The Boy of Misfortune di Fiamma Drakon (/viewuser.php?uid=64926)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Hermes of Death ***
Capitolo 2: *** Son of Darkness ***
Capitolo 3: *** They simply hate each other ***
Capitolo 4: *** Like a dark sky ***
Capitolo 5: *** Drowsy anger ***
Capitolo 6: *** Tutor-mode ~ ON ***
Capitolo 7: *** It's red like my scissors' wound... and your eye ***
Capitolo 8: *** I want to call you ''master''! ***
Capitolo 9: *** The Curse of Awareness ***
Capitolo 10: *** War on a white blanket ***
Capitolo 1 *** Hermes of Death ***
1_Hermes of Death
Occhi eterocromi, uno oro l’altro sangue.
Era proprio a causa di quest’ultimo che Vincent aveva perso
tutto: sua madre l’aveva abbandonato assieme a suo fratello in
strada senza farsi il minimo scrupolo, impaurita dalle leggende secondo
cui coloro che possedevano occhi color del sangue fossero perseguitati
dalla sfortuna e dalla perenne ombra della morte che si sarebbe
abbattuta su chiunque avesse attorno.
Così era iniziata la loro vita per strada, vivendo di quel poco
che il maggiore dei due, nato con ambedue gli occhi di uno sfavillante
giallo dorato, riusciva a racimolare dai negozianti della città.
Lui non faceva paura a nessuno, anzi, suscitava tanta tenerezza in
tutti coloro che lo vedevano girovagare tra le bancarelle con solo
laceri vestiti indosso ed un mantello logoro.
Invece, le persone che passavano vicino a Vincent, di solito accucciato
al lato della strada, avvolto in cenci sporchi e bucherellati, al
vedere il suo occhio rosso lo additavano e lo insultavano, per poi
proseguire per la loro strada invocando la misericordia divina per loro
e per le loro famiglie.
I bambini che ogni tanto giocavano nei dintorni del vicolo in cui lui
viveva con il fratello, di tanto in tanto fermavano i giochi ed
iniziavano a stuzzicarlo, prendendolo in giro per quell’occhio,
domandandogli dove fosse la sua famiglia o perché fosse stato
abbandonato.
“Sei il messaggero della Morte, non è vero?” era la
domanda che più spesso gli rivolgevano, per poi scoppiare a
ridere sguaiatamente.
Quell’occhio e quella fama da portatore di fati funesti che
l’aveva sempre perseguitato l’aveva gradualmente
trasformato in un qualcosa di cui aver paura e di cui prendersi gioco,
una specie di mostro da circo.
La cosa che gli faceva più male, tuttavia, era che tutti
ignoravano e non riuscivano a vedere in lui un essere umano come loro,
con dei sentimenti ed una sensibilità.
L’unica eccezione a ciò era suo fratello Gilbert: lui
pareva ignorare completamente tutte le dicerie circa il suo occhio e la
morte che l’accompagnava ed interveniva sempre in sua difesa.
Pioveva nel vicolo dove “abitavano”. L’acqua
scrosciava fitta ed il picchiettio delle gocce sul lastricato era un
basso martellare incessante che entrava sottopelle, dando la sensazione
che quei colpetti in realtà battessero non sul suolo,
bensì sulle ossa.
Vincent stava rannicchiato in un angolino, le ginocchia ripiegate
contro il petto, stringendosi quanto più poteva alle pareti
umide e sporche dell’edificio dietro di sé, cercando di
vincere il freddo che lo stava attanagliando. Tremava come una foglia e
i cenci che aveva addosso, inzaccherati d’acqua e fango, non
bastavano a proteggerlo dal freddo.
Dal suo modo di porsi, sembrava volesse sparire all’interno del muro stesso.
L’espressione che portava stampata in viso era colma di un profondo, incommensurabile terrore.
«Vince, cosa ci fai lì a terra? È bagnato, ti prenderai un malanno...!».
Vincent alzò gli occhi, incrociando così la figura del
fratello maggiore, in piedi innanzi a lui, il viso una maschera di
preoccupazione.
«Gilbert...» sussurrò, come se quel nome fosse il suo ultimo appiglio alla sanità mentale.
Il maggiore si chinò su di lui, scompigliandogli affettuosamente i capelli, sorridendo con una punta di mestizia.
«Sì...?» chiese.
Più a lungo il minore lo fissava più sentiva montare
dentro un affetto incommensurabile verso di lui, l’unica persona
che si premurava di stargli accanto e di mostrargli
l’umanità che gli era sempre stata negata.
Lacrime amare traboccarono dai suoi occhi eterocromi senza che potesse far niente per trattenerle.
Al veder comparire quelle prime stille di pianto, Gilbert mutò
espressione in una perplessa e portò un dito a contatto con la
sua guancia destra, tergendo una lacrima.
«Perché stai piangendo, Vince...?» domandò.
Quest’ultimo si afferrò la testa con uno scatto energico, stringendola, chinando il viso verso le ginocchia.
Sembrava che stesse soffrendo tantissimo.
«Vince...?» lo chiamò l’altro, prendendogli un
braccio, allarmato da quel suo improvviso modo di comportarsi.
«Vince?!».
«È... morto» sussurrò debolmente lui,
contraendo con maggior forza i muscoli delle braccia «...
è morto... per colpa mia...».
Gilbert sgranò gli occhi, comprendendo all’improvviso il suo atteggiamento.
«Cosa stai dicendo?»
«È... morto, Gil...».
Il bambino pareva sconvolto.
«Chi?»
«Quel gatto...».
Così dicendo, Vincent alzò il capo e diresse il proprio
sguardo da un’altra parte, cosa che fece anche Gilbert, trovando
il corpo di un micio che giaceva sul lastricato, evidentemente morto.
Era piccolo e la pelliccia era abbastanza folta, di un tenue color
cenere. Il musino era un poco contratto, come se avesse provato un gran
dolore nell’estremo attimo della sua vita, gli occhi serrati.
«È morto... mentre lo stavo guardando...»
esclamò Vincent, agitato «Sono il messaggero della Morte.
È colpa mia se quel gatto è morto».
Gilbert notò che la pelliccia del gatto era tutta sporca di
qualcosa d’indefinibile che tuttavia riuscì a chiarire
immediatamente al fanciullo come stavano le cose.
«Non è colpa tua» disse al fratellino, sporgendosi
verso di lui, abbracciandolo per consolarlo «Quel gatto era
malato. Che sia morto qui è solamente un caso e tu non ne sei
responsabile in alcun modo».
Il minore sgranò gli occhi, poi allontanò debolmente l’altro e lo guardò timidamente in volto.
«Ma io sono...» esordì.
«Tu sei soltanto tu!» lo interruppe con più forza
Gilbert, corrugando le sopracciglia in un’espressione determinata
«Tutte quelle voci sul tuo occhio, dimenticale!».
Gli prese il viso con le mani, alzandolo in modo che potessero ben guardarsi negli occhi.
Quelli del suo fratellino erano colmi di insicura ammirazione ed una
terribile convinzione radicata in profondità nel suo inconscio.
Tutti quei discorsi assurdi sul suo occhio l’avevano infine
assoggettato all’idea che tutto fosse fondato e che lui portasse
veramente la morte ovunque andasse.
Era terrificante pensare quanto potessero nuocere quelle leggende alla
concezione di sé stesso che aveva Vincent, arrivato addirittura
al punto di distorcere la realtà perché si adattasse a
ciò di cui tutti l’avevano accusato fin da piccolo.
«Dai, Vince smetti di piangere» esclamò Gilbert, sorridendogli con brio, cercando di tirarlo su di morale.
In quei momenti, l’unica cosa giusta da fare era cercare di
fargli capire che lui gli voleva bene nonostante quell’occhio che
faceva paura a tutti, ed uno dei modi per far ciò era tentare di
risollevarlo con un sorriso.
Anche se la loro condizione era disperata, un sorriso era sempre in grado di alleviare il dolore.
Pian piano le labbra del minore si incresparono in un debole e timido
incurvarsi di labbra, poi, a sorpresa, si gettò contro il petto
del maggiore, stringendosi a lui.
«Gil...» mormorò semplicemente, ma l’altro
sapeva bene che dietro quell’unica breve parola erano nascosti
una molteplicità di significati di cui “grazie” era
solo il più semplice e superficiale.
Rimasero stretti in quella posizione per dei minuti, prima che Gilbert lo allontanasse da sé per aiutarlo a rialzarsi.
«Andiamo a cercare un posto all’asciutto: siamo tutti
bagnati!» esclamò, gettando un’occhiata sfuggente a
sé stesso e al fratello: effettivamente, i loro vestiti erano
talmente impregnati d’acqua che avevano aderito completamente ai
loro corpi, così come i capelli - e tra l’altro il
più piccolo aveva dei ciuffi sulla fronte così lunghi
che, appiattiti dalla pioggia, risultavano essere una cortina che gli
impediva quasi totalmente di vedere.
Vincent, per la prima volta da una settimana a quella parte, rise di
una risata che non era vera e propria, bensì un basso risolino
che riuscì comunque a far sentire più sereno Gilbert.
«Sì, fratellone andiamo. Ho visto un posto qui vicino dove
potremmo rifugiarci per questa notte...» rispose, prendendolo per
mano e tirandolo verso l’imboccatura del vicolo.
Sembrava essersi dimenticato completamente del dramma che aveva appena
vissuto a causa di quel gatto, ma Gilbert sapeva che la sua convinzione
d’essere in qualche modo legato alla morte e alla sfortuna
l’avrebbe perseguitato ancora, e sarebbe riemersa non appena se
ne fosse presentata di nuovo l’occasione.
Tuttavia, lui sarebbe intervenuto nuovamente a salvarlo dalla pazzia,
perché quello era il suo ruolo di fratello maggiore: difenderlo
dagli altri... e da sé stesso.
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Capitolo 2 *** Son of Darkness ***
2_Son of Darkness
Vincent Nightray amava il
buio: in esso la sua mente perversa trovava il riparo da occhi
indiscreti che gli era necessario affinché potesse operare
indisturbata.
Nella perenne penombra della sua stanza, il biondo si dedicava con
tranquillità ed impegno al lento squartamento di decine,
centinaia di peluche, la cui imbottitura giaceva sparsa sul pavimento e
sul materasso, senza che le cameriere potessero toglierla finché
lui era all'interno.
Il giovane Vince era paragonato dalle serve ad un piccolo principe
delle tenebre, similitudine accreditata ulteriormente anche dai suoi
suggestivi ed inquietanti occhi bicromi.
