Nomadi

di Danu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***



 

Arrivarono in una delle prime giornate soleggiate dell’anno, precisamente a 

Marzo, la vigilia dell’equinozio. È ridicolo che ancora oggi ricordi perfettamente il giorno della loro venuta, ma quei momenti sono rimasti aggrappati alla mia memoria rifiutando di abbandonarmi. 

Era quel periodo dell’anno in cui il mondo sembra risvegliarsi dopo il suo lungo letargo invernale. Il sole risplendeva ogni giorno con più forza e illuminava le chiome bionde e ramate dei lavoratori nei campi, il clima sembrava impazzire mischiando il dolce tepore della primavera a burrascosi temporali e tutte noi potevamo finalmente passare i pomeriggi ad intrecciare corone di fiori.

I prati iniziavano a fiorire e nell’aria si respirava un aroma, o forse semplicemente una sensazione speciale, che rendeva ancora più allettante l’arrivo del calore dopo il gelo dell’inverno. Come ogni anno aspettavamo con trepidazione l’arrivo dell’equinozio per festeggiare la dipartita della triste stagione invernale. 

Tuttavia, non era solo quello che attendevamo. Volenti o nolenti, aspettavamo l’arrivo dei nomadi che, come ogni anno, attraversavano il fiume accampandosi nella parte opposta, come per evidenziare ancora di più la differenza tra noi e loro.

Ogni primavera arrivavano con i loro sorrisi, i loro vestiti sgargianti e la loro condotta assolutamente immorale, come diceva Padre Philip man mano che l’inverno ci abbandonava. Continuava ad inveire contro quel gruppo di “miscredenti” per tutto il tempo in cui rimanevano vicino al villaggio borbottando ogni volta che qualcuno di loro gli passava anche solo accanto.

“Sono fiori colorati e assai graziosi, certo, ma quelli che portano con loro sono i semi del male e, se non preghiamo abbastanza, investiranno tutto il villaggio con la loro eresia!”

Anche se molti erano divertiti dal suo atteggiamento, nessuno lo contraddiceva. 

Tutti, dai capisaldi del villaggio ai contadinelli in miseria concordavano che, nonostante fosse inevitabile, il loro arrivo non avrebbe mai potuto portare nulla di buono.

Credo che soprattutto gli adulti fossero spaventati: quei “miscredenti” avevano sorrisi smaglianti e maliziosi, comportamenti e libertà che potevano attirare facilmente l’attenzione delle loro figlie o distogliere i giovani uomini dai loro doveri. E se ciò fosse davvero successo, come avrebbero fatto a riportare l’ordine? A non rimanerne disonorati?

Per questo, l’atteggiamento della maggior parte dei miei compaesani era caratterizzato da brividi di disgusto o da ripetuti e frenetici segni di croce ogni volta che li si nominava.

A casa avevamo avuto una particolare conversazione a riguardo un mese prima. 

Mia madre stava rammendando qualche vecchio vestito seduta vicino al focolare per vedere meglio nonostante la fievole luce proveniente dalla finestra. 

Charlotte stava guardando fuori dalla finestra con la sua costante aria spensierata. Mi ha fatto sempre sorridere il suo modo di sognare ad occhi aperti, sinceramente credendo che un giorno sarebbe scappata e dopo numerose avventure avrebbe finalmente incontrato e sposato il suo principe. 

Stavo leggendo una fiaba ad Anne, ma subito fummo interrotte da mia sorella.

“Sapete che arriveranno anche quest’anno?” sussurrò cercando invano di non attirare l’attenzione di nostra madre.

Girò il busto verso di noi sorridendo entusiasta. All’istante capii a cosa, o meglio a chi, stava pensando.

“A cosa ti riferisci, cara?” le chiese nostra madre senza neanche alzare lo sguardo dal lavoro.

“I nomadi. Arriveranno questa primavera. Come ogni anno.”

Mia madre alzò finalmente lo sguardo e fissò Charlotte con i suoi occhi azzurri, una smorfia dipinta sul viso come se mia sorella stesse parlando di quando da piccola aveva cercato di mangiare uno scarafaggio.

“Il signor Beckett dovrebbe intervenire una buona volta ed evitare che vengano ad infestare il nostro villaggio ogni anno. Sono persone così sgradevoli!”

“Perché?” chiese Anne con la sua vocetta. Era in quella fase in cui i bambini chiedono spiegazioni su qualunque affermazione dei genitori.

“Perché non credono in Dio e giocano con il demonio.” le rispose con semplicità.

Charlotte sbuffò sonoramente guadagnandosi uno sguardo di rimprovero. “Stai solo attenta a non cadere nelle loro trappole come l’altro anno. È mancato solo un soffio al disonore.”

Mia sorella si girò interamente e con un’espressione offesa esclamò: “ Quelli non erano giochi, madre. Erano sentimenti pieni di amore!”

Fu il turno di mia madre a sbuffare. “Amore è cosa provi per tuo marito. Quella era solo sporca lussuria.”

Entrambe la guardammo a occhi spalancati, incredule di aver davvero sentito ciò che aveva detto. Era il primo accenno a ciò che avveniva tra un uomo e una donna che le avessi mai sentito pronunciare e le mie guance si imporporarono immediatamente. 

Ma prima che potessimo ribattere, mia madre dichiarò: “Non posso cacciarli via o impedire la loro venuta in alcun modo, ma non voglio vedere nessuna di voi vicino a uno di quegli uomini. L’alternativa è essere spedite in convento, vi avviso.”

Nessuna di noi disse qualcosa: sapevamo quando era ora di lasciar perdere. Nonostante tutto, scorsi però lo sguardo freddo che Charlotte le lanciò. 

Mia sorella aveva già diciannove anni e come dicevano ripetutamente i nostri genitori, avrebbe dovuto sposarsi presto. Certo, sempre se non voleva diventare una vecchia zitella per il resto della vita.

Nonostante fossi sicura che ne conoscesse il rischio, era convinta che un giorno o l’altro avrebbe sicuramente trovato il suo futuro.

E quando le chiedevo se c’era almeno qualcuno tra i giovani del villaggio che le poteva interessare, l’unica risposta che ricevevo era uno sbuffo divertito e una smorfia disgustata. Era come se nessuno lì fosse adatto a lei, come se lei fosse nettamente superiore a tutti noi e ciò non lo sopportavo.

Lei affermava sempre, in modo a volte anche troppo melodrammatico, che il solo che aveva mai preso il suo cuore era Aleksandr. Non vedeva l’ora di rincontrarlo quella primavera e sperava che l’avrebbe portata con sé.

Ero molto diversa da lei, essendo costantemente timida e silenziosa davanti agli estranei. Non aspiravo a vivere un’avventura, ma desideravo una vita tranquilla nella campagna. Sapevo chi sarebbe stato mio marito. John, il nostro vicino, mi aveva già chiesto la mano, anche se prima avrebbe dovuto parlarne con mio padre.

Era sempre stato un bravo ragazzo, simpatico, forse troppo semplice per i gusti di mia sorella, ma andava bene e ne ero soddisfatta. Non sapevo se i miei sentimenti per lui raggiungessero l’ amore, ma era pur sempre un amico, l’unico che avessi, ed ero sicura che con il tempo avrei imparato ad amarlo come marito.

Quella tarda mattinata di Marzo eravamo appena usciti dalla chiesa.

Padre Philip aveva in qualche modo saputo in anticipo di tutti noi del loro arrivo e aveva allungato il sermone di almeno un quarto d’ora. 

Quando uscimmo dalla chiesa, sul viso di Charlotte si aprì un grande sorriso. Katherine, la figlia del macellaio, si avvicinò e sussurrò: “Thomas mi ha detto qualcosa di importante questa mattina.”

La guardai ad occhi sgranati. “Si è dichiarato?”

Lei rise senza allegria. “No, sciocca, non ancora.” rispose evitando il mio sguardo. Sapeva che John me l’aveva già chiesto e davvero non capivo perché la cosa la imbarazzasse tanto. Forse era perché era più grande di me di almeno un anno o due.

Thomas era il figlio del boscaiolo ed era molto amico di John. Credo che il fatto che fossero rispettivamente figli di un  boscaiolo e di un falegname, li abbiamo portati a passare molto tempo insieme e a diventare quasi come fratelli.

“Mi ha detto che questa mattina nel bosco hanno incontrato i nomadi. Stavano piantando le tende e sistemandosi nell’altra riva del fiume come sempre.”

“Davvero?” esclamò Charlotte. 

Katherine annuì confusa dall’entusiasmo di mia sorella. “Sì, spero che quest’anno ci lascino in pace, però.”

“Perché? Ti danno fastidio?”

“A Thomas non piace che io debba parlarci assieme o anche solo camminarci accanto.”

Mia sorella fece una smorfia. “Potresti sempre farlo ingelosire. Forse allora ti chiederà la mano.”

Le lanciai un’ occhiataccia, ma lei sembrò non badarci mentre guardava con aria di innocenza la nostra amica. Katherine forzò un sorriso borbottando qualcosa di molto simile a “Ci proverò di certo.” e salutandoci raggiunse i genitori incamminandosi verso casa.

Lanciando a mia volta uno sguardo alla folla, mi accorsi degli sguardi severi di mia madre, ma anche dell’avanzare di John.

Mia sorella sbuffò alzando gli occhi al cielo meritandosi una mia gomitata.

“Signorina Dale.” la salutò con formalità. “Lydia.” sussurrò con un tono talmente intimo che arrossii. Mi porse il braccio e io ci appoggiai cautamente la mia mano.

Ci dirigemmo verso casa. 

Nostra madre e nostro padre camminavano dietro di noi lasciandoci un po’ di libertà e la possibilità di parlare senza essere uditi. Nonostante non li potessi vedere, sentivo i loro occhi osservarci e sapevo che le loro parole erano riferite a noi.

John camminava alla mia destra molto più vicino di quanto sarebbe stato lecito per evitare pettegolezzi, ma non sembrava preoccuparsene. Al contrario, sorrideva con innocenza a chiunque ci guardasse contrariato.

Charlotte era alla mia sinistra, ma non sembrava fare caso a noi. Sembrava nei suoi pensieri non preoccupandosi di tralasciare il suo dovere di chaperon.

“Questo pomeriggio ho intenzione di passare da casa tua.” disse determinato. “Ho deciso che è venuto il momento di parlare del nostro futuro con tuo padre. Voglio chiedergli la tua mano.”

Sorrisi imbarazzata abbassando lo sguardo a terra. “Oh.” risposi.

Si preoccupò immediatamente, anche se non avrebbe dovuto conoscendomi.“C’è qualcosa che non va, Lydia? Hai cambiato idea?”

“No, non impensierirti. Ne sono … contenta.”

“Acconsentirà?”

Mi voltai e lanciai uno sguardo veloce a mio padre. Ci stava osservando con un cipiglio impassibile e non sembrava gradire molto la vicinanza di John a me.

Mi scostai leggermente e gli risposi: “Sono sicura di sì.”

Mi sorrise. “Bene, spero di festeggiare presto il nostro fidanzamento.”

Risposi al suo sorriso cercando di mostrare almeno la metà del suo entusiasmo.

Non dovetti sforzarmi troppo, però. Infatti, la nostra attenzione fu presto catturata da ciò che stava avvenendo in piazza: un gran numero di persone erano raccolte in cerchio. Normalmente sarei andata avanti senza curarmene più di tanto, ma vidi il sorriso di mia sorella e prendendo la sua mano, la seguii mentre si dirigeva curiosa verso la folla.

Quando riuscii a passare attraverso la calca, li vidi. I nomadi, coloro che la maggior parte della gente temeva come la peste, ne disprezzava le gesta e in segreto ne ammirava la libertà.

C’era musica e alcuni di loro ballavano come se avessero il diavolo dentro, con una passione e spensieratezza che non avevo mai notato tra le persone del villaggio. Mi incantai ad osservarne i movimenti e le gesta. Riconobbi i visi di molti di loro, ma non tutti.

C’era un nuovo giovane. Stava suonando un violino. La sua pelle mi ricordava il colore del miele di castagno e bene si intonava con il bordeaux della sua camicia. 

Nei suoi occhi c’era qualcosa di così felice che sentii una fitta di gelosia.

Aggrottai per un attimo la fronte, contrariata, ma proprio quando stavo per distogliere il mio sguardo incontrai i suoi occhi e per un attimo dimenticai di abbassare lo sguardo. Poi venni spintonata da qualcuno e per poco non caddi a terra. 

Quando rialzai timidamente lo sguardo, non mi stava più guardando. I suoi occhi erano chiusi e così rimasero per tutto il tempo.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***



 

Sorprendente quanto a volte John potesse essere impaziente. Quella domenica mi aveva convinto che non aveva alcun senso aspettare un altro giorno: voleva chiedere il permesso a mio padre appena tornati a casa.

Mi accompagnò e nonostante cercasse di nasconderlo, era teso come un ragazzino che per la prima volta deve gestire un toro tutto da solo.

Continuò per tutto il tragitto a parlare nervosamente di tutti i programmi che aveva per il futuro. Era sempre stato così tra me e lui: lui parlava e io ascoltavo.

Anche se sapevo che il mio quasi costante silenzio avrebbe potuto infastidire la maggior parte della gente, a lui non sembrava dar problemi.

Non sapevo cosa gli piacesse di me: non ero una delle ragazze più belle del villaggio ed ero così timida che la maggior parte dei giovani non mi notava neanche.

Nonostante fossi quasi invisibile, aveva cercato di avvicinarsi a me con un incredibile determinazione.

Anche se il nostro villaggio non contava più di cinquanta famiglie e John era sempre stato il mio vicino di casa, non avevo mai parlato molto con lui. 

John era il bambino che mi aveva sempre tirato i capelli e che non mancava di spintonarmi ogni volta che gli passavo accanto. Nonostante questo non avevamo mai parlato. Ci eravamo conosciuti per caso, quando si era seduto a poca distanza da me sulla riva del fiume. Si era storto una caviglia e mentre io lavavo i panni, forse per dimenticare il dolore, aveva iniziato a parlare senza fermarsi mai o pretendere che io intervenissi. 

Era stato un incontro così particolare e nuovo per me, che lui aveva conquistato un piccolo cantuccio nel mio cuore. La nostra era sempre stata pura amicizia e lui mi comprendeva come se riuscisse a sentire i miei pensieri. 

Ora eravamo giunti alla proposta di matrimonio. Era stata una grande sorpresa. Avevo risposto sì immediatamente, certa che non ci sarebbero state altre opportunità per me. L’ultima cosa che avrei voluto sarebbe stata restare sola per tutta la vita, esposta alle perfide dicerie degli altri.

Quando arrivammo a casa, John si diresse subito verso la cucina da dove arrivava la potente voce di mio padre. Stava cantando come solo lui sapeva fare. La sua voce era splendida, ma, come diceva mia madre, dovevamo ringraziare il Signore che lui non avesse scelto di diventare un musico. Altrimenti avremmo vissuto per le strade e saremmo presto morti di fame.

Davanti alla porta di legno della cucina, John si girò guardandomi con i suoi occhi azzurri. Sospirò. “Qualunque cosa succeda ci sposeremo, Lydia. Te lo prometto.”

Quella semplice frase, che voleva essere una rassicurazione e a cui non prestai molta attenzione, influì di molto le vicende di quel periodo. Mi aveva fatto una promessa, non potevo sapere che per lui avesse il valore fatale di un giuramento.

Senza aspettare una mia imbarazzata risposta, bussò alla porta mostrandomi i lunghi capelli biondi legati con un cordino. 

Capii che era parecchio nervoso dal rossore sul suo collo, ma non gli dissi niente.

Corsi fino alla mia stanza senza guardarmi indietro.

Charlotte sedeva sul nostro letto osservando con sguardo assorto il soffitto, ma posò i suoi occhi violetti su di me appena misi piede nella stanza.

Subito mi sorrise maliziosa facendo il verso al mio futuro marito. “Qualunque cosa succeda ci sposeremo, Lydia. Te lo prometto. Molto romantico …” Sogghignò.

“Sei solo gelosa.” sussurrai senza guardarla in faccia per non scoppiare a ridere.

Sbuffò. “Non pensi sia banale? Non vorresti trovare l’amore? Quello vero? Ti accontenti di così poco …” 

Si intrecciava i capelli all’indice e i suoi occhi splendevano come quando parlava dei suoi irraggiungibili sogni.

Non sapevo come giudicare l’opinione che Charlotte aveva di John: ripeteva che era banale e noioso, ma a volte aggiungeva che le sembrava sinistro e strano. Forse il suo scetticismo era nato dal fatto che non sembrava comprendere la nostra mite relazione: mia sorella era sempre così passionale, spontanea e spensierata che non riusciva a credere che tra me e John ci potesse essere qualcos’altro oltre l‘amicizia.

“Lo guardi come se fosse una mucca, Lydia. Ti è completamente indifferente.” mi diceva sempre quando cercavo di convincerla dei miei sentimenti per lui. “Non credo che guarderesti l’uomo che ami in quel modo, non pensi?”

Sospirai. “Non trovi l’amore. Impari ad amare, Charlotte. Non è qualcosa da cercare per la stanza.”

Fece una smorfia disgustata. “Mi chiedo se tu imparerai mai, allora. Non ci sei ancora riuscita e sta già chiedendo la tua mano. Credi che per quando sarete vecchi e grinzosi avrai finalmente imparato ad amarlo?”

“Cosa stai insinuando?” mormorai presa in contropiede.

Rise sguaiatamente, ma proprio mentre stavo per chiederle spiegazioni e scuse, lanciò un’occhiata alla finestra e il suo umore cambiò immediatamente.

Si affrettò a spostare le tende dimenticando la nostra discussione e guardò verso i boschi come se ci fosse qualcosa di spettacolare e imperdibile.

Seguii il suo sguardo e notai due uomini, piuttosto giovani da quel che potevo vedere da quella distanza, seduti all’ombra di un albero.

Li riconobbi all’istante. Uno era Aleksandr ed ero certa che fosse lui al quale era dedicato lo sguardo meravigliato e sognante di Charlotte. Ricordo di essermi sentita particolarmente a disagio osservando il modo in cui mia sorella lo guardava. 

C’era una tenerezza e una dolcezza nel suo sguardo che mi faceva dubitare parecchie cose. Nei miei occhi non c’era quella scintilla quando incontravano John e iniziavo a dubitare che l’avrei mai guardato in quel modo speciale.

Ero curiosa: come sarebbe stato? Come mi sarei sentita?

E sapevo anche chi era quell’altro giovane. Era molto lontano e non potevo vedere il suo viso, ma ero certa che fosse il musicista della piazza. 

I due uomini alzarono lo sguardo verso di noi e si alzarono per poi sparire subito dopo in mezzo agli alberi.

“Vieni.” 

Charlotte afferrò la mia mano e un cesto posato vicino al letto. Mi trascinò fuori dalla stanza e giù dalle scale gridando: “Madre, io e Lydia andiamo a raccogliere le fragoline di bosco!”

Senza neanche aspettare una risposta, corse fuori sicura che fosse meglio correre via e poi essere rimproverate al ritorno.

Continuò a correre verso i boschi senza fermarsi, nonostante i miei richiami. La seguii nonostante avessi molto di meglio da fare. 

Ero curiosa e parecchio infantile, ma speravo che seguendo ogni suo passo e sguardo avrei potuto apprendere ad amare John. 

Arrivate al limitare del bosco, si fermò e solo poco dopo mi accorsi che eravamo proprio nel punto dove si erano fermati Aleksandr e il musicista.

Mi guardai attorno per vedere se qualcuno fosse nelle vicinanze pronto a rimproverarci, ma erano tutti probabilmente nelle loro case pronti per mangiare. 

Mi sedetti sull’erba verde dimenticando per un attimo la mia stupida curiosità.

“L’ho trovato!” la sentii esclamare e vidi che teneva in mano un foglietto stropicciato con la stessa euforia che gran parte della gente avrebbe avuto se quel foglietto fosse stato d’oro.

Mi avvicinai immediatamente e lessi da sopra la sua spalla.

