Ti Ricordi Di Me?

di SognoDiUnaNotteDiMezzaEstate
(/viewuser.php?uid=72470)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Una serata disastrosa ***
Capitolo 2: *** 1. Ho perso la memoria? ***
Capitolo 3: *** 2. Il mio futuro marito ***
Capitolo 4: *** 3. Non sono pronta a tutto questo ***
Capitolo 5: *** 4. Ritrovare me stessa ***
Capitolo 6: *** 5. Tornare alla normalità... o quasi ***
Capitolo 7: *** 6. Intervista ad un pianista ***
Capitolo 8: *** 7. Sguardi e sospiri ***
Capitolo 9: *** 8. L'amara verità ***
Capitolo 10: *** 9. La melodia ***
Capitolo 11: *** 10. La verità fa male ***
Capitolo 12: *** 11. Qualsiasi cosa ***
Capitolo 13: *** 12. Tempesta ***
Capitolo 14: *** 13. Le bugie hanno le gambe corte ***
Capitolo 15: *** 14. Incomprensioni ***
Capitolo 16: *** 15. Ricordi ***
Capitolo 17: *** 16. Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo: Una serata disastrosa ***


La storia è ispirata al libro 'Ti ricordi di me?' di Sophie Kinsella.

Spero vi piaccia. Buona lettura.

________________________________

Ti Ricordi Di Me?

0. Prologo: Una serata disastrosa

Non mi sono mai sentita più umiliata. Se si prende in considerazione il fatto che io, essendo una delle ragazze più imbranate del pianeta, colleziono una bella sfilza di episodi imbarazzanti, di cui non vado per niente fiera e che non racconterei neanche sotto tortura, si può capire perfettamente come mi sento in questo momento.

Ingenua, credevi davvero che lui potesse guardarti con occhi differenti? Che fosse diverso da tutti gli altri ragazzi e ragazze che girano per la scuola?

Che sciocca che ero stata; come avevo potuto anche solo sperarlo? Lui, che era a capo di quella schiera di oche altezzose che coglievano ogni singola possibilità al volo per prendermi in giro.

Esco di corsa dalla palestra allestita per il grande evento che tutti i ragazzi della scuola aspettavano fin dall’inizio dell’anno scolastico, stringendo al petto le nuove scarpe eleganti che avevo acquistato per l’occasione. Il fatto che per una volta avessi dato ascolto ad Alice e avessi scelto delle scarpe con un tacco vertiginoso la diceva lunga su quanto avessi fantasticato su come avrei voluto si svolgesse la serata. Del resto, cos’altro si potrebbe fare, quando ad invitarti al ballo di fine anno è il ragazzo più carino e ambito della scuola?

Solo nei miei sogni quel ragazzo talmente bello da sembrare un modello era venuto a bussare alla mia porta, e dopo avermi porto un mazzo di rose rosse mi invitava al ballo. Beh, a dire il vero le cose si erano svolte in maniera leggermente diversa, con lui che si appoggiava malamente accanto al mio armadietto e mi chiedeva senza tante cerimonie di accompagnarlo al ballo della scuola. Chiedendomi di incontrarci sul retro della palestra.

No, decisamente è stato un invito tutt’altro che romantico.

E ancor meno romantico è stato il nostro incontro. Avrei dovuto sospettare che era una trappola, dato che mi sono ritrovata per l’intera settimana successiva al suo invito a scambiare con lui sì e no tre parole in croce.

Le lacrime sfuggono ribelli dai miei occhi offuscati dal dolore e dall’umiliazione, scivolando sulle guance e sulle tempie, mentre i capelli mi finiscono sul viso, pizzicandolo e bagnandosi.

Non ho nemmeno voglia di chiamare Charlie per farmi venire a prendere, non voglio che mi veda in queste condizioni. Mio padre è sempre stato molto apprensivo, e se gli raccontassi questa brutta serata probabilmente troverebbe qualche futile motivo per arrestare tutti i ragazzi che ho visto.

No. Voglio solo correre a casa, buttarmi nel letto e dormire, dimenticando questa orribile esperienza. Anche se so che non sarà tanto facile.

La mia unica consolazione è sapere che non appena avrò ricevuto il diploma potrò cercare un’università il più lontana possibile da qui, e dimenticare tutti quanti. Per farlo sono persino disposta a trasferirmi a Dallas con mamma e Henry, il suo compagno.

Corro, e non mi ferma nemmeno il buio che ha già avvolto le strade di Forks. Corro, e non mi rendo conto che davanti a me, sul marciapiede, si trova anche un’altra persona, di schiena.

L’impatto è immediato e violento, così come la mia caduta, che termina proprio contro l’asfalto duro e scuro. Il dolore alla testa è terribile, e mi costringe a chiudere gli occhi.

Provo a riaprire gli occhi che ho chiuso appena ho sentito il contraccolpo, ma riesco solo a vedere la sagoma sfocata di qualcuno chino su di me. Poi, tutto diventa buio.

 

A svegliarmi è il dolore lancinante alla testa. Porto una mano a immergersi nei capelli, pentendomi subito dopo della decisione: sotto le dita sento il rigonfiamento dovuto a un livido, e il pulsare doloroso.

Apro gli occhi lentamente, guardandomi attorno. Mi trovo in una stanza bianca, con pareti spoglie e con pochi oggetti, tra i quali una sedia, un tavolino di plastica, un armadio e un comodino.

Impiego pochi secondi per capire dove mi trovo.

Complimenti, Bella. Sei finita in ospedale.

________________________________

Grazie per aver letto questo piccolo inizio. Il prologo non è niente di che, nel primo capitolo si inizierà a capire meglio cosa è successo.

Se avete letto il libro della Kinsella, sappiate che mi allontanerò parecchio dalla trama già dai prossimi capitoli. :)

E' una storia leggera, senza pretese, e che spero di aggiornare con regolarità. Presto posterò il primo capitolo.

Grazie per essere passati di qui. Alla prossima :*

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 1. Ho perso la memoria? ***


Eccomi di nuovo qui! :D
Grazie mille per la risposta al prologo, sono felicissima che la storia vi incuriosisca *.*
Questo capitolo dovrebbe chiarire i dubbi sulla serata di cui si accenna nel prologo, nel caso non fosse tutto chiaro non esitate a dirmelo :D Spero che il capitolo vi piaccia.

Buona lettura!
________________________________

1. Ho perso la memoria?

Ovviamente, quando ho accettato l’invito al ballo di fine anno, non mi sarei mai aspettata di ritrovarmi il giorno dopo stesa in un letto d’ospedale. Insomma, nessuna persona sana di mente lo penserebbe. Soprattutto una ragazza che è stata invitata a uscire dal più carino dalla scuola.

Perché ho accettato l’invito, perché? Come ho potuto non intuire nemmeno per un secondo che dietro tutti quei sorrisi e complimenti si nascondeva una presa in giro bella e buona?

Bella, perché sei crollata davanti a quel paio d’occhi azzurri?

Forse perché non li avevo mai visti da così vicino… e bisogna dire che, nonostante la sua fama di ragazzo irraggiungibile, non è considerato come tanti altri uno sciupafemmine. Insomma… la sua fidanzata storica è sempre stata Jessica Stanley, non si è mai fatto vedere con altre ragazze al di fuori di lei; ma loro si sono lasciati due settimane fa - o almeno così dicevano i pettegolezzi che giravano a scuola; e, in effetti, non si sono più visti insieme per i corridoi. Ed io sono cascata ai suoi piedi come un’idiota.

Il suo invito non è stato galante, ma a me è bastato per accettare: “Incontriamoci sul retro della palestra. Voglio parlarti.”

Mi aspettavo chissà cosa. Magari di trovarlo con un mazzo di rose e una dichiarazione. E, invece, quando sono arrivata là dietro mi sono ritrovata da sola, mentre dall’interno proveniva il rumore assordante della musica. È stata Lauren Mallory a trovarmi lì, e dopo avermi detto che il ragazzo con cui mi dovevo incontrare era già dentro, mi ha trascinata al centro della festa, vicino al bancone con il dj. Ha preso il microfono, e facendo abbassare la musica ha concentrato l’attenzione del pubblico su di noi. Nel momento esatto in cui il faro di luce mi ha illuminato ho desiderato con tutta me stessa che il pavimento si aprisse e mi inghiottisse tutto d’un colpo.

Mi ci sono voluti alcuni secondi per capire cosa stava succedendo; dopo aver urlato al microfono il nome del mio presunto accompagnatore, facendo risuonare la sua voce stridula in tutta la palestra, Lauren ha parlato: “Isabella dice che l’hai invitata al ballo.”

A scuola non sono molto conosciuta - anche se in una cittadina minuscola come Forks tutti conoscono tutti -, ma mi considerano alla stregua di una suora, con pochissimi amici, sempre silenziosa, riservata all’estremo e, cosa ancora peggiore, figlia dello sceriffo della città. Di certo non sono mai stata una buona compagnia. Per questo motivo non mi sono sorpresa nel sentire il pubblico scoppiare in una risata - non che questo mi abbia fatta sentire meno umiliata, purtroppo. Ma di certo speravo che almeno lui, il mio accompagnatore, mi salvasse, non mi lasciasse preda delle burle di tutti.

Ma mi è bastato individuarlo in mezzo alla folla stretto alla sua ex fidanzata Jessica per perdere tutte le speranze.

“Quella suora?”, è stata la risposta del grande cavaliere, ad alta voce affinché lo sentisse il maggior numero di persone. “E chi la vorrebbe mai invitare al ballo?".

Se ci ripenso provo ancora una fitta allo stomaco per la delusione, la vergogna e l’imbarazzo. Le risate scatenate dalla sua risposta priva di tatto mi risuonano ancora le orecchie, e cerco di metterle a tacere, prima che suscitino altre lacrime.

Una lampadina si accende nella mia testa: l’ultimo ricordo che ho è di quando sono caduta a terra dopo essere andata a sbattere mentre correvo verso casa, in seguito alla mia fuga da quella festa. Stavo piangendo talmente tanto che non ho nemmeno visto che davanti a me c’era qualcuno. Ricordo di aver battuto la testa e… stop. Nient’altro. Probabilmente sono svenuta e la persona contro cui sono finita si è allarmata e ha chiamato l’ambulanza. Deve essere così.

E tutto per colpa di quel maledetto che mi ha invitato al ballo e del mio pessimo equilibrio.

Mike Newton, sei un fottutissimo stronzo.

 

Quando la porta della stanza si apre, strappandomi alle mie elucubrazioni, trattengo il respiro. Ho sempre odiato gli ospedali, e con essi tutti i medici che lavorano al loro interno. Tutti, nessuno escluso. Per non parlare poi delle infermiere. Le infermiere. Coloro che ti riempiono i bicchierini di pastiglie d’ogni genere e colore, e ti infilzano con siringhe per svariati motivi. Per me sono alla stregua dei serial killer, e non sto scherzando.

Per questo, non appena scopro che la persona che ha appena aperto la porta altri non è che mia madre Renèe, rilascio un lungo sospiro, tornando a rilassarmi.

Il suo sguardo saetta al letto sul quale sono sdraiata, e la prima cosa che noto è che mi sembra invecchiata tantissimo. Anche i capelli castani sono striati di grigio, e quando sorride ai lati degli occhi si formano svariate piccole rughe.

Distolgo lo sguardo, per evitare che mi noti intenta ad osservarla troppo curiosamente.

«Bella, tesoro, sei sveglia finalmente!». La sua voce è ancora squillante e vivace, però.

Mi viene accanto, lasciando la borsa sul tavolino di plastica. Da vicina l’effetto è ancora peggiore, e strano.

Cosa le è successo? Non la vedo da quasi un anno, è vero, ma non mi sarei mai aspettata un cambiamento tanto repentino. Di solito una cosa del genere accade gradualmente nel giro di anni, oppure… Oh Cielo. E se è malata?

Mi ha forse tenuta nascosta qualche malattia? Sta male? Per questo sembra invecchiata così precocemente?

Cerco di frenare le mie domande. «Ciao, mamma…». Ho la gola incredibilmente secca, e deglutire è faticoso. Mamma, notando la mia difficoltà, mi riempie un bicchiere d’acqua prendendo una bottiglietta dal comodino al mio fianco. Bevo tutto d’un fiato, dando sollievo alla mia gola secca.

«Quando sei arrivata? E da quanto sono qui?», chiedo, cercando nella stanza un orologio, ma non trovo nulla che possa informarmi sull’orario.

Renèe sorride. «Oh, sono arrivata questa mattina con il volo di stanotte. Tuo padre è dovuto correre in centrale per un’emergenza, ma tornerà presto. Comunque, sei qui da ieri sera. Hai preso proprio una bella botta…», mormora, stizzita. È quasi offesa.

«Mi dispiace, non sono riuscita a rimanere in equilibrio…». Ecco, adesso mi fa sentire in colpa. Non volevo che dovesse affrontare un viaggio del genere nel bel mezzo della notte solo perché sono caduta a terra e svenuta. Spero che almeno Henry, il suo compagno, sia rimasto a Dallas.

«Bella, sei un disastro! Quante volte ti ho detto di fare attenzione?», esclama, con un sospiro esagerato alla fine. «Per la cerimonia dovremo fare miracoli per nascondere tutti quei lividi e tagli!».

Ecco, chissà che figuraccia farò alla cerimonia del diploma… con tutti questi tagli? Inarco un sopracciglio, chiedendomi a quali tagli si riferisce, e subito il dolore sopraggiunge appena sopra l’occhio. «Ahi!».

Alzo la mano per toccarmi in quel punto, ma la mamma mi ferma. «Non toccare, Bella. Hai un brutto taglio». Sospira, scuotendo il capo.

Improvvisamente mi sento in dovere di scusarmi con lei: «Mi dispiace, mamma, ma lo sai che sono sempre stata così…».

Lei distende il viso in un sorriso. «Ma certo, cara, non devi sentirti in colpa…», mormora, accarezzandomi i capelli, mentre con le dita cerca di pettinarli alla bell’e meglio. Con sorpresa noto che sono decisamente lunghi, e che arrivano fin sotto il seno; eppure ieri mi sembravano molto più corti… «Adesso cerchiamo di darti una sistemata, prima che arrivi tuo marito…».

Scoppio a ridere. «Mio marito?», ripeto, chiedendomi che razza di battuta è. Renèe è sempre stata avvezza ad ogni genere di scherzo, ma questo è nuovo. «Questa non l’avevo ancora sentita, ma non mi sembra così divertente, mamma. Puoi fare di meglio».

Renèe mi lancia un’occhiata stralunata, smettendo di pettinarmi. «So che non è effettivamente ancora tuo marito, ma ormai è solo questione di giorni, tesoro».

Aggrotto le sopracciglia in un gesto automatico, pentendomene subito dopo a causa del dolore dovuto ai tagli. «Di cosa stai parlando?», domando, scettica. «Non capisco».

Mia madre mi guarda preoccupata. «Ma del matrimonio, cara. Non ricordi? La cerimonia è la prossima settimana…».

Uno strano senso di disagio si impossessa di me, e stringo i lembi del lenzuolo. «Matrimonio? Chi si sposa? La settimana prossima c’è la cerimonia per il diploma… non credo di-».

«Diploma? Qualcuno ti ha invitato a una cerimonia per il diploma?», mi interrompe mamma, prima ancora che riesca a terminare la frase.

Ma cosa sta dicendo? Eppure ne abbiamo parlato proprio ieri della cerimonia! Ha già anche prenotato il volo sia per lei che per Henry. «Io, mamma. Io mi diplomo. Ne abbiamo parlato ieri per telefono, come fai a non ricordartene? Sono anni che aspetti questo momento!», ribatto, accigliata.

Renèe impallidisce, portandosi le mani alla bocca.

Non è possibile, se ne è dimenticata!

Forse il mio piccolo incidente l’ha sconvolta. È possibile. Magari è in stato di shock.

«Tesoro…», mormora, avvicinandosi a me e prendendomi le mani, che lasciano il copriletto. Mi guarda negli occhi attentamente, ma cauta. «Tu sei già diplomata», dice piano, scandendo per bene ogni singola parola. «Da cinque anni, per l’esattezza».

Rido nervosamente. «Mamma, non è divertente. Prima la storia del marito, ora quella del diploma. Sei in vena di scherzare con una figlia sdraiata in un letto d’ospedale?».

Il volto di Renèe si trasforma in una maschera d’orrore. Diventa ancora più pallida, e porta una mano alla bocca, allontanandosi di un passo dal letto e lasciandomi le mani. «Tesoro… che giorno è oggi?».

Magari si è solo dimenticata che giorno è, ecco perché è confusa.

«È il 10 Giugno, mamma», rispondo, alzando gli occhi al cielo. Come potrei dimenticare che solo il giorno prima c’è stato il ballo che ho aspettato per una lunghissima settimana?

Deglutisce, visibilmente turbata. «Di che anno?».

«Mi stai prendendo in giro?», ribatto, irritata.

Scuote il capo. «Per favore, rispondi, tesoro».

Il suo tono mi lascia intendere che non sta affatto scherzando. Sbuffo. «Del 2006. Almeno l’anno dovresti ricordarlo».

Il volto diventa ancora più pallido. Indietreggia, appoggiandosi allo schienale della sedia.

Adesso inizio sul serio a preoccuparmi. «Mamma, sei sicura di stare bene?». Suona quasi ironico, chiesto da una persona in un letto d’ospedale. Magari la mia ipotesi di prima non è del tutto errata… forse sta davvero male. «Non è una tragedia se non ti ricordi che anno è…», mormoro, rendendomi conto che è davvero pallida. Troppo, per una donna che abita a Dallas e passa almeno un giorno di ogni settimana in un solarium del centro.

Apre la bocca per dire qualcosa, poi la richiude. Fa così per tre volte, prima di parlare: «Tesoro…», inizia, come se non sapesse come continuare. «Oggi è il 14 giugno…», mormora, soppesando le parole, «… del 2011».

Fingo una risata, lanciandole un’occhiata di sbieco. «Molto divertente, mamma».

La osservo per un lungo istante, in silenzio. I suoi occhi mi fissano sgranati, con le labbra sigillate dalle mani. Solo in questo momento noto un particolare che prima non avevo notato. Un anello dorato, all’anulare sinistro.

Mi schiarisco la voce, a disagio. «Mamma… cos’è quell’anello?», chiedo, scoprendo di avere perso la voce. So di averla persa perché ricordo perfettamente che mia madre a quel dito esige solo e soltanto l’anello del matrimonio, la fede.

Lei abbassa gli occhi, ancora sbarrati. «È la mia fede nuziale, Bella. Forse… forse non lo ricordi, ma mi sono sposata».

Impiego alcuni secondi a elaborare la sua risposta. Fede nuziale. Non ricordare. Sposata.

All’improvviso sono colta da un’intuizione, e gli strani particolari che ho notato da quando sono sveglia si fanno spazio nella mia mente: la mamma invecchiata, i miei capelli più lunghi e, ora, anche la sua fede.

Deglutisco, cercando di trovare di nuovo la voce, che sembra essere sparita. «Mamma…», mormoro, «quanti anni ho?», chiedo in un sussurro, non certa di voler avere una risposta.

Mia madre stringe più forte lo schienale, come a cercare di infondersi coraggio. O di non cadere. «Ventitré cara… quasi ventiquattro…».

All’inizio non sento niente. Poi la testa inizia a girare, e il senso di nausea mi porta ad appoggiarmi al cuscino, tenendo gli occhi fissi sul soffitto bianco.

Ventitré anni. Ventitré.

Non è possibile. Non può essere possibile. Io ho diciotto anni - quasi diciannove -, ho appena finito gli esami e devo presenziare alla cerimonia per il diploma. Devo decidere a che college andare fra quelli che mi hanno accettata, decidere quale sarà il mio futuro.

Non posso essere già adulta. Forse è solo tutto uno scherzo. Sì, è senz’altro così.

Dovrei sentirmi più grande, più matura, più responsabile… meno pasticciona. E dovrei ricordare. Perché se fossimo davvero già nel 2011 dovrei provare una specie di buco nero nella testa, no? Dovrei sentire che manca qualcosa.

Stringo i pugni. «Mamma, basta con gli scherzi. Non sono in vena, davvero».

Renèe sgrana gli occhi ancora di più, e biascicando un ‘torno subito’ corre fuori dalla stanza.

A volte mi chiedo da dove ha preso tutto questo macabro senso dell’umorismo. Prendere in giro la propria figlia che ha preso una brutta botta in testa non è per niente divertente, possibile che non se ne renda conto?

Approfittando della sua assenza guardo il comodino al mio fianco, sperando di trovarci il mio cellulare. Apro il primo cassetto, e al suo interno trovo solo una scatola di fazzoletti di carta. Probabilmente avranno lasciato tutto nella mia borsa, che sarà ritirata in quel grosso armadio metallico in fondo alla stanza. Appena Renèe torna le chiedo di passarmela.

Ma quando mia madre rientra nella stanza non è sola: con lei c’è un medico, anche se dall’aspetto pare di più una delle tante celebrità di Hollywood.

Biondissimo, con capelli corti tirati indietro, la pelle chiarissima e liscia. È molto bello.

Stranamente, a differenza del panico che mi aspettavo di provare alla vista del camice bianco, mi sento a mio agio, tranquilla. Come se davanti a me avessi mio padre. È molto, molto strano.

«Buongiorno Bella», mi saluta, esibendo un sorriso bellissimo. «Sono felice che ti sei risvegliata così presto, è un buon segno. Come ti senti?».

Questo dottore sembra conoscermi… eppure, nonostante io frequenti l’ospedale almeno tre volte l’anno a causa della mia sbadataggine, non mi sembra di averlo mai visto.

«Bene… scossa, ma sto bene», rispondo. Poi, però, il dolore che provo provando a distendere i muscoli facciali mi convince ad aggiungere: «Mi fa male il viso, e la testa pulsa».

Annuisce, scribacchiando qualcosa su una cartellina. Poi si avvicina a me, e con dita leggere e delicate mi prende il volto, voltandolo da una parte e dall’altra, con gentilezza, mentre controlla i tagli. Mia madre intanto rimane in un angolo della stanza, stringendo convulsamente le mani l’una con l’altra.

Il dottore prende una piccola luce, e me la punta negli occhi. Poi si allontana, rimanendo, però, vicino.

«Allora, Bella. Hai riportato delle ferite superficiali dalla caduta, e in breve si rimargineranno tutte senza lasciare traccia. In testa hai un bell’ematoma, e ti consiglio di evitare di sottoporlo a pressione quando ti lavi i capelli». Scrive ancora sulla cartellina, poi lancia un’occhiata a mia madre. «Puoi raccontarmi come è accaduto l’incidente?».

Annuisco. «Stavo tornando a casa ieri sera. Ero andata al ballo della scuola…», mormoro, arrossendo, chiedendomi se è necessario raccontare per quale motivo ero talmente trafelata e annebbiata da non rendermi conto di star per andare addosso a qualcuno. Decido che non è necessario. «Mentre correvo non ho visto che c’era qualcun altro sul marciapiede, e gli sono andata contro. Sono caduta sulla strada, e credo di aver sbattuto la testa per terra e di essere svenuta…».

Mia madre si porta le mani alla bocca, come a voler reprimere un gemito o un urlo, mentre il dottore mi scruta intensamente. Ecco, ho fatto la figura della deficiente. Chissà cosa starà pensando, adesso. Probabilmente che sono un pericolo pubblico, o che avevo bevuto - o peggio, fumato - qualcosa di strano o addirittura illegale.

Approfitto del suo silenzio per porgli la domanda che mi frulla in testa da quando è entrato: «Mi scusi, può dirmi il suo nome?», chiedo, timidamente.

I suoi occhi si spalancano, rivelando due iridi di un azzurro chiarissimo, che risplende sotto le luci dei neon. Sembra stupito, ma si ricompone quasi immediatamente. «Certamente. Scusami, mi sono scordato di presentarmi: sono il dottor Cullen, piacere».

Ricambio il sorriso che mi rivolge, arrossendo. Perché sono arrossita? Perché il cuore per qualche secondo ha iniziato a battere più forte del normale?

Il dottor Cullen si avvicina ancora, e mi guarda attentamente.

«Bella, chi è il presidente degli Stati Uniti?», mi chiede improvvisamente, senza staccare gli occhi dai miei.

È la giornata delle domande stupide? Perché mi pongono delle domande a cui anche un bambino di tre anni saprebbe rispondere? È vero, ho battuto la testa, ma non sono diventata ignorante!

Ma non posso rispondere male a un dottore, vero? «Bush, ovviamente». Vorrei inarcare un sopracciglio ma farebbe troppo male a causa del taglio.

Mia madre emette un gemito strozzato - l’ennesimo. Il dottore sembra prendere un profondo respiro, ma la sua espressione rimane impassibile.

«Bella. Il nostro presidente si chiama Barack Obama. Sono ormai due anni che è in carica. Te lo ricordi?».

Aggrotto la fronte, nonostante pulsi e faccia male. «Perché oggi mi prendete tutti in giro? Vi siete messi d’accordo?», chiedo, infastidita. Non volevo essere brusca, ma mi sto stancando di tutti questi scherzi.

Il dottore non si scompone, ma esce dalla stanza, facendo segno a mia madre con un dito di attendere. Rientra dopo meno di un minuto con un giornale in mano.

Me lo porge, e scopro che è un numero del Times, con un afroamericano riportato in copertina. Nella didascalia scopro che è proprio l’uomo di cui mi ha appena parlato il dottore. Vado subito alla pagina del servizio di copertina, e leggendo le prime righe scopro con orrore che è proprio il presidente degli Stati Uniti. Cos’è successo? Dov’è finito Bush?!

Apro la bocca, senza riuscire a dire niente. Il dottor Cullen allunga la mano per richiudere il giornale, e mi indica la data scritta in piccolo vicino al bordo. 13 Giugno, 2011.

Guardo il dottore, guardo mia madre, guardo la data sul giornale e il volto scuro di quell’uomo che è il nuovo presidente degli Stati Uniti.

Ho davvero perso la memoria?

 ____________________

Grazie per essere arrivati fino a qui :D Nel prossimo capitolo sarà tutto più chiaro, promesso.

Se volete ho un piccolo blog in cui posto spoiler/teaser e avvisi, lo trovate qui: Tra Sogno E Realtà

Grazie per ogni singolo commento, grazie a chi ha aggiunto la storia fra le preferite/seguite/ricordate, grazie anche a chi legge in silenzio.

A presto :*

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 2. Il mio futuro marito ***


'Sera! :D Spero di non avervi fatto attendere troppo per questo capitolo :)

Siete tutte curiose di conoscere il nome del futuro marito di Bella, perciò non vi rubo altro tempo.

Buona lettura!

________________________________

 

2. Il mio futuro marito

«Bella…?». È mia madre a chiamarmi. È appena rientrata in camera dopo aver fatto alcune telefonate.

Non mi muovo, e lascio il braccio sul mio viso a coprirmi gli occhi, dove è rimasto per tutto il tempo da quando il dottor Cullen ha lasciato la stanza. L’ho spostato solo per parlare per qualche minuto con un altro dottore, ma per il resto della conversazione - quasi unilaterale - avuta non ho fatto altro che nascondermi dietro il gomito.

«Non fare così…», mormora Renèe, e dal suo tono sento che è a disagio. «Hai sentito cos’ha detto il neurologo, no? Si tratta di un’amnesia retrattile…».

«Retroattiva», la correggo.

«Sì, quella cosa lì. In ogni caso, non è detto che sia permanente. Secondo il dottor Cullen dobbiamo solo aspettare che l’ematoma in testa sparisca, e poi vedere se succede qualcosa». Fa una breve pausa, e sento le ante dell’armadio sbattere. «Può anche darsi che domattina ti svegli e ricordi tutto quanto!».

Vorrei piangere. Finora sono riuscita a resistere a stento, a fatica, e solo perché non voglio farlo davanti ad altre persone.

Se tutto questo è vero - perché non sono ancora riuscita a convincermi del fatto che siamo già nel 2011 - io ho perso cinque anni della mia vita. Non cinque minuti, cinque giorni, cinque settimane, cinque mesi. Cinque anni. Ho perso 60 mesi della mia vita, 1825 giorni - anzi, 1826 se consideriamo che il 2008 è stato un anno bisestile.

Come è potuto succedere?

Secondo mia madre sono arrivata in ospedale ieri pomeriggio, dopo che sono caduta dalle scale di casa mia. Sì, perché a quanto pare ora vivo da sola, in una casetta a qualche isolato da quella di Charlie, mio padre.

Ripenso a tutto il mucchio di informazioni spaiate che mi sono arrivate da quando ho riaperto gli occhi in ospedale, e una in particolare colpisce la mia mente.

«Mamma», la chiamo, togliendo finalmente il braccio dagli occhi e guardandola mentre posa sul comodino una grossa borsa nera. È mia?

«Dimmi, tesoro».

«Prima hai parlato di un matrimonio…», mormoro, stringendo il copriletto fra le dita. «Di chi è?».

Spalanca la bocca, colta alla sprovvista. I suoi occhi vagano per la stanza ovunque, tranne che su di me. «Hmmm… questa è la tua borsa, Bella. Magari vuoi darci un’occhiata… chissà, può darsi che frugandoci dentro trovi qualcosa che ti fa scattare i ricordi in testa».

Non è mai un buon segno quando la mamma cambia argomento. Mai.

«Non cercare di deviare il discorso», la rimprovero, stizzita. «Se vuoi che recuperi la memoria, raccontami qualcosa sulla mia vita, visto che a quanto pare ho cinque anni da recuperare».

Renèe mi guarda con occhi imploranti, a cui rispondo con un’occhiata seria.

Aspetta per alcuni secondi, poi sospira. Prende la sedia di plastica, e la avvicina al letto. Poi si siede, incrociando le mani in grembo.

«Va bene… da dove vuoi iniziare? Ti informo già che non so granché. So solo a grandi linee quello che mi racconti per telefono ogni mese circa».

«Ci sentiamo così poco?», chiedo, con una nota di pentimento nella voce.

Renèe annuisce, facendo un gesto vago con la mano ornata dalla fede nuziale. «Oh, siamo entrambe molto impegnate tra il lavoro e la famiglia, non è solo colpa tua».

Parto subito con la prima domanda, quella che mi incuriosisce di più al momento, e in parte collegata a quella a cui non ha ancora risposto: «Allora, tu ed Henry quand’è che vi siete sposati? Vivete ancora a Dallas?».

Renèe ride nervosamente. «Henry?», ripete. «Lui l’ho lasciato da quasi cinque anni».

Strabuzzo gli occhi. «Cosa? E allora con chi ti sei sposata? Per caso tu e papà…».

Lo sguardo di Renèe si fa improvvisamente mesto, e compassionevole. «No, tesoro, io e tuo padre non siamo tornati insieme…».

Abbasso lo sguardo, arrossendo. Perché non sono stata zitta? Entrambi i miei genitori sanno quanto ho sofferto per la loro separazione, avvenuta quando avevo appena tre anni, e sanno anche quanto abbia sempre desiderato rivederli insieme, per tornare ad essere una vera famiglia. Col passare degli anni ho cercato di nascondere a loro questo mio sogno, ma con il mio ultimo desiderio inespresso ho mandato a monte la mia copertura.

«Allora con chi…?».

«Si chiama Phil. È un giocatore di baseball, e l’ho conosciuto subito dopo essermi lasciata con Henry. È stato amore a prima vista», racconta, con un sorriso estatico e arrossendo un po’. Assurdo. «Dopo quasi cinque mesi che ci frequentavamo è stato trasferito nella squadra di Jacksonville. Per lui era un’occasione unica a cui non poteva rinunciare… così mi ha chiesto di sposarlo, e di seguirlo in Florida. Ed io ho accettato».

Ripeto: assurdo. Solo mia madre poteva fare una cosa del genere. Ma guardando i suoi occhi azzurri brillare mentre parla di suo marito non riesco a fare altro che sorridere timidamente. Forse non è stata poi così sciocca. Vorrei davvero conoscere questo Phil.

«Sono… sono felice per te», mormoro.

Renèe sorride, abbagliandomi. «Grazie, tesoro».

Mi schiarisco la voce. «E… per quanto riguarda il matrimonio di cui parlavi prima? Non mi hai ancora risposto».

Il suo sorriso si spegne così com’è comparso. Torna ad essere nervosa, e il suo sguardo sfuggente. «Ecco… Bella, forse è il caso di aspettare, per una notizia simile… il neurologo ha detto che non bisogna sottoporti a stress…».

«Mamma, lo stress me lo procurerai se continuerai a non rispondere a questa maledetta domanda», sibilo a denti stretti, stanca di dover aspettare.

Sospira. «Ecco… il fatto è che in questi anni sei cresciuta molto, Bella…»

Alzo gli occhi al cielo. «Arriva al punto».

«Ti sei fidanzata, Bella. Hai accettato una proposta di matrimonio». Mentre lei continua a parlare, la mia mente è come in una sorta di black-out. Come diavolo è possibile? Com’è successo?!

«Come… come si chiama il mio… fidanzato?».

Non è possibile che sia Mike Newton, vero? Se è così devo essere proprio malata di mente.

«È Jacob il tuo fidanzato, Bella».

Strabuzzo gli occhi. «Jacob? Jacob Black?!».

«Sttt!», mi zittisce, lanciandomi un’occhiataccia. «Non urlare come se fossi scandalizzata! È pur sempre il tuo futuro marito!», mi rimprovera.

«Ma… ma io sono scandalizzata! Jacob è come un fratello per me! Com’è possibile che ci siamo fidanzati?! È… è… orribile…», concludo in un sussurro, sentendo il mondo cascarmi addosso. Com’è successo? Cosa mi è successo perché cambiassi così tanto?

Jacob mi aveva fatto una corte quasi spudorata per due anni, ma avevo sempre risposto negativamente, perché era come un fratello.

«D-Da quanto siamo fidanzati?».

Mamma scrolla le spalle. «Non saprei… un anno o due…».

Mi porto le mani sul viso, sconvolta. Non può essere vero. Che la mia vita sentimentale sia stata talmente inesistente da convincermi a cedere alle lusinghe di Jacob? Potrei arrivare a un simile livello di frustrazione e disperazione? Meglio non chiederselo.

Tolgo subito le mani dal viso, guardando mia madre con gli occhi sgranati. «Dobbiamo subito annullare il matrimonio!», esclamo.

Renèe balza sulla sedia, shoccata. «Cosa?!».

«Non posso certo sposare Jacob se non mi ricordo niente degli ultimi anni in cui siamo stati fidanzati!». Possibile che non lo capisca?

Renèe scuote la testa, esibendo un sorriso tirato. «Tesoro, non preoccuparti per il matrimonio. Hai sentito il dottore, no? Può darsi che ti torni la memoria prima di sabato prossimo, e sono sicura che allora ti pentirai di aver fatto saltare tutto».

La fisso contrariata. «Può anche darsi che non mi torni in mente assolutamente niente», sibilo. «Dov’è lui adesso?», chiedo, provando a sbirciare oltre le tendine lasciate mezze aperte.

«È a lavoro. Arriverà verso sera».

«Ah, a proposito, che ore sono? E che lavoro fa Jacob?», domando, incuriosita.

Mamma guarda il suo orologio da polso. «Sono le tre del pomeriggio. Devo chiamare Phil!», esclama, come se si fosse appena ricordata di qualcosa di fondamentale importanza. Si alza dalla sedia, e mi guarda con un sorriso di circostanza. «Tesoro, ti dispiace se faccio un salto a casa tua per farmi una doccia? Il viaggio di stanotte mi ha distrutta».

«Oh! Sì, certo, vai pure. Le chiavi sono nella mia borsa», arrossisco, guardandomi le mani. «… o almeno credo».

Renèe sorride, e infila le mani nella borsa che prima ha appoggiato sul comodino. Dopo aver frugato al suo interno, estrae un grosso mazzo di chiavi.

Mi viene accanto, mi stampa un bacio sulla tempia, e dopo avermi salutata esce dalla stanza, lasciandomi sola.

Quando torno ad essere sola nella stanza, i pensieri fluiscono velocemente nella mia mente, e non riesco a fermarli.

Ho 23 anni, i capelli più lunghi, il mio matrimonio fra una settimana, una madre che si è risposata, un fidanzato con un anno in meno di me che lavora e che conosco da una vita.

Chi sono? Perché c’era solo mia madre fuori da questa stanza? Insomma… papà e Jacob lavorano, posso capirlo. Ma tutti i miei amici? Avrò degli amici, no? Perché nessuno è ancora venuto a trovarmi? O forse sono venuti durante l’orario di pranzo quando ero ancora incosciente? Magari lavorano tutti… A proposito: non ho chiesto a mia madre se sto lavorando o se sto ancora studiando… e non mi ha detto che lavoro fa Jake.

Ugh… io e Jacob fidanzati… non mi sembra possibile.

Non che Jacob non mi piaccia: caratterialmente lo adoro, ha sempre la battuta giusta al momento giusto, e mi fa ridere come poche persone riescono a fare; quasi ogni settimana ci incontriamo - anzi, ci incontravamo - per andare al cinema insieme, o per andare in giro da qualche parte. Spesso i pomeriggi li passavamo a studiare insieme: io aiutavo lui con le materie umanistiche, lui mi aiutava con quelle scientifiche - per cui sono sempre stata negata. Ma fisicamente… insomma, non riuscivo a vederlo come un uomo. L’ultima volta che l’ho visto - una settimana prima del ballo della scuola, secondo la mia memoria ferma a cinque anni fa - aveva ancora i capelli neri lunghissimi, che gli arrivavano fino a sotto le spalle; aveva - e credo le abbia ancora - le labbra molto grandi, ed io, che segretamente ero fissata con la questione delle labbra, proprio non avrei mai potuto pensare di baciarle. O almeno così credo. Forse dopo la prima volta che ho baciato Jacob mi sono abituata a quel contatto… sì, ma come è successo che ci siamo baciati? Come?!

Sicuramente è successo tutto per colpa sua. Probabilmente mi ha colta alla sprovvista e per convincermi ancora una volta che potevamo essere una bella coppia mi ha baciata senza chiedermi il permesso. Sì, sarà andata così.

Magari… non è così orribile come mi sembra adesso. Magari è piacevole… magari mi piace anche.

Maledizione, possibile che non mi venga in mente assolutamente nulla?!

Non chiedo molto, mi basterebbe anche solo una sorta di languore o di batticuore al pensiero di baciare Jacob, almeno da avere la sensazione di provare qualcosa per lui!

Perché se lo sposo, significa che io lo amo, vero? Oddio, amore. Non ho mai saputo cosa significasse questa parola, apprendendo tutto solo dai libri che leggevo, come posso essere certa di amare Jacob?

Mi guardo intorno, e il mio sguardo cade sulla borsa di stoffa nera. La mia borsa.

Forse al suo interno troverò qualche risposta alle mie domande. Anche se in questo momento quello di cui avrei davvero bisogno è una biografia completa su Isabella Marie Swan.

La prendo fra le mani, e devo ammettere che è davvero bella. Scommetto che anche Alice approverebbe la scelta; sempre se non è stata proprio lei a sceglierla, penso sorridendo.

La appoggio sulle mie gambe coperte dal lenzuolo, e inizio a frugarci dentro. La prima cosa che tocco è un’agenda. La apro, sfogliandola. La prima cosa che mi colpisce è la mia scrittura, o almeno credo sia la mia: è ordinata, pulita, tondeggiante. Niente a che vedere con quella caotica che avevo a diciannove anni.

Sbircio fra le pagine, timidamente. Mi sembra di spiare la mia stessa vita, è assurdo. Trovo alcuni appunti riguardanti nuovi appalti (appalti?), inaugurazioni di musei, mostre che si terranno nei prossimi mesi. Cosa significa? A cosa mi potrebbero mai servire? Andando più avanti trovo numeri di telefono di persone sconosciute, sigle di chissà cosa, biglietti del cinema infilati fra le pagine, tutti in disordine, senza seguire nessun ordine cronologico. Bene, almeno una cosa è rimasta immutata: il mio disordine. So che sembra sciocco, e forse lo è, ma sapere che in fondo almeno una cosa di me non è cambiata mi conforta… mi fa sentire meno estranea a me stessa.

Ripongo l’agenda sul materasso, e guardo ancora nella borsa. Una boccetta di profumo, alcuni scontrini e ricevute, un iPod nuovissimo (in confronto a quello che avevo visto su Internet nel lontano 2006 questo è decisamente più bello, ed è di un bel blu), un paio di chiavi di un’auto (non sono più quelle del mio vecchio Chevy, queste hanno il simbolo della Volvo), un portafoglio.

Lo apro con il cuore in gola, e la prima cosa che noto è il bordo bianco di una piccola fototessera infilata nel primo taschino. La estraggo, ma non appena la vedo la riconosco: è una vecchia foto che io ed Alice avevamo scattato a diciotto anni al centro commerciale di Port Angeles, mentre facevamo shopping. Chissà perché la tengo ancora qui… provo nostalgia per il passato?

Alice: perché non è qui?

Richiudo il portafoglio senza guardare altro, e aprendo una tasca interna della borsa trovo il mio cellulare. È un BlackBerry bianco. Mi sorprende possedere un oggetto simile, dato che con la tecnologia non sono mai andata molto d’accordo. Ha troppi tasti per i miei gusti. O forse no. Magari anche questi sono cambiati…

Scaccio questo pensiero fastidioso, e premendo qualche tasto riesco ad arrivare alla rubrica. Trovo subito il numero di Alice, e lo compongo in pochi secondi.

Avanti, Alice, rispondimi. Ho bisogno di sentire almeno una voce amica. Sicuramente lei può raccontarmi tutto quello che è successo in questi cinque anni, e magari aiutarmi a ricordare qualcosa. Le hanno già detto del mio incidente? Sa già tutto?

Rimango in attesa che risponda, ma alla fine scatta la segreteria. Parlo non appena scatta il bip: «C-Ciao, Alice! Sono Bella… Sono in ospedale… ma non ti preoccupare, sto bene… più o meno». Oddio, cosa sto dicendo? Perché sono così a disagio? Non è normale. Sto parlando con Alice, non con una perfetta sconosciuta. «Ecco, avrei bisogno di parlarti al più presto… è molto importante. Se non riesci a passare di qui puoi richiamarmi? Grazie… ciao!».

Quando chiudo la chiamata prendo un profondo respiro. Che cosa mi è successo? Cos’era tutta quella tensione? Non mi sono mai sentita così a parlare con Alice, tanto meno per telefono.

Ritiro il cellulare nella borsa, e nell’infilarlo nella tasca interna tocco un blocchetto di fogli rettangolari tenuti insieme da un elastico. Li afferro, e noto che sono di cartoncino bianco; su di essi è stampato in lettere nere e in corsivo il mio nome e cognome, e sotto, in piccolo, ‘Giornalista culturale - La Gazzetta di Forks’.

Strabuzzo gli occhi. È questo che sono diventata? Una giornalista culturale? Quando ho deciso? Come? Che scuola ho frequentato? Mi sono già laureata? Da quanto lavoro per il giornale della città?

Tante domande, e nessuna risposta.

Riprendo in mano il cellulare, e scorro la rubrica, trovando in essa nomi di persone che non conosco, e anche un certo ‘Campanellino’.

Inarco il sopracciglio intatto, e mi concentro. Campanellino. È una persona? Magari è uno dei miei contatti per il mio lavoro: probabilmente anche la mia memoria a breve termine è messa male, e forse quando ho conosciuto questa persona e ho segnato il suo numero nemmeno mi ricordavo più il suo vero nome. Rido nervosamente.

Forse è semplicemente è il numero di un ristorante che ha aperto da poco nei dintorni. O di una pizzeria.

Continuo a scorrere la lista, ma non trovo niente che mi faccia provare anche solo un barlume di conoscenza.

Rimetto il cellulare in borsa, e la appoggio a terra. Poi mi lascio andare sul cuscino, fissando il soffitto.

Perché non ricordo niente? Non è giusto.

Bussano alla porta, e prima ancora che possa aprir bocca un’infermiera molto giovane entra nella stanza. Trattengo il respiro. Cosa vuole fare? Un prelievo? Un’iniezione di qualcosa? Ti prego, dimmi che vuole solo vedere se sto bene.

Il sorriso che mi rivolge è cordiale, e si avvicina al letto tenendo fra le mani una bustina bianca sigillata, con il mio cognome e un numero (presumo quello della stanza in cui mi trovo) scritto con un pennarello nero sulla plastica.

«Salve, signorina Swan. Questi sono i suoi gioielli. Hanno dovuto toglierglieli per fare le radiografie», mi dice, posando il sacchetto sul comodino.

Annuisco, perplessa. «La ringrazio».

Strano, io non ho mai portato nessun tipo di gioiello. Ah, probabilmente è solo l’anello di fidanzamento.

Però sono curiosa di vedere cosa mi ha regalato Jacob.

Allungo la mano per afferrare la busta, e subito capisco che non può trattarsi solo di un anello. Magari ci sono anche degli orecchini…

La apro strappando la plastica, e rovescio il suo contenuto sul lenzuolo tirato sulle gambe: su di esso cascano un anello, un braccialetto e un paio di orecchini.

Con dita tremanti afferro l’anello. Un sottile ma bellissimo solitario. È semplice, proprio come piace a me.

Provo ad infilarlo all’anulare sinistro, per vedere che effetto mi fa vedermelo addosso, ma rinuncio quando scopro di tremare troppo. Forse è troppo presto per un passo del genere.

Guardo gli orecchini, due pendenti d’argento, e infine il braccialetto. Il cordino è rosso scuro, e si accosta perfettamente all’oro rosa di un piccolo campanello. Intorno ad esso si trovano alcuni anellini dello stesso materiale e delle pietre d’argento. Lo osservo per un lungo istante, sentendo come un nodo allo stomaco.

Questo… questo mi ricorda qualcosa. Dischiudo le labbra, cercando di dire qualcosa, ma questa mi sfugge. Ci riprovo più volte, sentendomi frustrata. Eppure è così importante.

So per certo che è importante, ma allora perché non riesco a ricordare? Perché ho un braccialetto così? Di sicuro mi sarà costato un occhio della testa. O è un regalo? Da parte di chi? Di Jacob?

Così come la sensazione di voler dire qualcosa è arrivata, sparisce, lasciandomi un profondo senso di vuoto all’altezza del petto. Immediatamente mi sento triste.

Come se avessi perso la mia unica possibilità di ricordare.

Le lacrime iniziano a scendere prima ancora che me ne renda conto. Velocemente, scivolano lungo le mie guance, arrivando a bagnare il camice bianco e blu che indosso, finendo sulle mie dita e sul braccialetto. Bagnando l’anello di fidanzamento.

Raccolgo in un pugno i gioielli, e li appoggio malamente sul comodino, rannicchiandomi poi sul fianco, dando le spalle alla porta e la finestra che dà sul corridoio dell’ospedale.

E, in silenzio, finalmente piango.

 

Il suono di un delicato bussare alla porta mi costringe a raddrizzarmi sul letto.

Mi asciugo i residui delle lacrime, sperando che gli occhi non siano troppo gonfi e rossi. Inutilmente, lo so.

Biascico un ‘avanti’ stentato, e subito dopo la porta si apre.

Ed entra un ragazzo, che mi rivolge un sorriso radioso.

«Ciao, Bella».

 ________________________________

Il campanellino che ha Bella è questo. Immaginatevi quello di medie dimensioni su un braccialetto tipico della Dodo. Tenetelo presente, perché tornerà ;)

Allura… Questo capitolo è abbastanza importante: scopriamo molte cose su Bella, e anche se non è ancora tutto chiaro e quelle erano solo informazioni generali presto verrà tutto fuori. Probabilmente mi starete odiando per come ho fatto finire il capitolo, e ne avete tutto il diritto ù.ù Chi è entrato nella stanza? Mmm…

Per lo meno vi ho dato il nome del futuro marito. Ebbene sì, è Jacob.

Dov’è Edward? Arriverà presto, prestissimo, non temete :)

Come sempre vi ricordo il mio blog per spoiler, teaser e avvisi.

Grazie infinite a chi ha aggiunto la storia fra le seguite/preferite/ricordate, chi ha recensito lo scorso capitolo e coloro che leggono in silenzio :*****

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** 3. Non sono pronta a tutto questo ***


'Giorno! :D

Sono davvero felice che la storia piaccia *_*

Avrei voluto postare ieri sera, ma ero troppo stanca per finire il capitolo.

Spero vi piaccia.

Buona lettura!

________________________________

 

3. Non sono pronta a tutto questo

«Ciao, Bella».

Devo battere le palpebre un paio di volte per riprendermi dallo stupore.

Non può essere davvero lui… Non è possibile che lui sia…

«Jake?».

Il suo sorriso si amplia, e i denti bianchi risaltano sulla sua pelle scura. Non è possibile che sia davvero lui. Cosa gli è successo?!

«Come stai, Bells?». Si avvicina al mio letto, e da vicino sembra imponente quanto un armadio. Mi ricorda tanto… chi mi ricorda? Cosa stavo pensando?

«Bene… cioè, fisicamente sto bene, psicologicamente è come se mi avessero fatto il lavaggio del cervello», rispondo, con un’allegria che non mi appartiene.

Il suo sguardo si fa serio. «Me l’hanno detto. Davvero non ricordi nulla?».

Faccio una smorfia. «Jacob, ti sembro in vena di scherzare?».

Abbassa lo sguardo, cercando di nascondermi la sua delusione. Si volta per andare a prendere la sedia di plastica che mamma ha rimesso a posto prima di uscire, ed io ne approfitto per squadrarlo dalla testa ai piedi.

È cresciuto moltissimo, ora è davvero un uomo. I capelli neri non sono più lunghi, ma corti e brizzolati; le spalle sono larghissime, e la t-shirt bianca che indossa aderisce alla sua schiena possente e al petto muscoloso; le braccia, nude, sono anch’esse massicce e all’apparenza sode. Seguendo la linea della spina dorsale arrivo fino al suo fondoschiena, fasciato da un paio di jeans scuri.

«Amore, credi che ti rimetteranno presto?».

Alzo gli occhi sul suo viso, sussultando. Amore?

«Ehm…», mormoro, sentendo il viso andare a fuoco. «Il dottore ha detto di sì. Probabilmente potranno dimettermi già domani».

Jacob fa un fischio, e porta la sedia accanto al mio letto. «Sapevo che eri una tosta. Non ti fai stendere da una semplice caduta».

«Veramente…», ribatto, contrariata, «da quanto mi hanno raccontato non è stata una semplice caduta. Secondo papà, che mi ha trovata stesa a terra, ho fatto almeno venti scalini ruzzolando. E direi che sono anche stata stesa, dato che ho perso la memoria».

Jacob sorride. «Ma non ti sei rotta nulla, no? Sei ultra-resistente».

Scuoto il capo, lasciando cadere il discorso. «Allora… uhm… Mamma ha detto che eri a lavoro…».

Annuisce. «Sì. Sono uscito prima per venire a trovarti, dato che Renèe mi aveva detto che ti eri svegliata».

Arrossisco. È stato un gesto carino da parte sua.

«E che lavoro fai?».

«Faccio il meccanico. Sam mi ha assunto nella sua officina», risponde con fierezza.

Ricordo che, quando era ancora un ragazzino, Jacob adorava quel posto. Aveva provato tantissime volte a convincere Sam Uley ad assumerlo, ma questi lo riteneva troppo giovane e poco dotato nel lavoro di meccanico. A quanto pare è riuscito a fargli cambiare idea.

«Sono molto contenta per te, Jake», gli dico, veramente felice per lui. «Ricordo che ci tenevi moltissimo a quel posto».

Annuisce ancora, senza che il sorriso sulle sue labbra si spenga. «È stato anche merito tuo se ho ottenuto il posto, sai?».

«Mio?», chiedo, perplessa. «Cosa ho fatto?».

Sorride. «Quando il tuo pick-up ti ha lasciato, mi hai regalato tutti i pezzi che mi servivano per ricostruire la mia Golf. Sam aveva detto che se ci fossi riuscito mi avrebbe assunto, e grazie a te ce l’ho fatta».

Ah. Ecco perché le chiavi dell’auto che ho nella borsa non le riconoscevo. Ecco perché ho cambiato macchina.

«Io, invece, che lavoro faccio?», gli chiedo, imbarazzata. «Sono… una giornalista?».

Jake sorride, e gli occhi gli brillano. «Esatto. Te lo ricordi?».

Scuoto il capo. «No, ho trovato alcuni biglietti da visita nella mia borsa», rispondo, e noto subito che i suoi occhi si spengono. «Ascolta, Jake… non farmi più questa domanda. Appena mi ricorderò qualcosa, qualsiasi cosa, sarai il primo a saperlo, va bene? Non voglio che… ogni volta che dico qualcosa sugli ultimi cinque anni tu speri sia qualcosa che mi ricordo. Mi dispiace vederti poi così deluso…».

Annuisce lentamente, abbassando lo sguardo, frustrato. «D’accordo, amore…».

Ancora con questo ‘amore’. È normale che mi senta così a disagio - e anche un po’ infastidita - sentendomelo dire?

«Dunque…», mormoro, «puoi raccontarmi qualcosa sul mio lavoro? Quando ho iniziato?».

Jacob annuisce. «Hai iniziato quasi un anno fa. Non avevi ancora finito il college, ma Angela ti ha accettata senza dubbi. Hai…».

«Aspetta», lo interrompo. «Angela? Angela Weber?».

Angela Weber è la figlia del pastore della parrocchia di Forks, e nipote del direttore del giornale presso cui, secondo il biglietto trovato poco fa, dovrei lavorare. Ha tre anni in più di me, e l’ho conosciuta al mio primo anno alle superiori. Io, lei ed Alice ci vedevamo spesso, anche dopo che Angela si è iscritta al college a Seattle e ha iniziato a lavorare presso il giornale di suo nonno.

«Esatto. Suo nonno è mancato tre anni fa, e lei ha preso il suo posto come direttore della Gazzetta di Forks».

«Oh. Mi dispiace tanto per il signor Weber… Angela deve aver sofferto molto…». Ricordo benissimo quanto Angela fosse affezionata a lui. L’avevo conosciuto, e l’avevo subito trovato una persona fantastica, attenta, intelligente e perspicace.

Jake annuisce, pensieroso. Poi riprende da dove si è interrotto: «Hai iniziato prima a scrivere per la rubrica settimanale, e dopo che ti sei laureata Angela ti ha affidato la direzione della pagina sulla cultura».

«Direzione?! Io dirigo la pagina?», domando, incredula.

«Sì, tu. A dire il vero sono quattro pagine. Hai altre quattro persone nel tuo gruppo: Jessica, Lauren, Tyler e Caius. Alcuni di loro, però, si occupano anche di altre sezioni del giornale…».

Abbasso lo sguardo, deglutendo. «Jake… per caso tre di queste persone venivano a scuola con me?».

«Certo». Ride, divertito. «Forks non è molto grande, lo sai».

Perfetto. Quindi io lavoro con Lauren, Jessica e Tyler, tre delle persone che hanno contribuito a rendere la mia vita un inferno. O, almeno, credo mi abbiano reso la vita un inferno. Magari non tutta, ma di certo l’ultimo ballo della scuola è stato un disastro.

Fortunatamente Jacob non ha nominato anche Mike Newton, o sarebbe stato anche peggio.

Ma ha detto che sono il loro capo, quindi non mi preoccupo così tanto.

Lo sguardo di Jacob vaga per la stanza, e si sofferma, infine, sul comodino. Il comodino su cui sono ancora abbandonati l’anello, gli orecchini e il braccialetto.

Guarda l’anello, e allunga la mano per prenderlo. «Ehi», dice, afferrandolo. «Che ci fa questo qui?».

Lo prende nel palmo, guardandolo.

Mi mordo il labbro. «Ehm… hanno dovuto togliermi tutti i gioielli per farmi le radiografie».

Annuisce, pensieroso. Poi mi guarda, e prende la mia mano sinistra. «Posso?», chiede, avvicinando già l’anello al mio anulare.

Istintivamente, ritraggo la mano, coprendola con l’altra. Quando mi rendo conto di quello che ho fatto, è troppo tardi per cancellare lo sguardo sconcertato e deluso di Jacob.

«Ehm…». Guardo ovunque, tranne che verso di lui, a disagio. «C-Credo di non essere a-ancora pronta per questo…».

Jake non si scompone, e cerca di sorridere. «Certo. Certo, capisco».

Appoggia l’anello dov’era prima, sul comodino.

Passano alcuni minuti di silenzio, prima che riesca a parlare nuovamente. «Amore, quando ti dimetteranno vorrai tornare a casa tua?».

Mi immobilizzo. Tornare a casa mia? Cosa vuol dire? Oddio, abbiamo iniziato a convivere? Gli ultimi mesi li ho passati a casa sua? Ha anche lui una casa tutta sua, ora? O vive ancora con Billy?

Lo guardo, probabilmente impallidita. «I-In che senso?».

Scrolla le spalle. «Pensavo che magari preferisci tornare a casa con Charlie, così almeno stai con qualcuno. Almeno per i primi giorni. Anch’io mi sentirei più tranquillo sapendoti la sera con Charlie, invece che sola a casa tua».

Dentro di me traggo un profondo sospiro di sollievo. Intendeva solo questo.

«Jacob…».

«Sì?».

«Puoi smetterla, per favore, di chiamarmi amore?». Mi guardo le mani. «Mi metti a disagio».

«Bella, forse non lo ricordi, ma noi due siamo…».

Mi porto le mani sul viso, sentendomi avvampare. «Oh, Dio! Ti prego, non lo dire! È così… strano», balbetto, a disagio.