La situazione perdurò in questo modo finché nella vita
del bambino non fece la sua improvvisa riapparizione suo fratello
maggiore, Gilbert.
Era la prima notte che i due fratelli trascorrevano assieme dopo anni e
Vincent era al colmo della gioia: in quel lunghissimo lasso di tempo
aveva sentito tanto la mancanza di Gilbert al suo fianco, l'unico che,
nella loro infanzia, si era preoccupato di tenergli compagnia e
proteggerlo.
L'unica differenza tra allora e adesso era il fatto che quel Gilbert
che aveva davanti non ricordava assolutamente niente di ciò che
era stata la loro vita fino ad allora. Era privo della determinata
aggressività che lo aveva reso tanto importante agli occhi del
minore, ma per quest'ultimo lui rimaneva sempre il suo amato fratellone.
Per quella volta avrebbero dormito insieme e forse anche l'indomani
notte, poiché la stanza per Gilbert non era stata preparata.
Dopotutto, il suo arrivo era stato del tutto imprevisto.
Il moretto se ne stava immobile, in piedi in fondo al letto, seguendo i
movimenti del padrone della stanza senza neppure fiatare.
Era così timido...!
«Avanti, non essere timido, Gil» gli disse Vincent, sorridendogli in modo caloroso.
Un po' gli dava fastidio il fatto che non si ricordasse di lui, ma il
fatto che avesse rimosso dalla sua memoria tutti gli orrori subiti lo
tirava su di morale.
«O-okay, allora...» mormorò Gilbert, piegandosi a
raccogliere il suo piccolo bagaglio, dal quale estrasse un grazioso e
povero pigiama, estremamente semplice.
Si guardò intorno, imbarazzato, e Vince aggiunse, con un sorriso
che voleva essere rassicurante: «Non preoccuparti, mi volto
mentre ti cambi».
Così dicendo, si girò a dargli le spalle e si diresse
verso il grande letto a baldacchino che quella notte li avrebbe
ospitati entrambi.
Mentre montava sul materasso, Gilbert decise finalmente che poteva fidarsi ed iniziò a cambiarsi.
Fece il tutto molto velocemente, per timidezza e disagio crescenti; non appena ebbe fatto, s'accostò al baldacchino.
Vincent era già accoccolato sotto le coperte e gli dava ancora le spalle.
Al sentir muoversi il materasso sotto di sé domandò: «Gilbert?».
«Sì...?» chiese con un debole sussurro
quest’ultimo, mentre strisciava al fianco del biondo, per poi
stendersi e tirarsi la coperta fin sotto il mento.
Vincent girò il viso verso di lui, osservandolo: il visino dai
tratti dolci e ancora fanciulleschi che appariva dalle coperte ed i
suoi occhioni dorati lo rendevano dannatamente più dolce,
fragile ed indifeso, stridendo con i ricordi che conservava di lui e
del suo comportamento quand'erano nel loro tempo.
Il biondino socchiuse gli occhi, sorridendogli, per poi voltarsi nuovamente a dargli le spalle.
«Buonanotte...» sussurrò, mentre spegneva la lampada
sul comò, facendo piombare l'intera stanza nel buio più
completo.
Rilassò i muscoli, abbandonandosi definitivamente sul materasso
ed il cuscino, chiudendo gli occhi per lasciarsi catturare dal sonno,
felice d'essere finalmente di nuovo assieme a suo fratello.
Era sul punto di cadere assopito tra le confortevoli braccia
dell'oscurità che lo circondavano, quando avvertì un
movimento alle sue spalle ed una debole presa che gli stringeva la
camicia da notte, tirando il tessuto.
«... Vincent?» sentì sussurrare, al che finalmente
si voltò supino, girando il capo in direzione del fratello
più grande, che non riusciva a distinguere neppure labilmente
nell'oscurità.
«Sì...? C’è qualcosa che non va?» domandò con voce venata d'innocenza.
Seguì un brevissimo istante di assoluto silenzio. Con buone
probabilità era ancora a disagio per l'arrivo in una nuova casa
e in un ambiente a lui completamente sconosciuto, cosa che fece sentire
il biondo incaricato, in un certo senso, di proteggerlo.
Dopo un po’, Gilbert parve trovare il coraggio di parlare.
«Potresti tirare un poco le tende...?» domandò il moretto timidamente.
Vincent rimase un momento interdetto, prima di capire che voleva attenuare il buio nella stanza.
Era palese che si fosse dimenticato tutto: il Gilbert che ricordava era
forte, determinato - ed era lui a proteggerlo e aiutarlo, non il
contrario.
Vincent lo accontentò: si alzò e andò alla
finestra, spostando un po' la tenda affinché entrasse qualche
flebile raggio lunare.
Girandosi nuovamente verso il letto, nella penombra, scorse il profilo del fratello maggiore che lo guardava, come mortificato.
Sembrava quasi che avesse peccato chiedendogli di rischiarare un poco l’ambiente.
Vincent non gli disse niente: aveva la sensazione che, anche cercando
di fargli capire che non aveva fatto niente di male, lui non avrebbe
cambiato atteggiamento di punto in bianco.
Quel suo atteggiamento era dettato semplicemente dall’estraneità per il luogo.
Non appena si fosse abituato, sarebbe stato più aperto sia con
lui che con gli altri - anche se a Vincent bastava solo che si fidasse
di lui.
Per quest’ultimo, che era considerato il “figlio
dell’oscurità”, era parecchio strano dover dormire
con un debole accenno di luce che feriva le tenebre altrimenti assolute
della sua stanza: gli dava fastidio, visto che era abituato a stare al
buio non solo di notte, ma anche di giorno. Nonostante ciò,
avrebbe fatto quello e molto altro ancora se era necessario per
accostarsi di nuovo a Gilbert.
Il biondo si accostò nuovamente al letto e si rintanò
sotto le coperte, mentre Gilbert si girava a dargli le spalle,
sussurrando un flebile e timido: «Grazie... Vince».
Quest’ultimo socchiuse gli occhi, stirando le labbra in un
sorriso ampiamente compiaciuto: l’aveva chiamato con
l’abbreviazione che usava sempre anche quand’erano
più piccoli.
«Buonanotte Gilbert...» sussurrò, voltando poi lo
sguardo per osservare lo stralcio argenteo che riverberava sulla
sommità del baldacchino.
In un ultimo sprazzo di lucidità mentale, il piccolo
paragonò suo fratello a quel solo, debole raggio lunare che era
stato capace di spezzare il buio che riempiva la stanza, il suo buio, quello che aveva colmato la sua vita fino ad allora dal momento in cui erano stati separati dall’Abisso.
Con quella poetica immagine che lo riempiva di gioia e serenità,
chiuse definitivamente gli occhi e fu risucchiato in un sonno senza
sogni.
Angolino autrice
E' da un sacco che non aggiornavo più questa raccoltina *^* e finalmente ora l'ho fatto.
Ringrazio SabbathUnderground per la recensione allo scorso capitolo e coloro che hanno aggiunto la fic alle preferite/ricordate/seguite.
Al prossimo chappy! ^^
F.D.
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Capitolo 3 *** They simply hate each other ***
3_They simply hate each other
Tra Vincent Nightray e
Xerxes Break non correva affatto buon sangue: l'unica parola che
riusciva a definire compiutamente il loro rapporto era "odio".
Non c'era mai stato un
legame positivo tra i due: semplicemente, si odiavano fin dal loro
primo incontro, avvenuto nell'Abisso in condizioni tutt'altro che
felici.
Adesso, la situazione non
era molto migliorata: Vincent e Xerxes si stavano squadrando
reciprocamente, l'uno seduto innanzi all'altro, su due poltroncine
poste ai due lati opposti di una scacchiera.
Come se non bastasse, tra i
due "litiganti" era seduto il povero Reim, che sembrava voler sparire
sottoterra tanto si sentiva schiacciato dall'opprimente tensione che
permeava l'aria.
Vincent sollevò un pedone e lo fece avanzare di una casella.
Xerxes schiuse le labbra in
un mezzo sorriso sghembo e leccò il grosso lecca-lecca che
teneva in mano, mordendolo e spezzandone un pezzo.
«È il tuo
turno, Cappellaio. Perché non muovi...?» gli fece notare
Vincent con una calma forzata che appariva per contro molto naturale:
era abituato a fingere, dopotutto.
L'albino socchiuse l'occhio, stirando le labbra in un sorriso sornione, deliberatamente provocatorio.
«Perché stavo mangiando» replicò mellifluo.
Soltanto a quel punto si decise a fare la sua mossa.
Nella mente di Vincent quell'uomo era da eliminare. Era troppo furbo e sapeva troppe cose su di lui.
E poi... lui lo odiava. Non
gli piaceva affatto il suo modo di fare: riusciva a mentire con una
facilità ed una spontaneità troppo sviluppate
perché non costituisse un problema per lui e i suoi.
Vedendo l'espressione
velatamente scocciata apparsa in viso al Nightray, Reim pregò
con tutto il cuore che Gilbert facesse presto ritorno, ovunque fosse
andato: era stato proprio lui a chiamare Vincent e Break alla sede
della Pandora, per discutere circa qualcosa che non aveva rivelato loro.
Aveva poi dovuto assentarsi
per un po', affidando al povero Lunettes l'incarico di tenere d'occhio
i due, "per evitare che si scannino a vicenda" gli aveva detto.
Lui scioccamente aveva
accettato, incapace di dire di no a Gilbert, ma era totalmente ignaro
del livello d'astio che correva tra i due. Se ne fosse stato a
conoscenza, probabilmente ci avrebbe pensato due volte prima di
accettare.
Vincent mosse, poi fu il turno di Xerxes.
«Tu sai quando Gil dovrebbe tornare...?» chiese Break con noncuranza assoluta.
Il suo tono di voce diede
palesemente sui nervi al biondo, che rispose con voce minata da un velo
d'irritazione: «Non so cosa stia facendo mio fratello. Non sono
la sua ombra».
«Che peccato... e io che credevo che ti dicesse sempre tutto, il tuo fratellone ~ ♪»
«Non è tenuto a dirmi tutto quel che fa...»
«Così come tu non sei tenuto a dirgli tutto quel che fai».
Era chiaro come il sole
l'intento di Xerxes d'infastidirlo, di scatenare in lui una qualche
reazione violenta cui Reim potesse fare da testimone.
Vincent affilò lo sguardo, puntandolo su di lui con un'intensità a dir poco perforante.
«Oh, quell'espressione mi ricorda tanto quella di Gilbert...» commentò con frivola sfacciataggine Break.
