Anima di ghiaccio

di _ChibiCia_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fredda indifferenza ***
Capitolo 2: *** Smistamento... ***



Capitolo 1
*** Fredda indifferenza ***


Anima di ghiaccio

Anima di ghiaccio

Capitolo primo: Fredda indifferenza.

 

Un anima…?Non so se ne sono mai stato in possesso…

In realtà, non credo di sapere nemmeno cosa sia con certezza. E poi… si può possedere un anima?

Non è nulla di tangibile, è un essenza. Qualcosa in grado di racchiudere sentimenti e emozioni, di camuffare piaceri e gioie in dilemmi e preoccupazioni, qualcosa di incerto e paradossalmente potente nella sua debole entità, o almeno, abbastanza per annientare la mente di qualunque essere.

Maggiormente se si tratta di un umano; l’essere più debole. Individuo sciocco, insulso, che si aggrappa a questa nebulosa e sfocata coscienza di se, annebbia i propri sensi nell’oblio che essa concede e abbandona il senno della propria mente per perseguire la fittizia strada che si snoda dalle inutili e false sensazioni che agli uomini piace chiamare:emozioni’.

È una sciocchezza. Solo una sciocchezza.

Una stolta invenzione di cui mi è impossibile sentire la mancanza.

Non ne ho bisogno.

La tua, dunque, è una domanda stupida.

Non ho bisogno di nessun intralcio simile, non ho bisogno di nessun anima.

 

*

 

Pioveva, come sempre del resto. Tra i suoi ricordi le giornate di sole erano rare e sbiadite, almeno come lo erano quelle da lui vissute in quegli anni cupi e gelidi. Probabilmente era inverno; ricordava un freddo pungente avvolgerlo e derubarlo di ogni pensiero. Ne era grato poiché stava piangendo e voleva dimenticarne il motivo che lo spingeva insistentemente a farlo, per porre fine a quell’azione ridicola, che odiava terribilmente.

Aveva sei anni, forse prossimo a compierne sette, orgoglioso e testardo come un uomo adulto, era lì, rintanato, nascosto sotto il pino mediterraneo, che resisteva con prepotenza alle temperature del nord Europa almeno quanto lui stava cercando di respingere le lacrime, premendo con forza le piccole mani sugli occhi nascosti dai capelli lievemente lunghi.

L’imponente albero era affiancato da un altalena vecchia e arrugginita, decadente come lo era l’edificio di fronte ad essa, inerpicato su una lieve collina, spoglio e grigio come il cielo. Le imposte delle finestre, scrostate e rotte, cigolavano accompagnate dal vento, cantando una lenta nenia, triste e dolorosa, mescolandosi con il rumore della pioggia che cadeva. Disturbato da quella leggera brezza che spostò sul terreno le foglie bagnate, lasciate sparse qui e là del trascorso autunno, alzò lo sguardo verso l’entrata.

Rivoli di lacrime rigavano ancora il suo volto dolcissimo, candido, che accoglieva un paio di grandi occhi velati leggermente d’acqua ma pur sempre profondamente assorti nel nero più intenso, come i capelli d’ebano che scendevano fin sopra le delicate guance. Tirò su con il naso, reprimendo un singhiozzo.

Soffermò lo sguardo sulla scritta, ormai praticamente illeggibile, che compariva appena sopra il portone d’ingresso. Le lettere si susseguivano sulla parete crepata e formavano le parole: orfanotrofio regionale. Con un espressione di rammarico e tristezza rituffò la testa tra le braccia e altre lacrime cominciarono a scendere sul viso.

Dannazione! Tutti lo odiavano, lo scansavano, lo guardavano con disprezzo, con superiorità. Gli altri bambini si tenevano alla larga da lui, avevano timore dei strani piccoli avvenimenti che lo riguardavano. Temevano di potersi ferire con i pezzi di vetro dei bicchieri che sembravano rompersi magicamente ogni volta che era di cattivo umore per qualcosa. Tutti i bambini erano spaventati nel veder spegnersi improvvisamente la televisione, o staccarsi tutti i cartelloni dai muri delle aule di scuola inaspettatamente, quando il bel bambino dal comportamento indifferente a tutto e tutti cambiava d’umore.

Tra il direttore e le altre maestre dell’istituto vociferavano perfide voci di irrazionalità stupefacente. Quell’uomo grassottello, dall’espressione seria e autoritaria più di una vola consigliò ai coniugi che venivano a chiedere l’affidamento del bimbo di tornare sui propri passi, ripensarci, di prendere con loro un altro orfanello.

“é figlio del diavolo vi dico, signori miei! Vi sto facendo un favore! Non lo prendete con voi, accadono cose terribili intorno a quel bambino! È frutto di Satana!” ripeteva sempre, con sguardo spaventato e in tono confidenziale, e tutte le coppie scappavano via, scandalizzate, portando con se un altro bambino.

Perché? Cosa aveva fatto di male? Si impegnava in tutto. Aveva sei anni e studiava lezioni di ragazzi delle scuole superiori alle sue. Apprendeva tutto con semplicità e riusciva in ogni cosa. Era educato e con i signori che lo venivano a trovare per parlare con lui era sempre gentile e disponibile. Eppure, nessuno lo voleva.