Sbircio attraverso due dita, e noto lo sguardo abbattuto di Jake. Mi do immediatamente della stupida. Quanto sono stata indelicata?! È evidente che per lui questa situazione è difficile quanto lo è per me, del resto la sua fidanzata - e quasi moglie - non ricorda assolutamente niente della loro vita da innamorati, e il fatto che io non ricordi e trovi fastidioso il sentirmi chiamare ‘amore’ non giustifica il mio comportamento a dir poco crudele nei suoi confronti.

Poso una mano sulla sua, cercando i suoi occhi. Quando li trovo, inizio a parlare: «Jake… perdonami», mormoro, non sapendo come fare per scusarmi. «È una situazione difficile per entrambi… non volevo essere indelicata. Mi dispiace tanto».

Alza la mano, e la posa sulla mia guancia. È enorme, e bollente.

Mi accarezza muovendo il pollice, guardandomi con uno sguardo colmo di affetto, ma anche malinconia. «Tranquilla, Bells. Vedrai che recupererai presto tutti i tuoi ricordi».

Sospiro, ma non mi allontano, temendo di ferirlo. «Lo spero».

Aggrotta le sopracciglia. «Forse è il caso di rimandare il matrimonio».

«Oh! Sì, credo sia meglio», concordo, sperando di non far trasparire la mia euforia davanti a questa proposta. È inutile, non posso fingere di essere triste. Del resto non credo che potrei sposare qualcuno con cui non ho nessun ricordo.

Allontana la mano dal mio viso, e si alza in piedi prendendo dalla tasca dei jeans il cellulare.

«Sarà meglio che inizio a fare le telefonate e a disdire tutti gli inviti». Guarda l’orologio. «Fra l’altro tra poco termina l’orario delle visite». Alza gli occhi su di me, indeciso.

Sorrido, capendo il suo dubbio. «Vai pure, non preoccuparti. Renèe dovrebbe tornare a momenti».

Mi viene accanto, con aria dispiaciuta. «Sei sicura? Se vuoi posso aspettare che arrivi…».

«Non serve, davvero. Inizia a chiamare, del resto è colpa mia se dobbiamo far saltare tutto quanto…».

«Okay… Allora io vado…».

Mi guarda per un lungo istante, indeciso, e sento le mie guance imporporarsi. Cosa farà? Mi bacerà?

Non credo di essere pronta nemmeno a questo.

Si abbassa, chinandosi.

Ecco, lo sta per fare.

Come devo reagire? Devo chiudere anch’io gli occhi? Devo muovere le mani? Devo… devo fare cosa?

Prima che riesca a decidere le sue labbra si posano delicate sulla mia fronte, dove premono leggermente.

Chiudo gli occhi, pensando che da un secondo all’altro un ricordo mi assalirà, ma… niente.

Non succede assolutamente niente. Nessuna sensazione, nessun flashback. Nessun sentimento.

Quando si allontana, rimango a fissare il copriletto, sconvolta.

Non ho provato niente, se non una leggera ansia quando l’ho visto avvicinarsi. Niente.

«Ciao…», mormora Jacob, ormai sulla porta.

«Ciao!», rispondo, cercando di mostrarmi il più possibile euforica. Inutilmente.

Ma non appena la porta si richiude alle sue spalle e lo vedo passare accanto alla finestra che dà sul corridoio mi lascio cadere all’indietro, sui cuscini.

Il mio fidanzato mi ha appena baciato sulla fronte, ed io non ho sentito assolutamente niente. Forse… forse non sono innamorata di lui. Anzi, è ovvio che al momento non sono innamorata di lui; del resto, cinque anni fa non lo ero. Ma mi aspettavo un minimo di segnale da parte - se non del mio cervello - del mio cuore. Un leggero batticuore, la voglia che lui mi baciasse sulle labbra. Ma non c’è stato nulla di tutto ciò. Solo ansia.

Mentre sprofondo fra i cuscini solo un pensiero attraversa la mia mente, preoccupandomi oltremodo: se non recupero al più presto i ricordi, dovrò innamorarmi di nuovo di Jacob.

 

È quasi sera quando Charlie e Renèe vengono a prendermi, il giorno della mia dimissione dall’ospedale.

Mi sento ancora intontita per la marea di informazioni che sto racimolando pian piano sulla mia vita, ma sono più che pronta ad allontanarmi da questo posto orribile. Dovrò tornare almeno una volta al mese per un controllo con il neurologo, e, soprattutto, nel caso in cui recuperi la memoria. Il dottor Cullen è stato molto gentile, così come il neurologo, e mi ha firmato le carte di dimissione con uno strano sorriso, quasi malinconico. “Mi raccomando, Bella, se ti sentirai male quando recupererai la memoria, non esitare a chiamarmi, d’accordo? Anche solo per parlare”, mi ha detto, prima di uscire dalla mia stanza. Non ho ben capito il senso di quella frase, ma ho annuito comunque. Come se andare dal neurologo a parlare dei miei ricordi non sia già abbastanza imbarazzante.

Ora mi trovo in bagno, intenta a vestirmi e prepararmi per lasciare l’ospedale.

Quasi urlo, quando vedo la mia immagine riflessa nel grande specchio dietro la porta. Questa sono io?!

Non sono cambiata tantissimo, ma non sono nemmeno rimasta la stessa di cinque anni fa. I miei capelli sono, come avevo già notato, decisamente più lunghi, curati e morbidi; il viso è cambiato, e i tratti sono più marcati, adulti; le sopracciglia sono perfettamente ordinate, la pelle è priva di impurità. Non mi sono per niente alzata in altezza, però: mi sembra di essere ancora alta un metro e sessanta. Però, sono più magra, sia sulla pancia che sulle cosce. Il seno invece mi sembra aumentato di una taglia.

Sono decisamente più carina di cinque anni fa. O a me sembra.

Non è possibile. Sono diventata questo in cinque anni?

«Bella, tesoro, sei pronta?», mi chiede mia madre, dall’altra parte della porta.

«Arrivo, mamma!».

Abbandono lo specchio, ed apro la porta, pronta a lasciare, finalmente, l’ospedale.

È il momento di tornare alla normalità… o quasi.

________________________________

 Questo capitolo è un po' di passaggio, ma spiega già alcune cose che verranno riprese nel prossimo capitolo.

Si capisce una cosa, però: Bella non ama Jacob (almeno, nella sua mente di diciannovenne ;)).

Come sempre grazie a tutti coloro che hanno aggiunto la storia fra le preferite/seguite/ricordate :D

A presto! :*

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** 4. Ritrovare me stessa ***


Salve a tutti!

Lo so, sono in ritardo, ma questa settimana è stata davvero impegnativa. Tra l'altro, questo capitolo si è rivelato più lungo di quello che avevo programmato. Non c'era modo per tagliarlo, togliere alcune cose significava perdere pezzi importanti per la storia, e alla fine ho deciso: l'ho diviso in due, senza togliere niente. Tra qualche giorno troverete la seconda parte ;)

Bon, mi sono già dilungata abbastanza, quindi vi lascio al capitolo, che spero apprezzerete :D

Buona lettura!

________________________________

 

4. Ritrovare me stessa

Charlie, a differenza di Renèe, non è cambiato così drasticamente. O, forse, sono io a non volerlo vedere cambiato. Sarà perché fin da quando gli sono comparsi i primi capelli bianchi ha iniziato a farsi la tinta scura, sarà perché, in fondo, un po’ di rughe le ha sempre avute. Fatto sta che quando l’ho visto per la prima volta ieri sera mi sono sentita meno matta, meno smemorata. Con lui è come se non fossero passati cinque anni. Mi conforta sapere che il nostro rapporto è rimasto sempre lo stesso: fatto di poche parole, con sguardi imbarazzati e brevi, e pochi contatti fisici. Charlie non è mai stato un gran chiacchierone, caratteristica che ha trasmesso a me, e non è facile che si lasci andare a gesti d’affetto, né che parli di quello che prova. Mi sento a casa con lui.

Con Renèe, invece, ho sempre qualche problema a rapportarmi, a causa dei nostri caratteri così diversi.

Io e papà l’abbiamo accompagnata all’aeroporto di Port Angeles, dove prenderà un aereo per Seattle e poi per Jacksonville. Mi dispiace che sia rimasta così poco, ma il suo nuovo marito, Phil, deve partire domani per seguire la sua squadra di baseball in trasferta, e lei vuole accompagnarlo. In fondo, non credo che mi possa aiutare molto di più la sua presenza, del resto negli ultimi cinque anni ci siamo viste poco e niente.

Mentre varco la porta di casa Swan mi sento più tranquilla, più normale. Non è cambiato niente, e credo che decidere di passare un po’ di tempo qui non è stata una cattiva idea. Del resto vivevo qui cinque anni fa. Mamma mi ha detto che ho scelto di andare a vivere da sola dopo due anni all’università di Seattle; a quanto pare mi alzavo sempre molto presto per prendere il treno, e Charlie ogni tanto si svegliava, e di conseguenza mi sentivo in colpa. Di trasferirmi direttamente là non ho mai voluto sentirne parlare, anche se non ho ben capito il perché. È come se tutti si rifiutassero di svelarmi qualcosa della mia vita, ma non capisco perché. Se solo ci fosse Alice sono sicura che sarebbe tutto più chiaro. Non mi ha ancora richiamata dopo che le ho lasciato il messaggio in segreteria, e la cosa mi preoccupa. Mi vergogno a chiedere a Charlie dov’è finita, però. Se davvero è successo qualcosa fra me e lei…

No, ma non può essere vero. Io e lei siamo sempre state inseparabili, e non siamo mai riuscite a restare arrabbiate l’una con l’altra per più di cinque minuti. Magari è solo impegnata.

«Bells?».

Mi volto verso Charlie, scacciando questi pensieri che mi rattristano.

«Credo che dovremo passare da casa tua per prendere un po’ delle tue cose… qua non è rimasto molto», mi dice, abbassando lo sguardo.

Annuisco. «Oh. Sì, certo».

Mentre cammino per casa, cerco di individuare un minimo segno del passare degli anni, ma tutto mi sembra rimasto uguale a come lo ricordo. Sulle mensole in salotto scorgo le cornici delle fotografie, sempre state lì. Forse papà ne ha aggiunte o sostituite alcune, magari con una mia del giorno del diploma o della laurea…

Mi avvicino alla mensola su cui sono poste, ma la voce di Charlie mi richiama.

«Bella, guarda, qui c’è la tua toga del giorno del diploma», esclama, arrivando con passo svelto in salotto, tenendo fra le mani una veste blu scura, «magari può aiutarti a ricordare».

Distolgo l’attenzione dalle foto, e vado subito verso papà, prendendo quel tessuto morbido fra le mani. Ho passato cinque anni alle superiori cercando di immaginarmi il giorno del mio diploma, e adesso che l’ho vissuto non riesco a ricordarlo. Assurdo.

Me la poso addosso, notando, come avevo già supposto, di essere rimasta bassa come cinque anni fa. Ma nessun ricordo mi torna in mente.

Charlie, notando la mia espressione abbattuta, prova a sorridere. «Prova ad indossarla. Può darsi che ti venga in mente qualcosa».

Annuisco, e salgo le scale per arrivare al bagno. Mi chiudo dentro e me la infilo, guardandomi poi nello specchio. Ma niente mi torna in mente, e mi sento sempre più annichilita.

E mentre mi osservo nella toga blu scuro, non posso sapere che Charlie ha raggiunto la mensola con le fotografie e ha raccolto una cornice. Ma, soprattutto, non posso sapere che adesso è intento a nasconderla dove non potrò trovarla.

 

Mentre Charlie guida verso casa mia, non faccio altro che guardare fuori dal finestrino, osservando le strade e gli alberi. Forks sembra rimasta ferma a cinque anni fa, proprio come me. Eppure dentro quelle case rimaste uguali nel tempo, molte vite sono cambiate, alcune si sono spente, altre si sono accese. Persino la mia è cambiata. Anche se molte cose mi sembrano rimaste uguali, so che in realtà non è così.

Io sono cambiata. Vorrei poter dire di essere rimasta la stessa, ma cinque anni sono tanti, e secondo quanto ho scoperto finora il passare del tempo mi ha trasformata in qualcun altro.

Mi sembra assurdo che io abbia comprato una casa qui a Forks, spendendo i guadagni del mio lavoro al giornale e quelli conservati in tutta una vita. Ho sempre desiderato andarmene, trasferirmi con Renèe in un posto caldo e meno umido, eppure ho comprato casa qui. Per vivere da sola. E mi sono fidanzata.

Se solo qualcuno conoscesse davvero tutta la mia vita, il motivo di tutte le mie scelte, e mi raccontasse cosa è successo in questi cinque anni sono sicura che sarebbe molto più semplice farmi tornare la memoria.

Prendo dalla borsa le chiavi che Renèe ha preso in prestito ieri per venire a rinfrescarsi, e le guardo, cercando dentro di me un ricordo collegato a questa casa, a quello che devo aver provato quando ho preso per la prima volta queste chiavi fra le mani, realizzando finalmente di avere una casa tutta mia. Eppure la mia memoria non vuole saperne di collaborare, come se la chiave che apre il cassetto dei ricordi fosse quella sbagliata.

«Siamo arrivati, Bells».

La voce di Charlie arriva nel momento esatto in cui il motore dell’auto si spegne, e mi strappa dalla contemplazione delle chiavi. Quando alzo lo sguardo per osservare oltre il vetro del finestrino, rimango inizialmente un po’ delusa. Non è tanto diversa dalla casa di Charlie e da quelle circostanti. L’unica differenza sta in un piccolo garage, situato accanto alla casa. È… triste, sotto un certo punto di vista. Mi aspettavo qualcosa di diverso, o più colorato.

Probabilmente, quando l’ho arredata, ho dedicato la mia attenzione solo all’interno. Del resto, non potevo certo pretendere una reggia o una cosa multicolore in mezzo alle villette monotone di Forks.

Charlie mi invita ad entrare, e scendiamo dall’auto. Io con il cuore che rimbomba per l’emozione, lui, certamente, con la speranza che non appena entro in casa mi possa tornare in mente qualcosa. O magari tutto.

Per questo, non appena varchiamo la porta di casa non lo guardo negli occhi. Per questo, gli parlo cercando di mascherare la mia delusione nel rendermi conto che nulla mi torna in mente. Vorrei poter dire di provare qualcosa di diverso, ma non è così. Questa casa non mi sembra mia.

Tutti i muri sono dipinti in tonalità grigie e beige. Non lo sopporto. È orribile. È triste.

La mia vita è triste quanto lo sono i colori della mia casa?

Mentre mi guardo intorno, notando quanto la mia casa sia monotona e tetra, il cellulare di Charlie squilla. Si allontana, e lo sento parlare. Quando torna da me, ha un’espressione colpevole dipinta in volto.

Sorrido. «Devi scappare?».

Conosco questa espressione, e so che Charlie, essendo lo sceriffo, è spesso chiamato anche durante i suoi giorni di vacanza.

Annuisce lentamente. «Se vuoi posso riaccompagnarti a casa… possiamo tornare qui più tardi».

Piego la testa di lato. «Ma se non sbaglio io ho la macchina qui, no?».

Papà appare sorpreso. «Sì. Ma sei sicura di voler guidare? Sei appena uscita dall’ospedale non vorrei che…».

«Tranquillo, mi ricordo come si guida. Sapevo farlo cinque anni fa, e lo sapevo fare fino all’altro giorno, quindi non c’è problema».

Accenna un sorriso, indeciso. «Va bene… allora andiamo in garage. L’anno scorso il motore del pick-up si è fuso, e hai dovuto comprare una macchina nuova».

Usciamo dalla porta principale, e raggiungiamo il piccolo garage a pochi passi da casa, collegato alla strada principale da un piccolo tratto di ghiaia. Passo le chiavi di casa a Charlie, e lui fa scattare la serratura del portone. Lo solleva, e rivela la mia nuova auto.

È una Volvo. Una Volvo grigio metallizzata.

Mi piace.

Mi sorprende constatarlo, dato che finora ho notato che i miei gusti attuali sono decisamente differenti da quelli che ha la Bella del 2011.

Non è una macchina molto grande, ed è carina. Sembra perfetta per me. E all’apparenza è anche più confortevole del mio vecchio pick-up rosso-arancio decrepito.

«Sicura di voler guidare?», mi domanda di nuovo Charlie, non del tutto convinto.

Annuisco, sorridente.

Papà sospira, e mi passa le chiavi di casa. «Allora ci vediamo più tardi a casa, okay? Per qualunque problema chiamami».

«D’accordo, papà. Grazie».

Fa un cenno con il capo, e si dirige verso la sua auto della polizia. Sale, mette in moto, e si allontana lungo la strada, svoltando all’angolo.

Guardo la mia macchina per alcuni istanti, e decido che per essere più agevolata nel trasportare le mie cose in auto, è meglio tirarla fuori dal garage e lasciarla nel vialetto. Anche perché sono proprio curiosa di provarla.

Con un gesto automatico apro l’auto, e salgo al posto di guida.

Wow. Non ha niente di simile al mio vecchio pick-up. Il sedile è decisamente più morbido, e l’autoradio è di ultima generazione. A quanto pare riesce a leggere fino a sei cd musicali. Il volante è in pelle, e tutto è scuro. Ma la cosa che amo di più è il profumo che emana l’auto. È strano. È come se lo conoscessi. Mi dà una sensazione incredibile di familiarità. Probabilmente passo molto tempo in auto nella mia nuova vita.

Dopo aver inserito la chiave, metto in moto. Con poche mosse automatiche esco dal garage, e spengo il motore a metà vialetto.

Sorrido, e mi sento bene. Riesco a guidare. Sono ancora normale.

È sciocco, lo so. Ma ogni singola azione che mi risulta semplice o abituale mi riempie di felicità e mi infonde sollievo.

Chiudo la macchina e il garage, e torno in casa.

Salgo direttamente al piano superiore, fermandomi però a metà scala.

È questo il posto in cui sono caduta. Qui è successo tutto.

Guardo i gradini e il pavimento in fondo alle scale aspettandomi di trovare una chiave, una scatola in cui sono custoditi i miei ricordi, o di rivedermi mentre cado giù. Ma, ancora una volta, il vuoto assoluto risiede nella mia testa.

Torno a salire le scale, e raggiungo il piano superiore. Come a casa di Charlie, un lungo corridoio dispone di quattro porte.

Inizio dalla prima.

La apro, e trovo una piccola lavanderia, con un grosso lavello, una lavatrice e quella mi sembra un’asciugatrice.

La seconda stanza, invece, è un bagno. A differenza di quello di papà è decisamente più ampio, con una bella vasca da bagno, una doccia, il gabinetto e il lavandino. Tutto è piastrellato da mattonelle bianche e blu.

La terza, è una stanza con un letto ad una piazza e mezzo, il piumone bianco e all’apparenza sofficissimo, un armadio di legno bianco, e una libreria colma di libri. Entro nella stanza, stupita. È la mia camera da letto? Questa è la mia stanza?

È molto bella. Raggiungo la libreria, e scorrendo lo sguardo sui titoli della libreria scopro che alcuni di quelli che ritenevo i miei preferiti non ci sono più. Dove sono? Non li avrò mica buttati?

Leggere è sempre stata la mia passione. Non passa mese che non abbia un nuovo libro, e mi sorprende scoprire che sono rimasti così pochi. Mi sembra di averne addirittura meno di quando abitavo da Charlie cinque anni fa. Eppure nella mia vecchia stanza non ne ho visti di libri. Che fine hanno fatto? Mi rifiuto anche solo di pensare di averli buttati tutti.

Mi torna in mente che manca ancora una stanza. Magari lo uso come piccolo deposito o libreria. Può darsi che siano tutti lì, i libri.

Esco dalla camera, e apro la porta dell’altra stanza. E rimango senza fiato.

È questa la mia camera. Sicuramente.

Lo sento nella strana sensazione di quotidianità, di pace, che provo appena varco l’ingresso con un piede, e nella certezza di essere a casa. Trovo la sicurezza di essere nella mia camera nelle coperte blu scuro che fasciano il letto matrimoniale, nelle mensole e nella libreria colma di libri dall’aspetto consumato, nelle fotografie attaccate con le puntine al pezzo di sughero appeso al muro, accanto alle finestre, ornate da tende blu e azzurro, nell’armadio con lo specchio.

Nella mensola accanto al letto trovo i libri che mi hanno sempre appassionato, più alcuni nuovi. Sono sicura che sono fra i miei preferiti.

Guardo l’abat-jour sul comodino, fatta di vetro blu, e sorrido. È tutto così familiare. È tutto così confortevole.

Mi getto sul letto, felice di aver finalmente trovato la vera me stessa del 2011.

 

Forse ho esagerato. Anzi, nessun forse: ho esagerato.

Charlie mi ha detto di portare a casa sua alcune cose, e di sicuro con ‘alcune’ intendeva vestiti, cose di primaria necessità. Non passatempi, non, in questo caso, libri.

Ma quando ho visto che tra le mie mensole ci sono i sequel di saghe che seguo da sempre, e a cui sono affezionata, non ho potuto fare a meno di cercare in soffitta - sì, ho anche la soffitta - uno scatolone, e riempirlo fino all’orlo di libri che cinque anni fa non erano ancora usciti o non avevo ancora letto.

Mi sento come una bambina nel regno dei balocchi. Soprattutto se penso che il grosso scatolone che sto trasportando a fatica giù per scale contiene solo una minuscola parte di tutti i libri nuovi (per la vecchia me) che sono disposti sulle mensole e nella libreria.

Raggiungo con difficoltà il piano terra, e cerco di prendere meglio lo scatolone, che mi scappa dalle mani.

Dopo averlo aggiustato alla bell’e meglio, esco in cortile, lasciando la porta spalancata.

Raggiungo a fatica il vialetto dove ho parcheggiato e…

Oh, no.

Maledizione!

Non ho aperto la macchina.

Imprecando mentalmente contro me stessa, porto un braccio sotto la scatola, e, nonostante il peso enorme, cerco di tenerla diritta, mentre con l’altra mano cerco di arrivare alla tasca dei miei jeans, dove ho riposto prima le chiavi dell’auto.

Sono ad un passo dal riuscire a sfilare la chiave, che si è impigliata nella piega dei jeans, quando perdo il precario equilibrio della scatola di libri.

Sto quasi per urlare un’imprecazione, quando due braccia afferrano la scatola insieme alle mie, reggendo quasi tutto il peso al mio posto.

Sospiro, e alzo lo sguardo, pronta a ringraziare fino allo sfinimento il mio salvatore.

Ma quando alzo lo sguardo, non sono pronta all’intensità dei due smeraldi che incontro, e impiego alcuni secondi per riprendermi anche dalla sconvolgente bellezza di un viso maschile. Capelli rossicci ribelli, ciglia lunghissime che incorniciano occhi verdissimi, labbra rosee e carnose piegate in un sorriso sghembo, e un leggero strato di barba sulle guance e la mascella. È un uomo… e il suo viso è bellissimo. Giovane, e bellissimo. Avrà al massimo trent’anni.

«I-Io…», balbetto, sentendo il mio volto andare a fuoco non appena mi rendo conto che sono rimasta imbambolata a fissarlo per un minuto buono. «G-Grazie».

Abbasso lo sguardo nella scatola, negandomi la vista di quel volto capace di togliermi il respiro.

Chi è? Cosa ci fa qui? È il mio vicino di casa? Mi ha vista di nuovo a casa e voleva venire a salutarmi?

«Sempre la solita pasticciona, eh?».

Questa voce. È così… familiare.

Una cascata di brividi scende lungo la mia schiena, facendomi accapponare la pelle. È così profonda, melodiosa… perché mi fa questo effetto? È normale?

Quando rialzo lo sguardo per guardarlo di nuovo, i suoi occhi sono ancora fissi sul mio viso, e il suo strano sorriso storto gli piega ancora le labbra.

Mi sento agitata. Sulle spine. Come se ci fosse qualcosa che mi sfugge.

«Ehm… d-devo andare da mio padre per un po’ di tempo così…», mormoro, sentendomi a disagio.

Il suo sguardo si abbassa sul contenuto dello scatolone che stiamo ancora reggendo insieme - o meglio, lui sta reggendo, io ho solo le mani ancorate al cartone. «Oggetti di prima necessità?». Avverto il divertimento nella sua voce, ma non gli do peso.

«Sì!», esclamo, prima ancora di rendermene conto. Poi arrossisco. «Ehm… non proprio ma…».

«Tranquilla, so quanto sei affamata di libri», sghignazza l’uomo. «Lascia che ti aiuti».

Prima ancora che possa rispondere di no, o dire qualsiasi altra cosa, ha già sfilato la scatola dalle mie mani, e si sta dirigendo verso la mia macchina. Recupero in fretta le chiavi dalla tasca dei jeans, e, dopo averla aperta, corro ad aprire la portiera per consentigli di appoggiare lo scatolone sui sedili posteriori.

«Grazie…», mormoro arrossendo, quando torna davanti a me.

Piega il capo da un lato, guardandomi con aria curiosa. «Torni da tuo padre per via dell’incidente?».

Annuisco piano. A quanto pare la notizia si è già diffusa. Del resto, è normale in una cittadina piccola come Forks. «Charlie si sente più sicuro così… e poi non credo nemmeno di essere in grado di vivere da sola», aggiungo, ridendo nervosamente.

L’uomo davanti a me inarca un sopracciglio, fissandomi dubbioso. «Per quale motivo? Vivi da sola da più di tre anni ormai, sei abituata».

Mi mordo il labbro, abbassando lo sguardo. «Non l’hai saputo…? Ho… un’amnesia. Non… non ricordo niente degli ultimi cinque anni…».

Da parte sua, un insolito silenzio. Rialzando gli occhi su di lui, scopro che è immobile, con un’espressione indecifrabile dipinta in volto.

Sto per chiedergli se sta bene, quando parla di nuovo: «Niente?», chiede, a voce talmente bassa che faccio fatica anche a sentirlo. «Proprio niente?».

Scuoto il capo, desolata, accennando un sorriso. «No, nulla».

Abbassa lo sguardo, e infila le mani in tasca. «Quindi tu non ti ricordi di me».

Non è una domanda la sua. È una certezza.

Mi mordo il labbro, a disagio. «Ehm… no… mi disp-».

Mi interrompe bruscamente, senza darmi il tempo di terminare la frase: «Devo andare».

Gira sui tacchi, dirigendosi velocemente verso un’auto posteggiata sul ciglio della strada.

«Ehi, aspetta!», gli urlo dietro, seguendolo. «Non mi hai detto come ti chiami!».

Apre la portiera, e prima di salire a bordo della sua macchina mi guarda per un’ultima volta, intensamente.

«Non è importante», sibila dopo alcuni secondi di silenzio. E detto questo, sale in auto, e, dopo aver messo in moto, con una brusca accelerata si allontana velocemente da casa mia, da me.

Rimasta sola, senza una spiegazione logica, mi sento improvvisamente triste.

________________________________

Eccoci alla fine. Forse il capitolo non è tanto lungo, ma va bene così. Il prossimo capitolo è quasi pronto, ed entro martedì arriverà.

Dunque... anche se corto, è un capitolo parecchio importante. Ci sono tante cosette sparse, che torneranno nei capitoli successivi.

Sul personaggio misterioso dell'ultima parte... beh, non credo ci sia granché da dire. Immagino che siate arrivate tutte alla stessa ipotesi, e giuro che questa volta non ho fatto nessun giochetto per farvi andare sulla pista sbagliata! XD

Come sempre, grazie a tutti coloro che seguono questa storia, che recensiscono, che la inseriscono fra le preferite e le seguite. Grazie, grazie davvero. Prometto che non vi farò più aspettare così tanto per un capitolo. :)

A presto! :D

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** 5. Tornare alla normalità... o quasi ***


'Sera!

Sono parecchio in ritardo, ma questa settimana è stata un vero e proprio inferno a scuola, credetemi >.< Sono riuscita a terminare il capitolo solo poco fa, e per colpa della stanchezza credo mi sia sfuggito qualche errore... in tal caso, perdonatemi, rimedierò domattina stessa!

Bon, ho ciarlato troppo, vi lascio al capitolo! :)

PS: nella storia, dalla fine dello scorso capitolo all'inizio di questo, sono passati 3-4 giorni.

Buona lettura!

________________________________

5. Tornare alla normalità… o quasi

Alice Brandon è una delle persone migliori che io abbia mai conosciuto.

Siamo subito andate d’accordo, fin dal primo giorno delle superiori, quando ci siamo ritrovate compagne di banco alla lezione di biologia. Lei si era appena trasferita a Forks da Chicago con la sua famiglia, ed io ero il tipico genere di ragazza solitaria, senza uno straccio di amico. Alice è stata la mia prima vera, migliore amica. Condivido tutto con lei, e anche se a volte la sua esuberanza mi mette in difficoltà non ho mai avuto problemi. È come una sorella.

Per questo sono sorpresa di constatare di non aver ricevuto ancora nessuna chiamata da parte sua. Ieri sono persino andata fino a casa sua - o, almeno, quella dei suoi genitori, dove abitava cinque anni fa -, ma ho trovato solo sua madre, che con un sorriso imbarazzato mi ha detto che Alice è fuori città per lavoro. È diventata la proprietaria di un negozio di arredamento con oggetti di design, e deve partecipare ad alcuni convegni ed esposizioni sulle nuove mode e tendenze per tenersi aggiornata. Non mi sorprende: Alice ha sempre amato questo genere di cose.

Tuttavia, il suo silenzio mi mette a disagio, e mi fa paura. Perché, anche se è lontana, non risponde ai miei messaggi?

Il pensiero che sia successo realmente qualcosa fra di noi, capace di incrinare la nostra amicizia, mi tormenta.

Per il resto, il mio ritorno alla normalità procede alla grande… più o meno. Faccio ancora fatica ad accettare il fatto di avere un fidanzato che all’ora di pranzo viene a trovarmi per portarmi alla tavola calda o per mangiare qualcosa che cucino di persona. Faccio ancora fatica a capacitarmi del fatto che non ho nessun compito da svolgere per la scuola, e che non ho libri da studiare.

Ho tutto il tempo per dedicarmi a me stessa e alle faccende di casa. E per leggere. In questi due giorni ho divorato pagine su pagine, dimenticandomi di tutto il resto. Mentre leggo, capita che la strana sensazione tipica dei déjà vu torni a turbarmi. In momenti simili, mi sento più che mai frustrata, e con il passare delle volte imparo man mano a non lasciarmi condizionare da essa, a non permettere alla speranza di insorgere con prepotenza. Per quanto io mi sforzi, ogni volta la sensazione di conoscere qualcosa, e di averla sulla punta della lingua, mi sfugge così come è comparsa. Ed io rimango amareggiata e delusa.

Come quando mi sono ritrovata davanti a quello strano ragazzo, pochi giorni fa. Chi era?

Subito dopo l’incontro, ho aspettato ancora un paio d’ore, sperando di vederlo tornare con la sua macchina alla casa accanto. Ero certa che fosse il vicino. Ne ero sicura. Ma quando sono corsa alla finestra, richiamata dal rumore di un’auto che accostava nel vialetto, l’uomo che ho visto era un settantenne calvo. Nessuna chioma ribelle rossiccia, nessun viso angelico con un paio d’occhi verdi come smeraldi.

Mentre ripercorrevo la strada per tornare a casa di Charlie, mi sono guardata attentamente intorno, alla ricerca della sua auto. Ricordo perfettamente la sua Audi argentata, e sono certa che nei paraggi ne girino poche di auto simili. Ho cercato e ricercato, ma non l’ho trovato. Alla fine mi sono arresa, ma ogni volta che esco di casa, anche inconsciamente, inizio a guardarmi intorno, sperando di rivederlo. Il motivo? Credo di non saperlo nemmeno io.

 

Come ogni mattina, accompagno Charlie fino alla porta, e lo saluto quando esce per andare a lavorare.

Finisco di rassettare la cucina, sistemo la mia camera, passo l’aspirapolvere nelle stanze e in salotto, e, a metà mattinata, mi stendo finalmente sul divano, pronta a riprendere la lettura. Più tardi dovrò andare a fare la spesa, se voglio preparare qualcosa per pranzo a Jacob. Oppure potrei convincerlo ad andare a pranzo fuori anche oggi.

Sospiro.

Fra me e Jacob le cose sembrano appese a un filo. Per quanto io mi sforzi non riesco a vedere niente in lui, se non un fratello e un amico; però, so che per lui non è lo stesso. Lo capisco dagli sguardi languidi che lancia al mio corpo, dai suoi tentativi di avvicinarsi il più possibile a me.

Non ci siamo ancora baciati da quando mi sono risvegliata in ospedale, anche se ogni volta che ci salutiamo le sue labbra si posano sempre più a lungo sulla mia guancia, e si avvicinano man mano alla mia bocca.

C’è un’altra cosa che mi preme sapere su di me. Io e Jacob siamo fidanzati da due anni… abbiamo già avuto contatti fisici? Insomma… ci siamo già spinti oltre?

A giudicare dai suoi sguardi, direi di sì. E da questa supposizione nasce un’altra domanda, una domanda che solo pensarla mi fa venire il batticuore. Quando è stata la mia prima volta? Con chi ho perso la verginità?

Perché a diciotto anni ero ancora vergine. Per me è sempre stato qualcosa di importante, di fondamentale. Volevo che la prima volta fosse con qualcuno di speciale, con qualcuno che amassi davvero. È successo con Jacob? Non ho avuto altre relazioni oltre a lui, prima di lui?

Mai come in questi momenti detesto la mia amnesia.

Il suono del campanello mi fa sussultare, e abbandono il libro sul tavolino per correre alla porta di casa. Una piccola speranza mi fa battere il cuore più forte: è Alice? È lei che è venuta a trovarmi?

Spalanco la porta, e la delusione sul mio viso è palese, quando incontro gli occhi della persona davanti a me. Non è Alice.

«Ciao, Bella!». Un sorriso gentile, un paio d’occhi dolci e profondi: è Sue Clearwater a presentarsi di fronte a me, bellissima come l’ho sempre ricordata.

Sue abita a La Push, insieme ai suoi due figli Seth e Leah; sono ormai passati otto anni da quando suo marito Harry è morto a causa di un infarto; lui e mio padre erano grandi amici, e si vedevano spesso con Billy Black, padre di Jacob, per andare a pesca o guardare lo sport alla tv.

«Ciao Sue», rispondo con un sorriso. «Stai cercando Charlie?».

Scuote il capo. «Sono passata a trovarti. Disturbo?».

«No, affatto». Mi faccio da parte, spalancando la porta. «Vieni pure».

Una volta dentro ci sediamo entrambe in salotto, e iniziamo a parlare del più e del meno, della mia situazione, delle strane sensazioni che provo ogni tanto - soprattutto leggendo -, di quanto sia strano ritrovarmi cinque anni più avanti. Con Sue è facile parlare. Non c’è alcun tipo di imbarazzo fra di noi, è un po’ una specie di amica-madre. Abbiamo sempre avuto un ottimo rapporto e mi consola sapere che non è cambiato.

A metà mattinata decidiamo di andare a fare la spesa per preparare insieme il pranzo per Charlie e Jacob. I suoi figli si fermeranno a casa di alcuni amici, così abbiamo deciso di passare il tempo assieme.

Raggiungiamo l’unico supermercato di Forks, fornito di ogni genere alimentare. Giriamo per gli scaffali per alcuni minuti, e arriviamo al bancone degli affettati, prendendo il biglietto.

«Oh!». Esclama a un certo punto Sue, portandosi una mano alla bocca, con un’espressione stupita in volto. «Che sciocca, ho dimenticato di prendere la farina!».

Sorrido. «Vado a prenderla io. Tu prendi l’affettato».

Annuisce con un sorriso, e mentre si porta davanti il bancone della salumeria, io faccio dietrofront per raggiungere una delle corsie già percorse. Trovo il pacco di farina in poco tempo, e quando torno indietro, trovo Sue intenta a chiacchierare con una ragazza.

«Angela!», esclamo, non appena la riconosco oltre le spalle della donna.

I suoi occhi si spostano velocemente, incontrando i miei. E il sorriso che mi rivolge è il più caloroso che abbia visto in questi giorni.

«Bella!».

Passa oltre Sue, e mi raggiunge per stringermi in un abbraccio, tenendo in una mano il cestino con la sua spesa. Ricambio la stretta con affetto.

«Stavo pensando di passare a trovarti questo pomeriggio, anche se ho pensato che preferissi restare un po’ tranquilla dopo tutto quello che è successo…», mormora, sciogliendo l’abbraccio.

Arrossisco. «Hai saputo?».

Annuisce, con un piccolo sorriso. «Charlie mi ha chiamata il giorno stesso. Gli ho detto che puoi prenderti tutto il tempo che vuoi prima di tornare a lavoro».

Ah, giusto. Spesso dimentico di essere una giornalista, e che Angela è a tutti gli effetti il mio capo alla Gazzetta di Forks.

Sue si avvicina a noi, sorridendo educatamente, e ne approfitto per lasciare la farina nel carrello.

«Angela, vuoi unirti a noi per pranzo? Magari parlando con Bella puoi aiutarla a farle tornare la memoria», propone, lanciandomi un’occhiata per controllare che io sia d’accordo.

Angela piega la testa da un lato, guardandomi. «Se per Bella va bene, accetto».

«Perfetto!», esclama Sue, contenta. Ha sempre adorato poter cucinare per molte persone. «Allora ci vediamo fra un’ora a casa Swan, va bene?», domanda ad Angela, euforica.

La mia amica risponde sorridente, e la lasciamo al bancone degli affettati, affrettandoci verso le casse.

 

Quando Angela arriva a casa, Sue ha appena finito di preparare una torta di mele, ed ora si sta dedicando ad apparecchiare la tavola. Io, invece, sto girando il sugo per la pasta, facendo attenzione a non farlo bruciare.

La nuova arrivata si offre di preparare l’insalata, così ci ritroviamo tutte e tre in cucina, intente a preparare il pranzo sia per noi che per Charlie e Jacob. Mi è familiare questa scena; è probabile che l’abbiamo fatto più volte.

Il campanello suona, e Sue si precipita alla porta, mentre io ed Angela parliamo della mia amnesia.

«Magari sei tu che non vuoi ricordare…», ipotizza, dopo alcuni secondi di silenzio, lasciandomi spiazzata.

Mi irrigidisco, smettendo di girare il sugo nella padella, ignorando il fatto che se non continuo presto si brucerà tutto.

«Che intendi dire?», le chiedo, con una punta di acidità nella voce.

Angela appoggia la scodella con l’insalata sul bancone, smettendo di mescolare. Mi guarda intensamente prima di rispondermi: «Secondo molti psicoanalisti, quando una persona non ricorda è perché quello che dimentica ha a che fare con ricordi spiacevoli…», i suoi occhi incrociano i miei per un breve momento, poi tornano a concentrarsi sull’insalata, «dolorosi».

Faccio un passo verso di lei. «Tu sai qualcosa? Sai se è successo qualcosa di così terribile in questi cinque anni?».

Angela sospira nuovamente, e scuote il capo. «Mi dispiace, Bella».

Distolgo lo sguardo, amareggiata.

Sue entra in cucina accompagnata da Jacob prima che possa aggiungere altro.

«Ehi, Bells», mi saluta lui, venendomi accanto e stampandomi un bacio sulla guancia. «Angela». Le fa un cenno.

La mia amica risponde con un sorriso, poi torna a preparare l’insalata. Ed io mi ritrovo, come sempre, nel dubbio.

 

Non so come ho fatto a lasciarmi convincere. Probabilmente è tutta colpa delle occhiate preoccupate che Charlie mi lancia ogni volta che ho anche solo un capogiro, o forse della mia incapacità di restare senza fare niente per molto tempo. Fatto sta che adesso mi ritrovo davanti all’ingresso del piccolo stabilimento della Gazzetta di Forks, con la mia valigetta scura stretta al fianco, e una gran paura. Sì… direi che la paura è il sentimento che sta prendendo il sopravvento al momento.

Guardo l’edificio davanti a me, nella periferia di Forks, alto due piani, e piuttosto ampio. Su una grossa targa e un cartello conficcato poco distante nel prato è riportato il nome del giornale.

Prendo un profondo respiro, convincendomi ad entrare. Chissà che figura faccio, se qualcuno dei miei colleghi esce e mi trova qui impalata.

Compio i pochi passi che mi separano dalle porte di vetro dell’ingresso, ed entro ostentando un passo sicuro. Nell’atrio, piccolo e illuminato da grosse finestre, si trova un bancone della segreteria, dietro il quale si trova una ragazza giovane, che non ho mai visto prima d’ora.

Appena mi vede, si alza in piedi, con un sorriso estatico.

«Bella!», esclama, mentre mi avvicino. «Sei tornata! Come stai? Mi hanno raccontato quello che ti è successo… dev’essere stato orribile, non sai quanto mi dispiace!».

Arrossisco. «Sto bene, grazie… ehm…», guardo la targhetta sul bancone, «Brittany. Puoi dirmi dov’è il mio studio?».

«Isabella!».

Mi volto verso la persona che mi ha appena chiamata, sgranando gli occhi.

Vi prego. Vi prego, ditemi che non è…

«Jessica…», biascico, non appena la vedo, ferma davanti a una porta. Faccio un sorriso tirato.

Non ho un bel ricordo di lei. Per niente.

Ma, del resto, Jacob mi aveva detto che lavoro con lei, Mike e Lauren. Avrei dovuto essere preparata a questo.

Mi viene vicino, e si avvicina per scoccarmi due baci sulle guance.

«Come stai? Torni a lavorare?».

Annuisco. «Sì, Angela mi ha offerto di tornare senza impegno… tanto per vedere se riesco a cavarmela».

Scrolla le spalle. «Capisco… Vieni, ti accompagno, okay?».

«Okay…».

Saluto Brittany con un cenno della mano, e seguo Jessica Stanley lungo un corridoio, osservandola di nascosto. Se non fosse che è diventata decisamente più grande, potrei tranquillamente ricondurla alla ragazza delle superiori. Stessi capelli biondi vaporosi, stesse labbra messe in risalto dal rossetto.

Arriviamo in una grossa stanza, con alcune scrivanie e alcuni studi con le porte aperte, dalle quali si scorgono al loro interno molte persone impegnate al telefono, al computer, a fare fotografie, a leggere giornali, a scrivere a mano. Sono davvero tanti.

«Ragazzi!», urla Jessica, attirando su di sé l’attenzione generale, e guadagnandosi anche alcune occhiatacce. «Guardate chi è tornata».

Arrossisco fino alla punta dei capelli, mentre gli occhi di tutti si fissano su di me. Una serie di mormorii e di saluti si eleva nella grossa stanza, e in breve mi ritrovo circondata da almeno una decina di persone.

Rispondo frettolosamente a tutti, cercando di sorridere e di non farmi irritare dalle loro continue domande circa la mia amnesia. Ma a quanto pare tutti sono interessati a sapere se davvero non ricordo niente. Ma pensano davvero che sia uno scherzo il mio?!

Alla fine riesco a mantenere - con fatica - la calma, e lascio che Jessica mi trascini in uno studio, richiudendosi la porta alle spalle.

Lo studio non è molto ampio, ma carino. C’è una grossa scrivania in legno scuro davanti alle finestre che si affacciano su un grosso prato, davanti ad essa due poltroncine; contro i muri sono sistemati una libreria e alcuni scaffali, e ci sono alcune pianticelle poste negli angoli.

«Allora, come ti sembra?», mi domanda Jessica, andando a sedersi su una poltroncina, mentre io mi guardo intorno.

«Uhm… un po’ confuso, ma niente di insopportabile».

Mi siedo sulla poltrona, e prendo in mano alcuni fogli sui quali sono riportati date di mostre, indirizzi di musei e quant’altro.

Jessica si sporge in avanti, guardandomi intensamente. «Quindi non ricordi proprio nulla degli ultimi cinque anni? Nemmeno le persone più importanti della tua vita?».

Faccio una smorfia, lanciandole un’occhiataccia. «Jessica, le persone più importanti della mia vita sono quelle che ci sono sempre state e che ci sono tuttora. Piantala, per favore».

Aggrotta le sopracciglia, e accavalla le gambe. «Come va con Jacob?».

La guardo stranita. «Sul serio, Jessica? Non siamo al bar, credo sia meglio mettersi a lavorare».

Fa una smorfia, e dentro di me esulto non appena si alza in piedi.

«Hai ragione, scusa. Torno di là».

Annuisco, e non appena la porta si chiude alle sue spalle mi lascio andare contro lo schienale, con un sospiro.

Sento che sarà più difficile del previsto resistere in questo posto. Molto più difficile.

 

«Bella?».

La testa di Angela spunta dalla mia porta socchiusa.

«Ciao, Angy!», la saluto, con un sorriso.

Fa un cenno con il capo, sorridendo. «Puoi venire un secondo nel mio ufficio? Vorrei parlarti di una cosa».

Mi alzo immediatamente. «Certo!».

Abbandono la scrivania, e la seguo per i corridoi fino al suo ufficio. Chiudo la porta alle mie spalle, e mi accomodo sulla poltroncina che mi indica, mentre lei va alla poltrona.

«Allora, Bella, come ti senti?», mi chiede, con un sorriso gentile in volto.

«Oh. Bene, molto bene», rispondo.

Angela piega la testa da un lato. «E come va con i ricordi? Ancora niente?».

Penso alle piccole strane sensazioni che provo senza alcun motivo di tanto in tanto, ma decido che non è necessario che lei lo sappia. Non voglio dare speranze vane agli altri, e nemmeno io, alla fin fine, le tengo molto da conto.

Scuoto il capo, accorata. «No…».

Lei annuisce, pensierosa. Guarda per alcuni secondi dei fogli disposti ordinatamente sulla sua scrivania, poi alza gli occhi su di me. «Anche se non hai ancora recuperato la memoria, vorrei chiederti se ti andrebbe di preparare un articolo per il prossimo numero della Gazzetta». Mi guarda attentamente. «Non è niente di impegnativo, ma magari può aiutarti a ricordare qualcosa sul tuo lavoro…».

Abbasso lo sguardo, sentendomi imbarazzata e al contempo a disagio. «Non saprei… non credo sia una buona idea affidarmi un incarico… del resto non ricordo nemmeno gli anni passati al college, non penso di saper gestire un articolo…».

«Io, invece, sono convinta che ce la puoi fare», dice Angela. «Si tratta di un articolo riguardo un concerto per beneficenza che si terrà venerdì sera a teatro. Dovrai solo intervistare i musicisti che si esibiranno e partecipare all’evento».

Sposto lo sguardo su di lei, e la trovo con un sorriso gentile sulle labbra. «Un concerto per beneficenza? Per che cosa?».

«Per il reparto pediatrico dell’ospedale. I musicisti non saranno molti, ma sono tutti di alto livello, e trattano per lo più musica classica, che se non ricordo male è fra le tue preferite…», dice Angela, sorridendo.

Annuisco, arrossendo.

«Sono sicura che ti piacerà partecipare alla serata. Gli organizzatori hanno già riservato un posto in prima fila per il nostro giornale, e preferirei mandare te, anziché Jessica…», sorride, «sai, non vorrei che nell’articolo risaltasse come erano vestiti i musicisti piuttosto che l’esibizione dal punto di vista musicale». Ride leggermente, coinvolgendomi. In effetti ha ragione, ma sono ancora indecisa. E se non fossi in grado di farlo? Se sbagliassi a fare le domande?

Notando la mia titubanza, Angela aggiunge: «Facciamo così: inizia a preparare una lista di domande da fare, e prima di andare agli incontri ne discutiamo assieme. Poi, quando avrai scritto l’articolo, lo correggeremo insieme». Sorride ancora. «Cosa ne pensi?».

Non riesco a fare nient’altro se non sorriderle. «È perfetto. Grazie, Angela».

 

Quando salgo in auto alle cinque del pomeriggio non vedo già l’ora di poter tornare a casa. La pioggia scende fitta, e nonostante l’umidità sento comunque freddo. Inoltre, ho una gran fame.

Estraggo dalla borsa la mia agenda, e tiro una riga con la penna sul nome della ragazza che ho appena intervistato e sul suo rispettivo strumento musicale. Angela - la mia salvezza - mi ha aiutata a stilare la lista di nomi di musicisti che suoneranno allo spettacolo di venerdì sera presso il piccolo teatro in centro. Il concerto - interamente di musica classica - è stato organizzato per devolvere tutti i guadagni al reparto pediatrico dell’ospedale, in crisi.

La mia lista comprende dieci artisti, più un duo e tre trii.

Barro il nome della ragazza, l’ultima della pagina.

Sospiro, soddisfatta. Bene. Ho terminato. Credevo di perdere la mano a furia di scrivere. È da ieri mattina che ho iniziato le interviste, e, sinceramente, nonostante abbia trovato questo incarico davvero interessante, sono stremata.

Adesso dovrò solo assistere allo spettacolo di venerdì e…

Un momento.

Cos’è questo?! Non posso aver dimenticato di intervistare una persona!

Sulla pagina dietro alla lista c’è un altro nome, scritto in una grafia che non è la mia. Probabilmente l’ha aggiunto Angela all’ultimo momento mentre ero distratta o in bagno…

Per essere sicura, apro la valigetta in cui ho riposto tutti gli appunti sulle precedenti interviste, cercando il nome di questa persona. Li sfoglio tutti, minuziosamente, ma il nome non salta fuori.

Devo averlo dimenticato, accidenti.

Guardo l’orologio: le cinque e cinque.

Uhm… questa persona lavora come insegnante al conservatorio appena fuori città, secondo quanto ha scritto Angela. Forse se mi sbrigo la trovo ancora.

Metto in moto, e inizio a dirigermi verso la periferia.

Andiamo ad intervistare Edward Cullen. Pianista.

________________________________

Dunque, dunque. Il capitolo come avrete notato è più che altro di passaggio, ma è fondamentale per il prossimo :P Probabilmente mi state volendo molto male, e per farmi perdonare cercherò di postare il prima possibile XD

Spero che, nonostante tutto, vi sia piaciuto.

Come sempre, grazie a tutti coloro che continuano a seguire questa storia nonostante i miei ritardi, e grazie a chi l'ha aggiunta fra le preferite/seguite/ricordate. Grazie, grazie :***

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** 6. Intervista ad un pianista ***


Salveeee! :D

Chiedo scusa per il ritardo, ma il capitolo proprio non voleva uscire >.< Spero di non aver combinato danni, però.

Buona lettura! :D

________________________________

6. Intervista ad un pianista

Quando spengo l’auto nel parcheggio del conservatorio, alle cinque e venti del pomeriggio, all’incirca, trovo ancora molte macchine.

Infilo il block notes e la penna nella borsa ed esco all’aperto, abbandonando l’accogliente riparo della mia auto. Corro sotto la pioggia, maledicendo il fatto di non avere nemmeno un ombrello nel baule; eppure, vivendo in una città piovosa come Forks, dovrebbe essere un’abitudine da rispettare. Raggiungo il portico davanti all’ingresso dell’edificio, e cerco di scrollarmi dalla giacca leggera le gocce di pioggia. Prendo un profondo respiro, ed entro nell’atrio.

La stanza in cui mi ritrovo è molto ampia. Il pavimento è in marmo, e le pareti sono tutte dipinte di colori chiari. C’è una grossa bacheca, piena di volantini - tra i quali riconosco anche quello sulla serata di beneficenza di venerdì -, biglietti e cartelloni; un tavolo lungo e bianco, ornato da due vasi di fiori, è posizionato in un angolo, e suppongo sia la reception. Due lunghi corridoi, a destra e a sinistra, si allungano intorno al complesso, con grandi vetrate da una parte e porte scure dall’altra.

Dietro al bancone all’angolo c’è una donna sulla cinquantina, con i capelli biondo cenere raccolti in uno chignon alto e un paio di occhiali sottili appoggiati sul naso; è intenta a sistemare alcune scartoffie, e non sembra essersi accorta della mia presenza. La scuola è silenziosa, ma in sottofondo si sente la musica degli strumenti musicali.

Sulla targhetta, appoggiata sul bancone, è inciso un nome: Mrs Cope.

«Salve…», mormoro, attirando la sua attenzione.

La donna sussulta, e smette di sfogliare i fascicoli. I suoi occhi guizzano sulla mia figura, e sorride cordialmente. «Buonasera, cara. Posso aiutarti?».

«Uhm… sì… sto cercando Edward Cullen. È ancora qui?».

La donna sorride. «Sì. Posso sapere il suo nome?».

«Isabella Swan. Lavoro per la Gazzetta di Forks, e dovrei intervistare il signor Cullen riguardo la serata di beneficenza di venerdì».

Spalanca gli occhi, sorpresa. «Oh! Certo! La accompagno subito da lui».

Si alza dalla sedia, e mi fa segno di seguirla lungo uno dei corridoi, quello a destra. Iniziamo a superare una serie di porte, da alcune delle quali sento provenire il suono di strumenti musicali, di uomini e di donne.

«È molto fortunata, sa? Il professore si è trattenuto qui oltre l’orario di lavoro per sbrigare alcune faccende, altrimenti non l’avrebbe trovato», mi dice Mrs Cope, mentre mi scorta lungo i corridoi.

Prima di parlare di nuovo mi guarda per un lungo istante: «È stata una studentessa di questa scuola?», mi domanda con curiosità, senza aspettare una mia risposta alla sua precedente affermazione.

«No. A dire il vero è la prima volta che entro qua dentro…», mormoro, soprappensiero. Poi aggiungo, sottovoce: «Credo».

La donna annuisce, perplessa. Arriviamo in fondo al corridoio, davanti a due spesse porte con maniglioni antipanico. Mrs Cope apre una delle due, e mi conduce dentro una strana stanza rettangolare, dal soffitto altissimo. Si sente solo il suono melodioso di un pianoforte.

Seguo la segretaria oltre una spessa tenda rosso scuro, e in pochi secondi capisco in che luogo mi trovo: un teatro; in particolare, sul palcoscenico. Le tante poltroncine della platea sono tutte vuote, e sul lungo e lucido parquet su cui mi trovo si trova solo un magnifico pianoforte nero; e, seduto alla seggiola, intento a suonare, un uomo.

Mi avvicino con Mrs Cope, che mi fa segno di fare silenzio, anche se i suoi tacchi risuonano sul pavimento in legno e nella sala, fastidiosi.

Man mano che sono più vicina, presto maggiore attenzione all’uomo che mi dà le spalle, e una brutta sensazione inizia man mano a prendere piede dentro di me. Quei capelli

«Mi dica, Mrs Cope».

Il pianista parla senza nemmeno voltarsi, e senza interrompere l’esecuzione.

Questa voce

L’interpellata mi guarda, sorridente. «C’è qui una signorina che vorrebbe parlarle. Lavora per la Gazzetta di Forks».

Uno strano suono proviene dal pianoforte, come se il pianista avesse sbagliato a premere un tasto, ma la musica continua a rimbombare nella sala, senza interruzioni.

«Grazie, Mrs Cope. Può andare», dice a bassa voce, terminando di suonare.

Nella stanza, divenuta improvvisamente silenziosa, risuona solo il rumore dei tacchi di Mrs Cope, che si allontana velocemente, abbandonando il teatro.

Rimango impalata in mezzo al palcoscenico, non sapendo bene cosa fare.

Il pianista abbassa il coperchio, e finalmente si alza in piedi. Quando si volta, ricollego definitivamente la sua figura con quella dello strano tipo dell’altro giorno.

Il senso di irritazione è immediata, e incrocio le braccia sotto il seno.

Fa un passo avanti, infilando le mani nelle tasche dei jeans scuri che indossa. Sopra, porta una camicia azzurra con i primi due bottoni slacciati. «Allora…», inizia, con una strana espressione, quasi divertita, «immagino sia venuta per la serata di beneficenza di venerdì».

«Sì…», sibilo, studiando le sue espressioni. Davvero crede che non l’abbia riconosciuto? Potrebbe almeno scusarsi per il suo comportamento, non è stato granché carino a scappare senza nemmeno dirmi il suo nome. Se non fosse per questa intervista probabilmente sarei ancora nel dubbio.

Annuisce, e fa un cenno con il capo verso le poltrone della platea. «Venga, sediamoci, così possiamo parlare tranquillamente».

Mi crede davvero così smemorata?! Avrò anche perso la memoria degli ultimi cinque anni, ma ricordo perfettamente il nostro incontro!

«Sul serio: pensi che non mi ricordi di te?», gli chiedo quando è già di spalle, con più astio e rabbia del dovuto.

Si irrigidisce per un secondo, fermandosi.

«Sei il tizio che mi ha aiutata con lo scatolone e poi se n’è andato senza dirmi nemmeno il suo nome! Come vedi mi ricordo di te!», continuo, piccata.

Lui si volta lentamente, e la sua espressione è confusa. «Non credo di capire… Non ci siamo mai incontrati prima…», mormora. Fa una strana smorfia. «Magari ha conosciuto mio fratello gemello, Emmett. Siamo identici, è possibile che mi confonda con lui».

Come una doccia fredda, le sue parole mi fanno immediatamente desiderare di poter scavare una fossa sotto i miei piedi, e nascondermi dentro, senza più uscirne. Le mie gote raggiungono una tonalità di rosso incandescente, e i miei occhi si abbassano a fissare le linee del parquet del palco.

Oddio. Che figuraccia. Sono proprio una stupida, perché non conto fino a cento prima di parlare? Certo, le possibilità che una persona abbia un fratello gemello identico in tutto e per tutto a se stessa sono poche, pochissime, ma conoscendo la mia sfortuna cronica avrei dovuto tacere e assicurarmi che fosse davvero lui prima di accusarlo ingiustamente.

«M-Mi scusi i-io…», balbetto, sommersa dalla vergogna. Ma la risata fragorosa da parte del pianista mi interrompe, peggiorando la mia situazione.

Bene, ora si è anche messo a ridere della mia figuraccia.

