Io diventerò la tua sposa di AliceInHeartland (/viewuser.php?uid=117132)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Ricordi, fiori e promesse ***
Capitolo 3: *** Ricordi, inconvenienti e spiacevoli sorprese ***
Capitolo 4: *** Ricordi, pioggia ed incontri ***
Capitolo 5: *** Ricordi, conoscenze e scontri ***
Capitolo 6: *** Ricordi, piccole rivincite e... dango! - Parte prima ***
Capitolo 7: *** Ricordi, piccole rivincite e... dango! - Parte seconda ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
L’uomo è un essere imperfetto. Ed essendo
imperfetto, ne consegue che sia anche destinato a morire.
Vi sono diverse ipotesi sul come e sul perché l’uomo non sia immortale, tutte individuate
in diversi tipi di religione, ma il fulcro del discorso rimane sempre quello. Nella religione cristiana, ad esempio, si crede che l’uomo, agli albori,
possedesse l’immortalità, donatagli da Dio, ma che commettendo il peccato
originale, gli fosse stata negata.
Poi c’è la mia religione, quella verso la quale sono stata indirizzata sin da
quando ero piccola, la scintoista-buddista, dove vi è la credenza che l’uomo
abbia il dono dell’immortalità sotto le spoglie della rinascita.
E ve ne sono altre. Tante, tante altre. Così tante che, per elencarle tutte,
non saprei davvero quanto potrei impiegarci, ma… forse nessuno in realtà si è
mai accorto che l’immortalità esiste e noi la possediamo concretamente. Certo,
è intangibile, ma… Esiste.
E la nostra immortalità risiede proprio qui, dentro di noi e dentro gli altri.
I ricordi, la memoria.
Ecco cos’è la nostra immortalità. Perché finché ci sarà qualcuno in grado di
ricordare i nostri gesti, le nostre azioni, le nostre parole, i nostri nomi…
Noi resteremo immortali, continueremo a vivere nel cuore di quelle persone che
conservano un ricordo di noi.
E questo me lo hai insegnato tu. Proprio tu che a queste “idiozie” – come le
chiamavi tu – non ci credevi e a cui, probabilmente, non hai creduto sino alla
fine.
Eppure, nonostante ciò, sei ancora vivo nella mia mente, nel mio cuore. Ti
sento così vicino, nonostante non possa più sentire il calore delle tue
braccia, la tua voce risuonarmi nelle orecchie e il tuo profumo avvolgere i
miei capelli, per poi farli sapere di te.
Sì, anche se non ci credevi, sei rimasto immortale.
No… Forse sbaglio… Forse sto sbagliando da tanto tempo.
Forse tu ci credevi, ma semplicemente non lo accettavi. Perché lo sapevi, non è
vero?
Lo sapevi quanto era doloroso ricordare. Ricordare, per poi desiderare altro. Perché
un semplice ricordo non basta a scaldarti il cuore, come una presenza vera e
propria. Come quella presenza che speri di rincontrare ancora, ancora e ancora.
Ma che è una vana speranza, giusto?
Forse, dicendo che non ci credevi a tutto questo, speravi, in qualche modo, di
insegnarmelo, di farmelo comprendere, ma non ci sei riuscito perché non ho
voluto darti ascolto, perché pensavo fosse sbagliato.
Perché pensavo sarebbe stato doloroso perdere non solo te, ma anche tutti i
ricordi che ti riguardavano.
Eppure, sebbene sia tanto doloroso, non so dire se sia stato davvero un male
continuare a ricordare. Perché, anche se non sei qui, con me, al mio fianco, e
non posso sentire il calore del tuo corpo e la vicinanza del tuo cuore, posso
almeno ricordare il tuo sorriso.
Quel sorriso che, col suo tepore, mi avvolgeva e mi rendeva serena come solo il
canto di un dolce usignolo avrebbe mai potuto fare.
Non odiarmi, quindi, ma non potrò mai dimenticarti.
Perché, lo ricordi?
“Io diventerò la tua sposa, Sou-nii”.
*****
Ciao a tutti. ^-^
O forse dovrei dire tutte? XD Beh, si sa questa sezione è frequentata per la
maggior parte da ragazze, ma siccome non voglio mai dare niente per scontato ho
usato il generico! U.U
Okay, non mi perdo in chiacchiere inutili.
Bene, questo è il prologo della mia nuova ff ^-^ Sì, sì, lo so, alcune persone
con cui mi sento e che leggono anche l’altra ff che sto scrivendo su hakuouki
mi hanno mosso questa critica:
“Ma che ti metti a scrivere un’altra ff, quando devi ancora finire quella che
hai già iniziato?”, con tanto di questa faccina ----> =.=
Ebbene, è giustissimo. Ho iniziato questa ff senza neanche finire l’altra, ma
semplicemente non ho saputo resistere XD
Non vi annoio sul come e sul perché, o altre domande inutili che sicuramente
nessuna/o di voi si sta ponendo e finisco questa paranoia col dire
semplicemente che non metto da parte “Il passato nel presente”, anzi il
prossimo capitolo lo posterò prestissimo (forse anche oggi stesso, ma non
fatemi dire eresie O.O).
So che alcuni si staranno chiedendo chi ha scritto tutte queste parole qui
sopra,ma è una sorpresa ^-^
Lo scoprirete nel prossimo capitolo. Vi dico solo che non è Chizuru XD Non aspettatevi lei nei miei romanzi, almeno come protagonista, perchè la detesto profondamente =.= Spero che gradirete questa mia altra
piccola operetta insignificante >.<
Un grazie a tutti coloro che seguiranno.
Alice.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Ricordi, fiori e promesse ***
Ero
una bambina a quel tempo. Al tempo della nostra promessa, di quella che ti feci
io, certa di poterla mantenere e che tu, forse per tenermi contenta, forse
anche per gioco, accettasti sorridendomi.
Ero solo una bambina – è vero.
Ma forse era proprio perché ero una bambina che non capisti quello che volevo
esprimere con le mie parole, quello che realmente desideravo.
Lo ricordo chiaramente, quasi fosse ieri. Eppure avevo soltanto otto anni.
Onestamente, ora che ci penso, credo che fosse incominciato tutto da quel
momento.
Primavera. 15 Maggio, 1861. Edo.
Quel pomeriggio di primavera ero andata con la zia Kin a raccogliere dei fiori.
Erano circa le due. Di solito a quell’ora, dopo aver pranzato con la mamma, mi
stendevo sul futon e la ascoltavo mentre suonava il flauto tanto divinamente
come soltanto lei sapeva fare.
Ma non quel pomeriggio. Perché quel pomeriggio sarebbe arrivato un ospite. Un
ospite molto importante.
Tu.
E io lo sapevo. Lo sapevo perché c’era un motivo per cui la zia Kin era venuta
tutta entusiasta, bussando alla nostra porta e aveva iniziato a ridacchiare con
la mamma di non so cosa sin dalla mattina del nostro incontro.
“Mitsu. Mitsu, presto, sbrigati. Apri la porta”. La voce della zia era
penetrata già all’interno della casa. Era schiamazzante e maledettamente
squillante, nonostante, normalmente, fosse piuttosto tranquilla e composta,
quando parlava.
Da un certo punto di vista, il fatto che anche lei vivesse ad Edo era comodo
per la mamma, in modo che non si sentisse sola, ma dall’altro punto di vista,
un po’ era seccante averla tra i piedi sempre e comunque per un motivo o per
l’altro.
Mi piaceva la zia Kin, ma… starci a contatto per troppo tempo mi rendeva
isterica come lei.
La mamma, allora, accorse verso l’ingresso e dopo aver indossato gli zoccoli,
aprì la porta scorrevole in legno. Come di legno era fatta l’intera struttura.
Non appena la porta si aprì, la zia le saltò letteralmente al collo,
abbracciandola.
“Oh-! Kin, ma che succede? Che ti prende, così di mattina presto?”
“Oggi arriva. Oggi viene, finalmente”
“Oggi viene? Chi viene? Di chi stai
parlando?” le chiese lei, con tono perplesso.
“Ma di Soji! Di chi, sennò?” cinguettò, allegra, lei.
“Souji?” . Mia madre sembrò perplessa ed allo stesso tempo sbalordita. “Com’è
possibile che venga qui, ad Edo? Lo sai, no, delle voci che circolano sul suo
conto?”
“Sì che ne sono a conoscenza. Proprio ieri me ne ha parlato mio marito. E non
solo riguardo questo. Mi ha detto anche che proprio perché si sta pensando di
nominarlo capo-allenatore alla Sheikan, ha degli affari da svolgere qui ad
Edo”.
“E allora? A maggior ragione non potremo incontrarlo. Non soltanto perché
nostro fratello verrà ad Edo, significa che potremo cogliere l’occasione per
vederlo” . Mia madre lo disse con un tono di velata malinconia, quasi di
circostanza. A parer mio era suo grande desiderio poterti rivedere, dopo tanto
tempo, ma non voleva illudersi che potesse accadere, ora che ne aveva la
possibilità. Ci sarebbe stata ancora peggio.
Ed anche io. Perché anche io non ti incontravo da tanto tempo. Ed anch’io, come
lei, avevo davvero voglia di rincontrarti.
“Ed è qui che ti sbagli, onee-san” la corresse la zia, scotendo la testa, per
poi sorriderle cercando di rincuorarla. “Guarda qui” . E dalle maniche del suo
kimono ne estrasse un pezzo di carta arrotolato su sé stesso, che le mostrò
subito. “E’ una lettera. Una lettera da parte di Souji”
“Una lettera?”. La mamma si stupì ancora di più della notizia, per poi prendere
il foglio di carta in mano e fare segno alla sorella di entrare.
Io, che stavo aspettando proprio nel soggiorno, educatamente seduta al
tavolino, le vidi arrivare nella stanza dove alloggiavo per svolgere i miei
compiti e sedersi accanto a me.
Dopo avermi salutato con una carezza sulla testa, la zia tornò a dedicare
attenzione alla mamma, avvicinandosi per dare un’occhiata alla lettera che lei
aveva già iniziato a leggere.
Non nascondo che la cosa mi infastidì ed anche tanto. Anche io volevo sapere
cosa c’era scritto. Volevo sapere cos’avevi scritto alla mamma, alla zia, o,
semplicemente, se ti ricordavi ancora di me. Della tua nipotina che tanto ti
adorava.
“Non è giusto, oka-san!” , brontolai, esprimendo così il mio disappunto. “Anche io voglio sapere che cosa dice la
lettera!”
“Oh, cara…” . La zia mi guardò con aria intenerita. “Ma se non ricordi neanche
di chi si tratta”.
“Invece sì! Si tratta dell’onii-san!” . Lo affermai sicura e decisa. Era vero,
avevo soltanto otto anni, ma non ero stupida. Anche se vagamente, ricordavo la tua
figura di quando avevi giocato con me, molto tempo prima.
Purtroppo, però, la tua immagina era sfocata e il tuo ricordo troppo poco
vivido.
Beh, ma suppongo fosse comprensibile, dato che l’ultima volta che ti avevo
incontrato era all’età di quattro anni, nel 1857.
“Oh! Te ne ricordi, allora? Non pensavo davvero…” ammise lei. Ne dedussi che
non se lo aspettava.
Devo essere sincera. Forse, in quell’occasione, più che interessarmi il ricordo
di te, volevo dimostrare alla mamma e, soprattutto, alla zia che non ero una
sciocca e che, anche se ero piccola, dovevano trattarmi da grande.
Semplicemente, odiavo essere trattata da mocciosa che non capiva nulla di
niente. Volevo essere trattata da grande. Mi piaceva. In qualche modo era come
se ciò potesse darmi importanza.
“E va bene”. La mamma mi sorrise, mentre si voltava verso di me e si schiarì la
voce, preparandosi così a leggere la famosa lettera, diventata il fulcro del
discorso di quella calda e serena giornata di maggio.
“Cara Mitsu-onee-san,
recapito la lettera a te, dato che i messaggeri che adopero ti conoscono e, in
particolar modo, conoscono anche tuo marito.
Questa volta l’ho affidata ad un messaggero che dovrebbe farti arrivare, se
tutto procede come previsto, questa lettera, o il giorno prima o entro il giorno
stesso del mio arrivo.
Sì, sto venendo ad Edo. Non sto qui a spiegarti la ragione del mio viaggio sin
lì, ma sappi che verrò per incontrarti. Per incontrare te e Kin.
Ho fatto di tutto perché questa lettera potesse arrivarti a tempo debito, in
modo da trovarvi in casa, quando sarei passato per salutarvi, ma non si può mai
sapere.
Spero davvero che tutto vada come previsto.
Se succederà nel primo pomeriggio sarò da te.
Nel caso non dovessimo, però, incontrarci, vorrei solo dirti che, purtroppo,
non so quando potrà capitare nuovamente un’opportunità del genere. So per certo
che ci sarà molto lavoro da sbrigare per me, quindi… Non so davvero.
Avrò fede nel sperare di trovarvi.
Souji” .
La mamma inspirò, dopo aver finito di leggere la lettera e sorrise tra sé e sé.
“Non cambia mai. Decide tutto e programma tutto per conto suo, senza tenere conto
delle esigenze degli altri”.
La zia, allora, sospirò. “Non ci si può far nulla. E’sempre stato così,
d’altronde”.
Lei annuì. “Su, dobbiamo prepararci. A breve sarà qui e non ho preparato nulla
da offrirgli. Sarebbe scortese, non trov…”. Ma non concluse la frase, perché
incontrò il mio sguardo basso e l’espressione scontenta e scontrosa sul mio
volto.
“Hikaru?” mi chiamò, un po’ preoccupata, chinandosi sulle gambe, per farsi più
vicina a me. “Tutto a posto? Cosa c’è che non va?”
“Niente” sillabai io, girando il volto dalla parte opposta a quella di lei, per
evitare che notasse la mia delusione.
“Ne sei sicura?”
“Sicurissima!”.
Dissi così, ma in realtà ci ero rimasta davvero male. Immaginavo che per te
fosse più importante rivedere le tue sorelle, ma non pensavo che ti saresti
dimenticato di me.
La verità era che non sentire il mio nome in quella lettera mi aveva delusa
davvero tanto. La presi a male, in un certo senso. Mi offesi.
La mamma, anche se facevo la sostenuta, capii subito che c’era qualcosa che non
andava e, molto probabilmente, capii anche di cosa si trattava.
“Kin” chiamò la sorella, mentre si rialzava, ignorando il mio comportamento
“apparentemente” strano. “Potrei chiederti un favore?”
“Mh? Di che si tratta, onee-san?” chiese lei, che si stava adoperando per
preparare le tazze da tè che sarebbero servite al momento opportuno.
“Vorrei che andassi a raccogliere dei fiori. A questa casa ci vuole un tocco di
colore. Inoltre, lo sai, avremo un ospite. Un po’ di fiori non guasterebbero”.
“Dei fiori, eh? D’accordo. Il tempo di sistemare questo servizio da tè e ci
vado subito”.
“No, non preoccuparti. Al servizio ci penso io, tu sbrigati ad andare nel
giardino qui vicino. Non ci vorrà molto prima che nostro fratello arrivi”.
“Oh?” . Inizialmente rimase sorpresa da quell’affermazione della mamma, ma poi
vi si adattò, senza fare troppe storie. “Come vuoi tu, anche se non capisco
perché hai tutta questa fretta”.
“Oh… Nessun motivo in particolare” . Il tono della mamma era quello della finta
tonta, ma, anche se volevo atteggiarmi a fare la grande, non lo capii, dato che
infondo avevo solo otto anni.
“A proposito. Dato che non c’è nulla che non vada, Hikaru, perché non accompagni
la zia?” .
Lo fece apposta. Ne sono tuttora certa. Lo chiese in quel modo e con quella
premessa, proprio affinché non rifiutassi. E, se l’avessi fatto, le avrei
dimostrato che ero dalla parte del torto. Questo potevo ancora capirlo, anche
se ero così piccola.
“Va… Va bene” acconsentii, io, alzandomi e prendendo la mano della zia, per poi
seguirla fuori di casa e raggiungere con lei la nostra destinazione.
Il giardino fiorito di cui aveva parlato la mamma e nel quale andavo spesso a
giocare con gli altri bambini che avevo conosciuto per strada, vicino la mia
casa, non era molto lontano, ma distava abbastanza dalla casa dove abitavamo
noi. Effettivamente, si trovava più vicino casa dalle zia Kin, che risiedeva in
una zona meno centrale della città e più esterna. Un sobborgo – se così si
poteva definirlo. Anche se non era esattamente il termine più appropriato.
Beh, poco importa questa cosa. Ciò che davvero contava era che non appena vidi
quel giardino pieno di tanti bei fiori profumati e colorati, la delusione, la
tristezza e il risentimento che avevo provato fino a poco prima, fu come
svanito nel nulla.
“Oh!! Che belli! Sono spuntati dei nuovi fiori!” esclamai, contenta, notando
con piacere che le lavande erano fiorite.
Ce n’era voluto di tempo. Le avevo aspettate per tanto tempo, dato che erano –
e sono tuttora – il mio genere di fiore preferito.
Forse la mamma lo aveva fatto a posta. No, ne ero quasi certa. Mi aveva mandato
lì per farmi sentire meglio e rincuorarmi, perché lei lo sapeva bene che quel
giardino e quei fiori erano in grado di farlo.
Avevo sempre adorato i fiori. Sempre.
“Oh, hai ragione, Hikaru-chan. Sono fiorite le lavande” notò la zia, piegandosi
sulle ginocchia, di fianco a me, che stavo praticamente distesa a pancia in giù
ad osservare e a sentire il profumo di quel fiore.
“Mm!” . Annuii, sorridente. “Sono belle, vero?”
Lei mi assecondò, annuendo e ricambiando il mio sorriso. “Sì, davvero
bellissime”.
Restammo in silenzio per un po’, io ad osservare il fiore e la zia ad osservare
me, che, però, in quell’attimo non me ne accorsi. O, semplicemente, feci finta
di non accorgermene.
“Che c’è?” domandai, quando, però, notai che il suo sguardo era costantemente
fisso su di me.
“Mh? Oh, niente. Proprio niente” cercò di sviare lei, per poi sorridermi ed
alzarsi in piedi, strofinandosi il kimono per pulirlo dell’erba che vi si era
attaccata. “Che ne dici, Hikaru-chan? Raccogliamo questi fiori? Se ci
attardiamo ancora un po’ tua madre se la prenderà sia con me che con te. E non
vogliamo mica che ci sgridi, giusto?”.
Dunque, la mamma era sempre stata un angelo ai miei occhi. Una persona dolce,
posata, composta e dai modi gentili. Ma l’idea di essere rimproverata da lei mi terrorizzava. Perché
sì, poteva anche essere comprensiva e dolce, ma era anche molto severa. E
quando voleva che una cosa si facesse bene, c’era poco da fare: si doveva fare
come diceva lei.
Non ce l’avevo con lei per quel motivo. Sapendo che mio padre era sempre fuori
per il lavoro importante che compieva, era lei che si doveva occupare della mia
educazione. Era un suo compito e lei, per natura, non vi sarebbe venuta meno.
“No!” scossi la testa vigorosamente, per poi imitare il gesto della zia e
seguirla, mentre andava per raccogliere qualche primula.
Il silenzio tornò a regnare, mentre sia io che lei ci prodigavamo per
raccogliere quanti più fiori potevamo.
“Anche se non si direbbe piacciono anche a lui, sai” . La zia spezzò il
silenzio, forse perché un po’ imbarazzata, o semplicemente perché non poté fare
a meno di fare quel commento.
“Lui…?”
“A nostro fratello” .
All’onii-san?
Pensai istintivamente.
Allora anche all’onii-san piacciono i
fiori?
“E sai… Gli piacciono proprio i fiori che piacciono anche a te”
“Vuoi dire…?”
“Esatto” mi interruppe, sorridendomi di cuore, prima che potessi finire la
frase. “La lavanda. Da piccolo, almeno,
adorava davvero tanto il profumo che emanava la lavanda”.
“Mmm…” . Agli occhi della zia, feci finta di ignorare quel suggerimento. Perché
sì, lo era indubbiamente.
Mi stava implicitamente consigliando di raccogliere qualche lavanda per te, per
renderti felice. Ma in un primo momento l’idea di renderti felice non mi
allettava.
Volevo che la pagassi per non avermi tenuta presente, quando avevi scritto la
lettera. Volevo che capissi come mi ero sentita a non essere presa in
considerazione.
Ero una bambina che quando aveva a cuore qualcuno, pretendeva che quel qualcuno
tenesse a me tanto quanto io tenevo a lui.
Solo crescendo, cominciai a rendermi conto di questo.
E forse ancora tuttora non me ne resa conto, sino in fondo.
“Hikaru-chan, è ora. Dobbiamo tornare a casa” mi avvisò la zia, avvicinandosi a
me e piegandosi sulle ginocchia. “Su, dammi la tua parte. Hai raccolto davvero
tanti fiori, brava. Ma non puoi portarli tutti tu. E’ troppo per una bimba come
te”.
“No… Ce la… faccio…” cercai di ribattere, provando a dimostrare quanto valevo,
ma effettivamente erano troppi ed, alcuni, troppo lunghi, così persi
l’equilibrio e caddi all’indietro.
Alla scena, la mia cara zietta non trattenne una risatina. “Come volevasi
dimostrare” constatò dopo avermi aiutato ad alzare e avermi dato un bacio sulla
fronte. “Tutto a posto? Ti sei fatta male?”
Io scossi la testa, per rincuorarla. “No! Sto bene! Però… mi dispiace…”
affermai, mortificata, accorgendomi che, cadendo, avevo sparpagliato tutti i
fiori che avevo raccolto per terra.
Un altro risolino da parte della zia. “Non preoccuparti. Ci penso io”.
“Ma… Ma non puoi! Anche tu hai raccolto tanti fiori. E poi peseranno anche per
te!”
“Oh, non preoccuparti. La tua zietta è forte. Se la caverà!” mi rassicurò lei,
che, effettivamente, non trovò alcuna difficoltà a raccogliere tutti i fiori in
pochi secondi e a rimettersi in piedi col sorriso sulle labbra.
“Su, andiamo, Hikaru-chan”
“Mh!” annuii, io, incominciando a seguirla, d’istinto.
Proprio nel seguirla, però, incrociai le lavande che avevo visto all’inizio,
quando eravamo appena arrivate nel prato-giardino.
Mi fermai un attimo ad osservarle, mentre la zia (non sapevo se, consapevole o
meno della cosa) continuava a percorrere il tragitto verso casa, incurante del
fatto che mi fossi trattenuta lì.
Gli piacciono le lavande…
Era l’unica cosa che mi passava per la mente in quel momento.
Proprio come piacciono a me.
Mi rendeva felice quella constatazione. Non sapevo perché, ma forse era
predestinato. Un’anticipazione di tutto ciò che sarebbe venuto e che da lì a
poco sarebbe conseguito. I miei
sentimenti per te non erano ancora vivi perché ancora non ti conoscevo bene,
come avrei voluto in seguito, ma la mamma mi aveva parlato tanto di te e delle
tue imprese e del fatto che fossi una persona eccezionale.
La mamma ti voleva davvero tantissimo bene. Teneva davvero tanto a te. E forse
sono state proprio le sue rappresentazioni della tua figura ad esaltarti in
quel modo.
Forse, in effetti, mi ero innamorata di te, ancora prima di conoscerti per
quello che eri veramente.
Forse… Potrei raccoglierne qualcuna…
Pensai, apprestandomi ad afferrare lo stelo di una lavanda.
E poi… Non è detto che debbano essere per
lui. C…Certo! Sono per me! Queste lavande sono per me!
Volevo convincermi di questo, ma in realtà era facilmente intuibile che non
era così.
Lo capì anche la zia che, dopo averla raggiunta, commentò con tono sarcastico:
“Oh-! Qualcuno ha cambiato idea, eh?”
“Io… Non è così! Queste sono le mie
lavande. Piacciono a me!” . Arrossii, mentre lo dicevo e la zia non trattenne
un nuovo risolino.
“Certo, certo, sono per te”.
“Sì… Sono per me…” continuai a borbottare, abbassando lo sguardo, ormai rossa
come un papavero, stringendo al petto le lavande miste a delle fresche
margherite di campo.
Perché sì, si è davvero onesti, quando si è bambini.
Ci mettemmo poco ad arrivare a casa, sicuramente meno di quanto c’avevamo
impiegato per andare sino al prato fiorito.
Quando arrivammo davanti la porta, io feci per aprirla ed avvisare la mamma che
eravamo tornate, ma la zia mi fermò: “Aspetta, Hikaru-chan”.
“Mh? Che c’è?” chiesi io, perplessa.
“Non entriamo da questa parte”
“Eh?”
“Andiamo dall’altra”.
“Ma… perché?”
Lei mi sorrise. “Se conosco bene mia sorella, presto lo scoprirai”.
Io, di tutta risposta, la guardai con aria interrogativa. Proprio non capivo a
che cosa si stesse riferendo. E che cosa significava poi quel “se conosco bene
mia sorella”?
Voleva che entrassimo dalla parte della casa che dava sull’esterno?
Certo, era la parte più carina della casa, dato che all’esterno vi era il
piccolo giardino che curava mia madre e il laghetto di carpe. Un luogo
tranquillo in cui passava anche del tempo a suonare il flauto.
Possibile che si trovasse lì a sistemare il giardino? Poteva anche darsi. Forse
era quello che intendeva la zia.
Volevo convincermene, ma davvero non sapevo come districarmi dalla faccenda.
Ormai, quasi raggiunta la parte esterna della casa, fin troppo curiosa, decisi di capirci qualcosa anche io: “Zia, ma
perché stiamo facendo tutto questo gir…”.
Non riuscii a finire la frase. Davvero non ci riuscii.
In quel momento smisi di fare tutto.
Di mantenere i fiori che avevo tra le braccia, facendoli cadere a terra.
Di fare domande curiose e forse anche insensate alla zia.
Forse smisi anche di respirare, per qualche secondo.
Il mio sguardo era fisso, incatenato a te. Te, che eri seduto accanto alla
mamma, con una gamba distesa in lungo per terra, mentre l’altra era piegata e
vi ci poggiavi sul ginocchio un gomito. L’altra mano invece era aperta e il
palmo aderiva perfettamente al legno della veranda esterna. I lunghi capelli castani, leggermente
tendenti al rossastro, erano raccolti in un’altrettanto lunga coda di cavallo
che ti scendeva lungo la schiena. Il volto dai lineamenti gentili era intento a
prestare attenzione alla figura della mamma che ti versava del tè fumante nella
tazza posta sul vassoio, a sua volta poggiato per terra. Gli occhi verde foglia
si concentravano sui dango che
facevano d’accompagnamento al tè e quel sorriso tipico di chi aveva un’aria
serena e quasi divertita, dipingevano il tuo volto come su di una tela.
Eri bello. Bello proprio come mamma ti aveva sempre descritto. Bello come ti
avevo sempre disegnato nella mia fantasia, come ti immaginavo. E, forse, anche
come ti ricordavo da quando ero ancora più piccola di allora.
Talmente bello che non riuscivo a distaccare il mio sguardo da te. La bocca era
rimasta leggermente semi-aperta e per poco non mi scappò un sonoro: “Ohhh----!”.
Dio solo sa come feci a trattenermi.
“Oh? Ara!Ara! Siete tornate finalmente! Stavo incominciando a preoccuparmi”
ci accolse la mamma, con un sorriso, accorgendosi della nostra presenza.
“Infondo vi avevo solo mandato a raccogliere dei fiori” si giustificò,
pacatamente, per poi andare incontro alla sorella e prenderle dalle mani il
mazzo gigantesco.
“Oh, e sembra che abbiate fatto anche un ottimo lavoro”.
“Hmph! La prossima volta, se vuoi, vacci tu!” insinuò, umoristicamente la zia,
per poi fingersi offesa.
“Gokurosama deshita, Kin-chan!”
affermò una voce maschile e leggermente sonora. La tua. Era divertita. La voce
di chi stava scherzando, o forse di chi stava prendendo in giro qualcuno.
“Oh, ma guarda chi c’è. Il mio fratellino famoso” . La zia si avvicinò a lui
senza fargli troppe feste. Una volta che ti fu davanti, incrociò le braccia al
petto. “Avanti, chi ti credi di essere per prendere in giro così tua sorella
maggiore?”
Tu non trattenesti un risolino e ti ponesti verso di lei sia con aria che con
tono sfacciato e impertinente: “Mmm… Forse, ma non ne sono sicuro, Jukutou (capo-allenatore) alla Shieikan?”
“Are!? Vuol dire che ti hanno fatto
conseguire il titolo?” . La zia era sbalordita.
“Beh, era quasi certo che fosse così” rispondesti tranquillamente, scrollando
le spalle. “Ormai era stato tutto deciso”.
“Oh! E dire che sei soltanto un moccioso di diciassette anni!” sbuffò lei. Per
un po’ fece finta di fare l’offesa, per poi sorridergli e correre ad
abbracciarlo. “Oh, Souji! Mi sei mancato così tanto!”.
La sua esuberanza non finiva mai. Tra tutti i componenti della famiglia Okita,
forse lei era senz’altro quella più vivace di tutti. Quella che portava un po’ di
allegria. Persino tu, che eri sempre allegro e avevi la risposta pronta a
tutto, gli eri secondo.
“Omedeto” proseguì, dopo che tu le
accerchiasti la vita e ricambiasti il suo abbraccio.
Anche la mamma, con i fiori in mano, vi si avvicinò e ti sorrise di cuore. “Sì, omedeto gozaimasu, Souji”.
“Arigatou, Mitsu-onee-san,
Kin-onee-chan”. Un sorriso si dipinse sulle tue labbra rosee e gli occhi
esprimevano quella gioia e quella serenità che raramente avrei rivisto in te.
In quel momento odiai la mamma e odiai anche la zia.
E, molto probabilmente, odiai, anche se per pochissimi secondi, anche te.
Odiai loro due perché potevano godere del tuo sorriso e delle tue attenzioni. E
odiai te, perché non avvertivi la presenza mia e dei miei occhi, colmi d’amore,
che non facevano che osservarti. Osservarti ancora da lontano e sperare che ti
accorgessi di loro.
Ma non fu così.
Non sei stato tu ad accorgerti di loro.
“Ehi, Hikaru” mi chiamò quella voce gentile e tranquilla. La voce di mia madre
che, sorridente come al solito, si era resa conto che non mi ero mossa da
vicino il laghetto delle carpe e che ero rimasta lì, senza avvicinarmi
ulteriormente all’ospite.
“Che cosa fai ancora lì? Su, vieni qui a salutare il nostro ospite”.
Fu allora che i tuoi occhi verdi-cervone incontrarono i miei color
acqua-marina.
Fu allora che il mio cuore mancò sicuramente qualche battito e che incominciai
ad arrossire gradualmente. Più mi osservavi e più avevo l’impressione di andare
a fuoco.
Proprio a causa di ciò, non mi mossi ulteriormente.
“Oh? Hikaru?” chiedesti con tono sorpreso tu, continuando a fissarmi. “Vuoi
dirmi che quella bella bimba lì di fronte è la piccola Hikaru-chan?”
Mia madre annuì. “Sì, è lei”.
“Oh… Ma dai. Non ci avevo proprio fatto caso”.
Spalancai gli occhi, un secondo prima di abbassare lo sguardo, nuovamente.
Forse tu non te ne rendesti conto, ma quelle parole mi ferirono. Mi ferirono
profondamente.
Non ci ha fatto caso?
Continuavo a ripetermi, mentre sentivo una voce che mi chiamava, ma non
m’importava di chi fosse. Le mie riflessioni interne catturarono tutta la mia
attenzione.
Vuol dire che non gli importa se ci sono,
o no?
“…karu-chan?”
Vuol dire che onii-san non mi vuol bene?
“Hi-ka-ru-chan?” mi sentii chiamare
nuovamente. Questa volta, però, il suono fu troppo vicino per poterlo ignorare
totalmente, come avevo fatto precedentemente.
Alzai timidamente gli occhi per incontrare nuovamente il tuo sguardo.
Sbiancai.
O, forse, dovrei dire che avvampai, perché eri praticamente a pochi centimetri
dal mio volto, che continuavi a fissare con quei tuoi occhi verdi e profondi.
Sussultai e feci un balzo indietro, quando constatai che la nostra vicinanza
era fin troppo pericolosa. O, almeno, allora non pensai che poteva esserlo. Lo
feci soltanto d’istinto. Forse per l’imbarazzo.
“Che c’è? Ti ho spaventata?” mi domandasti, per poi cadere in una fragorosa risata.
“Sono così spaventoso?”.
Non ti risposi. Mi limitai ad arrossire ancora di più e ad abbassare la testa
ulteriormente, stringendo saldamente il tessuto del mio kimono, quasi per
trarne vanamente coraggio.
“Hikaru-chan, avanti, non fare la timida, saluta Souji” mi incitò la zia,
facendomi segno, alle tue spalle, di farmi coraggio.
Ma io non le diedi ascolto, scossi la testa e continuai a tenere lo sguardo
abbassato.
“Hikaru!” mi riprese, con tono leggermente più severo, la mamma.
“Ah, è così? Non vuoi salutarmi, eh?” affermasti, assumendo un tono di voce
quasi come se fossi stato oltraggiato da questo mio atteggiamento. “E va bene.
Se non vuoi salutarmi tu, per prima. Allora vorrà dire che ci penserò io” . E,
detto ciò, senza alcun preavviso portasti una delle tue mani sulla mia guancia
e ti avvicinasti lentamente a me.
Il tuo fine era sicuramente quello di darmi un bacio sulla fronte, come si fa
per tutte le bambine.
Sarei dovuta essere felice, ma…
“No!!!” esclamai immediatamente, prima che le tue labbra potessero sfiorarmi.
Quasi con le lacrime agli occhi, mi allontanai, indietreggiando, e mi nascosi
dietro una delle siepi che curava la mamma nel giardino.
Erano rimasti tutti un po’ sorpresi da questa mia reazione.
Forse quello che ci rimase un po’ più di stucco fosti proprio tu che, ancora
piegato su un ginocchio, continuavi a fissarmi con aria stupita e spaesata,
mentre ti spiavo da dietro la siepe.
Probabilmente ti chiedesti il motivo della mia reazione e, forse, anche se mi
mancasse qualche rotella.
“Hikaru!?” . Il tono della mamma era un
misto di preoccupazione, perplessità e indignazione. “Che cosa stai facendo? Ti
sembrano modi di comportarsi? Esci subito da lì dietro!”
Io, del canto mio, scossi la testa, in senso di diniego e, per tutta risposta, mi
nascosi ancora più dietro le siepi.
“Hikaru! Non costringermi ad alzarmi. Vieni subito fuori di lì e chiedi scusa a
Souji. Voleva solo salutarti, infondo”.
“Non preoccuparti, Mitsu-onee-san” la rassicurasti tu, voltandoti verso di lei
e sorridendole. “Si vede che non mi riconosce. Forse non si ricorda di me”
Cosa? No, non è così…
“Infondo è passato del tempo dall’ultima volta che l’ho vista. E aveva solo
quattro anni”.
No, non si tratta di questo…
Non riuscivo a fartelo capire. Il problema era che se non parlavo non
potevo dirti di che cosa si trattava.
Ma la voce mi veniva meno. Uscivano solo singhiozzi.
“O, semplicemente, non le piaccio” ipotizzasti, assumendo anche l’aria di uno
che ci stava riflettendo su.
No… Non è vero…
Scrollasti le spalle, voltandoti verso di me e sorridendomi. “Pazienza.
Sono tante le persone a cui non piaccio, sai?”.
Singhiozzai ancora. Non so ancora cosa mi trattenne dal piangere.
A quel tempo non capivo i miei sentimenti, da bambina qual’ero, ma sapevo
soltanto che sentirti mentre ipotizzavi tutte quelle cose era profondamente
doloroso.
“Non piacerle? Ma per favore!” . Una voce altisonante e squillante interruppe
il tuo discorso. La stessa voce che ti costrinse a voltarti alle tue spalle.
Zia Kin stava in piedi, dietro di te, cercando di incrociare il mio sguardo,
con aria severa. Aveva una mano sul fianco. Segno che era in fase
“autorità-e-severità”.
“Non fantasticarci troppo su, fratellino. La piccola ce l’ha con te,
semplicemente perché non l’hai citata nella tua lettera”.
“Eh?” sussultasti tu, un po’ sorpreso.
Eh? No… Gliel’ha detto!
E poi… come fa la zia a sapere che è per quello?
“Perché non l’ho citata nella lettera…?”
Lei annuì. “Già. E poi l’avrai fatta sicuramente arrabbiare di più, non
salutandola, appena sei arrivato”
“Ma se lo stavo facendo…”
“Questione di tempismo. Tempismo” ti interruppe lei. “In poche parole, è tutta
colpa tua”. Senza mezzi termini, la zia sbuffò, quasi soddisfatta della sua
rivelazione, e si concentrò su di me, ancora nascosta dietro la siepe.
“Non è forse vero, Hikaru-chan?”.
Eccola. Ecco l’attenzione di tutti che tornava su di me. Soprattutto la tua.
Arrossii nuovamente e mi nascosi ancora più in profondità della siepe. Non
volevo incontrare lo sguardo di nessuno, tanto meno il tuo.
Stavo facendo la figura della bambina – che effettivamente ero – ma che non
volevo si rivelasse ai tuoi occhi.
Speranza vana.
Sentii, però, che le foglie della siepe si stavano spostando.
Qualcuno mi aveva seguito sin lì dietro.
Non avevo voglia di vedere nessuno. Ma se, effettivamente, qualcuno c’era,
avrei preferito che si trattasse della zia. Almeno avrei potuto evitare di
svenire nel caso si fosse trattato di te, o di essere sgridata, nel caso si
trattasse, invece, della mamma.
Fui sfortunata anche in quel caso. Se di sfortuna si poteva trattare, perché mi
seguisti proprio tu.
“Ah!” esclamai per la sorpresa, più che per lo spavento, tappandomi le labbra
subito dopo. Abbassai, quindi, il volto rosso come un papavero, in contrasto
coi capelli castani-scuri e gli occhi acqua-marina.
“Neh, Hikaru-chan, Kin-onee-chan ha detto la verità? E’ perché non ti ho
prestato attenzione che sei arrabbiata con me?” mi chiedesti, terribilmente
serio, pur trattandosi di un ragazzo di diciassette anni alle prese con una
bimba di otto.
Non ti risposi e distolsi lo sguardo, per non incontrare il tuo. Ti diedi le
spalle.
“Se è per questo che sei arrabbiata, allora ti chiedo scusa, va bene?”.
Cosa?
Mi voltai sorpresa verso di te che mi sorridevi fiducioso, fin troppo
fiducioso. Sicuro di quello che stavi dicendo.
“Non volevo ignorarti volutamente nella lettera. Mi era solo sfuggito di mente”
ti giustificasti. “E mi dispiace se prima non ti ho salutata come si deve, ma…
Non ti avevo davvero riconosciuta. Non l’ho fatto a posta. Ma davvero non pensavo
che quella bambina che avevo davanti a me potessi essere tu”.
Eh? Come…?
“E’ che sei cresciuta così tanto… Sei diventata davvero carinissima,
Hikaru-chan. Davvero graziosa. Come una bambola”.
Se prima ero semplicemente diventata rossa, dopo quella tua affermazione la mia
carnagione sfiorò il bordeaux.
I singhiozzi presero ad aumentare e mi portai le piccole manine agli occhi, per
asciugarmi le lacrime col dorso delle mani.
“Mi dispiace…” sussurrai, avvicinandomi pian piano a te. “Mi dispiace di essere
stata maleducata. Non volevo essere sgarbata”. Continuavo a piangere, mentre,
praticamente, ti avevo di fronte, sorridente, che mi guardavi con aria
comprensiva.
“Per favore, non odiarmi. Per favore…”.
“Odiarti? Non credo proprio. Non potrei mai odiare la mia preziosa Hikaru-chan”
dichiarasti, convinto, attirandomi tra le tue braccia e carezzandomi la testa,
per consolarmi.
“Quindi… Quindi… vuol dire che continui a volermi bene?” ti domandai, ancora
singhiozzane e gli occhi tremuli.
“Mh?” . Rimanesti sorpreso da questa domanda, per poi sorridermi e portarti
l’indice al mento, quasi in segno di riflessione. “Vediamo… Ora che me lo stai
facendo notare, non so se potrò volerti ancora bene come prima, sai…”.
Cosa? Non mi vorrà più bene come prima?
Quella risposta fu tragica per me. E, piccola com’ero, non capivo davvero
che si trattava di uno scherzo, di una semplice presa in giro. Quindi, non
capendolo, mi misi nuovamente a piangere.
“Souji!” ti riprese la zia, con tono snervato. “Smettila di stuzzicarla e di
farla piangere! E’ solo una bambina, infondo, e non riesce a distinguere lo
scherzo dalla verità!”
Tu non trattenesti un risolino. “Hai,
hai!”. Poi ti voltasti verso di me, che ancora non accennavo a smettere di
frignare.
Piansi così tanto quel giorno, che alla fine quasi mi disidratai.
“Hikaru-chan, avanti non piangere. Lo sai perché ho detto che non potrò più
volerti bene come prima?”
Scossi la testa, mentre cercavo di trattenere i singhiozzi e mi asciugavo il
naso con la manica del kimono.
Allora tu mi rivolgesti il tuo solito sorriso. “Se proprio dobbiamo dirla
tutta, l’offeso qui dovrei essere io. Sono arrivato a casa tua da un pezzo, ma
la mia adorabile nipotina non mi ha neanche dato il benvenuto. Come pensi che
possa volerti bene come prima, eh?”.
“Oh…” . Quasi come se mi avessi rivelato il segreto più oscuro della vita
dell’uomo, trattenni le nuove lacrime e accorsi da te, abbracciandoti forte e
dandoti un bacio sulla guancia lunghissimo.
Ingenua com’ero, credevo davvero che si trattasse di questo, che fosse questa
la ragione per cui non mi volevi bene come prima.
Una volta separatami da te, rossa in volta alzai timidamente lo sguardo verso
di te, ancora preoccupata che potessi avercela con me. “E adesso? Adesso va
bene?”.
“Mh…” . Tornasti a rifletterci su. “Vediamo…”.
“Souji! Non ricominciare!” ti rimproverò nuovamente zia Kin. “Se la fai
piangere ancora, non ci sarà bisogno di innaffiarle per un bel po’ quelle
siepi”.
Mia madre si stava divertendo. Educatamente e raffinatamente – com’era abituata
a muoversi lei – si portò una mano davanti le labbra per coprire una piccola
risata.
Anche ti perdesti in una risata di cuore, senza rispondermi.
“Allora? Allora, adesso mi vuoi di nuovo bene?” continuai a chiederti,
speranzoso, e un po’ preoccupata del fatto che ti fossi messo a ridere senza
degnarmi di una risposta.
Tu, allora, mi prestasti tutta la tua attenzione, avvicinandoti a me ancora di
più, mi circondasti la vita con le braccia e mi prendesti in braccio, alzandoti
dalla posizione piegata in cui versavi prima, dietro la siepe, con me.
“Ma certo, Hikaru-chan. Ora ti voglio
anche più bene di prima”. Sorridesti.
A quella tua affermazione, non mi trattenni dal sorridere di gioia e
abbracciarti fortissimo. “Grazie, Sou-nii! Ti voglio tanto bene!”. Ero contenta.
Contentissima. Una contentezza che andava ben oltre la normale felicità che
provano i bambini nell’ottenere qualcosa di loro gradimento, o altre
stupidaggini infantili.
Era vera felicità. Sì, mi sentivo felice, con te accanto.
Una felicità che, infondo, da quel giorno non mi ha mai lasciata.
Dopo avermi riportata in casa e avermi consegnato un regalo che avevi comperato
appositamente per me (una bambola di pezza non troppo costosa, ma neanche delle
più scadenti), mi accoccolai vicino a te che eri intento a discutere di cose
ben più importanti e serie con zia Kin.
La mamma, intanto, era andata a preparare nuovamente del tè, dato che l’altro
che aveva portato precedentemente era finito.
Io, nel frattempo, giocavo con la bambola e la esaminavo con attenzione. La
stringevo, la coccolavo, fingevo di essere la sua mamma, sempre non
distaccandomi da te.
Volevo restarti il più vicino possibile.
Avrei tanto desiderato che mi prestassi anche la tua attenzione, ma capivo che
i discorsi che stavi affrontando con la zia erano da adulti e decisi di non
immischiarmi.
Anche perché, effettivamente, ad otto anni, non è che potesse importarmene poi
così tanto di affari di politica e dello Shogunato.
Era pur vero che volevo atteggiarmi a fare la grande e non mi piaceva essere
trattata da bambina, ma, in fin dei conti, bambina lo ero e mi ci comportavo
anche.
“Capisco. Quindi resterai a Kyoto per un bel po’, vero?” domandò la zia kin con
un’espressione un po’ triste sul volto.
Annuisti. “Dai comandi che vengono dall’alto, pare proprio di sì. Kondou-san
sta facendo di tutto per farmi giungere informazioni sicure”.
“Mmm… Kondou-dono è davvero una persona gentilissima ed affidabile” constatò,
col sorriso sulle labbra.
“Indubbiamente. Gli affiderei la mia vita, senza alcuna remora”
“Kondou-dono è sicuramente una persona splendida, vero?” s’intromise nel
discorso la mamma, con il vassoio contenente il tè verde e i dango in mano.
“Quando lo incontrai, tempo fa, fu davvero cortese e disponibile”
“Ti assicuro che lo è sempre, Mitsu-onee-san. Forse anche troppo. Ci vuole un
polso duro con gli uomini e, certe volte, nonostante non manchi di autorità, si
fa prendere un po’ troppo la mano”.
“Oh, davvero? Beh, un po’ me lo aspettavo, a dir il vero…” .
Il discorso tra te e la mamma proseguì.
Vi osservai, ormai stanca di giocare da più di un’ora con quella bambola.
Continuai ad osservarvi un po’ per cercare di capirci qualcosa circa quello di
cui stavate discutendo, un po’ per cercare di richiamare la vostra attenzione
su di me. La tua, più che altro.
Ero stata educata della mamma a non interrompere i discorsi importanti tra
adulti, quindi non avrei mai osato intromettermi, ma desideravo davvero tanto
che ti accorgessi della mia voglia di passare ancora del tempo a parlare con
te.
In realtà penso si trattasse di gelosia.
Non sentivo necessariamente il bisogno che ti concentrassi su di me. Mi
bastava, semplicemente, che non prestassi attenzione a loro.
Il mio ragionamento era: “Se non guarda me, non deve guardare nessun altro”.
Semplice, no? E, indubbiamente, tanto infantile, quanto egoistico.
Abbassai, delusa, lo sguardo sulla bambola, tornando a giocarci e a snodarle le
gambe e le braccia in vari modi. Ormai lo facevo più per noia, che per altro,
quando, ad un tratto:
“Hikaru-chan” mi chiamò una voce.
Alzai la testa, istintivamente, in direzione della persona da cui avevo sentito
pronunciare il mio nome.
Speravo fossi tu.
L’istinto, però, mi guidò tristemente verso un’altra persona: la zia, che mi
sorrideva con aria quasi complice.
Mi aveva chiamata con un sussurro, effettivamente, e, quindi, aveva attirato
solo la mia attenzione.
Tu e la mamma stavate ancora parlando, senza esservi accorti di niente.
Guardai con aria interrogativa la zia che mi indicò con fare insistente il
giardino esterno della casa.
Inclinai la testa da una parte all’altra, cercando di capire che cosa volesse.
Lei mi guardò storto. Segno che le stava dando fastidio il fatto che non
riuscissi a comprenderla. E mi indicò nuovamente il giardino.
Mi voltai anch’io verso l’esterno della casa, per poi tornare a prestarle
attenzione. Scossi la testa per farle capire che ancora non avevo compreso cosa
stesse cercando di dirmi, o di farmi notare.
Lei sospirò e si passò una mano sulla fronte. A come era suscettibile lei, le
stavo sicuramente dando sui nervi.
Ancora mi domando: ma le costava tanto sussurrare come aveva fatto per
chiamarmi, poco prima?
Forse non volle farlo, o, molto probabilmente, non le passò per la testa.
Fatto sta che, ancora snervata, continuò ad indicare insistentemente il
giardino, rimanendo con l’indice puntato fuori.
Beh, allora, due più due, fa quattro. Decisi di vederci chiaro anche io, in
questa faccenda: seguii puntigliosamente la direzione dell’indice della zia. Se
non stava dando di matto, indicava qualcosa di ben preciso, giusto? E allora
seguendo quella direzione, forse avrei trovato qualche indizio.
Seguendo quindi la traiettoria del suo indice, capii che la zia puntava al
laghetto delle carpe.
Bene. Fin lì c’eravamo arrivati. Ma ancora non capivo perché me lo stesse
indicando.
Vuole che do da mangiare ai pesci?
Fu la cosa più ovvia e ingenua che potetti pensare.
Ma no, non aveva senso. Gli avevamo dato da mangiare quella stessa mattina. E
poi buona educazione vuole che quando vi sono degli ospiti non ci compiano
gesti quotidiani come quelli.
Sicuramente non era a quello che stava pensando.
E allora cosa voleva? Proprio non ci arrivavo.
La zia continuò a puntarmi il dito verso il laghetto, con esagerata insistenza.
Provai a seguire nuovamente il dito che puntava il laghetto, stavolta con più
attenzione e concentrazione.
E fu così che finalmente capii.
La zia non stava indicando il laghetto, ma ciò che stava di fianco al laghetto.
Le lavande…
Sì, le lavande che avevo colto quella mattina con lei e che, una volta
giunta a casa, dopo aver visto te, avevo fatto cadere. Ed effettivamente ero
rimasta immobile proprio vicino il laghetto, quando mi erano cadute tutte,
sparpagliandosi per terra.
Zia Kin se n’era ricordata! O, probabilmente, le aveva soltanto notate e stava
cercando di farle notare anche a me.
Beh, ci era riuscita. Con qualche difficoltà, ma ci era riuscita.
“E’ vero!” esclamai, quindi, alzandomi in piedi e correndo in direzione del
laghetto.
Attirai, di conseguenza, seppur involontariamente, sia l’attenzione della
mamma, che tua. Soprattutto la tua, dato che ero accoccolata proprio vicino a
te.
“Hikaru?” mi chiamò la mamma, con tono interrogativo. “Che stai facendo?” mi
chiese, quando vide che mi piegai sul terreno e raccoglievo qualcosa.
Le lavande… Le lavande che ho raccolto… I
miei fiori!
La mamma era un po’ preoccupata. “Hikaru?”
“Non preoccuparti, onee-san” cercò di calmarla la zia. “Sta raccogliendo il suo
omaggio”.
“Omaggio?”
Lei annuì.
Tu, invece, non dicesti niente. Ti limitasti a rimanere seduto ed osservarmi,
mentre ero di spalle a raccogliere il mio “omaggio”.
Una volta raccolti tutte sia tutte le lavande che le margherite, mi voltai
verso tutti.
Erano davvero un bel mazzo grande, nonostante fossi solo una bambina e nelle mie
braccia non ci stava, di conseguenza, tutto.
Era così grande che la bambola che mi avevi regalato tu e che tenevo ancora
stretta al petto, era scomparsa tra tutti quei fiori.
“Ah, Hikaru, sei stata bravissima. Hai
raccolto tutti questi fiori” . La mamma mi sorrise, sedendosi elegantemente
vicino il tavolino della stanza in cui ricevevamo gli ospiti. Quella che, di
fatto, dava sul giardino esterno. Quella in cui eravamo stati sin dal principio
della tua visita. “Che ne dici se li mettiamo nel portafiori?”.
La mamma aveva pensato che fosse un omaggio per la casa, o, magari, per la
circostanza che si stava presentando quel giorno.
Non risposi. Abbassai la testa, mentre mi avvicinavo a voi tre che continuavate
ad osservarmi, senza distogliere lo sguardo da me. Mi osservavate tutti: chi
con un aria gentile, chi con un sorriso soddisfatto, chi indifferentemente e
leggermente perplesso.
Ci misi un po’ ad arrivare davanti la soglia della veranda.
“No!” . La mia risposta fu decisa. E con eguale determinazione, mi voltai verso
di te, porgendoti il mazzetto profumato di margherite e lavande. “Voglio darli
a Sou-nii! Perché... Perché io diventerò la tua sposa!”.
Silenzio.
Non so neanche io perché dissi quelle parole. Neanche ora riesco a
comprenderlo.
Per una bambina timida, qual’ero io, fare una dichiarazione talmente
imbarazzante e, soprattutto, sicura e determinata, non era davvero da me.
Ma, forse, i miei sentimenti trovarono la forza al posto mio. La forza per
dichiararsi a te.