 

Vieni stanotte vicino al nostro accampamento.

 

Era molto semplice, nessuna dichiarazione di amore eterno, ma lei ne fu estasiata lo stesso. Strinse il pezzetto di carta al petto e sorrise gongolante.

“Non andrai sul serio.” le dissi.

“Certo. E non provare a spifferare qualcosa a nostra madre.” Era come se i suoi occhi lanciassero fulmini: la sola idea di ciò che avrebbe potuto accadere se io avessi davvero accennato qualcosa del genere ai nostri genitori la faceva infuriare. Mai avrei voluto mandarla in convento ed essere la causa della sua rovina, ma certo non volevo che si esponesse a rischi del genere.

“È  pericoloso! Lotte, tu sai cosa potrebbe succedere!” esclamai arrossendo nonostante tutto.

Lei mi sorrise con arroganza e sarcasmo sapendo benissimo i miei infiniti timori. 

“Non mi accadrà niente che io non mi aspetti.” fu la sua sfacciata risposta.

“Charlotte!” la ripresi con le guance in fiamme. A volte aveva davvero una faccia tosta …

“Su, vieni sciocchina.” mi disse dirigendosi verso il bosco.

“Non torniamo a casa?” chiesi confusa.

“Non senza fragole. Non voglio essere punita nuovamente.”



 

Quando ci avvicinammo al villaggio, John ci raggiunse con un sorriso  e mi prese la mano.

“Mi ha dato il permesso.” disse solo.

Mi ci volle un momento per capire a cosa si stesse riferendo e un altro per digerire la notizia, ma nonostante ciò riuscii a sorridere vivacemente.

Istantaneamente mi accorsi che, anche se ero convinta di volere sposarlo, l’idea non sembrava più eccitante di quanto avrebbe dovuto.

L’osservai chiedendomi se i miei occhi stessero brillando come quelli di Charlotte prima, ma già sapevo la risposta: lo stavo guardando come se lui fosse una mucca e niente di più.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***



 

 

La prima cosa che imparai tornando a casa era che nulla stava andando come previsto. Affatto. Mi ero sempre immaginata Charlotte correre ad abbracciarmi felice una volta appreso il mio fidanzamento, ma ciò non accadde. Mia sorella nascose un sorriso canzonatorio dietro una tenda di capelli biondi e corse verso il villaggio lasciandomi sola con il mio fidanzato. La maledissi mentalmente promettendo a me stessa di trovare un modo qualsiasi per fargliela pagare.

Ma tutti i miei pensieri furono interrotti quando John si avvicinò a me posando un braccio attorno alla mia vita. Arrossii ricordando che quello era lo stesso gesto di mio padre nei confronti di mia madre.

“La signora Dale mi ha invitato per pranzo.” mi disse John probabilmente aspettando una mia reazione.

Sorrisi e lo guardai negli occhi per un momento, prima di accorgermi della vicinanza sconveniente dei nostri visi e distogliere improvvisamente lo sguardo.

“Vuol dire che approva.” 

“Sicura? E Charlotte?” chiese scettico.

Feci una smorfia e calciai una pietra che rotolò giù per i campi scomparendo nell’erba alta. “Charlotte è Charlotte. Non mi ha detto ancora niente.” mentii conoscendo benissimo l’opinione di mia sorella.

Lui sospirò e si fermò. Tutto ad un tratto, non eravamo solo più sconvenientemente vicini. Eravamo messi peggio: una di fronte all’altro, il suo braccio a stringermi la vita e il suo petto a sfiorare il mio. Il suo viso era così vicino che ormai non sapevo più come evitarlo.

Lo chiamai incerta e imbarazzata dalla situazione oltre ogni dire. “John?” 

Quando sollevò lo sguardo dalle mie labbra, i suoi occhi mostravano un sentimento che non riuscii a comprendere. “Lydia, non immagini neanche quanto io desideri diventare tuo marito.”

Rimasi così sconcertata dal sentimento che si scorgeva dal tono e le parole di John, da quel repentino cambio di umore che non mi accorsi inizialmente del suo improvviso silenzio e del suo viso così pericolosamente vicino che il suo naso sfiorò delicatamente la pelle rossa della mia guancia. Le sue labbra accarezzarono le mie. Non esattamente un bacio, ma un assaggio, un preavviso, quasi.

Tuttavia, non riuscì a baciarmi davvero. Ringraziai mentalmente Charlotte per il suo tempismo quando sentii la sua voce squillante urlare dalla finestra. “ LYDIA! Venite!” In fondo, sapeva sempre come farsi perdonare.
 

                                                                                                         
 

“Mi devi dire qualcosa, Lotte?” 

Le chiesi mentre lei indossava il vestito più bello che aveva e mi tendeva il mio. Mi ricordavo l’occasione in cui li avevamo comperati. Era stato un anno prima, quando mio padre era andato verso la città vicina. Noi tutte eravamo preoccupate perché era un viaggio di almeno due giorni e non c’era nessuno ad accompagnarlo. E poi si sentiva spesso di qualche imboscata lungo quel tratto di strada. I briganti, però, non si fecero vedere e lui arrivò al guado sano e salvo. Attraversando però il ponte si rese conto di un uomo in acqua. Subito corse verso la riva e preso un ramo robusto lo tese all’uomo che si dimenava nel fiume. L’uomo si mostrò molto riconoscente e gli disse di essere in viaggio verso la contea vicina. Proseguirono il viaggio insieme, ma solo arrivati alla città, lui rivelò a mio padre di essere in realtà il conte e per poterlo ringraziare a dovere gli offrì una piccola somma di denaro. 

Con quella nostro padre comprò quattro abiti da festa piuttosto carini per noi e poi un piccolo gregge di pecore. Il resto lo depositò al banco. Quando tornò con a seguito due guardie, ci spaventammo, ma poi una volta spiegato tutto, fu chiaro che non eravamo più dei poveracci con due misere galline. No, ora avevamo un gregge. 

Sorrisi al ricordo e incalzai mia sorella: “Allora?”

Lei mi guardò cercando di nascondere il sorriso con cui si svegliata quella mattina. 

“Niente. Non ti devo dire niente. Per ora.” disse ammiccando.

“Lotte! Dai, perché sei così …” poi mi ricordai del biglietto che avevamo trovato e la guardai con rimprovero. “Dimmi che non sei andata, Charlotte Dale. Dimmi che non sei scappata di casa durante la notte come una poco di buono.”

Lei abbassò lo sguardo. “Non sono fatti tuoi.” disse mostrando le spalle e allontanandosi.

“Charlotte!” la richiamai mentre apriva la porta della camera.

“Sbrigati. Dobbiamo andare alla fiera.”

Sparì dietro alla porta e sentii i suoi passi veloci giù per le scale.

Sospirai e mi avvicinai alla finestra dove contemplai il bosco. Vedevo molte persone che uscivano da lì trasportando pesanti oggetti che da così lontano non riconoscevo. Anche i nomadi si stavano preparando alla festa dell’equinozio.

Perché mia sorella era così spericolata? Perché non mi ascoltava e non pensava a ciò che avrebbe potuto causare?

Sospirando nuovamente mi avviai al piano di sotto, fermandomi un attimo ad osservare i capelli legati e intrecciati in tre trecce fermate da varie forcine dietro la nuca. 

“Oh, Lydia.” mi salutò mia madre. “Charlotte ti aspetta fuori con Anne. Potresti passare prima a prendere due uova? Portale a quella donna.” mi chiese indicando la porta sul retro. 

Capii subito a chi si riferisse: Lady Fortuna. Era sempre stata quella donna, per nostra madre e anche per le altre persone del villaggio, ma, anche se ne parlavano con disprezzo e sospetto, nessuno si rifiutava di parlarle, rivolgersi a lei per malanni. Era molto brava a curare e anche la gente che la insultava senza problemi, lo sapeva e ne usufruiva comunque. Mia madre si limitava a venderle uova o qualcos’altro, facendo notare che l’importante per lei era che pagasse, ma dichiarava fermamente che mai e poi mai si sarebbe lasciata curare da una fattucchiera.

Mi affrettai e presi il cesto delle uova. Camminando in mezzo al fango mi tirai su il vestito per non sporcarlo e raggiunsi in poco la piccola pollaio. Infilai sette uova nel cesto e le coprii con un telo bianco.

Feci il giro della casa, passando oltre il recinto dove belavano le pecore e vidi Charlotte e Anne insieme a John, Katherine e Thomas.

Non notai inizialmente la tensione serpeggiante finchè non vidi una sesta persona.

Sentii Charlotte esclamare: “Basta! John, Thomas.”

Davanti a loro c’era il giovane con il violino. Lo riconobbi immediatamente, ma non sorrisi come mi veniva stranamente spontaneo fare. Al contrario, corsi fino a John. 

“John, cosa sta succedendo?”

Lo straniero mi lanciò un’occhiata vagamente disinteressata prima di rispondere. “Niente. Piccoli vecchi screzi.” 

Detto questo si allontanò superandoci senza un’altra parola. Rimasi a fissarlo finché non svoltò l’angolo e scomparve dal vicolo.

 

                                                                                                   
 

La tenda di Lady Fortuna era particolare. Vista dall’esterno poteva sembrare la comune tenda di un viaggiatore, ma una volta entrati sembrava di aver appena oltrepassato il confine di un altro mondo. O almeno, un altro mondo da quello che ti aspetti di trovare nella tenda di una nomade. Non avevo mai visto l’interno di una di loro, men che meno quella di Lady Fortuna, tuttavia sapevo che solitamente c’erano poche cose e tutte avevano un valore immenso per il proprietario. C’erano stoffe, orecchini e gingilli vari, un tavolino sommerso di pile di libri consunti, ciotole d’argento ammassate in un angolo della tenda, quello che sembrava un piatto di rame, piume di vari uccelli, pelli, un enorme cesto coperto da un telo rosso e una specie di mobile piatto coperto da una tenda bianca. Dappertutto erano appesi mazzetti di erbe da essiccare e c‘era l‘odore pungente degli unguenti. 

Non avevo mai visto un tale assortimento di cianfrusaglia in vita mia.

Dondolai leggermente il cestino con le uova non sapendo bene cosa fare. Ero certa di trovare Lady Fortuna alla fiera, ma tra i banchi non avevo trovato il suo inconfondibile banchetto dove tutti andavano per curare acciacchi, malori e raffreddori. Non vedendo la donna da nessuna parte avevo lasciato le mie sorelle con Katherine, Thomas e John. Quest’ultimo aveva cercato di accompagnarmi, ma l’avevo convinto ad aspettarmi lì con la scusa della necessità di non lasciare sole Charlotte e soprattutto Anne. 

La verità era che non me la sentivo di passare del tempo da sola con John che fosse anche solo la corta passeggiata verso il campo dei nomadi. Dopo l’episodio del giorno prima, in cui aveva cercato palesemente di baciarmi e per il quale Charlotte aveva riso sotto i baffi per tutto il pomeriggio, ero spaventata dalla possibilità che potesse accadere di nuovo. Certo, sapevo che una volta sposati ci sarebbe stato di più che un semplice bacio tra noi, ma non ero ancora pronta per un simile passo.

Repressi una fitta d’angoscia e rabbia pensando al tono canzonatorio usato da Charlotte ogni volta che alludeva a quel quasi bacio. 

Ancora un po’ di tempo, mi dissi. Ancora un po’ di giorni e sarò pronta.

“Bene, sembra che sia ora di dare il nostro saluto alla primavera, signorina Dale.” 

Sussultai sentendo la voce della donna che stavo cercando. 

Mi voltai e la trovai sulla soglia della sua tenda con un sorriso che poteva esprimere molti significati diversi eccetto l’allegria, i suoi occhi verdi che sembravano scavare dentro di me ogni volta e il volto giovane, ma maturo di chi conosce il mondo. 

Lady Fortuna era una donna particolare, come tutto ciò che la riguardava: un volto senza età, lineamenti difficilmente classificabili e una personalità a volte silenziosa e osservatrice, altre volte estroversa ed espansiva. 

I suoi occhi percorsero rapidamente la mia figura, in un esame simile al mio, ma più accurato.

“Una gemma pronta a sbocciare. Né troppo presto né troppo tardi. È proprio arrivata la primavera quest’anno.” disse quasi sovrappensiero. Poi senza spiegare le sue parole, si avvicinò e sorridendo: “Perfetto. Sono sette?” chiese indicando il cesto che avevo temporaneamente dimenticato di avere. 

“Oh, sì.” mormorai intimidita tendendoglielo.

Lei annuì, tirando fuori le nostre uova, esaminandole e posandole su un piccolo telo insieme a qualche rametto su cui spuntavano già le prime gemme. 

“Lady Fortuna …” iniziai a chiederle congedo, ma lei mi zittì con un’occhiata severa.

Prese un ampolla dal cesto che avevo visto precedentemente e ne verso il liquido rosso in una delle ciotole d’argento. “Non è sangue, tranquilla.” mi rassicurò e io non seppi se esserne sollevata o temere che, come forse lasciava presagire il suo tono, non lo era ancora. 

Intinse ognuna delle sette uova nella ciotola rossa e ognuna ne emerse rossa cremisi. Le ripose nel cestino insieme ai rametti e me lo consegnò lanciandomi un’occhiata ammonitrice come se sentisse il mio desiderio di lanciare il cesto e ciò che conteneva nell’angolo più lontano della tenda e correre via a perdifiato.

Uscì un momento e tornò poco dopo con un coniglietto bianco. 

Mi sorrise e uscendo nuovamente, mi disse: “Oggi è un nuovo inizio. Il ritorno del caldo, del sole, della vita. È per questo che festeggiamo tutti.”

“ Sì, Lady Fortuna.”

“Le uova dipinte di rosso simboleggiano il sole primaverile, le gemme la nascita di un nuovo inizio e la lepre è simbolo del Plenilunio di Primavera. Da dove credi che venga questa tradizione, signorina Dale?” mi chiese con fare inquisitorio.

Tentennai e questa fu la conferma di qualunque sospetto avesse coltivato. Ciò che disse dopo non so se fosse una premonizione o semplicemente un consiglio, ma lo disse con un tono così convinto che esitai sulla soglia per qualche attimo, prima di correre via.

Sospirò e con tono quasi materno, mi disse: “Lydia, tu potresti essere molto, se solo volessi. Ricordalo.”

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***



 

 

 

Aprii pigramente gli occhi e notai che Charlotte non era accanto a me nel letto. Alzai la testa e la cercai brevemente nel buio.

La riconobbi subito nell’ombra seduta alla finestra. Poteva essere solo lei con i suoi lunghi capelli ricci sciolti dietro le spalle. Penso che fosse l’unica ragazza del villaggio che dormisse senza intrecciare i capelli la sera. Nostra madre non approvava la scelta, ma non diceva niente.

Accesi la lampada ad olio e la osservai. Stava guardando fuori dalla finestra come sempre. La fragile luce della lampada si rifletteva sui suoi capelli biondi.

“Cosa stai facendo?” le chiesi con voce stanca anche se sapevo già la risposta.

Volse la testa verso di me ed esclamò sussurrando: “Parla piano! Stanno dormendo, ma se urli così, li sveglierai di certo.” Indicò il muro dietro il quale riposavano i nostri genitori.

Controllai vagamente che Anne fosse a letto. 

“Vieni a dormire, Lotte.” sussurrai chiudendo i miei occhi di nuovo. “Non spariranno da quel bosco entro l’alba.”

“No, vieni qui!” Scossi la testa con gli occhi ancora chiusi.

La sentii sospirare.  In un attimo era vicino al letto e mi scuoteva. “ Lydia. Lydia! Dai, non dormire!”

Socchiusi gli occhi guardandola con rimprovero. “Cosa vuoi? Ho sonno.”

“No, non è vero. Vieni alla finestra.”

Non avrei dovuto ascoltarla. Avrei dovuto richiudere gli occhi e dormire come ogni brava figlia, ma ero troppo curiosa: volevo scoprire a cosa stesse pensando.

La seguii e mi sedetti vicino alla tenda.

“Guarda.”

Fuori era buio, ma la luna splendeva riflettendo la propria luce sul campo erboso che ci divideva dal bosco.

C’era una lontana luce, proprio vicino al punto dove sapevo passava il fiume.

“La vedi quella luce? È il loro campo.” mi sorrise.

“Sì.”

Mi chiesi da quanto tempo la stava guardando. 

Improvvisamente Charlotte si alzò e mi fece segno di seguirla fino al nostro armadio. 

Smisi di essere confusa, quando vidi che prendeva i mantelli da viaggio e mi ricordai del biglietto ai piedi dell’albero.

“Charlotte, non possiamo uscire di casa in piena notte! È pericoloso! E oltre a quello, se qualcuno ci vede, siamo rovinate!” sussurrai preoccupata e leggermente arrabbiata per il fatto che mia sorella non si degnasse di ascoltarmi.

Pensai alle gemelle Bell e i loro falsi sorrisi e mi sentii svenire al pensiero che ci vedessero.

Avrei comunque dovuto sapere che se mia sorella si metteva in testa qualcosa non c’era modo di convincerla a rinunciare. “Non andremo a gironzolare per il villaggio! Andremo nel bosco e tu verrai con me.”

La guardai ad occhi spalancati notando la sua serietà. Non replicai e la seguii silenziosamente. 

Quando uscimmo dalla porta di casa, l’aria fredda ci spinse a chiuderci nei nostri mantelli.

Camminando dietro di mia sorella, osservai la notte. Non ero mai uscita a questa tarda ora e tutto quel buio mi faceva sembrare la nostra valle un mondo completamente diverso da quello su cui camminavo di giorno.

Forse erano vere quelle dicerie, del fatto che notte e giorno fossero due diversi mondi e lo testimoniava la bianca regina che sedeva nel cielo in quel momento. La sua luce dava un aria ancora più soprannaturale ed estranea alle sagome del bosco e delle case da cui ci stavamo allontanando.

Questo nuovo universo notturno mi spaventava e non vedevo l’ora di ritornare a casa. Mia sorella dovette capire a cosa stessi pensando perché mi lanciò uno sguardo di rimprovero. Non avevo proprio idea del perché volesse la mia compagnia visto che la notte prima era già scappata da sola per andare da lui.

“Sono così stanca, Charlotte. Ho dovuto danzare tutto il pomeriggio.”

Sbuffò. “È una bugia. E comunque, avresti dovuto pensarci prima di accettare la proposta di John. A quest’ora non saresti così stanca.”

Sorrisi scuotendo la testa. Quel pomeriggio era stato pieno di musica, balli e auguri di felicità. Io e John avevamo festeggiato il nostro fidanzamento con tutto il villaggio dichiarandolo nel pieno della festa dell‘equinozio. 

Mi era sembrato di vivere la vita di un’altra fanciulla e non avevo ancora realizzato cosa quello significava. Mi sarei sposata veramente. Non erano più progetti e promesse dette al vento. In pochi mesi, molto probabilmente alla fine dell’estate sarei stata una donna sposata.

John mi aveva guardato con gli occhi che gli brillavano mentre era seduto proprio accanto a me lungo il tavolo, ma forse era perché aveva bevuto qualche bicchiere di vino di troppo. 

Penso che approfittò del mio momento di confusione perché un attimo dopo era più vicino - i suoi occhi guardavano le mie labbra così intensamente che quasi mi faceva ridere - e la sua mano raggiunse la mia sotto il tavolo. 

Sapevo che c’era almeno tutto il villaggio a guardarci e ciò mi imbarazzava enormemente.

Il suo collo era rosso quanto le mie guance indicando che anche lui non era più tanto certo della sua decisione.

Poi, mi baciò finalmente. Fu un leggero bacetto sulle labbra, ma bastò a farmi dubitare tutto ciò che Charlotte mi aveva detto sul primo bacio. Avrebbe dovuto farmi esplodere di felicità dentro, ma non avevo sentito niente. Solo profondo e debilitante imbarazzo.

Quando entrammo finalmente nel bosco, mi sentii profondamente a disagio ricordando che a poca distanza c’era la tenda di quella strana donna. 

