Chocolade/Cioccolato/Sokolata

di Diana924
(/viewuser.php?uid=93724)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sokolàta ***
Capitolo 2: *** Sokolates gàlaktos ***
Capitolo 3: *** Aplés Sokolàtes ***
Capitolo 4: *** Lefki sokolàta ***
Capitolo 5: *** Sokolàta me fountoùkia ***
Capitolo 6: *** Sokolàta me amýgdala ***
Capitolo 7: *** Oraìo antìo ***



Capitolo 1
*** Sokolàta ***


Storia classificata 8° al contest " All Around The World  ", di Fe85

banner

Quando scesi dall’aereo a Cannes, sapevo che avrei dovuto aspettare ancora un po' prima di andare a riposarmi al mio albergo. Il mio agente mi aveva prenotato una suite al Negresco, l’hotel più in di tutta Nizza. Armandomi di santa pazienza attesi che il nastro mi portasse le mie due valige, ma chissà per quale motivo ne arrivò solo una. Andai a chiedere spiegazioni, e risultò che la mia valigia, dove c’erano tutti i miei vestiti, al momento si trovava a L’Avana. << Almeno lei si vedrà un po’ di sole >> commentai, prima di lasciare l’aeroporto e dirigermi verso la stazione.

Fu un tragitto breve, ma io cominciavo ad assopirmi. Quando uscii dalla stazione, controllai brevemente la cartina, e fermai un taxi. << le Negresco, s’il vous plait >> dissi, con il mio stentato accento francese.

Nizza, l’ultima volta che vi ero stata avevo dieci anni, e ricordo solo il vento di marzo che sferzava sul mio cappotto lilla, e il sapore del Mediterraneo che mi pervadeva i polmoni, nient’altro.

Poi l’auto si fermò e scesi, dopo aver pagato all’autista i trenta euro che mi aveva chiesto. Entrai nella hall e mi diressi verso il bancone per registrarmi.

<< Irene Maier >> dissi. << benvenuta al Negresco >> disse il consiergé, dandomi distrattamente la chiave. Presi l’ascensore e andai nella mia stanza.

Era proprio come avevo chiesto che fosse, ossia grande, luminosa e con vista sul mare e sulla rinomata Promenade des Anglais.

Siccome era sera decisi di cambiarmi velocemente con gli unici vestiti che avevo messo nella valigia che ero riuscita a prendere, in altre parole una camicetta bianca e una minigonna rosa, a cui aggiunsi delle scarpe rosse con il tacco basso, che mi sembravano quelle di Dorothy. Ogni tanto dicevo fra me e me, “ se le batto tre volte torno a casa “, ricordando quel film che avevo adorato da bambina, lo vedevo ogni Natale e ormai lo sapevo a memoria.

Uscì, e a piedi questa volta, arrivai fino a Place Messena, dove vi era un edificio, che identificai come una scuola, e poi mi diressi verso Avenue Jean Medecin, alla ricerca di un fast food o di un bistrò, dove poter mangiare una rapida cena a base di sushi.

Dopo un po’ mi fermai in un ristorante giapponese e mangiai qualcosa là, prima di rientrare in albergo, immersa nei miei pensieri.

Sulla via del ritorno mi parve di risentire l’odore della cioccolata calda che mia madre mi preparava quando ero triste.

Triste perché un mio giocattolo si era rotto, triste perché avevo litigato con i miei compagni di classe, triste perché avevo preso un brutto voto, triste perché avevo paura a parlare con il ragazzo che mi piaceva; in quelle circostanze lei me la preparava sempre, ed io associavo a quell’aroma caldo e sensuale la mia tristezza.

<< Sokolata, Irene, sokolata >> mi diceva, nella sua lingua natia, il greco, ed io sorridendo l’accettavo, e sentivo la tristezza svanire con essa. Quanto mi mancava quel sapore. Decisi di seguirlo e mi ritrovai in una cioccolateria.

<< Une chocolate, sehr warm, bitte >> dissi al cameriere, che per un secondo mi fissò. Mi ricordai che ero a Nizza, Francia, e non a Monaco di Baviera. <> mi corressi, mentre lui prendeva nota. Lo osservai, era un bel giovane, sui vent’anni circa, con i capelli castani, e l’aspetto che chiunque si aspetta da un mediterraneo. Come i miei cugini greci, Kostantinos e Lukas.

