Kiss From a Rose di Maggie_Lullaby (/viewuser.php?uid=64424)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4. ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1. ***
Kiss
From A Rose
Capitolo
1.
Certe
notti la macchina è calda e dove ti porta lo decide lei.
Certe
notti la strada non conta, quello che conta è sentire che vai.
Certe
notti la radio che passa sembra aver capito chi sei.
[…]
I locali a cui dai del tu.
[…]
Non si può restare soli, certe notti.
{Certe
Notti; Ligabue}
«Il
cantante Joseph Jonas è scomparso da quattro giorni. Le
autorità sono alla ricerca del ragazzo, che pare essere
scappato dopo l'incidente che l'ha coinvolto giorni fa. La famiglia
si sta mobilitando in ogni modo per riportarlo a casa e gli chiedono,
nel caso stia ascoltando questo messaggio, di tornare dal loro il
prima possibile. L'incidente, causa della sua scomparsa, è
avvenuto diciassette giorni fa, conseguito con il decesso di...».
Joe spense il televisore e lanciò il telecomando dall'altra
parte della stanza, dove cadde sul tappeto con un tonfo sordo.
Si
nascose la testa tra le mani, dondolandosi in avanti e indietro sul
letto a una piazza, nella piccola stanza del motel in cui stava
alloggiando.
«È
colpa mia, è colpa mia...», continuò a ripetersi,
in un sussurro fioco appena percepibile. Alzò un poco lo
sguardo sull'unica finestra della camera, affacciata nel parcheggio
semi vuoto del motel, illuminato da qualche auto e dal bar dall'altra
parte della strada, da dove proveniva una musica alta, chiacchiericci
e risa divertite.
Si
alzò, come un automa, e afferrò il giubbotto di jeans,
l'unico che si era portato dietro da casa, e uscì sbattendosi
la porta alle spalle, senza preoccuparsi di chiuderla o meno a
chiave; se anche fosse entrato qualcuno per rubargli qualcosa non gli
sarebbe importato, l'unica cosa che davvero gli importava la teneva
nella tasca del giubbotto, appoggiata sul cuore. Lì dove
doveva stare.
Si
spettinò i capelli con una mano mentre entrava nel bar dalle
luci soffuse, tenendo il capo chino. Gesto inutile, nessuno in un bar
lungo un'anonima superstrada del Nevada l'avrebbe mai riconosciuto
come Joe Jonas, il ragazzo scomparso.
Correzione:
scappato.
Si
sedette su uno sgabello, guardando con la coda dell'occhio gli altri
clienti, per lo più interessati al tavolo da biliardo, dove
stavano facendo varie scommesse su chi avrebbe vinto e con quanto
margine di vantaggio.
«Cosa
ti porto?», gli domandò una cameriera dai corti capelli
tinti di biondo e un sorriso esausto sul volto giovane, un grembiule
nero stretto intorno alla vita.
«Una
vodka, senza ghiaccio», rispose Joe, senza guardarla negli
occhi e mantenendo la sua attenzione sulla fila di alcolici dietro di
lei.
La
cameriera annuì e sparì per qualche istante nel retro,
tornando con un grosso bicchiere e una bottiglia di vetro vuota a
metà.
Non
gli domandò i documenti, forse perché davvero
dimostrava ventun anni finalmente, o forse perché dalla sua
espressione aveva capito che ne aveva davvero bisogno. Magari se nera
solo dimenticata, o non le importava, chissà.
Joe
guardò il liquido scivolare nel bicchiere, con desiderio, e ne
tracannò un sorso non appena la ragazza si fu allontanata.
Doveva avere una ventina d'anni, non molti di più.
Si
pulì la bocca con il dorso della mano e continuò a bere
piano, sentendo il liquido bruciargli la gola. Non era abituato a
bere così tanto, aveva cominciato da qualche giorno, non
appena era uscito dall'ospedale.
Grugnì
quando il bicchiere fu vuoto e fece cenno alla cameriera di
riempirglielo di nuovo. Lei ubbidì e tornò a parlare
con un gruppo di motociclisti appena arrivato, ridendo; evidentemente
li conosceva, non doveva essere la prima volta che si fermavano da
quelle parti.
Finì
di bere in pochi secondi. La terra aveva già preso a girare
intorno a lui, ma sapeva che avrebbe dovuto bere ancora molto
prima di riuscire a smettere di pensare.
Smettere
di pensare alle grida di quella sera, alle urla di dolore di suo
fratello, alle sue, i gemiti di paura, le richieste di un aiuto che
tardava ad arrivare. Smettere di pensare alle sue mani imbrattate di
sangue, suo fratello che aveva smesso di gridare, lei che non parlava
più. Smettere di pensare, poi, alla corsa in ospedale con
l'elicottero, il buio, il silenzio, il dolore, le iniezioni e di
nuovo il buio. Smettere di pensare alla notizia.
Ed
era stata colpa tutta di Joe. Tutta sua, come continuava a ripetersi,
sua che non aveva visto quello stupido cane in mezzo alla strada. Era
colpa sua se non c'era più.
Trattenne
il fiato mentre una morsa gli artigliava le viscere e sentiva il
respiro venirgli meno.
La
ragazza, che stava ripassando lì davanti, interpretò
quel verso come una richiesta di altra vodka e gli prese il
bicchiere, versando altro liquido chiaro.
Joe
non la ringraziò e bevve mentre le immagini di quel giorno gli
affollavano la mente come un filmino in cui non si poteva premere il
tasto stop o, peggio, cancel.
«Lasciatelo
dire, amico, hai proprio una brutta cera», commentò una
voce alla sua sinistra.
Il
ventunenne alzò il capo e volto la testa verso la ragazza che
stava parlando al suo fianco, con una smorfia sorpresa e perplessa.
La
ragazza doveva avere al massimo venticinque anni, dai capelli corti e
mori, gli occhi grandi e di un castano particolare, come miele fuso.
Era alta e dal fisico esile.
Joe
non rispose a quelle parole.
«So
che starai pensando», continuò la sconosciuta. «Chi
è 'sta pazza, e che vuole dalla mia vita?! Beh, scusa se
ti importuno, ma è una serata particolarmente noiosa e non c'è
nessuno di interessante con cui parlare. Tu non mi pari un matto
maniaco pervertito quindi mi sono detta, perchè no? Comunque,
piacere, io sono Matilde», gli porse la mano, senza aspettarsi
davvero che lui la stringesse.
Joe
annuì ma ignorò la mano, come da copione.
Matilde
lo guardò a lungo, annuendo piano.
«Sai,
a questo punto dovresti presentarti anche tu», lo informò,
con un sorrisetto divertito sul viso affilato.
Il
ragazzo alzò gli occhi al cielo prima di posarli nei suoi,
irritato.
«Scusami,
Matilde, ma non sono in vena di far chiacchiere. Non sono la persona
adatta per passare un'allegra serata in compagnia», riferì
nervosamente, bevendo un altro sorso di vodka.
La
ragazza incrociò le braccia al petto e continuò a
fissarlo, con gli occhi fastidiosamente puntati sul suo viso.
Joe
la guardò di sottecchi e si sentì imprecare.
«Che
cosa vuoi?!», sbottò.
«Parlare,
ti ho detto. Scusa se ti disturbo, ma cinque minuti non ti
uccideranno di certo», commentò, sedendoglisi accanto,
«anzi, potrebbero addirittura farti bene!».
