Le Bambole

di Lena1897
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La pigotta ***
Capitolo 2: *** L'incanta incubi ***
Capitolo 3: *** Il diario ***



Capitolo 1
*** La pigotta ***


LA PIGOTTA
 
Il rumore delle scarpine che sbattevano sul pavimento di legno della soffitta era l’unico suono percepibile, così ritmico ed ipnotico da sembrare quello di un metronomo. La piccola Liselle si
aggirava per la stanza nervosa scuotendo il capo e tenendo stretta attorno a se la sua bambola di pezza.
- No! No! NO! Io mi rifiuto di lasciar andare Jenevieve! Lei è la mia bambola, siamo cresciute insieme - la voce così soffice eppure acuta attraversò la stanza come un lampo improvviso. Dall’altra parte della porta qualcuno bussò, forse attirato dalla voce di Liselle.
- Non voglio vedere nessuno! - sbottò furiosa. Ma la persona che aveva bussato non parve darle molta retta e aprì la porta entrando nella soffitta. Era una donna sulla cinquantina, molto minuta e con il viso segnato da numerose e profonde rughe, strano che nonostante questo risultasse bellissima. Marguerite scivolò lenta fino a raggiungere la bambina inginocchiandosi davanti a lei, e cominciando ad accarezzarle il viso, con dolcezza, quasi avesse paura di romperla, o peggio di irritarla.
- Liselle, lo sai che devi restituirla. Jenevieve dev’essere liberata.
- Ma è la mia bambola! Lei vuole stare con me!
- E’ questo che ti ha detto?
- Non gliel’ho chiesto - ammise lei colpevole
- Non credi che dovresti?
- Jenevieve - disse lei tendendo le braccia e trattenendo la bambola con entrambe le mani così da poterla guardare dritta negli occhi - Tu vuoi lasciarmi? Inspiegabilmente la bocca disegnata della pigotta si mosse e proferì con vocetta metallica un “no”.
- Vedi! Lei vuole restare con me! - urlò trionfante Liselle stringendosela al petto e aggirando la madre.
- Hai imbrogliato. Tu lei hai chiesto se vuole lasciarti… perché sai che non è così. Ma non è quella la domanda che devi farle - spiegò saggia e comprensiva sedendosi sul pavimento e guardando la ragazzina bionda, che nel frattempo si era imbronciata , consapevole della sensatezza dell’obiezione a lei mossa.
- E va bene - ammise contro voglia e con le lacrime agli occhi, stringendo la bambola contro il suo petto - Jenevieve, tu vuoi tornare a casa? Stavolta non fu possibile assistere al miracolo del giocattolo parlante, perché il suo viso era serrato contro il petto della sua proprietaria, eppure come prima una voce stridula e innaturale disse “sì”.
- No! - strillò Liselle cadendo in ginocchio e mettendosi a singhiozzare disperatamente, accarezzando con dolce furia i capelli di lana della sua amica di sempre e cullandola contro il suo petto. Gattonando Marguerite strisciò accanto a loro. Prese la figlia e se la strinse al petto emulando i gesti e le attenzioni che lei aveva per la sua bambola. Restarono abbracciate per un tempo indefinito fino a che gli occhi azzurri e antichi della bambina non si piantarono in quelli della madre. Era il segnale. Insieme iniziarono a recitare la formula di liberazione.

Angeli caduti
Camminano per le strade
Accanto agli uomini.
Angeli senz’ali e senza perdono
Costretti a vagare in eterno
Su questo mondo di disperazione
Dove non ci sono gioie
Ma solo sogni.
Angeli che nell’oblio
Pensano al paradiso perduto.
Angeli che come me
sono destinati ad essere raminghi
Senza la speranza
Di rivedere la propria casa.
 