Era solo. Maltrattato dai ragazzi più grandi, che lo prendevano di mira e lo picchiavano per sfogarsi delle proprie oppressioni. Evitato da tutti. E soffriva. Soffriva maledettamente.

 

- Sei sempre il solito, sapevo di trovarti qui!- esclamò improvvisamente una voce femminile, infantile, che spinse il bimbo moretto ad alzare gli occhi verso la proprietaria, apparsa davanti a lui. Una bambina un po’ più grande di lui gli era davanti. Teneva fra le mani un ombrello color giallo canarino, consunto sul manico di legno, intonato con gli stivaletti arancioni di gomma che indossava ai piedi, nascosti in parte da un paio di jeans lunghi e strappati in più punti. La bimba era coperta da un pesante maglione di lana azzurro, eccessivamente grande per lei, decorato con un orsacchiotto di peluche sul davanti un po’ spelacchiato. Due simpatici codini le spuntavano da sotto un cappello a forma di papero, anch’esso giallo, decisamente rovinato, che si posava con la visiera di traverso sul capo della bimba.

 

- C-cosa vuoi?- singhiozzò di rimando il bambino, mentre si strofinava con veemenza maggiore il volto nel tentativo di nascondere le lacrime.

 

- Ma guarda che moccioso! Come al solito fai finta di niente davanti agli altri, sembra che niente ti tocchi e poi vieni sempre a piangere qui, sotto questo albero!-

rispose lei, saltellando con gli stivaletti in una pozzanghera.

 

- Non chiamarmi moccioso! Hai solo due anni in più di me! E poi io non piango affatto! E comunque non sono affari tuoi!- urlò il moretto, alzandosi in piedi di scatto con le sopracciglia corrucciate.

 

- Ahahah, che faccia buffa che hai! Sei tutto sporco! Hai pianto, si vede!- rise la bimba, guardandolo in viso e indicandolo con il dito.

 

- Dai, andiamo dentro, sei tutto bagnato, e non hai nemmeno un maglione addosso!- soggiunse vedendo gli occhi neri del suo interlocutore irrigidirsi di rabbia.

 

- No! Vai tu se vuoi! Io non ti ho chiesto nulla! Capito? Vattene!- sbraitò osservandola con astio.

 

- Uff… allora rimango qui anche io- concluse con semplicità la piccola, sedendosi sotto l’albero vicino a dove era seduto poco prima il bambino e cominciando a fischiettare spensieratamente. Il bimbo la osservò sempre con la stessa espressione adirata, e si rimise a sedere, qualche passo lontano da lei.

 

- Ehi! Vieni qui vicino così ti riparo con l’ombrello- disse la bimba osservando i capelli nerissimi e bagnati di lui, agitando l’ombrello per fargli segno.

 

- No!-

 

-Ti prenderai un raffreddore!-

 

- Chissene!-

 

- Scemo!-

 

- Stupida!-

 

-Piagnone!-

 

-Non è vero!-

 

Silenzio. Il rumore della pioggia riecheggiava per il piccolo cortile sgombro.

 

- Jane…- interloquì improvvisamente il moretto, dopo qualche attimo di silenzio. L’acqua scorreva gelida su tutto il suo corpo. La bambina si voltò a osservarlo.

 

- Cosa dicono gli altri bambini di me?- proseguì il piccolo, lo sguardo puntato assente verso il suolo fangoso e il tono leggermente ombreggiato di tristezza.

 

- Che sei un tipo strano. Hanno tutti paura di te.- rispose Jane, guardando lontano con assenteismo e battendo i piedini nell’acqua sul terreno.

 

- Paura?- chiese il bimbo, concentrando d’improvviso due occhi sbalorditi sulla volto della bambina di fianco a lui.

 

- Si… sei sempre per i fatti tuoi, in silenzio, fai tutto benissimo e non sbagli mai. E poi alcuni dicono che non sei tutto normale. Dicono che non sei tutto umano.-

continuò a dire la bambina, guardandolo negli occhi, ostentando sempre un espressione di dolce ingenuità.

 

- Ah si…?- domandò il bimbo, colto nuovamente da un espressione di gelo distacco. La bimba non rispose. Lo osservava con la semplicità di un bimbo.

Altri attimi trascorsero in silenzio.

 

- Tom…- esordì Jane, rompendo di nuovo il rumore monotono dell’acqua che cadeva dal cielo.

 

- Io non so se sei normale o no. Ma non fa niente, mi sei simpatico.-

 

- Simpatico, io?- chiese nuovamente stupefatto il bimbo dagli occhi e i capelli corvini, tornando a fissare la bimba con espressione accigliata.

 

- Si. Penso anche che non dovresti piangere per quello che pensano di te gli altri bambini, perché tu sei il più straordinario, sei molto più in gamba e intelligente di tutti loro messi insieme, quindi non devi cedere alle loro prepotenze.-

Il bambino di nome Tom la guardava con la bocca leggermente dischiusa, colta dallo stesso stupore di prima. Poi, cautamente, tornò a fissare con disattenzione la terra davanti a se. Jane era arrivata all’orfanotrofio da pochi mesi, era stata trasferita da un altro che era fuori città, si vestiva sempre con colori appariscenti e vestiti particolari, era solita, quando arrivava i nuovi vestiti per i bambini, tuffarsi a scegliere quelli che Tom giudicava i più strani, e sembrava divertirsi molto nel farlo.

