Il Cristallo di Ghiaccio

di Beatrix Bonnie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***



Capitolo 1
*** I ***



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I



L'uomo si rigirò la penna d'oca tra le mani con fare dubbioso. Trovare l'inizio giusto per un libro era certamente uno dei momenti più difficili, soprattutto visto che lui non era nemmeno uno scrittore. Però il buio lo aiutava a pensare meglio: in tutto il grande salone silenzioso e freddo, l'unica fonte di luce era un moccolo di candela che stava dando gli ultimi segni di vita. L'uomo si perse via a fissare i giochi sinuosi della fiamma che danzava nel buio, immerso nei propri ricordi. Dopo qualche attimo di incanto, tornò a guardare il foglio di pergamena che aveva abbandonato sulla scrivania.
Almeno il titolo l'aveva scelto: Mein Kreig. Für der Obergute. La mia guerra. Per il Bene Superiore.
Un libro di memorie, il suo libro di memorie. Ora che era arrivato al vertice sentiva il bisogno di lasciare ai posteri qualcosa che potesse parlare di lui, che avesse la sua voce, che raccontasse la sua verità.
Mostro, dittatore, assassino, lo chiamavano gli altri.
Nessuno riusciva a capire il senso profondo di quello che aveva fatto, di ciò che stava realizzando. Nessuno riusciva a cogliere il Bene Superiore che lo spingeva ad agire, che muoveva i suoi passi, che si nascondeva dietro ogni suo gesto. Nessuno, tranne quell'unica persona che invece gli aveva voltato le spalle. Quella persona che ora era il suo peggior nemico.
Ma non sarebbe venuto ad affrontarlo, o no, aveva troppo paura di lui! Era un codardo, oltre che un rammollito. Si era lasciato andare, aveva dimenticato quello che avevano passato insieme. Ora stava dalla parte dei buoni! Come se esistessero davvero quelle sciocche categorie di “buoni” e “cattivi”.
Stolti!
Esisteva solo il Bene Superiore e le poche persone che avevano il coraggio di combattere per esso.
Il suo sguardo indugiò sulla bacchetta magica graziosamente adagiata su un cuscino di velluto. Era lei, la Bacchetta di Sambuco, per la quale aveva lottato tanto. L'invincibile, l'unica e la più potente. La migliore dei tre Doni.
Oh sì, se anche Albus avesse trovato il coraggio di venire, non avrebbe avuto scampo contro di lui.
Improvvisamente gli venne in mente la frase con cui cominciare il suo libro di memorie. Intinse la punta della penna d'oca nell'inchiostro nero e la lasciò gocciolare nella boccetta per evitare di macchiare la pergamena. Dopo qualche secondo, con una calligrafia minuta e precisa, scrisse: Combatti i tuoi avversari. Abbatti i tuoi nemici. Uccidili e cibati dei loro resti. E fai in modo che la morte li avvolga per il resto dell’eternità.
Era quello che avrebbe fatto di Albus. Si era ribellato a lui, aveva dimenticato quello che c'era stato. L'aveva tradito, abbandonato.
Bene, non gli avrebbe concesso nessuna pietà.
«Herr Grindelwald?» disse una voce nel buio, richiamandolo dai suoi pensieri.
Era tanto concentrato nella stesura di quelle prime frasi, che non si era nemmeno accorto che qualcuno era entrato nel salone. Effettivamente ora sentiva un fastidioso rivolo di aria calda che entrava dalla porta sul fondo. Dovevano avere acceso un fuoco, di là. Possibile che nessuno riuscisse ad apprezzare il freddo come lui?
«Who seid ihr?» domandò, afferrando la Bacchetta di Sambuco e puntandola contro l'uscio.
Apparvero tre figure, illuminate dalla fioca luce di una bacchetta. Grindelwald strizzò gli occhi per vedere meglio e riconobbe due dei suoi uomini che trascinavano dentro una terza persona, evidentemente svenuta.
«Herr, Grindelwald. È Gerwine VonTraust, l'abbiamo catturata».
Un sorriso soddisfatto increspò gli angoli della bocca di Grindelwald. Finalmente una buona notizia: tutto procedeva secondo i suoi piani.
«Ottimo lavoro. Ora lasciateci soli» ordinò ai suoi uomini, che con un inchino abbandonarono il salone.
Quando la porta si fu chiusa alle loro spalle, tornarono a regnare il freddo e il buio, mentre un silenzio innaturale calava sulla grande sala.
«Innerva» sussurrò il mago, poggiando debolmente la Bacchetta sul corpo della giovane, che venne scossa da qualche sussulto e poi aprì gli occhi. «Benvenuta, fräulein VonTraust».
La voce dell'uomo era flebile, ma densa di una malvagità tale che la ragazza ebbe un tremito. Anche se i suoi occhi non si erano ancora abituati all'oscurità che regnava in quel luogo, non ebbe difficoltà a riconoscere il suo ospite.
«Gellert Grindelwald» sputò con tutta la cattiveria di cui era capace, sebbene fosse atterrita dall'idea di essere una bambola di pezza nelle mani di quell'uomo. Anche al bagliore fioco del mozzicone di candela, ora che i suoi occhi si erano abituati al buio, la ragazza riuscì ad intravedere il sorriso perfido che si era disegnato sulle labbra del dittatore e la luce malvagia che illuminava i suoi penetranti occhi azzurri.
«È proprio vero che la lingua di una donna è più pungente della sua bacchetta» commentò ridendo, e quella sua risata rimbombò tra le pareti immerse nel buio della stanza ghiacciata, facendo tremare la giovane.
«Mio padre verrà a liberarmi!» strillò con foga la ragazza, come se gridando potesse scacciare via la paura che le attanagliava il cuore.
Grindelwald si avvicinò a lei e le afferrò il volto con la mano, in una stretta ferrea. «È proprio quello che spero, mia cara Gerwine» le sussurrò all'orecchio.
L'alito caldo di lui sul suo collo le provocò un tremito, ma non smise di mostrarsi più spavalda e sicura di quanto non fosse. «Mio padre non è così sprovveduto come credi. Non cadrà nella tua trappola» gli rispose, con voce tagliente.
Grindelwald le lasciò andare il viso e si allontanò, dirigendosi verso la scrivania, che pareva essere l'unico mobilio di quell'immenso salone. Ignorando completamente Gerwine, si sedette sulla poltrona di velluto scarlatto e vergò qualche parola con una penna d'oca candida su un foglio di pergamena.
Gerwine, sempre senza distogliere lo sguardo dal suo carnefice, si alzò dalla posizione supina e mise lentamente a sedere.
«E ci cadrà invece!» esclamò tutto ad un tratto Grindelwald, erigendosi in piedi in tutta la sua statura. «Ci cadrà! E quando verrà a salvare la sua adorata figliola, per mano mia troverà la morte, che lo avvolgerà per il resto dell'eternità! Sarà la fine del vostro patetico tentativo di resistere al mio potere. Sarà il trionfo del Bene Superiore!»
«Sei solo un pazzo!» esclamò Gerwine con foga, anche se sapeva che le parole del mago avrebbero potuto rivelarsi veritiere: se suo padre fosse morto, nessuno avrebbe mandato avanti la resistenza contro il folle dittatore, nessuno sarebbe più riuscito a fermarlo.
«No» rispose flebilmente Grindelwald, come se quel discorso gli avesse risucchiato ogni energia, lasciandolo debole e stanco.
«No» ripeté di nuovo, sorpassando la scrivania e avvicinandosi alla ragazza.
«No» disse per la terza volta, abbassandosi a terra, con lo scopo di guardarla dritta negli occhi. «Sono un eroe».
Gerwine gli scoppiò a ridere in faccia, incapace di trattenersi davanti a quell'assurdità.
«Tu non capisci! Io sto realizzando un ordine superiore e perfetto, sto forgiando un cosmos dal caos, sto portando a compimento il disegno di armonia del creato!» strillò Grindelwald in preda alla follia, come un pazzo predicatore di epoche passate.
«No, tu sei solo un assassino! Trucidare milioni di Babbani e Sanguesporco non è la realizzazione di nessun maledettissimo ordine!»
«Quei morti non saranno altro che detriti lasciati lungo l'argine dal fiume, in confronto al raggiungimento del Bene Superiore» rispose Grindelwald, nuovamente calmo.
Gerwine era terrorizzata da quegli improvvisi sbalzi d'umore del mago, sicura che fossero un segno della sua follia, ma non poté trattenersi dal ribattere: «Non c'è nessun ideale che valga più della vita di un uomo!»
Grindelwald sorrise, un sorriso che faceva ghiacciare il sangue nelle vene. «Tu non puoi capire» sussurrò. «Non puoi capire».






Haloa!
Ecco qui, come promesso, il primo capitolo di una storia dedicata a Gellert Grindelwald. Questa l'ho scritta per il contest “Free Contest”, indetto da AliH, ma da qui partirò per una serie di racconti (4 in tutto) dedicati a tutta la vita di Grindelwald, dall'ultimo anno a scuola, alla morte.
La storia, al contest, si è classificata prima, vincendo inoltre il premio per “Miglio personaggio originale”. Quando pubblicherò l'ultimo capitolo, vi allegherò il giudizio della giudiciA.
Grazie a chiunque deciderà di leggerla!
Beatrix Bonnie
Ps. In origine il racconto non era diviso in capitoli, ma visto che sono 15 pagine, mi è sembrato più logico spezzarlo.



EDIT: continua l'opera di risistemazione dei dialoghi!