Il
ragazzo sbottò un'imprecazione, guardandola storta.
«Sei
il ritratto della simpatia!», rise Matilde, ordinando una birra
alla cameriera che, esausta, continuava a fare avanti e indietro.
«E
tu della timidezza», fece Joe, inarcando un sopracciglio.
Sentiva l'alcool iniziare ad andare in circolo nel suo corpo, mentre
il suo mondo iniziava ad essere a colori.
Matilde
annuì.
«Dai,
solo cinque minuti», lo supplicò ancora, sbattendo gli
occhi grandi e montando sul viso un'espressione da cucciolo bastonato
che lo fece sorridere appena. «Da noi in Italia c'è un
cantante che dice: “non si può restare soli, certe
notti”
«Solo
cinque», cedette Joe, a quelle parole. Matilde batté le
mani contenta. «Dunque, sei italiana», cominciò,
incerto. Non sapeva cosa dire, era come se avesse smesso di sapere
come si chiacchierava con la gente.
Matilde
annuì, scostandosi i capelli dal viso diafano e struccato.
«Di
Torino», specificò, vedendolo in difficoltà. «E
tu?».
«Los
Angeles», rispose automaticamente, pentendosene subito e
mordendosi il labbro inferiore con forza, quasi fino a farlo
sanguinare.
«Wow,
Los Angeles, la Città degli Angeli! Cosa sei, un attore? Un
cantante?», scherzò la ragazza, bevendo un sorso di
birra.
«Niente
del genere», mentì il ragazzo, prontamente. Non voleva
che lei sapesse della sua vita, della sua vecchia vita.
Sospirò amareggiato e chinò il capo sul bancone lucido,
sentendo gli occhi appannarsi, e non era per l'alcool.
Matilde
non se ne accorse, o per lo meno finse saggiamente di non averlo
visto, continuando a parlare a vanvera.
Joe
si passò una mano sugli occhi, asciugandoseli e la fissò.
Non riusciva a credere che una persona potesse parlare tanto, doveva
essere ubriaca, o aver assunto qualche strana sostanza stupefacente.
«Tu
sei tutta matta», mormorò quando Matilde iniziò a
parlare di alieni e di vampiri.
Lei
corrucciò il viso e fece il labbruccio, incrociando le braccia
al petto.
«Mi
ritengo offesa. Te ne sei accorto solo ora?». Scoppiò a
ridere, cristallina.
E
per un attimo Joseph la invidiò per la sua capacità di
riuscire a ridere anche dopo ciò che a lui era successo, anche
se probabilmente lei nemmeno lo immaginava, o forse lo sapeva ma non
le importava.
Lui
accennò un piccolo sorriso, come per scusarsi, senza sapere
che altro aggiungere.
«Cosa
ci fai qui da Torino?», domandò Joe, dopo minuti di
silenzio duranti i quali Matilde finì di bere la sua birra e
lui guardava la cameriera fare avanti e indietro, indeciso se
chiederle altra vodka.
La
ragazza scrollò le spalle, alzando le sopracciglia.
«Tra
tre mesi mi sposo», spiegò, tranquilla, senza nascondere
un sorriso felice.
«E?».
«E
questa è il mio addio al nubilato, tre settimane in vacanza on
the road in giro per tutti gli Stati Uniti, solo io, la strada, e la
mia macchina. Il mio sogno». Nei suoi occhi Joe riuscì a
cogliere un debole barlume di felicità.
Quelle
parole lo colsero di sorpresa. Quella strana ragazza era in partenza
per tutti gli Stati Uniti, solo con la macchina, ciò
significava che non doveva mostrare documenti e passaporti
all'aeroporto per andarsene o altro. Era completamente libera. E a
lui quella libertà serviva.
Quando
era scappato dell'ospedale si era portato dietro soltanto i soldi che
erano nel suo portafoglio, senza contare le carte di credito. Aveva
ritirato tutto quello che poteva al primo bancomat disponibile ma
ormai gli restavano un paio di centinaia di dollari, troppo pochi per
affrontare un viaggio e rifarsi una vita. E se avesse prelevato altro
denaro avrebbero potuto capire dove si trovava. Maledì la
tecnologia per l'ennesima volta.
«Interessante»,
ammise. «E dove sei diretta, ora?».
Matilde
parve felice che fosse finalmente lui a fare le domande, e non
dovesse essere lei a incitarlo.
«Idaho»,
rispose, contenta. Guardò l'orologio che aveva al polso.
«Anzi, è meglio che vada».
«...Come?»,
esclamò lui, sorpreso vedendola alzarsi e abbandonare cinque
dollari sul bancone, prontamente presi dalla cameriera. «Te ne
vai?».
«Sì»,
annuì la mora. «Preferisco muovermi la notte, c'è
meno traffico ed è tutto...», sospirò, «tutto
più tranquillo, più calmo. Posso andare alla velocità
che voglio!». Rise ancora.
Joe
la fissò ad occhi sgranati, mentre la mascella gli cadeva.
«Che
c'è?», domandò lei, perplessa vedendolo con
quell'espressione e corrugò la fronte, mentre una ruga di
concentrazione le rigava il viso.
Il
ventunenne lanciò un'occhiata a lei e al bicchiere di vodka, a
Matilde ed infine alla porta del bar.
«Posso
venire con te?», domandò infine, alzandosi anche lui
dallo sgabello.
«Come?!»,
fece Matilde, gli occhi spalancati dalla sorpresa. «Non mi
conosci nemmeno...».
«Non
mi importa, hai una macchina e te ne stai andando, è ciò
che mi interessa. Posso pagarti, ho circa duecento dollari, spero ti
possano bastare», spiegò lui a raffica, determinato come
non lo era da troppo tempo.
Matilde
lo guardò, muovendo la testa in diagonale, come per osservarlo
meglio; guardò la luce nuova che si era impadronita dei suoi
occhi, i pugni serrati e le nocche bianche, l'espressione
determinata.
E,
prima che lui potesse aggiungere altro, annuì piano.
«Non
mi interessano i soldi», chiarì immediatamente, «ma
sarà un viaggio ancora più avventuroso di quanto mi
aspettassi! La ragazza fuori di testa che raccatta un tipo tenebroso
e misterioso in un bar su un'autostrada e cominciano un viaggio pieno
di insidie», rise. «Devo almeno sapere il tuo nome,
Signor Sconosciuto».
Joe
annuì, mentre un sorriso di soddisfazione gli solcava il viso.
«Joseph»,
rispose.
Matilde
non si aspettava di sapere anche il suo cognome e sorrise quando
scoprì che aveva ragione.
«Bene,
Joey...», iniziò.
«Joe»,
la corresse il ragazzo, mentre il cuore cominciava a battere
all'impazzata. «Per favore, chiamami Joe».
La
mora alzò le sopracciglia, stupita da quella strana richiesta,
e annuì scrollando le spalle.
«Joe,
allora. Vai a prendere la tua roba, ti aspetto nel parcheggio»
e con quella parole uscì dal locale, con una camminata felina,
silenziosa.
Il
ventunenne lasciò dieci dollari alla cameriera, sempre più
stanca, e corse fuori dal bar il più velocemente possibile,
spaventato che quella strana ragazza se ne potesse andare lasciandolo
lì.
