Oggi scrocchi tu?

di Ofelia di Danimarca
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo quarto ***
Capitolo 5: *** Capitolo quinto ***
Capitolo 6: *** Capitolo sesto ***
Capitolo 7: *** Capitolo settimo ***
Capitolo 8: *** Capitolo ottavo ***



Capitolo 1
*** Capitolo primo ***


 
A me delle donne non è mai fregato un cazzo”.
Claudio aprì il borsone sportivo alla ricerca della sua polo pulita.
Ada, la domestica, che gli aveva preparato la borsa anche quel giorno, gliene metteva sempre una stirata di fresco, da indossare finiti gli allenamenti di scherma.
Gli tornarono alla mente le parole che suo zio gli ripeteva fino alla noia, ogni volta che poteva: “TU sei un cavallo di razza…e i cavalli di razza si riconoscono perché girano sempre impeccabili…mai un pelo fuori posto… impeccabili”.
Mentre apriva la busta e ne estraeva una Fred Perry perfettamente piegata, un sorriso amaro gli comparve sul viso.
“A me delle donne non è mai fregato un cazzo”.
Quel pensiero gli era ben chiaro nella testa.
Si infilò la polo con un movimento fluido, e si passò una mano tra i capelli ancora umidi, con gesto automatico.
 
Già, le donne.
Buffo, si disse. Nella sua vita le donne non avevano mai costituito un problema.
Non erano mai state per lui un cruccio, a differenza di altri.
E non perché ce ne avesse in abbondanza, o meglio, non tanto per quello.
Il vero punto era che non aveva mai sentito l’urgenza di porsi il problema delle donne.
Se c’erano o non c’erano, per lui non aveva mai significato granchè.
Certo- questo lo ammetteva candidamente- gli era sempre piaciuto poter dire di essere un tipo dalla conquista facile. Gli era sempre piaciuto il fatto che, non appena avvertisse la voglia di rimorchiare una ragazza, bastava un minimo sforzo e il risultato, obbediente, arrivava, placando le sue smanie di conquista.
Quanto poi alla motivazione che ci poteva stare dietro, non aveva mai importato molto- colmare la solitudine di una serata, fare un dispetto a qualcuno di poco gradito, smania di vincere una scommessa…i motivi erano vari. E quasi mai rilevanti.
 
- Bell’allenamento oggi, Claudio - gli disse un suo compagno di scherma, in procinto di uscire dallo spogliatoio, borsone in spalla – Mi sei piaciuto. Grande energia.
Claudio gli lanciò un gesto d’intesa, senza fiatare, e quello sparì dietro la porta uscendo dalla stanza.
 
Una volta uscito anche lui, mentre saliva sulla sua Mini color panna con cerchi in lega che ancora rilucevano, ripensò all’energia- quell’energia in più che quella sera anche il suo partner d’allenamento aveva notato.
“Non è un caso. Io so da dove è arrivata quest’energia”
Lo sapeva; era un concetto che gli era molto chiaro in testa.
Gli era chiaro quasi quanto quell’altro concetto- quello che, a detta dei suoi ex compagni di classe, era la caratteristica fondamentale del “maestro” Rizzo, il menefreghismo nei confronti delle donne.
 
Inserì le chiavi e avvertì il rumore rombante del motore della Mini, ascoltando quel suono con un certo rabbioso piacere.
- Vaffanculo – disse ad alta voce, quasi come se dovesse parlare a un altro sè stesso.
Mise la prima e iniziò il percorso di ritorno verso casa, come faceva ogni venerdì sera. Solo che quel venerdì sera era diverso.
Le vie di Roma gli sfrecciavano ai fianchi luminose, calde, ospitali. Ma di quell’ospitalità Claudio non recepiva niente.
Qualcosa pungolava la sua mente.
Qualcosa monopolizzava la sua attenzione, qualcosa gli premeva sul petto.
“A me delle donne non è mai fregato un cazzo… ma oggi non riesco a fare altro che pensare ad una donna”.
 
 
 
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- Quattro margherite, una vegetariana e una mari e monti!
Non ne posso più.
Sono arrivata al punto di odiare la pizza…il profumo di pizza soprattutto….una volta lo adoravo. Specie da piccola,quando era per me sinonimo di serata alternativa a casa, con mamma che per almeno un giorno alla settimana non doveva cucinare e ci si metteva allegre sul divano, davanti alla televisione con i cartoni delle pizze in mano…ma quei tempi,ormai, sono finiti.
- A' Monica! Sveglia!! E che stai imbambolata?
La voce di Giulio, il pizzaiolo, mi scuote dal mio torpore, e mi ricorda che ho tre birre da portare a un tavolo…e a giudicare dall'occhiataccia che mi rivolge, lo devo fare anche con una certa urgenza.
- Ma che facevate qui quando non c'ero io a lavorarci in sto posto??? Riuscivate a campare? - dico, con tono volutamente ironico, e sento Giulio farsi una risatina mentre mi carico le birre una a una sul vassoio.
Stasera il locale è pieno, e c'è il delirio.
 
Ripenso al mio libro, abbandonato sul letto ancora aperto…l'ho quasi finito, mi mancano sì e no una quarantina di pagine…"Orgoglio e pregiudizio"….per un attimo, mi chiedo cosa avrebbe fatto una donna come Elizabeth Bennet  se si fosse trovata nella mia stessa situazione… in una classe di esaltati figli di papà con la puzza sotto al naso, quale era la mia, e costretta persino a sorbirsi ogni santo giorno le prediche buoniste di un insegnante fin troppo idealista…e decisamente troppo invadente…
 
- Ciao Monica! Che fai? Tutto a posto?
Mi volto di scatto non credendo bene alle mie orecchie. E' Cook.
- Secondo te che sto facendo?
Lui però non sembra cogliere, e continua imperterrito.
- Cazzo, sono appena arrivato e già mi hanno affibbiato tre consegne…uff…senti,quando ti liberi, sarebbe carino se magari ci andassimo a prendere una birra in Piazza del Popolo, che ne dici?O qui vicino, che ne so…così, per dire…
Lo vedo mentre sposta il peso del corpo da un piede all'altro, freneticamente. Cos'ha, l'ha morso una tarantola? E' quasi buffo.
Mi viene da sorridere involontariamente.
- Dai…tanto ti liberi qui no? Voglio dire, tra un'oretta, mica subito…
- Ma non vedi che casino! E poi no, sono stanca….finito qui me ne vado a casa, che devo pure finire il tema per Cicerino…
Lui se ne rimane lì imbambolato, a guardarmi mentre sparecchio un tavolo. Il suo sguardo interrogativo non promette nulla di buono.
- Quale tema? Ah già, il tema, cazzo,il tema - e inizia a battersi pugni in fronte - ma perché c'ho una memoria così penosa, perché perché perché…
E' senza speranze. Cook lo conosco da poco, ma a volte più che un diciottenne, mi sembra di avere di fronte un ragazzino di tredici anni.
Vive su una nuvola, è completamente sfasato.
Però, non posso non ammettere che a volte mi fa sorridere. E qualche volta pure ridere.
- Vabbè va, ora meglio che vai a fare 'ste consegne, se no tu perdi il lavoro, e io perdo la faccia - lo guardo negli occhi sperando che recepisca il messaggio - ti ricordo che ho garantito io per te qui….quindi…
Fa un cenno d'assenso volutamente esagerato.
- Capito, vado!
- Bravo Cook.
Lo vedo allontanarsi e afferrare casco e giacca, mentre Giulio lo istruisce sulle vie dove fare le consegne.
Speriamo che non si perda per l'ennesima volta, penso.
- Oh ci vediamo domani, eh, Monica!
Gli faccio un cenno di saluto.
 
E' pazzesco- mi ritrovo a pensare- tra tutti quelli della IIIA, lui è l'unico che mi abbia dato una chance. Una possibilità. Sì, ok, mi ha parlato perché aveva bisogno di un lavoro….gli serviva una mano… però non si è fatto problemi ad avvicinarsi e chiedermela. Si è buttato.
Mi soffermo un attimo su questo punto, mentre aspetto che una famiglia si decida a scegliere una pizza a caso dalle 4 fitte pagine di menu.
Tra tutti, proprio Cook era stato l'unico ad avvicinarsi un minimo a me. Era riuscito- mi chiedevo ancora come- ad andare oltre la mia apparenza di persona stronza e menefreghista….se ne era fregato pure del parere degli altri, e si era lanciato…
- Dunque, per me una….una diavola.
Riflettendoci un attimo, non era cosa da poco.
Un altro sorriso mi compare dal nulla sul viso, e la signora a cui sto prendendo l'ordinazione inizia a guardarmi strano. Non che fosse una cosa cui non ero abituata.
- Signorina, per favore, mi cambia le posate che la bambina me le ha fatte cadere in terra?
Eseguo, obbediente. Dall'altra parte della pizzeria scorgo qualcuno che si sbraccia per attirare la mia attenzione.
 
Ma io ripenso allo sguardo della signora- quello sguardo di diffidenza e perplessità che così spesso, mio malgrado, ispiravo nelle persone. Era uno sguardo che ormai non mi turbava per nulla. Non sortiva alcun effetto in me, ne ero diventata, come dire, immune.
No- mi dico.
E' un altro il tipo di sguardo che mi mette a disagio. Non so come definirlo esattamente. Finchè si tratta di circospezione, di disapprovazione-non me ne frega niente. Ma uno sguardo di interesse, di sincera curiosità…quello no, non lo reggo.
Non so come gestirlo, come affrontarlo, non riesco a mai a capire come devo reagire…
Mi dirigo al tavolo dal quale prima avevano cercato di chiamarmi.
 
Quel dannato sguardo d’ interesse…per fortuna mi viene rivolto raramente.
Negli ultimi tempi, quasi mai. Sì, ci sono gli sguardi curiosi di Cook…ma quelli sono innocui. Facili da gestire.
Ultimamente, invece, c'è una persona che ogni volta che mi capita di incontrarla o anche solo incrociarla, mi rivolge quel maledetto sguardo.
Quegli occhi indagatori,così fissi e decisi, che ogni volta che me li sento addosso quasi  mi sembra di essere  passata involontariamente a raggi x.
Lo sguardo di Claudio Rizzo.
 
 

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Capitolo 2
*** Capitolo secondo ***


Ma perché questa campana non si decide a suonare?
Sì, sono strana, lo ammetto. Odio la ricreazione.
Non mi è mai piaciuta, in generale; ma da quando sono qui al Colonna, mi è veramente diventato difficile sopportarla.
 
Gente che si ammassa nei corridoi..gruppetti di ragazze che si mettono in cerchio e iniziano a ridacchiare facendo commenti stupidi sugli altri studenti… e infine, la perla: i pettegolezzi nei bagni.
 
Oggi è stato l’esempio perfetto. Non faccio in tempo a mettere entrambi i piedi sulle piastrelle blu e verdi del bagno che sento Costanza e Valentina che parlano- di me, ovviamente.
E non certo in termini di elogi… sono convinte che a rubare i soldi destinati al nuovo laboratorio di arte-e-scienze sia stata io. Fantastico.
 
In realtà, anche se mi indigna, non mi stupisce affatto che la IIIA veda in me la colpevole di questa, come chiamarla, improvvisa sparizione di soldi.
Loro non mi conoscono.
I miei compagni finora hanno visto solo una parte di Monica Morucci- la peggiore.
La maggior parte delle volte sono stata intrattabile, e ce l’ho messa tutta per fare polemica con molti di loro se non tutti…
…certo, loro si sono comportati da veri stronzi, si sono sentiti punti sul vivo e minacciati dai miei discorsi…
…ma io…forse non sono stata da meno.
 
Mi mordo il labbro, e controllo nervosamente l’ora dal cellulare, con la batteria che sta per esalare l’ultimo respiro. Ma non l’avevo messo in carica ieri sera?
 
Finalmente per il corridoio risuona il trillo impertinente della campanella.
Mi sento come un leone in gabbia, vorrei entrare in classe, puntare lo sguardo sui miei compagni, sul prof, vorrei urlare che no, mi dispiace per loro ma stavolta hanno preso un granchio, i soldi per l’aula non li ho presi io, non sapevo neanche dove stavano e chi ce li aveva…che il furbo l’aveva fatto qualcun’altro- qualcuno che probabilmente ora se la sta pure ridendo alla grande dietro le mie spalle…e penserà che sono scema, a non dire nulla e lasciare che credano sia colpa mia…
 
Mi allaccio la felpa, sistemando la manica destra semiarrotolata su sé stessa.
So che se faccio anche solo una delle cose che sto pensando, il tutto mi si ritorcerà contro, e il sospetto che sia stata io a rubare diventerebbe nel giro di un momento una certezza nella mente di tutti- bella fregatura.
 
Ormai i corridoi sono quasi vuoti.
A testa bassa, mi dirigo anch’io verso la classe, voglia zero e portata avanti solo da uno strano senso del dovere, che, sinceramente, non so nemmeno io dove ho pescato.
Non mi resta che farmi andare bene questa situazione, con tutte le rotture che comporta.
 
Passo davanti alla macchinetta delle merendine, sono quasi davanti alla IIIA.
 
