Amami in tutte le stagioni

di Jo_March_95
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Primavera ***
Capitolo 3: *** Estate ***
Capitolo 4: *** Autunno ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Quante volte vi capita di pensare che la vita sia un miracolo?
Che domanda sciocca, eh?
A noi non interessa sapere se la vita è un miracolo o meno, a noi piace solo viverla.
Quante volte, invece, vi capita di scoprire che non è un miracolo che durerà a lungo?

                                                      Prologo
 


Fa freddo.
E’ appena iniziato l’inverno e non ha dato neanche il tempo all’ultima foglia di cadere dall’albero per iniziare a fare il suo lavoro.
Vi starete chiedendo qual è il lavoro dell’inverno, giusto?
Bè voglio rispondervi, perché non mi va che questa stagione venga sottovalutata.
Gli incarichi dell’inverno sono molteplici.
L’Inverno fa riposare gli animali, che vanno in letargo; l’Inverno fa addormentare gli alberi, che sono stanchi delle loro foglie e così le lasciano cadere per averne di nuove, ma prima devono ristorarsi; l’Inverno fa nascere dentro di noi il bisogno di calore, di calore umano.
L’inverno è una delle mie stagioni preferite. Le altre sono Primavera Estate e Autunno.
Ma sono tutte!, penserete voi.
Ebbene sì, perché a me piacciono tutte le stagioni, ognuna mi è cara e ognuna mi è indispensabile.
Non voglio cimentarmi a fare il veggente, ma se la vostra domanda adesso è: - e a noi cosa importa? – posso dirvi che allora avete sbagliato ad aprire questo libro.
Sì perché io sono Francis Bonnefoy, l’autore dell’opera che reggete in mano.
La storia che voglio raccontarvi è vera, perché quella che scriverò è la mia vita.
Per carità, non vi spaventate, non voglio raccontarvi tutta la mia esistenza.
Ma solo una parte.
Un anno della mia vita.
Un anno che non si è ancora concluso.
In un anno ci sono quattro stagioni.
Tutto iniziò in Primavera, e quasi tutto si concluderà in Inverno.
Questo Inverno.
Ancora non so come sarà il finale, perché non lo conosco, ma quello che so, quello che è già accaduto lo scriverò tutto.
Per me, per voi, e per Arthùr, il mio amore.

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Capitolo 2
*** Primavera ***


Capitolo 1: primavera

Il sole caldo del mattino mi abbraccia. I raggi lambiscono il mio corpo stremato. Stremato sì, ma dall’amore.
Tra i miei arti stringo la cosa più preziosa della mia vita: un inglesino.
Un inglesino biondo, con delle sopracciglia dalla dubbia natura e lo sguardo di un bambino che è cresciuto troppo in fretta e che non è disposto a farsi fregare una seconda volta.
Ogni sera lo devo pregare – e a volte costringerlo con la forza – per farlo rimanere con me.
Il suo cuore ha una ferita che non mi sento in grado di guarire, ma che sono sicuro possa combaciare con la mia.
Mi alzo dal letto, piano, per non svegliarlo. Perché so che se mai dovesse aprire gli occhi mi lancerebbe la prima cosa che gli capita tra le mani.
E di bernoccoli ne ho già abbastanza. In più in questo periodo ho degli strani dolori.
La mattina mi viene la nausea, e se non fossi uomo sospetterei di una gravidanza.
Poi senza preavviso spesso mi esce sangue dal naso, e mi stanco subito, qualsiasi cosa faccia.
Il medico ha detto che non è niente, solo stress, ma Arthùr ha insistito così tanto che stamattina andrò a fare le analisi.
Mi avvicino alla porta del bagno e la apro. Piano. Nella doccia c’è una ragazza. Si chiama Seychelles, vivremo insieme fino a che Arthùr non deciderà che la nostra relazione è abbastanza stabile per convivere.
O il suo cuore abbastanza forte da sopportare un’eventuale rottura.
La sua debolezza emotiva mi intristisce, perché non riesco a renderlo forte, ma al tempo stesso mi conquista.
<< Bonjour Seychelles! >> Mimo il gesto di togliermi il cappello non appena la vedo.
<< Ehy Francesino! Stanotte avete fatto baldoria tu e Arthùr >> Mi fa l’occhiolino.
Lei è una nostra fan. Dopo le tante persone che ci hanno ostacolati è arrivata lei ad appoggiarci.
E’ capitata nella nostra vita come manna dal cielo.
<< Spero di non averti disturbata mentre studiavi Mademoiselle >> rispondo mentre mi avvicino al lavabo.
Lei fa un gesto con la mano ed esce, avvolta in un asciugamano blu.
La guardo mentre si allontana. E’ proprio una bella ragazza.
A volte, quando Arthùr non c’è ci teniamo compagnia.
Ormai non è più un segreto la cotta che Sey prova per me.
Apro il rubinetto e inizio a sciacquarmi la faccia.
Quando alzo lo sguardo e noto la mia immagine nello specchio quasi non mi riconosco.
Sono sempre stato un bell’uomo, inutile perdersi in falsa modestia.
Capelli biondi, mossi, sulle spalle; occhi azzurri e profondi, perfetti per andare a caccia di sera; e una leggera barbetta che mi sto facendo crescere da un po’ di tempo a questa parte.
Mi dà un’aria più matura.
No, non è vero, lo faccio solo perché ad Arthùr dà fastidio che lo punga con i miei peli mentre ci baciamo.
In questo periodo però ho le occhiaie e il volto sempre stanco.
Lo tocco cercando di fare qualcosa per rimediare.
Non ho bisogno di andare da un medico per saperne il motivo. Il fatto è che ultimamente nessuna casa editrice vuole più pubblicare le mie storie.
Tutto questo perché la persona che amo non ha le curve morbide e i capelli fluidi.
Tutto questo perché la persona che amo è un uomo. E’ Arthùr.
Ora che si è sparsa la voce e che è uscito un articolo sul giornale nessuno vuole più saperne niente di me.
Ma io non mi arrendo e non mi lamento con Arthùr, anche perché non sarebbe una buona idea, permaloso com’è.
Ingoio tutte le offese e vado avanti. Finisco di lavarmi e vado in cucina, per preparare la colazione.
Faccio un po’ di caffè e metto sul vassoio – oltre ai biscotti ed al giornale – anche una rosa.
Ad Arthùr non piacciono le mie rose, ma io gliele regalo lo stesso.
Fanno una brutta fine, sì lo so, ma si sacrificano per la Patria, sono delle martiri.
Mi avvicino al letto e poso un bacio delicato su quelle altrettanto delicate labbra inglesi.
<< Bonjour Arthùr >>
<< Quante volte devo dirti di non chiamarmi così! Damn Frog! >>
Frog è il modo ‘’affettuoso’’ con cui mi chiama. Dice che sono una rana.
Io spero che lo dica perché vede un possibile principe in me, ma so che non è così.
<< Ti ho portato la col->>
<< Devo andare excuse me. >> Non mi dà neanche il tempo di finire, si alza dal letto e si richiude la porta alle spalle.
Ormai ci sono abituato, alle sue fughe, ma nonostante tutto ci resto sempre un po’ male.
Decido di vestirmi anche io ed esco di casa senza fare colazione, tanto devo fare le analisi.

