmo a correre anche noi nella stessa direzione. Purtroppo per noi, però, la nostra corsa fu più breve di quella di Damien, perché ci ritrovammo davanti il professor Warren, con la spada sguainata in mano.

- Celia…

Cantilenò il nome di mia madre come se fosse ubriaco. La mamma trasalì, spingendomi dietro di lei.

- Dannazione… che diavolo ci fai qui?

- Credevi davvero che mi sarei fatto giocare da quell’idiota?

Deglutii al pensiero di Liger che lo teneva sotto tiro. Ma dubitavo che il professor Warren fosse stato in grado di batterlo. Doveva essere accaduto qualcos’altro. Il professore avanzava verso di noi, con fare minaccioso.

- Celia… tu mi appartieni, perché non lo capisci?

- Lo capisco… ma solo nei tuoi sogni!

Esclamò la mamma, indietreggiando.

- Prendi una spada, Aurore!

Mi ordinò e io annuii, anche se terrorizzata, a dire il vero. Quando la raccolsi, dalle mani di una guardia svenuta, mi accorsi che stavo tremando. Raggiunsi la mamma, porgendogliela e sperando che a pochi metri di distanza, non fosse accaduto nulla di male a Damien, Jamie e Livia.

- Stai indietro, Lionhart!

Il tono della mamma era sicuro, tanto che smise di indietreggiare e sollevò la spada.

- Oh… la Lady del diamante, la mia Cerulea Rosenkrantz. Sei sempre incantevole, anche con una spada in mano. Anzi, ti rende ancora più affascinante. E sai cosa farei con quella spada, mia cara? La userei su di te per sfilettarti, centimetro per centimetro, fino a che non mi supplicherai di smetterla… ma io continuerò fino a quando lacrime e sangue saranno una cosa sola e allora, quando la tua volontà sarà totalmente sottomessa alla mia, mi apparterrai.

Inorridii, disgustata. Quell’uomo era totalmente pazzo.

- Spiacente, Lionhart, ma non ho i tuoi stessi gusti in fatto di fantasie! Togliti di mezzo o giuro che ti uccido!

Il professor Warren sgranò gli occhi libidinosi, poi ridendo come un folle, ormai totalmente fuori di sé, corse all’attacco. La mamma trattenne il fiato, concentrata e pronta alla difesa, mentre io urlai, terrorizzata da quella visione. Sentii forte il clangore delle spade che si incrociavano e quando alzai lo sguardo, vidi nero tutto attorno a noi. Il tempo di focalizzare meglio, dal momento che non c’era luce a sufficienza e mi resi conto. In quell’istante, il mio cuore tornò a sperare. Il Cavaliere Nero si era frapposto a me e alla mamma e aveva incrociato la sua spada con quella del professore. La mamma era sconvolta.

- C-Che diamine…

- Tu… dannata spina nel fianco!

La voce del professore era ridotta a stridule note per quant’era impazzito. Papà respinse il suo attacco facendo forza.

- Taci una volta per tutte, traditore!

- Tradi---

La mamma non credeva a quello che sentiva. Io mi ritrovai a sorridere, speranzosa come non mai.

- Approfittiamone, Aurore!

Mi disse la mamma, tutto d’un tratto.

- N-No, non possiamo!

Mi prese per mano, ma la fermai.

- Che stai facendo ora?!

La guardai, e a giudicare dalla sua espressione stranita, dovevo avere un gran sorriso.

- Abbi fiducia, mamma! Quel cavaliere ci sta proteggendo!

Esclamai. Sospirò dubbiosa, guardando verso di lui. Papà e il professor Warren avevano ingaggiato battaglia. Ma nulla potè la rabbia del professore contro l’efficienza e la freddezza di mio padre. Quando Lionhart Warrenheim finì a terra, papà gli puntò la spada al petto, bloccando la mano armata con lo stivale premuto sul suo polso. Il professore sbraitò.

- Chi diavolo sei, eh?!

Domandò sputando tra i denti.

Eravamo di spalle, ma quando vedemmo il braccio di papà sollevarsi e togliere la maschera (diversa da quella che Damien aveva distrutto,  identica a quella delle guardie imperiali attuali), sul volto del professor Warren comparvero lo shock e il pallore della morte.

- T-Tu… non è possibile… dovresti… essere morto… ho visto personalmente la Croix du Lac che ti uccideva… c-che cosa sei?

Guardai la mamma, che fissava la mano di quel cavaliere. Il sigillo sul suo guanto era ben visibile. D’improvviso, impallidì anche lei, tremando.

- N-Non…

Papà rispose al professore, con voce bassa e controllata.

- Hai visto una parte soltanto, Lionhart. E ti sei perso la parte migliore. Effettivamente, quella volta è accaduto qualcosa. Credevo davvero di essere morto, ma quando mi sono risvegliato, nel luogo dell’esilio, totalmente solo e privo di qualunque appiglio con il nostro mondo, la sola cosa che mi era rimasta era il Thurs. Sai cosa significa, vero?

- Il Thurs… non è possibile…

La mamma portò le mani alla bocca. Stava lottando con tutte le sue forze contro la razionalità che le diceva che quello che stava accadendo non poteva essere vero.

- Protezione…

- E rigenerazione. Sono ancora vivo grazie a esso. E ora sono tornato per riprendermi tutto ciò che mi è stato sottratto.

- T-Tu sei un demonio!

Incalzò il professore, terrorizzato, mentre cercava di scansarsi.

- Un demonio?

La voce di papà aveva assunto una nuova sfumatura, quasi divertita.

- No, Lionhart. E’ qui che sbagli. Sono la stessa persona che avevi davanti diciassette anni fa, ma con una ragione in più per farti fuori, ora.

Affondò la lama a pochi millimetri dal viso del professore, che urlò terrorizzato.

- V-Vuoi uccidermi?! T-Tu…

- Ucciderti ora, in questo tuo stato alterato di mente, non mi darebbe alcuna soddisfazione. Ma sta’ tranquillo, verrò a reclamare la tua patetica esistenza non appena mi si presenterà la prossima occasione. E allora, pagherai per ciò che hai fatto ai Delacroix, a Gregor e soprattutto, alla mia famiglia.

Trasalii nel sentire quelle parole. Gregor era il padre di Shemar, lo ricordavo… ma i Delacroix? Che significava? La mamma non riuscì più a trattenere le lacrime. La strinsi forte, guardando mio padre mentre sfilava la spada da terra, chinandosi sul professore.

- Va’ via e goditi i tuoi ultimi, ignobili istanti con la consapevolezza che il tuo peggior incubo è tornato.

Sibilò. Il professor Warren era tutto un fremito, oramai totalmente scombinato. Col terrore ancora ben visibile sul volto, si scostò.

- G-Greal…

Biascicò, guardandoci, per poi alzarsi traballando e fuggire, lasciando persino la sua spada abbandonata sul pavimento marmoreo. Respirai, finalmente, quando scomparve dalla nostra vista. Certo, non mi sarei mai aspettata una reazione tale da parte sua. Era sempre stato così controllato, ma la sua insanità mentale doveva essere latente, al punto da esplodere in maniera tanto violenta dopo quello shock. La mamma mosse un passo incerta verso papà, ancora chinato.

- Mamma…

Le sussurrai, rassicurandola. Lei mi guardò sconcertata. Aveva appena realizzato che sapevo chi fosse quell’uomo. Papà invece si alzò, lasciando cadere la maschera e riponendo la spada nel suo fodero.

- Passa il tempo, ma la tua capacità di sfidare a testa alta il pericolo è rimasta tale e quale, Celia.

Disse, dandoci ancora le spalle. La mamma ebbe un tuffo al cuore, cercando di raggranellare un po’ di autocontrollo. Sul suo viso spuntò un accennato sorriso di sfida.

- Si dà il caso che il pericolo non mi abbia mai spaventata… al contrario, adoro ciò che è pericoloso e tu dovresti saperlo meglio di chiunque altro.

Feci un passo indietro, guardandoli. Così vicini, dopo una vita lunga come un’eternità trascorsa lontani l’uno dall’altra. Quando papà si voltò, privo della maschera, con quegli occhi d’ametista inconfondibili che avevano assunto una sfumatura di profonda umanità nel vedere il volto tanto amato e desiderato della mamma, sentii la voce rotta dall’emozione di mia madre.

- Greal!

Fu un sussurro che urlava gioia, incredulità e trepidazione. In un attimo, fu tra le sue forti braccia e lui la strinse come soltanto un uomo che aveva appena ritrovato la sua stessa ragione di vita poteva fare. Papà sorrise, pronunciando il nome della mamma con devozione.

In tutti quegli anni, la mamma non aveva mai preso in considerazione l’idea di conoscere altri uomini. Avrebbe potuto, certo, ma ogni qualvolta un uomo le faceva il filo, lei glissava o declinava qualunque avance. Non avendo mai avuto un padre accanto, per giunta, ero arrivata a non pormi nemmeno il problema e pensavo che in fondo, alla mamma non servisse nessuno, forte e indipendente com’era. Ma in quel momento, vederla piangere di gioia tra le braccia di papà, il solo uomo che aveva amato nella sua vita, mi fece ricredere. La mamma non aveva bisogno di un uomo qualunque accanto a sé. Aveva bisogno di lui, il re della mia storia, il suo primo, grande amore. Lo accarezzò a lungo, riscoprendo quel viso così caro e carezzando persino i lunghi capelli brizzolati che portava ancora intrecciati. La sentii ridere sommessamente e bisbigliargli qualcosa, teneramente. Papà si lasciò esaminare pazientemente, facendole notare come avesse accorciato di tanto i suoi capelli biondi al punto da essere diversa da come la ricordava. E quando finalmente si scambiarono quel bacio che attendevano entrambi da così tanto tempo, il mio cuore scoppiò di felicità… e anche di inaspettato imbarazzo. Dopotutto, non avevo mai visto la mamma baciare nessuno prima d’allora, e anche se era mio padre… beh, non ero abituata a qualcosa del genere. Guardai volutamente in alto, poi in basso, poi un po’ dappertutto, ma la mamma mi richiamò.

- Signorina!

- E-Eh? Dici a me, mamma?

Domandai, arrossendo.

- C’è qualcosa che dovresti dirmi?

Inarcò il sopracciglio, con un’aria che doveva essere quantomai severa, ma che era visibilmente falsata da tutta la gioia che stava provando in quel momento. Papà si lasciò sfuggire un “Mpf”, poi guardò la mamma.

- Andiamo via di qui, prima che arrivino altre perdite di tempo. I compagni di Cartwright e di Vanbrugh ci attendono all’esterno assieme ai ragazzi che sono già usciti e a quanto pare, un aiuto è giunto anche da Wiesen.

- Da Wiesen?

Feci eco a papà. Poi capii. E sperai che tra i ragazzi Damien e i piccoli fossero già fuori.

- Ma certo, dev’essere stato Lord Oliphant!

Esclamai, rallegrandomi.

- Lord Oliphant?

Domandò la mamma, stupita. Evidentemente non si aspettava nulla del genere. Poi però tornò a guardare papà.

- Greal, ascolta… Arabella è…

- Lo so. Ora come ora non possiamo fare nulla. Pianificheremo una strategia una volta al sicuro. Per adesso, questo è il solo luogo in cui lei non è in pericolo.

La mamma annuì, poi mi tese la mano.

- Andiamo, Aurore!

- Arrivo! Soltanto un istante…

Mi chinai a raccogliere la spada che il professor Warren aveva abbandonato prima di scappare via e corsi da loro, prendendo la mano della mamma, che mi sorrise dolcemente. Aveva gli occhi ancora umidi per il pianto, ma erano così lucenti, vivi per la grande felicità che aveva appena provato.

- La spada di Lionhart…

Mi fece notare.

- La darò a Damien, non appena ci rivedremo. So che odia suo padre, ma se c’è qualcuno che può redimere questa lama, quello è solo lui.

Papà mi accarezzò in testa, poi ci guardò entrambe e riprese la sua maschera, mettendola sul viso.

- Lughoir ci aspetta al balcone delle tue stanze, Celia.

- Non mi dire, Lughoir è ancora vivo?

Gli domandò, mentre correvamo verso le stanze della mamma.

- Un po’ invecchiato, ma sì.

- Come il suo padrone…

Lo punzecchiò, divertita.

- Mi mancava il tuo sarcasmo.

- Non lo metto in dubbio!

- Ehm…

Si erano rivisti da così poco e già si davano all’ironia… avevo appena avuto la conferma ufficiale che quei due erano gli antipodi per eccellenza. Quando arrivammo vicino alle stanze della mamma, vedemmo altre guardie.

- Dovevano proprio aumentare così tanto la sicurezza?

Mormorò la mamma.

- State indietro. Me ne occupo io.

Disse papà, sguainando nuovamente la sua spada.

- Stai attento, papà!

Papà sogghignò.

- Resta con tua madre.

Sollevò la lama, pronto a battersi non appena le guardie ci videro.

- Il Cavaliere Nero?! Con Lady Cerulea?!

Esclamò una di esse.

- Se lo catturiamo avremo di certo un avanzamento di carriera!

Si fece i conti un’altra. Allettate dall’idea, ci corsero incontro.

Era un manipolo di circa dieci persone che papà sbaragliò una dopo l’altra. Ne rimase solo una, l’unica in grado di tenergli testa. Ma quando vidi meglio il sigillo sul guanto di quella guardia, mi venne un colpo. Il giglio ambrato era ben evidente.

- Papà fermati! Quello è Shemar!

Gridai, affidando la spada del professore alla mamma e correndo verso di loro.

- Shemar?

Papà si fermò immediatamente, così come fece Shemar. Tolse la maschera, guardandomi in tralice, così come fece papà.

- S-Signorina Aurore?

- Shemar, grazie al cielo!

Esclamai, correndo ad abbracciarlo. Lui mi cinse con un braccio, stupefatto, soprattutto quando alzò lo sguardo verso i miei genitori.

- C-Che significa?

Domandò, non so se più a me che a loro. Papà notò la spada che Shemar portava con sé.

- Dunque tu sei il figlio di Gregor.

Disse.

- S-Sì… m-ma voi… com’è possibile? Signorina Aurore, che prodigio è questo?

Gli sorrisi.

- Nessun prodigio, Shemar… è mio padre… il Cavaliere Nero è Greal Valdes…

Shemar sembrava non darsi pace. Guardava me e poi papà, alla ricerca di una spiegazione. Papà gli posò la mano sulla spalla. Appariva serio e impassibile, ma c’era qualcosa nel suo sguardo che sembrava ricordargli il passato. Gregor doveva essere stato una persona importante per lui.

- Sono davvero felice di vederti di nuovo, Shemar. Eri un bambino diciassette anni fa e ora sei un uomo temerario e valoroso, proprio come Gregor desiderava. Tuo padre sarebbe stato fiero di te.

Shemar spalancò gli occhi della calda sfumatura dell’ambra, rimanendoci di stucco. Lo vidi esitare, lottando contro l’abituale compostezza del soldato. E poi, quando mi scostai, si inchinò dinnanzi a mio padre.

- Lord Valdes, voi che siete stato il più prezioso compagno di mio padre…  per me è un onore sentire queste parole. Ma soprattutto, ringrazio i numi di Shelton di rivedervi in vita.

Il più prezioso compagno di mio padre. Guardai papà, che tese la mano a Shemar affinché si rialzasse. La accettò di buon grado, sebbene un po’ impacciatamente.

- Ho rinunciato al titolo molti anni fa, Shemar. Chiamami soltanto Greal. E grazie per aver protetto mia figlia.

Shemar annuì, nonostante il rossore accennato sulle sue guance testimoniasse una vena d’imbarazzo. Evidentemente non era abituato a osservazioni del genere e alla confidenza. Mi guardò, rivolgendomi un sorriso che ricambiai.

- Se solo avessi saputo prima che la signorina Aurore era vostra figlia… numi, certo che il destino è strano.

- Puoi dirlo forte, Shemar!

Convenni. La mamma si avvicinò.

- Scusate se interrompo questo momento… sarà meglio andare.

Papà annuì.

- Perdonate se ve lo chiedo, ma Amber?

- E’ con Blaez, Shemar! Si sono diretti al foyer della sala dei concerti!

Shemar impallidì.

- Cosa? Con la scossa di prima diverse unità vi si sono dirette per controllare le varie ali del palazzo e anche lì ce ne sono diverse.

- Eh? Q-Quindi c’è il rischio che Amber e Blaez abbiano incrociato le guardie?!

Shemar si agitò, contemplando quell’idea con paura. Comprendevo la sua reazione e mi ritrovai anch’io a temere per le sorti dei nostri amici. Certo, Blaez aveva dimostrato di sapersi battere, ma c’erano sia Ruben che Damien… da solo sarebbe stato altrettanto in gamba? E Amber, nonostante fosse in grado di maneggiare la spada tanto quanto mia madre, avrebbe potuto contrastare un numero sicuramente maggiore di guardie addestrate a tutto?

- Shemar, vieni con me. Andremo noi due.

Disse papà. Shemar annuì.

- Celia, Aurore, voi prendete Lughoir e allontanatevi da qui. Ci rivediamo fuori dal palazzo.

- Va bene.

Rispose la mamma, prendendomi per mano.  

- No.

Contestai io, suscitando la contrarietà dei miei genitori.

- Andrò io con Shemar! Amber è una mia cara amica e voglio essere io ad aiutarla!

- Aurore, non è il momento di prendere decisioni del genere! Lascia che sia tuo padre a occuparsene!

Mi rimproverò la mamma.

- Tu volevi restare con Arabella per proteggerla, mamma! Amber ha messo a rischio la sua stessa vita per proteggere la mia ed è ora che ricambi ciò che ha fatto per me!

Scostai la mano dalla sua presa, afferrando la spada del professor Warren.

- Lo so che è da matti, ma non riesco a non pensare che lei si è esposta in prima persona per me! Se adesso mi limitassi soltanto a mettere in salvo la mia vita non potrei neanche più tollerare l’idea di guardarla in faccia! Amber è stata la mia prima amica in questo mondo… lei non sapeva niente di chi fossi, eppure mi ha protetta e mi ha voluto bene come se fossi parte della sua stessa famiglia! Si è fidata di me e io ora non me la sento proprio di mettermi in salvo sapendo che lei potrebbe essere in pericolo! Mamma, sai quanto è importante… e anche tu papà, se fossi al mio posto non faresti lo stesso?!

Sparai quelle parole tutto d’un fiato. La mamma sospirò.

- Dannazione, Aurore, ma è possibile che tu sia così ostinata, figlia mia?

Domandò. Papà mi fissò gelido. Nonostante in quel momento fossi stata invasa da un terrore sacro, cercai di non distogliere lo sguardo.

- Celia.

- Eh?

Gli fece eco la mamma.

- Alla sua età eri molto peggio.

- Tsk… bel modo di darmi una mano, Greal…

Bofonchiò, stupita da quell’osservazione. Sia Shemar che io eravamo senza parole.

- Mpf. Ascoltami bene, Aurore. Non azzardarti ad allontanarti da Shemar. E tu, Shemar…

- Sì, Milord, ho capito. Signorina?

Sorrisi, entusiasta annuendo a entrambi.

- Ci rivediamo fuori di qui!

Esclamai, per poi prendere la mano di Shemar e allontanarci, il più velocemente possibile. Certo, sapevo che non sarebbe finita là e che prima o poi mi sarei ritrovata a dover dare conto di quella mia improvvisa decisione. Mentre percorrevamo corridoi e scale incrociammo diverse guardie. Shemar le abbattè una dopo l’altra, dimostrando il coraggio di un leone. Il suo desiderio di raggiungere Amber il prima possibile lo rendeva più spericolato e indomito di quanto fosse abitualmente. E quando finalmente giungemmo al foyer, vedemmo Blaez, Amber e Leandrus che stavano ancora duellando contro delle guardie, utilizzando quello che avevano trovato nel foyer.

- Ragazzi!

Gridai.

- Aurore, Shemar!

Amber affondò un colpo sicuro contro il suo avversario tirandogli addosso un vaso di ceramica che andò in mille pezzi. Era un peccato per quel cimelio, ma avrei fatto la stessa cosa al suo posto. E quando finalmente riuscimmo a mettere k.o. gli ultimi opponenti, Amber abbracciò forte Shemar, sollevata, sotto gli occhi piangenti di Leandrus. Blaez lo afferrò per la collottola, lanciando uno sguardo grato al cugino, che sorrise, per poi guardare nuovamente la sua Amber.

- Ero certa che saresti arrivato, Shemar!

Dichiarò, felice.

- Ti cercavo, ma se non fosse stato per la signorina Aurore, non sarei riuscito a trovarti…

- Allora grazie, Aurore…

Mi disse, sorridendo gentilmente. Arrossii.

- Di nulla, Amber! Anzi… temevo che foste in pericolo… ma vedo che vi siete difesi bene…

- E’ merito di Blaez e Leandrus.

Mi fece notare. I due si scambiarono un’occhiata complice.

- Leandrus, anche tu qui?

Gli domandai.

- Certo, non potevo mica lasciare Blaez e Amber da soli. E’ stato Warren a dirmi dov’erano.

- Quindi l’hai incontrato!

- Perché? Tu no?

- S-Sì, certo, ma… voglio dire, è qui fuori, giusto?

Leandrus annuì.

- Ed è anche piuttosto… aspetta, com’è che l’ha definito la vostra amica? Credo che la parola sia “sclerato”.

Mi misi a ridere. Solo Violet poteva definirlo in quel modo.

- Che ne dite di andare? Amber, non vedo l’ora di presentarti una persona!

Le dissi.

- Una persona?

Mi chiese. Shemar sorrise.

- Credo proprio che ti piacerà.

E così, utilizzando il passaggio che dal foyer portava verso l’esterno, sbucammo all’esterno, proprio nei pressi della cancellata perimetrale che si alternava al muro, in quell’area del parco. Shemar e Blaez ci aiutarono, mentre Leandrus controllò che non ci fosse nessuno di guardia. Poi, una volta orientatici, Shemar alzò gli occhi al cielo, indicando Lughoir, Valls e gli altri grifoni che volavano a pochi metri da noi.

- Andiamo!

Ordinò e annuimmo. Corremmo verso di loro, raggiungendo uno spiazzo attraverso una zona fittamente alberata.

- Mamma, papà! Damien!

Gridai, quando fummo sotto di loro. Leandrus e Shemar fischiettarono e sia Hezekiel che Varon lasciarono il gruppo, scendendo verso di noi. Papà spronò Lughoir, raggiungendoci e Damien fece altrimenti. Su, in aria, Violet ci fece cenno col braccio. Era assieme a Ruben in groppa a Valls. Ricambiai il suo saluto, e poco dopo, anche Eyde ci raggiunse.

- Come state?

Domandò.

- Stiamo tutti bene!

Esclamai, rassicurandoli. Damien, che davanti a sé aveva Jamie, sorrise compiaciuto. Sollevai la spada, mostrandogliela trionfante. Dapprima non capì, poi scosse la testa.

- Tu sei matta, Kensington.

- E un Despota che si rispetti deve avere una propria spada. Sii riconoscente, Warren!

Gli risposi.

- Andiamo!

Ordinò papà e la mamma si voltò verso il palazzo, dando un’ultima occhiata al luogo in cui aveva ritrovato sia Arabella che il suo amore perduto. Montammo tutti in groppa ai grifoni, e io salii con Eyde, che mi salutò col pollice recto e con l’occhiolino. E notai che nessuno pareva stupito del fatto che mio padre fosse lì, in quel momento. Evidentemente, nel tempo trascorso da quando ci eravamo separati a quando Shemar e io avevamo trovato Amber e gli altri, avevano scoperto che dietro alla maschera del Cavaliere Nero si nascondeva Greal Valdes. I soli che erano rimasti meravigliati quando lo dissi loro, in quel momento, erano proprio Amber, Blaez e Leandrus.

- N-Non è possibile… v-voi siete davvero Greal Valdes?

Domandò Leandrus, stropicciando gli occhi mentre tirava le redini di Hezekiel. Blaez, dietro di lui, sembrava stare ricollegando i pezzi. Amber mi guardò allibita, ma contenta.

- Era questa la sorpresa, Aurore?

Annuii.

- Già!

- Bando alle ciance adesso, andiamocene via di qui!

Esclamò Damien e ci alzammo finalmente in volo. Oramai eravamo a diversi metri d’altezza, accingendoci a lasciare il palazzo, quando sentimmo un grido d’aiuto provenire da terra.

- Chi diavolo…

La mia ametista si mise a brillare, così come le gemme di Amber, di Rose e di Livia.

- Che succede?!

Chiese Rose, che spronava un grifone maculato portando con sé Livia.

- Non lasciatemi qui!

La voce di Amelia riecheggiò nell’aria e la vedemmo spuntare dai cespugli, disperata.

- E’ Amelia!

Dissi. Era stata la prima a scappare e pensavo che si fosse messa in salvo. Evidentemente, non era riuscita a fuggire e si era nascosta in attesa che qualcuno la notasse. Damien strinse i pugni attorno alle redini di Hibernia, che scalpitò.

- Stupida donna…

Borbottò.

- Vi scongiuro, portatemi con voi! Ho paura!

Gridò, e a giudicare dalla voce era davvero terrorizzata.

- Non possiamo lasciarla qui!

Dissi, sebbene avessi ancora negli occhi tutte le scorrettezze che aveva commesso fino a quel momento. Eppure, se Livia aveva accettato di passare dalla nostra parte, perché doveva essere diverso per Amelia? Anche se mi aveva portato via Damien e ne aveva scombinato i ricordi, non potevamo certo ignorarne la richiesta d’aiuto. Fu Amber fare la sua mossa, e sia lei che Shemar la raggiunsero.

- Andiamo, Amelia! Stai tranquilla!

Le disse, tendendole la mano. Amelia sembrava devastata e scoppiò a piangere. Io guardai Damien, che guardava la scena senza esprimere emozione. Anche se aveva dimostrato di non provare nulla di che per Amelia dopo che i suoi ricordi erano tornati, mi chiesi cosa si nascondesse dietro quella maschera inespressiva. E poi Amelia prese la mano di Amber, che fece per tirarla su. Sospirai, tranquillizzandomi, ma durò poco. Amelia passò dal pianto convulso a una risata inquietante e lasciandoci tutti impietriti, tirò giù Amber, trascinandola a terra con un forte strattone. Shemar cercò di afferrarla, ma non ci riuscì per un soffio. Amber gemette. Evidentemente nel cadere si era fatta male.

- Amber!

Urlammo.

- Amelia, che stai facendo?!

Sbottò Amber, cercando di farle mollare la presa. Shemar saltò giù, sguainando la sua spada.

- Lasciate andare Amber immediatamente, Amelia Dobrée!

Gridò, fuori di sé. Amelia continuava a ridere. Afferrò i lunghi capelli biondi di Amber, tirandoli e la mia amica urlò di dolore. Tutti noi facemmo per scendere, ma chi era al galoppo si bloccò di colpo. Dietro Amelia, convergendo dalla boscaglia, comparve una moltitudine di guardie imperiali che ci puntò contro delle frecce. Al centro, scortata da alcune guardie che riconobbi come la guardia personale della Croix du Lac, vidi niente poco di meno che lei. Senza Liger al fianco, tornata padrona del corpo di mia sorella, la Croix du Lac raggiunse Amelia e Amber.

- Grazie, Amelia. Anche se avrei preferito direttamente avere Aurore.

Sollevò lo sguardo, sorridendo sinistramente. Lughoir scalpitò e io strinsi forte Eyde. Amber…

- Mai, Croix du Lac! Non l’avrai mai!

La contestò Amber. Amelia le tirò più forte i capelli, poi la spinse a terra con la gamba tesa, proprio vicino alla Croix du Lac. Lei la guardò di sottecchi, mentre Shemar cercò di intervenire, subito fermato da Amber che gli intimò di andare via.

- I miei cari traditori.

Poi notò papà e inclinò la testa, perplessa.

- Il Cavaliere Nero? Che piacevole sorpresa... non vedo l’ora di strapparti quel Thurs dal petto.

Papà digrignò i denti e la mamma si strinse più forte a lui. La Croix du Lac si mise a ridere divertita, dando prova inconfutabile di aver riconosciuto mio padre, poi si voltò verso le guardie.

- Shemar, adesso, scappa!

Ordinò Amber, con tutto il fiato che aveva in gola. Nonostante fosse a terra, totalmente inerme nelle mani di Amelia, aveva ancora la forza di pensare al suo cavaliere.

- Amber, non…

- Vai! E’ un ordine della tua Lady, Shemar Lambert! Non discuterlo!

Urlò, risoluta nonostante la disperazione. Shemar, lottando contro l’istinto che l’avrebbe spinto a dare la sua stessa vita per la sua Amber, fu costretto a obbedire a quell’ordine. Anche se le circostanze erano quelle che erano, Amber desiderava che almeno Shemar si mettesse in salvo. Quale prova d’amore gli stava dando in quel momento? Quell’ordine, per quanto fosse contestabile, in quel momento era la dichiarazione di una ragazza che non voleva perdere il suo amato.

- Amber…

Mormorai, sentendo le lacrime che mi pungevano gli occhi con veemenza. Shemar salì in groppa a Varon e in pochi istanti fu a mezz’aria, fissando Amber, che a sua volta, non distolse lo sguardo da lui. Sorrise tra le lacrime, poi ci guardò.

- Amber!!

Urlai, nello stesso istante in cui la Croix du Lac ordinò di scoccare le frecce. Fu questione di pochi secondi e una pioggia di dardi scintillanti si alzò verso il cielo oscuro. Si alzarono urla, alcuni di noi furono colpiti, tra cui lo stesso Shemar, che era poco più in basso. Le voci erano convulse e presto si mischiarono ai battiti d’ali. Spronati a tutta potenza, i grifoni puntarono all’esterno. Lontano da Amber, lontano da Amelia, dal professor Warren, dalla Croix du Lac… mi voltai appena e in cima alla torre principale del palazzo di diamante, con le mani appoggiate alla balaustra, coi lunghi capelli che ondeggiavano nell’aria notturna in contrasto col bianco candido dei suoi abiti, vidi Liger. Sgranai gli occhi, mentre man mano che ci allontanavamo, la sua figura sbiadì nella notte, sino a scomparire.

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Capitolo 44
*** XVII - Braccati nell'oscurità ***


Konbanwa, minna-san!! <3 Come state? Chiedo scusa per il ritardo, ma davvero, questo periodo si sta rivelando parecchio impegnativo... ergo, mi scuso già da ora perché aspetterò ancora a pubblicare oltre, vorrei poter scrivere il penultimo capitolo, ma nonostante abbia idee che non dovrei avere per via dello studio più importante, non ho nemmeno tempo per mettermi a scrivere decentemente... ç_ç Vorrei scusarmi anche con Taiga-chan e con TheDarkness... ragazzi, ho letto (santo cellulare) i vostri stupendi capitoli, ma al momento mi è difficile aver tempo di recensire, cercherò di farlo appena mi sarà possibile, scusate davvero! ç_ç E un grazie di cuore per esserci sempre, vi adoro!! Grazie anche alla carinissima Red Rose che spero di risentire, e poi boh, che dire... capitolo di transizione, tutt'uno! Preparatevi perché dal prossimo ci sarà un momentaneo cambio di voce al timone! <3 Taiga-chan ha già capito, eh? <3 Spero che intanto questo vi piaccia, è un po' forte, forse... in attesa del tuffo nel passato! <3

Alla prossima, buona lettura! :)

 

 

 

 

 

Non so dire per quanto tempo volammo, quella notte. Tutti insieme, impegnati a fuggire, proprio come nel mio incubo. La differenza era che non stavamo correndo a piedi. Sotto di noi, man mano che sorvolavamo città e paesi, laddove vi era vita, era tutta riversata per le strade. La forte scossa che aveva tramortito Adamantio era stata udita ovunque. In alcune zone si erano verificati addirittura incendi e diverse aree erano rimaste prive di energia. Quell’oscurità ci servì a mimetizzarci, nonostante parve che non fossimo inseguiti. Ma sebbene non ci fosse quel tipo di pericolo, c’era un rischio ben peggiore. Fu papà a venirne a capo, abbattendo i messi della Croix du Lac che incrociavamo lungo il cammino. Intanto, sia Shemar che Einer e persino Leandrus avevano riportato alcune ferite. Anche i grifoni erano stati colpiti, tanto che in alcune occasioni fu necessario aiuto per proseguire. A un certo punto, papà, che guidava la nostra carovana di fuggiaschi, si bloccò.

- Greal, che succede?!

Domandò la mamma.

Anche noi, dietro di loro, facemmo altrimenti. La mia preoccupazione tuttavia, era per le condizioni di Shemar, che al di là delle ferite fisiche, sembrava stravolto.

- C’è qualcuno di fronte a noi.

Disse papà. I ragazzi si sporsero per vedere meglio. Ma a dire il vero, nessuno di noi riuscì a vedere tanto. Ma per papà era diverso. Aveva trascorso lunghi anni in un luogo d’oscurità al punto da essere in grado di percepire quantomeno, la presenza di qualcuno. Poi, sorprendentemente, Micheu Joel, assieme a Hiram, ci raggiunse.

- Micheu, Hiram!

Esclamai, incredula.

- Felice di rivedervi. Ho l’ordine di scortarvi in un luogo protetto.

Disse. Hiram ci si avvicinò, affiancando Shemar.

- Shemar, come stai?

Domandò, posandogli la mano sulla spalla. Shemar guardò il giovane servo di Amber, in pena. Hiram se ne rese conto, poi mi guardò.

- Dov’è Milady?

Ricambiai lo sguardo, temendo tuttavia, al pensiero di dovergli rispondere. Hiram era sempre silenzioso e riflessivo, e la sua fedeltà ad Amber era incrollabile. Per questo motivo, come avrebbe preso la notizia della cattura della sua Lady? Blaez, che aveva scambiato il suo posto con quello di Leandrus, rispose per me.

- E’ stata catturata da Amelia e della guardia imperiale.

Spiegò, essenzialmente. Hiram rimase turbato da quelle parole e lo vidi stringere con forza le redini del suo grifone. Fu Shemar a rincuorarlo e in qualche modo, le sue parole servirono anche a noi.

- La riporterò a casa, a qualunque costo.

- Prima pensiamo alle tue ferite, Shemar.

Gli fece notare papà.

- I-Io non…

Damien fu più veloce.

- Primo. Da morto non servi a nulla. Sei stato tu a dirmelo. E se pensi di rimangiartelo ora per lanciarti in un’azione suicida, allora finirai per essere uno stupido ipocrita che al massimo si ritroverà un epitaffio sulla tomba.

Ci rivolgemmo tutti verso Damien, increduli. Shemar era addirittura allibito.

- Sarà meglio non contrariare il despota

Fece Eco Violet. Io annuii. Poi papà parlò a Micheu, dopo aver tolto la propria maschera.

- Siete il cavaliere di Lord Oliphant, non è così?

Micheu assentì.

- Non avrei mai pensato che sotto la maschera del Cavaliere Nero si nascondesse l’uomo che ha gettato l’Underworld nell’oscurità.

Quelle parole ci indisposero. La mamma sbottò.

- Greal non ha fatto niente del genere! E’ stata tutta colpa di Ademar!

Micheu non dette cenno di reazione e fu papà a parlare.

- Ho le mie colpe, lo ammetto. Sono stato una guardia imperiale e ho ucciso molti uomini in passato, ma rispetto alle accuse che mi sono state rivolte, anni fa come ora, lo ribadisco. Sono innocente. Ora, Micheu Joel. Premettendo che non è la sede adatta a condurre il processo che mi fu impartito sommariamente anni fa, e considerando che nonostante ciò che vi è accaduto, siete qui, ora e non ad Adamantio, ditemi… avete già individuato un nascondiglio?

Guardai papà stupita. Nonostante Micheu gli si fosse rivolto in quel modo, non reagì, ma si limitò semplicemente a rispondere con calma. Micheu posò la mano sul petto.

- Naturalmente, Milord. Seguitemi, per favore.

Papà spronò Lughoir e al seguito di Micheu, giungemmo nei pressi di un casino da caccia prossimo alla foresta, grande abbastanza da ospitarci, e lontano dai centri abitati. Quando smontammo, finalmente, Damien e Hiram sostennero Shemar, che diversamente sarebbe caduto non appena messi i piedi a terra. Blaez si sincerò dell’integrità di Leandrus, così come Ruben che aiutò Einer. Quel gesto, da parte di Blaez e Ruben, mi fece capire quanto fosse importante per loro la fratellanza, in un certo senso. Shemar aveva difficoltà a comprendere cosa significasse l’amicizia, probabilmente per il suo stile di vita, ma fu proprio ciò che trasparve in quel momento. Io ne approfittai per raggiungere Livia, mentre la mamma e Rose guardavano la costruzione. Era piuttosto vecchia, legno e mattoni messi insieme, e non ispirava particolare sicurezza. Un tempo, tuttavia, a giudicare dalla struttura piuttosto bucolica nonostante la decadenza, doveva essere stato un bel luogo. Presumibilmente, l’abbandono in cui verteva era l’ideale, almeno come primo luogo di ricovero. Quando fui vicino a Livia, vidi che stava sfregava le braccia..

- Hai freddo, Livia?

Non mi guardò, ma continuò nella sua opera.

- No. Mi sto soltanto proteggendo dalle zanzare.

- Eh? Anche qui ci sono le zanzare?

Domandai, guardandomi intorno. Livia borbottò.

- Naturalmente, sciocca.

Colpita, inarcai un sopracciglio. Possibile che non perdesse occasione per insultarmi? Era davvero insopportabile quando voleva.

- Beh, sappi che anche nel mio mondo ce ne sono e sono davvero fastidiose!

Esclamai, cercando di attirarne l’attenzione.

- E’ un peccato che non ti infastidiscano a morte, allora.

Deglutii. Pazienza, Aurore, pazienza.

- A quanto pare hanno gusti migliori.

- Oh, questo non lo metto in dubbio.

Mi morsi la lingua. Quella ragazzina aveva sempre la battuta pronta e per di più era più acida di uno yogurt scaduto. Mi chiesi se saremmo mai andate d’accordo.

- Proprio non ti piaccio, eh?

Livia smise di sfregarsi le braccia, poi sollevò il viso verso di me.

- No. Non capisco cosa ci trovi in te la Croix du Lac. E a dirla tutta, nemmeno cosa ci trovi Jamie. Sei una ragazzina immatura, irresponsabile, sputasentenze e noiosa. Questo tanto per cominciare.

Boccheggiai senza parole. Sapevo di avere tanti difetti, ma sentirmeli sparare in faccia da una mocciosa che mi aveva per giunta definita ragazzina… presi un enorme respiro e feci qualcosa che non mi sarei mai aspettata di poter fare. La tirai per l’orecchio.

- A-Ahi! Che stai facendo?!

Sbraitò. Violet e Jamie ci videro e accorsero.

- Aurore!

Esclamò Violet, dubbiosa.

- Livia, che le hai detto stavolta?

Chiese invece Jamie.

- Soltanto la verità! E me ne dà prova! Lasciami, mi fai male!

Sbottò, lamentandosi. La mollai, guardandola severamente. Quando aveva torturato Damien non era stata certo tanto infantile. E nemmeno quando aveva accusato ingiustamente il Cavaliere Nero di aver perpetrato un massacro.

- Senti un po’, Livia Devereaux! E’ facile accusare chi non si conosce. Tu non sai niente di me, eppure hai cercato prima di attirarci in trappola, poi di incastrarmi e ora mi insulti a destra e a manca. So benissimo di avere difetti in quantità industriale, ma non accetto prediche da una ragazzina che non sa nemmeno chiedere qualcosa senza tirare fuori gli artigli! Se c’è un’immatura tra noi, quella sei proprio tu!

Livia, massaggiandosi l’orecchio, mi guardò a bocca aperta. Violet sospirò, mentre Jamie si mise a ridere.

- Sembra proprio che ti abbia azzittita, Livia.

Livia gli lanciò un’occhiataccia.

- Mi ha dato dell’immatura…

Jamie annuì.

- Io ti sembro immatura?

Sbottò.

Jamie ci riflettè su.

- Beh, diciamo che devi ancora crescere…

- Jamie…

Intervenni io.

Livia mi scoccò uno sguardo contrariato.

- Non interrompermi.

- Livia!

Sbottai.

- E’ tipico di una persona immatura interrompere gli altri mentre parlano.

- Se è per questo dovevi rispondere a me al posto di Jamie.

- Niente affatto! E’ stato lui a rivolgermi la parola.

Poi ci pensò.

- Questo significa che… è Jamie a essere immaturo.

Disse. Jamie sbattè le palpebre.

- I-Io? Non ho fatto niente!

- Sì invece! Hai parlato!

- Dovevo stare zitto?

Jamie aggrottò le sopracciglia e Livia fece lo stesso. Entrambi si puntarono come due arieti pronti a incornarsi.

- Sì, non dovevi intrometterti!

- Scusa tanto se volevo venire in tuo aiuto!

- Non sei affatto venuto in mio aiuto!

- Non è così!

- Sì invece!

- Ti dico di no!

- E io di sì!

Sospirai, mettendo la mano in faccia e lasciando perdere quel battibecco. Erano due ragazzini entrambi, era quella la sola ipotesi possibile. Guardai Violet disperata, poi vidi che tutti gli altri, a eccezione di mio padre e Micheu erano già entrati. Lasciai quella discussione per avvicinarmi a loro, mentre Violet si tenne ben lungi dall’entrare nel merito.

- Cosa state facendo?

Domandai.

Papà si voltò verso di me.

- Al momento nulla. Stavo soltanto pensando che siamo nel territorio dei Delacroix.

- Davvero?

Mi guardai intorno, sebbene non riuscissi a vedere granché. Ciononostante, focalizzando meglio, mi accorsi che tutto attorno c’erano dei muretti, sebbene crollati in molte zone e c’era persino una stalla, a giudicare dai versi dei grifoni e dalle voci dei ragazzi di Ruben. Dunque quel casino doveva essere di proprietà dei Delacroix, la prima famiglia. Era davvero una strana sensazione. Pensai a Lady Octavia, che non conoscendo nulla di me, aveva la sensazione che discendessi da loro, cosa che infine, si era rivelata falsa.

- Doveva essere un bel posto un tempo… ma ora fa impressione… è spettrale…

- Non è il solo in queste condizioni, Lady.

Mi informò Micheu. Papà si guardò intorno.

- Papà… tu hai detto qualcosa riguardo ai Delacroix… e al professor Warren…

- Intendete Lionhart Warrenheim?

Annuii a Micheu, poi cercai la risposta da parte di mio padre.

- Chi è causa del suo mal pianga se stesso. Alla fine, per quanto possa biasimare me stesso, il fatto che avessi accettato di eseguire l’ordine di Ademar mi rende colpevole. Ma ciò che è stato compiuto in questo luogo è stato causato dalla lucida follia di Lionhart. E non ho nemmeno bisogno di chiudere gli occhi per vederlo ancora, con la spada intrisa del sangue della prima famiglia, ridere davanti alla devastazione.

- Ma come? Cosa c’entra Warrenheim con questa storia? Quel giorno, lui era a Chalange, in molti l’hanno visto e l’hanno testimoniato.

Replicò duramente Micheu. Ero basita. Era stato sufficiente un alibi creato basandosi su testimoni che avrebbero tranquillamente potuto mentire per marchiare mio padre come assassino? Strinsi i pugni, sentendo la rabbia montare dentro di me.

- E’ ingiusto! E totalmente sbagliato! Il prof--  Lionhart Warrenheim ha sempre mentito! Non sapevo chi fosse prima di incontrarlo a Darlington, nel mio liceo, ma lui ha mentito a tutti, a cominciare dai suoi stessi figli! Come potete anche soltanto aver creduto alle sue parole? E avete mai ascoltato le parole di mio padre prima di condannarlo?!

Micheu chinò appena la testa, rimanendo in silenzio.

- La prendo come un’ammissione di colpa, Micheu!

Papà mi guardò severamente.

- Non esprimere giudizi con tanta facilità, Aurore.

- Ma… !!

- Ora come ora, non c’è tempo per recriminare. Quando giungerà il momento, avrò la mia vendetta su Lionhart. E adesso, la sola cosa che mi interessa è trovare un modo per eliminare la Croix du Lac una volta per tutte, prima che Arabella le soccomba.

Rabbrividii al sol pensiero. E riflettei su ciò che si diceva di papà. Era determinato nel perseguire il suo obiettivo e non si perdeva in chiacchiere, ma andava direttamente al sodo. Implacabile, l’aveva definito Lord Oliphant. Micheu lo osservava.

- Avete qualcosa in mente, Milord?

Papà lo guardò con la coda dell’occhio.

- Sui testi più antichi è scritto che chi troverà tutte le Pièces avrà il potere di evocare la Croix du Lac.

Toccai la mia ametista, che emanava un fioco bagliore. E mi ricordai che Leandrus mi aveva fatto notare, poco gentilmente, che le Pièces non potevano essere al collo di una come me. Per giunta, Blaez sosteneva che suo nonno era tra i pochissimi rimasti in grado di conoscerne l’esatta ubicazione.

- Se le nostre pietre non sono le pietre originali… allora come mai funzionano? E perché dovrebbero evocare la Croix du Lac, dal momento che lei esiste già in questo mondo?

Chiesi, perplessa.

Papà mi guardò.

- Le pietre sono state ricavate dalle Pièces originali. Sono soltanto frammenti. Nessuno, a parte pochi che presumibilmente sono stati sterminati, ne conosce la vera ubicazione. E per rispondere alla tua domanda… domani, col favore della maggiore luce, ci recheremo a Chambord.

- C-Chambord?!

Esclamai, stupita. Chambord era sempre stato il mio castello francese preferito.

- A giudicare dalla tua reazione, sembra che tu conosca questo nome.

- S-Sì, ma non nell’Underworld

Confessai. Micheu era perplesso.

- Cosa volete andare a fare nella capitale fantasma dei Delacroix?

Per poco non mi venne un accidenti.

Papà, voltandosi e incamminandosi verso il casino, alzò lo sguardo.

- Trovare la Croix du Lac originale e distruggerla.

Deglutii. La Croix du Lac originale? Che significava questa storia ? Non potei chiedergli nulla di più, in quel momento, perché ci ordinò di andare. Quando varcammo la porta, finalmente vedemmo di nuovo un po’ di luce. Le imposte erano state sigillate dall’interno, per cui non ci sarebbe stato modo di essere avvistati, tuttavia dentro c’era un sistema d’illuminazione rudimentale, ma efficace. L’interno si componeva di pochi e scarni ambienti, tra cui una sorta di saletta con un tavolo e delle sedie in ferro, piuttosto malandate e delle nicchie in cui riporre le armi da caccia. Livia e Jamie osservavano le pareti, notando l’erba che intervallava qua e là i mattoni di pietra. Nella sala che immaginai fosse per le armi, la mamma e Violet stavano sistemando dei giacigli con delle coperte da cui man mano toglievano la polvere.

- Certo, non è il massimo contro le allergie…

Osservò Violet e la mamma convenne.

- Purtroppo ci si deve adeguare con quello che c’è. Ah, Aurore, vieni ad aiutarci!

Mi disse. Quando mi avvicinai, vidi una stanza con alcuni letti. Ruben, Damien e Blaez avevano portato lì Shemar, Leandrus ed Einer. Mi chinai per tirare le coperte.

- C’è un odore stantio… siamo sicuri che sia sicuro qui?

- Di certo è meglio che stare fuori.

Rispose Rose. Sollevai lo sguardo. Ci guardava con aria alquanto compunta, tenendo un fazzoletto davanti alla bocca.

- Che succede, Rose?

Domandai.

- Niente. Mi chiedevo solo come possa Lady Cerulea mettersi a sistemare giacigli come se niente fosse.

Guardai la mamma, così come fece Violet, senza capire. Che c’era di così strano? La mamma sorrise.

- Sai come si suol dire, Rose? Necessità aguzza l’ingegno. E comunque dopo tre figli e una vita da nomade ho imparato a fare di tutto.

Rose inarcò il sopracciglio.

- Francamente ritengo che sia tutto una gran seccatura.

Violet e io sbattemmo le palpebre.

- Dipende dai punti di vista. E comunque, avrei fatto di tutto per avere una vita più movimentata, per cui, mi va bene anche questo.

Disse la mamma, guardando verso papà. Lui se ne accorse e aggrottò le sopracciglia.

- Che c’è, Celia?

La mamma battè un paio di volte la mano sul giaciglio.

- Dovresti proprio tagliare quei capelli. Sembri uno yeti.

Rose inclinò la testa, perplessa, così come papà che cercò di dare un significato alle parole della mamma. Violet e io ci guardammo, incredule. E quando immaginai papà versione uomo delle nevi, con tanto di ascia in mano mentre minacciava tutti a destra e a manca, scoppiai a ridere.

- Uno yeti! Uno yeti, mamma?

- Che diamine è uno yeti?

Domandò Rose.

- Una sorta di essere mitologico a pelo lungo.

Violet sbuffò, cercando di non ridere, mentre io mi stavo letteralmente scompisciando, al punto che Livia e Jamie accorsero per conoscerne la ragione. Papà sospirò senza replicare, notando con disappunto l’espressione divertita della mamma. Persino Micheu mascherò l’ombra di un risolino.

- Sei sempre il solito antipatico. Aurore, sappilo. Tuo padre è del tutto privo di ciò che è comunemente chiamato senso dell’umorismo. E non perché l’abbia perso… è sempre stato un musone.

Livia guardò la mamma, poi me.

- Adesso capisco da chi hai preso la faccia tosta. Non credevo che ci fosse qualcuno in grado di parlare in questo modo del Cavaliere Nero e sopravvivere.

- Faccia tosta?

Ripetè la mamma. Deglutii, sudando freddo.

- Livia… al posto tuo starei zitta.

Jamie, Violet e Rose annuirono.

- Perché?

E quando si voltò, vedendo il sorriso serafico della mamma, affilò lo sguardo.

- Con me non attacca. Non sono una bambina.

- Oh… sei già una signorina?

Livia sgranò gli occhi, arrossendo fino alla punta dei capelli.

- M-M-Ma che domande fate?! Oh, numi, voi siete completamente…

La mamma inarcò il sopracciglio. Livia esitò.

- Completamente…

Jamie intanto cercava di capire perché Livia fosse così imbarazzata tutto d’un tratto. Violet, Rose e io ci guardammo.

- Allora, Livia?

Livia fece per rispondere qualcosa, ma un lamento strozzato proveniente dalla stanza in cui giacevano i feriti, la fece desistere.

- E’ Shemar!

Esclamai, preoccupata. Così, corsi a vedere, assieme a Rose che mi seguì. Pochi istanti dopo, eravamo tutti in quella stanza. Blaez e Ruben stavano cercando di pulire una profonda ferita in corrispondenza delle costole di Shemar, che giaceva seduto, a torso nudo. Non l’avevo mai visto in quel modo e vedere le cicatrici che portava sul petto mi fece quasi impressione. Quante ne aveva passate quel ragazzo? Per giunta, sentivo un forte odore d’alcool, tanto che mi stupii di dove l’avessero trovato.

- Che cos’è quest’odore?

Domandò Violet.

- Idromele fermentato.

Rispose Zarvos, passando delle bende imbevute di quel liquido a Blaez.

- Shemar, so che fa male, ma dobbiamo disinfettare.

- Lo so.

Rispose Shemar, affannato, cercando quasi di affondare le dita nel muro. La presa era talmente forte che le sue stesse nocche erano violacee. E l’aspetto della ferita non era da meno. Damien spiegò che la freccia che l’aveva colpito era schizzata di traverso, a causa dello sbilanciamento di Shemar e aveva lacerato la carne per almeno dieci centimetri. Per giunta, c’erano delle schegge incastrate e il rischio di contrarre un’infezione non era da escludere.

- Se solo avessimo degli antibiotici…

Osservai, preoccupata. E poi guardai Micheu.

- Pensi che potrebbe funzionare la cauterizzazione?

Micheu scosse la testa.

- Quella serve soltanto a cicatrizzare momentaneamente i tessuti. Se non fossi stato soccorso, non sarebbe bastata.

- Quindi ci serve aiuto…

Mormorai. Vidi Einer e Leandrus nei giacigli accanto a Shemar. A differenza sua, avevano riportato tagli più superficiali e guardavano con apprensione quello che stava accadendo. Mi sentii una stupida ad aver riso così sguaiatamente, poco prima. Quando Blaez passò sulla ferita di Shemar l’idromele, vidi il cavaliere di Amber stravolto. Inveì a denti stretti, con gli occhi fuori dalle orbite. Hiram si offrì di recarsi a prendere strumenti medici.

- Cosa serve, Lord Blaez?

Domandò.

- Una pinza sarebbe ben accetta. E soprattutto, unguento lenitivo e dei bendaggi.

A vederlo così, sbracciato e sicuro di sè, Blaez sarebbe potuto passare per un medico.

- Per i bendaggi ci penso io.

 Disse la mamma. Si allontanò per pochi istanti, poi tornò con una bisaccia.

- E quella?

- Ricordi che avevo chiesto ad Alizea di preparare di cambi e del cibo? Beh, Alizea è previdente.

Mi disse, raggiungendo Shemar.

- Vi aiuto.

Guardai papà che sembrava avere un’espressione perplessa. Mi chiesi cosa gli passasse per la testa in quel momento. Probabilmente, stava riflettendo su come la mamma fosse cambiata, in tutti quegli anni. Quante cose avevano da dirsi quei due, e ancora non avevano avuto la possibilità di farlo. Intanto, Ruben aveva contestato Blaez.

- Non abbiamo il tempo di cercare gli attrezzi giusti.

- Ma non possiamo certo cavargli quelle schegge con qualcosa di improvvisato. Rischierebbe la setticemia.

- Più passa il tempo, più le schegge vanno in profondità! Non possiamo rischiare di ledere organi, dobbiamo intervenire ora!

- Quei due potrebbero essere scritturati per dei serial tv sulla medicina…

Mormorò Violet, convinta.

- Già.

Convenne Damien.

In realtà, mentre i due discutevano, Shemar richiamò l’attenzione con un mugugno di disapprovazione.

- Voi due… non mi importa un accidente di cosa userete! Usate le mani, usate qualunque cosa, ma toglietemi queste schegge dannate perché possa raggiungere presto Amber!

Ruggì, imperioso.

Davanti allo stupore di tutti, fu papà a farsi avanti. Shemar e la mamma lo guardarono.

- Che vuoi fare, Greal?

Domandò la mamma.

- Toglietevi.

Ordinò. Ruben, Blaez e la mamma si spostarono, dubbiosi.

- Tu.

Disse, rivolgendosi a Zarvos, che scattò sull’attenti. Papà tolse sia il mantello che i guanti, porgendoli alla mamma. Dopo essersi sbracciato, si fece impregnare le mani di idromele. Quel che ne rimase, lo fece dare a Shemar.

- Bevilo. Non sarà piacevole, ma estrarrò io quelle schegge.

- Voi, Lord Valdes? E come?

Domandò Blaez, guardando preoccupato Shemar, che a sua volta, tenne lo sguardo fisso su mio padre. Poi assentì senza alcuna esitazione, tendendo la mano a Zarvos.

- Dammi quella borraccia.

Disse. Leandrus ed Einer deglutirono. A quanto pareva, non erano molto convinti. Shemar ebbe la borraccia, intanto, e trangugiò quel liquido dall’odore forte.

- Lady Cartwright.

Disse papà. Rose, che aveva un fazzoletto sulla bocca, alzò lo sguardo.

- Sì?

- Datemi lo spillone che avete sul mantello.

Rose si accigliò.

- Niente affatto! Quello è un regalo!

Ci voltammo verso di lei.

- Non guardatemi così, ci tengo.

Disse.

- Rose, è per Shemar! Vuoi forse che muoia?!

Protestai.

- Non eri tu quella che lo voleva a Bregenz?! Se muore, non ci sarà questa possibilità!

Rose mi scoccò un’occhiataccia, poi guardò Shemar, che nonostante il dolore, dava prova di grande resistenza e valore. Poi, Blaez si voltò verso di lei.

- Te ne regalerò uno più bello al tuo prossimo compleanno, te lo prometto.

A quel punto, sia io che Violet la guardammo incredule. Rose che teneva a un regalo… per giunta di Blaez? La Lady del rubino fece spallucce.

- Pretendo che tu lo faccia non appena torneremo a casa, Blaez.

Replicò. Poi, sospirando, andò a prendere lo spillone. I ragazzi di Ruben ridacchiarono.

- Però, sembra proprio che vi siate cacciato in un bel guaio, Lord Vanbrugh.

Gli fece notare Eyde. Blaez sorrise.

- E’ quello che succede quando si ha a che fare con un tipo come Rose. Ah, senza offesa, Ruben.

Ruben agitò la mano a mezz’aria.

- Tranquillo, conosco mia sorella.

E quando Rose tornò, portando con sé un lungo spillone d’argento, rabbrividii al pensiero di cosa volesse farci mio padre.

- Bene.

Disse, prendendolo dalle mani di Rose, che guardò Shemar.

- Sappi che sei in debito con me. Ti conviene rimetterti presto, salvare quella sciocca e venire a Bregenz. Non accetterò un rifiuto, stavolta.

Shemar si sforzò di ridere, rosso e sudato in viso. L’idromele stava facendo effetto. Poi, papà ordinò di portare dell’acqua e disse a Hiram e Gourias di recarsi presso una sorgente precisa che scaturiva nel folto della foresta. Dopodichè, ordinò a tutti noi, tranne che alla mamma, Blaez e Ruben (e chiaramente, anche i feriti), di uscire. Fu così che quando fummo tutti fuori, Ruben chiuse la porta, lasciandoci ad attendere l’esito di quell’intervento.

Nel tempo che seguì, impossibile da quantificare data la mancanza di orologi, Violet e io finimmo di sistemare i giacigli, mentre Jamie si appisolò sulle gambe di Damien, seduto per terra nella sala col tavolo. Micheu si appoggiò al muro, attendendo il rientro di Eyde e di Hiram, mentre Rose cercava di sistemarsi i capelli, intrecciandoli diverse volte. Poi, vidi Livia raggiungere Micheu e parlarci. Damien dopo un po’ mi sembrò stanco, così come anche Violet. Dopo il ritorno dei nostri due amici, Livia si addormentò, mentre Micheu le accarezzava teneramente i capelli. Mi tornò in mente che quell’uomo aveva dei figli e sperai che la Croix du Lac non scoprisse il suo tradimento e non attuasse ritorsioni su di loro. Rose si sedette su una delle sedie di ferro, poggiando il viso sulle mani a coppa. E quando Violet si addormentò sul giaciglio, dopo averla coperta e auguratole sogni d’oro, mi avvicinai a Damien, sedendomi accanto a lui.

- Sei stanca, eh?

Annuii, posando la testa sulla sua spalla.

- Ma voglio rimanere sveglia fino a che non finiscono…

- Anch’io… un espresso farebbe al caso nostro.

Sorrisi, chiudendo gli occhi per qualche secondo.

- Non farmici pensare… sto morendo di fame…

- Tua madre ha detto che c’è del cibo nella bisaccia, no?

- Sì, peccato che ce l’abbia lei…

Sbadigliai.

- Capisco…

- Senti, Damien?

Domandai.

- Che c’è?

- Che tipo ti è sembrato Liger?

Sentii che Damien aveva voltato la testa verso di me.

- Non lo so. Devo ancora definirlo. Ti ha detto lui di aver ucciso Evan?

Guardai il braccialetto di mio fratello, con gli occhi che mi si velavano.

- Sì… e mi ha detto che presto o tardi prenderà la mia ametista…

Mormorai. Damien disse qualcosa in risposta, ma non riuscii a capirlo. Prima che me ne rendessi conto, sprofondai nel sonno più profondo.

 

- Un altro bastardo!

Spalancai gli occhi, nel sentire una voce che urlava, irata. Sulle prime, non mi resi conto di dove fossi. C’era una luce indefinita in alto, e in basso, era tutto buio.

- Non ti avvicinerai a lei, hai capito?!

Focalizzai meglio, prestando anche attenzione a quella voce. E mi accorsi di essere su delle scale. Inizialmente, non capii, poi, nel vedere meglio quella luce, posta sul muro, mi venne un colpo al cuore. Era la scala che portava ai sotterranei dello Stonedoor. E la voce che avevo sentito, quel tono di minaccia… non potevo sbagliarmi, era Evan. Trasalii nel sentire il clangore delle spade e mi precipitai a scendere i gradini di ferro. Man mano che avanzavo, sentivo il terrore attanagliarmi. E quando giunsi nella sala che ospitava la Porta di Pietra, urlai a gran voce il nome di mio fratello. Avvampai, con quel nome che mi rimase in gola quando vidi Liger che aveva trafitto Evan. In quell’istante, nel vedere quella scena, una parte di me stava morendo. Da quando ero giunta nell’Underworld mi ero ripromessa di essere forte. Avevo avuto tanto da scoprire sulle origini della mia famiglia e l’avevo ritrovata. Ma non avevo mai avuto modo di scoprire cosa fosse accaduto davvero a mio fratello. Evan, appoggiato a Liger, mi fissava con lo sguardo vitreo.

- E-Evan…

Mormorai stravolta, camminando verso di loro. Ogni passo era pesante oltre ogni misura.

- … Evan?

Domandai, tremando, quando giunsi alle spalle di Liger, continuando a guardare mio fratello. E poi sentii un tintinnio metallico. Il braccialetto gli si era sfilato ed era caduto a terra.

- Evan!

Urlai poi, quando Liger sfilò la spada dal corpo esanime di mio fratello, che si accasciò a terra.

- Maledetto mostro! Liger!!

Gridai fuori di me, preda di un odio incontrollabile che mai avevo provato in vita mia. Caddi sulle ginocchia, tendendo la mano verso mio fratello, che giaceva riverso in una pozza di sangue. Un rivolo usciva dalla sua bocca rimasta aperta in un’esclamazione di muto sgomento. Evan… i suoi occhi amaranto erano del tutto inanimati oramai. Evan… mio fratello era morto. Feci per carezzare i suoi capelli, ma non ci riuscii. E compresi di stare vivendo un’altra visione. Singhiozzai, tenendo lo sguardo fisso su Evan. Non riuscivo a distoglierlo. Volevo portare con me quell’immagine, in modo da ricordare per sempre cosa gli avesse fatto quell’assassino. Sentii Liger muovere dei passi verso di noi, ma non mi voltai. E quando sentii che si era chinato dietro di me, rimasi impassibile, nonostante riuscissi a sentirne il respiro sul collo.

- Evan è stato solo l’inizio.

Sussultai. La voce che avevo sentito non era di Liger, ma della Croix du Lac. Mi voltai di scatto, vedendo Liger che mi dava le spalle, in piedi, e apriva la Porta di Pietra, varcandone la soglia oscura.

- Aspetta!

Gridai, alzandomi. Il braccialetto di Evan tintinnò. Guardai ancora mio fratello, mordendomi le labbra.

- Evan, fratello mio… te lo prometto… te lo prometto, lo ucciderò con queste stesse mani!

Esclamai. Mi feci forza e corsi verso l’oscurità, saltando nel vuoto. E mi ritrovai di colpo nella piazza centrale di Chalange, davanti al sagrato della cattedrale, in mezzo a centinaia e centinaia di persone ammutolite. In tutta quella confusione, cercai Liger, ma non riuscii ad avvistarlo. E quando mi voltai verso il sagrato, quello che vidi mi raggelò. Davanti a una tribuna di oligarchi, tra cui mancavano Lord Oliphant e Angus, e davanti alla Croix du Lac, che osservava la scena con aria compiaciuta, c’era Amber. Indossava una semplice veste nera, e aveva i polsi legati. I lunghi capelli biondi erano raccolti in una treccia che le scendeva lungo la spalla destra. Fissava la Croix du Lac col viso impietrito. La sola traccia di dolore, al di là dei lividi e delle escoriazioni, era costituita dalle lacrime che scendevano sulle sue guance.

- Amber Trenchard. Siete dichiarata colpevole di alto tradimento, cospirazione contro Adamantio e di lesa maestà. Siete pertanto spogliata dei vostri titoli di duchessa di Shelton e di custode dell’ambra e condannata alla pena di morte per trafiggimento. Dopo la vostra esecuzione, il vostro nome sarà cancellato dagli annali della storia e le vostre proprietà saranno date alle fiamme e distrutte per sempre. Avete un’ultima cosa da dire?

Corsi, facendomi largo tra la gente.

- No!!

Urlai.

- Amber!! Croix du Lac, perché?! Perchè stai facendo questo?! E’ davvero il terrore ciò che vuoi?!

 Giunsi sul sagrato, oltrepassando non vista il plotone e affiancando Amber.

- Non toccatela! Che nessuno le faccia del male!!

Gridai. La Croix du Lac sorrise. Amber, accanto a me, la guardò, mantenendo il contegno. Ma la sua voce, stavolta, tremava.

- Dite soltanto a Shemar… ditegli che lo amo più della mia stessa vita… e che avrei tanto desiderato vivere con lui per sempre, nel mondo per cui abbiamo tanto combattuto.

Poi, riprese fiato e si voltò verso il plotone. La Croix du Lac sollevò il braccio.

- No! No!!

Urlai disperata. Quando quel demonio abbassò il braccio, una pioggia di frecce venne scoccata, trafiggendo Amber sotto i miei occhi sconvolti. Lo spettacolo che mi si presentò fu agghiacciante. Vidi la mia amica oramai irriconoscibile, dilaniata da quel getto senza pietà, mentre cadeva a terra con un tonfo sordo.

- Amber…

Sussurrai. Tutto attorno a noi, c’era un silenzio spaventoso.

- Oh, Amber… mi dispiace tanto…

Strinsi i pugni, mentre le mie lacrime cadute si mischiavano al sangue di Amber. Mi voltai verso la Croix du Lac.

- Ti diverti, eh? Ti diverti a spargere sangue innocente! Che razza di bestia sei, eh?

Inveii gridando fino a rimanere senza voce. E quando calò l’oscurità su quella scena, mi ritrovai lungo la strada di diamanti che avevo visto in passato, in un’altra visione. Tirai su il viso, facendomi forza. In alto, nel cielo oscuro, brillava fioca una luce bianca. Ricordavo ancora quel percorso, come se fosse oramai insito in me. E quando raggiunsi il lago, cinto dalle statue che riversavano acqua, attesi. Poi, sentii una voce inquietante.

- Una bestia. Non ero mai stata definita in questo modo.

Disse. Cercai di mantenere il controllo, nonostante il terrore mi stesse uccidendo.

- E’ quello che sei. Una bestia che ha preso forma umana. Ma pur sempre una bestia.

Risposi.

- Aurore. Sei sicura di essere giunta alla corretta conclusione?

- Certamente. Non c’è altra spiegazione. Nessun essere umano sarebbe capace di perpetrare un tale massacro e di goderne così come fai tu.

- Oh. Invece è qui che sbagli. Gli esseri umani sono molto peggio. Dovresti saperlo.

Sentii il suo respiro gelido attorno a me, ma non la vedevo da nessuna parte.

- Dove sei?

Domandai.

- Qui. lì. Ovunque. Io sono ovunque, in questo mondo. Non importa dove tu ti nasconda, perché ti troverò.

Mi voltai, sentendo una folata di vento che mi scompigliò i capelli. E poi vidi delle picche in lontananza.

- Cosa sono quelle?

Chiesi, sudando freddo.

- Un regalo per te.

Chiusi gli occhi. Non volevo vedere.

- Aurore. Apri gli occhi… guarda coi tuoi occhi… osserva coi tuoi occhi…

Sentii l’eco di quella voce spettrale che sembrava corteggiarmi, ma rifiutai di guardare.

- Che cosa diavolo sei davvero?!

Sbottai, stringendomi con forza i lembi del mio vestito bianco. In realtà, ero terrorizzata e temevo che presto o tardi, anche il mio cuore sarebbe scoppiato.

- Guardami!

Ordinò e la voce mi rimbombò nelle orecchie scuotendomi fino alla punta dei piedi. Aprii gli occhi e mi ritrovai davanti, per un solo secondo, un essere che non riuscii a identificare. Immerso per gran parte del corpo in una colonna, con le braccia tese in alto e fermate da grovigli che le tenevano imprigionate. Aveva i capelli lunghi, nerissimi e sfilacciati. Mi inquietò da morire, ma fu niente rispetto a quando sollevò il viso scarno. Spalancò gli occhi, rossi come il sangue che scorreva dal suo petto squarciato, spaventosi come mai. Urlai in preda allo sgomento quando sembrò liberarsi e cavare dal petto una luce intensissima, forte al punto da accecarmi.

- Aurore!!

Spalancai gli occhi, ancora terrorizzata.

- Respira, Aurore! Va tutto bene! E’ tutto a posto, tesoro!

Mi ricordai di respirare, ma l’affanno era così forte che non ci riuscii subito e dovetti sollevarmi. La mamma era accanto a me e mi stava stringendo. Vicino a lei c’era papà, che mi stringeva la mano. Quel gesto mi ricordò tanto Evan e non riuscii a trattenere le lacrime. Li strinsi entrambi, singhiozzando.

- Tranquilla, piccola mia… ci siamo noi, è passato…

La mamma mi mormorava queste parole col tono rassicurante che solo lei aveva. Papà lasciò la mia mano, accarezzandomi la testa.

- E’ stato brutto, a quanto pare.

Annuii, guardandoli. Poi mi resi conto che eravamo nel casino. I ragazzi dormivano tutti profondamente, e fortunatamente, non si erano svegliati. Evidentemente, non avevo dovuto fare troppo rumore… oppure erano stanchi morti.

- Mi dispiace, vi ho svegliati…

Confessai, a bassa voce.

La mamma sorrise.

- Non preoccuparti. Tuo padre era di ronda e io ho riposato un po’. Quant’è passato, Greal?

- Circa cinque ore. Farà giorno tra non molto.

- Capisco… e Shemar?

- Starà bene. Sta dormendo anche lui, adesso.

- Meno male…

Dissi, abbassando lo sguardo al pensiero di quella tremenda visione su Amber.

- Aurore?

La mamma mi baciò sulla tempia, poi mi tenne stretta a sé.

- Insieme a te, io starò per sempre… non temere mai, la tua mano stringerò… quando dormirai, sul tuo sonno veglierò, sai… ricorda che io ti proteggerò…

Cantò, con voce dolce e soffusa. Ricordai quella ninna nanna che cantava a me e a Evan quand’eravamo piccini. Papà era sorpreso.

- Questa la cantavi ad Arabella…

- La ricordi ancora, eh?

Domandò, teneramente. Sul viso di papà spuntò una smorfia che diventò ben presto un sorrisetto.

- Ricordo anche che la cantasti a me, quando mi costringesti a dormire per forza.

- Beh, ero preoccupata…

Papà sospirò, poi mi guardò. Dovevo avere una faccia stravolta.

- A quanto pare, hai preso da me anche per gl’incubi.

- D-Davvero? Anche tu li facevi?

Papà assentì.

Da qualche parte, qualcuno dei ragazzi si lamentò nel sonno. Evidentemente stavamo parlando un po’ troppo.

- Vorresti conoscere la nostra storia, tesoro?

Mi domandò la mamma. La guardai, annuendo. Quanto avevo desiderato ascoltarla.

- Ma Aurore… sappi che ci sono delle parti che potrebbero non piacerti.

Mi avvisò papà. Deglutii, ma oramai, cosa sarebbe potuto non piacermi? La mamma si alzò, stringendomi mentre lo facevo a mia volta, mentre papà andò a prendere il suo mantello, mettendocelo poi addosso.

- Andiamo.

Disse, portandoci sul retro del casino. Ci sedemmo sui gradini che portavano all’esterno, sotto quella che un tempo, probabilmente, doveva essere stata una sorta di rimessa. E stretta nell’abbraccio di mia madre e con papà che ci sedette accanto, ascoltai finalmente la storia dei miei genitori.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 45
*** XVIII - Celia (1 parte) ***


Buonasera! :) Ehm... sì, so di essere in ritardo e mi scuso con chi mi segue (sono ancora nel periodo degli esami e da marzo comincio tirocinio/laboratori), ma ecco qui finalmente la prima parte del capitolo su Celia! Ebbene, come vi ho anticipato, per questo capitolo la voce narrante sarà proprio la mamma di Aurore, e penso che alla fine capirete molte cose! <3 Sappiate che mi son divertita molto a scriverlo perché adoro Celia e ci tenevo molto a raccontare la sua storia, e noterete che in certi pezzi sarà anche un po' più forte, per cui vi chiedo, se dovesse risultare un po' particolare al punto da cambiare rating, ditemelo, per favore!! Poi, che altro dire? Ah, sì, vedrete nuovi personaggi appartenenti al passato, tra cui Ademar, l'ultimo Despota... so che quando si tratta di storie lunghe dopo un po' si perde interesse e credetemi, quest'idea mi rende molto triste... e so che ormai chiedervi pareri è inutile perché a parte i miei pochi fedeli non c'è nessun altro che mi dice nulla, ma sapere anche solo con un paio di righe cosa ne pensate, mi è d'aiuto... per cui, lo fate un piccolo sforzo? Davvero, anche un paio di righe... ç_ç

Intanto, ringrazio chi mi segue sempre fedelmente e con tanta passione, ma soprattutto con la pazienza!! 

Buona lettura e welcome in the past! <3

 

 

 

 

 

 

 

- Estellise! Estellise, muoviti!

Esclamai a voce bassa, fischiettando nell’aria mattutina. Era l’alba che precedeva la Renaissance e quel giorno, dopo il lungo inverno, si preannunciava una giornata temperata. Ormai era diventato un rituale. Ogni volta che volevo uscire, approfittando prevalentemente delle assenze di mio padre, impegnato in qualche viaggio ufficiale o in qualche riunione, dovevo chiamare il mio grifone, che possedevo da quand’era un cucciolo, regalo per il mio nono compleanno da parte della scuderia Dacron della capitale, e fischiettare un paio di volte. Era il nostro segnale. Naturalmente attendevo pazientemente che non vi fossero guardie a controllare quell’area e non appena mi sinceravo di ciò, la mia Estellise aveva il via libera. Quando la vidi arrivare, spiegando le lunghe e folte ali color panna bordate di nero, tirai su il cappuccio.

- Andiamo!

Dissi, scavalcando il parapetto del balcone.

- Sembra proprio che oggi splenderà il sole…

Notai, salendo in groppa e osservando il panorama che si estendeva davanti ai miei occhi. Adoravo guardare la luce che di diffondeva soffusa inondando tutta la città, ancora addormentata. La sola a non essere addormentata era la mia balia. Sospirai, quando la vidi aprire il portone delle mie stanze e raggiungermi. Purtroppo per lei, la mia Estellise si era già allontanata di qualche metro dalla balaustra.

- Celia! Non anche oggi! Stanotte ci sarà la Renaissance e non potete andarvene a zonzo con tutto quello che c’è da fare!

Mi rimproverò, tendendo il braccio verso di noi con fare severo.

Alizea era stata alle dipendenze della mia famiglia sin da prima che nascessi. Mia madre teneva molto a lei e prima di morire, mi affidò alle sue cure, chiedendole di educarmi e di crescermi con responsabilità. In realtà, nonostante ci provasse, non ero certo mai stata un tipo particolarmente accondiscendente. Probabilmente, la colpa era di mio padre, che spaventato dall’idea di perdermi così come mia madre, mi aveva sempre impedito di vedere coi miei occhi la realtà che mi circondava. Sin da piccola, ero stata cresciuta all’interno del palazzo di diamante ed erano ben poche le occasioni in cui mi era concesso di uscire, tutte ufficiali. Potevo farlo soltanto al fianco di mio padre, il Despota. Crescendo, tuttavia, anche l’insofferenza per le rigide etichette di corte e per questo asfissiante controllo sulla mia vita erano cresciute, fino a che, una volta diventata abbastanza esperta nella cavalcatura, riuscii ad allontanarmi da palazzo. In realtà, le prime volte si rivelarono disastrose, a causa della costante presenza delle guardie imperiali. Ma col tempo, imparai quali fossero i loro orari e scoprii anche l’esistenza di alcuni passaggi segreti all’interno stesso del palazzo. Naturalmente, non fu cosa facile. Ci impiegai diversi anni e spesso fui messa in punizione, anche per lunghi periodi. Mio padre non si capacitava del perché fossi tanto ribelle, ma nonostante cercassi di spiegarglielo, ogni mia disperata difesa sfociava in un nulla di fatto. Solo Alizea, nonostante la preoccupazione e i rimbrotti, era dalla mia parte, consolandomi quand’ero più piccola e qualche volta, concedendomi di uscire di nascosto e coprendomi. Per via dell’amore che provavo per lei, tuttavia, non osavo spingermi mai al di là dei confini di Chalange. Soltanto una volta ci provai, ammirando lo sconfinato estendersi della natura selvaggia e viva dell’esterno.

- Faccio soltanto un giro, Alizea! Ti prometto che sarò di ritorno prima che mio padre se ne accorga!

Le garantii. Alizea mise le mani sui fianchi generosi, aggrottando le sopracciglia sul suo volto paffuto di donna non più giovanissima.

- Lo spero per voi o sarà la volta buona che vostro padre mi farà tagliare la testa!

Sorrisi, rassicurandola, poi spronai Estellise e partimmo alla volta dell’esplorazione.

Era una sensazione che adoravo. Volare mi faceva sentire libera dalla gabbia in cui ero cresciuta. Lì, tra la brezza, le nuvole e persino i messi della Croix du Lac, assaporavo appieno l’essere semplicemente una ragazza senza alcun limite imposto dalle convenzioni. E quando potevo, scendevo e mi mescolavo alla popolazione della città. Ovviamente, col tempo avevo imparato ad affinare le tecniche di mimetizzazione. Avevo sempre portato i capelli biondo miele molto lunghi e non avevo mai preso in considerazione l’idea di tagliarli. Così, li legavo e li intrecciavo in modo da renderli quanto più corti possibile. Alizea mi aveva realizzato degli abiti di stile popolare e il mantello, che un tempo le era appartenuto, era il completamento dell’opera. Adoravo passeggiare in mezzo alla gente, ascoltandone i discorsi, giocando coi bambini negli spiazzi in loro possesso. Mi piaceva osservare le donne che facevano acquisti nei mercati e ogni tanto, anch’io chiedevo dei pareri o ne offrivo. Col tempo, mi ero fatta una vera e propria cultura. E amavo quel mondo. Amavo la gente che sorrideva, così come amavo i bambini che giocavano tra loro senza alcuna distinzione. Mi ero fatta anche degli amici, e adoravo trascorrere il tempo a cantare, a giocare e persino a danzare. Per loro, ero soltanto Celia. Ma quando facevo ritorno alle mie stanze, tornavo a essere Cerulea Rosenkrantz, la figlia del Despota, la Lady del diamante.

Quella stessa sera, tuttavia, la mia vita subì un forte scossone. Alizea aveva appena terminato la sua opera, quando potei guardarmi allo specchio.

- Ecco qui, ho finito.

Confessò, sistemandomi gli orecchini di brillante. Mi osservai. Ero alta nella media, magra al punto giusto e ogni anno, durante i preparativi per la Renaissance, avevo preso l’abitudine di notare i cambiamenti intercorsi durante quel periodo. Avevo quasi sedici anni allora ed ero una giovane adolescente. Guardai la scollatura che faceva capolino nel mio abito color fiordaliso bordato d’argento.

- Secondo te sono cresciute, Alizea?

 Domandai alla mia balia, che studiò attentamente la situazione.

- Non c’è che dire, rispetto allo scorso anno avete già preso una taglia.

Disse gravemente.

- Credi che cresceranno ancora?

- Se volete mal di spalle costante, allora sì.

- Non voglio mal di spalle costante. Soltanto… una taglia in più!

Esclamai, contrariata.

Alizea rise sotto i baffi, poi mi poggiò le mani sulle spalle e guardò anche lei nello specchio.

- Quando avrete dei figli, piccola mia, sarete una donna fatta e formata… date tempo al tempo, eh?

Incrociai i suoi occhi scuri nello specchio.

- Certo… comunque per il momento intendo divertirmi ancora un po’. E sfortunatamente per me, questa sera avrò ben poco da divertirmi.

Sbuffai al pensiero di tutti quei nobili. La maggior parte di essi era adulta e c’erano poche ragazze con cui chiacchierare. Per non parlare dei ragazzi che mi puntavano come se fossi la rampa di lancio per il trono di Adamantio. Alizea mi rassicurò, scostandosi.

- Sono certa che troverete il modo di rendere divertente anche questo. Purchè non proviate a mettere i semi di psillio nel vino come lo scorso anno…

Mi rimproverò. La guardai stupita, poi mi misi a ridere. Effettivamente, l’anno precedente era stato ricordato per i lancinanti dolori gastrici che afflissero i partecipanti alla festa. Ma la colpa fu imputata a un batterio, quando invece, la responsabile fui io. Se mio padre l’avesse scoperto, sicuramente mi avrebbe fatto passare le pene dell’inferno. Invece, quel segreto era custodito gelosamente tra me e Alizea, dopo che mi ebbe costretta a confessarle ogni cosa per evitare di perdere la mia Estellise. Garantii che questa volta mi sarei comportata bene, e dopo aver preso un enorme respiro, lasciai le mie stanze, raggiungendo il salone delle feste, oramai già gremito di gente. Solitamente, i preparativi per la Renaissance cominciavano con largo anticipo e la festa cominciava all’imbrunire. Era d’uso, ad Adamantio, accogliere la fine della lunga stagione invernale con delle decorazioni che la ricordavano. E quando la Croix du Lac impartiva la propria benedizione, rigenerando la natura, salutavamo l’arrivo della bella stagione, che ci avrebbe accompagnato per i mesi a seguire, fino all’inverno seguente. Diversamente dal mondo della luce, nel nostro mondo non vi era la distinzione in quattro stagioni. Un anno si componeva di due cicli: Is, che simboleggiava la staticità del tempo invernale, e Dagaz, il risveglio dal buio. Quando mi appoggiai alla balaustra, cercando qualche volto amico, notai che il chiacchiericcio si era concentrato intorno alle giovani ladies di Shelton. Avevo sentito, tempo prima, che Vere Vanbrugh, cugina del capofamiglia, aveva sfidato la volontà dei genitori sposando una giovane guardia imperiale la cui famiglia era squattrinata da generazioni, da cui aveva avuto un bambino di quasi cinque anni. Da allora, era stata allontanata dalla famiglia, marchiata di disonore. Quella sera, tuttavia, era lì presente. La vidi, con lo sguardo basso, accanto a una ragazza bionda che riconobbi come Fenella Ashworth. E quando sentii gli apprezzamenti poco gentili su di loro, scesi più velocemente possibile, facendomi largo tra i presenti.

Lady Cerulea!

Sentivo chiamare il mio nome con ammirazione, stupore e persino gioia. Ma tutti quegl’ipocriti avrebbero dovuto soltanto tacere. Quando le raggiunsi, le vidi osservarmi stupite.

- L-Lady Cerulea… quale onore…

Disse Fenella, che se non ricordavo male, aveva la stessa età di Vere. Sia lei che Vere si inchinarono, e così fecero anche i presenti.

- Alzatevi, per favore.

Risposi loro. Le due ragazze, più grandi di me, obbedirono. Guardai Vere, che sembrava a disagio e le presi le mani. Mi osservò incredula, ma fu niente rispetto ai mormorii perplessi e contrariati che serpeggiarono in sala. Li ignorai, per quel momento.

- Sono davvero molto felice che voi siate qui, Lady Vere. Come state?

Le domandai. Vere sulle prime non rispose, cercando l’aiuto di Fenella, che le sorrise rassicurandola. Poi mi guardò di nuovo e fece un piccolo inchino.

- Milady, molto bene, grazie…

Le sorrisi anch’io.

- E il vostro bambino? L’avete portato con voi questa sera?

- Oh… a dire il vero no… ho ritenuto che fosse troppo piccolo… e comunque, sono in veste di accompagnatrice di Fenella…

- Ah, capisco… in tal caso, vi auguro di divertirvi e qualora aveste entrambe bisogno di un po’ di compagnia, non esitate a cercarmi.

- Vi ringrazio, Milady…

Disse Vere, sorridendo felice. Fenella fece un inchino, sorridendo a sua volta e prendendo sotto braccio l’amica. Tutto intorno, i mormorii continuavano, però. Mi voltai verso quelle voci.

- Miei cari amici, la Renaissance implica la rigenerazione della natura. E questo significa anche rigenerare tutti i nostri rapporti. Dunque, mi auguro che vogliate svernare anche i vecchi rancori. La Croix du Lac tiene particolarmente a che vi sia armonia nel nostro mondo, non dimenticatelo.

Mi guardarono tutti in tralice. Sapevo di aver sentenziato, ma non potevo sopportare che se la prendessero con chi non aveva colpa. Vere aveva fatto una scelta. Opinabile o meno, doveva essere rispettata. E poi, sentii un battito di mani poco lontano. Mi voltai, assieme ai presenti. Mio padre, altero ed elegante nei suoi abiti di Despota, affiancato dal suo cavaliere personale e da un paio di giovani uomini, uno dei quali in uniforme, aveva applaudito. Deglutii, pensando che avrei passato i guai una volta terminata la festa. Tutti si inchinarono. Quando ci raggiunse, scortato, si fermò a pochi passi da me.

- Cerulea.

Disse, con voce secca.

Sentii una forte scarica di tensione percorrermi.

- Vostra Maestà.

Salutai, con un inchino. Mio padre era sempre stato un uomo severo, ma fondamentalmente di buone intenzioni. Durante il suo regno, l’Underworld aveva vissuto un periodo di sviluppo su ogni fronte. Aveva persino recuperato i rapporti con i Delacroix, la prima famiglia oramai ridotta a poco meno di cinquanta membri. Tuttavia, con me era spesso ferreo. Aggrottò le sopracciglia brunite.

- Vedo che hai già fatto gli onori di casa.

- Sì, Maestà.

Risposi, cercando di ignorare l’incessante accelerata del mio cuore.

- Va bene così.

- Grazie, Maestà.

Dissi. Poi guardai le persone che gli erano accanto. Il suo cavaliere, Grayling Law, era un uomo di circa quarant’anni. Sempre pacato e silenzioso, era l’ombra di mio padre. Dall’altro lato, vidi una giovane guardia, decisamente molto più giovane. A giudicare dal sigillo sul guanto noto come Croce di cristallo, doveva essere nella squadra di difesa. Diversamente dalle usanze solite, portava i capelli castani sciolti, lunghi fino alle spalle. Tutto sommato, era alquanto ordinario, ma c’era qualcosa nel suo sguardo che non mi piaceva. Accanto a lui, un altro ragazzo, più giovane di almeno due o tre anni. Era sicuramente un nobile, dati gli abiti importanti che indossava. Portava un lungo tight grigio chiaro, fermato da bottoni d’argento e diversamente dalla guardia, aveva i capelli neri legati. Gli occhi viola mi fecero intendere che provenisse da Challant. Mi sorrise gentilmente.

- Lady Cerulea, permettetemi di dire che siete una favola, questa sera.

Mi inchinai appena per ringraziarlo.

- Siete gentile, Lord…

- Ademar. Ademar Valdes, Milady.

- Lord Valdes.

Conclusi. Ademar si profuse in un inchino a sua volta, mentre mio padre mi guardò.

- Chiediamo alla Croix du Lac che tutto vada bene, questa sera.

Mi disse. A buon intenditor, poche parole. Annuii, pensando a quale terribile noia mi si sarebbe prospettata dopo quel richiamo, e mio padre dette ufficialmente inizio alla notte della Renaissance. Ben presto, tra danze, canti, buffet e festeggiamenti, si avvicinò la mezzanotte. Avevo evitato di danzare, dal momento che non ne avevo alcuna voglia, e mi ero intrattenuta a lungo con Vere e Fenella, che mi avevano raccontato del piccolo Shemar e delle bellezze del loro luogo d’origine. Quanto mi sarebbe piaciuto poter viaggiare e vedere il mondo coi miei occhi… ma ogni volta che pensavo qualcosa del genere, il mio sguardo ricadeva su mio padre e sulla sua intransigenza. E quando, all’ennesima proposta di danzare, rifiutai, decisi di fare qualcosa di alternativo. Col favore della musica e della confusione, ne approfittai per sgattaiolare dal salone in festa, raggiungendo i giardini. C’era una zona che solitamente rimaneva sguarnita per una ventina di minuti. Ne approfittai per raggiungerla. La cancellata che si ergeva in quel luogo non era mai stata un problema. Ero piuttosto brava quando si trattava di scavalcare le recinzioni. Sollevai il mio vestito di chiffon con una mano e con l’altra, mi accinsi ad arrampicarmi sulla trave di sostegno.

- State tentando di fuggire?

Sgranai gli occhi, trasalendo nel sentire la voce maschile alle mie spalle.

- Dannazione…

Mormorai, lasciando scendere al suo posto il mio vestito e voltandomi. Davanti a me, c’era una guardia della squadra di difesa. Era mascherata esattamente come le altre e a giudicare dal tono di voce, doveva essere giovane, almeno sui vent’anni. Avrei potuto anche inventare una scusa, ma in quel momento ero talmente seccata che non lo feci.

- Sì. Niente contro, ma la festa là dentro è noiosa.

Lui non rispose. Perfetto, mi era capitato qualcuno di ancora più noioso.

- Beh, dal momento che vi ho risposto, vado via.

Fischiettai. Estellise doveva arrivare da un momento all’altro. Quando cercai di arrampicarmi di nuovo, parlò.

- Non oltrepassate quella cancellata. Diversamente, sarò costretto a intervenire.

Inarcai il sopracciglio, mettendo il broncio.

- Mio padre ha pensato a tutto, eh? Adesso avete anche l’autorizzazione a fermarmi?

Domandai, voltandomi di nuovo verso di lui.

- In tal caso, sapete che vi dico? Non intendo desistere!

Esclamai, fischiettando nuovamente. Ma dov’era finita Estellise? Quel giovane mosse qualche passo verso di me.

Feci forza sulle braccia, tirandomi su, quando mi afferrò per la vita. Strinsi l’inferriata.

- Lasciami!

Ordinai, prendendo in considerazione l’idea di scalciarlo, subito bocciata a causa del mio ingombrante abito.

- Vi avevo avvisata, Lady Celia.

Non capii se lo fece apposta o meno, ma quando sentii una sensazione piuttosto simile al solletico, mollai la presa e mi tirò giù. Mi lasciò non appena misi piede a terra e mi voltai contrariata e imbarazzata verso di lui.

- Tieni le mani a posto!

Ordinai. Lui le sollevò a mezz’aria. Poi riflettei sul modo in cui mi aveva chiamata.

- Non sono molte le persone che mi chiamano Celia. Come fai a conoscere il mio nome?

- Ho sentito la vostra balia lamentarsi di voi chiamandovi in questo modo.

- Beh, sappi che non mi piace essere chiamata con tanta confidenza da uno che non posso nemmeno vedere in faccia. Anzi, a dirla tutta, detesto avere a che fare con chi non posso guardare negli occhi.

- Sapete che non è concesso di toglierla fino a che non si è nella propria dimora.

- Lo so, lo so. Ma dal momento che conosci qualcosa di me, allora anch’io voglio sapere qualcosa di te.

- In tal caso…

Con mia sorpresa, sfilò la maschera dal viso. Rimasi colpita dalla bellezza di quel volto. Non avevo mai visto una sfumatura così chiara così come negli occhi viola di quel ragazzo. Anzi, precisamente, non erano proprio viola, ma ametista. Un colore così particolare, che in contrasto coi capelli neri e la carnagione d’alabastro, era incantevole. E aveva un’espressione così seria e matura, nonostante fosse tanto giovane. Arrossii senza rendermene conto.

- L-L’hai tolta…

Lui sorrise appena.

- Mi chiamo Greal. Greal Valdes.

Disse.

- Valdes?

Gli feci eco, perplessa. E poi pensai ad Ademar.

- Siete parente di Ademar Valdes?

- E’ mio fratello maggiore.

- Oh… ora si spiega tutto.

Feci spallucce, sentendomi improvvisamente delusa.

- A cosa vi riferite?

Mi domandò.

- Beh… ti avrà certamente ordinato lui di venirmi a recuperare.

Greal aggrottò le sopracciglia.

- No.

Rispose semplicemente.

- No?

Gli feci eco.

- In realtà ho il compito di perlustrare la zona attigua. Ma ho sentito movimenti molesti e sono venuto a controllare di persona.

- Ah…

Mi voltai verso la cancellata, pensando che Estellise non era arrivata. Evidentemente, si era addormentata o Alizea aveva fatto in modo di chiuderla nelle scuderie.

- Va tutto bene, Lady Celia?

Lo guardai, sospirando.

- No. A quanto pare sono bloccata qui e non posso uscire.

- E’ così terribile per voi?

- Tu che dici? Per avere un po’ di svago devo uscire di nascosto, perché mio padre mi tiene sottochiave.

- Se vi accadesse qualcosa, l’Underworld perderebbe la sua speranza.

Disse, volgendosi verso la zona che gli era stata assegnata.

- Speranza? E di cosa? Non credi di starmi sopravvalutando un po’ troppo?

Greal sembrò sorridere per un istante, poi tornò a guardami. Quello sguardo era affascinante, ma per qualche motivo che ancora non comprendevo, mi mise in soggezione.

- No. Non credo affatto.

Rimasi a guardarlo per un po’, stupita. Non mi conosceva affatto, ma sembrava avere fiducia in me.

- Greal Valdes?

- Sì?

- Vorresti danzare con me?

Greal fremette. Probabilmente, quella richiesta improvvisa e inaspettata l’aveva stupito tanto quanto la sua risposta stupì me.

- No.

- Eh?

Domandai, sbattendo le palpebre.

- No. Non voglio.

Va bene. Dopo aver rifiutato tutti coloro che mi chiedevano di danzare, qualcuno aveva rifiutato me. Ci stava. Eppure, mi sentii triste, in quel momento. Greal comunque se ne accorse e si voltò di nuovo verso la sua area di perlustrazione.

- Non so danzare.

Si giustificò. Sgranai gli occhi, incredula. Poi mi venne da ridere.

- Che c’è di strano?

- Niente. Niente… è solo che… è divertente…

- Divertente? Che c’è di divertente nel non saper danzare?

Mi asciugai le lacrime che in quel momento avevano imperlato i miei occhi, ma sul cui motivo, non sarei stata certa.

- Il modo in cui l’hai detto… come se fosse qualcosa di cui avere vergogna.

Gli feci notare.

- Niente affatto. Non provo vergogna ad ammetterlo.

- Oh, scusa tanto… allora potrei insegnartelo.

Proposi.

- No.

- Perché?

- Perché no.

Che tipo impossibile e che muro insondabile era quel ragazzo. Eppure, quel suo modo di fare, piano piano, cominciò a incuriosirmi.

- Dovete tornare dentro.

Mi disse, cambiando discorso.

- Ma mi diverto qui…

Un’occhiata bieca mi fece intendere che non la pensava al mio stesso modo. E poi, d’improvviso, sentimmo arrivare qualcuno.

- Chi c’è?

Domandai. Greal fece per sollevare la maschera, ma quando vide comparire un compagno di squadra, si fermò. Anche lui non la portava, ma l’aveva legata in testa a mo di copricapo. Presumibilmente, quel ragazzo aveva circa due o tre anni più di lui. Per giunta, portava con sé del cibo e un paio di bottiglie.

- Greal, spuntino! Ce lo manda Vere!

- Gregor!

Esclamò Greal, contrariato.

- Vere?

Domandai io, stupita.

Gregor Lambert sbattè le palpebre, guardando meglio. Era un simpatico giovane bruno dai modi divertenti. Diversamente da Greal, sorrideva spesso e aveva una luce diversa negli occhi scuri, quella della gioia dell’essere padre.

- Oh numi… ma quella è la figlia del Despota?

Greal mise la mano in faccia. Io annuii.

- Cerulea Rosenkrantz. Per gli amici Celia. Lieta di conoscervi, Gregor!

Mi presentai, sorridendo. Lui mollò immediatamente il rancio e si mise sull’attenti.

- Capitano Gregor Lambert, per servirvi, Milady!

Mi misi a ridere, piacevolmente colpita dal suo buonumore.

- Chiamatemi soltanto Celia!

Dissi.

- Celia… Oh, Greal, hai sentito? Mi considera già un amico! Non trovi che sia davvero adorabile?

Greal sospirò. Io lo guardai.

- Non rispondi?

- Oh, vi date già del tu?

Osservò Gregor.

- No, è lei che lo fa.

Effettivamente, ero passata dal voi al tu senza nemmeno accorgermene.

- Ehm…

- Bene, bene. Non credevo che foste così colloquiale… mi fa davvero piacere!

Esclamò Gregor. Poi, andò a riprendere i piatti.

- Avete detto che ve li ha dati Vere…

Notai.

- Già! La mia Vere è stata gentile… e ha pensato anche a te, antipatico.

Disse, porgendogli un piatto con tartine di vari gusti.

- Grazie, ma siamo in servizio. E fino a che si è in servizio…

- … nulla è concesso, lo so, lo so. Ma stavo davvero morendo di fame.

Disse addentandone una.

- Se mangiassi per tempo, non accadrebbe.

- Prova tu a stare sveglio perché tuo figlio non si addormenta.

Greal affilò lo sguardo e Gregor si bloccò.

- Ehm… non volevo fare dell’ironia…

Si scusò.

- Vi conoscete da tanto, voi due?

Domandai, stupita.

- Da quattro anni. Greal e io dividevamo la stanza all’Accademia di Gresson. In realtà, sono stato un ripetente incallito…

- Oh…

Poi, Gregor mi tese il piatto. Quel gesto mi ricordò molto la spontaneità del popolo di Chalange e capii cosa ci avesse trovato in lui Vere. Gregor era affabile, generoso e non cambiava modo di comportarsi a seconda del rango di chi avesse davanti. Invidiai quel suo modo di fare. Io ero costretta a mascherarmi ogni volta che volevo uscire.

- Grazie, Gregor! Ma Lady Vere ha esplicitamente pensato per voi, dunque… e poi io ho già mangiato qualcosa!

- Capisco…

Mormorò, a bocca piena. Greal lo guardò di sottecchi.

- Cerca almeno di non dimenticare la buona educazione, Gregor.

Gregor lo guardò, ingoiando il boccone.

- Ehi. Ho fame.

Greal sospirò. Nonostante tra i due fosse Gregor il più grande, quanto a maturità, Greal lo surclassava. Eppure, quei due sembravano davvero affiatati, nonostante tutto.

- Potrei portarvi un altro piatto!

Esclamai, entusiasta.

- No.

Tagliò corto Greal.

- Chi ti dice che mi stia riferendo a te, vecchio scorbutico?

Domandai, inarcando il sopracciglio. A giudicare dal modo in cui sgranò gli occhi, avevo colto nel segno. Quella reazione mi dette soddisfazione. Gregor, incredulo, trangugiò dalla bottiglia, poi si mise in attesa.

- Mi avete chiamato vecchio scorbutico?

- Preferisci scorbutico vecchio? Trovo che renda meglio l’idea la prima opzione.

Greal sulle prime non realizzò, poi sbuffò spazientito. Gregor invece mi mostrò il pollice recto.

- Numi di Challant, voi siete davvero una persona fastidiosa.

Protestò Greal.

- Ad ogni modo, sarà il caso che rientr-- 

Mentre lo diceva, fissò qualcosa in lontananza.

- Gregor.

- Ci sono, ci sono!

Gregor nascose piatti e bottiglie ed entrambi risistemarono le maschere sul volto. Dapprima perplessa, mi voltai verso la ragione di quel comportamento. Vidi Ademar assieme alla guardia che lo accompagnava e aggrottai le sopracciglia. Quando arrivarono davanti a noi, Ademar mi guardò.

- Milady, vi cercavo.

- Mi avete trovata, Lord Valdes.

Gli risposi.

- Già. Immagino abbiate avuto bisogno di una boccata d’aria. Non trovate anche voi che vi sia ancora troppo fresco, tuttavia?

Effettivamente, la sera non era ancora l’ideale per trascorrere lungo tempo all’esterno, ma mi piaceva sentire la brezza sul viso.

- Per me è abbastanza piacevole, Milord.

- In ogni caso, dovete fare attenzione, Milady.

Detestavo le ramanzine. La sola persona che poteva farmele, escludendo mio padre, era Alizea.

- Come vedete, le guardie imperiali mi hanno fatto compagnia.

Ademar alzò lo sguardo verso di loro. Mi chiesi se avesse riconosciuto il fratello.

- Lionhart, hai visto? E’ un bene che sia stata istituita la squadra di difesa. A quanto pare, funziona egregiamente.

L’uomo al suo fianco, Lionhart Warrenheim, ridacchiò.

- Peccato soltanto che non tutti siano all’altezza della situazione.

Quella frecciatina era rivolta a Gregor, che strinse il pugno.

- Lion-- 

Greal parò il braccio davanti al compagno.

- Lord Valdes. Lady Rosenkrantz. Lionhart. A breve sarà mezzanotte. Sarà meglio che andiate.

- Oh, il mio caro fratellino. Milady, sapete che questo giovane cavaliere è il mio fratellino più piccolo, Greal?

Guardai Ademar, annuendo, poi guardai Greal.

- Sì, abbiamo già fatto le presentazioni. E credo che vostro fratello abbia ragione, Milord.

Greal non dette segni di risposta. Avrei desiderato vedere almeno un cenno sul suo viso, ma non lo fece. Tuttavia, stavolta mi trovò d’accordo. A quanto pareva, Lionhart Warrenheim e Gregor Lambert non erano particolarmente in sintonia e non volevo che vi fossero discordie. Gregor mi piaceva ed ero felice che Vere avesse accanto un uomo così divertente, e poi c’era Greal. Non sapevo praticamente nulla di lui, ma dovevo ammettere che quel suo modo di fare mi incuriosiva. Al contrario del fratello, che mi sembrava uno sbruffone.

- Vi auguro di trascorrere il resto di questa notte di grazia godendo a pieno della benedizione della Croix du Lac, My Lords.

Dissi, rivolgendo loro un inchino. I presenti si misero sull’attenti, tranne Ademar, che si inchinò a sua volta.

- Permettete, Milady?

Mi fece eco, tendendomi il braccio. La guardai, ma nonostante lo scetticismo, pensai alle parole che avevo rivolto alla festa a tutti i nobili intervenuti. Svernare i vecchi rancori… certo, non avevo motivo di nutrirne per chi non conoscevo, ma non avevo una buona sensazione a riguardo. Ad ogni modo, presi il suo braccio e ci incamminammo verso il salone. E fu allora che la Croix du Lac dette il suo segno, con una scia luminosa che si sprigionò dal Sancta Sanctorum e percorse l’intera volta celeste. La vita assopita durante il lungo inverno si risvegliò. 

 

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Capitolo 46
*** XVIII. 2 parte ***


Buongiorno! :) Eh sì, lo so, sono in tremendo ritardo, oltre un mese... mi scuso coi miei cari lettori, ma sono nel bel mezzo dei miei impegni universitari... almeno il tirocinio è quasi finito però! :D Ne approfitto per mettere la seconda parte del capitolo, ringraziando per le tantissime visite e per le belle recensioni, grazie davvero!! :D Allora, che ne pensate della storia di Celia? Vi sta piacendo? Appello ai recensori a cui recensisco... amici miei, per ora tarderò ancora un po', ma cercherò di tornare presto a recensirvi, ok?? 

Buona lettura intanto! :)

 

 

 

 

 

Durante la lunga bella stagione che seguì, mi ritrovai spesso ad avere a che fare con Greal e Gregor. Le mie fughe, che prima d’allora erano dirette lontano dal palazzo di diamante, adesso avevano come meta le zone di competenza di quei due. Naturalmente, avendo acquisito una discreta abilità nello sgattaiolare via in orari ben precisi, riuscivo a farla franca ogni volta. Per di più, la mia simpatia per Gregor era mutuale e spesso e volentieri ci ritrovavamo a scherzare insieme. Ben presto e con mio compiacimento, abbandonammo persino le formalità. Ma più il tempo passava, più sentivo crescere dentro di me la curiosità e la voglia di stare a contatto con Greal. Probabilmente molto dipendeva dal fatto che non riuscivo a capire come mai mi rigettasse puntualmente. Ogni volta che mi vedeva comparire, se Gregor mi salutava con entusiasmo, Greal si limitava a un seccato “Sei di nuovo qui. Sparisci e lasciaci lavorare in pace”. Ma nonostante la sua contrarietà, col tempo avevo finito con l’affezionarmi a quel ragazzo musone e perennemente serio che sembrava non avere altro scopo nella vita se non eseguire gli ordini. E man mano mi resi conto di non volermi limitare semplicemente a scalfirne la corazza, ma di voler arrivare al suo cuore… e prima ancora che fossi in grado di comprenderne la ragione, cominciai a vederlo con occhi diversi, nonostante Greal fosse sempre apatico e sembrasse che non ci fosse nulla capace di smuoverlo. Soltanto con Gregor, fonte dei suoi guai, azzardava discussioni. Lo stesso Gregor mi raccontava molti aneddoti che lo riguardavano. Scoprii così che Greal aveva rinunciato a concorrere alla carica di Despota, sebbene la famiglia Valdes fosse nell’oligarchia, perché preferiva dedicarsi alla protezione della sua Challant. Si diceva fosse un posto stupendo e che fosse uno dei territori più antichi di tutto il nostro mondo. La prima famiglia era approdata lì, prima di fondare la capitale ad Adamantio. E io non avevo mai avuto l’opportunità di vedere la terra dell’ametista.

- Ho deciso di andare a Challant.

Dissi gravemente, seduta sul muretto che separava l’area di guardia durante la pausa pranzo dalla zona circostante, proprio ai confini di Chalange. Quel giorno, Gregor era di ronda in città. Oramai, avevamo abbandonato da diverso tempo gli abiti invernali e adoravo sentire il calore del sole che mi baciava la pelle nuda. E proprio una settimana prima, avevo compiuto sedici anni.

- Buon per te.

Mi rispose Greal col suo solito tono monocorde, per poi bere un sorso d’acqua dalla borraccia.

- Però ho bisogno di qualcuno che mi accompagni… non conosco il posto e temo di perdermi…

- Puoi chiedere alla tua balia.

- Alizea è una poltrona. Non si muove nemmeno se la sollevano di peso.

Greal si sedette all’ombra di un grande albero secolare dalle fronde larghe. Ormai, sia lui che Gregor toglievano la maschera quando eravamo tutti e tre insieme. Lo osservai mentre sollevava il viso scrutando il cielo azzurro che si estendeva sconfinato su di noi. Tutto intorno c’era pace. Gli unici suoni di sottofondo erano i versi dei nostri grifoni, che comunicavano tra loro in quel modo tutto speciale che solo gli animali possedevano. Riflettei che persino loro parlavano più di noi.

- Challant è molto bella. La campagna, durante la bella stagione, si copre di colori che non ho mai visto nemmeno qui.

Balzai in piedi e lo raggiunsi, sedendomi di fronte a lui. Mi guardò, socchiudendo gli occhi.

- Che c’è?

Domandò.

- Quindi c’è qualcosa che ti piace!

Esclamai, entusiasta. Era la prima volta che faceva un commento del genere ed ero ben determinata a conservarlo nella mia memoria. Greal aggrottò le sopracciglia.

- Ovviamente.

- E cos’altro ti piace?

- Non intendo risponderti.

Mi imbronciai, assumendo la sua stessa espressione.

- Perché?

- Non mi piace il terzo grado.

- Oh, facciamo progressi. Esprimere un giudizio è già di per sé positivo.

Annuii. Greal appoggiò la schiena al possente tronco dietro di lui.

- Sei stanco?

Domandai, vedendolo più rilassato.

- No. O almeno, non particolarmente.

- Perché non dormi, allora?

Esitò a rispondermi per qualche istante, poi tirò fuori qualcosa che sapeva tanto di scusa.

- Perché tra poco dovrò riprendere la guardia.

Incrociai le braccia.

- Ti sveglierò io prima dell’orario prestabilito.

- No.

- Non ti fidi?

- Sinceramente no.

Numi. La sua franchezza alle volte era una sfida alla pazienza.

- E va bene, allora dormirò io.

La sua espressione si fece perplessa.

- Come sarebbe a dire?

Domandò.

In barba a tutto, mi appollaiai vicino a lui, accomodandomi con la testa accanto al suo fianco. L’ombra era piacevole e c’era una brezza leggera che portava con sé i profumi della natura in festa. Chiusi gli occhi, sentendo l’erba fresca sotto le mani e il viso.

- Celia?

- Lasciami dormire.

Bofonchiai. Lo sentii sospirare.

- Perché sei sempre così ostinata?

Sorrisi nel riconoscere una nota di biasimo.

- Non lo so. Sono così e basta… non ti va bene?

- Per niente.

Aprii di nuovo gli occhi, vedendo poco lontano da noi dei fiori che non avevo notato, in precedenza. Erano delle amarillidi rosa meravigliose. Amaryllis… il nome di mia madre. Quanto mi sarebbe piaciuto condividere con lei quello che provavo ogni volta che ero accanto a Greal. Tesi il braccio verso quei fiori, a pochi metri di distanza.

- Che stai facendo?

Domandò Greal.

- Vedi quelle amarillidi? Portano lo stesso nome della mia mamma…

- Amaryllis.

Sorrisi dolcemente, nel sentire il tono con cui aveva accarezzato quel nome a me così caro.

- Sono stupende.

- E’ vero…

- Alcune di esse non si sono ancora schiuse, però.

Osservò.

- Certe cose necessitano di tempo e pazienza… ma sono sicura che quando sbocceranno, saranno incantevoli come le loro compagne… e vivranno un’esistenza felice, tutte insieme…

- I fiori hanno una loro esistenza?

- Naturalmente. Ogni creatura ha una propria esistenza…

- Mpf.

Chiusi nuovamente gli occhi, assaporando ogni istante di quel tempo della mia giovane ingenuità. Tutto mentre dentro di me, proprio come quella amarillidi che stavano per schiudersi, il mio cuore stava per fare altrimenti, scoprendo per la prima volta cosa fosse l’amore.

 

- Pensavo di concedere la tua mano a Lord Valdes, Celia.

Quel giorno, alcuni mesi più tardi, quando oramai la bella stagione stava sfiorendo, così come le amarillidi, mio padre, il Despota, mi dette la notizia peggiore della mia vita, almeno fino a quel momento. Eravamo a colazione e la servitù si stava prodigando per servire dei deliziosi biscotti. Quando mio padre pronunciò quel nome, l’immagine di Greal mi venne in mente, accompagnata da un batticuore non indifferente. Sentii le guance accaldate e guardai mio padre, che ricambiò.

- Sembri entusiasta, mi fa piacere. Valdes è un giovane che promette bene. Sono molto soddisfatto di averlo nel mio entourage.

Quelle parole mi fecero intendere il mio drammatico errore. Non che mi fossi scordata di Ademar, che in tutto quel tempo aveva frequentato spesso la corte, ma oramai, il solo Valdes a cui pensavo, per giunta automaticamente, era Greal.

- Non sono ancora pronta per qualcosa del genere, padre!

Protestai, in subbuglio. Mio padre inclinò la testa. Da un po’ di tempo, nonostante avesse soltanto cinquant’anni, mi sembrava più pallido e spesso aveva dei malesseri. I medici di corte gli avevano ordinato di trascorrere più tempo a letto e di non sforzarsi. Secondo loro, probabilmente aveva contratto un’infezione durante uno dei suoi viaggi a Chambord, la capitale dei Delacroix e per questo, necessitava di tranquillità. Ciononostante, era un uomo forte e la sua volontà era incrollabile.

- Celia. Hai sedici anni, ormai.

- E allora? Mia madre non era forse più grande di me quando vi sposò?

Mio padre accusò il colpo, causa anche il mio tono più alto del solito. Sapevo che non era facile per lui parlare della mamma, ma non capivo tutto questo suo affrettarsi.

- Ti ho soltanto comunicato un mio pensiero. Non ho detto che lo farò.

Tirai un sospiro di sollievo.

- Tuttavia, non capisco come mai tu sia così restia verso qualcosa che è assolutamente inevitabile.

- Che state dicendo? Volete forse dirmi che intendete darmi in sposa contro la mia volontà?

Lo vidi bere del the alle rose. Sin da quand’ero piccola, lo adoravo, forse perché era qualcosa che condividevamo. Una delle poche, ma importante per me. Posò la tazza di ceramica sul piattino.

- Se servisse a placare il tuo spirito ribelle, sarei disposto anche a quello.

Sgranai gli occhi, alzandomi di scatto e puntando i miei occhi nei suoi, del mio stesso colore.

- Con che coraggio potete parlare così, padre? Mi proibireste anche di decidere da me chi sposare? Questo è troppo!

- Sarebbe un prezzo da pagare per tutte le volte che mi hai fatto stare con il cuore in gola, Cerulea.

Trasalii. Quando mi chiamava col mio nome per intero non era un buon segno. E compresi che sapeva delle mie fughe. Tuttavia, cercai di non dargliela vinta.

- Provate a chiedervi il motivo del mio comportamento, allora.

Mio padre affilò lo sguardo.

- Sei mia figlia, Celia. Sei la figlia del Despota di Adamantio, che impera sull’Underworld.

- E questo vi autorizza a imperare anche sulla mia vita?

Domandai, cercando di trattenere il groppo in gola.

- Un giorno, quando avrai dei figli, comprenderai le mie ragioni.

Strinsi i pugni, sconcertata. E senza riuscire a replicare, mi limitai solo a un inchino, lasciando le stanze di corsa. Quando raggiunsi le mie, mi ci chiusi dentro, scoppiando a piangere. Non mi era mai accaduto prima. Ogni volta che ricevevo un rimprovero, affrontavo la situazione senza perdermi d’animo. Ma stavolta non si trattava di un richiamo per i miei comportamenti sconsiderati. Mio padre stava decidendo della mia stessa vita in un modo che non potevo assolutamente accettare. E non soltanto perché avevo un sogno da realizzare prima, ma anche perché mi sentivo tradita, in un certo senso. Avevo sempre pensato di essere più importante per lui e non di rappresentare una mera punta di diamante sullo scacchiere politico. Come poteva vendermi in questo modo? Come poteva desiderare di sacrificare la felicità di sua figlia in questo modo? E perché proprio Ademar? Ma soprattutto, perché quando aveva nominato il nome di Lord Valdes, mi era venuto in mente Greal e quel pensiero, fino a che non avevo realizzato la verità, mi aveva resa felice? Singhiozzai fino a che non ne potei più. Più il tempo passava, più la mia insofferenza aumentava e non volevo vedere nessuno, né tantomeno mio padre. Non ce l’avrei fatta ad affrontare la sua severità una seconda volta, né tantomeno ad ascoltare le ramanzine di Alizea. Mi rimaneva una sola soluzione possibile. Raccolsi in fretta alcuni mantelli e qualche abito da viaggio, poi li raggomitolai in una sacca e dopo aver legato i capelli alla bene e meglio, in barba a tutta la mia accuratezza per gli spostamenti, corsi sul balcone, chiamando la mia Estellise. Ci mise qualche istante di più del previsto, ma quando arrivò, fui io a non esitare.

- Se mio padre si è messo in testa di rinchiudermi in gabbia a vita, allora avrà pane per i suoi denti.

Dissi tra me e me, tirando le briglie del mio grifone, che scalpitò.

- Va’, Estellise! Portami lontano da qui, il più possibile!

Ordinai e così fece.

Volammo per tanto tempo, superando il palazzo di diamante, nei cieli della capitale. Non importava quale fosse il luogo in cui mi avesse portata. La sola cosa che desideravo era di fuggire. E mentre mi affidavo a lei, maledissi di essere la figlia del Despota. Agli occhi di chi non mi conosceva, la mia condizione era da ritenersi quella di una fanciulla privilegiata e sarei stata ipocrita a negare i privilegi che mi erano concessi dal rango. Ma a cosa servivano gli onori se non avevo la libertà? Ero un po’ come le guardie imperiali, in fin dei conti. Costretta a eseguire gli ordini di mio padre. Avrei barattato tutto pur di avere la possibilità di realizzare il mio sogno. Sin da piccola, avevo sempre desiderato di poter viaggiare e vedere il mio amato mondo. Ma questo non mi era concesso. La sola libertà che ero riuscita a ritagliarmi, dopo aver conosciuto Greal e Gregor era data dallo stare assieme a loro. Greal… il solo pensiero di dover sposare un altro uomo, che per giunta era suo fratello maggiore, mi faceva ribrezzo. Con che coraggio avrei potuto anche soltanto guardare un altro, quando oramai avevo occhi solo per lui? E perché ogni volta che ci pensavo, sentivo una sensazione strana alla bocca dello stomaco? Mentre lo sconfinato cielo oltre Chalange si era aperto davanti a noi, oramai in volo oltre le mura della capitale, avevo stretto forte la mia Estellise, che si bloccò di colpo, sballottandomi.

- Estellise, che fai?!

Domandai tutto d’un fiato, spaventata. E quando alzai lo sguardo lei scalpitò, così come il mio cuore. Lughoir era fermo a pochi metri davanti a noi, col suo cavaliere in groppa. Per un attimo ebbi la sensazione di stare sognando. Il che sarebbe stato di gran lunga preferibile alla realtà, ma quando sentii la voce di Greal risuonare forte e reale nell’aria mattutina, capii che non era un sogno.