Ma la sua è una risata musicale, molto bella, capace di cancellare in parte il mio imbarazzo e la mia vergogna, facendomi sentire più a mio agio. Rialzo gli occhi per osservare il suo viso disteso in un sorriso, e mi sembra impossibile che al mondo - anzi, in tutta Forks! - esistano ben due persone di tale bellezza. È una cosa straordinaria.

«Scusa…», mormora, e noto subito il passaggio dal ‘lei’ al ‘tu’. Cerca di ricomporsi, e si schiarisce la voce, anche se quando parla il tono è ancora divertito. «Non ho saputo resistere».

Le mie guance restano rosse. «S-Si figuri…».

Scuote il capo, e le labbra si piegano in un sorriso, mentre lo sguardo è acceso dal divertimento. «No, Bella. Volevo scusarmi per un’altra cosa… Scherzavo prima, non ho un fratello gemello, ero io». E ride ancora.

Mi acciglio. «Cosa?!».

Ma che diavolo…?

Scuote il capo. «Non dovresti credere a tutto quello che ti dicono».

Stringo i pugni, irritata dalla sua irriverenza. Ma chi è questo tizio?!

«Scusa tanto se non ho la più pallida idea di chi tu sia e non parto dal presupposto che chiunque io incontri mi prenda per i fondelli!», ribatto, orgogliosa.

Ho sempre avuto questi difetti: essere troppo orgogliosa e credere immediatamente alle persone. Alice diceva sempre che ero troppo ingenua e dolce, e che dovevo fare attenzione perché la gente avrebbe potuto approfittarsene del mio vedere del bene in tutto e tutti.

Forse aveva ragione.

Il pianista fa lo stesso sorriso sghembo che mi ha fatta arrossire la volta scorsa, ottenendo lo stesso identico risultato. «Sai che mi chiamo Edward Cullen, quindi hai più che un’idea di chi sono».

Scuoto il capo. «Senta…», sibilo, imponendomi di mantenere la calma. «Facciamo quest’intervista e finiamola qui. Immagino voglia andarsene a casa anche lei».

Continua a sorridere, incurante del mio umore per niente accondiscendente. Piega la testa da un lato. «La smetti di darmi del lei? Non l’abbiamo mai fatto, e prima l’ho usato solo per lo scherzo».

Vengo presa in contropiede. Allora è vero che ci conosciamo già da prima del mio incidente. «Signor Cullen-», provo, ma mi interrompe prontamente.

«Edward».

Perché si diverte così tanto a mettermi in evidente difficoltà? È sempre stato così fra di noi?

«E-Edward…», mormoro, provando uno strano brivido correre lungo la mia schiena, «lei - ehm… tu…». Mi interrompo, arrossendo vistosamente. Ancora una volta.

Cosa sto combinando? Ed io sarei una giornalista professionista?!

«Di solito, in questi casi,» mi interrompe lui, con un sorriso sghembo dipinto sulle labbra carnose, «una giornalista come te, direbbe: mi scusi, signor Cullen, ma preferisco mantenermi su un piano professionale, e quindi distaccato, quando lavoro». Ghigna.

Ed io arrossisco come un peperone, e abbasso lo sguardo sulle mie mani.

Non è possibile che io sia diventata una vera giornalista. Non sono in gamba come dice Angela. Le altre interviste sono andate discretamente bene, ma questa si sta rivelando un vero disastro, soprattutto pensando che non abbiamo ancora iniziato con le domande per l’articolo. Eppure, anche un’altra ragazza mi ha chiesto di darle del tu, ma non ho avuto tutti questi intoppi durante l’intervista. Probabilmente sono troppo stanca, è stata una giornata molto faticosa.

Edward Cullen, notando il mio stato d’animo, smette di ridere, e mi osserva per un lungo istante. Ma i suoi occhi non sono concentrati sui miei, ma più in basso, su… sulle mie labbra.

Labbra che inconsciamente mi sto mordicchiando, a disagio.

Smetto subito di farlo, e se possibile arrossisco ancora di più.

Lui si schiarisce la voce, e sposta lo sguardo sui miei occhi, e l’espressione mi sembra addolcirsi improvvisamente. «Davvero, Bella, dammi del ‘tu’. Ci conosciamo da anni ormai».

«Perché ti diverti così tanto a prendermi in giro?», gli chiedo, senza riuscire a nascondere la nota malinconica nella mia voce.

Stringe le labbra, assumendo un’espressione contrita. «Non ti sto prendendo in giro. Sto solo scherzando. L’ho sempre fatto con te».

«Ti ho già detto che non ricordo nulla degli ultimi cinque anni. Non ricordo nemmeno come ci siamo conosciuti, io e te. Non posso sapere com’è il nostro rapporto… come è stato fino alla settimana scorsa. E adesso…», abbasso gli occhi, mordendomi il labbro. «Adesso mi infastidisce il tuo comportamento».

Sospira, e si passa una mano fra i capelli rossicci, nervosamente. «Scusa, ho esagerato…», bofonchia, guardandosi intorno. Poi i suoi occhi tornano ai miei. «Ma davvero non ti viene in mente niente? Davvero non mi riconosci?».

È serio, e nel suo sguardo c’è la stessa strana emozione indecifrabile che aveva quando gli ho rivelato di aver perso la memoria.

Scuoto il capo lentamente, rapita dai suoi occhi verdi come smeraldi.

Passano alcuni secondi, in un silenzio che mi induce a credere che il rapporto che mi lega ad Edward forse è più profondo di quanto possa immaginare.

Scaccio questo pensiero, stringendo la borsa al fianco. «Allora», mi schiarisco la voce, «facciamo questa intervista?».

Annuisce accennando un piccolo sorriso, e scendiamo insieme dal palcoscenico, sedendoci vicini su due poltroncine rosse, in prima fila.

Tiro fuori la mia lista di domande - accuratamente stilate insieme ad Angela -, il block notes e la penna. Ed inizio a fare davvero il mio lavoro.

 

Quando l’intervista giunge al termine, sono stremata. Letteralmente.

Nonostante gli abbia chiaramente esplicitato quanto gli scherzi mi irritino, Edward non ha perso nemmeno un’occasione per lanciarmi frecciatine e per fare largo uso del suo sarcasmo pungente. Ma stranamente, a mano a mano, ho iniziato ad abituarmi ai suoi giri di parole inventati, e ho anche scoperto che sono in grado di farmi sorridere, nonostante l’esasperazione. Non so su quante frasi e parole ho dovuto tirare righe perché solo dopo aver scritto ammetteva di aver scherzato.

Sicuramente è stata l’intervista più impegnativa di tutte.

Ma adesso, almeno, ho un bel po’ di informazioni in più su di lui. Ad esempio, so che ha solo tre anni in più di me, ventisette.

Usciamo insieme dall’edificio scolastico, salutando Mrs Cope, ancora alla reception. Sono già le sei e mezza; il tempo passato con lui è volato.

Ci fermiamo sotto il portico davanti all’ingresso del conservatorio. Ha smesso di piovere, e nell’aria c’è il profumo dell’erba e della terra bagnata.

«Grazie per aver risposto alle domande… sei stato molto esaustivo nonostante gli scherzi», gli dico, guardandolo negli occhi e accennando un sorriso divertito.

Sorride, e questa volta il suo è un sorriso dolce, che mi fa arrossire. Spero non lo noti. «Di niente. Credo di dover essere io a dover ringraziare te ed Angela».

Quindi conosce anche lei. Beh, mi sembra ovvio, visto che è stata lei a mandarmi da lui.

Piego la testa da un lato. «Posso farti una domanda? Non c’entra nulla con l’intervista, però».

Assume un’espressione incuriosita. «Certo. Dimmi pure».

«Perché quando ci siamo incontrati a casa mia sei scappato senza dirmi il tuo nome?».

I suoi occhi si allontanano dai miei, fissandosi sulle pozzanghere d’acqua create dalla pioggia. Infila le mani nelle tasche dei jeans, stringendosi nelle spalle. «Credo di essere rimasto sotto shock quando mi hai detto di aver perso la memoria».

Mi acciglio. «È strano che tu non lo sapessi. In città lo sanno tutti dal giorno del mio risveglio».

Fa uno strano sorriso, quasi amaro. «Non tutti a quanto pare».

Ripensare ai giorni passati in quel letto bianco, circondata da infermiere che mi fissavano curiose e dottori di ogni sorta mi porta a fargli un’altra domanda, immediata: «Per caso sei parente del dottor Cullen? È stato lui il mio medico quando ero in ospedale».

«Sì… è mio padre».

Ah. Ecco perché sembrava conoscermi. Probabilmente essendo amica di Edward conosco entrambi i suoi genitori. Ma allora perché il dottor Cullen non l’ha informato del mio stato di salute? Mi sembra tutto così strano, come se mancasse un pezzo alla storia che tutti mi raccontano - anzi, che si ostinano a non volermi raccontare.

Edward sembra conoscermi meglio di quanto mi aspettassi, e stare con lui mi rende leggermente ansiosa. Ogni volta che i nostri sguardi si incrociano provo una strana morsa allo stomaco, accompagnata dall’ormai familiare sensazione di farmi sfuggire qualcosa di importante. Come quando ero certa di conoscere il suo nome sotto casa mia, qualche giorno fa, ma non riuscivo a ricordarlo.

«Posso farti io una domanda, adesso?».

Alzo gli occhi su di lui, annuendo. La sua espressione è seria, a tratti grave.

«Per colpa dell’amnesia…», deglutisce, «tu e Jacob avete deciso di rimandare le nozze?».

Sbatto le palpebre un paio di volte, prima di rispondere. «Oh. Sì. Sì, le abbiamo rimandate a tempo indeterminato».

Le spalle tese di Edward sembrano rilassarsi, così come i tratti del suo viso. Ma forse è solo una mia impressione.

«Non ti hanno informato neanche di questo?». Aggrotto le sopracciglia, pensierosa. «Eppure Jacob mi ha detto di aver avvisato tutti gli invitati…».

Edward dischiude le labbra, e mi sembra in difficoltà. «Ehm… no…». Sembra quasi imbarazzato. Sorride timidamente. «No, non mi hanno detto niente».

Oh. Jacob è proprio sbadato, deve essersene dimenticato. Che figuraccia.

«Mi dispiace. Davvero, scusalo, Jake deve aver dimenticato di chiamarti».

Edward fa un piccolo sorriso. «L’importante è che ora lo sappia».

Annuisco, non sapendo cos’altro aggiungere.

Fra di noi cade il silenzio, rotto solo dopo alcuni minuti da un suo sospiro.

«Sarà meglio che vada…», mormoro, in imbarazzo.

Scendo il primo gradino dell’ingresso, ma mi fermo, indecisa.

Forse… forse potrei chiedergli se…

Mi volto di nuovo verso Edward, ancora fermo e con gli occhi fissi su di me.

Cerco di racimolare del coraggio, ma prima che possa anche solo pensare a come chiedergli di poterci rivedere, è lui a precedermi.

«Bella, ti va se ci vediamo uno di questi giorni, prima del concerto?».

Le sue parole escono veloci, quasi timorose, e lo sguardo carico di aspettativa che mi rivolge mi fa arrossire.

Rimango per un attimo senza fiato.

«Potrei raccontarti di come ci siamo conosciuti… e magari potresti ricordare qualcosa», aggiunge, temendo che non accetti il suo invito.

Sorrido timidamente, impacciata. «Va bene… a dire il vero stavo per chiedertelo io».

Il sorriso sghembo che mi rivolge fa fare le capriole al mio povero cuore. «Allora che ne dici di domani a mezzogiorno? Se non sbaglio Jacob ha l’orario continuato domani, no? Potremmo andare a pranzo da qualche parte e parlare».

Accetto prima ancora di chiedermi come diavolo fa lui a sapere che il mercoledì è il giorno che Jacob ha l’orario continuato.

«Allora passo a prenderti a mezzogiorno a casa di tuo padre, d’accordo? Ora devo proprio andare. A domani, Bella».

Prima che possa rispondere, mi passa accanto, e si dirige verso la sua auto, la stessa che ho visto l’altro giorno. Come ho fatto a non notarla prima? Sono una sciocca.

Quando la sua macchina è ormai sparita dal parcheggio, rifletto su quello che è appena successo.

Ho preso un appuntamento con un ragazzo. Con un ragazzo che non è il mio fidanzato.

Che cavolo sto combinando?

 

Torno a casa che sono le sette passate. Jacob mi ha mandato un messaggio chiedendomi di poter venire a mangiare da noi, stasera, e non ho saputo dirgli di no. Ed ora mi ritrovo davanti al forno, intenta a impostare la temperatura. Per mia grande fortuna in frigorifero avevo una teglia di lasagne, preparate giusto ieri, o non credo avrei avuto il tempo materiale per mettere su una cena decente per Jake e papà.

Quando il campanello suona, corro ad aprire, e mi trovo davanti Jacob. Mi bacia la guancia e mi segue in cucina, chiedendomi della mia giornata.

Gli racconto gli essere stata in giro tutto il giorno a fare le interviste per l’articolo sul concerto di beneficenza, senza scendere nei particolari. Già ieri ho notato quanto questo incarico per lui non sia degno di interesse, infatti quando chiudo il discorso dopo appena un minuto non chiede più nulla.

Al mio turno di domande, risponde come tutte le volte: «Come al solito».

Guarda cosa c’è in forno, apre il frigo, prende una birra, e va in salotto. Come tutte le volte.

Mi chiedo se la sua indifferenza, se questa abitudine nei nostri, nei suoi gesti, ci sia sempre stata. Non sembriamo una coppia di fidanzati, bensì di vecchi coniugi che hanno già consumato ogni aspetto del loro rapporto e non hanno più nulla da dirsi o offrirsi a vicenda. Non sembriamo innamorati.

È solo per colpa della mia amnesia? O…

No, non voglio pensarci. Non devo pensarci. Perché pensarci, significa mettere in dubbio anche il rapporto che ho con Jacob, e di un altro punto interrogativo nella mia schiera di certezze non ne ho proprio bisogno, al momento. Ho già un enorme punto interrogativo nella mia testa che porta il nome di Alice Brandon, e basta e avanza.

Forse Edward sa di Alice. Forse lui - almeno lui - può aiutarmi a fare chiarezza su alcune cose.

«Ah!», esclamo, lasciando andare la tovaglia che sto sistemando sul tavolo della cucina. Mi dirigo verso il salotto. «Jake?».

«Sì, Bells?».

Lo raggiungo, e lo trovo già comodamente stravaccato sul divano con la birra in una mano e il telecomando nell’altra. Proprio come Charlie. Proprio come tutte le volte.

«Non avevi detto di aver avvisato tutti gli invitati del rinvio del matrimonio?», gli chiedo, stizzita. Ricordo ancora il sorriso imbarazzato di Edward, e sento montare dentro di me la rabbia. Come ha potuto Jacob scordarsi di chiamare un invitato?! Se non lo avessi incontrato io, Edward avrebbe anche potuto trovarsi in una chiesa deserta la settimana prossima.

«Infatti, amore. È quello che ho fatto, li ho avvisati tutti», ribatte Jake, voltando la testa nella mia direzione, con un sopracciglio inarcato.

Ignoro il suo ‘amore’, e mi concentro su altro.

Scuoto il capo, con le mani sui fianchi. «A quanto pare non è così. Edward Cullen non sapeva niente del rinvio delle nozze. Che figura ci fai fare?».

Gli occhi di Jacob si sgranano, e aggrotta le sopracciglia. I muscoli del viso si tendono. «Edward Cullen?».

Annuisco, con un’espressione di rimprovero dipinta in volto. «Esatto. Gli ho parlato oggi pomeriggio, e non ne sapeva niente. Probabilmente si sarebbe ritrovato in una chiesa vuota se non l’avessi avvisato io».

Il volto del mio ragazzo diventa improvvisamente serio, e scuro. «Amore… Edward Cullen non è stato invitato al nostro matrimonio. Non gli abbiamo mai mandato l’invito».

«Cosa?! E per quale motivo? È un mio amico, non può non venire!», esclamo, accorata. Oddio, che figura ho fatto oggi pomeriggio? E perché lui non mi ha detto detto che in realtà non è stato invitato al matrimonio? Probabilmente era in imbarazzo quanto lo sarei stata io sapendo che lui non era invitato.

Jacob si alza in piedi, abbandonando le cose che aveva in mano sul tavolino. «Cosa ti ha detto? Cosa ti ha raccontato quel verme?! Ha avuto il coraggio di venire a cercarti?!».

La sua voce è dura, fredda, arrabbiata. Il viso è tirato in un’espressione di rabbia.

Arretro di un passo, spaventata. «No, Jacob, no. Sono andata io da lui, dovevo intervistarlo per la serata di beneficenza di venerdì», rispondo, cercando di tranquillizzarlo. «Non abbiamo parlato di nient’altro, davvero. Mi ha solo detto che ci conosciamo e basta».

Non so perché sto mentendo. Non so perché sto cercando di difendere Edward Cullen. So solo che in questo momento Jacob mi terrorizza, e che ho paura che possa andare dritto da Edward per prenderlo a pugni. Il mio futuro marito è sempre stato incline alla violenza, e questo è un carattere che non ho mai apprezzato, ma che al contrario mi terrorizza. «Perché ce l’hai con lui? Cos’è successo?».

Jacob avanza, e mi prende per le spalle, guardandomi negli occhi. «Bella, quello lì non è tuo amico. Devi stargli alla larga, d’accordo? Non puoi permettergli di farti ancora del male».

«Cosa…?», biascico, spaventata.

Edward mi ha fatto del male? Cos’è successo?

La porta di casa si spalanca e Charlie, inconsapevole del trambusto, entra con il sorriso sulle labbra.

Mentre si toglie il cappotto da sceriffo, i suoi occhi incrociano i miei, spaventati, e quelli di Jacob, ancora accesi dall’ira.

Immediatamente, non appena le labbra di papà si tirano in una smorfia davanti alla presa ferrea del mio ragazzo sulle mie spalle, vengo lasciata libera, e mi allontano velocemente da Jacob, correndo in cucina, dove la cena è ancora in fase di cottura.

«Cosa sta succedendo?», sento chiedere Charlie, con il tono di voce di chi non sta affatto scherzando.

«Niente, Charlie, tranquillo. Solo una piccola discussione su cosa fare domenica. Bells pensava di provare qualche vecchia esperienza per tentare di far tornare la memoria, ma credo sia ancora troppo presto per le forti emozioni».

Perché adesso mente? Perché non dice chiaramente come stanno le cose?

Chi è Edward Cullen? Cosa c’entra con me? Chi è, veramente?

Ma, soprattutto, avrò il coraggio di presentarmi all’appuntamento di domani?

________________________________

Come avete visto il rapporto Bella/Jake è abbastanza in crisi. Cosa nasconde Jacob? Ed Edward è stato sincero con Bella? Fate attenzione a quello che dice Edward e a quello che pensa Bella, mi raccomando, vi evitate troppi scervellamenti, almeno ;)

Ah, una cosa che mi sono dimenticata di dire nello scorso capitolo: ho letto alcune perplessità a proposito dell'auto di Bella. La Volvo è sua, e sua soltanto, sia chiaro, non fatevi deviare dal fatto del profumo particolare. La macchina che ho immaginato per Edward, invece, è questa qui. Più avanti capirete perché ;)

Sono aperte le scommesse, ora: Bella andrà o non andrà all'appuntamento con Edward? :D

A presto! :***

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** 7. Sguardi e sospiri ***


Salve a tutti! :D

Sono in ritardo di due giorni rispetto il solito, ma credo che riuscirò a restare nei tempi di aggiornamento ogni settimana ù.ù

Questo capitolo è leggermente più lungo del solito, sorry.

Buona lettura! :D

________________________________

7. Sguardi e sospiri

Quando riapro gli occhi dopo una notte quasi insonne, la mia camera è talmente illuminata che penso di star sognando. Forti raggi di sole filtrano attraverso le tendine chiare, brillando come non ho mai visto e spandendo un dolce calore nella stanza. Scosto il lenzuolo, sentendomi accaldata, e lancio un’occhiata alla sveglia sul comodino: segna le undici.

Le undici?!

Balzo in piedi in pochi secondi, corro alla finestra e tiro le tendine; spalanco le ante, lasciando che l’aria fresca entri. Mi concedo alcuni secondi per alzare gli occhi al cielo, dipinto di un bellissimo blu e sgombro dai nuvoloni scuri che fino a ieri sera l’hanno invaso. È una bellissima giornata, come non ne ho mai viste finora.

Il mio umore, abbastanza tetro questa mattina, migliora un pochino, ma i pensieri negativi restano lì, pronti a torturarmi di nuovo.

Lascio che le brutte sensazioni tornino a invadermi mentre raggiungo il bagno dopo aver racimolato dall’armadio un cambio. Mi spoglio e mi infilo sotto il getto d’acqua tiepida della doccia, mentre la mia mente, stanca per le poche ore di sonno, rielabora le poche informazioni avute finora.

Tra un’ora Edward Cullen si presenterà sotto casa mia per andare a pranzo insieme e parlare.

“Bella, quello lì non è tuo amico. Devi stargli alla larga, d’accordo? Non puoi permettergli di farti ancora del male”.

Ripenso alle parole di Jacob, e mi domando per quale motivo la sua rabbia è tale. Chi è Edward Cullen? Lui si è presentato come un mio amico, come qualcuno che mi conosce piuttosto bene a giudicare dalle apparenze, mentre il mio ragazzo ha smentito tutto.

Edward mi ha fatto del male? Chi è? Devo davvero girargli al largo?

Chiudo gli occhi, gettando la testa indietro e lasciando che l’acqua scivoli fra i capelli lunghi.

Sono stanca. Ho ancora sonno, ma non ho voglia di restare a letto. Sono ancora in tempo per prepararmi per l’appuntamento con Edward, anche se non sono certa di voler andare. Se avesse ragione Jacob? Se Edward fosse un bugiardo, un approfittatore?

Ieri sera sono andata a dormire che era quasi l’una. Sono rimasta tutta la sera con Charlie e Jacob, seduta sul divano a guardare alcune partite; aspettavo solo che il mio ragazzo se ne andasse per poter parlare con papà e chiedergli informazioni su Edward. Ma Jacob non se ne voleva andare. Come se avesse intuito il mio piano, ha deciso di restare fino a tardi, per passare una serata con mio padre, dato che il suo era fuori casa per una riunione degli anziani Quileute - la tribù di La Push.

Quando se ne è andato, mio padre è subito andato in camera a dormire, così la mia occasione per parlargli è svanita.

Ho passato molto tempo nel letto a girarmi e rigirarmi, pensando e ripensando a quello che mi ha detto Edward e a quello che Jacob e Charlie mi dicono-non dicono. A chi devo credere? Di chi mi posso fidare? Chi mi può raccontare la verità sulla mia vita?

Torno in camera dopo essermi asciugata velocemente i capelli ed essermi vestita, e noto che il tempo sotto la doccia è stato più del previsto: sono già le dodici meno cinque.

Mi mordo il labbro, guardando la mia borsa, appoggiata sulla scrivania. Chiudo la finestra, e scendo in salotto. Mi siedo sul divano, e attendo.

Posso fingere di non essere in casa. Posso aspettare che il campanello suoni, e rimanere seduta, senza fiatare né muovere un muscolo.

Oppure posso andare ad aprire, e fingere di stare troppo male per uscire.

O, ancora, posso semplicemente dirgli che il mio fidanzato preferisce che non esca con altri ragazzi, anche se sono semplici amici. Del resto, è un carattere tipico di Jacob, no?

Per questo, ieri sera non gli ho detto che quello stesso Edward Cullen da lui tanto odiato mi ha invitata ad uscire, e che io ho accettato senza remora, felice ed emozionata. Sicuramente avrebbe dato in escandescenze, e sarebbe andato da Edward per prenderlo a pugni, poco ma sicuro.

Sospiro, e nello stesso istante il suono del campanello interrompe le mie elucubrazioni.

… Prima ancora che io abbia preso una decisione in merito.

Che cosa faccio?

Mi muovo inquieta sul divano, guardando la borsa che ho appoggiato sul tavolino davanti a me.

Ragiona, Bella, e in fretta.

Cosa può succedere se vado a questo pranzo? Potrei scoprire cose in più sulla mia vita, cercare di capire se Edward mente o è sincero, e svagarmi un po’. Ma al tempo stesso potrei essere presa in giro, riempita di frottole senza capo né coda, e… ferita? - sempre secondo le congetture senza spiegazione di Jacob.

Guardo l’orologio: è passato un minuto intero da quando è suonato il campanello, e non ho ancora scelto.

Sono disposta a perdere l’unica occasione che ho per scoprire qualcosa di più su di me, solo perché Jacob ha cercato di intimidirmi nei confronti di questo ragazzo? Di sicuro lui e Charlie non mi racconteranno mai niente, e aspetteranno fino all’ultimo che mi torni la memoria… e se questa non tornasse? Dovrei vivere con un buco di cinque anni nella mia testa mentre il mio corpo ne riporta tutti i cambiamenti?

La risposta è una sola: no, assolutamente.

Afferro la borsa dal tavolino, e corro fino alla porta di casa. Quando la apro, Edward è ancora fermo davanti all’uscio, senza alcuna ombra di irritazione o impazienza dipinta sul volto.

«Ciao», mormoro, arrossendo come una bambina quando incontro i suoi occhi verdi, che fanno fare le capriole al mio cuore. «Scusa se ci ho messo tanto».

Il sorriso sghembo fa capolino sul suo viso, causandomi uno scompenso cardiaco. «Ciao, Bella. Figurati, ci sono abituato».

Chiudo a chiave la porta di casa, e ci avviamo verso la sua macchina, posteggiata davanti a casa. Visto il bel tempo e l’alta temperatura, la capotte è abbassata, rivelando l’interno scuro e sportivo dell’auto.

Con un movimento fluido ed elegante, Edward mi apre la portiera, richiudendola non appena mi sono accomodata sul morbido sedile. Sale al posto del guidatore, e accende il motore. Prima di partire, però, si volta a guardarmi.

«Preferisci che chiuda l’auto?», mi domanda, apprensivo.

Scuoto il capo, sorridendo eccitata come una bambina di cinque anni. «No. Non sono mai stata su una decappottabile, voglio provare com’è».

Edward piega il capo da un lato, inarcando un sopracciglio con un sorriso divertito, ma non dice nulla. Ingrana la marcia e parte, prima ancora che possa chiedergli qualcosa.

Subito, l’aria fresca inizia a soffiare sul mio viso e fra i miei capelli, ridotta in parte dal parabrezza che ci ripara dalla corrente diretta. Edward apre un piccolo scompartimento dal vano portaoggetti, ed estrae un paio di occhiali da sole scuri, che indossa velocemente.

Rimango per alcuni secondi ad osservarlo, ipnotizzata dal movimento scomposto dei suoi ciuffi rossi, all’apparenza tanto morbidi e setosi, dal suo profilo così ben delineato. Non credo di aver mai conosciuto un ragazzo tanto bello in tutta la mia vita.

Inevitabilmente, nella mia testa si affaccia il pensiero di Jacob. Cosa sto dicendo? Non dovrei paragonare Jacob a lui. È Jacob Black il mio fidanzato, per me non dovrebbe essere perfetto? Non dovrebbe essere lui il ragazzo più bello del mondo ai miei occhi?

Non dovrei essere attratta fisicamente da lui?

Stringo le mani in grembo, distogliendo l’attenzione da Edward.

Edward mi attrae. Fin dal nostro primo incontro davanti a casa mia ho notato di essere attratta da lui fisicamente, così come non lo sono per niente dal mio fidanzato.

Mi mordo il labbro, guardando il paesaggio scorrere davanti a me, ma senza prestargli realmente attenzione.

Cosa c’è di sbagliato in me?

Probabilmente ho sbagliato ad uscire con Edward, e sto sbagliando a sentirmi così a mio agio in questa macchina, a poca distanza da lui.

Dovrei mettere subito fine a questo incontro, fingendo di essermi improvvisamente ricordata di qualche impegno improrogabile e a cui non posso assolutamente mancare.

Ma allora perché non voglio?

«Sei preoccupata?».

La voce di Edward arriva inaspettata, quanto la sua domanda.

Mi schiarisco la voce, cercando di prendere tempo, inutilmente. «No», mento.

Volta leggermente il capo verso di me, lanciandomi probabilmente una breve occhiata attraverso gli occhiali da sole scuri.

Scuote il capo fra sé e sé, ghignando. «Non sei capace di mentire, Bella».

Sbuffo. Ecco, è tornato il suo tono canzonatorio. Mi stavo proprio chiedendo dove fosse finito questo suo lato del carattere, visto che non si era ancora presentato.

Sposto lo sguardo sulla strada, e noto che ci troviamo sulla statale diretta a Port Angeles. «Dove stiamo andando?», domando, provando per un istante un brivido di panico. Anche la mia voce trema.

«Stiamo andando nel mio covo segreto», risponde, asciutto.

Mi volto a fissarlo con un’espressione probabilmente atterrita.

Lui però non si volta, e continua a guidare. «Ora stai ferma e zitta, chiaro? Da adesso puoi considerarti mia prigioniera, ma prometto che se farai la brava ti tratterò bene, almeno finché Jacob e Charlie non si decideranno a pagare un riscatto salato».

«C-Cosa?», bisbiglio, con la voce strozzata. Cosa sta dicendo? È impazzito?

… Jacob aveva rag-

Il fragore della sua risata mi interrompe… e scatena la mia rabbia.

«Mi hai presa di nuovo in giro?!», strillo, sovrastando la sua risata ilare, che non accenna a terminare.

«Oddio, Bella», continua, fra una risata e l’altra, rallentando di poco la sua corsa sull’asfalto perché poco concentrato sulla guida. Effettivamente credo sia un bene, visto che finora non ha per niente rispettato i limiti di velocità imposti dal codice della strada. Se Charlie lo venisse a sapere come minimo mi ucciderebbe, visto che mi trovo a bordo di quest’auto. Ma la vera stranezza sta nel fatto che non ho avuto neanche un briciolo di paura per tutto il tempo, mentre sono più che certa di aver sempre avuto un certo timore dell’alta velocità.

«Avresti dovuto vedere la faccia che hai fatto», ghigna, ricomponendosi dopo due minuti buoni di grasse risate a discapito mio.

Io, dal canto mio, sono rimasta a sbuffare per tutto il tempo, con le braccia incrociate sotto il seno e il capo rivolto dalla parte opposta alla sua.

«Bel modo di prendermi in giro, Edward», sbotto, arrabbiata e con le guance rosse come pomodori. «Mi hai quasi fatto venire un infarto!».

La velocità aumenta di nuovo. L’angolo della bocca di Edward rimane piegato verso l’alto, testimone del suo divertimento.

«In ogni caso stiamo andando a Port Angeles», dice tranquillo.

«Oh», rispondo, sorpresa, e anche un po’ sollevata interiormente.

Il fatto che ci allontaniamo da Forks in qualche modo mi rende più tranquilla. Neanche stessi tradendo il mio ragazzo con l’amante di turno.

Eppure… lancio un’occhiata di sottecchi ad Edward.

È tradire, provare questa strana attrazione per qualcuno che non è il mio fidanzato?

È tradire, provare questo batticuore forsennato ogni volta che i suoi occhi incontrano i miei?

«Hai voglia di mangiare pesce?», mi domanda Edward, strappandomi a questi pensieri colmi di senso di colpa.

Distolgo velocemente lo sguardo. «Sì», rispondo, leggermente agitata. «Sì, molta. Stiamo andando al porto?».

Nella zona del porto di Port Angeles ci sono molti ristoranti, alcuni anche abbastanza famosi, specializzati nella cucina del pesce.

Edward annuisce. «Sono sicuro che ti piacerà».

Il sorriso sghembo che mi rivolge mi lascia per un istante senza fiato, e mi fa arrossire.

È tradire, desiderare un uomo che non è il mio?

 

«Prego».

Il sorriso della cameriera è quasi completamente rivolto al mio accompagnatore, e devo stringere le mani intorno al manico della borsa per trattenermi dallo sbottare un: “Ehi, cara, non so se l’hai notato ma ci sono anche io, qui. Sarebbe carino se mi degnassi almeno di uno sguardo. Ma soprattutto sarebbe carino se la smettessi di mangiarti con gli occhi il ragazzo insieme a me.” Insomma, per quanto ne sa lei, potrebbe tranquillamente essere il mio ragazzo!

Da quando ci siamo presentati all’ingresso del ristorante, questa esuberante ragazza non ha fatto altro che tenere gli occhi piantati su Edward, provando ad attirare la sua attenzione in ogni modo. Sono certa che anche lui ha notato i suoi tentativi, ma l’unico motivo per cui mi sono imposta la calma e il silenzio è perché lui non ha fatto altro che guardarmi e parlarmi per tutto il tempo, anche mentre lei ancheggiava esageratamente davanti a noi, sperando sicuramente che lo sguardo dell’uomo al mio fianco cascasse proprio sul suo fondoschiena.

Tuttavia, nonostante la cameriera… devo ammettere che Edward aveva ragione. Questo posto mi piace. È un locale semplice, presso il porto, con uno spazio interno, dove sono posizionate alcune vasche con al loro interno aragoste ancora vive, e un bancone dove è possibile ordinare e portare via la zuppa di granchio o altre piccole specialità del posto, e uno spazio esterno, situato su un enorme terrazzo in assi di legno, sotto le quali scorrono le onde dell’oceano, prima di infrangersi sugli scogli.

Siamo seduti ad un tavolo posizionato vicino alla staccionata di legno, e la brezza fresca dell’oceano ci scompiglia leggermente i capelli, senza essere per nulla fastidiosa. Il rumore delle onde è rilassante, ed è disturbato solo dal lieve brusio delle altre persone sedute ai tavoli, e dal rumore delle posate che sbattono sui piatti.

Tutto il resto è pace. Forks sembra lontana, così come il mio senso di colpa nei confronti di Jacob.

Guardo Edward, seduto davanti a me, e lo scopro intento a fissarmi. Ora che gli occhiali da sole sono spariti dal suo viso posso finalmente godermi il verde intenso dei suoi occhi.

«Sei già venuto qui altre volte?», gli chiedo, abbassando lo sguardo sul tavolo di legno, sul quale sono disposte due tovagliette con piatti bianchi e tovaglioli color panna accuratamente piegati.

Un angolo delle sue labbra si piega verso l’alto. «Sì…».

La cameriera arriva con i menù, spezzando il silenzio sceso fra noi. Li lascia sul tavolo, e si dilegua velocemente, soffermando i suoi occhi più del dovuto su Edward, che le rivolge un breve sguardo quando la ringrazia.

Prendiamo entrambi le liste, e iniziamo a leggere.

Il sorriso di Edward si fa canzonatorio, ancora una volta. «Opterei per il vino, come bevanda, ma non voglio rischiare di farti ubriacare per la prima volta… secondo la tua memoria fallace».

Arrossisco, imbronciandomi. «Ecco. Aggiungi alla lista di cose che mi devi raccontare questa sull’alcol. Anche se dubito che io mi sia mai ubriacata in vita mia».

Il sorrisetto di Edward mi induce a credere il contrario. Scuoto una mano. «Va bene, lasciamo perdere. Ne parleremo più avanti. Ora iniziamo dalle cose più semplici».

Edward alza un dito, facendomi segno di aspettare. «Prima ordiniamo, poi possiamo iniziare con le domande e i racconti, d’accordo?».

Controvoglia, annuisco, conscia che non riuscirò a fargli cambiare idea.

Leggo velocemente il menù, optando per un antipasto di mare freddo da dividere con Edward, e il granchio bollito, la specialità del posto.

Quando ho già chiuso il menù, noto che lui è ancora fermo alla lista dei primi, che scorre con il dito, lentamente, molto lentamente.

«Edward, stai imparando il menù a memoria, per caso?», gli chiedo ironica, ansiosa di fargli la mia prima domanda in merito al mio passato.

Lui sorride, e passa a leggere la lista dei secondi.

Inizio a battere nervosamente l’indice sul tavolo, facendolo sorridere ancora di più.

«Hai voglia di torturarmi, ammettilo», sibilo.

Alza gli occhi dal libretto per guardarmi e sorridere maliziosamente. «Non sai quanto».

Contro ogni previsione, arrossisco. Non so se per il suo sorriso malizioso e la sua risposta, non so se per i suoi occhi che si sono attardati a fissare le mie labbra, o se per le mie che hanno rilasciato un piccolo sospiro quando il mio sguardo si è focalizzato sulla punta della sua lingua, che ha umettato le sue labbra. Fatto sta che ho provato una stranissima sensazione, di piacere, di eccitazione, di quelle che ti sconvolgono e che non ho mai provato prima d’ora.

Distolgo lo sguardo rapidamente, ringraziando mentalmente la fresca brezza oceanica che come un toccasana interviene per raffreddare le mie guance divenute improvvisamente bollenti.

Quando noto che con il dito è sceso a sottolineare l’elenco dei dolci gli strappo di mano il menù, riponendolo sul tavolo, sopra al mio. Il ghigno divertito sul suo viso mi porta a credere che non aspettava altro che questa reazione da parte mia.

A volte mi chiedo se ha davvero 27 anni o dieci in meno.

La cameriera arriva subito, e prende le nostre ordinazioni, identiche.

Avrei dovuto capire subito che aveva scelto cosa prendere prima ancora di entrare nel ristorante.

«Allora…», mormora, appoggiando un gomito sul bracciolo della sedia e mettendosi più comodo, «immagino avrai un sacco di domande da fare».

«Chi ti dice che voglio avere delle risposte da te? E poi, potrei aver già ricevuto tutte le risposte che cerco da Jacob e Charlie, non credi?», gli rispondo a tono, cercando di assumere un tono beffardo, con scarsi risultati. L’umiliazione per essere stata presa in giro per la seconda volta consecutiva brucia ancora.

Il sorriso sghembo fa capolino sulle sue labbra. «Ne dubito seriamente».

E da quel sorriso, e dal suo sguardo malizioso e intenso, capisco che forse lui sa cose che nessun altro oltre a lui sa.

Cos’è stato per me Edward in questi cinque anni? Era più di un semplice amico? Era un confidente? Era… no, è impossibile, non riesco nemmeno a pensarlo.

Mi schiarisco la voce, guardando l’oceano al nostro fianco. «Allora… potresti iniziare col raccontarmi quando e come ci siamo conosciuti…».

Annuisce lentamente. «Beh, quando è abbastanza semplice da ricordare. È stato proprio cinque anni fa, più o meno. La sera del ballo di fine anno della tua scuola, per la precisione».

Mi rizzo a sedere sulla sedia, e proprio in questo istante la cameriera sopraggiunge con la bottiglia di acqua, un cesto con dei panini e del burro. Lascia tutto sul tavolo dopo aver aperto l’acqua, e poi si allontana. Inizio davvero a non sopportarla più.

«Hai detto la sera del ballo di fine anno?», gli domando con un nodo alla gola.

Lui annuisce pensieroso, versando prima nel mio bicchiere e poi nel suo l’acqua.

Aggrotto le sopracciglia, e lui riprende a raccontare.

«Mi sei piombata addosso mentre correvi sul marciapiede. Sei volata per terra e hai battuto la testa, rischiando quasi di svenire».

Stringo il tovagliolo che ho portato in grembo in un pugno, tremando. Ricordo quella sera. Ricordo di essere caduta e di aver battuto la testa, e di aver visto un volto offuscato davanti a me. E poi… è tutto buio. Non ricordo altro.

«Stai bene, Bella?», mi chiede Edward, preoccupato, con le sopracciglia aggrottate.

Annuisco lentamente. «È questo l’ultimo ricordo che ho», gli dico, senza guardarlo negli occhi. «Dopo quella caduta non ricordo più niente, è tutto nero».

Alzo lo sguardo su di lui, e lo trovo pensieroso, con le sopracciglia aggrottate ed una strana espressione. Cosa sta pensando?

«Ti va di continuare?», gli chiedo, timidamente.

Lui sembra riscuotersi, e continua. «Beh… dopo che sei caduta hai provato a rialzarti, ma ti girava la testa. Stavo per portarti in ospedale, ma hai insistito per sederti su una panchina per alcuni minuti. Ovviamente non potevo lasciarti da sola dopo che sei quasi svenuta per colpa mia, così sono rimasto con te. E abbiamo iniziato a parlare, poi il resto lo puoi immaginare».

No, Edward, non lo posso immaginare”, vorrei dirgli. Ma non lo faccio, almeno per il momento.

«Come mai ti trovavi vicino alla scuola? Tu sei più grande, non credo stessi andando al ballo».

Sorride. «No, infatti. Stavo andando a salutare mia cugina, ero appena tornato a casa da New York per le vacanze estive».

Certo… New York, dove ha frequentato uno dei più rinomati conservatori degli Stati Uniti - come mi ha raccontato ieri durante l’intervista.

«E da quel momento siamo diventati amici?», domando, quasi incredula.

Com’è possibile? Ero pronta a bollare quella serata come la più disastrosa di tutta la mia vita, invece ho conosciuto lui… non posso crederci.

«Ovvio, eri totalmente ed incondizionatamente affascinata dal sottoscritto!», esclama, ilare. «Dopo che ti ho salvata dal cadere di nuovo in mezzo alla strada mi hai praticamente pregato di diventare tuo amico».

«Edward!», strillo, arrossendo. Alcune persone sedute ai tavoli intorno a noi si voltano a guardarmi, ma non ci faccio caso. «Riesci a restare serio e a non scherzare per cinque minuti?!».

Lui ride, e prende un pezzo di pane, lo spezza e inizia a spalmarci sopra un po’ di burro. «Andiamo, Bella. Tanto lo so che mi adori per questo».

Incrocio le braccia al petto, voltando il capo verso l’oceano. «Sei molto sicuro di te a quanto vedo…».

Con la coda dell’occhio noto che il movimento delle sue mani si interrompe per alcuni secondi, prima di riprendere più lentamente di prima. «A volte le apparenze ingannano, lo sai, vero?».

Il tono con cui parla - basso, e con la voce leggermente roca - mi convince a tornare a guardarlo, e a soffermarmi sui suoi occhi, nascosti dalle lunghe ciglia e fissi sul piatto.

Dà un morso al panino, mentre osserva l’oceano.

«Cosa intendi dire?», gli chiedo, inquieta.

«Esattamente quello che ho detto».

Stringo in un pugno il tovagliolo. «No. No, non mi basta come risposta, Edward. Mi hai portata qui perché hai detto che avresti risposto alle mie domande», ribatto, piccata. «Hai detto che mi avresti detto tutto. Non sono una malata mentale, maledizione! Perché non-».

Vengo interrotta dall’arrivo della cameriera - ancora una volta che arriva nel momento meno opportuno, e giuro che le rovescio accidentalmente addosso qualcosa! - che porta il piatto di antipasti freddi per me ed Edward.

Appena si allontana, torno a guardare lui, che ha finito il panino e mi osserva intensamente, con la mascella serrata.

Prendo un profondo respiro. «Sono stanca di essere tagliata fuori dalla mia vita. Voglio delle risposte. Sono pronta a subirne tutte le conseguenze, ma, per favore, aiutami almeno tu a recuperare la memoria. Se nessuno mi racconta nulla non so nemmeno da che parte devo iniziare per ricostruire i miei ricordi».

Gli occhi di Edward mi scrutano per un lungo istante.

«Quindi vuoi la verità?», mi domanda, asciutto.

«Sì. Sì, a qualunque costo. Ti prego, sii sincero».

Inspira ed espira. Una, due, tre volte. «Va bene».

Ed io, dentro di me, esulto. Mi mordo il labbro e stringo il tovagliolo, pronta ad ascoltare qualunque cosa voglia dirmi.

«Tu non sei felice».

«Ma-».

«No, non mi interrompere. Vuoi la verità, no? Allora lasciami parlare», ribatte, quasi freddamente. Ma i suoi occhi ardono come mai prima d’ora. «Tu non sei felice. Non lo sei a causa di Jacob. Tu non lo ami, non lo vuoi sposare. Ed è da un po’ di tempo che… vi siete allontanati».

I suoi occhi mi inchiodano sulla sedia, strappandomi il respiro.

«Tu lo tradisci, Bella. Io e te non siamo semplici amici, io e te siamo amanti».

________________________________

*corre a nascondersi dietro un muro*

Allora... Edward mente? E' sincero?

Cosa accadrà adesso?

Prima che mi fuciliate prendete in considerazione il fatto che ho 'almeno' svelato un mistero: era Edward il ragazzo contro cui Bella ha sbattuto dopo il ballo. Significherà qualcosa? Vedremo :D

Vi ricordo che la macchina di Edward è questa qui.

Apriamo altre scommesse: Edward mente o è sincero?

A presto :*******

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** 8. L'amara verità ***


Salve a tutti! Chiedo venia per il terribile ritardo, ma l'ultima settimana prima dell'inizio delle vacanze di Pasqua è stata pesantissima >.<

Di sicuro d'ora in poi non scriverò più che riuscirò a stare nei tempi di aggiornamento perché, guardate caso, ogni volta che lo dico/scrivo finisco sempre per arrivare in ritardo :/

Spero che le vacanze mi aiutino a preparare un po' di capitoli, perché l'avvicinarsi di giugno significa esame di maturità, e di sicuro in quel periodo non avrò tempo per scrivere :/ Spero abbiate pazienza XD

Comunque vi lascio al capitolo, ho blaterato troppo! Sappiate che ci sono un paio di frasi riprese dallo scorso capitolo dal discorso di Edward, e alcuni, molti, accenni alla vita passata di Bella, di cui si sa ancora poco-nulla. Quindi attenti ù.ù

Buona lettura!

________________________________

8. L’amara verità

«Tu lo tradisci, Bella. Io e te non siamo semplici amici, io e te siamo amanti».

Lo guardo per un lungo istante, fissandolo intensamente negli occhi, alla ricerca di quella maledetta scintilla di furbizia che li illumina ogni volta che mi prende in giro. Ma in questo momento nel suo oceano verde smeraldo non riesco a scorgere nessuna traccia di ironia e sarcasmo, nessun indizio che mi possa indurre a credere che il suo è solo l’ennesimo scherzo.

Alla fine, scoppio a ridere. Ma la mia non è una risata divertita, è una risata nervosa, quasi isterica.

Edward mi fissa stralunato, senza capire.

«Quando la smetterai di scherzare?», domando, continuando a ridacchiare.

Lui appare confuso. «Non sto scherzando questa volta, Bella. Credo di non essere mai stato più serio d’ora».

Inizio a portare nel mio piatto alcuni pezzi di antipasto freddo di pesce dal piatto principale. Tutto, pur di non guardare i suoi occhi. «Certo…», mormoro, con il sarcasmo che avvelena la mia voce, «quando passerai alla parte in cui sono anche una serial killer professionista con un sacco di cadaveri sulla coscienza?».

«Beh, non sei una serial killer, ma una volta mi hai puntato contro la pistola di Charlie e accidentalmente ti è partito un colpo. Per fortuna non mi hai neanche sfiorato, o a quest’ora non credo che sarei qui seduto con te», risponde, prontamente.

Lo fisso, atterrita. «Sul serio?».

Edward fa il suo tipico sorriso sghembo, e capisco di esserci cascata ancora. Sbuffo, e inizio a mangiare il pesce.

Lui non accenna a toccare cibo. «Lo vedi?», inizia, perdendo la sua consueta calma, apparendo quasi irritato. «Credi sempre ai miei scherzi. L’unica volta in cui dovresti credermi, invece, decidi che è una bugia. Perché? Non lo trovi strano?».

Stringo la forchetta fra le dita, guardandolo. «L’unica cosa che trovo strana, Edward, è il fatto che tu mi stia dando della…».

«Della?», mi sprona lui, notando che non accenno a continuare.

Stringo le labbra per un istante. «Della traditrice. Non posso credere di aver potuto…».

«Cosa? Di aver cercato per una volta di essere felice senza pensare troppo alle conseguenze? Se è questo che ti preoccupa puoi star certa che ce ne hai messo di tempo per prendere una decisione simile», ribatte, senza lasciarmi il tempo di riflettere sulle mie stesse parole.

Scuoto il capo, sentendo il cuore battere forte. Non può essere vero, non è possibile che io abbia fatto una cosa del genere. Per tutta la mia vita ho condannato coloro che tradivano, incapace di trovare una valida motivazione a un simile gesto; come posso essere cambiata così radicalmente?

«No, non ti credo», dico, senza riuscire a guardarlo negli occhi. «Io ho sempre odiato il tradimento, non sarei mai in grado di fare una cosa simile ad una persona che amo».

Edward stringe la mascella. «È proprio questo il punto, Bella: tu non ami Jacob, non l’hai mai amato».

Punto gli occhi nei suoi, infuriata. «Allora mi spieghi per quale motivo sarei fidanzata con lui?! Ti ricordo che questo sabato ci saremmo dovuti addirittura sposare, se non fossi caduta dalle scale e avessi perso la memoria. Pensi davvero che avrei la forza di sposare un uomo che non amo così su due piedi?! Se è vero quello che dici, spiegami per quale motivo non ho ancora lasciato Jacob per stare con te. O forse anche tu stai tradendo qualcuno?!». Le parole mi escono con più rabbia del previsto, e gettano sul suo viso e nei suoi occhi un’ombra scura, tetra.

Gioca con le dita con la forchetta sul tavolo, guardando il suo piatto ancora vuoto e pulito.

«Io non sto tradendo nessuno, Bella», sussurra, tenendo gli occhi bassi. Poi li alza, per guardarmi. «Tu volevi lasciare Jacob, ma avevi paura. Avevi paura di fargli del male e…».

Serra la mascella, e si ferma.

Aggrotto le sopracciglia, guardandolo. «E…?», lo incito, curiosa di sapere cos’altro si è inventato per convincermi che abbiamo una relazione segreta.

Perché la nostra relazione era segreta, vero?

Edward si riscuote, e scuote il capo. «Niente. Avevi solo paura che gli avresti fatto troppo male lasciandolo all’improvviso, a pochi mesi dal matrimonio».

«Mesi?», ripeto, stordita. «Da quanto tempo lo tradisco, allora?», domando, nervosa. «Almeno secondo il tuo stupido scherzo», aggiungo in un sibilo.

Edward si acciglia. «Da quasi un anno… più o meno da quando Jacob ti ha fatto la proposta di matrimonio. La vuoi smettere di dire che è uno scherzo? Ti ho detto che è la verità, maledizione».

E se fosse la verità? Se davvero Edward mi stesse dicendo il vero? È stato l’unico finora a parlarmi schiettamente - anche se di cose a cui fatico credere. È stato l’unico a raccontarmi senza troppi giri di parole quello che gli ho chiesto. Ma chi può assicurarmi che non è qualcosa che si è inventato sul momento, o, peggio ancora, che ha preparato fin dal primo momento in cui gli ho assicurato che sarei andata a pranzo con lui per parlare del mio passato? Del resto, ho avuto più volte in questi due incontri occasione di notare quanto sia bravo a convincermi di cose assolutamente assurde.

Guardo l’oceano, sentendo gli occhi pizzicare. Sono confusa, ho bisogno di riflettere e di non sentire più nulla di tutto questo. «Basta, per favore», mormoro. «Non voglio sentire queste cose, adesso».

Edward mi osserva per un lungo istante. Poi, con lentezza, inizia a riempire il suo piatto, iniziando a mangiare. E fra di noi cala il silenzio totale, rotto solo dal suono delle onde sotto di noi e dallo stridio dei gabbiani.

 

«Grazie per il pranzo…», mormoro, in evidente difficoltà ed imbarazzo, quando l’auto si ferma davanti al vialetto della casa di Charlie.

Il tettuccio è ancora abbassato, e i raggi caldi del sole colpiscono il mio viso, costringendomi a tenere gli occhi socchiusi.

Edward si sfila gli occhiali da sole, e spegne l’auto.

Dovrei chiedergli se vuole entrare? Jacob termina il turno fra una decina di minuti, e potrebbe passare a trovarmi… se mi trovasse con lui sicuramente assisterei ad uno spiacevole incontro fra i due.

«Bella?», mi richiama, afferrando la mano che stavo per allungare per aprire la portiera dell’auto.

Sussulto al tocco, che mi provoca una cascata di brividi che corrono dalla nuca per tutta la schiena. Lo guardo, sperando che non si sia accorto di quello che ha scatenato dentro di me, e subito incontro i suoi occhi verdi, che sotto i raggi del sole brillano di un verde ancora più bello e splendente.

«S-Sì?», sussurro, sentendo le guance imporporarsi.

Non può guardarmi così, non deve.

«Quello che ti ho detto prima ti giuro che era la verità», mi dice, senza allontanare gli occhi dai miei e lasciare la mia mano. «Non potrei mai mentirti su una cosa simile, credimi».

Sono io a interrompere il nostro contatto visivo, posando gli occhi sulla sua mano, che stringe la mia in una morsa delicata ma decisa al tempo stesso.

«Cosa ti aspetti da me, Edward?», gli chiedo debolmente. «Ti aspetti che creda immediatamente alle tue parole e che lasci Jacob per un… un estraneo?». L’ultima parola la sussurro, come se nemmeno io ci credessi davvero. A dire la verità, mi sembra di conoscere di più Edward che il mio stesso fidanzato, che tra l’altro conosco fin da quando eravamo bambini, e del quale conservo ancora ricordi; di Edward invece non so niente, non ho ricordi se non degli ultimi due giorni, eppure sento di conoscerlo, di potermi fidare di lui. Cosa c’è di sbagliato in me, nella mia testa, nel mio cuore?

«No…», mormora, ed io alzo lo sguardo. «No, ovviamente. Non mi aspetto niente, Bella». Sbatte le palpebre un paio di volte, come per schiarirsi le idee. «Non voglio che tu faccia qualcosa per me, voglio che tu faccia qualcosa per te stessa». Stringe più forte la mia mano. «Non devi avere paura di quello che provi, devi solo accettarlo e non scappare come…». Ancora un volta si interrompe, per poi riprendere dopo appena un paio di secondi. «Voglio solo che tu faccia chiarezza dentro di te, e che non prenda decisioni avventate, qualsiasi cosa tu scopra sul tuo passato».

Mi acciglio, incapace di comprendere il significato nascosto delle sue parole.

«Cosa intendi dire? Cos’è che non mi hai detto?», gli domando, ansiosa.

Edward fa un piccolo sorriso. «Mi hai chiesto di non parlare più di certe cose, ricordi?».

Mi mordo il labbro, conscia che sta dicendo la verità. Sono stata io stessa a chiedergli di non parlare più di cose che riguardavano - secondo la sua versione dei fatti - noi due come coppia. Il pranzo è stato un susseguirsi di piccoli aneddoti e racconti su di me. Su cosa ho fatto dopo la fine delle superiori, dove sono stata durante i miei viaggi per il giornale, cosa mi appassiona. Solo a una domanda ha detto che avrebbe aspettato che fosse la diretta interessata a rispondermi: Alice; dov’è, cosa fa, perché non mi parla più. Però ha confermato il fatto che io e lei non ci parliamo più, ed è già qualcosa, dato che quando provo a parlare con altre persone di lei subito cala il silenzio o si cambia discorso.

«Se vuoi venerdì alla serata di beneficenza potremo parlare ancora… e se te la senti potrei raccontarti anche il resto», propone con cautela.

Rivederlo. Parlare ancora con lui di… noi. Perché sono convinta che non sia una buona idea? Perché ho paura di quello che potrei sentire?

«Io…». Abbasso lo sguardo, incapace di reggere il suo, troppo intenso. «Credo che non ci sarò venerdì».

La presa sulla mia mano trema per un breve istante, ma rimane salda.

«Chiederò ad Angela di sostituirmi con qualcun altro. Credo sia meglio che…».

«Che cosa?», chiede lui, serio. «Che non stiamo troppo vicini? Cosa c’è, Bella? Hai paura di ammettere che mi desideri più di quanto tu voglia il tuo fidanzato?».

Le sue parole arrivano come una coltellata ardente dritte al mio cuore, e mi fanno sussultare. Allontano la mano dalla sua con uno strattone, e apro la portiera velocemente, scendendo dalla sua auto.

Prima di allontanarmi mi volto, e lo guardo. Le labbra sono chiuse e tirate in una linea dritta, e l’espressione è ancora grave.

«Devi smetterla», sibilo, stringendo i pugni. «Non hai… non hai il diritto di dirmi queste cose».

«Preferisci continuare a vivere nella menzogna, allora? Vorresti che iniziassi anch’io a non rispondere alle tue domande e a dirti che quando ti tornerà la memoria ricorderai tutto?».

Sbatto le palpebre un paio di volte, confusa. «Come fai a sapere che non mi dicono niente?».

Le sue labbra si piegano in un sorriso amaro. «Non ci vuole molto per capire che stanno cercando di tenerti il più possibile all’oscuro del tuo passato. Anche perché altrimenti non avrebbero avuto senso le tue domande di oggi».

«In ogni caso non puoi parlarmi in questo modo. Forse…», abbasso gli occhi sull’asfalto del marciapiede su cui mi trovo, «forse aveva ragione Jacob, è meglio se non ci vediamo più. Le tue parole non stanno facendo altro che confondermi più di quanto non lo sia già».

«Hai detto a Jacob che ci saremmo visti oggi?», mi chiede, senza nessuna inflessione nella voce.

Alzo gli occhi, incontrando il suo sguardo indecifrabile. Arrossisco. «N-No… insomma… non mi sembrava necessario…».

Edward non sorride, e sembra riflettere su qualcosa. «Non dirgli che ci siamo visti».

Aggrotto le sopracciglia. «Per quale motivo dovrei mentirgli? Non abbiamo fatto niente di male, e di sicuro non andrò a raccontargli quello che mi hai detto».

La mano di Edward ferma sul volante si stringe fino a far diventare le nocche bianche, e i tratti del suo viso si induriscono. «Bella, lo dico per il tuo bene. Non dire nulla a Jacob del nostro incontro, fingi di essere rimasta a casa a leggere».