Ma tu non li capisti.
Rimasto un po’ interdetto – come anche la mamma e persino la zia – mi guardasti
con aria sorpresa e gli occhi verde-foglia leggermente spalancati.
Inizialmente il tuo silenzio mi mise in imbarazzo, ma, fortunatamente, poco
dopo non trattenesti una risata di cuore. Il tuo bellissimo volto si tinse di
una gioia che era rivolta a me. Proprio a me.
Poco dopo mi circondasti la vita con un braccio e mi attirasti verso di
te, accettando nell’altro palmo della mano il mazzo di fiori. “Ti ringrazio,
Hikaru-chan”. Mi rivolsi il tuo radioso sorriso. Quel sorriso un po’
enigmatico, che non riuscivo a capire dove voleva andare a parare. Ma che,
infondo, sembrava sincero. O, almeno allora, mi sembrava così. Ma, in cuor mio,
penso davvero che lo fosse.
“Sarei davvero felice di averti come mia sposa” mi sussurrasti ad un orecchio,
per poi posare le tue labbra sulla mia fronte e sorridermi di nuovo. “Ti
prometto che farò di te la sposa più bella di tutte!”.
Era una bugia, lo sapevo. Era logico che lo fosse. La dicesti per tenermi
contenta, o, forse, anche solo per gioco. Probabilmente avevi anche pensato che
ti stessi prendendo in giro, che volessi farti uno scherzo, o che,
semplicemente, erano parole dettate solamente dalla nostalgia e dall’affetto
che si può provare nei confronti di qualcuno a cui vuoi bene e che non vedi da
tanto tempo.
Parole dette senza pensare, senza un fondamento logico. Parole che, magari,
anche il giorno dopo avrei dimenticato. Parole che forse avrei scordato anche
di aver mai pronunciato, o sulle quali, chissà, ci avrei anche scherzato su,
una volta cresciuta.
Le parole di una bambina, ecco cos’erano per te.
E proprio perché appartenevano ad una bambina, tu non le capisti. Non riuscisti
a comprendere il reale significato, il desiderio, i sentimenti che si celavano dietro
quella dichiarazione apparentemente tanto innocente e fiabesca.
Non te ne feci e tuttora non te ne faccio una colpa. Solo che io, ingenuamente,
ci credetti.
Era una bugia, ma ne fui felice. Quella bugia fu la base dei miei sogni futuri.
Fui veramente tanto felice di quelle tue parole.
Parole dette per rispondere a qualcosa di improponibile. Perché, infondo, era
questo che era la mia proposta: inaccettabile.
Non tenendo conto di altri fattori, solo per la differenza di età e il fatto
che eravamo imparentati, la mia promessa, la mia proposta, il mio sogno era
impossibile da realizzare.
Ma io, a quell’età, ancora non lo capivo. Tenevo soltanto presente i miei
sentimenti, cosa mi diceva il cuore. Unicamente quello.
Ti avevo rivelato i miei sentimenti, le mie speranze, ma nel momento stesso in
cui l’avevo fatto, erano appassite, inesorabilmente. E la cosa peggiore fu che
non me ne resi conto.
“D-Davvero?” chiesi, sorridendo allegramente e stringendo la bambola che mi
avevi regalato al petto.
Tu annuisti. “Sarai così bella che tutte le donne della città t’invidieranno”
continuasti ad appoggiarmi, non rendendoti conto, così, di alimentare vanamente
le mie speranze.
“M’invidieranno? Sarò così tanto bella?”
“Bellissima” . La mamma mi sorrise e mi fece cenno di avvicinarmi a lei.
Io, allora, curiosa e perplessa allo stesso tempo, feci come mi era stato
chiesto. Quando le fui davanti, mi prese per le spalle e mi fece voltare. Poi
sentii qualcosa di rigido e freddo infilarsi tra i miei capelli. Non capii di
cosa si trattasse.
“Il giorno del matrimonio, avrai dei capelli così lunghi e setosi, che per
legarli useremo dei fiori” dichiarò lei, con tono calmo.
“Davvero?”
“Proprio così!” la assecondò la zia, energica e allegra. “E avrai un kimono
bianco e lungo. Lunghissimo. Proprio come il velo di seta che porterai sui
capelli, legati in uno chignon”.
“Oh? Come una principessa?”
“Sì, proprio come una principessa” . La mamma rise di gioia, smettendo di
acconciarmi i capelli. “Ecco fatto”.
Compreso che la mamma aveva finito di sistemarmi, feci un balzo con cui arrivai
sull’erba del giardino esterno e corsi a specchiarmi nell’acqua del laghetto.
Vidi che i capelli castani mi erano stati tirati su con lo stelo intrecciato di
vari fiori, tra cui vi erano primule, margherite ed anche lavande.
E che tra le ciocche che mi erano rimaste, cadenti sulle tempie e in varie
altre zone, aveva infilato dei fiorellini piccolissimi di cui non conoscevo il
nome.
“Oh, kawaiiii!” affermò zia Kin,
quasi esaltata. “Sei davvero adorabile, Hikaru-chan!”.
“Oh!” sbuffasti con aria quasi seccata. “Così non va. Se sarai così carina al
matrimonio, andrà a finire che ti rapiranno. E poi io come faccio, senza
sposa?”. Ci scherzasti su.
Io mi voltai sorridente, mentre le ciocche cadenti, ondeggiavano. E corsi verso
di te, buttandomi tra le tue braccia.
“Che bello! Che bello, sono così felice!” esultai, sprizzante di gioia da tutti
i pori.
Mi avevate assecondata. Mi avevate adulata. Mi avevate illusa. In buona fede,
certo, ma lo avevate fatto.
Ed io ci avevo creduto.
Lo avevate fatto per vedermi felice, per vedermi sorridere. Tu, a maggior
ragione, per evitare che me la prendessi di nuovo con te, o, semplicemente, per
non farmi tornare a piangere. Per non deludermi.
Sorrideste tutti, quando dichiarai di essere davvero felice e tu mi
abbracciasti di nuovo, stringendomi a te.
Riuscivo a sentire il profumo delle lavande che ti avevo donato in segno della
nostra promessa, che in qualche modo mi rassicurava.
Restammo ancora un po’ in quella posizione. Poi tu ti distaccasti da me ed
osservasti il sole che ormai era tramontato da poco.
“Oh, mi sa che si è fatta tardi” sentenziasti, con tono piuttosto indifferente,
nonostante si trattasse di una separazione.
“Oh, hai ragione” constatò la zia. “Saranno sicuramente le sei passate”
“Mi spiace, ti abbiamo trattenuto più del previsto” si scusò la mamma,
visibilmente dispiaciuta.
“Non preoccuparti, onee-san. E’stato tempo ben speso” cercasti di rassicurarla
tu, sorridendole.
“Te ne vai di già?” domandai io, triste e amareggiata.
“Purtroppo sì, Hikaru-chan. Mi spiace” .
“Non è giusto… Sei rimasto solo qualche ora. Sou-nii, rimani un altro po’”.
“Vorrei tanto, credimi. Ma non posso proprio” mi spiegasti, accarezzandomi una
guancia, per poi alzarti da terra e metterti in piedi. “Ho fatto già troppo
tardi”.
“Sono davvero mortificata, Souji. Mi sono lasciata trasportare dai nostri
discorsi, senza rendermi conto del tempo che passava”.
“Ti ho detto già di non preoccuparti. Non farmele ripetere troppe volte le
cose. Dopo un po’ diventa noioso, lo sai?”.
Incominciasti a parlare nuovamente con la mamma e la zia di cose che non capivo
e che, essenzialmente, non seguivo.
Ero troppo occupata a rattristarmi della tua partenza, per potermi concentrare
su altro.
Quando fu il momento per te di andare, io, la mamma e zia Kin ti seguimmo sino
alla soglia della porta, dove ti stavano aspettando degli uomini che alla vita
portavano della katane. Erano numerosi e vestiti per bene.
Uno di loro, un giovincello, anche più giovane di te, appena uscisti di casa,
ti si avvicinò e ti portò la tua katana che ti allacciasti immediatamente alla
cinghia. Una volta fatto ciò, facesti segno al ragazzino di allontanarsi e ti
concentrasti su di noi.
Era il tempo dei saluti. E mantenesti quel sorriso trionfante e sincero per
tutto il tempo degli abbracci e delle rassicurazioni. Era un sorriso forte. Un
sorriso che dimostrava che, nonostante si stesse separando da persona che
adorava e a cui teneva tantissimo, non si faceva prendere dallo sconforto. Un
sorriso fiero di quello che faceva, di quello che era diventato, che stava
diventando. E che sarebbe diventato.
Abbracciasti prima la zia, poi la mamma. L’abbraccio più lungo fu riservato a
lei. Dovevi essergli davvero tanto affezionato, quanto lei a te.
Abbracciasti e baciasti sulle guance entrambe. E ad entrambe sussurrasti
qualcosa all’orecchio, una volta separatoti da loro.
“Non ti vedremo per un bel po’. Quindi evita di cacciarti nei guai,
fratellino!” si raccomandò la zia, mantenendosi vivace, nonostante la circostanza
triste. “E non dare problemi a Kondou-dono!”
“Sei davvero l’ultima persona da cui accetterei una critica del genere,
Kin-onee-chan”.
“Che hai detto?! Vedi di portarmi rispetto, sai…”
“Souji, abbi cura di te, mi raccomando” la interruppe la mamma, avvicinandosi
ulteriormente a te e carezzandoti i capelli.
Tu le sorridesti, prendendo la sua mano tra la tua e stringendogliela forte.
“Non preoccuparti starò bene. Piuttosto tu, non strafare e rilassati anche un
po’, ogni tanto”
“Eh?”
“Mi hai trattato come un vero estraneo oggi. Sei stata così formale per tutto
il tempo. Ricorda che, anche se non ci vediamo da tempo e ho assunto la carica
di Jukutou alla Shieikan, rimango pur
sempre tuo fratello”.
“Sono mortificata…” ricominciò lei, per poi accorgersi di star ricascando nello
stesso errore. “Ops… Beh, suppongo tu abbia più che ragione. Allora… Fa del tuo
meglio, va bene?”
Tu le sorridesti ed annuisti. “Hai”.
Un singhiozzo interruppe i loro discorsi. Anzi, era più di uno. Una serie di
singhiozzi che sfociarono in un fragile pianto. Il pianto di una bambina. Il
mio.
Questo richiamò la tua attenzione. Un po’ quella di tutti, ma soprattutto la
tua.
Con un sorriso velatamente triste, ti piegasti su un ginocchio, proprio di
fronte a me. Non dicesti nulla. Aspettasti silenziosamente che fossi io a
parlarti.
Ma io non accennavo a dirti niente. Mi limitai a piangere. Stringevo in una
mano la bambola che mi avevi regalato tu, che tenevo vicina al petto, mentre
con l’altra stringevo forte il kimono della mamma.
Esitasti ancora un po’, prima di sillabare: “Hikaru-ch…?”
“Io non voglio che te ne vai! Sei stato troppo poco! Non è giusto” ti
interruppi bruscamente, con la voce spezzata dai singhiozzi. Il volto rigato
dalle lacrime, che nascondevo dietro il kimono della mamma.
“Hikaru” mi chiamò lei, con voce poco risoluta. Capiva la mia tristezza. La
provava anche lei. “Avanti, non fare così. Non può fare diversamente. Deve
andare via. Si tratta del suo lavoro”.
“No, no e no! Io voglio che rimane qui, con noi! Voglio che sta con me!”
confessai in una tempesta di egoismo.
Silenzio.
Nessuno riusciva a contestarmi. Nessuno voleva dirmi, o rassicurarmi di niente.
Regnava solo il silenzio con sottofondo il mio pianto.
“Hikaru-chan” mi chiamò la tua voce, limpida e pulita. Diretta. Forse anche
troppo.
Quando alzai il volto rigato dalle lacrime, ti vidi sorridere.
Era un sorriso sicuro. Non trasmetteva tristezza, né malinconia.
Mi fece uno strano effetto. Da un lato (che personalmente odiavo), mi pareva
quasi come se non stessi provando sofferenza nel distaccarti da noi, mentre
dall’altro un sorriso che mirava a darci forza e a darti forza.
“Ti ringrazio ancora per le lavande” affermò mostrando il mazzo di fiori che
aveva ancora nell’altra mano. “Sai, sono le mie preferite”.
Rimasi sorpresa da quelle parole. Era un saluto. Non mi stavi rincuorando, né
mi incitavi a smettere di piangere. Mi stavi semplicemente rammentando, a modo
tuo, che te ne stavi andando.
Nessuna parola di consolazione. Nessuna.
Continuai a piangere. “Lo so. Me lo ha detto la zia”
Annuisti. “Capisco”.
“E… lo sai… ” proseguii, cercando di trattenere i singhiozzi. “Sono anche… le
mie…”
“Oh, davvero? Beh, abbiamo un’altra cosa in comune”.
Rimasi in silenzio. Tu continuasti a fissarmi. Passò qualche minuto, così.
“Okita-san” lo chiamò il ragazzo di prima. “Mi spiace dovervi interrompere, ma
dovremmo incominciare a muov…”
“Lo so. Voi incominciate ad andare. Vi raggiungo entro un paio di minuti”
ordinasti e pochi attimi dopo tutti gli uomini stavano seguendo ciò che avevi
detto.
Dopodiché tornasti a prestarmi attenzione. “Hikaru-chan” mi chiamasti.
Solo dopo una decina di secondi, però, alzai nuovamente la testa verso di te e
mi decisi ad incontrare il tuo sguardo verde-foglia.
Mi guardavi, senza, però, dirmi niente. Aspettasti anche tu un po’ prima di
affermare: “Ti prometto che un giorno ci rincontreremo”.
“D… Davvero?”.
“Davvero. Altrimenti, poi, come faresti a diventare mia moglie?” mi chiedesti,
sorridente. “Eh?”
Gioia. Fu quella che il mio sorrise espresse in quel momento. Una gioia
incommensurabile. Forse, sino ad allora, non avevo mai provato una gioia così
grande.
Annuii, con le lacrime di felicità agli occhi. “Hai!!” esclamai, esultante. “Perché io diventerò sicuramente la tua
sposa! E’ una promessa!” affermai, porgendogli il mignolo.
Tu non trattenni davvero una risata, per poi calmarti un po’ e porgermi il tuo
mignolo con cui sigillammo il patto.
Era questo il metodo con cui i bambini si facevano le promesse tra di loro. E
tu acconsentisti a farlo con me.
“Devi aspettarmi, Sou-nii! Aspettami e vedrai che quando diventerò grande, sarò
la tua sposa!”
“Guarda che ci conto” affermasti. Mi posasti, poi, una mano sulla testa,
accarezzandomi i capelli e scompigliandomi leggermente la pettinatura floreale
che mi aveva fatto con tanta cura la mamma.“Abbi cura di te, Hikaru-chan”.
“Hm! Anche tu, Sou-nii!”.
Mi rivolgesti un ultimo sorriso. A me, alla mamma e alla zia, che entrambe
trattennero le lacrime. Poi ti voltasti e incominciasti ad incamminarti.
Mi venne da piangere.
E piansi. Ancora una volta.
“Ricordatelo, Sou-nii! Mi raccomando!” ti gridai, da dietro, mentre vedevo la
tua figura allontanarti. “E’ una promessa!”
Tu non ti voltasti verso di me. Non ti fermasti neanche. Semplicemente,
continuando ad andare per la tua strada, alzasti una mano, in segno di aver
sentito e compreso.
“La nostra è una promessa!!!” continuai a raccomandarti per un sacco di volte,
finché, ormai, non riuscii più a scorgerti all’orizzonte.
Avevi preso la tua strada. Una strada che ti allontanava da me. La strada che
ti conduceva fuori da Edo e, per tanto tempo, dalla mia vita.
*****
NOZIONE STORICA E MESSAGGIO DALL’AUTRICE.
Capitolo decisamente luuuuungo O.O (per intenderci , 22 pagine di word XD).
Me ne rendo conto da sola XD Forse avrei dovuto spezzarlo. E in effetti ci ho
pensato davvero tanto, ma come credo di aver già detto, odio doverlo fare. Lo
faccio solo in caso di necessità: il capitolo sono 40 pagine di word e/o non ho
finito il capitolo e non aggiorno da mesi XD. Cosa che è capitata anche con l’altra
ff, effettivamente ^-^”
Duuuunque… Ora veniamo a noi.
La protagonista si è rivelata. E’ proprio Hikaru, la nipotina di Souji! E no,
non è un personaggio immaginario. O, meglio, ora vi spiego XD
Tutti i personaggi e le date riportate in questo romanzo sono autentiche. Ho
fatto delle ricerche storiche ricavando informazioni da vari siti e
confrontandole sono riuscita a tirar fuori un bel lavoro.
Le date delle circostanze (almeno come anno) sono quelle e sono precise.
Per quanto riguarda i personaggi: anche. Il vero Souji ha avuto davvero due
sorelle maggiori. Mitsu, la maggiore e Kin la minore. Per quanto riguarda
Hikaru…
Nel 1853 Okita Mitsu, trasferitasi ad Edo, e sposata con Inoue Rintaro, che in
seguito diventerà Okita Rintaro, partorirà davvero un bambino. Il bambino,
però, non sarà una femminuccia, ma un maschietto.
Ebbene sì, Souji aveva effettivamente un nipote nove anni più giovane di lui e
si trattava di un maschio.
Ho mantenuto invariato tutto, eccetto il sesso del bambino. Da qui è nata
Hikaru!
Che insana immaginazione XD Oh, e poi c’è la il nostro Souji. E’ stato davvero
difficile decidere come renderlo da diciassettenne e onestamente non ne sono
tuttora convinta, di averlo reso bene. Ma spero di essere riuscita almeno a
renderlo decente XD Beh, spero, ad ogni modo, che il capitolo, anche se
esageratamente lungo, non annoi e specialmente sia di vostro gusto! ^-^
Ringrazio tutti coloro che leggeranno e commenteranno. Ma anche chi non
commenterà XD
E volevo anche ringraziare tutti coloro che avevano già inserito la ff tra le
seguite e le ricordate, nonostante fosse solo al prologo. Mi avete dato
fiducia! Grazie mille! ^-^
Un bacio.
Alice.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Ricordi, inconvenienti e spiacevoli sorprese ***
****
Avevi detto che ci saremmo rincontrati.
Me lo avevi garantito, me lo avevi assicurato. Me lo avevi promesso.
La tua sembrava quasi una parola
d’onore. Ci avevo creduto. Mi avevi illusa, semplicemente per farmi stare bene
e non farmi continuare a piangere, al momento della separazione, o Dio solo sa
per quale altro motivo.
No, non esagero col dire che mi avevi illusa. Ancora non riuscivo ad odiarti,
nonostante ciò, ma era duro ammetterlo: mi avevi ingannata, perché tu non sei
più tornato per rincontrarmi.
E, intanto, gli anni passavano.
Autunno. 19 Ottobre, 1866. Kyoto.
La cosa mi sorprese più di quanto avessi mai potuto immaginare.
Non pensavo davvero che sarebbe stata di quel genere la mia esperienza in
quella città.
“Hikaru, te ne prego, stacci dietro” mi pregò mia madre, con aria severa, quasi
esasperata, voltandosi leggermente indietro per fulminarmi con lo sguardo. Non
era un vero rimprovero. Per lo più una raccomandazione. “Non lo vedi anche tu,
quanta folla c’è? Se ti distacchi troppo da noi, finirai col perderti”.
“Sì, oka-san…” brontolai, un po’ seccata
di quelle continue raccomandazioni.
Me lo aveva ricordato non so quante volte di non allontanarmi da loro negli
ultimi dieci minuti e, onestamente, non è che mi divertissi a sentirmi ripetere
sempre la stessa cosa.
Ormai non sono più una bambina!
Già, non ero più una bambina, ormai. Erano passati cinque anni (e pochi
mesi mancavano ché diventassero sei) da quando ti vidi l’ultima volta.
Avevo tredici anni e – dato che ero nata nel mese di Gennaio – mancava poco
anche perché ne compissi quattordici.
Forse ora i tempi saranno anche cambiati, ma a quell’epoca una ragazza dell’età
che avevo io non veniva più considerata una bambina, ma una giovane donna
pronta per entrare nella società che la circondava. Ecco, se potessi definirla
così, sarebbe stata una specie d’età di tirocinio.
Eppure, nonostante fossi oramai cresciuta, non riuscivo a toglierti dalla
mente. Eri sempre un punto fisso e tutto il resto girava attorno a te.
Forse ero rimasta anche un po’ infantile, sotto quel punto di vista.
Infondo, essendo passati tanti anni ed essendo stata illusa da te, pensavo che
col tempo ti avrei dimenticato e forse, un giorno, anche odiato per avermi
presa in giro. Ma non avvenne nulla di tutto ciò.
Nulla di ciò che avevo sperato si realizzò. Beh, non che ci tenessi a
dimenticarti (e, soprattutto, ad odiarti), ma ero rimasta profondamente ferita
dalla tua promessa non mantenuta.
Probabilmente se non ci fosse stata alcuna promessa, non ci sarei stata così
male in seguito.
A pensarci bene, se mi avessi smentita subito, quella volta, quel pomeriggio,
forse sin dall’inizio la mia speranza sarebbe morta sul nascere. Invece sei
stato così crudele da assecondare me e i miei sogni.
Davvero crudele.
Ed ora mi trovavo lì, tutta palpitante, come una vera sciocca, a Kyoto.
Ricordo molto chiaramente il motivo per cui ci trovavamo lì, quel giorno;
Da tempo, ormai, mio padre era stato chiamato a prestare servizio presso
qualcuno che abitava in quei paraggi e che possedeva anche una proprietà nella
città stessa. Dato che, a quel punto, non lo vedevamo da tempo, decidemmo con
la mamma di andargli a far visita per un giorno.
Ero emozionata pensando che ero nella tua città, quella in cui vivevi tu. Mi
faceva venire il batticuore persino pensare che lo stesso terreno su cui stavo
camminando io, era stato toccato anche da te, o che alcune delle persone che
stavo incrociando io, magari tu le vedevi tutti i giorni, le conoscevi e ci
parlavi, per giunta.
Già, ero emozionata. Proprio come una bambina. La bambina qual ero ancora
rimasta.
Ero persa nelle mie fantasie e non facevo altro che guardarmi intorno con aria
curiosa e scrupolosamente attenta. Speravo di incrociarti, di vederti passare
in mezzo a quella folla. Sapevo che era quasi impossibile che accadesse.
Perché, anche se ti fossi trovato lì, a camminare per quelle strade,
quest’ultime erano così affollate che molto probabilmente non sarei riuscita a
trovarti. Eppure, ancora convinta di avere con te un forte legame che ci univa,
pensavo che ti avrei riconosciuto subito. Anche solo dagli occhi. Quegli occhi
verde-foglia che amavo da morire.
“Hikaru!” mi richiamò nuovamente la mamma. “Smettila di sognare ad occhi
aperti. Siamo quasi arrivate – è vero, ma la folla non cessa. Devi restare
vicino a no…”
“Su, onee-san, basta così. Ha capito, non credi?” accorse in mio aiuto la zia
che evidentemente stava leggendo sul mio viso la disperazione mista
all’esasperazione.
Ero una ragazza educata, quindi non avrei mai osato rispondere male a mia
madre, ma avevo un temperamento abbastanza forte e forse qualche commento me lo
sarei lasciato scappare. Infondo, anche se garbata, ormai non ero più una
bambina.
“Non credo abbia capito dato che, nonostante glielo ripeta senza sosta,
continua a non obbedirmi”.
Zia Kin sospirò. “Insomma, capisco la tua preoccupazione. So che il fatto di
aver portato Hikaru-chan in una città affollata e pericolosa come questa, che
peraltro non conosce, possa suscitare in te dell’apprensione, ma credo tu stia
esagerando”
Mia madre rimase in silenzio, fissando la sorella mentre proseguiva: “Oramai ha
quasi quattordici anni. Cosa pretendi? Che ti dia la manina?”
A quel punto non trattenni un risolino.
L’immagine di me, ormai grande, che davo la mano (come una bambina) a mia madre
per non perdermi era a dir poco ridicola. Sicuramente se fossi stata io a
vedere una ragazza della mia età in quella situazione, sarei stata sfacciata al
punto tale da riderle in faccia. Povera sventurata.
Mia madre, da donna beneducata e matura qual era, non si lamentò ulteriormente,
ma restò particolarmente risentita di quella risposta. Ed io, da brava figliola
sempre dedita alla famiglia e alla casa, essendo cresciuta praticamente solo
con la sua figura in casa, capivo bene i suoi pensieri e ciò che stava
provando, nonostante fosse rimasta in silenzio e avesse proseguito il cammino
senza fare storie.
“Lei non ha figli. Fa presto a parlare.
Non sa il dolore che si potrebbe provare se ad un figlio, per cui daresti la
vita, succedesse qualcosa”.
Certo, non potevo leggere nel pensiero, ma ero quasi certa che fosse quello
che pensò mia madre nell’istante in cui la zia la riprese per le sue continue
ed eccessiva raccomandazioni. Ed essendo mia madre fondamentalmente buona e
gentile, non se la sentì di tirare in ballo quel discorso che avrebbe
sicuramente ferito la zia. Perché la mamma sapeva bene quanto lei avesse voluto
e tanto sperato in un figlio. Purtroppo, però, a quanto pareva, non era
fertile. Per non parlare del fatto che il marito non c’era quasi mai a casa,
quindi avevano avuto, sostanzialmente, poco tempo per provare ad averne uno.
Beh, non dubitavo del fatto che la zia tenesse molto a me, ma da quel punto di
vista appoggiavo la visione di mia madre.
Insomma, non avevo alcun dubbio che, se mi fossi persa o mi fosse capitato
qualcosa, zia Kin sarebbe andata in panico e sarebbe quasi morta per la
preoccupazione, ma... detto francamente, l’amore che si può provare per una
nipote non potrà mai essere d’eguale intensità rispetto all’amore per un
figlio, per la carne della tua carne e il sangue del tuo sangue. Per una
creatura che, fondamentalmente, ti appartiene e che è stata parte integrante di
te.
Ecco perché pensavo che, molto probabilmente, se fossi stata la figlia della
zia, il suo atteggiamento sarebbe stato diverso nei miei confronti. Sarebbe
stata meno disponibile e aperta, e più rigida e apprensiva.
E di questo ne ero quasi del tutto sicura.
Dopo il piccolo excursus di carattere familiare, tornai a concentrarmi sulla
folla che ci circondava, per cercare di trovarti e scorgerti da qualche parte,
in qualche modo. Purtroppo, però, dovetti prestare attenzione ad altro: eravamo
arrivati alla nostra destinazione, la proprietà del signorotto presso cui mio
padre prestava servizio.
Vi erano delle guardie fuori, a sorvegliare il palazzo, nonostante fosse ancora
primo pomeriggio, ma pensai subito che fosse una cosa normale per un uomo ricco
prendere le adeguate precauzioni per sé, la sua famiglia e i suoi beni.
Dopo aver dichiarato alle guardie che eravamo familiari di Okita Rintaro, ci
lasciarono passare senza problemi. Onestamente mi sembrò alquanto strano che
non ci chiedessero neanche una conferma o che non fossero minimamente
sospettosi circa la nostra identità, ma poco dopo mi rassicurai, ritenendo che
sicuramente mio padre aveva annunciato che sarebbero arrivati i suoi parenti
quel giorno. Ed in questo modo sarebbero
stati pronti ad accoglierci senza discussioni e/o difficoltà.
La casa dove sostava mio padre era davvero magnifica: assomigliava quasi ad un
dojo ed, in effetti, lo era, ma aveva quel non so che di accogliente ed
ospitale.
Non mi soffermai più di tanto a guardarmi intorno, perché la mia attenzione fu
catturata da una donna vestita di un kimono color rosso porpora, che
educatamente e garbatamente s’inchinò alla nostra presenza. Dopo aver alzato il
capo e averci sorriso, esordì: “Buon pomeriggio. Voi dovete essere Mitsu-dono e
Kin-dono, rispettivamente la moglie e la cognata di Okita-dono, se non erro?”
“Non sbagliate” la rassicurò mia madre, ricambiando il sorriso della donna.
“Siamo noi” acconsentì la zia, con tono di voce calmo e pacato, quasi non da
lei.
La donna sorrise nuovamente, per poi concentrarsi su di me. “E lei deve essere
Hikaru-san”.
Si avvicinò ulteriormente a me, come per guardarmi meglio. “La figlia di
Okita-dono, vero?”.
Mi limitai ad annuire, guardandola con un’espressione mista tra la perplessità
e la diffidenza.
Innanzitutto, perché questa differenza di trattamento? Perché alla mamma e alla
zia era stato riservato il suffisso “dono”, mentre a me si rivolgeva con un
semplice e banalissimo “san”? Certo, era sempre meglio che il “chan”, ma avevo
anche io il mio orgoglio. Era solo perché ero ancora una ragazzina? Beh, non
ero un’adulta, – questo era palese – ma ci stavo per arrivare. E di certo non
ero una bambina.
In secondo luogo, perché sorrideva in quel modo ebete, mentre mi guardava?
Sembrava proprio il tipico sguardo di chi pensa: “Oh, ma che carina!”.
E, come avevo già detto, ormai non ero più così piccola. E odiavo essere
trattata da tale.
Fondamentalmente non ero cambiata di molto, da quand’ero piccola. Avevo
semplicemente imparato a rimanere più al mio posto, ad essere più scrupolosa,
attenta e matura. Beh, forse non proprio così matura… Ma ci stavo lavorando su.
Dopo avermi sorriso ancora una volta, la donna dai lunghi capelli neri raccolti
in un alto chignon, si rivolse a tutte, in generale. “Il mio nome è Misao
Konno. La mia signora, informata del vostro arrivo dal signore e da Okita-dono,
mi ha pregato di accogliervi e darvi il benvenuto nella dimora dei Fujiwara”.
I Fujiwara…
Pensai, istintivamente, in quel momento.
E’ una famiglia potente. Ne parlano tutti
in giro. Non sapevo che papà prestasse servizio presso questa famiglia.
Effettivamente sembrava alquanto strano – e lo era – che non sapessi
neppure questo di lui. Non che ignorassi intenzionalmente mio padre o quello di
cui si occupava. Semplicemente non m’importava. Il fatto che fossi cresciuta
soltanto con la figura di mia madre accanto, non mi aiutò a credere in lui, né
nel rapporto che si supponeva dovessi avere con lui. Era sempre stato assente,
da quando ne avevo memoria. Rarissime volte l’avevo incontrato: si potevano
contare sulle dita di una sola mano.
Pensai proprio a questo, mentre seguivo le sagome della zia e della mamma che
seguivano a loro volta, silenziosamente, la donna di nome Misao che le
conduceva verso la sala principale, dove avremmo incontrato mio padre e, con
molta probabilità, anche colui che proteggeva, insieme alla sua famiglia.
Una volta arrivate, Misao-san aprì lo shoji
decorato con una fantasia di foglie autunnali e ci fece segno di entrare.
“Prego”.
Mia madre, allora, le sorrise e s’inchinò verso di lei, prima di entrare nella
stanza. “Vi ringrazio”.
La zia imitò il gesto della mamma, per poi entrare nella stanza e sedersi di
fronte a lei. La sua compostezza mi stava quasi mettendo i brividi. L’avevo
vista poche volte così cortese ed educata.
E così venne il mio turno. Ancora con aria un po’ stizzita, feci qualche passo
avanti, sino ad arrivare di fronte la donna. Senza sorriderle, poi, mi limitai
a farle un mezzo inchino e ad entrare a mia volta, appostandomi accanto alla
mamma.
“Vi prego di attendere qualche minuto. Andrò subito ad informare la mia signora
del vostro arrivo. Vogliate scusare in anticipo la mia assenza”.
E detto ciò, fece un inchino e col volto basso se ne andò, chiudendosi lo shoji alle spalle.
Una volta che i passi di Misao-san furono lontani, ci rilassammo tutte e tre.
Lo capii dai profondi sospiri della zia e della mamma.
“Cielo. Mi sento così nervosa!”.
“Kin, se non ti calmi, è logico che il nervosismo ti dia alla testa”.
“Ma, onee-san… Questa è gente che giudica persino come respiriamo…” sussurrò la
zia tra le labbra, quasi per timore di essere sentita da qualcuno di passaggio
(o, peggio ancora, di ritorno).
“Purtroppo non possiamo fare altrimenti. Questa è la famiglia presso cui presta
servizio mio marito e, se voglio vederlo, una volta ogni tanto, sono costretta
a fargli visita presso questo palazzo”.
Evidentemente anche per mia madre questa visita non doveva essere una dei
migliori passatempi.
Ma allora che diavolo ci siamo venuti a
fare?!
Lo pensai, ma feci bene a tenerlo per me, perché avrei ferito la mamma.
Pensandoci bene, effettivamente, era da tre anni che non aveva alcuna notizia
di mio padre. Non doveva trattarsi necessariamente di un papiro… Più di una
volta mi aveva ripetuto che anche una lettera di qualche parola le sarebbe
andata bene, o anche un semplice messaggero. Giusto per sapere se stava bene, o
se era ancora vivo.
La mamma lo amava tantissimo come marito, più di quanto io lo amassi come
padre...
E se ci trovavamo lì, adesso, in quella stanza, dopo tante e stancanti ore di
viaggio per arrivare sin lì, era solo perché mia madre aveva davvero voglia di
rivederlo. Con ogni probabilità, se fosse dipeso da mio padre, si sarebbe fatto
rivedere da lei solo quando fosse tornato a casa, in attesa di un nuovo
ingaggio.
“E, per l’amor del cielo, Hikaru, sorridi un po’. Sembra che ti abbiano
incatenato e ridotta in schiavitù” mi rimproverò la mamma, con aria un po’ severa.
“Ti manca solo il collare. Con la faccia stai messa bene, Hikaru-chan”
s’intromise nuovamente la zia, come di sua abitudine.
“Kin, per favore!” la riprese lei, per poi rivolgersi nuovamente a me. “Sono
passati un po’ di anni. Non vorrai farti rivedere da tuo padre con quell’aria
imbronciata, dopo tutto questo tempo, voglio sperare”.
Era vero. Da quando ero entrata in quella casa non avevo sorriso neanche una
volta. Ero fredda e leggermente infastidita. Non perché trovassi spiacevole la
situazione, o fossi diventata più malinconica col passare del tempo. Era solo
che avevo più voglia di stare in giro a cercare te, piuttosto che in quel
palazzo noioso, circondata da persone altrettanto noiose.
E, sfortunatamente per mia madre, non avevo alcuna intenzione di dipingermi un
sorriso falso sulle labbra solo per compiacere un uomo che non aveva fatto
altro che lasciarmi alle sue spalle, senza mai voltarsi per degnarsi di sapere
come stessi, se fossi cresciuta, o se non fossi contagiata da chissà quale male
mortale!
A quell’epoca pensavo che per mio padre, che fossi viva o morta, la differenza
non vigesse.
“Proverò a fare del mio meglio. Non garantisco niente, però” risposi con aria
pacata, abbassando il capo.
“Hikaru!”
“Oka-san, non ci posso fare davvero niente! Io…”
“Shh!!!” c’interruppe la zia, con aria alquanto preoccupata. “Stanno arrivando.
Sento dei passi”.
L’avvertimento della zia ci fu utile per ricomporci appena in tempo per non
essere colte nel pieno della nostra discussione.
“Ne parleremo più tardi. Ora vedi solo di comportarti in maniera quantomeno
decente. Non sono venuta da Edo sino a Kyoto perché tu litigassi con tuo padre,
bensì perché ti ricongiungessi con lui. Spero almeno che tu abbia capito quanto
tengo a questa visita”.
Lo avevo capito. Eccome se lo avevo capito.
E fu proprio perché lo avevo capito che rimasi zitta e feci di tutto per
cercare di sembrare, se non felice, almeno non infastidita.
Sospirai mentre mi ricomponevo e osservavo le figure dietro gli shoji che si muovevano verso questa stanza.
Le figure in questione erano due. Due donne, per la precisione. Si capiva
dall’acconciatura sfarzosa e i kimono ingombranti. Tranne l’Imperatore, nessun
uomo avrebbe mai potuto indossare un tale kimono.
Fu così che gli shoji vennero aperti
lentamente da Konno-san che, successivamente, si mise in ginocchio e s’inchinò
in direzione della persona che stava entrando in quel momento.
La donna che fece il suo ingresso nella sala ci lasciò tutte a bocca
semiaperta. E non perché fosse bella…
Si mise, allora, in ginocchio con infinita eleganza, inchinandosi al nostro
cospetto. “Vogliate scusare l’attesa. Sono stata informata solo da poco del
vostro arrivo. Spero mi perdonerete”.
“Oh… Oh, per carità. Non avete niente da farvi perdonare. Anzi, dovremmo essere
noi a scusarci per avervi recato disturbo, presentandoci qui”. Mentre mia madre
era presa a risponderle, non potetti che osservare quella donna.
Non era bella. Infondo, non era molto più giovane della mamma, né aveva tratti
particolari, ma… Era a dir poco incantevole. Aveva un portamento, un modo di
parlare, di osservare le cose e di porsi assolutamente seducenti. Tutto di lei,
sembrava bellissimo, guardandola da quel punto di vista. Anche soltanto quando
girava leggermente il capo, sembrava potesse far cadere ai suoi piedi l’intero
mondo. Sembrava quasi che danzasse, anche quando, semplicemente, respirava o
sorrideva.
“Non ditelo neanche. Sono onorata di poter ospitare nella mia umile dimora la
moglie, la figlia e la cognata dell’onorevole Okita-dono” disse, sorridente,
mentre si rivolgeva a Misao-san che le era inginocchiata a qualche centimetro
di distanza, leggermente dietro di lei, in segno di rispetto ed inferiorità.
“Misao, porta il tè”
“Hai” si limitò a rispondere,
inchinandosi nuovamente ed uscendo silenziosamente dalla stanza.
La donna si voltò nuovamente verso di noi, sorridendoci cordialmente. “Oh, che
scortese, non mi sono ancora presentata. Il mio nome è Sakura Fujiwara. Sono la
moglie di Fujiwara Kentaro” .
“E’ un piacere fare la vostra conoscenza, Fujiwara-dono. Io sono Mitsu. Okita
Mitsu” rispose mia madre, ricambiando il gentile sorriso.
“Il piacere è tutto mio, Okita-san… Oh, ma abbandoniamo le formalità. Siamo entrambe
donne e scommetto che siete anche più grande di me. Quindi, semmai, dovrei
essere io a portarvi rispetto”.
“Oh, non sia mai… Io…”
“Posso chiamarvi Mitsu-san?” . Sakura-san non sembrava una donna cattiva, né
intenzionata a darsi arie per il suo grado sociale. Anzi, dava quasi l’aria di
qualcuno che volesse dare a intendere di essere normale. Fin troppo normale.
“Oh, per me non ci sono problemi. Ne sarei onorata”
“Bene” sorrise, radiante, lei. “Allora, voi potete chiamarmi Sakura”.
Mia madre tentennò un po’ sul da farsi. Era una familiarità che solitamente non
ci si poteva permettere, ma dato che era stata lei a chiederlo…
“Dunque, Sakura-sama, vogliate scusare il mio arrivo improvviso. Ho preso
questa decisione solo pochi giorni fa. Sono cosciente del fatto di aver potuto
procurare dei fastidi”.
“Ma di quali fastidi state parlando? Vi ho già detto che sono onorata di
potervi ricevere qui”.
“Sì, ma, molto probabilmente, non si aspettava così tante persone”. Mia madre
fece una pausa, per poi continuare: “Il fatto è che non vedo mio marito da
tempo e mia figlia, da anche più. Ecco perché l’ho portata con me. Per quanto
concerne mia sorella, invece, non me la sentivo di partire da sola. Viaggio
poco in confronto a lei e, di conseguenza, meno abituata e meno preparata in
caso accadesse qualcosa durante il tragitto”.
Dopo pochi secondi di silenzio, intervenne mia zia: “Vogliate scusare
l’intrusione e mi rendo perfettamente conto di essere fuori luogo in questa
situazione. Tuttavia, in quanto sorella di Mitsu ero preoccupata per il suo
viaggio ed essendo stato programmato quest’ultimo senza alcun preavviso, non vi
è stato neanche il tempo materiale per disporre di alcuna truppa di scorta”.
“Non dovete farvi alcun problema. Siete tutte le benvenute qui” sorrise
nuovamente la donna, rivolgendosi alla zia, per poi concentrarsi nuovamente su
mia madre. “Posso capire l’esigenza che provate nel voler rivedere vostro
marito. Soprattutto se è da molto che manca da casa”
“Sì…”
“Credo che voi amiate molto vostro marito, vero?”
“Eh?” . La mamma arrossì di colpo. “Ah… Ecco… Io…” . Era nervosa. Ed il suo
incessante borbottio ne era la prova. Ma poco dopo si calmò, ed ancora con le
guance rosate, sorrise tra sé e sé, ammettendo: “Immagino… Immagino di sì”.
L’aggraziata Sakura-san si mise una mano sulle labbra che si allargarono in un
sorriso compiacente. Era strana l’atmosfera che si era venuta a creare: quasi
come se fossero state amiche da sempre. Una confidenza un po’ strana. Doveva
essere tutto merito di quella donna, per aver dato fiducia alla mamma.
“Ah, che sciocca. Mi stavo quasi scordando…” . Scoloritesi le guance, avendo
cambiato argomento, la mamma si voltò verso la zia. “Questa è mia sorella, Kin”.
“E’ un piacere conoscerla. Mi scuso per non essermi presentata dapprima”
esordì, mortificata, zia Kin, inchinandosi.
“Oh, non ve n’è bisogno, vi prego. State comoda”.
E solo quando si fu rialzata e ricomposta, la mamma prese ad indicarmi con
eleganza. “Questa invece è mia figlia, Hikaru. Okita Hikaru”.
Sakura-san prese a fissarmi compiaciuta, rivolgendomi un sorriso. Un caldo
sorriso, dopo avermi squadrata da capo a piedi. Ma non con l’aria di qualcuna
che volesse giudicarmi. Al contrario, con l’aria di qualcuno che volesse solo
constatare qualcosa.
“E’ davvero una ragazza splendida. Non mi aspettavo da meno dalla figlia di
Okita-dono”.
Arrossii, per poi chinare il capo, imbarazzata.
“Vi… Vi ringrazio molto” mi limitai a risponderle, con un filo di voce. “Siete
troppo gentile”.
“Non ditelo neanche per scherzo, Hikaru-san. Fosse solo frutto della mia
gentilezza! Siete un bocciolo nella piena stagione della fioritura” spiegò, con calma, mentre si apriva, alle sue
spalle lo shoji.
Si fermò un attimo ed aspettò che Misao-san entrasse e servisse il tè a tutte e
quattro, per poi riprendere educatamente il discorso senza pericolo d’esser
interrotta: “E’ solo questione di tempo prima che il fiore che in realtà siete,
ci appaia nel suo reale splendore. Ne rimarranno tutti abbagliati. Ne sono
certa”.
Arrossii nuovamente e subito voltai lo sguardo altrove, incapace di incontrare
lo sguardo di quella donna, che invece mi osservava costantemente e con
attenzione.
“Le vostre parole ci riempiono di gioia” intervenne mia madre, per paura che
non mi sapessi districare dalla situazione.
Ed aveva ragione. Molto probabilmente non vi sarei riuscita, dato il disagio
che provavo. E, quasi sicuramente, se non mi fossi trovata di fronte a qualcuno
verso cui dovevo portare il massimo del rispetto, sarei stata più istintiva e spontanea.
Come lo ero di solito.
La conversazione tra le tre continuò a lungo, parlando del più e del meno,
oppure concentrandosi sugli arredamenti lussuosi della casa. Mia madre e mia
zia non facevano altro che imbottire di complimenti Sakura-san, che invece si
mortificava da sola e faceva la modesta.
Per quanto riguardava me, invece, non facevo altro che restare in silenzio ad
osservarle e, quando mi si rivolgeva la parola o qualche domanda, rispondevo a
monosillabi. Mi limitavo a fare quel tanto che mi serviva, insomma, per non
essere giudicata scortese, o maleducata.
Dopo circa un’ora da quando avevamo fatto la conoscenza di Sakura-san, sentimmo
dei passi arrivare dal corridoio.
Dato che ero l’unica non impegnata in noiosi e convenevoli discorsi, fui anche
la prima e l’unica a notarlo; si scorgevano dallo shoji le figure di due persone, di due uomini, che però non
riconobbi. Le due sagome si fermarono proprio davanti la porta della stanza ed,
accortasene, Misao-san subito fece per aprirla.
Fu così che lo rividi dopo tanto tempo…
I capelli lunghi e neri, raccolti in una bassa coda di cavallo, gli occhi
dorati come quelli dei gatti neri, un corpo in perfetta forma, a causa degli
esercizi continui e provato dalle innumerevoli esperienze di vita. Il viso,
nonostante fosse sfregiato da piccole cicatrici sparse qua e là, conservava
ancora quei bei lineamenti di un tempo e la sua aria emanava tranquillità e
sicurezza.
Dovevo ammettere che, nonostante l’età, mio padre si manteneva abbastanza
bene. Gli si intravedeva solo qualche
piccola ruga sulla fronte, ma per il resto non sembrava proprio avesse passato
la cinquantina già da un bel po’.
Onestamente non lo avevo riconosciuto da subito, forse perché era da tanto
tempo che non lo vedevo. Ma ero riuscita a capire che era lui, solo perché il
tizio che gli era accanto era piuttosto normale: il tipico giapponese dai
capelli corti e scuri, gli occhi neri, la carnagione chiara e la corporatura
esile e fragile, nonché un po’ bassino per essere un uomo. Era alto quanto mia
madre, nonché ben trenta centimetri più basso di mio padre. Una differenza
d’altezza non tanto sorvolabile. Era un uomo così tipicamente nipponico che
anche su un altro pianeta, un alieno lo avrebbe riconosciuto e gli avrebbe
detto: “Sei giapponese, vero?”.
“Oh, Kentaro-dono, Okita-dono… Siete arrivati, infine” fece notare Sakura-san.
“Perdonate il ritardo, mie gradite ospiti, ma ci sono stati alcuni affari
urgenti da dover sbrigare immediatamente” esordì l’uomo a fianco a mio padre.
“Spero che la mia sposa sia stata accogliente e gentile con voi”. Detto ciò,
quest’ultimo si inginocchiò accanto a Sakura, circondandole le spalle con un
braccio e attirandola leggermente verso di sé. “Sono Fujiwara Kentaro, il
residente e proprietario di questo palazzo, nonché colui presso cui presta
servizio Okita-san”.
Mentre lui ci sorrideva, io non potei che sgranare gli occhi (con moderazione,
s’intende).
Lui è… Fujiwara Kentaro? Il marito di
Sakura-san?!
Probabilmente, se avessi potuto aprir bocca, lo avrei urlato.
Ma com’è possibile?!
Insomma, non che non potesse essere così, ma… Me lo ero immaginato in
maniera totalmente diversa!
Non so… Un po’ più alto, un po’ più
possente…
In poche parole… Non così normale!
Beh… Suppongo che anche lui sia un essere
umano, no? Quindi, anche se potente, non necessariamente deve essere come un
dio…
Eppure sembrava una persona talmente gentile e pacifica, proprio come la
moglie, che pareva davvero strano il fatto che tentassero di eliminarlo, ma
suppongo che ciò dipendesse dalla posizione che esso deteneva nella società e
non certo da come si comportava con gli altri.
Fujiwara-san ci rivolse un altro sorriso, mentre si rivolgeva a mio padre,
ancora in piedi, dietro di lui, che guardava dritto davanti a sé, senza un
obiettivo preciso. Fissava il vuoto, proprio come un generale che doveva stare
sull’attenti, in attesa di un ordine.
“Rintaro, puoi anche accomodarti, sai? D’altronde è la tua famiglia, venuta a
posta per vederti, che stiamo ricevendo. Salutala come si deve”.
Quelle parole m’infastidirono non poco, come l’atteggiamento di mio padre!
Insomma, capivo che, essendo il suo superiore, dovesse portargli rispetto e
mantenersi composto davanti ai suoi occhi in qualunque momento e/o situazione,
però…
Non vedeva la sua famiglia da tanto tempo e… entrato nella stanza non poteva
neanche guardarci per un secondo, se non dopo aver ricevuto il permesso da quel
tizio?!
Mentre ci pensavo, mio padre finalmente abbassò lo sguardo, per poi chinare il
capo verso Fujiwara-san in segno di rispetto. “Vi ringrazio infinitamente”.
Detto ciò, fece per inginocchiarsi al suo fianco, qualche centimetro dietro di
lui e, soprattutto, di fronte a me e mia madre.
I suoi occhi dorati si concentrarono soprattutto su mia madre. L’aria seria che
aleggiava sul suo volto si tinse di tranquillità. “Il viaggio deve essere stato
stancante. Mi spiace che tu abbia dovuto passare tutto ciò, senza neanche una
scorta adeguata”.
Che razza di…
Mi trattenni per grazia di non so quale Dio in cielo …
Non la vedi da così tanto tempo... E la
prima cosa che pensi è il viaggio e la scorta? Ma che razza di uomo sei?!
Avrei voluto urlarglielo contro! E, alterata com’ero, guardai mia madre
stizzita, per constatare la rabbia che anche lei avrebbe dovuto provare.
Già… che “avrebbe” dovuto provare… Perché invece non la provò…
Quando mi voltai verso di lei, credendo di trovare sul suo volto un qualche
segno di disapprovazione o delusione, non notai altro che un sorriso gioioso,
trattenuto dalle mani che poggiavano sulle labbra e le lacrime che tentava
disperatamente di trattenere.
Era felice. Felice da morire. Probabilmente così felice di poter rivedere mio
padre che, qualsiasi parole le avesse rivolto, anche un insulto, le sarebbe
andato bene. Sarebbe anche potuta morire con l’animo in pace, in quel momento.
Lo amava davvero tantissimo. Un amore che non corrispondeva a quello che
provava lui nei suoi confronti. Un amore che, per quanto ci provassi, non
riuscivo proprio a comprendere.
“No… Non è stato faticoso…” borbottò, agitata, mia madre, cercando di
mascherare il rossore sulle guance. “Per fortuna mi ha accompagnata Kin. Grazie
a lei, ho potuto sopportare meglio le avversità del viaggio”.
Sentito ciò, mio padre si voltò verso la zia. Non le sorrise, ma aveva comunque
un’espressione comprensiva sul volto, o, quantomeno, grata. “Ti sono debitore,
Kin-san”.
“Oh, non c’è di che” affermò mia zia, sorridente, per poi rimanere in silenzio,
non sapendo cos’altro aggiungere.
“No, davvero…” insistette lui. “Ti sono grato per aver scortato Mitsu e…”. Si
bloccò, per poi prendere a fissarmi.
Mi irrigidii, sentendo i suoi occhi dorati su di me. Mi sentivo a disagio e
alquanto in imbarazzo. Era come se mi stesse fissando uno sconosciuto. Provavo
la stessa sensazione che con qualsiasi altra persona a me estranea. Una
sensazione sgradevole. Mi sentivo tutto, meno che a mio agio.
Nonostante fosse mio padre, abbassai lo sguardo, cercai di evitare di
incrociarmi con i suoi occhi e in cuor mio speravo che presto si scocciasse di
guardarmi e prendesse a parlare con la mamma, la zia, o chiunque altro andava
benissimo! Bastava che smettesse di concentrarsi su di me!
Se avessi avuto il potere di smaterializzarmi nell’aria, l’avrei fatto con
molto piacere.
“Chi sarebbe questa giovane ragazza?”.
…
Spalancai gli occhi, continuando a guardare in basso.
Cosa…?
“Ma come, non la riconoscete, Okita-dono?” s’intromise Sakura-san, con voce
allegra e il sorriso sulle labbra. “E’ la vostra bellissima figlia,
Hikaru-san”.
Mio padre ne rimase stupito. Ma non me ne accorsi perché lo guardai, dato che ero
ancora col capo tanto chino da poter quasi contare quanti granelli di polvere
vi erano sul pavimento in legno di quercia. Riuscii a comprendere il suo
stupore dal sussulto che emise.
“Hi… Hikaru?” domandò lui, voltandosi incredulo verso mia madre, in cerca di
conferma.
Lei annuì, sorridendo e toccandomi la spalla, delicatamente. “Sì, è lei”
asserì, con un filo di voce. “E’ cresciuta un po’ dall’ultima volta che l’hai
vista, vero?”.
Il silenzio più totale.
Non sentii più niente e, in quel momento, effettivamente, non è che me ne
importasse più di tanto, di sentire qualcosa.