Sorrise tristemente. Poi si alzò e guardò verso l’edificio davanti a loro, sotto lo sguardo indagatore della bimba.

 

- Ho fame, vado a rubare qualcosa dalla cucina- disse, seguitando a guardare avanti.

 

- Sei pazzo? Se ti scoprono? Lo sai che ti puniranno!- chiese sbalordita la bimba mentre lo vedeva incamminarsi sotto la pioggia, verso l’entrata. Tom non rispose, Jane si alzò e fece una piccola corsa per affiancarlo. Sorridendo lo coprì con l’ombrello.

 

- Non pensare a me, sono zuppo ormai!- disse il bimbo sempre con lo stesso tono aspro mentre insieme raggiungevano l’entrata.

 

- Fa niente!- esclamò Jane, sorridente, entrando per prima nell’edificio.

 

Tom si voltò a vedere il punto dove prima si trovava insieme a Jane, sfocato dalla pioggia che cadeva davanti ai suoi occhi.

Non avrebbe più pianto. Lui era superiore, non era come quelle persone intorno a lui, che lo giudicavano dai suoi silenzi.

Era solo… ma in fondo, cosa c’era di male nell’essere soli?

Si voltò nuovamente, entrò nell’ingresso, freddo quanto l’esterno.

 

Era solo… ma l’alternativa sarebbe stata stare insieme a quegli sciocchi che lo scansavano senza nemmeno conoscerlo, che lo giudicavano dalle dicerie del direttore e lo guardavano con disgusto e disprezzo.

Era solo… ed era meglio così.

 

*

 

Presto il piccolo bambino che a quasi sette anni piangeva, distrutto, sotto la pioggia gelida accanto al pino, crebbe.

La fredda indifferenza che persino a sei anni dimostrava verso ogni cosa che gli accadeva intorno, ora era ancor più forte in lui. Aveva imparato ad amare la solitudine, a starsene presso il medesimo pino sotto il quale un tempo versava lacrime, seduto a leggere libri su libri, ad ascoltare il dolce silenzio che era diventato il suo amico più stretto, e ad osservare con superiorità le persone che aveva intorno e che ora avevano imparato ad ammirarlo, oltre che a temerlo.

Il bel volto di Tom non era più stato toccato da nessuna sorta di lacrima, i suoi occhi non si erano più velati di tristezza ne di altri sentimenti. Erano freddi. Freddi e distanti come quelli di un rettile. Sembrava quasi essersi creato un muro tra lui e il mondo, spesso e invisibile, che lo tagliava fuori da tutto e che lo poneva in un posizione di intoccabile indifferenza.

In realtà egli era cosciente che non erano certamente state le parole della bimba dai codini buffi a farlo reagire a quella situazione. Forse erano stati gli sguardi disgustati e accusatori dei genitori adottivi che venivano a prendere gli altri orfanelli, forse quelli del direttore e delle altre insegnanti, forse le voci dei bambini che si sussurravano: “Non è un bambino normale…”. Fatto stava che lui era cambiato, quelle parole non potevano più ferirlo. Niente poteva più.

I ragazzi più grandi che un tempo lo picchiavano, ora non gli si avvicinavano più, non da quando compresero che quel bambino indifeso era scomparso e al suo posto vi era un ragazzo dagli occhi di ghiaccio che era perfettamente in grado di affrontarli e batterli anche da solo. Le insegnanti non potevano fare altro che lodarlo per i suoi risultati e anche se non si dilungavano molto nel farlo, poiché non lo avevano molto in simpatia, a lui non importava. Non importava di essere lodato da quelle stupide donne di mezza età, dedite a accaparrarsi le attenzioni del direttore che passava tronfio per i corridoi dell’istituto esibendo pesanti orologi d’oro, ogni volta diversi. Sarebbe presto andato via da quel posto, ancora qualche anno, e se ne sarebbe andato, a costo di dover vivere per strada.

                                                                                                      

*

 

Era una di quelle tiepide mattine di sole che Tom avrebbe potuto contare sulla punta delle dita e che preannunciava l’arrivo dell’estate. I ragazzi dell’istituto erano tutti fuori, nel cortile, a divertirsi, godendosi i raggi solari che illuminavano la giornata. E lui… bè, lui era lì: semi sdraiato sul letto arrugginito che gli apparteneva fin da quando aveva messo piede in quel posto. Nella grande stanza che accoglieva i letti dei bambini non c’era nessun altro. Tom aveva lo sguardo perso sul soffitto ammuffito, le mani dietro la testa e i capelli davanti il volto. Silenzio. Stavolta nulla lo avrebbe infranto, quella rompiscatole se n’era andata diversi anni prima, due o tre, non ricordava, ma almeno ora  non lo avrebbe più importunato con la sua esuberanza immotivata. Jane infatti era stata adottata da una coppia di signori piuttosto vivaci che erano entrati nell’istituto sorridendo allegramente, indossando abiti appariscenti e molto colorati che concorrevano alla pari con quelli della ragazzina, e che non appena la videro, le si avvicinarono e poco dopo andarono a parlare con il direttore per l’affidamento.