Lady Fortuna mi aveva davvero spaventato con quei discorsi senza senso e le uova rosse. Tutto ciò che aveva preparato davanti ai miei occhi mi faceva pensare a una precisa parola, ma avevo troppa paura per poter anche solo pensare di dirlo a qualcuno: stregoneria. 

“Lotte, dove stiamo andando? Potrebbe esserci chiunque nascosto dietro gli alberi.” cercando di non svelare il mio vero timore.

Rise divertita. “Stiamo andando alla tana del grande lupo cattivo.”

Cercai di non pensare al coniglio bianco di cui non sapevo la fine, ai rametti e a quelle uova, ma più cercavo di fuggire al ricordo e più questo mi tormentava: quella donna mi metteva paura

“Mi ha baciato.” sussurrai impulsiva cercando di distogliere i miei pensieri.

Charlotte rise ignara come se quella fosse la cosa più ridicola che avesse mai sentito dire. Rimasi perplessa senza dirle niente altro: non avevo idea se avrei dovuto sentirmi offesa e arrabbiarmi o sorridere imbarazzata.

“Lo so. L’hanno visto tutti! È stato … particolare.” disse ridendo.

“Particolare?!” ripetei allarmata.

“Avresti dovuto vederti. Lui era immobile quanto una montagna e i tuoi occhi …” 

La guardai male quando si interruppe per sghignazzare. 

“ … erano spalancati come se si stesse tagliando la gola o qualcosa del genere!”

Aggrottai la fronte, ma non le risposi continuando a seguirla in silenzio.

“Dove stiamo andando?” le chiesi nuovamente. Anche se avevo una mezza idea della risposta, continuai a sperare nel contrario.

Si fermò all’ombra di un albero. Mi appoggiai al legno e notai che c’era qualcosa inciso. Iniziai a seguirne i contorni con le dita non prestandoci però alcuna attenzione.

“Se nostra Madre sapesse che siamo nel bosco di notte, ci …”

“ Se lo sapesse, noi non saremmo qui in questo momento. Ma non lo può sapere. Sta dormendo.”

Sospirai. “Allora? Mi spieghi?” la incalzai.

“Devo parlare con Aleksandr.”

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***



 

 

 

“Lydia, ho bisogno del tuo aiuto.”

Credo che tutti i miei problemi iniziarono con quella frase. O forse, con quelle semplici parole iniziò la mia stessa avventura, la mia vita. 

La guardai assorta per un momento chiedendomi cosa avesse combinato e come avrei potuto aiutarla ad uscirne. Lei mi stava esortando trepidante ad una risposta.

Non dissi niente subito sentendomi esposta: avevo sempre vissuto sotto una specie di coperta aspettando che qualcuno venisse a prendermi per mano facendomi uscire. Non avevo mai scelto di uscire da quella sorta di rifugio e anche in quel momento ero restia. Iniziai a sentire un certo disagio farsi strada verso il mio cuore: volevo aiutare mia sorella, non avevo dubbi, ma nel contempo non volevo uscire nel campo minato che era la vita.

In ogni caso, Charlotte non rimase ad aspettare una mia improbabile ed incerta risposta a lungo. 

Il suo sguardo si posò su due figure che uscirono dall’ombra di un grosso castagno. Vidi molte emozioni passare attraverso i suoi occhi e in un istante non era più seduta accanto a me, ma stava correndo verso i due uomini. 

La seguii con lo sguardo fin quando non raggiunse uno dei due. Questo mi squadrò con uno sguardo serio prima di riportare i suoi occhi su Charlotte.

La sua espressione cambiò drasticamente. Il suo viso sembrò addolcirsi, le sue labbra si stirarono immediatamente in un sorriso e i suoi occhi brillavano. Forse era il fatto che avevo dormito poco o l’assenza di luce a farmi vedere cose che magari neanche esistevano, ma iniziai a sentirmi gelosa. 

Guardai la luce negli occhi di Aleksandr e realizzai che, anche se John mi aveva sempre guardata come se fossi un gioiello prezioso, non mi aveva mai davvero guardato in quel modo.

Mi sentii immediatamente ferita dalla situazione sapendo che in fondo in fondo volevo che qualcuno guardasse  anche me come se fossi la luna.

Anche quando le loro labbra si avvicinarono sempre più, continuai ad osservarli senza preoccuparmi.

“Non dovresti guardare. È piuttosto maleducato.”

Sussultai uscendo immediatamente dai miei pensieri. 

Mi voltai verso il giovane uomo che aveva parlato e subito riconobbi il suonatore di violino di quella mattina. Non potevo vedere bene il suo viso, ma sapevo che il suo sguardo di rimprovero era posato su di me. Arrossii e ringraziai mentalmente il buio che mi proteggeva dall’umiliazione. 

Ero appena stata beccata a fissare una coppia scambiarsi effusioni e certamente non avrei mai voluto intromettermi in una così intima situazione, ma la tenerezza quasi palpabile tra i due mi aveva incantato. 

Non sembrava lussuria, come aveva detto mia madre, ma una sorta di forza che li teneva ancorati uno all’altro. Comunque, non potevo saperlo esattamente: in fondo, non avevo mai provato certi sentimenti e non avevo o ero stata mai guardata in quel modo prima.

Non guardai l’uomo negli occhi abbassando subito lo sguardo sul fango ai miei piedi.

“Io … n-non …” balbettai non avendo la minima idea di cosa dire.

“Sì?”incalzò.

“Non li stavo guardando.” appena queste parole lasciarono la mia bocca, avrei voluto rimangiarmele immediatamente. Entrambi sapevamo che non erano vere.

“Certo. Ci mancherebbe solo.”

Qualcosa nella sua voce mi fece superare il mio imbarazzo e lo guardai negli occhi. Scoprii dall’espressione canzonatoria del suo viso che mi stava prendendo in giro e se da una parte ero indispettita per il fatto che un pieno sconosciuto si permettesse di comportarsi come se fosse mio fratello, dall’altra ero profondamente imbarazzata dal fatto che avesse ragione.

“Stavi sicuramente fissando a bocca aperta l’albero lì vicino.” continuò guardandomi come se fosse davvero interessato alla possibile risposta.

Distolsi lo sguardo imbarazzata che cadde nuovamente sulla coppia intenta a sussurrare chissà cosa.

Il loro momento di intimità finì presto quando Charlotte prese la mano di Aleksandr e lo condusse fin da noi. Le sue guance erano arrossate e portava un sorriso costante sul suo viso. Si avvicinò a me e mi prese le mani. “Come ti stavo dicendo, ho bisogno del tuo aiuto, Lydia.”

“Perché?”

Fece una smorfia preoccupata. “Ti prego, dimmi che mi aiuterai lo stesso, anche se non approvi.”

I suoi occhi mi pregavano in silenzio ed ero molto tentata dall’accettare e fare qualunque cosa mi avesse chiesto.

Ma c’era qualcosa che stonava. Anzi, tutto era sbagliato. Eravamo nel mezzo del bosco in piena notte insieme a due stranieri, uno del quale aveva una relazione clandestina con mia sorella. Ora lei mi chiedeva di aiutarla senza lasciarmi sapere in cosa.

Chiusi un attimo gli occhi rabbrividendo al pensiero di cosa avrebbero potuto dire i nostri genitori se ci avessero viste in una situazione del genere.

Ero quasi decisa a pretendere di sapere almeno cosa avrei dovuto fare, ma appena riaprii gli occhi e vidi la speranza in quelli di mia sorella, realizzai che non avrei potuto rifiutarle niente.

Annuii prima di chiedere di cosa si trattasse.

“Come sai, ci amiamo. Da sempre e per sempre. Lo so che nostro Padre non ci accetterebbe mai, ma non posso rinunciare. Così lo faremo in segreto.”

“Di cosa stai parlando?” chiesi confusa.

“Io e Alek ci sposiamo.”

La notizia che ricevetti quella notte mi lasciò esterrefatta. Certo, avrei dovuto aspettarmelo e sperarlo anche, visto che altrimenti mia sorella avrebbe vissuto nel peccato, ma mai e poi mai avrei pensato che fosse giunta a quel punto.

“Ma…” iniziai a dire per chiederle se fosse proprio necessario. Se proprio non poteva tornare indietro.

Al villaggio era già successo. Qualche fanciulla costretta alle nozze riparatrici cercando di nascondere il grembo sempre più rotondo, ma senza riuscirci mai troppo.

Non osavo pensare che quello fosse il caso di mia sorella, ma i miei dubbi furono così chiari, che non ci fu bisogno di domande imbarazzanti.

“No, non aspetto un bambino.”

Sospirai sollevata e incredula allo stesso tempo. “Ma allora …”

“Lo so, Lydia, ma gli altri non capirebbero quanto è importante per me.”

Sapevo che era la verità, ma ero spaventata perché ciò che Charlotte stava facendo andava contro ogni regola e l’avrebbe portata alla rovina se qualcuno l’avesse scoperta. Si amavano, lo si vedeva, ma non riuscivo ad accettare la notizia.

“Ho bisogno di due testimoni. Per questo ti ho coinvolta.” proseguì Charlotte senza prestare attenzione al mio turbamento.

“E chi è l’altro?”

“Gabriel.” rispose il futuro sposo di mia sorella sorridendo all‘altro giovane uomo.

Anche lui aveva il volto disteso in un sorriso. Sembravano tutti d’accordo e senza dubbi, così mi limitai a guardarli a turno disorientata. Sembravano ragionare tutti nello stesso modo e mi sentivo in qualche modo esclusa perché non riuscivo a comprenderli. 

Come era possibile questo? Mia sorella non avrebbe mai potuto sposarsi con qualcuno senza il consenso dei nostri genitori! Era a dir poco scandaloso e avrebbe portato noi tutti alla rovina.

La guardai con rabbia. Ero sicura che lei non avesse pensato alle conseguenze che quel gesto avventato avrebbe causato su di lei e su di noi. 

Saremmo stati i reietti, i disonorati e forse neanche John avrebbe voluto sposarmi. Forse sarei stata condannata a diventare una vecchia zitella a vita. Sempre sola. Sempre compatita. 

Forse io sarei riuscita comunque a sposarmi e continuare una vita dignitosa, ma sapevo per certo che la gente non avrebbe dimenticato. E quando Anne sarebbe cresciuta non avrebbe ricevuto promesse di matrimonio perché sarebbe stata considerata sporca come la sorella maggiore.

Non so da dove presi il coraggio, o la sfrontatezza, ma le parole fuggirono dalle mie labbra prima di poterle fermare. “Sei un egoista.” mormorai.

Lei mi guardò con occhi sorpresi e feriti. “Perché mi dici questo?”

“Non te ne frega niente. Ci rovinerai tutti, soprattutto Anne, ma non te ne importa. Pensi solo a te stessa.” la accusai.

“Lydia, tu non capisci. Non puoi capire. Questo per me è tutto.” mi implorò.

“Diventeremo i pezzenti del villaggio mentre tu sarai a fare baldoria in qualche squallida locanda!” esclamai perdendo il controllo.

Lo schiaffo che mi arrivò bollente sulla guancia mi ricordò di aver esagerato un poco, ma l’effetto fu il contrario.

“Fai cosa vuoi. Disonoraci tutti, ma non chiedermi di aiutarti a rovinare la vita di mia sorella.” le dissi prima di voltarmi e scappare via.

“Sono anch’io tua sorella!” mi urlò dietro.

Corsi via piangendo come una bambina. Charlotte mi feriva con quel suo comportamento egoista. Sapeva le conseguenze della sua scelta su di lei, ma non le importava e per di più non aveva preso sicuramente in considerazione i problemi che avremmo dovuto affrontare noi. Mi rifugiai sotto le coperte coprendo anche il viso in modo da essere totalmente sepolta. 

Perché mia sorella pensava solo a se stessa quando si trattava di quel nomade? Perché dopo quel che era accaduto l’anno prima, non aveva finalmente capito l’inutilità della sua testardaggine? La riposta la conoscevo ed era a mio parere terribile perché significava che mia sorella non era più la stessa bambina con cui giocavo da piccola, non era più legata indissolubilmente a me come avevamo giurato, ma si stava allontanando. Era innamorata e presto, non l’avrei più vista. Era questo che mi ripetevo senza capire quanto anch’io fossi egoista. 

Nascosi il viso tra le mani quando, calmandomi, realizzai quanto Charlotte si sentisse disperata in quel momento e che, essendo sua sorella, era mio dovere morale aiutarla. D’altra parte avevo lo stesso dovere nei confronti di Anne.

Avevo bisogno di prendere una decisione, ma come potevo se aiutare una significava rovinare l’altra?

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***



 

 

 

 

Socchiusi gli occhi e in quel che credevo essere dormiveglia, sentii Charlotte scostare le coperte, alzarsi e in punta di piedi raggiungere l’armadio. Quando poi udii la porta della camera scricchiolare leggermente mentre cercava di uscire, mi risvegliai completamente dal torpore. Cercai con le dita il corpo dormiente di mia sorella, ma trova semplicemente quello di Anne. Mi ritrovai in un attimo seduta sul letto a fissare la porta spalancata e a maledire il mio sonno. 

Corsi alla finestra e vidi nel buio il movimento sospetto di una figura coperta da un mantello. 

Sospirai: Charlotte era sgattaiolata via di casa nella notte un’altra volta. Cosa avrei dovuto fare?

Erano alcuni giorni che non mi rivolgeva più la parola e sapevo che avrebbe cercato di mantenere quel silenzio ostinato ed infuriato più a lungo possibile. Testarda com’era non avrebbe cambiato idea facilmente. 

Era incredibile quante volte cercasse di nascondersi dall’attenzione dei nostri genitori pur di scorazzare per i campi e raggiungere il suo “promesso sposo”.

Ogni volta che trovava un nuovo pretesto per uscire dalla sorveglianza di nostra madre, molto severa con lei e molto indulgente con me, mi lanciava uno sguardo di ghiaccio che risultava molto più glaciale del dovuto grazie ai suoi occhi violetti. 

Era con quelle espressioni di rimprovero che mi pregava di non rivelare il suo segreto e io non avevo ancora detto niente. Non ancora. 

Volevo attendere che capisse da sola i suoi errori, ma a dir la verità non mi piaceva l’idea di tradire Charlotte in quel modo così vile. Non mi avrebbe davvero mai più perdonata in quel caso e io mi sarei sentita un ingrata e meschina vipera per tutta la vita.

Decisi quando la vidi sparire definitivamente dietro gli alberi: l’avrei seguita e l’avrei fatta ragionare in qualche modo. Aveva bisogno di una bella strigliata e io non ero più disposta a tollerare questo suo scappare di casa nel pieno della notte.

Finalmente fuori all‘aperto, mi permisi di inspirare l’aria fresca convincendomi del fatto che sarebbe servito a infondermi un po’ di coraggio. In fondo, ero sola e non sapevo se Charlotte era andata nello stesso posto dell’altra notte. 

Lanciai uno sguardo alla casa di John e vidi una finestra debolmente illuminata da una candela. C’era qualcuno sveglio? Magari avevano dimenticato di spegnerla e dormivano, ma non potevo rischiare di essere scoperta dal mio promesso sposo a scappare nel bosco. Optai, quindi, per il vicolo a sinistra, quello che portava direttamente al recinto delle pecore.

Corsi il più silenziosamente possibile cercando di prendere coraggio. 

Il bosco mi sembrava una macchia oscura, una belva immobile pronta a balzarmi addosso e trascinarmi nell’oscurità. Tremando leggermente, forse per il freddo o la paura, superai i primi alberi lasciandomi alle spalle la luce della luna.

Proseguii cercando di ripercorrere i sentieri dove molto probabilmente era passata mia sorella pochi minuti prima.

Non la trovai. Ad un certo punto non sapevo neanche dove fosse l’accampamento dei nomadi, il fiume, il villaggio. Non sapevo dove fossi io, soprattutto. 

Iniziavo ad avere paura. Ero in una situazione pericolosa, persa nei boschi, da sola e di notte. Cosa mi era saltato in mente di fare? Cosa volevo dimostrare? Non ero mai uscita di notte da casa mia da sola e di certo non sarei mai e poi mai riuscita a ricordare i sentieri, o anche solo mantenere l’orientamento.

Vagai senza meta sperando in un briciolo di fortuna per ritrovare la strada di casa. In fondo, Charlotte usciva spesso di nascosto e riusciva a ritornare a casa senza problemi. Perché io non ce l’avrei potuta fare? Sapevo che mia sorella era diversa da me, più determinata, sprezzante del pericolo e ribelle, ma di certo anch’io avrei potuto cavarmela per una notte. Dovevo cavarmela.

Certo non era facile convincersene quando a malapena vedevo il cielo, quando facevo fatica a non inciampare, ma non dovevo fermarmi. Se lo avessi fatto, non sarei più ripartita.

Camminai a vuoto per un lasso di tempo che a me sembrò eterno sempre impaurita e sempre più sconfortata, fino a quando qualcosa non si aggiunse al cantare delle cicale. Un suono. La melodia inconfondibile di un violino. La stessa che avevo sentito nella piazza quella domenica. Senza pensarci due volte, iniziai a correre verso quel violino e chi lo stava suonando.

Il suono si faceva sempre più vicino e più forte. Il mio piede ruppe un ramo per terra e la musica cessò. 

Regnava il silenzio e per un attimo mi guardai intorno spersa, senza tuttavia riuscire a vedere alcunché. Gemetti pensando di essermi immaginata tutto.

Avevo il fiatone e le gambe mi dolevano per lo sforzo, mi sentivo accaldata e avrei voluto trovarmi vicino al fiume per rinfrescarmi, ma mi dovetti accontentare: appoggiai il dorso della schiena al tronco di un albero e chiusi gli occhi.

Pochi secondi dopo dovetti aprirli, spaventata dal freddo contatto con qualcosa di metallico. Qualcuno mi stava minacciando con un pugnale alla gola. 

Non gridai. Non sentivo più la voce. Rabbrividii al pensiero della situazione in cui mi trovavo e mi detti della stupida per aver anche solo pensato di poter raggiungere mia sorella di notte e nel bosco, per sentieri che non avevo mai percorso, se non con la luce del sole e comunque mai sola.

“Chi sei?” La voce che mi parlò era indubbiamente maschile e aveva qualcosa di freddo e minaccioso, mischiato a qualcosa di familiare. 

Non risposi, impietrita. “Rispondi.”

Dire o non dire il mio nome? Cosa rischiavo se non lo dicevo? E cosa sarebbe potuto succedere se avesse saputo il mio nome? Avrebbe cambiato qualcosa?

“Lydia Dale” sussurrai così piano che dubitai mi avesse sentito.

Il coltello si allontanò dalla mia gola e lo sentii fare due passi indietro.

“Beh, Lydia Dale, non posso immaginare perché tu stia attraversando questi boschi, così lontana dal villaggio.”

All’improvviso lo riconobbi: era Gabriel. Gabriel il nomade, il musico, il testimone.

Mi massaggiai con le dita il collo dove sentivo ancora freddo e rimasi in silenzio, prima di prendere un minimo di coraggio e, parlando sempre in sussurri, rispondere: “Devo andare.”

Non mi voltai, ma iniziai ad indietreggiare fissando lo sguardo dove presumevo che il giovane nomade fosse. Avevo una paura enorme ed ero più che decisa ad allontanarmi da lì. Volevo tornare a casa sotto le coperte, al sicuro e non qui, in balia di un estraneo di cui non conoscevo le intenzioni.

“Non andare. Non da sola.” mi prese la mano e sentii quanto era calda e ispirava fiducia. Ma quella mano era pericolosa, aveva appena tenuto stretto tra le dita un pugnale di cui ricordavo ancora la fredda minaccia. 

Strappai via la mia mano dalla sua presa e indietreggiai ancora di qualche passo, come se mi fossi scottata. Mi fermai con i muscoli doloranti delle gambe tesi, pronta a scappare a gambe levate ad un suo minimo movimento. Mi sentivo come un coniglio pronta a balzare via per scappare dalle fauci del lupo.

Lo sentii sospirare e sbuffare come se fosse seccato. “Lydia, non ti farò niente.” Parlava piano e lentamente come se non volesse spaventarmi ulteriormente. “Non sapevo fossi tu. Quel pugnale è solo per difesa.”