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Capitolo 2
*** II ***


II



Il ragazzo appoggiò le spalle al muro e si concesse un sospiro di sollievo: li aveva seminati. O almeno sperava. Rimase immobile per parecchi minuti, nell'attesa che il suo cuore tornasse a battere a velocità normale, mentre il freddo vento invernale gli sputava in faccia i fiocchi di neve che cadevano dal cielo plumbeo e scuro. Il vicolo dove si era riparato era deserto, forse a causa del gelo di quella notte, forse per la paura degli aerei Alleati che attraversavano l'aria di Berlino, sganciando le loro bombe sugli scheletri delle case ormai ridotte a cumuli di macerie.
Finalmente si decise a muoversi da quel vicolo buio, ma delle voci concitate lo fecero trasalire. Senza rendersene conto, aveva già rincominciato a correre.
«Là, là!» gridò qualcuno.
Merda. L'avevano beccato.
Corse a perdifiato lungo i dedali intricati del ghetto ebraico, senza sapere bene dove stesse andando. Si voltò per controllare che non lo stessero inseguendo, quando andò violentemente a sbattere contro un muro: aveva preso un vicolo cieco. Si portò le mani alla fronte, dove aveva ricevuto la botta e per il dolore fu incapace di muoversi o anche solo di pensare per parecchi secondi. Secondi che gli furono fatali.
«Fermo, lurido bastardo!» sbraitò una voce roca, puntandogli qualcosa alle spalle.
Il ragazzo si mise velocemente una mano in tasca, ma non riuscì ad estrarre la sua arma, che qualcuno lo aveva già afferrato per la spalla e costretto a voltarsi.
Un mitra gli era puntato al petto. Le facce sudate per la corsa e contratte dal disgusto di tre SS riempirono il suo campo visivo.
«Babbani...» si lasciò sfuggire con un sospiro di sollievo. Era vero che gli stavano puntando addosso dei mitra, ma erano solo Babbani: sempre meglio degli Obermenschen di Grindelwald che lo stavano inseguendo prima.
Una delle SS lo afferrò per la collottola e lo scosse con violenza. «Come ci hai chiamato, lurido ebreo bastardo?» latrò ad un centimetro dal suo volto.
Già, ebreo: la stella a sei punte di David si intravedeva sulla fascia del suo braccio sinistro, nonostante il buio. Le SS erano scioccate dal fatto che quello sporco ebreo fosse ancora vivo, visto che tutti i suoi compagni erano già stati deportati da anni nel Campi di Lavoro. Certo, non potevano sapere che lui era un mago.
«Vi ho chiamati Babbani» rispose, senza lasciarsi troppo intimidire. E poi estrasse la bacchetta magica di tasca e gridò: «Stupeficium!»
Prima ancora che potesse accorgersi, il soldato delle SS venne sbalzato parecchi metri indietro e ruzzolò a terra in stato di incoscienza. «Cosa diavolo...?» cominciò a dire la seconda guardia, ma il ragazzo non perse tempo e schiantò anche quella.
Il terzo uomo reagì più velocemente: sparò una scarica di mitra verso quel pezzo di merda di un ebreo.
«Muori!»
Quando ebbe finito i proiettili, tornò il silenzio nel vicolo buio e cieco. Un silenzio innaturale. Il soldato si avvicinò alla densa nube di polvere e calcinacci che aveva provocato con il suo sparo, certo che presto avrebbe scorto il cadavere insanguinato del ragazzo, ma il sorriso gli si gelò sulle labbra: l'ebreo era scomparso.

«Merda» sussurrò il ragazzo, barcollando. Controllò di essere tutto intero e si concesse un sospiro: si era smaterializzato appena in tempo, certo che i soldati delle SS, essendo Babbani, non potessero inseguirlo. Si guardò intorno, non del tutto sicuro di essere arrivato al posto giusto: era in una landa desolata e fredda, completamente avvolta dal bianco e dal silenzio della notte. Poco distante da lui si erigeva un pino solitario, affaticato dalla neve che gli incurvava i rami, come un eremita piegato dalla vecchiaia e dal digiuno. Sì, era il posto giusto, il luogo dove avrebbe dovuto incontrare Gerwine.
Si avvicinò al pino, scrutando in ogni direzione per scorgere la ragazza. Nessuno, non c'era nessuno. Strano, era lui ad essere in ritardo rispetto all'orario dell'appuntamento. Tentennò per qualche minuto, battendo i piedi a terra per evitare che si congelassero. Il suo alito caldo si condensava in piccole nuvolette di vapore che gli annebbiavano la vista per qualche secondo, prima di sparire nell'aria. “Gerwine, dove sei?” si domandò, sempre più preoccupato.
Guardandosi intorno, gli occhi gli caddero su uno strano scintillio ai suoi piedi. Si chinò per osservare meglio: un piccolo ciondolo a forma di fiocco di neve giaceva a terra abbandonato.
Nonostante il freddo, il ragazzo si sentì improvvisamente ardere come se un fuoco gli fosse esploso nel petto. Afferrò il piccolo ciondolo, incapace di realizzare che cosa realmente significasse. Era di Gerwine, glielo aveva regalato lui. Era fatto di ghiaccio.
Il piccolo fiocco di neve si sciolse in un istante al primo contatto con la sua mano calda e riapparve magicamente al suo collo. Era così che funzionava: chiunque l'avesse afferrato, l'avrebbe indossato per sempre. Nessuno avrebbe potuto toglierlo. Nemmeno con la violenza. A meno che, ovviamente, non fosse il portatore stesso a volerselo levare.
Fu un urlo lacerante a turbare la tranquillità di quella landa silenziosa. Il giovane crollò a terra, con la testa tra le mani, disperato.
Gerwine era stata catturata, l'avevano presa gli scagnozzi di Grindelwald. Ne era certo.
Il Cristallo di Ghiaccio era stato il suo ultimo avvertimento: se l'era levato e l'aveva lasciato cadere a terra apposta, perché lui potesse trovarlo. Ma anche ora che sapeva che era stata catturata, che cosa avrebbe potuto fare? Come avrebbe fatto a salvarla, ad affrontare Grindelwald, il più potente Mago Oscuro di tutti i tempi?

A Londra pioveva.
Il giovane si strinse nel logoro cappotto e procedette a capo chino contro il muro di pioggia. Non sapeva bene dove cercare, ma era certo che la determinazione l'avrebbe spinto ad andare avanti anche di fronte a qualsiasi ostacolo. Ne aveva sentito parlare da Cyrillus, il padre di Gerwine. Era la sua unica speranza.
Girovagò per le strade deserte di Londra per un tempo che gli parve infinito, poi finalmente vide qualcosa che gli diede maggiore speranza: una triste insegna con scritto “Il paiolo magico” cigolava lentamente sotto la pioggia. Spinse il portone del pub e si ritrovò dentro un locale semibuio in cui ben pochi avventori stavano consumando in silenzio le proprie ordinazioni.
Il giovane non si soffermò su nessuno di loro, perché le occhiate torve di una strega in un angolo gli fecero capire che era meglio cercare subito ciò per cui era venuto. Si avvicinò al bancone titubante. Il barista lo squadrò con occhio critico, poi gli chiese qualcosa, probabilmente cosa voleva ordinare. Ma lui non sapeva una parola di inglese.
«Ich müsse Dumbledore sehen» provò a dire, senza sapere se l'uomo l'avrebbe capito. Il barista lo guardò stranito, poi gli rispose qualcosa. «Dumbledore, ich müsse Dumbledore sehen» ripeté il ragazzo, con una nota disparata nella voce.
«Che ci fa qui un crucco di merda?» domandò un uomo calvo con un occhio di vetro, avvicinandosi al giovane straniero.
Gli riservò un ghigno malefico, ma il ragazzo era troppo disperato per lasciarsi intimorire da quella dimostrazione diretta di ostilità. «Ich müsse Dumbledore sehen. Dumbledore, hast du verstanden?»
Il mago allora lo afferrò per la giacca fradicia e lo avvicinò a sé. «Perché parli nella tua lingua di merda? Non ci piacciono i crucchi, qui. Tutti pazzi come il loro capo, quel Grindelwald» gli alitò in faccia. Puzzava di alcol e pesce marcio.
«Ehi, lascialo andare» latrò una vociona possente alle sue spalle.
Il mago si voltò con un ghigno, ma quando si trovò di fronte un omone enorme, lasciò immediatamente andare la presa e se ne scappò con la coda tra le gambe. Il ragazzo straniero si sistemò la giacca, poi si voltò verso il suo salvatore.
«Ehi, tu, devi andare da Dumbledore?» gli disse con voce cavernosa la montagna che aveva davanti.
Il povero ragazzo non aveva capito nulla, ma almeno aveva riconosciuto il nome del mago che stava cercando. «Ya, Dumbledore».
«Ah, grad'uomo, sì. Vieni, ti ci porto io» annuì l'omone.
Il ragazzo deglutì, non del tutto sicuro di potersi fidare, ma non aveva altra scelta: almeno quel tipo sembrava conoscere il mago che doveva incontrare. Tentennò un attimo, ma alla fine fece un breve segno d'assenso.
L'omone lo condusse fuori, noncurante della pioggia. Alla luce di un lampione, il giovane straniero notò che il suo accompagnatore, nonostante le dimensioni, non sembrava essere molto più vecchio di lui.
«Ehi, senti, non dire a nessuno di sta cosa, va bene? Non potrei farla» gli disse, estraendo un ombrellino rosa dalla giacca.
«Ich sprache nicht English» provò a dirgli, con aria ingenua.
«Oh, che dici? Io non la capisco la tua lingua. Va be', dai, afferrami il braccio» gli rispose l'omone gioviale, porgendogli il suo enorme avambraccio.
Il giovane lo guardò un po' incerto, poi fece un mezzo sorriso e poggiò la sua mano sul cappotto bagnato.
Il ragazzone batté a terra la punta dell'ombrello un paio di volte e poi si smaterializzarono insieme.
Arrivarono in una strada buia e deserta: l'unico segno di vita erano le finestre illuminate di un pub lungo la via. L'insegna che cigolava al vento freddo della notte recitava le parole: “Testa di Porco”.
«Tu aspetti al pub, ok?» gli disse l'omone, indicando la locanda.
In realtà il ragazzo non capì le sue parole, ma riuscì ad intuirle grazie ai gesti. Fece un beve segno d'assenso con il capo, facendo intendere che aveva capito, poi si diresse a testa china e con le mani in tasca verso il pub, sperando che quel ragazzone fosse in grado di portargli Dumbledore.
Il locale era caldo e fumoso; i pochi avventori se ne stavano chini sui loro boccali di Burrobirra e nessuno sembrò accorgersi dell'arrivo del ragazzo straniero. Dal canto suo, il giovane tedesco andò a sedersi in un tavolino all'angolo, lanciando occhiate in giro. Lo sguardo gli cadde su una capretta che zampettava beatamente in giro per il pub, poi sull'uomo dietro il bancone: una massa di capelli rossi arruffati e una barba piuttosto lunga erano completati da un grembiule lercio. L'uomo sfregava con insistenza un boccale con uno straccio ben più lurido del bicchiere che avrebbe dovuto pulire.
Il giovane decise di non ordinare nulla e sperò che il suo grosso amico arrivasse alla svelta insieme a Dumbledore: non gli piaceva per niente quel posto, né tanto meno i pochi avventori che lo frequentavano.
Finalmente, dopo quella che gli era sembrata un'eternità, l'omone fece il suo ingresso nel pub, seguito da un mago abbastanza alto, asciutto, con indosso una semplice veste turchese. Sul capo aveva un buffo cappello a punta, anch'esso azzurro, che cozzava con i lunghi capelli rossi.
Prima ancora di rivolgersi a lui, il mago lanciò uno sguardo indefinito verso l'uomo dietro il bancone.
«Al» commentò quello in tono piatto.
«Ab» rispose il mago dalla veste turchese.
Il giovane non sapeva se quello fosse una specie di saluto inglese, ma non gli sembrava affatto che tra i due corresse buon sangue.
Dopo una lotta interminabile di sguardi, finalmente il mago si rivolse verso di lui.
«Herr Dumbledore» esclamò il ragazzo, sollevato.
Gli occhi azzurri dell'uomo lo penetrarono a fondo, come se volessero sondare il suo animo. «Hagrid mi ha riferito che lei è qui per parlarmi» disse poco dopo, ma ancora una volta il giovane tedesco non capì nemmeno una parola.
«Ich sprache nür Deutsch» piagnucolò, disperato. Come avrebbe fatto a chiedere a Dumbledore il suo aiuto, se nemmeno potevano capirsi?
Invece il mago sorrise. «Non si preoccupi, io parlo un po' di tedesco» rispose, nell'idioma del giovane straniero.
Il ragazzo parve veramente sollevato nell'udire quelle parole in una lingua che poteva finalmente capire. «Herr Dumbledore, mi chiamo Dankrad Lewish. Sono un ebreo tedesco, un Nato Babbano. Ho bisogno del suo aiuto».