Tornò dopo cinque minuti, con la cioccolata calda, che bevvi in religioso silenzio, quei momenti per me erano sacri.

<< Le piace il cioccolato >> disse lo stesso cameriere, non era una domanda ma una certezza da parte sua. << Molto, il cioccolato mi accompagna da sempre >> risposi, lasciando sul tavolo € 3.70 e uscendo.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Sokolates gàlaktos ***


Il giorno dopo mi sentivo piena di energia, e avevo deciso che sarei andata a fare un giro per le vie di Nizza. Mentre girovagavo per il centro, persa nei miei pensieri, ero finita davanti ad un centro commerciale. Più per passare il tempo che per altro sono entrata. Mentre mi muovevo per i negozi, senza una meta precisa mi ero imbattuta in un negozio che vendeva dolciumi.

Riflettei un attimo ed entrai. Fui attratta da uno scaffale, dove riposavano confezioni di barrette al cioccolato e l’unica che attirò la mia attenzione fu una tavoletta di cioccolato al latte.

Cioccolato al latte. Ricordo ancora quando ne mangiai la prima volta. Avevo sei anni, e mi trovavo sempre qui a Nizza, con mio padre e mia madre. Entro una settimana sarebbe iniziata la scuola, ed io ero nervosa e avevo paura, ma ero allo stesso tempo eccitata.

Un mix di emozioni difficile da sopportare per una bambina emotiva come me, che aveva imparato troppo presto che era meglio nascondere le proprie emozioni e fingere un cinismo che non aveva per andare avanti nella vita e non offrire a nessuno occasioni di ferirla.

Quando le emozioni divenivano troppe, e rischiavo di esplodere e di urlare cattiverie a chi non se lo meritava, ma io ero convinta di sì, mangiavo uno scacco, solo uno.

Ricordo che un anno, avevo sedici anni, finì in questo modo ben tre barrette.

Quel giorno, vicino al viale principale, mio padre mi aveva offerto uno scacco, e uno solo, di cioccolato al latte e mi aveva detto: << Meine Leibe, das ist für dich >> e io, alzandomi sulle punte perché mio padre era molto più alto di me, presi quel cioccolato e lo inghiottì. Mi concentrai sul suo sapore, così diverso, così dolce, da dimenticare tutte l’ansia che mi affliggeva fino a quel momento. Poi feci un respiro profondo e fissai mio padre, sorridendo, ricordo ancora quel momento.

Così presi la prima barretta e uscì, mangiando il primo scacco dopo mesi, ne avevo bisogno, ne avevo davvero tanto bisogno.

Mentre camminavo ero arrivata davanti alla cioccolateria della sera prima.

Ci pensai un secondo ed entrai, anche perché c’era il cameriere di ieri. Mi sedetti al tavolo di ieri, e attesi. << Chocolate? >> << Non, seulement un thé, bitte >> dissi, mentre prendevo il mio quaderno degli appunti e scribacchiavo qualcosa. << Vous êtes une femme des lettres ? >> mi chiese, mentre deponeva al mio tavolo un the, che aveva un aspetto davvero bollente, tanto era il vapore. << Sono una scrittrice >> gli risposi, con modestia. << E cosa scrivete? >> << Racconti, ho pubblicato sei miei racconti, uno a diciotto anni, in sei diverse antologie, aspetto ancora di poter raccogliere tutto in un volume unico >> risposi.

I miei risultati erano modesti, davvero modesti, ma io non mi arrendevo, prima o poi sarei riuscita a sfondare, e a vendere milioni di copie. Era il mio sogno, vedere la mia faccia sulle vetrine delle librerie, nei centri commerciali, poter trarre dei film dalle mie storie, era un sogno, ma ci credevo e avevo ottime possibilità, me lo ripetevo sempre. Ce l’avrei fatta, dovevo farcela 

<< Opere tradotte? >> << Solo una e in ceco, niente di che >> risposi, quella storiella ambientata a Praga era stata definita la migliore, sebbene a me non piacesse, troppo simile a mille altre storie; io di solito cercavo di essere originale, ma quella volta non c’ero riuscita. 