Il tempo parve fermarsi per alcuni secondi, poi tutto divenne grigio, privo di vita o colori. Fuori dalla finestra il vento cominciò ad ululare forte, e le nuvole si addensarono a celare il tiepido sole primaverile; tuoni scossero l’aria e fulmini violenti squarciarono il cielo.
Dentro la soffitta l’odore d’incenso si sparse forte, come durante una messa della domenica. Il giocattolo, che la bambina teneva ancora stretto, si fece sempre più ardente fino a costringere Liselle a lanciarlo lontano per evitare di ustionarsi. Fece bene. Perché pochi secondi dopo prese fuoco. Marguerite teneva la figlia stretta a se e la cullava dolcemente canticchiando una vecchia canzone gitana. Quando della bambola rimase solo la cenere la fiamma da sola si spense, e i suoi resti cominciarono ad emettere una luce bianca, sempre più intensa. Più cresceva la forza di quel bagliore più la donna e la bambina si stringevano, fino a che lo scintillio non prese forma, plasmando una figura umana.
- Grazie Liselle - disse l’essere, la cui voce vellutata si riversava nelle orecchie ristoratrice come miele caldo d’inverno - la tua generosità è la tua forza.
- Jenevieve - la chiamo la ragazzina scostandosi dalla madre per correrle incontro ed abbracciarla esitando solo quando ormai le separavano pochi centimetri. Aveva paura che non ci fosse nulla da abbracciare. La creatura sorrise gentile e colmò la distanza inginocchiandosi e stringendola a sé.
Contro il suo seno Liselle si abbandono di nuovo al dolore, piangendo accorata e dispensando carezze sui capelli biondi, che adesso non erano più di lana ma erano ugualmente morbidi.
- Io… non… Ti… dimeticherò…mai - singhiozzava avvilita.
- Neanch’io, mia riccioli d’oro. Fai sempre la brava e non fare arrabbiare la mamma - si alzò, trattenendola ancora forte e canticchiando a bocca chiusa. Fuori dalla finestra il caos, veloce com’era arrivato se ne andò. Era giunto il momento. Jenevieve diede la bambina a sua madre, nonostante le proteste della ragazzina ed il fatto che le si fosse irrimediabilmente ancorata al collo.
- Marguerite, grazie anche a te. Per avermi custodita e avermi data a lei.
- Di nulla Jenevieve. Sono lieta che tu sia riuscita a trovare in lei la forza che serviva a risvegliare la tua magia.
- Abbi cura della mia dolce Liselle.
- E tu abbi cura di te - Sorrisero insieme, e poi lo spirito aumentò la potenza del bagliore di cui era costituita e sparì.
- Ma cosa è successo a Jenevieve e di quale forza aveva bisogno? - chiese la piccola calmandosi a poco a poco e appoggiando la testolina sulla spalla della madre.
- A Jenevieve era stata fatta una maledizione. Siccome lei non riusciva a provare sentimenti per nessuno, fu trasformata in una bambola e lo sarebbe rimasta fino a che non avesse amato abbastanza qualcuno da trovare la forza di svelarle la formula di liberazione, ed è successo con te. L’amore è l’unica, vera, grande magia.
- Ma come farò ad addormentarmi senza lei che canta per me?
- Lei sarà lì per te sempre. Basta che tu la chiami come lei ti ha insegnato. Quando ti sentirai sola continua a cantare in silenzio quella melodia fatta di vento e tutto ciò che è stato sarà la tua favola della buonanotte - Abbracciate le due si avviarono verso la porta e poi l’oltrepassarono. Senza che nessuno la toccasse, la porta si chiuse alle loro spalle, lasciando che il silenzio calasse sulla soffitta illuminata da un rosato tramonto.




Note dell'autrice: Grazie per essere arrivati fino in fondo. Mi rendo conto dello stile un po' acerbo. Ho scritto questa storia quando avevo diciassette anni, in realtà era una specie di favola che avevo inventanto per far contenta la mia nipotina che esigeva sempre storie nuove. Forse proprio per il valore affettivo non me la sono sentita di rimaneggiarla e renderla meno "banale" nello stile e nei contenuti. Spero comunque sia stata una piacevole lettura!

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Capitolo 2
*** L'incanta incubi ***


