Il pugnale di Morfeo

di hikarufly
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La soffitta ***
Capitolo 2: *** La porta accanto alla libreria ***
Capitolo 3: *** Prime rivelazioni ***
Capitolo 4: *** Il Turner perduto ***
Capitolo 5: *** Il Capriccio ***
Capitolo 6: *** Lo spettacolo deve continuare ***
Capitolo 7: *** Law & Order ***
Capitolo 8: *** Il testimone silenzioso ***
Capitolo 9: *** La stella ***
Capitolo 10: *** Incubo di una notte di mezza estate ***
Capitolo 11: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** La soffitta ***


 

«John, sono da Irene... non... non so neanche come sia potuto succedere»

Il respiro di Watson si troncò per qualche secondo. Non era molto tempo che non sentiva quella voce, ma il tono che aveva... gli sembrò di vedere le lacrime che le scendevano per le guance e il pianto che le impastava la bocca.

«Mary, di che parli? Che è successo?» chiese il medico. Sherlock rimase indifferente, ma la nota del violino uscì meno stridula.

«Ti prego... vieni e basta, e portalo con te» concluse lei, chiudendo il telefono. Il cuore di John sprofondò. Solo una cosa poteva rendere Mary così, e rimase ammutolito di fronte a Sherlock, che lo osservava in attesa di un qualche segnale.

«Credo che sia successo qualcosa a Godfrey Norton, qualcosa di brutto. Era Mary al telefono, piangeva e mi ha chiesto di farti venire con me dai Norton» disse John, guardandolo con una faccia che non ammetteva un no. Sherlock ci pensò su qualche secondo e si alzò, raggiungendo il punto della stanza in cui aveva lasciato cappotto e sciarpa la sera prima.

Mary era fuori dalla porta della casa di Pitt Street dove la signora Norton aveva accolto il solicitor, decidendo di non trasferirsi più lontano da Holland Park. La ragazza di John da ormai un anno e mezzo si muoveva ansiosamente avanti e indietro di qualche passo, giocando con la collana che lui le aveva regalato, per il nervosismo. Non appena Mary vide John scendere dal taxi parve crollare e gli saltò al collo, piangendo. Lui la circondò con le braccia e capì all'istante quel che era successo. Sherlock non si fermò a consolare nessuno e salì al piano di sopra, dove di sicuro stava la camera da letto. Si bloccò sulla porta, appoggiandosi agli stipiti.

Irene Norton, nata Adler, era in ginocchio sul letto, la spallina destra della camicia da notte che le ricadeva leggera sul braccio. Era probabilmente sotto shock, i capelli rossicci scompigliati, il viso bagnato di lacrime, il naso colante e gli occhi ancora pieni, le labbra che tremavano così come le sue mani, sollevate a poca distanza da suo marito, perfettamente immobile. Sarebbe sembrato solo addormentato, in una strana messa in scena, se non si fosse potuta vedere una grossa macchia di sangue che era sgorgata da una ferita provocata da uno stiletto appena sotto il suo petto. Sherlock restò fermo qualche secondo di troppo, rispetto a quanto usava fare, a guardare l'unica donna che l'aveva mai battuto. Gli sembrò troppo vulnerabile per essere la stessa, ma la sua mente non vagò tra gli argomenti che più detestava.

Come poteva Irene non aver sentito che uccidevano suo marito, accanto a lei? La macchia di sangue su di lui era abbastanza ampia e distribuita in un modo che faceva ipotizzare la pressione di qualcosa e di qualcuno, ma sembrava che non se ne fosse accorto... Sherlock si voltò verso il mobile: un flaconcino di medicine. Quando si fu avvicinato, notò che era un sonnifero molto comune, acquistabile senza ricetta medica, a cui, dopo una osservazione veloce, mancavano due pillole. Di fianco era abbandonato lo scontrino: la data e l'ora erano della sera precedente, poco prima della chiusura canonica delle farmacie di Kensington.

L'arrivo di Watson e Mary fu annunciato dai passi sulle scale, e questo fece voltare Irene, che non si era neppure accorta dell'arrivo di Sherlock. La fidanzata di John sembrava non riuscire a staccarsi da lui, ma lo lasciò andare da solo verso Irene, che nel vederlo trasformò il suo viso in una maschera di dolore e si rannicchiò, coprendosi la faccia con le mani. Sherlock rimase di nuovo interdetto, guardando John: il dottore all'inizio credette che fosse indispettito dal tanto rumore mentre stava lavorando, ma c'era qualcosa di diverso nei suoi occhi e nella sua espressione. Senso di giustizia? Non lo seppe dire, ma si tolse la giacca e la mise sulle spalle di Irene, che prese e con gentilezza spinse lontano dal letto. Lei non sembrava riuscire a camminare da sola, e John fu costretto a prenderla con l'intero braccio per trascinarla fuori. Sherlock li guardò uscire sentendo la morsa di quella che era sicuramente gelosia. L'aveva provata prima solo una volta, e quindi non riuscì a dedurre da che cosa provenisse ma fu più che sicuro che lo colpì quando Irene si era aggrappata a John, trasfigurata dal dolore, e lui l'aveva stretta più forte. Sherlock si avvicinò al letto. Anche se la sua espressione non dava segno di dolore o spavento, la macchia di sangue sparso sul letto la diceva lunga sulle sue condizioni. Sherlock lo osservò con attenzione: portava dei pantaloni scuri, simili a quelli delle tute da ginnastica, niente calzini, ed era torso nudo, dal quale spuntava uno stiletto non troppo particolare, con l'elsa color ciliegio e un motivo a spirale intrecciato sopra, color argento. Intorno alla ferita vi era del sangue coagulato e anche rappreso, che si congiungeva a quello che aveva bagnato le lenzuola, il cui flusso si era fermato vicino a Irene, senza toccarla. La coperta era leggera, cosa normale dato che stava arrivando l'estate, e lo copriva in parte: probabilmente Irene aveva mosso qualcosa prima di rendersi conto che era troppo tardi. Stava per esaminare se fosse rimasto qualche residuo su di lui, quando sentì entrare qualcun altro. Non era il passo di John, né quello di una donna. Era la polizia, e quando alzò gli occhi se ne rese subito conto.

«Gliel'aveva detto il sergente Donovan, ispettore... l'avremmo trovato su una scena del crimine, prima o poi...» disse una voce fastidiosamente familiare.

«Anderson... ancora una volta dimostri ai presenti l'esatta misura del tuo cervello, cioè quella di una noce» commentò Holmes «sono stato chiamato da Mary Morstan, la quale ha fatto l'evidente errore di telefonare anche alla polizia» concluse, irritato, allontanandosi dal letto mentre vedeva arrivare Donovan e Lestrade, che lo osservarono contrariati, quando si fermarono davanti alla porta. John uscì dalla stanza accanto, una piccola camera da letto per gli ospiti, in cui Mary stava tentando di calmare Irene.

«Che storia è questa, dottor Watson?» esclamò Lestrade. Quando John gli fu vicino gli fece cenno di seguirlo ma di fermarsi dove si stava fermando lui, cioè vicino alla porta aperta della stanza vicina.

«La mia ragazza, Mary, è la migliore amica di Irene nonché la segretaria di Godfrey Norton, la vittima. Irene Norton ha chiamato Mary questa mattina, e lei ha telefonato a me, prima di voi della polizia» spiegò, con la voce un po' bassa. Donovan rimase nel corridoio insieme a un paio di agenti di supporto, mentre Lestrade entrava nella stanza. Irene alzò il viso, reprimendo un singhiozzo e pulendosi il viso con un fazzoletto datole da Mary, che le accarezzava le spalle. Quando vide Lestrade, si strinse nella giacca di John, rendendosi conto di essere ancora in camicia da notte.

«Vado a prenderti la vestaglia, ok?» le sussurrò Mary, e ad un cenno da parte della donna, si alzò, uscendo mentre Sherlock, cacciato dalla camera, entrava. Irene strinse ancora di più la giacca.

«Mrs Norton, mi dispiace per la sua perdita. So che probabilmente in questo momento non vorrà parlare con nessuno, ma dovremmo ricostruire i fatti il prima possibile per iniziare le indagini» disse l'ispettore Lestrade, ormai abituato da anni di carriera ad affrontare questi problemi, con un tono neutro ma non freddo. Irene deglutì, e le labbra le tremavano mentre parlava.

«Io... ricordo solo di aver preso un sonnifero per dormire, ultimamente... ultimamente mi sento sempre nervosa e sotto stress e ieri sera lo ero ancora di più. Mi sono addormentata e questa mattina, al mio risveglio...» si asciugò gli angoli degli occhi, arricciando in giù le labbra per qualche secondo e soffiandosi il naso «non mi sono mossa dalla stanza e ho chiamato Mary...»

«Signore...» lo chiamò un suo agente, un ragazzo giovane e magrolino «abbiamo trovato qualcosa, venga»

Lestrade, seguito a ruota da Sherlock, seguì l'agente fino a un ripostiglio piuttosto ampio: dal soffitto pendeva, aperta, quella che poteva essere solo una botola, della stessa grandezza del ripostiglio. Dietro a una scaffalatura mobile trovarono una scala: Holmes riuscì a farsi strada per primo, e l'ispettore non lo gradì affatto. 

La soffitta era abbastanza luminosa, dei pannelli nascosti erano aperti alla luce esterna, ed era piena di polvere, ma solo in alcuni punti. Sherlock notò subito che c'erano delle zone completamente pulite e dei segni di trascinamento, tra alcuni oggetti coperti da dei teli. 

«Che cosa c'era qui?» domandò Sherlock ad alta voce, come sempre senza curarsi che qualcuno gli rispondesse. Lestrade lo superò e andò a vedere che cosa celavano i teli rimasti e di fronte a loro si parò quello che era con tutta probabilità un quadro di più di un secolo, dipinto con maestria e grazia, accanto a un cassone decorato e intagliato da mani esperte. Si sentirono dei passi un po' lenti e stentati e Sherlock si avvicinò alla scala. Lestrade rimase sbalordito nel vedere il suo “consulente” porgere la mano a Irene Norton, per aiutarla a salire nella soffitta. La signora si aggrappò con l'eleganza di una vera attrice e salì, sbigottita quanto loro.

«Non ho mai visto questa soffitta...» commentò lei, guardandosi intorno dubbiosa, e sembrava che la sorpresa riuscisse a distoglierla almeno per un secondo dai fatti accaduti al piano di sotto. Ovviamente poteva occupare la sua mente, ma non distrarre il suo cuore.

«Ne sapeva niente? Lei o suo marito?» domandò Lestrade. Sherlock si avvicinò al quadro e lo portò alla luce.

«Difficilmente qualcuno li avrebbe lasciati qui sapendone l'esistenza. Solo questo piccolo quadro potrebbe valere migliaia di sterline, per non parlare dei mobili e di quello che è stato trafugato» commentò, rispondendo prima di Irene, che comunque parlò con l'ispettore.

«No, le posso assicurare che non sapevo neppure ci fosse una botola di accesso in questo punto della casa. Mio padre non me ne ha mai parlato, e penso che se Godfrey avesse saputo, me ne avrebbe parlato» concluse, mentre il labbro le tornava a tremare.

Sherlock esplorò l'ambiente, ma non riuscì a dedurre niente altro se non che gli oggetti mancanti erano stati portati via in tutta fretta, probabilmente senza far caso effettivamente al loro valore, dato che era rimasto un soprammobile napoleonico e qualche tela piuttosto preziosa che un conoscitore anche mediocre dell'ambiente dell'antiquariato non si sarebbe lasciato sfuggire. Irene Norton si stringeva nella sua vestaglia, in un limbo tra l'imbarazzo di trovarsi ancora non vestita, la paura dell'abbandono e il dolore dell'omicidio. Lestrade le fece cenno di scendere, posandole la mano sulla spalla con un sorriso amaro che metteva su sin dai suoi primi casi di omicidio con i familiari più stretti delle vittime, a metà tra il comprensivo e il sospettoso. La accompagnò di sotto, e Sherlock lo notò con quella fastidiosa punta di malessere, che svanì subito.