Improvvisamente mi accorgo che il corridoio non è vuoto.
Claudio Rizzo sta camminando nella direzione opposta alla mia, e quando mi accorgo della sua presenza, lui mi sta già osservando.
Istintivamente, abbasso lo sguardo.
- Bella faccia!
Lo gelo con un’occhiataccia. Ma che vuole?
- Senti, evita, eh!
Mi aspetto che continui a camminare per la sua strada e si allontani. Invece me lo ritrovo che mi cammina al fianco.
- Bene, allora ti accompagno in classe.
Forse non ho sentito bene. Continuo a guardare verso il basso, davanti a me, ma con la coda dell’occhio sento che mi fissa con quella espressione da come-se-niente-fosse che già gli ho visto fare, in bagno, la prima volta che l’ho incontrato. Irritante.
Mi impongo di guardarlo in faccia.
- Mi spieghi che cosa vuoi?
Il mio tono è fermo. Lo fisso negli occhi, aspetto che si spazientisca.
- Ho parlato col prof l’altro giorno…con Cicerino – inizia a frugare nella tasca dei jeans – mi ha detto che anche tu sei interessata a fare l’esame per il corso estivo alla Normale.
Il suo sguardo mi passa da parte a parte. Non riesco a concentrarmi su quello che mi sta dicendo. E’ assurdo.
- Tieni – mi porge un foglio – è la domanda di ammissione.
Rimango per un attimo interdetta. Anche lui con questa storia della Normale…afferro il modulo.
- Ma a te che ti frega di darmi ‘sto coso? Cioè, che te ne viene?
Guardo il foglio, poi di nuovo lui.
Mi hanno raccontato qualcosa di Rizzo. Costanza, Margherita…mi è capitato di sentirle parlare di lui. E il quadro che ne è uscito è più o meno in linea con quelli degli altri miei cari compagni di classe.…so per certo che Cook non lo sopporta, anche se non ho ancora capito perché, e non glielo voglio chiedere.
Ma allora, perché mi stava addosso con questa storia dell’università?
In più mi fissa, continua…e ha uno strano lieve sorriso sulle labbra che non riesco a capire.
- Lo faccio anch’io l’esame… è solo che io mi annoio a studiare da solo.
Lo vedo mentre sposta gli occhi da me al foglio, poi ancora a me.
Scuoto la testa.
- No, tu non hai capito…e poi ‘sto corso a me non mi serve a niente.
- Può darsi – e alza le spalle – però intanto pensaci.
Che faccia tosta. Lo guardo con aria di sfida.
- D’accordo – piego il modulo in 4 e lo faccio sparire nella tasca posteriore dei pantaloni.
Lo vedo che osserva il mio movimento e ha un’aria vagamente compiaciuta… ci mancava.
- Contento adesso?
Fa uno strano schiocco con la lingua, poi sorride.
- Brava!
E si allontana.
Mi ha lasciato di nuovo di sasso.
 
 
 
 
 
Quando rincaso quel pomeriggio non c’è anima viva.
Mia madre dev’essere da qualche parte con l’ingegnere, forse l’ha accompagnato a fare la spesa… o magari lui aveva solo voglia di un giro tra la concitazione delle vie di Roma.
C’è una calda luce aranciata, sono le quattro e il tramonto è dietro l’angolo…persino le tende di camera mia, così bianche e anonime, sembrano più belle col sole che entra- non più così anonime…
 
Mi butto sul letto senza curarmi dei due libri aperti che ci ho lasciato sopra stamattina… il disordine in effetti è quasi imperante ma io non ho voglia di preoccuparmene… posso fare di meglio, posso affondare la testa nel cuscino, sgombrare la mente e chiudere gli occhi…free your mind, non era così che diceva Morpehus a Keanu Reeves in Matrix? Me lo dovrei rivedere. 
 
Al mio nokia evidentemente questi pensieri non piacciono, li vuole interrompere… lo sento vibrare nella tasca del giubbetto.
Non è l’Eletto che mi chiama.
E’ il ragazzo delle consegne.
- Ah, ciao, Cook.
Lo ascolto distrattamente mentre mi dice di avere avuto un non so quale imprevisto collegato in  maniera strana a una qualche figura di merda che, parola sua, lo tormenterà a lungo negli anni a venire…
La morale è una: lo devo sostituire in pizzeria.
- Sei messo male Daniele…lavori da una settimana e già mi chiedi favori in ginocchio? Mi sa che non duri a lungo, e dovrai tornare a chiedere la paghetta…
Proteste dall’altra parte. Ma alla fine, non so perché, accetto quasi di buon grado.
 
Sento un bisogno quasi fisico di un giro in motorino, e dunque quale occasione migliore.
Metto in moto verso la pizzeria, sento l’aria di fine autunno farsi sempre più pungente tutt’intorno… e sfrecciando così, nel freddo, riesco per un po’ a sentirmi leggera pur col cuore pesante come piombo. Sono come un mattone con le ali, pesante e insieme leggera, col vento che mi porta via per un attimo dalla mente mia madre sola, i miei compagni, quei soldi che avrei rubato ma che non ho mai visto, le insistenze di Cicerino, i casini di Cook, lo sguardo di Rizzo….
 
Mi fermo a un semaforo che sembra essere rosso da una vita.
A dire la verità, beh, quell’ultima cosa… non sono così sicura di volermela scordare stasera.
Non so perché ma mi viene da sorridere.
Stamattina l’avrei volentieri mandato a quel paese, invitandolo a farsi i fatti suoi, per dirla in modo gentile.
Io invito sempre tutti a farsi i fatti loro, quando tentano di approcciarmi. Cicerino stesso ne sa qualcosa- ok, lo ammetto,quello era un tema da schifo- ma lui, invece, non sono riuscita a mandarlo a quel paese stamattina. E chi lo sa il motivo.
Sicuramente mi sto sbagliando, ma pareva che gliene fregasse davvero di me. Tutta quella storia dell’esame e del corso estivo all’università…non sembrava detta per dovere, o tanto per essere cortesi e gentili.
E’ la prima volta che qualcuno in quella scuola mi ha parlato come se davvero ci tenesse alle cose che mi stava dicendo, come se davvero le pensasse…e non per pietà, o senso dell’educazione.
Mi sistemo il casco, riparto, penso a quella sua espressione così algida, inafferrabile……il prototipo di faccia ideale per uno stronzo, a pensarci…
…perché stronzo dev’essere, così Cook l’ha definito una volta, così è la sua vaga fama che gira per la scuola, e così sembra apparire mentre cammina in silenzio lungo i corridoi della scuola col collo della camicia alzato…
…eppure a me stronzo non mi è mai sembrato, manco quando mi ha fissato là nei bagni e mi ha scroccato una sigaretta…no.
Mi è sembrato bello.
E mi è sembrato solo.
Di nuovo mi ritrovo a sorridere, ma che mi prende? Sto andando al lavoro e non c’è un cazzo di cui sorridere. Eppure…
 
- Oh, Monica! Ciao!
Ma di chi è ‘sta voce?
Spengo il motorino, mi tolgo il casco e vedo Daniele.
- Cos’è uno scherzo?
Mi tolgo un ricciolo dalla faccia mentre cerco di capirci qualcosa.
Lui sorride e si rigira tra le mani un aggeggio nero- un lettore mp3 a occhio e croce.
- Stupita? Ti ho fatto una sorpresa. La storia della figura di merda con la mamma di Pregoni era tutta una farsa. Era per farti uscire. Dai, ti offro una Heineken…ti ho pure portato Leonard Cohen da sentire…
Ho deciso che lascerò alla birra il compito di suggerirmi se insultarlo o ringraziarlo.
 
 
 
 
Ringrazio Sally Brown per aver apprezzato il primo capitolo e la coppia Claudio\ Monica... grazie!
Recentemente ho rivisto "I liceali 2" e ho sentito l’impulso di scrivere per approfondire la loro storia che mi ha colpito tantissimo! :-)
 

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Capitolo 3
*** Capitolo terzo ***


 
“Immagina un castello, con le finestre che si affacciano sul lago di Ginevra…”
Perchè gli fosse tornato alla memoria quel verso, proprio in quella mattinata così piatta e monocolore, non riusciva a spiegarselo.
Ma di certo restare concentrati sulla lezione era impossibile.
 
Non che la Sabatini fosse una cattiva professoressa, tutt’altro.
La scrutò un po’ mentre, appoggiata alla cattedra col libro di testo in mano, descriveva un quadro, illustrandone le caratteristiche con tono entusiasta… si vedeva che era una che amava quello che faceva. Anche se a volte sembrava buffa, in fondo era proprio quello il suo bello.
Era appassionata.
 
- Oh, Rizzo, scusa…ma a che pagina siamo?
Tolse gli occhi dalla prof e li rivolse al suo compagno di banco che lo guardava con fare interrogativo.
- Centodieci.
Rumore di pagine sfogliate con una certa veemenza.
- Grazie, eh…
Claudio si ritrovò suo malgrado a scuotere leggermente la testa.
La IIA era una sezione di sfasati. La maggior parte dei suoi componenti viveva stabilmente su un altro pianeta, preoccupandosi di ridiscendere in classe solo quando c’era da farsi mettere un voto sul libretto… nessun vago interesse per lo studio, nessuno spirito di gruppo… roba che gli faceva rimpiangere, e questo era grave, la sua vecchia classe.
 
Abbassò gli occhi sul libro di arte, già sottolineato ed evidenziato, lo stesso dell’anno precedente.
Anche il quadro in questione era cosa già vista… e non lo convinceva.
Non gli era piaciuto nemmeno la prima volta che l’aveva studiato…un’ultima cena caotica e incasinata come non se ne erano mai viste su una tela.
 
La Sabatini chiuse il libro con un gesto plateale. Voleva dire che, per quel giorno, la lezione era finita.
E meno male, pensò Claudio.
Al suono della campanella era già fuori. Giusto il tempo di trovare dei soldi nella tasca della sua tracolla nera, ed era per i corridoi.
Aveva fame, teneva cinque euro in mano e camminava verso la IIIA.
Chissà che combinavano i suoi ex compagni …dovevano essere in pausa pure loro…chissà se….
 
La classe era vuota.
I banchi erano incasinati di libri e di fogli, sulle sedie ricadevano le giacche…ma manco un’anima.
“Ma dove cazzo sono?”
Si morse il labbro per nascondere il disappunto…poi alle spalle gli comparve Valerio.
 
- Ciao Cla’ – gli sorrise dandogli una pacca sulla spalla – volevi fare una sorpresa a Cicerino piazzandoti al posto al primo banco, come l’anno scorso?
Claudio ricambiò la pacca, poi a voce bassa rispose:
- No figurati, ero solo passato a vedere che combinavate, e se sopravvivevate senza di me.
Il tono ironico era abbastanza evidente, e Valerio sembrò gradire.
- Sai Cla’, la tua mancanza si sente di brutto… io quel posto al primo banco di fianco al mio te lo ridarei anche subito…
- Ovvio - Claudio si mise ad annuire, con un mezzo sorriso - dove più lo trovi uno del mio livello con cui farti due chiacchiere nelle ore di latino, o no?
- Già…è pazzesco…mi sembra ieri che eri là – Valerio fece un cenno in direzione dei primi banchi centrali – e invece ora al posto tuo mi devo sorbire la compagnia della Morucci che sta fuori di testa…
Claudio si irrigidì involontariamente.
Abbassò gli occhi per un attimo e poi li rivolse verso il banco di cui stavano parlando.
- Ah…quindi stà là…
Valerio rispose con una faccia poco entusiasta.
- Sì ma è fuori totale…sembra che lo fa apposta, a farsi stare sul cazzo da tutti.
Claudio aprì la bocca per rispondere, ma non riuscì a controbattere come voleva. Fissò Valerio con aria incomprensibile. Ma stava parlando di lei o parlava di lui?
Si strinse nelle spalle.
- Beh, magari è proprio così.
Valerio smise per un attimo di trafficare con l’astuccio, e lo guardò con aria perplessa.
- Cosa è proprio così?
- Magari fa proprio apposta… dico, a farsi stare sul cazzo…magari lo fa come difesa, perché non ha voglia che gli altri le rompano le scatole.
La frase gli uscì tutto d’un fiato, e quando il suono si spense nell’aria, Claudio si stupì di ciò che aveva detto.
Le parole che aveva appena pronunciato….suonavano quasi come una difesa.
Lui, lui che si prendeva la briga di difendere qualcuno. Da quanto non succedeva?
Di difendere una ragazza, per di più.
Si passò una mano tra i capelli, infilandola poi nella tasca dei jeans. Valerio lo guardava poco convinto.
- Boh – fece poi quest’ultimo alzando le spalle – non lo so, l’ho detto così per dire… in realtà non credo che faccia apposta…mi sa che è proprio così lei…semplicemente un po’ stronza.
Silenzio dall’altra parte. Claudio si rigirava tra le mani i cinque euro.
- Lei è stronza, dici… ma quanto siete stati stronzi voi invece non conta?
 
Valerio ora era senza parole, ma che importava.
Gli era tornato alla mente l’episodio da cui poi era scattata la ”okkupazione” scolastica, quella fintissima ribellione di massa a cui lui non avrebbe partecipato manco sotto tortura.
Gli era tornato in mente che proprio lui, Valerio, aveva preso la Morucci e l’aveva chiusa dentro a uno sgabuzzino largo tre metri per quattro… e l’aveva lasciata là… un giorno…senza dir nulla a nessuno… che se non l’avesse recuperata Cicerino ci avrebbe fatto la muffa, lì dentro, altro che una giornata… quando l’aveva saputo aveva stentato a credere che fosse stata opera di Valerio.
 
- Quanto stronzo sei stato tu…con lei…
Dietro le spalle di Claudio spuntarono Lucia e Margherita… quest’ultima accennò un saluto, ma appena si rese conto di che espressione aveva il ragazzo sul volto, il “ciao” le morì sulle labbra.
Lucia vide Valerio alzarsi dalla sedia con uno scatto e iniziare a urlare, fuori di sè come non l’aveva quasi mai visto.
 
Ma Claudio si era già voltato e aveva già lasciato la classe.
Non aveva voglia di sentire le giustificazioni dell’amico. Non aveva voglia di ascoltare i suoi perchè, la difesa dell’onore del padre, e far star zitti quelli che non sanno di te, e tu mi dovresti capire perché anche tu hai un padre che bla bla bla… tutto questo non contava un cazzo.
La realtà, che Valerio si ostinava a non vedere, era che quello che Monica aveva detto lo avevo punto- aveva riaperto una ferita che non aveva fatto in tempo a rimarginarsi da sola ed era stata coperta a forza, artificialmente. E una ferita coperta a forza, quando si riapre, fa più male di prima.
 
“A Valerio ribolle il sangue, semplicemente perché le cose che gli ha detto Monica, in fondo le
pensa pure lui… ma le palle per accettarlo ancora non ce le ha”.           
 
Lo stomaco gli gorgogliava, e il nervoso richiedeva di essere sfogato.
Cosa faceva di solito in queste situazioni?
A cosa accorrere per distrarsi?
Diede una secca manata alla macchinetta delle merendine che non si decideva a cedergli la barretta di cioccolato che voleva.
 
