Un anno in quella stanza

di Dilandau85
(/viewuser.php?uid=2279)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'inizio di tutto ***
Capitolo 2: *** la prima missione ***
Capitolo 3: *** sopravvalutarsi è un errore ***
Capitolo 4: *** la tragedia ***
Capitolo 5: *** Squallida normalità ***
Capitolo 6: *** Informazioni ***
Capitolo 7: *** Tori Kimura ***



Capitolo 1
*** L'inizio di tutto ***



La campanella della scuola era suonata alle otto in punto come tutti i giorni, e come tutti i giorni lui era entrato nell’aula perfettamente in orario. Il vociare rumoroso nell’aula scemò fino a diventare un brusio di sottofondo mentre tutti i ragazzi prendevano posto; sapeva che era per il suono della campanella e l’imminente arrivo del primo professore, ma in un certo senso era come se ciò fosse connesso anche col suo ingresso in classe.
“E’ arrivato anche quello strano...”, un ragazzo vicino a lui commentò ridacchiando coi suoi amici.
“Siete solo feccia”, Joichiro Nishi questo lo pensava ogni giorno, mentre ignorava tutto ciò che dicevano su di lui. Fondamentalmente sapeva che era per invidia, anche se non era solo questo. Nishi non aveva niente da invidiare a nessuno. Aveva una bella famiglia alle spalle, agiata se non proprio ricca, ma soprattutto aveva ottimi risultati negli studi. Era il fatto che un individuo a loro vista così strano e diverso andasse così forte, era questo che dava loro fastidio, lo sapeva. Nishi non era il primo della classe. Era tra i primi, ma non aveva l’eccellenza. Ma d’altronde spendeva così poco tempo a studiare che doveva ritenersi fortunato ad avere quell’intelligenza tale da portargli quei bei voti.
La lezione era già iniziata, per quel che importava, e Joichiro si guardò intorno tra i suoi compagni di classe, ora che finalmente non lo stavano più fissando. Che nullità che erano: c’erano i nerd sfigati e sfegatati, alla sua destra, emarginati dal mondo reale e confinati nella finzione dei loro fumetti preferiti; anche lui in cuor suo si sentiva un po’ nerd; quanto meno, anche se non avesse voluto, l’avrebbe dovuto ammettere guardando la vita che conduceva ogni giorno. Tuttavia non sentiva di avere niente in comune con quei ragazzi; lui lo sapeva, era un gradino sopra a loro. I nerd, poi, insieme ai secchioni che occupavano le prime file, erano il bersaglio preferito dei bulli, la feccia peggiore di tutte che occupava le ultime file dei banchi. Neanche ai secchioni assomigliava. La caratteristica di questi sfigati era vivere in un costante panico, giorno e notte. Prima di tutto per i risultati conseguiti negli studi. Dedicavano tutta la loro vita di adolescenti allo studio, a causa delle pressioni dei loro genitori. Dovevano studiare e prendere buoni voti, altrimenti sarebbero stati dei falliti nella vita; peccato che fossero già dei falliti così com’erano, e il bello è che non se ne rendevano nemmeno conto. Molti di loro, nonostante la fatica che facevano quotidianamente, non riuscivano a raggiungere neanche la metà dei suoi risultati. Il loro secondo terrore invece erano i bulli. C’erano cinque ragazzi ripetenti nella loro classe e il più grande aveva sedici anni, ovvero era stato già bocciato tre volte. Avevano il loro gruppo con le sue stupide e ferree regole, erano maleducati, prepotenti, cattivi. Si divertivano a estorcere soldi ai più deboli, a schernirli, umiliarli davanti a tutti e alzavano le mani per un non nulla. Erano grossi, pericolosi e imprevedibili. In comune con lui avevano soltanto una cosa, ovvero il sentirsi superiori alla media, e l’arroganza che scaturiva da ciò era qualcosa che non era estraneo neanche a lui. Nishi non alzava mai le mani con nessuno, pensava soltanto a se stesso. Ma se per difendere i propri interessi si fosse dovuto scontrare con terzi anche lui non avrebbe avuto scrupoli. I bulli non lo tormentavano spesso, fortunatamente. Benché fosse basso di statura e esile di corporatura aveva i suoi modi per difendersi: o si vendicava in maniera arguta e crudele quando nessuno se lo aspettava più (e di sicuro i risultati delle sue vendette erano ben peggiori di ritrovarsi qualche livido addosso e il portafoglio svuotato), o tirava in ballo il prestigio di suo padre e i rischi che avrebbe portato l’inimicarsi con uno come lui, o infine, quando si trovava in stato di emergenza, ricorreva al bluff. Mentire gli riusciva bene e con naturalezza, e finché gli altri gli credevano la menzogna sortiva gli effetti desiderati. Tutto ciò faceva una sorta di paura persino ai bulli, che avevano affiancato all’aggettivo “strano” con cui lo deridevano e si riferivano a lui anche l’aggettivo “da brivido”, perché in fin dei conti con quel suo sguardo di ghiaccio e la sua lingua biforcuta riusciva tranquillamente a mettere in soggezione le persone. Infine, l’ultima categoria della fauna che popolava la sua classe erano le ragazzine: più frivole e più mature dei coetanei maschi al tempo stesso, occupavano le prime file dell’aula. Erano precisine, ligie al dovere e allo studio, sempre inappuntabili su tutto. La cosa che più lo faceva incazzare di loro era che erano quelle che più di tutti sfoggiavano la loro integrità morale. Certo, probabilmente molte di loro erano davvero nella posizione di avere la coscienza apposto da poter giudicare moralmente tutto il resto del mondo e rimproverare i comportamenti scorretti degli altri. Perfino i bulli di fronte alle loro ramanzine spesso tacevano mestamente. Ma lui odiava i moralisti in genere, perché erano spesso le persone più ipocrite e false che si potevano trovare. Erano una brutta categoria, da cui stare alla larga. Anche se questo si era tradotto per lui in uno stare alla larga da tutti, perché non vi era persona che non ritenesse esterna a questa categoria. Le ragazzine erano tutte carine, chi più chi meno (eccetto le due racchie a sinistra che erano davvero inguardabili e che a stento si sarebbero potute definire addirittura esseri umani!), ma non avrebbe sprecato neanche una sega su di loro. Non ne valeva la pena; lui non era come i rattusi dei suoi compagni di classe.
Dopo otto ore finalmente la campanella suonò di nuovo. Anche quella giornata di scuola era finita. Si diresse a piedi verso casa, da solo, ascoltando le chiacchiere di un gruppetto di ragazzi che lo precedeva di poco. Che palle, i loro argomenti erano così insulsi e mediocri che gli veniva la nausea a guardare come si esaltavano per le stupidaggini che andavano dicendo.
In breve arrivò a casa sua. Era la più bella del quartiere; d’altronde suo padre era uno potente per davvero e guadagnava bene col suo stipendio; in compenso a casa non c’era mai. Suo padre era forse l’unica persona che Nishi ammirava di cuore. Appena entrato in casa l’unica cosa di cui aveva voglia era rinchiudersi nella sua stanza fornita di tutti i comfort; invece fu fermato da sua madre,
“Joichiro, tesoro, com’è andata a scuola oggi?”
“Bene, grazie”, si tolse le scarpe e riprese ad avviarsi, “Ho preso 9 al compito di inglese”
“Sei sempre il più bravo! Anche quest’anno se la tua pagella sarà come credo potrai scegliere il regalo che vuoi”
“Be’, grazie”
Strano che sua madre non l’avesse rimproverato per non aver preso 10. I suoi professori lo dicevano sempre che se si fosse applicato di più avrebbe raggiunto il massimo, ma se a suo padre poteva importare tutto ciò, sua madre sembrava già così contenta per ciò che portava a casa gratis che quell’idea non la sfiorava neanche. Probabilmente la sua reazione sarebbe stata la stessa se a quel compito avesse preso solo 7. Possibile che sua madre fosse così mediocre? Forse non sapeva che non sprecava una sola ora al giorno sui libri per ottenere quei voti? Anche questo gli dava fastidio.
“Io vado nella mia stanza”, basta, voleva solo stare un po’ per conto suo rinchiuso nel suo mondo.
“Ma Joichiro, è una così bella giornata! Perché non esci un po’ e vai a giocare con qualche amico? Hai bisogno di svagarti un po’, guarda come sei pallido”
A quelle innocenti affermazioni la rabbia che latente covava dentro di lui esplose all’improvviso e con ferocia, “Ma sei stupida?! Devo studiare!”, le urlò maleducatamente in faccia.
Si rendeva conto che più che passava il tempo e più che diventava irritabile. Ci fosse stato suo padre non avrebbe esitato a mettergli le mani addosso e a punirlo, giustamente, ma se d’atronde ci fosse stato suo padre mai e poi mai si sarebbe azzardato a rispondere a quel modo a sua madre. Sua madre d’altro canto era rimasta ferita indubbiamente, ma anche zitta, ed era per questo che era stupida due volte. Forse in cuor suo avrebbe sperato in una reazione diversa da parte sua; invece questo modo di essere trattato lo faceva incazzare. Il mondo era davvero un casino, un casino risolvibile solo con una bella bomba atomica, a suo parere.
“Magari esco a fare un giro più tardi”, disse nel suo classico tono calmo e glaciale, come ad alleviare col freddo il dolore che i graffi della sua voce acuta e raschiante avevano causato a sua madre qualche attimo prima.
Aumentò il passo e si barricò dentro la sua cameretta. Ma se il mondo era un casino lui cos’era? Era una domanda che era meglio non porsi, perché lo trascinava sempre in un baratro oscuro. Tuttavia quella domanda lo tartassava, come se quel baratro nero lo attirasse magneticamente e inesorabilmente verso il suo fondo. Era solo, completamente solo. Non aveva fratelli o sorelle, né amici. D’altronde che amici avrebbe potuto volere? “Esci con gli amici”, gli aveva detto sua madre prima. E per far cosa? Per farsi venire il sangue amaro a sentire gli stupidi discorsi dei suoi coetanei, a vedere quanto questi fossero limitati? Se solo avesse potuto trovare uno spirito a lui affine, qualcuno come lui. Ma anche in quel caso chi gli avrebbe garantito che sarebbe stato meglio? Conoscendosi sarebbe di sicuro finito per odiare qualcuno simile a lui, che lo privasse quindi della sua originalità, o alla meglio sarebbe finito per entrare in competizione con qualcuno finalmente alla sua altezza. E anche in questo caso sarebbe stato male. Chi era lui? La risposta la conosceva ed era semplice: era soltanto un ragazzino viziato e odioso. Che i suoi genitori lo viziassero era indubbio. E questa era una delle poche cose che lo rendevano felice, perché era un feticista e un materialista, e delle cose che si faceva regalare non si faceva alcun problema ad affezionarsi ed innamorarsi nel minor tempo possibile. Ma con le persone era diverso. Più volte gli aveva accarezzato la mente l’idea di avere un fratello. Forse in quel caso sarebbe stato diverso? Avrebbe significato qualcosa se fosse stato sangue del suo sangue, vissuto sotto il suo stesso tetto fin dall’infanzia? Probabilmente no, anche in questo caso. Anzi, l’idea di poter avere qualcuno della sua età così vicino a lui lo spaventava. Un fratello era qualcuno cui dover rendere conto, qualcuno che poteva sapere cosa facevi di nascosto, qualcuno che fosse nella condizione di poterti giudicare e il cui giudizio avrebbe avuto un peso considerevole sulla tua coscienza. No, la solitudine era definitivamente lo stato migliore. Di questo ne era consapevole e si comportava di conseguenza.
Si tolse la divisa scolastica e si vestì. Poi si mise a sedere davanti al suo computer acceso. Il web, quella sì che era una delle cose più belle del mondo. Sul web sei tutti e nessuno al tempo stesso e soprattutto sul web puoi trovare tutto ciò di cui hai bisogno. Il web ha al suo interno tutte le risposte alle tue domande. E in quel momento di frustrazione aveva un solo desiderio da sfogare davanti al suo pc. Digitò sulla barra degli indirizzi www.rotten.com e attese che si caricasse la pagina. Quello era un qualche modo di sfogarsi e di soddisfarsi. Scorse col mouse la lunga pagina. Dall’ultima volta era stato aggiornato, qualcuno aveva aggiunto delle nuove foto. Era tutto molto grottesco, soprattutto i titoli delle foto in inglese. Le aprì tutte, con calma, una ad una, guardandole con attenzione. Alcune lo divertivano tetramente, altre lo spaventavano e sarebbero finite ad occupare i suoi incubi la notte, ma tutte avevano la stessa peculiarità. Era un dato inconfutabile: il battito del suo cuore aumentava a quella vista macabra. Era molto diverso da un film. Per quanto con le moderne tecnologie i film avrebbero potuto simulare benissimo l’interno di un corpo umano spezzato vi era una grossa differenza: quelle foto erano vere, erano cadaveri veri, non erano artefatti. Quella era la realtà, anche se filtrata attraverso il monitor di un computer. Chissà che effetto avrebbe fatto vedere quelle stesse cose dal vivo, sentire il tanfo del sangue e delle infezioni. Di nuovo un brivido gli percorse la schiena, e il suo cuore gli fece sentire con i suoi battiti quanto era vivo.
Dopo aver esaurito Rotten migrò su Youtube. L’ultima foto che aveva visto sul famigerato sito era l’effetto di un incidente stradale. Forse trovare un video sull’argomento avrebbe reso il tutto ancora più reale. Di video su incidenti stradali ce n’erano un sacco, più o meno cruenti e la cosa che lo stupì era che il numero di visualizzazioni che questi video avevano era elevatissimo. Quindi era pieno là fuori di anime perse come lui che trascorrevano il pomeriggio cliccando su quei video, lui non era né malato, né fuori dall’ordinario. Diede una letta ai commenti. Ma dicevano tutti le stesse cose e questo increspò il suo viso in una smorfia di disappunto. L’ipocrisia, anche sul web dove si poteva godere dell’anonimato, era imperante:
“Povera gente”, diceva qualcuno.
“Quella macchina non stava facendo niente di male”, protestava qualcun altro.
“Maledetti camionisti ubriachi e assassini!”, inveiva qualcun altro ancora.
“A certa gente dovrebbero dare l’ergastolo”, dicevano infine altri.
Tutti che guardavano e davano il loro giudizio, non uno che avesse il coraggio di ammettere il perché stesse guardando quel video, di condividere le proprie vere emozioni, invece di sparare sentenze. Che posto poteva trovare uno come lui in quel mondo? Suo padre, per quanto fosse assente dalla sua vita, gli aveva insegnato bene come funzionavano le cose in quel mondo marcio, forse anche fin troppo bene, e lui aveva cercato di guardare le cose con obiettività e comportarsi propriamente, affinché i suoi genitori fossero fieri di lui; e lo erano; dopotutto non avevano motivo di lamentarsi del loro unico figlio: un bravo ragazzo, tranquillo, intelligente, razionale e maturo, che non gli avrebbe mai dato problemi. E lui? Era anche lui fiero di se stesso? Se solo i suoi genitori avessero potuto vedere oltre, vedere tutto ciò che era in realtà. Vide per un attimo la sua immagine riflessa sul monitor lucido. Doveva essere fiero di se stesso, consapevole di trascorrere i pomeriggi a quel modo? Era giusto quello che stava facendo? Aveva rinnegato l’etica tempo fa, per fare sempre tutto ciò che voleva e non avere al contempo pesi sulla coscienza, ma a quel punto una scintilla dentro di lui si era accesa. Eppure l’attrazione per “quelle cose” che disgustano e turbano tutti a lui piaceva in maniera così morbosa e irresistibile che la poteva quasi accostare alla stessa smania con cui a volte si ritrovava a cercare sempre sulla rete video pornografici e perversi. Se quella era masturbazione fisica, Rotten era una masturbazione mentale.
Spense il computer, si infilò il giubbotto e decise di uscire per fare una passeggiata. Si era sempre posto un gradino sopra a tutti ma l’unica cosa che gli appariva chiara adesso era quanto fosse inutile la sua esistenza. Ecco, questo era il segno che quel baratro nero lo stava risucchiando. Ormai mancava poco. Non provava niente e mentre passeggiava per quelle strade si sentiva come un alieno fuori dal suo habitat. Non era la rima volta che si sentiva in quel modo, ma ogni volta che passava questo peso gravava sempre più sulla sua schiena schiacciandolo a terra. Era un’ipocrita anche lui a portare avanti quell’esistenza. Forse era questa la cosa che gli dava più fastidio, scoprire di essere come tutti quelli che aveva odiato in vita sua. Avrebbe fatto un atto di coraggio allora, qualcosa che per la prima volta in vita sua gli avrebbe dato grande soddisfazione di se stesso. Sarebbe finito tutto con quel gesto, ma almeno sarebbe stato felice. L’indomani avrebbe scoperto finalmente di che pasta era fatto, questa era la sua sfida ineluttabile.
Tornò a casa che era già buio, cenò con la sua famiglia scambiando poche parole e andò a letto. Il cuore gli batteva forte, sia per la paura che per l’eccitazione e l’impazienza. Aveva preso quella decisione così in fretta che si stupiva di se stesso. Ma in fondo non aveva importanza neanche quello, tanto che dopo poco riuscì addirittura ad addormentarsi.
Il giorno dopo era una bella giornata di primavera. Mentre camminava tranquillo verso scuola il sole baciava coi suoi raggi la pelle pallida del suo viso. Era davvero sicuro di voler rinunciare a tutto ciò? Era sicuro che ne valeva la pena? Non era forse il caso di ripensarci ancora un po’, di prendere tempo? Ma no, che sciocchezza. Certo, dopo ci sarebbe stato il nulla, ma era sempre meglio “nulla” di “qualcosa”. Era nichilistico, ma era la verità. Come non provava pietà e non gli importava niente se la gente moriva, lo stesso doveva accadere anche per sé, altrimenti sarebbe stato un ipocrita.
Attese la ricreazione con ansia. Quando si alzò dal suo banco e uscì dall’aula nessuno lo notò. Salì le scale fino al tetto e si affacciò dalla balconata. Maledizione, c’era ancora troppa gente là intorno. Lui voleva soltanto stare da solo, ci mancava solo qualcuno che cercasse di convincerlo a desistere, di ostacolarlo. Solo dopo, solo dopo avrebbe desiderato che tutti guardassero, ma non ora. Ciononostante quegli istanti erano ottimi per ragionare. Guardò verso il basso. Il tetto corrispondeva ad un quarto piano, quindi meno di quindici metri. Non era tanto, ma era sufficiente se fosse caduto nel modo giusto.
“Andiamo, inizia ad essere tardi”, sentì gli altri che erano sul tetto con lui avviarsi verso l’interno. La ricreazione era quasi finita ormai e questo era il momento buono. Doveva sbrigarsi. Strinse la ringhiera metallica con tutte le sue forze. Il cuore adesso schizzava nel suo petto e qualche lacrima aveva iniziato a solcargli le guance fredde. Quanto coraggio serviva per fare qualcosa del genere? Ne serviva tanto, veramente tanto! Ne sarebbe stato all’altezza? Respirò profondamente e si sfilò le scarpe, quindi scavalcò la ringhiera. Tra lui e quel baratro nero non c’era mai stato così poco. Guardò di fronte a sé. Nel cortile c’era ancora svariata gente, ma nessuno sembrava averlo visto sul cornicione. Ormai anche il suo cuore si era calmato.
“Ormai è fatta”, pensò. Quelli erano i suoi ultimi istanti di vita. La gente normale sarebbe stata terrorizzata, ma lui era tranquillo come sempre. Di questo era contento. Si soffermò sui suoi ultimi pensieri. Ripensamenti non ne aveva, né desiderava chiedere scusa per alcunché. Immaginò per un attimo che aspetto avrebbe avuto una volta sfracellatosi al suolo. Forse sarebbe somigliato a quelle foto che andava a cercare su internet? Almeno avrebbe dato un po’ di spettacolo, questo per una volta nella sua vita passata nell’ombra non sarebbe mancato. Ma in fondo che importava? Lasciò la ringhiera, chiuse gli occhi e si sporse in avanti. Fu facile come tuffarsi in acqua, benché non riuscisse ancora a smettere di piangere.
L’impatto col suolo arrivò dopo un paio di secondi e fu tremendo. Non capì la posizione che aveva assunto il suo corpo in volo, né fu in grado di sapere che cosa del suo corpo aveva toccato terra per primo. La fitta di dolore fu micidiale ma anche breve un istante. Sentiva di essere ancora vivo, ma sotto il suo collo non sentiva niente. Dopo qualche secondo i suoi occhi ripresero a vedere di nuovo, benché niente fosse chiaro o limpido. Il sangue gli riempiva la bocca e la gola, impedendogli di respirare; erano i suoi ultimi rantoli e tremiti.
“Oh mio Dio!”
“Ma cos’è successo?!”
“Aiuto!”
“Si è buttato dal tetto! Si è buttato dal tetto!!”
“Avete chiamato i professori, i soccorsi?!”
“Qualcuno sa chi è questo ragazzo?!”
Le voci le sentiva distanti, ovattate. Eppure i suoi occhi distinguevano con difficoltà una gran quantità di sagome umane proprio sopra di lui intente a guardarlo. Durò solo pochi secondi. Piano piano le immagini e le voci svanirono per lasciare il posto al nulla e lui si spense.

Quando riaprì gli occhi fu come se non li avesse mai chiusi prima. Ma allora era stato solo un sogno?

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** la prima missione ***



Si guardò intorno nella stanza. Era un appartamento completamente spoglio e composto da più locali. La camera dove aveva ripreso conoscenza era piena di gente e tutti gravitavano intorno ad una grossa e inquietante sfera nera che ne occupava il centro. Solo qualcuno rimase stupito dal suo arrivo, la maggior parte non se ne curò minimamente. Ma neanche lui si curò di quella gente, non prima, quanto meno, di aver rivolto tutte le attenzioni del caso a se stesso. Cos’era successo? Si era davvero buttato dal tetto della scuola o era stato solo un sogno? Cos’era quel posto? Non provava alcun dolore e il cuore che martellava fastidiosamente in petto, le gocce di sudore viscido che scivolavano lungo la sua schiena non facevano altro che confermargli che fosse ancora vivo... Ancora vivo? Ma che significato aveva tutto ciò? La sua coscienza non doveva tentare di farsi beffe di lui a quel modo: lui era morto, ricordava perfettamente quella orrenda sensazione; altro che sogno! E ora era vivo, in carne ed ossa, come lo era sempre stato prima di allora. Per quanto fosse assurdo quella era l’unica certezza che aveva.
In breve si rese conto che non sarebbe stato necessario assillare gli altri con tutte le domande che voleva porre, perché queste medesime le stavano ponendo tutti a tutti nel casino più totale, senza che nessuno conoscesse alcuna risposta, senza capirci niente.
“Ma dove siamo?”, saltò fuori un uomo sui cinquanta grasso e pelato.

“Siamo forse morti?”, più ansiosa e nervosa una bella signora se ne uscì con questa domanda.
“Ma allora questo cos’è, il paradiso?”, propose un giovane col volto pieno di brufoli.
“E da quando in qua dal paradiso si vede la Torre di Tokio?!”, lo riprese un altro uomo sulla trentina, dal volto scaltro.
“Cerchiamo di stare calmi e di fare chiarezza!”, di nuovo il cinquantenne.
“Ehi, non riesco a toccare la finestra!”, un’altra donna occhialuta era rimasta allibita di fronte agli infissi.