L’INCANTA INCUBI

Penetrante e acuto l’urlo di una bambina squarciò il silenzio. Scattò a sedere sul letto la piccola Valentine, gli occhi sgranati e le pupille dilatate. Il petto si sollevava aritmicamente mentre dalla boccuccia rosata fuoriuscivano respiri concitati. La vecchia Betsy, la sua bambola rotta, convulsamente stretta al petto. La porta della buia cameretta si aprì lentamente, cigolando ed una vecchia signora fece il suo ingresso camminando piano, tenendosi una mano sulla schiena incurvata.
- Che succede? Perché sei sveglia?
- Io ho visto quella faccia - piagnucolò la bambina in lacrime.
- E’ il tuo compito, Valentine.
- Ma sono stanca. Non ne posso più. Voglio smettere. - si lamentò tra i singhiozzi.
- Non puoi smettere. Torna a dormire! - ordinò la vecchia - pensa a quei poveri bambini che in questo momento soffrono a causa tua.
- Ma era tutta bianca e non aveva occhi, la bocca cucita - spiegò lei balzando sul letto - quel viso era terribile.
- Adesso basta! Ho detto torna a dormire - ripetè la vecchia.
- Ma non faccio altro che avere incubi. Da 79 anni ho solo incubi! - strillò lei - perché non posso sognare prati verdi? E conigli bianchi che giocano con me - la voce si trasformò in un sussurro malinconico - perché non posso sognare di giocare con la mia mamma ed il mio papà? Perché non posso uscire a giocare al sole? - grosse e lente lacrime percorsero i profili rosei e paffuti delle guance della bambina.
- Perché è così e basta - tagliò corto la vecchia, nemmeno minimamente sfiorata dal dolore della piccolina; si avvicinò al comodino azzurro che era accanto al letto a forma di nuvola, bianco e
vaporoso in contrasto con le pareti cerulee. Tutta la stanza sembrava un enorme cielo sereno, con il letto a fare da soffice batuffolo e la porta gialla attorno al quale era dipinto un sole.
La donna si chinò ed aprì un carillon dal quale uscì una musica dolce e sinistra.
- Adesso dormi, Valentine. E ricorda non avvicinarti al sole, se lo farai ti brucerai.
- Sì, madama Antonia - rispose la ragazzina tirando su con il naso e poggiando la testa sul cuscino, ancora imbronciata, di certo stava macchinando qualcosa e all’anziana questo non sfuggì. Ne aveva viste in tanti anni di bambine come lei; aveva vigilato su quella stanza e sul loro sonno per secoli.
Pochi secondi e quella musica riportò la piccola nell’oblio dell’incoscienza. La vecchia richiuse il carillon e le rimboccò le coperte uscendo poi. Non appena fu in corridoio incontro Alginor.
- Dobbiamo trovarne un’altra signor Tulcot.
- Si lamenta anche lei?
- Non passerà molto prima che decida di abbandonare quel letto.
- Dev’esserci sempre qualcuno a dormire in quel letto - annuì lui saggiamente.
- Lo so - convenne la vecchia.
Il letto dell’incanta incubi doveva sempre essere occupato; altrimenti tutti i bambini del mondo avrebbero ricominciato a piangere la notte, spaventati dai loro stessi sogni. Così veniva scelta sistematicamente una ragazzina che occupasse il lettone candido e che sognasse gli incubi di tutti così che loro fossero liberi di dormire sereni. La sofferenza di una per il bene di tutti. In questo si credeva in quel mondo.
- Cominceremo a cercala domani - asserì lui con voce grossa e stanca - di Valentine che ne faremo?
- Presto andrà verso il sole - annunciò greve - e si brucerà come le avevo detto.
- Preparo la pira?
- Sì, signor Tulcot. Per lei legno di sandalo e biancospino.
- Peccato, era una così bella bambina - mormorò l’uomo scuotendo il capo e scendendo le scale.
- Sono sempre belle bambine - sussurrò spicciola scomparendo nell’oscurità dell’infinito corridoio.

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Capitolo 3
*** Il diario ***