Per calmarsi…
… la sua ricetta tipica era ben consolidata: scherma, giro nessuna meta-tutta velocità con una delle macchine di suo padre, mp3 con i Nine inch nails nelle orecchie…e una ragazza, una qualunque, che lo aiutasse a non pensare…
 
Alla fine la macchinetta dovette umilmente cedere davanti alla sua determinazione.
Addentò un abbondante pezzo di cioccolato, tagliando di netto la barretta.
Aveva il sentore che quel giorno non avrebbe funzionato, la sua fidata ricetta…
“ Immagina un castello, con le finestre che si affacciano sul lago di Ginevra; là, sulla finestra, nei giorni assolati e caldi, c’è un uomo così assorto nella lettura che non alza gli occhi...”
Di nuovo, quel verso nella mente.
 
 



 
 
 
 
Claudio cercava di non pensare alla discussione con Valerio.
Ma era dura.
L’allenamento di scherma gli era servito- quello serviva sempre.
La sciabola era, tra tutte, la sua arma preferita- l’arma d’attacco per eccellenza.
I suoi fendenti stavano migliorando sempre di più…ogni volta più precisi… anche quella sera era riuscito quasi sempre ad anticipare i colpi del suo avversario, e con l’affondo finale, l’aveva sconfitto.
 
Quello che non riusciva a sconfiggere, invece, era il rammarico per quel dannato litigio.
In fondo, si disse mentre usciva dalla palestra, che bisogno c’era di aggredirlo in quel modo?
La domanda se la poneva, certo, ma era una domanda retorica.
Come al solito, lui già sapeva la risposta.
 
Appoggiò il borsone a terra, davanti alla sua Mini, e aprì la macchina.
Avrebbe dovuto aspettare che anche suo zio terminasse l’allenamento ed uscisse, ma non gliene importava- voleva andare a casa. C’era una cosa, una pagina di libro che doveva assolutamente rileggere…
 
- Ehi, aspetta!
Una voce lieve gli giunse all’orecchio mentre gettava la sua roba sul sedile posteriore.
Non era suo zio.
Si voltò e vide avvicinarsi una ragazza… una che non aveva mai visto prima.
La guardò mentre gli si parava davanti con un leggero sorriso sulle labbra.
- Ti chiami Claudio, vero?
Ce l’aveva di fronte da due secondi, e già aveva capito che non era del Colonna.
Aveva qualcosa di contraddittorio in lei… il tono della voce contrastava in maniera decisa con la sua espressione…timido e accorto il primo, intraprendente la seconda.
- E tu chi saresti?
Lei si voltò per un attimo e diede uno sguardo fugace alla macchina.
- Questa è tua?
Claudio la fissava con espressione neutra. Non rispose. Era curioso di vedere dove sarebbe andata a parare.
- Sai, ti ho visto dentro, mentre ti allenavi…ero lì ad aspettare che mio fratello uscisse...ma poi ti ho visto. Sei molto bravo.
Di solito i complimenti non gli facevano alcun effetto. Un po’ perché era abituato, un po’ perché non ci credeva mai fino in fondo, e un po’ perché il parere degli altri non gli importava.
Eppure, lì per lì, quella frase gli fece quasi piacere.
- Grazie - fece, annuendo.
La ragazza sorrise soddisfatta.
- Io mi chiamo Gaia – e gli porse la mano.
Claudio osservò quella mano tesa verso di lui. Mentre gliela stringeva, cercò di cogliere qualcosa in più di lei.
I capelli castano scuro, perfettamente lisci…gli occhi nocciola… il tono dolce…eppure lo sguardo era quello di una persona decisa, che sa quello che vuole.
C’era qualcosa che non tornava.
La vide mentre estraeva un blocco di post-it dalla borsa, e una penna.
- Che fai? – le chiese con tono quasi allarmato. Sapeva bene cosa stava facendo in realtà, ma l’idea non gli piacque per nulla. Era successo già altre volte, con altre, in passato…
- Ecco tieni – fece lei, ignorando completamente lo sguardo gelido che ottenne di rimando – è il mio numero. Potresti chiamarmi, una di queste sere…che ne dici?
Claudio prese il foglietto dalla mano tesa.
- Bene….ci vediamo.
Saltò in macchina prima che lei potesse opporsi. Mentre accendeva il motore la sentì dire che era del liceo Visconti, e che se avesse voluto, avrebbe potuto andarla ad incontrare là.
Non rispose nulla, e se ne andò sgommando ,infischiandosene alla grande delle urla dello zio che, dall’ingresso della palestra, gli intimavano di aspettare.
 
 




 
Quella sera, mentre era nel letto, a occhi chiusi, le facce della giornata gli roteavano nel cervello vorticosamente.
Il viso stupito e adirato di Valerio, la faccia entusiasta della Sabatini, l’espressione severa di suo zio, il fare ambiguo del suo nuovo incontro, quella Gaia…
 
Claudio iniziò a chiedersi se non fosse davvero stato meglio per lui andarsene a Princeton, in America, via da Roma, via da quella casa, via da tutti quelli che lo avevano conosciuto e che lo volevano conoscere, via per non pensarci più, via per essere solo uno qualunque, solo Claudio, nulla di meno e nulla di più…
….essere sé stesso.
Una cosa così semplice a dirsi, ma in concreto così ardua, e impestata quanto il quadro di Tintoretto di quella mattina.
“Immagina un castello, con le finestre che si affacciano sul lago di Ginevra; là, sulla finestra, nei giorni assolati e caldi, c’è un uomo così assorto nella lettura che non alza gli occhi; ma se lo fa, usa un dito come segnalibro, alza lo sguardo e scruta al di là dell’acqua, verso il Monte Bianco, e oltre.”
 
 
 

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Capitolo 4
*** Capitolo quarto ***


Andare a scuola a piedi è un’esperienza che ancora mi mancava quest’anno.
 
Alzo lo sguardo, e una fila di alberi spogli mi si presenta davanti.
Di fianco, sulla strada, sfrecciano auto, motorini, bici… in pratica, tutto quello che manca a me.
 
Già, il motorino.
Ripenso al mio mentre schivo una bottiglia di vetro in frantumi sul marciapiede.
Quanto mi era fruttato rivenderlo? Trecento euro…mi ci potrei comprare uno stereo nuovo, o un lettore mp3…meglio ancora, un biglietto andata e ritorno per Londra o Parigi, e farmi un viaggio… se non fosse che quei soldi finiranno in altre tasche, ben lontane dalle mie.
 
Sbuffo, sfregandomi le mani per riscaldarle.
L’idea che il sacrificio del mio motorino servirà a ristrutturare un’aula della mia amata scuola mi fa venire i crampi allo stomaco. Ma non c’è altra soluzione, il quieto vivere della mia classe lo richiede.
 
Sono quasi alla via del Colonna.
Altri cinque minuti di slalom nel traffico e vedrò le dolci facce dei prof.
Ma ho ancora cinque minuti. Cinque minuti di cazzeggio mentale.
 
Un’auto sembra rallentare per potermi affiancare. Mi volto, gettando lo sguardo al posto di guida.
Fine del cazzeggio.
E’ Cicerino, che si sbraccia e muove le labbra. Non capisco nulla. Gli faccio cenno di abbassare il finestrino, e così fa.
 
- Morucci, ciao! Ma che ci fai a piedi per ‘ste strade?
 
Mi offre un passaggio a scuola.
Rifiuto.
 
- Ma dai, che fa pure freddo! Su, sali!
 
Continua a sbracciarsi, mentre la macchina dietro inizia a suonare il clacson inviperita.
 
- Vabbè va, salgo, se no qua è un casino.
 
Non mi va di assistere a un incidente che coinvolga il prof.
Poi mi toccherebbe star qua tutta mattina con lui ad aspettare i carabinieri e offrire loro la mia versione dei fatti.
 
- Ma Morucci, tu non vieni in motorino a scuola di solito? No perché mi pareva di averti sempre vista col motorino…
 
Lo guardo di sottecchi mentre toglie le quattro frecce e riprende la marcia verso il liceo.
E’ quasi comico, con i capelli scarmigliati, la giacca a quadri beige probabilmente reduce dagli anni settanta, e la camicia azzurro cielo.
 
- Beh? Ora perché ridi? Ah comunque oggi ti ho portato un libro molto interessante. Devi leggerlo, ti ci rispecchierai molto a parer mio.
 
Cerco di spiegargli che di libri a casa ne ho fin troppi, la stanza invasa.
- E poi ho appena finito di leggere “Orgoglio e pregiudizio”, e ne ho ancora un paio della Austen lì in attesa…
Cicerino sorride ma persiste nel tessermi le lodi del suo libro, come se non avessi detto nulla.
 
Finalmente il parcheggio del Colonna ci si profila davanti, con il solito caos mattutino.
Vorrei sbagliarmi ma intravedo Cook che fa dei movimenti tipo breakdance davanti a un capannello di ragazze.
 
-Ah, e poi, Monica, vorrei sapere se hai deciso qualcosa a proposito dell’esame alla Normale.
 
Ecco, proprio il punto che speravo non toccasse. Ma questo c’ha la fissa!
 
Lo vedo che mi scruta con la sua solita espressione di curiosità stampata in volto.
Era la sua divisa, non l’abbandonava mai. Gli era stata cucita addosso appositamente alla nascita, con ogni probabilità.
 
Afferro la sciarpa e me la avvolgo al collo con un gesto che frettoloso è dire poco.
Mi spiace per lui, ma non smanio di affrontare quest’argomento.
- Senta prof, devo andare in classe… la Desmoulins si incazza se faccio tardi la prima ora..
 
Cicerino fa una faccia poco convinta.
Ma ci passo sopra.
- Ne parliamo un’altra volta, ok? Arrivederci.
 
Non gli lascio il tempo materiale per controbattere.
Per la prima volta da quando frequento il Colonna, non vedo l’ora di entrare in classe.
Entrare in classe, fare francese, discutere col mio compagno di banco.
 
Qualsiasi cosa – ma non voglio pensare alla Normale.
 
 
 
 
 
 
Quando sei annoiata e non sai cosa fare, una delle cose migliori da provare all’intervallo è, con l’aula vuota, sedersi su un banco, con un pacchetto di patatine e una Coca in mano, e osservare dalla finestra aperta la fauna liceale all’opera nel cortile interno.
L’ho sempre trovato per certi versi esilarante, e per me che odio quei dieci minuti di ricreazione, è l’attività migliore per trascorrerli – a parte leggere.
 
Di solito il quadro del cortile interno era vario: coppiette che litigavano da una parte… gente che si dedicava a qualche gioco stupido da un’altra… ragazze che si mettevano l’ombretto a vicenda…altri che cantavano, o giocavano a calcetto coi palloni sgonfi dell’aula di educazione fisica… insomma, era meglio che leggere un trattato di sociologia adolescenziale.
 
Stamattina però non riesco a starmene qui rilassata ad osservare come le altre volte.
Non ci riesco affatto.
 
L’ho notato subito, là, appoggiato allo schienale della panchina con le braccia conserte, il colletto della camicia come sempre tirato su, e lo smanicato nero a fare da contraltare al vento che oggi è peggio del solito.
Non è spesso in cortile a dire la verità – ma stamattina c’è.
 
E non è solo.
 
Mi sporgo un po’ in avanti sul banco per riuscire a vedere meglio.
Per quanto mi sforzi non riesco a riconoscere chi gli sta di fronte… vedo solo che è una ragazza.
E che gli sorride.
 
Senza neanche accorgermene inizio a giocherellare con la linguetta della Coca.
Perché mi sembra di non averla mai vista, lei?
 
Provo a ripensare alle varie facce che mi erano passate davanti durante tutte le giornate trascorse a scuola… non sono una che fa gran caso ai visi delle persone, eppure… di solito una cosa che ho già visto, me la ricordo.
 
Sposto lo sguardo da lei a lui.
Non sembra particolarmente felice – ma d’altra parte, Claudio è forse il tipo che lascia intendere facilmente di essere felice in una certa situazione? Inizio a mangiarmi l’unghia del pollice destro… no… almeno per quel poco che ho visto di lui, non è affatto il tipo.
 
Lo guardo e mi pare a suo agio. Non sembra annoiato, né scocciato.
 
Poi lo vedo sorridere, e la mano che torturava la linguetta della Coca mi si blocca.
 
- Ciao Morù… che fai?
Quasi non mi accorgo di Pregoni quando, spostando uno dei banchi, mi si accomoda di fianco.
Quando mi volto verso di lui, ha un’aria strana, come se avesse appena visto un alieno.
 
- Niente, stavo solo… passando il tempo.
Appallottolo la carta delle patatine e la lancio in direzione del cestino.
- Uh! Mancato! – commenta.
 
Sbuffo.
- Eh, vabbè… vuoi provarci te?
Pregoni non sembra molto convinto. Ha ancora addosso quell’aria stranita.
- Ma che hai? Hai avuto una visione, o roba simile?
 
Lui rivolge lo sguardo sul cortile, poi di nuovo mi fissa.
- Io no…ma sembrava che tu ne avessi avuta una. E pure piuttosto scioccante.
Si sistema il collo della camicia dentro al maglione, poi torna a guardare giù.
- Che stavi a fissà?
 
Anche se non capisco il perché il mio cuore inizia ad aumentare i battiti. Pregoni mi sta innervosendo.
 
-Ah, già… ci sta Cristiano là che fa il suo solito pokerino… che noioso… sempre a giocà sta, continuamente – fa un sorriso di compassione – avrebbe bisogno di un prete secondo me, per confessarsi… e poi di una ragazza, per svagarsi… povera Margherita.
 
Seguo il suo sguardo. In effetti, c’era Malagò intento a mescolare con entusiasmo un mazzo di carte. E chi se n’era accorta?
 
- Ah, c’è pure Rizzo!
Mi immobilizzo.
- Guardalo là, e sta pure con una ragazza! E’ sempre il solito vecchio Rizzo, che ce vuoi fa’! Ciao Claudio!
 