Ricordava vagamente come Jane, a quel tempo di 10-11 anni, si era avvicinata a lui, sorridente e gli aveva detto:

- Spero che ci rivedremo Tom!-. Lui non aveva risposto nulla, l’aveva guardata allontanarsi e sedersi vicino alla porta del direttore, in attesa dei nuovi genitori.

E così anche lei se n’era andata, fortunatamente, una seccatura in meno.

 

- Tom - improvvisamente un tono di voce irrigidito e tradito da un velo di spavento arrivò alle sue orecchie. Il ragazzo non sobbalzò, non si sorprese per nulla, si mise a sedere e guardò negli occhi il direttore che era sulla porta con una lettera in mano e che lo guardava con gli occhi umidi e tremando vistosamente.

Una seccatura in fine era arrivata comunque. Il ragazzo continuò a guardare con sicurezza e senza muoversi il direttore avvicinarsi a lui e rimanere in piedi, davanti il suo letto, a qualche passo di distanza.

 

- Posso esserle utile, direttore?- chiese con tono piatto ed educato Tom, seguitando a fissarlo negli occhi.

Il direttore sembrò assumere un espressione di disapprovazione che venne meglio identificata con puro e semplice spavento. Quel ragazzo era davvero imperturbabile, non si era nemmeno scomposto nel vederlo arrivare d’improvviso. Con riluttanza porse a Tom la lettera che teneva fra le mani, non avvicinandosi più del dovuto.

Il ragazzo la prese e, anziché stupirsi, alzò le sopracciglia infastidito, non perdendo il volto calmo e atono.

 

- è uno scherzo di cattivo gusto- commentò con semplicità, posando la lettera sul letto.

 

- Tu dici? Io non credo.- rispose il direttore, guardandolo stavolta con durezza e rabbia repressa. Tom lo scrutò da sotto i capelli corvini.

 

- Comunque sia sarebbe meglio se tu andassi a questo appuntamento…- disse, prendendo già ad allontanarsi dal letto e guardandolo torvo di lato sempre con quell’espressione dura e autoritaria.

Il ragazzo gli lanciò uno sguardo gelido che lo fece bloccare sullo stipite per un momento con la bocca spalancata, poi deglutì, si ricompose e scomparve attraverso la porta il più rapidamente possibile.

Tom posò la sua concentrazione sulla pergamena gialla che accoglievate le parole della lettera in color verde bottiglia. Così il direttore aveva avuto occasione di liberarsi di lui. Avrebbe potuto trovare una scusa più valida, però. Che stupidaggine. Scuola di magia, risposta via gufo... comunque sia ci sarebbe andato. Anche lui in fin dei conti voleva liberarsi del direttore e di quel posto, e qualsiasi cosa avrebbe trovato alla stazione di King’s Kross  avrebbe potuto in ogni modo prendere un treno per andarsene in qualche altro posto.

 

 

CONTINUA…

 

Spero di aver colto la vostra attenzione^^

Vi chiedo per favore di lasciare un commento, si tratta di una fan fic che ho scritto di getto, l’idea è quella di raccontare fatti e avvenimenti che hanno influito sulla personalità di Tom Riddle, molti naturalmente saranno inventati altri tenterò di basarli sulle informazione dei libri.

Credo che il prossimo capitolo arriverà solo tra una settimana, infatti ho saputo che nel sesto libro, che come tutti sappiamo uscirà fra pochissimi giorni, ci saranno moltissime informazioni riguardo Voldemort e la sua vita quindi aspetterò di leggerlo per scrivere una storia più veritiera.

Insomma sabato e domenica per leggermelo e via^__- Grazie a tutti di aver letto!

Bacio! E uno speciale alla mia cuginetta Cry_90! ;)                    

                                                                               -CHIBICIA-

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Smistamento... ***


Anima di ghiaccio

 

Okay… la Rowling si prende gioco di me, pensavo di andare sul sicuro scrivendo il primo capitolo di questa fan fiction poiché era un avvenimento che riguardava ancor prima di quello che potesse coinvolgere il Tom Riddle di Hogwarts… e invece… mannaggia^^’’’’ vabbè… abbiate la pazienza di scusarmi e di seguitare a leggere la fan fiction^^

Anche se il primo capitolo non coincide con quello che si legge nel sesto libro fate come se entrambi fossero accaduti, ovvero come se Tom avesse incontrato Silente^__^ grazie… e recensite^^

 

Anima di ghiaccio

Capitolo secondo: Smistamento…

 

“Amicizia… un’altra parola priva di significato, inconsistente.

Ora ti svelerò un segreto… un segreto che in cuor loro tutte le persone conoscono, una verità che preferiscono tenere dentro se stessi,

individualisti, vigliacchi. Io te lo rivelerò… consideralo un mio dono…

L’amicizia non è altro che egoistica richiesta di attenzione. Null’altro.