Ecco la seconda parte del racconto! Secondo i miei calcoli, dovrei dividere il tutto in ancora 4 parti, più o meno lunghe come queste... spero che il nuovo personaggio vi sia piaciuto! Vi lascio anche QUI il link di un'immagine che lo rappresenta, disegnata e colorata da me medesima.
Ah, non so quanti di voi apprezzino le frasi in tedesco... le ho inserite per dare un tocco esotico al tutto. Per chi non fosse riuscito a capirle, non temete, non dicono niente di particolare: “Ich müsse Dumbledore sehen” significa “Devo vedere Silente” e “Ich sprache nicht English/ich sprache nür Deutsch” significano rispettivamente “Io non parlo inglese, parlo solo tedesco”.
Un ultima cosa: ho deciso di usare i nomi in versione originale, non per qualche strana velleità, ma semplicemente perché non aveva senso che Dankrad parlasse in tedesco a degli inglesi e chiedesse di vedere “Silente”, quando sia nella versione inglese che in quella tedesca, il nome del preside è Dumbredore.
Prossimo aggiornamento: mercoledì pomeriggio.
A presto e grazie a tutti!
Beatrix



EDIT: continua l'opera di risistemazione dei dialoghi!

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Capitolo 3
*** III ***


III



Dankrad appoggiò le spalle al muro e chiuse gli occhi disperato. Dumbledore non aveva creduto ad una sola parola del suo racconto, non aveva accettato di duellare con Grindelwald, non gli aveva nemmeno permesso di parlare. Eppure Cyrillus, il padre di Gerwine, aveva sempre cantato le lodi di quel grande mago britannico. Be', quando Dankrad l'aveva incontrato, non gli era sembrato affatto un grande mago: non appena aveva capito quale fosse la sua richiesta, l'aveva scacciato in malo modo.
E ora lui si ritrovava a vagare per le strade deserte di Londra, senza sapere cosa fare per salvare l'unica donna che avesse mai amato.
«Ehi amico, ti sei perso?» domandò una voce tranquilla alla sua destra.
«Ich verstehe dich nicht» cantilenò Dankrad, voltandosi apatico verso il giovane che aveva parlato: nonostante il buio, si vedeva che era un bel ragazzo alto, moro, con affascinanti occhi scuri e un sorriso seducente. Forse per la sua calma, per l'aurea di fascino che emanava, o forse anche solo per la sua bella presenza, Dankrad si fidò immediatamente di lui.
«Oh, sei tedesco? Non temere, anche io lo parlo un po'» gli rispose il giovane, parlando perfettamente la lingua, senza nessuna inflessione particolare.
Dankrad gli rivolse un mezzo sorriso di gratitudine.
«Che ci fa un ragazzo tedesco a Knockturn Alley?» gli chiese allora il giovane, sempre in tono gentile.
Dankrad si strinse nelle spalle. «Girovagavo. Io sono Dankrad, e tu?»
L'inglese parve irrigidirsi per un attimo, come se non volesse far sapere il suo nome. Ma dopo una manciata di secondi tornò sorridente. «Tom».
A Dankrad parve un nome veramente banale per un mago di così bella presenza, tuttavia non gli sembrava il caso di insultare una delle poche persone che parlava la sua lingua in quel dannato paese. Così cercò di essere gentile. «Piacere Tom. Tu che ci fai qui?»
Il ragazzo sorrise e il suo volto sembrò illuminare la notte. Era tremendamente affascinante. «Lavoro da Borgin & Burkes, come commesso» rispose con semplicità.
Non sapeva perché, ma Dankrad era convinto che quel lavoro fosse assolutamente inadeguato per il bel Tom. Si prese a fissare un punto imprecisato nel vuoto, poi si rese conto che, anche se Tom non glielo aveva chiesto espressamente, sarebbe stato il caso di spiegare il motivo per cui un tedesco si trovava in Inghilterra. «Io dovevo incontrare Dumbledore. Sai, non è affatto il grande mago che dicono» biascicò scuotendo la testa con disappunto.
Stranamente Tom fu d'accordo con lui. «No, lo so. Molti si lasciano incantare dalle sue belle parole, ma in concreto è solo un codardo» commentò con il tono di uno che la sa lunga.
Dankrad si voltò verso di lui con un sorriso di gratitudine: non sapeva se Tom avesse detto quelle parole solo per confortarlo o perché le pensava veramente, ma comunque fosse andata, apprezzò il gesto.
«Cos'è che porti al collo?» domandò allora Tom, accennando con il capo al suo ciondolo.
Dankrad lo osservò un attimo, come se non si ricordasse perché quel luccicante cristallo brillasse sulla sua pelle infreddolita. «Questo?» gli fece eco scioccamente. «È il Cristallo di Ghiaccio».
«Il Cristallo di Ghiaccio, quello originale del tesoro dei Nibelunghi?» chiese Tom, con crescente interesse.
Dankrad stava ancora osservando il ciondolo, quindi non poté notare il lampo di selvaggia bramosia che illuminò i begli occhi di Tom. «Proprio lui» asserì infine, con un cenno di assenso.
Il giovane inglese si sporse impercettibilmente verso di lui. «E come funziona? È vero che nessuno può levarlo al portatore?» domandò con voce leggermente incrinata dall'emozione. Le sue mani si aprirono e si chiusero un paio di volte, come se sperasse di afferrare il prezioso manufatto germanico. Possibile che si trovasse realmente ad un soffio dal Cristallo di Ghiaccio?
«Esatto, nemmeno con la forza» confermò Dankrad, sempre fissando il gioiello. Per lui non aveva importanza che si trattasse di un reperto del tesoro dei Nibelunghi: era semplicemente l'unica cosa che gli ricordava Gerwine.
Gli occhi di Tom si dilatarono per la brama. E poi azzardò una nuova domanda: «Nemmeno se il portatore... morisse?»
Dankrad non notò il tono del suo interlocutore: credeva che si trattasse di pure curiosità per un manufatto magico così raro. «Nemmeno se morisse. L'unico modo è che sia colui che lo porta a toglierselo dal collo» spiegò, alzando finalmente gli occhi sul giovane inglese.
Tom divenne improvvisamente docile e ogni bramosia scomparve dal suo volto. Il tedesco non si accorse di nulla.
Tom fece un sorriso gentile, come per ringraziarlo di quelle informazioni, poi si voltò anche lui verso il muro che avevano di fronte, perso nei propri pensieri. Non c'era modo di strappare via il Cristallo di Giaccio all'ingenuo tedesco? Possibile che non riuscisse a trovare la soluzione, lui il più grande mago di tutti i tempi?
Un leggero sorriso increspò le labbra del giovane inglese. Avrebbe sempre potuto convincerlo. Con le buone... o con le cattive.
«Tu non te lo leveresti per nulla al mondo, vero?» gli chiese in tono affabile. Sarebbe stato semplice ingannarlo, ingenuo e disilluso com'era.
Dankrad fece un profondo respiro prima di rispondere. «In realtà non è mio, è della mia fidanzata. Ma in effetti...» il ragazzo si interruppe, come colpito da un'illuminazione. Rimase sospeso nell'aria fredda di Knockturn Alley, con un braccio sollevato e il volto pietrificato. «Credo... credo che potrei togliermelo, sì!» sussurrò infine, con il viso attraversato da un'espressione straniata. E poi finalmente sorrise. «Potrei donarlo a Dumbledore!»
«A Dumbledore?» gli fece eco Tom, scioccato. Non doveva andare a finire così!
Drankrad annuì convinto: sembrava un goloso che avesse appena visto una montagna fatta di dolci. «Sì, così forse lo convincerei ad aiutarmi. Voglio dire, è un dono non da poco e, senza il suo aiuto contro Grindelwald, Gerwine morirebbe e io non vorrei avere più niente a che fare con questo ciondolo» esclamò estasiato, esponendo le sue ragioni al giovane inglese. Poi si sporse verso di lui e gli strinse la mano calorosamente. «Grazie Tom, sei un amico!»
E con quelle parole si smaterializzò, lasciando il giovane Riddle solo in mezzo ai vicoli bui di Knockturn Alley, a mordersi le dita per essersi lasciato sfuggire un così prezioso manufatto magico.

Ma per chi l'avevano preso? Per la fata turchina? Tutti quei tedeschi che venivano da lui a piagnucolare, a pregarlo di affrontare Grindelwald, a supplicarlo di eliminare il dittatore. Non potevano risolverseli da soli i loro problemi?
L'ultimo poi aveva una storia davvero toccante: un ebreo, quindi perseguitato dai Nazisti di Hitler, ma contemporaneamente un Nato Babbano, quindi perseguitato dagli Obermenschen di Grindelwald. Ma non era tutto! La sua ragazza era la figlia del capo della resistenza ed era stata catturata per essere usata come esca. Era così pateticamente assurda quella accozzaglia di elementi diversi che nemmeno il più credulone del mondo avrebbe mai potuto accettare che si trattasse di una storia reale.
Perché non lo lasciavano in pace?
Non capivano che lui non poteva, non poteva affrontare Gellert Grindelwald?
Ben presto la rabbia e lo sdegno furono sostituiti dall'angoscia. Una serie di dolorosi ricordi gli aggredì la mente tanto che fu costretto a prendersi la testa tra le mani. Quello che... c'era stato. Tra loro.
Non era più in grado di formulare pensieri di senso compito. Avrebbe solo voluto fuggire, fuggire lontano. Lontano da quei problemi, da tutte le responsabilità. Era vero, lui era l'unico che avrebbe potuto affrontare il potente dittatore in un duello e sopravvivere abbastanza a lungo da poterlo raccontare, ma... non poteva. Incontrare nuovamente Grindelwald sarebbe stato come ammettere quello che era successo, ammettere che lui era responsabile della morte di sua sorella Ariana, che da giovane aveva complottato con il futuro dittatore, che... l'aveva amato.
Si morse il labbro con tale violenza da farlo sanguinare. Quante persone erano morte e stavano ancora soffrendo per la sua codardia? Non poteva restare con le mani in mano... doveva intervenire!
Ma, no... non contro Grindelwald. Per quanto fossero mostruose le cose che aveva fatto, per quanto male avesse sparso nel mondo magico, non riusciva a pensare a lui come un nemico.
E aveva paura, mostruosamente paura di trovarsi nuovamente faccia a faccia con lui.
Un suono sordo contro la porta lo riscosse dai suoi cupi pensieri. Qualcuno stava bussando timidamente.
«Avanti» sussurrò Dumbledore, cercando di mostrarsi presentabile.
La faccetta di uno studente con la divisa di Corvonero fece capolino dietro la porta. «Professor Dumbledore, scusi l'orario» disse impacciato.
Il mago fece un gesto con la mano, come a segnare che non era importante. «Vieni pure avanti, Dennis».
«Il preside Dippet mi ha dato questo per lei. È arrivato via gufo» spiegò Dennis, porgendo un pacco al professore.
Dumbledore annuì pensieroso.
Quando il giovane studente fu uscito dal suo ufficio, il mago scartò con interesse l'involucro. Tre oggetti rotolarono sulla sua scrivania: una lettera, una boccetta di cristallo contenente uno strano liquido argenteo e una scatolina di velluto blu. Dumbledore srotolò la pergamena sempre più perplesso, ma per qualche secondo non capì nulla di quello che c'era scritto.
E poi realizzò: era tedesco.