«Edward, ma perché…».

«Devo andarmene», dice, interrompendomi e mettendo in moto l’auto. «Jacob verrà sicuramente a trovarti tra poco, e se mi trova qui non servirà a nulla mentirgli. Allora ci vediamo venerdì sera».

Mi rivolge il suo sorriso sghembo.

«Ti ho detto che non verrò», sbotto, irritata da tutta la sua sicurezza.

Sorride. «Credo che potrebbe tornarti utile venire alla festa. Chissà che incontri qualcuno che stai cercando da giorni…».

Alice.

È a lei che si riferisce?

Non faccio in tempo a chiederglielo, perché si allontana velocemente a bordo della sua macchina, lasciandomi confusa e stordita.

 

Come Edward aveva previsto, Jacob è venuto a trovarmi subito dopo il lavoro.

Ho fatto giusto in tempo a cambiarmi e a sdraiarmi sul divano con il mio libro prima che il campanello suonasse, e ad assumere un comportamento spensierato per non essere costretta a mentire al mio fidanzato. Le parole e gli avvertimenti di Jacob di ieri sera risuonano ancora nella mia testa, feroci e minacciosi.

«Ehi, Bells», mi saluta, dandomi un bacio sulla guancia.

Accenno un sorriso, e lo lascio entrare in casa, chiedendogli se ha già pranzato, e alla sua risposta affermativa gli offro una birra.

Andiamo in cucina, ma mentre cerco di aprire la bottiglietta di vetro con il cavatappi una sua frase mi lascia spiazzata.

«Sei uscita con Edward Cullen, prima, non è vero?».

La sua non sembra una domanda a cui serve davvero una risposta, anzi sembra più un’accusa.

Sono una così pessima attrice? Cosa gli dà una simile certezza?

Sapeva del tradimento prima che perdessi la memoria?

La presa del cavatappi attorno al becco della bottiglietta si sposta per un movimento involontario del mio braccio, e devo fare un altro tentativo prima di aprire la birra.

«Perché me lo chiedi?», gli domando, cercando di apparire il più possibile tranquilla, anche se la mossa fatta poco fa con la bottiglia di certo mi ha smascherata.

Non posso certo definirmi il ritratto della tranquillità.

«Forse perché Quil - ti ricordi di Quil Ateara, vero? - ti ha visto con lui sulla sua macchina mentre andavate verso la periferia intorno all’ora di pranzo», mi risponde lui, asciutto e senza nessuna particolare inflessione nel tono di voce.

Mi irrigidisco, e quando mi volto per portargli la bottiglia di birra aperta non riesco neanche a guardarlo negli occhi. Gliela lascio sul bancone della cucina, e torno al frigorifero per prendere la bottiglia d’acqua e riempirmi un bicchiere.

Mi ricordo di Quil. È uno dei migliori amici di Jacob dai tempi delle superiori, e mi sembra mi abbia detto che adesso lavorano insieme nell’officina di Sam Uley, con anche il loro amico Embry.

Quando Edward è venuto a prendermi non ho pensato che mentre ci allontanavamo da Forks qualcuno avrebbe potuto vederci, mi ero solo preoccupata di non pranzare insieme a lui in città, certa che lì ci avrebbero riconosciuti. Sono stata una sciocca a pensare di poter tenere segreta una cosa simile, e anche Edward.

«Siamo andati a pranzo insieme…», mormoro alla fine, conscia che mentire ora non serve a nulla. Jacob crede ciecamente al suo migliore amico, e sicuramente non servirà tentare di convincerlo del fatto che Quil mi ha scambiata per qualcun’altra; non farei altro che peggiorare la situazione.

Lancio un’occhiata a Jacob, e lo scopro più calmo di quanto mi aspettassi. Probabilmente avrà sbollito la maggior parte della rabbia prima di venire qui a parlarmi.

«Voleva aiutarmi a farmi tornare la memoria parlandomi di quello che mi è successo in questi cinque anni…», aggiungo, sperando di poter salvare Edward dalla furia del mio ragazzo. Di sicuro non gli racconterò mai quello che mi ha davvero detto.

Jacob prende un profondo respiro prima di parlare di nuovo. «E cosa ti ha detto?».

«Mi ha… raccontato alcune cose…», mormoro, abbassando gli occhi, colpevole.

Jacob stringe i pugni lungo i fianchi, immobile al centro della stanza. «Ti ha detto della vostra storia, quindi?».

Mi irrigidisco, stringendo il bicchiere talmente forte che temo potrebbe spaccarsi fra le mie mani. «T-Tu lo sapevi?», domando, senza rispondergli. «Sapevi della n-nostra storia?».

La voce mi trema, e il terrore che Jacob in realtà sapesse benissimo cosa stavo combinando insieme ad Edward a pochissimo tempo dal matrimonio mi fa sentire terribilmente a disagio.

Ma quale uomo può accettare che la propria donna sia di un altro? Chi può essere tanto meschino da accettare il tradimento senza muovere un solo muscolo? 

«Certo, Bella!», esclama, esasperato ed infuriato. «Lo sa tutto il paese della vostra storia! Del resto, sei la figlia dello sceriffo, e chiunque aveva notato l’attaccamento morboso che provavate l’uno per l’altra. Siete diventati quasi una leggenda da queste parti… Non hai idea di quanta gente sia rimasta sconvolta quando vi siete lasciati».

Aggrotto le sopracciglia. «Cosa stai dicendo?», borbotto, frastornata. «Ci siamo lasciati?».

Jacob si acciglia. «Sì, Bella. Stai con me ora, te lo sei forse scordata?». Poi sul suo volto appaiono i primi segni dell’ira. «Ti ha forse detto che siete ancora fidanzati?!».

Appoggio il bicchiere sul bancone, e alzo le mani in segno di resa. «No, no», mormoro, scossa. Cosa sta accadendo? Di cosa stiamo parlando? «Non mi ha detto che… che siamo fidanzati. Sa anche lui che io e te dobbiamo sposarci», rispondo, con voce strozzata.

Jacob respira profondamente, stringendo le mani in due pugni.

Sono confusa. C’è qualcosa che mi sfugge, ed è qualcosa che nessuno vuole rivelarmi.

Deglutisco. «Quindi… io e lui siamo stati fidanzati?», sussurro, senza fiato.

Non è possibile, non riesco a crederci.

Jacob sbotta, irritato: «Non sono la persona giusta con cui parlare delle tue precedenti relazioni, Bella. Per queste cose ci sono le amiche». Si avvicina a me, inchiodandomi con lo sguardo, serio e preoccupato, anche se alcune tracce di rabbia rimangono impresse nei suoi occhi grandi e scuri. «Ma giurami che non rivedrai più quel maledetto. Giuramelo, o non credo che la prossima volta sarò in grado di trattenermi dal prenderlo a pugni».

Arretro fino a ritrovare il bancone contro la schiena. «Jake… calmati, per favore», sussurro, agitata. «Non è il caso di prendere a pugni proprio nessuno. Non ha fatto niente di male, te lo giuro».

A parte cercare di… cosa? Convincermi a lasciarti per lui?

Gli occhi di Jacob rimangono impassibili. «Bells, voglio che me lo giuri. Non posso sopportare di vederlo nemmeno nelle tue vicinanze, figuriamoci quando ti parla. Voglio che esca dalla tua vita, totalmente. Se dovesse cercare ancora di…». Si interrompe, passandosi una mano sul viso e allontanandosi da me. Posa le mani sul tavolo della cucina, cercando di calmarsi con profondi respiri.

«Jake…», mormoro, andandogli accanto. Gli accarezzo il braccio, i cui muscoli sono tesi fino allo stremo.

«Ho bisogno che me lo giuri, Bella. Per favore, fallo per me», sussurra, gli occhi fissi sul tavolo.

Stringo le labbra. «Non posso, Jake… venerdì c’è anche la serata di beneficenza… non posso non andare…».

Jacob si raddrizza, e rispetto a me sembra un enorme armadio a due ante. Freddo e impenetrabile mi guarda con occhi adirati. «Stai tornando la Bella di una settimana fa, lo sai?», sibila, avvelenato. «Stai di nuovo ponendo il tuo lavoro davanti a me, come hai sempre fatto in questi due anni. Spiegami: cosa devo fare per ottenere la tua completa attenzione e il tuo rispetto?».

Lo guardo confusa. «Jake, di cosa stai parlando? Rispetto? Pensi che io non ti porti rispetto?».

Jacob fa una smorfia. «Lasciamo perdere, tanto non vale la pena discuterne. Fai come vuoi, come hai sempre fatto. Pensa al tuo lavoro e fregatene del tuo fidanzato, tanto lui sarà sempre pronto a consolarti quando qualcosa non andrà per il verso giusto e tutti gli altri ti tradiranno».

Cerco di fermarlo, ma lui si dirige velocemente verso l’ingresso. Apre la porta, esce di casa e la richiude alle sue spalle con un colpo secco.

“È da un po’ di tempo che… vi siete allontanati.”

È davvero così? Davvero pongo sempre il mio lavoro davanti a Jacob?

Forse la mia mente mi urla di non essere una traditrice, ma mi sto comportando esattamente come se lo fossi da tempo.

 

«Bella, non puoi non andare».

Il tono secco e perentorio di Angela mi inchiodano alla poltroncina del suo ufficio.

«Dopo tutto il lavoro svolto con le interviste in questa settimana vuoi lasciare il merito dell’articolo a qualcuno come Jessica Stanley?».

Mi mordo il labbro, incapace di guardarla negli occhi. «Angie… ti ho spiegato perché credo sia meglio mandare qualcun altro al mio posto… insomma… Jacob ci resterebbe davvero male».

Angela tamburella la penna sulla superficie della scrivania ancora un paio di volte, poi sospira. «D’accordo, accetto la tua scusa».

Alzo gli occhi immediatamente, esibendo un timido sorriso. «Davvero?».

Annuisce piano.

Mi alzo subito in piedi riempiendola di ringraziamenti, fino a quando non mi dice di andare.

Quando lascio il suo ufficio, però, il sorriso abbandona le mie labbra, e il mio viso torna ad essere quello serio e grave che da ieri pomeriggio non mi abbandona.

Ho inventato una scusa per Angela, perché sapevo che sarebbe suonato troppo strano dirle che non potevo andare alla serata di beneficenza per non incontrare un certo pianista che si dichiara mio amante. Così le ho detto che per domani sera Jacob ha organizzato una cenetta per solo noi due in occasione del nostro mancato matrimonio - infatti ci saremmo dovuti sposare questo sabato, ovvero dopodomani.

Non permetterò ad Edward Cullen di distruggere quello che ho costruito in cinque lunghi anni. Se mai lo incontrerò nuovamente sulla mia strada mi allontanerò, e gli dirò chiaramente che non ho intenzione di credere alle sue parole, e che è meglio se non ci vediamo più. È la cosa migliore per tutti, la più giusta nei confronti di Jacob e la più sana per me.

 

«Ehi, Bells, sono pronti i pop-corn?».

La voce di Jacob arriva forte e chiara dal salotto, accompagnata dalla telecronaca appena iniziata di una partita di baseball. Charlie siede al suo fianco, e sta iniziando a fare scommesse con lui e Billy Black - mio quasi suocero.

Sue è qui in cucina con me, invece, e sta finendo di stappare le bottiglie di birra per loro. Solo papà dopo un attimo si alza per venire ad aiutarla a portare le bibite di là, mentre gli altri due guardano la tv ed io aspetto di poter aprire il forno a microonde, al cui interno si trova un pacchetto maxi di pop-corn da fare in pochi minuti.

Il timer suona, e finalmente posso estrarre il sacchetto. Rovescio il suo contenuto in due ciotole, e proprio quando sto porgendo la prima a mio padre il campanello suona.

Lascio l’altra a Jacob - ammonendolo di non finirli tutti prima che io torni al divano - e corro alla porta, lasciando che Sue si inizi a sedere in salotto.

Quando raggiungo la porta e la apro mi mordo la lingua, e mi maledico per non aver pensato neanche per un minuto a chi poteva presentarsi a casa di mio padre a quest’ora.

«Ciao, Bella», un sorriso ironico sulle labbra, «come procede la cenetta intima con Jacob?».

Deglutisco, e tento di sorridere, mentre la mia mente cerca di elaborare una scusa convincente.

«Ciao, Angie… veramente…».

«Bells, chi è alla porta?». La voce di Charlie arriva alle mie spalle, molto vicina. Si è alzato per venire a vedere chi si è presentato alla porta di casa sua. «Oh, ciao, Angela. Come mai da queste parti? Vuoi unirti a noi per la partita?».

Angela e Charlie sono sempre andati d’accordo, anche perché lui e suo nonno, il vecchio direttore de La Gazzetta di Forks, erano grandi amici; la conosce fin da quando era bambina.

Angela sorride cordialmente, scuotendo il capo. «Buonasera, Charlie. Veramente sono qui perché avrei bisogno di Bella. Ho fatto un disastro con un articolo che devo mandare in stampa domattina, e l’aiuto di Bella sarebbe provvidenziale».

Aggrotto le sopracciglia, poco convinta dalla sua scusa. Anche perché manderà in stampa tutto solo domenica.

Charlie sorride. «Beh, sono sicuro che a Bella farebbe piacere aiutarti. Dopotutto lei odia le partite di baseball, sono sicuro che con te si divertirebbe di più».

Si ricorda che sono vicino a lui e che so parlare, vero? Perché risponde al mio posto, allora?

Angela annuisce. «Pensavo che magari poi poteva fermarsi da me per un po’; possiamo guardarci un film. È da tanto che non ci vediamo fuori dal lavoro».

Questa volta la mia amica mi guarda fisso negli occhi, e il messaggio che mi manda è chiaro e forte: vieni con me, o ti distruggo.

«Certo, non c’è problema!», esclama Charlie, contento.

«Sì… va bene…», mormoro a mia volta.

«Forza, Bells, prendi la tua roba e vai», mi spinge papà, dandomi una pacca sulla spalla.

Con gli occhi bassi raggiungo l'attaccapanni, dove prendo il cappotto e la borsa. Vado in salotto, e saluto velocemente tutti.

Jacob si alza dal divano immediatamente, e mi segue all’ingresso. «Dove vai di preciso?».

«Da Angela. Ha bisogno di aiuto per un articolo, e poi pensavamo di guardare un film insieme», rispondo, nel modo più naturale possibile.

Jacob fa una smorfia. «Certo, e la nostra serata insieme la mandi a quel paese, come sempre».

Mi volto di scatto, infuriata. «Serata insieme?», sibilo, conscia che ci sono altre persone che ci stanno ascoltando e guardando. «Ti sembra una serata insieme quella da passare con i nostri genitori? Non te la prendere con me se preferisco andare da un’amica a divertirmi. Sai benissimo che odio le partite, quindi non prendertela se preferisco fare altro».

Detto questo gli volto le spalle, e raggiungo Angela all’ingresso. Saluto Charlie, e lasciamo insieme casa Swan, dirette verso la sua auto.

Sicuramente ora Jacob sarà infuriato, ma non mi interessa al momento.

“Tu non lo ami, non lo vuoi sposare.”

Ci fermiamo davanti all’auto della mia amica.

«Dove vuoi portarmi, sul serio?», le chiedo, certa che la sua fosse tutta una messa in scena.

«Hai un impegno da mantenere, ricordi? Vieni da me, indossi un bel vestito, ti trucchi, ti pettini, prendi un bloc-notes e una penna e vai alla serata di beneficenza». Guarda l’orologio. «Abbiamo giusto un’ora per renderti perfetta, dobbiamo fare in fretta».

Mi irrigidisco. «No, non vado a quel concerto, te l’ho già detto. E comunque non ti sembra di aver esagerato presentandoti a casa mia? Se davvero avessi avuto una cena con Jacob ci avresti interrotto per niente».

Angela sorride. «Credi che abbia creduto anche solo per un momento alla tua scusa della cenetta per il mancato matrimonio?», mi chiede, con una risata. «Conosco bene Jacob, e so che non avrebbe mai organizzato una cosa simile».

Faccio una smorfia, e lei smette di ridere, tornando seria.

«La vecchia Bella Swan non avrebbe mai rinunciato al lavoro che ama per il suo fidanzato capriccioso. Ti sto solo costringendo a fare qualcosa che ti pentiresti di non aver fatto».

Faccio una smorfia. «Angie, ho perso la memoria, non sono più la ‘vecchia Bella Swan’».

Angela mi guarda, e nei suoi occhi leggo solo sicurezza. «È vero, ora forse non sei la Bella Swan che tutti conoscono, ma sono certa che con la giusta dose di volontà puoi farla tornare. Devi solo volerlo, Bella. E con lei torneranno anche tutti i tuoi ricordi, ne sono sicura».

E con un sorriso rassicurante mi convince ad entrare in auto.

________________________________

Inizialmente pensavo di inserire una prima parte della serata di beneficenza qui, ma il capitolo sarebbe risultato pesante.

Non si scopre granché qui, ma mi serve per arrivare al concerto... dunque, qualcuno ha già un'idea di quello che accadrà?

Più tardi posterò un indizio/teaser sul mio blog, se volete potete andare a guardare :)

Non ho nient'altro da dire se non... Buona Pasqua, nel caso in cui non dovessi più postare prima di domenica (spero di no).

Mangiate tante uova, mi raccomando XD

A presto :*******

 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** 9. La melodia ***


Buondì!

Beh, sì, veramente è già sera, ma non si può mai sapere a che ora leggete :)

Miracolo: sono riuscita a completare il capitolo prima di Pasqua. Lunedì partirò, e ci tenevo a farvi avere un altro capitolo presto, dato che la scorsa settimana non ho sono riuscita a postare e la prossima non sono certa di avere la connessione Internet :S

Il capitolo è un po' lunghetto, ma non mi sembrava il caso di dividerlo. Quindi preparatevi alla serata di beneficenza con Bella :D

Bon, ho già blaterato troppo, ci vediamo alla fine del capitolo per le note finali :D

Buona lettura!

________________________________

9. La melodia

Come ho fatto a lasciarmi convincere così facilmente?

«Mi raccomando, Bella, scrivimi prima che finisca lo spettacolo. Se scopro che hai preso un taxi per tornare a casa potrei seriamente offendermi», mi dice per l’ennesima volta Angela, ferme con la sua auto a pochi metri dall’ingresso del teatro alla periferia di Port Angeles. Devono aver ristrutturato la zona negli ultimi cinque anni, perché non lo ricordavo in questo stato. Il teatro è un edificio a sé stante, circondato da tre lati su quattro da un piccolo parco artificiale, con tanto di panchine e piccole lanterne che illuminano i piccoli percorsi in ghiaia.

Osservo una coppia di signori scendere dall’auto che si è fermata davanti a noi, e quando noto lo sfarzoso abito da sera indossato dalla donna mi sento meno a disagio al pensiero di cosa indosso io. Forse Angela non esagerava granché quando diceva che a questi eventi partecipano tutti i più snob della zona, che farebbero qualsiasi cosa pur di farsi notare.

Accarezzo con una mano la morbida stoffa della gonna dell’abito che la mia amica mi ha letteralmente costretta ad indossare, e una fitta di imbarazzo mi fa strizzare gli occhi.

«Non posso presentarmi vestita così, Angela! Non sto andando a una sfilata di moda», esclamo, a disagio.

Angela sbuffa, e spegne il motore dell’auto. «Bella, sei vestita nel modo più consono possibile ad una serata a teatro». Poi inizia a descrivermi di nuovo la serata: «Ci sarà un breve ricevimento prima dell’inizio delle esibizioni, e lì potrai parlare con altri giornalisti e musicisti. Alle dieci inizierà lo spettacolo, e secondo quanto mi ha riferito uno degli organizzatori tutto finirà intorno a mezzanotte. Mandami un messaggio quando sale sul palco il gruppo di Denali, così arrivo in tempo per la fine dello spettacolo».

Annuisco lievemente, poi la saluto e scendo dall’auto. La temperatura è abbastanza alta, e l’aria fresca riesce a darmi un minimo di sollievo. Il cappotto nero e lungo fino a metà coscia lascia scoperta la lunga e leggera gonna, che sollevo per evitare di pestarla con le scarpe con il tacco. Ho provato a convincere Angela a lasciarmi indossare un semplice paio di ballerine - tanto sotto la gonna lunga non si sarebbero mai notate - ma lei me l’ha categoricamente vietato; quando si mette in testa qualcosa quella ragazza è irremovibile. Sotto certi aspetti mi ricorda molto Alice.

Alice.

Ci sarà anche lei questa sera?

“Chissà che incontri qualcuno che stai cercando da giorni…”

Edward si riferiva a lei, vero?

Cammino con lentezza in direzione dell’ingresso, stringendo al fianco la piccola pochette nella quale sono riuscita a far stare un minuscolo taccuino, una penna, il cellulare e le chiavi di casa. Attraverso l’enorme porta a vetri e mi ritrovo all’interno di un piccolo atrio; un uomo in un elegante completo nero prende il mio cappotto, e lo porta nel guardaroba insieme agli altri.

Con una mano provo ad incastrare una ciocca di capelli ribelli nel chignon che Angela si è premurata di farmi, ma senza alcun successo; infatti questa ricade insieme ad altre più sottili e corte sulle spalle e sulla nuca. Secondo Angela danno un tocco più sensuale alla mia acconciatura, ma sono convinta che l’abbia detto solo per non convincermi a sciogliermi i capelli.

Avanzo in mezzo alla sala, e attraverso una porta a vetri, oltre la quale si scorge un’altra saletta con le luci spente, scorgo il mio riflesso. Avevo avuto modo di vedermi anche a casa di Angela nel suo specchio, ma vedermi circondata da tutte queste persone è tutta un’altra sensazione. L’abito che Angela ha scelto - sono convinta che sia andata a comprarlo appositamente, infatti quando siamo arrivate a casa sua era in una borsa e c’era ancora l’etichetta - è di tessuto blu scuro, con il busto stretto e risaltato da alcuni lustrini brillanti, mentre la gonna ricade morbida lungo i fianchi fino ad allargarsi a terra, nascondendo le scarpe con il tacco. È bellissimo.

Guardo la gente intorno a me, a disagio. Stringo la pochette in tinta col vestito al fianco, e inizio a camminare per la sala, cercando di sorridere cordialmente.

Vediamo di far trascorrere quest’ora il più velocemente possibile.

 

Saluto l’ennesimo giornalista con cui ho parlato questa sera, e mi volto in direzione del bar disposto in un angolo della sala per andare a prendere qualcosa da bere che non siano i calici di champagne che i camerieri portano su vassoi in giro. Anche se il profumo e l’aspetto di quei bicchieri mi ispira, preferisco non rischiare di fare sciocchezze stasera; del resto quando avevo diciotto anni non ero solita bere nulla di alcolico, quindi preferisco non sperimentare la mia resistenza all’alcol proprio ora.

Ma non appena faccio un passo alzando lo sguardo in direzione del bancone del bar mi immobilizzo, notando chi si trova fermo proprio dove voglio andare, intento a ordinare qualcosa da bere. Riconoscerei quella chioma rossiccia ovunque.

Edward.

Accanto a lui c’è una donna, giovane, ma all’apparenza più grande di me. Indossa un lungo vestito cremisi, con un profondo spacco sul fianco, che ad ogni suo passo mostra la lunga e snella gamba destra, con al piede una scarpa con un tacco vertiginoso. La schiena è lasciata scoperta dal tessuto, ed è sfiorata ad ogni suo movimento da una lunga chioma bionda, con le punte leggermente ondulate. Le maniche sono lunghe fino ai polsi, e sono aderenti. È bellissima.

Rimango immobile a guardarla, e provo una fitta quando la vedo appoggiare una mano sulla spalla di Edward, e avvicinarsi a lui con atteggiamento lascivo. Lui prende dal bancone due bicchieri di quello che mi sembra un cocktail, con tanto di fetta di lime incastrata sul bordo, e gliene porge uno, dicendole qualcosa. Sulle labbra ha uno strano sorriso, non è né sghembo, né felice.

Mi volto, incapace di rimanere ancora a lungo a guardarli, e mi dirigo dalla parte opposta al bar, tentando di riordinare le idee. Non è normale che io mi senta così solo perché una donna ci sta chiaramente provando con lui. Non dovrebbe minimamente importarmi. Anche se ci conosciamo. Anche se forse in passato siamo stati fidanzati. Anche se secondo lui siamo amanti.

Mi metto in fila con altre persone al tavolo presso cui si trovano gli organizzatori della serata, dove una piccola cassa raccoglie i fondi devoluti per l’ospedale, e dalla pochette estraggo la busta contenente l’assegno che Angela ha firmato a nome de La Gazzetta di Forks. La porgo a una delle signore che raccolgono, e firmo un quaderno, sul quale sono riportati i nomi di coloro che hanno fatto una donazione.

Quando sto per allontanarmi e a tornare a girovagare per la sala incontro il dottor Cullen, accompagnato da una signora bellissima, avvolta da un abito da sera del colore dei suoi occhi, che brillano. Sono in fila al banco di beneficenza.

«Ciao, Bella», mi saluta il dottore, sorridendo.

Arrossisco, ripensando al fatto che lui è il padre di Edward. «Buonasera, dottor Cullen».

«Chiamami pure Carlisle, non siamo in ospedale ora», mi dice con un sorriso, allungando il braccio per abbracciare la donna al suo fianco, che continua a guardarmi con affetto. «Lei è mia moglie, Esme».

Guardo la signora, sorridendo imbarazzata. Suppongo che queste presentazioni ci siano già state, ma proprio non riesco a ricordare nulla.

Lei continua a sorridermi con affetto, probabilmente a conoscenza della mia situazione. «Ehm… piacere, signora-».

«Esme», mi interrompe lei con tono gentile, rivelando una voce morbida e dolce. «Solo Esme, cara. Signora mi fa sentire anziana», aggiunge con una lieve risata chiara e cristallina.

Sorrido imbarazzata.

«Immagino siate qui per vedere Edward…», mormoro, non sapendo cosa dire.

Gli occhi di Esme sembrano illuminarsi non appena nomino suo figlio. Sorride. «Sì, e anche per passare la serata fuori casa. Ti ricordi di Edward?».

Arrossisco. «Beh, non proprio… ci siamo incontrati per un’intervista che dovevo fare per La Gazzetta di Forks, e mi ha detto che ci conosciamo da un po’…».

Il volto di Esme si addolcisce. «Sono sicura che presto recupererai tutti i tuoi ricordi, cara».

La sicurezza e la dolcezza con cui pronuncia queste parole riescono a infondermi un profondo senso di fiducia, e riesco a sorridere.

«Ancora nessun progresso con la memoria, Bella?», mi chiede allora Carlisle.

Scuoto il capo, desolata. «No, nessuno. Ogni tanto mi sembra di essere sul punto di ricordare qualcosa, ma subito dopo non ricordo nemmeno a cosa stavo pensando», mormoro, abbattuta.

Carlisle appoggia una mano sulla mia spalla, sorridendo con fare paterno. «Non sforzarti», dice, gentilmente. «Il più delle volte la memoria torna in seguito a forti emozioni, devi solo aspettare che capiti qualcosa di inaspettato, senza pretendere troppo da te stessa».

Annuisco, confusa. Forti emozioni. Che genere di forti emozioni possono aprire un varco nella mia memoria serrata?

«Hai già visto Edward?», mi chiede Esme, cambiando discorso. «Quando l’abbia incontrato ha detto che ti stava cercando».

Sbatto le palpebre un paio di volte, sperando di non arrossire. «Ehm… no. No, non l’ho ancora visto».

Esme sorride, si stringe al braccio del marito, e fanno qualche passo avanti nella fila. Ormai è il loro turno, e Carlisle estrae dalla tasca interna della giacca elegante un assegno.

«Magari lo incontro prima dell’inizio dello spettacolo», mormoro. Esme annuisce.

«Buona serata, Bella», mi saluta lei, sorridendo, seguita dal marito.

Li saluto a mia volta, dopodiché mi allontano dalla fila, dirigendomi verso il centro della sala.

I miei occhi cercano la chioma rossiccia di Edward, ma non la trovano. Forse è meglio così.

Probabilmente è ancora insieme a quella donna bionda.

Faccio una smorfia, muovendomi intorno alla sala.

Un cameriere mi offre un calice di champagne, e dopo un secondo di indecisione decido di prenderlo. Cosa può succedere di male?

Porto il flûte vicino al viso, sentendo l’odore pungente solleticarmi il naso. Mi piace.

Mi guardo intorno, allontanando il bicchiere. Mi fermo in mezzo alla sala, provando a cercare un volto conosciuto fra le persone, ma senza successo.

E proprio mentre mi guardo intorno vengo avvolta da un nuovo, piacevole profumo. Un profumo che in poco tempo ho imparato a riconoscere, e un respiro fresco sulla mia guancia.

«Sei venuta».

Faccio una smorfia per trattenere il sorriso che tira le mie guance. «Di certo non per te».

Edward soffoca una risata. «Ovviamente».

Mi volto verso di lui, e trattengo il fiato. Da vicino è ancora più bello di quanto avessi notato prima, quand’era al bancone del bar.

«Allora…», mormora, infilando le mani nelle tasche dei pantaloni neri, «cosa ti ha convinta a venire qui?».

Guardo il liquido nel mio bicchiere. «Angela…».

«Fammi indovinare:», mi interrompe, «è venuta a rapirti a casa tua e ti ha costretta a vestirti per venire qui».

Annuisco, trattenendo a stento la smorfia di disappunto.

«Mi ricorda molto qualcun altro sotto questo punto di vista», ghigna Edward.

Alzo lo sguardo verso la sala, e mi guardo intorno, sperando di riconoscere un volto conosciuto in mezzo a tutta questa gente.

«Non c’è ancora», dice Edward, intuendo probabilmente quello che sto facendo.

Lo guardo. «E quando arriverà? Piuttosto, sei sicuro che verrà?».

Lui sorride. «Certo, Bella, non ti preoccupare. Sono sicuro che arriverà nel giro di dieci minuti, giusto in tempo per l’inizio dello spettacolo».

Mi resta accanto, osservando ogni mio movimento, e mi sento a disagio.

«Non hai nessun’altra intorno a cui ronzare?», sbotto, stringendomi nelle spalle.

Edward inarca un sopracciglio. «Altre donne, dici? Direi di no».

«Non mi sembrava così prima…», sussurro, più a me stessa che a lui. Ma nonostante il mio tono di voce basso lui mi sente, e il suo sorriso sghembo fa capolino sulle sue labbra.

«Devo forse intuire che sei gelosa?», ghigna, divertito.

Arrossisco. «Certo che no!», esclamo, con voce strozzata.

Sghignazza, infilando le mani in tasca. «Come vuoi».

Avvicino il bicchiere alle labbra, ma la sua mano ferma il mio movimento, e mi prende il calice. Lo fisso contrariata, e prima che possa dire qualcosa beve tutto il suo contenuto, senza staccare gli occhi dai miei.

«Ehi!», ribatto, confusa.

Che sta facendo?

Appoggia il bicchiere vuoto sul vassoio di un cameriere che passa accanto a noi, e mi prende la mano, provocandomi una cascata di brividi lungo la schiena.

«Vieni con me».

Mi guida lungo la sala, fino a raggiungere il bancone da bar dove l’ho visto prima in compagnia di quella donna, dietro al quale si trova un ragazzo che ci sorride cordialmente.

«Un Bellini, per favore», ordina Edward, senza chiedermi nulla.

«Subito», risponde il barman, scattando immediatamente verso alcune bottiglie aperte. Lo osservo mentre inizia a versare del vino bianco in un contenitore di metallo, poi frulla della frutta - pesca, mi pare - e in seguito mischia tutto con dell’altro liquido denso, shakerandoli insieme. Versa il tutto in un flûte, e lo posa sul bancone davanti ad Edward. Lui si volta verso di me, e me lo porge.

Lo prendo in mano, osservando lo strano composto, dall’aspetto innocuo.

Lo fisso con un sopracciglio inarcato.

Edward ride. «Ti piace molto di più dello champagne, puoi stare tranquilla». Lancia un’occhiata all’orologio al polso. «Adesso devo andare a prepararmi…», mormora. Guarda il mio bicchiere ancora pieno, sorridendo. «Vacci piano, però».

«Tranquillo, non ho intenzione di rovinare il tuo spettacolo comportandomi da ubriaca», gli dico con una smorfia sarcastica.

Lui sorride sghembo. «Non lo dico per questo. Semplicemente voglio essere presente quando ti ubriachi per godermi tutto lo spettacolo dall’inizio alla fine».

Gli faccio la linguaccia, ma ormai mi ha già dato le spalle. Solo adesso ricordo che Esme mi aveva detto che Edward mi stava cercando. Voleva solo assicurarsi che ci fossi, o voleva dirmi qualcosa?

Bevo un sorso del cocktail, sentendo sulla lingua il gusto del vino bianco mischiato a quello della pesca. È buonissimo.

Dagli altoparlanti si alza la voce di una donna, che invita tutti ad iniziare a entrare nella sala del teatro, e avvisa che lo spettacolo inizierà a breve. Finisco il contenuto del flûte in poco tempo, passando velocemente la lingua sulle labbra per non perdermene una sola goccia, e sorrido.

Appoggio il bicchiere sul bancone, e proprio in quel momento accanto a me arriva la donna con il vestito cremisi che prima stava parlando - o meglio, ci stava provando - con Edward. Mi guarda intensamente, con un cipiglio contrariato in volto, e sembra sul punto di parlarmi quando scorgo alle sue spalle, vicino all’ingresso del teatro, una figura minuta, accompagnata da un alto ragazzo.

La chioma scura sbarazzina e la sua grazia nel camminare sono sempre stati i suoi tratti distintivi, e non impiego molto a capire che non mi sto sbagliando: è proprio Alice.

Mi allontano velocemente dal bancone e le corro incontro. I suoi occhi incrociano i miei per un istante, e subito dopo puntano la porta d’ingresso alla sala con le poltrone. Accelera il passo, trascinando con sé l’uomo.

«Alice!», la chiamo, facendo voltare alcuni signori che mi lanciano occhiatacce. Li ignoro, e continuo a farmi strada fra la gente che si dirige in massa verso i posti a sedere. Sono sicura che mi ha sentita, ma ha deciso di ignorarmi volutamente. «Alice, aspetta!».

Copro velocemente la distanza fra di noi, e riesco a fermarla posando una mano sul suo braccio prima di arrivare dentro la sala. Si volta rapidamente nella mia direzione con uno scatto, l’espressione irritata.

«Che cosa c’è?», chiede con schiettezza, senza nascondere la nota irritata nella sua voce.

Lascio andare il suo braccio, come scottata. «Io… non hai risposto alle mie chiamate… ti cerco da una settimana… devo parlarti…», balbetto, colpita dal suo sguardo freddo e distaccato. L’azzurro dei suoi occhi è come ghiaccio per me.

«Non abbiamo nulla di cui parlare, Isabella», sibila, voltandosi verso un ragazzo alto e biondo, con una pettinatura leonina e il volto preoccupato.

Boccheggio per un istante, ferita dal suo comportamento. Cos’ho fatto in questi cinque anni per meritarmi un simile trattamento? Chi sono diventata? «Alice, ti prego…».

Si volta di nuovo. «Ti prego niente! Se sei qui per prenderti gioco di Edward per l’ennesima volta fai pure, ma non provare a parlarmi e a tirarmi in mezzo! Io non voglio avere niente a che fare con questa Isabella, lo sai!».

Arretro di un passo, sentendo l’aria mancare. Il ragazzo accanto a lei le posa una mano sulla spalla. «Alice…».

Lei si scosta da lui, ed entra nella grande sala del teatro, dirigendosi a lunghi passi verso le prime file.

Il ragazzo accenna un sorriso triste. «Scusala, Bella. Non crede ancora al fatto che tu non ricordi nulla degli ultimi cinque anni…».

Annuisco lievemente, scossa. Mi schiarisco la voce. «Ehm… tu sei…».

«Jasper», risponde subito, sorridendo e tendendomi una mano, che stringo, imbarazzata. «Jasper Whitlock. Sono il fidanzato di Alice».

«Ah!», esclamo, stupita. «Piacere».

Sorride ancora. «È meglio se vado a cercare di calmarla. Mi sembra evidente che non ricordi chi sono, ci siamo conosciuti solo quattro anni fa».

Annuisco imbarazzata, e lo saluto con un cenno della mano, osservandolo mentre raggiunge Alice, seduta in seconda fila dal lato destro, a qualche posto di distanza da dove dovrebbe trovarsi il mio. Dall’altro lato della sala, più o meno in decima fila, scorgo i signori Cullen.

Sospiro, cercando di costringere le mie lacrime a restare confinate nei miei occhi, e raggiungo la prima fila, cercando il mio segnaposto.

Lo trovo davanti a quasi metà palco, e lo sposto.

Mi accomodo sulla poltroncina in prima fila, sorridendo timidamente all’anziano signore seduto nel posto alla mia sinistra. A destra c’è un altro giornalista, con il bloc-notes già pronto appoggiato sulle ginocchia e la penna che tamburella regolarmente contro il bracciolo. Mi accomodo sulla sedia, e dalla minuscola pochette estraggo il piccolo taccuino e la penna. Ho intenzione di scrivere il minimo indispensabile riguardo ogni artista che si esibirà sul palco con la sua opera, e di articolare tutto meglio domattina, a casa. Per queste cose ho una memoria di ferro.

«Non si salutano più i colleghi?».

Mi volto verso il giornalista alla mia destra, sorpresa.

«Oh…», mormoro, colta alla sprovvista. «Lei…».

L’uomo - avrà al massimo trent’anni - inarca un sopracciglio. «Sono James Nomadi, ti ricordi, Isabella?».

Accenno un sorriso debole, mentre le parole di Angela risuonano nella mia testa.

“È meglio se eviti di raccontare in giro di aver perso la memoria. I giornalisti sono delle arpie; poche parole e potresti ritrovarti sulla copertina di un giornale senza nemmeno accorgertene.”

«Sì… sì, mi ricordo di te», gli dico allora, cercando di apparire il più possibile tranquilla.

Lui sorride maliziosamente. «Questo mi fa piacere. L’ultima volta il nostro incontro non è finito nel migliore dei modi, ma spero che potremo rimediare. Ho saputo che ti stai per sposare…».

Annuisco con un sorriso tirato. «Sì. Sì, è vero. Io e Jacob non abbiamo ancora fissato una data, ma ormai è certo che ci sarà il matrimonio».

Non mi piace questo James. Neanche un po’.

Inarca un sopracciglio, confuso. «Jacob? Si chiama così il tuo fidanzato?».

Annuisco, e grazie al cielo la conversazione viene interrotta dallo spegnersi delle luci, e dall’aprirsi del sipario sul palcoscenico.

Due fari di luce abbagliante illuminano due uomini in piedi al centro del palco, e li riconosco immediatamente, soprattutto grazie alla notevole vicinanza dovuta al posto in prima fila. Sono il direttore dell’ospedale e il capo-reparto di pediatria; sono stati i primi che ho intervistato per l’articolo.

Parlano per qualche minuto del progetto di miglioramento della sezione dell’ospedale di Forks, e ringraziano la città di Port Angeles per avergli consentito di organizzare la serata qui - a Forks non esiste il teatro, fatta eccezione per la sala del conservatorio, troppo piccola - e tutti gli ospiti per le generose donazioni che hanno fatto.

Poi lo spettacolo inizia, ed è un susseguirsi di tutti - o quasi tutti - gli artisti che ho avuto modo di intervistare durante la settimana. Alcuni sono artisti provenienti da altre zone degli Stati Uniti, e anche se alcuni erano già in città da alcuni giorni, altri sono arrivati solo quest’oggi, e non ho avuto modo di intervistarli. Dopo lo spettacolo andrò con altri giornalisti dietro le quinte, a intervistarne alcuni.

Sono tutti molto bravi, e il pubblico applaude soddisfatto ad ogni esibizione. Il mio bloc-notes si riempie brano dopo brano di annotazioni e di commenti, e non lascio andare la penna neanche quando la presentatrice della serata annuncia il successivo musicista. Edward Cullen.

Il mio sguardo resta puntato sul palcoscenico, mentre lui esce dalle quinte e sorride alla ragazza che l’ha presentato.

I suoi occhi cercano i miei per un istante, trovandomi poco distante da lui. Poi si siede sul basso sgabello, passa velocemente la mano sui tasti d’avorio, e inizia a suonare.

E i miei occhi si sgranano, mentre immagini di un’altra vita mi passano davanti.

 

È il suono delle note di un pianoforte che mi risveglia dal profondo sonno in cui sono caduta senza nemmeno rendermene conto. L’ultimo ricordo sono le sue mani sulla mia pelle nuda, i suoi baci posati con dolcezza sui miei capelli e il mio capo cullato dal movimento del suo petto e il suo respiro ancora leggermente accelerato.

Avvampo, e mi stringo nel lenzuolo che mi avvolge, l’unica cosa che mi copre. Mi metto a sedere, guardandomi intorno. Il letto su cui mi trovo è vuoto dal suo lato, e la stanza è deserta, mentre una dolce melodia che ben conosco si propaga nell’aria, provenendo da una porta aperta. Mi alzo trascinando con me il lenzuolo e avvolgendomelo intorno al busto, lasciando scoperte le braccia. Raggiungo la porta socchiusa, e la apro silenziosamente, entrando nella stanza, occupata da un divano di pelle nera su cui noto i miei vestiti e un pianoforte dello stesso colore, che lui sta suonando con destrezza.

Mi avvicino senza fare rumore, lasciandomi cullare da questa melodia che lui ha scritto per me. Arrivo fino alle sue spalle e dal sorriso che vedo nascere sul suo viso intuisco che ha capito che mi sono svegliata e sono accanto a lui.

Si è rivestito, ma ha lasciato la camicia slacciata. I capelli sono più spettinati di quel che ricordassi. Eppure, anche così è la cosa più bella che abbia mai visto.

Rimango ferma così ad ascoltarlo e a guardare le sue mani che si muovono su e giù per la tastiera bianca e nera, fino a quando la musica cessa e con un movimento veloce si volta con anche le gambe nella mia direzione, circondandomi con le braccia e spingendomi ad avvicinarmi di più a lui.

Sorride, e mi accarezza attraverso il tessuto del lenzuolo.

«Come ti senti?», mi chiede carezzevole, con un sorriso dolce dipinto in volto.

Sorrido anch’io, incapace di allontanarmi da lui. «Non sono mai stata meglio in vita mia».

Mi avvicina ancora di più, allargando le gambe per farmi aderire al suo corpo. Appoggia il capo sul mio seno, stringendomi a lui. Le mie mani finiscono fra i suoi capelli, accarezzandoli lentamente. Mi sono sempre piaciuti, sia per quel colore così particolare, sia per la loro morbidezza innata.

«Ti amo», sussurro, sentendo il cuore battere all’impazzata nel petto, contro il suo orecchio.

Le sue dita si stringono più forte intorno alla mia vita, e lo sento respirare profondamente.

«Ti amo anch’io». Un sorriso nella sua voce vellutata.

 

«Isabella?». Qualcuno mi scuote la spalla, ma i miei occhi non vedono niente, anche se rimangono spalancati.

Poi, all’ennesimo richiamo allarmato con tanto di scossone, mi riscuoto. I miei occhi tornano a vedere, e riprendo in parte coscienza della realtà che mi circonda.

Tremo. Sto tremando come una foglia esposta alle intemperie, e il mio cuore rimbomba nel petto come un martello incessante, feroce, tanto che quasi mi fa male.

L’uomo sul palco si alza in piedi, e si sposta verso il limitare del palcoscenico per esibirsi in un inchino, sotto lo scrosciare continuo degli applausi.

«Isabella, tu non stai affatto bene», esclama James al mio fianco, a voce bassa, alzandosi ma restando chinato per non impedire eccessivamente la visuale del palco agli spettatori alle nostre spalle.

«Vieni, ti accompagno fuori a prendere una boccata d’aria».

Posa le mani sulle mie braccia, e mi spinge delicatamente ad alzarmi.

Quando mi ritrovo in posizione eretta le gambe mi cedono, e James passa un braccio intorno alla mia vita, attirandomi contro il suo corpo per reggermi. Rassicura le persone in prima fila del mio benessere con la scusa di un semplice mancamento d’aria, e mi trascina fuori dalla sala, attraverso una porta laterale nascosta da delle spesse tende scure.

L’aria fredda della notte mi procura alcuni brividi, ma riesce a risvegliarmi almeno in parte dal torpore che avvolgeva il mio corpo e a dissolvere la nebbia che offuscava la mia vista e intorpidiva i sensi.

Ci troviamo nel piccolo parco accanto alla struttura del teatro, e le piccole lanterne brillano nel buio, illuminando la ghiaia chiara e i tronchi dei piccoli alberi che circondano i percorsi.

Raggiungiamo la panchina più vicina, e James mi accompagna mentre mi lascio cadere sul sedile di legno e appoggio la schiena allo schienale. Sfrego le mani contro la pelle diventata ruvida delle braccia, rabbrividendo. James appoggia al mio fianco la mia pochette con il bloc-notes e la penna, e inizia a sfilarsi la giacca, probabilmente con l’intento di coprirmi, ma viene fermato da una mano sulla spalla.

«Cullen…», mormora James, infastidito.

Alle sue spalle, Edward. L’espressione è seria, a tratti feroce.

«Grazie per il tuo aiuto, Nomadi, adesso penso io a lei», gli dice con sicurezza, guardandolo negli occhi.

Il giornalista accenna un sorriso sprezzante. «Cosa ti fa pensare che voglia stare con te? Guarda caso è stata male proprio durante la tua esibizione, forse è meglio se le stai lontano».

I lineamenti del volto di Edward si induriscono, e illuminato dalla fioca luce delle lanterne non sembra nemmeno umano.

Rabbrividisco ancora. «N-Non ti preoccupare, James…», mormoro, convenendo che sia il caso di intervenire per evitare discussioni inutili. «Vai pure… grazie per l’aiuto».

James mi guarda per un istante, fa una smorfia, e poi si allontana velocemente, rientrando in teatro.

Edward sospira pesantemente, dopodiché si sfila la giacca, e me la posa con delicatezza intorno alle spalle, cercando di coprirmi il più possibile.

Afferro con le mani i lembi della giacca nera, e mi stringo al suo interno. È calda, e il tessuto è morbido; l’inconfondibile profumo di Edward mi avvolge immediatamente, e chiudo gli occhi per un istante, respirando a pieni polmoni. Riesco a calmarmi un po’, e mi lascio andare contro lo schienale, mentre Edward si siede accanto a me.

«Che cosa è successo lì dentro?», gli chiedo in un flebile sussurro, ancora debole e scossa, riaprendo lentamente gli occhi.

«Speravo potessi spigarmelo tu…», mormora. Si passa una mano fra i capelli, spettinandoli ancora di più, poi mi guarda, con gli occhi colmi di preoccupazione. «Come ti senti?».

Ci penso per un istante, cercando di decifrare la miriade di sensazioni che sento, ma l’unica cosa che riesco a cogliere è l’enorme confusione che regna dentro di me. «Non lo so… mi gira un po’ la testa…», ammetto.

«Vuoi che chiami mio padre?».

«N-No!», esclamo subito, allarmata. Poi cerco di controllarmi: «No… sto bene… solo… sono confusa».

Non posso parlare al dottor Cullen di quello che mi è successo lì dentro ora. Non so nemmeno io cosa sia successo di preciso.

Era questo quello che intendeva prima? La forte emozione di cui mi parlava era questa?

«Credo di aver appena ricordato una cosa di questi cinque anni», mormoro appena, senza nascondere l’incertezza nella mia voce.

Edward si irrigidisce momentaneamente, e quasi penso che abbia persino smesso di respirare. Ha capito che ho ricordato qualcosa che riguarda anche lui? Lo sospetta? Perché allora non mi chiede cosa ho ricordato? Chiunque sarebbe curioso di saperlo.

Poi sospira, e prende un profondo respiro. «Vuoi che ti accompagni a casa?».

Mi sento improvvisamente a disagio. «N-non serve, grazie…».

Mi guarda con un sopracciglio inarcato. «Sei venuta in macchina?».

«No… mi ha accompagnato Angela… mi ha detto di chiamarla quando… oh! Chi sta suonando adesso? Quanto manca alla fine della serata?», chiedo, agitata.

«Tranquilla, Bella. Credo che siamo ormai agli ultimi musicisti, nel giro di dieci minuti dovrebbe finire», mi dice con calma, cercando di sorridere.

«Oh, no», gemo, nervosa. «Devo chiamare Angela… è tardissimo».

Edward mi osserva preoccupato, e posa una mano sulla mia che stava febbrilmente cercando di aprire la zip della pochette. «Bella… ti posso accompagnare io a casa, non c’è bisogno di disturbare Angela per questo».

«Ma…».

Accenna un sorriso, anche se nei suoi occhi rimane la preoccupazione. «Non ti preoccupare, adesso chiamo Angela e le dico che ci penso io a riportarti a casa. Non mi sembra il caso di farla venire fino a qui da Forks per poi tornare là».

Annuisco debolmente, e lo osservo mentre estrae dalla tasca dei pantaloni il suo BlackBerry e cerca nella rubrica il nome della mia amica. Mi aspettavo che dovesse passare minuti e minuti al telefono a cercare di spiegarle che non aveva intenzione di fare niente di male, e che non era necessario che lei venisse a prendermi, invece nel giro di poche battute Edward ha chiuso la chiamata, ed ha sorriso.

«Tutto a posto. Devo solo tornare dentro a prendere alcune cose… vuoi aspettarmi qui? Posso prendere anche la tua giacca, se vuoi».

Annuisco, sorridendo timidamente.

Si allontana a lunghi passi, e rientra in teatro. Rimango ferma, cercando di mettere in ordine il caos di pensieri che affollano la mia mente. Ripercorro la breve - cosa? Visione? - avuta pochi minuti fa, cercando un indizio che mi possa dire che la mia è stata solo un’allucinazione creata dalla mia mente piena di buchi neri sul passato. Eppure era così vera… ho sentito la pressione delle sue mani sul mio corpo, ho provato quell’incredibile calore nel petto quando mi ha detto ‘ti amo’.

«Ehi, Bella…».

Alzo lo sguardo velocemente, sorpresa. Davanti a me Alice avanza timidamente, con le mani strette l’una nell’altra e il viso imbarazzato.

«Alice…», mormoro, stupita.

Arriva a pochi passi dalla panchina, ma resta a distanza, quasi si vergognasse e si sentisse a disagio. «Io… volevo sapere come stavi… prima ti ho vista uscire con quel tizio… ho pensato stessi male…», sussurra, con la voce traboccante d’indecisione.

Mi schiarisco la voce, stringendomi nella giacca di Edward, respirando ancora il suo profumo per calmare i battiti forsennati del mio cuore. So che è la mia - forse unica - possibilità di parlarle, di convincerla ad ascoltarmi.

«Ho… ho avuto un giramento di testa», mormoro. «Penso di aver ricordato alcune cose», aggiungo, pronta a cogliere ogni minima reazione da parte sua.

Alice si guarda intorno, stringendo fra le dita la pochette di stoffa nera. La sua gonna vaporosa ondeggia con il soffio del vento. «Adesso ti senti meglio?».

Annuisco lievemente, attenta a non scuotere troppo la testa.

Restiamo entrambe in silenzio per un lungo momento, senza sapere cosa dire. Poi è lei a riprendere la parola: «Hai davvero un bel vestito. Ti… ti sta molto bene… L’hai scelto tu?».

Non riesco a nascondere un piccolo sorriso. Ecco la vecchia Alice, sempre attenta a ogni dettaglio in fatto di moda e abiti. «No… no, l’ha scelto Angela. A dire il vero io non mi ero neanche preparata per venire qui, avevo deciso di restare a casa, ma devo scrivere un articolo sulla serata…». Spero che capisca dalla mia ultima affermazione che non sono tornata qui “per prendermi gioco di Edward” come ha detto lei, ma solo per una questione di lavoro.

Alice annuisce appena. «Oh… capisco… quindi sei tornata a lavoro».

Annuisco di nuovo. «Angela mi sta aiutando a imparare di nuovo tutto».

Alice si volta verso la strada, e seguendo il suo sguardo noto Jasper, fermo vicino un’auto.

«Devo andare», mormora lei, torturando la pochette fra le dita. «Ciao…».

«Alice, aspetta!», la chiamo, cercando di alzarmi, senza successo. Ho le gambe deboli, e la testa gira. Rimango seduta, ringraziando il fatto che si sia fermata. «Ascolta… non so cos’ho combinato in questi cinque anni, te lo giuro», mormoro, sperando che capisca che la mia è la verità. Lei distoglie lo sguardo, a disagio. «Per favore, sei l’unica che credo conosca tutto quello che è successo, vorrei… vorrei che fossi tu a parlamene… gli altri non vogliono dirmi niente, e mi trattano come se fossi una reduce di guerra».

Alice stringe le labbra, spostando il peso da un piede all’altro.

«Ti prego», continuo, «eri la mia migliore amica. Sei la mia migliore amica».

Gli occhi azzurri di Alice incontrano i miei per un lungo istante. Poi prende un profondo respiro. «Forse… forse potremmo vederci uno di questi giorni», mormora, a bassa voce.

Sorrido, trattenendo a stento le lacrime. È da quando mi sono svegliata in quel letto d’ospedale che desidero sentire queste parole.

«Grazie», sussurro. «Grazie, Alice».

Lei fa un cenno con il capo, imbarazzata. «Ti chiamo domani per metterci d’accordo, okay?».

«Okay».

Mi saluta con la mano, e le auguro la buonanotte. La osservo mentre sale a bordo dell’auto, aiutata da Jasper, e a quel punto Edward appare davanti a me, tenendo il mio cappotto fra le mani.

«Tutto a posto?», mi chiede, gentile.

«Sì», rispondo, felice che sia davvero così, finalmente.

Mi tende una mano per aiutarmi ad alzarmi, e quando le mie gambe cedono nuovamente mi attira contro il suo petto, sostenendomi.

«S-Scusa», mormoro, arrossendo.

Chiudo gli occhi, cercando di recuperare l’equilibrio, e appoggio il capo sulla sua spalla; grazie ai tacchi sono più alta di alcuni centimetri. La testa gira, e alcune immagini del ricordo di poco fa passano di nuovo nella mia mente.

«Ti gira la testa?», mi chiede preoccupato, stringendomi per non farmi cadere.

«Un po’», sussurro, restando immobile.

Dopo alcuni secondi riapro gli occhi, e fortunatamente la testa non gira più. Provo a spostare il peso sulle gambe, senza gravare eccessivamente su Edward, e finalmente riesco - grazie anche alle sue braccia che non mi lasciano per un istante - a restare in piedi senza cadere. Lascio andare la presa su di lui, e mi tolgo dalle spalle la sua giacca.

«Grazie…», mormoro, porgendogliela e prendendo al suo posto il mio cappotto.

Lo indosso sotto il suo sguardo vigile, preoccupato probabilmente che le gambe mi possano cedere nuovamente.

«Andiamo?», mi chiede, dopo essersi infilato a sua volta la giacca.

Annuisco, e ci avviamo entrambi verso la strada, dove alcune persone sono ancora ferme a parlare. Dovrei andare dietro le quinte a intervistare alcuni musicisti, ma non me la sento adesso. Sono troppo scossa per farlo, e per di più non ho nemmeno avuto modo di veder finire lo spettacolo; spero solo che Angela non si arrabbi.

La macchina di Edward è dall’altro lato della strada, e quando attraversiamo la sua mano si posa sul mio fianco, avvicinandomi a lui.

Ancora una volta, le immagini del ricordo mi assalgono, ma riesco a restare in piedi, senza che la testa mi giri.

Arriviamo alla sua macchina, e dopo essere saliti a bordo si inserisce nel traffico creato della gente che lascia il teatro.

Comodamente seduta sul sedile posso rilassarmi, lasciando andare la testa indietro e chiudendo gli occhi.

«Sicura di non volere che chiami mio padre?», mi chiede Edward, con la voce intrisa di preoccupazione.

«No, va tutto bene», gli dico ancora, anche se quel maledetto ricordo continua a girovagarmi per la testa.

Sospira.

«È stato per colpa della musica?», mi domanda dopo alcuni minuti di silenzio, durante i quali stavo quasi per addormentarmi.

«Cosa?», chiedo, confusa, aprendo piano gli occhi per guardarlo.

L’espressione concentrata sul suo viso crea alcune rughe sulla fronte.

«Il fatto che hai ricordato… è successo tutto perché stavi ascoltando quello che suonavo?», chiarisce, teso.

Arrossisco. Sì, è successo sicuramente per quel motivo. La musica dolce che Edward ha suonato questa sera a teatro è la stessa che c’è nel mio ricordo, quella per cui mi sono svegliata in quel letto enorme e profumato.

«Credo… credo di sì», mormoro, sperando che il buio nell’auto nasconda il rossore sulle mie guance.

Edward stringe la mascella, e la presa sul cambio della macchina si fa più salda.

Poi le sue labbra si piegano in un sorriso tirato. «È una cosa positiva, no?», dice, cercando di apparire entusiasta. «Significa che puoi recuperare la memoria».

Annuisco lievemente, confusa dal suo comportamento. Ho come la sensazione che non sia quello che voleva dire davvero.

Mi schiarisco la voce. «Tu vuoi che io recuperi la memoria?», chiedo in un sussurro.

Il sorriso scompare. «Perché non dovrei volerlo?».

Mi mordo il labbro. «Magari ci sono cose che preferiresti che non ricordassi…». Abbasso la voce. «Magari vorresti che non ricordassi Jacob».

«No… no, Bella. La tua memoria è importante, i tuoi ricordi fanno sì che tu sia quella che sei ora».