È un modo piuttosto elementare di mettersi in mostra e di pretendere che qualcun altro si finga di interessarsi a qualcosa che ti riguarda.

Si… esatto, finga.

È finzione… pura e semplice.

Nessuno mai potrà trovare in qualche modo piacevole sentire qualcun altro parlare dei propri problemi.

Tutto è riconducibile alla debolezza dell’anima umana.

Quell’anima insicura, alla continua ricerca di conferme e gioie, insaziabile di attenzioni e impregnata di inettitudine.

Un anima debole cerca la compagnia di altre anime deboli. Si crogiolano nella fioca presunzione di essere ascoltate da proprie gemelle.

Si sbagliano.

Verranno tradite, sanguineranno lacrime inutili, diverranno ancor più deboli, si uccideranno alla ricerca di una riconquista di quella superficiale sensazione di inutile protezione. L’amicizia non esiste. È un invenzione.

È un’inesistente speranza di uscire dal dovere personale di occuparsi di se stessi.

Già, perché ciò che conta, in conclusione, è il guadagno personale e non ascoltare quegli sciocchi che ti dicono di credere in questo ‘importante’ valore

a costo della propria vita. Sono dei bugiardi.

In fin dei conti l’essere umano è una creatura sola che si trova a camminare insieme ad altre creature sole, vivendo unicamente per se stesso.

Prima lo capirai, prima comprenderai cosa significa distinguersi da questa massa informe di sciocchi.

L’amicizia è menzogna e irrealtà.

 

*

 

Il treno scarlatto scivolava con velocità sui lisci binari bagnati di pioggia di fine estate. Il paesaggio intorno ad esso ricordava una fiaba orientale nella quale si susseguivano descrizioni di luoghi selvaggi e colorati dalle più svariate ed esotiche piante. I colori si mischiavano in un verde scuro e tetro incorniciato da un cielo ombroso e uggioso. I sinistri rumori che si levavano dalla selva arrivavano attutiti e sordi all’interno degli scompartimenti pieni di studenti festeggianti e boriosi.

Era il quarto vagone della fila ad accogliere il numero più chiassoso di ogni altro, eppure era in questo stesso vagone che vi era uno scompartimento particolarmente silenzioso.

Tom guardava con distacco e disinteresse al di fuori dello spesso finestrino di vetro vicino a lui, appoggiato con disinvoltura sul bracciolo del sedile che occupava e incurante dei capelli fastidiosamente scesi sugli occhi. Il piccolo spazio che lo attorniava era abbastanza grande per ospitare sei o forse anche più persone, ma il moro era completamente immerso nella sua tanto amata solitudine e questo sembrava solo fargli piacere.

Di tanto in tanto schiamazzi e risate arrivavano a lui dagli scompartimenti adiacenti, provocando un lampo di nervosismo nel suo sguardo semi assorto nel nulla.

Dunque era reale. Lui era un mago. Lui era diverso. Speciale. Sorrise con un ghigno mefistofelico rivolto sempre allo stesso pesante vetro, sicuro di se, pienamente sicuro di se. Le urla dei ragazzi del suo vagone si affievolirono improvvisamente, come se qualcuno li avesse ripresi. Tom non poté fare a meno di seguitare a far riflettere sul finestrino il suo sorriso soddisfatto e beffardo ancor più di prima.

Improvvisamente la porta del suo scompartimento si spalancò con tale veemenza che gli infissi della finestra tremarono. I capelli corvini del ragazzo scivolarono di lato mentre lui alzava con noncuranza e lentezza gli occhi verso di essi, non degnandosi minimamente della figura apparsa con iracondia sullo stipite.

Tom seguitò a fissare pigramente i bordi superiori della finestra, osservando dalla stessa identica posizione rilassata in cui si trovava da ore ormai le viti cigolanti e arrugginite ancora tremanti. Passò un attimo poi, all’improvviso, un sonoro schiarimento di voce lo costrinse a voltarsi controvoglia verso l’entrata ma non gli tolse la libertà di farlo con estrema indolenza e di rivolgere uno sguardo di ghiaccio al nuovo interlocutore che rimase interdetto.

Una ragazza. Aveva una cascata di capelli castani che cadevano mossi ma ordinati sulla testa. La divisa della scuola era perfettamente abbottonata e stirata e non presentava il minimo segno di essere stata riposta a lungo nel baule. Ostentava uno sguardo serio e vagamente autoritario filtrato da un paio di occhiali rettangolari e dalle rifiniture delicate che erano poggiati sul naso. La bocca era leggermente spalancata, più di quanto ella facesse di solito comunque, e questo manifestò subito al bel moro di essere riuscito a sbalordirla per qualcosa che in ogni modo non si prese la premura di chiedere. Godendosi quel momento, attese finché non prese la parola la ragazza, guardandola con espressione impassibile.

 

- Tu… sei del primo anno?- chiese, e Tom comprese immediatamente che non era per quella domanda che era entrata con tanta rabbia nello scompartimento.

La guardò dritta negli occhi ancora per un istante poi annui con un solo e pacato gesto di assenso.