Vincent, in cuor suo,
voleva ucciderlo: era così fastidioso, irritante ed il suo modo
insinuante d'offendere era qualcosa di frustrante oltremodo.
Il suo odio nei suoi confronti cresceva minuto dopo minuto.
«Si uccideranno...!» pensò terrorizzato Reim, avvertendo la tensione nell'aria raggiungere livelli critici.
E invece continuarono la
partita a scacchi, quasi fosse una via per incanalare l'odio reciproco
in maniera costruttiva - e non distruttiva, anche se il biondo sarebbe
stato ben felice di distruggere il suo nemico anche fisicamente.
Mentre procedevano nella
partita, Vincent s'immaginava cosa avrebbe fatto ad un peluche che
avesse avuto le sembianze di Break e che gli fosse erroneamente finito
tra le mani: si vedeva mutilarlo col suo bravo paio di forbici, aprirlo
a metà, estrarne l'imbottitura e spargerla sul pavimento,
cavargli quell'unico occhio rimastogli.
Dopotutto, lui era a conoscenza della sua visita all'Abisso e probabilmente non se n'era mai dimenticato.
Quel genere di pensieri lo
facevano sentire meglio e gli permettevano di mitigare lo sguardo,
apparire più rilassato, meno irritato.
Xerxes sembrava non voler
minimamente cambiare atteggiamento. Era come se provasse una specie di
sordido piacere nel dargli fastidio, ed effettivamente, considerato il
loro rapporto, era anche plausibile.
L'albino aveva preso a
muovere a caso le sue pedine, infischiandosene dell'andamento della
partita. Annoiato, dondolava le gambe, reggendosi con una mano il capo,
la palpebra a mezz'asta sull'unico occhio rimastogli.
Nel silenzio che s'era
creato tra di loro, all'improvviso la voce dell'albino
riecheggiò: «Che noia questo gioco...!».
Vincent, che tanto aveva
sopportato senza fare un fiato, pazientemente subendo le sue uscite
fuori del comune, cercando di dissimulare l'odio profondo che nutriva
nei suoi confronti, a quel commento esplose tutto in una volta: con uno
scatto repentino fu in piedi e la sedia rovesciata sul pavimento.
L'espressione che portava dipinta in viso poteva essere simile soltanto
a quella che avrebbe potuto avere un assassino nell'osservare una
vittima che riusciva a sfuggirgli in ogni occasione e modo; era lo
sguardo di chi avrebbe dato qualsiasi cosa pur di uccidere chi aveva
innanzi.
E Vincent Nightray, in quel momento, avrebbe voluto ammazzare Xerxes Break.
In quel momento la porta
della stanza si aprì e comparve Gilbert, che rimase impalato
sull'uscio al trovarsi innanzi a quella scena: Vincent proteso verso
Break con il chiaro intento di nuocere all'albino, il quale per contro
sorrideva compiaciuto.
«Ah, Gilbert!» esclamò Reim, palesemente sollevato dal suo ritorno.
«Gil...?» fece
il più giovane dei due Nightray, voltandosi con sguardo stupito
e sconvolto a un tempo al suo indirizzo.
Al moro ricordava
l'espressione di un bambino colto con le mani nel vaso di marmellata -
invece quella di Xerxes era quella del bambino dispettoso che l'aveva
fatto scoprire.
«Neh, sei tornato,
Gil!» esclamò allegramente l'albino, sorridendogli in modo
inquietante e fanciullesco insieme; tuttavia, l'attenzione del nuovo
venuto era tutta concentrata sul biondo.
«Vince... che stai facendo?».
Vincent rimase zitto, immobile: quello era troppo persino per Break.
Fargli fare brutta figura addirittura con suo fratello era troppo.
«Xerxes Break... io ti odio...!».
Angolino autrice
Ecco finalmente il terzo capitolo. Finalmente il tempo di fare tutto *^*
Era da tanto che cercavo un modo di infilare anche Break da qualche parte qui e finalmente ce l'ho fatta *W* *happy*
Ringrazio GMadHattressFromUnderground per la recensione allo scorso capitolo e quanti hanno aggiunto la fic alle preferite/ricordate/seguite.
Al prossimo chappy! ^^
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Capitolo 4 *** Like a dark sky ***
4_Like a dark sky
«Vincent, perché hai quell'espressione cupa? È... successo qualcosa mentre non c'ero?».
Gilbert si chinò al
fianco del più giovane - seduto e rannicchiato a ridosso della
parete del vicolo dove vivevano, le gambe ripiegate verso il petto ed
il mento appoggiato sopra le ginocchia - e lo esaminò: la sua
espressione era piuttosto triste e scura, quasi depressa.
A causa dei ciuffi di
capelli più lunghi che si era fatto crescere per nascondere i
suoi occhi bicromi al mondo, il più grande non riusciva a vedere
benissimo e forse era per quello che non si era accorto prima del suo
atteggiamento.
Vincent abbassò le sopracciglia, corrugandole, assumendo uno sguardo se possibile ancor più triste.
«È colpa mia se sei costretto a vivere qui in questa miseria. Perché non te ne vai?» borbottò.
Gilbert si fece all’improvviso serio.
«Ancora con questa
storia?» chiese, alzandosi per dare maggior rilievo alla sua
espressione inaspettatamente severa «Perché continui a
farti di questi problemi?».
Il biondo assunse un’aria mortificata.
«Perché tu non
sei maledetto e non hai fatto niente. Non devi stare con me per forza.
So che quest’occhio rosso porta sciagure con sé e non
voglio che ti capiti... niente di male...» disse, esitando sulle
ultime parole per il dolore che gli provocavano: non solo lasciava che
altri gli dicessero che la sua stessa esistenza era una sciagura per
chiunque gli stesse attorno, ma lo diceva anche lui stesso.
Gilbert percepiva quasi a
tatto quanto il fratello soffrisse per quella situazione e se ne
dispiaceva profondamente: capitava sempre più spesso che Vincent
si colpevolizzasse della loro condizione di vita, nonostante più
volte gli avesse ripetuto che non l’avrebbe mai abbandonato, per
nessuna ragione al mondo.
Eppure, il suo fratellino
vedeva le cose con sempre maggiore cupezza. Erano ormai lontani i tempi
in cui Vincent gli sorrideva con l’espressione scintillante di
vita, incurante di tutte le cattiverie che venivano perpetrate a suo
danno.
Era stato l’inizio di quella tragedia che sembrava però non avere mai una fine.
Non riusciva a capire
perché dovesse darsi la colpa per tutto ciò che di
spiacevole capitava loro: sapeva per certo che Vincent, a dispetto
delle proprie parole, gli era molto affezionato. Lo capiva dalla
fievole seppur calda luce che gli illuminava il viso ogni volta che si
stringevano l’uno all’altro per ripararsi dalla pioggia con
il lacero mantello grigio che lui indossava.
Sapeva che abbandonarlo a
sé stesso avrebbe significato morte sicura per lui non solo
fisicamente, ma anche interiormente: senza il suo supporto morale,
temeva che il suo fratellino avrebbe finito col perdere il senno e
tentare addirittura di togliersi la vita con le sue stesse mani.
Senza la sua presenza,
Vincent avrebbe finito col perdere anche la debole fiammella che
rischiarava - seppur tenuemente - le tenebre assolute in cui era
avviluppata la sua vita.
Il maggiore si
appoggiò contro la parete e si lasciò scivolare a terra,
accanto al più giovane: non aveva la minima intenzione di
lasciarlo a crogiolarsi nel grigiore del suo modo di vedere il mondo.
Non gli avrebbe permesso di perdere di vista la luce che, nelle
difficoltà molteplici che incontravano ogni giorno, poteva
comunque essere scorta.
«Sai, Vince...» disse, girandosi verso di lui «... è da un po’ che ci penso...».
«A cosa, Gil?» domandò l’altro, curioso.
Gilbert gli sorrise. La sua
espressione divenne improvvisamente più calda e Vincent si
sentì piacevolmente abbracciato da essa come se fosse
fisicamente cinto dalle braccia del fratello.
«Tu... vedi tutto con troppa negatività...» disse il moro, pacato.
Nel suo tono il biondo carpì una leggera nota di rimprovero.
«Negatività...?» ripeté, mortificato.
«Non fare
quell’espressione abbattuta, per favore» disse il
più grande, prendendogli il mento ed alzandolo fino a che i due
non poterono guardarsi dritti negli occhi.
In quelli di Gilbert,
Vincent colse una scintilla di vitalità che lui non riusciva a
capire, ma che per qualche motivo gli infondeva una serenità
profonda ed apparentemente incontrastabile cui si abbandonò
volentieri.
«Ti sto facendo
preoccupare...?» domandò spontaneamente in tono fievole,
come se temesse di scatenare una qualche sua reazione violenta.
«Non è questione di preoccuparsi» rispose il moro, scuotendo paziente il capo «Ti spiego».
Si guardò intorno,
in cerca di qualcosa che potesse funzionare da esempio. Era diventato
abbastanza abile nel cogliere i significati nascosti dietro le semplici
cose nonostante la tenera età, per cui un qualsiasi oggetto
avrebbe potuto essere funzionale alla sua spiegazione; ma non ne
trovava alcuno.
Poi alzò lo sguardo
e trovò, finalmente, il suo esempio: sollevò un indice
verso il cielo, facendo sì che il biondo rivolgesse alla volta
celeste notturna il proprio sguardo.
«Tu vedi il mondo
come un cielo scuro e senza stelle» esclamò in tono
semplice, senza la minima traccia d’accusa. Era solo una sua
banale constatazione.
Vincent osservava rapito il
cielo, come se esso stesso gli stesse rivelando il significato segreto
insito nelle parole dell’altro, ma non riuscì a coglierlo,
così domandò: «Ed è un male?».
«No, non
proprio» rispose il maggiore con leggerezza: non voleva che quel
discorso - anziché riuscire a tirarlo su di morale - lo
deprimesse ancor di più.
«La luce delle stelle è indispensabile per rischiarare la notte. A te... piacciono le stelle, no?»
«Sì» rispose il più piccolo, accompagnando con un assenso deciso.
«Ecco, la
positività per le persone ha la stessa funzione delle stelle:
serve a rischiarare la vita. Tu, però, non riesci più a
vederla» spiegò «Ed è un peccato...»
aggiunse in tono più affettuoso.
Lo sguardo di Vincent si
posò sul viso del più grande, che notò in esso la
stessa malinconia e cupezza di poco prima.
«Come faccio a vedere positivo...? Non c’è niente di positivo per me in questa vita...» asserì.
«No, non è
vero!» esclamò con veemenza Gilbert, afferrandogli le
guance con le dita e tirandole con forza e delicatezza insieme.