<< Quando sarai famosa torna qui, la cioccolata l’offrirà la casa >> disse lui, ed io sorrisi, prima di pagare e uscire.

x Fe85: grazie per aver postato qui il commento

x miss dark: non mi piaceva di svelare tutto, epr questo sono stata sbrigativa, mi piace scoprire i miei personaggi capitolo epr capitolo, all'inizio sono sempre sbrigativa, sperando che questo ti piaccia

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Aplés Sokolàtes ***


Il terzo giorno della mia vacanza stava camminando per la Vieux Nice, scoprendo i colori e i sapori di quella parte della città, che sembrava quasi a parte, un’altra cittadina, da quanto era diversa. Era tutto più calmo, più rilassato, più intimo. E mi piaceva, mi piaceva tanto.

Tutt’altra atmosfera regnava a casa mia, o almeno così ricordavo, me n’ero andata non appena avevo potuto, anche se la distanza fra Gauting e Monaco era minima, appena venti minuti, ma che per me valevano molto. Fin da piccola volevo essere indipendente, e sebbene i miei genitori lo avessero capito non avevano compreso di quanta indipendenza avessi realmente bisogno. Così appena finito il liceo era andata via di casa, nonostante la S-Bahn collegasse Monaco a Gauting ed io, volendo, sarei potuta rimanere a casa e fare avanti e indietro.

Avevo finito l’Università nel minor tempo possibile, e avevo subito trovato lavoro come correttrice di bozze presso una casa editrice di monaco, benché il mio sogno fosse divenire una scrittrice affermata.

Mentre camminavo ero arrivata al mare, o perlomeno ne sentivo l’odore e ne vedevo il rumore, anche se non lo vedevo direttamente.

Ero arrivata vicino a delle bancarelle. Incuriosita mi fermai, a osservare. Potevo sempre comprare qualche regalino per mia madre e mio padre, oltre che qualcosa a Mitzi Hauser, la mia agente, che faceva così tanto per me. Mentre io mi ricordavo di lei solo quando avevo bisogno di un favore o in occasione di una festa.

Così osservai le bancarelle. C’era della frutta, delle spezie e per ultimo dei prodotti tipici, sia nizzardi sia della Costa Azzurra, ma quello che attirò la mi attenzione fu una bellissima tovaglia, ricamata a mano a detta dell’anziana signora che era di fronte a me.

Mercanteggiai un po’con la signora, mantenendo sempre la calma, e ottenni un lieve sconto sulla tovaglia.  Era un’occasione speciale, era dal liceo che non contrattavo più Mi aveva insegnato quell’arte un mio compagno dell’aula di inglese, Sahid Rustaf, che nonostante fosse turco, e si sa che i greci e i turchi non si sopportano, mi aveva insegnato a trattare con i venditori. A un certo punto mi ero anche chiesta se mi fossi innamorata di lui, ma era improbabile, per me era solo un amico fedele, anzi, a volte nemmeno quello, era un compagno di classe, e basta.

Come incentivo, perché ad ognuna delle nostre gare di contrattazione vinceva lui mi regalava due scacchi di cioccolato fondente.

<< Aplés sokolàtes >> dicevo io, quando vincevo e lui mi premiava. << Sade çikolata >> replicava lui, nel suo turco con accento di Berlino.

Dovevo festeggiare. Così corsi nel primo supermercato che trovai e presi la prima barretta di cioccolato fondente, senza guardare né la marca né il prezzo nonostante avessi nella mia borsa già la barretta di cioccolato al latte.

Non appena uscì mi sedetti su una panchina, e lentamente, con gesti studiati e teatrali, presi quella barretta, ne staccai due scacchi, stando attenta, due e solo due, e me li portai alla bocca.