Per
arrivare sino al Nevada aveva utilizzato la moto che gli avevano
regalato per i diciannove anni, che utilizzava raramente, ma ora che
tutti lo stavano cercando qualcuno avrebbe potuto riconoscere la
targa. Non gli importava di lasciarla a prendere polvere in un
parcheggio, ormai non gli importava più di niente.
Entrò
con la forza di un uragano nella sua stanza e recuperò lo
zaino in cui aveva le sue – poche – cose, si assicurò
di avere il portafogli in tasca e restò qualche istante a
guardare il suo iPhone appoggiato sul comodino. I suoi genitori non
facevano che chiamarlo, mandargli messaggi, lasciargli suppliche di
tornare a casa sulla segreteria, ma lui non rispondeva mai. Ormai lo
teneva spento, eppure lo considerava come l'unico oggetto che lo
poteva tenere in contatto con la sua famiglia. Lo afferrò e se
lo infilò in tasca, uscendo sbattendosi la porta alle spalle.
Matilde
lo aspettava con le braccia incrociate, uno zaino a tracolla colorato
e un paio di chiavi in mano, appoggiata a un auto scura.
«Pronto?»,
fece, dondolando davanti ai suoi occhi le chiavi dell'auto.
Joe
annuì, lanciando un'ultima occhiata alla sua moto.
Matilde
capì ma non disse nulla. Era del parere che se avesse voluto
parlarle di lui l'avrebbe fatto, altrimenti sarebbe riuscita a vivere
tranquillamente anche senza simili informazioni.
«Joe,
lei è la mia piccola», sorrise la ragazza, indicando la
macchina su cui si era appoggiata.
Joe
la osservò, era una macchina vecchia, nera, ma ben tenuta. Non
riconosceva la marca.
«Aah,
la mia Impala, Chevreolet del '67», sospirò armoniosa.
«Mi è costata un occhio della testa quindi non osare
rovinarmela, va bene? Sei avvertito che non la potrai mai guidare».
Bensì il suo tono fosse scherzoso Joe percepì la
minaccia.
Alzò
le mani, in segno di resa.
«Sissignora»,
ubbidì.
Matilde
sorrise e ed entrò in auto, accarezzando il volante.
Joseph
fece un sospiro profondo; non avrebbe guidato comunque, non dopo
quello che aveva combinato... e dopo quello che era successo.
Scosse
il capo e si sedette accanto a Matilde, osservando l'interno della
macchina.
«Ami
il rock degli anni '70, vero?», gli domandò lei,
infilandosi una felpa a patchwork.
Joe
annuì.
«Bene,
perché ascolto solo quello», spiegò, sorridente.
Infilò le chiavi nel quadro e le girò. Un rombo come di
fusa partì da sotto di loro, facendo ridere Matilde.
«Sei
sicuro, Joseph?», chiese per un'ultima volta, questa volta
seria.
Joe
la guardò, e non aveva dubbi nella sua mente.
«Parti»,
le ordinò.
La
ragazza fece un respiro profondo, guardò lo specchietto e
ingranò la marcia.
Continua...
Prima
che possiate dire qualsiasi cosa, sì, sono tornata. Sono
scomparsa da questo fandom da mesi, me ne rendo conto, ma
l'ispirazione per I'm Only Me When I'm With You è
andata a farsi benedire; a dire il vero tre o quattro capitoli pronti
li avrei, ma vorrei scriverne un altro paio prima di ricominciare a
postare regolarmente. Se va tutto bene, dovrei postare tra due
settimane il dodicesimo
capitolo, ma non prometto
nulla.
Questa è una
mini-long, avrà quattro capitoli che ho già concluso,
poiché l'ho iniziata a scrivere la scorsa estate, ma forse la
allungherò a cinque. È una storia drammatica, siete
avvertite.
Il
settimo capitolo di Olive
& An Arrow
non l'ho nemmeno cominciato a scrivere, ma credo approfitterò
delle vacanze di Carnevale nei prossimi giorni per buttare giù
qualcosa, sempre che l'Ispirazione mi assista. *guarda il cielo e lo
supplica*
Nel frattempo, posterò
questa fanfiction, una volta alla settimana, tutti i mercoledì.
Spero mi facciate sapere ciò
che pensate di questa fic, commenti sia negativi che positivi sono
ben accetti.
Il personaggio di Joe
Jonas e relativi familiari non mi appartengono. Tutti gli altri
personaggi, invece, sono una mia invenzione e mi appartengono in
quanto tale. Questa storia non è stata scritta a fini di
lucro.
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Capitolo 2 *** Capitolo 2. ***
Capitolo
2.
Paura
di decidere, paura di me.
Di
tutto quello che non so, di tutto quello che non ho,
eppure
sentire nei sogni in fondo a un pianto,
nei
giorni di silenzio c'è un senso di te.
{Eppure
sentire; Elisa}
«Così
non possiamo andare avanti», chiarì Matilde, seccata,
parcheggiando l'Impala a un angolo dell'autostrada e fissando Joe
dritto negli occhi. «Si può sapere che hai?».
Erano
in viaggio da tre giorni, tre giorni duranti i quali avevano sostato
per dormire solamente negli spazi dell'S.O.S. e fermati per brevi
soste negli autogrill sparsi dovunque. Nell'ultimo in cui erano
entrati per mangiare un panino Joe aveva notato la sua faccia
schiaffata in prima pagina di un giornale vicino a Matilde,
accompagnata dalla scritta “Ragazzo Scomparso”. Prima che
la ragazza potesse anche dare il primo morso al suo panino l'aveva
afferrata e trascinata nel parcheggio, pregandola di rimettersi
subito in marcia.
Aveva
creduto che Matilde accettasse questa sua richiesta senza fare
domande, così come aveva fatto sino a quel momento. Si era
sbagliato.
«Mi
devi delle spiegazioni, Joe. Ho aspettato che tu mi spiegassi senza
che te lo chiedessi ma evidentemente non ne hai intenzione. Non
voglio sapere vita, morte e miracoli di te, solo sapere se hai
combinato qualche casino con la legge. Perdonami, ma non ci tengo a
finire davanti a un giudice per te», fece, concitata, muovendo
le mani con fare agitato.
Joe
ridacchiò, isterico, senza allegria.
Matilde
lo fulminò con un'occhiataccia.
«Allora
è così, hai combinato qualcosa», disse, tremante,
piena di paura. «Cosa sei, un maniaco? Un assassino? Che
cos'hai fatto?!».
Assassino,
ecco la definizione più adatta,
pensò il ventunenne, il capo chino e i pugni stretti in una
morsa mortale, le nocche bianche.
Urla...
Grida... Il sapore del sangue in bocca... Un dolore acuto al petto,
un dolore troppo forte... Altre grida... Perché non veniva
nessuno?... Cos'era quella cosa che aveva sulle mani?, sangue?
«JOSEPH!»,
lo richiamò Matilde, con una note isterica. «Cos'hai
combinato?!».
«Niente»,
mentì lui, chiudendosi a riccio.
«Joe...»,
non gli credette la venticinquenne, irritata.