Odio gli ospedali. Puzzano di tempo perso. Tanta gente che spreca momenti preziosi per farsi accertamenti che alla fine gli diranno che gli rimane poco tempo da vivere.
Una visione un po’ drastica di questi luoghi di sanità, lo so, ma è che ho una voglia tremenda di rivedere Arthùr e stare qui da solo mi deprime.
 << Venga signore, mi segua. >>
L’infermiera sembra Bielorussa. E’ carina in volto, ed ha un bel fisico. Forse in ospedale non è solo tempo sprecato.
<< Tu es très jolie mademoiselle >> Le dico mentre passa l’alcool sul mio braccio.
<< Non capisco quello che hai detto, ma da come l’hai detto sembrava un complimento >> Mi sorride.
<< Oui, era un complimento amour >> Ribatto contento che stia la gioco.
<< Come ti chiami, ragazzo? >> Il tocco con il cotone sembra diventato tutto ad un tratto più piacevole, quasi erotico. Con una faccia del genere tutto sarebbe eccitante.
<< Francis Bonnefoy Mademoiselle, ma devo fermarla prima che mi faccia proposte sconce parce-que sono un uomo occupato >> Là butto lì sul ridere, per non farla illudere quando..
<< Sai, Francis Bonnefoy, uomo occupato, io detesto i complimenti >>
E detto questo si vendica con l’ago.

Mentre mi massaggio all’incavo del gomito penso alla lezione che ho appreso stamattina: Mai far arrabbiare l’infermiera che ti sta facendo le analisi.
Anzi, no meglio, mai provarci con le infermiere, sono donne spietate.
I risultati me li daranno tra una settimana, spero che non sia la Bielorussa a consegnarmeli, sarebbe capace di tirarmeli direttamente in faccia.
Anche se una con il suo carattere sarebbe interessante a letto..
<< FROG! >> Una vocetta isterica mi riporta alla realtà.
<< Chenille >> Gli prendo la borsa dalle mani.
<< Sei in ritardo, sai che stacco di lavorare alle sei! >>
<< Scusa amour, ma ho perso tempo a contrattare.. >>
Alza le spalle. Sa quanto sia precaria la mia situazione lavorativa. Anche se non sa che è così a causa della nostra relazione.
Lui invece fa il ragioniere, un lavoro che non attira, ma che non dà neanche problemi.
Forse anche lui ha un sogno, ma forse non ha il coraggio di seguirlo come faccio io.
Lo guardo mentre tutto concentrato entra in macchina, imbarazzato dal fatto che gli tenga lo sportello.
<< Non devi farlo >> Borbotta. E’ diventato paonazzo.
<< Invece oui, è per farmi perdonare! >> Gli do un bacio sulle labbra e chiudo lo sportello.
La gente attorno a noi mormora, ma a me non interessa. Ad Arthùr sì però.
Nasconde il viso dietro la valigetta che si porta sempre a lavoro e inizia a piangere, cercando di non farmene accorgere.
<< Aujourd’hui è proprio una bella giornata. >> Non mi risponde, occupato com’è a reprimere i singhiozzi.
<< Ti andrebbe una gita al lago? >> Scuote la testa.
<< Perché no? >> Insisto mentre mi accendo una sigaretta.
Lui si asciuga gli occhi.
<< Fa troppo freddo. >>
Poi mi toglie la sigaretta dalla bocca e la lancia dal finestrino.
<< Era l’ultima >>
<< Sai che non mi và che fumi, Frog >>
<< Fumo perché mi innervosisci! >>
<< Se ti faccio questo effetto perché allora non mi lasci, eh? >>
Eccoci ritornati al punto di partenza. Quante litigate così ci sono capitate? Tante.
Ho sempre pensato che Arthùr sia un po’ masochista e che abbia paura di essere felice, solo perché una volta la felicità gli è stata negata.
Pensa di non averne più diritto. Ho forse ha paura che possa ricapitare. Non lo so e non lo saprò mai se non me lo dice.
<< Perché fai così? >>
Accosto la macchina e scendiamo.
Il sole sta tramontando e non è vero che fa freddo.
<< Ho freddo, torniamo a casa. >>
<< No se prima non ci chiariamo. >>
Mi guarda con aria di sfida ed io lo avvolgo nell’abbraccio più caloroso di cui sono capace.
Lui nota il cerotto sul mio braccio.
<< Hai fatto le analisi stamattina? >>
<< Oui, l’infermiera era una tale sadica.. >> Scuoto la testa.
<< Perché non me l’hai detto? >> Sembra offeso.
Di nuovo.
Mi stacco dall’abbraccio.
<< Perché non c’era bisogno che te lo dicessi visto che me l’hai preso tu l’appuntamento. E poi te ne sei andato prima che potessi chiederti di venire avec moi. >>
Lui si guarda la punta delle scarpe, in difficoltà.
<< Portami a casa. Ho freddo. >>

Il sole è svanito, il sipario della notte è calato e il disco dorato è andato a dare da supporto alla luna. Lei da sola non può brillare, ma lui sta dietro le quinte e l’aiuta, le fa prendere il merito nonostante sia lui a fare tutto il lavoro, e non si aspetta che la luna lo ringrazi.

Mi risveglio solo nel letto. E’ passata una settimana e Arthùr ancora non si è fatto vivo. A volte capita nel nostro rapporto che ci siano pause come queste. Ma ogni volta mi uccide. Suonare, invece mi strema. Meglio stanco o meglio morto? Non ho passato la notte solo però. E me ne vergogno. Sono un uomo debole. O un amante forte, ancora non l’ho capito. La bottiglia di vino è vuota sul mio comodino, anche le sigarette sono finite. Seychelles è andata a dormire da un’amica quindi per la serata ho dovuto chiamare una prostituta. Non mi piace ridurmi in questo modo. Mi alzo a fatica dal letto, una volta in piedi però le gambe non mi sorreggono e mi accascio al suolo.
<< Francis! >> Mani delicate, mani dolci che mi schiaffeggiano il viso per farmi rinvenire.
<< A.. Arthùr.. >> Un fiume di capelli neri mi avvolge. E’ Seychelles.
<< Mi hai fatto spaventare, cosa ti è successo? >>
<< M.. mi sono addormentato.. >> Si dice che un uomo medio menta dalle 9 alle 12* volte al giorno. Credo di superare di molto questa percentuale.

Eccomi di nuovo in ospedale, a pregare che non ci sia l’infermiera Bielorussa però.
Sono seduto sulla mia sedia, con il mio taccuino raccogli- idee in mano quando un’ombra mi sovrasta.
<< Salve, io sono il dottore Alfred. F. Jones. Ma mi chiami solo Alfred. Lei invece è? >>
Mi alzo e gli stringo la mano che mi porge.
<< Je suis Francis Bonnefoy Monsieur. >>
<< Giusto, c’è scritto anche sulla sua cartella clinica.. >> Si gratta la testa confuso e rilegge sulla cartelletta.
Un medico un tantino deficiente mi hanno mandato..
<< Presumo di si.. >>
<< Signore, scusi, può.. può venire con me nel mio ufficio? Vorrei parlarle. >>
<< Mais oui, non ci faccia l’abitudine però, sono un uomo impegnato. >>
A lungo andare questa battuta risulta squallida persino alle mie orecchie, ma non è ho un’altra e finché non l’avrò trovata dovrò accontentarmi di questa.

Il vento soffia sulla mia pelle. L’aria mi sembra più pulita del solito, il sole più limpido.
L’ospedale alle mie spalle ormai è solo un ricordo lontano. I fiori mi sorridono, per quanto sia strano che degli organismi senza volto lo facciano.
Mi arrivano risa di bambini alle orecchie. Non ho mai pensato di essere padre, non l’ho mai desiderato. Non ho mai considerato l’idea. Lo rimpiangerò?
Mi avvio a passi lenti verso casa, mentre il sole mi accarezza la pelle.
La Primavera è la stagione del Risveglio. Tutto è più vitale, tutto si riscalda.
Credo che ricorderò questa Primavera per sempre.