“Qualcuno di voi sa cos’è quella sfera nera?”
Mentre ascoltava distrattamente i commenti e le domande dei suoi coinquilini si rendeva conto che era troppo agitato. Doveva calmarsi, non c’era alcun motivo per restare in quello stato così teso. Era vivo e stava bene, e in quello non c’era niente di strano o di anomalo. Sarebbe bastato attendere e stare a guardare per fare un po’ di chiarezza, pensò, ma doveva restare calmo! Respirando capì che tutti coloro che si trovavano in quella stanza erano nella sua stessa condizione, ovvero erano tutti morti appena prima di ritrovarsi in quel posto.
Il caos regnava nell’appartamento; ognuno vociava rumorosamente e tutti si struggevano: chi dalla disperazione per la situazione ignota e la consapevolezza di essere morti, chi dalla gioia perché al contrario era assolutamente certo di essere vivo, in ogni caso le emozioni di ciascuno erano palesi ed esagerate. A lui invece non importava granché di tutto ciò. Non aveva alcun senso farsi prendere a quel modo dalle emozioni e lui era già assuefatto da tempo a quella sua fredda indifferenza e apatia per scivolarci dentro anche in quel contesto assurdo.
Guardò meglio: non proprio tutti si struggevano, bensì tutti tranne uno. Era un ragazzo delle superiori, probabilmente, un bel ragazzo alto e dai lunghi capelli corvini. Ecco, anche a lui sembrava non importare niente della loro situazione. Il costume che indossava era davvero buffo. Una tuta nera attillatissima con degli strani bottoni sparsi sul corpo, in un misto tra il futuristico e il ridicolo. Anche lui gravitava intorno alla sfera girandoci attorno con la stessa impazienza di uno squalo in attesa della sua preda. Quando la sfera iniziò a cantare tutti i presenti prestarono la massima attenzione in un misto di stupore, divertimento e paura.
“Cosa diamine c’incastra la ginnastica alla radio?!”, fece un tipo sulla ventina guardando con un’aria da sbruffone la sfera.
Poi apparvero sulla sua superficie quelle scritte che lo avrebbero accompagnato periodicamente da lì ad un anno intero: “Bastardi, la vostra vita è finita...”
Ma anche quello non bastava ad attirare più di tanto la sua attenzione. Quella schermata fu presto sostituita con un’altra: c’erano delle brevi istruzioni corredate da una foto, dicevano di uccidere l’alieno Kabuto e descrivevano in modo alquanto improbabile alcune delle sue caratteristiche.
Nishi non capiva tutto ciò, ma sembrava che la cosa stesse diventando sempre più ridicola. Tuttavia se quello era uno scherzo lui non ci sarebbe cascato, né si sarebbe esaltato dando così soddisfazione all’organizzatore. Semplicemente si sarebbe limitato a non fare nulla così come stava già facendo.
Quando la sfera si aprì di scatto tutti quelli che stavano là vicino sussultarono colti di sorpresa
“Ehi, ci sono delle armi qua dentro!”
“Guardate, un uomo!”
Nishi cercò di farsi largo con lo sguardo per capire cosa stava accadendo, infine decise che a quel punto ne sarebbe valsa la pena di alzarsi dal pavimento dove si era seduto in disparte. Dopo averci pensato si alzò e si avvicinò per vedere da più vicino. Voleva scrutare cosa faceva quel tipo interessante, il liceale con la tuta nera: lo vide avvicinarsi risoluto alla sfera e afferrare una pistola e un fucile. L’aria seria che aveva in volto suggeriva che anche la situazione fosse altrettanto seria e da non prendere sotto gamba.
Le valigette metalliche che erano impilate dalla parte opposta alle armi attirarono subito la sua attenzione, nel mentre che tutti gli altri si erano buttati sulle armi ad esaminarle. Ne scartò un paio finché non ne trovò una col suo nome scritto sul coperchio. Non si curò neanche di come questo potesse essere possibile. La sfilò dal suo alloggiamento e tornò a sedersi lontano da tutti, aprendo finalmente il contenitore per vedere cosa conteneva: una tuta come quella del ragazzo liceale, e probabilmente della sua taglia, osservandola aperta. Non seppe perché lo fece, forse era bastato lo sguardo del ragazzo dai capelli neri, ma si alzò ed uscì dalla stanza cercando un luogo più appartato per cambiarsi. Nessuno lo notò o disse niente. Fatta eccezione del ragazzo delle superiori gli altri erano tutti adulti e non sembravano prestare molta attenzione a un ragazzino delle medie silenzioso come lui. Solo allora poté constatare che, come avevano asserito gli altri astanti poco prima, la porta di ingresso era intoccabile. Questo era strano, perché per intoccabile intendeva proprio che la sua pelle non riusciva neanche a sfiorare il freddo metallo della maniglia o il legno della porta. Quando tentava di afferrare il pomello questo gli sfuggiva, come se fosse stato un ologramma di perfetta fattura. Pur non capendo tutto ciò smise di curarsene dopo qualche attimo. Ciò che non capiva non era un problema per lui; non era necessario che il suo cervello riuscisse a spiegare con la logica tutto ciò che accadeva intorno a lui; vivere nell’ignoranza a lui non avrebbe creato nessun disagio; bastava non curarsene e il gioco era fatto. Quando trovò un angolo appartato si cambiò in fretta coprendosi poi coi vestiti che aveva dietro, ovvero la sua divisa scolastica. Almeno non avrebbe dato troppo nell’occhio. Solo allora tornò nella stanza della sfera per vedere che aria tirava.
Appena entrato il liceale puntò per la prima volta lo sguardo su di lui, immediatamente. Era uno sguardo diverso rispetto a quello che aveva avuto tutto il tempo. I suoi occhi si erano accesi mentre si avvicinava a passi lunghi verso di lui: Nishi lo scrutò scettico dal basso verso l’alto quando il ragazzo si fu arrestato di fronte a lui. Che diamine voleva?
“Ti ho notato subito, appena sei stato trasferito in questa stanza; tu sei diverso dagli altri”, fece quello, “Sembra quasi che non sia la prima volta per te qua dentro”

Nishi apparve confuso da quelle parole.
“Lo stesso posso dire io di te, ma per il resto non so niente. A proposito, sarebbe buona norma presentarsi innanzi tutto, non trovi? Io sono Joichiro Nishi, 2a media, e non ho la più pallida idea di cosa stia succedendo”
Il ragazzo più grande parve scalfito nella sua armatura dal tono così tagliente di Nishi. Probabilmente non se lo immaginava da uno col suo aspetto.
“Mi chiamo Shion Izumi e a tua differenza ho già trascorso molto tempo in questa stanza”

“Non ti dare troppo disturbo”, lo interruppe subito Nishi sbrigativo, “non mi interessa sapere di più di questa situazione”
“Forse invece dovrebbe importarti qualcosa, se vuoi sopravvivere a questa caccia”
“Sai, dopo essere morto cadendo da un quarto piano e essermi risvegliato senza un graffio qua dentro, l’idea di aver trovato dopo la morte una nuova vita invece che il niente è qualcosa che ha fatto crollare tutte le mie certezze o le mie poche basi morali. A questo punto davvero me ne frego, non sto scherzando. Ogni cosa ha perso il suo senso”
“Be’, anche in questo siamo simili. Lasciati dare un consiglio, ragazzino, prendi un’arma e non ti allontanare troppo quando saremo fuori, se non vuoi che ti esploda la testa. La cosa è più semplice di quanto possa sembrare. Basta attenersi alle istruzioni del Gantz, niente di più, niente di meno. Mi sembri uno sveglio. Spero di rivederti alla fine della missione, ma non contare per questo sul mio aiuto in caso di bisogno”

“Non temere”, rispose seccamente. Ma nonostante il tono arrogante seguì subito il suo consiglio e andò a raccogliere una delle strane pistole appoggiate sulla rastrelliera nella sfera.
Fu in quell’istante che iniziò il tutto. Sulla sfera la scritta mutò di nuovo; ora era apparso un conto alla rovescia, per un complessivo di un’ora di tempo. In quello stesso istante, una ad una, le persone nella stanza presero a scomparire nel panico generale. Quella vista fu inquietante persino per lui. Si smaterializzavano dalla testa ai piedi, come se venissero scansionate da qualcosa all’interno della sfera. Infine toccò anche a lui; era una sensazione strana e indescrivibile e ci fu un attimo in cui i suoi occhi vedevano contemporaneamente il muro dell’appartamento e il cielo stellato di Tokio.
Tutto il gruppo dell’appartamento si trovò riunito su un incrocio stradale.
“Qualcuno sa dove siamo?”
“Sì, è il quartiere di Setagaya, guardate, da qui si vede la tangenziale”
“E adesso cosa facciamo?”

 Già, quella sì che era una bella domanda, concreta, forse l’unica domanda seria partorita da quel branco di idioti.
“Io me ne vado a casa, chiamo un taxi”
Ma ben presto si resero tutti conto che erano invisibili agli occhi dei passanti e che anche telefoni pubblici e cellulari non funzionavano per via di qualche guasto sistematico. Per quanto volesse rimanere coerente con la sua linea di pensiero dell’indifferenza e mantenere il sangue freddo, quella situazione così illusoria e tangibile al tempo stesso stava rendendo i suoi sforzi così onerosi da essere quasi vani. Ripensò alle parole di Izumi; non sembrava che stesse scherzando dal suo tono di voce, e comunque lui non voleva verificare di persona la veridicità di quelle parole. Maledizione, quella volta non riusciva a restare impassibile. Aveva paura, una dannata paura dell’ignoto. Adesso che si trovava nella sua città natale smaniava di poter tornare a casa, ma la consapevolezza di non poterlo fare lo stava tormentando. Izumi... Già, Izumi; che fine aveva fatto? Si guardò intorno freneticamente. Un attimo fa era lì insieme a tutto il gruppo. Possibile che in quei pochi istanti che si era perso nei suoi pensieri si fosse dileguato a quel modo, senza lasciare alcuna traccia? Certo, Izumi aveva specificato che non l’avrebbe aiutato, ma anche il solo stare vicino a lui invece che a quell’ammasso di inetti gli avrebbe dato un po’ di sicurezza in più. Non ci aveva messo molto a giudicare quella gente, come era suo solito. E poi cos’era questa sensazione irrazionale di terrore? Di cosa aveva da temere? Cosa sarebbe cambiato se anche gli fosse esplosa la testa per davvero? In fondo era già morto...
Il gruppo di persone che lo accompagnava in quel breve lasso di tempo era già riuscito ad instaurare un contatto sociale, mentre lui se ne stava da solo vittima delle sue congetture. Li vide confabulare qualcosa e iniziare ad allontanarsi in blocco ed entro poco si ritrovò da solo. Era sempre stato da solo e aveva preferito questo stato di cose allo stare assieme a gente incapace... Ma in questo momento l’idea di restare solo lo terrorizzava. Non sapeva neanche perché, dal momento che si trovava nella quiete notturna di quel tranquillo quartiere della grande metropoli e che apparentemente non vi era niente da temere. Eppure quella sensazione sgradevole non lo abbandonava, anzi, gli impediva più che passava il tempo di ragionare in maniera lucida, annebbiandogli la mente. Quel luogo non era casa, era un luogo ostile, ostile e malvagio, lo intuiva nel profondo del suo subconscio. Fu solo un istante perché anche lui si mise a correre dietro al gruppo degli altri che fin dal primo momento non avevano fatto altro che ignorarlo. Mentre correva per raggiungerli e non perderli di vista le parole di Izumi gli martellavano nella testa: “Ti consiglio di non allontanarti troppo, altrimenti la tua testa esploderà”. Forse faceva bene a smettere di correre e attendere là dove si trovava che qualcosa, qualsiasi cosa accadesse? Ma nonostante tutto continuò a correre finché non raggiunse tutti gli altri e poté sentirsi in qualche modo al sicuro.
L’esplosione parve quasi un tuono. Calcinacci e frammenti di mattone crollarono subito dopo poco distante da dove si trovavano e tutti volsero lo sguardo verso la sorgente di quel boato. Una nube di polvere si alzava lattiginosa tra le case.
“Avete sentito?”

 “Cosa sarà stato?”
“E che ne so?! Andiamo a vedere!”
Di nuovo come un gregge di pecore si rimisero tutti a correre, e Nishi li seguì anche questa volta a breve distanza. Li vide svoltare un angolo sulla destra e appena anche lui lo ebbe sorpassato li scoprì tutti piantati in asso intenti a fissare ciò che di assurdo stava accadendo davanti ai loro occhi. C’era Izumi al centro di quello spettacolo, in mano una katana sporca di sangue e nella fondina una pistola come la sua. Tutto intorno una gran quantità di mostri che potevano assomigliare a dei grossi lupi. Ma quelli non erano lupi normali, si vedeva da un chilometro. Attorno a Izumi c’era un discreto numero di cadaveri di quelle bestie, ma ancora tanti, troppi lo attorniavano snudando le zanne minacciose. Ma il volto del ragazzo era una maschera di ghiaccio e di determinazione, la paura qualcosa di troppo lontano per emergere dai suoi lineamenti perfetti. Peccato che la stessa cosa in quel momento non si potesse dire di Nishi. Lui che era sempre stato così fedele al suo stile di vita, tanto coerente da gettare quella sua stessa vita giù da un tetto senza troppi rammarichi e senza un vero e proprio motivo, posto davanti a quella vista non riusciva più a controllarsi. La paura lo aveva colto, mentre molte di quelle fiere lentamente iniziavano a rivolgere il loro sguardo indemoniato da Izumi anche a lui e agli altri che attendevano colti dal suo stesso timore là intorno.
Era letteralmente paralizzato, congelato. Quelle bestie enormi erano poco più piccole di un cavallo e sembravano inferocite. Con quei loro denti aguzzi avrebbero potuto dilaniare in men che non si dica le loro carni, e ucciderli poco a poco... Per quei brevi istanti gli sembrò di poter addittura annusare l’odore della morte, tanto era vicina a lui. Ma un conto era accettare di morire cadendo, spaccandosi l’osso del collo e salutando il mondo in meno di cinque minuti; ben diverso era quello che stava per accadere. E purtroppo sarebbe accaduto tutto così presto che era giunto il momento di fare i conti con quella realtà.
Sei bestie si erano fatte avanti verso di loro ringhiando e acquattandosi sulle loro lunghe e grosse zampe, pronte scattare e a caricarli e loro non riuscivano a fare altro se non restare immobili o fare qualche timido passo indietro. Nishi lanciò uno sguardo disperato a Izumi. Questi sembrava non curarsi minimamente di loro, troppo intento a combattere alternando la spada con la pistola. Se anche avesse chiesto aiuto Izumi non sarebbe mai intervenuto, lo avrebbe semplicemente ignorato come aveva promesso. Poi il primo lupo scattò. Galoppò all’impazzata e si scagliò sulla sua prima vittima, uno dei tizi rimasto paralizzato alla sua immediata sinistra. Gli saltò addosso con tutte e quattro le zampe atterrandolo e prese letteralmente a mangiarlo partendo dalla sua spalla. Le urla dell’uomo furono tremende, mai Nishi aveva udito un tale orripilante suono. In pochi morsi l’uomo perse completamente il braccio, divorato dalla bestia che a quel punto, non ancora sazia, si rivolse alla sua faccia. Fu una scena orribile, tanto orribile che solo a quel punto Nishi trovò il coraggio o la disperazione necessaria per voltare le spalle e scappare.
Chiuse gli occhi e corse più velocemente che poteva, ma non durò molto. Non aveva percorso pochi metri che il rumore delle zampe felpate di un’altro mostro gli fu alle spalle sempre più incalzante, finché non sentì una morsa dolorosa serrarsi attorno alla sua tibia; rovinò al suolo e si volse verso la sua gamba per vedere il lupo che la strattonava a destra e sinistra per cercare di strapparla dal resto del corpo.
Tutt’intorno nel frattempo quello scorcio cittadino e residenziale si era tramutato in un vero e proprio inferno. Nessuno di quelli che erano con lui era riuscito a salvarsi da quella furia immotivata. Nishi cercò di divincolarsi dal morso della bestia, ma questa era troppo forte. E solo in quel momento realizzò che il dolore immenso che provava non era dovuto a una qualche ferita o alla sua carne straziata, bensì al terrore nero che si era impossessato di lui tanto da fargli percepire addirittura un dolore che lui non stava provando. Quando fu cosciente di ciò fu l’istinto di sopravvivenza a prendere il sopravvento sulla paura, e, ricreato da una nuova spinta ardimentosa, scagliò con l’altra gamba che era libera una pedata contro il lupo così potente da farlo volare e sbattere contro un muro che sarà stato distante da lì almeno cinque metri. Non perse tempo in congetture e si alzò immediatamente in piedi. Il massacro là attorno era tutt’altro che finito, e lui voleva soltanto salvare la pelle. Mai come allora questa gli era stata così cara. Riprese a correre lungo la strada da cui era venuto cercando un qualsiasi nascondiglio. Quando scorse ai lati del marciapiede un casottino di cemento armato si precipitò verso di esso e tentò di aprirlo. Il pannello metallico che ne segnava la porta era chiuso con un massiccio lucchetto, ma quando lo afferrò in mano e tirò con tutta la sua forza questo si sbriciolò come se fosse stato di vetro, consentendogli di accucciarsi in quell’angusto ambiente. Tirò a sè lo sportello e trattenne il respiro. Forse se la sarebbe cavata stando nascosto là dentro zitto zitto? Le urla dei suoi compagni erano qualcosa di micidiale; da delle piccole fessure sulla porticina metallica gli era possibile in minima misura vedere cosa stava accadendo là fuori. In breve degli altri uomini che avevano percorso con lui quel sentiero non sarebbe rimasto nient’altro se non ossa e sangue.
Si ritrasse da quella vista. Era troppo rischioso; doveva pensare soltanto a sopravvivere, a salvarsi, ammesso che quel caos prima o poi fosse finito. Solo allora si guardò la gamba che era stata addentata. Su di essa non vi era alcun segno, la tuta che indossava non risultava neanche in minima misura rovinata da quello shock tremendo. Mentre l’uomo accanto a lui era finito fatto a pezzi. Forse era davvero merito della tuta? Si guardò le mani e strinse i pugni. La sensazione di potenza che provò lo fece sentire stranamente bene; si sentiva fortissimo, e il fatto che avesse devastato con tanta facilità quel lucchetto ne era la prova tangibile. Nonostante tutto pregò affinché quei mostri orrendi non scoprissero mai quel suo nascondiglio. Voleva solo che finisse tutto. Se lo avessero attaccato in blocco... Chissà se quella tuta sarebbe bastata. Un lampo si accese nella sua testa: aveva sempre una pistola, che stupido! Come aveva fatto a scordarlo?! La estrasse dalla tasca e la impugnò pronto ad usarla nella maniera più celere che poteva, se solo se ne fosse presentata l’eventualità. Questa d’altronde giunse presto. Sentì i passi di quelle bestie maledette avvicinarsi al suo nascondiglio, e una cosa era certa: non era una sola.
Avevano scoperto dove si trovava, dannazione! E ora che fare? Piuttosto che farli entrare tutti in quello spazio minuscolo sarebbe stato meglio cercare una via di fuga all’esterno, ma come? Aveva ancora così tanta paura... Ancora non aveva smesso di tremare. Non voleva morire, maledizione, no, non voleva morire un’altra volta, in quel modo! Tirò un calcio fortissimo come aveva fatto prima, e il pannello metallico schizzò via portandosi dietro un lupo. Con un’agilità e una velocità che non aveva mai avuto prima si alzò in piedi e iniziò a correre, sparando alla cieca davanti a sé e di lato con quella assurda pistola, premendo innumerevoli volte uno solo o tutti due grilletti a casaccio. Ma i lupi gli furono addosso in tre, col loro aspetto e il loro fetore disgustoso. Cercò con lo sguardo la sua pistola, ma vide che nel trambusto gli era scivolata troppo lontano, così tentò di liberarsi di quelle bestie a pugni. Scagliò un manrovescio a un lupo che tentava di artigliargli la gola, e mentre questo veniva catapultato lontano, a un altro che gli mordeva il braccio esplose letteralmente la pancia con un tonfo sordo. Il sangue caldo di quella cosa lo investì impedendogli di vedere; si ripulì con la manica e guardò l’ultima fiera che col suo peso gravava sopra di lui. Adesso basta, tutto ciò lo aveva stufato. Afferrò il collo dell’animale con entrambe le mani e strinse con quella sua nuova forza disumana. La bestia parve senza respiro, sofferente, e lui allora strinse più forte ancora e ancora finché questa non smise di rantolare. Forse era morta? Gettò quel corpo inerme a terra e corse verso Izumi, che non aveva ancora smesso di lottare. Sembrava che il numero di quelle bestie fosse infinito.
“Izumi! Izumi, aiutami, ti prego!”, non sapeva ancora per quanto avrebbe potuto resistere e continuava ad avere paura per la sua vita. Corse disperatamente, inciampando ogni tre passi, finché non gli fu accanto.
“Se sei ancora vivo cerca di tenere a bada queste bestie! Chi le controlla si trova in quella casa, una volta ucciso sarà tutto finito, ma io da solo non ce la faccio!”

Nishi non capiva, ma non voleva che Izumi lo lasciasse solo in mezzo a quelle fiere. Invece fu proprio ciò che avvenne. Il ragazzo, appena vide che Nishi era al suo fianco, smise di combattere e si precipitò a gran velocità dentro l’abitazione.
“Non mi lasciare, Izumi! Ti prego, aiutami! Brutto bastardo!”, niente, Izumi ormai era uscito dalla sua visuale. Ma perché lui doveva restare là a rischiare la vita mentre il ragazzo più grande faceva chissà cosa?
In breve fu di nuovo circondato dai lupi. Maledizione, non voleva essere attaccato ancora una volta dalla loro ferocia!
“Sparite! Bestie di merda!”
Si guardò intorno. Doveva raggiungere la sua pistola ad ogni costo. Scattò rapidissimo caricando le bestie che gli intralciavano la strada, finché poté afferrare di nuovo la sua arma. Ora doveva solo levarsi da là. Lanciò uno sguardo all’abitazione che lo sovrastava. Forse sul suo tetto si sarebbe salvato? Era così alto... Ma forse con quella tuta avrebbe potuto raggiungerlo saltando? Quando le bestie gli si avventarono contro fece solo due passi di rincorsa prima di staccarsi dal suolo desiderando di saltare il più in alto possibile. E ce la fece. Si aggrappò con le mani sul bordo del tetto e si issò sopra di esso tirando un sospiro di sollievo. Quelle stupide cose sembravano in crisi di fronte a tutto quel dislivello; si tiravano ritte sulle zampe posteriori grattando sul muro con le anteriori, ringhiandogli contro rabbiose, ma più di così non sembravano in grado di spingersi. Si sdraiò di pancia sul tetto e prese con tutta calma la mira. Quando premette soltanto il grilletto superiore sul display dell’arma gli apparve lo scheletro dell’animale, come se si trattasse di una radiografia in tempo reale. Quando aggiunse anche il grilletto inferiore l’arma emise un bagliore e un rombo, ma nessun rinculo e nessun effetto parve seguire. Quindi Nishi sparò ancora e ancora preda della rabbia verso quella situazione, finché non si rese conto che era tutto inutile; quella pistola sembrava essere niente più che un giocattolo, e lui c’era cascato in pieno. Fu in quel momento che il lupo che gli era più vicino sotto di lui esplose in più punti in uno spettacolo davvero disgustoso, e voragini si aprirono allo stesso modo sull’asfalto là intorno. Altro che giocattolo, quell’arma aveva un potere devastante! La guardò meravigliato. Adesso si sarebbe divertito un po’ lui. La situazione si era tramutata rovesciandosi completamente, passando da essere un incubo a un videogioco avvincente. Riprese la posizione di mira e tentò di centrare bene il colpo, ma in tutto ciò non si era neanche accorto che stava scomparendo. Di nuovo i suoi occhi furono puntati sul pavimento di parquet della stanza con la sfera nera. Izumi era là in piedi con l’aspetto perfettamente lindo e lo osservava dall’alto al basso mentre se ne stava prono con la pistola in mano in puntamento verso il niente.
Quando anche Nishi lo realizzò si alzò immediatamente in piedi. Era tutto finito, era finito per davvero. Non c’era bisogno di interrogarsi sul perché fossero rimasti solo loro due là dentro. Tutti gli altri li aveva visti morire in mezzo a quella strada massacrati brutalmente. Era sopravvissuto... Ecco, sopravvivere a quelle condizioni era qualcosa di veramente appagante, niente a paragone di condurre e trascinare avanti una vita facile e priva di significato. D’ora in avanti sarebbe stato tutto diverso per lui.