«La
legge non ce l'ha con me, ti basti questo. Se fossi stato un
assassino, o un pervertito, puoi essere certa che avrei approfittato
delle lunghe ore in cui hai dormito all'angolo della strada. Ah, e
per inciso, russi. Fidati di me, non ho fatto niente per cui la
polizia debba avercela con me», grugnì il ragazzo,
sincero, fissandola negli occhi.
Matilde
rabbrividì a quell'espressione. Quelli erano gli occhi di un
uomo perduto, chiuso nel suo passato senza riuscire ad uscirne. Quasi
riuscì a vederci riflesso ciò che era accaduto. Quasi.
Lei
annuì e si passò una mano tra i capelli, scoppiando in
una risata cristallina.
«Sono
un po' paranoica, vero?», chiese, scuotendo il capo.
«Un
pochino», ammise il ragazzo, rilassandosi, contento che
l'argomento “Joe-pazzo-maniaco” fosse chiuso.
«Beh,
scusami, ma in Italia rapimenti, maniaci e stupri sono all'ordine del
giorno», riferì Matilde mentre premeva di nuovo il piede
sull'acceleratore e Don't Try Suicide dei Queen ripartiva al
massimo volume.
Joe
colse la palla al balzo facendole altre domande sulla sua terra,
sulla sua vita, sul suo fidanzato, Michele, sui suoi genitori, sul
suo lavoro in una ditta di marketing...
Matilde
rispondeva a tutto con allegria, a volte voltando la testa per
guardarlo. Gli fece anche lei delle domande, sulla scuola, le
compagnie.
«Hai
fratelli?», gli domandò a un certo punto, curiosa.
Joe
si irrigidì, mentre la pelle gli si accapponava.
«Sì.
Due», disse, piano, col tono di uno che vuole chiudere
quell'argomento il prima possibile. Matilde lo capì e si mise
ad elencare le date del viaggio. Ormai si era abituato a quella nuova
realtà, due fratelli, non più tre. Il terzo l'aveva
perso, per colpa sua.
Dopo
il Minnesota voleva andare nel South Carolina, nel Rode Island, e
ancora il New Jersey, il Texas, il Michigan, e anche la California.
«Potresti
farmi da guida a Los Angeles, che dici?», propose,
ridacchiando, scherzando ma non troppo.
Joe
annuì appena, rigido, certo che lui sarebbe sceso da quella
Chevreolet molto prima della California.
Non
avevano ancora parlato dei suoi progetti, a Matilde tutto sommato
piaceva avere qualcuno con cui parlare, senza di lui quel viaggio
sarebbe diventato forse troppo noioso e non aveva intenzione di
chiedergli quando avrebbe dovuto salutarlo. Glie l'avrebbe detto Joe,
come sempre.
«No,
ti prego, lascia», lo supplicò Matilde quando vide che
il ventunenne stava per cambiare canzone. Era Free as a bird,
dei Beatles. «È la mia canzone preferita».
Libero
come un uccello. A Joe sarebbe piaciuto. Completamente libero, senza
dover preoccuparsi del suo passato.
Chiuse
gli occhi, cullato da quella canzone, e non pensò più.
**
«Joe?»,
disse Matilde, scuotendolo piano con le sue piccole mani dalle dita
affusolate, lunghe e bellissime.
Il
ragazzo si riscosse, guardandosi intorno: erano in un parcheggio,
davanti a loro c'era un motel con la scritta luminosa rossa accesa.
«Dove
siamo?», sbadigliò lui, mettendosi la mano davanti alla
bocca e poi tra i capelli già di per sé spettinati.
Matilde
fece un gran sorriso.
«Benvenuto
in Minnesota», sorrise lei, raggiante. «Abbiamo varcato
il confine da pochi minuti, ma sono distrutta, ho dormito poco e male
questa mattina. Prendiamo una stanza qui e rimettiamoci in marcia
domani, ci meritiamo entrambi una dormita come si deve».
Joe
annuì e uscì dall'auto, appoggiandosi sul cofano con
una mano e afferrando il suo ziano. Il parcheggio era semi vuoto.
Entrarono
nel motel l'uno accanto all'altra, quasi sfiorandosi, mentre Joe
montava un falso sorriso stanco sul viso.
«Aspettami
pure lì», gli disse Matilde, indicandogli le scale e
sorridendogli rassicurante. «Faccio io».
Joe
annuì, riconoscente, raggiungendo il posto indicatogli e
appoggiandosi alla parete, braccia incrociate al petto ed espressione
spenta. Gli faceva quasi male riuscire a sorridere. Gli avevano detto
che col tempo il dolore sarebbe passato, quasi fino a sparire del
tutto, ma invece a lui pareva che si acuisse giorno dopo giorno.
Diventava sempre più forte, sempre più insopportabile.
Matilde
tornò poco dopo, sventolando un mazzo di chiavi insieme alla
sua borsa.
«Ho
preso una stanza sola, scusami, altrimenti costava troppo, ma sono
comunque due letti», spiegò velocemente. «Va bene?
Altrimenti...».
«Va
benissimo così», la interruppe Joe, rilassandola. «Che
piano?».
«Primo»,
rispose la venticinquenne. «La colazione possiamo farla qui, ho
fatto il pacchetto completo».
Joe
voleva sorridere vedendola in quello stato, sembrava una
bambina sovreccitata, ma non ci riuscì. Faceva troppo male.
Salirono
ed entrarono in camera. Era spaziosa, stranamente ben arredata, con
due grossi letti ai lati opposti.
Matilde
entrò nel bagno e ne uscì poco dopo, già
cambiata per la nottata con una camicia da notte sobria e
svolazzante. Le fasciava i fianchi esili, sottili e le spalle
fragili. Per un attimo soltanto Joe la trovò bellissima. Bella
come una rosa.
Lui
si era già cambiato, infilandosi un paio di pantaloni della
tuta e una vecchia t-shirt che si era portato per dormire.
Matilde
si infilò sotto le coperte in pochi minuti, spegnendo le luci
eccetto quella sul comodino di lui.
«Buonanotte,
Joe», sospirò, felice.
Il
ventunenne le si avvicinò per guardarla e le sue labbra si
incresparono appena in su, in una specie di sorriso, anche se non lo
era: già dormiva.
La
imitò, seppellendosi sotto strati e strati di coperte,
mettendo una mano sotto il cuscino. Non voleva addormentarsi, di
solito sognava, e faceva degli incubi. Riviveva tutto, ogni
cosa, ogni istante. Ma non riuscì a combattere contro le sue
palpebre che, inevitabilmente, si stavano chiudendo trascinandolo tra
le braccia di Morfeo.
**
«Tempo
dannato», si lamentò Kevin, guardando fuori dal
finestrino dell'auto la pioggia che cadeva scrosciante. Teneva una
mano stretta a quella di Danielle, seduta dietro di lui.
«Non
ci badare», lo rassicurò Joe. «Saremo in hotel in
meno di venti minuti. Perché diavolo abbiamo scelto proprio
Seattle per questo concerto? Non potevamo restare a Los Angeles?»,
si voltò per guardarlo.
«Per
favore, Joe, guarda la strada. Non mi piace che tu guidi con questo
tempo. Vuoi che ci scambiamo?», propose Kevin, preoccupato,
conscio che la guida di suo fratello ventunenne non era mai stata
delle migliori.
«Non
ti fidi di me?», fece il labbruccio Joe, obbedendogli. «E
dai, siamo quasi arrivati...».