- Dove stai andando, Celia?

Domandò.

- N-Non ti riguarda!

Risposi. E non perché non volessi dirglielo, ma perché improvvisamente, ebbi timore di raccontargli cosa si celasse dietro alla mia fuga.

- Sei più lontana del solito.

- E allora?

- Torna indietro.

Sbuffai.

- Non mi dire. Sei venuto a controllarmi?!

Greal rimase in silenzio. Quell’irritante mutismo mi infastidii e nacque dentro di me un sinistro sospetto.

- E’ stato mio padre a mandarti?!

Urlai, allarmata.

Lughoir scalpitò, spronato da Greal, e si avvicinò a noi. Mi risentii e tirai le briglie di Estellise, lanciandola al volo più in basso.

- Non avvicinarti, Greal!

Ordinai. Corri, Estellise, corri!

Sentii le lacrime che mi scorrevano impetuose lungo le guance. Dunque anche Greal era come mio padre. Anche lui voleva controllarmi. E pensare che in tutto quel tempo mi ero così affezionata a lui… e questo non faceva che rendere la mia pena ancora più grande. Lughoir fu più veloce e in breve ci fu accanto. Mi rivolsi spaventata verso Greal, che esitò.

- Celia, che succede?!

Mi domandò, con un tono sinceramente turbato.

Non riuscii a rispondergli e lo guardai sconvolta, mentre Estellise e Lughoir continuavano il loro volo ad ali spiegate.

- Celia!

Esclamò.

- Lasciami in pace! Tu non sei diverso da lui! Non tornerò a palazzo, riferisciglielo pure!

Gli urlai contro. Quelle parole dovettero averlo scosso, perché mormorò un’imprecazione.

- Dannazione, so già che me ne pentirò…

Afferrò le briglie di Estellise e le tirò verso di sé. Quell’improvviso strattone mi sbilanciò. Stavamo volando ancora molto in alto e la velocità era sostenuta. Ebbi per un istante il terrore di perdere l’equilibrio e serrai gli occhi. Ma presto, le braccia di Greal mi afferrarono e mi tirarono via di forza. Non riuscii a guardare, tanto ero spaventata. Sentii la sua voce perentoria ordinare a Estellise di seguirci e il mio corpo fu pervaso da un piacevole quanto inaspettato calore quando lo sentii stringermi forte a sé. Singhiozzai, poggiando la fronte contro il suo petto. Non disse niente, né io aggiunsi qualcosa. A quel punto, non potevo ribellarmi nemmeno se avessi voluto. Ero nelle sue mani e sapevo dove aveva intenzione di riportarmi. Stargli così vicino sarebbe stato l’ultima cosa piacevole che avrei potuto avere. Soltanto dopo diverso tempo, quando atterrammo, Greal si decise a parlarmi.

- Apri gli occhi, Celia.

Scossi la testa. Già immaginavo il palazzo davanti a me. Eppure, c’era silenzio, tutto intorno e una brezza più forte rispetto alle correnti d’aria che si agitavano davanti al maestoso portone. Perché non sentivo le voci delle guardie accorse? Prestai orecchio. Acqua. Lo scorrere placido dell’acqua. E fu allora che riaprii gli occhi, che si spalancarono in una muta meraviglia. Non mi aveva portata a palazzo, ma eravamo nel folto della foresta fuori dalla capitale. Era una sorta di radura circondata dagli alberi. Il modo in cui la luce filtrava e si rifrangeva scomponendosi in una miriade di riflessi nell’acqua del fiume Chalange, era incredibile. Osservai incredula la bellezza di quel luogo. Nonostante ormai la bella stagione stesse finendo, la vita non si era ancora assopita.

- E’… è stupendo…

Mormorai. Era tutto così vivido e cristallino, così tanto che nemmeno il miglior pittore del nostro mondo avrebbe potuto replicare quello spettacolo unico. La potenza della Croix du Lac era qualcosa di inenarrabile. E poi, guardai Greal. Indossava la maschera, per cui non potei stabilirne l’espressione.

- Va meglio ora?

Annuii, ancora incredula.

- Che posto è?

- Si chiama “culla delle amarillidi”. A quanto pare, in passato ve ne erano tantissime qui.  Ora, ne sono rimaste poche, purtroppo.

Sgranai gli occhi. Se non fosse stato per la sua voce e per il fatto che avevo parlato delle amarillidi solo con lui, avrei pensato che fosse un’altra persona.

- Come hai fatto a scoprirlo?

- Intendi il nome?

- No… questo posto…

Guardai tutto lo spettacolo che avevo dinnanzi.

- Ho cercato. Ricordavo che da qualche parte, c’era un luogo che portava il nome delle amarillidi, ma non sapevo dove fosse.

- Capisco…

Mormorai, sentendo le guance calde. Dunque, quel discorso non gli era stato indifferente… scesi dalla groppa di Lughoir, che mi rivolse il becco adunco. Lo carezzai sulla testa e così feci con la mia Estellise. Poi, mossi qualche passo in quel prato ancora stupendo. Desideravo assaporare la sensazione dell’erba fresca sotto i piedi e tolsi le scarpe. Sollevando il mio abito color magnolia, passeggiai, godendo della sensazione di piacevole solletico che provavo in quel momento. E presi sicurezza, rasserenandomi man mano. Quant’era pacifico quel luogo? Mi misi a osservare tutto intorno, cercando le amarillidi. E quando finalmente ne trovai due, le ultime superstiti della loro generazione, mi voltai verso Greal, che era smontato dalla groppa e aveva tolto la maschera. Mi osservava.

- Greal, guarda! Ce ne sono due qui!

- Fa’ attenzione, sei troppo vicina all’acqua.

Mi voltai verso l’argine naturale del fiume Chalange, che in quel luogo scorreva da torrente.

- Temi che possa cadere?

Domandai, incuriosita.

- Può essere.

Affilai lo sguardo, contrariata.

- E’ mai possibile che tu sia sempre così criptico, Greal?

Feci un passo indietro, ma in quel punto, non mi ero accorta che la terra fosse più umida. Stavo per scivolare e vidi Greal correre verso di me.

- Celia, attenta!

Esclamò. Fortunatamente per me, ero ben bilanciata e riuscii a mantenermi in equilibrio, spostandomi. Greal si fermò davanti a me.

- Sto bene!

Lo rassicurai, sorpresa. Ma pensai subito alle amarillidi, sincerandomi di non averle schiacciate. In realtà, erano vicinissime allo stivale di Greal. Urlai e non capì.

- Che hai stavolta?

- Togliti di lì!

Sbraitai, tirandolo via. Mi guardò in tralice e quando si rese conto del motivo, mise la mano in faccia. Lo guardai severamente, sinceramente contrariata della sua poca sensibilità. Se ne accorse e mi guardò nuovamente.

- Che ho fatto?

- Sei un insensibile!

- E allora?

- Come sarebbe a dire “e allora”? Mi hai portata a vedere le amarillidi e poi a momenti le pesti senza pietà!

- A dire il vero, non me n’ero accorto.

- Male, molto male!

Lo rimproverai. Greal non si scompose minimamente.

- Ma sei un uomo o un muro?

Gli domandai, a quel punto.

- Sono una guardia imperiale.

Lo guardai di sottecchi. E poi mi venne in mente Vere, che aveva rinunciato a tutto per amore di una guardia imperiale. Lei aveva avuto il coraggio di quell’azione, e io non ero riuscita ad oppormi a mio padre, ma ero scappata. E quella volta, ne ero certa, le conseguenze non sarebbero state piacevoli. Abbassai lo sguardo, poi mi chinai e mi sedetti accanto alle amarillidi, osservando lo scorrere dell’acqua. La brezza era più forte lì e mi scompigliava i capelli legati, spargendo fili d’oro nel vento. Greal attese, poi si sedette vicino a me. Rimanemmo in silenzio per diversi minuti, persi ognuno nei propri pensieri. E poi, posai la testa sulla sua spalla. Oramai non si stupiva più per quei miei gesti. Ero io, probabilmente, quella che vi dava un diverso significato. Dapprima, ero solo curiosa. Man mano, mi ero resa conto di aver bisogno di quel contatto. E in quel momento, lo percepivo come assolutamente vitale. Guardai il nostro riflesso nell’acqua, distorto dal passaggio dell’aria e d’improvviso compresi perché avevo così tanto bisogno di stargli accanto. E fui sopraffatta dalla consapevolezza che quello che stavo provando in quel momento era qualcosa di unico. Da qualche parte, in tutto quel tempo, mi ero innamorata di Greal e solo ora me ne stavo rendendo conto.

- Perché stai piangendo?

Mi domandò. Ero così scossa dall’intensità di quel sentimento che ero profondamente commossa. E come se non bastasse, il pensiero della sentenza di mio padre, faceva da contrappeso, gettandomi nella disperazione. Non gli risposi, ma il mio singhiozzo gli fece intendere qualcosa.

- Hai discusso con tuo padre.

Affermò. Annuii, cercando di soffocare quella sensazione così oppressiva.

- Capita a tutti di discutere. Anch’io ho delle discussioni con i miei genitori, ogni tanto.

Non immaginavo quali motivi potessero portarlo a imbastire litigi, considerando che tendeva a obbedire agli ordini che gli venivano imposti e fondamentalmente, non si incendiava così come me, ma in quel momento, le sue parole mi fecero sentire meno sola. Eppure, Greal trascurava un particolare.

- Dimentichi che mio padre è il Despota…

Sul suo viso riflesso nell’acqua, comparve l’ombra di un sorriso distorto.

- No. Non l’ho dimenticato. Ma non importa quale sia l’abito che si indossa. Sotto di esso, siamo tutti degli esseri umani.

Sgranai gli occhi, portando la mano alla bocca. In qualche modo, aveva risposto anche alla domanda che aveva evaso prima.

- Greal?

Domandai, a voce bassa.

- Che c’è?

- Non voglio obbedirgli…

- E’ così terribile ciò che ti ha chiesto?

Annuii. Eppure, non riuscivo a parlargliene. Era qualcosa che in quel momento mi sembrava fuori luogo e non riuscivo a trovare il coraggio di dirgli che intendeva darmi in sposa a suo fratello. Appoggiai la guancia nell’incavo della sua spalla e lo sentii muoversi, voltando la testa verso di me. Tuttavia, non fece domande e per questo, gli fui grata. Solitamente non era tipo da porre domande per primo, ma in quel momento, se anche l’avesse fatto, non sarei riuscita a dire niente, aumentando la sua preoccupazione. Preoccupazione… già, in qualche modo, lui si era preoccupato per me. Quel pensiero mi ronzò in testa.

- Mi racconti qualcosa di bello?

Sorpreso dalla mia richiesta, notai che esitò.

- Non credo di esserne capace.

Confessò.

- Tutti lo sono… devi essere più fiducioso nelle tue capacità…

Cercai di rassicurarlo. Greal mi apparve spiazzato. Chiusi gli occhi, mentre lui, dopo qualche lungo secondo, sospirò.

- C’era una volta un bambino…

- Un bambino? Eri tu?

- No. Non interrompermi.

Mi rimproverò. Un po’ delusa, lo lasciai procedere.

- C’era una volta un bambino che possedeva un cavallino alato di legno. Amava molto quel gioco, che gli era stato donato dal proprio padre che possedeva una scuderia prestigiosa, con la promessa che un giorno avrebbe sfrecciato nei cieli, in groppa a un cavallo alato come quello.

- Ma era di legno, non poteva volare…

Obiettai. Greal sbuffò.

- Ascolta e zitta.

Inarcai il sopracciglio. Ci aveva preso gusto a riprendermi.

- Va bene, vai avanti!

- Dicevo che avrebbe avuto un cavallo alato vero. Il bambino ne fu entusiasta e per anni, crebbe con quel sogno. Studiò e si dedicò molto alla conoscenza di quegli animali e il padre ne fu fiero. Il figlio era il suo orgoglio. Arguto, attento e perspicace, ben presto diventò un punto di riferimento per tutti. Oramai, nella teoria era imbattibile. E finalmente venne il giorno in cui il padre poté mantenere la promessa. Aveva cercato in lungo e in largo l’esemplare migliore per il figlio, desiderando il meglio, ma il caso volle che il cavallo alato che rispecchiava le caratteristiche di quello promesso fosse malato.

- Povero cavallo…

Commentai. Greal non rispose e continuò.

- Dal momento che non poteva volare, il padre prese la decisione più drastica. Voleva il migliore e nonostante avesse girato il mondo in lungo e in largo, quell’esemplare era il solo esistente e per giunta, non avrebbe potuto soddisfare il figlio. Così, decise di sopprimerlo per evitare una delusione al figlio.

- Greal… questa storia è terribile!

Esclamai di punto in bianco, scostandomi e guardandolo scandalizzata. Lui sogghignò. Doveva averci preso gusto.

- Il figlio aveva studiato molto e durante i suoi studi si era documentato sulle malattie e su come curarle. Così fermò il padre prima che uccidesse il cavallo alato e riuscì a guarirlo. E in quel modo, poté finalmente realizzare il proprio sogno.

Aggrottai le sopracciglia.

- Q-Quindi c’è un lieto fine…

Osservai.

- Hai capito cosa voglio dire, Celia?

Ci riflettei. Inizialmente, avevo supposto che fosse autobiografica, ma non lo era. Sembrava una metafora sull’importanza dello studio.

- Mi stai suggerendo di studiare? Si dà il caso che lo faccia già…

Gli dissi. Lui si alzò, sistemandosi il mantello e scrollando di dosso l’erbetta che gli si era attaccata. Lo guardai, così determinato mentre fissava la natura di fronte a noi.

- Quel bambino era animato da un sogno e si era impegnato a realizzarlo. E quando tutto sembrava perduto, è stato proprio lui a fare la differenza, diventando al tempo stesso, una speranza per cambiare il destino di quel cavallo malato.

Lo guardai sconvolta. Mi stava forse chiedendo di non rinunciare alle mie aspirazioni? Mi voltai verso le due amarillidi che nonostante il freddo alle porte, resistevano con tenacia. E poi lo guardai di nuovo, alzandomi a mia volta. A causa di un crampo, tuttavia, stavolta rischiai di scivolare per davvero, ma Greal mi afferrò, mantenendomi per le braccia. Lo guardai, perdendomi nella meraviglia di quegli occhi così vicini, lasciandomi guidare dal mio cuore che urlava come mai di fidarmi di lui e di credere alle sue parole.

- Celia, tu sei una speranza per ogni singola creatura di questo mondo. Non ti rendi conto di quanto la tua sola presenza sia sufficiente ad animare chi ti sta intorno?

Quelle parole mi colpirono.

- Ma per me… che speranza c’è?

Domandai, facendo un grande sforzo per mantenermi lucida. Greal strinse la presa attorno alle mie braccia. Qualcosa nel tono con cui avevo posto quella domanda doveva averlo turbato. Fece per dire qualcosa, ma desistette.

- Greal, parlami, per favore… io non voglio rinunciare ai miei sogni… sono cresciuta in una prigione e sono destinata a continuare a starci, per sempre… ma vorrei tanto poter vedere coi miei occhi il nostro mondo, affinché possa essere in grado di difenderlo adeguatamente anche dalla mia gabbia…

Quelle parole lo scossero molto più di quanto mi aspettassi.

- Gabbia? Celia, che stai dicendo?!

Inclinai appena la testa, sforzandomi di rivolgergli un sorriso, nonostante la tristezza che mi attanagliava il cuore in quel momento. Feci forza, liberando un braccio dalla sua presa e lo sollevai, accarezzandogli la guancia. Che sensazione indescrivibile sentire la sua pelle calda sotto il mio palmo. Greal esitò, preoccupato.

- Celia!

Chiamò il mio nome a voce più alta del normale, tanto che sia Lughoir che Estellise rizzarono le teste pennute.

- Mio padre vuole darmi in sposa a un uomo che non amo…

Se mi ero sempre stupita di quanto Greal fosse apatico verso tutto e tutti, quella volta ebbi modo di ricredermi. Tuttavia, alla sua esitazione, in quel momento, dettata dal fatto che comprese a volo a chi mi riferissi, seguì lo scioglimento della presa. Lo guardai. Eravamo l’uno di fronte all’altra.

- Non… non ti provoca niente questo, vero?

Domandai, pur conoscendo la risposta. Avrei dovuto abituarmici e convivere col fatto che Greal non avrebbe mai provato nulla per me. Lui mi superò con lo sguardo, perdendosi oltre. Ma quel gesto mi sconvolse più di quanto avrei ritenuto possibile. Ero invisibile per lui? Perché non si accorgeva del mio tormento? Perché non capiva che la ragione ultima della mia angoscia era che mi ero innamorata di lui? Afferrai il suo soprabito nero e lo costrinsi a guardarmi.

- Dimmi qualcosa, Greal! Anche se fosse un no, dimmelo, così che possa placare questo dolore che mi si agita dentro! Perché per quanto faccia, io non riesco a non pensare a te!

E Greal mi guardò. Per la prima volta da quando l’avevo incontrato, vidi la sua espressione assumere una sfumatura differente, tormentata. Scosse la testa, quasi a non volermi ascoltare.

- Greal!

Gridai, disperata, preda di quell’ansia che aveva ormai raggiunto l’acme.

- Non chiedermi questo, Celia, no…

- Dimmelo, Greal… dimmelo, ti prego, prima che impazzisca… non mi riconosco più… non… non sono mai stata così… i-io…

La mia voce si ruppe, soffocata dalle lacrime. E fu allora che Greal mi attirò a sé, stringendomi con forza tale che se avessi anche soltanto cercato di fuggire, non avrei nemmeno potuto muovermi di un centimetro.

- Greal…

Bisbigliai in un soffio, perdendomi nel suo abbraccio. Affondò la testa nella mia spalla e le dita nei miei capelli ancora legati, voraci e disperate. Lo strinsi anch’io, desiderando che quell’istante non avesse termine. Si scostò appena, lasciando scivolare la sua mano sulla mia guancia. Non avrei saputo definire esattamente cosa dicesse il suo viso, in quel momento. Impazienza forse. Tormento, in ogni caso.

- Ah, Celia, perché tra tutti proprio me?

- Non c’è un perché per innamorarsi di qualcuno…

Mormorai. Le sue sopracciglia ebbero un fremito.

- Non c’è un motivo…

Mi fece eco.

- No…

Sospirò. Non seppi per quanto tempo rimanemmo lì a fissarci, l’uno perso nello sguardo dell’altra. Ma il ricordo delle sue dita che mi sfioravano il viso e la vivida, prima fibrillazione della vicinanza mi rimasero per sempre dentro, così come l’ebbrezza provata in quei momenti e soprattutto l’indescrivibile sensazione delle sue labbra che cercavano le mie e dopo averle trovate, a volte fameliche, a volte delicate, mi presero quel primo bacio d’amore. L’inizio della nostra storia. L’inizio della nostra battaglia.

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Capitolo 47
*** XVIII. 3 parte ***


Buon pomeriggio, cari! :) Vi sono mancata? Scusate se sono sparita, ma ho un po' di problemi in corso... comunque sappiate che laboratori e tirocinio soprattutto sono andati bene! <3 Ok, aggiorno, stavolta con un capitolo un po' più lungo per farmi perdonare e so che ho parecchio da farmi perdonare verso chi non ho ancora recensito... la prossima settimana torno a casa e fisso permettendo, considerando che starò un po' di più per le vacanze di Pasqua, cercherò di recuperare, ok?? Quindi, cari TheDarkness e Taiga-chan, aspettatemi! ç_ç<3

Niente, allego la parte, terza! <3 Spero che vi piaccia!! 

Alla prossima!! <3

 

 

Durante il lungo inverno che seguì, diverse questioni politiche portarono mio padre a essere spesso lontano dalla corte e a tralasciare i suoi progetti su un mio eventuale matrimonio. Quella situazione di stallo si rivelò una benedizione per me. Ovviamente, dopo la mia fuga, si sincerò di punirmi a dovere, mettendo a guardia delle mie finestre una presenza costante che le presidiasse ventiquattr’ore su ventiquattro. Mi allontanò persino da Estellise, ma Alizea fece in modo di farmela vedere ogni qualvolta fosse stato possibile. La mia balia era alquanto perspicace e ben presto si rese conto che dietro alle mie fughe c’era qualcosa di diverso dalla semplice voglia di evasione. E quando le confidai di cosa si trattava, invocò tutte le divinità del nostro mondo affinché mi dessero giudizio. In realtà non era contraria a Greal in sé e per sé, ma aveva avuto sentore dei progetti del Despota nei miei riguardi e temeva che se le cose fossero andate avanti, sarebbero volte al peggio. Ma d’altro canto, io non ero mai stata così felice e lei stessa alla fine, si decise ad aiutarmi, sebbene con tutte le cautele del caso. Ripensando a tutte le sue raccomandazioni, spesso mi chiedevo come sarebbe stato se mia madre fosse stata ancora viva. Anche lei si sarebbe preoccupata tanto? Intanto, ero riuscita a scovare un altro passaggio, stavolta all’interno del palazzo stesso, ovviando al problema della via di fuga aerea. Nel foyer della sala dei concerti esisteva un passaggio costruito circa cento anni prima. Originariamente, era una delle vie d’accesso alle gallerie che attraversavano il palazzo e che servivano per scoraggiare chiunque si avventurasse alla ricerca del passaggio leggendario che portava al Sancta Sanctorum. Quel lungo corridoio, a cui si accedeva voltando uno dei cento specchi che tappezzavano la sala, il quarantacinquesimo, sbucava direttamente fuori dal palazzo, nei pressi del gazebo che qualche tempo dopo Ademar avrebbe fatto costruire. Non appena potevo, raggiungevo Greal, che spesso mi attendeva lì. Col passare del tempo, anche il nostro rapporto crebbe. Dopo quel bacio, avendo imparato a conoscere il carattere di Greal e sapendo quanto fosse ligio al suo dovere al punto da porlo prima di qualunque altra cosa, temetti che avrebbe fatto un passo indietro, ma non accadde. Al contrario, ogni volta che ci vedevamo trascorrevamo assieme tutto il tempo che avevamo a disposizione. E per quanto possibile, Greal cercava di realizzare, in qualche modo, il mio sogno, parlandomi delle cinque terre che formavano il nostro mondo, raccontandomi con la cognizione di causa che solo chi ama la propria terra poteva fare, dei punti di forza e delle debolezze anche. Adoravo accoccolarmi con la testa sul suo petto, mentre mi stringeva, seduti sotto qualche albero e avvolti entrambi nel suo mantello. Chiudevo gli occhi e immaginavo. E mi raccontò anche del mondo della luce, da cui vennero i fondatori.

- Ci sei mai stato, Greal?

Domandai, soffiandomi nelle mani per scaldarle.

- No. Ma in passato, qualcuno della mia famiglia ha varcato la soglia della Porta di Pietra.

Rispose, raccogliendo le mie mani nelle sue, coperte dai guanti neri. Percepii subito un sollievo al freddo.

- E hai mai saputo che posto sia?

Greal guardò il cielo bigio. Era nevicato, la notte precedente, e si prospettava una nuova ondata.

- Chi vi è stato e ha fatto ritorno a casa, ha riferito che è un mondo in continuo cambiamento.

- Sembra preoccupante… laddove non c’è stabilità, non si può instaurare nulla…

Osservai.

- Eppure, è da lì che siamo arrivati, in fin dei conti.

Riflettei su quel suo commento e mi trovai d’accordo. E poi mi balenò in mente una folle idea. Sollevai lo sguardo, incontrando il suo.

- E se ci andassimo?

Mi guardò perplesso, poi mi strinse più forte, poggiando il mento sulla mia testa.

- Se tu non fossi la figlia del Despota e io non fossi una semplice guardia imperiale…

Pensai a Gregor e a Vere. Spesso, da quando Vere si era trasferita ad Adamantio per seguire Gregor, capitava di incontrarli, rigorosamente di nascosto per evitarmi problemi. Ci accoglieva sempre con calore e affetto e il piccolo Shemar giocava assieme al padre e a Greal. Ero incredula nel vedere Greal alle prese con quel bambino. Certo, non era il tipo che spargeva coccole e sorrisi come Gregor, ma ogni qualvolta che doveva vendicarsi degli scherzi e delle battute del suo compagno di squadra, riusciva a coinvolgere il piccolo con naturalezza non indifferente per uno come lui. E lo amavo anche per questo. La stessa Vere era divertita e mi aveva fatto notare che Greal sarebbe stato un padre coi fiocchi. Eppure, la presenza sempre costante dei nostri ranghi era peggiore della nostra proverbiale differenza caratteriale, che pure faceva la sua parte, portandoci spesso a discutere. Ma nonostante tutto, anche se le difficoltà crescevano, di pari passo cresceva il nostro amore.

- Greal, ascolta… hai mai pensato di cambiare vita?

- No.

Rispose seccamente.

- Perché?

- E’ semplice, Celia. Non ho mai concepito la mia vita in modo differente da ciò che è ora.

- Quindi l’avermi incontrata non l’ha cambiata in alcun modo?

Replicai, scostandomi e voltandomi verso di lui. Affilò lo sguardo. Attorno a noi, il fruscio del vento ci avvisò che il tempo stava volgendo al peggio.

- L’ha fatto, invece. Ma se mi chiedessi di rinunciare all’essere ciò che sono… no, non lo farei.

- Ah…

Mormorai, abbassando lo sguardo. Quelle parole mi avevano scossa. Greal era sempre stato così sicuro di sé, ai limiti dell’arroganza e sebbene ne fossi consapevole, non potevo non riconoscere che ogni volta mi turbava. E le raccomandazioni di Alizea non erano da meno. Eppure, mi accarezzò il viso, sollevandomelo.

- Celia. Non puoi cambiare ciò che sei. Qualunque cosa possa accadere, tu rimarrai per sempre Cerulea Rosenkrantz.

- Quindi il problema sono io?

Obiettai, con tono polemico. Greal inarcò il sopracciglio.

- No. Il problema è la tua cocciutaggine.

- La mia? Guarda che sei tu quello che lancia la pietra e nasconde la mano!

Greal si incupì.

- Non mi sono mai tirato indietro davanti a nulla.

- E allora provamelo!

- In che modo?

- Proponiti come candidato a Despota al posto di Ademar!

Fremette a quella mia provocazione. Poi, dopo avermi fissata per un tempo indefinito, sospirò.

- Non lo farò.

- Perché?!

Sbottai, afferrandolo per la collottola. Mi tirai più su, guardandolo faccia a faccia.

- Mi sono ripromesso di proteggere Challant e lo farò. Il trono di Adamantio non mi interessa.

Greal era la prima persona che sentivo a non nutrire interesse per imperare. E nonostante dal mio punto di vista fosse una tragedia, dovevo ammettere che quel suo spasmodico desiderio di proteggere la sua Challant era qualcosa che mi affascinava. Eppure, in quel momento, ero così arrabbiata che non riuscii a ragionare lucidamente e mi alterai, urlandogli contro.

- Quindi mi lascerai nelle mani di un altro, Greal?! Lascerai che un altro uomo mi stringa e mi condanni a una vita d’infelicità?! Oh, questo è davvero meraviglioso! E io che credevo che anche tu… anche tu tenessi a me tanto quanto io tengo a te… che illusa… già, davv--  

Non potei terminare che le sue labbra sigillarono le mie, impedendomi di andare avanti. Sussultai mentre quel lungo bacio confutava la mia argomentazione. E quando si scostò da me, guardandomi con determinazione, arrossii, stordita, senza riuscire a comprendere se il brivido che stavo provando in quel momento era per il freddo o per l’eccitazione. Greal mi prese il viso tra le mani.

- Hai dimenticato che il nuovo Despota dev’essere eletto? Oltre a mio fratello ci sono Agron Trenchard, Rufus Cartwright, William Ealing e Roland Devereaux. Alla morte di tuo padre, tu sarai solo Cerulea Rosenkrantz, l’erede del casato, e non la figlia del Despota. E se per allora non avrai sposato nessuno, allora nessuno potrà impedirti di sposare chi desideri, libera da ogni condizionamento del rango.

Sgranai gli occhi, col fiato corto per l’incredulità. Greal addolcì lo sguardo.

- Hai capito ora?

Annuii, sentendomi davvero sciocca.

- Non rinuncerò a te, Celia. Numi, come potrei rinunciare alla persona che mi ha insegnato ad amare?

Balbettai qualcosa, poi arrossii violentemente.

- E questo che significa ora, Greal?!

Greal ridacchiò e un altro bacio me lo fece intendere molto meglio di quanto potessero fare le parole.

- Tu…

- Qualche obiezione?

- Non lo so, ci sto pensando…

Greal sorrise, poi sollevò il viso e così feci anch’io. Aveva ricominciato a nevicare. Mi misi a ridere, poi presi le sue mani e le lasciai scivolare dalle mie guance accaldate. Mi alzai e così fece lui.

- Nevica, Greal!

Esclamai divertita. Sin da piccola, adoravo correre nei prati innevati dei cortili interni del palazzo.

- Vieni!

Lo tirai, nonostante la sua riluttanza, correndo a osservare i fiocchi di neve che cadevano su di noi, sentendo tutta la meraviglia e la felicità per le parole che Greal mi aveva detto. Nonostante fossero legate a un’eventuale morte di mio padre, mi ripromisi di attendere e di ritardare quanto più possibile un matrimonio. Il solo uomo che desideravo sposare era lì, davanti a me, con i suoi incantevoli occhi ametista che mi osservavano divertiti, mentre tutto intorno a noi, la neve scendeva a ricordarci quanto bianco sarebbe stato quell’inverno. E soprattutto, a ricordarci che il gelo della morte poteva calare da un momento all’altro.

 

Accadde pochi mesi più tardi, con la scomparsa improvvisa della madre di Greal, Lady Annabelle.

Da qualche tempo, Greal aveva fatto ritorno a Challant, richiamato dal padre, Lord Leutwin. Mio padre nutriva amicizia e simpatia per la famiglia Valdes e aveva disposto che Greal avesse un permesso speciale per lasciare il suo posto nella squadra di difesa, almeno momentaneamente. Quella separazione ci servì da banco di prova in un certo senso. Da quando la nostra storia era cominciata, approfittavamo di ogni attimo disponibile per stare insieme, ma ora la situazione era ben diversa. Patii molto la lontananza, più di quanto mi aspettassi. Ero giovane, innamorata e ogni singolo giorno rappresentava una tortura. Avrei così tanto desiderato essere una qualunque ragazza, per poter varcare senza problemi i confini di Adamantio e raggiungere la persona che amavo. Fortunatamente, tuttavia, Alizea mi era d’aiuto, dal momento che non appena poteva mi portava notizie e tramite Gregor, avevo la possibilità di mandare le mie a Greal. Intanto, Vere aveva fatto ritorno a Shelton per via della sua amica Fenella, che aveva partorito una bambina. Quella nascita mi rallegrò molto e sperai che fosse preludio a un cambiamento, almeno per Vere. Ma se a Shelton si festeggiava la vita, la morte aveva toccato Challant. E quando a corte giunse la notizia della scomparsa di Lady Annabelle, decisi di affrontare mio padre, il Despota. Accadde durante una riunione informale. Non volevo più temporeggiare e procedevo spedita verso la sala delle udienze. Arrivata mi ritrovai due guardie a presidiare.

- Devo conferire col Despota.

Proclamai.

- Al momento Sua Maestà è impegnata.

Mi rispose la prima.

- Non importa, troverà tempo per me.

- Anche se si tratta di voi, Milady, non possiamo transigere. Sua Maestà ha dato ordini precisi.

Affilai lo sguardo.

- Lo so bene. Mio padre non lascia mai niente al caso, ma si tratta di un’urgenza per la quale non posso assolutamente attendere oltre.

- Milady, per favore, non metteteci in una posizione scomoda.

Disse la seconda.

- Volete forse dei cuscini? Sarà più facile trovare una posizione comoda. E in tal caso, ricambierete il favore lasciandomi entrare.

Le due guardie si scambiarono uno sguardo.

- Che c’è?

Domandai.

- Nonostante il vostro umorismo, non potete passare.

A quel punto dovetti valutare un piano B. E così decisi di usare le maniere forti. Puntai una delle spade che ornavano lo stemma tridimensionale del casato Rosenkrantz, posto proprio sul muro che costeggiava il corridoio. Ogni volta che un nuovo Despota era eletto, lo stemma veniva cambiato a seconda della sua provenienza e collocato accanto alla sala delle udienze, affinché tutti potessero ricordare l’appartenenza del Despota al determinato casato. Per la mia famiglia, lo stemma era composto da due spade intrecciate avviluppate da quattro rose bianche e nere.

- E’ davvero un peccato… allora tornerò più tardi…

Borbottai, facendo qualche passo indietro.

Le guardie fecero un inchino e approfittai di quel momento per afferrare una delle spade, quella più vicina. Ma prima ancora di riuscirci, la porta dietro di noi si aprì. Rimasi col braccio sospeso a mezz’aria, vedendo Grayling che stava varcando la soglia. Austero tanto quanto mio padre, si voltò verso di me.

- Che state facendo, Lady Cerulea?

- Ehm… stavo soltanto controllando… mi pareva che questa spada si fosse allentata…

Grayling si avvicinò per controllare di persona.

- Queste spade sono state infisse. Non c’è alcun pericolo.

- Meno male, meglio così…

- Dunque, qual è il vero motivo per cui siete qui?

Mi ricomposi, soprattutto quando gli ospiti di mio padre, un manipolo di persone appartenenti alla famiglia Delacroix, uscirono dalla sala, salutandomi con un inchino, per poi proseguire.

- Vorrei conferire con mio padre.

- E non potevate attendere?

- L’ho già fatto, Grayling. Posso andare?

Grayling si assicurò che non vi fossero altri occupanti salvo mio padre, poi annuì.

- Non fatelo stancare. Ha già troppi pensieri per la testa.

- C’è qualche problema?

- Nulla che vi possa interessare, Milady.

Sbuffai. Ero sempre la ruota di scorta. Salutai Grayling e le guardie, scusandomi per il mio comportamento, poi mi feci animo e raggiunsi mio padre, che sedeva, con le dita impegnate a massaggiare la tempia.

- Padre mio…

Sollevò lo sguardo, che mi sembrò affaticato.

- Padre, come vi sentite?

Domandai, preoccupata, avvicinandomi.

- Celia. Sono solo un po’ stanco.

- Dovreste riposare di più…

- Il Despota dev’essere sempre vigile, figlia mia.

Annuii.

- Posso sedermi, padre?

Lui assentì, scrutandomi con gli occhi azzurri, bordati da rughe profonde. Il suo volto serio e composto era scavato da solchi che gli conferivano un aspetto ancora più anziano, nonostante non lo fosse. Mi sedetti accanto a lui, prendendogli la mano e portandola alla guancia.

- Cosa ti succede, Celia?

Domandò, sospettoso.

- Nulla… sono solo in pena per voi…

Confessai.

- Sta’ tranquilla. Tuo padre è forte.

Sorrisi. Aveva ragione. Era sempre stato così ed era un punto fermo nella mia vita, così come lo era diventato anche Greal.

- Padre, vorrei chiedervi qualcosa…

- Mi sembrava strana tutta la tua premura, effettivamente…

Borbottò, divertito.

- Guardate che mi preoccupo davvero!

Protestai, guardandolo. Gli somigliavo molto, soprattutto quanto a temperamento.

- Non ne dubito. Dimmi pure.

Deglutii. Avevo catturato la sua attenzione e quello era il mio momento.

- Ecco… voi avete saputo certamente della scomparsa di Lady Annabelle Valdes, non è così?

Ne suscitai la curiosità e annuendo, mi fece segno di continuare.

- So che la famiglia Valdes vi è molto cara e che Lord Leutwin è un vostro amico di gioventù, a Challant… per questo motivo, per il sodalizio che unisce le nostre famiglie, col vostro permesso, vorrei recarmi a Challant per portare personalmente il vostro cordoglio.

Aggrottò le sopracciglia, scrutandomi. Cercai di apparire quanto più determinata possibile, ma il mio cuore in quel momento stava galoppando a briglia sciolta per la tensione.

- E’ per Ademar?

- Eh?

Gli feci eco, poi arrossii. In realtà era per Greal, ma mio padre non poteva certo immaginarlo. Ad ogni modo, prima ancora che potessi rispondergli, fu lui a farlo, sorprendendomi.

- Va bene. Leutwin è sempre stato importante per me e anche Annabelle era una cara amica, e purtroppo al momento non posso allontanarmi. Così sia, Celia, ma esigo che tu sia scortata.

- Naturalmente! Potrebbe venire Alizea con me!

- Quello è scontato.

- Perfetto, allora è deciso!

Esclamai, felice. Mio padre inarcò il sopracciglio chiaro.

- Potrei assegnarti una decina di guardie…

Mi rabbuiai improvvisamente, sconvolta.

- No! No, padre!

- Mh?

Mi fece il verso, contrariato.

- Intendevo dire che una decina di guardie darebbero troppo nell’occhio… però… però… ma certo, potrebbe venire qualcuno della squadra di difesa con me!

Proposi, pensando a Gregor. Mio padre studiò la mia soluzione, senza avere da ridire.

- Warrenheim…

- Chi?

- Lascia stare. Sarà già a Challant, così come il giovane Valdes.

Cercai di trattenere più possibile il sorriso al pensiero di Greal.

- C’è Gregor Lambert!

Esclamai.

- Lambert? Il tizio che ha sposato la cugina di Vanbrugh?

Deglutii sperando che soprassedesse sulla fastidiosa questione dei ranghi. Annuii.

- E’ un’ottima guardia. L’ho visto in azione qualche volta e vi posso assicurare che con lui al seguito non avrete di che preoccuparvi.

Mi osservò per un lungo istante, poi sospirò.

- Data la tua argomentazione, direi che non posso aggiungere altro. Va’ a sistemare le tue cose, partirete domani stesso. E mandami Grayling. Sarà bene che gli dia istruzioni.

- Va bene! Grazie, padre!

Esclamai, stringendo la sua mano e sporgendomi, dandogli un bacio sulla guancia. Mi guardò sorpreso.

- Pensavo che avessi deciso di essere troppo grande per questo genere di smancerie.

- Lo sono… ma rimango pur sempre la vostra bambina, no?

Sorrisi e lui fece altrimenti. Amavo il sorriso di mio padre e presto, purtroppo, non avrei più avuto modo di vederlo.

E così, anche se per un motivo che avrei preferito non fosse vero, lasciai Adamantio per raggiungere Challant. Durante il viaggio, mentre Alizea e le cameriere viaggiavano nella carrozza dietro la nostra, Gregor e io avemmo modo di chiacchierare a lungo del più e del meno e Gregor mi raccontò molti altri aneddoti del suo passato con Greal.

- E così quella volta fummo messi entrambi in punizione. Ah, ma non me l’ha fatta passare liscia poi… al contrario, mi ha letteralmente costretto a eseguire anche le sue mansioni.

Sbattei le palpebre, mentre fuori dalla carrozza, tutto attorno, la neve aveva cominciato a sciogliersi.

- Greal è un sadico…

Gregor annuì.

- Posso confermartelo, sì. Ma nonostante tutto, non mi ha mai lasciato affrontare da solo le difficoltà. Anche quando Vere e io abbiamo deciso di sposarci, nonostante tutti le avessero voltato le spalle, Greal e i Trenchard sono stati i soli a incoraggiarci. Certo, lui l’ha fatto a suo modo, ma non avrei mai potuto contare su un alleato migliore.

- Gli vuoi molto bene, eh, Gregor?

Domandai, sorridendo. Gregor annuì.

- Ma non dirglielo. Non gli piace sentirselo dire.

Convenni e mi appoggiai allo schienale, lanciando uno sguardo all’esterno.

- Sai, Celia…

Disse dopo qualche secondo Gregor. Lo guardai con la coda dell’occhio. Per la prima volta da che lo conoscevo, mi sembrò imbarazzato. Quella sua difficoltà mi incuriosì.

- Che succede?

Gregor mi guardò, poi sorrise.

- Pensavo soltanto che per Greal sei stata una benedizione.

- Eh?

Gli feci eco, stupita, raddrizzandomi.

- Beh… Greal è sempre stato il tipo di persona che non aveva particolari interessi al di là della sua missione. Sin da piccolo, è stato appassionato di strategia, tanto che lui e Lord Leutwin passavano ore intere a giocare a scacchi o quel tipo di passatempi da mal di testa cronico… crescendo, è diventato l’orgoglio del padre, persino più di Ademar, che era il primogenito. Diversamente, Lady Annabelle si preoccupava per il destino di Greal, sempre e solo così preso dall’idea di proteggere Challant che sembrava completamente estraniato dal resto del mondo. E poi, all’improvviso, sei arrivata tu e hai scosso… anzi no, hai rivoltato completamente la sua vita. Sin da quando ci siamo incontrati, non ho mai visto Greal sorridere davvero. Anzi, a dirla tutta, non l’ho mai visto nemmeno sorridere. Come se ciò che gli accadeva intorno non lo toccasse realmente. Invece con te, sorride molto più spesso. E per giunta, nei suoi occhi c’è una luce diversa ogni qualvolta siete insieme. E per questo, ti ringrazio Celia…

Rimasi profondamente turbata nel sentire quelle parole. Non mi ero mai resa conto di avere un tale ascendente su di lui. Ma dovevo ammettere che in qualche modo lo capivo. Amavo vedere Greal sorridere e immaginavo come questo dovesse rendere felice Gregor, che era il suo compagno più fidato.

- Gregor…

- Continua a essere la sua luce, Celia. Affinché non venga divorato di nuovo dall’oscurità. Credimi, è molto più incombente di quanto sembri.

- Che vuoi dire?

Domandai, perplessa. Gregor attese prima di rispondermi e quell’attesa mi turbò. Poi, si voltò verso il finestrino. Oramai, eravamo in vista della residenza Valdes, nelle campagne fuori Velsen. Lady Annabelle era spirata lì e prima di morire, aveva chiesto di essere sepolta in quel luogo che tanto amava.

- Greal ti ha mai detto che soffre di incubi?

Mi domandò.

- N-No…

Replicai, stupita.

Gregor sospirò.

- Capisco.

- Gregor, devo preoccuparmi?

Gregor tornò a guardarmi, scuotendo la testa pensieroso.

- Mi auguro di no.

E fu così che giungemmo a palazzo, dove trovammo ad attenderci Lord Leutwin assieme ai propri figli. Quando scendemmo, vidi per la prima volta Greal con abiti diversi dall’uniforme e ne rimasi affascinata. Sembrava ancora più giovane, con indosso un farsetto ecru sotto alla pesante giacca appena più scura. Non appena ci vide, si inchinò, così come fecero Lord Leutwin e Ademar. Mi fermai davanti al capofamiglia, inchinandomi a mia volta, mentre Gregor mi affiancava.

- Lady Cerulea. A nome della famiglia Valdes, vi do il benvenuto nella nostra tenuta. Vi ringrazio infinitamente per l’onore che vostro padre, il caro amico Tantris, ci ha concesso. La vostra presenza qui ci è davvero di conforto.

Disse Lord Leutwin, impeccabilmente. Eppure, il suo sguardo era triste. Il dolore della perdita dell’amata moglie l’aveva turbato profondamente.

- Milord. A nome di mio padre, vi porto personalmente il nostro calore e il nostro sostegno. Sua Maestà è profondamente addolorata per la scomparsa di Lady Annabelle e desidera che sappiate che sia voi che i vostri figli troverete in noi appoggio e comprensione. A nome mio, permettete che vi dica che pregherò per Lady Annabelle, affinché possa continuare a vegliare su di voi e su Lord Ademar e Lord Greal.

Dissi, prendendo le sue mani e baciandole. Quel gesto inconsueto stupì tanto sia Lord Leutwin, che a stento trattenne la commozione, sia la mia Alizea, che tuttavia, non tralasciò di squadrare a dovere Greal. Quest’ultimo fu impeccabile. Nessuno avrebbe potuto sospettare cosa ci fosse tra noi. Oramai, in quasi un anno, avevamo imparato a fingere di essere estranei, mantenendo molto bene le distanze in pubblico. Raggiunsi Ademar, che mi baciò la mano. Diversamente da Greal, portava un completo nero, molto più ricercato.

- Milady, è un piacere avervi qui. Mi auguro che il soggiorno possa essere di vostro gradimento. Ovviamente, rivolgetevi a me per qualunque esigenza, sono a vostra disposizione.

Scossi appena la testa. La madre era morta e lui pensava ad accomodarmi.

- Vi ringrazio, Milord. Ma al momento, la sola cosa che mi sta a cuore è che voi possiate avere il conforto che meritate.

- Naturalmente. Siete molto gentile, Milady.

Accennai un sorriso, poi mi avvicinai a Greal. Feci uno sforzo tremendo per trattenere le lacrime ed evitare di corrergli tra le braccia, e lui fu magistrale nel venirmi incontro. Si inchinò, baciandomi a sua volta la mano. Il solo segno, invisibile agli occhi degli altri, fu la sua presa forte attorno alla mia mano.

- Lord Greal, vi porgo le mie più sincere condoglianze.

- Grazie, Milady. Mia madre avrebbe certamente apprezzato la vostra premura.

Avrei voluto accarezzargli la guancia, in quel momento, ma non potevo. Lord Leutwin chiamò la servitù e quel momento di cordoglio ebbe fine lì, almeno per noi, mentre Gregor si intrattenne con Greal. Intanto, io ebbi modo di sistemarmi in una delle stanze che davano sui giardini interni. Mi avvicinai alla finestra, mentre Alizea finiva di svuotare il mio baule da viaggio.

- Lady Annabelle aveva un gusto piuttosto fine e amava particolarmente questa tenuta.

Disse, una volta che ebbe chiuso il baule.

Annuii, osservando la finezza di quegli arredamenti in legno di ciliegio e delle decorazioni rampicanti sui muri, per non parlare della delicatezza delle tende in seta rosata.

- Siete stanca, Celia?

Effettivamente lo ero, dopo un viaggio alquanto lungo. Ed era oramai l’imbrunire.

- Mi aiuti, per favore?

Le domandai, cercando di spuntare il mio abito da viaggio.

- Vorrei cambiarmi.

- Arrivo, arrivo.

Mi fece eco, prendendo un altro abito e posandolo sul letto. Poi venne ad aiutarmi col vestito, scostandomi i capelli.

- Ho visto per bene quel bel ragazzo.

Disse, e mi voltai di scatto verso di lei, imbarazzata.

- C-Cosa?

- Lord Greal, naturalmente. Ha i modi del padre.

Annuì, convinta. La guardai sconvolta mentre il mio cuore prese a battere più velocemente. Effettivamente, su questo aveva proprio ragione.

- Alizea… credi che potrà mai esserci futuro per noi?

Le domandai. Lei mi guardò riflettendoci per qualche istante, ma a giudicare dalla difficoltà dipinta nella sua espressione, avrei dovuto immaginare la risposta. Mi fece voltare nuovamente, spuntando i bottoni man mano. Respirai, quando mi liberò dall’abito stretto.

- Se solo lui fosse il primogenito, immagino che a vostro padre andrebbe bene… ma non potete decidere voi, Celia…

Guardai il mio riflesso alla finestra, ripensando alle parole di Greal. Un giorno, saremmo stati liberi di sposarci. Ma per il momento, dovevo sottostare alla volontà di mio padre. D’improvviso sentimmo bussare alla porta e trasalimmo.

- Accidenti, ma chi è? Avrei dovuto avvisare di lasciarci almeno un’ora di tranquillità.

Sbottò, mettendomi sulle spalle il mantello. Poi andò a controllare e io sbirciai appena. Si trattava di una delle nostre cameriere che era venuta ad avvisare Alizea di un problema con i bagagli. Quest’ultima sospirò, protestando per la mancanza di iniziativa delle cameriere. Poi si rivolse a me, dicendo che sarebbe tornata quanto prima e di attenderla, ed uscì. Mi sedetti sul letto, sfilandomi il vestito. Ero rimasta in sottoveste e mi strinsi nel mantello, osservando i quadretti che adornavano la stanza. Molti di essi raffiguravano paesaggi. C’era persino un tavolino con una tovaglietta candida e del the alle rose ben caldo. Evidentemente, avevano saputo che mi piaceva. Tuttavia, non avevo ancora voglia di mangiare. Al contrario, mi alzai di nuovo, sistemando meglio il mantello e avvicinandomi alla porta. Feci per aprirla, guardinga, quando sentii bussare.

- Alizea?

Domandai, preoccupata. Dietro l’anta di legno possente, sentii appena la voce bisbigliata di Gregor.

- Celia, sei sola?

Aprii appena appena, guardandolo mentre osservava guardingo tanto quanto me.

- Sì, ma… che ci fai qui?

Domandai, coprendomi bene. Dal momento che avevo fuori solo la testa, non si accorse della mia mise. Mi rivolse un sorriso sornione e mi fece l’occhiolino. Io lo guardai in tralice.

- Che…

- Vai!

Non feci in tempo a chiudere la porta che Gregor la aprì e spinse Greal all’interno.

- Greg--

Esclamammo a mezza voce entrambi, quando quel rozzo Cupido ci chiuse dentro. Ero talmente sconvolta che rimasi ferma, stringendomi nel mantello. Greal fece per aprire, ma Gregor aveva fatto in modo di bloccare la porta.

- Gregor! Apri subito questa porta!

Sbattei le palpebre, incredula. Poi, Greal si voltò verso di me. E se io ero incredula, quando lo vidi sgranare gli occhi nel vedermi, capii che anche Greal era in grado di sconvolgersi.

- C-Celia?

- I-Io stavo per cambiarmi d’abito…

Greal annuì, cercando di riaprire.

- Gregor! Gregor! Maledizione, non ora, idiota!

Sentirlo così arrabbiato, ma soprattutto con un filo di imbarazzo nella voce, mi fece sorridere. E poi mi resi conto che eravamo soli, dopo tanto.

- Greal?

- Non guarderò. Non preoccuparti.

Deglutì e quel suo imbarazzo mi fece tenerezza. Anche se c’era da ammettere che Gregor aveva scelto una pessima occasione, considerando il fatto che la madre di Greal era morta da poco tempo. Lo raggiunsi, prendendo le sue mani. Greal si voltò verso di me, stupito.

- Celia?

Gli sorrisi, poi lo abbracciai forte.

Quel gesto dapprima lo colpì, ma poi, ricambiò il mio abbraccio, stringendomi. Sentii le sue mani che affondavano nei miei capelli, poi sollevai lo sguardo e ci fissammo.

- Non mi sembra vero di averti qui. Quando mi hanno detto che saresti venuta, non riuscivo a credere alle mie orecchie.

Sorrisi.

- Ho chiesto a mio padre di poter venire in sua rappresentanza per via del rapporto di personale amicizia tra lui e tuo padre… poi, Lady Annabelle gli era molto cara e per di più… per quel che mi riguarda… desideravo tanto starti accanto, in questo momento…

Le sue sopracciglia scure fremettero, poi assentì.

- Grazie, Celia.

Annuii a mia volta, poggiando la testa contro il suo petto.

- Mi dispiace così tanto…

- Lo so. Anche a me. Le piacevi, sai?

- Davvero?

Gli feci eco, cullandomi sul battito regolare del suo cuore.

- Diceva che saresti stata un’Imperatrice coi fiocchi, se non avessimo avuto la successione maschile.

Sorrisi a quel pensiero folle, poi lo guardai.

- Doveva essere un tipo divertente.

- Qualcosa del genere.

- Non hai preso da lei.

- No, decisamente.

Tornai a guardarlo, ancora stretta nel suo abbraccio, e così fece lui.

- Si sta al caldo, tra le tue braccia…

- Mpf. La tua balia dov’è?

- E’ stata chiamata da una delle nostre cameriere… pare ci fossero problemi coi bagagli…

Greal aggrottò le sopracciglia. Poi comprendemmo.

- Gregor.

Sospirammo entrambi.

- Mi aiuti a indossare l’altro abito?

Gli domandai, effettivamente un po’ troppo imprudentemente, dal momento che distolse lo sguardo.

- Forse sarebbe meglio se attendessi la tua balia…

Annuii, arrossendo. E poi mi scostai da lui, imbarazzata. Andai verso il letto, su cui Alizea aveva adagiato il cambio, col cuore che era lì lì per impazzire. Ogni passo era diventato inspiegabilmente pesante. E quando mi voltai di nuovo verso Greal, incrociando il suo sguardo turbato posato su di me, mi ritrovai in un istante col fiato sospeso e la testa che mi girava. Gemetti, quando ci ritrovammo a guardarci e poi a coprire in un attimo soltanto i pochi passi di distanza tra noi. Il mantello mi scivolò dalle spalle, mentre tornavamo uno tra le braccia dell’altra e ci baciammo, con la foga della nostra gioventù, col bisogno di chi bramava l’anima della persona amata e finalmente poteva riassaporarla, con entusiasmo, impazienza, eccitazione. E fu diverso da prima. Nuovo. Era come riscoprirsi, ma in un modo che non avevamo ancora sperimentato. Le nostre mani si intrecciavano mille e mille volte. Le labbra di Greal erano tormentate e cercavano le mie. E quando sentii che scendevano lungo il mio collo nudo il piacere si diffuse in me come una scarica elettrica ad alto voltaggio. Trasalii, sfilandogli il nastro di seta nera che teneva legati i suoi capelli scuri, che ricaddero appena sulle spalle. Greal mi prese in braccio, spingendomi contro il muro dietro di noi. Con le braccia avvolte attorno al suo collo, e sentendo il suo corpo premuto contro il mio, continuammo a baciarci, impetuosamente. E tornammo a guardarci, scoprendo per la prima volta nelle nostre vite, cosa significasse provare desiderio. Ansimammo, incerti e sconvolti. Poi Greal riacquistò compostezza, scostandosi appena affinchè potessi muovermi.

- S-Scusami...

- V-Va tutto bene… perché ti scusi?

Domandai, sentendomi le guance calde. Sospirò, mettendo le mani tra i capelli.

- Non avrei dovuto… io non… davvero, non so che mi è preso.

- Greal, va bene così… i-io… a me… a me va bene…

Mormorai, incredula nel sentire le mie stesse parole. Greal scosse la testa.

- No. Non qui… non ora…

Mormorò, aggrottando le sopracciglia, turbato in un modo che non avevo mai visto su di lui. E ne compresi la ragione. Era ancora in lutto. Annuii, accarezzandogli la guancia.

- Lo capisco, Greal…

Distolse lo sguardo, poi si scostò e andò a prendere il mio mantello, che giaceva a terra a pochi passi da noi. Non dicemmo nulla, né quando tornò rimettendomelo sulle spalle, né quando mi baciò in fronte.

- Scusami…

Disse poi. Annuii.

- Sarà meglio che vada. Ci vediamo a cena.

- Sì, va bene… a più tardi…

E trovando la porta libera, andò via, lasciandomi sola col mio cuore in tormento e il nastro nero che si era dimenticato di riprendere.

Quella sera, il clima a cena fu sobrio e riservato. Trascorsi molto tempo a conversare con Lord Leutwin, scoprendo una persona che amava profondamente la propria moglie e che nonostante il dolore vivo, parlava di lei col sorriso sulle labbra. Mi raccontò della loro amicizia con mio padre e anche di mia madre. Rimasi affascinata da quei racconti dei tempi passati e spesso mi commossi. Ademar e Greal ci fecero compagnia, seduti su un divano pregiato. Non si poteva non pensare che quei due fossero identici a come apparivano nel ritratto di famiglia, dipinto quand’erano ancora due ragazzi, nonostante fossero cresciuti. Le espressioni sui loro volti non erano cambiate. Greal era serio e ascoltava con pazienza il racconto del padre. Ademar era interessato, ma spesso il suo sguardo cadeva su di me, anche troppo per quanto avessi potuto gradire. Per di più, il pensiero di cos’era accaduto prima con Greal mi imbarazzava e spesso abbassavo lo sguardo. Quando poi decidemmo di ritirarci, mi chiusi nelle mie stanze, dopo aver congedato anche Alizea. Mi avvicinai alla finestra e scostai le tende, sospirando. E dopo un po’, vidi strane ombre aleggiare nel cortile interno. Insospettita, uscii sul balcone, guardando meglio. Intravidi qualcuno che passeggiava nei giardini.

- Chi c’è?

Domandai, preoccupata. Accostai la tenda perché la luce mi fosse d’aiuto, e dopo poco, Ademar si voltò verso di me.

- Lady Cerulea!

Esclamò, sollevando il braccio in segno di saluto.

- Lord Ademar! Che ci fate fuori a quest’ora? E’ tardi!

Esclamai. Lui sorrise, poi si avvicinò. Le mie stanze erano al primo piano, e c’erano almeno tre metri d’altezza a separare il balcone da terra.

- Mi piace passeggiare al chiaro di luna. Lo trovo rilassante, prima di andare a dormire.

Guardai il cielo. La luna, così lontana, emanava una fioca luce.

- Prenderete un raffreddore con questo freddo!

Gli feci notare, sfregandomi le braccia. Ademar si mise a ridere.

- Credetemi. Sono molto più abituato a questo di quanto sembri.

- Beato voi.

- Vi va di raggiungermi?

Scossi la testa, ero davvero stanca.

- Magari un’altra volta. Sono piuttosto stanca…

- Una fanciulla piena di energie come voi è stanca a quest’ora?

Mi domandò, incuriosito. Quelle parole mi fecero imbronciare.

- Mi state sfidando, Ademar?

Replicai. Lui sollevò le braccia a mezz’aria.

- Siete voi a dirlo.

Feci per replicare di nuovo, poi sospirai.

- A domani, Ademar. Buonanotte.

Ademar mi rivolse un inchino.

- A domani, Milady. Sogni d’oro.

Perplessa, chiusi la finestra dietro di me e tirai le tende. Ademar era davvero un tipo strano. E decisamente molto diverso da Greal. Chissà cosa stava facendo… raggiunsi il letto, sdraiandomici e rannicchiandomi nelle coperte ancora pesanti. Quel calore mi rilassò e presto, col pensiero volto a Greal, scivolai nel sonno.

L’indomani, un messaggero giunse da Velsen con una richiesta di rientro nella capitale per Lord Leutwin. Greal si offrì di accompagnare il padre, che tuttavia, rifiutò, scegliendo Ademar.

- Dal momento che sarà lui il prossimo capofamiglia, sarà bene che venga con me.

Si giustificò. Ademar accettò di buon grado. Nonostante fosse un tipo piuttosto strano, era responsabile e prendeva molto seriamente il proprio ruolo.

- Spero davvero di rivedervi presto, Lady Cerulea. E anche che prima o poi vorrete concedermi una passeggiata al chiaro di luna.

Mi disse, nel congedarsi da me. Erano davanti alla carrozza che li avrebbe riportati in città, e io ero rimasta assieme a Greal e a Gregor. Quest’ultimo fece qualche colpetto di tosse, che non sfuggì ad Ademar. Affilò lo sguardo, seccato.

- C’è qualche problema, capitano Lambert?

Gregor continuò a tossire.

- No, Milord. Sono soltanto un po’ raffreddato.

- Allora sarà meglio che guardiate da lontano la nostra Lady. Non vorrei che la contagiaste.

- Non preoccupatevi, prenderò le mie precauzioni.

Rispose, mettendo la mano davanti alla bocca. Greal sospirò, poi si rivolse ai familiari.

- Fratello, padre mio. Non appena Lady Cerulea sarà tornata ad Adamantio, vi raggiungerò.

Ademar sorrise.

- Non farci attendere troppo, fratellino.

Greal lo guardò impassibile, poi cercò lo sguardo del padre che annuì.

- Ti affido Lady Cerulea, allora. E, Milady… portate i miei saluti e i miei ringraziamenti a vostro padre, il Despota. Non appena avrò la possibilità di recarmi ad Adamantio, gli chiederò udienza. E grazie per la vostra presenza qui. Annabelle ne sarà certamente felice.

Annuii, prendendo le sue mani, coperte dai guanti. Quell’uomo mi piaceva. Serio e composto come Greal, e col cuore grande.

- Grazie a voi per la vostra disponibilità, Lord Valdes. Fate buon viaggio.

Dissi. Mi sorrise e ci congedammo.

Dopo la loro partenza, rimasi con Greal e Gregor, voltandomi verso di loro.

- Si può sapere che ti sei messo in testa, Gregor?

Domandai. Si grattò la nuca, poi inclinò la testa.

- Scusa. E’ solo che Ademar a volte è davvero insopportabile.

Greal fece spallucce.

- Cerca almeno di mantenere il contegno. Non voglio che Celia finisca nei guai per colpa della tua noncuranza.

Guardai Greal. Si preoccupava per me.

- Uff. Greal, Greal, se continui così prima o poi ti verranno i capelli bianchi.

Immaginai Greal coi capelli bianchi. Dopotutto, non sarebbe stato così male.

- E le rughe.

Trattenni una risatina. Greal lo fulminò con lo sguardo.

- Fuori dai piedi, Gregor.

Ogni volta rimanevo basita dal fatto che Gregor si rivolgesse con un tono così informale a Greal, ma soprattutto, dal fatto che Greal lo riprendesse in quel modo, nonostante tra i due fosse Gregor i più grande. Quest’ultimo sospirò, poi incrociò le braccia dietro alla testa e si allontanò imbronciato.

- Vado a fare una chiacchierata con la mia Vere. Lei sì che mi capisce…

Disse sconsolato.

Lo salutai con la mano, rivolgendogli un sorriso, mentre Greal lo guardò di sottecchi. In ogni caso, Gregor sparì dalla nostra vista in pochi istanti. Guardai Greal, avvolto nella sua giacca pesante. Faceva ancora freddo, nonostante fossimo vicini alla Renaissance. Sarebbe stato un anno esatto da quando ci eravamo incontrati.

- Ti va di vedere le campagne di Challant?

Mi propose, a sorpresa. Annuii, entusiasta da quella proposta. E così, quel giorno ci demmo all’esplorazione delle campagne, nella tenuta Valdes. Scegliemmo di non volare, ma di camminare. Greal sapeva quanto desiderassi vedere il mondo e in quel modo, avrei potuto osservare ogni singolo dettaglio, cosa che dall’alto, mi sarebbe stata impossibile. Nonostante il freddo, fu una delle più belle e più importanti giornate di cui avevo memoria, ma anche la prima in cui compresi le parole di Gregor sull’oscurità incombente. Greal mi mostrò tutti i posti in cui giocava da bambino e mi raccontò diverse storie a proposito. Assieme ad Ademar e al loro padre, si recavano a caccia, e insieme a Lady Annabelle, che spesso cercava la compagnia del figlio per le sue passeggiate, aveva imparato a distinguere le varie specie vegetali che popolavano quelle tenute. Immaginai di vederlo da piccolo, mentre correva e giocava divertito e quel pensiero mi fece tenerezza.

- Dimmi che sorridevi più spesso di quanto fai ora, Greal.

Gli dissi, provocatoriamente, mentre camminavamo a braccetto lungo il sentiero battuto.

- Diciamo che avevo pensieri differenti per la testa. E più motivi per farlo.

- Mi sarebbe piaciuto vederti da piccolo…

Greal mi guardò con la coda dell’occhio.

- Saresti stata comunque più giovane di me.

- Ma solo di pochi anni, eh?

Gli ricordai. Lui annuì.

- Guarda là.

Indicò un ponticello e lo raggiungemmo. In quel punto, il vento spirava più forte che da altre parti. Greal mi spiegò che si trattava di una sorta di incrocio dei venti e dovetti stringermi maggiormente nel mantello per il freddo. Ma ero affascinata da quel gioco d’aria, e non potevo fare a meno di osservare il viso rilassato di Greal mentre l’aria fredda lo lambiva, portando all’indietro i suoi capelli scuri. Sotto di noi, intanto, l’acqua di un ruscello scorreva appena, sotto la superficie ancora ghiacciata. Ormai erano trascorse diverse ore da quando ci eravamo messi in marcia ed eravamo piuttosto lontani dalla residenza. Avevamo lasciato Alizea che prima di lasciarci andare ci aveva affidato una bisaccia e aveva avvisato Greal, in modo abbastanza esplicito, di essere la mia ombra. E Gregor, impegnato a conversare con Vere e con il piccolo Shemar, ci aveva augurato di approfittarne. Ovviamente, Greal l’aveva minacciato di morte dolorosa, per quel commento.

- Il tempo sta peggiorando. Tra non molto nevicherà di nuovo.

Disse Greal, scrutando il cielo.

- Sei bravo a fiutarlo…

Notai. Lui mi guardò.

- Devo ringraziare mio padre per questo. Mi ha insegnato molto.

Sorrisi.

- Quanto vorrei che mio padre fosse così…

Bofonchiai. Lui mi accarezzò la testa.

- Andiamo.

Suggerì, incamminandosi oltre il ponticello.

- Ma… non torniamo indietro?

- Non faremmo in tempo. E’ preferibile attendere che la precipitazione faccia il suo corso e poi tornare.

Perplessa, lo raggiunsi, mentre camminava a passo svelto. Stargli dietro era difficile.

- E dove andiamo?

Domandai.

- Conserva il fiato e seguimi.

Rispose, ignorando la mia domanda. Mi accigliai, ma nel vederlo così concentrato, compresi che stava cercando qualcosa. Avrei dovuto fidarmi di lui e l’avrei fatto senza batter ciglio. Nel percorrere quel sentiero, fummo colti dalla neve, che prese a cadere sin da subito copiosamente.

- Oh no!

Esclamai, incredula. Ad Adamantio non cadeva certo con tutto quell’impeto. Eppure, da qualche tempo, i peggioramenti improvvisi si erano fatti più frequenti, ovunque.

- Vieni, Celia!

Greal mi prese la mano e nell’arco di cinque minuti, raggiungemmo un piccolo chalet abbandonato.

- E quello cos’è?

Domandai, infreddolita.

- E’ un rifugio che i cacciatori dei villaggi vicini utilizzavano in passato.

Spiegò, spalancando con non poca difficoltà la porta, che doveva essere rimasta chiusa per parecchi anni. Mi infilai immediatamente all’interno, togliendo il mantello innevato non appena Greal chiuse la porta dietro di noi. E quando aprì le ante di ferro delle finestre, avemmo un po’ di luce.

- Per il momento ci accontenteremo.

Disse, togliendo a sua volta il mantello.

- Che freddo fa, però…

Osservai, stringendomi le braccia.

- E’ più che normale, ora.

Si guardò intorno, poi posò la bisaccia che Alizea gli aveva affidato e raccolse dalla tasca un acciarino.

- E quello?

Domandai incuriosita, avvicinandomi.

- Durante la stagione fredda, lo porto con me. Può tornare utile.

Ciò detto, raccolse vecchi stracci e pezzi di legno, gettandoli nel camino e accese un fuocherello. Attese diversi minuti, con aria assorta, aspettando che il fuoco si ravvivasse. La luce delle fiamme conferiva un riflesso particolare ai suoi occhi. Mi sedetti accanto al camino e ben presto, riuscii a scaldarmi. Dopodiché, Greal si avvicinò al tavolo. Lo guardai mentre tirava fuori dalla bisaccia del cibo e il reid, che utilizzavamo per le comunicazioni a distanza. In un mondo in cui non esistevano i telefoni, avevamo sviluppato una tecnologia differente, ma ugualmente efficace. Si trattava di una piccola piattaforma non più grande di un portagioie, su cui era adagiata una sfera. Quando si attivava, si creava un campo di energia che permetteva di comunicare a distanza, anche di chilometri. Mi voltai a osservarlo.

- Greal? Hai visto che bella nevicata?

La voce di Gregor risuonò divertita nello chalet.

- Sì, ci ha colti all’improvviso. Siamo troppo lontani per tornare e al momento siamo al rifugio Dew.

- Ma bravi! Celia, Vere ti manda i suoi saluti!

Esclamò soddisfatto.

- Grazie, ricambia!

Esclamai a mia volta, divertita. Gregor aveva il potere di mettermi incredibilmente di buonumore. Greal mi guardò.

- Non appena la tempesta avrà termine, vieni a prenderci.

Disse.

- Perché? Al posto vostro approfitterei della vacanza!

- Vuoi che ti faccia venire ora?

Domandò, con un tono minaccioso.

- Fossi matto! Ci vediamo più tardi, comandante! Ciao, Celia!

- Ciao, Gregor!

Lo salutai.

- A dopo.

Lo congedò Greal, disattivando il reid.

Lo guardai.

- Sei stato promosso?

- Di recente. Al momento ho il comando della mia squadra.

- Che è composta da te, Gregor e Warrenheim, vero?

Gli domandai. Lui annuì, raggiungendomi.

- Anche se Lionhart passa più tempo con mio fratello che con noi.

- Non mi piace, lo sai?

- Perché?

Mi fece eco, sedendosi accanto a me e abbracciandomi. Mi accomodai tra le sue braccia, assaporando il suo profumo. Fuori dallo chalet, la neve continuava a cadere.

- Non lo so. E’ una sensazione.

- Da quando ti fidi delle sensazioni?

Chiusi gli occhi.

- In realtà è sempre stato così. E son poche le volte in cui mi sono sbagliata.

- Hai percepito qualcosa anche riguardo me?

Sorrisi.

- Certo. Eri un tipo noioso.

- Mpf. Non avevo alcun dubbio.

Disse, posando la guancia sulla mia testa e cingendomi meglio.

- Hai ancora freddo?

Mi domandò.

- No. Tra le tue braccia si sta bene.

Risposi.

- E tu?

Domandai poi.

- Sto bene.

Lo vidi tendere il braccio verso il fuoco, quasi a stiracchiarsi.

- Sei stanco, Greal?

Non rispose, ma tornò ad abbracciarmi.

- Greal?

Voltai la testa verso di lui. Aveva chiuso gli occhi.

- Ehi?

Li riaprì immediatamente.

- Tranquilla.

Sospirai, pensando alle parole di Gregor sugl’incubi di Greal. E ricordai che quand’ero bambina, soprattutto quando stavo male, Alizea mi cantava una canzone per farmi tranquillizzare. Certo, i miei incubi di bambina col tempo erano spariti, invece Greal continuava ad averli. Mi scostai.

- Che c’è?

Gli sorrisi, sistemandomi accanto a lui e rassettando le gonne del mio abito. Greal era perplesso.

- Vieni qui!

Gli dissi.

- Sono già qui.

Mi fece notare. Battei le mani sulle gambe.

- No, devi venire qui. Avanti.

Greal mi fissò, scettico.

- No.

Sbuffai.

- Ma è mai possibile che tu debba essere sempre tanto restio a fare quello che ti chiedo?

Domandai, impaziente. Greal guardò il fuoco scoppiettante.

- Non voglio… dormire.

Lo guardai stupita.

- Io… io non dormo molto.

- Per via dei tuoi incubi, vero?

Domandai. Greal si voltò nuovamente verso di me.

- E tu come… ?

Poi comprese.

- Gregor.

Sospirò, disperato.

Prima che potesse aggiungere altro, tesi le braccia verso di lui e lo tirai a me.

- Cel-- 

- Sta’ tranquillo… ci sono con te.

Sussurrai, facendo in modo che poggiasse la testa nel mio grembo. Sulle prime oppose un po’ di resistenza, ma alla fine, acconsentì. Doveva essere davvero molto stanco.

- Sei totalmente matta, Celia…

Sorrisi, accarezzandogli dolcemente i capelli.

- Sì, e non ti conviene fare mosse false.

Replicai. Poco a poco, sentii che si stava rilassando. Nei minuti che seguirono, cullati dal lento e ovattato cadere della neve e dallo strepitio del fuoco nel camino, finimmo col tranquillizzarci entrambi. E poi, quando chiuse gli occhi, cominciai a cantare qualche verso della canzone che Alizea mi aveva insegnato. Ne conoscevo diverse, ma quella era la mia preferita.

- Insieme a te, io starò per sempre… non temere mai, la tua mano stringerò… quando dormirai, sul tuo sonno veglierò, sai… ricorda che io ti proteggerò…

Poco a poco, sentii il leggero russare da parte di Greal, che si era addormentato. Trascorsi molto tempo a carezzargli i capelli, sussurrandogli ancora e ancora quella canzone, sperando che dentro di sé, potesse fare dei bei sogni. E quando mi resi conto che il fuoco si stava spegnendo, lo scostai con molta attenzione, spostandomi per ravvivare le fiamme. Ormai si stava bene, nonostante fuori non accennasse a smettere di nevicare. Mi avvicinai alla bisaccia, cercando qualcosa da mangiare, in modo che trovasse del cibo non appena sveglio. Mi piaceva l’idea di fare qualcosa per lui. E guardarlo dormire, così innocente, era davvero un dolce tocco per il mio cuore innamorato. Raccolsi il coltello dalla bisaccia e mi misi all’opera per pulire della frutta. Ma arrivata alla terza mela, sentii Greal lamentarsi nel sonno. Sobbalzai, tant’ero concentrata e finii col tagliarmi.

- Ahi…

Mormorai, lasciando mela e coltello e stringendomi la mano, sul cui dorso scorreva un rivoletto rosso. Raggiunsi Greal che si era voltato. Sul suo viso prima rilassato era comparsa l’agitazione.

- Va tutto bene, Greal…

Mormorai, accarezzandogli la guancia.

- No! No!

Ansimò, in debito d’ossigeno.

- Eh?

- Cosa volete?! Chi siete voi?!

Sbraitò, digrignando i denti. E quando scattò con un movimento fulmineo e mi strinse con forza il polso, mi preoccupai. La stretta era talmente ferrea che ben presto sentii un dolore radiante che si diffuse in tutta la mano.

- Greal, svegliati! Mi stai facendo male!

Esclamai. Ma quell’incubo, di qualunque natura fosse, lo aveva trascinato troppo oltre. Si dimenò più volte, tremò, urlò come se si fosse trovato davanti a un qualche avversario e avesse ingaggiato battaglia. Pronunciò parole senza alcun senso, come se stesse avendo a che fare con qualche sconosciuto. E poi allentò appena la presa, rantolando.

- Greal!

Urlai, preoccupata, quando la sua mano scivolò dal mio polso, ricadendo a terra con un tonfo sordo. Si era calmato all’improvviso, e la sola traccia di quell’incubo, oltre all’espressione stravolta, era il sudore che gli aveva imperlato il viso e il collo. Spaventata, gli spuntai sia la giacca, sia il farsetto, armeggiando con i lacci della sua camicia d’avorio, affinché potesse respirare meglio. Il polso mi faceva male e per giunta anche il dorso della mano, cominciava a bruciare.

- Numi, Greal! Dovrai sempre farmi spaventare così?!

Sbottai, sperando che riuscisse a riprendere fiato. Di colpo, spalancò gli occhi in una muta esclamazione, esalando un respiro profondo, ma strozzato.

- Greal!

 Mi alzai per prendere dell’acqua, ma mi bloccò. Mi voltai col cuore in gola, incrociando il suo sguardo in tralice.

- Celia?

Annuii, sconvolta.

- C-Come ti senti?

Si tirò un po’ più su, mollando la presa e osservandosi le mani. Poi riuscì a regolarizzare il respiro e solo dopo diversi istanti, riacquistò totalmente il controllo. Per tutto quel tempo, lo osservai ansiosa.

- Sto bene, adesso. Mi spiace di averti fatta spaventare.

- Spaventare è dir poco…

Mormorai, stringendomi il polso. Se ne accorse e mi prese la mano, studiando i solchi rossi della sua presa e notando il sangue. Aggrottò le sopracciglia.

- Dannazione…

- Ah, per il sangue, tu non c’entri. Mi sono tagliata mentre sbucciavo una mela…

Mi guardò stupito, poi carezzò delicatamente il mio polso dolorante. E a sorpresa, avvicinò la mia mano alla bocca, succhiando via il sangue dalla mia ferita di guerra. Arrossii violentemente a quel gesto e lo osservai sconvolta mentre con tanta concentrazione, mi ripuliva da quel rivoletto. Il mio cuore era impazzito e non riuscii nemmeno a parlare, tanta era l’intensità della strana sensazione che stavo provando. Quando allontanò le sue labbra da me, osservò con cura la mia mano, poi sollevò lo sguardo.

- Sapeva di mela, effettivamente.

- Eh?

Sbattei le palpebre incerta, a quel commento. Poi mi misi a ridere, quando lo realizzai.

- Tu sei matto.

Inarcò il sopracciglio. Vederlo così, adesso finalmente rilassato, mi fece tranquillizzare.

- Questo è sicuro.

Disse, con tono insolitamente remissivo.

- Sei preoccupato, Greal?

Domandai, accarezzandogli la guancia con la mano libera.

- No. Non direi di essere preoccupato. Il fatto è che da qualche tempo, i miei incubi si sono fatti più frequenti… e più vividi.

Mi disse quelle parole con una nota di incertezza. Come se avesse qualche remora a mettermene al corrente. Lo compresi, e sebbene volessi saperne di più, cercai di rassicurarlo.

- Se non ne vuoi parlare oltre, va bene… non devi preocc--  

- Da quando ti ho incontrata, alcuni di questi riguardano anche te.

Disse invece, e sobbalzai.

- C-Come?

Sospirò, guardando il fuoco scoppiettante e d’improvviso il suo sguardo si fece vacuo, come se si fosse concentrato su una visione più generale. Attese prima di parlare, probabilmente cercando di ricollegare i pezzi.

- Sin da quand’ero bambino, ho sofferto di incubi. Ne facevo tanti, ma senza riuscire a dare una spiegazione. La maggior parte delle volte, erano dovuti alle mie paure, a causa dei pessimi scherzi di mio fratello maggiore. Ma col tempo, capii come scinderli. E ben presto, tra tutti quegl’incubi, i semplici sogni angosciosi dell’infanzia sparirono, mentre quelle visioni apocalittiche presero vigore. Per un certo periodo, mi è capitato di rado di averne. Per di più, vedevo Challant in fiamme, le urla della gente, i cadaveri per strada e riuscivo a percepire tutto il dolore di chi mi stava intorno. Era una sensazione terribile e al contempo, così reale che credevo lo fosse davvero. Ma non si fermava solo lì. Col tempo, ho assistito ad altri massacri e ad esecuzioni, ad Adamantio. E…

- … e?

Gli feci eco, ascoltando quel racconto con apprensione e timore. Da come ne parlava, sembrava convinto che quello che aveva visto non si limitava soltanto a una visione, ma che potesse esserci un’eventualità.

- E poi, ho visto te. Ti chiamavo, ma non mi rispondevi. Più cercavo di raggiungerti, più ti allontanavi. Correvi, e piangevi al tempo stesso. Non ti ho mai vista così spaventata come in quell’incubo. E non c’era la luce del giorno. Era tutto immerso nell’oscurità.

Presi fiato, angosciata.

- P-Poco fa… cos’hai sognato?

Si voltò verso di me, serio e attento.

- Due fanciulle. Entrambe ti somigliavano, ma una in particolare. Eppure, non era te.

Aggrottai le sopracciglia, perplessa.

- L’altra fanciulla aveva dei lunghi capelli neri e piangeva. E poi un cavaliere, vestito di bianco, che lottava e sterminava chiunque si trovasse sulla sua strada.

Improvvisamente, sentii gli occhi pungere. Senza che potessi oppormi, una lacrima mi segnò la guancia. Greal se ne accorse e scosse la testa.

- Celia?

- Oh, numi, Greal… come puoi convivere con quest’oppressione?

Mormorai, sconvolta. Il sol pensiero del dolore che doveva attanagliargli il cuore era terribile. Lui mi accarezzò la guancia, raccogliendo la lacrima sulle dita e osservandola con concentrazione.

- Col tempo, ho imparato.

Cercai di mandare giù il groppo che mi si era formato in gola, poi lo abbracciai forte. Biasimai tutta la mia impotenza e mi sentii in colpa per averlo costretto a vivere quest’ennesimo incubo.

- Mi dispiace, Greal! Mi dispiace così tanto!

Lui mi cinse, trattenendomi a sé con forza e più del solito. Quando avrei voluto essere capace di cancellare quel dolore… avrei fatto qualunque cosa pur di evitarglielo.

- Canta per me, Celia… canta ancora la tua canzone…

Mi sussurrò, disperato. E lo feci, sperando che almeno per poco, quel canto potesse alleviare la sua sofferenza. Cantai come mai avevo fatto prima, con la consapevolezza di farlo per qualcuno che amavo più della mia stessa vita. Affinché la tua anima in pena possa trovare sollievo… Greal mi guardò, con l’espressione più umana mai vista sul suo volto fino a quel momento, e quando finii di cantare, ancora stordita, ancora tra le sue braccia, mi scostò i capelli dal viso, con dolcezza e cura.

- Per quanto abbia mai potuto pregare i numi di Challant, nessuno di loro è paragonabile a te, dolce amore mio. Nemmeno la stessa Croix du Lac.

- Greal, non bestemm-- 

Non potei finire, perché mi baciò. Sgranai gli occhi per un istante e quando quel bacio diventò profondo e desideroso, dimenticai persino cosa stavo dicendo. Avvolti in un abbraccio reciproco, mentre fuori la neve aveva smesso di cadere, nell’ebbrezza della nostra gioventù, quel pomeriggio ci donammo l’uno all’altra, per la prima volta. 

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Capitolo 48
*** XVIII. 4 parte ***


Ciao a tutti e tantissimi auguri di buona Pasqua! :)

Mi raccomando ,ragazzi, mangiate tante buone uova, eh? E divertitevi soprattutto, tempo permettendo! Ne approfitto per aggiornare, nuova parte, altro evento drammatico, proprio quando Celia scopre qualcosa di inaspettato... vorrei tanto sapere che ve ne pare, spero che la storia di Celia vi stia piacendo! Che ne dite, secondo voi cosa accadrà? Theories or predictions? *_*

Ringrazio le mie anime pie (una dannata, ma va beh XD), i lettori e niente, ci risentiamo prossimamente! :) Buona lettura!!

 

 

 

 

I giorni trascorsero. Greal non tornò ad Adamantio prima di alcune settimane. Durante tutto quel tempo che avevamo passato così lontani, sperimentai tutte le sfumature della lontananza. E in qualche modo, mi servì da preludio alla nostra separazione. Certo, considerando il modo oramai irreversibile in cui si era evoluta la nostra relazione, quella mancanza non passò inosservata agli occhi di Alizea, che comprese al volo e finì col maledire il giorno in cui aveva accettato di farmi da balia. Del canto mio, quella sua reazione così spropositata mi fece innervosire e per lungo tempo, dopo un’accesa discussione che si era risolta in un nulla di fatto, a causa delle nostre differenti e intransigenti posizioni, non ci parlammo. Ma d’altro canto, l’assenza di mio padre, impegnato in questioni che solo dopo diverso tempo, scoprii che riguardavano i Delacroix, servì a ritardare ulteriormente le questioni relative al mio matrimonio. E così, quando Greal finalmente fece ritorno ad Adamantio, potemmo tornare a vederci. A causa della segretezza, conducevamo una vita da amanti, ma tutto quello mi andava bene, fino a che potevo stargli accanto. Era trascorsa la Renaissance, la bella stagione ci aveva accolti e avevo compiuto diciassette anni. Da allora, la mia vita cambiò radicalmente. Accadde durante un pomeriggio, mentre eravamo a casa di Gregor. Da qualche settimana, avevo qualche disturbo gastrico e d’equilibrio di cui ignoravo l’origine. Vere ascoltò tutta la cronaca dei miei malesseri e poi sospirò, scuotendo la testa con preoccupazione.

- Tu hai idea di cosa possa essere, Vere?

Le domandai, mentre svuotavo il bicchiere di succo di pompelmo rosa. Non mi era mai piaciuto particolarmente, ma Vere lo preparava spesso, dal momento che a Shemar piaceva molto. E in quel momento, lo trovai delizioso. Guardai Gregor e Greal parlottare tra loro davanti a una mappa, nel soggiorno della bella casetta Lambert. E il piccolo Shemar sonnecchiava sul divanetto in foggia preziosa, con espressione beata. Vere mi aveva raccontato che si era affezionato alla piccola Amber Trenchard e che aveva promesso di diventare il suo cavaliere da grande, suscitando l’orgoglio del padre e la tenerezza di Fenella, che non avrebbe desiderato di meglio per la piccina. Sorrisi, al pensiero di quell’eventualità, poi vidi Vere avvicinarsi al suo bambino, accarezzandogli amorevolmente i riccioli castani.

- Celia, perdona la domanda così personale, ma… tu e Greal… ?

Arrossii immediatamente comprendendo all’istante, complice il tono soffuso e velato con cui aveva posto quella domanda. Sospirò, intuendo la mia risposta.

- P-Perché?

Domandai, tutto d’un tratto, forse a voce troppo alta, perché sia Greal che Gregor si voltarono. Scoccai loro un’occhiataccia e mi alzai, raggiungendoli minacciosa. Gregor impallidì.

- C-C-Celia?

Greal inarcò il sopracciglio.

- Che c’è? Stiamo lavorando e tu disturbi.

Storsi la bocca.

- Bene, allora scusate e non distraetevi più!

Ordinai, chiudendo la porta e voltandomi nuovamente verso Vere.

- Allora?

Domandai, col cuore in gola.

Vere era stupita, poi soffocò una risatina.

- Vere, ti prego! Non posso parlarne ad Alizea perché abbiamo litigato! Se sai cosa mi sta accadendo, allora ti prego di dirmelo!

Esclamai, terrorizzata. Vere addolcì lo sguardo, guardando il suo bambino.

- Sembra proprio che tu sia incinta, Celia.

Sbattei le palpebre, preda di una sensazione indefinibile. D’improvviso, fui pervasa da una vampata di calore che mi attraversò ogni singola cellula del corpo, per poi concentrarsi tutta nel mio cuore, che sentii battere fino allo stremo. Sentii persino la testa girare, tanto che Vere dovette raggiungermi e sostenermi.

- Celia?

La sua voce mi sembrava così lontana. Guardai il palmo aperto della mia mano. Incinta. Greal e io eravamo stati insieme diverse volte, ma nel nostro mondo, non c’erano sistemi di contraccezione così come accadeva nel mondo della luce. E nell’ingenuità della mia adolescenza, non avevo preso in considerazione una simile ipotesi. Però, l’idea di una vita che dimorava dentro di me mi sembrò improvvisamente così naturale… portai la mano al ventre, incredula. Vere mi guardò preoccupata, poi mi abbracciò e sistemò meglio la mia mano ancora inesperta.

- E’ qui, Celia.

- Qui?

Le feci eco, con voce tremante. Esitai, col fiato corto per l’emozione, mentre le lacrime mi inondarono gli occhi. Un bambino mio e di Greal. Lo desideravo, certo, ma non immaginavo che sarebbe accaduto così presto. Pensavo che una volta sposati, allora avremmo messo su famiglia. E saremmo stati felici.

- Mamma?

La voce assonnata di Shemar mi fece trasalire. Mamma. Che bella parola. Io che non avevo mai avuto modo di pronunciarla direttamente. Vere sorrise al suo bimbo e lo raggiunse, mentre ancora si stava svegliando. Li osservai. Compresi allora tutta la meraviglia che c’era in quei gesti così naturali. Tutto l’amore del mondo era lì, in quel momento. E ne fui affascinata. Mi appoggiai alla porta, pensando che avrei avuto anch’io quella possibilità. Quando Greal aprì la porta, persi l’equilibrio, cadendo all’indietro. Fui sopraffatta dalla paura, all’improvviso. Devo proteggerlo!, pensai tra me e me. Greal mi sostenne, perplesso.

- Che stavi facendo dietro la porta?

Mi voltai di colpo verso di lui. Dovevo avere un’espressione stravolta, dato che mi guardò stupito.

- Celia, che hai?

Gregor, dietro di lui, si affacciò salutando il piccolo Shemar.

- Papà!

Esclamò il bambino, saltando giù dal divanetto e correndo da lui. Gregor lo prese in braccio, sollevandolo in aria.

- Eccolo, il mio futuro cavaliere! Bambino mio, sappi che il tuo papà vede lungo e un giorno sarai il più forte cavaliere che l’Underworld abbia mai visto! Anzi, no, che dico? Sarai l’Imperatore!

Shemar si mise a ridere, guardando l’espressione trasognata del padre, poi puntò il braccio verso l’alto.

- Prima papà!!

Gregor sorrise, stringendolo forte a sé sotto lo sguardo compassionevole di Vere. Sapeva bene che quella menzogna era un’innocente storia, ma non c’era nulla di male a sognare. Greal guardò Gregor, sospirando, poi si rivolse di nuovo a me.

- Allora?

Scossi la testa. Non potevo dirglielo. Se l’avessi fatto, quella poca serenità che eravamo riusciti a costruire, sarebbe scomparsa. Greal avrebbe fatto di tutto per assumersi quella responsabilità. E io non volevo essere causa di altro dolore per lui.

- Scusa, è solo che sono un po’ stanca… dovrei tornare a palazzo.

Vere ci raggiunse.

- Ti riaccompagno, Celia.

Annuii.

- Grazie, Vere.

Solitamente per evitare problemi, rientravo da sola a palazzo, ma in quel momento, non ero certa di riuscirci. A Greal, tuttavia, quel mio comportamento non sfuggì.

- Stai attenta.

Mi raccomandò, sospettoso. Assentii, poi guardai Gregor e Shemar, che mi salutavano con la mano.

- Dì ciao a Celia, piccolino!

- Non si dice ciao a una Lady, papà! Si dice “Arrivederci, Milady”.

Disse a sorpresa Shemar, con una compostezza non indifferente per un bambino così piccolo. Gregor sospirò.

- Lo sapevo io che a bazzicare coi nobili avrebbe preso maniere del genere…

Protestò, disperato. Vere si mise a ridere.

- E’ solo buona educazione, mio caro.

Sorrisi al piccolo Shemar, facendo un piccolo inchino.

- Grazie, Milord. Le vostre parole sono il saluto migliore che io possa desiderare.

Shemar arrossì, poi si rifugiò tra le braccia del padre. Fu così che rinfrancata da quel clima così giocoso, grazie a quel bambino, rientrai a palazzo. Poco prima di separarci, davanti alla cancellata più bassa da cui solitamente rientravo, Vere mi guardò con aria seria e determinata.

- Devi dirglielo, Celia. Non tenerlo all’oscuro di qualcosa che riguarda anche lui.

Tremai al pensiero. Se solo Vere avesse saputo quanta oscurità aleggiava attorno a Greal…

- Ho paura, Vere… non voglio che questo possa diventare un pericolo per lui…

Le confessai. Vere mi prese le mani.

- E’ un pericolo per entrambi, Celia… per ciò che siete… ma so bene che se non foste proprio voi, allora non ti potrei dire di farlo. Invece, dal momento che siete Celia e Greal, allora so che potete affrontare questo rischio contando l’uno sull’altra. So che è difficile, ma la forza sta nell’essere uniti. E un figlio, credimi, ne è l’apoteosi. Celia, non lasciarti prendere dalla paura, eh?

Annuii, sconvolta.

- G-Grazie, Vere… sei davvero molto cara…

Vere mi rivolse un dolce sorriso, poi mi congedò dopo avermi baciata in fronte.

Riuscii a scavalcare la ringhiera, ma non volli entrare direttamente dai passaggi sotterranei. Al contrario, mi misi a passeggiare nei cortili esterni, prendendo quanta più aria possibile. Mi sentivo strana. Euforica al pensiero della bellezza di quello che stava accadendo, ma la vena di preoccupazione era sempre lì. Prima o poi, la mia gravidanza sarebbe stata scoperta. E quando mio padre ne fosse venuto a conoscenza, allora cosa sarebbe accaduto? Vidi fermento in lontananza, ma non compresi cosa stesse accadendo. Abbassai il cappuccio, avvicinandomi alle guardie.

- Che succede?

Domandai.

Un gruppetto si voltò.

- Lady Cerulea!

Esclamò una di esse, come se avesse visto un fantasma.

- Lady Cerulea è tornata!

Urlò un’altra.

- Non capisco…

- Vi stavamo cercando, Milady!

Sospirai. Ero diventata ancora più brava a dileguarmi, ma addirittura scomodare un’intera squadra per cercarmi mi sembrò eccessivo, in quel momento.

- Sono qui, come vedete.

Dopo pochi istanti, vidi Lionhart Warrenheim affacciarsi dal portone principale.

- Eccovi. Era ora.

Mi disse. Affilai lo sguardo. Nonostante quell’uomo fosse in squadra con Greal e Gregor, continuava a non ispirarmi. E per di più, se era lì, voleva dire che c’era anche Ademar. Lo raggiunsi, oltrepassandolo in pochi passi.

- Cosa volete, Lord Warrenheim?

- Vi abbiamo fatta cercare per tutta Chalange, Milady. Dovreste essere meno seccata nel rispondere.

Lo guardai bieca, senza fermarmi, mentre lui mi seguiva.

- Parlo come voglio, Milord. Non vedo perché debba darvi spiegazioni.

- Beh, perché…

Mi fermai vedendo Alizea in lacrime nella sala della volta, così com’era chiamata la sala secondaria del palazzo, sul cui soffitto troneggiava la grande cupola di cristallo a rappresentanza del nostro cielo.

- Celia!

Urlò, correndo ad abbracciarmi. Quel gesto mi insospettì e non appena riuscii a liberarmi, la guardai, stupita.

- Spiegami che sta succedendo, Alizea! Insomma, volete smetterla con tutto questo mistero? Perché piangi in quel modo?!

Tirò su un singhiozzo, e d’improvviso una sensazione sinistra mi attraversò la mente.

- D-Dov’è mio padre?

Domandai. Alizea mi guardò disperata, poi scoppiò nuovamente a piangere.

- Celia, siate forte, tesoro mio…

- Alizea!

Sbraitai, preda del terrore che si era impadronito di me. Mi staccai da lei con fatica, poi ne elusi la presa e corsi verso le stanze del Despota, col cuore in gola. Contai uno dopo l’altro gli scalini e i passi in corsa e quando vidi le luci accese e un manipolo di guardie imperiali, prima tra tutte Grayling, capii. Mi fermai davanti a loro, i quali si inchinarono. Solo Grayling rimase in piedi. Aveva tolto la maschera. Il cavaliere personale del Despota, quand’era al suo servizio, era tenuto a toglierla o dietro ordine del proprio signore, o in un’altra eventualità. La fine del patto di vassallaggio, ovvero, la morte del Despota. Lo guardai sconvolta, trattenendo il fiato.

- Milady…

- Ditemi che è ancora vivo.

Grayling annuì.

- Non gli rimane molto. Andate.

Disse, scostandosi.

Cercai di recuperare contegno, ma ero talmente shockata che mi sentii estranea nel mio stesso corpo, come se mi trovassi in una sorta di incubo. E compresi le parole di Greal. Quando varcai la soglia delle stanze di mio padre, alle quali solo di rado e solo da bambina avevo avuto accesso, mi sentii mancare. Era tutto così com’era sempre stato. Il lungo armadio a specchio che faceva sembrare le stanze ancor più grandi di quanto fossero. La scrivania di mio padre, con i suoi libri ancora aperti e le sue mappe. Le poltrone all’angolo col tavolino su cui era posata la scacchiera. Il grande quadro sulla parete color oro che raffigurava la nostra famiglia. Il suo sorriso, le mani posate sulle spalle di mia madre che teneva me, bambina di un anno, tra le braccia. Le cortine bianche semiaperte sorrette dalle mantovane color pesca. Il grande lampadario sul soffitto, sul quale era raffigurata la volta celeste del nostro mondo. E il letto stile veneziano, con le ampie cortine a sbuffo che lo riparavano. Mio padre respirava a fatica ed era pallido. Accanto a lui, c’era Ademar. Si voltò, guardandomi.

- Milady…

In quel momento, non avevo nemmeno la forza per domandargli cosa ci facesse lì. Mio padre prese fiato e con voce roca, mi ordinò di avvicinarmi. Lo feci, inginocchiandomi ai piedi del letto e prendendo la sua mano.

- Padre mio… perdonatemi… sono qui…

- Celia…

La sua voce era un sussurro pugnalato nel mio cuore. Ben presto, la mia vista fu offuscata dalle lacrime che non riuscivo a trattenere. Singhiozzai, stringendo forte la sua mano, un tempo così forte. Mio padre mi rivolse un sorriso, così spontaneo, dopo tanti anni trascorsi a indurire il viso a causa delle mie fughe sconsiderate. Avrei tanto voluto dirgli cosa mi stava accadendo. Con calma, per tempo, abbassando le armi. Padre, aspetto un figlio dall’uomo che amo più di me stessa. E voi avrete un nipotino da far sedere sulle vostre robuste ginocchia. Vi ricordate? Proprio come con me quand’ero bambina…

- Sembra che il mio viaggio sia giunto alla fine…

Mormorò, con difficoltà. Sgranai gli occhi.

- No! No, padre! Voi siete forte! Voi siete il Despota dell’Underworld! Colui che impera sul nostro mondo! Ed esso ha ancora bisogno di voi! Io… io ho bisogno di voi… soprattutto ora…

Scoppiai in un pianto dirotto, con la voce che mi tremava. In quel momento, persino Ademar era diventato invisibile. Fissavo mio padre, sforzandomi di ricordarlo com’era sempre stato, altero e con un grande cuore. Quel cuore che stava per cedere.

- Padre… vi scongiuro…

Mio padre prese fiato.

- Bambina mia… è a te che lascio la mia eredità… sii la reggente che questo mondo merita…

Pronunciò quelle parole con grande sforzo. Oramai, la morte aveva puntato la sua falce e stava prendendo la vita del mio amato padre. Mi chiesi se da qualche parte, la Croix du Lac non stesse forse gioendo di quel momento.

- I-Io…

- Ademar ti sarà accanto… desidero così tanto che voi due… voi due…

Tossì, col fiato rotto dallo sforzo.

- Vostra Maestà!

Esclamò Ademar, sollevando i cuscini affinché mio padre potesse trovare sollievo. Così fu, per poco.

- Ah, figliolo… ti affido la mia Celia… abbi cura di lei.

Sentenziò. L’ultimo desiderio del Despota. L’inizio della mia tortura.

- P-Padre, non…

Non potei andare oltre. Ademar me lo impedì, poggiando una mano sulla mia spalla. Lo guardai in tralice, osservando poi l’espressione di mio padre. Stava fissando qualcosa, lontano da noi. Oramai sempre più lontano dal nostro mondo. Sorrise e il suo sguardo si accese per un ultimo istante.

- Aah… mia amata… sei venuta a prendermi?

Furono le sue ultime parole. Il suo sguardo si fece vitreo, ma la sua espressione era composta e rilassata. Come se tutte le battaglie che aveva combattuto e i dolori fossero scomparsi di colpo. Mi voltai verso il vuoto della sala, senza riuscire a trattenere un singulto. Mia madre, Amaryllis, doveva essere tornata a prenderlo. E mi accasciai sul giaciglio di mio padre, oramai morto, piangendo disperata lacrime di dolore infinito. Accanto a me, Ademar era impietrito. Ma il motivo in quel momento, lo imputai allo shock di quella scena. Niente di più sbagliato.

 

Nelle lunghe giornate che seguirono, non riuscii a comprendere nulla di tutto ciò che mi stava accadendo intorno. Mi ero chiusa nel silenzio, portando il lutto mentre tutto il mondo al di fuori delle mie stanze vorticava tra formalità, riunioni e discussioni. Il re è morto! Lunga vita al re!, si diceva alla morte di un sovrano, nel mondo della luce. Era la stessa cosa. Tutto il nostro mondo era in lacrime per l’improvvisa scomparsa di Tantris Rosenkrantz, il Despota che aveva imperato per oltre vent’anni rendendo l’Underworld un luogo migliore. Il dolore e la perplessità per quella morte inaspettata aveva colpito così tanta gente che rimasi sinceramente colpita e commossa da tutto l’amore che dimostrava per mio padre. Arrivò cordoglio da ogni luogo, e quando la salma di mio padre venne esposta, nella sua bara di noce intarsiata col sigillo dei Rosenkrantz e la Croce di diamante, una folla sterminata accorse per donare al proprio amato Despota l’ultimo saluto. Ma dopo che i funerali solenni ebbero luogo, tornai alla mia volontaria reclusione, stordita e del tutto sola. Avevo Alizea, certo, ma mio padre era la mia sola famiglia. C’erano altri parenti Rosenkrantz, certo, ma non avevo mai conosciuto nessuno di loro e per me, erano comunque degli estranei. E così, mi chiusi nelle mie stanze. Era ironico, pensando a tutte le volte in cui ero fuggita, lamentandomi del controllo asfissiante che mio padre esercitava su di me. Il pensiero che non avrei mai più sentito la sua voce né visto il suo volto altero mi faceva male. E tutto quel dolore faceva ancor più male alla mia condizione. Nemmeno Alizea riusciva a comprenderne la ragione. Non avevo avuto né la forza né il coraggio di dirle che aspettavo un bambino. Per lei, la disperazione per la morte di mio padre mi stava consumando. E in qualche modo, anche questo era vero. Perché il momento più felice della mia vita si era trasformato improvvisamente in un incubo? Per di più, tutto intorno alle mie stanze, si aggiravano gli oligarchi, il cui triste compito era oramai quello di eleggere il nuovo Despota. Sciacalli senza alcun rispetto, in un mondo che esigeva di andare avanti. In tutto quel trambusto, a causa della mia fragile condizione in quel momento, anche le visite mi furono impedite. Fino a che, una notte, stremata dal pianto, mentre giacevo scarmigliata sul mio letto, sentii bussare alla mia finestra. Sollevai appena la palpebra, scorgendo qualcuno dietro le cortine che adombravano i vetri. Confusa e per niente certa del momento in cui mi trovavo, se sogno o veglia, mi sollevai, senza nemmeno preoccuparmi di metter su una vestaglia. Indossavo una camicia da notte che Alizea aveva cucito per me all’inizio della bella stagione. Ultimamente, cominciavo a sentire che le mie solite vesti cominciavano a starmi strette sul seno, un altro segno che mi ricordava che ero incinta. Quando raggiunsi le tende, scostandole, fui sopraffatta dai singhiozzi. Nei giorni che erano seguiti alla morte di mio padre, non avevo avuto alcuna occasione di vederlo. Greal era lì, di fronte a me, nascosto dal suo mantello nero, col cappuccio che gli velava il capo, mimetizzato perfettamente nell’oscurità. Posò la mano sul vetro e così feci io. Poi ricordai le azioni più semplici e aprii la finestra, permettendogli di entrare. Quando fu dentro, richiusi porta e tendaggi, guardandolo mentre scrollava di dosso il cappuccio, scoprendo il suo volto così amato. Non dicemmo niente. Le parole non erano necessarie in quel momento. Greal mi abbracciò forte, stringendomi a sé. Ricambiai quella stretta, affondando il viso nella sua spalla e scoppiai a piangere. Non so dire per quanto tempo rimanemmo così, ma tra le sue braccia, riuscii a sfogare tutto quel dolore che portavo dentro. E quando finalmente mi calmai, Greal mi accarezzò dolcemente il viso, scostandomi i capelli dalle guance infiammate.

- Mi dispiace aver tardato così tanto…

Si scusò. Scossi la testa.

- Sei qui… questo conta…

Greal mi guardò teneramente, portandomi all’indietro i capelli scarruffati. Dovevo avere un’espressione indicibile, ma non disse niente in proposito.

- Vere ti manda questo.

Disse, tirando fuori dalla tasca del soprabito nero una scatolina color pesca dal nastro dorato. La presi, stupita, e quando la aprii, notai febbricitante una boccetta di dolce profumo di the alle rose. Sorrisi, incredula.

- Oh, Vere… ringraziala per me, Greal…

Lui sorrise a sua volta.

- Era sicura che ti avrebbe fatto piacere. Ma mi ha chiesto di dirti di ringraziarla di persona.

Sollevai lo sguardo, commossa da quel suo sorriso incantevole.

- Da quando in qua sei diventato un corriere?

Gli domandai. Greal inarcò il sopracciglio.

- E’ una bella domanda.

Quella strana risposta, considerando che lui aveva sempre una risposta pronta, mi fece sorridere ancor di più. Greal era davvero la mia luce. Insieme a lui, riuscivo a sentirmi bene, come se tutte le negatività del mondo scomparissero. Ed era la mia forza. Vere aveva ragione. Entrambi potevamo contare l’uno sull’altra, incondizionatamente. Eravamo l’uno l’anima dell’altra.

- Sono contenta che tu sia qui…

Sussurrai, stringendo quel prezioso regalo di Vere. Quel profumo era così dolce che mi aiutò a tranquillizzarmi. Greal annuì, poi si scostò da me e andò a prendere la vestaglia che avevo abbandonato sulla poltrona accanto al letto. Lo guardai, mentre la raccoglieva e tornava, posandomela sulle spalle delicatamente. Poi mi strinse nuovamente a sé, cingendomi dolcemente. Chiusi gli occhi, portando la testa all’indietro. Sentivo il suo respiro sulla guancia, ed era così rassicurante.

- Mi manca così tanto, Greal…

- Lo so, Celia.

Cercai di non piangere più, ricacciando indietro il groppo in gola, soprattutto quando Greal mi prese in braccio. Riaprii gli occhi, irrigidendomi per un istante a causa del leggero vuoto d’aria che mi aveva sorpresa. Greal mi sorrise, poi mi portò fino al mio letto, adagiandomici su. Mi sentivo quasi una bambina in quell’istante. E mi ricordai improvvisamente della piccola vita che stava crescendo dentro di me. La nostra piccola vita. Lo guardai, con le parole che avrei dovuto dirgli che erano ferme lì, in gola. Greal mi accarezzò in testa, poi prese posto sulla poltrona accanto al mio letto.

- Resterò qui a vegliare sul tuo sonno, Celia. So che non riesci a dormire da un po’ e dal momento che conosco bene il problema, so come aiutarti.

Abbassai lo sguardo, sentendomi ancora più colpevole. Probabilmente, era stata la stessa Alizea a dirglielo, in qualche modo. E il fatto che lui fosse ben sicuro di ciò che stava facendo, in quel momento, mi dette conferma. Doveva essere stata lei a chiedergli di fare qualcosa. Greal non avrebbe corso il rischio di intrufolarsi nelle stanze della figlia del Despota in quel momento, se non avesse avuto un aggancio. Era sempre stato molto attento ai dettagli e a come pianificare le proprie azioni.

- Celia.

Mi strinsi le ginocchia, senza riuscire a guardarlo in viso.

- Hai… hai visto Ademar, in questi giorni?

Domandai, deglutendo. Greal attese qualche istante prima di rispondere.

- No. O meglio, soltanto da lontano. Non parlo con mio fratello da un po’.

- Capisco…

Mormorai.

- Cosa ti turba?

Osservai le coperte di cotone bianco, candide come la neve che ci aveva avvolto nel suo abbraccio, a Challant.

- L’ultimo desiderio di mio padre è stato che io assumessi la reggenza assieme ad Ademar.

Dissi, senza guardarlo. Percepii la sua tensione in quel momento e lo sentii deglutire.

- In altre parole… ti ha affidato a lui?

Annuii, affondando la testa sulle ginocchia. Greal si alzò e lo sentii armeggiare col mantello. Dal fruscio che ne seguì, capii che l’aveva lasciato sulla poltrona e poco dopo lo sentii sedersi accanto a me. Quando le sue braccia mi attrassero a lui, posai stancamente la testa sul suo petto. Feci caso al contrasto tra il bianco candido delle mie lenzuola e il nero ebano del suo abito. Opposti in tutto e per tutto, eppure così vicini.

- E’ così, Greal… però io… io non lo amo… amo te…

Greal mi baciò sulla tempia, stringendomi con più forza a sé.

- Ed è lo stesso per me. Per questo, non ti lascerò mai a lui. Mai.

Il suo tono era determinato e duro. E questo mi spaventava. Non volevo essere per Greal causa di tormento più di quanto già lo ero. Non volevo che si ritrovasse contro il proprio fratello. Se Ademar fosse diventato il nuovo Despota, cosa sarebbe accaduto? Greal avrebbe contrastato la volontà di mio padre prima e di suo fratello poi? Mi ritrovai a pensare con terrore all’eventualità di uno scontro tra di loro. La sola idea che potesse accadere qualcosa di brutto a Greal era terribile. E a darvi fondamento, c’erano i suoi incubi. Oh, numi… abbiate clemenza di noi…

- Greal, tu… tu conosci le leggende sulla Croix du Lac, vero?

Domandai, ignorando il tremore che mi stava scuotendo dall’interno.

- Sì, certo.

- E sai che il primo e l’ultimo desiderio del Despota sono considerati volontà stessa della Croix du Lac?

- E’ un’assurdità.

Contestò, seccamente. Mi morsi le labbra.

- Non voglio che ti accada niente, Greal.

- E io non voglio che tu sacrifichi la tua felicità per sempre, Celia.

Mi voltai, sconvolta da quelle parole, incontrando i suoi occhi a pochi centimetri dai miei. Sentii tutta la mia impotenza in quel momento. Ma dovevo farmi forza. Dovevo esserlo, per entrambi, per evitargli un’ulteriore sofferenza.

- Io ti amo… ed è per questo che ti chiedo di rinunciare a me.

Dissi, in un soffio. Sgranò gli occhi con un’espressione mai vista sul suo volto. Di sicuro, non si aspettava quelle parole. E sapevo di stargli infliggendo un colpo tremendo. Ma se l’unico modo per proteggerlo era allontanarmi da lui, allora, dovevo farlo. Sacrificare la mia felicità… Greal mi aveva dato tanta felicità. Ogni singolo istante, in quell’anno trascorso insieme, era stato felice, accanto a lui. Anche quando litigavamo, perché c’era la consapevolezza che dopo ci saremmo riappacificati comunque. Al suo fianco, la ragazzina insofferente alle regole era cresciuta, diventando una giovane donna capace di prendere decisioni, per quanto queste potessero essere difficili. In quell’istante, dovetti fare appello a tutta la forza che anche soltanto lo stare assieme a lui mi donava. Non distolsi mai lo sguardo dal suo, impietrito come se d’improvviso, gli fosse caduto il mondo addosso. Amore mio, perdonami…

- No.

Replicò.

Aggrottai le sopracciglia, prendendogli il viso tra le mani. Mi fissava, sconvolto.

- E’ l’ultima volontà di mio padre e io non posso esimermi, Greal. Non posso condannarlo a vagare tra le ombre, inquieto per sempre… non dopo che finalmente ha potuto riabbracciare mia madre… non voglio che la perda di nuovo… lo capisci?

Lottai disperatamente con le lacrime che volevano uscire. Non dovevo piangere. Dovevo essere forte. Greal sospirò appena, ancora più sconvolto nel sentire quelle parole.

- Si dice che la Croix du Lac reclami come propria la vita del Despota… ebbene, mio padre, prima di spirare, ha visto mia madre, ne sono sicura… e ora che finalmente sono riuniti, non voglio che vengano separati ancora una volta… se dovessi essere causa di sofferenza anche per loro…

- Saresti pronta a sacrificare la tua vita per questo?

Deglutii, facendo uno sforzo impossibile per mostrarmi risoluta. Avevo scelto un’argomentazione che non lo riguardava personalmente. In quel modo, non avrebbe potuto sindacare. E così, non avrebbe avversato Ademar e sarebbe stato al sicuro. Greal scosse la testa, scrollandosi dalla mia presa.

- Ti rendi conto delle sciocchezze che stai dicendo?

Mi aggrappai a quelle parole per cercare di convincerlo e strinsi i pugni, allontanandomi da lui e alzandomi. Greal, ancora seduto sul letto, mi seguì poco dopo.

- Stai forse contestando la volontà di mio padre, Greal Valdes?

Replicai duramente.

- Contesto la tua ingenuità, Celia!

Cercando di ignorare la morsa che attanagliava il mio cuore in quel momento, mi voltai verso di lui, severamente.

- Non c’è futuro per noi, Greal! Guarda cosa siamo, guarda in che modo dobbiamo vivere questo nostro amore… prima le cose erano diverse… ma ora che mio padre ha espresso il suo ultimo desiderio, sono obbligata a esaudirlo! Ah numi, non credevo tu potessi essere così egoista!

Sbottai. Greal ne fu colpito e scosse più volte la testa. I capelli neri gli adombrarono parte del viso e ne scorsi l’espressione contrariata.

- Vieni con me a Challant.

Mi propose. Trasalii a quella proposta che sicuramente, avrei accettato senza remore in un altro contesto. Ma ora non potevo più farlo. Sospirai, poi raggiunsi il mio grande e lussuoso comò in delicato avorio. Aprii tremando il mio scrigno, in cui tenevo gioielli e oggetti a me cari. Presi in Thurs, un cimelio che era trasmesso in eredità ai membri della mia famiglia e che mio padre mi aveva dato in dono alla morte di mia madre, per proteggermi. Protezione era infatti il suo significato. Osservai quel ciondolo con devozione, poi lo baciai e lo strinsi tra le mani, tornando da Greal. Mi guardava dubbioso, soprattutto quando gli presi le mani e glielo porsi.

- Che cos’è?

Domandò, con voce grave.

- Il mio ultimo regalo per te, Greal…

- Celia…

- No. Non voglio sentire altro… ti prego.

Strinsi la sua mano nelle mie e mi sollevai sulle punte, per baciarlo un’ultima volta. Fu così doloroso, in quel momento, sapere che non avrei mai più potuto farlo. Prima che Greal potesse reagire in qualche modo, tant’era incredulo, mi scostai da lui e feci un passo indietro.

- Quindi… questa è la fine, Celia?

Annuii, nonostante il mio cuore urlasse a squarciagola che non era così.

- Va’ via, Greal… ti scongiuro…

Prima che il mio cuore mi tradisca…

Mi guardò con un’espressione vacua. In quel momento maledissi me stessa per avergli inflitto quel colpo di grazia, ma non potevo permettermi debolezze. Greal raccolse il suo mantello, rimettendolo addosso, poi si inchinò di fronte a me, stringendo il Thurs nella mano col sigillo.

- Lady del diamante, qualunque cosa accada, avrai sempre e comunque la mia fedeltà.

Mi lasciai sfuggire un gemito di dolore in quel momento e annuii.

- G-Grazie, Lord Valdes.

Amore mio adorato, pregherò ogni giorno affinché tu possa essere felice… e forse la pietosa Croix du Lac ci concederà di stare insieme, un giorno…

Greal si alzò, coprendo in un istante i pochi passi tra noi e baciandomi in fronte, con tenerezza e decisione, poi andò via, scomparendo nell’oscurità al di fuori del mio boudoir. E quando fui nuovamente sola, ora più che mai, la tensione che avevo cercato di trattenere uscì, provocandomi una fitta al ventre così forte che quando urlai, Alizea si precipitò terrorizzata. Ansimai, accasciandomi a terra per il dolore.

- Celia! Celia, che avete?!

Mi sostenne e mi aggrappai forte a lei, mentre con l’altro braccio mi proteggevo il grembo. Preda degli spasmi, non riuscivo nemmeno a respirare. Subentrò l’agitazione e il pensiero che potessi perdere il mio bambino mi fece impazzire. Guardai Alizea che era impallidita.

- A-Aiutami…

Balbettai, sentendo la bocca secca.

- Alizea, aiutami… i-io aspetto… un bambino…

Alizea portò la mano alla bocca, sconvolta, poi mi strinse forte a sé.

- Ah, numi, bambina mia!

Esclamò, cullandomi. E senza perdersi d’animo, nonostante fosse del tutto turbata da quella notizia, mi aiutò a riprendermi.

 

 

 

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Capitolo 49
*** XVIII. 5 parte ***


Buonasera! :) Eccoci qui con una nuova parte del capitolo su Celia! Ho una notizia: ho finito, proprio la settimana scorsa, di scrivere Underworld. Scusate se vi annoio con qualche parola su questo, ma ci tenevo a dirvelo. Ho cominciato a scrivere tre anni fa, come potete vedere anche dalla data della prima pubblicazione e ora finalmente sono arrivata alla conclusione di una storia che mi ha dato tanto, regalandomi un sogno (eh sì, so che è ironico considerando che la povera Aurore fa solo incubi) e la possibilità di immergermi in un mondo diverso, quando il mio non era abbastanza. Ve lo dico perché ci tengo che voi sappiate quanto questa storia sia stata importante per me e quanto spero, davvero, che vi stia toccando il cuore tanto quanto ha fatto con me, man mano che le avventure di Aurore prendevano vita... ora è tutto concluso, per cui, quando arriverà il momento del finale, sappiate che è già stato deciso da tanto, ma ancora una volta, il modo in cui è accaduto, è stato suggerito dai miei stessi personaggi. Anzi, amici, mi piace considerarli così e spero che sia così anche per voi, in qualche modo. Comunque, tornando a noi, questa parte è un po' più forte, ma ora finalmente Ademar avrà lo spazio che attendeva da tanto. Per il resto, a presto e grazie a chi pazientemente ha il coraggio di seguirmi ancora e trova sempre tempo e modo di lasciarmi un pensiero... anche in privato, come Taiga-chan (tesoro, spero di risentirti presto per bene!! ç_ç). 

Buona lettura e alla prossima! 