Era un odore amaro, amaro e pungente, perché avevo comprato cioccolato fondente al 70%, che era abbastanza amaro, ma mi piaceva. Da impazzire. Il sapore del trionfo, ecco cos’era per me quel sapore amaro e pungente, il sapore del trionfo.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Lefki sokolàta ***


Il giorno seguente stavo camminando per la Promenade des Anglais. Ero abbastanza calma, nonostante mi fossi alzata tardi e di conseguenza il buffet della colazione fosse poco carico di cibi e bevande. Il tempo era stupendo, senza una nuvola, ma il vento era tremendo, sembrava quasi che volesse trascinarmi via. Ed io quasi quasi l’avrei desiderato. Volare via, volare lontano, lontano da tutti e da tutto. Da tutte le mie preoccupazioni, le mie gioie, senza sentire nulla.

Senza rendermene conto, forse anche a causa dell’ i-pod, e del volume alto della musica, ero arrivata di nuovo davanti la cioccolateria. Ci pensai un attimo, poi entrai, salutata dal solito cameriere e dal gestore, che ormai mi conoscevano.

Quel giorno mi ero portata un libro, così lessi qualcosa mentre il cameriere, dovevo chiedergli come si chiamava, mi portava una bella cioccolata calda, questa volta con la panna.

<< Danke, qual è il tuo nome? >> << Pierre Claudel, e tu? >> << Irene Maier >> risposi, accettando la cioccolata, che quel giorno era particolarmente invitante. << Che cosa stai leggendo? >> << Anne Rice. Armand der Vampir >> risposi, mentre riponevo il libro. << Non sembri quella che legge storie horror >> << Infatti, però adoro le storie d’amore, anche se mi commuovo >> risposi.

Avevo scoperto quella scrittrice americana quando avevo diciotto anni, e avevo letto tutti i suoi romanzi, almeno quelli che avevano tradotto in tedesco. Quando avevo voglia di leggere una bella storia, di commuovermi, o trovare l’ispirazione aprivo uno dei suoi libri a caso e leggevo tre, massimo cinque pagine a caso.

Per ritrovarmi immancabilmente depressa, il mio stile era così diverso, così infantile, così semplice, che a volte meditavo di smettere di scrivere e di cominciare a lavorare nell’azienda di papà.

E in quel caso mi servivo del cioccolato, di nuovo. Da piccola era strano, ma solo ora, a ventotto anni, ero libera di ammettere che ero una ciocco dipendente, e me ne vantavo.

Quando ero in quella particolare depressione, in altre parole depressione causata dalla mia scarsa autostima e dal fatto che avevo ancora molto da imparare come scrittrice andavo in cucina, aprivo il terzo cassetto da destra e prendevo del cioccolato bianco.

Era una mania abbastanza recente, almeno da quando a diciassette anni avevo scritto il mio primo racconto, più per gioco che per altro. Siccome c’era un concorso letterario, avevo partecipato, non aspettandomi granché.

Non avevo vinto, e non l’avevo detto a nessuno, nessuno sapeva che partecipavo al concorso, solo la mia professoressa di tedesco lo sapeva. E in quell’occasione, la prima di molte altre, avevo preso, quasi per sbaglio cercavo il cacao per farmi una cioccolata calda, del cioccolato bianco e l’avevo mangiato, come se fossi in un sogno.

Delusione e speranza, ecco cosa rappresentava per me, delusione e speranza.

x MarchesaVanzetta: il mix perfetto... oh yeah!!

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Sokolàta me fountoùkia ***


Il quinto giorno avevo deciso che sarei andata al MAMAC, il museo cittadino d’arte Moderna e contemporanea. Non amavo molto l’arte contemporanea, che giudicavo assurda e che non capivo, ma tutti quelli con cui avevo parlato me l’avevano consigliato.

Avrei voluto rimandare la mia visita a domani, ma siccome non sapevo se sarei dovuta partire prima, avevo optato per andarci quel giorno. Avevo controllato la cartina la sera prima, e avevo potuto constatare che il MAMAC era  abbastanza lontano dal Negresco, così mi ero alzata presto, e dopo una colazione abbondante mi ero incamminata a piedi verso il famigerato museo.

Camminare non era un problema per me, non lo era mai stato, a voler essere sinceri. Quando ero al liceo guadagnavo del denaro, pochi spiccioli in verità, consegnando giornali durante l’anno scolastico. D’estate invece camminavo almeno 10 km al giorno, 5 la mattina e 5 la sera, ogni giorno.

All’inizio pensai di essermi sbagliata, quel palazzo non poteva ospitare u museo, o forse si?