Il timer sulla sfera si era arrestato a dodici minuti dalla fine e dopo pochi secondi, con un tocco di campanello, apparvero delle nuove scritte sulla superficie nera. Nishi si avvicinò in fretta, curioso. Comparve un disegno stilizzato di Izumi, con tanto di nome e poi un punteggio: 28 punti, 7 punti alla fine. Izumi storse il naso contrariato, lanciando un paio di accidenti alla sfera nera. Poi l’immagine mutò e apparve il suo di disegno: Nishi-kun 2 punti, 98 alla fine.
“Bravo, ragazzino. Questa volta ce l’hai fatta. Sei ancora sicuro di non volerne sapere di più su questa storia?”
“Quello che è successo è successo. Vorrei solo sapere cosa accadrà ora”
“Oh, ce ne andiamo a casa e ci rivediamo alla prossima. Avvertirai una strana sensazione alla nuca quando il Gantz ti richiamerà”, e neanche ebbe finito di dire quelle parole che si avviò fuori dall’appartamento. Izumi era palesemente stanco morto, e la stessa cosa valeva per lui. Non vedeva l’ora di tornare a casa, ormai si era fatta notte fonda.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** sopravvalutarsi è un errore ***





Nishi camminò più di un’ora prima di poter giungere a casa dal luogo del misterioso appartamento. Aveva pensato di chiamare un taxi, ma subito dopo aveva realizzato che non aveva con sé il portafoglio. In realtà, eccetto la sua nuova tuta e l’uniforme scolastica non aveva nient’altro addosso.
Quando giunse nel suo quartiere residenziale le strade erano deserte e le luci tutte spente, segno che doveva essere molto tardi, ma almeno quella sgradevole sensazione di paura e pericolo era svanita. Quello era il mondo reale, e qui mostri e alieni, se anche fossero esistiti davvero, sarebbero stati invisibili e innocui; per questo ora era tranquillo, benché non vedesse l’ora di essere a casa sua. Soltanto allora avrebbe potuto decretare che era tutto finito, che era vivo e che avrebbe ripreso il suo cammino da dove l’aveva abbandonato buttandosi giù da quel tetto.
Vide casa sua in lontananza; strano, di tutte quelle sulla via era l’unica con tutte le luci ancora accese. Ma questo era un bene, perché anche le sue chiavi di casa erano rimaste chissà dove e se i suoi erano svegli non li avrebbe dovuti tirare giù dal letto per farsi aprire, né si sarebbe arrischiato nel tentativo di entrare da una qualche finestra. Suonò al campanello e poté udire lo sbattere sul pavimento di passi pesanti e frenetici. Fu sua madre ad aprire la porta; era tutta trafelata, aveva un aspetto stravolto e i capelli in disordine, e stava ancora piangendo, tanto che i suoi occhi erano diventati gonfi, rossi e lucidi.
“Sei proprio tu, Joichiro?”, disse nel suo classico tono insicuro e tremolante. E chi diavolo pensava che fosse sennò?
“Ma certo che sono io”, rispose in tono piatto. Si chiedeva solo cosa aspettasse sua madre per farlo entrare. Era stanco morto e voleva solo buttarsi sul suo letto. Prima di liberare la soglia della porta sua madre scoppiò e gli tirò uno schiaffo in pieno viso usando tutta la sua forza. Nishi rimase allibito per due motivi: da una parte era la prima volta che sua madre alzava le mani su di lui, e questo l’aveva colto di sprovvista; dall’altra sapeva che quello schiaffo avrebbe fatto male e avrebbe gonfiato e arrossato la sua guancia per la sua violenza, ma la verità era che lui non sentì assolutamente nulla. Quindi significava che la tuta continuava a mantenere il suo potere anche fuori dal mondo del Gantz.
Quando entrò suo padre stava seduto sul divano, addosso un’aria nera. Lui non piangeva, o almeno in quel momento aveva smesso, ma anche il suo aspetto era sconvolto.
“Ciao papà”, lo salutò quando lo vide.
Quando non giunse nessuna risposta riprese ad avviarsi verso la sua camera.
“Dove credi di andare?! Ci devi delle spiegazioni!”, tuonò suo padre alzandosi di scatto in piedi. Anche suo padre era una persona fredda in modo eccessivo, proprio come lui, ma non l’aveva mai visto così infuriato.
“Non capisco”, tentò Nishi interrogativo.
Questo fece arrabbiare suo padre ancora di più.
“Non fare il furbo! Ci hanno telefonato da scuola, oggi pomeriggio, dicendo che ti eri suicidato gettandoti dal tetto! Quando siamo corsi a scuola ci hanno riferito che eri sparito! Sei diventato matto?! Cos’è questa storia?!”
“E’ vero che ti sei buttato dal tetto? Davvero hai tentato il suicidio?”, riprese sua madre più timidamente, preoccupata. Anche lei era arrabbiata, ma più che arrabbiata era triste di fronte a quell’evenienza. Che dirgli adesso? Di sicuro non la verità.
“Rispondi a tua madre!”
Nishi guardò gli occhi gonfi e carichi di sconforto di sua madre e si sentì malissimo, come se una morsa gli avesse attanagliato il cuore all’improvviso. Fece un passo indietro cercando di apparire calmo e mascherare la sua tensione prima di sorridere in una smorfia, scrollare le spalle e tentare di sminuire l’accaduto.
“Ma no, come potrei fare una cosa del genere! Era solo uno scherzo, un gioco… Vedete? Ora sto bene, sono qui, è tutto apposto!”
Tutto ciò non stava affatto divertendo i suoi genitori, che tuttavia sembravano già più sereni e rilassati vedendo il loro amato figlio sano e salvo lì vicino a loro. Chissà quanto erano stati in pena per tutto quel tempo. I segni del loro dolore, per quanto questo fosse durato soltanto qualche ora, erano ancora visibili sui loro volti, che apparivano da esso invecchiati di qualche anno.
“Non ti azzardare mai più a fare di nuovo qualcosa di così cattivo gusto! Non capisco davvero come ti sia saltato in mente! Hai idea di quanto siamo stati in pena in questo tempo?! E poi si può sapere dove sei stato fino ad ora?! Sai che ore sono?!”
“Sì, lo so; sono stato in giro. Te l’ho detto, faceva tutto parte dello scherzo”, stava iniziando a seccarsi di fronte all’insistenza dei suoi genitori.
“Sparisci ora, vattene a letto prima che mi arrabbi ancora di più. Domani torni a scuola, così spiegherai anche là cosa ti è passato per la testa!”
Con aria mesta, senza dire una parola, il ragazzo fece ciò che più desiderava fare da quando era arrivato. Quando finalmente si stese sul suo letto tutta la stanchezza che aveva accumulato gli crollò addosso in un solo istante. Aveva un tale sonno. E l’indomani a scuola… Che rottura di palle. D’altronde di che si stupiva? Quella era la sua vita che era tornata normale, e in essa ricadeva anche l’andare a scuola quotidianamente. Gli occhi già gli si stavano chiudendo. Avrebbe fatto bene a spogliarsi e a darsi una sciacquata prima di addormentarsi, per quanto gli sarebbe andato bene anche crollare così come stava. Valutò se togliersi o meno la tuta. In quel momento quella tuta era il bene più prezioso che aveva, data la sua potenza. Ma almeno per la notte ne avrebbe potuto fare a meno. Per quella notte, almeno.
Prima di addormentarsi continuò a riflettere su quella assurda giornata. Adesso che era nel suo letto in pigiama, adesso sì che gli sembrava tutto un gran sogno inspiegabile. Finché non si voltò dall’altro lato e decise che era troppo stanco anche per pensare.
Il giorno dopo riprese tutto come al solito. Le otto ore tutte da smarcare sul suo banco, il pranzo al sacco da solo, il pomeriggio a casa nella sua stanza, suo padre che non si faceva vivo se non a tarda serata. Tutto normale. E anche i giorni che seguirono. Ogni tanto per svagarsi faceva un giro in città, giusto per ammazzare il tempo; inoltre il praticare posti tanto affollati, se pur da solo, era in grado di farlo stare bene e costituiva un’ottima via di fuga quando le pareti della sua stanza sembravano così strette da schiacciarlo al loro interno.
Avvenne quando si trovava in camera sua, fortunatamente. In quei giorni pensava spesso al Gantz e all’esperienza che aveva avuto, anzi, era meglio dire che pensasse soltanto a quello, come un chiodo fisso. Quel pomeriggio la sua sete morbosa di conoscenza lo aveva spinto a trascorrere tutto il tempo su internet, nel tentativo di trovare qualche informazione aggiuntiva su quella stanza con quella sfera nera detta Gantz. Ma cercando e cercando, scorrendo pagine in tutte le lingue che era in grado anche in minima parte di comprendere, non riuscì a trovare niente, assolutamente niente sull’argomento. Questo era male; le parole di Izumi erano state chiare e lui sapeva che non sarebbe mancato molto a che avrebbe fatto ritorno in quell’appartamento. Ma avrebbe tanto desiderato ritornarci con un bagaglio di informazioni maggiori, così da trovarsi ancora di più al sicuro, ancora di più in vantaggio. C’erano così tante domande che aveva e nessuno, eccetto la rete, a cui porle.
A un certo punto udì un ronzio dentro la sua testa, come una sorta di suoneria per cellulare, e seppe che il momento era giunto. Era emozionato, e questo era già qualcosa di eccezionale di per sé, anche se non sapeva se era più la paura o l’eccitazione a ridurlo in quello stato. Quando il processo di trasferimento fu terminato nella stanza dalla sfera nera c’erano soltanto lui e Izumi.
“Ciao”, a Nishi parve opportuno salutarlo, anche se Shion rispose solo con un cenno. Ormai era la seconda volta che assisteva a quella scena, e poteva azzardarsi ad asserire che il ragazzo veterano fosse sempre particolarmente teso e distante prima dell’inizio della missione.
Joichiro si avvicinò a Izumi, cercando di capire cosa gli passasse per quella testa. Poi gli pose la domanda che forse tra tutte lo incuriosiva in quel momento, “Di’ un po’, sai già cosa succederà quando raggiungerai i 100 punti?”; ricordava che dopo l’ultima missione il punteggio di Izumi era salito a 93, molto vicino al fantomatico traguardo.
“Sì, ho già visto qualcun altro arrivare a 100 punti, anche se non sono molti che ce la fanno. In ogni caso il Gantz ti propone tre alternative: tornare libero e con la memoria cancellata, ottenere una nuova arma più potente o far rivivere qualcuno morto”
Nishi rimase sinceramente stupito dalla grandezza di quelle tre scelte. Lui era ancora molto lontano dai 100 punti, ma questa consapevolezza non poteva che fargli desiderare di completare il gioco il prima possibile.
“Sai già cosa sceglierai quando avrai finito?”, tentò di portare avanti quella conversazione. Nel frattempo altre persone si materializzavano una dietro all’altra con l’aspetto stranito o disperato, ponendo domande a chissà chi. Ma sia lui che Izumi li ignorarono di sana pianta.
“Sì, voglio tornare libero”
“Ti sei stancato di questo gioco? Sei sicuro che poi non ti mancherà quando riprenderai la tua vita di sempre?”
Izumi si prese una pausa e lo guardò dall’alto con aria tollerante e presuntuosa, “Tu sei soltanto un ragazzino inesperto che non sa niente di come funzionano le cose qua dentro”
“Hai ragione, ma quel poco che ho visto non mi è dispiaciuto. Penso che se toccasse a me sceglierei un’arma più potente. Ora come ora non sto nella pelle di essere là fuori”
“Non mi fraintendere, anche a me piace l’idea della caccia. Ma c’è una cosa che mi dà troppo fastidio in tutto ciò: l’idea di non essere libero. Noi qui siamo costretti a comportarci in questo modo. Veniamo richiamati all’improvviso per assolvere le missioni che ci affida il Gantz, senza poterci tirare indietro o usare l’iniziativa. E se usciamo dal perimetro dell’area consentita, o parliamo del Gantz fuori da qua ci esplode la testa. A te non da fastidio tutto ciò, non preferiresti essere libero? Io voglio essere il solo padrone della mia vita. E dopo tutto il tempo che ho trascorso in questa stanza voglio viverla affondo la vita che mi spetterà. Voglio ricominciare da zero e sfruttare la fortuna di aver avuto una seconda chance”
“Ognuno è libero di fare come gli pare”, rispose Nishi alzando le spalle. Lui restava dell’idea che quelle missioni allucinanti erano un ottimo diversivo e riempitivo delle sue giornate mediocri e monotone.
Fu in quel momento che il Gantz iniziò a suonare, come avvenne la sua prima volta, la canzoncina della ginnastica radiofonica. E tutto si ripeté come la scorsa missione. Anche le reazioni delle altre dieci persone nella stanza furono le medesime di quelle dell’altra volta. Come in precedenza fu lo scetticismo a prevalere, e nessuno pensò neanche lontanamente che infilarsi la tuta sarebbe stata una scelta saggia. Né Nishi né Izumi d’altronde li distolsero del contrario. A Izumi semplicemente non importava niente di quella gente, a Nishi invece iniziava a sorgere nella testa l’idea che sarebbe stato divertente vedere come quella gente se la sarebbe cavata o soprattutto come sarebbero stati ammazzati. Poveri ignari! Tanto non aveva nulla di cui preoccuparsi. La consapevolezza di essere già morto, come tutti gli altri, aveva alleggerito tutte le cose della loro importanza, così che se la sarebbe potuta ridere semplicemente delle disgrazie altrui che si sarebbero presto realizzate.
Afferrò una pistola e si preparò al trasferimento. Quella volta che non aveva paura avrebbe cercato di accumulare qualche punto in più. Dentro quella tuta e con quella pistola si sentiva al sicuro da ogni pericolo. Ma presto si sarebbe ricreduto amaramente su questo punto.
Di nuovo tutta la congrega si ritrovò sulle strade di un altro, tranquillo quartiere di Tokio. E di nuovo ci furono gli infiniti minuti delle domande del gruppo che non aveva idea di cosa stesse accadendo. Un tipo che sarebbe potuto essere suo padre lo scrutò e si avvicinò a lui
“Ragazzino, ma tu sai che cos’è questa storia? Cosa dobbiamo fare? Perché siamo qua?”
Nishi lo guardò seccato. L’uomo era palesemente spaventato da quella situazione. Ma che palle! Che cosa gli doveva raccontare? Doveva davvero perdere tempo a spiegargli quel poco che sapeva, a raccontargli della sua ultima missione per fargli rendere conto di quale fosse la realtà? Non ne aveva assolutamente voglia; anzi, di quella gente non gli importava assolutamente nulla, e prima sarebbero schiantati meglio sarebbe stato. “Sì, io so tutto, non è la prima volta che mi è capitato. Non c’è niente da temere, siamo stati tutti ipnotizzati, ma adesso siamo svegli. Possiamo andarcene tutti a casa”, mentì spudoratamente.
“Davvero possiamo andarcene a casa?”, l’uomo pendeva dalle sue labbra, e anche gli altri nell’udire quelle parole si erano stretti attorno a lui per avere maggiori informazioni.
“Ma certo, ora è tutto finito”
Tutti là intorno esultarono; alcuni iniziarono ad avviarsi, altri cercarono prima di orientarsi per capire che strada prendere, qualcun altro ancora prese direttamente a correre come un forsennato. Nishi si chiedeva tra quanto avrebbe sentito la prima testa esplodere. Non conosceva nessuna di quelle persone, e l’idea che potessero morire di nuovo, ma soprattutto che potessero morire a causa sua non lo toccava minimamente. Una volta liberatosi del peso di quegli inetti si sarebbe potuto concentrare sulla missione. Quella volta Izumi era ancora là nei paraggi. Il piccolo telecomando che il ragazzo più grande stava maneggiando attirò la sua attenzione.
“Cos’è quella cosa, Izumi?”
Izumi non alzò neanche lo sguardo verso di lui, troppo impegnato a scrutare il piccolo display; si degnò a malapena di rispondere, “Non chiedermelo, ce l’hai anche tu, sul braccio sinistro”
Effettivamente sulla tuta, sull’avambraccio sinistro, era presente un alloggiamento per quel piccolo telecomando. Come aveva fatto a non accorgersi fino a quel momento della sua presenza? Lo estrasse, e capire a cosa serviva non fu difficile. Per lui e tutti quelli della sua generazione che erano abituati a smanettare con computer, cellulari e un’altra infinità di apparecchiature elettroniche riuscire a muoversi su quel display era un gioco da ragazzi. Riuscì subito a localizzare il punto dove lui e gli altri si trovavano, e rimpicciolendo lo zoom trovò anche gli alieni e il quadrato che probabilmente delimitava il perimetro dell’area di gioco, anche se avrebbe preferito vedere la testa di chicchessia esplodere per averne conferma.
Dopo che quel display ebbe esaurito tutta la sua attenzione si mise a premere a caso tutti i tasti che si trovavano sul piccolo telecomando per scoprire che funzionalità avevano. Ma quando premette un tasto quadrato tra i più grandi la sorpresa fu tale che per poco non ci rimase. Le sue mani, insieme al telecomando che stringevano erano letteralmente scomparse. Si mosse a passi rapidi. Tutto ciò che era attorno a lui appariva normale come al solito, ma guardare una vetrina e non riuscire a vedere il proprio riflesso non era mica cosa da tutti i giorni. Ne rimase così stupito che per poco non ne ebbe paura. Provate a immaginare quale sensazione possa essere specchiarsi come si usa fare sempre e non vedersi! Però doveva ammettere che tutto ciò lo stava esaltando. Quella tuta era davvero qualcosa di formidabile! Avere la conferma di essere diventato invisibile, come succedeva solo nei manga o nei film di fantascienza, era qualcosa di incredibile, che unito alla forza e all’agilità sovraumane che quel vestito gli conferiva e alla pistola devastante che stringeva in pugno lo rendevano sicuro di sé come non lo era mai stato. Adesso si sentiva veramente tranquillo. In quelle condizioni di superiorità non gli sarebbe potuto succedere niente, così da sopravvivere facilmente a quella missione e magari riuscire anche a racimolare qualche punto.
Peccato che Dio, o Gantz, o il Destino, non si attennero ai suoi piani quella volta, per quanto i suoi calcoli non facevano una piega. Quella missione non l’avrebbe mai potuta scordare, fu forse la più terribile di tutte! Trovare gli alieni non fu difficile seguendo a ruota Izumi, e assistere al cruento scontro e al massacro di chi dei giocatori attuali si trovava nei paraggi fu quasi divertente con la consapevolezza di essere completamente al sicuro. Quando si fu stancato di starsene a guardare con le mani in mano e decise di attaccare uno di quegli alieni commise il primo errore. Non aveva notato che quell’alieno dall’aria innocua che se ne stava apparentemente in disparte era già stato adocchiato da Izumi, che lentamente e silenziosamente gli si stava avvicinando da un’altra direzione, o forse ignorò semplicemente questo dettaglio. Sta di fatto che dopo che ebbe premuto entrambi i grilletti e meno di un centimetro dalla testa del mostro dalle sembianze leggermente umane, e che dopo un paio di secondi quella stessa testa esplose come un pallone, la rabbia di Izumi lo folgorò. Il ragazzo più grande intuì subito dove si trovava, anche se era ancora invisibile, lo acciuffò e lo strattonò a sé in maniera furiosa, dopodiché, frugando sul suo braccio premette lui stesso il pulsante che lo fece tornare visibile.
“Maledetto moccioso, prova un’altra volta a rubare i miei punti e ti ammazzo!”
Nishi non si aspettava una reazione così violenta per così poco; Izumi era un tipo freddo e riservato, esplodere a quel modo per quella sciocchezza era un particolare che non aveva considerato. Tuttavia il ragazzo più grande non aveva ancora lasciato i suoi abiti; per un attimo Nishi temette che davvero l’avrebbe ammazzato. Era così arrabbiato che le sue braccia, nello stringergli il bavero si erano gonfiate e scolpite enormemente per effetto della tuta.
“Questa sarà la mia ultima missione, perciò tutti i punti sono miei, capito?! Adesso vattene!”, e lo scaraventò di lato violentemente come se si trattasse di una pezza.
“Ma vaffanculo Izumi! Vedi di crepare!”, lo mandò a quel paese appena si riprese dalla botta. Ma non aveva voglia di provocarlo ulteriormente; purtroppo doveva ammettere che lo temeva, Izumi era davvero troppo forte. Rialzandosi si guardò intorno. Quel dannato di Izumi aveva dovuto proprio renderlo visibile? Adesso aveva tre paia d’occhi gialli di quelle specie di ometti che lo fissavano con aria minacciosa.
Non c’era problema, pensò. Prese l’apparecchietto e premette il pulsante che l’avrebbe reso invisibile. Tuttavia non scorgere lo stupore negli occhi di quei mostri di fronte alla sua scomparsa lo agitò. Si allontanò da lì velocemente, ma quegli occhi erano sempre fissati su di lui. Niente da fare, sembrava proprio che dopo essere riusciti a individuarlo anche se scompariva era tutto inutile. Dannato Izumi, col suo gesto l’aveva messo proprio in una brutta situazione. Sparò contro quegli esseri qualche colpo, ma soltanto uno di essi riuscì a fare centro e far esplodere la pancia dell’alieno; erano troppo veloci, e la sua pistola troppo lenta. Quando gli furono troppo vicini ne scacciò uno lontano con un calcio, ma l’altro gli era già addosso e aveva azzannato con in suoi denti appuntiti il suo braccio. La tuta stava facendo il suo dovere, ma se lo sarebbe dovuto togliere di dosso al più presto possibile quel mostro.
Con la mano che aveva libera afferrò la fronte dell’alieno per cercare di allontanare la sua bocca dal suo polso. Avrebbe tanto desiderato vedere le sue dita schiacciare le ossa di quel cranio come uno schiaccianoci. Si concentrò e strinse più forte, e ancora più forte. La tuta si deformò, sprigionando tutta la sua potenza, ma sembrava che questa non fosse sufficiente a schiacciare quella testa. Il mostro nel frattempo, forse a causa del dolore crescente, non aveva fatto altro che serrare sempre più la sua morsa. Nishi tentò di aumentare ancora la potenza, tanto che la mano che stava fasciando la fronte dell’alieno stava iniziando a dolergli insieme ai muscoli del braccio; poteva sentire le vene del collo tese come cavi d’acciaio e il cuore pulsare come un martello mentre nell’apnea di quello sforzo immane digrignava i denti tanto da fargli sanguinare le gengive. Strinse gli occhi e cercò di fare di meglio. Ormai quello era diventato un braccio di ferro tra lui e quell’essere, non poteva permettersi di perdere quella sfida, di cedere per primo. Ma dopo poco non ce la fece davvero più. Le sue energie si erano esaurite, i suoi muscoli non avevano retto. Tutta la sua forza era svanita di colpo. In quello stesso istante, i denti dell’alieno riuscirono a sfondare la tuta nel punto in cui ci avevano provato così a lungo. Quando i canini aguzzi penetrarono la sua carne Nishi urlò dal dolore, cercando di levarsi quell’alieno di dosso. Fortunatamente, appena riuscito a mordere, lasciò subito la presa. Nel dolore dilaniante il ragazzo riuscì a scorgerlo allontanarsi barcollando e infine stramazzare a terra forse senza vita. Probabilmente anche lui doveva aver sofferto qualche danno da quel testa a testa. Nishi si guardò il polso pulsante. Dove la tuta era stata strappata, sulla sua pelle chiara erano visibili più buchi larghi e profondi, che avevano preso a sanguinare copiosamente. Ma non era soltanto il suo braccio a sanguinare. Anche la tuta aveva iniziato a perdere del liquido scuro da tutti i bottoni che la ricoprivano.
Si sentiva distrutto, e il braccio gli faceva troppo male. Senza farsi troppe domande si accostò a un muro e premette il pulsante sul telecomando per diventare invisibile. Forse se nessuno lo vedeva sarebbe riuscito a scamparsela. Ma quando notò che il display del dispositivo era spento e che nessun tasto sortiva alcun effetto l’angoscia che lo colse fu devastante. Inoltre quella sensazione di debolezza che ancora non lo aveva abbandonato non faceva che suggerirgli che fosse successo qualcosa alla sua tuta e che questa avesse perso tutto d’un colpo i suoi poteri. Ebbe una paura infinita, come non l’aveva mai avuta in tutta la sua vita. Cosa avrebbe fatto ora? Se fossero arrivati altri di quei mostri si sarebbe messa male sul serio. La tuta era stata strappata, e adesso che si sentiva così nudo non era poi molto diverso dai disgraziati che erano crepati brutalmente pochi minuti prima, di cui si era fatto beffe dall’alto della sua superiorità. Maledizione, il braccio gli faceva così male che anche pensare stava diventando troppo difficile.
Afferrò la pistola che aveva riposto nella fondina. Che sciocco che era stato. Se solo avesse sparato in testa a quell’alieno che gli si era attaccato al braccio invece di volerlo a tutti i costi schiacciare con le dita forse adesso sarebbe stato bene. Si era sentito troppo sicuro di sé e aveva strafatto. Una lezione da imparare per il futuro… Se un futuro ci sarebbe stato per lui, sempre che non fosse morto in quel postaccio. Di nuovo la paura lo assalì repentinamente. Ma ancora peggio di questo c’era l’inferno che era il suo braccio. Per quanto cercasse di non pensarci quel dolore non faceva che aumentare ogni secondo che passava; non sarebbe riuscito a resistervi ancora per molto. Strinse i denti e pensò che quando sarebbe stato tutto finito sarebbe andato da un medico per farsi medicare; col tempo sarebbe passato tutto, a patto che Izumi si sbrigasse a terminare quella cazzo di missione. Quanto tempo sarebbe mancato allo scadere del conto alla rovescia? Nishi pregò perché tutto finisse il più in fretta possibile; non ne poteva più di quello stato d’ansia, voleva soltanto tornare a casa dai suoi genitori.
Si guardò il braccio ferito. Rabbrividì quando vide che in quei pochi minuti la sua mano si era gonfiata in maniera innaturale; era per questo che gli doleva così tanto. Guardò attraverso la tuta squarciata i fori che i denti del mostro gli avevano lasciato sull’avambraccio. Anche quelli si erano gonfiati e tutto intorno la pelle appariva livida e turgida.
Ad un certo punto il dolore impennò letteralmente. Chiuse gli occhi e urlò, stringendosi saldamente con la mano sana il braccio nel tentativo di isolare quella tortura dal resto del corpo. Quando il suo braccio esplose fino al gomito non seppe come fece a non svenire dal dolore. La sua mano destra continuava a stringere il moncherino e poteva sentire il viscido del suo sangue abbondante imbrattare le sue gambe e il pavimento circostante in un lago rosso. La deflagrazione del suo arto, delle ossa, dei muscoli era stata qualcosa di terribile. Si accasciò sul fianco continuando ad urlare dal dolore e dalla paura, ma le fitte non si attenuavano minimamente. Il sangue scivolava a fiumi dalla sua estremità amputata, e con esso poteva sentire scivolare via da sé tutte le sue forze. Ormai non aveva più neanche l’energia necessaria per urlare. Lo sapeva, presto sarebbe morto, sarebbe morto un’altra volta. Tacque cercando di stare calmo; forse non agitarsi sarebbe stato l’unico modo per resistere ancora un altro po’, e resistendo qualcuno forse avrebbe potuto aiutarlo; forse Izumi… Ma chi voleva imbrogliare? Con tutto il sangue che aveva perso non ce l’avrebbe mai fatta, anche se fosse riuscito a tornare nell’appartamento; e nessuno poi sarebbe andato ad aiutarlo. Doveva soltanto rassegnarsi. Eppure se la prima volta che era morto non glien’era importato assolutamente niente adesso non riusciva a pensare ad altro. Non voleva morire, non un’altra volta maledizione!
Quando si accorse che il trasferimento stava avendo inizio si strinse ancora di più a quella sua misera vita per restarle attaccato. E quando il trasferimento finì fu sudato come se appena risvegliato da un incubo terrificante; sudato, sì, ma anche perfettamente sano. Non ebbe neanche bisogno di un secondo per riprendersi completamente e appurare che il suo braccio era integro, insieme alla tuta. Era come se tutto ciò che aveva vissuto quella sera non fosse mai successo, e di questo ne fu grato. La paura che aveva provato e quel dolore allucinante erano qualcosa che non avrebbe mai più voluto sperimentare in vita sua.
Adesso che era tutto finito riuscì a calmarsi davvero e tornare alla sua abituale freddezza. Quanto desiderava tornare a casa!
Solo a quel punto si rese conto con vago stupore che nella stanza, come la volta precedente, erano rimasti solamente lui e Izumi. Questo significava chiaramente che tutti gli altri fossero morti. Nishi osservò il ragazzo più grande attendere di fronte alla sfera che questa iniziasse a distribuire i punteggi. Si avvicinò anche lui, continuando ad accertarsi che il suo braccio fosse tornato come nuovo tastandolo in tutti i punti.
Accompagnato dal rintocco di un campanello sulla schermata del Gantz apparve il disegno di Izumi: 142 punti, andare al menù 100 punti. Nishi lesse con in propri occhi ciò che Izumi gli aveva detto a parole quella stessa serata prima di venire trasferiti.
“Voglio essere libero, scelgo l’opzione numero 1”, disse risoluto Izumi.
Adesso i suoi lineamenti erano finalmente distesi, ora che aveva la consapevolezza di aver finito, di essere finalmente di nuovo libero. Per la prima volta Nishi lo invidiò profondamente. Ripensò in quel momento alle parole che aveva proferito prima di partire per la missione e della loro sicurezza. Dopo ciò che aveva provato non voleva che rimangiarsi tutto. Dopo aver sfiorato così da vicino la morte quei cento punti non potevano che essere l’obiettivo principale che si sarebbe dovuto porre d’ora in avanti. Quel gioco poteva anche essere divertente, ma aveva indubbiamente sottostimato il pericolo intrinseco che si celava in ciascuna di quelle missioni. E adesso che aveva chiaro questo punto tutto era cambiato, il suo punto di vista prima di tutto.
Izumi iniziò a smaterializzarsi.
“Ciao, allora”, lo salutò con aria mesta.
“Buona fortuna”
Nishi sapeva che non l’avrebbe mai più rivisto. Beato Izumi! Ma adesso era giunto il suo turno: il Gantz gli aveva assegnato altri due miseri punti, così ora era salito a quota 4. Storse il naso. Se continuava di quel passo non avrebbe mai finito. Izumi aveva guadagnato così tanti punti perché era andato subito al nocciolo della questione, ovvero l’eliminazione del boss, fatta la quale la missione terminava e tutti i vivi tornavano indietro nell’appartamento. Doveva prendere esempio da lui, anche se era cosciente del fatto che difficilmente avrebbe potuto eguagliarlo in termini di abilità e forza; stentava a vedersi al centro della mischia con in mano una katana a fare strage di mostri… Avrebbe usato la sua arma migliore, ovvero la testa, la furbizia.
Dato che il Gantz non aveva nulla di più da dire decise di tornarsene a casa. Era sempre bello tornare a casa dopo le missioni, soprattutto dopo quest’ultima, in cui davvero c’era stato un momento in cui era stato sicuro che non ci avrebbe mai più fatto ritorno.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** la tragedia ***