 

 

 

 

 

Passarono le settimane. Mi ripresi da quel tremendo momento non appena Alizea stessa mi rassicurò sulle condizioni del mio bambino. Quella notizia ci riavvicinò. Oramai, Alizea era la sola persona cara che mi era rimasta a corte. In circostanze normali, avrei potuto lasciare Adamantio e tornare a Challant, presso le proprietà della mia famiglia, ma mio padre desiderava che prendessi la reggenza, almeno fino a che il nuovo Despota non fosse stato eletto. Vissi quei lunghi giorni vuoti sperando che quel momento giungesse presto, sebbene temessi più di ogni altra cosa che Ademar ottenesse la corona. Purtroppo, i miei timori si rivelarono ben presto fondati. Nel corso degli anni, Ademar aveva tessuto bene la propria tela, e ben presto, William Ealing e Roland Devereaux si ritirarono, abbandonando in favore di Ademar. Altri, come Agron Trenchard e Rufus Cartwright, avevano rinunciato per occuparsi di problemi interni ai propri possedimenti. Osservai impietrita, chiusa nel mio abito di velluto nero, il momento in cui Ademar fu chiamato a sfidare ufficialmente Grayling, secondo la consuetudine, alla presenza di tutti gli oligarchi, nella sala dell’incoronazione. L’uomo che era stato il cavaliere di mio padre era stato una guardia eccellente e un formidabile spadaccino. Tuttavia, non riuscì a battere Ademar, che al pari di Greal, era forte ed efficiente. Quando sollevò la spada in segno di vittoria, puntandola verso di me, trasalii. Alizea mi strinse la mano, implorandomi di stare tranquilla.

- Milady, sembra che io abbia vinto.

Deglutii. Seduto tra gli oligarchi, col viso segnato dall’età, c’era anche Lord Leutwin. Quanto avrebbe desiderato che al posto di Ademar ci fosse stato Greal… incontrai il suo sguardo, poi tornai a guardare Ademar, mentre Grayling si rialzò, inchinandosi. Mi rivolsi ad Andres Oliphant, a capo del Consiglio degli oligarchi, cercando il suo aiuto. L’uomo si alzò, severo e composto. Mi ricordava mio padre, in un certo senso.

- Ademar Valdes da Velsen, trentaduesimo duca di Challant.

Proclamò solennemente.

- Al vostro servizio, Milord.

Rispose Ademar, inchinandosi. Oliphant lo raggiunse, fermandosi al suo cospetto, mentre gli ex candidati osservavano la scena dai propri scranni.

- L’ultimo desiderio del compianto Despota Tantris è stato di vederti reggere il nostro mondo e oggi hai dato prova di valore, voltando l’estrema pagina scritta dal tuo predecessore. Voglia la nostra dea far sì che tu scriva la nostra nuova storia. Oggi, l’Underworld saluta il suo nuovo Despota, Ademar Valdes. Siamo felici di accogliervi, Maestà.

Tutti i presenti si alzarono e si inchinarono dinnanzi ad Ademar. Anche Lord Leutwin, sul cui viso scorreva una lacrima. Anche lo stesso Oliphant, che aveva proclamato l’ascesa di Ademar. Quest’ultimo si rialzò, guardandosi intorno. E quando il suo sguardo incontrò il mio, mentre ero rimasta in piedi, la sola tra tutti, impietrita, mi rivolse un sorriso, molto diverso da quello di Greal. Compiaciuto. Oramai, il nostro mondo era nelle sue mani.

 

La sera stessa, nelle mie stanze, Alizea mi spazzolava i capelli, con aria preoccupata.

- Che ti succede, Alizea?

Le domandai, scrutando il suo riflesso nello specchio.

- Stavo pensando… ora che Ademar… ehm, il nuovo Despota è stato eletto, forse potreste tornare a Challant…

Continuai a osservarla. Avevo inteso la sua preoccupazione. Al di là di me stessa, c’era la storia della mia gravidanza. Se fosse giunta all’orecchio di Ademar prima del tempo, sarebbe stato un pericolo, soprattutto ora che era asceso al soglio di Despota. Se fossi riuscita a tornare a Challant, forse avrei potuto evitare questo rischio. Ma lui avrebbe accettato? E anche se fossi tornata a Challant, ora che Ademar deteneva il potere, avrebbe reso le cose facili per me e per suo fratello? Mentre ci riflettevo, sentii bussare.

- Chi diamine sarà a quest’ora? State a vedere che Noelle è di nuovo nei guai.

Noelle era la sua nuova assistente, una giovane fanciulla mia coetanea. Sospirai.

- Va’ pure, tranquilla.

Le dissi, intrecciando i capelli. Alizea assentì, poi posò la spazzola e si allontanò. Rimasi a guardarmi allo specchio. Avevo l’espressione stanca e scavata. E poi, posai la mano sul ventre, che sporgeva appena appena. Tre mesi. Ero incinta di tre mesi oramai. Presto, sarebbe stato tutto visibile. Eppure, quando mi ritrovai a pensare al mio bambino quel pensiero mi dette forza. Chissà a chi sarebbe somigliato. Già lo immaginavo, bello e forte come il suo papà. Chissà perché, ero convinta che sarebbe stato un maschietto. Sorrisi a quel pensiero, quando trasalii nel sentire una voce maschile provenire dalla mia stanza da letto.

- Vostra Maestà, chiedo scusa, ma non credo sia il caso…

Alizea si era profusa in delle scuse. Mi feci forza, prendendo un bel respiro. Ademar era lì. Mi sistemai addosso la vestaglia e mi alzai, raggiungendoli. Alizea si voltò non appena mi vide, mentre Ademar mi dava le spalle. Visto in quel modo, da dietro, con i lunghi capelli neri legati, mi fece pensare un attimo a Greal e quel pensiero mi fece sobbalzare.

- Vostra Maestà.

Dissi, sperando che il mio tono risultasse fermo.

- Celia…

La voce di Alizea, sconvolta per avermi vista in deshabillé.

Ademar si voltò, senza trattenere lo stupore. Indossava una giacca bianca ornata da bottoni e bordini dorati. Sul petto, spiccava la Croce di diamante.  All’interno, si intravedeva un farsetto nero, lungo e fermato in vita da una cintura. Stesso dicasi per i pantaloni, bianchi, stretti nei neri stivali bordati da fibbie dorate. Nonostante somigliasse maggiormente a Lady Annabelle e i suoi occhi fossero di un tono più scuro rispetto a quelli del fratello, non potei fare a meno di pensare quanto mi ricordasse Greal in quel momento.

- Maestà. Se avessi saputo prima della vostra visita, avrei evitato di farmi trovare in questa mise.

Dissi. Ademar sorrise e mi rivolse un inchino.

- Milady. Perdonate la mia impazienza. Ma desideravo tanto potervi vedere. So che è tardi, ma mi piacerebbe molto se mi faceste l’onore di concedermi una passeggiata al chiaro di luna. Non riesco a prender sonno e dal momento che anche voi siete ancora sveglia, vi prego… vorreste forse rifiutare una gentilezza a questo povero cuore una seconda volta?

Alizea mi guardò perplessa, io ricambiai lo sguardo e poi guardai Ademar.

- Datemi il tempo di cambiarmi.

Dissi, tornando nella sala della toeletta. Alizea mi raggiunse dopo che Ademar fu uscito, portando con sé uno dei miei abiti.

- Celia, è molto tardi, potreste prendere freddo…

Mi fece notare.

- Lo so. Ma non è il caso di mostrarsi restii… non voglio che Ademar si irrigidisca nei miei confronti…

- Siete preoccupata per Greal, vero?

Mi chiese, mentre mi aiutava a vestirmi.

- Non lo nascondo… se per caso Ademar dovesse anche solo avere sentore di quello che c’è stato tra di noi, non so cosa potrebbe accadere…

Alizea annuì, preoccupata. Dopo avermi sistemato il vestito, un semplice abito color verde acqua e bianco, su cui mi sistemò il mantello, la guardai e le presi le mani.

- Sta’ tranquilla. Mi comporterò bene, Alizea.

Lei non nascose la sua inquietudine, ma mi lasciò ugualmente andare con un bacio sulla guancia.

- A più tardi.

Dissi, raggiugendo poi Ademar, che mi aspettava fuori dalle mie stanze. Era sera inoltrata e le luci delle fiaccole avevano conferito ai corridoi una lucentezza soffusa. Per di più, si respirava una brezza fresca, ma piacevole.

- Milady, siete incantevole.

Disse Ademar, porgendomi il braccio.

- Vi ringrazio, Maestà…

Feci un piccolo inchino, prendendolo.

- Oh, vi prego… possiamo abbandonare le formalità? Sentirmi chiamare in quel modo mi fa pensare che vi sia inviso… chiamatemi soltanto Ademar.

- Non rispondi?

- Oh, vi date già del tu?

- No, è lei che lo fa.

Strinsi con più forza il braccio di Ademar, ripensando a quelle parole. Con Greal, ero stata informale sin dall’inizio. Mi era venuto naturale, mentre con Ademar, era tutto diverso. Raggiungemmo i giardini interni, che alla luce della luna apparivano meravigliosi.

- Lady Cerulea?

Mi fece eco. Alzai lo sguardo, accennando un sorriso.

- Scusate, Ademar… è solo che è un po’ strano parlarvi così ora che siete il Despota.

Ademar mi rivolse uno sguardo che avrei forse potuto definire tenero, per quanto in quel momento, la tenerezza di un uomo diverso da Greal fosse l’ultima cosa che desideravo.

- Lo capisco… se può esservi d’aiuto, fa strano anche a me essere chiamato in quel modo. Insomma, fino a stamattina ero solo uno dei candidati al trono di vostro padre… e ora…

Sgranai gli occhi, portando la mano al cuore. Se ne accorse.

- Perdonatemi, non volevo riportarvi alla mente ricordi tristi.

Stavamo passeggiando lungo uno dei sentieri lastricati che conducevano alla fontana centrale. Tutto intorno, il fruscio del vento ci faceva da sottofondo. Da qualche tempo, sibilava in modo più forte del solito, per quella stagione.

- Non preoccupatevi. So bene come stanno le cose… piuttosto, mi stupisce che in molti si siano ritirati…

- Oh, beh… se volete saperlo, anche a me. Pensavo di poter partecipare a una sana competizione e invece, sono rimasto solo.

Annuii. Lui inclinò la testa.

- A quanto pare, hanno preferito mandare in avanscoperta una recluta.

- Che intendete?

Domandai, perplessa. Ademar si mise a ridere. La sua risata spontanea, in quel momento, mi fece pensare alle poche volte in cui avevo sentito Greal ridere. Mi morsi le labbra per trattenere le lacrime.

- Pensateci. Vostro padre era molto amato e l’Underworld ne piange ancora la scomparsa prematura. Io sono arrivato sbarbato e ora tutte le lance sono puntate contro di me.

- N-Ne siete sicuro? A quanto pare, siete molto stimato, Ademar…

Mi guardò, fermandosi davanti alla fontana. Mio padre l’aveva fatta costruire proprio al centro dei giardini, come fosse il cuore di una stella, per la mia nascita. Ogni Despota aveva dato qualcosa di proprio al palazzo di diamante e personalmente, quello era il luogo che amavo di più. Gli schizzi d’acqua si rifrangevano nell’aria, risplendendo alla pallida luce lunare.

- Ho anche la vostra stima, Celia?

Trasalii nel sentirlo pronunciare il mio nome, con un tono così carezzevole e distolsi lo sguardo. Tenevo ancora il suo braccio e lasciai scivolare la presa. Ademar attese, paziente, senza smettere di guardarmi.

- N-Naturalmente… non avrei motivo di negarvela…

- Allora vi prego, Milady… siatemi amica… non lasciatemi affrontare tutto questo da solo…

Mi si mozzò il fiato e dovetti fare appello a tutta la forza che avevo dentro per non tradirmi. Numi, Ademar, io amo vostro fratello minore e aspetto un figlio da lui… come posso anche solo acconsentire?

- I-Io… Ademar, io non…

- Vi prego… ora che anche mio fratello Greal è tornato a Challant, assieme a mio padre, sono solo…

Una folata di forte vento portò gli schizzi verso di noi, e Ademar mi riparò col proprio mantello. Quel modo di fare, quel senso di protezione, proprio come Greal… lo guardai sconvolta, trattenendo il respiro, mentre il suo sguardo appariva così serio, in quel momento. E Greal era tornato a Challant… Greal…

- Celia, permettetemi di esaudire l’ultimo desiderio di vostro padre… sposatemi.

Le lacrime sgorgarono prepotenti dai miei occhi stravolti, imperlandomi le guance. In quel momento compresi che non sarei mai più stata libera.

 

Le nozze ebbero luogo circa due settimane più tardi. In quel lasso di tempo, molte cose cambiarono. Ademar dispose che la sicurezza attorno al palazzo di diamante fosse aumentata e promosse Lionhart Warrenheim a proprio cavaliere personale. Grayling Law, che aveva servito con dedizione mio padre per oltre vent’anni, fu deposto. Prima di andar via, tuttavia, riuscii a incontrarlo e mi giurò fedeltà nel nome del Despota Tantris. Col suo allontanamento, persi l’ultimo legame con mio padre. Per di più, non mi fu possibile né convocare Vere né andare a trovarla. C’erano troppi rischi per la mia sicurezza, in quel momento, secondo Ademar. La notte prima del matrimonio, dopo l’ultimo giorno di prove (a cui partecipai soltanto fisicamente, dal momento che la mia mente e il mio cuore erano da tutt’altra parte), e dopo aver pregato la Croix du Lac affinché vegliasse su di noi (in realtà, in quel momento, pregai che proteggesse Greal e la nostra creatura), mi misi a scrivere. Vergai di mio pugno, spesso bagnando la carta con lacrime salate, due lettere. Una era per Vere. La ringraziavo di tutto ciò che aveva fatto per me e per Greal in quell’anno trascorso e la pregavo di continuare a vegliare su di lui, dal momento che non potevo più farlo. Mi scusavo di averle arrecato del disturbo, ma aggiungevo anche che nonostante tutto, avrebbe trovato la mia porta aperta, sempre. In più, le chiedevo di baciare per me il piccolo Shemar, sperando che sarebbe giunto il giorno in cui i nostri figli avrebbero potuto incontrarsi. Vere era stata così gentile con me e desideravo che avesse tutto il meglio che la vita poteva offrirle. I ricordi di quella complicità così genuina mi fecero sorridere. E poi, toccò a Greal. La mia mano tremava come non mai nello scrivere. Non ero mai stata così incerta. Greal mi aveva fatto rendere conto di quanto fossi fragile sin dall’inizio. Eppure, accanto a lui, non mi ero mai sentita così forte. Vere mi aveva raccomandato di dirgli della mia gravidanza, ma non l’avevo fatto. Al contrario, l’avevo allontanato. E l’indomani avrei sposato suo fratello maggiore, un uomo che non amavo, per proteggerlo. Ripensai al nostro primo incontro, a come man mano ci eravamo avvicinati l’uno all’altra, a quanto mi mancava… ogni pensiero era una fitta al cuore. Con la mano libera posata in grembo, pensavo a nostro figlio. Se Ademar avesse scoperto la verità… un rivolo d’inchiostro nero macchiò indelebilmente il foglio che avevo davanti. Pensai all’incubo di cui Greal mi aveva parlato. Sangue che scorreva ad Adamantio. Un cavaliere bianco che sterminava chiunque si trovasse dinnanzi a lui. Che fosse Ademar? Era forse un presagio? E le due fanciulle che aveva visto?

- Se tu fossi una bambina?

Domandai tra me e me, carezzando dolcemente il mio grembo. Il mio piccolo miracolo mi ridette la forza di credere. Già… dovevo essere forte. Per quella piccola vita… per Greal.

Amore mio. Se anche la mia vita dovesse finire, sappi che tu sarai sempre e soltanto l’unico uomo che ho mai amato e desiderato. Mi hai offerto la tua fedeltà. Io faccio altrimenti. Mi hai fatto dono del tuo cuore, che ripongo nel mio, custodendolo gelosamente. Mai nessuno lo avrà. Hai reso la mia esistenza una meravigliosa, costante e intrigante sfida. Assieme a te, sono diventata una donna…

Esitai, guardando la stilografica che avevo in mano. E pensai al suo viso addormentato a pochi millimetri dal mio, alle braccia muscolose che mi avevano stretta così tante volte e al suo petto, su cui mi ero addormentata tante altre. Mi tornarono in mente il suo sguardo intenerito quando mi risvegliavo, assonnata, e il suo sorriso dolce, mentre con voce roca mi sussurrava “Ben svegliata”…

Grazie per avermi donato la gioia più grande, Greal…

Non riuscii a continuare a scrivere. Alizea mi interruppe rimproverandomi perché ero ancora in piedi, nel cuore della notte, quando l’indomani avrei avuto bisogno di energie. Sapevo che lo diceva per proteggere sia me che il bambino e che non voleva vedermi triste. Ma oramai, il volto che vedevo nello specchio era soltanto il pallido riflesso di un volto felice. Stavo per sposarmi e mi sembrava di star partecipando al mio stesso funerale.

Il giorno seguente, alla presenza della nobiltà dell’Underworld, furono celebrate le nozze tra me e Ademar. Non compresi praticamente nulla di tutto quello che mi stava accadendo intorno. Voci, voci a non finire che auguravano lunga vita e prosperità. Lacrime di commozione e applausi, dopo la solenne cerimonia nella cattedrale di Chalange. Ademar sorrideva cordialmente, io avevo stampato in faccia il sorriso della disperazione. Tutto fu imputato alla mia giovane età e alla tristezza perdurante dovuta alla ferita ancora aperta della morte di mio padre. Cercai Greal con lo sguardo tra i nobili intervenuti, ma Lord Leutwin, che mi aveva baciato e stretto con la gioia di un padre, mi informò che aveva preferito rimanere a Challant, per occuparsi della guarnigione di Velsen, a cui era stato assegnato dopo lo scioglimento della squadra speciale. Appresi quella notizia cercando di non apparire affranta. Ma del resto, fino a che Greal fosse stato lontano, sarebbe stato al sicuro. E quando uscimmo sul sagrato della cattedrale, una pioggia di petali di rosa ci accolse, assieme alle urla di gioia del nostro popolo. Quella tale dimostrazione d’affetto mi fece commuovere. Amavo così tanto la mia gente e amavo il mio mondo. Greal mi aveva raccontato così tanto di esso e mi aveva dato la possibilità, per quanto ci fosse concesso, di conoscerlo un po’ meglio. E tra la gente, proprio in prima fila, dietro alle guardie imperiali stanziate a presidiare, vidi il piccolo Shemar, sulle spalle del padre Gregor, che salutava agitando la mano. Accanto a loro, Vere aveva la mano sul cuore.

- Vere…

Sussurrai.

Sollevai il braccio in segno di saluto, agitando il profumato bouquet di nebbiolina e roselline rosse che Ademar aveva fatto creare per me. Al mio fianco, lui sorrise, salutando a sua volta. Per fortuna, non si era accorto di chi stessi salutando realmente. E alla fine, quell’interminabile giornata si concluse a notte fonda. Dopo una festa alla quale intervennero soltanto i nobili fedeli alla nuova corona, potei far ritorno alle mie stanze. Avevo chiesto ad Ademar di potermi rinfrescare e lui aveva acconsentito. Alizea mi aiutò, poi, quand’ebbe finito, le domandai di consegnare per me quelle due lettere.

- Ne siete sicura, Celia?

- Oramai, Ademar mi ha legata a sé… Greal non può più fare niente, per questo, è al sicuro… ma desidero lo stesso che sappia che nonostante tutto, sarà sempre e solo lui la persona più importante per me…

- E il padre di vostro figlio… ah, numi, Ademar lo scoprirà…

Protestò, guardandomi il grembo.

- Il tempo passa e ben presto sarà evidente a tutti, ma in privato, vostro marito non… 

- Non chiamarlo così!

Esclamai, tutto d’un tratto. Alizea mi guardò preoccupata. Io annaspai, in ansia.

- Celia…

Scossi la testa.

- S-Scusa… è solo che devo abituarmi…

Alizea mi accarezzò la testa.

- Piccola mia, perché ci siamo messe in questa situazione?

Mi domandò. Cercai di soffocare il pianto, riprendendo fiato, e mi ricomposi.

- Tempo al tempo, Alizea… ora va’, per favore… porta quelle lettere a Vere e chiedi a Gregor di consegnarne una a Greal… e poi…

Alizea sospirò.

- Dirò loro che sarete sempre loro amica.

Annuii.

- Grazie. Sta’ attenta.

Alizea sorrise e dopo avermi baciato in fronte, prese le lettere, le sigillò e andò via. Sospirai, quando non sentii più i suoi passi e mi sedetti sul letto, osservando la mia mano sinistra, al cui anulare brillava la fede nuziale. Strinsi il pugno, poi mi rialzai, inquieta e andai ad aprire un po’ le finestre. Quando fui sul balcone, da cui tante e tante volte avevo spiccato il volo assieme alla mia Estellise, guardai il cielo notturno. Greal mi aveva detto che nel suo incubo, era buio. Deglutii, sperando che lontano da me, anche i suoi incubi avessero fine. E chiusi gli occhi, mentre la brezza leggera mi lambiva il viso. Così, avevo la sensazione di vederlo ancora lì, davanti a me, stretto nella sua uniforme nera e argento, col lungo mantello che spesso ci aveva avvolti entrambi. E sorrisi, ripensando alle volte in cui mi aveva abbracciata. Quasi come se riuscissi a provare di nuovo quella sensazione… la sua voce, che mi sussurrava all’orecchio…

- Celia.

Riaprii gli occhi di colpo, trasalendo. Le braccia che mi avevano cinta non erano quelle di Greal, né la quella era la sua voce. Voltai la testa, senza riuscire a scostarmi. Ademar aveva un’espressione che avevo già visto in passato e che mi aveva messa in imbarazzo. Come se fosse compiaciuta, interessata in un modo che non mi piaceva.

- A-Ademar? C-Che ci fate qui?

Balbettai, cercando di scansarmi, ma la sua presa era troppo forte. Sgranai gli occhi quando lo vidi sogghignare in modo malevolo. Durò appena un istante, poi sorrise.

- Mi stavi facendo aspettare un po’ troppo. E così son venuto io. Oh, ho bussato, ma non ha risposto nessuno.

Deglutii.

- Mi dispiace, è solo che avevo bisogno di una boccata d’aria…

- Potresti prendere freddo, mia cara.

Tremai.

- G-Già… sarà meglio che rientri…

Riuscii a scansarmi dalla sua presa, rientrando a passo svelto. Il pesante portone delle mie stanze era chiuso. Cercai di ignorare il senso di oppressione che stavo provando, ma in quel momento, ero inquieta più che mai. Ademar chiuse le finestre, io cercai di respirare. Mi avvicinai alla poltrona, raccogliendo la mia vestaglia, ma la mano di Ademar mi bloccò il polso. Ebbi un sussulto e mi voltai a guardarlo. Indossava ancora gli abiti della festa, sebbene la camicia fosse allentata e il gilet lungo e dorato spuntato. I capelli neri erano sciolti. Quante volte avevo visto i capelli d’ebano di Greal che ricadevano morbidi sulle sue larghe spalle, mentre giaceva addormentato? E gli occhi, numi, che erano più scuri di quelli del fratello, e così diversi… istintivamente, cercai di tirarmi indietro, ma fu più forte e mi attirò a sé. Sgranai gli occhi, sconvolta, mentre mi baciava, bramoso. Mi irrigidii quando la mano libera di Ademar risalì impetuosa lungo la mia schiena, fermandosi sul mio collo. Sorrise divertito, leccandosi le labbra quando si scostò dalle mie, tremanti. Sentivo gli occhi pungere e non riuscivo a muovermi, tanto più che aveva stretto la presa attorno al mio collo, bloccandomi.

- Aah, piccola cagna, sei mia, finalmente.

Mi si fermò il cuore in quel momento. Incredula per ciò che avevo appena sentito, cercai di scansarlo usando le mani, ma ancora una volta, la forza di Ademar superò la mia. E fui sopraffatta dal terrore, quando mi afferrò per i polsi e mi spinse sul letto vicino, bloccandomi, cavalcioni su di me. Ansimai in preda allo sconvolgimento, guardandolo sgomenta.

- C-Che vuoi fare, Ademar?!

Un sinistro brillio attraversò i suoi occhi maliziosi.

- Non lo immagini? Dovresti saperlo… ma forse preferivi che fossi Greal, non è così?

Sussultai, mordendomi le labbra. E capii. Ademar sapeva di noi. Le lacrime mi velarono gli occhi e voltai la testa di lato, fissando in tralice il separé.

Ademar avvicinò il viso al mio collo nudo. Quando sentii le sue labbra percorrermi la giugulare pulsante, mi sentii tremare.

- Credevi davvero che non sapessi della tresca tra te e il mio fratellino, piccola Lady?

Ingoiai quel boccone amaro così come il pianto.

- Invece so ogni cosa. Da molto tempo. Eppure, nonostante tutto, alla fine, è con me che trascorrerai il resto della tua esistenza. Mentre Greal sarà condannato a un’eternità senza la persona che ama. Forse avrei dovuto mandarlo a Velsen dopo le nozze, però… avrei tanto voluto vedere il suo sguardo mentre ti baciavo, sull’altare.

Scossa dal fremito e da un impeto di rabbia, mi voltai verso di lui.

- Sei stato tu, Ademar?! Come… come hai potuto fargli questo?!

Ademar mi guardò sorpreso, poi strinse la presa attorno ai miei polsi doloranti.

- Che grinta… peccato che tu non possa far molto in quella posizione.

- Scommettiamo?!

Feci per tirargli un calcio, ma lasciò fulmineamente la presa del mio polso sinistro e mi bloccò la gamba.

- Spiacente, fallito.

- Che tu sia dannato, Ademar!

Esclamai, col cuore in gola. Ademar ci aveva ingannati. Il mio voler proteggere Greal al punto da allontanarlo era stato del tutto inutile. Maledettamente, ironicamente, inutile.

E in quel momento, alla frustrazione del fallimento erano frammiste la rabbia per il gioco di Ademar e la paura. Ademar usò i denti per sfilare il laccio dorato che aveva attorno al collo della camicia. Quel gesto mi fece trasalire, ma fu niente rispetto a quando mi intrappolò le mani, legandomi i polsi con un nodo stretto. Approfittando di un secondo, l’istinto di sopravvivenza mi accompagnò e riuscii a scostarmi, scivolando via dalla sua presa. Non appena riuscii a poggiare i piedi a terra, però, Ademar mi afferrò per i capelli, tirandomi a forza. Una fitta di dolore mi attraversò la testa. Ademar riuscì a catturarmi di nuovo, scaraventandomi supina sulle coperte di seta rosata.

- Eri così sfuggente anche con Greal, Celia? Perché sai… mi diverte molto questo tuo atteggiamento ribelle. Ah, numi, quanto ho atteso questo momento.

- Mi fai schifo, Ademar!!

Protestai, armeggiando col laccio nella speranza di liberarmi. Ademar ghignò, sollevandomi la camicia da notte di chiffon color glicine. Quando sentii le sue mani risalire vogliose e malevoli lungo le mie gambe nude, urlai. Ademar ridacchiò.

- Povera stupida. Ho allontanato le guardie. Non c’è nessuno che ti possa sentire.

A quel punto, memore del fatto che avevo anche mandato Alizea da Vere, compresi che nessuno avrebbe potuto aiutarmi. E del resto, anche se fosse stato possibile, chi avrebbe mai interrotto la prima notte di nozze tra il Despota e la sua sposa? Per quanto avessi potuto urlare, nessuno avrebbe sfidato l’ordine di Ademar. Mi si mozzò il fiato. Greal… solo lui… Greal… i suoi occhi nei miei… Greal… i nostri sospiri insieme…

- Greal

Sussurrai disperata, mordendomi con forza le labbra, mentre sangue e lacrime si mischiavano in bocca. Ademar sgranò lo sguardo, scoprendo il mio ventre appena appena sporgente. Trasalii. E quando comprese, proruppe in una risata, sollevandosi appena. Ansimai, guardandolo sconvolta.

- Ma tu guarda… e così, piccola puttana, il mio fratellino ti ha messo incinta?

Rantolai tremando, colpita da tanta volgarità, mentre Ademar si sedette vicino a me. Non riusciva a smettere di ridere. Eppure, qualcosa in quella risata era terrificante. Ora che aveva saputo, cosa sarebbe accaduto?

- Ti scongiuro, non fargli del male…

Lo pregai, quando riuscii a tirarmi su. La camicia da notte mi coprì il ventre, ma avevo ancora le mani legate. Ademar passò una mano tra i capelli neri, poi si voltò verso di me.

- Povera Celia… così innamorata eppure hai sposato me… perché dovrei infierire oltre? Ci hai già pensato tu.

Quelle parole mi fecero più male che di quanto avesse fatto lui fino a quel momento.

- Ademar…

Ademar mi sorrise.

- Non preoccuparti, Celia. Non intendo sporcarmi le mani con una come te.

Sgranai gli occhi, sconvolta.

- Posso avere puttane a migliaia, ora. Quanto al piccolo bastardo…

Portai le mani ancora legate sul ventre, proteggendomi. Ademar se ne accorse, poi rabbrividii quando mi accorsi della sua espressione improvvisamente trucemente divertita. Mi afferrò il mento con la mano, avvicinando il mio viso al suo. Aveva gli occhi sgranati ed eccitati.

- Oh, Celia, sei  il mio biglietto di sola andata per la gloria eterna. Non ti lascerò mai andare. Mai.

Cercai di scostarmi, ma fu ferreo. Sorrise di nuovo, poi mi scoccò un altro bacio. Mugolai lamentandomi, poi mi guardò ancora.

- Quanto al fatto che tu mi abbia mentito…

Fu rapidissimo. Sentii il dorso della sua mano colpirmi con forza la guancia e ricaddi con un tonfo sordo sul letto. Il dolore radiante mi provocò un’ondata di lacrime. Ademar si alzò, senza alcuna grazia, lasciandomi sola, umiliata, con i polsi ancora legati, a singhiozzare amaramente. Oramai ne ero certa. Avevo giocato male le mie carte. E messo le nostre vite in mano a un essere spietato.

 

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Capitolo 50
*** XVIII. 6 parte ***


Buon piovoso pomeriggio gente! :( Ma insomma, avete visto che tempo assurdo c'è? Altro che maggio... ç_ç Anyway, oggi, al di là della pioggia, è un giorno speciale! Perché? Perché il mio Jack compie due anni!! <3<3<3 *saltella felice* E siccome sono felice, aggiorno con... una nascita! :) Penultima parte del capitolo su Celia, con la nascita di Arabella! <3 Preparatevi per il prossimo, flashforward all'orizzonte! 

Un grazie a chi mi segue e a chi trova sempre un attimo per me, siete speciali, amici! <3 

Alla prossima e buona lettura!!

 

 

 

 

Nei mesi che seguirono, Ademar si dimostrò un Despota capace. Agli occhi del popolo e degli oligarchi, la Croix du Lac aveva benedetto il nostro mondo legittimando il figlio maggiore della famiglia Valdes, dopo la morte del beneamato Lord Rosenkrantz. Ma io sapevo fin troppo bene cosa ci fosse dietro quella maschera di perfezione. Ademar era dissoluto e arrivista. Trascorreva le sue notti cambiando di volta in volta donna. Persino Noelle, la nuova assistente di Alizea, era una delle sue favorite. Non che la cosa mi infastidisse in alcun modo. Più passava il tempo, più Ademar mi faceva ribrezzo. E il fatto che guardasse altre donne e non me, nonostante fossi la sua sposa, mi andava più che bene. Certo, non potevo nascondere che spesso, quando ci ritrovavamo da soli, tremavo al pensiero che potesse farmi qualcosa. Col tempo, mi aveva fatto terra bruciata intorno. Non avevo più alcun modo di comunicare con l’esterno e non potevo muovermi senza che ci fosse qualcuno con me. La maggior parte delle volte, si trattava di Lionhart Warrenheim, i cui commenti sul mio stato mi infastidivano non poco. Tuttavia, il fatto che fossero pronunciati in presenza di Ademar, mi rendeva impossibile replicare a dovere. Agli occhi dei dignitari, il nostro matrimonio appariva felice. Ademar aveva fatto costruire persino un gazebo, che dalle mie stanze potevo vedere ogni qualvolta mi affacciassi. Un’opera d’arte per chi la vedeva. Un monito costante della mia condizione di prigionia, per me. La mia sola fortuna era il fatto che Ademar non mostrasse interesse per il bambino che aspettavo. In tutti quei mesi, lontana ormai da tutti coloro che amavo, con solo la mia balia ad aiutarmi, mi aggrappavo al mio piccolo con tutte le mie forze. E pregavo che Greal potesse aver trovato la felicità. Ademar aveva ingannato anche lui, estromettendolo da qualunque questione ci riguardasse. Spesso mi ritrovavo a pensare a cosa sarebbe accaduto se avessi avuto la forza di dire a mio padre che Greal e io ci amavamo. Ma anche se l’avessi fatto, Greal non avrebbe rinunciato a Challant per diventare il nuovo Despota, me l’aveva già detto. E Ademar era stato chiaro. Dopotutto, avevo la mia parte di colpa nell’essermi intestardita nel volerlo allontanare da me. Oramai, anche se avessi voluto, non sarei più potuta tornare indietro. E non avrei nemmeno potuto pretendere qualcosa da Greal, dal momento che ero stata io stessa a dirgli di dimenticarmi. Per quanto potessi biasimare me stessa, ero colpevole. Il tempo trascorse. E poco prima del mio diciottesimo compleanno, la mia bambina venne alla luce. Ricordo ancora chiaramente ogni singolo attimo di quel tormento infinito. Il dolore lancinante, le mie urla straziate mentre imploravo Alizea di porre fine a tutto, il disperato bisogno di avere Greal accanto a me, in quel momento… e la sensazione di profondo rilassamento quando sentii i primi vagiti della mia piccola. Alizea, che aveva aiutato mia madre con me, piangeva e lodava i numi di Challant per quel miracolo. La vidi sorridere, poi cacciare di malo modo le cameriere curiose dalle mie stanze, e poi avvicinarsi, con quel fagottino in braccio. Mia figlia. Quando me la posò tra le braccia, con delicatezza e cura, mi scoccò un bacio in fronte, commossa.

- E’ una meraviglia, proprio come voi, piccola mia…

Disse, con voce materna. E quando sentii quel dolce peso muoversi nel mio abbraccio, finalmente realizzai come si sentiva Vere. Scoprii appena quel visetto tondo e paffuto, ancora rosso. Muoveva appena la boccuccia, della quale seguii i contorni, scoprendo la somiglianza con quella di Greal… aprì gli occhietti, così simili ai miei, eppure appena più scuri del colore di quelli di suo padre. Quel piccolo angelo era un perfetto misto di noi due. E tutto il mondo all’esterno, in quegli istanti, non esisteva più.

- Alizea…

Mormorai, prendendo la manina di Arabella, che strinse le piccole dita attorno al mio indice. Baciai quella pelle ancora ruvida, mentre la commozione mi impediva quasi di ragionare lucidamente. Ma dopotutto, perché farlo? Ero madre e quella piccola creatura nata da così poco mi aveva già fatta impazzire. E al tempo stesso, mi resi conto che ero diventata forte, molto più di quanto potessi pensare.

- Ditemi, cara…

Giocai con la manina della mia piccina, poi le sorrisi e guardai la mia balia, con le lacrime che in quel momento, non mi ero nemmeno resa conto di star versando.

- Devi dire a Greal che sua figlia è stupenda… e che farò di tutto per proteggerla…

Alizea esitò, poi posò la mano davanti alla bocca, soffocando un singhiozzo. Sapevo di starle chiedendo molto, ma volevo che Greal lo sapesse… anche se questo non sarebbe servito a cambiare le cose, ormai. Mi rivolsi alla mia bambina, che boccheggiava.

- Hai fame, piccola mia?

Le domandai. Alizea mi guardò ancora, poi tolse la presa e mi aiutò a sistemarmi affinché potessi allattarla. Avevo già deciso di farlo personalmente e Ademar del resto, non sembrava affatto interessato a quello che desideravo.

- Celia, avete pensato a un nome?

Mi domandò la mia balia, mentre la piccola prendeva il latte, provocandomi una strana quanto curiosa sensazione di solletico che mi fece sorridere. Le accarezzai dolcemente la guancia piena con la punta delle dita.

- Arabella… trovo che somigli un po’ ai nomi delle nostre madri… Amaryllis e Annabelle…

Alizea sorrise dolcemente.

- Lady Arabella Valdes, figlia della Lady del diamante e del Lord dell’ametista.

Guardai incantata la mia principessina, poi realizzai quelle parole.

- Greal è il Lord dell’ametista?

- Da quello che ho sentito, l’ha ereditata dopo che Ademar è diventato il Despota…

- Dunque questo fa di lui il prossimo capofamiglia…

Alizea annuì gravemente.

- Hai sentito, piccola mia? Il tuo papà governerà Challant… devi essere fiera di lui. E’ forte, serio, determinato, coraggioso e implacabile… lui… lui…

Ingoiai il magone per evitare di farla distrarre, ma sentivo il cuore esplodermi. Alizea mi accarezzò dolcemente i capelli.

- Tempo al tempo, Celia… tempo al tempo.

Annuii, fissando Arabella, persa nell’incoscienza dei suoi primi momenti. La mia piccola, innocente e meravigliosa creatura. Il mio eterno legame con Greal.

 

Circa una settimana più tardi, Alizea mi annunciò con fare segreto la visita di Lord Leutwin. In realtà, Ademar aveva ritenuto opportuno tenere tutti all’oscuro riguardo alla mia gravidanza, persino la sua stessa famiglia. Per ovvi motivi, non voleva che si presentasse uno scandalo subito dopo la sua ascesa. Sarebbe stato un serio problema per lui se si fosse scoperto che la sua neosposa era incinta di suo fratello. E per di più, Arabella era sana e forte, e anche volendo non sarebbe mai potuta passare per una neonata prematura. Quand’era venuto a trovarci, dopo la nascita della piccola, mentre eravamo soli, le aveva rivolto appena uno sguardo, notando immediatamente la somiglianza con Greal. Ma se prima avevo paura, anche soltanto lo stringere la mia bambina mi dava forza. E quando, mentre ero nel salone privato che faceva parte dei miei appartamenti, attesi di ricevere Lord Leutwin, preparando del profumato the alle rose, pensai a cosa gli avrei detto. In fondo, era pur sempre la sua nipotina. E se a mio padre non era stato concesso di tenerla tra le braccia, perché non concederlo almeno a lui? Quel pensiero mi faceva stare male. E per giunta, non potevo fare un passo senza che Ademar mi contrastasse in tutti i modi possibili. Certo, avrei potuto pregare Lord Leutwin di mantenere il segreto, per amore di Arabella e di Greal… ma tutti quei segreti a cos’avevano portato? Tuttavia, quel giorno, ero stata fortunata. Ademar era impegnato in un incontro privato a Boer e non sarebbe tornato prima di due giorni. Naturalmente, si era premunito quanto a sicurezza, ma almeno, non rischiavo di ritrovarmi davanti né lui né Lionhart Warrenheim, mentre conversavo con Lord Leutwin. Sentii bussare e posai immediatamente la teiera, prendendo fiato.

- Avanti.

Dissi.

Quando la porta pesante si aprì, mi aspettai di vedere il padre di Greal. Non appena alzai lo sguardo, tuttavia, mi prese un colpo al cuore, così forte che dovetti sorreggermi alla poltrona vicina. Greal era sulla soglia, mentre dietro di lui, Gregor mi salutava con la mano, sorridendo cordialmente e Alizea sorrideva a sua volta. Mi si mozzò il fiato e sentii la gola secca.

- G-Greal?

Sussurrai, fissandolo.

Nel tempo che era trascorso, il giovane era diventato un uomo fatto e formato. Molto più maturo, composto, impeccabile. Si inchinò appena. Indossava un farsetto nero, intagliato, dello stesso colore dei pantaloni. Sopra, portava un gilet smanicato dai toni del grigio argento, che mi ricordò tanto il sigillo che portava sul guanto dell’uniforme. E al collo, l’ametista. Quando si risollevò, vidi la sua espressione severa. Portava i capelli appena più lunghi di come l’avevo lasciato, legati in una morbida coda più bassa, ma sempre mossi, meravigliosi. E i suoi occhi… numi, quanto mi erano mancati e quante volte li avevo immaginati, chiudendo i miei.

- Celia.

Disse soltanto.

Cercai di farmi animo, ma in quel momento, ero così sconvolta che non sapevo cosa fosse effettivamente giusto fare. Greal era lì… e non era un sogno. Ansimai, scombussolata. Lui inclinò appena la testa, mentre Gregor gli bisbigliò qualcosa del tipo “Muoviti, idiota!” prima di chiudere la porta. Greal sospirò, poi tornò a guardarmi. Ero in ansia, come se fosse la prima volta che mi ritrovavo davanti a lui, ma con la consapevolezza che niente fosse come prima. E non riuscivo a venirne a capo in nessun modo. Eppure, alla fine, l’effetto che Greal aveva su di me era rimasto lo stesso.

- Mpf. Chissà perché finiamo puntualmente per ritrovarci chiusi dentro a una stanza, noi due…

Borbottò.

- Eh? Ah… beh… s-sarà perché ti porti sempre dietro Gregor!

Risposi. Erano le nostre prime parole dopo tanto tempo.

Greal mi rivolse un’altra occhiata, poi la severità nei suoi occhi lasciò il posto a una sfumatura di tenerezza.

- Già, hai ragione.

Annuii, e ben presto mi ritrovai a sorridere.

- Certo che ho ragione!

Gli feci eco. Greal aggrottò appena le sopracciglia, affilando lo sguardo, poi si mise a ridere. Fui colpita da quella risata così spontanea, così tanto che risi anch’io, ma poco a poco, quella risata si tramutò in pianto. Greal era lì, a pochi passi da me. Se ne accorse e mi raggiunse. Prima che potessi replicare, mi strinse a sé così forte che ebbi persino difficoltà a respirare.

- Razza di sciocca… non avresti dovuto farlo!

Esclamò. Singhiozzai, stringendomi al suo petto che così tanto mi era mancato.

- Mi dispiace, Greal… mi dispiace tanto! Io… volevo solo proteggerti!

- Lo so, Celia, lo so.

Rispose, cullandomi dolcemente tra le forti braccia. Per la prima volta dopo così tanto tempo, mi sentii di nuovo tranquilla. Credevo che Greal mi avrebbe odiata, ma avevo sottovalutato la forza dei suoi sentimenti. Era proprio come diceva Vere.

Gli sorrisi, quando prese il mio viso tra le mani. Ero del tutto persa nei suoi occhi.

- Amore mio…

Bisbigliai. Lui mi guardò con un’espressione indicibile, la stessa che riservava solo a me, che andava oltre la dolcezza stessa. Eppure, la sottile vena di turbamento attraversava sempre quegli occhi incantevoli. Mi baciò, con tenera furia, e ricambiai quel bacio che mai avrei creduto di poter più avere. Gli avvolsi le braccia al collo e lui mi strinse a sé, mentre ci riscoprivamo, ricordandoci ancora una volta quanto tempo e distanza non avessero intaccato il nostro amore. All’improvviso, sentimmo bussare dalla porta che dava direttamente sulle mie stanze private. Greal mi guardò stupito, poi sorrisi.

- Alizea, sei tu?

Alizea si affacciò, tenendo in braccio Arabella.

- E chi volevate che fossi, eh?

Mi fece eco. Raggiante, guardai la mia bambina, poi Greal, che era rimasto impietrito. Per un attimo mi venne il sinistro dubbio che non avesse saputo di Arabella, ma poi lo sentii balbettare, incredulo. Era la prima volta che lo vedevo così esitante.

- E’… è lei?

Domandò, deglutendo. Sorrisi, stringendogli il braccio.

- Sì, è lei, amore mio… è tua figlia…

Greal mi guardò con gli occhi sgranati, ma fu niente rispetto a quando Alizea ce la portò. Arabella era avvolta nella sua copertina rosa antico e portava una cuffietta bianca che metteva appena in vista quelle ondine bionde. Si era svegliata da poco e aveva ancora l’aria confusa.

- Vi presento Lady Arabella, Lord Valdes…

Disse Alizea. Greal la guardò in tralice, poi osservò con stupore la bambina. Per diversi minuti lo vidi in difficoltà. Ma era evidente che era stato amore a prima vista. Greal sorrideva, incredulo, non si capacitava di come fosse possibile vedere una tale perfezione e ogni tanto, cercava di accarezzarla, ma si ritraeva, come spaventato… o preoccupato.

- Greal, che succede?

Gli domandai. Mi guardò.

- I-Io non… non ho esperienza con i bambini… non so come si fa…

Lo guardai stupita, poi ridacchiai. Arabella ci guardò, attirata dal mio risolino.

- Non prendermi in giro, dico davvero.

Protestò.

Alizea fu più rapida, però. Afferrò le braccia di Greal senza farsi troppi problemi e gli mise in braccio Arabella, che protestò con un gemito. Greal sulle prime rimase sconvolto, poi, notando che la piccola stava per piangere, la avvicinò a sé, cullandola, sotto il mio sguardo del tutto incredulo.

- Eh, e ci voleva tanto?

Domandò retoricamente Alizea. Greal le scoccò un’occhiata contrariata, subito smorzata dal rendersi conto che Arabella gradiva quel trattamento. Io mi misi a ridere, accarezzando la schiena della piccina. Greal la teneva saldamente, come se fosse parte di sé. Decisamente, quel gesto così naturale, era lo slancio che solo un padre poteva avere.

- E’ così piccola…

Mi fece notare. Io annuii.

- Ma è forte e ha un senso di sopravvivenza prodigioso… vedessi come allatta…

Greal mi guardò sbalordito.

- Ehm… forse è un po’ troppo, vero?

Domandai, pensando di averlo messo in imbarazzo.

- No, non… mpf. E’ solo che questa bambina sembra aver preso una buona dose di caparbietà.

- E non si lamenta mai, sai?

Osservai, orgogliosa.

- Ovviamente, a parte quando vuole mangiare o dormire…

Greal assentì.

- Non ha preso da te, allora.

- Ehi, che vuoi dire?

Gli feci eco, minacciosa. Greal sorrise.

- Chi lo sa.

Inarcai il sopracciglio. Arabella intanto, voltò il viso verso la guancia di Greal, posandovi su la boccuccia.

- C-Che ha?

Domandò, incerto.

- Magari ha proprio fame…

Osservò Alizea.

- No, ha già mangiato… ci sono, forse vuole mangiare Greal!

- Eh?

Mi fece eco. Poi guardò perplesso Arabella, scostandola appena dal suo viso.

- Che c’è, piccolina?

Il tono con cui aveva detto quelle parole mi scaldò il cuore. Arabella protestò, boccheggiando.

- Ci sono! Probabilmente voleva solo darti un bacio! E tu ti sei scostato, essere senza cuore…

Protestai. Greal mi guardò in tralice, poi sospirò disperato.

- Numi di Challant, datemi la forza.

Mi misi a ridere, e così fece Alizea, che fece per prendere in braccio Arabella.

- Aspettate, vi prego.

La fermò Greal. Sotto i nostri occhi stupiti, strinse ancora a sé la piccola, poi la baciò in fronte. Arabella rispose con versetti incomprensibili. Dopodiché, Greal la affidò ad Alizea.

- Piccola Arabella… sappi che tuo padre ti proteggerà sempre.

Sorrisi a quelle parole, pensando che nostra figlia non avrebbe mai potuto avere una protezione migliore. E così, più tardi, mentre Gregor ci seguiva a distanza, Greal e io ci trovammo a passeggiare nei giardini interni, nell’area che ero riuscita a ritagliare soltanto per me. Chiacchierammo di cos’era accaduto nei mesi che avevamo trascorso lontani e mi raccontò che Lord Leutwin aveva contratto lo stesso morbo che aveva portato alla morte di Lady Annabelle. Quella rivelazione mi intristì. Alla fine, saremmo rimasti soli.

- Diventerai il nuovo capofamiglia, Greal, non è così?

Greal guardò dritto davanti a sé, osservando i giochi di luce nella fontana che mio padre aveva fatto costruire, pochi metri più in là.

- Sembra che sarò costretto. Ho sempre pensato che avrei servito la mia patria sul campo. Non sono affatto sicuro di essere in grado di farlo dall’alto.

Poggiai la guancia sul suo braccio.

- Invece sono certa che saprai essere un grande governatore. Soltanto chi ama profondamente qualcosa è in grado di realizzare anche i compiti più difficili.

- Staremo a vedere, Celia. Ad ogni modo, mio padre è tenace e al momento ho ancora il comando della guarnigione di Velsen.

- Immagino che razza di incubo tu sia per…

Mi morsi la lingua, dopo essermi resa conto della gaffe e guardai Greal. Ricambiò il mio sguardo e arrossii, balbettando qualcosa di simile a delle scuse. Lui sospirò.

- Davvero, non volevo fare dell’ironia…

- Lo so.

Mortificata, ricordai il giorno in cui Greal mi aveva parlato degli orribili incubi che popolavano il suo sonno e strinsi il suo braccio con più forza.

- Ne… ne hai avuti altri, Greal?

Domandai. Quando comprese a cosa mi riferivo, si fermò. Eravamo davanti alla fontana e gli schizzi ci arrivavano vicino.

- Sempre lo stesso, da qualche tempo.

- Quello con le due fanciulle?

- No. In quest’incubo, Ademar ti ha in pugno. E l’unico modo per liberarti è ucciderlo.

Sgranai gli occhi. Era ciò che temevo più di ogni altra cosa. Gli passai davanti, guardandolo in tralice, col cuore che batteva forte per l’ansia.

- Mai, Greal. Non dovrai mai farlo. Non ti macchierai le mani del sangue di tuo fratello! Sai bene cosa succede a chi uccide il Despota…

- Eterna dannazione.

Annuii, sconvolta e terrorizzata a quel pensiero.

- Non mi importa.

Rispose, monocorde.

- Importa a me! Non lascerò che tu venga maledetto!

Sbottai, afferrando il suo farsetto.

- Non posso sopportare il pensiero di Ademar che ti… dannazione, avrei dovuto farlo molto prima, ma Vere mi ha sempre fermato…

Scosse la testa, reprimendo a stento l’irritazione. Compresi cosa voleva dire e deglutii. Ringraziai Vere nel mio cuore. Lei l’aveva protetto, facendolo desistere dai suoi stessi oscuri desideri.

- Ademar non mi ha mai toccata, Greal!

Sobbalzò a quella rivelazione, tornando a guardarmi.

- Lui… s-sì, insomma, ci ha provato, la notte dopo le nozze… m-ma quando ha scoperto che ero incinta non… b-beh, non mi ha voluto… e questo è stato solo l’inizio… cambia amante ogni notte e non nutre alcun interesse per me… quantomeno da quel punto di vista, per fortuna…

Greal apprese quelle parole a tratti stupito, persino indignato. E mi resi conto che qualcosa gli stava balenando in testa.

- A che pensi, Greal?

Mi rivolse un fugace sguardo, ma scosse la testa.

- Nulla. Non preoccuparti.

Lasciai scivolare la mano sul suo petto, su cui era adagiata l’ametista.

- Tu sei il solo, Greal… il solo per me… non amo nessun altro che te…

Sentii il suo respiro grave, poi mi avvicinò a sé, baciandomi in fronte. Chiusi gli occhi, inebriandomi di quel suo profumo. Eppure, il racconto del suo incubo si insinuò come un germe malefico nel mio cuore.

Il ritorno di Ademar ne fu il consolidamento. Accadde un paio di giorni più tardi, al suo ritorno da Boer. Arabella dormiva profondamente nella culla che io stessa avevo fatto creare per lei. Greal era tornato a Challant e poco prima di separarci, mi aveva promesso che avrebbe cercato di tornare quanto prima. Il suo ritorno era stato per me fonte di grande gioia e mi aveva dato una sferzata di positività. Mi sentivo molto più forte e coraggiosa al pensiero che il suo amore era saldo tanto quanto il mio. Approfittai del sonno della mia piccola per raggiungere la galleria dei ritratti, nella quale Ademar aveva fatto collocare il ritratto dei miei genitori e in cui avrebbe fatto sistemare il nostro, che aveva appena fatto cominciare. Mi fermai davanti al quadro, osservando i volti felici di mia madre e di mio padre. Quanto mi mancavano…

- Madre mia, padre… sapete, non credo di essere mai stata tanto felice da quando mi sono sposata… non è facile, certo, ma adesso so che posso affrontare ogni cosa. Pensavo di essere sola oramai, ma non lo sono. La persona che amo più di ogni altra al mondo mi è accanto e mi sento di nuovo forte. E poi, Arabella mi dà tanto coraggio… avrei tanto desiderato che voi foste qui, in questo momento, per vederla…

- Pare invece che ci sia io, mia cara.

Sobbalzai nel sentire la voce di Ademar, a pochi metri da me. Mi accigliai nel vederlo sorridere. Sembrava così cordiale, eppure non c’era nulla di buono in lui.

- Sei tornato.

- Per tua sfortuna sì, mia adorata.

Deglutii, mentre mi raggiungeva.

- Risparmiami i convenevoli, Ademar.

Risposi seccamente. Lui mi rivolse uno sguardo accennato, poi guardò il ritratto dei miei genitori e fece un inchino.

- Lord Tantris, Lady Amaryllis, che male ho fatto per essere trattato in questo modo dalla mia stessa sposa?

Sbottai, nel sentirlo.

- Spero che tu non stia parlando seriamente, Ademar! Non osare rivolgerti ai miei genitori in quel modo!

Ademar rimase ancora inchinato, voltando il viso verso di me. La sua espressione si era fatta pungente.

- Oh. Credi davvero di potermi dare ordini, Celia?

- Credo che tu sia irrispettoso di tutto e di tutti, Ademar.

- E tu allora? Non hai esitato ad accogliere mio fratello, in mia assenza. Dimmi, si è forse riaccesa la scintilla?

Arrossii, colta in fallo. Ademar si raddrizzò, fissandomi.

- Non è qualcosa che ti riguarda.

- Mi riguarda invece, dal momento che sei mia moglie.

- Ho accettato soltanto per proteggere Greal! Non l’avrei mai fatto, diversamente!

Sembrava divertito, ora.

- Povera cara. Così giovane, ingenua… del tutto sciocca. Pensi davvero che Greal abbia bisogno di qualcuno che lo protegga? Mio fratello è sempre stato molto bravo a superare le difficoltà da solo. Già. Non ha mai avuto bisogno dell’aiuto di nessuno. E per questo, nostra madre temeva per lui, esattamente come te. Aveva paura che prima o poi, questa sua indole l’avrebbe fatto incorrere in situazioni più grandi di lui, dalle quali, a causa del suo orgoglio sconfinato, non sarebbe uscito indenne. Al contrario, nostro padre ha sempre avuto profonda fiducia in lui… Greal è sempre stato il loro preferito.

Lo guardai dubbiosa. Dunque Ademar era geloso di Greal? Scossi la testa, pensando che non poteva essere così. Ademar aveva ottenuto molto di più di suo fratello minore, eppure, in quel momento, sembrava il contrario.

- Ademar…

- Non… non compatirmi. Odio essere compatito.

Mi guardò improvvisamente serio e quello sguardo mi mise in soggezione.

- Non ti sto compatendo. E’ soltanto che penso che Greal abbia dato un’altra priorità alla sua vita. Lui non ha mai chiesto niente, si è sempre e soltanto limitato a impegnarsi per realizzare il suo obiettivo!

- Greal di qua, Greal di là. Celia… dimmi… cosa diavolo ha lui che io non ho?!

Sbraitò, battendo il palmo della mano sul muro accanto al ritratto della mia famiglia.

Sgranai gli occhi, avvampando per la tensione.

- Ha un cuore, Ademar! Greal ha un cuore in grado di amare!

Ademar sbuffò, poi ridacchiò appena.

- Un… cuore? Celia, sei davvero una bambina.

- Che c’è di così strano?!

Replicai. Ademar scoppiò a ridere.

- Ademar!

Riaprì gli occhi, con un brillio sinistro.

- A cosa serve un cuore se non a impedirti di ottenere razionalmente ciò che vuoi? Greal non ha mai amato nessuno in tutta la sua vita. Sin da quand’era piccolo, non c’è mai stato niente in grado di catturarne davvero l’attenzione. Il suo cuore era totalmente chiuso.

- Era perché non aveva incontrato la persona giusta!

- E chi meglio della propria famiglia, Celia?!

- Non sempre la famiglia è in grado di capirti. Dovresti saperlo.

Affilò lo sguardo, poi si ricompose.

- Se sei così brava a leggere nel cuore altrui… dimmi allora, cosa vedi nel mio?

- Vuoto.

Mi affrettai a dire. Ademar si risentì.

- Mi dispiace, Ademar. Non c’è niente di buono in te. Vivi di rancore, di risentimento… a cosa serve tutto questo? Greal non ti ha mai fatto niente, eppure tu continui a odiarlo… due fratelli non dovrebbero farlo, mai…

- Cosa ne sai tu dell’essere fratelli?

- Niente. Non so niente, ma so che non vorrei mai che i miei figli si ritrovassero in competizione tra loro.

Ademar inclinò la testa, studiandomi.

- Un figlio… già… sarebbe un ottimo deterrente…

Scossi la testa, perplessa.

- C-Che stai dicendo?

Ademar sogghignò. Ora che la tua piccola bastarda è venuta al mondo, nulla mi impedisce finalmente di avere un figlio mio, un erede legittimo.

- N-No!

Esclamai, indietreggiando. E le parole di Greal si riaffacciarono prepotenti nei miei ricordi.

- Sì invece.

Ademar si avvicinò a me, afferrandomi il braccio mentre cercavo di allontanarmi. Mugolai, sentendo la sua presa stretta attorno a me.

- Non… non toccarmi!

Urlai.

- Neanche per sogno. Che tu lo voglia o no, prenderò ciò che voglio.

Poi lo sentii ridere sommessamente, sentendo il suo fiato sul collo.

- Non vedo l’ora di vedere l’espressione di Greal quando saprà che mi appartieni del tutto. Oh, sarà una gioia per me vedere il suo volto sempre così composto contorcersi dalla rabbia. E così vedremo se nel petto del mio fratellino batte o meno un cuore in grado di amare come dici, Celia.

Serrai gli occhi, quando mi sbattè contro il muro, senza alcuna delicatezza, ignorando del tutto i miei mugolii di dolore. Rantolai, pensando a Greal. “In quest’incubo, Ademar ti ha in pugno. E l’unico modo per liberarti è ucciderlo”. No! No! Non potevo dargliela vinta. Non dovevo arrendermi. Facendo appello alle mie forze, affondai le unghie nel collo di Ademar, che si ritrasse improvvisamente, sbraitando.

- C-Che diavolo… ?!

Ansimai, tremando.

- Prova anche solo a toccarmi, Ademar… e ti garantisco che non sarà Greal il tuo problema, ma tutto l’Underworld. Quando tutti sapranno che razza di mostro si nasconde dietro al titolo di Despota, a chi pensi che crederanno? Alla figlia del defunto e ancora tanto amato Despota Tantris o allo sbarbatello mandato in avanscoperta?!

Gridai.

- Mi stai minacciando?

Domandò, insofferente.

Affilai lo sguardo, pensando a Greal e ad Arabella. Datemi la forza…

- No. No, Ademar. Te lo sto garantendo. Se davvero tieni a quello stramaledetto trono, farai meglio a non alzare un solo dito né su di me, né sulla mia famiglia. Diversamente, farò in modo di farti rimpiangere il giorno in cui hai deciso di proporti come Despota.

Ademar si ricompose, arricciando le labbra e guardandomi come se gli avessi proposto una sfida. Del canto mio, cercai di mostrarmi il più risoluta possibile.

- Va bene.

Sostenni il suo sguardo, senza proferire parola.

- Così sia, Celia. Vedremo per quanto resisterai.

- Che vuoi dire?

Domandai, stupita.

- Prima o poi, l’eco della morte di tuo padre sparirà. E allora, a chi crederanno? Alla sposa del Despota o al Despota stesso, legittimato dalla Croix du Lac? Non vedo l’ora che quel momento arrivi… e allora, sia tu che Greal avrete ciò che vi spetta.

Trattenni il fiato al pensiero, considerando il tono minaccioso con cui stava parlando. Ma mi feci forza, pensando che Vere aveva ragione. Greal e io saremmo stati in grado di superare qualunque cosa, insieme. Non abbassai mai lo sguardo, nemmeno mentre Ademar si voltava a darmi le spalle. Tremavo, per la tensione accumulata, per la rabbia, per la paura. Ma al tempo stesso, per la prima volta dopo tanto tempo, mi sentivo determinata. Ero stata finalmente capace di tenergli testa.

 

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Capitolo 51
*** XVIII. 7 parte ***


Il tempo passò. Is e Dagaz si alternarono e trascorsero tre anni da allora. Lord Leutwin ci aveva lasciati durante l’ultimo lungo inverno, a seguito della malattia che l’aveva portato via e Greal aveva ereditato ufficialmente il titolo di capofamiglia. Tuttavia, aveva deciso di affidare il compito di governare Challant a un membro della famiglia Rosenkrantz, Adam, che accettò di buon grado. Avevo saputo che si trattava di una persona molto equilibrata ed ero più che sicura che Greal avesse ponderato bene la sua scelta. In segno di rispetto e di gratitudine, Adam Rosenkrantz volle che Greal mantenesse comunque il possesso dell’ametista, auspicando che presto o tardi, il potere sarebbe tornato nelle mani dei Valdes. Per quanto ci riguardava, durante quei tre anni, avemmo diverse occasioni di incontrarci, ma decidemmo di mantenere un basso profilo per evitare scandali di qualunque tipo. Ademar mi aveva concesso di spostarmi da palazzo ogni tanto e da qualche settimana risiedevo nella tenuta di campagna, con Alizea al seguito e con Arabella. Il mio piccolo angelo biondo. Oramai, la mia bambina aveva tre anni e in barba al mio orgoglio materno, era la creatura più bella che avessi mai visto in tutta la mia vita. In lei rivedevo me e Greal. Mi somigliava molto, fisicamente, ma quanto a tenacia era tutta suo padre. Sin dall’inizio, avevamo tenuto segreta la sua nascita e così, la mia piccola non aveva mai avuto modo di vedere il mondo esterno. Solo poche persone sapevano di lei e Ademar aveva fatto in modo che nessuno, tra guardie, dignitari a conoscenza e cameriere, parlasse, giustificandolo come volontà precisa della Croix du Lac. Nel nostro mondo, nessuno si sarebbe opposto a un ordine emanato direttamente dalla somma autorità. E in qualche modo, per noi fu una manna. La sola azione buona che Ademar aveva compiuto nella sua vita, ironicamente. Mi ero perfino chiesta se in qualche modo, fosse arrivato a provare qualcosa per quella bambina, che dopotutto, era pur sempre sua nipote. Ma non aveva mai dato segno di affetto verso di lei. Eppure, nonostante tutto, avevo chiesto ad Arabella di volergli bene. E lei lo faceva, accogliendolo con un sorriso e con un inchino ogni qualvolta lo vedesse.

- Mamma, hai visto com’è strano il cielo, oggi?

Mi domandò, mentre le pettinavo i lunghi capelli, sedute all’ombra di una quercia secolare. Alzai lo sguardo. Nonostante fossimo nel pieno della bella stagione e non vi fossero mai cambiamenti improvvisi, salvo in poche occasioni, quel giorno, il cielo si stava oscurando velocemente, riempiendosi di nuvole nere che minacciavano come minimo un forte temporale.

- Sarà meglio rientrare.

Suggerii, alzandomi e prendendo per mano Arabella, che continuava a osservare il cielo.

- Su, piccola mia.

La sollecitai. Lei mi guardò, annuendo.

- Va bene!

E mentre rientravamo, fummo raggiunte da Alizea, che portava con sé l’annuncio che cambiò per sempre le nostre vite. In quei tre anni di pace, avevo quasi finito col dimenticare la minaccia di Ademar. “E allora, sia tu che Greal avrete ciò che vi spetta”, aveva detto. Quel momento era arrivato.

- Celia! Oh numi!

Esclamò, alzando le braccia per aria, poi pregando.

- Alizea, perché fai così?

Rise Arabella, ignara tanto quanto io ero perplessa.

- Si può sapere che succede?

Domandai, mentre la mia balia cercava il modo migliore per parlare.

- Alizea!

La ripresi, seccata. Lei ci guardò, accarezzando la testa bionda di mia figlia, poi sospirò e finalmente si decise.

- I Delacroix…

- Eh?

- Chi sono i Delacroix?

Domandò Arabella, incuriosita.

- Te lo spiegherò più tardi, piccola mia. Che è successo ai Delacroix?

Domandai. Dalla morte di mio padre, non c’erano stati più contatti con quella famiglia. Di tutti i Despoti che si erano succeduti sul trono di Adamantio, solo lui aveva ripristinato un minimo di comunicazione, ma Ademar aveva nuovamente tagliato i ponti.

- Ecco…

Alizea tappò le orecchie di Arabella, che protestò.

- Sono stati sterminati. Tutti quanti.

Sgranai gli occhi, incredula.

- C-Cosa?

- Mamma!

Sconvolta, guardai Arabella, poi mi chinai, mentre Alizea la lasciava libera.

- Tesoro mio, ascolta. Va’ a giocare con Estellise. Ricordi come fare a chiamarla? Un fischio ed è da te. La mamma ti ha fatto vedere come si fa: devi mettere due dita…

- Sì, sì, così!

A sorpresa, Arabella fischiettò e si mise a ridere, compiaciuta della buona riuscita dell’esecuzione.

- Sono stata brava, mamma, visto?

Annuii, rivolgendole un sorriso, poi la lasciai andare verso le mie stanze. Rialzatami, guardai Alizea.

- Perché?

Alizea scosse la testa.

- Non è quella la domanda che dovete farvi, Celia. E’ chi.

Ebbi un tuffo al cuore e portai la mano al petto. Non mi succedeva da tanto di stare così male. La mia balia se ne accorse e cercò di essere quanto più delicata possibile nel riferirmi che a capo di quella missione c’era Greal.

Nei giorni che seguirono, quel pensiero mi tormentò come mai. Greal non avrebbe mai potuto fare nulla del genere. Lo conoscevo bene e mi fidavo di lui. Doveva esserci un errore. Certo, sapevo che dal momento che aveva rinunciato a governare Challant, aveva confermato la sua nomina a comandante della guarnigione di Velsen e che nel tempo, si era distinto per valore e maestria, ottenendo diversi incarichi. Lo chiamavano il Fulmine d’argento, tanto era elegante e letale ogni qualvolta maneggiava la sua spada. Era famigerato e rispettato, il mio Greal. Eppure, non avrebbe mai e poi mai potuto alzare la propria lama su delle persone innocenti. Per giunta i Delacroix non erano rimasti che in pochi e anche se fossero stati in numero maggiore, non avrebbero mai avuto il potere necessario per pensare anche soltanto di diventare una minaccia di qualsiasi genere. Dunque, non capivo il motivo di questa tragedia. Decisi così di tornare a palazzo e di affrontare direttamente Ademar. Era in riunione quando vi giunsi e stavolta, senza nemmeno Grayling a fermarmi, non attesi nemmeno che finisse. Quando entrai nella sala delle udienze, lo trovai assieme a Lionhart, e con mia sorpresa, assieme a Gregor e a Greal. Quando incrociai i loro sguardi, Gregor fu il solo a stupirsi. Ademar mi accolse con un sorriso.

- Mia cara, avresti quantomeno potuto bussare.

Disse.

- Non avevo tempo per l’educazione. Cos’è questa storia?!

Sbottai. In realtà, la domanda era per Greal, ma lui non rispose. Al contrario, fu Lionhart a farlo.

- Milady, avete saputo anche voi dell’esito della missione? Oh, giusto. Ciò che non sapete è che i Delacroix sono… erano i responsabili della morte di vostro padre.

Sgranai gli occhi.

- Che diamine stai dicendo?!

Mi avvicinai a Greal, guardandolo. Lui tenne fisso lo sguardo su di me, ma non profuse parola. Mi rivolsi ad Ademar, che seduto sullo scranno principale, ci guardava.

- Ebbene, dalle nostre indagini, abbiamo scoperto che i Delacroix hanno fatto in modo di avvelenare tuo padre, lentamente, durante i suoi viaggi a Chambord. Avevo mandato Greal a cercare la prova definitiva ai miei sospetti, dal momento che non c’era persona di cui mi fidassi maggiormente per qualcosa del genere e una volta arrivato nella capitale della prima famiglia, nonostante le sue buone intenzioni, i Delacroix, vistisi braccati, hanno cercato di ucciderlo. Puoi confermarlo, vero, Greal?

Greal affilò lo sguardo.

- E’ ciò che dice Vostra Maestà.

Ademar continuò, ma la tensione dipinta sui volti di Greal e di Gregor mi fece comprendere subito che le cose non erano andate così.

- Dunque Greal ha risposto al loro attacco. E immagino tu conosca il valore di mio fratello, sia sul campo che fuori, ovviamente.

Gli scoccai un’occhiataccia, ma Ademar non si scompose. Lionhart, accanto a lui, aveva incrociato le braccia. Deglutii, poi mi rivolsi a Greal.

- Mio padre… è stato vendicato?

Greal mi guardò. Gregor accanto a noi, era un fascio di nervi.

- Allora, Greal, non vorresti dare personalmente la bella notizia alla mia sposa?

Riluttante e senza nascondere il fastidio per quel commento, Greal mi rivolse un inchino.

- Vostro padre riposerà ancor meglio quando le ombre di chi ha attentato alla sua vita raggiungeranno gl’Inferi.

Trattenni il fiato in quel momento. Poi, con un enorme sforzo, riuscii a lasciare la sala delle udienze e a raggiungere le mie stanze. Greal mi aveva appena detto di non essere stato lui il responsabile di quel massacro. Ma allora perché Ademar aveva mentito in quel modo così spudorato? E perché Greal non si era opposto? Ora tutto l’Underworld sapeva che Greal Valdes aveva sterminato la prima famiglia. Per tanto tempo mi dannai a quel pensiero. E poi, finalmente, venni a conoscenza della verità. Durante una notte, approfittando dell’oscurità più completa, riuscii a lasciare il palazzo di diamante assieme ad Arabella e a raggiungere l’abitazione di Vere. Grazie ad Alizea, Vere e io ci eravamo accordate affinché Greal rimanesse a Chalange, in modo da potergli parlare. E dal momento che le occasioni di vedere sua figlia erano molto poche, approfittai di quella notte. Così, raggiungemmo casa Lambert, dove Greal ci stava attendendo.

- Papà…

Arabella era assonnata e chiamò suo padre con la voce di chi era più nel mondo dei sogni che in quello cosciente. Greal la prese in braccio, stringendola forte a sé.

- Piccola mia.

Dopo esser stata baciata in fronte, Arabella sorrise e si accoccolò sulla sua spalla. Ogni volta, vederli, mi faceva commuovere. E maledicevo i numi che ci avevano costretti a vivere in quel modo.

- Greal…

Lui mi guardò, poi Vere prese in braccio Arabella, ormai addormentata.

- Ci penso io.

Disse, sorridendo. Gli anni passavano, ma la bontà di Vere rimaneva costante. Era sempre stata la mia sola confidente all’esterno del palazzo e nonostante avessimo pochissimo modo di vederci, riuscivamo a sentirci tramite corrispondenza.

- Grazie, Vere.

Lei annuì, poi si allontanò, lasciando me e Greal da soli.

- Devi dirmi cos’è successo a Chambord, Greal.

Dissi, sostenendo il suo sguardo. Attese qualche istante prima di rispondermi, ma non ebbe esitazioni quando parlò.

- Ademar mi ha convocato alcuni giorni fa. Oramai, pensavo avesse rinunciato ad attuare ritorsioni su di noi, ma stavolta, ha fatto le cose in grande stile. Mi ha detto che i Delacroix erano diventati una minaccia per lui e mi ha ordinato di sterminarli tutti. Sulle prime ho pensato che si stesse prendendo gioco di me e gli ho chiesto spiegazioni. L’ha giustificato come volontà della Croix du Lac, sulla cui esistenza, dopo aver legittimato mio fratello a Despota, comincio ad avere seri dubbi e ha aggiunto che se non l’avessi fatto, avrebbe fatto in modo di farmelo rimpiangere, uccidendo sia te che Arabella.

Sobbalzai, stupefatta e incredula. Ademar era impazzito del tutto?

- Numi, Greal, e tu hai accettato?!

- Non potevo fare altrimenti. Conosco mio fratello e so che non si fa problemi a togliere di mezzo chiunque sia scomodo per lui.

- C-Che vuoi dire?

Un sinistro presentimento mi scosse da dentro.

- Credo che sia lui il responsabile della morte di tuo padre.

Sgranai gli occhi. Greal prese fiato.

- Il morbo che ha contratto è lo stesso che ha colpito i miei genitori. Considerando che non vi erano punti in comune e che soltanto loro tre ne sono stati colpiti ed escludendo, per ovvi motivi, noi due, l’unico che aveva interesse e possibilità di toglierli di mezzo era proprio lui.

Scossi la testa, annaspando.

- P-Perché, Greal? Perché farlo?!

Greal mi guardò.

- Tuo padre era il Despota. Ademar non poteva rischiare che cambiasse idea su un’eventuale successione, soprattutto dal momento che mio fratello sapeva di noi. Riguardo ai nostri genitori, credo che mia madre fosse stata un… banco di prova, per così dire. E mio padre… la sperimentazione di un nuovo tipo di uccisione. La malattia è stata più lenta, ma inesorabile. Temevo che avrebbe potuto usarla anche su di te e Arabella. Purtroppo, Ademar non è tipo da prendere alla leggera.

Rantolai e dovetti sedermi per realizzare quelle parole. Dunque Ademar aveva ucciso i suoi stessi genitori e aveva tolto di mezzo mio padre… come dubitare delle parole di Greal? Non avrebbe avuto alcun motivo per mentirmi, non l’aveva mai fatto. Mentre Ademar sembrava esattamente quel genere di persona. Mi morsi le labbra, sentendo gli occhi pungere. E quando mi ritrovai a pensare a mio padre, che tanto si era fidato di quel mostro, singhiozzai.

- Padre…

Greal mi raggiunse, posando la mano sulle mie. Rialzai lo sguardo, vedendo il suo volto tanto amato tra le lacrime.

- Celia, non è finita qui.

Scossi la testa, poi strinsi la sua mano e annuii.

Greal si sedette accanto a me.

- Quando Gregor e io arrivammo a Chambord, la città era già stata distrutta. Sulle prime, non realizzai. Mi sembrò tutto così fuori luogo, strano. E ricordai di aver visto delle rovine in fiamme. Ma quella che credevo essere Challant, forse, non era davvero Challant, o non solo almeno. Riconobbi parte di quelle rovine come quelle dei miei incubi. Ma le urla erano assenti, del tutto. Erano già stati uccisi.

- C-Cosa? E… e chi?

Greal fissò il vuoto, come se stesse vedendo qualcosa davanti a sé.

- Lionhart. E’ stato lui.

- Warrenheim?! M-Ma come… ?

- Mentre Gregor cercava traccia di sopravvissuti e io osservavo quelle rovine, la voce di Lionhart ci raggiunse. Lo vedemmo arrivare brandendo la sua spada, intrisa del sangue ancora fresco della sua ultima vittima. Ci accolse ridendo. “Greal, Gregor. Spero di non avervi tolto del tutto il divertimento. Dal momento che sono arrivato prima, ho pensato di aprire le danze. Solo che mi sono lasciato prendere un po’ la mano. Ah, però, sappiate, con questi non c’è tanto da fare”, disse. Quando mi passò vicino, mi rivolse delle parole che continuano a ronzarmi nella testa. “Calca la scena, Greal, perché questa sarà la tua sola occasione di recitare da protagonista”. 

- Che voleva dire?

Domandai, sconvolta.

- Sto ancora cercando di capirlo. Lionhart è pazzo tanto quanto Ademar.

Sospirò. Gli strinsi più forte la mano.

- E… e i Delacroix?

- Quando Lionhart andò via, Gregor riuscì a trovare un sopravvissuto. Era un uomo poco più grande di noi.

- “Assassini. Voi, maledetti assassini”. Ah, numi, quelle parole, proprio a noi?

Mi voltai di scatto. Gregor era appoggiato allo stipite della porta con le braccia conserte.

- Gregor…

Greal guardò il compagno di squadra, che ricambiò.

- Ci ho messo un po’ a spiegargli che noi non c’entravamo e alla fine sembrava averlo capito. Però, non abbiamo fatto in tempo a salvarlo. Le ferite erano troppo profonde. Accidenti, Lionhart sarà un bastardo, ma con la spada ci sa fare. Certo, non è al livello mio o di Greal…

- Gregor.

- Sì sì, va bene. Ad ogni modo… quando ormai pensavamo che non ci fosse più niente da fare, questo qui mi ha costretto a seppellirli tutti.

- Davvero?

- Era il minimo. Anche se fosse stato possibile, non avremmo potuto dar fuoco all’intera città.

Abbassai lo sguardo pensando a quella città oramai divenuta fantasma e pregai per le anime di quegli innocenti.

- Dunque adesso i Delacroix non esistono più… quella famiglia così gloriosa oramai…

- Non è proprio così.

Mi contraddisse Gregor.

- Che vuoi dire?

- Vieni.

Disse Greal, alzandosi.

Stupita, lo feci anch’io e li seguii. Raggiungemmo Vere nella sua stanza. Era seduta sul letto, mentre Shemar dormiva appisolato sulla poltrona accanto alla madre. Ci disse di far silenzio, poi si scostò. Arabella dormiva profondamente e accanto a lei c’era un bambino all’incirca della sua stessa età, anche lui addormentato. Aveva dei lunghi capelli castano scuro e sul volto, era dipinta la serenità data dal sonno più profondo.

- Chi è quel bambino?

Domandai, sottovoce. Vere gli accarezzò piano i capelli, mentre Greal lo osservava. Fu Gregor a rispondermi.

- Celia, quel bambino è Evandrus Delacroix. L’ultimo sopravvissuto della prima famiglia.

- Eh?!

Il mio tono appena più alto a causa dello shock fece lamentare il piccolo, che si svegliò.

- Buono, piccolino, buono…

Disse Vere, continuando ad accarezzargli i capelli. Il piccolo Evandrus guardò Arabella, poi si tirò su, guardandoci. Aveva degli occhi amaranto, molto particolari, ben visibili nonostante fosse assonnato.

- Ehi, piccino…

Mormorai, raggiungendo Vere. Evandrus mi guardò e gli sorrisi. Quel bambino, l’ultimo dei Delacroix. C’era una leggenda, che mi tornò alla mente in quell’occasione. Si diceva che un tempo, i Delacroix proteggessero la Croix du Lac e che un cavaliere di quella famiglia, quando il primo Despota fu eletto, avesse giurato che un suo discendente avrebbe posto fine al dominio dei Despoti. E quel bambino era l’ultimo erede di quella leggenda. Gli accarezzai la guancia piena e calda.

- Evandrus… io sono Celia…

- Mh…

Evandrus accomodò la guancia nel palmo della mia mano, poi si rimise giù, guardando Arabella. Tese la manina verso di lei, poi si riaddormentò. In quel momento, fui sopraffatta dalla tenerezza e guardai Greal. C’era qualcosa nel suo sguardo che mi fece intendere, tuttavia, che fosse piuttosto preoccupato per il modo in cui si era evoluta la faccenda.

 

Decidemmo di tenere Evandrus al sicuro, affidandolo a Vere, almeno fino a che non fosse stato possibile trovargli una sistemazione migliore. Se Ademar avesse scoperto che c’era un sopravvissuto, avrebbe fatto in modo di colpire Greal ed era un rischio che non volevamo correre. Quel bambino, per fortuna, non aveva assistito al massacro della sua stessa famiglia. Era stato messo al sicuro dallo stesso uomo che Greal e Gregor avevano soccorso e che si era rivelato essere il padre del piccolo. Evandrus Delacroix. Un bambino che portava con sé un’eredità importante e un fardello altrettanto pesante. Eppure, sorrideva spesso e ben presto, legò con Arabella. Era bello vederli giocare assieme, sotto lo sguardo di Shemar, che sembrava un fratello maggiore e che era sempre attento a loro. Nelle occasioni di incontro, che ero riuscita a ottenere grazie ai viaggi sempre più frequenti da qualche tempo di Ademar, vedevo l’influenza reciproca che quei due bambini avevano. La cosa non sfuggì nemmeno a Greal, una notte. Ero accoccolata sul suo petto nudo e lui mi accarezzava dolcemente i capelli.

- Sai a cosa pensavo, Greal?

Domandai, percorrendo con l’indice l’incavo del suo sterno.

- No. A cosa?

Mi fece eco.

- Pensavo a Evandrus e ad Arabella…  

- Al fatto che la casa di Gregor sia diventata un asilo?

Ridacchiai e mi tirai appena su, guardandolo stupita.

- Era un commento ironico quello che ho appena sentito?

- No. Era una constatazione.

Rispose, serio. Mi imbronciai.

- Troppa grazia…

Sospirai. Greal mi guardò incuriosito.

- A cosa ti riferivi, allora?

- Beh… quei due bambini hanno la stessa età…

- Immagino sia così. Non ho avuto tempo di controllare i registri di nascita. Ma pressappoco, siamo là.

Annuii.

- Pensavo che un giorno potrebbero essere loro due a realizzare la leggenda che parla della caduta del Despota…

Greal aggrottò le sopracciglia.

- Credi alle vecchie leggende?

- Beh, se Evandrus è davvero l’ultimo dei Delacroix, avremo solo questa vita per scoprirlo, no?

Greal ci riflettè su, poi fece spallucce.

- Anche se fosse, cosa c’entra con questo Arabella?

- Beh, magari nostra figlia lo aiuterà a realizzarlo! Oh, Greal, lo immagini?

- Francamente no.

Affilai lo sguardo.

- C’è qualcosa di strano nel tuo tono…

- Non è così. E’ solo che non…

Inarcai il sopracciglio.

- Aspetta… non sarà mica che… sei forse geloso, Greal Valdes?

Greal mi rivolse un’occhiata bieca che mi fece capire che avevo visto giusto.

- Oh numi, sei geloso!

Esclamai, divertita.

- Spiegami perché dovrei esserlo.

- Perché Arabella è tua figlia e tu devi essere il suo primo e solo amore, vero? Beh, credo sia più che normale per un padre… però prima o poi il momento arriva… anche mio padre era…

Mi fermai prima di andare oltre. Già, mio padre non aveva avuto il tempo di esserlo, perché era morto prima che potessi dirgli che amavo Greal. Lui lo comprese e tese il braccio, accarezzandomi la guancia col dorso della mano.

- Penso che Evandrus farà meglio a essere un bambino per il resto della sua vita. Poi ne riparleremo.

Lo guardai stupita. A volte, Greal sapeva essere davvero il miglior rimedio per la mia tristezza. Sorrisi, baciando la sua mano.

- Comunque, sappi che ad Arabella Evandrus piace. Si trova bene con lui, giocano tanto insieme.

- Mpf.

- E’ bello… avere qualcuno con cui giocare, soprattutto per lei che è sempre stata sola…

Greal assentì.

- Però, dobbiamo essere prudenti. Non voglio che nostra figlia corra rischi. Ed Evandrus, per quanto possibile, va protetto.

- Dopotutto ti stai affezionando a quel bambino, vero?

La sua espressione si fece acuta.

- Affezionarmi… no, non è così. E’ soltanto che ho la sensazione che sia meglio tenerlo d’occhio.

- Quella è la gelosia…

Greal mi rivolse un’altra occhiataccia.

- Dico davvero.

- Anch’io.

Sospirò, mettendo la mano in faccia. Mi misi a ridere, togliendogliela e baciandolo. Lui mi guardò stupito.

- Ti amo anche quando sei geloso, lo sai?

Greal si lasciò sfuggire un mugugno. Sorrisi, tornando a baciarlo.

- Celia…

Mi misi a ridere nel sentirlo pronunciare il mio nome con una voce talmente bassa da farmi trasalire. E quando tirò su le coperte, trascorremmo la nostra ultima notte insieme.

 

Nei giorni che seguirono, compresi il motivo delle assenze di Ademar. Mi aveva parlato di viaggi politici, ma la realtà era che erano sorti diversi focolai di ribellione in tutto il territorio. La maggior parte di essi fu una reazione a ciò che era accaduto ai Delacroix. Nonostante Adamantio avesse bandito i membri della prima famiglia da generazioni, quell’efferato massacro sembrò fin troppo. Che motivo c’era di infierire su chi ormai non possedeva alcun potere? Ademar, infine, si era rivelato per quello che era. La situazione gli era sfuggita di mano e oramai, non aveva più idea di come contrastarla se non con il solo modo che riteneva plausibile: la repressione. Fece attaccare e annientare ogni forma di contrapposizione al suo impero, schierando truppe su ogni fronte. Per la prima volta dopo tanti secoli di pace, l’Underworld si trovò di nuovo a vivere una guerra fratricida. Persino Challant, la sua terra natia, fu messa a ferro e fuoco. Anche Greal, assieme a Gregor, scese in campo e mai come in quel momento temetti che Ademar potesse decidere di assestargli il colpo di grazia. Purtroppo, le mie paure si rivelarono fondate quando il Despota annunciò al mondo che il responsabile di quella catastrofe era il proprio fratello minore, il traditore che aveva assassinato senza alcuna pietà i membri innocenti di quella famiglia e aveva dato origine alla catena di eventi infausti che avevano colpito l’Underworld da allora. Fu così che prendemmo la decisione più importante e difficile della nostra vita. E quella volta, quando Greal mi disse che avevamo un solo modo per salvarci e quel modo era raggiungere il mondo della luce, non esitai. Fuggimmo di notte, portando con noi i bambini, dopo che Alizea ci raccomandò di vivere, a qualunque costo. La implorai di venire con noi, ma fu irremovibile, dicendo che una vecchia come lei ci avrebbe soltanto rallentati. La mia Alizea, la mia fedele balia… la donna che avevo imparato a considerare come madre… separarmi da lei fu la cosa più difficile in quell’occasione. Lei ci baciò tutti, promettendo che avrebbe avuto cura di Estellise e che un giorno, lo sentiva, ci saremmo riviste. Anche Vere, Agron e Fenella Trenchard ci aiutarono e tutti loro, assieme a coloro che avevano avversato Ademar, pagarono con la vita. Fu la notte più lunga e più nera delle nostre esistenze. Eravamo braccati e fuggivamo a piedi verso la Porta di Pietra, che ad Adamantio, si trovava vicino alla convergenza delle arterie fluviali, poco fuori dalla capitale, al centro della foresta che circondava la stessa Chalange. Fuggivamo da Ademar, che ci scatenò contro le sue stesse forze armate contro le quali nemmeno le guardie della guarnigione di Velsen, al comando di Greal, poterono nulla. Fuggivamo da un destino che ci avrebbe portati alla morte, se avessimo fallito. Fuggivamo nell’oscurità, sperando di poter mettere in salvo almeno i bambini. Arabella ed Evandrus piangevano, terrorizzati, mentre Greal urlava a gran voce di non fermarci.

- Celia!

- Greal, che c’è?!

Domandai, tenendo per mano i bambini, dopo esserci fermati per un istante a valutare la situazione.

- Devi proseguire tu. Sono troppi e vanno fermati. Rischiamo di arrivare alla Porta e di ritrovarceli tutti lì.

Ordinò.

- No!

Protestai.

- Sì invece!

Col cuore in gola, mentre i bambini si stringevano tra loro, singhiozzando, gli afferrai il soprabito.

- Greal… non puoi chiedermi questo! Non puoi chiedermi di andare avanti da sola… noi andremo insieme nel mondo della luce. Insieme, ti è chiaro?!

Greal mi rivolse uno sguardo truce che non contemplava repliche.

- Cel-- 

Gregor, che ci accompagnava, posò la mano sulla spalla di Greal, che si voltò. Fu rapido al punto che Greal stesso non riuscì a reagire quando gli sferrò un gancio. Ansimai sconvolta nel vedere quella scena. Greal fece qualche passo indietro, sbalordito, guardando dapprima il rivolo di sangue che aveva asciugato dalle labbra, poi Gregor.

- Gregor…

Ruggì, con un tono iracondo.

- Greal Valdes!

Urlò Gregor, determinato.

I bambini si voltarono a guardarli, mentre io non riuscii a trattenere un singhiozzo.

- Ascoltami bene. Non ti ho seguito fino a qui per vederti rinunciare ora, maledizione! Che tu sia dannato se lo farai! Accidenti, Greal, hai la possibilità di realizzare ciò che più desideri e preferisci rinunciarvi per quei galeotti?! E io che ci sto a fare, allora?! Se questa è la considerazione che hai di me, allora sappi che sono veramente molto deluso.

Greal aveva sgranato gli occhi, stupefatto. Gregor si grattò la nuca.

- Non hai voluto governare Challant. Va bene, lo capisco. Non hai voluto concorrere alla carica di Despota. Posso capire anche quello. Ma diamine, finalmente vuoi qualcosa nella tua vita e ci rinunci così? Adesso ascoltami bene. Tu andrai avanti, con Celia, con Arabella e col piccolo Delacroix. Varcherete quella soglia e vivrete la miglior vita che potrete. Ne avete anche il diritto, visto quello che avete passato. Qui ci penserò io. E un giorno, quando tornerai nell’Underworld, Greal, promettimi che dirai a mio figlio che i suoi genitori l’hanno amato più di qualunque altra cosa e se hanno fatto questa scelta è perché credevano davvero che in questo modo, le cose sarebbero cambiate. Già, Greal, un giorno tu tornerai e sarai l’Imperatore di cui questo mondo ha bisogno. Ti è chiaro il concetto?

- Gregor…

Singhiozzai, pensando al suo sorriso la sera in cui avevo conosciuto lui e Greal. Quante ne avevamo vissute tutti e tre insieme. E ora, Gregor aveva deciso di dare la sua stessa vita per noi. Corsi ad abbracciarlo e lo strinsi forte, pregando con tutta me stessa affinché potesse sopravvivere. Gregor ricambiò quell’abbraccio e mi guardò, rivolgendomi uno dei suoi sorrisoni.

- Continua a proteggerlo, Celia. Sii la sua luce.

Annuii.

- Grazie, Gregor… grazie…

Lui assentì, poi mi scostai e Greal ci raggiunse. Entrambi si guardarono, mentre in lontananza, gli echi si trasformavano in voci sempre più vicine.

- Sarà tuo figlio a governare questo mondo, un giorno. E sarà meglio per te che tratti bene la tua pellaccia, perché quando tornerò, ti farò rimpiangere amaramente quel pugno.

Sul volto di Gregor comparve un sorrisetto di sfida, poi sollevò la mano, su cui spiccava il sigillo della squadra speciale.

- Ai vostri ordini, comandante Valdes.

- Gregor.

- Va’, Greal. E sii felice.

Greal esitò per un istante, poi strinse la mano di Gregor.

- Mamma, papà!!

La voce terrorizzata di Arabella ci fece sobbalzare. Alcune guardie ci avevano raggiunti.

- Andate!

Esclamò Gregor, sciogliendo la presa, sguainando la spada e facendola ruotare. E fu così che ci congedammo da Gregor Lambert e che lo vedemmo per l’ultima volta. Quando giungemmo nei pressi della Porta di Pietra, attraversando un campo di rovi taglienti in cui i bambini incespicarono spesso, le voci che in un primo tempo erano sparite, tornarono a farsi sentire. Gregor non era riuscito a fermarli tutti, ma né io né Greal in quel momento, proferimmo parola a riguardo. Gregor era stato chiaro e non potevamo rendere vano il suo sacrificio. Quando fummo davanti alla Porta, Greal posò la mano sui sigilli incisi sullo stipite e l’ametista che aveva con sé  fece aprire la pesante porta. Ero terrorizzata, impaziente come mai. Cosa sarebbe successo una volta varcata quella soglia oscura? Il mondo della luce cosa ci avrebbe riservato? E cosa sarebbe stato del mondo che stavamo abbandonando? Avevamo sacrificato le vite di chi ci aveva aiutato e questo già faceva di noi degli assassini. E Ademar cos’avrebbe fatto? Ci avrebbe seguiti fino al nostro mondo? Quando la porta fu del tutto aperta, tuttavia, fummo raggiunti da Lionhart e dai suoi.

- Greal, Milady!

Urlò.

Strinsi forte a me i bambini, mentre Greal sguainò nuovamente la sua spada, ponendosi di fronte a noi.

- Lionhart.

Lionhart fece cenno ai suoi di stare pronti, poi ci raggiunse.

- Ma guarda, l’allegra famigliola in procinto di scappare.

Poi, notò Evandrus.

- E quel bambino chi è?

- Nessuno che ti riguardi, Lionhart. Se vuoi batterti, allora lo farai contro di me. Nessuna ingerenza. I tuoi sono fuori.

Lionhart sorrise.

- Era ciò che volevo sentire e non immagini da quanto tempo.

Lionhart ordinò ai suoi di star fuori dal combattimento, preparandosi allo scontro. Greal invece mi guardò, porgendomi l’ametista.

- Celia, prendi questa.

- Cosa?

Mi guardò, stringendo la mia mano nella sua.

- In quell’incubo, quello con le due fanciulle, la ragazza coi capelli scuri portava l’ametista al collo.

Sgranai gli occhi, tremando.

- G-Greal…

Sorrise.

- Ti amo.

Trasalii.

- Greal… n-non…

Rivolgendosi ai bambini, disse loro di non lasciare mai la mia mano. Poi prese in braccio Arabella, stringendola forte a sé.

- Sarai meravigliosa come tua madre, bambina mia.

- Papà…

Arabella lo guardò negli occhi, con i lacrimoni che imperlavano i suoi. Greal le sorrise, guardando Evandrus che mi aveva presa per mano e li guardava a sua volta.

- Quanto a te, Evan--  

Non fece in tempo a dire altro, che una decina di guardie uscite dal fitto dei cespugli che circondavano quella stretta radura oscura sopraggiunse attaccandoci. Accadde tutto in pochi attimi. Greal sollevò la spada pronto a respingere quegli attacchi, mentre Lionhart urlò di fermarsi. Ma quelle guardie non erano ai suoi ordini. Dovevano essere direttamente comandate da Ademar e avevano l’ordine di catturarci a qualunque costo. Greal si battè come mai, proteggendo al tempo stesso Arabella, mentre io ed Evandrus cercammo un modo per aiutarlo. Arabella urlò terrorizzata e poi, d’improvviso, l’ametista brillò, avvolgendoci in una luce accecante.

- Greal!

Urlai, nel vedere la sua espressione sconvolta.

- Mamma, Evandrus!!

La voce disperata di Arabella che tendeva la manina verso di noi.

La mia mano e la manina di Evandrus tese verso di loro.

- Arabella!!

La voce di Evandrus fu l’ultimo suono che sentii, prima che l’oscurità cadesse su di noi… prima di risvegliarmi, confusa, spaventata, nel mondo della luce, assieme a un bambino che aveva perso la memoria.

 

 

 

 

 

 

 

 

**************************************

Bentrovati, cari! <3 Stavolta scrivo alla fine, proprio per farvi godere al meglio l'ultima parte del capitolo senza influenzarvi! :) Eeeeh, intanto, un grazie di cuore a Severus89 che è stata così adorabile, e come sempre, ai miei sostenitori che trovano sempre un attimo da dedicarmi!! Ebbene, venendo al finale... vi chiedo una cosa: avevate capito chi fosse in realtà Evan? :) Taiga-chan, se leggi, aspetto anche il tuo commento, son davvero curiosa di saperlo!! *___*/ E dal prossimo, torniamo al presente e ad Aurore come voce narrante! Vi è mancata la nostra Lady dell'ametista? Fatemi sapere!!

Alla prossima!! :D

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Capitolo 52
*** XIX - Tra le rovine dei Delacroix (1 parte) ***


Buon pomeriggio! :) Pubblicazione al volo perché sto per uscire, ma rieccoci qui con Aurore come voce narrante! Da ora si entra ufficialmente nel vivo della storia, quindi preparatevi!! eheheh Ringrazio chi mi lascia sempre un pensiero, ragazzi, siete unici e davvero, senza di voi non sarei riuscita a portare a termine tutto quanto! Credetemi, il vostro sostegno mi è servito da stimolo!! :) Grazie anche a chi legge silenziosamente e segue! Ah, una news: la prossima settimana torno in quel dell'uni, e dal momento che la sessione d'esame incombe, ci risentiremo appena mi sarà possibile! Intanto, buona lettura! :)

 

 

 

 

 

 

Ogni volta che mi risvegliavo dall’incubo, due persone mi erano accanto. La voce di Evan si alternava a quella della mamma, tra preoccupazione e tranquillità non appena riaprivo gli occhi. E mio fratello mi stringeva la mano, forte come un’ancora nel bel mezzo di una tempesta. Quante volte, sin da quand’ero bambina, la mia famiglia era stata la mia salvezza? E quanto eravamo stati compatti tutti e tre, sempre insieme nell’affrontare una vita perennemente in tensione? Avevo sempre desiderato scoprire cosa si celasse dietro alle lacrime della mamma, ai silenzi di Evan, eppure avevo imparato a desistere, perché non volevo vedere mia madre triste né rendere Evan più taciturno di quanto fosse. Eppure, il desiderio di scoprire la verità era forte, al punto che in alcune occasioni, finiva col prevaricare il limite che io stessa mi ero imposta. Ma alla fine, tutto il silenzio non era bastato e il passato aveva varcato la soglia della Porta di Pietra, raggiungendoci. Già, proprio come le dita oscure che si protendevano verso di me. Ma dopo quella notte, seduta tra mia madre e mio padre, dopo che il castello che aveva protetto me, la mamma ed Evan per tutti quegli anni era crollato, quelle dita oscure furono improvvisamente rese visibili. Ero stata cieca fino a quel momento. E adesso, tutto mi appariva finalmente chiaro. Correvano, mia madre, mio padre, Evan e Arabella. Fuggivano da Ademar, dalla morte che li stava attendendo. Ma Arabella era troppo piccola e non riusciva a tenere il passo. La strada verso la salvezza era irta di pericoli e di insidie. Il dolore di quei rovi che mi… le laceravano la carne. Il terrore. Gli occhi di papà, la sola cosa che conoscevo di lui. E alla fine… nel momento più difficile, le mani della mamma e di Evan che si protendevano verso di lei. Il viso della mamma, la sua espressione sgomenta. Evan. Le lacrime sul suo volto di bambino. Arabella!!

Già. Quell’incubo non era altro che la materializzazione del momento più difficile per la mia famiglia e l’avevo vissuto e rivissuto per tante volte, attraverso gli occhi di mia sorella.

- Aurore…

La mamma mi accarezzò dolcemente i capelli. Non riuscivo a definire lo stato di mente in cui mi trovavo in quel momento. Sospesa, forse. Di certo, non mi ero mai sentita così prima di quel momento.

- S-Scusate… io… io ho bisogno di… di una boccata d’aria…

Balbettai, rivolgendo loro un accenno di sorriso. In realtà non avevo alcuna voglia di sorridere e mi resi conto che il mio corpo agiva da solo, come se in quel momento, si fosse scollegato dal cervello. Papà annuì, guardando la mamma che mi osservava a sua volta preoccupata. La capivo. Sapevo che non era stato facile per lei e ora che aveva trovato il coraggio di raccontarmi tutto, temeva che la portata di quelle rivelazioni fosse troppo forte da metabolizzare. Non aveva torto, ma al tempo stesso, oramai non avrei più potuto odiarla, anche se avessi voluto. Tutte quelle bugie e quei silenzi mi avevano protetta da una realtà che non ero pronta ad accettare. Ma ora, dopo essere giunta in quel mondo senza luce, dopo aver capito cosa significasse perdere chi si ama e lottare per la vita stessa, ero in grado di reggere, quantomeno. Ma per almeno cinque minuti, avevo bisogno di incontrare la me stessa che continuava a domandarsi perché la sua vita non fosse come quella degli altri e di dirle, congedandola per sempre, che per proteggere chi si ama, si è disposti a tutto, anche a tenerlo all’oscuro di una verità troppo difficile da accettare.

E così, quando mi allontanai, sola, nel buio rischiarato soltanto dalla tenue luce del mattino incipiente, liberai tutto quel dolore, scoppiando in un pianto dirotto. Piansi a lungo, fino a quando sentii una mano posata sulla mia spalla. Mi voltai, vedendo Violet e Damien. Presi la mano di Violet, sconvolta e quando fummo l’una di fronte all’altra, l’abbracciai forte. Lei ricambiò quell’abbraccio, in silenzio, dandomi delle pacche affettuose sulla spalla mentre singhiozzavo. Damien, accanto a noi, non aggiunse altro. Solo quando mi tranquillizzai, finalmente, ci ritrovammo tutti e tre a chiacchierare. Entrambi avevano ascoltato la storia di mia madre.

- Mi dispiace, ragazzi…

- E di cosa? In fondo, non riuscivamo a dormire.

Disse Damien, giustificandosi dietro al fatto che il giaciglio era scomodo.

- Sono sicuro che sia stata tu a sistemarlo.

- In realtà credo di essere stata io, Warren…

Ammise Violet, sorridendo.

- Ah… devi fare più pratica, Hammond.

Era uno scorcio di normalità sentire quei due chiamarsi ancora per cognome. Il mio legame col mondo in cui ero nata.

- Beh, era la prima volta che ci provavo…

- Per questo apprezzo lo sforzo.

- Ma se eri convinto che fosse stata Aurore a prepararlo…

Damien inarcò il sopracciglio.

- Ah, beh… è che la conosco.

- Ehi, che vuoi dire?

Gli feci eco. Damien mi rivolse un sorrisetto.

- Devo rispondere?

Arrossii.

- Non essere così ambiguo!

Protestai.

- Ambiguo? Voi due non me la raccontate giusta…

- E’ colpa sua!

Esclamai, indicandolo.

Damien, del canto suo, sembrava l’immagine della verecondia.

- Damien!

Violet si mise a ridere all’improvviso. E nel sentire la sua risata contagiosa, finimmo col metterci a ridere anche noi. La mia amica mi guardò.

- Va meglio, adesso?

Annuii. Ero così fortunata ad averli. Violet era capace di farmi sorridere anche se non ne avevo alcuna voglia e Damien… bastava la sua sola presenza a distogliermi dai pensieri negativi. Se non ci fossero stati loro, in quel momento, mi sarei sentita persa.

- Grazie di cuore, ragazzi…

Dissi. Sia Violet che Damien sorrisero.

- E così, adesso conosci la storia della tua famiglia…

Riprese Violet. Io feci cenno di sì.

- Avete ascoltato tutto quanto?

Damien annuì. Lo guardai. Aveva scoperto così tanto anche lui, riguardo a suo padre soprattutto e adesso, aveva avuto conferma di che razza di persona fosse. Del canto suo, si limitò a non aggiungere altro.

- Ed Evan… oh, intendevo Evandrus…

Sobbalzai, nel sentire Violet pronunciare il nome completo di mio fratello. Nonostante tutto, non riuscivo a considerarlo in altro modo. Le rivolsi un sorriso.

- Ecco perché non ci somigliamo…

Violet si risentì e abbassò lo sguardo, in colpa. Le presi le mani, stringendole tra le mie e lei tornò a guardarmi, stupita.

- Non importa… lui è mio fratello. E sarà sempre così. Per me è Evan Kensington… chiunque egli sia…

- Un Delacroix…

Fece eco Damien. Lo guardammo entrambe. Aveva assunto un’espressione pensierosa.

- Che ti succede, Warren?

- Stavo soltanto pensando a Lady Octavia. Lei pensava che Aurore fosse una Delacroix. Forse il motivo era proprio la connessione con Evan, in un certo senso… l’avrà percepito.

- Già…

Mormorai, pensando a quell’anziana e alla leggenda che aleggiava sui Delacroix.

- Tuttavia, ora che anche Evan non c’è più, i Delacroix si sono davvero estinti…

- Povero Evan…

Commentò Violet, sconsolata. E il mio pensiero andò a Liger, che me l’aveva portato via. Incrociai lo sguardo di Damien, che si era fatto sospettoso.

- Cosa non ti convince, Damien?

Scosse la testa.

- Niente, niente di particolare.

Affilai lo sguardo, ma evitai di andare oltre. Avevo già sentito fin troppo.

- Senti, Aurore… non sarà il caso di tornare?

Mi chiese Violet. Guardai verso il casino. C’era ancora tanto che volevo chiedere ai miei genitori. Come la mamma ce l’avesse fatta per tutti quegli anni, lontana dal suo mondo, perché papà era stato dato per morto… i misteri che circondavano la mia vita non erano finiti. Annuii e insieme, raggiungemmo mio padre e mia madre. Erano in piedi, ad attenderci.

- Ragazzi…

La voce della mamma era appena più sollevata. Sapeva quanto erano diventati importanti per me i miei amici e sapeva bene che c’erano momenti in cui erano i soli in grado di aiutarti. Damien guardò papà, che lo guardò a sua volta.

- Damien Warren.

Fece eco. Aveva un’espressione alquanto altera, mentre Damien, del canto suo, non si scompose.

- Signore.

- Come stai, ragazzo?

- Bene. La ringrazio per avermi salvato. Anzi, mi spiace di aver distrutto la sua maschera.

- Non ha importanza.

- Per me sì. Aurore ha dovuto assistere a quella scena.

Arrossii guardando Damien e improvvisamente, senza che aggiungessero nulla, percepii la stranissima sensazione di elettricità nell’aria. Violet sbattè le palpebre e la mamma sospirò, dando una pacca sulla spalla di papà.

- Non cominciare a essere geloso, eh? Aurore ha sedici an--  Tesoro, ora che ci penso, non abbiamo potuto festeggiare il tuo compleanno…

Sobbalzai, incredula. Già… avevo sempre festeggiato il mio compleanno insieme alla mia famiglia. E ora, parte della mia famiglia era lì. Corsi ad abbracciare forte i miei genitori, che mi guardarono sorpresi.

- Mamma! Papà!

Li strinsi con tutta la forza che avevo in corpo e loro ricambiarono quella stretta. E fu così che più tardi, assieme a Damien e a Violet, conobbi il resto della storia.

La mamma ci raccontò che dopo esser giunta nel nostro mondo, cercò di far riaprire la Porta di Pietra, ma non ci riuscì. L’ametista sembrava essersi completamente scaricata e aveva perso il suo colore. Bloccata così in un mondo che non era il suo, senza papà e senza Arabella, prese con sé Evan, che aveva perso i sensi. Erano finiti in una radura sterrata e di lì a poco furono raggiunti da un uomo che diventò per loro la salvezza. Victor Kensington. La persona che sia Violet, sia la stessa mamma mi avevano nominato. Mia madre ci spiegò che erano giunti nella sua tenuta, nelle campagne del Lancashire. Victor era un vedovo di mezz’età, la cui famiglia era stata da generazioni a guardia della Porta, che mai si era aperta in quella zona. Nel tempo, era rimasto del tutto solo. La moglie Gladys era morta dieci anni prima a causa di un tumore e di lì a poco, Victor aveva perso anche l’unico figlio, Darryl, morto in un incidente stradale assieme alla giovane moglie e al loro bambino di cinque anni, Lucas. Capì subito che non erano del posto e sulle prime, pensò che fossero stati mandati dal cielo per aiutarlo a superare la mancanza della sua famiglia. Ma quando la mamma gli raccontò chi erano e cos’era accaduto loro, non esitò a volerli aiutare. Fu così che la mamma diventò Celia Kensington, “adottata” ufficialmente come figlia/nipote di Victor ed Evan, che a causa dello shock aveva perso i suoi stessi ricordi, fu a sua volta adottato dalla mamma, che decise di crescerlo come suo stesso figlio.

- Però… Evan è più grande, giusto? Non ha diciotto anni…

Ci fece notare Violet.

Quelle parole mi stupirono. Effettivamente Evan era sempre sembrato più grande, ma alla fine, doveva esserci solo lo scarto di un anno. Guardai la mamma, che annuì.

- Avendo dei sistemi di datazione differenti e per evitare problemi, decidemmo di posticipare la data di nascita di Evan. In realtà, non sappiamo nemmeno quand’è nato di preciso… ma lui e Arabella sembravano coetanei.

Guardò papà.

- Già.

Confermò.

- E perché Evan mi diceva che non avevi trentasei anni, mamma? Anche per te è stato un problema? Dopotutto, Damien ha azzeccato la data del mio compleanno nonostante fossimo qui… e se tu sei nata in primavera… perché è primavera, giusto?

La mamma mi sorrise.

- Qui non c’è la scansione in quattro stagioni… ma in realtà, stando alla nostra datazione, devo ancora compierli… mentre nel mondo della luce, il mio compleanno cade a marzo. C’è una piccola discrepanza… ma al tempo, non sapevo ancora come sopperire ai cambiamenti tra i due sistemi….

- In effetti sei sempre stata negata…

Commentai. La mamma si mise a ridere.

- Eh sì…

Papà era perplesso. Mi resi conto che per lui stavamo parlando in arabo, proprio com’era accaduto a Leandrus.

- Scusate se vi interrompo… ma se Evan era a conoscenza dei cambiamenti, vuol dire che sapeva dell’Underworld.

Disse Damien. Lo guardammo, poi la mamma assentì.

- Beh… è accaduto undici anni fa. Evan non è sempre stato così… da piccolo, nonostante la nostra situazione e per via del fatto che non ricordava nulla di ciò che ci era accaduto prima di varcare la soglia del mondo della luce, Evan sorrideva tanto ed era un bambino pieno di vita, sempre di buonumore, gentile ed educato. Col tempo, avevo imparato ad amarlo. Era così piccolo, aveva già perso la sua famiglia e mi si era affezionato al punto tale da credere che io fossi davvero sua madre. Certo, ogni volta che lo guardavo, addormentato accanto a me, non potevo non pensare a quando lo vidi per la prima volta, mentre dormiva vicino ad Arabella. Guardarlo mi faceva pensare alla mia bambina lontana, a Greal… eppure, era così innocente e indifeso che non potevo non volergli bene. Quando nascesti, Aurore, corse nella mia stanza, accompagnato da Victor. Non dimenticherò mai il suo visino così in pena mentre correva da me, che ti tenevo stretta tra le braccia e si avvicinava al letto. La prima cosa che disse, con voce trasognata quando ti presentai a lui, fu “Mamma… è così bella la mia sorellina…”.

Non riuscii a trattenere il singhiozzo nel sentirlo. Asciugai le lacrime che mi avevano imperlato gli occhi e la mamma mi strinse a sé.

- Evan ti adorava. Eri il suo tesoro. Mi disse con orgoglio che ti avrebbe protetta per sempre. E così fu. Ti era sempre accanto e ti guardava con amore e curiosità. Per cinque anni, Evan è stato un bambino come tutti gli altri. E poi, proprio quando compisti il tuo quinto anno e avesti per la prima volta l’incubo, la memoria di Evandrus Delacroix si risvegliò, all’improvviso.

Sgranai gli occhi.

- C-Cosa?

Anche papà ascoltava e sembrava pensieroso, così come Damien. La mamma tornò con la mente a quella notte.

- Già… ricordo che ci eravamo trasferiti in città. Victor era un esperto d’arte con diverse proprietà e mi aveva dato la possibilità di realizzarmi nel campo dell’arredamento. Avevamo una bella casetta, piccola, su misura per noi. Quella notte, dopo aver festeggiato il tuo compleanno, fui svegliata di soprassalto dalle tue urla. Non ti avevo mai sentita gridare in quel modo e per un attimo, ebbi perfino la sensazione di sentire la voce di Arabella. Sconvolta, corsi nella tua stanza e rimasi senza parole. Singhiozzavi nel sonno, mentre Evan era seduto per terra, accanto al letto e ti teneva stretta la mano. “Evan?”, domandai. Evan non rispondeva e quando mi avvicinai, vidi che ti eri calmata. Sospirai, quando si voltò. Aveva lo sguardo vacuo e sembrava catatonico. Non capii fino a quando mi rispose, finalmente. “Arabella… la sua mano… l’ho afferrata, finalmente…”. Quelle parole mi riecheggiano dentro ogni singolo istante. Da allora, Evan è cambiato. Man mano che i suoi ricordi tornavano, mi chiedeva perché Arabella non fosse con noi e cosa ne fosse stato di lei. E mi resi conto che cominciava a ricordare anche il suo legame con i Delacroix. Quando fu in grado di capire, gli raccontai tutto e gli chiesi di mantenere il segreto, per proteggerti, Aurore. Volevo che avessi una vita quanto più normale possibile e se questo significava il silenzio, andava bene. Evan sulle prime non accettò, ma poi, comprese che era il solo modo per proteggerti. Man mano che gli anni passavano, divenne sempre più solitario e schivo. Non legava con nessuno e sembrava del tutto apatico. In un certo senso, quell’atteggiamento mi ricordava quello di Greal, ma per Evan era diverso. Ogni volta che il tuo incubo si ripresentava, lui era lì, sempre pronto a tirarti fuori da quell’abisso. Eppure, col tempo mi sono resa conto che il suo comportamento era una forma d’espiazione.

- Evan… Evan si sentiva in colpa perché non era riuscito a salvare Arabella…

Mormorai, mentre la tristezza avvinghiava in una morsa il mio cuore. La mamma annuì.

- E probabilmente, non riusciva a capacitarsi del fatto che lui fosse al suo posto.

Aggiunse Damien. Violet lo guardò.

- Evan era innamorato di Arabella?

Domandò. Ci voltammo tutti a guardarla, increduli.

- A-Avevano solo tre anni, anche se fosse, erano troppo piccoli, Violet…

Le feci notare.

- S-Sì, ma magari, crescendo, quel ricordo è rimasto sempre nel suo cuore e ha finito con il convincersi di esserne innamorato…

- O magari, se la Croix du Lac è stata in grado di manifestarsi ad Aurore, è stata capace di manifestarsi anche a lui e così Evan ha avuto modo di “vedere” Arabella in tutti quegli anni.

Aggiunse Damien. Lo guardai stupita. Damien era sempre stato il più riflessivo e razionale tra tutti, ma in quel momento, quella teoria era così assurda che mi stupii persino che fosse stato proprio lui ad avanzarla.

- Il che ci porta a dire… cos’è accaduto ad Arabella?

Domandò, guardando mio padre, che mantenne lo sguardo fermo e sicuro su di lui. La mamma strinse il vestito tra le mani.

- Dopo che la Porta di Pietra si chiuse e voi spariste, rimanemmo tutti senza parole. Persino le guardie di Ademar erano sconvolte. Non provai mai tanto sgomento come in quel momento. Se non avessi preso in braccio Arabella in quel momento, lei sarebbe stata con Celia e con Evandrus e sarebbero stati tutti al sicuro. Ricordo bene la risata di Lionhart che sosteneva di avermi dato scacco matto e il pianto dirotto della piccola, che mi stringeva forte. A quel punto, sapendo che la Porta non si sarebbe riaperta non avevo possibilità favorevoli. Avevo con me Arabella, per cui la priorità era la sua protezione. Gettai a terra la mia spada, proclamando la resa e chiedendo di essere condotto da Ademar. Lì, avrei fatto in modo di affidare Arabella ad Alizea affinché la mettesse in salvo. Lionhart accettò la mia resa, e quando tornammo a palazzo, circondati dalla distruzione che mio fratello aveva fatto scatenare nel nostro mondo, approfittai di un momento di distrazione di Lionhart per fuggire assieme ad Arabella e per cercare Alizea. Certo, c’era il rischio che Ademar l’avesse già fatta uccidere, ma in quel momento, conoscendolo, sapevo che aveva altre priorità che vendicarsi di una balia. Lionhart ci inseguì e ci ritrovammo a duellare sotto gli occhi di Arabella. Accadde allora.

Fummo entrambi sorpresi dalla prima, forte scossa di terremoto che sconquassò tutto l’Underworld. Fu così forte che parte delle mura interne del palazzo di diamante crollò. Riuscii a proteggere Arabella facendole da scudo, ma sia per me che per Lionhart, quella fu l’ultima volta che vedemmo mia figlia così com’era.

Quando ripresi i sensi, ero stato imprigionato. Ademar mi aspettava, seduto accanto a me, sincerandosi che le catene che mi aveva fatto mettere fossero strette abbastanza da ricordarmi chi avessi sfidato. Mi disse che avevo dormito per due giorni e che Arabella stava bene. “E adesso, mio caro fratellino, non vuoi dirmi dov’è Celia?”, mi domandò. Ricordo che mi misi a ridere, quando riuscii a tirarmi su. Era talmente ossessionato che non aveva altro pensiero in mente. “Al sicuro da te, finalmente”, gli risposi. Ricordo bene il suo sguardo tracotante di gioiosa follia mentre mi annunciava che l’indomani mattina mi sarebbe stato impartito un processo per alto tradimento. Già. Avevo tradito il Despota, seducendo la sua sposa e tentando di fuggire con lei, ma alla fine, avevo fallito. In fin dei conti, nessuno di noi due l’avrebbe più avuta. Ma ciò che contava, in quel momento, era Arabella, la sola cosa che mi era rimasta della donna che amavo. Eppure, il mattino non arrivò mai. Eravamo immersi nell’oscurità, come se la notte non volesse più lasciare il posto alla luce. E quella situazione angosciava chiunque.