Aggrotto le sopracciglia. «Adesso sono una ragazzina di diciotto anni, quindi. Non ho niente in comune con la Bella che conoscevano tutti fino alla settimana scorsa».

Edward si volta per un istante verso di me, e sorride. «In effetti sei diversa da come eri sette giorni fa. Ma questo non significa che tu non sia la stessa persona».

Faccio una smorfia. «Tu puoi dirlo perché mi hai conosciuto quando avevo diciotto anni, quando ero come sono ora. Gli altri quasi non mi riconoscono, se non fosse per l’aspetto. Anche… anche Jacob l’ha detto», ammetto, frustrata.

«A maggior ragione perché ti ho vista cambiare dovresti credermi quando ti dico che non sei così diversa dalla Bella della settimana scorsa». Sorride. «Devi solo avere pazienza, e te ne accorgerai da sola».

Sospiro.

Il resto del viaggio in auto trascorre tranquillamente, e ci scambiamo commenti riguardo l’esibizione degli altri musicisti. Non mi chiede cosa ho ricordato, e soprattutto se voglio che chiami suo padre.

Quando l’auto si ferma davanti a casa Swan, con le luci già spente, il silenzio cala nuovamente. Edward scende per venire ad aprirmi la portiera, e mi aiuta a scendere.

Prima che possa dirigermi verso casa mi ferma per il polso, stringendolo delicatamente. Lo guardo, e nei suoi occhi verdi, illuminati dai lampioni, leggo sentimenti contrastanti, ma indecifrabili. Come se dentro di lui si stesse svolgendo una lotta impetuosa.

«Sicura di stare bene?», mi chiede, con la voce roca.

Annuisco lievemente, incapace di staccare gli occhi dai suoi. Sono come due calamite che mi attraggono costantemente.

Fa un passo verso di me, avvicinandosi ulteriormente.

Deglutisco a fatica, sentendo il respiro iniziare a diventare affannato. È troppo vicino, più di quanto non lo sia mai stato in questi giorni.

Mi avvicina ancora di più, allargando le gambe per farmi aderire al suo corpo. Appoggia il capo sul mio seno, stringendomi a lui.

Rabbrividisco, e non per il freddo.

Ancora un passo, e solo pochi centimetri separano i nostri corpi. Il mio capo è inclinato leggermente indietro, per poterlo guardare negli occhi, e il mio polso è ancora imprigionato dalle sue dita. Lo lascia andare lentamente, e quella stessa mano che fino a poco fa era sul mio braccio finisce sulla mia guancia, che accarezza piano, con delicatezza. I suoi occhi restano nei miei, e un piccolo sorriso spunta sulle sue labbra, così vicine.

China il capo, e posa le sue labbra sulla mia fronte, premendole con dolcezza. Trattengo il fiato, chiudendo gli occhi per un istante, il tempo che dura il suo bacio. Quando si separa da me sorride ancora, e lascia un’altra carezza sulla mia guancia, prima di allontanarsi.

«Buonanotte, Bella», sussurra, staccandosi da me e indietreggiando.

Torno a respirare, rendendomi conto solo ora di aver trattenuto il respiro per tutto il tempo. «‘Notte, Edward», mormoro, con la voce roca e la gola secca.

Mi giro per dirigermi verso casa, scossa, ma la sua voce mi ferma.

«Bella?».

Mi volto, e sul suo viso leggo per un istante indecisione.

«Sì?».

Un piccolo sorriso. «Sei bellissima».

Sento le guance imporporarsi, e abbasso lo sguardo. «G-Grazie».

Rimango sul vialetto e lo guardo andare via a bordo della sua macchina.

Negli occhi ho ancora il suo sguardo dolce, sulla pelle il suo profumo speziato, e nelle orecchie il suo “Ti amo” appena sussurrato nel mio ricordo.

Arrivo davanti alla porta ciondolando, e mentre cerco nella minuscola borsetta le chiavi di casa non mi accorgo dell’ombra nera che si alza da una delle poltroncine in vimini disposte sul patio, vicino all’ingresso.

«Bella».

________________________________

:P spero che non mi uccidiate per questo finale. Non è nessun killer, tranquille.

Le scommesse ora sono su due personaggi misteriosi: 1. la bionda che parla con Edward durante la serata al bar, e 2. la persona che è davanti a casa Swan alla fine del capitolo. Forza, forza, aspetto le vostre teorie a riguardo :D

Allura... ho un paio di cosette da linkarvi, così, se siete curiose. Qui trovate la canzone che ho scelto come 'Bella's Lullaby' per questa storia, e che Edward suona sia nel ricordo di Bella, sia alla serata di beneficenza. Poi mi sono sbizzarrita a 'vestire' le donne di questo capitolo (tranne 'la bionda che ci prova con Edward'. Non ho trovato il vestito che mi ero immaginata per lei, sorry :P), e se volete un'idea sui vestiti che indossano alla serata di beneficenza questi sono i link: Bella Alice Esme

E, come sempre, questo è il mio blog per spoiler/teaser/avvisi sulle mie storie :) In più, se volete potete aggiungermi su Twitter; vi prego solo, se mi mandate la richiesta, di dirmi poi chi siete su EFP :)

Bene, credo di aver finito... spero di non aver dimenticato nulla XD

Auguro a tutti una felice Pasqua. Al diavolo la dieta, tutti meritano almeno un uovo di cioccolata in questa giornata, a qualunque età ù.ù

Tanti, tanti auguri a tutti, e a presto :*******

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** 10. La verità fa male ***


Buongiorno! Alla buon ora, direte voi, e avete ragione. Questa volta il mio ritardo è imperdonabile, ma davvero non sono riuscita a fare niente per postare prima. E' un capitolo abbastanza importante, e non volevo rischiare di fare pasticci, in più la scuola mi sta sommergendo di lavoro >.<

Ma bando alle ciance, vi lascio subito al capitolo. :)

Buona lettura!

________________________________

10. La verità fa male

«Bella».

Le chiavi mi cadono di mano, mentre il respiro si blocca in gola.

Mi volto a scrutare l’oscurità più nera, alla ricerca dell’uomo che ha appena pronunciato il mio nome, ma i miei occhi poco abituati al buio quasi totale non scorgono niente. Poi, la figura si fa più vicina, grossa ma non minacciosa, con passo lento e indeciso.

E grazie alla luce proveniente dai lampioni sulla strada riesco finalmente a distinguerlo.

«Jacob…», sussurro, scossa, lasciando andare un respiro accelerato. «Mi hai spaventato».

Porto una mano sul petto, cercando di calmare il mio respiro e battito. Per un momento ho avuto paura che fosse quel tipo, James. Il suo sguardo mi osserva ancora nella mia testa, e solo adesso mi rendo conto di provare una sensazione molto simile alla paura nei confronti di quell’uomo che mi ha portata fuori dal teatro poco fa. Anche la reazione di Edward nel vedermi con lui non ha fatto altro che acuire le mie brutte sensazioni.

Jacob infila le mani nelle tasche dei pantaloni, e mi osserva dall’alto in basso, nella semioscurità. Stringo il cappotto intorno al corpo, e distolgo lo sguardo, sentendomi colpevole.

Sono stata scoperta. Anzi, siamo stati scoperti. Tutti: io, Edward ed Angela.

Lei perché Jacob, notandomi vestita così, ha certamente capito che quella del mio capo non è stata altro che una messa in scena architettata per costringermi ad andare al concerto. Io ed Edward perché siamo stati scoperti troppo vicini proprio davanti a casa mia. O forse Jacob si era addormentato? Quante speranze ho di non essere stata vista con il mio presunto amante dal mio fidanzato?

«Sei stata con lui».

Nessuna, appunto.

Mi schiarisco la voce, ma guardo altrove, sentendomi colpevole. «Non sono stata con lui. Sono andata al concerto, dove c’era anche lui che suonava. Poi si è solo offerto di accompagnarmi a casa per non scomodare Angela».

Perché nonostante queste parole siano la pura verità mi sento in errore, in torto? Alla fine dei conti la serata si è svolta proprio così, in sintesi.

«Ti ha baciato». Questa volta, la sua voce - prima priva di intonazione - esce più risentita, secca.

Rabbrividisco, stringendomi nel cappotto. «Era solo un bacio sulla fronte, Jacob…», mormoro, più a me stessa che a lui, come se cercassi di convincermi io stessa che in fondo proprio di questo si è trattato: un semplice bacio sulla fronte, un bacio della buona notte.

Jacob si agita sul posto, e noto il corpo fremere, nel tentativo di trattenersi. «Se avesse voluto avrebbe potuto baciarti sulle labbra, lo sai bene».

Alzo il capo di scatto, sentendo le guance avvampare e la rabbia nascere improvvisamente, o forse solo risvegliarsi. «Cosa c’entra?! E in ogni caso non l’ha fatto», ribatto, alzando la voce più di quanto avessi voluto.

Gli occhi di Jacob mi inchiodano, ed alza la voce a sua volta: «Avrebbe potuto farlo, e tu non gliel’avresti impedito».

Gli volto le spalle, e mi abbasso per recuperare le chiavi, per impedirgli di leggere la colpevolezza nei miei occhi. Odio ammetterlo, ma Jacob ha ragione. In quel momento Edward avrebbe potuto fare di me quello che voleva, ed io non avrei opposto resistenza; anzi, tutt’altro.

E il vero problema per Jacob è proprio questo: il fatto che io glielo abbia permesso, che non abbia opposto la minima resistenza alla sua volontà di avvicinarsi di più. E, nonostante tutto, so che ha perfettamente ragione. Ha maledettamente ragione.

«Scommetto che non hai pensato neanche per un momento a quanto ci sia rimasto male alle parole che mi hai rivolto prima di uscire di casa», sbotta, risentito.

Stringo i pugni, iniziando seriamente ad arrabbiarmi. «E tu hai pensato a quanto ci resto male io ogni volta che mi fai notare quanto sono diversa dalla Bella che conoscevi fino alla settimana scorsa?!», grido, tirando finalmente fuori tutta la rabbia accumulata in questi pochi giorni. «Pretendete tutti che torni ad essere la “vecchia Bella”, ma poi non mi raccontate niente di questi cinque anni passati! Mi spieghi come diavolo dovrei fare?! E tu non ti degni nemmeno di aiutarmi: pretendi che io chiuda tutti i rapporti con una persona che si dimostra disposta ad aiutarmi, senza una minima spiegazione. Mi trattate tutti come se fossi reduce da qualche trauma cranico, ma io sto benissimo! Hai idea di quanto mi ferisca sapere che mi consideri una minorata mentale? Scommetto che tu a questo non ci hai pensato».

Prendo un profondo respiro, cercando di calmarmi. Forse ho esagerato. Non avrei dovuto sfogarmi così su Jacob, ma le sue parole mi hanno ferita troppe volte in questi giorni, più di quelle di tutti gli altri conoscenti. Dovrebbe essere il mio fidanzato, l’amore della mia vita, questo pomeriggio sarebbe dovuto diventare mio marito, e dovrebbe capirmi, cercare di capirmi. Invece ogni volta che cerco un dialogo con lui non trovo nient’altro che una montagna che respinge le mie parole come un’eco lontana, senza recepirle. Cosa devo fare?

Jacob si irrigidisce per un momento. «Se non ti diciamo niente è solo perché vogliamo proteggerti».

«Proteggermi da cosa? Dalla mia vita? Credo sia un po’ tardi per farlo, sai? Direi che ci sono dentro fino al collo, ormai», ribatto, sprezzante e sarcastica.

Lui fa una smorfia. «Quando ricorderai vedrai che tornerai da me a ringraziarmi».

«Preferisco ricordare tutto ed essere cosciente di quello che ho fatto negli anni passati per cercare di porre un rimedio ai miei errori, piuttosto che continuare a vivere nell’ignoranza, senza sapere per quale motivo una persona che una volta consideravo amica ora mi evita come la peste», sbotto, senza riuscire a trattenermi.

Per un momento rivedo il vecchio Jacob di cinque anni fa, quello con il sorriso genuino, con gli occhi sinceri e una parola buona per tutti, che con le sue battute riusciva a farti spuntare un sorriso anche nei momenti più bui. «Non sono i tuoi errori quelli che voglio cancellare, Bells. Tu non sei una cattiva persona, non lo sei mai stata», mormora, sincero. «Sono gli altri che ti hanno ferita, sono loro che preferisco che non ricordi, perché non voglio rivederti nelle condizioni in cui ti ho vista quando ti hanno fatto male… voglio solo che tu sia felice. E poi…», si interrompe, scuotendo il capo. «E poi credo sia meglio per te ricominciare tutto da capo. Magari lo preferiresti…».

«Jacob…», mormoro, addolcita dalle sue parole, ma ancora arrabbiata. «Non puoi cambiare il mio passato. In un modo o nell’altro lo ricorderò. E poi dovresti lasciare che sia io a scegliere cosa fare della mia vita, non credi?».

Sospira, chiudendo gli occhi. «Vorrei solo che non soffrissi, nient’altro».

Abbozzo un sorriso, e mi avvicino a lui, prendendo la sua mano nella mia. È fredda. «Grazie», sussurro, sincera. «Ma perché dovrei soffrire, Jake? La settimana scorsa ero felice, no? Ero felice all’idea che nel giro di pochi giorni ci saremmo sposati», mormoro, sperando di risultare convincete perfino a me stessa. Perché dovevo essere felice, la settimana scorsa, prima di perdere la memoria. «Se mi tornerà la memoria ricorderò i momenti tristi, è vero, ma ricorderò anche quanto ero felice la settimana scorsa, e non soffrirò». Jacob stringe le labbra, ma non mi interrompe. «Andrà tutto bene, vedrai».

Finalmente Jacob ricambia la mia stretta, e mi attira a sé per abbracciarmi.

«Mi dispiace per stasera», sussurra. «Mi dispiace di aver alzato la voce prima e di averti aspettata fuori casa come un criminale o uno stalker. Ero arrabbiato, scusa».

Lascio che mi stringa, cercando di ignorare la sensazione di disagio che provo al pensiero di quanto desideri in questo momento che siano altre le braccia che mi stringono.

Circondo il suo busto tentennando, rigida come un pezzo di legno. Spero solo che lui non se ne accorga.

Sorrido lievemente, cercando di rilassarmi. «Non ti preoccupare. Scusami anche tu. Non avrei dovuto urlarti contro in quel modo, e riversare su di te tutta la mia frustrazione».

Rimaniamo immobili per un lungo minuto, poi lui, senza sciogliere l’abbraccio, si allontana di alcuni centimetri per riuscire a guardarmi negli occhi.

Il mio corpo, già ridotto a un pezzo di legno rigido, si tramuta in una lastra di ghiaccio che mi avvolge dalla testa ai piedi quando si china verso di me con il viso; e prima che possa dire o fare qualsiasi cosa posa le sue labbra sulle mie.

Lo fa delicatamente, ma nella mia testa, sulla mia pelle, nel mio cuore, quel tocco avviene con molta più violenza.

 

«Bella, guardami!». Le sue mani stringono le mie braccia con forza, impedendomi di scappare. «Io ti amo!», scandisce lentamente, guardandomi con gli occhi scuri e intensi.

Provo inutilmente a liberarmi dalla sua presa ferrea, senza successo. «Jake, io non…», balbetto, nervosa e preoccupata. «Io non ti amo, lo sai».

«Non puoi restare con lui. Chi ti dice che in questo momento non se la sta spassando con un’altra, eh?! Ha preferito lasciarti piuttosto che restare con te, non ti dice niente questo?!».

«Lo sta facendo per il suo lavoro», pigolo, chiudendo gli occhi e scuotendo il capo per scacciare dalla testa immagini dolorose. «Tornerà presto, non mi ha lasciata».

Jacob mi avvicina di più a lui, guardandomi intensamente. «Lui non ti merita, Bella. Io sono sempre qui, ci sarò sempre per te, non ti lascerò mai, nemmeno se mi minacceranno di licenziarmi dal lavoro. Farò quello che vuoi, farò di tutto per farti capire che anche tu mi ami».

Tremo, spingendo le mani sul suo petto per allontanarlo. Ma la sua presa è più forte, e quando mi tira a sé a nulla serve la mia resistenza. Le sue labbra catturano le mie con forza, ignorando le mie lacrime.

 

Quando Jacob si separa da me, improvvisamente, la mano mi pulsa incredibilmente, come se l’avessi appena sbattuta con forza contro un pezzo di cemento.

Riapro gli occhi che ho serrato quando le sue labbra si sono posate sulle mie, e la prima cosa che noto è che le sue braccia non sono più intorno a me, e che una sua mano è ferma sulla sua guancia, mentre la mia, pulsante, è sospesa per aria.

Jacob è arretrato di un passo, e sul suo viso è presente un’espressione sorpresa e delusa al tempo stesso.

Impiego pochi secondi per capire cosa è successo.

«I-Io…», balbetto, alternando lo sguardo dalla mia mano al viso di Jacob. «N-Non…».

Jacob abbassa il braccio, e la delusione sul suo viso si confonde con la rabbia che inizia a trasparire dai lineamenti improvvisamente duri e dalla mascella serrata.

«Ho capito, Bella. Non dire nulla», dice, duramente, stringendo i pugni. «Solo non immaginavo che per avere il permesso di baciare la propria fidanzata bisognasse chiamarsi Edward Cullen. Ora che lo so puoi star certa che non ci proverò più».

«Non capisci…», mormoro, scossa. «Io non volevo…».

«No, no», mi interrompe Jacob, «capisco benissimo, invece».

No, Jacob, non capisci niente, invece. Perché se capissi sapresti che il mio schiaffo non era altro che la reazione al mio ricordo.

«Capisco che ti ripugni il fatto che sia io a baciarti. Del resto non posso pretendere di essere come quel tizio che è riuscito a farti innamorare prima di chiunque altro», sibila, infuriato. Si volta verso la strada, con il chiaro intento di andarsene. «E pensare che oggi ci saremmo dovuti sposare…», borbotta poi, con tono sarcastico ma amaro. Scuote il capo, e scende i gradini per dirigersi verso la strada.

«Jake, aspetta…», sussurro, con la voce spezzata.

Non voglio che se ne vada via così, non voglio continuare a ferirlo.

«Buonanotte, Bells. Chiamami quando avrai chiarito i tuoi sentimenti, o avrai capito di aver fatto per la seconda volta lo stesso errore», dice, senza nemmeno voltarsi e raggiungendo la strada velocemente.

Si avvia lungo il marciapiede, e più in là noto la sua Golf, posteggiata distante, ma difficile da vedere a causa del buio. Possibile che Edward non l’abbia notata? L’ha fatto apposta a fermarsi davanti a casa mia e baciarmi? Ha fatto tutto perché sapeva che Jacob era davanti casa mia e ci guardava? Sono stata così stupida da non rendermene conto?

Entro in casa continuando a ripensare a ciò, cercando di ripercorrere gli ultimi minuti passati con Edward in auto, e provando a ricordare il suo comportamento mentre ci avvicinavamo a casa Swan. Ma ogni volta, la mia mente viene proiettata alla centinaia di emozioni che ho provato nel sentire le sue labbra poggiate sulla mia fronte, e inevitabilmente provo uno strano senso di vertigine, che mi porta con la testa al ricordo di chissà quanto tempo fa. E, di conseguenza, ripenso anche al secondo ricordo di questa sera, e altre mille domande si affacciano nella mia mente, ma la mia memoria rimane chiusa con il lucchetto, come sempre.

Una piccola scintilla di speranza mi porta a credere che forse, visti i ricordi che si sono susseguiti a breve distanza l’uno dall’altro, domattina, quando mi sveglierò, ricorderò tutto. Magari sognerò tutta la mia vita negli ultimi cinque anni, e ricorderò ogni cosa. Forse.

Quando finalmente sono nel letto, a un passo dal mondo dei sogni, rivedo il sorriso di Edward, e dimentico completamente Jacob.

 

Questa mattina mi sono svegliata che ero di pessimo umore.

Questa notte ha portato con sé non solo il bacio di Edward, ma anche tanti altri avvenimenti che sul momento - scossa e stanca - non sono riuscita ad elaborare come avrei dovuto.

Appena ho aperto gli occhi ho capito - a malincuore - di non ricordare assolutamente niente - al di fuori di quei due ricordi.

Il lacerante senso di colpa nei confronti di Jacob, che ha preso il sopravvento durante la notte, generando incubi senza senso e rimpiazzando sogni ben più gradevoli che avevano come unico sfondo la camera di Edward e il suo proprietario, non ha smesso di abbandonarmi, spingendomi più volte a prendere in mano il telefono e a guardarlo per almeno dieci minuti, indecisa se chiamarlo o meno per chiedergli scusa.

«Secondo me è meglio che non lo chiami», mi ha detto Angela, mentre eravamo sedute sul divano di casa mia.

È venuta a trovarmi poco dopo le dieci, per avere i dettagli sulla serata e sapere «come è andato il viaggio di ritorno». Alla fine, stanca anche solo di pensare alla situazione in cui mi sono cacciata, le ho raccontato tutto. Le ho riferito tutte le conversazioni avute con Edward e con Jacob da quando sono uscita dall’ospedale, tutte le frasi spezzate e ricorrette pronunciate da Charlie e il mio fidanzato. Le ho confessato tutta la mia confusione, tenendo per me solo le sensazioni strane e travolgenti che provo quando sono vicino ad Edward, troppo imbarazzata per ammetterle.

Dopo averle detto che secondo Edward io e lui saremmo amanti, lei ha sospirato e ha sorriso, esclamando un “lo sapevo!” e dopo un mio momentaneo momento di smarrimento ha ammesso di aver sempre sospettato che in realtà io ed Edward non avevamo mai smesso di vederci, anche se non ho mai avuto il coraggio di dirglielo. Perché mi vergognavo, suppongo.

Quando le ho chiesto per quale motivo non dovrei chiamare Jacob, mi ha risposto in modo schietto e sincero, come mi sarei aspettata: «Credo che lo schiaffo di ieri gli sia bastato. Se lo richiamassi potresti fargli sperare che hai cambiato idea, e, dato che non è affatto così a quanto ho capito, non faresti altro che farlo soffrire ancora di più. Jacob non mi andrà a genio, ma è pur sempre un semplice ragazzo, e nessuno merita di essere trattato in questo modo».

Ho abbassato lo sguardo e annuito, dopodiché ho lasciato andare il mio cellulare, convenendo che fosse la cosa migliore per lui.

Pochi minuti dopo aver salutato Angela è suonato il telefono di casa, e ho parlato con Alice, con la quale mi sono accordata sul luogo e l’ora in cui incontrarci. È stata una telefonata breve, il cui unico argomento è stato scegliere un piccolo bar in centro - uno dei pochi di cui dispone Forks - e l’ora, ovvero le due di questo pomeriggio.

Spero solo che questo incontro non porti altre spiacevoli notizie.

 

Il bar non è molto frequentato a quest’ora. L’unico tavolino occupato è il nostro, e gli unici altri presenti - oltre alla barista - sono un piccolo gruppo di uomini seduti intorno a un grosso tavolo che giocano tranquillamente a carte, parlando a voce bassa.

Alice è seduta davanti a me, in carne ed ossa. Non è cambiata granché da cinque anni fa, anche se ora si è trasformata in una donna a tutti gli effetti. Gli occhi azzurri, però, mi sembrano più spenti di una volta, ma forse è solo una mia impressione. Ha ancora gli stessi capelli scuri sbarazzini, è sempre vestita in modo impeccabile, e la sua camminata è ancora più aggraziata di quanto ricordassi.

«Alice…», la chiamo, mentre lei gira svogliatamente il cucchiaino all’interno della tazza di tè. «Di preciso, qual è il tuo rapporto con Edward? Lo conoscevi già da prima che lo incontrassi io?».

Siamo sedute qui da circa dieci minuti, e questa è la prima volta che affronto l’argomento Edward con lei. All’inizio ci siamo limitate a poche domande riguardo i nostri lavori, e poi le ho chiesto come ha incontrato Jasper, e come è iniziata la loro storia. Ho così scoperto che entrambe abbiamo deciso di andare a studiare a Seattle: lei alla facoltà di design, io a quella di giornalismo; lì, durante un pomeriggio di shopping sfrenato, si è scontrata con un ragazzo - Jasper; Jazz per gli amici - che le ha rovesciato addosso una spremuta di aranciata, rovinandole il vestito nuovo di zecca. Dopo un iniziale momento di rabbia lo sconosciuto si è offerto di offrirle il bagno di casa sua per cambiarsi, e per Alice quella è stata probabilmente la domanda che le ha cambiato la vita. Per una fanatica di Notting Hill quale è Alice, quello è stato un segno del destino, e lei non si è lasciata sfuggire l’occasione. Da quel momento lei e Jasper non si sono più separati, e adesso vivono felicemente insieme in una casa appena fuori Forks, anche se spesso lei e Jasper tornano a Seattle.

Alice smette di girare il cucchiaino nella tazza per un secondo. «Sì. Io ed Edward siamo cugini», mi risponde semplicemente, senza nessuna inflessione nella voce. «Credo di avertene parlato qualche volta. Il padre di Edward è il fratello di mia madre, e hanno vissuto a Chicago fino a circa otto anni fa, quando Edward ha finito le superiori. Non vi siete mai incontrati perché lui viveva a New York per frequentare il conservatorio, e tornava a Forks solo durante l’estate, quando tu andavi a stare da tua madre», mi spiega brevemente, ma con chiarezza.

Mi sembra assurdo che in una città minuscola come Forks io e lui non abbiamo mai avuto modo di incontrarci se non per una banale coincidenza dopo tre anni che vivevamo nella stessa città e avevamo per di più una conoscenza in comune.

«Come mai ti trovavi vicino alla scuola? Tu sei più grande, non credo stessi andando al ballo».

«No, infatti. Stavo andando a salutare mia cugina, ero appena tornato a casa da New York per le vacanze estive».

«Eri tu la cugina che Edward stava andando a salutare quando ci siamo incontrati la sera del ballo, quindi?», le chiedo, ricordando un pezzo della conversazione avuta con Edward durante il nostro pranzo insieme.

Lei annuisce, e abbozza un sorriso. «Non sai che sorpresa scoprire che il mio cavaliere d’occasione mi aveva lasciata per la mia migliore amica».

«È stato da quella sera che…», mormoro, arrossendo e cercando le parole adatte.

Alice mi guarda. «Che avete iniziato a frequentarvi?», conclude per me. «No, affatto. Piuttosto, da quel momento lui ha iniziato ad evitarti».

Aggrotto le sopracciglia, perplessa. «Per quale motivo?».

Alice beve un sorso di tè, con calma. Guardo la mia tazza di cioccolata, e verso una bustina di zucchero, cercando di rispecchiare il suo comportamento tranquillo; ma è maledettamente difficile quando si sta morendo di curiosità.

«Edward non voleva avere relazioni», dice tranquillamente Alice, scrollando le spalle, come se fosse un fatto ovvio. «Per lui le ragazze sono sempre state solo un modo per divertirsi, se loro erano d’accordo con lui. Il suo unico interesse è sempre stata solo la musica, e per questo quando ti ha incontrata ha preferito iniziare ad evitarti: aveva capito che tu non eri una ragazza da una una notte e via, così ha deciso di lasciarti perdere fin dall’inizio».

Non ho mai pensato a come potesse essere davvero Edward sotto quel punto di vista, in questi giorni. Non sono delusa, ma di certo sapere questo non mi aiuta a capire come è potuto succedere che io e lui ci fidanzassimo.

Alice continua a parlare, bevendo di tanto in tanto un po’ di tè. «Io avevo capito che c’era qualcosa di strano nel comportamento di Edward: ogni volta che vi incontravate era sempre il primo a cercare di scappare. Così ho cercato di spingerti a fare il primo passo, dato che mi sembravi presa almeno quanto lui, e finalmente, dopo quasi due interi mesi, sono riuscita a farvi mettere insieme e a trasformare mio cugino in un ragazzo serio con una ragazza fissa», termina, senza cambiare tono di voce.

Arrossisco leggermente, ma la mia mente è tutta concentrata sulla voce neutra e l’espressione impassibile di Alice. Cinque anni fa, se mi avesse raccontato una cosa del genere, avrei assistito a un racconto ben diverso: ogni tre secondi avrebbe fatto strani versi e urletti, e di certo alla fine avrebbe esultato e si sarebbe complimentata con se stessa. Ora invece è tutto diverso.

«Quindi quell’estate non sono andata da mia madre?», le chiedo, cercando di chiarire alcuni punti.

Alice scuote il capo. «Era partita per un viaggetto con il suo ex fidanzato, e fra l’altro, se non ricordo male, è stato proprio in quell’occasione che ha incontrato Phil».

«Ma come abbiamo fatto io ed Edward, se lui studiava a New York ed io a Seattle?».

«A metà anno ha deciso di terminare gli studi al conservatorio di Seattle. Ha detto a tutti che l’ha fatto perché era stanco di stare lontano dalla sua famiglia, e che mostrare sul curriculum di aver frequentato diverse scuole era un punto in più per lui, ma tutti abbiamo sempre saputo che l’unico vero motivo per cui aveva deciso all’improvviso di trasferirsi qui eri tu», mi risponde, aprendosi in un sorriso tenero. «Zia Esme te ne sarà sempre grata».

Arrossisco, e abbasso lo sguardo sulla cioccolata. Ne bevo un sorso.

«E con Jacob? Come sono andate le cose?».

Lei si irrigidisce improvvisamente, e il sorriso sparisce dal suo viso. «Sei sempre piaciuta a Jacob, lo sai», dice, nervosa. «Quando hai iniziato a vederti con Edward ha cominciato a farsi avanti in modo più evidente, e ha cercato in tutti i modi di convincerti che eri innamorata di lui. Quell’estate siete diventati ancora più amici, e questo non ha fatto altro che aumentare ancora di più le sue speranze».

«Ma come è finita fra me ed Edward?». Esito per un istante. «È… è stato lui a lasciarmi?», chiedo, quasi sussurrando.

Alice mi guarda intensamente, e aspetta alcuni secondi prima di rispondermi. «No, sei stata te a chiudere la storia fra di voi… quando hai capito di aver sbagliato sei tornata da Edward, ma a quel punto avevi già accettato la proposta di matrimonio di Jacob…».

Mi mordo il labbro, senza capire. «Perché? Perché ho lasciato Edward?».

Alice abbassa lo sguardo, e finisce di bere il tè in un sorso. Si pulisce la bocca, ed evita di rispondere.

«Alice… per favore, dimmelo. È per questo motivo che non ci siamo più parlate? Ti sei arrabbiata perché ho lasciato Edward?», le chiedo, ansiosa.

Lei scuote il capo. «No, no. Io ti ho appoggiata quando hai scelto di lasciarlo, anche se ero certa che ci fosse qualcosa che non quadrava… è stato quando non hai più voluto ascoltare i miei consigli e ti sei buttata fra le braccia di Jacob che abbiamo iniziato a litigare, e da allora non ci siamo più rivolte la parola…», mormora.

«Perché l’ho lasciato?».

Alice mi guarda, e nei suoi occhi leggo solo tristezza. «Non posso dirtelo io, Bella. Vorrei, davvero. Ma non sarebbe giusto farlo, è compito di Edward raccontarti questa parte. Tu sei la mia migliore amica, ma Edward è mio cugino, e gli voglio bene come ad un fratello… non essere arrabbiata con me, ti prego».

Scuoto il capo, e accenno un sorriso. Finalmente in lei rivedo Alice, la mia migliore amica.

«Non ce l’ho con te, Alice…», mormoro, sincera. «Solo che… è tutto così confuso… in un modo o nell’altro non riesco mai a sapere tutta la verità».

Lei annuisce. «Devi andare da Edward».

«Cosa?!». Forse ho capito male. Spero di aver capito male.

«Devi andare a parlargli, e subito anche. Non puoi continuare ad aspettare che quel cafone di Jacob ti racconti la verità, non lo farà mai, e anche se lo farà sicuramente cercherà di modificarla a suo vantaggio».

«Jacob non lo farebbe mai…», borbotto, sentendo il senso di colpa tornare a galla. «E comunque sarà di sicuro fuori casa, e in ogni caso non so nemmeno dove abita».

Non appena termino la frase, però, nella mia mente appare una casa, una villa in legno e mattoni, immersa nel verde della foresta a pochi chilometri da Forks; e sono certa di conoscere la strada per arrivarci.

Non è possibile che sia la casa di Edward… o forse sì?

«Non c’è problema, ti scrivo subito l’indirizzo. E sicuramente è a casa, visto che è sabato pomeriggio e lui esce al massimo la sera. In ogni caso è sempre meglio tentare, no?».

Sto per dirle no, ma il gesto della sua mano mi dice di lasciar perdere la risposta. Traffica nella sua borsa per alcuni secondi, poi estrae una penna e un taccuino. Scarabocchia un indirizzo su di esso, dopodiché strappa il foglietto e me lo porge.

Lo afferro titubante, e guardo l’indirizzo. Forse non è vero la mia memoria è chiusa con il lucchetto.

«Bella…?».

Alice allunga le mani sul tavolo, e afferra le mie, stringendole delicatamente.

«Promettimi che ascolterai tutto quello che ti dirà Edward, ti prego», mi dice, guardandomi con occhi imploranti.

Aggrotto le sopracciglia, perplessa. «Perché non dovrei ascoltarlo? È da una settimana che aspetto di conoscere tutta la verità, non avrebbe senso scappare».

Le sue labbra si piegano in un sorriso amaro. «Perché la verità fa male, e a volte scappare  può sembrare un’ottima opportunità per evitare di soffrire. Ma promettimi che non lo farai».

Annuisco lievemente, ricambiando la sua stretta. «Te lo prometto».

Alice si volta verso la vetrata che da’ sulla strada, ed entrambe vediamo Jasper appoggiato alla sua auto. Mi saluta con un cenno della mano, e ricambio.

«Devo andare», mormora Alice, alzandosi dalla sedia.

«Grazie per la chiacchierata, Alice. È stato bello rivederti».

Lei sorride. «Anche per me».

«Ah, Bella?», mi chiama, dopo aver raccolto la borsa dalla sedia.

Alzo lo sguardo, e sulle sue labbra scorgo lo stesso sorriso furbo che l’ha sempre caratterizzata.

«Di’ ad Edward che se ci tiene alla sua auto farebbe meglio a raccontarti tutto, senza tralasciare alcun dettaglio».

Prima ancora che possa annuire è già corsa fuori dal bar, e la vedo attraverso il vetro. Si getta fra le braccia di Jasper, e si scambiano un bacio veloce prima di salire in auto e allontanarsi.

«Tu sei la mia migliore amica».

Forse non tutto è perduto.

 

Quando scopro che la casa di Edward è davvero quella che ho immaginato - o ricordato? - mentre ero al bar, la sorpresa riesce a farmi superare per un breve momento l’imbarazzo di trovarmi proprio lì davanti.

Parcheggio l’auto sulla stradina ricoperta di ghiaia davanti alla casa, e scendo dall’auto cercando di non farmi prendere dal panico, ma è più facile a dirsi che a farsi.

Cosa posso dirgli? “Ciao, Edward. Sono qui perché tua cugina non ha voluto dirmi per quale motivo ti ho lasciato e perché sono corsa dal mio attuale fidanzato”?

Forse definire Jacob il mio attuale fidanzato non è propriamente corretto. Dopo ieri sera non so proprio come definirlo. La nostra è una pausa, o un addio?

Scuoto il capo, cancellando questi pensieri, e mi guardo intorno.

Tutto ha un aspetto piacevolmente familiare, ma non vedo alcuna macchina. Pensandoci più a lungo, però, mi viene in mente che dietro la casa dovrebbe esserci il garage, quindi è probabile che la macchina di Edward si trovi lì.

Mi avvicino alla porta in legno dell’ingresso, titubante.

Suono il campanello, e sposto il peso da un piede all’altro, a disagio.

Passa quasi un intero minuto prima che la porta si apra, e stavo già per andarmene, rassegnandomi all’idea che non c’era nessuno in casa.

Ma quando i miei occhi incontrano quelli azzurri della persona davanti a me e i suoi lunghi capelli biondi, rimpiango amaramente la scelta di non essermene andata.

________________________________

La casa di Edward

Allora, Bella ha avuto un altro piccolo ricordo, e sembra che la sua memoria stia iniziando a tornare, anche se ci sono ancora taaaante cose che scoprire :P L'incontro con Alice è servito per conoscere come si sono evolute le varie storie, ma anche lei non ha voluto dirle niente sulla rottura con Edward. Lui le racconterà qualcosa? :D

Dunque, alcune di voi avevano indovinato chi era il personaggio alla porta, complimenti :D Sul secondo sondaggio preferisco non dire ancora nulla :P

Su questo ultimo personaggio che è spuntato fuori dalla porta, invece, cosa dite? Chi è secondo voi? :D

Grazie per continuare a seguirmi nonostante questi ritardi mostruosi, siete degli angeli :***

Alla prossima! :*******

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** 11. Qualsiasi cosa ***


Buondì!

Mi dispiace per l'ennesimo ritardo nel postare, ma il tempo stringe, e ormai non riesco a trovare più molto tempo da dedicare alla scrittura. Non vedo l'ora che arrivi luglio per ritenermi finalmente libera XD

Bon, vi lascio al capitolo. Finalmente verranno chiariti alcuni punti fondamentali ;)

Buona lettura!

________________________________

11. Qualsiasi cosa

Da quanto tempo sto osservando la ragazza davanti a me? Sicuramente troppo.

Da quando ha aperto la porta i suoi occhi azzurro scuro non si sono mai staccati dai miei, e in essi ho potuto leggere solo sorpresa.

«Oh», esclama, notando che sono immobile e non accenno a parlare. «Ciao, Bella».

Appena il mio nome lascia le sue labbra mi riscuoto, e la guardo meglio, cercando di trovare qualcosa da dire.

Per un momento l’ho scambiata con la ragazza che alla serata di beneficenza ci provava spudoratamente con Edward, quella con il lungo vestito rosso con lo spacco laterale che lasciava scoperta la lunga gamba. Ma adesso che la guardo meglio mi rendo conto che i capelli della ragazza davanti a me sono di un biondo più brillante e chiaro, e anche il corpo è leggermente diverso, per non parlare del viso, che ha tratti molto più delicati. È bellissima.

Mi schiarisco la voce. «Ciao», mormoro, senza riuscire a nascondere la mia perplessità.

Forse ho sbagliato casa, e sono finita da qualcun altro. Magari la ragazza che ho davanti è una mia amica, e ho confuso casa sua con quella di Edward. Eppure ero così sicura…

«Ehi, chi è?». Un’altra voce risuona dall’interno della casa, e appena sollevo gli occhi incontro lo sguardo curioso di un altro ragazzo, alto e con i capelli corti scuri e riccioluti. È grande quanto un armadio, e quasi mi spavento non appena appare alle spalle della bionda.

La ragazza si sposta di lato, lasciandomi scoperta alla vista del nuovo arrivato. I suoi occhi brillano, e si apre in un sorriso estatico, rivelando due tenere fossette sulle guance, che lo fanno sembrare un bambino troppo cresciuto. «Bellina! È da un pezzo che non ti si vede!».

Si avvicina velocemente a me, e prima che possa sfuggirgli mi ha già presa fra le sue braccia, e mi sta stritolando in un abbraccio che mi solleva da terra. La bionda ha un sopracciglio inarcato, e un’espressione perplessa.

«Emmett». Un’altra voce, questa volta molto più familiare e ammonitrice, arriva alle mie orecchie, mentre la mia visuale è quasi completamente occupata dal corpo massiccio del ragazzo, che mi sta ancora stringendo. «Lasciala andare, prima che inizi a pensare di chiamare la polizia».

I miei piedi toccano di nuovo terra, e vengo liberata dall’abbraccio, mentre il ragazzone simile a un orso si volta verso la porta. «Perché mai dovrebbe fare una cosa del genere?».

Vicino alla ragazza bionda ora c’è Edward, che non appena incrocia il mio sguardo sorride.

La bionda tira una gomitata al ragazzo. «Ci aveva avvisati, ricordi?», sibila, a bassa voce.

Gli occhi di lui - Emmett, suppongo -, si spalancano, sorpresi, e si voltano nella mia direzione. «Ah… Uhm…». Assume un’espressione buffissima, e si avvicina di più a me, guardandomi attentamente. «Mi riconosci?», mi chiede, accigliato. Sembra incredulo di dire una cosa del genere. «Sai chi sono?».

Mi mordo il labbro, arrossendo. «Ehm… sei Emmett…?».

I suoi occhi si illuminano, gioiosi, ma lo interrompo prima che possa dire altro.

«Però non mi ricordo di te, mi dispiace. Ho solo sentito Edward chiamarti così», aggiungo, con un sorriso di scuse.

Lui mi fissa inebetito per un istante. «Perciò non ricordi assolutamente nulla di noi?».

Scuoto il capo, desolata, ma lui sorride, ridendo. «Che figata!».

Mi acciglio, ma prima che possa dire altro Edward mi precede, venendomi accanto. «Non è una figata, Emmett. È un gran casino. Che ne dici di ripresentarti? O preferisci filartela prima di traumatizzarla?».

Emmett ride, allegro. Poi mi porge la mano. Lancio un’occhiata confusa ad Edward, che scrolla le spalle alzando gli occhi al cielo. Poso la mia mano in quella aperta di Emmett, e subito si esibisce in un profondo inchino, posando un bacio sul dorso della mia mano. «Mademoiselle, io sono Emmett, il suo fratellone orso. Se mai dovesse aver bisogno di qualcuno che prenda a bastonate il caro Eddino non esiti a chiamarmi».

Rido, trovando la situazione alquanto buffa. Edward invece sbuffa, e scuote il capo. «Ti sei dimenticato di dire che sei mio fratello».

Guardo entrambi i ragazzi, sorpresa. Non hanno niente in comune, o è solo una mia impressione?

Edward fa un piccolo sorriso, poi fa un cenno alla bionda.

Lei avanza verso di me, e davanti alla sua bellezza sconvolgente mi sento subito a disagio. Incrocia le braccia al petto, e fa un cenno con il capo, scuotendo la lunga chioma. «Io sono Rosalie».

Abbozzo un sorriso, a disagio davanti alla sua apparente freddezza. «Piacere».

«Che ne dite di entrare tutti dentro?», chiede dopo alcuni secondi di silenzio, Edward.

Solo adesso mi rendo conto che siamo rimasti fermi sull’uscio di casa sua per tutto il tempo.

«Mi dispiace, non volevo disturbarvi…», mormoro, rendendomi conto di aver sicuramente interrotto il loro incontro. 

Rosalie scuote il capo sorridendo. «Figurati, non hai disturbato. Io ed Emmett ce ne stavamo andando, comunque».

Si scambia un’occhiata con lui, e rientra in casa, dirigendosi verso una scala. Emmett la segue, ed Edward posa una mano sulla mia schiena, invitandomi gentilmente a entrare. Lo faccio dopo alcuni secondi, guardandomi intorno con aria curiosa. Le pareti dell’ingresso sono in mattoni sporgenti, e il pavimento è in cotto; una breve scala in pietra conduce al salotto con il parquet scuro e lucido, i mobili di legno, vetro e cristallo. Alcuni divani dai colori chiari sono disposti intorno a un tavolino da caffè di cristallo, posato su alcune pietre grezze. Grosse vetrate conducono a un balcone ornato da vari vasi colmi di piante fiorite.

Guardandomi intorno, mi rendo conto che tutto quanto mi è terribilmente familiare. Alla mia sinistra, scorgo una porta, e per un secondo mi chiedo se dietro questi muri si nascondono la camera da letto e quella con il pianoforte del mio ricordo. Scaccio questo pensiero, mentre sento il sangue affluire velocemente alle guance.

Rosalie ed Emmett escono dalla porta quando io ed Edward raggiungiamo il salotto, e lei tiene fra le mani la borsa.

«Edward, noi andiamo», dice, sorridendogli.

Emmett le passa un braccio intorno alle spalle, attirandola a sé. «Io e Rose abbiamo un appuntamento», aggiunge, rivolto a me.

Edward inarca un sopracciglio, ghignando. «Lei ha un appuntamento. Con il centro commerciale».

Emmett sorride maliziosamente. «Credimi, non è per niente male fare da spettatore. Soprattutto quando c’è da provare i vestiti…».

Rosalie gli tira una gomitata, stizzita. «Smettetela tutti e due».

Si libera dal braccio di Emmett, e si dirige verso le scale. «Ci vediamo. Ciao, Bella».

Mormoro un ‘ciao’ a entrambi, e li osservo scendere le scale e poi sparire dietro la porta d’ingresso.

«Mi dispiace…», mormoro, a disagio, quando io ed Edward restiamo soli. «Ho fatto scappare tutti i tuoi ospiti».

Edward ride lievemente, e scuote il capo. «Figurati, Rose stava solo aspettando il momento buono per andare via. Il sabato pomeriggio è il giorno consacrato allo shopping, e tra poco apriranno i negozi».

Si dirige verso la porta che ho visto prima. «Piuttosto, come hai fatto a trovare la strada per arrivare qui? Hai avuto qualche altro ricordo?».

Mi mordo la lingua prima di rispondere affermativamente. Sarebbe imbarazzante dirgli che mi ricordavo come arrivare da lui. «No… ho parlato con Alice poco fa».

Edward si irrigidisce per un secondo, e con un cenno del capo mi fa segno di seguirlo attraverso la porta. «Uhm… quindi avete risolto tutto?».

Passiamo in un piccolo corridoio spoglio, ed entriamo nella prima porta a destra. «No… non proprio», rispondo, titubante.

Ci troviamo in una cucina, che a differenza dell’ingresso e del salotto è decisamente più moderna. I mobili sono in legno scuro, e il pavimento è di pietra nera e lucida.

Edward raggiunge il frigorifero, e mi offre da bere. Accetto un bicchiere d’acqua, sperando che basti a rinfrescare la mia gola improvvisamente secca. Mi sento un po’ a disagio, in questa casa, sola con lui.

«Mi ha raccontato alcune cose», mormoro dopo che ci siamo seduti alla penisola, entrambi con il bicchiere fra le mani. Non riesco a guardarlo negli occhi, e so che nemmeno lui lo sta facendo. Sa già cosa gli dirò? Ha paura che possa dire qualcosa di compromettente?

«Ah», dice semplicemente. Si schiarisce la voce. «E hai paura che possano non essere vere?».

I miei occhi scattano verso di lui, e lo fisso sconvolta. «Cosa? No, no, per niente. Insomma… Alice non mi mentirebbe mai».

Edward mi guarda per un breve istante, con uno sguardo indecifrabile.

«Potrebbe farlo?», sussurro, stordita dal suo sguardo.

Edward scrolla le spalle, ma non mi guarda. «Non ho detto niente, io. Dovresti saperlo te se ti ha mentito».

«E mi spieghi come faccio a saperlo, se non ricordo assolutamente nulla?», ribatto, accigliata e con più astio di quanto avrei voluto.

Edward socchiude gli occhi, continuando a fissare il bicchiere d’acqua che tiene in mano. «Per questo sei venuta qui? Per sentire anche la mia versione dei fatti?».

Non mi sembra arrabbiato, solo a disagio e teso quasi allo spasmo.

«S-Sì… ma non solo per questo».

Mi fissa curioso, ma ancora sulla difensiva. «Allora perché?».

Perché volevo rivederti. «Alice mi ha detto che ci sono alcune cose che è giusto che sia tu a raccontarmele…».

Edward cerca di sorridere, ma quella che spunta sulle sue labbra è più una smorfia. «Tipico di Alice. Scommetto che a me ha lasciato la parte più difficile del racconto, non è vero?».

Mi mordo il labbro, e abbasso lo sguardo. Edward accoglie la mia reazione come un’affermazione, e sospira pesantemente. Si passa nervosamente una mano fra i capelli. Non mi guarda, ma non sembra arrabbiato o irritato.

«Va bene», dice alla fine, alzandosi dallo sgabello e infilando le mani in tasca. Mi fa un cenno con il capo in direzione della porta. «Credo sia meglio se andiamo a sederci di là».

Annuisco, uscendo dalla cucina con lui subito dietro. Una volta raggiunto il salotto mi accomodo su uno dei morbidi divani bianchi, osservandolo mentre si siede vicino a me, lasciando fra di noi la distanza di un braccio. Per un istante sento l’istinto di sfilarmi le scarpe e raccogliere le gambe sotto di me, sul divano, ma lo ricaccio indietro in fretta. È tutto così naturale, con un pizzico di novità e disagio che mi sembra quasi di provare la sensazione del deja-vù.

Edward mi guarda spaesato. «Da dove inizio?».

«Magari dall’inizio», gli suggerisco, accoccolandomi meglio sul morbido divano e voltandomi leggermente nella sua direzione per non essere costretta a girare completamente la testa. «Puoi raccontarmi qualsiasi cosa, non ti preoccupare. Solo… non scherzare questa volta. Ti prego».

Edward accenna un sorriso. «D’accordo». Si guarda le mani per un lungo minuto, giocando con le dita. Non so perché, ma non riesco a distogliere lo sguardo; mi piace quando lo fa. Si schiarisce la voce. «Ti ho già raccontato come ci siamo conosciuti… dopo quella sera abbiamo iniziato ad evitarci a vicenda, anche se Alice faceva di tutto per farci incontrare. Non riuscivamo mai stare nella stessa stanza senza litigare, e credo che se non fosse stato per la vacanza a Miami che Alice è riuscita ad organizzare non avremmo mai iniziato ad andare d’accordo».

«Vacanza a Miami?», ripeto, cercando di ricordare di aver mai sentito nominare una cosa simile. Ma no, niente.

Edward annuisce. «Quell’estate non sei andata a trovare Renèe perché era partita per un viaggio, così Alice ti ha convinta a venire con noi e i nostri genitori in Florida. C’erano anche Emmett e Rosalie. Scommetto che ancora oggi Alice si compiace per quello che è riuscita a fare grazie a quel viaggio».

Emmett, Rosalie, Edward. Fino al giorno del ballo non conoscevo nessuno di loro, e adesso vengo a scoprire che nel giro di una serata la mia vita è cambiata radicalmente, che la vita che ho ora è il risultato di quello che è successo quella sera che non riesco a ricordare; che tutto è iniziato dove per me in questo momento finisce.

Mi passo una mano sul viso. «Vuoi dire che è stata quell’estate che ho conosciuto anche tuo fratello e Rosalie?».

Edward annuisce. «Emmett e Rose si sono conosciuti non appena la mia famiglia si è trasferita qui. Credo si tratti di un caso di ‘amore a prima vista’».

«Cos’è successo durante la vacanza?».

Edward tiene lo sguardo basso, e per un momento mi sembra che sia a disagio. «Abbiamo iniziato ad andare d’accordo. Alice si era trovata un ragazzo a Miami così capitava che tu restassi da sola… passavamo le giornate insieme e alla fine abbiamo deciso di provarci come coppia». Non so perché, ma dal modo in cui lo dice sono certa che le cose sono state ben più complicate di così. Anche perché Alice mi ha detto quanto è stato difficile farci stare insieme. «Siamo stati insieme fino a quando non sono tornato a New York per frequentare l’ultimo anno, e abbiamo deciso di restare solo amici per facilitare le cose. Solo che…».

Un flash mi abbaglia per un istante. In un secondo, riesco a vedermi, in piedi, in mezzo alla folla di gente, in quello che mi sembra un aeroporto. Vedo le mie lacrime scendere lungo le guance mentre osservo le porte di vetro oltre cui è passato Edward, ormai invisibile, inghiottito dalla folla. Sento la stretta dolorosa al petto, e il bruciore alla gola per i singhiozzi trattenuti.

Poi torno al presente, e sono di nuovo nel salotto di Edward.

«… non siamo riusciti a mantenere la promessa. Alla fine dopo un paio di mesi ho fatto domanda di trasferimento al conservatorio di Seattle, e sono tornato a Forks. Da quel momento siamo diventati una vera coppia».

Mi schiarisco la voce. «E quando… quand’è che ci siamo lasciati…? Perché?».

Edward accenna una risata nervosa. «Non vuoi sapere prima cosa abbiamo combinato in due anni di fidanzamento?».

Mi mordo il labbro. «Immagino avremo fatto quello che fanno tutte le coppie…», mormoro, arrossendo.

«Siamo anche andati in Italia insieme».

«Davvero?», chiedo, immediatamente euforica ma al tempo stesso anche triste e amareggiata. «Vorrei tanto ricordarmelo. Ho sempre sognato di andare là».

Mi passo una mano nei capelli, scostandoli dal viso. «Sembra tutto così… irreale. Mi sembra impossibile che siano passati cinque anni e che io non ricordi nulla di tutto quello che ho fatto… che ho visto. È strano pensare di aver persino lasciato gli Stati Uniti».

Edward si alza in piedi e raggiunge una mensola senza dire niente. Prende una specie di quadernetto, e torna a sedersi vicino a me. Ora è ancora più vicino. Mi passa il quaderno, e lo apro a una pagina a caso, notando che si tratta di un album di fotografie. Nella pagina che ho aperto ci sono io, e dietro di me c’è la famosa torre di Pisa. Mi mordo il labbro, cercando di trattenere un sorriso.

«C’è anche un’altra cosa che può testimoniarti di essere stata là», sussurra Edward. Allunga il braccio, e arriva a toccarmi con un dito il braccialetto con il campanellino, stretto intorno al mio polso. Sussulto.

Alzo il braccio. «Questo?».

Edward annuisce, e prende il campanellino fra due dita, girandolo. «È di una nota marca italiana che si trova solo lì. Se noti c’è anche una scritta in italiano».

Annuisco. «L’ho notata qualche giorno fa».

Edward riabbassa il braccio, ed io rimango per alcuni secondi a sfogliare l’album di fotografie, arrossendo ogni volta che i miei occhi si posano su un’immagine di me ed Edward abbracciati. Solo quando arrivo alla fine capisco di non aver fatto altro che guardare lui, e solo lui e di non aver fatto per nulla attenzione alle opere o ai paesaggi italiani di sfondo.

Sospiro, e richiudo l’album, accarezzando con le dita la copertina plastificata. «Edward… cos’è successo dopo? Perché ci siamo lasciati?».

Non posso più fare finta di non essere curiosa. È il vero motivo per cui sono venuta fino a qui oggi: conoscere il motivo per cui mi ritrovo con un amante e un fidanzato che non amo. Voglio sapere. Devo sapere.

Edward si passa una mano fra i capelli, respirando profondamente. «Ho fatto un casino», sussurra. Stringe le labbra per un istante. «È per questo che sei venuta qui, vero? Alice non ha voluto raccontarti cos’è successo a questo punto della nostra storia».

Annuisco lentamente, ed Edward sospira.

«Okay», dice dopo alcuni secondi, raddrizzandosi e facendo vagare lo sguardo per la stanza, improvvisamente a disagio. «Più o meno dopo due anni che stavamo insieme è venuta in città una mia vecchia amica… Tanya. Io e te abbiamo iniziato a litigare, perché avevi scoperto da Alice che eravamo stati insieme anni prima, e avevi paura che potessi lasciarti per tornare con lei. Tanya era a Seattle per un concerto a cui avrei partecipato anch’io, e quella stessa sera mi chiese di poterla aiutare per dare una lezione ad alcune musiciste con cui aveva spesso battibecchi e che la prendevano in giro per essere continuamente single e sola ai concerti». Edward mi lancia una breve occhiata, e notando la mia perplessità aggiunge: «Tanya è una violinista. Così mi chiese di poter fingere solo per quella sera di essere il suo fidanzato». Edward torna a fissare le sue mani. Ho come la sensazione che stia per arrivare la parte peggiore. «All’inizio ho rifiutato, perché sapevo che saresti stata tra il pubblico, ma quando ho sentito come le altre musiciste la prendevano in giro con tanta cattiveria non sono riuscito a dirle di nuovo no. Dovevamo solo fingere di essere una coppia mentre eravamo dietro le quinte… tenerci per mano e abbracciarci, niente di eccessivo… e nessuno oltre al resto dei partecipanti al concerto sarebbe venuto a saperlo. Ho provato a chiamarti e a telefonarti per avvisarti, ma avevi il cellulare spento… Quando alla fine dello spettacolo le altre musiciste si stavano avvicinando a noi, Tanya mi ha baciato». La voce gli si spezza. «E solo quando si è allontanata ho visto che tu eri lì, che ci guardavi. Hai girato i tacchi e te ne sei andata».

«Non hai provato a fermarmi? A spiegarmi come stavano davvero le cose?», gli chiedo, con un nodo in gola. Non può essere finito tutto così, solo per un’incomprensione. Forse, se avessi avuto il cellulare acceso… se avessi capito subito come stavano le cose…

Edward fa un sorriso triste. «Ci ho provato. Sono riuscito a fermarti, ma mi hai urlato di starti lontano, e di non toccarti. Non mi hai voluto ascoltare. Te ne sei andata prima ancora che potessi finire di spiegarti che era tutta una messa in scena, anche se il bacio non era previsto».

In questo momento non posso fare altro che provare un moto d’ira per questa Tanya. Chi è? Come ha osato baciare il mio ragazzo?

«Questa Tanya…», mormoro, con un accenno d’ira nella voce, «sapeva che eri fidanzato?».

Edward sospira. «Sì, lo sapeva. Il giorno dopo quella sera è venuta a chiederti scusa di persona, ma non l’hai voluta ascoltare».

“È stato quando non hai più voluto ascoltare i miei consigli e ti sei buttata fra le braccia di Jacob che abbiamo iniziato a litigare, e da allora non ci siamo più rivolte la parola”.

«Ho litigato con Alice per questo, vero?», chiedo. «Lei ti credeva, ed io non le ho dato retta. Né a lei, né a Tanya, né a te».

Edward annuisce. «Hai preferito dare retta a Jacob», sussurra, sprezzante.

“Ti sei buttata fra le braccia di Jacob”.