Anche quel giorno tornò a casa subito dopo scuola. Erano già passati tre mesi dalla missione che gli era quasi costata la pelle. La sua vita andava avanti come al solito. Oddio, in realtà qualche novità c’era stata in quei mesi: aveva aperto un blog su internet in cui lentamente stava riversando tutte le conoscenze che acquisiva sul Gantz passo dopo passo, ed esponeva con fredda oggettività tutto ciò che accadeva durante le missioni, nomi e cognomi dei partecipanti inclusi. Ci aveva pensato a lungo prima di prendere quell’iniziativa. Temeva per la sua testa, ma in fondo dubitava che scrivendo su un computer senza mai neanche nominare la parola Gantz ma riferendosi a una “stanza con una sfera nera” il Gantz o chi o cosa gli stesse dietro lo potesse mai scoprire. Tra l’altro sapeva che un blog così assurdo non avrebbe potuto avere granché seguito dal parte della gente. In fondo era solo un ragazzino delle medie che scriveva quelle stupidaggini e di spazzatura simile il web era pieno zeppo. Se lo faceva lo faceva soltanto per se stesso, per non scordare e tenere a mente tutto ciò che accadeva in quella stanza. E se lo pubblicava su internet era solamente perché a differenza della sua vita normale, dove si comportava da asociale, sulla rete la sua partecipazione era molto attiva. Magari poi pubblicando quella roba su internet sarebbe riuscito a raccogliere qualche informazione in più, chissà.
La seconda novità riguardava la situazione familiare che c’era in casa sua. Negli ultimi mesi suo padre si vedeva sempre meno a casa e sua madre di conseguenza era sempre più triste. Non era tristezza generica o passeggera la sua; era una seria forma di depressione, dovuta chissà a cosa, forse all’età. Detestava vederla piangere e lei ormai non faceva che piangere in continuazione. Cazzo, che andasse da uno psicologo a farsi vedere, che prendesse qualche antidepressivo, che facesse qualcosa invece di stare là a piangere, disperarsi e soffrire. Che poi per quanto poteva apparire cinico ci stava male pure lui a vederla in quello stato, ma purtroppo non sapeva proprio che fare.
Quando arrivò aprì la porta con le sue chiavi, entrò e si levò le scarpe. Sua madre si trovava in salotto, seduta sul divano… E stava piangendo. Che rottura di palle!
Non voleva guardarla, così si diresse subito speditamente verso camera sua.
“Ciao, tesoro”, lo salutò sua madre asciugandosi gli occhi e sforzandosi di sorridere come se niente fosse.
“Ciao mamma”
“Com’è andata oggi?”
“Tutto bene, grazie”
Ecco il solito teatrino di tutti i giorni che si ripeteva. Meno male che ora che era terminato poteva andarsene nella sua stanza…
“Ti prego, non andartene subito via, resta un po’ qui con me”, disse sua madre interrompendolo facendogli cenno di accomodarsi accanto a lei. Nishi sapeva che non poteva esimersi da quel dovere. Appena si sedette sua madre lo abbracciò a sé. Con lui accanto sembrava già molto più felice e serena.
“E dai, mamma!”, protestò dopo qualche secondo. Non era tipo da smancerie.
“Fatti coccolare un po’ dalla tua mamma, non c’è niente di male. Ogni giorno te ne stai sempre da solo nella tua stanza! Stai un po’ qui con me, giusto qualche minuto”
Nishi sopportò tollerante.
Dopo poco la traccia di sorriso scomparve dal volto di sua madre e le lacrime ricominciarono a sgorgare dai suoi occhi perennemente umidi.
“La tua mamma ti vuole tanto, tanto bene, sai?”, dalla forza con cui lo stringeva e dall’intensità di quelle parole il ragazzo capì che non stava mentendo, che quelle parole davvero provenivano dalla parte più profonda del suo cuore. “Promettimi solo che sarai sempre bravo, anche da grande, e sarai buono e giudizioso…”
Adesso era troppo! Ma che cosa le era preso tutto d’un tratto?!
“Non fare la svenevole! Si può sapere che ti sta succedendo?!”, disse scostandosi bruscamente da lei e fissandola con sguardo duro, a metà tra l’arrabbiato e il preoccupato. Ormai pretendeva una risposta. Per giunta sua madre lo abbracciò di nuovo a sé, dolcemente; si vedeva che si stava sforzando faticosamente per esprimere ciò che provava, per dare la spiegazione di quel malessere a suo figlio.
“Dobbiamo essere forti, tesoro, molto forti. Non ti stai accorgendo di niente? Ti sembra che sia tutto apposto? Presto resteremo da soli…”
“Ma di cosa stai parlando?”, Nishi non ne poteva più di quei giri di parole. Voleva davvero sapere cosa non andava in sua madre. Magari così avrebbe potuto fare qualcosa anche lui.
“Papà ci sta abbandonando…”
A quella frase Nishi si allontanò di nuovo. E questa volta era arrabbiato e basta.
“Papà è così assente perché lavora tanto e duramente per il nostro bene!”, sbottò di colpo. Come poteva sua madre parlare a quel modo di suo padre? Suo padre si faceva in quattro tutto il giorno negli edifici governativi a Shinjuku per portare a casa a fine mese quel bello stipendio che consentiva loro di vivere nel lusso. Suo padre era una persona importante, che aveva fatto carriera scalando le gerarchie rapidamente ma a costo di enormi sacrifici, e lui lo stimava moltissimo. E sua madre? Come poteva parlare nella sua posizione, lei che non sapeva fare niente, che non aveva mai fatto niente, che non aveva mai costruito niente di concreto in vita sua e che era sempre vissuta sulle spalle di suo padre? Questo se lo tenne per sé, ma tutto ciò lo faceva incazzare, e questo rimaneva visibile poiché era divenuto rosso in volto e il sangue gli pulsava martellante nelle vene.
Guardò sua madre e questa gli rivolse in risposta un debole sorriso e uno sguardo pietoso.
“Ma certo, hai ragione”
Ma Nishi comprese subito che non lo pensava affatto in realtà.
“Stai un altro po’ qui con me, per favore”
Per quanto il ragazzo non vedeva l’ora di rinchiudersi nella sua camera l’abbracciò e attese finché non le passasse la crisi. Anche lui stava male nel vedere sua madre in quelle condizioni. Desiderava solo che quel periodo nero passasse, così che tutto potesse tornare com’era un tempo.
“Assomigli così tanto a tuo padre…”, gli disse accarezzandogli i capelli e Nishi non capì se l’accezione di quella frase era positiva o negativa, “Promettimi allora che sarai una brava persona, ti prego”
Seriamente sua madre desiderava così tanto avere quella risposta?!
“Ma certo, te lo prometto”, si vide costretto a dirle.
“Via, ora è meglio che ti lasci stare. Avrai sicuramente da studiare”
“Già”
Finalmente lo lasciò libero, e non se lo fece ripetere due volte per barricarsi nel suo mondo. Si mise a sedere alla scrivania e guardò cosa i suoi impegni scolastici prevedevano per il giorno dopo. Che palle, compito di inglese di nuovo! In condizioni normali avrebbe semplicemente ignorato quel dettaglio non aprendo libro. Non avrebbe preso più di 8 così, questo era sicuro, ma non gliene sarebbe importato granché. Forse sua madre sarebbe stata felice se invece avesse portato a casa un bel 10? Sarebbe potuta forse essere una prova della promessa che le aveva appena fatto? Era quella una ragione sufficiente a fargli sacrificare un paio d’ore del suo pomeriggio per studiare? Decise di sì, senza pensarci troppo. Si sarebbe dedicato al suo blog più tardi; ma l’indomani avrebbe fatto un compito perfetto, e sua madre ne sarebbe rimasta felicemente stupita.
E così fu. Studiando un minimo piuttosto che niente la sua performance si era indubbiamente elevata. Tuttavia avrebbe dovuto aspettare qualche giorno per poter avere la soddisfazione di sbandierare quel voto e sbalordire sua madre, poiché il professore aveva bisogno di tempo per la correzione. Si sentiva come un ragazzino stupido e infantile per la smania di avere quel voto in mano e mettersi al centro dell’attenzione in famiglia, ma questa consapevolezza non bastava a fargli cambiare idea.
Come a farlo apposta quell’incompetente di un professore impiegò una settimana intera per correggere quello stupido test, ma il risultato atteso infine giunse. Dieci. Ed era ancora più piacevole poiché era stato l’unico a prenderlo, data la difficoltà delle domande. Anche il capo classe riuscì a strappare solo un 9.
Era una bella giornata di sole quella. Anche lui si sentiva bene. Sua madre sembrava essersi ripresa un po’ in quella settimana e proprio il giorno prima lui aveva avuto la sua ultima missione contro gli alieni, così ora sarebbe potuto stare sereno e libero per altre due, tre settimane circa prima di venire richiamato dal Gantz. In quei tempi gli stava sulle scatole essere trasferito in quell’appartamento. Dopo la liberazione di Izumi era stato per molto tempo l’unico a fare ritorno nella stanza, ma erano già un paio di settimane che oltre a lui sopravviveva anche un altro tipo. E anche uno stupido cane. Ma quello non dava fastidio a nessuno. Quel tipo, invece, un certo Susumu Yamagi, un ventenne veramente snervante, stava facendo di tutto per mettere alla prova la sua pazienza e il suo sangue freddo. Dopo essere sopravvissuto alla sua prima missione per puro caso, scoprì che forse equipaggiarsi con la tuta gli avrebbe reso beneficio. E da allora era divenuto insopportabile. Era tanto presuntuoso e borioso da essere detestabile e col suo carattere espansivo esattamente opposto a quello di Nishi, con la sua mania di porsi sempre al centro dell’attenzione, di fare tutto per essere l’eroe di turno e il salvatore dei più deboli, rischiava ogni volta di metterlo in qualche guaio. Senza contare che era solo un idiota e un ipocrita. In realtà non riusciva a salvare proprio nessuno, perché ogni volta era l’unico che a malapena riusciva a tornare oltre a lui. Per quanto si desse tante arie era un codardo e un inetto, non aveva né la stoffa di Izumi né la sua furbizia. Era soltanto fumo, ma proprio per questo, pensò il ragazzo, era sopravvissuto finora solo per puro caso. Non vedeva l’ora che schiantasse, ci avrebbe davvero goduto! Spesso quel bastardo aveva pure la faccia tosta, quando si trovavano nell’appartamento con tutti gli altri, di infamarlo apertamente di fronte a tutti e di dire menzogne e cattiverie sul suo conto, criticandolo e facendogli la morale. Solo perché era un ragazzino delle medie dall’aria mansueta, Nishi lo sapeva. Avrebbe dovuto chiarire al più presto chi fosse in realtà e come ci si dovesse comportare con lui, ma temeva che quando ciò sarebbe successo sarebbe sicuramente finito per ammazzarlo direttamente. Voleva vederlo morto, sì, ma ucciderlo con le sue mani era troppo; non era un assassino e data la pericolosità delle missioni non aveva bisogno di sporcarsi le mani perché quello scocciatore prima o poi ci restasse secco.
Ma ormai era arrivato a casa. Suonò al campanello. Non vedeva l’ora di dare la notizia del compito a sua madre e di vedere la sua sorpresa e la sua gioia di fronte a quel gran bel risultato. Quella volta sì che si aspettava di essere adulato e viziato ben bene, se lo meritava! Tuttavia nessuno aprì. Rimase deluso. Tutti i giorni non gli importava nulla che non ci fosse nessuno a casa, anzi lo preferiva anche, ma proprio quel giorno che desiderava il contrario era scontato che sarebbe andata a finire così. Aprì la porta con le sue chiavi. Eppure era strano. Sua madre in genere era sempre a casa quando tornava nel pomeriggio. Ma non se ne preoccupò più di tanto. Magari era uscita a fare compere.
Quando entrò in casa sua questa appariva silenziosamente deserta e perfettamente in ordine. Tagliò dritto per camera sua. Doveva avere pazienza, sua madre non sarebbe tornata molto tardi; non era poi la fine del mondo. Si levò la divisa e si mise alla scrivania rilassandosi un po’ davanti a internet. Più tardi sarebbe uscito a fare un giro. Quando dopo un’ora sua madre non era ancora rientrata iniziava davvero a seccarsi. Lui mancava tutto il giorno da casa a causa della scuola, sua madre non aveva avuto momento migliore per andarsene chissà dove durante tutto quel tempo?
Aveva fame, e sua madre non tornava ancora. Si sarebbe preparato qualcosa da mangiare per conto suo nell’attesa. Si alzò e si diresse in cucina.
Il primo sentore che c’era qualcosa che non andava glielo diede la forma innaturale e anomala dell’ombra allungata che filtrava dalla porta socchiusa della cucina. Quando la spalancò, vedere il cadavere di sua madre impiccato a una trave della cucina penzolare e roteare su se stesso a meno di due metri da lui lo lasciò di sasso. Fece qualche passo indietro titubante, colto dal terrore, allontanandosi da quella vista oscena. Era letteralmente senza fiato, non riusciva a respirare. Richiuse la porta di colpo e stette qualche secondo spaesato senza sapere che fare prima di precipitarsi al telefono e chiamare i soccorsi spiegando concitatamente cosa probabilmente era successo. Mentre pronunciava quelle parole il panico e la disperazione stavano montando dentro di lui. L’idea che potesse succedere qualcosa del genere tra tanti proprio a lui non l’aveva mai neppure sfiorato. Ma era ancora troppo presto per rendersi conto a pieno di cosa fosse accaduto quel pomeriggio e delle enormi conseguenze che ciò avrebbe causato sulla sua vita.
Allertati i soccorsi chiamò immediatamente suo padre, chiedendogli di correre. Per tutti in casa c’era il ferreo divieto di chiamarlo mentre era al lavoro, ma quella volta era una tragica emergenza che avrebbe abbisognato un simile comportamento. Finite le telefonate attese in apprensione. Una parte di sé voleva entrare in cucina e capirne qualcosa di più. Forse, si disse, anzi sperò, quella non era neanche sua madre. Ma non ci riusciva ad avvicinarsi a quella stanza maledetta. Quell’immagine gli si era parata davanti agli occhi così all’improvviso che ancora non riusciva a togliersela da davanti, e probabilmente avrebbe continuato a permanere nella sua mente anche la notte e i giorni successivi, benché fosse stato esposto a quella vista solamente per un attimo prima di ritirarsi e chiudere gli occhi.
Si chiese solo quanto ci mettessero suo padre e i soccorsi ad arrivare. Non ne poteva più di stare da solo in quella casa, si sentiva fragile come un cristallo incrinato, stava letteralmente impazzendo! Attese accanto alla porta d’ingresso, accucciato sul pavimento con le ginocchia strette a sé, lo sguardo sbarrato e i denti stretti.
Suo padre giunse per primo. Nishi riuscì a riprendersi da quello stato di trance quando sentì sbattere i pugni contro la porta. Scattò in piedi e aprì a suo padre, dopodiché gli fu completamente impossibile trattenere le lacrime. In un attimo si era ritrovato ad essere un bambino terribilmente spaventato da quel terribile incubo.
“Papà, papà…! La mamma…!”, pianse aggrappandosi ai vestiti del padre.
“Che diavolo è successo, Joichiro!”
“La mamma… La mamma si è… In cucina…”
Suo padre si precipitò in cucina chiamando la moglie a gran voce e Nishi lo seguì poco dietro. L’arrivo di suo padre gli aveva fatto tornare un po’ di forza e coraggio. Suo padre, a sua differenza, riuscì a mantenere un certo contegno, benché anche lui appariva alquanto scosso.
Quando poco dopo giunsero i soccorsi era già troppo tardi. A una prima vista, disse il capo dei paramedici, a vedere quanto il volto della donna fosse gonfio e livido, si doveva essere tolta la vita già nella mattinata, e nessuno avrebbe potuto fare niente per salvarla.
Il corpo fu portato vie e il padre di Nishi chiamò un’agenzia funebre per l’organizzazione dei funerali che si sarebbero svolti il giorno dopo. Indaffarato con queste pratiche era uscito di casa subito dopo esservi entrato, e finì per farvi ritorno a tarda serata. Così Nishi si ritrovò di nuovo da solo nella sua stanza, incapace di fare qualsiasi cosa diversa dal vegetare steso sul suo letto. Non mangiò e quella notte non chiuse occhio, ma ancora la tristezza non l’aveva colto, perché forse non riusciva ancora a capacitarsi di cosa fosse accaduto. Ad un'ora indefinita della notta tentò di affacciarsi dalla sua stanza. Scorse di nascosto suo padre in lacrime sul divano, in mano una bottiglia di whiskey già consumata per metà, e non ritenne opportuno farsi più avanti; perciò si richiuse nella sua cameretta. Sdraiato sul suo letto il suo cervello era un turbine di pensieri che non riuscivano a trovare né sosta né ordine. Da una parte si sentiva in colpa per quello che era successo; forse non era stato abbastanza un bravo figlio? Forse avrebbe dovuto, dato lo stato delle cose, intuire la situazione e prevedere il rischio che sua madre arrivasse al punto di suicidarsi? La possibilità che quella morte potesse essere evitata e che parte della colpa fosse sua in quanto cieco ed egoista di fronte all’evidenza lo tormentavano, insieme al non capire fino in fondo perché, maledizione, perché sua madre avesse fatto una tale follia. Se n’era andata per sempre semplicemente così, senza neanche lasciare un biglietto o una lettera d’addio, senza neanche salutarlo.
Il giorno dopo fu la volta dei funerali. E fu lì che non riuscì più a non sciogliersi in lacrime. Pianse durante tutta la cerimonia. Di partecipanti ce n’erano pochi; eccetto qualche amico di sua madre e di suo padre tutti e quattro i suoi nonni erano morti negli anni passati, e gli unici parenti presenti oltre suo padre erano la coppia di zii della parte di suo padre, poiché sua madre era figlia unica. Quando la cerimonia fu terminata tutti i presenti gli porsero le proprie condoglianze e se ne andarono. Sua zia fu l’unica che si trattenne. Mentre se ne stava in disparte continuando a piangere singhiozzando poté sentirla dire ai suoi figli, ovvero i suoi cugini di primo grado qualcosa del tipo: “Su, avanti, anche se è antipatico cercate di stare un po’ con lui, povero ragazzo; ha perso la sua mamma. State con lui e cercate di tirargli su il morale, di tenergli compagnia in questo momento così difficile…”
Ci mancava soltanto quello. Aveva due cugini, di cui uno aveva la sua età e l’altro era di poco più piccolo. Peccato che si erano da sempre odiati; per colpa sua, indubbiamente, che li snobbava e li riteneva degli stupidi. Si allontanò rapidamente, svoltò il primo angolo che trovò e si rese invisibile. Non voleva vedere nessuno, tanto meno i suoi stupidi cugini che sarebbero riusciti soltanto a farlo incazzare. Voleva soltanto stare solo e piangere finché tutte le sue lacrime non si fossero esaurite.
Lasciò il cimitero e si avviò a piedi verso casa, sempre invisibile. Quanto avrebbe desiderato restarci tutta la vita, invisibile… Quanti problemi avrebbe evitato a quel modo.
Arrivò a casa prima di suo padre e se ne andò in camera sua. Era così triste. Come avrebbe fatto già alla sua età a vivere senza sua madre? Gettò uno sguardo al compito in classe da 10 che faceva bella mostra di sé sulla scrivania. Che sciocchezza, tutto ciò che il giorno prima aveva significato tutto per lui, ovvero riportare quel voto a casa, adesso aveva perso ogni valore; tutto quel poco che ne aveva avuto ora aveva perso valore. Maledizione, detestava la morte, tuttavia sembrava che la morte lo amasse. Da quando si era suicidato saltando dal tetto della scuola questa non l’aveva abbandonato un istante. Se prima aveva avuto su di lui un certo inspiegabile fascino adesso gli stava addosso senza lasciargli respiro, provocandogli la nausea; già bastavano le missioni del Gantz. Ma adesso, anche la morte di sua madre era qualcosa di troppo pesante… Sentiva già una tale mancanza della sua mamma…
Si rigirò sul letto e affondò la faccia bagnata nel cuscino. Era completamente impotente di fronte a ciò che accadeva al mondo. Passarono un paio d’ore prima che crollasse addormentato, sfatto dalla stanchezza e dal dolore. Quando si risvegliò aveva perso la cognizione del tempo. Gli bruciavano gli occhi per quanto aveva pianto e il naso tappato gli dava alquanto fastidio. Si affacciò alla finestra e vide che il cielo era già buio. Si era già fatta sera. Casa sua tuttavia era tutt’altro che tranquilla. Da quando era tornato suo padre dal funerale non c’era stato un attimo di silenzio. Si chiedeva solo in quali lavori fosse tanto indaffarato suo padre in una simile situazione. Nel momento in cui entrò in salotto gli fu tutto chiaro. Suo padre stava semplicemente raccogliendo tutta la sua roba, allestendo con un’efficienza che avrebbero avuto in pochi un trasloco perfettamente concepito in soltanto poche ore. Nishi lo vide portare dalla sua camera uno scatolone pieno che andò a sommarsi ad altri quattro che già giacevano al centro della stanza insieme a svariate valigie. Ma cosa significava tutto ciò? Cosa si era perso dormendo quel pomeriggio?
“Che succede papà?”
Suo padre lo guardò per un attimo, poi depositò a terra il pacco ed esitò a dare una risposta.
“Io… Forse sarà bene che ti parli, Joichiro”
Ma no, cos’erano quelle parole? Nishi non aveva fatto in tempo a calmarsi dallo shock della morte di sua madre che già era di nuovo entrato in ansia per quel nuovo sconvolgimento.
Quella situazione disagiante fu interrotta da un suonare alla porta. Suo padre si agitò per andare ad aprire, ma Nishi che era più vicino alla porta prese l’iniziativa e spalancò l’uscio personalmente. Era davvero curioso di sapere chi potesse essere a rompere le scatole proprio in quel momento. Una giovane e bellissima donna attendeva sulla soglia. Era alta e dal fisico perfetto e indossava un ricercato tailleur di marca.
“Chi è lei?”, fece bruscamente, provando già da subito una sgradevole sensazione al cospetto di quella donna.
Questa dal suo canto cercò di apparire più accomodante e dolce che poteva quando rispose, “C’è tuo padre in casa, Joichiro?”
Addirittura conosceva il suo nome? Ma che voleva?
“Oggi non è giornata. Ripassi un’altra volta!”, e le chiuse la porta in faccia.
Fu a quel punto che suo padre corse a riaprire.
“Perdonami Tomoko, aspettami in macchina; io arrivo subito”
Nishi osservò suo padre parlare con quella sconosciuta a lui vicinissima con un tono che così caldo non l’aveva mai sentito, e assistere a quella scena ad un metro di distanza gli fece salire il disgusto in corpo. La donna annuì e tornò alla macchina che aveva parcheggiato là davanti, mentre suo padre chiuse la porta e si rivolse al figlio che aveva iniziato di nuovo a piangere.
“Ma cos’è questa storia…?”, lo anticipò Nishi singhiozzando, fissandolo con gli occhi che erano divenuti due fessure.
“Io ti chiedo scusa, Joichiro… Ma non posso proprio continuare a vivere in questa casa, non dopo quello che è successo. Ce la fai a capire almeno questo?”
“E quella chi diavolo è allora?”
“Ormai nulla è più uguale a prima. Adesso non posso fare altro se non ricominciare una nuova vita”
“Ma allora aveva ragione la mamma quando diceva che ci avresti abbandonato!”, disse in preda al panico e allo sconforto. Che sciocco che era… Ma come aveva fatto ad essere tanto cieco per tutto quel tempo? Quando gli aveva parlato sua madre stava dicendo la verità, ma lui era stato così ottuso che non le aveva dato la minima retta. Guardò suo padre che impassibile e freddo continuava a fissarlo con aria indefinibile e non ce la fece a trattenere la rabbia.
“Di’ qualcosa, almeno! Maledizione! Ma come puoi andartene via dopo quello che è successo?! Possibile che non ti importi davvero niente di quello che è successo, che non ti importi niente della mamma?!”
“Questo non è vero”, rispose seccamente, e Nishi comprese all’istante che stava mentendo, che davvero non glien’era mai importato niente di tutta quella faccenda, o quanto meno non quanto si sarebbe aspettato. Sua madre si era impiccata solo il giorno prima, e già adesso suo padre se ne stava scappando dalla sua sgualdrina. Chissà quanto aveva agognato in cuor suo che si realizzasse una simile coincidenza.
“Quindi è vero! Non te n’è mai importato niente!!”
Questa volta suo padre ebbe la decenza di non rispondere, ma nel suo sguardo glaciale non era possibile rintracciare alcuna emozione. Se era partito nel suo discorso con un minimo di compassione per suo figlio questa ormai era del tutto sparita. Di nuovo tornarono in mente a Nishi le parole di sua madre, e mai come in quel momento poté notare quanto nei modi suo padre gli assomigliasse; anche negli occhi, in quegli occhi di ghiaccio, anche nella fredda impassibilità e indifferenza di fronte alla più grave delle sciagure. Possibile che anche lui fosse di quella stessa pasta marcia? Maledizione, se questa era davvero la realtà non voleva assomigliare a suo padre! Scosse la testa. Il mondo stava impazzendo, quel giorno qualcuno si stava facendo beffe di lui, perché tutto aveva iniziato a girare al contrario. In un attimo tutte le certezze di una vita erano state spazzate via da una folata di vento.
“Ma se ora te ne vai io che farò?”, pianse in crisi.
“Mi dispiace, ma non posso portarti con me, ne ho già parlato con Tomoko”
“Mi stai abbandonando qui?! Come puoi…”, soffocò la frase in un suono stridulo; non aveva più nemmeno fiato per rispondere, ogni parola pronunciata da suo padre lo lasciava sempre più allibito. Possibile che la persona che più avesse stimato in vita sua fosse davvero tanto stronza?
“Ma no che non ti sto abbandonando! Ti verrò a trovare tutte le settimane; e ti passerò tutti i soldi di cui hai bisogno; anche Aya, la colf, continuerà a venire qua due volte a settimana”
“Ma come farò qui da solo…?”
“Ormai sei grande. E’ giusto che tu inizi a farti le ossa. Penso che tu possa essere perfettamente all’altezza della situazione, e iniziare a vivere da solo non potrà che responsabilizzarti. Pensavo che anche tu lo desiderassi, in fondo, che avessi sempre preferito stare da solo”
Ma come poteva avere la faccia tosta di dire quelle parole proprio in quel particolare giorno?
“Ti prego, non mi lasciare!”, per quanto in quel momento lo odiasse profondamente preferiva di gran lunga continuare ad avere la compagnia di suo padre che ritrovarsi da solo in quella che era da sempre stata casa sua, la casa della sua famiglia. Una famiglia che ormai si era disintegrata totalmente lasciandolo completamente solo.
“Te l’ho detto, io non posso più vivere qui. Vedrai che quando sarai più grande mi capirai; mi capirai perché tu sei uguale a me. Ci vediamo presto”
Nishi vide suo padre caricarsi addosso più valige che poteva e avviarsi verso l’auto già accesa della sua amante. Rimase immobile durante tutto il caricamento dei bagagli di suo padre. Quando la casa fu svuotata di tutti i pacchi preparati suo padre lo salutò definitivamente, tuttavia ebbe la decenza di non avvicinarsi a meno di due metri da lui.
“Coraggio, non ti preoccupare, vedrai che andrà tutto bene. Ora pensa solo a riposarti, che domani devi tornare a scuola. Ci vediamo presto”
Non attese neanche alcun cenno di risposta da parte sua, si volse indietro e si avviò verso la macchina parcheggiata caricata di scatole, vi salì dentro e insieme a quella donna scomparve dalla sua vista per andare chissà dove. Anche quando ormai la strada appariva deserta Nishi non riuscì a schiodarsi dalla soglia della porta. Era accaduto per davvero? Era successo tutto così in fretta che anche questa volta faceva fatica a rendersene conto. Possibile che si fosse rintronato a quel punto? Pensare che solo un quarto d’ora prima stava dormendo nel suo letto e che quella mattina c’erano stati i funerali di sua madre. Mentre la mattina precedente, quando uscì di casa per andare a scuola dopo aver fatto colazione avrebbe potuto dubitare di tutto tranne che del fatto che alle spalle aveva una bella famiglia a sostenerlo e ad attendere a casa il suo ritorno da scuola o dall’appartamento della sfera nera.
Chiuse la porta e si stravaccò sul divano distrutto. In quella casa enorme e deserta ora non riusciva a udire rumore diverso dai suoi respiri. Davvero d’ora in avanti sarebbe stata quella la sua nuova, inquietante realtà? Da solo in quella grande casa vuota… Ecco, adesso casa sua non gli sembrava poi tanto diversa dall’appartamento del Gantz dove di solito faceva ritorno da solo al termine delle missioni. Tutto ciò era terribile. Aveva una tale angoscia in corpo e non sapeva come sfogarla, come disfarsene. E nonostante tutto l’indomani sarebbe dovuto andare a scuola… Se già era difficile vivere normalmente dopo essere morto una volta ed essere stato invischiato nella caccia agli alieni, adesso risultava addirittura impossibile. Niente aveva più un senso nella sua vita, meno di tutti l’andare a scuola. Dubitava che l'indomani ne sarebbe stato in grado.
Le lacrime tornarono nuovamente a sgorgare dai suoi occhi. Maledizione, non era in grado di far cessare il loro flusso ininterrotto. Adesso gli sembrava di essere come sua madre, che non sapeva fare altro che piangere seduta su quel divano…
“…Mamma…”
Pianse ancora più forte, ma dopo poco una scintilla di collera si accese dentro di lui. Ma perché sua madre aveva fatto quella follia? Aveva detto che gli voleva bene, questa era sempre stata una certezza inconfutabile. Ma adesso si rendeva conto che non era altro che una grossa menzogna. Anche lei era stata una grande stronza e una vigliacca… Perché si era tolta la vita abbandonandolo da solo? Bella prova d’amore che era stata quella! Doveva ammettere che era stato uno stupido a credere così ciecamente in suo padre per tutti quegli anni quando la realtà era palese, ma perché se sua madre aveva visto il giusto aveva dovuto necessariamente reagire a quel modo? Se anche suo padre prima o poi li avesse abbandonati, come sarebbe senza dubbio successo, almeno sarebbero stati in due a combattere quella situazione, a resistere facendosi forza l’uno con l’altro. E in un modo o nell’altro in due ce l’avrebbero fatta a superare ogni difficoltà. Perché invece sua madre si era voluta a tutti i costi arrendere? Che egoista che era stata… Ma lui in fondo che diritto aveva di parlare a quel modo di sua madre? Lui che neanche quattro mesi prima si era tolto la vita per nessuna reale ragione era il re degli egoisti e degli stronzi. E con due genitori così non se ne stupiva.
Non si era mai sentito così perduto.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Squallida normalità ***