«Mrs Norton, mi dispiace doverglielo chiedere, ma dovrebbe seguirci in centrale appena ne sarà in grado. Vorremmo far sì che venga esclusa dai sospetti il prima possibile» spiegò Lestrade, mentre Holmes scendeva a sua volta. Irene parve profondamente offesa e confusa.

«Che cosa vuole dire, ispettore?» domandò, stringendosi ancora la vestaglia intorno al collo più nervosamente «ho preso un sonnifero, gliel'ho detto. Il mio è un matrimonio felice, lo è sempre stato» concluse, mentre gli occhi le tornavano lucidi ma cercava di resistere e non crollare ancora. Lestrade sembrò scusarsi senza parole con la sua espressione, e ribatté:

«Mi dispiace, ma sono le procedure. Basterà un campione di sangue, in genere il farmaco che dovreste aver preso lascia traccia per alcune ore dopo il risveglio»

Irene annuì debolmente, e un agente della scientifica si procurò una piccola siringa sterile e sigillata dal bagno della casa. Il suo sguardo rimase assente durante la procedura e l'ispettore era restio a parlare ancora.

«Dovrebbe lasciare questa casa per un po', Mrs Norton. Abbiamo delle rilevazioni da fare, e...»

Irene annuì più volte con la testa e lo interruppe.

«Sì, sì, ispettore, me ne rendo conto...» disse, quasi ipnotizzata, per poi passarsi le dita tra i capelli e asciugarsi, stropicciandoli, gli angoli degli occhi «ma dove andrò? Quel che resta della mia famiglia si trova lontano dal continente e non...»

«Non ti preoccupare, Irene, verrai a stare da me, finché serve. Non devi preoccuparti di questo adesso» disse Mary, cingendole le spalle con il braccio. Irene annuì e si lasciò guidare verso la stanza degli ospiti, per vestirsi e prendere alcune cose.

«Voglio anche te fuori di qui, Sherlock, per ora. Non voglio che tu interferisca con il lavoro della scientifica, ma se la signora non ha obiezioni al tuo intervento, se non altro arriveremo prima alla soluzione di questo caso» bofonchiò poi Lestrade, dimentico delle buone maniere. Sherlock arricciò impercettibilmente il naso, irritato e fece cenno a Watson di andare.

«Io aiuterei Mary, in effetti. Anche lei è molto scossa, è meglio che accompagni entrambe» spiegò il medico, quasi timoroso di contraddirlo. Come sempre, Sherlock sembrò freddo e indifferente e se ne andò, ma in realtà il suo cervello era già al lavoro.

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Capitolo 2
*** La porta accanto alla libreria ***


John scese dal taxi e pagò il conducente proprio quando Sherlock usciva. Si sarebbe aspettato, dopo un paio di anni che vivevano insieme, che se non altro si fermasse davanti a lui ma pur notandolo, Holmes continuò il percorso e a Watson non restò che inseguirlo.

«Godfrey Norton sapeva di quella soffitta» sentenziò Sherlock.

«Come?» domandò John, affrettando il passo per tener dietro all'altro.

«Godfrey Norton era perfettamente a conoscenza di ciò che c'era nella sua soffitta, e questo è certo» ribatté, con una nota irata nella voce.

«Come puoi dirlo? Mi riesce difficile pensare che tenesse nascosto qualcosa a Irene» incalzò John.

«Eppure lo faceva. Nessuna porta o finestra è stata forzata per entrare, l'allarme è stato disinserito e Lestrade mi ha fatto sapere ora che le impronte sui tasti del pannello erano di Norton. Dopo i furti di Von Ormstein, la Adler aveva fatto installare un antifurto, e l'ho controllato, uscendo. Chiunque si sia portato via la refurtiva, è stato aiutato da Norton, e probabilmente l'avrà anche fatto fuori per chiudergli la bocca. Non vedo perché però fargli prendere il sonnifero... non sono presenti segni di lotta, e quel pugnale così teatrale non mi sembra adatto a qualche ladro di antiquariato» spiegò, con il suo tono razionale e logico sfumato in una punta di ira soppressa. John si accorse di questa cosa, e iniziò a nutrire determinati sospetti, mentre ascoltava le sue digressioni e si sorprese a ritenersi deluso di Godfrey: gli era sempre sembrato un tipo onesto, espansivo, un po' matto magari ma niente di pericoloso, e da quando usciva con lui e Irene, insieme a Mary, era diventato quasi un amico. Eppure, Sherlock non si sbagliava, di sicuro.

«Perché chiami Irene “la Adler”? È sposata da quasi due anni, si è sposata quando la abbiamo conosciuta» domandò John, cauto. Sherlock sembrò far finta di niente, il suo viso rimaneva fermo e serio.

«L'abitudine, immagino. Ti da fastidio?» ribatté l'investigatore. L'amico quasi si pentì di aver sollevato la questione.

«No, no. Mi sembra solo strano perché l'ho sempre conosciuta con il suo nome di battesimo. Ma non è importante, anche Godfrey era diventato un amico e mi sento abbastanza coinvolto da voler sapere chi gli ha fatto questo... dove stiamo andando?» esordì poi, dopo qualche secondo.

«Da Mr Daniel e Mrs Agatha Griffith, i vecchi proprietari della casa. Prima che la Adler sia in grado di parlare ci vorrà un po', ed è meglio arrivare alla fonte del problema. Ho fatto qualche ricerca, e la casa fu comprata da suo padre molti anni fa, tramite l'unico erede di uno zio di Daniel Griffith. Questo ha venduto la casa in fretta e furia, o almeno più in fretta che ha potuto dato che Griffith si è messo in mezzo cercando di farsi intestare la casa prima della scomparsa dello zio in modo piuttosto insistente. Immagino Griffith ne sapesse di più dell'erede di suo zio, che è morto da poco» spiegò, senza la nota rabbiosa di prima, cosa che portò alle labbra di John una domanda e nella sua testa un sospetto. Stava quasi per renderlo partecipe ma Sherlock si fermò. Senza accorgersene, Watson si era ritrovato a seguirlo fino a Marylebone Street, una strada ben tenuta, pulita, con il giusto numero di persone affollate fuori e dentro i bei negozi che la componevano. Holmes si era fermato davanti a una bella libreria, con vetrine di legno scuro. Una porticina divideva il negozio da un altro, un po' più logora. Sherlock suonò deciso al campanello e attese. Una signora anziana spuntò dalla porta appena aperta, chiusa dall'interno con un chiavistello.

«Chi è?» domandò, con una vocina dubbiosa.

«Sono l'ispettore Lestrade, di Scotland Yard» dichiarò Sherlock, come se non stesse dicendo la menzogna più grossa del pianeta, e mostrando quello che inequivocabilmente era il distintivo dell'ispettore. John ebbe una tale sorpresa che prese a tossire convulsamente, tanto più quando sentì che il suo collega lo apostrofava come l'agente Anderson.

«Lo perdoni, anche con questo caldo finisce per prendere l'ultima influenza della stagione» commentò, più affabile che mai, Sherlock.

La anziana signora sprigionò un sorriso luminoso, nel sentire che i suoi avventori non erano dei criminali, e richiuse la porta per poter togliere le catenelle che cercavano di renderla ancor più chiusa. Riaprì sempre sorridendo e fece loro cenno di salire di sopra. Le scale erano strette e un po' claustrofobiche, e la signora non sembrava ansiosa di chieder loro il motivo della visita. Il salottino in fondo alle scale era ampio e luminoso, con delle finestre grandi che lasciavano entrare molta luce. Il mobilio era modesto ma abbastanza elegante, e una teiera era adagiata su un tavolino al centro della stanza. La anziana signora Agatha Griffith fece cenno ai due di sedersi e di prendere una tazza di te, ma sia Sherlock che John declinarono con un gesto cortese.

«Di che cosa avete bisogno, signori?» domandò Daniel Griffith, avvisato dalla moglie sull'identità dei due ospiti.

«Stiamo indagando su un crimine avvenuto al numero 10b di Pitt Street, a Kensington. Sappiamo che apparteneva a suo zio, Mr Griffith, prima di passare di proprietà a Mr Adler» spiegò Sherlock, molto professionalmente. Il viso dell'anziano signore sembrò deluso e quasi spaventato.

«Un crimine, detective? Io non... non capisco, non vediamo quella casa da così tanti anni...» disse, balbettando un po'. Agatha osservava invece più seria.

«C'è stato un furto, Mr Griffith» aggiunse Sherlock. Entrambi i coniugi drizzarono la schiena per quanto l'età loro permettesse. Sembrarono molto agitati e John guardò l'amico come per spronarlo a non tenerli troppo sulle spine senza motivo.

«Abbiamo motivo di credere che voi due sapeste del contenuto della soffitta della casa. È per questo che lei, Mr Griffith, ha tentato di avere la casa da suo zio, ed è per questo che ho il sospetto che entrambi abbiate ripetutamente richiesto ai coniugi Norton di ricomprare la casa, o sbaglio?» incalzò Sherlock, non interessato affatto a torchiarli, ma piuttosto a scoprire la verità. Daniel Griffith sospirò.

«Non ero interessato alle cose in soffitta. Non solo, almeno. Il mio cugino di secondo grado, che avrebbe ereditato tutto, non si meritava l'affetto di mio zio, perché l'aveva sempre trattato male e aveva sempre parlato male di lui quando non era presente. Avrei venduto i pezzi di antiquariato che meno mi interessavano e avrei tenuto le cose a cui lo zio e la sua defunta moglie tenevano di più. È vero, ho contattato Mr Godfrey Norton, ma si era opposto fermamente alla vendita, e così sua moglie, che però mi aveva assicurato che semplicemente non voleva lasciare quella casa perché vi aveva vissuto con suo padre ed erano stati momenti preziosi della sua vita. Non potevo certo portare avanti il mio egoismo di fronte a una ragazza così. Non è vero, Agatha?»

La moglie sorrise cordiale.

«Non abbiamo particolari problemi economici, e per quanto ne sappiamo, anche se quei due giovani non sanno nulla delle cose che sono in soffitta, ora appartengono a loro, e conoscendo soprattutto quella cara ragazza, Irene, sono proprio contenta che possano godersi quella bella casa e una bella vita insieme» disse la donna, cordiale e seria.

Sherlock annuì impercettibilmente, e non sembrò ansioso di far loro sapere che in realtà Godfrey Norton era stato assassinato, forse proprio per i loro ricordi nascosti, e che in realtà lui sapeva benissimo di tenersi una piccola fortuna. John non proferì parola ma si sentì sempre più triste.

«Vi posso assicurare, ispettore, che non abbiamo nulla a che fare con la faccenda. Sono anni che non vediamo la casa, le poche volte che ci siamo incontrati con i coniugi Norton è sempre stato qui da noi» spiegò Daniel Griffith.

«Dove eravate questa notte, approssimativamente verso le 2? Solo per confermare la vostra estraneità ai fatti» domandò Sherlock, molto più cortese del solito, ancora nella parte.

«Siamo andati all'aeroporto ad aspettare nostro figlio... tornava dall'India, ogni tanto va laggiù per lavoro ed è ritornato proprio questa notte. L'abbiamo accompagnato a casa e siamo tornati qui intorno alle 4. Lui dice sempre che non vuole che ci affatichiamo ad andarlo a prendere, ma è sempre un piacere. È così impegnato ed è anche un'occasione per vederlo!» spiegò Agatha.

Watson e Holmes si alzarono e salutarono cordialmente i due anziani signori, entrambi ormai convinti della loro piena innocenza.

«Come sapevi che avevano chiesto ai Norton di farsi vendere la casa?» chiese John, come sempre sorpreso e ammirato del fatto che l'amico fosse sempre un passo avanti a tutti, persino a dettagli che solo Irene poteva sapere, in quanto moglie di Godfrey.

«Hanno consultato il registro immobiliare negli ultimi tempi. Sono stato al catasto e i due hanno fatto una ricerca per scoprire se il proprietario della casa era ancora Mr Adler o no. In ogni modo, è sempre meglio confermare anche l'alibi del figlio, in caso sapesse dell'antiquariato nascosto» disse Sherlock.