«Ho… mi sono messa con Jacob dopo averti lasciato?», domando, sentendo un sentimento simile alla repulsione persino per me stessa.

«Non so bene quando avete iniziato a frequentarvi», mormora Edward, tenendo lo sguardo basso. «So per certo che la sera del concerto sei scappata da lui, e che da quel momento avete passato moltissimo tempo insieme. A novembre ti ha fatto la proposta di matrimonio».

Edward fa una smorfia, ed io sussulto.

«Ed io ho accettato subito?», chiedo, incredula.

Mi sembra assurdo. Oltre a non essere mai stata una grande fan del matrimonio (con l’esempio dei miei genitori, sarebbe strano se lo fossi), mi stupisce sapere che dopo solo pochi mesi di fidanzamento, dopo essermi lasciata da poco alle spalle una storia durata ben due anni, io abbia accettato di punto in bianco di sposarmi.

Edward si passa nuovamente le mani fra i capelli, frustrato. «A quanto ne so sì».

Mi schiarisco la voce. «Quando abbiamo iniziato allora a frequentarci in segreto? E perché? Perché non ho lasciato Jacob? Non…». Mi mordo il labbro, stringendo i pugni in grembo. «Non è stato giusto nei suoi confronti. Non è giusto».

«È iniziato tutto la sera della vigilia di Natale, non molto tempo dopo che avevi accettato la proposta». Edward fa un piccolo sorriso amaro. «Non è stata colpa tua Bella. È stata solo colpa mia. Sono stato io ad iniziare questa cosa, io ti ho proposto tutto».

«Ma io ho accettato», ribatto, piccata.

«Se ti può consolare, nei tuoi progetti non avevi previsto che il tradimento durasse tanto a lungo».

«In che senso?».

Edward abbassa lo sguardo. «Non avevi intenzione di restare con Jacob ancora a lungo… o almeno così dicevi». Davanti al mio sguardo scettico, Edward sospira. «Quel giorno… settimana scorsa… quando sei caduta…». Chiude gli occhi per un istante. «Mi avevi appena telefonato, e mi avevi detto che stavi uscendo per andare da Jacob a chiudere la vostra storia».

Abbasso lo sguardo, sentendomi colta da un improvviso dolore al petto. «Volevo lasciarlo quel giorno?», ripeto, con la voce strozzata.

«A quanto avevi detto sì…».

«Che c’è?», gli chiedo, notando il suo sguardo sfuggente e perplesso.

Scuote il capo. «Niente. Niente di importante».

Arriccio le labbra. «Edward, per favore…».

Socchiude gli occhi per un istante. «Era l’ennesima volta che lo dicevi», sussurra alla fine.

«Cosa?», gli chiedo, senza capire.

I suoi occhi verdi puntano il tavolino da caffè, senza la minima intenzione di voltarsi a guardarmi. «Era da quando eravamo tornati insieme che continuavi a dirmi che eri pronta a dire tutto a Jacob e a lasciarlo». Edward appoggia i gomiti sulle ginocchia, e si passa stancamente le mani sul viso. «So che è una cosa orribile da dirti proprio ora», mormora, con la voce attutita dai palmi delle mani. «Dio. E la cosa peggiore è che nonostante tutto mi sento quasi sollevato al pensiero che le nozze siano saltate per colpa della tua amnesia».

Rimango per alcuni secondi senza fiato nel sentire quanto dolore trasudano le sue parole. Quanta gente ho fatto soffrire? Quanta ne dovrò ancora far soffrire? Prima lui, poi Alice, ieri Jacob e adesso di nuovo Edward.

«Ma… se non mi sono più fatta sentire perché non sei venuto a trovarmi in ospedale? Non avevi saputo che ero stata ricoverata?».

Edward tiene gli occhi bassi. «Sì. Sì, l’avevo saputo. Alice me l’aveva detto, anche se nessuno sapeva che avevi un’amnesia. Io l’ho scoperto solo il giorno che sono venuto a casa tua».

Aggrotto le sopracciglia. «Ma allora perché non…».

Mi interrompo a metà frase, perché non ho più alcun bisogno che Edward risponda alla mia domanda. È chiaro, il motivo per cui non è voluto venire a trovarmi in ospedale. Pensava che avessi cambiato di nuovo idea e avessi deciso di rimandare ancora la rottura con Jake, o, peggio, chiudere definitivamente la nostra storia clandestina per sposare Jake. Edward era certo che io non l’amassi abbastanza da lasciare il porto sicuro del matrimonio per lui.

Fa un piccolo sorriso, triste e rassegnato.

Cerco di respirare profondamente, e devo combattere contro le lacrime che minacciano di iniziare a scendere lungo le guance.

Restiamo in silenzio per un lungo momento, continuando solo a guardarci negli occhi. Adesso che è più vicino, riesco a scorgere quel sentimento che prima non riuscivo a decifrare, e che ora che ci faccio caso, ho sempre scorto in questi giorni: la tristezza. Come deve essere stato per lui sapere di avermi solo per poche ore al giorno - forse anche meno - e di dovermi condividere con un altro uomo? Come faceva a resistere alla sensazione che potevo sfuggirgli ogni secondo che passava? Si era già arreso al fatto che avrei sposato Jacob o aveva ancora una speranza?

«Ti è tornato in mente qualcosa?». La sua voce è intrisa di aspettativa.

«Credo di aver rivisto il momento in cui sei tornato a New York, mentre mi parlavi. C’ero io all’aeroporto, ma tu eri già andato via», mormoro, senza nascondere la mia delusione.

Edward accenna un sorriso incoraggiante. «Meglio di niente, no?».

Annuisco, sospirando. «Vorrei tanto riuscire a sbloccare più di un ricordo alla volta. È insopportabile avere questi buchi nella memoria».

Ripenso ai pochi ricordi avuti in questi giorni, e a come mi sono sentita e cosa li ha scatenati. Come ha detto il dottor Cullen, sono state tutte frutto di una forte emozione.

Mi chiedo cosa potrebbe succedere se…

«Farei qualsiasi cosa per aiutarti a ricordare», mormora Edward, facendomi sussultare.

«Qualsiasi?». La mia voce è solo un sussurro, ma Edward la avverte.

Cosa potrebbe succedere se esaudissi uno dei miei desideri? Se realizzassi qualcosa che sogno e desidero più di qualunque altra cosa al momento?

Le sue labbra si piegano in un sorriso dolce. «Certo, Bella».

Abbasso lo sguardo per un istante, cercando di capire se sono davvero sicura di quello che sto per dire. E capisco che è quello che voglio, quello che desidero più di qualunque altra cosa al mondo.

«Edward?».

I suoi occhi tornano nei miei, curiosi. «Sì?».

«Baciami», sussurro, sentendo la mia voce, il mio cuore e il mio corpo tremare. «Baciami, ti prego».

Il tempo si cristallizza intorno a noi, così come la mia mente, che continua a ripetere come un’eco la mia stessa voce, le mie stesse parole.

Forse ho sbagliato. Forse è stato tutto un errore, soprattutto dopo tutto quello che mi ha appena raccontato. Ma sento anche che non c’è niente di più giusto di questo momento. Di io e lui seduti su questo divano, della pace che nonostante che emozioni generate dai ricordi aleggia fra noi, della sensazione di familiarità e complicità che ci lega come un filo invisibile ma tangibile.

Poi lui si muove, spezzando l’immobilità in cui eravamo piombati. Si tende verso di me, con lentezza calcolata, esasperante, quasi timoroso di un mio cambiamento improvviso e repentino.

Resto immobile, congelata dalle mie stesse parole, ma quando una sua mano si posa sulla mia guancia tutte le mie terminazioni nervose sembrano riprendere vita, attivarsi.

Non esiste altro che Edward ora. Nell’aria il suo profumo è più forte, e la lieve brezza del suo respiro mi accarezza come una folata di vento fresco in un’afosa giornata estiva. I suoi occhi sono verdi, profondi come gli abissi dell’oceano, brillanti come smeraldi puri.

Sfiora con la punta delle dita la mia tempia, poi si china su di me.

E mi bacia.

________________________________

La casa di Edward

Dite che Bella sarà felice di aver sfruttato la possibilità di chiedere 'qualsiasi cosa' ad Edward? :P Altro sondaggio: a Bella tornerà in mente qualcosa, oppure no? Vediamo quanti indovinano! :D

Credo di non avere molto da dire riguardo questo capitolo, se non che come al solito non è ancora tutto chiaro. Bella deve ancora recuperare la memoria, e solo a quel punto si saprà tutto ma proprio tutto :D

Ora sapete che quella che era alla serata di beneficenza non era Rosalie. Non dimenticatevi di quella donna, perché la ritroveremo più avanti ;)

Spero che il capitolo vi sia piaciuto, e spero di non metterci così tanto per il prossimo, ma con l'avvicinarsi dell'esame non posso promettere nulla, purtroppo :/

Grazie a coloro che mi continuano a seguire nonostante i ritardi, grazie, grazie, grazie :******

Alla prossima :D

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** 12. Tempesta ***


Salve!! :D

Lo so, sono in ritardo. Lo so, ho finito l’esame da un pezzo e a quest’ora avrei dovuto postare già due capitoli. Lo so, ma alla fine sono partita per le vacanze e ho deciso di rilassarmi un pochino :D Spero capiate ù.ù

BTW spero stiate passando delle buone vacanze, per chi ha finito la scuola, o che stiano per arrivare, nel caso in cui stia ancora lavorando :D

La fine dello scorso capitolo ha lasciato un po’ di domande, e adesso potrete scoprire chi ha vinto il sondaggio XD

Come sempre, spero che il capitolo vi piaccia :D

 Buona lettura!

________________________________

12. Tempesta

La musica alla radio sembra essere l’unica compagna dei miei pensieri. Sono pensieri confusi, quasi obbligati. Mentre guido lungo le strade di Forks, cerco di concentrarmi su qualcosa: sulla musica, sulle parole delle canzoni, su un articolo di giornale che devo scrivere entro una data scadenza. Ci sono momenti, però, in cui sforzarmi di pensare a qualcosa di preciso diventa troppo difficile, e questo capita di frequente da alcuni giorni. Altre volte, invece, sono i pensieri a prendere il sopravvento, abbattendo le mie difese.

Questo è uno di quei momenti, il momento in cui passo con la macchina davanti a un preciso posto, in questo caso uno svincolo che conduce a una casa fra gli alberi.

E come ormai ho imparato a fare, premo più forte sul pedale dell’acceleratore, e trovo qualcos’altro con cui distrarmi.

Di giorno è facile fare così. È di sera che diventa difficile ignorare tutto quanto, quando sono sdraiata nel mio letto troppo piccolo e cerco di addormentarmi. In quel momento, con la testa sul cuscino e gli occhi chiusi, i pensieri tornano a galla prepotenti.

Non faccio altro che ripetermi che non è successo niente, che è tutto come prima. Ed effettivamente è così. Ma il punto è proprio che io non volevo che le cose rimanessero come prima. Volevo che cambiassero.

Non posso fare a meno che pensare che è tutta colpa mia. Tutta. Non avrei dovuto chiedere ad Edward di baciarmi, è stata la cosa più stupida che abbia mai fatto.

Quando si è allontanato, ho provato una strana sensazione di vertigine, ma ho capito subito che oltre al batticuore, il fiato corto e le guance arrossate dentro la mia testa non era cambiato nulla. Nessun ricordo è tornato a galla. Non saprei dire se è stata maggiore la delusione che ho visto negli occhi di Edward o la mia. Confessargli di non essere riuscita a ricordare niente mi ha fatta sentire in imbarazzo e in colpa, anche se lui ha cercato più volte di rassicurarmi dicendomi di non avermi baciata solo per farmi tornare la memoria. Ma è difficile credergli quando sono io quella totalmente convinta del contrario.

Ero certa che ricevendo un bacio da Edward avrei recuperato gran parte dei miei ricordi. Ne ero sicurissima.

Scoprire che nulla è cambiato mi ha gettato nello sconforto più totale. E più i giorni passano, più la paura di non poter più recuperare i miei ricordi cresce. È ormai trascorsa più di una settimana da quando ho avuto l’ultimo ricordo, e nonostante stia passando molto tempo con Alice, Jasper, Rosalie ed Emmett, che con pazienza e gentilezza mi raccontano diversi avvenimenti della nostra vita, non riesco più a ricordare nulla, nemmeno la sensazione di familiarità. Stare con loro è semplice come respirare, e perfino con Alice le cose sembrano essere tornate a come lo erano cinque anni fa, ma nient’altro mi suggerisce che siano trascorsi anni dall’ultima volta che siamo uscite insieme.

Con Edward invece le cose si sono complicate, almeno per me. Mi sento in colpa per quello che è successo a casa sua, e da quel giorno ci siamo visti pochissime volte, e per pochissimo tempo. Abbiamo deciso di aspettare, di continuare a fare come se nulla fra di noi fosse cambiato - o forse è meglio dire che io l’ho pregato di farlo -, ma so benissimo che non è così. Se davvero nulla fosse cambiato, non lo starei evitando come la peste. Stargli vicino mi fa sentire in colpa. Troppo. Non voglio che lui mi stia vicino pensando che voglio stare con lui solo per farmi tornare la memoria, e viceversa non voglio che sia lui a starmi vicino per quel motivo.

Nemmeno con Jacob le cose sono migliorate. Ci siamo visti solo una volta, quando sono andata con Charlie a La Push a cena a casa di Sue e c’erano sia lui che suo padre, e a parte i saluti non ci siamo rivolti la parola. Non posso di certo biasimarlo, soprattutto se penso alla situazione in cui ci troviamo quando invece dovremmo essere sposati da alcuni giorni… Pensarci mi fa sempre correre un brivido lungo la schiena, e non saprei dire che genere di sensazione è. Di certo non di piacere.

 

«Sono a casa!», esclamo non appena apro la porta di casa Swan. Il salone e la cucina sono deserti, ma nel vialetto è parcheggiata l’auto di Charlie, chiaro segno che è a casa. Il sabato ha la giornata libera e il turno di notte, e normalmente la mattina si dedica alla pesca con Billy e i suoi amici; magari è passato a prenderlo qualcuno, anche se mi sembra strano.

Alcuni rumori provengono dal piano di sopra mentre faccio le scale, e prima che possa bussare alla porta di mio padre per chiedergli se c’è qualcosa che non va, la porta si spalanca, rivelandomi la figura di una donna. Sue.

Strabuzzo gli occhi, rimanendo con la bocca dischiusa per lo stupore.

«Sue?».

Lei sorride, imbarazzata. «Ciao, Bella. Ehm… sono passata a trovare tuo padre. Anzi, a dire il vero è lui che è venuto a prendermi, ma…».

La interrompo, notando il suo disagio, specchio del mio. «Ho capito», dico, anche se non è proprio così. «Non devi spiegarmi niente. I-Io…», mi guardo intorno, in cerca di una scappatoia per togliermi da questa situazione spinosa, «io vado in camera… devo finire delle cose per il giornale…».

Sue annuisce ancora imbarazzata, ed io mi rinchiudo nella mia stanza, sospirando non appena la porta si richiude alle mie spalle.

A quanto pare non sono l’unica a nascondere qualcosa in questa casa.

 

Quando Charlie bussa alla mia porta, sono del tutto impreparata a qualunque genere di discorso con lui.

Non sono arrabbiata con lui, tutt’altro, ma pensarlo insieme ad una donna dopo anni che l’ho sempre visto solo è… strano. E da una parte mi fa sentire anche meno importante. Del resto in questi anni - tralasciando gli ultimi, durante i quali sono andata a vivere da sola - sono stata l’unica vera presenza femminile in casa, sono quella che si prendeva cura di lui facendo le pulizie di casa e preparandogli la cena per quando rientrava da lavoro.

Avrei dovuto sospettare fin da subito che la presenza di Sue a casa mia il giorno dopo la dimissione dall’ospedale non fosse solo segno di amicizia, ma che ci fosse anche qualcos’altro sotto che non ha voluto rivelarmi, probabilmente per aspettare un momento più opportuno o semplicemente lasciare che fosse Charlie a parlarmene.

La porta si apre prima che possa decidere qualunque cosa, e il viso familiare di Charlie si presenta davanti a me, imbarazzato e a disagio come poche volte l’ho visto.

«Ciao, Bells. Possiamo parlare un po’?», mi chiede, temendo un mio rifiuto.

Sospiro, e chiudo il portatile da lavoro, lasciandolo sulla scrivania. Giro con la sedia girevole fino a trovarmi davanti a Charlie. «Certo. Dimmi pure».

Infila le mani in tasca, senza guardarmi. «Ecco, volevo spiegarti di Sue… Credo avrei capito cosa… cosa sta succedendo».

Annuisco lentamente. «Vi state frequentando. Non credo ci voglia un genio a capirlo. Sono io a non essermene resa conto subito».

Charlie arrossisce. «Beh. Te ne avremmo parlato subito, appena persa la memoria, ma il dottore ci aveva avvisato di non sottoporti a troppe pressioni sulla memoria».

«Lo capisco», sussurro, rendendomi conto che è proprio così.

«Per te… per te va bene se ci frequentiamo?», mi chiede dopo alcuni secondi di silenzio.

Lo guardo per un lungo istante, e dal suo viso capisco che la mia risposta sarà fondamentale. Sono quasi sicura che se gli rispondessi ‘no’ potrebbe persino decidere di non vedersi con Sue, e non voglio. Charlie è più felice di quanto ricordassi cinque anni fa, e non voglio in alcun modo ostacolare la sua felicità.

Sorrido. «Certo che sì. Sue mi piace, sono contenta che stiate insieme», rispondo, sinceramente.

Charlie non mi guarda, imbarazzato. «Beh… Quindi non ti dispiace se ogni tanto resto a dormire da lei, o lei resta da noi?».

Arrossisco a mia volta, ma cerco di non dargli a vedere il mio disagio. «No, per niente».

«Sicura?», domanda ancora, incerto.

«Certo!», rispondo, sorridendo. Le sue labbra si piegano in un sorriso, nascosto dai baffi scuri ma che gli crea due piccole fossette sulle guance e alcune rughe intorno agli occhi. «C’è una cosa che devo fare, però».

Mi guarda, curioso. «E sarebbe?».

«Tornare a vivere da sola. È giusto che le cose inizino a tornare come due settimane fa».

 

Non è stato facile convincere Charlie a farmi tornare a casa mia questa sera stessa, e soprattutto fargli capire che se lo facevo non era perché volevo evitare di trovare ancora lui e Sue insieme. È vero che preferirei evitare incontri tanto imbarazzanti, ma è anche vero che la loro relazione non mi procura alcun problema. Anzi, sono felice che finalmente papà abbia trovato qualcuno con cui vivere il resto della sua vita, soprattutto ora che io non vivo più sotto il suo stesso tetto.

Il rumore del temporale mi sorprende quando ho appena finito di cenare, e mi premuro di staccare tutte le spine presenti in casa, al fine di evitare spiacevoli incidenti, e mi sorprendo della facilità con cui riesco a muovermi nella mia casa, senza che ricordi effettivamente di esserci già stata per molto tempo.

Il mio cellulare inizia a squillare prima che inizi a chiudere le persiane, e corro a rispondere. Con mia enorme sorpresa, è Charlie.

«Ciao Bells, come va? È tutto a posto?», mi chiede con apprensione, mentre io tiro un sospiro di sollievo nel sentire la sua voce calda e familiare. I temporali mi hanno sempre terrorizzata, e ogni tuono è come un colpo al cuore.

«Sì», rispondo, cercando di frenare il tremito che mi scuote insieme ai vetri all’ennesimo tuono. «È tutto a posto, non preoccuparti, papà».

«Sicura? C’è un bel temporale. Hai staccato tutto in casa? Hai chiuso le finestre? L’ultima volta…».

«Sì, papà, sto finendo adesso di chiudere tutto quanto e ho staccato tutte le spine. Davvero, sto bene, non devi preoccuparti per me. Piuttosto, prima di uscire hai chiuso tutte le finestre a casa?».

«Sue è andata un’ora fa a controllare che fosse tutto a posto. A quanto pare avevo lasciato una finestra aperta».

Rido leggermente. «Per fortuna c’è lei. Non oso immaginare come sarebbe a quest’ora la casa».

Charlie borbotta qualcosa dall’altro lato della cornetta, e potrei scommettere che è arrossito. «Sì, beh, ora è meglio che vada. Chiamami se hai bisogno».

«D’accordo», rispondo, sorridendo. «Buon lavoro, papà».

«Buonanotte, Bells». E riattacca.

Il rumore della pioggia che batte contro il tetto e le finestre torna ad essere l’unico suono che rimbomba nella casa, accompagnato dal leggero romba dei tuoni in lontananza. Ma nel giro di pochi secondi un altro lampo illumina le finestre, facendomi sussultare e attendere tremante il rumore che lo segue continuamente. Sarà meglio che mi sbrighi a chiudere tutte le persiane, prima che inizi a piovere di stravento.

Tuttavia, le mie speranze sono vane. Quando arrivo alla finestra della mia camera da letto, la pioggia ha già iniziato a inondare i vetri, bagnandoli completamente.

Decido comunque di chiudere le persiane per sicurezza, e quando finalmente sono riuscita a bloccare la serratura ho i capelli e le braccia completamente bagnati. Corro a prendere un asciugamano, e cerco di sistemare il disastro creato.

Il suono del campanello risuona per la casa silenziosa, e mi avvio con il cuore in gola giù per le scale, raggiungendo l’ingresso con l’asciugamano appoggiato sulla testa, nel tentativo di tamponare i capelli.

Lancio uno sguardo dallo spioncino, poi apro la porta.

«Edward…?», mormoro, accigliata e confusa.

Lui sorride, fermo sull’uscio della porta, con i capelli e le spalle bagnate dalla pioggia. «Ciao».

Un tuono illumina il cielo plumbeo, e schizzo indietro, spalancando la porta per farlo entrare. «Entra, sbrigati», gli ordino, con urgenza.

Lui sogghigna, ed entra in casa. Gli chiudo la porta alle spalle, facendo scattare la serratura.

«Che ci fai qui?», gli chiedo, riprendendo a frizionare i capelli con l’asciugamano, mentre lui si guarda intorno.

«Sono passato da casa tua poco fa, ma non c’eri. Così ho provato a venire qui. Non pensavo saresti tornata a vivere da sola così presto».

Scrollo le spalle. «Da qualche parte dovrò pur iniziare per recuperare la memoria». Mi schiarisco la voce, scacciando il ricordo del nostro bacio-tentativo di una settimana fa. «Vuoi un asciugamano?».

Edward si stringe nelle spalle, accennando un sorriso. «Dipende. Hai intenzione di sbattermi fuori di casa nel giro di cinque minuti?».

Inarco un sopracciglio, perplessa. «N-No. A meno che tu non voglia andartene».

Effettivamente sarebbe più sensato sbatterlo fuori di casa. Immagino che visto il mio comportamento degli ultimi giorni si aspetti che lo mandi via in un battibaleno.

Un altro tuono mi fa sussultare, ed Edward trattiene una risata.

«Allora credo che accetterò l’asciugamano», dice solamente, infilando le mani nelle tasche dei jeans.

Annuisco lentamente. «Okay. Vado a prenderlo».

Salgo le scale velocemente, e raggiungo lo sgabuzzino in cui tengo tutti gli asciugamani, prendendone uno. Quando torno in salotto, Edward è affacciato alla finestra, intento ad osservare la pioggia che cade con violenza sul prato davanti casa.

Gli tendo l’asciugamano, e lui mi ringrazia, iniziando a sfregarselo in testa.

«C’è un motivo preciso per cui sei venuto a cercarmi?», gli chiedo, esitante.

«Pensavo che ti avrebbe fatto piacere un po’ di compagnia. So che il sabato sera Charlie ha il turno, così…». Lascia la frase in sospeso, e per un istante leggo sul suo viso l’incertezza. «Aspetti qualcun altro?».

«No», rispondo, sorpresa. «Chi dovrei aspettare?».

Edward scrolla le spalle, e passa un’ultima volta l’asciugamano fra i capelli, che ora sono più scompigliati del solito. «Non saprei. Era solo per sapere».

Un piccolo sorriso affiora sulle mie labbra. «Grazie. In effetti mi sentivo un po’ sola», ammetto, abbassando lo sguardo e arrossendo.

Edward sorride, e sembra aver ripreso la sua allegria di sempre. «Ti va di fare qualcosa? Immagino che guardare la tv sia un tabù, ma possiamo sempre trovare qualcos’altro da fare».

Lo guardo confusa. «Come fai a sapere che la tv è un tabù?».

Lui ride. «Beh, perché ogni volta che c’è un temporale stacchi tutte le spine possibili e immaginabili. Dubito che tu mi permetta di accenderla».

Annuisco, pensierosa.

«Che ne dici di una partita a carte?».

 

«Sicura di volere proprio questa carta?».

Il suo sorriso si allarga, mentre un sopracciglio guizza verso l’alto. La mia presa su una delle due carte che tiene in mano tentenna per un secondo.

Non c’è molta luce nel salotto, ma grazie alle tre candele che siamo riusciti a recuperare e ad accendere sul tavolino da caffè davanti al divano riusciamo benissimo a giocare a carte senza problemi. Più o meno. È difficile riuscire interpretare le sue espressioni con tutto questo buio, e il più delle volte casco nei suoi tranelli.

Dopo alcune partite nei giochi più disparati possibili, Edward mi ha (re)insegnato un gioco di carte che abbiamo conosciuto durante il nostro viaggio in Italia, in cui per vincere bisogna arrivare alla fine del gioco senza carte in mano, mentre l’altro giocatore deve avere una sola carta, la Donna di Picche.

È divertente leggere le sue espressioni durante il gioco. Sto perdendo continuamente, ma non mi do per vinta.

Stringo nuovamente la presa intorno alla carta, sorridendo. «Sì».

Siamo entrambi seduti sul divano, l’uno davanti all’altra. Lui a gambe incrociate, io inginocchiata. Le piccole fiammelle sembrano accentuare il rossore dei suoi capelli, e disegnano un gioco di ombre e luci sul suo viso.

Un altro tuono mi fa rabbrividire, ma Edward non dice niente, e piega solo le labbra verso l’alto. Quando ho capito che i suoi sogghigni erano generati dalla mia paura dei fulmini l’ho minacciato di non provare più a riderne, e a quanto pare ha preso la mia minaccia sul serio.

Tiro un po’ la carta verso di me, sorridendo a mia volta, e la sfilo dalle sue dita.

«Ho vinto!», esclamo, gettando la coppia di carte sul tavolino, accanto alle altre, mentre Edward rimane con la Donna di Picche fra le mani.

Alza gli occhi al cielo, e sorride. «Era ora!».

«Ho bisogno di tempo per riuscire a comprendere bene un gioco», mi difendo, anche se è evidente a entrambi che la mia è solo una scusa campata in aria, priva di qualunque fondamento.

Edward sorride, divertito. «Io avrei detto piuttosto che sei parecchio sfortunata quando si tratta di tirare a indovinare».

Scrollo le spalle. «La mia sfortuna si estende persino ai giochi a quanto pare».

Edward recupera tutte le carte e inizia a mischiarle, senza guardarmi. «Sai come si dice? Fortunata nel gioco, sfortunata in amore. Forse, se sei sfortunata nel gioco sei fortunata in qualcos’altro…».

Alza leggermente il viso, ed i nostri occhi si incontrano, e un brivido corre lungo la mia schiena.

«Tu dici?», sussurro, sentendo la voce tremare.

Edward annuisce, e prendo un profondo respiro.

«Vedremo», dico solamente, scrollando le spalle per togliermi di dosso questa sensazione di aspettativa. «Dai tu le carte?».

Edward si schiarisce la voce, e con un cenno del capo distribuisce il mazzo di carte, e in breve il gioco riprende, anche se l’atmosfera gioiosa e rilassata di poco fa non è altro che un lontano ricordo. C’è una strana tensione nell’aria, e non riesco a guardarlo negli occhi per più di un paio di secondi senza provare una scarica lungo la schiena e le guance avvampare.

Il temporale aumenta, e il vento soffia impetuoso, muovendo le persiane non bloccate, che sbattono con violenza, facendo tremare i vetri, mentre un tuono si abbatte con tutta la sua forza fuori dalla casa.

Sussulto, emettendo un grido acuto, e le carte mi scivolano di mano, infilandosi nella piega del divano.

Edward posa una mano sul mio ginocchio. «Tranquilla, non è successo niente».

Il cuore mi rimbomba nel petto, e allungo le mani per riuscire a recuperare le carte nella fessura, insieme a quelle di Edward, che stavano già finendo il lavoro.

Prima che l’ultima carta sia stata raccolta, però, una sua mano blocca la mia.

«Bella…».

Alzo lo sguardo, e trovo il suo viso a pochi centimetri dal mio. Il suo respiro si infrange contro le mie labbra, e l’ennesima scarica di brividi scivola lungo la schiena.

«Edward…».

Il suo viso si inclina in avanti, e le nostre labbra si incontrano in un istante, e le carte raccolte scivolano nuovamente dalle mie mani, cadendo a terra in un fruscio.

Questo bacio è diverso da quello della settimana scorsa. Le sue labbra si muovono incerte, quasi timorose di un mio improvviso distacco, e sfiorano le mie con lentezza, come per darmi il tempo di reagire o scansarmi.

Con una mano intrappolata nella sua, e l’altra attaccata al suo braccio, mi avvicino di più a lui, e in un attimo l’intensità del bacio cambia, aumentando fino a togliermi il fiato.

Le mie mani finiscono fra i suoi capelli, e le sue mi stringono i fianchi, spingendomi verso di lui. La sua lingua si intrufola fra le mie labbra, e stringo i suoi capelli fra le dita, sentendoli morbidi e setosi al tatto. Un basso gemito proviene dalla sua gola e muore nella mia bocca, mentre la presa sui miei fianchi aumenta.

Una piccola parte della mia mente mi riporta alla settimana scorsa, al bacio che ci siamo scambiati sul suo divano. È così diverso da allora…

Apro gli occhi improvvisamente, sentendo la testa girare.

«Aspetta, aspetta», riesco a sussurrare fra un bacio e l’altro, cercando di allontanarmi leggermente per cercare di ragionare lucidamente.

Edward si allontana da me di pochi centimetri. «Cosa?», mi chiede, con il fiato corto e le guance arrossate.

Lo guardo negli occhi, e mi chiedo se quello che sto per dire non sia un’idiozia. Ma ho bisogno di esserne certa. «Non voglio che… non voglio che mi baci solo per farmi tornare la memoria», mormoro, a disagio.

Lui mi guarda confuso, e in parte sembra anche deluso. «Pensi che ti stia baciando solo per questo?».

«Sì… no. Tu perché lo stai facendo?», balbetto, imbarazzata.

Gli occhi di Edward brillano all’ennesimo lampo, accompagnato da un rombo più basso degli altri.

Con le mani e le braccia mi spinge all’indietro delicatamente, e seguendo il suo movimento ci ritroviamo sdraiati sul divano, con Edward che si regge sulle ginocchia e i gomiti per non pesarmi addosso.

La sua bocca trova il mio orecchio, e il suo sussurro sfiora la pelle sensibile, facendomi fremere. «Perché è dal minuto dopo che hai lasciato casa mia il giorno prima di cadere dalle scale che voglio farlo. Perché baciarti è una delle cose più piacevoli di questo mondo. E perché, anche se adesso non lo ricordi, ti…».

Un tuono più forte degli altri mi fa sobbalzare e urlare, coprendo la voce di Edward, e facendomi aggrappare al suo corpo come se fosse una boa in mezzo a una tempesta in mare.

Edward ride, affondando il capo nel mio collo, e sfregando la punta del naso e le labbra contro la pelle.

Faccio scivolare una mano sul suo fianco, restando ancorata con l’altra al suo collo, e gli faccio un pizzicotto, facendolo sussultare. «Avevi detto che non avresti più riso», lo rimprovero per scherzo, sorridendo.

Sento le sue labbra piegarsi in un sorriso contro il mio collo. «Chi ti dice che stavo ridendo per quel motivo?», mi chiede, e mi sembra di avvertire una nota di malizia nella sua voce.

Prima che possa chiedergli per quale altro motivo potrebbe scoppiare a ridere, una sua mano sale lenta lungo il mio fianco, dalla vita fino ad arrivare vicino al seno, sopra la maglietta. Smetto di respirare, e la mano scende di nuovo verso la vita, facendo il percorso a ritroso. E in quel momento incomincia a muovere le dita e a solleticarmi la vita.

Mi muovo irrequieta sotto di lui, ridendo senza controllo, cercando di fermarlo, ma senza successo. Solo quando sono ormai senza fiato decide di lasciarmi andare, e mi rilasso, sentendo le sue braccia ancora strette intorno a me.

Sento la pioggia sbattere con forza contro le finestre e il tetto della veranda, accompagnata dai tuoni che mi fanno ancora sussultare ma che ora non mi spaventano più come prima. Sono con Edward ora, non può succedere niente di brutto. «Credi che grandinerà?», gli chiedo.

«Spero di no, ho lasciato la macchina in strada», risponde lui con una risatina.

Mi allarmo immediatamente, dandomi della stupida. «Oddio», sussulto, cercando di liberarmi dalle sue braccia per cercare di alzarmi dal divano. «Vieni, devi ritirarla subito in garage».

Edward si inginocchia sul divano, e ne approfitto per rimettermi in piedi e sistemarmi la maglietta, che nel tentativo di sfuggire al solletico mi si è alzata fin sopra l’ombelico.

«Non è necessario, Bella», sbuffa, passandosi una mano fra i capelli. «Non è detto che grandinerà».

«Non è neanche detto che non grandinerà», preciso, raggiungendo l’ingresso dove sono sistemate le chiavi del garage su alcuni ganci vicino alla porta. «Non ho intenzione di farti restare qui a meno che non ritiri l’auto».

Non oso immaginare quanto costi riparare un’auto del genere, e di certo delle ammaccature sul cofano non sono proprio il massimo, tanto meno un vetro scheggiato.

Edward sospira esasperato, ma alla fine si alza dal divano, e mi raggiunge all’ingresso.

Si infila velocemente le scarpe, senza allacciarle.

«Tu corri in macchina, ed io vado ad aprirti il garage», gli dico, mentre apre la porta per uscire in veranda.

C’è un forte vento, e gli schizzi di pioggia arrivano fino a pochi passi dalla porta. Fa abbastanza freddo. Un fulmine illumina le strade, creando ombre spaventose fra le nuvole che infestano il cielo buio. Rabbrividisco.

Edward annuisce, dopodiché si butta sotto la pioggia, correndo fino alla sua macchina e salendo a bordo. Faccio velocemente il giro della casa, e arrivo al garage, e ringrazio mentalmente la mia idea di parcheggiare l’auto in modo da lasciare lo spazio ad un altra. Apro il portellone, e vedo che Edward ha già fatto manovra, e sta solo aspettando di poter entrare. Richiudo il garage non appena spegne il motore e la sua macchina è finalmente al sicuro.

Appena scende dall’auto gli vado accanto. La sua camicia è nuovamente bagnata sulle spalle, e i capelli sono chiaramente umidi. Per fortuna aveva posteggiato proprio davanti casa mia, o a quest’ora sarebbe fradicio.

«Tutto okay?».

Si passa velocemente una mano fra i capelli, scacciando le goccioline d’acqua. «Direi di sì».

Sorride, e ritorniamo in salotto, dove le carte sono ancora sparpagliate a terra. Ci chiniamo a raccoglierle, in silenzio.

«Bella…?», mi richiama dopo alcuni secondi Edward, pensieroso.

Alzo il capo per guardarlo negli occhi, e sul suo viso trovo una ruga d’indecisione a solcargli la fronte.

«Davvero credevi che ti baciassi solo per farti tornare la memoria?», mi chiede a bruciapelo.

Mi irrigidisco, sentendo le guance avvampare. Abbasso lo sguardo, colpevole. «Credevo che rivolessi la vecchia Bella. Immagino non sia facile stare con qualcuno che non… non ricorda nulla di te». O quasi nulla.

Edward posa una mano sulla mia, e con il pollice ne sfiora il dorso, dolcemente. «Ricordi cosa ti ho detto la settimana scorsa, dopo il concerto?», mi chiede, senza aspettarsi una risposta. «Che anche se non riesci a ricordare quasi niente se sempre la stessa persona che conoscevo prima dell’incidente?».

Annuisco lentamente, ricordando quella sera come se fosse ieri.

«So che è difficile crederlo, eppure quando sei con me sei esattamente la stessa persona di dieci giorni fa. Non c’è niente in te che mi fa pensare al fatto che hai perso la memoria, a parte il fatto che quando ti chiedo di ripensare a qualcosa successo in cinque anni non sai cosa dirmi».

«Un dettaglio insignificante», commento, con amaro sarcasmo.

Edward ride leggermente. «Non ho detto questo».

«Già…», mormoro, abbassando lo sguardo alle nostre mani unite. «Com’è che avevi detto quella sera? Che sono i ricordi a formare una persona per quella che è…?».

Edward annuisce. «Ognuno di noi è la somma di tutti i momenti della sua vita, di tutte le esperienze che ha vissuto. Ma credo anche che in fondo anche se si perde la memoria non si può cambiare così radicalmente. I tuoi ricordi ci sono ancora, solo che non sai dove trovarli».

Sospiro. «Credi che riuscirò mai a recuperare tutta la memoria?».

Edward stringe la mia mano, intrecciando le nostre dita. «Ne sono sicuro».

Guardandolo ora, mentre mi sorride fiducioso, è facile credergli. È facile pensare che mi risveglierò uno di questi giorni scoprendo che i ricordi erano lì a portata di mano, e che mi bastava cercare un po’ più a fondo per trovarli.

E in quel momento una strana consapevolezza sembra spalancare una minuscola porta della mia memoria.

Guardo Edward, sorpresa. «Sei venuto da me perché sai che ho paura a stare da sola quando c’è il temporale», sussurro.

Lui sorride dolcemente, e sento il mio cuore battere più forte. «Te l’avevo promesso un po’ di tempo fa», dice lentamente. «Ti prometto che ogni volta che ci sarà un temporale…».

«… verrò da te e giocheremo a carte fino a quando non avrà smesso di piovere». Porto la mano libera a coprire la mia bocca, che ha appena terminato di pronunciare le sue stesse parole, che hanno iniziato a sussurrare nella mia testa senza che me ne accorgessi.

Le labbra di Edward si piegano nel suo sorriso sghembo. «Che ti avevo detto? Ricorderai tutto, vedrai».

Gli occhi mi pizzicano, e questa volta per la felicità. Prima che possa anche solo ripensarci mi sporgo in avanti, e allaccio un braccio intorno al collo di Edward, incollando le labbra alle sue, lasciando le nostre mani intrecciate.

«Grazie», sussurro contro le sue labbra, lasciando che mi stringa.

«Non devi ringraziarmi», risponde lui, sfiorandomi la guancia con le dita. «Non devi mai farlo».

Le sue labbra tornano sulle mie, ma un altro tuono mi ricorda il temporale fuori dalla finestra.

Mi allontano da lui leggermente, ridendo. «Non dovremmo giocare a carte finché non smetterà di piovere?», chiedo, anche se non ho alcuna intenzione di toccare il mazzo di carte in questo momento.

Edward stringe i miei fianchi, e il suo sorriso ed i suoi occhi brillano di malizia. «Io ho un’idea migliore».

E riprende a baciarmi, trascinandomi con lui sul divano.

 

La mattina, quando mi risveglio, sono sdraiata sul divano, accoccolata contro il petto di Edward, e il salotto è illuminato a giorno. Sul tavolino le candele sono ormai consumate, e spente.

Alzo gli occhi per incontrare il volto addormentato di Edward, e mentre osservo i suoi lineamenti stesi e rilassati ripenso a quanto la serata appena passata sia una delle migliori della mia vita.

E con mia enorme sorpresa mi rendo conto che gli ultimi cinque anni non sono più un buco nero.

________________________________

C’erano alcune cose che dovevo dire a riguardo del capitolo, ma ammetto che al momento non me ne viene in mente nessuna XD


Ah, no. Due cose: il gioco che stanno facendo a carte Edward e Bella si chiama Peppa Tencia. E la frase che dice Edward (« Ognuno di noi è la somma di tutti i momenti della sua vita, di tutte le esperienze che ha vissuto») è una frase di Ligabue.


Comunque, credo di poter dire che la storia è ormai arrivata a buon punto, e credo - CREDO - che nel giro di cinque capitoli arriveremo alla fine. Come sempre, CREDO. XD


Come avete visto, Bella non ha ricordato niente dopo il primo bacio con Edward. Invece sembra che dopo la serata insieme qualcosa si sia sbloccato… un premio simbolico a chi indovina il significato dell’ultima frase XD


Bon, credo di aver finito di blaterare. Il prossimo capitolo arriverà prima di questo, promesso :D (se non sarà così avete il diritto di mandare un detective - non killer, eh - a cercarmi XD)

Come sempre, grazie a chi continua a seguirmi e sopporta i miei ritardi immensi, e anche a chi continua ad aggiungere la storia alle preferite/seguite/ricordate e legge in silenzio. Grazie, grazie, grazie :*********


Alla prossima :D

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** 13. Le bugie hanno le gambe corte ***


Buondì! :D

Sono in un ritardo imperdonabile questa volta, ma le vacanze mi hanno trascinato e ho preferito dare la precedenza alla mia vecchia storia, sorry :D

Il capitolo è abbastanza lungo, e spero possa compensare il mese e mezzo di pausa.

Buona lettura!

________________________________

13. Le bugie hanno le gambe corte

Tutto tace in casa. Dalle finestre che danno sulla veranda - le uniche rimaste con le imposte aperte - filtra la luce brillante del mattino, che inonda il salotto. A terra ci sono ancora le carte da gioco, sparpagliate, e sul tavolino le candele, ormai consumate.

Tengo la guancia premuta contro la camicia di Edward, aspirando profondamente il suo profumo ad occhi chiusi. La sua mano è ancora poggiata sulla mia schiena, con le dita che si intrufolano sotto il bordo della maglietta, sollevandomela leggermente.

Potrei restare così per sempre. Stare con Edward è semplice come respirare, e mi rende serena come non lo sono mai stata.

Sollevo il capo dal suo petto, alzandomi leggermente per poterlo guardare meglio. Il suo viso è rilassato, e il respiro è regolare. È ancora completamente addormentato.

Fino a quando il suono sconosciuto di un cellulare non mi fa sussultare, e lo risveglia. I suoi occhi si spalancano, confusi, e con la mano destra arriva immediatamente alla tasca dei suoi jeans, da cui estrae il suo cellulare. Osserva lo schermo per un breve istante, e borbotta qualcosa che non riesco a capire, poi accetta la chiamata.

«Pronto?», risponde con la voce ancora impastata dal sonno.

Gli occhi di Edward incontrano i miei, e le labbra si piegano in un sorriso.

Arrossisco, e abbasso lo sguardo all’apertura della sua camicia, dove i primi tre bottoni sono slacciati. Sento il leggero chiacchiericcio provenire dal ricevitore del suo cellulare, ma non capisco le parole.

«Ciao, mamma», dice dopo alcuni secondi Edward, dopo essersi schiarito la voce. «No, non sono a casa…».

Sulla schiena sento le dita di Edward muoversi, e la sua mano si intrufola sotto la maglietta, provocandomi una cascata di brividi. Alzo gli occhi sul suo viso, e lo stesso sorriso malizioso di ieri sera piega le sue labbra.

«Uhm… sì, va bene», dice, probabilmente in risposta a qualcosa che gli ha appena detto Esme.

Le sue dita si fermano sul gancetto del reggiseno.

«Posso portare anche Bella?», chiede ancora, rivolto a sua madre.

Apro la bocca per sussurrargli un ‘dove?’, ma con un movimento della mano sgancia il reggiseno, facendomi boccheggiare.

Il sorriso sghembo che si dipinge sulle sue labbra non è mai stato tanto soddisfatto.

«Certo che è d’accordo», dice ancora, mentre la sua mano percorre la mia schiena interamente, senza più ostacoli. Con la mano arrivo al suo braccio, e gli faccio un pizzicotto, ricevendo un soddisfacente ‘Ahi’ che lo costringe a tranquillizzare sua madre.

Sospiro, e appoggio la testa alla sua spalla, abbandonandomi alle sue carezze, come ieri sera.

«Sì… a più tardi», dice alla fine, e dopo averla salutata chiude la chiamata.

Dopo aver riposto il cellulare nuovamente nella tasca dei jeans, mi solletica la vita, facendomi ridere.

«Sei invitata per pranzo a casa Cullen», mi informa.

«Mmm… va bene», rispondo, tranquilla.

Alzo il viso per guardare Edward negli occhi, ma ha le palpebre abbassate. Ed è così che mi torna in mente una scena già vissuta, simile a questa.

Io ed Edward, vicino ad un lago, in piena estate. Lui è semisdraiato contro il tronco di un grosso albero, ed io sono appoggiata a lui. Sta dormendo, e il vento soffia fra i ciuffi d’erba, e scompiglia la sua chioma ribelle.

Gli occhi di Edward si riaprono, e l’immagine sparisce dalla mia mente.

Mi fissa curioso, ed io arrossisco, mentre mi accorgo di avere una vaga idea come continua quel ricordo, che non ho intenzione di lasciar sfuggire prima di recuperare completamente.

«P-Posso… posso provare a fare una cosa?», gli chiedo, con lo sguardo basso.

«Certo…», mormora, con un sopracciglio inarcato.

Sollevo una gamba, e seguita dal suo sguardo mi porto a cavalcioni su di lui, sostenendo il mio peso sulle ginocchia per non pesargli troppo. Le sue mani scivolano dalla mia schiena alle mie gambe, e i suoi occhi mi fissano curiosi.

Mi schiarisco la voce, tenendomi alle sue spalle. «Chiudi gli occhi».

Obbedisce senza parlare, e, libera dal suo sguardo, posso tranquillamente osservare il suo viso. Con dita tremanti, scosto alcune ciocche di capelli dalla sua fronte, e con i polpastrelli disegno il profilo delle sopracciglia, degli zigomi, delle guance coperte da una leggera barba, delle labbra che si schiudono leggermente lasciando uscire un sospiro spezzato, fino ad arrivare alla mascella, che accarezzo con i pollici. Sfioro la barba corta, solleticandomi le dita e godendomi la morbidezza della sua pelle. Come può esistere tanta perfezione? Come ho fatto a trovarlo sulla mia strada?

Spinta dalla volontà di riprendermi quel ricordo, e di toccare la sua pelle soffice, mi chino in avanti, e poso le labbra sulla sua fronte.

Edward sospira ancora, e la presa delle sue mani sulle mie ginocchia aumenta.

«Bella…», mormora, con voce spezzata.

«Shh», sussurro contro la sua pelle, accarezzando con le dita la mascella e iniziando a lasciare piccoli baci sul suo viso, arrivando fino alla tempia. Percorro con le labbra lo stesso percorso compiuto poco fa dalle mie dita, e bacio ogni singolo centimetro della sua pelle, mentre le sue mani salgono lentamente lungo le mie cosce.

Arrivo fino alla sua guancia, pizzicandomi con la barba, ridendo contro la sua pelle. Mi fermo più a lungo, non sapendo se continuare. Nel ricordo, sfocato, so bene cosa dovrebbe accadere, ma non sono sicura che Edward se lo ricordi, e se…

Non faccio in tempo a terminare il pensiero, perché Edward alza il viso, e prima che possa allontanarmi posa le sue labbra sulle mie, togliendomi il respiro.

Mi bacia a lungo, e intensamente. Le mie mani finiscono fra i suoi capelli, e le sue salgono fino alla mia vita, stringendomi.

Quando ci stacchiamo, un altro piccolo frammento della mia memoria, e della nostra storia, torna al suo posto.

«Sai cosa mi ricorda questo momento?», mi chiede, con le labbra ancora poggiate contro le mie.

«La giornata al lago?», sussurro, passando le dita fra i suoi capelli.

Apro gli occhi di scatto, rendendomi conto che non ricordo solo il momento sotto l’albero, ma l’intera giornata. Ricordo la partenza alla mattina, il pic-nic in mezzo al prato, il momento in cui Edward mi ha buttata in acqua anche se non avevo il costume. Ricordo i baci, le carezze, la tenerezza dei suoi gesti. Ricordo tutto di lui, o quasi.

Edward si tira su a sedere, tenendomi stretta a lui. Mi ritrovo seduta sulle sue cosce, con le mani ancorate alle sue spalle.

«Ti ricordi quel giorno?», mi chiede, cercando di mantenere un tono neutro, ma lasciando trapelare la speranza.

«Me lo ricordo», sussurro, non riuscendo a reprimere un sorriso. «Ricordo quel giorno».

Le sue mani mi stringono la vita, e non riesce a reprimere il sorriso che gli nasce spontaneo sulle labbra.

«È un bel segno, no?».

Sorrido a mia volta, mordendomi il labbro inferiore. «Suppongo di sì».

Edward torna a sdraiarsi, trascinandomi con lui. Scivolo al suo fianco, e poso nuovamente la testa sul suo petto. Le sue dita giocano con i miei capelli, e rimaniamo in silenzio per alcuni minuti.

«Edward?», lo chiamo infine, dopo aver ripensato al ricordo.

«Mh?», risponde solamente.

«Secondo te perché non sono riuscita a ricordare niente la prima volta che mi hai baciata?», gli chiedo, curiosa. È da quando sono scappata da casa sua quel giorno che continuo a chiedermelo, e non sono ancora giunta a una risposta soddisfacente.

Edward intreccia i miei capelli fra le dita, pensieroso. Resta in silenzio per un breve istante. «Credo sia stato perché ti aspettavi che lo facessi ed eri certa che ti sarebbe tornato qualcosa in mente».

Aggrotto le sopracciglia. «Quindi è tutta colpa del fatto che era qualcosa di premeditato?».

«Immagino di sì. Del resto quella sera al concerto non ti aspettavi di sentire quella canzone, e ieri non ti aspettavi che arrivassi io qui né quello che è successo, no?».

«No», confermo. «Forse hai ragione».

«Se vuoi possiamo parlarne con mio padre dopo», propone, e lo sento sorridere.

Arrossisco al pensiero di dover parlare con Carlisle dei baci scambiati con suo figlio e di quello che è successo questa notte per riuscire a capire cosa può aver sbloccato i ricordi. «Preferirei di no», rispondo.

Il petto di Edward si scuote per le risate.

Arrossisco ancora di più. «Non c’è niente da ridere», borbotto. «Non dirmi che tu non ti sentiresti imbarazzato a parlare con tuo padre di certe cose».

«Ma lui è un medico», risponde, come se la spiegazione fosse naturale. «Sa come funzionano certe cose».

Schiaffeggio leggermente il suo petto, ormai rossa come un pomodoro. L’ultima cosa di cui ho bisogno per sentirmi a mio agio sono i suoi doppi sensi. «Edward!».

Ride ancora.

A salvarmi in corner è il mio cellulare, appoggiato al tavolino vicino alle candele, che suona in avviso di un nuovo messaggio.

Mi sporgo per prenderlo, e leggo velocemente. È di Angela.

“Probabilmente mi dirai che è troppo presto farti viaggiare, ma è un’occasione unica! Io e te a Washington per i festeggiamenti del giorno dell’Indipendenza. Tutto offerto dal giornale, ovviamente. Che ne dici?”

«Chi è?», mi chiede Edward, cercando di sbirciare oltre la mia testa.

«Angela. Mi ha chiesto di andare con lei a Washington per la festa dell’Indipendenza», gli dico, digitando velocemente una risposta:

“Devo pensarci… Ti dico domani, okay?”

Pochi secondi, e la sua risposta arriva:

“Domani. Non un giorno di più, mi raccomando ;)”

Sorrido, e poso nuovamente i cellulare sul tavolino.

«Ci andrai?», mi chiede Edward quando torno ad accoccolarmi contro di lui.

«Non lo so ancora», dico solamente.

Lui sospira, e guarda il suo orologio da polso. «Dobbiamo prepararci per andare a pranzo dai miei».

 

Una cosa che adoro dei Cullen - tutti i Cullen -, è il fatto che riesco a sentirmi normale con loro. Sono rari i momenti in cui mi ricordano che non ho più la memoria, e anche quando questo inevitabilmente capita, sono capaci di risollevarmi il morale con una battuta o una frase per consolarmi. Sono una famiglia perfetta, e sono felice di sentirmi parte di essa stando con loro.

Durante il pranzo nessuno di loro accenna alla mia amnesia, fino a quando arriva il momento del dolce, e sono io stessa a ricordare improvvisamente che la specialità di Esme è il tiramisù, che ha preparato per il pranzo di oggi.

Carlisle ed Esme sorridono felici, ed è il dottore a parlarmi: «Vedo che tua memoria sta facendo passi avanti», commenta, orgoglioso.

Annuisco, sorridendo. «Sì. Oggi sono riuscita a ricordare molte cose», dico, lanciando un’occhiata ad Edward, seduto al mio fianco, ed arrossendo.

Mi aspetto di vederlo sorridere, ma al contrario il suo viso sembra teso.

Alice attira la mia attenzione, seduta dalla parte opposta del tavolo, di fronte ad Edward. «Quindi immagino sia questione di tempo, prima che ricordi ogni cosa».

Mi pare di avvertire una nota d’avvertimento nella sua voce, ma forse mi sono sbagliata. Annuisco, perplessa.

Edward, al mio fianco, si alza in piedi, rigido come un pezzo di legno. «Ci penso io al dolce, mamma. Arrivo subito», dice, dirigendosi con lunghe falcate in direzione della cucina.

Prima che arrivi alla porta, anche sua cugina balza in piedi. «Aspetta, ti aiuto, prima che combini altri danni», sibila, correndogli dietro.

Entrambi spariscono dietro la porta della cucina, lasciando me e gli altri Cullen in silenzio, avvolti da una strana atmosfera. Emmett è seduto davanti a me, e giocherella con la punta della forchetta, evitando intenzionalmente gli sguardi di tutti i presenti; non è allegro come un attimo fa, il che mi rende inquieta. Esme e Carlisle sono seduti l’uno di fronte all’altra a capotavola, e si osservano in silenzio, come se per parlare gli bastassero semplici scambi di sguardi reciproci.

Mi chiedo cosa sia cambiato da quando Alice ha parlato. Non capisco la sua rabbia nei confronti di Edward, non ancora sedata nonostante tutto il tempo trascorso. Il mio rapporto con lei è tornato normale, eppure c’è ancora qualcosa che non le permette di fare pace con suo cugino, nonostante abbia sicuramente capito questa mattina che le cose fra me ed Edward stanno andando a gonfie vele. Vorrei avere un modo per convincerla che tutto quello che è passato non conta più, che tutto ormai si sta sistemando, e che possiamo iniziare a vivere serenamente tutti insieme.

Quando i due cugini escono dalla cucina, lui porta una teglia di tiramisù, lei i sei piatti da dolce. Tornano al tavolo, e insieme distribuiscono una fetta di dolce a tutti, sorridendo e chiacchierando come se l’episodio di poco fa non fosse successo.

Facendo attenzione a non farmi sentire da nessun altro, mi avvicino ad Edward e gli sussurro all’orecchio: «È tutto a posto?».

Lui sorride, ma quel sorriso non contagia i suoi occhi, che rimangono bui. «Certo».

Mangio il buonissimo dolce di Esme, sperando che sia davvero così. Forse sono solo paranoica.

 

Quando saliamo in auto dopo il pranzo sono quasi le tre del pomeriggio. Queste ore passate a casa Cullen sono state - a parte il breve momento di tensione durante il dolce - rilassanti e divertenti.

«Ti andrebbe di andare al lago?», mi propone Edward, mentre guida l’auto lungo il vialetto per uscire da casa Cullen. La loro villa non si trova molto distante da casa sua, ed anch’essa è immersa nel verde della foresta, maestosa e bellissima. A differenza della casa di Edward, però, i muri sono completamente bianchi.

«Adesso?», chiedo, perplessa.

«Perché no?», risponde, con un sorriso.

«Non è troppo tardi?», domando, guardando l’ora. «Ci vuole quasi mezz’ora per arrivare fin là».

«Potremo cenare fuori quando rientreremo, così abbiamo più tempo. Che ne dici?».

«Va bene!», esclamo con entusiasmo, sorridendo.

Le sue labbra si piegano verso l’alto, e svolta nel vialetto verso casa sua. Quando parcheggia, mi dice che dobbiamo solo recuperare una coperta per stenderci sul prato, e qualcosa da mangiare e da bere.

Ma non appena varchiamo la porta il suo cellulare inizia a squillare. Risponde con un sopracciglio inarcato. «Pronto?».

Lo seguo su per le scale che portano al salotto, ma neanche a metà si ferma.

«Adesso?», domanda, con una ruga di preoccupazione in viso. Mi guarda per un breve istante, poi si passa la mano sul viso. «Sì, va bene. Arrivo».

Il mio sorriso si spegne appena sento le sue parole. «Cosa succede?», gli chiedo, non appena chiude la conversazione e ripone il cellulare nella tasca dei jeans.

«Era il conservatorio. Hanno bisogno che vada a controllare una cosa al teatro», risponde, con una smorfia che mi fa intendere quanto la cosa non gli piaccia.

«Di domenica?», mormoro, confusa. Mi aveva detto che il sabato e la domenica il conservatorio era chiuso, quindi perché dovrebbe andare?

«Ci sono alcuni gruppi che stanno provando per un concerto previsto per la settimana prossima. Il teatro di Port Angeles non gli ha offerto il posto, così hanno chiesto al conservatorio di poter usufruire del suo teatro», mi spiega, salendo i gradini fino al salotto.

«E come mai hanno chiamato proprio te?», chiedo ancora, non capendo.