Mi feci coraggio ed entrai. La hall era semplice e vi erano diversi cataloghi. Presi la brochure in tedesco e chiesi dove dovevo pagare. Mi fu detto che era a entrata libera e mi fu mostrato dove avrei dovuto lasciare la giacca. Poi con l’ascensore salì al primo piano e iniziaì la mia visita.

Le opere d’arte moderna mi lasciavano senza fiato di solito. Ma perché non riuscivo a capirle, e quindi non le apprezzavo. Non capivo perché certi artisti si limitassero a lanciare del colore a caso su una tavolozza, o facessero una linea e basta; e solo per questo dovessero essere considerati sia dei geni che dei grandi maestri. E dovessero essere quindi idolatrati dai critici.

I piani e le opere d’arte si succedevano veloci, e io restavo a bocca aperta, quelle opere, sembrava che mi parlassero, che mi rivelassero dei segreti, potevo leggere mille storie tra le loro pieghe, così tante storie che probabilmente non mi sarebbe bastata una vita per trascriverle tutte.

Senza rendermene conto ero arrivata all’ultimo piano e mi stavo guardando attorno, non sapevo dove fosse l’uscita. Poi vidi un cartello e lo seguì. Mi portò sul tetto, dove vi erano piante in gran quantità. Sorridendo lo attraversai, era tutto così diverso dal resto del museo. Le grate di ferro facevano un rumore piacevolissimo e da lì potevo vedere tutta Nizza. Era una sensazione dolcissima e inebriante.

Come se in quel momento, invece di essere sul tetto del MAMAC a Nizza, Francia; mi trovassi a casa mia, a divorare l’ennesimo scacco di cioccolato, solo che questa volta era cioccolato con le nocciole.

Non era il mio preferito, ma era sempre cioccolato e io ne andavo pazza. Mentre osservavo la ruota panoramica mi chiesi se quello che stavo facendo della mia vita fosse giusto, e se mi avrebbe portato dei risultati, risultati concreti e non le solite chimere che inseguivo da diversi anni.

Fu con questi pensieri che scesi, tornai al piano terra, rientrai nel museo, presi la mia giacca e mi diressi verso il centro della nuova Nizza, per cercare un posto dove pranzare in santa pace.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Sokolàta me amýgdala ***


L’ultimo giorno restai a letto fino alle dieci. Erano anni che non mi facevo prendere da un attacco di pigrizia, e la cosa mi piacque molto, dovevo riscoprire più spesso quelle sensazioni. Da piccola mi svegliavo sempre tardi, così avevo preso l’abitudine di indossare un orologio che segnava l’ora anticipo, così riuscivo ad essere sempre puntuale. La cosa mi stressava, ma almeno non facevo più figuracce arrivando in ritardo, anzi, a volte era addirittura in anticipo.

La cosa faceva preoccupare mio padre, che era sicuro che prima o poi sarei diventata una maniaca della puntualità. << Mi basta essere una maniaca del cioccolato >> rispondevo, mangiando l’ennesimo scacco di cioccolata.

La cioccolata era l’unica cosa che mi dava piena soddisfazione, oltre allo scrivere. Durante l’adolescenza avevo avuto i brufoli, ovvio, ma per fortuna era durato solo tre anni, anche perché adoravo prendermi cura di me stessa, usando creme e oli.

Così pensavo mentre indossavo un paio di jeans neri, una maglietta celeste, delle ballerine blu ed uscivo, per il mio ultimo giorno a Nizza.

Quel giorno avrei visitato il celebre museo Matisse, e sebbene l’impressionismo non fosse il mio periodo preferito, ammiravo profondamente le pitture dei grandi maestri

Il museo era la mia meta, ma ancora non sapevo se l’avrei visitato, o se mi sarei fermata sulle panchine lì vicino a pensare, scrivere, sentire la musica, tutte e tre insieme o nessuna.

Il museo si trovava su una collinetta dentro Nizza, e ci si arrivava o con l’autobus, o a piedi.

Decisi per la seconda opzione, per tenermi in allenamento.

Era una bella giornata, e il vento era quasi inesistente quando cominciai la mia camminata. Per il primo tratto non feci fatica, ma in seguito, a causa del caldo, faticai parecchio.