A lunghi passi veloci schiacciò i detriti e i calcinacci della strada dissestata fino a giungere di fronte all’unico superstite di quella caccia. Anche questa volta era tutto finito ed era andato tutto bene. Solo adesso quindi decise di privarsi dell’invisibilità. Di fronte a lui l’unico superstite non poteva che essere l’odiato Susumu, come ormai accadeva da mesi. E come gli accadeva sempre la sua sopravvivenza era più un fatto casuale che altro. Non era la prima volta quella, che sopravviveva a stento alla furia degli alieni. Lo osservò dall’alto con aria spenta, mentre il ragazzo più grande stava sdraiato prono, estremamente sofferente. La sua tuta era stata messa fuori uso e il liquido scuro continuava abbondante a fuoriuscire dai bottoni; non era la prima volta che succedeva, così come non era la prima volta che il suo corpo riportava gravissime ferite. Un ghigno increspò il volto del quattordicenne; era uno spasso vedere con quale stoicismo Susumu ogni volta se ne stesse buttato da qualche parte con le sue ferite, in rigoroso silenzio, stringendo i denti contro il dolore e pregando di resistere fino all’inizio del trasferimento. Nishi ricordò la paura mostruosa che provò la prima volta che rimase ferito e intuì che l’unica spiegazione per poter assumere un comportamento così tranquillo benché sofferente non poteva che essere l’abitudine. Era sbalorditivo che gli esseri umani riuscissero ad abituarsi perfino a quello, dunque non vi era limite all’impossibile. Nishi lo guardò meglio cercando di entrargli nella testa. La consapevolezza che le sue intuizioni fossero giuste rendeva ancora più accattivante l’idea che aveva in mente, sebbene fosse un’idea, o meglio, una tentazione che aveva in mente già da molto tempo e che ogni giorno che passava diventava sempre più desiderosa di essere accontentata. Si inginocchiò per essere alla sua altezza, pur mantenendo una certa distanza, e sospirò.
“Anche questa volta è andata, presto sarà tutto finito… Di’ un po’, è questo che stai pensando, vero?”
Nishi notò che Susumu si stava impercettibilmente agitando; era chiaro che solo la sua presenza di fronte a lui in quel momento lo mettesse a disagio. Soprattutto perché il povero idiota sicuramente ignorava quali erano le sue intenzioni. Ma evidentemente non era neanche nelle condizioni di riuscire a parlare, tanto era malconcio.
“Tanto lo so che è così, ti si legge in faccia. In cuor tuo sei sereno e rilassato, sai che è solo questione di tempo perché il trasferimento abbia inizio. E fintanto che respiri ancora Gantz ti riporterà indietro tutto intero, dico bene? Di questo tu ne sei certo. Ma se invece ti sbagliassi? Sarebbe un bel colpo, arrivati a questo punto, è per questo che le certezze sono un’arma pericolosa”
Ecco, ora l’agitazione del ragazzo era diventata tangibile. Forse iniziava a capire; ma tanto, anche se avesse capito tutto, non si sarebbe potuto salvare comunque dal destino che gli spettava.
“Sai una cosa, non ti ho mai potuto sopportare, sul serio. Da quando sei finito in quella stanza non hai fatto altro che intralciarmi, sei stato una vera rottura di palle! Ho sopportato in silenzio, tutti questi mesi, ma adesso che sei in queste condizioni, a un passo dalla morte, non so se riuscirò a resistere alla tentazione che ho da tempo di aiutarti nel tuo trapasso”
Quando Nishi estrasse la X-gun e gliela puntò alla testa ormai il panico si era impossessato di Susumu. Il ragazzino decise quindi di continuare a divertirsi con la sua vittima
“Chissà se sei ancora in tempo; se il trasferimento iniziasse in questo momento e tu venissi trasferito per primo forse ti salveresti. Ma questo non è sicuro; non c’è niente di sicuro; in effetti mi chiedo perché il trasferimento non sia ancora iniziato”
Nishi sapeva che piuttosto che passare un altro attimo in quel limbo il ragazzo avrebbe preferito probabilmente essere ucciso all’istante, lui almeno l’avrebbe pensata così. E l’avrebbe ucciso, anzi, stava compiendo uno sforzo immane per portare avanti quel teatrino invece di premere entrambi i grilletti all’istante. Ma non aveva mai ucciso un altro essere umano, e voleva assaporarsi il momento con calma, senza lasciare nulla all’impulso e al caso. Le missioni di Gantz erano il periodo perfetto per sfogare quella smania: niente polizia, nessuno a giudicare; e Susumu era la cavia perfetta.
Attese in silenzio per infiniti istanti osservando la sua vittima preda del panico. Chissà cosa avrebbe voluto dirgli agitandosi a quel modo se solo fosse stato in grado di parlare; forse implorare pietà e misericordia? O minacciarlo, o mandarlo semplicemente al diavolo? Tanto faceva lo stesso, la sua fine era segnata.
Quando Nishi sentì il suono nella sua testa intuì che il trasferimento sarebbe iniziato presto; non c’era più tempo da perdere se non voleva più trovarsi fra i piedi quello scocciatore.
“Addio, stronzo”, e senza alcuna esitazione premette entrambi i grilletti della pistola. L’arma emise il suo suono caratteristico e mandò il forte bagliore diretto contro la testa del ragazzo. Furono i secondi più lunghi della vita di Nishi. L’atteggiamento di Susumu invece mutò dall’ansia e dalla paura alla tristezza e allo sconforto per la consapevolezza di una fine imminente. Non lottò, non fece niente; abbassò lo sguardo e attese la sua fine mentre qualche lacrima gli usciva dagli occhi. E dopo qualche secondo la sua testa esplose mandando sangue e pezzi di cervello dappertutto. Ma Nishi rimase quasi deluso. Da quando doveva partecipare alle missioni di Gantz aveva visto così tanta gente morire, così tante teste esplodere per mano degli alieni o per colpa delle bombe in esse contenute che quella vista era risultata quasi ordinaria per lui; nei suoi sogni si sarebbe aspettato qualcosa di più da un gesto che desiderava fare da tanto. Ma in fondo si sentiva bene; aveva fatto una cosa che voleva e non aveva ripensamenti.
Fu in quel momento che il trasferimento ebbe inizio.
Quando tornò nell’appartamento, scoprire che finalmente sarebbe stato di nuovo solo fu una gioia inimmaginabile dopo tutti i mesi che aveva patito quella scomoda compagnia. Pochi secondi dopo che fu arrivato anche il cane iniziò a materializzarsi nella stanza. Ecco, ora erano al completo.
Si pose di fronte alla sfera, con le braccia incrociate, curioso di sapere quanti punti avesse guadagnato quella volta. Il cane lo raggiunse e si mise accucciato al suo fianco, guardando pazientemente anche lui la sfera con umana trepidazione. Nell’attesa che Gantz distribuisse i punteggi volse la testa con quel suo muso stupido verso Nishi, e il ragazzo in risposta gli scompigliò il folto pelo tra le orecchie.
Il momento era giunto, la sfera si illuminò.
Com’era ovvio e come accadeva ormai da sempre il cane totalizzò i classici zero punti; quando la schermata mutò e fu il suo turno rimase incredulo di fronte a quanto lesse:
“Nishi-kun 100 punti, andare al menù dei 100 punti”
Esplose in una risata di gioia; per quanto non se ne spiegasse assolutamente il motivo di un punteggio così alto quella restava una sorpresa insperata e spettacolare. Che giornata epica! Non solo si era sbarazzato di Susumu, ma era anche riuscito a raccogliere tutti i punti che gli mancavano con una facilità che non si sarebbe mai aspettato. Non si sentiva così felice da anni!
“Mostrami il menù dei 100 punti!”, disse con voce squillante.
Quali erano le tre opzioni già lo sapeva, ma scegliere era un compito più arduo. Non riusciva ancora a crederci; poi, non riuscendo a distogliere lo sguardo dalla terza opzione, fece una cosa che non avrebbe creduto possibile;
“Mostrami le persone che hai in memoria”
Voleva solo accertare una sua curiosità, perché in una giornata così bella l’ottimismo e la speranza tornavano ad imperversare e anche le cose poco probabili, non essendo per loro definizione impossibili, sembravano poter essere un po’ più probabili nell’eventualità che si potessero realizzare.
E quando vide tra le varie tessere delle persone in memoria il volto di sua madre non riuscì a trattenersi; cascò in ginocchio per guardare più da vicino: era proprio lei, non stava sbagliando. Non sapeva come ciò potesse essere possibile, ma il cuore gli stava letteralmente scoppiando nel petto dall’emozione; era semplicemente troppo bello per essere vero…
“Mamma… Ti prego Gantz, riporta indietro mia madre!”
Scattò in piedi e si mise a guardare verso la parete opposta alla sfera, dove in genere si materializzavano le persone condotte in quella stanza. Il trasferimento procedeva lentissimo, o forse era soltanto una sua impressione, e iniziò dai piedi. Appena Nishi rivide dopo tutti quei mesi le scarpe inconfondibili di sua madre, poi le sue caviglie, non riuscì a non scoppiare in lacrime per la commozione, anche alla sola vista di quei dettagli.
Ma in quel momento qualcosa di imprevisto si verificò. Anche lui iniziò a trasferirsi; per averne conferma si tastò freneticamente la testa con le mani. Stava scomparendo, maledizione. Ma perché?! Perché proprio ora che stava per rivedere sua madre?!
“No Gantz! Ti prego! Aspetta! Ti chiedo soltanto un altro minuto!”
Ma non c’era niente da fare, ormai riusciva a vedere solo nero, e intorno a lui tutto era scomparso.
Aprì gli occhi di scatto. E scoprì di trovarsi dentro al suo letto, a casa sua. Maledizione, era stato solo un sogno… D’altronde avrebbe dovuto capirlo, semplicemente tutto quello che si era verificato era impossibile, dall’aver fatto 100 punti in un battito di ciglia, al ritorno di sua madre… Si rigirò tra le coperte. Chissenefrega se si trattava solo di un sogno. Era il sogno più bello della sua vita e l’avrebbe almeno voluto continuare a tutti i costi. Voleva rivedere sua madre, poterle parlare, abbracciarla. Ma ormai aveva l’amaro in bocca, e se anche si fosse addormentato di nuovo di sicuro avrebbe sognato altro. Perciò decise di alzarsi. Guardò l’orologio: il display digitale segnava le 3:10. Caspita, era a letto da meno di due ore, eppure gli sembrava che quel sogno fosse durato un’eternità. Si sarebbe dovuto alzare tra meno di quattro ore per andare a scuola, ma ora non aveva importanza; aveva voglia di qualcosa di dolce da mettere nello stomaco, prima di rimettersi a dormire. Si diresse in cucina e accese la luce. Che idiota che era il suo subconscio a partorire sogni del genere. Erano passati ormai quattro mesi da quando sua madre era morta, e ormai credeva di essersi abituato alla sua nuova vita, di essersene fatto una ragione. La sua crisi era durata un solo mese, il primo mese dalla scomparsa di sua madre, senza dubbio il mese più terribile della sua vita. Poi semplicemente tutto era sfumato e senza neanche rendersene conto era tornato alla sua normalità. Se per quel mese non era neanche riuscito a mettere piede in cucina, un bel giorno decise di rischiare, e una volta entrato in quella stanza che gli era tanto familiare, appurò che non gli era successo nulla e che era riuscito a mantenere la calma e il sangue freddo senza farsi sopraffare dalle emozioni; quando dentro di sé si disse “Tutto qui?” fu il segnale definitivo della fine del suo lutto e del ritorno alla normalità. Certo tutti questi bei discorsi risultavano più difficili in quel contesto; quella era la prima volta in quattro mesi che sognava sua madre, e l’esperienza l’aveva senza dubbio scosso. Ma riuscì senza fatica a controllarsi.
Si preparò una tazza di latte e cereali, la terminò velocemente e se ne tornò al suo letto, su cui riuscì a crollare dal sonno soltanto quando non mancava che un’ora al suo risveglio.
La mattina seguente si trascinò a scuola sfatto dalla stanchezza; fortunatamente mancavano soltanto tre giorni a domenica; non ne poteva più di alzarsi a quell’ora. Decise che quel pomeriggio, appena rientrato a casa, si sarebbe subito messo a letto a dormire senza neanche accendere il computer. Doveva smetterla di fare sempre tarda notte davanti al computer, aveva davvero bisogno di dormire.
A proposito di scuola in quei mesi non tutto era tornato alla normalità. Benché fosse tornato a scuola due giorni dopo il funerale di sua madre, in tutto quel tempo il suo rendimento ne aveva risentito sensibilmente; pur applicando lo stesso metodo che aveva sempre applicato a scuola, le ultime prove che aveva sostenuto le aveva superate per un pelo e col minimo risultato. E questo non era successo solo una volta, perché si ripeteva ormai per tutti i compiti e le interrogazioni che gli propinavano. All’inizio si diceva che era un caso o che comunque era normale visti gli ultimi sconvolgimenti della sua vita. Adesso che però la sua vita aveva riacquisito la sua solita regolarità un campanello di allarme iniziava ad accendersi nella sua testa. Sembrava come se il suo metodo non funzionasse più, non fosse più sufficiente a superare quelle prove. Si rese conto che in condizioni normali questo sentore avrebbe dovuto mettergli ansia addosso e spingerlo a fare qualcosa per recuperare la situazione e rimettersi in carreggiata, a costo di compiere qualche piccolo sacrificio. Era perfettamente cosciente che prendere brutti voti a scuola e al suo livello avrebbe segnato profondamente la sua vita; in una società come la sua ognuno iniziava a costruirsi il suo futuro dal primo momento in cui metteva piede in una scuola, e uscirne con bassi voti lasciava ben poche scelte di vita agiata. Avrebbe dovuto preoccuparsene, tuttavia non gliene importava niente di tutto ciò. E come sentiva serpeggiare in lui una leggera ansia per quella situazione la censurava all’istante reprimendola bruscamente, semplicemente ignorando quella problematica e relegandola ad un futuro più o meno remoto. Il futuro… Questo sì che era un tema interessante! Al momento l’unico obiettivo cui riusciva a pensare erano quei maledetti 100 punti, tutto il resto gli scivolava addosso come acqua. E visto quanto si sentiva perso iniziava a pensare che una volta raggiunto quel traguardo, sempre a patto di farcela, il suo obiettivo successivo sarebbero stati altri 100 punti, cui avrebbe potuto mirare rimanendo di sua spontanea volontà prigioniero di Gantz.
Poiché era una bella giornata decise all’uscita di scuola di allungare la strada per casa sua facendo un giretto per le vie affollate del quartiere. Appena tornato a casa si tolse l’uniforme e si buttò a letto come si era ripromesso. In fondo non aveva molto di meglio da fare quel pomeriggio. Data tutta la stanchezza che aveva accumulato non ci mise molto a farsi trascinare nel sonno dal torpore più profondo; davvero una sensazione magnifica. Quando ad un certo punto udì la vibrazione del suo cellulare. Se ne accorse per puro caso, perché nessuno lo chiamava mai o lo cercava, così che il telefonino per lui fosse più un optional che altro e quasi mai lo teneva vicino a sé. Seccato da morire aprì gli occhi afferrò il cellulare e guardò sul display per vedere di chi si trattava, ringraziando da un lato per il fatto che si era appena messo a dormire, e questo era senza dubbio meglio che essere svegliato nel mezzo del suo sonno. Doveva immaginarlo che si trattasse di suo padre. Chi altri poteva essere sennò? Era da più di due mesi che non aveva notizie di suo padre. Non che ne sentisse la mancanza; questi si era fatto vivo esattamente una settimana dopo i funerali di sua madre, per una chiacchierata più formale che confidenziale e familiare, così come aveva promesso la sera che se n’era andato definitivamente: “Ti chiamerò ogni settimana”. Ma già la settimana successiva mancò alla sua parola; da allora l’aveva risentito soltanto altre due volte in quattro mesi che erano passati, ed era sicuro che più ne fosse passato di tempo e più suo padre avrebbe continuato gradualmente a scomparire dalla sua vita. Ma di questo non gli importava molto. Suo padre per lui aveva una sola utilità oramai; ogni volta che aveva bisogno di soldi aveva l’sms pronto sul cellulare: “Ho finito i soldi”, e suo padre gli faceva entro quella sera stessa un bel bonifico sulla carta che gli aveva dato, senza chiedere né spiegazioni né altro su come avesse sperperato tutti quei soldi in così poco tempo. Nishi in cambio non gli faceva pesare il modo meschino in cui si era comportato e non gli portava rancore. Questo era il loro tacito accordo.
“Pronto”, rispose cercando di non far intendere che si era appena addormentato.
“Ciao Joichiro”
“Ciao papà”
In fondo, nonostante i soldi e il modo in cui si fosse comportato, davvero non provava odio per suo padre. Ormai aveva accettato la situazione in cui era ricaduto, e la rabbia era qualcosa che non lo toccava più ogni qual volta suo padre si rifaceva vivo o ogni qual volta si ritrovasse a pensare a lui. E dire che quattro mesi prima avrebbe creduto questa cosa semplicemente impossibile.
“Come stai?”
“Bene, sono appena tornato da scuola e ho appena iniziato a studiare”, mentì senza farsi troppi problemi. Era sicuro che con questo escamotage la conversazione si sarebbe ridotta drasticamente, perché suo padre, nonostante fosse praticamente assente nella sua vita, continuava a prestare molta attenzione ai suoi risultati scolastici, e piuttosto che disturbarlo al telefono avrebbe preferito lasciarlo in pace “a studiare”.
“Bravo ragazzo. Ti volevo chiedere scusa se non mi sono più fatto vivo per tutto questo tempo. Sono stato molto impegnato a lavoro, e nell’ultimo mese ho viaggiato in Giappone e in America senza sosta”
“Ma certo, non ti preoccupare”, sapeva che era una mal organizzata scusa di rito quella, ma che altro avrebbe dovuto rispondere?
“Per il resto come va? Tutto ok?”
“Sì, non c’è male”
“Sono contento allora; stavo pensando una cosa. Che ne dici, una volta finito l’anno scolastico, di andarcene io e te a svagarci da qualche parte? Pensavo a una settimana in Thailandia, o qualcosa del genere, che ne dici? E’ da tanto che non stiamo un po’ insieme”
“Sì, non penso che per me ci siano problemi”, disse senza mostrare troppo entusiasmo. Ma in quel momento provò odio per suo padre. Perché nonostante il tono spento che aveva assunto davvero a lui sarebbe piaciuto molto andarsene una settimana in vacanza in un posto del genere da solo con suo padre, con la persona che tanto aveva stimato ed amato prima di scoprire la verità. Visto lo squallore della sua vita, di cui lui per primo era cosciente, una cosa del genere gli sarebbe piaciuta da matti! Tuttavia sapeva che quel bel progetto non si sarebbe mai realizzato. Le parole di suo padre erano vacue promesse buttate lì per dargli false speranze e illuderlo; di sicuro quell’estate sarebbe saltato fuori qualche impegno improvviso, e il loro progetto di vacanza sarebbe andato a monte. Perciò era inutile che ci facesse già da ora la bocca. Suo padre era soltanto uno stronzo, presto ne avrebbe avuta l’ennesima conferma.
“Dai, allora ti lascio studiare! Ci sentiamo presto, ti prometto che d’ora in poi mi farò sentire più spesso”
“Mmh”, non ci credeva assolutamente.
“In gamba allora. Ciao”
“Ciao papà”
Chiuse la chiamata, appoggiò il cellulare sul comodino e si rimise a dormire. Doveva dare atto a suo padre che stava facendo uno sforzo immane per continuare a mantenere quel rapporto. Benché era chiaro che ormai si fosse creato la sua vita e che probabilmente lui era solamente un peso che ostacolava questa nuova situazione, almeno si faceva sentire ogni tanto e si interessava, o faceva finta di interessarsi, alle sue faccende, per quanto Nishi non gli desse mai la soddisfazione di raccontargli qualcosa e di andare oltre le venti parole per telefonata. In fondo poteva andargli peggio. Suo padre dopo tutto quello che aveva fatto poteva anche completare l’opera e tagliare definitivamente i rapporti. Forse se non lo faceva a modo suo era perché nonostante tutto continuava a provare qualcosa per quel suo unico figlio. Ma questi erano discorsi inutili da fare. Ricordava che nelle immediate vicinanze del funerale di sua madre aveva odiato con tutte le sue forze suo padre per come si era comportato. Suo padre era divenuto la prima persona che avrebbe tanto desiderato uccidere; altro che Yamagi! Suo padre era il vero nemico, la causa di tutti i suoi mali. Poi si rese conto che il pensiero della vendetta era un pensiero stupido e inutile, e piano piano il rancore se ne andò. Quell’uomo restava pur sempre suo padre, e in qualche modo era riuscito a perdonarlo, benché fosse per lui ormai totalmente indifferente cosa combinava e dove viveva; persino se avesse scoperto che fosse morto non gliene sarebbe fregato niente e non avrebbe provato niente. Ma qui si fermavano le sue emozioni.