John asserì con un cenno del capo.

«Io torno da Mary, è ancora sola con Irene e ho preso una giornata libera all'ambulatorio. Forse si sarà calmata abbastanza per farti sapere qualcosa» propose Watson, titubante. Sapeva che Sherlock diventava una macchina fredda e insensibile pur di avere informazioni e non voleva che facesse sentir male Irene più del dovuto. Sherlock dichiarò che in effetti l'unica cosa da fare al momento era cercare di capire se c'era qualcuno che poteva voler colpire Norton per arrivare a lei.

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Capitolo 3
*** Prime rivelazioni ***


John sentì il cuore pesante quando entrò a casa di Mary. Era un appartamento spazioso ma più piccolo di quello che Watson condivideva con Holmes. Irene Norton era seduta sul divano del salotto, una stanza che si affacciava sul corridoio da una porta sempre aperta, ed era vestita con abiti semplici, piuttosto leggeri dato che era abbastanza caldo ma con un maglioncino di cotone appoggiato sulle spalle perché probabilmente lo shock le dava una sensazione innaturale di freddo. Aveva tra le mani tremanti una tazza di tè fumante, e il suo sguardo era vacuo e assente. Sherlock si fermò sullo stipite della porta, osservandola. John andò verso la fidanzata, che veniva dal corridoio, per sapere cosa era successo in sua assenza.

«Da stamattina sembra più tranquilla... è molto silenziosa» spiegò Mary, sussurrando «sembra più calma ma credo stia peggio di prima... non so che fare, John... faccio ancora fatica a credere a quel che è successo...»

Watson la prese tra le braccia e Mary affondò il viso sul suo petto, mentre il medico osservava l'amico Sherlock, che entrava nella stanza e si sedeva di fronte a Irene. La donna alzò la testa, incontrando lo sguardo di Sherlock e strinse di più la tazza di té, continuando a tremare impercettibilmente. L'uomo restò in silenzio qualche secondo, giusto in tempo perché anche Mary lo iniziasse a osservare, separandosi appena da John.

«Mr e Mrs Griffith non potevano uccidere suo marito. Erano con il figlio, ed è bastata una telefonata alla società di taxi per confermare i loro spostamenti. Volevano la casa, non è così?» domandò l'uomo, come se si trattasse di qualcosa di oggettivo e lontano da loro. Irene sembrò quasi apprezzarlo, quando rispose, ma la sua voce non era ferma e la commozione le stentava appena le parole e le rendeva le labbra flebili.

«Li avevamo incontrati solo una volta, a casa loro. Sono due persone per bene, non penserei mai che abbiano qualcosa a che fare con... questo. E poi la nostra trattativa si era già conclusa, perché né io né mio marito abbiamo mai avuto intenzione di vendere la casa» spiegò lei.

«Perché?» chiese poi Holmes, subito, beccandosi un'occhiataccia di John, che aveva la vaga impressione di sapere dove voleva andare a parare.

«È la casa di mio padre, dove ho vissuto per anni, e anche volendo, è necessaria la sua di volontà, non la mia» spiegò lei, dubbiosa.

«E suo marito?» incalzò lui. John fece qualche passo avanti.

«Sherlock...» iniziò, ma fu Irene a girarsi verso di lui, aggrottando la fronte.

«C'è qualcosa che dovrei sapere, John? Su Godfrey e questa storia della casa?» disse, con un tono accusatorio nervoso, e le ultime parole pronunciate con una voce appena incrinata. John ammutolì e non ebbe il tempo di fermare l'amico.

«Suo marito sapeva della soffitta. È stato lui a disattivare l'allarme, ne abbiamo le prove» spiegò, mentre Irene lo osservava sconcertata. Scosse la testa, come se fosse assurdo, ma la serietà e risolutezza di Sherlock la convinsero prima di quanto lei stessa avesse voluto. Dopo alcuni secondi in cui guizzò gli occhi intorno a sé come per trovare una soluzione, una controprova, si alzò lentamente. Quando fu del tutto in piedi fissando negli occhi il suo interlocutore, fermo e deciso, lanciò la tazza di tè a terra alla sua destra, lasciando cadere il maglioncino che aveva sulle spalle e sparì, con un rumore elegante ma improvviso di porcellana rotta, correndo via verso una stanza imprecisata della casa.

«Quello che hai fatto è stato davvero orribile, hai fatto un errore» sentenziò John, mentre lui e Sherlock tornavano a casa in taxi.

«Certo che ho fatto un errore» ribatté l'altro, arrabbiato «non dovevo dirglielo, ora non le caveremo di bocca un'altra informazione per ore o forse per giorni!»

«Oh, sono contento che l'unico problema sia che Irene non dirà nulla. Come se averle fatto apparire il marito come un bugiardo e criminale sia niente» sbuffò Watson, molto irritato. Sherlock buttò gli occhi al cielo.

«Suo marito è morto, John, credi che faccia differenza ora se era un uomo onesto o no?» sbottò spazientito Holmes.

«Fa differenza eccome, sia per lei che per me o per Mary. Erano anche nostro amico» replicò John. Sherlock lo guardò contrariato.

«Sì, vostro amico. Non mio. La mia deduzione è corretta e tu lo sai. Aveva qualcosa di losco in mente, e questo è quanto» concluse lui, fornendo ai due un perfetto pretesto per non parlarsi per ore, dato il litigio. Mrs Hudson fu dispiaciuta di vederli così contrariati entrambi, e offrì a John una tazza di tè in cambio di qualche confidenza.

«Oh, quella povera, povera ragazza. A teatro è così brava, l'ho vista. Sherlock mi ha portato» disse la donna. A Watson per poco non andò di traverso l'infuso.

«A teatro? A vedere Irene?» chiese, tossicchiando.

«Sì, giusto un paio di volte. Un'interprete splendida, peccato che non facesse la protagonista, davvero» rispose lei, dandogli delle piccole pacche sulla schiena.

«Perché non siete venuti con me e Mary? Irene ci procura sempre dei posti in prima fila, quando può» obiettò John.

«Oh, caro, non vi avremmo disturbato e poi siamo stati solo un paio di sere, e tu eri sempre fuori» replicò Mrs Hudson, come sempre molto gentile. Watson vide questa come una ulteriore prova dei suoi sospetti o forse come un comportamento davvero troppo strano. Le cose tornarono alla normalità solo alle prime luci dell'alba, il giorno dopo, quando Sherlock entrò direttamente dalla porta sulla strada, accasciandosi sul pavimento, semi cosciente.

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Capitolo 4
*** Il Turner perduto ***


«Non ho bisogno di niente, Mrs Hudson!» sbottò Sherlock, quando si fu ripreso, ma la donna non sembrò ascoltarlo, mentre gli tamponava un lungo taglio sulla fronte, tenuto insieme da dei cerotti-punto che la signora teneva per occasioni come quelle, capitati più volte anche prima che John Watson andasse ad abitare lì.

«Meno male che ho ancora qualche scorta di questi... sarebbe stata così antiestetica una cicatrice sulla tua bella fronte, Sherlock» commentò lei.

Holmes era piuttosto dolorante, nonché infastidito, ed era stato fatto sdraiare a forza sul divano dal coinquilino e dalla padrona di casa, in attesa di spiegazioni riguardo ai vari segni di lotta e di violenza che aveva addosso e sui vestiti. Come ogni bambino che non ottiene ciò che vuole, fu riluttante a parlare finché non lo convinsero a raccontargli che accidenti aveva combinato quella notte.

Nel corso della sua spiegazione, John si immaginò tutto vividamente, essendo la mente del suo amico molto acuta, in grado di cogliere molto e perciò di restituire altrettanto.

Sherlock era uscito di casa in cerca di una delle due piste promettenti, quella riguardante Norton.

«Solo chi aveva del risentimento per lui poteva volerlo morto, oppure qualcuno che ce l'avesse con la Adler. Dato che lei non sembra in vena di farmi sapere niente» commentò lui come se non fosse colpa sua e beccandosi un'occhiataccia di John, per poi proseguire «mi sono rivolto a chi poteva sapere qualcosa della refurtiva. Giusto oggi stavano per essere venduti dei rarissimi paesaggi italiani a carboncino e acquarello presumibilmente di Joseph Mallord William Turner o altri pittori di quel periodo. Non ci avrei creduto, soprattutto da quelle bocche, se non fosse stato per il furto dei Norton. Perciò ieri sera sono andato a sincerarmi dell'autenticità di quei preziosi pezzi e di altri che sono spuntati chissà come e chissà perché»

John lo visualizzò subito: il suo amico Sherlock, vestito di tutto punto, probabilmente con lo smoking nuovo di zecca che Mrs Hudson gli aveva mostrato una volta, e che lo rendeva un James Bond un po' malefico. A qualche ora dal tramonto, una vecchia residenza nobiliare privata, fuori Londra, non era silenziosa e quasi vuota come sempre. La sala che era stata da ballo in secoli lontani, si affollava un insieme di persone: uomini e donne, giovani e vecchi. Sherlock si tenne in disparte, osservò ognuno degli invitati, spostandosi da una parte all'altra come un fantasma, non visto e non sentito. La maggior parte delle donne erano giovani e belle, appariscenti e fin troppo più piccole dei loro accompagnatori, anche loro adorni come degli alberi di Natale. Solo una mezza dozzina di signore avevano una certa età, ma in quanto ad eleganza erano di certo a un livello ben diverso dalle colleghe più giovani. Un gruppetto di uomini vestiti d'alta sartoria faceva capannello, mentre una coppia di ragazzi un po' eccentrici sembravano litigare tra loro per qualcosa di sentimentale, ma Sherlock non riuscì a capire se tra loro o per una terza persona, donna o uomo che fosse. In fondo alla sala, era stato allestito una sorta di leggio, al quale era arrivato un uomo sulla cinquantina, i capelli ormai ingrigiti, ma gli occhi accesi dietro la montatura che gli circondavano anche le guance, data la larghezza delle lenti. Pochi attimi dopo l'arrivo dell'uomo, alla sua destra comparvero due vallette che reggevano qualcosa, nascosto sotto un sottile panno di seta lucente. Le due appoggiarono l'oggetto su un tavolinetto e una terza le raggiunse, togliendo con un gesto elegante la copertura. L'intera sala trattenne il fiato come un sol uomo, e sul viso di Sherlock si dipinse un sorrisetto. L'uomo dietro il leggio, infine, parlò:

«Benvenuti, cari ospiti... non serve ricordarvi che tutto ciò che accadrà qui sarà del tutto confidenziale ma i nostri esperti vi forniranno tutti i documenti per far risultare questo piccolo affare perfettamente sicuro e affidabile. Il primo pezzo di stasera è uno straordinario studio di architettura italiana, un quadro perduto di John Ruskin. Direi che potremmo partire da 200,000 sterline»

Mentre l'uomo, ormai identificato come il banditore di un'asta assolutamente illegale ma sicuramente di lusso, continuava a vendere pezzi di pittori famosi o meno, mobili di pregio e gioielli perduti, eccolo. Sherlock fece un cenno di intesa al suo complice e attese.

Le vallette mostrarono infine il pezzo: un olio su tela di medio-grandi dimensioni di Joseph Mallord William Turner, rappresentante le rovine di Pompei, un pezzo che normalmente avrebbe strappato al suo compratore almeno una trentina di milioni. La gara fu avvincente e partendo da una base d'asta di 20 milioni, se lo aggiudicò un signorotto particolarmente serio per il doppio, di cui Sherlock registrò ogni singolo particolare di viso, abiti, modi e persino il modello e colore di scarpe, prima di vedersi prendere per la collottola da un grosso ragazzone che sembrava il buttafuori di una discoteca particolarmente competente.

«No, signore, niente di grave... è pulito, ma non doveva trovarsi qui. Il suo capo sapeva dell'asta ma non gli era stato permesso di venire... ha tentato di imbucarlo per fare offerte a suo nome» fu la spiegazione che il nerboruto uomo della sicurezza fornì al suo capo via radio.

«Grazie, George. Direi che il favore che mi dovevi è quasi del tutto restituito» dichiarò lui, risistemandosi la giacca, pulendola come un maggiordomo troppo precisino, e lisciandosela sulle spalle.