Herr Dumbledore, Vi prego di leggere queste poche righe. So che avete già rifiutato di ascoltarmi, ma solo Voi potere aiutarmi! La scatola blu contiene un dono per Voi: è il Cristallo di Ghiaccio, il gioiello più prezioso del tesoro dei Nibelunghi. Nella boccetta, invece, ci sono i miei ricordi: se non Vi hanno convinto le mie parole, forse può farlo ciò che ho visto con i miei stessi occhi.
Servo vostro,
Dankrad Lewish


Dumbledore finì di leggere la lettera e poi si lasciò sfuggire un sospiro. Quel giovane tedesco era davvero ostinato! Il suo sguardo indugiò un attimo sulla boccetta contenente i ricordi, poi si lasciò rapire dalla scatoletta blu. Le sue dita sfiorarono il morbido velluto che la ricopriva, fino alla chiusura argentata. Un debole tocco e il sigillo si aprì.
Il gioiello che conteneva era talmente meraviglioso che sembrava brillare di luce propria. Dumbledore allungò la mano per toccarlo, ma si bloccò appena in tempo: sapeva che appena la sua pelle avesse sfiorato il freddo cristallo, esso sarebbe apparso al suo collo, per restarvi finché lui non avesse voluto levarselo. Ma in realtà non fu quello a fermarlo, fu un ricordo, un'immagine che comparve improvvisamente davanti ai suoi occhi.
Il ragazzo tedesco, lui aveva al collo il Cristallo quando si erano incontrati.
Senza nemmeno rendersene conto ritirò la mano e prese a fissare il vuoto: aveva come l'impressione che quel Cristallo avesse un significato particolare, come una forza, un legame che riguardava la storia del giovane ebreo.
E finalmente il suo sguardo cadde sulla boccetta contenente i ricordi. Quasi mosso dalla mano invisibile di un burattinaio che comandava i suoi gesti, il professore si alzò dalla scrivania e versò il fumoso liquido argenteo nel pensatoio che teneva nel suo armadio. Tentennò un attimo, mentre un vortice di immagini increspava la superficie, poi immerse il volto nella bacinella e si lasciò avvolgere dall'oscurità.






Eccoci alla terza attesissima (immagino!) parte del racconto. Questa volta entrano in scena due tra i personaggio più difficili da descrivere della saga Canon (o almeno è così per me): Tom Riddle e Albus Silente. Quanto al primo, la giudice AliH mi aveva fatto notare che appariva poco “riddlesco” al suo primo apparire e non posso che concordare con lei; tuttavia credo che Tom appaia sempre come un ragazzo gentile e disponibile al primo approccio, tanto più quando vuole ottenere qualcosa come qui, il Cristallo di Ghiaccio (come avrebbe fatto a sopportare le lamentele Ginny per un anno intero, altrimenti?). Quanto a Silente, non so come mi sia uscito e non sono sicura che sia molto IC; tuttavia, ho scelto di caratterizzarlo in questo modo perché, da quello che dice ad Harry a King's Cross, credo che abbia tentennato parecchio prima di risolversi a incrociare la sua bacchetta con Grindelwald e sono sicura che gli siano state fatte parecchie pressioni, che in questo racconto lui rifiuta in modo categorico e quasi sdegnoso perché in fondo è un modo come un altro per rispondere al senso di colpa che lo opprime (una sorta di “me ne frego, che si arrangino” detto da una persona da cui non ci aspetteremmo e che ha paura di affrontare qualcosa che sa benissimo sia compito suo).
Bene, nella prossima parte ci saranno i ricordi di Dankrad: cosa avrà da dire a Silente il giovane tedesco? Lo scoprirete la prossima volta!
Ah, la frase in tedesco pronunciata da Dankrad a Tom significa semplicemente “Io non ti capisco”.
A presto!



EDIT: continua l'opera di risistemazione dei dialoghi!