Ripiombò il silenzio mentre lui aspettava una mia risposta. Rimasi a lungo in silenzio, sempre tesa come una corda. “Lasciami andare.” gli dissi con voce tremolante, ma senza crollare.

Lo sentii più vicino quando parlò e anche se questo mi spaventò, non mi mossi. Avevo i piedi ancorati al terreno, neanche fossero le radici di un albero. “Non è sicuro vagare da sola per il bosco.”

Aggrottai le sopracciglia contrariata dal fatto che me lo facesse notare proprio lui che poco prima stava per sgozzarmi. “Posso tornare anche da sola. Grazie.” 

La mia voce era ora sicura e indispettita, molto diversa dalla vocina spaventata di cui ora mi vergognavo.

Mi voltai racimolando un po’ di coraggio e iniziai ad allontanarmi senza voltarmi né salutarlo sperando che mi lasciasse andare. Sperando di non doverlo più vedere.

“Non è da quella parte il villaggio.” mi avvisò con divertimento palese.

Mi fermai. Non avevo idea di dove dirigermi. Come ero arrivata lì? E ora come avrei fatto a tornare a casa?

“Sai, non credo che arriverai a casa prima dell’alba. Da sola, si intende.” continuò.

Ritornai lentamente sui miei passi. “Tu sai la strada?” 

“Credo di sì.”

Restammo in silenzio per un attimo come se nessuno dei due sapesse bene cosa dire, come comportarsi. Per quel che mi riguardava, avevo un grosso problema: dovevo tornare a casa, ma non sapevo la strada. Gabriel sembrava conoscerla, ma non mi fidavo: aveva ancora in mano il pugnale e non riuscivo a rimanere tranquilla. Era un nomade, cosa mi sarei dovuta aspettare? Però non aveva tentato di farmi del male, anche se, e questo mi spaventava, ne aveva avuto e ne aveva ancora l’occasione. Volevo chiedergli di indicarmi la via, ma non ero convinta di potermi fidare pienamente.

Lui, d’altro canto, sembrava troppo impegnato a rigirarsi in mano il pugnale, ne intravedevo i riflessi.  

Senza dirmi niente, iniziò a camminare, forse pensando che l’avrei seguito, ma non lo feci. Ero ancora indecisa, ancora sospettosa e lui lo capì immediatamente. Si fermò e non disse niente per un attimo, indeciso su qualcosa probabilmente.

Sospirando come se questo gli richiedesse enorme pazienza e sforzo, mi consegnò il pugnale. “Se non ti fidi, non c’è altro modo: tienilo tu e se faccio qualche movimento strano, puoi sempre cercare di pugnalarmi.”

Sentii tra le mani il manico di legno e i suoi passi che si allontanavano senza più fermarsi.

Mi affrettai a seguirlo tenendomi comunque a distanza e con il pugnale stretto in mano, non ancora pienamente sicura delle sue buone intenzioni. Camminammo a lungo senza parlare, in un silenzio che non aveva bisogno di essere riempito. Nessuno sapeva bene cosa dire. 

Come mi sarei dovuta rivolgere verso un nomade? Verso una persona così diversa? Non aveva casa e quello era ciò che ci distanziava maggiormente. Viveva in una tenda e sapevo che non aveva mai visto un solo albero crescere. Forse non aveva mai neanche dormito in un vero e proprio letto. Non aveva mai visto lo stesso posto cambiare di stagione in stagione. Cosa potevo dirgli? Niente che mi venisse in mente e quindi non parlai. 

Sentivo i suoi passi quasi silenziosi, e lo vedevo raccogliere parecchi di quelli che dovevano essere rami da terra. Anche se mi sembrò una cosa molto strana da fare di notte, non commentai e lui neanche. 

Proseguimmo per un certo pezzo, fino a che non si fermò davanti ad una specie di riparo formato dalla pietra. Una piccola grotta dove posò la legna e ripose in violino accuratamente in un angolo.

Si sedette e tirò fuori due pietre che iniziò a sfregare tra loro ritmicamente. 

“Cosa fai?” gli chiesi sapendo benissimo cosa volesse fare. 

“Accendo un fuoco. Farà freddo questa notte.” mi rispose distratto.

Mi guardai attorno. “Ma tu vivi qui?!” gli chiesi incredula. Non aveva una tenda insieme agli altri? Mi sembrava strano e triste vivere da solo in una notte, forse anche solo per una stagione.

Però forse era per quello che accendeva un fuoco in modo da tornare al caldo una volta che mi avesse accompagnata al villaggio.

Rise di gusto. “No, usiamo le tende di solito.” 

“Allora perché …” iniziai a chiedere.

“Sta arrivando un temporale.” mi rispose.

Ci mise parecchio tempo, ma alla fine riuscì a far comparire un piccolo fuocherello che si affrettò immediatamente ad alimentare.

“Come fai a saperlo? Devo tornare a casa. Non posso rimanere qui.” mi lamentai. Già mi immaginavo mia madre agitata e infuriata nello scoprirmi fuori casa a quell’ora tarda. Già ne immaginavo la vergogna che avrei provato e la grande delusione che avrei visto sui visi dei miei genitori. In fondo, ero quella più giudiziosa e mai avrebbero pensato di dovermi punire per una simile cosa.

“L’aria è piena di umidità e … Quel che è importante, è che sta per piovere. E anche parecchio. Quindi vieni qui dentro e restaci finché non smette se non vuoi bagnarti.”

“Ma …” iniziai a dire, ma poi sbuffai perché avevo già perso la sua attenzione. Mi sedetti a terra sulla pietra fredda seccata e indispettita. Cosa avrei potuto fare? Perdermi di nuovo e questa volta sotto la pioggia? Temevo ancora quel nomade, ma era l'unico in grado di riportarmi a casa e poi avevo un pugnale. L'avrei colpito davvero se solo avesse provato a far qualcosa di sospetto.

Rabbrividii di freddo e cercai di avvicinarmi al fuoco e catturarne il calore. 

La sua luce cresceva e illuminava con le sue lunghe braccia la pietra, facendola sembrare rossa. Illuminava anche Gabriel, al di là del focolare e finalmente potevo osservarlo bene. 

L’avevo sempre visto di sfuggita o da lontano e se l’avevo incontrato era sempre stato al buio. Non ne avevo scorto i lineamenti, ma ora osservandone il viso potevo ben notare che era molto diverso da quello di John o degli altri giovani del villaggio. 

La sua pelle aveva quel colore scuro che acquistano i contadini che lavorano giornate intere sotto il sole nei campi, ma al loro contrario, era più omogeneo e mi ricordava inspiegabilmente il miele di castagno. 

I capelli erano castani, se non neri e sfioravano le sue spalle larghe.  

Anche gli occhi erano castani, due pozzi scuri e profondi dove trovai sconcerto e una domanda inespressa: perché mi stai fissando?

Mi accorsi immediatamente che lo stavo osservando in un modo fin troppo spudorato e abbassai lo sguardo sul fuoco arrossendo perché non potevo non ammettere che quel giovane era bello. Bello di una bellezza scura e straniera. 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***



 

 

 

L’imbarazzo è duro a morire. Questo già lo sapevo, ma quella notte lo sperimentai ancora una volta.

Mi ero dimenticata di Charlotte, del villaggio, dei miei doveri, della buona educazione e di John. Riuscivo solo a pensare di essere stata appena sorpresa a fissare spudoratamente quell’uomo, Gabriel: il suo naso diritto, gli occhi profondi, la sua pelle scurita dal sole e i capelli di pece.

E non riuscivo neanche a pentirmene o a pensare davvero al fatto che era un atteggiamento molto maleducato e di poco gusto, l’unica cosa che non sembrava voler uscire dalla mia testa era quel suo viso illuminato dalla luce calda del fuoco.

Ero sicura di essere arrossita e rimpiangevo il buio, quando ancora non ero davvero cosciente di chi fosse il nomade con cui ero seduta.

Anche lui mi stava osservando, ma senza preoccuparsi tanto di essere scoperto: sentivo il suo sguardo attento scivolare sui miei lineamenti come se fosse stato la carezza di una piuma. 

“E se mi scoprono?” chiesi cercando una cosa qualsiasi per spezzare la tensione.

Lui fece un mezzo sorriso divertito. “Sei tu che ci rimetterai. Io godrò semplicemente degli stessi pregiudizi di prima, al massimo qualcuno in più. Ma tu …”

Fece scivolare lo sguardo su di me nuovamente, come se non sapesse o non gli importasse che me sarei accorta. Mi strinsi nel mantello ricordando che ero in camicia da notte e sicuramente non ero presentabile. Certamente se ne era accorto anche lui che sogghignò.

Disse poi con quel suo modo di fare canzonatorio che mi dava sempre più fastidio: “Vorrei proprio vedere come reagirebbero, o anche solo sentire cosa direbbero, se ti sapessero fuori la notte da sola nel bosco. Se ti sapessero qui sola. Con me.” Mi guardò con fare allusivo sapendo che avrei capito e che sarei diventata rossa.

“Non ho scelto di venire io qui.” ribattei sulla difensiva non sapendo bene come scusarmi.

“Sì, invece. Non sono io che ti ho chiesto di uscire la notte, anche perché non te l’avrei chiesto.” Lo guardai interrogativa e lui rispose guardandomi con aria accattivante e provocatoria: “Sarei direttamente venuto a prenderti.”

Feci per alzarmi, ma mi inciampai sul bordo del mantello e caddi battendo il sedere sulla pietra. Feci una smorfia. “Non ti permetteresti mai.” sussurrai.

Lui sorrise come se trovasse divertente tutta quella situazione. Come se fosse divertente essere costretti a rimanere insieme sotto un temporale che non aveva tardato ad arrivare. Come se si divertisse un mondo a provocarmi.

“Devo dormire.” dissi sdraiandomi sulla nuda pietra cercando di coprirmi il più possibile con il mantello e cercando di trovare una posizione confortevole. Era meglio troncare quella conversazione che non mi piaceva e non avrebbe portato a nulla di buono.

 

 

Avevo freddo, mi doleva la schiena, ero scomoda e qualcuno mi stava chiamando. Così mi svegliai poche ore dopo. Era ancora buio, ma si poteva intuire che a poco sarebbero spuntate le prime luci del mattino. 

Mi guardai attorno spaesata rendendomi conto che non era un sogno, che ero in una specie di piccola grotta. Il fuoco era spento e rimanevano solo più le braci. L’aria era umida e gelida, ma aveva smesso di piovere, finalmente.

Aprendo gli occhi incontrai quelli scuri e profondi di Gabriel. Mi rialzai su un gomito e senza rendermene conto mi avvicinai troppo. Sentivo il calore della sua mano passare attraverso la stoffa della camicia da notte su cui era posata e lui così vicino che le mie guance si imporporarono immediatamente.

Mi allontanai subito e finalmente in piedi, lo osservai. Portava stivali di pelle che sembravano molto simili a quelli che usava Thomas ogni volta che andava nei boschi e i suoi indumenti erano più puliti di quel che mi sarei immaginata. Alla cintola portava un pugnale e aggrottando la fronte, sollevai lo sguardo al suo viso. 

“Non mi vedrai mai girare disarmato. Se ti ho dato uno dei miei pugnali è stato solo per tranquillizzarti.”

Sbuffai. Ero tutt’altro che tranquilla, ora, sapendo che era armato e che sicuramente, se solo avesse voluto farmi del male, non mi avrebbe aiutato molto il pugnale che ancora tenevo in mano. D’altro canto, però, aveva avuto l’occasione perfetta mentre io dormivo, ma non aveva mosso un dito. Questo voleva dire che mi potevo fidare?

Non potevo ancora, decisi, ma di certo potevo confidare che per il momento non ci sarebbe stato pericolo.

“Conosci John?” gli chiesi ricordando dell’incontro e della sua risposta la mattina della fiera.

Non mi rispose. Non disse niente e quando pochi minuti dopo mi esortò a seguirlo, non dette segno di avermi sentito. 

Ora era serio e vigile, camminava pochi passi davanti a me con l’attenzione di una guardia, ma con allo stesso tempo un atteggiamento noncurante e spensierato.

Alzava gli occhi al blu notte del cielo e ogni tanto fischiettava, ma non lasciava trapelare neanche un soffio del comportamento malizioso e provocatorio che aveva avuto poche ore prima.

Chi era Gabriel? Io di certo non lo sapevo e non lo volevo sapere. Dovevo tornare a casa prima dell’alba e chiudere questa faccenda dei nomadi al più presto. Questo era ciò che contava, ma il suo atteggiamento scostante e diverso mi incuriosiva a tal punto che vinsi la mia insicurezza pur di parlargli.

“Cosa ci facevi nel bosco?” gli chiesi senza pensare a quanto stupida potesse sembrare la mia domanda.

“Io vivo nel bosco.” rispose. “Finché rimarrò … Piuttosto, la vera domanda sarebbe: com’è che sei uscita di casa anche questa notte?” 

“Dovevo cercare Charlotte. Non l’ho trovata e mi sono persa.” dissi con un velo di disapprovazione pensando a quanto mia sorella ignorasse volutamente le regole e il buonsenso.

Si mise a ridere. “E perché?”

Arrossii. “Perché non so dove …” 

Mi interruppe. “No, perché dovevi cercare Charlotte?”

“Perché non è bene uscire di casa col buio.” Lo guardai aggrottando la fronte.

“Ah, ecco perché tu sei qui, allora.” disse con sarcasmo. “Ti rendi conto che neanche tu sei molto fedele alle regole?” chiese pronunciando l’ultima parola come se fosse una qualche malattia. 

“Io l’ho fatto solo per riportare mia sorella a casa.” protestai alzando il mento in aria come una bambina.

Sbuffò. “Non ci riuscirai mai, allora.”

Guardai nella sua direzione, presa in contropiede. “Cosa intendi?”

“Non è casa sua, quella. È solo il posto in cui vive ora.” 

Aveva quel tono assorto di quando esprimeva i suoi pensieri che solo qualche tempo dopo avrei imparato a riconoscere e non mi guardava, fissava avanti come se stesse parlando da solo, come se fosse in un altro mondo. E per un attimo, un brevissimo istante desiderai poter vedere con i suoi occhi il mondo.

Mi fermai totalmente incredula. “E allora quale sarebbe casa?” 

“Beh, di sicuro non un posto in cui tu non possa scegliere per te stesso. Non deve essere per forza un posto, però.” 

Lo guardai a bocca aperta: non capivo il suo ragionamento. Non capivo cosa volesse dire. E poi mi venne in mente cosa avrebbe pensato la gente al villaggio.

“Sei un folle.” dissi senza pensare alle possibili conseguenze che una frase del genere avrebbe potuto causare se diretta a certe persone: non volevo offendere nessuno e normalmente non mi avrei mai osato dirlo, ma la particolarità della situazione mi spingeva ad essere più impulsiva e diretta.

Lui rise soltanto e il modo in cui mi rispose mi fece indispettire ancora di più. 

“Probabile. Ma ciò che è più folle è il fatto che tu, Lydia Dale, non riesca a capire quanto tua sorella abbia bisogno del tuo aiuto.”

“Non può fare sul serio. È quanto di più sconsiderato abbia mai scelto di fare!”

Lui mi guardò ora serio e quasi incredulo. “Cosa c’è di sconsiderato nello sposarsi per amore? Hai visto quanto tua sorella sia felice quando è con Aleksandr? Hai visto come si comportano?”

“Sì, ma …”

“E tu vorresti negarle tutto questo. E perché? Per l’interesse tuo e della tua famiglia.”

“Non è vero.” Mi guardò scettico. “Va bene, è vero, ma cosa ci succederà? Cosa succederà ad Anne? Vivrà tutta la vita come una reietta, come …”

“Noi?” disse alzando un sopracciglio. 

Lo guardai sapendo di avere esagerato, di averlo forse offeso. “Scusa.” 

Annuì come se non desse molto peso alle mie scuse: forse era abituato ad essere considerato un reietto, forse non mi credeva abbastanza sincera. 

“Non sono fatti miei, però dovresti darle una possibilità.”

“Perché mi parli di questo?” 

“Perché non stai ostacolando solo la felicità di tua sorella. Ad Alek non interessa il matrimonio, a lui basterebbe lei e basta, ma lo fa per lei.”

“Mi posso fidare di lui?” chiesi.

Capì cosa intendevo e sorrise con un pizzico di amarezza. “Alek commette parecchi sbagli, ma in fondo è sincero.” 

 

 

“Non avrei mai creduto che tu e John vi sareste addirittura fidanzati!” rise con la sua vocina acuta Mary Bell. 

Mi guardava con quel sorriso che sfoderano le donne quando vogliono farti credere di esserti vicina, di essere la tua più cara amica quando, invece, ti augurano tutto il male possibile. 

Mary Bell era una vipera. Ogni volta che sentivo il suo nome o vedevo il suo viso, la sentivo a parlare, non riuscivo a pensare ad altro, se non che fosse un serpente, che cercasse di ingannarti ogni volta che sorrideva e apriva bocca.

Per questo ero sempre stata lontana da lei e dalla sua gemella, Josephine. 

Anche lei sorrideva, ma non riuscivo a capire se fosse sincera o, come la sua gemella, stesse fingendo.

“Anch‘io speravo qualcosa di meglio per lei,” intervenne mia sorella guardando Mary dritto negli occhi, come se stesse insinuando apposta qualcosa. “ma John ha sempre dimostrato una chiara preferenza per Lydia e lei naturalmente non poteva far altro che acconsentire, non credete?”

Mi trattenni dal guardarla con tanto d’occhi e continuai a sorridere imbarazzata.

Finalmente sentivo Charlotte parlare, anche se con una punta di sarcasmo che non potevo aver sentito solo io. 

“Parrebbe così. Certo, deve essere davvero un peso per te, Charlotte, vedere tua sorella minore fidanzarsi essendo ancora nubile… Ma non temere. Di sicuro…”

“Accetterà la proposta di qualcuno al più presto. Sapessi quante ne ha rifiutate.” la interruppi. 

Era vero: Charlotte era molto bella, ma tendeva ad allontanare tutti i giovani del villaggio. Era come il miele chiuso dentro ad un barattolo per le mosche: inavvicinabile, quasi.

Mary Bell mi guardò fremente e dopo aver spostato un ciuffo dei suoi capelli castani dietro l’orecchio si affrettò a salutarci e si avviò verso la piazza seguita da sua sorella.

Sentii Charlotte sbuffare e guardarmi truce. “Se potesse lo sposerebbe lei, il tuo John. Perché non glielo lasci fare?”

Sospirai. “Ci tengo al mio matrimonio. John è un caro ragazzo ed è il meglio che io possa avere.” risposi automaticamente cercandolo tra la gente e vedendo le gemelle Bell fermarsi a parlare con lui.

Sorrise incredula. “Spero proprio di no per te, Lydia, perché altrimenti saresti davvero messa male.”

Lasciai perdere e mi incamminai verso il mio fidanzato, verso il mio prossimo futuro.

 

 

L’erba era ancora umida dopo la pioggia insistente di quella notte quando io e Charlotte ci sedemmo. Era pomeriggio inoltrato, ma era giunto il momento di parlare e di chiarirci. Non mi aveva detto niente uscendo di casa, ma una sola occhiata era bastata a farmi comprendere che avrei dovuto seguirla.

Ero contenta che mia sorella avesse finalmente deciso di parlarmi, ma temevo che avesse deciso di rivolgermi la parola per sapere perché l’altra notte avevo abbandonato la casa.

Gabriel mi aveva accompagnata al limitare del bosco, proprio verso l’alba. Avevo cercato di non lasciare le impronte fangose e bagnate dei miei passi, ma molto probabilmente non avevo avuto molto successo.

Ero entrata in camera sconfitta sapendo di non essere riuscita a riportare Charlotte a casa, ma l’avevo trovata sotto le coperte che dormiva, o perlomeno fingeva.

“Dove sei andata ieri notte?” chiese guardandomi truce. Si appoggiò alla pietra che ci nascondeva alla vista del villaggio e attese la mia risposta con cipiglio severo.