Mi fermo a comprare un mazzo di rose al negozietto vicino casa. Se Arthùr ha intenzione di farmi visita gliele sacrificherò, altrimenti le metterò sul davanzale della mia finestra a condividere con me i baci del sole. E’ immensa la gioia che provo quando vedo una testa bionda spuntare dal muro che circonda il palazzo. Forse paragonabile solo alla delusione di scoprire che quei capelli non appartengono al mio Arthùr. Dovrebbe tingerseli, così non rischierei di confonderlo. E di farmi prendere questo tipo di infarti.
<< Pensavi fossi io, eh Frog? >>
Di sicuro non ha l’aspetto di un angelo, ma per me è come se la sua voce fosse paragonabile solo a quella degli abitanti del cielo.
<< Oui, mais non era così. >>
<< E’ tanto che ti aspetto. >>
<< Oggi almeno non fa froid, hai solo preso un po’ d’aria fresca. >>
Non mi risponde, imbronciato com’è entra nel portone e prende le scale.
Resto un attimo inebetito a guardarlo, con le rose ancora in mano. Non pensavo che si ravvedesse tanto presto, in genere le sue “crisi” durano molto più tempo.

La luce del sole lo illumina mentre sta seduto sulla mia poltrona a sorseggiare il the. Lamentandosi di come è stato preparato. Io, seduto di fronte a lui, indosso il mio tipico abbigliamento da “artista fallito”. Cappello nero a scacchi grigi e verde acqua, sciarpa sul marroncino e cappotto nero. Sotto braccio tengo la cartella con i miei racconti e dietro l’orecchio una penna. Indosso anche gli occhiali, nonostante non ne abbia bisogno, ma mi danno un aura di mistero e fascino. Anche Arthùr la pensa così, ne sono sicuro. Solo non lo dà a vedere. Rimaniamo in silenzio a guardarci. Non perché non sappiamo cosa dire. O almeno io, io ne avrei tante di parole. Ma taccio, ho paura di rovinare tutto come mio solito. Dall’esterno sembra quasi che lo faccia apposta, ogni volta a trovare la cosa più sbagliata da dire nel momento meno adatto, per farlo fuggire. Ma non lo faccio volontariamente. E’ solo che non sono abituato a pesare e misurare le parole, così và a finire che ne esce una di troppo, e Arthùr dà in escandescenza. E ogni volta ci soffro, solo che la mia sofferenza si manifesta in modo diverso. Assomiglia tanto a quella che gli altri chiamano tranquillità. Sempre dall’esterno. Perché all’interno.. non dirò le solite frasi fatte sull’inferno e il dolore fisico. Perché non è così. Quello che provo io è una sensazione di gelo. Freddo, nel cuore, nel cervello. Le mani. Non mi sento capace di accarezzare più nessuno. Non mi sento capace, eppure lo faccio. Sfioro persone che non conosco, solo per ritrovare un po’ di fiducia, solo in attesa della guancia perfetta che è nata per riempire l’incavo della mia mano. Solo aspettando che Arthùr ritorni.
Quando il the che sorseggia finisce mi rendo conto che non ho più voglia di parlare.
Mi alzo e gli levo la tazza dalle mani, come suo solito lui si mostra infastidito, e come mia consuetudine ignoro tutto e proseguo, finché il risultato non sono due corpi nudi su un letto che non si vergogna di loro.

Ancora luce, ancora sole. Chiarore tenue, rossastro. E’ l’alba. Mi alzo lo stesso. Ho un appuntamento.
Guardo Arthùr dormire e un po’ mi dispiace lasciarlo solo così. Ma è per lui che lo faccio. Per noi. Mi vesto in silenzio, qualcosa di sobrio, una maglia nera aderente e un paio di jeans comodi. Il cappello però non lo lascio, mi rassicura. Prendo anche la borsa con i miei libri, mi aiuteranno a passare il tempo. Lego i capelli in una coda, ma prima mi cullo nello spazzolarli. Imbocco la porta e sono fuori.
Sul comodino ho lasciato un biglietto:

                                                                Ho degli incontri di lavoro, non torno per pranzo. 
                                                                 Ce soir puoi vendicarti come vuoi.


Ho il sospetto che la media delle mie bugie giornaliere si alzerà vertiginosamente in questo anno.
Guardo fuori dalla finestra mentre il tempo scorre.
I vari bip e flap scandiscono il mio tempo. Le rondini volano attorno agli aquiloni che i bambini reggono concentrati.
Le coppiette si danno la mano e si baciano.
Osservo le mie dita, e mi rattristo nel vedere che stringono il vuoto.
Una donna con la manicure appena fatta mi si avvicina, e mi prende il palmo della mano nelle sue, per vedere cosa non và.
Le sorrido e la mando via con un gesto. I suoi occhi castani mi guardano gentili. Sono verdi quelli che vorrei vedere. Ancora un po’ di pazienza mi ripeto.
Aspetto con ansia che il sole faccia il suo giro nel cielo e che firmi la mia uscita.
Aspetto il momento in cui potrò tornare a casa, aspetto il momento in cui le mie mani non saranno più vuote.

Un odore familiare mi accoglie alla porta. Bè non posso lamentarmi, dopotutto sono stato io ad istigare la sua vendetta con il mio biglietto. E’ una serata fresca, fresca come il mio animo. Mi sento bene. E male. Ma la parte negativa preferisco lasciarla perdere.
<< Spero che tu abbia fame >> Mi sorride sincero. Poverino, lui pensa che il suo cibo sia buono, ma solo perché non ho mai avuto il coraggio di confessargli quanto faccia vomitare. Sono l’unico per cui cucina, e nel bene o nel male questo è un privilegio destinato solo a me, perché rovinarlo?
<< Mais oui >> Due. Conto mentalmente il numero delle bugie che gli ho raccontato da stamattina. Non male per due che si sono visti giusto cinque minuti.
Vado in bagno a lavarmi le mani. Mi sciacquo anche il viso già che ci sono. Mi spruzzo un po’ di profumo e prendo una rosa dal mazzo che ho comprato tornando. Il resto glielo darò a letto. << Sembri stanco.. >>
<< Ho avuto una giornata stressante. >> Avvicino la forchetta alla bocca. Mi sopraggiunge un conato di vomito. Solo io so che non è dovuto alla pietanza.
<< Smettila di fare tante scene e mangia! >> Mi rimprovera la mia donnetta.
<< Un po’ di teatralità non guasta jamais. >>
<< Allora, cos’hai fatto oggi? >> Ecco una domanda senza via si scampo.
Uno scrittore racconta storie. E nessuna, o quasi, di quelle che racconta è mai del tutto vera. Inventare per me non è difficile.
<< Sono andato dalla persona più scorbutica di questo mondo. Tre. Mi chiedeva sempre il finale delle storie e io non glielo volevo dire. Quattro. Poi ho pranzato fuori, cinque e ho incontrato una cameriera con un fisico.. Sei … >> Lui si finge indignato.
Gli porgo la mia rosa, che subito raggiunge le altre nella spazzatura.
<< Sei troppo stanco stasera? >> Mi guarda preoccupato e guardingo.
<< Arthùr, je ne suis jamais fatigué quando si tratta di toi. >>

Ansimare, fermarsi, riprendere fiato all’unisono, accelerare il respiro per la stessa ragione. Sì credo che ricorderò questa Primavera per sempre.