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Capitolo 4
*** IV ***


IV



Ci impiegò parecchi secondi ad accorgersi che era già entrato nel ricordo del giovane tedesco: completamente circondato dal buio, il mago riconobbe solo la figura di un ragazzo che sgattaiolava in un vicolo e si affrettò a seguirlo. Dopo qualche passo, il giovane si fermò davanti ad un innocuo muro in mattoni. Pareva che non ci fosse nulla di particolare, ma Dumbledore era in grado di riconoscere tracce di magia: probabilmente c'era una ricca casa di maghi ben nascosta da occhi indiscreti.
Il giovane a cui apparteneva il ricordo aveva un berretto calato sul volto, scurito con quella che sembrava fuliggine per rendersi irriconoscibile, ma nel buio del vicolo, Dumbledore riusciva comunque a veder brillare i suoi vispi occhi azzurri. Indosso aveva solo una giacca un po' abbondante, una sciarpa intorno al collo e un paio di pantaloni piuttosto malridotti. Dumbledore lo osservò mentre armeggiava con degli strani oggetti magici che aveva in borsa, finché il ragazzo non estrasse quello che stava cercando: una Mano della Gloria che reggeva una lucerna. Non appena il ragazzo l'accese, anche Dumbledore poté godere della luce che emanava, perché quello era il ricordo di Dankrad e quindi in un certo senso lui vedeva attraverso gli occhi del giovane tedesco.
Infine Dankrad estrasse la bacchetta magica e fece degli strani segni sul muro, finché non si delineò un immenso portone in legno massiccio. «Alohomora» sussurrò debolmente e la serratura scattò. Guardandosi intorno con circospezione, appoggiò una mano sulla porta e fece pressione.
L'ingresso in cui entrarono era avvolto dall'oscurità, ma dal prezioso lampadario settecentesco di cristallo che pendeva dal soffitto, si capiva che doveva essere una casa di maghi piuttosto ricchi. Dankrad controllò che non ci fosse nessuno in giro, poi sgattaiolò al secondo piano, lungo una scalinata sulla destra. Si muoveva con sicurezza in quella casa, ma Dublemdore aveva la brutta impressione che fosse lì per fare qualcosa di ben poco lecito.
Lo seguì fino ad un piccolo studio, occupato da uno scrittoio che sembrava essere piuttosto prezioso. La prima mossa di Dankrad fu di bendare con la magia gli occupanti dei ritratti che dormivano beatamente nelle loro cornici attaccate alle pareti: così, se si fossero svegliati, non avrebbero potuto vederlo. Dopodiché estrasse dalla sua borsa un aggeggio magico in argento, che anche Dumbledore conosceva bene: era un rivelatore di magia. Dankrad lo montò con destrezza, poi lo appoggiò delicatamente sul pavimento e attese che facesse il suo lavoro. Quattro sfere luminose vennero emanate dal marchingegno e incominciarono a roteare pigramente per la stanza, finché non rivelarono massicce presenze di magia nella zona del camino di marmo.
Dankrad allora si avvicinò, sempre tenendo la bacchetta sollevata in una mano e la Mano della Gloria nell'altra. Osservò a lungo il caminetto, in ogni suo aspetto, ma non sembrò trovare niente che indicasse la presenza di nascondigli magici. Fu allora che mise in tasca la bacchetta ed estrasse un punteruolo d'argento, che utilizzò per disegnare strane rune sul fondo del camino. Le rune brillarono nel buio per qualche secondo, poi scomparvero, ma al loro posto apparve il profilo di una cassaforte. Dankrad si lasciò sfuggire un sorriso soddisfatto.
Con un altro pigro “Alohomora”, anche la cassaforte si aprì sotto i loro occhi. C'erano preziosi oggetti in oro, gioielli e una coppa, ma Dankrad li ignorò completamente, puntando ad una innocua scatolina di velluto blu. Dumbledore avrebbe voluto fermarlo, quando lo vide infilare la mano nella cassaforte, senza notare l'Incantesimo Sensore Segreto che la proteggeva, ma subito il suo sguardo fu rapito dal gioiello della scatolina blu: era il Cristallo di Ghiaccio, lo stesso che il ragazzo tedesco gli aveva inviato tramite lettera.
La sua luminosità e la sua perfezione erano tali che per parecchi secondi, sia il giovane Dankrad del ricordo, sia il maturo Dumbledore ne rimasero rapiti, finché un rumore leggero poco fuori dalla porta non li fece trasalire entrambi. Dankrad si infilò velocemente la scatolina in tasca, chiuse la cassaforte, spense la lanterna e ripose nella borsa la Mano della Gloria. Dopodiché estrasse la bacchetta e fece un pessimo Incantesimo di Disillusione, che gli lasciava perfettamente visibili i piedi e la sua stessa sagoma. Ma evidentemente non era in grado di fare di meglio, per cui si accontentò di usare vecchi metodi Babbani: si nascose dietro la tenda rossa drappeggiata davanti alla finestra, sperando di essere nascosto dal buio.
Proprio in quel momento entrò nella stanza una piccola elfa domestica, che sembrava insicura anche dei suoi stessi passi. Si guardò intorno titubante, poi strillò con la sua vocetta acuta: «Non c'è nessuno, signora».
«Controlla bene, Ruby! Se l'incantesimo è scattato ci sarà un motivo» rispose gracchiante un'anziana maga.
La piccola elfa trotterellò per la stanza senza troppo entusiasmo.
Dumbledore aveva come l'impressione che non fosse il primo falso allarme per il quale l'elfa doveva correre a controllare la stanza per ordine della sua padrona.
«Non c'è nessuno, signora» ripeté Ruby, uscendo dallo studio.
Dumbledore, quasi, percepì il sospiro di sollievo del giovane tedesco.
Dankrad uscì dal suo nascondiglio, spostando la tenda con un gesto teatrale. Colpo fatto, pericolo scampato!
Si avvicinò alla porta a passi baldanzosi, proprio quando quella si spalancò sotto i suoi occhi. Apparve sull'uscio una vecchia maga in vestaglia con i bigodini in testa e la retina sui capelli. Sebbene Dankrad fosse ancora protetto dall'Incantesimo di Disillusione, la sua sagoma era perfettamente visibile anche nel buio della stanza. Per una frazione di secondo la situazione sembrò essere raggelata, poi Dankrad agì d'istinto.
«Pietrificus totalus!»
La vecchia maga non fu abbastanza pronta per reagire e si ritrovò stesa sul pavimento. Dankrad la scavalcò senza troppe esitazioni, gettandosi fuori dalla stanza e poi giù dalle scale.
«Signora!» squittì l'elfa, correndo incontro alla sua padrona, mentre Dankrad si buttava fuori di casa, sempre seguito da Dumbledore. I due si ritrovarono nel vicolo d'entrata, con le urla della vecchia maga che rimbombavano nelle loro orecchie.
Dankrad cominciò a correre all'impazzata lungo le strade buie di Berlino, scontrandosi contro un gruppo di Babbani ubriachi che uscivano da un locale.
«Ehi, tu, guarda dove vai!» gli biascicò dietro uno dei beoni, con gli occhi stralunati.
Il ragazzo nemmeno si voltò a guardarli. Fermò la sua folle corsa solo quando fu sufficientemente lontano dalla casa della vecchia maga con i bigodini. Appoggiando le spalle al muro, fece dei lunghi respiri per riprendere fiato, poi estrasse dalla borsa uno straccio lercio e si ripulì il viso dalla fuliggine.
Un gruppetto di giovani, passandogli davanti, lo insultò e lo derise per la fascia con la stella di David gialla che portava al braccio.
«Lurido ebreo!» sghignazzò uno, sputandogli addosso.
Dankrad si afferrò d'istinto il braccio sinistro, come a coprire il segno che indicava l'appartenenza al suo popolo. Lanciò loro degli sguardi astiosi, ma non reagì agli insulti. Dumbledore lesse nei suoi occhi un velo di rabbia misto a rassegnazione e immaginò che il giovane tedesco fosse ormai abituato ad essere mal considerato dai Babbani per le sue origini ebraiche e dai maghi per le sue origini Babbane. Per un attimo il professore provò un moto di pietà per quel ragazzo che non apparteneva a nessuno dei due mondi.
Dankrad chiuse gli occhi e appoggiò la testa al muro, per cercare di tranquillizzarsi. Dopodiché si sistemò il berretto, calandolo per bene in testa, in modo da coprire il suo sguardo, e poi si avviò a grandi passi per le strade notturne di Berlino.
Si fermò solo quando arrivò davanti ad una grossa costruzione con un colonnato, posizionata davanti ad un fiume. Un cartello recitava: “Lehrter Bahnhof”, che Dumbledore tradusse velocemente in “stazione di Lehrter”. Il mago seguì il giovane tedesco che entrava nell'edificio Babbano, ma appena vi mise piede dentro, fu rapito per un attimo dalla sua struttura: un immenso soffitto a volta, tutto costruito con travi di metallo, era sorretto da due pareti decorate da arcate cieche. Cinque binari, intervallati da una banchina, ospitavano altrettanti treni che sbuffavano pigramente in attesa di partire.
Dumbledore si riscosse appena in tempo per affrettarsi a seguire Dankrad tra la folla della stazione, in mezzo a Babbani che cercavano di raggiungere il proprio treno e squadriglie di Nazisti che controllavano la situazione. Delle bandiere rosse con la svastica nera penzolavano in modo sinistro da delle aste appese al muro, come degli avvoltoi che dominavano le loro possibili prede.
Dankrad si infilò senza troppe esitazioni in un bagno pubblico piuttosto malandato, poi, controllando che nessuno lo avesse seguito, estrasse la bacchetta dalla tasca e la appoggiò sul vetro sporco e ammuffito del vecchio bagno. Al suo tocco, la superficie levigata del vetro divenne liquida come fosse fatta di mercurio. Dankrad si lanciò un'ultima occhiata alle spalle e poi attraversò il varco per raggiungere la stazione magica.
Il nuovo ambiente in cui si trovarono non poteva essere così diverso dal precedente, eppure si aveva l'impressione che nulla fosse cambiato. Le persone che popolavano le banchine erano evidentemente maghi, ma anche questa stazione era pattugliata da squadriglie armate, gli Obermenschen di Grindelwald, riconoscibili dal lungo mantello verde scuro con i gradi sulle spalle e il berretto militare con il simbolo del dittatore, un cerchio e un'asta iscritti in un triangolo. Al posto delle bandiere rosse con la svastica, era appeso alla parete un lungo striscione con scritto il motto del Reich, Für der Obergute.
Viaggiare in treno era un mezzo molto comodo per l'epoca: lo usavano le famiglie con bambini piccoli o tutti quegli adulti che non avevano voglia di materializzarsi, anche perché Dumbledore sapeva che le Materializzazioni erano strettamente controllate dal Reich. In molti luoghi era impossibile utilizzare questo tipo di spostamento e comunque il Dipartimento della Materializzazione, istituito da Grindelwald, teneva sotto controllo tutte le zone a rischio all'interno degli Stati della Federazione del Primo Reich: un modo molto efficace per prevenire azioni di guerriglia da parte di brigate ribelli.
Dankrad sgattaiolò verso il treno sul binario centrale. Ovviamente non si preoccupò minimamente di andare a fare il biglietto. Lanciò un'occhiata fugace al capostazione poi si fiondò sul treno che stava cominciando a partire. Dumbledore si affrettò a seguirlo, per non restare in stazione.
Il corridoio dove si affacciavano i vari scompartimenti era affollato di maghi e streghe che vociferavano tra loro. Dankrad cominciò a sgattaiolare tra la gente, biascicando qualche scusa a mezza voce. Ogni tanto si voltava per controllare di non essere seguito, ma questo suo ossessivo girarsi all'indietro fu la sua rovina: gli Obermenschen stavano arrivando da davanti, chiedendo i biglietti ai passeggeri. Dankrad se ne accorse appena in tempo per voltarsi e svignarsela a ritroso lungo il corridoio, ma il luogo era troppo affollato perché il ragazzo potesse muoversi agilmente, così prese la decisione di infilarsi in uno scompartimento occupato solo da una ragazza che guardava distrattamente fuori dal finestrino.
La giovane dimostrava una ventina di anni; aveva un basco di lana grigia adagiato di lato sui riccioli biondi, acconciati elegantemente secondo la moda dell'epoca e indossava un delizioso cappottino di fattura sartoriale.
In realtà solo Dumbledore sembrò notare tutti questi dettagli, perché Dankrad era preso da ben altri pensieri. «Ehi, sai fare un buon Incantesimo di Disillusione?» esclamò di getto, rivolto all'occupante dello scompartimento.
«Come, scusa?» domandò la ragazza, voltandosi verso il giovane con sguardo interrogativo.
«Un buon Incantesimo di Disillusione, sai farlo? Il mio non è il massimo, mi restano fuori i piedi» rispose sbrigativo Dankrand, continuando a lanciare occhiate preoccupate alla porta dello scompartimento.
La ragazza si alzò dal sedile, senza capire cosa stesse blaterando l'altro.
Ma Dankrad aveva una certa fretta. «Senti, ci sono gli Obermenschen là fuori e io sono senza biglietto. Puoi aiutarmi o no?»
«Io...» cominciò a dire la ragazza, ma proprio in quel momento un Obermensch spalancò lo sportello e intimò agli occupanti dello scompartimento di tirare fuori i biglietti e la Dichiarazione di Status Purosangue.
La ragazza si voltò verso il mago con sguardo tagliente e il mento leggermente sollevato di chi è abituato a guardare la gente dall'alto in basso. «Stai scherzando, giovanotto?» gli domandò in tono aggressivo e altezzoso. «Hai idea di chi tu abbia difronte?»
L'Obermench assunse un'espressione perplessa.
«Io sono Gerwine VonTraust. Mio padre è il principe di Baviera».
Un silenzio imbarazzato seguì quelle parole. Gli occhi dell'Obermensch guizzarono da destra a sinistra, come se cercasse una scappatoia a quella situazione scomoda. Alla fine tornò a guardare la ragazza, ma lo sguardo altezzoso e adirato di lei non lasciava presagire nulla di buono. «Scusatemi, fräulein VonTraust. Io... non vi avevo riconosciuta» biascicò l'Obermensch, a disagio. Strinse in modo compulsivo la bacchetta, poi continuò: «Devo comunque chiederle i documenti, fräulein».