 

- Bene… bè, scusami, pensavo fossi uno dei ragazzi che stavano facendo tutto questo rumore… così…- riprese la ragazza con tono più rilassato del precedente ma continuando a guardare con discreto interesse gli occhi gelidi del ragazzo, come se ne fosse ipnotizzata. Tom seguitava a rimanere in silenzio, senza il minimo segno sul visto di una qualche sorta di espressione che potesse far intendere alla ragazza cosa stesse pensando in quel momento. Così ella continuava a perdersi nell’ombra scura dei suoi occhi impassibili.

 

- Bè… a quanto pare non eri tu…- disse, scuotendo la testa come per riprendere coscienza di se e osservando i sedili vuoti intorno al ragazzo.

 

- No- disse Tom, parlando per la prima volta. Il tono era piatto e deciso, anche se leggero e moderato e non dava impressione di essere disposto ad intavolare una conversazione. La ragazza sembrò comprenderlo e riprese a guardarlo accigliata, forse in parte anche perché non si aspettava una risposta.

Altri brevi istanti trascorsero nel completo silenzio, lei guardava il ragazzo cercando di soppesarlo e di capire qualcosa di lui che potesse aiutarla a classificarlo, ma non riusciva ancora a comprendere cosa si nascondesse dietro quei profondi e gelidi occhi nerissimi. Lui guardava la ragazza con distacco, ma dentro di se era consapevole di essere al centro dei pensieri di lei, e questa situazione gli provocava un piacevole sensazione di superiorità che stette attento a non dimostrare a lei.

 

- Già…- fece lei, proprio mentre uno scoppio di risate particolarmente acuto la faceva voltare alla sua sinistra sobbalzando. Un attimo dopo tornò a rivolgere lo sguardo verso Tom ma non si stupì di trovarsi a fissare i capelli corvini e setosi del bel ragazzo che aveva ripreso a guardare fuori come se nulla fosse accaduto.

Fece per dire qualcosa, ma si interruppe.

 

- Allora… ciao!- esclamò, chiudendosi la porta alle spalle e non attendendo la risposta che sapeva per certo non sarebbe arrivata comunque.

 

Ben presto le risate si placarono nuovamente e il resto del viaggio favorì il passatempo preferito del moretto: stare seduto in silenzio.

Orami la sera e le tenebre che essa aveva accompagnato presero possesso dell’abitacolo e non solo. Tutti gli scompartimenti avevano accese le luci traballanti delle lampade a olio che sovrastavano passeggeri e bagagli, ma Tom si era guardato bene dall’accendere la sua.

Il treno prese a rallentare gradualmente e con crescente intensità le voci dei ragazzi presero a emozionarsi. Quando raggiunse tra sbuffi di vapore argenteo la banchina della cittadina magica di Hogsmeade che aveva subito attratto lo sguardo interessato di Tom, un fiume di divise nere si riversò sul marciapiede e defluì verso carrozze dalle forme strane e senza destrieri e barchette di legno dall’aria paurosamente fragile in riva ad un enorme lago scuro.

Tom scese per ultimo, guardando per la prima volta con un interesse più vivo, ma pur sempre moderatamente controllato, il grande castello arroccato che sovrastava lo specchio d’acqua sottostante con imponenza. Un rosso scuro si impadronì per un momento dei suoi occhi per lasciare immediatamente posto al nero più intenso; così era arrivato. Quella era Hogwarts, dunque. Ancora un sorriso. Tra quelle mura lo attendeva una nuova vita. Una vita migliore e… finalmente avrebbe potuto realizzare il suo più grande desiderio. Il desiderio che era nato in lui fin da bambino, e che lo attanagliava ancor di più negli ultimi giorni coprendolo di una selvaggia inquietudine.

 

Pochi minuti dopo si trovava nell’ingresso di quella antica scuola insieme ad un gruppo numeroso e fastidiosamente rumoroso e eccitato di ragazzini di 11 anni, dal quale sembrava e voleva eclissarsi il più possibile. Avevano appena attraversato il lago con quelle barche di legno poste sull’acqua e ora attendevano che qualcuno desse loro indicazioni sul da farsi. Una donna dallo stravagante cappello a punta e gli occhi grandi e acquosi si presentò, apparendo dall’ombra, come insegnante di Erbologia, scusandosi per aver dovuto sostituire un altro professore incaricato solitamente del ruolo di accoglienza delle matricole che quella sera non era presente a scuola ma che sarebbe arrivato l’indomani. Molti studenti si guardarono con delusione afflitta, ma Tom non poté fare a meno di sorridere all’idea. Si trattava sicuramente di quel tipo insopportabile, Silente, che il giorno del loro primo, e ultimo fin ora, incontro si era premesso di dargli degli ordini. Una scossa di rabbia percorse la schiena del moretto che chiuse gli occhi e cancellò il ghigno dal volto dai lineamenti finemente delicati.

Presto le porte della sala che accoglieva cinque enormi tavoli di legno di quercia si spalancarono e il gruppo dei ragazzi si ritrovò all’interno.