“Da nessuna parte. Tu piuttosto dov’ eri?” dissi cercando di sembrare più tranquilla che mai. Non ci riuscii molto però, visto che arrossii pensando a Gabriel, alla sua bellezza, la sua particolarità e alla malizia che aveva lasciato trapelare dalla sua voce.

Non volevo dirle niente di lui. Chissà cosa avrebbe pensato se le avessi detto che eravamo restati da soli per tutto quel tempo! 

Alzò un sopracciglio evidenziando il suo scetticismo. “Non cercare di cambiare discorso. Perché non eri nel letto quando sono tornata? Dove sei stata?” 

La ignorai e la rimproverai. “Ti avevo detto di non andare nel bosco di notte.”

Lei sorrise divertita dalla nostra conversazione senza senso, anche se intravidi un pizzico di tristezza e disagio nel suo modo di fare. “Tutto bene, Charlotte?” le chiesi.

“Da dove arriva quel pugnale, allora?” mi chiese facendo finta di non avermi sentita.

Arrossii: mi ero dimenticata di restituirlo e Gabriel non l’aveva chiesto indietro. L’avevo nascosto nel posto meno pericoloso di tutti per Anne e per chi avesse voluto curiosare fra le nostre cose: sotto il materasso. Come aveva fatto a scoprirlo?

“Non sono affari tuoi. Charlotte, ti farò da testimone. Non voglio vederti così triste.”

Mi piangeva il cuore pensando ad Anne, ma non potevo rifiutare a mia sorella quella scelta. Forse Gabriel aveva ragione e io stavo ostacolando il benessere di troppe persone. Per Anne avrei trovato la soluzione più avanti.

Charlotte spalancò gli occhi per un attimo e poi si mise a ridere istericamente.

“Non ne ho bisogno, Lydia. Non ne ho più bisogno.” 

“Come? Perché?”

Lei sospirò e poi mi rispose lasciandomi stupita. “Perché non mi sposo più.”

 

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***



 

 

 

Come poteva essere? Solo qualche notte prima, Charlotte mi aveva annunciato felice il suo imminente matrimonio e ora negava il tutto con determinazione. No, non negava neanche, piuttosto non aveva intenzione di parlarne. Mi aveva detto chiaro e tondo che non avrebbe più avuto bisogno di una testimone e aveva ribadito che non avevo bisogno di sapere niente di più. 

Di certo Charlotte non poteva aver cambiato idea da sola. Non era da lei e sarebbe stato davvero sciocco, se così fosse stato. Ma allora cosa poteva essere successo? Perché sicuramente qualcosa era successo per spingere mia sorella a non volerne parlare.

Non ne venni a conoscenza quella settimana. Charlotte si chiudeva nel suo guscio rancoroso ogni volta che provavo a parlarne, o anche solo accennavo ai nomadi. Era muta e livida quando li vedeva avvicinarsi al villaggio e all’erta ogni volta che andavamo a lavare i panni al fiume.

Fu proprio vicino al fiume che iniziai a capire qualcosa in più.

Charlotte era silenziosa e impegnata a lavare tutto il più velocemente possibile. Era un comportamento molto strano per lei che ogni volta ritardava il lavoro per sdraiarsi sull’erba e utilizzare tutte le scuse pur di non tornare a casa, ma non commentavo a causa del suo umore nero.

Era passata una settimana intera dalla mia notte di ricerca vana nel bosco e Charlotte, anche se non era più infuriata con me perché all’inizio avevo cercato di ostacolare il suo matrimonio, ora era infastidita dal fatto che non le volessi dire niente riguardo a quella notte. Non che non sapesse niente perché aveva parecchi sospetti, solo non sapeva come incastrarli tra loro per far uscire fuori la verità.

Gabriel. Era stupido cercare di convincermi del fatto che non ci pensassi più, anche perché ero curiosa, maledettamente desiderosa di saperne di più su di lui. 

Ma, se da una parte tutto quel che volevo era scoprire qualcosa in più su di lui, dall’altra  tutto questo non mi piaceva, non era una buona cosa. Non dovevo avvicinarmi ancora di più a quel nomade.

Rimuginavo su queste cose, mentre sfregavo le lenzuola sporche ed ero così impegnata che all’inizio non mi accorsi del fatto che non eravamo più sole.

“Lotte!”

Alzai lo sguardo e mi accorsi di Charlotte che fissava truce Aleksandr spuntato dalla boscaglia. “Charlotte, ti prego.” la implorò vedendo che già lei iniziava a ritirare la roba per andarsene. 

Non l’avevo mai vista così infuriata e rimasi a fissarla a bocca aperta. Lo guardava con rancore e persino io che non ero al corrente del motivo, potevo notare che fosse ferita.

“Vattene.” replicò con tono duro. 

Aleksandr le si avvicinò e l’abbracciò da dietro sussurrandole qualcosa che non sentii, ma che sembrò far arrabbiare mia sorella ancora di più.

“Stammi lontano! Se ho detto di non volerti più vedere, è perché davvero non voglio più vederti.”

Si districò dalla sua presa e si girò fulminandolo con lo sguardo. “Lotte, parliamone almeno. Non mi vuoi concedere neanche una seconda possibilità!”

Lei si volse verso di me ricordandosi della mia presenza e afferrando il polso di Aleksandr lo trascinò lontano in modo che io non sentissi.

Quella precauzione non era necessaria perché una mano calda prese la mia umida posata sul grembo e alzando gli occhi vidi quelli di Gabriel posarsi su di me prima di fare una smorfia rivolta ai due litiganti. “Andiamocene. Hanno bisogno di parlare. Da soli.”  

Esitai: era conveniente allontanarmi deliberatamente con Gabriel? La risposta arrivò immediatamente: no. Potevo fidarmi? Probabilmente sì, visto che non sembrava nutrire cattive intenzioni e si era fino ad ora dimostrato piuttosto affidabile, sia a mantenere segreto il nostro incontro nei boschi, sia a non approfittare di me. Ma pudore e quello che ero convinta fosse buon senso mi intimavano di rimanere dov’ero. Di non prestare fede alle parole o azioni del nomade.

Mi fece alzare. “Ma … i panni!” mi lamentai tentando una debole scusa quando Gabriel iniziò a condurmi lontano dalla riva. 

Lui sorrise. “Li prenderai dopo.”

“Gabriel, e mia sorella? Tu sai cos’è successo?” gli chiesi sperando che me lo dicesse lui. 

“Vieni, dai.” insisté e non mollando la mia mano bagnata, mi condusse lontano dal fiume, da Charlotte e da Aleksandr.

Camminammo parecchio per il bosco. Naturalmente non uscimmo visto che non sarebbe stato furbo farci vedere insieme. La gente avrebbe iniziato a fare congetture inesistenti in un attimo.

Mi portò in un prato e si sedette a terra aspettando che io facessi lo stesso. Lo imitai e lo guardai mentre si sdraiava e posava il violino a lato.

Sembrava che non ci fossi, che fosse da solo. Non mi considerava neanche un po’, anzi chiudeva gli occhi. Se con la luce del fuoco mi era sembrato bello, misterioso e affascinante, col sole alto nel cielo rimaneva bello, ma in qualche modo più vicino alla gente a cui ero abituata. Naturalmente, entro i limiti di quanto potesse esserlo un nomade che non sembrava conoscere pienamente le regole del vivere civile che regolavano la vita della nostra piccola società. 

Avevo pensato parecchio al nostro incontro e mi sembrava davvero strano che lo avessi trovato nel bosco, così lontano dal villaggio e come quella musica mi aveva attirato senza lasciarmi pensare.

E se fosse stato una creatura dei boschi? Una di quelle creature che scelgono di rendersi visibili agli umani solo quando più garba loro? Avrei dovuto temerlo? Mi avevano raccontato di quegli esseri pagani e Padre Philip sosteneva fossero demoni pronti a catturare la nostra anima. Ma come potevo capire se il giovane nomade fosse una di quelle deplorevoli creature? 

Mi ricordai che alcuni si impadronivano dei capelli della vittima, come le streghe.  

Lanciai uno sguardo ai suoi occhi chiusi e al violino dall’altra parte. Cercando di non toccarlo mi tesi per prenderne l‘arco. Allungai le dita, ma Gabriel non tardò a scoprirmi.

“Ehi, che fai?”chiese guardandomi male. Due mani forti mi fecero sedere nuovamente sull‘erba.

“Volevo …” dissi indicando lo strumento musicale.

“Volevi prendere il violino. Non provarci più.” mi disse duro.

Abbassai lo sguardo con un misto di senso di colpa e timore. Poi, rialzato, mi spiegai arrossendo. “Volevo controllare una cosa. Non volevo rubarlo.”

“E cosa volevi controllare?” mi chiese confuso, ma ancora attento.

Esitai. Non potevo dirlo. Mi avrebbe preso per pazza, o peggio, per stupida, se avessi avuto torto, o non sapevo cosa avrebbe fatto, se davvero fosse stato una di quelle creature. 

Cosa potevo dirgli? “Allora?” mi incalzò.

Il violino doveva essere qualcosa di davvero prezioso se si inalberava così tanto e ciò confermava i miei sospetti sul potere demoniaco di quell’oggetto. Non sapendo come uscire da quell’assurda situazione, decisi di dire la verità per quanto mi dolesse farlo.

“Beh ... Io temevo tu fossi una creatura dei boschi e quindi …” borbottai guardando a terra imbarazzata.

“Davvero?” Si mise a ridere. “Sul serio? Voi credete davvero a tutto! Cos’è che volevi vedere?” 

Alzai lo sguardo e lo vidi guardarmi sorridente. Aveva un espressione diversa da quella che avevo visto l’altra sera: non era canzonatorio, sorrideva genuino e i suoi occhi ridevano. Rimasi incollata al suo sguardo un secondo di troppo e se ne accorse: “Allora?” 

“Oh, sì. L’arco.” gli dissi indicandolo.

Me lo porse lanciandomi un’occhiata ammonitrice e tenendo tra le mani la parte in legno, notai che i fili dell’arco era davvero troppo chiari per essere una ciocca dei miei capelli. Sospirai sollevata e alzai lo sguardo su Gabriel. Mi osservava. Riabbassai in fretta gli occhi sull’arco.

“Di cosa …”

“Sono crini di cavallo.”

Lo guardai a bocca aperta. “Davvero? Allora è vero che sei capace di richiamare con la tua musica il cavallo al quale questi crini appartenevano? Padre Philip dice che…”

Rise sguaiato alzando il viso verso il cielo, come se avessi detto la cosa più divertente del mondo. Aggrottai le sopraciglia contrariata e un pochino offesa quando continuò a ridacchiare guardandomi in faccia. “Smettila. Cosa c’è di così divertente?”

Spalancò gli occhi. “Lydia, davvero credi a tutte queste sciocchezze? Il soprannaturale non tocca tutti, specialmente se non sei uno stregone. Hai mica visto un cavallo danzare al ritmo della mia musica all’equinozio?”

“No, però …”

“Davvero Lydia, non credere a tutto quel che si vocifera al villaggio. La maggior parte delle cose che dicono sono bugie.” mi assicurò.

“Valeva la pena controllare.” borbottai non troppo convinta sulla verità delle sue parole. Certo sapevo che a volte esageravano, ma molte volte ogni diceria aveva un fondo di verità.

“E poi, Lydia, anche se lo fossi stato, uno stregone intendo, davvero credi te lo avrei detto?” chiese puntando i suoi occhi dritto nei miei con sfida e avvicinandosi.

Cercai di resistere, ma alla fine distolsi lo sguardo e raccolsi da terra una margherita, accorgendomi solo in quel momento di quante ce ne fossero in quel prato.

Una serie di ricordi mi sommersero allentando la tensione del mio viso.

“Quando eravamo piccole, io e Charlotte venivamo in questi prati a giocare. Lei intrecciava sempre corone di fiori e poi giocavamo fingendo di essere fate della primavera.” dissi sorridendo. “Non ci sono mai riuscita, io.”

Tentai nuovamente, ma non riuscivo a legare i gambi delle margherite senza afflosciarne lo stelo.

Li buttai per terra e rialzai la testa. “Cos’è successo? Perché non si sposano più? Tu lo sai?Dimmi qualcosa!” chiesi accesa da una curiosità così forte che dimenticai la timidezza per un istante.

Lui sorrise, ma gli angoli della bocca non si mossero verso l’alto, ma verso il basso. Poi cambiò espressione e mi chiese: “Cosa ottengo in cambio?”

Sbuffai. “Non puoi dirmelo e basta?” chiesi a bocca aperta.

“No, non posso. Le informazioni sono preziose e in quanto tali vanno pagate.”

“Non so … Non ho soldi.” ammisi.

“Non voglio soldi. Quando arriverà il momento in cui avrò bisogno di un favore, verrò a chiedertelo e tu dovrai fare quel che ti chiederò, qualunque cosa essa sia. Ti sembra equo?”chiese tendendomi la mano.

Feci una smorfia tentennando a conoscenza dei rischi di un simile rischioso compromesso, ma alla fine vinta dal desiderio di sapere cosa stesse accadendo a Charlotte, sorrisi e afferrai la sua mano, sentendo il suo palmo contro il mio. 

“Adesso dimmi.” 

Sorrise e intravidi un pizzico di astuzia sfavillare nei suoi occhi scuri. “Alek commette parecchi sbagli, ma alla fin fine è sincero e la ama davvero.”

Lo guardai scioccata e un istante dopo un po’ tradita e arrabbiata. “Ma questo me l’avevi già detto! Hai barato!” protestai.

Lui rise soltanto. “Mi hai chiesto di dirti qualcosa e qualcosa ti ho detto. Ricordati del patto, piuttosto.”

Mi voltai dall’altra parte per non lasciargli vedere quanto fossi turbata, offesa e preoccupata dalla piega che aveva preso la situazione. Ero in qualche modo debitrice di un nomade e qualcosa mi suggeriva che non era una buona cosa.

Restai a fissare il prato per lunghi attimi, finché non sentii le sue mani sfiorarmi i capelli. Mi voltai pronta ad allontanarmi immediatamente, ma vidi che teneva in mano una corona di margherite. La presi delicatamente e vidi come erano stati intrecciati abilmente i gambi dei fiori. 

Me la posai sul capo e gli sorrisi divertita. “L’hai fatta tu?”

Lui annuì e si alzò tendendomi una mano per fare altrettanto. Poi, come se stesse recitando la parte del viandante in compagnia di una di quelle fatate creature, disse, non senza un pizzico di sarcasmo, simulando un lieve inchino: “Dolce fata dei fiori, credo sia giunto il momento di tornare al fiume.”

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***







 

La spazzola in mano a Charlotte era sempre stata pericolosa. Ma in quel momento, lo era ancora di più. Seduta alla nostra modesta toletta non potevo far a meno di essere sottoposta al suo brusco trattamento.

“…sedici, diciassette, diciotto…” contava mentre faceva scorrere la spazzola tra i miei capelli. Erano pieni di nodi nonostante li avessi tenuti raccolti dietro la nuca tutto il giorno e Charlotte sembrava essere intenzionata ad usare questa occasione come punizione per averla lasciata da sola al fiume.

“Ahi!” 

Cercai di girare la testa per protestare, ma immediatamente la sua mano mi costrinse a guardare la mia immagine riflessa nello specchio. Osservai sconfitta i miei occhi azzurri e quelli quasi violetti di mia sorella e i nostri capelli biondi. Eravamo molto simili, ma dove io a tratti sembravo quasi una bimba, una fanciulla, lei aveva il portamento di una donna. Il suo viso era più adulto del mio ed aveva un corpo più simile a quello di nostra madre, ma non era solo quello: Charlotte era affascinante, lo notavano tutti e tutti ne erano ammaliati. 

Io da quel lato mi sentivo ancora una bambina a disagio nel suo corpo che cambia e cresce e questo accentuava ancora di più la mia timidezza. 

“…trenta, trentuno, trentadue, trentatré, trentaqua…”

La spazzola incontro un ostacolo deciso e iniziò a tirare. Sentii ad un tratto i capelli tirare la pelle e la implorai: “Fai piano! Fai piano, Lotte!” 

Mia sorella, sorda alle mie lamentele, continuò a tirare e districò il nodo senza tanti complimenti.

Mi alzai di scatto. “Charlotte, mi fai male! Ti avevo chiesto di fare piano!”

Lei sbuffò. “Non l’ho fatto apposta. Quante lamentele! Sei peggio di Anne, lei è una bambina, però! Dai, siediti.”

“No, continuo da sola.” dissi e tesi la mano verso la spazzola. 

Lei sorridendo la nascose dietro la schiena rispondendo con un secco. “No.”

“Dai, Charlotte! Neanche ti piace spazzolarmi i capelli!”

Lei lottò per nascondere un sorriso crudele, ma non ci riuscì. “Solo se mi spieghi cosa sta succedendo.”

Mi imbronciai. Quando ero tornata al fiume, Gabriel mi aveva abbandonata senza salutare notando che Aleksandr non c’era più e che mia sorella lava i panni nel fiume con un espressione truce.

Charlotte aveva preteso di sapere perché me ne fossi andata lasciandola sola, perché fossi in compagnia di quel mascalzone di Gabriel, se era suo il pugnale che avevo nascosto sotto il materasso, dove eravamo stati e tante altre cose.

Naturalmente non le avevo risposto cercando di sbrigarmi e tornare al riparo della nostra casa dove Charlotte non avrebbe mai osato pormi domande davanti a nostra madre.

“Non c’è niente da spiegare.” ribadii.

Lei mi guardò scettica. “Certo! Sono due volte che sparisci nei boschi con la sola compagnia di quel nomade e non sta succedendo niente!”

Si mise a ridere. 

“Credici. Non è successo niente. L‘altra notte ti ho vista scappare e ho deciso di inseguirti per riportati a casa. Mi sono persa e ho incontrato Gabriel.”

“Siediti. Ne parliamo.” mi ordinò.

Mi sedetti. “Davvero l’hai incontrato?”

Tentennai: non sapevo se dirgli che per poco non mi aveva sgozzato. In fondo, non sapevo esattamente come l’avrebbe presa Charlotte. 

“Mi ha riportato a casa e…”

“E tu cosa ci fai con il suo pugnale, Lydia? Cos’è? Un pegno d’amore eterno?” chiese prendendomi in giro.

La guardai male e mi avvicinai al nostro letto. Infilai una mano sotto al materasso e tirai fuori il pugnale tornando poi a sedermi davanti allo specchio.

Rigirai il pugnale lentamente tra le mie mani notando quanto era bello e pericoloso. Ti dava una sensazione di onnipotenza, di fascino, ma anche di paura. Pensare che la sua lama affilata era stata a contatto con la mia pelle, mi faceva rabbrividire.

Non era un semplice pugnale: era regale. Finemente intagliato com’era il manico il legno, nessuno si sarebbe aspettato di vederlo in mano a nessuno che non fosse un principe, men che meno tra le mani di un nomade. 

Chissà dove l’aveva preso. Non lo sapevo, ma ero cosciente del perché me l’avesse affidato.

“Credo…Credo che sia una richiesta di fiducia.” le risposi seria e assorta.

Lei inarcò un sopracciglio. “E perché?”

“Lotte, non insistere. Quando me l‘ha dato, era la cosa più giusta da fare. L‘unica, forse.” 

Pensandoci, era vero. Senza quel gesto non l’avrei seguito. Non avrei fatto neanche un passo.

“Quante cose mi vuoi nascondere! E oggi? Quando sei sparita, sei andata via con lui?” 

“Sì, beh… voleva lasciarvi da soli e quindi…”

“Attenta, Lydia. Non ti fidare troppo. Non tutti sono innocui.” mi ricordò.

Abbassai lo sguardo un attimo indecisa se cambiare repentinamente argomento, ma poi alzai lo sguardo convinta.

“Perché non ti sposi più?” chiesi guardando il riflesso dei suoi occhi nello specchio.

Lei tornò a fissare i miei capelli e a spazzolare in silenzio.

“Charlotte?”