«Che altro le serve, Holmes?» chiese George, con tono scontroso.

«I nomi, di tutti quanti. Non è possibile che uno solo dei vostri scagnozzi si sia introdotto in quella casa, e se anche Norton è stato complice o costretto, come mi dici tu, ad aiutarli, quattro braccia sono troppo poche per tutta la refurtiva. Solo stasera sono stati venduti una dozzina di pezzi, più della metà di essi voluminosi. Nomi e indirizzi, George» concluse, fermo e senza possibilità di diniego.

«Sei andato nella tana del lupo, solo? Ma sei impazzito? Mi pare ovvio che sei tornato in questo stato!» esclamò Watson, interrompendo la sua spiegazione. Sherlock lo guardò di sottecchi.

«Sono qui, come sempre. E ho scoperto quel che dovevo sapere, e se ti può far felice il tuo amico Norton non era complice, ma vittima del furto quanto la Adler. E ora posso continuare?» concluse, seccato. John, sentita la nota di irritazione fin troppo alta, se ne stette zitto, in attesa del resto.

«Erano tutti e cinque insieme, nel retro di un piccolo pub vicino a Balcome Street. Mi sono spacciato per uno di loro, e mi hanno creduto abbastanza per raccontarmi tutto. Sono stati pagati da uno dei venditori dell'asta di stanotte - ho già mandato i nomi a Lestrade – per andare nella casa e minacciare Godfrey Norton. Lui si è spaventato, e dopo una minima resistenza li ha fatti entrare, staccando l'allarme. Mi hanno assicurato di averlo lasciato vivo, facendogli ben capire che una sua qualsiasi parola lo avrebbe ammazzato, e se ne sono andati. Conoscendoli, è impossibile pensare che abbiano usato un sonnifero e uno stiletto così particolare per ucciderlo. Erano in cinque, l'avrebbero soggiogato in un attimo, soprattutto se era sotto stress. Non sanno neppure tenere in mano delle piccole carte, figuriamoci un pugnale. Me ne sarei andato senza problemi se dei loro rivali non fossero entrati per farli a pezzi» concluse, chiudendo gli occhi e sprofondando di qualche centimetro nel divano, con un piccolo gemito di dolore.

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Capitolo 5
*** Il Capriccio ***


L'unica cosa che fece Sherlock fu riuscire a liberarsi dei vestiti rovinati e, dopo essersi medicato un po', mettersi in quella sorta di pigiama e vestaglia con cui usava passare i giorni di ozio e di noia. Era steso sul divano, gli occhi fissi sul soffitto e le mani in grembo, in modo da non stare troppo scomodo, dato che era ancora piuttosto dolorante. Un piccolo ma potente stereo diffondeva il Capriccio no. 24 di Paganini a un livello di decibel poco carino per la povera Mrs Hudson, che, lasciata sola con lui visto che John e Mary si stavano occupando delle commissioni per il funerale di Norton (l'amica si era offerta di togliere questa incombenza ad Irene), si era tacitamente convinta a non rivolgergli la parola finché quell'affare non fosse stato spento. Fu così che, dopo un po' di musica classica e roboante, la porta del salotto del 221b di Baker Street si aprì, scricchiolando abbastanza per risultare fastidiosa.

«Mrs Hudson, ho bisogno di concentrarmi, non lo capisce? Se ne vada anche lei se le da tutto questo fastidio!» sbottò, senza darsi pena di girarsi verso la porta. Dei passi più leggeri del solito si portarono verso il centro della stanza e poi più vicino allo stereo. Irene Norton era in piedi di fronte a lui, evidentemente reduce da qualche ora di pianto o ripensamento o forse solo di sonno agitato, con un cappotto elegante buttato addosso sotto un leggero scialle.

«Posso?» disse, a malapena udibile sotto il frastuono, accennando un gesto verso il pulsante di spegnimento dell'apparecchio. Sherlock era rimasto basito: come aveva fatto a non sentire che c'era qualcosa di diverso? Di solito si accorgeva subito di chi stava salendo le scale: i passi erano diversi, la velocità... forse era stata la musica. Non riuscì a muoversi, e si chiese perché e come aveva perso il filo dei suoi pensieri. Lei aspettò qualche secondo e non avendo risposta, spense lo stereo, senza guardarlo. Poi si voltò e sembrò a Sherlock che prima non l'avesse visto davvero. Le si dipinse sul volto una espressione preoccupata, e si avvicinò al divano, sedendosi ma non accomodandosi su una poltrona a distanza di sicurezza.

«Non sta bene, Mr Holmes?» chiese, evidentemente sentendosi un po' stupida «come si è fatto questi tagli?»

Sherlock la osservò in silenzio per qualche altro secondo per poi portarsi la mano al viso e stropicciandosi gli occhi con i pollici e i palmi, restando steso, cioè nell'unica posizione che non lo indolenzisse.

«Solo... cercando risposte. Perché è qui?» domandò, con il tono meno scocciato che poté. Lei si guardò intorno come se le ragioni le fossero cadute a terra o le avesse lasciate sulla mensola.

«Posso immaginare perché mi ha detto di Godfrey ieri...» iniziò, ma lui, inaspettatamente, la interruppe.

«Non era un complice dei ladri. Lo hanno costretto a disinserire l'allarme. È questo che ho scoperto ora» spiegò, chiedendosi solo successivamente perché doverglielo rimarcare proprio ora. Lei ebbe un sorrisetto nervoso, e si tolse lo scialle e il cappotto.

«Sarebbe così terribile se io ci avessi creduto davvero? Che era stato anche lui?» commentò, sempre nervosa.

«Tutte le prove portavano a quella conclusione, quindi no. Perché mi chiede questo? Ma soprattutto perché è qui?» replicò Sherlock, tornando al suo modo assente di fare domande, come se lei in realtà non fosse altro che una proiezione della sua mente.

«Io e Godfrey siamo... eravamo una coppia felice, lo siamo sempre stati. C'è qualcosa però che lei deve sapere. Forse due cose» dichiarò lei, sospirando «è per questo che sono qui. Mary non lo sa»

Sherlock si lasciò sfuggire un sorrisetto compiaciuto.

«Non le piace Mary, Mr Holmes?» continuò lei, incuriosita.

«Sono io che non piaccio a lei. Lo dovrebbe sapere meglio di me» spiegò lui, senza quel tono saccente che in generale metteva su davanti all'ovvio. Irene si passò una mano tra i capelli.

«È solo preoccupata per le persone a cui tiene» disse lei, per poi riprendere il tono con cui aveva iniziato la conversazione «ad ogni modo, quel che le volevo far sapere è che Godfrey aveva intenzione di lasciare lo studio in cui lavorava ora per aprirne uno tutto suo. Non me l'aveva mai detto esplicitamente ma degli altri avvocati giovani e intraprendenti erano venuti a casa alcune volte, e i suoi colleghi attuali sembravano tesi ogni volta che li vedevo parlare con lui in ufficio... e oltre a questo, avevamo litigato, per il teatro»

Sherlock si portò le mani sotto il mento, palmo contro palmo, la punta delle dita che gli sfiorava la pelle.

«Voleva farle lasciare la scena?» chiese, con una nota infastidita.

«Ho lasciato il cinema e la televisione per lui. Sono convinta che mi avrebbe chiesto di lasciare anche il teatro, ma non avrei mai potuto farlo... oltretutto la compagnia con la quale sto andando in scena ora mi ha offerto un posto nella tournée che faranno per tutto il paese. Sarei dovuta stare via almeno 5 o 6 mesi, e avevamo avuto una specie di litigio per questo» spiegò lei, con la voce piena di amarezza e delusione, più che di dolore.

«Perciò, da dove cominciare? Suo marito sapeva dei quadri e degli oggetti di valore della soffitta, questo mi è stato confermato, e probabilmente voleva usarli per crearsi un suo business, ma c'erano due cose che lo ostacolavano, oltre ai facoltosi amanti dell'arte con pochi scrupoli: i suoi ex colleghi, dato che per quanto mi era parso di capire senza di lui i loro clienti erano ben pochi, e il teatro. Si tratta solo di capire se il sentimento era reciproco, in entrambi i casi» osservò lui, ma Irene aggrottò la fronte nel sentirlo parlare.

«Che cosa intende?» chiese, stringendosi di nuovo nel cappotto leggero. Sherlock si voltò verso di lei, con un dolorino alla base del collo, che ignorò.

«Forse il bersaglio non era lui, ma lei, Mrs Norton. Forse questa tournée per lei era solo motivo di dubbio, ma per qualcun altro motivo di invidia» ipotizzò lui. Irene si alzò e si strinse nello scialle.

«Non... non penso che qualcuno potrebbe fare qualcosa di così orribile solo per una carriera in teatro...» disse e allargò gli occhi, trasformando il tono in un più nervoso e alto «dovrei andare da loro, sono tutti insieme, ora, alle prove... dovrei dirgli che è successo...» aggiunse, portandosi una mano tra i capelli, dubbiosa in effetti sul da farsi: non dava l'idea di essere ansiosa di affrontare i suoi colleghi.

«Una parte per cui uccidere... devo sincerarmene» disse Sherlock, come se si fosse destato d'improvviso, e si alzò in maniera troppo rapida, troppo per il suo corpo strapazzato. Vide per un secondo il mondo girare, e riuscì ad appoggiarsi al divano in tempo per evitare di cadere, mentre Irene aveva allungato appena le braccia, scattando per aiutarlo a sorreggersi. Sherlock si rialzò, cacciando indietro il dolore che fortunatamente stava diventando più un fastidio e un indolenzimento, e la pregò di aspettarlo, e di dividere il taxi con lui.

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Capitolo 6
*** Lo spettacolo deve continuare ***


Fu un viaggio silenzioso: Irene era quasi rannicchiata su se stessa, giocando con le sottili frappe dello scialle, mentre il cervello di Sherlock viaggiava oltre quella piccola scatola di metallo, ogni tanto aiutata da qualche applicazione sul suo smartphone. Lei sembrò sul punto di parlare, ma fu il momento in cui l'autista si fermò. Holmes scese senza tante cerimonie e pagò il conducente, mentre Irene cercava un modo di protestare, in fondo avevano deciso di dividere la spesa, ma non fece in tempo: lui era già entrato dalla porta del teatro presso il quale lei aveva ricevuto l'offerta.

L'uomo però si fermò di fronte alle cortine che tenevano celata la grande sala, destando dubbi nei presenti (qualche addetto alla biglietteria più che altro) solo finché non lo videro cedere il passo, molto elegantemente, ad Irene.

Lei entrò con passo deciso ma con il viso contratto e nervoso, le labbra che si facevano di nuovo tremanti, seguita da Holmes, a distanza di sicurezza, sia per la privacy di lei che per quella della mente di lui. Tutti quanti si fermarono nel vederla entrare, saranno state una decina di persone: due ragazze sembrarono profondamente seccate dalla sua presenza, altre tre invece sorrisero, e così anche la maggior parte degli uomini, a parte quello che sembrava il regista, un uomo sulla quarantina appena sovrappeso ma dal viso piacevole, che si rese subito conto che c'era qualcosa che non andava. Anche gli altri guardarono incuriositi prima Sherlock poi lei: Holmes non poteva vedere il viso della donna, ma vide che chinava il capo e si rannicchiava su se stessa mentre il regista le si avvicinava e le posava le mani sulle spalle, cercando di guardarla in viso, piegandosi per arrivare alla sua altezza.

Ci misero un po' a calmarla, e Sherlock rimase nell'ombra finché gli fu possibile. Vide che continuavano a fissarlo, e che il regista le stava chiedendo se lui era della polizia.

«Sì, qualcosa del genere...» dichiarò lei, voltandosi verso di lui e accennando un assenso con la testa. Holmes si avvicinò, sotto le occhiate dubbiose di molti e vagamente interessate di alcuni.

«Qualcuno oltre ai presenti sapeva di questa tournée?» chiese, come sempre freddo e soltanto per ricevere le risposte che gli servivano. Il regista sembrò infastidito dal tono ma di fronte al viso arrossato e agli occhi lucidi di Irene, si risolse a collaborare.