Ad ogni modo, il giorno seguente, mentre il fermento riguardo al cercare di scoprire cosa fosse accaduto era talmente vivo da catalizzare l’attenzione, fui condotto nella sala delle udienze, dove si erano riuniti tutti gli oligarchi. Non guardai nessuno di loro, ma sentii ugualmente il loro vociare confuso. Sapevo bene che avrebbero obbedito alla volontà di Ademar, qualunque essa fosse stata. E a giudicare dal boia incappucciato che attendeva in un angolo, non avevo alcun dubbio sulla sorte che mi sarebbe toccata. Sorrisi, pensando che mio fratello aveva già organizzato tutto. Quando giunsi davanti al trono, Ademar mi guardò. Accanto a lui, Lionhart aveva indossato la maschera ed era rigido. La tensione in quel momento doveva essere forte anche per lui. Ademar agitò il braccio a mezz’aria e le guardie che mi scortavano si allontanarono. “Greal Valdes”, pronunciò il mio nome e i mormorii cessarono. Non distolsi mai lo sguardo da lui. “Dov’è mia figlia?”, domandai. Il brusio crebbe nuovamente. Avevo sfidato nuovamente Ademar, che digrignò i denti. “Non sei nella posizione adatta per porre domande, Greal”, rispose. “Al contrario. Rispondi alla mia domanda. Cosa ne è stato della Lady del diamante, la mia sposa Cerulea e dell’ametista?”, mi chiese. Lo guardai. Era così disperato. Privandolo dell’ametista, una delle cinque gemme, era sicuramente incorso nell’ira della Croix du Lac e ora non sapeva più come venirne fuori. Scoppiai a ridere, tra lo stupore generale. Ademar si alterò e fece cenno a Lionhart, che sguainò la sua spada e me la puntò contro. Smisi di ridere, ma sogghignai. “Avanti, fallo. So che non vedi l’ora”, dissi. Lionhart, tuttavia, esitò, limitandosi a un mugolio. E poi, Angus Vanbrugh, che faceva parte del Consiglio di Adamantio come membro più anziano, raggiunse Ademar. “Maestà. Non è soltanto questo il capo d’accusa”, disse. Ademar gli rivolse un’occhiataccia, poi sospirò. “Va’ allora”, ordinò. E così, dopo che Lionhart fu tornato al suo posto, Angus lesse le accuse che mi erano state rivolte. Avevo sterminato i Delacroix, scatenando la catena di eventi che era culminata nel tentativo di fuga, rubando la lacrima d’ametista e rapendo persino Celia. Mi sarei messo a ridere di nuovo se non fossi stato così sorpreso dall’ottusità della classe oligarchica. Tutti mi osservavano. Ero colui che aveva gettato il mondo nel caos, l’assassino di anime innocenti e per di più ladro e rapitore. La fragilità di quei capi d’accusa era talmente evidente che persino un bambino ci avrebbe riso sopra. “Come vi dichiarate?”, domandò. “Innocente, ovviamente”, risposi. A quelle parole, sorsero nuovi commenti. “Ci sono testimoni che possano scagionare l’imputato?”, domandò poi. Nessuno si fece avanti. Riguardo ai Delacroix, nessuno a parte me, Gregor, Ademar e Lionhart sapeva la verità. Gregor era morto e Lionhart non sarebbe certo andato contro gli interessi suoi e di Ademar. E riguardo alla fuga della mia famiglia, avevo già dato ammissione di colpevolezza nel riconoscere pubblicamente Arabella come mia figlia. Arabella… dov’era in quel momento? Non avevo modo di raggiungerla. Se anche ci avessi provato, sarei stato ucciso prima ancora di riuscire a metter piede fuori dalla sala. “In tal caso, Greal Valdes da Velnes, trentatreesimo duca di Challant, questa corte vi condanna a essere privato dei vostri tit-- “, non gli permisi di andare avanti. Sapevo cosa sarebbe accaduto. Dovevo garantire il futuro almeno ad Arabella ed evitare che la condanna su di me si riflettesse su di lei. “Sono io stesso a rinunciarvi. Rinuncio al titolo di trentatreesimo duca di Challant e a tutte le pretese sulle mie proprietà. Giudicatemi esclusivamente in quanto comune cittadino”. Lo stupore fu grande e persino Ademar rimase perplesso. Angus Vanbrugh assentì. “In tal caso, Greal Valdes, siete condannato a morte per decapitazione. Possa la vostra anima dannata trovare redenzione nell’altro mondo. Così è stabilito”. Il sorriso di Ademar si aprì nel silenzio più assoluto e nell’attesa. “Che la condanna sia eseguita in questo momento stesso e che la Croix du Lac abbia pietà di tutti noi”, disse. Il boia si fece avanti con la sua pesante scure. Ogni passo che faceva mi allontanava sempre di più dalla possibilità di rivedere Arabella e Celia. Mi pose il cappuccio, mentre tutti i presenti si fecero indietro, ognuno sul proprio scranno. Rifiutai. Volevo guardare fino all’ultimo il volto di mio fratello, affinché lui stesso potesse conservare nella memoria la fermezza con cui affrontavo anche quel momento. Non mi sarei mai piegato a lui, nemmeno da morto. Il boia mi fece inginocchiare. “Celia, Arabella…”, mormorai, invocando i numi di Challant affinché le proteggessero. Inspirai, nel sentire lo spostamento d’aria provocato dal sollevamento della lama. Il silenzio. L’oscurità rischiarata dalle fiaccole all’interno della sala. La rigidità dei presenti. Ademar. Il suo volto contratto. I suoi occhi sgranati. “Per il Despota Tantris… che tu sia maledetto, usurpatore!”. Sentii quelle parole e mi voltai di colpo, appena in tempo per vedere la scure lanciata a folle velocità contro il trono. Nessuno potè reagire in alcun modo, nemmeno Lionhart. Ademar fu colpito in pieno petto dalla lama appuntita e rantolò. Morì in pochi secondi, accasciandosi sulla stessa scure. Il silenzio era surreale. Guardai il boia, che tolse il cappuccio. Era Grayling Law, l’uomo che aveva servito il Despota Tantris per oltre vent’anni e che alla sua morte era stato deposto. Mi guardò. “Il Despota è morto. Il mio signore è stato vendicato”, proclamò, senza alcuna soddisfazione. Aveva soltanto reso giustizia.

Mi voltai ancora una volta verso il corpo straziato e oramai senza vita di mio fratello. Quand’eravamo bambini, Ademar era sempre pronto a tendermi la mano, nonostante tutto. Ma col tempo, crescendo, avevo imparato a non avere bisogno dell’aiuto di nessuno e Ademar non  sopportava che il suo fratellino fosse diventato più in gamba di lui. Mi aveva riservato solo rancore e meschinità, al punto da togliermi la donna che amavo soltanto per costringermi a reagire. Aveva ottenuto molto di più di me, ma il fatto che a me non importasse che fosse il Despota stesso, lo mandava in bestia. E ora giaceva lì, a pochi metri da me, senza nemmeno aver potuto reagire, con gli occhi ancora spalancati per la follia. Mi aveva condannato a morte, ma la morte aveva reclamato la sua anima. La mia doveva ancora attendere. Ma quando si alzarono le urla e la disperazione prese il posto del silenzio, mentre quei folli vecchi invocavano le divinità dell’Underworld maledicendomi per aver gettato il nostro mondo nell’oscurità, mentre Grayling Law veniva arrestato immediatamente dalle guardie imperiali al comando dello sconvolto Lionhart, sentimmo tutti la risata di una bambina. E quando Arabella si fece avanti, uscendo dalla porta laterale che fungeva da accesso al Despota, raggiungendo il trono con disinvoltura, sotto lo sguardo che oramai aveva trasceso lo sbalordimento generale, capii che qualcosa non andava. Dal braccio sinistro partiva una serie di motivi argentati che culminavano nella gemma che mia figlia aveva sul dorso della mano. Un diamante incastonato nella sua stessa, piccola, innocente mano. E numi, i suoi occhi. Non avevano più niente di umano. Chiunque fosse quella bambina, non era Arabella. Rantolai, così come tutti, quando la sua voce cristallina intimò di fare silenzio. Strideva con i suoi soli tre anni. Studiò il corpo esanime di Ademar, poi si voltò, guardandoci. “Un nuovo Despota sarà eletto, quando sarò forte abbastanza da legittimarlo. Ma perché questo accada, la mia lacrima d’ametista deve tornare. Greal Valdes. Sei stato tu a sottrarmela?”, domandò. Mantenni lo sguardo fisso su di lei. Cosa le era successo? Arabella non avrebbe mai parlato in quel modo. Dov’era la mia bambina? “Allora, sei stato tu?”, domandò. Angus Vanbrugh la affiancò, stupito. “V-Voi siete…”, balbettò e Arabella inclinò la testa verso di lui. “Angus Vanbrugh. Sono così stanca di voi tutti. E davvero molto poco lusingata dal fatto che non mi abbiate riconosciuta”. Sollevò la mano e il diamante incastonato, bordato da un sigillo a forma di croce, brillò. A quel punto, Vanbrugh si inchinò assieme a tutti gli altri, invocando pietà. Arabella si mise a ridere, poi si voltò verso me e Grayling. Colui che fu il cavaliere del penultimo Despota fu il primo a morire. Aveva vendicato Lord Tantris, ma la Croix du Lac gli ricordò che esisteva solo dannazione per chi uccideva il Despota. Grayling fu ucciso davanti ai miei occhi, dalle guardie imperiali, mentre urlava a gran voce che un giorno, il dominio di sangue sarebbe terminato. E infine, toccò a me. Ricordo ancora molto bene quando Arabella mi si avvicinò. Non avevo più parole. Mi guardò con sguardo compassionevole. Mia figlia. La sola cosa che mi era rimasta di Celia. “Papà… ho in serbo per te un destino molto peggiore della morte”, disse poi, con un dolce sorriso sul volto. Non feci nemmeno in tempo a rispondere, che la sua piccola mano sinistra mi si conficcò nel petto. Con le forze che mi rimanevano, cercai di reagire e di togliere quella presa ferrea, ma quel mostro che si era impadronito di lei era talmente forte che in poco la vista mi si annebbiò e sentii la vita scivolarmi via. Poco prima di perdere coscienza, riuscii soltanto a vedere Arabella che traballava, sentii la sua mano sfilarsi e poi nulla più. Mi risvegliai dopo non so quanto, nel luogo dell’esilio, totalmente sconvolto. Credevo di essere morto, ma il Thurs aveva reagito con il diamante e non so come, ma mi aveva salvato.

Ascoltammo il racconto di mio padre con angoscia e sgomento. Ma vedere lo sconvolgimento sul viso della mamma fu la cosa più dolorosa che dovetti affrontare. Da quando la Porta di Pietra si era chiusa, tutto ciò che era rimasto dietro di essa era stato coperto dall’oscurità, la stessa che aveva avvolto l’intero Underworld. Fu così penoso vederla singhiozzare nell’apprendere di tutta quella sofferenza. Pronunciò il nome di Grayling Law con tristezza infinita. Doveva esservi molto legata, dal momento che quell’uomo aveva servito suo padre per così tanti anni e infine, aveva mantenuto integra fino alla propria morte la sua fedeltà. Strinse forte il braccio di papà nel sentire di Arabella e di ciò che gli aveva fatto. Ma la colpa di tutto, in fin dei conti, era dell’ottusità e della cecità di chi si era piegato alla follia di Ademar. Mio zio. Un uomo che avrebbe dovuto governare saggiamente quel mondo e che invece aveva fatto in modo di generare una spirale di violenza e di sangue.

- Avete detto che il Thurs vi ha salvato. Ma non ho capito cosa sia. Non è una gemma.

Osservò all’improvviso Damien, rivolgendosi a papà, che ricambiò il suo sguardo. Poi, trasse quel ciondolo d’argento nascosto tra gli abiti. La mamma asciugò una lacrima, osservandolo.

- Che bello…

Mormorò Violet.

- Già…

Annuii, mentre papà lo sollevò a mezz’aria.

- E’ un cimelio che da generazioni apparteneva ai Rosenkrantz.

Disse la mamma.

- Si diceva che servisse a proteggere l’anima del Despota e a preservarla dall’oscurità. Mio padre me ne fece dono dopo che mia madre morì. Riteneva che io ne avessi più bisogno di lui. Ed effettivamente, la sua era talmente buona che non aveva bisogno di altro.

Continuò, con voce commossa.

- A quanto pare funzionava davvero. Ed è stato questo a darmi la forza di non impazzire, in quel luogo maledetto.

- Il luogo dell’esilio… quello in cui eravamo finiti assieme a Livia, Damien…

Gli ricordai. Damien annuì con tensione.

- E poi, dopo un tempo impossibile da quantificare, finalmente un giorno mi ritrovai nel nostro mondo. Solo poco dopo ho scoperto che erano trascorsi sedici anni da allora. Credo che sia stata l’ametista a liberarmi. Una volta fatto ritorno nell’Underworld, tutti e cinque i sigilli sono stati ristabiliti.

Ascoltai perplessa quelle parole. Poi mi sovvenne un piccolo particolare che sulle prime mi aveva incuriosita, ma che avevo poi rimosso. Quando Amber e io ci eravamo ritrovate per la prima volta in quella strana dimensione, durante l’allenamento con le spade, avevo visto dei fendenti librarsi nel cielo oscuro. In quel momento, mi erano sembrati tanto luminosi da sembrare fulmini d’argento. Che fosse stato allora? Guardai papà, stringendo il mio ciondolo che pulsava a ritmo del mio cuore. Papà mi rivolse lo sguardo, annuendo. Aveva intuito che avevo realizzato. Gli sorrisi appena, poi la mamma ci guardò.

- Quindi sei stata tu, Aurore…

Mormorò.

- Pare di sì…

Sussurrai io. Lei mi rivolse uno dei suoi sorrisi più dolci, a cui si era aggiunta, stavolta, una gran dose di gratitudine. E per la prima volta in vita mia, mi sentii felice di essere stata utile, in qualche modo. Avevo fatto in modo che mio padre potesse tornare nel suo mondo, distruggendo la sua prigione. Violet mi strinse a sé affettuosamente.

- Sei davvero incredibile, amica mia!

Esclamò. Io arrossii.

- Mpf.

Guardai Damien con la coda dell’occhio.

- Tecnicamente non se n’è nemmeno resa conto, ma…

Non feci in tempo a sbuffare, che mi rivolse un sorrisetto.

- Ma almeno c’è riuscita.

- Damien!

Esclamai, finendo con l’arrossire del tutto. La mamma ci guardò, poi si mise a ridere. Ci voltammo tutti a guardarla. Era bello vederla un po’ più rilassata.

- Comunque, stavo pensando una cosa… una volta tu l’hai sognata, Greal… sapevi che lei c’era prima ancora che lo sapessi io, non è così?

Domandò con voce dolce. Quell’osservazione mi spinse a guardare papà, che restò in silenzio per qualche istante, poi annuì.

- L’ho capito subito, nel vederla, in quella visione. Era la sola opzione possibile. Quelle due fanciulle erano Arabella e Aurore.

Sorrisi, anche se in quell’incubo, che la mamma ci aveva raccontato poco prima, io stavo piangendo. E il cavaliere bianco…

- E Liger.

Mormorai. Damien mi guardò.

- Liger?

- Il cavaliere bianco dell’incubo di papà era Liger… seminava distruzione e morte…

Calò il silenzio, poi mi si strinse il cuore nel pensare al resto di quell’incubo.

- E purtroppo per noi, non ha ancora cominciato.

- Allora dobbiamo evitare che cominci.

Asserì Damien. Violet lo guardò.

- E in che modo? Non sappiamo praticamente nulla di lui né del perché dovrebbe scatenare distruzione…

- Non è così. Sappiamo una cosa. Sta mirando all’ametista. Quindi sono le gemme il suo obiettivo.

- Per farsene che? Dopotutto, se non sono le Pièces originali non gli servono…

- A meno che lui non lo sappia…

Notai.

La mamma sospirò.

- E’ il cavaliere della Croix du Lac. Sa tutto. E’ soltanto questione di tempo ormai.

Guardai Damien, che sembrava ancora una volta perso nei suoi pensieri.

- Damien, che hai?

Gli domandai. Rialzò lo sguardo, incrociando il mio.

- E’ soltanto che stavo pensando a come indurlo in fallo.

- C’è solo un modo per farlo.

Intervenne papà, catturando la nostra attenzione.

- L’ametista. Mirando alle pietre, presto ce lo ritroveremo sulla nostra strada. E allora, dovremo fare in modo di fermarlo.

- Tu che hai combattuto contro di lui, papà… insomma, che tipo è?

Papà mi guardò per un lunghissimo istante, poi si voltò a osservare il cielo appena rischiarato.

- Qualcuno disposto a tutto pur di ottenere ciò che vuole.

Abbassai lo sguardo, pensando alla freddezza di Liger, al fatto che aveva ucciso Evan, alla sua volontà di proteggere a ogni costo la Croix du Lac. Già, avrebbe fatto qualunque cosa pur di ottenere le pietre. E io non gli avrei mai permesso di togliermi l’ametista. Per Evan, affinché la sua morte avesse avuto un senso.

- Vado a vedere come si sente Shemar.

Disse poi papà, rivolgendosi alla mamma.

- Vengo con te.

Gli fece eco lei.

- Pensate che si rimetterà presto?

Domandai. Papà annuì.

- Ha talmente tanta voglia di rialzarsi che non tarderà a farlo.

- Meno male…

Mormorai, pensando alla visione dell’esecuzione di Amber. Ma al momento, non potevo parlarne a Shemar. Nel suo stato, apprenderlo avrebbe significato morte certa per lui. Conoscendolo, si sarebbe alzato persino senza riuscire a reggersi in piedi pur di correre a salvare la sua Amber. E avrebbe finito col fallire sia nel salvarla sia nel salvarsi. Non che gli sarebbe importato di morire, probabilmente. Shemar era pronto a tutto quando si trattava di Amber, ma se fosse morto, Amber sarebbe rimasta da sola, privata della persona che amava. Era così crudele a volte l’amore. Quei due si amavano, era inutile negarlo, eppure non potevano stare insieme perché delle convenzioni antiquate e inaccettabili per chi come me veniva da un mondo del tutto diverso, li tenevano separati. Eppure, nella mia visione, l’ultimo desiderio di Amber era che Shemar sapesse che l’aveva amato. Strinsi il pugno. Avrei fatto di tutto affinché Amber avesse la possibilità di dirglielo di persona. Guardai i miei genitori, che rientravano insieme nel casino di caccia, la mamma stretta al braccio forte di papà, la testa appoggiata alla sua spalla. Avevano rievocato insieme ricordi del passato. Sofferenza e felicità mescolate insieme. Poco dopo, Violet si sciolse dal mio abbraccio.

- Chissà se Ruben si è svegliato… vado anch’io!

Disse, con un lieve rossore sulle guance. Damien sbatté le palpebre.

- Aspetta… tu e Ruben Cartwright… ?

Violet annuì.

- Ehm… scusate!

Imbarazzata come non mai, Violet corse dentro per raggiungere il suo Ruben. E così, rimanemmo solo io e un alquanto perplesso Damien.

- Non l’avevo capito. O meglio, avevo notato qualcosa, ma non l’avevo realizzato, sul serio.

Disse, guardandomi.

- Se può consolarti io sono rimasta sconvolta nell’apprenderlo… sono stati piuttosto veloci…

Damien sollevò le sopracciglia.

- Ehm… non in quel senso! Cioè… nel senso di mettersi insieme velocemente!

Mi affrettai a precisare, imbarazzata più di Violet.

- Non stavo sottintendendo nulla.

- Eh?

Gli feci eco, desiderando di sprofondare per la vergogna. Damien si mise a ridere. Io lo guardai di sottecchi, sentendo le guance infiammate.

- Non prendermi in giro, Damien!

Sbottai. Damien riaprì un occhio, guardandomi divertito, poi mi raggiunse. Rimasi senza parole nel vederlo così vicino e l’imbarazzo ben presto si trasformò in emozione. Damien stava sorridendo ancora.

- C-Che c’è?

Domandai.

- Niente… niente, Aurore.

Le sue braccia mi attirarono a sé e mi cinsero dolcemente. In breve, il batticuore mi assalì e mi ritrovai ad accomodare la guancia contro il suo petto. Adoravo quella sensazione. Sentivo che nelle sue braccia ero al sicuro. Tranquilla e appagata come si poteva essere soltanto tra le braccia della persona amata. Ricambiai quella stretta, poi sollevai il viso verso di lui.

- Mi è venuta in mente una cosa…

Damien mi guardò incuriosito.

- Di che si tratta?

- Violet mi ha detto che tuo padre ha fatto pervenire a scuola un certificato di trasferimento.

- Eh?

Affilò lo sguardo, ora sospettoso.

- Sembra che la motivazione ufficiale fosse il fatto che doveste raggiungere tua madre, che vive all’estero… è così?

Damien rimase in silenzio per dei lunghi istanti. Ma il modo in cui si era estraniato dal resto del mondo, nonostante mi stesse ancora abbracciando, mi lasciava intendere che stesse pensando a sua madre. Infine, annuì.

-  In realtà, non vedo mia madre da cinque anni. E ovviamente, mio padre non ha mai avuto alcuna intenzione di dirci che fine avesse fatto.

- Ti manca?

Nel suo sguardo comparve una sfumatura di tristezza, ma si voltò verso il casino, per rispondermi.

- Sarei un bugiardo se dicessi di no. Ho tante di quelle cose da chiederle. Eppure, ora che so chi è davvero mio padre, comincio a credere che ci sia lui dietro al suo allontanamento.

Annuii, pensando alle parole che il professor Warren aveva detto su Grace. Accarezzai la guancia di Damien, che si voltò nuovamente verso di me e addolcii la voce, sorridendo.

- Sono sicura che quando tutto sarà finito, la potrete riabbracciare. Così manterrai la promessa che hai fatto a Jamie e potrai chiederle ciò che desideri…

- Aurore…

Indugiai, sentendo la sua guancia calda sotto al mio palmo.

- Solo… promettimi che tornerai da me un giorno…

Damien aggrottò le sopracciglia, poi la sua mano fu sulla mia.

- Parli come se fossi io quello che se ne andrà… una volta che tutto questo sarà finito… cosa farai?

- Eh?

Quella domanda improvvisa mi stupì non poco.

- Non so perché, ma ho come la sensazione che potrei perderti.

Abbassai appena lo sguardo, ripensando a ciò che ci era successo da quando eravamo arrivati nell’Underworld. Poco più di un mese e tutto era cambiato. Ma ero certa più che mai, in quel momento, del fatto che non avrei mai rinunciato a lui, per nulla al mondo. Lo guardai di nuovo.

- Mai. Te lo prometto, Damien Warren.

Damien si limitò a guardarmi, senza alcuna espressione particolare. Sentivo, da qualche parte, che c’era qualcosa che non voleva dirmi. Ma evitai di andare avanti. In quel momento, non volevo aggiungere altri pensieri negativi.

 

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Capitolo 53
*** XIX. 2 parte ***


Buon pomeriggio! :) Prima di partire (domani ç___ç e detto alla Ten "I don't want to go"!! ç_ç), ne approfitto per aggiornare! Se il tempo e il pc me lo permetteranno, cercherò di aggiornare una volta a settimana, ok? Quindi, miei cari, stay tuned! :D Oh, mi sono accorta che alla fine di questo capitolo capirete praticamente tutto! O_O Cioè, non proprio tutto, ma avrete una macab-- bella sorpresa! *_* Un grazie di cuore a chi mi segue sempre e a chi ogni tanto si aggiunge alle liste! :) Buon proseguimento e buona lettura!! Ah, p.s.: ho aggiornato i disegni! :3 Fatemi sapere che ve ne pare!!

 

 

 

 

 

Così, qualche ora più tardi, papà organizzò una spedizione a Chambord. Feci carte false per aggregarmi, dal momento che era ben intenzionato a tenermi fuori, ma volevo vedere coi miei occhi quel luogo. La capitale dei Delacroix. Il luogo in cui Evan era nato. Così, alla fine, assieme a papà, Micheu, Damien, Blaez, Rose e Zarvos, varcai la soglia di quella che era oramai diventata una città fantasma. In quel luogo, segnato dal dolore e dalla disperazione, soltanto il silenzio aveva portato la pace, ricoprendo con la sua eterna coltre i cumuli funebri che quasi diciassette anni prima erano stati eretti da Gregor Lambert. Eravamo tutti sconvolti, con l’eccezione di mio padre, che mantenne il contegno. Eppure, nel vederlo osservare quelle tombe, mi chiesi quali ricordi esse gli stessero portando alla mente. Avevo appreso la sua storia, sapevo che era stato accusato di aver sterminato i membri di quella famiglia, ma era innocente. Il responsabile materiale di quel massacro era Lionhart Warrenheim. E in quel momento, suo figlio fissava sconvolto quel cimitero, senza proferire parola. Gli presi la mano, mentre camminavamo in mezzo a quei cumuli di terra. Damien mi guardò, stringendo la presa, rispettando quel silenzio reverenziale.

- Cos’è che stiamo cercando esattamente?

Domandò Rose, tenendo il fazzoletto di seta premuto contro la bocca. Aveva l’aria piuttosto tesa e si guardava tutto intorno con circospezione.

- Vorrei saperlo anch’io.

Disse Blaez, guardando verso mio padre, che procedeva spedito. Fu Micheu a rispondere.

- Le vere Pièces.

- Oh certo. E questa cosa sarebbe?

Rose sbottò, prendendo tra le mani il suo rubino.

- E’ una parte delle Pièces originali. Dobbiamo trovarle prima che sia Liger a farlo.

Rispose papà, fermandosi davanti alle rovine di quello che un tempo doveva essere stato una sorta di tempio. Rose fece spallucce.

- Basta impedirgli di prendere i nostri sigilli.

Disse.

- No, non è sufficiente. I sigilli serviranno ad attivare le Pièces una volta che queste saranno state trovate. Anche se Liger non dovesse riuscire a prenderli, la Croix du Lac lo indirizzerà verso le Pièces originali, che sono esse stesse parte del suo corpo.

Deglutii pensando all’incubo che avevo avuto soltanto la notte prima. Una colonna e una creatura spettrale intrappolata al suo interno. La luce accecante che proveniva dal suo petto squarciato. Per un attimo, quel pensiero mi dette il voltastomaco, tanto che dovetti voltarmi per scacciare quel pensiero. Damien se ne accorse.

- Che hai, Aurore? Tutto bene?

Scossi la testa e nel sentire Damien, tutti si voltarono, compreso papà. Mi feci forza e tornai a guardarli, cercando di rassicurarli.

- E’ solo l’aria troppo pesante…

- Sei stata tu a voler venire. Non lamentarti ora.

Mi riprese Rose.

- S-Sì, hai ragione…

Blaez mi osservò per qualche istante, poi prese una boccetta dalla tasca e me la porse.

- Annusa questo. Ti farà passare la nausea.

- Che cos’è?

Domandai perplessa, guardando quella boccettina rosata. Poi la stappai e annusai. Un nostalgico e rassicurante dolce profumo di the alle rose mi calmò subito. Pensai alla mamma, poi guardai papà.

- E’ il the alle rose…

- Lady Vere era imbattibile quando si trattava di prepararlo.

Disse Blaez.

Per un attimo, vidi un’espressione sospesa sul volto di mio padre. A suo tempo, Vere Vanbrugh gli aveva consegnato una boccetta che lui stesso aveva portato alla mamma.

- Vi sentite meglio, Aurore?

Domandò Zarvos. Io annuii.

- Entriamo…

Conclusi poi.

Quando fummo dentro, in mezzo a quello scenario di distruzione e di desolato abbandono, tra pezzi di legno che un tempo dovevano essere stati imponenti panche e scaffali, camminando attraverso i cocci delle suppellettili sacre e delle vetrate che una volta avrebbero conferito sicuramente colori meravigliosi all’interno di quel tempio, raggiungemmo quella che a occhio e croce sembrava la rimanenza di una navata centrale. Papà si chinò, scostando degli strati impolverati di vecchie macerie. Micheu e Blaez osservarono interessati, mentre Damien si guardava intorno. Zarvos era rimasto all’esterno, di guardia. Guardai Rose, che teneva ancora il fazzoletto davanti alla bocca.

- Potresti toglierlo, sai?

- C’è troppa polvere qui. Persino più che in quell’orripilante casino di caccia. Mi dà fastidio.

Sbattei le palpebre, stupita.

- Anche qui soffrite di allergia?

Domandai. Rose mi lanciò un’occhiata bieca.

- Aurore. Siamo esseri umani anche noi, anche se viviamo in un mondo diverso.

- G-Già…

Ripensai a Shemar, in quel momento. Inizialmente, l’avevo scambiato per qualche sorta di strano essere che di umano non aveva nulla se non l’aspetto, ma col tempo, avevo capito che il suo parlare in modo tanto distaccato di noialtri era perché per lui, essere una guardia imperiale e il cavaliere di Amber veniva prima ancora dell’essere un comune essere umano. Alla fine, tuttavia, Rose decise di raggiungere Zarvos all’esterno, per riprendere fiato. Blaez si offrì di accompagnare la fidanzata, ma lei rifiutò. Fu allora che mi avvicinai.

- Va tutto bene tra te e Rose, Blaez?

Domandai, mentre papà e Micheu sollevavano lo sportello di una botola che portava chissà dove. Damien si avvicinò per guardare, mentre Blaez mi rivolse uno sguardo perplesso.

- Certo. Come mai me lo chiedi?

- Avevo l’impressione che foste in maretta…

Blaez fece spallucce.

- Rose è sempre stata così. O forse è più corretto dire che noi siamo così. Conosco lei e Ruben da tanti anni e so che Rose è uno spirito libero. Con lei è prendere o lasciare, non ci sono mezze misure. E d’altro canto, io non sono il tipo di persona particolarmente adatta a fare il fidanzato. Ho spesso altri pensieri per la testa e lei lo sa.

- Allora perché state insieme? E’ stato un fidanzamento imposto?

Sbatté le lunghe ciglia chiare, poi volse gli occhi al cielo.

- Affatto… diciamo solo che all’epoca dei fatti non pensavamo tanto alle conseguenze a lungo termine.

Lo guardai dubbiosa. Conseguenze a lungo termine? Blaez tornò a guardarmi, poi evidentemente, avendo compreso la mia perplessità, si mise a ridere.

- Sei ancora troppo giovane per certe cose. Ne riparliamo tra qualche anno. Anche se devo dire che come fidanzata tu sei molto meglio di Rose.

Arrossii di colpo fino alla punta dei capelli, preda di un batticuore spropositato, in quel momento.

- C-C-Che significa questo, Blaez?!

Sbottai, a voce troppo alta, tanto che sia papà che Damien si voltarono.

- Che succede?

Domandò papà.

Deglutii, gesticolando meccanicamente.

- N-Niente…

Damien si rese conto di qualcosa, invece, tanto che ci raggiunse. Quando sentii il suo braccio sfiorare il mio feci un salto per aria, imbarazzata. Dannato Blaez, doveva per forza farmi notare certe cose? Il duca di Rhatos ridacchiò sotto i baffi.

- Mio caro Damien, ritieniti fortunato. Aurore è davvero una fanciulla singolare.

Disse, per poi raggiungere papà e Micheu. Damien aggrottò le sopracciglia, poi si rivolse a me, che avevo affilato lo sguardo.

- Sembra che ci sia un passaggio sotterraneo. Vuoi venire a vedere?

- Un passaggio? Anche qui?

Domandai, stupita. Mi aspettavo dicesse qualcosa in risposta a Blaez, ma era alquanto concentrato su quello che papà e gli altri stavano facendo. Vedendo la sua aria seria, annuii e lasciai perdere quel discorso.

- Andiamo allora.

Disse.

Così, facendo attenzione e grazie all’aiuto di papà, che mi prese sotto la sua ala protettrice, ricordandomi di tenere bene d’occhio i miei stessi passi, scendemmo in quelli che erano i sotterranei del tempio, risalenti con tutta probabilità a molti secoli prima.

Non potevo nascondere di essere alquanto colpita anche soltanto dall’aria soffocante che si respirava là sotto. Per giunta, la scossa di terremoto che aveva colpito l’Underworld solo poche ore prima aveva fatto crollare parte delle strutture di sostegno, motivo per cui, dovevamo fare ancor più attenzione ai nostri stessi movimenti. Sia io che Damien, ma anche Blaez e Micheu, ci guardammo intorno mentre procedevamo. Quanta storia, quanto dolore c’erano in quel luogo. Sulle pareti, resti di antichi mosaici che raffiguravano un mondo antico e felice. Nelle nicchie c’erano ancora resti di suppellettili. E per terra, suscitando l’emozione più profonda nel mio cuore, resti umani. Scheletri di uomini morti anni prima, con ancora indosso le loro vesti. Probabilmente, erano fuggiti e si erano rifugiati in quel luogo, ma alla fine, erano morti ugualmente. Pregai dentro di me e poi, fui attratta da un incavo molto più ampio delle nicchie. Sentii di colpo l’ametista diventare più pesante, come se mi stesse chiedendo di fermarmi. E così feci, costringendo tutti a fermarsi a loro volta.

-  Aurore?

La voce profonda di papà riecheggiò nell’aria.

- Cosa c’è lì?

Domandai, indicando quell’antro.

Blaez e Micheu si voltarono a guardare.

- Non lo so.

Rispose semplicemente papà.

- Perché me lo chiedi?

Raccolsi l’ametista tra le dita e lo guardai.

- Di colpo è diventata più pesante… accade quando…

- Quando reagisce.

Concluse, io annuii.

- Forse c’è qualcosa legata alla pietra…

Osservò Damien.

Papà gli rivolse uno sguardo, attento e serio. Poi assentì.

- Controlliamo.

Disse.

E così, varcammo la soglia di quell’antro, rischiarato dalle torce che Blaez e Damien avevano in mano. Nell’entrare, l’ametista brillò, poi tornò normale e il peso sul mio sterno si regolarizzò. Alzai lo sguardo e rimasi senza parole.

- Accidenti…

Fece eco Micheu.

- Questo posto è…

La voce perplessa di Blaez.

- Una… culla?

Damien era incredulo.

Guardai papà, che aveva sgranato gli occhi.

- Conosci questo posto, papà?

Domandai, incerta. Lui trattenne il fiato, poi fece cenno positivo.

- Non ricordavo che fosse qui, però. Il tempo ha confuso alcuni ricordi. E’ qui che trovammo Evandrus.

Il mio cuore sussultò e guardai sconvolta quello che era stato il luogo in cui papà e Gregor avevano trovato mio fratello. Mossi qualche passo, incredula, mentre l’eco prodotto dai miei stessi stivali risuonava nel silenzio. Mi avvicinai alla culla lignea, impolverata come il resto, ai cui piedi giaceva una coperta di tela bianca ormai logora.

- Evan…

Mormorai, singhiozzando nel toccare il bordo della culla.

- Evan dormiva lì. E accanto a lui c’era una donna, che purtroppo era già morta quando arrivammo.

- Credi che fosse… la sua mamma?

Domandai, cercando di soffocare quei singhiozzi.

- Non lo so, Aurore.

Mi rispose, raggiungendomi e appoggiandomi la mano sulla spalla. Mi voltai a guardarlo.

- P-Perché era qui, papà?

- Volevano metterlo in salvo. E ci sono riusciti, prima di morire.

Annuii, con le lacrime agli occhi e il dolore che mi attanagliava il cuore. Poi mi chinai e raccolsi la coperta impolverata, scuotendola e stringendola forte a me.

- Fratello mio…

In quel momento, non c’era altro. Pensai a quei momenti concitati, ai genitori di Evan che cercavano di metterlo in salvo, a lui, così piccolo, così innocente. Al dolore che aveva sconvolto la sua esistenza. Evan… quello era il luogo in cui gli era stata data una seconda possibilità. Anche Damien mi si avvicinò. Sollevai lo sguardo, incontrando i suoi occhi che mi guardavano con muta comprensione.

- Mi manca così tanto… non è giusto… non è giusto! Non doveva morire…

Esclamai, per la prima volta ad alta voce. Me l’ero ripetuto spesso, ma mai a voce alta.

- Lo so, Aurore.

Disse semplicemente Damien.

Papà mi accarezzò la testa, dolcemente, quando sentimmo Micheu, dietro di noi, richiamare la nostra attenzione.

- Scusate, ma qui c’è qualcosa.

Disse, indicando quella che aveva tutto l’aspetto di una porta semi-murata.

Blaez si avvicinò, incuriosito, studiando la calce che aveva ricoperto la porta. Sfiorò quella copertura con le dita nude, notando che era piuttosto friabile.

- Dev’esser stato chiuso in fretta. Credo che ci sia qualcosa all’interno.

Papà li raggiunse, e così facemmo anche Damien e io, ancora sconvolta. Così, Blaez e papà si misero all’opera per buttare giù quella porta improvvisata e vi riuscirono dopo una buona mezz’ora di insistenza. Quando finalmente riuscimmo a entrare, ci ritrovammo in quella che un tempo doveva essere stata una stanza arredata. Diversamente dal resto di quei sotterranei, era tenuta bene, nonostante fosse anch’essa piuttosto antica. Micheu e Damien fecero luce, permettendoci di vedere un vecchio ed elegante letto in ferro, con ancora le coperte sopra. C’erano persino un comodino e un tavolo con una sedia. Un tempo, doveva essere stata una stanza semplice, ma al tempo stesso importante, considerando il pregio con cui erano stati realizzati quei pochi mobili. Eppure, più che quello, c’era qualcosa, in quella stanza, che mi colpiva. Non riuscii a capire cosa fosse fino a che Damien non mugolò un incredulo “Che diavolo…” nel sollevare la torcia in alto. Alzai lo sguardo anch’io, sentendomi pervasa da un calore immenso dalla testa ai piedi. C’era un quadro sul muro. Un quadro molto vecchio, che di certo non era opera di Grace Lantis, ma che esattamente come i suoi, era magnifico, nonostante i colori avessero perso la loro brillantezza e vivacità. Vi era ritratta una ragazza all’incirca della mia stessa età. A giudicare dagli abiti, molto più semplici di quelli che indossavano le donne di quel mondo, doveva essere vissuta molto tempo prima. Quella fanciulla portava una tunica molto chiara, fermata in vita da una cintura dorata che scendeva lungo il lato destro. Aveva i capelli neri, in parte raccolti, in parte sciolti. Sorrideva, tenendo in mano un bouquet. Sembrava una sposa ritratta forse il giorno stesso delle nozze, o forse prima. Era incantevole. Ma ciò che mi colpì maggiormente fu il colore dei suoi occhi. Rossi. Rossi come gli occhi di Evan. Rossi come gli occhi della creatura che avevo visto nella mia visione, per un solo istante. E compresi. D’improvviso mi sentii infinitamente triste. Avevo ancora tra le braccia la coperta che aveva avvolto Evan e la strinsi forte, cercando conforto. La mia ametista brillò, richiamando l’attenzione di tutti.

- Aurore?

Mi chiamarono. Ma le loro voci si persero nell’eco, quando spalancai gli occhi e mi ritrovai da sola, davanti a quel quadro, nel luogo dell’esilio.

Presi fiato, toccandone la cornice. E sentii la sua voce, alle mie spalle.

- Infine sei giunta, Aurore.

Non mi voltai, ma continuai a guardare la figura dipinta di fronte a me.

- Sei tu, vero?

- Lo ero.

- Eri felice…

- Lo sarei stata.

- Che cosa ti è successo?

Non rispose. Mi voltai allora.

- Croix du Lac.

Dissi, per la prima volta senza paura. Avevo la coperta di Evan con me, mi sentivo coraggiosa, in quel momento. La Croix du Lac, nel suo vero aspetto, mi stava di fronte. Mi osservava, con quegli occhi così profondi, che oramai non avevano più nulla di felice.

- Hai sofferto così tanto…

- Ho rimosso ogni sentimento.

- Non è così… puoi illuderti di averlo fatto, ma i sentimenti rimangono dentro di noi per sempre… sono questi che ci rendono umani…

- Io non lo sono.

- Lo sei…

Sollevò il braccio sinistro, su cui era inciso il tatuaggio scintillante, a ricordarmi di ciò che era.

- Ma un tempo lo sei stata! Eri così felice! Era il giorno del tuo matrimonio?!

Sgranò gli occhi, poi si mise a ridere.

- No. Non era il giorno del mio matrimonio.

Rispose, con voce monocorde, a dispetto di quella risata.

- Era il giorno in cui fui rapita. L’inizio del mio calvario.

Sgranai gli occhi, incredula e colpita da quelle parole. Non dette segni di reazione, ma si limitò a guardare il quadro che la ritraeva. Poi posò le dita pallidissime sulla cornice, laddove un tempo vi era stata un’iscrizione.

- Che c’era scritto?

Voltò la testa verso di me, scrutandomi.

- Il mio nome.

- I-Il tuo… nome?

- Credevi che fosse Croix du Lac? E’ così che sono stata chiamata nel tempo. Ma allora, avevo un nome.

- E… e qual era?

Domandai, incerta.

Rimase per diversi istanti a fissare con attenzione il quadro che la ritraeva. Faceva uno strano effetto vederla così presa da qualcosa. Vidi un angolo delle sue labbra piegarsi in una sorta di amaro sorriso. Il suo tono, tuttavia, rimase monocorde.

- Non lo so. Non riesco a ricordarlo.

- Hai perso la memoria?

Voltò appena il viso verso di me.

- No. Ricordo il resto. Ogni singolo istante di quella tortura infinita. Del tormento che mi hanno costretta a subire. Delle mie urla inascoltate mentre imploravo di smetterla. Del dolore che ho provato mentre mi uccidevano. Della maledizione posta sulla mia anima. Della mia rinascita. Del continuo, infinito e maledetto scorrere del tempo. Di ogni mia singola incarnazione.

- C-Come sei morta, Croix du Lac?

Chiesi, evidentemente a sproposito, considerando che si allontanò dal quadro e mi si avvicinò, fermandosi a un passo da me. Era poco più alta di me, ma non aveva più nulla della spensieratezza dei sedici anni che quel quadro emanava. Del resto, erano passati così tanti secoli da allora e aveva superato da un pezzo quella fase ormai. Il suo sguardo si posò sulla coperta che tenevo stretta tra le braccia.

- Quella coperta…

Istintivamente, la strinsi con più forza.

- Ah. Capisco. Appartiene a Evan.

Mi morsi le labbra nel sentirla pronunciare il suo nome.

- E’ una delle poche cose che mi son rimaste di lui…

Lei sorrise in un modo che non seppi decifrare.

- Tieniti stretti i ricordi… perché col tempo, ti rimane soltanto l’amaro.

Aggrottai le sopracciglia, stupita.

- P-Perché parli così?

Rialzò lo sguardo, incrociando i miei occhi. Aveva un’espressione indicibile, vaga. Mi chiesi a cosa stesse pensando.

- Croix du Lac… ti prego, non fare più del male alle persone che amo… questo mondo ha bisogno di speranza, non d’altra sofferenza…

D’improvviso, un guizzo ferino balzò nei suoi occhi e la sua espressione si fece contrariata.

- Aurore…

Cantilenò seccata.

- Eh?

Mormorai, tirandomi indietro. La mia ametista prese a pulsare. Pericolo.

Lei tese il braccio verso di me e le sue dita sfiorarono il mio ciondolo.

- La mia lacrima perduta… una volta che riavrò indietro ogni mio singolo frammento, farò in modo che ognuno di voi, stolti bastardi, patisca il destino che ho dovuto subire io stessa. In questo modo, sarà la speranza che reclamerai o la fine della sofferenza? Perché sai, c’è una sola via d’uscita a ciò.

Sgranò gli occhi e sul suo volto comparve il terrificante sorriso che avevo già visto in passato. Strinsi con forza la coperta di mio fratello, invocando il suo coraggio.

- No! Non ti permetterò di portarci via le gemme!

Scoppiò a ridere, divertita.

- Ah, beh… non sarò certo io a farlo. Ma al tuo posto e al posto di Rose e di Livia, le terrei ben strette.

Ansimai, sconvolta, con un forte senso d’oppressione al petto. Urlai, mentre la Croix du Lac continuava a ridere, e tutto intorno a noi, il luogo dell’esilio aveva cominciato a ruotare vorticosamente.

Riaprii gli occhi sconvolta, traendo un profondo respiro. Papà mi teneva tra le braccia, il solo calmo, mentre tutti mi guardavano con preoccupazione. Grandioso, dare spettacolo era qualcosa che non mi piaceva per niente.

- Come ti senti, Aurore?

Mi domandò papà e riuscii a rispondergli soltanto dopo aver ripreso fiato.

- M-Meglio ora…

- Sei svenuta di nuovo, non appena hai toccato il quadro.

Mi fece notare Damien. Lo guardai, poi osservai il quadro e sussultai.

- Aurore?

- Rose…

Mormorai all’improvviso, quando sentimmo un urlo ovattato provenire dall’esterno.

- Rose?!

La voce indispettita di Blaez.

Incrociai lo sguardo di mio padre, che si fece acuto.

- Andiamo.

Mi aiutò a rialzarmi con facilità. Lasciammo quelle stanze dense di ricordi del passato tragico legato alla Croix du Lac e alla famiglia Delacroix in fretta. Sentii nuovamente quella strana sensazione di tristezza che mi aveva attanagliato il cuore dal primo momento che eravamo scesi in quella sorta di cripta. Lasciammo alle nostre spalle il dipinto della fanciulla senza nome, la prima Croix du Lac. Lasciammo la stanza in cui mio fratello era stato salvato. L’ultimo erede dei Delacroix, oramai morto. Quando riuscimmo a uscire, finalmente, e potei respirare a pieni polmoni dell’aria sicuramente meno consumata di quella che si respirava a metri di profondità sotto terra, Blaez fu il primo a correre da Rose. Si fermò interdetto e così facemmo noi, quando ci ritrovammo dinnanzi a Rose, che sembrava aver soccorso un giacente Zarvos. La sua espressione era altrettanto interdetta, quando si voltò a guardarci. E poi comprendemmo. Davanti a loro, c’era un messo della Croix du Lac, nei cui artigli brillava di rosso la stella cremisi.

- Rose!

Esclamai.

- Fermatelo! Riprendete il rubino, presto!

Ordinò, con voce sconvolta. E lei stessa lo era. Scarmigliata, con il mantello strappato, con i capelli che le si erano sciolti ed erano ricaduti lunghi sulle spalle. Aveva le mani insanguinate e schizzi le avevano macchiato sia il viso, sia gli abiti, in modo vistoso. Corsi subito da lei, assieme a Blaez, che si sincerò subito delle sue condizioni. Papà e Micheu sguainarono le spade, correndo all’attacco del messo, così come Damien, che si mise davanti a noi, in difesa.

- Rose, che è successo?!

Domandai, notando che fissava in tralice il suo rubino nelle grinfie del nemico.

- N-Non ho fatto nemmeno in tempo a reagire… all’improvviso è comparso quel messo e ci ha attaccati. Zarvos ha tentato di difendermi, ma è stato colpito… n-non risponde… e il mio rubino… numi, la mia stella cremisi…

Balbettò quella spiegazione con difficoltà, tremando, mentre teneva ancora stretto a sé Zarvos. Blaez fu il primo a rendersi conto della gravità della situazione. Zarvos, il fratello di Gourias, tra i più silenziosi tra i ragazzi di Ruben, aveva il petto orribilmente squarciato e respirava con fatica. Quella vista, mi ricordò per un istante la creatura che avevo visto nella colonna, in una visione. La Croix du Lac mi aveva detto che avrebbe agito, ma non mi sarei mai aspettata che l’avrebbe fatto così presto. Guardai con terrore verso papà e Micheu, che si battevano col messo, il quale si era alzato in volo. Papà fischiettò, richiamando Lughoir, ordinando a Micheu di aiutarci. Damien si guardava intorno, con la spada che era appartenuta a suo padre in difensiva, pronto a scattare.

- Papà, stai attento!

Urlai, vedendolo saltare in groppa a Lughoir e inseguire il messo. Avevo il cuore in gola ed ero terrorizzata, in quel momento.

- Aurore, dammi quella coperta!

Mi richiamò Blaez, con voce dura. Lo guardai incredula e la strinsi a me.

- N-No, Blaez, questa è… è di mio fratello! Non posso, mi dispiace…

- Aurore! Sta morendo, maledizione!

Incalzò, tendendo il braccio.

Fissai il suo sguardo impaziente, vidi lo sgomento sul volto di Rose, vidi l’affannato e strozzato sollevarsi del petto insanguinato di Zarvos, vidi Damien che assieme a Micheu, guardavano in alto, dove lampi di luce e clangore erano diventati un tutt’uno. E guardai la coperta che aveva avvolto Evan. La scelta che la Croix du Lac mi aveva chiesto di fare. Speranza o fine della sofferenza? In altre parole… vita o morte? Non volevo che quella coperta bianca che aveva avvolto mio fratello da bambino venisse macchiata. Il sangue sulla candida innocenza. Tutto intorno, le voci dei miei compagni continuavano a susseguirsi affannosamente, vorticando nella mia testa. La vista mi si velò e mi ritrovai a pensare al dolore che aveva sconvolto le nostre esistenze. Pensai a Evan e ancora una volta, prepotentemente ed egoisticamente, desiderai di riaverlo al mio fianco. Già, dovevo trattenere in me i ricordi belli, perché senza quelli, sarebbe rimasto solo l’amaro. Solo il dolore. Solo una macchia di sangue su una coperta candida. Quando Blaez ebbe finito, quella coperta innocente copriva oramai un altrettanto innocente corpo senza vita. Blaez stesso era crollato sulla sua impotenza, in quel momento. Rose gli aveva poggiato la mano sulla testa bionda, mentre l’altra teneva ancora ferma la testa ramata di Zarvos. Avevano la stessa espressione in quel momento. Silenziosa e muta comprensione. Ciò che li faceva stare insieme, nonostante tutto. Accanto a me, Damien fissava con rabbia quel corpo inanimato, stringendo con forza l’elsa della sua spada. Quali pensieri stessero attraversando la sua mente? Micheu era il solo a guardare ancora in alto. E quando infine anch’io alzai lo sguardo, vidi le ali nere di Lughoir sbattere a mezz’aria. Papà saltò giù, abbassando la spada. Tutti lo guardarono, in attesa del verdetto. Fece cenno negativo. Non era riuscito a riprendere il rubino. Dunque era cominciato. Attendevamo Liger, senza renderci conto che la Croix du Lac non aveva alcun bisogno di lui, per ottenere ciò che voleva. In fin dei conti, anche il comandante era una sua pedina. Mi voltai verso Zarvos, tendendo il braccio fino a toccare il suo corpo esanime, coperto. Oh, Evan… aiutalo a raggiungere un luogo migliore…, pensai tra me e me.

- E’ stato tutto inutile…

Mormorava intanto Blaez.

- Hai fatto del tuo meglio…

Rispose Rose. Poi tornò a guardare mio padre, che ci aveva raggiunti.

- Dove lo porterà?

Domandò.

- Ad Adamantio, sicuramente.

Rose si morse con forza le labbra, frustrata. Aggrottò le sopracciglia rosso scuro e la sua espressione si fece dura. Non soltanto non era riuscita a impedire che il messo le togliesse il rubino, ma anche la morte di Zarvos era stata vana. Mi trascinai sulle ginocchia, affiancandola, e le presi la mano. Non mi guardò, ma si limitò a ricambiare la mia stretta.

- Per favore… portiamolo da Gourias.

Disse solamente.

E in quel momento, mi tornarono in mente le parole della Croix du Lac. Non aveva nominato soltanto Rose. Il mio cuore batté con più forza nel petto e l’inquietudine si trasformò in paura. Dovevo essere impallidita, perché Blaez mi domandò cos’avessi. Lo guardai, tremando.

- Sta mirando anche a Livia… loro tutti… sono in pericolo.

Dissi.

Le mie parole non dovettero attendere il seguito. Papà fu lapidario.

- Torniamo.

Concluse, e non appena fummo pronti, andammo via da Chambord, tra dolore e un inquietante presentimento.

 

In volo, mentre procedevamo a tutta velocità verso il rifugio, fummo tuttavia sorpresi dall’attacco di altri messi. Strinsi forte papà, che urlò di prepararsi allo scontro. Sia lui che Damien e Blaez sfoderarono le spade, respingendo gli attacchi implacabili dei messi. Rose e Micheu, che non aveva possibilità di combattere in volo, passarono al centro della formazione e Rose fece di tutto per evitare che il corpo esanime di Zarvos scivolasse dal grifone che gli era appartenuto. Del canto mio, osservavo terrorizzata quello che stava accadendo. Papà aveva il volto contratto per la concentrazione. Sferrava fendenti rapidi e ben assestati, facendo indietreggiare il messo che ci aveva attaccati. Blaez era elegante, ma in quel frangente, la determinazione aveva superato persino la sua proverbiale maestria. E Damien. Il mio Damien si batteva con coraggio, brandendo la spada del professor Warren. Per diverse volte, però, mi ritrovai a temere per la sua vita. Sapevo che papà e che Blaez non si sarebbero lasciati colpire, ma Damien non aveva certo la loro esperienza e per di più, si stava battendo in volo. Lo sentii urlare con rabbia, mentre affondava i colpi e schivava gli attacchi.

- Damien!

Gridò papà, richiamandolo nel vedere il messo volare alle sue spalle.

- Damien, dietro di te!

Urlai io.

Damien fece appena in tempo a voltarsi.

- Dannazione!

Imprecò, quando papà gli ordinò di puntare la spada e di ruotare il pomello sulla parte superiore dell’elsa. Damien, stupito, non attese e non appena il messo toccò la punta della lama, fece come papà gli aveva ordinato. Fu questione di pochissimi secondi e dei lampi di luce si sprigionarono dall’interno stesso del messo, che si vaporizzò all’istante, stridendo orribilmente.

- Ma che diavolo…

Damien era incredulo, così come me, del resto.

- Che è successo, papà? Come ha fatto?

Domandai, guardando mio padre, che fece la stessa cosa con i due messi che ci avevano attaccati. Blaez invece si limitò a falciarne le ali, facendo schiantare la creatura al suolo. Quando finalmente il pericolo fu passato, papà mi guardò.

- Le spade in dotazione alla guardia imperiale sono provviste di un sistema d’offesa alternativo in grado di polverizzare l’obiettivo. E naturalmente, quella di Lionhart non fa eccezione.

Poi guardò Damien.

- Congratulazioni, ragazzo. Hai ucciso il tuo primo messo.

Damien inspirò, ritto sulla sella, poi osservò la spada, riponendola nel fodero e ci raggiunse. Aveva lo sguardo assente.

- Muoviamoci.

Disse, senza replicare.

- Damien…

Mormorai io, mentre riprendevamo la nostra corsa.

Quando arrivammo a destinazione, balzammo giù dai grifoni.

- Jamie!

Urlò Damien.

Papà gli passò davanti, alzando la guardia, mentre Micheu e Blaez ci proteggevano. Fu la mamma ad aprire appena, guardinga, e quando si sincerò del fatto che eravamo noi, il suo sguardo si illuminò.

- Greal, Aurore!

Esclamò.

- Celia.

- Mamma!

La mamma uscì, correndo ad abbracciarci entrambi.

- Grazie al cielo… ero preoccupata…

La strinsi forte anch’io, e papà la guardò.

- Siete stati attaccati anche voi?

- Attaccati? No, affatto…

Rispose, stupita.

Quella strana risposta ci costrinse a guardarci tutti. Damien sbuffò, entrando. Lo guardai, poi Blaez ci raggiunse, sorreggendo Zarvos.

- Dio mio… che cosa…

La mamma portò la mano alla bocca, sgranando gli occhi.

- Un messo della Croix du Lac. Ha preso il rubino.

Spiegò essenzialmente papà. La mamma ne rimase scossa e addolorata, tanto che sciolse l’abbraccio e si avvicinò prima a Blaez e Zarvos, poi a Rose, che li affiancava. Rose le rivolse uno sguardo che avrei potuto definire triste, se non fosse che nei suoi occhi, si leggevano sfumature di rabbia e di frustrazione oltre che di dolore. La mamma le accarezzò dolcemente la guancia. Pochi istanti dopo,  Ruben si precipitò fuori, assieme a Gourias, Eyde e Einer.

- Rose!

Esclamò, raggiungendoci. Così come i ragazzi, che si fermarono davanti a noi. Sul volto di Gourias, così somigliante a quello di Zarvos, comparve lo sconvolgimento. Si chiusero attorno a loro. Ruben strinse a sé Rose. Io rimasi lì, a guardarli nel loro dolore. Mi sentivo dannatamente in colpa. Se solo mi fossi resa conto prima di ciò che stava per succedere… strinsi il pugno, quando sia i miei genitori che Micheu mi presero con loro, rientrando e lasciando che vivessero quel momento tra loro, rispettando il loro dolore.

Nella piccola sala che avevamo adibito a camerata, Damien parlava con Jamie. Fui sollevata del vederli tranquilli, così come lo fui per Livia. La raggiunsi, chiedendole come stava. Lei sollevò il sopracciglio biondo chiaro.

- Smettila di interessarti a me, Aurore Kensington.

Stanca e ormai esasperata, ebbi una reazione inconsulta, stavolta. Solitamente cercavo di contare fino a dieci per non raccoglierne le provocazioni, ma in quel momento ero davvero sfinita. Così, mi alterai e le risposi per le rime.

- Hai proprio ragione. Non dovrei preoccuparmi per te. Sei perfettamente in grado di cavartela da te, di ordire massacri e di torturare la gente come ti pare, me n’ero momentaneamente scordata. Non hai affatto bisogno che qualcuno si preoccupi per te, Livia Devereaux.

Livia sgranò gli occhi, incredula. Damien e Jamie mi guardarono stupiti. Poi Jamie si rivolse a Livia.

- C-Che significa? Di che sta parlando?

Livia mi lanciò un’occhiataccia, visibilmente in difficoltà. Avevo toccato un tasto dolente. Evidentemente, agli occhi di Jamie, voleva risultare molto più innocente. E quella menzogna mi fece ridere istericamente.

- Avanti, Livia… diglielo. Digli cos’hai fatto. O devo farlo io per te?

La Lady del lapislazzuli non aveva più parole da usare contro di me e sbuffò stizzita.

- Aurore…

La voce di Damien. Lo guardai di sottecchi.

- E tu… tu che hai baciato Amelia… mi chiedo proprio cosa provi per lei, sai?

Damien scosse la testa, perplesso.

- E questo che significa, ora?

Indietreggiai di qualche passo, vergognandomi improvvisamente di quelle bassezze. E fui travolta dalla stanchezza, dal dolore, dal risentimento e da tutti i sentimenti negativi che avevo accumulato. Rimane solo l’amaro.

Le lacrime mi imperlarono gli occhi e desiderai sprofondare.

- S-Scusate… io… mi dispiace… non…

Imbarazzata, mi tirai indietro, cercando di allontanarmi. Damien chiamò il mio nome, ma non me la sentivo di parlarne ancora, in quel momento. Attraverso una finestrella non sbarrata, intravidi Violet, assieme a Leandrus e Hiram, che portavano del cibo. E passai oltre. Mi ritrovai davanti alla stanza dove riposava Shemar. La porta era semiaperta e la luce spenta, così entrai, chiudendo. Poggiai la fronte contro il legno, singhiozzando. Quando crollai sulle ginocchia, sentii la voce roca di Shemar provenire dal letto. Accese la lanterna accanto a sé e la stanza fu pervasa da una calda luce soffusa.

- Signorina Aurore?

Mi voltai verso di lui.

Si era tirato su. Aveva il costato fasciato e una coperta scura addosso. Portava i capelli mossi sciolti, scarmigliati. Mi scrutò con quegli occhi dorati dall’espressione sempre seria. Poi mi sorrise dolcemente.

- Che vi succede, signorina?

- Shemar…

Mormorai. Shemar, che mi aveva salvata e condotta nell’Underworld. Shemar, il cavaliere senza paura di Amber. Ciò che di più vicino avevo, in quel momento, a un fratello maggiore. Mi sollevai e lo raggiunsi, prendendo la sua mano. In mente, avevo i ricordi di Amber trucidata dalle guardie imperiali. Le sue parole. Deglutii. Lui se ne accorse e mi strinse la mano.

- Avete bisogno di riposare?

Annuii.

Il suo sorriso si fece più tenero.

- Fatelo pure, non abbiate remore.

- G-Grazie…

 Mi fece un po’ di posto e mi accoccolai accanto a lui, su quel letto improvvisato. Facevo lo stesso con Evan, quando avevo bisogno di un po’ di tranquillità. Osservai con attenzione le cicatrici che portava sul torso e le bende che gli avevano messo. Quanta sofferenza su quel corpo giovane. Eppure, nonostante tutto, non si tirava mai indietro.

- Ti fa male la ferita, Shemar?

Domandai, poggiando la testa sul cuscino. Lui osservò attentamente le bende, pensandoci.

- Lo ammetto. Non riesco a muovermi come vorrei e se faccio movimenti bruschi… beh, sì, fa male.

- Mi dispiace così tanto…

Bisbigliai, abbassando lo sguardo.

- E di cosa? Non è colpa vostra.

- Invece sì, Shemar… lo è eccome. Ho fatto il passo più lungo della gamba, sono stata imprudente e ora, guarda in che situazione siamo tutti quanti… e anche Amber…

Esitò per qualche secondo, poi sospirò, guardando in alto. Rialzai lo sguardo anch’io, notando che fissava il soffitto.

- Amber e io ci siamo fatti una promessa, tanto tempo fa. Sapete, signorina Aurore… se non fosse stato per lei, avrei già raggiunto i miei genitori da un pezzo.

Mi puntellai sul gomito, ascoltandolo.

- A quel tempo, non era soltanto il nostro mondo a essere immerso nell’oscurità. Lo era anche il mio animo. Ero furioso. Adirato con quel mondo che mi aveva tolto senza pietà la mia famiglia. Odiavo i nobili, odiavo il fatto che nonostante tutto, fossero ancora lì a vivere spensierati mentre c’era chi si disperava. Mio padre fu ucciso mentre tentava di aiutare i vostri genitori. Mia madre venne uccisa davanti ai miei occhi. Numi, se penso a quanta crudeltà… per questo non posso tollerare tutt’ora che siano messe le mani addosso a una donna. Allora, prima di mettermi al servizio di Amber, per diverso tempo vissi come uno spiantato. Ero un ragazzino che viveva di espedienti e alla giornata. E sapete in cos’ero bravo?

Sbattei le palpebre, incredula. Shemar sorrise.

- A sfidare le guardie imperiali.

- Eh? T-Tu sfidavi le guardie imperiali?

Domandai. Ero davvero stupita. Shemar era sempre così composto e per giunta era lui stesso una guardia imperiale…

- Già. E orgogliosamente, posso dire che non mi hanno mai preso…

- Meno male…

- Fino a che non trovarono il modo di farmela pagare e mi catturarono a tradimento mentre fuggivo dopo aver rubato Varon.

- Hai rubato Varon?!

Sgranai gli occhi, ora interdetta. Gli avevano fatto il lavaggio del cervello per renderlo un perfetto cavaliere? Shemar rise e dovette posare la mano sul costato per la fitta che quella risata gli provocò.

- Shemar!

- Sto bene, tranquilla.

Mi rassicurò. Poi mi guardò.

- Ebbene sì. All’epoca era un piuttosto piccolo, però, ancora un cucciolo. Fui portato nella guarnigione di Chalange, dove credevo che mi sarebbe toccata una pena esemplare. Tanto valeva dare il peggio di me fino all’ultimo. E così mi misi persino a insultare le guardie che mi avevano catturato. Beh, a quel punto non potevo più avere attenuanti. Eppure, proprio in quell’occasione, fu un nobile a tirarmi fuori dai guai. Angus.

- Angus?

- Già. Era ad Adamantio per affari interni e si trovava a passare dalla guarnigione. Non appena mi vide mi riconobbe subito. All’epoca, era ben diverso dall’anziano archivista che conoscete. Era rispettato e ben noto, nell’ambiente.

Annuii. Lo ricordavo, era stato lo stesso Angus a dirmelo.

- E poi?

- Decise di portarmi con sé, dopo aver comprato Varon. Mi disse che dovevo imparare a soppesare le conseguenze delle mie azioni. Avevo rubato Varon e lui l’aveva riscattato per me. Dunque era in prestito, in un certo senso e lo sarebbe stato fino a che non fossi stato in grado di ricomprarlo, con le mie sole possibilità. Considerando che ero un ragazzino e per giunta senza un soldo bucato in tasca, mi sarebbe stato impossibile senza rubare. Angus mi propose allora di provarci onestamente, facendo leva sul fatto che se i miei genitori fossero stati ancora vivi, sarebbero rimasti inorriditi dal vedere il mio comportamento così abietto. Probabilmente fu proprio questo a smuovermi. In fondo, io avevo dimenticato… anzi, no, avevo voluto dimenticare i bei tempi. Preferivo concentrarmi sulla loro morte, in modo da essere forte e non avere debolezze.

- Resta solo l’amaro…

Bisbigliai. Shemar sollevò il sopracciglio, riflettendoci.

- Già… era quello che pensavo, conducendo la mia vita secondo quella filosofia, in quel momento. Angus mi portò a Shelton, affidandomi al casato Trenchard. Non sapevo che anche i genitori di Amber erano morti. Dopo la scomparsa dei miei, avevo perso ogni contatto con la sua famiglia. Quando la rividi, una ragazzina cresciuta prima del tempo, ricordai di colpo tutto ciò che avevo perso e fu come guardarmi in uno specchio. Amber e io eravamo così simili. Al di là degli abiti che indossavamo, del lignaggio. C’era qualcosa che ci accomunava. Un passato. Una famiglia sterminata.

- Lo stesso destino…

Shemar annuì.

- Amber non aveva più nessuno, se non Sybille. E Hiram e Milene, naturalmente. Certo, c’era Blaez, ma all’epoca, non erano così in confidenza come ora. Ogni volta che la guardavo, così silenziosa e con lo sguardo sempre lucido, soprattutto quando entrava nella galleria dei ritratti, pensavo a quanto dovesse essere stato difficile per lei affrontare tutto quanto. A cosa serviva godere di privilegi, vivere in un bel palazzo, quando non si avevano gli affetti più cari? Non era differente dalla mia situazione. Era stato lo stesso per me, con la sola differenza che la maggior parte delle volte, io non avevo un tetto sulla testa. Eppure, nonostante il forte legame di quand’eravamo bambini, ora sembravamo essere degli estranei. Amber non riusciva ad aprire il suo cuore. Io non riuscivo a ricordare che un tempo avevo giurato di proteggerla. E il tempo passò. Accadde cinque anni fa… vi ricordate quando Amber vi parlò del ballo a cui partecipammo, quello in cui eravamo i più giovani?

Annuii, incuriosita. Shemar tornò a guardare in alto, ricordando.

- Come sapete, Sybille non transige sull’etichetta. Aveva fatto in modo di insegnarci a danzare, ma eravamo alquanto negati all’epoca. Quel ballo, in occasione della Renaissance, fu dato a palazzo Zilliacus, e Amber e io vi partecipammo. Aveva indossato il giglio ambrato per la prima volta ed era incantevole, nel suo abito dorato. Portava i capelli acconciati con dei fermagli che le davano un’aria più giovane di quanto fosse. Ricordo ancora che rimasi estasiato nel vederla scendere le scale trattenendo il fiato, accompagnata da Sybille. E io, che ancora non ero una guardia imperiale, ricoprii solo ufficiosamente le veci del cavaliere. Non credo di averla mai vista tanto impacciata come allora. Cercava di essere all’altezza della situazione, di dimostrarsi forte affinché potesse essere riconosciuta come il nuovo capo della famiglia Trenchard. Quando presi la sua mano, mi ripromisi di non lasciarla andare, per tutto il resto della serata. Danzammo a lungo, nonostante la sua tensione la portasse a pestarmi spesso i piedi, sotto gli sguardi e i commenti malevoli di chi ci era intorno. La Lady dell’ambra, figlia dei giustiziati duchi Trenchard e il suo spiantato cavaliere, figlio della ripudiata Vere Vanbrugh. La storia di mia madre si ripeteva con un cattivo presagio. Ma Amber cercava di non dare retta a quei commenti, sebbene le facessero male. Lo capivo dal modo in cui mi stringeva la mano. Ricordo che le dissi: “Amber… qualunque cosa accada, io sono accanto a te”. Amber mi guardò. Ho ancora impresso negli occhi il suo sguardo sul punto di prorompere in lacrime e il suo sorriso, quando annuì. “Non lasciare mai la mia mano, ti prego…”, mi chiese, con voce tremante. “Mai. Te lo prometto. Ma tu, tu non lasciare mai la mia”, le chiesi a mia volta e lei, stupita, accettò. Fu allora che decisi di sfruttare la seconda possibilità che mi era stata data. Per Amber. Per me stesso. Per il nostro futuro. Diventai il suo cavaliere ed entrai nella guardia imperiale, un anno fa. Da allora, ci proteggiamo a vicenda. Anche se so che un giorno verrà il momento in cui dovrò lasciare la sua mano perché non mi sarà concesso di tenerla oltre…

Sgranai gli occhi, commossa da quel racconto. Pensai a quella maledetta visione.

- No! No, Shemar!

Esclamai. Lui si voltò sorpreso.

- Continua a stringere la sua mano. Non lasciarla mai… perché fino a che la stringerai, Amber sarà forte… e insieme cambierete questo mondo…

- Signorina Aurore…

- Tu sei innamorato di Amber, non è così?

Shemar rimase a bocca aperta, spiazzato da quella domanda così diretta. Ma quel silenzio mi dette risposta. Sorrisi, poi gli strinsi forte la mano.

- Amber ti ama… ne sono sicura… lo vedo dal modo in cui ti guarda… è lo stesso in cui tu guardi lei… ma ora devi guarire, Shemar… devi tornare forte, perché lei ha bisogno di te…

Scosse la testa, dubbioso. Io evitai di andare oltre. Non volevo rovinare quel momento.

- Shemar Lambert… tu sei davvero una persona speciale, lo sai?

- Mpf. Tutti lo siamo. E’ soltanto che lo siamo in modi diversi.

Annuii, raggomitolandomi accanto a lui. Poco a poco, mi sentii più tranquilla.

- Ora che ci penso, che ci fa qui la signorina Violet?

Mi domandò all’improvviso, con voce alquanto perplessa. Effettivamente, non avevamo mai avuto modo di parlarne e quando gli raccontai, per sommi capi, il motivo per cui Violet era giunta nell’Underworld, ma soprattutto il modo, Shemar mi guardò come se stessi raccontando una storia totalmente priva di senso. E a pensarci, il fatto che Violet e Ruben fossero stati vittime di quello che si chiamava colpo di fulmine, poteva sembrare tale, per qualcuno che non aveva mai preso davvero coscienza dei suoi sentimenti. Eppure, in quel momento, mi sovvennero le parole di Damien e Violet riguardo a Evan e Arabella. Mi affrettai a cacciare dalla mente l’idea di qualsiasi coinvolgimento romantico, concentrandomi sul fatto che erano soltanto dei bambini e cosa non meno importante, Shemar aveva avuto modo di conoscere entrambi.

- Posso chiederti un favore?

Lui annuì, ancora un po’ perplesso.

- Ditemi pure.

- Raccontami qualcosa della mia famiglia… di quando tu, Evan e Arabella giocavate insieme…

Sapevo di stargli chiedendo di ricordare qualcosa relativa a un passato che aveva cercato di dimenticare, ma forse, ora aveva fatto pace con quello stesso passato. Riprese fiato, tornando con la mente ad allora e la sua espressione mutò. Così poco dopo, prese a raccontare. Così immaginai. Lui. Arabella. Evan. Il ricordo di quel breve tempo felice. No, Croix du Lac… i ricordi, sia brutti che belli, rimangono per sempre, non c’è niente al mondo che possa cancellarli.

E ascoltando le parole di Shemar, ben presto scivolai nel sonno senza accorgermene nemmeno.

 

 

 

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Capitolo 54
*** XIX. 3 parte ***


Buon pomeriggio!! Eccomi qui, al volo perché domani ho un esame, ma siccome sono in fase d'esaurimento avevo bisogno di una pausa e dato che è l'unico giorno libero, in quanto fino a sabato avrò impegni... ok, periodo troppo lungo, aggiorno ora! >_< Un grazie come sempre a chi mi segue (Aaaaw, Oscuro, hai cambiato nick alla fine! *_*) e mi scuso per non avere ancora tempo di recensirvi, ma mi si prospetta un periodaccio... ç_ç Scusate davvero!! Intanto, buona lettura, penso proprio che questa parte vi piacerà! :) Alla prossima settimana!!

 

 

 

 

 

- Aurore?

Poggiai la guancia sul cuscino, coprendomi meglio.

- Ancora dieci minuti, mamma…

Sentii una sommessa risatina da parte di mia madre e la sua mano che mi accarezzava dolcemente i capelli.

- Tesoro, sveglia… sono tutti fuori. Non vuoi partecipare alla sepoltura di Zarvos?

Spalancai gli occhi di colpo. Ci misi qualche secondo per rinsavire e rendermi conto che non ero nella mia stanza. Di Shemar non c’era traccia. Invece, di fronte a me, la mamma mi osservava. Il velo di tristezza nei suoi occhi era evidente.

- Mamma…

Mi sorrise appena, con dolcezza, come solo lei sapeva fare ogni volta che mi svegliavo e lei era accanto a me.  

- Quanto ho dormito? E Shemar?

- Qualche ora. Shemar è fuori, insieme agli altri. Te la senti di venire?

Presi fiato, pensando che avrei dovuto affrontare non solo il dolore di Ruben e dei suoi, ma anche Damien e Livia. E in quel momento, avevo qualche dubbio su cosa fosse peggio. Ciononostante, mi alzai e mi ricomposi.

- Sei dimagrita, tesoro mio…

Mi fece notare la mamma. Mi guardai velocemente. Effettivamente, a parte il periodo in cui ero stata ospite di Amber, era una settimana che non mangiavo granché. Sospirai, ricordando che avevo fame.

- Alizea ti ha dato qualcosa da mangiare?

La mamma annuì.

- Allora più tardi, se ti va… potremmo mangiare qualcosa… tutti insieme…

Lei sorrise e mi baciò in fronte, stringendomi a sé.

- Sì. Sì, tesoro mio.

- Mamma…

- Mh?

Alzai lo sguardo incontrando il suo. Ero arrossita.

- Quando torneremo a casa… mi preparerai la cheesecake ai frutti di bosco? Mi manca tanto mangiarla…

La mamma mi guardò sorpresa per un istante, poi si sciolse in un rilassato sorriso. Quanto doveva esser stata in pena per me in tutto quel tempo? Mi rattristai a quel pensiero, unito al fatto che per quasi diciassette anni aveva costantemente pensato alle sorti di Arabella, sola in questo mondo ormai.

- Ti preparerò tutto quello che vuoi, Aurore.

Mi disse, dolcemente.

- E la faremo assaggiare anche a papà e ad Arabella!

Esclamai, per darle coraggio. Lei rimase per qualche secondo a bocca aperta, non sapendo forse come rispondere. Sapevamo bene entrambe che salvare Arabella sarebbe stato difficile, ma conoscevo mia madre e sapevo che non si sarebbe fermata davanti a nulla. Celia Kensington era sempre stata temeraria e coraggiosa. Non c’era nulla in grado di opporsi alla sua tenacia, quando aveva in mente qualcosa. Mi strinse forte a sé. Tutta questa storia aveva finito col mettere in luce anche i suoi lati più deboli, eppure, sapevo che non avrebbe desistito. Anche stavolta, la sua forza avrebbe sovrastato ogni esitazione.

- Penso che Arabella gradirebbe… non sono sicura per tuo padre…

- Perché?

Domandai perplessa.

- Greal non è molto aperto alle sperimentazioni.

Come Evan, del resto.

- Troveremo il modo di fargliela piacere, allora!

Proclamai.

- Aurore…

La mamma pronunciò il mio nome con un affettuoso tono di rimbrotto. Le sorrisi.

- Andiamo?

Annuì e raggiungemmo i nostri amici fuori dal casino.

Erano tutti lì, stretti nel dolore per la perdita di un compagno, di un fratello. Ruben stringeva a sé la sorella, fissando la salma coperta dal mantello scuro di Gourias. Quest’ultimo aveva accarezzato per un’ultima volta il corpo esanime del fratello, mentre papà e Blaez avevano finito di scavare la buca che l’avrebbe accolto per sempre. Shemar era aggrappato a Leandrus. Era strano vederli così vicini, proprio loro che condividevano l’amore per Amber e si erano spesso scontrati in passato. Ma la morte spesso univa. Strinsi la mano di mia madre, vedendo i miei amici. Violet aveva lo sguardo basso. Sapevo che non conosceva da tanto Zarvos, ma trattandosi di un membro della scorta del suo Ruben, l’aveva presa sul personale. E per la prima volta, probabilmente, si era resa conto di quanto fosse realmente drammatico e pericoloso vivere in quel mondo. Vidi Jamie e Hiram che osservavano con compostezza i compagni di Ruben, solitamente sempre gioviali e allegri, e ora, d’improvviso, scuri in volto. Incrociai lo sguardo di Livia, che a sorpresa, lo distolse prima che potessi farlo io, afferrando il mantello di Micheu, che la guardò. E infine, guardai Damien, che ricambiò silenziosamente il mio sguardo. Scusami

Ci fermammo accanto a papà e mi scusai per il ritardo. Ruben annuì, poi fece un cenno ai suoi ragazzi, che sollevarono la salma di Zarvos. Non sapevo quali fossero i riti funerari dell’Underworld, ma in quel momento, vidi sui volti di tutti le stesse emozioni che provavamo noi. Altro segno inequivocabile della nostra comune origine.

- Numi di Camryn, vi invoco.

Disse Ruben.

-  Possa l’anima di Zarvos trovare requie in una vita migliore, possiate voi vegliare affinché ciò accada. Fratello mio, amico mio, grazie per ciò che hai fatto finora. Ti onoreremo ogni giorno, continuando a invocare la potenza dei numi perché proteggano la tua anima immortale, fino a che potremo ritrovarci.

Rose morse il labbro inferiore, reprimendo con difficoltà le lacrime. Dignità e orgoglio. Era stata lei stessa a dirmelo. Eppure, nonostante cercasse di non piangere, gli occhi erano lucidi e tutto il suo stesso corpo tradiva la sua commozione.

La potenza che abbatte gli ostacoli… segui la strada che porta alla stella cremisi… qui la stella riposa…

Qui la stella riposa… la stella cremisi.

Come Lord del rubino, riconosco alla memoria di Zarvos Iversen la fedeltà assoluta e la mia gratitudine eterna. Attendo il momento in cui ci rincontreremo di nuovo, amico mio.

Posò la mano sulla salma tenendola ferma per qualche istante e raccogliendosi in silenziosa preghiera, poi si scostò.

Prima che i ragazzi potessero chinare la salma di Zarvos, però, Rose lasciò le braccia del fratello, per avvicinarsi. Quel gesto sorprese tutti. Con sguardo inaspettatamente compassionevole, che la fece somigliare per un attimo a Ruben, si tolse un orecchino e lo infilò sotto al mantello.

- Quell’orecchino…

Mormorò sottovoce la mamma. La guardai, stupita, ma non continuò.

- Hai fatto di tutto per proteggere me e il rubino. E hai lottato con coraggio. Mi hai salvata e per questo te ne sarò per sempre grata. Zarvos, riposa in pace.

Infine, si allontanò, cercando ancora le braccia di Ruben. I ragazzi adagiarono la salma di Zarvos e sia papà che Blaez la ricoprirono. Eyde ed Einer rimasero accanto a uno sconvolto Gourias. Poi Ruben e Rose lo raggiunsero, parlando tra loro. Abbassai lo sguardo. Che cordoglio potevo offrire io invece? Non ero brava a dire parole che potessero alleviare le sofferenze degli altri, ma capivo fin troppo bene come si sentiva Zarvos. Aveva perso suo fratello proprio come io avevo perso il mio. La mamma comprese il mio stato d’animo e mi abbracciò forte. Gliene fui grata e dopo, fu il turno di tutti noi pregare per Zarvos e porgere le nostre condoglianze a Gourias.

Circa un’ora più tardi, dopo che avemmo mangiato in silenzio, tutti insieme, mi ritrovai a sedermi fuori, osservando il cumulo funerario e dicendo una preghiera tra me e me. Quante persone erano morte e quante altre lo sarebbero state? Da quando ero giunta in quel mondo, avevo versato più lacrime di quante ne avessi mai versate in tutta la mia vita. E mi rendevo conto che quell’esperienza mi stava cambiando. Ero sempre stata impulsiva e sfacciata. Adesso stavo imparando a essere più riflessiva, a capire che ad ogni azione corrispondeva una conseguenza. E la cosa peggiore era che lo stavo capendo sulla mia pelle e sulla pelle di chi mi stava intorno.

- Posso sedermi?

Presi fiato, senza voltarmi nel sentire la voce di Damien alle mie spalle. Sapevo che avrei dovuto affrontarlo, ma non mi aspettavo che avrei dovuto farlo subito. Ma Damien era così. Non gli piaceva avere cose in sospeso. Annuii soltanto. Lui si sedette accanto a me, guardando il cielo. Rimanemmo in silenzio per un po’. Avevo il cuore che mi batteva forte, tanto ero ansiosa di cos’avrebbe detto e come avrei reagito. Cercai di concentrarmi sulla respirazione, ma finii col sentire il suo respiro più che il mio. Perché mi sentivo così dopo tutto quello che avevamo passato? Sollevai lo sguardo, notando la sua espressione seria. Arrossii, deglutendo.

- D-Dam…

- Amelia Dobrée è mia cugina. Tu sei la ragazza che amo.

Mandai ufficialmente al diavolo la concentrazione. Damien continuò a osservare il cielo senza batter ciglio.

- Mia madre ha sempre accennato velatamente al fatto che Leonard Warren non fosse il mio vero padre. Quando dipingeva, il suo sguardo si perdeva in tempi passati e qualche volta, si lasciava persino andare a confidenze, soprattutto dopo i litigi che erano all’ordine del giorno, in casa. Mi raccontava di un vecchio amico, una persona che le era stata cara con la quale aveva vissuto per un po’ di tempo, prima di sposare mio padre. E mi diceva che avevo qualcosa che glielo ricordava. Da bambino non davo peso a quelle parole, ma crescendo ho cominciato a pensarci. E del resto, ad avvalorare la tesi c’è che non somiglio affatto a Leonard. D’altro canto, non che mio padre abbia mai fatto mistero del suo disprezzo per me, se vogliamo aggiungere prove. Preferiva in modo evidente Jamie, ma poi, quando ha ripreso a cercarvi, ha finito con l’allontanarsi anche da lui. E quando siamo giunti in questo mondo, ho avuto modo di studiare e cercare le tracce che portavano alla terra dello smeraldo, agli Ealing… al mio passato. Quando mi sono risvegliato a palazzo Dobrée, Amelia era lì, davanti a me. E’ stato quasi come guardami in uno specchio. Ci somigliamo in modo evidente e per giunta, avevo in mente i ricordi di quel passato così lontano. In realtà, non so dirti quanto tempo avessi quando mia madre ha lasciato questo mondo per recarsi nel nostro, ma ricordavo di mio qualcosa di vago. Delle voci, a volte dei volti sfocati. Credevo fossero William e mia madre a quell’epoca, ma al di là di quello, niente di particolare. Amelia ha fatto in modo che ricordassi più nitidamente e mi ha permesso di ricordare con chiarezza quei volti e quelle voci. E così ho capito chi ero e chi era davvero la mia famiglia. Di questo, le sono stato grato, almeno inizialmente. Però… lei aveva ben altri progetti per me.

Mi sentii inquieta nel ricordare le parole di Amelia. Voleva sposare Damien una volta che fosse diventato il nuovo Despota e insieme avrebbero fatto rinascere Dourand.

- E poi sei arrivata tu, pazza e irresponsabile Aurore Kensington, a salvarmi prima che potessi perdere del tutto me stesso.

Arrossii, deglutendo. Ero totalmente persa nella dolcezza e nella consapevolezza delle sue parole. Damien sorrise.

- Quando mi hai detto che mi amavi e anche quando mi hai baciato… lì ho cominciato a ricordare chi ero davvero. Quindi, se ti chiedi ancora cosa provo per Amelia… beh, niente di tutto ciò che provo per te. Ha il mio stesso sangue, siamo parenti, ma francamente, non sono mai stato favorevole all’incesto di qualsiasi grado.

Sbattei le palpebre, senza poter evitare di ridacchiare a quel commento. Damien si voltò, guardandomi con aria allegra.

- Sei la sola persona con cui voglio stare e la sola che voglio… forse, da prima ancora di rendermene conto.

Sgranai gli occhi, cambiando colore, immagino, perché mi sentii improvvisamente il sangue esplodere in corpo.

- D-Damien… io…

Balbettai. Lui rimase in silenzio, in attesa.

Mi feci forza, raggranellando un po’ di coraggio. Damien sapeva essere infinitamente spiazzante.

- Mi dispiace davvero per averti parlato in quel modo… ero davvero stanca e Livia mi aveva esasperato…

- No.

Esitai, presa in contropiede.

- Eh?

Lui affilò lo sguardo.

- In realtà volevi saperlo già da un po’, ma non avevi avuto il coraggio di chiederlo, giusto?

Mi imbronciai, colpita. Anche se la mia esasperazione non era inventata. Ad ogni modo, annuii. Damien tirò su la mano, facendo per posarmela in testa, ma si fermò.

- C-Che succede?

Gli domandai, timidamente.

Sospirò, ripensandoci e limitandosi ad accarezzarmi la guancia.

- Se ci provo ti scosti… sembra che non ti vada a genio…

Mi sentii improvvisamente piccola e vulnerabile. Damien era bravo a smascherarmi. Ciononostante, posai la mano sulla sua e chiusi gli occhi.

- E’ un gesto che facevano sempre la mamma ed Evan… e dopo quello che è successo a mio fratello, non ero pronta a permettere ad altri di farlo… mi dispiace averti reso la vita impossibile, Damien… davvero…

Lo sentii sorridere appena, poi le sue labbra furono sulla mia fronte, calde e morbide. Arrossii ancora, col cuore che mi batteva forte.

- Non deve dispiacerti. A me va bene così. Fino a che tu e Jamie siete con me…

Ebbi voglia di lasciarmi stringere. Così, mi avvicinai di più a lui, accoccolandomi nel suo abbraccio. Il battito del suo cuore era così rassicurante.

- Jamie come l’ha presa?

Domandai.

Mi strinse di più a sé.

- Così così. Abbiamo avuto modo di parlare un po’. Dopo gli ultimi eventi, dovevamo ristabilire un equilibrio. Ma fondamentalmente, non si smette di essere fratelli sol perché non si ha del tutto lo stesso sangue. Sei stata tu stessa a ricordarmelo.

Pensai a Evan, alla scoperta della verità sul suo conto. Come l’avrei presa se fosse stato accanto a me? E lui come avrebbe reagito davanti alla menzogna smascherata?

- E’ bello che tu e Jamie siate così legati… l’unione fa la forza, no?

Damien annuì.

- Sì, decisamente.

Sorrisi, pensando che da qualche parte, chissà, forse anche Evan stava annuendo.

E poi mi venne in mente Livia. Mi voltai a guardarlo.

- Che c’è?

Mi domandò, aggrottando le sopracciglia.

- Pensavo a Livia…

- Ah…

Replicò.

- L’unione fa la forza, ma Livia è un asso nella disgregazione…

Commentai.

- Eppure, credo proprio che stavolta tu l’abbia sorpresa.

Disse. Lo guardai perplessa.

- In che senso?

Il suo sguardo si fece più divertito.

- Considerando che l’hai letteralmente smascherata davanti alla persona a cui tiene di più, penso proprio che tu abbia dimostrato di non temerla.

- E se invece mi odiasse?

- Quello è indubbio, ma quantomeno tenendole testa hai ottenuto il suo rispetto. Per quanto si possa avere da quella piccola psicopatica. Mi chiedo come dovrò fare con Jamie…

Si lamentò. Sbattei le palpebre incredula, poi gli toccai la fronte, suscitando la sua sorpresa.

- Aurore?

- Non hai la febbre, no. E’ da un po’ che avanzi strane teorie…

- Da un po’?

Mi fece eco.

- Da quando hai detto che secondo te Arabella è apparsa a Evan…

Rimase senza parole per un secondo, poi mi guardò con quegli occhi di smeraldo così profondi, che si fecero improvvisamente seri.

- Damien?

Sorrisi imbarazzata, pensando di aver detto qualcosa di sbagliato.

- Ehm… come non detto, lascia perdere!

Rimase a fissarmi in imbarazzante silenzio per qualche istante, quasi dandomi l’impressione che stesse rimuginando su qualcosa di più importante.

- Damien… che succede?

Aveva l’espressione combattuta. Poi prese il mio polso, carezzando il braccialetto di Evan con aria assorta.

- Aurore, ascolta. Qualunque cosa accada, ricordati che la mia spada sarà sempre pronta a proteggerti.

Sgranai gli occhi, incredula. Il mio cuore prese a martellare.

- C-Cosa…

Damien sorrise, poi si voltò verso il tumulo di Zarvos.

- Sembra proprio che la Croix du Lac abbia deciso di giocare pesante questa volta…

 Commentò.

- Purtroppo, non c’è volta che abbia giocato leggero, Damien…

Risposi, poggiando la nuca nell’incavo tra la sua spalla e il collo. Le sue braccia mi serrarono. In quel momento, sentivo che sarei stata forte, qualunque cosa fosse accaduta. Sì. L’unione fa la forza e mai come in quel momento ne fui sicura.

Rientrammo dopo un po’, incrociando Gourias che si recava alla tomba del fratello. E quando fummo dentro, trovammo papà e gli altri impegnati a parlare. Stavano discutendo del tornare a Chambord. Alla fine, nonostante fossimo stati lì, non avevamo potuto trovare ciò che cercavamo, nonostante non potessimo comunque affermare di non aver trovato nulla. Blaez parlò a mio padre di Angus, del fatto che suo nonno era uno dei pochi rimasti a conoscere l’ubicazione esatta delle Pièces de la Croix, ma papà preferiva occuparsene personalmente. Del resto, non potevo biasimarlo. Angus aveva emanato la sentenza di condanna che poco prima della mia nascita aveva fatto sì che mio padre venisse riconosciuto come colpevole di crimini mai commessi. Eppure, nel corso degli anni che erano seguiti, quell’uomo aveva protetto Amber e Blaez, permettendo loro di agire, in silenzio. Ma vedevo l’irremovibilità di mio padre. E d’altro canto, non potevamo perdere altro tempo per metterci in contatto con lui in quel momento, soprattutto considerando il rischio di essere scoperti. Oltretutto, occorreva spostarci in fretta. Sapevamo bene che presto la Croix du Lac ci avrebbe scovati, dovevamo essere più veloci. Fu così che Micheu e papà decisero di tornare a Chambord di lì a poco, assieme a Blaez. Nessun altro stavolta. Guardai la mamma, che osservava preoccupata papà. Si  lanciarono uno sguardo e qualunque cosa vi sottintendessero servì a farla tranquillizzare. Ne fui sollevata. I miei genitori erano in grado di capirsi e rassicurarsi in un modo così sottile che mi fece riflettere. Dopo tanti anni, il loro affiatamento non si era affatto affievolito, anzi, si era addirittura rafforzato. Mio padre sorrise perfino, quando la mamma gli intimò di non tardare. Fu così che andarono via, mentre io mi feci forza e raggiunsi Livia, che giocherellava con una ciocca di capelli. Quando mi vide, sollevò il sopracciglio.

- Che vuoi ancora?

Domandò seccamente.

- Parlarti.

Risposi.

- Non ho voglia di ascoltarti.

Sospirai, guardando verso Jamie, che era a distanza e parlava col fratello e con Hiram.

- Quando vorrai ascoltarmi allora, raggiungimi.

Feci spallucce e uscii di nuovo. Violet, seduta accanto a Rose, ci osservava. Certo, avrei potuto fermarmi assieme a loro, ma in quel momento, Livia aveva la priorità. Feci un cenno alla mia amica, ci saremmo viste più tardi e lei annuì. E poi uscii, raggiungendo il retro del casino, dove un tempo, c’erano le scuderie. Sospirai, pensando che avrei anche potuto far notte, nell’attesa che Livia si decidesse a venire, ma non volevo incalzarla. Pensai a cosa le avrei detto, ma in realtà, dovevo confessare che non avevo idea di come relazionarmi decentemente con lei, visto che ogni mio tentativo si concludeva con un buco nell’acqua.

- Ecco che significa essere figli minori… sai come parlare ai più grandi, ma non come parlare ai più piccoli…

Borbottai.

- Mettiamo in chiaro le cose. Non sono tua sorella, quindi escludi pure questa possibilità.

Trasalii, colta di sorpresa. Accidenti, Livia non aveva perso tempo. Mi voltai verso di lei. Si era avvolta nel mantello blu scuro e se non fosse per il biondo platino dei capelli, si sarebbe potuta tranquillamente mimetizzare. Mi rivolse un’occhiata seccata.

- Hai fatto presto…

Commentai.

- Pensandoci, non avevo altro da fare.

Dannazione, quella ragazzina aveva sempre la battuta pronta. Presi un enorme respiro e mi feci animo. Forza, forza e coraggio, Aurore!

- Scusami, Livia. Non avrei dovuto dire quelle cose davanti a Jamie.

Ecco, l’avevo detto. Deglutii, sentendo di colpo la tensione che si fermava in gola. Se avessi dovuto continuare, avrei avuto qualche problema. Sentii il suo sguardo fitto addosso e pensai che fosse lì lì per rispondermi con una delle sue battutacce acide. A sorpresa, si limitò a sospirare.

- Alla fine, prima o poi avrebbe dovuto sapere come stavano davvero le cose.

Disse.

Quella risposta mi stupì. Livia era così glaciale certe volte che mi chiedevo come potesse una ragazzina della sua età, essere tale. Cosa le era successo per arrivare a tanto? Che fine aveva fatto quella bambina abbracciata alla sua mamma, che sorrideva così felice? La Livia che era lì, di fronte a me, era lo spettro di quella bambina. Ne possedeva solo il corpo, ma dentro, c’era ancora quella bambina?

- Oh, Livia, perché hai fatto una cosa del genere? Ogni volta che ci penso… uccidere tutte quelle persone… solo per cercare di farmi uscire allo scoperto… davvero, come hai potuto?

Sollevò il sopracciglio, colpita.

- Te l’ho già detto. Volevo vedere cos’avresti comb--   

- E’ una bugia!

Mi affrettai a interromperla. Quella mia foga le fece contrarre le spalle e si mise sulla difensiva.

- Non può essere solo quello il motivo. Avresti potuto usare altri metodi… ma hai ucciso delle persone innocenti… te ne rendi conto? Livia, hai mai avuto idea delle conseguenze dei tuoi gesti?

Sgranò gli occhi, incredula, poi sbuffò.

- Non è affar tuo.

- No, è vero. Non lo è. Ma dal momento che Jamie crede in te…

- Smettila!

Tagliò corto e la sua espressione si incupì.

- Non mettere in mezzo persone che non hanno niente a che vedere con quello che è successo!

- Ti sei finta lui per attirarci in trappola, questo è coinvolgerlo!

Livia digrignò i denti, stringendo i pugni.

- Tu non sai niente…

La sua voce tremò, incrinandosi così come i suoi occhi, che si fecero lucidi. La guardai stupita.

- Livia…

- Tu non sai niente né di me, né di quello che ho passato. Jamie è stato il solo… il solo a parlarmi gentilmente, quando tutti mi trattavano come una bambola senza alcuna volontà propria di cui disporre a proprio piacimento… persino Liger…

Sgranai gli occhi, trasalendo al sol sentire il suo nome.

- L-Liger?

Livia distolse lo sguardo.

- Non importa. Lascia perdere.

Si voltò, dandomi le spalle. Era così minuta e piccola, vista in quel modo. Tante responsabilità su quelle spalle… Livia era sola. Era questa la realtà. Tra tutti, lei era la più piccola, la sola che non poteva sapere quanto meraviglioso fosse il mondo libero dall’oscurità. La sua famiglia era fedele ad Adamantio, ma la Croix du Lac, evidentemente, aveva altri piani per lei. Piani che non contemplavano il tirarla fuori dalla solitudine. E Jamie era stato il solo a trattarla per la ragazzina infelice che era… la vidi incamminarsi per tornare indietro e capii. Corsi da lei, prendendole la mano.

- C-Che cosa… !!

Si voltò di colpo, sconcertata, quando entrambe le nostre pietre presero a brillare. Accadde tutto in pochi istanti. Vidi Livia da bambina, mentre correva spensierata nei corridoi di palazzo Devereaux accanto a sua madre. Vidi una parata ufficiale e la sua famiglia su una delle imbarcazioni di proprietà. Erano rispettati e beneamati dal popolo che plaudeva loro, ma d’improvviso, un guasto, o chissà, forse un sabotaggio, provocò la tragedia. In pochi minuti, nonostante i soccorsi, l’imbarcazione finì col naufragare. Livia urlava, mentre i suoi genitori urlavano a loro volta il suo nome. Furono inghiottiti dal vortice creato dalla stessa imbarcazione che si inabissava, ma non prima di averla messa in salvo, affidata a un più giovane Micheu. Ecco perché gli era così legata. La disperazione, il dolore di quella bambina, che presto si tramutò in mutismo. E poi la promessa d’aiuto da parte di Adamantio. La rinascita. La disillusione. Livia com’era adesso. Sola e arrabbiata col mondo. E poi… e poi vidi Liger, che le porgeva degli abiti. Sorrideva, sotto quella maschera spaventosa. “Non capisco perché debba credere che sarò stata io a uccidere tutti”, diceva Livia. E Liger sogghignava. “E’ la volontà di Sua Grazia. Ovviamente, non vi chiedo di sporcarvi le mani. Sarò ben felice di occuparmene personalmente. E faremo in modo che le cose vadano come devono andare”, aveva risposto. “Se lo dite voi… mi chiedo perché quella ragazza sia così importante per Sua Grazia… cos’ha di speciale, comandante?”, aveva ribattuto Livia. Liger posò un dito sulle labbra. “I progetti della Croix du Lac sono segreti, Milady. E francamente, non ha informato nemmeno me di questo. Allora, accettate?”, domandò il cavaliere bianco. Livia esitò. “Mi promettete che poi potrò rivedere Jamie?”, chiese. Il desiderio innocente di una ragazzina. Liger la stava manipolando con abilità. E con l’ultima frase che pronunciò, affidandole gli abiti che Livia avrebbe indossato alla festa a palazzo Devereaux, ne ebbi la conferma. “Sarò io stesso a condurvi da lui, Lady Livia”.

Sentii una morsa al cuore, mentre tutto intorno a me veniva avvolto dall’oscurità. E mi ritrovai a camminare nel buio, seguendo l’ormai familiare strada di diamanti guidata dallo scorrere dell’acqua in lontananza. Quando giunsi alla fontana, vidi Livia, seduta sul bordo, che carezzava la superficie argentea.

- Lo scrigno che custodisce il segreto… segui la strada che porta al cuore di lapislazzuli… qui il cuore riposa…

Qui il cuore riposa… il cuore dell’oceano…

- Livia…

Mormorai, raggiungendola. Sembrava ancora più piccola, con indosso il semplice abito bianco uguale al mio. Non mi guardò, ma si limitò a fissare le increspature luminose.

- Per tutto questo tempo… ti sei sentita sola…

- Mi mancano così tanto…

Compresi che si riferiva ai suoi genitori. Doveva essere stato traumatico vederli annegare davanti agli occhi senza poter fare nulla. Ecco perché non sapeva nuotare… probabilmente, aveva terrore dell’acqua sin da allora. Mi sedetti accanto a lei, carezzando a mia volta l’acqua fredda. Il gioco di luci che si venne a creare era straordinario. Avrei potuto passare ore a osservarlo.

- Anche a me mio padre è sempre mancato… tu almeno, potevi ricordarli… io l’ho conosciuto solo ora… da bambina, mi chiedevo spesso come fosse… cercavo di immaginarlo, mi guardavo allo specchio pensando a quanto potessi somigliargli… ma ogni mio tentativo era vano… per me, era buio completo. Sapevo solo che avevamo gli occhi dello stesso colore…

- Ma ora sai qual è il suo volto.

Annuii.

- Io ho paura… che col tempo finirò per dimenticarli…

Pensai alla Croix du Lac. Anche lei aveva finito col dimenticare parte del suo passato, ma l’odio e il dolore si erano insinuati in lei al punto da farle ricordare solo la sua sofferenza. Nello scorrere eterno del tempo, i volti dei cari sbiadivano. Come per Damien. Come per Shemar, che aveva voluto dimenticare i bei ricordi per focalizzarsi sulla sua missione. Ognuno di noi scolpiva a proprio modo ciò che era il passato.

- Non li dimenticherai… fino a che li terrai nel cuore, non li dimenticherai.

Livia interruppe il movimento, stringendo il pugno. A quel punto, tesi la mano, posandola sulla sua.

- Sembra retorico, vero? Eppure è così… verrà il momento in cui tutto ti sarà chiaro, Livia… non abbandonarti al rancore, abbraccia il futuro… vedrai che presto le tenebre si diraderanno e con esse, la coltre che sta cercando di coprirli… i tuoi genitori vivono nel tuo cuore… hanno dato la vita perché tu vivessi… la loro bambina, il loro tesoro più grande…

- Io sono morta quel giorno…

Sussurrò.

Sentii una fitta al petto nel percepire il dolore che traspariva dalle sue parole.

- No, Livia… sei viva… tu sei viva e devi continuare a esserlo per loro… sono più che certa che ovunque siano, ti vogliono bene e anche tu manchi loro…

Vidi il suo viso improvvisamente rigato dalle lacrime e insicuro. Mi chiesi se avesse mai pianto davanti a qualcuno. Sembrava così indifesa in quel momento… dopotutto, nonostante il suo pessimo e per certi versi, più maturo carattere, aveva soltanto dodici anni. La sentii stringermi la mano e non aggiunsi altro. Rimanemmo lì, mentre sfogava tutto il suo dolore represso in un pianto liberatorio, per tutto il tempo che servì.

Quando si riprese, sollevò il viso. Aveva gli occhi e le guance arrossati. Mi guardò con un’espressione a metà tra la gratitudine e la minaccia di non dire a nessuno di quel momento, poi sciolse la presa.

- Va meglio?

Domandai, dolcemente.

Fece cenno positivo con la testa, cercando di ricomporsi.

- A volte un bel pianto è quello che serve… disse quella che piange in continuazione… da quando sono arrivata in questo mondo non faccio altro che piangere… Damien mi ha detto che è umanamente impossibile, e in eff--  

- Non è che piangi soltanto… parli anche troppo…

Bofonchiò, interrompendomi.

Affilai lo sguardo, risentita. Accidenti, riecco la solita mocciosetta acida. Eppure, stavolta sembrava diversa.

- Beh, forse hai ragione…

Ridacchiai. Livia incrociò le braccia.

- Naturalmente.

Disse, imbronciata. E poi mi sorrise, appena. Era veramente bella quando lo faceva. Il sorriso genuino le dava un’aria incredibilmente innocente.

- Comunque… grazie, Aurore.

Sorrisi anch’io, alzandomi e tendendole la mano.

- Non ringraziarmi… spero solo che possa andar meglio… la vita è bella, Livia Devereaux…

Mi osservò a lungo, poi prese la mia mano e si alzò, oltrepassandomi.

- Sì, ma non ricominciare coi sermoni.

Sospirai disperata, quando ci ritrovammo nuovamente dietro al casino.

- Torniamo dentro.

Dissi. Ormai papà e gli altri dovevano essere in volo in direzione di Chambord. Livia mollò di colpo la presa della mia mano. La guardai, pensando che non voleva farsi vedere in quel modo. Dopotutto, era pur sempre la solita testarda orgogliosa. Eppure, qualcosa nel suo sguardo fisso sulla boscaglia mi fece preoccupare.

- Che c’è?

Domandai, voltandomi a guardare. E mi sentii mancare la terra sotto ai piedi. Come in un’orrenda visione, circondato da messi che battevano le ali immonde, vestito di un bianco in grado di fendere l’oscurità, Liger avanzava verso di noi. Trasalii, sentendo mancare il fiato.

- L-Livia, lo vedi anche tu, vero?

Livia annuì, meccanicamente.

- Mio Dio… corri a chiamare mia madre, Damien e gli altri…

- S-Sì…

Eppure, non mosse un passo. Doveva essere terrorizzata tanto quanto me. Che diavolo ci faceva lì Liger? Aveva approfittato del fatto che papà e gli altri non c’erano? Ma non poteva saperlo… come diamine faceva a precederci sempre, a prenderci in contropiede?

- Livia, muoviti!

Ordinai.

Forse colpita dal mio tono, si mise a correre verso il casino, ma Liger sollevò il braccio. In breve, due messi si librarono a mezz’aria, volando a tutta velocità verso di noi.

- Livia!

Urlai disperata, così come fece lei, quando fu afferrata dai messi e tirata su.

- Livia no! Mamma! Damien!

Gridai a voce più alta del normale, mentre cercavo di tirarla giù. Livia si dimenava, sconvolta.

- Fammi scendere subito! Maledetto! Comandante Liger, perché?!

Liger si fermò a una decina di passi da noi, facendo cenno ai messi affinché portassero Livia da lui. Il messo obbedì, seguito dal compagno,  mentre Livia continuava a sbraitare.

- Mamma!!

Urlai ancora.

- Liger, dannato mostro!

Sbottai, correndo verso di loro.

Liger sguainò la sua spada, puntandomela contro.

- Aurore!

Le voci sconcertate di mia madre, di Damien e degli altri che erano sopraggiunti nel sentirci urlare.

- Che nessuno si avvicini o oltre al lapislazzuli prenderò anche le loro vite.

Ordinò il comandante.

- Non provarci nemmeno, Liger!

Sbottai, cercando di tirare giù il messo, ma fui scaraventata a terra con un forte battito d’ali. Mentre Livia urlava ancora, singhiozzando, Liger tese la mano, afferrando il cuore dell’oceano.

- No! Appartiene a me! Appartiene alla mia famiglia! Non potete farlo! Ho fatto tutto quello che mi avevate chiesto di fare e mi avete tradita! Solo ora… solo adesso che ho trovato finalmente qualcuno che mi vuole bene davvero…

Liger sollevò il volto. Era quasi divertito. A lui non importava nulla di Livia, né dei suoi sentimenti. Era disposto a tutto pur di ottenere ciò che voleva. Anche papà se n’era reso conto. Strinsi il pugno, mentre strappava dal collo di Livia la gemma che faceva di lei la Lady del lapislazzuli. E la voce di Jamie si erse sulle altre, mentre gridava il nome della sua piccola amica. Liger contemplò la sua conquista.

- E adesso anche il lapislazzuli è mio.

- Dannato…

Livia sussurrò appena quelle parole, morendo le labbra.

Poi, Liger si voltò verso di lei.

- Livia Devereaux, sei stata utile, in passato. Ma al momento, non hai più alcun potere. Non mi servi più.

Livia sgranò gli occhi, tremando.

- Maledetto…

Mormorai. Mi sentì e si voltò a guardarmi.

- Sì. Maledetto è la parola giusta, Lady dell’ametista.

Poi, si chinò verso di me, avvicinandosi e sollevandomi il viso. Damien e la mamma fecero per raggiungerci, ma Liger ordinò loro di fermarsi.

Sostenni il suo sguardo, sebbene non potessi vederlo e temessi che volesse togliermi l’ametista. Il mio cuore batteva all’impazzata. Ogni volta che mi era vicino, sentivo una sensazione di terrore che solo poche volte  in vita mia avevo provato. Liger era in grado di sconvolgermi. Sorrise e sussultai. Per un attimo ebbi la sensazione di conoscere quel sorriso. Gentilmente, quasi, mi accarezzò la guancia con il dorso delle dita guantate.

- Non vedo l’ora di incontrarti ad Adamantio. E allora, prenderò la tua ametista. Fino ad allora, tienila stretta a te, Aurore.

Il mio cuore mancò un battito. Quella voce così bassa e ingannevolmente apprensiva…

- Non me la porterai via.

- Vedremo.

Si rialzò, fischiando e guardando i miei amici, che erano rimasti tutti a diversi passi da noi, sconvolti. Dietro Liger, c’erano troppi messi e affrontarli avrebbe significato sicuramente rischiare la vita. Solo Damien, papà, Shemar e Micheu potevano usare le spade degli imperiali e in quel momento c’era soltanto Damien.  Fui sorpresa nel sentire il battito d’ali e il verso di un grifone che tuttavia, non mi parve quello di Liger. Feci appena in tempo a voltarmi, quando vidi Varon volare verso di noi e Shemar al galoppo, con la spada in mano, pronto ad attaccare.

- Liger!

Urlò, suscitando la sorpresa di tutti, persino dello stesso Liger, che sollevò la spada in difesa.

- Shemar, no!

Rose era uscita di corsa. Evidentemente era rimasta con lui mentre gli altri erano fuori. Il cavaliere di Amber ignorò il suo grido disperato, falciando le ali del messo che aveva catturato Livia e prendendola in braccio al volo. Livia lo strinse forte, e vidi una smorfia di dolore sul volto di Shemar. Dio, chissà quanto stava soffrendo… Cercai di farmi forza e mi rialzai, correndo verso la mamma e i ragazzi. Shemar tornò indietro a sua volta, mentre Liger fischiettò nuovamente e ci scatenò contro i messi. Il tempo di affidare Livia a mia madre, che ci abbracciò entrambe e tornò di nuovo all’attacco, distruggendo i messi con rapidità e precisione. Mai come in quel momento sentii tanti stridii e vidi tanta devastazione. La polvere della combustione dei messi ricadde come pioggia su di noi. Ruben ordinò ai ragazzi di proteggerci, mentre lui e Damien corsero all’inseguimento di Liger, che si era ritirato nella boscaglia.

- State attenti!!

Urlò Violet, accanto a noi.

Jamie si avvicinò, accarezzando i capelli biondo platino di Livia, che tremava, stretta nell’abbraccio di mia madre. Sollevò appena il viso, guardandolo con aria colpevole.

- Mi dispiace tanto, Jamie… mi dispiace di averti mentito…

Disse.

Jamie la guardò dapprima con la stessa espressione severa del fratello, poi si ammorbidì.

- Mi basta che tu stia bene…

Le rispose, sorridendole gentilmente.

Io mi scostai dall’abbraccio della mamma per prendere la mano di Violet, che ricambiò la mia stretta. I nostri ragazzi stavano inseguendo un uomo pericoloso contro il quale non c’era da scherzare. Violet mi guardò con apprensione.

- Ho paura, Aurore…

- Anch’io, Violet… anch’io…

Mormorai.

Intorno a noi, i ragazzi si erano chiusi a cerchio, mentre Shemar finiva di abbattere l’ultimo messo, col valore che da sempre l’aveva contraddistinto.

- Shemar, basta! Finirai col farti riaprire le ferite così, maledizione!

Imprecò Rose. Solo dopo aver finito, Varon atterrò. Shemar si voltò a guardarci. Il tempo di sorridere e venne meno, perdendo l’equilibrio. Hiram e Rose corsero a sostenerlo, così come facemmo Violet e io. Era svenuto, troppo era stato lo sforzo. Rose ordinò di portarlo dentro sia Leandrus, che Einer e Gourias ci aiutarono. Intanto, a mezz’aria, mentre rientravamo col cuore in gola, vedemmo il grifone bianco di Liger con lui al galoppo. Tremai al pensiero di cos’era potuto accadere, eppure, la spada era riposta nel fodero. Il cuore dell’oceano brillò nell’aria notturna, e la voce del comandante si udì chiara e nefasta.

- Tra due giorni, Aurore Kensington, quando la convergenza avrà inizio, il sangue della custode sarà versato e la tua pietra sarà mia.

Apprendemmo quella notizia con sconcerto. Parlava di Amber. Guardai Shemar, che per fortuna non aveva sentito nulla. E istintivamente strinsi la mia gemma. La sola rimasta… ciò che mi apparteneva per diritto.

- Mai Liger… a qualunque costo.

Giurai.

 

Quando papà e gli altri tornarono, eravamo tutti ancora scossi per ciò che era accaduto. Livia era abbracciata alla mamma. Era così strano vederla in quel modo, tanto vulnerabile al punto da cercare conforto in qualcuno che aveva insultato. Ma oramai, quella corazza si era infranta e vederla così, mi fece tenerezza, a dispetto di tutto. Mia madre fu la prima ad alzare lo sguardo, incrociando quello di mio padre, mentre toglieva la maschera.

- Che è successo?

Domandò lui, notando il clima di sconforto generale.

- Liger ci ha attaccati. Ha preso il lapislazzuli di Livia.

Rispose la mamma, suscitando il visibile stupore di papà, di Micheu e di Blaez.

- Quando… com’è successo?

Domandò Micheu, avvicinandosi e accarezzando dolcemente la testa bionda di Livia, che gli rivolse un’occhiata piena di sensi di colpa. Aveva fatto di tutto per proteggere la gemma che faceva di lei il capo della famiglia Devereaux. Micheu si chinò.

- Come state, piccola Lady?

Le domandò.

- Starò meglio quando riprenderò la mia pietra dalle mani di quel maledetto.

Rispose. Micheu sospirò.

- Una cosa per volta, Milady.

Sollevò poi lo sguardo verso mia madre, che ricambiò.

- Un attacco improvviso, dopo che siete andati via. Liger era solo, a parte i messi che erano con lui e che Shemar ha distrutto. Evidentemente era già nei paraggi.

Blaez raggiunse Leandrus, sedendosi accanto a lui con aria pensierosa. Leandrus se ne accorse.

- Che hai?

- Pensavo che Aurore ci aveva avvertiti. La Croix du Lac mirava sia a Rose che a Livia, dunque era questione di tempo. Soltanto, non credevo che Liger fosse già qui. Come diamine avrà fatto a trovarvi? E poi, non ci siamo nemmeno accorti che era qui vicino… né noi, né i grifoni.

Osservò.

- Il messo che non abbiamo distrutto. Dev’essere stato lui a trasmettere le informazioni che servivano a Liger. Ma probabilmente, c’è da dire che doveva esser già sulle nostre tracce. E d’altro canto, siamo stati tutti incauti.

Spiegò papà.

Blaez strinse i pugni, sbuffando. Effettivamente, era il solo a non avere una spada in grado di polverizzare l’obiettivo, dunque non aveva potuto distruggerlo del tutto. Ma nel tono di mio padre non c’era alcun rimprovero. Dopotutto, sarebbero potuti intervenire anche loro stessi per completare il lavoro, ma in quel momento, nessuno di noi ci aveva pensato. Alla fine, eravamo tutti colpevoli, papà diceva bene.

- E voi avete trovato ciò che stavate cercando?

Domandò poi la mamma.

- E di grazia, cos’è che stavate cercando?

Incalzò Rose.

Papà scosse la testa.

- Ciò che cercavo era una mappa. La più antica di tutto l’Underworld, conservata dalla famiglia Delacroix al pari di una reliquia. Conduceva…

- Al cuore originale di Adamantio… e possedeva delle diramazioni che portavano agli angoli di questo mondo…

Dissi. Papà e tutti gli altri mi guardarono increduli. Io mi rivolsi a Damien e a Leandrus.

- La mappa di Angus.

Replicò Damien, insospettito.

- Di Angus? Mio nonno vi aveva dato quella mappa?

Fece eco Blaez, stupito.

- Così sembra… solo che non abbiamo mai avuto modo di vederla.

Spiegò Leandrus, facendo spallucce.

- Dunque era in possesso di Vanbrugh…

Commentò sovrappensiero papà.

- A saperlo prima, ci saremmo risparmiati un bel po’ di tempo. Tira fuori la mappa, Warren.

Replicò acidamente Leandrus. E stavolta l’attenzione generale si rivolse a Damien, che sospirò, prima di comunicarci di non esserne più in possesso.

- Che cosa?

Sbraitò Leandrus.

- E dove accidenti è allora?!

Damien inarcò il sopracciglio. Detestava quando gli si parlava con quel tono e Leandrus sapeva bene come farlo innervosire. Rigirò i pollici, poi si fermò e li strinse, polpastrello contro polpastrello.

- Fratellone…

Jamie, accanto a lui, aveva intuito il nervosismo di Damien.

- Probabilmente deve averla presa Amelia, nella migliore delle ipotesi… diversamente…

- Liger…

Dissi, con sinistro terrore.

- Dannazione! Numi, lo sapevo che mettere tutto nelle mani di due mocciosi ci avrebbe portati tutti al patibolo!

Sbraitò Leandrus.

In quel momento, anche i compagni di Ruben, Micheu e persino lo stesso Blaez sembravano sconfortati. Alla fine, Leandrus non aveva torto. Era stata colpa nostra.

- Dacci un taglio, Leandrus. Angus non avrebbe mai affidato quella mappa a qualcuno di cui non si fidava. Evidentemente, sapeva che sarebbe stata più al sicuro con loro che a palazzo Trenchard.

Ci voltammo verso la porta della stanza in cui Shemar era stato ricoverato. Lo vedemmo sulla soglia, appoggiato allo stipite. Portava ancora i capelli sciolti e le fasce che gli avvolgevano il fianco erano più doppie. Respirava a fatica, ma era determinato come sempre.