«Cosa stai facendo,
Gil...? M-mi fai male...» riuscì a fatica a dire, mentre
l’altro gli tirava il viso.
«Perché non
posso vederti più sorridere, come facevi prima?»
interloquì il moro, senza smettere di pizzicargli le guance.
Vincent cessò di far resistenza e rimase a guardarlo, stupito.
Gilbert proseguì a
parlare: «Ti vedo sempre imbronciato e sempre triste e mi dici
sempre che dovrei andarmene. Vedi tutto nero, anche il fatto che io sia
qui adesso, ma ho detto che sarei stato con te e ti avrei protetto. Ora
però sembra quasi che tu voglia cacciarmi...».
Il biondo fu lacerato da
quelle parole: suo fratello soffriva per come lo trattava.
Perché non se ne era accorto mai prima di allora?
Lui non voleva che Gilbert, l’unico affetto che aveva al mondo, soffrisse a causa sua e del suo comportamento.
«Gil...» borbottò, mentre le lacrime gli invadevano gli occhi.
Si gettò contro il
suo petto con forza, affondando il viso nel suo torace mentre le
lacrime cominciavano a rigargli il volto e i singhiozzi gli scuotevano
convulsamente le spalle.
«Mi dispiace,
Gil...» lo sentì singhiozzare con un fil di voce, mentre
le sue dita stringevano in modo incontrollato e frenetico il tessuto
del suo mantello lacero.
Gilbert rimase sorpreso ed
interdetto per qualche momento, poi sorrise dolcemente e gli
carezzò il capo con fare affettuoso e protettivo.
«Non fare
così, dai... coraggio, alzati e smetti di piangere, okay?»
disse, prendendolo delicatamente per le spalle e sollevandolo, in modo
tale da poterlo guardare in viso.
La sua espressione era
incoraggiante e consolatrice. Vincent fissò quelle due pozze
gemelle d’oro come se fossero l’unico appiglio rimastogli
per non cadere nella voragine buia e senza fine della follia che si era
aperta sotto di lui.
Il biondo tirò su con il naso e si staccò dal maggiore, il quale gli terse le lacrime dalle guance.
«Avanti, fai un bel sorriso...» lo esortò, sorridendo a propria volta.
Vincent apparve smarrito
per qualche istante, come se avesse dimenticato come fare, poi
però le sue labbra si incurvarono debolmente in un sorriso che
gli illuminò il volto.
«E basta con questi
discorsi tristi, okay? Devi pensare positivo: prima o poi andremo via
da questa strada, te lo prometto» esclamò Gilbert, sicuro
di sé.
Il minore parve acquisire
un po’ di vitalità, mentre annuiva, sospinto dalla
decisione percepita nella voce dell’altro.
«Allora, proverò a guardare il mondo come un cielo stellato...».
Angolino autrice
E' bello tornare a scrivere sul mio amato Vince *O* cucciolotto >/////<
Anyway, anche se mi ero ripromessa
di non mettere più Vince e Gil come unici protagonisti di un
altro capitolo, alla fine non ho resistito *O* perché da
piccolini, nella loro sofferenza, sono pucciosi ù////ù
Spero di essere riuscita a dare un
qualche tipo di spessore alla riflessione di Gil ò__ò e
di non avergli fatto formulare un discorso un po' troppo maturo per
lui, anche se sono del parere che esperienze come quella che hanno
vissuto abbia portato a farlo maturare prematuramente.
Va be', basta ùwù ormai quel che è fatto è fatto.
Ringrazio GMadHattressFromUnderground per la recensione allo scorso capitolo e quanti hanno aggiunto la fic alle preferite/ricordate/seguite.
Al prossimo chappy! ^^
F.D.
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Capitolo 5 *** Drowsy anger ***
5_Drowsy anger
La vedeva sempre, ogni volta
che gli capitava di sbirciare dalla finestra della sua camera alla
Pandora e per disgrazia incrociava proprio Oz in compagnia di suo fratello e spesso e volentieri anche di quel fastidioso buffone di Xerxes.
La vedeva ed in lei riconosceva, nonostante il differente
atteggiamento, la ragazza che aveva rattristato Jack nella sua
infanzia. Quella per cui anche Gilbert aveva provato rabbia e rancore.
Alice.
Non riusciva a capire perché fosse riuscita a liberarsi dei suoi
ricordi, quei ricordi che lui le aveva lasciato con tanta dedizione
impressi nella sua mente come marchi di fuoco indelebili e che reputava
la giusta punizione per aver fatto soffrire Jack e Gilbert.
E invece adesso viveva come una persona normale, benché non lo fosse - così come non lo era stata nemmeno allora.
Ogni volta che Vincent vedeva Alice, l’istinto di farle del male
sorgeva spontaneo in lui come quando era piccolo, il desiderio di farle
scontare un’altra volta tutto il dolore che aveva consumato a suo
tempo tutto ciò che gli era più caro, che l’aveva
spinto a fare quel che aveva fatto.
Il giovane Nightray era vincolato in una prigione di rabbia dalla quale non riusciva e non voleva scappare, non prima che Alice avesse pagato di nuovo per le sue colpe.
«Accidenti, ma dove si sarà cacciato Oz?».
La sede della Pandora era un edificio grande e per Alice, nonostante
fosse già qualche tempo che vi era ospite, era ancora difficile
orientarsi - soprattutto
quando il suo Contraente decideva di andarsene in giro da solo:
chissà perché quel ragazzo aveva una passione innata per
andare a cacciarsi nei luoghi più impensabili.
La Chain camminava a passo spedito, il rumore dei tacchi che
riecheggiava contro le pareti, disperdendosi in lontananza. La sua
espressione era quella tipica di chi andava in cerca di qualcun altro
più perché era costretta che per voglia vera e propria.
Non vedeva l’ora di trovare Oz per dirgliene quattro: come si
permetteva di lasciare da sola la sua padrona senza dirle neppure dove
andava?
«Ah, appena lo trovo gliela faccio vedere io...!» esclamò, stizzita.
Fu quella frase a far fermare Vincent nel bel mezzo di uno dei tanti
corridoi che si affacciavano su quello che Alice stava percorrendo in
quel preciso istante.
Un’ondata di rabbia montò dentro di lui, invadendogli il
petto, accecandolo: adesso non vedeva altro che lei, la fonte ignara di
tutti i mali che si erano abbattuti su di lui nel corso della sua
infanzia.
Quando la vide passare davanti all’imboccatura del suo corridoio,
il biondo non riuscì a trattenersi ed accelerò il passo,
senza però farsi sentire.
Le sbucò alle spalle, l’espressione rabbiosa ed inquietante.
La ragazza si voltò un poco sentendosi lo sguardo di qualcuno
inchiodato addosso e non riuscì a trattenere
un’espressione stupefatta e spaventata quando notò il
cipiglio che il Nightray aveva assunto, così diverso da quello
che aveva normalmente.
Indietreggiò per riflesso di un passo, avvicinandosi alla parete.
«Che cosa vuoi?» domandò, diretta ed intimorita: quel ragazzo non le era mai piaciuto.
Non sapeva spiegarsene le ragioni, ma era come se percepisse una specie
di energia negativa scaturire da lui. Era una persona che non le
ispirava affatto fiducia, anzi, l’esatto contrario.
Vincent le si avvicinò inesorabilmente, imprigionandola tra il proprio corpo ed il muro.
«Alice...» sussurrò, inarcando le sopracciglia «... tu non ricordi niente».
«E allora?» domandò lei per contro. Non capiva dove
il biondo volesse arrivare, ma voleva andarsene da lì: quella
vicinanza ristretta la metteva in difficoltà.
«Perché non sparisci di nuovo? Gil non ti vuole...»
disse Vince, sorridendole maligno, chinandosi sulla fanciulla.
Nella sua mente si ripresentò l’immagine della prima
sfuriata che Gilbert le aveva fatto - della quale né
l’aggressore né la vittima però ricordavano niente.
Lui, invece, ricordava tutto, il rancore e la rabbia che suo fratello
sembrava aver serbato per tanto senza poter dar loro voce in alcun
modo, emozioni che aveva percepito quasi a pelle liberarsi assieme alle
parole del fratello.
Ed era stato da quel momento che anche lui aveva cominciato a provare
rabbia nei suoi confronti, una rabbia che - a differenza di Gilbert -
lui aveva continuato a portarsi dentro attraverso l’Abisso, fino
ad allora.
Alice cominciò a cercare di spostarlo per crearsi un varco ed uscire.
«Non m’importa! Vattene! Lasciami andare...!» esclamò.
Era in trappola e lui poteva lasciar andare finalmente a briglie
sciolte la rabbia che era stato costretto a serbare senza
possibilità di sbocco per tutti quegli anni.
Le afferrò un polso, trattenendolo contro la parete, quindi
affondò l’altra mano nelle pieghe della sua uniforme,
estraendone il suo amato paio di forbici, la sua arma preferita, quella
con cui aveva inflitto tanto dolore a quella stessa ragazza
cent’anni addietro.
La sensazione di poterla finalmente sopraffare con facilità e
dar libero sfogo a ciò che aveva represso così a lungo lo
sovreccitava. La mano con cui stringeva le forbici gli tremava appena,
mentre la sollevava sopra di lei.
Voleva farle del male, quanto più poteva.
Alice sgranò gli occhi: perché quelle forbici le erano in qualche terribile modo familiari...?
Aveva l’orrenda sensazione di averle già viste... ma non ricordava dove.
Cercò con più foga di divincolarsi dalla sua stretta, che
per contro il suo aggressore strinse ancor di più.
«Basta far soffrire Gilbert. Non soffrirà più per
colpa tua» disse, sorridendo, calando la sua arma su di lei con
rabbia e veemenza, come un boia che abbatte la propria ascia sul collo
di un condannato alla pena capitale.
Alla fine il momento in cui avrebbe sfogato la propria rabbia - che si
sarebbe abbattuta su Alice senza che lei potesse sfuggirle - era
arrivato.
«Vince! Che stai facendo?».
Il Nightray dilatò gli occhi, paralizzato dalla voce che gli era appena giunta dal fondo del corridoio.
Abbassò la mano con un gesto fulmineo, nascondendo nuovamente le
forbici nelle pieghe dell’abito, ed alzò lo sguardo -
adesso nuovamente normale - per fissarlo sul fratello maggiore che si
avvicinava a lunghe falcate attraverso l’andito,
l’espressione a metà tra stupore e rimprovero.
Gilbert era assolutamente certo di quel che aveva visto: fino ad un
momento prima suo fratello impugnava a mo’ di arma le sue forbici
e stava per ferire Alice.