«No, non abbiamo contattato altri attori, le parti sono ancora da decidere, e solo Irene era in dubbio, doveva parlarne con...» spiegò, ma lasciò cadere in niente la sua frase.

«Quindi, senza di lei, non sareste riusciti a partire?» incalzò Sherlock. Notò subito che c'era qualche malumore, ma trattenuto dal senso della decenza di fronte ad un lutto.

«Beh, a malincuore avremmo dovuto cercare qualcun altro, ma non ci saremmo fermati» spiegò il regista, ma Sherlock non stava guardando lui. I suoi occhi erano fissi su una delle ragazze che inizialmente non sembravano contente di vedere Irene.

«Lei che ne pensava, Miss Spooner? Forse non era il caso di aspettare Mrs Norton, visto che era l'unica ancora titubante ed era l'ennesima volta che le metteva i bastoni tra le ruote?» dichiarò, facendo voltare tutti verso la ragazza, e solo Irene verso di lui.

Sherlock armeggiò con il suo smartphone e si avvicinò alla combriccola, compattata come un gruppetto di prede di fronte al leone, pronte a colpirlo insieme per sopravvivere. Mostrò alla Spooner una foto del pugnale con cui era stato colpito Godfrey Norton, ancora macchiato e circondato da righelli, come nelle fotografie che normalmente si fanno in un laboratorio di medicina legale.

«Lo riconosce? Questo è una replica o forse lo stesso pugnale usato da Mrs Norton nel dramma scozzese l'anno scorso, quando lei era stata scartata dal ruolo della Lady e relegata a una particina secondaria. Ed è l'arma del delitto» spiegò, evitando accuratamente di aizzarli tutti contro di sé pronunciando il nome della tragedia Shakespeariana che sembrava portare sventura alle compagnie teatrali.

«Mi sta forse accusando di aver fatto del male al marito di Irene? Come sa il mio nome, e soprattutto come si permette? Non si è nemmeno presentato» esclamò Miss Spooner, sconcertata e arrabbiata. Un attore della squadra le circondò le spalle.

«Immagino allora che possiate fornirmi un alibi per la scorsa notte» replicò, senza darsi la pena di dir loro il suo nome.

«Se sta cercando di intimidire il mio cast, è meglio che se ne vada immediatamente» disse il regista, alzandosi e tirando il petto in fuori.

«Anthony, ti prego. Sta solo facendo il suo lavoro» fu la replica di Irene, che si beccò delle strane occhiate da tutti.

«A quanto pare dovrò attenermi ai capricci di tutti voi uomini e donne di spettacolo per avere una qualche informazione... e data la vostra volubilità mi ci vorrà troppo tempo. Preferisco impiegarlo in modo più costruttivo» sbottò Holmes, restando il più freddo possibile, e uscendo senza degnarsi di salutare.

Il gruppo si mise a vociare, e il regista non riuscì a fermare Irene, che partì alla rincorsa di quel misterioso uomo così scortese.

«Mr Holmes...» lo invocò, e quello si fermò fuori dalla sala, respirando profondamente.

«Mi dispiace... sono persone molto riservate, non sono abituati ad avere questo genere di attenzione, e anche se sono capaci di recitare qualsiasi cosa, lo stress di un'indagine non...» iniziò a spiegare, per poi sospirare e portarsi una mano alla testa. Sherlock rimase in attesa di una sua continuazione, osservando la curva dei suoi capelli rossi che scivolava tra le sue dita.

«Dia loro del tempo. Gli parlerò io» spiegò ancora, per poi fare una piccola pausa e riprendere «io non so, Mr Holmes, il motivo per cui lei si stia occupando di questo caso, e francamente non mi interessa. Io so molto poco di lei a parte quel che mi dice John e so quindi che lei è il migliore in quello che fa e le volevo far sapere che... ho piena fiducia in lei, qualsiasi siano i suoi metodi. Solo... trovi chi è stato. Lo trovi e basta» concluse, ritornando nella sala, stringendo le braccia come se dovessero scaldarla da un freddo che la coglieva quando non riusciva a smettere di pensare.

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Capitolo 7
*** Law & Order ***


John Watson osservò attentamente l'amico Sherlock Holmes mentre faceva colazione. Ovviamente, John stava sgranocchiando del pane tostato ma l'amico era intento a ragionare, come sempre faceva, disteso sul divano e con le mani in una sorta di preghiera, unite sotto il mento.

«Hai dormito stanotte?» chiese, vedendo che Sherlock aveva delle ombre scure sotto gli occhi.

Sherlock non si curò di rispondere immediatamente.

«Questo caso sembra molto più interessante di quanto pensassi... Il pugnale conficcato nel corpo di Norton era uno dei tre creati per la rappresentazione di Macbeth di due anni fa alla quale aveva partecipato la Adler... solo qualcuno che lavorava al teatro poteva appropriarsene, ma Miss Spooner, la principale rivale della Adler, ha un alibi di ferro: era stata fermata quella notte per atti osceni in luogo pubblico, con l'uomo che ora la mantiene alla scuola di drammaturgia... davvero artistico. Nessun altro poteva avercela con lei in quell'ambiente, a quanto pare la adorano tutti»

«Non fatico a crederlo» commentò John, sorseggiando del caffè, a bassa voce. Sherlock trattenne a stento un sorrisetto a quelle parole.

«Non mi resta che andare all'ultima fonte del problema: se non sono stati i contrabbandieri di opere d'arte o l'attrice, deve essere stato un suo collega» dichiarò, alzandosi velocemente. John lo osservava quasi compiaciuto di aver risolto un mistero, cosa che non sfuggì al suo coinquilino.

«Che c'è?» domandò, risentito da quell'aria di strafottenza e di superiorità dell'amico.

«Niente, niente. Mi chiedo come mai ti sia interessato a questo caso, dato che non mi sembra all'altezza dei soliti» ribatté, fingendo di leggere il giornale.

«Non avevo niente di più interessante da fare. Sai quanto odio annoiarmi» disse lui, mentre John ridacchiava di fronte alla scusa così patetica. Sherlock non volle continuare ad affrontare l'argomento, e se ne andò, lasciando in sospeso una conversazione che si sarebbe risolta molto tempo dopo.

L'ufficio dei solicitor di Holland Park era stranamente silenzioso. Sherlock entrò, beccandosi un'occhiata sorpresa di Mary, che si alzò immediatamente, sotto lo sguardo stupito delle due colleghe al suo fianco.

«Che ci fai qui?» domandò, meravigliata ma soprattutto preoccupata.

«Dov'è l'avvocato Jenkins? E Sheridan?» chiese di rimando Sherlock. Lei si girò verso le colleghe che non seppero bene che fare, più che altro perché si chiedevano chi fosse. Lui buttò gli occhi al cielo.

«No, non sono della polizia, ma vi conviene aiutarmi, se volete scoprire in fretta chi ha ucciso Norton. Dove sono i suoi due soci?» sbottò, mentre un uomo di mezza età ben vestito e una donna un po' più giovane di lui ma altrettanto elegante si avvicinavano, evidentemente scossi.

«Chi è lei? E che ci fa qui?» domandò subito l'uomo, Jenkins. Era sulla cinquantina, piuttosto sovrappeso e dal viso rubicondo. I capelli corti erano spruzzati di grigio e bianco.

«Chi sono io non è importante... piuttosto mi interessa sapere che cosa avevate intenzione di fare riguardo alla prevista fuga di Mr Norton dal vostro studio» disse, il più tranquillamente possibile. La donna, Mrs Sheridan, sui quaranta, con i capelli tinti di biondo e il viso particolarmente sconvolto, si frappose tra Sherlock e Jenkins. Aveva un tailleur che ne faceva risaltare la magrezza e puntò il dito contro di lui.

«Non creda che daremmo via informazioni riservate a un perfetto sconosciuto! Chi ci assicura che abbiate anche una minima associazione con la polizia? Non rilasceremo dichiarazioni a nessuno che non sia l'ispettore incaricato di questa indagine. E ora fuori di qui»

A nulla valsero le insistenze, la telefonata all'ispettore Lestrade, assolutamente restio a muoversi dall'ufficio dato che aveva già ascoltato le deposizioni dei due solicitors, assolutamente estranei ai fatti poiché entrambi invitati a una cena di lavoro della loro associazione per la conservazione ambientale dei giardini di Kensington, che si era protratta fino a tarda notte, ben oltre l'orario della morte di Norton. Tutto era stato confermato dai gestori del locale dove si gestiva la riunione, che erano stati costretti a tenere a bada la banda di ambientalisti ubriachi fradici verso le tre di notte.

Sherlock si ritrovò ad essere cacciato via dall'ufficio in malo modo, cosa che accadeva spesso, ma gli avvocati lo irritavano sempre un po' di più del normale: mascheravano la loro stupidità dietro alla litania delle leggi che si erano imparati a memoria, convinti di conoscere i loro diritti, mentre in realtà sapevano semplicemente come farla franca restando puliti di fronte alla legge.

Tornò a Baker Street incattivito e nervoso, e la situazione che trovò nell'appartamento non aiutò certo.

Lestrade stava nel bel mezzo della stanza, qualche agente che rovistava intorno. John Watson sembrò voler scappare dalla finestra al suo ingresso, mentre Mrs Hudson era incredula e spaventata, in un angolo. Quando lo vide entrare si avvicinò a lui.

«Sherlock, ti prego, dimmi che non è vero!» esclamò, ma Sherlock non la guardò.

«Che cosa diavolo ci fai qui?» domandò a Lestrade «cosa dovrebbe significare questo? E non tirare fuori la storia della retata antidroga, non hai alcun motivo o...»

Ma l'ispettore lo interruppe, porgendogli un foglio scritto molto fitto. Sherlock scambiò un'occhiata con John: non aveva potuto fermarli.

«Un mandato? E sulla base di cosa?» sbottò, risbattendo il documento addosso a Lestrade.

«Sulla base delle tue impronte trovate sul pugnale che ha ucciso Norton» dichiarò Lestrade, vagamente deluso «le tue» enfatizzò.

Sherlock lo osservò come se avesse detto la più grossa baggianata del pianeta.

«Non ho mai toccato quel coltello, non è possibile. Anderson vorrà giocarmi un brutto scherzo, posso immaginarmelo» dichiarò, con un sorrisetto di scherno.

«Anderson non è stato assegnato a questo caso, ha solo fatto un sopralluogo. Il medico legale e la squadra della scientifica non hanno mai avuto a che fare con te, perciò spiegami in che altro modo...» iniziò Lestrade, molto risentito, ma venne interrotto da uno dei suoi attendenti, un tipico bobby che sembrava piuttosto impressionato.

«Ispettore... venga» lo chiamò, con la voce leggera e bassa. Lestrade guardò Sherlock come se gli avesse dato la delusione più grande del mondo e seguì il poliziotto, tenuto dietro a ruota da tutti gli abitanti della casa, Mrs Hudson compresa.

La landlady aveva aperto tutte le porte del civico 221c, compresa quella entro la quale, circa un anno e mezzo prima, avevano trovato un paio di scarpe fuori moda che li aveva condotti a uno degli omicidi che il nemico di Sherlock aveva tanto apprezzato. Il poliziotto li condusse lì, e invece di trovare una stanza vuota, polverosa e dimenticata, ciò che videro provocò persino a Sherlock un brivido lungo la schiena.

La piccola stanza, dal soffitto basso, aveva le pareti tappezzate da foto e articoli di giornale, alcuni soltanto scritti e altri corredati di istantanea, incollate insieme in maniera apparentemente casuale, ma in realtà in un perfetto schema, e corredate e circondate da una sola scritta, ripetuta all'infinito: Irene. Tutte le notizie, tutte le immagini si riferivano a lei, per lo più a teatro ma anche foto rubate da lontano, con un obiettivo particolare, e finanche le foto del suo matrimonio con Godfrey, rubate forse dal computer di John Watson. C'erano alcune candele, che erano rimaste accese per un po' ed erano state spente prima di consumarsi, ma la stanza era abbastanza illuminata da finestre ampie e opacizzate.