Mi volto e faccio per bloccarlo, ma non ci riesco. Lo vedo che alza il braccio e urla per attirare l’attenzione di Claudio.
Basterebbe un calcio negli stinchi e si fermerebbe. Ma è come se mi avessero tolto la capacità di reagire.
- Bella Cla’!
 
Mi stringo nel piumino e di nuovo volgo lo sguardo alla panchina.
Ha sentito le urla e si è girato dalla nostra parte. Ci ha visti.
Fa un cenno con la mano.
 
Deglutisco – almeno questo mi riesce ancora.
Perché d’un tratto tutto questo nervosismo?
Perché mi sento così a disagio, sotto pressione?
 
Intanto anche la ragazza si è voltata e ha alzato lo sguardo su di noi.
Era impossibile non avvertire le urla di Pregoni.
Ha alzato lo sguardo, e dopo aver fissato per un po’ Lucio, ora sta guardando me.
E’ come se la pelle mi bruciasse… come se si stesse cuocendo.
Salto giù dal banco.
 
- Ah Morù, dove vai?
Abbandono la lattina e mi precipito verso le mie cose. Stipo tutto nella tracolla, alla rinfusa, come viene viene.
 
- Aspetta, ma che c’hai, che fai te ne vai a casa?
Lucio è esterrefatto.
Beh, sì, lo sono anche io.
 
- Non mi sento molto bene… vado in bidelleria e vedo se mi fanno andare a casa.
Finisco in fretta di riporre le mie cose.
 
Quando mi tiro su e faccio per uscire, Pregoni è lì davanti, e ha l’aria di chi non ci ha capito niente il giorno della verifica di matematica.
- Ma – esita – ho detto qualcosa che non andava? No, perché… così, all’improvviso….
- No, no, Pregoni te non hai fatto nulla. E’ solo che non sto granchè bene… ma già da prima…
 
Lo guardo cercando di essere convincente. Il suo volto scosso mi fa sentire ancora peggio.
- Glielo dici te a Cicerino dopo?
 
Un passo, due passi, tre… sono quasi fuori dall’aula.
 
- No, come glielo dico io! Monica! Aspetta!
 
Ormai sono fuori. Non posso più fermarmi, se mi fermo e torno indietro non mi muovo più, e poi non voglio che Pregoni mi veda ancora con ‘sta faccia sconvolta… perché di sicuro è così ora la mia faccia.
 
Lo sento che mi urla alle spalle.
- Aspe’! Ti volevo chiedere se domani ti andava di venire al mio battesimo! Sai, mi battezzano domani – pausa – e poi ti volevo chiedere una cosa su Cook! Morù!
 
L’ho lasciato là sulla porta a urlare.
Non credo che andrò al suo battesimo.
 
 
 
 
 
Ero sicura che mia madre avesse comprato delle birre di recente.
Le compra periodicamente, e periodicamente spariscono in fretta.
Un po’ grazie all’ingenger Tedeschi – che ogni tanto se ne frega dei diktat del medico – e un po’ grazie a me.
Guardo l’orologio appeso sopra al frigo, in cucina.
 
Tra un’ora devo essere in pizzeria.
E’ sabato e ci sarà un casino enorme, un vero brulichio di compagnie, famiglie, squadre di minivolley e minibasket… ogni sabato lo stesso copione.
 
Stappo la bottiglia di birra servendomi dell’angolo del tavolo.
Se ci fosse l’ingegnere, sicuramente me ne chiederebbe un po’. E poi, dopo una lunga sorsata, mi domanderebbe che succede.
 
Scuoto la testa nella solitudine della stanza. La birra è ghiacciata, e leggera.
Ripenso alla scena di quella mattina, e quasi mi vergogno.
 
Una giornata a rimuginarci su, e ancora non riesco a capacitarmi… sono fuggita.
Appena Claudio mi ha vista, seduta sul banco che lo fissavo, io non ce l’ho fatta a reggere lo sguardo.
Sospiro mentre bevo un altro sorso.
 
Sarebbe bastata un’aria indifferente, e un normale saluto di risposta.
Facile a dirsi… ma nella pratica, non esattamente una cosa semplice.
 
Sento il telefono di casa squillare prepotentemente.
E’ Cook.
 
Ha un tono di voce raggiante… dice di aver capito una cosa, e a quanto pare non vede l’ora di dirmela. Ma me la vuole dire in faccia.
Mentre mi parla getto un occhio al libro di filosofia, aperto su Kant. L’ermeneutica della finitudine… devo ancora finire di studiare e non so quando farlo.
- Ok, allora ti passo a prendere io alle sei e mezza… passo io in motorino. A dopo!
Schiaccio il tasto rosso sul cordless dell’ingegnere.
La bottiglia di birra è ancora lì, ma quasi vuota.
Provo a ripetere mentalmente le cose che mi ricordo delle lezioni precedenti su Kant… ci provo ma il pensiero torna fisso su quella mattina.
 
Non importava quanto cercassi di non pensarci, il riflesso incondizionato del mio cervello mi faceva comparire in testa lui… e, soprattutto, lei… chi è quella ragazza con cui pareva parlare così rilassato?
Chi è, e cosa si dicevano?
 
Afferro la birra e la finisco d’un sorso.
 
La cosa grave – mi dico ad alta voce – è che mi importa.
Dovrebbe lasciarmi indifferente, invece mi importa.
 
Il mio nokia blocca di netto il mio flusso di coscienza vibrando nella tasca dei jeans.
Possibile sia già Cook, giù ad aspettarmi col motorino?
 
Apro il messaggio ricevuto, perplessa.
Un numero che non conosco. Non è Cook.
 
“Ciao. Dove sei finita oggi?
A fine lezione sono venuto a cercarti, ma non c’eri…
Ti devo dare una cosa. Lunedì ricordati.
Claudio”
 

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Capitolo 5
*** Capitolo quinto ***


Claudio si infilò in silenzio la giacca nera ed osservò il suo riflesso nello specchio a tutta parete della sala. I capelli castani erano in ordine, la camicia gessata liscia al tatto, priva di pieghe.
Gli sembrava di essere tornato indietro nel tempo, tutto un tratto.
Erano mesi che non metteva più piede in una discoteca.
Era sempre stato il suo habitat naturale… e stasera ci avrebbe fatto ritorno.
 
Mentre suo zio gli camminava alle spalle, avanti e indietro, attaccato al telefonino come una conchiglia sullo scoglio, si rese conto che non era poi così ansioso di fare questo ritorno alle grandi vecchie abitudini del passato. Non era eccitato, non era nervoso… era solo contento.
Contento di passare una serata con vecchi e nuovi amici, una serata di vero svago, di svago per la mente.
 
 Incredibilmente, suo zio smise di parlare e lanciò via il telefono con un gesto liberatorio.
- Non ne posso veramente più… pensano che io, qui, non abbia nient’altro da fare che risolvere i loro stupidi problemi di promozione del prodotto. Che se la vedano da soli, sono pagati per farlo e stiano zitti!
Claudio si trattenne dal sospirare. Non disse nulla. Era abituato a quelle sfuriate.
- Tu che fai, esci? Dove vai? Beato te guarda….
 
Senza neanche dare a sé stesso il tempo per ascoltare la risposta, il signor Rizzo svanì dalla stanza a grandi passi, sbuffando. Claudio ipotizzò che fosse diretto alla sala bar, e poco dopo un netto tintinnio di cubetti di ghiaccio e vetro gli confermò che ci aveva preso.
 
- Ah comunque io vado fuori, prendo la mia macchina, non aspettarmi eh?
Aveva alzato la voce, ma sapeva bene che suo zio non aveva sentito nulla.
Nella sua mente ora sostavano di sicuro solo i tre seguenti soggetti: lavoro, lavoro, lavoro… un discreto assortimento.
 
Afferrò con un gesto unico portafogli, chiavi della macchina e chiavi di casa.
Mise tutto nella tasca della giacca, e diede un’ultima controllata alla sua faccia nello specchio prima di varcare la soglia.
Sempre l’usuale, impassibile, imperturbabile espressione.
 
Solo quando fu con la Mini oltre il cancello della villa, si sentì libero di abbozzare un sorriso.
Aveva voglia di arrivare.
Gli avevano assicurato che il locale avrebbe pienamente incontrato i suoi gusti… almeno era ciò che gli aveva giurato il suo compagno di banco quando gliel’aveva proposto… “non troppo caotico, musica un po’ commerciale un po’ house ma non di quella che ti annoia dopo cinque minuti, ottimi cocktail, tavolini e divanetti per sostare a fare due chiacchiere”.
Ma la cosa che più gli premeva era la compagnia. Oltre ai suoi nuovi compagni di sventura della IIA, con cui suo malgrado stava iniziando a legare, nonostante l’apatia generale di quella sezione, ci sarebbero stati anche Schifani, Petrucci, e soprattutto Valerio.
Mentre accendeva l’autoradio, si rese conto che non aveva più parlato con Valerio da quel litigio che avevano avuto in classe. Non aveva ancora avuto l’occasione di chiedergli scusa per il modo aggressivo con cui gli era saltato al collo.
Forse, se sapesse cos’è che mi ha provocato … capirebbe perché l’ho attaccato con quella veemenza.
 
Appena giunto lo colpì la coda leggera, ma soprattutto ordinata, che si era formata alla porta del locale. Era abituato a spintoni, urla, tentativi maldestri di attirare l’attenzione dei Pr o dei buttafuori… no, niente di tutto quello gli si presentò, e non poté fare a meno di congratularsi mentalmente con il suo nuovo amico che si era occupato dell’organizzazione.
 
Lo fecero entrare subito – facile quando sei su una lista e hai un tavolo prenotato – e, una volta a tu per tu con l’interno, non rimase deluso.
Gli arredi, dai tavolini ai divanetti, finanche il bancone del bar erano tutti in stile minimal, colorati di bianco o nero, linee pulite e semplici, ma raffinate. Le luci non erano invadenti o traumatizzanti come quelle delle usuali discoteche… erano soffuse, calde ma soffuse. La musica, dato che era ancora piuttosto presto, era a un volume ragionevole, e le persone che giravano sembravano tutte un po’ più avanti con l’età rispetto a lui e ai suoi compagni.
 
- Ecco il maestro!!! Grande!!!
L’accoglienza di Petrucci fu quasi soffocante. Abbracci e pacche sulle spalle a tutto andare.
- ‘Sto locale è veramente una figata, o no? E soprattutto è il posto ideale per rimorchiare qualche tipa più grande! Da sguazzarci!
Seguirono a ruota tutti gli altri… Schifani fu l’unico a salutarlo con entusiasmo flebile, tutto preoccupato com’era a parlare dell’ennesima “infamata” che a suo dire gli aveva fatto Lucia con il bambino. Claudio però non aveva voglia di stare a sentire i suoi problemi quella sera.
 
- Valerio dov’è?
Nessuno pareva averlo sentito. Le notizie su di lui scarseggiavano. Avrebbe dovuto essere già là, a detta di Petrucci.
 
Mentre la musica cominciava a farsi sempre più intensa e le luci più concentrate verso la pista, Claudio avvertì il suo cellulare vibrare. D’istinto lo estrasse dalla tasca.
Era un messaggio.
 
Si passò una mano tra i capelli ancora perfettamente intatti. Il pollice era lì lì per trasmettere al suo telefono l’ordine di rivelargli testo e mittente dell’sms, ma qualcosa lo faceva esitare.
- Eh no, Rizzo, non ti puoi attaccare al cellulare stasera, non se ne parla!
 
Ignorò del tutto il monito di Petrucci.
Si passò la lingua sul labbro inferiore, completamente secco. E si decise a vedere chi era.
 
Non appena lesse le prime parole del messaggio ebbe la pressante tentazione di scagliare quell’aggeggio a casaccio sulle pareti candide della discoteca, e guardarlo perdere vita.
Maledetto suo zio, maledetto il telefono, maledetto il suo cervello.
 
- Che hai, che ti prende?
Ora era Antonio, il suo compagno di banco, a cercare di capire che gli passava per la mente.
- Niente, niente… andiamo a prendere da bere, che dici?
 
Cercò di fare del suo meglio per non lasciar trasparire la cocente delusione che l’aveva sopraffatto.
Suo zio si era preso il disturbo di avvisarlo che anche lui se ne sarebbe uscito, quella sera. Di non preoccuparsi se non l’avesse trovato in casa una volta finita la serata. “Sarò al club”.
Vaffanculo.
 
- Long island o gin lemon?
Fece un cenno per promuovere il primo. Ma che importanza aveva il cocktail da mandar giù in quel momento?
Nessuna.
 
Monica non gli aveva risposto.
Aveva sperato con tutto sé stesso che fosse suo quel messaggio.
Era alquanto patetico, sì, ma non appena aveva avvertito il vibrare del telefono, subito si era convinto che lei si fosse finalmente decisa a rispondergli.
Magari, con una spiegazione su quanto era successo quella mattina.
Sul motivo per cui un momento prima era là alla finestra con Pregoni, e un momento dopo non c’era più e addirittura non era più rintracciabile a scuola.
Claudio aveva come il sentore che c’entrasse lui in tutto quello… che fosse lui il responsabile…
 
In quell’istante una mano calda e affusolata si tuffò nella sua libera dal cocktail, delicatamente ma allo stesso tempo con decisione. Un profumo sottile gli colpì le narici.
- Ciao, Claudio.
Si voltò e vide la testa di Gaia appoggiarsi contro la sua spalla.
 
 

 
 
Quando fu il momento di risalire sulla Mini per mettere fine a quel sabato sera, Claudio lanciò un’occhiata a Gaia e si stupì di vederla così sobria.
Non doveva aver bevuto più di un paio di cocktail – e questo era rarità allo stato puro, per la sua esperienza.
Le aprì comunque la portiera, facendole segno di entrare.
Lei obbedì infilando le mani nelle tasche del cappotto nero. Il freddo era più pungente che mai, in effetti.
Mentre metteva in moto, Gaia gli ripeté l’indirizzo a bassa voce.
Conosceva quella zona, non era lontana dalla palestra di scherma. Un discreto quartieruccio, avrebbe detto suo padre.
 
Di Valerio, in quella serata, neanche l’ombra.
Si chiese dove potesse essere finito, o perché avesse deciso all’ultimo di non venire.
Sperava ardentemente che non l’avesse fatto per evitare la sua faccia.
 