A lui personalmente non importava niente della sua incolumità
fisica, poiché era a causa della sua esistenza in quel mondo che
il suo signorino era diventato un Contraente Illegale la cui lancetta
inesorabilmente, spostandosi, lo avvicinava sempre più
all’oblio eterno.
Fosse stato per lui, quel coniglio sarebbe già morto da tempo,
però non voleva che le capitasse niente perché Oz le era
affezionato.
Gilbert era assolutamente certo che non avrebbe potuto sopportare di
vedere la reazione del suo padrone in caso fosse successo qualcosa
d’irreparabile ad Alice.
«Gil...» disse il biondo, apparendo completamente innocente.
La Chain gli lanciò un’occhiata colma d’odio e se ne
andò correndo senza dire una parola, sollevata per il tempestivo
arrivo di Raven - anche se non aveva la minima intenzione di
ringraziarlo.
«Vince, cosa volevi fare con quelle forbici, mh?»
esclamò il moro senza tanti preamboli, fermandosi a pochi
centimetri da lui.
«Niente, Gil. Stavamo solo facendo due chiacchiere» rispose
Vincent placido. Dentro, però, gli rodeva immensamente che lui,
lo stesso che l’aveva aggredita così duramente durante
l’infanzia, adesso la stesse proteggendo a spada tratta.
Era frustrante.
«Due chiacchiere puoi farle anche senza quelle. Non fare del male ad Alice, chiaro?».
Le parole di Gilbert furono gelide, dure e ferirono il minore
più a fondo e più gravemente di una pugnalata al cuore:
il maggiore non gli si era mai rivolto con quel tono severo. Era
arrabbiato con lui e non si peritava minimamente di nasconderlo, anzi,
voleva farglielo ben capire.
In un certo qual modo, il più giovane dei due Nightray si
sentì tradito: colui che gli aveva “aperto gli
occhi” cent’anni prima sull’effetto che quella
ragazza sortiva su Jack adesso lo rimproverava duramente per aver
tentato di sbarazzarsi di lei.
Tutto ciò gli bruciava immensamente, eppure non rispose a tono a
suo fratello. Non ne era capace: gli era troppo affezionato.
Piuttosto, replicò con un moderato: «Non alzerò un dito su di lei, Gil, se è questo che vuoi».
E, senza aspettare altro, se ne andò, mentre in cuor suo la rabbia per Alice aumentava a dismisura.
Adesso non più solo perché in passato aveva rovinato la sua infanzia con Jack, ma perché nel presente aveva messo suo fratello contro di lui.
«Verrà il giorno in cui la pagherai di nuovo, Alice... per tutto quanto».
Angolino autrice
Aggiornamento regolare O/ lodato il cielo! *-*
Spero che il capitolo sia venuto
bene *diffida anche lei*. L'idea di partenza c'era, ma forse mi sono
persa per la strada *si strappa i capelli*
E con questo capitolo arrivo a metà della raccolta ù____ù *i prompt sono 10*
Ringrazio GMadHattressFromUnderground per la recensione allo scorso capitolo e coloro che hanno inserito la fic tra le preferite/ricordate/seguite.
Al prossimo chappy! ^^
F.D.
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Capitolo 6 *** Tutor-mode ~ ON ***
6_Tutor-mode ~ ON
Vincent si fermò
davanti alla porta e bussò, fissando il pavimento con un misto
di afflizione e rassegnazione nonostante il portamento rigido e austero.
Dall’interno della stanza udì un femminile e timido:
«Avanti» che lo indusse ad aprire l’uscio ed entrare.
Lo studio era illuminato dalla calda luce del sole pomeridiano che
entrava dalla grande finestra posta sulla parete opposta alla soglia e
che si riversava sulla scrivania che vi era davanti. Lungo le due
pareti laterali erano poste file di scaffalature piene di libri di
grandezze e colori diversi.
Dietro la scrivania era sistemata una poltroncina verde scuro nella
quale era seduta la sua padrona - attualmente fuori dalla portata del
suo sguardo a causa dello schienale rivolto verso di lui.
«Lady Ada...?» domandò, fermandosi ad una decina di metri di distanza.
Con un leggero cigolio, la poltroncina venne girata e la figura
femminile ed aggraziata della giovane Bezarius fu visibile, i lunghi
capelli sciolti sulle spalle che splendevano d’oro sotto i raggi
del sole. Gli occhi smeraldini erano leggermente ombreggiati dai folti
ciuffi che le coprivano la fronte, ma era palese che fosse felice di
avere il biondo lì.
«Vincent, ti stavo aspettando» disse.
La leggera sfumatura di sollievo che il Nightray percepì nel suo
tono gli fecero capire che stava cominciando a dubitare di vederlo
arrivare.
La ragazza gli sorrise allegra.
«Allora, da cosa cominciamo...?».
Il giovane Nightray era a disagio per la situazione e la richiesta.
Portò nervosamente le mani ad aggiustarsi la giacca nera e la
cravatta, per poi salire un po’ più su, verso il paio di
occhiali dalle lenti squadrate che aveva messo per l’occasione,
per sembrare un poco più professionale - quello che in quel
momento non si sentiva affatto.
«Cominceremo con le lezioni di pianoforte, lady Ada» disse,
cercando di assumere un tono piuttosto formale e pratico, riuscendo
solo a strappare una risatina soffusa alla sua lady per
l’evidente impaccio che provava e riusciva a manifestare.
Era frustrante, in un certo senso - imbarazzante per cert’altri versi.
Per il periodo che avrebbero trascorso nella casa di città, lui
aveva l’obbligo - data la sua istruzione tutt’altro che di
basso livello - di farle da tutore in una gamma di discipline che
spaziavano dalla musica alla geografia all’arte.
Non aveva mai dato lezioni a nessuno - men che meno si sarebbe mai
immaginato di doverle dare alla sua padrona - perciò doveva
farci un po’ la manica.
Avrebbe voluto ritirarsi e cedere a qualcun altro l’incarico -
magari assumere un tutore privato come avevano fatto nella villa dove
dimoravano consuetamente - ma era stato obbligato
in ciò dallo zio della ragazza - che aveva una varietà
sorprendente di modi per riuscire a persuadere una persona a vincolarsi
in una promessa.
Nel suo caso specifico, il biondo era stato minacciato di
licenziamento, un fatto che non avrebbe potuto tollerare nella maniera
più assoluta: se fosse stato licenziato, insieme a lui sarebbe
stato cacciato dalle dipendenze dei Bezarius anche suo fratello
maggiore Gilbert - che serviva sotto il figlio più grande della
casata, Oz - col risultato che sarebbero dovuti ritornare alla vita dei
bassifondi della città.
L’infanzia trascorsa in espedienti per assicurarsi un pezzo di
pane l’aveva segnato al punto da convincerlo subito ad accettare
l’incarico.
Ada si alzò e gli si avvicinò con fare mansueto e l’espressione da studentessa diligente.
Vincent si sentì del tutto fuori luogo: era lui quello che
doveva obbedire senza fare un fiato, non il contrario. Era spiazzante
osservare quello sguardo obbediente sul volto della nobile.
«... cent? Vincent?».
Il biondo si riscosse dai suoi pensieri e si rese conto che la sua padrona lo stava chiamando.
«Sì?» domandò, l’espressione stranita.
«Andiamo al pianoforte...» replicò lei.
«Ah, sì... giusto» convenne, girandosi a darle le
spalle, avviandosi verso la porta «Da questa parte»
aggiunse, fermandosi a lato dell’uscio per aprirlo e farsi
precedere fuori dalla ragazza - come era educazione fare.
Si spostarono nella stanza adiacente, sulla sinistra, al centro della
quale era sistemato un bellissimo pianoforte a coda bianco che al
momento era irradiato dalla luce solare che penetrava dalla finestra.
La lucentezza del colore lo faceva spiccare sotto i raggi solari, dando
alla stanza un’atmosfera più luminosa.
Gli altri strumenti musicali più piccoli e meno ingombranti
erano sistemati in parte poggiati lungo le pareti, in parte in mostra
su piccoli mobili dall’aria antica e costosa.
Ada precedette il biondo al pianoforte, innanzi al quale si sedette,
aprendo e cominciando a leggere lo spartito appoggiato sul leggio.
«Che cosa suono oggi?» domandò, guardando il suo
tutore - che si era nel frattempo avvicinato e fermato accanto a lei.
«Lavoreremo sulla parte successiva dell’ultimo brano, my lady» disse quest’ultimo, sistemandosi gli occhiali - che cominciavano a dargli leggermente fastidio.
Era bene a conoscenza delle lezioni della giovane, visto che era suo
compito di maggiordomo assicurarsi che la sua padrona rispettasse gli
orari dei propri impegni; tuttavia non aveva mai preso parte a nessuna
lezione.
La Bezarius assentì con un vigoroso cenno del capo, voltando poi la propria attenzione al piano e allo spartito.
Mentre cominciava l’esecuzione, Vincent si perse
nell’osservare il suo profilo senza un motivo ben preciso. La sua
attuale condizione di “tutore-non-proprio-servo” gli
conferiva una visione leggermente distorta del rapporto che era sempre
intercorso tra sé stesso e lei: se nei panni di semplice
maggiordomo aveva imparato a vedere Ada Bezarius come qualcosa di
irraggiungibile ed una persona da cui dipendere sempre, nei panni di
tutore la vedeva come una ragazza comunque nobile ma un poco
più... “alla sua portata”.
«Ma che sto pensando! Sono il suo maggiordomo ed un tutore provvisorio!» si rimproverò duramente, ascoltando la giovane che suonava «Non posso permettermi di fare certi pensieri!».
«Adesso provi a suonare il pezzo successivo» esclamò
ad alta voce non appena vide le sue dita cessare di muoversi sui tasti,
terminando l’esecuzione della prima parte del brano.
«Va bene» obbedì la bionda, riprendendo a suonare
mentre con gli occhi passava rapidamente dai tasti del piano alle note
sullo spartito.
Dopo appena un momento Vincent udì la prima stonata.
«Lo ripeta» esclamò quasi d’istinto «E cerchi di non sbagliare di nuovo quella nota».
Eppure anche la seconda volta la Bezarius sbagliò quella stessa nota.
E così anche per le altre sei volte che ripeté il pezzo.
Vincent cercava di correggerla con modi garbati anche se severi, senza
mancarle mai del rispetto che doveva portarle, ma dopo sei volte che
ripeteva sempre il solito errore, la cosa diventava un po’
complicata.