“Kentaro-san, mio caro, forse è meglio lasciarli soli. Avranno tante cose da
dirsi. Cose di famiglia che, in nostra presenza, non sarebbero liberi di
comunicarsi” constatò l’elegante moglie di Fujiwara-san che, acconsentendo,
annuì e si alzò in piedi, aiutando Sakura-san a fare altrettanto.
L’uomo sorrise un’ultima volta prima di chiudersi lo shoji alle spalle, mentre vidi che la donna, seguita da Misao-san,
mi augurava qualcosa in un timido sussurro…
“Buona fortuna” mi aveva augurato, prima di allontanarsi con il marito e
Konno-san dalla stanza in cui pochi secondi prima erano in nostra compagnia.
Il silenzio regnò sovrano per quegli attimi. Un silenzio imbarazzante. Sentivo
l’attenzione concentrarsi su di me e la cosa non mi piaceva.
Feci per alzare solo per un secondo lo sguardo che avevo tenuto basso fino a
quel momento, giusto per capire quali intenzioni avessero: se restare in
silenzio in eterno, o incominciare a parlare di qualcosa. Qualunque cosa.
Ma appena i miei occhi azzurri cambiarono la loro visuale incontrarono
direttamente il dorato delle sue pupille: mi stava ancora osservando.
Subito abbassai nuovamente il capo, quasi intimorita. In realtà non volevo
davvero che mi vedesse. Era una sensazione orribile, quella di essere sotto il
suo sguardo.
“Avanti, Hikaru-chan, non fare la bambina” mi incitò a comportarmi un po’ più
maturamente, la zia.
“Ha ragione lei, Hikaru” la assecondò mia madre. “Ormai sei grande, no? Fatti
un po’ vedere da tuo padre… Vorrà vedere come sei cresciuta dopo tutto questo
tem…”
“Lui non è mio padre” la interruppi io, prima che potesse finire la frase.
Il silenzio più assoluto visse nuovamente nella stanza. Un silenzio che
proveniva da sensazioni di stupore, sorpresa e totale indifferenza… O almeno
così pareva…
“E non v’è motivo che si preoccupi del se e come sono cresciuta” terminai,
ancora col capo chino e con un tono alquanto insolente, per essere una semplice
ragazzina.
Nel silenzio più totale, i miei pensieri confluivano velocemente, come un treno
in corsa.
Ciò che avevo espresso in quelle poche ma solenni parole era ciò che sentivo,
che avevo sempre sentito di provare nei suoi confronti.
“Hi… Hikaru!” mi riprese la mamma, con tono più che severo. “Si può sapere che
stai dicendo? Come ti permetti di parlare così a tuo padre?”.
“Perché, sbaglio forse a pensarla così?!” ribattei, alzando gli occhi tremanti
per la rabbia verso mia madre, che invece era un misto di stupore e
disapprovazione. “Quest’uomo non è mio padre!” ripetei nuovamente, indicandolo
con fare accusatore.
“Hikaru, per favore, smettila. Dopo tanto tempo siamo finalmente tornati
insieme… Non ti sembra inopportuno, ora come or…”
“No che non mi sembra inopportuno, oka-san!” . Mi dispiaceva dover rispondere
in quel modo a mia madre, ma la collera davvero non si attenuava. “Forse da
piccola non comprendevo tanto il significato della sua assenza e quindi lo
detestavo senza tener conto dei fattori che lo tenevano lontano da casa. Ma,
ora che sono cresciuta e che conosco questi determinati fattori…” . Feci una
pausa.
…
“… forse lo odio più di prima” conclusi dopo pochi attimi di attesa.
Mia madre assunse un’aria a dir poco sconvolta, che per la prima volta in vita
mia non mi fece astenere dall’esprimere ciò che pensavo: “Sono cosciente del
fatto che è grazie a lui che viviamo la nostra vita in tranquillità e grazie al
suo lavoro abbiamo il sostentamento per vivere, ma… Non m’interessa avere un
padre con il quale l’unico legame che ho è il danaro che ci manda per
sopravvivere”.
Il mio interlocutore non era più solo la mamma. Era un discorso fatto in
generale fino a quel momento, come se stessi parlando più a me stessa che agli
altri in quella sala. Ma quando incontrai il suo sguardo maturo, calmo ed
indifferente, non potei fare a meno che rivolgermi direttamente a lui con una
rabbia incontenibile dentro. Così incontenibile che mi sentivo di soffocare.
“Tu… sei un perfetto sconosciuto per me! In questi miei quattordici anni di
vita se ti ho visto tre volte è stato già tanto! Ed in quelle tre volte che sei
rincasato hai solo parlato con la mamma! Non mi hai rivolto neanche uno
sguardo! Ti limitavi a sorridermi quando mi incrociavi per casa, ma non mi hai
mai neanche rivolto una parola… Non hai mai neanche pronunciato il mio nome. Pensavo
addirittura che non lo conoscessi!”. La veemenza con cui ti aggredivo spaventò
tutti, me compresa, meno che te. Ed il fatto che mentre io ti inveivo contro,
tu rimanevi calmo, seduto compostamente, senza neanche sbattere ciglio alle mie
accuse, mi mandava in bestia ancora di più.
Allora non gliene importa davvero niente!
Non potevo fare a meno di pensarlo, date le circostanze e lo sguardo
indifferente che mi rivolgevi.
“Come posso pensare a te come “padre” se non ti preoccupi neanche di sapere
come sto, se sono cresciuta o anche se sono ancora in vita?! Non te ne importa
niente di me! Non te n’è mai importato niente né di me, né della mamma!”
“Hikaru!” mi riprese mia madre, con tono severo, il più severo che sapessi
appartenerle.
“Oka-san, è così! Non cerchiamo di nasconderlo!” le risposi con decisione e
sfrontatezza. Mi salivano le lacrime agli occhi mentre stavo parlando e mentre
anche solo ci pensavo. “Sei sempre e solo tu che pensi a lui… Sempre e solo tu
che ti preoccupi di sapere come sta! E sempre e solo tu speri che ritorni a
casa per rivederlo! Sei l’unica che lo ama! Se dipendesse da lui non tornerebbe
mai a casa, dalla sua famiglia. Perché lui non ce l’ha una famiglia, né gli
interessa averla!”.
Con la rabbia che albergava nel mio cuore, mi rivolsi nuovamente a lui che non
ebbe paura di incrociare il mio sguardo. “La mamma è sempre così preoccupata
per te, quando non ti vede per tanto tempo… Ma riesce a resistere e ad andare
avanti, anche se soffre enormemente nel non poterti stare accanto, lo sai?!
Ogni giorno lei mi mostra il suo radiante sorriso, pronta ad aiutarmi e a
sostenermi, quando invece chi vorrebbe essere sostenuta è proprio lei, lei che
ogni tanto si fa prendere dallo sconforto e la sento piangere nella sua stanza,
al buio, in silenzio, per non farsi sentire. Costretta a nascondere la sua
sofferenza dietro un falso sorriso per non farmi stare male… E tutto perché non
tieni a lei! Quale uomo non scriverebbe neanche una lettera alla propria moglie
per anni ed anni? Posso capire che tu sia impegnato col lavoro e tutto quello
che vuoi, ma… devi proprio essere marcio dentro per non pensare neanche una
volta, se non a tua figlia, almeno alla tua donna, mentre sei nel tuo fouton,
tutto da solo!”.
“Hikaru, basta…” tentò nuovamente di fermarmi la mamma, ma io non ne volli
sapere e proseguii: “Lo sai quant’era felice di poter venire qui a trovarti, di
poterti finalmente rivedere? A casa era così sorridente da poter irradiare con
la sua felicità tutta quanta Edo! Era impaziente, vivace ed esultante come
forse neanche io riuscirei ad essere alla mia età… Tutto perché poteva
rincontrarti ancora una volta dopo tanto tempo! E dopo tutti gli anni passati
in solitudine l’uno dell’altra, una volta entrato nella stanza dove si trova
lei, non la degni di uno sguardo se non dopo che ti viene ordinato? E appena le
rivolgi la parola, la prima cosa che fai è chiederle del viaggio? Ma quanto
puoi essere insensibile?!”.
“Hikaru-chan… Stai esagerando…” mi avvertii la zia.
Stavo rischiando grosso, lo sapevo. Lo sapevo sin troppo bene.
Il fatto era che non conoscevo mio padre, quindi non sapevo come avrebbe
reagito alle accuse che gli lanciavo e soprattutto a ciò che stavo insinuando
tanto sfacciatamente. Di solito le donne, soprattutto della mia età, stavano
zitte o erano piuttosto riservate. Stavano sulle loro, in poche parole, senza permettersi
di dire “a”.
Peccato che io, però, in determinate occasioni, facessi l’eccezione.
Ero sempre stata educata a mantenere la calma e a comportarmi garbatamente. Il
problema era che di fronte a certe situazioni e a certe persone, non riuscivo a
fare buon viso a cattivo gioco. Ero trasparente. Sin troppo. Così tanto che era
quasi inutile cercare di mascherare qualsiasi mio pensiero o giudizio.
“Io starò pure esagerando… Ma almeno sono sincera! A cosa mi servirebbe
mentire? Io… Anche se servisse a qualcosa… Anche se fosse così… Io proprio non
ci riuscirei!” ribattei, furiosa e pronta a rispondere a qualsiasi parola mi si
rivolgesse.
“Come potete chiedermi una cosa del genere? Come potete pretendere che faccia
una cosa simile? Parlargli normalmente, come se nulla fosse, sorridergli,
magari anche scherzare insieme… Io… Io non lo conosco neanche!”.
Di fronte alle mie parole la zia rimase alquanto shockata (ma in lei vigeva più
la paura che mio padre potesse reagire violentemente. Cosa che, invece, non
fece); mia madre, dall’altra parte, rimaneva in silenzio, limitandosi a
guardarmi sdegnata.
“Non l’ho educata così. Questa non è la ragazza che è cresciuta sotto la mia
guida e sotto le mie premurose attenzioni. Io… non la riconosco”. Sono quasi
del tutto certa che fossero questi i pensieri che vorticavano nella sua testa.
Mi dispiaceva far soffrire la mamma, ma non potevo proprio rimanermene in
silenzio. Proprio non ci sarei riuscita.
Posai il mio sguardo, infine, su di lui… Quell’uomo…Mio padre.
Indifferente.
Atono.
Tranquillo.
Quasi sereno.
Non batteva ciglio.
E questo… mi faceva arrabbiare più di ogni altra cosa.
“Ed io… Io dovrei sorridere di fronte ad un uomo che, nonostante le parole che
gli rivolgo, non si degna nemmeno di aprire bocca?”.
Ma nonostante il mio celato invito ad una sua risposta, mio padre non si lasciò
sfuggire neanche un sussulto.
“Non… Non hai niente da dirmi? Davvero niente? Non vuoi controbattere? Non mi
sgridi? Non mi punisci? No…? Forse perché ho ragione? E se ce l’ho, allora
perché non ti scusi? Perché non mi dai ragione? Perché non ammetti che sei
stato crudele ed ingiusto nei miei confronti e in quelli della mamma? Ti abbiamo
forse fatto qualcosa? Ti ho forse fatto qualcosa di male…?”.
La mia ora non era più foga aggressiva. Il mio tono di voce si era abbassato,
ma era rimasto pur sempre tremante. Vibrava come una corda di Koto.
Il mio tono, in quel momento, era come quello di una bambina supplicante. No…
Non era neanche questo. La verità era che…
“Per favore… Se è così, dimmelo…”.
Cercavo di fargli pietà.
Cercavo disperatamente di smuovere quello sguardo serio e atono. Cercavo di
fargli aprir bocca. Non importa cos’avrebbe detto. Mi bastava solo che mi
dicesse qualcosa. Qualsiasi cosa.
Ero scesa in basso. Più in basso di quanto mi sarei mai aspettata.
Ma lui non si fece neanche scuotere da quel tono supplicante. Non mi guardò
neanche più. Si limitò a chiudere gli occhi e chinare leggermente il capo di
lato, come se gentilmente mi stesse invitando a non rivolgergli più la parola.
Come se mi stesse avvertendo che ciò che dicevo a lui non faceva né caldo, né freddo.
Che non gli importava.
In quel momento, ero quasi del tutto certa che, sul campo di battaglia, un
avversario ferito e supplicante ai suoi piedi, lo avrebbe sicuramente commosso
più di me.
E così, assodato che pur scendendo così in basso da mostrarmi supplicante
davanti a lui, rimasi in silenzio.
Un silenzio che durò pochi minuti, forse anche decine di secondi, ma che a me
sembravano millenni.
“E’ così allora…” sussurrai. Ma nonostante il mio fosse appena un filo di voce,
dato il silenzio che ci circondava, riuscirono a sentirlo tutti. “Mi odi… Mi
odi a tal punto che non vuoi neanche più starmi a sentire? Seppur io non ti
abbia fatto niente. Sebbene…” . M’interruppi. Rimasi in silenzio ancora una
volta.
“Ed io dovrei considerarti un padre? Ma per piacere! Molto probabilmente non
sai neanche cosa significhi questa parola! Sono stanca di te! Non voglio più
essere considerata figlia tua! Ti odio, ti odio tantissimo! Dal profondo del
cuore!”
“Hikaru! Basta!” . La voce di mia madre si era fatta ancora più tremante, ma
non riuscì, ad ogni modo, a frenare il mio impeto.
“Sono sempre stata una ragazza calma e posata. Sono sempre stata gentile con
tutti. Oka-san mi ha educata ad essere sempre carina con tutti quanti. Mi ha
insegnato a voler bene alle persone che mi circondavano e a trovare un lato
positivo in ognuno di loro.
Ma in te… io non riesco a trovare neanche un solo lato positivo, una sola
ragione per cui esserti affezionata o volerti bene! Mi vergogno persino ad
avere il tuo stesso nome!”.
“Hikaru!”.
“No, oka-san, deve capire! Deve capire come ci siamo sentite! Come mi sono
sentita! Forse tu sarai anche tanto buona da potergli perdonare tutto, ma io
non sono come te! Non sono affatto forte come te!” . Indi mi rivolsi a lui. “Ma
non t’importerà, vero? Anche se griderò a squarciagola fino a notte fonda, non
mi ascolterai, vero? Non t’importerà! Rimarrai semplicemente seduto ad osservarmi,
senza aprir bocca. Aspetterai che la foga del momento passi, giusto? Starai
sicuramente pensando che sto solo sfogando ora tutta la rabbia che ho dentro da
anni e che dopo qualche altra oretta di urla, sarà tutto finito! Beh, ti
sbagli! Il mio non è un dolore che con una semplice sfuriata può passare!”
“Hikaru, ti avverto! Adesso basta!”
“Il mio è un odio! Un odio che non può cessare così semplicemente come pensate
tutti!
E se vuoi proprio saperlo tu non meriti neanche di averla una famiglia!”
“Non te lo ripeterò un’altra volta, Hikaru…” mi ammonì mia madre con tono
severo.
Non le diedi retta. Non lo feci. Non la degnai neanche di uno sguardo, ma ero
sicura che mi stesse fulminando con lo sguardo, mentre io continuavo a
riprendere quell’uomo: “Dato che Kami-sama è stato troppo generoso con te, da
permetterti di avere una famiglia che ti ama più di quanto tu non sia in grado
di amare lei, sarò io a renderle giustizia!
Lascia che ti dica una sola cosa: sarai anche un uomo valorosissimo, ma come padre
e marito vali meno di un animale. Neanche una bestia si comporterebbe con la
sua compagna o con i suoi cuccioli come tu hai fatto con noi! E perciò non sei
degno di niente!
Non sei degno di essere il marito della mamma e tanto meno sei degno di essere
mio padr…”.
…
Un rumore assordante invase la stanza.
No, in realtà non era proprio così… Non era assordante, ma era difficile
pensare ad un aggettivo appropriato in quel momento.
Anche perché, per me, lo fu. Un rumore talmente assordante da temere che i
timpani mi si rompessero. Come se qualcuno mi avesse gridato nelle orecchie per
delle ore con tutto il fiato che aveva nei polmoni.
Ero anche un po’ stordita, confusa. Non capivo.
E il silenzio tombale da parte di tutti coloro che vi erano nella stanza, non
mi fu d’aiuto.
Quella mano gentile, che sempre era stata pronta ad aiutarmi, a consolarmi e a
difendermi, mi aveva tradita.
E mi sentivo ferita. Forse come non mai in vita mia.
Sentivo che le lacrime mi salivano agli occhi, mentre la guancia destra
incominciava a tingersi di un rosato leggermente più scuro.
Faceva male.
Quel dolore non potrei mai scordarlo. Mai.
Con la vista offuscata dalle lacrime, tremavo, portandomi una mano sulla
guancia dolorante. Fissavo dritta, davanti a me, mia madre che ancora mi gelava
con il suo sguardo freddo e severo.
“Adesso basta, Hikaru. Hai oltrepassato il limite”.
Erano occhi rigidi, pieni di malinconia, tristezza, delusione e… rabbia. Sì, c’era
anche quella. Quel sentimento che non pensavo neanche lontanamente potesse
albergare in mia madre, lo lessi nei suoi occhi. Quegli occhi che mi
guardavano.
“Non posso credere di averti messa al mondo e aver fatto tutti quei sacrifici
per te e per la tua buona educazione, affinché mi arrecassi un così grande
dolore”.
Splancai gli occhi.
Quelle parole e quello schiaffo mi avevano trafitta come un milione di spade. Avevano
attraversato ogni centimetro della mia pelle e raggiunto il mio cuore in meno
di un attimo.
“Hikaru… Pensi di poter rivolgere quelle parole a tuo padre? Che diritto ne
hai? Chi ti ha dato il permesso? Sei soltanto una ragazza, infondo. Cosa puoi
capirne degli altri e di quello che fanno? Ti limiti ad osservare tutto dall’esterno,
senza preoccuparti di capire come stanno i fatti. E, nonostante ciò, hai anche
l’ardire di accusare gli altri”
Molto probabilmente, se fossi stata in grado di pensare a qualunque cosa, di
ragionare lucidamente, avrei saputo come risponderle e cosa rispondere. Ma non
lo feci. Perché ero a dir poco sconvolta.
“Ti permetti di emanare sentenze, di aggredire tuo padre in quella maniera…
Io… Hai ragione. Ti ho insegnato ad essere gentile con le persone e a cercare
in loro i lati positivi, perché, anche se pochi, stai certa che ne hanno sempre.
Ma come fai ad amare la gente che non conosci, se per primo non ami tuo padre,
che ti ha dato, se non altro, la vita? Senza che lui faccia altro, dovresti
essergli grata anche solo per questo!
Non è degno di essere tuo padre, mio marito, di avere una famiglia? Non sei tu
che puoi stabilirlo”.
Perché, mamma?
“Pensi che non sia un buon uomo soltanto perché non sta a casa, con noi? Beh,
sappi che allora anche mio padre dovrebbe essere “cattivo”, perché io non l’ho
neanche mai visto fino all’età di undici anni. Ma non per questo l’ho odiato e
gli o rivolto tutte quelle parole dolorose!”
Io stavo facendo tutto questo… anche per
te…
“Dovresti, anzi, ringraziare tuo padre. Nonostante non ne avessi alcun
diritto, ti ha lasciato sfogare senza permettersi di dire una parola, quando,
come capofamiglia, avrebbe potuto benissimo alzarti le mani e punirti per la
tua insolenza”.
Il tuo amore per lui è così grande da
portarti addirittura a metterti contro di me, ad aggredirmi?
“Quest’oggi ero davvero felice. Sei stata proprio tu a dirlo, Hikaru”
riprese, con sguardo addolorato, ma senza abbandonare l’aria severa che aveva
in volto. “Ero felice, certamente, di poter rivedere Rintaro. Così felice che
pensavo che il cuore mi potesse saltare fuori dal petto da un momento all’altro.
Ma ero ancora più felice del fatto che la nostra famiglia poteva finalmente
ricongiungersi.
Era tanto che lo aspettavo.
Ma tu hai rovinato tutto. Sei stata così egoista, da voler per forza esprimere
i tuoi pensieri, i tuoi giudizi, senza degnarti di capire che avresti rovinato
tutto quanto, così facendo. Cercavo di fermarti, ma eri troppo impegnata a dare
sfogo alla tua insensata rabbia per potermi dare ascolto, vero? Ti senti bene,
adesso che hai parlato, che hai detto la tua?”
Mamma, non me lo sarei mai aspettata da
te…
“Se sei così preoccupata per me e per la mia sofferenza da volermi
proteggere da tuo padre, perché non mi hai difesa in primo luogo da te? Perché,
quest’oggi, Hikaru, chi mi sta facendo soffrire e chi mi farà piangere… sei
proprio tu”.
Mai…
Silenzio.
Non mi azzardai a dire una parola. Non mi lasciai sfuggire neanche un respiro.
Niente di niente.
Ero troppo occupata a cercare di veicolare il dolore. Un dolore che rarissime
volte avrei provato in seguito.
Forse quello schiaffo e quelle parole che mia madre mi rivolse in quell’occasione
furono due delle cose che più mi addolorarono in tutto il corso della mia vita.
Perché per me vedere la mamma sorridere era stata sempre la cosa fondamentale. E
sentirmi dire da lei che ero proprio io la fonte del suo dolore e che ero io
che la facevo piangere, era peggio di una pugnalata al cuore.
Ma, insieme alla tristezza e alla malinconia, in me stava crescendo anche
qualcos’altro. Un sentimento che non avrei mai lontanamente immaginato potessi
mai provare verso mia madre.
Rabbia.
“Quindi è così…” sussurrai, con un filo di voce, ma abbastanza forte da farmi
sentire. “Sono io quella che ti fa star male… che ti fa piangere…”.
Sì, perché stetti malissimo per quelle parole che mi rivolse. Stetti così male
che pensai di poter addirittura morire per il dolore.
Ma la cosa che più non potevo sopportare era che…
“Quell’uomo è talmente importante che, non importa cosa dica o cosa faccia, riesce
a far passare tua figlia, che ti è sempre stata accanto, in secondo piano,
vero?”. Le lacrime mi rigarono il volto. Ora come non mai. E, con rammarico, le
rivolsi un sorriso di velata malinconia. “Me lo sarei aspettata da tutti,
oka-san. Ma mai da te. Pensavo che tu mi avresti appoggiata, che saresti stata
dalla mia parte. Speravo che almeno tu potessi accettare i miei sentimenti,
anche non capendoli, magari. Invece ora difendi lui, quasi come se tutto ciò
che ho detto sinora fossero tutte menzogne, o tutte cose non realmente
importanti” . Singhiozzai ancora un po’, mentre proseguii, sotto lo sguardo
smarrito ed intristito di mia madre: “Mi hai voltato le spalle… Tu, che per
quanto mi riguarda, sei tutta la mia famiglia… Mi hai tradita…”.
“Hikaru…” cercò di riparare mia madre,
forse rendendosi conto di aver toccato un tasto dolente con le sue parole dure
e severe. Lentamente cercò di avvicinarsi, allungando la sua nivea mano per
tentare di afferrarmi la mano.
“Non toccarmi!” gridai, indietreggiando per non farmi toccare da quella mano
che prima aveva schiaffeggiato senza ritegno la mia guancia.
“Hikaru-chan!” mi riprese mia zia, tentando anch’essa di porre rimedio alla
situazione.
Mio padre, d’altra parte, se ne rimase in silenzio con sguardo leggermente più
perplesso di prima, ma comunque posato. Non disse una parola. Neanche una.
“Mi hai tradita per quest’uomo…” continuai, rivolgendomi nuovamente alla mamma.
“E non potrò mai perdonarti per questo!”.
Detto ciò, mi alzai in piedi e frettolosamente uscii dalla stanza, chiudendomi
lo shoji alle spalle con violenza.
“Hikaru!” mi sentii chiamare alle spalle. La voce che mi chiamava era più di
una. Mi domandai, anche solo per un attimo, se anche la voce di lui, aveva
pronunciato il mio nome, se non altro in quella situazione di panico.
Ma l’idea mi balenò in testa giusto per poco.
Non capendo più niente, ripercorsi in fretta e furia il sentiero che avevamo
fatto all’andata, imbattendomi anche in Konno-san che vedendomi in quello
stato, anche da lontano, mi domandò se c’era qualcosa che non andava.
Ma io, senza curarmene più di tanto, la sorpassai e raggiunto il portone principale,
implorai le guardie di lasciarmi passare, perché non mi sentivo bene.
I due uomini, forse perché stavano vedendo una ragazza in lacrime davanti a
loro, forse perché non sapevano che altro fare, mi lasciarono passare senza
chiedermi ulteriori spiegazioni.
Ed ero così sulle strade di Kyoto. Una Kyoto che non conoscevo, di cui ignoravo
tutto.
Incominciai a percorrere una strada, di corsa. Non sapevo dove mi avrebbe
portato quella strada. Non sapevo neanche se mi avrebbe portato da qualche
parte. Ma non m’importava. Andava bene qualsiasi luogo, qualsiasi deserto. Mi
andava bene tutto. L’importante era non stare più con loro, con lui, con quell’uomo…
L’importante era cercare di allontanarmi quanto più possibile dalle persone che
mi avevano ferita, tradita ed umiliata.
*****
Salve a tutte!
Chi non muore si rivede! ^^ Beh, meglio fare le corna va. Dato che stavolta ci
son andata proprio vicino XD Ma non scendo nei particolari. ^^
Sono tornata con nuovo capitolo! Anch’esso un pochino lunghetto.
Chi ha detto che quello di prima era troppo pesante mi dovrà scusare, ma
onestamente non penso proprio che riuscireste ad aspettare più di tanto per la
comparsa di Soji.
Questo capitolo non vede ancora il nostro “belloccio” alle prese con la nostra
Hikaru-chan, ma nel prossimo avrete una bella sorpresina! Eheheh! >.<
Questo è ancora un capitolo introduttivo, ma sarà fondamentale, anzi, a dir
poco essenziale per lo sviluppo della trama e per far sì che la vicenda prende
la piega che deve prendere XD
Che discorsi contorti, eh?
In breve mi scuso se risulterà anch’esso un capitolo “pesante”, ma non me la
sono sentita di farvi aspettare 2 capitoli per la comparsa di Soji! Altrimenti
poi uno si rompe un po’ le scatole di aspettare, no? Persino io XD
Spero che la lettura sia di vostro gradimento! Saluto tutte con tanto affetto e
ringrazio coloro che mi hanno scritto e a cui per una serie di circostanze e di
eventi, non ho potuto rispondere! Grazie a tutte! ^^
Un bacio.
Alice.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Ricordi, pioggia ed incontri ***
Ciao a tutte ragazze! ^-^ Ed eccomi di nuovo con un altro capitolo! Scritto in una sola notte e completato in 5 minuti XD Stavolta le pagine sono di meno (4 pagine in meno degli altri 2 capitoli). Non chiedetemi perchè non riesco a scrivere come una persona normale, un massimo di 10 pagine, perchè non saprei rispondervi >.< Passando al capitolo in questione: finalmente la nostra eroina re-incontra il suo adorato Sou-nii, che, a quanto pare, le riserva un trattamento non proprio ideale per una "sposa" XD Tuttavia, prima di lui fa la conoscenza di una certa persona che credo tutte capirete appena la incontrerete durante la lettura XD E' ancora un capitolo d'introduzione alla storia vera e propria, ma con questo si apre il vero e proprio sipario! Che si dia inizio alle danze >.< Yuppiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii! XD
****
Nonostante avessi sempre avuto un cattivo rapporto con mio padre… O, meglio
dire, non avessi alcun rapporto con
mio padre, avevo fiducia almeno in lei. In mia madre.
Avevo sempre saputo che lo amava. E, nonostante non riuscissi a comprendere in
alcun modo i suoi sentimenti, me ne ero fatta anche una ragione.
Ma constatare che, pur di difendere lui, era pronta a mettersi contro il mondo
intero, inclusa me, mi spezzò letteralmente il cuore.
Quella notte ero totalmente accecata dall’odio e dal dolore. E, con molta
probabilità, se le tenebre in quel momento mi avessero inghiottita, non me ne sarei
resa conto.
No… Forse non me ne sarebbe neanche importato.
Autunno. Notte tra 19 e 20 Ottobre, 1866. Kyoto.
Il freddo del vento d’autunno era pungente. Non perché fosse realmente
insopportabile, ma perché portava con sé l’avviso che presto ne sarebbe
arrivato uno ancora peggiore.
E’ come quando qualcuno ti avverte che sta per arrivare una ineluttabile
catastrofe: non fai che logorarti dentro, sperando che non giunga mai, ma
vanamente, perché in realtà già sai cosa t’attende. E, in segreto, non fai
altro che aspettare la catastrofe incombente, in silenzio.
Camminavo come uno di quei fantasmi di cui si racconta ai bambini, leggendo
loro alcune storie legate a leggende del passato.
Camminavo se così si può dire… In
realtà non facevo altro che vagare senza una precisa meta.
Iniziò a piovigginare. Le gocce d’acqua erano sottili e quasi impercettibili.
Solo poco dopo iniziò la pioggia vera e propria.
Tutte le persone che incrociavo per la strada incominciarono a correre per
ripararsi dall’acqua che cadeva imperterrita.
Solo io rimanevo calma, continuando il mio percorso senza meta col capo chino e
scalza, dato che, per la fretta di andarmene da quella casa, non mi ero neanche
preoccupata di infilarmi gli zoccoli.
A pensarci ora, dovevo sembrare alquanto inquietante… Una bambola che
camminava. O, molto più semplicemente, una povera disperata.
Wow… Certo che Kyoto è davvero grande…
Pensai, priva di ogni entusiasmo. Di solito, un’affermazione di quel tipo,
fatta da me, sarebbe stata piena di esaltazione ed eccitazione, ma non ero
proprio del morale per guardare con occhi diversi quella città.
In quel momento… No… Più precisamente da quando ero entrata nella residenza
Fujiwara mi ero completamente dimenticata di te.
E dire che quando mia madre mi aveva riferito che saremmo andati a Kyoto, il
mio primo pensiero è stato quello di poterti rincontrare… Ma, durante quella
notte, non una sola volta la voglia di rivederti riaffiorò.
Riuscivo soltanto a pensare a cose negative e a quelle persone che mi avevano
ferita. Speravo inutilmente che la pioggia mi aiutasse a dimenticare, o a stare
meglio. Solo per un attimo, pregai il cielo che quella tempesta divenisse così
forte da trascinarmi via… lontano.
Sì, perché anche i tuoni erano apparsi nel cielo buio. Erano pochi, certo, ma
comunque c’erano.
Da quanto stavo camminando? Da minuti? Forse da ore? Non lo sapevo, ma non
aveva importanza. Avrei camminato quanto bastava per andarmene da lì.
Purtroppo, però, i miei piedi non erano dello stesso avviso.
Anche se io non tenevo conto del tempo che era passato, ormai ad ogni passo che
facevo, oltre che le impronte sul terreno fangoso, lasciavo anche il mio
sangue. Questo perché, sicuramente, camminare senza scarpe su una terra ruvida
qual’era quella, non avrebbe di certo giovato alla salute dei miei piedi che,
senza che me ne accorgessi, si erano riempiti di ferite e lividi.
Ma non sentii dolore. O almeno non fin quando, dopo l’ennesimo passo, fatto di
sforzo, non caddi in ginocchio e gli occhi si posarono sui miei arti inferiori.
“Oh… Mi sono fatta male ai piedi…” mi dissi, con tono atono. Quasi come se
non facesse alcuna differenza. Perché non
faceva alcuna differenza.
“Eh eh… Fa… Fa un po’ male…” constatai con un sorriso forzato sul volto. “Ora… Ora
sì che sono in un bel guaio…” . La mia voce era tremante, ciò nonostante
continuavo a sorridere, mentre parlavo.
Non c’era nessuno in giro. Ero sola. Quindi nessuno poteva sentirmi.
Beh, suppongo che il resto dei cittadini, una volta iniziato a piovere,
ragionevolmente, si fosse ritirato nelle proprie dimore.
Eravamo solo io, la pioggia e il suono che essa emetteva mentre cadeva
vertiginosa.
“Fo… Forse sarà meglio ripararsi un po’ dalla pioggia…” mi decisi, mentre
cercavo di rimettermi in piedi. “O… mi prenderò un malanno…” .
Appoggiai il piede desto per terra, cercando di fare forza su quello per
rialzarmi. Finalmente vi riuscii dopo non pochi sforzi.
Ma quando pensai di poter finalmente tornare a camminare, dopo il primo passo,
fatto di scatto, caddi nuovamente e, questa volta, interamente a terra.
La faccia era a contatto col fango e vi rimase per un po’, finché, raccolte le
poche forze che avevo nelle braccia, mi rimisi seduta.
Ero sporca sul viso e sui capelli, ma non solo.
Il mio sguardo cadde sul kimono che indossavo. Era bellissimo: rosso con tante
fantasie floreali e con delle farfalle di un brillante color dorato. L’obi, poi, era di un porpora acceso, che
ricordava tanto le foglie autunnali cadenti dai rami degli alberi ormai quasi
del tutto spogli.
Ma… anche se bellissimo, quei fiori e quelle farfalle dorate erano ormai
indistinguibili. Macchiati. Sporchi. Rotti.
Il bellissimo kimono regalatomi da mia madre quella stessa mattina, in
occasione della nostra visita a Kyoto, era rovinato. La pioggia lo aveva
inumidito troppo e, non appena caduta,
proprio a causa della sua persa consistenza si era subito strappato e
macchiato.
Lo guardai inerme, con aria mista tra lo stupore e la tristezza.
Una tristezza mascherata sotto quel sorriso che ancora mi apprestavo a
mostrare a me stessa.
“Si è… rovinato…” sussurrai pian piano. “Si è… completamente… rovinato”.
Non resistetti più. Tremante e singhiozzante, incominciai a piangere, senza
ritegno.
D’altronde ero sola. Non c’era nessuno da cui mi dovevo nascondere o di fronte
al quale dovevo mantenermi composta ed educata.
Potevo dar finalmente sfogo alla mia tristezza e alla malinconia che mi attanagliavano
in quel momento.
“Il… Il kimono che mi… mi ha regalato… l-la mamma…” farfugliai, ancora in preda
ai pianti più sfrenati e ai singhiozzi che non mi permettevano di proseguire la
frase in maniera lineare. “E’… E’… E’ completamente rovinato…”.
Apparentemente poteva sembrare che fosse quella la ragione per cui stavo così
male ed ero arrivata a piangere in modo così infantile (per cui anche una
bambina avrebbe potuto ridere di me), in realtà, però, non era per il kimono in
sé e per sé, ma per ciò che esso simboleggiava.
Proprio quella stessa mattina, mentre percorrevamo la strada che ci avrebbe
portato alla residenza Fujiwara, ero rimasta indietro come al solito e
accortamene, dato che la gente era molta, iniziai ad andare alla ricerca di mia
madre. Inizialmente non riuscii a trovarla, tanto che stavo quasi per andare in
panico, ma subito dopo la intravidi ferma, vicino il ciglio della strada.
Tuttavia lei non si era fermata per aspettare me, bensì perché era intenta a
fissare la stoffa di un kimono che il proprietario del negozio le stava facendo
esaminare.
Una volta che l’ebbi raggiunta, mia madre si era voltata verso di me e con aria
esultante mi aveva domandato: “Ah, ecco dov’eri, Hikaru! Allora, che ne pensi?
Ti piace questa stoffa?”.
“Oh…” . Dopo che gli ebbi dato una breve occhiata, che mi era bastata per
capire quanto era bella e quanto dovesse essere costosa e pregiata, mi ero
rivolta a lei: “Sì. E’ davvero bellissima”.
“Già! L’ho pensato anche io!” . Detto ciò, era tornata a prestare attenzione al
commerciante. “Allora è deciso. La prendo. Potrebbe confezionarlo per me?”.
Cosa?
“Oh, non dovete preoccuparvi, mia signora. Un paio di giorni fa ho
confezionato un kimono proprio utilizzando questa stoffa e dovrebbe essere
circa della misura della ragazza”.
“Ma davvero? Che fortuna. Allora lo prenderò subito. Vi ringrazio molto”.
Come sarebbe a dire?
“Ehi, oka-san, aspetta un secondo! Lo stai comperando?”
“No, Hikaru. L’ho già comperato”.
“Ma… Hai idea di quanto costerà? Quello è un tessuto pregiatissimo! Basta anche
soltanto guardarlo per capirlo!”
“Non ha importanza”
“Ma…”
“Hikaru, non preoccuparti” mi aveva interrotto, sorridendomi gioiosamente. “E’
un regalo che voglio farti con tutto il cuore, perché, non appena l’ho
intravisto nel negozio, te l’ho subito immaginato addosso e… ho pensato a
quanto saresti stata splendida. Quindi, per favore, accettalo, va bene?”.
Dopo aver sentito quelle parole, accompagnate dal suo sorriso smagliante, mi
era venuta quasi voglia di piangere. Ero stata felicissima di ricevere quel
regalo e soprattutto ero stata felice della gioia con cui me ne aveva fatto
dono.
Per me aveva significato tantissimo. Era stata come una dichiarazione d’amore
materno che sarebbe durata in eterno, qualunque cosa sarebbe successa.
Ed ora quel rapporto che quella mattina mi era sembrato tanto idilliaco, tanto
impenetrabile, quel legame così indistruttibile era macchiato, logorato,
proprio come quel kimono.
E ora che cosa farò?
Non potetti fare a meno di chiedermi.
Non posso tornare da lei… da loro… Non
riuscirei neanche a guardarla in faccia. Ma dove posso andare?
Fino a quel momento l’idea di che cosa sarebbe successo, dopo quella
scenata e dopo tutto il corso degli eventi, non mi aveva neanche lontanamente
sfiorato il pensiero. Solo quando avevo iniziato a riacquistare quel minimo di
lucidità mentale, mi accorsi del gran problema.
Anche se non voglio tornare in quella
casa… Che cosa posso fare da sola?Sono fradicia e lurida… Non ho un posto dove
andare, i piedi mi fanno male e… gli occhi mi bruciano…
Solo in quell’attimo mi resi conto che la situazione non era sostenibile.
Mi ero arrabbiata e avevo agito d’impulso, ma concretamente parlando per me era
impossibile vivere come una vagabonda e allontanarmi dalla famiglia che mi
aveva cresciuta in un bozzolo, legandomi indissolubilmente ad esso.
Io, una povera ragazza di famiglia, cresciuta ed educata comodamente in una
casa, iniziare a vivere con le mie forze, dall’oggi al domani?
Come avrei potuto farlo? Anche se c’era tutta la volontà di questo mondo e
quell’altro, era non solo irrealizzabile, ma anche impensabile.
Quindi mi tocca… tornare, alla fine?
Dovrei tornare supplicante da loro, come un cane che abbaia, morde, ma alla
fine rimane pur sempre un cane che segue il padrone?
Non ci sto… Non posso… Non voglio che pensino questo…
Pensai tra me e me, ancora con le lacrime agli occhi.
Voglio che capiscano come mi sono sentita… Voglio che comprendano il mio
dolore…
Se tornassi da loro, sarebbe come ammettere che hanno ragione, come soggiogare
gli ideali per cui mi sono tanto fatta valere in quella stanza.
Sarebbe come se, per finire, mi tradissi da sola.
E questo proprio non potrei sopportarlo…
Non… posso…
Ma il mio pensiero dovette interrompersi lì, perché, ad un tratto, sentii
dei passi avvicinarsi accompagnati da delle voci altisonanti.
Inizialmente, un po’ perplessa, mi voltai alle mie spalle per capire di chi
potesse trattarsi.
Forse erano contadini? Molto probabilmente erano ai campi e, avendo visto la
pioggia, avevano deciso di ritirarsi? O forse erano dei viandanti? O, ancora,
poteva trattarsi di alcuni commercianti stranieri, venuti qui per trovare
alloggio in qualche locanda, in attesa del guadagno che li aspettava il giorno
seguente?
Non ne avevo idea, ma speravo che quelle persone potessero essermi d’aiuto. Se
non altro, per lo meno per aiutarmi a rialzarmi e darmi qualcosa per potermi
fasciare i piedi, in modo da camminare quel che bastava per arrivare da
qualcuno che potesse curarmi.
E, soprattutto, speravo che mi aiutassero gratuitamente, perché, no, non avevo
neanche una moneta per poter ripagare la loro eventuale gentilezza.
Finalmente tornai a sorridere gioiosa, pensando che, per una volta, la fortuna
stava iniziando a girare dalla mia parte. Ma mi illusi troppo presto.
Poco dopo, quando i passi si fecero più vicini e le grida più acute, non mi ci
volle, fortunatamente, molto per capire di chi si trattasse e che intenzioni
avevano: erano una decina di uomini al servizio della casata Fujiwara (lo capii
dallo stemma che portavano sul petto, all’altezza del cuore, inciso sui loro
kimono ), a capo di cui si era messo mio padre.
Terrorizzata all’idea di farmi trovare da lui ed essere, caso mai, riportata in
quella casa, senza ragionarci su per troppo tempo, iniziai a gattonare
goffamente verso un piccolo e buio vicolo cieco, confinante col retro di una
casa, sperando che lì non mi trovassero.
Ero cosciente del fatto che camminando ci avrei impiegato sicuramente di meno,
ma con i piedi che mi ritrovavo, sarei caduta immediatamente e, così, non solo
avrei perso il triplo del tempo, ma avrei anche attirato la loro attenzione,
facendomi scoprire in men che non si dica.
Dopo essermi accucciata silenziosamente dietro il muro del viottolo, mi
assicurai di tapparmi la bocca con entrambe le mani, per evitare che un
sussulto, o anche un sospiro fuori regola potesse contribuire al mio ritrovo.
“Okita-san, non ve ne sono tracce” sentii dire ad un uomo, rivolgendosi a mio
padre. “Abbiamo chiesto anche a dei viandanti, ma nessuno sembra aver visto
vostra figlia”.
“Non importa. Dobbiamo continuare a cercare” affermò mio padre, con tono
rigido. “Non può essere andata lontano. E’ solo una ragazzina. Non v’è modo che
possa essere uscita dalla città. Deve trovarsi necessariamente ancora a Kyoto”.
E così ne ebbi la conferma: stavano proprio cercando me.
Beh, non che non lo avessi pensato, ma… mio padre era pur sempre un comandante
al servizio della famiglia Fujiwara. Poteva anche trattarsi di qualche missione
da compiere. E poi non ero neanche sicura che a mio padre si curasse di me
tanto da venirmi a cercare.
No… Non è perché ci tiene a me che è
venuto a cercarmi…
E’ sicuramente perché lo vuole la mamma… Male come sta, quando si preoccupa
troppo, ha sicuramente chiesto a lui di fare qualcosa… E forse ci si è messa
anche la zia, ma… Sono sicura che, se fosse dipeso da lui, non si sarebbe
neanche scomodato ad alzarsi in piedi.
“E se qualcuno l’avesse portata via con sé? E’ notte, d’altronde” intervenne un
altro uomo. Vedere una ragazza in giro, di quell’età, senza nessuna scorta…
Potrebbe essere stata scambiata per…”
“E di chi è la colpa?” lo interruppe la voce tuonante di mio padre. “Perché
l’avete lasciata passare? Perché avete permesso ad una ragazzina di uscire
fuori dall’abitazione, senza ricevere nessun ordine?!”
“Beh… Ecco…” cercò in qualche modo di riparare uno dei due probabili uomini che
stavano a guardia del portone.
Un sospiro. “Beh, ora come ora non mi è di nessun tornaconto prendermela con
voi. In questo momento l’importante è che la troviate. Avanti, muovetevi”.
“Sissignore!” risposero in coro, tutti quelli che lo seguivano.
“Dividetevi. Ogni singolo uomo deve perlustrare una zona diversa. In questo
modo la scoverete prima. Non c’è necessità che siate in gruppo, o in coppia. In
fondo non si tratta di combattere una battaglia, ma semplicemente di ritrovare
una ragazza di poco più di tredici anni. ”.
“Abbiamo già perlustrato la zona sud-ovest, Okita-dono” lo informò un altro dei
suoi uomini.
“Allora continuate da quella sud-est! Setacciate ogni angolo, vicolo o viale di
questa città. Se sarà necessario, cercheremo anche nelle case. Okita Hikaru
deve essere ritrovata. Ad ogni costo”.
“Sissignore” . Risposto ciò, sentii i passi dell’uomo allontanarsi.
Tuttavia non ero fuori pericolo, anzi… esattamente l’opposto.
Incominciai a sentire dei passi farsi vicini (non sapevo neanche se si trattava
di quelli di mio padre, ma poco sarebbe cambiato se fossero stati semplicemente
di qualcuno ai suoi ordini) e, da quanto ordinato, non c’era modo che non
guardasse in quel vicolo dove si era nascosta lei.
I passi si fecero più vicini. Sentivo la presenza di qualcuno proprio dietro
l’angolo.
Se non avessi fatto qualcosa, allora io…
“Ohiiii, Rikudo!” urla una voce proveniente da un punto più lontano. “Qui c’è un
uomo che dice di aver visto da queste parti una ragazza scalza… Sei stato tu a
farla passare dal portone, quindi sai di certo com’è fatta la figlia di
Okita-dono, no? Vieni a vedere se la descrizione coincide”.
“Ah? Davvero? Sto arrivando…” rispose la voce dell’uomo che stava per
scoprirmi.
Sospirai di sollievo, quasi in modo impercettibile, per non farmi sentire. In
primo luogo, non mi aveva scoperta… Almeno per ora. E, in secondo luogo, non si
trattava di mio padre. Il punto a mio sfavore, però, era che si trattava di
colui che mi aveva vista scappare via, quindi mi avrebbe facilmente riconosciuta.
O, per lo meno, più facilmente di qualche altro suo compagno.
Che cosa faccio, adesso?! Non potei
fare a meno di chiedermi. Mi scoverà di
sicuro! Se prima era intenzionato a venire da questa parte, sicuramente ci
riproverà!
Ero nel panico. Non avevo la minima idea di come destreggiarmi in quella
situazione.
Avevo anche pensato all’eventualità di muovermi e nascondermi da qualche altra
parte, ma la cosa non era fattibile: primo, perché, date le condizioni in cui
vigevano i miei piedi, avrei dovuto gattonare e ci avrei impiegato troppo
tempo; secondo, perché, gattonando, avrei sicuramente fatto molto rumore e si
sarebbero accorti di me prima ancora che potessi uscire dal vicolo dove mi ero
appostata.
Mi sporsi un po’ per dare un’occhiata alla faccenda: qualche casa più in là (ma
non poi tanto lontano da me), vi erano questi due uomini che prestavano
servizio presso Fujiwara-san, intenti a discutere con un anziano signore, un
contadino, mi sembrava.
Tuttavia l’”interrogatorio” non sarebbe durato poi così a lungo e presto
sarebbe tornato a controllare… e allora sì che sarebbe stata la fine.
Se non faccio qualcosa… Se non faccio
qualcosa, mi troveranno! Pensavo, mentre mi tenevo la testa tra le mani e
singhiozzavo sommessamente. Mi troveranno
e mi riporteranno in quel posto! Non voglio! Non voglio che succeda!
…
“La fortuna viene sempre a chi meno l’attende” . E’ un detto che si recita
spesso ai bambini e quello che più facilmente s’impara. Nonostante l’assurdità
di quel motto a cui io stessa non avevo mai creduto, dovetti ammettere che
avevo torto. Davvero torto.
…
“Ehm… Ecco… Scusami, ma… Stai bene?” mi chiese, ad un tratto una voce flebile,
davanti a me.
In un primo momento, dato lo stato di panico in cui mi trovavo, non riuscii a
fare mente locale. Il solo pensiero che
mi passava per la testa era: “No… Mi hanno scoperta!”.
Fu così che alzai la testa di scatto sussultando rumorosamente, per guardare il
mio persecutore.
O, per lo meno, quello che sarebbe dovuto esserlo…
Con mio grande stupore, però, mi accorsi che colui che avevo davanti non era
uno degli uomini a seguito di mio padre, ma… un ragazzo. Un ragazzino, per
l’esattezza.
Aveva un viso infantile, occhi grandi color nocciola, capelli castani raccolti in
una piccola coda di cavallo e una corporatura così minuta da sembrare quasi una
ragazza. Indossava un hakami di un candido color bianco, mentre la parte
superiore del suo completo era di un rosa tendente al salmone. Portava al suo
fianco una katana che, solo a giudicare dal fodero, doveva avere un gran valore
e, di conseguenza, un gran costo.
Il ragazzo era inginocchiato di fronte a me e mi fissava con aria visibilmente
preoccupata. “Cosa c’è che non va?” mi chiese nuovamente, scrutandomi dalla
cima dei capelli fino ai piedi, ridotti in mal stato. Proprio concentrandosi su
di questi, me li prese tra le mani, affermando: “Oh no! Ma sei ferita! Dobbiamo
curarti subit…”
“No!” lo interruppi io, afferrandogli il braccio con violenza e stringendomi a
lui.
Tuttavia la mia risposta fu parecchio altisonante, tanto che sentii chiaramente
l’uomo di nome Rikudo affermare: “Ohi, io vado. Ho sentito qualcosa…”
Oh no, mi ha sentita! Devo fare qualcosa…
Qualunque cosa!
Disperata, mi rivolsi al ragazzo che cercava disperatamente di capire cosa
mi stesse succedendo: “Ti prego, devi aiutarmi!” sussurrai, piano, ma al tempo
stesso supplicante. “Ti scongiuro… Nascondimi! Sta arrivando un uomo ora… Ti
prego… Non lasciare che mi trovi!”.
“Cos…?” chiese il giovane, un po’ spaesato. “Ma… Io…”
“Ti supplico!” lo implorai singhiozzante, non sapendo a quale altra speranza
aggrapparmi.
Evidentemente le mie preghiere furono convincenti, o lo fu il mio pianto, tanto
che il ragazzo, con sguardo ormai privo di indecisione, annuì. “Stenditi per
terra!”
“Come?”
“Fidati di me!”
Non obiettando più di tanto, feci come mi era stato detto e lui subito mi coprì
con qualcosa che si stava portando dietro. Al contatto sembrava un tessuto
abbastanza soffice e confortevole, ma non ebbi il tempo, né la testa per
mettermi ad esaminarlo… L’importante era che riuscisse a non farmi trovare.
“Per favore, cerca di resistere un po’, va bene? Farò del mio meglio!” sentii
dirmi da lui, prima di avvertire la voce di un altro uomo che affermava: “Chi
va là? Esci fuori!”.
Eccolo! Era l’uomo di papà! E ora…?
Non potevo che aspettare e sperare che andasse tutto per il meglio…
“Vogliate scusarmi, signore, per averla spaventata, ma non credo di aver fatto
nulla di male per meritarmi la vostra minaccia” cercò di riparare il mio
giovane salvatore.
“Chi siete? E che cosa state facendo qui?”
“Io? Non sono che il giovane figlio di un povero commerciante di stoffe per
kimono. Mio padre mi ha ordinato di andare a ritirare dei tessuti e, una volta
fatto, mi sono appostato qui per esaminarli. Non vorrei di certo che fossero
usurati”.
Silenzio. Poi un sospiro. “Senti, ragazzino, hai per caso visto una ragazza di
circa la tua età? Forse è anche più piccola di te… Ha i capelli lunghi, di un
castano scuro e gli occhi tendenti all’azzurro. Cammina scalza e ha un kimono
rosso con ornamenti color d’oro”.
“Hm! Sì, l’ho vista” rispose con aria sicura, lui.
Fu allora che i battiti del mio cuore si fecero sempre più celeri. Spalancai
gli occhi, incredula.
Voleva tradirmi? Voleva dirgli che ero lì? Ma… perché?
“E’ andata da quella parte”
“Da quella parte? Ma… è da dove provengo io!”
“Veramente, ora che me lo fate notare… vi è proprio passata accanto mentre
parlavate con due uomini, un po’ più in là”.
Ma… Allora… Non mi ha tradita!
“Cosa? Ma… com’è possibile?! Non me ne sono neanche accorto!”
“Sembrava avere un’aria un po’ furtiva… Andava di fretta. Sembrava essere molto
attenta a non farsi vedere. Camminava rasente agli angoli delle abitazioni”.
“Q… Quella mocciosa! Me l’ha fatta sotto il naso senza che me ne accorgessi!
Oh, ma la prenderò! Anche a costo di cercarla tutta la notte!”. Detto ciò,
sentii l’uomo fare una pausa, per poi rivolgersi nuovamente al ragazzo: “Grazie
della collaborazione, ragazzino. Vedi di tornare subito a casa. Stanotte c’è
troppa confusione, potresti restarne coinvolto”.
“Vi ringrazio molto del consiglio. Farò come avete detto”.
Silenzio.
Sentivo solo i passi dell’uomo che si allontanava correndo e dopo che furono
passati anche quelli, nuovamente il silenzio.