Un mugolio soddisfatto provenne dall’altro lato dell’auto.
A quanto pare, la ragazza gradiva l’amichevole calore che il sedile aveva cominciato a sprigionare da qualche secondo.
 
Tutto sommato, era stata una serata gradevole.
Claudio lo riconobbe mentre faceva manovra ed usciva dal parcheggio ormai semivuoto.
Avevano ballato… non troppo, ma avevano ballato…. si erano fatti un bel giro di chupiti - gli altri, lui si era fermato al primo long island - e avevano riso, ed erano stati per un po’ sereni. Anche Schifani era riuscito ad abbandonare temporaneamente la sua faccia da funerale.
 
Si voltò e vide Gaia con il capo leggermente inclinato verso sinistra, le mani ancora nel calduccio del cappotto.
Cercò di capire cosa aveva provato nel momento in cui se l’era vista sbucare al fianco, dal nulla, quasi come se si fosse materializzata. Sorrise… dopotutto era stato lui, quella mattina, a dirle che con tutta probabilità avrebbe passato la serata in quel locale, e che se avesse voluto, avrebbe potuto trovarlo lì.
Ma non si aspettava certo che la ragazza decidesse davvero di passare la serata dove era lui.
- Sicura che le tue amiche non ci rimarranno male che non sei rincasata con loro?
Gaia lo guardò sorridendo.
- No, non credo, anzi, penso che saranno contente...
- Contente?
- Contente per me.
 
Cercò di capire cosa voleva dire quella frase. Era un tentativo di approccio?
Probabilmente sì.
Eppure, non c’era stata nemmeno una sola mossa della ragazza che lo avesse infastidito o che gli fosse sembrata troppo, quella sera. E per lui, che era uno che con le donne si sentiva in gabbia piuttosto facilmente, era una grossa novità.
 
Pochi minuti e giunsero a destinazione.
Ormai in macchina c’era un clima quasi torrido, e Claudio spense il riscaldamento con un gesto deciso.
Gaia girò il corpo nella sua direzione, cercandone gli occhi con lo sguardo.
- Sai, è stata una bellissima serata. Non credi?
Lui cercò le parole appropriate per rispondere. Di certo non era stata bellissima…ma aveva avuto un suo perché, quello sì. Si limitò ad annuire.
La vide abbassare gli occhi e recuperare la borsa dal sedile posteriore.
Iniziò a sentirsi in colpa per non aver detto nulla.
 
- Mi ha fatto piacere che sei venuta… hai fatto bene.
Malgrado la sua discreta esperienza con il sesso femminile, la frase gli era uscita di bocca un po’ goffa…quasi da sfigato, pensò tra sè. E in effetti, non era quello un commento che faceva parte del suo abituale repertorio.
 
Dall’altra parte Gaia parve illuminarsi.
Si spostò una ciocca dal viso, e con un movimento fluido, si sporse in avanti, appoggiandosi con una mano sul bordo del sedile del guidatore.
Claudio fu colto di sorpresa: il bacio, non lo attendeva, non lo attendeva affatto. Eppure, non oppose resistenza.
Prima che potesse anche solo porsi la questione sul ricambiare o meno il bacio, lei si era staccata e aveva già spalancato la portiera.
La udì gridare “chiamami” prima di intravederla sparire dietro a un cancello dalle inferriate in ferro battuto.
 
 
 
 
 
 
Tornare a scuola, quel lunedì, fu un trauma.
Aveva passato il giorno prima sui libri e ora gli pareva di non sapere nulla. Si sentiva il cervello completamente privo di qualsivoglia nozione – tabula rasa, arido e desolante deserto dei Tartari.
 
Desiderò con tutto sé stesso di non essere chiamato da Cicerino per l’interrogazione.
Per sua fortuna, il prof sembrava molto più interessato a dedicarsi a uno strano monologo sul perché dell’esistenza della sofferenza nel mondo.
I soliti argomenti di Cicerino, leggeri e piacevoli come una tazza di tè appena zuccherata.
 
All’uscita, una volta terminate le cinque ore, si sentiva come se l’avessero liberato da un gigantesco peso. Mentre camminava, pensò che se il suo cervello gli avesse fatto quel medesimo scherzo il giorno dell’esame alla Normale, sarebbe stato completamente fregato.
Fottuto completamente.
 
Passò di fronte al bar adiacente la scuola. Gettò una fugace occhiata al bancone, per vedere se per caso ci sostasse uno dei suoi prof ad affogare i dispiaceri dell’insegnamento in un bicchiere di Frascati – come aveva visto fare più volte al suo preferito in assoluto, l’esimio Cavicchioli, il re indiscusso di tutte le versioni di greco e latino.
No, niente prof quella mattina.
Ma qualcun altro attirò la sua attenzione.
 
Seduta a un tavolino, da sola, con un libro spalancato davanti e un cucchiaino tenuto a mezz’aria, Monica sembrava completamente estranea al caos che le turbinava veloce tutt’intorno.
Carpe diem, venne in mente a Claudio pensando per un attimo ai moniti di Cavicchioli.
Entrò.
 
Le si parò davanti con decisione.
- Come va?
La vide sussultare e alzare gli occhi.
- Che vuoi?
 
Senza aspettare che lo invitasse a farlo, prese un’altra sedia e le si accomodò di fronte.
Si mise a fissarla con aria seria. Erano tre giorni che le voleva parlare.
- Non mi hai risposto al messaggio, Morucci…
La vide annaspare, e non potè fare a meno di provare un’istintiva e impertinente soddisfazione.
- E che cosa ti rispondevo, scusa? E poi, come hai avuto il mio numero?
 
Ora era lei che lo fissava seria. I suoi occhi verdi erano là e non si sarebbero schiodati finchè non avessero ottenuto una risposta.
- Me l’ha dato Pregoni.
Le pupille di Monica erano dilatate al massimo. Sembrava nel panico.
 
Claudio mise una mano nella tasca dello smanicato. Ne tirò fuori un rotolo di banconote tenute insieme da un elastico.
- Cicerino mi ha detto di darti questi, l’altro giorno. Te li avrei dati sabato all’uscita… ma non c’eri.
L’espressione di Monica era cambiata di nuovo. Ora sembrava quasi… stupita. Sinceramente stupita.
Lo guardò per una manciata di secondi, poi allungò la mano e prese i soldi senza proferir parola.
 
Claudio giudicò quello il momento opportuno per attaccare.
- Perché sabato te ne sei andata a casa?
Lei chiuse il libro che stava leggendo con un gesto di stizza.
- Non sono affari tuoi.
- Allora perché sei andata via correndo quando ho salutato te e Pregoni dal cortile…
- Cos’è, il terzo grado?
Lui annuì senza staccarle gli occhi di dosso.
Monica accarezzò la copertina del libro.
- E comunque a te non te ne dovrebbe fregare.
- E se me ne fregasse, invece? Che succederebbe?
Non aveva intenzione di mollare la presa.
 
Monica si alzò bruscamente, abbandonando una moneta da due euro accanto al piattino del caffè.
- Non mi prendere per il culo, Rizzo.
Si fece strada tra i tavoli ed uscì senza nemmeno infilarsi  la giacca. Lui la imitò.
- Che fai, ora mi segui?
Claudio sorrise divertito.
- Perché ti sto così sul cazzo, Morucci?
 
Lei bloccò la sua marcia improvvisamente. Pareva turbata…e parecchio.
- Io so chi è Claudio Rizzo. So che sei abituato ad avere tutto quello che desideri senza alcun tipo di sforzo, so che tutto quello che vuoi fare, si realizza, che le cose vanno sempre a modo tuo…quindi non fare finta che ti importi di quello che faccio solo per far vedere quanto sei figo e bravo ad averla sempre vinta. Perché tanto lo so che è una farsa.
Il tono cercava di essere gelido, ma si sentiva che era scosso.
Claudio lo percepiva chiaramente.
Solo non capiva il perché di tutto quell’astio… di quell’amarezza.
 
- Tu in realtà non sai un cazzo, però ti piace pensare che sia così perché è la tua scusa per trattarmi da schifo.
Si infilò le mani nelle tasche dei jeans, fissandola.
Monica lentamente sollevò gli occhi da terra. Si sforzava di reggere il suo sguardo. Non rispose.
 
- Uno di questi giorni, vieni da me a studiare – fece lui, dopo una pausa – così ci prepariamo per l’esame alla Normale.
Il tono di Claudio ora era gentile, inoffensivo.
Avanti, dì di sì.
 
- Non so… tu di solito quando studi?
Ora Monica si stava contorcendo le mani.
- Puoi venire quando vuoi.
Ci fu del silenzio, come se l’ultima frase avesse bisogno di essere soppesata con cura.
- Quando voglio? Come sarebbe a dire? Che vuol dire?
La ragazza pareva non capirci più nulla. Era spaesata.
 
Ma Claudio decise che era meglio tagliare corto.
- Che io sto là, a casa… e che se ti va, puoi passare. Semplice.
Le gettò un’ultima occhiata sperando di incontrare il suo sguardo, ma non fu possibile.
Lei era persa a fissare qualcosa di lontanissimo, dietro di lui.
Carpe diem…spero di averlo colto bene questo attimo.
 
Con le mani ancora in tasca, si allontanò.
 
 
 
 

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Capitolo 6
*** Capitolo sesto ***


 
Schifani mi si para davanti veloce sbucando da dietro la porta del bagno. Quasi ci sbatto contro.
Mi coglie di sorpresa… non me l’aspettavo.
- Senti un po’….
 
Che cavolo succede….un gesto rapido e prima che me ne accorga già mi tiene afferrato un polso.
Rimaniamo così, lui immobile e io, per un attimo, incapace di reagire.
Preferirei farmi amputare un dito piuttosto che ammetterlo…ma stavolta mi ha quasi spaventato.
 
 Prende fiato. Pare molto irritato, ma non fuori di sé come di solito si mostra. Sembra irritato e dispiaciuto insieme. Ma che vuole da me?
- Senti Morucci… se sei stata tu a dire a Lucia di evitarmi e di impedirmi di vedere il bambino?
 
Mi fissa come se avessi scritto in fronte la risposta, come se solo con lo sguardo potessi confermare o smentire la sua ipotesi.
E in effetti posso farlo.
- Hai parecchia fiducia nella madre di tuo figlio, Schifani…se pensi che basti una cosa detta da me per condizionare il suo comportamento.
 
Cerco di liberare il polso dalla presa. Lo strattone però non è sufficiente, e sento che il mio nervosismo sta aumentando. Schifani non se ne preoccupa minimamente.
- Ieri mi ha detto che avete parlato di recente. Non….
- Sì, abbiamo parlato… le cose che ci siamo dette sono solo cazzi nostri.
Continuo prima che lui trovi il tempo di sbottare.
- Ma, per la cronaca…io non le ho dato alcun consiglio né l’ho spinta a fare nulla. Quello che sta facendo, è perché è convinta che sia la cosa migliore. Io ho semplicemente fatto quello che tu nella tua vita forse non hai osato mai: l’ho ascoltata.
 
Gli occhi da accusatori diventano spiazzati. La mano lascia andare il mio polso. Una ragazza del quinto ci guarda un po’ stranita mentre ci passa di fianco, varcando la soglia del bagno.
- Lascia perdere.
Lo vedo andarsene via a testa bassa, le mani in tasca, quasi deluso per quanto gli ho appena detto.
Sperava che fossi stata io a manipolarla, a convincerla di tagliarlo fuori dalla sua vita….sarebbe stato molto più comodo da accettare… meno umiliante.
 
Si è ormai allontanato, ma si volta ugualmente verso la mia direzione. Incrocia il mio sguardo e scuote la testa. Io alzo le spalle.
 
La verità, fa male.

 
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Erano tre settimane.
Tre settimane, esatte, che aspettava.
Ventuno giorni di attesa…ma niente. Claudio cominciò ad accarezzare l’idea che forse a lei non gliene fregava, non era interessata. Forse per lei le luci non si erano semplicemente mai accese.
 
Eppure…. gli era sembrato diversamente. Fin dal loro primo incontro nei bagni, gli era parso di avvertire come se ci fosse un sottilissimo filo che in qualche strana maniera li legava, li rendeva comunicanti. E questo malgrado il fatto che avesse immediatamente capito che lei era di tutt’altra pasta rispetto a lui…una pasta che non era affatto abituato a maneggiare.
E che, proprio per questo, gli instillava nel cervello una curiosità quasi bruciante.
 
Si mise più comodo sulla sedia e scrutò Cicerino, tutto preso da un interrogazione che però aveva più l’aria di un interrogatorio. Chi era Lorenzo il Magnifico, qual era la sua storia politica… ma soprattutto perché scrisse quei famosi versi inneggianti al cogliere l’attimo?
 
A quanto pare lui il suo attimo l’aveva colto male. Tre settimane prima, ci aveva provato a sfruttarlo, e probabilmente aveva fallito. Forse aveva esagerato, aveva calcato troppo la mano.
Ma d’altra parte, Monica non aveva forse fatto altrettanto?
 
Non si era certo risparmiata i giudizi.
Ma lei che cazzo ne sa di chi sono e come sono?
 
Appoggiò il mento sul palmo di una mano. Riflettere serviva zero. Tre settimane e non si era mai fatta viva. Aveva deciso di lasciare a lei la prossima mossa, voleva che fosse lei a cercarlo, a chiedergli dello studio, voleva una reazione. Che non era arrivata.
Chiuse gli occhi per evitare di pensarci. Non voleva sostarci più del dovuto, perché altrimenti gli sarebbe toccato ammettere a se stesso che gli importava.
E che era deluso. Deluso come a Claudio Rizzo raramente capitava di sentirsi.
 
La campanella e il suo telefono si fecero vivi quasi in contemporanea. Nel mentre, Cicerino finiva di spiegare il  vero significato dei versi più famosi di Lorenzo de’ Medici, a suo dire ben diverso da quello millantato dal libro di testo.
Mentre nell’aula si creava velocemente il caos, controllò il messaggio che aveva appena ricevuto.
Era Gaia. Come immaginava.
 