Poteva dire tante cose di sé stesso - e non era certo neppure
che tutte fossero positive - ma con assoluta certezza poteva dire di non essere un tipo paziente.
Se era quello il modo in cui sosteneva tutte le lezioni di pianoforte,
non osava immaginare di quanta pazienza fossero dotati i suoi tutori: a
lui dava sui nervi solamente udire - dopo un considerevole numero di
volte - la stessa nota sbagliata. Era come se invece di premere il
tasto sbagliato sul pianoforte ne stesse premendo uno sui suoi nervi.
«Non riesco a capire dove continuo a sbagliare, Vincent...»
mormorò Ada all’ennesimo rimprovero, mortificata,
guardando il Nightray.
Dai lati dei suoi occhi cominciarono ad affiorare lacrime che misero in allarme il tutore.
«Non pianga, lady Ada» disse, porgendole un fazzoletto che
estrasse prontamente da una tasca interna della giacca «Coraggio,
riprovi. Non è un “Fa”, ma un “La
bemolle” quello che deve suonare...» le ripeté,
sfoderando il suo miglior sorriso fasullo - che però
riuscì ad incoraggiare Ada al punto da posticipare o annullare
completamente il pianto.
Mentre la bionda si apprestava a replicare l’esecuzione, il
biondo lanciò un sospiro tra sé e sé: se la sua
lady era così difficile da istruire anche nelle altre
discipline, quello più che un obbligo nei confronti del nobile
Oscar Bezarius sarebbe diventato un vero e proprio castigo.
Angolino autrice
Ormai è diventato quasi un appuntamento settimanale *ricorda i bei tempi in cui era più o meno sempre così*
Che dire? Vincent in versione
maggiordomo io lo amo *ç* e meglio ancora se con Ada come Lady,
anche se non so se sono riuscita a mantenerlo abbastanza IC stavolta
._. *shame on me*
Anyway, ringrazio GMadHattressFromUnderground
per la recensione allo scorso capitolo - augurandomi che anche questo
ti piaccia - e coloro che hanno aggiunto la fic alle
preferite/ricordate/seguite.
Al prossimo chappy! ^^
F.D.
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Capitolo 7 *** It's red like my scissors' wound... and your eye ***
7_It's red like my scissors' wound___ and your eye
Vincent aprì
gli occhi e si ritrovò disteso supino in uno spazio buio che non
riconosceva. Era come un’immensa stanza della quale non riusciva
a vedere né il soffitto né le pareti.
Si rialzò,
leggermente intimorito dal luogo dove si trovava e si guardò
attorno: non c’era nessun altro con lui.
Era completamente solo.
Il pavimento su cui era
steso fino a poco prima era piastrellato con mattonelle bianche e nere
in un singolare ed alquanto sinistro motivo a scacchiera che per
qualche strano motivo gli era familiare.
Indosso non portava il suo
solito abbigliamento da notte, bensì una versione più
lunga - data la sua notevole altezza rispetto a quand’era bambino
- dell’abito bianco che ricordava d’aver portato a lungo
mentre era a servizio della casata dei Bezarius, cent’anni prima.
Perché la stesse
indossando, non lo sapeva. L’unica cosa di cui era certo era che
quel posto non gli piaceva per niente: l’aria stessa trasudava
qualcosa di macabro, un qualcosa che lo opprimeva e, stranamente, lo
spaventava.
Voleva tornare nella sua
camera, anche se non aveva la minima e più remota idea di che
strada dovesse prendere per uscire - né se effettivamente
un’uscita da quel luogo esistesse.
All’improvviso cominciò a correre. Veloce, verso una meta a lui stesso sconosciuta.
Tutto ciò che vedeva innanzi a sé erano le tenebre che campeggiavano ovunque, temibili ed impenetrabili.
Non c’era niente su
cui basarsi per orientare il proprio cammino. Ovunque volgesse lo
sguardo, tutto gli appariva uniforme e uguale.
Non doveva avere paura, non voleva,
eppure più se lo ripeteva e più il suo cuore veniva
stretto nella morsa d’acciaio di un panico che cresceva secondo
dopo secondo.
«Dove sono? Cos’è questo posto? Perché sono qui? Dov’è... l’uscita?».
Tutte domande che
martellavano incessantemente nella sua testa, rinforzando la sua
pressante sensazione di terrore puro e semplice.
La sua pelle si
ricoprì di sudore freddo nell’arco di una decina di minuti
e la veste si appiccicò al suo torace snello e alla sua schiena,
facendolo sembrare ancor più magro di quel che era. Quasi scheletrico.
Voleva uscire da lì, in fretta. Tornare alla normalità.
All’improvviso, dopo
un lasso di tempo indeterminato, nell’immensità di quel
luogo sperduto e lugubre un tintinnio risuonò, mistico, seguito
da un debole miagolare.
Vincent continuò a
correre verso l’ignoto, guardandosi intorno in cerca del gatto
che aveva prodotto quei suoni, senza riuscire a scorgere niente che non
fosse tenebra.
Il suono si ripeté, stavolta più vicino, ma il biondo non si fermò.
Il miagolio divenne sempre
più forte e più acuto, somigliando sempre più al
grido straziante di un gatto sofferente, finché...
Il Nightray
s’arrestò di colpo quando vide, sdraiato di fianco sul
pavimento innanzi a sé, un gatto dal pelo nero con il muso
schizzato di sangue, che si era rappreso in una pozza scura sotto il
capo. La linfa cremisi che gli striava il pelo proveniva dalle orbite,
straziate e private del prezioso tesoro che custodivano: gli occhi.
Era un gatto che il biondo conosceva bene: era stato lui a cavargli i bulbi oculari con le forbici quand’era bambino.
«Te lo ricordi, vero...?».
Una voce miagolante e
maschile riecheggiò attorno al ragazzo, che ispezionò
d’istinto i dintorni un’altra volta, riscontrando di nuovo
d’essere completamente solo.
«Cheshire non aveva fatto niente...».
O quasi:
dinanzi al Nightray, infatti, il micio ferito era scomparso, sostituito
da un ragazzo coi capelli rosso cupo e le fattezze in parte feline,
accucciato a terra.
Il viso era alzato e
rivolto verso Vincent, che poté così constatare che gli
occhi erano bendati con una pezza bianca, sintomo inequivocabile della
sua cecità.
«Cheshire era innocente... e tu l’hai accecato!» soffiò il gatto, improvvisamente rabbioso.
S’alzò con una
spinta poderosa delle gambe e s’avventò contro il biondo,
colto alla sprovvista dall’azione.
Si ritrovò a terra, gli artigli del felino che premevano sulle sue spalle come se volessero perforargli la pelle.
Il volto di Cheshire era a
pochissimi centimetri da quello di Vincent, le labbra che fremevano
d’ira. Sembrava intenzionato a sbranarlo, a giudicare dal
soffiare continuo e minaccioso.
Il biondo cercò di
sottrarsi, invano: era troppo pesante e grande perché potesse
sgattaiolare via. Gli era sopra e - come se non bastasse - si era ancorato al suo petto con gli artigli che teneva ben piantati nella sua camicia.
«Il tuo occhio rosso... ha lo stesso colore delle ferite di Cheshire, quelle delle tue forbici».
Anche se non vedeva
più doveva avere buona memoria, se era riuscito a ricordarsi del
colore dei suoi occhi dopo tutto quel tempo, a dispetto della sua
cecità.
Vincent sentì il gatto grattargli la pelle con le unghie e chiuse gli occhi, certo che l’avrebbe trafitto.
E invece, tutto ciò
che sentì fu qualcosa di caldo che gli gocciolava sul viso,
cadendo in gocce dense e viscose sulle sue guance per poi scivolare
lungo di esse, cadendo ad inzuppargli i capelli sparsi disordinatamente
sul pavimento, imprigionati in parte sotto la testa. Solo quando il
liquido cominciò a divenire tanto, quasi una pioggerella, il
biondo si azzardò ad aprire gli occhi.
Ebbe istantaneamente un
tuffo al cuore quando vide il viso del ragazzo-gatto, a pochissima
distanza dal suo: la pelle cerea sembrava quella di un cadavere
riesumato. Era impressionante.
Nel suo viso spiccavano le
due grosse e cave orbite vuote, circondate di una corolla di grumoso
sangue rappreso, mentre dall’interno delle due cavità
cadeva ancora altro sangue, che colava sul volto di Vincent.
Attorno alle palpebre si
vedevano i segni di scavature violente, cicatrici di ferite che si
ostinavano a non rimarginarsi, solchi inquietanti. La pelle sul margine
delle orbite presentava innumerevoli slabbrature, come se fosse stata
strappata via.
Tutto ciò che
rimaneva del sopruso che il giovane aveva perpetrato un secolo addietro
ai suoi danni. Ferite che, per quanto tempo passasse, non si sarebbero
mai rimarginate del tutto.
«Cheshire vuole vendicarsi» miagolò il ragazzo-gatto con una certa soddisfazione malvagia nella voce.
«Cheshire vuole... il tuo occhio rosso».
Sollevò con impeto
la zampa dal suo petto, lacerando il tessuto in cui era impigliata.
Soffiò rabbioso ed abbatté gli artigli sul viso del
biondo, che lanciò un grido lancinante nell’attimo in cui
l’unghia raggiunse la sua palpebra, conficcandosi
nell’orbita.
Poi tutto divenne rosso e doloroso.
Vincent Nightray si risvegliò gridando, mettendosi seduto sotto le coperte.
La mano corse istantaneamente all’occhio destro, che sentì ancora presente, intatto.
Del sangue che aveva
sentito zampillare dalla palpebra o che Cheshire gli aveva gocciolato
addosso non c’era la minima traccia.
Cercò di calmare il respiro ed il battito cardiaco respirando profondamente e lentamente.
Sbatté più
volte le palpebre per liberare le ciglia dalle gocce di sudore freddo
che le imperlavano, così come anche il resto del suo corpo.
«È stato... solamente un incubo...» mormorò tra sé e sé, sospirando, sdraiandosi di nuovo.
Quel gatto voleva il suo
occhio rosso come il sangue che gli coronava le orbite cave. Voleva
strapparglielo per vendicarsi o per infliggergli le stesse ferite che
lui aveva subito o per tornare a vedere almeno in parte - difficile
dire quale delle tre fosse l’ipotesi corretta, visto che erano
tutte molto plausibili.
Fortunatamente, era stato solamente un frutto della sua immaginazione.
«Anche se... non avevo mai fatto incubi collegati così strettamente con quel gatto nero di Alice...».
Uno scampanellio risuonò debole nella stanza.