La chiamata del Gantz giunse tre settimane dopo. Si tornava a combattere, e questa era l’unica cosa che gli desse qualche emozione; adrenalina ed eccitazione miste alla paura dell’eventualità di non riuscire a fare ritorno. Giunse nella stanza al cospetto della sfera nera per primo, come sempre. D’altronde era lui il membro più anziano, era giusto che fosse così. Il cane arrivò subito dopo di lui e subito appresso si materializzo Susumu Yamagi. E ancora un uomo sui trenta, un vecchio decrepito, un altro uomo, ancora un altro quarantenne, una ragazza in uniforme scolastica che avrebbe potuto avere la sua età, e una bambina delle elementari. Sorrise di fronte a quel patetico archetipo di inutilità. Quella volta Gantz non aveva avuto nessuna pietà, il campione umano che aveva scelto non era mai stato così insulso. Di sicuro ci sarebbe stato da divertirsi.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Informazioni ***




“Cerchiamo di stare calmi prima di tutto e di fare un po’ di chiarezza”, prese la parola il più anziano del gruppo.
Nishi si buttò a sedere sul pavimento, nell’attesa che Gantz mostrasse l’obiettivo della missione odierna e tutto iniziasse. Ogni volta era sempre curioso di osservare i comportamenti del gruppo di prescelti.
Guardandosi intorno vide che anche altri piano piano iniziarono a seguire il suo esempio mettendosi a sedere per terra. Quanto meno questa volta gente isterica non ce n’era, erano tutti così calmi che quasi non gli pareva vero. Era la prima volta che nessuno urlasse a destra e sinistra facendo domande cui non esisteva risposta, che nessuno piangesse o si disperasse. Persino la bambina di dieci anni si accucciò per terra in ammirevole silenzio. Che fortuna, gli mettevano la rabbia addosso le persone troppo emotive.
“Che ne dite se ognuno di noi si presentasse e dicesse l’ultimo ricordo che ha prima di svegliarsi qui?”
Ecco, nonostante la novità della quiete quella di interrogarsi sugli ultimi ricordi era qualcosa che avveniva ogni volta. Come se potesse servire mai a qualcosa! Tuttavia ogni volta saltava fuori qualcuno che proponeva questa inutile idea. E anche questa volta l’idea fu presa positivamente da ognuno con discreto entusiasmo. Nishi attese paziente e tollerante che fosse il suo turno per poter recitare il suo solito gioco.
“Mi chiamo Issei Nagano, ho cinquant’otto anni e sono un dirigente presso la Fuynan… Ero in macchina, un furgone contro mano mi è venuto addosso…”
Il vecchio invitò colui che gli stava più vicino a fare lo stesso.
“Io sono Mitusda Hanamori, trentun anni, sono operaio presso l’impianto siderurgico di Atanaba. Ho avuto un incidente sul lavoro”
“Mi chiamo Tori Kimura”, prese la parola la ragazza in uniforme, “frequento la seconda media presso la scuola Shiratori… Mi spiace, ma al momento non ricordo assolutamente cosa stessi facendo prima di trovarmi qui… Ricordo solo che mi trovavo a casa mia, con la mia famiglia…” il suo sguardo era tanto allucinato da mettere paura.
“Sono Joichiro Nishi, seconda media, sono morto cadendo”, ripeté la stessa frase che pronunciava ogni qual volta iniziasse il trenino delle presentazioni.
“Io sono Watanabe Taro, trentadue anni, gestisco un piccolo ristorante a Ichinomiya. Se non è stato un sogno una coppia di malviventi è entrata nel mio locale e mi ha sparato, ma non ne sono sicuro…”
Nishi guardò oltre il trentenne. Era il turno della ragazzina.
“Stai tranquilla piccolina, nessuno vuole farti del male”, fece il vecchio con voce calda, “Vuoi dirci anche tu come ti chiami, quanti anni hai e cosa ricordi?”
“Io mi chiamo Eri Yoshiba e ho dieci anni. Mi sono addormentata in ospedale”
“Capisco…”, riprese Issei il vecchio.
“Manco solo io”, era la volta dell’odiato Susumu, “Sono Susumu Yamagi, ho venticinque anni; sono impiegato presso gli uffici della JGK Bank. Sono stato investito mentre attraversavo la strada cinque mesi e mezzo fa”
“Cinque mesi e mezzo fa?”, Nishi poté vedere stupore negli occhi di tutti mentre pronunciavano quelle parole. Ecco, ora era il momento del siparietto di Susumu, la più grande rottura di palle che doveva sorbirsi ogni volta che si ritrovasse in quell’appartamento.
“Sì, io so molto di questo posto, chiedetemi pure ciò che volete, cercherò per quanto possibile di rispondervi. Ma prima di tutto vi consiglio di indossare la tuta, come quella che porto io. Potrete trovarla all’interno della sfera, appena questa si aprirà”
“Cosa ci succederà ora?”, chiese il vecchio.
“Tra un po’ verremo teletrasportati fuori da qui e saremo bersagliati dagli attacchi di mostri extraterrestri; so che molti non mi crederanno, ma è la verità”
Nishi osservò con sorpresa che il detestabile Susumu quella volta era riuscito a carpire l’attenzione del suo uditorio, che pendeva letteralmente dalle sue labbra; nessuno aveva osato pensare di non credere alle sue assurde parole. Joichiro non sapeva se definirli estremamente saggi o estremamente stolti per questo.
“Non vi nascondo che sarà dura là fuori, ma io cercherò di proteggere ciascuno di voi. Statemi vicino e vedrete che sopravvivremo tutti insieme a quest’inferno”
Nishi emise un ghigno a quelle parole; Yamagi era veramente patetico con quel suo modo di fare falso e ipocrita. Non vedeva l’ora di essere trasferito, così da rendersi invisibile ed evitarsi quell’odioso spettacolo. Susumu immediatamente si accorse di quella smorfia di disappunto e colse l’occasione al volo
“E cercate di diffidare dalle persone come lui”
Nishi volse lo sguardo altrove sentendosi chiamato in causa; il dito indice del venticinquenne gravava pesante e solenne su di lui. Iniziava seriamente ad irritarsi. In fondo voleva soltanto essere lasciato in pace.
“E perché, scusa?”, fece qualcuno nella stanza.
“Conosco bene quel moccioso, ed è uno dei peggiori bastardi che conosco. Dovete sapere che conosce molte più cose di me su questo posto, ma non vi dirà mai niente; anzi, farà di tutto perché crepiate tutti là fuori”
“Se invece iniziassi a crepare tu Yamagi il mondo sarebbe soltanto un posto migliore”, rispose con odio. Basta, ormai Susumu Yamagi aveva rotto i coglioni; la sua vita aveva i minuti contati.
“Dice la verità?”, si chiesero gli astanti interrogativi.
“Oh, ma certo che dice la verità”, si prese la briga di rispondere Nishi stesso, “Tanto non ci sarà bisogno che io faccia niente. Morirete comunque, con o senza il mio intervento; e anche con o senza l’intervento di quella testa di cazzo laggiù”
“Visto, ve l’avevo detto!”, rispose prontamente Susumu, “Quel tipo è simpatico quasi come pestare una merda sul marciapiede”
Solo Nishi trovò divertente la battuta e vi rise di gusto benché fosse architettata alle sue spalle. Ogni tanto quello stronzo riusciva a suo modo ad essere persino simpatico!
“E va bene, hai vinto tu”, cominciò Nishi continuando a ridere, “Hai ragione. Ascoltate tutti, date retta al veterano ed eroe Susumu Yamagi se volete sopravvivere. Ascoltate le sue parole, e stringetevi addosso a lui quando saremo fuori, e vedrete che andrà tutto bene”, disse a tutti continuando a trovare la cosa divertente. Avesse potuto scommettere su quelle parole si sarebbe giocato tutto ciò che aveva; di sicuro sarebbe divenuto milionario!
A quel punto la sfera iniziò a cantare come era consuetudine e tutti si avvicinarono per leggere le scritte che comparvero sulla sua liscia superficie nera. Poi si aprì e tutti furono ancora più sorpresi. Tutte scene già viste. Yamagi continuò le sue prolisse spiegazioni su come usare le armi e persino su come indossare la tuta. Tutti seguirono il suo consiglio e la indossarono; era la prima volta che succedeva; semplicemente sbalorditivo! La possibilità che il numero di sopravvissuti a quella missione superasse le consuete due persone iniziò ad accarezzare Nishi con fastidio. Ma era solo a combattimento iniziato che si sarebbe potuto affermare con certezza qualcosa del genere. Probabilmente però quella volta, se almeno fossero riusciti a combattere prima di crepare come degli inetti, gli avrebbero semplificato il compito, e di questo non poteva che esserne lieto.
Non ebbe nemmeno bisogno di andare a raccattare una pistola. Era da un po’ di tempo infatti che si portava a casa anche quella oltre alla tuta. Nel tempo libero ci aveva ammazzato solo qualche gatto randagio del quartiere, finora, ma almeno così teneva allenata la mano.
Passarono solo pochi minuti prima che il trasferimento ebbe inizio. Neanche ebbe finito di materializzarsi che si rese immediatamente invisibile. Ecco, ora si trovavano tutti in mezzo alla strada.
“Ci siamo tutti, state tutti bene?”, fece Susumu con aria da leader. Ma che domande, chi voleva incantare? Perché mai non sarebbero dovuti stare tutti bene?!
“Un momento, manca l’altro ragazzo delle medie”, fece la sua coetanea. “Non ti preoccupare, quello stronzo fa sempre così, appena finito il trasferimento sparisce per andare chissà dove”, povero ignorante, Susumu! Non aveva ancora capito dopo tutto quel tempo che si trovasse proprio là in mezzo a loro?
“Qualcuno sa dove ci troviamo?”
“Io lo so”, riprese la parola Tori Kimura, “Siamo a Uchiname”
“E come fai ad esserne sicura?”
“Perché questo è il mio quartiere! Vivo a due isolati da qui”, più che pronunciava quelle parole e più che appariva agitata, “Devo andare assolutamente a casa!”, si vedeva che smaniava dalla voglia di allontanarsi dal gruppo.
“No, non farlo!”, urlò Susumu afferrandola per un braccio, “Rischieresti di morire!”, ma bravo Susumu! Che impresa che era stata salvare la vita di quella ragazzina a quel modo! Un vero gesto eroico! Nishi iniziava a seccarsi; quelle chiacchiere inutili stavano solo rubando tempo alla missione! Che la ragazzina andasse pure a crepare nel tentativo di tornare a casa!
“Ehi, guardate là!”
Il primo ad accorgersene fu l’operaio trentenne. Lungo le strade notturne perfettamente deserte della notte, il drappello di persone distanti da loro neanche cento metri non poteva che attirare l’attenzione. Peccato che a guardare meglio non si trattasse di persone; cioè, avevano le sembianze di esseri umani, ed erano anche vestiti come dei comuni ragazzi, ma il loro aspetto era mostruoso.
“Si stanno avvicinando!”, il cospicuo gruppo di mostri stava camminando proprio verso di loro.
“Ascoltate le mie parole! Nessuna pietà, fate fuoco con entrambi i grilletti delle vostre pistole e sfruttate le potenzialità della tuta. Non fuggite troppo lontano o morirete. Insieme vedrete che ce la faremo”, certo, come no! Nishi sapeva che appena la situazione si sarebbe messa male Susumu si sarebbe imboscato da qualche parte lasciando morire tutti quanti. Ma effettivamente per chi non lo conoscesse in quel momento non poteva che apparire come un faro nell’oscurità.
“Tori, giusto?”, continuò quello a rivolgersi alla ragazza, “Prenditi cura di Eri mentre noi combatteremo”
“Si mangia!!”, gridarono i mostri iniziando a correre verso di loro con aria feroce.
Con un salto Nishi si levò dalla strada e si mise comodamente a sedere su un tetto da cui avrebbe potuto avere una visuale migliore. Cazzo, i mostri di quel giorno facevano davvero paura, anche solamente a vedere dalla foga con cui avevano preso a caricare i Gantzers. Meglio togliersi dalle scatole per il momento e stare a guardare.