“Via libera” mi avvisò la voce gentile del ragazzo che dopo essersi assicurato
che di quel Rikudo non vi fosse più traccia, aveva sollevato la stoffa del
tessuto che mi aveva avvolta sino ad allora. “Se n’è andato”. Il suo tono era
dolce. Stava certamente cercando di rassicurarmi, con quel sorriso sulle
labbra.
Io lo guardai in silenzio, per un attimo. Poi, neanche io sapendo perché,
incominciai nuovamente a singhiozzare e caddi in un sonoro pianto.
“C-Che ti succede…?” mi domandò il giovane, un po’ spaventato e ancora
preoccupato. “Se n’è andato adesso… Non c’è più pericolo. O ti fa male da
qualche parte? Ah, giusto! I piedi…”
“Gr…az…ie!” risposi, tra le pause da un singhiozzo all’altro. “Grazie… Grazie
davvero!”.
Tutta la paura, tutto il timore e le sensazioni negative che avevo dovuto
trattenere sino ad allora, vennero a galla e si manifestarono in quella maniera
tanto infantile che io volevo sempre nascondere, ma che in realtà svelavano ciò
che ero realmente: poco più che una bambina.
Sentii la mano calda del ragazzo accarezzarmi il capo con dolcezza, cerando di
consolarmi. “Hai avuto paura, non è vero? Ma non devi preoccuparti, adesso è passato
tutto…”.
Rassicurata da quel tocco gentile, mi immersi tra le sue minute braccia,
scordandomi per un attimo che fosse un maschio. Quasi come se fosse un fratello
maggiore, o addirittura una sorella. Mi trasmetteva uno strano senso di
sicurezza che solo una donna sarebbe stata in grado di offrirmi, ma… non mi
feci problemi più di tanto.
Continuai a piangere a sfogare il mio dolore tra le braccia del mio salvatore.
Eravamo rimasti un bel po’ in quella posizione, prima che riuscissi a calmarmi
e a farmi mente locale. Il giovane che mi aveva aiutata non mi aveva chiesto
informazioni, o almeno, non fino a quel momento… Si era solo preoccupato di
capire la situazione in cui mi trovavo.
Non fui molto specifica, mi limitai a rivelare quanto bastava per far fronte ai
miei problemi: ero sola, non aveva un posto in cui andare ed ero ferita. Punto.
Lui, però, nonostante fossi rimasta sul vago, con un cordiale sorriso sulle
labbra mi disse: “Non preoccuparti, ti aiuterò io. Ora come ora, però, non
saprei proprio come fare. Beh, adesso pensiamo a come guarirti. In queste
condizioni, non sei neanche in grado di camminare”.
Detto ciò, si tolse gli zoccoli che portava e me li porse.
“No… Non potrei mai usare i tuoi!” rifiutai. Non potevo accettare anche questo!
Avrebbe significato approfittarsene, altrimenti.
“Avanti, indossali. Io sto bene. Non mi rovinerò i piedi per qualche metro. Se
tu cammini senza, ancora una volta, invece, rischi di perderli seriamente”. Mi
sorrise ancora una volta e mi incitò ad indossarli. “Avanti”.
Non volendo fare più storie, feci come mi aveva detto e mi rimisi in piedi con
il suo aiuto.
“Voglio aiutarti, ma non so proprio come fare. Anche se ho una minima idea… Per
ora, però, la cosa importante è medicare le tue ferite”.
Io annuii, mentre lo vidi assumere un’espressione un po’ preoccupata.
“Sperando che gli altri lo accettino e
non si arrabbino…”.
“Come…?” chiesi, un po’ spaesata.
“Eh? Ah, niente, niente. Non importa. Su, andiamo!” . Detto ciò, mi aggrappai
con le mani al suo braccio, per riuscire a mantenermi in piedi, mentre
camminavo.
Restammo in silenzio per circa dieci minuti, quando finalmente ebbi il coraggio
di esordire: “Mi spiace… Scusami”
“Hm? Per cosa ti stai scusando?” mi chiese lui, perplesso.
“Ti stai prendendo tutto questo fastidio per me… Ti ho causato un sacco di
problemi. Mi spiace… Mi spiace davvero”.
“Ah, ma non importa. Avevo notato che ti trovavi in difficoltà. In realtà non
pensavo si trattasse di qualcuno che ti stava inseguendo. Più che altro, quando
ti ho vista singhiozzante, rannicchiata in un vicolo, con la testa tra le mani,
ho pensato che stessi male”.
“E sei stato tanto gentile da aiutarmi… Non saprò mai come ringraziarti
abbastanza per questo…”.
“Ah, non preoccuparti” mi sorrise radiosamente. “Fortunatamente mi sono
ritrovata quella stoffa per kimono regalatami da Osen-chan. Se non fosse stato
per quella, non avrei saputo come aiutarti”.
Ricambiai il suo sorriso, altrettanto gioiosamente. “Allora ringrazia anche
questa ragazza da parte mia. Oh, è vero…” . Feci mente locale. “Mi hai aiutata
così tanto e non so neanche il tuo nome! Io sono Hikaru. Okita Hikaru”.
“Okita…?” sibilò lui, guardandomi con aria un po’ sorpresa.
“Hm?” . Gli rivolsi un’aria perplessa, inclinando leggermente il capo. “Si,
perché? C’è qualcosa che non va?”
“No è che… qui a Kyoto c’è un famoso Okita…”
Oh… sì… Mio padre…
Quindi lo conosce… Beh, suppongo che, data la carica importante che ricopre,
sia del tutto impossibile non riconoscerlo.
Nonostante questo, però, non volevo dirle che ero sua figlia. Mi avrebbe
portato, in primo luogo, problemi. E poi… io non mi sentivo affatto sua figlia.
“Oh, davvero?” finsi di non sapere. “Beh, stai tranquillo. Non abbiamo nessun
legame di parentela. Io non sono di qui”.
“Oh, vieni da fuori, allora?”
“Hm!” annuii con vigore. “Precisamente da Edo”. Poi feci per pensarci su: “Ah,
comunque… Il tuo nome…”
“Ah… Giusto! Scusami! Io mi chiamo Ch…”
“Chizuru-chan” sentii ad un tratto provenire da lontano. Una voce… una voce
familiare.
Il ragazzo si voltò alle sue spalle, quindi ne dedussi che quello doveva essere
il suo nome.
Chizuru? Che strano nome per un ragazzo… Pensai
spontaneamente, ma successivamente mi apprestai a notare da chi provenisse
quella voce.
Era la figura di un uomo. Ma era in lontananza e col buio non riuscivo bene a
distinguerla.
Istintivamente indietreggiai, ma Chizuru mi si rivolse con aria gentile e
pacata. “Non preoccuparti. Non è qualcuno che vuole farti del male. E’un mio
compagno”.
“Un tuo… compagno…?” chiesi, tentennante.
Lui annuì. “Fidati di me, d’accordo?”.
“Chizuru-chan, si può sapere che stai facendo?” continuò la voce dell’uomo che
si stava avvicinando. Il suo timbro vocale però non era marcato. Sembrava più
la voce di un ragazzo abbastanza grande che non di un adulto vero e proprio. E
quel maledettissimo senso di familiarità non mi abbandonava, mentre la sua
figura si avvicinava sempre più a noi. “ Hijikata-san si sta logorando il
fegato per la preoccupazione, dato che per prendere un kimono da Osen-chan ci
stavi mettendo così tanto… E quindi mi ha mandato a prenderti da brava balia”.
“Oh, mi dispiace!” si scusò con aria
mortificata lui. “E’ che ho avuto un contrattempo. Vedi… questa ragazza si
trovava in difficoltà, e allora…”.
“Sempre ad intrometterti negli affari degli altri, vero? Non riesci proprio a
continuare per la tua strada senza preoccuparti della gente che ti circonda”
“Però…”
“Scommetto che degli uomini la stavano importunando. Sai… è del tutto normale
se una ragazzina come quella se ne va girando la notte tutta da sola e così mal
conciata. Non ci vuole molto perché si pensi male di lei”.
La voce si avvicinò, così come colui a cui essa apparteneva. In poco tempo ci
fu di fronte e la luce della luna me lo rivelò agli occhi.
…
Forse non fui mai tanto sorpresa come in quel momento. Ero sicura che se mi
fossi specchiata, avrei visto un’espressione a dir poco incredula e spaesata,
come se Kami-sama mi fosse apparso proprio davanti agli occhi, come in un
sogno.
I capelli castani leggermente tendenti al rosso, legati in una delle tipiche
acconciature dei militari giapponesi, gli occhi verde foglia, profondi e
penetranti, capaci di scrutarti sin dentro l’anima, i lineamenti gentili del
volto, un corpo che non riconoscevo più… ormai sviluppato e ben allenato. E,
infine, quella tipica aria divertita e pacata che ti aveva caratterizzato da
sempre.
Non importava quanto la situazione fosse tranquilla, o, viceversa, disperata,
quel sorriso e quello sguardo impertinente e tipico di chi riesce sempre a
restare sulle sue, qualunque cosa succeda, rimanevano sempre sul tuo volto.
No… Non è possibile… Non è possibile che
sia lui…
“Hai preso proprio una brutta abitudine, sai, Chizuru-chan? Prima con Kaoru,
poi con Osen-san… E ora con questa ragazzina. Ti diverti a fare il giustiziere
mascherato?” le domandò, non trattenendo una serena e sonora risatina.
Persino il modo in cui ride mi ricorda
lui…
Ma… come può essere…? Non è che mi sto facendo solo illusioni…?
“Oh, non è giusto! Non prendermi in giro così!” si ribellò il mio salvatore,
con aria visibilmente offesa verso quel ragazzo. “Lo sai che non lo faccio di
certo per divertirmi, Okita-san!”.
Spalanco gli occhi e la bocca rimane leggermente semi-aperta.
“Okita-san”…? Ha detto proprio
“Okita-san”…? Ma… allora questo vuol dire…
Solo in quel momento mi ricordai tutto: era vero. Anche tu eri a Kyoto. E,
anzi, eri il motivo fondamentale per cui avevo acconsentito al viaggio fino a
questa città.
Quindi… questo stava a significare che… l’Okita famoso a cui si riferiva
Chizuru non era mio padre, ma…
“Sou…ji?” sillabai, quasi senza voce per la sorpresa e l’emozione.
Ora, mentre Chizuru si voltò verso di me un po’ perplesso e meravigliato, sul
tuo volto comparve segno di stupore, innanzitutto, che poi si tramutò in
un’espressione di diffidenza e di sospetto.
“Cosa?” esordì, incredulo, Chizuru, che fece per avvicinarsi nuovamente a me.
“Ma allora lo conosc…”
“Non ti muovere, Chizuru-chan” lo fermasti tu, per poi raggiungerlo e
posizionarti davanti a lui, quasi come se volessi proteggerlo. La tua aria
circospetta non lasciò mai il tuo volto, ma il tuo sguardo e il tuo sorriso
sprezzante del pericolo non ti lasciarono neanche in quel momento.
“Okita…san?” . Il giovane ragazzo aveva uno sguardo perplesso e non riusciva a
capire il perché della sua azione. E, a dire il vero, neanche io.
“Non ti avvicinare come se niente fosse a questa ragazza. Potrebbe essere
pericoloso”.
Cosa?!
“Ma che stai dicendo, Okita-san? Perché dovrebbe essere pericoloso? Questa
ragazza… Ah! Ma… ha pronunciato il tuo nome… La conosci?”
“Mai vista in vita mia” affermò, estraendo la katana dal fodero molto
lentamente, per poi puntarmela contro.
Non voleva farmi del male (all’apparenza non sembrava), ma l’aria che lo
avvolgeva era minacciosa e diffidente.
Rimasi ferita da quel gesto: come poteva, dopo tanto tempo che non ci vedevamo,
puntarmi la katana contro? E perché sarei dovuta essere ritenuta pericolosa?
Che cosa avevo fatto di male?
Ma… ha detto che non mi ha mai vista in vita sua, quindi… sono due le
possibilità: o non mi aveva riconosciuta, oppure stava facendo finta di niente,
Dio solo sa per quale motivo.
Speravo davvero si trattasse della prima opzione. E, comunque, nonostante
stessi cercando di giustificarlo con quell’ipotesi, la sua azione nei miei
confronti mi lasciò un amaro in bocca che non sarei riuscita a sputare così in
fretta.
“Ma il fatto stesso che sappia il mio nome ed io non il suo, mi lascia alquanto
pensare…”.
“Non vorrai mica dire che…?” cercò di leggere tra le righe Chizuru. “Possibile
che sia…?”
“Non so se sei un oni, o una loro
spia umana, ma… sappi che in entrambi i casi non sei ben accetta qui” dicesti,
rivolgendoti a me, con quel sorriso sulle labbra tipico di chi stava lanciando
una sfida.
Oni…? Ma… di che cosa sta parlando?
“Sono io…” esordii, cercando di avvicinarmi pian piano a lui. Avevo un tono di
voce basso, ma non sapevo perché. Non riuscivo semplicemente ad alzare la voce
più di così. “Davvero non mi riconosci?”
“Spiacente, ma non credo di aver mai bevuto in tua compagnia. Ragion per cui…
No, credo davvero che tu abbia sbagliato persona”.
“Possibile che non sai chi sono?” ribatto, alquanto anche offesa da questo suo
atteggiamento. “E’… E’ vero che sono passati tanti anni e che forse sarò
cambiata un po’, ma… Sono io. Proprio io!”.
“Neh, neh, ojou-san… è vero che non avrò più l’età di una volta, ma non sono
neanche così decrepito da scordarmi persino chi conosco, sai?” .
“Okita-san, però… Sembra davvero che lei ti conosca…”
“Sai, Chizuru-chan, se c’è una cosa che adoro di te è la tua ingenuità e la tua
semplicità” affermasti, sorridendole spontaneamente. “Però, sai, se continui
così, non ci vorrà molto prima che ti conducano alla morte” constatasti, prima
di scrollare le spalle e tornare a rivolgermi tutta la tua attenzione. “Mi
spiace, ma credo ti sia andata male. Non sono il tipo che se ne fa molti di
problemi, anche se devo fronteggiare una donna”.
“Ma di che stai parlando? Io non riesco proprio a capire perché ti stai
comportando in questa maniera!” esclamo, cercando di farmi ragione. “Io… Io
voglio soltanto che…” . Ma non faccio in tempo ad avvicinarmi ancora, che,
poggiando in modo errato il piede, cado per terra, sulle ginocchia proprio
davanti ai tuoi occhi e quelli di Chizuru.
“Oh no!”. Proprio quest’ultimo, vedendomi in difficoltà, fece per superarti e
venirmi in soccorso, ma tu non glielo consentisti: la afferrasti per il polso,
trattenendolo.
“Certo che la testa ce l’hai di coccio, eh? Ti ho detto di non avvicinarti a
lei, o sbaglio?”.
“Ma… Ma… guardala! E’ caduta! Ha delle ferite ai piedi e non può neanche
camminare” cercò di ribattere lui. “Ha bisogno d’aiuto”.
“Certo che tu e il buonsenso non andate molto d’accordo” gli facesti notare.
“Non hai alcuna garanzia che non si tratti di un oni o di chi ne fa le veci”.
“Ma quali garanzie abbiamo che, invece, se ne tratti?” cercò di ribattere lui.
Perché…? Perché non mi ascolta?
Nel frattempo, non ascoltavo più i vostri discorsi. Non li seguii più.
Semplicemente non riuscivo a fare a meno di pensare che non mi riconoscevi, che
mi stavi puntando la katana contro e che mi stavi minacciando, per chissà quale
oscuro motivo.
Anche lui non mi riconosce…
“Questa… è la seconda volta…” esordii io, col capo chino e con appena un
filo di voce. Tuttavia, nonostante avessi appena sussurrato quelle parole, sia
tu che Chizuru mi sentiste.
“Questa è… la seconda volta che non mi riconosci…”.
Avevo lo sguardo rivolto in basso, per tentare di calmarmi e di non far uscire
quella parte infantile che ancora una volta stava cercando di prendere il
sopravvento su di me, quindi non sapevo quale espressione aveste sul volto,
però... Io proseguii lo stesso, mentre iniziarono a tremarmi sia la voce, che
le spalle: “Prima mio padre… e ora tu… E’ tanto difficile ricordarsi di me?
Conto davvero così poco, da dimenticarmi tanto facilmente? Evidentemente non
valgo poi così tanto…” . I singhiozzi divennero più frequenti ed anche se
cercavo di limitarmi, le mie parole proseguirono in modo sempre meno lineare e
scorrevole: “Eppure, nonostante lo sapessi… Non pensavo che potesse ricordarselo
mio padre… Non mi aspettavo niente da lui, ma… Almeno da te. E dire che volevi
anche sposarmi” . Alzai lentamente il volto nella tua direzione, ormai con le
lacrime agli occhi che incominciarono a rigarmi le guance infreddolite e
tremolanti. “Davvero non mi riconosci… Sou-nii…?”.
Quasi come se ti avessi lanciato un incantesimo, il tuo volto, prima soltanto
manifestante sospetto e discrezione, fu invaso dallo stupore più vago. Gli
occhi leggermente sgranati e le labbra dischiuse, in segno di meraviglia, mi
diedero l’ulteriore prova della tua confusione.
“Sp... Spos…?!?” . Chizuru si voltò sorpreso (ed era dire poco) verso di te,
per poi continuare, ancora più curioso e spaesato: “Sou…nii…?”.
“Quel… soprannome…” sibilasti, con sguardo ancora più incredulo, mentre la tua
presa sulla katana si allentava molto lentamente. “Non… Non è possibile…” .
Dopo aver riposto immediatamente la lama nel fodero, ti avvicinasti a me, che
ancora singhiozzavo. Una volta che mi fosti di fronte, ti piegasti su un
ginocchio, avvicinando il tuo volto al mio per guardarmi meglio.
Passato qualche secondo a scrutarmi ed esaminarmi, ti allontanasti di poco,
prima di esordire: “Hikaru… chan?”.
Sorrisi, in lacrime, stavolta per la gioia. Annuii leggermente col capo. “Finalmente…
Ce ne hai messo di tempo, eh?”.
“Allora era vero che vi conoscevate!” affermò il suo compagno, raggiungendolo.
“Sì, è vero, ma…”
“Sono così felice” sussurrai, interrompendo la tua risposta pronta. “Sono così
felice… che tu mi abbia… riconosciu…” . Ma non terminai la frase.
Persi i sensi, cadendo presumibilmente tra le tue braccia. Svenni per la paura
che avevo provato sino ad allora, per il dolore e per l’agitazione. Ma, quasi
sicuramente, ciò che mi diede il colpo di grazia fu la felicità e l’emozione
che riprovai nel vederti di nuovo dopo tanto e tanto tempo.
**** Innanzitutto vorrei ringraziare tutti coloro che seguono questa ff! Coloro che la recensiscono e che mi danno man forte! Ringrazio coloro che l'hanno inserita tra le loro preferite, le seguite e anche le ricordate. E un ultimo ringraziamento a coloro che la seguono ma non recensiscono. In fondo in fondo mi piacete anche voi! ^-^ XD Vi voglio un sacco di bene! Alla prossima!!!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Ricordi, conoscenze e scontri ***
Ciao a tutte quante! ^^
E’ da tanto che non ci si sente, vero? Be’, è passato più di un anno
effettivamente… (ride). Ebbene sì, sono
tornata. Non vitale come prima, ma sono tornata. Dovete perdonarmi se ho
abbandonato all’improvviso la storia e tutto, ma ci sono stati gravi problemi
personali sotto vari profili a cui ancora oggi cerco di porre rimedio in tutto
e per tutto (anche se non ci riesco al 100%).
Oggi, giornata dei lavoratori – anzi, ne approfitto per fare gli auguri a chi
di voi lavora, me compresa, attualmente – Alice è tornata per donarvi un altro
capitolo di questa straziante storia XD E come se non bastasse anche questo
capitolo è infinitamente lungo come i precedenti. Sono rimasta circa 38 minuti
a pensare e domandarmi se dividere il capitolo o meno, ma ragionandoci su ho
notato che il punto in cui avrei dovuto interrompere la storia era proprio
quello cruciale e che sicuramente vi avrei lasciate scontente e deluso. Quindi,
contando che è anche il capitolo che annuncia il mio ritorno in pista (anche se
purtroppo sarò ancora moooolto lenta nel rilasciare i capitoli, causa
università mista a lavoro) ho voluto regalarvi queste pienissime 21 pagine di
capitolo tutte per voi *w* Spero vivamente che il capitolo piaccia. Come sempre
ho cercato di mantenere i personaggi il più IC possibile e spero anche di esserci riuscita. Che dire
di questo capitolo? Be’, scopritelo da sole no? ^w^
Nel frattempo, prima che me ne scordi, ringrazio tutte le persone che mi hanno
recensito la storia, che l’hanno continuata a seguire e che ogni tanto si
domandavano che fine avessi fatto ( XD ) e dedico a tutte mie lettrici questo
capitolo! Grazie del vostro continuo supporto!
La vostra Alice.
****
Il vuoto.
In quel momento sentii solo il vuoto in me.
Probabilmente perché persi i sensi e, di conseguenza, non vidi niente, né
sentii niente. Il vuoto più totale.
Sarà stato per la rinnovata delusione che ottenni nei confronti di mio padre?
Per il dolore che provai constatando che per mia madre valevo meno di
quell’uomo? Per la paura di essere ritrovata e portata da loro che mi inchiodò
a terra, incapace persino di respirare? Oppure per la felicità di averti
ritrovato?
Probabilmente per tutte e quattro le cose.
Erano successe tante cose in quelle poche ore che ero giunta a Kyoto, ma se non
altro almeno mi ero ricongiunta a te. E questo, per me, contava più di ogni
altra cosa.
Autunno. 20 Ottobre, 1866. Kyoto.
Ero intontita. No… Intontita era dir poco: frastornata mi si addiceva di
più.
Forse quello non era proprio il momento giusto per svegliarmi, dato che appena
aprii gli occhi consumati e gonfi a causa delle lacrime, la testa incominciò a
barcollarmi (e non mi ero neanche messa seduta!) e percepivo le forme di ciò
che mi era davanti in maniera offuscata, quasi come se mi avessero bendata.
Non ero in grado di capire se fosse mattina, pomeriggio o tarda sera, o
semplicemente non ci feci caso: la sola ragione per cui mi svegliai dal mio
riposo ristoratore fu a causa delle voci altisonanti nelle vicinanze del luogo
in cui giacevo.
“Hijikata-san, per favore… Lasciate almeno che si riprenda!” implorava con tono
sottomesso, una voce esile, però a me molto famigliare.
Di chi era quella voce? Non ricordavo proprio…
“Non intendo discuterne ancora” tuonò la voce di un altro uomo, di tutta
risposta, all’apparenza un po’ burbera. “Basta così”.
“Ma… Non potete lasciarla in quelle condizioni!”
“Posso e come!”
Confusa qual’ero ancora, non capivo di che cosa stessero parlando quelle voci e
tantomeno a chi appartenessero.
Mi misi lentamente a sedere sul futon morbido che mi aveva accolta, senza chiedermi
minimamente da dove fosse sbucato fuori. Attesi che la testa finisse di girarmi
e che gli occhi accettassero di vedere immagini un po’ più vivide delle ombre
deformi avvistate fin dal mio risveglio.
“Hijikata-san, vi scongiuro… So di chiedervi molto, ma almeno rifletteteci su”.
“Non c’è niente su cui riflettere, Chizuru”.
Non mi ero ancora ripresa del tutto, né stavo capendo dove mi trovavo, in
presenza di chi e per quale ragione (era tutto ancora offuscato), ma bastò quel
nome per riportarmi alla mente tutto quello che era successo. Non sapevo dire
se si trattava di molto o poco tempo, giacché non ero a conoscenza di quanto
ero rimasta priva di sensi, ma doveva trattarsi di poco, dato che ricordavo
ancora tutto così nitidamente, come se stessi rivivendo tutto attraverso uno
specchio d’acqua purissima.
Subito mi accinsi ad avvicinarmi al fusuma
che mi separava dalle due figure che si stavano accingendo a raggiungere la mia
stanza: l’una era quella di Chizuru, ne ero più che sicura, dato che avevo
anche riconosciuto la sua voce. Ma l’altro… Chi era?
Sou-nii?
Pensai istintivamente, ma non si trattava di lui.
Se fossi stata un po’ più furba, non avrei neanche azzardato l’ipotesi, dato
che la voce del mio salvatore non faceva altro che ripetere in continuazione
“Hijikata-san, Hijikata-san”, ma ero troppo vacillante e poco lucida, appena
sveglia, perché potessi accorgermene.
Esitante, allora, non appena capii che le due figure si erano fermate proprio
al di là del mio fusuma, feci per
aprire uno spiraglio che mi potesse permettere d’intravedere quelle persone e
di constatare se uno dei due fosse realmente Chizuru-san.
Non nascondo che la curiosità di vedere questo “Hijikata” con cui stava
battibeccando il ragazzo mi stava
divorando viva, ma questo non conta poi tanto.
Non appena lo vidi, ebbi un sussulto.
Un uomo possente, dai lineamenti duri, occhi piccoli e cattivi, corpo simile a
quello di un orso e un’aria terrificante… Era così!
Beh… Perlomeno era così che immaginavo fosse… ma… dovetti ricredermi: era bello.
Bellissimo. Come un dio.
Era alto, molto alto, ed era una delle cose che lo rendeva inquietante, ma non
spaventoso, perché aveva un corpo ben allenato e gli si intravedevano dal
kimono i muscoli sodi, i suoi lineamenti erano delicati, nonostante la voce
burbera, gli occhi li aveva del colore dell’ametista e sembravano tanto
gioielli preziosi, così come i suoi lunghi capelli neri parevano pregiata seta,
legati in una lunghissima coda di cavallo.
Probabilmente se la mia mente e il mio cuore non fossero stati pieni di te da
così tanto tempo, me ne sarei potuta anche invaghire follemente fino ad
arrivare ad amarlo.
Era uno di quegli uomini per cui una donna facilmente poteva perdere la testa
ed arrivare a provare vera e propria ossessione nei suoi confronti.
Ero sicura di essere arrossita, dopo averlo visto in tutto il suo splendore, ma
la dura realtà mi chiamò nuovamente al suo cospetto, dopo il nuovo intervento
di Chizuru: “Vi prego… Vi chiedo solo il tempo necessario a farla sentire
meglio!”.
“Non insistere, Chizuru. Ho già detto che non se ne parla più. La ragazza deve
andarsene. E subito!” ribatté con tono burbero l’uomo dagli occhi ametista,
circondato dal candore della luce mattiniera. I raggi del sole nascevano timidi
oltre le montagne. Era appena l’alba.
Fu allora che intesi che l’oggetto del diverbio ero io.
“Come potete ragionare in questo modo? Quella giovane è ferita e non ha alcun
posto dove andare…”
“Come ragiono è un mio problema che non deve riguardare te” . Sospirò. “Cielo…
non ostinarti a perseguire questo tuo assurdo proposito, Chizuru. Sono stanco
di ripetermi. Non ha alcuna importanza se è ferita, non ha un posto dove andare
o qualunque altra cosa… Se ho detto che non può restare, allora non può restare”.
Chi è quella persona? Chi è questo
Hijikata-san?
Non potetti fare a meno di chiedermi, anche leggermente intimorita.
Dove siamo? Dov’è Sou-nii? E perché
Chizuru-san sta litigando con quel tizio?
Restare? Andarmene? Ma… dove? Che sta succedendo?
La confusione albergò in me come la linfa in un albero: mi aveva invasa
completamente. Non riuscivo a capire dove ci trovavamo, chi era quell’Hijikata
e di che cosa esattamente stesse parlando con Chizuru. Molto probabilmente, se
non vi fosse stato quest’ultimo a rassicurare la mia mente, avrei dato di
matto. Ma… una preoccupazione molto più profonda s’insinuò nel mio cuore:
dov’eri tu, Sou-nii? Perché non c’eri anche tu lì?
La tristezza mi prese all’improvviso e incominciai a pensare che la voglia di
vederti era talmente tanta che mi aveva spinto ad immaginare tutto: di averti
incontrato, di averti parlato e che tu, anche dopo non pochi sforzi e dolori,
mi avessi riconosciuta.
Tutto. Tutto quanto.
Ho forse sognato tutto? Ho forse avuto un
miraggio? Magari dovuto alla stanchezza e allo stress…
Nonostante cercassi di darmi una spiegazione, il solo pensiero che in
realtà non ti avessi incontrato veramente, mi dava la nausea. Sarei potuta
svenire nuovamente da un momento all’altro. E sono certa che sarebbe accaduto
se all’improvviso Chizuru non avesse esordito: “Hijikata-san, quella ragazzina…
è anche una parente di Okita-san! Anche questo non ha alcuna importanza?”
Allora… non ho immaginato tutto? E’ vero!
Ho davvero incontrato Sou-nii!
La gioia che mi aveva dato il mio salvatore pronunciando quelle parole fu
immensa. Probabilmente se non fosse stato impegnato a discutere con
quell’Hijikata, gli sarei saltata al collo ringraziandolo a più non posso.
Sempre continuando a spiare dalla fessura tra ifusuma, intravidi l’espressione alquanto disorientata dell’uomo e
quella ostinata e temeraria di Chizuru-san.
“Parente?” chiese, ormai non più spaesato, quanto voglioso di conoscere la
verità. “Che intendi dire? Chi sarebbe questa giovincella per Souji?”
“Ecco… In realtà, non ve lo saprei dire con esattezza” rispose, un po’ in
difficoltà, lui. Aveva lo sguardo rivolto in basso e un’aria colpevole,
mortificata di non saper dare una spiegazione esordiente. “Prima di svenire,
Hikaru-chan ha detto qualcosa circa una sposa, o qualcosa del genere…”
“Una sposa?” chiese, meravigliato, Hijikata. “Come sarebbe a dire?! Non è
possibile che…”
“No, no, non è come pensate voi, Hijikata-san. Dopo che la ragazza ha perso i
sensi, Okita-san l’ha presa in braccio e mi ha liquidata dicendomi che era una
sua parente. Ma andavamo di fretta per portarla qui, quindi non sono riuscita a
chiedergli di chi si trattasse con esattezza”.
“Una parente…” . L’uomo sembrò ragionarci su per un po’, dopodiché: “Per quanto
ne so io, le uniche donne con grado di parentela che ha Souji, risiedono ad Edo.
E’ assurdo che qualcuno della sua famiglia si trovi qui. In questo periodo,
poi…”.
“Ma, Hijikata-san… Lei…”
“Non voglio sentire ragioni. Non sappiamo chi sia esattamente. Possibile che
Souji si sia sbagliato. Dunque…”
“Io sono… sua nipote!” esclamai, d’impeto, interrompendo la discussione tra i
due.
Non so chi mi diede il coraggio di farlo, soprattutto quando vidi quelle due
pietre d’ametista puntate su di me. Ma… dovevo farlo. Sentivo di doverlo fare.
Volevo assolutamente rivendicare la mia parentela, il mio legame con te.
Lentamente e cercando di ignorare il dolore alle piante di entrambi gli arti,
mi misi in piedi e aprii totalmente le porte dei fusuma, uscendo nel corridoio
che dava sul cortile esterno.
Mi avvicinai istintivamente a Chizuru, affiancandomi a lui, proprio perché,
nonostante la mia sfacciataggine, avevo timore di quell’uomo che, in primo
luogo, non conoscevo e che non sapevo in alcun modo come avrebbe reagito alla
mia intrusione nel discorso. Volevo al mio fianco qualcuno di cui mi fidavo e
che avevo capito essere dalla mia parte.
“Io sono la nipote di Sou-nii” rivendicai, guardando l’uomo di nome Hijikata in
volto.
Proprio quest’ultimo, mi guardò disorientato. “La nipote…?”
Io annuii. “Sou-nii è il fratello minore di mia madre”.
“Fratello minore…” fece per pensarci, per poi tornare alla sua solita
espressione incorruttibile e severa. “Ad ogni modo, anche se fosse… Non puoi
assolutamente restare qui”.
“Io… Aspettate un secondo… Io non so neanche dove siamo!” cercai di ribattere,
per poi voltarmi spaesata e leggermente preoccupata verso Chizuru. “Dov’è
Sou-nii? Perché non è qui? Dove siamo?”.
Lui mi sorrise, cercando di calmarmi. “Non preoccuparti, Hikaru-chan. Qui sei
al sicuro. Nessuno ti farà del male. Okita-san è uscito un attimo e…”
“Uscito? Dove? Perché se n’è andato?”
“Per favore calmati” mi rimproverò lui, seppur con dolcezza. “Non so dove sia
andato, né cosa sia andato a fare. So soltanto che dopo averti accompagnata qui
ed avermi pregata di prendermi cura di te, è uscito in fretta e furia, dicendo
che aveva qualcosa di urgente di cui occuparsi”.
Qualcosa di urgente di cui occuparsi…
Pensai tra me e me di cosa potesse trattarsi. Avevo il timore che mi
lasciassi da sola lì. E io non avevo alcuna intenzione, adesso che ti avevo
ritrovato, di perderti di vista, senza neanche poterti incontrare un’ultima
volta.
“Ma, Chizuru-s…”.
Non riuscii neanche a richiamare nuovamente la sua attenzione, poiché un gruppo
di voci ci raggiunse e m’interruppe.
“Si può sapere che diamine sta succedendo?”
“Già. E’ da stanotte che sentiamo chiasso e movimenti vari… Che avete deciso,
di farci passare le notti insonni?”
“Se succede qualcosa, vorremmo sapere almeno di che si tratta”
“E soprattutto perché nessuno sta ancora preparando la colazione?!”.
Tre uomini – unodai capelli lunghi, rossi e gli occhi color dell’ambra, l’altro
castano dagli occhi azzurri come il cielo, entrambi molto alti e muscolosi, e
l’ultimo un po’ più basso di statura, ma anch’egli molto ben allenato
fisicamente, dai lunghissimi capelli castani, raccolti con un’alta coda di
cavallo, e gli occhi tendenti al verde-acqua –
giunsero sino al luogo dov’eravamo noi, seguiti da un quarto, di statura
e corporatura media, dai lineamenti gentili, nonostante la sua aria impassibile
e severa, i capelli anch’essi molto lunghi, raccolti in una coda scesa cadente
sulla spalla destra, neri (che alla luce assumevano riflessi quasi i colori del
mare) e gli occhi blu.
Erano indiscutibilmente tutti dei bellissimi ragazzi, ma la confusione e il
leggero timore di non sapere di chi si trattasse mi diede troppo alla testa,
perché potessi constatare con più calma e più oggettività il loro fascino.
Hijikata-san assunse un’espressione contrariata che rivolse subito al quarto
degli uomini che erano sopraggiunti. “Saitou, ti avevo ordinato di tenere a
bada tutti e di non permettere a nessuno di accedere a quest’ala del tempio
fino a questo pomeriggio”.
Tempio?
Mi domandai, sentendo quella parola.
Siamo in un tempio?
Parzialmente la risposta alla mia domanda era giunta, ma che cos’era quel
tempio? Non mi sembrava davvero una zona tranquilla quella, per edificare un
tempio. E quelli decisamente non erano monaci!
“Sono mortificato, vice-comandante. Non sono riuscito davvero a trattenerli.
L’unica cosa che ho potuto fare è stata seguirli e accertarmi che non
combinassero ulteriori danni” si scusò il ragazzo dai capelli neri e gli occhi
del color del mare, che avevo inteso chiamarsi Saitou.
Vice-comandante?
“Ma con chi credi di parlare? Con dei bambocci?” abbaiò l’uomo dai capelli
castani e gli occhi azzurri.
“Su, Shinpatsu-san, non te la prendere. Noi siamo superiori. Su-pe-rio-ri”
cercò di calmarlo, il ragazzo un po’ più basso di tutti. A giudicare
dall’aspetto doveva essere il più giovane tra di loro. Forse era poco più
grande di me.
“Are?” esclamò con tono perplesso e
nel contempo un po’ spaesato il rosso dagli occhi ambrati, quando il suo
sguardo cadde su di me. “E questa qui chi è?” chiese, per poi avvicinarsi pian
piano a me.
Di tutta risposta io, forse per via della situazione, forse perché avevo timore
che mi facesse qualcosa, mi nascosi istintivamente dietro Chizuru,
aggrappandomi al suo roseo kimono con le mani un po’ tremanti.
Vista la mia reazione, tutti i presenti ne furono sorpresi.
“Hai visto, Sano? La tua brutta faccia l’ha spaventata! Ahahah!” non trattenne
una risata l’uomo di nome Shinpachi.
“Stai scherzando? E’ sicuramente perché ha visto la tua stazza da orso, che è
così terrorizzata! Forse, vedendoti così grosso, ha pensato che te la potessi mangiare!”.
“Volete smetterla una buona volta?” cercò di far cessare la lite, il ragazzino.
“Oh, no… Non devi preoccuparti” mi rassicurò, nel frattempo, Chizuru,
sorridendomi e stringendomi a lui, invitandomi con la mano a non nascondermi.
“Queste persone non ti faranno niente. Sono dei bravissimi ragazzi. Te l’ho già
detto: qui con noi, sei al sicuro”.
Nonostante il suo tentativo di calmarmi, non volli scostarmi da dietro la sua
spalla, ma feci qualche passo avanti, limitandomi a rimanergli a fianco, stretta
al suo braccio. Nel frattempo gettavo occhiate indagatrici verso i nuovi
arrivati, cercando di farmene una qualche idea.
Forse fu proprio il commento e le parole di Chizuru a riportare la loro
attenzione su di me.
“A proposito, Chizuru-chan” lo chiamò il tipo di nome Sano. “Saresti così
gentile da spiegarci chi è questa ragazza? Una tua amica, per caso?”
“Eh? No, non è una mia amica. Ecco, in verità…”
“Non è nessuno” la interruppe freddo, Hijikata-san. “Non è nessuno di cui valga
la pena conoscere l’identità, e, comunque, lascerà questo posto a breve, quindi
tornate nell’altra stanza. La colazione arriverà fra poco”.
“Come sarebbe a dire che non sono nessuno?!” ribattei io, profondamente ferita
nell’orgoglio. Era vero che avevo timore di quella gente e soprattutto di
quell’uomo, ma… Non permettevo che mi si trattasse a quel modo! Se avevo avuto
il coraggio di rispondere e ribellarmi a mio padre, figurarsi se mi facevo
mettere i piedi in testa da quel bell’imbusto!
E poi, sì, ammetto che se non ci fosse stato Chizuru su cui fare affidamento,
molto probabilmente non avrei azzardato quella mossa falsa, ma dato che avevo
qualcuno dalla mia parte, ero dell’idea che tanto valeva sfruttare
l’opportunità.
“E come sarebbe a dire che a breve dovrò lasciare questo posto? Io di qui non
mi muovo finché non torna Sou-nii!”
Già, era stata soprattutto questa la cosa che mi aveva fatta star male. Il
fatto che quell’uomo burbero e crudele, seppur bellissimo, volesse impedirmi di
rivederti a tutti i costi. In realtà non è che m’importasse molto di rimanere
in quel luogo. Volevo soltanto rivederti, parlarti e magari capirci qualcosa di
quella situazione e chiederti perché mi avevi portato proprio in quel posto. E
dato che era lì che mi avevi portata, questo significava che quasi
certamente vi saresti tornato, no?
Hijikata-san mi guardò in primo luogo sorpreso, probabilmente, dal fatto avessi
osato rispondergli; in secondo luogo mi fulminò con le sue due ametiste, e
sembrò voler esordire qualcosa, ma fu interrotto da un sonoro: “Sou-nii?” , che
fu esclamato all’unisono dai due di nome Sano e Todou, spaesati.
“E chi sarebbe?” completò, Shinpachi.
Fu così che Chizuru si fece coraggio e prese a spiegare: “Questa notte, di
ritorno dalla visita ad Osen-chan, ho incontrato questa ragazza, Hikaru-chan, e
quando Okita-san è venuto a prendermi, perché stavo tardando, abbiamo scoperto
che si tratta di una sua parente”.
“Una parente?” domandò il giovane Saitou.
Chizuru annuì. “Sembra che sia la nipote di Okita-san”.
“La nipote di Souji?!” affermarono in tono interrogativo, tutti e tre in coro,
con aria confusa e meravigliata. Poi presero a fissarmi e ad esaminarmi da cima
a fondo.
“Beh, ora che me lo stai facendo notare, si somigliano anche” osservò Harada
Sanosuke, piegandosi sulle ginocchia per osservarmi ben bene. “Hanno gli stessi
lineamenti del viso”.
Arrossii a quel commento e abbassai lo sguardo, imbarazzata.
A mio parere dirmi che assomigliavo in qualcosa a te, era come se mi si dicesse
di essere la più bella donna dell’intero universo. E ne andavo estremamente orgogliosa.
“Ad ogni modo, si può sapere che ci faceva in giro di notte, da sola?” cercò di
cambiare argomento Hijikata-san, quasi per tornare a dibattere sul fatto che
dovessi restare o meno, rivolgendosi al mio salvatore.
Chizuru, di tutta risposta, abbassò lo sguardo, desolato. “Questo non glielo so
spiegare. So soltanto di averla aiutata a sfuggire da degli uomini che la
inseguivano”.
“Degli uomini che la inseguivano?” domandò lui, per poi piegarsi su un
ginocchio e rivolgere la sua attenzione su di me. “Chi erano questi uomini? E
perché ti stavano inseguendo?”.
Oh no… Se racconto loro tutto, non so che
cosa sarebbero capaci di fare…
Devo assolutamente trovare una via d’uscita…
Distogliendo lo sguardo da lui, borbottai: “N-Non lo so chi erano… So
soltanto che hanno iniziato a darmi la caccia, senza motivo”.
“Senza motivo, eh?” . Lo sguardo di quel giovane non si distaccò da me, neanche
per un attimo. “Chissà perché, ma non mi sembri avere l’aria di una che dice il
vero. Non credo ad una sola parola di quello che hai detto”.
“Perché dovete sempre fare così, Hijikata-san? Se questo è ciò che dice
Hikaru-chan, dovete sforzarvi di crederle!” ribatté, decisamente ostinato,
Chizuru-san.
“Come posso credere ad una che è poco più che una bambina?”
“Io ho tredici anni! E presto ne compierò quattordici!” replicai, con aria
offesa e contrariata.
“Potresti averne anche trenta, per quel che m’importa, ma qui non resterai un
secondo di più”.
“Non se ne parla! Io non mi muovo di qui, finché non ritorna Sou-nii!”
“Hijikata-san, vi prego!” lo supplicò Chizuru.
“Basta così” tuonò, infuriato, zittendoci entrambi. “Per quanto mi riguarda, la
questione è chiusa”.
Vi fu un iniziale silenzio da parte di tutti, finché non intervenne l’uomo di
nome Harada con un tono adatto a sdrammatizzare e a rendere meno pesante
l’atmosfera che si era venuta a creare dopo il rimprovero di questo vice-comandante: “Avanti, Hijikata-san,
non v’intestardite tanto! E’ solo una ragazzina… perché non farla restare qui
con noi? Che male può fare? Almeno fin quando non torna Souji. Poi si vedrà,
no?”
“Già, ha ragione Sano-san, Hijikata-san!” lo seguì, Todou-san, sorridente.
“Anzi, perché non farla rimanere definitivamente? E’ davvero graziosa”
Hijikata-san sospirò e si portò una mano a massaggiarsi le tempie. “Ecco perché
non volevo che lo scoprissero…” .
“Hijikata-san, non si tratta unicamente di questo!” prese a farmi giustizia,
Chizuru-san. “Hikaru-chan non ha neanche un posto dove andare ed è ferita.
Necessita di un luogo in cui risiedere e di una compagnia rassicurante. E’ solo
una ragazzina…”
“Giusto, giusto! Teniamola con noi! Qui sarà al sicuro, no?” si aggregò anche
Shinpachi-san, con tono allegro.
Nonostante inizialmente non mi fidassi tanto di quelle persone, dopo quei
commenti e i loro appoggi, non potei che esser loro grata e istintivamente mi
staccai dal kimono di Chizuru, ormai sicura che quelle persone non mi avrebbero
fatto niente. O, perlomeno, non finché ci fosse stato Chizuru con me. Chi mi
metteva un po’ d’ansia e di timore era quel tizio che parlava raramente, il
tipo chiamato Saitou, e che anche quella
volta si astenne dall’esprimere la sua opinione.
“Tenerla con noi?!” ringhiò, indignato e inferocito, Hijikata-san, verso tutti
quanti, me compresa. “Cosa pensate che sia: un gatto, un cagnolino, un animale
domestico? E’ una bambina!”
“Ma… è proprio per questo che vogliamo tenerla al sicuro dall’esterno,
facendola restare al temp…”
“Non è così, Chizuru!” lo riprese nuovamente. “Cosa pensate sia questa? Volete
forse che la nostra base diventi un comune ostello? Oppure, quante donne avete ancora intenzione
di ospitare, prima di farlo diventare un bordello?!”
Ma di quali donne sta parlando?!
Pensai istintivamente io, ma non ebbi il coraggio di dirlo, in quanto la sua
voce burbera mi faceva venire la pelle d’oca.
Qui ci sono soltanto io!
“Certo, avete ragione, Hijikata-san e in primo luogo ne sono mortificata
io, ma…” . Chizuru aveva assunto un’aria addolorata. “Io… Mi dispiace, ma
ecco…” . Sembrava quasi sul punto di piangere e così mi avvicinai a lui,
cercando di consolarlo con delle amichevoli carezze sulle spalle.
“Ah… L’ha fatta grossa, Hijikata-san! L’ha fatta piangere!” insinuò
Shinpachi-san.
Vidi il giovane uomo sussultare e sospirare pesantemente. La sua espressione
era un misto di preoccupazione e pentimento. Si avvicinò a Chizuru, poggiandole
dolcemente una mano sulla testa. Un dolce gesto che mi sarei aspettata
piuttosto da Saitou-san che non da lui.
“Mi spiace, forse ho esagerato un po’… Non volevo dire niente con la frase di
prima, ma…”. Un nuovo sospiro. “Cerca di capire ciò sto provando a dirti:
questa ragazzina non può rimanere assolutamente qui. Per favore, non farmelo
ripetere” . Dopodiché si rivolse anche a tutti gli altri. “E non vi ci mettete
anche voi. Se non voglio che rimanga qui, ho dei buoni motivi, non credete?”
I tre uomini si guardarono tra di loro, anche se io per prima notai che non
condividevano molto l’idea di Hijikata-san, ma non osavano contraddirlo. E, a
dir il vero, non osai farlo neanche io, tuttavia se avesse provato ad
allontanarmi da quel posto prima del tuo ritorno, quasi sicuramente, mi sarei
opposta con tutto il cuore.
“Capisco. E sono certa che lo capiscono tutti, ma…” proseguì, Chizuru,
asciugandosi le precedenti lacrime e facendosi forza per continuare il
discorso. “Hikaru-chan è una parente di Okita-san. Non crede dovremmo almeno
aspettare di sapere cosa ne pensa lui?”
Vidi Hijikata-san intento a riflettere sulle parole di Chizuru. Evidentemente
quel commento doveva averlo scosso e averlo fatto ragionare lucidamente, senza
che s’imponesse automaticamente sulla decisione da prendere. “Io…”.
“Io la penso nello stesso qual modo di Hijikata-san” intervenne una voce alle
nostre spalle.
Fu così che ti ritrovai nel giardino del cortile, con le braccia incrociate al
petto e la tua solita aria tranquilla e serena, a dispetto della situazione. Ti
stavi dirigendo verso di noi e mi accorsi che nello stesso tempo, affiorarono
in me due sentimenti: l’una era la gioia che provai nel rivederti e l’altro era
il dolore che sentii al petto dopo aver udito le tue parole.
Cosa…?
Scossi la testa.
No… Devo aver capito male! Ci deve essere
senz’altro uno sbaglio…
Convintami autonomamente che ciò che avevo sentito non corrispondesse al
vero, non esitai neanche per un attimo a lasciare il fianco di Chizuru-san che
fino ad allora mi era sembrato colui a cui affidare tutto, per arrivare sin da
te.
“Sou-nii!” ti chiamai, urlando, in preda all’euforia, correndoti incontro. Una
volta che ti ebbi raggiunto, ti abbracciai fortissimo, cingendo con le mie
sottili braccia quel tuo corpo che, magari, se fosse rimasto quello di un tempo
avrei potuto circondare senza alcun problema. La tua vita però si era allargata
e – tralasciando il corpo ormai divenuto scultoreo, sicuramente merito dei tuoi
duri allenamenti – ti eri fatto anche notevolmente più alto. A stento ti
arrivavo al collo e pur mettendocela tutta per sembrare più alta, ero faccia a
faccia col tuo petto. Non riuscivo in alcun modo a raggiungerti. Se volevo
guardarti in volto, dovevo necessariamente alzare la testa. E non di poco.
“Sou-nii! Come sono felice di vederti! Come sono felice!” esultai, con le
guance arrossate dall’emozione e il volto affondato nel tuo kimono.
Non riuscivo ancora a capire se fosse un sogno o meno, ma sembrava tutto così
reale…
La gioia che provai in quell’attimo fu indescrivibile. Per me sperare di
rivederti era stato un sogno per tutta la durata del viaggio da Edo a Kyoto,
ma… poterti non solo rivedere, ma anche parlare ed abbracciarti era un po’ come
l’avverarsi dell’unico sogno della vita.
Ecco… Poterti stare nuovamente vicino era stata la mia utopia sin da piccola,
da quando ci eravamo separati. Non avrei mai potuto pensare che il mio sogno si
sarebbe realizzato, perciò… puoi solo immaginare come mi sia sentita una volta
constatato che quella speranza, quella vana speranza, era diventata realtà!
“Sou-nii! Sou-nii!” continuai ad esclamare, ormai divenuta incontrollabile,
abbracciandoti sempre più forte, quasi rischiando di farti andare all’indietro,
per l’impeto con cui mi stringevo a te.
Ormai non sapevo più come veicolare la mia felicità, tanto che dovetti
addirittura trattenermi dal saltellare su me stessa (nonostante il dolore alle
piante dei piedi)!
Tu restasti fermo per un po’, mentre io ti stavo abbracciando. Solo quando continuai
a spingerti all’indietro per la troppa euforia con cui ti abbracciavo, fosti
costretto ad accerchiarmi le spalle con le tue braccia.
Fu allora che mi sentii al settimo cielo e ti strinsi con più forza,
sprofondando il volto ancora di più nel tuo kimono.
“Sou-nii, che bello poterti rivedere! Non immagini quanto sono felice!”.
“Hm” ti sentii annuire. “Anch’io sono felice di rivederti, Hikaru-chan”.
Sussultai per la gioia a quella tua risposta, tanto che ancora incollata a te,
inclinai la testa all’indietro per incontrare il tuo sguardo. Ero paonazza come
se mi avessero dato fuoco alle guance. “Davvero?” esclamai, raggiante. “Davvero
sei felice anche tu di rivedermi?”.
Tu, allora, mi sorridesti. Era il tuo solito sorriso, quello un po’ furbetto,
quello che ti fa sempre sospettare che dietro vi sia qualcos’altro. Quello di
cui ero tanto innamorata io. “Certamente” rispondesti, per poi piegarti verso
di me. “Davvero contento”.
Ancora più euforica, ti sorrisi anch’io. “Dov’eri andato, Sou-nii? Quando mi
sono svegliata tu non c’eri e poi… mi hanno detto che saresti tornato! Quindi
ti ho aspettato!”
“Ma che brava. Grazie mille” affermasti, non smettendo neanche un secondo di
sorridermi, per poi piegarti su un ginocchio, in modo da avermi faccia a
faccia.
Riuscii a scrutarti nei tuoi bellissimi occhi verde-foglia. Fu strana la
sensazione che provai nel guardarti dritto negli occhi: provavo, sì, una
sensazione di benessere, poiché li adoravo, ma un certo senso di inquietudine.
Insomma, non leggevo in te la stessa felicità che stavo provando io. E me ne
chiedevo la ragione. Ma probabilmente ero troppo felice di averti ritrovato,
che non ci feci caso più di tanto.
“E, sai, quell’uomo lì…” esordii, indicando con l’indice Hijikata-san, “…
voleva mandarmi via! Non voleva che restassi qui con te e…”
“E aveva perfettamente ragione” m’interrompesti con tono rigido, nonostante
sulle tue labbra fosse ancora dipinto quel sorriso persistente.
Cosa?
Mi chiesi nuovamente, pensando di aver capito male per l’ennesima volta.
Che cosa sta dicendo?
“C-come…?” balbettai, non credendo alle mie orecchie.
“Hijikata-san voleva mandarti via di qui, giusto?” mi domandò con aria
tranquilla, pacata. “Allora stava facendo la cosa giusta. Il tuo posto non è
qui”.