Le giornate sono diventate più calde. E’ stato il periodo più bello della mia vita. Ma mi sono reso conto di non poter andare avanti così.
<< Anche oggi lavori? >>
<< Oui >> Uno. La mia coscienza si sente sporca.
<< Non è che per caso fai altro? >>
<< Cos’altro dovrei fare Arthùr? >>
<< Non hai risposto. >> I suoi occhi verdi mi penetrano. Sembrano in grado di scrutare il mondo. Eppure non riescono a leggere la menzogna nel mio sguardo. Si fida di me ormai.
<< No, devo solo lavorare. >> Due. Altre domande, altre bugie. Quando esco di casa ho perso il conto.

Siamo nel letto.Il suo respiro è con il mio. Il suo cuore è con il mio. La sua mente ormai è con me. Se gli chiedessi di convivere adesso accetterebbe. E’ quello che ho sempre sognato. Ora non credo che sia la scelta migliore. La Primavera, la stagione del Risveglio, non ha risvegliato in me l’intelligenza.
Mi sento in un vicolo cieco. Solo che non sono sicuro di voler fuggire. Latitare nel buio forse mi piace. Ma continuando così prima o poi consumerò la strada. Non voglio consumare Arthùr.

<< Arthùr? >>
<< Mi passi il pane? >>
<< Arthùr? >>
<< Ti ho chiesto il pane! >>
Sembra prossimo alle lacrime.
Da un po’ di giorni la situazione è diventata invivibile. La tensione uccide entrambi. Solo che Arthùr non sa a cosa sia dovuta. Immagina solo a dove porterà.
<< Arthùr, il pane è proprio vicino a te. >>

Sento la sua testa sul mio petto. I capelli mi solleticano, così come la mia barbetta stuzzica il suo braccio. Ho il respiro sfiancato. Ormai amarlo è diventato troppo faticoso. Non voglio che debba andare a finire così la nostra storia. Meglio serbarne un ricordo migliore.
<< Arthùr, dormi? >>
Non sono l’unico a mentire in questa casa.

<< Allora, perché non me lo dici? >>
Avevo preparato un discorso. Il caldo sta diventando insopportabile, l’Estate ci tiene a preannunciarsi.
Le mie mani sono fredde, il mio cuore è freddo.
Ho preferito congelarlo, e stamparci dentro il ricordo di Arthùr e non farlo sciogliere dal dolore per fargli dimenticare tutto.
<< Arthùr.. >>
Tenta di trattenere le lacrime. Sa quello che voglio dirgli. Ma mi fa continuare, vuole farmi parlare.
<< Arthùr.. >>
La prima lacrima scende a rigargli la guancia, traccia il percorso che dovranno seguire le altre, và in avanscoperta.
<< Arthùr, non credo che dovremmo frequentarci. >>
Arthùr, sono malato.
Il percorso è stato tracciato, ormai non resta che seguirlo. Piove, su quel magnifico viso, piove. Ma non è una di quelle piogge che danno dà bere ai fiori. No, questa è una pioggia che deve lavare. Deve lavare via il mio ricordo dalla mente di Arthùr, deve lavare i miei baci dalle sue labbra, deve fargli dimenticare quanta sofferenza gli ho provocato. Il mio volto invece è arido. Il mio volto non ha energie sufficienti per sostenere la pioggia. E allora preferisce l’aridità. Arthùr non mi chiede perché. Non mi implora di restare. Semplicemente se ne và, così come dovrebbe essere, così com’è. Se ne và e io mi sento più leggero. Quanto pesa il cuore?

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Capitolo 3
*** Estate ***


                                            Capitolo 2: Estate
 

Mi sento stanco.
L’Estate è appena iniziata e io sono già stanco di vedere il Sole.
O forse sono solo stanco di ammirarlo da solo.
Il disco luminoso del cielo mi sveglia ogni mattina con la sua prepotenza, per farmi capire che se voglio stare su questa Terra devo sottostare alle sue regole.
Ma io ora sono troppo debole per essere diligente.
Non abito più nell’appartamento assieme a Seychelles. Ora la mia casa ha le pareti bianche, i lettini reclinabili e un odore insopportabile di pulito.
Non ci sono fiori sulla mia finestra, perché il mio coinquilino è allergico al polline.
Ogni giorno cerco di spiegargli come sia irresistibile l’odore delle piante, ma a lui non interessa.
O meglio, secondo me finge di non interessarsi.
Lasciare le rose della mia vecchia casa è stata la cosa più dura per me.
Sey ha detto che se ne prenderà cura lei, ma io non mi fido, e mi sento come una mamma che abbandona i suoi figli alle cure di un’estranea.
Per quanto possa essere capace non potrà mai eguagliarla o sostituirla.
Il caldo è insopportabile, ma io non lo avverto, perché la mia finestra deve stare sempre chiusa.
E’ passato così tanto tempo da quando ho respirato l’ossigeno appena sfornato dalle piante che non riesco più a ricordare cosa si prova.
L’unica cosa che mi tiene compagnia qui è il mio taccuino e la fotografia del mio angelo.
Sarà lui, al momento giusto, a portarmi via. Non so dove mi condurrà però.
Non amo molto questo mio nuovo alloggio.
Non sarebbe corretto dire che lo odio, perché alla fine non è poi così male.
Ti portano sempre da mangiare in camera e tutti ti sorridono. Che poi lo facciano solo per abitudine non ha importanza.
Ci sono anche delle persone le cui labbra hanno deciso di scioperare e di smetterla di elevarsi al cielo.
Ho deciso che il mio compito sarà quello di ravvivarle.
La bocca qui non è l’unico organo disoccupato. Anche i capelli se la prendono comoda.
I miei per fortuna ancora non si sono fatti contagiare, ma secondo me l’influenza degli altri li contaminerà. Mi sento quasi fuori moda, a dir la verità.
Una cosa negativa di questo posto è il fatto che non è concesso avere uno stile. Tutti dobbiamo portare la stessa divisa, bianca, spenta, triste.
Di solito quello della neve è un colore che mette allegria, ma in questo posto cambia la sua aura.
Ho proposto al direttore un nuovo colore, ma credo che non abbia accettato il mio suggerimento.
Aveva lo sguardo accondiscendente di chi crede di parlare con un pazzo.
Per me i folli sono loro. Una divisa arancione metterebbe tutti di umore migliore.
Ma qui non ti rubano solo la gioia di vivere. Ti rubano anche il sangue. A volte ho il sospetto che sia un covo di vampiri troppo codardi per ucciderci sul serio.
Ma poi scrollo il capo e mi rendo conto che la mia mente troppo allenata viaggia così velocemente da confondermi.
Se ci fosse Arthùr qui mi direbbe che sono solo una stupida rana e mi prenderebbe a pugni.
Darei qualsiasi cosa pur di essere colpito dalla sua splendida mano, ma prima devo avere il via libera dai medici.
Sì, perché il posto in cui abito ora è un ospedale.

<< Bonjour ami! >> Forse stare qui non mi piace, ma non per questo smetterò di essere quello che sono.
<< Ohayo. >>  Ha gli occhi spenti il mio compagno di stanza. Ma ci sto lavorando. Ci sto provando a riportare un po’ di luce in quel buio quasi assoluto.
Oggi non ha alzato neanche la testa. Non perché non voglia, o perché sia maleducato, è tutta colpa di quel liquido che succhia l’energia per donarti la vita.
Ecco perché non ho acconsentito prima a farmi curare qui. Non credo che farmi indebolire ulteriormente sia il rimedio giusto. Ma Alfred F. Jones ha deciso così.