Non furono passati neanche cinque minuti che i cadaveri del vecchio e del proprietario del ristorante facevano bella mostra di sé fatti a pezzi sull’asfalto. Per il resto la battaglia continuava ad imperversare e gli altri del gruppo che finora erano sopravvissuti avevano ingaggiato un’aspra lotta con i feroci alieni. Bene, che li tenessero occupati! Per lui tutto sarebbe stato più semplice. Tuttavia c’era qualcosa che non tornava. La ragazzina, Eri, era stata lasciata da sola proprio sotto a lui, e se ne stava rannicchiata dietro un palo di cemento piangendo dalla paura. Nessuna traccia invece della sua coetanea che doveva restare a badare alla bambina. Non riuscendo a scorgere il suo cadavere la cosa lo incuriosì. Poi si rese subito conto che la stupida doveva essere corsa verso casa, o verso il gran botto che avrebbe fatto a breve la sua testa.
Decise di lasciare per un attimo la scena del combattimento per vedere che stesse combinando Tori. Se davvero casa sua era là vicino forse ce l’avrebbe fatta a scamparla dalla bomba che aveva nella testa. Chissà che effetto avrebbe fatto combattere nel quartiere dove si trova la propria casa; era una cosa che si chiedeva da sempre.
La raggiunse in fretta, dal momento che aveva percorso ben poca strada e solo dopo aver verificato sul dispositivo che non vi fossero alieni nelle immediate vicinanze si privò dell’invisibilità.
“Sai che se continui ad allontanarti così ti salterà in aria la testa, vero?”, non seppe neanche perché lo disse. In realtà non gliene fregava granché di cosa la ragazza combinava.
“Da dove arrivi? Mi hai messo paura!”
“Sono sempre stato qui, mi tengo nascosto per non venire attaccato e mi mostro solo quando non ci sono rischi”
“E’ meschino…”
“Lo so, ma tecnica che vince non si cambia”
“Comunque non mi devo allontanare molto, casa mia si trova dietro quest’angolo”, rispose prontamente e con decisione quella, malgrado fosse chiaramente visibile che fosse sconvolta e agitata fuori misura.
“E cosa pensi di fare una volta a casa? Nessuno riuscirà a vederti…”, sapeva che il suo tono era provocatorio, ma d’altronde era proprio quello ciò che voleva.
“Non m’importa che qualcuno veda me! Sono io che voglio vedere la mia famiglia! Mi basta solo quello”
Nishi rimase sorpreso dalla decisione con cui erano state pronunciate quelle parole. Ci voleva un bel coraggio per fare un’affermazione del genere, o comunque bisognava avere cognizione di una situazione particolare. Cosa avrà voluto dire? Quest’interrogativo lo spinse a continuare a seguirla poco distante. Ma appena svoltato l’angolo il loro cammino si interruppe.
“Noo!!”, gridò la ragazza in lacrime, in un misto di rabbia e disperazione; e appena anche lui la raggiunse dietro l’angolo finalmente fu tutto chiaro.
“Merda…”, esclamò anche lui a quella vista.
C’era una palazzina a pochi metri da loro. L’intera zona circostante era delimitata dal nastro giallo e nero della polizia e da cartelli. Alzando lo sguardo poté vedere che il terzo piano dell’abitazione era letteralmente saltato per aria. Le finestre erano tutte esplose e i muri completamente neri per il fumo e per il fuoco che probabilmente dovevano aver infuriato. Anche il resto del palazzo sembrava aver subito qualche danno collaterale.
Nishi raggiunse la ragazzina che nel frattempo era crollata a piangere in ginocchio sull’asfalto mentre continuava a ripetersi che non poteva essere vero. Ricontrollò il radar per sicurezza, perché la prudenza non era mai troppa. Maledizione, gli alieni si stavano avvicinando a loro! Era assurdo come fosse impossibile per i malcapitati del Gantz riuscire a trovare un nascondiglio dove non venire scovati dagli alieni. Nishi ipotizzò addirittura a giustificazione di ciò che gli alieni utilizzassero l’olfatto per trovarli; altrimenti non c’erano altre spiegazioni. Ma chissà se era davvero così.
Annusando lui per primo il pericolo decise di tornare di nuovo invisibile senza dare alcuna spiegazione a nessuno. L’ultima volta che vide Tori questa stava correndo verso casa sua; cazzi suoi d’ora in avanti. Il timer indicava che mancava solamente un quarto d’ora per portare a termine la caccia, e non c’era altro tempo da perdere. Tornò verso la zona del combattimento per vedere quanti fossero ancora sopravvissuti, e durante il cammino eliminò sparandogli dalla sua invisibilità un discreto numero di alieni minori. Quando giunse sul luogo principale dello scontro il boss alieno aveva appena fatto fuori uno dei pochi superstiti, ovvero l’operaio.
Si guardò intorno.
“Che macello…”, fu soltanto in grado di dire. Erano tutti morti, come al solito, persino della bambina non avevano avuto pietà.
Susumu invece era ancora in vita, arrancando con la tuta fuori uso cercando di fare fuori con la sua pistola quanti più mostri riuscisse ad eliminare. Nishi corse in suo aiuto, dandogli una mano ad ammazzare gli alieni che gli si stavano stringendo addosso, ma solo per una ragione: era lui che voleva fare fuori l’odiato ragazzo. Tutto ciò gli ricordava un appetitoso sogno che aveva fatto qualche settimana addietro…
Ma non c’era tempo per i mostri minori, la priorità restava l’eliminazione del boss; lasciò Susumu e si diresse alle spalle del mostro più grosso. E l’invisibilità funzionò alla grande, perché quando gli sparò un gran numeri di colpi alle spalle, questo non si era neanche accorto della sua presenza. Fossero state tutte così semplici le missioni! L’alieno si accorse di essere stato attaccato troppo tardi, quando ormai i colpi erano stati sparati. La sua morte era solo questione di tempo, per quanto questi ora si dimenasse per colpire il suo misterioso e invisibile aggressore.
Anche questa era fatta. Ora era la volta di Susumu. Il cuore gli batteva forte. Si chiedeva se sarebbe stato in grado di fare una cosa del genere, di uccidere un uomo, per quanto odiato, così, a sangue freddo e senza pietà. Nel sogno era tutto più semplice, mentre ora che era il momento dei fatti quella famosa e dannata promessa di “essere sempre bravo” che aveva fatto a sua madre in maniera tanto superficiale prima che questa morisse era come un pesante macigno appeso al suo collo. Ma appena si volse verso Susumu ogni perplessità cessò di esistere; il ragazzo giaceva a terra decapitato, massacrato da uno di quegli alieni. Nonostante tutti i dubbi che aveva avuto fece una smorfia di disappunto di fronte a questo fatto. Aveva perso quell’occasione… Chissà se era meglio o peggio così. Probabilmente sua madre sarebbe stata felice per il fatto che suo figlio non fosse ancora divenuto un assassino…
Neanche tre secondi dopo iniziò il trasferimento. Povero Susumu! Quella volta la fortuna gli aveva detto male! Sarebbe bastato per lui resistere per meno di un altro minuto e adesso sarebbe stato ancora vivo! Ma d’altronde era probabile che una cosa del genere prima o poi accadesse, era soltanto questione di tempo. E ora che finalmente era successa poteva sentire finalmente il suo cuore più leggero!

Al ritorno nella stanza della sfera si diresse subito verso di essa e la intimò di iniziare subito a dare i punteggi. Una volta terminata la missione quella di sapere quanti punti avesse accumulato diveniva una vera smania per lui. Ma anche quella volta era stato troppo impaziente. Dopo qualche secondo il cane iniziò a materializzarsi nella stanza. Maledizione, ogni volta dimenticava quel dettaglio!
“Adesso puoi iniziare, Gantz!”
Ma anche ora la sfera lo ignorò. Eppure non avrebbe mai detto che ci sarebbero stati altri superstiti. Invece entro poco iniziò a trasferirsi nella stanza anche Tori Kimura.
“Così alla fine ce l’hai fatta…”, che palle, non aveva fatto a tempo a liberarsi di Susumu che già doveva sopportare un altro superstite.
La ragazza non rispose, anzi, non si curò minimamente delle sue parole. Era ancora sconvolta dagli eventi e non aveva ancora smesso di piangere. Nishi azzardò che forse tanto era presa dalle sue faccende che neanche si era accorta della presenza degli alieni e di tutto il casino che era successo, e così facendo l’aveva scampata. Tutto ciò era buffo.
Finalmente Gantz si decise a dare i punti. Attese il suo turno con le palpitazioni; non che sperasse nei cento punti del suo sogno, ma magari quella volta la sfera poteva essere stata magnanima nei suoi confronti e avergli dato un buon punteggio…
“Nishi-kun 9 punti, 80 punti totali, 20 punti alla fine”
Non era male come punteggio. E quell’ottanta gli piaceva sempre di più. Aveva un bel suono, era molto vicino ai cento. Poteva definirsi contento.
Quando anche agli altri due furono comunicati i punteggi, ovvero zero punti, la sfera si spense e la serratura della porta si aprì. Il cane non se lo fece ripetere due volte e scodinzolando si allontanò e terminò di aprire l’uscio grattando con le zampe anteriori, scappandosene chissà dove.
Anche lui in genere era il primo a volersene andare dall’appartamento. Ma non quella volta.
“Ehi, guarda che puoi andartene anche tu. Ora la porta è aperta”, intimò maleducatamente verso la ragazza; voleva soltanto restare da solo con la sfera. Dopo tutti quei mesi era giunto il momento di capirne qualcosa di più, e non voleva scocciatori tra le scatole.
“Posso chiederti soltanto che scuola frequenti?”
Chiedendosi che diavolo poteva importargliene di un dettaglio del genere rispose
“Le Nagashimura, a Shinjuku”
Senza neanche salutare la ragazza se ne andò. Finalmente non c’era rimasto più nessuno. Nei giorni che avevano preceduto la missione si era domandato incessantemente cosa fosse il Gantz. E tra le varie ipotesi che aveva fatto, l’idea che si potesse trattare di qualcosa molto simile ad un computer non era mancata. Adesso era giunto il momento di fare un tentativo. Di computer se ne intendeva abbastanza. Certo, se anche il Gantz fosse una specie di computer, chissà che linguaggio avrebbe utilizzato. Così iniziò con un tentativo.
“Ehi, Gantz, sei ancora attivo?”
Nessuna risposta giunse. Si avvicinò alla sfera e si accucciò di fronte a lei. La superficie nera era perfettamente liscia. Provò a tastare, ma non ottenne nessun risultato; probabilmente non aveva niente a che fare con un touch screen. Dal momento che la sfera era ancora aperta guardò dentro il suo interno. L’uomo intubato ad essa era sempre lì e sempre incosciente. Chissà che diavolo era quella cosa e chi l’avesse creata! Tuttavia gli seccava essere ignorato a quel modo.
“Mi riesci a sentire? Dammi un segno che ci sei ancora e non mi ignorare! Ho un mucchio di domande da farti!”
Quando anche questa seconda frase non sortì alcun effetto scosse l’uomo all’interno della sfera con qualche pacca. Fu solo a quel punto che il Gantz si accese facendo comparire sulla sua superficie la schermata raffigurante il suo punteggio.
“Gantz, mostrami tutti quelli che hai in memoria”
Sapeva che sarebbe stato assolutamente inutile, tuttavia dopo quell’assurdo sogno che aveva fatto tanto valeva fare un tentativo. In fondo in fondo, per quanto conoscesse la verità, una piccolissima parte di sé continuava a sperare che qualcosa di irrealizzabile potesse invece fantasticamente realizzarsi… Tuttavia il suo raziocinio non sbagliava. Tra le persone in memoria di Gantz non vi era traccia di sua madre. Maledisse ulteriormente quel dannato sogno che non aveva fatto altro che illuderlo inutilmente.
Ok, appurato ora che i sogni erano solo sogni, era giunto il momento di dedicarsi a qualcosa più serio. Sembrava che Gantz potesse comprendere i comandi vocali. Pensò che ogni linguaggio informatico creato dell’uomo aveva una sua guida, quindi tentò
“Gantz, mostrami l’elenco di tutti i comandi cui sei in grado di rispondere”
La sfera recepì l’ordine e mandò una schermata con una lista quasi infinita di istruzioni. Nishi pensò che attraverso di essa avrebbe potuto ottenere un gran numero di informazioni su cosa fosse quella dannata sfera. E comunque quella che aveva appena avuto era la conferma che se anche Gantz non fosse stato proprio un computer, per lo meno era qualcosa che gli si potesse avvicinare di molto.
Osservò all’interno della sfera; ogni computer era dotato di porte di vario genere. Mentre cercava di trovare qualche accesso esterno l’idea che quella cosa potesse essere qualcosa creato dall’umanità si faceva sempre più pressante. E quando trovò una porta seriale nascosta tra i cavi dentro la sfera non ebbe più dubbi. Non si stava sbagliando, quella che aveva appena visto dentro la sfera era proprio una porta seriale! Maledizione, se soltanto avesse avuto con sé il portatile! Forse attraverso un portatile avrebbe potuto muoversi più agilmente nel linguaggio di Gantz. Ebbe una voglia matta di correre a casa e prendere il computer, ma temeva che una volta tornato all’appartamento avrebbe trovato soltanto una porta chiusa. A quel punto la delusione sarebbe stata troppo forte. Si accontentò per il momento di utilizzare il linguaggio vocale con la sfera, ripromettendosi per le volte future di ricordarsi di portare con sé un pc.
Scorse la lunga lista per vedere di trovare qualche comando particolarmente interessante. La stringa “communicate” attirò immediatamente la sua attenzione.
“Communicate”, impartì l’istruzione.
La schermata mutò mostrando una domanda: “Con chi?”
Che diavolo ne sapeva con chi? Fece un tentativo
“Dammi un elenco”
E il tentativo andò a buon termine. La schermata mutò di nuovo mostrando un elenco degli utenti al momento in linea. Fondamentalmente erano nomi di città di tutto il mondo e ogni secondo che passava ne scomparivano alcuni e ne comparivano altri. Questa cosa lo interessava particolarmente. Peccato non ci fosse nessun’altra città giapponese al momento. Gli toccava parlare in inglese, per quanto ci riuscisse
“Fammi parlare con New York”
La sfera rispose con la schermata “connessione aperta”
Passò tutta la notte a parlare con il team di New York, poi, quando quello lo mandò a quel paese e si fu disconnesso passò a quello di Londra, San Francisco e azzardò pure Parigi. Parlare in inglese era davvero faticoso, ma lo sforzo ne valeva la pena. Ottenne un sacco di informazioni. A partire dal fatto che di appartamenti come quello in cui si trovava lui al momento ve ne fosse un numero esagerato, che Gantz era un artefatto prodotto dall’uomo probabilmente in uno stabilimento tedesco, e che il mondo avrebbe visto la sua fine entro un anno da allora.
“What does it mean?”, chiese per avere maggiori delucidazioni a riguardo. Poté vedere il suo interlocutore seccato di fronte a tanta insistenza, ma infine la risposta giunse
“Try the ‘katastrophe’ command, you moron”
“Wait just a second! I’ve another question; is there any other way to communicate between gantzers? Such as internet?”
“I gotta go now. You pissed me off. I’ll send you an address and some passwords”
Prima di staccarsi dalla connessione l’utente inviò i dati che aveva promesso che comparvero sulla schermata. Nishi prese nota mentalmente di essi in attesa di essere a casa sua davanti al computer per poter tentare l’accesso al sito in questione. Poi provò il comando katastrophe per vedere di cosa si trattava più nel dettaglio.
“Gantz, katastrophe”
Ma visto così da solo, quel conto alla rovescia che sarebbe scaduto dopo circa dodici mesi da quel momento, proprio come aveva asserito il suo interlocutore, aveva ben poco senso.
Stette tutta la notte davanti alla sfera a studiarne tutte le potenzialità, finché verso l’alba non fu sopraffatto dalla stanchezza e crollò addormentato là su quel pavimento di parquet.
Quando si risvegliò doveva essere l’ora di pranzo; il sole entrava prepotentemente dalle ampie vetrate dell’appartamento illuminandone ogni dettaglio. La scuola per quel giorno era andata, ma di questo non gliene fregava granché. Si stiracchiò e si tirò a sedere. Doveva essere davvero stanco morto per crollare su quello scomodo e duro legno; solo ora riusciva a sentire schiena e collo tutti anchilosati.
“Ehi Gantz, ci sei ancora?”
Scrutò la sfera, ma non gli giunse alcun tipo di risposta. Probabilmente si era spenta. Tentò in qualche modo di riattivarla ma non ci fu nulla da fare. Pazienza, sarebbe stato per la prossima volta. Ora aveva soltanto voglia di tornare a casa. Voleva aggiornare il suo blog coi dettagli dell’ultima missione; ma solo quelli. Tutte le restanti novità che aveva scoperto sulla sfera si sarebbe guardato bene dal pubblicarle. Meglio tenere per sé tutte quelle utili e preziose informazioni. Per il resto invece non vedeva l’ora di venire richiamato per la prossima missione. Cavolo, ottanta punti erano tanti! Gli sembrava fosse passato solo un giorno dalla sua prima missione, e invece era passato quasi un anno, e aveva quasi finito il gioco! Era una bella sensazione.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Tori Kimura ***