- Tsk. Sempre a difenderli, eh? Guarda la realtà dei fatti, Shemar! Siamo fuggiaschi, non sappiamo per quanto ancora potremo giocare all’allegra combriccola in continuo spostamento, Liger non ci ha ancora ammazzati tutti chissà per quale arcano motivo, e guarda… guarda, Shemar!

Alzò il braccio verso l’esterno, puntandolo in direzione del tumulo funebre di Zarvos.

- E’ questo che ci aspetta. E la colpa è loro. Che ti piaccia o no.

Abbassai lo sguardo. Non mi ero mai sentita così colpevole in vita mia. Ed era così maledettamente doloroso sapere che era la verità.

- Ad ogni modo, è andata così e non possiamo cambiare lo stato delle cose. Possiamo solo andare avanti, fino a quando avremo forze per farlo.

La voce di Rose subentrò a quella di Leandrus. Istintivamente, strinsi forte la mia pietra.

- E poi, c’è la questione della convergenza di cui parlava Liger.

- Convergenza?

Chiese Blaez. Rose annuì.

- Qualcuno sa niente a questo proposito?

Domandò, lanciando un’occhiata retorica a mio padre.

- Credo di potervi aiutare io, stavolta.

Rispose a sorpresa Livia, sollevandosi e scostandosi appena dall’abbraccio della mamma, ma rimanendole comunque accanto. Sorpresi, ci voltammo a guardarla, in attesa.

- Ne ho sentito parlare pochi giorni fa, proprio ad Adamantio. Ero a palazzo in attesa della cerimonia e ho sentito per caso un gruppo di dignitari che ne discuteva. A quanto pare, la convergenza è una sorta di allineamento astrale che ha a che fare con le nostre pietre. Quando si completa le Pièces raggiungono la massima potenza e anche il potere stesso della Croix du Lac aumenta. Credo che ne parlassero proprio in previsione di ciò che è accaduto durante la cerimonia.

Ripensai a quella sera, quando la Croix du Lac aveva sollevato il braccio verso il cielo e una luce scintillante si era sprigionata dal diamante che portava incastonato nel dorso della mano, librandosi verso il cielo e squarciando il velo di tenebra. Allora, aveva detto di non essere ancora forte abbastanza. Forse, si riferiva proprio alla convergenza.

- E perché Liger vuole le nostre pietre? Pensa che le impediremmo di restituire la luce a questo mondo se fosse davvero questo ciò che vuole fare?

Domandai. Livia mi guardò, pensierosa.

- No, non credo. Liger deve avere altri progetti…

Eyde portò le dita al mento.

- A proposito… qualcuno sa da che famiglia discende Liger? Voglio dire… è il nome o il cognome?

Domandò, all’improvviso. Lo guardammo increduli. A quanto pare, nessuno si era mai chiesto chi fosse e da dove fosse uscito. Le informazioni su di lui erano davvero misere. Guardai Damien, che aveva di nuovo la solita espressione meditabonda. Qualunque cosa avesse in mente, doveva avere a che fare proprio col comandante.

- Papà… tu hai combattuto contro di lui…

Dissi, rivolgendomi a mio padre, che mi guardò, annuendo.

- Se mi stai chiedendo se so chi possa essere… no, non lo so. Ma c’è qualcosa in quel ragazzo che mi fa pensare che nasconda molto più di quanto dia a vedere.

- Arabella… ha detto che lui la stava proteggendo…

Aggiunse la mamma, con esitazione. La guardammo.

- Mamma?

Sollevò lo sguardo, con le parole che sembravano morirle in gola, poi scosse la testa. I suoi occhi si fecero lucidi.

- Ah Dio, se Evan non fosse morto quella stessa, maledetta sera, penserei che sia proprio lui…

Ascoltammo quell’osservazione sbigottiti. Evan… Evan Liger? No… non era possibile.

- Però, se ci pensate…

Violet cercò di dire qualcosa.

- No!

Mi affrettai a rispondere.

- Io l’ho visto…

Sussurrai, stringendo il braccialetto d’argento di mio fratello.

- Ho visto Evan che veniva ucciso da Liger… e lui stesso me l’ha confermato. Insomma… non posso sbagliarmi… e poi Evan non avrebbe avuto alcun motivo di mettere in scena la sua stessa morte… perché poi? No… non voglio nemmeno pensarci… non è giusto… ha già sofferto troppo perché anche solo ipotizzare qualcosa di così assurdo possa essere contemplabile…

Mentre lo dicevo, mi ritrovai a cercare lo sguardo di mio padre. Anche lui, considerato morto dal mondo, si era nascosto dietro una nuova identità. Adam. E quell’Adam era un appartenente alla famiglia Rosenkrantz, colui che aveva preso il potere dopo che papà aveva rinunciato a governare Challant, ma che si era dimostrato favorevole al ritorno dei Valdes. Ma papà aveva un motivo più che valido per nascondersi. Sulla sua testa pendeva ancora una condanna per qualcosa che non aveva commesso. Evan non avrebbe avuto alcun motivo per fare qualcosa del genere. Mio fratello era morto prima ancora di giungere nell’Underworld. Chiunque diavolo fosse quel maledetto Liger, non poteva essere Evan. Mi rifiutavo anche soltanto di dare retta a quell’insinuazione.

- Ad ogni modo, non è l’identità di Liger che mi interessa, al momento. Se la Croix du Lac dovesse ottenere altro potere, finirà col sopprimere l’anima di Arabella. E dobbiamo impedire che questo accada.

Disse papà, guardando la mamma, che si risentì. Doveva essere incredibilmente preoccupata per la sorte di mia sorella e del resto, ora potevo capirla.

- Che Liger intendesse questo quando ha detto che il sangue della custode sarà versato?

Chiese Einer.

Shemar gli rivolse uno sguardo indagatore, mentre ci si domandava il senso delle parole di quel bastardo. E mi resi conto di non poterlo nascondere oltre. Il ricordo della visione in cui Amber veniva giustiziata era così vivido in quel momento che seppur cercassi di reprimerlo, continuava a tornare, quasi fosse un memento. Già, ormai non potevo più tergiversare.

- No. Non si riferiva ad Arabella…

Alzai lo sguardo, incrociando quello dei ragazzi, ma mi soffermai sugli occhi di Shemar, che intese. Vidi lo shock farsi padrone della sua abituale compostezza.

- Amber…

Sussurrò appena.

- Amber?

La voce di Blaez.

- E tu come fai a saperlo?

Mi domandò Leandrus, scettico.

- L’ho visto. Sembra che l’ametista sia in grado di farmi vedere anche cose che devono ancora accadere… non è così, papà?

Chiesi, guardandolo. Mio padre assentì. Anche lui, a suo tempo, aveva visto scorci del futuro.

- Sarà giustiziata per tradimento, al cospetto della Croix du Lac e della popolazione di Chalange. Servirà da monito per impedirci di portare avanti questa battaglia.

Quelle parole portarono il silenzio che si protrasse per diversi minuti. Tutti chiusi nei propri pensieri, tutti a riflettere sulle conseguenze di ciò che avevamo fatto, tutti preoccupati per il destino di Amber. Tutti soli con noi stessi. Alla fine, era questo ciò che la Croix du Lac voleva dimostrarci. La sofferenza avrebbe portato alla solitudine e avrebbe finito col generare sentimenti negativi. E questo era pericoloso. Il solo modo per venirne fuori era rimanere uniti. A sorpresa, fu papà a prendere le redini della situazione.

- Nuova generazione, voglio farvi una domanda.

Disse, richiamando l’attenzione.

Anch’io lo guardai. Il mio papà, dal portamento ritto ed elegante, serio e determinato. Anche solo osservarlo mi scaldava il cuore e riaccendeva in me quella speranza che in determinati momenti, sembrava volersi estinguere.

- Cos’è per voi l’eredità delle vostre famiglie?

Sulle prime, quella domanda sorprese un po’ tutti. Persino la mamma aggrottò le sopracciglia, perplessa, cercando di capire dove papà volesse arrivare. I ragazzi si guardarono tra loro, incerti. Sembrava quasi quasi di trovarsi davanti a una di quelle domande spiazzanti che il professore rivolge a tutta la classe, nel momento in cui si cerca di capirne il senso e fare appello alle proprie conoscenze per trovare la risposta che il professore si aspetta. Certo, per ognuno di noi, venendo da storie diverse con un denominatore comune, ovvero l’aver subito in qualche modo allontanamenti più o meno definitivi dalla propria famiglia, quella domanda poteva avere diversi significati. C’era chi come Rose e Ruben aveva visto la propria casata egemone sul proprio territorio. C’era chi come Blaez aveva potuto mantenere dei privilegi che gli avevano consentito di indagare e scoprire cosa stava realmente accadendo dietro le quinte. C’era chi come Livia aveva perso la propria famiglia in un incidente e aveva ereditato un titolo del quale aveva dovuto portare il peso sulle fragili spalle. C’era chi come Shemar, Leandrus, i ragazzi di Ruben, Micheu, aveva deciso di mettersi al servizio di quelle stesse famiglie. C’era chi come Damien e Jamie, aveva vissuto in un mondo diverso e solo di recente aveva scoperto che dietro alle menzogne c’era una storia complicata e ne aveva ereditato il fardello. E io non ne ero esente. Fu Rose a parlare, alzandosi in piedi.

- Siamo i nobili della nuova generazione, eredi legittimi delle nostre casate e della sofferenza delle nostre famiglie. I nostri genitori hanno patito un destino infame, giudicati senza regolari processi, sterminati sotto i nostri occhi. Siamo i custodi delle loro storie, della loro voglia di riscatto e di vendetta. Siamo coloro che vogliono porre fine al dominio della Croix du Lac e vogliono che sia fatta giustizia. Esatto. E’ questa per noi l’eredità delle nostre famiglie. La giustizia. Non è così, ragazzi?

Chiese, voltandosi verso di noi. Sorrisi, pensando che Rose Rubinia Cartwright aveva carisma da vendere. Quella ragazza, così diversa da Amber, eppure altrettanto determinata, era davvero straordinaria. Il suo tono sicuro riuscì a rincuorare anche i ragazzi, che annuirono.

- Mia sorella ha ragione. Noi siamo i Lord delle Pièces. Al diavolo Liger, la Croix du Lac e i loro progetti, noi ci riprenderemo il nostro mondo! E anche Zarvos verrà vendicato!

Esclamò Ruben, con un ritrovato senso bellico.

- Ben detto, Ruben.

Disse Blaez, rivolgendo un sorriso complice al ragazzo che fondamentalmente, era un suo rivale nella scalata al potere. Ben presto, l’ottimismo tornò a farsi sentire. Anche se non tutti eravamo del tutto entusiasti, a cominciare da Damien e da Shemar. Raggiunsi papà, affiancandolo.

- Che volevano dire le tue parole, papà?

Mi guardò con la coda dell’occhio, poi osservò i ragazzi.

- Motivare una squadra è la prima cosa da fare se si vuole ottenere un risultato. Il solo modo era far leva sull’ingiustizia perpetrata in passato.

- Credi che basterà? Dopotutto, siamo solo noi e le guardie imperiali sono molte di più… già una volta la rivolta è stata stroncata…

- Lo so. Ma Ademar è morto. E l’oligarchia è composta da vecchi idioti incapaci di prendere decisioni di proprio conto.

- Però… non sono tutti così. Angus Vanbrugh ci ha aiutati… e anche Lord Oliphant…

Papà annuì.

- E’ per questo che ci serve anche il loro aiuto. E dobbiamo ottenerlo in fretta. Dal momento che la mappa non è qui, non possiamo fare altrimenti…

Poi, richiamò l’attenzione.

- Ascoltate. Questo è quello che ho in mente. Ma prima, Aurore, ho bisogno che tu mi dica esattamente cosa ti ha mostrato l’ametista.

Disse, incontrando i miei occhi. Non avevo bisogno di richiamare alla mente quelle scene. Erano impresse a fuoco ormai. Presi fiato, tornando a quel momento e nel silenzio generale, raccontai ogni cosa.

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Capitolo 55
*** XIX. 4 parte ***


 

Il giorno seguente, senza attendere oltre, eravamo già tornati a Chalange. Per Gourias fu difficile separarsi dal fratello, ma la voglia di vendicarlo prevalse. Quella notte, avevamo trovato tutti un motivo per non fermarci. Qualunque cosa fosse accaduta, avremmo continuato a combattere.

Quando arrivammo nella capitale, ci separammo. Ognuno di noi aveva un compito da portare avanti. La prima cosa da fare fu cercare Lord Oliphant e Angus. Dal momento che nella mia visione non c’erano, papà aveva ipotizzato che la Croix du Lac avesse preso provvedimenti nei loro confronti. E dal momento che né Blaez né Micheu potevano muoversi nelle residenze imperiali senza essere riconosciuti, furono i ragazzi di Ruben a mettersi alla loro ricerca. Leandrus e Hiram, invece, si occuparono di cercare supporto. Papà ci aveva raccontato che ai tempi della prima rivolta, i focolai di ribellione vennero stroncati da Ademar. Ma all’epoca, non c’era cooperazione d’alcun tipo tra le parti. Occorreva istillare il dubbio sulle intenzioni della Croix du Lac e in quel momento di sfiducia, considerando che lei stessa aveva fallito nel donare nuovamente luce a quel mondo d’oscurità, giocando bene le nostre carte, avremmo potuto far sì che vi fosse un’adesione molto maggiore rispetto al passato. La mamma, Violet e io ci occupammo di Shemar, che dal canto suo, era diventato insofferente. La pena per la sorte di Amber rischiava di diventare pericolosa per la sua stessa incolumità. Non potevamo rischiare che si desse a un’altra azione suicida. Per fortuna, la mamma fu convincente. E ancora una volta, ebbi la conferma che contro Celia Kensington non c’era nessuno in grado di spuntarla. Ruben e Micheu furono assegnati al reperimento delle armi. Avevamo ben poco con cui combattere e le spade in dotazione alla guardia imperiale erano sicuramente molto più efficaci di quelle che avevamo con noi. E poi c’erano Livia e Jamie. In quanto più piccoli, volevamo tenerli fuori, ma Livia per prima fu irremovibile. La sua voglia di vendetta su Liger aveva dell’irreale. Coadiuvati da Damien, si misero alla ricerca di indicazioni sull’ubicazione delle Pièces e sulla convergenza. Gran parte della conoscenza dell’Underworld, dopo la razzia e la distruzione operate dalla guardia imperiale, fu trasferita nella capitale. E speravamo, con un po’ di fortuna, che Angus fosse stato così furbo da preservare qualcosa che ci sarebbe potuto tornare utile. E poi c’era papà, che organizzava tutto nei minimi dettagli. Nel vederlo così concentrato nell’elaborare strategie e impartire ordini c’era qualcosa di affascinante. Così determinato e sicuro di sé, eppure pronto ad accogliere suggerimenti e obiezioni. E dentro di me riconobbi quel sentimento che già provavo per la mamma. Orgoglio. Ero fiera del mio papà e felice come non mai di poterlo vedere in azione, di poter partecipare a qualcosa assieme a lui. Ero al suo fianco e mi sentivo incredibilmente potente. E così, dopo un giorno e una notte trascorsi a preparare la nostra azione, finalmente giunse il momento che Liger aveva preannunciato.

- Amber… resisti, stiamo venendo a salvarti…

Mormorai, nel tirare su il cappuccio di tela del mio mantello color prugna. Dinnanzi a noi, la piazza gremita di gente che mormorava. In quello stesso luogo in cui la Croix du Lac si era mostrata annunciando che un nuovo Despota sarebbe stato eletto, si ergeva un palchetto. Un cordone di guardie imperiali fu messo di cinta e tra i mormorii e il vociare crescente gli oligarchi, Amelia, il professor Warren e la Croix du Lac fecero il loro ingresso. Calò di colpo il silenzio, non appena quel mostro crudele che possedeva il corpo di mia sorella alzò lo sguardo verso la folla. Sorrise con aria compunta, mentre tutti ci inchinavamo.

- Mi chiedo dove sia Liger.

Bisbigliò Damien, accanto a me. Lo guardai con la coda dell’occhio. Effettivamente, non c’era, così come non c’era nella visione che avevo avuto. Sentii una morsa al cuore al pensiero delle parole della mamma e scacciai quelle insinuazioni sulla presunta identità del comandante. Dovevo concentrarmi solo su Amber. E quando potemmo alzare gli occhi, il fiato mi abbandonò. Avevo il cuore che batteva forte per la tensione. Amber era sul portone d’ingresso della cattedrale, con indosso il semplice abito nero e i capelli intrecciati. Aveva lo sguardo basso, fisso sui polsi legati. Istintivamente, carezzai i miei, pensando a quanto dolore stesse soffrendo. Certo, il dolore fisico era poca cosa se paragonato a quanto dovesse essere difficile per lei essere lì, pronta ad affrontare la morte senza il suo Shemar accanto. Pregai che più in là, Blaez fosse forte abbastanza da trattenerlo a sufficienza per evitare che compisse qualche sciocchezza. Guardai verso la destra della cattedrale, verso il cordone, cercando di scorgere qualcuno. Ma c’era troppa gente. E papà era stato ben chiaro. Non ci sarebbero state parole. Quando il plotone si piazzò esattamente alle spalle della folla, Amber vi fu condotta davanti, al centro preciso. Alzò il viso, contratto dal dolore, mentre una lacrima incrinò la sua compostezza. La Croix du Lac sedette al centro del palchetto, quando l’incaricato, al lato dello stesso, invocò il silenzio, leggendo la condanna a voce alta e ben ferma.

- Amber Trenchard. Siete dichiarata colpevole di alto tradimento, cospirazione contro Adamantio e di lesa maestà. Siete pertanto spogliata dei vostri titoli di duchessa di Shelton e di custode dell’ambra e condannata alla pena di morte per trafiggimento. Dopo la vostra esecuzione, il vostro nome sarà cancellato dagli annali della storia e le vostre proprietà saranno date alle fiamme e distrutte per sempre. Avete un’ultima cosa da dire?

Gemetti, mentre quelle parole che avevo già sentito risuonarono con forza e crudeltà rese ancor più vivide dalla realtà. Ma dovevo fidarmi di ciò che stavamo facendo, perché solo in quel modo avremmo potuto salvare la nostra amica. Tutto intorno, la platea era in silenziosa attesa.

Amber si rivolse alla Croix du Lac, che osservava quella scena con aria compiaciuta. Del resto, mi aveva avvisata. Avrebbe fatto in modo di farci patire il suo stesso destino. E aveva deciso di cominciare proprio da Amber. Sarebbe stata un monito, nelle sue intenzioni. Per noi, quel giorno sarebbe stato un monito per la stessa Croix du Lac. Non avrebbe dovuto sottovalutarci. Da quella prospettiva, la voce di Amber si udì tremante più che mai. Ma sapevo cos’avrebbe detto.

- Dite soltanto a Shemar… ditegli che lo amo più della mia stessa vita… e che avrei tanto desiderato vivere con lui per sempre, nel mondo per cui abbiamo tanto combattuto.

Poi, riprese fiato e si voltò verso il plotone. La Croix du Lac sollevò il braccio, proprio come avevo visto, mentre gli arcieri del plotone puntavano le frecce verso Amber. Trattenni il respiro e chiusi gli occhi, in attesa del momento che avrebbe segnato la differenza tra ciò che avevo visto e ciò che sarebbe accaduto. E così, mentre l’atmosfera tutto intorno si caricava di tensione, mi ritrovai a sperare che da qualche parte, mio fratello fosse lì, a guardarci, a vedere in che modo avremmo cambiato quel mondo. Evan… sarai fiero di me…

Alzai lo sguardo mentre la Croix du Lac abbassava il braccio. Era quello il segno. Un boato di sconvolgimento si alzò quando gli arcieri cambiarono direzione, puntando le frecce verso la Croix du Lac, che ne fu sorpresa. Gli oligarchi balzarono in piedi, increduli, invocando l’intervento delle guardie imperiali. Ma il cordone di guardie non si mosse in loro difesa. Al contrario, puntarono le spade verso di loro, circondandoli. Persino il professor Warren era rimasto senza parole. Sorrisi, quando Damien mi disse di andare e la folla si agitò, creando scompiglio. In quella situazione, mantenere l’ordine era impossibile. Amber si guardava intorno, sconvolta. Nemmeno nelle sue più rosee previsioni avrebbe potuto pensare in qualcosa del genere. Quando giungemmo verso il sagrato, papà fece la sua mossa, piombando proprio alle spalle della Croix du Lac e afferrandola per le spalle, come se volesse prenderla in ostaggio. E il popolo trasalì, lanciando urla che alimentarono la confusione.

- Adamantio! Vi chiedo di ascoltare la mia voce!

Gridò. Grazie all’acustica del luogo, che permetteva di essere uditi a distanza, la voce profonda di papà risuonò forte e chiara, costringendo la popolazione al silenzio.

La Croix du Lac strattonò, cercando di liberarsi. Mormorò qualcosa, ma non riuscii a capirla, nonostante ormai fossimo prossimi a loro. Papà, il viso nascosto dalla maschera, non si lasciò intimidire.

- Per tutti questi anni, questo mondo ha vissuto nell’oscurità. Vi fu detto che il motivo fu il furto dell’ametista. Ebbene, è vero. Ma non è tutto. Vi è stato taciuto il più. Ciò che c’era dietro. Il Despota Ademar Valdes aveva condizionato le sorti di questo mondo nel momento stesso in cui aveva ordinato alla squadra di difesa di sterminare i superstiti della prima famiglia. A perpetrare quel massacro fu colui che oggi è su questo palco di morte. Il conte di Agen, Lionhart Warrenheim.

Nel pronunciare il nome completo del professore, l’attenzione dei più finì per focalizzarsi sullo sguardo sopraffatto di quell’uomo, che indietreggiò, puntando il dito tremante contro papà.

- Come… come puoi dire una cosa del genere?! Tu… tu che sei tornato dal regno dei morti?! Mente! Egli mente!! Quest’uomo… il Cavaliere Nero non è altri che…

Guardai verso mio padre, temendo per la sua incolumità ora che il professore stava per rivelare al mondo chi fosse. Cosa sarebbe accaduto una volta che il mondo avesse saputo che Greal Valdes era ancora vivo? La Croix du Lac sorrise, consapevole dello scacco matto incipiente.

- … Colui che ci ha ridato la speranza nel futuro. Colui che ha aperto un varco sull’oscurità calata diciassette anni fa. Il Cavaliere Nero ci ha rivelato la verità!

Ci voltammo sorpresi verso il cordone. Chi aveva parlato, una guardia imperiale, aveva appena scagionato mio padre, elogiandolo. La guardia tolse la maschera, suscitando perplessità. Era un giovane di almeno vent’anni o giù di lì. A quel punto, nella silenziosa confusione generale, si udì la voce di una madre che aveva riconosciuto il figlio. E ben presto, anche gli altri imperiali tolsero le maschere, rivelando uno a uno i loro volti. Figli del popolo che non voleva più subire. Si sollevarono urla di stupore infinito, di gioia, alle volte, di entusiasmo. Persino Amber era incredula, soprattutto quando gli arcieri del plotone abbassarono i cappucci e tolsero le maschere, rivelando i volti di Leandrus, Einer, Eyde, Gourias e altri ragazzi di cui non conoscevamo l’identità. Amber sorrise, commossa, correndo da loro. Leandrus la liberò, sorridendo come avevo visto di rado, se non mai. E poi, le indicò qualcuno che la aspettava, dietro le guardie che ormai prive della maschera, continuavano a tenere sotto scacco gli oligarchi. Amber sgranò gli occhi, sconvolta. E per la prima volta da quando la conoscevo, la vidi scoppiare in lacrime e correre, finalmente libera, tra le braccia del suo Shemar. Sorrisi sentendo una gioia indescrivibile crescere nel mio cuore, quando li vidi insieme, finalmente. Si dissero qualcosa, stretti in quell’abbraccio che esprimeva tutto il loro amore. E poi, finalmente affrancati da tutte le condizioni che avevano impedito loro per lungo tempo di amarsi così come doveva essere, Amber e Shemar si scambiarono un bacio colmo di passione, mentre le guardie attorno a loro, i compagni di Shemar, ridacchiando, li adombrarono alla vista di occhi indiscreti.

- Aurore.

La voce di Damien mi riportò al pensiero di ciò che stava accadendo. Papà aveva preso con sé la Croix du Lac, continuando a raccontare al popolo incredulo la verità su ciò che accadde davvero diciassette anni prima, mentre Amelia, approfittando del momento di distrazione delle guardie compagne di Shemar, era riuscita ad allontanarsi, rientrando nella cattedrale.

- Sta scappando, Damien!

Esclamai, incontrando il suo sguardo. Damien non ebbe esitazioni.

- Andiamo.

Disse semplicemente.

E così facemmo, riuscendo a intrufolarci nella cattedrale mentre all’esterno, l’eco della voce della verità era più vivo che mai.

 

Quando fummo all’interno della maestosa cattedrale dalle alte volte che richiamavano lo stile gotico, almeno nella struttura principale. Non avevamo tempo per fermarci, ma quel luogo era così permeato di storia che anche solo averne varcato la soglia fu come essere stati catapultati nel susseguirsi delle epoche di quel mondo. Eppure, non c’era traccia di Amelia. Era stata veloce.

- Di qua!

Damien era perentorio e impaziente. Sapevo che ogni secondo che passava era prezioso per lui. Non voleva perdere altro tempo e lo capivo bene. Il nostro scopo era trovare la mappa. Di Angus purtroppo, i ragazzi di Ruben non avevano trovato traccia.

- Come fai a sapere che è la giusta direzione?

Domandai, quando Damien si fermò davanti a una parete affrescata che riproduceva con dovizia di particolari un’incoronazione. A giudicare dagli abiti che quel Despota passato portava, doveva risalire almeno a duecento anni prima. Damien toccò la parete, alla ricerca di qualcosa che la facesse scattare, immagino.

- Ho studiato. E tuo padre mi ha dato qualche dritta.

Sorrisi. Mi faceva piacere che fossero d’accordo.

Tuttavia, fummo sorpresi dall’entrata nella sala principale di alcune guardie che non erano di certo parte del cordone. Qualcuno doveva essere riuscito a chiamare i rinforzi.

- Dannazione… quelli non promettono niente di buono…

Mormorai.

- Merda. Dove diavolo…

- Damien…

- Voi due!

- Oh cavoli…

Preoccupata, cercai qualcosa con cui tenere impegnate le guardie che ci avevano raggiunti.

- Ehm… che ne dite di parlarne con calma, ragazzi?

Suggerii.

Per tutta risposta, le guardie ci si rivolsero contro. Damien mi spinse dietro di sé, mollando la sua occupazione e sguainando la spada. A quel gesto, le guardie risero. Una di esse si fece avanti.

- Ma guarda… non è forse Lord Ealing il ragazzino?

- Warren. E per te sono il despota.

Damien storse il muso, facendo ruotare la spada, pronto a lottare.

- Cerca una leva che faccia aprire quel muro, Aurore!

- S-Sì!

Mi misi subito all’opera, mentre Damien affrontò le guardie intervenute. Cercai di non distrarmi, nonostante il clangore delle spade fosse più forte a ogni fendente vibrato. Tastai ogni singolo centimetro di quel muro dannatissimo sperando di trovare la leva che diceva Damien.

- Dove diavolo…

- Lady dell’ametista!

La voce di una delle guardie imperiali mi fece inavvertitamente scostare la mano che finì dritta sulla corona del Despota. A quel punto, mi voltai, sentendo una specie di tassello muoversi verso l’interno. La guardia mi puntò contro, sfuggita all’attacco di Damien, che fece appena in tempo a voltarsi.

- Aurore!

Urlò e io gridai a mia volta, abbassandomi, mentre la parete cominciava a muoversi. Damien spinse all’indietro le due guardie che l’avevano attaccato, correndo contro quella che stava per colpirmi.

- Warren! Mai distrarsi!

Alzai appena lo sguardo verso la voce maschile che aveva appena ripreso familiarmente Damien. Quest’ultimo sogghignò, ingaggiando battaglia con la guardia che mi aveva preso di mira. Sorrisi, mentre il passaggio si era aperto del tutto, quando vidi Amber e Shemar, spade alla mano, intervenire in nostra difesa.

- Amber, Shemar!

Esclamai.

Entrambi furono piuttosto veloci nel mettere fuori gioco gli avversari. E per di più, duellando insieme, sul serio, mi fecero venire in mente la volta in cui li avevo visti combattere per la prima volta, a palazzo Trenchard. Poi fu il turno di Damien, che con più fatica, alla fine vinse lo scontro. E quando ci ritrovammo tutti insieme, finalmente potei riabbracciare la mia amica.

- Grazie al cielo, Amber…

Sorrisi e lei fece altrimenti.

- Grazie a voi, Aurore… se non fosse stato per tutti voi, ora…

La commozione fece ancora capolino nei suoi occhi ambrati.

- Scusate se interrompo il momento, ma… Aurore, dobbiamo trovare Amelia e la mappa.

Mi richiamò Damien. Annuii, sciogliendo quell’abbraccio. Ma ero davvero felice per la mia amica. Finalmente, nel suo sguardo, c’era qualcosa di diverso. Come se quella maschera di compostezza che Rose aveva imputato all’insicurezza di Amber, si fosse infranta. Ora, vedevo soltanto la ragazza che aveva ritrovato la persona che amava. E mano nella mano con lei, non avrebbe più avuto motivo di temere. Shemar dette un’occhiata al passaggio, poi si rivolse a Damien.

- Proseguite per il corridoio principale. Arriverete alla sala dell’incoronazione.

Damien assentì.

- E’ lì che troverete la mappa. A quanto ho capito, può essere letta soltanto quando la convergenza ha inizio. Angus mi ha detto…

- Hai trovato Angus?

Domandai ad Amber, stupita.

- E’ prigioniero nelle cripte. E’ lì che stiamo andando.

Rispose.

Dunque, era quello il motivo per cui i ragazzi di Ruben non l’avevano trovato. Ma Amber, che era stata prigioniera a sua volta, doveva averlo incontrato, evidentemente.

- State attenti, ragazzi…

Dissi.

Sia Amber che Shemar annuirono.

- Aurore.

La voce di Damien. Ci incamminammo verso il corridoio, pronti a imboccarlo, quando Shemar ci richiamò ancora una volta.

- Ehi, Warren.

Damien si voltò inarcando il sopracciglio.

- Shemar, non abbiamo tempo da…

- Soltanto un’ultima cosa. Qualunque cosa accada, non perdere mai di vista l’avversario. Mai. E vai fino in fondo, senza voltarti.

- Shemar…

Mormorai, intenerita. In tutto quel tempo, Shemar e Damien avevano instaurato un legame. Per il cavaliere di Amber, definire il concetto di amicizia era praticamente impossibile, ma in quel momento, quelle parole erano ben oltre il consiglio di un maestro per il proprio allievo. Era il consiglio di un amico, complice il tono affezionato con cui lo disse. Damien rimase a fissarlo per alcuni istanti. Probabilmente, quelle parole dovevano averlo stupito. E considerando che l’ultima volta che si erano trovati a parlare, l’aveva accusato di essere uno stupido suicida, avevano fatto grandi progressi. Poi sul volto del mio despota apparve il sogghigno di sfida che conoscevo bene.

- Con chi credi di star parlando, eh, Shemar Lambert? Ci vediamo fuori di qui.

E preso congedo dai nostri amici, Damien mi prese per mano, e avventurandoci insieme nel lungo corridoio sotterraneo che fungeva da passaggio segreto tra la cattedrale dei Delacroix e il palazzo di diamante, giungemmo finalmente nei pressi della sala dell’incoronazione.

Non so dire quante sensazioni si stavano agitando tempestose nel mio animo mentre l’eco dei nostri passi in corsa si mischiava alle nostre voci mentre cercavamo di capire dove andare. Avevo paura. Sì, avevo paura che qualcosa potesse andare storto. L’ametista reagiva, il che era un segno di pericolo. E alla mia paura si sommava la perplessità di Damien nel non vedere guardie intorno. I ragazzi avevano fatto un buon lavoro, mettendo parte dell’esercito di Chalange contro l’Impero. La maggior parte delle guardie imperiali era formata da gente giovane e facilmente suscettibile. E solo pochi erano appartenenti all’aristocrazia. La maggioranza apparteneva a quello stesso popolo che si era rivoltato contro la Croix du Lac e contro le menzogne di Ademar e dell’oligarchia. Ma questo non bastava, secondo Damien, a spiegare perché il passaggio ci fosse stato pressappoco lasciato libero. Era come se qualcuno volesse farci raggiungere la meta. Amelia? La Croix du Lac? Peggio ancora… Liger? Quando finalmente varcammo la soglia della sala dell’incoronazione, là dove l’ultima volta Damien e il comandante si erano battuti, esattamente al centro della sala, vedemmo il leggio che ospitava la mappa.

- Damien, guarda!

Lo indicai, entusiasta. Forse dopotutto, mi stavo soltanto facendo troppi problemi. Magari, erano tutti impegnati all’esterno e non avevano pensato a proteggere la mappa.

Damien parò il braccio di fronte a me, che esitai.

- Che succede?

- Dov’è la fregatura?

Domandò, a voce alta. L’eco la fece sembrare più minacciosa del solito.

- Fregatura?

- Avanti, Amelia! Fatti vedere!

Mi guardai intorno, alla sua ricerca. Ma di Amelia, non sembrava esserci traccia.

- Magari è scappata…

- Non sarebbe stata così sciocca da andarsene senza un’assicurazione, Aurore.

Rispose prontamente.

- Rimani qui, in vista.

Ordinò, incamminandosi verso il centro della sala.

Obbedii incerta, nel vederlo procedere guardingo. C’era uno strano gioco di luci in quella sala, provenienti dalle cupole, che non avevo notato la prima volta che ero stata in quella sala. Era come se convergesse verso il centro e da lì si diramasse lungo l’imponente stemma a forma di diamante che percorreva tutto il pavimento di marmo perlato. E quando giunse al leggio, controllando la mappa, finalmente tirai un sospiro di sollievo. Durò poco, appena il tempo di inspirare, che sentii la lama fredda di un pugnale contro l’incavo tra la mandibola e la gola.

- Non ti conviene prenderla, Damien! Non se ci tieni alla puttanella.

Trasalii nel sentire la voce di Amelia alle mie spalle, soprattutto quando mi intimò di non muovermi.

Damien si voltò di scatto, spada in mano, sgranando gli occhi

- Amelia.

Ruggì.

Il braccio sinistro della Lady dello smeraldo mi cinse la gola.

- Sai, coniglietto… ho pensato molto in questi giorni… e sono arrivata a una conclusione…

Mormorò cantilenando. Scostai il viso, quando sentii la lama indugiare sulla mia gola. Dannazione, era davvero attratta dalla mia giugulare…

- Lasciala stare! Non sto toccando la mappa!

Urlò Damien. La sua tensione era pari soltanto alla mia. Da dove diavolo era uscita? Nella sala non c’erano antri nascosti. E poi mi sovvennero le colonne. Forse si era nascosta dietro la prima, che avevamo oltrepassato senza rendercene conto.

- C-Che cosa vuoi, Amelia?

- Siamo rimaste solo noi due. E so che non voglio essere io quella che morirà oggi.

Sgranai gli occhi, sentendo l’ametista premere forte contro il mio petto. Damien cercò di raggiungerci, ma Amelia mi strattonò, tirandosi indietro.

- Non ci provare nemmeno, Damien. Se soltanto avessi accettato il tuo passato, a quest’ora saresti su quel trono e questo mondo sarebbe nelle tue… no, nelle nostre mani!

- Credi che questo mi interessi?! Lascia libera Aurore! Lei non c’entra niente! E’ dipeso solo da me! Non è certo questo il mio mondo! La sola cosa che volevo era ritrovare mio fratello!

- E avresti potuto farlo anche con me! Ma hai preferito questa ragazzina!

Sbraitò, sciogliendo la presa e afferrandomi per il collo.

- Dam-- 

Vidi solo l’orizzonte vorticare e subito dopo sentii il gelo del pavimento sotto la mia guancia. Amelia scoppiò a ridere. Quella ragazza era totalmente fuori controllo ormai. Senza alcuna grazia, mi stava trattando allo stesso modo in cui aveva trattato Amber. Con la differenza che allora non aveva un’arma in mano. Sentii la pressione del suo piede contro la mia schiena e le unghie affondare nel mio collo nudo. Urlai. Al dolore fisico si aggiunse quello psicologico dovuto alla sopraffazione. Troppo. Mi venne da piangere, persino quando sentii Damien correre verso di noi, imprecando contro Amelia.

- Non un altro passo, Damien Ealing!

Riprese, a voce talmente stridula da sembrare inumana.

- Warren! Mi chiamo Damien Warren, Amelia Dobrée!

La riprese a sua volta Damien. Chiusi gli occhi quando sentii Amelia mollarmi senza farsi problemi e scostarsi. Allo stesso modo, Damien si lanciò all’attacco, e a giudicare dal suono velato della spada che fendeva l’aria, era alquanto arrabbiato. Quando potei tirarmi su e riuscii a riaprire gli occhi, lo vidi fuori di sé, mentre costringeva Amelia a indietreggiare, verso il centro della sala.

- Perché?! Perché fai questo per lei?!

Protestò Amelia, cercando di difendersi.

- Perché la amo! Perché è la ragazza con cui ho scelto di stare e perché non permetterò a nessuno di portarmela via! Ma immagino che queste cose tu non le capisca!

Rispose, con una foga alquanto inaspettata.

Arrossii, cercando di non piangere di nuovo, ma quelle parole mi avevano davvero colpita. Pensavo che Damien non fosse bravo a esprimere i suoi sentimenti se non con i gesti, ma ancora una volta, mi sbagliavo. Amore mio

- Menzogne! Io le capisco! E ti avrei amato, molto, molto di più di lei!

Con un gesto disperato, Amelia gettò a terra il pugnale e smise di schivare gli attacchi di Damien, che affondò la spada dritto a un soffio dal suo viso. Rimasero entrambi in quella posizione, fissandosi, vicini, così somiglianti l’uno all’altra. L’ultima volta che era accaduto, Amelia aveva potere su Damien. Ora era il contrario. Lui avrebbe potuto ucciderla, se solo l’avesse voluto. La luce che filtrava debole dalle cupole di cristallo, illuminava appena loro e il leggio alle loro spalle.

- Ti prego… non lasciarmi morire.

Sussurrò Amelia.

La voce di Damien, al contrario, era fredda.

- Nessuno morirà.

Era una promessa? O convincimento? E perché Amelia aveva detto che eravamo le sole rimaste? La foglia di smeraldo era ancora lì, incastonata nel suo pendente e brillava. Amelia aveva paura. Singhiozzai, detestandomi perché in quel momento, non potevo non pensare che quella ragazza mi faceva pena. Chissà cosa le era accaduto per diventare così. Rose aveva detto che aveva sempre avuto bisogno degli uomini per sopravvivere. E del resto, anche lei mi aveva confidato di aver dovuto usare bassezze per mantenere il suo status. Ma quei compromessi, alla fine, l’avevano portata a perdere tutto, comunque. Damien sollevò il viso. Vedevo la sua espressione adirata e non potevo far altro che comprenderlo. Era stato ingannato e non voleva farsi prendere di nuovo in giro. Ma d’altro canto, Amelia era la sola rimasta della sua famiglia. Il solo legame col suo vero passato. Abbassò la spada, rimanendo lì, davanti a lei, che continuava a singhiozzare. Facendomi forza, mi alzai e mossi qualche passo verso di loro.

- Damien… mi dispiace così tanto…

Sussurrò Amelia. Damien distolse lo sguardo.

- So di non avere alcun diritto di chiederti perdono… ma ero terrorizzata…

- E questo ti autorizza a cercare di uccidere qualcuno?!

Tuonò in risposta, voltandosi nuovamente verso di lei. Se avesse potuto incenerirla con una sola occhiata, Amelia avrebbe fatto una brutta fine già in quel momento.

- M-Mi dispiace, i-io…

Amelia scosse la testa, tirandosi indietro.

- Se vuoi fare una cosa buona, sempre ammesso che tu ne sia capace, cugina, allora… che ne dici di consegnarmi il tuo smeraldo?

Un brillio sinistro comparve negli occhi verdi di Damien. Conoscevo quello sguardo e conoscevo anche quel tono di voce così mellifluo. Quando voleva, Damien sapeva bene come manipolare la gente e questo lo faceva somigliare tanto a Liger, in un certo senso. Tese la mano verso di lei, inclinando il capo appena per mostrarle un sorriso. L’aveva chiamata cugina, stava insistendo sul loro legame per ottenere ciò che voleva. Amelia chinò la testa. Passarono interminabili attimi, quando infine, la Lady dello smeraldo acconsentì e tolse la collana che le cingeva la gola. Non appena la sollevò, la foglia di smeraldo brillò. Damien era lì, pronto a prenderla, quando vidi qualcosa che suonò come un campanello d’allarme. Amelia stava sorridendo. E compresi. Se Damien avesse toccato la pietra, gli sarebbe accaduto qualcosa di brutto.

- Damien, non toccarla!

Damien sobbalzò, tirando all’istante la mano indietro e rialzando la sua spada. Amelia, ancora in quella posizione, si mise a ridere.

- Che significa?!

Protestò Damien, rabbuiandosi.

Amelia strinse il ciondolo tra le dita.

- Credevi davvero che mi sarei liberata così facilmente di ciò che fa di me il capo della famiglia Dobrée? Damien… se tu mi avessi sposata, lo smeraldo sarebbe stato di nuovo tuo… ma hai preso la tua decisione. E la colpa di tutto questo… ciò che non sarebbe mai dovuto accadere… la responsabile è soltanto quella dannata ragazzina insolente! Aurore Kensington!

Amelia ruggì il mio nome con odio, tremando per la rabbia. Rialzò lo sguardo, afferrando la spada di Damien senza curarsi di prenderla dalla lama. Damien reagì, ma Amelia non si fece intimidire, e al contrario, riuscì perfino a togliergli la spada di mano, usando la torsione. Sgranai gli occhi sconvolta, quando la vidi ridere follemente nonostante la mano sanguinante. Non avevo mai visto nessuno agire con così tanta crudeltà, Livia a parte. Ma mentre Livia era stata raggirata da Liger, Amelia sembrava totalmente in balia delle sue emozioni perverse. Sul suo volto si aprì uno spaventoso sorriso.

- Tu… muori!

Urlò, sollevando il braccio a mezz’aria. La lama e lo smeraldo brillarono insieme, mentre Damien, che aveva inteso la sua intenzione, fece per fermarla. Fu un attimo e lo vidi esitare all’improvviso. Era come se avesse visto qualcuno. Terrorizzata com’ero, quando incontrai il suo sguardo incredulo, non seppi cosa fare.

- Rimani ferma. Non ti muovere.

Il mio cuore si fermò. Quella voce… minacciosa, pericolosa, tanto odiata e a volte quasi familiare. Vidi solo la lama della sua spada lanciata a folle velocità contro Amelia e il sigillo della Croce di diamante sul soprabito bianco.  Liger… Avevo visto diverse persone morire da quando ero giunta in quel luogo. Mai nome fu più adatto. Underworld, il mondo sotterraneo, il regno dei morti. Quante persone avevano perso la vita e avevo pianto da allora? Ma mai, mai qualcuno aveva ucciso in quel modo per me. Liger mi oltrepassò, nello stesso istante in cui la sua spada si conficcò nel petto di Amelia, con violenza assurda. Lo shock sul volto di Amelia finì col cristallizzarsi in una muta espressione di sgomento, mentre cadeva, all’indietro, portando con sé lo smeraldo, la spada di Damien e lo stesso leggio, sporcandoli col sangue che ben presto colò dalla ferita aperta. Damien, accanto a lei, rimase senza parole. E come dargli torto? Aveva appena assistito alla morte di sua cugina senza fare nulla. Liger, al contrario, si diresse verso il centro della sala dell’incoronazione, ignorando totalmente Damien, pronto a prendere la sua ricompensa. Dove diavolo era stato fino a quel momento? Possibile che fosse questo ciò che attendeva? Mi voltai verso il portone, che era rimasto aperto. Quando era entrato? E Amelia, non se n’era accorta prima? Perché? Preda di tutta quella confusione, crollai a sedere, di nuovo, sopraffatta. Non avevo nemmeno più la forza di respirare. Liger si chinò, raccogliendo lo smeraldo e sfilando la sua spada dal corpo di Amelia. Quel gesto così privo di rispetto per quel corpo devastato, mi fece sentire male. Tutto intorno, il sangue si diffondeva in una pozza rosso scuro, quasi nero a causa della poca luce. Amelia rantolò un’ultima volta, prima di esalare l’ultimo respiro. Mi ritrovai a tremare, mentre Liger si voltò verso Damien, che lo fissava con occhi sbarrati.

- Ti prego, no…

Sussurrai.

Fino a poco prima, stava andando tutto bene… era per questo che l’ametista pulsava? E io avevo ignorato il suo avvertimento. Damien non disse nulla. Solo quando Liger si voltò nuovamente, verso di me, solo allora lo vidi recuperare la sua spada.

Quando il comandante mi fu di fronte, alzai lo sguardo. Alla fine, aveva ottenuto tutto. Gli mancava soltanto la mia ametista e allora nulla l’avrebbe più fermato. Indipendentemente dal risultato che avevamo ottenuto, Liger avrebbe avuto le gemme.

- E-Era Amelia… la custode?

Domandai, cercando di proteggere il mio ciondolo con la mano che tremava. Se avesse voluto, avrebbe preso l’ametista senza che fossi in grado di opporre resistenza, tanto ero sconvolta. Mi sentivo male e avevo la salivazione azzerata per la paura.

- O tu o lei. Eravate le sole ad avere ancora le pietre. Ho scelto la soluzione più immediata.

Rispose, chinandosi.

Ad averlo così vicino, non potevo non pensare alla mamma. Evan… perché diavolo continuava a tornarmi in mente? Evan non avrebbe mai ucciso qualcuno a sangue freddo… mai…

- Sai cosa voglio, Aurore.

Scossi la testa, sentendo gli occhi pungere.

- N-Non posso… l’ametista… è…

- E’ tua, lo so. E dal momento che è così preziosa per te, non te la toglierò con la forza. Sarai tu a consegnarmela.

Stava sorridendo. Quel sorriso…

Scossi la testa ancora una volta.

- N-No… mai…

Non potevo farmi ingannare dai miei stessi sentimenti. Liger aveva ucciso mio fratello, non potevo lasciarmi confondere dalla sua stessa mancanza. Che fossero legati era indubbio, ma quel mostro crudele non poteva essere lui. No. Chiusi gli occhi, istintivamente, nel ricordo del mio Evan che sorrideva, gentilmente, l’ultima volta che eravamo usciti insieme, a Darlington. E poi lo vidi bambino, assieme ad Arabella che lo stringeva, in lacrime.

Il suo destino è nelle tue mani…

Singhiozzai, riaprendo gli occhi. Non mi ero accorta dell’ombra che ci aveva avvolti. Era stata questione di pochi secondi. Damien era dietro Liger. Si ergeva, con la spada puntata alle spalle del comandante, che ancora inginocchiato davanti a me, non si era scomposto. Sollevai lo sguardo incontrando quello iracondo di Damien. Poche volte l’avevo visto così. Tratteneva la rabbia a stento.

- Damien Warren… vuoi uccidermi?

Domandò Liger, senza mezzi termini.

- Ah. Non hai idea di che sforzo stia facendo in questo momento per non infilzarti, maledetto  bastardo.

- Allora fallo. In questo modo la vittoria sarà tua.

Trasalii.

Damien strinse la presa, spingendo la punta della spada con più forza.

- Non credo che tu sia così stupido da volerla mettere sul piano del gioco. Qui non ci sarà alcuna vittoria. Questo mondo non ha tempo a sufficienza.

- C-Che vuol dire, Damien?

Domandai, confusa più che mai.

Damien mi guardò, poi trattenne a stento uno sbuffo nel riprendere il discorso.

- Diglielo tu. Le mentirai ancora? Anche davanti a quello sguardo?

Annaspai, nel sentire quelle parole. La testa mi stava scoppiando.

Liger sorrise.

- Allora? Hai ancora un minimo di dignità o l’hai mandata a puttane quando hai indossato quella stramaledetta maschera per la prima volta? Toglila o dovrò strappartela dal viso. E sai… in questo momento ho qualche difficoltà a essere preciso…

- Damien…

Mormorai, singhiozzando. L’ametista pulsava al ritmo del mio cuore, mentre la voce di Damien risuonava bassa e minacciosa in quella sala che aveva visto fin troppo sangue.

- Cosa speri di ottenere?

Chiese Liger, di rimando.

- La verità. E la voglio ora. Per questo mondo. E non che me ne freghi particolarmente, ma Aurore ci tiene. E a differenza tua, cerco di non deluderla.

- Mpf. Dopotutto, avrei dovuto saperlo che te ne saresti accorto, prima o poi. Quando l’hai capito?

Li guardai sconvolta. Le loro voci risuonavano totalmente estranee nella mia testa.

- Quando hai detto che Aurore non avrebbe avuto bisogno di qualcuno che la proteggesse. E dopo aver ascoltato un po’ tutta la storia. Ho soltanto collegato i pezzi. Ma c’è ancora qualcosa che mi sfugge.

- Sarebbe?

Damien sollevò il viso, guardando Liger dall’alto in basso.

- E’ per vendetta che lo fai? Per la tua famiglia?

Stavo per svenire.

Liger incontrò il mio sguardo, fissandomi attraverso la maschera nera.

- No. Non c’è modo per i morti di ritornare. E ad ogni modo, il passato sta per essere del tutto eraso.

- Mpf. Davvero ideale. Aurore.

Tornai a guardare Damien, che finalmente, si rese conto del mio stato incerto. Sospirò, recuperando la calma, poi abbassò gli occhi.

- Basta adesso. Evandrus Delacroix. No, Evan Kensington.

La tensione si allentò tutto ad un tratto e lasciai ricadere le braccia per terra. Il braccialetto d’argento di Evan tintinnò a contatto col pavimento. Mi sentivo del tutto svuotata. Come se d’improvviso mi avessero tolto un masso da dosso. Soltanto, continuavo a fissare Liger. Non riuscivo a distogliere lo sguardo da lui. Non c’era nient’altro intorno. Nemmeno Damien. Non sapevo nemmeno se stessi respirando. Il sorriso sul volto di Liger si spense. E quando portò le braccia all’indietro, sciogliendo i laccetti rossi che gli bloccavano la maschera sul viso, sentii la voce di Arabella, ricordando una delle prime volte in cui mi aveva parlato.

Lui è vivo… ti prego, salvalo…

Ansimai, quando la maschera nera cadde a terra, producendo un suono metallico che mi fece riaprire gli occhi alla vita. Liger… Evan alzò il viso, adombrato dai capelli scuri che portava appena più lunghi. Quando aprì gli occhi, l’amaranto che tanto conoscevo fugò ogni dubbio. Liger era Evan. Mio fratello. La mamma aveva ragione. Damien aveva ragione. Persino Violet… e Arabella aveva cercato di dirmelo sin dall’inizio… io ero stata la sola a rifuggire da quell’ipotesi, ostinandomi a negarla. Perché in cuor mio, mio fratello era la persona più perfetta che conoscessi. Il solo di cui non avrei dubitato mai, nonostante le sue bugie.

- Evan…

Sussurrai, stancamente.

Damien, dietro di noi, sospirò di nuovo, abbassando la spada.

Evan mi guardò. La sua espressione era inintelligibile. Era come se per tutto quel tempo avesse finito col costruire un muro anche con me.

- Perché?

Quante volte gliel’avevo domandato? E ora, quella domanda assumeva una sfumatura diversa, carica di significati che andavano il ben oltre una bugia detta per proteggermi. Ora, con quella maschera, era caduto anche il velo su tutto ciò che Evan aveva fatto come Liger. E d’improvviso mi sovvenne la volta che avevamo visto il Cirque du Soleil. Gli animali preferiti di Evan erano il leone e la tigre e lui stesso, qualche giorno più tardi, mi aveva rivelato, divertito, che c’era una nuova specie di ibridi che aveva un nome a metà tra il leone e la tigre. Liger. Che stupida a non averlo ricordato prima. Rantolai, tremando, ignorando del tutto le lacrime.

- Per il potere, Aurore. Per il potere.

Rispose.

Alla fine, quella domanda aveva trovato risposta.

Evan si alzò, voltandosi verso Damien. A vederli in quel momento, tutto sembrava diverso.

- Che vuoi fare?

Domandò Damien.

- Come hai detto, questo mondo non ha più tempo. Ora che il sangue della custode è stato versato, la convergenza ha avuto inizio.

- Intendi l’allineamento dei continenti che originariamente formavano il sistema di Esperia, vero?

Allineamento? Sistema di Esperia? Le parole di Damien erano del tutto nuove e dovetti fare uno sforzo per ricordare che aveva fatto delle ricerche del cui esito, però, non ci aveva ancora parlato.

- Davvero interessante, Warren. A quanto pare, non sei del tutto a digiuno riguardo alla storia di questo mondo, per essere uno a cui non frega niente.

Damien aggrottò le sopracciglia.

- Non tentare di rigirare le mie parole, Kensington. Non mi hai risposto.

Evan si voltò verso il leggio, raggiungendolo incurante del sangue di Amelia, che stava calpestando. Quando vi fu davanti, posò la mano con lo smeraldo sulla mappa.

- Il velo che si apre sulla verità… segui la strada che porta alla sorgente dello smeraldo… qui la foglia riposa…

Qui la foglia riposa… la foglia di smeraldo.

Alzai lo sguardo mentre mio fratello pronunciava con voce sicura il canto di Dourand. Lo smeraldo prese a brillare, quando Evan scostò la mano e si mise a leggere la mappa. Damien intanto, mi aiutò a rialzarmi. Lo strinsi forte, senza riuscire a dire nulla. Lui fece altrimenti, poi tornò a guardare Evan.

- Che diavolo stai facendo?

Domandò.

- Dourand, la terra dello smeraldo. Wiesen, la terra del lapislazzuli. Shelton, la terra dell’ambra. Camryn, la terra del rubino. Challant, la terra dell’ametista. E infine, Adamantio. Un tempo, prima ancora che i Delacroix varcassero la soglia di questo mondo, il suo nome era sistema di Esperia. Composto da sei continenti separati, questo mondo orbitava intorno a una stella ancor più antica del nostro Sole. Col passar del tempo, la stella finì con l’esaurire le reazioni energetiche, dando vita a una serie di calamità che influenzarono il geomagnetismo di questo mondo, provocando una spaventosa catena di eventi traumatici che portarono i continenti alla collisione. Affinché questo mondo non perisse, i precedenti abitanti decisero di utilizzare l’energia contenuta nei ponti di collegamento che in origine univano i continenti e che erano collassati. Incanalarono i flussi in dei sigilli, regolati da cinque pietre. Ciò che conoscete col nome di Pièces de la Croix. In questo modo, le collisioni ebbero termine e la situazione si stabilizzò. Ma non avvenne lo stesso per la stella che donava vita a quel mondo. E così, si decise di ricrearla artificialmente affinché gli fosse garantita la sopravvivenza.

Quale popolo avrebbe potuto avere a disposizione una tecnologia così avanzata da ricreare addirittura artificialmente una stella? In questo mondo che sembrava il Medioevo, per certi versi, come si poteva anche solo immaginare che esistesse qualcosa che nemmeno noi possedevamo? Guardai Damien, che storse la bocca.

- In altre parole, quella stella è la Croix du Lac, giusto?

Chiese.

Raggelai. Evan si voltò verso di noi.

- Il sigillo più antico, quello di Adamantio, nel cuore originale di Esperia, era quello in cui convergevano i flussi di energia. Affinché non vi fossero dispersioni, si decise di creare una sorta di involucro controllato artificialmente.

- Il lago… in cui le statue versavano acqua…

Mormorai, ripensando al mio sogno ricorrente.

Damien mi guardò.

- Croix du Lac… la croce del lago…

- Ciò che vedevi, non era altro che la materializzazione di come la coscienza dell’Underworld ha sempre considerato quell’involucro. Una visione alquanto poetica. In realtà, la Croix du Lac è pura energia. Il nucleo di quella stella. Tuttavia, gli eventi sfuggirono di mano agli abitanti di Esperia, che non furono in grado di controllare il potere sprigionato dalla Croix du Lac. Fu così che scomparvero, sterminati dalla stessa stella che avevano creato. Nel corso degli eoni a seguire, anche quel potere si stabilizzò e la vita rinacque. Fu allora che i Delacroix ebbero accesso a questo mondo. La prima famiglia, a cui seguirono le successive. In fuga da un mondo in guerra, i Delacroix trovarono le conoscenze del popolo di Esperia e le fecero proprie. Per questo l’Underworld, così come fu ribattezzato questo mondo, da coloro che credevano di aver raggiunto il regno dei morti, tornò a prosperare.

- Tuttavia, la figlia dei Delacroix venne rapita e sacrificata. Chi l’ha fatto credeva che la Croix du Lac fosse una divinità.

Aggiunse Damien.

Evan annuì.

- E’ così che è stata considerata nel tempo. Le famiglie fraintesero, ritenendo che fosse una divinità antica, quindi cominciarono ad adorarla. Ed è così che il mondo è andato avanti, anche nei secoli a seguire. Omicidi, incarnazioni continue. Fino a che l’ametista non è stata sottratta, rompendo quell’equilibrio che da tempo immemore garantiva la sopravvivenza a questo mondo.

Strinsi la mia gemma, inspirando profondamente.

- Quindi… è davvero colpa di papà, Evan?

Affilò lo sguardo, come se avessi detto qualcosa che alle sue orecchie suonava strano.

- Greal ha fat--  

- Papà, Evan! Nostro padre!

Sbottai, scostandomi dalla presa di Damien, che mi guardò stupito. Persino Evan lo sembrava. Mi morsi le labbra cercando di recuperare contegno. Dovevo essere forte.

- Parli con tanta cognizione di causa… racconti una storia passata con una naturalezza che mai ho sentito in te.

Mossi qualche passo verso di lui, sentendo Damien che scattava in difesa. Sollevai il braccio, fermandolo. Volevo, no, dovevo affrontare mio fratello. Tenergli testa, da sola. Evan sollevò il viso, attendendo. Amavo quel volto. L’avevo sempre amato, sin da quand’ero piccola. Mi ero fidata di lui. Sempre. Avevo mandato al diavolo la mia vita per cercare un modo per vendicare la sua morte. Mi ero fatta forte dei suoi ricordi, aspettando il momento in cui sarei stata forte abbastanza da uccidere Liger. Ma Liger aveva tolto la maschera e mi guardava, con quegli occhi amaranto che mi avevano sempre rassicurata, coccolata, protetta. Vittima e carnefice allo stesso tempo. Camminai per quella sala come chi andava al patibolo. E infine, fui di fronte a lui.

- Non mi importa conoscere tutte queste storie del passato. Ciò che conta, ora, è che questo mondo deve cambiare. E Arabella… nostra sorella, è preda della Croix du Lac che sta cercando di sopprimerla. Evan, lei ha detto che tu la stavi proteggendo e per tutto questo tempo ha cercato di avvertirmi sulla tua sorte. Però io… io non… non l’ho capito prima…

Evan era imperturbabile. Quella freddezza mi preoccupò.

- Sei anche tu sotto l’influsso della Croix du Lac?!

Domandai. La mia voce risuonò spezzata nella sala. Evan guardò in alto.

- Evan!

- Aurore…

La voce di Damien, dietro di me, più lontano.

Un ghigno comparve sul volto di mio fratello.

- Influsso, eh? Aurore, credi che sarei arrivato fino a qui se fossi stato controllato da qualcuno? No. Ho sempre fatto tutto da solo.

Abbassò lo sguardo, incontrando il mio. Era talmente severo che mi sentii in soggezione.

- Non puoi fare niente per cambiare le cose. Questo mondo sta per collassare. La convergenza porterà alla sua fine.

Sgranai gli occhi, incredula.

- Va’ via. Tu, Warren, la tua famiglia.

- Sei anche tu la mia famiglia, Evan!

Esclamai in risposta, sentendo il cuore esplodermi in petto. Quelle parole così distaccate erano come delle pugnalate.

- Mpf. Credevi davvero che mi fossi mai considerato tale? Sapevo bene che Celia mi aveva preso con sé per errore. Al mio posto doveva esserci Arabella. Io sono stato soltanto una tragica fatalità. Eppure, per tutti questi anni, non ho fatto altro che attendere il giorno in cui avrei varcato nuovamente la soglia di questo mondo, per vederne la fine, finalmente.

- Perché?!

Sbraitai.

- Per il potere, Aurore. Te l’ho detto.

- Che potere, Evan?! Dannazione, smettila di parlare in questo modo, non ti capisco!

Rantolai, afferrando la giacca del suo soprabito bianco.

- Guarda.

Ordinò, e io obbedii, alzando lo sguardo fino a vedere che la luminosità del cielo, attraverso le cupole, stava variando.

- Mio Dio…

- Che sta succedendo?!

Domandò Damien, alzando lo sguardo a sua volta.

- Durante la convergenza, il potere della Croix du Lac diventa più forte. E così, anche la sua capacità di controllare questo mondo.

- Questo significa che Arabella è in pericolo…

Notai, con terrore. E pensai che fuori dal palazzo imperiale, c’erano tutti i nostri compagni.

- Evan, ti prego! Devi aiutarci!

Esclamai, strattonandolo.

Mi guardò per un lungo istante, tanto che pensai che finalmente aveva ripreso a ragionare decentemente e non fosse ancora in balia del suo delirio di onnipotenza. La sua espressione si addolcì, tanto che mi provocò un tuffo al cuore. Con le dita, asciugò le lacrime che avevano solcato le mie guance, così come faceva sempre, quand’ero piccola. Sorrisi, sentendomi rincuorata. Era il mio Evan.

- Non voltarti, Aurore. Non farlo mai. Una volta che hai oltrepassato il limite, non puoi tornare indietro.

Sgranai gli occhi, appena in tempo per sentire un forte strattone al collo. Evan sogghignò, mostrandomi l’ametista nelle sue mani.

- Evan Kensington!

Damien pronunciò il nome di mio fratello con disprezzo. Rialzò la spada, mentre Evan mi spinse verso di lui.

- Vuoi sfidarmi, Damien Warren? Avanti, allora. Fatti sotto.

Disse, sguainando la sua spada.

- No!

Urlai, ma la mia voce rimase inascoltata. Damien mi oltrepassò, incurante del mio appello disperato. C’era qualcosa di spaventoso nel suo sguardo in quel momento. Era furioso. Ed Evan non fu da meno. Sotto ai miei occhi increduli, del tutto insensibili alle mie urla di protesta, Damien ed Evan si batterono. Avevano già duellato in passato, ma Evan si era fermato perché mi ero messa in mezzo al loro scontro. Stavolta, sul volto di mio fratello non c’era alcun segno di limitazione. Nella sala dell’incoronazione, sotto quel cielo il cui colore variava in continuazione, il clangore delle spade che si scontravano e il sangue della custode che aveva finito col dar vita alla nuova convergenza, vidi Evan combattere con la ferrea volontà di distruggere il suo avversario e Damien intenzionato a non lasciarglielo portare a termine. Voleva fermarlo, bloccare qualunque cosa mio fratello avesse in mente. Gridai terrorizzata quando Evan, con una finta, riuscì a colpire Damien, ferendolo alla spalla destra. E con altrettanto terrore, quando vidi Damien avventarsi contro di lui, pronto a colpirlo, temetti per entrambi. Perché? Perché eravamo arrivati a tanto? Perché Evan e Damien, le persone a cui tenevo di più, si guardavano come due belve feroci determinate ad ammazzarsi a vicenda?

- Smettetela, vi scongiuro!

Chiusi gli occhi, invocando la fine di quello scontro che non faceva altro che far scorrere altro sangue innocente. Ma non venne alcun aiuto. E infine, qualcuno cadde a terra, inerme. Col cuore spezzato, vidi che Damien aveva perso quel duello. A terra, accanto ad Amelia, impregnato del suo sangue e di quello della cugina, mentre Evan, un brillio ferino negli occhi, gli puntava la spada alla gola.

- Damien, no! Evan, ti prego! Ti prego!

- Coraggio. Uccidimi. Davanti ad Aurore, fallo. L’hai detto tu, una volta oltrepassato il limite, non si torna indietro. Avanti, macchiati di nuovo le mani.

Damien lo stava provocando deliberatamente.

Corsi da loro, quando finalmente il mio corpo fu in grado di rispondere ai comandi del mio cervello in panne. E sostenni Damien, scostando la spada di Evan con l’avambraccio.

- Non dargli ascolto!

Damien sgranò gli occhi.

Singhiozzai, incapace di articolare per bene le parole.

- Evan, ti prego… ti scongiuro, qualunque cosa ti sia successa… non dimenticare chi sei… tu… tu non faresti mai del male… a delle persone… innocenti…

Evan ci guardò entrambi.

- Innocenti? In questo mondo c’è molta più malvagità di quello che credi. Ma finché continuerai a guardare la vita con quegli occhi, Aurore, sarai cieca. Comincia ad accettare l’idea che non ci sia solo del buono nella gente. Altrimenti…

- Altrimenti cosa?!

Sbottai.

Evan sorrise, sollevando il viso. Mi faceva paura. Non l’avevo mai visto in quel modo.

- Altrimenti finirai per morire prima ancora di rendertene conto.

Mi si mozzò il fiato in gola. Damien imprecò. E alla fine, Evan agitò la sua spada per ripulirla dal sangue di cui si era macchiata. Sollevò poi la mia ametista e lo smeraldo, trionfante. Così come l’avevo visto quando aveva preso il lapislazzuli di Livia.

- Non ho altro da fare qui. Se volete scusarmi.

Con un profondo inchino, girò i tacchi e ci oltrepassò, camminando verso l’uscita.

- Evan!

Esclamai, nello stesso momento in cui lo fece Damien.

Evan si fermò, voltando appena la testa.

- Evandrus Delacroix. Sono Evandrus Delacroix. Evan Kensington è morto molto tempo fa.

Con quelle parole così taglienti, ci lasciò al nostro destino, mentre tutto intorno, l’odore del sangue era così forte da provocare la nausea. Damien e io rimanemmo in silenzio, per diverso tempo, scandendo il tempo che passava solo coi nostri respiri affannati. Solo dopo un’eternità, quando le urla dall’esterno ebbero termine, ci guardammo.

Aveva un taglio tra il collo e la spalla. Ancora un po’ ed Evan avrebbe potuto sgozzarlo. Quante ferite aveva ricevuto da quando eravamo giunti in quel mondo. Mi sedetti, cercando di aiutarlo, ma il dolore sembrava essere forte, tanto che aveva difficoltà a muoversi.

- Servono dei punti, Damien…

Mormorai, nell’esaminare la ferita. Damien scosse la testa.

- Vai, Aurore. Devi andare via di qui finché sei in tempo. Prendi Jamie con te, tu, tua madre… andate via…

Disse, con la voce rotta dalla difficoltà di respirare.

- No! Non ne ho la minima intenzione!

Riuscii a strappare un lembo del mio vestito di cotone, cercando di legarla attorno allo squarcio.

- Ti ho già lasciato una volta indietro e guarda che diavolo è successo… non lo farò di nuovo, Damien. Che tu lo voglia o no, io… io…

La mia voce si incrinò. Non voglio perdere nessun altro…

Damien sospirò, annuendo e poggiandomi la mano in testa. A quel gesto, scoppiai in lacrime.

- Ho capito, Aurore… risparmia le lacrime per dopo… ci sarà tempo per piangere…

Rantolò. Annuii, cercando di soffocare quel singhiozzo, e ci alzammo. Damien mi chiese di aiutarlo a togliere il mantello. Lo feci, prestando attenzione a non fargli male. Si avvicinò malfermo al corpo senza vita di Amelia, guardandola. In quello sguardo, vidi colpevolezza.

- Non è stata colpa tua…

Dissi, sostenendolo.

Damien non rispose, ma si limitò a posare il mantello sul suo corpo esanime.

- Addio, Amelia. Grazie… per avermi rivelato il mio passato.

Rimasi in silenzio mentre prendeva congedo dalla sola rimasta della sua famiglia biologica. E quando poi Damien si ricompose, mi guardò, con ritrovata determinazione.

- Andiamo.

Annuii, sperando di farmi forza. Dovevo riuscirci. Per fermare Evan.

Mentre percorrevamo i corridoi, a fatica, a causa del passo rallentato di Damien, sentimmo nuovamente delle urla provenire dall’esterno. Il grido si era alzato cumulativo, sorpreso, del tutto incredulo. Temetti di sapere cosa stesse accadendo. Damien suggerì di guardare da una delle feritoie che si aprivano nelle mura interne. Così facemmo e non appena riuscimmo ad affacciarci, entrambi rimanemmo senza parole. Evan aveva raggiunto il sagrato, senza curarsi di indossare nuovamente la maschera. Non voleva più nascondersi.

- No…

Mormorai, quando lo vidi raggiungere papà e la Croix du Lac. C’era shock sui volti di tutti gli intervenuti. Liger si era mostrato senza la maschera, provocando sgomento e dubbi su chi fosse realmente. Persino il professor Warren, nella cerchia degli oligarchi attoniti, era sconvolto. Ma fu nulla rispetto all’espressione della mamma, che aveva affiancato papà. Aveva sospettato che Liger fosse Evan, ma era convinta fosse morto. E ora, dava l’impressione di chi avesse visto un fantasma. Evan guardò papà, con aria compiaciuta, poi si voltò verso la popolazione di Chalange.

- Voi tutti.

Disse, a voce alta, sfruttando l’eco naturale come aveva fatto papà prima di lui.

- Vedo con piacere che vi siete accorti di quanto sia inutile tentare un colpo di stato. Rivoltarsi contro Sua Grazia, la Croix du Lac, è quanto di più deleterio possa esserci. Innaturale. Diciassette anni fa, Ademar Valdes perse il controllo, condannandoci. In questo, il Cavaliere Nero ha detto il vero. Sua Grazia era molto rattristata da quegli eventi e pertanto, aveva deciso di tornare nel nostro mondo, auspicando una nuova era. La nuova generazione, tuttavia, ha preferito agire per proprio conto, ignorando deliberatamente gli avvertimenti del passato, disonorando la memoria delle proprie famiglie, alleandosi con un uomo che nasconde il proprio volto di condannato.

Si alzarono brusii.

- Oddio, non farlo, Evan…

Mormorai, portando la mano al cuore.

- Greal Valdes. Tu che fosti accusato di aver scaraventato il nostro mondo nell’oscurità. Togli la maschera.

Damien mi strinse più forte. Gliene fui grata.

Mio padre, ignorando lo sconvolgimento generale che la rivelazione di Evan aveva appena suscitato, tolse la maschera, confermando al mondo che Greal Valdes era ancora vivo. La Croix du Lac sorrise. La mamma strinse forte papà e gli oligarchi si guardarono tra loro increduli. C’era addirittura chi urlò di aver davanti uno spettro.

- No, Greal Valdes è sempre stato vivo. Fu lo spettro della corruzione a portare l’oscurità in questo mondo, in passato. Ma ora, l’ametista che fu sottratta è tornata.

Evan sollevò la pietra, affinché tutti potessero vederla. L’originale, che si supponeva fosse in mano ad Amber, ma che invece, era sempre stata in mio possesso. Da qualche parte, i ragazzi dovevano essere shockati tanto quanto lo ero io.

- E adesso che la convergenza ha avuto inizio, questo mondo avrà finalmente una nuova guida.

- Non puoi farlo, non te lo permetteremo.

Controbattè papà.

- A dire il vero, ho già cominciato.

Rispose prontamente Evan.

- Underworld. Gli errori del passato non verranno più ripetuti. Da questo momento, le redini di questo mondo sono nelle mie mani.

Si alzò una nuova ondata di incertezza. Gli oligarchi protestarono.

- Non puoi farlo! Liger, non hai alcun diritto di avanzare pretese sul trono di Adamantio!

- Soltanto i membri dell’oligarchia possono ambire alla carica di Despota!

- Mai! Non accadrà mai!

- Spergiuro!

Seguirono altri commenti di quella stessa classe che aveva condannato mio padre senza possibilità di appello e che ora si era scagliata contro Evan, che non si scompose.

- Sapete bene che la Croix du Lac aveva intenzione di chiedere qualcosa ai candidati. Ma questi sono fuggiti, preferendo fomentare una ribellione del tutto inutile piuttosto che ascoltare la richiesta di Sua Grazia e contravvenendo al preciso ordine di non lasciare Chalange. Questo fa sì che essi stessi si siano dimostrati del tutto inadatti a servire il proprio popolo. Non è forse così, Milady?

Pose quella domanda voltandosi verso la Croix du Lac. Calò il silenzio, nell’attesa carica di devozione. Qualunque cosa fosse accaduta, il popolo avrebbe rispettato ciò che la loro millenaria guida avrebbe detto. E questo era pericoloso. La Croix du Lac raggiunse Evan.

- Avete ciò che ho chiesto?

Domandò, con aria solenne. Per qualche ragione ignota ai più, ma tristemente nota a noi, il tatuaggio sul suo braccio sinistro era più lucente. E temevo che Arabella non avrebbe potuto far nulla per fermare la Croix du Lac, in quel momento. Evan si inchinò, mostrandole le cinque gemme. Erano tutte lì, tutte nelle sue mani. Il popolo osservò attonito. I miei genitori e gli oligarchi erano impietriti.

- Molto bene.

Disse, sorridendo.

- Alzatevi, per favore.

- Evan…

Sussurrai.

- Dannazione…

Damien era pallido.

Evan obbedì, affiancandola.

- Sono il discendente nonché l’ultimo erede della prima famiglia, sterminata diciassette anni fa da Lionhart Warrenheim. Rivendico il titolo di Despota di Adamantio ed essendo in possesso dei cinque sigilli, chiedo a Vostra Grazia di concedermi il titolo di Despota Supremo.

- Despota Supremo?!

Feci eco. Damien strinse il pugno. Tutta la piazza in subbuglio ammutolì di colpo. Discendente della prima famiglia… l’ultimo erede… Despota Supremo…

La Croix du Lac annuì, prendendo la sua mano sinistra.

- Legittimo qui e ora il Despota Supremo dell’Underworld. Da oggi in poi, questo mondo ha una nuova guida.

Disse, con voce cristallina.

- Il mio nome è Evandrus Delacroix. E ordino che questa ribellione sia stroncata, ora.

Evan sollevò il braccio libero al cielo. In men che non si dica, uno stormo di orribili messi si chiuse intorno al sagrato. Le guardie imperiali che avevano tradito cercarono di proteggere la popolazione, rispondendo all’ordine di mio padre, deciso a contrastare Evan. Ma ben presto accorsero i rinforzi che evidentemente, Evan aveva ben pensato di tenere nascosti. Dall’alto, come un fiume nero, altre guardie imperiali giunsero impetuose, obbedendo all’ordine del nuovo Despota. Udii urla, vidi gente scappare terrorizzata. Provai strazio quando Evan ordinò di sterminare gli oligarchi. Damien urlò quando vide il professor Warren accasciarsi a terra. E terrorizzata, persi mio padre e mia madre, confusi nella folla che ormai senza controllo, cercava di sfuggire al massacro. Già… il cavaliere bianco che seminava morte e distruzione. Piansi. E guardai la Croix du Lac. Sorrideva, stridendo terribilmente con quella sola lacrima che aveva attraversato il viso di mia sorella.

Era la fine.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

*cough cough* Ehm... ok, tanto di cappello all'Oscuro che ha capito per primo chi si nascondeva sotto la maschera di Liger! <3 Ebbene sì, miei cari fan di Evan, stappate lo champagne! Soprattutto Red che è stata fiduciosa fino all'ultimo!! Sei una grande, davvero!! <3 Evan dovrebbe essere felice di avere fan come te!! ç_ç<3 Io son felice di essere arrivata finalmente a questo momento che, credetemi, attendevo di farvi leggere da tantissimo!! Ora che finalmente si gioca a carte scoperte, preparatevi a tutto! Come avete potuto notare, sta succedendo qualcosa legata alle Pièces. Cosa sarà dell'Underworld ora che Evan ha preso il controllo? Preparatevi al prossimo capitolo che si intitolerà... "Il nuovo Despota"! Aaaaw, non avete provato un fremito anche voi nella sala dell'incoronazione?? Mentre scrivevo quella scena avevo una tale tensione che a momenti stavo anche per piangere... comunque, fatemi sapere che ve ne sembra, e un grazie come sempre a chi mi segue! Ragazzi, siete straordinari!! Alla prossima settimana (e tifate per me che ho un esame dopodomani)!!

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Capitolo 56
*** XX - Il nuovo Despota (1 parte) ***


Hello guys! :) Ed eccoci qui al ventesimo capitolo... OMG, siamo alla resa dei conti! Mi aspettavo qualche parere in più sul finale dell'altro capitolo, a dire il vero, ma pazienza... tutti abbiamo da fare, vero? Comunque, son contenta che almeno ai miei carissimi recensori sia piaciuto! Grazie di cuore, ragazzi!! <3 Di seguito, ecco la prima parte, col confronto che dicevo all'Oscuro! Capirete praticamente tutto ora, soprattutto riguardo a come Evan sia riuscito ad arrivare dov'è arrivato e penso, riguardo alle sue intenzioni! Aaaaw, questo ragazzo è malefico! *_* Una nota: c'è un verso di una canzone "Canterò la prova che hai vissuto per coloro che non hanno nemmeno un nome": è tratta da Euterpe, Guilty Crown. Adoro quella canzone, mi è sembrata perfetta! <3 
Next time: preparate i... no, non dico niente! Alla prossima, buona lettura!! 











Detestavo la pioggia. Anche andare a scuola diventava triste quando si era subissati da quell’incessante scrosciare. Soprattutto se si era soltanto una bambina che aveva sempre amato le belle giornate luminose. Avevo sempre trovato uggiose le giornate in cui le nuvole adombravano il sole rabbuiando ogni cosa. Ma anche allora, avevo il mio sole personale. Evan mi tendeva la mano, invitandomi a fare una passeggiata alternativa. Riparati sotto ai nostri ombrelli, canticchiando canzoncine propiziatrici, saltando attraverso le pozze d’acqua e ridendo di noi quando finivamo per schizzarci, sfidavamo la sorte e il malumore passava. Evan adorava il profumo della terra bagnata. Diceva che gli ricordava qualcosa, ma non riusciva a ricordare di cosa si trattasse. E quando le nuvole finalmente si aprivano, lasciando il posto all’arcobaleno, sui nostri visi di ragazzini si apriva un sorriso che andava da un lato all’altro. Allora chiudevamo gli ombrelli ed Evan mi teneva stretta a sé, contemplando i colori così nitidi e ricordandomi che anche alla fine di qualunque tempesta, sarebbe spuntato sempre un arcobaleno. Ma in quel momento, non vedevo alcun arcobaleno. Solo un cielo minaccioso nei suoi colori indefiniti.

Damien e io eravamo scappati dal palazzo imperiale, portando con noi la mappa di Angus. Erano trascorse due settimane da quando mio fratello aveva gettato la maschera di Liger e si era fatto proclamare Despota Supremo dell’Underworld. Due settimane passate a fuggire, a nasconderci, a cercare di ricongiungerci agli altri. Dopo la repressione attuata da Evan, non avevamo più avuto loro notizie. E lui stesso oramai sembrava intenzionato a mostrare a quel mondo quale fosse il significato che la parola despota aveva nel nostro. Se Ademar Valdes fosse stato ancora vivo, sarebbe rimasto incredulo davanti alla crudeltà che mio fratello stava dimostrando. Aveva sterminato di persona i nobili intervenuti alla festa a palazzo Devereaux e aveva fatto lo stesso con i membri dell’oligarchia presenti alla sventata esecuzione di Amber. Da allora, chiunque si opponesse a lui, veniva catturato senza mezzi termini, che fosse nobile o che fosse popolano. Cercavo di credere che Evan non stesse agendo per sua volontà, ma ogni volta che mi aggrappavo a questa convinzione, finivo con l’essere smentita dalle stesse parole che mi aveva detto quando mi aveva strappato dal collo l’ametista. E ora, accarezzando il mio collo ormai nudo, privo di quel peso che era diventato così familiare e al tempo stesso, così vitale, mi sentivo come se una parte della mia anima mi fosse stata portata via. E poi c’era Damien. La ferita guariva poco a poco, ma più che quella fisica, era quella psicologica che mi preoccupava. Vedevo la sua insofferenza ogni volta che sentivamo nominare Sua Maestà il Despota Evandrus, mentre nascosti dai mantelli, cercavamo informazioni utili per rimetterci sulle tracce delle nostre famiglie. Avevamo fatto tanto per ritrovarli ed eravamo così sicuri di avercela fatta, che avevamo ignorato il pericolo dietro l’angolo.

- E anche questa è fatta…

Mormorai, finendo di fissare la fasciatura pulita attorno alla spalla di Damien.

- Grazie.

Rispose, senza inflessione.

Sospirai, nell’aiutarlo a rimettere la casacca di tela scura. Ogni volta che le mie dita si ritrovavano a sfiorare la pelle nuda di Damien, così calda, avevo la sensazione disperata di aver bisogno di quel contatto. Era rassicurante, protettivo, così come le sue braccia che mi stringevano durante le notti che trascorrevamo accampati o in qualche locanda, nella migliore delle ipotesi. Ci eravamo avvicinati così tanto che oramai, era diventato naturale per me accoccolarmi accanto a lui o addormentarmi col suono ovattato del suo leggero respiro, col battito regolare del suo cuore. Fu ciò che feci anche quella volta, poggiando la testa sul cuscino, raggomitolata mentre Damien finiva di allacciare i nastri neri che ornavano la casacca. Osservavo la forma delle sue spalle, il modo in cui le braccia si muovevano, quella difficoltà che ancora affliggeva la parte ferita e poi guardavo il suo profilo mentre si voltava verso la finestra della stanza che avevamo trovato a Gahler, una piccola cittadina ormai disabitata ai confini di Challant. Là ci aveva portati la mappa. Evan era stato molto più veloce di noi, in quelle due settimane, nel ripristinare le Pièces originali, le colonne che nel mio sogno più frequente, da quando ero in quel mondo, avevano sembianze di donne che versavano continuamente acqua nel grande lago di diamanti e che in origine, erano i ponti di collegamento tra i continenti che formavano Esperia. Dourand, Shelton, Wiesen e Camryn erano già cadute. Si diceva che Evan avesse fatto distruggere interi villaggi proprio nei pressi dei luoghi in cui le Pièces erano ubicate. All’inizio, ci eravamo chiesti come avesse fatto a trovare le Pièces senza la mappa, che pure era riuscito ad attivare, utilizzando lo smeraldo di Amelia. Ma Evan aveva dalla sua la Croix du Lac,  che del canto suo, sembrava ben felice dell’opera di distruzione che mio fratello stava portando avanti. E forse, anche Angus era servito alla causa. Il che avrebbe significato soltanto che Amber e Shemar avevano fallito.

Alzai lo sguardo, seguendo Damien che aveva raggiunto la finestra. Con la fioca luce cangiante che veniva dall’esterno e con le lampade che avevamo portato all’interno della stanza, il suo viso appariva più stanco e accigliato di quanto fosse solitamente. E sapevo cosa pensava.

- Lo ritroveremo, Damien… ce l’abbiamo fatta una volta. Ci riusciremo di nuovo.

Dissi, pensando a Jamie. In realtà, anch’io ero infinitamente preoccupata per la sorte di Jamie, della mia famiglia, di Violet, dei nostri amici e la cosa peggiore era che da quando Evan mi aveva strappato l’ametista, non avevo più sognato. Niente incubi, niente visioni di Arabella o di chiunque. Avevo sempre desiderato di poter chiudere gli occhi e dormire senza dover temere quell’incubo maledetto. Ma in quel momento, ero arrivata a pregarlo, perfino, di farsi vedere, di darmi un segno, in qualche modo, una traccia da seguire. Ma niente. E questo mi spaventava. Alla fine, mi ero resa conto che in tutto quel tempo, avevo sempre avuto un legame tra la mia vita come Aurore Kensington e il mondo in cui avevo avuto inizio. E quel legame era costituito da quegli incubi, da mia sorella che aveva cercato, disperatamente, di parlarmi, di ammonirmi riguardo a un futuro oscuro per tanto, tanto tempo. E ora, il non poterla vedere mi angosciava. Temevo che ad ogni Pièce che Evan riattivava, un frammento della sua anima potesse scomparire. Temevo di perderla. E non lo volevo.

Damien si voltò a guardarmi. La sua espressione era così triste e combattuta che mi faceva male. E la cosa più grave era che mi ricordava quella di Evan, ogni volta che mi guardava. Non riuscivo a scindere le due cose. E questo mi distruggeva. Perché nonostante Evan stesse disgregando quel mondo, si fosse proclamato Despota Supremo, nonostante fosse il discendente dell’uomo che aveva giurato di porre fine alla stirpe dei Despoti, l’ultimo dei Delacroix, io lo amavo. Amavo mio fratello e volevo fare qualcosa per fermarlo. Ero l’unica che poteva riuscirci, ma fino a quel momento, avevo soltanto cercato di rincorrerlo, inutilmente. Era come se per quanto tendessi la mano, lui continuasse ad allontanarsi. Era nel cuore dell’oscurità più nera. E io avevo sempre avuto paura di quel buio.

- Che cos’hai, Aurore?

Damien tornò a sedersi accanto a me, accarezzandomi i capelli. Non mi ero accorta di avere avuto lo sguardo fisso e nemmeno di una sua eventuale risposta, poco prima.

- Pensavo a Evan…

La sua mano ebbe un fremito, mentre percorreva le mie ciocche corvine.

- Challant è l’ultima rimasta… la terra più antica, la stessa da cui venivano i Delacroix… e per la prima volta, siamo arrivati prima di lui… fuori da Gahler c’è l’ultima Pièce… la mia sola possibilità di fermare mio fratello…

I tratti del bel viso di Damien si fecero più duri, così come il suo sguardo.

- Non lo fermerai con le parole, Aurore. Non dopo ciò che ha detto e che ha fatto.

- Però… con te ci sono riuscita…

Scosse la testa, contrariato.

- Non è la stessa cosa.

- Perché?

Domandai, tirandomi su. Alla sua stessa altezza, per poterlo guardare negli occhi. Non esitò.

- Evan è lucido. Mai stato più di così. Non so che diavolo di piano abbia in mente, ma l’ha progettato bene e nemmeno tu sarai in grado di fermarlo.

Strinsi i pugni, sentendo l’anima scossa da un impeto di frustrazione.

- Hai così poca fiducia in me?!

Damien non si scompose.

- No. E’ di lui che non mi fido. Anche se riuscissi ad arrivarci, sempre ammesso che le guardie imperiali te lo permettano, troverà comunque  il modo di circuirti… se non di ucciderti, Aurore.

Sgranai gli occhi, avvampando.

- Non lo permetterò.

- E come credi di farlo?

- I-Io… Evan mi ascolterà. Sono sua sorella, non mi farebbe mai del male… davvero…

Sentii un tuffo al cuore mentre lo dicevo. Evan mi aveva schiaffeggiata, l’ultima sera che avevamo trascorso insieme, prima che scappassi. E se anche era stata quella la sola volta, mi aveva fatto male, ad ogni menzogna che avevo scoperto. Damien avvertì qualcosa e la sua mano scivolò sulla mia guancia.

- Esiti. Ogni tua esitazione corrisponde a una sua sicurezza.

Distolsi lo sguardo.

- Non voglio perderlo di nuovo, Damien… io so che Evan non è così…

- Mpf. Dopotutto, forse, aveva ragione.

Sussultai, tornando a guardarlo, sconvolta.

- Che vuoi dire?

Damien sogghignò appena, con aria compiaciuta.

- Sei cieca. Quando si tratta di lui, tu diventi cieca. Guardi Evan con gli occhi della sorellina che ha sempre vissuto di luce riflessa. Per te, qualunque cosa lui faccia, c’è una giustificazione. Evan mi ha mentito perché è stato costretto a farlo. Evan ha sterminato tutte quelle persone perché ha qualcosa di più grande in mente. Evan ha pubblicamente esposto i nostri amici e i nostri genitori perché voleva attirare su di sé l’attenzione. Evan sta distruggendo questo mondo perché si sentiva in colpa. Non è così?

Rabbrividii, scostandomi.

- C-Che diavolo stai dicendo, Damien?! Non penso affatto tutte quelle stupidaggini!

- Allora cosa pensi?

Ribattè.

- Perché mi stai facendo questo?

Scossi la testa.

- Rispondimi.

Rantolai, frustrata. Avevo mille pensieri, mille spiegazioni possibili. E sì, alcune contemplavano anche quello che aveva detto, senza che me ne fossi resa conto. Tolsi il braccialetto che nonostante tutto, continuavo a portare al polso, fissandolo. Ricordai gli occhi di Evan mentre guardavano con curiosità quel pacchetto verde scuro col fiocco argentato. Ricordai la mia attesa trepidante mentre scartava la carta regalo e io che fremevo, nel vedere il modo in cui ogni tanto sollevava lo sguardo da quel lavoro per scrutare la mia espressione. E ricordai lo stupore nel vedere il braccialetto d’argento e nel guardarmi. Sorrisi preda di una felicità incredibile quando sul suo viso si aprì il suo più bel sorriso, dolce e speciale, e quando nel metterlo al polso, mi disse che non l’avrebbe più tolto. E nel ringraziarmi, mi baciò sulla fronte, come faceva quand’ero piccola. Quel ricordo mi fece stringere il cuore, nell’accarezzare quel braccialetto che da due mesi ormai, era al mio polso.

- Evan sa cosa significa amare. Non so cosa abbia stabilito con la Croix du Lac. So che lei rivuole indietro il suo corpo e vuole vendetta. Forse Evan è il mezzo per ottenerla, forse vuole assecondarla per ottenere altro, non lo so… ma so che mio fratello ha un cuore buono… e proprio per questo, voglio aiutarlo a farlo battere per questa ragione ancora una volta.

Damien mi guardò fisso per tanto tempo. E così feci io. Rimanemmo a osservarci, persi ognuno nelle proprie valutazioni. Sapevo che non la pensava come me e su questo non ci saremmo mai accordati. Io mi fidavo di Evan, nonostante tutto.

- Quando te ne renderai conto, Aurore… probabilmente sarà troppo tardi per tutti.

Abbozzai un sorriso, stringendo le labbra. Mi sentivo terribilmente sconfortata.

- Può darsi… ma non mi arrenderò. Evan è mio fratello e niente e nessuno cambierà questo fatto.

Damien chiuse gli occhi, sospirando stancamente.

- Ho bisogno di fare quattro passi.

Disse.

- E’… è tardi…

Gli feci notare, esitando. Non mi aspettavo che reagisse in quel modo e tra l’altro, non volevo rimanere sola, con quella sensazione di maretta nell’aria.

- Sì, appunto. E’ tardi. Tardi anche per discutere oltre.

Si alzò di nuovo, e istintivamente sollevai il braccio, afferrandogli la casacca. Damien rimase fermo.

- Per favore, Damien… per favore, non andare via… ho paura…

Damien sbuffò seccato.

- Paura. Mi chiedo quanta ne possa provare mio fratello. Aurore, se per colpa di Evan gli succede qualcosa, io…

La rabbia che aveva trattenuto fino a quel momento fu tradita da quelle parole e dai pugni stretti che fremevano. Tremai.

- D-Damien…

- Lasciami.

- Damien, no! Non gli accadrà niente, v-- 

- Smettila!

Tuonò, io mi irrigidii.

- Continui a dire che non accadrà niente. Lo dici da quando siamo giunti in questo stramaledetto mondo. Dannazione, non hai idea di quanto desideri tornare indietro, a quel giorno dannato in cui mia madre ha chiuso le valigie e essere andato via assieme a lei e a Jamie. Nulla di tutto questo sarebbe accaduto e adesso Jamie sarebbe al sicuro, al posto di essere chissà dove, di nuovo, chissà in che condizioni!

Cercai di dire qualcosa, ma non ci riuscii. Quelle parole così dure e trasudanti rimpianto e rabbia mi avevano colpita con troppa forza per poter replicare. Damien, ancora voltato, sollevò il viso.

- Dio, Aurore, ti giuro che vorrei crederti, ma non ci riesco. Evan avrebbe fatto meglio a morire quel giorno piuttosto che fare ciò che ha fatto.

Stavo tremando.

- E la cosa che mi fa più rabbia è che tu continui a vedere solo ciò che vuoi. A te non importa altro che riaverlo. Niente e nessuno, parole tue. Nemmeno io.

Non è vero…. non è vero, Damien…, volevo dire, ma avevo la gola che bruciava e per quanto volessi, non riuscivo ad articolare una sola sillaba. Non ero mai stata così male in vita mia. Perché? Strattonai con più forza la sua casacca. Non servì. Si voltò appena verso di me.

- Svegliati, Aurore. Svegliati. Evandrus Delacroix. Non è più tuo fratello. E’ soltanto un dannato mostro che va fermato. E tu non sei capace di farlo. Mi dispiace.

Senza alcuna delicatezza, si scostò dalla mia presa, allontanandosi in direzione della porta. A quel punto, mi alzai, ignorando i crampi che mi avevano attanagliato i polpacci.

- Damien!

Esclamai, ma la voce mi uscì a fatica.

- Basta, Aurore, basta!

Afferrò la spada che attendeva pronta accanto all’entrata e mi scansò senza farsi troppi problemi. Dopodichè, andò via, incurante del mio tentativo di bloccarlo, serrando la porta e chiudendomi dentro. Urlai il suo nome e singhiozzai, sbattei i pugni, cercai di riaprire quella dannata porta, mi accasciai. E poi mi rialzai, andando alla finestra. Eravamo al secondo piano, troppo in alto anche solo per cercare di uscire da lì. Ma quando mi affacciai e vidi la guardia imperiale marciare nelle vie di quel villaggio fantasma, quando vidi Evan a capo, sul suo grifone bianco, cavalcare con aria indomita, capii che Damien voleva affrontarlo, da solo. Per l’ultima volta. Voleva farsi carico della mia debolezza.

Aprii gli occhi.

Le pesanti cortine color magnolia che coprivano il baldacchino a due piazze ondeggiavano. C’era una leggera aria che mi aveva colpito le palpebre. Colpa della finestra socchiusa. Eppure pensavo che non l’avrei sentita per un po’. Mi tirai su ancora un po’ assonnata. Dormivo male. Né incubi, né sogni. Solo ricordi spiacevoli. Portai le dita al collo, proprio nell’incavo tra le clavicole, quasi a voler richiamare la mia ametista perduta. E mi rannicchiai, stringendo le ginocchia con le braccia nude.

- Oh, Damien…

Mormorai, mordendomi le labbra. Avevo davanti agli occhi le guardie imperiali che lo atterravano, davanti alla colonna dell’ametista. Avevo nelle orecchie la voce di Evan che pronunciava il canto di Challant senza esitazioni. Per quanto avessi urlato, per quanto avessi invocato che non facesse altro, alla fine, mio fratello aveva attivato l’ultimo sigillo. E la forte scossa di terremoto che aveva sorpreso di lì a poco tutti noi, distruggendo Gahler e le zone circostanti, dovuta al potere che era tornato a confluire nella Pièce, aveva testimoniato che oramai, la convergenza era entrata nel vivo. Tutte le Pièces erano attive. Qualunque cosa oramai, era nelle mani della Croix du Lac, che infine, aveva ottenuto la sua vendetta. E la cosa peggiore era che guardando il cielo, quel mondo che un tempo era stato luminoso, pieno di speranza, adesso aveva incarnato perfettamente il significato del suo nome. Il luogo dell’esilio si era espanso. Nel cielo che aveva assunto il colore funereo del sangue più oscuro, brillava fioca e troppo lontana quella luna rosso cremisi che avevo visto tante volte nelle mie visioni. La stella che avevano tentato di ricreare artificialmente, e che aveva ripreso a incamerare energia.

Uno scricchiolio improvviso mi distolse da quel pensiero. Alzai gli occhi, vedendo la porta bianca e dorata aprirsi. Evan entrò. Aveva dismesso gli abiti che portava abitualmente da quando era nell’Underworld, portando soltanto una camicia nera e pantaloni scuri. Con sé, aveva anche una brioche.

- Sei sveglia.

Affilai lo sguardo.

- Come vedi.

Evan annuì, lanciandomi quella che supponevo sarebbe stata la colazione. Quantomeno non aveva perso le vecchie abitudini. Lanciarmi qualcosa al volo era tipico di lui. Raccolsi quel fagottino caldo e soffice. Doveva essere stata Alizea a prepararlo. Lo trangugiai senza troppi complimenti.

- Hai appetito.

- Dacci un taglio. Dove sono la mamma, papà e gli altri?

Domandai di rimando.

Evan mi raggiunse, fermandosi a pochi passi dal letto. Sollevò il sopracciglio, poi guardò verso la finestra socchiusa.

- Al momento, non ho intenzione di dirtelo.

Strinsi i pugni.

- Allora mandami da loro, ovunque siano. Meglio che avere un trattamento di favore non richiesto.

Protestai.

- Ti ricordo che sei stata tu a chiedere di parlarmi. E sinceramente, mi era parso di capire che volessi un po’ di privacy.

Lo guardai di traverso.

- Questo prima che attivassi anche l’ultima Pièce, quando ancora credevo che ci fosse un minimo di buonsenso in te.

Sorrise, quasi divertito, nel tornare a guardarmi. Quell’espressione mi indispose.

- Smettila di guardarmi così, Evan! Mi dai fastidio.

Evan sembrò sorpreso, poi sospirò. Alzò lo sguardo e portò una mano alla testa, passandola tra i ciuffi scuri che avevo sempre adorato. Cercai di scacciare qualunque pensiero che fosse positivo nei suoi confronti. Infine, Damien aveva visto lungo. Evan non aveva alcuna intenzione di desistere. Non era più l’Evan che conoscevo… e che amavo.

- Ti avevo detto di andar via. Ma non l’hai fatto. Anzi, a dirla tutta, avresti fatto meglio a non varcare mai la soglia di questo mondo.

Afferrai un cuscino e glielo scaraventai addosso. Si limitò a scansarlo col braccio prima che potessi colpirlo. I suoi riflessi erano pronti. Non sapevo in che modo diabolico era riuscito a diventare così preciso. Era ironico, ma chissà, magari giocare ad Assassin’s Creed lo aveva aiutato, in qualche modo.

- Spero che tu non lo dica seriamente, Evan. Perché se lo pensi davvero, allora vuol dire che sei impazzito del tutto!

Evan si chinò a raccogliere il cuscino. Avrei potuto approfittare per scappare, ma di certo, c’era troppa sorveglianza. Evan era meticoloso. Difficile a dirsi, per uno che godeva della reputazione di un apatico. Invece, nonostante tutto, l’essere cresciuto come l’uomo di casa, aveva fatto sì che spesso e volentieri si occupasse di questioni che normalmente non rientravano nelle mansioni di un adolescente. Lo guardai, mentre si sedeva accanto a me. Da quanto non eravamo così vicini? Evan posò il cuscino, poi mi sollevò il polso, toccando il suo braccialetto. Quel gesto mi provocò un sussulto al cuore.

- Perché l’hai lasciato cadere? Quando ho visto… insomma, non so nemmeno più a cosa credere, Evan… una volta, ho visto te che cercavi di proteggermi… e Liger che ti aveva ucciso… ma Liger eri tu… perciò… perciò, Evan, che diavolo hai fatto?! Cos’è accaduto davvero quella sera?! Ho così tanta confusione in testa! Ho diritto di sapere almeno questo!

Evan mi studiò, con quegli occhi amaranto cresciuti troppo presto. Spenti nella loro disarmante serietà. Lo sguardo di un uomo che non aveva più alcuna speranza nella vita.

- Dopo quel litigio, quando scappasti via, la mamma mi rimproverò. Mi disse che sarebbe venuta a cercarti, ma la precedetti. Sapevo che Lionhart Warrenheim era pronto a entrare in azione dal momento che lui stesso mi aveva detto che quella sera il portale si sarebbe aperto. Per così tanto tempo, durante i nostri viaggi, la mamma aveva sperato che un qualche portale si aprisse, ma nessuno, in nessuno dei posti dove eravamo stati, l’aveva fatto. E infine, eravamo giunti a Darlington. Tra l’altro, anche Warrenheim ha avuto la sua parte di scaltrezza, scegliendo di stabilirsi in un luogo in cui c’era un portale. Evidentemente, sapeva che prima o poi saremmo giunti anche lì e ha smesso di inseguirci, per precederci. Quella sera, dopo esser uscito a cercarti, incrociai le guardie. E mi ritrovai tra due fuochi. Cercare te o avvertire la mamma. Dal momento che ero ancora vicino a casa, tentai di tornare indietro, ma non feci in tempo a raggiungerla. Sperando che tu fossi da Violet o comunque, al sicuro, optai per il seguirli e giunsi alla Porta di Pietra, ancora una volta troppo tardi. Il portale si era appena richiuso. Eppure quella sera scoprii che ero in grado di farlo aprire, in quanto, come ho scoperto dopo, gli appartenenti alla famiglia Delacroix, come primi custodi del segreto della Croix du Lac, avevano la padronanza sull’apertura del portale. Inizialmente ne fui sconvolto. Se l’avessi saputo prima, non ci sarebbe stato bisogno di attendere così tanto per tornare nell’Underworld. Fu allora, quando la Porta di Pietra si riaprì, che fui raggiunto a alcune guardie che Warrenheim aveva messo in perlustrazione, alla nostra ricerca. Mi ritrovai a dover combattere contro di loro e quando vidi che le loro spade erano in grado di polverizzare l’obiettivo, le usai a mio vantaggio… facendo fuori quei bastardi. A quel punto, ero convinto che non ci sarebbero stati altri problemi, ma ignoravo che Shemar Lambert fosse giunto nel nostro mondo e ti stesse cercando. Per di più, il portale non rimaneva aperto per lungo tempo e dovevo decidere in fretta. Tre giorni e Victor ti avrebbe contattata. Lui e la mamma avevano un patto. Se dopo tre giorni non si fossero sentiti, allora Victor avrebbe capito che qualcosa era accaduto e avrebbe agito di conseguenza, cercando di proteggerti. Ma sei stata più veloce, varcando la soglia dell’Underworld.

Nell’ascoltare quella parte di racconto, pensai a Violet, che mi aveva detto dei documenti di trasferimento fatti pervenire al liceo di Darlington firmati da Victor Kensington. Dunque era per questo motivo che era stato così celere. Lui e la mamma volevano proteggermi qualora fosse accaduto qualcosa a lei e a mio fratello. Guardai Evan, che sostenne il mio sguardo senza batter ciglio.

- Non mi hai detto ancora perché l’hai fatto.

Dissi.

Evan sospirò, tornando a raccontare.

- E’ semplice. Perché volevo tornare in questo mondo. E il solo modo per andare via senza che tu provassi a seguirmi, qualora fossi giunta anche tu alla Porta di Pietra, era farti credere che fossi morto. Per questo ho lasciato il braccialetto accanto ai resti di una delle guardie che avevo ucciso. Ma dal momento che sei qui, non ha funzionato.

- Certo che non ha funzionato! A maggior ragione, Evan! L’aver trovato il tuo braccialetto mi ha spronato! Non avrei mai abbandonato te e la mamma! Volevo ritrovarvi… volevo salvarla… e vendicarti…

Mi morsi le labbra, sentendo gli occhi pungere, mentre la foga si impadroniva di me. Ero così arrabbiata con lui che avrei voluto prenderlo a schiaffi, fargli capire quanto avessi sofferto al pensiero che lui non ci fosse più. Per anni, mio fratello era stato il solo uomo che avessi mai amato. Più di quel padre che mai avevo avuto, più di ogni altro ragazzo… era il mio punto di riferimento, il solo di cui avessi  bisogno.

- Alla fine, ce l’hai fatta, no?

Scossi la testa.

- No! No, Evan, non ce l’ho fatta! Avrei dovuto uccidere Liger con queste mani per vendicarti!

Sbottai, guardandomi le mani tremanti.

- Ma tu mi hai presa in giro, ancora una volta… c’è mai stata una volta in cui sei stato sincero, in tutta la tua vita, Evan Kensington?!

Lo sguardo di mio fratello si fece terreo, quando pronunciai deliberatamente quel nome e quell’accusa che mi lacerò il cuore anche solo nel pensarla. Ed Evan sembrava una statua, bloccata in un’eterna posa di tensione. Quel silenzio mi bastò.

- Il potere… non so a che potere tu ti sia mai riferito, dal momento che hai ottenuto tutto. Sei il Despota Supremo, la maggiore autorità, hai sterminato da solo persone che avevano la sola colpa di essere al potere da prima di te. Non so cosa tu e quel mostro crudele avete in mente per questo mondo, adesso, ma so che Arabella non ne sarebbe mai stata felice. Lei credeva in te, e voleva che tu potessi salvarti. E anch’io… mi sarebbe bastato stare con te… per sempre…

Abbassai lo sguardo, reprimendo le lacrime e il tremore che mi aveva scossa.

Evan rimase a guardarmi in silenzio. La sua mano, che per anni, mi aveva tirata fuori dall’oscurità, stringendo dolcemente la mia, rimase lì, ferma sulle coperte. Era l’ennesima prova che non avrei mai riavuto indietro mio fratello.

Infine, dopo quel tormento fatto di singhiozzi e di silenzi, così diverso da come immaginavo, Evan si alzò.

- Vieni con me.

- Dove?

Domandai, incerta.

- Non fare domande.

Sbuffai, frustrata.

- Non ho intenzione di muovermi se prima non mi dici cosa vuoi fare.

Si voltò appena.

- Mpf. In tal caso, rimani lì, allora.

Fece spallucce, poi uscì lasciandomi sola.

Rimasi senza parole. Solitamente insisteva e in qualche occasione, era arrivato addirittura a prendermi in braccio di peso, incurante delle mie proteste. Spazientita e seccata da quell’atteggiamento, mi alzai dal letto e mi diressi all’armadio di noce bianco proprio di rimpetto al letto. Frugai e afferrai i primi vestiti che riuscii a trovare. Quando mi ritrovai ad armeggiare con una veste leggera lilla e bianca, pensai ad Amelia. Alla fine, non avevamo saputo altro di lei. Né se vi fossero stati funerali, né cosa sarebbe accaduto a Dourand, ora che sia la famiglia Dobrée che la famiglia Ealing non avevano più eredi. Allacciai la fascia con inserti argentati sotto al seno e la girai. Il fiocco ricadde morbido lungo la mia schiena. Chissà, forse Evan avrebbe piazzato qualcuno al loro posto. E chissà cosa sarebbe accaduto alle altre terre. Guardai fuori dalla finestra, quel cielo che oramai si era stabilizzato sulla tonalità del tramonto tempestoso, sembrava reagire ancora una volta all’energia che stava confluendo dalle Pièces, come se vi fossero degli sprazzi, ogni tanto, di nuova luce. Chissà la gente del posto cosa pensava. Di certo, il nuovo Despota non era chi si aspettavano fosse e tutto ciò che stava facendo non era esattamente l’azione che sottintendeva un nuovo corso. Sospirai, nell’indossare delle ballerine bianche e mi avvicinai al grande specchio che rifletteva la figura pallida di fronte a me. La mamma aveva ragione. Ero dimagrita da quando ero nell’Underworld. E i miei capelli erano cresciuti ancora un po’. Raccolsi una ciocca e mi venne in mente la volta in cui avevo visto il vero aspetto della Croix du Lac. Lunghi capelli corvini, occhi rossi della stessa tonalità di quelli di Evan. La figlia dei Delacroix che era stata sacrificata. Distolsi lo sguardo, pensando che infine, sarebbe riuscita a distruggere quel mondo che l’aveva tradita. Secoli di morte, reincarnazioni, paura che era diventata rabbia e rabbia che era diventata odio, per quel mondo, per quella gente che avrebbe dovuto proteggerla e che invece non le permetteva nemmeno di riposare in pace. Lisciai con le dita quelle ciocche disordinate per la notte trascorsa e presi fiato. Alla fine, mi affacciai guardinga alla porta.

- Era ora.

Quelle parole mi fecero sobbalzare. Mi voltai verso il corridoio e vidi Evan appoggiato al muro, con le braccia conserte, che mi guardava con aria impaziente.

- Mettiamo in chiaro le cose, Evan. Non è per te che sono uscita.

Dissi, chiudendo la porta dietro di me. Lui ridacchiò.

- Va bene, come preferisci. Vieni.

Rispose, facendo strada.

Misi il broncio. Odiavo quando era così misterioso. Lo seguii, lungo i corridoi illuminati, mentre le guardie imperiali si inchinavano al nostro passaggio. Era surreale pensare che si stessero inchinando davanti a Evan. Avrei potuto realizzarlo se si fosse trattato di un Despota qualunque. Blaez, Ruben… ironicamente pensai persino a Damien, che era sempre stato considerato il despota della scuola. Ogni volta che i ragazzi del piano del terzo anno lo incontravano, lo salutavano con reverenziale timore, preoccupati di incorrere in qualche modo, nella sua ira nefasta. E al pensiero che in realtà, Damien fosse tutt’altro che quel genere di persona, nonostante i suoi momenti più bui e calcolatori, mi venne da sorridere. Evan invece non aveva mai dimostrato interesse per quel genere di cose. Anzi, ogni volta che se lo ritrovava davanti, si limitava a rivolgergli un’occhiata laconica, un po’ come accadeva con le altre persone. Ignorava allo stesso modo tutte le guardie che incrociavamo e la servitù, procedendo spedito verso la sua ignota meta. Io invece guardavo uno a uno quei volti scoperti, da quando aveva ordinato di non indossare più le maschere. Evidentemente, non voleva rischiare che qualcuno si intrufolasse di nascosto e costituisse un pericolo, tattica che in passato, avevamo usato anche noi e che aveva funzionato, almeno fino a che non eravamo stati scoperti. Ma fino a che mio fratello non aveva lasciato cadere la maschera più importante, non avevamo patito conseguenze irreparabili.

Passammo davanti alla sala dell’incoronazione e ricordai che Evan non era ancora stato incoronato ufficialmente. Aveva in mano tutti i poteri ed era stato legittimato dalla Croix du Lac in persona, dunque non aveva bisogno di altri riconoscimenti, se non da un punto di vista puramente formale. Pensai che volesse fermarsi, invece si limitò a dare un’occhiata inespressiva.

- Mi vuoi dire dove stiamo andando?

Chiesi, dopo che imboccammo la scalinata principale. Solo in quel momento vidi fermento maggiore. Non soltanto le guardie, ma anche diverse persone che non avevano nemmeno a che fare con la servitù, armeggiavano con grandi vasi di gigli bianchi, lampade e mobili persino. Sospirai.

- Dio, Evan, vuoi dare una festa? Perché davvero, lo trovo incredibilmente fuori luogo.

Commentai.

Evan ignorò le mie parole. Al nostro passaggio, intanto il movimento si fermò.

- Continuate. Continuate pure.

Disse, agitando a mezz’aria il braccio. A quel segnale, tutti ripresero le loro attività. E quando fummo vicini all’ennesimo corridoio, quello che si apriva sulla galleria dei ritratti dei Despoti, incrociammo il professor Warren e Alizea. Quella strana accoppiata mi stupì non poco.

- Alizea!

Esclamai, nello stesso istante in cui entrambi si voltarono.

- Ah, piccola Lady! E Sua Maestà.

Pronunciò affettuosamente quel curioso titolo, mentre si soffermò seccata su quello di Evan, che fece un cenno con la testa.

- Fa piacere anche a me rivedervi, Alizea.

La balia di mia madre aveva gli occhi ridotti a due fessure. Evidentemente non sopportava affatto Evan. Cosa che dopotutto, avevo già notato nel suo modo di relazionarsi a Liger. La rassicurai sul fatto che nonostante il gene dell’antipatia fosse insito in mio fratello, anche lui aveva sprazzi di simpatia, ogni tanto. Al contrario del professor Warren, che guardai di sottecchi. Sembrava a disagio.

- Ma guarda. Chi non muore si rivede.

Osservai, facendomi forte, per una volta, l’unica in vita mia, di essere al fianco del Despota.

- Già, Aurore.

Rispose.

Che strano, la sua spocchia eterna sembrava essersi placata. Chissà, forse Evan l’aveva rimesso in riga una volta per tutte. Inarcai il sopracciglio.

- Ha notizie almeno lei di Damien e Jamie?

Domandai, sperando di risultare seccante abbastanza da fargli capire che non sopportavo la sua vista. Eppure, lo sguardo che mi rivolse non sembrava affatto infastidito. Anzi, quasi preoccupato, in un certo senso. O forse, qualcosa di più profondo. Rassegnato. Alla fine, forse si era arreso al fatto che né Jamie né Damien sarebbero diventati i nuovi Despoti? O magari aveva capito che aveva commesso il suo più grande errore permettendo a Evan di varcare la soglia dell’Underworld. Mio fratello, intanto, sembrava in attesa della risposta del professore. Alizea invece mi accarezzò dolcemente la guancia, con aria pensierosa.

- Sì. Stanno bene.

Trassi un sospiro di sollievo.

- E’ tutto pronto?

Domandò invece Evan.

- Tutto pronto per cosa?

Domandai di rimando.

Il professore annuì.

- Ah, numi di Adamantio, siete davvero convinto di quello che volete fare, voi?

Domandò Alizea a mio fratello, con un tono che mi mise più in allerta di quanto già fossi.

- Al diavolo! La vogliamo smettere con tutti questi misteri?! Aspetta… forse stai parlando di un quadro? Non mi dire, ti sei fatto fare un ritratto da aggiungere alla galleria? Potevi usare qualche foto, sai? Sul mio cellulare…

Evan mi guardò di sbieco, così come il professor Warren che aggrottò le sopracciglia e Alizea che non aveva colto la mia allusione alla mia realtà. E per giunta, ricordai di non avere più con me il cellulare. Mi risentii, sconsolata.

- No. Niente ritratti. Andiamo. Quanto a voi, portate a termine tutto come stabilito.

Alizea portò la mano alla gola, carezzando velocemente il collo con le dita rugose. Qualunque cosa fosse sottintesa in quell’ordine, doveva angosciarla parecchio. Il professore invece si limitò ad annuire.

- Perfetto, mi fa piacere sapere che sei passato al lato oscuro. Adesso cospiri anche con lui, eh? Sai che voleva uccidere la mamma? Ah, nel caso non lo ricordassi, Evan, è per colpa sua se tu e Arabella siete stati scambiati quando il portale si è aperto, diciassette anni fa!

Protestai, riversandogli addosso quell’ulteriore veleno. Ma non ero mai stata così confusa e arrabbiata come in quel momento. Avevo passato di tutto. E l’avevo superato. Ero pronta ad affrontare qualunque verità, ma Evan, evidentemente, non era della mia stessa opinione. Mi fulminò con un’occhiataccia che mi ricordò non poco la sua reazione, quando mi schiaffeggiò. Automaticamente, feci un passo indietro.

- Ho già chiesto perdono a Celia e a Greal, Aurore.

Disse il professore, a sorpresa.

Sgranai gli occhi, incredula. Non riuscivo a credere a quello che aveva appena detto. Quell’uomo così stanco e remissivo aveva solo l’aspetto del bastardo che ci aveva trascinati in questo mondo. Per il resto, avrei detto che sembrava San Paolo folgorato sulla via di Damasco. E considerando i precedenti, mi era incredibilmente difficile credere che quella folgorazione avesse avuto una qualche origine positiva.

- Cosa gli hai fatto, Evan?

Domandai a mio fratello. Non c’era altra spiegazione. Doveva essere intervenuto in qualche modo.

Evan sospirò.

- Quando viene il momento di scendere a patti con la morte, si realizzano cose davvero molto importanti sul proprio destino.

Rispose.

Sbattei le palpebre, comprendendo a stento quello che aveva detto.

- Andiamo.

Concluse poi, congedando il professore e Alizea. Fu l’ultima volta che li vidi così vicini e indaffarati.

Per il resto del tragitto, che si svolse lungo scale e un corridoio sotterraneo che non avevo mai visto prima e a cui Evan aveva avuto accesso dopo aver conferito con due bestioni ignoti di oltre due metri d’altezza, in uniforme bianca, ancor più elaborata di quella che mio fratello portava quando si fingeva il comandante Liger, pensai a cosa stava progettando. Mi sentivo terribilmente inquieta. Certo, il fatto  che il professor Warren avesse detto di aver parlato con i miei genitori e che Damien e Jamie stavano bene mi rincuorava, in un certo senso, ma non potevo prescindere dalla preoccupazione che mi attanagliava il cuore. Qualunque cosa fosse, era legata alla convergenza. Evan era sicuro, lo vedevo da quanto procedeva spigliato, mentre le luci si accendevano progressivamente, al nostro passaggio. Ogni passo che faceva, prima che la luce si accendesse, era come se fosse proteso all’oscurità. Tesi la mano verso di lui, cercando di afferrare la sua camicia nera, quando si fermò. Così feci io, un istante dopo, notando la grande porta che recava, stilizzati, i sigilli dei cinque continenti che formavano l’Underworld. A giudicare dalla fattura, nonostante fosse ben tenuta, doveva essere molto più antica di tutto il resto del palazzo. Non avrei saputo definire il materiale di cui era composta, ma di certo, era molto, molto pesante. E in quel momento, mi venne un’illuminazione.