Nemmeno il tempo di abbozzare una risposta e lo raggiunse una delle sue compagne di classe, con un foglio di carta in mano e l’aria di chi aveva appena avuto un’idea geniale.
- Claudio, ascolta…settimana prossima ci sarebbe il torneo sportivo della scuola. Forse tu l’hai fatto già l’anno scorso….
Lui la guardò facendo una mezza smorfia di disappunto.
- Beh comunque è il solito torneo, le classi seconde contro le terze….le specialità scelte quest’anno sono pallavolo, pallacanestro, scherma e corsa.
Andò con i ricordi all’anno precedente e capì perché non gli veniva in mente nulla. In quel periodo un anno prima se ne era andato in settimana bianca con suo padre, a sciare in Svizzera. Solo lui e suo padre, per distrarsi.
- No, l’anno scorso me lo sono saltato.
 
Riprese in mano il telefono e si mise a comporre il messaggio di risposta. Gaia voleva vederlo, da soli, quel sabato sera. Era stato lui a contattarla giorni prima… di primo acchito aveva esitato,dopo quella serata in discoteca, ma poi aveva iniziato a  pensare che tanto non sarebbe potuto nascerne niente di male…non aveva nulla da perdere con lei, la sua compagnia non gli dispiaceva.
 
- Ok, ma quindi quest’anno ti andrebbe di partecipare? Ci vogliono almeno tre candidati per la scherma…ne abbiamo trovati due nelle altre classi ma, beh, fanno abbastanza schifo – la ragazza sottolineò il concetto con un’espressione eloquente - … ma mi hanno detto che tu pratichi scherma da anni e non sei affatto male…così…
Claudio premette il tasto invio e rialzò lo sguardo sulla sua compagna di classe. Partecipare a un torneo… contro le classi terze. Contro la IIIA, quindi. Contro i suoi ex compagni.
- Ma chi gareggia dall’altra parte, si sa?
- No, non ancora, abbiamo tempo fino a domani per decidere i nominativi. Poi non si potranno più cambiare.
 
A quanto pare la cosa rivestiva una certa importanza per la sua nuova classe… dietro alla ragazza era arrivata altra gente che pareva ansiosa di sentire la parola “Sì” uscire dalle sue labbra.
Non c’era molto da fare.
- Ok ragazzi. Partecipo.
La decisione riportò un discreto successo e il suo nome fu subito messo sulla lista dalla sua compagna. Qualcuno già iniziava a dire che grazie al suo supporto avrebbero scassato quelli del terzo.
 
Per un attimo si fece trasportare da tutto quell’entusiasmo e si chiese se per caso non gli sarebbe toccato sfidarsi con la persona della scuola a cui teneva di più in assoluto, e con cui non aveva ancora avuto l’occasione di chiarire appieno – Valerio Campitelli.
 

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Mi sento una stupida, così intabarrata nella sciarpa pesante al fianco di Cook che invece ha addosso una semplice felpa. Ma oggi si gela davvero, e non è colpa mia se questo qui non ha mai freddo.
O almeno, così dice. Perché poi lo scopro saltellare e battere i piedi a terra cercando di non dare nell’occhio.
- Vuoi per caso che ti presti la sciarpa?
 
Il mio tono lo diverte. Si appoggia sul sellino del motorino, scuotendo la testa con la sua solita veemenza. Poi mi guarda.
- Potremmo andare al cinema domani sera…è venerdì, e sarebbe carino, no?
Mi fissa in attesa di una risposta. Vuole venire al cinema, con me e di venerdì sera. C’è qualcosa che sta piano piano venendo a galla senza che io me ne stia rendendo conto?
- E a vedere che? Ma poi, domani sera non dovresti uscire con la tua ragazza, Cook?
 
Ho centrato il bersaglio, Cook si rabbuia improvvisamente.
- Con Elena? No…noi…ultimamente non usciamo mai al venerdì. Già. Anzi - il suo tono si fa più sottile – ultimamente non usciamo praticamente quasi mai…lei è presa dallo studio e dalla pallavolo…sai com’è….
 
Inizio a pensare che avrei fatto meglio a stare zitta. Non so nulla di questa storia, Cook non ne parla mai. Ma l’espressione che gli leggo in volto non è molto rassicurante… mi ricorda quasi….quella che aveva Schifani, stamattina, sulla porta del bagno.
- Comunque ormai sono usciti quasi tutti….ma dove cavolo è Pregoni? Andiamo  a mangiare insieme oggi…al Mc… vuoi venire anche tu?
Scuoto la testa.
- E poi non credo che Pregoni abbia molta voglia di parlarmi…mi sa che ce l’ha con me perché non sono andata al suo battesimo.
 
Cook non sembra convinto.
- Ma figurati… però adesso che ci penso in effetti è meglio che non vieni. Sai, dobbiamo parlare di cose un po’ private, consigli da uomo a uomo…ti romperesti.
- Cos’è, avete deciso di passare all’altra sponda e non volete dirlo in giro?
 
Il leggero spintone che ricevo mi fa capire che la battuta non è stata molto gradita.
Per una attimo mi si forma nella mente l’immagine di Cook e Pregoni mano nella mano, mentre si guardano negli occhi smezzandosi un CrispyMacBacon… a stento trattengo la risata.
-Ah, finalmente, eccolo là!
 
Sulla soglia della scuola compare finalmente Lucio, con addosso una giacca a vento verde militare e un cappellino da b-boy… il contrasto con il prof Cicerino, che gli sta di fianco e gli parla fitto, è stridente.
-Daniele! Aspe’, ‘mo ‘rivo…finisco di parlar con il prof….
 
Distolgo lo sguardo da Pregoni e vado a finire con gli occhi all’altra estremità del cortile della scuola.
 
C’è Claudio.
 
Sta chiacchierando con alcuni suoi compagni di classe. Istintivamente, mi viene da voltarmi. Non voglio che mi veda, e non voglio che incroci il mio sguardo.
Non mi chiedo il perché.
Lo so già.
- Che ti prende Monica?
- Niente, niente.
- Pregoni, e dai muovitiii!!!
 
Mi stringo nel giubbotto mentre Cook fa gesti d’impazienza in direzione di Lucio.
Non ho avuto il coraggio di affrontare la sua offerta. Non l’ho presa in considerazione, non l’ ho fronteggiata….per vigliaccheria. Ho preferito fare finta che non mi fosse mai arrivato, il suo invito.
Ho scelto la via più comoda. Meno umiliante.
 
-Ma che cazzo succede???
 
Cook si tira su dal motorino di scatto, e si sporge in avanti come per guardare meglio qualcosa, oltre le mie spalle.
Rimango per un attimo interdetta, poi sento degli schiamazzi e delle urla provenire da dietro di noi.
-Chi cazzo è quello???
 
Mi volto, e mentre Cook inizia a correre in avanti vedo un capannello di persone disposte a semicerchio in fondo al cortile, tutte strette intorno a qualcosa….proprio nel punto in cui prima avevo visto Claudio.
Avverto altre urla e concitazione. Ora anche Cicerino se n’è accorto. Qualcuno grida “lascialo, lascialo”.
 
D’un tratto il capannello si squarcia, lasciandomi intravedere nel casino un tizio mai visto prima intento a dare pugni e lottare contro qualcuno che invece è schiacciato al muro… alcuni cercano di mettersi in mezzo…ma invano…
 
Poi, riesco a vedere meglio. Inizio a correre anch’io.
 
Qualcuno sta picchiando Claudio.
 

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Volevo ringraziare alicious per aver apprezzato i primi cinque capitoli, e il fatto che tu non sia fan di questa coppia per me vuol dire ancora di più! Grazie!
 

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Capitolo 7
*** Capitolo settimo ***



La prima cosa che aveva avvertito era stata una strana sensazione come di sollevamento improvviso….come se una parte del suo corpo fosse riuscita incredibilmente ad emanciparsi dalla legge di gravità, così tutto d’un tratto.
 
Ma, a seguire, uno strattone e una spinta decisa contro la cancellata della scuola gli avevano subito fatto intendere che no, non si trattava di qualcosa di piacevole… che non era una visita di cortesia.
 
L’aveva preso alle spalle.
 
Era l’unica cosa a cui la sua mente riusciva a girare intorno vorticosamente, mentre, seduto su una sedia posizionata al contrario, cercava di placare il sangue dal naso che da alcuni minuti scendeva e sembrava non saper fare altro che continuare a scendere. La camicia, una volta bianca e ora a striature rosse, ne sapeva qualcosa.
 
Messo così, con la testa rovesciata all’indietro per fermare l’emorragia, e un fazzoletto nella mano, quasi gli venne da ridere.
E lo avrebbe certamente fatto, se non fosse stato per la rabbia che lo invadeva in quel momento.
L’aveva preso alle spalle, così, senza preavviso. Da vigliacco.
 
- Claudio, ma che mi combini… proprio adesso che stavi rigando dritto e tutto era tranquillo…ma ma chi era quello là, quell’energumeno…
Dall’altra parte dell’infermeria, Cicerino camminava avanti e indietro con un’aria sconcertata che non provava neanche lontanamente a nascondere.
- Insomma, perché…perché aggredirti a quel modo….
 
Claudio lo ascoltava con curiosità, mentre il sangue decideva finalmente di stare al suo posto.
Era evidente che il prof era allergico a qualsiasi manifestazione di violenza fisica.
Gli venne da sorridere, e stavolta lo fece – in barba alla rabbia.
 
- E mo’ ridi pure… guarda Claudio che sei proprio forte. Sei fortissimo. E io qui che ti sto pure dietro. Mi sa che mi sono ammattito.
 
Silenzio per qualche secondo.
- No prof, non sto ridendo – il tono di Claudio era tranquillo, ma fermo – e le do pure ragione, anche a me non piacciono ‘ste cose. Però vede…stavolta mi spiace deluderla, ma non me la sono provocata io la situazione. Mi è… capitata addosso.
 
Cicerino fece una smorfia rassegnata.
-Eh, sì, proprio addosso ti è capitata. Ma chi era quel ragazzo? Andrà denunciato, questo sicuro, non è che possiamo far finta di niente qui a scuola…
 
Claudio riportò la testa in una posizione normale. Gli doleva la guancia destra, e anche il naso gli dava delle fitte poco simpatiche.
Si alzò in piedi e si scrutò allo specchio dell’infermeria della scuola.
Aveva un occhio rosso e la parte destra della faccia gonfia.
Sembrava un reduce da un incontro di boxe per dilettanti.
 
Con la coda dell’occhio vide che Cicerino gli porgeva qualcosa… la borsa del ghiaccio.
Il fresco che avvertì in faccia fu una specie di benedizione.
 
- Il problema è che non so neanche come si chiami quello.
 
C’era il prof ad ascoltare, ma quella frase l’aveva rivolta più che altro a se stesso.
Nel momento esatto in cui il pugno serrato gli era arrivato in pieno volto, aveva capito di chi si trattava.
Era bastata una frase, poche parole dette mentre il colpo veniva sferrato, e tutto si era chiarito.
“Infame, tu le devi stare lontano, mandale solo anche un altro messaggio e stai piegato”.
 
Addirittura, mentre cercava di schivare i colpi successivi e poi, mentre rispondeva, si stupì mentalmente di non esserci arrivato subito. Di non averlo capito al volo. Di aver pensato quel “ma chi cazzo…” mentre finiva schiena al cancello, senza avere idea.
Che coglione.
 
- Prof, io non lo so il nome di quello. So chi è, ma il suo nome zero.
Cicerino era là che lo fissava con le braccia abbandonate lungo i fianchi, come uno che ha esaurito le risorse disponibili.
 
- Rizzo, sei incredibile.
 
 
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Guardo l’orologio: è quasi l’una.
Ormai è più di un quarto d’ora che sono chiusi là dentro.
So che sono lì, ho visto Cicerino che ce lo portava,e poi dove altro potrebbe essere in questo momento se non in infermeria?
 
La scuola è quasi vuota. C’è solo l’impresa di pulizie in giro, e forse qualche prof in sala professori, dietro a correggere compiti.
Cook se n’è appena andato via, insieme a Pregoni e a qualche compagno di classe di Claudio.
Volevano vedere come stava, ma una volta capito che le cose andavano per le lunghe, se ne sono giustamente andati. Tanto, come ha detto Lucio, “ Rizzo c’ha le palle, mica basta così poco”.
 
Già.
Io invece sono ancora qui, in corridoio, appoggiata al muro.
Mia madre mi starà dando per dispersa a casa, ma non me ne importa più di tanto.
Anzi, adesso che ci penso meglio, probabilmente non se ne sarà nemmeno accorta, del mio ritardo.
Sarà lì, assorbita anima e corpo nella visione del canale della tv che più di tutti odio: il Canale Elefante.
 
Finalmente, sento che qualcuno da dentro sta aprendo la porta.
Sulla soglia appare il mio prof di italiano. Ha un’aria stravolta - al solito.
 
- Ah, Morucci! Stai qua!
- Già.
 
Apro la bocca per continuare ma mi blocco. Cosa devo dire? Improvvisamente, l’ho dimenticato.
Senza accorgermene inizio a scrocchiarmi le dita, una dopo l’altra… mi prende il nervoso, e non lo sopporto.
 
- Claudio come sta?
Ce l’ho fatta. Respiro. Non era poi così difficile in fondo…o no?
 
- Mah…è un po’ gonfio in faccia, e ha perso un po’ di sangue dal naso. Non è in forma smagliante, ma per nostra sfortuna sopravviverà…
 
Mi viene da sorridere.
Il prof si rimette la giacca scuotendo leggermente la testa.
- Comunque adesso dovrebbe uscire… io vado ora, che c’ho una montagna di roba da fare per voi studenti del terzo…ah Morucci…poi domani discutiamo un po’ della tua iscrizione al test della Normale…
 
Non mi dà nemmeno il tempo di ribattere che si allontana. Cicerino non si smentisce mai.
 
Appena mi volto, vedo Claudio uscire dall’infermeria, con lo smanicato in una mano e la borsa del ghiaccio nell’altra… la camicia è sporca di sangue, e non riesco a fare a meno di fissarla.
Ha gli occhi bassi…è come se non avesse voglia di incontrare lo sguardo di nessuno.
Cerco di prendere fiato.
 