Quando arriva l’infermiera ha un pacco per me. Come sempre, come tutte le mattine. Ha i capelli corti, di un colore che non so definire. Troppo chiari per essere marroni e troppo scuri per essere biondi. Ha un sorriso ampio e rassicurante. Non ho mai visto qualcosa di paragonabile alla grandezza di quella gioia. O forse sì, il suo seno.
<< Ecco Francis, ecco le tue rose >>
<< Merci mademoiselle >> Mimo il gesto di baciarle la mano, una cosa che non mi è concessa per evitare che qualche corpo estraneo si unisca alla schiera già numerosa di batteri che mi odiano.
Prendo le rose senza toccarle, indossando un paio di guanti.
Lotto con tutto me stesso per resistere alla tentazione di affondarvi il viso e inizio il mio viaggio.
La prima tappa non è lontana, è a pochi passi da me.
<< Ecco Kiku, c’est pour toi >> Poggio il fiore sul comodino, lui ha gli occhi chiusi. Vorrei fargli una carezza, ma ho paura di offenderlo.
Lo guardo un’ultima volta e vado avanti. Apro la porta della stanza giusto un secondo, il tempo di infilarmi attraverso la fessura e passare avanti, nel corridoio.
A Kiku dà fastidio che la porta stia aperta. Non so perché, a me rassicura tanto l’idea che ci sia un mondo pieno di emozioni che mi aspetta al di fuori da questa stanza.
Forse però è proprio questo il problema. Forse Kiku crede che non sarà mai abbastanza forte da varcare l’uscio e andarsene sulle sue gambe. Gli farò cambiare idea. Ci riuscirò.
Una volta nell’atrio mi guardo intorno e faccio mente locale.
Ci sono tante stanze e la mia missione è quella di portare una rosa a tutti. Vado da Feliciano, l’unico che ancora ricorda un po’ come si sorride.
Gli ho promesso che un giorno di questi glielo porto il piatto di pasta che desidera tanto.
Appena sarà in grado di ingerire cibo solido.
Nella stanza insieme all’italiano c’è un musicista.
E’ sempre imbronciato, pensieroso. Il sorriso gli torna solo quando un biondino vestito di verde viene a fargli visita.
La sua situazione è molto complicata. La sua ex moglie lo ha lasciato per un Prussiano albino. E ora tutti e due sono ricoverati nello stesso reparto.
Elizabeta è molto combattuta. Non sa come dividersi. Io le ho detto che non deve per forza rinunciare ad uno dei due, che in queste situazioni è l’amicizia ad essere fondamentale.
Spero di esserle stato d’aiuto.
Avanzo verso la stanza di Gilbert, l’attuale fidanzato dell’Ungherese, in punta di piedi. Lui non ha ancora accettato la sua.. malattia. Dice di stare bene, vuole andare via.
Rifiuta le cure
. E’ la ragazza ad obbligarlo a rimanere, è lei che lo accarezza quando ha le sue ‘crisi’. E’ lei che lo rassicura, che lo accudisce. Lei lo ama anche se lui è malato.
Forse anche Arthùr mi avrebbe amato. Anzi, sono sicuro che mi avrebbe voluto bene. Ma sarebbe rimasto consumato da questo affetto.
No, la scelta che ho fatto è stata la migliore.
Oggi Gilbert non è in stanza. Sarà andato a farsi bello per l’incontro con i medici, ci tiene lui ad apparire sempre in ordine.
Poggio la rosa sul suo comodino, ma noto che le sue lenzuola sono nuove.
Bè il suo servizio in camera è migliore del mio.
Esco dalla stanza, ho ancora un sacco di camere da abbellire.
Esco e lascio la porta aperta, non ha senso chiuderla se non c’è nessuno all’interno a chiedere un po’ di privacy.
Un’infermiera mi ferma e mi chiede di ritornare nella mia stanza.
Fanno tutte così, sono invidiose.

<< Tranquilla cherie ho una rosa anche per te >> Le faccio l’occhiolino e le porgo il mio pensiero.
<< Oggi no Francis, oggi è meglio se torni in camera - aru. >>
<< Mais oggi ho comprato una rosa rosa apposta per Feliks! >>
<< Vai solo da lui e poi torna in camera tua, è un ordine! >>
<< Va bien splendore orientale >> Le mando un bacio mentre si allontana.

Feliks è stato contento della mia rosa. Era allegro anche perché Tori gli ha comprato un cappello bellissimo, che il polacco non ha intenzione di togliere.
Sono davvero una strana coppia quei due. Forse la gente pensava la stessa cosa anche di me e di Arthùr. Forse.

Il silenzio della camera mi fa male alle orecchie. Kiku ha fatto togliere subito la rosa dal suo comodino.
Proprio non le sopporta.
<< Nihon, je t’en prie, mi fai soffrire quando butti le mie rose! >>
<< Non l’ho buttata io, è stata l’infermiera, Francis-san. >>
<< E’ la stessa cosa. >>
Non mi risponde. Aprire la bocca e far uscire quel filo di fiato necessario alla comunicazione per lui è troppo faticoso.
Anche per me sarà la stessa cosa fra qualche tempo?
<< Promettimi che un giorno ti sforzerai, che terrai una delle mie rose. >>
<< Si, Francis-san. Un giorno terrò una delle tue rose. >>
<< Merci Kiku! >> Gli sorrido, contento e orgoglioso.
<< Il giorno del mio funerale potrai poggiare una rosa sulla mia tomba, e non la toglierò mai più. >>

Odio questo posto. Ho provato a farmelo piacere, ho provato a prenderla con filosofia, ad essere forte. Ho provato di tutto, ma è impossibile.
Gilbert e Kiku se ne sono andati via, per sempre. Con una settimana di distanza ho perso due amici. Gilbert è morto quel giorno in cui l’infermiera mi impedì di proseguire la mia missione , l’ultimo in cui consegnai le rose. Lo ammetto, ho pianto molto al suo funerale. Le lacrime erano per la sua morte, ma erano anche per me. Helizabeta ha urlato per tutto il tempo. L’hanno dovuta portare via. Quando si è calmata mi sono avvicinato e le preso la mano. Non ha rifiutato il contatto, mi si è buttata addosso, e ha iniziato a piangere silenziosamente. Io, accarezzandole i capelli, ho cercato le parole adatte da dire in questa situazione, ma non le trovavo. Poi ho pensato cosa vorrei che dicessero ad Arthùr il giorno della mia morte? Quella domanda doveva ispirarmi, invece mi ha solamente aiutato a piangere a mia volta.
Dopotutto se non ci sono parole per fermarla, la morte, non ci sono parole neanche per spiegarla.
E’ morte e basta.

Quella di Kiku invece è stata una morta silenziosa. Ma non dimenticherò mai lo sguardo che aveva prima di lasciarci per sempre.
Era notte, eravamo soli in camera. Io mi pettinavo i capelli, quei pochi che mi sono rimasti; lui invece era nel letto con gli occhi chiusi e respirava piano.
<< Francis-san? >> Era la prima volta che mi chiamava lui.
<< Oui? Kiku? >>
<< Prepara il portafogli, hai un fiore da comprare. >>
All’inizio, preso com’ero a contemplare le ciocche che al movimento della spazzola cadevano sul pavimento, non capii.
<< Un fleure? Mais Kiku, è una settimana che ho smesso di dare fiori alla gente. >> Fu la mia risposta triste.
<< Tu non mantieni le tue promesse Francis-san? I fiori di pesco sono sempre stati i miei preferiti. >>
Mi guardò con uno sguardo dolce, di chi ha più esperienza e cerca di trasmetterti sicurezza. Mi guardò e mi sorrise.
Quando chiudo gli occhi vedo i suoi. Quando chiudo gli occhi vedo la sua tomba, e vedo anche quella di Gilbert.
E penso che presto se ne aggiungeranno altre. E spero di non doverle vedere.