La sala grande, tappezzata di drappi di seta e velluto, si rivolse interamente a fissare i nuovi venuti, persino le candele volanti si affollarono verso l’ingresso, suscitando gli squittii eccitati dei più piccoli. Tom si sentì molti sguardi puntati addosso ma non si preoccupò di guardarsi intorno a controllare a chi appartenessero. Guardava con rapimento e critica lo sgabello a tre gambe che accoglieva un vecchio e logoro cappello a punta e che era posto in bella mostra davanti a tutti, nella parte più alta della sala, quella che accoglieva un tavolo posto trasversalmente rispetto agli altri, quello degli insegnanti.

Le voci gli arrivavano soffocate e lontane alle orecchie, mentre si perdeva nell’analisi di tutto c’ho che gli era attorno e avanzava lentamente con il gruppo di undicenni verso lo sgabello.

 

- Voglio capitare in Grifondoro!-

- Ah! Macchè! Corvonero!-

- I Serpeverde sono sicuramente i migliori, sciocchi! Non farete parte di quella specie di magi scialbi che fanno gli amiconi dei babbani, vero?-

- E anche se fosse, che problema ci sarebbe, è?-

- Tsk, povero stupido…-

- Cosa hai detto?-

- Non litigate!-

 

I due ragazzini che avevano cominciato a surriscaldarsi si azzittirono, continuando a guardarsi in cagnesco a qualche passo di distanza.

Chi diavolo erano questi Grifondoro e Serpeverde? Tom rimase in ascolto, perplesso, quella discussione aveva attirato la sua attenzione.

Dunque vi era la possibilità di andare a finire in una di queste sezioni…? Se era così lui doveva capitare a ogni costo nella migliore.

Si portò una mano alla bocca, sfiorandosi il labbro inferiore con il dito indice, pensando. Che fosse quella specie di sudicio ammasso di stoffa a decidere dove lui sarebbe dovuto capitare? Forse avrebbe potuto convincerlo a metterlo dove voleva, in fondo non sarebbe stata la prima volta se avesse fatto in modo che si avverasse ciò che desiderava… no? Però… lui cosa doveva volere? Quale era la sezione che accoglieva davvero i migliori?

Il suo orgoglio non gli permetteva di chiedere consiglio a qualcuno di quei ragazzini, così, mentre rivolgeva lo sguardo con noncuranza verso lo sgabello, tese le orecchie e ascoltò i discorsi degli altri.

 

Poco distante dal gruppetto di ragazzi in piedi, in attesa dello smistamento, seduta ad uno dei lunghi e antichi tavoli di quercia, vi era una ragazza dai capelli mossi e castani che insieme ai suoi amici guardava con curiosità davanti a se. Il suo sguardo cadde immediatamente su un ragazzo in particolare e si perse ad osservare i tratti singolarmente belli ed eleganti, ombreggiati ancora da quell’aria sinistra che riusciva a farle scorrere brividi di disagio sulla schiena e che non riusciva a spiegarsi. Lo vide osservare con quei suoi occhi distanti da tutto e tutti il tavolo degli insegnanti, mettersi un dito sulle labbra e immergersi nei propri pensieri.

 

- Ohoh!- esclamò improvvisamente una voce al suo fianco, con l’intonazione di chi coglie qualcuno in pieno svolgimento di una malefatta.

 

- Ma guarda, guarda… sembra che ti sei andata a pescare un tipo di prima scelta… è? Allora anche tu pensi ai ragazzi ogni tanto!- continuò la ragazza alla sua destra, che guardava estasiata verso la stessa direzione della prima, mordendosi le labbra. 

 

- Non dire assurdità, Elly! Lo sto osservando solo perché l’ho gia incontrato… oggi! Sul treno!- spiegò in tutta fretta la ragazza, arrossendo sotto lo sguardo indagatorio e accusatorio dell’amica.

 

- Quello non era lo sguardo di una che guarda qualcuno che ‘ha gia incontrato’…- esclamò un'altra ragazza al fianco sinistro di quella che aveva appena controbattuto, guardandola di traverso e sorridendo sotto i baffi.

 

- Ti ci metti anche tu! Avanti ragazze… non fate le sciocche, non mi piace qualcuno solo perché è carino… non sono così superficiale!-

 

- Si, bè… quello non è carino… quello è proprio bello…- disse sognante la ragazza di sinistra, osservandolo, mentre l’altra e un altro paio in ascolto della conversazione annuivano convinte e sorridenti.

 

- Ma smettila!- la schernì l’amica castana, dandole una pacca sulla spalla.

Improvvisamente dal tavolo degli insegnanti si alzò l’uomo che sembrava essere il preside, vestito di un blu notte intenso e con la barba perfettamente tagliata e bianca. Il silenzio tardò ad arrivare, ma non appena calò l’uomo godé della piena attenzione. Accennò a quello che sembrava un sorriso stanco e forzato e parlò:

 

- Benvenuti ragazzi, prima di tutto vi invito a seguire lo smistamento dei nuovi venuti, dunque procederemo con alcuni annunci.- Si rimise a sedere sempre con quel sorriso vago. I ragazzi attesero ma non successe nulla, poi, il cappellaccio prese a cantare. Tom non fu sicuro di aver nascosto subito come voleva l’espressione stupefatta che era sicuro di aver assunto quando sentì il cappello aprirsi e cominciare a intonare un canto solenne e imperioso, ma nessuno sembrò accorgersene, forse in parte anche perché la sua massima espressione di sorpresa equivaleva a una comune espressione di interesse di qualsiasi altro.