- Come va?
Mi viene voglia di mordermi la lingua, non sono riuscita a pensare a niente di più azzeccato da dire.
- Come stai?
 
Lui si ferma quasi subito, e alza gli occhi.
Come al solito, non riesco a capire ciò che gli passa per la testa. Il suo viso, nemmeno in questa situazione lascia trasparire qualcosa.
Si stringe nelle spalle.
- Sono vivo.
 
Lo vedo che si appoggia al muro, proprio nella posizione in cui ero io fino a pochi secondi fa.
 
- Ti fa molto male…la faccia?
Gira la testa lentamente nella mia direzione, e mi guarda negli occhi.
L’area intorno all’occhio destro è gonfia e la palpebra è un po’ chiusa. Non credevo gli avesse fatto così male.
-Quel tizio ti doveva odiare parecchio a quanto pare…
 
Distoglie lo sguardo, soppesando con la mano la borsa del ghiaccio.
- Sì, evidentemente sì – poi di nuovo mi guarda- quasi quanto te direi.
Gli occhi sono seri, ma le labbra abbozzano un sorriso.
 
Affondo le mani nelle tasche dei jeans, cercando di trovare le parole. Non è una cosa in cui sono molto brava, non lo sono mai stata.
Ma stavolta sento che mi devo sforzare.
 
- Claudio, mi dispiace. Mi…
- Tranquilla - mi interrompe – mica sei stata te a menarmi.
- No – quasi non riconosco il mio tono di voce, per quanto è flebile – non intendevo quello…cioè, sì, mi dispiace che ti abbiano aggredito, ma… intendevo per il fatto di non averti più detto nulla. Sul venire a studiare da te. Quello.
 
Si sistema più comodo, con la schiena totalmente a ridosso del muro. Poi lo vedo aggrottare le sopracciglia.
- Ci speravo sai… che accettassi. L’ho sperato parecchio… ma non ti devi scusare, se non l’hai fatto è perché non ti andava. Giusto? Quindi perché dispiacersi…
 
Si posiziona la borsa del ghiaccio sulla guancia mentre come al solito mi sento perduta.
 
Con lui, mi capita ogni volta. Ma com’è possibile?
Non so assolutamente come prenderlo, non so gestirlo… è come se davanti a lui una forza irrefrenabile e inconscia mi spingesse ogni volta a deporre le armi in anticipo, in una resa senza condizioni.
 
Non è che non l’ho fatto perché non mi andava.
 
- Non è così… a me andava… mi andrebbe, di studiare da te…è solo che…
Si volta e mi fissa.
- Che?
Ci guardiamo negli occhi per qualche secondo, e mi chiedo se ciò che sto per dire gli farà capire o farà in modo che lui mi disprezzi per sempre.
- Che mi fa paura.
 
Di nuovo aggrotta le sopracciglia.
- Sono io a farti paura Morucci? Perché?
 
Già, perché?
Mi tolgo dal muro e faccio qualche passo in avanti.  Vorrei avere la parlantina di Cook, in questo momento.
Poi mi volto verso di lui.
 
- Perché non ti conosco.


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- Non dovresti guidare in quelle condizioni.
 
Claudio si fermò diligentemente allo stop, e con la coda dell’occhio notò la passeggera contorcersi nervosa le mani mentre guardava fuori dal finestrino. Sorrise.
 
- Hai intenzione di ripetermelo all’infinito, Morucci? Non ti fidi delle mie abilità di pilota?
 
La vide scuotere la testa con forza.
- Non è di quello che parlavo … tu sei appena stato preso a pugni in faccia…
 
Gli venne ancora da sorridere. Sembrava quasi che si stesse preoccupando. Preoccupando per lui.
Poteva essere realmente così? Sbuffò levandosi un ciuffo di capelli dalle sopracciglia.
 
Mise la prima e diede uno sguardo alla zona che stavano esplorando con la macchina.
Quello era un quartiere che non conosceva molto bene…sapeva che c’era la pizzeria dove Monica lavorava, e dove ogni tanto i suoi ex compagni di classe si trovavano al sabato sera.
In effetti pensò che non fosse così male… era qualcosa di diverso.
Tanti appartamenti, poche ville ma anche tanti bar, e piccoli negozi.
Un’atmosfera più accogliente, meno fredda. Vera.
 
- Non è male qui.
Monica si voltò di scatto a guardarlo. Aveva un’espressione allibita. Poi rise, strizzando gli occhi.
 
- Se, vabbè… non prendermi in giro. Qui è sempre il solito. Paragonato al posto dove vivi tu poi…
- Hai mai visto casa mia?
- No…ma me la immagino.
 
Claudio si ritrovò a scuotere la testa. Quella ragazza non sapeva di cosa parlava.
Non aveva idea di che cosa voleva dire… passare le giornate in una casa come la sua, immensa e nondimeno vuota come le bottiglie di vodka che si scolava periodicamente suo zio insieme ai suoi amici d’alto bordo.
Non aveva idea di che voleva dire camminare da una stanza all’altra, come in trance, con l’unica speranza di vedere saltar fuori anche solo per un momento la sola cosa che veramente aveva contato davvero per lui tra quelle stramaledette quattro mura… Francesco.
 
Ricacciò indietro quel pensiero.
Il dolore alla mandibola e al naso era già sufficiente, non aveva certo bisogno di supporto.
 
- Ma che voleva quel tipo da te?
 
Monica si era voltata a guardarlo.
 
- Manca molto a casa tua?
- No, non manca molto – il tono della ragazza era determinato ora – ma ci sarà un perché se quel tizio è entrato nel cortile della scuola e ti ha preso a pugni.
 
Claudio sentì il nervoso e la rabbia riaffiorargli prepotentemente in corpo.
Monica gli fece cenno che erano arrivati.
 
- Com’è che improvvisamente lo vuoi sapere?
Si voltò a guardarla e vide che, sì, era ansiosa di sapere, anche se tentava di mascherarlo.
Gli occhi verdi erano fissi su di lui, e stavolta non erano titubanti e insicuri come nei loro precedenti confronti. Erano desiderosi di capire.
 
- Soldi o donne?
 
Claudio rimase in silenzio per qualche secondo, colto di sorpresa. Poi la guardò.
 
- Donne.
La vide annuire e muovere le labbra in un sorriso strano.
- Era ovvio - disse infine lei, lievemente.
 
Claudio spense la macchina, ma lei aveva già una mano intenta ad aprire la portiera.
In meno di un attimo, scese senza lasciargli il tempo materiale di impedirglielo.
 
- Grazie del passaggio.
 
Si morse le labbra.
Avrebbe dovuto starsene zitto. Perché tirare in ballo…perché dirle che in quella storia centravano donne?
Ok, era la verità.
In realtà no, ne centrava solo una.
Ma aveva reale importanza? Era un vero problema?
Contava veramente?
 
- Aspetta! Ci verrai…a studiare da me?
 
Lei fece qualche passo verso casa, poi si voltò, alzando le spalle.
 
- Non lo so.
 
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Per Valy88: grazie per apprezzare questa storia, spero che appassioni voi come a me sta appassionando scriverla! Ah e spero che continuerai a seguirla!

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Capitolo 8
*** Capitolo ottavo ***


Non ricordo di aver mai visto i miei compagni così inquieti ed eccitati come oggi.
 
Mi metto comoda…stendo le braccia sul banco, le mani una sopra l’altra, e poi ci appoggio il mento. La mia postazione in prima fila mi permette di godere di un’ottima visuale: Cavicchioli che, evidentemente ignaro di tutto, sfoglia il libro di latino come se dovesse urgentemente trovare una versione da farci analizzare e tradurre.
 
Il mio gomito destro viene urtato da qualcosa…o meglio, da qualcuno che si è avvicinato al mio banco.
Qualcuno che non sembra condividere granchè la felicità generale.
- Che ti sei portata da leggere?
Cook fa un cenno con la testa al mio zaino semiaperto, senza alzare gli occhi su di me.
 
- Pirandello.
Mi guarda con scarsa convinzione.
- Pirandello? Ma se neanche l’abbiamo fatto…a momenti siamo ancora a Leopardi…
 
Si passa una mano tra i ricci, e aggrotta le sopracciglia.
Cavicchioli, intanto, cerca di riportare l’ordine.
- Ma che centra scusa? Mica lo leggo per fare un favore a Cicerino…
- E allora perché?
Non ci voglio credere.  A volte mi verrebbe voglia di gettargli un secchio d’acqua dritto addosso.
- Lo leggo perché ne ho voglia, no?
 
Dall’ultima fila di banchi, il timbro inconfondibile di Pregoni intima al prof di “non dare ordini che oggi ci sta il torneo, prof, non lo sa? No? E mi sa che allora solo lei non lo sapeva….”
 
Cavicchioli sembra cadere dalle nuvole, e non mi stupisco… mi tiro su dal banco e cerco di riassumere una posizione quantomeno dignitosa.
Alzo gli occhi su Cook.
Si è messo a giocherellare con la zip della felpa, e ha l’aria di uno che vorrebbe trovarsi su qualsiasi parte della terra meno che lì dove sta.
 
- Che hai oggi? C’hai una faccia…
Ci ho provato, ma già so che il mio sarà un tentativo a vuoto.
Quando Daniele non vuole parlare di qualcosa, neanche con una minaccia riesci a carpirgli qualche informazione. Esattamente l’opposto di quando invece non vede l’ora di discutere di una cosa e allora ti tormenta.
 
Per un attimo smette di torturare la cerniera e mi guarda dritto negli occhi.
Ha una faccia così seria che quasi non lo riconosco.
- Boh… c’ho un po’ di cose per la testa…sto un po’ così.. e poi proprio stamattina ‘sto torneo a rompere…
Lo vedo girare gli occhi sulla classe e osservare con aria infastidita.
- Vabbè - fa per voltarsi e tornare al suo banco, ma poi si blocca – ah Monica, dopo… ti siedi con me in palestra a seguire la partita? Ti va per caso?
 
Aggrotto la fronte per un attimo.
Dopo Cavicchioli, credo di essere la persona meno informata dell’intera scuola su questo cavolo di torneo. Che partita c’è?
 
- Sarebbe?
- La partita di pallavolo femminile…seconde contro terze… quella…
 
Sbuffo.
Non ho mai amato le partite di pallavolo, anzi, la pallavolo come sport mi ha sempre discretamente annoiato, fin da quando da bambina mia madre mi metteva davanti a Mila e Shiro e io appena potevo cambiavo di nascosto canale.
E poi, ad essere sinceri di questa sfida tra annate non me ne importa nulla.
 
Il problema è che la faccia di Cook oggi non ammette risposte negative… credo che si chiuderebbe in un mutismo forzato per l’intera mattinata, se gli dicessi di no.
- E vabbè….comunque mi porto il libro…
 
Un lampo di sollievo sembra attraversargli gli occhi per un attimo.
Anche Cavicchioli pare aver compreso che per oggi sarà impossibile fare lezione. Dopo una discreta dose di lamentele, sembra pure lui quasi soddisfatto.
 
- E mi pare ovvio– dietro di me, Schifani si lancia in azzardate previsoni col suo solito tono d’ordinanza – così può tranquillamente trascorrere la mattinata attaccato al culo della Desmoulins…
 
Non riesco a trattenere un sospiro.
Ma Schifani non ha ancora finito.
 
- A Valè… che oggi allora gareggi?
 
Lo vedo allungarsi con il braccio e tirare Valerio per il polsino della camicia.
- Eh? Gareggi?
 
Nessuna risposta.
- Oh, a Valè! Ci stai?
 
Mio malgrado mi ritrovo a guardare in direzione del mio compagno di banco, e lo vedo fissare placidamente il vuoto, completamente estraneo ai richiami di Schifani… a occhio e croce, non gliene importa molto neppure a lui di ‘sto torneo.
O forse, gli importa troppo.
 
- Valè ma lo sai che oggi probabile che ti tocca affronta’ Claudio?
 
Senza volerlo e senza neppure accorgermene, un secondo dopo ho gli occhi incollati alla faccia di Schifani.
Affrontare Claudio?
 
Avverto un bisogno irrefrenabile di colmare il mio vuoto di conoscenza.
Mi volto verso Valerio.
- Scusa… in cosa dovresti gareggiare tu oggi?
 
- Ma insomma ma che cazzo volete stamattina tutti, eh? Mo’ pure te rompi il cazzo! Ma tu guàrdate questa!
 
Lo vedo alzarsi di scatto dalla sedia, e a denti stretti chiedere al prof di poter andare in bagno.
 
Inizio profondamente a desiderare di essere su un’altra parte della terra anche io.
 
 
 
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Erano solo le nove, ma quella mattina gli spalti della palestra del Colonna si ritrovarono già piuttosto gremiti. Si vedeva subito che non era una giornata qualunque.
 
Sul campo, la partita di pallavolo aveva appena preso il via, tra svariate urla di incoraggiamento e qualche applauso, che puntuale arrivava in concomitanza delle giocate più interessanti.
 
La prima cosa che aveva fatto Claudio era stata gettare uno sguardo sulla formazione schierata dalle terze. I suoi occhi si erano dedicati per un attimo a scorrere le varie giocatrici della squadra…per essere completamente sicuro, aveva controllato pure tra le riserve sedute a bordo campo, in quella che teoricamente doveva essere la panchina.
Ma non gli era andata bene: nessuna traccia di Monica.
 
- Ok, Claudio, inizia ad andare a cambiarti.
 
La voce decisa della professoressa di ginnastica non lo distolse minimamente dal flusso dei suoi pensieri.
 
Evidentemente, Monica non doveva essere una pallavolista provetta.
O forse le altre ragazze semplicemente non le avevano permesso di scendere in campo con loro a rappresentare la classe – sarebbero potute arrivare a tanto?
 
Lanciò di nuovo un’occhiata al terreno di gioco, proprio mentre le seconde, la “sua” squadra, mettevano a segno un punto.
Nell’altra metà del campo riconobbe alcune sue ex compagne… Jasmine stava sottorete e urlava a più non posso consigli su come disporsi alle altre ragazze… c’era anche Valentina al suo fianco, e dietro, in ricezione, stava Lucia. In panchina, invece, intravide solo Margherita.
 