L’altro giorno ho fatto una pazzia. L’altro giorno ho fatto la pazzia più ragionevole di tutta la mia vita. Avevo fatto togliere tutti gli specchi dalla stanza, per non dovermi confrontare ogni momento con l’immagine che vi era riflessa. Avevo fatto regalare la mia spazzola a qualcuno del reparto di pediatria. Una bambina con i capelli biondi e corti. Ha un nome complicato.. Licht.. Lichten.. Non ricordo. Non sopportavo più di starmene chiuso, ma non avevo il coraggio di andare dagli altri, di affezionarmi ancora. Feliciano non mi ha permesso di tenere fede alla mia promessa, non sono stato capace di portargli l’unica cosa che voleva. Il dottor Ludwig si è dimesso appena il cuore dell’italiano è andato a battere in un altro luogo. Spero che il suo paradiso sia pieno di spaghetti, e che lì non si soffra mai la fame.
Le pareti della stanza erano troppo strette per me. Almeno così credevo. Poi mi sono reso conto che era il Mondo a starmi stretto. Così avevo deciso di andare via. Qui in ospedale mi vogliono tutti bene, ma non mi controllavano perché non si aspettavano nessuna ‘sorpresa’ da parte mia. Non mi è stato difficile uscire. E’ stato splendido sentire l’erba sotto i piedi. Cadere è stato spiacevole, ma il venticello che mi stava uccidendo mi faceva sentire bene. Era estate, è Estate. Eppure quella brezza leggera, quel vento impalpabile mi aveva fatto stramazzare al suolo. Cadendo credevo di aver sbattuto la testa. Credevo che fosse per questo che vedevo una testa bionda con i capelli a caschetto correre verso di me con le lacrime agli occhi. Credevo che fosse un’esternazione di gioia da parte del mio angelo, venuto a prendermi. E invece no. Arthùr era veramente lì. Arthùr è veramente qui. Era davvero lui quel giorno, ed è davvero lui, oggi a stare seduto accanto a me, in una sedia di ospedale ad aiutarmi ad indossare la mia parrucca.
Quel giorno ho fatto una pazzia. Ma è stata la pazzia più ragionevole della mia vita.

<< Quel tuo medico.. io credo che sia meglio cambiarlo.. >>
Ho gli occhi chiusi, perché la luce mi da fastidio.
Siamo solo io e lui nella stanza, sto facendo la chemio e per la prima volta da quando ho scoperto di essere malato non mi sento solo.
Come ho potuto pensare di escludere così Arthùr dalla mia vita?
<< Pourquoi? Sarà un po’ scemotto ma sembra un medico capace.. >>
Gli sorrido per rassicurarlo, e per infondergli un coraggio che non ho.
Lui non mi risponde, semplicemente abbassa lo sguardo sui tubi che si fondono con il mio braccio.
Poi all’improvviso avvicina le sue labbra magnifiche alla mia bocca secca e stanca regalandomi un attimo in paradiso.
<< Non ti ci abituare però Frog, ti devo ancora una scazzottata. >>
E’ arrabbiato per quello che ho fatto, la prima cosa che mi ha detto quando ha saputo della mia malattia è stata: ‘’ Appena guarisci ti riempio di botte ’’. Non vedo l’ora che arrivi quel giorno.


Le giornate si stanno accorciando, il sole sta diventando pallido, e l’aria è più fresca.
O almeno Arthùr mi ha detto che è così, io non posso saperlo perché non mi fanno mai uscire.
E anche se avessi il permesso non potrei farlo comunque, le mie gambe sono momentaneamente in sciopero.
Arthùr mi sta stupendo giorno dopo giorno con la sua forza interiore.
Mi sta sempre accanto e non si fa mai vedere stanco.
A volte fa portare delle rose in camera dalla cameriera così che io possa ‘’regalargliele’’.
Pensa che io non sappia che è sua l’idea, vuole farmi credere che l’infermiera Ucraina ci è arrivata da sola.
Poverino, essere romantico non è da lui, ma per me ce la sta mettendo tutta. Spero di riuscire a ripagarlo un giorno, spero di riuscirci.

Il libretto degli appunti mi scivola dalle mani in continuazione. La penna non ne vuole sapere di essere stretta tra le mie dita.
Eppure ho bisogno di scrivere, ho bisogno di farlo per Arthùr.
Ho sentito il mio medico che parlava con un’infermiera. Le diceva di farmi stare comodo e di non darmi più medicine.
All’inizio ho pensato: ‘’evviva sto guarendo ‘’, ho una mente infantile, lo so.
Credo che Arthùr piangerà molto al mio funerale. Prima scrivevo solo per passare il tempo, ora scrivo per Arthùr, per dargli qualcosa di me che gli impedisca di dimenticarmi, ma che lo aiuti ad andare avanti e a superare il dolore.

Arthùr, lo so che sto morendo. Lo so e non ho paura. O meglio a volte mi sento spaventato ma poi penso: se tanto deve accadere perché vivere con l’angoscia dell’attesa? Vivrò ancora per un po’, e sarà il tempo sufficiente per renderti mio. Sì Arthùr Kirkland voglio sposarti. Queste sono le parole che gli dirò domani, primo giorno d’Autunno.


So che la cosa sta procendendo con una lentezza disarmante ma voglio ringraziare tutti quelli che stanno seguendo la fanfiction. Spero di poter aggiornare il prima possibile. Poi vorrei consigliarvi come sottofondi: Per il primo capitolo, la Primavera 'Leaves on the Seine' di David Lanz; Per l'Estate invece 'My Immortal' degli Evanescence. Almeno queste sono le canzoni che ho ascoltato io. Forse avrei dovuto scriverlo prima ma vabbè :°D

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Capitolo 4
*** Autunno ***


Capitolo 3: Autunno

Sono uno scrittore, lo so. L’immaginazione non dovrebbe mai mancarmi, le frasi romantiche sono le mie preghiere, le recito diligentemente mattina e sera.
A volte anche a pranzo. Prima o dopo aver lavato i denti, non importa.
Sono molto votato a Cupido. Gli devo tanto per avermi fatto innamorare di Arthùr.
Oggi è il primo giorno di Autunno, e c’è una domanda che preme per uscire dalle mie labbra screpolate, ma deve attendere perché non è ancora il momento adatto.
Arthùr non se lo aspetta, e se avesse la più pallida idee di quali sono le mie intenzioni probabilmente mi chiuderebbe la bocca con un lucchetto.
Ma l’amore non può essere taciuto, e frenare la lingua non serve ad arrestare il suo corso. Ho preparato tutto.
L’ho architettato di notte e mi è costato tanta fatica, ma non importa.
Sono grato per il mio affaticamento, perché vuol dire che sono vivo. A sentire il dottore sembra che non passerà molto tempo prima che io finalmente trovi il riposo per eccellenza.
Non posso evitarlo, ma voglio godermi il tempo che mi rimane.
Che frase banale, eh?
Sono uno scrittore, dovrei essere un po’ più originale. Purtroppo però l’originalità chiede un prezzo che io non posso pagare.
Per come stanno le cose ora dormirei tutto il giorno. Ma non sarebbe molto produttiva, come occupazione.
Ho scelto questa canzone come sottofondo, che con il suo significato spiega perfettamente i miei sentimenti.
Gliela canterei se potessi, ma il mio accento inglese fa schifo. E non ho abbastanza forza.
La radio non mi sarà mai così utile.