- Oh mio Dio… è il Sancta Sanctorum?!

Domandai, affiancandolo. Osservai con attenzione i segni del tempo che avevano segnato, impreziosendola ulteriormente, quella porta che dava sul luogo in cui la Croix du Lac era rimasta per così tanto tempo, prima di uscire, con le sembianze di mia sorella. Il cuore mi batteva così forte che mi sentii persino vorticare l’orizzonte intorno, tanto che dovetti mantenermi a lui. Evan sollevò il braccio, posando la mano nuda sul sigillo di Adamantio.

- Gebo.

Disse, semplicemente.

Lo guardai stupita, nel sentire quella parola sconosciuta.

- Significa “dono”, nell’antica lingua dei primi abitanti di Esperia, il runico che hai già incontrato. Il Despota si presenta con un dono, alla Croix du Lac.

Spiegò, di fronte alla mia perplessità.

Ero io il dono? Strinsi più forte il braccio di Evan, nervosamente.

- Evan, mi stai spaventando…

Gli dissi.

Lui sorrise appena, quando la porta si spalancò, investendoci di luce calda, molto calda. Inizialmente non riuscii a vedere nulla. Era eccessivamente vivida, carica, troppo discordante da quel buio con cui avevamo imparato a convivere. Mi affidai a mio fratello, nonostante fossi a dir poco impietrita. Varcammo insieme quella soglia e in quel momento, pensai che Arabella, da piccola, non aveva avuto qualcuno che le tenesse la mano mentre veniva offerta in sacrificio. Cercai di farmi forza, nonostante fosse terribilmente difficile, poi, quando i miei occhi si abituarono a quella nuova luce, vidi la Croix du Lac, che giaceva sdraiata su una sorta di altare. C’erano dei cuscini ad agevolarle il riposo, di fattura pregiata, forse velluto, molto scuri. Il Sancta Sanctorum era piuttosto piccolo, come c’era da aspettarsi, ma dentro, appariva raffinato,  pieno di nicchie antiche in pietra spesso occupate da fiori e da vivande. Non so quanto quelle offerte fossero servite in passato, prima che la Croix du Lac decidesse di lasciare quel ricovero per affrontare il mondo esterno, ma di sicuro, passare vite intere là dentro, per quanto fosse accogliente, doveva essere un inferno. E poi guardai il suo braccio nudo, il diamante incastonato nel dorso della mano sinistra che pulsava e risplendeva. Mi chiesi se fosse proprio quello a conferire tanta luce e tanto calore a quel posto. Dietro di noi, intanto, la porta si richiuse. Trasalii.

- Perché mi hai portata qui, Evan?

Chiesi, osservando con la coda dell’occhio la mia via di fuga ormai andata.

- Volevo che tu vedessi.

Rispose.

- Ok, ho visto. Possiamo andare?

Feci marcia indietro, ma Evan non si spostò di un centimetro.

- Evan, dannazione!

Esclamai.

La Croix du Lac, ancora nel corpo innocente di Arabella, che giaceva come la Bella Addormentata, ebbe un sussulto.

- Non svegliarla.

- C-Che sta facendo?

- L’energia. Sta convogliando tutta l’energia nel diamante.

Fremetti. Un terribile pensiero mi attraversò l’anima. Il viso di mia sorella mi apparve per un secondo, in lacrime, facendomi trasalire.

- I-In questo modo… c-così la ucciderà… ucciderà Arabella!

Esclamai, passandogli davanti. Il volto di Evan era una maschera inespressiva. Quella totale mancanza di reazione fu la goccia che fece traboccare il vaso.

- Dannazione, Evan! Ma che diavolo vuoi fare?! Posso capire… posso capire che non te ne freghi niente della mamma, di me, di questo mondo… ma lei! Oh Dio, lascerai che la uccida?! Lascerai andare la sua mano ancora una volta?!

Quelle parole lo scossero. I suoi occhi si aprirono sconvolti. Avevo fatto breccia. Afferrai il bavero della sua camicia e mi sollevai sulle punte, per cercare di incontrare quegli occhi.

- So tutto! La mamma mi ha raccontato di te e di Arabella, della notte che fuggiste, della tua mano di bambino tesa verso di lei, mentre il portale si apriva! E’ quello che ho sempre visto… solo che lo vedevo dalla prospettiva sbagliata… Arabella in qualche modo, cercava di mettersi in contatto con me… o con te, non lo so… quell’incubo non era altro che il ricordo della vostra separazione! E so che per tutti questi anni ti sei sentito in colpa, Evan! Ma non era colpa tua… né tantomeno di Arabella… e ora cosa stai facendo? Pensi che ucciderla sia la soluzione?! Non può sopportare tutto quel potere! Forse la Croix du Lac può riuscirci, ma Arabella no!

Lo scossi quanto più forte potevo, sperando che capisse. Fece una smorfia, digrignando a forza i denti, come se stesse cercando di mantenere il controllo, ma ci riuscisse a stento. Le sue mani artigliarono con forza i miei polsi, al punto da farmi mollare la presa. Sentii dolore.

- Evan!

- Credi che la voglia uccidere?! Credi davvero che sia così meschino da volere morta la persona che ho giurato di salvare, anni fa?!

Sgranai gli occhi, sobbalzando.

Evan mi rivolse uno sguardo eloquente in proposito. Si era rivelato, finalmente. E lo preferivo, a quella maledetta apatia. Sorrisi appena.

- Tu la ami?

Domandai, incredula nel sentire la mia stessa voce. Avevo riconosciuto quello sguardo, quel tono. Come Damien, mentre diceva ad Amelia che io ero la persona che amava e che non avrebbe permesso a nessuno di portarmi via da lui. Alla fine, però, non ci era riuscito. E nemmeno Evan. Mio fratello era interdetto. Probabilmente non si aspettava che dicessi qualcosa del genere. Del resto, nemmeno io. Invece la mia dolce Violet aveva intuito tutto. Non appena la presa sui miei polsi si allentò, accarezzai la sua guancia. Quanto mi era mancato quel contatto. Da così tanto tempo, ricevevo il suo affetto. La sua mano che mi accarezzava la testa dolcemente quando ero tesa o spaventata, il suo respiro quando si appisolava accanto al mio letto. Ma di rado, ricambiavo quelle attenzioni. E non che non volessi farlo, ma a volte, Evan mi appariva troppo distante, intoccabile. Invece in quel momento era lì, con la stessa espressione triste della sera che uscimmo insieme a Darlington, quando vide il ciondolo d’ametista al mio collo, per la prima volta. E ringraziai Dio di avermi dato la possibilità di poterlo toccare di nuovo, di potergli parlare.

- Per così tanto tempo, ho aspettato, inutilmente… vivevamo in perenne fuga, al punto che la mamma era ormai convinta che Greal fosse morto. Eppure, quel tuo incubo ci aveva ridato la speranza che almeno Arabella fosse ancora viva. Non sapevamo come, ma tu e lei eravate connesse. Forse era a causa dell’ametista, forse era la stessa Croix du Lac a permetterlo. O chissà, magari era solo il destino… quando quella sera aprii da me il portale, capii che sarebbe stata la mia unica possibilità. Dovevo sapere. Per tutti quegli anni, ho vissuto nell’illusione di riuscire a stringere la sua mano, di poter cambiare ciò che era accaduto. Fu così che quando tornai in questo mondo, la cercai. Ma Arabella Valdes non era mai esistita per questa gente, perché Ademar la tenne nascosta, onde evitare l’onta dell’infedeltà della sua sposa. Eppure, io sapevo che lei c’era. Sentivo che era da qualche parte. La sentivo accanto, perfino dentro di me, in questo cuore che mai come quando pensavo a lei, batteva con forza. Non ricordavo molto, sebbene la mamma mi raccontasse spesso del nostro passato, a quei tempi. Non voleva che la memoria talvolta confusa di Evandrus Delacroix fosse soppiantata del tutto da quella di Evan Kensington. E nel varcare quella soglia, ho deciso di crearne una nuova. E’ così che sono diventato Liger. Senza passato, senza futuro. Soltanto il presente. Il portale si era aperto a Dourand e lì ho scoperto cos’era accaduto, così come anche la storia di Damien Warren.

Sorrisi, nel sentire quelle parole e nel sentirlo pronunciare il nome di Damien. Evan se ne accorse.

- Sei innamorata di lui, Aurore.

Annuii, arrossendo d’imbarazzo. Sapevo che a Evan non era mai piaciuto, e mi sembrava incredibilmente imbarazzante ammetterlo davanti a lui. Mio fratello si limitò a un accennato sorriso.

- Lui ti vuole bene. Continua a non andarmi a genio, ma dubito che ci possa essere qualcun altro in grado di sopport--  

- Ok, basta con la filippica, continua a raccontare!!

Esclamai di botto, volendo sprofondare non prima di averlo preso a pugni. Stavolta, il suo sorriso fu più definito. E mi scaldò il cuore. Poi tornò a parlare.

- Ad ogni modo, riuscii a ingraziarmi alcuni nobili del posto, incuriositi dal mio strano accento e dal mio aspetto che a loro appariva particolare. Non sapevano che appartenevo ai Delacroix e solo pochi, a cominciare da Lord Tantris Rosenkrantz, avevano avuto contatti con gli ultimi rimasti della prima famiglia, dunque, non erano in grado di identificarmi, nonostante un particolare. C’è una cosa che ci contraddistingue. Il colore degli occhi.

- L’amaranto… anche la Croix du Lac ha gli occhi del tuo stesso colore…

Evan annuì.

- In realtà riuscii a passare per il discendente di un’antica famiglia minore di Adamantio, la famiglia Jansen, che stando ai registri in mio possesso, era stata eliminata durante la prima repressione. Lessi che c’era anche un bambino scomparso… e mi finsi quel bambino. Poi, il tam-tam funziona bene nel nostro mondo come qui, a quanto pare.

Osservò. Convenni.

- Raxen Bernard, un dignitario di Dourand, mi propose di andare ad Adamantio per entrare in una sezione scelta della guardia imperiale, quella della Croix du Lac. A quanto pareva, stavano cercando nuovi elementi, sia dal punto di vista militare che tattico.

- E tu hai accettato…

Evan annuì.

- Pensavo che sarebbe stato facile, se avessi avuto accesso al palazzo di diamante. In realtà, anche Dourand cercava giovani uomini da arruolare, così com’era stato per Shemar Lambert a Shelton. L’oligarchia voleva rafforzare il suo prestigio, consapevole che presto, il momento di eleggere un nuovo Despota sarebbe giunto. In altre parole, quei folli avevano deciso di farne a meno, così dannatamente attaccati ai loro scranni. In ogni caso, quando arrivai ad Adamantio, fui introdotto a corte come Liger Jansen e presentato alla cerchia che si occupava del corpo scelto. Era strano aver ottenuto così tanto in così poco tempo. La troppa fretta di quegli stolti ha finito per essere la loro rovina. Mi fu chiesto di abbandonare titolo e cognome. Si voleva mantenere quanto più possibile l’impersonalità. Non ci doveva essere altro che un giuramento di fedeltà alla Croix du Lac, senza implicazioni dovute a ranghi e a famiglie. Lo feci senza alcun problema. Dopotutto, quel titolo mi era servito soltanto per avvicinarmi alla corte. E così, entrai nel corpo scelto, indossando la maschera. E potei anche cercare la mamma. Intanto, erano giunte voci che l’ametista era nelle mani di Amber Trenchard, la duchessa di Shelton. Non ne fui felice e pensai che ti fosse accaduto qualcosa. Certo, non potevo immaginare che tu fossi giunta qui.

- Non ancora…

Lo corressi. Evan sospirò.

- Cercai di farmi valere quanto più possibile, arrivando addirittura a trovarmi di fronte il Cavaliere Nero, ma non sapevo che fosse Greal. Ho imparato molto da lui, nelle volte che ci siamo scontrati prima di avere il comando della divisione speciale. E poi durante la notte della Renaissance, mentre ero di guardia nella cattedrale, ricordando, a ogni passo che facevo, che quel luogo era stato sottratto ai Delacroix, fu allora che la vidi.

Portai la mano al cuore, nel percepire quanto fosse tormentato nel confessare ciò che era accaduto,  oltrepassandomi con lo sguardo e fissandolo su Arabella.

- L’hai incontrata…

Il suo sorriso si fece lontano e nostalgico.

- Era inginocchiata e cantava sommessamente. Bianca come la luna, rifulgeva, nell’oscurità di quella notte. Ero il solo nella navata principale. Gli altri erano di ronda all’esterno e nei corridoi interni. Chiesi chi fosse, ma non si voltò. Era presa dal suo canto. Sguainai la spada, quando la vidi sollevare le braccia al cielo. Il diamante sul dorso della sua mano risplendeva, mentre il tatuaggio sul braccio sinistro continuava a crescere, luminoso a sua volta. Se non avessi avuto la maschera sarei rimasto ferito da quella luce, probabilmente. Fui colpito dalla dolcezza di quella voce. Cristallina, colma di amore e di speranza, nonostante la tristezza delle parole che pronunciava con quel canto. Credevo che fosse il canto di Adamantio. Lo conoscevo. Un po’ per il ricordo, un po’ perché la mamma ce lo cantava. In francese, per evitare di fartelo collegare all’originale, ma ne ricordavo ogni singola parola. Invece quel canto era totalmente diverso.

Mentre Evan raccontava, sentii gli occhi pungere. Portai una mano al cuore, che pulsava con più forza. Mi resi conto che anche lui stava provando mia la stessa sensazione.

- Q-Questo calore…

Mi voltai verso la Croix du Lac. Era da lei che proveniva. Aprì gli occhi, lucidi, prendendo fiato. Evan mi passò davanti, come se volesse proteggermi. L’aveva fatto anche quando la Croix du Lac si era avvicinata a me, la prima volta che ci eravamo incontrate di persona. E lei l’aveva schiaffeggiato. Pensai a come dovesse essere stato strano per lui, dal momento che l’aspetto era pur sempre quello della ragazza che amava. Eppure stavolta era stato lui a portarmi nel Sancta Sanctorum. Perché comportarsi così? La Croix du Lac intanto, si sollevò puntellandosi sulle mani. I capelli lunghi e biondi ricaddero morbidi sulla sua spalla sinistra, coprendo momentaneamente il diamante. Impiegò qualche istante per riprendersi, poi inspirò. Infine, voltò il viso verso di noi. Dio, i suoi occhi appena più scuri dei miei, lucidi come se avesse pianto.

- Canterò la prova che hai vissuto per coloro che non hanno nemmeno un nome.

Disse, con un filo di voce.

- C-Che cos’è?

Domandai a Evan.

- Parte di quel canto.

Deglutii, pensando a quando mi aveva detto che non ricordava il suo nome. Era ironico, quasi. Che fosse un canto per se stessa? Il bisogno di esorcizzare quella mancanza? Sapevo cosa le fosse successo, e quella tristezza che percepivo così forte e lacerante, in quel momento, sembrava la prova che aveva davvero dimenticato cosa significasse provare sentimenti positivi. Col tempo, ti rimane soltanto l’amaro.

- Infine, il momento è giunto, Evandrus.

Riprese.

Evan emise un sospiro spezzato. Lo guardai preoccupata.

- Il momento… per cosa? Per la convergenza?

- Aurore… se sei arrivata fin qui, allora immagino che sia giusto metterti a conoscenza di tutto.

Rispose invece lei, con un tono quasi mellifluo. Affilai lo sguardo.

- Non provarci nemmeno! Mi hai mentito da tempo immemore! Dov’è Arabella?! Che ne hai fatto di lei?!

Mentre si sedeva, ricomponendosi, Evan mi guardò con la coda dell’occhio.

- Ti ho detto che questo mondo non ha altro tempo. E io ho solo una possibilità per salvare Arabella.

- C-Che vuoi dire?!

Strinsi forte il suo braccio, affranta.

- Arabella è viva?

Domandò rivolgendosi alla Croix du Lac, seccamente.

Lei sorrise appena, lisciando le ciocche bionde allo stesso modo in cui avevo fatto io. Quel gesto era un’ulteriore prova del fatto che fossimo sorelle.

- Naturalmente. Credi davvero che non sia capace di tenere fede a un accordo? Evandrus, mi deludi.

Rispose.

Un accordo. Evan e la Croix du Lac avevano un accordo.

- N-Non dovevi solo trovare le Pièces?! Oh mio Dio, vuoi farla rinascere davvero?! E tu non ti sei già vendicata, dal momento che Evan ha ucciso tutti coloro che ti avevano fatto del male?!

La Croix du Lac si limitò a un risolino che mi fece scattare tanto da riprenderla. Stupita, lei si rivolse a Evan, indicandomi.

- Spiegami perché ho dovuto tollerare questa ribelle idiota per tutto questo tempo.

Mi irrigidii, scoccandole un’occhiataccia assassina. Col cavolo, ora dovevo anche la sua grazia a mio fratello? Accigliata e molto poco determinata ad ascoltarla oltre, lo guardai. Evan ricambiò il mio sguardo, poi si voltò verso di me. Mi sentii di nuovo in soggezione, nel vederlo così serio. Accidenti, non mi ero mai resa conto di quanto sembrasse più maturo quando aveva quell’espressione. Mi prese la mano, quella col braccialetto d’argento e lo portò alle labbra. Incredula, arrossii. Ma fu niente rispetto a quando mi strinse a sé, forte, come faceva solo quando piangevo disperata perché temevo di perderlo. Sgranai gli occhi, interdetta, nel sentire le sue mani affondare nei miei capelli e la sua guancia accomodarsi, per una volta, sulla mia testa. Inspirò a lungo, nel silenzio scandito solo dal suo respiro e dai miei mugolii. E poi, le sue labbra, gentili e delicate, furono sulla mia fronte, imprimendovi un bacio leggero. Mi sentii di nuovo bambina, in quel momento. Eppure avevo la sensazione che volesse trattenermi, che faticasse a lasciarmi andare. Singhiozzai, sentendo le lacrime agli occhi. E lo strinsi molto più forte di quanto avessi mai fatto.

- Evan…

Sussurrai appena.

- Ti voglio bene, Aurore. Qualunque cosa accadrà oggi, sappi che sono felice di essere stato tuo fratello. E che non avrei chiesto altro, se solo anche Arabella fosse stata con noi. Ed è giunta l’ora di riparare a tutto questo.

Bisbigliò, con voce tremante per l’emozione, talmente tormentata che stentai a realizzare che fosse proprio la sua.

Ansimai, tremando, quando si scostò da me e si avvicinò alla porta. Aveva recuperato la sua abituale compostezza, se non fosse per i suoi occhi, che erano appena più lucidi. Guardai la Croix du Lac, che ricambiò per una volta con un accenno di commozione. Evidentemente, quelle parole erano servite da risposta anche a lei. Scossi la testa, facendo un passo indietro, mentre Evan riapriva quella porta che ci separava dal resto del mondo esterno. Un manipolo di guardie imperiali, il corpo scelto della guardia personale, ci attendeva.

- C-Che significa?!

Chiesi, inebetita, senza riuscire a capire, cercando una risposta in mio fratello. Evan fece un cenno alle guardie.

- Portatela dagli altri. E’ tempo di portare a termine la cerimonia della convergenza. Esperia sta per rinascere.

Sentenziò.

Rimasi senza parole nel sentirlo. Incredula. Sconfortata. Terrorizzata all’idea di cosa sarebbe accaduto. Con la lacerante sensazione nel petto che quella sarebbe stata l’ultima volta che Evan e io avremmo parlato. Urlai quando le guardie mi presero con loro, mentre cercavano di allontanarmi nonostante mi opponessi. Urlai quando vidi Evan sempre più lontano da me, addentrarsi nel corridoio buio all’opposto, con la mano che reggeva quella della Croix du Lac. Il suo nome fu l’ultima cosa che riuscii a pronunciare, distrutta, prima di essere condotta nella grande gabbia che era stata fatta costruire dal nuovo Despota, lontana da Chalange, verso ovest, nel cuore della fitta foresta che circondava la capitale. Là dove la pietra risplende. Il luogo in cui la figlia dei Delacroix era stata sacrificata. Il suo nome presso gli antichi abitanti di Esperia era Dagaz. Per le generazioni a seguire, aveva simboleggiato un periodo particolare dell’anno. La bella stagione. Forse avevano preso spunto da quel momento. Come se dalla tragedia potesse scaturire qualcosa di buono. Una rinascita.

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Capitolo 57
*** XX. 2 parte ***


Fui scaraventata in cella senza troppi complimenti, accolta dalle braccia protettive di mia madre e di mio padre e dalle voci di tutti i miei compagni. Incredula, li vidi uno ad uno. Amber, Shemar, Rose e Blaez, Ruben e Violet, Leandrus coi ragazzi di Ruben, Hiram e la dolce Milene, che non vedevo da quando ero arrivata a palazzo Trenchard. Livia e Jamie. Persino Lord Oliphant e Angus, insieme a Lady Octavia e a Lorraine. Evan aveva tenuto i migliori per assistere alla fine. E poi, Damien.

- Tesoro mio, stai bene?!

La voce della mamma, che avevo abbracciato forte, era così apprensiva che mi fece sentire ancora più in colpa. Annuii, sconfortata.

- Sono mortificata… non sono riuscita a fermare Evan…

Mi morsi le labbra, mentre mio padre mi accarezzava dolcemente i capelli e i miei occhi incontrarono quelli di Damien. Mi guardava, senza ombra di rimprovero né di soddisfazione. Semplicemente, sembrava sollevato del fatto che fossi lì.

Violet e Amber mi affiancarono. Chissà da quanto tempo erano lì. C’era un nuovo sentimento che ci legava, in quel momento. Loro erano le mie migliori amiche, così come Rose era stata un modello di riferimento, per me. Alla fine, avevo la consapevolezza che quantomeno, sarei stata al fianco delle persone che amavo di più e che grazie al cielo, erano ancora vive.

- Dov’è Micheu?

Domandai a Lord Oliphant, quando si avvicinò. Il vecchio Lord, che aveva amato mia nonna Annabelle, guardò verso l’esterno.

- Con la sua famiglia. Si sono messi in salvo grazie a questi due ragazzini.

Rispose, abbracciando affettuosamente Livia e Jamie come fossero due nipotini. Entrambi arrossirono, soprattutto Livia, che aveva sempre trattato la nobiltà dell’Underworld ad armi pari, incurante dell’età.

- Siete degli eroi, allora…

Sorrisi.

- Dillo con più convinzione, Aurore.

Mi riprese la Lady del lapislazzuli, borbottando.

Annuii.

- Hai ragione. Sono davvero contenta… che voi siate tutti qui… Lady Octavia, Angus…

Lasciai momentaneamente l’abbraccio di mia madre per raggiungerli. Erano seduti, stanchi, ormai. L’età aveva reso tutto ancora più difficile, ma nonostante tutto, non avevano rinunciato a combattere. Lorraine aiutò l’anziana a trovare le mie mani.

- Piccola Aurore… ora so perché non riuscivo a vedere oltre, quando ti sei presentata al santuario dell’ambra…

Mi confessò Lady Octavia, incantevole nonostante il suo chignon intrecciato non fosse perfetto, nello stringermi la mano. Incuriosita, così come gli altri, le domandai il motivo. Si abbandonò a una riflessione interiore, poi mi sorrise.

- Perché avevi qualcuno che cercava di proteggerti, da molto, molto tempo.

Quelle parole, dette con tanto affetto e con tanta dolcezza, mi commossero. Guardai la mamma e papà, che mi sorrisero.

- Arabella… è riuscita ad attingere a parte dei poteri della Croix du Lac per proteggerti da lei… e da chi voleva farti del male…

Disse la mamma, cercando sostegno dell’abbraccio di mio padre.

- E alla fine, sei riuscita a ritrovare la tua famiglia.

Aggiunse Angus, con un guizzo allegro negli occhi blu.

- Nonno, non ti stancare troppo.

Lo riprese Blaez, sedendosi accanto a lui e coprendolo col suo mantello rosso scuro. Quel colore mi fece tornare in mente gli occhi di Evan e assentii alle parole di Angus.

- Eravate voi a palazzo Valdes, vero?

Papà aggrottò le sopracciglia chiare, mentre Angus si limitò a un colpetto di tosse e a un sorrisetto compiaciuto. Adoravo quell’anziano. Anche Amber e Shemar si avvicinarono a lui e quando la mia amica sfiorò Lady Octavia, inavvertitamente, quest’ultima ebbe come un sussulto. Sul suo volto scavato dallo scorrere del tempo, comparve una ritrovata serenità. Sorrisi anch’io, nonostante sapessi che sarebbe stata l’ultima volta. Mi alzai e andai da Hiram e Milene. La ragazza, appena più piccola di me, si inchinò. Scossi la testa e l’abbracciai forte. Quel gesto stupì tutti, soprattutto lei.

- C-Che…

- Tieni sempre stretta la mano di tuo fratello, Milene… non lasciarlo andare, mai…

Hiram era incredulo, mentre Milene arrossì, balbettando incerta.

- I-Io… c-come dite?

Cercò la complicità del fratello, che le rivolse uno sguardo adorabile, dolce, tanto da rassicurarla. Ruben mi mise una mano sulla spalla, quando sciolsi l’abbraccio e lo guardai.

- Mi prometti che proteggerai Violet?

La mia migliore amica si avvicinò a noi, imbarazzata.

- Si può sapere perché parli così, Aurore?

La guardai. La prima persona che mi aveva accolto con un sorriso nella mia nuova classe. La mia prima, vera amica. La stessa pazzerella che aveva sfidato la sorte per venirmi a cercare. Lo specchio della mia anima.

- Perché voglio solo che chi amo sia felice…

Si soffermò sulle mie parole e io sperai di non averlo detto in modo troppo retorico. Ma era così che mi sentivo. Qualunque cosa sarebbe accaduta, se c’era un momento per aprire il proprio cuore, era quello. Non avremmo avuto altre occasioni. Era forse questo che cercava di dirmi Evan. Violet mi scoccò un bacio sulla guancia.

- Ti voglio bene, Aurore.

Mi morsi le labbra, annuendo commossa.

- Anch’io, Violet… per sempre.

- Ah beh… comunque, dal momento che siamo in vena di confessioni… se sopravviviamo a oggi, Violet Hammond, giuro solennemente che verrò in capo al mondo, con te. E ti prometto di vivere al tuo fianco i giorni che mi restano.

A quelle parole di Ruben, tutti ci voltammo a guardarlo. Rose, allibita, mise una mano in faccia.

- Numi, Ruben, ti sembra questo il momento di fare una dichiarazione?!

Ruben sbattè le palpebre, incerto.

- Beh, dopotutto, avevo già deciso.

Violet arrossì fino alla punta dei capelli, nascondendosi dietro di me. Quella reazione lo stupì non poco, ma fece sorridere me. Nonostante stessero insieme, la mia amica era fondamentalmente parecchio timida e queste cose la imbarazzavano non poco.

- Ho detto qualcosa di strano?

Chiese il Lord del rubino, cercando risposte nei suoi compagni che annuirono all’unisono. Blaez sospirò.

- Beh, non è certo in questo modo che si chiede la mano di una Lady, Lord Cartwright.

Rispose invece Shemar. Amber lo guardò incuriosita.

- Non mi dire, ti ci metti anche tu…

Fece eco Rose, scuotendo la testa.

- Sta’ zitto tu, che ci hai messo vent’anni per baciare Amber.

Gli rispose Ruben, infastidito, prima di cercare il perdono di Violet.

- E questo cosa c’entra ora?

Replicò stupito Shemar. Leandrus gli dette una pacca sulla spalla.

- Vedi, amico… quello che vuole dire il Lord rosso è che sei fortunato che Amber ricambiasse il tuo amore, o avrebbe scelto qualcun altro molto tempo fa. Vero, Amber?

Shemar sorrise, poi guardò Amber con quello sguardo colmo d’amore che avevo imparato a conoscere. Lei ricambiò silenziosamente, ma quel velo rosso sulle sue guance mi fece intendere, con un filo di imbarazzo, dovevo ammettere, che forse c’era stato qualcosa in più, oltre a quel bacio.

- No, Leandrus… non l’avrei mai fatto… Shemar è sempre stato la sola persona che ho amato…

Una lacrima scese a bagnare il cuore definitivamente infranto di Leandrus, strappandoci un sorriso.

- Ah, ragazzini…

Commentò sovrappensiero Lord Oliphant, trovando l’approvazione di mio padre. La mamma invece, afferrò la lunga treccia argentata che papà portava lungo la schiena e lo affiancò.

- Non dirmi che senti il peso dell’età, amore mio…

Disse, con quel tono adorabilmente minaccioso che amavo. Papà la guardò con la coda dell’occhio.

- A dire il vero sento solo che mi stai tirando la treccia.

- Dovresti tagliarla, sì. Non oso immaginarti coi capelli sciolti…

Papà sorrise.

- Di certo sarà affascinante ugualmente… non è vero, mamma?

Domandai, sentendo rinascere in me quel poco di entusiasmo. La mamma mi guardò stupita, poi sorrise e smise di importunare i capelli di papà, appoggiandosi al suo braccio, che ben presto, la cinse di nuovo, gentile e protettivo. Mi sentii incredibilmente felice, al pensiero di vederli insieme. Un sogno che avevo sempre desiderato si avverasse. E alla fine, in un modo o nell’altro, l’aveva fatto. Mi strinsi nelle braccia, preda di quel calore che solo poco prima avevo sentito nel Sancta Sanctorum. Amore. Tanto. E speranza. Chiusi gli occhi, quando mi sentii avvolgere a mia volta. La guancia di Damien si appoggiò alla mia, e serrata teneramente nel suo abbraccio, forte della sua ritrovata comprensione, mi sentii di nuovo forte.

- Scusami…

Mormorai, riaprendo gli occhi.

- Scuse accettate. E scusa anche me… per non essermi fidato. Avevo paura che se ti avessi lasciata fare, ti avrei persa davvero…

- Sono tornata da te… siamo di nuovo insieme, Damien…

Lui annuì, stringendomi con più forza, quasi a volersi sincerare che fosse davvero così. Posai le mani sulle sue.

- Solo, Damien… non lasciarmi più in quel modo… ho avuto paura… tanta… di perderti anch’io…

Damien assentì, poi lo vidi guardare fuori, attraverso la gabbia a larghe maglie. Feci lo stesso, così come tutti gli altri, nel vedere le guardie al comando di Evan distribuirsi come in un immenso cordone, molto più grande di quello che aveva cinto la piazza centrale di Chalange durante la sventata esecuzione di Amber. Stavolta non c’era molta gente intervenuta. Troppi avevano paura ed erano rimasti chiusi delle proprie abitazioni, dopo ciò che era accaduto quel giorno. I soli temerari, probabilmente, provenivano dalle terre confinanti. E poi, d’improvviso, sentimmo risuonare delle campane. Nel silenzio, il suono arrivò forte e rombante. Poco dopo, le guardie eseguirono una sorta di presentat-arm. Guardai papà e Shemar che studiavano la situazione, ma anche gli altri non erano da meno. Una schiera di dieci guardie, aperta e chiusa dalle due in uniforme bianca che avevo visto prima di entrare nel corridoio che portava al Sancta Sanctorum, scortò la Croix du Lac, che indossava una semplice veste bianca, fermata in vita da una cintura argentata, esattamente al centro dello spiazzo, dove un tempo doveva esserci una sorta di altare sacrificale, ora soppiantato da una costruzione più alta, con almeno una decina di scalini in pietra. Un pulpito, forse, circondato da un lieve avvallamento. Compresi che quel posto doveva essere una specie di tempio all’aperto, perché nell’osservare il resto del paesaggio, che prima non avevo fatto in tempo a notare, c’erano i resti di cinque colonne che facevano da punti focali. Per di più, da esse, delle stradine costellate da sassi, convergevano verso il punto preciso in cui era salita la Croix du Lac. Tutto intorno, delle grandi torce vennero accese man mano, conferendo nuova luce alla radura racchiusa dagli alberi frondosi.

- Che farà da lì?

Domandò Einer.

- Convoglierà l’energia delle Pièces.

Spiegò Lord Oliphant.

Livia strinse con forza le sbarre di ferro, contrariata. Anche se fosse, da lì, non potevamo far altro che assistere. Eravamo a diversi metri di distanza.

- Arabella…

Mi voltai verso la mamma, che aveva stretto la mano di papà per cercare coraggio.

- Lei è viva, mamma…

Dissi, suscitando la loro reazione.

- C-Cosa? Dici davvero, Aurore?

Annuii, sperando di rincuorarla. Evan l’avrebbe salvata, in qualche modo. Cercai sostegno in Damien, che si accorse di qualcosa di strano. Le sue palpebre si fecero più strette, quando vide il professor Warren affiancare la nostra gabbia, a meno di un metro da noi.

- Papà!

Esclamò Jamie.

Il professore ci guardò.

- Sta per iniziare.

- Allora apri, così ci godiamo meglio lo spettacolo.

Replicò acidamente Damien. A quanto pare non si erano affatto chiariti. Il professore gli rivolse uno sguardo apatico, poi guardò mio padre.

- Non posso farlo, è un ordine del Despota.

Papà ricambiò in silenzio, poi si limitò a ignorarlo e a guardare oltre.

Si udì il clangore delle spade che si incrociavano tra loro per creare degli archi, quando finalmente, apparve Evan. Non era accompagnato da nessuno. Né scorta, né appoggi d’alcun tipo. Sentii mancare un battito nel pensare alle sue parole, alle sue braccia che mi avevano stretta come in un triste congedo. Poggiai una mano sulla sbarra e cercai di farmi forza. Era calato silenzio, tutto intorno. Nessun commento, ma solo attesa e preoccupazione. Il Despota, mio fratello, ci rivolse uno sguardo. Non so cosa pensarono gli altri, ma a me parve di vederlo sorridere. Poi proseguì, percorrendo la strada principale, quella che conduceva al pulpito. L’aria era carica così come lo era nel Sancta Sanctorum. A ogni passo che Evan faceva verso quell’altare maledetto, avevo la sensazione che ciò a cui avremmo assistito avrebbe cambiato per sempre le nostre vite. E il mio cuore diventava sempre più pesante.

Evan salì il primo gradino. Inspirai, pensando a uno dei primi ricordi che avevo di lui.

- Mamma, mamma!! Aurore è caduta!!

La voce angosciata di Evan, mentre cercavo testardamente di compiere i miei primi passi. La mamma sorrideva. Incantevole, giovane, con i lunghi capelli raccolti in morbide trecce e il suo vestito di un leggero magnolia, seduta su un divano importante, mentre mi tendeva le mani. Ed Evan che protestava nel vederla così tranquilla. Ricordavo di esser caduta su qualcosa di soffice e subito dopo quel grido di protesta, mio fratello che mi soccorreva, mentre lo guardavo con un broncio riflesso nei suoi occhi preoccupati. La sua manina che prendeva la mia e mi aiutava a sollevarmi, trionfante, e a muovere di nuovo quei passi verso la mamma.

Aprii la mano, carezzando la sbarra gelida.

- Sono il Despota Supremo di questo mondo. L’ultimo discendente della famiglia Delacroix. Il mio nome è Evandrus Delacroix e oggi vengo a porgervi un dono, Vostra Grazia.

Proclamò, con voce determinata, mentre continuava a salire gli scalini che lo separavano dall’irreparabile.

- Mi chiamo Evan Kensington. E lei è mia sorella, Aurore. Lieto di conoscervi. Ah, nostra madre è quella squinternata che ha sintonizzato male l’antenna, per la cronaca. Se non vedete la tv, è per colpa sua.

Aveva detto, quando ci eravamo trasferiti a Darlington, alle famiglie del nostro complesso residenziale che si erano affacciate incuriosite dopo aver visto il camion traslochi. Quanto si divertiva a prendere in giro la mamma per la sua poca dimestichezza con la tecnologia… quel pensiero mi fece sorridere, nonostante le lacrime che avevano preso a scorrere.

- Ma prima ho un annuncio da fare.

Disse, quando la sua scalata ebbe termine. Si inchinò e la Croix du Lac assentì.

- Ehi, guardate!

Eyde ci fece notare come una moltitudine di persone, comprese quelle che avevo visto a palazzo, stava raggiungendo quel luogo. Erano venute ad assistere, infine. Damien sibilò qualcosa a suo padre, che rimase immobile, mentre io guardai impietrita verso Evan. Violet, che aveva stretto la mano di Ruben, fece lo stesso. Chissà se anche lei ricordava qualcosa.

- E così Violet ha vinto di nuovo! Sei grande, amica mia!! E con questa sono due a zero, Evan!!

Ricordai di averlo detto, abbracciandola forte, felice perché aveva battuto Evan a una partita di bolle di sapone per la Wii. Avevo riso come una matta, scattato foto e persino girato un video che li immortalava a cercare equilibrio mentre quasi sembravano sculettare da una parte e dall’altra, col controller in mano e le braccia tese. Violet rideva ed Evan bofonchiava ogni volta che la mia amica lo superava. Alla fine, però, erano stati concordi nel volermi vedere all’opera e mi avevano persino presa in giro, seduti sul divano a mangiare pop-corn e a ingozzarsi di aranciata, beandosi delle mie figuracce e sghignazzando.

Deglutii, quando Evan si voltò.

Il lungo mantello bianco si aprì, sventolando. Aveva indossato la stessa uniforme che aveva quando si fingeva Liger. Niente più niente meno, se non la spada, assente. Sollevò il braccio sinistro a mezz’aria e parlò, richiamando l’attenzione.

- Esperia. Eoni prima che la famiglia Delacroix varcasse la soglia di questo mondo, in fuga da un’epoca di guerre, di carestia e di morte, era questo il nome che gli antichi abitanti avevano dato a questa dimensione. Per molto, molto tempo, essi avevano vissuto prosperando al punto da influenzare lo sviluppo stesso delle realtà confinanti, tramite i varchi che essi stessi avevano creato. Possessori di una tecnologia molto più avanzata di quanto allo stato attuale, si possa anche soltanto immaginare, in perfetta armonia con la natura, ebbero a cuore la vita di ogni singolo essere per lungo tempo. Così accadde, fino al giorno in cui Adamantio, la stella che garantiva loro la sopravvivenza, finì col cessare il suo ciclo vitale, dando origine ai cataclismi che portarono i continenti che formavano Esperia a collidere tra loro, andando incontro alla distruzione assoluta. Fu allora che si decise di evitare la fine creando artificialmente un nuovo nucleo che fosse in grado di far rinascere quella stella. Quel nucleo è ciò che voi tutti  conoscete col nome di Croix du Lac.

La maggior parte di noi, come anche coloro che stavano continuando ad affluire ascoltava quelle parole che per tanti secoli erano state tenute nascoste. Nessuno sapeva cosa fosse esattamente la Croix du Lac, ed Evan era ben determinato a rivelare la verità. Eyde e Gourias, increduli, si ritrovarono a borbottare persino che si trattasse di una macchinazione. Ma prima che potessi rispondere che non lo era, Angus li rassicurò sul fatto che mio fratello diceva il vero. A quel punto, persino io mi stupii. Evidentemente l’anziano Vanbrugh non mi aveva detto tutta la verità. Lady Octavia, invece, strinse le mani in preghiera, mormorando il canto di Shelton, abbracciata da Amber e da Lorraine. Milene e Hiram si erano stretti la mano, la stessa espressione dubbiosa sul volto. Tutto intorno, le voci concitate della folla erano la dimostrazione che quelle parole avevano sollevato un vero e proprio dibattito. Avrebbero tuttavia creduto alle parole del Despota che aveva fatto sterminare così tante persone? E la Croix du Lac, che era ancora dietro a Evan, cosa avrebbe fatto?

- Capisco bene la vostra perplessità. Ebbene, lo ero anch’io, quando ne sono venuto a conoscenza. Ciò che invece la maggior parte di voi ignora, relativamente all’era moderna, eoni dopo la scomparsa dei primi abitanti di questo mondo, avvenuta a causa dell’instabilità del nuovo nucleo, e dopo la venuta dei Delacroix e delle famiglie dell’oligarchia, è che alcuni dei manoscritti messi in salvo da quell’antica e saggia gente, caddero in mano di persone senza scrupoli, determinate soltanto a distruggere la prima famiglia. Il germe dell’interesse, della venalità e del tradimento era stato instillato e ben presto, avrebbe portato alla situazione attuale. Alcuni membri dell’oligarchia, circa cinquecento anni fa, si riunirono per affermare il loro potere sull’Imperatore, arrivando a rapire la stessa erede al trono, che al tempo, aveva soltanto sedici anni.

Portai la mano al cuore, pensando al ritratto della Croix du Lac che avevo visto nei sotterranei del tempio in rovina a Chambord.

- Con un ignobile e vile stratagemma, quella fanciulla fu strappata ai propri affetti più cari, torturata e infine sacrificata a qualcosa che quella gente stessa aveva strumentalizzato per ottenere il potere. Credendo che la Croix du Lac fosse una divinità, essi cominciarono ad adorarla in quanto tale, accusando i Delacroix di aver rinnegato la fede dalla sola entità superiore che avrebbe governato quel mondo e riuscirono a estrometterli al termine di una lunga guerra. Fu così che nacque il sistema attuale, che vede l’elezione di un Despota legittimato dalla stessa Croix du Lac. Ma ora vi chiedo… avete idea di quante fanciulle sono state sacrificate nel corso del tempo per mandare avanti questa barbarie?

La mamma esitò, tremando, nel sentire quell’ultima constatazione. Chissà quante volte lei ed Evan ne avevano parlato. Papà e anche il professor Warren la guardarono. Loro e pochi altri avevano custodito il segreto su quell’ultimo sacrificio.

Evan si scostò, tendendo la mano alla Croix du Lac, mentre i presenti parlavano tra loro, incessantemente. Lei fece qualche passo in avanti, sollevando il braccio col diamante che continuava a risplendere.

- Il Despota dice il vero. Per secoli sono stata tenuta prigioniera nel Sancta Sanctorum, confinata in una bara dalla quale non avrei potuto scappare neanche se avessi voluto. L’energia delle Pièces teneva ben saldo il sigillo, che veniva allentato ogni cinquant’anni, quando un nuovo sacrificio mi veniva tributato. Il mio dolore è diventato il dolore delle mie figlie. La mia disperazione è cresciuta di pari passo. La mia coscienza è rimasta viva, anche quando il corpo si deteriorava. Il ricordo di una promessa mai mantenuta ha fatto sì che il mio sconforto si trasformasse in odio. Per chi mi aveva tradita, verso chi mi aveva uccisa. Quando l’ametista, che garantiva la stabilità del nucleo originale, assieme alle altre Pièces, fu sottratta, scomparendo da questo mondo, si rese necessario un nuovo sacrificio, l’ultimo, stavolta ancora più subdolo. Mi fu offerta una bambina di soli tre anni. Il suo nome era Arabella Valdes, figlia di Cerulea Rosenkrantz e di Greal Valdes, il Lord dell’ametista.

Quando la verità sulle origini di mia sorella fu rivelata, l’attenzione si focalizzò su di noi, sui miei genitori, che fissavano impietriti la Croix du Lac. Sorsero nuovi brusii, si alzarono urla di disapprovazione, ma la confusione che regnava fu ben presto stroncata da Evan.

- Ciò che è accaduto è di dominio pubblico. Quella bambina era la prima figlia di una coppia che si amava e a cui non fu concesso di stare insieme dalle convenzioni di questo mondo. Quella famiglia che mi ha dato una seconda possibilità salvandomi dalla morte. Quella famiglia che nonostante sia stata separata ha cresciuto me e l’altra bambina nata da quella relazione, Aurore, l’ultima Lady dell’ametista.

Lord Oliphant abbassò gli occhi, colpevole, così come Angus, che strinse con più forza la mano del nipote.

- Evan…

Mormorai, preoccupata che quelle rivelazioni potessero essere troppo per quella gente che aveva sempre creduto, alla fine, in una verità per troppo tempo manipolata.

- E ora il diamante che risplende sulla mano sinistra di Arabella Valdes, fa sì che la sua vita sia collegata a quella del nucleo della stella.

Quell’inattesa e sconvolgente rivelazione portò lo sconvolgimento sui volti di tutti noi. Trasalii.

- Q-Quindi non è possibile scindere Arabella dalla Croix du Lac?!

Urlò la mamma, quando lo sconforto raggiunse il culmine, accasciandosi tra le lacrime. Mi chinai e l’abbracciai forte, nonostante anch’io avessi pensato la stessa cosa.

- Oh mamma… fidati di Evan… lui ha detto che può salvarla…

Sussurrai, sebbene non riuscissi a immaginare il modo in cui ci sarebbe riuscito. Papà sbottò.

- Apri questa cella maledetta, Lionhart!

Ordinò, aggrappandosi alle sbarre.

- Non posso, Greal. Te l’ho detto, è un ordine del Despota.

- E’ l’ordine di un ragazzino che non sa quello che fa!

Protestò.

I ragazzi lo osservarono incerti. Il professore scosse la testa.

- Non lo farò. Non ora.

- Lionhart! Figlio di puttana, non capisci che in questo modo finirà col distruggere ogni cosa?! Numi, la profezia si sta avverando…

- Quella sull’ultimo discendente dei Delacroix?

Domandò Damien.

Angus sorrise, facendosi aiutare da Blaez per rialzarsi. Puntellandosi al braccio forte del giovane nipote, ci raggiunse.

- Ah. Lord Greal, Lady Cerulea. Non pensavo che sarei arrivato vivo per assistere a questo momento. Quelle parole furono pronunciate in punto di morte da un giovane uomo che desiderava salvare la propria amata e che in vita, non vi riuscì. In qualche modo, questo si sta ripetendo, a distanza di cinquecento anni. Quel ragazzino… è sì l’ultimo dei Delacroix, ma è anche il figlio che Lady Cerulea ha cresciuto nel mondo della luce. In sé non ha solo il dolore.

- Ha anche tanta speranza…

Aggiunse Lady Octavia, con le lacrime lucenti che le imperlarono gli occhi che vedevano oltre ciò che noi non potevamo vedere.

- C-Che significa?

Balbettai, preoccupata, prima di tornare a guardare il pulpito.

- E’ tempo di porre fine a tutto questo. D’ora in poi, non ci saranno più sacrifici. In quanto Despota Supremo, questo è il mio ultimo desiderio, per cui ne auspico la realizzazione immediata. Underworld, il regno dei morti, non sarà più questo il tuo nome. Con te cadrà il sistema nato nel sangue innocente cinquecento anni fa. Da oggi fino alla fine dei tempi, non vi saranno più Despoti. Con me si chiuderà il cerchio. Chiedo alla nuova generazione di guidare il tempo che verrà, con giustizia, con intelligenza e con parsimonia. Per troppi secoli, questo mondo è stavo governato dallo spettro della congiura e della morte. Mai più. Amber Trenchard, Lady dell’ambra, il tuo valore, la tua rettitudine e la tua onestà siano d’esempio per i posteri. Affido a te il nuovo corso, prima Imperatrice di Neo Esperia.

Tutto il vociare confuso si era fermato. Anche i nostri respiri, probabilmente, mentre Evan tendeva il braccio verso la cella che ci ospitava. Ci voltammo senza parole verso Amber, che aveva sgranato gli occhi. Il suo bel viso era contratto dall’incredulità.

- I-Io…

Balbettò appena, quando Lady Octavia ne raccolse le mani tremanti e le portò al viso.

- Bambina amata…

Sussurrò.

Mi voltai di nuovo verso Evan, sconvolta. Quante volte avevo pensato che Amber sarebbe stata una stupenda Imperatrice? E ora, era così. Evan stava demolendo del tutto le strutture obsolete di cui mi aveva parlato Rose, una volta. Ma a che prezzo? Perché aveva detto che si trattava del suo ultimo desiderio? Mio fratello sorrise compiaciuto, quando vide le guardie imperiali, compreso il professor Warren, inchinarsi in direzione di Amber.

- E ora, Croix du Lac, è tempo di pagare il conto. Per entrambi.

Disse, nel voltarsi verso di lei. Ce li avevamo di fronte, nonostante la distanza, e potevamo vederli chiaramente.

- Evan… che cosa…

Tremando, mi alzai, afferrando le sbarre ghiacciate.

All’esterno di quella cella, le persone si erano nuovamente rivolte titubanti verso il pulpito. La Croix du Lac sollevò appena il braccio sinistro, posando la mano sul petto di Evan. Lasciai scivolare la mia mano, portandola istintivamente sul mio cuore, che scandiva battiti accelerati. Il diamante splendette con più energia, liberando fasci di luce com’era accaduto già nella piazza centrale di Chalange, quando si era mostrata.

- C-Che sta facendo?!

Esclamò Damien, affiancandomi.

- Hai detto di avere un dono per me.

Disse la Croix du Lac, con voce tranquilla.

- Buuuuuuuh !!

Ricordai la volta in cui Evan mi fece praticamente calare in testa un piccolo peluche a forma di panda. Avevamo visto la Cina, pochi mesi prima e mi ero innamorata letteralmente di un cucciolo di panda dello zoo di Pechino. Sarebbe stato anche un bel pensiero se non fosse che ero nel bel mezzo di un sogno piacevole, una rarità. Mi svegliai di soprassalto vedendo in faccia un’ignota massa morbida bianca e nera e urlai, tirandomi su all’istante. Peccato solo che la faccia di mio fratello fosse altrettanto vicina e l’avessi presa in pieno con una testata. “E’ questo il modo di svegliarsi, testa dura?”, mi domandò, massaggiandosi il naso. Non che io non mi fossi fatta male, anzi, avevo preso una bella botta a mia volta. “Colpa tua, razza di scemo! Così impari a…”, mi interruppi, notando il peluche che era caduto a terra. Lo raccolsi incuriosita, poi guardai mio fratello. “E questo?”, domandai. Evan sorrise, senza togliere la mano dal naso dolorante. “Per te, un regalino”, rispose. Lo tenevo come un gioiello prezioso, sulla mia scrivania, da allora.

- Vi porto in dono ciò che più bramate. Il solo ricordo che avete perduto. Il più importante. Ciò che vi fu sottratto per impedirvi di avere il riposo che avete sempre agognato. Ciò che i Delacroix hanno sempre tramandato, voce a voce, di generazione in generazione, l’eredità del vostro amato.

Il ricordo che la Croix du Lac aveva perduto.

- Il suo nome…

Mormorai, suscitando la curiosità di Livia e di Rose.

- Tu lo conosci, Aurore?

Mi domandò Damien, perplesso.

Scossi la testa. La mamma intanto si era rialzata e mi aveva posato la mano sulla spalla. Mi girai appena per guardarla. Il suo viso era incrinato dal pianto, tanto era agitata. Così come non l’avevo mai vista.

Anche pochi metri più in là, la Croix du Lac pianse.

- Pronuncia quel nome… liberami… così che possa porre fine alla mia maledizione…

La folla si inchinò in preghiera, invocando la salvezza.

Amber, ancora accanto a Lady Octavia, si alzò, raggiungendo le sbarre.

- Lord Warrenheim.

Disse. Il professore fece un cenno con la testa.

- Dovete attendere ancora, prima di poter chiedere ufficialmente qualcosa.

Shemar storse la bocca, contrariato, ma Amber lo fermò prima che potesse dire qualcosa.

- Ah, numi… ci affidiamo a voi…

Disse, semplicemente.

Evan si avvicinò appena all’orecchio della Croix du Lac e mormorò qualcosa.

- Helise

Bisbigliò leggera e quasi impercettibile Lady Octavia, chinando il capo e congiungendo le mani, prima di profondersi in un nuovo sommesso canto di preghiera. Un canto di speranza.

La Croix du Lac sorrise, accarezzando la guancia di Evan con la mano libera. Trattenni il fiato, quando la vidi dirgli qualcosa che Lady Octavia aveva ignorato, persa nel suo canto, e nel sollevarsi appena, incontrando le sue labbra. Sotto gli occhi increduli di tutti noi, la Croix du Lac baciò Evan. La luce sprigionata dal diamante si fece più intensa. D’improvviso, non la vedemmo più, se non fosse per un piccolissimo bagliore che aleggiava tra loro. Evan sostenne quel corpo che pareva senza vita, mentre la mamma si ritrovò a gridare disperata il nome di mia sorella. Papà la strinse forte, così come fece Evan con Arabella, nel sedersi, dolcemente, tenendola tra le braccia. Le accarezzò delicatamente i capelli, poi ne sollevò il braccio, su cui non c’era più alcun segno né del tatuaggio né del diamante.

- Arabella… amore mio… a quanto pare, la Croix du Lac ha voluto concedermi un ultimo momento, prima di andare. Svegliati, angelo, svegliati e osserva coi tuoi occhi, di nuovo, questo mondo che ci ha visti nascere, che ci ha permesso di incontrarci e che ci ha separati per così tanto tempo. Ma ora, la vita che ti ho sottratto diciassette anni fa, te la restituisco, finalmente. C’è un futuro che ti attende, luminoso e stupendo come te. Arabella, il tuo coraggio è stato la mia forza. La tua compassione la mia speranza. Senza di te, la mia vita era incompleta. Ora posso andare, senza rimpianti, perché tu sei qui… accanto a me, accanto a coloro che amiamo… ancora una volta…

La piccola luce che aleggiava attorno a loro scese, ponendosi proprio davanti a Evan, che alzò lo sguardo. Poi sorrise. Quel sorriso che conoscevo meglio di chiunque. Quello che era scolpito nella mia anima come se fosse stato impresso a fuoco. Evan sollevò la mano, accogliendo quel caldo bagliore e guidandolo verso il suo cuore.

- Oh mio Dio… vuole diventare la Croix du Lac!

Gridò Damien, scrollandoci dalla magia ingannevole di quel momento. Mi voltai sconvolta verso di lui, così come fecero tutti gli altri. Era quello il piano di Evan? Per salvare Arabella doveva diventare lui la Croix du Lac?! Annichilita ormai, del tutto inerme davanti alla mia cecità, mi accasciai sulle sbarre, stringendole con forza fino a infilzarmi la carne con le unghie. Mentre il nucleo si instaurava nel cuore di mio fratello, nello shock generale, urlai il suo nome sentendomi scossa dal punto più profondo della mia anima. Durò un attimo. Rinvigorito da nuova energia, il nucleo sprigionò la sua forza, puntando alla lontana stella priva di forza che non riusciva a rischiarare il cielo. La gente urlò, terrorizzata, ma Amber ordinò di mantenere l’ordine. La terra intera tremò, per pochi istanti e la luce invase ogni singolo millimetro di quel mondo in rinascita, al punto da accecarci, persino. Non ricordo cos’accadde di preciso, nessuno di noi fu in grado di capirlo. Ricordo solo che a quella luce si unì un infinito calore che ben presto salì verso l’alto, come se fosse stato sprigionato dalle profondità stesse di quel mondo. E con esso, una miriade di sensazioni. Paura, angoscia, tormento, rimorso e poi nuova speranza, felicità, gioia… e pace. Era come se gli opposti fossero bilanciati, dopo aver ritrovato quell’equilibrio che era perduto da tanto tempo. Sentimmo la vita rinascere davvero, dentro di noi, come se le nostre stesse anime fossero state rinfrancate e all’esterno. Come un tempo era accaduto ai primi abitanti di Esperia, anche ora, sembrava quasi che la natura reagisse, scrollandosi di dosso quell’oscurità che era calata tanti anni prima, interagendo con gli esseri viventi che popolavano quel mondo. I messi, i grifoni, ogni singolo essere partecipò a una nuova, rinnovata sinfonia. Era quella la vera Renaissance. Solo dopo un tempo che sembrò infinito, la luce si dileguò. Impiegammo un po’ per recuperare il controllo, tanto eravamo shockati, tutti quanti. Papà fu il primo a rialzarsi, aiutando la mamma. Storditi, anche troppo, per ciò che era successo, ci guardammo gli uni gli altri, in reverenziale silenzio.

- G-Guardate…

Furono le prime parole che qualcuno, tra la folla, riuscì a pronunciare. Gli occhi feriti di quella gente, così come i nostri, puntarono al cielo, verso l’est. Una coltre di nuvole sembrava starsi aprendo. Il colore, che fino a quel momento era fermo su un plumbeo sanguigno, ora possedeva una sfumatura appena più chiara rispetto alla notte eterna. Poco a poco, mentre c’era chi si rialzava, mentre le guardie imperiali aiutavano chi aveva più bisogno, quella notte ebbe termine. Un timido, gentile e caldo primo raggio di luce fece breccia tra quelle nuvole e la sfumatura chiara si riempì di un azzurro luminoso e rassicurante, portando con sé la sua benedizione.

- E’… è l’aurora…

Mormorò la mamma, con la voce resa debole dalla commozione.

- L’aurora…

Feci eco, nel sentire a mia volta l’eco di quel nome, del mio nome, sprigionata dalle migliaia di voci che stavano assistendo a quello spettacolo. Il giorno stava rinascendo. E mai come in quel momento ringraziai il cielo per quello spettacolo meraviglioso di cui nel mio mondo, avevano dimenticato l’importanza. Abbracciai forte i miei genitori, piangendo, mentre il professor Warren apriva la porta della nostra cella. Non uscimmo subito. Il professore, comprendendo la nostra incredulità, si inchinò davanti a una sconvolta Amber.

- Neo Esperia vi rende omaggio, Imperatrice. E’ nostro desiderio eseguire gli ordini che Vostra Maestà ci impartirà.

- Papà…

Sussurrò Damien, stancamente. Ormai anche lui doveva aver capito che lottare senza remore era inutile, per tutti. E dopotutto, forse era proprio questa una delle cose che Evan voleva farci capire. Strinsi la mano della mamma, cercandone la forza, mentre Jamie affiancò il fratello, stringendo la sua casacca scura, la stessa che indossava quando eravamo stati catturati. Livia invece era sconvolta. Era la prima volta che vedeva la luce naturale di quel mondo. Incredula, cercò la presenza di Lord Oliphant, che la strinse con aria protettiva. La nostra forza era nell’essere uniti. E non era così solo per noi. Anche i ragazzi erano tutti insieme. Lo stesso Shemar, che aveva protetto Angus assieme a Blaez, raggiunse Amber e le sorrise dolcemente. Ora che entrambi finalmente si erano dichiarati, era molto più rilassato e meno formale.

- Pensi di farli aspettare ancora per molto?

Domandò, con voce gentile.

Amber sembrava ancora in difficoltà. Guardò persino me, che da parte mia, ebbi solo la forza di annuire e sorridere. Fu sopraffatta dall’emozione e i suoi begli occhi si riempirono di lacrime. Cercò di riprendere fiato, quando Rose e Blaez la rassicurarono sul fatto che poteva farcela. E alla fine, dopo un lungo e profondo sospiro, prese il braccio di Shemar e uscì dalla cella, salutando per la prima volta come la nuova Imperatrice, il suo popolo.

Poco a poco, anche gli altri uscirono. Violet e Damien rimasero con me e con i miei genitori, invece.

- D-Dovremmo andare, Aurore…

Annuii a mia madre, sciogliendo la presa e correndo ad abbracciare i miei amici. Violet scoppiò a piangere, abbracciandomi forte, così come me. Damien mi accarezzò dolcemente i capelli.

- Evan è…

- Ci siamo noi, Aurore. Ci siamo noi. E ora, tua sorella ha bisogno anche di te.

Disse Damien, quando smisi di singhiozzare. Guardai entrambi i miei amici, facendomi forza e annuii.

- Andiamo…

Mormorai.

Furono i passi più difficili della mia vita. Camminavamo tra gente ancora sconvolta, che piangeva, che urlava, che benediva quel giorno rinato, finalmente riunita dopo anni e anni di interminabile sofferenza, mentre la luce del giorno, portando nuova linfa vitale con sé, ci mostrava un mondo meraviglioso, in risveglio, dopo essere stato addormentato per così tanto tempo. Proseguimmo lungo la strada costellata dai sassi che mi ricordava tanto la strada di diamanti del mio sogno ricorrente. A metà, però, non riuscii a sopportare più quell’agonia e percorsi correndo l’ultimo tratto che ci separava dalla scalinata che portava al pulpito. Cercai di farmi animo, nonostante temessi ciò che avrei visto, una volta salita. Non avevo voluto farlo, fino a che si poteva vedere, dalla cella. Strinsi il braccialetto di Evan, sentendolo pesare più del solito.

- Fratello mio…

Ripensai alle sue ultime parole. “Ti voglio bene”, mi aveva detto. Alla fine, ancora una volta, non mi aveva tradita. Nonostante mi avesse mentito, l’avesse fatto con tutti, per poter andare avanti nel suo proposito di salvare Arabella. Aveva ucciso delle persone, finendo col tingere di sangue, completamente, le sue mani così come il titolo di Despota. Mai nessuno avrebbe nominato quell’appellativo vedendone le caratteristiche positive. Evan aveva posto fine a un’era. Ma aveva anche dato vita al futuro. Rincuorata dal pensiero che nonostante tutto, mio fratello era rimasto la persona che amavo fino alla fine, salii i venti gradini di pietre sconnesse che portavano al pulpito. E quando vi giunsi, seguita dai miei genitori, da Violet e Damien, vidi Evan e Arabella, l’uno accanto all’altra, con le mani intrecciate. Sembravano dormire entrambi. La luce li aveva investiti, rendendo il pallore di mia sorella ancora più evidente, nonostante la dolcezza della sua espressione. Anche Evan aveva un’espressione rilassata, felice, come non la vedevo da tanto tempo. E mi avvicinai a loro, titubante, mentre la mamma ricordò di averli visti in quel modo da bambini, la notte che scoprì chi era il piccolo Evandrus Delacroix. Facendo attenzione, mi chinai al loro fianco, accarezzando i capelli di Evan. Al centro del petto, una bruciatura evidente testimoniava cos’era accaduto. Chissà quanto dolore aveva provato. Eppure, aveva sorriso anche in quel momento.

- Ti voglio bene anch’io, Evan…

Sussurrai, accasciandomi sul suo petto. Il suo cuore non batteva più, ormai. Il cuore che tante volte mi aveva rassicurata col suo battito, sin da quand’ero bambina. Strinsi forte la giacca bianca, lasciandomi andare a uno sfogo che mai, dopo quella volta, mi capitò di avere. Anche la mamma si era chinata accanto a noi. Aveva poggiato la mano su quelle congiunte dei miei fratelli.  

- I miei bambini… non vi ho saputo proteggere…

- Non è colpa tua, mamma… Evan… aveva già deciso… da molto tempo…

Le confessai. La mamma mi guardò, sforzandosi di provare anche solo a realizzarlo. Credo che in cuor suo, già lo sapesse. Una mamma conosce bene il cuore dei propri figli. Ed Evan lo era sempre stato, forse già da quando aveva accarezzato la sua guanciotta piena resa rossa dal sonno per la prima volta. Intanto, sentii altri passi raggiungerci. Ma non ebbi la forza di voltarmi. Non riuscivo a farlo. Volevo avere ancora un po’ di tempo con Evan. E poi, un sussulto, appena percettibile, ci fece rivolgere la nostra attenzione ad Arabella. Poco a poco, la vita tornò a fluire anche in lei. O forse, era più corretto dire che la sua anima tornò a prender possesso del suo corpo.

- Arabella!

Esclamò la mamma, scostandosi per aiutarla. Le sollevò appena il capo e Arabella tornò a respirare. Com’era accaduto nel Sancta Sanctorum, quando ancora la Croix du Lac, Helise Delacroix, aveva il controllo del suo corpo, riaprì gli occhi, che alla luce del nuovo giorno mi apparvero davvero di pochissimo più scuri dei miei. Ne sembrò ferita, tanto che ebbe qualche problema nel mettere a fuoco.

- M-Mamma…

Mormorò, confusa, come se avesse la gola secca.

- Sono qui, tesoro, sono qui! Oh mio Dio, Greal, Aurore!

Pianse ancora, abbracciandola forte, mentre io, che ero ancora accanto al corpo esanime di Evan, avevo appena avuto la prova che mio fratello ce l’aveva fatta, del tutto. Arabella era viva. Sentii le voci dei miei compagni, commosse per la riuscita dell’impresa. Damien si sedette accanto a me. Lo guardai. Dovevo avere una faccia impossibile, ma anche lui, a dire la verità, non era da meno. Scarmigliato, in disordine, avrebbe fatto rabbrividire persino i membri del suo fanclub, a scuola. Eppure, nonostante quella mise terribile, era il mio Damien, il ragazzo che amavo… il solo che secondo Evan, avrebbe avuto il coraggio di sopportarmi. Sorrisi, a quel pensiero.

- Mi ha detto che non gli andavi a genio… anche se già lo sapevi, in fondo…

Dissi. Damien convenne.

- Lo so. L’ha ribadito anche a me, il bastardo. E poi mi ha chiesto di prendermi cura di te, se gli fosse accaduto qualcosa.

Sgranai gli occhi, annaspando.

- C-Cosa? Quando?

Damien alzò gli occhi di quel verde meraviglioso al cielo.

- Beh… quando siamo stati portati a palazzo, a te ha riservato la suite, a me una cella buia. E la cosa mi ha dato alquanto fastidio. Per questo, dopo aver insistito per spaccargli la faccia di persona… me lo sono ritrovato davanti. E ho avuto modo di parlarci.

Rimasi senza parole e quella reazione non passò inosservata. Il suo sguardo tornò a posarsi su di me.

- Penso ancora che il suo comportamento sia stato sopra le righe, ma dopotutto, affinché le cose cambiassero, qualcuno sarebbe dovuto esser pronto a premere il grilletto. Evan ha scelto di essere lui quella persona, a costo di correre il rischio d’essere odiato, di fallire, persino… e tutto per salvare Arabella… e dare a lei e a te la possibilità di vivere in un mondo libero dall’oppressione.

- Damien…

- Credo che ciò che Damien vuole dirti, Aurore… è che non dimenticheremo ciò che ha fatto Evan.

Aggiunse Amber, chinandosi accanto a me. La guardai. Era stanca anche lei, pallida e sembrava più giovane di quanto fosse.

- Oh, Amber…

Ero sul punto di piangere di nuovo, commossa a quelle parole, quando Arabella finalmente, fu in grado di controllarsi. La guardammo mentre, trascinandosi a fatica, si sedette sulle ginocchia, mentre la mamma, alle sue spalle, la sosteneva. Il suo viso era rigato dalle lacrime. Strinse la mano di Evan, tremante.

- E-Evandrus?

Chiamò. Il nome completo di mio fratello risuonò incerto.

- Arabella, lui è…

- No!

Contestò, mentre la mamma cercava di dirle qualcosa che a giudicare dalla sua reazione, già sapeva.

- No! No… non può… non puoi farlo, Evandrus… no…

Arabella si morse le labbra, scuotendo la testa. I lunghi capelli biondi le ricaddero sul viso, scompigliati.

- Non puoi averlo fatto davvero! Ridarmi la vita… in cambio della tua… rinunciare così… no… non è giusto… non dovevi… p-per tutto questo tempo, i-io… oh numi, amore mio, torna indietro… non lasciarmi ora… Evandrus!!

Urlò il suo nome e fu straziante, per lei come per tutti noi. Evan aveva dato la sua vita perché Arabella tornasse a vivere e questo era innegabile. Ma per tutti quegli anni, Arabella aveva sempre e solo desiderato che lui fosse salvo. Voleva proteggerlo, in qualche modo, da quell’oscurità che l’aveva ingoiato. Eppure, non c’era mai stata tanta luce in lui come in quel momento. Arabella continuava a piangere, disperata, accasciata accanto al viso di Evan. Lo accarezzò, lo baciò, ma nulla l’avrebbe riportato indietro. E fu allora che lo realizzai anch’io. Evan non sarebbe mai più tornato. Fino al momento in cui la maschera di Liger era caduta, dentro di me, mi ero fatta forte del ricordo, animandomi al pensiero che mio fratello avrebbe continuato a vivere dentro di me, nonostante non avessi mai avuto una lapide su cui piangerlo. Ma in quel momento, il suo corpo era lì. Non avrei mai più visto il suo sorriso. Né i suoi occhi amaranto che mi guardavano con le loro sfumature. Non avrei mai più sentito la sua voce assonnata quando mi diceva di dormire, o mi augurava il buongiorno arrochita, dopo una notte passata a vegliarmi. Non l’avrei mai più visto con indosso la sua uniforme carminio con la cravatta allentata. Né mettere il broncio perché costretto a fare qualcosa controvoglia. Non avrei mai più fatto niente con lui. E quel pensiero mi turbò. Perché era stato più semplice vivere con la speranza, seppure vana, che forse, potesse essere ancora vivo. Quel pensiero rendeva meno penoso lo strazio che invece, in quel momento, aveva attanagliato il mio cuore. Mentre tutto intorno, la vita era tornata a splendere, nel mio cuore e in quello di Arabella, si agitava una tempesta che mai avrebbe avuto fine. Tremando, poggiai la mano su quella di mia sorella, che sollevò il viso arrossato dalle lacrime, fissandomi in tralice.

- A-Aurore…

Ci guardammo, poi Arabella mi strinse la mano, mentre in noi nasceva, per la prima volta, quel sodalizio che aveva atteso ben sedici anni per manifestarsi. Eravamo sorelle. Una amava Evandrus Delacroix, l’altra amava Evan Kensington. Entrambe, condividevamo l’amore per quel ragazzo che aveva cambiato il destino di un mondo.

- Aurore, Arabella.

La voce di papà, dietro di noi. Era rimasto in silenzio, fino a quel momento. Richiamate, ci voltammo insieme. Papà, con a seguito tutti i nostri compagni, aveva il pugno stretto davanti a noi. La mamma lo guardò incerta. Sospirò, nel guardare Evan. C’era qualcosa nel suo sguardo incorniciato dalle piccole rughe appena accennate, in quegli occhi ametista che erano lo specchio esatto dei miei, che sembrava perdersi in un lontano passato. Forse, stava ripensando al giorno in cui lui e Gregor Lambert trovarono il piccolo Evan… chissà se si era mai pentito della decisione di portarlo in salvo…

- Papà…

Pronunciammo all’unisono mia sorella ed io.

Papà annuì, poi aprì la mano. Il Thurs stava pulsando.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

OK, so che avevo detto che avrei aggiornato una volta a settimana, ma visto che da domani dovrò eclissarmi causa full immersion pre-esame rognoso, non ci vedremo... ergo, ne approfitto oggi! ç_ç Ebbene, sappiate che questa è la parte di capitolo che ho amato di più, per i motivi che avete letto. Scriverla è stata una sfida e credetemi se vi dico che non sono mai stata così indecisa come nel momento in cui Evan è morto... in realtà sapevo che sarebbe accaduto e a dire il vero, in originale, assieme a lui sarebbe dovuta morire anche Arabella. ç_ç<3 Avevo in mente qualcosa di molto struggente, credetemi, ma poi ho pensato ad Aurore, che ha fatto tanto per riavere i suoi fratelli... e poi, scrivendo è andata così. Grazie a Evan, le due sorelle si sono ritrovate, ma senza la persona che più amano al mondo... è triste, vero? Però, con l'apice della convergenza, finalmente la luce del giorno è tornata a brillare e con essa, la speranza per il futuro. Il prossimo capitolo sarà l'ultimo sull'Underworld, pardon, Neo Esperia! :) Vi aspettavate tutto questo? Continuate a seguirmi, vi prego!! E grazie pr il sostegno, sia chi mi lascia sempre qualcosa da dire, sia chi legge e basta e chi mi dice qualcosa in privato! <3 Alla prossima!!

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Capitolo 58
*** XXI. L'alba del nuovo corso (1 parte) ***


Buon pomeriggio!! Eccomi qui, tornata dopo il silenzio esame! Ok, tornando a noi, devo dire che mi sarei aspettata qualche commento in più relativamente al finale dello scorso capitolo, ci tenevo particolarmente, però pazienza... Ad ogni modo, prima parte del nuovo capitolo, ora che finalmente Neo Esperia è rinata, cos'accadrà? Un grazie alle visite, al mio Oscuro preferito e a Giacchan!! Ragazzi, vi adoro!! Ma lo sapete, vero? n_- 

Alla prossima!

 

 

 

 

Abituarsi al ritrovato equilibrio, nei giorni che seguirono, si rivelò più complicato del previsto. Essendo avvezzi ormai, a vivere di notte, gli abitanti di Neo Esperia avevano manifestato sintomi simili a quelli del jet-lag. Persino noi, che venivamo da un mondo del tutto diverso e non avevamo mai avuto una situazione come quella, inizialmente avemmo dei problemi nell’alternanza sonno-veglia. Per giunta, far ripartire letteralmente tutte le attività, che per così tanto tempo erano state sincronizzate secondo la maggiore o minore luminosità del cielo, si rivelò più difficile del previsto. Era un po’ come se si avesse a che fare con la riabilitazione dopo un brutto incidente. La convalescenza necessitava di tempo e di pazienza. E tanto aiuto. Evan aveva gettato le basi, aprendo le porte al futuro, ma le spalle della nuova generazione erano ancora in formazione. Amber, nonostante la fiducia che aveva dimostrato di saper meritare, era ancora giovane e inesperta. Non era affatto raro vederla affrontare momenti di sconforto, dovuti a una responsabilità decisamente molto importante per lei. Ma Shemar e Blaez erano al suo fianco e anche Lord Oliphant e Angus le sarebbero stati accanto, per coadiuvarla, per aiutarla con la loro pluriennale saggezza. C’era molto su cui lavorare e sarebbero stati necessari molti anni per riuscire a far funzionare tutto. Ma sapevo che nessuno dei miei amici avrebbe mollato, nonostante le difficoltà. Ognuno di noi aveva sofferto e il ricordo di quello che era accaduto in passato sarebbe stato per sempre un monito affinchè gli errori compiuti non fossero più ripetuti. Amber decise di avvalersi dell’aiuto della popolazione, affinché essa stessa fosse coinvolta e non fosse spettatrice e destinataria delle decisioni prese dal governo centrale. Soltanto in quei primi giorni, vi furono incontri con rappresentanze provenienti da ogni angolo di Neo Esperia. A volte duravano intere giornate. Anche papà si offrì di aiutare i ragazzi, collaborando temporaneamente, persino col professor Warren, alla riorganizzazione dell’esercito. Era strano vederli insieme, dopo tutto ciò che avevano passato e considerando che papà gli aveva giurato che l’avrebbe ucciso. Eppure, alla fine, il professore si era reso conto dei suoi errori e aveva cominciato il suo percorso verso la redenzione. Einer, Eyde, Gourias e Leandrus furono assegnati alla ricerca e al recupero di altre documentazioni sopravvissute alla caduta di Esperia. Si voleva, in questo modo, metterle al sicuro, affinché non cadessero ancora una volta in mani sbagliate. Il Sancta Sanctorum, che da cinquecento anni aveva visto al suo interno tanto dolore e terribili sacrifici, fu distrutto. Non si voleva rinnegare ciò in cui si era creduto. Gli abitanti di quel mondo avrebbero continuato a venerare la Croix du Lac, ma senza alcun mistero stavolta. Nella cattedrale eretta dai Delacroix presto sarebbe stato creato un nuovo altare che raccoglieva le fedeli riproduzioni delle nostre gemme e una nuova rappresentazione stilizzata, scolpita nella parete frontale, raffigurante un piccolo bagliore proprio sopra il ciglio dell’acqua. Luce e acqua, emblemi della vita. Spesso, durante quei giorni, la mamma e io ci recavamo in preghiera, assieme a Lady Octavia, la quale si intratteneva volentieri in conversazioni che vertevano sull’importanza della speranza, soprattutto nei confronti di Arabella, che trascorreva tutto il suo tempo a vegliare mio fratello. Non sapevamo se e quando il Thurs avrebbe avuto effetto. Sapevamo soltanto che pulsava, ma niente più. E questo atteggiamento ostinato da parte di mia sorella, nel voler rimanere accanto a Evan preoccupava molto i nostri genitori.

Poi, la notte prima dell’incoronazione di Amber, circa una settimana più tardi, non riuscendo a chiudere occhio, decisi di alzarmi. Avevo mantenuto la stanza che Evan mi aveva riservato e con me c’era Violet. La guardai, mentre dormiva. Avevamo chiacchierato a lungo, poche ore prima e mi aveva confessato di essere molto combattuta nei confronti di Ruben. Era indubbio che si amassero. Lui le aveva addirittura detto che avrebbe lasciato tutto e l’avrebbe seguita nel nostro mondo. E il problema era proprio quello. Violet non voleva che Ruben rinunciasse alla sua vita per lei. Sapevamo che il momento di tornare a casa sarebbe giunto presto e per loro più di tutti, sarebbe stato difficile. Mio padre, ad esempio, alla richiesta di Lord Oliphant di rimanere lì e di prendere il comando generale dell’esercito, aveva rifiutato. La mamma gli stava tagliando i capelli, quando Lord Oliphant ci aveva raggiunti avanzando quella proposta. Ma papà era stato irremovibile. “Ho già preso la mia decisione diciassette anni fa, Milord. E il mio posto è con la mia famiglia. Ha atteso fin troppo e anch’io. Non c’è altro che desideri più che vivere con loro, nel mondo in cui avevamo scelto di ricominciare”, aveva detto.

Accarezzai i boccoli setosi della mia dolce amica, ripensando a quante volte lei avesse tifato per me e per Damien e a quante io avessi cercato di sondare il terreno con Evan, per lei. E invece, alla fine, si era innamorata proprio di quel bel ragazzo un po’ più grande, alle volte un po’ diretto nei modi, ma infinitamente dolce. Oramai, non avrei saputo vederli separati. Scosse la testa, scrollando la mia mano, abbracciando il cuscino. Sorrisi, nel rimboccarle le coperte.

- Sono certa che farete la cosa giusta…

Mormorai, prima di alzarmi. Infilai velocemente le ballerine e mi avvolsi intorno uno scialle leggero, poi uscii. Camminai attraverso i lunghi corridoi illuminati del palazzo di diamante. Ero abituata a farlo di notte, ma la prima volta che l’avevo visto immerso nella luce del giorno ero rimasta persino disorientata da quanto apparisse grande e luminoso. Le grandi finestre erano state spalancate, gli archi tenevano libero il passaggio e la luce giocava come mai avevo visto. Forse era uno dei motivi per cui mia madre adorava gli spazi luminosi. Aveva sempre scelto delle case che avessero almeno un soggiorno con delle larghe vetrate e amavo vederla inspirare a pieni polmoni l’aria carica di luce e di calore. Nel camminare, sentii le voci soffuse di chi era ancora sveglio. Riconobbi la voce di Rose, squillante, lamentarsi con Blaez di non averle ancora regalato lo spillone che desiderava. Blaez si era messo a ridere e ben presto avevo sentito anche lei farlo, nel dargli dello stupido. Capii allora cosa intendeva Blaez quando mi aveva detto che avevano una relazione da prendere o lasciare. Sentii Ruben, poche stanze più là, ripetersi come un mantra che la sua decisione di stare con Violet era la migliore che aveva mai preso nella sua vita. E ne fui felice, perché seppi come sarebbe andata tra loro. Imboccai le scale, sospirando nel pensare che presto avremmo dovuto salutare i nostri amici, quando vidi proprio a metà della scalinata Damien. Quella visione mi fece rivivere per un istante il nostro primo incontro a scuola. Solo che stavolta era notte e non avevamo affatto addosso le nostre uniformi. Arrossii, vedendo Damien un po’ scarmigliato, con indosso una larga camicia bianca, aperta per tre o quattro bottoni sul petto, che lasciava intravedere la ferita che gli era stata medicata decentemente. Portava dei pantaloni blu scuro ed era scalzo.

- Che ci fai in piedi a quest’ora?

Ci chiedemmo entrambi, contemporaneamente. Poi ci guardammo stupiti e ci mettemmo a ridere.

- Non riesco a dormire.

Risposi, per prima.

 - Nemmeno io. Jamie e la piccola psicopatica sono nel bel mezzo di una crisi diplomatica e mi rendono impossibile anche solo prender sonno.

Sbattei le palpebre.

- Crisi diplomatica?

Domandai, raggiungendolo.

Damien annuì.

- Jamie vorrebbe che Livia venisse con noi. Dopotutto, qui non c’è niente che la trattenga. Ormai, non possiede più il lapislazzuli, è orfana e a quanto pare Amber ha in mente forme di governo che non prevedono la supremazia di una casata sulle altre, nei territori componenti Neo Esperia. Il che significa che il suo ruolo istituzionale è decaduto.

Riflettei su quello che stava dicendo, ma riuscii a capire soltanto che Livia non sarebbe stata più a capo di Wiesen. Eppure, per una come lei, così fiera e orgogliosa, non doveva essere facile rinunciare a tutto così semplicemente.

- E qual è il problema diplomatico tra lei e Jamie?

Domandai.

Mi guardò come se avessi detto un’ovvietà e poi grattò il collo, guardando altrove.

- Semplicemente, Livia non se la sente di lasciare il mondo in cui è nata e in cui ha perso i suoi genitori. E Jamie non riesce a capirlo.

- Oh…

Effettivamente, non avevo pensato a quella ragione, ma effettivamente, era molto più plausibile, considerando quanto fossero importanti per lei i suoi genitori.

- E tu non hai detto niente?

Gli chiesi. Mi guardò nuovamente.

- La verità è che non so cosa dire, Aurore. In un certo senso, capisco cosa provi Livia. Almeno, me ne rendo conto ora che ho ricordato della mia famiglia. Certo, non posso dire di avere grandi ricordi del mio vero padre, dal momento che ero troppo piccolo quand’è morto, al contrario di lei. Ma è come se una parte del mio cuore fosse legata a questo luogo, adesso. E non è mai facile lasciare indietro un pezzo importante di te, quando hai dei ricordi.

Convenni, pensando a Evan e portai la mano al cuore.

- Ma per Jamie non è così. Lui è nato e cresciuto nel nostro mondo. Ha visto la separazione dei nostri genitori, certo, e ha sofferto l’allontanamento di nostra madre, ma è quella la realtà a cui appartiene.

Compresi la sua frustrazione e gli accarezzai la guancia. Quel gesto lo stupì. Poi, gli sorrisi.

- Sai, Damien… credo che indipendentemente da quale sia il luogo a cui apparteniamo, la vita sia nel luogo in cui la vivi, con le persone che ami e con cui costruisci qualcosa… tu sei nato in questo mondo, ci hai vissuto per pochi anni, due se non sbaglio… eppure, non ricordavi nulla fino a che Amelia non ti ha sbloccato i ricordi… io sono nata nel nostro mondo eppure, sono sempre stata legata a questo… ma ciononostante, ciò che abbiamo creato con le nostre famiglie appartiene a noi, al di là di tutto. Ovunque ci troviamo. Credo che sia Jamie che Livia ora abbiano bisogno di capire questo… devono crescere, devono trovare la strada che li porterà a vivere la loro vita nel modo e nel luogo che sarà loro più consono. Al momento, tu e Jamie dovete ritrovare vostra madre. Livia deve superare la sua diffidenza.

- In altre parole, mi stai dicendo che dovrei separarli?

Chiese, monocorde.

Pensai ad Arabella. Come avremmo fatto a separarla da Evan? A dirle che ogni giorno che passava, le speranze che il Thurs compisse un miracolo, si stavano affievolendo? Si sarebbe lasciata morire accanto a lui e non avrebbe mai potuto vedere quel mondo in cui Evan voleva che lei vivesse. Mi sentii triste, incredibilmente, per lei.

- Dico solo che a volte sono necessarie scelte difficili, ma che alla lunga, troveranno il loro perché.

Damien chiuse gli occhi, poggiando la mano sulla mia e baciandone il palmo. Socchiusi gli occhi anch’io, arrossendo nel sentire le sue labbra che sfioravano la mia pelle. Mi avvicinai, mentre col braccio libero mi attirava a sé, fino a sentire quel brivido che avevo imparato a conoscere e che Dio, mi elettrizzava da morire. Il corpo di Damien era un perfetto contraltare del mio. Il suo dorso era più muscoloso, le sue mani sicure, leggermente ruvide e incredibilmente calde a contatto con me. Mi puntellai sugli avampiedi, raggiungendo l’incavo della gola e risalendo, inspirando quel profumo che sapeva di notte, di nuova vita. Con le labbra sfiorai la sua mascella, mentre le sue mi solleticavano gli zigomi. Trattenni il fiato, quando scesero repentinamente fino al mio collo, inquiete, imprimendovi baci leggeri e veloci. Sussultai nel sentire la sua mano destra aprirsi sulla mia schiena, sollevando appena la mia camicia da notte di cotone candido. E io avvolsi le braccia attorno al suo collo, gemendo inavvertitamente nel suo orecchio. Lo sentii lasciarsi sfuggire un mugolio.

- Dio, Aurore…

Ringhiò, come se stentasse a controllarsi.

Deglutii, cercando le sue labbra e affondando le dita tra i suoi capelli scuri.

- Oh numi, vi sembra questo il momento di lasciarvi andare a certe effusioni?

Damien si interruppe immediatamente, così come me. Col cuore che mi martellava nel petto, mi voltai terrorizzata verso la voce maschile che solo alla base della scalinata, aveva parlato. Ed emisi un sospiro di sollievo quando vidi Shemar guardarci in tralice. Damien mise una mano in faccia, senza lasciarmi andare, mentre io tornai alla mia reale altezza, arrossendo e nascondendo il viso nel suo abbraccio.

- Non stavamo facendo niente!

Esclamò Damien.

Aprii un occhio per sbirciare e a giudicare dall’espressione scettica di Shemar, Damien si era appena scavato la fossa.

- Sì, certo. Non sono nato ieri, Warren. E comunque ti ho già spiegato che devi avere più rispetto per la tua da--  

Non terminò il discorso, che Amber si affacciò, prendendolo sottobraccio. Vederla così spigliata, con indosso un abito color fiordaliso che avevo già visto a villa Trenchard, ci stupì.

- Non credi che siano grandi abbastanza per decidere da soli cosa fare, Shemar?

Gli domandò, sorridendo.

Damien e io ci guardammo perplessi, poi mi misi a gesticolare quando realizzai il suo tono sottintendente.

- N-Non è così, Amber!! Noi… noi ci stavamo solo… solo…

Deglutii ancora, cercando l’appoggio di Damien, che sospirò.

- Baciando. Solo baciando. Quasi.

Puntualizzò.

Io annuii. Accidenti, meglio loro che i miei genitori, ma era ugualmente una situazione imbarazzante.

- Voi due piuttosto… domani è un giorno importante e siete ancora in piedi.

Riprese Damien, abile abbastanza da sviare l’attenzione. Avrebbe avuto un gran bel futuro come avvocato, soprattutto quando carpì, dalla reazione curiosa di entrambi, che avevano avuto un rendez-vous. Guardai meglio Shemar, che pur avendo l’uniforme, non era impeccabile come al solito. Al contrario, aveva il soprabito spuntato e i primi bottoni della giacca allentati. Amber invece giocava con una ciocca ribelle dei suoi capelli biondi e aveva la fascia bianca che le fissava il vestito spostata.

- Voi due… ?

Bisbigliai, indicandoli stupita.

- Abbiamo fatto una passeggiata nei giardini… e ci siamo ritrovati a giocare…

Confessò Amber, un po’ imbarazzata.

- A giocare? Che giochi… no, non lo voglio sapere.

Ammise Damien.

A quel punto, sia io che dei perplessi Amber e Shemar lo guardammo. Damien aggrottò le sopracciglia.

- Che succede? Che ho detto di strano? Hanno fatto la morale a noi e poi loro due si sono messi a flirtare qui fuori.

Sbattei le palpebre. Shemar sospirò e Amber si mise a ridere.

- No, ci siamo messi davvero a giocare. A rincorrerci, per la precisione… è un po’ infantile, vero? Però è qualcosa che facevamo quand’eravamo piccoli… e stavamo ricordando quei tempi… prima che tutto cambiasse… e prima che sia domani e non abbia più la possibilità di farlo…

Precisò, con un lieve rossore sulle guance.

Quando Damien si rese conto di aver insinuato qualcosa di troppo, alzò gli occhi al cielo.

- Ok, ammetto di aver frainteso.

Disse, lasciando la presa su di me. Io mi ricomposi.

Alla fine, eravamo noi quelli che stavano flirtando. Scesi raggiungendo entrambi, prendendo le loro mani.

- Ci sarà sempre modo di ricordare i vecchi tempi, Amber…

Dissi. Lei sembrò stupita, poi mi sorrise.

-  Hai ragione, Aurore…

- Signorina…

Guardai Shemar, imbronciandomi.

- Uff, vuoi continuare a chiamarmi in quel modo formale per sempre? Mi chiamo Aurore!

Shemar mi guardò sorpreso, poi si rivolse ad Amber, che rise.

- Beh, ha ragione…

Rassicurato da lei, Shemar posò di nuovo i suoi occhi ambrati su di me e potei notare una nota di affetto, quando finalmente, pronunciò il mio nome senza altri appellativi. Quel gesto mi rese immensamente felice, ma poi realizzai qualcosa di nuovo.

- Ora che ci penso… voi due vi sposerete, vero?

Domandai.

Se fino a quel momento erano stati più o meno composti, a quella mia domanda il loro aplomb andò ufficialmente a farsi benedire. Shemar guardò un po’ ovunque, visibilmente a disagio, mentre Amber abbassò gli occhi, nascondendo il rossore che le aveva imporporato le guance. Non capii in quel momento, perché avessero reagito così, dal momento che era fin troppo evidente che era quella la loro strada. Mi voltai verso Damien, che fece spallucce, poi tornai a guardarli.

- Non importa… quello che volevo chiedere in realtà è: se vi sposate, considerando che Amber è l’Imperatrice, significa che Shemar diventerà l’Imperatore? Quindi non potrò più chiamarvi per nome, ma dovrò chiamarvi Vostre Maestà, giusto?

Se mi ero stupita della prima reazione, vederli impietrire alla seconda fu impagabile. Si cercarono con lo sguardo, incerti su quale risposta potermi dare, inizialmente. Comunicavano a monosillabi, più con le espressioni che con le parole, e queste declamavano tutta la loro perplessità al riguardo. Evidentemente, non avevano ancora stabilito nulla. Poi, però, a sorpresa, sembrarono intendersi e annuirono l’uno all’altra, per poi tornare a guardarmi. Stavano sorridendo.

- Qualunque sia il titolo che avremo… per voi saremo sempre e solo Amber e Shemar, Aurore. E’ grazie a te, a Damien, a tutti voi e… a Evan, se siamo qui oggi e se possiamo discutere di questo.

Disse Amber, con ritrovata sicurezza.

Quell’affetto mi colpì e mi fece sorridere dal profondo del cuore. Li abbracciai entrambi, ricambiata, consapevole che oltre alla riconoscenza, c’era un profondo vincolo di amicizia che ci avrebbe legati per sempre.

- Comunque, non aspettate troppo a sposarvi. Amber potrebbe sempre piantarti per qualcun altro, Shemar.

Aggiunse Damien, pungente nel suo tono giocoso, riprendendo lo stesso tema che Leandrus aveva avanzato quando eravamo tutti nella cella. Allora, non sapevamo quale sarebbe stato il nostro futuro. Ma ora, era così ben chiaro che nessuno avrebbe potuto dubitarne. E mi fece venire in mente una delle ragioni per cui non riuscivo a dormire.

- Scusate, c’è una cosa che devo fare…

Annunciai, sciogliendo l’abbraccio.

I miei amici studiarono la mia reazione. Sorrisi.

- Devo ricordare a mia sorella quanto sia bello essere vivi…

Amber annuì, sorpresa, poi il suo sguardo si addolcì.

- Vai, Aurore. Se c’è qualcuno che può testimoniarlo, quella sei tu…

Fui d’accordo.

- In bocca al lupo.

Aggiunse Shemar, con un sorriso gentile sul viso.

Ricambiai con un piccolo inchino, emozionata per la fiducia che da sempre avevano riposto in me e guardai Damien, che si era appoggiato alla ringhiera di granito. Trovai il suo consenso nel vederlo rivolgermi il suo sguardo più comprensivo, quello che diceva che mi avrebbe sostenuta, qualunque cosa avessi deciso di fare. E così, mentre Shemar riprendeva il discorso lasciato in sospeso con Damien, mi defilai, correndo da Arabella, consapevole che non sarebbe stato facile, ma al tempo stesso, di avere una freccia importante al mio arco. I ricordi che avevo di Evan, quelli che lei non conosceva e che raccontavano di mio fratello, del grande amore che era capace di provare.

Quando giunsi davanti all’entrata della cripta, seguendo il passaggio sotterraneo che collegava il palazzo alla cattedrale per non uscire, presi fiato. Guardai il braccialetto di Evan, come facevo ogni volta che avevo bisogno di forza. E poi, entrai.

Sapevo che le cripte erano destinate a contenere le spoglie mortali dei Despoti del passato. Un’usanza tenuta in auge per molti secoli. Solo pochi erano stati tenuti fuori. Tra di essi, Tantris Rosenkrantz, mio nonno, che per sua stessa volontà, fu sepolto accanto a mia nonna Annabelle, a Challant, e Ademar, che per via della sua fine violenta, venne cremato. Si temeva che il suo spirito inquieto potesse tornare a cercare vendetta. Per fortuna, non era accaduto. Sulle prime ebbi un po’ impressione, dal momento che ci ero scesa soltanto con i miei genitori, mentre stavolta ero del tutto sola. Alla fine, seguendo il percorso, guidata da singhiozzi sommessi, raggiunsi il luogo in cui Evan riposava. Una teca protettiva di cristallo removibile era stata posta a guardia del suo corpo per mantenerlo intatto e sul suo petto era adagiato il Thurs. Sembrava ancora che stesse dormendo. E riuscivo a capire il dolore di Arabella, lo stesso che provavo io, ogni volta che lo vedevo così, perché speravo che da un momento all’altro avrebbe potuto risvegliarsi. Ma non era accaduto. Raggiunsi Arabella, che seduta accanto a lui, sembrava ormai determinata ad abbandonarsi. Non aveva mangiato nulla, nonostante la mamma avesse cercato in ogni modo di convincerla a farlo.

- Arabella…

Mormorai, e la mia voce risentì dell’eco naturale di quella sala così fredda, scavata nella roccia viva.

- Sei tornata…

Annuii, preoccupata, sedendomi accanto a lei. Poi le accarezzai i capelli.

- E sono preoccupata…

- Lo so… mi dispiace…

- Anche a me…

Un singhiozzo la scosse. Mi morsi le labbra, nel vederla così remissiva, lei che era sempre stata tanto combattiva. Ma non aveva imparato a gestire il lutto e anzi, l’aveva appreso nel peggiore dei modi, scontrandosi con qualcosa che avrebbe preferito non accadesse mai. Guardai Evan, cercando di riportare alla mente qualcosa che potesse aiutarla.

- La mamma ti ha raccontato del nostro viaggio a Verona, Arabella?

Scosse la testa, accarezzando instancabilmente il cristallo.

- Sai… c’è una storia di cui si parla, riguardo a quella città… due amanti che non potevano stare insieme perché le loro famiglie erano in lotta… erano molto giovani e si erano conosciuti a un ballo, proprio come i nostri genitori… il loro amore era talmente grande che arrivarono persino a sposarsi in segreto… però, lui compì un grave peccato, uccidendo il cugino della sua amata, perché questi aveva ucciso il suo migliore amico… e fu esiliato… lei invece fu costretta dal proprio padre a sposare un uomo che non amava e per evitare le nozze, bevve un filtro che avrebbe dovuto portarla a rimanere in uno stato di morte apparente per alcuni giorni… ma alla disperazione della sua famiglia si aggiunse quella del suo amato, quando seppe che la sua dolce sposa era morta. Tornò a Verona, e sulla sua tomba, distrutto dal dolore, si uccise bevendo un veleno letale. Ma lei non era morta e quando si risvegliò, lo strazio fu così forte che si uccise a sua volta, utilizzando il pugnale del suo amato.

- Mi stai dicendo che dovrei fare lo stesso, Aurore? Perché credimi, non c’è momento in cui non pensi di farlo… ma se lui si risvegliasse, io… io…

Strinse i pugni, chinando la testa, scossa ancora dai singhiozzi. Quella reazione mi addolorò molto, ma cercai di non darlo a vedere.

- Evan pensava che quei due erano degli idioti.

Dissi. Quando me l’aveva detto, dissacrando quella meravigliosa tragedia, non gli avevo parlato per una settimana. Arabella si tirò su, voltandosi a guardarmi, sbigottita.

- C-Come?

Sorrisi, contenta di aver catturato la sua attenzione.

- Beh… mi disse, testuali parole, che: “Non puoi pensare che la morte sia la soluzione più facile per ovviare al dolore. Prendi Romeo: se avesse chiesto al prete di dirgli cos’era successo, al posto di correre da Giulietta, a suo rischio e pericolo, avrebbe potuto aspettare che lei si risvegliasse e sarebbero potuti scappare insieme. E prendi Giulietta. Paride non le piaceva, non voleva sposarlo, ma non poteva opporsi al padre. Però è riuscita a sposarsi di nascosto. Poteva chiedere al prete di farla fuggire  e raggiungere Romeo. Meglio esiliati e vivi che in città e morti. In altre parole, erano due veri e propri idioti che avevano fatto male i loro calcoli”. Giuro, non gli ho parlato per una settimana. Gli ho persino fatto sparire la playlist dal lettore mp-3!

Arabella era allibita. Non credo avesse capito granché di quello che avevo detto. Sbattè le palpebre, incerta su cosa dire. E io continuai.

- Ah, e poi una volta ho sabotato il suo soufflé. Evan sapeva cucinare, ma non mi voleva insegnare il trucco per preparare dei soufflé che non si sgonfiavano. E così ho aperto il forno a sua insaputa ed è venuto una schifezza! Oh, ricordo la sua faccia quando l’ha tirato fuori, era qualcosa del genere!

Imitai malamente la sua espressione tra lo sconcertato e il dubbioso così come il suo tono mentre si chiedeva come mai fosse venuto in quel modo.

Arabella mormorò qualcosa senza voce. A giudicare dalla sua faccia, stavo riuscendo a scuoterla.

- Ora che ci penso, per il suo sedicesimo compleanno, la mamma e io abbiamo organizzato una festa particolare… Evan adorava Assassin’s Creed, un gioco strampalato in cui un tizio viene infilato in un… ehm, lasciamo stare. Dicevo, approfittando della sua assenza abbiamo tappezzato casa con dei poster del gioco e ci siamo vestite da alcuni personaggi. Quando è tornato a casa, le luci erano spente e ci siamo buttate addosso a lui urlando che eravamo dei cavalieri templari e volevamo la sua testa!

Mia sorella sgranò gli occhi, spaventata, ma quando mi misi a ridere, rassicurandola, anche lei sorrise.

- E poi com’è finita?

Mi domandò.

- Beh… alla fine avevamo preparato un vestito anche per lui e abbiamo festeggiato il suo compleanno in stile Assassin’s Creed! Ci siamo divertiti un sacco!

- Meno male…

Disse, portando la mano al cuore, con aria sollevata.

- Ti racconterò ogni cosa che lo riguarda, Arabella… ho una miniera di aneddoti e credimi, c’è parecchio da ridere!

Le garantii. Ma anche tanti momenti in cui Evan era stato il fratello migliore del mondo.

Arabella abbassò appena lo sguardo, nascondendo gli occhi lucidi.

- Sai, Aurore… quand’era piccolo, era sempre pronto a giocare con me. Lui è stato il primo coetaneo con cui avessi mai avuto a che fare. A causa del segreto sulla mia nascita, non avevo mai avuto contatti con altri bambini, tranne che con Shemar, quando la mamma riusciva a uscire da palazzo in assenza di nostro zio Ademar, ma lui era già più grande… e poi, arrivò Evandrus, con i suoi occhioni allegri e il suo sorriso contagioso… ed entrambi passavamo ore intere a giocare, quand’era possibile. Era stato il mio primo amico… e l’ultimo ricordo assieme alla mamma.

Mi colpì quel breve racconto, perché era la prima volta che sentivo parlare direttamente da Arabella di qualcosa che riguardava il loro rapporto.

- Come vi siete innamorati?

Le domandai.

Arabella aprì la mano oramai libera dal diamante, poi chiuse gli occhi e sorrise dolcemente.

- Quando la mia coscienza si risvegliò, nonostante fosse stata intrappolata dalla Croix du Lac, scoprii che ero capace di interagire con lei. Eravamo due anime che condividevano lo stesso corpo e per quanto questo fosse difficile e pericoloso, come lei poteva accedere ai miei ricordi, tranne a quelli che avevo imparato, col tempo, a impedirle di raggiungere, anch’io fui in grado di vedere. Eri collegata per nascita a me e all’ametista, e di conseguenza, la stessa Croix du Lac riuscì a sapere della tua esistenza. Quando cercava di raggiungerti, io riuscivo a escluderla e a raggiungerti a mia volta, seppure fossi troppo debole per far sì che tu capissi chiaramente chi ero. Era per questo che il ricordo di quella notte in te appariva come un incubo, troppo difficile da identificare. Ma ogni volta che Evandrus ti stringeva la mano, era come se prendesse anche la mia. Come se riuscissi a vederlo. E sentivo che anche lui riusciva a percepirmi. L’ho visto crescere, perdendo quella spensieratezza che aveva da bambino, diventando il ragazzo tormentato dal cuore grande che avrebbe fatto di tutto per proteggere la sua sorellina. E amandolo per questo. Amandolo perché non c’era persona al mondo che fosse più luminosa di lui, più temeraria, al punto da non esitare a varcare la soglia di questo mondo per ritrovare me e la mamma e diventare Liger, addirittura… e amandolo anche quando si è reso conto che il solo modo per farmi tornare indietro era quello di sostituirsi alla Croix du Lac…  eppure, nonostante tutto, lui non ha sentito la mia voce… non volevo che andasse così, non avrebbe dovuto…

- E’ colpa mia… non sono stata forte abbastanza per convincerlo…

Confessai. Lei scosse la testa.

- No, Aurore, no. Hai fatto del tuo meglio… sei stata coraggiosa. E io sono fiera di te, sorellina.

Riaprì gli occhi, sorridendomi.

- Noi siamo fieri di te. Anche Evandrus... e anche noi due dobbiamo essere fiere di lui… no?

Annuii, sentendo i miei occhi velarsi. E poi l’abbracciai forte. Arabella fece lo stesso. Eravamo tutti e tre lì, insieme, forse per l’ultima volta. Ed Evan sarebbe stato felice di vederci così.

- Mi racconti qualcos’altro?

Mi domandò, poi, quando ci scostammo l’una dall’altra, asciugando quelle lacrime di commozione. Se dovevamo piangere, allora era meglio farlo per qualcosa di bello. E mi rimisi a raccontare, tanto che quando i nostri genitori ci raggiunsero, stupiti di sentire Arabella ridere, la mamma non riuscì a trattenere l’emozione. Ci sedemmo tutti e quattro a vegliare insieme Evan, a ricordare, a scoprire lati di nostro fratello che entrambe ignoravamo. A custodire quei ricordi che sarebbero rimasti dentro di noi per sempre. La nostra famiglia era finalmente completa, almeno per quella notte.

E infine, giunse il nuovo giorno.

 

Dopo un estenuante tour de force voluto dal combo Alizea-Sybille, ci ritrovammo abbigliati di tutto punto per assistere alla cerimonia di incoronazione di Amber. Fu il momento più suggestivo a cui avessi mai assistito. La cattedrale dei Delacroix, in un mattino splendente, era gremita di gente in festa. L’accesso era stato consentito a tutti coloro che avessero voluto partecipare e un discreto numero di guardie imperiali, scelte personalmente da papà e dal professor Warren, si occupava del mantenimento dell’ordine. Era così bello per me vedere il mio papà, finalmente alla luce del sole, senza doversi nascondere. Esattamente come i miei amici, anche lui era visibilmente più pallido. Le iridi d’ametista invece erano stupende. Ogni volta che incrociavo i suoi occhi, era come guardarmi in uno specchio. Ero felice, perché erano sempre stati la sola cosa che riuscivo a immaginare di lui. Per di più, avendo tagliato i capelli optando per un taglio meglio accetto nel mondo della luce, a dire della mamma, aveva decisamente un aspetto meno ribelle. Anzi, le onde d’argento appena mosse gli incorniciavano il viso in un modo che ne risaltava la nobiltà. Per l’occasione, sia lui che il professore indossavano abiti di squisita fattura, delle lunghe giacche avorio chiaro bordate da polsini e bottoni dorati che nascondevano dei farsetti neri, dello stesso colore di pantaloni e stivali. Sulla spalla sinistra della giacca di papà, però, un bottone particolare, col sigillo della nuova casata, il giglio ambrato con inserti di diamante che ricordavano una stella, che serviva a mettere in evidenza la riconoscenza che Amber aveva nei suoi confronti, fermava tre corte trecce che richiamavano le stesse dell’uniforme imperiale. Anche i ragazzi avevano un abbigliamento simile. Per tutti, si giocava sulle tonalità dell’ambrato e dell’adamantino, per simboleggiare la nuova era. Vedere Shemar, poi, fu un piacere. Inizialmente, aveva insistito per indossare la sua uniforme, ma Sybille l’aveva minacciato di morte lenta e dolorosa se non avesse obbedito. Alla fine, dopo essersi lamentato ogni volta che la governante dei Trenchard per punirlo, lo punzecchiava ad hoc, era uscito dalla sua stanza con indosso un meraviglioso completo di raso bianco, su cui erano presenti dei gigli ricamati di un dorato molto leggero. Indossava una giacca corta poco più su delle ginocchia, chiusa come un montgomery e a collo alto. Una delicata cascatella di rouches bianche gli scendeva lungo il petto. Al fianco, agganciata alla cintura dorata, la sua spada. La spada di Gregor. I pantaloni bianchi che gli fasciavano le gambe slanciate, erano infilati negli stivali color crema, bordati da un gancio dorato. Sybille completò l’opera sistemandogli i capelli in una coda più morbida, stavolta all’indietro e raccapezzando i suoi ciuffi più ribelli, poi sistemandogli un mantello chiaro sulle spalle. Quella nuova tenuta lo mise un po’ a disagio, inizialmente, ma dopo aver scambiato quattro chiacchiere col quasi cugino e con papà, sembrò recuperare un minimo di sicurezza. Lo osservai, studiando la sua postura un po’ tesa mentre attendeva Amber all’entrata della cattedrale, che era tutta meravigliosamente addobbata con gigli delicati. Chissà che tra quei fiori non ci fossero anche quelli che avevo visto portare da alcune persone la sera che Evan mi aveva portata al Sancta Sanctorum.

Violet, accanto a me, mi aveva stretto la mano. La sua espressione rilassata mi aveva fatto intuire che lei e Ruben avevano chiarito la loro situazione. Le sorrisi, appoggiando la testa alla sua spalla, quando un lieve colpetto di tosse mi fece tornare sull’attenti. Damien, insieme a Jamie e a Livia, ci aveva raggiunte. Livia era imbronciata come al solito, ma nonostante tutto, era un piacere vederla con indosso un abito dalle tonalità color perla che si intonava meravigliosamente coi suoi capelli biondo platino. Anche Jamie, che aveva optato per un completo in giacca corta dorata e pantaloni fermati da una rouche bordata di bianco sotto al ginocchio, tanto simile a un abito ottocentesco, sembrava contrariato. A quanto pareva, per una coppia che aveva rinsaldato il suo legame, un’altra doveva affrontare momenti difficili. Ma erano ancora molto giovani e avevano tutta la vita davanti. E la mia vita, Damien, era proprio di fronte a me. Arrossii nel vederlo stretto nel soprabito dorato che ne metteva bene in risalto il fisico atletico. Visto così, mentre sistemava la lunga fila di bottoni dello stesso colore e allentava appena la fascia con le rouches bianche che gli fasciava il collo, non sembrava ancora infortunato. Quando si sedette, con aria compiaciuta non appena Violet gli fece notare che sembravamo usciti dal Carnevale di Venezia, mi ritrovai a pensarci.

- Potremmo proporre quel tema per la festa di diploma!

Disse Violet, sapendo quanto lo amassi.

- A questo proposito, saresti dovuta tornare a casa già da parecchio. Non ti preoccupa la reazione dei tuoi?

Annuii anch’io alle parole di Damien. E sapevo che per quanto avessi cercato di convincerla, Violet non avrebbe accettato di tornare a casa prima di noi. La mia migliore amica alzò gli occhi al cielo.

- Certo che mi preoccupa… ma dal momento che sono con voi due, sono al sicuro.

Damien aggrottò le sopracciglia.

- Ehm… non credo fosse questo che Damien intendeva, Violet…

Le feci notare. Invece di rimuginarci, Violet sorrise.

- Piuttosto, non vi sembra di essere intervenuti a un matrimonio? Ah, mi chiedo quando toccherà a voi…

Commentò, sorniona.

Ma se io arrossii protestando e dichiarando ufficialmente che non sarebbe accaduto quantomeno prima di diecimila anni, Damien mi stupì per la sua reazione.

- Hammond, capisco che tu non ambisca a vivere in eterno, ma sembra che tu non voglia arrivare nemmeno al tuo.

Rispose, inarcando il sopracciglio.

Violet sorrise candidamente.

- Beh… c’è un tempo per ogni cosa.

- Ok, ma possiamo riparlarne tra vent’anni?

Commentai, in imbarazzo. In realtà non c’era tanto da esserlo, dal momento che Violet e io avevamo sempre fantasticato sulle nostre nozze future, ma non mi sarei mai aspettata che avremmo affrontato quel discorso in un’occasione del genere. E per di più, con tutto quello che era accaduto, pensare a un’eventualità del genere mi riportava automaticamente al pensiero di Arabella, che non avrebbe mai potuto coronare il suo sogno d’amore. E non volevo rendere triste mia sorella. Abbassai lo sguardo, pensando che alla fine, non aveva voluto partecipare. Nonostante la notte prima avessimo trovato un punto d’incontro, non se la sentiva. Del resto, nemmeno Amber era del tutto favorevole a dei festeggiamenti, anzi, si era dimostrata piuttosto titubante a riguardo. Desiderava che ognuno avesse di che gioire e il fatto che avessimo perso Evan era qualcosa che di certo, impediva a me e alla mia famiglia di gustare della gioia di quel momento. Eppure, a sorpresa era stata mia sorella a rincuorarla. “Evandrus avrebbe voluto così. Preparava la vostra festa già da un po’… e penso che sarebbe scortese ora non accontentare quella sua volontà, Vostra Maestà”, aveva detto, con la voce rotta dall’emozione e gli occhi cerchiati dalla stanchezza e dalle migliaia di lacrime versate, quando Amber le aveva stretto le mani, chiedendole cosa fosse più giusto fare. E infine, Amber le aveva sorriso, baciandole quelle mani un po’ tremanti, chiedendole di essere lieta, perché ne era certa, anche Evan l’avrebbe voluto per lei. Già, Evan desiderava la felicità, per me, per Arabella. Presi la mano di Damien che dopo un attimo di perplessità, intrecciò le dita alle mie. E mi commossi, quando vidi i nostri amici prender posto e infine, tra le urla di giubilo degli intervenuti, popolani e non, Amber, scortata da Lady Octavia e Angus, affacciarsi sulla soglia dell’enorme portone, raggiante e commossa a sua volta, nel suo abito d’oro, con un volant di chiffon color perla fermato dalla spilla a forma di farfalla proprio sul seno, una fascia dello stesso colore che la stringeva e una cascata meravigliosa d’oro puro, fermata da morbide volute che rendevano visibile il resto dell’abito, adamantino. Portava i capelli biondi raccolti appena sul lato da un meraviglioso fermaglio dorato. Era emozionata e tremava. Ma doveva essere forte. Ogni giorno della sua vita, da quel momento, Amber avrebbe dovuto esserlo. E quella forza venne proprio dal giovane cavaliere che le prese la mano, determinato più che mai a non lasciarla cadere. Quel giorno fu ricordato come “l’alba del nuovo corso”, il giorno in cui Amber Trenchard e Shemar Lambert diventarono l’Imperatrice e il consorte imperiale di Neo Esperia, capostipiti della casata congiunta Trenchard-Lambert. Proprio come Gregor aveva desiderato per il figlio. E fu proprio quella sera, tra festeggiamenti che proseguirono per diversi giorni e diverse notti, che ci recammo presso il luogo dove Gregor Lambert e Vere Vanbrugh erano sepolti. La vita e la morte erano insieme in quel momento. Papà voleva che il suo più fidato compagno potesse condividere, in qualche modo, la gioia che il figlio stava provando. Quando arrivammo, accompagnati dalle musiche che provenivano dalla città e dall’aria finalmente gioviale, coperti dai mantelli per via dell’aria notturna più fresca, a cui oramai eravamo piacevolmente abituati, ormai, papà si chinò davanti alla tomba dei suoi cari amici, assieme alla mamma, che vi pose dei fiori e una boccetta di the alle rose.

- Vere, amica mia… Gregor… scusate il ritardo…

Disse mia madre, che tanto aveva pianto durante quei giorni, con voce emozionata. Compresi in quel momento quanto dovesse esser loro riconoscente. Se non fosse stato per la loro amicizia, non saremmo mai stati lì.

- Gregor. Alla fine avevi ragione. Tuo figlio è diventato ciò che volevi. Ne sei fiero, eh? Ti vedo, mio più caro compagno. Ti vedo gioire, rivedo il tuo sorriso, quando prendevi in braccio Shemar e gli dicevi che un giorno sarebbe diventato un cavaliere e poi l’Imperatore. E mi danno per essere stato così maledettamente egoista da non essere riuscito a salvarti.

- Papà…

Sussurrai, nel sentire una nota di frustrazione e di rimpianto. Quanto era stato difficile anche per lui dover lasciare indietro una persona cara? Alla fine, la cosa peggiore era che nonostante tutto, non era riuscito a salvarsi assieme ad Arabella. Eppure, in qualche modo, in quel momento eravamo tutti lì. Anche Arabella, che aveva le mani strette l’una nell’altra. La mamma posò il braccio sulle spalle di papà, che vi si strinse.

- Oh, Greal…

Papà sospirò, poi tolse la spada che portava con sé.

- So che non è la tua. Quella ce l’ha Shemar, com’è giusto che sia. Ma questa spada ha visto molti nostri duelli, sin da Gresson. Te lo ricordi, Gregor? Eravamo ragazzini allora. E adesso tu sei lì, che ci guardi ridendo perché alla fine è andato tutto come speravi e noi siamo qui, a chiederci perché le cose siano dovute andare proprio in questo modo. Eppure, adesso finalmente posso vivere la vita che volevo e che anche tu volevi per me. Ricordi quando mi dicesti che avevo trovato qualcosa per cui valesse la pena affrontare tutto? Ebbene, adesso posso lasciarmi il passato alle spalle e ricominciare. Ci sono voluti diciassette anni, ma ora posso farlo. E lo devo a te e a Vere.

Strinse per l’ultima volta la sua spada e la adagiò con cura sulla tomba di Gregor. Quel gesto mi fece tanta tenerezza.

- Non so cosa ci sia di là. Quando pensavo di essere morto, ho visto un inferno fatto di oscurità e di follia. Ma quello era un mondo di rimpianto. Tu e Vere non ne avete più. Vostro figlio ha fatto in modo che voi possiate essere per sempre fieri di lui. Ti faccio dono della mia spada, Gregor. E ti affido quel bambino che salvammo, diciassette anni fa. Ovunque lui sia ora, se lo dovessi trovare, proteggilo e ricordagli che la sua famiglia, sua madre, suo padre, lo aspettano.

La mamma singhiozzò e nel sentirlo, anch’io ebbi un momento di debolezza. Non avevo capito quanto papà, in tutto quel tempo, avesse desiderato anche il bene di Evan. Anche lui lo considerava un figlio, ma non aveva avuto l’opportunità di dirglielo. Mi voltai verso Arabella, vedendo che si allontanava e mentre i miei genitori ricordavano alcuni episodi del passato, la seguii lungo il viale buio che ormai non mi faceva più paura. Si fermò davanti a una tomba in costruzione. Su di essa, c’era un’iscrizione che mi fece mancare il respiro.

- In memoria di Evandrus Delacroix, nato in Dagaz 15-6, 518, morto in Dagaz, 15-6, 538.

Lesse Arabella, stringendo i lembi del mantello con forza.

- L-Le date coincidono…

Le feci notare. Arabella annuì.

- Era il suo compleanno… Vent’anni… aveva compiuto vent’anni…

Vent’anni. Evan e io avevamo sempre scherzato sul fatto che fosse più grande di me di soli due anni, e invece, ci eravamo sempre sbagliati. Compiva gli anni in giugno, ma da quando eravamo lì, tutte le nostre certezze erano state scombinate. Evan era nato lo stesso giorno della vera Renaissance. Portando la luce in quel mondo, nonostante la sua vita fosse finita. 

- Mio Dio…

Sussurrai, tremando.

Quella lapide, indipendentemente da tutto, simboleggiava che Evandrus Delacroix era morto. Non c’era nessuna onorificenza su di essa, era un semplice ricordo per una persona morta quel giorno. Indipendentemente da quel nome altisonante che ognuno, in quel mondo, avrebbe sempre ricordato con disprezzo. Quel pensiero mi turbò molto, accanto a quello che a giudicare dall’espressione affranta di mia sorella, passava anche nella sua testa.

- Non sono ancora pronta a lasciarlo andare…

Mormorò, terrorizzata.