«Sono il responsabile del teatro», risponde. «Il gruppo che deve provare ha problemi con alcuni strumenti della scuola, e devo andare a controllare».

Prende un mazzo di chiavi da un cassetto, e si volta verso di me.

«Ah. Capisco…», mormoro, cercando di nascondere la mia reale delusione. «Non fa niente per il lago, possiamo andarci un altro giorno».

Edward scuote il capo. «No. Vado là e sistemo la cosa, non ci metterò molto. Poi andiamo al lago».

«Non serve», mormoro. «Possiamo andarci tranquillamente un altro giorno».

Ma Edward è irremovibile. «No. C’è una cosa che devo dirti. E preferirei farlo in un posto più tranquillo, e presto», aggiunge, abbassando la voce.

Inarco un sopracciglio, perplessa. «Va bene», mi arrendo infine.

Lui sorride, e si avvicina me. «Mi aspetti qui?».

«Certo. Intanto prendo quello che ci serve», dico, sorridendo.

Edward si china, e mi bacia sulla fronte. «Grazie», sussurra, e non so se per aver accettato di andare comunque al lago o aver scelto di rimanere qui a prendere le cose per la gita.

Scende le scale senza aggiungere nient’altro, e si chiude la porta di casa alle spalle. Sento in lontananza il rumore della sua auto che si allontana lungo il vialetto, poi il silenzio torna a regnare nella casa.

Appena sono certa di essere sola inizio a girare per la casa, lasciandomi guidare dall’istinto mentre cerco la coperta dei miei ricordi. Raggiungo la camera da letto di Edward, la stessa del mio primo ricordo di lui, e apro una cassettiera, trovando la coperta che cercavo. Sorrido trionfante, contenta di questa piccola vittoria contro la mia memoria.

Mi guardo intorno, rendendomi conto quanto queste pareti mi siano tremendamente familiari. Con calma, apro la porta collegata alla camera da letto, e mi ritrovo nella stanza occupata dal pianoforte. Le pareti, ad accezione di quella in comune con la camera da letto, sono totalmente di vetro, e circondano la stanza in un semicerchio, aprendo la visuale sulla foresta dietro la casa e sul fiume poco distante. Ora che sono qui dentro mi rendo conto anche dei particolari che nel mio ricordo non c’erano.

Mi siedo sul divano in pelle nera contro la parete di mattoni, accanto al quale di trova una libreria su cui sono disposti uno stereo e una quantità sproporzionata di cd musicali.

Rimango seduta a lungo, con la coperta in grembo e un sorriso rilassato in volto, finché non suonano il campanello.

Lancio una breve occhiata all’orologio appeso sopra la porta, e constato che non può trattarsi di Edward. Primo, perché non avrebbe senso che suoni il campanello della propria casa; secondo, perché è impossibile che sia già tornato dal conservatorio.

Raggiungo velocemente l’ingresso, abbandonando la coperta in soggiorno.

Apro la porta, e davanti a me trovo una donna bionda, dai lineamenti del viso spigolosi, due occhi azzurri, e un corpo snello e sinuoso.

Appena mi vede, inarca le sopracciglia bionde, sorpresa. «Sto cercando Edward. È in casa?».

«No… è uscito poco fa», rispondo, chiedendomi chi sia la donna davanti a me.

Lei sbuffa, alzando gli occhi al cielo. «Tipico. Fra quanto dovrebbe tornare? È abbastanza urgente».

«Fra non molto… ma sono sicura che se va subito al conservatorio lo riuscirà a incontrare», le dico, sperando di togliermela di torno al più presto.

Il suo atteggiamento sfacciato mi infastidisce.

Cosa vuole questa tizia da Edward? Chi è?

Sbuffa di nuovo. «Ora che arrivo là non lo trovo più. Ti dispiace se entro? Sai, non mi sembra carino aspettarlo in auto».

Calma, Bella. Calma.

«Credo che non ci siamo ancora presentate…», borbotto, a denti stretti, in procinto di perdere la pazienza.

Lei ruota gli occhi, annoiata. «Irina Denali».

«Perfetto», sibilo, aprendole la porta per farla entrare.

Non faccio in tempo a richiuderla, che lei si sta già dirigendo verso le scale che portano al salotto, ancheggiando. Ed è così che la riconosco.

«Tu invece sei la sua domestica? O sei la sua sorellina? Aspetta, com’è che si chiama… Anna? Annie?», chiede, altezzosa, mentre sale i gradini.

Fisico da paura, capelli biondi, comportamento sfacciato. Me la immagino indossare un vestito rosso scollato, con uno spacco sul fianco che rivela la sua gamba completamente nuda. È lei, la donna che ci provava con Edward al concerto di poco tempo fa.

«Alice», rispondo, sempre a denti stretti. «Si chiama Alice. E non sono lei».

La seguo su per i gradini, e una volta in salotto Irina si volta verso di me. «Ah. Quindi sei la domestica», conclude, con un sorriso fintamente cordiale. «Puoi portarmi un bicchiere d’acqua mentre aspetto? Tranquilla, non ho bisogno che mi fai compagnia, puoi tornare alle tue mansioni».

Stringo i pugni, imponendomi di mantenere la calma. Ma chi si crede di essere questa tizia? Cosa ci fa a casa di Edward? Chi è, e cosa c’entra con lui?

«Veramente», sibilo, inchiodandola con lo sguardo mentre si siede su un divano, «sono la sua ragazza. E non ci sono domestiche in questa casa, tanto meno di domenica».

Irina inarca le sopracciglia, stupita. «Ah, davvero?». Mi guarda per un lungo istante, scrutandomi dalla testa ai piedi. «Deve tenerci parecchio a te, per dire di no a una come me», commenta. «Da quanto hai detto che vi conoscete?».

«Non l’ho detto», bofonchio, sentendo un’ondata di felicità al sapere che Edward ha rifiutato una donna come lei per me; ma anche la gelosia si fa prepotente, e mi chiedo quando Edward l’ha incontrata. «Da cinque anni, comunque».

Mi siedo sul divano accanto a quello dove si trova lei.

Lei fischia e accavalla le gambe, fasciate fino a metà coscia da una minigonna aderente. La camicetta è sbottonata in modo da mostrare il suo reggiseno di pizzo rosso. Disgustoso.

«Ma state insieme solo da pochi mesi, ho indovinato?», chiede, sicura di sé.

«No!», esclamo, decisa a farmi valere. «Ci siamo messi insieme pochi mesi dopo esserci conosciuti».

Irina inarca un sopracciglio, fissandomi perplessa.

«Abbiamo avuto qualche periodo di pausa, ma non abbiamo mai smesso di vederci». I dettagli non serve che li sappia, del resto. Come il fatto che fino a una settimana fa ero fidanzata con un altro uomo. O che non ricordo molte cose.

«Quindi… il mese che Edward ha trascorso ad Anchorage al seminario rientra nelle vostre pause?», mi chiede, apparentemente curiosa.

Mi schiarisco la voce, cercando di ricordare qualcosa riguardo un certo seminario ad Anchorage, ma la mia mente è di nuovo sigillata. Vorrei chiederle a quando risale questo corso, e perché lei sembra sapere queste cose, ma così facendo le svelerei il mio piccolo problema di memoria, e non ho intenzione di mostrarmi smemorata davanti a questa donna, evidentemente interessata ad Edward.

«Esatto», rispondo, fingendomi sicura di me.

«Immagino che durante quel periodo non vi siate visti…», mormora, incrociando le braccia sotto il seno e portando le dita di una mano al suo mento, pensierosa.

«Non proprio…», rispondo, cercando di capire dove vuole andare a parare con questo discorso. «Dovevo lavorare. Ero abbastanza impegnata».

Gli angoli delle sue labbra, pitturate dello stesso rosso del reggiseno, si piegano verso l’alto. «Dimmi… in questo vostro contratto di pausa c’è qualche clausola che ammette il tradimento?», mi domanda a bruciapelo.

Sussulto, ma mi ricompongo immediatamente, anche se un’improvvisa tensione rende la mia schiena rigida. «Cosa vorresti dire?».

Lei sorride soddisfatta. «Beh… ci sono state un paio di volte… anzi più di un paio… in cui la conoscenza mia e di Edward sia andata un po’ oltre il semplice rapporto di colleghi… non so se capisci cosa intendo», mormora, melliflua, mentre il sangue mi si gela nelle vene.

Deglutisco a fatica. «Vuoi dire… v-vuoi dire che avete fatto s-sesso?», chiedo, cercando di non balbettare, inutilmente.

Irina non risponde. Ma mi basta vedere gli angoli delle sue labbra rimanere tesi verso l’alto, per avere la risposta alla mia domanda. Sì. Hanno fatto sesso.

«Quando è stato?», chiedo, con voce bassa ma ferma.

Lei sbuffa, lasciandosi andare contro lo schienale del divano. «Te l’ho detto. Durante il seminario ad Anchorage».

«Quando?! Ti sto chiedendo il mese, l’anno, non durante cosa!», urlo, alzandomi di scatto dal divano, lasciando trasparire tutto il mio turbamento e la mia rabbia.

Lei mi osserva imperturbabile, per nulla toccata dal fatto di aver appena rivelato di aver fatto sesso con il fidanzato della persona che ha di fronte. Come se fosse qualcosa che si aspettava.

«L’anno scorso. Durante l’estate».

Sgrano gli occhi, senza fiato. È stata l’estate durante cui io ed Edward ci siamo lasciati.

Cerco di fare mente locale, di ricordare cosa è successo durante quel periodo. Ma la mia mente è nuovamente sigillata.

Una parte di me mi dice di non ascoltare le parole di questa donna, con cui non ho mai parlato prima d’ora e che potrebbe tranquillamente essere qui a mentirmi per sbarazzarsi di me e avere via libera con Edward; ma l’altra parte, quella della mia mente ancora chiusa a riccio, mi avverte che c’è qualcosa che non va, che non posso immediatamente credere che siano solo bugie quelle che escono dalla bocca di Irina. C’è ancora qualcosa che non so, lo sento. Qualcosa che né Edward, né Charlie, né Jacob hanno voluto rivelarmi intenzionalmente. Qualcosa che Alice sa bene, ma non mi ha voluto dire perché sperava fosse Edward a dirmelo. Potrebbe essere questa la cosa che non mi ha rivelato. Il motivo per cui ci siamo lasciati. Il tradimento.

Volto le spalle ad Irina, dirigendomi velocemente in cucina, incapace di reggere ancora a lungo la sua vista. «Ti sarei grata se te ne andassi», sibilo, prima di sparire dalla sua vista. «La tua presenza qui non è affatto gradita».

Sento Irina ridacchiare. «Mi dispiace dirtelo, tesoro, ma non sei tu la padrona di casa. Aspetterò che sia Edward a cacciarmi, sempre che voglia farlo…».

Stringo i pugni e vado in cucina, dove prendo un bicchiere d’acqua fredda. Mi appoggio con i palmi al bancone, chiudendo gli occhi per cercare di scacciare questa brutta sensazione.

Le cose fino a dieci minuti andavano benissimo. Ero sicura di poter toccare il cielo con un dito, e i ricordi stavano tornando a galla senza sforzo. Adesso, invece, con l’arrivo di Irina, mi ritrovo al punto di partenza: piena di insicurezze, e con un grosso buco nero nella testa che mi tartassa.

Lascio il bicchiere nel lavello, e mi dirigo verso le finestre che si affacciano sul giardino sottostante. Il cielo è azzurro, e gli alberi al limitare della proprietà di Edward si muovono mossi da un leggero vento. Appoggio la fronte al vetro freddo, chiudo gli occhi e rimango in ascolto, non sentendo niente. Finché un lampo non attraversa la mia visuale, e riaprendo gli occhi davanti a me non c’è più il giardino, ma un locale buio, con la musica alta e pieno di persone.

Non so cosa sto facendo, ma non è un grande problema, perché il mio corpo sembra sapere da solo cosa fare: si fa spazio fra le persone, mentre i miei occhi guizzano da una parte all’altra della stanza, alla ricerca di qualcosa o qualcuno. La musica mi trapana le orecchie, e le luci colorate intermittenti non mi permettono di vedere bene i volti delle persone intorno a me. Capisco di essere in un ricordo quando, provando ad andare in una direzione, i miei piedi vanno dalla parte opposta.

Arrivo vicino al bancone, e passo in rassegna le persone sedute agli sgabelli, poi riprendo la mia ricerca, dirigendomi verso i bagni. Ed è così che lo vedo.

Edward.

È di spalle, e allacciate al suo collo ci sono due mani curate, con le unghie laccate di rosso. Non riesco a vedere la donna davanti a lui se non per la chioma bionda e le sue gambe nude fino alle cosce. Lui le sta cingendo la vita, spingendola verso il muro vicino ai bagni. Rimango immobile, incapace di spostarmi. Lo vedo chinarsi in avanti in quello che credo sia un bacio, poi le sue mani le prendono i fianchi, e la sollevano fino a prenderla in braccio. Le gambe di lei si allacciano intorno alla sua vita, poi lui la porta in fondo al corridoio, e si chiudono in una stanza con la targhetta ‘privato’ appesa fuori. Prima ancora che me ne renda conto sono tornata nella mischia, e sto spingendo per uscire da quel posto.

Quando torno al presente boccheggio per un istante, rendendomi conto di aver trattenuto il respiro finora. Mi porto la mano sulla bocca, sentendo un conato di vomito che riesco a ricacciare giù amaramente.

Appena mi sento meglio infilo la mano nella tasca dei jeans, e telefono ad Alice.

«Pronto?», risponde al secondo squillo.

«Vieni a prendermi, ti prego», sussurro, con voce spezzata.

Nel vetro scorgo il mio riflesso pallido.

Alice resta in silenzio per un breve momento, e la sento espirare profondamente. «Dove sei?».

«Da Edward», rispondo, spingendo fuori a fatica il suo nome.

«Arrivo subito», dice solamente, poi riattacca.

Non mi ha chiesto cos’è successo, non ha fatto domande. Mi chiedo se sappia già cosa potrebbe essere successo, vista la sua totale mancanza di domande immediate. Conoscendo Alice è una cosa molto rara, e sta a significare che ha una precisa idea di quello che potrebbe spingermi a chiamarla per farmi portare via da casa di Edward.

Lei sapeva. Tutti sapevano. Eppure non mi hanno detto niente. Edward non mi ha detto niente.

Aspetto un altro minuto, poi torno in salotto, dove trovo Irina ancora seduta sul divano. Afferro la mia borsa e scendo di sotto all’ingresso. In quel momento l’auto di Alice arriva davanti casa.

Sbatto la porta alle mie spalle, incurante del fatto che quella donna è ancora dentro da sola, e scendo i gradini il più in fretta possibile.

Alice scende dall’auto, e non appena vedo il suo viso preoccupato le lacrime che a fatica ho represso sgorgano come un fiume in piena. Lascio che il suo abbraccio mi circondi, confortandomi. Vicino agli alberi è posteggiata un’auto rossa sportiva, l’auto di Irina. Chiudo gli occhi, singhiozzando.

Non importa che io l’abbia perdonato l’anno scorso. Non importa, perché non dirmi niente è stato l’ennesimo tradimento. Il passato non conta ora, ma il presente è importante; e lui non mi ha detto niente nonostante tutto. Perché non l’ha fatto? Se l’ho perdonato in passato, perché non si è fidato di me e non mi ha detto la verità?

«Andrà tutto bene, Bella», mi assicura Alice, accarezzandomi la schiena.

Quando mi allontano da lei l’auto di Edward entra nel vialetto, e sento le mie gambe cedere. Guardo Alice terrorizzata, e lei mi fa segno di salire in auto.

«Andiamocene», la prego, mentre salgo dal lato del passeggero.

Lei fa come le dico, e prima ancora che Edward arrivi davanti casa Alice ha già girato l’auto, pronta a portarmi lontano da qui. Volto il viso dalla parte opposta a quella di Edward, nascondendogli la mia espressione e impedendomi di vedere la sua, sicuramente confusa.

Alice ingrana la marcia, e prima che suo cugino sia sceso dall’auto ha già spinto la sua Porsche gialla lungo il vialetto, allontanandomi da lui e da quella donna.

________________________________

Lo so, non è stato un grandissimo finale di capitolo, e adesso ci saranno tante domande - di nuovo. Ma abbiate fiducia: è tutto molto più semplice di quello che sembra XD

Ora avete la donna che ci provava con Edward alla festa. Nessuna di voi aveva indovinato che fosse Irina XD Per una volta non è Tanya, per fortuna XD

Ormai manca poco alla fine della storia (2 capitoli, credo). Nel prossimo capitolo arriveranno tutte le spiegazioni!

Il blog per gli spoiler, gli avvisi e i teaser: Tra Sogno & Realtà

Grazie a tutti che mi continuate a seguire recensendo, aggiungendo la storia fra le seguite, preferite, ricordate *_* Grazie, grazie, grazie!

A presto! :*

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** 14. Incomprensioni ***


Salveee!

Chiedo scusa per l’immenso ritardo. Purtroppo giungendo alla fine della storia sono andata nel pallone e ho iniziato ad avere mille dubbi assurdi, finendo a non scrivere proprio niente. Quindi quando ho ripreso in mano il capitolo ho deciso di non postare più finché non avrei scritto anche quello successivo - l’ultimo!

Bando alle ciance, vi lascio a leggere.

Buona lettura!

________________________________

14. Incomprensioni

La casa di Alice si trova a pochi isolati dalla mia, e non impieghiamo molto a raggiungerla.

Edward non ci ha seguite, nonostante i miei timori, e, quando scendo dall’auto della mia amica per dirigermi verso l’ingresso, la strada alle nostre spalle è deserta; non c’è traccia della sua Audi argentata, e un senso di sollievo e al tempo stesso amarezza si aggiunge allo scombussolamento totale che regna sovrano dentro di me.

Alice mi prepara una tazza di tè caldo, e mi ascolta seduta davanti a me in salotto, mentre le racconto quello che è successo pochi minuti fa a casa di suo cugino.

E non impiego molto a rimettere insieme i pezzi di tutta questa situazione quando sul suo viso non noto sorpresa o smarrimento, ma solo consapevolezza.

«Tu lo sapevi?», sussurro, con il fiato bloccato in gola. «Sapevi tutto fin dall’inizio?»

Alice abbassa lo sguardo, ammettendo silenziosamente la sua colpa.

«Perché non mi hai detto niente?», le chiedo, lasciando che alla disperazione prenda il sopravvento la rabbia. «Sapevi quello che stavo facendo, sapevi che Edward non mi aveva ancora rivelato di essere stato con quella donna, eppure non mi hai detto niente. Perché?» La rabbia affonda nel vuoto che provo al centro del petto al pensiero di essere stata tenuta all’oscuro di tutto sia dalla migliore amica che da quello che iniziavo a considerare il mio ragazzo. Per tutto questo tempo, dopo tutte le parole, i discorsi di incoraggiamento davanti alla mia amnesia, le frasi lasciate in sospeso iniziano ad avere un senso; nessuno di loro ha mai voluto dirmi niente, hanno sempre evitato l’argomento, forse sperando che non ricordassi nulla dell’accaduto o che recuperassi la memoria interamente.

Alice si porta le mani a coprirsi il viso, scossa. «Non dovevo essere io a dirtelo, Bella! Era giusto che fosse Edward a parlartene!»

«Quindi hai preferito lasciare che continuasse a prendermi in giro, piuttosto che dirmi la verità? Chi ti dice che alla fine mi avrebbe detto tutto quanto?»

Toglie le mani dal viso, guardandomi con occhi sgranati. «Non l’avrebbe mai fatto. Non avrebbe mai potuto tenerti nascosta una cosa simile. Non è da lui».

Mi alzo in piedi, scacciando con rabbia le lacrime dalle mie guance. «Allora perché non me l’ha detto subito? Non si è fatto tanti problemi quando è venuto a dirmi che era il mio amante segreto!»

«Possibile che non lo capisci? Aveva paura di perderti! Sicuramente sperava che recuperassi la memoria prima di…», si interrompe, abbassando gli occhi al pavimento.

«Prima di cosa? Prima che lo lasciassi di nuovo?»

Raggiungo la sedia su cui sono abbandonate la mia giacca e la mia borsa, preparandomi ad andarmene.

Alice balza in piedi, agitata e sull’orlo delle lacrime. «Ti prego, aspetta, Bella. Chiamiamo Edward. Parliamone tutti insieme. Sono sicura che se l’hai perdonato una volta-»

«Cosa? Se l’ho perdonato una volta posso farlo ancora?», sibilo, con un sorriso amaro. Volto le spalle ad Alice, stringendo il cappotto e la borsa al petto. «Sai, sto iniziando a credere che quella della storia clandestina sia tutta una menzogna. Avrei dovuto dare ascolto a Jacob quando mi diceva che ritornare da Edward sarebbe stato l’ennesimo errore».

«Bella ti prego-»

«Per favore, Alice, lasciami da sola. Solo qualche giorno. Non cercarmi, non chiamarmi. Ho bisogno di tempo. Ti prometto che quando sarò pronta ti chiamerò», sussurro, fermandomi davanti all’ingresso.

La mia amica lascia un sospiro spezzato dietro di me, e mi richiudo la porta alle spalle, lasciando lei e la sua casa.

 

Mi risveglio di soprassalto, sentendo il cuore rimbalzarmi nel petto e il respiro uscire affannoso dalla mia bocca.

Una mano sfiora la mia spalla, facendomi sussultare.

Mi volto con il cuore in gola, ed incontro lo sguardo di due occhi marroni gentili e dolci, preoccupati. «Tutto bene, Bella?»

Accenno un sorriso tirato, mentre Angela mi osserva attentamente attraverso gli occhiali. «Sì. È stato solo un brutto incubo», rispondo, sperando non indaghi oltre.

Lei sorride, senza fare altre domande. «Manca ormai poco all’atterraggio. Che ne dici se andiamo all’hotel a lasciare le valigie e corriamo subito a provare uno di questi ristoranti super-quotati? Non so te, ma io ho una fame da lupi».

Annuisco, senza dirle che in questo momento, con lo stomaco attorcigliato dal dolore, il cibo è l’ultimo dei miei pensieri.

Mi sistemo meglio sul sedile, e lancio uno sguardo fuori dal finestrino dell’aereo.

Non appena ho lasciato la casa di Alice domenica scorsa ho chiamato Angela, ed ho accettato subito la sua offerta di andare con lei a Washington per la festa dell’Indipendenza, che ogni anno si festeggia il 4 luglio nella capitale con concerti, discorsi di uomini politici - fra cui il Presidente degli Stati Uniti -, e, come gran finale, i fuochi d’artificio più belli d’America. Angela ed io siamo partite in veste ufficiale per La Gazzetta di Forks, ma nulla ci vieta di divertirci un po’ prima del grande giorno.

Non ho più parlato con Alice, e, come le ho chiesto, lei non mi ha cercata. Ho rifiutato tutte le chiamate di Edward, e ho finto di non essere in casa quando è venuto a suonare il campanello; quando è venuto a cercarmi a lavoro ho chiesto a Brittany, la segretaria all’ingresso della sede del giornale, di dirgli che ero uscita con dei colleghi per un’intervista. Non ho ascoltato nessuno dei 10 messaggi che mi ha lasciato sulla segreteria telefonica - che per inciso è il limite massimo che il mio telefono è in grado di registrare - perché il solo pensiero di risentire la sua voce mi stringe il cuore in una morsa.

Ho passato il maggior tempo possibile chiusa nel mio ufficio a lavoro, leggendo e sfogliando vecchi articoli che ho scritto per il giornale negli scorsi anni, rendendo la mia memoria sempre più flessibile e aperta ai ricordi. Ho ricordato molti eventi passati, ma nulla dell’anno in cui mi sono lasciata con Edward. È come se per ricordare qualcosa debba necessariamente essere a contatto con ciò che è direttamente collegata ad essa, altrimenti non concludo nulla. Questo significa che dovrei rivedere Edward per capire esattamente ciò che è successo quando ci siamo lasciati, ma il dolore che ho provato rivivendo quell’istante in cui l’ho visto baciare un’altra e poi chiudersi con lei in una stanza mi ha lasciato un vuoto dentro, un vuoto che mi procura un senso di nausea e panico ogni volta che ci ripenso, e non sono certa di voler affrontare ancora un dolore simile.

Angela mi è rimasta accanto senza chiedermi nulla, forse sperando che fossi io a farmi avanti e a raccontarle quello che mi è successo, ma non l’ho ancora fatto; ho preferito fingere che fosse tutto a posto, che l’unico motivo per cui volevo rimanere sola in ufficio fosse quello di voler recuperare vecchi ricordi, ora che la mia memoria si è sbloccata nuovamente. Sono sicura di non averla convinta, ma finché non mi farà domande non me la sento di aprirmi con qualcuno.

In realtà, mi chiedo se sarò ancora in grado di aprirmi davvero con qualcuno. Con Edward mi sono lasciata andare, gli ho permesso di leggermi dentro come non avevo mai fatto con nessun altro, e mi sono lasciata convincere dalle sue parole e dai suoi gesti che fosse tutto vero, tutto giusto. Invece non ha fatto altro che prendermi in giro per tutto questo tempo.

Mi lascio andare contro lo schienale del sedile, ricacciando indietro le lacrime e scacciando dalla mia testa la sua immagine ancora una volta.

 

«Devo dire che quella rubrica online di ristoranti non ne sbaglia una. Era da quando sono stata a Seattle con Ben il mese scorso che non mangiavo così bene», commenta soddisfatta Angela, quando usciamo dal ristorante in cui abbiamo cenato.

Il cielo è buio, e le vie sono rischiarate dai lampioni. Le strade sono addobbate per la festa con bandiere statunitensi e striscioni, e nei pressi nel Lincoln Memorial sono pattugliate da poliziotti in divisa, incaricati di sorvegliare la zona fino alla fine della celebrazione. Ci dirigiamo verso il parco, camminando lentamente una accanto all’altra. L’aria della sera è fresca, ma non troppo.

Parliamo per alcuni minuti delle celebrazioni di domani, e ci dividiamo i compiti per l’articolo, fino a quando il suono del cellulare di Angela non ci interrompe.

La mia amica infila la mano nella tasca del giubbotto, e controlla lo schermo illuminato, senza accennare a prendere la chiamata.

«Non rispondi?», le chiedo, perplessa. Angela ha sempre risposto ad ogni telefonata; non è il genere di persona che si fa attendere o non trovare, soprattutto quando è lontana da casa.

Sorride, e preme il tasto per rifiutare la chiamata. «No. È solo Ben. Lo richiamo quando torniamo in camera, tanto a Forks è ancora presto».

«Avete litigato?», domando a bruciapelo, preoccupata.

«Eh? No, certo che no, Bella. Perché dovremmo avere litigato?», risponde, con le sopracciglia inarcate ed un’espressione stupita.

Scuoto il capo, accennando una risata. «Scusami, è stata una domanda sciocca».

Angela scuote la mano, per poi infilarla nella tasca del giubbotto. «Non ti preoccupare. Piuttosto, tu, hai voglia di raccontarmi cos’è successo lo scorso fine settimana?»

Mi irrigidisco, cercando di mantenere la mia maschera d’indifferenza ben salda in viso. «A cosa ti riferisci?»

Non la vedo in volto, ma avverto gli occhi della mia amica fissi su di me, indagatori. «A quello che ti ha fatto decidere di venire qui con me oggi. O a quello che ti ha convinta a restare in ufficio questi due giorni senza interruzione».

Stringo le labbra, e so benissimo che non riuscirò a cavarmela con un bugia, cosa che non voglio nemmeno rifilare ad Angela. Primo, perché la fiuterebbe in meno di un secondo; secondo, perché lei non merita una menzogna da parte mia; è una cara amica, è sempre stata dalla mia parte, e dovrebbe sapere la verità.

Angela posa una mano sul mio braccio, fermandomi. Cerca i miei occhi, trovandoli lucidi e gonfi di un pianto che da quella dannata domenica non riesco ad arrestare. «Tesoro, parlami. Che succede?», mi chiede, preoccupata.

Prendo un profondo respiro, cercando di mettere in ordine i miei pensieri e di ricacciare indietro il groppo alla gola. «Sono stata una stupida», sussurro, mordendomi con forza il labbro inferiore. «Una grandissima, emerita, stupida».

La mia amica mi prende una mano, e mi porta a sedere su una panchina. Al nostro fianco torreggia l’obelisco di marmo dedicato a George Washington, illuminato come una stella. Intorno a noi, immersi nel loro compito di perlustrazione, ci sono i poliziotti.

«Hai voglia di raccontarmi quello che è successo?», mi domanda dolcemente Angela, senza mettermi pressione e senza aspettarsi una risposta. Accetterà se deciderò di non dirle niente e di tenere il mio dolore per me, ma ho passato due giorni da sola, avvolta da vecchie scartoffie e giornali, e la situazione non ha fatto altro che peggiorare: parlare con qualcuno forse non servirà a niente, e so che non lenirà il mio dolore, ma almeno mi potrò sfogare.

«Edward mi ha mentito», sussurro, sentendo la voce tremare. «Mi ha tradito con un’altra».

È la prima volta che lo ammetto esplicitamente ad alta voce, ed è ancora peggio di continuare a ripeterlo nella mia mia mente, e la fitta di dolore che mi procura scandire ogni singola parola mi lascia senza fiato. Mi copro il volto con le mani, mentre Angela posa una mano sulla mia spalla, per farmi capire che lei è con me.

«Credo di essermi persa qualche pezzo di storia…», ammette, un po’ imbarazzata. «Ti riferisci a questi giorni oppure a quando stavate insieme prima dell’incidente?»

Lascio cadere le mani, e la guardo terrorizzata. «Tu sapevi che… che stavamo insieme prima che perdessi la memoria? Anche se ero fidanzata con Jacob?»

Angela accenna un sorriso. «Certo. Sei stata proprio tu a parlarmene quando avete iniziato a vedervi di nascosto. E spesso quando partivi per qualche intervista per il giornale veniva anche lui con te per passare del tempo insieme».

Abbasso lo sguardo, sentendomi in parte rincuorata. Almeno su qualcosa non mi ha mentito, allora.

«Non pensi fosse sbagliato? Intendo tradire qualcuno… è una cosa orribile», sussurro.

«Non ho mai detto di essere d’accordo con quello che stavate facendo», chiarisce. «Ma non ero nemmeno d’accordo sul fatto che volessi sposare Jacob dopo solo due mesi dalla rottura con Edward. Comunque non è questo il punto. Perché dici che ti ha tradito? Come l’hai scoperto?», mi chiede, apprensiva.

«L’ho visto in un ricordo, domenica scorsa. Ero a casa sua e… è arrivata una donna, una certa Irina Denali».

Angela fa uno strano verso, e la guardo agitata.

«La conosci? Sai qualcosa su lei ed Edward?», le domando subito, ansiosa di chiarire questa faccenda.

La mia amica aggrotta le sopracciglia. «So bene chi è: fa parte del trio Denali, un gruppo di violiniste dell’Alaska. Erano presenti anche alla serata di beneficenza a cui sei andata qualche settimana fa, ma non eri riuscita ad intervistarle perché erano arrivate solo nel tardo pomeriggio giusto in tempo per il concerto».

Mi incupisco, mentre ricollego il suo cognome e il suo lavoro a quello di un’altra persona. «È una delle sorelle di Tanya Denali, un’altra del gruppo di violini, vero?»

Angela annuisce. «Sì. È un gruppo composto da sorelle: Tanya, Irina e Kate».

Sospiro, e continuo il discorso: «Comunque, quando è arrivata Irina c’ero solo io in casa. Ho provato a mandarla via, ma lei ha insistito ad entrare dicendo che aveva assoluto bisogno di Edward, così non ho potuto fare niente. Ci siamo messe a parlare e mi ha raccontato che Edward era andato ad un corso estivo ad Anchorage dove c’era anche lei, l’anno scorso… e mi ha detto che sono andati a letto insieme», sussurro con la voce spezzata.

Angela mi stringe la spalla. «Cosa c’entra questo con il ricordo?», mi chiede, confusa.

Mi porto le mani nei capelli, tirandoli indietro, confusa più di lei. «Non lo so!», esclamo, sconvolta, rivedendo davanti agli occhi quella scena. «So solo che dopo averle parlato ho rivisto Edward in un bar che baciava una bionda e poi si chiudeva con lei in una stanza». Stringo i capelli fra le dita, lottando contro i singhiozzi che mi scuotono il petto.

Angela mi accarezza la schiena, delicata.

«Com’è possibile?», la sento sussurrare, dopo alcuni secondi di silenzio.

«Cosa?», bofonchio, a testa china.

«Tu non sei mai andata ad Anchorage, Bella. Ne sono sicura. E sono certa che anche Jacob potrebbe confermarlo, visto che avete passato quell’estate praticamente in simbiosi. Non lasciavi quasi mai la riserva di La Push, se non per venire a lavoro tutti i giorni».

Sgrano gli occhi, mentre un dubbio ancora peggiore si insinua dentro di me. «Allora…», mi schiarisco la voce, «se non era Irina quella del mio ricordo, chi era?»

Angela sospira. «Non ne ho idea, non me ne hai mai parlato. Ma non credo sia un ricordo del periodo in cui eravate fidanzati. Quando vi siete lasciati era giugno, magari è un ricordo dei mesi seguenti…»

Sollevo la testa di scatto, guardando Angela sorpresa. «A giugno? Ci siamo lasciati quel mese io ed Edward?»

Lei annuisce. «Non lo sapevi ancora?»

Scuoto il capo. «Deve essermi sfuggito…»

Angela accenna un sorriso. «Questo significa che Edward non ti ha tradito, no?», domanda, con una punta di entusiasmo nella voce. «Non penso che possa essere considerato tradimento se lui ed Irina sono stati insieme dopo che vi siete lasciati…»

Annuisco, anche se non riesco a sentirmi sollevata. «Rimane comunque il fatto che non so chi è quella donna… e non so quando ho visto quella scena». Mi mordo il labbro. «Alice forse sa qualcosa», mormoro, riflettendo sulla reazione della mia amica quando le ho parlato del ricordo. «Sembrava sapere di cosa stavo parlando quando le ho raccontato tutto».

Angela inarca un sopracciglio. «Alice ti ha confermato che Edward ti ha tradito?»

Socchiudo gli occhi, ripercorrendo velocemente la conversazione avuta con Alice dopo essere arrivate a casa sua. E solo adesso mi rendo conto che nessuna di noi due ha mai accennato alla parola tradimento o a qualche suo sinonimo. «No…», sussurro infine, quando sono assolutamente certa che Alice non ha affermato il tradimento di Edward nei miei confronti. «Ha solo confermato che è andato a letto con quella donna…»

Angela sospira, e mi cinge le spalle con un braccio. «Forse dovresti imparare a fidarti un po’ di più di Edward», mormora, senza usare alcun tono di rimprovero. «È la seconda volta che vi allontanate per delle incomprensioni. A quest’ora potreste essere insieme felici, invece tu sei qui a piangere su una panchina dall’altra parte dell’America in mia compagnia, e lui è a Forks che si dispera cercando di capire cosa ha combinato per l’ennesima volta per farti fuggire».

«Te l’ho detto…», sussurro, pigolando, «sono una stupida».

«Questa volta non posso darti torto», ammette, con una risata leggera. «Ma puoi sempre rimediare, e questa volta prima che sia troppo tardi».

Annuisco. «Hai ragione. Appena torneremo a casa andrò da lui a parlargli». Mi schiarisco la voce, muovendomi inquieta. «Secondo te… chi era quella donna?»

Angela mi accarezza la spalla, pensierosa. «Non saprei. A questo punto potrebbe essere chiunque. Magari è una ragazza con cui si è divertito dopo essere tornato da Anchorage, prima di rimettersi con te…»

«Quanto vorrei riuscire a recuperare tutta la memoria in questo momento. È tutto così complicato, sembra di fare un puzzle», sospiro, stressata.

Angela mi abbraccia gentilmente, facendomi capire che per qualunque cosa lei ci sarà sempre e comunque, che io abbia un amante o meno. Ed io non posso fare altro che ringraziarla, per avermi sostenuto ancora una volta, nonostante tutto e tutti.

 

«Mi raccomando, cerca di dormire stanotte. Ti voglio riposata per domani», mi dice Angela, quando ci salutiamo davanti alla porta della mia stanza in albergo.

Annuisco, accennando un sorriso. «E tu ricordati di richiamare Ben. Scommetto che si sarà preoccupato quando non gli hai risposto», mormoro, sorridendo. Il fidanzato di Angela è sempre stato molto apprensivo: ogni volta che lei non risponde al telefono fa di tutto per accertarsi che la sua ragazza stia bene; mi sorprende che non mi abbia telefonato quando non ha ricevuto risposta alla chiamata di qualche ora fa.

Angela sorride a sua volta, annuendo. «Lo chiamo subito», mi assicura. «Buonanotte, Bella. A domani».

«Buonanotte», le auguro, chiudendomi la porta della camera alle mie spalle.

La stanza è ampia e confortevole, con un grosso letto matrimoniale al centro. Dalle finestre si vede poco distante il complesso del Memorial Park con l’obelisco, illuminato quasi a giorno.

Prima ancora di cambiarmi per la notte, prendo il mio cellulare dalla borsa, e compongo il numero di telefono di Edward. Prendo un profondo respiro, poi avvio la chiamata.

Non posso aspettare ancora due giorni prima di parlargli e scoprire cos’è successo. Devo dirgli che mi dispiace di non aver avuto fiducia in lui, di essere stata una sciocca a scappare per l’ennesima volta davanti alla possibilità di soffrire ancora di più. Devo dirgli che nonostante tutto-

La voce dell’interlocutore blocca i miei pensieri, e mentre mi rendo conto di non sapere che cosa dire, capisco che non è Edward a rispondere al telefono: “Il numero da lei chiamato non è al momento disponibile. La preghiamo di riprovare più tardi, grazie.”

Sospiro, chiudendo la chiamata e gettando il cellulare sul letto, passandomi le mani sul viso, stanca.

Non risponde. Eppure a Forks dovrebbe essere ancora ora di cena…

Scuoto il capo, sentendo tutta la mia determinazione crollare.

Bene, se non posso parlare con Edward questa sera forse è segno che devo aspettare. Quando vedrà la mia chiamata mi richiamerà. Forse.

Mi chiudo in bagno, decidendo che prima di andare a dormire chiamerò Alice. Almeno a lei devo chiedere scusa.

 

La mattina del 4 luglio le strade sono affollate. La musica della banda suona per le strade principali, con i musicisti vestiti con i colori della bandiera statunitense; le famiglie si radunano sui marciapiedi, sventolando bandierine e assistendo alla parata che conduce fino al Lincoln Memorial, cantando in coro l’inno nazionale con la mano sul cuore e i volti rivolti agli schermi su cui viene mostrato il concerto che celebra la giornata. I bambini ridono, salutano, si fanno comprare palloncini e caramelle, e l’America sembra fermarsi mentre festeggia l’Independence Day.

Questo è il giorno in cui è vietato stare soli: il giorno in cui le famiglie si riuniscono, e celebrano il proprio Stato. Non è come la festa del Ringraziamento; durante questo giorno non è obbligatorio organizzare un grande pranzo o una cena spettacolare; è estate, e il tempo permette di organizzare pic-nic, barbecue, pranzi all’aperto, tutto senza bisogno di grandi cerimonie. L’importante è stare insieme, e i parchi abbondano di gente sdraiata sui prati a mangiare panini e portate cucinate a casa; i bambini giocano fra di loro, e si godono la giornata con la famiglia al completo.

Mentre io ed Angela trascorriamo la giornata seguendo la parata, appuntando note e scattando fotografie, mi chiedo come stanno trascorrendo la festa la mia famiglia ed i Cullen.

Papà è con Sue, Leah, Seth, Billy e Jacob, ad un barbecue con altri Quileute sulla spiaggia.

I Cullen immagino siano a casa di Esme e Carlisle - come mi ha detto ieri per telefono Alice -, intenti a gustarsi la prelibata cucina di mamma Cullen tutti insieme. Mi chiedo se ci sia anche Edward con loro, e se anche lui sente la mia mancanza come io sento la sua. Non mi ha ancora richiamato, ed io non ho più avuto il coraggio né il tempo per provare a ricomporre il suo numero. Questa giornata si prospetta ancora lunga e stancante, ma per fortuna ora non resta che registrare i discorsi dei politici e poi guardare i fuochi d’artificio dopo cena.

Quando io ed Angela raggiungiamo la zona riservata ai giornalisti sotto il Lincoln Memorial troviamo già un gran numero di colleghi appostati nelle prime file di sedie, con macchine fotografiche, registratori e block-notes alla mano, e siamo costrette a separarci: lei raggiunge le prime file per poter avere una visuale migliore per le fotografie, io resto qualche fila indietro, sedendomi in disparte. Ma la mia solitudine dura ben poco, perché i giornalisti continuano a sopraggiungere, e in breve le sedie disponibili finiscono, lasciando gran parte della gente in piedi. 

I discorsi dei politici si susseguono uno dopo l’altro, e mentre lascio che sia il registratore a memorizzare le loro parole, la mia mente si proietta già nel domani, a quando sarò di nuovo a Forks. L’aereo atterrerà a Seattle intorno alle tre, quindi avrei ancora tempo per andare da Edward a parlargli. E poi? Cosa accadrà? Riusciremo a sistemare questo caos? Riuscirò a farmi perdonare da lui?

Scuoto il capo, chiedendomi come possa essere successo tutto questo. Fino a ventiquattr’ore fa ero convinta che fosse lui a dover cercare il mio perdono, dato che non mi aveva detto nulla di Irina - o chiunque sia la donna del mio ricordo -, ma ora non ne sono più affatto sicura. Edward in fondo non mi ha mentito. Secondo quello che so non mi ha nemmeno tradita. Sono stata io l’unica sciocca in questa situazione, io non mi sono fidata di lui, io non ho avuto il coraggio per affrontarlo per chiarire la faccenda. Edward mi ha cercata nei giorni scorsi, ed io da brava codarda l’ho evitato.

«Isabella?»

E se fosse troppo tardi? Ho dubitato di lui troppe volte, come può voler stare ancora con una persona che non si fida di lui?

«Isabella». Una mano afferra il mio gomito, facendomi sussultare.

Mi volto, incontrando il volto giovane di un uomo. James Nomadi. Sorride, facendomi rabbrividire per un istante. «Ti ho spaventata?»

Scuoto il capo, sorridendo imbarazzata. «No. Scusami, stavo ascoltando il Presidente», mento, allontanando il registratore dal mio viso per evitare di registrare le mie parole.

La sua mano lascia finalmente il mio gomito, attardandosi sulla pelle nuda del mio braccio, infastidendomi. Mi scosto repentinamente, desiderando che la giornata non fosse così calda da necessitare una maglia a maniche corte.

«Certo…», mormora lui, guardando il registratore e poi spostando nuovamente lo sguardo su di me. «Allora. Come vanno le cose? Ho saputo che hai rotto con il tuo fidanzato», aggiunge, prima ancora che possa rispondere alla sua domanda.

Mi irrigidisco, guardandolo con sospetto.

«Vedo che sei molto informato», sibilo a denti stretti, mentre il suo sorriso si tende.

«Ho le mie fonti, come ogni giornalista che si rispetti», commenta placido.

«Non sei qui per lavorare?» gli chiedo, cercando di spostare l’argomento su un terreno neutro, dopo aver notato la mancanza di registratori e macchine fotografiche intorno al collo. Appeso al taschino della camicia smanicata che indossa c’è il badge dei giornalisti per accedere a quest’area, ma null’altro indica che James sia qui per lavoro.

«Certo. Sto seguendo il nuovo arrivato, ha lui l’incarico di scrivere l’articolo. Io sono qui solo per aiutarlo nel caso abbia bisogno di aiuto», mi risponde, indicando con un cenno del capo un ragazzo che avrà più o meno la mia età, poco distante da me.

Annuisco, ma non dico nient’altro.

«Hai già degli impegni per questa sera? Pensavo che magari potremmo andare fuori a cena insieme. Parlare un po’. Che ne dici?», mi offre dopo alcuni minuti di silenzio, durante i quali ho sperato se ne andasse dal suo novizio.

«Veramente ho già un impegno», rispondo solamente, cercando di sorridere come se fossi realmente dispiaciuta. «Mi dispiace».

James inarca un sopracciglio, perplesso. «Non fa niente».

Restiamo ancora in silenzio, e fingo di essere interessata al discorso del Presidente per fargli capire che non ho voglia di parlare ancora, ma lui non si arrende.

«Magari domani, per pranzo…»

«Ho l’aereo alle nove», lo interrompo, prima ancora che possa formulare la domanda. «Credo che per questa volta dovremo rinunciare ad andare a cena insieme, James», mormoro, sempre sorridendo dispiaciuta.

Questa volta non nasconde la delusione, anche se nei suoi occhi mi sembra di scorgere una scintilla di rabbia. Ma si ricompone in fretta, stampandosi in viso un sorriso. «Sappi che non mi arrendo, mia cara Isabella», dice, con un tono allegro e scherzoso, ma che accompagnate da quel sorriso sembrano più una minaccia. «A presto».

E detto questo scompare di nuovo nella folla di giornalisti, raggiungendo il suo collega.

 

A cena Angela è nervosa. Lascia il cellulare sul tavolo, e continua a guardare l’ora e ad assicurarsi che non siano arrivate chiamate. Le ho chiesto più volte cosa la preoccupa, ma lei continua a dirmi che si tratta di Ben. A quanto pare questo pomeriggio hanno avuto una brutta litigata per telefono, e da quel momento lui sembra essere diventato irraggiungibile: non risponde più al telefono e non chiama. Angela non mi ha spiegato bene per quale motivo hanno litigato, e non mi sembra giusto costringerla a confessare, per questo resto in silenzio e non commento tutte le volte che si alza per andare a chiamare Ben dal bagno, tornando poco dopo con la delusione e l’apprensione stampate in faccia.

Restiamo a tavola a lungo, più del necessario, in attesa che Ben risponda al telefono o si faccia vivo in qualche modo. Ma passate le otto e trenta non possiamo più aspettare. Se non ci sbrighiamo arriveremo in ritardo al National Mall per vedere i fuochi d’artificio.

Quindi la costringo ad alzarsi, e dopo aver pagato la cena usciamo in strada, dirigendoci verso grande parco nel cuore di Washington. Ma non facciamo in tempo ad attraversare il viale che una figura ci ferma, e stringo i denti per trattenere un’esclamazione dettata dall’irritazione.

«James», lo chiamo, mentre io ed Angela ci fermiamo a pochi passi da lui. «Che ci fai qui?»

«Buonasera, signorine. State andando a vedere i fuochi?», chiede, con un sorriso, ignorando la mia domanda.

Angela posa una mano sul mio braccio, come ad ammonirmi di mantenere la calma. «Immagino che tu sia James Nomadi», prende la parola la mia amica, sporgendosi verso di lui con la mano tesa. «Io sono Angela Weber».

James gliela stringe, senza mostrare alcun particolare interesse. «Piacere. Sei il capo di Isabella, giusto?»

Angela sorride, ma il suo sorriso non è per nulla caloroso. «Capo e amica. E ora scusaci, ma io e Bella abbiamo del lavoro da fare. Ci dispiace non poterci trattenere, ma essendo anche tu un giornalista saprai bene quanto è importante la puntualità nel nostro lavoro».

Il sorriso di James si congela, mentre la osserva senza tentennare. «Certo. Stavo per offrirvi di andare a goderci lo spettacolo tutti insieme, ma se avete da fare…»

«Ci dispiace», ripete Angela, senza mostrare alcun segno di tristezza. «Vieni, Bella, andiamo».

Mi prende una mano, portandomi con lei lontano da James, che non smette di sorridere nemmeno per un istante.

 

«Che faccia tosta!», sbraita Angela, mentre sistema la macchina fotografica, seduta sul prato. «Dopo quello che è successo con Edward l’anno scorso pensavo avesse imparato a lasciarti in pace, invece è sempre peggio!»

Aggrotto le sopracciglia, accomodandomi al suo fianco. «Che intendi dire? Cos’è successo con Edward?»

Angela sospira, cercando di calmarsi, con poco successo. «L’anno scorso sei andata a New York per la fine dell’anno, e con te c’era anche Edward. Avevi detto a Jacob che dovevi scrivere un articolo per il giornale, e lui aveva finto di avere un concerto in Europa, per non destare troppi sospetti. Tu conoscevi Nomadi da un po’ di tempo, a quasi ogni viaggio finivi per ritrovartelo fra i piedi, ed eri abituata ai suoi atteggiamenti. Ma Edward no. Quando avete trovato Nomadi a New York Edward ha perso le staffe e gli ha dato una lezione. Ma a quanto pare non è servito a niente».

«Vuoi dire che hanno fatto a pugni?», le chiedo, stupita.

Angela annuisce. «Dovresti provare a ricordarglielo. A quanto pare sembra non aver capito che deve starti alla larga».

Seguo il suo sguardo, e trovo James appoggiato a un albero al limitare del parco, intento a guardarci. Anzi, a guardarmi. Stringo i pugni, alzandomi in piedi.

«Adesso vado a parlargli. E se continua a seguirci chiamo la polizia», sibilo, ma Angela mi ferma.

«Aspetta. Tra poco iniziano i fuochi!», esclama, contraria.

«Torno subito, non preoccuparti».

Il suo cellulare inizia a squillare, e approfitto della sua distrazione per allontanarmi e andare incontro a James. Spero che sia Ben, così Angela potrà godersi lo spettacolo dei fuochi d’artificio senza preoccupazioni inutili.

Raggiungo il limitare del parco, e James si allontana dall’albero. «Isabella», mi saluta con un cenno del capo.

«Si può sapere perché mi stai seguendo?», gli chiedo, irritata.

James sorride, senza cercare di apparire neanche lontanamente innocente. «Chi? Io? Perché mai dovrei seguirti?»

Stringo i denti, reprimendo l’impulso di tirargli un pugno per cancellare quel sorrisetto malizioso dalla sua faccia una volta per tutte.

«Ti ho detto che non sono disponibile per uscire con te, quindi lasciami in pace».

«Però ora sei qui. Perché non approfittarne?», domanda, avvicinandosi. Arretro, e attraverso gli alberi, vicino alla strada, scorgo un poliziotto.

«Smettila», gli dico, cercando di mantenere un tono di voce fermo. «Prova ad avvicinarti e chiamo la polizia».

James non smette di sorridere, ma si ferma. «Uh-uh. Vedo che siamo piuttosto nervose stasera, eh?»

«Hai bisogno sempre di qualcuno che ti prenda a pugni per riuscire a capire che devi smetterla?», gli chiedo, arrabbiata. «Sono sicura che Edward sarebbe felice di replicare il modo in cui avete festeggiato lo scorso Capodanno».

James fa una smorfia, e per un attimo sul suo viso appare la rabbia. Poi sorride di nuovo. «Però questa volta non c’è Cullen, o sbaglio? Dimmi, hai intenzione di prendermi a pugni tu?»

«Se è necessario sì», rispondo senza esitazioni, facendo un altro passo indietro mentre si avvicina. «Te l’ho detto, stammi lontano. Non c’è bisogno di ricorrere alla violenza».

James sorride ancora, e in quel momento il primo fuoco d’artificio esplode in cielo, illuminando di rosso il prato e il piccolo bosco.

Alzo il capo per guardare in alto, verso l’obelisco, e in quel momento una mano afferra il mio polso, trascinandomi sotto le fronde degli alberi. Il mio urlo viene coperto dal fischio di un altro fuoco, e quando mi ritrovo premuta contro la corteccia di un albero non riesco neanche più a vedere la gente sparsa sul prato, e nemmeno il cielo che in questo momento è tempestato dai fuochi più belli d’America.

Il viso di James si avvicina al mio, mentre mi blocca i polsi ai miei fianchi, contro il legno. Cerco di scalciare per liberarmi, ma le sue gambe bloccano le mie, rendendo inutile ogni mio tentativo di allontanarlo.

«Dimmi, Isabella, credi ancora di potermi prendere a pugni?», sibila, a pochi centimetri dal mio viso.

La sua bocca scende sulla mia, e la nausea mi investe come un pugno nello stomaco. Ma dopo pochi secondi James si allontana, e i miei polsi vengono lasciati, mentre vengo liberata anche dal peso del suo corpo, lasciandomi spostare il più possibile da lui. Mi volto, pronta a scappare via, ma capisco subito che lui non mi sta inseguendo.

Sento il rumore di un pugno, un’imprecazione, e un insulto. E solo adesso decido di fermarmi e voltarmi, e quando riporto lo sguardo su James lo trovo barcollante e con il labbro inferiore spaccato; mi concentro sulla persona che gli sta davanti, e che l’ha allontanato da me, sentendo il fiato mancarmi.

I suoi occhi incontrano i miei per un breve secondo, ma mi basta per sapere che ora sono al sicuro, che andrà tutto bene.

Rimango immobile, ignorando i fuochi d’artificio e persino Nomadi, mentre le mie labbra lasciano uscire un sospiro, accompagnato dal suo nome: «Edward».

________________________________

Ecco, visto perché ho aspettato di finire il prossimo capitolo? Domenica, massimo lunedì, avrete l'ultimissimo capitolo. Poi ci sarà l'epilogo.

PS: la situazione con Alice non ho dimenticato di spiegarla, semplicemente sarà inserita nell'epilogo :)

Chiedo ancora scusa per il ritardo, e vi auguro un buonissimo 2012.

Il blog per gli spoiler, gli avvisi e i teaser: Tra Sogno & Realtà

A presto! :*

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** 15. Ricordi ***


'Giorno! :D

Avrei voluto postare ieri sera, ma ho avuto qualche contrattempo, sorry. Questo è l'ultimo capitolo, e le cose non ancora chiarite verrano spiegate nell'epilogo, quindi non preoccupatevi :D

PS: come sempre il corsivo indica i flashback.

Buona lettura!

________________________________

15. Ricordi

La sorpresa e lo shock mi inchiodano a pochi passi da lui, impedendomi di raggiungerlo e di chiedergli qualsiasi cosa. Edward mi guarda a sua volta in silenzio, e quando sta per prendere la parola James lo interrompe, scagliandosi contro di lui.

«Sei arrivato, finalmente, Cullen», sputa con rabbia, lanciandosi con il pugno proteso. Edward lo scansa per un soffio, ma a sorpresa James lo colpisce con l’altra mano allo stomaco, facendolo arretrare e piegare in due.

Corro verso di loro, urlandogli di fermarsi, ma nessuno dei due sembra sentirmi mentre si tirano pugni, cercando di atterrarsi a vicenda.

Quando James crolla a terra mi avvicino ad Edward, afferrandolo per il braccio prima che possa lanciarsi di nuovo sul suo avversario. «Fermati, Edward!», gli grido, cercando di fermarlo. Solo ora noto il taglio sul sopracciglio e una macchia rossa sulla sua mandibola, che domani sarà violacea. Mi fermo davanti a lui, obbligandolo a non avanzare ancora verso James. «Non vedi come vi siete ridotti? Basta così».

Gli occhi di Edward mi osservano in silenzio, mentre cerca di riprendere fiato, ma non si muove. Il braccio teso torna a rilassarsi sotto la mia presa, e sembra avermi ascoltato.

Alle mie spalle sento dei movimenti, e mi volto per vedere James, che cerca di rialzarsi tenendosi lo stomaco. Dal labbro spaccato scintilla una macchia di sangue, e credo che domani si ritroverà con un occhio nero, a giudicare da come la palpebra sinistra ricade pigramente nonostante i suoi sforzi per tenerla sollevata. Si rimette in piedi appoggiandosi ad un albero, e il suo sguardo infuriato punta contro di noi, ma ora non appare più come una minaccia.

«Sappi che non finisce qui, Cullen», sibila, allontanandosi barcollante da noi, dirigendosi verso il parco. Dubito che qualcuno farà caso a lui, mentre i fuochi continuano a esplodere in cielo, illuminando Washington.

Edward prende un profondo respiro, imponendosi di non rispondergli. Quando Nomadi scompare definitivamente dalla vista, mi volto verso di lui, e i nostri occhi si incontrano.

Prima che possa dire qualsiasi cosa accorcio velocemente la distanza fra di noi, stringendo le braccia intorno al suo busto, e affondando i viso nel suo petto. Lo sento trattenere il respiro per alcuni secondi - non so se per il dolore provocato da alcuni colpi ricevuti da James o per la sorpresa -, ma poi le sue mani sfiorano la mia schiena, e le sue braccia si stringono intorno a me.

Chiudo gli occhi, lasciando che la sua vicinanza riempia il vuoto provato in questi giorni di lontananza, prima che alcune immagini prendano il sopravvento nella mia mente.

«Andiamo, Isabella, solo un bacino. Cosa vuoi che sia?»

Spintono via James con disgusto e terrore, cercando di allontanarmi da lui il più velocemente possibile. «Ti ho detto di no, James! Lasciami in pace!»

La sua mano afferra il mio polso, tirandomi di nuovo verso di lui. Prima che possa anche solo pensare a cosa fare per difendermi, una mano si chiude intorno al suo braccio, mentre una si posa sul mio fianco, stringendomi a qualcuno. Alzo lo sguardo, incontrando il viso di Edward, che fissa James con occhi di ghiaccio.

«Hai sentito cosa ti ha detto?», sibila fra i denti, il volto una maschera di cera. «Lasciala».

James sorride, lasciandomi andare. «Tu devi essere il famoso fidanzato di Isabella. Edward Cullen».

Edward lo osserva impassibile, liberando il suo braccio. «E tu devi essere il fastidioso giornalista che continua a importunare Bella. Vorrei farti sapere che lo stalkeraggio è un atto punibile dalla legge, nel caso non lo sapessi».