Forever can never be long enough for me
Feel like I’ve had long enough with you
Forget the world now we won’t let them see
But there’s one thing left to do
Now that the weight has lifted Love has surely shifted my way
Marry Me Today and every day
Marry Me If I ever get the nerve to say
Hello in this cafe Say you will Mm-hmm
Say you will Mm-hmm
Together can never be close enough for me
Feel like I am close enough to you
You wear white and I’ll wear out the words
I love And you’re beautiful
Now that the wait is over
And love and has finally shown her my way
Marry me Today and every day
Marry me If I ever get the nerve to say hello in this cafe
Say you will Mm-hmm
Say you will Promise me
You’ll always be Happy by my side I promise to Sing to you
When all the music dies
And marry me Today and everyday
Marry me If I ever get the nerve to say hello in this cafe
Say you will Mm-hmm
Say you will Marry me


 

Con questa canzone in sottofondo reciterò la mia promessa.

<< Bonjour amour. >>
Sono sveglio da circa quattro ore, stanotte non sono riuscito a chiudere occhio.
Oggi è un giorno troppo importante, mi sento frenetico come un bambino il primo giorno di scuola.
Istintivamente mi porto le mani al capo come a voler aggiustarmi una ciocca dietro le orecchie, ma l’unica cosa che tocco è pelle liscia e fredda.
<< Un giorno mi spiegherai cosa diavolo ci vedi di bello in queste giornate infernali. >>
Lui si è appena svegliato e ha subito iniziato a lamentarsi, quel suo carattere da brontolone proprio non lo vuole abbandonare.
Con fatica allungo la mano sul comodino e afferro uno specchio. L’unico che non ho avuto il coraggio di buttare.
Mia madre ne collezionava a bizzeffe, ma non ne ha potuto portare nessuno con sé.
Avvicino la superficie riflettente al volto del mio amato inglesino imbronciato e sorrido.
Ecco cosa ci vedo di bello in ogni maledetta giornata.
Ecco l’unico punto luminoso che riesce ad annullare il buio di quest’agonia.
Lui arrossisce e mi spinge via la mia mano, ma subito dopo se ne pente, preoccupato di avermi fatto male. Non riesce più ad essere sé stesso ormai.
Eppure tutto quello che desidero è un po’ di normalità.
<< Alors, cosa prevede il nostro tour ce matin? >>
Arthùr non possiede il mio stesso senso dell’umorismo.
I suoi occhi verdi si riempiono di lacrime che il suo orgoglio gli impedisce di lasciare libere.
La manica della sua camicia, già abbastanza stropicciata, si avvicina diligente per asciugare quel dolore che non può essere assorbito.
Mi pento subito di quello che ho detto.
Le mie labbra dovrebbero tacere, ma a volte è difficile farlo, quando penso che non mi resta molto da dire.
<< Arthùr non fare così. Stavo solo scherzando. Je t’aime, Arthùr, se tu piangi.. io… peggioro. Sei tu la mia medicina, non farmi prendere una cura andata a male. >>
Questa mia frase non lo rincuora.
Vedo la sua testa bionda uscire dalla porta. Vedo le sue mani – con le unghie rosicchiate – sul suo viso. Vedo che esce dalla stanza perché non può sopportare la mia presenza.
O perché crede imminente la mia assenza.
Non voglio piangere.
Oggi devo prepararmi per un matrimonio.

Arthùr non è ancora tornato. Credo che sia meglio così, la sua presenza in questo momento non mi sarebbe d’aiuto.
Guardo fuori dalla finestra gli alberi. Cercano di tenersi stretti le foglie, illudendosi di non doverle mai perdere.
Che sciocchi. Eppure la loro audacia mi lascia ogni anno sempre più sorpreso.
Se credessi nella reincarnazione spererei di rinascere albero.
Gli alberi non soffrono il freddo, possono godersi l’Inverno; non si lamentano del caldo e ci aiutano a rallegrarci dell’estate.
Per loro perdere le foglie è doloroso ma normale, perché sanno che ritorneranno in Primavera.
Gli alberi si godono la vita meglio di noi uomini, e nonostante vengano sfruttati o maltrattati non ci odiano, ma aspettano il momento in cui capiremo da soli come agire.
Sì, invidio la vita degli alberi adesso, ma se loro conoscessero le dimensioni del mio amore per Arthùr scommetto che darebbero via tutto pur di vivere un giorno nella mia pelle, che trasuda riconoscenza da ogni poro, per aver avuto la possibilità di incontrarlo.
Impugno una penna e cerco di ricopiare le parole impresse sul mio cuore su questo foglio di carta, sperando che non ceda sotto il loro peso.
So già che parole usare per la mia proposta di matrimonio, le conosco a memoria da quando ero un bambino.
Solo che allora mi mancava la persona a cui dirle. Ora tutto è perfetto, perché tutto ha una collocazione precisa.
Le mie parole, il viso di Arthùr, l’anello, il bacio e poi.. le nozze. Sarà fantastico.
Ma devo iniziare a scrivere questa lettera perché non so quanto tempo mi resta per farlo.
E vorrei finirla, per non lasciare nulla di incompiuto, nulla che possa essere frainteso. Arthùr deve sapere, deve sapere tutto di me.

 