E nemmeno io lo ero, in fondo. Sapevamo che Evan sarebbe dovuto rimanere lì, almeno fino a che il Thurs non avrebbe fatto effetto. Ma non potevamo sapere se e quando questo sarebbe accaduto. E tornare nel mondo che avevamo lasciato, se da una parte era una felice ipotesi per me, dall’altra era una tortura per Arabella. Nella nostra casa, a Darlington, la stanza di Evan era rimasta così com’era, o almeno speravo, considerando il tempo che era trascorso. Il pensiero di cos’avrei provato nel rientrarci mi sembrò improvvisamente intollerabile. Presi la mano di Arabella, che mi guardò in tralice.

- Neanch’io sono pronta a farlo, Arabella…

Le confessai, incontrando i suoi occhi sconvolti. Mi strinse la mano, cercando di reprimere le lacrime con difficoltà. Dovevamo essere forti anche noi, ma come facevamo a esserlo anche davanti all’evidenza del fatto che Evan non sarebbe più tornato? Odiavo il sentirmi così vulnerabile. Ero sempre stata protetta, fin da quand’ero piccola. E come potevo proteggere Arabella, dal momento che non sapevo cosa fare? Mia sorella mi sorrise appena, poi il suo sguardo mi oltrepassò, stupito. Mi voltai incerta, vedendo Damien accanto a me.

- E tu che ci fai qui?

Indossava un mantello a sua volta, col cappuccio sollevato, ma si intravedevano gli abiti della festa, proprio come quelli che indossavo io. Aveva la stessa espressione di quando ci eravamo ritrovati nella cella che Evan aveva fatto costruire per osservare la cerimonia.

- Evandrus Delacroix è morto.

Disse, guardando l’iscrizione. Quelle parole mi urtarono.

- Sei venuto per ricordarcelo, Damien? Lo sappiamo…

- Significa forse che dovremmo arrenderci, Lord…

Damien rivolse lo sguardo verso me e Arabella, prima che mia sorella potesse pronunciare il suo nome completo, scuotendo la testa.

- No, Arabella. No. Ho detto solo che lui è morto. Ma c’è qualcun altro che non lo è mai stato davvero. Nonostante tutto. E ha bisogno di te, che sei la sua luce.

Non capii il senso di quelle parole, tanto che arrivai a pensare, interdetta, che si fosse bevuto il cervello. Ma quando Damien sorrise, facendo un cenno del capo perché Arabella e io ci voltassimo, per poco non mi venne un infarto. Ci voltammo col cuore in gola, e quasi mi sentii mancare quando vidi un ragazzo piuttosto alto, con indosso un mantello identico a quello di Damien, di un dorato molto scuro, col cappuccio alzato per non essere riconosciuto, allo stesso modo di quello che portava papà quando era ancora il Cavaliere Nero. Tra le pieghe, si intravedeva appena il Thurs. E per giunta, sorrideva in modo inconfondibile.

- Mio Dio…

Mormorai, nello stesso istante in cui vidi appena, sotto i ciuffi più lunghi che sembravano neri, gli occhi amaranto di Evan.

- E’ un sogno?! Evan-- 

Evan posò l’indice sulle labbra mentre Arabella stava per chiamare il suo nome, la voce un sussurro debole e rinato. Poi sorrise.

- Non lo è. Sono qui.

Sussurrò, con un tono che esprimeva nuova speranza.

Sorrisi, incapace di trattenere oltre le mie lacrime, mentre Arabella annuì, intrecciando la mano alla sua, in visibile difficoltà nel cercare di trattenere la sua emozione. Evan guardò anche me e Damien, sorridendo, poi mi voltai verso il ragazzo che amavo, colpevole di aver dubitato delle sue intenzioni.

- Q-Quando?

Damien si limitò a scrollare le spalle.

- Poco fa. Non chiedermi come. Che ne dite di tornarcene a casa, adesso? Non vorrei essere assillante, ma la mia scuola ha bisogno del suo despota.

Domandò, prestando particolare enfasi su quell’ultimo appellativo, sfidando, quasi, Evan. Era così strano vederci lì, insieme. Mi voltai ancora una volta verso mio fratello, vivo, a dispetto di quella lapide e del nostro dolore e il mio cuore si riempì di nuova gioia. Sorrisi dal profondo, nel vederlo arricciare le labbra con aria un po’ seccata per rivolgersi a Damien. Poi guardò di nuovo Arabella, baciandole la mano.

- Torniamo a casa insieme, amore mio.

Concluse.

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Capitolo 59
*** XXI. 2 parte ***


Buongiorno gente! :) Al volo, aggiorno con l'ultima parte di questo capitolo, che spero vi piaccia! Come anticipato, è l'ultimo ambientato a Neo Esperia... ç__ç<3 Aaaaw, mi mancano già tutti! Scusate il ritardo nell'aggiornamento, ma questa settimana è alquanto impegnativa e causa laboratori oggi e domani e mio compleanno domenica, ne ho approfittato solo oggi! Un'annotazione sullo scorso e sulla scelta di far tornare Evan: effettivamente avevo detto che in originale sarebbe morto e rimasto tale, ma poi ho pensato "Cavoli, questo poverino ha sofferto per una vita intera, attendendo il momento in cui ritrovare la sua Arabella e non è giusto che non possa aver diritto alla sua felicità.", e così eccolo qui! Non so se avete condiviso questa decisione, ma mi è sembrata la più giusta per lui, vista la situazione... e poi ultimamente le coppie che mi piacciono scoppiano perché qualcuno muore (vedisi Euphie e Suzaku o Dan e Mai... ç___ç) e visto che potevo decidere io, almeno nel caso di Evan e Arabella ho potuto realizzare un sogno! :) 

Detto ciò, buona lettura e un grazie di cuore al mio Oscuro preferito che mi ha fatta felice col traguardo delle 200 recensioni! <3 E spero di risentire presto anche Severus e Red!! Ragazze, mi mancate!! 

Alla prossima settimana con: Ritorno a casa!

Aurore: è ufficiale!!

Damien: ... casa. Alleluja.

Almeno voi non dovete aspettare il 19 per tornarci.. ç_ç

Bye bye!!!! :D

 

 

 

 

 

 

 

Descrivere l’espressione dei miei amici e, soprattutto, di mia madre nel vedere Evan, era praticamente un’impresa disperata. Shock, in primis. Qualcosa di simile allo sconvolgimento sul volto del professor Warren quando aveva visto il volto di mio padre, che credeva fosse morto da anni ormai. Nelle cripte del palazzo imperiale, riparati dal mondo in festa, tutti fissavano Evan, che del canto suo, si limitava a stringere la mano di Arabella e a osservare in silenzio.

- T-Tu… signorino!

Esclamò la mamma, ignorando i commenti che erano sorti dal gruppo Ruben, Blaez, Rose e Leandrus, agitando a mezz’aria la mano e avvicinandosi. Sorrisi nel vedere la commozione nei suoi occhi, a dispetto della voce salda nel prepararsi a rimproverarlo in maniera esemplare. Del canto mio, avevo in mente qualche suggerimento, ma ero così felice del fatto che finalmente il Thurs avesse compiuto quel miracolo in cui tanto speravamo, che decisi di soprassedere, almeno per il momento. Avrei trovato diversi modi per fargli pagare tutto il dolore che mi aveva causato una volta tornati a casa. Amber, abbracciata a Shemar, aveva incontrato gli occhi emozionati di mia sorella, che a sua volta, le aveva finalmente sorriso dal profondo.

- Mi dispiace avervi fatto preoccupare tanto. A dire il vero, non mi aspettavo che le cose potessero andare in questo modo. Sarebbe dovuto finire tutto, con me.

Disse Evan, portando la mano libera sul petto e stringendo il Thurs. Il suo sguardo passò velocemente su tutti, per poi soffermarsi su quello di papà, che annuì.

- Non sapevamo se l’effetto sarebbe stato garantito… è stato un tentativo che ha avuto esito positivo.

Spiegò. Evan fu d’accordo.

- Ad ogni modo, per questo mondo, Evandrus Delacroix è morto.

Aggiunse il professor Warren, incrociando le braccia e sottintendendo il futuro stesso di Evan.

- Lo so. Damien me l’ha fatto presente dopo che mi sono risvegliato.

Ammise.

Guardai Damien, che si limitò a fare spallucce.

- P-Però tu come stai, Evan?

Domandò Violet, preoccupata. Effettivamente, era la sola cosa che non gli avevamo ancora chiesto. Evan sorrise alla mia migliore amica, poi sospirò.

- Sembra che il mio cuore si sia rigenerato, in qualche modo. Sento nuova energia scorrermi dentro. Per il momento, è tutto a posto.

- Che significa “per il momento”?

Feci eco io.

Fu Blaez a rispondermi, prima che Evan potesse parlare.

- Il Thurs ha effetto in questo mondo. Non sappiamo se varcata la Porta di Pietra l’effetto verrà mantenuto. Dopotutto, l’ametista aveva perso il suo potere quando fuggiste. Non è così, Lady Cerulea?

Quella rivelazione inaspettata mi mise in allerta, provocando una reazione simile un po’ in tutti. La mamma ne sembrò particolarmente turbata, riportando alla mente quel momento.

- E’ così… per sedici anni l’ametista non ha brillato… lontana dal suo mondo ha perso totalmente i suoi poteri…

- D-Dunque questo vuol dire che se il Thurs non funziona nel nostro mondo… Evan rischia di morire di nuovo?!

Domandai, impaziente. Arabella strinse più forte la mano di Evan, che mi fissò senza rispondere. Evidentemente, nemmeno lui sapeva cosa poteva accadere.

- E varrebbe lo stesso per Lord Valdes, quindi?

Aggiunse Livia, perplessa. Ci voltammo verso di lei, incerti.

- D-Deve esserci un modo!

Esclamai, terrorizzata a quella nuova, inquietante possibilità. Avevo ritrovato la mia famiglia e non volevo perderla ancora una volta.

- Forse… c’è una soluzione.

Disse Rose, poggiando il ventaglio cremisi sulle labbra e inarcando il sopracciglio perfetto. La guardammo, in attesa. La Lady del rubino fece spallucce.

- Potreste restare qui e ovviare al problema.

Restare a Neo Esperia? Non avevo ancora preso in considerazione concretamente quell’idea. La mia vita era sempre stata nel mio mondo e lì desideravo far ritorno. Questo valeva anche per Damien, per Violet, per Jamie. Una volta salvati i nostri cari, saremmo tornati a casa senza problemi. Ma ora il rischio che Evan e papà potessero perdere la vita una volta varcata la soglia di quella casa che tanto bramavamo era da tenere in considerazione. Vivere a Neo Esperia. Che sarebbe stato dei miei progetti? Violet e io programmavamo di diplomarci e di frequentare lo stesso college. Damien doveva ritrovare sua madre. E questo avrebbe in ogni caso significato la nostra separazione, almeno momentaneamente. E cosa sarebbe stato di Evan, che non poteva più mostrare in pubblico il suo volto ormai? Non avrebbe più potuto vivere in ogni caso. Certo, ero più che sicura che Arabella avrebbe accettato anche qualcosa del genere pur di stargli accanto, ma il prezzo da pagare era alto, in ogni caso. Poi mi ritrovai a guardare i miei genitori. La mamma, che tanto aveva sofferto in tutti quegli anni, come avrebbe potuto accettare di correre il rischio di perdere nuovamente la persona che amava e suo figlio? E cosa sarebbe stato di Victor Kensington, l’uomo che l’aveva aiutata? Da qualunque ottica la si guardava, avremmo perso qualcosa di importante. Nel silenzio, fu Leandrus a farsi avanti.

- A me sembra che vi stiate fasciando tutti la testa prima di esservela rotta. L’ametista non funzionava perché era una Pièce. Il Thurs, da che ne sappiamo, è qualcosa di diverso. Se la memoria non mi inganna, mentre cercavamo tra gli antichi manoscritti custoditi dai Delacroix, avevo letto che il Thurs non è stato creato per mantenere l’equilibrio geomagnetico di questo mondo… era una pietra taumaturgica, presumibilmente utilizzata dai primi abitanti, che col tempo è stata considerata una protezione per l’anima del Despota. Mi sembra di capire che il suo potere non sia legato alla sopravvivenza di questo mondo come per l’ametista, ma alla rigenerazione umana. Dunque se ha funzionato su Lord Valdes in un mondo diverso, considerando che è qui vivo e vegeto e senza quella pietra, perché non dovrebbe funzionare su… su di lui?

Domandò, indicando Evan. Notai che aveva avuto qualche esitazione nel nominarlo. E nonostante non avessi capito granché della sua strana spiegazione, mi parve abbastanza sicuro nell’argomentarla.

- In altre parole… pensi che dal momento che il cuore di Kensington ha ripreso a battere, batterà anche nel nostro mondo?

Chiese Damien.

Leandrus annuì, piuttosto convinto.

- Poi se crepa di nuovo pazienza. Intanto uno ci prova.

- Leandrus!

Lo riprendemmo all’unisono io, Amber e Violet. Rose ridacchiò.

- Beh? Insomma, sempre a prendervela con me…

Protestò, imbronciandosi.

- In fondo non ha tutti i torti…

Rispose Evan, a sorpresa.

- Che vuoi dire?

Domandai.

- Se non proviamo non lo sapremo mai, dopotutto. E poi, ho promesso ad Arabella che avrebbe visto il nostro mondo… inaspettatamente, sembra che possa mantenere quella promessa e fare in modo che sia così.

Disse, rivolgendole uno sguardo colmo di dolcezza. Che strano vederlo così. Dovevo abituarmi a vedere Evan innamorato. Era qualcosa di troppo inaspettato, dal momento che non era mai accaduto prima. Arabella sorrise. Al contrario, la mamma emise qualche colpettino di tosse, richiamandoci.

- Se pensi di farlo subito, ragazzino, sappi che ti sbagli di grosso. Per prima cosa, quando torneremo a casa, tu prenderai il diploma. Poi cercherai lavoro, a meno che tu non abbia per caso deciso di frequentare il college e una volta che avrai espiato il dolore che hai inflitto a tua madre con il tuo comportamento sconsiderato, allora forse avrai un viaggio premio.

Il gelo calò immediatamente nella cripta. Le facce dei miei amici erano tutte un programma. Persino il professor Warren e papà erano senza parole. Evan deglutì.

- Ah… a questo proposito… d-dal momento che Arabella e io non abbiamo lo stesso sang-- 

Nostra madre sorrise sorniona. Mio fratello fece un paio di passi indietro, nello stupore generale. Quando la mamma sorrideva in quel modo, non c’era possibilità di appello per nessuno, compreso il Despota.

- M-Mamma?

- Ecco, appunto. Che ti piaccia o no, Evan Kensington, sei mio figlio. E la prossima volta che ti viene in mente di far avverare una profezia, almeno abbi la compiacenza di avvertire questa sciocca che ti vuole un bene dell’anima…

La sua voce si incrinò a quelle ultime parole. Alla fine, tirò a sé Evan e lo abbracciò forte. Era quasi piccola, tra le braccia incredule di mio fratello, che rimase inebetito al sol sentire quanto la mamma lo amasse.

- Mamma… scusami… mi dispiace tanto…

Mormorò poi, ricambiando il suo abbraccio. Quel gesto ci colpì tutti. Livia, in particolare, cercò la vicinanza di Rose, che le accarezzò la testa teneramente.

- Lo so… non fare mai più niente di stupido…

Sussurrò la mamma. Guardai Damien, trovando il suo sguardo complice nel ricordare ciò che ci eravamo promessi. Chissà se il nostro giuramento avrebbe avuto valore anche una volta tornati a casa. Gli sorrisi. Lui mi rivolse la sua comprensione. E poi guardai papà e Arabella.

- Scusate, ma ora come risolviamo la questione?

Domandai. Effettivamente Evan aveva sollevato un problema importante. E dal momento che l’incesto era tabù, come giustificare il tutto? Cercammo di nuovo risposta in Leandrus che alzò gli occhi al cielo.

- Mi avete scambiato per un’opera omnia, voi?

Amber si mise a ridere, poi si fece avanti.

- Risolviamo una cosa per volta, che ne dite?

Poi raggiunse Evan, che sciolse momentaneamente l’abbraccio della mamma. Entrambi si guardarono. Il passato e il futuro l’uno di fronte all’altra. C’era solennità in quel momento, tanto che tutti rimanemmo in silenzio.

- Grazie per ciò che hai fatto per noi, Evan.

Disse infine Amber, con confidenza.

- Mi rivolgo a te come il fratello maggiore della nostra cara Aurore, che ci ha dato la forza di reagire e cambiare una volta per sempre il destino del nostro mondo in rovina. Ti prego, non lasciare andare più la sua mano. Aurore è forte, splendente, ma ha bisogno anche di te. Hai dato tanto a questo mondo, hai fatto in modo che un’antica profezia si avverasse, ponendo fine a un dominio di sangue e di oscurità. Ora, fa’ in modo che anche per Aurore l’oscurità abbia termine, una volta per tutte.

Sussultai sinceramente colpita da quelle parole d’affetto e di stima. Amber aveva visto il mio lato più triste, quando avevo pianto, tanto, per la morte di Evan. E meglio di tutti, conosceva il mio tormento. Evan annuì, poi si inchinò.

- Vostra Maestà. Grazie per esservi presa cura di mia sorella. Questo vostro desiderio lo accolgo come mio.

Disse. Arrossii, stupita di quanto Evan sapesse essere così formale.

- Grazie, Evan Kensington… sappi che la casata Trenchard-Lambert ti sarà sempre grata e a te tributa la sua nascita.

Evan assentì, poi alzò lo sguardo, vedendo Shemar che aveva affiancato Amber. Erano meravigliosi, nelle loro tenute imperiali. Fu il primo atto della nuova casata, sebbene nel segreto di una cripta che aveva rivisto finalmente la vita.

L’indomani, mentre per la popolazione di Neo Esperia la festa continuava, Amber ci chiese di attendere ancora un altro giorno prima di ripartire. C’era qualcosa nel tono con cui aveva avanzato quella richiesta che mi aveva insospettita. E quando ne compresi la ragione, fui più che felice di averla accettata. Micheu, che non vedevo da un po’, ci aveva raggiunti a palazzo, portando con sé i nostri grifoni. Non vedevamo Harundia e Hibernia da quand’eravamo stati a Boer e fu bello poterli riabbracciare un’ultima volta. Eravamo stati insieme per poco, certo, ma dopotutto, ci eravamo affezionati a quelle creature un po’ minacciose che tanto ci avevano aiutati. Damien aveva persino superato la paura e con suo grande orgoglio, aveva potuto volare assieme a Jamie, che finalmente tornò a sorridere, almeno per un po’. Il professor Warren, che li guardava da terra, aveva un’aria rilassata e tranquilla.

- Spero che si sia reso conto che separarli è stato inutile, professore...

Osservai, accarezzando il manto piumato del mio Harundia, che gradì il trattamento. I miei genitori, che si stavano occupando di Lughoir in quel momento, ci raggiunsero. Avevo scoperto che Estellise, purtroppo, era morta pochi anni dopo la fuga di mia madre e questo l’aveva addolorata molto. Al contrario, Lughoir era sopravvissuto allo stato brado, combattente com’era, al pari di papà. Il professor Warren, intanto, continuava a guardare il suo figliastro e il figlio legittimo.

- Ho capito molte cose, Aurore. E anche per me è tempo di espiare. Ciò che ho fatto, nel corso di tutti questi anni, è stato cercare di ottenere il potere che bramavo e che non mi era concesso. Non dico che mi sia pentito di tutte le mie scelte, ma quello che è accaduto mi è servito a farmi capire cosa conta davvero. Damien e Jamie, per quanto possa suonare incredibile detto da me, sono la sola cosa che mi sarebbe bastata, se soltanto non fossi stato così accecato dai miei obiettivi.

Guardai quell’uomo. Rispetto a papà, appariva più anziano, nonostante in realtà non fosse che più grande di pochi anni. Mio padre, raggiungendoci, alzò gli occhi d’ametista al cielo.

- Cosa farai ora, Lionhart? Verrai con noi?

Il professore sorrise, seguendo con lo sguardo il volo di Hibernia.

- No. No, Greal. Ho tante cose da farmi perdonare e non solo dai miei figli. E ho una condanna da scontare. L’Imperatrice chiederà un processo per l’eccidio dei Delacroix. So bene che in condizioni normali mi dovrebbe essere tributata la pena di morte, ma spero di poter espiare quella pena vivendo. Dopotutto, vedere i fantasmi di chi ho ucciso senza pietà ogni singolo giorno è già un incentivo a tentare la strada della redenzione.

- Ma così abbandonerà di nuovo i suoi figli!

Protestai. Harundia scalpitò.

- Se non sapessi che Damien è un ragazzo in gamba, non lo farei. Ma i miei figli hanno smesso da molto tempo di avere bisogno di me.

- Non funziona così! Si lava la coscienza e basta! Dovrebbe pensare anche a loro!

La mamma mi posò la mano sulla spalla, fermandomi. Mi voltai a guardarla, notando la sua espressione seria.

- Aurore. Prima o poi viene per tutti il momento di volare con le proprie ali. Quelle di Damien sono forti abbastanza per sostenere Jamie. E per raggiungere Grace. Ho fatto del male anche a lei e non sono ancora degno di tornare a chiedere perdono. Né a lei, né ai ragazzi.

Continuò il professore, poi ci guardò.

- Ma un giorno, forse, ci sarà speranza anche per me.

Sospirai, sconsolata, pensando a come l’avrebbero presa i ragazzi. Papà ricambiò il suo sguardo, invece.

- I tuoi figli saranno in buone mani, Lionhart.

Disse. Il professor Warren annuì. Poco dopo, anche Micheu tornò, insieme ad Amber e Shemar. Le guardie che presidiavano il cortile interno del palazzo imperiale si inchinarono al loro passaggio.

- Allora, Aurore! Vuoi lasciare Harundia a terra ancora per molto?

Chiese Amber, con un sorrisetto divertito sul viso, quando ci raggiunse.

- Così facendo le ali si indeboliscono, sai?

Mi fece notare Shemar, accarezzando a sua volta il piumaggio del mio grifone, che rispose con un mugolio sordo. Lughoir protestò per la mancanza di attenzione, invece. Amber si mise a ridere, accontentandolo.

- Lo faccio subito!

Esclamai.

- E i vostri grifoni, invece?

Domandò la mamma.

- Ho portato fuori Varon questa mattina presto. Mentre Ellayne, il grifone di Amber, è a riposo in questo periodo.

Spiegò Shemar.

- A riposo? Perché?

Domandai, salendo in groppa. Harundia si preparò alla partenza. Shemar sorrise.

- E’ incinta.

- E-Eh?!

Non feci in tempo a rispondere decentemente perché mi ritrovai a tirare un po’ troppo forte le briglie e fui sollevata in aria dal possente battito d’ali di Harundia.

- Shemar, prima o poi mi farai venire un accidente!

Protestai a voce alta, suscitando le risate dei presenti, mentre il mio grifone, per l’ultima volta insieme a me, si librava nell’aria meravigliosa di quella luminosa, ultima giornata nel mondo di Neo Esperia. E mentre raggiungevo Damien e Jamie, intravidi, nascosti dalle tende nella stanza che Amber aveva riservato ad Arabella, mia sorella ed Evan che ci osservavano. Feci segno di saluto con la mano, notando che Arabella aveva fatto altrettanto.

- Però… certo che se quei due pensano di darsi alla pazza gioia sarà meglio che mi trasferisca da Violet per un po’…

Mormorai.

- Ti trasferisci da Hammond?

La voce di Damien mi fece trasalire. Tirai le briglie di Harundia con più forza, tanto che Hibernia dovette scostarsi per evitare di esser colpito dalla sue zampe scalpitanti. Jamie si mise a ridere.

- Sembri preoccupata, Aurore!

Imbarazzata più che mai, scossi la testa.

- No, no! Cioè… solo un po’…

- Perché?

Domandò Damien, accigliandosi. Dio, odiavo quando mi rivolgeva quell’espressione da “voglio-saperlo-a-tutti-i-costi”. Spronai Harundia, passando loro davanti.

- Perché state per essere battuti in un’ufficiale gara di volo!

Esclamai, incitando il mio grifone che si dette immediatamente al volo accelerato. Sentii Damien protestare, poi fece lo stesso con Hibernia, chiedendo a Jamie di mantenersi saldamente. Risi come non mai, provando l’ebbrezza del vento mattutino sulla mia pelle, felice di aver potuto volare, libera come soltanto in poche occasioni mi era capitato. E compresi la gioia di mia madre, quando mia coetanea, solcava i cieli di Chalange in groppa alla sua fidata Estellise. Libertà e pace. Le sensazioni che provavo. Le stesse che finalmente, anche quel mondo aveva potuto ottenere.

 

Quella notte, ci ritrovammo davanti alla Porta di Pietra che era stata costruita fuori dalla capitale. La stessa che aveva visto il drammatico epilogo del tentativo di fuga dei miei genitori. C’eravamo tutti, ormai pronti a dire addio a quel mondo che era stato la nostra casa, per tanto tempo. Opportunamente nascosti dai nostri mantelli, scortati dalla guardia di Ruben, mentre in città i festeggiamenti continuavano ancora, eravamo giunti al portale seguendo una via isolata che a detta di Angus ci avrebbe evitato problemi, considerando la presenza di Evan. Avevamo già salutato gli anziani, che per ovvi motivi, non erano venuti con noi. Angus ci aveva raccomandato di riguardarci e di ricordare sempre che eravamo stati in grado di cambiare il destino di un mondo, dunque nessun ostacolo sarebbe stato insormontabile. Avevo abbracciato forte quel vecchietto che tanto ci aveva aiutati e che mi aveva aperto gli occhi sulla mia famiglia. E infine l’anziano Lord Vanbrugh aveva stretto le mani dei miei genitori, chiedendo ancora una volta perdono per aver contribuito alla loro separazione. Ma insieme, entrambi avevano risposto che se non fosse stato per lui, niente di tutto ciò che era accaduto negli anni a seguire sarebbe potuto accadere. Angus aveva protetto la nuova generazione e soltanto grazie a lui i giovani avevano potuto indagare e scoprire la verità. Avevamo salutato anche Lady Octavia, che avrebbe fatto ritorno a Shelton il giorno seguente. Nel congedarci, ci aveva chiesto di poter pregare per la mia famiglia, affinché finalmente potesse godere di quella protezione che per lungo tempo aveva perso. E nel baciare Arabella ed Evan aveva sorriso, dicendo loro che erano stati i figli del destino e che avrebbero avuto tanta felicità, per aver fatto in modo che una coppia ingiustamente separata per tanto tempo si fosse finalmente potuta ritrovare. Poi salutammo Lord Oliphant, che si offrì di occuparsi ancora di Livia, almeno fino a che non fosse stata in grado di cavarsela con le sue forze. La Lady del lapislazzuli distolse lo sguardo, quando facemmo notare che era la più forte tra tutte noi.

- Non dire cose scontate, Aurore.

Protestò, imbronciandosi.

- E’ la verità.

Confermai. Lei mi rivolse uno sguardo tagliente, poi guardò Jamie per un istante e arrossì. Stupita, mi ritrovai a cercare l’aiuto di Damien, che fece spallucce. Era triste, tuttavia, vedere che non si erano ancora chiariti. Jamie, accanto al fratello, sospirò, poi raggiunse Livia. Noialtri ci limitammo a guardarli.

- J-Jamie?

La voce di Livia era piuttosto timida.

Jamie Warren sorrise, come solo lui sapeva fare, e strinse forte a sé la sua fidanzatina.

- Ti voglio bene, Livia… e tornerò, te lo prometto. Ma tu, intanto… non dimenticarti di me.

Livia arrossì ancor di più di quanto già avesse fatto fino a quel momento, irrigidendosi.

- C-Che stai dicendo tutto d’un tratto, Jamie?!

Domandò, guardandolo in tralice. E quando Jamie sciolse l’abbraccio, notammo che gli occhi della nostra piccola amica si erano fatti più lucidi.

- S-Smettila di dire cose del genere! Come se io potessi dimenticarti! Io non… io non ti dimenticherò! Piuttosto tu… attento a te, Jamie, perché troverò il modo di sapere se ti stai comportando bene o meno e se farai il furbo, allora verrò e t-- 

Tale e quale al fratello maggiore, Jamie impedì a Livia di proseguire nella sua minaccia, baciandola sulla guancia. Quel gesto ci stupì e ci fu anche qualche fischio di comprensione dalle parti dei ragazzi di Ruben, subito smorzato da un’occhiataccia letale di Damien.

- J-Jamie!!

Livia posò la mano sulla guancia, imbarazzata. Jamie invece le rivolse un largo sorriso.

- Beh, io ti aspetto, allora.

Disse.

Quelle parole mi fecero pensare a Damien e pensai a quando sarebbe toccato a noi separarci.

- Ok, dal momento che siamo in tema di separazioni… tocca a me.

Si fece avanti Ruben, che gesticolò con aria impaziente. Violet, accanto a Rose, strinse il vestito con le mani, mentre la Lady del rubino, accorgendosene, aprì il ventaglio davanti al viso.

- Comportati bene, fratellino. E tieni alto l’onore dei Cartwright anche nel mondo della luce.

Disse, compiaciuta.

Ruben annuì, prima di darle un bacio sulla guancia.

- E tu fai lo stesso qui. Dopotutto, ora il casato è ufficialmente nelle tue mani.

Le ricordò. Rose fu d’accordo e Ruben si rivolse alla sua squadra.

- So che ci siamo già salutati come si deve, ma ci tengo a ringraziarvi un’ultima volta, amici miei. E anche Zarvos… non smetterò mai di pensarvi, ragazzi. Siete stati i migliori compagni che avessi mai potuto desiderare. Mi avete appoggiato anche in questa decisione e ve ne sarò per sempre grato.

Osservai Violet, che sorrise appena. Eyde, Einer e Gourias fecero un ultimo inchino al loro ex signore.

- Oh, suvvia, non ci siamo mai formalizzati noi! Anzi, quando vorrete venire a trovarci, sapete dove trovar-- 

Ruben si interruppe, guardando Violet con aria confusa.

- Dov’è che andrò a vivere io?

All’espressione stupita della mia amica, fecero da contorno quelle della maggior parte di noi. Blaez sospirò bonariamente.

- Povero Ruben, comincia bene la tua avventura nel mondo della luce, eh?

Commentò, meritandosi in risposta un’occhiataccia. Einer, sollevatosi, si mise a ridere, poi battè un buffetto sulla spalla del duca di Rhatos.

- Ohi ohi, badate bene, Lord, Ruben è pur sempre un maestro nel cavarsela da solo in situazioni disperate.

- Questo non mi aiuta particolarmente, Einer…

Bofonchiò il Lord del rubino. Ma fu Violet a rassicurarli.

- Non preoccupatevi, amici, Ruben è già stato a casa mia.

- C-Che?

Mi intromisi, stupita. La mia migliore amica annuì, sorridendo.

- Beh, da qualche parte doveva pur stare quando è venuto per la prima volta nel nostro mondo…

- E come l’hai giustificato?

Domandò incuriosita la mamma.

- Semplice. Studente straniero facente parte di un progetto scolastico internazionale!

- S-Sì, ma Ruben non sembra affatto uno studente straniero… e con l’età non si può barare…

Contestai, guardando in realtà Evan che a rifletterci, aveva già compiuto vent’anni. Quella nuova situazione mi fece riflettere sulle novità a cui avrei dovuto abituarmi. Mio fratello, comunque, si limitò a un cenno del capo.

- Beh, basta che abbia un posto dove stare…

Aggiunse alla fine la mamma, nonostante la sua perdurante perplessità genitoriale.

- Comunque, grazie di tutto, amici miei! Ah, occhio all’alimentazione di Valls… E tu, Blaez, prenditi cura della mia sorellina.

Concluse Ruben, aggiungendo un lieve sottotono di minaccia nella seconda richiesta. Blaez sogghignò.

- Non preoccuparti, amorevole fratello maggiore.

- Eh? Non era Rose la più grande?

Domandai ancora. Dannazione, stavo scoprendo tanti gossip solo in quel momento? Rose chiuse il ventaglio, ma fu Amber a rispondere.

- No, Ruben è il primogenito, anche se Rose ha ereditato il rubino.

- Ma anche Ruben è il Lord del rubino…

- Solo perché glielo concedevo.

Spiegò Rose, divertita. Ruben la guardò accigliato.

- Va bene,  non ricominciate a discutere, eh?

Intervenne Shemar, sorridendo.

Quanto mi sarebbero mancati tutti quanti… e pensare che Shemar era stato il primo a parlarmi dell’Underworld e della Croix du Lac. Mi ero affezionata così tanto anche a lui, a cui, oltretutto, dovevo anche la vita. Mi feci avanti, per salutare sia lui che Amber. Oramai, erano ufficialmente i capostipiti della nuova generazione al potere, ma in quel momento, erano soltanto i miei due cari amici a cui dovevo la svolta più importante di tutta la mia intera esistenza. Era stato grazie all’interessamento di Amber se Shemar era venuto a cercarmi e grazie a lui ero sopravvissuta abbastanza per riuscire a scoprire la verità sulla mia storia. Eppure, in quel momento, erano solo i miei cari amici. Li abbracciai entrambi forte, mentre la tristezza all’idea di non vederli più mi attanagliava il cuore. Diversamente dai ragazzi di Ruben, a loro non sarebbe stato possibile lasciare Neo Esperia e dunque, non avrebbero avuto l’occasione di vedere il mio mondo, almeno Amber. Mi sarebbe piaciuto poter fare da Cicerone per una volta e mostrare loro le bellezze di Darlington. Ero più che certa che alla mia amica sarebbero piaciute. E forse, sarei anche riuscita a convincere Shemar a mangiare un trancio di pizza e un sandwich.

- Mi raccomando, non cacciarti nei guai, Aurore.

Mi redarguì Shemar, affettuosamente. Annuii, sorridendo.

- E ricorda sempre che potrai venire a trovarci quando lo desideri. Sei la benvenuta, così come la tua famiglia e i tuoi amici.

Disse Amber, sorridendo a sua volta, con la dolcezza della sorella maggiore.

- Va bene! Grazie, Amber!

Esclamai, felice. Anche i miei genitori e Arabella annuirono.

- E voi due fatevi sentire, in qualche modo!

Dissi loro. Entrambi furono d’accordo.

Alla fine, dopo aver sciolto l’abbraccio, ci ritrovammo a congedarci ufficialmente. Salutai Hiram e Milene e quest’ultima mi regalò un ciondolo a forma di cerchietto, delle stesse dimensioni della mia ametista. L’originale ormai era perduto, così com’era accaduto per quelli in possesso delle mie amiche. Guardai stupita Milene, non me l’aspettavo. Lei mi rivolse uno sguardo dolce color nocciola.

- Il cerchio si chiude, e tutto torna… mi avete ricordato cosa significhi essere fratelli… parte di un tutt’uno…

- Grazie, Milene…

Sussurrai commossa, stringendo quel ciondolo. La abbracciai, e poi guardai Hiram, che sorrise appena, rivolgendomi un inchino.

- Abbiate cura di voi, ragazzi…

- Anche voi, Lady Aurore.

Dissero entrambi.

Persino Leandrus, che era stato un po’ in disparte, fino a quel momento, ci salutò a modo suo, avvisandoci che prima o poi sarebbe venuto a trovarci per scoprire le altre diavolerie che a quanto pareva, lo avevano incuriosito non poco.

Anche la mamma si ritrovò a salutare Alizea. Aveva insistito molto perché stavolta venisse con noi, ma la sua balia fu irremovibile persino allora. Oltretutto, aveva trovato in Sybille un’ottima partner e insieme avrebbero servito la nuova corte.

- E comunque, Celia, siete grande abbastanza per non aver più bisogno di me. E siete una mamma meravigliosa, visti i figli che avete tirato su.

Disse, affettuosamente e con orgoglio. Quelle parole commossero la mamma, che non riuscì a trattenere le lacrime. Poi, si strinsero in un abbraccio esclusivo.

- Tu sei stata come una mamma per me… è solo grazie a te se ci sono riuscita… Alizea, grazie… grazie davvero! Ti voglio bene… e mi mancherai tanto…

Era la prima volta che sia io, che anche Evan e Arabella, vedevamo la mamma sfogarsi così. Dopotutto, aveva perso sua madre Amaryllis troppo presto e a tutti gli effetti, era stata Alizea a crescerla, con amore, con confidenza e anche con autorevolezza, in un certo senso. Ed erano proprio queste le caratteristiche più importanti riflesse anche nel rapporto con me e mio fratello. Guardai Evan, mentre Alizea accarezzava teneramente la mamma e si dava alle raccomandazioni. Lui ricambiò il mio sguardo in silenzio, sorridendo con comprensione. E lo stesso fece papà, che si trovò a congedarsi dal professor Warren. Anche per la famiglia di Damien la separazione fu particolare. Dopotutto, non si poteva dire che avessero già intrapreso un percorso di recupero. Tuttavia, da quando il professore aveva gettato la spugna, comprendendo finalmente le sue colpe, anche Damien si era reso conto che andargli contro non avrebbe sortito effetti producenti. E d’altro canto, sapeva bene che avrebbe dovuto pagare per quelle stesse colpe. Jamie invece, strinse forte il padre, che sembrò sinceramente stupito di quella reazione. Dapprima esitante, dopo aver sentito il figlio pronunciare il nome “papà”, lo abbracciò, chiedendogli scusa. In realtà, Lionhart Warrenheim sapeva fin troppo bene che non sarebbero bastate semplici scuse per tutto ciò che era accaduto, ma mi piaceva pensare che sarebbe stato il primo passo nella costruzione di un rapporto non più basato sulle menzogne, ma sul riconoscimento delle proprie responsabilità. Quando si congedò da Damien, tendendogli la mano, vidi un uomo emotivamente scosso e un giovane che stava imparando che la forza veniva anche dall’essere in grado di perdonare. Damien guardò la mano del padre, poi lo guardò in viso. Aveva un’espressione seria e composta, ma sapevo che dentro si agitavano i dubbi e le incertezze. Alla fine, forte della presenza di Jamie, si decise a stringere quella ritrovata alleanza.

- Limerick, Damien. Grace vive lì, in questo periodo. Troverai un duplicato dei documenti che la riguardano nella cassetta di sicurezza, in banca. Le chiavi d’accesso sono le date di nascita tua e di Jamie. Non ho fatto in tempo a distruggere anche quelli.

Disse. Damien e Jamie ne rimasero stupiti.

- Limerick…

Fece eco Damien, poi guardò Jamie, sorridendo.

- La mamma è lì!

Esclamò il fratellino, ricambiando quell’identico sorriso. Poi entrambi si rivolsero ancora al padre.

- Grazie.

Sapevo che quella parola era stata difficile da pronunciare per Damien, ma per la prima volta, notai sincera gratitudine verso l’uomo che in fin dei conti, l’aveva riconosciuto come proprio figlio. Il professore annuì.

- Siate felici, ragazzi.

Concluse, scostandosi, non prima di aver scompigliato affettuosamente i capelli d’ebano di Jamie, che protestò.

- E’ ora di andare.

Ci fece notare poi papà, richiamando la nostra attenzione. E così, il momento di andare era ufficialmente arrivato. I ragazzi si fecero indietro, mentre noi, appartenenti al mondo della luce e future reclute, ci avvicinammo alla Porta di Pietra. A sorpresa, fu Evan a farsi avanti per primo. In realtà, senza l’ametista, mi chiedevo come sarebbe stato possibile farla aprire. Sapevamo che era la Croix du Lac a concedere il passaggio e che le gemme a loro volta erano in grado di aprire il portale. Evan strinse il Thurs, prendendo fiato. Deglutii al pensiero che sarebbe stata la prova del nove, sia per lui che per papà e mi avvicinai a loro. Papà mi posò la mano in testa, accarezzandomi i capelli e rivolgendomi uno sguardo deciso che mi fece passare la paura. Evan, sostenuto dalla mamma e da Arabella, posò la mano libera sul portale. E ricordai che mi aveva spiegato che in quanto appartenente alla famiglia Delacroix poteva aprirlo a piacimento. Quante cose sarebbero state diverse se solo l’avesse scoperto prima. Eppure, in quel momento, eravamo tutti lì, pronti ad assistere ancora una volta a quello spettacolo.

- Raido Sowilo.

Disse.

Viaggio... sole… l’accesso al mondo della luce. La Porta di Pietra, con nostra meraviglia, si aprì lentamente davanti ai nostri occhi.  E quando finalmente fu del tutto aperta, ci voltammo verso i nostri amici, che commossi e in attesa al pari di noi, ci congedarono in quella notte che presto avrebbe avuto termine.

- Arrivederci, amici miei! A presto!

Esclamai, prima di varcare, finalmente con le mani strette a quelle di mia madre e di mio padre, la soglia che separava i due mondi che avrebbero per sempre ospitato le due metà del mio cuore. Feci appena in tempo a sentire le voci dei ragazzi mischiarsi e confondersi a quelle della natura, per poi scomparire nell’oscurità che oramai non temevo più. E dopo un tempo indefinibile, dopo che anche il portale del mio mondo si fu aperto, mettemmo piede, dopo tanto tempo, nei sotterranei dello Stonedoor. La luce fioca e intermittente delle lampadine appese malamente al muro bastava a rischiarare a malapena quella sala in cui credevo che Evan fosse morto. L’odore di polvere e stantio era disgustoso, ma quantomeno eravamo tornati. Chi più chi meno, tutti ci guardammo intorno. Papà e Arabella erano per ovvi motivi i più perplessi.

- Ehm… non è tutto così, fuori è meglio…

Li rassicurai.

- Posso confermare.

Intervenne la mamma, sorridendo.

Arabella sbattè le palpebre, mentre papà aggrottò le sopracciglia, guardando i solchi nel pavimento e nelle mura, segno dello scontro avvenuto con le guardie imperiali la notte in cui aveva finto la sua morte.

- Ah, quella… è opera mia.

Disse Evan, l’immagine della verecondia.

Damien e Ruben lo guardarono increduli. Io sospirai, poi mi ricordai che eravamo finalmente a casa e per di più, sia lui che papà stavano bene.

- A questo proposito, Evan…

Mio fratello si voltò a guardarmi, così come gli altri. Il braccialetto al mio polso tintinnò non appena sollevai il pugno a mezz’aria. Damien sogghignò. Arabella, al contrario, sembrava preoccupata, tanto che Violet dovette darle qualche pacca sulla spalla per tranquillizzarla del fatto che non aveva di che temere. Non ancora, almeno. Mi avvicinai a Evan con un broncio che avrebbe fatto invidia persino a Livia. Jamie si mise a ridere. Papà guardava perplesso la mamma, invece.

- Tu… maledetto fratello buono solo a farmi venire un colpo… se pensi di cavartela con così poco sappi che ti sbagli di grosso!

- Di che stai parlando, Aurore?

Affilai lo sguardo.

- Ti ricordo che hai un bel po’ di cose da farti perdonare! Prima di tutte l’avermi ingannata e l’avermi fatto credere di essere morto, poi di essere un bastardo manipolatore con complesso di superiorità che ha sterminato non so quanta gente e infine un fratello stronzo che ha deciso di sua volontà di sacrificare la sua stessa vita nonostante sapesse di non poter fare cosa peggiore per ferirmi! E sappi, Evan, che non ti basteranno delle scuse! Non ho nessuna intenzione di lasciar correre tutto sol perché ora sei qui! Mi hai fatto male… non immagini quanto! Quindi… tanto per cominciare, riprenditi questo e non toglierlo mai più, così ricorderai che significa avere qualcuno che ti ama al punto tale da rischiare tutto pur di ritrovarti!

Tolsi il braccialetto, per la prima volta da tanto tempo e lo tesi davanti a lui. Evan ne sembrò toccato particolarmente, tanto che lo vidi esitare, forse per cercare le parole giuste, forse perché non sapeva come reagire nel modo migliore. O forse, semplicemente considerando la sua difensiva, si aspettava un pugno in faccia. Del canto mio, cercai di mostrarmi assolutamente risoluta nonostante sentissi che se avessi continuato sarei scoppiata a piangere. Alla fine, riprese il braccialetto. Nell’istante in cui le nostre dita si sfiorarono, percepii calore. Solitamente, le dita di mio fratello erano più fredde, ma stavolta, erano calde, forse proprio per l’effetto del Thurs.

- So che le scuse non bastano, Aurore… e so che ho tanto su cui lavorare, anch’io… ma grazie per averlo custodito, sorellina.

- E non chiamarmi così solo per fare il ruffiano! Giusto perché tu lo sappia, ho gettato nel fuoco la tua collezione di Assassin’s Creed!

Protestai, arrossendo per l’imbarazzo. Non volevo che mi facesse sentire piccola e indifesa, soprattutto davanti a Damien. Evan, tuttavia, non dette segni di squilibrio mentale o di turbamento nel sentire della dipartita dei suoi giochi preferiti. Solo un piccolo fremito tra le sopracciglia. Evidentemente, aveva superato la fase games-addicted. Damien ridacchiò.

- Quand’è che l’avresti fatto?

- Non ti riguarda!

Gli rivolsi un’occhiataccia, poi vidi che Evan si era risistemato il bracciale al polso. Sorrisi rincuorata, nel vederlo di nuovo addosso al legittimo proprietario. E quando mi accarezzò la testa, i miei propositi di vendetta si assopirono, almeno momentaneamente, lasciando il posto alla mia commozione.

- Che ne dite se andiamo?

Propose poi Violet, notando che Ruben guardava verso le scale. Annuimmo, quando proprio quest’ultimo ci fermò.

- C’è qualcuno.

Quelle parole ci fecero balzare praticamente sull’attenti. Papà, Evan, Damien e lo stesso Ruben ci passarono davanti, pronti all’azione. Era strano vederli tutti e quattro così. Avrebbero fatto invidia persino ai moschettieri. Effettivamente, prestando orecchio, sentimmo dei passi lungo le scale. Strinsi a me Jamie, mentre Violet e Arabella fissavano la luce che si muoveva in alto e in basso in lontananza. La mamma cercò di orientare una delle lampadine appese al muro verso la fonte luminosa.

- Sta’ ferma, Celia. Me ne occupo io.

Ordinò papà.

- … Celia?

Una voce maschile, un po’ distorta dall’eco, fece capolino dal buio delle scale.

- Questa voce…

La mamma si fermò, perplessa.

E quando finalmente la persona che aveva parlato si affacciò, facendo luce sul nostro gruppetto pronto all’attacco, scoprimmo un distinto signore sulla sessantina abbondantemente passata, in giacca leggera scura e con un gilet bordeaux a bottoni. Era piuttosto alto, con folti e ordinati capelli ingrigiti, occhi verdazzurro e i lineamenti resi più accentuati dallo stupore e dalla tensione. Raccolse un orologio da taschino e controllò l’ora, poi mormorò qualcosa sottovoce e infine ci guardò.

- Oh, grazie al cielo!

Esclamò, in perfetto accento britannico.

- Chi siete? Mettete giù quell’arma!

Disse papà, guardingo.

L’uomo ci sorrise, mentre la mamma rassicurò papà e tutti noi, facendosi avanti.

- Sta’ tranquillo, Greal… è tutto a posto. Questo signore è Victor, l’uomo a cui devo la vita. Il mio secondo padre.

Sorrise, raggiante e commossa. Sconcertata, cercai prima lo sguardo di Evan, che sembrava praticamente più stupito di me, poi mi ritrovai a guardare Victor Kensington, che sorrise cortese.

E così, eravamo ufficialmente tornati a casa.

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Capitolo 60
*** XXII. Ritorno a casa (1 parte) ***


Buonasera! :) Prima parte del 22° capitolo! >_< Oscuro caro, scusa se non ti aspetto, ma ho Didattica con tanto di falce proprio di fronte a me e approfitto di un attimo per pubblicare! XD Comunque, personaggi nuovi in arrivo e confronti all'orizzonte! Cosa riserverà l'immediato futuro ai ragazzi ora che sono tornati a casa? 

Buona lettura, alla prossima!! :)

 

 

 

 

 

Pensai che non appena usciti dai sotterranei dello Stonedoor saremmo tornati ognuno alle proprie case. In realtà, la faccenda si rivelò da subito un po’ più complicata. Victor Kensington, dopo averci accolto con un sollevato “Bentornati”, ci informò che era trascorso diverso tempo da quando eravamo praticamente spariti nel nulla. Ma se per la mia famiglia e per Damien il problema sussisteva relativamente, dal momento che risultavamo all’estero, per Violet, che era letteralmente scappata di casa assieme a Ruben, si era fatta strada l’ipotesi del rapimento. La mia migliore amica, alquanto imbarazzata e preoccupata al riguardo, non nascose di aver finalmente compreso di aver esagerato un po’ troppo, decidendo così repentinamente di abbandonare tutto per venirmi a cercare. E anch’io, in qualche modo, finii per sentirmi in colpa per non aver fatto di più per rimandarla a casa quando possibile. Dopotutto, sapere che lei era al mio fianco, la mia ancora verso il mondo in cui ero nata e vissuta, mi era servito, in un certo senso, a non perdere di vista la mia realtà, quella a cui desideravo tornare, prima o poi.

Così, Victor ci chiese di seguirlo, comunicandoci di aver acquistato, proprio di recente, una proprietà a Darlington. La notizia stupì la mamma, che preso sottobraccio il suo padre adottivo, non poté fare a meno di chiedere spiegazioni in merito.

- Sapevo che sareste tornati e così ho pensato di aspettarvi direttamente qui.

Disse, rivolgendo un sorriso speranzoso alla mamma e poi guardandoci.

Io ero assieme a papà, Evan e Arabella. Damien e Jamie, accanto a Ruben e a una pensierosa Violet, sembravano incuriositi.

- Oh, a proposito. Chiedo scusa per la scortesia. Non mi sono nemmeno presentato.

Posando la mano libera sul petto e chinando appena la testa canuta, riparò al danno.

- E’ davvero un piacere fare la conoscenza della famiglia della mia cara Celia e di voi tutti. E, dolce Aurore, sei cresciuta davvero tanto. Immagino che non ti ricordi di me, non è così?

Scossi la testa, un po’ imbarazzata.

- M-Mi dispiace, ero troppo piccola per ricordare…

Tentai di giustificarmi, cercando lo sguardo della mamma, che mi rivolse un’occhiata comprensiva.

- Non preoccuparti, tesoro… è anche colpa nostra che abbiamo deciso di non rivelare nulla…

Mi rispose. Anche Evan fu dello stesso parere.

- Del resto, non che ci fosse altro modo…

Commentò.

Victor si soffermò a osservare mio fratello.

- Il piccolo Evan, diventato un giovane uomo in grado di difendere la sua stessa famiglia. Ragazzo mio, alla fine, ce l’hai fatta ad afferrare la mano della tua Arabella, che permettetemi l’ardire, è bella come sua madre alla sua età.

Entrambi i miei fratelli, che avevano effettivamente le mani strette l’una nell’altra, si guardarono. Arabella arrossì. Evan alla fine, annuì con sicurezza.

- Sì, è così, nonno Victor.

- N-Nonno Victor? Non chiami papà nostro padre e chiami nonno il signor Kensington, Evan?!

Esclamai, a voce un po’ troppo alta, forse, perché tutti si voltarono a guardarmi. Evan sembrò turbato dalla mia osservazione, tanto che non seppe cosa rispondere.

- Sensi di colpa?

Gli fece eco Damien, sforzandosi di non pungolarlo più del dovuto. Evan inarcò il sopracciglio.

- Non provarci nemmeno, Warren.

- Però è vero, in tutti questi anni Evan non ha mai chiamato Greal papà… oh, questa dovevo immaginarmela…

Commentò sovrappensiero la mamma, rivolgendosi verso papà come se se ne vergognasse. Dando prova di grande aplomb, papà non si scompose.

- Beh, dal mio punto di vista è più che legittimo. Dopotutto Evandrus sapeva bene di essere un Delacroix e non un Valdes… o un Kensington, se vogliamo essere più fiscali.

- N-Non è così… !

Si affrettò a rispondere Evan, che apparve piuttosto imbarazzato. Dovevo ammetterlo, era piuttosto strano vederlo tanto a disagio. Ma dopotutto, era più che comprensibile. A sorpresa, fu Arabella a risolvere la questione.

- Lord Warr--  Damien ha detto che Evandrus Delacroix è morto… ma che Evan Kensington non lo è mai stato davvero…

- Arabella…

Mia sorella sorrise candidamente.

- Non importa quale sia il nome di famiglia… non fa certo differenza, ora… ciò che conta è che finalmente possiamo vivere tutti insieme, di nuovo… e io sono davvero felice che le persone che amo e che mi sono sempre mancate ora siano qui… papà, mamma, Aurore… e tu, che per Aurore sei stato un fratello, per i nostri genitori un figlio… pertanto, non avere paura di aprire il tuo cuore, Evand--  no, Evan!

Quelle parole così spontanee ci strapparono un sorriso. Arabella era stata l’unica a comprendere la vera ragione dietro a quella mancanza di Evan. L’essere cresciuto come l’uomo di casa, l’incertezza per la sorte di papà, il senso di colpa che l’aveva sempre accompagnato, avevano finito col creare una sorta di distacco in mio fratello. E ora che finalmente eravamo tutti riuniti, dopo averne preso coscienza, forse non riusciva a superarlo. Papà, ad ogni modo, fu molto comprensivo. Posò la mano sulla spalla di Evan, che ne incontrò lo sguardo.

- So di non essere stato presente, e voglio che tu sappia che Celia mi ha detto tutto di te, del modo in cui hai protetto lei e tua sorella. Evan, quella notte di tanti anni fa, avrei voluto per te un futuro libero dal fardello dei Delacroix. Eppure, il destino ha voluto che tu ricordassi, che crescessi col pensiero rivolto ad Arabella, a un mondo che stava finendo. E nonostante tutto, sei diventato esattamente ciò che Victor ha detto. Non credo che avrei mai potuto aspettarmi qualcosa di diverso. Al contrario, non sono mai stato così felice di aver avuto un figlio maschio come te.

Evan ascoltò quelle parole con lo sconvolgimento nei suoi begli occhi amaranto. Non credo di averlo mai visto più in difficoltà di quel momento. Per la prima volta, ufficialmente, era stato riconosciuto come figlio da parte di nostro padre. E sotto ai nostri sguardi inteneriti e soddisfatti, alla fine, Evan fu costretto a distogliere il suo per non far vedere la sua stessa emozione. Soltanto, con la voce incrinata, annuendo dopo aver preso un respiro tremante, pronunciò le parole che mai avevo sentito dirgli, da quando lo ricordavo.

- Grazie… papà…

Sentii il cuore battermi più forte nell’udire il tono così commosso di Evan e nel vedere il sorriso che si aprì sul volto di papà. Alla fine, Victor, ritrovandosi ad annuire compiaciuto, tirò nuovamente fuori dal taschino l’orologio. La mamma lo guardò incuriosita, così come Damien, che notò la somiglianza con l’orologio che solo pochi mesi prima, Shemar gli aveva regalato, uno di quelli che aveva visto su dei libri, assieme a sua madre, da bambino.

- Vogliamo andare? Rhodes ci aspetta fuori. Oh, in realtà aspettava me, ma non c’è alcun problema, suppongo.

Disse Victor divertito,  imboccando le scale.

- Chi è Rhodes?

Domandai, perplessa.

- Russell Rhodes, il maggiordomo di casa Kensington.

Rispose prontamente Evan, mentre ci apprestavamo a seguire Victor. A quella nuova rivelazione, non potei fare a meno di guardare mio fratello.

- Anche un maggiordomo… comincio seriamente a preoccuparmi…

E stupita come non mai della nuova situazione che si era venuta a creare, finalmente, poco dopo, potei riassaporare assieme ai miei amici e per la prima volta, assieme alla mia famiglia al completo, l’aria notturna della mia tanto amata Darlington. Casa.

 

Dovevo ammetterlo. Accanto alla felicità data dall’aver finalmente potuto rivedere i luoghi che amavo e del riavere, soprattutto, mezzi di trasporto umani, non fui la sola a rendermi conto di quanto a parti inverse, per papà e Arabella fosse alquanto traumatico ritrovarsi non soltanto a notare un tipo d’architettura del tutto diversa da quella a cui erano abituati, ma anche e soprattutto, vedere sfrecciare auto e doverci salire a bordo. Persino Ruben si ritrovò a sorridere delle reazioni eccessivamente guardinghe di papà e dello spavento di Arabella ogni qualvolta un’automobile passasse per la via principale. La mamma ed Evan si dettero da fare per spiegare loro che non c’era nessun pericolo, salvo quello dato dal cercare di attraversare la strada o il salire e scendere se il mezzo era in movimento. A questo proposito, Victor si mise a ridere, affermando che la sua difficoltà invece era data dal volante a sinistra piuttosto che a destra. Proprio mentre ne parlavamo, ci ritrovammo davanti il signor Rhodes, un uomo sulla cinquantina, distinto al pari di Victor, in giacca e cravatta nonostante fosse estate e anche lui estremamente britannico nei modi.

- Bentornato, signore. E lieto di rivedervi, signora Celia, signorino Evan e signorina Aurore.

Quel “signorino Evan” strappò una risatina sotto i baffi sia a me che a Damien e Violet. Dopotutto, non potevamo non dire che Evan non aveva certo i modi del signorino. Al massimo quelli di un despota sanguinario, ma quella era decisamente un’altra storia. Mio fratello, nonostante tutto, cercò di ignorarci. E io non potei prescindere la mia personale meraviglia nel sentirmi rivolgere quel tono che mi ricordò immediatamente Shemar. Chissà se i festeggiamenti a Chalange stavano continuando…

- Rhodes, che piacere rivederla! Complimenti, non è invecchiato di una virgola!

Notò la mamma, con evidente sorpresa.

L’uomo, sorridendo cortesemente, un guizzo divertito negli occhi marroni bordati di ciglia scure, aprì la portiera della Toyota Avensis metallizzata. Nonostante la perdurante perplessità di papà e di Arabella, ci apprestammo a entrare, ma fummo bloccati.

- Aspettate, per favore.

Mi voltai nel sentire Violet con un insolito tono preoccupato.

- Che succede?

Le domandai.

 La mia migliore amica, un po’ imbarazzata, si scusò.

- Non posso venire con voi… insomma, ora che siamo tornati, non me la sento di mentire ancora ai miei genitori… saranno già fin troppo in pena…

Abbassò lo sguardo colpevole, mentre Ruben, accanto a lei, sembrava in imbarazzo. Del resto, c’era da immaginare che il legame tra loro due non fosse passato inosservato e se avessero fatto delle ricerche sul nostro amico, considerando l’esito totalmente negativo, c’era da immaginare il peggio.

- Hammond, non puoi tornare a casa ora. Come giustificherai la tua assenza effettiva? Non è passata una settimana, sono trascorsi dei mesi. E ai tuoi genitori non basterà una semplice scusa.

Le fece notare Damien, forse un po’ troppo duramente per i miei gusti e non soltanto. Ruben si accigliò.

- Ohi, Warren. Datti una calmata. Violet sa benissimo che…

- Sa benissimo che è stata irresponsabile, così come lo siamo stati noi e tu stesso nel portarla con te. Non è così semplice, Ruben. Si parla di rapimento e credimi, qui è un reato molto più grave di quanto lo sia nell’Underworld.

- Neo Esperia.

Lo corresse Ruben, con piglio seccato. Damien agitò a mezz’aria la mano.

-  Sì, sì, quello che è. Ad ogni modo, devi tutelarti, Hammond.

Riprese, rivolgendosi a una sempre più in colpa Violet. Quella sua preoccupazione mi strinse il cuore, tanto che raggiunsi la mia migliore amica, assieme alla mamma, che le accarezzò dolcemente la testa. Violet ci guardò, gli occhi lucidi. Alla fine, dopo pochi istanti, mia madre si voltò verso gli altri, sorridendo.

- Andate con Victor, ci penso io. Mi è venuta un’idea.

Papà ed Evan, nemmeno se si fossero letti nel pensiero, misero le mani in faccia.

- Allora siamo fregati.

Commentò mio fratello, suscitando lo stupore di Arabella.

- Perché?

Domandò, incerta.

- Le idee di Celia sono pericolose per l’incolumità di chiunque.

Spiegò papà, sospirando.

A quell’osservazione non potei trattenere una risatina, mentre la mamma sbuffò.

- Voi due… giuro che non appena saremo a casa la sconterete con gli interessi. Quanto a noi…

- Cos’ha in mente, signora?

Domandò Violet, perplessa.

- Da quanto manchi, tesoro?

- Da poco prima della Renaissance… non sono in grado di quantificare quanto tempo sia trascorso effettivamente…

Spiegò.

- Dovrebbero essere un paio di mesi circa.

Intervenne Damien.

- E se non sbaglio hai approfittato della gita scolastica, vero, Violet?

Domandai. Violet assentì.

- A cui però non ho partecipato…

Aggiunse.

La mamma ci rifletté un po’ su, poi scrollò le spalle.

- Diremo che sei venuta da noi. Hai approfittato della gita scolastica per raggiungerci e…

- Le ricordo che si parla già di rapimento.

Ribadì Damien, smorzando la teoria della mamma, che sbuffò.

Violet si risentì.

- Accidenti, è stata tutta colpa mia…

Mormorò Ruben, tra sé e sé.

- Non pensarci, alla fine, ciò che conta è che Violet stia bene…

Cercai di rassicurarlo, poi guardai Evan, che scosse la testa.

- Anche se usassi quella scusa, mamma, è passato comunque troppo tempo… e Violet avrebbe potuto avvertire i suoi genitori, in ogni caso, cosa che per ovvi motivi, non è accaduta.

Disse. La mamma fu d’accordo.

- Ma se dicessimo che il suo cellulare è stato rubato?

Aggiunsi.

- Scontato. Anche se fosse avrebbe potuto usare il tuo o quello di tua madre. O Skype, ad esempio.

- Cos’è Skype?

Domandò Arabella, ancora più incerta.

- E’… è un progr--  Spiegaglielo tu, Kensington.

Rispose Damien, rivolgendosi a Evan.

- Ehi. E io che c’entro?

- E’ la tua ragazza.

- S-Sì, ma perché devo spiegare cos’è?

Protestò mio fratello, preso in contropiede. Damien sfoderò il suo sogghigno, ma prima che potessero continuare la discussione, papà richiamo l’attenzione.

- Avete intenzione di cincischiare ancora a lungo? Perché non dire semplicemente le cose come stanno?

In quel momento, ci voltammo tutti verso mio padre. Per via della sua espressione seria e tremendamente convinta di ciò che aveva appena detto, compresi che per papà, vivere nel nostro mondo sarebbe stato un vero problema.

- N-Non possiamo parlare di Neo Esperia, Greal…

Disse la mamma, titubante.

- Perché?

Fu Victor a rispondere, prima che potesse farlo qualcun altro.

- Questo mondo ha perso la cognizione dell’esistenza di una dimensione differente, già da molti secoli. Solo i membri della mia famiglia, da generazioni, si sono fatti portatori e protettori di quella realtà. Signor Greal, al giorno d’oggi, sarebbe impensabile divulgare l’esistenza di un mondo diverso da questo senza generarne una crociata mediatica.

Papà valutò attentamente le parole di Victor, che alla fine, fece un cenno col capo.

- Quanto alla signorina Hammond, sono qui anche per questo. Ho provveduto personalmente a inviare Rhodes qui per valutare la situazione poco dopo la vostra scomparsa e successivamente a quella della signorina, a incontrare i suoi genitori, poco più di un mese fa. Erano naturalmente in pena, come qualunque genitore che teme di non poter rivedere il proprio figlio. Rhodes ha detto loro che al momento si trovava a Londra assieme a mia nipote, che era partita in fretta assieme a mia figlia e al fratello per venirmi a trovare, in quanto ammalato. Il motivo per cui non aveva avuto modo di contattarli era il fatto che temeva di farli preoccupare, se avessero saputo che aveva deciso così all’improvviso di prendere un aereo per la Gran Bretagna. Oh, ovviamente spero che non vi dispiacerete se mi son preso la libertà di farvi concludere gli studi tramite crediti extra che recupererete quest’estate.

 Violet e io ci guardammo, poi cercammo mia madre, che si rivolse a Victor sorridendo entusiasta.

- Questo è davvero inquietante.

Commentò Damien, trovando l’approvazione di Jamie e di Evan.

- Non ci ho capito un accidente, ma mi state dicendo che Violet è scagionata?

Domandò incredulo Ruben, mentre la speranza di riaccendeva nei suoi occhi color lavanda.

- Pare proprio di sì.

Risposi, poi strinsi le mani della mia amica, sorridendo.

- E’ tutto a posto, Violet!

Lei sorrise, finalmente rincuorata.

- G-Già… Oh mamma, davvero, non so come ringraziarla, signor Kensington… e anche lei, signor Rhodes…

Disse, rivolgendosi loro con sollievo ed entrambi fecero un cenno d’assenso.                                      

- Ad ogni modo, se volete andare ora, per me non c’è alcun problema, ma penso che vestiti in quel modo suscitereste qualche dubbio nei genitori della signorina Hammond.

Osservò tuttavia Victor.

Ed effettivamente, considerando che indossavamo ancora gli abiti tipici di Neo Esperia, non aveva certo tutti i torti. Ci mettemmo a ridere, accettando alla fine, l’invito di quello strano signore che a tutti gli effetti, era un vero e proprio benefattore. Eppure, papà sembrava ancora alquanto sospettoso.

Quando finalmente mettemmo piede a casa, una villetta a due piani nei pressi delle scuole medie di Darlington, piuttosto classica per precisa volontà dello stesso Victor, che non voleva dare particolarmente nell’occhio con la sua presenza, potemmo finalmente rilassarci. Quasi non mi sembrò vero di riavere acqua calda corrente, luci elettriche da usare a piacimento e gas persino. Non che mi dispiacesse la vita che avevo condotto nei tre mesi precedenti, anzi, ero arrivata persino ad abituarmici, ma dopotutto, casa era casa, con le sue comodità d’era contemporanea. Dopo aver benedetto una meravigliosa e rilassante doccia a base di fragrante bagnoschiuma alle more e shampoo, raggiunsi Arabella, Violet e la mamma, che mi aspettavano. Non c’erano molte stanze da letto, ma d’altro canto, era più che comprensibile. L’abitazione disponeva di una camera padronale, una seconda con due letti e una per gli ospiti. Quest’ultima era stata occupata dal signor Rhodes, che si era offerto di lasciarla libera e di dormire sul divano, oltre che di aggiungere delle brande nelle camere, ma la mamma aveva categoricamente risposto che saremmo stati noi quelli che si sarebbero arrangiati.

- Tutto bene?

Domandai, mentre cercavo di districare i capelli, nel vedere Arabella piuttosto irrigidita mentre la mamma le asciugava i lunghi capelli col phon.

- Sembra proprio che tua sorella non sia una grande fan della tecnologia…

Sorrise Violet, seduta sul divanetto color panna al lato della stanza. C’era qualcosa nel classicismo di quella casa che mi ricordava le abitazioni in cui avevamo vissuto in precedenza. Cominciavo a comprendere cosa avesse influenzato il gusto di mia madre, nel nostro mondo. Posai la spazzola sopra all’alta cassettiera su cui troneggiava un vaso allungato di clematidi bianche e rosa.

- Anche per me all’inizio è stata una tragedia, ma dopo ci si abitua.

Rispose la mamma, cercando di rincuorare al tempo stesso Arabella, che aveva persino chiuso gli occhi. Sembrava un po’ più giovane dei suoi diciannove anni, con indosso un leggero abito di cotone color pesca e le ballerine. Certo, per lei sicuramente sarebbe stato molto più difficile ambientarsi, considerando che aveva passato anni interi relegata all’interno del suo stesso corpo. Quando riaprì gli occhi, ancora spaventata dal rumore prodotto dal phon, si lamentò del fatto che non riusciva a sentire cosa dicevamo.

- E’ normale!

Esclamai, sedendomi accanto a lei, mentre la mamma indugiava accarezzando le sue lunghe e setose onde dorate. Chissà quante volte aveva sognato di farlo, ma non aveva avuto la possibilità. Scacciai quel pensiero nel vederla finalmente felice e pensai a quanto lo fossi anch’io nel vedere finalmente il mio sogno realizzato. Arabella mi guardò, sorridendo.

- Che c’è, Aurore? Sembri contenta…

Annuii, ricambiando quel sorriso.

- Lo sono!

- E sei anche mezza nuda, signorinella… dovresti vestirti, o prenderai un raffreddore.

- Ma è estate, mamma!

Protestai, notando che anche Violet e Arabella avevano messo dei vestiti leggeri. Oltretutto, non potei non pensare che eravamo a luglio e per di più, la scuola era finita. Mi chiesi cosa intendesse Victor parlando di crediti extra, ma soprattutto, quale sarebbe stata la situazione di Evan, di Damien e di Jamie. Ad ogni modo, la mamma mi distolse momentaneamente da quella riflessione.

- Lo so, ma è notte fonda ed è meglio non rischiare. Nell’armadio ci sono degli abiti anche per te, scegli pure quello che ti piace.

Mi rispose, intransigente fino all’ultimo. Non che non avesse ragione, ma dovevo ammettere che nonostante non ci fosse caldo, volevo godermi ancora un po’ la sensazione meravigliosa della doccia appena fatta. A malincuore, trovai della biancheria, pigiami e dei vestiti.

- Ce li avrà messi il signor Rhodes questi? Comincio a pensare che sia davvero imbarazzante…

Commentai, prendendo un vestito con le bretelline, color corallo.

- Credo che sia stata Mariel a suggerirgli cosa prendere. Anche se ora che ci penso, non è venuta… che peccato, mi sarebbe piaciuto rivederla…

- Mariel? C’è qualcun altro che dobbiamo conoscere, mamma?

Domandai, incredula.

La mamma sorrise, spegnendo il phon con evidente sollievo di Arabella e puntandomelo addosso.

- Sii più garbata, Aurore. Rhodes serve i Kensington da anni, è vero, ma quando Victor mi trovò assieme a Evan, si rese conto che non poteva occuparsi di una donna incinta e terrorizzata soprattutto. Per questo motivo, cercò qualcuno che potesse aiutarmi e trovò Mariel. Non lo ricordi, ma quand’eri piccola, giocava spesso con te.

Scossi la testa, sconsolata al pensiero di un altro ricordo che non avevo relativo agli anni del silenzio. La mamma se ne rese conto, così come Arabella, che si alzò e mi raggiunse.

- Su, Aurore. Abbiamo la possibilità di sapere tutto, adesso. E poi Evandr--, oh, devo abituarmi a chiamarlo Evan…

Sbuffò, sollevando gli occhi al cielo. La guardai in tralice, lei sorrise raggiante.

- Dicevo, Evan e anche tu avete promesso di raccontarmi tante cose… e non vedo l’ora di ascoltarvi! Ah, naturalmente vale per tutti… anche tu, Violet… e mamma… è lo stesso anche per te e papà!

Forse per via del suo tono entusiasta e sognante, mi ritrovai ad accettare e ben presto, anche la mamma e Violet furono dello stesso parere.

Quando poi raggiungemmo al piano inferiore gli altri, verso mezzanotte, per la prima volta dopo tanto tempo vidi Evan, Damien e Jamie in jeans e maglietta e cosa non meno importante e decisamente molto affascinante, vidi papà vestito alla nostra maniera. Aveva indossato dei pantaloni neri, con la piega e portava una semplice camicia bianca con sopra un gilet antracite. Nel vederci arrivare, lasciò perdere l’esplorazione del salotto bon-ton ammobiliato in noce, marmo chiaro e divani in stoffa crema e rossa a più posti. Gli occhi d’ametista, ora un po’ più rilassati, incontrarono quelli della mamma, che aveva scelto un vestito lilla leggero e svasato e un maglioncino di cotone più scuro. La mamma gli rivolse un sorrisetto di sfida sulle cui motivazioni decisi di soprassedere per non incappare in pensieri che decisamente non volevo nemmeno immaginare. Ma d’altro canto, per quello che li riguardava, erano fin troppi anni che non si vedevano ed entrambi sembravano letteralmente voler saltare la cena che Rhodes aveva preparato e il cui profumino succulento arrivava a pizzicare le narici e l’acquolina dal soggiorno. Sospirai imbarazzata, quando fummo raggiunte dai ragazzi.

- Anche voi siete stati felici di riavere l’acqua corrente?

Scherzai, nel ritrovarmi nel bel mezzo di un déjà vu quando vidi Damien fermarsi a pochi passi da me. Il ricordo della prima volta che lo vidi vestito in modo diverso dal suo solito, a palazzo Trenchard, mi fece battere il cuore con più forza.

- Credo che assieme all’energia elettrica, sia la cosa migliore che possa esistere.

Rispose, poggiando la mano sul fianco. Jamie, accanto a lui, sbadigliò.

- Hai sonno, Jamie?

Domandò Arabella, invece. Il fratellino di Damien annuì.

- Vorrei tornare a casa, ma dopo tre mesi d’assenza, dubito che la ritroveremo di nostra proprietà…

Disse.

- Domani andrò personalmente a verificare la situazione. Oltretutto, papà ha lasciato i documenti che riguardano la mamma nella sua cassetta di sicurezza e intendo darci un’occhiata il prima possibile.

Riprese Damien, che mi parve piuttosto impaziente. Conoscendolo, sicuramente non voleva correre rischi. Eppure, una parte di me sentiva crescere il timore legato a cosa sarebbe accaduto dopo. Certo, ora che Damien e Jamie sapevano che la loro mamma era viva, ora che avevano scoperto il luogo in cui viveva da diversi anni, il loro sogno più grande era a poco così dal realizzarsi del tutto. Ne ero felice, senza dubbio, ma il pensiero che presto o tardi Damien sarebbe andato via si era affacciato ancora una volta nel mio animo, stavolta con preponderanza. E mi ritrovai a temere quella separazione. In quei tre mesi lontani da casa avevamo intrecciato le nostre vite. Ci eravamo innamorati l’uno dell’altra e su quel sentimento avevamo basato il nostro fronte comune. Ma ora, il mio desiderio più grande si era finalmente realizzato e al suo mancava ancora qualcosa. Sarei stata forte abbastanza da non lasciarmi sopraffare dall’egoismo? E sarei riuscita a lasciarlo andare? La verità era che avevo paura di perderlo. Sapevo cosa significava essere lontani e anche se si trattava di qualcosa di momentaneo, comunque, anche se eravamo a casa, finalmente, in un mondo che ci permetteva di raggiungere i quattro angoli del mondo con tecnologie svariate, temevo che la lontananza sarebbe stata molto più dolorosa di quanto potessi tollerare.

- Piuttosto, con la scuola come la mettiamo? Warren, tu formalmente sei all’estero con Jamie, ma non credo che vostro padre abbia avuto la stessa idea del signor Kensington…

Osservò all’improvviso Violet, costringendomi a rialzare lo sguardo e a notare che entrambi i fratelli si erano ritrovati a guardarsi. Si somigliavano molto quando assumevano l’espressione seria e pensierosa. Sicuramente dovevano averla ereditata da Grace.

- Questo è un bel problema… considerando che papà voleva altri studi per me ed era convinto che tu fossi morto…

Commentò Jamie, portando le dita al mento. Damien sospirò.

- Accidenti, se ho perso l’opportunità di diplomarmi per colpa sua giuro che torno a Chalange e lo elimino di persona.

Protestò, suscitando la nostra ilarità.

- Non c’è niente da ridere, la faccenda è seria. Certo, durante gli ultimi due anni ho maturato crediti in più per poter entrare a Giurisprudenza, ma non so se mi basteranno per essere ammesso a Princeton.

Princeton. Quando eravamo nell’Underworld non avevamo mai parlato di progetti a lungo termine e suonava piuttosto strano sentire Damien parlare con tanta naturalezza delle sue scelte future. Quel pensiero mi fece risentire, pensando che ero stata superficiale a non tenere in considerazione una cosa così importante. Dopotutto, anch’io programmavo di andare al college con Violet, ma non sarebbe accaduto prima di un paio d’anni. Invece per Damien e per Evan, quello che avevano frequentato senza poter finire era già l’ultimo anno.

- A meno che tu non sia stato già ammesso. Se non ricordo male, le ammissioni uscivano proprio ad aprile.

Disse Evan, incrociando le braccia. Damien, del canto suo, aggrottò le sopracciglia.

- Hai presentato una domanda anche tu?

Nel sentirlo, sia Violet che io ci voltammo a guardare Evan. A pensarci, mio fratello non aveva mai approfondito particolarmente gli studi. Era interessato giusto alla sufficienza e non avevamo mai parlato in concreto del college. Dunque, l’idea che avesse presentato delle domande d’ammissione mi sembrava piuttosto strana, soprattutto considerato che i suoi progetti per il futuro non prevedevano certamente il superare indenne il varco della Porta di Pietra. Però in quel momento, osservandolo, vedevo di nuovo il suo profilo rilassato, così simile e al tempo stesso differente da quello seminascosto dalla maschera nera di Liger e nel sentire la sua voce mentre chiacchieravamo ancora una volta di argomenti che nella avevano a che fare con il sovrannaturale, mi sembrava quasi di essere in un sogno. Arabella, accanto a me, mi chiese cosa fosse un college. Che strano, quante volte da quando avevo scoperto la verità, mi ero ritrovata a pensare come sarebbe stata la mia vita consapevole di avere una sorella che avrebbe potuto frequentare le nostre stesse scuole. Le sorrisi, notando la sua espressione incuriosita.

- E’ una specie di scuola. Ci si va dopo il liceo, qui da noi…

- E cos’è il liceo? Un’altra scuola?

Annuii, pensando al fatto che ora che eravamo tornati, avrei potuto riprendere la mia vita con la consapevolezza di essere in grado, finalmente, di poter realizzare ciò che desideravo.

- Ti spiegherò tutto con calma non appena sarà possibile. Sai, ho aneddoti divertenti anche sulla scuola. Come la volta in cui Evan mi ha scritto sul banco le soluzioni del compito di biologia…

Mi interruppi prima di andare oltre, sentendo una strana sensazione di disagio a pochi passi da me.

- Ah, quindi è così che hai passato la verifica?

Deglutii impietrita nel riconoscere la voce tetra del mio fidanzato. Mi voltai meccanicamente, pronta a imbastire una qualche brillante arringa per la difesa di mio fratello che fece spallucce, mentre Damien aveva sul volto la sua espressione da despota inquisitore. Già, Giurisprudenza sarebbe stata la Facoltà perfetta per lui.

- Qualcuno ha visto Ruben, piuttosto?

Domandò provvidenzialmente Violet e la ringraziai mentalmente per avermi salvata dal terzo grado. Effettivamente, il Lord del rubino non si era ancora visto da che eravamo arrivati. Ci guardammo intorno, mentre i miei genitori avevano raggiunto Victor e ci conversavano, quando il signor Rhodes ci pregò di raggiungere il soggiorno per la cena, ottenendo in breve la risposta al quesito. Ruben era proprio lì, impegnato a scrutare attentamente una riproduzione del quadro “La Libertà che guida il popolo” del pittore francese Eugène Delacroix. Violet lo raggiunse, mentre man mano, prendevamo posto alla lunga tavolata imbandita dal maggiordomo dei Kensington con una alquanto gradita cenetta a base di carne arrosto, patate al forno e ricche insalate il cui ricco profumo di mais era una vera e propria leccornia. Alla fine, quando avemmo preso posto, guardammo i nostri due amici, ancora in piedi.

- Ruben, Violet! Volete farci morire di fame?

Domandai.

Victor, a capotavola, si voltò a guardare i ragazzi. Accanto all’espressione imbarazzata di Violet c’era quella piuttosto confusa di Ruben.

- C’è qualche problema?

Domandò.

- No, è solo che… questo Eugène Delacroix era un tuo parente, Evandrus?

Chiese Ruben, indicando il quadro alle sue spalle. A quelle parole, non potei trattenere una risatina, subito smorzata dalla reazione di Evan, che inarcò il sopracciglio.

- Niente affatto.

Rispose, prendendo il calice e lasciando oscillare il vino rosso all’interno. Quel gesto mi ricordò la volta in cui l’avevo incontrato come Liger, a palazzo Devereaux. Anche allora aveva fatto lo stesso, liberando le bollicine d’aria nello champagne.

- E perché ha il tuo stesso nome di famiglia?

- Si dice cognome, Ruben…

Lo corresse Violet, prendendolo sottobraccio. Ruben annuì, rimanendo tuttavia concentrato su mio fratello. Mentre Rhodes aspettava che si sedessero per cominciare a servire, Victor si mise a ridere, agitando la mano a mezz’aria.

- Oh, beh, sembra proprio che abbiate un bel po’ di cose da raccontarmi e anch’io, del resto. Ma prendete posto, signorina Hammond, signor Cartwright. Si conversa meglio a pancia piena e davanti a un buon bicchiere di Barolo, non credete?

Papà, nel sentirlo, prese il suo bicchiere, dando un’occhiata al pregiato vino.

- Ti posso garantire che è davvero buono, Greal.

Lo rassicurò la mamma, che ne approfittò per brindare giocosamente e rivolgergli un dolce sorriso.

- Va bene. Mi fido, Celia.

Rispose mio padre, mentre anche Violet e Ruben, alla fine, prendevano posto.

Rhodes non perse altro tempo, servendoci la cena. Quando ebbe finito, però, Victor gli chiese di sedere a tavola assieme a noi. La nostra famiglia era riunita finalmente, e dal momento che anche lui era considerato parte di essa, doveva assolutamente partecipare alla cena. Sulle prima, l’uomo fu riluttante, ma dopo l’insistenza della mamma, che sembrava davvero affezionata a lui, Rhodes assentì. Compresi quale fosse la ragione di quell’entusiasmo nel ricordarmi di Grayling Law, il cavaliere personale di mio nonno Tantris. Probabilmente, nella figura del braccio destro del mio nonno adottivo, la mamma doveva averci ritrovato qualcosa di Grayling e questo mi faceva pensare che in qualche modo, nella disgrazia, aveva avuto la fortuna di trovare delle persone che richiamavano coloro che per lei erano stati importanti. Fui felice di vederla conversare con brio, raccontando a Victor cos’era accaduto, a volte coadiuvata da papà che spiegava, bilanciando perfettamente l’irruenza della mamma con la sua innata propensione alla diplomazia, la storia così com’era stata da dopo che la Porta di Pietra si era chiusa, così tanti anni prima. Anche Arabella intervenne, raccontando della Croix du Lac e di ciò che aveva patito. Nonostante fosse stata per così tanto tempo considerata una divinità, il pensiero di ciò che era davvero e il triste destino dello spirito senza requie della figlia dei Delacroix commosse Victor, che ci raccontò di un tempo, nel passato, in cui i Delacroix scovarono il passaggio per una diversa dimensione che ribattezzarono Underworld. Era un tempo di guerre e di gravi carestie in cui si era disposti a tutto pur di sfuggire alla morte. Damien azzardò l’ipotesi che la famiglia fosse in fuga dalla guerra dei cent’anni, combattuta in parte in Francia. Victor fu d’accordo, spiegando che originariamente, anche la famiglia Kensington avrebbe dovuto sfuggire utilizzando lo stesso varco, ma che per qualche ragione, si chiuse prima che questo fosse possibile, rimanendo chiuso per circa un cinquantennio a seguire. Quella rivelazione ci colpì particolarmente, ma Ruben si permise di dissentire, spiegando che secondo i dati storici in loro possesso, l’apertura della Porta di Pietra era avvenuta molto più spesso di quanto dicesse. Prontamente, Victor spiegò che la causa di questo era la presenza di portali in diverse zone del nostro mondo, dunque la Porta si era sicuramente aperta, ma non nel luogo da cui i Delacroix erano partiti.

- Effettivamente, l’attività in Francia si è ridotta notevolmente negli ultimi anni.

Affermò, quando a cena terminata, continuammo a parlare della questione.

- Dunque la sua famiglia monitora i portali… ma per quale motivo?

Domandò Jamie, piuttosto assonnato, ma determinato a saperne di più.

- Oh  beh. Fondamentalmente è una sorta di tradizione di famiglia. Dal momento che il portale francese non si apriva, i miei antenati si misero alla ricerca di altre vie d’accesso, scoprendone diverse. Col tempo, oltre ai Delacroix, anche altri gruppi riuscirono a varcare quella soglia, talvolta indiscriminatamente e per questo motivo, decisero di monitorare l’attività dei portali man mano che venivano trovati. Di generazione in generazione, i Kensington sono stati legati alla Porta di Pietra senza mai varcarla. Alla fine, sembra che questa tendenza stia per terminare, comunque.

Jamie scosse la testa.

- E’ davvero triste che non ci sia mai potuto andare… Neo Esperia è un mondo meraviglioso adesso… c’è magia, c’è vita… e tornerà ben presto a prosperare, ne sono sicuro. Per questo, deve andarci assolutamente!

Damien gli arruffò i capelli scuri, riprendendolo affettuosamente.

- Non essere impertinente, ora… il signor Kensington avrà le sue ragioni. E comunque sarà meglio che tu vada a dormire, piccolo… è piuttosto tardi.

Jamie si voltò verso il fratello maggiore, con uno sguardo a metà tra l’irritazione per l’esser stato ripreso, la consapevolezza della verità detta da Damien e l’aver voglia di saperne ancora. Sul volto di Victor comparve una vena nostalgica che non passò inosservata alla mamma. Gentilmente, gli prese la mano, subito stretta da un uomo che apparve improvvisamente più esitante.

- Scusate…

Disse Damien, ma senza ben comprendere la ragione dietro a quell’improvviso comportamento della mamma e di Victor. La stessa reazione ebbero i ragazzi, salvo me ed Evan, che ci guardammo.

- Non preoccuparti, ragazzo. Jamie dice il vero e mi sarebbe piaciuto vedere l’Underworld, anzi, Neo Esperia, almeno una volta nella vita, ma questo accadeva tanto tempo fa, quando ancora avevo forze e voglia di provarci. E poi, vedendovi ho ricordato mio nipote. Purtroppo non ho avuto la gioia di vederlo crescere. Mio figlio Darryl è morto assieme alla sua famiglia molti anni fa. Per un attimo, quel tuo modo di fare me l’ha fatto tornare in mente.

Si giustificò Victor, raccontando della sua famiglia con una tenerezza che conoscevamo bene. La mamma mi aveva raccontato la sua storia e quell’uomo era stato davvero molto sfortunato. Eppure, anche lui, nella sfortuna, aveva avuto una seconda chance.

- S-Signor Kensington…

Mormorai, attirando su di me l’attenzione di tutti. La mamma fu quella che mi guardò con più preoccupazione, forse per via della mia formalità eccessiva. Ma la realtà era che purtroppo non riuscivo a ricordare nulla di lui e chiamarlo nonno mi veniva difficile. Arrossii, rigirando i pollici con un po’ di nervosismo, poi incrociai i suoi occhi verdazzurri.

- Io volevo… ecco… non è facile per me, perché non ho ricordi di quand’ero molto piccola… però, volevo che lei sapesse che quello che ha fatto per noi, per la mamma, per Evan, per me anche, è davvero molto più di ciò che un nonno potrebbe fare… e anche se tra noi non c’è realmente un legame di sangue, e sa, ho imparato che questo serve a ben poco quando si ama profondamente qualcuno, beh, sono davvero felice che lei ci consideri la sua famiglia… immagino che perdere sua moglie, suo figlio… insomma, la sua vera famiglia, sia stato quanto di più brutto e difficile potesse accaderle, ma credo anche che quando si ha la forza di affrontare il dolore, di non arrendersi anche quando tutto sembra perduto, si venga ricompensati, in qualche modo… per questa ragione, grazie, signor Kens-- , no, nonno Victor!

Pronunciai quel fiume sconnesso di parole in preda all’agitazione. Quasi quasi mi era stato più semplice affrontare Lord Oliphant o la stessa Croix du Lac, ma Victor era davvero parte della mia famiglia e per quanto mi venisse difficile cercare di entrare nell’ottica d’idee di considerarlo a tutti gli effetti come una persona realmente esistente e meravigliosamente vicina alla mia famiglia, dovevo impegnarmi, così come stavano facendo Arabella, papà ed Evan. Certe cose non erano scontate, soprattutto se se ne veniva a conoscenza al di fuori dall’età in cui attribuire le parentele era quanto di più naturale e spontaneo possibile. Victor comunque annuì, chiedendomi di raggiungerlo. E quando lo feci, un po’ emozionata, sotto lo sguardo di tutti, mi accarezzò dolcemente la guancia, guardandomi con profondi occhi compassionevoli.

- Sei molto gentile, Aurore. Davvero, io non so quante volte abbia ringraziato il buon Dio per avervi mandato da me, quando credevo che oramai la mia vita fosse finita. Sai, piccola, ricordo che quando nascesti, tua madre ti teneva in braccio come se fossi il suo tesoro prezioso. Eri minuta e piangevi tanto. Evan era preoccupato, nonostante l’avessi conquistato a prima vista e mi chiese cosa potesse fare per farti tranquillizzare. Allora ripensai a Lucas che quand’era piccolo si calmava se aveva qualcosa tra le mani e quando avvicinai il dito alla tua manina, lo stringesti forte. Nonostante fossi così piccola, avevi una grande forza dentro di te, tanto che ne rimasi stupito e affascinato a mia volta. E seppi che saresti stata fonte di coraggio e di sostegno per Celia, che aveva appena abbracciato il futuro con il pensiero sempre rivolto al passato, per Evan, che giorno dopo giorno costruiva la sua nuova identità… e per me anche, perché quando la morte ha portato con sé Gladys, Darryl, Rachel e Lucas, ho capito che c’era speranza anche per me, ancora una volta…

Nel sentire quelle parole colme di profondo affetto non riuscii a trattenere la commozione. Anche la mamma aveva gli occhi lucidi, così come Violet e Arabella. Evan aveva abbassato lo sguardo,  mentre papà sembrava perso nella mancanza di quei ricordi che per natura avrebbe dovuto possedere e invece il destino gli aveva negato. Avevamo sofferto tutti quanti, era quella la verità. Eppure, nella sofferenza, ci eravamo incontrati e avevamo trovato la forza di cambiare i nostri destini. Guardai Damien e Jamie, che avevano sofferto l’allontanamento dalla loro mamma e pensai che presto, anche per loro, sarebbe venuto il momento di ricongiungersi a lei e non ebbi più paura di ciò che avrei provato quando Damien sarebbe andato via. Perché nonostante la lontananza, l’amore che ci univa era talmente profondo che nessuna distanza ci avrebbe mai potuti separare. Era così per tutti. Qualunque cosa fosse accaduta, ciò che ci era stato tolto sarebbe tornato, per vie traverse forse, inaspettate,  ma di certo, ci avrebbe resi in grado di affrontare qualunque ostacolo.

A notte inoltrata, mi svegliai per via del caldo. La mamma e Arabella dormivano nel grande letto. Mia sorella si era coperta fino al collo tanto che mi chiesi, ancora un po’ intontita, come facesse a non soffocare. Quante cose a cui avrei dovuto abituarmi e quante cose da scoprire. La mamma invece, e su questo avrei messo la mano sul fuoco, aveva rinunciato volentieri alle lenzuola. Il caldo le piaceva, ma non sopportava la sensazione appiccicosa provocata dall’umidità notturna. Mi tirai su, mentre accanto a me, sul divano a due posti che avevamo aperto, Violet riposava serena. Avevamo dormito spesso insieme e molte volte, avevo invidiato il suo sonno pacifico. Però, da quando Evan mi aveva sottratto l’ametista, non avevo più avuto incubi. Istintivamente, portai le dita alla gola. Il mio ciondolo non c’era più, sostituito invece dalla copia molto ben fatta che Milene aveva conservato. Il pensiero di quella gentilezza mi scaldò il cuore e mi chiesi se prima o poi avrei avuto modo di rivedere sia lei che Hiram. Alla fine, non avevo avuto molte interazioni con loro, ma mi ero resa conto che eravamo molto simili, per certi versi. Certo, io non ero particolarmente brava come domestica, ma quantomeno a Boer non avevo rotto alcun bicchiere. Intanto, sentendo una fastidiosa sensazione di aridità alla gola, decisi di alzarmi e di provvedere. Ormai, dovevo riconoscere di essere diventata piuttosto brava a muovermi in silenzio e soprattutto al buio, tanto che raggiunsi la cucina senza problemi. Se un tempo l’oscurità mi terrorizzava, adesso era quasi naturale per me riuscire a muovermici senza dovermi accucciare in un angolo a tremare, con gli occhi strizzati dalla paura. Trangugiai un bicchierone d’acqua fresca che mi rimise in sesto la gola, ma quando mi accinsi a posarlo nel lavandino, fui sorpresa da una voce bassa alle mie spalle che mi fece trasalire, rischiando di far cadere il bicchiere. Per fortuna, riconobbi l’agile mano che impedì il misfatto dal braccialetto in argento così familiare. Mi voltai di colpo, sibilando il nome di mio fratello.

- Ti sembra il modo, Evan? Mi hai fatto spaventare!

Evan, bicchiere ancora in mano, in canotta e pantaloni grigi, capelli legati e Thurs sul petto, storse la bocca.

- Un grazie per aver salvato il bicchiere sarebbe stato meglio accetto, Aurore.

Inarcai il sopracciglio. Touchée.

- Grazie, fratello dedito agli spaventi. Come mai in piedi?

Domandai, scostandomi per permettergli di lasciare il bicchiere.

- Fa troppo caldo, non riuscivo a dormire.

Rispose, posandolo e prendendone uno per sé. Dopo averlo riempito a sua volta, sorseggiò l’acqua.

- Forse è stato il vino…

Osservai, riflettendo su quanto fosse corposo. Evan agitò l’indice.

- No, peggio. Warren ogni tanto scalcia.

Avvampai.

- N-Non è vero! Non l’ha mai fatto!

Evan, col bicchiere vicino alle labbra, mi rivolse uno sguardo eloquente.

- Infatti. Era per metterti alla prova. Devo preoccuparmi?

- Eh? Eeeeh? Che diavolo stai dicendo tutto d’un tratto?  Davvero, non provarci nemmeno, Evan! Ti ricordo che hai legittimato il nostro fidanzamento dicendo, in modo un po’ più colorito, che Damien e io possiamo stare insieme, quindi non fare il finto sconcertato, perché se qui c’è qualcuno che non la racconta giusta, quello sei tu!

Arrossii fino alla punta dei capelli quando lo vidi lasciare il bicchiere per avvicinare il suo viso al mio. Odiavo quando cercava di mettermi in imbarazzo.

- P-Perché mi fissi?!

Sbottai, preoccupata, deglutendo. Avevo davvero bisogno di un altro bicchiere d’acqua. Evan, invece, sospirò.

- Vieni con me.

Disse, indicandomi la veranda che dava sul retro.

- Che vuoi fare in veranda?

Domandai, seguendolo. In una cosa non era affatto cambiato. Quando si trattava di dare ordini, Evan era imbattibile. Mi sarei giocata la testa pensando che se papà fosse riuscito a venire nel nostro mondo per tempo, Evan sarebbe stato senza ombra di dubbio il suo pupillo. Raggiungemmo la veranda e il fresco della notte che si stava schiarendo fu un toccasana.

- Wow, che meraviglia…

Sussurrai, nel vedere il giardinetto con aiuole di fiori notturni e due sdraio.

- Però, non si fanno mancare niente…

Osservai. Evan non replicò, ma si limitò a scrutare il cielo stellato. Era bello vedere di nuovo la volta illuminata. Mi resi conto di quanto riuscissi ad apprezzare ogni singolo momento e ogni meraviglia del nostro mondo dopo quello che avevo passato. Chissà se anche per lui era lo stesso. Mi voltai a guardare mio fratello, che stava sorridendo. Quel sorriso, così come l’avevo visto la sera della nostra ultima passeggiata a Darlington e poi quando fiducioso nel futuro, aveva guidato verso il suo cuore il nucleo della Croix du Lac. La sua espressione serena, quando l’avevamo trovato ormai privo di vita, mano nella mano con Arabella. Sentii una lacrima ingrossarsi nell’occhio e fuoriuscire. Il freschetto notturno acuì la sensazione dello scorrimento sulla guancia.

- Evan…

- Credevo che non avrei mai più visto un cielo così bello. E’ stupendo. Tutte quelle stelle, miliardi e miliardi di cuori pulsanti.

Notai che aveva portato la mano sul petto, proprio in corrispondenza del Thurs, mentre ne parlava. Quella pietra che secondo Leandrus aveva poteri taumaturgici e veniva direttamente dal passato più lontano, aveva salvato papà dalla morte ed era riuscita a riportare indietro anche Evan, compiendo un vero e proprio miracolo. Però, una parte di me continuava a chiedersi come fosse stato possibile. Il nucleo di luce pura sprigionato dalla Croix du Lac era penetrato nel suo cuore. Ricordavo bene la profonda ustione sul suo petto, nonostante l’espressione sul suo volto fosse praticamente beata.

- Evan, stai bene?

Mi guardò con la coda dell’occhio, che fremette probabilmente nel notare la mia lacrima solitaria, poi tornò a guardare il cielo.

- Sì, Aurore. Non ne ero sicuro fino a che non abbiamo varcato la soglia della Porta di Pietra, ma non credo di esserlo mai stato così tanto.

- Grazie al cielo…

Risposi, sentendomi subito più sollevata.

- Però, non so se sono a posto psicologicamente, in un certo senso.

- Che vuoi dire?

Evan sospirò profondamente.

- Ho sempre pensato che un giorno o l’altro, la mia vita avrebbe avuto termine nel modo che la profezia suggeriva. Conoscevo bene quella storia. La mia famiglia, seppure fossi troppo piccolo per ricordare con chiarezza, la tramandava da generazioni. L’eredità del cavaliere dei Delacroix, l’uomo che in punto di morte aveva giurato che un suo discendente avrebbe posto fine al dominio sanguinario del Despota. Quando mi resi conto di essere l’ultimo della mia stirpe, seppi che l’unico modo per riuscirci era scardinare del tutto quel sistema che aveva dato origine a una crudele sequenza di morti innocenti e aveva fatto sì, per giunta, che Helise Delacroix non potesse riposare in pace. E poi, quando ho scoperto che l’ultimo sacrificio era stato quello di Arabella, ebbi la conferma alla mia teoria. Per liberare lei, Helise e quel mondo dilaniato da secoli di ingiustizie, avrei dovuto accettare di prenderne il controllo, non soltanto come Despota, ma anche e soprattutto ridando vita al nucleo originale della stella che stava per morire nuovamente. Quando lo spirito di Helise è stato liberato, il sigillo si è  infranto e il nucleo mi è apparso davanti. Era di una purezza, di un calore e di una luminosità tali che la prima cosa che pensai era che mai nella mia vita avevo visto nulla del genere. E sai una cosa, Aurore? Non mi sono mai sentito così libero e in pace con me stesso come nell’istante in cui il nucleo è venuto in contatto col mio cuore. In quel momento, non pensavo che sarei morto. Pensavo che sarebbe stato un nuovo inizio, per tutto. Non so dire quanto sia durato poiché ero totalmente incapace di quantificare il tempo. E poi, all’improvviso, dolcemente, il sonno mi ha reclamato, fino a che non ho sentito, poco per volta, dei suoni confusi, ovattati, che man mano sono diventati più lineari. Non mi spiegavo se fossero passi, ticchettii, o comunque, qualcosa di ritmico, fino a che non ho avuto la chiara percezione della pulsazione. Il Thurs stava interagendo con ciò che rimaneva del mio cuore, conferendogli nuova energia. Era come essere in una sorta di stato comatoso, alla larga, ma riuscivo persino ad avvertire, se mi concentravo, l’eco lontana e carezzevole delle vostre voci. La tua, quella di Arabella. I nostri genitori. E allora ero arrivato a domandarmi se fosse quello il paradiso. Ma per uno come me, dopo tutto ciò che avevo fatto, era possibile raggiungerlo? Me lo sono chiesto spesso, in quei frangenti. Non che in realtà lo bramassi, perché anche soltanto rimanere lì, immerso nella luce più pura e più calda che potesse esistere, cullato dalle vostre voci nonostante riuscissi a udirle a malapena, mi era sufficiente ed ero convinto che non potesse esserci luogo migliore di quello. Ma poi, a un certo punto, la pulsazione è diventata più forte, più viva, e ho avuto la sensazione che ci fosse qualcosa che mi tirava indietro, riportandomi verso una realtà in cui le voci erano più chiare. Avevo persino riconosciuto quella di Warren e fu proprio lui che mi trovai davanti la notte in cui mi risvegliai. A onor del vero, credo di avergli fatto prendere un bell’accidenti, considerando che prima di avvicinarsi ha esclamato qualcosa di non replicabile, ma superata la fase di panico da parte sua e quella di confusione da parte mia, mi ha rassicurato sul fatto che tutto era andato bene e mi ha detto qualcosa che mi è rimasta in mente da allora.

Esterrefatta dal racconto che Evan stava facendo, non mi ero accorta di avergli stretto con forza la canotta. Ero davvero sconcertata, non so se più per il fatto che per tutto quel tempo, la sola cosa che avevo voluto, laddove il Thurs non fosse riuscito nella sua impresa, era che potesse riposare in pace o per le eventuali parole di Damien. Evan si voltò verso di me, sul volto l’espressione dolce che amavo.

- Mi ha detto: “Mai sottovalutare la forza della famiglia, Kensington. Credevi davvero che Arabella, i vostri genitori e soprattutto quella testarda di Aurore ti avrebbero lasciato in quello stato?”. E’ vero, ero davvero convinto di ciò che stavo facendo. Sapevo che la sola strada percorribile era quella e non mi importava, se questo serviva a salvare Arabella e a cambiare le sorti di quel mondo. Ma in fin dei conti, credo che anche lui avesse ragione. E la verità è che l’avevo capito già dal primo momento in cui ti ho incrociata, alla locanda di Fellner. Devo ammetterlo, mi hai fatto prendere un colpo sulle prime. E ho dovuto fare in modo che non mi riconoscessi, sotto la maschera di Liger.

Arrossii al pensiero delle volte in cui eravamo stati così vicini, del senso di paura e gelo che mi attanagliavano anche solo nel sentirlo nominare e nell’odio che avevo provato nello scoprire che era stato lui a uccidere Evan… o almeno quando lo pensavo. In quel momento, aveva tutto dell’irreale.

- B-Beh, ci sei riuscito bene… hai camuffato anche la voce, anche se ogni tanto mi suonava familiare e non ne capivo la ragione…

- Mpf. E’ perché eravate convinta che fossi un’altra persona, Milady.

Rispose, utilizzando lo stesso tono basso, seducente e ingannevole che aveva quando si fingeva Liger. Sbuffai, assestandogli un buffetto sul braccio.

- Non prendermi in giro, Lig-- Evan!

Lui ridacchiò, sorpreso della mia gaffe, mentre io ebbi improvvisamente voglia di sprofondare.

- Evan!!

Protestai, ma mio fratello arricciò le labbra in un sorrisetto.

- Ok, scusa. Quello che voglio dirti, Aurore, è che sia Warren, che Amber Trenchard, che Victor stesso hanno ragione. Tu sei forte, e il fatto che non soltanto ti sia avventurata in un mondo sconosciuto per cercare di salvare la nostra famiglia, anche se quello dal mio punto di vista è stato particolarmente irresponsabile, il tuo coraggio nell’affrontare a testa alta il nemico, senza mai distogliere lo sguardo, nonostante tutto il male, mi ha reso orgoglioso di te. Anche quando la mia maschera è caduta, tu mi hai affrontato senza timore. Quando hai bloccato la mia spada, mentre duellavo con Warren, quando ci hai raggiunti urlando di fermarmi poco prima che ponessi l’ametista al centro della Pièce di Challant e persino quando davanti alla mia irremovibilità mi hai detto che ciò che stavo facendo era perché amavo Arabella e volevo salvarla… Aurore, non hai idea di quanto tu sia stata grande ai miei occhi e a quelli di tutta Neo Esperia. Ed è anche per questo che sarei andato via tranquillo. Perché sapevo che non avevi più bisogno che fossi io a tenderti la mano. Eri perfettamente in grado di affrontare da sola l’oscurità e di fenderla, sprigionando la luce che hai nell’anima.

- Evan…

Sussurrai il nome tanto amato di mio fratello soffocata dal singhiozzo. Non mi sai mai aspettata di sentirlo parlare in quel modo, di me soprattutto, che ero sempre stata convinta di essere una palla al piede per lui. Ero diventata molto più forte, era vero, certo, ma se ci ero riuscita era soprattutto grazie a coloro che mi erano stati accanto e paradossalmente, anche grazie a lui, in un certo senso. L’aver fronteggiato prima un nemico così insidioso come Liger e successivamente, il Despota, era stata la prova più difficile che avessi affrontato in vita mia. Ma in quel momento, davanti a me non c’erano più né l’uno nell’altro. C’era solo il mio Evan, il mio adorato fratello maggiore verso cui provavo un amore che non conosceva confini. Scoppiai a piangere, cosa che non avevo fatto fino a quel momento, tentando di farmi forte dell’arrabbiatura nel suoi confronti e lo abbracciai talmente forte che lo sentii persino lamentarsi, salvo poi sospirare rassegnato e accarezzarmi dolcemente i capelli, come solo lui sapeva fare.

- Non lasciarmi più, Evan! Ti prego, non farlo più… perché non riuscirei a sopportarlo stavolta…

Lo implorai, piangendo disperata, con la testa affondata nel suo petto pulsante. Evan mi tirò su il viso, non appena ci riuscì. Sembrava davvero un ragazzo di vent’anni, visto in quel modo. Più maturo, consapevole. Dopotutto, nessuno alla sua età, nel nostro mondo, poteva vantare una vita come la sua.

- Non lo farò, Aurore. Te lo prometto, sorellina. E poi, te l’ho detto… non dimenticarlo mai. Io sarò sempre con te.

Le parole che mi aveva rivolto qualche notte prima della sua scomparsa. Annuii, mordendomi le labbra.

- Ti voglio bene, fratello mio!

Esclamai, gettandogli nuovamente le braccia al collo.

- Anch’io, piccola… anch’io.

E stretti in quell’abbraccio, mentre la notte scivolava verso la sua fine e il diffuso chiarore dell’aurora ci annunciava l’arrivo della nostra prima mattina nel nostro mondo, ebbi finalmente la consapevolezza che nulla avrebbe più turbato la nostra serenità.

 

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Capitolo 61
*** XXII. 2 parte ***


Buon pomeriggio! :) Nuovo aggiornamento, finale del capitolo!! :D *mordi e fuggi* Alla prossima settimana, finalmente da casa!! *_*

Buona lettura!!

 

 

 

 

Durante la mattina, nonostante sembrassi uno zombie morto di sonno per via del fatto che avevo dormito poco, decidemmo di dividerci per cercare di capire quale fosse la nostra situazione. Damien e Jamie si recarono come da programma presso la banca di Darlington per saperne di più sulla loro mamma. Evan e Arabella, accompagnati da un Ruben che inizialmente non voleva saperne di fare il terzo incomodo, ma poi, rassicurato da Violet, si era arreso, avevano optato per un giro turistico nella nostra cittadina. Avrei voluto unirmici, ma a me spettava un altro compito. Assieme alla mamma, Victor e per la prima volta, con mio grande orgoglio, papà, avrei dovuto riaccompagnare Violet a casa. Rivedere i luoghi che adoravo alla luce del sole, assaporare la calda aria di luglio che tanto metteva voglia di mare, era persino meglio di quanto avessi provato nel rimettere piede fuori dallo Stonedoor. Mentre percorrevamo le vie del centro, illustravo a papà e a Victor i vari posti che per me e per Violet avevano importanza, dalla via principale che di sera era tutta illuminata al parco in cui le famiglie adoravano trascorrere i pomeriggi, lo stesso in cui avevo incontrato Shemar, mesi prima. Era una gioia per gli occhi poter osservare la vita che andava avanti nelle sue forme più disparate, felice di aver finalmente trovato il posto migliore in cui vivere. Papà osservava ogni cosa a tratti perplesso, soprattutto nel notare i modi di vestire, decisamente più rivelatori di quelli a cui era abituato, ma sempre interessato a conoscere le storie che gli raccontavamo. E per me, avere questa possibilità era quanto di più entusiasmante potessi chiedere.

Quando arrivammo a casa di Violet, la mia amica prese un bel sospiro. Affrontare i suoi genitori dopo due mesi d’assenza non era certo cosa semplice, nonostante l’intervento di Victor, che cercò di tranquillizzarla. Ma la conoscevo e sapevo fin troppo bene che quando Violet era in pena per qualcosa, non c’era modo di farle passare l’ansia se non affrontando direttamente la questione, motivo per cui alla tensione si era aggiunta la sua impazienza. Il corridoio corredato dai bouganville rampicanti era più folto del solito, tanto che la mamma suggerì di darci una potatura non appena possibile, mentre Victor fu dell’idea che vedere il colore così vivo dei fiori fosse un belvedere e di conseguenza, sarebbe stato un peccato tagliarli. Papà, chiamato in causa dalla mamma, fece spallucce.

- Non so nemmeno che fiori siano, Celia.

- Bouganville, Greal. Oh, ma perché mi affanno a chiedere a te che sei un insensibile calpestatore di amarillidi?

Sbottò, e quel commento strappò un sorriso sia a me che a Violet. Alla fine, rassicurata dalla mamma, la mia migliore amica prese coraggio e suonò il campanello.

Inutile dire che l’attesa sembrò interminabile e mi ritrovai persino a pregare che i genitori di Violet non avessero deciso di prendere un aereo per la Gran Bretagna, ma poco dopo, la porta si aprì e la mamma di Violet si affacciò. La sua espressione si tramutò di colpo. Se aveva aperto con aria sconsolata, nel vedere la figlia, che sobbalzò nel chiamare sua madre, in quel momento finì con lo sgranare gli occhi e urlare al marito di raggiungerla perché Violet era tornata. Vederli corrersi incontro, piangendo di felicità e di sollievo, mi ricordò quando avevo ritrovato la mamma, tanto che ne cercai lo sguardo. Sembrava sollevata anche lei e sorrideva.

Poi, passati i primi, concitati momenti di ritrovo, finalmente potemmo fare le presentazioni. Così, davanti a un the freddo che benedissi e a dei buonissimi tartufi gelato che mi commossero quasi fino alle lacrime, mentre Violet riempiva di coccole il suo adorato volpino Tutankhamon che non la smetteva più di fare le feste alla padroncina ritrovata, Victor e la mamma raccontarono ai signori Hammond quello che era accaduto. Sulle prime, passata momentaneamente la felicità del ritrovo, la mamma di Violet aveva rimproverato alla figlia di non aver avvisato, cosa che aveva intristito la mia dolce amica, che si era poi giustificata dicendo che temeva la loro reazione per un gesto così sconsiderato. La mamma se ne prese la responsabilità, scusandosi per la sua ulteriore mancanza e infine Victor raccontò la sua versione, affermando di essere stato ricoverato per l’impianto di un bypass coronarico e dunque, anche la mamma aveva avuto poco tempo per i contatti. Per di più, la verecondia con cui raccontavano quella storia, non soltanto aveva colpito i genitori di Violet, ma me e papà, che ci guardammo in più di un’occasione. Mi chiesi quali pensieri stessero attraversando la sua mente all’apparenza imperturbabile. Alla fine, in ogni caso, la discussione veleggiò serenamente verso altri argomenti, tra cui quello relativo all’identità di mio padre, che aveva sicuramente incuriosito la signora Hammond. D’altro canto, se c’era una cosa che colpiva particolarmente, al di là del colore di suoi occhi e del suo fascino, era l’aura di solennità che possedeva. Questo mi fece segretamente piacere.

- Greal è un nome piuttosto particolare… non si sente tutti i giorni.

Notò il padre di Violet, grattando col polpastrello i baffi scuri.

Papà annuì un po’ perplesso.

- Beh… credo di poterlo definire un po’, come dire… ricercato.

Disse, mentre Violet e io ci scambiammo un’occhiatina divertita.

- E lei cosa fa, signor Greal?

Alla domanda della signora Hammond, percepimmo pericolo.

- Ecco… io…

- Mio genero lavora con me. Gli ho chiesto di occuparsi della mia galleria d’arte nonostante sia più un esperto d’armi che un appassionato di pinacoteche e spesso si ritrova in viaggio. Oh, mia figlia non me lo perdona, sapete?

Victor, con naturalezza da fare invidia a un premio Oscar, sorrise serafico cavando d’impiccio papà. Certo che però, una galleria d’arte… effettivamente presto o tardi avremmo dovuto parlare anche di lavoro, ma non vedevo bene mio padre ad occuparsi di ricerche e stime di opere d’arte. Stando a quello che sapevo, d’altro canto, era un militare. Ecco, forse lavorare nelle forze dell’ordine non sarebbe stato male per lui. In ogni caso, la momentanea e provvidenziale spiegazione di Victor servì a placare la curiosità dei genitori di Violet e su suggerimento della mamma, ci ritrovammo a parlare della Gran Bretagna e dei nostri studi, compresi i progetti per l’estate che avrebbero previsto il recupero dei crediti.

Alla fine, dopo una lunga mattinata trascorsa a chiacchierare e ad approfondire conoscenze reciproche, ci congedammo. Nell’abbracciare Violet, che mi chiese di prendermi cura per un po’ del povero Ruben, provai un’insolita sensazione di preoccupazione. La mia amica sembrava aver paura di non riuscire a gestire la situazione.

- Non temere, Violet… Ruben sapeva bene che non sarebbe stato tutto così semplice, qui…

I suoi grandi occhi color caramello si fecero improvvisamente più lucidi. Le sorrisi, perché conoscevo anch’io quella sensazione.

- Violet, ascolta. Ruben ha detto che se fossimo sopravvissuti a tutto, lui sarebbe venuto con te e sarebbe stato al tuo fianco per sempre… è vero, non lo conosco certo bene quanto te, ma una volta, mi ha detto che per un capofamiglia nulla è da prendere alla leggera… se ha rinunciato a tutto pur di stare con te è perché ti ama davvero e credimi, lui non mente. Per questo, fidati dell’amore che provate l’uno per l’altra… servirà tempo, ma alla fine, sono sicura che tu e il tuo bel principe azz--, no, forse Lord rosso ci sta meglio, riuscirete a coronare tutti i vostri sogni!

Nel tentativo di rassicurarla, mi resi conto che effettivamente, Ruben aveva preso una decisione davvero molto difficile da perseguire. Sicuramente, Violet avrebbe dovuto affrontare in privato i suoi genitori e le conseguenze delle sue azioni. Ruben, purtroppo, non era previsto e in quel momento, non sarebbe stato ben accetto. In un certo senso, ero piuttosto dispiaciuta di questo, dal momento che da vero gentiluomo qual era, il Lord del rubino sarebbe certamente piaciuto ai genitori di Violet (che d’altro canto, già conosceva), ma le sfavorevoli circostanze del ritorno a casa avrebbero fatto passare in secondo piano qualunque fidanzato potenziale. Violet, da parte sua, sembrò comunque rincuorata dalle mie parole e assentì, poi mi scoccò un affettuoso bacio sulla guancia.

- Grazie, Aurore… grazie davvero, amica mia…

Senza smettere di sorriderle, le strinsi forte le mani.

- Ti voglio bene, Violet.

Quando finalmente tornò a sorridere anche lei, ci congedammo e tornammo a casa.