«Come, scusa? Vuoi chiedere i documenti a me?» rispose la ragazza, offesa e scandalizzata. «Sei sicuro? O forse preferisci che mio padre riferisca a Grindelwald del comportamento maleducato dei suoi uomini?» lo provocò con studiata perfidia.
L'Obermensch fece per dire qualcosa, ma la sua bocca si richiuse senza che ne uscisse un solo suono. La tensione che permeava l'aria era talmente densa che sembrava quasi si potesse toccarla.
«Io... no, fräulein» cedette alla fine l'Obermensch.
Dumbledore era certo che Grindelwald non fosse particolarmente famoso per la delicatezza con cui trattava i sottoposti disobbedienti.
«Ma il ragazzo?» si azzardò a chiedere l'Obermensch.
La giovane lanciò un'occhiata veloce a Dankrad, appiattito contro il vetro, come se temesse che fosse giunta la sua ora.
«Lui sta con me» concluse, dopo una manciata di secondi che parvero interminabili. «C'è altro?»
L'Obermensch ebbe un attimo di tentennamento.
«No, fräulein. Scusate il disturbo» sussurrò alla fine, uscendo dallo scompartimento con un inchino.
Solo quando la porta si fu chiusa alle sue spalle, Dankrad ricominciò a respirare. Era appena scampato da una cattura certa e ancora non ci credeva. Come diavolo era accaduto?
«Ehi, sei stata grande!» esclamò, osservando per la prima volta la sua salvatrice. Nei suoi occhi non brillava più quello sguardo altezzoso che aveva riservato all'Obermensch, e non sembrava affatto scossa dalla scena che si era appena svolta sotto gli occhi attenti Dumbledore.
Dankrad parve notare che era decisamente carina, a giudicare dal tentativo di sorriso seducente che comparve sul suo volto. «Voglio dire, a fingere così. Si è preso una bella strizza quell'Obermensch!»
«Non stavo fingendo» rispose in tono serio la ragazza, guardando il suo interlocutore come se fosse uno squallido clown da circo di periferia.
Dankrad non sembrava affatto a disagio come lo era stato l'Obermensch: pareva solo sorpreso dalla notizia. «Vuoi dirmi che sei davvero la figlia di VonTraust?»
Gerwine non si scompose davanti a quella domanda diretta e fece solo un breve segno di assenso con il capo.
Dankrad sgranò gli occhi in un'espressione scioccata. «E allora perché mi hai aiutato?» domandò perplesso, senza credere di essere appena stato salvato dalla principessa di Baviera in persona.
Gerwine parve piuttosto offesa da quella domanda e questa volta sembrava sincera. «Essere Purosangue non significa appoggiare gli ideali e i metodi di Grindelwald» rispose in tono duro. Sembrava che fosse stanca dei pregiudizi che gli altri le riservavano in quanto nobile Purosangue.
Dankrad per una volta rimase zitto, senza avere il coraggio di controbattere a quell'affermazione. Lui, certo, era un Sanguesporco, quindi non riusciva a comprendere dei Purosangue che non appoggiassero Grindelwald, visto che tutti quelli con cui aveva avuto a che fare non si poteva certo dire che fossero stati disponibili nei suoi confronti; ma forse quello dipendeva dal fatto che, quando lui entrava in contatto con dei Purosangue, era per rubare loro qualcosa. Eppure la ragazza sembrava sincera e, dopotutto, gli aveva appena salvato la vita.
«Comunque tu scendi alla prossima fermata e non ti fai più vedere» gli intimò poco dopo Gerwine, con un tono che non era tanto dissimile da quello che aveva utilizzato con l'Obermensch.
Dankrad fece un sorrisetto ammiccante. «Non mi devo più far vedere sul treno... o da te?»
Gerwine storse il naso come fosse di fronte ad un essere nauseante. «Entrambe le cose» gli rispose secca.
Dankrad tuttavia non si fece affatto intimidire. Anzi, gli piacevano le sfide. «Mi dispiace, cocca, ma devo allontanarmi il più possibile da Berlino e si dà il caso che questo treno mi porti proprio dove mi interessa: a Monaco di Baviera» disse con un sorriso smagliante.
Gerwine lo guardò con aria scioccata. «Cocca a me? Esci immediatamente da questo scompartimento!» esclamò furiosa, indicando la porta con un gesto perentorio.
Dankrad appoggiò le mani incrociate dietro la nuca, come se si stesse stendendo su una spiaggia tropicale, e le lanciò uno sguardo rilassato. «Se mi butti fuori, il tuo sforzo per salvarmi la pellaccia si rivelerà inutile» commentò con ovvietà.
Gerwine aprì la bocca per dire qualcosa, ma l'oggettività di quell'affermazione era innegabile. L'aveva fregata.
Gerwine passò il resto del viaggio con le braccia incrociate al petto e lo sguardo ostinatamente rivolto al paesaggio avvolto dalle tenebre che scorreva fuori dal finestrino. Dankrad non interruppe l'orgoglioso silenzio della sua compagna di scompartimento, perché era conscio che qualsiasi tentativo di farla parlare si sarebbe rivelato un fallimento. Tanto sapeva di averla già in pugno.
In realtà i treni magici andavano ad una velocità nettamente superiore a quelli Babbani, per cui il viaggio durò poco più di mezzora, sebbene avessero attraversato tutto il paese. Il treno cominciò a rallentare in prossimità dell'inizio del centro abitato, finché non si fermò alla stazione di Monaco, con una poderosa sbuffata di vapore biancastro.
Gerwine usò un incantesimo di levitazione per recuperare il suo bagaglio dalla retina sopra i sedili, poi, senza una parola, uscì dallo scompartimento.
«Ehi!» esclamò Dankrad, colto alla sprovvista, gettandosi all'inseguimento della ragazza.
Dumbledore li seguì lungo i corridoi del treno, e poi, ancora, attraverso la stazione affollata di viaggiatori vociferanti e squadriglie di Obermenschen. Per un attimo credette di averli persi di vista, quando un quartetto di musicisti, con i loro contenitori neri degli strumenti, gli tagliò la strada, ma subito dopo si accorse che Gerwine si era fermata e così Dankrad dietro di lei.
Un signore alto con un lungo mantello grigio e un borsalino dello stesso colore li stava fissando. Aveva la mascella squadrata e la bocca tanto sottile, che sembrava poco più che una cicatrice di guerra. Ma ciò che colpì di più Dumbledore, furono i suoi occhi scuri e penetranti. Sembrava poter perforare il diamante con un solo sguardo.
«Papà» esclamò sollevata Gerwine, stringendo l'uomo in un abbraccio, come se potesse scacciare in quel modo tutta la tensione che aveva accumulato.
Dankrad allungò la mano verso il mago e fece per presentarsi, quando il suo occhio allenato riconobbe degli Obermenschen che si avvicinavano, apparendo tra la folla come esseri soprannaturali, circondandoli senza lasciare loro vie di fuga.
Anche Cyrillus VonTraust sembrò accorgersene, perché si sciolse dall'abbraccio della figlia e si irrigidì in posizione difensiva. I suoi occhi saettarono veloci tra i volti degli Obermenschen, come se volesse scrutare nel profondo dei loro animi.
«Herr VonTraust?» domandò il più alto in grado, parandosi difronte a loro.
Cyrillus contrasse la mascella. «Sì?»
«Dovreste seguirci al Münschen Herz» disse il mago.
Dumbledore si avvicinò meglio al gruppetto, sicuro di aver sentito male. Perché volevano arrestare VonTraust? Era un nobile Purosangue: anche se non appoggiava pienamente il Reich, Dumbledore era sicuro che la sua cattura avrebbe avuto un impatto notevole sull'opinione pubblica magica, impatto che certamente non poteva essere sfuggito a Grindelwald. A meno che il ragazzo non avesse avuto ragione... a meno che non fosse veramente il capo della resistenza contro il dittatore.
Il principe non parve essere affatto sorpreso. Forse il suo orgoglio di Purosangue, o forse la sua innata determinazione gli impedirono di abbassare gli occhi. «E di cosa sono accusato, di grazia?» domandò impassibile, tanto che sembrava stesse parlando di qualcosa di banale come il tempo.
L'Obermensch si concesse un breve sorriso di scherno. «Pare che al vostro castello si svolgano delle attività che il Reich considera non lecite» rispose, scandendo per bene le ultime due parole.
«Ehi, ma sai chi hai di fronte?» si intromise Dankrad con giovialità, come dovesse presentare un amico a qualcuno, durante un'allegra festicciola.
L'Obermensch non si degnò nemmeno di voltarsi verso di lui. «Levati di torno, ragazzo» gli intimò con durezza.
Dankrad non si diede per vinto, anche se nessuno riusciva a capire che cosa stesse facendo. «Ma questo è il principe di Baviera!» continuò, sgranando gli occhi in un'espressione esplicita.
«Ti ho detto di levarti di torno!» latrò allora il mago, estraendo velocemente di tasca la bacchetta per puntargliela contro.
Dankrad indietreggiò di un passo e alzò le mani al cielo. Ma il suo sorrisetto beffardo dimostrava che non si era affatto arreso.
«State, scherzando? Volete davvero arrestare lui, quando ci sono qui io?» domandò, come se dovesse dimostrare una cosa banale a degli sciocchi.
Finalmente l'Obermensch si degnò di guardarlo, ma non riconobbe nessuno di importante nel ragazzo biondo con il berretto che stava ammiccando nella sua direzione.
«Ehi, c'è una taglia sulla mia testa in almeno quattro stati del Reich» esclamò Dankrad allargando le braccia, come se fosse un vanto.
L'Obermensch strinse il pugno intorno alla bacchetta, squadrando il ragazzo nel tentativo di captare qualche possibile menzogna. «Chi sei?»
Il giovane fece un inchino. «Dankrad Lewis, ladro... e Sanguesporco» si presentò con un gran sorriso. Nel mentre, quando tutti erano troppo occupati a recepire quell'informazione scioccante per accorgersene, Dankrad si infilò una mano in una tasca segreta sotto la giubba, dettaglio che non sfuggì a Dumbledore. Immaginava cosa avrebbe potuto fare il ragazzo: essendo un ladro, doveva avere sempre un piano di fuga rapida, nel caso qualcosa fosse andato storto. Infatti Dankrad fece un gesto fulmineo, gettando a terra quella che parve una manciata di cenere. Improvvisamente tutta la banchina fu avvolta dall'oscurità.
E scoppiò il caos.
L'Obermensch cominciò a sbraitare ordini ai suoi uomini, ma il buio impediva loro di fare qualsiasi mossa. Dankrad invece non perse tempo: estrasse velocemente la sua Mano della Gloria e la usò per farsi luce. «Gerwine, prendi la mia mano e poi afferra quella di tuo padre!» gridò Dankrad.
Gerwine era disorientata dal buio, ma riuscì comunque ad eseguire gli ordini di Dankrad.
«Lumus! Lumus!» sbraitò il capo degli Obermenschen, ma i suoi incantesimi non potevano avere effetto contro la Polvere Buiopesto peruviana, e questo sia Dankrad che Dumbledore lo sapevano benissimo. Il professore seguì il giovane tedesco che si trascinava dietro Gerwine e suo padre, portandoli lontani dalla banchina. Evidentemente non era possibile smaterializzarsi dentro la stazione.
«Acciuffateli!» gridò l'Obermensch, spingendo i suoi uomini all'inseguimento del fuggiaschi.
Dumbledore ne vide uno che cadde sui binari, a causa dell'oscurità, e sperò vivamente che non stesse arrivando un treno proprio in quel momento.
Non appena uscirono dalla nube di buio, Dankrad, con un movimento fulmineo, mise la Mano della Gloria in tasca ed estrasse la bacchetta, senza tuttavia lasciare andare Gerwine. La ragazza si lasciò trascinare dal giovane fuori dalla stazione, sempre tenendo stretta il braccio del padre dietro di lei. Quell'assurdo trenino riuscì ad arrivare all'esterno senza altri intoppi, lasciandosi alle spalle il caos causato dalla Polvere Buiopesto. Dopodiché Dankrad strinse a sé Gerwine, girò su se stesso e si smaterializzò.
Il paesaggio cittadino scomparve, per lasciare posto ad una landa desolata e buia, avvolta nel silenzio più totale.
«Lumus» sussurrò debolmente Cyrillus VonTraust, illuminando la sua bacchetta per guardarsi meglio intorno. Poco distante da loro c'era un pino contorto, che innalzava i suo rami aguzzi verso il cielo stellato. Sebbene fosse ormai primavera inoltrata, alcune chiazze di neve erano ancora visibili sul terreno brullo e limaccioso.
«Dove siamo?» domandò il mago.
Dankrad scosse le spalle. «Non lo so, da qualche parte in Russia centrale» rispose tranquillamente, come se fosse una cosa di poco conto.
Dumbledore aveva intuito il motivo per cui Dankrad si fosse materializzato in un luogo come quello e la conferma ai suoi sospetti gli venne proprio dal giovane.
«Sapete...» cominciò a spiegare il ragazzo, rivolto al principe di Baviera. «Il Reich tiene sotto controllo le Materializzazioni, ma solo nel territorio della Federazione. Quando voglio essere sicuro di non essere seguito, vengo qui, dove il Reich non può tracciarmi».
Cyrillus ascoltò con molto interesse la spiegazione, annuendo quando il ragazzo concluse il discorso. «Astuto, figliolo, davvero astuto» commentò con ammirazione.
Dankrad si strinse nelle spalle, come se fosse una cosa di poco conto. Ferri del mestiere, dopotutto.
«Hai appena salvato la vita a me e a mia figlia» esclamò Cyrillus in tono solenne. Dankrad fece un mezzo sorrisetto, forse leggermente imbarazzato.
Dumbledore ebbe il forte sospetto che l'avesse fatto solo per far colpo su Gerwine, che ora se ne stava ritta in piedi dietro a suo padre, con gli occhi ridotti a due fessure.
«Ci farebbero comodo ragazzi come te, Dankrad Lewish» continuò Cyrillus. «Vorresti unirti alla ribellione contro Grindelwald?»
Quella proposta spiazzò sia Dankrad che Gerwine. Il primo sgranò gli occhi e storse la bocca in un'espressione scioccata, la seconda proruppe in tutta la sua principesca altezzosità, esclamando: «Ma, padre!»
Forse fu proprio lo sdegno di Gerwine ad affrettare la risposta di Dankrad: una nuova sfida, pane per i suoi denti.
«Con molto piacere».
E poi fece un sorriso smagliante in direzione di Gerwine.