Ho visto una foglia cadere, oggi. Nessuno si è disperato per lei, nessuno ha pianto. Le foglie nascono, vivono la loro vita e cadono, donandoci con la loro morte uno degli spettacoli più straordinari dell’Autunno. Sarei voluto nascere vento per poterti accarezzare ogni qualvolta volessi, sarei voluto nascere acqua per poter lavare il tuo viso dalle lacrime, sarei voluto nascere sole per poterti baciare ogni giorno senza ricevere occhiate maligne o schiaffi di disappunto. Sarebbe stato bello nascere fiore e decorare il tuo mondo, sarebbe stato bello nascere stella e sapere che ogni sera mi guardi alzando gli occhi al cielo. Sarebbe stato bello nascere nuvola e donarti lo spettacolo della pioggia, sarebbe stato bello nascere fuoco e farti conoscere l’immensità del mio calore. Avrei voluto vederti desiderare le mie ali da uccello senza sapere quanto io desiderassi invece le tue mani da umano, avrei voluto conoscerti prima, in ogni tua forma, in ogni tua vita precedente, per poterti amare meglio. E invece sono nato umano. E ho sempre saputo che un giorno ti avrei incontrato. Da piccolo le mie mani erano sempre vuote, il mio cuore talmente pieno d’amore da farmi star male non sapendo a chi darlo. Crescendo le cose non sono cambiate. Francis è sempre stato quello strano, quello che scrive tutto il giorno cose che nessuno leggerà, quello che non sa trattenersi e cerca sempre compagnia. Quello che non sa cosa sia essere fedele ad una persona e non ha ben chiara neppure la propria sessualità. Francis è quello che spende i suoi risparmi in rose e beve vino a tutte le ore. Francis è un fornicatore, Francis è un ubriacone, Francis è uno sciupa femmine, Francis è uno gigolò, Francis è un adultero, Francis non è una persona affidabile, Francis fa soffrire, Francis.. Francis. Tutti sono sempre stati pronti a descrivermi e a parlare di me come se mi conoscessero. E per me va bene così, voglio dire, ognuno è libero di avere la propria idea. Ma quello che mi faceva soffrire era che nessuno venisse mai a chiedermi: Francis, cosa sei? Io avrei saputo rispondergli meglio. Io gli avrei spiegato che quello che ero non riguardava solo me. Gli avrei svelato di essere un semplice messaggero. Gli avrei fatto poggiare una mano sul mio cuore e gli avrei chiesto se sentisse il peso dei sentimenti che porto dentro. Se lo percepisse e se potesse aiutarmi ad alleggerire il mio carico. Perché a dispetto di quello che dice la gente a Francis non piace fare la figura dell’idiota mettendosi a frignare davanti a tutti quando si rende conto di che razza di posto sia il mondo, a Francis non piace passare per sciocco quando cerca di far sorridere la gente che vorrebbe piangere, a Francis non piace essere considerato un maniaco quando tenta di avvicinare la gente che si sente sola. A Francis non piace avere il cuore così pesante. O meglio, a Francis non /piaceva/. Perché ora Francis è contento, ora che tutto è perfetto. Ora che ho trovato la persona giusta. Da adolescente mi chiedevo spesso che posto avrei mai potuto occupare io nella società. La bussola del mio cuore mi indirizzava verso le persone, ma la loro prudenza le spingeva ad allontanarsi da me. Nessuno era disposto a condividere con me il mio carico, ero un messaggero senza destinatario. Finché non ho incontrato te, finché la mia bussola non ha finalmente smesso di puntare a caso ma è stata attratta dal vero Nord. E lì ho trovato te, con le tue stranezze, con il tuo caratteraccio, con la tua presunzione, il tuo essere così infantile e saggio nello stesso tempo. Con la tua fiducia sospettosa, con i tuoi sguardi pieni di nulla che io ho sentito di dover riempire. Il mio cuore si è finalmente aperto, ma il tuo era difficile da ammorbidire, perché troppe delusioni lo avevano indurito. E così è iniziata la nostra relazione, la nostra eterna battaglia, nella quale odio e amore hanno la stessa faccia e sono facilmente intercambiabili. Tante volte ho creduto di non farcela ma non ho mai dubitato del fatto che tu fossi la persona a me destinata. Lo sentivo nei tuoi silenzi, lo vedevo nei tuoi comportamenti che nonostante essere te ti nauseasse con me riuscivi a sentirti una persona migliore. Perché noi siamo lo ying e lo yang del nostro universo, siamo le forse motrici opposte che si completano e che per quanto siano diverse e cerchino di allontanarsi non trovano altro posto dove stare che non sia l’una accanto all’altra. Molte volte ti ho deluso, molte volte mi hai urlato contro, troppe volte il silenzio è stato il nostro unico mezzo di comunicazione e non sono abbastanza le volte in cui abbiamo chiesto scusa all’altro, ma tutto questo non ha importanza perché non ci ha mai impedito di stare insieme e trovare la nostra felicità anche nei litigi, per il semplice fatto di renderci insieme partecipi. Voglio continuare a starti accanto, voglio poterti baciare con i miei raggi pur non essendo il sole, voglio soffiare sul tuo viso e accarezzarti i capelli pur non essendo vento, voglio rendere migliori le tue giornate pur non essendo un fiore, vorrei lavare via il tuo dolore pur non essendo acqua, vorrei che tu mi guardassi anche se non mi trovo nel cosmo, vorrei far piovere lacrime di gioia sul tuo viso ormai arido di felicità anche se il mio nome non è nuvola, vorrei riscaldarti con il mio calore pur non essendo fuoco e vorrei farti volare con me anche senza avere le ali. Vorrei conoscerti di nuovo, in ogni tua forma futura e in tutte le tue prossime vite, per poter continuare ad amarti. E vorrei che la mia morte fosSe come quella delle foglie, non un’esPerienza dOlorosa, ma il Semplice ritorno Al mittente, al quale bacerò i piedi e le Mani per ringraziarlo di avermI inviato a te. E infine vorrei che tu rileggessi le ultime frasi della lettera e facessi particolare attenzione ai caratteri scritti in grassetto, e vorrei tanto che rispondessi non con le parole, ma permettendomi di insidiarmi una volta e per sempre nel tuo cuore, di scavarmi senza farti troppo male un posticino caldo e confortevole dal quale poter essere tutto ciò di cui hai bisogno e tutto ciò che ami.
 

 
Poggio la penna, sfinito. Mi sento come se non potessi più reggere nulla, come se tutto fosse troppo pesante per me, persino la gravità mi ostacola.
Non trovo la forza di piegare la lettera e metterla nella busta dorata che ho fatto comprare da un’infermiera per l’occasione.
Resto lì a contemplarla, impotente e un senso di smarrimento mi raggiunge.
Come posso pretendere di proporre ad Arthùr di sposarmi, giurandogli di prendermi cura di lui, quando persino scrivere una lettera mi lascia senza energia?
Come posso credere di essere all’altezza?
All’improvviso tutto quello che ho scritto mi sembra una sciocchezza, essere un messaggero.. io che non sopporto neppure il peso di una penna come posso credere di avere un quantità spropositata di amore nel petto?
Vorrei piangere, vorrei avere ancora lacrime in corpo da far uscire, ma il mio dolore ormai non può più essere liquido, non può più essere espulso. Il mio dolore fa parte di me, è in ogni fibra del mio essere, mi divora, mi stanca, mi uccide.
E io muoio.

Sento la testa che vaga per conto suo, che si stacca dal resto del corpo e vaga in circolo per la stanza, sempre più veloce, senza meta, senza limiti; sento le mani di qualcuno che mi afferrano, sento i denti battere, li sento scheggiarsi, ma non fa male; sento le mie braccia che si muovono disorganizzate, sento la schiena piegata in modo innaturale. Sento che nessuno può aiutarmi, nessuno può fare niente. E sento che Arthùr ha paura di tutto questo, Arthùr ha paura di me. Il mondo diventa un posto indefinito, su tutto regna il bianco, i colori si immischiano veloci, non riesco a distinguerli, il nero li assorbe ma il tutto diviene niente e io vedo bianco. Bianco intorno a me, bianco dietro di me, bianco dentro di me. Bianchi i miei occhi, bianche le mie parole. Nessuno le leggerà, nessuno saprà mai cosa si prova a morire, se di questo si tratta. I miei pensieri diventano bianchi.



Angolino in manicomio :D
Per prima cosa mi scuso per essere stata così assente, ma tutti attraversano quel momento di crisi in cui si chiedono: MA CHE CAZZO SCRIVO A FARE?
Giusto?
Bè apparte questo vorrei ringraziare tutti quelli che seguono la storia e scusarmi se non è all'altezza delle vostre aspettative.
Il fatto è che neanche io so ancora come andrà a finire perchè anche se mi faccio una scaletta alla fine non la rispetto perchè i personaggi fanno quello che vogliono e io sono solo un mezzo.
Bon detto questo vi ricordo che manca solo un capitolo alla conclusione della storia, quindi potete anche tirare un sospiro di sollievo.
Aspetto le vostre critiche :D
Ah, la canzone scritta nel testo è Marry Me dei Train, vi consiglio di ascoltarla, è caruccia :3
Mentre scrivevo la parte della lettera io mi sono fatta ispirare però da: Leaves on the Sein di David Lanz. Potete ascoltarla su youtube se volete, però non c'è l'originale (la ho solo io muahahahah >8D) ma c'è una versione di Yiruma che è meglio di niente.
Poi cos'altro... ah si per l'ultima parte invece mi ha ispirata Tears of an Angel di RyanDan.
Poi bho ho scoperto che scrivere con l'evidenziatore rende tutto più bello :D Adieu <3



 

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