Il
ventitreenne annuì, sconfitto, scambiandosi un'occhiata con
Danille.
La
ragazza rise solare, scostandosi i capelli lunghi dagli occhi.
«Stai
tranquillo, amore, Joe non ha preso multe nelle ultime tre settimane,
dagli una chance», disse al marito, stringendo più forte
la mano a Kevin.
«Ecco,
Kev, dammi una chance!», esclamò il ventunenne,
guardando Danielle con il finestrino retrovisore. Era così
bella...
«JOSEPH!»,
strillò Kevin, voltando la testa verso la strada e vedendo un
cane lì in mezzo. Istintivamente Joe sterzò, premendo
il freno. Sentì l'auto scivolare sull'asfalto bagnato, le
grida spaventate di Danielle.
La
macchina si rovesciò su sé stessa, scivolando
sull'acqua.
Joe
gemette sentendo il rumore di acciaio che si piegava fino a rompersi.
Kevin urlava. Danielle strillava.
La
loro corsa si fermò contro a una parete rocciosa che Joe non
sapeva nemmeno da dove fosse comparsa.
All'improvviso
un dolore fortissimo al petto, più grande di qualsiasi cosa
avesse mai provato in vita sua.
Poi
il buio.
Sentiva
a sprazzi una voce femminile che lo chiamava. Danielle? Lo stava
chiamando Danielle? Era così bella, lei, così dolce,
così generosa e solare...
«JOE!»,
gridò Matilde, spaventata.
Il
ventunenne spalancò gli occhi, ansimando, sudato fradicio.
Continua...
Eccomi di nuovo. :3
I capitoli sono piuttosto
sbrigativi essendo una mini-long.
Alla prossima settimana. <3
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Capitolo 3 *** Capitolo 3. ***
Capitolo
3.
Tra
i ricordi cerco una ragione per riuscire a stare meglio, ma poi...
{Chi
Sei Adesso; Gemelli Diversi}
«Oh,
mio Dio, Joe, stai bene?», chiese Matilda, osservandolo
mettersi seduto sul letto, le mani sul viso mentre delle lacrime
silenziose gli rigavano il viso.
La
ragazza, si mise in ginocchio davanti a lui, sfiorandogli un
ginocchio, guardandolo con i grandi occhi spaventati.
Sentirono
un bussare frenetico alla porta.
Matilde
lanciò un'occhiata a Joe e poi corse verso la porta, aprendola
in fretta e furia.
Sull'uscio
c'era il receptionist, un'espressione confusa e allo stesso tempo
spaventata sul viso tondo, mentre una giovane coppia in vestaglia si
teneva per mano lanciando delle occhiate alla venticinquenne.
«Tutto
bene, signorina? Abbiamo sentito delle urla», spiegò il
receptionist, cercando di guardare dentro alla stanza, come per
accertarsi che non fosse stato commesso un omicidio.
Matilde
annuì.
«Sì,
sì... Il mio amico», si voltò per guardarlo un
istante, «il mio amico è caduto e ha sbattuto la testa,
temevo si fosse fatto male ma va tutto bene», mentì
frettolosamente, montando un sorrisetto convinto.
«Ne
è sicura? Volete che vi porti una cassetta del pronto
soccorso? Oppure chiamo un medico?», propose l'uomo, mentre la
coppia si rilassava visibilmente.
«Ma
no, si figuri, il mio amico è una caduta vivente, sta
benissimo glielo assicuro, stia certo che se avremo bisogno la verrò
a chiamare».
Il
receptionist rimase un istante a contemplare gli occhi così
belli e profondi di Matilde, poi si scosse.
«Va
bene. Allora buonanotte, signorina».
«A
lei», ricambiò la ragazza, salutando anche la coppia.
L'uomo
accennò un piccolo inchino e se ne andò, lasciandola
finalmente sola.
Matilde
si chiuse la porta alle spalle, sospirando, poi con piccoli passi
veloci andò in bagno, prese un bicchiere e lo riempì
d'acqua, portandolo poi a Joe, nella stessa identica posizione in cui
era quando se n'era andata.
Il
ventunenne bevve un sorso solo per farla contenta, appoggiando poi
con mano tremante il bicchiere sul comodino.
«Joe,
che è successo? Non ti senti bene?», domandò,
sedendosi accanto a lui e accarezzandogli la schiena, come se fosse
un bambino, nel vano tentativo di dargli un minimo di consolazione.
«No...
Io...», biascicò lui, come se fosse ubriaco, il corpo
scosso da tremiti. «Sì, è solo... un brutto
sogno».
Matilde
socchiuse gli occhi, passandogli un braccio intorno alle spalle e
stringendolo forte. Rimasero immobili per dei minuti che sembrarono
ore, il corpo di Joe che continuava a tremare e lei che gli
sussurrava tenere parole di conforto, come una madre al figlio.
Matilde
attese, attese che Joe parlasse e le dicesse qualcosa, che si
sfogasse. Non per lei, perché era curiosa, ma solo per lui:
vederlo in quello stato la distruggeva.
Pensò
che portarlo con sé in quel viaggio era la migliore e la
peggiore cosa che avesse mai potuto fare nella vita. Forse se non
l'avesse portato con sé si sarebbe tolto la vita, a vederlo in
quello stato non ne sarebbe rimasta sorpresa, ma allo stesso tempo
soffriva quasi fisicamente lei stessa mentre tentava di asciugare
quelle lacrime di un dolore la cui fonte le era sconosciuta.
«Scusami»,
balbettò lui, stringendosi nelle spalle. «Io non...».
«Ssh»,
lo zittì lei. «Piangere fa bene. Sfogati, Joey,
sfogati».
Quel
nome le era salito alle labbra con una naturalezza innaturale; come
la sentì Joe si irrigidì e si alzò di scatto.
«Ti
ho detto di non chiamarmi così. Non chiamarmi così, non
puoi chiamarmi Joey, tu non puoi, era solo un suo
diritto, non puoi, tu...». Parlò così a bassa
voce che Matilde lo sentì appena. Ripeteva “non puoi”
all'infinito. Non puoi, non puoi, non puoi, non puoi, non puoi perché
poteva solo quell'altra persona sconosciuta, quella persona per lui
importante della sua stessa vita.
«Io...
Joseph, scusami, non volevo, mi è scappato», mormorò
la mora, strabuzzando gli occhioni di miele fuso.
Il
ragazzo si accasciò a terra e per un attimo la venticinquenne
fu presa dall'istinto di gridare, credendolo svenuto, salvo poi
accorgersi che si era semplicemente sdraiato a lasciar scorrere le
lacrime che non aveva consumato per l'amore nei confronti di una
persona che non avrebbe mai dimenticato.
Matilde
rimase a guardarlo per qualche minuto, senza sapere che fare, cosa
dire, quando Joe gli voltò definitivamente le spalle, prese la
coperta del letto su cui era seduto e gliela lanciò addosso,
nel vano tentativo di dargli un minimo di calore.
Si
sdraiò sul letto e chiuse gli occhi, tentando di addormentarsi
di nuovo, i singhiozzi del ragazzo che le facevano da ninna nanna.