«Abbiamo trovato le tue impronte sul pugnale, Mrs Hudson ci ha confermato che sei andato alle sue recite, e poi trovo questo... Sherlock...» iniziò Lestrade, e lui capì subito dove voleva andare a parare.

«Non oserai...» ribatté, dimentico persino di giustificarsi e negare di aver mai visto quella cosa. John e Mrs Hudson osservavano preoccupati e spaventati. Non poteva essere...

«Dammi il tuo telefono. Il mandato è anche per quello» dichiarò Lestrade, e lo sguardo di Holmes valse più delle parole. Dovette consegnarglielo, e lui trovò subito la fotografia di Irene, da pochi minuti non più Adler ma Norton, che sorrideva a qualcuno fuori dall'inquadratura. John restò sbigottito e lo osservò seguire Lestrade senza ulteriori parole se non la dichiarazione dell'ispettore sui diritti che aveva Sherlock di restare in silenzio.

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Capitolo 8
*** Il testimone silenzioso ***


A John Watson non era stato permesso di restare al 221b di Baker Street: ora anche quella era una zona da perquisire e controllare, ed era stato costretto a spostarsi a casa di Mary come aveva fatto Irene. Non appena lo spiegò, Irene parve agitarsi molto.

«Che significa arrestato?» domandò, dato che John non aveva fornito molti dettagli.

«C'erano delle prove a suo carico e Lestrade gli ha letto i suo diritti» replicò lui. Irene allargò gli occhi, visibilmente stupita.

«Che genere di prove?» chiese ancora Irene, nervosa. Mary le si sedette accanto.

«Non... forse è meglio che tu non lo sappia» rispose John, cercando l'aiuto di Mary con lo sguardo.

«Irene, lascia stare... la polizia sa quello che fa, vedrai» disse la ragazza di John, cercando di mettere le mani sulle spalle all'amica ma quella se la scrollò di dosso.

«La polizia brancola nel buio, Mary. Quell'uomo è già riuscito a escludere molti dei sospetti che la polizia sta ancora interrogando» esclamò, seria e determinata «Che diavolo di prove hanno trovato?» domandò ancora, parlando lentamente e decisa. John deglutì.

«Aveva una fotografia del tuo matrimonio, una in cui c'eri solo tu, sul cellulare. È venuto a vederti in teatro più di una volta, senza dirci niente, e... abbiamo trovato il 221c di Baker Street, il civico di proprietà di Mrs Hudson accanto al nostro, trasformato in una specie di tempio in tuo onore» spiegò John, la cui voce si affievoliva ad ogni parola. Irene ne rimase colpita, tanto che restò in silenzio per svariati secondi, stringendosi lo scialle che Mary le aveva prestato sulle spalle, e guardandosi intorno, come faceva quando era nervosa.

«John, tu credi che sia possibile? Che abbia fatto... che abbia ucciso qualcuno?» chiese, con un tono molto simile a quello che aveva avuto Lestrade: all'apparenza neutro ma in realtà un po' deluso. Lui sospirò.

«Io non... no, io non credo, Irene» disse John, guardandola negli occhi «e fatico a credere che possa averti preso di mira»

«Tu sei quello che lo conosce meglio di tutti, forse. Fa mai qualcosa senza motivo?» incalzò lei.

«No, mai» ribatté lui.

«Che motivo avrebbe potuto avere per uccidere Godfrey? Non si sono mai incontrati, mai» pensò ad alta voce lei. Non si accorse del dubbio sul volto di John, e non se ne curò.

«Andiamo alla polizia. Devo... dobbiamo cercare di capire che è successo» aggiunse poi Irene, beccandosi un'occhiata di rammarico e pietà da Mary, mentre John non aspettava altro che una scusa per correre a salvare l'amico, come aveva già fatto in passato.

Si beccò un'occhiataccia dalla fidanzata quando propose a Irene di partire immediatamente, e già il medico pregustava aria di litigio, che ci sarebbe stato sicuramente quando fossero tornati a casa. Nel taxi Irene guardava fuori nervosamente, mentre John si cercava di astenere dal chiederle perché tanta apprensione.

Quando l'agente Donovan vide arrivare John Watson buttò gli occhi al cielo.

«Quello scherzo della natura è colpevole, Watson, non sperare di tirarlo fuori stavolta» sbottò lei, sedendosi alla sua scrivania, notando poi che il medico non era solo. Irene sembrò intimidita dalla freddezza di quella donna e non sembrò ansiosa di parlare, finché non arrivò anche Lestrade.

«John, qualsiasi cosa tu...» iniziò l'ispettore, ma Irene si fece avanti.

«Possiamo vedere Mr Holmes?» domandò, guardandolo negli occhi. Lestrade parve preso in contropiede, e si rivolse perciò all'altro interlocutore.

«A che scopo dovreste vederlo? Sai come è fatto. Ha sbraitato per una mezzora e ora è silenzioso come un angioletto. Il suo alibi è saltato» spiegò.

«Alibi? Quale alibi?» ribatté subito John.

«Ci ha detto che all'ora del delitto si trovava da un potenziale, chiamiamolo, cliente. Ma quest'uomo nega, e anche se il tassista che l'ha portato fino a lì e riportato indietro fa coincidere i tempi, in quel frangente avrebbe benissimo potuto deviare a piedi e uccidere Norton indisturbato»

«Ce lo faccia vedere, ispettore. Non sarà del tutto isolato, no?» continuò Watson, e dopo aver di nuovo scambiato un'occhiata con la giovane vedova, Lestrade cedette.

«Che sia un attimo, però» dichiarò, mentre li accompagnava alle celle di sicurezza in cui i sospettati più pericolosi venivano confinati fino a che non dovessero essere trasferiti o rilasciati. Irene si strinse nel leggero cappottino che portava quando vide l'ambiente sterile, bianco e freddo, ma non volle arretrare, anzi. John, alla sua sinistra, le posò la mano destra sulla spalla destra, e la spinse con sé verso la cella, mentre Lestrade osservava il tutto da telecamere di sicurezza.

Quando furono di fronte allo spazio ristretto e sbarrato entro il quale stava l'amico, John si fece un passo avanti a lei e attese che lui uscisse dai suoi pensieri. Sherlock era seduto, con il cappotto addosso come se si aspettasse di poter uscire da un momento all'altro, le mani giunte sotto il mento.

«Sherlock...» disse il medico, ma quello non diede segnale di accorgersi di lui «cos'è questa storia dell'alibi?»

Calò di nuovo il silenzio, e questa volta fu Irene a prendere la parola.

«Quell'uomo che ha visto quella notte non vuole che si sappia che l'ha contattata. Perché?» domandò, decisa ma con la voce tremante. Holmes si voltò verso di loro e si alzò.

«Mr Harold Smith non ha intenzione di far sapere alla polizia che sono stato da lui sicuramente perché la faccenda è delicata» dichiarò, mentre John osservava lui e la donna che aveva accompagnato.

«Sa già chi è stato, non è vero? Chi ha ucciso Godfrey?» incalzò Irene, mentre si portava le dita alla bocca, a metà tra l'entusiasmo e il terrore.

«Devo solo uscire di qui per confermare le mie deduzioni. John, puoi occupartene tu?» dichiarò, all'apparenza annoiato da tanto rumore.

«Andrò io» esclamò Irene, sotto gli occhi stupiti di Watson.

«Non se ne parla nemmeno, ti accompagnerò da questo Smith, e lo convinceremo a parlarne... sei sicuro, Sherlock?» si intromise John, avvicinandosi all'amica.

«Quando mi hanno buttato qui dentro, Anderson ha fatto una battuta di troppo quindi ho dovuto sbollire la rabbia, ma ho avuto il mio tempo per pensare... non indovino mai a caso, John, dovresti saperlo» concluse, infastidito da così poca fiducia. John annuì e fece per andarsene, ma gli occhi di Irene erano puntati su Holmes. Sherlock si voltò verso di lei e rimasero fermi così per dei secondi che a Watson sembrarono lunghissimi.

«Non tema per sé stessa, Mrs Norton. Non vuole farle del male. Non ancora» disse Sherlock, per la prima volta a memoria di John distogliendo lo sguardo come se non potesse reggerlo.

Irene si strinse nel suo cappottino e raggiunse John voltandosi indietro solo una volta.

L'uomo non capiva cosa le passasse per la testa, mentre andavano all'indirizzo indicatogli da Lestrade (dopo varie insistenze), ma poteva immaginarselo.

«Irene... è una domanda stupida, ma stai bene?» domandò, mentre stavano arrivando a destinazione. La ragazza si voltò verso di lui, improvvisamente, come se si fosse dimenticata che lui era lì.

«Mr Holmes mi ha fatto paura, John. So che dovrei essere più tranquilla, nel sapere che probabilmente ha già capito chi è stato, ma sono spaventata, perché ho la brutta sensazione che sia qualcuno che conosco» disse lei, senza guardarlo.

«In che senso? Hai qualche sospetto?» chiese lui mentre il taxi rallentava davanti a un edificio moderno e a specchio, sede di molti uffici.

«No, no... è stato il tono che ha usato Mr Holmes, i suoi occhi... è come se sapesse che chi è stato mi conosce, e mi conosce bene. Forse è solo una mia sensazione, non... non lo so» concluse, passandosi le dita tra i capelli. John le fece cenno di seguirlo fuori dal taxi, e lei uscì, mentre John pagava il conducente.

Entrarono nel grande edificio, venendo squadrati dai professionisti in giacca e cravatta che svettavano intorno a loro, chi diretto a destra, chi a sinistra, chi agli ascensori e chi alle scale mobili. John si guardò la giacchetta di jeans che portava e si sentì fuori luogo, ma Irene lo prese per il braccio, in modo da non perderlo nella folla, dandogli una scarica di mascolinità che gli bastò per farsi avanti con la receptionist, chiedendo dove si trovava Harold Smith. La ragazza parve confusa, come se fosse la prima volta che le veniva chiesto di questo Smith, finché non riuscì a capire di chi si trattava.

John e Irene ricevettero le istruzioni per raggiungere Mr Smith, dubbiosi. Credevano che Sherlock fosse andato ad incontrare un pezzo grosso, o comunque qualcuno di influente lì dentro, mentre la receptionist ci aveva messo un po' ad identificare la persona che stavano cercando. Lo trovarono, Harold Smith, seduto in una piccola celletta. Sembrava un impiegato qualunque, un po' stressato, con la camicia a maniche corte, la cravatta annodata in maniera errata, risultando troppo lunga davanti, gli occhiali spessi e i capelli sbiaditi dal nervosismo. Quando vide i due esterni, Harold rimase basito ma fece loro cenno di sedersi.

«Posso aiutarvi?» chiese, guizzando gli occhi dall'uno all'altra. John fece cenno a Irene di accomodarsi, e non si sedette finché non lo fu anche lei. Il medico stava per parlare, ma fu lei a precederlo.

«Mr Smith, noi sappiamo che avrà avuto le sue buone ragioni per non confermare quel che è successo l'altra notte, ma le vorrei far sapere perché sarebbe importante che parlasse» spiegò, con un tono fermo, deciso e calmo. John si sarebbe aspettato che lo aggredisse, che parlasse di polizia e gli urlasse in faccia che suo marito era morto e lui ostacolava le indagini. Vedeva che la ragazza era turbata, che iniziavano a tremarle le labbra, e le sue mani stesse tremavano, segno che la tensione era ancora alta per lei e le costava uno sforzo non aggredirlo per velocizzare le procedure.

«Mio marito è stato ucciso, per qualche oscura ragione, o almeno spero che ce ne sia una. È accaduto proprio quella notte e io ho un disperato bisogno di Sherlock Holmes per questo. Ho bisogno che lui trovi chi è stato, il più presto possibile, se non altro per evitare che io impazzisca. Qualcuno sta cercando di ostacolarlo, perché è semplicemente assurdo che possa essere stato lui e lei può aiutarci a confermare questa cosa. La prego, la scongiuro» concluse, la voce che le si spezzava, gli occhi lucidi, allungando le mani verso quelle dell'uomo, e prendendole «vada alla polizia e spieghi tutto»

Harold Smith restò particolarmente colpito da lei. John ebbe l'impressione che non avesse mai visto una donna così bella e disperata insieme. L'impiegato cercò aiuto con lo sguardo verso John, che si fece avanti a sua volta verso di lui.