Vincent si allungò a
prendere le forbici che la sera avanti aveva abbandonato sul comodino,
cominciando a temere che quello non fosse stato semplicemente un incubo.
Che Cheshire fosse seriamente intenzionato a fargli provare il dolore di quelle ferite inferte a tradimento ai suoi occhi.
Angolino autrice
Ecco a voi il settimo capitolo! *-*
Stavolta condito con del nonsense e
taaanto dark *O* e mi ci sono divertita troppo ù___ù
*quando l'Ispirazione ti prende male*
Comunque - visto che mancano ancora
tre capitoli - ho deciso di cercare di girare un po' coi personaggi,
visto che usavo sempre Vince con Gil *amore fraterno <3*
Anyway, ringrazio GMadHattressFromUnderground per la recensione allo scorso capitolo, XShadeShinra per la recensione al primo e quanti hanno aggiunto la fic alle preferite/ricordate/seguite.
Al prossimo chappy! ^^
F.D.
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Capitolo 8 *** I want to call you ''master''! ***
8_I want to call you ''master''_
Non era da molto che
Gilbert e Vincent servivano alle dipendenze della casata dei Bezarius,
presso la quale erano stati accolti per volere di Jack; per questo
almeno il maggiore dei due non riusciva ad orientarsi ancora bene
all’interno di quell’intrigo immenso di corridoi enormi.
Era stato mandato da una
delle cameriere che prestavano servizio in cucina a chiamare Jack per
la cena, ma il povero Gilbert non aveva abbastanza senso
dell’orientamento per riuscire a trovare facilmente la camera del
biondo.
«Eppure ero convinto che la camera di padron Jack fosse in questa zona...»
pensò dubbioso, guardandosi intorno, purtroppo senza scorgere
nemmeno una porta - anche se, ad una seconda analisi più
accurata, ne vide una un po’ più avanti, verso la quale si
avviò a passo più veloce e deciso.
«Forse la sua camera è quella...» si disse, mentre raggiungeva lo stipite.
«Perché vuoi chiamarmi “padrone”...?».
Gilbert si fermò sentendo le parole appena pronunciate da quella che senza ombra di dubbio era la voce di Jack Bezarius.
Incuriosito, si
accostò alla soglia - che era a malapena socchiusa - e
sbirciò all’interno: vide uno scorcio del corpo del
nobile, riconoscibile per l’altezza e gli inconfondibili abiti -
anche se mancava la giacca verde acceso che di solito invece indossava.
Da quel poco che riusciva a vedere, Gilbert poté notare un certo
malcontento un po’ da bambino nella sua espressione, visto che
era girato verso la porta.
Innanzi a lui c’era il profilo di una persona decisamente più bassa, un ragazzino
che Gilbert riuscì a riconoscere immediatamente: i capelli
biondi, corti e vagamente spettinati - oltre al completo della
servitù che indossava - lo rendevano impossibile da confondere
con altre persone.
«Vince...?» borbottò tra sé, perplesso: che cosa ci faceva suo fratello con padron Jack?
«Dai, Vincent... a
sentirmi chiamare “padrone” mi sembra d’essere
vecchio...» si lamentò il Bezarius, storcendo le labbra in
una smorfia infantile che - appaiata col suo sguardo - dava al suo
volto un che di buffo.
«No, io voglio chiamarvi “padrone”!» esclamò il biondo con voce decisa.
A quanto sembrava, era in
corso un piccolo attrito tra i due e l’origine della diatriba era
l’insistenza di Vincent nel chiamare “padrone” il
più giovane figlio dei Bezarius.
Quest’ultimo sbuffò sonoramente, grattandosi la testa con fare perplesso.
«Ma perché ci
tieni tanto a chiamarmi “padrone”...? Non fa lo stesso
chiamarmi in un altro modo...? Non vedo tutta questa differenza»
asserì.
Gilbert si sporse un poco di più, incuriosito dalla conversazione, attualmente completamente dimentico del suo compito.
Scorse Jack mentre si
chinava sul più piccolo e gli accarezzava la testa con fare
affettuoso, come se Vincent fosse stato il suo fratellino.
«Perché non mi chiami “fratellone”?» domandò, sorridendogli.
Gilbert avvertì un
improvviso senso di usurpazione del proprio ruolo di fratello maggiore,
ma fu solo una sensazione fugace che se ne andò dopo qualche
secondo.
«No» rispose secco Vincent «Il mio fratellone è Gil» sentenziò in tono ovvio.
Alzò la testa per guardare meglio in faccia il maggiore.
«Voi siete il “padrone”. Anche Gil vi chiama così!» esclamò in tono più fermo.
Sembrava intenzionato a vincere la discussione ad ogni costo.
Cadde qualche secondo di
silenzio in cui Gilbert osservò sovrappensiero Vincent: a quanto
pareva, il più piccolo lo considerava come una specie di esempio
da seguire.
Era un lato del suo
carattere di cui non era mai venuto a conoscenza e se ne sorprese:
conosceva quasi tutto di lui, le sue paure, ciò che gli piaceva
e ciò che odiava, addirittura - anche se forse era un po’
un’esagerazione - il suo modo di pensare.
Il moro vide Jack sollevare le sopracciglia con fare perplesso ed un po’ sorpreso.
«E tu vuoi fare esattamente come tuo fratello?» domandò.
«Sì. Voglio chiamarvi “padrone”» ripeté il minore, testardo.
Un attimo dopo la risata
allegra e cristallina del Bezarius riempì la stanza, cogliendo
alla sprovvista tanto Vincent quanto Gilbert.
«E va bene, chiamami
come vuoi» si arrese Jack, rialzandosi e fissandolo
dall’alto con affetto «Però ti vieto di darmi del
“voi”» aggiunse, assumendo una buffa espressione
risoluta.
Vincent arrossì un
po’, abbassando lo sguardo al pavimento, poi lo rialzò e
lo puntò di nuovo sul volto del biondo, annuendo.
«Va bene».
«Bene! Risolto
questo...» proseguì il Bezarius, rivolgendo gli occhi
smeraldini verso la porta, un nuovo sorriso allegro ad incurvargli le
labbra «... Gilbert, puoi anche entrare, nessuno ha intenzione di
mangiarti, qui...».
Il più piccolo dei
due servi si volse agitato verso la porta mentre il più grande
entrava, lo sguardo basso ed un cipiglio colpevole.
«Mi spiace, padron Jack... non era mia intenzione spiare...» si scusò, mortificato.
Vincent lo guardò, stupito ed un po’ impaurito.
«Hai sentito tutto?» chiese a bassa voce, quasi non riuscisse a dar voce a quella domanda.
Con qualche incertezza ed esitazione, Gilbert assentì col capo.
Vincent ebbe come
l’impressione d’aver ferito il maggiore. Non avrebbe saputo
dire in che modo né perché, ma sentiva di aver detto
qualcosa che lui non avrebbe mai dovuto udire.
Era come se quel disaccordo tra lui e Jack dovesse rimanere un segreto tra loro due.
Fece per dire qualcosa, ma fu preceduto e così tacque.
«Non ti preoccupare,
non è niente» lo rassicurò Jack «Eri venuto
per un motivo in particolare...?».
Solo allora il moretto si ricordò dell’incarico affidatogli dalla cameriera e cominciò ad agitarsi.
«Padron Jack! Mi
avevano mandato ad avvertire che la cena è pronta!»
esclamò, nervoso, poi aggiunse: «Mi dispiace, me ne ero
completamente dimenticato!».
Avrebbe cominciato a dar di matto se il nobile non gli avesse posato una mano sulla testa, accarezzandolo.
«Non ti preoccupare,
grazie. Tanto arrivo sempre in ritardo ai pasti» lo
tranquillizzò con assoluta spontaneità.
La sua voce fu come un abbraccio caldo che non strinse solamente Gilbert, ma anche Vincent.
I due ebbero la fugace
impressione di essere assieme alla prima - forse unica - persona che li
stesse trattando come fossero parte di una stessa famiglia. La
sensazione - completamente nuova per loro - li lasciò interdetti
per qualche momento.
«Coraggio, andiamo, altrimenti verranno a cercarci!» li esortò Jack, sospingendoli dolcemente verso la porta.
«Sì, padrone» esclamarono i due all’unisono.
Angolino autrice
Più o meno puntuale, ecco l'ottavo capitolo *^*
Ebbene sì, fustigatemi, ma è più forte di me
ù____ù child!Vince = child!Gil. E' una fissa oramai XD
Ringrazio GMadHattressFromUnderground
per la recensione allo scorso capitolo e coloro che hanno aggiunto la
fic alle preferite/ricordate/seguite, sperando che anche questo
capitolo sia gradito >/////<
Al prossimo chappy! ^^
F.D.
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Capitolo 9 *** The Curse of Awareness ***
9_The Curse of Awereness
Zac. Zac. Zac.
Lento ed inesorabile,
quello sforbiciare macabro riempiva l’altrimenti tombale silenzio
carico di tenebra e cupezza che opprimeva la stanza.
Le tende erano tutte tirate
in modo che tra di esse filtrasse a malapena un debole spiraglio della
luce solare dell’esterno, la quale proiettava sottili filamenti
dorati sul pavimento.
La penombra della camera rendeva a malapena distinguibili tra loro gli oggetti, ma al proprietario del locale bastava.
Quest’ultimo stava
placidamente inginocchiato sul materasso dell’immenso letto a
baldacchino che occupava tutta la parte centrale della parete alla
destra della porta, con indosso solo un vestito bianco più
simile ad una camicia da notte che ad altro.
L’abito era di una
misura più grande di quella che portava, difatti la scollatura
dell’indumento gli pendeva sulla spalla sinistra, lasciandola
scoperta.
La cosa, tuttavia, pareva non solo non preoccuparlo, ma essergli addirittura totalmente indifferente.
Tutto ciò che si
limitava a fare era continuare a tagliuzzare un pupazzo di pezza che
stringeva con la mano sinistra. Nella destra impugnava un paio di
forbici affilate ed appuntite che - benché la luce nella stanza
fosse esigua - riuscivano ad assumere un riflesso sinistro lungo la
lama.
In silenzio, mutilava
tranquillo la sua povera vittima priva di vita, mentre col pensiero
vagava alla deriva nei ricordi di tantissimo tempo addietro.
Il piccolo Vincent Nightray
stava pensando a suo fratello Gilbert, dal quale si era
involontariamente separato viaggiando attraverso il tempo per uscire
dall’Abisso.
Sapeva bene in che
condizioni l’aveva lasciato - ferito gravemente ed incosciente,
moribondo - perciò si chiedeva dove potesse essere finito e si
augurava che qualcuno l’avesse trovato e gli avesse prestato
aiuto prima che fosse troppo tardi.