Avevo
gli occhi aperti […] sentivo una voce chiamarmi, staccarmi via
dal suolo, ma in volo tutto si è spento ed ora resto solo
{Ciò
che poteva essere; Gemelli Diversi}
Matilde
ingoiò un pezzo di toast osservando Joe che guardava la sua
omelette senza nemmeno sfiorarla, gli occhi spenti, arrossati. Occhi
che stavano rivivendo un passato troppo doloroso che, anche solo
parlarne, poteva riaprire una ferita troppo fresca.
«Come
stai?», chiese la venticinquenne facendogli un sorrisetto.
Il
ragazzo annuì senza rispondere.
«Vuoi
restare qui un altro giorno?», domandò conciliante,
pensando che la gita alla bottiglia di ketchup più grande del
mondo poteva essere posticipata di un giorno senza problemi.
Joe
questa volta scosse il capo.
«Non
voglio più stare qui», gracchiò.
«Va
bene, daccordo», accettò la ragazza.
Erano
chiusi in camera, si erano fatti portare la colazione in camera
perché Joe non se la sentiva di scendere.
Matilde
si alzò. «Vado a pagare il conto», disse. «Torno
tra poco».
Continua...
Io
aggiorno alla cavolo, si sa. u.u
Prossimo
e ultimo capitolo a settimana prossima, non so il giorno, ma sarà
la prossima settimana. A quel punto, potrete farmi tutte le domande
che vorrete e insultarmi in quante lingue possibili conoscete. :)
A
presto! <3
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Capitolo 4 *** Capitolo 4. ***
Capitolo
4.
Avevo
gli occhi aperti […]
sentivo
una voce chiamarmi,
staccarmi
via dal suolo, ma in volo tutto si è spento ed ora resto solo
{Ciò
che poteva essere; Gemelli Diversi}
Matilde
aumentò la velocità della macchina, osservando con
allegria la lancetta del contachilometri che sfiorava i centoventi
chilometri allora. Lanciò un'occhiata felice verso Joe, il
quale fece un cenno con il capo in silenzio, osservandola
ridacchiare.
Erano
passati quattro giorni da quella notte nel Minnesota, e da allora non
avevano più toccato l'argomento sulla sua crisi, quel crollo
nervoso che aveva avuto all'improvviso.
Sospirò
e guardò fuori dal finestrino, sentendo il sole battergli sul
viso e riscaldarlo. Per un singolo istante si sentì sereno,
libero da qualsiasi cupo pensiero.
Durò
solo un secondo.
«Prossima
tappa?», domandò, voltandosi di nuovo verso la ragazza,
vestita con una maglietta che le scopriva una spalla gialla limone,
un paio di shorts rossi e degli scarponcini verdi. Una botta
all'occhio.
«Nebraska.»,
disse lei. «Io stimo questo Stato.».
Joe
corrucciò il viso.
«Come
mai?».
«Hai
sentito che nome stupendo? Nebraska. Stima profonda.».
Joe
scosse il capo per quella sua ennesima stranezza, passandosi una mano
tra i capelli corti e poi sul viso, ispido per la barba che non
radeva da qualche giorno per rendere più difficile
riconoscerlo in giro.
Matilde
regolò la piccola radio dell'Impala, girando la manovella
alzando il volume al massimo mentre partiva Eye of the tiger, dei
Survivor.
«Allora,
Joseph, fino a quando avrò l'occasione di poter godere della
tua allegra presenza?»,
domandò la moretta, con una lieve vena di sarcasmo quando
pronunciò la penultima parola.
Il
ventunenne alzò gli occhi al cielo.
«Non
lo so.»,
disse, scrollando le spalle, alternando gli sguardi tra il paesaggio
che li circondava e il viso della ragazza. «Dopo
il Nebraska dove pensi di andare?».
«Georgia.
E poi il North Carolina. Ohio e poi Texas.».
Al
suono dell'ultimo Stato pronunciato Joe rabbrividì: lì
vivevano i suoi genitori e lui voleva rimanere lontano da loro il più
possibile.
«North
Carolina.», disse poi.
Matilde
annuì.
«Ancora
un paio di settimane, all'incirca, dunque.», commentò.
Joe
fece un cenno affermativo con il capo, prima di voltare
definitivamente lo sguardo verso la strada, osservando le centinaia
di macchine che sfilavano accanto a loro, il sole che batteva sul suo
volto, il vento che gli scompigliava i capelli che, pian piano,
stavano diventando sempre più lunghi.
Gli
faceva piacere viaggiare con Matilde, dopotutto. Quella ragazza gli
dava una sensazione strana di sicurezza e protezione.
I
suoi accostamenti colorati con i vestiti gli sarebbero mancati.
La
venticinquenne inforcò con una mano gli occhiali da sole,
tamburellando le dita dell'altra sul volante tenendo il ritmo della
canzone.
Poi,
improvvisamente, iniziò a cantare con quanto fiato aveva in
corpo il ritornello di Eye of the tiger.
Joe
fece un'espressione per metà divertita e per l'altra sorpresa.
«Su,
avanti, canta con me!», lo incitò lei, ridacchiando.
«Magari riuscirai a coprire lo strazio della mia voce,
chissà!».
Joe
scosse il capo.
«No,
dai...», mormorò.
«No
un corno. Suvvia.», e riprese a cantare, facendo addirittura
voltare l'autista di una macchina che stava superando.
Joe
iniziò a canticchiare a bassa voce, ma quando notò
l'occhiata contrariata di Matilde alzò ancora più la
voce.
Fu
come una magia. Da quando c'era stato l'incidente non aveva più
cantato, per lui cantare significava felicità e credeva che da
quel momento in poi avrebbe dovuto dimenticare quella parola. Non
aveva più canticchiato sulla doccia, non aveva più
ripetuto le parole di una canzone nella propria mente. Ed ora,
sentire quelle frasi fluide accompagnate dalla musica del CD uscire
dalla sua bocca... Fu come ritornare quando tutto andava bene, quando
lui non aveva ancora rovinato la vita a tutta la sua famiglia.
Matilde
sorrise vedendolo con un sorriso spontaneo sul viso anche mentre
cantava, gasato, tutta la canzone: la conosceva a memoria.
E
per il minuto e mezzo che rimaneva della canzone, su quella
autostrada c'erano solo loro due, l'Impala, e i Survivor. Matilde non
era una promessa sposa e Joe non era un assassino.
Per
un minuto e mezzo, andò tutto bene.
Quando
la canzone finì e cominciò You give love a
bad name Matilde diede una pacca
con una mano al ragazzo.
«Joe,
non mi avevi detto di saper cantare così bene!», disse
sorpresa. «Sei veramente bravo, sul serio!».
«Grazie.»,
mormorò il ragazzo, appoggiandosi allo schienale del sedile,
con un lieve sorriso sincero.
Il
sole stava tramontando all'orizzonte, il cielo si stava tingendo di
rosso e di giallo, regalando ai due compagni di viaggio uno
spettacolo meraviglioso.
Matilde
fu tentava di fermare la macchina e scattare una fotografia, ma non
lo fece.
«Matilde,
posso farti una domanda?», domandò Joe, senza smettere
di guardare il tramonto.
«Certo,
anche due.».
«Michele,
il tuo fidanzato, ti manca?», chiese.
La
ragazza rimase sorpresa per la domanda, ma rispose comunque.
«Come
l'aria.», disse, con un velo di tristezza. «Perché
me lo chiedi?».