Nomadi fischia, infilando le mani nelle tasche dei pantaloni. «Usare la legge come arma. Prevedibile da un musicista. Siete sempre così preoccupati a conservare le vostre manine da fata che non sapete nemmeno come fare a botte con un uomo».

Sento il corpo di Edward tendersi, mentre cerca di trattenersi dalla provocazione di James. Faccio un passo indietro, tirando con me Edward. «Piantala, James». Mi volto verso il mio ragazzo, tirandolo per la camicia. «Andiamo via».

James ghigna, e quando sembra che Edward sia disposto a seguirmi in silenzio, e ci siamo già voltati, si gira di scatto, tirando un pugno in faccia a Nomadi, che per il colpo e lo shock rimbalza indietro, cadendo a terra. Sgrano gli occhi, mentre Edward lo fissa con una rabbia che ho visto solo nei confronti di una sola persona prima di James.

«Stai alla larga da lei», sibila solamente, prima di tornare al mio fianco e allontanarci.

Rimango immobile fra le braccia di Edward, con il respiro leggermente affannato e il cuore che rimbomba nel petto. Edward non sembra notare il mio improvviso cambiamento, ma le sue braccia si stringono un po’ più forte intorno a me. Poi un altro ricordo torna a bussare alla mia mente, e non riesco a fare altro che chiudere gli occhi, lasciando che mi riporti indietro nel tempo.

«Quindi vi siete lasciati?»

Annuisco, incapace di parlare. La gola è stretta ancora in un nodo micidiale, che mi toglie il respiro ogni secondo di lontananza da lui, ogni volta che ripenso a ciò che ho visto.

«È meglio così, Bells, credimi. Non meriti qualcuno che ti tradisce non appena abbassi la guardia, lo sai». Le parole di Jacob arrivano come pugnali nel mio cuore, ma so anche che quello che dice in fondo è la verità. Ma non riesco ad accettarlo comunque.

«E non meriti nemmeno qualcuno che ti faccia rinchiudere in casa e al lavoro come hai fatto tu in questi giorni. Anzi, se consideriamo che ti sei praticamente trasferita da Angela possiamo dire che ti sei dedicata completamente al lavoro», commenta, sperando di strapparmi un sorriso, senza riuscirci.

«Angela è una mia amica oltre che il mio capo, lo sai», mormoro, osservando la corteccia rovinata dell’albero su cui siamo seduti. Dopo aver passato quasi una settimana da Angela, uscendo da casa sua solo per andare a lavoro con lei, Jacob ha deciso che era arrivato il momento di uscire a prendere una boccata d’aria; mi è passato a prendere con la sua auto, e mi ha portata alla riserva di La Push. Mi ha convinta a raccontargli quello che è successo per convincermi a restare a casa di Angela per tutto questo tempo, e anche se ora mi sento un po’ più leggera mi sento anche in colpa. So quanto Edward detesti Jacob; è sempre stato geloso dell’amicizia che mi lega a lui, e raccontare proprio al mio amico qualcosa che riguarda esclusivamente me ed Edward sembra quasi una vendetta, perché so anche quanto Jacob detesti Edward. Si sono sempre odiati, e l’unico motivo per cui non hanno mai litigato apertamente è solo per l’affetto che li legano a me.

Ci troviamo poco lontani dalla spiaggia quando il rumore di ruote che sgommano sullo sterrato ci raggiunge, a poca distanza. Jacob ed io ci voltiamo contemporaneamente, e non appena lo vedo è come se il mondo mi crollasse addosso.

Edward è venuto alla riserva. Mi ha trovata.

Scende dalla sua auto velocemente, richiudendo con forza la portiera alle sue spalle, dirigendosi a grandi passi nella mia direzione. Il suo volto è sconvolto; le guance sono coperte dalla barba di alcuni giorni, e due occhiaie violacee marcano i suoi occhi verdi.

Jacob si pone fra di noi, protettivo, nascondendomi alla sua vista.

«Guarda chi si rivede…», mormora Jake, con tono canzonatorio. «Che ci fai qui, Cullen?»

Edward si ferma a pochi metri da noi, la mascella serrata. «Black. Lasciami parlare con lei. Da solo».

Tremo, abbassando lo sguardo.

«Vedi, il fatto è che non sono sicuro che lei voglia parlare con te».

Le mani di Edward si chiudono in due pugni, e lo vedo prendere un profondo respiro. «Jacob. Per favore», sibila fra i denti. «Lasciaci soli un attimo».

I suoi occhi cercano i miei, mentre Jacob non accenna a volersi spostare. «Bella… ti prego…»

Sento gli occhi riempirsi di lacrime, e apro la bocca per dargli una risposta, quando Jake mi precede: «Avresti dovuto pensarci prima di tradirla, Cullen. Ora è troppo tardi».

Lo sguardo di Edward torna a Jacob, e in esso leggo una rabbia irrazionale, che ha sempre cercato di tenere sotto controllo in sua presenza. «Black, questa storia non ha niente a che fare con te. Stanne fuori».

Jacob fa un passo avanti, prendendo le sue parole come una sfida tacita. «Invece ha a che fare con me, eccome».

Edward rimane immobile, ed entrambi si scrutano negli occhi per un lungo istante.

«Ammettilo», soffia Jacob, serio. «Ammettilo che sai bene quanto me che Bella starebbe meglio con me».

I pugni di Edward si serrano tanto da fargli sbiancare le nocche, ma non dice nulla.

«Almeno io non ho mai baciato nessun’altra ragazza oltre a lei», sibila con un sorriso vittorioso, riportando alla memoria l’unica volta in cui ci siamo baciati, quando Edward era tornato a New York ponendo fine alla nostra storia.

Non aveva funzionato fra me e Jacob, ma lui aveva comunque continuato a sperare che potessimo metterci insieme un giorno, e aveva anche rinfacciato ad Edward il nostro bacio, una volta tornati insieme. Edward aveva solo stretto i pugni e sospirato, senza dire niente, ma sapevo che lo feriva sapere che avevo baciato Jacob dopo esserci lasciati, anche se non me ne faceva una colpa.

Ma questa volta Jacob ha superato un confine sottilissimo, cercando di abbattere le ultime resistenze di Edward. Ha sempre cercato di stuzzicarlo, spronandolo ad usare la violenza, nonostante sappia che Edward ha sempre evitato di lottare.

In questi anni Edward ha incassato provocazioni sempre maggiori, ma nelle condizioni di oggi Jacob sapeva che non sarebbe mai riuscito a trattenersi. Così non si sorprende molto quando il primo pugno di Edward lo colpisce dritto sulla guancia, facendolo a malapena arretrare.

«Edward!», strillo, sconvolta.

Jacob ride, accarezzandosi la guancia offesa, aumentando la rabbia di Edward. «Attento, potresti rovinare le tue care mani da pianista. Non sia mai che tu non possa più suonare perché ti rompi qualche osso…»

Edward avanza con un altro pugno pronto, ma questa volta Jacob è più veloce, e lo scansa, ridacchiando.

Non ce la farà mai. Edward non ha alcuna possibilità di battere Jacob in uno scontro corpo a corpo. Jacob è enorme, le sue braccia sono muscolose e forti, abituate al lavoro manuale e agli allenamenti quotidiani da palestra, mentre Edward è più gracile, e le sue mani sono mani da artista, sottili e delicate, poco adatte a tirare pugni e quant’altro. Contro Jacob finirà sicuramente per farsi del male sul serio.

Mi avvicino a loro, cercando di convincerli a fermarsi, ma Jacob mi allontana senza guardarmi, rispondendo agli attacchi di Edward con forza, colpendolo in viso, spaccandogli il labbro superiore e lasciandogli lividi sugli zigomi.

Quando Edward sembra ormai esausto e incapace di difendersi ancora, Jacob lo afferra per la camicia, deciso a continuare nonostante lui non stia effettivamente più combattendo.

«Basta!», urlo, fermandolo. Entrambi si voltano verso di me, immobilizzandosi.

La mano di Jacob è ancora chiusa intorno alla camicia di Edward, tenendolo a poca distanza da lui, pronto a tirargli un altro colpo.

«Lascialo andare», gli ordino, ricacciando indietro le lacrime quando i miei occhi incontrano quelli di Edward.

Jacob obbedisce, ed Edward si allontana da lui, ancora sulla difensiva, pronto a difendersi nel caso Jake si lanci di nuovo all’attacco.

«Vattene, Edward», sussurro, senza riuscire a guardarlo negli occhi. «Non c’è niente che puoi fare. Vattene e basta».

Non alzo lo sguardo per leggere la sua espressione, perché so che non potrei mai reggerla. Ma dopo alcuni secondi sento la portiera dell’auto aprirsi e sbattere, e il rumore delle ruote sullo sterrato; poi più niente.

Ritorno al presente, rendendomi conto solo ora di avere le guance bagnate dalle lacrime. Prendo un profondo respiro, singhiozzando, aumentando la presa intorno ad Edward.

«Mi dispiace», sussurro contro la sua camicia, sentendo la disperazione di quel ricordo fondersi con quella di questi giorni.

Quanti errori ho commesso? Quanti ancora dovrò scoprire di aver fatto?

Edward mi stringe quasi fino a togliermi il fiato, come a volermi fondere con lui, come se da un momento all’altro potessi sfuggirgli dalle braccia e dissolvermi per sempre. «Dispiace anche a me», lo sento mormorare, con il viso chinato sulla mia testa e le labbra premute contro i miei capelli. «Avrei dovuto dirti tutto fin dall’inizio… ma avevo paura di perderti».

Mi allontano leggermente, lasciando che le mie braccia restino allacciate intorno alla sua vita, e lo guardo negli occhi. «Perché? Ho già dovuto affrontare tutte queste cose una volta, e non mi hai persa. Perché pensavi che questa volta avrei cambiato idea?»

Edward abbassa lo sguardo, combattuto. «Avevo paura che raccontandoti tutto in una volta avresti capito che razza di persona sono, e avresti preferito lasciarmi perdere. Credevo… che forse se avessi aspettato che ti tornassero tutti i ricordi avresti di nuovo capito perché… perché ho fatto certe cose…»

Lo osservo, preoccupata. Poi scuoto il capo, e torno ad abbracciarlo. «Sei uno sciocco», sussurro, con un sorriso che piega le mie labbra. «Siamo due sciocchi», mi correggo, ripensando ai miei errori. «Edward… non sei arrabbiato con me?», gli domando, senza guardarlo.

Lui mi allontana, e cerca il mio sguardo. Sul suo viso leggo sorpresa. «Perché dovrei essere arrabbiato con te?»

«Non… non mi sono fidata di te», sussurro, abbassando gli occhi. «Ho dato per scontate troppe cose, e sono stata una codarda. Non ho avuto il coraggio di chiederti spiegazioni, perché avevo paura di soffrire. E quando mi è tornato in mente quel ricordo…»

La sua mano cerca la mia, stringendola. «Quale ricordo?»

Deglutisco, cercando di scacciare il groppo alla gola. «Ti ho visto con una persona…», mormoro, con voce malferma. «E Irina…»

Edward sospira pesantemente. «So cosa ti ha detto Irina», mi interrompe. La sua fronte è aggrottata. Abbassa lo sguardo, come se si vergognasse. «Mi dispiace che sia venuta a saperlo da lei in quel modo».

Fra di noi cala il silenzio, rotto solo dal rumore di fuochi d’artificio, che ormai stanno giungendo al termine.

«Come mai sei qui?», gli chiedo, guardandolo, lasciando che le nostre mani rimangano allacciate. «Ieri sera ho provato a cercarti ma-».

«Ero al telefono con un’altra persona», mi risponde, fissando il prato. «E quando ho visto la tua chiamata ho dovuto spegnere il cellulare perché l’aereo stava per decollare. Non ho fatto in tempo a chiamarti».

Aggrotto le sopracciglia, perplessa. «Quindi sei qui da questa mattina?», gli chiedo, sentendo un’ondata di rabbia irrazionale travolgermi. Cerco di lasciare la sua mano, ma me lo impedisce, aumentando la presa. «Perché non mi hai cercata prima? Perché hai aspettato che arrivasse James per farti vedere?»

Era qui da questa mattina. Perché non mi ha cercata? Perché non ha provato a mettersi in contatto con me e non mi ha richiamata? Forse a quest’ora saremmo insieme a guardare i fuochi, invece che a parlare sotto gli alberi, e tutto sarebbe già risolto.

«Avrei voluto», mi dice, con occhi sinceri. «Ma quando ho provato ad accendere il cellulare dopo l’atterraggio mi sono reso conto che era scarico, e nella fretta di partire non mi sono ricordato di portarmi dietro il caricatore. Non sapevo se mi avresti voluto rispondere, così ho chiamato Angela da un telefono pubblico in aeroporto. È stata l’unica a sostenermi quando ho deciso di venire qui».

«Angela?», lo interrompo. E in breve ricollego tutto. Lei e Ben non hanno affatto litigato. «Sei tu ad averla chiamata ieri sera, quando non ha risposto al telefono. Ed eri al telefono con lei quando stavi per partire», ricollego.

“Ricordati di richiamare Ben. Scommetto che si sarà preoccupato quando non gli hai risposto.” “Lo chiamo subito.” Questo spiega il motivo per cui il numero di Edward risultava non disponibile quando l’ho chiamato.

Edward annuisce, e i suoi occhi incontrano i miei, incerti. «Le avevo promesso di trovare un modo per richiamarla nel pomeriggio, quando sarei arrivato in città, ma le strade erano tutte chiuse e intasate, così ho impiegato un’eternità ad arrivare fino qui. Non sapevo dove foste a vedere i fuochi, e ho dovuto chiedere a un tizio di prestarmi il suo cellulare per chiamarla. Per fortuna non ero molto lontano», mi spiega, abbassando la voce alla fine, con una nota di rabbia.

Abbasso gli occhi, sentendomi in colpa. Avrei dovuto lasciar perdere James. Se non fosse arrivato Edward cosa sarebbe successo? Non voglio nemmeno immaginarlo.

Quando torno a guardarlo poso lo sguardo sulla ferita sul suo sopracciglio, ricordando per un secondo il suo viso dopo la lotta con Jacob, e l’immagine mi colpisce come un pugno allo stomaco. Cerco nella tasca il fazzoletto di stoffa pulito, e lo poso sul suo sopracciglio tagliato. Edward chiude l’occhio, trattenendo una smorfia.

«Ti fa tanto male?», gli chiedo, vicina.

Posa la mano sulla mia, premendo per arrestare il sangue.

«Non molto», sussurra. «Poteva andare peggio».

Lascio andare il fazzoletto, lasciando che tamponi lui la ferita. Il rumore dei fuochi d’artificio termina, e penso subito ad Angela, rimasta sola per tutto questo tempo.

«Devo andare da Angela», gli dico, voltandomi verso il limitare del bosco. «Si starà preoccupando».

Edward annuisce, e mi segue fino ad arrivare nel parco, dove le persone si stanno già allontanando, raccogliendo le loro cose e dirigendosi lentamente verso case, alberghi, trasporti. La festa dell’Indipendenza è ufficialmente terminata, ma molta gente festeggerà ancora tutta la notte, nonostante il lavoro che li attende domattina.

Trovo Angela quasi subito, ancora seduta sul prato dove l’ho abbandonata. Sta sistemando la macchina fotografica, ritirandola accuratamente nell’apposita custodia. Quando mi vede con accanto Edward, sorride, quasi sollevata. Sollievo che svanisce non appena si accorge del fazzoletto che Edward tiene premuto contro il sopracciglio.

«Che è successo?», ci chiede, alzandosi in piedi repentinamente. «Stai bene?», domanda poi a me, osservandomi attentamente.

«Sì… non preoccuparti per me», la rassicuro. So che quando scoprirà quello che James ha tentato di fare andrà su tutte le furie, ma ora ci sono problemi più importanti. Come parlare con Edward di quello che è successo quando ci siamo lasciati. «Possiamo tornare in albergo?»

Angela annuisce, e si rivolge ad Edward, rimproverandolo per non aver pensato ad organizzarsi un minimo prima di partire e per averla fatta preoccupare per tutto il pomeriggio, mentre aspettava una sua chiamata. E solo adesso mi rendo conto che Edward non ha nemmeno uno zaino con sé, segno che è partito in fretta e furia, senza pensare nemmeno a portarsi un cambio di vestiti.

Quando arriviamo all’albergo saliamo fino al piano dove si trovano le nostre stanze, e ci fermiamo davanti alla mia porta.

Angela si volta a fissarci, il suo sguardo illeggibile. «Bene, immagino che voi dobbiate parlare ancora di tutto quello che non vi siete detti in queste settimane, quindi vi lascio soli», ci dice, guardandoci uno per uno, con una lieve minaccia impressa nella voce, che mi sibila “vedi di dirgli e farti dire tutto questa volta”.

Ci augura la buonanotte, e poi si volta, proseguendo nel corridoio. Apro la porta della stanza senza guardare Edward, improvvisamente imbarazzata e nervosa. Un conto era stare in mezzo alla gente da soli, un altro è chiudersi in una camera d’albergo, senza occhi indiscreti a controllarci.

Edward richiude la porta dietro di noi, rimanendo al limitare della stanza, e noto - sollevata - che anche lui è a disagio.

«V-Vieni pure avanti…», mormoro, maledicendo la mia voce tremante.

Lui fa come gli dico, ma appena vedo che apre la bocca per dire qualcosa lo interrompo, chiedendogli di aspettarmi mentre vado in bagno. Mi chiudo nell’altra stanza, appoggiandomi alla porta di legno. Sospiro pesantemente, passando i palmi sugli occhi chiusi, cercando di governare le mie emozioni. Sono giorni che aspetto di scoprire tutta la verità, ma improvvisamente non sono più così sicura di volerlo fare. Chi mi assicura che non soffrirò comunque? Forse Edward non mi ha tradita, ma non mi ha voluto dire la verità, temendo che non volessi più stare con lui. Non ha avuto fiducia in me. Ma del resto non è quello che ho fatto io a lui?

Lascio cadere le mani, e apro il rubinetto del lavandino. Mi sciacquo il viso con l’acqua fredda, riportando un minimo di ordine ai miei pensieri.

È il momento, mi dico allo specchio. Vai di là e affronta il tuo passato.

 

Quando ritorno in camera, Edward è seduto al tavolino da caffè nella stanza, e osserva il panorama fuori dalla finestra; essendo all’ultimo piano dell’edificio si scorge uno scorcio del Memorial Park, con la punta dell’obelisco che svetta in cielo illuminata dai fari.

Sentendomi entrare in camera, si volta verso di me, e dal suo viso capisco che sa benissimo che è arrivato il momento della verità. Tutta la verità.

Mi siedo sul bordo del letto, passando lo sguardo sulla moquette blu della stanza. Il silenzio regna sovrano per alcuni secondi, poi Edward prende la parola.

«Prima hai accennato ad un ricordo», mormora, a disagio. «Hai visto qualcosa di nuovo?»

Annuisco lentamente, deglutendo. I suoi occhi mi fissano, curiosi e al tempo stesso timorosi.

Prendo un profondo respiro, capendo che devo fare la mia mossa. «Ti ho visto con una donna», sussurro, sentendo il petto comprimersi in una morsa dolorosa. «E-Eri in un bar, credo… lei era bionda… ho pensato subito che fosse Irina, dopo quello che mi aveva raccontato». Distolgo lo sguardo, a disagio come non mai. «Non sapevo che ci fossimo lasciati a giugno… per questo quando mi ha detto cos’era successo ad Anchorage ho pensato che…»

Lascio la frase in sospeso, mordendomi il labbro inferiore.

«Che ti avessi tradita?», sussurra lui, terminando la mia frase.

Annuisco a bassa voce, e quando rialzo lo sguardo lo trovo intento a fissare fuori dalla finestra, con un’espressione illeggibile dipinta in volto.

«Sei arrabbiato?», gli chiedo con un filo di voce, non riuscendo a capire quali pensieri passino per la sua testa.

Edward non si volta, e continua a guardare fuori dalla finestra. «Continui a chiedermi se sono arrabbiato», mormora. «E la verità è che sì, sono arrabbiato. Ma non con te», aggiunge, prima ancora che possa sentirmi peggio di come già mi sento. «Continuo a prendermela con me stesso, e a ripetermi che se avessi avuto il coraggio di dirti tutto fin dall’inizio forse adesso non saremmo qui a discutere di questo, e non avremmo passato gli ultimi giorni… così».

Stringo il copriletto fra le dita, provando a ribattere, ma Edward mi interrompe.

«La donna che hai visto nel ricordo non era Irina», mormora. «A dire la verità non ricordo nemmeno il suo nome. È successo lo scorso autunno, dopo che sono tornato da Anchorage. Ero venuto a cercarti per provare a convincerti a darmi una seconda possibilità, ma ti avevo trovata con Jacob; ho provato a parlarti e a cercarti per un mese, ma ogni volta continuavi a dirmi che era tutto finito, e che dovevo farmene una ragione. Così una sera non ho retto, e sono andato a bere in un pub. Mi sono ubriacato, e sono stato con una ragazza che era seduta lì vicino». Si passa una mano fra i capelli, in difficoltà. «Qualche tempo dopo mi hai raccontato di avermi visto, e che proprio quella sera avevi deciso di provare a darmi un’altra possibilità».

Chiudo gli occhi per un istante, mentre il ricordo di quella giornata torna a galla. Ricordo il pomeriggio passato con Jacob, e la spiaggia al tramonto, mentre lui si inginocchiava e mi porgeva un anello, chiedendomi di sposarlo. Ricordo la mia richiesta di avere tempo per pensarci, e la mia fuga alla ricerca di Edward, nel tentativo di capire se c’era ancora una lontana speranza che potessimo stare insieme, e se quella di Jacob fosse la scelta giusta per me. E infine ricordo di nuovo la scena al pub, dove l’ho trovato fra le braccia di un’altra donna.

«Jacob mi aveva appena fatto la proposta di matrimonio», sussurro. «Per questo ero venuta a cercarti quella sera».

Edward annuisce, lo sguardo ancora lontano. «Credo sia anche il motivo per cui non hai mai avuto la forza di lasciarlo nei mesi successivi», mormora, e mi sembra di scorgere una nota di dolore nella sua voce. «Avevi paura che ti potessi lasciare da un momento all’altro».

«Mi dispiace», sussurro, sentendo gli occhi lucidi.

Edward scuote il capo. «No, è colpa mia».

Alzo il capo di scatto, irritandomi. «Smettila di darti tutte le colpe!», esplodo, guardandolo dritto in faccia. Edward si volta nella mia direzione, sorpreso. «Non capisci che non è solo colpa tua se ci siamo lasciati? Tutto questo è successo perché io sono una codarda, e non solo perché tu hai commesso degli errori!»

Aggrotta le sopracciglia. «Forse. Ma questo non giustifica…»

«Cosa? Non giustifica il fatto che tu sia andato a letto con un’altra donna?» Stringo i pugni, alzandomi in piedi, incapace di restare ferma ancora a lungo. Gli volto le spalle, con il respiro affannato. «No, non lo giustifica. Ma non significa neanche che sia un atto per cui tu debba punirti in eterno. È successo, ma non mi hai tradita, punto». Prendo un profondo respiro, calmandomi. «Forse le cose sarebbero andate in modo diverso, è vero, ma non puoi continuare a dannarti per questo. Quel che è fatto è fatto ormai. Ed io sono qui con te quindi-»

Mi volto, trovando Edward a pochi centimetri da me, e mi blocco.

I suoi occhi mi fissano combattuti, intensi. «Quindi…?»

Trattengo il respiro, sorpresa di trovarmelo così vicino all’improvviso. «Q-Quindi smettila di pensare a quello che poteva essere», sussurro.

Edward posa una mano sul mio viso, accarezzando lo zigomo con il pollice. «Ad una condizione», mormora, con il volto a pochi centimetri dal mio.

«Quale?»

Le sue labbra si piegano in un piccolo sorriso. «Smettila anche tu di essere arrabbiata con te stessa. Con tutto quello che ti è successo è normale che tu sia confusa e non riesca a fidarti di qualcuno».

«Ma-».

Il suo dito scivola sulle mie labbra, zittendomi. «Niente ma». I suoi occhi mi osservano, mentre mi sfiora il viso gentilmente. «Mi sei mancata».

Allaccio le mani dietro il suo collo, alzandomi sulle punte dei piedi fino a unire le nostre fronti. Socchiudo gli occhi, lasciando che un suo braccio mi circondi la vita, tenendoci vicini, mentre le sue dita si infilano fra i miei capelli.

«Mi sei mancato anche tu», sussurro, sentendo la rabbia e l’angoscia di questi giorni sciogliersi come neve al sole. Siamo stati due sciocchi ad aspettare, a scappare dalla verità, sapendo entrambi che non si può fuggire dalla realtà. Abbiamo solo rovinato tutto, complicando le cose. «Grazie per essere venuto a cercarmi».

Le sue labbra si piegano in un sorriso. «Temo proprio che dovrai abituarti. Verrò sempre a cercarti, perché non ho nessuna intenzione di lasciarti scappare».

Sorrido, avvicinando la bocca alla sua. «E tu dovrai abituarti ad avermi intorno. Perché non ho più nessuna intenzione di scappare».

I suoi occhi brillano per un istante, poi le sue labbra catturano le mie, e chiudo gli occhi, mentre le sue mani mi afferrano per la vita, sollevandomi da terra. Allaccio le gambe intorno al suo bacino, stringendo le braccia intorno al suo collo.

«Resta qui», sussurro sulle sue labbra, mentre lo sento arretrare fino al letto. «Resta con me».

Si inginocchia sul letto, e sento il materasso contro la mia schiena. Si tiene sollevato sui gomiti e le ginocchia, senza pesarmi addosso; le sue dita mi sfiorano la guancia, mentre i suoi occhi verdi mi scrutano, profondi ed espressivi.

Le sue labbra sigillano sulle mie la sua ultima parola, sussurrata.

«Sempre».

________________________________

Eccoci alla fine. Forse il chiarimento fra Edward e Bella vi sarà sembrato un po' affrettato, ma dopo tutto quello che hanno passato credo si meritino un po' di pace. Entrambi hanno capito di aver sbagliato in diverse cose, e avranno tempo per sistemare la situazione.

L'epilogo arriverà verso il fine settimana :)

Il blog per gli spoiler, gli avvisi e i teaser: Tra Sogno & Realtà

A presto! :*

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** 16. Epilogo ***


'Giornooooo! :D

Sono un pochino in ritardo a postare questo epilogo, ma dato che dovevo mettere la parola 'fine' ho preferito aspettare di essere sicura al 100% di quello che ho scritto ù.ù

Ci saranno un po' di flashback, quindi ricordate che il corsivo indica il passato, altrimenti diventa un pastrocchio XD

Buona lettura!

________________________________

16. Epilogo

Sfioro con la punta delle dita i petali della rosa bianca riposta nel piccolo vaso di vetro trasparente sul tavolino a cui sono seduta, contemplando distrattamente la sua bellezza appena sbocciata, mentre premo con l’altra mano il cellulare all’orecchio.

«Sì, papà, è tutto a posto. No, finora non abbiamo avuto nessun problema». Sorrido sentendo la preoccupazione di mio padre, del tutto immotivata. «D’accordo, ci risentiamo quando arriviamo a Venezia. Ti voglio bene».

Chiudo la chiamata, riponendo il cellulare nella borsa. Bevo un altro sorso di cappuccino, mentre il mio sguardo scorre sui volti delle persone che affollano la strada, sperando di riconoscere quello del mio ragazzo, misteriosamente scomparso. Mi ha lasciata qui al bar venti minuti fa, promettendomi di tornare subito. Non mi ha voluto dire dove è andato, e trovarmi da sola in mezzo a tanta gente senza sapere una sola parola di italiano mi mette a disagio. Nella borsa ho un piccolo dizionario inglese-italiano, ma non mi sento tranquilla comunque. Forse se avessi avuto più tempo per prepararmi a questo viaggio avrei fatto in tempo a imparare qualche frase fatta a memoria, ma non ne ho avuto il tempo.

Appena siamo rientrati a Forks da Washington la settimana scorsa, Edward mi ha proposto di fare di nuovo le valigie e partire per una vacanza in Italia, come era successo quando lui era tornato da New York e ci eravamo messi insieme ufficialmente. Non gli è servito molto tempo per convincermi ad accettare la sua proposta. Nel giro di quattro giorni abbiamo preso le ferie dai nostri lavori e avvertito amici e familiari, e siamo saliti su un aereo che ci ha portati dritti nel cuore dell’Italia, a Roma. Nonostante tutto ho fatto in tempo a sistemare la situazione con tutti a casa: soprattutto con Charlie, Jacob ed Alice. Non è stato semplice, ma neanche troppo difficile.

 

«Quindi…», mormora mio padre, leggermente a disagio, sedendosi su una delle sedie della sua cucina, seguito da me, «hai recuperato tutta la memoria?»

Scuoto il capo, sedendomi davanti a lui. «No. Ma ho più o meno ricostruito e ricordato la maggior parte delle cose che sono successe nell’ultimo anno».

«Ah… quindi hai ricordato anche…», si schiarisce la voce, «anche Edward… suppongo…». Cerca i miei occhi in segno di una conferma, ed io annuisco.

Lui sospira. «Era ovvio che te ne saresti ricordata. Era stupido pensare che non l’avresti fatto».

«Se sapevi che avrei ricordato perché non me ne hai parlato prima?», gli chiedo, cercando di mantenere la calma. «Perché ogni volta che ti chiedevo qualcosa evitavi di rispondermi?»

Papà sospira ancora. «Quando tutti abbiamo scoperto che avevi perso la memoria io e Jacob abbiamo parlato con Carlisle. Ci ha detto quali potevano essere i rischi di un’amnesia del tuo genere, e quali potevano essere i modi per farti tornare i ricordi. Ma ci ha anche detto che bisognava fare attenzione perché c’era la possibilità che ricordando le cose sbagliate avresti potuto smettere di ricordare. Credo abbia parlato di autodifesa mentale…»

«Ricordare cose sbagliate? Del tipo?», domando, incuriosita.

«Qualcosa che ti ha fatto soffrire in passato, e che preferiresti non ricordare… come la rottura con Edward», mormora.

Osservo il viso di mio padre, che a causa della tensione sembra invecchiato di qualche anno. «Per questo non mi hai mai voluto parlare di questi cinque anni? Avevi paura che ricordassi qualcosa di brutto e smettessi di ricordare per sempre?»

Charlie annuisce. «Jacob mi ha convinto a nascondere le foto che c’erano qui, e tutto quello che poteva ricordarti di essere stata con Edward. Aveva paura che potessi non ricordare più niente, e visto quello che aveva detto Carlisle ho pensato che forse aveva ragione…»

Annuisco, mordendomi il labbro.

«Hai già parlato con Jacob?», mi domanda mio padre, dopo alcuni secondi di silenzio.

«No… gli ho chiesto di venire qui stamattina. Credo che stia per arrivare…»

Lui annuisce, e il resto del tempo insieme lo passiamo a parlare tranquillamente, con papà che si scusa ogni cinque minuti, rimproverandosi per aver accettato di nascondermi la verità per tutto il tempo, convinto da Jacob.

Quando il campanello suona mi alzo in piedi, e raggiungo la porta seguita da Charlie. E dopo quasi due settimane rivedo Jacob. Il suo viso è torvo, segno che non è molto felice che l’abbia chiamato per vederci, o forse perché sa di cosa voglio parlare, e sa anche che ho deciso di restare con Edward.

Charlie mugugna qualcosa che mi sembra un «vi lascio soli», e dopo aver dato una pacca solidale a Jacob sulla spalla esce di casa, raggiungendo la sua auto della polizia.

Mi sposto dalla porta per far entrare Jacob, e andiamo in salotto, sedendoci sul divano, a debita distanza l’uno dall’altra. Non credevo che sarebbe stato così difficile per lui rivedermi, tanto da non riuscire neanche a starmi vicino, ma non posso fargliene una colpa; il nostro ultimo incontro è finito con una sberla dritta sul suo viso perché mi ha baciata prendendomi alla sprovvista e risvegliando un vecchio ricordo sopito nella mia mente, quindi immagino voglia stare lontano ora.

«Jacob io… volevo chiederti scusa», sussurro, a disagio, «per quello che è successo l’ultima volta che ci siamo visti. Non sono riuscita a spiegarti il motivo per cui ti ho colpito, e-».

«A me sembra abbastanza ovvio il motivo per cui mi hai tirato quella sberla, Bella», mi interrompe Jacob, gelido. «Volevo fingere che non fosse ovvio già da tempo, ma dopo tutto quello che hai fatto dopo aver perso la memoria non ho potuto fare altro che arrendermi all’evidenza», commenta, amaro.

«Di cosa stai parlando?», gli chiedo, crucciata.

«Del fatto che qualunque cosa Cullen faccia, sceglierai sempre e solo lui. Non importa se lui ti ha tradita baciando un’altra, non importa se ha preferito partire per un mese intero piuttosto che cercare di riconquistarti, tu continuerai a perdonarlo e a tornare da lui». Jacob sospira pesantemente, stringendo i pugni sulle ginocchia, senza guardarmi negli occhi. «So che lui è il tuo primo amore, e che il primo amore non si scorda mai… ma speravo che con il tempo avresti imparato ad amare anche me così, tanto quanto io amo te».

Mi mordo il labbro, distogliendo lo sguardo, sentendo la colpa travolgermi. Jacob mi ha sempre amata, per tutto questo tempo; anche quando io lo tradivo, lui mi amava. Non è stato giusto nei suoi confronti, e non potrò mai perdonarmi per aver fatto una cosa simile.

Ho passato gli ultimi due giorni tornata da Washington a chiedermi se fosse giusto rivelargli che in realtà anche quando eravamo a pochi passi dal matrimonio lo tradivo con Edward. Jacob merita la verità, su questo non ho dubbi, ma merita anche una verità così dura e amara, così ingiusta? Se le cose per me ed Edward ora stanno andando per il meglio, non merita anche lui che sia così per se stesso?

«Mi dispiace Jacob», sussurro, sinceramente. «È stato imperdonabile da parte mia illuderti così. Avrei… avrei dovuto sapere che non sarei mai stata in grado di dimenticare Edward. Avrei dovuto lasciarti libero di vivere la tua vita e di cercare una ragazza che ti ami come meriti».

Gli occhi scuri di Jacob incontrano i miei, seri e sinceri. «Bella, sono innamorato di te da quando eravamo solo dei ragazzini. È stata anche colpa mia se quest’ultimo anno siamo stati entrambi infelici. Avrei dovuto lasciarti andare quando ho capito che dopo averti fatto la proposta eri corsa a cercare lui, per essere sicura di non avere altre alternative. Se l’avessi fatto probabilmente ci saremmo risparmiati mesi di sofferenza, quindi non darti tutte le colpe».

Trattengo il respiro. «Sapevi che ero andata a cercare Edward quando ti ho detto che volevo aspettare a darti una risposta alla proposta? Come?»

Jacob piega le labbra in un triste sorriso, abbassando gli occhi. «Quil ti ha vista nello stesso pub dove c’era anche Edward Cullen. Ho fatto solo due più due».

«Quil…», mormoro soprappensiero, ripensando al giorno in cui quello stesso ragazzo mi ha vista uscire per andare a pranzo con Edward poche settimane fa. «Sicuro che non sia un detective? È la seconda volta che mi scopre da qualche parte e te lo riferisce».

Jacob lascia andare una piccola risata, e mi rilasso leggermente. «In effetti dovrei proporglielo come lavoro. Di sicuro per lui sarebbe più interessante di fare il meccanico nella mia officina».

«Se sapevi che ero andata da lui… perché non mi hai detto niente e hai lasciato che accettassi di sposarti?», gli chiedo, tornando seria.

Jacob abbassa lo sguardo. «Perché avevo paura di perderti», sussurra. «E per lo stesso motivo non ti ho raccontato niente della tua storia con Cullen, quando hai perso la memoria. Avevo paura che… so che è da codardi e meschini, ma avevo paura che ancora una volta potessi preferire lui a me», ammette, a disagio come poche volte l’ho visto. «È stato egoista e stupido da parte mia, perché sapevo che era una tua scelta, e anche che prima o poi avresti ricordato tutto in un modo o nell’altro. Speravo che la tua amnesia fosse una seconda possibilità per noi; speravo di poter sistemare tutto quello che c’era di sbagliato nel nostro rapporto prima del tuo incidente, ora che non c’era Edward Cullen nella tua testa. Ho perfino convinto Charlie ad aiutarmi». Volta il capo, nascondendomi il suo viso. «Sono stato orribile. Mi dispiace, Bells».

Poso una mano sul suo braccio, cercando di sorridere. «Non importa, Jacob», sussurro. «Credo di poter capire perché l’hai fatto. Non sentirti in colpa, abbiamo sbagliato entrambi nella nostra storia. Ma ora dobbiamo andare avanti tutti e due».

Abbasso gli occhi, allontanandomi da lui. «E su una cosa avevi ragione», mormoro. «Non ho mai smesso di amare Edward. Mi dispiace per come sono andate le cose».

 

A strapparmi al ricordo del chiarimento con mio padre e Jacob ci pensa un cameriere, che mi domanda in inglese e con un accento evidente se desidero ordinare qualcos’altro. E prima ancora che possa rispondergli alle sue spalle arriva Edward, che gli chiede il conto, sedendosi su una sedia vicino a me.

Appena il cameriere si allontana mi volto verso di lui, con un sopracciglio inarcato. «Dove sei stato fino adesso?»

«A prendere dei biglietti per l’autobus», risponde, con un sorriso.

«Ma non abbiamo preso il settimanale urbano?», ribatto, accigliata.

«Per andare dove ho in mente io servono altri biglietti», dice senza lasciar trapelare nulla di quello che ha in mente.

«Hai intenzione di dirmi dove vuoi andare? Tanto lo sai che non conosco niente di questa città, un nome non farebbe molta differenza».

«Se te lo dicessi potrebbe tornarti in mente la volta che ci siamo stati due anni fa, così addio sorpresa».

Sto per ribattere e pregarlo di dirmi dove vuole portarmi adesso, ma l’arrivo del cameriere mi zittisce. Dopo aver pagato, Edward si alza, porgendomi la mano per aiutarmi ad alzarmi.

«Fidati, ti piacerà», sussurra, mentre le mie dita si allacciano intorno alle sue.

 

«E quindi non sai dove ti sta portando?»

«Uhm… no. Mi sembra che ci stiamo allontanando dal centro di Roma, ma non ne sono sicura…», mormoro, guardando fuori dal finestrino.

«Dammi il nome della via su cui ti trovi così cerco su Google dove sei e possiamo provare a indovinare dove ti sta portando», esclama Alice, seria.

Rido, ricevendo un’occhiata interrogativa da Edward, seduto accanto a me. Siamo su un autobus colmo di persone, e il caldo sarebbe insopportabile se non fosse per i finestrini completamente abbassati, che fanno penetrare aria fresca. Mentre parlo con la mia amica guardo al di là del vetro, osservando il paesaggio scorrere veloce. Ora siamo decisamente fuori dal centro di Roma. «Non penso sia necessario Alice. Per di più non ho idea di che via sia questa, non riesco a leggere nessun cartello…»

Edward afferra il mio cellulare prima che Alice risponda, e se lo porta all’orecchio. «Cuginetta, se osi dire qualcosa a Bella sappi che la tua Porsche sarà in grave pericolo appena ritornerò a casa», lo sento dire, con un sorriso sulle labbra ma con voce minacciosa.

Parlano per alcuni secondi, mentre nella mia mente ripercorro la conversazione avuta con Alice appena sono tornata da Washington. È stata la prima persona che ho deciso di incontrare, quella che desideravo più di tutte rivedere per scusarmi e chiarire tutta la faccenda.

 

I suoi occhi viaggiano da me ad Edward, confusi. «Quindi tu non l’hai tradita…», sussurra, guardandolo, chiedendogli conferma.

Suo cugino scuote il capo, serio. «È stato tutto un grande malinteso, Alice. Se tu e Bella foste rimaste amiche dopo la nostra rottura probabilmente avresti saputo tutto subito e non ti saresti sbagliata».

Abbasso lo sguardo, stringendo le mani in grembo. «Quello è successo per colpa mia». Guardo la mia amica, sentendomi colpevole. «Se ti avessi dato retta quando cercavi di convincermi a chiarire la situazione con Edward prima di mettermi con Jacob probabilmente non sarebbe successo niente di tutto questo. Mi dispiace di non averti ascoltato».

Alice prende le mie mani, stringendole nelle sue, piccole e delicate. I suoi occhi sono lucidi, e le sue labbra sono piegate in un sorriso. «A me dispiace di averti urlato contro quelle cose alla serata di beneficenza e di non averti aiutato subito con la tua memoria. Forse se avessi cercato di aiutarti di più avresti recuperato prima i ricordi».

Ricambio la stretta, sorridendole a mia volta. «Non importa. Sono sicura che presto recupererò tutta la memoria».

 

«Bella?», mi chiama Edward, porgendomi il cellulare, con la chiamata ancora attiva. Lo porto all’orecchio, pronta a salutare la mia amica.

«Adesso vado a dormire, ma quando scopri dove state andando mandami un messaggio, sono curiosa di sapere se ho indovinato!», esclama, quasi più emozionata di me. Anche lei è stata a Roma con Jasper - l’anno scorso, se non sbaglio -, ed ha amato questa città. Ha perfino chiesto ad Edward se lei e il suo ragazzo potevano aggregarsi a noi per questa vacanza improvvisa, ma in qualche modo suo cugino è riuscito a dissuaderla da quest’idea, dopo aver convenuto con me che ci serve un po’ di tempo da soli, lontani da Forks e tutto quello che la riguarda. E anche se l’idea di fare una vacanza tutti insieme mi piaceva molto, ho capito che Edward aveva ragione: dopo tutto quello che abbiamo passato dal momento in cui ci siamo lasciati ci meritiamo del tempo per noi, lontani da tutto e tutti.

Siamo arrivati a Roma da soli tre giorni, eppure mi sembra solo ieri che siamo scesi dall’aereo e siamo arrivati all’hotel. Tre giorni trascorsi fra monumenti, musei, strade, negozi, ville e giardini, alcuni talmente belli da togliermi il fiato; e ad ogni luogo visitato ho iniziato a ricordare sempre di più del viaggio che abbiamo fatto tre anni fa e della mia relazione con Edward. Forse è per questo che insiste a non volermi dire dove siamo diretti adesso.

Nella mia memoria, però, continua ad esserci un enorme buco nero intorno agli avvenimenti più importanti fra me ed Edward. Vorrei ricordare ogni cosa, ma neanche sforzandomi riesco a sbloccare i ricordi. A quanto pare dovrò avere pazienza e aspettare che tornino da soli.

«Va bene, Alice», le dico, divertita dal suo entusiasmo. «Ci sentiamo presto. Buonanotte».

«E a te buona giornata», ride. «Divertiti».

Quando chiudo la chiamata ritiro il cellulare nella borsa, sotto lo sguardo di Edward.

«Le hai fatto capire dove stiamo andando?», gli chiedo, curiosa, rendendomi conto di non aver prestato attenzione alla sua conversazione con lei, e ricordando quel “sono curiosa di sapere se ho indovinato” di poco fa.

Edward inarca un sopracciglio. «No, anche se ha tirato a indovinare».

«E ha indovinato?»

«Questo non te lo posso dire per precauzione», risponde, sorridendo. Poi guarda l’orologio. «E comunque fra cinque minuti siamo arrivati».

 

«Oh».

«È un ‘oh’ deluso o un ‘oh’ del tipo ‘oh mio Dio’ sorpreso?», mi domanda Edward, divertito. Ma nella sua voce leggo anche sincera preoccupazione.

«Credo che sia una via di mezzo fra un ‘oh mio Dio’ sorpreso e un ‘oh Signore, sono in paradiso’ entusiastico», sussurro, incapace di smettere di guardarmi intorno.

Edward ride leggermente, e lo sento aprire la cartina del luogo.

Ci troviamo a Villa d’Este, a Tivoli. L’autobus ci ha scaricati davanti all’ingresso della Villa, e nonostante trovassi il luogo familiare non sono riuscita a riconoscerlo e a ricordarlo fino al momento in cui abbiamo finito la visita del palazzo per arrivare al terrazzo che si affaccia sui giardini. Sugli immensi giardini.

Il verde degli alberi, dei cespugli e dei prati si estende intervallato da stradine, scale, fontane e vasche d’acqua, creando un suggestivo paesaggio. La gente cammina pacifica scattando fotografie, e i bambini giocano con l’acqua zampillante delle fontane. I rumori della caotica Roma sembrano lontani e isolati da questo luogo di pace.

Edward mi prende la mano, sorridendo. «Andiamo?»

Annuisco, e lo seguo giù per una scalinata di pietra, che conduce ad una delle tante fontane del luogo.

Seguendo la cartina, che propone l’antico percorso che bisognava compiere nel sedicesimo secolo per raggiungere il palazzo passando per tutti i giardini, ci avventuriamo fra le fontane e le siepi, fermandoci di tanto in tanto all’ombra degli alberi per riprenderci dal sole scottante. Ora che siamo fuori dal palazzo, lontani dal fresco delle mura di pietra, il caldo è quasi soffocante, e ringrazio mentalmente il consiglio di Alice di portarmi dietro una grande quantità di prendisole e vestiti leggeri per contrastare il caldo mediterraneo.

Dopo un’ora di passeggiata arriviamo in un viale stretto, chiamato viale delle Cento Fontane. Da un lato è costeggiato da un’alta siepe, mentre dall’altro da un complesso di fontane fra le più belle che abbia mai visto in tutta la mia vita. Come appunto dice il suo nome, si tratta di cento fontane a forma di gigli, aquile, obelischi e barchette, da cui l’acqua zampilla creando una scenografia mozzafiato. Il muschio ricopre le pareti chiare, creando un suggestivo effetto naturale.

«Wow», esclamo, non riuscendo a trattenere per l’ennesima volta la meraviglia di fronte a tanto splendore. «È bellissimo».

Edward sorride, seguendomi mentre percorro il viale lentamente, guardando le fontane zampillare una dietro l’altra, fino ad interrompersi ai piedi di una scalinata che conduce ad un’altra fontana, che scende a ventaglio in una vasca d’acqua limpida, circondata da un portico ricoperto da piante rampicanti e muschio.

Appena arriviamo in cima alla scala mi immobilizzo, provando una strana sensazione. A differenza degli altri luoghi, questo posto mi è familiare e al tempo stesso sconosciuto. Fino a un momento fa man mano che osservavo il paesaggio riuscivo a ricordare anche l’altro nostro viaggio qui, ma adesso non è più così; adesso provo solo una strana sensazione di vertigine, vuoto e buio.

«Come si chiama?», sussurro ad Edward, confusa. Forse l’altra volta non siamo stati qui, per questo non riesco a ricordarmela.

«Fontana dell’Ovato», risponde, senza guardare la cartina. Mi osserva, l’espressione illeggibile. «Stai bene?»

Annuisco, deglutendo e tentando di sorridere per essere convincente. «È solo che… non riesco a ricordarmi questa fontana. L’abbiamo vista l’altra volta?»

Edward mi osserva in silenzio per un lungo istante, poi ritira la cartina nella tasca dei pantaloni, e mi prende per mano. «Vieni».

Mi porta sotto il portico della fontana, lontani dal sole cocente e avvolti dalla piacevole frescura dell’acqua e dell’ombra. Lo scrosciare dell’acqua è piacevole, e riesce a tranquillizzarmi un po’.

Arriviamo fino a metà del portico, dove uno scalino conduce ad un semicerchio di pietra che porta proprio sotto la fontana. I getti creano una cupola d’acqua che permette di rimanere sotto di essi senza essere bagnati e ricadono nella vasca sottostante con un lieve fragore, nascondendo la vista delle persone dall’altro lato della parete acquatica.

Seguo Edward fino a sotto la cascata, incantata da questo gioco d’acqua.

«È meraviglioso», sussurro, ancora una volta shoccata da quanto questo posto sia bello.

Le labbra di Edward si piegano in un lieve sorriso. «Sono contento che ti piaccia. Avevo paura che ricordandotene avresti trovato noioso tornarci».

«Stai scherzando, vero? Come potrebbe essere noioso un posto simile? E comunque se non mi avresti riportato forse non l’avrei nemmeno ricordato», mormoro, tentata di toccare il getto d’acqua.

Edward resta in silenzio, e mi volto a guardarlo, preoccupata. «Va tutto bene?», gli chiedo, trovandolo intento a fissarmi, con la stessa espressione indecifrabile di poco fa. Ogni volta che mi osserva in questo modo non riesco mai a capire cosa gli passa per la testa.

Annuisce lentamente. «C’è una cosa che vorrei dirti».

«Va bene…», sussurro, confusa dal suo comportamento strano. Eppure improvvisamente mi sento senza fiato. Che cosa sta succedendo?

«So che non hai ancora recuperato del tutto la memoria», inizia, nervoso, «e che quindi per te sono un estraneo sotto certi aspetti…»

«Aspetta», lo interrompo, accigliata. «Cosa stai dicendo? Un estraneo? Credi che dopo tutto quello che abbiamo condiviso io ti consideri un estraneo?»

Edward si gratta la nuca, a disagio. «Non mi sono spiegato bene…»

«Allora riprovaci», mormoro, confusa. «Come puoi pensare che con tutto quello che è successo dall’intervista ti consideri un estraneo? Credo di averti considerato tale solo quando ci siamo incontrati davanti casa mia il giorno dopo il mio incidente, e poi…»

«Poi?», mi incita, vedendo che non continuo.

«Non lo so, ho sempre avuto la sensazione di conoscerti, anche quando non ricordavo niente di te. È… strano», sussurro. «Per questo ho accettato di uscire con te il giorno prima della serata di beneficenza. Non sarei uscita con uno sconosciuto, ti pare?»

Scuoto il capo, non capendo il motivo di tirare fuori un simile argomento proprio adesso. A meno che… «C’è qualcosa che non mi hai detto? Qualcosa che hai paura che ricordi all’improvviso?», gli chiedo, in ansia.

Edward mi osserva con la fronte aggrottata. «Sì… sì, c’è una cosa che non ti ho ancora detto».

Trattengo il fiato, pronta a sentire il mondo crollarmi addosso un’altra volta, proprio come quando ho ricordato il momento in cui era con un’altra donna. «Che cosa?»

Edward fa un passo avanti, nella mia direzione, con l’espressione seria. «Sicura di volerlo sapere adesso?»

«È così terribile?», pigolo.

Lui prende una mia mano, stringendola nella sua, abbassando lo sguardo sulle nostre dita che si intrecciano fra di loro. «Potrebbe. Dipende dai punti di vista».

«Se è così terribile perché hai aspettato di essere qui a Roma? Perché non dirmela quando eravamo a casa, prima di partire?»

«In realtà», dice, con un piccolo sorriso a piegargli le labbra, «te l’ho già detto quando sono venuto a casa tua la sera che c’è stato il temporale. Solo che non mi hai sentito perché ti sei messa a urlare per colpa di un tuono».

Aggrotto le sopracciglia, perplessa. Mi sono spaventata talmente tante volte quella sera a causa del temporale che non ricordo nemmeno a quale momento si riferisce. «Allora perché poi hai aspettato così tanto? Se avevi trovato il coraggio di dirmelo quella sera potevi farlo anche dopo».

«Con tutto quello che è successo il giorno dopo quella notte non mi sembrava opportuno. E poi speravo che presto saremmo tornati qui». Le sue dita sfiorano la mia mano leggere come piume. «Speravo di poter tornare sotto questa fontana con te, nello stesso luogo dove ti ho detto questa stessa cosa tre anni fa».

I suoi occhi incontrano i miei, grandi e intensi; il verde delle iridi sembra quasi liquido grazie al riflesso dell’acqua della fontana in esse, e potrei passare ore intere ad osservarle.

Le sue labbra si schiudono, e trattengo il fiato, pronta a quello che mi deve dire.

«Ti amo», sussurra, con gli occhi fissi nei miei e la sua mano stretta intorno alla mia.

E per un istante non succede nulla. Per un istante il mondo sembra immobilizzarsi, sospeso nello spazio fra un respiro e l’altro.

Poi tutto inizia a girare, e nella mia mente si susseguono mille ricordi ed emozioni, che come un uragano mi investono, facendomi girare la testa, lasciandomi senza fiato e confusa. Tante voci diverse si sovrappongono, riportando alla memoria dialoghi spezzati, emozioni antiche e dimenticate, sorrisi e lacrime incancellabili.

 

“Stai bene?” “Credo di aver sbattuto la testa. Mi dispiace, ti ho investito. Non ti avevo visto.” “Ci credo, stavi correndo come una furia. Comunque piacere, io sono Edward.” “Isabella, ma preferisco Bella. Piacere.”

 

“Bella, lui è Edward Cullen. Mio cugino.” “Sei sua cugina?” “Vi conoscete già?” “Diciamo di sì…”

 

“Bella…? Ti andrebbe di uscire stasera?” “Noi due?” “Sì… noi due.”

 

“Fai l’amore con me, Bella.”

 

“Devi ritornare a New York…” “Sì… È meglio se rimaniamo solo amici.”

 

“Mi manchi, Edward…” “Mi manchi anche tu, Bella.”

 

“Che… che ci fai qui? Dovresti essere a New York…” “Io…credo di essermi innamorato di te.”

 

“Un viaggio in Italia?” “Perché no? Hai sempre sognato di andarci.”

 

“Ti amo.” 

 

Edward posa l’altra mano sul mio braccio, riportandomi al presente. I suoi occhi mi osservano preoccupati.

Respiro con la bocca, cercando di riprendere fiato, agitata. Trattengo a stento l’istinto di gettarmi un po’ di acqua fredda sul viso per calmarmi, tanto il mio cuore batte forte da sembrare sul punto di esplodere e il mio respiro sia accelerato.

«Stai bene?», mi domanda Edward, con la fronte aggrottata e le mani saldamente strette intorno alla mia e al mio braccio, forse timoroso che sia sul punto di svenire.

«M-Mi ami», sussurro, con gli occhi sgranati.

Sorride leggermente, la preoccupazione ancora negli occhi. «È così difficile da credere?»

Scuoto il capo, in segno di diniego. No, non è difficile. Credo che il fatto che solo la settimana scorsa abbia attraversato gli Stati Uniti per venirmi a cercare sia una dichiarazione. «Me l’hai detto qui la prima volta, vero? Sotto questa cascata», mormoro, ricordando quel giorno come se fosse ieri. È stato uno dei giorni più belli di tutta la mia vita, e adesso so di poterlo dire senza alcuna esitazione. «Me lo ricordo», realizzo solo ora. «Ricordo tutto quanto ora».

Le sopracciglia di Edward si inarcano, e un’espressione a metà fra lo stupito e il confuso appare sul suo viso. «Ricordi cosa? Il viaggio?»

«Non solo», rispondo, mentre le mie labbra si piegano involontariamente in un sorriso emozionato. «Ricordo tutto quello che è successo da quando ci siamo conosciuti, Edward. Ho recuperato tutta la memoria!»

I suoi occhi si sgranano, e in un attimo le sue braccia avvolgono la mia vita, stringendomi a lui e sollevandomi da terra. Allaccio le braccia intorno al suo collo, soffocando la mia risata improvvisa nell’incavo del suo collo.

Ho recuperato la memoria, finalmente. Alla fine sono riuscita a farcela. E tutto grazie ad Edward.

Quando i miei piedi toccano di nuovo terra mi alzo sulle punte, premendo la mia fronte contro la sua, lasciando che i nostri respiri si mescolino e i nostri occhi si incontrino.

Nonostante abbia recuperato i ricordi mi sento la stessa persona di cinque minuti fa. Sento ancora le stesse cose, le stesse emozioni. E so che quello che provo per Edward non è mai cambiato in tutti questi anni; non è cambiato nemmeno quando ho perso la memoria, nemmeno quando ci siamo lasciati e ho creduto che mi avesse tradito. E non cambierà mai, ora lo so.

«Edward?»

«Mh?»

«Ti amo anch’io», sussurro.

E il sorriso che spunta sulle sue labbra è il più bello che abbia mai visto, e non sparisce nemmeno quando la sua bocca incontra la mia, firmando come una promessa le nostre parole.

Fine

________________________________

 La Fontana dell'Ovato

Alcune piccolissime precisazioni:

1. Non sono mai stata a Villa d'Este e Roma (shame on me >.<), quindi chiedo perdono se ho scritto qualche cretinata parlando dei giardini. Tutto quello che so l'ho appreso qua e là su internet, e spero di non aver scritto grandissime castronerie.

2. Quando Edward dice a Bella di averle già detto di amarla si riferisce a questo pezzo, preso dal capitolo 12. Tempesta:

“La sua bocca trova il mio orecchio, e il suo sussurro sfiora la pelle sensibile, facendomi fremere. «Perché è dal minuto dopo che hai lasciato casa mia il giorno prima di cadere dalle scale che voglio farlo. Perché baciarti è una delle cose più piacevoli di questo mondo. E perché, anche se adesso non lo ricordi, ti…».

Un tuono più forte degli altri mi fa sobbalzare e urlare, coprendo la voce di Edward, e facendomi aggrappare al suo corpo come se fosse una boa in mezzo a una tempesta in mare.”

Ed ecco la tanto sospirata parola 'fine'... ho impiegato esattamente 11 mesi a concludere questa fic, roba da matti O_O quindi un grazie nei vostri confronti è più che dovuto, perché se non aveste continuato a leggere e a recensire, dandomi la spinta a continuare, probabilmente non avrei mai finito la storia. Quindi GRAZIE. Sia ai lettori silenziosi (che a quanto pare sono parecchi *__*), sia - e soprattutto - a coloro che hanno recensito i capitoli. Grazie anche per aver aggiunto la storia alle preferite, seguite e ricordate.

Grazie, grazie, grazie :*******

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=665608