Perché?
“Ma, Sou-nii… Io…” cercai di ribattere, più per farmi ragione, che per un
effettivo bisogno di dire qualcosa. In effetti non sapevo neanche che dire,
dato lo stupore e la delusione di quelle parole… Ma… dovevo pur risponderti in
qualche maniera, no?
“Hikaru-chan,” richiamasti la mia attenzione, facendomi pressione sulle spalle
e costringendomi a guardarti. “come sei arrivata qui? Che ci fai a Kyoto?”.
Sussultai. “E…ecco… Io… Io ci sono venuta con oka-san…”. Non mentii. Non fui
abbastanza pronta a quella domanda e così non fui in grado di mentirti.
“E dov’è ora Mitsu-onee-san? Dov’è tua madre? Perché quando ti ho trovata
insieme a Chizuru-chan non era con te?”.
Rimasi un attimo in silenzio. Mi servì giusto il tempo di elaborare una scusa
fattibile. Se avessi saputo la verità, chissà come l’avresti presa.
“Ecco, vedi, oka-san è venuta insieme alla zia, quindi entrambe interessate ai
tessuti pregiati di Kyoto volevano fare le loro spese… E quindi…” . Mi fermai,
per elaborare adeguatamente il seguito. “E quindi, dato che mi annoiavo, ci
siamo separate e ci siamo date un punto d’incontro per ritrovarci in seguito!”.
Soddisfatta della mia risposta, a mio avviso facilmente credibile, ti guardai.
Il tuo sorriso e la tua aria serena non si erano mosse dal tuo volto. Lì erano
e lì continuarono a restare.
“E come mai sei tanto ferita sotto i piedi? Devi aver camminato davvero
parecchio per ridurti in quello stato… Per quale motivo? E poi, perché ridurti
sino a sera? Non penso che mia sorella ti abbia dato fino al dì del giorno
seguente per farti quattro passi, vero? Sarà preoccupata, non credi?”.
La tua valanga di domande mi colse di sorpresa. Pensavo di aver attenuato le
tue preoccupazioni, o le tue perplessità. Pensavo di essere riuscita a scappare
al tranello e di essermela cavata, tutto sommato, abbastanza discretamente. Non
mi aspettavo che l’interrogatorio continuasse.
E da questo si poteva facilmente notare che ero ancora, in fondo, poco più che
una bambina.
Mi sentii disorientata, come se dovessi dirigermi sulla retta via, ma ci
fossero quasi cento strade alternative da scegliere e percorrere.
“Ecco, vedi…” cercai di arrangiare, in qualche modo. “Vedi… il fatto è che…”
“Il fatto è che adesso non sai più cosa inventarti, non è vero?” mi cogliesti
sul fatto. Il tuo sorriso bello come quello di un dio, ma pungente come una
lama mi trafisse il cuore.
Non è possibile…
Nel giro di un attimo quel sorriso e quell’aria apparentemente pacifica e
contenta divenne un’espressione accigliata e seria. Non mi guardavi più
contento, ma severo e distante. “Eppure dovresti saperlo, Hikaru-chan, che odio
quando mi racconti menzogne”.
Sgranai gli occhi: avevi capito tutto.
Ormai avevo preso le distanze da te già da un bel po’. Avevo smesso di
abbracciarti già da quando mi ero cimentata per costruire una scusa che potesse
reggere l’accaduto e l’andamento dei fatti.
“Io… Io non ti sto raccontando menzogne!” cercai disperatamente di convincerti,
con la voce roca e soffocata. Mi veniva voglia di piangere. “E’ la verità!
Oka-san mi ha dato il permesso di separarmi da lei! Ed io volevo assolutamente
vederti, quindi ho fatto un po’ tardi! Ma va tutto bene! Non c’è alcun
problema! La mamma avrà sicuramente capito perché avrò fatto così tardi!”
“Oh…” sibilasti, con tono puramente ironico. Ancora non credevi a quel che
dicevo. “Quindi le cose stanno così?”
“Sì che stanno così!”
“Quindi, da quel che mi stai raccontando tu, non c’è nessuno che ti sta
cercando, giusto? Perché ti eri data appuntamento con mia sorella, no? Quindi,
dato che lei sapeva della vostra separazione, non avrebbe avuto alcun motivo di
preoccuparsi, o di cercarti, dico bene?”.
Sussultai a quelle parole. Avrei mentito ancora. Ma che male poteva fare? A mio
avviso, solo migliorare le cose. Dal mio punto di vista, ormai, raccontare la
verità non avrebbe sorbito alcun effetto, se non quello di farmi dare della
bugiarda ancora di più. Tanto valeva continuare a mentire, no?
“S… Sì!” affermai, decisa. “E’ esattamente come hai detto tu!”
“Mhh…” . Così che ti vidi portare l’indice al mento, assumendo un’aria
contorta: sembrava ci stessi riflettendo su.
Sì!
Pensai, tra me e me.
Ce l’ho fatta! Mi ha creduta! Ho fatto
bene a farmi vedere insistente! Mi ha per forza dovuta credere!
Ero felice di essere riuscita a convincerti. Soprattutto perché non volevo
che mi guardassi con quell’aria seria e irritata. Non volevo che fossi
arrabbiato con me. Eri l’unica persona che non avrei mai voluto deludere. Questo
perché eri e sei rimasto sempre il più importante di tutti.
“Che strano…” esordisti, ancora con espressione riflessiva sul volto. “Eppure,
sai, Hikaru-chan, la versione che mi è stata fornita da fuori è leggermente diversa”. Sentii chiaramente
l’enfasi su quel leggermente e la
cosa non mi piacque neanche un po’.
E poi… di che versione stavi parlando?!
Fu così che ti vidi muovere, mentre ti voltavi alle tue spalle, per far largo a
qualcuno che stava giungendo a passo lento, ma comunque pesante.
E fu anche così che il mio cuore si fermò per qualche secondo.
…
“Ti abbiamo ritrovata,” esordì con quella sua voce profonda e bassa, ma con
quella tranquillità e freddezza degna di un vero generale. “Hikaru”.
Perché… è qui…?
Con gli occhi sgranati, la labbra dischiuse, ero paralizzata dallo stupore.
Non riuscivo più a muovermi.
“Ti ringrazio infinitamente, Souji” sillabò, distintamente. “Non so come
avremmo fatto senza il tuo aiuto”.
Perché è qui…?
“Non ditelo neanche, Rintaro-san” rispondesti tu, sorridendogli
tranquillamente. “Mi è sembrato il minimo”.
“Perché lui è qui?!” esclamai,
rivolgendomi a te, con tono furioso, riferendomi a mio padre che imponente e
con aria autoritaria era davanti a noi, seguito da tutti gli uomini con cui
sicuramente aveva passato la notte a cercarmi. “Perché si trova qui? Perché lo
hai chiamato?”.
Ero infuriata. No… Infuriata era dir poco. Ero imbestialita. Ero fuori di me.
Perché lo avevi fatto?
“Perché era la cosa giusta da fare” mi rispondesti con aria seria e rigida. Da
lì avrei capito che non sarei riuscita ad ottenere non un solo sorriso da te.
Eri deluso. Deluso da me e dal mio comportamento. Deluso dalle mie menzogne e
da come ti avevo preso in giro.
Ma non lo avevo fatto in cattiva fede… Io volevo soltanto…
“Non è vero che era la cosa giusta da fare!” ribattei, furiosa. “Non è vero!
Perché lo hai chiamato? Perché gli hai detto che ero qui?”
“Non è stato il solo a cui l’ha detto” aggiunse una voce dolce e familiare. Una
voce che ero abituata sentire la mattina al mio risveglio, il pomeriggio prima
e dopo la sua esecuzione di flauto, e la sera mentre mi addormentavo. La voce
che mi aveva cresciuta.
La voce di mia madre.
La sentii provenire dalla parte di mio padre e fu così che la vidi al suo
fianco, schierata in prima linea, e dietro di lei la zia Kin, che la sosteneva.
A prima vista sembrava quasi che fosse malata: aveva i capelli arruffati (e
della pettinatura accurata che si era fatta quella stessa mattina del giorno
precedente, non v’era rimasta più traccia), gli occhi arrossati, il viso stanco
e la vedevo chiaramente invasa da un tremolio che, se la zia non l’avesse
sostenuta, probabilmente l’avrebbe ridotta a terra. Sul volto l’aria
eternamente preoccupata che conoscevo quasi come me stessa, e il fiato corto,
come se avesse corso per miglia e miglia, senza concedersi un attimo di tregua.
“Oka-san…” mi lasciai sfuggire dalle labbra.
E, in un attimo, quel colpo…
Era la seconda volta nell’arco di due giorni che mi succedeva, eppure non ero
ancora riuscita a farci l’abitudine…
“Rintaro-san… No, ti prego!” sentii urlare da mia madre…
La guancia sinistra incominciò ad arrossarsi e a dolermi prima ancora che mi
rendessi conto di ciò ch’era successo: vidi mio padre di fronte a me, con la
mano ancora alzata, per l’impeto con cui mi aveva dato quello schiaffo; la sua
espressione che prima avevo visto sempre calma, invasa tutt’al più da quel
minimo di ansia, ora era di mera rabbia e freddezza. Aveva in quegli occhi
dorati e felini la stessa freddezza del ghiaccio e della neve. Sentivo che più
mi osservava, più il mio cuore sarebbe gelato.
Caddi istintivamente in ginocchio per l’impeto di quel colpo e non sapendo come
reagire, l’unica cosa che mi limitai a fare fu quella di portarmi una mano
sulla guancia dolorante e guardarlo inerme.
“Hikaru-chan!” sentii esclamare alle mie spalle. Si trattava di Chizuru che,
evidentemente, vista la violenza di mio padre, mi corse incontro per aiutarmi,
ma ti vidi chiaramente fermarlo, trattenendolo per un polso.
“Non andare, Chizuru-chan. Non sono affari che ti riguardano” lo ammonisti,
serio.
“Ma…” cercò lui, in qualche modo, di ribadire. “Hikaru-chan è…”
“Sono affari di famiglia. Per favore, Chizuru-chan, non farmelo ripetere. Non
intrometterti”.
Perché?
Mi domandai, con gli occhi languidi.
Perché lo fermi? Perché non vuoi che lui mi
aiuti?
No… Non era quella la domanda che mi facevo con più premura.
Perché non sei tu ad aiutarmi? Perché
lasci che mi facciano questo?
Il solo pensiero che ti avessi delusa a tal punto da desiderare la mia
punizione a questi livelli mi fece quasi morire dal dolore.
Incrociai il tuo sguardo che ormai mi osservava rigido e senza far trapelare un
minimo di compassione.
“Hikaru” mi sentii chiamare. E così voltai lo sguardo verso quell’uomo che mi
guardava con aria severa e inflessibile. “Questo schiaffo non era per me. Non
era per tutte le parole che mi hai rivolto a casa di Fujiwara-dono; non era per
il fatto che mi hai fatto mobilitare l’intera squadra per farti cercare; non
era perché ho passato la notte, insieme a loro, a sperare che non ti fosse
accaduto niente…” . Facesti una pausa, per poi riprendere, solenne: “Questo
schiaffo… è per tua madre”.
Sgranai ancora di più gli occhi, voltando il mio sguardo istintivamente a lei
che, piangente, tra le braccia di mia zia, si copriva la bocca e cercava di
mantenersi in piedi, controllando il tremolio che prese ad invaderla
maggiormente.
“Hai idea di quanto fosse preoccupata? Hai idea di come abbia passato le ultime
dieci ore?” mi domandasti con tono infuriato. Un tono che non gli avrei mai
immaginato potesse rivolgere a me. Ma che quel pomeriggio, in quella stanza,
avevo tanto sperato di udire. “Sai come si è dannata, pensando che fosse tutta
colpa sua, se avevi deciso di scappare? Hai idea di come fosse terrorizzata
all’idea di saperti tutta sola, in mezzo alla strada, di notte, con le persone
losche che ci sono in giro? E hai idea di quello che, se non ti avesse
ritrovata Souji, ti sarebbe potuto accadere in una città come Kyoto, di notte
fonda? E, lo sai che tua madre, infine, per la disperazione, si è messa a
cercarti anche lei, fino all’ultimo secondo, fino al momento in cui non è
arrivato Souji ad avvisarci? E, se non fosse arrivato lui, avrebbe continuato a
cercarti, anche da sola, anche con la pioggia, la neve, la bufera, anche
malata, o morente per tutta la città! Avrebbe continuato fino ad esalare il suo
ultimo respiro!” . La tua voce mi rimbombava nelle orecchie, ma non riuscivo a
non ascoltarti, continuando ad osservare il volto di mia madre che continuava
ad essere trafitto dal dolore e dalle lacrime. Quelle lacrime che, probabilmente,
l’avevano accompagnata per tutta la notte. Ora la mia guancia non doleva più.
Tuttavia non perché, effettivamente, non soffrissi. Ma, perché, confrontato al
dolore che provavo dentro, quel semplice arrossamento non era nulla.
“Non m’importa se mi odi, non mi sopporti o vuoi farmi soffrire. Non
m’interessa quanto dolore vorrai provocare a me e ogni qual volta vorrai
ferirmi te lo perdonerò sempre, ma…”. Fece una pausa, poi: “Ma la sofferenza
che hai provocato a tua madre, questa non posso davvero perdonartela…”
dichiarò, per poi alzare nuovamente la mano verso di me.
Mi avrebbe colpita. Lo avrebbe sicuramente fatto, ne ero certa. Non provai a
fermarlo, dunque. Ero consapevole del dolore che avevo provocato a mia madre.
Non mi sentivo minimamente in colpa nei confronti di quell’uomo, ma provavo una
gran pena per mia madre, per come si era ridotta. E me ne pentii. Non provai neanche
a ribellarmi. Semplicemente attesi.
Attesi quello schiaffo come si attende la fine del mondo: ineluttabilmente.
“Nooo!!” sentii urlare nuovamente da quella dolce voce e fu così che il colpo…
… non mi raggiunse.
Aprii istintivamente gli occhi per notare come mia madre mi aveva stretta tra
le sue braccia, facendomi scudo col suo corpo ed impedendo, quindi, che mio
padre mi colpisse.
Non aveva colpito neanche lei, però, dato che quell’uomo ebbe dei riflessi
talmente pronti che, accortosi dell’intervento della mamma, non si permise
neanche di alzarle su un dito. Anzi, abbassò direttamente il braccio e la
guardò con aria sorpresa.
“Mitsu?” chiese, stupito, mentre la guardava dall’alto in basso, in ginocchio,
che mi stringeva a lei, per impedire che il suo colpo mi giungesse nuovamente.
“Per favore no, Rintaro-san. Fermati. Ha capito…” sussurrò. Riuscii a percepire
il suo tremore che, stando a contatto con me, mi percosse tutto il corpo.
“Però…”
“Ha capito!” ripeté, guardandolo, implorante. “Ha capito di aver sbagliato.
Conoscendola, non si sarebbe fatta riprendere oltre, se non avesse compreso il
suo errore. Per cui, t’imploro, basta. Non farle più del male…Ti prego”.
Oka-san…
Non mi sentii più ferita. No, anzi… Mi sentivo quasi come se mi avessero guarita totalmente. Una
sensazione di benessere e di gioia mi affiorarono e traboccarono dal petto,
tanto da non riuscire a contenere quella felicità.
La mamma non mi aveva tradita… La mamma non mi aveva messa da parte per
quell’uomo, né contavo meno di lui per lei! La mamma era disposta a tutto per
me, anche a mettersi contro di lui!
La mamma era con me!
E quella per me fu la cosa più importante del mondo.
Con le lacrime agli occhi, che nel frattempo mi avevano rigato le guance, la
abbracciai fortissimo affondando il volto tra i suoi soffici ed arruffati
capelli.
“Oka-san... Oka-san!” esclamai, di gioia, stringendomi a lei ancora di più.
“Oka-san, scusami! Scusami tanto… Mi dispiace! Mi dispiace veramente!”.
“Lo so… Lo so, bambina mia. Spiace anche a me per tutte quelle cose che ti ho
detto… E’ solo che…”
“No, sono io che devo scusarmi! E’ tutta colpa mia, oka-san! Solo colpa mia…”.
Vidi parecchie persone sorridere alle mie spalle. Solo che, onestamente, tante
erano le lacrime che non riuscii davvero a distinguere di chi si trattasse.
Riuscivo solamente a notare il verde-foglia dei tuoi occhi. Quelle due gemme ci
osservavano: me e la mamma. Anzi, no… osservavano me. Osservavano me e…
sorridevano.
Ci volle un po’ perché sia io, sia oka-san (sia la situazione) ci calmassimo un
po’.
Sotto ordine di mio padre, gli uomini di Fujiwara-san attesero all’ingresso del
tempio, mentre quest’ultimo era rimasto, in compagnia della zia, ad assistere
alla nostra “riappacificazione”.
Beh, questo, certamente non valeva anche per lui. Poteva anche avermi
rimproverata e tutto il resto, ma l’unico effetto che aveva sorbito era quello
di farmi capire gli errori commessi nei confronti della mamma. Non avevo il
minimo rimpianto per come mi ero comportata con lui!
Aveva addirittura osato malmenarmi! Ma di una cosa gli ero grata: di avermi
punita. Lo odiavo per quello che avevo fatto, ma nel contempo gli ero davvero
grata di avermi fatto comprendere i miei sbagli. Perché io adoravo la mamma e
una cosa che proprio non volevo era farla soffrire.
“Non sai quanto ci hai fatte preoccupare, Hikaru-chan!” si lagnò la zia,
strofinandosi il naso con la manica del kimono. “Non ne hai la minima idea,
piccola idiota!”
“Penso di incominciare a capirlo, zia. Mi dispiace tanto” risposi mortificata.
Mia madre mi sorrise e mi diede un altro bacio sulla fronte per poi voltarsi
verso di te che eri in piedi, a fianco a lei. “Non saprò mai come ringraziarti
abbastanza, Souji. Non hai idea di come mi hai resa felice!”.
“Non dirlo nemmeno, Mitsu-onee-san. Avevo immaginato quanto fossi preoccupata
per lei. Posso ben comprenderlo” rispondesti, tranquillo, sorridendole.
Cosa?
“Il solo pensare a com’eri disperata mi ha fatto logorare il fegato. Era il
minimo che potessi fare, vedendoti in quello stato, no?” proseguisti. “Non
potevi continuare a cercare come una disperata”
Allora non la ha fatto per tradirmi, ma…
perché voleva far smettere la mamma di preoccuparsi?
Tutto assunse un colore differente ora che la densa nube di dubbio stava
lasciando il mio cuore e soprattutto la mia mente.
Mia madre ti si avvicinò e ti abbracciò istintivamente. “Davvero… Non saprò mai
come ringraziarti abbastanza. Grazie. Grazie davvero”.
“Avanti, nee-san, basta così. Sei sempre troppo formale. Cos’è, vuoi farmi
arrossire dalla vergogna?” . Sorridevi mentre le parlavi, ed era quel tuo
solito sorriso raggiante, quello alquanto furbetto. Il tuo solito sorriso,
insomma. Forse era anche un sorriso fatto per ingannare e per nascondere
l’imbarazzo.
Arrossii mentre ti guardavo e il tuo sguardo s’incontrò subito col mio. Mi
fissasti per un po’, per poi piegarti verso di me. “Hai imparato la lezione,
Hikaru-chan? Non devi far preoccupare così tua madre e, soprattutto, ricordati
di non mentirmi mai. Perché la prossima volta non te la faccio passare così
liscia, intesi?”.
Io annuii pian piano, facendomi piccina piccina e nascondendomi maggiormente
tra le braccia di mia madre.
Tu allora, mi sorridesti e mi accarezzasti la testa, scompigliandomi
leggermente i capelli, già arruffati di loro. “Bene. Così ti voglio”.
“Mitsu” la chiamò ad un certo punto mio padre, attirando la sua attenzione e
lanciandole uno sguardo d’intendimento che lei percepì ed interpretò alla
perfezione. Annuì verso di lui per poi alzarsi in piedi, spingendomi a fare
altrettanto.
“Bene, è ora di togliere il disturbo. Abbiamo arrecato sin troppo fastidio a
degli uomini importanti come voi. Con tutto il da fare che avevate…” commentò
mia madre, rivolgendosi un po’ a tutti i membri del gruppo che erano
silenziosamente rimasti a guardare in disparte tutta la scena, dall’arrivo di
mio padre sino ad allora.
Eh? Come sarebbe a dire…? Togliere il
disturbo?!
“Cielo…” sospirò sempre lei, rossa in volto. “Abbiamo anche dato
spettacolo… Mi sento così in imbarazzo!”
Hijikata-san, di tutta risposta, le andò incontro sorridendole
comprensivamente. Cosa che, davvero, mi sarei aspettata forse più da mio padre
che non da lui. “Non vi preoccupate, non è successo nulla di che. Non avete
dato alcuno spettacolo, non temete. Sono incidenti che, avendo figli, capitano.
Ed anche spesso, aggiungerei. Non avete alcun bisogno di sentirvi in
imbarazzo”.
Il suo tentativo di consolarla era riuscito piuttosto bene, tanto che mia madre
non trattenne un sospiro di sollievo. “Vi ringrazio… Oh, voi dovete essere Hijikata-san,
vero? Lieta davvero di conoscervi. Mi spiace solo di aver fatto la vostra
conoscenza in questa circostanza davvero poco piacevole. Mi scuso a nome mio,
di mia figlia e di tutta la mia famiglia”.
“Vi ripeto, Mitsu-dono, che non ve n’è alcun bisogno. E il piacere è soltanto
mio, quello di conoscere la famiglia di Souji. Non posso che esserne lieto”.
Non me ne stavo accorgendo, ma pian piano mentre loro discutevano e mia madre
mi stringeva ancora a lei, ci stava spostando tutti verso l’uscita del tempio.
Lo capii vedendo gli uomini di Fujiwara-san ad attenderci con una pazienza
quasi esasperante.
“Io insisto invece. Ora dobbiamo davvero lasciarvi. Abbiamo usufruito anche
troppo della vostra pazienza e ciò mi addolora tantissimo” insistette, convenevole,
la mamma. “Mi scuso nuovamente di tutto il tempo che vi abbiamo fatto perdere e
della spiacevole situazione. Vi ringrazio, inoltre, della vostra pazienza, del
fatto che vi siate, anche se per poco, presi cura della mia bambina e,
soprattutto, che vi prendiate cura anche di Souji”
Presi cura per poco…? Ehi, un momento
solo…!
Hijikata-san le rivolse un grande sorriso, degno del migliore e affascinante
degli attori. “Non vi preoccupate, davvero. Non è stato un disturbo” affermò,
fermandosi sulla soglia dell’entrata/uscita del tempio, seguito da tutta la
ciurma. “E come potremmo non prenderci cura di Souji, uno dei nostri migliori
spadaccini? E’ praticamente quasi cresciuto con noi!”
“Già” rise lei. “Praticamente sì. Mi auguro che continuiate a prendervene cura.
Abbiate cura di voi” disse poi, rivolgendosi un po’ a tutto il resto delle
persone.
“Mi spiace di dovermi congedare così, vice-comandante. E vi ringrazio per tutto
quello che avete fatto” aggiunse poi mio padre, sorridendogli e inchinandosi
leggermente, gesto che Hijikata-san ricambiò solennemente. “Non è stato nulla
di che, come ho già detto a vostra moglie. Sempre a disposizione, se avesse
necessità, Okita-dono”.
Mi venne da ridere pensando a come, poco tempo prima, mi stava praticamente
cacciando di forza dal tempio.
A proposito di cacciare…
“Ti ringrazio, Souji” ti salutò mio padre, non facendoti mancare una mano
sulla spalla, come segno del suo rispetto per te, nonostante la differenza
d’età che vigeva tra voi. “Grazie per quello che hai fatto. Ci hai salvato”.
“Sì, Souji. Grazie” proseguì mia madre, sorridendogli. “Spero di rivederti al
più presto”.
Un momento… Aspettate un secondo!
“Lo spero anch’io” ricambiasti il sorriso ad entrambi, con dolcezza, quella che
solo con la mamma e la zia eri capace di tirar fuori. “Fate buon viaggio”.
Dopo averti salutato anche la zia e dopo aver accordato le ultime cose, mio
padre, mia zia e mia madre, che praticamente mi trascinava con sé, fecero per
avviarsi verso gli uomini di Fujiwara-san e quindi verso il suo palazzo.
…
“NOOO!!!” esclamai io, all’improvviso, scappando dalla stretta di mia madre e
attraversando nuovamente l’ingresso del tempio.
Appena fui nuovamente tra il gruppo di sette ragazzi, corsi ad attaccarmi alla
tua vita, e tu, non aspettandolo, balzasti all’indietro e cercasti in tutti i
modi di riprendere l’equilibrio, per non cadere.
“Hikaru!” mi rimproverarono all’unisono la mamma, la zia e, credo anche, mio
padre.
“Hikaru-chan, ma che stai facendo?!” esordisti tu, poi, un po’ spaesato.
“Oka-san, io voglio restare qui!” dichiarai, con tono deciso. “Voglio restare
con Sou-nii!”.
“Cosa?!” esclamarono sia mia madre che mia zia, per poi guardarsi
reciprocamente, scambiarsi un’occhiata che io non riuscii ad interpretare, e
tornare verso di me con aria premurosa.
“Avanti, Hikaru, smettila di fare la bambina” mi riprese oka-san. “Non hai più
otto anni. Comportati da adulta”.
“Io non sto facendo la bambina!” ribattei, continuando a stringermi a te, quasi
offesa per quelle parole. “E non sono mai stata più seria di così! Non voglio
andarmene! Questa volta voglio davvero stare con Sou-nii!”.
“Hikaru-chan…” intervenne la zia, per cercare di convincermi con quel suo
solito sorriso complice. “… io capisco perfettamente come ti senta ad aver
ritrovato Souji. E capisco anche che tu voglia rimanere con lui, ma… Quello che
devi capire tu è che ci sono date circostanze che non ti permettono di
assecondare questi capricci. Quindi, per favore, sii ragionevole e torna a casa
con noi, va bene?”.
Il discorso della zia sembrò filare e lei stessa se ne sentì profondamente
soddisfatta: era convinta che facendomi credere di comprendere i miei
sentimenti, potessi lasciar perdere tutto. Ma quello che non aveva capito la
cara zia era che quelle parole potevano convincermi su tutto, meno che lasciare
il tuo fianco, una volta che ti avevo ritrovato, dopo tanto tempo!
“Non se ne parla!” insistetti io, ostinatamente, deludendo le aspettativa di
successo di mia madre e di mia zia. Poi mi rivolsi sorridente a te. “Sou-nii,
io voglio stare con te! Va bene?”.
Vidi sul tuo volto quel leggero stupore che, però, fece largo a quel tuo solito
sorriso. Mi tenesti stretta a te, mentre ti parlavo, quindi ero convinta che,
in fondo, anche tu lo volessi.
“Hikaru-chan, lo sai che anch’io vorrei passare molto più tempo con te…”
“Infatti!” ti interruppi io, raggiante. “Se resto qui, avremo un sacco di tempo
da passare insieme!”.
Mi sorridesti nuovamente, per poi piegarti su un ginocchio ed accarezzarmi la
testa, dolcemente. “Hikaru-chan, ascolta… Non immagini quanto mi ha fatto
piacere rivederti” . Nonostante il tuo sorriso fosse quello di sempre, il tuo
sguardo aveva quel non so che di serio e di… autentico. “Certo, la circostanza
è stata poco piacevole, ma mi ha fatto piacere rivederti in forma, cresciuta e
diventata ormai una piccola donna. E non immagini neanche quanto mi piacerebbe
poter passare ancora del tempo in compagnia tua, di Mitsu-onee-san e
Kin-onee-chan, ma…”. Il tuo sorriso rimase comunque sul tuo volto, ma cambiò
significato: ora era un sorriso di velato dispiacere, piuttosto che di
dolcezza. “Ma non puoi davvero restare qui”.
…
Eh…?
“Perché…? Perché non posso?!” esclamai, contrariata. “Cosa c’è che non
va?!”
“Questo non è il luogo adatto ad ospitare una ragazzina come te, Hikaru-chan”.
Perché mi stavi rivolgendo quelle parole? Perché mi stavi ferendo nuovamente?
Allentai leggermente il mio abbraccio, ma senza staccarmi definitivamente da
te.
“Perché no?! Non posso restare perché sono una ragazzina? E’ questo?!”
Scotesti la testa, in senso di diniego. “Non solo per questo. Vi sono parecchi
problemi…”
“E quali sarebbero questi problemi?! Ti prometto che cercherò di non darti
fastidio, Sou-nii!”
“Qui non ci vivo soltanto io!” controbattesti, ora leggermente alterato. “Siamo
a decine, a volte a centinaia!”
“Non darò fastidio a nessuno! Davvero! Ma, ti prego… Permettimi di restare!”
“E’ un posto troppo pericoloso per te. Come devo spiegartelo?”
“Farò attenzione! Farò attenzione a non mettermi nei guai! Te lo giur…”
“Smettila di comportarti così” mi riprendesti, interrompendomi e… zittendomi.
Avevi un’aria seria. Quella stessa aria che avevi assunto prima, durante il mio
precedente rimprovero. “Ti stai comportando esattamente come quando ti vidi
l’ultima volta. Con la differenza che sono passati quasi sei anni da allora e a
quel tempo avevi otto anni. E’ comprensibile ad otto anni fare capricci del
genere, ma sei cresciuta, ormai, no? Dov’è andata a finire la maturità che si
presume tu abbia raggiunto?”
Ti fissai impotente, quasi come se mi stessi lanciando contro, uno dopo
l’altro, dei pugnali affilatissimi che cercavo con tutto il cuore di schivare,
per evitare di rimanerne ferita.
“Ma… Io…” cercai, inutilmente, di reagire. “Io volevo solo…”
“Pensi solo a te stessa e ai tuoi desideri, egoisticamente, senza riflettere
sulle conseguenze delle tue parole, né tanto meno dei tuoi gesti. Pensavo di
avere a che fare con una ragazza matura, dopo tutti questi anni, ma…
evidentemente mi sbagliavo. Mi hai deluso, Hikaru-chan. Mi hai profondamente
deluso”.
Sgranai gli occhi, mentre vidi che ti allontanavi, con aria indifferente, da
me. “Ed ora, per favore, smettila di comportarti in maniera infantile. Sii
ragionevole e segui i consigli dei tuoi genitori e di Kin-onee-chan: vai via
con loro”. Mi allontanasti da te, spingendo via le mie mani che ti
abbracciavano, per poi dirigerti verso il resto del gruppo che aveva assistito,
anche quella volta, a tutta la scena. Chizuru-san ti venne incontro con un’aria
intristita sul volto: “Okita-san, come hai potuto parlarle così?”.
Avrei voluto saperlo anch’io… Ma tu non
rispondesti a quella domanda. Ti limitasti ad osservarmi di sbieco, girando
appena il volto nella mia direzione. “Allora? Sei ancora qui? Avanti,
Hikaru-chan, non farmelo ripetere. Vai con Mitsu-onee-san, Rintaro-san e
Kin-onee-chan. Ci rivedremo un giorno non molto lontano e, allora, passeremo
tanto tempo insieme”.
Rimasi in silenzio, con il volto leggermente inclinato verso il basso. Ero
immobile, come una bambola.
Non ero nemmeno cosciente del fatto che stessi pensando. No, forse non stavo
neanche pensando in quel momento.
Il troppo dolore mi offuscava la mente…
Mi sentii trascinare via per il polso, ad un certo punto. Era qualcuno dalla
stretta forte. Mia madre? No. Mia zia? Molto probabile. Ma dalla ruvidezza
della mano, fu quasi immaginabile che si trattasse di mio padre. L’idea di
essere toccata da quell’uomo, nuovamente, mi fece ribrezzo, ma in quell’attimo
fu nulla paragonato al dolore che provavo. Tanto dolore che non mi fece neanche
curar del fatto che fosse mio padre a trascinarmi via da lì.
“Avanti, Hikaru. Abbiamo già perso troppo tempo e dato fin troppo fastidio.
Basta essere scortesi. Non intendo tollerare oltre”.
Il silenzio invase il mio cuore. Non ascoltavo le parole di mio padre. Non
ascoltavo niente. Divenni sorda in meno di un attimo.
Le tue parole mi avevano resa sorda.
In quel silenzio degno di un cimitero e di una persona che ormai aveva perso la
luce della propria vita, sorgeva dall’abisso una sola frase. Una frase che era
rimasta incisa nel mio cuore come la prima legge su una pietra… Una frase che aveva dato senso al resto della
mia vita e mi aveva dato la forza di andare avanti.
“Bugiardo…” sussurrai tra me e me, con un filo di voce, constatando che ormai
mio padre mi aveva trascinata fuori dall’ingresso del tempio e mi stava
conducendo verso la mamma e la zia.
Ah…
Mi bloccai di colpo, impedendo a mio padre di condurmi oltre quel tratto. Alzai
improvvisamente il volto, già rigato di lacrime da un po’, per poi urlare a
gran voce: “Bugiardo!” .
L’hai dimenticata…
“Sei un bugiardo!” ti inveii contro, mentre mi accorsi che ti eri voltato
verso di me, con aria leggermente sorpresa.
Eppure eri stato proprio tu il primo a
raccomandarmi di non scordarla…
“Stai mentendo… Stai mentendo anche ora… come facesti sei anni fa!”
esclamai, adirata e singhiozzante. “Tu prometti, prometti… Ma non mantieni mai
le tue promesse, Sou-nii!”
Ma il fatto è… che per te non contava
realmente, giusto?
“Hikaru!” mi riprese mio padre, cercando di portarmi via con sé, ma non
riuscendoci.
“Me lo avevi detto anche allora, al nostro addio di sei anni fa, che ci saremmo
rivisti e saremmo restati insieme! Me lo avevi promesso! Ma non sei stato di
parola! Mi hai mentito!” .
Non vidi la tua espressione: ero troppo occupata a sfogare la mia frustrazione
e la mia rabbia. Tutta quella che avevo accumulato in quegli anni vedendo che,
man mano che passava il tempo, tu non arrivavi.
“Ho passato gli anni, i mesi, i giorni, le ore a sperare di vederti tornare da
un momento all’altro… Ma non sei mai tornato da allora! Neanche una volta! E,
probabilmente, se non fossi venuta a Kyoto e non fossi scappata di casa, non ti
avrei neanche rivisto! E chissà per quanto avrei continuato ad aspettarti,
quando tu, invece, non avevi neanche più l’intenzione di ritornare!”
“Hikaru!” proseguì col rimprovero, mio padre. “Adesso, basta!”
Per te era semplicemente la promessa
fatta ad una bambina, senza alcun valore, né importanza…
“Non hai mantenuto la tua promessa… Non avevi intenzione di mantenerla sin dal
principio! Ti sei preso gioco di me! Ti sei divertito alle mie spalle, vero?”
Una promessa ormai dimenticata.
“Hai ragione, sai. Probabilmente io sarò anche un’immatura… Ma tu, Sou-nii…
Tu…” esordii singhiozzante e ormai con gli occhi rossi per quante lacrime
stavano sgorgando dagli occhi. “Tu sei un bugiardo!”.
Evidentemente anche mio padre rimase colpito dal mio pianto, tanto che mi
lasciò il polso strattonato fino ad allora, per cercare di muovermi da quel
punto, ed io caddi in ginocchio, nascondendomi il volto tra le mani. I
singhiozzi si fecero insistenti, tanto che non riuscii più a dire una sola parola.
Ormai era tutto finito… Adesso sì che era finito tutto.
Non solo ti avevo deluso e ti avevo fatto arrabbiare, ma ti avevo anche dato
del bugiardo e me l’ero presa con te…
Era davvero la fine…
Sentii dei passi farsi vicini. Erano passi leggeri, come quelli di un
coniglietto. Li conoscevo quei passi. Avevo imparato a conoscerli anche se da
poco.
Un rosa caldo e dal profumo accogliente mi circondò le spalle e mi trasse verso
di sé.
Il tepore che emanava quel kimono color del salmone era indescrivibilmente
accogliente, più di quel che mi aspettassi. L’odore di Chizuru-san mi avvolse
completamente.
Passandomi una mano sui capelli, carezzandomi la testa, per cercare di calmarmi
e consolarmi, lo sentii esordire: “Okita-dono… giusto?”
Sentii un silenzioso assenso da parte di mio padre ed il mio salvatore
proseguire: “Vi supplico… quello che vi
chiedo è un favore personale: lasciate che Hikaru-chan rimanga qui con noi”.
“Cosa?!” sentii esclamare da più di qualcuno.
“Ciò che mi chiedete è…”
“Vi prego! Sarà solo per poco! Datele qualche mese… Se e quando la situazione
qui si farà pericolosa, la verrete a riprendere voi stesso! Deciderete voi
quando riprenderla con voi!”.
“Ma… non è solo di questo che si tratta… Innanzitutto sarebbe un fastidio per
voi…” sentii pronunciare da mia madre. “Non vorremmo provocarvi altri fastidi…”
“Non lo sarà! Non sarà assolutamente un fastidio! Me ne occuperò io
personalmente. La seguirò passo per passo. Ma, per favore, esaudite questo suo
desiderio: lasciatela stare qui. Lei… Non la conosco da molto, ma sembra
davvero tenerci molto ad Okita-san!” .
Osservai il volto di Chizuru, combattivo e fiero. Ero così felice che ci fosse
lui dalla mia parte: mi sentivo capita ed appoggiata. Non avrei mai pensato che
un estraneo potesse superarti in gentilezza. Mai.
Dopodiché lo vidi voltarsi verso di te e gli altri. “E se ad Okita-san e agli
altri va bene… non ci saranno problemi!”
Fu così che ti vidi… che vidi la tua espressione. Il tuo volto, apparentemente
inespressivo, era serio, rigido e severo. Non sorridevi. Beh, suppongo fosse
logico, dopo tutto ciò che ti avevo detto.
Ma, nonostante tutto… nonostante ciò che mi avevi detto, nel profondo del cuore
volevo davvero restare con te… Volevo davvero…
“Che faccia come vuole” dichiarasti, sospirando, voltandoti di spalle. “Se ai
suoi genitori sta bene così, non posso oppormi, giusto?”. Sembravi parecchio
infastidito, urtato, a giudicare dal tono della tua risposta. La cosa mi
addolorò profondamente. E mi addolorò ancora di più quando ti vidi allontanare
senza salutare né i miei, né venirmi incontro.
Dovevi essere davvero arrabbiato.
“Per noi non ci sono problemi!” affermarono, in compenso, Harada-san, Todou-san
e Shinpachi-san.
“E vale anche per lui!” proseguì quest’ultimo, indicando con l’indice
Saitou-san che continuava ad astenersi dal dire la sua.
“Minna-san…!” sussurrò, lieto,
Chizuru, con un’aria sollevata sul volto.
Hijikata-san si fece, dunque, avanti, sospirando. “Non so come andrà a finire
questa storia, a dire il vero. Sono profondamente contrario al fatto che questa
ragazza rimanga qui, ma… me ne assumo anch’io pienamente la responsabilità.
Vedremo cosa si deciderà in seguito al rientro del comandante, Kondou-san. Vi
prego, dunque, di aspettare ulteriore conferma domani sera, Rintaro-dono”.
Mio padre annuì, per poi inchinarsi dinnanzi a lui. “Non so come ringraziarvi e
scusarmi allo stesso tempo. La vostra gentilezza e disponibilità non hanno
limiti. Sono sicuro che Kami-sama ha la vostra stessa pazienza” .
Lui gli sorrise, di rimando. “Non v’è bisogno che mi ringraziate, o vi scusiate.
Mi rendo perfettamente conto che il disturbo e le preoccupazioni non sono solo
nostre…”.
Mia madre sospirò e s’inchinò Kami-sama sa solo quante volte. “Hijikata-san,
grazie. Grazie davvero. Per favore, scusateci tanto. E porgete le nostre scuse
anche a Souji, per come si è comportata nostra figlia, che spero avrà il
buonsenso di scusarsi con lui più tardi” affermò, rivolgendosi a me, che ero
ancora col volto affondato nel kimono di Chizuru-san.
Proprio quest’ultimo fu poi ringraziato a ruota dai miei tre parenti che
(seguiti e scortati dall’esercito di Fujiwara-san) , con non poche
raccomandazioni e qualche pianto amareggiato, finalmente abbandonarono quel
tempio che quel giorno era stato invaso da urla, sussurri,
pianti e sorrisi, sconfitte e
vittorie. |
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Ricordi, piccole rivincite e... dango! - Parte prima ***
Okay, è successo un guaio con questo capitolo =w=”
La sottoscritta mentre aggiungeva il seguito della storia ha cancellato la
prima parte del capitolo, quindi ora mi trovo nella difficile situazione di
doverlo ripubblicare pur avendolo già fatto =w=”
Mi scuso con tutti quelli che avevano commentato il capitolo, tra cui
Midna-chan! Purtroppo non l’ho fatto a posta!
Ora lo ripubblicherò, sperando di non commettere più errori tanto idioti =w=”
Un salutone a tutti e beh… Per quelli che leggono la prima volta… ecco… *cerca
di ricordarsi cos’aveva scritto nella presentazione, la volta scorsa*
Dunque, il seguente capitolo diciamo che è introduttivo alla scena-madre.
Non ci sono elementi “decisamente” importanti, ma se non leggete questa prima
parte del capitolo non capirete “quasi” niente della seconda, che è invece
importantissima al fine della storia e della relazione tra Souji e Hikaru =w=
Be’, detto questo… Buona lettura e spero di non annoiarvi con questo lungo
capitolo!
Un bacione!
Alice <3
***
Non so quanto piansi quella sera. Probabilmente per delle ore, se non per tutta
la notte.
Avevo sempre saputo, in cuor mio, che effettivamente la promessa fatta tanto
tempo fa per te non era mai stata nulla di speciale, ma constatarlo di persona
era stata una delle cose che, in assoluto, mi aveva ferita più di tutte.
Non ti eri preso neanche la briga di fingere…
Ancora te lo rimprovero: perché non avevi finto? Perché non avevi continuato ad
illudermi? Se avevi cominciato il gioco, tanto valeva finirlo allo stesso modo,
no? Perché illudermi e farmi toccare il cielo con un dito, per poi svegliarmi
dal mio sogno e farmi precipitare di colpo all’inferno?
Eri stato crudele verso di me – lo pensavo davvero – . Ma io ero ancora più
crudele di te nei miei stessi confronti, perché continuavo a provare quei
sentimenti profondi e malati, che non riuscivo in alcun modo a sopprimere.
Autunno. 21 Ottobre, 1866. Kyoto.
“Hikaru-chan!” mi sentii chiamare all’improvviso. “Hikaru-chan!” .
Nonostante lo squillare della sua voce, riuscii bene a percepire la sua
dolcezza di fondo.
Mi meravigliava quanto femminile e mielosa potesse risultare la voce di quel
ragazzo. Era delicata e gentile: non aveva decisamente nulla di mascolino.
“Hikaru-chan, avanti, è ora di svegliarsi” insistette Chizuru-san, cercando di
farmi alzare dal futon caldo che mi avvolgeva.
Per quanto mi riguardava, l’idea di alzarmi non mi attizzava neanche un po’, ma
dato che, un po’ per l’insistenza del mio salvatore-angelo custode, un po’
perché con l’arrivo del nuovo giorno mi stavano tornando in mente le parole
della notte precedente, dovetti farlo per forza, senza lamentarmi troppo.
“Buongiorno, Chizuru-san” gli augurai, portandomi una mano davanti alle labbra
per coprire lo sbadiglio che, naturalmente, mi stava venendo fuori.
“Buongiorno” mi rispose lui, sorridendomi cordialmente. “Dormito bene?” .
“Benissimo, grazie” ricambiai il sorriso io. “Scusa se non ho potuto esserti
d’aiuto già da ieri sera”
“Oh? Non importa, non devi preoccupartene” mi rassicurò. “Eri stanca. Era
naturale che avessi bisogno di riposarti, no?”.
Gli sorrisi nuovamente, un po’ rossa sulle gote. Quel ragazzo era di una
dolcezza quasi spaventosa… Come faceva a resistere in quel covo di tiranni? Doveva
per forza essere uno di quelli di cui tutti si approfittavano…
Eppure lo trattano tutti con cura,
nonostante il suo modo di fare…
Ci pensai, mentre stavo aprendomi il kimono per la notte, da sostituire a
quello per il giorno, che Chizuru-san mi aveva appena portato lì e posato
vicino al guanciale del futon.
Fu allora che mi accorsi che lui mi stava osservando sorridente, in ginocchio,
al mio fianco.
E allora? Perché è ancora qui…?
“Ehm… Chizuru-san…” borbottai, alquanto imbarazzata.
“Mh? Sì? Dimmi pure, hai bisogno di qualcosa?” mi rispose, di tutto sorriso.
“Cosa posso fare per te?”.
Non sapevo come dirglielo… Davvero non ne avevo idea. “Ecco… Niente, va tutto
bene così. Solo… sai, dovrei cambiarmi…”.
“Are?” fece, alquanto sorpreso. Il
che fu alquanto strano, perché era quasi indice che non si aspettasse che lo
cacciassi via. “Oh, perdonami… Non pensavo ti desse fastidio… Scusami tanto. Ti
aspetto di sotto, allora”. E, facendomi un inchino, lentamente si chiuse il fusuma alle spalle e incominciò a
scendere le scale.
Co… Come sarebbe a dire “non pensavo ti
desse fastidio”?!
Rimasi alquanto scioccata dalle parole di Chizuru-san. Non riuscivo davvero
a spiegarmi il perché di quella risposta e di quella reazione.
Sì, insomma, era pur vero che di mascolino aveva ben poco, ma… Cielo, era pur
sempre un ragazzo!
A quale donna non avrebbe dato fastidio essere osservata senza veli da un uomo
a lei estraneo? E a cui, per giunta, non era né stata promessa in sposa, né in
fidanzata!
E poi…
Ragionavo, ancora imbarazzata e diventata di un colore simile al bordeaux.
Io appartengo a Sou-nii… Non potrei mai
accettare di essere vista da nessun altro, a parte lui.
Fu allora che mi tornò tutto in mente: le tue parole fredde, i tuoi gesti
distaccati e la tua aria infuriata.
Mi intristii così subito che, se mi avesse vista qualcuno, avrebbe pensato che
lo avevo fatto a posta, per quanto celermente avevo cambiato umore.
Sou-nii… Bugiardo…
Scossi la testa, cercando di reprimere la rabbia e darmi, nel contempo,
forza. “Avanti, è ora di mettersi al lavoro!” esclamai, dopo essermi infilata
il kimono da lavoro: era un kimono giallo decorato con una fantasia autunnale
color d’arancio, l’obi, invece, era di un rosso accesso. Si vedeva che era un
kimono vecchio, ma non per questo usurato o logorato. Nonostante si notasse
quanti anni avesse (e gliene davo anche sei o sette), era stato mantenuto
perfettamente intatto.
Appoggiai il kimono di cui mi aveva fatto dono la mamma (al contrario, ormai
logoro e sporco) vicino il mio futon. Sorridendogli, quasi avesse preso il
posto della mamma, gli augurai il buongiorno, mi misi in piedi e corsi oltre lo
fusuma per incominciare il mio
lavoro.
E fu così che ebbe inizio il periodo di tempo che passai come residente in quel
tempio antico, situato a Kyoto, divenuto già da tempo la base degli…
Shinsengumi!
Premettendo che, di questo, non ne sapevo davvero nulla, ero venuta a conoscenza
della verità il giorno precedente, dopo che i miei genitori insieme alla zia
Kin avevano acconsentito (grazie alla richiesta e all’intervento di
Chizuru-san) alla mia “temporanea” permanenza in quel luogo.
Una volta che se ne furono andati, Chizuru-san mi aveva portato all’interno del
tempio, stringendomi ancora tra le sue braccia, per cercare di calmarmi. Appena
sorpassata la soglia, ci si affiancarono Harada-san, Nagakura-san e Toudou-san.
Non avevo la più pallida idea di dove fosse finito Saitou-san, ma avevo
presupposto si trovasse presso il seguito di Hijikata-san, giacché anche lui
non si vedeva più in giro.
Senza parlare di te, poi, di cui avevo perso le tracce già da un po’. Chissà
dov’eri finito… Anche se in quell’attimo non m’interessò più di tanto, visto
che ero arrabbiata proprio con te.
“Wow, Hikaru-chan… Sei stata grandiosa!” aveva affermato Nagakura-san, con aria
quasi soddisfatta. Mi parlava con tono adoratore, quasi mi stesse ammirando per
qualcosa.
“Già!” lo aveva assecondato Harada-san, tutto sorridente. “Non avevo mai visto
nessuno sgridare Souji in quel modo. In realtà non avevo mai visto nessuno
sgridare Souji, in generale, ma… vederlo fare da una ragazzina di poco più di
tredici anni ed in quel modo… Hikaru-chan! Sei stata assolutamente favolosa!” .
Non avevo dubbi sul fatto che i loro propositi fossero, tutto sommato, buoni e
che il loro obiettivo voleva essere quello di tornare a farmi sorridere e di
darmi man forte, ma… l’effetto che sorbirono le frasi dette fu esattamente l’opposto.
Invece che esserne soddisfatta, ero tornata a pentirmi di quelle parole che ti
avevo rivolto e, in un attimo, ero tornata a piangermi addosso.
“Ah!!! Siete incorreggibili!” li sgridò Todou-san, quasi fosse il più maturo
dei tre. “L’avete fatta piangere di nuovo!”
“Ma… Non è colpa nostra!” precisò Shinpachi-san. “Noi volevamo soltanto…”
“Minna-san…” li interruppe Chizuru-san che, come al solito, aveva compreso come
mi sentivo e cosa sarebbe stato meglio per me. “Penso che adesso la cosa di cui
abbia più bisogno Hikaru-chan è un bel po’ di riposo”.
Lo guardai in volto, con le lacrime agli occhi, quasi adorante.
“Riposo sia fisico, che morale” ci tenne a precisare. “Per cui adesso
l’accompagnerò nella sua stanza. A più tardi”. Fu così che li aveva liquidati
in poco tempo e mi aveva portata nella camera in cui mi ero svegliata quella
stessa mattina.
Senza cambiarmi di kimono (anche perché, in quel momento, non ve n’erano altri
disponibili per me) mi ero infilata sotto il futon e Chizuru-san era rimasto
con me per tanto tempo, tenendomi stretta per mano.
Aveva detto che sarebbe rimasto al mio fianco fin quando non mi fossi
addormentata.
“Mi dispiace…” avevo esordito, dopo tanto tempo di silenzio. “di aver causato
tanto trambusto. E mi dispiace di averti coinvolto”.
Lui mi sorrise gentilmente. “Ma non sei stata tu a coinvolgermi. Sono stata io
che, anzi, mi sono intromessa in affari che non erano i miei. Sono stata
sfrontata ed impudente…”
“Niente affatto!” lo avevo interrotto io, girandomi di scatto verso di lui.
“Niente affatto! Se non fosse stato per te, io…
Io non sarei qui! Ti ringrazio, perciò, di essere stato tanto buono da
arrivare a prenderti la briga di aiutare una come me…”.
“Non dirlo neanche, Hikaru-chan” mi aveva rassicurato. “Soltanto un cieco non
si sarebbe accorto dei fortissimi sentimenti che provi per Okita-san. Non
potevo vederti in quelle condizioni… Volevo assolutamente darti un mano.
Perlomeno volevo che risolveste le vostre divergenze. Sembra che ne abbiate non
poche…” .
Aveva capito tutto: era saggio ed era gentile. Ero arrossita e avevo distolto
lo sguardo da lui, per evitare di divenire bordeaux.
Avevo pensato che era davvero un ragazzo meraviglioso e che, se non fossi stata
già innamorata di te, dopo tutto quello che aveva fatto per me quel giovane, me
ne sarei invaghita follemente.
Dopo avermi fatta calmare ulteriormente, accompagnata dalla fioca luce della
candela e dal tepore della mano di Chizuru-san che stringeva la mia, avevo
raggiunto il mondo dei sogni.
…
Fu, poi, verso le nove di sera che fui svegliata proprio da Chizuru-san che,
sorridendomi non aveva accennato a nascondere la sua espressione mortificata.
“Mi spiace di averti dovuta svegliare, Hikaru-chan, ma c’è una persona che devi
assolutamente conoscere”.
Io, ancora sbadigliante, avevo preso a stropicciarmi gli occhi, una volta
messami a sedere sul futon. “Una persona… che devo assolutamente conoscere…?”
chiesi, ancora assonnata. “Chi è…?”.
“Il capo della Shinsengumi”.
Lo aveva detto in tono così spedito, naturale e tranquillo che avevo sgranato
immediatamente gli occhi ancora chiusi e lo avevo guardato a bocca aperta.