«Viviamo
a stretto contatto da due settimane e non ti ho mai vista al telefono
con lui.», spiegò con semplicità il ventunenne.
«Sì,
è una regola che ci siamo imposti. Non sentirci in alcun modo
per tutto il mio viaggio qui negli Stati Uniti, una specie di prova
finale per capire se veramente vogliamo stare insieme per il resto
della nostra vita. Se riusciamo a stare tutto questo tempo senza
sentire nemmeno la voce l'uno dell'altra senza sentirne la mancanza
vuol dire che c'è qualcosa che non va. E Michele, a me, manca.
Sono sicura che lui sia l'amore della mia vita e, sinceramente, a
volte vorrei che questo viaggio finisse il più presto
possibile.».
Joe
ascoltò attentamente e, per quanto trovasse strana la cosa,
era anche giusta.
Quando
ormai era calato il buio da un bel po' Matilde notò un'insegna
luminosa sull'orlo della strada e girò verso di essa,
parcheggiando di fronte a una piccola locanda simile a quella in cui
si erano incontrati lei e Joe da cui proveniva una musica alta, risa
e chiacchiericci vari.
«Signor
Joseph, questa sera affronteremo una nuova sfida.», commentò
la ragazza, spegnando la macchina e uscendo nell'aria fresca estiva,
afferrando dal sedile posteriore il proprio giacchino di jeans.
Joe
la guardò storta, aprendo la portiera e uscendo anche lui,
seguendola mentre entrava nel bar.
Il
piccolo locale era pieno di gente e nell'aria aleggiava un pesante
odore di fumo e sudore.
Una
zona del luogo era riservata come pista da ballo, poiché
qualche coppia ballava al ritmo della canzone che veniva cantata dal
karaoke dall'altra parte del bar.
«Fermiamoci
qui per un po'.», propose Matilde. «Conosci Its
my life di Bon Jovi?».
Joe
annuì, lievemente spaventato per quello che poteva vagare
nella mente della giovane donna.
«Perfetto!»,
trillò lei, saltellando sul posto. «Karaoke!».
«Neanche
se mi paghi!», esclamò Joe, strabuzzando gli occhi.
«Come? No, no, io non canterò mai qui!».
«Forza,
Joseph! Si tratta di una canzone soltanto!», insistette la
ragazza. «Ti farò compagnia. Ti prego!».
Il
ventunenne la guardò mentre spalancava gli occhi in
un'espressione molto simile a quella di un cucciolo che necessitava
di coccolo e, non riuscendo a resistere, annuì.
«Io
ti adoro, uomo!», fece lei, abbracciandolo di slancio,
lasciandolo basito. «Forza, andiamo.», lo afferrò
per la camicia e lo tirò dietro con sé lungo i corpi
degli altri presenti.
L'uomo
che stava cantando in quel momento una canzone piuttosto vecchia di
Elton John finì poco dopo, tra gli applausi di un gruppo di
amici seduti a un tavolo e di pochi altri.
Non
appena avuto il permesso di uno dei camerieri del locale, Matilde
salì sul piccolo palco accompagnata da un Joe piuttosto
riluttante.
«Ma
buona sera a tutti voi!», trillò, attirando su di sé
gli sguardi di molti. «Bene, io sono Matilde e il qui presente
è il mio amico Joe. E per 'sta sera, solo per 'sta sera,
faremo un'esibizione straordinaria. Godetevi lo spettacolo e
mantenetelo nei vostri ricordi!».
In
parecchi risero, percependo il pesante sarcasmo della ragazza, nel
frattempo Joe aveva selezionato la traccia musicale nell'apparecchio
apposito.
Le
note di Its my life partirono
subito dopo e Matilde e Joe iniziarono a cantare, ognuno con un
proprio microfono.
All'inizio
il ragazzo era intimidito, come poco prima in macchina, ma pian
piano, guardando Matilde e il suo entusiasmo, e come la gente ridesse
guardandola così allegra e felice, lanciata in un balletto
sfrenato, si sciolse.
Ed
era di nuovo su un enorme palco davanti a diecimila persone che
chiamavano il suo nome, quello di Nick e di Kevin. Nicholas suonava
la chitarra, cantando, stregando le fan con la sua voce meravigliosa
e Kevin gli sorrideva, suonando la chitarra come se fosse la sua
stessa vita.
Era
di nuovo Joe Jonas, il pazzo, stupido, un po' idiota Joe. Il ragazzo
solare e sorridente. Il ragazzo stampato sui poster di migliaia di
ragazzine. Era di nuovo un fratello, un amico, un figlio amato.
Si
accorse solo alla fine della canzone, che aveva cantato a pieni
polmoni, che Matilde aveva smesso da molto tempo di cantare con lui e
l'aveva semplicemente osservato, con un gran sorriso compiaciuto,
ballando tenendo il ritmo per fare un minimo di presenza scenica.
Tutte
le persone presente nel locale si erano voltate verso di lui e
applaudivano, lo applaudivano di nuovo.
Joe
sorrise.
«Bis!»,
gridò Matilde, incitando anche gli altri a ripetere lo stesso.
Un
coro che gli credeva di cantare di nuovo si alzò dal palco e
il ventunenne annuì, mentre Matilde, lo abbracciava brevemente
prima di selezionare un'altra canzone: Have a nice day,
sempre di Bon Jovi.
Joe
aspettò lo stacco per iniziare a cantare e riprese. Ringraziò
Matilde mentalmente, per averlo bombardato per due settimane con
quella canzone che ormai conosceva a memoria.
Matilde
batteva le mani a ritmo mentre Joseph cantava, mettendoci animo e
corpo. Furono solo due canzoni, ma sapeva che probabilmente era la
migliore esibizione che avesse mai fatto sino a quel momento.
Quando
anche quella canzone finì scese dal palco, lasciando lo spazio
a un paio di ragazze un po' brille.
Matilde
si avvicinò al bancone del bar e prese un paio di birre in
bottiglia, portandone poi una a Joe, che la aspettava poco lontano.
«Sei
stato fantastico, seriamente.».
«Grazie.
Anche per avermi convinto a fare questa... cosa. Ti ringrazio, di
cuore.».
Matilde
scrollò le spalle.
«È
stato un piacere.».
Le
due ragazze al karaoke stavano intonando una melodia lenta, un po'
malinconica, e in molti si erano avvicinati alla pista da ballo per
ballare uno dei pochi lenti proposti della serata.
«Vuoi
ballare?», propose Joe, con un mezzo sorriso storto.
Matilde
annuì, sorridente, un po' sorpresa.
Si
immersero in mezzo alle altre coppie e, con ancora le birre in mano,
Joe le cinse la vita, mentre Matilde il collo.
Si
dondolavano piano, in una danza più simile a quella del
mattone che altro.
Joe
sospirò guardandola, un groppo in gola.
«Ero
innamorato della moglie di mio fratello maggiore.», cominciò,
sentendo subito gli occhi farsi umidi.
Matilde
lo guardò, presentandogli subito attenzione.
«A
dire il vero, lo sono ancora. Lei era... una persona meravigliosa,
capisci? Danielle era vera, sincera, una delle poche persone che mai
si sarebbero approfittate di me, ed era di una bellezza incredibile.