Incontrò il mio sguardo. “Lo vuoi proprio sapere? Non ho molta voglia di parlarne.”

Sembrava stanca, come se non avesse voglia di chiudersi dentro se stessa come aveva fatto negli ultimi giorni.

Alzai un sopracciglio imitando il suo modo di farmi capire quando era ora di finirla.  Lei sorrise debolmente e arrossendo disse:“Sono stata una stupida e tu avevi ragione.”

Rimasi a fissarla per un attimo e poi mi decisi. “Perché?”

“Non avrei dovuto lasciarmi andare.” Fece un sospiro come se avesse deciso di sfogarsi. 

“Quando l’anno scorso ho conosciuto Aleksandr, ero così affascinata da lui e dai suoi modi, dalle sue parole. Sapevo che non avrei dovuto, ma non mi importava granchè delle conseguenze. Mi sono innamorata di lui, Lydia, in poco. Non riuscivo a non pensarci, non ero capace di rifiutare questi sentimenti o anche solo di vedere chiaramente come era precaria la nostra situazione. Mamma poi ci ha scoperto e lui se ne è andato con gli altri senza portarmi via con sé.” disse schietta senza quell’aria sognante che di solito non la lasciava mai.

Ricordavo perfettamente come mia madre si fosse arrabbiata con Charlotte. Per settimane, non le aveva rivolto la parola, se non per sgridarla o per ordinarle di fare qualcosa. 

Naturalmente, lo sapevamo solo noi tre. Nessuno, neanche nostro padre ne era venuto a conoscenza. Era un segreto e tale doveva rimanere per il nostro bene, così aveva deciso nostra madre. La vostra reputazione deve essere pulita, non macchiata da sporchi amoreggiamenti, aveva detto.

“E poi è tornato. Vuole sposarmi. E anch’io lo volevo.”

Si interruppe sentendo la porta aprirsi. Anne spuntò ed entrò nella stanza con la sua veste da notte bianca. “Dov’è mamma?”

Le sorrisi. “Prova a vedere in cucina.”

Appena la porta si richiuse, guardai Charlotte. 

Lei annuì sbuffando seccata. “Mi ha tradito, ma non è così semplice. Mi ha ingannato, in verità. Ti basti sapere che, prima di me, aveva un’altra. Hanno perfino avuto una bambina. E io mi sento così sciocca, usata... Lydia, come faccio ora? Lo amo, e tanto.”

Sospirò.

“Come posso essere moglie di un uomo che è già di un‘altra donna? Il legame che hanno è così forte …”

Abbassò lo sguardo e capii cosa intendeva: se avevano per giunta avuto una bimba, come poteva lei pretendere di dividerli?

 

Questo capitolo è stato difficile da scrivere perchè non ero convinta andasse bene e sinceramente non lo sono pienamente neanche ora, ma, visto che non riesco a pensarlo in altro modo, ho deciso di pubblicarlo comunque.

Danu

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***






Nelle settimane successive il tempo sembrava essersi fermato. L’atmosfera che si respirava in paese sembrava fatta di pietra: immobile, immutabile e particolarmente banale. Mi ricordava l’inverno, quel periodo dell’anno che Charlotte odiava perché troppo monotono.

In effetti, non accadde niente di rilevante. Tutto sembrava essere coerente alla normalità, quella in cui io ero una fanciulla di campagna prossima al matrimonio e Charlotte continuava a rimanere nel suo limbo, impegnata come non mai a cercare di evitare “brutti incontri”, come li aveva chiamati lei.

John era sempre più presente e a volte mi sembrava vivessimo nella stessa casa. 

Gli Hart, i suoi genitori, venivano ogni tanto a trovarci e già chiedevano dove saremmo andati a vivere.

John mi accompagnava ogni mattina fino al fiume. Quando poi tornavamo con i secchi pieni d’acqua, mi parlava. Tutt’ora non saprei di esattamente di cosa, ma sembrava avesse fiumi di parole nascoste dietro quel suo temperamento mite. 

A volte mi chiedevo se poi un giorno avrei finito per affogare in quei fiumi. Erano domande sciocche da pormi e cercavo sempre di dimenticarmene.

Gabriel era diventato più estraneo di quanto ormai non fosse. L’avevo incontrato un paio di volte, ma sembrava fossi diventata improvvisamente invisibile. Tanto che mi chiesi se per caso avessi sbagliato a dubitare della sua appartenenza al regno fatato: forse ero io uno di quegli esseri che si celano agli occhi umani.

Era in quei momenti, quando ai suoi occhi sembravo non esistere, che mi ponevo quelle domande che la notte tornavano a perseguitarmi. Era successo davvero? Charlotte voleva veramente sposarsi con un nomade? E io, io che mai avrei snobbato le regole, ero uscita di casa nella notte e dormito accanto ad un estraneo in una grotta? 

Erano solo ricordi di un sogno o era tutto vero? 

Per quanto avrei preferito che così non fosse, qualcosa mi ricordava che non stavo lavorando di fantasia. Quel pugnale nascosto sotto il materasso testimoniava la mia cattiva condotta e se fossi stata Charlotte, l’avrei considerato una chiave verso l’avventura. 

Ma io non ero mia sorella, ero solo Lydia e non potevo non pensare che quel pugnale non fosse altro che un pericolo. Man mano che i giorni passavano, realizzavo quanto quella lama mi avrebbe portato guai, ma non riuscivo a separarmene. Non riuscivo a scavare una piccola buca dietro la casa e sotterrare quella prova della mia cattiva condotta. 

Fu così che lo tenni in camera restando all’erta col timore di essere scoperta, finchè un giorno non decisi di affrontare la situazione e riportarlo al suo proprietario.

Ma non riuscii a separarmene.

Gabriel mi guardò come se l’avessi insultato. Alternava lo sguardo tra le mie mani tese per ridargli il suo pugnale e il mio viso, come se volesse capire quanto ero seria.

Quando parlò mi parve al momento più freddo del dovuto. “Non è più mio. Se non lo vuoi tenere, non è un mio problema. Buttalo nel fiume e non parlarmi più.”

Lo guardai a bocca aperta. Non capivo perché se la fosse presa tanto: quel pugnale non era forse suo? Poi ricordai cosa aveva voluto dire, quando me l’aveva donato e compresi quel suo tono distaccato, ma comunque offeso: stavo rifiutando la sua richiesta di fiducia e questo era quasi imperdonabile.

“Oh… io… scusami.” balbettai cercando di non arrossire per la vergogna. 

Lui sbuffò e se ne andò taciturno. Non mi rivolse più la parola e lo vidi scomparire nella sua tenda lasciandomi piena di imbarazzo, vergogna e anche un po’ di confusione. Cosa voleva dire tutto questo?

Mi era sembrata la cosa più giusta da fare, restituirglielo, ma forse non lo era davvero.

Ci pensai vari giorni, al significato di quel pugnale senza riuscire davvero a capire. 

Lo seppellii nuovamente sotto il materasso e decisi di non pensarci più augurandomi che rimanesse solamente un segreto.

 

 

Una mattina presto John venne a bussare alla nostra porta. Corsi giù per le scale e appena aprii, mi ritrovai tra le sue braccia forti.

Non fiatai per lunghi attimi, sconcertata e ammorbidita dal suo gesto. Se c’era qualcosa che mi rendeva felice riguardo al matrimonio era quell’affetto che mi dimostrava continuamente. 

Alzai il viso per guardarlo negli occhi e per controllare che nessuno ci vedesse così vicini. “John… cosa…?”

“Sono venuto a cercare tuo padre.” 

“Mio padre? E per cosa?” chiesi. John e mio padre non parlavano molto, anche se ultimamente avevano passato alcuni pomeriggi insieme.

Sorrisi. “Stai cercando di conquistarlo? Non ti basta avere il suo permesso?”

Rispose al mio sorriso avvicinandosi al mio viso, alle mie labbra. “Non sto cercando il suo appoggio totale. Non mi serve e non mi interessa.”

Non disse altro e nonostante l’agitazione che il suo viso così vicino risvegliava, non potei fare a meno di rispondere.

“Cosa cerchi allora?”

Lui mi fissò negli occhi a lungo come a farmi capire qual’era la risposta e quanto fosse scontata.

Poi mi baciò. Era profondo e superficiale allo stesso tempo. Forse perché per lui aveva un significato enorme e per me solo la metà, ma in quel momento non lo compresi. Chiusi gli occhi. Ero allibita: non sapevo cosa pensare, non sapevo cosa fare. 

Ogni volta che ci incontravamo John faceva di tutto pur di avere quei pochi minuti di intimità necessari ad un bacio e ogni volta, nonostante non fossi sicura che fosse giusto e di cosa io provassi, lo lasciavo fare. 

Cosa avrebbe fatto Charlotte?,continuavo a chiedermi. 

Era una domanda piuttosto stupida, però, perché mia sorella innanzitutto non si sarebbe mai fidanzata con un uomo come John. 

E se fosse stata nei miei panni? Anche questa era una domanda poco furba perché mia sorella, con tutti quelle sue grandi idee sul grande amore, non si sarebbe mai messa in una situazione del genere.

“Partiamo per la città, io e tuo padre. Lì di sicuro ci sarà gente disposta a lavorare. E quando torneremo, costruiremo la nostra casa.” Sorrideva raggiante e in un attimo dimenticai tutti i miei dubbi.

“Dove?” chiesi curiosa.

“A poca distanza dal villaggio la mia famiglia ha un piccolo lenzuolo di terra. Sarà la nostra casa, Lydia.”

Sorrisi mentalmente riconoscendo in quelle parole i progetti di cui tanto mi aveva parlato. I suoi occhi brillavano di una luce determinata mentre parlava che contagiò anche me. 

Annuii silenziosa e quando mio padre ci raggiunse, li salutai mentre il sole sorgeva timido. Man mano che si allontanavano e le loro figure si rimpicciolivano, rimasi ad osservarli non riuscendo a non pensare al fatto che presto sarebbe cambiato tutto.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***







Dopo la partenza di John e di mio padre, mia madre iniziò a pensare che forse avremmo dovuto seguirli fino in città, ma cambiò idea presto. Non sapevo se era preoccupazione, ma si era appena ricordata che non poteva lasciare sposare sua figlia senza un corredo per il matrimonio: una camicia da notte e un lenzuolo ricamato con le nostre iniziali.

Charlotte aveva chiesto se per caso credeva di sposare la figlia ad un re, invece che ad un semplice falegname, ma nostra madre si era subito arrabbiata.

A quanto pare, il lenzuolo era una tradizione di famiglia. Indipendentemente dal fatto che non eravamo ricchi, ogni fanciulla avrebbe avuto diritto ad un lenzuolo ricamato con le iniziali dei due sposi.

Forse mia madre discendeva da chissà quale famiglia altolocata la cui ricchezza, vista questa tradizione inusuale per una famiglia come la nostra. Già solo il fatto che tutte noi sapessimo ricamare era una cosa molto inusuale, ma non mi ero mai fatta troppe domande.

In verità, avrei dovuto farlo anch’io, ma Charlotte si rifiutava ogni giorno di portare le pecore a pascolare e preferiva rimanere chiusa in casa a ricamare. Non voleva dirmi il perché, ma non era necessario, l’avevo capito da sola: temeva di incontrare lui, il solo modo in cui ormai lo chiamava, e, sebbene detestasse il ricamo, era pronta a sacrificarsi pur di non oltrepassare la porta di casa.

Per questo, ogni mattina mi allontanavo dal villaggio con le pecore al seguito e il cane che mi trotterellava a fianco abbaiando ogni tanto per non far disperdere il gregge.

Passavo le giornate seduta su un prato all’ombra di qualche albero e tornavo la sera tardi quando il sole iniziava a calare e a scomparire.

Anne e Charlotte aiutavano nostra madre nelle faccende di casa e a preparare il mio esiguo corredo e la sera quando tornavo Charlotte era sempre pronta a raccontarmi della visita di qualche compaesana nel pomeriggio. 

Erano tutti molto curiosi sul mio matrimonio e spesso bussavano alla nostra porta per una piccola visita di cortesia. 

Restavo a bighellonare per la campagna tutto il giorno finchè il sole non iniziava la sua discesa e il buio cominciava a minacciare di farmi perdere la strada.

Allora, rincasavo e insieme andavamo a dormire.

Quando quel giorno Charlotte e Anne mi raggiunsero trafelate, stavo cercando di intrecciare una corona di fiori, ma tutte le volte che ci provavo, non riuscivo a non rovinarne i fiori irrimediabilmente. Conservavo ancora la coroncina di fiori che mi aveva donato Gabriel, nascosta dentro la Bibbia, e ancora non riuscivo a capire come avesse fatto ad intrecciarla senza che me ne accorgessi e che si rovinasse.

“Lydia, vieni. Subito.”

Le guardai sorpresa. “Cosa ci fate qui? Non dovreste essere a casa?”

Charlotte mi aiutò ad alzarmi in piedi senza tanti complimenti. “Cosa sta succedendo, Lotte?”

Anne mi guardò. “Charlotte dice che devo guardare io le pecore.”

Lanciai uno sguardo interrogativo alla nostra sorella maggiore e lei mi rispose. Semplicemente: “Mi servi in casa, tu.”

Dopo aver raccomandato ad Anne di restare lì e di non lasciar scappare neanche una pecora, corremmo per i prati verso il villaggio.

Charlotte non voleva dirmi nulla finchè non fossimo state dentro le mura di casa e, nonostante cercassi di convincerla a fermarsi e spiegarmi tutto, continuava a correre e tirarmi per la mano.

“Temo che si sia beccata un malanno.”

“Chi?” chiesi anche se iniziavo a sospettarlo.

“Nostra madre. È tutto il giorno che tossisce e poco fa mentre pulivamo la cucina è svenuta. Cosa facciamo?”

Mi guardò ad occhi sgranati aspettando una risposta. 

Corsi da nostra madre e, appena varcata la soglia della camera dove dormivano i nostri genitori, mi resi conto guardandola in faccia che aveva bisogno di cure. La sua fronte era calda e tossiva continuamente. Accanto al letto portammo un secchio d’acqua e, mentre verso sera Charlotte correva a riportare la piccola Anne a casa, iniziai ad inumidirle la fronte sperando di abbassarle la temperatura.

Passammo la notte alternandoci al fianco del letto di nostra madre aspettando che l’alba portasse improbabili miglioramenti.

 

 

 

 

“Dobbiamo chiamare qualcuno.” mi confessò Charlotte guardando il sole fuori dalla finestra sorgere.

“Chi? Potremmo chiedere a Thomas di andare a chiamare una guaritrice giù in città, ma non sappiamo quanto tempo potrebbe metterci.” proposi sapendo che non era la soluzione giusta.

“No, infatti. La cosa migliore sarebbe avere nostro padre qui a casa. Lui saprebbe cosa fare probabilmente.” rispose assorta.

Restammo in silenzio per qualche attimo. Mi venne in mente una persona alla quale avrei potuto chiedere aiuto, ma sapevo che nostra madre non avrebbe approvato.

Del resto, per il momento la sua approvazione non ci serviva e non sarebbe servita neanche a lei, se avesse continuato a peggiorare.

“Sai, Charlotte… forse c’è qualcuno che potrebbe aiutarci.”

Lei si voltò e nell’istante in cui vidi il suo debole sorriso, seppi che aveva capito a chi mi riferivo. In fondo, forse ci aveva già pensato prima.

“Mamma non ne sarà contenta.” rispose guardandomi come se fosse curiosa di vedere la mia reazione che non si fece aspettare: abbassai lo sguardo e arrossii di imbarazzo.

“Tornerò presto.” le dissi incerta e pronunciando quell’affermazione come se fosse stata una domanda.

“Tornerai presto.” mi rispose sorridendo con malcelata soddisfazione.

Appena uscita di casa mi chiesi perché non avevo nemmeno tentato di convincere mia sorella a sostituirmi in quella piccola impresa.

 

 

 

 

“Sei tornata.” mi disse appena entrai nella tenda.

Guardai verso di lei e la vidi: Lady Fortuna. Era in piedi al centro della tenda come se avesse saputo che stavo andando da lei e mi avesse aspettato.

Era uguale a come l’avevo vista il giorno della fiera: stesso sguardo penetrante, stessa chioma castana piena di ricci. Ma c’era qualcosa di diverso che impiegai qualche attimo a decifrare: non mi spaventava più. Non riuscivo a capire se era meno inquietante lei o io stessa meno spaurita, ma non ci prestai troppa attenzione.

C’era una profumo pungente di erbe e strani miscugli di spezie e altri ingredienti a me ignoti che per poco la testa non iniziò a girarmi. Un’altra volta, mi sembrava di essere stata catapultata in un altro mondo in cui le mie percezioni erano molto più forti e, anche se non potei fare a meno di stupirmene di nuovo, non potei che apprezzare quell’ambiente particolare e in qualche modo segreto e inspiegabile, intrigante.

Mi sentii così travolta da quell’onda di odori e sensazioni che quasi dimenticai il motivo di quella visita.

Mi accorsi che Lady Fortuna mi stava osservando come aspettando qualcosa e con un certo imbarazzo mi ricordai di essermi dimenticata di dirle perché ero lì, in quella tenda.

“È per mia madre. Si è presa un malanno.” Le spiegai cosa aveva, raccontando cosa avevamo cercato di fare io e Charlotte.

Inarcò un sopracciglio. “Tua madre?”

“Beh, sì.” 

Lei sorrise amaramente. “Non credo di poterti aiutare.”

Non parlai per diversi attimi incredula. Avevo sentito giusto? Come poteva non aiutarmi? Come poteva anche solo rispondere con quel tono di voce freddo?

“Perché?” 

Non rispose e voltandosi si diresse verso l’uscita della tenda.

“Lady Fortuna. Lei deve venire. Mia madre…”

“Non apprezzerà il tuo gesto neanche un poco.” mi rispose.

La bloccai mentre tentava di uscire e di scappare dalla tenda. Non so dove trovai il coraggio, ma le afferrai il braccio e tentai di convincerla.

“Non mi importa. Venga a darle un’occhiata.” le dissi temendo che mi lanciasse il malocchio come dicevano le donne del paese.

Lei mi puntò addosso i suoi occhi freddi come due lame ed ebbi paura: forse quello che dicevano le vecchie comari non era poi così lontano dalla verità. Forse stavo sbagliando a comportarmi così impulsivamente con lei: quella donna era pericolosa.

“Lydia, tu aiuteresti mai una tua rivale?”

La guardai confusa da quella domanda che mi sembrava insensata e fuori luogo.

“Cosa… Non lo so.” risposi presa in contropiede. Poi mi ricordai di Mary Bell. Charlotte diceva che era la mia rivale. L’avrei mai aiutata? In un primo momento, rifiutai completamente la prospettiva di doverle prestare soccorso, come se fosse qualcosa di inaccettabile. Poi però mi accorsi che era una cosa così crudele rifiutare la richiesta d’aiuto di qualcuno, fosse anch’egli la persona più odiosa e ripugnante del mondo.

“Sì, lo farei. Non vorrei mai dovermi trovare nella situazione della mia avversaria, senza aiuto in cui sperare.”

Lo sguardo di Lady Fortuna sembrò mutare, addolcirsi leggermente e coprirsi di quella patina che solitamente accompagna pensieri profondi. Sapevo comunque che mi stava osservando con attenzione come per smascherarmi.

Infine, annuì. Sorridendo di soddisfazione, l’aiutai a prepararsi.

Tornando verso casa, mi sentivo felice e trionfante, come se avessi vinto una battaglia. Ripensai alla Lydia spaurita che era entrata poche settimane prima in quella tenda e a come era leggermente cambiata. Forse non ero così timida e insignificante, forse era ora di chiedersi  chi veramente fosse la vera Lydia.

 

 
 

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***




 


Lady Fortuna tastò immediatamente la fronte della sua odiata paziente e con un sospiro, guardando il viso sudato e pallido di mia madre, disse: "Andate a chiamare qualcuno al campo."