Eccoci qua! Questa parte è più lunga delle altre, perché non aveva senso spezzare la scena. Qui avete assistito alla mirabile arte del mixting, ovvero del mescolare incantesimi esistenti (= creati dalla Rowling) con altri di pura fantasia, creati da me (come il rivelatore di magia in argento: ho dato un'identità a uno dei misteriosi oggetti in argento che si trovano nello studio di Silente!).
Spero che vi sia piaciuta l'ambientazione totalitaria del Primo Reich... qui è solo abbozzata (per esempio, il Münschen Herz è il quartier generale degli Obermenschen di Monaco; il Primo Reich immagino sia organizzato in stati federali, ecc), ma ci sto ragionando su parecchio e presto (più o meno!) potrete godere degli sforzi della mia mente nel racconto sulla vita di Grindelwald.
Spero che vi siano piaciuti i VonTraust... il primo incontro tra Gerwine e Dankrad non è stato dei più romantici, ma il giovane si rifarà, promesso. Nel frattempo, QUI il link dell'immagine sui VonTraust. Spero che vi piaccia! Io adoro il borsalino di Cyrillus... ;-)
Alla prossima,
Beatrix


EDIT: continua l'opera di risistemazione dei dialoghi!

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Capitolo 5
*** V ***


V



Improvvisamente sia Dankrad che i due VonTraust scomparvero e tutto divenne buio. Per un attimo Dumbledore si chiese cosa fosse successo, poi una nuova scena cominciò a delinearsi sotto i suoi occhi: un pavimento di legno, un muretto di pietra alla sua sinistra e un cielo stellato sopra di lui. Era sul bastione di un castello, in una stellata notte d'estate.
Infine anche due figure apparvero a popolare la scena: Dankrad e Gerwine, accoccolati a terra con le spalle appoggiate al muro di cinta. Doveva certamente essere passato un po' di tempo dal ricordo precedente, vista l'intimità tra i due ragazzi. A quanto pareva, Gerwine si era infine arresa alle attenzioni di Dankrad. A giudicare dal suo sorriso, non disprezzava affatto l'idea di starsene accoccolata al fianco del giovane tedesco.
Dumbledore si avvicinò per sentire la conversazione.
«Ammettilo, senza di me oggi non avreste fatto niente» stava sussurrando Dankrad, con un sorrisetto accattivante.
Gerwine gli tirò un pugno scherzoso alla spalla. «Sì, infatti» commentò, in tono evidentemente derisorio. «Quegli Obermensch erano proprio atterriti dal tuo Incantesimo di Disarmo».
«Insomma!» protestò Dankrad, fingendosi offeso. «È l'unica cosa che mi è venuta in mente, in quel momento! Però ha funzionato, no? Siamo riusciti a portare in salvo Husbert».
Gerwine sorrise e Dumbledore riuscì perfino a vedere lo scintillio dei suo occhi. Le mani dei due ragazzi erano intrecciate e i loro sguardi si incrociavano troppo spesso.
Dankrad osservò per un attimo il cielo stellato sopra di loro, poi sembrò ricordarsi improvvisamente di una cosa. «Ehi, pensavo...» cominciò a dire, sciogliendo la mano destra dalla presa di Gerwine e infilandosela nella tasca. Dopo un attimo di ricerca, estrasse una scatolina di velluto blu. «Sai, credo che potrebbe essere tuo» disse un po' impacciato, porgendo la scatola a Gerwine.
Dumbledore capì immediatamente che Dankrad doveva aver progettato quella cosa da parecchio tempo, senza essere riuscito trovare il momento adatto o il coraggio per farla.
«Che cos'è?» chiese Gerwine incuriosita, prendendo tra le mani il piccolo regalo. Non appena aprì la scatola, il bagliore del gioiello che conteneva illuminò il suo volto stupito.
Anche Dumbledore lo riconobbe.
«Il Cristallo di Ghiaccio» sussurrò Gerwine, sgranando gli occhi per la sorpresa. «Oh, Dan, dove l'hai preso? L'hai rubato?» esclamò con apprensione.
Domanda superflua, visto che Dankrad era un ladro, prima di unirsi alla ribellione contro Grindelwald.
«Io... non posso accettarlo» esclamò la ragazza, scuotendo la testa.
«Andiamo, Gerwine! La vecchia che ce l'aveva prima, lo teneva chiuso in cassaforte» rispose di rimando Dankrad, con un sorriso incoraggiante. «Avanti, indossalo».
Gerwine incrociò lo sguardo di Dankrad, poi allungò un dito verso il cristallo e lo sfiorò con delicatezza. Al contatto con la sua pelle calda, il gioiello si sciolse e riapparve al suo collo.
«Sei bellissima» sussurrò Dankrad, in tono dolce.
E poi tutto divenne buio.

Non appena Dumbledore capì di essere dentro un nuovo ricordo, si guardò introno per capire dove si trovasse. Era una stanza con una triste carta da parati color muffa e un povero mobilio di legno grezzo. Dankrad era in piedi davanti a lui con la bacchetta sollevata e lo sguardo sconvolto. E finalmente Dumbledore vide che cosa aveva turbato il giovane tedesco: a terra c'era un uomo con gli occhi spalancati rivolti verso il soffitto. Morto.
«Gerwine!» esclamò di getto il ragazzo, quando degli strani rumori provennero dalla stanza accanto. Dankrad si lanciò attraverso la porta, seguito da Dumbledore.
Anche l'altra stanza era cosparsa di corpi a terra, alcuni dei quali erano riconoscibili come Obermensch per i lunghi mantelli verdi. Doveva esserci stata una battaglia.
Dumbledore evitò di soffermarsi sui volti pallidi e sformati dalle espressioni sofferenti dei cadaveri, ma non poté evitare di notare una giovane donna con una chiazza si sangue rappreso sulla camicia bianca e gli occhi rivoltati all'indietro. Il mago, sebbene sapesse che quello era solo un ricordo, si sentì sconvolgere l'anima e ebbe la tentazione di accasciarsi a terra.
Dankrad, al contrario, sembrava fin troppo abituato a quel genere di scene. Si preoccupava più dei vivi che dei morti. «Gerwine?» chiese ancora, con crescente apprensione.
Finalmente la porta davanti a loro si spalancò e comparve Gerwine, con i capelli spettinati e il vestito strappato. Al suo collo brillava il Cristallo di Ghiaccio.
Dankrad le corse incontro e la strinse a sé con foga. «Credevo di averti perso!» proruppe il ragazzo, superato il primo momento di commozione. Gerwine fece per dire qualcosa, quando un rumore alle loro spalle li fece voltare di scatto.
Entrambi i ragazzi estrassero le loro bacchette e le puntarono nella direzione da dove proveniva il suono.
Anche Dumbledore puntò il suo sguardo sull'asse di legno del pavimento che scricchiolava in modo sinistro.
Infine due esili braccia sollevarono l'asse e la spostarono di lato, rivelando una piccola botola. Un ragazzino spaurito fece capolino dal buco, con gli occhi sgranati e un ciuffo ribelle di capelli che gli ricadeva sulla fronte. «È finita?»
Gerwine abbassò la bacchetta e si avvicinò al ragazzino, sebbene Dankrad avesse allungato una mano verso la sua spalla per tentare di fermarla, non del tutto certo che fosse una buona idea. «Sì, è tutto finito» disse dolcemente Gerwine, con un sorriso incoraggiante.
Il ragazzino allora uscì dalla piccola botola, ma dietro di lui comparve il volto di una bambina che teneva tra le braccia un neonato. «Ci ha detto la mamma di nasconderci qui» spiegò la bambina, facendosi aiutare dal fratello maggiore per uscire dal buco in cui si erano rintanati.
Gli occhi ansiosi di Dankrad si spostarono verso la donna con la macchia di sangue sulla camicia e poi tornarono ai bambini.
«Gerwine, portali fuori» disse in tono sbrigativo, accennando con il capo alla porta dalla quale lui e Dumbledore erano entrati nella stanza.
«E tu? Gli Obermenschen staranno per tornare» gli chiese con apprensione la giovane.
Dankrad annuì. «Lo so. Controllo che non ci siano altri sopravvissuti» rispose, accertandosi che i bambini non avessero notato la madre morta a terra.
Gerwine capì al volo il problema, così prese la piccola per le spalle e con una leggera pressione condusse i tre fratelli fuori dall'edificio.
Quando Dankrad fu solo, prese una coperta di lana abbandonata in un angolo e coprì il corpo della giovane donna, come se volesse darle un minino di dignità. Il suo sguardo dolente, le sue spalle ricurve... sembrava distante anni luce dal giovane ladro spavaldo che Dumbledore aveva osservato nel primo ricordo, sebbene dovessero essere passati al massimo due o tre anni. Eppure, anche solo quella singola ruga che gli attraversava la fronte, segno di un volto sempre troppo crucciato in un'espressione preoccupata, lo faceva sembrare più vecchio di un secolo, come se avesse attraversato un mare di dolore e fosse riuscito a riemergere.
Un movimento improvviso alle loro spalle, li fece voltare entrambi. Un Obermensch si stava strascinando contro il muro: aveva la gamba destra piegata in un'angolazione innaturale e il volto era una maschera di sangue. Dankrad gli si avvicinò con la bacchetta sollevata, anche se era evidente che l'uomo non era in grado di difendersi.
«Ti prego, non uccidermi» piagnucolò quello, con la voce affannata e gli occhi sgranati.
Dankrad non sembrava affatto disposto a farsi commuovere. «Perché non dovrei?» chiese in tono di ghiaccio.
L'Obermensch appoggiò le spalle al muro, che aveva appena raggiunto a furia di strisciare sul pavimento. Sembrava infinitamente stanco, come se ogni movimento gli costasse uno sforzo sovrumano. «Perché non merito di morire» rispose infine, con un sussurro.
«Nemmeno tutti quelli che trucidate lo meritano!» esclamò di rimando Dankrad.
Dumbledore vide la sua rabbia, la sua frustrazione per quella guerra che stava uccidendo troppe persone, che stava versando troppo sangue.
«Tu non capisci. È per il Bene Superiore, per forgiare un futuro di pace, dove saremo tutti liberi e non ci saranno più disuguaglianze!» rispose l'Obermensch, ripulendosi il volto con il dorso della manica.
Nel vedere quel gesto Dankrad sembrò esitare. In fondo il nemico che aveva di fronte non era un mostro, non era una bestia, era un uomo come lui. Un uomo che sperava in qualcosa di irrealizzabile. «Il futuro che dici non esiste. E se anche esistesse, questo non è il modo per raggiungerlo» commentò in tono amaro.
Il Bene Superiore, un illusione per degli sciocchi. Dumbledore era certo che anche Dankrad avesse sempre sperato in un mondo migliore, senza disuguaglianze né ingiustizie, ma la sua innocente convinzione che gli ideali di Grindelwald fossero illusori lo spiazzò. Lui invece ci aveva creduto, si era lasciato affascinare dal Bene Superiore, senza rendersi conto che fosse intrinsecamente malvagio. Sì, chiunque avrebbe potuto auspicare ad un futuro di brillante dominio dei maghi, ma a quale prezzo?
L'Obermensch sorrise rasserenato. Era la serenità di chi aveva un obiettivo nella vita, di chi credeva in qualcosa. «Io almeno ho uno scopo. Tu per che cosa uccidi?»
Dankrad abbassò definitivamente la bacchetta.
Dumbledore vide un'ombra di paura attraversare i suoi occhi: era stato sul punto di uccidere un uomo inerme, per che cosa?
«Non sei tanto migliore di me».
Dankrad indietreggiò di un passo, scuotendo la testa. Non poteva ucciderlo, non ne era capace. Nemmeno pensando che era il suo nemico, che aveva ucciso quella donna lasciando orfani tre bambini, che aveva abbracciato l'ideale di un pazzo dittatore, un folle che aveva promesso un futuro di gloria forgiato sul sangue e sulle stragi di gente innocente.
Non poteva ucciderlo.
«A che cosa ci ha ridotti la guerra? Ad ammazzarci tra fratelli, come fossimo bestie da macello».