«Sherlock ci ha accennato che la situazione è... delicata» spiegò il medico, e Harold, dopo una rapida occhiata intorno e avendo lasciato andare le mani di Irene, si chinò in avanti come per rivelare un segreto.

«Avevo chiesto aiuto a Mr Holmes perché sono venuto a conoscenza di alcune... informazioni sull'azienda, informazioni importanti e compromettenti. Gli ho chiesto di vederci per potergli chiedere aiuto e mi aveva detto che mi avrebbe fatto sapere, ma è scomparso. Quando ho saputo del suo arresto ho dovuto far finta di niente, credevo... credevo mi potesse compromettere!» spiegò, nervoso «m-mi dispiace per suo marito» disse poi, rivolto a Irene. La ragazza sorrise amaramente. Voleva essere forte, e la paura che le avevano messo addosso le parole di Sherlock non aiutavano di certo, oltre alla commozione.

«Tra poco sarò in pausa pranzo... correrò subito al commissariato» dichiarò, ricevendo in ricompensa un improvviso abbraccio di Irene, mentre una piccola lacrima le solcava il volto.

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Capitolo 9
*** La stella ***


 

Utente 53612: Pensavo che un soggetto come te sarebbe rimasto in prigione per molto più tempo... sei un tipo strano, sinistro. Non mi sorprenderei se in realtà molti dei casi che hai risolto fossero i delitti che hai commesso tu.

La riga perpendicolare lampeggiava sotto il messaggio appena scritto nell'applicazione per chattare installata sul portatile di John Watson. Erano in contatto con colui che molto più probabilmente aveva commesso il delitto. Sherlock Holmes era seduto davanti allo schermo, le mani pronte e veloci risposero:

SH: E io ho fatto male ad affidarmi alla polizia. Dovevo incastrarti di persona, molto prima, quando ti ho usato per arrivare a lei, più di un anno fa.

John rabbrividì. Quando l'amico gliene aveva parlato, era rimasto basito. Avevano esaminato insieme il 221c di Baker Street: era un collage fatto recentemente, anche se con foto e articoli più o meno vecchi. Era stato fatto in fretta e furia, e l'artista in questione non aveva potuto fare a meno di firmare cotanto capolavoro, o forse era un marchio che aveva impresso e che non aveva capito di aver lasciato: una stellina dorata. xxGolDenStαRxx era il suo nome utente, e Sherlock se ne era servito per reperire informazioni su Irene per il caso di Von Ormstein, il caso che gli aveva fatto conoscere Irene Norton e suo marito. Aveva segnalato a Lestrade il suo comportamento da stalker, ma le indagini purtroppo non avevano portato a niente.

L'interlocutore esitò.

Utente 53612: Chi sei tu per anche solo riferirti a Lei? So che cosa hai fatto.

Sherlock non diede segno di essere colpito da quella dichiarazione, ma si chiese come facesse a sapere della sera in cui si era intrufolato a casa della Adler per trovare la foto del calciatore tedesco.

SH: Geloso?

John osservò lo schermo e Sherlock, per poi voltarsi verso Irene, seduta sulla poltroncina del 221b di Baker Street che di solito occupava lui. Osservava la scena da lontano, senza dire una parola ma sporgendosi come per cercare di guardare.

Utente 53612: Non essere ridicolo, sono stato molto più vicino a Lei di quanto tu potresti anche solo sperare. Stai cercando di provocarmi, e non ci riuscirai.

Sherlock si lasciò sfuggire un sorrisetto.

SH: Tu non hai idea di che cosa io sia capace di fare.

Fece un cenno a John e prese in braccio il portatile. Irene scattò in piedi e seguì i due fino al piccolo tempietto costruito in suo onore. Rabbrividì prima di entrare ma dopo un respiro profondo si sentì pronta e annuì ai due. John collegò una piccola telecamera al portatile e fece partire la richiesta di mostrare all'utente anonimo il video.

Il video partì e Sherlock si avvicinò alla telecamera. John non gli aveva mai visto in viso, da quando lo conosceva, uno sguardo più indemoniato.

«Ora vedrai» furono le due parole che pronunciò, con tono di sfida, aggressivo e ironico, che fece gelare il sangue a John e Irene, che pensò di capire che non era tutta una recita, la sua. Era un'attrice molto esperta, ma non riusciva a capire dove finisse la finzione e iniziasse la realtà dell'ira dell'uomo che aveva davanti.

Allungò la mano verso Irene, la quale si avvicinò e la prese con la sua. Fece qualche passo e la portò davanti all'obiettivo, lasciandola andare e allontanandosi. Irene si guardò intorno, gli occhi spalancati e vitrei. Allungò le mani tremanti contro le pareti e si voltò di scatto verso Sherlock. Lui annuì, grave, e lei negò, scuotendo il capo, come se volesse dire “no, non può essere”.

«È stato lui. È venuto qui, ha frugato nel computer di John, l'ha spiata ed è talmente ossessionato da lei, Mrs Norton, dall'arrivare a uccidere suo marito per poterla avere tutta per sé» spiegò, lentamente. Gli occhi di Irene si riempirono di lacrime, strillò disperata, in un crescendo di paura, stupore, terrore e angoscia, e prese a strappare tutto alle pareti. Buttò giù ogni cosa, si rovinò le unghie e le dita ma tirò giù ogni cosa.

Il collegamento cadde, la luce sparì e tutto fu buio.

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Capitolo 10
*** Incubo di una notte di mezza estate ***


Irene aprì gli occhi di nuovo nell'oscurità. Cercò di alzarsi ma si sentiva girare la testa. Si portò una mano alla tempia e sentì qualcosa di strano che le stringeva il capo. Le sembrò di perdere l'equilibrio, e allungò le mani intorno a sé: era come se si trovasse su un'amaca particolarmente corta, come una goccia di stoffa. Era circondata da qualcosa, e si rese conto di dove si trovasse solo quando la luce si accese. La accecò per alcuni secondi, e si sentiva ancora stordita. Indossava un suo vecchio costume di scena, era stata truccata e vestita, e deposta nel letto della regina delle fate, ripreso dalla rappresentazione di Sogno di una notte di mezza estate di un paio di anni prima. Era stata la regina Titania, e si rese conto che l'abito color rosa e verde che indossava e le alucce leggere che portava erano le stesse di allora.

Una figura si avvicinò dall'oscurità del foyer. Lei si cercò di mettere sull'attenti, ma la luce era troppo forte... la persona si avvicinò, uscendo dal buio. Irene trattenne il fiato e per poco ricadde indietro.

L'avrebbe riconosciuto tra mille: vestito come un elfo di bosco, il fisico non scolpito ma in forma, con la pelle appena abbronzata e resa appena dorata da un sottile filo di spray che lei stessa aveva addosso, tra le poltrone avanzava il suo Oberon, l'uomo con cui Sherlock non aveva parlato, ma che aveva cercato di consolare Miss Spooner circondandola con le braccia quando Holmes l'aveva accusata.

«Richard...» riuscì ad esalare lei, la gola che le bruciava.

Il ragazzo, che aveva recitato con lei proprio nella commedia di Shakespeare, era troppo immerso nella parte per risponderle. Una musica partì, leggera e fatata.

«Vieni, o mia regina: porgi la mano» intonò, allungando il braccio verso di lei, come Irene gli aveva visto fare sera dopo sera in quello stesso teatro «La musica suoni, e culli il suolo medesimo su cui dormono costoro. L'amicizia è ora nuovamente tornata tra noi, e alla mezzanotte di domani danzeremo in solenne tripudio nella reggia del duca Teseo, e lo benediremo con il nostro augurio d'ogni prosperità. E la duplice coppia d'amanti fedeli celebrerà allora, insieme a Teseo, le nozze, con gran festa di tutti» continuò, raggiungendola. Lei cercò di allontanarsi, ma si sentiva impacciata e in trappola, appesa lì sopra. Scosse la testa e si ritrasse, mentre lui si aggrappava ai sostegni della piccola amaca a forma di goccia e avvicinava il viso.

«Richard... ti prego...» lo supplicò, ma quello la prese per il polso e portò il viso della ragazza a pochi millimetri dal suo.

«Lo so, lo so, fingere è difficile, ma è il nostro lavoro no? Io ho dovuto fingere che non mi importava niente di te, ho persino fatto credere alla Spooner di essere uno dei suoi tanti squattrinati amanti. Non sarà triste di perdermi, quel che le interessa sono solo i soldi di quel vecchiaccio che la mantiene... e anche tu non dovrai più temere, ora che quella stupida scimmia di tuo marito se n'è andata» disse, la voce febbrile e gli occhi pieni di meraviglia e ansia. Irene cercò di divincolarsi.

«Non se n'è andato, tu l'hai ucciso!» gridò, tremando e presa da una rabbia che non sapeva neppure di poter provare «come hai potuto anche solo... pensare tutto questo! Lasciami andare! Sei pazzo, pazzo!»

Con forza riuscì ad allontanarlo da sé e per l'indignazione gli sputò in faccia. Richard non lo gradì, e sempre tenendola per i polsi la spinse fuori dal letto sospeso della regina delle fate e la fece ricadere sul legno del palco. La abbandonò con un piccolo tonfo, e la lasciò, mentre lei restava faccia a terra. L'uomo sembrò rendersi conto di ciò che aveva fatto e si chinò subito su di lei, scostandole i capelli e girandole il viso verso di lui.

«Non devi dire queste cose, Irene... so che non le pensi... saremo come Oberon e Titania, guarderemo i mortali, che niente hanno a che fare con noi, e vivremo prendendoci gioco di loro!» continuò Richard, dalla voce ormai preso dalla sua realtà, senza vedere che aveva arrossato i polsi della donna, e avendole provocato un pianto nervoso e una rabbia cieca. Mentre lei cercava di nuovo di liberarsi, dei passi pesanti vennero dal buio.

«Non esistono le fate» disse la voce baritonale, amplificata dalla stessa acustica del teatro, di Sherlock Holmes «se tu fossi Oberon, a questa frase dovresti cadere stecchito» concluse, dopo una piccola pausa.

Uscì dall'ombra: era perfettamente uguale a come Irene lo aveva visto chissà quante ore prima, al 221c, se non fosse per un ulteriore taglio sulla fronte, accanto a quello tenuto insieme dai cerotti-punto. Richard non la lasciò, anzi si alzò e la tenne stretta a sé, le braccia di lei tenute strette da quelle di lui.

«Non mi sarei aspettato che fossi al varco ad aspettare il momento giusto per metterci fuori combattimento, però non sei stato accurato, non abbastanza. Facile immaginare che saresti venuto qui, nel teatro in cui avete recitato insieme, o meglio in dei ruoli così legati» spiegò, con un tono annoiato. Seguirono alcuni attimi di silenzio, nei quali gli sguardi di Sherlock e Irene si incontrarono. Richard aggrottò le sopracciglia, e la strinse di più, mentre lei rimaneva ferma e ipnotizzata da ciò che Holmes aveva da dire.

«Sarà stato facile uccidere Godfrey Norton...» riprese il nuovo arrivato «le pillole per dormire che aveva preso erano abbastanza efficaci. Lo stress della rapina e delle minacce erano troppo per lui, e il nervosismo non l'avrebbe fatto dormire. Prese la pillola, mentre tu eri lì ad aspettare. Con quel pugnale che lei aveva toccato, che lei aveva usato sera dopo sera, l'hai ucciso, e poi sei rimasto a contemplarla, come una statua, assicurandoti che il sangue infetto di quell'uomo non la toccasse. Banale, e malato... E io? Perché le mie impronte, e non altre, o semplicemente nessuna, su quel coltello?»

Richard era dubbioso. La teneva sempre più stretta, e la cosa lo inebriava, ma quell'uomo...