Schioccò la lingua contro il palato, aggrottando la fronte… la IIIA era presente e anche con un drappello di donne piuttosto fornito, ma Monica non c’era.
 
- Claudio, dai, va’ a cambiarti che tra poco tocca a voi.
 
Si passò entrambe le mani tra i capelli… odiava quando gli si intimavano le cose più di una volta, non lo sopportava, gli faceva sorgere la tentazione di fare tutto il contrario di quanto gli veniva detto – doveva essere un regalino rimastogli in eredità dagli anni passati con suo padre.
Ma non poteva ignorare oltre l’esortazione della prof…borsone in spalla, mollò il match e si diresse lentamente negli spogliatoi.
 
Ad accoglierlo trovò i due ragazzi del secondo B cui avrebbe dovuto far da spalla. Uno era già in tenuta da schermidore… o almeno, ci provava. Aveva giubbotto e calzoni entrambi troppo larghi per la propria taglia, e a occhio e croce doveva essere sprovvisto di guanti.
 
- Ah ciao Rizzo… non è che ci daresti una mano con ’sta attrezzatura? I calzettoni devono arrivare fino al ginocchio o sopra?
 
Claudio riuscì a fatica trattenere un sorriso… i suoi compagni di classe avevano ragione quando gli avevano descritto quei due come dei neofiti o quasi.
 
Mentre gli dava qualche dritta su come infilare i vari pezzi della tenuta di gara, si rese conto che una parte del suo cervello, quella che non riposava mai, continuava a concentrarsi vivamente su quant’era accaduto giovedì scorso… era come se gli eventi vissuti giovedì si ripetessero nella sua mente con insistenza, senza che potesse farci nulla.
 
L’attacco subìto di sorpresa ad opera del ragazzo di Gaia ancora lo faceva incazzare al solo pensarci. Certo, anche lui aveva fatto lo stronzo, in passato, e gli era capitato di colpire in faccia della gente… ma mai di spalle.
Se lo aveva fatto, era stato viso a viso, in maniera aperta, con un certo qual grado di lealtà. Con un senso di rispetto (seppur minimo) per l’avversario.
Ma quale rispetto aveva mostrato in quell’occasione quel tipo, quale onorabilità? Nessuna.
 
Lanciò il suo paio di guanti di riserva in direzione dell’altro ragazzo, senza smettere di pensare.
Il desiderio di vendicarsi era martellante, ci pensava da giorni… ma a che pro? A che sarebbe servito? Gaia gli aveva tenuto nascosta l’esistenza di un fidanzato che avrebbe potuto incazzarsi. Non ne aveva mai fatto parola, neanche durante quella serata in discoteca.
Forse lui avrebbe pure dovuto immaginarselo, che una com’era Gaia non poteva davvero essere sola.
Ma avrebbe dovuto essere lei a dirlo.
 
Si tastò con le dita il livido, ormai nerastro, rimastogli in bella vista sulla guancia.
 
No – si disse. Era Gaia ad aver sbagliato, e quell’energumeno del liceo Visconti avrebbe dovuto pensare di meno a Claudio Rizzo e di più ai motivi che avevano spinto la sua ragazza ad iniziare a vedere e sentire un altro, per i cazzi suoi.
 
- Tu vai per ultimo, vero Rizzo? Così se facciamo casini puoi rimediare…
 
Si infilò i calzoni con un gesto secco ed esperto.
Avrebbe tanto voluto veder comparire proprio in quel frangente, dalla porta degli spogliatoi, un casco scomposto di ricci biondi.
 
 
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Non capisco perché nessuno di questi posti sembri andare bene per Daniele.
- Scusa, eh, ma perché non ci sediamo qua? C’è un po’ di spazio…
- No qui no, ci son troppe persone davanti, e poi non senti come manca l’aria? Andiamo là.
 
Continuiamo lo slalom tra gli studenti seduti sugli spalti…quasi tutti sono completamente assorbiti da ciò che accade sul campo. A quanto pare, c’è mezza scuola a vedere ‘sta partita.
 
Finalmente Cook decide di fermarsi e mettersi a sedere.
- Qui va bene, è perfetto.
Si volta a guardarmi e abbozza un sorriso che sembra sincero. E’ la prima volta da stamattina che lo vedo sorridere… anche se dal modo in cui tamburella ritmicamente le dita sulle gambe incrociate, non dev’essere poi così tranquillo.
 
Lo vedo strizzare gli occhi per riuscire a leggere dal tabellone chi è in vantaggio.
- Ah, ottimo, vincono le seconde…
Lo fisso per qualche secondo, riuscendo a stento a reprimere un sorriso.
- C’è Elena che gioca… quindi mi sembra normale che tifi per lei, no? Anche se non si è manco accorta che sto qui…
- Quanto sei tenero Cook – dico, con inclinazione volutamente sarcastica.
Anche se in effetti lo penso veramente.
 
Ci rifletto un secondo, mentre un applauso fragoroso scoppia dalle gradinate alle mie spalle per un muro andato a buon fine.
Il bello di Cook è che è sincero, quello che fa non è mai calcolato o costruito. Le sue dimostrazioni di attaccamento sono vere, anche se possono sembrare infantili a volte.
- Tu che fai, ti metti a leggere?
 
Me ne ero quasi dimenticata. Nella mano ho ancora stretto “Il fu Mattia Pascal”, con la copertina un po’ logora e qualche orecchio di troppo tra le pagine…era di mia madre.
 
Annuisco. Tanto la partita è quasi finita, e non credo che le nostre compagne di classe riusciranno a ribaltare il risultato… sono più grandi di un anno, ma le seconde sembrano una spanna più forti. Per quanto ce ne possa capire io, almeno.
 
Al mio fianco Cook continua a sbracciarsi per farsi notare dalla sua ragazza… ma i tentativi sembrano andare a vuoto.
- Uffa, non mi vede…che palle…- poi porta lo sguardo su di me – Monica ma alla fine te farai quell’esame per entrare all’Università quest’anno? Quello lì con cui è fissato il prof…
 
Ma che…anche lui ci si mette? E’ l’ossessione dei più, in questa scuola.
- Sì, purtroppo ho dovuto promettere al prof che lo farò… e comunque è solo una preselezione, non è nulla di definitivo – rimango in sospeso per un attimo, senza volerlo – vuoi farlo anche te?
 
Lui scuote la testa facendo una smorfia di rigetto.
- No…non è cosa per me quella…non credo che continuerò a studiare, sono stufo di dover ogni giorno contare i soldi che posso spendere…mi cercherò un lavoro a tempo pieno con uno stipendio un po’ meno penoso di quello d’adesso… potrei diventare pizzaiolo o rilevare l’attività da Macrì.Tu dici che me la lascerebbe?
 
Alzo le sopracciglia… non mi va di fare la guastafeste, così mi impongo di starmene zitta.
Nel frattempo, la partita finisce, tra il grande entusiasmo degli studenti delle seconde e il malcontento di quelli delle terze. Jasmine e le altre mie compagne sembrano abbastanza abbattute.
 
Vedo che alcuni ragazzi stanno togliendo la rete dal campo, in tutta fretta.
- Che c’è adesso? Partita di che?
- Basket credo. O basket o scherma.
- E noi chi c’abbiamo?
Cook alza le spalle con fare annoiato.
- Basket boh….quel coglione di Schifani probabile. Forse Petrucci. Scherma Valerio di sicuro.
 
Mi mordo il labbro… quindi Claudio gareggerà nella scherma pure lui.
Chiudo gli occhi per un attimo e me lo immagino. Come cavolo si vestono gli schermidori? Hanno una specie di tuta bianca. Istintivamente mi viene da chiudere il libro.
Pirandello può aspettare… ho voglia di vedere Claudio.
 
- Spero per Valerio che non gli capiti Rizzo…davvero.
Il tono di Cook è secco.
- Perché? Rizzo è così bravo?
Cenno di marcato dissenso.
- Non è per quello. Bravo o non bravo, Rizzo gioca sempre sporco. Sempre. Non è in grado di fare le cose pulite.
 
Vorrei fare finta di niente, ma non riesco a restare indifferente. Mi metto a fissare Cook.
Perché quel tono così aspro tutto d’un tratto? Cosa lo porta a dire cose così negative su Claudio?
Ok, già so che non scoppia particolarmente di simpatia per lui. Tuttavia…
…non sembra parlare per sentito dire…la sua faccia è troppo contratta.
 
- Perché dici così?
 
Ma lui continua a tamburellarsi sulle ginocchia, imperterrito, con lo sguardo rivolto da qualche parte sul campo.
 
- Ora non mi va di parlarne.
 
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Claudio iniziava a sentire l’adrenalina della gara diffondersi in tutto il suo corpo.
Adorava quei momenti…gli sembrava che ogni singolo muscolo, ogni fibra, ogni nervo si caricassero al massimo, pronti per dare il meglio di sé una volta in azione.
 
Stavano facendo stretching, lui e i suoi due compagni di sventura…prima un braccio, poi l’altro…i quadricipiti…
 
- Oh mi raccomando ragazzi, vi voglio svegli in pedana eh? Marco tu sei il primo. Federico tu segui, e poi Claudio finisce, intesi?
Cenni di assenso convinti.
 
Claudio si chinò per allacciare meglio le stringhe di una delle sue scarpe, candide e leggere come il resto della tenuta.
La prof è parecchio convinta, si disse.
Eppure, i tre che si sarebbero trovati di fronte non erano affatto male. Due erano della IIIB, e li conosceva solo di vista… l’altro lo conosceva anche troppo bene.
 
Valerio non era un fuoriclasse, ma di certo sapeva quello che faceva quando si ritrovava con il fioretto in mano. Per un po’ era anche venuto nella palestra di Claudio e aveva studiato lì… ma poi aveva mollato.
 
- In bocca al lupo ragazzi!
 
Vide la prof fare un gesto con la mano a indicare che sarebbe andata a preparare la pedana per la gara. Poi la vide allontanarsi.
Si rituffò in pieno nello stretching. Voleva farsi trovare pronto, voleva evitare strappi…voleva che filasse tutto liscio.
 
Quando alzò di nuovo gli occhi, Claudio si accorse che una persona si stava dirigendo a piccoli passi verso di lui e i suoi compagni… non potè fare a meno di restare di sasso.
 
Era Elena Cicerino.
 
Rimase impietrito per qualche secondo di troppo. D’istinto, cercò di mettersi le mani nelle tasche, scordandosi però di essere in tenuta da scherma.
La vide salutare con confidenza gli altri due, evidentemente suoi compagni di classe.
 
Poi si avvicinò a lui. Era ancora con la divisa di pallavolo…doveva appena aver finito di giocare.
- Ciao – disse lei, in tono neutro e cordiale – senti, potrei chiederti un favore?
 
Claudio si limitò a fissarla per qualche istante, senza rispondere. Si trovava spiazzato come non gli capitava da un pezzo. Poi si decise ad aprir bocca.
 
- Com’è finita la partita?
 
Elena si portò dietro l’orecchio un immaginario ciuffo di capelli.
- Bene, abbiamo vinto! Era proprio di questo che volevo parlarti…
 
Si sforzò di indovinare che cosa potesse volere Elena Cicerino da lui.
Riflettè per un secondo.
Non si parlavano dal giorno del funerale di suo fratello.
Anzi, a dire la verità, neppure quel giorno si erano propriamente parlati. Lei era venuta alla cerimonia, con tutti gli altri…con suo padre, anche.
Gli aveva fatto le sue condoglianze, e questo era stato tutto.
Non si erano detti altro… di tutto ciò che era successo, non avevano fatto parola.
Era una pagina di sé che Claudio era stato ben felice di archiviare il più in fretta possibile.
 
- Tu lo sai che… l’annata che vince il torneo, va a farsi quattro giorni a Barcellona a fine anno?
 
Claudio cercò di non far trasparire lo stupore.
- No, non lo sapevo…e tu come…
- Mio padre a volte parla troppo, e si tradisce – fece un leggero sorriso.
 
A volte? No, non è a volte….quello sta sempre a parlar troppo.
 
La vide mettersi a braccia conserte, spostando il peso del corpo avanti e indietro alternativamente.
Si notava che essere lì le costava un certo sforzo.
E come biasimarla?
 
- Comunque, se vinciamo noi seconde, in gita ci andiamo noi… - si guardò per un attimo indietro – il problema è che la staffetta e la partita di basket sicuro le perdiamo… quindi l’unica nostra chance di vincere sarebbe avere la meglio nella scherma.
 
Claudio annuì.
Non ne sapeva nulla della gita a Barcellona in palio per i vincenti.
Lei si avvicinò ancora di più, e il tono divenne più attento.
 
- I miei due compagni di classe…beh…a essere sinceri non è che siano proprio il massimo. Quindi credo che l’esito della sfida dipenda da te.
 
Elena lo guardava seria. Era evidente che a questa storia ci teneva.
 
- Sono anni che noi della B non ci facciamo una gita come si deve…e poi in Spagna la maggior parte di noi non ci è mai stata…quindi…ecco… - di nuovo fece per sistemarsi i capelli – se tu potessi dare il massimo per…
 
- Ok, ok, ho capito.
 
Claudio si era sentito strano non appena lei aveva nominato la parola “gita”… brutti ricordi erano riaffiorati, roba che aveva ormai sepolto nella mente e cercato di dimenticare… aveva tentato di scordare tutto quanto avesse relazione con le cose fatte alla persona che gli stava davanti in quel momento.
Ma le cose, e lui lo sapeva, è impossibile cancellarle definitivamente dal cervello.
Solo in quello strano film con Kate Winslet ci si riusciva – e manco del tutto.
Prima o poi, l’occasione per tornare a galla, se la trovano da sole, le cose.
 
- Comunque ce la metterò tutta. Non ti preoccupare.
 
Un sorriso le illuminò il volto.
- Ci conto allora.
 
Fece dietro- front, ma poi si voltò di nuovo.
 
- Ah Claudio!
 
- Cosa?
 
- Grazie.
 
 

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