IL DIARIO
 
Quel libro, vecchio di secoli stava tranquillo sullo scaffale, accanto ad una raccolta dei “Dialoghi” di Platone, fermo in quella libreria da svariati anni, e custode di segreti e della vita di una donna. In effetti non era un vero e proprio libro, ma un diario. Fu Barbara a ridestarlo dal suo sonno, togliendogli la compagnia del buon filosofo. Spostò la bambola di ceramica con le fattezze di una strega, bella però. Le mani bianche scorrevano sulla copertina di cuoio accarezzandola con un certo senso di riverenza. Aprì la prima pagina, ingiallita su quale c’era il nome della proprietaria – Virginia Sawart Fortness – scandì a voce bassa. Cominciò a leggere la prima pagina, ma poco comprendeva delle avventure della protagonista, che non aveva concesso ai suoi lettori il beneficio di un’introduzione, ma li catapultava direttamente dentro la sua vita, forse certa che oltre lei, nessuno avrebbe mai letto quelle pagine.
L’insaziabile curiosità di Barbara non trovò tuttavia quello stile come un ostacolo, anzi al contrario lo vide come uno stimolo, che la spingeva a voler scoprire di più, per questo si recò da zia Elena, la depositaria dei misteri di quella antica casa.
L’anziana professoressa come sempre se ne stava seduta in veranda a gustare il suo tè freddo, così da mitigare il caldo incalzante dell’estate alle porte. Come sempre così assorta nei suoi pensieri da non udire altro che non fosse quel flusso astratto che nella sua mente prendeva corpo, ogni qualvolta che una parola, o un profumo glielo permettevano. Fu per questo che non udì i tacchi di Barbara, che veloce le si parò davanti.
- Raccontami la storia di Virginia.
- Che? – chiese la signora ridestandosi dalla trance. Fu allora che la ragazza le mostrò il diario, come muta risposta alla sua domanda – Ah! Il diario di Virginia. Bè leggilo come hai fatto con gli altri libri, io che devo dirti?
- Zia, ci ho provato. Ma non so cosa è successo prima, non capisco nulla. Mi racconti la sua storia?
- Cosa ti fa pensare che io ne sappia qualcosa? – chiese stizzita.
- Zia Elena tu sai tutto, sei più informata di un archivio storico.
- Si, va bene… ma dovresti usare meno irruenza ragazzina, porta rispetto per la tua povera zia malata.
- Ma tu sei sanissima! - Sbottò la ragazza, prima di cominciare a sorridere furbesca e avvicinarsi alla vecchia, per poi sedersi per terra poggiando la testa sulle ginocchia della zia. Fingendo, come spesso le capitava, di fare le fusa, per ingraziarsi la donna.
- Perdonami zietta, lo sai quanto ti voglio bene, potresti raccontarmi una storia come quando ero bimba? Magari la storia di Lady Fortness…
- Oh, sei davvero una creatura terribile Barbara. Ventiquattro anni, laureata in lettere classiche e ancora fai queste sciocchezze - Sbuffò contrariata - Comunque… va bene, te la racconto. Ma per l’amor del cielo mettiti su una sedia come le persone civili! - Altezzosa, per pura vanità. Il sorriso della ragazza, pienamente consapevole, si fece più ampio mentre, senza alzarsi, agguantava un’altra delle sedie e vi ci si arrampicava per accomodarsi. I capelli grigi di Elena venivano mossi ritmicamente da destra a sinistra, accompagnando il capo che veniva scosso con dissenso. Quando finalmente narratrice e ascoltatrice furono pronte, cominciò il racconto.
- E’ una storia, di tanto tempo fa che si svolge in Inghilterra. In una tenuta di campagna, negli alloggi della servitù di un signorotto locale venne al mondo Virginia. La madre era la cuoca della casa e poco o nulla aveva come tempo da dedicare alla figlia, delegata per lo più alle cure delle cameriere che s’alternavano nei turni. Era difficile dormire in sette in uno stanzone, maschi e
femmine tutti insieme, con il giardiniere che russava e che sembrava voler tirare giù la casa. Così appena la bimba fu cresciuta ed ebbe circa sei o sette anni, nelle notti serene usciva fuori,
sgattaiolando dalla cucina e se ne andava a zonzo per le colline familiari. Capitò un’estate che il padrone della tenuta avesse dato asilo ad una carovana di zingari che passavano di lì. Fino a notte fonda si sentiva ridere e cantare e Virginia attratta da quel mondo così libero e colorato passavaspesso le notti in compagnia degli stranieri, rientrando all’alba e prendendosi spesso le strigliate della madre, che le dava della selvaggia. Ma a lei non importava aveva stretto amicizia con le ballerine gitane e con i chitarristi andalusi. Una vecchia zingara, Mama Lucia, le aveva insegnato a leggere le carte e le aveva pronosticato un futuro segnato da una sfavillante luce. Capitò a fine stagione che gli zingari se ne dovessero andare. Lei avrebbe tanto voluto seguirli, ma non poteva di certo scappare e far accusare gli amici di averla rapita. Li avrebbe messi nei guai. Così avvilita si rassegnò al vederli partire, salutandoli con la manina e le lacrime agli occhi. Memore però della promessa di Mama Lucia che aveva giurato che sarebbero tornati a prenderla e nessuno lo avrebbe impedito.
Elena fece una pausa, non potè non notare come il sole si riflettesse sui capelli dorati di Barbara, e sulla sua guancia sinistra, dandole un aspetto angelico. Come per magia le riapparve davanti agli occhi l’immagine di Evelina, sua sorella, così rassomigliante alla nipote. Ritornarono alla sua mente i ricordi di quando erano ragazze, e di quando anche lei le chiedeva sempre di raccontarle le storie che aveva letto, perché era troppo pigra per farlo da sola. Gli occhi dell’anziana prof si velarono di lacrime, e le labbra si serrarono per alcuni minuti, sino a quando passata la crisi di nostalgia non riprese a dare attenzione a Barbara, china su di lei, che a quanto pare la stava chiamando già da un po’.
- Zia Elena, tutto bene?
- Oh sì cara, meravigliosamente… sai, noi bilance ci perdiamo nelle astrazioni mentali di tanto in tanto.
- Si… e a noi altri viene un colpo!
- Oh suvvia che melodrammatica sei! Dove ero rimasta?
- La promessa degli zingari. Sicura di stare bene?
- Sto benissimo. Dunque, tutto procedeva in maniera assai noiosa e prevedibile. Virginia era diventata a sua volta cameriera per il padrone di casa e svolgeva il suo lavoro con puntualità,
nonostante ogni tanto sembrasse assente. Una notte Virginia si svegliò di soprassalto al suono delle grida di sua madre. Quando saltò giù dal letto e corse fuori dalla propria stanza, si rese conto che la tenuta era in fiamme. Le fiamme sono una costante nella vita della nostra protagonista… cerco di raggiungere l’esterno. Sentiva urlare, ma quelle grida disperate erano coperte dal crepitio del fuoco. All’improvviso due braccia la cinsero forte. Juan, un gitano, la afferrò per trascinarla via. Lei voleva restare, cercare aiuto salvare sua madre e tutti gli altri. Lo zingaro la fece voltare con la forza “non c’è più nulla da fare, per loro” sentenziò. A quel punto comparve Mama Lucia. Le bastò guardarla ogni resistenza cessò. Una solitaria lacrima cadde dagli occhi verdi della fanciulla, che mesta seguì gli zingari. Viaggiò con loro per più di sei anni. Per tanto tempo evitarono l’Inghilterra, spaventati forse che Virginia volesse restarvi una volta tornata. Così fu infatti. Non appena sbucarono fuori da un battello su cui si erano imbarcati clandestinamente, lei ormai esperta di fughe scappò verso il centro della città. Si rifugiò prima nella cattedrale, ma non trovò alcun conforto in Dio, nonostante i buoni frati l’avessero accolta e sfamata. Dalle finestre della chiesa osservava l’edificio dirimpettaio. Un grande e sontuoso teatro. L’antro dell’inferno e della perdizione, lo additavano i sacerdoti. Il tempio dell’arte lo chiamavano i fedeli che si recavano a confessione e con cui aveva occasione di parlare. Curiosa, un giorno decise di entrarvi. Una volta salita sul palcoscenico si sentì profondamente sopraffatta da un senso di torpore, piacere e sbigottimento. La vide la direttrice del teatro, in ginocchio sulle assi e le chiese chi fosse, che volesse “Solo restare qui. Ve ne supplico, Madame. Sarò la vostra serva. Fatemi restare sul palco. Per la prima volta nella mia vita mi sento a casa!”
esclamo sincera, con le lacrime agli occhi. La direttrice colpita la assunse come sua domestica dapprima, poi la istruì all’arte, tanto brava e portata era per la recitazione che in breve divenne
attrice di punta della compagnia di quell’incantevole teatro. Ebbe anche modo di sposarsi ed avere un figlio. Credo che questo ti basti per capire il contenuto del diario. Elena finì il suo racconto. Barbara, che era rimasta imbambolata attenta alla storia, si ridestò tornando alla realtà. Tra le mani ancora il diario, che adesso veniva accarezzato con maggior cura,
ancora più riverenza di quanta già non ve ne fosse prima. Dopo aver ringraziato la zia per il racconto, la ragazza rientrò in casa tornando nello studio. Si sedette alla scrivania e cominciò a
sfogliare il diario leggendolo con avida curiosità. 