«Non credere che io sia uno stupido. Avevo rintracciato il tuo IP, ho scoperto a chi avevo dato le mie informazioni... e poi ti sei introdotto in casa sua, per prenderle chissà che cosa, e te ne sei uscito come un codardo, senza portare a termine il tuo compito. E poi... eri sempre a teatro, a vederla, facendo finta che non te ne importasse niente. Eri una minaccia, e perché non eliminarla insieme a quella più fastidiosa?» spiegò, affondando il viso nei capelli di lei, che sentì un brivido di disgusto scenderle sulla schiena, e riprovò a divincolarsi, ma inutilmente. Poteva sentire la pelle dell'addome di lui contro la sua, e tutto quello che accadeva al di sotto.

Sul viso di Sherlock passò una fugace espressione di rabbia e disgusto.

«L'unico problema è che non sei stato abbastanza furbo, e ti dirò di più. È stata la tua cara Irene ad aiutarmi a uscire di prigione» concluse, con un sorrisetto.

Richard allentò impercettibilmente la presa, ma quando Irene tentò di divincolarsi, la afferrò ancora di più fermandole anche le gambe, incrociando le caviglie con le sue.

«Stai cercando di confondermi, lo so. Avrai pagato qualcuno per confermare il tuo alibi... te lo sarai inventato, per forza. Chissà che fai, la notte... in giro per Londra» commentò lo stalker, cercando di suonare ironico. Sherlock fece un passo avanti.

«Io avevo un alibi. Ma non era stato confermato, e la tua preziosa e cara regina si è presa la briga di cercare chi poteva farlo e l'ha convinto» spiegò lentamente, mentre ad Irene sembrò che qualcosa frusciasse alle sue spalle, ma non osò guardare.

«Chiediglielo, se vuoi. Sentilo dalla sua voce» continuò Sherlock, lentamente. Richard strinse la presa, spostando il braccio più vicino alla sua gola, senza quasi accorgersene. L'unica cosa che voleva era non lasciarla andare e Irene si sentì mancare il respiro.

«Non le chiederò proprio niente, stupido piccolo uomo, perché ho fiducia in lei» replicò quello, con la voce leggermente alterata dall'agitazione. Sherlock fece un passo avanti, e persino Irene si rese conto, nonostante stesse annaspando, che iniziava ad essere nervoso a sua volta.

«Lasciala andare...» disse tentando di fare un passo avanti, ma Richard si ritrasse, portando la donna con sé, un passo indietro. Irene sentiva il respiro lasciarla, e gli occhi rovesciarsi.

Quando l'uomo se ne accorse la lasciò andare talmente di colpo che lei ricadde sul palco, come una marionetta a cui erano stati tagliati i fili. Dalle cortine chiuse dietro di loro sopraggiunse John, che placcò l'uomo vestito da fata e lo fece ricadere tra le poltrone della platea, la faccia a terra vicino alla base delle poltrone. Pur essendo un uomo più basso, John riuscì a immobilizzarlo, e Sherlock ci mise un secondo ad ammanettarlo.

«E queste?» domandò il medico, confuso, tenendo fermo l'uomo.

«Le ho rubate a Lestrade quando mi ha scarcerato, ovviamente» replicò il detective, come se fosse scontato, per poi volgere gli occhi al palco. La ragazza era ancora stesa a terra, ferma e immobile. John si alzò subito, ma Sherlock fu più veloce e la raggiunse prima di lui, alzandole la testa e spostandole i capelli dal viso. Avvicinò l'orecchio alle sue labbra.

«Non respira, John...» disse, a bassa voce, quasi spiazzato «Fai qualcosa!» gridò poi, mentre l'amico la stendeva e le praticava la respirazione artificiale, con massaggio cardiaco. I secondi sembravano infiniti, mentre l'uomo a terra gridava, come un pazzo, di averla uccisa. Da lontano si sentivano le sirene della polizia, e forse anche quelle del pronto intervento medico, eppure sembravano dall'altra parte della città.

John si rialzò, scambiando un'occhiata con l'amico. Sherlock lo fissò visibilmente inorridito, finché sotto il frastuono della voce disperata di Richard, emerse un timido tossire. John immediatamente aiutò Irene ad alzarsi, tenendole il busto alzato prendendole le spalle, mentre lei si teneva la gola e cercava di tornare a respirare normalmente, aggrappandosi all'amico stringendogli la giacca con le dita, sulla schiena. Irene riprese a respirare meglio pian piano, tossendo meno, e John la aiutò a mettersi seduta. Richard era riuscito a voltarsi e si zittì, vedendo che lei stava relativamente bene, cercando ancora di liberarsi, inutilmente, ma ringhiando tra sé e sé.

John continuò a tenere Irene, chiedendole se riusciva ad alzarsi, e guardò di sfuggita il suo amico. Per la prima volta da quando lo conosceva, vide dipinto sul volto di Sherlock Holmes sollievo e felicità. Non che non fosse mai sollevato, o contento, ma parve all'amico che ci fosse qualcosa di ben più profondo del solito, qualcosa che niente aveva a che fare con la soluzione del caso.

Irene si sentì pronta quando finalmente la polizia si decise ad entrare. Una piccola squadra armata e d'assalto si avvicinò a Richard, steso a terra intento a divincolarsi, e lo tirarono su come fosse un fuscello. Lestrade entrò di corsa e guardò stupito il sospettato già ammanettato e reso relativamente innocuo. Superò i suoi attendenti che già stavano portando fuori il colpevole e vide John Watson che aiutava Irene Norton a rimettersi in piedi. La donna si aggrappò a lui, ancora malferma per lo spavento e i maltrattamenti subiti. Lestrade non si accorse di niente di strano sul volto del suo consulente, mentre Holmes, riprendendo perfettamente il controllo di sé, seguiva il coinquilino e la donna fuori, subito dopo l'ispettore.

Le sirene erano ancora spiegate, ma un'auto già si allontanava dal luogo, mentre John lasciava Irene alle cure dei paramedici e degli infermieri dell'ambulanza. Il medico la rassicurò, dato che lei non voleva restare sola, dicendole che si allontanava soltanto per chiamare Mary e dirle che andava tutto bene, e che erano tutti al sicuro. John si allontanò di qualche passo, mentre Sherlock, interrogato informalmente da Lestrade, si voltava a vedere che succedesse. A Irene era stata data la coperta rossa che normalmente lo staff medico forniva a chi era sotto shock e sfuggì un sorrisetto a Holmes nel ricordare l'ultima volta che era stata rifilata a lui. La donna alzò lo sguardo verso di lui, stringendosi nella coperta, che tutto sommato le dava un po' del caldo che le serviva, vestita così leggera com'era. Sherlock non rispose all'ultima domanda di Lestrade che, dopo qualche insistenza, lo mandò a quel paese con un gesto e lo lasciò solo, a scambiare lo sguardo con la donna che aveva appena salvato. A uno sguardo attento, non sarebbe sfuggita la gratitudine e la sorpresa di lei nel vederlo ancora lì, a sincerarsi che stesse bene, né sarebbe passato inosservato negli occhi di lui la soddisfazione e la serenità nel saperla viva.

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Capitolo 11
*** Epilogo ***


 

La sala era gremita, e si sentiva il brusio di troppe chiacchiere, frivole e non, che creavano un ronzio simile a quello di un alveare operoso. Irene si guardava intorno un po' nervosa, nel suo abito giustamente elegante, nella luce dei grandi lampadari, circondata dalle stoffe chiare delle grandi tende della sala da tè del London Ritz Hotel. Era stata lì, circa due anni prima, a festeggiare il suo matrimonio, appena celebrato in mezzo a Holland Park. Sospirò, passandosi le dita tra i capelli. Ancora sentiva un nodo alla gola, ma erano passati poco più di tre mesi dall'omicidio di Godfrey, e il processo a Richard Emerson stava procedendo celermente e senza intoppi. Non cercava vendetta, e sapere che la giustizia stava facendo il suo corso smussava il suo dolore e lo trasformava in una sorta di malinconia, addolcendo la sua pena. Alzò gli occhi quando vide avvicinarsi una figura familiare. Sherlock Holmes si sedette accanto a lei, sbottonandosi la giacca scura sopra la semplice camicia bianca a sottili righe blu.

«John e Mary sono stati trattenuti. Non mi hanno precisato niente, ma si tratta di affitto» commentò, di fronte allo sguardo interrogativo della ragazza.

«Ho invitato anche mio padre, ma lui è stato trattenuto da tutt'altri problemi... la sua fidanzata doveva assolutamente andare a fare shopping nel negozio che ieri era chiuso, e non sa dirle di no...» commentò Irene, con un sorrisetto «mi fa piacere che sia qui, soprattutto ora che vivo da sola, ma è così innamorato... lei assorbe tutto il suo tempo ormai»

Calò il silenzio per qualche secondo.

«Sta bene, Mr Holmes? Spero non si senta troppo solo ora che John vive con Mary» domandò Irene, educata.

«Prego, mi chiami Sherlock» replicò lui, pronto «se si riferisce alla mia salute, sì, sto bene. E per quanto riguarda John, non si deve preoccupare, ho ritrovato il mio teschio»

«Oh...» commentò lei, dubbiosa ma rincuorata dal suo tono «Se devo chiamarti Sherlock, tu mi chiamerai Irene, altrimenti non mi sembrerebbe giusto» ribatté lei, ricevendo un cenno di assenso da parte del suo interlocutore.

«Ho deciso di accettare... la tournée. Parto con la compagnia teatrale a metà ottobre» disse Irene dopo qualche altro secondo, come se non riuscisse a tacerlo oltre. Sherlock parve sollevato, ma non replicò.

«Ho pensato che far finta di essere qualcun altro e allontanarmi da qui avrebbe potuto aiutarmi, e mi sento più leggera... vedrò posti nuovi e farò quello che più mi gratifica. Credo di aver preso la decisione più saggia» spiegò, mentre lui la osservava come se la stesse studiando, senza parlare. Irene si sentì un pochino a disagio, ma la sua curiosità la aiutò a tornare disinvolta.

«Perché avevi la mia foto sul tuo cellulare? Molti fan tendono a tenere immagini dei loro idoli nel telefono, ma non mi sembravi il tipo, e non credevo fossi un mio fan» domandò, mantenendo un'espressione serena ma curiosa. Sherlock prese un sottile coltello e prese a giocarci.

«Sei stata una delle poche persone che è riuscita a battermi. L'ho tenuta in tuo onore, si può dire» replicò lui, guardando solo per un attimo l'oggetto che aveva tra le dita affusolate.

«Pensavo di essere stata solo più veloce, non più furba di te» osservò Irene, sincera.

«Essere in grado di anticiparmi è una qualità che raramente riscontro nelle persone. Hai tutto il mio rispetto per questo» ribatté Sherlock. L'espressione di Irene si fece più serena.

«Volevo ringraziarti per quello che hai fatto per me» riprese lei, non riuscendo del tutto a reggerne lo sguardo. Sherlock la osservò aggrottando appena le sopracciglia.

«Ho solo trovato chi ha ucciso tuo marito» disse, come se lo paragonasse a una delle cose più semplici e naturali del mondo.

«Credo che tu abbia salvato la mia sanità mentale... credo che sarei impazzita se non avessi trovato chi è stato così in fretta, e forse avrebbe fatto del male anche a me» spiegò lei, per poi riprendere a parlare «Se c'è qualsiasi cosa che posso fare per sdebitarmi, devi solo nominarla»

Sherlock parve pensarci su ma gli spuntò un sorrisetto.

«Quanti mesi sarai in tournée con il teatro?» chiese, fulmineo, lasciando il coltello sul tavolo.

«Ehm, dovrei tornare i primi di aprile o forse maggio, a seconda di quante date saranno confermate e se ci saranno delle repliche, quindi cinque o sei mesi credo» rispose lei, pensandoci su. Sherlock si alzò.

«Allora, ti farò sapere tra sei mesi» rispose, chiudendosi la giacca e allontanandosi lentamente. Irene Norton, nata Adler, lo osservò andare via, chiedendosi che cosa passasse per la testa di quell'uomo, e perché lei stessa si sentisse così ansiosa di sapere quella risposta.

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