Comprese dunque chi fossero quel Serpeverde, Grifondoro, Corvonero e anche un certo Tassorosso di cui aveva sentito parlare: I fondatori di quella scuola. E comprese anche cosa pretendevano dai loro componenti. Sangue puro e astuzia, coraggio, intelligenza e cuore puro. Si disse che per i primi tre ne aveva a bizzeffe, ma esaminandosi nel quarto egli stesso non ci si rispecchiò affatto.

La donna dagli occhi acquosi che li aveva accolti all’entrata, cominciò a chiamare i ragazzi undicenni per nome, dopo aver spiegato loro che avrebbero dovuto sedersi sullo sgabello e attendere finché il cappello non li avesse smistati. Dopo brevi istanti Tom ebbe la prova che le sue supposizioni erano reali, il cappello cominciò a assegnare i ragazzi alle varie case, come le aveva appellate la professoressa, e i nomi che prima lo avevano colpito ora riecheggiavano ogni volta nella sala.

 

- I Serpeverde sono i migliori, casa di nobili dal sangue puro! Altro che questi sciocchi, stupidi mezzosangue e babbanofili…- sibilò nuovamente ad un suo compagno il ragazzo che poco prima aveva discusso con l’altro undicenne, proprio mentre quest’ultimo veniva smistato nei Grifondoro e gli lanciava un’occhiata sprezzante.

 

- Non sono discorsi da fare… - mormorò una ragazza guardandolo di traverso. Questo gli rivolse una smorfia di disgusto ma non disse nulla, troppo spavaldo per prenderla in considerazione.

D’improvviso il ragazzo si accorse della presenza di Tom e osservando le reazioni che suscitava negli altri, gli si avvicinò con un sorriso mellifluo e conciliatorio allo stesso tempo.

 

- E tu? In quale casa vorresti capitare?- chiese spalleggiato da un altro paio di ragazzi che lo sostenevano nelle sue idee riguardo Serpeverde e dalle occhiate degli altri.

Tom si voltò e lo guardò diritto negli occhi.

 

- Che domande… in quella dei migliori, no?- sorrise. Gli occhi rimasero freddi e impassibili nel fissare il volto del ragazzo e il sorriso non si estese che a una lieve increspatura delle labbra. Il suo interlocutore lo fissò, il ghigno completamente scomparso dal viso.

 

- Riddle Tom- risuonò la voce della professoressa e il ragazzo voltò con indifferenza le spalle all’altro e si diresse verso lo sgabello. Lo raggiunse, vi si sedette con naturalezza e si trovò a fissare tutta la sala dall’alto in basso, con ogni singolo sguardo che lo fissava, scrutava.

 

- Serpeverde-  disse chiaramente il cappello e un urlo di approvazione si alzò dal lato sinistro della sala dove rilucevano tendaggi verde e d’argento.

Tom si alzò sotto gli sguardi assorti di ogni singolo studente e insegnante, si diresse verso il tavolo dei suoi nuovi compagni di casa oltrepassando con indifferenza il ragazzo mellifluo che aveva cercato di ottenere il suo interesse, si sedette e accolse, pur con vaga e sottile irritazione, le pacche sulle spalle dei ragazzi.

Il ronzio di voci si riaccese e lo smistamento terminò. Presto comparvero leccornie di ogni sorta che ricoprirono i tavoli e i ragazzi si servirono di ogni piatto.

 

La ragazza dai capelli castani lo fissava. Nessuna delle sue amiche stavolta se ne accorse, troppo prese a ridere e scherzare.

Tom alzò lo sguardo diritto verso di lei e, come era successo poco prima nel treno, la ragazza rimase immobile, pietrificata e affascinata da quegli occhi neri in cui era sicura di poter scorgere qualcosa di più che in qualunque altro. Sorrise. Naturalmente, dolcemente, un sorriso, puro, semplice.

La ragazza rimase ancor maggiormente disarmata, inerme ad affrontare quel viso. Poi abbassò lo sguardo non appena lui le diede la possibilità di farlo distogliendo il suo e arrossì.

 

- Ehi, tutto bene?- le chiese una amica guardandola giocare imbarazzata con un puré di patate.

 

- Si- mormorò di rimando la castana. Certamente non poteva sapere che quel sorriso più unico che raro le era stato rivolto per puro divertimento da parte del ragazzo, che era solo un suo gioco personale. Eppure forse, era meglio così.

 

Ma tu… chi sei? Si chiese la ragazza più tardi, mentre il moro che l’aveva lasciata senza fiato più volte quel giorno le passava davanti insieme ad altri serpeverde.

 

Chi sei…?

 

 

CONTINUA…

 

  

Bene, alla prossima^^ Aspetto le vostre recensioni^^

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

gelidi del ragazzo, come se ne fosse ipnotizzata.re con discreto interesse gli occhi o di assenso.

-         impassibille el moro di aver

 

 

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