Ma ne valse la pena, il museo era splendido. Il primo piano ad essere sincera mi deluse, c’erano solo schizzi preparatori e poco altro. Fu al primo piano che potei ammirare la stupenda collezione del museo, era quella l’arte che preferivo, quella. 

Poi visitai il sito romano lì vicino, anche se non mi ero mai interessata alla storia o all’archeologia, era solo un modo per passare tempo. A scuola odiavo l’ora di storia, a causa della professoressa, Frau Heinz, che aveva una maniera incredibilmente pedante di spiegare. I miei voti erano nella media, compensavo i brutti voti in matematica e in fisica con tedesco e latino, ma storia mi riusciva davvero insopportabile.

***

Nel pomeriggio ero rimasta fino alle 16:00 in albergo, a rilassarmi. In quei giorni avevo ripensato molto al mio passato. Ero stata fortunata e mi ero integrata quasi subito a scuola, a causa del mio cognome tedesco, nonostante fossi per metà greca. Eppure, avevo sempre avvertito una sorta di negatività. Come se gli altri non aspettassero altro che un mio passo falso per colpirmi e umiliarmi. Triste, ecco come mi sentivo, e spaventata, che in quelle occasioni lo ero davvero tanto. E nemmeno il cioccolato a volte serviva a farmi tornare il sorriso, nemmeno il mio adorato cioccolato con le mandorle, che in questi casi era il più forte, alla fine risultava inutile.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Oraìo antìo ***


Quella mattina mi alzai con la strana consapevolezza che quello era l’ultimo giorno che avrei passato a Nizza. In poco tempo mi ero ambientata in quella città, e mi dispiaceva lasciarla. Il mio aereo partiva da Cannes alle 14:50, così avevo il tempo di farmi una cioccolata calda, riflettevo, mentre camminavo.

Quando entrai nella solita fui sorpresa di non notare Pierre. << Dov’è Pierre? >> chiesi a una delle cameriere. Oggi è il suo giorni libero >> mi rispose la ragazza. Doveva avere sui diciotto, vent’anni, aveva i capelli a caschetto e un’aria di superiorità che m’indispettì subito. << Perché lo cercavi? >> mi chiese, in Germania ci rivolgevamo a chiunque non conosciamo con il lei, e lei mi dava del tu! << Era stato gentile con me >> risposi.

La verità era che avrei voluto rivederlo, perché … perché … perché volevo rivederlo. Forse era per ringraziarlo, forse per parlare un po’, forse perché volevo baciarlo. Non lo sapevo bene. << Cosa vuole ordinare? >> << Un latte macchiato >> risposi, senza pensarci. Lo segnò e si allontanò. Perché non avevo preso una cioccolata calda, eppure la desideravo, ne avevo bisogno, ma non l’avevo ordinata, avevo scelto del latte macchiato.

Stavo per chiamare la cameriera dirle che ci avevo ripensato, che volevo la cioccolata calda, ma ebbi un altro ripensamento e non la chiamai, sebbene avessi quasi alzato il braccio.

Mentre aspettavo giocherellai con il mio cellulare, giusto per ingannare il tempo, osservando le foto che avevo fatto.

La cameriera fu di ritorno, con la tazza di latte macchiato che avevo richiesto, ma che non ero impaziente di bere.

La sorbì in silenzio, mentre i ricordi fluivano nella mia mente, liberi di sovrapporsi come volevano, almeno loro dovevano essere liberi.

Fu solo quando la terminai che mi resi conto che era già mezzogiorno, e  che dovevo correre, altrimenti avrei perso l’aereo.

Arrivata il albergo pagai, ringraziando mentalmente gli euro, e mi precipitai nel taxi. Per un secondo pensai alla valigia che avevano smarrito, ma mi aveva chiamato mio padre la sera prima, per dirmi che era arrivata  casa dei miei, e che dovevo solo andare a prenderla.

Fu strano sedersi, allacciare la cintura, sentivo che avevo lasciato lì a Nizza una parte di me. Adieu Nice. Verabschiedet Nice. Oraìo antìo.

ringrazio coloro che hanno recensito, aggiunto la mia storia, o anche semplicemente letto

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=654729