Quella sera stessa, affrontai il discorso anche Ruben, aiutata da Evan, che si rivelò piuttosto convincente, con mia sorpresa. Non fu facile, inizialmente, perché il senso di colpa al pensiero che Violet potesse avere dei problemi coi suoi genitori a causa sua aveva attecchito e sembrava non voler lasciare il povero Ruben. Spesso si ritrovò a portare le mani alla testa, lamentandosi di essere stato frettoloso a portare con sé la mia amica. Compresi che la ragione di quelle parole era la consapevolezza che se le fosse accaduto qualcosa, i suoi genitori avrebbero perso quella figlia meravigliosa che lui tanto amava. Evan, sospirando, gli aveva dato una pacca sulla spalla, dicendogli che Violet era testarda al pari di me e dal momento che con i testardi era impossibile ragionare, avrebbe trovato comunque un modo di varcare la Porta di Pietra. Il fatto che avesse incontrato lui e non una qualche guardia imperiale malintenzionata era già un motivo sufficiente per non sentirsi in colpa. Quantomeno ne era nato qualcosa di buono e dal momento che Ruben l’aveva protetta sempre e comunque, non aveva alcun motivo di temere, perché nel nostro mondo, Violet non correva alcun rischio. Ruben, perplesso, aveva chiesto a mio fratello se avesse evitato di metterla in pericolo proprio per questa ragione. Effettivamente, sia quand’era Liger, che quando era salito al trono, non aveva mai nociuto in alcuna maniera a Violet. Evan, stupito da quell’osservazione, mi aveva rivolto un’occhiata dubbiosa chiedendomi cosa ci avesse trovato Violet in lui. Mi misi a ridere, mentre Ruben si accigliò, pronto ad attaccare briga. In realtà, le sue preoccupazioni ebbero termine in un momento più preciso, ovvero quando poté parlare con Violet per telefono. Era divertente vederlo alle prese con un apparecchio che per noi era assolutamente normale, mentre per lui era qualcosa di particolare. In realtà, aveva già avuto modo di vedere il cellulare della mia migliore amica, quindi in qualche modo non era a digiuno, ma non l’aveva mai usato, per cui ogni tanto appariva incredulo e affascinato al tempo stesso. Evan mi raccontò che anche per Arabella era stato così, tanto più che aveva passato l’intera mattinata a osservare e a stupirsi delle sconcertanti meraviglie che incontrava lungo la strada e chiedeva in continuazione di cosa si trattasse, proprio come una bambina alla sua prima gita scolastica. Con mia grande soddisfazione, quella sera ognuno aveva avuto qualcosa da raccontare su come avessimo trascorso il primo giorno a casa. Victor inoltre, ci comunicò che da lì alla fine della settimana avrebbe fatto ritorno a Longridge, nella sua tenuta,  per far fronte a impegni di lavoro. Quella comunicazione colpì particolarmente la mamma, che desiderava trascorrere più tempo con il suo papà adottivo, ma Victor la rassicurò per poi pregarci di volerlo raggiungere presto, affinché anche Evan e io potessimo rivedere i luoghi in cui eravamo vissuti da bambini. E poi, con un sorrisetto divertito, mi disse che non vedeva l’ora di mostrarmi le fotografie che ritraevano mio fratello, me e la mamma negli anni di cui non ricordavo praticamente nulla e questo mi suscitò un grande entusiasmo. Sapevo che non avevamo foto di allora perché la mamma era negata con la tecnologia, mentre in realtà, qualcosa c’era ed era custodita da Victor. Ero davvero felice all’idea di poter conoscere finalmente anche quella parte del mio passato e quando il signor Rhodes ci disse che aveva pensato, a tal proposito, di portare con sé alcune foto che potessero servire a rendere più credibile la nostra storia in caso di problemi, non stetti più nella pelle. E così, potei finalmente vedere alcune di quelle preziose foto che mi scaldarono il cuore. La mamma, incredula e commossa, si rivide nella sua ventina, coi capelli ancora molto lunghi, intrecciati così come li ricordavo appena, mentre abbracciava un timido e piccolo Evan, o mentre accarezzava dolcemente il suo pancione di quasi nove mesi. Per papà e per Arabella, vedere quelle foto per la prima volta fu ancora più intenso. Mia sorella si commosse spesso, sorridendo e chiedendo i dettagli relativi alle scene che vedeva, mentre il sorriso sul volto sempre serio di papà lasciava intendere la sua felicità in quel momento, accanto a quell’antica tristezza che la mamma cercava di smorzare nel cercare la sua vicinanza e nel raccontargli del mio primo sorriso, della prima volta che assieme a Evan mi aveva fatto il bagnetto, quando Victor aveva preso in braccio me e mio fratello, il giorno del mio primo compleanno. E papà aveva gli occhi quasi lucidi, nel vedere Evan che mi stringeva forte, in una foto in cui era un po’ più grande e la mamma aveva tagliato i capelli ed era accanto a Victor. Quella foto in particolare si riferiva a poco dopo che Evan aveva recuperato i suoi ricordi. Quel giorno stesso, ci spiegò la mamma, partimmo per il nostro primo viaggio. Ma c’era anche qualcun altro che aveva trascorso con noi quel momento e che sembrava molto concentrato. Avevo alzato spesso lo sguardo, incontrando gli occhi di smeraldo di un pensieroso Damien, e sul finire di quella lunga sera, ci eravamo ritrovati seduti sui gradini di casa a sorseggiare un the freddo.

- Somigliavi molto a tua sorella da piccola, sai?

Disse, poggiando le mani sul pavimento di pietra.

- Davvero? E io che credevo di somigliare di più a mio padre…

Damien mi guardò con la coda dell’occhio, arricciando le labbra, poi si ricompose, tirando fuori dalla tasca una foto e allungandomela. Stupita, la presi, riconoscendo una Grace più grande e diversa da quella del quadro che ritraeva lei e un neonato Damien, ma certamente lei. Aveva i capelli scuri legati in una coda alta e mossa e portava un tailleur nero. A giudicare dallo sfondo, doveva essere in un parco.

- E’ tua madre…

Damien annuì.

- Cosa c’è, Damien? Quando fai così hai qualcosa che ti frulla nella testa…

Notai, riconoscendo in quella reticenza la stessa che aveva quando pensava che Liger fosse Evan.

- Pensavo che in questi anni si fosse risposata o qualcosa del genere… quand’è andata via, ho cominciato a credere che si fosse rifatta una vita, in qualche modo. Del resto, il matrimonio con mio padre non è mai stato così sereno e considerando l’idea che avevo di William Ealing, ero andato avanti con questa convinzione… invece lei non l’ha mai fatto. Ha continuato  a vivere da sola, spostandosi di tanto in tanto e continuando a dipingere. Ho trovato anche delle foto dei suoi quadri, documenti che riguardavano alcune mostre. I critici hanno detto che i suoi dipinti regalavano l’immagine di mondi diversi. Ora so il perché. Il ricordo del suo mondo d’origine è sempre stato vivo in lei. Ma non è la sola cosa che mi ha colpito…

Incuriosita, mi sporsi verso la seconda foto che tirò fuori dalla tasca. In questa, c’era un quadro che raffigurava due bambini. Entrambi erano seduti su un dondolo. Uno dei due aveva degli stupendi occhioni azzurro cielo, capelli corvini e un sorriso innocente nonostante le finestrelle nei dentini e sembrava voler urlare a gran voce qualcosa, con il braccio in aria per attirare l’attenzione di qualcuno in particolare. L’altro, più grande, aveva il controllo del dondolo e sorrideva, a sua volta. Gli occhi color smeraldo erano inconfondibili e sentii d’improvviso una stretta al cuore.

- Oddio, Damien… questi siete tu e Jamie!

Esclamai.

Damien alzò gli occhi al cielo.

- L’ha intitolato “I’ll be with you soon”, Aurore. Ricordo bene quel giorno. Jamie aveva tre anni e mezzo allora. Ci avevano portati al parco e la mamma ci aveva chiesto di posare per un suo schizzo. Persino mio padre sembrava rilassato quella mattina. C’era un bel sole, era primavera inoltrata e il gioco di luce attraverso le fronde degli alberi aveva affascinato mia madre. Ricordo che aveva una blusa bianca e una gonna svasata verde chiaro che si agitava quando lo spostamento d’aria del dondolo la investiva. Jamie allora aveva urlato: “Mamma, papà, venite anche voi!”, e la mamma aveva sorriso, promettendoci che ci avrebbe raggiunti presto. Dio, non avrei mai creduto di rivedere quel quadro…

Ero abituata a vedere i momenti di sconforto di Damien e ogni volta che accadeva, sentivo di dover essere forte anche per lui. Ma quella volta era diverso. Damien non era triste e nemmeno sconfortato. Era sopraffatto da troppe emozioni. Abbassò la testa,  rannicchiandosi e coprendosi con le braccia. Quel ricordo doveva essere importantissimo per lui e l’averlo ritrovato così doveva averlo sconvolto al punto tale che non riusciva a elaborarlo. Guardai la foto di Grace, che sul retro, recava l’indicazione del nostro anno e del luogo in cui era e poi guardai la foto del quadro, che esprimeva un amore che andava oltre ogni confine e oltre la lontananza. Era la promessa che una madre aveva fatto ai propri figli. Lei sarebbe stata presto con loro, di nuovo. Pensai a Victor, che come esperto d’arte, forse in passato aveva avuto modo di conoscerla, ma non aveva mai detto nulla in merito. E abbracciai forte Damien, sentendo che sotto la scorza da despota, quel bambino di otto anni stava tremando.

- Mia madre, Aurore… mia madre non si è mai dimenticata di noi…

Quelle parole mi toccarono fin nel profondo.

- No, amore mio, no… tua madre vi ha sempre voluto bene e vi ha promesso che presto sarete insieme… devi soltanto raggiungerla… ora puoi farlo…

Damien annuì, soffocando un singhiozzo, mentre fui io a liberarlo per lui, sentendo le lacrime pungermi gli occhi. Affondai la guancia nei suoi capelli ribelli, poi trovai la sua tempia, imprimendovi un bacio. Damien sollevò appena il viso e i suoi occhi lucidi incontrarono i miei. Era così dolce la sua espressione, che mi fece tenerezza. Poco per volta, finimmo per ritrovarci l’uno delle braccia dell’altra, fronte contro fronte, a guardarci prima, poi a baciarci. Ero incredula se provavo a riflettere su quanto il mio cuore potesse contenere tanto amore senza scoppiare, su quanto fosse giusto e naturale lo slancio con cui ci protendevamo, su come non soffocassi nonostante le labbra di Damien mi impedissero di respirare. Non ne avevo bisogno, in realtà. Quando lui mi baciava, era la mia stessa aria. Non avevo bisogno d’altro. Mi ritrovai con le mani nei suoi capelli, a cercare ancora e ancora i suoi baci, i suoi occhi puntati nei miei, il suo sorriso, mentre anche lui, un po’ stupito, mi chiedeva come facessi a farlo sentire in quel modo. La verità era che mi chiedevo la stessa cosa nei suoi confronti. E forse, che quando ami davvero qualcuno, non hai bisogno di nulla che non sia lui. Quando il nostro gioco finì, gli sorrisi.

- Devi andare, Damien… tua madre ti sta aspettando…

Damien annuì, poi socchiuse gli occhi e prese un respiro.

- Sono stato preso a Princeton. Evan aveva ragione. Le ammissioni sono uscite ad aprile.

Sussultai a quella rivelazione e il battito del mio cuore accelerò.

- C-Cosa?

- Alla fine, i miei crediti e i miei voti sono stati sufficienti. Ho lavorato molto per riuscirci. Sin dalle medie, perché volevo arrivare in alto. E ora sono a un passo così dall’obiettivo che mi ero prefissato. E’ soltanto che… ora… è tutto così…

- … Strano?

Gli feci eco, riflettendo su quanto la normalità della nostra vita fosse stata sconvolta al punto da renderla distante e quasi fuori luogo. Damien scosse la testa.

- Confuso. Non so cosa fare. Se accettassi dovrei sbrigarmi a iscrivermi e organizzare il trasferimento. Ma d’altro canto, mia madre è a Limerick ora e se per caso di spostasse rischierei di perdere le sue tracce. So che non dovrei avere dubbi su cosa fare, ma la verità è che quando abbiamo lasciato tutto, è stato come se avessi accettato la possibilità che avrei anche potuto non far più ritorno a casa. Ed ero pronto anche a questo, purché avessi avuto Jamie con me. Ma ora siamo qui e la vita che avevamo lasciato è tornata con tutte le sue implicazioni.

Accarezzai la sua guancia e mi guardò stupito.

- Cos’è più importante ora per te, Damien?

Gli domandai.

Nel sentirsi messo alla prova, aggrottò le sopracciglia. Rimase per qualche istante a soppesare pro e contro, così com’era abituato a fare, poi tornò a guardarmi.

- Vorrei rivederla. Mia madre, intendo.

Sorrisi e assentii.

- Allora lascia stare tutto. Poi perdere un semestre non è così grave, penso… con le tue capacità, recupererai alla grande. Ma se ora non ascoltassi il tuo cuore, finiresti per pentirtene per sempre. E non è solo per la promessa che hai fatto a Jamie, è anche per te stesso. Hai sempre desiderato chiedere a tua madre il perché della sua decisione e ora ne hai l’opportunità. Ma soprattutto, sai che per lei siete ancora la cosa più importante. Come lo è lei per voi. Lasciatelo dire da una che si è infiltrata di nascosto nel palazzo di diamante gremito di guardie pur di incontrare la sua mamma.

Risi.

Damien sgranò gli occhi, sconvolto, poi si mise a ridere a sua volta, lasciando scivolare via le mie paure. Adoravo sentire la sua risata sincera.

- Tu sei matta.

- Grazie. Ti ricordo che mi sono infiltrata anche a palazzo Dobrée per ritrovare un certo Damien Ealing…

Dissi, orgogliosamente.

- Oh, quello che era convinto che fossi in combutta con Lionhart Warrenheim e che ti ha baciata a tradimento… davvero poco cavaliere, non c’è che dire.

Arrossii d’imbarazzo, ritraendomi un po’. Damien inarcò il sopracciglio.

- P-Però poi è tornato il mio Damien…

Nel sentire le mie parole, sorrise dolcemente e le sue braccia mi attirarono nuovamente a sé.

- Sempre. Per sempre, Aurore.

Sgranai gli occhi, sentendo le guance bollenti e la testa che mi vorticava. Ogni volta che la sua voce si faceva così seria e le sue braccia mi serravano con tanta forza da farmi gemere, mi sentivo mancare la terra sotto ai piedi e il mio cuore si lanciava al galoppo senza timore di esplodere.

- Damien…

- Tornerò presto. Da te.

Mi aggrappai alla sua maglietta, affondando il viso nella sua spalla, la stessa che recava ancora la traccia della ferita inflitta da Evan. Dallo scollo, era ancora visibile. Sentire quelle parole mi rincuorò. Alla fine, pensavo che preso dai suoi propositi, Damien non avesse tenuto in considerazione più di tanto la nostra storia, ma mi sbagliavo. E quel per sempre mi aveva commossa fino alle lacrime.

- Ti amo, Damien Warren…

Mormorai, stringendolo forte a me, inebriandomi quanto più possibile di quel profumo così rassicurante che avevo imparato a riconoscere tra mille e ad amare. Damien mi scostò delicatamente, sollevandomi il viso con le dita. Vidi le sue labbra a pochi millimetri dalle mie e cullata dolcemente dall’intensità del sentimento che provavo, mi apprestai ad accoglierle, quando fummo interrotti da un’imbarazzata voce femminile. Entrambi ci guardammo e ci voltammo verso la grande porta a vetro scorrevole, adombrata dalla tenda leggera appena scostata. Arabella, con in mano una brocca quasi vuota di the, ci aveva scoperti. La sua espressione così candidamente stupita ci fece sorridere.

- S-Scusate, non volevo disturbarvi…

- E’ tutto a posto, tranquilla.

La rassicurò Damien.

- Come mai hai quella brocca in mano?

Le chiesi, perplessa.

- Stavo andando a lasciarla e ho sentito delle voci… eravate voi…

Sorrise, io annuii.

- Allora vi lascio in pace…

Si scusò, con un cenno della testa. La luce del lampione vicino alla porta accese i riflessi più chiari dei suoi capelli.

- No, aspetta, Arabella!

Esclamai di getto, suscitando lo stupore sia di mia sorella che di Damien.

- Chiama anche Evan… stiamo un po’ qui, tutti insieme. Che ne dici?

A quella proposta, Damien sospirò, poi annuì.

- E’ una bella serata, è un peccato rimanere dentro.

Suggerì.

Arabella, entusiasta, accettò, e ben presto la sentimmo chiamare a gran voce il nome di Evan. Sorrisi, stiracchiandomi e rivolgendomi di nuovo a Damien.

- Ti dispiace?

Damien alzò gli occhi al cielo, poi mi arruffò i capelli.

- Considerando che ogni volta che stiamo per baciarci c’è qualcuno che ci interrompe, direi che ho superato il dispiacere già da un po’.

Rispose, sogghignando. Ma prima che potessi rispondergli, e in realtà dovevo ammettere che aveva ragione da vendere, approfittò del momento e mi rubò un bacio veloce che mi impedì di andare oltre. Poco dopo,  Arabella tornò insieme a Evan. Ruben e Jamie, invece, avevano preferito ascoltare i racconti di Victor e dei miei genitori.

- Rinforzi arrivati.

Ci salutò Evan, aspettando che Arabella prendesse posto accanto a me prima di sedersi. Damien sollevò a mezz’aria il braccio con fare teatrale.

- Direi che la nostra battaglia può avere inizio, allora.

- Non parliamo di battaglie, eh?

Gli feci eco supplicante, mentre Arabella, sorridendo, prese le foto di Grace.

- E’ così bella… chi è?

Domandò. Evan si sporse a guardare le foto.

- Mia madre. Si chiama Grace.

- Detta anche Gracie.

Puntualizzai, sorridendo.

- Invece questi siete tu e Jamie, immagino. Lo stile è lo stesso dei quadri di famiglia che ho avuto modo di vedere.

Aggiunse Evan.

Damien annuì.

- Mia madre dipingeva da quand’era molto giovane. Tutti i quadri più importanti sono opera sua. A parte quello dei Devereaux, nonostante lo stile sia simile.

- Sono davvero meravigliosi… è un grande dono… anche a me piacerebbe saper fare qualcosa…

Confessò Arabella, restituendo le foto a Damien, che le ripose nella tasca.

- Avrai tempo per trovare la tua strada, vedrai.

La tranquillizzai, pensando che in tutti quegli anni, prigioniera del suo stesso corpo, non aveva mai potuto fare nulla di sua volontà. Ma ora che finalmente era libera, Arabella poteva vivere davvero e aveva tutto il tempo per scoprire e sperimentare. E soprattutto, aveva Evan accanto. Li osservai. Evan gravitava attorno ad Arabella come se da lei dipendesse la sua stessa esistenza. Era sempre pronto a regalarle il suo sorriso più dolce, e se in un piccolo e recondito puntino del mio cuore la gelosia faceva capolino perché ero abituata ad averlo solo per me, il resto era felice perché sapeva che anche per mio fratello, che aveva sempre sacrificato la sua felicità per la mia, finalmente c’era qualcuno che lo amava così come meritava. E anche se la nostra situazione era piuttosto sui generis, ero certa che per entrambi era giunto il momento di vivere serenamente, liberi da qualunque fardello, semplicemente come due ragazzi di vent’anni che si amavano senza riserve.

- Ah, Kensington.

Mi voltai verso Damien, pensando che non avrebbe mai e poi mai abbandonato la sua formalità nei confronti di Evan, che del canto suo, non ne sembrava dispiaciuto.

- Ho dato un’occhiata anche per te, a scuola. Sembra proprio che saremo in due a diplomarci, quest’anno.

Rimasi a bocca aperta nel sentirlo, poi mi voltai verso Evan, stoico fino all’impossibile.

- Ti diplomi! Evan, ti diplomi anche tu!

Urlai.

- Non gridare, non ce n’è bisogno.

Protestò, accigliandosi.

In realtà, il motivo della mia reazione eccessiva, al di là dell’entusiasmo, era il fatto che mio fratello, notoriamente molto poco appassionato di studi scolastici, fosse riuscito a conseguire il diploma. In tutta onestà, avrei scommesso che non avrebbe superato l’anno.

- Dì la verità, Aurore. Pensavi sarebbe stato bocciato. Non è così?

Mi smascherò senza troppe remore Damien.

Beccata, avvampai, per poi impietrire. Se si era messo in testa di vendicarsi per la storia del compito di biologia, dovevo ammettere che aveva scelto il pretesto più adatto. Arabella, accanto a me, non sembrava aver colto l’importanza del momento.

- Che significa bocciare? Ha a che fare con i fiori?

Domandò, l’innocenza fatta persona. A quella domanda, sia io, che anche Damien ed Evan raggelammo. Poi Evan le posò una mano sulla spalla, con fare accondiscendente.

- No, Arabella, quello è sbocciare. Bocciare significa… ehm… perdere l’anno scolastico. Per fortuna, nonostante i nostri viaggi continui ho studiato a sufficienza per raggiungere almeno il minimo. Non che non mi piaccia lo studio, è solo che avevo altri progetti in testa. E dunque, Aurore, nonostante la tua poca fiducia nei miei confronti, non dovresti avere dubbi sul fatto che anch’io ce l’abbia fatta.

Concluse, punto nell’orgoglio, lanciandomi un’occhiataccia bieca. Gesticolando colpevole, mentre Arabella cercava di ricollegare i pezzi, annuii.

- Piuttosto, cosa farai adesso?

Domandò Damien.

Evan raccolse tra le dita il Thurs, posando su di esso lo sguardo. Effettivamente, mi aveva già detto che non aveva progetti per il futuro, considerando ciò che voleva fare.

- Se vuoi saperlo, Warren, non ne ho la più pallida idea. Credo che avrò bisogno di un po’ di tempo per riorganizzare pensieri e azioni per il futuro. Ma di una cosa sono più che sicuro. Non voglio più sprecare un attimo. Mi è stata data una seconda possibilità e voglio sfruttarla a pieno. Ora che la mia famiglia è finalmente completa, adesso che le persone che amo e che hanno creduto in me anche quando io stesso non ero in grado di farlo sono al mio fianco, so che finalmente potrò imboccare la strada per il futuro, qualunque esso sia.

- Evan…

Mormorai. Sentirlo parlare in quel modo mi rese felice. I nostri amici, in un mondo ora così lontano, si stavano dando da fare per creare il futuro sulle basi che Evan aveva posto col suo stesso sacrificio. E adesso che il suo destino si era compiuto, una sfida ancor più grande lo attendeva, nel mondo a cui aveva fatto ritorno. Non ci sarebbero stati imperi dispotici da distruggere, né antiche profezie da realizzare. Al contrario, era giunto il momento di prendere le redini della propria vita e di prepararsi a costruire un futuro secondo le proprie possibilità. Era così per Evan, come per Damien. Così anche per tutti noi. Per me. E sapendo di avere accanto le persone che amavo più della mia stessa vita, durante quella notte, decisi che anch’io mi sarei impegnata per lasciare un segno, un’impronta tangibile della mia presenza nel mondo. Quel mondo della luce a cui avevamo fatto ritorno dopo tante peripezie. Mi ero resa conto di essere cambiata nel corso di quei mesi lontana da casa, di aver acquistato una forza che mai avrei creduto di avere. Evan aveva ragione. Non avevo più bisogno che qualcuno mi tendesse la mano. Ora ero pronta a farlo io stessa. E avevo scoperto di essere molto più coraggiosa e intraprendente di quanto pensassi. Sollevai gli occhi al cielo, ritrovando in quei percorsi di stelle, la strada costellata di diamanti che portava al cuore della Croix du Lac e pensai a lei. Helise, tutti abbiamo fatto ritorno alle nostre vite. Spero che anche tu, ora, abbia potuto trovare la pace che invocavi da così tanto tempo. Sai, su una cosa avevi ragione. Alla fine del dolore, c’è solo una via d’uscita perché esso possa avere termine. Ma non è la morte. E’ la rinascita. E con essa, la consapevolezza che la vita è imprevedibile, ma quando ci dà una seconda possibilità, lo fa per permetterci di realizzare qualcosa di importante. Qualcosa che ci faccia sentire parte del mondo a cui apparteniamo. Qualcosa che ci permetta, così, di camminare a testa alta verso il domani.

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Capitolo 62
*** XXIII. Il ballo scolastico (1 parte) ***


- Se pronunci ancora una volta il nome di Damien Warren, Violet, giuro che non esco più con te!

Enfatizzai la protesta facendo ondeggiare la busta sigillata che conteneva il mio abito per il ballo di primavera. La nostra scuola si era superata, nel nostro anno del diploma. Le tre sezioni capeggiate da Violet, che aveva ereditato il titolo di Responsabile delle classi del terzo anno, si erano riunite un mese prima e avevano stabilito il tema per il nostro ultimo e importantissimo evento prima del diploma, ovvero il ballo in stile Carnevale di Venezia. Ovviamente, il fatto che la mia convincente e vereconda migliore amica avesse voluto un tema del genere era da considerarsi come una sorta di regalo per me, dal momento che adoravo e sognavo quella festa dall’alba dei tempi e soprattutto, per entrambe rappresentava una rivisitazione del nostro segreto comune che aveva a che fare con i ricordi di Neo Esperia. Il solo, piccolo particolare che Violet aveva deliberatamente evitato di prendere in considerazione era il fatto che non avevo alcuna intenzione di invitarci Damien Warren. Eppure, alla mia sorniona amica, che a sua volta aveva tra le braccia il suo abito in stile rinascimentale, la questione non sembrava di importanza vitale. Nel pomeriggio aprilino appena soleggiato della nostra Darlington, entrambe stavamo facendo ritorno a casa dopo gli ultimi acquisti. Il ballo sarebbe stato di lì a due giorni e avrebbe coinciso con il mio diciottesimo compleanno. Soltanto due anni prima, in questo stesso periodo aveva avuto inizio la mia avventura in quel mondo conosciuto col nome di Underworld. Ricordarlo, soprattutto mentre passavamo davanti al parco in cui avevo incontrato per la prima volta Shemar Lambert, ora consorte dell’Imperatrice di Neo Esperia, mi riportava ogni volta alla mente un’ondata di ricordi talmente coinvolgente che finivo con l’essere spesso sopraffatta.

- Non che non trovi divertente il vostro continuo tira e molla, ma non pensi che un’occasione del genere, che viene solo una volta nella vita, meriti di essere condivisa? E comunque, né per Warren né per Evan c’è stato il ballo… ora che ci penso, però, la festicciola prima della partenza del signor Kensington è stata carina… ricordo ancora la protesta di Evan che non voleva soffocare nella tunica e alla fine s’è limitato a mettere solo il tocco in testa!

Violet rise di cuore. L’inverno prima aveva tagliato i capelli, che ora le arrivavano appena alle scapole, ma per il resto, era rimasta la stessa ragazza dolce e spontanea ai limiti dell’inverosimile. E ricordai quella sera, nella casa che Victor ci aveva intestato, in cui festeggiammo il diploma di Evan e di Damien per esplicita volontà della mamma. Non mi ero mai divertita così tanto come allora ed ero felice dell’aver avuto la possibilità di vedere mio fratello con indosso almeno il tocco e Damien, più tradizionalista, che aveva sfidato il caldo indossando la tunica nera pur di farmi contenta. Eppure, quello accadeva in un passato lontano ormai. Le cose erano cambiate già da un po’. Nel corso di quei due anni, Evan e Arabella avevano potuto coronare il loro sogno di stare insieme. Certo, era stato necessario che sistemare le questioni che riguardavano papà e Arabella perché mia sorella potesse stare con Evan, il quale rispondeva a tutti gli effetti al cognome Kensington. E così, circa un anno prima, i miei due fratelli, scongiurando l’incesto legale, erano convolati a giuste nozze. Prima di loro, poco dopo il nostro ritorno a casa, anche i nostri genitori avevano potuto fare altrettanto e ne avevano approfittato durante il viaggio di Natale in Gran Bretagna. Grazie agli agganci di Victor poi, anche papà aveva trovato una dimensione a lui congeniale, insegnando l’arte della spada e guadagnandosi un posto come istruttore presso la nostra scuola. Per quel che mi riguardava, attendevo le ammissioni per il college assieme a Violet, e da circa un mese, ero nuovamente e felicemente single.

- Naturalmente non lo penso affatto, Violet. Dopotutto non è certo colpa mia se Damien ha deciso di continuare gli studi in Irlanda per accedere alla magistratura infischiandosene beatamente della nostra storia.

Risposi, guardandola di sottecchi.

- Però continui a sentire Jamie…

Mi fece notare. Effettivamente, dal momento che per stessa ammissione di Damien, Jamie non aveva colpa dell’avere un fratello come lui, avevo mantenuto i contatti con il minore dei Warren. L’ultima volta che l’avevo sentito, circa tre giorni prima, via Skype, ero rimasta affascinata nel vedere quanto fosse cresciuto. Ora quindicenne, Jamie era diventato un bel ragazzo molto somigliante alla madre, un po’ meno sorridente di prima, ma decisamente più sereno, indipendente e al tempo stesso molto sicuro di sé, tratto che aveva ereditato senza dubbio dal padre. Da che sapevo, Lionhart Warrenheim stava scontando una condanna commutata dalla pena di morte che comprendeva la ricostruzione di Chambord, la capitale dei Delacroix da lui stesso distrutta molti anni prima. Fino ad allora, non avrebbe potuto far ritorno nel nostro mondo. In passato, Jamie mi aveva domandato se avessi avuto qualche notizia, ma in realtà, a parte quello, non sapevo altro. Da poco più di un anno, la Porta di Pietra sotto lo Stonedoor non si apriva. Al contrario, proprio nei pressi di Longridge, il portale si era aperto una settimana prima, facendo arrivare nel nostro mondo niente poco di meno che Livia. La Lady del lapislazzuli, quasi coetanea di Jamie, aveva chiesto a Lord Oliphant, che l’aveva presa sotto la sua tutela, di poter vedere coi suoi occhi il mondo della luce. In realtà, il sagace anziano Lord aveva colto la reale motivazione di Livia, che su consiglio di Rose, ora inaspettatamente mamma di un bambino, Kyros, desiderava rivedere il suo Jamie. A dirla tutta, nonostante il tempo avesse reso Livia più gentile nei confronti di chi le stava intorno, per quel che mi riguardava, non aveva perso la sua lingua lunga, tanto che aveva felicemente enfatizzato sul fatto che Damien e io non saremmo durati per via del mio carattere decisamente immaturo. Per fortuna, la virtualità l’aveva salvata dalla mia voglia di metterle le mani al collo e strangolarla.

- Jamie è a posto. Poi è un piacere sentirlo, tranne che quando c’è Livia nei paraggi.

Commentai, mentre passavamo nei pressi del nostro liceo. Violet mi passò davanti, studiandomi con i grandi occhi color caramello bordati da lunghe ciglia scure.

- Sei davvero sicura di non volergli dire nulla? Secondo me finiresti col pentirtene a vita, Aurore.

Sbuffai, pensando a quante volte mi ero posta la stessa domanda, quando chiedevo a me stessa di pazientare e credere ancora nel sentimento che provavamo l’uno per l’altra e che evidentemente, non era forte quanto credevo. Mi fermai, volgendo gli occhi all’imponente campus tutto mattoni rossi e grandi cortili alberati e ripensai al primo giorno di scuola, alle volte che ci eravamo incrociati nei corridoi, e persino a quando lo intravedevo, ogni tanto, seduto sotto i peschi a studiare. Ricordi di ordinaria amministrazione, se invece pensavo a quanti ne avevamo che ci riguardavano direttamente, durante il tempo che avevamo trascorso a Neo Esperia. Ma ogni volta che lasciavo il mio cuore libero di ritornare a quei momenti, quando credevo che nulla avrebbe ostacolato il nostro amore, finivo col rendermi conto di quanto invece quell’ordinaria amministrazione fosse stata l’elemento più disgregante. Alla fine, Damien aveva fatto una scelta. Aveva deciso di recarsi in Irlanda per ritrovare sua madre e ci era riuscito. Ero felice per questo. Sapere che era riuscito a farcela mi aveva riempito il cuore di gioia ed ero pronta ad aspettarlo. “Tornerò presto. Da te”, mi aveva detto, e così era stato, inizialmente. Ma poi aveva deciso di tornare a Limerick e studiare lì, per poter rimanere accanto a sua madre, oramai affermata in quel contesto. Mi ero fatta animo, credendo di essere capace di sopportare quella lontananza. Avevo anche avuto modo di rivederlo, in occasione del matrimonio dei miei genitori. Ci eravamo ritrovati, riscoprendoci ancora innamorati. E in quell’occasione, quando ancora pensavo che il nostro legame fosse vivo e saldo più che mai, avevamo fatto l’amore per la prima volta. Quel momento così importante per noi aveva simboleggiato un passaggio importante per entrambi. Stretta tra le sue braccia, la notte della vigilia di Natale, mi ero sentita amata come non mai, completa, finalmente. Damien, sulle cui spalla e clavicola era rimasta una cicatrice ormai bianca, ricordo indelebile impresso sulla carne di uno scontro in cui aveva davvero rischiato la sua stessa vita, percorreva la mia schiena nuda con i polpastrelli, disegnando strade invisibili che mi provocavano dei piccoli e continui brividi, come se tutta la mia pelle fosse sconvolta da tante, minuscole scariche di elettricità. Con la testa appoggiata nell’incavo tra il suo viso e il suo petto, baciando la sua giugulare pulsante, avevo finito con l’addormentarmi, nella penombra alternata alle luci soffuse della nostra stanza, rassicurata dalla sua voce che sommessa mi ricordava quanto mi amasse. Sarei stata un’ipocrita a non ammettere che quando pensavo a quella notte, il mio cuore traditore era lì a ricordarmi quanto lui fosse stato e in qualche modo, fosse ancora, importante per me. Ma l’importanza non era sufficiente. Avevo bisogno di più e Damien non aveva intenzione di scendere a patti con me. Il suo obiettivo era prioritario. Ero arrivata a domandarmi e poi a urlargli contro, quando ci eravamo lasciati, perché avesse voluto illudermi, se alla fine, tutto ciò che diceva di me era retorico. E lo avevo accusato di essere un maledetto egoista, bugiardo, che non aveva a cuore altro se non se stesso. Ma Damien non aveva desistito, scegliendo di proseguire per la sua strada, insensibile alle mie provocazioni. Alla fine, mi ero resa conto che probabilmente, ero io a non essere abbastanza per lui. E avevo deciso di buttarmi a capofitto in attività che lo tenessero lontano dai miei pensieri. 

- Aurore?

La voce preoccupata di Violet mi riportò alla realtà. Mi affrettai a rimuovere il velo che l’aveva appena adombrata ai miei occhi, scorgendo la sua espressione in pena.

- Scusa. Sto bene. Dicevo che sono sicura come non mai di non volergli dire nulla. Abbiamo preso strade diverse, ed è giusto che ognuno prosegua per la propria. Nessun rimpianto.

Ribadii, con un sospiro.

Violet aggrottò le sopracciglia, poi mi accarezzò la guancia e solo infine, mi sorrise con gentilezza e comprensione.

- Tu lo sai che voglio solo la tua felicità, vero?

Mi domandò. Annuii, cercando di ignorare la mia stessa debolezza.

- Violet, io…

- Se va bene così per te, allora non insisterò oltre.

Sospirai profondamente, ringraziandola per avermi accontentata. Dopotutto, Violet mi conosceva fin troppo bene per oltrepassare certi limiti.

- Grazie.

Risposi, ricambiando finalmente il suo sorriso, mentre lasciava scivolare la mano e riprendeva con entrambe le braccia il suo abito.

- Sono sicura che Ruben non vede l’ora di vedertelo addosso, sai?

Le feci notare, cambiando discorso. Violet arrossì, sollevando la busta.

- Credi davvero che gli piacerà?

Domandò, io assentii senza ombra di dubbio.

- Ci metto la mano sul fuoco.

- Attenta che non ci sia acceso il barbecue, Aurore.

Ci voltammo di scatto nel riconoscere la voce di Ruben. Quando si parla del diavolo… Violet sorrise entusiasta nel vederlo. In quei due anni, il Lord del rubino si era dato parecchio da fare per trovare il suo posto a Darlington. In un primo momento, aveva vissuto con noi, dividendo la stanza con Evan. Poi, non potendo frequentare corsi universitari, dal momento che non aveva alcuna carriera pregressa che non contemplasse tipiche materie di studio per la gestione di un casato e per ambire alla somma carica esistente a Neo Esperia, aveva dovuto rimboccarsi le maniche e cercare qualcosa che fosse in qualche modo consona alle sue capacità. E così, aiutato in questo anche dalla stessa Violet, Ruben aveva trovato lavoro in una libreria, riuscendo persino a trovare una stanza per sé. “Il vecchio Vanbrugh sarebbe sicuramente soddisfatto di me. Non so se potrei dire lo stesso di mia sorella, però…”, aveva detto, dopo essere stato confermato. E vederlo in quel momento, su una bici, carico di libri e soprattutto, vestito alla nostra maniera, con jeans, camicia, gilet e giacca bordeaux che metteva in particolare risalto i suoi capelli rosso carminio scompigliati, mi fece ben pensare che oramai si era perfettamente integrato nella nostra realtà. Violet si avvicinò a lui, incuriosita dai libri che aveva nel cestino.

- Oh, questo volevo proprio leggerlo…

Confessò, nel raccogliere il primo testo, una biografia della regina Elisabetta I.

Ruben sgranò gli occhi, gesticolando come un impedito nel goffo tentativo di riprendere il libro, suscitando lo stupore di Violet.

- Ehm… q-questo non dovevi leggerlo ora! Cioè, in teoria sarebbe per… però non volevo che lo vedessi adesso… ehm… avrei dovuto nasconderlo meglio, che idiota!

Con un broncio che lo fece sembrare molto più giovane della sua età reale, porse nuovamente il libro a Violet, che sbatté le palpebre. Nel notare che Ruben era davvero imbarazzato per il pessimo tempismo, mi misi a ridere. La mia amica si voltò verso di me e inclinò la testa, perplessa.

- Credo che Ruben volesse regalartelo… ma l’hai battuto sul tempo…

Spiegai.

Nel sentire le mie parole, Violet arrossì sorpresa, per poi voltarsi nuovamente verso un tristissimo Ruben. E con evidente felicità per il pensiero del fidanzato, ripose il libro tra gli altri, nel cestino della bici.

- Ok, io non ho visto nulla. Come mai qui, Ruben?

Nel rigirare la frittata, Violet aveva talento da vendere. E considerando che riusciva a farlo con maestria tale da far capitolare chiunque, Ruben per primo, riuscì ancora una volta nel suo intento. Ricacciando indietro il magone, lui deglutì e ci guardò con rinnovata serenità.

- Stavo tornando a casa e facevo questa strada per far prima. E voi invece? Sono gli abiti del ballo quelli?

Sia Violet che io annuimmo.

- Oh, non vedo l’ora che sia dopodomani!

Esclamò con un’aria soddisfatta e sognante che fece sorridere entrambe.

- Comunque, non so voi, ma io… sto davvero morendo di fame. Vi va di mangiare qualcosa insieme? Ah, naturalmente offro io.

Continuò allegramente, facendo l’occhiolino.

In altre circostanze, avrei sicuramente accettato l’invito. Oltretutto, di recente avevamo scoperto un nuovo bar in cui preparavano la cheesecake. Certo, non era buona come quella della mamma, ma meritava ugualmente. Però, non volevo rientrare a casa troppo tardi, considerando che avevo ancora una buona parte di programma di biologia da recuperare. Era più forte di me, quella materia non mi piaceva particolarmente. Così, decisi di defilarmi, con la promessa di recuperare prima o poi. Nel congedarci, Violet mi abbracciò raccomandandomi di tornare dritta a casa. A volte le sue premure mi facevano sentire come una sorta di Cappuccetto Rosso e considerando che ormai avevo sviluppato degli anticorpi contro la paura, ero tentata di ricordarle che non doveva preoccuparsi in quel modo. Eppure, pensandoci, lei era sempre stata così e in fin dei conti, mi faceva bene sapere che c’era qualcun altro, ad di fuori dei miei familiari, che teneva così tanto a me.

- Va bene, mamma, prometto di correre dritta a casa e non fermarmi col lupo cattivo!

Esclamai fingendo un tono da bambina, con un piccolo inchino.

Violet si mise a ridere, mentre Ruben, dapprima dubbioso, si accese di curiosità.

- La bimba col cappuccetto! Sì, me lo ricordo! Quella che va a trovare la nonna lupo! Ah no, non era proprio così… era il lupo vestito da nonna!

Schioccò le dita entusiasta e orgoglioso della sua osservazione, tanto che mi limitai a ridacchiare per non correggerlo. Dopotutto, per lui, così com’era stato per Arabella e per papà, tutto era una novità e spesso finiva con l’essere travisato. Violet, divertita, lo affiancò, proponendogli di raccontargli la vera storia della bimba col cappuccetto. Ci salutammo così, e mentre imboccavo il viale che mi avrebbe portata verso casa, mi ritrovai a ricordare quella storia, così come tutte quelle che la mamma mi raccontava quand’ero piccola. Pensai con tenerezza ad Arabella, che stava facendo scorta di fiabe. Era affascinata dai racconti e dalle leggende, proprio come lo ero sempre stata io. Evidentemente, era qualcosa che avevamo ereditato dai nostri genitori. Anche se dovevo riconoscere che papà era quello più scettico, al contrario della mamma, che adorava le vecchie storie.

Quando rientrai a casa, chiudendo la porta alle mie spalle, mi venne in mente la fiaba del soldatino di stagno che aveva affrontato tante peripezie per ricongiungersi al suo amore e infine con lei era morto, nel fuoco e mi venne alla mente Evan. Come soldatino ci sarebbe stato davvero bene. Ridacchiai, pensando che non appena l’avessi visto, l’avrei ribattezzato in quel modo.

- Sono a casa!

Annunciai.

Pochi istanti e sentii la voce della mamma accogliermi dal salone. La raggiunsi preparandomi a mostrarle l’abito che avevo ritirato, sperando che ci fosse anche papà. E quando mi affacciai, sollevando in aria la busta con l’abito, scoprendo per fortuna i miei genitori seduti sul divano, vidi qualcuno seduto di spalle sulla poltrona dirimpetto. Sgranai gli occhi, colta alla sprovvista.

- Ah, Aurore, bentornata.

Mi salutò la mamma, sorridendo.

Da quando si erano ritrovati ed eravamo tornati a casa, lei era decisamente più serena e giocosa e la vena di tristezza che avevo imparato a riconoscere nei suoi occhi azzurri, ogni volta che la sua mente tornava al passato, era finalmente scomparsa. Era bello vederla seduta accanto a papà, che con fare protettivo, posava spesso il braccio sullo schienale del divano, toccando con le dita le estremità boccolose dei suoi capelli. E vedere il mio adorato e tanto desiderato papà, che non si era mai arreso nonostante le sofferenze e gli anni di lontananza dalla sua stessa famiglia, oramai riabilitato dall’accusa di un crimine che non aveva commesso, era per me una gioia infinita. Capitava spesso di incrociarlo a prima mattina, lui che dormiva molto poco, mentre seduto in cucina, con i gomiti poggiati sul marmo nero dell’isola, attendeva il caffè, che aveva scoperto e che trovava delizioso. All’inizio, il suo rapporto con la tecnologia nelle sue forme più semplici era stato drammatico tanto quanto quello della mamma, ma col tempo, aveva imparato almeno l’ABC. E per me, alzarmi la mattina e avere la possibilità di vedere non soltanto i suoi occhi, che per tanto tempo erano stata la sola cosa che lo riguardava di cui fossi certa, ma anche di poterci parlare, di poterlo abbracciare, nell’augurargli il buongiorno e ottenere in risposta un “Ben alzata, piccola. Dormito bene?”, era tutto ciò che potessi chiedere. Un tempo, avrei fatto carte false, immaginando con dolore ciò che credevo di non poter avere. Ma in quel momento, vedere entrambi i miei genitori insieme, felici come sarebbero dovuti essere da sempre, mentre mi accoglievano con un sorriso, era stupendo.

- Scusate, non volevo disturbare.

Dissi, notando un oggetto in particolare sul tavolino frapposto al divano. Incuriosita, quando feci mente locale, riconoscendo una fotocamera piena di fronzoli a me noti e che per giunta non vedevo da diverso tempo, mi venne un dubbio.

- M-Ma quella non è di Violet?

Osservai, indicandola.

L’ospite, sollevando a mezz’aria il braccio, sul cui guanto nero spiccava il sigillo imperiale, un giglio ambrato su cui erano incastonati gli inserti di diamante che richiamavano la stella, si voltò verso di me. Sconvolta, riconobbi quegli occhi blu cobalto inconfondibili. Nei due anni trascorsi, era rimasto più o meno il solito, salvo l’abbigliamento praticamente identico a quello di Shemar, la prima volta che ci eravamo incontrati e i capelli castano scuro un po’ più lunghi.

- Leandrus!

Esclamai.

- Felice di rivederti, ragazzina. Come ti va la vita?

Domandò, sollevando un angolo della bocca in un sorriso.

Leandrus Achard e io non avevamo mai avuto un rapporto amichevole e spesso ci eravamo ritrovati contro. Mi aveva persino azzittita con un pugno nello stomaco che Shemar gli aveva fatto pagare con gli interessi, ma a lui dovevo il sospetto sulla mia vera identità. Era stato proprio lui ad avanzare l’ipotesi che io potessi essere la figlia di Greal Valdes. E il tempo gli aveva dato ragione.

- Ordinariamente interessante.

Risposi di rimando, raggiungendolo. A vederlo con indosso il soprabito nero delle guardie imperiali che tanto richiamava un impermeabile, pensai che si fosse arruolato.

- Non mi dire… alla fine sei diventato una guardia imperiale anche tu?

Domandai, prendendo posto nella poltrona libera e posando il mio abito. La visione avrebbe atteso. Leandrus, incuriosito, inarcò le sopracciglia brune, poi scosse la testa.

- Fossi matto. Non fa per me un lavoro del genere, troppo sanguinolento. Ah, senza offesa, Lord Valdes.

Papà assentì.

- Chiamami solo Greal.

Leandrus ne sembrò perplesso, ma si limitò ad annuire. Non finivo mai di meravigliarmi di quanto fosse complicato per i miei amici rivolgersi senza titoli ai miei genitori. Shemar ci aveva messo tre mesi prima di abbandonare quel “signorina Aurore, per il mio solo nome. Ma mio padre aveva già rinunciato al suo titolo di duca di Challant già prima della mia nascita. Evidentemente, era una sorta di forma di rispetto che gli era rimasta, soprattutto considerando che lo stesso Leandrus veniva da Challant a sua volta.

- Come mai allora indossi il soprabito? E ci sei solo tu? Quando sei arrivato?

Incalzai. In due anni, considerando che il portale era rimasto chiuso, non avevo avuto notizie se non tramite Livia, pertanto morivo dalla voglia di sapere quante più cose possibile.

- Calma, Aurore. Quanta irruenza.

Mi fece eco la mamma, divertita.

- Scusami! E’ soltanto che… ecco… insomma, vuoi startene zitto tutto il tempo?

Leandrus era basito. Evidentemente non si aspettava tanta foga da parte mia, anche se avrebbe dovuto immaginarla. Arricciò le labbra, poi si grattò il collo e solo infine mi guardò.

- Certo che non sei cambiata per niente, eh?

- Senti chi parla, il solito acido.

Ribattei, di sottecchi.

Alzando gli occhi al cielo e puntandoli poi sulle foto che ritraevano la nostra famiglia insieme, alla fine si decise a parlare.

- Sono venuto da solo. In realtà l’Imperatrice mi ha spedito in missione non appena ha saputo che la Porta di Pietra era tornata in attività. E quanto alla tenuta… beh, sappi che hai davanti il messo imperiale.

- Messo imperiale?

Il ricordo dei messi della Croix du Lac mi balzò agli occhi. Decisamente, Leandrus ne costituiva un’altra forma.

- Sei una sorta di postino?

A quel commento, inarcò il sopracciglio sinistro.

- Certo che no. Accidenti, è la stessa cosa che mi ha detto Lorraine quando mi ha visto con la borsa in mano.

Sgranai gli occhi.

- Lorraine? L’apprendista di Lady Octavia?

Sorridendo beffardo,  Leandrus annuì.

- Sembra che stiano insieme…

Bisbigliò la mamma.

Decisamente, era troppo perfino per me. Una ragazza riservata e mite come Lorraine con un tipo arrogante e poco incline alle buone maniere come Leandrus… poveretta.

- Ohi. A giudicare dalla tua espressione sembra che tu non ci creda.

- A dire il vero stavo pensando che è davvero un risvolto inatteso.

Toccato, si accigliò.

- Senti chi parla! Ehi, ragazzina, non sei forse tu quella che vede il buono anche in chi non dovrebbe averne?

- Riferimenti a… ?

Domandò la mamma, mentre papà, nel frattempo, si era alzato e procedeva verso la cucina. Leandrus, colto in fallo, indicò malamente la foto che ritraeva Evan e Arabella nel giorno del loro matrimonio. Sospirai.

- Evan.

- Lui.

- Ti viene così difficile chiamarlo per nome?

Domandai.

- E’ pur sempre l’ex Despota.

- Ultimo.

Lo corresse la mamma, sorridendo.

- Sembra che la leggenda di Evandrus Delacroix sia diventata parte della storia di Neo Esperia.

Continuò, mettendomi al corrente di ciò che Leandrus aveva raccontato loro. In realtà, sapevamo bene che a Evan non sarebbe stato più concesso di varcare la soglia della Porta di Pietra. Il fatto che fosse sopravvissuto era stato tenuto nascosto, conosciuto soltanto da noi pochi. Se la voce della sua rinascita avesse trovato fondamento, di certo per Amber ci sarebbero stati seri problemi. Ma ora che finalmente quel mondo stava tornando a prosperare, la figura del Despota che aveva posto fine a un’epoca era avvolta nel mistero e nella sacralità. In un certo senso, provavo un po’ di impressione. Mio fratello non aveva mai più nominato il suo passato dopo la notte in cui ci eravamo chiariti, anzi, aveva ricominciato a vivere come Evan Kensington, un ragazzo come tanti, non più un Despota sanguinario che aveva distrutto il mondo precedente per dar vita al futuro. In qualche modo, quella parte era morta con lui, e forse, gli abitanti di Neo Esperia, ora cominciavano a riflettere anche sui lati positivi di ciò che Evandrus Delacroix aveva fatto. Pur tuttavia, se avessero saputo che era ancora vivo, avrebbero potuto accusare l’Imperatrice di tradimento e di inganno. Per questo Evan aveva accettato di non mettere più piede nel mondo in cui era nato. Eppure, c’era chi come Leandrus aveva ancora qualche difficoltà nel parlare di lui.

- Sta’ tranquillo, Leandrus… Evan non nutre alcun desiderio di rivalsa. E comunque, ora ha ben altri progetti per la testa…

- Come conquistare anche questo mondo?

Domandò.

- No, penso più come controllare i soufflé. Si chiamano così, vero, Arabella?

Ci voltammo tutti e tre verso papà, che con in mano il portatile, era tornato da noi. La voce di mia sorella risuonò attraverso il pc con una risata squillante.

- Non ditegli nulla, mi raccomando!

Nel sentirla parlare così, mentre papà adagiava il notebook 13 pollici sul tavolino e riprendeva posto, ripensai a quando le avevo detto che mi ero divertita ad aprire il forno in cottura e avevo fatto sgonfiare i soufflé di mio fratello. Ridacchiai, al contrario di Leandrus che si stropicciò gli occhi incredulo per ciò che stava vedendo.

- Che io sia dannato! Ma queste diavolerie non finiscono mai?

La mamma si mise a ridere, per poi guardare Arabella. Mia sorella, i lunghi capelli biondi legati in una coda, ci salutò via Skype, sorpresa di vedere Leandrus.

- Come state, Leandrus? E’ bello rivedervi. E tutti quanti? Spero che a Neo Esperia vada tutto bene…

Leandrus, realizzando con difficoltà oggettiva la portata di ciò che stava vedendo e sentendo, si affrettò a guardarmi con aria interrogativa.

- Ma siete tutti così voi Kensington?

Sospirando, mi permisi di assentire.

- Leandrus ha un po’ di difficoltà a capire, Arabella! Come state?

Domandai, sporgendomi verso la videocamera. Arabella, incuriosita, si scostò appena, mostrando sotto alla lunga maglia bianca a righe magenta con ampio scollo, la sua pancia di quasi otto mesi.

- Stiamo abbastanza bene, zia Aurore. Anche se non so se possiamo dire lo stesso dei soufflé di Evan!

Rise, accarezzando dolcemente il ventre gonfio.

- E’… incinta… un piccolo Despota…

Commentò Leandrus, sgranando gli occhi. Gli lanciai una stilettata, mentre papà affilò lo sguardo.

- Avete già visto il balcone, tesoro?

Domandò invece la mamma.

- Ieri, sì. Verona è davvero una città stupenda, ma detto tra noi, non vedo l’ora di tornare a casa. E anche Louis, a dire il vero…

- Louis?

Chiese Leandrus, deglutendo.

- E’ il nome del bambino.

- Louis Delacr-- 

- Kensington. Si chiama Louis Kensington.

La voce di Evan risuonò minacciosa al punto da fare scostare Leandrus. Pochi istanti e mio fratello affiancò Arabella, che fece segno di fare silenzio. Compresi dal suo occhiolino la motivazione e risi sotto ai baffi. Evan, che aveva legato i capelli, aveva tra le mani un vassoio con dei soufflé sgonfi che avrebbero fatto rabbrividire qualunque pasticciere. Il Thurs invece, era sempre attaccato alla catenina.

- Sembrano alquanto mosci, Evan… dovresti calibrare meglio la temperatura del forno, tesoro…

Suggerì la mamma, che aveva colto il nostro piano segreto e stava sorridendo.

- O direttamente cambiare piatto.

Aggiunsi io.

Arabella, divertita, ne prese uno e lo addentò senza troppi problemi.

- Mh… però è buono, almeno.

- Il sapore c’è, è la cottura il problema. Proverò come dici, mamma.

Rispose Evan, mangiandone uno a sua volta.

- Il Despota che prepara dei dolci… questo è davvero troppo per la mia sopportazione… e meno male che non hai avuto tempo a sufficienza o avresti trasformato il nostro mondo nell’Impero dei soufflé

Leandrus sembrava decisamente esasperato. Al contrario, Evan posò la mano sul tavolo, puntando il nostro amico con suo sguardo più sadico e tagliente. Quando faceva così, ricordava in tutto e per tutto Liger. Mi misi a ridere, mentre Leandrus si poneva in difesa.

- Piuttosto, non ho ancora capito per quale motivo sei qui con la fotocamera di Violet, Leandrus…

Dissi poi, indicandola.

Quando finalmente si ricompose, tenendo sempre sotto controllo lo schermo del pc, svelò l’arcano.

- Amber mi ha chiesto di portarvela con un messaggio da parte sua

Incuriosita, raccolsi la fotocamera. Violet l’aveva lasciata a Rose poco prima della nostra partenza.

- E di che si tratta?

Chiesi.

Leandrus si stiracchiò, per poi incrociare le braccia dietro la nuca. Mentre tutti attendevamo risposta, sbadigliò poderosamente e inclinò la testa.

- Oh beh, quello devi vederlo da te.

Sbattei più volte le palpebre, incerta. Poi osservai la fotocamera. Era impossibile che la batteria avesse resistito per due anni senza carica, ma l’esperienza del mio vecchio cellulare, carico nonostante fosse trascorso un mese, per via delle alterazioni geomagnetiche, mi instillò il dubbio. Quando premetti il pulsante d’accensione, vidi che in memoria erano presenti tante nostre vecchie foto. Vederle mi riportò alla mente i ricordi di quando eravamo ancora due ragazzine spensierate che si godevano la quotidianità,  ignare di ciò che ci attendeva. Non che rimpiangessi quel periodo, ma a volte, ci pensavo con nostalgia. Quantomeno, a quel tempo sognavo ancora un principe azzurro. E dopo averle riviste col sorriso sulle labbra, mi fermai su un video, oltre cui non c’era nulla. Dall’anteprima non si capiva nulla, così cercai il supporto di Leandrus, che rimase beatamente fermo a godersi la scena. Imbronciata, mentre anche i miei genitori e i miei fratelli erano in attesa, premetti il tasto on. Le immagini cominciarono a delinearsi, regalandoci gli scorci di una grande stanza da letto, che la mamma riconobbe come le stanze imperiali destinate alle Lady del diamante. Evidentemente, Amber non aveva voluto prendere le stanze del Despota. Vidi la faccia di Leandrus, enorme nello schermo e poi sentii parlare.

- Non capisco, secondo voi funziona?

Domandò.

- Certo che funziona, Violet ha spiegato bene come usarla.

La voce indispettita di Rose.

- Il tasto rosso è acceso?

Di nuovo Leandrus.

- Non è un tasto, si chiama “spia”. Sei tu che la maneggi, controlla bene!

Ancora il tono polemico di Rose.

- Al diavolo questi oggetti demoniaci! Non potevamo mandare una lettera, Amber?

Leandrus si era voltato mettendo in mostra la nuca. E in sottofondo, la risata di Amber che rispondeva di no.

- Avanti, lascia stare, ci penso io, Leandrus.

La voce tranquilla e risolutrice di Blaez che prendeva in mano la situazione. Vidi inquadrato momentaneamente il pavimento in granito, poi Blaez si riprese. Il duca di Rhatos, identico a come lo ricordavo, sorrise.

- Bene, credo che ora non ci siano problemi. Come state, miei cari? Oh, naturalmente il mio saluto va a tutti, beninteso. E’ tanto che non ci vediamo, vero?

- Blaez, non perderti in parole!

Rose protestò a gran voce, riprendendo il fidanzato. Scoppiai a ridere, pensando che quei due non sarebbero mai cambiati, nemmeno dopo la nascita di Kyros. Blaez, scusandosi, continuò.

- Immagino che abbiate tanto da raccontarci, ma anche noi, come potete sentire e tra poco vedere, abbiamo qualcosa per voi. Alla fine, abbiamo deciso di utilizzare il mezzo che Violet ci ha lasciato per poter comunicare. E il sorteggiato per la consegna sarà Leandrus. Tranquilli, l’ho istruito a dovere. E comunque ora ha affinato i modi.

L’inquadratura saettò verso di lui, che fece spallucce.

- A me toccano tutti gli incarichi pesanti.

Non compresi il sottofondo vocale di Shemar, ma la voce mi parve decisamente la sua. Blaez tornò a inquadrarsi.

- Dunque, come sapete, immagino che Ruben ve l’abbia detto, Rose e io abbiamo avuto un bambino. Vi presento Kyros Vanbrugh.

Stavolta con più delicatezza, Blaez inquadrò Rose, che teneva in braccio il piccolino, di quasi un anno. Se c’era una cosa su cui non avrei mai scommesso, era proprio che Rose e Blaez, che non avevano intenzione di aver figli, avessero infine procreato, ma in quel momento, vedere la Lady del rubino che giocava amorevolmente con il suo bimbo dai capelli rosso scuro, facendoci salutare con la manina come una qualunque mamma felice, mi riempì il cuore di gioia.

- E brava Rose. Alla fine, chi disprezza vuol comprare, come si suol dire.

Commentò la mamma.

- Salutiamo Aurore, Violet e quel menagramo di tuo zio Ruben, piccolo mio?

Nel sentire quell’appellativo, ridemmo in contemporanea. Mi chiesi se gli starnuti che ultimamente affliggevano il povero Ruben fossero opera della sorella. Intanto Blaez tornò a inquadrarsi.

- Sostanzialmente, le novità più importanti riguardano la famiglia imperiale, comunque.

- Ehi, tuo figlio è importante, Blaez! Ti ricordo che ho dovuto portarlo in grembo per nove mesi e ho sofferto le pene dell’inferno per colpa tua, quindi è importante.

Rose si era infervorata, tanto che sentii ben presto la voce di Amber che la ammoniva scherzando sul comune destino. Nel sentirle, Arabella deglutì.

- Comincio a essere preoccupata….

Disse, rivolgendosi a Evan, che la guardò con candida ignoranza. La mamma, tranquillizzandola, ne approfittò per ricordare delle nostre nascite. Tutto quel parlare di bambini alimentò il mio dubbio.

- Non è che per caso quei due si sono finalmente decisi?

Domandai a Leandrus, che fece spallucce.

- Su, guarda da te.

Tornai a guardare il video, e ben presto, Blaez ci svelò il mistero: Amber, con indosso uno scialle bianco e con i lunghi capelli intrecciati, era seduta nel grande letto a baldacchino, immersa nelle coperte dorate all’apparenza soffici, ma soprattutto, aveva in braccio un fagottino. Seduto accanto a lei, Shemar, che indossava una semplice camicia bianca col collo alto e dei pantaloni scuri, sempre coi capelli legati, ci salutò.

- Oh mio Dio, Amber e Shemar hanno avuto un bambino!

Esclamai, balzando in piedi e saltellando per la felicità. Avevo sempre pensato che un giorno sarebbero potuti stare insieme e vederli così felici mi mandò su di giri.

- Dunque Neo Esperia ha un erede ora.

Constatò papà, trovando Evan felicemente d’accordo.

Entusiasta come non mai, mi sedetti di nuovo, continuando a guardare. Blaez si avvicinò, inquadrando Amber e Shemar. La mia amica, la giovane e valorosa Imperatrice,  sembrava niente di più che una neo mamma raggiante. I suoi occhi ambrati incontrarono i miei commossi e ci sorrise.

- Cari amici, siete sorpresi, eh? Abbiamo voluto comunicarvi la nostra gioia in un modo diverso e sicuramente più diretto, date le circostanze. Shemar e io volevamo poter venire di persona, ma come sapete, non ci è concesso lasciare Neo Esperia.

- Per questo motivo, vi aspettiamo qui, magari per la Renaissance, Aurore.

Shemar sorrise gentilmente, e io annuii.

- Amber, Shemar…

D’improvviso, sentimmo i vagiti del bambino. Entrambi i neo genitori si chinarono sul piccolino.

- Aspettate, gliela facciamo vedere.

Suggerì Blaez.

- Gliela? Quindi è una femminuccia!

Esclamai. Leandrus sorrise.

E quando Blaez inquadrò il fagottino insonnolito tra le braccia di Amber, mi sentii pervadere da una gioia infinita. La piccola aveva delle guance da baciare e gli occhietti socchiusi sembravano la copia di quelli di Amber. I pochi ciuffi invece parevano più scuri, vicini al colore castano dei capelli del padre.

- Amici, vi presentiamo la nostra piccolina, Lady Ethel Sophie Trenchard-Lambert, principessa di Neo Esperia.

Annunciarono all’unisono Amber e Shemar, dopo essersi scambiati un’occhiata complice.

Sorrisi commossa fino alle lacrime, nel vedere quella bimba che assieme a Kyros Vanbrugh e in qualche modo, anche al mio nipotino Louis, sarebbe stata parte della prossima generazione, la prima erede in senso dinastico del futuro di Neo Esperia. Il frutto di un amore che aveva superato ogni avversità. 

 

 

 

 

 

 

 

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Eccomi qui! :) Finalmente da casa, non mi sembra vero! Allora... eccoci all'ultimo capitolo di Underworld! <3 La prossima settimana posterò la seconda parte del capitolo e dopo quella, ci sarà l'epilogo, per cui, les jeux sont faits! :) Vi aspettavate un flashforward? Spero che sia stato di vostro gradimento, ci tenevo particolarmente al ballo di fine anno, soprattutto perché Aurore e Violet lo sognavano da tanto e nella prossima parte, vedrete che accadrà! Certo, ora che un certo ex despota del liceo di Darlington è andato via... u_u In compenso, come avete potuto vedere, ci sono novità anche a Neo Esperia! <3 Aaaaw, morivo dalla voglia di pubblicare questa parte!! 

Comunque, fatemi sapere se vi è piaciuto!! Mi dileguo, alla prossima!! :)

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Capitolo 63
*** XXIII. 2 parte ***


 

Il ballo di fine anno ebbe luogo due giorni più tardi. Mia madre, memore degli insegnamenti di Alizea, era riuscita ad acconciarmi i capelli con un gioco di forcine e piccoli fiori lilla, in tinta con il mio abito stile rinascimentale dalle maniche a sbuffo d’argento. Mentre studiava attentamente dove porre l’ultimo fermaglio, pensavo al primo ballo a cui avevo preso parte, durante la Renaissance. Il ricordo di una radiosa Amber, della classe di Shemar e dell’incontro con Rose, quando ancora non sapevo se potermi fidare o meno, mi fece sorridere. Quante cose erano successe da allora. La sola differenza, in quel momento, era la mancanza di un cavaliere. Guardai l’orchidea che era rimasta sulla scrivania, pensando che non l’avrei indossata, quella sera. Non ne avevo alcun motivo, d’altro canto.

- Massì, in fondo, chi ha bisogno di un cavaliere? Vero, mamma?

Domandai. La mamma alzò lo sguardo, incrociando il mio nello specchio che avevo di fronte. La sua espressione si fece momentaneamente pensierosa, poi sospirò.

- L’importante è che tu ti diverta, tesoro. Soprattutto oggi.

Annuii convinta. Del resto, avevo trascorso una bella giornata, sia grazie alle notizie che Leandrus ci aveva portato e che avevo abbondantemente avuto modo di commentare con Violet e Ruben, sia grazie alla sorpresa che Evan e Arabella mi avevano fatto, anticipando il rientro e tornando a casa in tempo per il mio compleanno. Era stato il regalo più bello.

Quando finalmente la mia acconciatura fu terminata, osservai il mio riflesso nello specchio. Ero cresciuta negli ultimi due anni e la mia somiglianza con Arabella non passava inosservata. Portai le dita alla gola, sfiorando il ciondolo d’ametista che portavo sempre addosso, un po’ come Evan col Thurs, ricordo di un momento fondamentale della mia vita. La mamma si tirò su, posandomi le mani sulle spalle e sorridendo dolcemente.

- Sei una principessa, angelo mio.

Sorrisi anch’io, emozionata.

- Grazie, mamma.

E mentre mi voltavo, Arabella si affacciò alla porta.

- Sei pronta, Aurore?

Mi domandò, incuriosita, per poi rimanere sorpresa nel vedermi.

- Sì, arrivo!

Esclamai, prendendo un gran respiro. Mia sorella, entusiasta, ci raggiunse, prendendomi le mani e scrutandomi per bene.

- Sei un incanto, sorellina. E’ come rivederti due anni fa, lo sai?

Feci un cenno di assenso, un po’ imbarazzata, ma fu nulla rispetto a quando si accorse dell’orchidea che mancava e andò a raccoglierla.

- Non scordare questa!

La mamma, accanto a noi, fece per dire qualcosa, ma fui più veloce.

- Non la metto, Arabella, scusa…

- Perché? Non avevate detto che durante il ballo di fine anno è la cosa più importante?

Domandò, perplessa.

- S-Sì, ma non in questo caso… presuppone l’avere un cavaliere che non ho, almeno non più…

Spiegai, senza troppa voglia di andare a ripensare alle motivazioni di quella scelta.

- Capisco… però, almeno fino a scuola, un cavaliere c’è eccome. Anzi, in realtà è anche più d’uno…

Precisò, prendendomi la mano sinistra.

- Cosa?

Le feci eco, stupita.

Arabella si mise a ridere, per poi chiamare papà ed Evan.

Non feci in tempo a replicare che entrambi si affacciarono. A quel punto, sia la mamma che io ci guardammo in tralice. Sia mio padre che mio fratello avevano indossato i vestiti di gala. Entrambi in tight nero, Evan persino con cravatta e gilet. A quel punto mi misi a ridere, pensando che l’avevo visto così soltanto il giorno del suo matrimonio. Invece papà, del canto suo, faceva una figura impeccabile, tanto che nel vedere gli occhi azzurri di mia madre illuminarsi di gioia, pensai che sarebbe stato bello vederli danzare insieme, nonostante papà fosse geneticamente negato. Ricordando le lezioni di bon ton di Sybille, ringraziai con un inchino.

- My Lords, sono onorata della vostra gentilezza, ma venite da tempi troppo lontani…

Cercai di scusarmi, ponendo l’accento sul mio abito rinascimentale che molto poco aveva in comune con il tight moderno che indossavano. Entrambi si scambiarono lo stesso sguardo.

- Avresti dovuto farti lasciare l’uniforme di Leandrus, papà.

Commentò Evan.

- O magari ritrovare le nostre.

Sorrisi al pensiero di rivederli con indosso quegli abiti così nobili e al tempo stesso di incredibile fascino. Di sicuro sarebbero stati meravigliosi. Tuttavia, mi affrettai a cambiare idea riflettendo sul fatto che trattandosi di un ballo in maschera, se Evan avesse indossato l’uniforme bianca di Liger, avrebbe dovuto avere la maschera. E danzare con Liger, nonostante fosse passato così tanto tempo, era qualcosa di particolarmente surreale.

- L’avevo detto che avremmo dovuto prendere un abito in stile Romeo…

Si lamentò Arabella, sconsolata. Le detti una pacca sulla spalla, sorridendo.

- Non preoccuparti, non ce la farei a vedere Evan o papà in calzamaglia.

A quel commento, un comune pensiero attraversò le nostre menti. La mamma non riuscì a trattenere una risatina.

- Tutto, ma non quello.

La famiglia Kensington al completo convenne. A detta di Arabella, persino Louis si trovò d’accordo, con un calcio ben assestato.

- Penso proprio che Louis non veda l’ora di nascere per farti da cavaliere, zia Aurore.

Ci informò, accarezzando dolcemente il grembo turgido. Quelle parole mi furono molto gradite. Avvicinai anch’io la mano, posandola sulla pancia di mia sorella.

- Piccolo Louis, metterò l’orchidea solo per te, aspettando il tuo arrivo, eh?

E raccogliendola, finalmente mi decisi a indossarla, sotto lo sguardo dei miei familiari, pronta ad affrontare l’evento più importante prima del diploma.

 

Quando arrivai a scuola, accompagnata da Evan, mi ricordai di essere forte. Poco prima di scendere dall’auto, mentre le luci e le musiche provenienti dal cortile addobbato a festa accoglievano i vari studenti che affluivano man mano, guardai mio fratello, che mi sollevò la mano, baciandone il dorso.

- Sei sicura che non vuoi che venga?

- Sì, sta’ tranquillo. Ci saranno Violet e Ruben, non sono da sola.

- Non è quello il problema. E’ che sei così bella stasera che temo ti ronzeranno intorno troppi principi scalmanati.

Sgranai gli occhi, incredula per ciò che avevo appena sentito.

- Stai scherzando?

Evan aggrottò le sopracciglia.

- Ti sembra che stia scherzando?

Ridacchiai. Da quando Damien e io avevamo rotto, era tornato il solito fratello maggiore protettivo. E sebbene lo amassi per questo, sebbene sapessi che tutto ciò che desiderava era che io fossi felice, negai.

- Dì la verità… è che in fondo queste cose piacciono anche a te e in realtà vorresti partecipare al ballo, non è così?

Fece per imbastire una risposta, ma gli accarezzai la guancia, addolcendo lo sguardo.

- Fratello mio, ti voglio bene… ma va bene così, per stasera… sto bene. E quanto ai principi scalmanati, che sappiano che hanno a che fare con la sorella del Despota. Avranno pane per i loro denti.

Evan mi rivolse uno sguardo compiaciuto, per poi volgerlo più in là, oltre il finestrino. Quando mi voltai, vidi Violet e Ruben che gesticolavano.

- Devo andare.

Dissi. Mio fratello annuì.

- Divertiti, Aurore. Ci vediamo più tardi.

Sorrisi, congedandolo con un pollice recto, poi presi la mascherina d’argento e la misi sugli occhi. Riempii i polmoni d’aria e scesi, guardando Evan si allontanava. L’aria aprilina si sentiva fresca e carica, complice la serata. Le note rinascimentali pizzicavano i miei sensi, sollecitando un gioco di ricordi e sensazioni, mentre le fiaccole accese creavano un’alternanza di luce e oscurità che rendeva tutto immerso in un’atmosfera magica. Decisamente, il Consiglio delle classi del terzo anno aveva fatto un ottimo lavoro, tanto che il liceo sembrava esser stato trasformato in un castello, per l’occasione. Quando raggiunsi Violet, nobile nel suo abito bordeaux con inserti dorati e Ruben, che aveva scelto una giubba dello stesso colore in stile Enrico VIII, compreso di cappello piumato, mi inchinai.

- Milady, Milord.

Violet ricambiò l’inchino. Sotto la maschera dorata, i suoi occhi color caramello brillavano di felicità. Anche Ruben si inchinò, magistralmente. Dovevo ammetterlo, tra noi, era quello più a suo agio.

- Lady Kensington, lasciate che vi dica che siete straordinariamente bella, questa sera.

- Lord Cartwright, le vostre parole mi lusingano.

Ringraziai, per poi ridere assieme a Violet e prenderci entrambe sottobraccio.

- Ti piace, Aurore?

Mi domandò la mia migliore amica.

- Non potevi scegliere nulla di meglio, Violet… è tutto perfetto!

- E’ tutto per te. Ed è anche il mio regalo di compleanno.

Le rivolsi un cenno in tralice, pensando che mai nessuno prima d’allora aveva pensato a qualcosa del genere per me. Sapevo della scelta del tema, ma per la data, la mia furba amica aveva ben pensato di raggirarmi dicendo che il calendario scolastico prevedeva quel giorno dall’inizio dell’anno, per cui, si sarebbe trattato di una coincidenza. Le strinsi più forte il braccio, evitando di commuovermi. Non volevo ritrovarmi in versione panda proprio all’inizio della festa. Mormorai un “grazie” e le detti un bacio sulla guancia, poi entrammo, seguite da Ruben, che quella sera fece da cavaliere a entrambe.

Circondata dall’affetto dei miei amici, trascorsi una delle serate più belle che potessi ricordare. Spesso, mentre ascoltavamo quelle musiche d’altri tempi, il nostro pensiero tornò alle trascorse avventure. Ed eravamo tornati a chiacchierare di ciò che stava accadendo a Neo Esperia, rammaricandoci del fatto che ad Amber e a Shemar non sarebbe stato possibile raggiungerci. Eppure, sia Violet che Ruben furono d’accordo all’idea di recarci a Chalange per la Renaissance. Per il Lord del rubino sarebbe stata un’occasione ottima per conoscere il suo nipotino, di cui era assolutamente entusiasta. Anche la mia amica desiderava rivedere i ragazzi e così, avevamo deciso che ci saremmo andati, durante la nostra estate. E assieme ai ragazzi della nostra classe, poi, ci ritrovammo a parlare dei progetti sul futuro. Quella sera, l’ultima occasione di festa, simboleggiava molto più di un’occasione per stare insieme. Era un importante rito di passaggio, prima di dire addio alla protettiva vita da studenti ed essere catapultati nel mondo degli adulti, quello in cui sei tu a decidere del tuo destino. In realtà, per noi questo era accaduto già prima, nel momento in cui avevamo deciso di varcare la soglia della Porta di Pietra, ma in quel momento, aveva tutto un altro sapore. Ascoltai chi voleva proseguire gli studi e anche chi aveva deciso di cercare diversamente la propria strada. C’era addirittura chi desiderava tentare fortuna nel mondo della tv. Violet si mise a ridere pensando a quando aveva immaginato qualcosa del genere per Ruben e Blaez.

- Me lo sono perso?

Domandò il nostro amico, sorseggiando il ponce rosso brillante con una fettina di limone.

- E’ stato quando tu e Blaez stavate discutendo su come tirar fuori le schegge dal corpo di Shemar. Potevate recitare in qualche serial sulla medicina.

Spiegò, trovandomi d’accordo.

- Anche se alla fine tra i due litiganti, il terzo gode. Povero Shemar… ne ha passate così tante…

Commentai, ripensando con non pochi brividi a quando papà aveva preso il controllo della situazione.

- Però certo è che ora è felice.

Su quello, fummo tutti d’accordo.

- Kensington, scusa?

Mi voltai sentendomi chiamare. Sulle prime, non riconobbi né la ragazza né il ragazzo la accompagnava. Puntai su di lei, considerando che era sua la voce che mi aveva chiamata. Era decisamente più grande di noi e indossava un abito leggermente più vistoso di quanto la norma avesse chiesto, di velluto blu notte. I capelli castano scuro erano acconciati in una morbida treccia e aveva una cuffietta che li copriva in parte.

- Ci conosciamo?

Domandai. Solo quando scostò la mascherina, mi sembrò di ricordare qualcosa di vagamente familiare.

- Rebecca Bayles. Non ti ricordi di me, vero?

Scossi la testa, mentre una titubante Violet ci guardava, poco prima di essere chiamata dagli addetti alle musiche. Ruben, invece, accanto a me, si gustò la scena.

- Ecco, ero in classe con tuo fratello e con Warren… ci siamo conosciute… anzi, scontrate nella biblioteca, due anni fa.

Sbattei le palpebre, poi feci mente locale e finalmente mi sovvennero le tre oche che mi avevano aggredita mentre cercavo il libro con le rune del professor Warren. A occhio e croce doveva essere la rossiccia tinta. Tuttavia, mi chiedevo che ci facesse lì, considerando che non avevo più avuto niente a che fare con quelle tre, da allora.

- Volevo scusarmi con te per quello che è accaduto allora. Dopo quello che hai detto, riguardo al nostro futuro, ho avuto modo di pensarci bene… e ho capito che avevi ragione tu.

Ci misi un po’ per ricordare cos’avessi detto in quell’occasione. D’altro canto, era qualcosa di abbondantemente seppellito, al contrario della motivazione dietro a quella ricerca.

- E cos’hai capito?

Domandai. Il ragazzo accanto a Rebecca, intanto, mi sorrise, io lo ignorai.

- Ho deciso di impegnarmi per essere qualcuno. E ci sto riuscendo.

Sorrisi istintivamente, nel rendermi conto che le mie parole avevano aiutato quella ragazza. E lì ricordai di aver detto a quelle ragazze che se avessero continuato a comportarsi male, non sarebbero state altro che foto sull’annuario di certo poco degne di nota. A pensarci, ero stata abbastanza sfacciata, ma mi faceva piacere sapere che la terapia d’urto era servita a qualcosa.

- Ne sono felice.

Rebecca ricambiò il sorriso, sincero, finalmente. Mi alzai per augurarle buona serata e notai che il ragazzo accanto a lei, le somigliava. Poi capii. Doveva essere il fratello minore, che frequentava un’altra sezione e anche lui, come me, era all’ultimo anno. Evidentemente, nemmeno Rebecca aveva un cavaliere.

- Posso chiederti un’ultima cosa, Kensington?

- Certo, dimmi pure.

L’espressione del ragazzo si fece improvvisamente interessata e più vispa.

- E’ vero che tu e Warren vi siete lasciati?

Un colpetto di tosse dalle parti di Ruben evitò di farmi trasalire più del dovuto. Mi chiesi se la notizia avesse più importanza per lei che per il fratello, poi sospirai.

- Sì, è vero.

- Oh, allora…

Bayles, che se non ricordavo male faceva di nome Carter, si fece avanti, ma Ruben si alzò, in tutta la sua imponenza, rivolgendogli un’occhiataccia. Perfetto, lui ed Evan dovevano essersi messi d’accordo.

- Milord, per stasera Lady Kensington è impegnata col sottoscritto.

Sobbalzai nel sentire la voce minacciosa che subentrò alle spalle dei fratelli Bayles. Non mi ero accorta che Violet si era allontanata e poco dopo era tornata, tant’ero concentrata nella discussione. E dal momento che nemmeno Ruben era ancora intervenuto verbalmente, quando anche i fratelli si voltarono, ci trovammo davanti un cavaliere con indosso giacca, cravatta e pantaloni neri. Una mascherina, nera a sua volta, copriva gli occhi, che nonostante il gioco di luci nella palestra, avrei riconosciuto tra mille. Cordialmente, ci rivolse un inchino profondo, facendosi largo tra i ragazzi increduli e fermandosi a pochi passi da me, che ero impietrita. Una violenta ondata di emozioni mi mozzò il fiato e per un interminabile istante, non ci fu più nessuno, se non me, la musica di sottofondo e il cavaliere dagli occhi di smeraldo che mi prese per mano, senza nemmeno curarsi di chiedermi di ballare.

- Che diavolo ci fai tu qui?

Sibilai, mentre sia Damien che io, che gli altri ragazzi, Violet e Ruben compresi, ci ritrovammo a danzare sulle note di musiche allegre e sostenute. Quel ballo, che avevamo preparato ma che in realtà, già conoscevo da molto tempo, ci pose l’uno di fronte all’altra. Damien era stupendo nel suo abito che in realtà, di rinascimentale non aveva davvero nulla, ma ciononostante faceva la sua figura. Eppure, non riuscivo a pensare ad altro che al fatto che si fosse presentato da non invitato. I liuti diffondevano note magiche nell’aria e Damien posò la mano di fronte alla mia. Al solo sfioramento dei polpastrelli, temetti di cedere.

- Pensavi che mi sarei perso il tuo ballo del diploma e il tuo compleanno?

Ci girammo attorno, dopo un piccolo inchino.

- Non ricordo di averti invitato.

- E io non ricordo di averti mai vista così bella come stasera.

Arrossii, aggrottando le sopracciglia, mentre continuavamo a girare.

- Smettila.

- Ti amo, Aurore.

Battemmo le mani a tempo e cambiammo giro. Il mio cuore scandiva attimi infiniti e mi sentii mancare.

- Troppo tardi, Damien.

Girammo ancora una volta. Sembrava che ancora una volta ci fossimo soltanto noi due.

- Sono tornato per restare, stavolta.

Battemmo un’altra volta le mani, per poi cambiare compagnia. Feci per allontanarmi da lui, ma mi afferrò per la mano, con forza, quasi a volermi trattenere.

- Lasciami.

- Ascoltami.

Da qualche parte, intravidi Violet, che ci guardava preoccupata. Scansai la mano di Damien a fatica, poi saltai il giro, allontanandomi quanto più in fretta potessi per non bloccare la danza. Lasciai la palestra e uscii di corsa nel cortile interno, sentendomi tanto una novella Cenerentola, in fuga da un principe che tanto l’aveva fatta soffrire e ben prima della mezzanotte. Ansimai in debito d’ossigeno dopo essermi fermata, consapevole che sarei stata raggiunta di lì a poco. Cosa gli avrei detto? Era innegabile che mi facesse quell’effetto e diamine, odiavo quell’ascendente. L’aveva sempre avuto, ma pensavo che stando lontani, avrei superato quella fase. Non era troppo tardi, era troppo presto, anzi, era troppo in generale. Io amavo Damien Warren, lo sapevo bene, ma avevo sofferto troppo per pensare anche soltanto di ascoltarlo senza essere sovrastata dalle mie emozioni. E poi, quelle parole. “Sono tornato per restare”, come se non mi avesse già illusa abbastanza. Portai la mano alla bocca, cercando di riprendere fiato, quando sentii i passi alle mie spalle.

- Perché mi fai questo?

Ebbi solo la forza di chiedere.

- Mi dispiace, Aurore. Avrei dovuto capirlo prima. Non ce la faccio a stare senza di te.

Mi sforzai di reprimere le lacrime con una smorfia. Ogni sua singola parola era una pugnalata dritta al cuore.

- Hai fatto una scelta, Damien. Non sei capace di rispettarla?

- Guardami.

Non ce la faccio.

- No.

- Non mentirmi mai.

Scossa fin nel profondo, mi voltai di scatto, vedendo il suo volto senza la maschera. Damien era sempre stato bravo nel mantenere il contegno. Era bravo anche a mentire, se voleva, ma non l’aveva fatto con me, mai. Ma c’erano momenti in cui le sue emozioni erano troppo da gestire, anche per lui. E lì, il suo lato più vero gridava a gran voce la sua sincerità. Anche in quel momento era così. E quello mi spaventava. Perché sapevo fin troppo bene cosa avesse significato la nostra separazione, sia per me che per lui. Avevamo tentato di farla funzionare, ma non ci eravamo riusciti. Tolsi la mia mascherina ed entrambi rimanemmo lì, a fissarci, per tanto tempo, incapaci di parlare.

- Il gatto ti ha mangiato la lingua?

Domandai poi, sussurrando, esausta. Volevo appoggiarmi da qualche parte, ma non c’erano appigli vicini. Damien deglutì, poi sospirò.

- Vorrei che l’avesse fatto quando ho deciso di andarmene.

- Però non è successo… non puoi pensare di tornare qui quando ti pare e fingere che bastino un bel vestito e una maschera per cancellare tutto…

- Lo so. Ma ci volevo provare ugualmente.

- E’ questo il problema, Damien! Provare… ci proviamo, sempre, ma non va!

- Per questo motivo ho deciso di rimanere qui.

Scossi la testa, che mi girava.

- Butteresti all’aria il tuo futuro per me. E finiresti per rinfacciarmelo, prima o poi.

Quelle parole lo ferirono, tanto che si irrigidì. Immobile, in quel modo, sembrava una meravigliosa e impassibile statua. E continuai.

- Mi dispiace, Damien. Sono io che non ce la faccio. Mi dispiace tanto.

Nel pronunciare quelle parole, che risuonarono terribili nelle mie stesse orecchie, mi resi conto che per tutto quel tempo, mi ero sempre aggrappata alla speranza che le cose potessero migliorare. Ci avevo creduto, in passato, forte del nostro destino comune. Ma i dubbi che si erano insinuati in me la notte che eravamo tornati a casa, quando per la prima volta le nostre vite nel mondo a cui appartenevamo si erano affacciate a ricordarci che ci attendeva il futuro, alla fine avevano avuto la meglio. Il nostro giuramento, la notte del mio compleanno, a esattamente due anni di distanza, oramai non aveva più motivo di esistere. Era ora di sciogliere quelle promesse, che appartenevano a un tempo più lontano. A due persone che non eravamo più. Mi sforzai di sorridere e di non reprimere ulteriormente quel rivolo di lacrime che già da un po’ premeva per uscire. Al diavolo il make-up. Damien mi aveva vista piangere fin troppe volte, consolandomi pazientemente, a volte prendendomi in giro. E sorridevo al pensiero di quei tempi in cui tutto era più spontaneo. Da quando era andato via, sembravamo non essere più in grado di comprenderci. Pensavo che fosse lui a esser cambiato, inizialmente. I suoi obiettivi erano fondamentali, la sua testardaggine non era da meno. E anche la faccia tosta di presentarsi in quella che un tempo era la sua scuola, quella sera, senza farsi troppi problemi, non era cambiata. Ma io non ero più in grado di sopportarlo.

Intravidi Violet, poco lontano e dal suo sguardo in pena mi resi conto che doveva esserci anche il suo zampino. In quel momento provai delusione. Sapevo quanto ci tenesse, ma non avrebbe dovuto fare una cosa del genere. Sospirai, invocando il coraggio e facendomi animo.

- Torna padrone del tuo futuro, Damien. Vai avanti per la tua strada, così come io sto andando avanti per la mia.

Un sussulto tra le sue sopracciglia scure mi fece intendere che l’avevo scosso. E senza attendere altre risposte, che purtroppo per me, sapevo consistere in promesse ormai senza senso, mi limitai a un inchino.

- Addio, mio cavaliere dagli occhi di smeraldo.

Soffocando un singhiozzo, mi affrettai a oltrepassarlo e a correre da Violet.

- Aurore!

La sua voce preoccupata mi fece ancor più male. Mi limitai a darle un bacio sulla guancia.

- Non dovevi farlo, Violet, non dovevi. Scusa.

Mi guardò in tralice e io mi misi a correre, quanto più veloce potessi, fino a che sia lei che la musica furono lontane. Troppo per essere raggiunta. Troppo per tornare indietro.

Mi fermai solo quando arrivai all’entrata del parco di Darlington. Quel luogo che tanto aveva significato per me, in passato, sembrava il solo luogo in cui potessi trovare quella pace che né il pianto né l’agitazione volevano concedermi. Memore delle mie imprese notturne, scavalcai senza particolare difficoltà la recinzione di ferro, strappandomi parte dell’abito nell’impresa. In quel momento, però, non ci feci particolare caso, tanto ero sconvolta. E facendomi largo tra alberi e cespugli, sentendomi libera, per la prima volta dopo tanto tempo, fingendo di essere ancora nell’Underworld, raggiunsi la fontana che tanto mi piaceva osservare, quando avevo bisogno di stare un po’ sola e fu solo allora che mi lasciai andare, crollando aggrappata alle sbarre di protezione che circondavano la struttura e scoppiando a piangere.

- Perché?!

Nel silenzio quasi notturno ormai, mi ritrovai a ripensare ai miei amici lontani, a quanto mi sentissi affranta al pensiero che non sarei mai stata capace di essere felice, perché forse, dopotutto, ero io a essere troppo pretenziosa e insoddisfatta. Incapace di accontentarmi, sicuramente, ma in fondo, ciò che desideravo era poter avere accanto la persona che amavo e a cui avevo dato tutta la mia anima. Singhiozzai amaramente pensando a quante volte avessi immaginato di vedere Damien tornare da me e mettermi per una volta al primo posto. Ero stata egoista e ne ero consapevole, ma cosa c’era di male ad agognare un po’ di felicità? Non avevo forse sofferto abbastanza nella mia vita? La stessa Amber si era augurata che potessi finalmente esserlo, assieme a coloro che amavo. Ma sembrava che non mi fosse possibile. Guardai l’acqua d’argento della fontana, mossa dagli invisibili soffi di vento. Cominciavo a sentire freddo, tanto che mi sfregai le braccia, notando gli strappi del vestito. Non avevo nemmeno con me il cellulare, dal momento che l’avevo tranquillamente lasciato a casa. Sarei dovuta tornare a piedi e sicuramente, Violet aveva già avvisato i miei genitori. Avrei dovuto spiegare tutto, una volta tornata, facendoli preoccupare. Che figlia degenere.

- Mi dispiace così tanto…

Mormorai, tirando su le ginocchia e affondandoci la testa. In realtà, non avevo nemmeno voglia di parlare oltre. Non so per quanto tempo rimasi ferma così, a singhiozzare, senza neanche più la forza di pensare. Nel silenzio reverenziale scandito dal mio respiro affannato, sentii dei passi felpati. Che facessero ciò che volevano, non mi importava. Chiusi gli occhi, in attesa, ma sentii solo il fruscio dietro di me e una sensazione di calore rigenerante grazie a qualcosa di pesante poggiata sulle mie spalle. Poco dopo, qualcuno si sedette accanto a me. Non ebbi bisogno di alzare il viso. Il profumo del soprabito di papà era sufficiente. Poggiai la testa sul suo braccio, sentendomi cingere di lì a poco. E cullata, proruppi di nuovo in un pianto dirotto.

- Papà!

Mio padre, con comprensione e gentilezza, mi scostò i capelli dal viso, non appena lo sollevai, e mi accarezzò la guancia con le dita. Alla luce della notte, quel volto che avevo imparato a conoscere, mi sembrò meraviglioso. Il venticello mosse i suoi capelli d’argento, mentre i suoi occhi d’ametista mi guardavano nell’anima senza nemmeno bisogno che dicessi nulla.

- Come hai fatto a trovarmi?

Domandai, incerta. Papà sorrise appena, con aria divertita.

- Tesoro, ti ho trovata in un mondo diverso. Trovarti in una cittadina come questa è piuttosto facile.

Di certo non potevo dubitarne, ma dovevo riconoscere che mio padre non smetteva mai di sorprendermi. Mi accoccolai tra le sue braccia forti, quelle che avevo sempre sognato, sin da bambina.

- Violet ci ha avvisati di ciò che era successo e mi sono ricordato che questo posto ti piace particolarmente. Considerando che dovevi fare per forza questa strada, ho pensato che potessi essere qui. E i lembi dell’abito che ho trovato per terra mi hanno dato conferma.

Sorrisi, pensando che non sarebbe mai cambiato. Mi sentii più tranquilla, sapendo che c’era lui accanto a me. E la sua voce profonda e così pacata, era musica per le mie orecchie.

- Sei il miglior papà del mondo, lo sai?

Chiesi. Quante volte avevo desiderato dirlo. E quel momento mi sembrò il più adatto per farlo.

- Mpf. Potrei obiettare, piccola.

Riaprii gli occhi, fissando la fontana.

- No, davvero… il fatto che tu sia qui, papà, per me è importante… non ce l’avrei fatta ad affrontare Evan…

- Era abbastanza preoccupato, in effetti.

Il mio fratellone che continuava a preoccuparsi per la mia sconsideratezza. Se fosse rimasto con me, sarebbe sicuramente andato tutto in maniera diversa, ma in quel momento, immaginai come si stesse sentendo in colpa. E questo era ciò che non volevo. Evan non poteva più premurarsi per me, soprattutto ora che doveva concentrarsi su Arabella e su Louis.

- Mi dispiace…

Papà sfregò la mano contro il mio braccio, per scaldarmi.

- Sai, Aurore… questa sera mi sono reso conto di una cosa.

- Mh?

Sollevai la testa, notando che stava guardando la fontana anche lui.

- Non si può vivere nel passato. Soprattutto quando questo è doloroso.

Sbattei le palpebre, sentendo gli zigomi pizzicare, mentre lui si voltò nuovamente verso di me.

- Per tanto tempo siamo stati ancorati al passato. Ora sembra tutto così lontano, ma quando ripenso alla nostra storia, a tua madre, a mio fratello Ademar, a tutte le avversità che abbiamo affrontato, penso che nessuno avrebbe dovuto meritare un destino del genere. Per tanto tempo, quando chiudevo gli occhi, il passato tornava a tormentarmi, ricordandomi quanto la vita fosse stata crudele con coloro che amavo. E mi domandavo perché. Ho perso i momenti più importanti della mia vita. Non ci sono stato né per te, né per Arabella. Celia ha dovuto affrontare tutto da sola, mentre io cercavo disperatamente un modo per raggiungervi. E poi, piccola mia, sei arrivata tu, con tutta la mia pesante eredità e sei stata capace di riscattarci tutti. Hai realizzato così tanto, che mi chiedo come avremmo fatto se non ci fossi stata.

Arrossii, imbarazzata. Era la prima volta che parlava in quel modo di me. E in un certo senso, mi sentivo a disagio. Non meritavo tutta quella stima.

- Ma d’altro canto, tutto ciò ha avuto un prezzo anche per te. Niente e nessuno ne è esente. Hai sacrificato quella libertà che avresti dovuto avere per diritto. Mentre le tue coetanee vivevano spensierate la loro vita, tu hai varcato la soglia di un mondo sconosciuto e non ti sei arresa, incrociando il tuo destino con quello degli eredi delle famiglie al potere. Ma ora, Aurore, non credi che sia giunto il momento di essere felice, per te stessa?

Abbassai di nuovo gli occhi, sconvolta.

- Il fatto, papà… è che non so davvero come esserlo…

Papà sospirò.

- Gregor una volta mi disse: “Quando capirai cosa vuoi, combatti con tutto te stesso per averla. Non lasciare che le tue paure ti impediscano di essere felice”. Col senno di poi, ho capito che per avere quella felicità avrei dovuto combattere. Ed è per questo che ho combattuto, per tua madre, che amavo e volevo con tutta l’anima.

Mi morsi con forza le labbra, sopraffatta all’idea di quanto il loro amore fosse stato forte.

- Dimmi, tesoro. Di cos’hai paura?

Un velo mi adombrò gli occhi, mentre tornavo a guardare mio padre.

- Di… di soffrire ancora… i-io amo Damien, ma ho tanta paura di stare di nuovo male per lui…

Sulle prime, mi resi conto che la mia improvvisa confessione lo aveva spiazzato. Del resto, non doveva essere cosa facile da metabolizzare per lui. Ed era sempre stato un po’ geloso, sia di Arabella, da piccola, che certe volte in questi ultimi due anni, anche di me. Eppure, aspettai che dicesse qualcosa.

- In questo momento, da padre dovrei dirti di lasciare perdere Damien, probabilmente. Ma so che dire una cosa del genere a te, che sei mia figlia e soprattutto figlia di quella cocciuta di Cerulea Rosenkrantz, sarebbe controproducente. Al che, ti chiedo una cosa: se pensi al tuo futuro, Damien ne fa parte?

Il mio futuro, assieme a Damien. Era ciò che avevo sempre immaginato, in realtà. Ma la realtà era stata crudele.

- S-Sì, ma…

- Allora, tesoro, lascia che il passato sia passato. E se nel tuo futuro lui c’è, allora non avere paura di affrontarlo. E poi, ricorda che ci siamo noi, accanto a te. Ci sono io.

Toccata dalle sue parole così inaspettate, sgranai gli occhi e gli gettai le braccia al collo, lasciando che le lacrime lavassero via la mia disperazione. Mi sentii incredibilmente rincuorata, perché sentivo che anche se mi fossi buttata, non sarei mai caduta. Il mio papà era lì e sarebbe stato pronto ad afferrare la mia mano e a tirarmi su. Dolcemente, mi accarezzò i capelli, poi quando mi scostai, mi dette un bacio sulla fronte e mi sorrise teneramente. Era sempre strano vederlo sorridere, considerando la sua proverbiale austerità, ma dovevo ammettere che lo trovavo affascinante e a volte, nel suo sorriso, potevo riconoscere tratti del mio.

- Papà, grazie… davvero…

Un sogghigno mi incuriosì.

- Non ringraziarmi, Aurore, ho comunque intenzione di fare un discorsetto con il figlio di Lionhart.

Rispose, con tono minaccioso. Eccolo lì, il mio papà geloso. Annuii pensando che non avrei voluto essere nei panni di Damien quando sarebbe accaduto, perché era certo che né lui né Evan, con tutta probabilità, avrebbero lasciato correre. E mi sentii protetta, di nuovo bambina, nonostante fossi diventata ormai maggiorenne. Poi, papà si alzò, aiutandomi e rivolgendomi un inchino formale. Nell’uscire di casa, non si era nemmeno curato di mettere un gilet, tanto che feci per restituirgli la giacca nera che mi aveva poggiato sulle spalle, ma declinò.

- Piuttosto, Milady, non c’è musica e questo cavaliere non è particolarmente avvezzo alle danze, ma vorreste ugualmente concedere a vostro padre l’onore di un ballo?

Incredula, mi misi a ridere.

- Oh papà… certo! Certo che te lo concedo!

Esclamai, ritrovando entusiasmo ed eccitazione. E rivolgendogli un inchino a mia volta, mi preparai per la danza.

Quella sera, quando ormai la mezzanotte era incombente, festeggiai gli ultimi scampoli del mio compleanno danzando con il mio tanto amato papà tra note canticchiate e ritrovata consapevolezza. Aveva ragione lui. Il passato ci ancorava. Il futuro non sarebbe mai stato possibile se non mi fossi scrollata di dosso le mie paure e i miei dubbi. E Damien era tornato, per restare. Cosa sarebbe accaduto non potevo certo saperlo, ma se davvero desideravo essere felice, allora avrei dovuto affrontare ciò che mi bloccava. Ero una combattente nata, ce l’avevo nel DNA. E soprattutto, non ero sola. La mia famiglia ci sarebbe stata, qualunque cosa fosse successa.

Non tornai subito a casa. Chiesi a papà un ultimo favore, prima di rientrare. Sulle prime, vista l’ora tarda, mi chiese di aspettare almeno l’indomani, ma fui irremovibile. Sapevo che l’appartamento del professor Warren era di sua proprietà e quando Damien, Jamie e Grace tornavano a Darlington vi si appoggiavano. In realtà non ero affatto certa che ci fosse, ma tanto valeva fare un tentativo. Quando raggiunsi la porta, mentre papà mi attendeva all’ingresso, presi fiato e mi apprestai a bussare. Notai curiosamente che spesso ci eravamo ritrovati separati da una porta. Come se quello fosse il confine tra i miei dubbi e la realtà. Ma decisi di non lasciarmi sopraffare di nuovo. Quando pensavo al futuro, Damien c’era. Era quella la cosa su cui dovevo concentrarmi. E così feci, trovando il coraggio di bussare. Non ricevetti subito risposta, tanto che pensai che fosse andato a dormire. Dopotutto era piuttosto tardi e sarebbe stato più che legittimo. A dire il vero, in realtà io non ero affatto sicura che sarei riuscita a prendere sonno. Ma Damien aveva la capacità di appisolarsi senza problemi. Attesi un paio di minuti, mentre il batticuore era diventato talmente forte da farmi venire la tachicardia. Alla fine sospirai, tirandomi indietro.

- Buco nell’acqua… brava, Aurore…

Mormorai con disappunto. Mi voltai verso l’imbocco del corridoio, apprestandomi a tornare indietro, quando finalmente Damien aprì la porta.

- Aurore?

Il tono della sua voce, sorpreso e sollevato allo stesso tempo, mi fece trasalire. Sobbalzai, nel voltarmi nuovamente e nel vederlo in quel modo.

- S-Scusa… stavi dormendo?

La mia osservazione lo stupì, poi scosse la testa.

- Sono tornato da poco, ero al telefono con Hammond. Dannazione, ma dove diavolo eri finita? Ti abbiamo cercato ovunque!

Esclamò, raggiungendomi. A giudicare dalla sua aria sconvolta e da cravatta allentata e camicia appena spuntata, doveva essere vero. Arrossii e distolsi lo sguardo, pensando che dovevo aver fatto prendere loro un bell’accidente.

- Scusa, è solo che avevo bisogno di stare un po’ da sola…

Lo vidi adombrarsi.

- E ti sembra normale a quest’ora, razza di stupida?!

Sbraitò tutto d’un tratto, costringendomi a rispondergli a tono.

- Non l’avrei fatto se tu non ti fossi comportato come un idiota!

Damien si accigliò.

- Sarò anche idiota, ma non puoi pensare di risolvere tutto scappando sempre!

Storsi la bocca, colpita.

- Senti chi parla, quello che se n’è andato fregandosene di tutto!

Inarcò il sopracciglio, punto nell’orgoglio.

- Ma sono tornato, Aurore! Sono qui ora. E non so più come diamine dirti che non ho alcuna intenzione di andarmene!

Trattenni il fiato in quel momento, lasciando scemare la tensione. E alla fine sospirai.

- Scusa!

Esclamai, abbandonando le remore e abbracciandolo forte. Il solo contatto mi dette forza.

- A-Aurore?

Appoggiai la fronte contro il suo petto.

- Non voglio perderti, Damien… lo so, ti ho detto che è ora di prendere strade diverse, ma la verità è che quando penso alla mia, non posso fare a meno di vedere te che la percorri insieme a me… insieme a te io sono felice… ma la lontananza mi è sembrata troppo difficile da affrontare e ho avuto paura… i dubbi mi hanno resa sospettosa e diffidente e alla fine, mi sono convinta di non potercela fare…

Lo strinsi più forte, temendo che mi potesse scostare. Considerando il modo in cui l’avevo trattato, avrebbe avuto tutte le ragioni.

- Aurore…

- Damien, so bene che se hai deciso di portare avanti i tuoi studi in Irlanda è perché sei determinato e so che chiederti di rinunciarci è la cosa più egoista che possa fare… è solo che mi manchi così tanto…

Le sue mani, che fino a quel momento erano rimaste a mezz’aria, mi cinsero a lui.

- Sarei tornato da te, sempre…

- Lo so… lo so, Damien! Mi dispiace davvero…

Mi sentii così colpevole, ma lui fu accondiscendente e presto, le sue labbra trovarono il mio viso. Sollevai lo sguardo, incrociando il suo.

- Non voglio che rinunci a tutto per me… non è giusto… è solo che vorrei che ti ricordassi che ci sono anch’io… e ti amo tanto…

Spiegai, confusamente. Damien mi accarezzò la guancia col palmo della mano, così calda e familiare.

- Ho già chiesto il trasferimento. Continuerò qui gli studi. E poi, sia mia madre che Jamie non mi sopportano più. Livia mi ha addirittura detto che sono petulante. Lo sono?

Stupita, aggrottai le sopracciglia.

- No, sei testardo… e dispotico, ma petulante non lo sei… perché dovresti esserlo?

Damien alzò gli occhi al cielo, poi mi sorrise.

- Perché ogni giorno che passo lontano da te penso sempre che non c’è cosa al mondo che desideri più che averti al mio fianco, Aurore Kensington.

Avvampai fino alla punta dei capelli, lasciando che il mio cuore esplodesse in un tumulto di imbarazzo e di gioia. Al contrario della mia gola secca che mi impedì di parlare normalmente e mi fece farfugliare.

- I-Io… D-Damien… e-ecco… io…

Non seppi dirlo in alcun modo con le parole. E allora ricorsi alle azioni. Attirai a me il suo viso, slanciandomi e baciandolo con tutta l’intensità che stentavo a reprimere. Quando le nostre labbra si incontrarono, impazienti, mi sentii pervadere da una sensazione di appagamento. E non ne dubitai più: il mio futuro, il nostro, era lì e finalmente potevamo imboccarlo insieme.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Eccomi qui!

Approfitto di questo momento di pubblicazione per postare anche il finale di capitolo! :) Oh... in realtà, tolto l'epilogo, è davvero il finale questo... ebbene sì, ci siamo. Cari miei lettori, ultimamente ancora più silenziosi (Oscuro!!! ç__ç Ma quando torni??), è fatta. Davvero, non credevo di poter arrivare a concludere questa storia che per me ha significato davvero tanto. Quando ho cominciato a scrivere aveva un'idea, che poco alla volta, capitolo dopo capitolo, si è modificata fino a dar forma alle vicende di Aurore. Spero davvero che abbiate sognato con la sottoscritta! >_<

Niente, ci sentiamo la prossima settimana con l'epilogo, che spero piacerà a voi tanto quanto è piaciuto a me! :)

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Capitolo 64
*** Epilogo ***


EPILOGO

 

 




 

Varcai la soglia di Neo Esperia durante una meravigliosa mattina. La festa della Renaissance avrebbe avuto luogo quel giorno e la sensazione di gioia che provavo era indicibile. La natura rigogliosa e lussureggiante di quel mondo un tempo così martoriato era ormai pronta a ridestarsi e mai come in quel momento mi sentii così vitale. Lasciai che il calore e la luce mi investissero. Era molto diverso dall’effetto del nostro sole. Quella stella che brillava nel cielo di Neo Esperia emanava vita. Antica di eoni, quasi morta e poi rinata, non una, ma ben due volte, era stata conosciuta col nome di Croix du Lac e per tanto tempo aveva condizionato il destino delle popolazioni che si erano succedute in quel mondo. Lo scorrere dei secoli aveva visto versare sangue innocente per portare avanti una leggenda travisata dalle antiche famiglie in lotta per il potere, ricorrendo a sacrifici che avevano costretto lo spirito inquieto di Helise Delacroix, l’erede della prima famiglia che aveva varcato la Porta di Pietra, in fuga da un mondo in guerra, a reincarnarsi continuamente. Ogni sua incarnazione, resa possibile da crudeli omicidi, aveva accumulato rancore e amarezza, al punto da desiderare soltanto la morte dei discendenti di quelle famiglie che l’avevano strappata ai suoi affetti e l’avevano brutalmente assassinata, in nome di una causa superiore. Ma Helise non sapeva che qualcuno aveva giurato di vendicarla e di distruggere un sistema che aveva visto la sua nascita nel sangue. Il cavaliere dei Delacroix, suo promesso sposo, in punto di morte, aveva profetizzato che un suo discendente avrebbe spezzato quella catena infausta. E così, cinquecento anni più tardi, Evandrus Delacroix, l’ultimo erede di quell’antica stirpe, mio fratello maggiore, il mio adorato Evan, aveva fatto ritorno in quel mondo da cui era fuggito, da bambino, assieme a mia madre e aveva ritrovato Arabella, mia sorella, l’ultimo sacrificio tributato alla Croix du Lac. Con valore, perseveranza e coraggio, Evan aveva finito con lo scardinare il dominio dei Despoti, placando la sete di vendetta di Helise in cambio della salvezza di Arabella. E dopo averle liberate entrambe, aveva fatto proprio il fardello della Croix du Lac, decidendo di sacrificarsi affinché il nucleo originale della stella che minacciava la distruzione dell’Underworld potesse rinascere. E da allora, mentre la memoria di Evandrus Delacroix, l’ultimo Despota, era ambivalente, tra chi lo considerava un Despota malvagio e chi vedeva in lui un eroe, le ceneri dell’Underworld avevano visto la nascita di Neo Esperia, il nuovo mondo guidato dalla saggezza della giovane Imperatrice Amber Trenchard, la Lady dell’ambra.

In quel momento, non mi sembrava vero di aver potuto ammirare ancora una volta, dopo tanto tempo, quel panorama sconfinato e incantevole, nel suo selvaggio e leggendario aspetto. Nel cielo terso, i grifoni e i messi volavano liberi. Quanto mi ero stupita la prima volta in cui avevo visto quelle creature. Varon, il grifone di Shemar Lambert, mi aveva letteralmente terrorizzata. Per non parlare di Damien, che era addirittura impietrito. Eppure, da quel momento in cui il cavaliere di Amber ci aveva condotti in quel mondo di cui ignoravamo o non ricordavamo l’esistenza, la nostra vita era cambiata, per sempre. Inspirai a pieni polmoni, poi osservai il profilo sereno di Damien accanto a me. Chissà quali ricordi affollavano la sua mente in quel momento. Di certo, troppi anche per essere raccontati nel tempo che avevamo prima di raggiungere Chalange. Ma avremmo avuto modo di parlarne, di ricordare assieme ai nostri amici ciò che per noi era stato vissuto in prima persona e che era entrato a far parte della leggenda. Sorridendo, presi la sua mano. Damien si voltò a guardarmi, intrecciando le sue dita alle mie.

- Sei felice, Aurore?

Annuii.

- Non immagini quanto… e non vedo l’ora di rivedere i ragazzi!

- Anch’io.

- E se avete finito di flirtare, magari è anche meglio.

Ci voltammo entrambi verso la voce che ci aveva richiamati con impazienza. La ragazzina che avevamo di fronte, braccia conserte e broncio incredibilmente familiare, ci guardò con aria di rimprovero. I lunghi capelli castano scuro, legati in una folta e mossa coda laterale ondeggiavano nel venticello tiepido. Gli occhi, grandi, di un viola poco più scuro del mio e bordati di ciglia scure, erano concentrati su di noi.

- Sophie ci aspetta! L’ultima volta le avevo promesso che le avrei raccontato di Louis, dal momento che non può venire di persona. E poi, già non basta esser venuti da soli, Reina e Ian mi hanno piantata in asso proprio oggi… uff, che ingiustizia…

Sbuffò. Damien e io ci mettemmo a ridere.

- Troppo grande per venire con mamma e papà, Ivy?

Ivy affilò lo sguardo. Quando faceva così, era identica a Damien.

- Affatto! E’ solo che vorrei che stessimo tutti insieme… pensate che Louis potrà mai vedere questo mondo, un giorno?

A quell’innocente domanda, ma che dietro di sé portava un pesante carico di responsabilità, mi ritrovai a pensare che anche per mio padre, un tempo considerato colpevole di aver scaraventato l’Underworld nell’oscurità, sembravano non esserci speranze. Ma Louis, che aveva ereditato sia il colore amaranto tipico degli occhi dei Delacroix, sia la risolutezza di Evan, forse un giorno sarebbe stato capace di rendere giustizia a quel nome che incuteva ancora timore al solo pronunciarlo. Damien accarezzò la testa di nostra figlia, addolcendo lo sguardo.

- Un giorno, chi lo sa, tesoro.

L’espressione della mia piccola si fece più serena, tanto che nel suo sorriso, ritrovai il mio.

- Allora, Ivy, andiamo?

Proposi. Ma nel tenderle la mano, notai che cominciavo a vedere tutto sfocato. Ebbi paura, perché poco a poco, sia il panorama davanti a noi, che Damien e Ivy diventarono più confusi, fino a sbiadire. Spaventata, chiamai i loro nomi a gran voce, sentendomi mancare l’aria. Non volevo che andassero via. Non volevo rimanere da sola. La sensazione di perdita era diventata così forte e soffocante che non appena mi ritrovai circondata dal buio urlai.

- Aurore! Ehi!

Riaprii gli occhi, momentaneamente incerta su dove fossi. Nella stanza rischiarata dalla luce soffusa della abat-jour, a occhio e croce. Non focalizzai subito, ma solo quando vidi il volto preoccupato di Damien su di me cominciai a realizzare.

- Che è successo? Stai bene?

Sollevai con difficoltà il braccio, tirandolo fuori dalle coperte e notai la fede d’oro bianco al dito. Mi soffermai sul minuscolo brillantino al centro che per qualche istante mi ricordò il brillio della mia ametista, poi finalmente, mentre riprendevo il controllo della mia capacità di raziocinio, riuscii a guardare Damien. Sorrisi, nel toccare il contorno dei suoi occhi, alla ricerca di qualche piccola ruga accennata, così come avevo visto nel sogno che avevo appena fatto.

- Non ne hai… non ancora…

Bisbigliai, suscitando la sua perplessità.

- Ora mi stai facendo preoccupare.

Con rinnovata serenità, coccolata dal pensiero di quel sogno così vivido e tangibile, al pari delle mie passate visioni, mi tirai su, scoprendo appena il mio dolce segreto: sotto la camicia da notte, la mia pancia di quattro mesi cominciava a vedersi. Damien non comprese subito, ma quando presi la sua mano e la portai sul grembo, si rese conto di cos’era accaduto.

- Hai sognato il bambino?

Annuii, chiudendo gli occhi per richiamare l’immagine di Ivy nella mia mente. Durante l’ultima ecografia, ci avevano detto che il piccolo era girato e non si riusciva a capire ancora il sesso. Ma in cuor mio, non ne dubitavo.

- Ivy Warren. Che te ne pare?

Damien sussultò, poi mi accarezzò la pancia con delicatezza e premura.

- Ivy Warren… mi piace, suona bene.

Tornai a guardarlo, scorgendo un’evidente vena di orgoglio e felicità nei suoi occhi di smeraldo.

- Era stupenda, amore mio… e non vedo l’ora che arrivi…

Un bacio sulla mia guancia mi fece capire che anche per lui era così.

- Piccola Ivy, spero solo che tu non sia testona come tua madre…

Mi imbronciai nel sentire il tono sornione con cui mi aveva appena presa in giro.

- Damien Warren, non hai forse un’udienza, domani? Penso proprio che tu debba dormire!

Esclamai, guardandolo di sottecchi. Damien sogghignò, divertito, poi mi strinse a sé, riportandoci entrambi sotto le coperte. Accoccolata tra le sue braccia, mi sentii al sicuro.

- Sarà una giornata impegnativa… ma ora che mi hai dato questa bella notizia, penso proprio che l’affronterò senza problemi.

Sorrisi, chiudendo gli occhi.

- Ah, a proposito. Cos’è che non avevo ancora?

A quel punto, ridacchiai.

- Chi lo sa, magari un giorno lo scopriremo.

- Aurore!

Divertita all’idea di punzecchiarlo ancora un po’, ma cullata dal calore, finii ben presto con l’addormentarmi nuovamente. Il mio sonno, un tempo così popolato di incubi e di visioni del passato, era finalmente sereno. Tutto ciò che desideravo era finalmente a portata di mano. E oramai, era giunto il tempo di passare il testimone alla nuova generazione. Poco a poco, l’oscurità si diradò e vidi di nuovo Neo Esperia. Ma stavolta, non c’era nessuno di noi. Vidi quel mondo nel suo splendore originario, poi mi ritrovai a camminare nella notte, lungo la strada costellata di diamanti. Sorrisi, nel raggiungere la fontana con le cinque statue con fattezze femminili che versavano continuamente acqua. La materializzazione della vera essenza dell’intero sistema di Esperia. Mi sedetti sul bordo, carezzando il ciglio dell’acqua e fu allora soltanto che proprio di fronte a me, sul bordo dirimpetto, vidi Helise e il suo amato cavaliere che stavano facendo lo stesso. Entrambi mi sorrisero, liberi di poter stare insieme e di amarsi come in vita non era stato loro concesso. E nel congedarsi, Helise tese la mano verso un punto lontano, poco prima di svanire nel nulla. Mi voltai, vedendo i nostri sei ragazzi che passeggiavano: Ivy, Louis, Ethel Sophie, Kyros, Reina e Ian, i due figli di Violet e Ruben. Provai una gioia indescrivibile nel vederli tutti insieme e pensai che mio padre aveva avuto ragione, un tempo. Avevamo fatto tesoro del passato, ma oramai eravamo liberi di lasciarcelo alle spalle. Un giorno, anche per loro sarebbe stato possibile. Ma fino ad allora, saremmo stati noi a proteggerli, così com’era stato per me, un tempo. Avevamo cambiato il destino di quel mondo. Ora toccava alla nuova generazione raccogliere quell’eredità e renderla ancora più preziosa. Per quanto mi riguardava, la nostra sfida era più viva che mai. Che fosse un sogno, che fosse la realtà, non aveva più importanza. Qualunque cosa fosse accaduta, non ci saremmo mai arresi.

Perché alla fine dell’oscurità, quantunque profonda essa sia, c’è sempre la luce. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Eccomi qui, in ritardo causa settimana di vacanza prolungata, ma alla fine, ci siamo! Con questo aggiornamento Underworld - La Croix du Lac è davvero finito e spero che questo finale piaccia a voi tanto quanto a me (e scusa Taiga-chan per non aver fatto avere a Damien e ad Aurore una squadra di calcio, ma Ivy vale per 11!! XD). Questa storia è cominciata con un incubo, e ora finisce con un sogno... non trovate anche voi che sia come la vita, come quando tutto sembra nero e alla fine delle peripezie c'è una lucina che ti dice che tutto può cambiare? :) Vorrei ringraziare uno per uno tutti coloro che di passaggio, assiduamente, anche ogni tanto, mi hanno lasciato qualcosa, dicendo che mi avete dato tanto coraggio, davvero. So di averlo scritto più volte, ma ci tengo che lo sappiate. Le vostre recensioni mi hanno toccato spesso il cuore, e mi hanno dato energie e stimolo per continuare a scrivere e concludere la storia di Aurore. Ogni tanto mi viene in mente qualche idea per un eventuale seguito, ma non so se e quando queste idee potranno essere messe in pratica. Ad ogni modo, spero che il viaggio di Aurore alla ricerca della sua famiglia, del suo passato, oggi finalmente concluso, abbia toccato almeno un pochino anche i vostri cuori. Se l'ha fatto, mi fa piacere, significa che son riuscita a rendere l'idea che un sogno, tanti anni fa, mi aveva sussurrato.

Niente, cos'altro dire? Mi dispiace di non aver potuto mettere altri disegni, ma purtroppo non ho avuto tempo e occasione... se vi va, ogni tanto passate dal capitolo 34, magari qualcosa riuscirò a metterla.

Grazie ancora di cuore, ai recensori, ai silenziosi, a chi ha aggiunto la storia alle seguite, alle ricordate e alle preferite! :)

Non so se e quando pubblicherò qualcosa di nuovo, ma anche a chi mi ha tra gli autori preferiti, stay tuned, l'ispirazione si fa sentire nei momenti più strani! :)

Un pensiero anche per i miei personaggi: buona vita al di fuori delle righe di Word! <3

Mata ne, minna-san!!

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