 
In questo giorno i sogni s’infrangono, la tranquillità del mio animo è scossa, so che la fine è prossima.
Ci hanno scoperti a Beltane, alti i roghi si alzano, le fiamme divampano su innocenti curiosi,
ma anche sulla nostra congrega, già la metà di noi è stata imprigionata.
Processata, Camille ieri è stata bruciata in piazza e non potevamo nemmeno piangere.
Non potevamo piangere nostra sorella. Io sono stata convocata alla gendarmeria. 
La morte giunge su rapide ali, le sento pesanti come quelle di un corvo che mi fa da duce nel mio ultimo viaggio.
Non rinnegherò la mia religione, andrò a testa alta in contro al mio destino, qualunque esso sia. E se le fiamme
danzeranno sul mio corpo, sarò lieta di ricongiungermi alla mia Dea.
Sento dei colpi alla porta, è sciocco farsi prendere già ora dall’ansia ma so
che presto saranno qui. Tanto presto. Li ho visti in sogno. Li ho visti un’ora fa
allo specchio. La madre mi avverte che il nostro incontro è prossimo.
Queste pagine testimoniano che ho pianto, che ho gioito, che ho amato, che
ho vissuto. L’ignoranza mi toglierà la vita… ma io sono lieta di ciò che sono.
Bussano alla porta. So che sono loro. Lo so con la stessa certezza con cui so
che io sono Virginia, sacerdotessa dell’antica religione, che tra tre giorni
brucerà sul rogo per un peccato che non esiste.
Andrew una volta mi disse che un imperatore romano, Marco Aurelio,
concluse la sua vita con una frase ad effetto. Mi colpì quella frase, è adatta a me
“Il mio spettacolo volge al termine miei signori, se l’avete gradito, 
applaudite”.
 