Se fosse morto non sapeva come avrebbe reagito, addirittura si chiedeva senza di lui avesse ancora senso continuare a vivere.
Sarebbe stata solamente
colpa sua se fosse accaduta una simile disgrazia e non se lo sarebbe
mai perdonato: nel momento in cui aveva avuto più bisogno di lui
non gli era stato accanto.
Gilbert aveva fatto
così tanto per lui quand’erano più piccoli che il
solo pensiero che morisse senza che lui avesse potuto fare niente per
salvarlo lo considerava un tradimento nei suoi confronti.
Scosse la testa, cercando
di allontanare quel mesto pensiero: si sentiva dilaniare il petto da
una fitta lancinante di tristezza e dolore al solo prendere remotamente
in considerazione la possibilità che una disgrazia del genere accadesse.
Voleva ricongiungersi con
lui: era il suo unico desiderio, tutto ciò che aspettava giorno
dopo giorno, senza mai riuscire a veder realizzato il suo sogno di
veder aprire la porta della sua camera e scorgere Gilbert in piedi
sulla soglia anziché una delle tante cameriere dei Nightray.
La sua era come una maledizione, quella della consapevolezza:
sapeva bene di essere coinvolto con ciò che era accaduto loro e
ciò gli apriva immensi e profondi squarci di tristezza
nell’animo.
Con espressione triste e
vuota ripensava a lui, a tutto ciò che Gilbert aveva fatto per
lui nella loro infanzia e si augurava che tornasse presto da lui.
In quei momenti avrebbe dato qualunque cosa pur di riaverlo.
La sua mente si distrasse dal ricordo del fratello maggiore per concentrarsi sul bambolotto che aveva in mano.
I suoi occhi si
corrugarono, assumendo un’espressione aggressiva. Modificò
la presa sulle forbici, impugnandole a mo’ di pugnale, quindi
l’abbatté con ferocia sul torace della bambola.
Quest’ultima era
abbigliata con un lungo abito rosa chiaro ed aveva i capelli castani
lunghi e sciolti. Le squarciò il ventre, riversando
l’imbottitura sul lenzuolo con soddisfazione.
Quella bambola
l’aveva presa appositamente perché gli ricordava Alice.
Così facendo poteva sfogarsi su di lei.
La tristezza che
l’assaliva sempre più spesso sovente si trasformava in una
ferocia impressionante, fuori del comune, che trovava la sua valvola di
fuoriuscita proprio in atti del genere.
Era quel senso
d’impotenza e tristezza che lo ricolmava ogni volta che si
concentrava troppo sui suoi ricordi di un passato lontano e tutto
sommato felice, benché drammatico.
«Gilbert...» mormorò, mentre estraeva le forbici e le utilizzava per decapitare il pupazzo.
«Ci rivedremo,
vero...?» domandò con voce minata di malinconia e
speranza, fissando la bambola con la testa mozzata, come se avesse
potuto fornirgli la risposta.
«Perché... non è stata colpa mia, Gil...».
Angolino autrice
Cadenza settimanale precisissima °O° *yes, we can!*
Non me la sento di giudicare questo
capitolo, visto che l'ho scritto sul momento, trasportata
dall'Ispirazione. Spero solo che sia decente >////<
Ringrazio GMadHattressFromUnderground per la recensione allo scorso capitolo e coloro che hanno aggiunto la fic alle preferite/ricordate/seguite.
Al prossimo chappy! ^^
F.D.
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Capitolo 10 *** War on a white blanket ***
10_War on a white blanket
Non era cosa comune che nevicasse, se non in pieno inverno, intorno agli inizi di gennaio.
Fu perciò con una
certa sorpresa che il piccolo Vincent si alzò dal letto e vide
il fratello più grande intento a guardare all'esterno.
«Che cosa c'è,
Gil?» domandò subito. Temeva che non fosse riuscito a
dormire o fosse triste per qualcosa che ancora gli sfuggiva.
Gilbert si girò verso di lui e scosse la testa, scacciando i cattivi presagi del minore.
«Vince, c'è la neve!» disse, allontanandosi dalla finestra.
«Usciamo?».
Il biondo lo guardò per qualche momento, poi si decise a rispondere: «Perché no?».
Scese dal letto e, assieme
al più grande, si vestì: indossarono maglioncini pesanti
e cappotti che non erano da meno, così come cappelli e sciarpe.
Vincent era felice di poter
giocare assieme a suo fratello con la neve: nella loro "prima infanzia"
non avevano mai potuto divertirsi quando nevicava a causa della loro
miseria. Quando nevicava erano costretti a cercare rifugio in qualche
posto riparato dove il freddo arrivasse almeno un po' attutito.
Non appena furono pronti, uscirono dalla camera e si avviarono lungo il corridoio verso la porta della villa.
«Era da tanto che non nevicava!» esclamò Gilbert, sorridendo.
In un flash alquanto
inquietante, Vincent rivide il maggiore stringersi a lui
all’interno di una nicchia di un muro in parte distrutto, mentre
la neve turbinava innanzi ai suoi occhi ed i loro fiati si condensavano.
Per un momento rimase
interdetto dalla scena, poi venne catapultato nuovamente nel presente,
dove riprese possesso del suo corpo.
«Già» si
affrettò a rispondere, cercando di apparire il più
naturale possibile. Dopotutto, suo fratello non ricordava niente di
quel periodo.
L’unico rumore che li
seguiva erano i loro stessi passi che riecheggiavano contro le pareti
dei vari anditi per cui passavano.
Dopo qualche minuto - finalmente - i due piccoli Nightray si ritrovarono nel giardino.
La neve sembrava cotone
compattato ed infinitamente soffice. I fiocchi volteggiavano nell'aria
senza una direzione precisa, in una lenta ed incantevole danza
ammaliatrice.
Vincent mosse il primo passo sul manto bianco, affondando il piede in esso quasi per intero.
Era la prima volta che poteva considerare la neve un divertimento e non un "nemico".
Avanzò lentamente,
seguito a distanza dal fratello più grande, ma dovette
arrestarsi quando una palla di neve lo colpì in faccia.
Vince si ripulì dai resti del proiettile di neve e si guardò intorno, in cerca dell'aggressore.
Una seconda palla di neve lo colpì, stavolta da un lato del viso, rischiando di fargli perdere l'equilibrio.
«Ti ho preso un'altra
volta!» esclamò la familiare voce di Elliot in tono
trionfante, facendo voltare i due fratelli: il castano era ad una
decina di metri da loro, avvolto in un pesante cappotto beige con una
palla di neve in bella mostra sul palmo della sua mano.
«Che cosa vuoi Elliot?» domandò il biondo, fissando il più giovane.
Quest'ultimo gli lanciò di nuovo una palla di neve, che stavolta però Vincent evitò.
«Una dichiarazione di guerra?» domandò Gilbert, assumendo un'espressione confusa.
Vince sorrise.
«Se è questo che vuole...» disse, sottintendendo un ovvio "allora guerra sia".
Si chinò a terra e
raccolse una manciata di neve, modellandola a formare una sfera, che
lanciò con quanta forza aveva nel braccio verso Elliot,
prendendolo in pieno volto - fatto che a quest’ultimo non
riuscì molto gradito.
Da lì si
scatenò una vera e propria guerra a palle di neve tra Vincent ed
Elliot. Proiettili di tutte le dimensioni volavano a velocità
variabili tra i due contendenti, che furono ben presto zuppi d'acqua
gelida.
Nessuno, però, aveva intenzione di arrendersi.
Gilbert, nel frattempo, si era messo a guardarli da un punto sicuro distante dal campo di battaglia diversi metri.
In sé e per
sé il gioco non l'attirava molto, ma osservare i fratelli che si
colpivano a vicenda gli risultava piuttosto interessante.
Quella che si
consumò nel giardino di villa Nightray fu una vera e propria
guerra senza esclusione di colpi, che tuttavia non vide nessun
vincitore né vinto: più o meno quarantacinque minuti dopo
che lo scontro aveva avuto inizio, alcune cameriere uscirono di corsa
per richiamarli in casa ed il combattimento non poté vedere la
sua conclusione.
Appena rientrati, Vincent
ed Elliot cominciarono a starnutire. Solo allora le cameriere si resero
conto che erano infradiciati d'acqua fredda e si affrettarono a
portarli nelle loro camere a cambiarsi.
Gilbert, invece, si
recò nel soggiorno, dove un caldo fuoco scoppiettante ardeva nel
camino. Si sedette dinanzi ad esso sul tappeto, osservando rapito le
lingue di fuoco.
«Oh, Gil! Allora eri qui».
Il moro si girò verso la porta, inquadrando la figura di Vincent, inusualmente avvolta da una pesante coperta scura.
Il biondo si avvicinò al più grande a passi lenti.
«Le cameriere mi hanno detto che ho preso il raffreddore...» disse, precedendo la domanda dell'altro.
«Oh...».
«Anche a me hanno
detto la stessa cosa» si aggiunse l'inequivocabile voce di
Elliot, appena materializzatosi sulla porta anch'egli.
Gilbert iniziò a
pensare che gli piacesse proprio comparire all'improvviso e
intromettersi nelle loro conversazioni; tuttavia si astenne
dall’esprimere la cosa a parole.
Il castano si avvicinò stringendosi sulle spalle una coperta bianca e si sedette dal lato libero di Gilbert.
«Vi siete lanciati la
neve per quasi un'ora...! Sarebbe stato strano se foste rimasti
indenni: la neve è così fredda...!» esclamò
Gil.
Elliot distolse lo sguardo, arrossendo colpevole, mentre Vincent posava gli occhi bicromi sul fuoco.
«La prossima volta
vincerò io» disse il castano sicuro di sé,
rialzando gli occhi, portandoli su quelli di Vincent.
«Non contarci troppo,
Elly» rispose quest’ultimo, sorridendogli con quel suo
tipico ed inquietante incurvare di labbra.
Angolino autrice
Finalmente riesco a postare °^°
Mi dispiace solo che questo sia
l'ultimo capitolo ç^ç ma la tabella di prompt è
finita, ergo, finisce anche la raccolta. Anche se per l'ultimo capitolo
mi sono tenuta Elly *^* *spupazza*
Anyway, scleri da fangirl a parte XD, ringrazio GMadHattressFromUnderground
per aver non solo recensito lo scorso capitolo, ma aver seguito fin
dall'inizio la raccolta. Inoltra, ringrazio tutti coloro che hanno
aggiunto la fic alle preferite/ricordate/seguite.
Alla prossima! ^^
F.D.
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