Il ricordo finì improvvisamente e Dumbledor si ritrovò scaraventato nel suo studio. Era talmente debole e affranto che fu costretto ad appoggiarsi alla scrivania per non accasciarsi a terra. Tutto ciò che aveva visto, aveva scavato un buco dentro di lui, un'enorme voragine che lo lasciava vuoto come un guscio di noce. A che punto erano arrivati? Che cosa stava succedendo in Germania per colpa sua, perché non aveva avuto il coraggio di affrontare Grindelwald?
Era stato un codardo e, mentre lui aspettava nella bambagia, la gente veniva trucidata.
Aveva paura, maledettamente paura di affrontare Grindelwald, di rivedere il suo volto invecchiato ma sempre perfetto, il suo sorriso beffardo, i vispi occhi azzurri. Aveva paura di quello che avrebbe potuto dirgli riguardo al loro ultimo duello, aveva paura di scoprire da chi fosse partito l'incantesimo che aveva ucciso Ariana.
Aveva paura di affrontare il suo passato.
Ma doveva rassegnarsi, il Gellert che aveva conosciuto non esisteva più, o forse era meglio dire che non fosse mai esistito. Lui si era illuso su tutto, sul Bene Superiore, sulla loro amicizia, sul legame che li univa. Su Gellert stesso.
E ora doveva avere il coraggio di sfidarlo. Doveva farlo, non poteva più tirarsi indietro, non dopo quello che Dankrad gli aveva mostrato.
Lo sguardo gli cadde sul piccolo gioiello che il giovane tedesco gli aveva mandato come regalo. La sua luminosità era meravigliosa e così attraente. Dumbledore allungò lentamente una mano verso il Cristallo: sarebbe bastato sfiorarlo e...
No, quel gioiello non era destinato a lui. Era di Dankrad e glielo avrebbe ridato personalmente.
Sfidando Grindelwald.

Buio e desolazione.
L'uomo respirò l'aria a pieni polmoni, noncurante della sensazione di freddo pungente che gli pizzicò le narici. Aveva le guance e la punta del naso arrossati, ma non si preoccupava minimamente del clima, anzi, ne godeva. Pochi come lui avrebbero saputo sopportare tranquillamente temperature tanto rigide.
E infine era giunto. Era arrivato da lui, era venuto per sfidarlo. Aveva avuto il coraggio di guardarlo di nuovo negli occhi e di dirgli che era il suo nemico, che l'avrebbe affrontato in duello.
Ma, sciocco, non sapeva che cosa avrebbe dovuto aspettarsi. Non sapeva che lui non avrebbe avuto pietà della sua carne, che si sarebbe cibato della sua stessa carcassa, come un animale feroce.
Non era malvagio, non era pazzo. Lui era un eroe.
Lui avrebbe forgiato una nuova età dell'oro, sul sangue e sul legno della sua Bacchetta! Un nuovo mondo, qui, in terra, un regno celeste dove avrebbero regnato la pace e l'uguaglianza. Un Stato in cui i Babbani sarebbero stati sottomessi e ogni mago sarebbe stato libero, senza più leggi imposte dall'alto: ogni azione, ogni pensiero sarebbe stato intrinsecamente etico, ogni mago moralmente giusto, ogni cosa pura. Quello era il Bene Superiore, quello era il futuro che tutti avrebbero voluto, se solo avessero saputo che si poteva raggiungere. Lui, lui l'avrebbe raggiunto. Ad ogni costo.
Non aveva importanza quanti cadaveri avrebbe lasciato alle sue spalle, quanti morti obliati dall'oscurità, quanto sangue. Era un male necessario, possibile che nessuno lo capisse? Un male che non significava nulla, se comparato al raggiungimento del Bene Superiore.
Ciechi, erano tutti ciechi coloro che non se ne accorgevano.
E ora avrebbe finalmente soffocato l'insulsa resistenza. Prima il suo peggiore nemico, poi la ragazza e il suo amichetto Sanguesporco e infine quello sciocco di VonTraust, che aveva pensato di potersi opporre a lui, il più grande servo del Bene Superiore.
Ed eccolo là, colui che aveva condiviso con lui le sue grandi aspirazioni, colui che l'aveva appoggiato, incoraggiato, stimato... colui che l'aveva amato e tradito.
«Albus».
Una sferzata di vento investì la landa desolata, smuovendo i ricci biondi, ormai un po' ingrigiti, di Grindelwald. Gli angoli della bocca erano increspati in un sorriso.
«Gellert».
Dumbledore si levò il mantello, che si accasciò a terra alle sue spalle. Aveva uno sguardo deciso.
E il duello ebbe inizio.






Eccoci giunti alla fine di questo breve racconto su Gellert Grindelwald e la sua dittatura magica. Spero che vi sia piaciuto, che vi abbia regalato qualcosa, anche solo una piccola emozione. Ringrazio tutti coloro che l'hanno recensito, che l'hanno inserito tra le preferite o le seguite; ringrazio soprattutto AliH che ha indetto questo contest, dandomi la possibilità di mettere su carta (o su pc) una storia che meditavo da tempo.
Prima di lasciarvi al link del contest e al giudizio di AliH, vorrei regalarvi un paio di immagini: in realtà sono lo stesso disegno, che rappresenta Grindelwald proprio prima del duello con Silente. QUI la versione in bianco e nero (il mio Avatar, se avete notato!), QUI invece la versione a colori. Spero che vi piacciano: io le adoro, perché mi sembra di essere riuscita a cogliere la vera essenza del grande mago.
Grazie a tutti quelli che hanno seguito questa storia!
Alla prossima,
Beatrix

QUI il link del contest indetto da AliH e questo è il suo giudizio sulla storia:

Prima classificata – Il Cristallo Di Ghiaccio
Grammatica: 10/10
Stile e lessico: 10/10
Attinenza al tema: 10/10
IC e Caratterizzazione del Personaggio: 10/10
Originalità: 20/20
Giudizio personale: 5/5
Punti bonus: 3.5/3.5
Totale: 68,5

Non ho nulla da dire al riguardo, e tutto ciò mi spaventa perché ti sei classificata prima. Meriteresti un commento più lungo di quello che sottoporrò ai tuoi occhi; però io non che cosa sia giusto dirti e, come è accaduto con Julia, non ho niente da dire al riguardo.
Quando una storia è scritta in questo modo, in maniera magistrale, trasmettendo sensazioni indescrivibili e intessendo una trama fitta coma una ragnatela, be', mi risulta assai difficile dire qualcosa di vagamente sensato. Perciò mi limito a dirti che hai un talento naturale. E che il racconto è davvero spettacolare.
Ps: c'è un piccolo appunto che vorrei farti. Riguarda la caratterizzazione di Tom che in un punto (più che altro lì, diciamo) non mi è parso esattamente lui. “«Ehi amico, ti sei perso?» domandò una voce tranquilla alla sua destra.” Ecco, è in questo punto che Tom non mi è sembrato “abbastanza” Tom. Però forse è soltanto una mia opinione.
Complimenti comunque e grazie mille per aver partecipato a questo Contest.

Premio speciale “Miglior Personaggio Originale”:
Perché i tuoi personaggi sono dannatamente realistici, e si muovono attorno ad una trama tessuta ad arte. È una ragnatela di uomini e di donna che s'intreccia in una storia di violenza e di guerra.


EDIT: continua l'opera di risistemazione dei dialoghi!

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