Così terminava il diario di Virginia, poche pagine in realtà, molte erano state strappate, alcune bruciate, altre riempite d’inchiostro e rese illeggibili. Solitaria e lieve una lacrima solcava la guancia di Barbara. Due o tre ore erano trascorse, da quando si era seduta nello studio, il sole cominciava a declinare dietro le colline. Lei richiuse il libro, e lo ripose là dove lo aveva preso, accanto a Platone, al suo legittimo posto, con la bambola strega a farle da custode. Chissà quante altre mani avevano sfiorato la copertina, le pagine ingiallite e fragili, quanti altri occhi avevano scorso i pensieri dell’antica dama. Lenta e pensierosa tornò in veranda, dove Elena stava ancora seduta assorta nei
suoi ricordi.
Certo era una storia carina, infinitamente triste e drammatica. Non una di quelle letture leggere che ti porteresti durante una vacanza. Ma era una storia piena. Carica di sentimento, struggente proprio perché l’autrice aveva pianto su quelle pagine, ma chi era l’autrice? Sorrise Barbara, indugiando sulla figura della vecchia e saggia zia.
-Potevi dirmelo che la nostra eroina era una strega - La anziana signora si voltò a guardare la ragazza. Nei suoi occhi un dolore antico, una consapevolezza ancestrale, la sicurezza che era giunto il momento, finalmente. Si alzò con estrema grazia, lisciando l’abito grigio, elegante e sobrio, come lei. Si affiancò alla nipote, indicando con lo sguardo la sedia.
- Non ci sarebbe più stato il gusto della scoperta.
- Già, ne ha passate tante.
- Era forte abbastanza da affrontare tutte le sue prove.
- Io avrei scelto Andrew - commenta relativamente ad un dilemma della protagonista.
- Tu non hai mai amato veramente allora.
- Perché?
- Andrew sarebbe stata la scelta più facile e ovvia. Ma l’amore non è mai ovvio. E di certo non è mai facile.
- La mia appassionata zietta - la schernì la ragazza.
- La mia cinica nipote - rispose lei altrettanto sarcastica.
- Potevi dirmi che quel diario è un falso – disse sorridendo, ma ancora segnata dalla storia di Virginia. Tutta l’attesa, il racconto, l’averla spinta alla lettura, avevano uno scopo, ed era quella frase.
- Non è un falso, Barbara. Siediti… parliamo, è tempo che tu sappia chi sei e da chi discendiamo.





Note dell'autrice: Ecco la Shot che chiude la raccolta, ancora streghe come avete potuto notare. Grazie a chi ha letto e a chi ha trovato il tempo di recensire.  Un saluto, Lena!

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