“C…Come?”.
LA SHINSENGUMI?!
In un primo momento la cosa mi sembrò tanto strana da pensar di star ancora
sognando, solo dopo mi tornò in mente che eri entrato a far parte di quel
gruppo, e la cosa mi risultò essere molto più normale.
“Oh, non devi preoccupartene. Kondou-san è una persona gentilissima e affabile”
mi aveva garantito. “Vedrai che non avrai nulla da temere, una volta
conosciuto”.
Kondou-san…?
Mi chiesi, sentendo quel nome.
Che strano… Non credo di averlo mai
incontrato, eppure il suo nome mi sembra famigliare…
Tuttavia, nonostante questa strana sensazione, l’angoscia che m’aveva
invaso a seguito di quella notizia non era stata tanto facile da reprimere:
“Ma… Ma… Perché lo devo assolutamente conoscere?!” esclamai.
“Insomma…Addirittura il comandante…”
“Mi spiace enormemente, Hikaru-chan, ma Hijikata-san è solo il vice-comandante
della Shinsengumi. Ed essendo tale, non può prendere una decisione importante
come tenerti qui alla base, senza prima consultare il comandante vero e
proprio”.
“Ma… Ma c’è proprio bisogno che lo conosca? Non può semplicemente
parlargliene?”.
Lui mi aveva sorriso. “Una volta tornato, Hijikata-san non ha perso tempo a
parlargliene e raccontargli tutta la storia”.
“E allora a che serve?”
“Beh, Kondou-san aveva detto che andava bene tutto così, anche perché, sapendo
che stavi riposando, non voleva disturbarti, affermando che poteva incontrarti
anche l’indomani, ma…”
“Ma…?”
“Hijikata-san ha insistito perché ti conoscesse in questo momento. Ha detto che
era assolutamente necessario”.
Qu… Quel dannato…! Ma cos’è, ci prende
gusto a farmi soffrire? E’ uno di quei demoni che si nutre del dolore della
gente?!
Tuttavia non potevo realmente odiarlo, dato quello che aveva detto a mio
padre la stessa mattina, prendendosi tutta la responsabilità di ciò che poteva
succedermi su di sé. Detto onestamente, era uno degli uomini col senso di responsabilità
più alto che conoscessi. Anche se, a dirla tutta, ancora non mi spiegavo il
motivo per cui si era preso tutta la responsabilità, nonostante fosse del tutto
contrario all’idea di farmi restare lì.
Avevo sospirato, per poi uscire definitivamente dal futon, darmi una
sistematica ai capelli ed alla faccia (i cui occhi erano ancora arrossati per le
troppe lacrime). Quindi avevo seguito Chizuru-san attraverso il lungo corridoio
che sembrava non finire mai.
Beh, in realtà non era molto lungo (anche se il tempio era bello grande), ma
per tutto il nervosismo che mi ero sentita addosso quel piccolo tragitto mi era
sembrato il viaggio più lungo che avessi mai fatto. Dopo qualche passo già
m’era venuto il fiato corto.
Una volta raggiunta la stanza, Chizuru-san mi aveva fatto segno di entrarvi e
di tranquillizzarmi. Io l’avevo guardata, complice, le avevo sorriso per
risponderle che andava tutto bene (anche se per me non era affatto così) e
avevo fatto dei lunghi respiri per calmarmi.
Dunque, entrai.
Nella stanza accuratamente decorata da decorazioni floreali variopinte di
arancione e arredata col massimo del gusto dell’epoca, vi si erano appostati
tre uomini. Il primo che avevo riconosciuto era Hijikata-san che sedeva alla sinistra
di quello che stava al centro.
I miei occhi erano fuggiti istintivamente alla figura che, invece, sedeva alla
destra della figura centrale: un uomo apparentemente alto e tutto sommato
abbastanza giovane, aveva un bel viso, dei capelli castani lunghi fino alle
spalle, leggermente scompigliati e dei grandi occhiali sotto i quali si potevano
benissimo intravedere gli occhi color giallo-sabbia, leggermente tendenti al
verde. Al contrario di tutti gli uomini della Shinsengumi che avevo incontrato
fino ad allora, quell’uomo non mi era apparso molto muscoloso, né molto
allenato. Aveva più l’aria da intellettuale, da stratega. Non mi era parso
affatto portato per le battaglie.
Quest’ultimo uomo mi aveva sorriso gentilmente ed io, un po’ per l’imbarazzo,
un po’ perché temevo che una mia qualsiasi reazione fosse sbagliata,
istintivamente posai lo sguardo, infine, sull’uomo che stava al centro: il
comandante della shinsengumi.
Questo è… Kondou-san?
Avevo pensato, sgranando gli occhi, appena lo vidi; era un omone, alto e
della stazza più o meno di Nagakura-san. Forse anche un po’ più grande. Tuttavia,
nonostante l’imponenza della figura (lui, sì, era molto muscoloso) aveva un
viso gentile, anche se i suoi lineamenti erano un po’ marcati. Aveva degli
occhi color bronzo che avrei definito “buoni” anche se non lo avessi potuto
vedere.
Va bene, forse è un po’ improbabile come esempio, ma è per far comprendere come
l’aria di quell’uomo fosse tutt’altro che cattiva e fredda. Anzi,
probabilmente, dopo te, Sou-nii, era colui che mi aveva ispirato più fiducia in
assoluto.
Mi sorrideva così docilmente ed innocuamente che non potei non ricambiare il
suo sorriso, facendomi trasportare dalla dolcezza della sua espressione.
“Kondou-san, questa è Hikaru-ch… Ehm…” si era corretto Chizuru-san. “Volevo
dire Okita Hikaru-san”.
“Ah, non preoccuparti, Chizuru-san. Hikaru-chan andrà benissimo” aveva
esordito, sorridendo, quel Kondou-san. Per poi rivolgersi a me. “Sempre che
alla signorina non disturbi. Se vuoi, possiamo chiamarti anche Hikaru-san, oppure…
Okita-san… Anche se…” e si era messo a ridere tra sé e sé. “… mi suona davvero
così strano…!”.
La risata di quell’uomo mi rimbombò nella testa e mi rese notevolmente più
tranquilla.
“N… No, signore, Hikaru-chan andrà benissimo, se vi aggrada…” mi ero
precipitata a rassicurarlo, mentre mi stavo inchinando verso di loro.
“Oh, per favore, Hikaru-chan! Non ce n’è affatto bisogno! Suvvia, basta con
queste formalità!”
“Oh… Ehm…” . Ero rossa come un papavero, ma cercai di non darlo a vedere. O,
almeno, di non evidenziarlo maggiormente. “Co… Come desiderate…”.
“Ah, com’è carina… E’ diventata rossa per l’imbarazzo!” aveva affermato,
mettendosi a ridere nuovamente. “Non la trovate carina, Sannan?” aveva
domandato, rivolto all’uomo alla sua destra.
L’uomo con gli occhiali, allora, aveva annuito e aveva volto a me la sua
attenzione. “Davvero adorabile”.
Dopo quel commento, ero arrossita ancora di più e fu solo per educazione che
non mi ero portata le maniche del kimono al viso, per coprirmelo dalla
vergogna.
“Comandante, per favore… un po’ di contegno…” lo aveva pregato, Hijikata-san,
alquanto contrariato di quanta cordialità mi stava rivolgendo, pur essendo un
uomo tanto importante.
“Perché? Cosa c’è che non va, Toshi? Non la trovi carina anche tu?”.
Fu così che aveva preso anche lui a guardarmi e a scrutarmi, poi si era rivolto
nuovamente a Kondou-san e aveva affermato: “Decisamente non rispecchia i miei
gusti”.
Beh, non mi ero aspettata una risposta diversa da lui, solo che sentirselo dire
in faccia era un po’… come dire… deludente?
“Aspetti, un attimo, comandante, ma non era di questo che dovevamo discutere!”
lo riprese nuovamente, Hijikata-san.
“Avanti, si può sapere di che cosa stai parlando? Ti avevo già detto che non
c’erano problemi a farla restare qui, no?” concluse Kondou-san, con un sorriso
a trentaquattro denti. “Perché ti fai tanti problemi?”
“Perché non pensa mai a quello che fa, prima di aprire bocca!”
“E tu pensi troppo, invece, sai? Dovresti concederti una pausa ogni tanto, o
prima o poi la tua testa ci esploderà dinnanzi!”
“Ma si sente quando parla? Dovrebbe almeno pensarci un po’, prima di accettare
così superficialmente!”.
“Certo, hai ragione, ma sai non credo davvero ci sia nulla di male nel farla
restare qui, se è lei a volerlo”.
“Ma…” stava per ribattere Hijikata-san, quando lui lo troncò sul nascere e
riprese, stavolta con un’aria decisamente seria: “Toshi, questa è la nipote di
Souji. E’ una parente di Souji. E, per me, è come se fosse anche una mia
parente. Certo, sono cosciente del fatto che tutti siate preoccupati per lei,
dato che ultimamente la zona è poco tranquilla, ma… Se lei è tanto convinta di
voler restare qui, tanto da aver sfidato i suoi genitori e lo stesso Souji,
allora significa che lo vuole davvero. Non è forse così?” . Si era rivolto a
me, mentre aveva pronunciato quelle parole.
Io, allora, avevo annuito, con sguardo languido, quasi vicina al pianto.
Le parole di Kondou-san furono le più gentili e rassicuranti che avessi sentito
da quando ero entrata in quel luogo.
“Dunque, se è così, non posso davvero permettermi, né permettere a te o nessun
altro, di ostacolarla o negarle questo desiderio. Permettiamole di stare qui,
Toshi. Almeno fin quando la faccenda non si fa ingestibile. Fin quando possiamo
permetterci di proteggerla, la proteggeremo”.
Dopo quelle parole, vi era stato un attimo di silenzio da parte di tutti, fin
quando non era intervenuto anche l’uomo di nome Sannan: “Concordo col
comandante. Se la qui presente ragazza si è ribellata alle persone a lei più
care, pur di rimanere qui, allora credo dovremmo farla restare. D’altronde
Okita-san è legato familiarmente a lei, no? Non ci saranno problemi, allora”.
“Mm! Mm!” aveva annuito, Kondou-san. “Sante parole!”
“Gra… Grazie!” avevo esclamato all’improvviso, stupendo tutti e portando su di
me la loro attenzione. “Davvero… grazie! Grazie per permettermi di rimanere
qui! Vi giuro su Kami-sama che non vi sarò di alcun intralcio! Farò qualsiasi
cosa mi ordinerete di fare e seguirò le vostre istruzioni! Non mi lamenterò mai
di niente e sarò sempre pronta ad obbedire, qual’ora aveste degli ordini da
impartirmi!” . Cercai disperatamente di trattenere i singhiozzi che, però, una
volta ogni tanto si facevano largo nel discorso. “Posso essere d’aiuto nelle
cucine, se desiderate. Laverò e rammenderò i vostri abiti e, all’occorrenza
affilerò le vostre katane e potrei anche…”
“Hikaru-chan” m’aveva interrotto Kondou-san, all’improvviso. “Basta così. Ti
ringrazio davvero per le tue proposte. Sei davvero gentile. Per il momento, ti
limiterai ad aiutare nelle cucine e a lavare i nostri abiti (nel caso, li
rammenderai anche). Ma niente più di questo, siamo intesi?”.
Ricordo distintamente di aver sorriso di pura gioia alle sue parole e di aver
annuito, entusiasta.
Lui aveva ricambiato il mio sorriso. “Ed ora, non credo di essermi ancora
presentato: sono Kondou Isami, comandante della Shinsengumi”. Poi aveva fatto per indicare Sannan-san. “Questo invece è il
colonnello della shinsengumi, nonché nostro abilissimo stratega, Sannan Keisuke”.
Costui non aveva trattenuto un inchino e un gentile sorriso. “Molto piacere di
conoscervi, Hikaru-san”.
“Oh… sì!” avevo risposto, molto imbarazzata, inchinandomi a mia volta. “Il
piacere è tutto mio”.
Dopodiché Kondou-san aveva indicato con un cenno di capo Hijikata-san alla sua
sinistra. “E penso avrai avuto già la fortuna di conoscere vice-comandante
della shinsengumi, Hijikata Toshizo”. E non era venuta meno neanche la sua
risata. “O forse dovrei dire sfortuna?”.
Hijikata-san, alla battuta, gli aveva indirizzato uno sguardo torvo e
decisamente infastidito, ma, da bravo pitbull maturo quale doveva dimostrare
d’essere, la mandò giù quasi subito, senza tornare a pensarci più di tanto.
Dopo le varie presentazioni ed avermi più o meno riferito i ruoli dei migliori
soggetti della Shinsengumi, Kondou-san mi aveva fatto segno di alzarmi e di
seguirlo di fuori, nel cortile.
Io, di parte mia, lo aveva seguito senza dire una parola. Quando mi chiusi il fusuma alle spalle, come mi aveva
imposto di fare lui, mi aveva fatto nuovamente cenno di avvicinarmi.
Timidamente mi avvicinai a quella figura tanto imponente che prima mi guardò
quasi severamente, poi mi poggiò una mano sulla testa, scompigliandomi
amorevolmente i capelli.
“Sei davvero piccola, eh? Mi hanno riferito che hai solo tredici anni”.
“A breve quattordici” avevo precisato io. “Sono una donna, ormai. Posso
farcela”.
“Oh, certo… una donna…” aveva riso, per poi sorridermi nuovamente. “Nonostante
tu sia così piccola, hai avuto un così grande coraggio. Il tuo desiderio di
stare con Souji deve essere più forte di quanto tu stessa immagini”.
Ero diventata color porpora dopo quelle parole così veritiere. Era come se
quell’uomo mi avesse messa a nudo davanti a lui. Probabilmente se mi avesse
spogliata in quello stesso momento, l’imbarazzo non sarebbe cresciuto più di
così.
“Non so se sei cosciente di quello a cui vai in contro, ma penso saprai che qui
le cose non saranno facili da gestire. Ci saranno battaglie. Ci saranno
scontri. Ci saranno tanti morti e tanto sangue” aveva cercato di avvertirmi.
“Sei disposta lo stesso, dunque, a rimanere qui? Potresti anche rimetterci la
vi…”.
“Non importa” lo avevo interrotto io. Non so chi mi aveva dato il coraggio di
farlo, fatto sta che lo avevo fatto. “Ora che l’ho ritrovato, non potrei mai
separarmi da Sou-nii. E’ tutta la vita (praticamente da quando ho memoria) che
aspetto il giorno in cui l’avrei ritrovato. Non pensavo ad altro! Anche se ci
fosse di mezzo la fine del mondo, non me ne andrei comunque”.
Le mie parole dovevano aver avuto un effetto davvero efficace su Kondou-san,
perché lo vidi sfregarsi gli occhi dall’emozione.
“Così piccola… e così determinata! Sei davvero speciale, Hikaru-chan” aveva
proseguito, continuando a scompigliarmi i capelli.
Io ero arrossita ancora, quando concluse: “Beh, non per questo sei la nipote di
Souji!”.
E così avevo annuito e gli avevo sorriso di cuore.
…
Dopo quella discussione Kondou-san era rientrato nella stanza, ordinando a
Chizuru-san di riaccompagnarmi in camera e di darmi un cambio di kimono per la
mattina successiva, dato che aveva notato che il mio (almeno fin quando non
l’avessi riparato) sarebbe stato troppo logoro e rovinato da indossare.
Dopodiché le aveva anche detto di assicurarsi che continuassi a riposarmi fino
a domattina, perché mi avrebbe atteso il lavoro. E fu così che, dopo un saluto
generale ai tre comandanti, Chizuru-san mi aveva riaccompagnata nella mia
camera e si era preso cura di me fin quando, nuovamente, non presi sonno.
Quella stessa sera, a dire il vero, avrei potuto dare una mano a Chizuru-san
quantomeno per la cena, ma Kondou-san aveva insistito affinché mi riposassi e
riprendessi le forze. Inoltre aveva chiesto gentilmente al mio salvatore di
curarmi le ferite agli arti dei piedi che ancora perdevano sangue, nonostante
fosse passato un bel po’ di tempo.
E dovevo ammettere che, risvegliatami al mattino, mentre mi dirigevo verso la
sala ove gli shinsengumi facevano colazione
(che mi aveva fatto visitare, dopo la conoscenza di Kondou-san,
Chizuru-san), notai che Chizuru-san aveva fatto un buon lavoro: già la prima
volta che mi aveva fasciata, le garze si erano riempite di sangue. Quante volte
mi aveva cambiato, dunque, quelle bende? Era stato vicino a me tutta la notte?
Non lo sapevo, fatto stava che lo avrei ringraziato a dovere per tutto quello
che aveva fatto, che stava facendo e che, sicuramente, avrebbe fatto ancora per
me.
Però, ciò non toglie, che prima si è
comportato davvero stranamente…
Voleva vedermi nuda?
Ipotizzai, per poi scuotere vigorosamente la testa: no, mi rifiutavo di
credere che una persona così dolce potesse essere in realtà un pervertito.
Quindi, cercai al più presto di concentrarmi su qualcos’altro.
E la cosa mi riuscì perfettamente una volta entrata nella sala riservata ai
pasti. Di fatti, già seduti ai loro posti vi erano Harada-san, Saitou-san e, purtroppo,
anche Hijikata-san.
Tutti (a parte Saitou-san), una volta notata la mia presenza, portarono la loro
attenzione verso di me. Harada-san mi rivolse un sorrise tranquillo e cordiale,
Hijikata-san, invece, la solita aria severa ed intransigente. Saitou-san si
limitava a rimanere seduto, con gli occhi socchiusi (quasi stesse meditando) e
immobile. Non mi degnò nemmeno di un’occhiatina.
“Ah, buongiorno!” esclamai, inchinandomi.
“Buongiorno a te, Hikaru-chan” mi ricambiò Harada-san. “Dormito bene?”.
“Eh? Ah… Sì” borbottai, un po’ nervosa. “Davvero bene”.
“Mi fa piacere! Avanti, siediti qui e mangia con noi!” affermò, facendomi segno
di sedermi vicino a lui.
Il che mi lasciò letteralmente di stucco.
Perché dovrei sedermi?
“Ah, ecco… Io in realtà…”
“Mi spiace interrompere la vostra discussione e deludere le tue aspettative,
Sano, ma è Okita-san che deve occuparsi della colazione, insieme a Chizuru”
s’intromise Hijikata-san. “Quindi, se non vogliamo restare digiuni, non credo
sia fattibile che si sieda e aspetti comodamente di essere servita”. Detto ciò,
mi rivolse un’occhiata torva. “Dico bene, Okita-san?”.
Al che, davvero non so come feci, trattenni l’istinto di prenderlo a sberle.
Gli sorrisi falsamente, per poi affermare: “Difatti non avevo alcuna intenzione
di sedermi comodamente ed essere servita” ci tenni a precisare. Chiunque,
guardandomi, avrebbe capito che il mio era un sorriso più che forzato. Ed era
chiaro, come il fatto che senza respirare non si può vivere, che la mia
permanenza in quel luogo non fosse tanto apprezzata da Hijikata-san. Anzi, per
nulla apprezzata. E lo dimostrava il fatto che mi trattava con freddezza, che
non mi avesse rivolto un solo sorriso da quando ero lì, che mi chiamasse
“Okita-san” anche quando lo stesso comandante mi si era rivolto meno
formalmente e che pensasse a me come nient’altro che una ragazzina viziata e
capricciosa, che faceva le cose perché le andava di farle e che non accettava rifiuti
in alcun modo. Insomma, pensava a me come una di quelle ragazzine di buona
famiglia, abituate al lusso e allo strumentalizzare le persone. Ma si sbagliava
di grosso! E gliel’avrei dimostrato senz’altro. “Anzi, se non ricordo male, la
sera scorsa sono stata proprio io ad offrirmi volontaria”.
D’accordo, forse non era il caso di mettersi a bisticciare di prima mattina, ma
cosa potevo farci? Dopo aver rivolto a te, Sou-nii, quelle parole così dure… A
te, che non avrei mai osato immaginare di poter dir qualcosa che ti avrebbe
fatto in alcun modo irritare, non mi avrebbe spaventata neanche rivolgermi
sfrontatamente all’imperatore stesso.
Non c’era nessuno più importante di te che non volessi ferire, dunque, una
volta assaggiata l’amarezza dell’averti delusa o fatto arrabbiare, non mi sarei
di certo sentita peggio alzando un po’ la cresta con Hijikata-san.
Non potei fare a meno di notare, dunque, che Hijikata-san aveva alzato un
sopracciglio e non solo per lo stupore, ma anche per l’impertinenza che avevo
usato nel rispondergli. Beh, quello non era certo un commento offensivo, né
altro, ma suppongo che la cosa che l’abbia infastidito più di tanto fu, di per
sé, il fatto stesso che avessi osato rispondergli.
“Ah! Già pimpanti di prima mattina, eh? Come siamo energici!” esclamò una voce
alle mie spalle. Quando mi voltai, vidi Nakagura-san, seguito da Todou-san.
“Ah, Shinpatsu-san! Qua di energico ci sei solo tu, a quest’ora del mattino”
commentò il ragazzo, dandogli una pacca sulla schiena. “Ah, buongiorno,
Hikaru-chan!” mi si rivolse, una volta notata la mia presenza.
“Buongiorno anche a voi” risposi, rivolgendomi ad entrambi ed inchinandomi
formalmente.
“Ancora con queste formalità, Hikaru-chan? Ti avevo detto che non ve n’era
bisogno, no?”.
Beh, nonostante non ci avessi parlato molto, avrei riconosciuto quel tono
gentile e sempre fin troppo allegro, anche in mezzo ad una folla di centinaia
di persone.
“Buongiorno, Kondou-san, Sannan-san” sorrisi gioiosamente a quelle due figure
che stavano entrando ora e che mi stavano già sorridendo apertamente. Erano due
delle persone che più mi erano risultate simpatiche, al momento. Beh, a
prescindere da quella specie di trio comico che avevo capito essere quello di
Harada-san, Nakagura-san e Todou-san.
“Buongiorno, Hikaru-san” mi si rivolse Sannan-san, inchinandosi leggermente
verso di me. “Mi spiace dovermi rivolgere a voi in quel modo tanto
confidenziale, ma temo che se optassi per il cognome, farei una tremenda
confusione tra voi e vostro zio”.
“Vostro zio”…
Vi riflettei su.
Non mi piaceva affatto quando si riferivano a te come “mio zio”. Era una cosa
che detestavo. In realtà non perché odiassi il fatto di essere imparentata con
te, ma… La verità era che ricordare che eri un mio parente così stretto e,
dunque, ricordare l’impossibilità di amarti come donna, mi faceva tremendamente
male.
“No, non vi è alcun problema. Capisco perfettamente che si potrebbe creare non
poca confusione, quindi…” borbottai, ancora un po’ scossa per i pensieri che
stavano attraversando la mia testa. “Ora, se permettete, vado in cucina ad
aiutare Chizuru-san. Avrà sicuramente bisogno di una mano”. Detto ciò,
m’inchinai e feci per dirigermi verso la porta che dava sulla cucina, adiacente
alla stanza, dove, per l’appunto, trovai intento Chizuru-san a cucinare il
riso.
“Chizuru-san, sono arrivata” lo avvisai. “C’è qualcosa in cui posso esserti
utile?”.
“Oh, Hikaru-chan! Sei arrivata al momento giusto! Ti spiacerebbe controllare il
pesce? Dato che sono occupata col riso, non vorrei che si bruciasse”.
“Oh, certamente!” mi affrettai a rispondere io, tirandomi su le maniche del
kimono, come per dar segno a me e a lui, che avrei cominciato a lavorare. Indi
corsi in direzione del pesce che, nel cortiletto, stava abbrustolendosi vicino
al fuocherello acceso sicuramente da quel ragazzo così diligente.
La cottura è perfetta!
Non potei fare a meno di notare, accovacciandomi vicino al piccolissimo
falò.
Sarà meglio che incominci a toglierli dal
fuoco. Altrimenti si abbrustoliranno sicuramente.
Fu allora che pensai che Chizuru-san doveva davvero essere abituato a
cucinare. Proprio poco prima mi aveva raccomandato di guardare il pesce perché
temeva si bruciasse. Quindi, logicamente, doveva essere sicuro che in quel
frangente di tempo, si fosse già ben cotto.
E’ davvero un ragazzo eccezionale! Oltre
che far parte della Shinsengumi sa fare anche di queste cose… E così bene, poi!
E così, dopo aver tolto tutti gli spiedini di pesce dal fuoco ed aver
spento quest’ultimo con un secchio d’acqua posto lì vicino, mi voltai ed entrai
nuovamente nella cucina, dove Chizuru-san era intento a disporre sui vassoi
appositi le hashi.
“Ah, hai già fatto” constatò. “Ti
ringrazio davvero dell’aiuto, Hikaru-chan” .
“Non dirlo neanche!” affermai, posando il vassoio con i pesci dalla crosta
dorata, sulla mensola, vicino il contenitore del riso che stava ancora cocendo.
Lui mi si affiancò, incominciando a disporre le varie ciotole che avrebbero
contenuto i vari cibi sui vassoi.
“Mi spiace per le parole di Hijikata-san” esordì, ad un certo punto, spezzando
il silenzio momentaneo che si era venuto a creare.
Mi voltai verso di lui, perplessa, ma Chizuru-san non stava fissando me: teneva
la testa bassa, mentre continuava a sistemare le ciotole.
“Eh?” domandai io. “A che ti riferisci?”
“Alle parole che ti ha rivolto prima, nella sala a fianco e… ieri sera, quando
ha continuato ad insistere per mandarti via”
“Oh…” . Rimasi in silenzio per un po’, mentre mi occupavo di tagliare il pesce
dalla parte inferiore del corpo, togliere la lisca e le eventuali spine. “Non
importa. Ho capito che non approva la mia permanenza qui. Va tutto bene”.
“Mi dispiace davvero per come si sta comportando con te” continuò, con tono
mortificato. “Però, credimi, anche se può non sembrare, non è che lui non ti
capisca, o non voglia appoggiarti. E’ solo che…”. Notai che era po’ spaesato.
Indice che non sapeva bene cosa dire. Solo poco dopo lo vidi proseguire: “… è
solo che non vuole altre persone sulla coscienza”.
“Mh?” . Lo guardai nuovamente. Stavolta chi si trovava alquanto stupita e
spaesata ero io. Che cosa significavano quelle parole?
Altre persone sulla coscienza?
Che cosa voleva dirmi Chizuru-san?
Probabilmente, se fossi stata un po’ più grande, o un po’ più matura, avrei
capito subito di che stesse parlando. Probabilmente, anche se avessi fatto più
attenzione alle parole che avevano pronunciato ieri, per tante volte, sarei
riuscita a capirlo senza alcuna difficoltà. Ma in quell’attimo, a ciò che quel ragazzo volesse farmi
comprendere, io proprio non c’ero arrivata.
Solo in seguito avrei capito. Molto, molto tempo più tardi.
Dischiusi appena le labbra: avevo intenzione di chiedergli che cosa intendesse
con quella frase, ma lui mi precedette ancor prima ch’io iniziassi a formulare
la domanda nella mia mente. “Allora, Hikaru-chan, iniziamo a fare le porzioni
adesso, va bene?”. Mi si rivolse con un fulgido sorriso. Era così luminoso che
non me la sentii di ritornare al discorso precedente, apparentemente così
triste e malinconico.
Beh…
Pensai tra me e me.
Ho tanto tempo a disposizione per
chiederglielo, in fondo!
“D’accordo!” esclamai io, ricambiando il suo sorriso. “Allora, partiamo dal
ris…?” ma non feci in tempo a finire la mia domanda, che sentimmo il rumore dello
fusuma aprirsi e poi richiudersi
subito dopo.“”
“Ah, Souji! Eccoti finalmente!” sentii esclamare dalla voce di Kondou-san.
“Era ora che ti facessi vivo! Stavamo temendo che fossi stato sbranato lupi!” .
Questa, invece, era senz’altro la voce altisonante di Nakagura-san.
“Perché proprio dai lupi?”
“Beh, non c’è una vera e propria ragione. Mi andava di dire così! Non rompere,
Sano!”.
“Ahahah” .
Sussultai, sentendo quella risata. Era la tua. L’avrei riconosciuta anche se mi
avessero reciso le orecchie. “Sempre vivaci, sin dal primo mattino. Sono queste
le cose belle della vita”.
“Seriamente, Souji” riprese la voce alquanto sospettosa di Harada-san. “Di
solito sei così mattiniero. Non saprei dire chi tra te e Saitou sia il primo a
metter piede qui dentro”.
“Beh, diciamo solo che non ho dormito molto ieri sera. Ho solo recuperato un
po’ stamani”.
“Che cosa insolita…” constatò Todou-san. “Davvero insolita da parte tua…”.
“Forse dipende dalla cara Hikaru-chan?” ipotizzò il rosso, con aria alquanto
maliziosa. “Ci ho azzeccato, vero?”.
“In un certo qual senso” ti limitasti a rispondere, con tono tranquillo, anche
un po’ scherzoso. “E’ tutta colpa sua. Mi ha fatto passare una nottataccia”.
Sentendo queste parole, per poco non spezzai le hashi che avevo tra le mani.
“Mh? Che hai, Hikaru-chan?” mi chiese, vedendomi tremante, Chizuru-san,
chiaramente impegnato a fare altro e che, quindi, non aveva prestato attenzioni
alla discussione che stavano avendo gli shinsengumi nell’altra stanza. “Qualcosa
non va?”
“Eh?” . Mi rivolsi di scatto verso di lui, mascherando il mio nervosismo con un
finto sorriso e cercando di controllare la rabbia che continuava a crescere in
me. “No, niente. Figurati”.
“D’accordo…”. Non molto convinto della mia risposta, non insistette oltre e
proseguì quel che stava facendo.
Al che tornai a far finta di preparare il tutto, quando, invece, continuai ad
origliare quello che dicevano dall’altra parte.
“A proposito!” sentii intervenire all’improvviso Todou-san. “Lo sai chi cucina
oggi, insieme a Chizuru?”.
“Forse volevi dire, chi cucinerà d’ora in
poi insieme a Chizuru?” lo corresse Harada-san. “Avanti, Souji. Indovina”.
“Eh?” . Il tuo tono era leggermente perplesso. “Non ditemi che…”
“Esatto!” proseguì Nakagura-san. “La tua dolce nipotina è di là che sta
cucinando per noi. Non sei felice?”.
“Oh, davvero?” . Ora il tuo tono non era né perplesso, né altro. Era
semplicemente un tono di constatazione. “Beh, buona fortuna, Hikaru-chan”.
Que… Questo è tutto quello che hai da
dire?!
Lo pensai istintivamente, mentre mi ribolliva il sangue nelle vene. Ero
certa che la mia temperatura corporea stesse salendo in maniera del tutto
anormale.
Così? Come se niente fosse? Dopo la
faccia arrabbiata che hai fatto ieri? E, per giunta, non ti degni neanche di
venirmi a salutare!
“Chissà se cucina bene” si domandò la voce di Todou-san. “Sono davvero
curioso. Non puoi anticiparci niente, tu?”. Evidentemente si era rivolto a te.
Non perché lo sapessi con certezza, o perché lo avessi visto, ma quel tipo di
domanda, così posta, poteva essere rivolta soltanto a te, dato che eri l’unico
che poteva anticipare qualcosa agli altri sul mio conto.
“Effettivamente, anche se è mia nipote, la
conosco davvero poco” ti accingesti a spiegare, con aria (si capiva)
noncurante, come se stessi parlando del più e del meno. E non potei fare a meno
di notare come avevi accentuato quel “mia nipote”. E la cosa in sé mi diede
davvero tanto fastidio. In un modo che forse sarebbe difficile da spiegare.
“E, comunque,” proseguisti. “non sono mai stato a casa di mia sorella così a
lungo da assaggiare la sua cucina, figuratevi quella di Hikaru-chan. Non sapevo
neanche che avesse imparato a cucinare. Quindi non posso anticiparvi niente.
Spero solo, però, che non avveleni nessuno”. E da qui partì una tua risata
accompagnata, in seguito, da alcuni dei tuoi compagni.
…
CRACK.
“Oh, Hikaru-chan!” vidi accorrere Chizuru-san verso di me con aria preoccupata,
guardando le hashi spezzate che avevo
tra le mani. “Che è successo? Ti sei fatta male?”.
“No, no” cercai di rassicurarla. Nuovamente un falso sorriso, evidente come il
cielo azzurro, tornò ad invadermi le labbra. “Non è niente, davvero. Credo di
aver fatto troppa pressione e così le ho spezzate. Ma non mi son fatta niente,
non preoccuparti”.
Ora…
“Sicura?” mi chiese lui, ancora un po’ titubante.
Ora sì che sono davvero furiosa…
“Sicurissima! Anzi, scusami tanto per averle rotte”.
“Ah, non devi preoccuparti per quello. L’importante è che tu non ti sia fatta
male. Un paio di hashi si possono
sempre sostituire, ma le tue mani no” mi sorrise alquanto rincuorato.
Al che io dovetti fare lo stesso, anche se in cuor mio ardevo dalla rabbia.
Come ha potuto dire queste cose? Perché
mi ha screditata in questo modo?
Pensai, non riuscendo a controllare la collera.
“A proposito, Chizuru-san, perché non vai a sederti? Ci penso io a finire qui”
E davanti a tutti, per giunta!
“Cosa? Ma no, perché mai?”.
Questa davvero non gliela perdono! Mi ha
presa in giro! Di nuovo!
“Voglio sdebitarmi per ieri sera, per tutto quello che hai fatto per me”
Anzi… e stavolta platealmente! Senza
curarsi dei miei sentimenti! Perché lo sa che sto ascoltando!
“Eh?” . Aveva un’espressione alquanto perplessa sul volto.
Lo sa anche fin troppo bene! Ed è per
questo che non si è trattenuto!
“Sì, lo sai, per avermi cambiato le bende”
“Oh, ma quello non è niente”
“Ma come non è niente? Sei andato avanti per tutta la notte!”
“Come? Veramente io…”
“Su, non fare tante storie!” tagliai corto, spingendolo verso l’altra sala,
dalle spalle. “Per favore, lascia che mi sdebiti, o mi sentirò in colpa fin
quando non l’avrò fatto…” lo supplicai, con sguardo docile e innocuo.
“Oh, va bene…” si arrese lui, sorridendomi. “Se me lo chiedi così, non posso
fare altrimenti. Vorrà dire che andrò fuori a controllare in che condizioni è
il pavimento del corridoio (in caso abbia bisogno di una pulita). Ma chiamami
subito, se ti serve una mano, d’accordo?”.
Io, allora, ricambiai il suo sorriso. “Ma certo! Adesso, però, vai!”. E fu
continuando a spingerlo in questo modo che praticamente lo catapultai fuori
dalla cucina, verso il cortile esterno, per andare a controllare altre cose.
Mi ha umiliata e dato colpe che non ho,
prendendomi in giro… Gli piace così tanto farsi beffe di me? Cos’è, una sorta
di punizione perché non gli ho obbedito?
Mi misi davanti la mensola e cominciai a distribuire le porzioni, ciotola
per ciotola, vassoio per vassoio.
Dovrebbe sapere che so cucinare! Ed anche
se non lo sapesse, gentilezza vuole che si cerchi di adulare chi cucina per te,
non di degradarlo! E poi che colpa ne ho io se non ha dormito questa notte?
Solo perché era arrabbiato e non riusciva a prendere sonno, non può certo
farmene una colpa!
Dopo pochi minuti avevo finalmente finito di preparare il tutto. Sorrisi
soddisfatta di fronte a quell’opera.
Ma adesso vedrà di cosa sono capace,
quando mi si mette alla prova!
“Chizuru-san!” chiamai all’improvviso. “Chizuru-san!” ripetei,
affacciandomi verso il cortiletto.
Vidi, così, il ragazzo accorrere verso di me, in fretta e furia. “Che c’è,
Hikaru-chan? Hai bisogno di qualcosa?”.
“Sì, effettivamente…” risposi, con aria mortificata. “Per favore, c’è qualcosa
che vorrei chiederti”.
Lui mi guardò con aria perplesso, però annuì distintamente, segno che mi
avrebbe ascoltata e mi avrebbe assecondata.
Dopodiché gli spiegai tutto, in poche e coincise parole, gli sorrisi e gli chiesi:
“Va bene?”.
“Ma non sarebbe più giusto che servissi tu Okita-san?” . Aveva un’aria
insolitamente preoccupata.
“Avrei tanto voluto farlo, in circostanze normali, ma…” scossi la testa, in
senso di diniego. “Ora come ora, sono un po’ arrabbiata con lui. Anzi, no…
troppo arrabbiata per essere gentile e cordiale nei suoi confronti. Sono
disposta persino a servire Hijikata-san, ma Sou-nii… Non se ne parla!”.
Lo sentii sospirare. “E va bene. Se vuoi che lo faccia io, lo farò io”
Lo guardai con occhi pieni di gratitudine e gli sorrisi nuovamente. “Che bello!
Ti ringrazio!”.
“Però…” proseguì, accarezzandomi i capelli gentilmente. “Dovresti cercare di
risolvere le tue divergenze con Okita-san. Non puoi andare avanti così, no?
D’altronde sei rimasta qui proprio per stare con lui. Non ha senso che tu stia
facendo tutti questi sacrifici, se poi devi rimanere in collera con lui, non
trovi?”.
Lo guardai un po’ intristita, con sguardo velatamente malinconico.
Aveva ragione. Aveva senz’altro ragione. Ero voluta rimanere lì proprio per
stare con lui ed ora mi stavo comportando in quel modo, però…
Però… voglio soltanto una rivincita! Solo
una!
“Mi dispiace” risposi, chinando il capo. “Ma ti prometto, Chizuru-san, che
questa sarà l’ultima volta. Per cui, ti prego, accontentami. Solo per stavolta…
te lo chiedo per favore”.
Lui, allora, mi sorrise e si allontanò in direzione dei vassoi, poggiati sulla
mensola. “Allora? Qual è quello di Okita-san?”.
Sorridente, gli indicai il predestinato. Al ché, lui mi guardò serio e disse:
“Però sembrerebbe strano che stia portando solo quello di Okita-san. Ne servo
altri anche a qualcun altro, così nessuno sospetterà di niente, va bene?”.
Io annuii, tenendogli presente di non scordarsi quale fosse per te.
“Ma cos’hai fatto? Ci hai messo qualcosa di speciale dentro, dato che vuoi che
proprio questo vada ad Okita-san?”.
Non trattenni un risolino. “Diciamo… più o meno di sì”.
Chizuru-san mi sorrise di nuovo ed insieme incominciammo a servire i nostri
ospiti dall’altra parte della stanza che erano ancora occupati a conversare.
Appena uscita dalla cucina il primo vassoio che servii fu quello ad
Hijikata-san che mi guardò freddamente e con un’aria taciturna da silenzioso
“Finalmente! Quasi, quasi si faceva notte e noi dovevamo ancora fare colazione!”.
Lo ignorai, semplicemente limitandomi a sorridergli, cosa che feci anche quando
incontrai il tuo sguardo verde-foglia che si era momentaneamente posato su di
me.
Onestamente non guardai la tua reazione al mio finto sorriso, anche perché ero
troppo nervosa e su di giri per farlo. Doveva andare tutto secondo i piani. Se
mi fossi comportata in modo strano, o mi fosse sfuggita qualche strana parola,
sarebbe andato tutto in fumo.
Il secondo fu Harada-san che, invece, così come Todou-san, mi aveva sorriso e
mi aveva ringraziato, non risparmiandosi qualche battuta e mezza-lode sul come
ero educata e come ero servizievole.
Chizuru-san, invece, si era preoccupato di servire Kondou-san, Sannan-san,
Nakagura-san e, come da previsto, ora si stava accingendo a servire te.
Ci trovammo affiancati (io e Chizuru-san), in quanto io dovetti preoccuparmi di
servire Saitou-san, che era alla tua sinistra. Una volta raggiunta la nostra
destinazione, ci piegammo entrambi contemporaneamente e posammo i loro vassoi
quanto più lentamente possibile. Mentre stavo per rialzarmi, poi, incontrai
nuovamente il tuo sguardo che mi stava osservando ora molto più intensamente.
Cercai con tutta me stessa di non arrossire, tornando a sorriderti e ad
augurarti: “Buon appetito, Sou-nii”.
Detto ciò, mi alzai e seguii Chizuru-san verso i nostri posti che erano uno a
fianco dell’altra. Alla mia sinistra avevo Chizuru-san, mentre alla mia destra
Todou-san. Alla sinistra di Chizuru-san, invece vi era Nakagura-san.
“Bene, allora: itadakimasu!” augurò, in generale, Kondou-san, mentre si
accingeva, un po’ come tutti, a togliere il copri vassoio.
Una volta che quest’azione fu compiuta da tutti, specialmente da te, mi
affrettai a rivolgerti tutta la mia attenzione con aria attenta e velatamente
soddisfatta.
“Wow! Che porzioni enormi!” sentii affermare, all’improvviso.
Perfetto: il mio piano stava funzionando.
“Hai ragione, Heisuke! Guarda la mia: è enorme!” concordò Harada-san, per poi
guardarsi un po’ intorno. “Oh, ma mi sembra che il servizio sia andato più o
meno così a tutti”.
“Cos’è questa buffonata?” intervenne, quindi, Hijikata-san, mentre indicava,
irritato, la valanga di riso che vi era nella sua scodella – come in quella di
tutti gli altri – (e non scherzo quando dico che era una valanga: avevo abbondato
così tanto con le porzioni che in ogni ciotola si era formata una vera e
propria montagnola… con tanto di cucuzzolo!).
Chizuru-san si voltò preoccupato verso di me, vedendo, poi, che la sua
montagnola era quella più alta in assoluto. “Hikaru-chan… Ma che hai
combinato?”.
“Eheh!” non trattenni un risolino io. “Un ringraziamento speciale verso tutti!
Siccome era la prima volta che cucinavo per voi, ho voluto abbondare un po’ con
le porzioni”.
“Abbondare? Con una sola di queste ciotole si possono sfamare decentemente tre
di noi!” continuò a lamentarsi Hijikata-san. “Questo si chiama spreco, lo
sai?”.
Interruppe le sue lamentele Kondou-san con una delle sue possenti risate.
“Avanti, cosa c’è di male, vice-comandante? Ogni tanto abbondare non fa male!” .
“Ma, comandante, se la lasciamo fare, le scorte di cibo che conserviamo per
mesi e mesi se ne andranno via nel giro di una settimana!”
“Avanti, non esagerare! Oggi è una giornata speciale: è il primo giorno di
Hikaru-chan qui da noi. E’ per questo che ha voluto renderci più felici col suo
gesto, non è forse così?”.
“Certamente!” affermai, contenta dell’appoggio di Kondou-san.
“Diamine… E’ maledettamente delizioso!” sentii affermare da Nakagura-san, già
intento a divorare la sua porzione di riso e il suo pesce.
“Beh, devo dire che è davvero gustoso” confermò Sannan-san, rivolgendomi un
sorriso.
“Vi ringrazio infinitamente” risposi io, altrettanto sorridente.
E notai che, nonostante il suo costante, tenebroso, nonché inquietante
silenzio, anche Saitou-san stava gradendo tutto.
Nel giro di pochi secondi mi furono rivolte lodi, commenti su come migliorare
qualcosa, oppure taciti consensi. Neanche uno (tranne l’iniziale dissenso di
Hijikata-san) di tutto il gruppo osò
lamentarsi.
Almeno fin quando…
“Ecco… Non vorrei sembrare indiscreto, ma… Si può sapere che cos’hai in mente,
Hikaru-chan?” azzardò una voce, all’improvviso, interrompendo il temporaneo
silenzio del nostro pasto. Alzai compiaciuta lo sguardo, rivolgendolo verso di
te, che mi fissavi sorridente. Ma era evidente (e lo era agli occhi di
chiunque) che quel sorriso mascherava ben altre sensazioni. Di certo non era un
sorriso gentile. Eri chiaramente arrabbiato, anche se dalla tua espressione non
si sarebbe mai detto.
Dato che avevi attirato l’attenzione di tutti, fu inevitabile notare la
differenza che vigeva con i membri dell’intera stanza: nel tuo vassoio c’era la
solita ciotola di riso, la scodella del pesce e la tazza del tè verde. Solo che
al contrario degli altri nella ciotola che ti avevo preparato vi erano appena
dieci chicchi di riso, sempre per te avevo scelto appositamente il pesce più
piccolo a disposizione e per quanto riguardava il tè, te ne avevo versato sì e
no un quarto della tazza. Insomma, in confronto al resto della Shinsengumi, eri
davvero messo male.
“Hai per caso intenzione di farmi morire di fame?” intervenisti, con tono
chiaramente indispettito, ma con quel costante sorriso sulle labbra. E come non
notare il sopracciglio destro danzante tra su e giù (segno di pura
irritazione), così evidentemente?!
“Incredibile… Souji, hai appena la quantità di cibo necessaria per sfamare un
ratto!” commentò Nakagura-san, non trattenendo un riso. “Però non preoccuparti:
parlo di un ratto bello grosso”.
“Grazie della comprensione, Shinpachi-san” gli rispondesti, maggiormente
irritato.
Chizuru-san, allora, si voltò nuovamente verso di me, stavolta con aria molto
più preoccupata e velatamente scontenta. “Hikaru-chan! L’hai fatto a posta!”
sussurrò. “Anche queste porzioni così giganti a ognuno di noi… L’hai fatto a
posta per far notare la differenza di trattamento!”
Risi tra me e me soddisfatta di quello che avevo fatto. “Effettivamente sì” mi
limitai a rispondere, senza scusarmi. Era davvero troppo divertente.
La tua faccia non sapeva che espressione assumere per non dare a vedere
l’evidente irritazione.
“Ti ha trattato davvero male, Souji! Questo è perché l’hai presa in giro!” ti
chiarì Harada-san, dandoti una pacca sulla spalla.
“Ahahah! L’hai fatta arrabbiare!” constatò, tra le risa, Kondou-san. “Adesso te
la vedrai brutta”.
“Fa arrabbiare una donna,” incominciò
a citare, Sannan-san, continuando ad assaggiare il pesce dalle squame dorate. “e il mondo ti crollerà addosso in men che
non si dica”.
“Ha davvero ragione!” concordò Harada-san.
“Ah, basta così!” interruppe il discorso Hijikata-san. “Che razza di
comportamento infantile!”
Ti sentii sospirare, mentre ti rivolgevi a Chizuru-san. “Chizuru-chan, per favore,
potresti essere così gentile da portarmene una quantità degna di un essere
umano?”.
“Ah!” esclamò lui, facendo per alzarsi. “Certamente, Okita-san!”.
“E’ inutile” lo fermai io, senza scostarmi di un centimetro. “Ho consumato
tutto. Non c’è più neanche una goccia di tè verde nella cucina”.
“Eh?!” esclamaste all’unisono sia tu che Chizuru-san.
“Cavolo… Hikaru-chan, sai essere davvero crudele!” affermò Todou-san, per poi
alzarmi in su il pollice. “Non fraintendere: io sono con te!”
“Heisuke! Smettila di incoraggiarla a comportarsi così!”
“Avanti, Hijikata-san, che bisogno c’è di essere così severi?” s’intromise
Nakagura-san. “Si è solo presa una piccola rivincita. Che c’è di male?”.
“Infatti!” concordò Harada-san. “E’ un piccolo dispetto. Non c’è da essere così
duri!”
“C’è che se voi continuate ad appoggiarla, lei continuerà a fare di queste
cose!”
“Intanto la vostra scodella ve la state gustando, vero, Hijikata-san?” . La tua
voce rimbombava nella stanza. Il sorriso che ancora permaneva sul tuo volto. L’irritazione
stava cominciando a farsi sentire… e non solo dalla voce.
“Chizuru-chan… Anche tu stavi preparando il tutto, giusto?” le domandasti. Il
tuo cupo sorriso stava iniziando a farsi inquietante.
“Ehm… Ecco, sì…”
“E dov’eri mentre lei era tutta intenta a manomettere la mia sacrosanta
colazione?”.
“Ecco, in verità, io…”
“Adesso non vorrai mica dare la colpa a Chizuru!” lo difese a spada tratta
Hijikata-san. “Prenditela con tua nipote! E’ stata lei, no?”
“Eccome se è stata lei! Ma Chizuru-chan poteva anche degnarsi di controllarl…”
“L’avevo mandato via” t’interruppi, improvvisamente. Avevo smesso di mangiare,
anzi, ormai avevo finito, a dirla tutta. Il tuo sguardo cadde nuovamente su di
me. Anche se avevo avuto bisogno della complicità di Chizuru-san, non ero la
tipa che metteva nei guai qualcun altro, se la colpa era la mia. “Sapendo che
non avrebbe accettato di collaborare, ho trovato il modo di mandarlo via per un
po’ di tempo”.
Tuttavia ero ben consapevole di star dichiarando, in parole povere, di essere
stata infantile, subdola e ingiusta nei confronti delle persone che si erano
spinte a tantissimo per me e che mi avevano anche accolta. Il problema era che
in quel momento non ci avevo pensato due volte a preparare quel piano: volevo
semplicemente farti capire che mi avevi ferita e non avendo il coraggio di
rivolgerti la parola, avevo trovato quello stratagemma.
“Ed ora, se volete scusarmi, vado ad occuparmi di altre faccende” conclusi,
mentre mi inchinavo formalmente, e uscivo lentamente dalla stanza,
richiudendomi il fusuma alle spalle,
una volta fuori.
L’imbarazzo era stato troppo e rimanere ancora in quella sala, con tutti loro,
e specialmente con te, mi avrebbe fatta stare ancora più male di quanto già non
stessi, quindi… preferii uscire e dedicarmi a tutt’altro, ben consapevole di
aver lasciato implicitamente a Chizuru-san l’incarico di sparecchiare e lavare
le stoviglie.
Passai l’intera mattinata a pulire i vari corridoi del tempio che ci ospitava.
Onestamente parlando fu un lavoro alquanto sgradevole e faticoso. Non che non
ci fossi abituata: a casa pulivo sempre il nostro tatami e il nostro corridoio,
ma… la nostra casa era notevolmente più piccola di un intero tempio.
Nel mezzo del lavoro incrociai spesso Nakagura-san e Todou-san che, vedendomi
indaffarata, non persero molto tempo a parlarmi, ma con qualche parola si
limitarono a tirarmi su e a consolarmi, affermando che non era successo nulla
di grave e che tutti avrebbero presto scordato l’accaduto.
Avrei tanto voluto rispondere loro che la cosa non sarebbe stata così semplice,
soprattutto agli occhi: di Hijikata-san, che adesso aveva un pretesto in più
per mandarmi via, di Chizuru-san che adesso mi avrebbe odiata per averlo
coinvolto in quella storia, senza parlare, poi, di te a cui avevo fatto quella
specie di torto.
Tuttavia, vedendoli così preoccupati e così intenti a risollevarmi il morale,
decisi di non far discussioni e di non crear loro ulteriori problemi. Mi
limitai a sorridere e ad annuire.
Contenti del fatto che apparentemente mi fossi risollevata, se ne andarono a
svolgere le loro mansioni, lasciando me alle mie.
Proseguii con le pulizie fino, circa, le tre del pomeriggio. Raggiunta
quell’ora, esausta com’ero, mi sedetti sul pavimento del corridoio che dava sul
cortile esterno. L’intento era quello di riposare.
Fino a quell’ora – e la cosa mi parve anche un po’ strana – nessuno di coloro
che conoscevo (perché di uomini che non conoscevano, ne avevo incontrati a
bizzeffe) mi venne incontro. Mi chiesi, così, se non fosse per quello che avevo
combinato e se non mi stessero evitando.
Molto probabile…
Pensai tra me e me.
Meglio così, in fondo. Non avrei il
coraggio di guardare in faccia nessuno, ora come ora.
“Hikaru-chan” mi sentii chiamare all’improvviso. E così notai che
Chizuru-san era in piedi a qualche centimetro di distanza da me, che mi stava
guardando.
Mi sarei aspettata di tutto dalla sua espressione, ma non quel sorriso così
calmo e gentile.
Sussultai, vedendolo avvicinarsi e distolsi lo sguardo da lui. “Dimmi…”.
“Vedo che qui hai finito. Sei stata davvero bravissima. Deve essere stato
faticoso, vero?”.
Perché è così gentile?
“Non era niente” borbottai, appena percettibilmente. “Era il minimo”.
“Capisco…”
La sua calma mi distruggeva. Perché si comportava così? Come poteva essere così
tranquillo, anche dopo quello che gli avevo fatto?