Il giorno successivo alla sua ultima missione anche la scuola gli passò abbastanza. Era sabato, e questo era già un ottimo punto di partenza, dal momento che era l’ultimo giorno di scuola della settimana e che le lezioni finivano subito dopo pranzo invece che a metà pomeriggio come tutti gli altri giorni.
La campanella suonò e Nishi si avviò seguendo il fiume dei suoi compagni verso l’uscita dalla scuola. Attraversò il cortile, ma prima di varcare il cancello esterno la sua attenzione fu attirata da quell’unica uniforme scolastica dai colori così diversi da quelli della sua scuola; era una ragazza ad attendere appena fuori la struttura. Ci mise poco a riconoscere quella persona; era Tori Kimura, l’altra superstite di Gantz. La cosa lo seccava, poiché quando si trovava fuori dalle missioni non voleva avere nulla a che fare con tutto ciò che riguardava la sfera nera. Si chiedeva soltanto cosa diavolo ci facesse là; da Uchiname doveva averne fatta di strada per arrivare laggiù. Anche la ragazza lo riconobbe e i loro sguardi si incrociarono. Era chiaro che si trovava là soltanto per lui. Nishi si avvicinò uscendo dalla fiumana di gente; voleva chiarire subito la faccenda, non aveva voglia di perdere tempo con lei.
“Si può sapere che diavolo sei venuta a fare fino a qui?”, chiese palesemente tediato dall’incontro. L’aspetto della ragazza era davvero terribile. L’uniforme che indossava probabilmente era la stessa che aveva addosso quando l’aveva conosciuta nell’appartamento, il viso era stanco, e i capelli in disordine; ma soprattutto l’espressione sconvolta da una tristezza devastante. Si vedeva che aveva smesso da poco di piangere. Vedendola in quello stato per un attimo ebbe compassione, e si pentì di essersi comportato così bruscamente con lei. Non aveva capito bene cosa le fosse successo, ma sapeva che doveva essere qualcosa di terribile. Forse persino più terribile di quello che aveva patito lui cinque mesi addietro. In quel momento la ragazza non ce la fece a contenersi e scoppiò a piangere
“Sai spiegarmi il perché di tutto questo? Perché non sono morta? Cos’è successo l’altra sera…? Io non ci sto capendo niente…”
Nishi sbuffò scocciato. Che diavolo ne sapeva lui?
“Sembra che tu abbia fatto tanta strada per niente. Non ho la risposta a queste domande”, detto questo riprese ad avviarsi.
“No, aspetta…”, lo richiamò Tori.
“C’è dell’altro?”
“Sì…”
“E riguarda il Gantz?”
“No…”
“Allora non pensi sia meglio per te rivolgerti a dei nonni, degli zii… a un’amica del cuore?”, mentre parlava sentiva il suo stesso tono di voce tagliente e derisorio.
La ragazza non rispose, ma continuò a piangere.
“Ehi Nishi, non spezzarle il cuore!”, le voci sguaiate e le risa dei suoi compagni di scuola lo raggiunsero mentre i peggiori elementi della sua classe sfilavano verso casa passandogli affianco.
“Ma dove l’ha trovata quella?!”
“Però che cazzo! Nishi con la fidanzata! Il mondo sta davvero precipitando verso la follia! La fine si avvicina!”
“Che scena da brivido!”
Nishi li guardò sprezzante e si sentì lievemente a disagio per quella situazione. Fosse stato da solo li avrebbe semplicemente ignorati, ma essere sfottuto a quel modo davanti a un’altra persona lo imbarazzava. La ragazza invece sembrava sempre presa dalla sua tristezza e distante da tutto. E per un momento avvenne una cosa strana. Il caos delle risa, delle urla, le facce di quella gentaglia, tutto scomparve e per un solo attimo gli parve che sulla strada ci fossero soltanto loro due, quelle due anime disperate e perse che stavano semplicemente naufragando alla deriva. La sofferenza che entrambi avevano provato li rendeva in quel momento così simili tra loro e così diversi da quegli stronzi ignoranti che neanche potevano immaginare il dolore e il fardello che gravava sulle loro giovani spalle.
“Ascolta, se vuoi parlare andiamo a casa mia, abito qua vicino”, si vide costretto a dirle il ragazzo una volta tornato nella realtà, dal momento che gli sfottò sarebbero andati avanti ancora per molto.
Si avviarono uno accanto all’altra verso casa sua. Era assurdo che quella per lui fosse la prima volta in assoluto che percorresse quella strada con qualcuno. Era una strana sensazione, tanto era abituato alla solita routine di eventi.
Arrivati a casa la fece accomodare sul divano in salotto. Tori si asciugò le lacrime e iniziò a parlare, dato che sembrava che Nishi stesse ancora aspettando una qualche risposta da parte sua.
“Ti chiedo scusa, davvero, in realtà non so neanche cosa ci faccio qui… E’ solo… E’ solo che sono tanto incazzata, e vorrei che qualcuno mi spiegasse perché…”
Nishi la continuava a guardare con sguardo interrogativo.
“Io… Avrei tanto desiderato morire insieme alla mia famiglia… Perché invece mi sono risvegliata in quella stanza? Questo è un inferno… Non ho chiesto neanche di sopravvivere contro quei mostri… E invece eccomi ancora qua…”
“Spiegami che ti è successo almeno”
A quelle parole la ragazza scoppiò di nuovo a piangere
“Ma perché devo ritrovarmi qui adesso… Io non ce la faccio, la mia coscienza non ce la fa a sostenere un tale peso… Non ce la faccio davvero… Ma tu che ne puoi sapere?! Ho ucciso io la mia famiglia… Ho ucciso la mia famiglia, te ne rendi conto?! Adesso ne ho la certezza… Sono una persona mostruosa! E’ stata solo colpa mia se sono tutti morti, e invece hanno pagato tutti tranne me!”
“Si può sapere che cazzo hai fatto?”
“All’inizio non ne ero sicura… Ma ora lo posso dire, è stata colpa mia! Quando tornando da scuola decisi di prepararmi qualcosa da mangiare ho di sicuro dimenticato il gas aperto… Ne sono sicura, maledizione… A casa c’era soltanto mio fratello… Poi ad un tratto abbiamo avuto sonno, tanto sonno e io mi sono buttata a letto così come stavo… Poi mi sono risvegliata in quella stanza e dopo ho visto casa mia letteralmente esplosa… E’ facile capire cosa sia successo… Cazzo, sarebbe stato tutto così semplice! Una morte indolore, che non avrebbe arrecato dolore a nessun altro, dal momento che la mia famiglia sarebbe morta con me… E invece devo trovarmi ancora qui, a convivere con questo peso… Io non ce la faccio…”, ormai singhiozzava tanto da non riuscire neanche più a parlare e terminò esplodendo in un’altra crisi di pianto.
“Comunque se è andata così non l’hai mica fatto apposta. Non c’è bisogno che ti carichi di questo fardello…”
“Io riesco a vedere solo una cosa al momento… Sono sola, senza un posto in cui tornare e con la mia intera famiglia sulla coscienza…”
“Tecnicamente quello che hai detto non è completo. Oltre alla tua famiglia si può dire che tu abbia ucciso anche quella bambina cui dovevi badare…”, disse non sapendo che altro dire, con tono provocatorio.
“Io non dovevo badare proprio a nessuno!”, rispose prontamente e aggressivamente lei sollevando il viso dalle mani, piena di rabbia.
“Stavo solo scherzando…”
Attese che sfogasse almeno in minima parte la crisi.
“Mia madre si è impiccata in cucina, cinque mesi fa. Si è suicidata a causa dei continui tradimenti di mio padre… La trovai io, in casa, rientrando da scuola…”, si interruppe; non seppe perché iniziò a raccontare fatti tanto personali. Era la prima volta che raccontava quella cosa a qualcuno, e ora che ci stava facendo mente locale si bloccò all’istante; ma durò soltanto un attimo; finalmente era riuscito ad aprirsi e una volta iniziato quel processo non poteva più fermarsi, non riusciva più a smettere di articolare quelle parole. Anzi, in realtà non voleva più fermarsi. Forse era stato l’aver trovato qualcuno che avesse provato in qualche modo il suo stesso dolore a spingerlo ad uscire dalla sua asocialità e introversione, o forse prima o poi quel momento sarebbe giunto comunque e non ce l’avrebbe più fatta a tenere tutto dentro di sé.
“Mio padre invece se n’è andato la sera stessa dei funerali. Ora vive con la sua amante, penso, ma da allora non l’ho più rivisto”, maledizione, sentiva i suoi occhi caricarsi di lacrime a rivangare quei ricordi con qualcuno, ma non voleva davvero smettere, “Non so neanche dove vive, ma almeno mi passa tutti i soldi di cui ho bisogno, e ogni tanto mi chiama…”
Tori nel frattempo aveva smesso di piangere e stava ad ascoltare in silenzio il suo racconto.
“Questa è la prima volta che parlo di queste cose con qualcuno…”, e la cosa mi fa sentire tanto bene, evitò di finire la frase.
“E da allora vivi qui da solo?”
“Sì, vivo qui da solo; io sto sempre completamente solo”, sentiva le lacrime desiderose di sgorgare prepotentemente dai suoi occhi più che quella penosa conversazione andava avanti, ma le represse asciugandosi bruscamente gli occhi con la manica. Era da stupidi piangere. Fissò con occhi umidi gli occhi altrettanto gonfi della ragazza che aveva di fronte, a lungo. Per la prima volta in vita sua non provava vergogna nel mostrarsi in lacrime di fronte a qualcuno; le sue emozioni quella volta erano sincere, una cosa assai rara per lui. E ora era lei ad avere uno sguardo compassionevole nei suoi confronti. Questo non era giusto. Doveva essere il contrario. Era lui il più fortunato tra i due. La morte di sua madre non gravava particolarmente sulla sua coscienza, e suo padre era ancora in vita, e ogni tanto poteva sentirlo al telefono. Inoltre aveva ancora una casa in cui vivere e un obiettivo per cui continuare ad andare avanti. Mentre Tori? Provò per un attimo ad immedesimarsi in lei e non trovò alcuna ragione per vivere. Fissando meglio i suoi occhi, bagnati esattamente come lo erano i suoi, trovò conferma a questi suoi pensieri. Davvero lei non aveva nulla per cui continuare a vivere. In quell’attimo, mentre in silenzio si guardavano, provò una complicità ed un’empatia che mai aveva provato in vita sua con nessun altro essere umano. Soltanto in quel momento, riconoscendo in una qualche misura se stesso in Tori, gli fu chiaro come l’acqua cosa fossero in realtà, lui come la ragazza che gli stava di fronte: due adolescenti nel pieno della loro fragilità.
Finito quel piangersi l’uno addosso all’altra a suo modo piacevole, terminò di asciugarsi gli occhi e cercò riuscendoci con scarsi risultati di dare alla sua voce il suo solito tono freddo
“Ascolta, se vuoi puoi fermarti qui per qualche giorno. In questa casa c’è un sacco di spazio inutilizzato, quindi non è un problema per me ospitarti”, disse prontamente. Ora che Tori si era calmata e ripresa da quello sfogo guardandola bene negli occhi non riusciva a vedere in essi alcuna luce; e questo era un sentore che lo preoccupava e non gli piaceva affatto. Non sapeva neanche perché a dire il vero, dato che quella ragazza per lui non era nessuno e che non la conosceva neanche. Ma trovarsi a casa sua con qualcun altro e non completamente da solo era una sensazione così bella… era una sensazione che apparteneva ormai a un passato troppo remoto e in cuor suo voleva che durasse per sempre; inoltre era davvero la prima volta che provava una sorta di pietà per qualcuno; era ironico pensare quanto assurdamente e rapidamente si fosse affezionato a quella sconosciuta, e il pensiero che quella sua giustificata disperazione la potesse spingere a compiere qualche gesto estremo lo angosciava.
“Ti ringrazio per la disponibilità, ti prometto che mi tratterrò solo per poco…”, disse lei calmandosi. Meno male, per un attimo aveva temuto che se ne sarebbe andata via subito. E lui non avrebbe potuto certo obbligarla a fare il contrario.
Joichiro le mostrò la stanza dove avrebbe dormito, preparò il letto aprendo armadi di casa sua che non aveva mai aperto e fece tutto il possibile per far sentire a suo agio quell’ospite, combattendo con la sua intrinseca timidezza e scontrosità.
Tori riuscì subito a mettersi comoda, si fece la doccia e si cambiò d’abito. Quando Joichiro la rivide gli sembrò già più serena. E di questo era felice. “Hai fame, vuoi mangiare qualcosa?”, le chiese quando ormai era sera.
“Sì se è possibile”, immaginava che dovesse essere affamata.
Si misero a sedere a tavola e Nishi scaldò al microonde i pasti che la colf che veniva a rassettare casa gli preparava per tutta la settimana.
“L’hai preparato tu questo?”
“No, mio padre sta facendo venire ancora la colf lunedì e giovedì, e lei mi prepara sempre la cena per tutta la settimana”
“E la vedi spesso?”
“In realtà non la vedo mai, perché viene la mattina quando io sono a scuola”
Allestì con gli elementi essenziali quel tavolo su cui aveva mangiato sempre da solo e servì la cena a se stesso e alla sua ospite.
L’enorme casa deserta era avvolta nel silenzio e nell’oscurità più assoluti, fatta eccezione della cucina; mentre mangiavano taciturni l’unico rumore che si sentiva era quello delle posate. E mentre sedevano l’uno accanto all’altra, non riusciva ancora a capacitarsi di quanto fosse strana la sensazione di non essere solo in casa sua, in quell’ambiente così familiare. Tori era oggettivamente una ragazza molto carina, ma si rese conto che in quel momento sarebbe stata carina ai suoi occhi anche se in realtà fosse stata un mostro di ragazza. Perché lei era Tori, semplicemente Tori, la prima persona cui aveva confessato la parte più dolorosa di tutta la sua vita, la prima persona con cui si sentisse di avere qualcosa in comune, sia esso il dolore per la perdita della famiglia che la convivenza nel mondo di Gantz, che il semplice fatto di avere la stessa età. Soltanto questo gli bastava per farlo sentire estremamente bene e appagato, come non si sentiva da tempo immemore.
Finito di mangiare la salutò e ognuno si barricò nella propria stanza. Lui dal canto suo aveva un sacco di faccende da sbrigare davanti al computer, e anche quella sera fece notte fonda davanti al monitor. Ma tanto l’indomani sarebbe stata domenica, quindi non c’era alcun problema. Maledizione, non riusciva ancora a convincersi di quanto fosse meravigliosamente bello avere un ospite in casa! pensò mentre iniziava a scrivere una nuova pagina del suo blog. Pur essendo in due stanze diverse e chiuse gli pareva che casa sua fosse diventata già più calda ora che era abitata da due persone piuttosto che da una soltanto.

“Buongiorno”, lo salutò Tori appena lo vide uscendo dalla sua stanza. “Buongiorno”, rispose lui al saluto. Aveva dormito bene quella notte e sentire un buongiorno alla mattina non poteva che preannunciare una bella giornata.
Fecero colazione insieme, in cucina; si era abituato tanto in fretta a quella convivenza e a quello stile di vita che già si vedeva seduto a quel desco con la stessa serenità e spensieratezza di un vecchio decrepito innamorato che fa colazione con la sua adorata vecchia e decrepita consorte; un’immagine strana che in quel momento però gli piacque.
“Sai, l’altro giorno ho scoperto un sacco di cose sul Gantz… Anche se queste non rispondono a quelle domande fondamentali che anch’io mi sono sempre posto”, così come si era sentito bene mostrandole le ferite dei recenti eventi della sua vita, adesso voleva condividere con lei anche le informazioni che aveva raccolto. Le raccontò tutto quello che aveva scoperto l’altra sera con dovizia di particolari… Anche raccontare qualcosa a qualcuno era una cosa che non faceva da tempo, addirittura da prima di morire. Aveva smesso di raccontare le vicende della sua vita a sua madre, che era l’unica persona con cui parlasse, già da più di un anno prima della sua dipartita, e ora che aveva finalmente ripreso aveva riscoperto in quest’azione una tale gioia che si chiedeva se sarebbe mai stato in grado di smettere. Perché per quanto possa sembrare banale, finché vivi da solo e stai sempre da solo non puoi raccontare niente a nessuno e non puoi neanche parlare; e non parlare per un lungo lasso di tempo fa sì che appena trovata la persona giusta che sia in grado di ascoltare tutte le parole congelate in cuore esplodano come un vulcano. E lui aveva così tanto da raccontare! La ragazza invece ascoltava annuendo. Tuttavia a spezzare quell’incanto vi era il fatto che Tori sembrava così distante da lui. Sembrava quasi che di quelle sue scoperte, che al momento erano la cosa più emozionante che gli fosse capitata tra le mani, alla ragazza non importasse assolutamente niente, benché cercasse dal canto suo di nascondere questo suo disinteresse e di fingere educatamente di ascoltare. Ma Nishi lo notò e la cosa lo ferì. A maggior ragione perché quelle informazioni sul Gantz erano qualcosa di prezioso e importante che non aveva intenzione di comunicare a nessun altro e che sarebbero tornate sicuramente utili al fine di sopravvivere alla prossima caccia. Tuttavia pur di non spezzare quella magia che stava avvenendo in casa sua tentò di cambiare argomento, anche se poi, vedendo che ciò non sortiva alcun effetto, decise che forse il silenzio era la cosa migliore, e che la ragazza aveva ancora bisogno di riprendersi dal suo shock prima di venire bombardata dai suoi discorsi e da tutte le parole che aveva soffocato dentro di sé per tutti quei mesi di solitudine.
“Tu com’è che sei morto? L’altro giorno hai detto che sei morto cadendo, ma come è successo?”, chiese lei mentre se ne stavano in salotto in pigiama a guardare alla tv i telefilm e le sitcom del mattino.
Nishi non aveva voglia di tirare in ballo quell’argomento deprimente ora che si sentiva così bene, ma d’altro canto gli sembrava brutto non rispondere a quella domanda.
“Mi sono buttato dal tetto della scuola…”
“E perché?”
Anche quest’argomento sensibile era la prima volta che veniva toccato con qualcuno
“Perché ero uno stupido e non capivo un bel niente… Mi sentivo giù, mi sembrava tutto così inutile e triste, la mia vita era così squallida… Farla finita non mi sembrava poi questo granché. Non me ne fregava niente, per questo quando sono saltato giù ero tranquillo”
“E com’è stato?”
“Non ricordo molto di quei momenti. Penso di essere morto in meno di cinque minuti, ma per quel che ricordo non sentivo niente. Il dolore è durato solo un attimo…”
“Capisco…”, ma perché gli stava chiedendo quelle cose?
“E poi mi sono ritrovato in quella stanza e tutto è iniziato. Ma sai, sono contento che sia andata così, ringrazio davvero per quest’opportunità che mi è stata data”, osservò Tori che in silenzio continuava a guardare la televisione, “Sai cosa succede quando raggiungi i cento punti?”, continuò.
“No”, rispose lei con scarso interesse.
“Gantz ti propone tre scelte: tornare ad essere libero con la memoria cancellata, ottenere un’arma più potente e ricominciare da zero o resuscitare qualcuno dalla sua memoria. Ho visto solo una persona ottenere questo punteggio”
“E tu cosa pensi che sceglierai quando li raggiungerai? Ormai ci sei vicino…”
“Non lo so davvero… All’inizio pensavo la libertà; l’idea di ricominciare da zero, come se niente fosse successo, l’idea di costruirmi una nuova vita migliore, senza ripetere gli sbagli del passato mi sembrava una gran cosa, un’opportunità preziosa che a pochissimi viene offerta. Poi ho iniziato ad abbandonare questa linea di pensiero; in fondo le missioni del Gantz hanno un ché di divertente e sono un ottimo passatempo. Ma ora, in questo preciso istante, faccio fatica a trovare una risposta a questa tua domanda…”, l’ingresso di Tori in casa sua aveva stravolto ogni certezza, ogni regola di quella che era stata la sua vita fino a due giorni addietro. E pensò che avrebbe anche cambiato radicalmente e improrogabilmente il suo modo di comportarsi all’interno dell’appartamento del Gantz e durante le missioni. Ma aveva già accettato quel compromesso.
“Io non riesco a pensare a nulla del genere invece…”, maledizione, la sua voce era così spenta da mettere i brividi addosso, “Nessuna di quelle tre opzioni significa niente per me… Nulla significa ormai niente per me”
Nishi comprendeva perfettamente il suo sconforto e sapeva che era difficile trovare argomenti per replicare e per farle cambiare idea. Ma tutto ciò lo rattristava; erano partiti piangendosi addosso e adesso, grazie a lei, si sentiva bene come non mai; avrebbe desiderato davvero che la cosa fosse reciproca e invece…
“Sei sempre in tempo a costruirti una nuova vita. Capisco che il problema di casa e soldi possa essere un grosso scoglio per una ragazza della tua età. Ma ti ho già detto che se vuoi puoi restare qui per qualche tempo. Anche per i soldi non c’è problema; mio padre è come una miniera senza fondo e a me non costa davvero nulla aiutarti”
Tori lo guardò negli occhi; era così bello guardarsi negli occhi con lei…
“Grazie… Hai ragione, quello che dici è vero… Ma non ne ho la forza di ricominciare… Davvero, non credo di farcela… E’ troppo faticoso anche solo pensare a qualcosa del genere”
“E’ normale; ma è solo questione di tempo, devi solo saper aspettare. Anche io mi sentivo come te dopo la morte di mia madre, ma ora mi è passata, e sono riuscito a ritrovare la normalità; sto bene e non ci avrei mai creduto prima”
“Io non ce la faccio…”, continuava a ripetere scuotendo il capo; probabilmente avrebbe avuto ancora molto da piangere prima di calmarsi del tutto.
Decise di non insistere. D’altronde lui era l’ultima persona che potesse dare consigli a qualcuno in materia di vita…

Fu prima dell’ora di pranzo che Tori decise di andarsene.
“Ti ringrazio davvero per tutto quello che hai fatto per me. Sei stato gentile. Ma forse è meglio che vada”
Una cosa del genere gli dispiaceva, tanto si era abituato velocemente a quella nuova situazione.
“Sei sicura? Dove andrai?”
“Dai miei nonni, a Idenodai. Saranno felici di rivedermi”
“Fa’ come ti pare”, ci rimase male; era chiaro che i sentimenti di lei non fossero mai stati uguali ai suoi; in realtà pareva che lei non avesse alcun bisogno di lui, mentre invece non si potesse dire il contrario. Ma questo le era lecito in fondo, come le era lecito andarsene e farsi i fatti suoi, benché se fosse stato per lui avrebbe desiderato che Tori si fosse fermata là per sempre.
Ma se da una parte era dispiaciuto per la sua partenza dall’altra era rinfrancato da quelle parole. Era felice che avesse deciso di andare a stare dai nonni, era già un primo passo verso l’inizio di quella nuova vita di cui stavano discutendo quella mattinata sul divano. Anche questo suo modo di pensare in maniera non egoistica lo stupì. Non avrebbe mai pensato che sarebbe stato in grado di comportarsi in una tale maniera filantropica.
“Ci rivediamo nell’appartamento, vedrai che il Gantz prima o poi ci richiamerà”
“Sì”, rispose lei. Tuttavia il vedere quel suo sguardo ancora spento e il sentire quella sua voce così apatica non lo facevano stare del tutto sereno. La salutò mentre la ragazza si allontanava e anche Tori si voltò verso di lui salutandolo e sorridendogli prima di riprendere la sua strada.
Quando fu uscita dalla sua visuale rientrò in casa e chiuse la porta. Adesso non vedeva l’ora di tornare nell’appartamento della sfera nera. Aveva sempre visto quel posto come un luogo di solitudine abitato da inutili e inetti stronzi, ma riscoprirlo come il posto dove avrebbe potuto rincontrare l’unica persona con cui aveva instaurato un rapporto al mondo stravolgeva completamente ogni prospettiva. Nulla sarebbe più stato uguale a prima.
La sua vita riprese normale come al solito; le routine di sempre tornarono ad occupare le sue giornate allo stesso modo della solitudine cui era tanto stato affezionato un tempo. Ma con un’unica piccola differenza: non si era mai sentito così sereno e compiaciuto. Anche la sua dipendenza da tutti quei siti internet gore e offensivi che come una droga lo tenevano incollato al monitor del pc a guardare tutte quelle foto e video delle tragedie umane subì un taglio drastico.

Tre settimane dopo il Gantz lo richiamò. Si materializzò per primo nella stanza, poi seguì il cane. Attese con palpitazione che anche Tori facesse il suo ingresso nella stanza; aveva davvero voglia di rivederla, e voleva sapere come se l’era cavata in quel periodo. Ma dopo il cane si materializzò uno sconosciuto, poi un altro sconosciuto, poi un altro ancora e così via. Attese pazientemente e con speranza che il Gantz la trasferisse alla fine, ma di Tori non ci fu nessuna traccia. La cosa lo avvilì pesantemente. C’era una sola spiegazione per cui una persona non facesse ritorno nella stanza della sfera nera: quella persona era morta. Dunque Tori non ce l’aveva fatta a riprendersi, aveva preferito il suicidio, aveva preferito non lottare. Una cosa del genere l’aveva temuta in cuor suo e non gli giunse del tutto inaspettata. Pensò che probabilmente anche quella dei nonni fosse una menzogna. Si sentì amareggiato e disilluso, e fu con questo senso di pesantezza e noia che affrontò quella caccia. Ma quando la caccia terminò e nella stanza fecero ritorno anche quella volta soltanto lui e il cane fu come se avesse già rimosso ogni ricordo di quell’unica giornata passata assieme a lei e di tutte le travolgenti e splendide emozioni ad essa connesse. Quella missione aveva avuto lo stesso effetto di un colpo di spugna, e non se ne rese neanche conto, né in quel momento né mai.
Quando poi fu la volta dei punteggi, quelle reminescenze sembravano ormai appartenere ad un passato così remoto da sembrare addirittura irreale. Ora non sapeva neanche dire se Tori fosse esistita davvero e per due giorni avesse condiviso con lui casa sua o se fosse tutto appartenuto al mondo dei sogni. E a un mese da quel giorno il nome Tori probabilmente non gli avrebbe detto assolutamente nulla, poiché aveva iniziato ad eliminarlo dalla sua memoria già in quel preciso istante. Tutto era tornato come prima, lui era tornato lo stesso di prima. E appena lesse punteggio ottenuto, ovvero ottantasette, riuscì a sentire di nuovo la felicità dentro di sé, data dal sempre più avvicinarsi dei famigerati cento punti. Certo, quella felicità era solo un surrogato rispetto a quella scaturita dalla compagnia di un’altra persona, ma quello aveva e di quello si sarebbe accontentato d’ora in avanti, come d’altronde era sempre stato. Cento punti… Chissà se la prossima caccia sarebbe stata la volta buona…

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=667412