Charlotte uscì dallo strano silenzio che aveva tenuto fino a poco prima: mi meravigliava che riuscisse a rimanere così taciturna e immobile per più della durata di uno sbadiglio, ma sicuramente era preoccupata per mia madre che mai aveva avuto salute cagionevole, per il suo mancato matrimonio e forse anche per l'espressione truce della nomade che sembrava tutto fuor che contenta di essere in casa nostra.

Non capivo Lady Fortuna: si era sempre mostrata così gentile, quasi affettuosa e materna con me, naturalmente entro i limiti che la sua personalità piuttosto eccentrica le imponeva. Cosa aveva detto prima di venire? Mia madre era una sua rivale. Ma perchè? E in cosa? avevo sempre dato per scontato che il disprezzo che portava verso Lady Fortuna era dovuto alla vita che conduceva, ma forse non avevo capito niente.

Lanciai uno sguardo a Charlotte che sollevò un sopracciglio in modo eclatante, come per dirmi qualcosa. Aggrottai la fronte, per una momento disorientata, poi mi ricordai di ciò che aveva detto Lady Fortuna: il campo. Naturalmente Charlotte non aveva intenzione di andarci.

Mi chiesi per quanto avrebbe continuato la recita e continuato a nascondersi in casa nostra. Non poteva certo aspettare che l'estate finisse per mettere il naso fuori di caso. O forse sì?

Avrei dovuto parlarle, anche se non in quel momento. Mia sorella non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno e se l'avessi sgridata, non mi avrebbe dato ascolto intestardendosi ancora di più. Ma forse tutto ciò che bastava sarebbe stato far leva sulle corde giuste.

Scesi le scale e uscii dalla porta di casa, pronta a correre verso il bosco, ormai dimentica di tutta l'ansia che avevo provato poche settimane prima per portare le uova a Lady Fortuna.

"Oh, Lydia! eccoti qui!"

Guardai la proprietaria della voce e per poco non feci una smorfia, vedendo l'altezzoso viso di Mary Bell sorridermi.

Dimenticai la mia solita gentilezza dettata dal buon senso e dalla timidezza e le chiesi senza pensarci: "Che ci fai qui?"

Ero stata molto scortese, ma presa dalla foga per andare a chiamare qualcuno al campo nomadi, l'ultima persona che avrei pensato di incontrare era proprio quella che mi stava davanti con un'espressione offesa e sconvolta.

"Quanto sei maleducata, Lydia Dale! Per tua informazione, sono qui perchè siamo tutti preoccupati, ovviamente!"

Ero piuttosto scettica che lei fosse preoccupata per noi, ma non ci feci caso perchè non capivo come avessero potuto sapere di nostra madre in così poco tempo senza che nessuna di noi avesse fiatato.

"Preoccupati?"

"Beh, certo! Non siete venute a messa oggi! tutti si chiedono il perchè. Forse Charlotte potrebbe anche non venire, visto com'è sempre impegnata a trovare un modo per ribellarsi, forse la piccola Anne, anche. Ma tu e vostra madre non saltate mai una messa!"

Era vero, ma mi ero completamente dimenticata che era domenica.

"Cos'è successo, Lydia?" mi incalzò Mary.

"Mia ..." Non finii la frase preoccupata. Non potevo sostare oltre e se avessi detto che mia madre stava poco bene, Mary avrebbe continuato a tempestarmi di domande, quindi bofonchiai un "Devo andare" e sparii nel vicolo correndo senza prestare più attenzione a Mary che mi chiamava.
 


Non avevo idea di chi avrei dovuto chiamare, non l'avevo chiesto e Lady Fortuna era stata volutamente vaga su quel punto, quindi chiunque sarebbe andato bene.

Non conoscevo la maggior parte della gente che vidi fuori dalle tende e che subito si mise a fissarmi. Cosa ci fa qui?, dicevano quei sguardi. Imbarazzata, mi girai attorno e vidi Gabriel con il violino in mano e l'arco nell'altra. Mi guardava con un'espressione neutra e mi ricordai di quella profondamente infastidita e un po' offesa che aveva avuto l'ultima volta che l'avevo visto. Avrei potuto chiedere a lui? Indugiai un attimo temendo un suo rifiuto, ma poi mi decisi: sarei andata fin lì e senza tirarmi indietro, gli avrei detto che Lady Fortuna aveva bisogno del suo aiuto. Non avrebbe potuto rifiutare.

Iniziai a camminare dritta verso di lui, ma fui fermata da Aleksandr.

"Lydia, giusto?" disse parandomisi davanti. Aveva un espressione determinata e i miei propositi vacillarono un attimo.

"Sì, ma..."

"Come sta Charlotte?" mi chiese. "Devo parlare con lei."

Sospirai: avrei dovuto immaginare che pima o poi mi sarebbe toccato cercare di dissuaderlo. "Non vuole, Aleksandr. Sta bene, ma non vuole."

Fece un'espressione sconsolata e mi afferrò le spalle per poi piegare le ginocchia leggermente per abbassare il viso più o meno al livello del mio. "Ti prego, Lydia. Parlale, convincila. Io devo parlarle."

Mi stava trattando come una bambina: mi aspettavo quasi di vedere spuntare sul suo viso quell'espressione stupida che hanno gli adulti quando parlano con Anne. lo guardai male e cercai di allontanarmi piuttosto offesa, ma lui ancora non aveva finito. "Si è arrabbiata, ma non ha capito davvero..."

"Ha capito benissimo, credo." ribadii. "Lasciami stare."

Lui sembrò parecchio infastidito dalle mie parole, ma, prima che potesse ribattere, una mano si posò sulla mia spalla e una sulla sua. Alzai lo sguardo e vidi Gabriel. "Basta. Che ci fai qui?"

Non era stato ne maleducato ne gentile, una via di mezzo.

Mi ricordai di Lady Fortuna e di mia madre. "Presto, devi venire! Lady Fortuna mi ha mandato a cercarti."

Sembrò preoccupato e il tono della sua voce lo confermò. "Cos'è successo?"

"Mia madre sta poco bene e lei mia ha mandato a cercare qualcuno." gli dissi.

"Andiamo." rispose, ignorando Aleksandr, che intervenne subito: "Vengo anch'io."

Feci una smorfia sapendo il perchè voleva venire, ma non dissi niente. In fondo, forse era proprio quel che ci voleva per mia sorella: chiarire le cose una volta per tutte.

Arrivammo poco dopo al villaggio e quando uscimmo dal vicolo e notai che Mary Bell era ancora lì, fui tentata di fermarmi e convincere i due nomadi a nascondersi momentaneamente, ma lei ci vide subito. Dalla sua delicata boccuccia prorruppe un'esclamazione sconvolta. Cosa ci facevo io in compagnia di quei due?, la sentivo chiedersi, pur non potendo davvero sentire cosa stesse pensando.

Cosa ci faceva ancora lì?, pensai furente. Ora sarebbe andata a raccontare tutto e chissà cos'avrebbe aggiunto. Cosa potevo fare? Niente.

Arrossii e corsi dentro casa. Guidai i due giovani su per le scale e aprii la porta per ritrovarmi lo sguardo furioso, anche se debole, di mia madre.

Si era svegliata. "Oh, madre. Come stai?"

Lei passò lo sguardo da me a Gabriel e Aleksandr che ancora mi stavano dietro e rispose con una domanda: "Cosa state combinando tu e tua sorella?"

Lady Fortuna la ignorò deliberatamente rivolgendosi ai due giovani nomadi. "Aiutatemi a portarla nella mia tenda."

"Cosa? Io resto qui." prorruppe mia madre.

"Che bisogno c'è di portarla fin lì?" chiese Charlotte con le guance rosse d'imbarazzo ignorando gli sguardi tristi che le rivolgeva Aleksandr.

"Lì sarò più a mio agio, non posso e non voglio lavorare qua dentro." disse la guaritrice.

Gabriel e Aleksandr si mossero verso il letto e, nonostante non ne fosse contenta, mia madre si lasciò aiutare ad alzarsi dal letto e ad uscire dalla camera.

Uscimmo dalla porta sul retro silenziosi come ratti. Lady Fortuna aveva dichiarato che pretendeva un aiuto e visto che Charlotte non era intenzionata ad uscire di casa, dovetti avviarmi verso il bosco con loro per assistere mia madre.

Forse quella donna voleva incoraggiarmi ad uscire dai confini che gli altri avevano segnato per me, ma avevo altro per la testa in quel momento e non feci caso al fatto che quando aveva richiesto un aiutante aveva guardato solo me.

La tenda di Lady Fortuna ci accolse con i suoi colori sgargianti e i suoi profumi speziati.

Gabriel e Aleksandr appoggiarono mia madre su un giaciglio in un angolo e la coprirono con una coperta mentre la guaritrice rovistava in mezzo alle sue mille cianfrusaglie.

Mia madre si addormentò subito, ma Lady Fortuna non ci fece caso. Venne da me.

"Trova del piede di gatto."

Piede di gatto?! Era davvero una strega, allora? mi domandai preoccupata.

Lady Fortuna capì subito la mia incertezza e voltandosi verso Gabriel gli disse: "Andate e portatemene un bel po'. é probabile che me ne servirà molta." 

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


 

“Ecco, questo è un piede di gatto.” Mi disse Gabriel strappando il fiore e tendendomelo.

Lo presi e me lo rigirai fra le dita: aveva uno stelo fine, ma la cosa più particolare era il fiore che aveva un aspetto molto simile alla zampa di un gatto. “Ci assomiglia davvero!” esclamai.

“Non avrai davvero creduto che ti avesse chiesto di amputare un gatto!” esclamò Gabriel divertito, ma anche abbastanza incredulo. Trovando nel mio temporaneo imbarazzo la risposta, rise.
Lo guardai leggermente imbronciata per un attimo. “Beh, io credevo…”

“Lo so cosa credevi: non è una strega.” Mi interruppe con tono non più divertito, piuttosto arrabbiato e seccato. Capii che non era la prima volta che lo diceva a qualcuno e mi sentii leggermente in colpa, come se fossi io a sussurrare tutte le cattiverie che si dicevano in giro su Lady Fortuna. “La gente…” iniziai.

Mi interruppe di nuovo. “La gente dice tante cose. Troppe.” Il suo tono era risoluto e secco come se volesse chiudere lì il discorso.

“Potrebbe esserci del vero.” Continuai .

“Lydia, sai cosa dirà la gente di te nei prossimi giorni?” mi chiese spazientito con un pizzico di cattiveria sorridendomi senza allegria. “Ti auguro di non sentirlo mai. Soprattutto se ciò che diranno non corrisponderà al vero, il che mi sembra probabile.”

Lo guardai male desiderando di dimostrargli il contrario, ma poi ricordai la faccia sconvolta di Mary Bell. Sicuramente aveva già iniziato a raccontare di avermi vista con due dei nomadi, ma tutti al villaggio pensavano fossi una fanciulla posata e a modo quindi non avrebbero ascoltato le sue cattiverie. Tuttavia, una volta scoperto che avevo portato mia madre al campo nomadi e deciso di restare lì con lei finchè non fosse guarita, cosa avrebbero pensato?

Avrebbero pensato sicuramente al peggio: se da una parte il mio gesto rivelava amore e apprensione per mia madre, dall’altro cosa avrebbe mai potuto succedere in quel periodo? Padre Philip avrebbe sicuramente avvertito tutti della minaccia a cui sarebbe stata sottoposta la mia anima, troppo vicina al peccato, alle tentazioni…
Guardai Gabriel e arrossii. Se in quel momento mi avesse vista Padre Philip…

“Non sarei dovuta venire, vero?” chiesi non tanto a lui quanto a me stessa.

Lui mi venne vicino, si mise proprio davanti a me prendendomi il fiore di mano. “Te l’ho detto: la gente dice tante cose, fin troppe.”

“Forse sto sbagliando tutto.” Replicai.

Lui sorrise. “Forse. Cosa ci sarebbe di male, comunque?”

Non gli risposi. Rimanemmo per un po’ in silenzio, lui che giocherellava con il fiore e io ad osservarlo quasi incantata. “Sai, “ mi disse ad un certo punto “quando decisi di vivere, mi sono detto la stessa cosa: forse sto sbagliando tutto.”

“Vivere?” chiesi ancora fissando le sue mani.

“Sì, vivere seriamente a fondo ogni attimo della mia esistenza.” Replicò come se fosse normale.

Alzai lo sguardo verso il suo viso strizzando gli occhi per la luce del sole e vidi i suoi occhi brillare. Non era una luce vera e propria come quella del sole, naturalmente, era piuttosto il brillante riflesso di un’emozione.

“E ti sei mai pentito?” chiesi, nonostante sapessi la risposta. Ero curiosa: cosa significava davvero vivere come diceva lui?

“No, per ora no.” Rispose con una scrollata di spalle, come se non stesse parlando di qualcosa di importante.

“Gabriel, io non sto scegliendo di vivere veramente, come dici tu. Non è la stessa cosa.”

“Invece sì, perché il primo passo è fregarsene di ciò che dice la gente ed è proprio quel che dovresti iniziare a fare tu.”

Feci una smorfia: sembrava facile detta così. Ma in verità non lo era affatto. Pensai a mia madre, sempre così preoccupata di quel che la gente pensava di lei, sempre così stressata. Non sarebbe stata contenta, di questo ero certa, ma era per il suo bene. Tutto questo era perchè lei guarisse. E allora cosa contavano le dicerie e i pettegolezzi?
Ripresi il fiore che Gabriel mi aveva rubato di mano e lo buttai nella cesta. Avevo scelto.
 
                                                                                                           
 
“Gabriel? Chi eri prima di scegliere di vivere?” gli chiesi. Mi piaceva come suonavano quelle tre parole, scegliere di vivere. Ed ero curiosa, chi era Gabriel? Era una domanda a cui non riuscivo a rispondere.

“Un essere fatato, un Changeling.”

“Davvero?” esclamai sconvolta.

Sorrise amaramente. “Lady Fortuna mi trovò su una collina vicino ad un biancospino. Lei dice che sono uno di loro, un bambino fatato messo nella culla di un bimbo umano. I miei genitori devono avermi abbandonato lì per riavere indietro il loro bambino, credo.”

“È molto triste.” Come faceva a dirlo con così tanta leggerezza?

“Sì, lo credo anch’io. Comunque non ti ho risposto. Ero un semplice bracciante.” disse solamente.

Risi. “Non mi prendere in giro!”

Lui sorrise. “È la verità, davvero!”

“Non puoi essere stato un bracciante, altrimenti non avresti queste mani. Non potresti suonare il violino così bene.” Replicai prendendogli una mano. Non pensai a quanto audace fosse il mio gesto e rimasi ad osservare le linee del palmo della sua mano. Erano callose, ma ugualmente troppo fini per quelle di un bracciante. O forse no? In fondo, quante mani di contadini avevo osservato da così vicino?

“Ma se eri un bracciante, come hai fatto ad imparare a suonare il violino? O addirittura ad averne uno?”

“Non l’ho rubato, se è questo che pensi. Me l’ha regalato Lady Fortuna. Mi aveva lasciato presso una famiglia di contadini e li aiutavo a lavorare la terra in cambio di una moneta di rame al giorno. Naturalmente non avrei mai potuto comprarlo.” Sorrise.

“E come hai imparato?” dissi alzando lo sguardo.

“Da solo.” Rispose. “Lady Fortuna dice che è il mio dono. Potrei riuscire a farti piangere con le mie nenie, potrei riuscire a farti ballare e ridere con una ballata. Avevi ragione, quel giorno.” Disse alludendo a quel tempo trascorso nel prato quando avevo dubitato che fosse umano.

Lo guardai a bocca aperta leggermente spaventata. Mi osservava incuriosito aspettando una mia reazione. Chissà cosa c’era di vero e cosa si era inventato in quel racconto! Mi stava sicuramente prendendo in giro, per cui mi girai e iniziai a camminare.

“Dove vai?”

“Non possiamo perdere tutto questo tempo a scherzare.” Replicai senza fermarmi.  




 

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


 

Lady Fortuna ci aspettava con le mani sui fianchi. “Ce ne avete messo di tempo!”

Piantò i suoi occhi penetranti nei miei e non so perché, ma arrossii come se avessi chissà cosa da nasconderle. Lei fece un mezzo sorriso e si scostò dall’entrata della tenda. “Tua madre ti aspettava. È sveglia.”

Rimasi un attimo sull’entrata esitante notando quanto quell’atteggiamento gentile nei miei confronti stonasse con i sentimenti che quella donna provava per mia madre. Al pensiero di mia madre finalmente sveglia, però non ci prestai attenzione.

Corsi dentro e mi accucciai vicino alla sua branda. “Madre, come ti senti?”

Nonostante fosse rimasta incosciente a lungo, aveva profonde occhiaie sotto gli occhi, come se non avesse dormito da giorni. Il suo viso sembrava pallido sotto la luce calda delle fiamme che arrivava dal centro della tenda e i suoi occhi chiari erano lucidi. Non mi sembrava stesse molto meglio, ma per fortuna ora poteva contare sulle cure di una guaritrice.

“Lydia, perché mi hai portato qui? Quella donna mi ucciderà.” Sussurrò. Nella voce non c’era paura, fastidio piuttosto.

Cosa voleva dire? Mi ricordai delle parole di Lady Fortuna: Tu aiuteresti mai una tua rivale? Cosa era successo tra loro due? E come mai si conoscevano così bene da essere nemiche?
“Non lo farebbe mai!” le dissi. “Madre, cosa vuol dire tutto questo?”  

Lei chiuse gli occhi come se fosse nuovamente stanca. “Non mi va di parlarne.”

“Madre!” la chiamai, ma chissà come era sprofondata nel sonno. Rimasi a guardarla per un poco, ma Lady Fortuna mi richiamò. “Lasciala riposare. Vieni ad aiutarmi, piuttosto. Sarebbe utile imparare qualcosa nel caso dovessi trovarti in queste situazioni.”

Gabriel era sparito. Lady Fortuna legava i nostri fiori in un mazzetto da appendere a testa in giù pronto ad essiccarsi. Ne tirò giù un altro e slegandolo prese una manciata di fiori e li immerse in un recipiente di metallo. “Mettilo a cuocere.”

“Lady Fortuna, qual è il vostro vero nome?” le chiesi rendendomi conto di non sapere davvero come si chiamasse.

“Chiedilo a tuo padre. Lui lo saprà.”

La guardai con la fronte aggrottata e le ripetei la domanda che avevo rivolto a mia madre pochi momenti prima. “Cosa vuol dire tutto questo?”

“Lydia, questa non è l’ora ne il momento adatto.” Replicò.

“Devo sapere.”

Si voltò verso di me completamente e mi piantò quei suoi occhi verdi addosso. “Sono d’accordo, ma non ora.” Ripetè con tono più duro. Poi come se non fosse successo niente, sorrise. “Vieni, ti spiego le basi.” 

                                                                                                      

Più tardi ero piena di informazioni.

“Credo che tu sappia quali sono le quattro parti di una pianta che possono servire per curare.” Aveva iniziato Lady Fortuna. “Radici, fusto e foglie, fiori e frutti. Sì, lo so: è piuttosto elementare, ma preferisco partire dall’inizio.”

Naturalmente la cosa migliore sarebbe stata usare sempre piante fresche, ma non era sempre possibile. Si poteva allora conservarle essiccandole. Si potevano dunque, una volta essiccate, frantumare e trasformare in polveri. Ora sapevo la differenza tra impacco e cataplasma, i poteri di una buona tisana e quelli di un decotto e, in teoria, come si preparava uno sciroppo. Gli astri influenzavano i poteri benefici delle piante, quindi era bene cogliere i fiori e le foglie di biancospino solo il martedì, per quanto fosse possibile.

Non sapevo molto altro e nonostante all’inizio non fossi interessata, iniziavo a cogliere il fascino delle piante. Forse era la magia delle parole entusiaste di Lady Fortuna, ma sentivo di aver scoperto un interesse di cui prima non sapevo niente.

Da quando mia madre si era ammalata mi sentivo meglio, più rilassata. Per prima cosa tornai a casa.

Anne mi venne incontro con aria imbronciata. “Mi manda sempre via.” si lamentò.