“Senti, Hikaru-chan… Riguardo… Riguardo stamattina, ecco…”
“Mi dispiace!” esclamai, all’improvviso, alzandomi di scatto. “Mi dispiace
davvero tanto, Chizuru-san, ma… mi sono ricordata di avere ancora una cosa da
fare!”
“Eh…?”
“Mi spiace davvero. A dopo!” tagliai corto, voltandomi di scatto e
incominciando a correre verso la mia stanza. Avevo il capo chino e non mi sarei
voltata per nulla al mondo.
Era difficile esprimere quanta amarezza stessi provando in quell’attimo,
avendolo ignorato in quel modo, anche se lui continuava ad essere gentile. Ma
era proprio la sua gentilezza che mi faceva star male. Probabilmente se fosse
stato arrabbiato, o freddo nei miei confronti… se mi avesse sgridata, sarebbe andato
tutto bene. Avrei recepito il messaggio e sarebbe tornato tutto alla normalità,
in men che non si dica. Il problema era che non ero abituata a quel tipo di
reazione. Sapevo come comportarmi di fronte ad un rimprovero o ad uno schiaffo,
ma… di fronte ad un sorriso di comprensione, non sapevo davvero come
comportarmi. Cos’avrei dovuto fare?
Raggiunsi la mia camera in fretta e furia e mi ci chiusi subito dentro.
Istintivamente mi accovacciai dietro il fusuma
per evitare che Chizuru-san mi seguisse ed entrasse anche senza ch’io volessi.
Non avevo voglia di vederlo. Almeno finché avrebbe avuto quel sorriso sulle
labbra, finché non mi avrebbe sgridata per bene.
Non c’era che dire: avevo combinato proprio un bel guaio. Da uno scherzetto
innocuo era nato il finimondo. Non stavano esagerando un po’ tutti? A
cominciare da te stesso, Sou-nii!
Perché non si è lamentato in silenzio,
senza fare tante questioni?!
Mi chiesi tra me e me.
Perché ha dovuto sollevare un tale
polverone, per due miseri chicchi di riso ed un pesciolino da quattro soldi?
Persino il cibo è più importante di me?!
Quella sensazione di tristezza non mi lasciò per un bel po’. Continuavo a
chiedermi se non ti fossi messo d’accordo con Hijikata-san per mandarmi via e
pensavo che ormai non t’importasse niente di me.
Ti confrontavo con il te stesso di sei anni fa, di quando scambiasti quella
promessa con me e, anche se all’apparenza sembravi non essere affatto cambiato,
riscossi che come carattere eri notevolmente mutato. Anzi no, non era
esattamente così. Eri lo stesso di una volta, nei confronti di tutti, ma verso
di me… eri decisamente cambiato.
A quell’epoca ero certa che non mi avresti mai trattata come stavi facendo
adesso. Non avresti mai osato prendermi in giro davanti a tutti, alla mia
rivincita infantile avresti sicuramente riso di gusto, e principalmente ero
sicura che mi avresti permesso di restare alla base, dov’eri tu…
Ci riflettei su.
No, non è vero che è cambiato… Non è
cambiato neanche con me.
Poggiai la testa contro le mie ginocchia, accovacciandomi sempre di più,
fino a diventare minuscola.
Neanche allora… mi portò con sé, né
rimase con me.
Mi trattenni per non piangere, nonostante i singhiozzi fossero evidenti.
Non volevo piangere. Non di nuovo. Ne avevo abbastanza di piangere. Erano due
giorni che non facevo altro!
Non è cambiato niente… Proprio niente…
Ma il solo pensiero che per te non ero mai contata niente mi fece quasi
cadere in un oblio, in cui non mi accorsi che le gote erano rigate da quei
ruscelli a gocce.
Fu allora che sentii bussare sul fusuma
dietro le mie spalle. Qualcuno mi cercava. La domanda era: chi?
Pensai istintivamente a Chizuru-san. Pensai che mi aveva inseguita e che voleva
assolutamente parlarmi.
“Okita-san, sono il vice-comandante Hijikata. Vi spiacerebbe lasciarmi
entrare?”.
Cosa?
La cosa mi sorprese più di quanto non diedi a vedere.
Cosa ci faceva lì Hijikata-san? Perché voleva entrare nella mia stanza? Voleva
parlarmi?
Ah… Forse… vuole mandarmi via…
Pensai, sorridendo con malinconia tra me e me.
Non avrebbe tutti i torti, ora come ora.
“Mi spiace, Hijikata-san, ma proprio non posso”.
“La ragione?” chiese, schietto.
“Non sono in condizioni tali da presentarmi ai vostri occhi”
“Siete nuda?”
“No”
“Vi stavate spogliando?”
“No”
“Allora siete presentabilissima” tagliò netto. “Sto entrando…”. E vidi, così,
far forza sul pannello della porta. Feci, però, appena in tempo a spingere con
tutta la mia forza dal lato opposto per impedire, invece, che venisse aperto.
“Okita-san, che cosa state facendo?”
“Ve l’ho già detto: non sono affatto presentabile in questo momento”.
“Non siete nuda, né eravate in procinto di spogliarvi, quindi, a mio parere,
non potreste essere in condizioni migliori”. Era talmente ostinato che quasi mi
diede ai nervi. E, siccome non ero proprio dell’umore per litigare con lui,
decisi di dargli scacco matto.
“Se la mettete in questi termini, allora mi spoglierò in questo momento!”
“Cosa?”
“Se insistete col voler entrare, mi spoglierò non appena il fusuma si scosterà anche solo di qualche
millimetro!”.
Non volevo che mi vedesse piangere. Tra tutte le persone in quel luogo, una di
quelle che non avrei mai e poi mai voluto mi vedesse piangere era lui. Perché
era stato lui a mettermi i bastoni tra le ruote per primo ed era lui che
cercava a tutti i costi di mandarmi via. Farmi vedere in quello stato,
significava non solo garantirgli un’altra vittoria (oltre quella di stamani),
ma anche dargli una gran bella soddisfazione, che io non avevo affatto
intenzione di concedergli.
La pressione sulle porte finì presto, quindi anche io finii di mantenerle dal
lato opposto. E potetti percepire un profondo sospiro. “Avete idea di quel che
state dicendo? Siete davvero un’ingenua”.
“Io… Io potrò essere anche un’ingenua,” insinuai, cercando di non fargli
percepire i miei singhiozzi. “ma voi siete troppo insistente! Se vi ho detto
che non potete entrare, allora non potete farlo!”.
“E per evitarlo minacciate un uomo, che tra l’altro non conoscete, di spogliarvi?
Avete idea di che cosa gli state proponendo? Non conosco le abitudini di dove
vivete voi, ma qui da noi, non tutti gli uomini, dopo aver sentito parole del
genere, rimarrebbero calmi a discutere pazientemente”. Un altro sospiro. “Souji
aveva davvero ragione a volervi rimandare a casa a tutti i costi…”.
Non posso ancora perdonarmi per essere stata così stupida quella volta.
Se fossi stata solo un po’ più intuitiva… se avessi ben compreso il significato
di quelle parole, avrei evitato di starci così male.
Perché non capii che cosa voleva dire in realtà Hijikata-san. Avevo solo
inteso, da quelle poche parole, che tu non volevi proprio avermi lì vicino a
te.
Se lui non vuole, che senso ha?
“Cos’è? Siete solo venuto a farmi la predica, o vi decidete a mandarmi via, una
buona volta? Siete riuscito a convincere tutti, infine?” gli chiesi, con voce
strozzata dal pianto. “Avete già informato mio padre? Quando me ne andrò?
Domattina? O forse… stasera stessa?”
“Purtroppo per voi, né domattina, né tanto meno stasera. Per ora continuerete a
restare qui” proseguì, senza curarsi del fatto che stessi piangendo. O,
semplicemente, non se n’era accorto. “Ma se voi volete andarvene, nessuno vi
trattiene. Potevate dirlo subito. Vado immediatamente ad avvisare un messaggero
di far arrivare Okita-dono il prima possi…”
“No!” lo interruppi. “Non voglio andarmene! Per favore, non lo chiamate! Non
andate, per favore!” . La mia era una supplica. Tanto che per farla mi ero
praticamente incollata al fusuma da
cui intravedevo l’ombra di Hijikata-san che prima si stava allontanando e solo
dopo le mie parole la vidi rifarsi vicina. “Allora posso entrare?”
“No”
Nuovo sospiro. “Avete un carattere davvero difficile da gestire. L’uomo che vi
sposerà sarà da lodare”.
E la donna che sposerà voi sarà da far
visitare… Dovrà avere davvero qualcosa che non va, in testa!
Avrei voluto rispondergli, ma ebbi il buon senso di rimanermene in
silenzio.
“Non importa. Vorrà dire che vi parlerò da qui dietro”.
Non accennai a rispondergli, solo mi limitai ad annuire, sapendo che lo avrebbe
notato dalla mia penombra.
“Sapete già riguardo cosa voglio parlarvi, vero?”.
“Penso di sì”
“Allora immagino che saprete anche che cosa voglio dirvi”.
“Penso di sì…” tentennai in un sussurro, intristendomi ancora di più. “Mi
dispiace…” . Cominciai a singhiozzare nuovamente. “Sono davvero dispiaciuta per
l’accaduto. Non volevo che succedesse tutto questo… Era una semplicissima
rivincita che volevo nei confronti di Sou-nii… Non pensavo di alzare tutto
questo polverone!”.
“Ascoltate...” m’interruppe. “Io non sono arrabbiato per ciò che avete fatto e
neanche Chizuru lo è. Ma sono arrabbiato per come lo avete fatto”.
Eh?
“Cosa?”
“Insomma, alla vostra età, capisco benissimo che queste cose siano naturali. Un
innocente scherzo non può farmi arrabbiare tanto, ma… è stato il modo in cui
l’avete fatto che mi ha fatto saltare i nervi”.
“Il modo…?”.
“Innanzitutto, è uno scherzo davvero infantile. In secondo luogo, avete
coinvolto Chizuru, facendole quasi attribuire la colpa” esordì. “E, terza cosa,
avete consumato un sacco intero di riso, che sarebbe potuto durare benissimo
una settimana”.
“Mi… Mi dispiace…” borbottai. “Non ci avevo pensato su”.
“Ed è questo che non funziona” mi chiarì. “Se volete fargli un dispetto, va
benissimo, ma che, per favore, non coinvolga niente e nessuno, oltre
l’interessato. Dovete pensare anche alle conseguenze”.
“Sì…” mi limitai a rispondere, per poi rimanere in silenzio.
Ed ecco arrivare un altro sospiro. Avevo perso il conto di quante volte l’aveva
fatto, durante tutto il discorso. “Sapete, Chizuru era davvero molto
preoccupata per voi. Mi ha riferito di avervi incontrata, ma che voi siete
scappata all’improvviso. Temeva che ce l’aveste con lei”.
“Come potrei mai avercela con lui?!” ribattei, piagnucolante. “E’ lui che,
semmai, dovrebbe avercela con me. Viceversa, è stato molto gentile con me. Ed è
questo l’unico motivo per cui sono scappata”.
“Siete scappata perché è stata gentile con voi? Che razza di ragionamento è mai
questo?”
“E’ che… ecco, mi sarei aspettata più un rimprovero, come il vostro, ma… al
contrario, lui è stato così gentile che mi sono sentita in colpa. Talmente in
colpa che non avevo quasi il coraggio di vederlo in volto, figuriamoci di
parlargli!”.
Silenzio. Non sentii altro che questo per un po’ di tempo.
Dopodiché: “Dunque siete cosciente che ciò che avete fatto stamani è stato
scorretto nei suoi confronti”.
Annuii. “Non solo nei suoi confronti, ma in quello di tutti voi. Mi dispiace
davvero, Hijikata-san, ma… Per favore, non mi mandate via. Mi farò perdonare,
ve lo giuro”.
“Mi sembra di avervi già detto che non vi manderò via” replicò lui, con tono un
po’ seccato. “Quante volte volete farmelo ripetere?”.
“Davvero?” esultai io, con le lacrime agli occhi, stavolta di gioia.
“Hai”.
“Davvero, davvero?!”
“Basta, non vi rispondo più” proseguì, con tono burbero. “Quel che dovevo
dirvi, ve l’ho detto. Adesso posso anche ritirarmi”. Detto ciò, vidi la sua
ombra allontanarsi, ma feci ancora in tempo ad aprire frettolosamente il fusuma, sporgermi poco di fuori e
rivolgergli la mia riconoscenza: “Grazie, Hijikata-san! Grazie davvero!”.
Lui, quindi, che era sostanzialmente a pochissima distanza da me (dato che
aveva iniziato a muoversi pochi secondi prima che io uscissi allo scoperto), si
voltò verso di me. “Ah, quasi dimenticavo: è vero che non ti vieto di fare
questi scherzi, ma…”. Ora mi fulminò con quelle ametiste che si trovava. “Vedi
di non creare scompiglio. Non tollererò di nuovo una confusione del genere”.
“Oh… Sì…” risposi, un po’ mortificata, ma comunque troppo contenta del fatto
che Hijikata-san non si fosse arrabbiato troppo.
Ed, effettivamente, ora che ci pensavo, la cosa era alquanto strana. Da come
l’avevo visto furioso quella mattina, non pensavo davvero che potesse parlarmi
con tale calma e limitarsi soltanto a ciò che mi aveva detto.
Poi ripensai a quel che mi aveva detto: “Chizuru
era davvero molto preoccupata per voi. Mi ha riferito di avervi incontrata....
Temeva che ce l’aveste con lei”.
Ma… era ovvio! Ora sì che avevo capito tutto!
“Hijikata-san, certo che dovete tenere davvero tanto a Chizuru-san…” constatai,
sorridendogli apertamente.
“Cos…?!” ribatté lui, notevolmente rosso in viso. Da lì notai il suo imbarazzo.
Beh, era praticamente impossibile non notarlo: quando Chizuru-san era
intervenuto per aiutarmi contro mio padre, lui lo seguì immediatamente,
prendendosi la responsabilità di tutto; quella stessa mattina lo aveva difeso a
spada tratta quando tu, Sou-nii, gli avevi dato parzialmente colpa dell’accaduto
ed ora, dopo che Chizuru-san gli aveva riferito tutto, era venuto a parlarmi,
usando quel tono gentile e comprensivo, sicuramente non da lui.
In effetti, non che lo conoscessi al punto tale da dire se fosse o meno da lui,
ma in tutto l’arco di tempo che ero stata lì, non l’avevo visto sorridere
neanche una volta.
Che ora, proprio con me, si mettesse a discutere con tale calma e non
rimproverandomi in fondo poi tanto per come l’aveva presa quella mattina, non
era decisamente farina del suo sacco. Chizuru-san doveva aver fatto da
intermediario e averlo pregato di non essere troppo duro.
“Di che state parlando?!” proseguì, sempre con quell’espressione un po’ tipica
dei ladri che sono stati scoperti a rubare. “Non dite assurdità!”.
Risi tra me e me. “Non credo davvero siano assurdità. Dovete volergli molto
bene, per essere così buono e gentile con me”.
“Ehi” . Il suo tono era diventato indubbiamente freddo. “Invece di preoccuparvi
di queste cose, evitate di combinare pasticci e di creare scompiglio, chiaro?!”
. Detto ciò, si voltò di scatto e cominciò a camminare lungo il corridoio,
finché non lo vidi rallentare e, continuando a restare di spalle, affermare:
“Ad ogni modo, vi consiglio di lavarvi la faccia. Avete degli occhi rossi che
farebbero invidia a quelli dei demoni”. E così ripartì per la sua strada e lo
vidi molto presto voltare l’angolo e scomparire del tutto dalla mia visuale.
Rimasi leggermente stupita da ciò che mi disse quell’uomo, a tal punto da
rimanere impalata lì a fissare il punto in cui aveva voltato l’angolo per circa
tre minuti, senza distogliere lo sguardo.
Allora… lo aveva notato, che stavo
piangendo?
Non lo avrei mai detto, onestamente parlando. Pensavo che, ammesso e non
concesso che se ne fosse accorto, non gliene sarebbe importato proprio niente,
avrebbe fatto finta di non aver capito. Beh, non che mi fosse venuto incontro,
abbracciandomi e consolandomi (anche perché era assolutamente impossibile che
accadesse, perfino se fossi stata in punto di morte), però almeno mi aveva dato
segno di averlo notato.
Dopo essermi guardata ben bene di fronte allo specchio ed essermi accorta che
Hijikata-san aveva perfettamente ragione, mi inginocchiai di fronte alla
bacinella dell’acqua e mi sciacquai più volte il viso. Anche se non sortì effetto
tutto d’una volta. Ci vollero ben trenta minuti prima che i miei occhi
riacquistassero la naturalezza di sempre.
Così, non appena fui abbastanza presentabile, decisi di rassettarmi un po’ e di
andare in cerca di Chizuru-san per scusarmi dell’accaduto e rassicurarlo di non
avercela con lui.
Mi chiedevo se non l’avesse già fatto Hijikata-san, ma tanto valeva provare a
cercarlo, no?
Ora che ci penso… Chissà perché
quell’uomo tiene così tanto a Chizuru-san… Sarà un suo parente?
Ma dopo averci riflettuto per un po’, scossi istintivamente il capo.
No, non può essere assolutamente. Non
hanno niente in comune.
Indi incominciai la mia serie di supposizioni.
Allora, magari, sarà un amico d’infanzia,
o forse una specie di protetto, o anche l’ultimo arrivato che ha trovato in
Hijikata-san il fratello maggiore ideale e viceversa!
Tuttavia nessuna delle mie ipotesi mi portava ad una soluzione
soddisfacente. Anche se facevo di tutto per immaginarmi in che rapporti
potessero essere quei due, non riuscivo a darmi una risposta che combaciasse
più o meno con la realtà.
No, così non va… Non sembrano proprio
conoscersi da tanto tempo. Sembra più Sou-nii il suo amico d’infanzia, perché
li ho visti parecchio affiatati e meno formali l’uno verso l‘altro, ma con
Chizuru-san non sembra esserci tutta questa familiarità.
Ci stavo rimuginando su con aria palesemente e assurdamente seria. Se qualcuno
mi avesse vista da lontano avrebbe potuto immaginare che stessi pensando a
chissà cosa di una certa importanza. Ma in fin dei conti era una delle mie
specialità impegnarmi anche in queste cose di nessunissima rilevanza, o
utilità.
Hijikata-san è molto protettivo nei
confronti di Chizuru-san ed è sempre pronto a difenderlo, a qualunque costo.
Anche durante la nostra prima discussione, quando si è arrabbiato tanto, a tal
punto da dire delle parole davvero poco cortesi, e Chizuru-san era quasi sul punto di piangere, l’ha consolato senza
pensarci due volte, nonostante chi stesse venendo ferita fossi in primo luogo
io!
D’altra parte anche Chizuru-san è parecchio accorto nei suoi confronti. Ad
esempio, quando stamani, mentre stavamo preparando la colazione, mi ha chiesto
scusa al posto di Hijikata-san per come mi si era rivolto prima che entrassi in
cucina, e ha cercato di tutelarlo.Senza parlare del fatto che ogni volta che ha
a che fare con Hijikata-san, noto che è l’unico con cui arrossisce molto
spesso. Persino davanti a Kondou-san, Chizuru-san sembra molto più sollevato,
che di fronte al vice-comandante.
Ah! Anche Hijikata-san è arrossito, prima, quando gli ho fatto notare le sue
attenzioni e premure verso Chizuru-san…
Mmmm… Sembra quasi…
Mi fermai, mentre quel pensiero mi sorvolava la mente. Sgranai gli occhi e
dischiusi leggermente le labbra.
No, non era possibile…
Sembra quasi il tipo di rapporto che c’è
tra due innamorati!
Dire che praticamente ero rimasta scioccata dai miei stessi pensieri era
poco.
No, non è possibile… Forse mi sto
sbagliando! Sì, dev’essere senz’altro così!
Cercai quindi di analizzare nuovamente i dati a mia disposizione… ma con
scarsi risultati.
No, niente da fare… Il loro rapporto
sembra proprio quello che ci si aspetta da una comune coppia di innamorati.
Ma, quindi, se le mie ipotesi si dimostrano davvero esatte, questo significa
che… Hijikata-san e Chizuru-san sono… omosessuali?
Sgranai gli occhi ancora di più, mentre riprendevo a camminare più perché
non sapevo che fare, che per altro.
M-m-ma com’è possibile? E’ vero che a
vivere tra soli uomini per tanto tempo si sviluppano certi interessi e le cose
prendano un po’ questa piega, però…
Rimasi nuovamente scioccata e mi venne la pelle d’oca solo a pensarci.
Oddiomio! Non dirmi che anche Sou-nii è…
Scossi vigorosamente la testa, così tanto che, non appena mi fermai, mi
girò per qualche secondo.
“No, no, no. Non è possibile. Non è assolutamente possibile” affermai con tono
risoluto e deciso, più per cercare di convincere me stessa, che per reale
fiducia nelle mie parole.
Indi tornai a concentrarmi sulla coppia pitbull-furetto per levarmi quei
pensieri malsani dalla mente.
Però, effettivamente, ora che ci penso,
grazie a questa ipotesi si spiegano tante cose!
Ad esempio, si spiega come mai Chizuru-san, questa mattina, non sentisse la
necessità di lasciare la mia camera anche quando volevo spogliarmi! E’ ovvio: non
gli interessano le donne, ed è per questo che non gli fa né caldo né freddo
vederne una nuda.
E poi si spiegherebbe anche il perché del comportamento ostile di Hijikata-san
nei miei confronti! In primo luogo è perché anche lui non è interessato alle
donne, quindi al contrario degli altri che invece mi hanno accettata subito,
non ha alcun interesse nell’avermi qui alla base; in secondo luogo è perché sin
dal principio Chizuru-san si è rivelato sempre molto gentile e disponibile nei
miei confronti. Vedendo tutto questo affiatamento tra di noi, forse si sarà
ingelosito e pensa a me come una specie di rivale che vuole sottrargli
l’oggetto del suo desiderio!
Ma sì, ora è tutto chiarissimo! Fin troppo chiaro!
Mi sembrava quasi di esser diventata una sottospecie di investigatore. Mia
madre mi aveva spesso detto che nell’occidente esisteva quel tipo di lavoro e
che si veniva pagati anche profumatamente.
Chissà, forse avrei potuto mettermi in carriera e fare la mia fortuna! E stavo
valutando davvero la possibilità di farlo.
Ma, giusto per curiosità, un rapporto
omosessuale com’è che funziona?
E così, mentre ci ragionavo su, immagini su immagini di quei due
avvinghiati l’uno all’altro m’invasero la mente. Alcune caste, che si
limitavano a semplici baci, altre un po’ più spinte…
Incominciai ad arrossire, senza rendermene minimamente conto, perché ora le
immagini si facevano più vivide e notevolmente più oscene.
Ma, quindi questo significa che tra i due
chi può essere il maschio è evidentemente Hijikata-san! Almeno credo…
Provai, quindi, ad immaginare Hijikata nel ruolo femminile della coppia e
Chizuru in quello maschile.
Oh…
mio…
Dio…
Non so cosa mi trattenne dallo svenire. Ma perché mi facevo del male da sola?
Anche se dovevo ammettere di avere un’immaginazione piuttosto fervida a soli
quattordici anni.
No, spero davvero di no…
Cercai di farmi forza più che potevo.
Altrimenti non potrei guardare
Hijikata-san senza ridergli in faccia ogni santissima volta!
Ma nonostante i miei pensieri, ero quasi del tutto convinta che, dato
l’aspetto e la corporatura, il maschio della coppia fosse quasi sicuramente
Hijikata-san.
Eppure… Chi l’avrebbe detto che avessero
quei gusti? Beh, non che ci sia qualcosa di male, però… Dovrò stare attenta a
non offenderli in alcun modo! Chissà, senza rendermene conto potrebbe scapparmi
qualche parola fuori posto. Meno male che me ne sono accorta prima di fare
figuracce che mi avrebbero messa in imbarazzo!
“Hikaru-chan” mi sentii chiamare, all’improvviso, interrompendo il mio
ragionamento perfetto.
Indi mi voltai istintivamente e trovai Chizuru-san intento a raggiungermi,
procedendo con passo affrettato, ma senza correre.
“Oh, uke-san…” mi scappò, di sfuggita. “Cioè, volevo dire: Chizuru-san!” mi
corressi, appena in tempo per evitare un altro guaio. Anche se un risolino mi
sfuggì da sotto i baffi.
“C’è qualcosa che non va?” mi domandò, chiedendosi evidentemente perché mi
fossi portata entrambe le mani alla bocca e stessi continuando a tenerle fisse
lì.
“N-n-no, no! Niente di niente, figurati!” . Eppure, nonostante tutto, continuai
a ridacchiare tra me e me, sperando che grazie alla barriera fatta con le mie
mani, il suono di quei risolini non lo raggiungesse.
“Capisco” rispose con aria un po’ imbarazzata. “Ecco, io…”
“Chizuru-san, per favore, lasciami parlare per prima” lo interruppi,
smettendola di pensare a quelle cose futili e concentrandomi sull’argomento che
avevo capito volesse affrontare con me e quello che io – prima di perdermi
nelle mie fantasie – volevo affrontare con lui.
Senza aspettare la sua risposta, esordii: “Hijikata-san me ne ha parlato. Mi ha
detto che eri preoccupato del fatto che ce l’avessi con te, ma non so se te
l’ha ancora riferito, o meno… Io non sono affatto arrabbiata con te. Anzi,
onestamente era pensare che lo fossi tu nei miei confronti che mi ha fatta star
male”
“Oh, ma io non ce l’ho assolutamente con te!”
“Lo so, l’ho capito” lo rassicurai. “E’ solo che prima non ne ero tanto
convinta e mi sono lasciata prendere dalla paura e il timore. Scusa, quindi, se
sono scappata, ma… credimi, sei una persona che non potrò mai avere in
antipatia. Perché sei stato sempre dolce con me e mi hai sempre difesa. Sono
davvero contenta che tu ti prenda cura di me! E non sai quanto mi è dispiaciuto
quando Sou-nii ti ha incolpato, pensando che fossi stato mio complice. Ti
chiedo ancora scusa! Scusami se ti ho coinvolto!” ripetei, inchinandomi così
tanto da sentire qualche osso della schiena e del collo scricchiolare.
“Hikaru-chan, per favore, alzati. Non c’è alcun bisogno che ti scusi a tal
punto”. Lo vidi avvicinarsi a me e prendere le mie mani tra le sue.
“Onestamente stamani non ho preso tanto bene il dispetto che hai fatto ad
Okita-san. Non pensavo che la tua ostilità nei suoi confronti fosse ancora così
forte. Pensavo di essere riuscita ad appianare in qualche modo la discordia che
c’era tra voi, ma non è stato così. Quando ho visto, dunque, che i miei sforzi
erano stati vani, ci sono rimasta davvero male, ma poi, ripensandoci per tutto
il pomeriggio, sono arrivata alla conclusione che evidentemente Okita-san deve
averti ferita più profondamente di quanto potessi pensare” .
Sussultai a quelle parole, mentre lo vidi sorridermi maggiormente. “Nonostante
il tuo dispetto sia stato alquanto imbarazzante, potrai mai perdonarmi per non
averti capita?”.
“Io non ti perdono proprio di niente, Chizuru-san!” esclamai, per poi
rassicurarlo subito aggiungendo: “Semplicemente perché non hai nulla di cui
farti perdonare. Anzi, potrai perdonare tu me per averti coinvolto nel mio
scherzo infantile ed averti fatto riprendere da Sou-nii?”
“Ah, quello non m’importava più di tanto…” confessò, un po’ imbarazzato e in
difficoltà. “Ciò che temevo maggiormente era che il vostro rapporto
s’incrinasse ancora più di quanto già non fosse. Non volevo che il litigio perdurasse
ancora molto”.
“Già… Sono cosciente del fatto che i nostri battibecchi stiano dando problemi a
tutti…”
“Non è questo, Hikaru-chan” mi corresse, con tono deciso. “Il fatto è che non
riesco davvero a vederti litigare con lui, dato che sto incominciando
seriamente a capire quanto ci tieni”.
E’ davvero gentile. E’ un tesoro! Ora
capisco perché Hijikata-san se n’è innamorato anche se è un uomo!
“Chizuru-san, grazie tante!” dichiarai, non curandomi del fatto che fosse
un ragazzo (anche perché dopo il mio precedente ragionamento, ormai non lo
vedevo neanche più come una minaccia alla mia femminilità) e abbracciandolo con
forza. “Grazie mille!”.
Lui ricambiò immediatamente e mi strinse con dolcezza.
In quel momento non potei fare a meno di pensare che se ci avesse visti
Hijikata-san, probabilmente mi avrebbe fatta a fettine per la gelosia. Il che
mi fece anche pensare che dovevo trovare un modo per esprimergli, in modo
alternativo alle parole, che non ero interessata a Chizuru-san, quindi non ero
una sua rivale, e che appoggiavo il loro amore proibito.
Chissà, forse inizierà a trattarmi
meglio!
“Allora, Hikaru-chan, vieni?” esordì Chizuru-san.
“Eh?” chiesi perplessa io. “Venire dove?”
“Ma come dove? A cena, no?”
“Ah, no! Non posso!”
“Ma come no? Ancora non vuoi…”
“Non sono ancora pronta per incontrare Sou-nii e riaffrontarlo di nuovo” lo fermai,
quasi sul nascere. “Ti prometto che gli parlerò, Chizuru-san. Chissà, magari
domattina, o domani sera. Risolverò in qualche modo. Ma voglio che mi venga
naturale. Quindi, per favore, lasciami saltare la cena”.
“Capisco ciò che intendi, ma così resterai a digiuno”.
“Credo che la colazione mi sia stata più che sufficiente” affermai, facendogli
l’occhiolino.
Lo vidi, quindi, ridacchiare. “Sei assurda, Hikaru-chan!”
“A proposito, Chizuru-san! Hai nessuna faccenda da farmi sbrigare?”
“Eh?”
“Insomma, sì… Dato che non ho niente da fare e non devo cenare, mi chiedevo se
avessi qualche commissione da affidarmi”
“Ma è sera! Cosa vorresti fare a quest’ora?”
“Non so. Qualunque cosa! E’ per sdebitarmi di averti lasciata con tutte le
stoviglie della colazione di stamani da lavare”
“Oh… A proposito di quelle…” borbottò, con aria mortificata. “Ecco… Non sono
riuscita a finirle tutte. Mi spiace, sono dovuta uscire e…”
“Ma è meraviglioso!” intervenni, esultante. “Così posso finirle io! E non ho
lasciato tutto il compito a te!”
“Vorresti lavare le ciotole e tutto… adesso?”
“Perché no?”
“Ma fuori è ventilato. Prenderai freddo”.
“Vorrà dire che mi porterò qualche bacinella d’acqua dentro”.
L’aria preoccupata sul suo viso non lo abbandonò per un po’, finché non lo vidi
sospirare. “E va bene. Se vuoi così, non posso costringerti, giusto?”
Annuii, mentre lui proseguì: “Allora, Hikaru-chan, occupatene tu. E quando hai
finito, vieni da me, per favore. Va bene?”.
“Hai, hai!” esclamai, contentissima,
per poi avviarmi verso la cucina e mettermi così a lavoro, felice del fatto
che, nonostante la brutta esperienza di quella mattina, se non altro – a parte
te, e la cosa mi rattristava in fondo al cuore – ero sicura di non aver offeso
o recato torto a nessuno.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Ricordi, piccole rivincite e... dango! - Parte seconda ***
Salve a tutte e tutti!
Ed eccomi giunta con la seconda parte del capitolo scorso!
Sono molto felice di essere arrivata fin qui. In realtà questa è stata la scena
che praticamente ha fatto nascere questa fan fiction.
In realtà quando ho iniziato a pensare a questa storia, questa scena era nata
nella mia mente ancor prima della vera e propria trama, quindi… si può dire che
questa è la scena-madre della fiction XD
Indubbiamente una delle scene e dei momenti più importanti non soltanto dal
punti di vista della relazione Hikaru-Souji, ma anche della storia, perché da
qui iniziano le vere e proprie “avventure” della giovane nella base degli
Shinsengumi.
Purtroppo l’unica cosa che mi lascia un po’ perplessa di questo capitolo è il
mio Souji: eh sì, in realtà ho paura di averlo reso un po’ OOC. Ho cercato di
correggere alcune parti che da Souji non ci si aspetterebbe mai e poi mai e che
praticamente dal punto di vista di lettori esperti dell’anime susciterebbe la
domanda: “E questo chi diamine è? Mica Souji Okita di Hakuouki, vero?”.
Ahahahah, ho cercato davvero di evitare di arrivare a questo XD
Tuttavia ci terrei a precisare una
cosa: questa fan fiction è vero che si basa sull’anime di Hakuouki, ma dal
punto di vista della storia fa riferimento anche molto alla realtà.
Nella realtà (e in verità se ne ha traccia anche in poche scene della serie Reimeiroku)
Souji Okita aveva un comportamento decisamente più “afettuoso” e “affabile” con
la sua famiglia e, da adulto, con i bambini (soprattutto i bambini), oltre che
con le persone (e questo punto si rileva anche dalla semplice serie Shinsengumi
Kitan) a lui molto vicine e per lui particolarmente importanti come, ad
esempio, Koundou-san.
Quindi vorrei solo tenere presente ai lettori questo dato di fatto: nella mia
storia Souji Okita fa di queste “disparità” e questi “trattamenti di favore”,
anche se nel corso della storia questo punto verrà esaminato decisamente… come
dire?... dal vivo, ecco XD
Detto questo, spero di non avervi annoiato.
Vi auguro buona lettura e spero che il capitolo possa piacervi!
Alice <3
***
Lavorai fino a tardi, quella sera.
Come avevo anticipato a Chizuru-san, dato che fuori faceva effettivamente
troppo freddo per restare a lavare le stoviglie lì, mi preoccupai di riempire
le bacinelle dal pozzo e lavarle dentro la cucina.
Preferii aspettare che gli altri, te compreso, finissero la cena prima di
mettermi a lavorare, in modo da evitare in tutti i modi d’incontrarti.
Mentre lavavo le scodelle utilizzate quella stessa mattina ragionai molto su
quest’ultimo dato di fatto: ancora non me la sentivo di vederti.
Sarei stata un’ipocrita a pensare che avrei preferito lavorare, piuttosto che
cenare con tutti gli altri, ma per me era davvero impossibile starti accanto
senza riservarti del rancore.
Magari agli occhi degli altri poteva sembrare egoistico, infantile e chissà
cos’altro, ma solo io potevo sapere quanto in realtà mi avesse ferita tutto
quello che avevi detto e fatto in questi ultimi due giorni. A partire da quando
avevi detto di essere rimasto deluso da me e a finire con la colazione di
stamani.
Amarezze su amarezze, non ero riuscita ad ingoiare il boccone e mi era rimasto
di traverso in gola. Non accennava a scendere, nonostante un po’ tutti quelli
attorno a me ed io stessa cercassi di buttarci acqua sopra, per aiutarmi a
superare il tutto.
Già: era come se una lisca di pesce mi fosse rimasta incastrata in gola ed ogni
qual volta ingoiassi per cercare di farla scendere, mi graffiasse dall’interno
con le sue mille spine.
Fatto stava che finii il mio lavoro pressoché
verso le undici e mezza di sera.
Uscii dalla cucina, un po’ affaticata e assonnata. Avevo bisogno di dormire e
volevo risposarmi, d’altronde. Ma oltre che fisicamente, ero stanca anche
moralmente. Troppe gioie e troppi dolori si erano accavallati l’un l’altro,
sfinendomi letteralmente.
Tuttavia Chizuru-san mi aveva raccomandato di andare ad avvisarlo una volta
finito, quindi mi accinsi ad attraversare il corridoio generale che dava sul
cortile per arrivare sino alla stanza del ragazzo.
Camminavo lenta e a contatto con l’aria notturna mi venne istintivamente da
sbadigliare e sgranchirmi le ossa. Senza contare che avevo dovuto cambiarmi le
bende ai piedi per circa altre dieci volte, in tutto il corso della giornata.
Quelle maledette ferite non accennavano a guarire! E mi facevano anche male!
Ragion per cui zoppicavo leggermente.
Che stanchezza…
Pensai, istintivamente.
Non vedo l’ora di entrare nel mio futon e
farmi una bella dormi…
“Hai fatto tardi, Hikaru-chan” sentii esordire da una voce che mi colse di
sprovvista. “Devi essere molto stanca”.
C’era qualcuno lì? Perché non me n’ero accorta?
La risposta era più semplice di quel che pensassi: ero stanca e non avevo fatto
attenzione a ciò che mi circondava, inoltre non so come ma non riuscii a
riconoscere quella voce.
Dovetti voltarmi alla mia destra per riuscire a capire di chi si trattasse ed
ebbi un sussulto quando constatai che si trattava proprio di te.
Eri seduto per terra, sul patio in legno, con la spalla appoggiata ad una delle
colonne dello stesso materiale, le gambe incrociate e le mani nascoste nelle
larghe e calde maniche del tuo haori.
Nell’incavo del gomito – quello destro – reggevi una katana di cui il manico
aderiva perfettamente alla tua spalla. Mi guardavi con aria divertita e
tranquilla. La tua solita espressione, insomma, mentre io ti guardavo rimanendo
in silenzio e non sapendo cos’altro fare.
Rimasi incredula di fronte al fatto che non avevo riconosciuto la tua voce.
Com’era possibile? Ero riuscita a riconoscerla sempre e comunque. Avrei saputo
distinguerla in mezzo a miliardi e miliardi di voci! Come avevo potuto non
riconoscerla?
Per un attimo ebbi come la sensazione di sentirti lontano, lontanissimo. Quasi
come se fossi su un altro pianeta, completamente diverso dal mio. E la cosa mi
spaventava. Anzi, no… Non era di semplice paura che si trattava.
In realtà, ero terrorizzata all’idea che tra di noi si stesse creando questo
solco invalicabile. Ma sfortunatamente non ero abbastanza brava da riuscire a
riparare al danno. O almeno non ero mentalmente pronta a farlo.
I miei occhi incrociarono nuovamente i tuoi in un miscuglio tra cielo e natura,
fin quando non voltai il capo da un’altra parte, senza rispondere alle tue
parole. Ciò nonostante non scappai. Non so ancora chi mi diede quella forza, ma
non scappai.
Probabilmente era perché sapevo che se l’avessi fatto, avresti pensato che ero
infantile e che non ero neanche in grado di licenziarti in maniera matura. Cosa
che – e ne ero convinta –avrei fatto quasi sicuramente in seguito.
“Oooh…? Fai l’offesa?” mi domandasti,
chiaramente in seguito al mio gesto. “Non per far polemica, ma qui l’unico
offeso dovrei essere io. Sono rimasto a digiuno fino stasera a causa del tuo
scherzetto, lo sai questo?”.
Ancora silenzio. E non accennavo neanche a guardarti.
“Heeh… Non vuoi neanche guardarmi, eh?”
Nuovamente silenzio.
Sentii provenire un sospiro da parte tua. “Hikaru-chan, perché non ti siedi
qui?” .
Più per istinto, che per reale interesse nell’ascoltarti, mi voltai verso di te
che mi stavi facendo segno di sedermi accanto a te.
Allora, contrariata, distolsi nuovamente lo sguardo, voltando il busto in
avanti, come a segnalare che non solo non ne avevo alcuna intenzione, ma non me
ne importava neanche.
“Mi spiace, ma adesso ho altre cose da fare”.
“Non è vero” rispondesti, secco. “Hai appena finito di lavare le scodelle e
tutto il resto. E sei visibilmente troppo stanca per poterti permettere di fare
altro”.
Aveva un senso. Troppo senso perché potessi accettare di farmi fare l’appunto
da te, arrabbiata com’ero.
“Invece sì che devo fare altro. Devo andare da Chizuru-san!” affermai con aria
decisa, per darmi un certo tono e far sentire le mie ragioni. “Ed ora, se vuoi
scusarmi, Chizuru-san mi sta aspettando. E non voglio farlo attendere oltre”.
Detto ciò, m’inchinai formalmente verso di te, trattandoti come avrei fatto con
un qualsiasi estraneo, e corsi lungo il corridoio il più in fretta possibile,
non guardandoti in volto neanche una volta. Non saprei dire, dunque, che
espressione avevi assunto, ma avevo come il presentimento che non fosse
cambiata molto da quella che ti avevo visto poco prima: sempre tranquilla e
alquanto sfacciata. Un’espressione che non tradiva nessun’altro tipo di
emozione.
Mi affrettai, in questo modo, a raggiungere la stanza di Chizuru-san che,
fortunatamente, non era molto distante dalla mia e, quindi, non avevo necessità
di ripercorrere quel maledettissimo corridoio – che sfortunatamente per me era
uno di quelli principali – in cui avesti l’infelice idea di andare a piazzarti
per fare Kami-sama sa solo cosa!
Giunta finalmente dietro il fusuma della
sua stanza, bussai un paio di volte, annunciando: “Chizuru-san, sono io,
Hikaru. Ho finito di lavare tutto e sono venuta ad avvisarti come mi hai
chiesto di fare”.
“Oh, sì! Arrivo! Solo un attimo!” mi avvertì. Dal suo trafficare nella camera,
compresi che era indaffarato in qualcosa.
“Se sei occupato, non c’è bisogno che vieni ad aprirmi. Volevi solo che ti
avvertissi, no? Non prenderti disturbo…”
“No, no, nessun disturbo!” mi assicurò, aprendo di colpo il fusuma e sorridendomi. “Eccomi qua”. Lo
vidi leggermente sudato. Che stesse facendo, o avesse fatto qualcosa?
“Chizuru-san, sicuro che vada tutto bene?”.
“Eh? Sì, certo. Mi spiace di averti fatta aspettare”
“Non fartene alcun problema. Anzi, se stavi facendo qualcosa, non dovevi
prenderti la briga di aprirmi”.
“No, non stavo facendo nulla d’importante!” . Detto ciò mi squadrò sin dai
capelli in giù, con molta attenzione. “Hai lavorato fino a tardi. Devi essere
davvero molto stanca”.
Quella frase mi seppe di deja vu.
“Oh… Beh, sì” ammisi, sorridendogli, per non farlo preoccupare oltre. “Ma
giusto un po’”.
Il ragazzo ricambiò il mio sorriso e mi portò davanti agli occhi un sacchetto.
“Ecco a te, Hikaru-chan. Come ricompensa per il tuo impegno. Otsukaresama deshita”.
Un po’ perplessa, nonché stupita, presi il sacchetto tra le mani, guardandolo
da fuori quasi come se dentro potesse contenere qualcosa di strano. “Cosa c’è
dentro?”
“Dango!” esclamò lui, entusiasta e
sorridente. “Ah! Spero ti piacciano! Li ho presi sapendo che piacciono
solitamente a tutti, quindi pensavo di andare sul sicuro, ma non so con
esattezza se ho riscontrato i tuoi gusti…”
Scossi la testa, sorridendogli comprensivamente. “Io adoro i dango. Mi piacciono sin da piccola. Quando
li vedo, esco letteralmente pazza ed insisto per ore ed ore finché non convinco
mia madre a comprarmene qualcuno”. Ecco
cosa stava facendo nella stanza! Stava cercando questi dango da darmi!
“Sono contenta di averti fatto piacere. Inoltre devi essere affamata, dato che
non hai mangiato alcunché a cena e hai persino lavorato. Vedi di mangiarne
qualcuno prima di andare a letto” mi raccomandò, accarezzandomi la testa.
“Almeno la fame non ti spezzerà il sonno”.
Annuii e m’inchinai per esprimere la mia gratitudine. “Non so davvero come
ringraziarti, Chizuru-san. Farò come hai detto tu”.
“Bene. Allora, buona notte e buon appetito, Hikaru-chan”.
M’inchinai nuovamente, tutta sorridente. “Buona notte, Chizuru-san. E grazie
ancora”.
Detto ciò, mi voltai, con il sacchetto di dango
tra le mani e feci per andarmene, quando ad un tratto mi fermasti,
esordendo: “Ah, Hikaru-chan, aspetta un secondo”
“Mh?” feci, perplessa, voltandomi parzialmente verso di lui. “Cosa c’è?”.
“C’è una cosa che volevo dirti”
“Una cosa?”
Annuì. “Sin da questa mattina”.
Sin da stamani? Oh! Che si tratti ancora
dell’argomento “colazione”?
Ero quasi pronta a rispondergli che non volevo più pensarci e roba varia,
quando lui affermò: “Ricordi quando mi hai ringraziato per averti cambiato le
bende?”
“Eh? Sì. E te ne sono ancora una volta grata…”
“No, aspetta” m’interruppe. “E’ vero che ti ho cambiato le bende la notte
scorsa, ma… l’ho fatto solo un paio di volte. Verso mezzanotte, essendo
parecchio stanca, sono andata a dormire anch’io”.
“Cosa?” esclamai io, alquanto sorpresa, nonché spaesata.
“E’ la verità” asserì, coinciso. “Non mi andava che credessi a qualcosa che non
corrispondesse al vero. Mi sentivo, come dire, in colpa. Non sono stata tutta
la notte con te, come credevi tu. Mi spiace”.
“Ma com’è possibile? Quando mi sono svegliata le bende erano di nuovo pulite. E
di fianco al mio futon, vicino la bacinella d’acqua, piena di sangue, vi erano
una montagna di bende usate e fradice anch’esse di sangue. Quindi significa che
mi sono state cambiate tutta la notte”.
“Sì, le ho viste anch’io” concordò, pensandoci su. “Ma ero convinta che fossi
stata tu a cambiartele. Ti avevo lasciato le bende vicino al letto a posta per
questo”.
“No, non sono stata io” chiarii, con aria mista tra la preoccupazione e la
perplessità. Stavo cominciando a prendere seriamente in considerazione
l’eventualità di essere sonnambula, ma dopo averci riflettuto su con lucidità
mi risposi che era decisamente impossibile.
Ero stanca persino per aprire gli occhi,
figurarsi se mi mettevo a trafficare con le bende in piena notte e nelle mie
condizioni!
“Ma, se non sei stato tu…” iniziai a dedurre. “… e non sono stata io,
allora chi è stato?”.
Sgranai, dunque, gli occhi al ricordo di quelle parole che subito tornarono ad
affollarmi la mente, quelle parole che prima non avevo compreso, fraintendendo
tutto. Quelle parole che forse erano la chiave di tutto.
Non mi curai neanche di salutare Chizuru-san: mi voltai di scatto e incominciai
a scappare con tutto il sacchetto di dango
in mano, lungo la strada.
“Che ti è successo, Souji? Di solito sei
così mattiniero…”
Non è possibile…
“Beh, diciamo solo che non ho
dormito molto ieri sera”.
Kami-sama, dimmi che non è vero, ti
prego!
“Davvero insolito da parte tua…”.
Velocizzai il passo tanto che quasi iniziò a mancarmi il respiro per la troppa
rapidità con cui stavo correndo.
“Forse dipende dalla cara Hikaru-chan?”
Ti prego, fa’ che sia solo una
coincidenza!
“In un certo qual senso… E’ tutta
colpa sua. Mi ha fatto passare una nottataccia”.
Ti scongiuro!
…
Li sentii su di me, quegli occhi verde come la terra donataci da Dio, che
nell’oscurità della notte e col solo candore della luna risplendevano come
smeraldi.
Sorridevi, mentre ero praticamente davanti a te, in piedi, che ti fissavo
ansimante e cercando di riprendermi celermente da quella folle corsa che avevo
intrapreso per raggiungerti il prima possibile. Il sacchetto di dango stretto al petto, era come se
potesse accogliere, da un momento all’altro, anche il mio cuore che quasi stava
balzando fuori sia per la fatica, sia per le emozioni che stavo provando.
“Oh! Hikaru-chan” esordisti, con tono di pura constatazione. “Sei tornata.
Pensavo avessi da fare con Chizuru-chan”.
Mi mancava ancora troppa aria nei polmoni perché potessi permettermi di
risponderti, quindi rimasi ancora un po’ silenzio, mentre ti vidi proseguire:
“Ci hai ripensato? Vuoi sederti qui con m…”.
“Questa notte mi sei stato tutto il tempo vicino, vero?” ti domandai, quasi
interrompendoti, ignorando totalmente la tua precedente richiesta. “E sei stato
tu a cambiarmi per tutto il tempo le bende ai piedi, non è forse così?”.
Per la prima volta il mio cuore era diviso in due; da una parte speravo che
fosse così, perché desideravo più di ogni altra cosa che tu ci tenessi a me a
tal punto da fare anche una cosa del genere; ma, dall’altra parte, speravo con
tutto il cuore di sbagliarmi, perché, se così fosse stato, ti avrei
praticamente giocato quel brutto tiro, pur avendo tu fatto quell’enorme
sacrificio per me. E mi sarei sentita immancabilmente in colpa per l’accaduto.
Tu, da parte tua, mi guardasti serio per un po’. Eri rigido e non sorridevi
più. Tanto che, ad un certo punto, mi chiesi anche se avevo sbagliato a
chiedertelo.
Dopodiché, passati alcuni secondi, sospirasti e un nuovo sorriso tornò a
disegnarsi sulle tue labbra. “Ah! Sono stato scoperto!”.
“Perché?” chiesi con foga, che apparentemente poteva sembrare quassi rabbia.
“Perché lo hai fatto?”.
“Come sarebbe a dire ‘perché’? Non
posso curare la mia nipotina ferita?”.
“No che non puoi!” ribattei scontrosa, arrabbiata. Non sapevo neanche io con
esattezza come mi sentissi veramente. “Non dopo esserti comportato in quel modo
con me!”.
Ti vidi chiaramente sorpreso dalle mie parole o, – più che altro – dal modo in
cui te le stavo rivolgendo.
“Che senso ha prendersela tanto con la sottoscritta, trattarmi freddamente e
far di tutto per mandarmi via, se poi passi tutta la notte sveglio per accudirmi?”.
Ero talmente arrabbiata che, oltre alla corsa, era anche per il nervosismo che
stava continuando a venirmi meno l’aria. “Perché non mi hai detto niente,
stamani? Perché hai fatto l’indifferente? Perché non sei stato chiaro sin dal
principio? Che senso ha prendersi cura di me, se poi fingi di non averlo fatto?
Cosa credi che sia, stupida? O, semplicemente, ti vuoi prendere gioco di
me?”. L’affanno cominciò pian piano a
divenire un singhiozzo frenetico, che m’impediva di parlare in maniera
scorrevole. “Prima mi rimproveri, mi ferisci con le tue parole, non fai altro
che denigrarmi e dopo ti prendi la briga di rimanere sveglio tutta la notte per
aiutarmi? Per poi, la mattina successiva, fare cosa? Fingere che non sia
successo nulla? Magari tornare a fare la parte di quello ancora arrabbiato?
Cosa fai, tiri la pietra e nascondi la mano?”. Le lacrime incominciarono a
rigarmi il volto, mentre cercavo con tutta me stessa di farmi forza e
trattenermi dal mettermi a frignare come una mocciosa qualsiasi. “Io non ti
capisco, Sou-nii…” m’interruppe un singhiozzo. “Io proprio non riesco a capire
quello che ti passa per la testa”.
Silenzio.
Per un po’ non vi fu altro da parte di entrambi.
Per qualche minuto non udimmo altro che il verso di qualche insetto minuscolo e
i miei singhiozzi sommessi.
“Hikaru-chan” mi sentii chiamare. E fu così che con gli occhi ancora annebbiati
di lacrime distinsi il tuo sorriso.
Perché… Perché stavi sorridendo?
Non capivo… Proprio non capivo!
“Siediti” m’invitasti, facendomi nuovamente cenno con la mano di accomodarmi
sulle tegole di legno del patio esterno, accanto a te.
A differenza di prima, però, decisi di assecondare la tua richiesta e così con
passo lento mi avvicinai a te e, una volta piegatami sulle ginocchia, mi
sedetti compostamente. Tra noi due passavano almeno dieci centimetri di
distanza, ma a me sembrava quasi si trattasse di millimetri. Intanto guardavo
di fronte a me il giardino zen del cortile e notavo come il riflesso della luna
fosse vivido nell’acqua del piccolo stagno.
Trascorsero non so quanti minuti dall’ultima volta che avevi aperto bocca,
quindi mi voltai leggermente per guardarti e capacitarmi del tuo silenzio.
Notai, allora, che tu mi stavi fissando con sguardo intenso e non riuscivo ben
a distinguere l’espressione che avevi in volto, vuoi per colpa del buio, vuoi
per una mia coerente incapacità di interpretarla.
Arrossii per l’imbarazzo e voltai quasi immediatamente il volto, ricanalizzando
l’attenzione sul terreno del cortile. Dopodiché notando ancora il più assoluto
silenzio da parte tua, timidamente tornai a cercare la tua sagoma con la coda
nell’occhio, al che ti sentii affermare: “Tu dici di non riuscire a capirmi,
Hikaru-chan” . Il tuo tono era pacato, sereno. Tutto sommato, decisamente
tranquillo. “Ma anch’io, sai, non riesco a capirti per niente”.