“Chi, Charlotte?” Lei annuì e io partii spedita tenendola per mano. Mi sembrava strano che Charlotte si comportasse così in questa situazione, per cui quando trovai mia sorella in un intensa discussione con Aleksandr, capii il perché.

Non dissi niente, ma non me ne andai. Charlotte si girò e vidi sollievo ed esasperazione nella sua espressione. “Mandalo via, ti prego.” Mi disse.

Sospirai lanciando un’occhiata al nomade che assunse un’espressione cocciuta e mi guardò con sfida deciso a rimanere. Non avevo idea di come cacciarlo via, per cui dissi solo: “Dovreste risolvere i vostri problemi, una volta per tutte. In bene o in male, Charlotte.”

Lei mi guardò con disperazione e capii: non voleva. Avrebbe voluto rimandare quel momento in eterno.

Non mi chiesero di andarmene e io rimasi pur in imbarazzo. Non volevo lasciare sola Charlotte perché mai mi era sembrata più debole. L’amore forse poteva essere splendido e meraviglioso, ma in quel momento non mi sembrava altro che un’atroce tortura. 

                                                                                                                    

I baci che si scambiarono erano quanto di più ammaliante e inaspettato potessi vedere e rimasi incantata, ma la presenza di Anne mi ricordò che tutto questo era pericoloso. La presi per mano e la portai su per le scale.

Le pettinai i capelli e glieli intrecciai. “Anne, facciamo un gioco.”

“Un gioco nuovo?” chiese improvvisamente eccitata.

Le sorrisi. “Sì, nuovo.”

“Quali sono le regole?” chiese.

Mi abbassai davanti a lei e le dissi: “Devi promettere che non dirai a nessuno di quanto è accaduto giù. Non una parola, neanche a nostra madre. Attenta. Sai cosa succede a chi non mantiene le promesse.”

Lei mi guardò con uno sguardo tanto profondo che per un attimo mi sentii in colpa, poi sorrise. “I folletti del bosco gli rubano la voce.” Disse spaventata.

“Ma tu non corri nessun pericolo, Anne. Tu sei una brava bambina.” Le dissi cercando di non far trapelare quanto quel gioco mi disturbasse.

“Va bene. Prometto che non dirò niente a mamma o a papà. Non dirò niente a nessuno perché questo è un segreto.” Disse con quell’eccitazione tipica dei bambini che possiedono qualcosa di nuovo.

La lasciai a giocare con la sua bambola di stoffa e scesi trovando mia sorella davanti al fuoco con sguardo assente. Dov’era il suo spirito ribelle sempre irrequieto?

Alzò lo sguardo. La abbracciai. Non avevano risolto niente. Quei baci disperati non erano stati un segno di pace, ma di caos. Nessuno dei due aveva davvero abbandonato le proprie posizioni. Aleksandr era deciso a farsi perdonare e a riconquistarla perché, come aveva giurato, era lei che voleva, nessun’altra. Charlotte d’altro canto non voleva accettare quelle sue parole, non voleva e per il momento niente l’avrebbe smossa.

Non parlammo di tutto questo, tuttavia. Non parlammo di niente. Mi disse solo che aveva mandato Thomas giù in città a cercare nostro padre.

Tornando al campo, non riuscivo a non pensare che era un bene che nostra madre non fosse a casa: avrebbe sicuramente notato l’umore di mia sorella. E per questo, non riuscivo a non sentirmi in colpa. 

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***





Passò una settimana.

Mia madre guariva lentamente grazie alle cure di Lady Fortuna e tornava ad essere sempre più se stessa. Ogni volta che entravo nella tenda mi guardava con evidente disapprovazione e cercava continuamente di distogliere la mia attenzione dalle lezioni di Lady Fortuna.

Non aveva espresso chiaramente la sua opinione al riguardo, ma sapevo benissimo che non voleva. Disdegnava gli insegnamenti di quella donna proprio perché venivano da lei, nonostante grazie a quelli stesse sempre meglio.

Nonostante questo, continuavo a chiedere spiegazioni per ogni minima cosa. C’erano così tante piante e fiori che iniziavo a vedere veramente ora: lavanda, menta, rosmarino, ginepro, malva, melissa e tante altre. Non volevo smettere di imparare. Non capii subito cosa volesse dire quell’affermazione che continuava a ripetersi nella mia testa ogni volta che mia madre mi guardava male: poteva essere insignificante, ma mi stavo ribellando.

Quella settimana non cambiò solo i miei atteggiamenti, rendendomi meno insicura e più prona ad inseguire i miei obbiettivi, se così si potevano chiamare, ma mi fece capire davvero cosa voleva dire Gabriel quando pronunciava la parola vivere. Mi sentivo molto più a mio agio con me stessa, molto più reale, non più l’ombra che si nascondeva dietro le sottane di Charlotte.

Lo notò anche Gabriel perché ogni volta che parlavamo, che ci incontravamo il suo sguardo non osservava più soltanto, ma parlava. Non sapevo cosa pensare: era cambiato il modo in cui mi vedeva? O ero io che non mi ero davvero accorta di come mi guardava?
Il suo sguardo scuro sembrava parlare al posto delle sue labbra che, quando mi guardava in quel modo, rimanevano serrate. E quello sguardo mi rendeva incredibilmente inquieta.

“Sai qual è la cosa più bella? Di questa vita, intendo.” Mi disse un giorno.

Eravamo seduti fuori dalla tenda una davanti all’altro. Stavo sfogliando il libro sul quale Lady Fortuna aveva segnato tutto quel che sapeva sulle piante, sulle malattie e sulle possibili cure. Molta gente vedendolo l’avrebbe chiamato grimorio, per questo la guaritrice aveva esitato prima di lasciarmelo leggere, ma ormai avevo da tempo iniziato a capire il sottile confine tra ciò che si diceva in giro e la verità.

La nomade scriveva con una calligrafia nitida e così elegante e precisa che mi meravigliai e le chiesi dove avesse imparato. Saper scrivere e leggere è come saper combattere con spada e difendersi adeguatamente con uno scudo, un buon attacco e un ottima difesa., aveva risposto senza chiarire null’altro che la sua opinione riguardo all’importanza di essere almeno minimamente istruiti.

“Quale?” gli chiesi sollevando lo sguardo e trovando subito il suo.

Abbassò gli occhi sul violino che aveva in grembo e iniziò a seguirne distrattamente i contorni con le dita.
“Non sapere mai cosa accadrà il giorno dopo. Non sapere quale sarà il tuo futuro, se non in parte.”

Lo guardai insicura. Io avevo sempre desiderato un avvenire sicuro. Non sapevo come rispondergli, quindi optai per la verità. “Io so già quale sarà il mio.” Risposi semplicemente.

“Ah, sì? E quale sarebbe, veggente? Continuare a vedere in faccia sempre le stesse ottuse persone?” mi prese in giro.

“Beh, probabilmente. Prima di tutto, mi sposerò, sarò una moglie, una madre. Aiuterò mio marito nel suo lavoro.” Risposi tornando a fissare il libro sentendo le guance diventare bollenti.

Sentivo il suo sguardo sul mio viso. Cosa avrebbe detto ora? Se da una parte speravo che non mostrasse il minimo fastidio, dall’altra la prospettiva di vederlo reagire non mi sembrava poi così cattiva e imbarazzante.

“Ti sposerai presto, a quanto pare.” Disse accennando alle mie guance. “Sai, non tutto è sempre così certo come sembra.” Aggiunse poi.

Alzai lo sguardo e notai la sua espressione giocosa. Lo guardai per un attimo negli occhi e quello mi bastò per capire che non era così divertito, dopotutto.
“C-cosa intendi?”

“Intendo dire che l’avvenire non è mai certo. Io credevo che avrei lavorato la terra per tutta la vita e invece faccio tutt’altro.” Rispose. “Anche tu potresti essere tutt’altro che la brava moglie di un falegname. Non si sa mai.” Ammiccò.

Arrossii ancora di più, se possibile, e rimasi in silenzio. Cosa avrei dovuto dirgli? E come avrei dovuto interpretare le sue parole? Chiusi gli occhi per un attimo: quella conversazione stava andando dritta verso argomenti pericolosi.

Cambiai discorso. “Quanto conosci Lady Fortuna?”

Lui mi lanciò un’occhiata divertita consapevole del mio imbarazzo. “Molto e poco. E tu quanto conosci te stessa?”

Gli sorrisi. “Molto e poco, credo. Cosa sai?”

“So che è una brava donna, una buona guaritrice, una leale amica. Cosa vuoi sapere?”

Esitai un attimo: avevo ingenuamente sperato che mi raccontasse di più senza espormi troppo, ma evidentemente Gabriel aveva capito il mio gioco. “Non mi chiedi niente in cambio?” gli chiesi più per scrupolo ricordando che ero ancora in debito con lui.

Anche lui sembrava ricordarsene perché sorrise con malizia. “Potrei, in effetti.”

Lo guardai sconsolata pronta ad accettare, ma mi astenni per un attimo ricordando in che modo aveva barato l’altra volta. “Come farò a sapere che le informazioni che mi darai saranno davvero ciò che mi serve?”

“Potresti fidarti.”

“No.”

“Va bene, dimmi prima cosa vuoi sapere e poi ti dirò cosa so.”

Sorrisi soddisfatta prima di chiedergli nuovamente seria. “Perché Lady Fortuna dice che mia madre è una sua rivale?”

Gabriel fece una smorfia. “Non so molto. Ma quel che so ha bisogno di qualcosa in cambio.”

“Cosa vuoi?”

“Una promessa.” Disse con fare solenne.

“Quale?”

“La prossima settimana verrà il 30 aprile, Beltane. Verrai?” chiese fissandomi negli occhi come per cogliere il minimo segno di una bugia.

“Verrò, lo prometto. Ma perché…?”

“Me l’ha chiesto Lady Fortuna. Visto che sto per rivelarti qualcosa sul suo misterioso passato, le assicuro la tua presenza alla festa.” Mi disse scrollando le spalle.

“Dimmi ora.” Lo incitai.

“So poco, davvero poco. Lady Fortuna non ama parlare di sé, se non l’hai ancora notato.”

Annuii pensando a come deviasse il discorso ogni volta che si toccava il suo passato.

“So una cosa soltanto: qualunque sia il motivo del loro astio, di mezzo c’è tuo padre.” Mi disse a voce così bassa che dovetti avvicinarmi un po’ di più.

“In che modo?”

“Non lo so per certo, ma credo che fossero molto vicini.” Rispose. “Non so cosa accadde.”

Lo guardai disorientata rimuginando su ciò che avevo appreso. 




Sinceramente, mi faccio paura da sola.  ;)
 

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


 

“Non dovresti girare disarmata, Lydia. Credevo avessi imparato la lezione.” Mi rimproverò Gabriel.
 


Ricordai la notte in cui per poco non mi aveva tagliato la gola e dovetti respingere l’impulso di portare la mano al collo sentendo improvvisamente il freddo sulla pelle. Raccolsi la cesta con i panni sporchi per tenere impegnate le mani e lo guardai male per avermi ricordato un simile episodio: il ricordo del contatto con la lama fredda e del terrore che avevo provato mi faceva ancora venire i brividi. “Devo solo andare a lavare questi panni al fiume. Non andrò troppo lontano, non c’è nessun pericolo.”

Alzò un sopracciglio con fare scettico e capii subito che non mi avrebbe lasciato andare sola. Avrebbe approfittato di quell’occasione per seguirmi ed eventualmente prendermi in giro, come ormai spesso faceva.

Iniziavo a capirlo. O a prevenirlo nella sua imprevedibilità, se così era più giusto dire.

Era una sensazione strana, soprattutto perché mai ero stata davvero capace di anticipare e rimanere sorpresa dalle azioni di una persona allo stesso tempo. Ma Gabriel era particolare: anche se per la maggior parte del tempo era imprevedibile sia nell’umore sia nelle decisioni quotidiane, c’era sempre qualcosa che lo rendeva prevedibile.

Era sfuggente, se avessi dovuto descriverlo, non avrei saputo come farlo perché Gabriel era un po’ di tutto: passava da un estremo all’altro senza preoccuparsi di giustificare il proprio comportamento.

Ma ora, con tutta quella disapprovazione dipinta sul viso, era facile indovinare cosa avrebbe detto e ne ebbi la conferma quando mi comunicò che mi avrebbe accompagnata.

Gabriel mi portò in un punto del fiume piuttosto calmo e lontano dal campo dei nomadi. C’era una piccola cascata e l’acqua formava un piccolo laghetto prima di continuare la sua corsa verso la pianura.

Presi il sapone e trovando una roccia adatta al lavoro, iniziai a insaponare, strofinare e risciacquare, mentre Gabriel, lungi dall’aiutarmi dormicchiava con il viso rivolto alle nuvole, le mani incrociate sotto la testa e lo stelo di un fiorellino tra le labbra.

Iniziai presto a canticchiare, dimentica di Gabriel alle mie spalle, immergendo una mia veste in acqua, quando all’improvviso qualcosa dentro l’acqua iniziò a tirare cercando di strappare l’indumento dalle mie mani. Il mio primo pensiero corse alla probabilità che la veste si fosse impigliata nella punta di qualche roccia. Mi avvicinai così ulteriormente all’acqua immergendo le braccia fino al gomito.

Tuttavia, non trovai roccia ne fango, ma due mani che prendendo le mie, mi tirarono giù facendomi perdere il mio già precario equilibrio.

L’attimo dopo ero sott’acqua, ma quelle mani che mi avevano fatta cadere nell’acqua fredda del fiume, mi afferrarono da sotto le ascelle e in men che non si dica ero intenta a tossire e rabbrividire con i vestiti.

“G-Gabriel!” riuscii ad esclamare dopo una fitta raffica di tosse. I miei denti battevano e i miei capelli sciolti galleggiavano intorno a me come i petali di un fiore.

E lui ridacchiava e mi teneva ancora a galla. Lo fulminai con lo sguardo. “Mi hai fatto spaventare.”

“Dai, vieni a nuotare. Hai lavorato abbastanza, oggi.”

Mollò la presa e appena mi sentii sprofondare nell’acqua, un terrore cieco mi spinse a buttarmi sull’unico appiglio stabile che avessi intorno a me: Gabriel.

“Cosa fai?” chiese sorpreso mentre lo abbracciavo tenendolo stretto, senza pensare a quanto mi sarei sentita in imbarazzo se ciò fosse accaduto sulla terra ferma.

“Non so nuotare. Ho paura.” Farfugliai agitata.

Lui sospirò. “Avrei dovuto immaginarlo. Ma come ti lavi di solito, allora?”

Arrossii e non gli risposi: aveva formulato la domanda con ingenuità tutto sommato, ma mi metteva a disagio comunque. “Allora?” mi incitò.

“Beh, abbiamo una tinozza. Portami fuori di qui, adesso.”

Lui rise. “No, dovresti imparare a non aver paura dell’acqua.” Rispose.

“No, ti prego. Lasciami tornare a riva.”

Non vedevo il suo viso, ma sentii il sorriso nella voce quando disse: “Sta bene, ti riporterò all’asciutto.”

“Grazie.” Mormorai.

“Ad una condizione.” Aggiunse e io sbuffai.

“Fai mai qualcosa senza una ricompensa?” gli chiesi genuinamente interessata.

Lui ridacchiò. “A volte.”

“Non puoi lasciar perdere questa volta? Tutto quel che voglio stare con i piedi per terra.” Lo pregai.

Lui divertito rispose. “A volte bisogna staccarli, i piedi.”

“D’accordo.” Risposi sconfitta.” Cosa vuoi?”

La risposta mi lasciò sconvolta. Nonostante avessi in qualche modo imparato a capire la sua imprevedibilità, mai avrei potuto prevedere ciò che disse: “Un bacio.”

Rimasi in silenzio per un po’ assimilando quelle due parole. “Cosa? Perché?”

“Un bacio.” ripeté. “Perché? Perché… Non lo so neanch’io, Lydia.”

La sua voce aveva un tono così deliberatamente sincero che allontanai il viso dalla sua spalla per guardarlo negli occhi. Erano sinceri, non c’era più divertimento o malizia, rispondevano al mio sguardo in modo disarmante.

Quando spostai timidamente gli occhi sulle sue labbra, mi resi conto di qualcosa che prima non avevo mai notato: tutto quell’imbarazzo che provavo quand’ero con lui accompagnato al piacere della sua compagnia, era dovuto a qualcosa che mai avevo provato. Mi resi conto che quel bacio non mi sarebbe dispiaciuto affatto e improvvisamente mi spaventai.

Abbassai lo sguardo arrossendo e sussurrando. “No, io…” Alzai lo sguardo e non so come eravamo troppo, più di quanto eravamo mai stati. Così vicina da intravedere la minuscola cicatrice di un leggero taglietto proprio al limite del labbro superiore: chissà come se l’era procurata, forse cadendo da piccolo.

Mi avvicinai ulteriormente, dimentica delle mie preoccupazioni.

Lo baciai mezza decisa ad allontanarmi subito dopo, ma la sua vivace e inaspettatamente dolce risposta bastò ad imprigionarmi lì tra le sue braccia nell’acqua fredda.

Non mi ero mai sentita in quel modo: così dimentica di tutto quel che non fosse lui, così preda di emozioni che non sapevo esistessero, così oltre i freni che mi imponeva la società e il mio carattere.

Quando riaprii gli occhi e mi allontanai leggermente, le sue parole mi ritornarono in mente. A volte bisogna staccarli, i piedi. E con stupore realizzai che era quel che avevo fatto. Per un attimo avevo staccato i piedi da quella terra piena di pregiudizi, buone maniere, dovere e mille altre preoccupazioni.

Sorrise come se sapesse a cosa stessi pensando e feci per rispondere a quel sorriso. Ma i miei piedi toccarono terra e mi ricordai di quanto quel che era successo fosse sbagliato. Mi ricordai di John e del nostro prossimo matrimonio e impallidii.

“Riportami a riva.” Dissi.

“Cosa c’è?” chiese improvvisamente preoccupato. Sul mio viso doveva essere chiara la mia agitazione.

“Rimportami a riva, Gabriel. Devo andare.” Ripetei.

“Va bene, ma spiegami.”

“è sbagliato quel che mi hai fatto fare.” Risposi leggermente infastidita dal fatto di essere costretta a fare quel che voleva lui per tornare a riva e dando a lui la colpa per quel che avevo provato.

Quel che avevo detto sembrò farlo arrabbiare. “Sbagliato? E perché la pensi così?”

“Mi hai ricattato.”

Rise senza apparente allegria. “Era un gioco, Lydia. Se davvero non avessi voluto, non ti avrei certo costretta!”

Lo guardai a bocca aperta. “Perché?”

“Io non penso fosse sbagliato. Era ciò che volevo ed era ciò che volevi anche tu, per quanto la cosa evidentemente non ti piaccia. Era ciò che di più giusto c’è.” Replicò senza rispondere davvero alla domanda che gli avevo fatto.

Rimasi in silenzio. “Io mi devo sposare.” Mormorai.

Mi guardò malissimo quando lo dissi. “Devi? Tu non devi. Hai il potere di scegliere, Lydia. Sta a te decidere di farlo.” Disse sprezzante.

“Cosa vuoi dire?” gli chiesi. Cosa avrei potuto fare diversamente? “Sposarmi è tutto quello che ho sempre voluto.” E dicevo la verità: era tutto a quel avevo sempre aspirato.

“Se è così, allora ti riporto con i piedi per terra.” Replicò con un tono di voce scontroso. 



                                                                                                          


E con i piedi ben piantati per terra mi ritrovai poco dopo quando raccolsi i panni sotto lo sguardo pungente di Gabriel, quando tornammo al campo e mi precipitai ad aiutare mia madre finalmente guarita ad alzarsi e tornare a casa.

Tuttavia, solo quando il giorno dopo, quando nostro padre spalancò la porta e John si precipitò da me, sentii quanto pesasse restare con i piedi per terra.

Solo quando John mi abbracciò, realizzai di aver sempre avuto, in un modo o nell’altro, i piedi incatenati a terra e che la chiave per togliere quelle catene l’avevo appena persa. 

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