“Eh?”
“Non riesco proprio a capire perché ti sei accanita tanto nel restare qui. Non
riesco a capire cos’è che vuoi ottenere, scappando di casa e restando qui”. Ti
sentii sospirare, per poi voltarti leggermente verso di me, per cercare una
qualche conferma. “Cos’è, una forma di ribellione nei confronti dei tuoi
genitori?”.
“Cosa?!” esclamai, voltandomi di scatto verso di te, con aria stupita. “No!”.
Come potevi pensare questo?
“Lo spero per te, perché io non ho alcuna voglia, né intenzione, di essere
sfruttato per una ragione del genere”.
“Ti ho già detto che non è quella la ragione!” insistetti con tono decisamente
irritato. “Credi che sia così sconsiderata da fare qualcosa del genere?”.
“Beh, se vogliamo dirla proprio tutta, l’hai già fatto” constatasti chinando
leggermente il capo di lato, tanto da poggiarlo alla trave di legno che si
ergeva per mantenere il soffitto del tempio.“E se aspetti ancora la risposta
alla tua domanda, sì, credo tu sia stata fin troppo sconsiderata a fare
qualcosa del genere. Soprattutto dato che ti eri riappacificata con tua madre,
saresti benissimo potuta tornartene a casa con lei e Kin-onee-chan”.
Dato il tuo comportamento e le tue parole, mi zittii completamente. Sapevo che
avevi ragione, ma ignorando totalmente il motivo per cui mi stavi facendo quel
discorso, non riuscii a capacitarmi del tuo buon proposito.
“Quindi, per farla breve, non mi vuoi qui, giusto?” assodai, col capo chino,
stringendo quel sacchetto di dango ancora
più contro il mio petto.
“Finalmente ci sei arrivata” dichiarasti in tono ironico, come al tuo solito.
“E’ da ieri che cerco di fartelo capire, ma con te è come parlare al muro”.
Sussultai, sentendo la tua conferma e richiamai tutto il coraggio che avevo per
trattenere le lacrime. Per i singhiozzi e il leggero tremolio che il mio sforzo
comportava, però, era ormai troppo tardi.
“Perché…?” sussurrai, con un filo di voce. “Perché non mi vuoi qui?”
“Sono stanco di dover rispondere sempre alla stessa domanda, Hikaru-chan” mi
chiaristi, rivolgendomi uno sguardo severo, nonostante sul tuo volto aleggiasse
un bel sorriso.
“E’ forse perché mi ritieni troppo piccola? Pensi che non possa cavarmela
perché non sono una vera e propria donna? O perché non vuoi assumerti la
responsabilità nell’eventualità mi succedesse qualcosa? Oppure, ancora, sei
arrabbiato perché sono scappata di casa, mi sono rifugiata qui, ti ho mentito
e, infine, ti ho rivolto tutte quelle parole?”. Il petto si alzava e abbassava
a ritmo sempre più accelerato. I singhiozzi si fecero insistenti e quasi
costanti. Le lacrime presero a rigarmi le guance, quando pensai all’ultima
eventualità che ti spingeva a parlare comportarti così nei miei confronti. “Oppure
perché ti ho deluso?”. Feci una pausa, mentre il mio sguardo azzurro come il
cielo incontrava il tuo verde-foglia. “E’ così, vero? Dato il mio
comportamento, ti ho deluso, e adesso mi odi!”. Iniziai propriamente a piangere
tanto che mi portai entrambe le mani agli occhi, per asciugarmi man mano che
usciva la cascata di lacrime. “Devi proprio odiarmi, vero? Ti capisco, sai,
dopo tutti i piagnistei, tutti i miei capricci e i guai che ho combinato, è il
minimo che ti abbia deluso. E, come se non bastasse, ti ho dato del bugiardo e
ti ho fatto anche quello scherzo stamani…Ma…!”. Nonostante il tremolio che
percorreva il mio intero corpo, cercai di farmi forza e di farmi ragione almeno
per ciò in cui realmente credevo. “Ma, devi credermi, Sou-nii, non l’ho fatto
con cattivi propositi! Il mio intento non era quello di darti fastidio. Non
volevo coinvolgere né te, né tutti gli altri della Shinsengumi. E’ vero che
sono scappata di casa e ho fatto preoccupare mia madre, mia zia; ho fatto
scomodare tutti gli uomini di Fujiwara-san, compreso mio padre, ma… Dopo aver
capito il mio errore ed essermi riappacificata con oka-san, non c’era davvero
niente che non andasse” . M’interruppi nuovamente, per riprendere fiato. Quindi
proseguii: “La ragione per cui ho deciso di restare qui e mi sono impuntata a
tal punto per farlo non è perché volevo ribellarmi ai miei parenti, né perché
volevo provare nuove emozioni. Sarò stata sconsiderata – è vero – nel scappare
in quel modo di casa ed aver avuto quell’atteggiamento assurdamente infantile,
ma non sono così incosciente da prendere un capriccio simile solo per fare
esperienze di vita”. Mi feci più vicina a te, portando entrambe le mani sulla
larga manica del tuo haori e
stringendo più che potevo, lasciando così cadere sul mio grembo il sacchetto
che avevo tenuto con me fino a quel momento. “L’unica ragione per la quale sono
rimasta qui è perché volevo realmente stare con te, Sou-nii. Devi
assolutamente credermi! Fin da quando
oka-san aveva parlato di venire qui a Kyoto, non ho pensato ad altro se non a
rivederti. Non appena abbiamo calpestato il suolo di questa città, non facevo
che voltarmi tra la moltitudine di persone, per cercare di scorgere la tua
figura. Perché volevo assolutamente rivederti!” . E così, oltre che il corpo,
avvicinai notevolmente anche il mio volto al tuo, che leggermente sorpreso
ascoltavi le mie parole in silenzio. “Perdonami se ti ho rivolto tutte quelle
parole ieri mattina e mi spiace di averti giocato quello scherzo stamani, ma la
verità è che mi sono sentita ferita! Da quando sei venuto a casa mia sei anni
fa, sei diventato una figura davvero, davvero molto importante per me, Sou-nii.
E constatando che tu non mi volevi al tuo fianco e che ti avevo deluso, è stato
come se mi avessero pugnalato dieci, cento, mille volte di seguito in tutte le
parti del corpo”. Avevo il volto arrossato, sia per colpa della valanga di
lacrime, sia per il fatto che stavo mettendo parte dei miei sentimenti per te a
nudo. Completamente a nudo e proprio di fronte a te, che eri il diretto
interessato. “Non ho mai pensato neanche una volta di infastidirti, o di non
farti piacere. Volevo soltanto stare con te. Solo questo”.
Con il mio discorso, finì anche il
pianto. O, meglio dire, si calmò notevolmente anche quello. I singhiozzi
permanevano, ma di quelli ormai non m’importava. Continuavo a stringere,
tremante, la tua manica, mentre abbassavo il capo, incapace di guardarti, oramai,
negli occhi.
La mia non era una vera e propria dichiarazione, ragion per cui non ero
preoccupata tanto per quello, quanto per il fatto di essermi resa il più
vulnerabile possibile ai tuoi occhi. In sostanza, ti avevo rivelato di essere
una persona fondamentale per me, quindi ogni tua piccola richiesta, ogni tua
piccola pressione e mi avresti potuta spezzare come un ramoscello di legno.
Probabilmente, se avessi insistito nel farmi tornare a casa, nel giro di due
giorni (non di più) ti avrei obbedito e avrei fatto ritorno ad Edo. Certo, col
cuore spezzato, ma l’avrei fatto.
Ora che lo sa, mi farà sicuramente
tornare a casa.
Pensai, maledicendo la mia imprudenza nel rivelarti ogni cosa.
Non esiterà un attimo a farmi fare quel
che vuole. Ormai lo sa che, con le giuste parole e i giusti gesti, può
distruggermi nel giro di poco e convincermi ad obbedirgli senza farsi poi tanti
problemi.
Ne ero convinta. Sapevo che, infondo, ero stata irragionevole e la cosa
migliore era far ritorna a casa di mia madre. E, cosa fondamentale, sapevo che
tu, di questo, eri certo.
La sorpresa più grande, invece, fu quella di sentire qualcosa di morbido sulla
mia testa. Era qualcosa di confortevole ed emanava un leggero tepore che, però,
era in grado di mandarmi a fuoco l’intera nuca. Era la tua mano che incominciò
a carezzarmi dolcemente i capelli, scompigliandomeli leggermente. Sussultai
quando sentii quel tocco così delicato su di me e dischiusi leggermente le
labbra per lo stupore.
Da quanto non sentivo le tue carezze su di me? E quanto le avevo desiderate per
tutto questo tempo? Non lo ricordavo quasi più. L’unica cosa che contava, in
quel momento, era il tuo calore e, soprattutto, la gentilezza che quella
carezza esprimeva.
“Ti credo, Hikaru-chan” esordisti con tono sereno. “Come posso non credere alle
tue parole?”
Istintivamente mi voltai a guardarti, rincuorata. “Sou-nii…”.
Una volta ritirata la mano dalla mia testa, la riportasti nella manica opposta
dell’haori. Sospirasti lievemente e ti
voltasti a guardare la luna splendente nel cielo. “Hikaru-chan, tu non hai la
minima idea del perché mi sia comportato in quel modo, vero?”.
“Eh?”.
No, non ne avevo la più pallida idea. E a pensarci ora mi avevi fatto una
domanda davvero inutile: se l’avessi saputo, non mi sarei comportata di
conseguenza, no?
Tuttavia ebbi il buonsenso di restarmene in silenzio e limitarmi a guardarti
con aria perplessa.
“Quando ti ho ritrovata l’altra notte, insieme a Chizuru-chan, non sai quanto
mi sia sentito felice ed allo stesso tempo spaventato. Puoi immaginare,
vedendoti in quello stato, quanto mi fossi preoccupato? In primo luogo non
avevo capito come avevi fatto a raggiungere Kyoto e mi pareva davvero strano
trovarti da sola, per di più in quelle condizioni. Non sapevo davvero cosa
pensare. Hai idea di quante ipotesi si siano accalcate nella mia mente, mentre
ti portavo qui alla base, per assicurarti momentaneamente un posto sicuro in
cui stare?”.
Mentre parlavi il tuo sorriso era quasi impercettibile, ma la tua espressione
era abbastanza seria. Non accennavi neanche a voltarti verso di me, ma intenta
ad ascoltarti, non ci feci caso più di tanto.
“Felice? Certo che lo ero. Come potevo non esserlo, rivedendo parte della mia
famiglia? Tuttavia, devi capire, la preoccupazione del non sapere cosa ti fosse
accaduto superava di gran lunga la felicità in quel momento. Così, dopo averti
portata qui alla base, ti ho affidata alle cure di Chizuru-chan, e mi sono
diretto nuovamente fuori, in cerca di un qualche chiarimento”. Ti schiaristi la voce, per poi proseguire: “Quella
storia mi pareva davvero strana. Che ci facevi a Kyoto? E per di più da sola?
Non riuscivo a spiegarmelo, così mentre vagavo per le strade della città, ho notato
parecchio movimento. Ho visto uomini correre da una parte all’altra, senza
sosta, e setacciare ogni centimetro quadrato della strada. Notai addirittura
che una squadra di quest’ultimi stava incominciando a fare irruzioni nelle case
della gente. In un primo momento non ero riuscito ad identificare chi essi
fossero ed il numero era troppo ingente perché si trattasse solo di lestofanti.
Solo dopo aver notato il simbolo che avevano tutti sull’haori, riuscii a capire che si trattava degli uomini di Fujiwara”.
Fece una nuova pausa, si massaggiò lentamente le tempie e tornò a raccontare:
“Ricordai, così, che tuo padre era al suo servizio. Dunque mi sono affrettato
ad avvicinarmi ad uno di codesti uomini per chieder loro in cosa fossero
intenti. Ed egli mi ha rivelato di essere alla ricerca della figlia di
Okita-dono. Pertanto non persi neanche un attimo e andai alla ricerca di tuo
padre. Ma, prima di trovare lui, sai chi ho incontrato?” mi chiese, azzardando
un sorriso di sfida e incrociando, ora, i miei occhi. “Non lo immagini
proprio?”.
Non ebbi il coraggio di sostenere quello sguardo, quindi distolsi il mio.
“No…”.
“Tua madre” non tardasti a rivelarmi, senza ulteriori esitazioni.
A quel nome, sobbalzai e tornai a fissarti, mentre tu rivolgesti nuovamente la
tua attenzione al cielo stellato. “Mitsu-nee-san girava senza sosta da una
parte all’altra, chiamando il tuo nome, Dio solo sa quante volte. Sul volto
aveva un’aria terrorizzata e, anche se a notevole distanza da lei, ero riuscito
a scorgere le lacrime che le solcavano il viso. Aveva un aspetto orribile e
girava come una dannata in tua ricerca, sperando di ritrovarti a tutti i costi.
Hikaru-chan, puoi anche solo immaginare come mi si è stretto il cuore
all’immagine di mia sorella in quelle condizioni?”.
Certo. Certo che potevo immaginarlo. Praticamente da quando ne avevo memoria,
sei sempre stato chiaramente affezionato alla mamma. Eri dolce con un po’ tutte
noi: me, la mamma e la zia. E, nonostante anche zia Kin fosse tua sorella, era
facile notare come per mia madre tu avessi un riguardo tutto speciale.
La stessa zia, un po’ con l’amaro in bocca, mi aveva rivelato che quand’eri
piccolo correvi sempre dietro oka-san, preferivi la sua presenza addirittura a
quella di una madre e non facevi altro che compiacerla, per farti benvolere da
lei. Mi aveva addirittura raccontato che, una volta, quando mia madre venne
corteggiata da un giovane mercante, ti adirasti a tal punto da rifiutarti di
parlarle fin quando non lo avesse rifiutato categoricamente. E lei, e per puro
disinteresse nei confronti del povero ragazzo, e per tornare a farti sorridere,
decise di declinare la sua gentile proposta.
Insomma, da quanto ne avevo capito, avevi una sorta di complesso della sorella
maggiore, che riuscisti a superare più o meno una volta lasciata casa.
E pensavo tra me e me che quel complesso, nonostante lo scorrere del tempo, non
era scomparso ancora del tutto.
Eppure, vedendoti ora, ormai adulto, ormai giovane uomo, era praticamente
impossibile per me immaginarti a quei livelli. Ciò non toglie che avevo capito
sin dal principio che eri molto legato alla tua famiglia d’origine. E
specialmente ad oka-san, cosa che, in un primo momento (dopo il racconto della
zia), mi aveva fatta ardere di gelosia.
“Beh, semplicemente non ho potuto farci niente. Le sono andato incontro e le ho
rivelato che ti avevo trovata. Fortunatamente Mitsu-nee-san mi ha dato ascolto
e si è rilassata quel tanto che le è bastato per non avere un infarto. Insieme
siamo andati ad avvertire Rintaro-dono e Kin-onee-chan, impegnati a loro volta
nelle ricerche. E con a seguito praticamente tutti gli uomini di Fujiwara siamo
tornati qui”.
Facesti per appoggiare nuovamente la testa alla trave in legno e socchiudesti
per un attimo gli occhi. Un nuovo sorriso sulle tue labbra, quello che
praticamente aleggia un po’ sempre sul tuo volto. Quello da cui non ti separi
quasi mai. Quello che nasconde ogni emozione, sentimento o verità.
“Beh, il resto lo sai, no?” concluse. “Non c’è bisogno che continui a
raccontarti gli avvenimenti che sono susseguiti”.
Rimasi in silenzio per un po’, prima di rispondere a capo chino: “Sì”.
Dopodiché tornò nuovamente il silenzio. Non sapevo cosa dire, né cosa pensare.
Non riuscivo a capire perché mi stessi raccontando quelle cose. Era per farmi
sentire in colpa? Se era così, mi sentivo già fin troppo mortificata per ciò
che era successo, dunque perché infierire?
Il fatto che non arrivasse risposta alla mia ipotesi e alle mie domande mi
faceva sentire così insicura…
“Hikaru-chan” mi sentii nuovamente richiamare, così alzai il capo e mi voltai
verso di te. “Non hai ancora compreso il perché delle parole che ti ho rivolto
ieri mattina?”.
Con aria palesemente dispiaciuta, mi limitai a scuotere la testa.
Non sospirasti, come pensavo avresti fatto, ma ti accontentasti di fare una
breve pausa per poi proseguire: “Non sono arrabbiato con te. Non lo sono mai
stato. E, anche se ti ho rivolto quelle parole così dure, non sono affatto
rimasto deluso da te. Beh, sì, il tuo atteggiamento apparentemente infantile,
inizialmente mi aveva dato sui nervi” ammettesti, assumendo l’aria di chi ci
stava riflettendo su. “Non riuscivo a spiegarmi perché ti ostinassi a voler
restare qui e, onestamente parlando, forse sì… inizialmente mi sono sentito
deluso e scontento del tuo comportamento, ma dopo aver udito la tua risposta
così tenace, così aggressiva, sono rimasto letteralmente basito”.
Sgranai leggermente gli occhi, mentre ti vidi sorridere a questo dato di fatto
e quasi mi si strinse il cuore per la contentezza.
“Hikaru-chan, riesco a capire facilmente se le persone che mi sono davanti
mentono, o meno, e dopo che mi hai rivelato le tue intenzioni e i tuoi
sentimenti, non posso assolutamente non crederti. Dunque non sono arrabbiato
per niente. Non lo sono ora, né lo ero prima. E, dato che tu sei stata sincera
con me, io lo sarò altrettanto con te”. Il tuo tono era sottomesso, da qui
capii che non dovevi essere molto bravo nell’ammettere di aver sbagliato, ma
ero così felice di quelle parole che quasi non vi feci caso. “Hikaru-chan…”.
Dopo aver pronunciato il mio nome, cadde nuovamente il silenzio per un buon
minuto.
“Hikaru-chan,” ripetesti. “se ti dovesse succedere qualcosa, con che faccia
credi che potrei guardare Mitsu-nee-san?”.
Sussultai a quella domanda.
I tuoi occhi erano fissi su di me e ciò stava facilmente a significare che
pretendevi davvero una risposta, ma non sapendola neanche immaginare, mi
limitai a rimanere in silenzio, cercando di distogliere lo sguardo dal tuo.
“Hikaru-chan, tu sei la cosa più preziosa per mia sorella. Mitsu-nee-san non ha
al suo fianco nessuno: la nostra famiglia si è del tutto estinta, Rintaro-san è
sempre lontano, per non parlare di me, che sono sempre qui a Kyoto e non faccio
ritorno ad Edo da quei famosi sei anni… Chi le resta, se non Kin-onee-chan e
te?”. Altra pausa, per poi riprendere: “Per quanto forti possano essere i tuoi
sentimenti, o per quanto valide siano le tue ragioni, pensi davvero che possano
bastare da garanzia, nel caso ti succedesse qualcosa? Tu sei l’unica figlia di
Mitsu-nee-san e Rintaro-san, per non parlare del fatto che sei la mia unica
nipote… Questo è un luogo pericoloso, dove tu non puoi davvero restare… E se lo
dico… No, se tutti te l’abbiamo detto e continuiamo a ripeterlo, non è perché
non ti voglia qui, non tenga a te, o perché tu mi abbia deluso. Se voglio
mandarti via, Hikaru-chan, è solo per il tuo bene, per proteggere un prezioso membro
della mia famiglia” dichiarasti infine con un sincero sorriso sulle labbra.
Sussultai nuovamente. Non ricordavo nemmeno che tu potessi sorridere in quel
modo, in quel modo così onesto e puro. Pensavo che mi avresti tenuto nascosto
nuovamente tutto, ma al contrario di ciò che mi aspettavo, ti eri aperto con me
e mi avevi rivelato i tuoi pensieri e i tuoi sentimenti.
Allora è per questo che non mi vuole qui?
Pensai, rincuorata, quasi con le lacrime agli occhi.
Istintivamente, allora, mi avvicinai lentamente a te e mi buttai
frettolosamente e un po’ goffamente tra le tue braccia.
Ovviamente non dovevi aspettarti quella reazione alle tue parole, perché ti
trovai inizialmente disorientato.
“Hikaru-chan?” mi chiamasti, con aria spaesata.
“Io… so di essere egoista…” premisi, con il volto sprofondato nel tuo haori, al punto tale da poter sentire il
tuo buonissimo profumo. Non riuscivo ad identificare che tipo di profumo fosse,
ma era davvero buono e tranquillizzante. “So di essere egoista, avventata,
certe volte superficiale e infantile, ma… ti prego, Sou-nii, permettimi di
stare qui alla base”.
Avevo compreso le tue parole ed anche cosa stessi cercando di trasmettermi:
avendomi parlato in quel modo chiaro, non avevo dubbi sul fatto che l’unica
ragione per cui ti eri comportato in modo ‘crudele’ con me era perché volessi a
tutti i costi farmi tornare a casa. Ed ero anche cosciente del fatto che lo
avessi fatto, in primo luogo per la mia sicurezza, ed in secondo luogo per non
far soffrire mia madre. Mia madre che per te era così importante. Tuttavia i
miei sentimenti per te sembravano crescere a dismisura, ogni secondo che
passavo con te, per essere contenuti semplicemente nel mio corpo e avevano
necessità di traboccare.
Anche se mi vedevi come nient’altro che la tua nipotina, figlia della tua
adorata sorella… anche se non ero altro che parte della tua famiglia, per il
momento il fatto che eri stato così dolce con me era la cosa che contava più di
ogni altra.
E, sapendo tutto ciò, credevi davvero che sarei tornata a casa, lasciandoti alle
mie spalle, senza fare altro?
Evidentemente ancora non mi conoscevi bene.
“Sono cosciente del fatto che questo sia un luogo pericoloso. Ed anche quando
non sapevo con esattezza che si trattava della base degli Shinsengumi, ne ebbi
sentore già da prima. Ho capito quello che stai cercando di dirmi: le
difficoltà non mancheranno ed i pericoli tantomeno, ma… Non devo temere niente,
se ci sei tu a difendermi, no, Sou-nii?” ti chiesi, sorridente, incrociando il
tuo sguardo.
Dal tuo sguardo vagamente smarrito, compresi che non dovevi esserti aspettato
nemmeno quella risposta. Ma giusto il tempo di fare mente locale della cosa e,
con aria leggermente contrariata, esordisti: “Senti, tu… Mi sembra di parlare
ancora con una bambina di otto anni…” . Altro sospiro. “Come devo fartelo
capire che, per quanto possa difenderti, resta pur sempre rischioso rimanere qui,
per una ragazzina come te? Insomma…devo legarti come un salame e affidarti ad
un corriere per farti tornare a casa?”.
“Probabilmente sì, perché io non mi muoverò di qui” ribattei, ostinata.
“Hikaru-chan…!” facesti per riprendermi e cercare nuovamente di convincermi,
quando io t’interruppi: “Ti prego, Sou-nii… Fammi restare qui. Almeno fin
quando le cose non si faranno realmente pericolose. Almeno fino ad allora,
permettimi di restare”. Con gli occhi cerulei languidi, non esitai ad
incrociare nuovamente il tuo sguardo. Rimanesti immobile, constatando la
profondità e la purezza della mia preghiera. “Ti prometto che, se e quando la
situazione qui si farà impossibile per me da reggere, tornerò a casa di mia
spontanea volontà”.
Non stavo mentendo. La mia promessa non era affatto una bugia. E, nel profondo
del cuore, ero convinta che anche tu lo avessi capito. Perché, quando usavo la
parola “promettere” in una proposizione, quelle parole diventavano sacre e,
dunque, non avrei mai osato contraddirle o sottrarmi alle condizioni a cui esse
mi ponevano.
Restammo in quella posizione (io, stretta a te, a guardarti supplicante e tu a
fissarmi indifferentemente, forse perché in fase di riflessione) per non so
esattamente quanto tempo, ma doveva essere stato abbastanza, perché le
ginocchia incominciarono ad intorpidirsi e quasi non me le sentivo più. Stavo
per cambiare posizione quando udii nuovamente la tua voce sonora affermare: “Se
osi venir meno alla promessa, t’impacchetto davvero come un salame e ti
spedisco a casa tramite corriere”.
Non potevo vedermi, dato che non vi era alcun modo di farlo, ma ero quasi del
tutto certa che sul mio viso fosse comparsa un’espressione di sorpresa mista a
felicità.
“E ti assicuro” aggiungesti, tornando a sorridere nel tuo solito modo. “che non
è un viaggio piacevole”.
“Sì, va bene! Andrà benissimo!” mi affrettai a rassicurarlo, stringendomi
nuovamente a lui, con tutto l’impeto che avevo nel corpo e nelle mie esili
braccia, ignorando totalmente le ginocchia che reclamavano sosta e libertà.
Andava bene. Andava bene veramente. Nonostante ti avessi fatto quella promessa,
passare del tempo con te per me era più che sufficiente.
Ne avrei fatto tesoro, di quei momenti passati al tuo fianco e avrei fatto
tutto ciò che era in mio potere, per prolungare quei momenti il più lontano
possibile.
Volevo solo starti accanto e passare con l’uomo che amavo il tempo che avevo
sognato di trascorrere sempre con te. Tutto qui.
“Però, fin quando rimarrò qui, proteggimi sempre, va bene, Sou-nii?” ti chiesi,
relativamente, mentre ora mi alzavo più verso te e ti abbracciavo ancora di
più, affondando il viso tra i tuoi capelli castani, tendenti vagamente al
rossiccio.
Anche i tuoi capelli avevano lo stesso odore dei tuoi vestiti. Era buono e
riusciva a tranquillizzarmi come solo il profumo di mia madre riusciva a fare.
No… forse anche più di quello di oka-san.
Era un profumo che avevo sentito tante volte, ma che in quel frangente di tempo
non riuscivo a rimembrare.
Cos’era quel dolce profumo, a me tanto familiare?
Mi sentii avvolgere la vita dalle tue braccia che mi stringevano a te. “Farò
del mio meglio, ma non ti garantisco niente” obiettasti con quel tuo solito
tono e sorriso sardonico.
Tutto questo… forse mi sbaglierò, ma mi
sembra di averlo già vissuto…
Ebbi la sensazione, dentro di me.
“Ehhh?!” finsi di lagnarmi. “Come sarebbe a dire? Sou-nii, sei impossibile!”.
Non trattenesti, dunque, una risata di cuore a cui io cedetti per poi seguirti
nello stesso gesto. Ridemmo per qualche secondo senza tregua finché, ancora
stretti in quell’abbraccio che mi aveva resa tanto felice, ma che tu
sicuramente vedevi come nient’altro che un gesto affettuoso nei confronti di
una qualsiasi persona a te cara, non appoggiasti il mento sulla mia spalla
sinistra, restando in silenzio e immobile per un po’.
“Sou-nii…?” . Quel gesto fu così inaspettato che non potetti far altro che
irrigidirmi e rimanere, a mia volta, immobile. Arrossii appena per quel
contatto così intimo e mi chiedevo se ti saresti comportato così anche con la
mamma, o con la zia. In cuor mio, però, speravo davvero di no.
“Ti sei sentita presa in giro per tutti questi anni, non è vero?” esordisti
all'improvviso, tanto che sobbalzai a quelle parole, sgranando leggermente gli
occhi. “Non era mia intenzione illuderti, né prenderti in giro. Se avessi
potuto davvero seguire l’istinto, sarei tornato a casa, a trovare te e
Mitsu-nee-san il prima possibile, ma non è stato fattibile. Inoltre ho solo
pensato che, essendo così piccola, ti saresti subito scordata di me. Avevi
tante altre persone al tuo fianco, che ti erano molto più vicine di quanto ti
sarei mai potuto essere io, quindi non ho pensato neanche per un attimo che tu potessi
nutrire questo affetto nei miei confronti per tutti questi anni. A dire il
vero, non pensavo neanche ti ricordassi il mio nome”.
“Ma è assurdo!” ribattei, contrariata al pensiero che tu potessi anche solo
aver ipotizzato un’eventualità simile. “Come potrei, come avrei potuto,
scordarmi di te? E’impossibile. Impossibile ed assurdo. Nel modo più
assoluto!”.
Non trattenesti un ulteriore risata per poi stringermi nuovamente a te. Fui
costretta ad alzare il capo, data la nostra vicinanza e non nego il fatto che
quella posizione era anche piuttosto scomoda, ma solo il fatto di poterti
essere così vicino faceva perdere rilevanza ad ogni altra cosa.
“A quanto pare è così… Ma io che potevo saperne? Eri sveglia come ragazzina, ma
non avrei mai pensato che la tua ostinazione e la tua memoria potessero
arrivare a tanto” ammettesti. “Inoltre sei anche cresciuta. Sei diventata grande,
Hikaru-chan. Sono felice di averti visto di nuovo e che ti sia ricordata di
me”.
Non avrei potuto scordarti, anche se
avessi voluto.
Non potetti che pensare, trattenendo le lacrime, mentre stringevo le
maniche del tuo haori, per farmi
forza.
Eri insito nella mia mente, ancor prima
che potessi pensare di cancellarti da essa. La tua immagine non lasciava la mia
memoria, anzi la riempiva. La riempiva a tal punto da spingerla, in alcuni
casi, a traboccare, proprio come il mio desiderio di rivederti e di restarti
accanto.
“A dir il vero, Sou-nii, ero preoccupata. Ero davvero preoccupata. Dal mio punto
di vista, che ero solo una bambina, nonostante la nostra promessa, tu non stavi
tornando. Nonostante passasse il tempo, tu non accennavi a far ritorno ad Edo.
Lo trovo strano anche io, sai? In fondo, avevo soltanto otto anni, eppure
quella promessa e quel nostro incontro mi era rimasto fisso nella memoria come
una pietra miliare. Tuttavia passavano i giorni, i mesi e gli anni e tu ancora
non tornavi. Stavo davvero incominciando a preoccuparmi…” ti confessai,
aprendoti il mio cuore. “Il tuo ricordo era sempre più vago, nonostante non
facessi altro che riportare alla mente quel pomeriggio di primavera. Temevo di
scordare il tuo volto o le tue parole… Più passava il tempo e più mi sentivo
insicura. Il problema era sostanzialmente che, dato che eri diventato un punto
fisso per tutti quegli anni, se avessi perso i ricordi di te, sentivo che avrei
perso parte di me stessa, la parte che ti aveva rincorso per tutto quel tempo”.
Feci una breve pausa, in cui l’unico suono nel più profondo silenzio era il
cinguettio di qualche uccello notturno. Forse un gufo, forse una civetta, non
ne avevo la minima idea, né m’importava.
“Sì, sono cresciuta, Sou-nii. E con me sono cresciuti quei sentimenti che mi
porto dietro da ormai sei anni. Dunque non avrei mai potuto dimenticarti. E
come non ho dimenticato te, non ho dimenticato neppure la nostra promessa”. Lo
dichiarai con tono solenne, che non mi apparteneva. Ma era sostanzialmente
qualcosa di troppo importante, perché potessi scherzarci su, com’ero solita
fare per sdrammatizzare su qualcosa.
Fu così che ti distaccasti lentamente da me e che riuscii ad incontrare
nuovamente i tuoi occhi color verde-foglia. L’intensità di quel colore e di
quello sguardo talmente serio mi fece sentire febbricitante, ma lo sostenni
fino all’ultimo momento.
Ah… Ora ricordo… Cos’è questo odore…
“La ricordi?” insistetti. “La promessa che facemmo quel pomeriggio?”
E’ il profumo di quel fiore meraviglioso…
quello che condividevamo io e te…
Il silenzio regnò sovrano ancora per quel frangente d’attimo, mentre non
facevamo che guardarci.
“Ti piacciono ancora le lavande, Sou-nii?”.
Una folata di vento arrivò verso di noi, avvolgendoci nella sua freddezza
autunnale, messaggera d’inverno, ma nessuno dei due se ne curò.
L’uno sosteneva lo sguardo dell’altra, senza riuscire a far altro.
Dopo qualche altro minuto di mera quiete, ti vidi perdere quell’espressione
tanto seria e sorridere con quella tua solita aria beffarda. “Naturalmente mi
piacciono ancora”. Piccola pausa. “Però no, mi spiace, quella promessa non la
ricordo proprio”. Lo dicesti con tono così noncurante che in un primo momento
pensai di svenire.
Cosa?
“Non… la ricordi…?” chiesi io, rivolgendogli uno sguardo più che altro
spaesato. “Davvero… non la ricordi?”
Facesti per pensarci su, ponendoti il dito sul mento, ma dopo poco scotesti
vivamente il capo. “No, non mi viene davvero niente in mente. Di che si
trattava?”.
Non la ricorda… L’ha rimossa totalmente…
Allora… valeva così poco quella promessa?
Rimasi in silenzio per un po’, dopodiché, stringendo i pugni e digrignando
i denti, cercando di trattenere il pianto, esclamai: “Non te lo dico!”. Il tono
della voce era aumentato notevolmente, tanto che avrebbe potuto facilmente
svegliare qualcuno. “Non te lo dirò mai!”
“Hikaru-chan?” mi chiamasti, un po’ sorpreso dalla mia reazione. “Avanti, non
fare così…”.
“Non te lo dirò… Non voglio!”.
Con gli occhi tremuli, arrossati e stanchi per il troppo lavoro, non riuscivo
vedere bene il tuo volto, ma quel che bastava per notare che avevi assunto
un’aria leggermente perplessa, per poi sorridere nuovamente e prendere ad
asciugarmi con la manica del tuo haori sia
gli occhi che il naso, diventato un pomodoro perché esposto troppo al freddo.
“Ah, Hikaru-chan, ma che mi combini?! Una signorina non dovrebbe farsi vedere
in queste condizioni, lo sai?”. Ti sentii sospirare e poi: “Mi dispiace, se non
ricordo questa promessa di cui parli. Doveva essere davvero importante, vero?”.
Non riuscii a fare altro che annuire.
Indi sorridesti nuovamente. “Gomen”
In quel momento mi sentii davvero combattuta: mi chiedevo che cosa ci trovassi
da sorridere e il fatto stesso che lo stessi facendo mi mandava in bestia, ma
dall’altro lato ero così felice che fossi così dolce con me.
“Non ti perdono, Sou-nii! Questa era davvero una cosa troppo importante per
essere dimenticata! E tu l’hai fatto lo stesso! Non ti perdono!”.
Vedendomi così infervorata, non trattenesti una risata. “Già, sono stato
davvero un cattivo ragazzo, non trovi?”.
“Non trattarmi come una bambina! Sono davvero arrabbiata, sai?!” . Non mi stavi
prendendo sul serio e la cosa mi faceva ribollire il sangue nelle vene.
Tuttavia perché non riuscivo davvero ad aggredirti, nonostante la mia rabbia?
Non me lo sapevo spiegare.
Ridesti nuovamente, asciugandomi le ultime lacrime rimaste dal viso
imbronciato. “Sì, sì, lo so. Sono pentito, d’accordo? Allora? Mi vuoi dire o no
qual era questa promessa?”
“No!” ribattei io, voltando di scatto la testa, con aria contrariata. “Non te
lo dirò! Non dirò niente in proposito a questa promessa, finché non te la
ricorderai da solo!”.
“Heeeh… Davvero?” mi chiedesti con tono di constatazione, quasi come se te lo
aspettassi.
“Davvero!” dissi, ancora voltata di lato. Volevo dare a vedere come ero rimasta
offesa dalla tua risposta e dal tuo atteggiamento. Ma, per qualche motivo, non
riuscivo seriamente ad essere arrabbiata con te.
“Potrebbero volerci giorni”.
“Non importa”
“O addirittura mesi”
“Non importa”.
“E se c’impiegassi degli anni?”.
Rimasi in silenzio per un po’, finché non insistetti: “Non m’importerebbe
comunque. Ho aspettato sei anni. Posso aspettarne come minimo altrettanti”.
In un primo momento rimanesti meravigliato, per poi tornare a sorridermi,
complice. “Non demordi, eh?”.
“Non lo farei per nessuna ragione al mondo!” dichiarai, voltandomi verso di te
che ora eri concentrato su di me, con tutta la tua attenzione.
Arrossi, mentre vedevo che la tua mano si era posata nuovamente sulla mia
testa, per poi scompigliarmi vistosamente i capelli. “Brava bambina. Così si
fa”. E cadesti in una nuova, rigorosa e fragrante risata.
Rimasi leggermente scossa, inizialmente, ma poi constatai che anche sul mio
viso vi era un bel sorriso. Stavo ridendo anche io.
Com’era possibile? Eppure mi avevi detto di non ricordare quella promessa, la
nostra promessa. Era una cosa tanto importante per me, la cosa fondamentale, la
base dei miei sogni. Constatando che l’avevi dimenticata, mi ero semplicemente
limitata a lagnarmi e a piangere per qualche minuto e poi… basta. Conoscendomi,
ci sarei dovuta restare così male che non avrei più voluto vederti per il resto
della mia vita, ma il fatto…
Il fatto era che in parte,avevo accettato dentro di me il fatto che quella
fosse stata una semplice promessa che avevi fatto ad una bambina, un po’ per
gioco, un po’ per assecondarmi; in parte speravo che in realtà non l’avessi
realmente dimenticata o rimossa, ma che fosse solamente una goccia nascosta da
qualche parte, in profondità, dentro quel mare immenso che sono i ricordi.
E, allora, mi ero imposta semplicemente di riportare a galla quella goccia, ma
non con la forza. No… Non volevo che ricordassi perché ti ci avevo costretto
io. Volevo che, da promessa importante qual’era stata, dovesse tornarti in
mente perché effettivamente quel caldo pomeriggio primaverile era nato qualcosa
d’importante tra noi due. Non aveva alcun senso che fossi io a ricordartelo.
Dovevi per forza essere tu a farlo.
E non aveva neanche senso piangerci sopra, o rimanerci male. Non avrei fatto altro
che comportarmi da ragazzina immatura, quale ancora ero e dimostravo di essere.
In quell’attimo sentii di voler imparare a crescere e di voler riparare agli
errori e a tutto ciò che non andava come volevo.
Non avevi ricordato quella promessa? Pazienza. Ti avrei aiutato a farlo quanto
prima possibile. A cosa mi sarebbe servito gettare la spugna, dopo averti
rincontrato?
Pensavi di mettermi fuori gioco così, Sou-nii? Mi spiace, ma il mio amore non
era così superficiale da poter essere scalfito da qualcosa del genere.
Ci ero rimasta male e sarei continuata a restarci male finché non ti fossi
ricordato di tutto, ma ero pronta a trasformare il mio dolore in una corazza
che mi avrebbe resa ancora più forte.
“Ah, Sou-nii! Basta! Non sono più una bambina! Smettila di trattarmi così!” mi
lamentai, cercando di farlo smettere di scompigliarmi i capelli, che ormai non
avevano più un vero e proprio ordine.
“Ah, davvero? E invece sei proprio una bambina!” proseguì lui, smettendo di
disordinarmi i capelli. “Perché solo una bambina poteva giocarmi uno scherzo
tanto infantile stamani”.
“Ah, mi spiace… In realtà sono davvero
dispiaciuta dell’accaduto”.
Avrei voluto dirglielo e lo pensavo realmente, ma trasportata dalla
situazione incrociai le braccia al petto e assunsi un’aria soddisfatta. “Ti sta
bene! E’ stata la mia rivincita per avermi fatta arrabbiare. Così impari a
prenderti gioco di me e a scordarti le promesse che fai!”.
“Senti, tu…” . Con aria sorridente, ma palesemente infastidita non tardasti a
tirarmi un pizzico alla guancia, così forte che pensavo me l’avresti strappata
via. “A causa tua sono dovuto stare praticamente tutto il giorno digiuno. E a
cena, per ordine di Hijikata-san, per poter compensare con quello che hanno mangiato stamane, ci è
toccata appena qualche sardina arrostita!”. E come non notare il tuo favoloso
sopracciglio danzante? Il nervosismo non doveva mancarti. “In poche parole, sto
morendo di fame. E tutto per il tuo insulso scherzetto!”.
“Ahi, ahi, ahi! Shou-nii, mi sciai fascendo malhe!” riuscii solo a dire, in
quella maniera ridicola, con le lacrime agli occhi per il dolore alla guancia.
“Deve fare male! Questa invece è la mia rivincita!”
“D’accordo, d’accordo. Mi discpiasce! Mi discpiasce sul scerio!” mi decisi a
dichiarare. “Mi sciono comporthata in modho ivfantile e sciono davverho discpiasciuta…
Perhò adesscio, pe favohe, lasciamhi!”.
Dopo quella confessione, sembravi sentirti molto più soddisfatto e, dunque,
lasciasti in pace la mia guancia che finalmente trovò il suo sollievo. “Sou-nii,
mi hai fatto davvero male, sai?”.
“E’ la tua punizione. Non pensare che ci andrò leggero con te, solo perché sei
la mia nipotina. Ne avrai di lavoro da fare!” . E non trattenesti una risata.
“Uffa… Sei impossibile!”
“Non è questo che vorrei sentirmi dire”.
“Eh?” chiesi io, voltandomi verso di te, con aria perplessa.
Tu, allora mi guardasti, e sistemandoti un ciuffo della frangia che,
evidentemente, ti stava dando fastidio, spiegasti: “Sono stato impegnato tutta
la notte a cambiarti le bende, tanto da non riuscire a dormire. E’colpa tua se
ho perso il sonno, sai?”.
“Oh…” constatai io, abbassando il capo, cercando di nascondere il rossore che
m’invase le gote.
“E allora? Cosa devi dire al tuo onii-chan?” chiedesti, poggiando il mento sul
dorso della mano e guardandomi con aria pretenziosa e beffarda.
“Ehm… Ecco… Io…” borbottai, in preda al panico più totale, scatenato
dall’imbarazzo. Non riuscivo a guardarti negli occhi: eri decisamente troppo
carino per poterti guardare senza arrossire. I miei sentimenti erano
incontrollabili, ma cercai ugualmente di farmi forza.
“Allora? Sto aspettando…” insistesti, sempre con quel tono scherzoso e quel
sorriso sulle labbra.
E fu così che, rossa come un papavero, in contrasto con gli occhi azzurri,
sollevai leggermente lo sguardo verso di te e sussurrai: “G… Gr… Grazie mille,
per esserti preso cura di me questa notte, Sou-nii”.
Tu, del canto tuo, con espressione soddisfatta sul volto, mi sorridesti e
annuisti. “Mhh… Sei decisamente più carina quando fai l’obbediente e l’educata”.
Arrossii ancora di più e per cercare di veicolare la felicità, ribattei: “Co…
Come sarebbe a dire? Quindi se non sono obbediente ed educata non sono
carina?!”.
“Ho detto che lo sei di più quando ti comporti bene. Decisamente meglio!”
“Sou-nii, sei cattivo!” mi lagnai, facendo il broncio.
Tu ridesti. “Sei davvero suscettibile, sai? Dovresti fare qualcosa per questo
tuo caratterino”.
“Se tu evitassi di farmi arrabbiare, allora vedresti quanto sarei meno
suscettibile!” chiarii, per poi sospirare. Indi il mio sguardo si posò su di
quello… e così mi venne una grandissima idea.
Proprio quando mi ero allontanata da te, sporgendomi verso il lato opposto al
tuo, sentii che ti stavi alzando e che, oramai, eri in piedi. “Ah… Si è fatto
davvero tardi” constatasti. “E’ ora di andare a dormire, Hikaru-ch…”
“Aspetta, Sou-nii!” ti fermai, tirandoti per la manica dell’haori, con sguardo supplichevole.
“Mh? Cosa c’è, adesso?”. Avevi in volto un’aria perplessa.
“Ecco… Io…” farneticai, inizialmente, per poi prendere coraggio e mostrarti la
busta che avevo raccolto da terra, che avevo stretto a me fin quando non mi ero
rintanata tra le tue braccia e che tanto mi aveva dato coraggio prima, mentre
lo stringevo al petto. “Questi… Questi sono dei dango che Chizuru-san mi ha dato per compensare il fatto che non
avessi cenato e per ricompensarmi del lavoro fatto” spiegai con sguardo basso e
vacillante, ancora rossa sulle gote. “Ecco… Non sono molti, ma… Vorresti…
Vorresti mangiarli con me?”.
Non sentii altro che silenzio per qualche secondo.
“Ehh… Dei dango? Magnifico. Ne avevo
proprio voglia ultimamente, ma non sono mai riuscito a procurarmene un po’”.
Indi ti vidi sederti nuovamente vicino me, per poi rivolgermi uno dei tuoi
soliti sorrisi sardonici. “Cos’è, vuoi farti perdonare per lo scherzetto di
stamane?”.
Be’ sì, il motivo era anche quello, ma fondamentalmente il punto era che volevo
rimanere ancora un po’ con te.
Diventai paonazza, mentre annuivo leggermente per poi sentirmi successivamente
accarezzare la testa con affettuosità. Il modo in cui lo facevi assomigliava in
modo impressionante a quello in cui si sarebbe accarezzato un cucciolo. “Brava
bimba, brava bimba” commentasti, ridendo nuovamente.
Il suono della tua risata era meraviglioso, ed era per questo che non ne avevo
mai abbastanza.
E fu così che in breve ci trovammo uno accanto all’altro, di fronte alla luna e
al cielo stellato a mangiare dango.
“Sono davvero squisiti!” esclamai io, che li stavo divorando avidamente uno
dietro l’altro, senza tregua, tanto li stavo trovando gustosi.
“Hikaru-chan, se mangi così velocemente, li finirai in men che non si dica” mi
avvertisti, addentando un altro dango. “E
io non ho alcuna intenzione di cederti anche la mia parte”.
“Che antipatico… Eppure sono stata io che te li ho offerti!”.
“Beh, era il minimo, dopo avermi lasciato senza colazione e quasi senza cena”.
“D’accordo, ma ora mi sono sdebitata. Basta farmi sentire in colpa, no?” cercai
di farmi ragione, cercando di masticare piano il dolciume, in modo da
assaporarlo meglio e farlo durare più di quanto avrei fatto normalmente.
“Eh no! Devi sentirti in colpa. Almeno finché non mi avrai preparato nuovamente
la colazione!” . Diamine se eri ostinato! Continuavi a fissarti su quella
stupida colazione… Ma davvero un semplice pasto contava così tanto per te?
“Ma insomma, Sou-nii! Mi sono scusata e ti ho anche dato questi dango squisiti… E tu pensi ancora alla
colazione?” ribattei, anche un po’ contrariata.
“Beh, certamente. Per quanto squisiti siano questi dango e per quante scuse tu mi possa fare, il pasto che hai
preparato con tanta cura non tornerà e io non potrò assaggiarlo”.
Eh?
Ti guardai con aria perplessa e alquanto meravigliata.
“Co… Cosa…?”.
“Come stavo dicendo…” riprendesti, voltandoti verso di me e mandandomi uno di
quelli sguardi maliziosi e nel contempo, a mio avviso, talmente suadenti, da
non riuscire a resisterti. “Hanno avuto tutti l’onore di assaggiare la tua cucina, meno che io. Non ti basterà
qualche dolcetto e mezza scusa per riparare a questo guaio. Solo domattina,
quando mi sarà servita una colazione decente cucinata da te, potrò ritenermi
soddisfatto”.
Rimasi con le labbra leggermente dischiuse, mentre ti guardavo impietrita. Gli
occhi erano sgranati, finché non li portai verso il pavimento in legno, per non
incontrare i tuoi.
Il rossore m’invase in breve tempo tutte le gote e parte della fronte e delle
orecchie.
In pratica… In pratica sta dicendo che
vuole assaggiare la mia cucina?
Ipotizzai, nella mia mente.
Sorrisi istintivamente a quel pensiero e addentai un altro dango per veicolare in qualche modo la
mia gioia e la mia euforia.
“Va… Va bene! Allora cucinerò per te, domattina. Ti farò una colazione coi
fiocchi!”.
Tu annuisti e mi sorridesti. “Arigatou”.
E divenni nuovamente paonazza.
Non sapevo se il tuo essere così gentile e dolce, ora che avevi capito
l’importanza che avevi per me, fosse solo un metodo per ricavarne qualcosa, ma
ne ero quasi del tutto certa. Solo uno sciocco non avrebbe potuto capirlo.
Insomma, non facevi altro che compiacermi per potermi manipolare come più ti
compiaceva. E ti riusciva anche piuttosto bene.
Sfortuna voleva che me ne rendevo conto solo dopo che eri riuscito ad ottenere
ciò che volevi da me, e mai prima o nello stesso istante in cui eri intento a
farmi fare ciò che avevi in mente.
Così, per cambiare argomento, esordii: “Ad ogni modo, Chizuru-san è stato
davvero molto gentile. E’ una persona davvero fantastica!”.
“Tu trovi?” mi domandasti, mentre eri intento a tirare un morso ad uno dei
dolcetti color salmone. “Beh, in effetti”.
“Oh, come puoi essere così vago? E’ davvero una persona meravigliosa! Si
preoccupa sempre per tutti ed è stato gentile anche con me, che per lui, ero
un’estranea e poi…”. Fu così che mi tornò in mente tutto il ragionamento di
quel pomeriggio. “A proposito, Sou-nii… Posso farti una domanda?” .
A quella richiesta, ti voltasti verso di me, con sguardo leggermente perplesso.
“Mh? Cosa vuoi sapere?”.
“Ecco… E’ da un po’ che me lo stavo chiedendo e ci ho ragionato anche un po’
su… So che è una domanda un po’ strana e forse potrebbe risultare anche
indiscreta, ma…”.
“Taglia corto” m’interrompesti tu. “Non vorrai mica andare avanti così per
tutta la notte, vero? Avanti, sputa il rospo, Hikaru-chan: che vuoi sapere?”.
Il tuo solito sorriso non aveva lasciato le tue labbra.
“Ecco, in verità, io… Ecco…” . Non riuscivo a trovare bene le parole per
comporre in modo decente quella domanda. Dopodiché dopo vari tentativi riuscii
a domandare, avvicinandomi al tuo orecchio e sussurrandoti appena: “Può essere
che Chizuru-san e Hijikata-san abbiano una relazione, anche se sono entrambi
uomini?”.
Un attimo di silenzio.
Mi guardasti con uno sguardo talmente stupito che pensavo di aver detto
qualcosa di sbagliato. Tanto era vero che avevi smesso per un attimo di
mangiare dango e quello che avevi ingoiato
in quel momento quasi stava per farti affogare, se non fosse che incominciasti
a batterti sul torace per far scendere il boccone.
“Oh! Sou-nii! Sou-nii, fa attenzione!” ti raccomandai, preoccupata. E solo una
volta che fosti fuori pericolo, sospirai di sollievo. “Ma insomma… Che
combini?”.
E così assistetti ad una fragorosa risata che ti portò a stenderti per terra, a
pancia in su. Fosti così rumoroso che temetti avresti svegliato tutta la
squadra al completo, con tanto di Hijikata-san infuriato e pronto a fare una
ramanzina ad entrambi sul comportamento da tenere la sera tardi e sul fatto che
stavamo spettegolando su di lui.
“Ahahahah! Hijikata-san e Chizuru-chan insieme! Due uomini! Ahahah! Questa…
Questa è fantastica! Dovrò raccontarla ad Hijikata-san prima o poi!”. E
continuasti a riderci su, senza alcun ritegno.
Io, alquanto contrariata e smarrita dal tuo atteggiamento, ribattei
infastidita: “Sou-nii, non è bello ridermi in faccia a quel modo! Vorresti
spiegarmi che ti è preso?”.
“Non credo sia possibile” ti limitasti a rispondermi tra le risa alla domanda
che aveva fatto scoppiare quel “tumulto”
“E perché? Non credo sia tanto impossibile! Queste cose capitano quando si
rimane tra soli maschi per tanto tempo, sai? E poi che c’è di male? Se ce di
mezzo l’amore il fatto che siano entrambi uomini non conta, no?”.
Ma tu ignorasti il mio filosofeggiare e continuasti a sbellicarti dalle risa,
finché, dopo esserti vagamente calmato, ti asciugasti le lacrime che avevi agli
occhi per il troppo ridere e mi facesti cenno di avvicinarmi. Una volta che ti
fui accanto, mi avvicinasti le labbra all’orecchio e mi sussurrasti: “Non credo
sia possibile perché, vedi, Hikaru-chan, Chizuru-chan in realtà…”. Facesti una
breve pausa, poi mi sorridesti e concludesti: “Chizuru-chan in realtà è una
ragazza”.
…
Non seppi che successe in quel momento. Questo perché molto probabilmente persi
il senso della ragione per qualche attimo.
Kami-sama solo sa come non svenni, ammesso e non concesso che non sia successo.
…
“Cooooooooooooooooooooooosa?!”.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=661630
|