La conobbi quando ero solo un ragazzino, in vacanza con i miei
fratelli. Credo di averla amata da quel momento. Ma lei iniziò
a uscire con Kevin, mio fratello maggiore. E nonostante mi piangesse
il cuore ogni volta che li vedevo, dovevo ammettere che erano
perfetti. Due tasselli di un puzzle.».
«Due
anni dopo essersi messi insieme, Kevin le propose di sposarla. E lei
accettò. Si sposarono, ed io feci da testimone di nozze a mio
fratello, insieme a Nicholas, mio fratello minore. Prima della
cerimonia avevo intenzione di dire a Danielle ciò che provavo
per lei, pensavo che magari sarebbe andata a finire come in quelle
stupide commedie romantiche, in cui alla fine la ragazza è
sempre stata innamorata del testimone di nozze e vissero per sempre
felici e contenti. Ma non potevo fare una cosa del genere a Kevin.
Lui... lui è una delle persone più importanti della mia
vita, non avrei mai potuto fargli una cosa simile, strappargli
l'amore della sua vita...».
Matilde
lo guardò a lungo, sentendo una stretta al cuore, conscia che
la tragedia vera e propria era dietro l'angolo.
«Ho
frequentato altre ragazze, sono stato felice con alcune di loro, ma
sapevo che non sarebbe stato lo stesso che con Danielle...»,
deglutì. «Due mesi fa, ero a Seattle con la mia
famiglia. Una sera, poco dopo il nostro arrivo, pioveva, ovviamente,
e in macchina c'eravamo solo
Dani, Kevin ed io. Stavo guidando, lei era seduta sul sedile
posteriore, mi sono distratto un secondo a guardarla con lo
specchietto a retrovisore... e... e non ho visto un cane in mezzo
alla strada. Quando Kevin me l'ha detto, ho sterzato, la macchina è
scivolata sull'acqua e si è ribaltata».
Delle
lacrime gli rigavano il volto mentre raccontava e Matilde lo strinse
a sé, cullandolo dolcemente come se fosse stato un bambino.
«Non
mi ricordo molto di ciò che accadde.», ricominciò.
Aveva il bisogno di sfogarsi, di dire ciò che lo opprimeva
come un macigno. «So solo che il volante mi aveva fracassato lo
sterno e che non sono morto per un soffio. Fu Kevin a tirarmi fuori
dall'auto, era l'unico che riuscisse a stare in piedi, mi ha tirato
fuori e poi è andato a prendere Danielle.».
Le
immagini di quei momenti gli comparvero di fronte come un'orribile
film, come se la sua memoria avesse deciso di sbloccarsi in
quell'istante. Avrebbe preferito non accadesse mai.
Joe
era steso a terra, l'asfalto bagnato sotto di sé e la pioggia
scrosciante che lo bagnava completamente. Non riusciva a muovere un
muscolo e anche solo gemere gli procurava un dolore indefinibile al
petto. La vista era sfuocata, ma riusciva comunque a vedere il rosso
che gli bagnava la maglietta.
La
figura tremante di Kevin sopra di lui riuscì a riscuoterlo per
qualche istante.
«Joe?
Joe, ti prego, rispondimi. Joe! Joe resisti. Ti supplico, ti prego
Joe, resisti!», urlava il ventitreenne, ma al moro arrivava
solo un suono ovattato.
«Torno
subito, Joe. Joe, arrivo. Ti prego, resta con me, resta
con me.». Lo vide allontanarsi, fino a sparire dalla
sua vista. Cercò di dirgli di chiamare aiuto, e provò a
voltare lo sguardo per cercare lei.
Danielle.
«Da...»,
ansimò, ma dovette zittirsi prima di poter finire perché
il dolore si era fatto talmente forte da mozzargli il fiato.
Ebbe
la terribile consapevolezza di sapere che stava per morire.
Poco
dopo la figura sfuocata di Kevin tornò, e tra le braccia
teneva il corpo esanime di Danielle.
Kevin
appoggiò la moglie a terra, vicino a Joe.
«Amore?
Dani? Mi senti, amore? Ci sei...?». Kevin piangeva. Da quanto
tempo Joe non lo vedeva piangere di tristezza?
Joe
per un istante trattenne il fiato e pensò di perdere i sensi.
Lei non poteva essere... no, lei non poteva, lei non era sicuramente
morta...
«Kev.»,
disse la voce flebile di Danielle.
«Amore.
Amore stai bene? Dove ti fa male?», chiese Kevin con voce
spezzata, ma un nuovo sollievo nel proprio tono.
«Sto
bene.», mormorò la ragazza.
«Sei
sicura?».
Danielle
annuì con una smorfia. Anche Joe riuscì a percepire che
mentiva, cercò di dirglielo ma non ci riuscì.
La
ventiquattrenne allungò una mano verso Joe e la ritrasse
coperta di sangue.
«Joe...?»,
fece con tono spezzato. «Oh mio dio, Joe!».
Kevin
si spostò e si allungò verso il fratello, completamente
zuppo, il volto bagnato sia da lacrime che gocce di pioggia.
«Joe,
guardami. Non devi chiudere gli occhi, va bene? Siamo qui, tra poco
arriverà qualcuno e ci tirerà fuori dai guai, hai
capito? Avanti Joe, sei il mio fratellino, non puoi lasciarci così.».
«Fa...
male...», sussurrò il ragazzo, con tono spezzato,
scoprendo si star piangendo anche lui.
«Lo
so, lo so. Joe, dobbiamo bloccare l'emorragia, ora. Resta con me,
okay? Stai qui con noi.».
Il
ventunenne lo vide sfilarsi la giaccia e far pressione sul suo petto,
mozzandogli il fiato per il dolore.
Voltò
lo sguardo verso Danielle, che pian piano si stava issando sui gomiti
per avvicinarsi a lui e non appena ci riuscì gli prese la
mano, stringendola forte.
«Stai
qui con me, Joey, okay? Guardami.».
E
Joe la guardò: anche in quel momento, con un taglio sulla
tempia che delineava una lieve striscia rossa di sangue, i capelli
bagnati, il trucco sbavato, i vestiti strappati e lo sguardo pallido
e disperato la trovò bellissima.
Un
paio di luci li illuminarono, sentì Kevin alzarsi e iniziare a
gridare qualcosa, sentì Danielle stringergli la mano con più
forza.
«E'
arrivato qualcuno, ora chiameremo un ambulanza, Joey, e tu starai
bene. Forza, Joey, forza.», gli baciò la mano che gli
teneva. «Stai con me. Resta qui con me.».
Joe
ricambiò la stretta che la ragazza gli porgeva e chiuse gli
occhi.
«Oh,
mio Dio.», mormorò Matilde, iniziando anche lei a
lacrimare lievemente solo immaginando ciò che quel ragazzo
doveva aver passato.
«Mi
hanno strappato alla morte per un soffio. All'inizio si pensava
avessi bisogno di un trapianto di cuore, ma non è stato
necessario. Sono rimasto in coma per tre giorni. Quando mi sono
svegliato... Avrei preferito rimanere incosciente.».
Matilde
percepì ciò che Joe le stava per dire.
«Dani...
Dani era morta. Lei... lei aveva un'emorragia interna che è
stata scoperta troppo tardi e non è... l'operazione... non
l'ha superata.». Stava piangendo, come quella notte.
«Kevin
aveva semplicemente sbattuto la testa e stava bene. In senso fisico,
almeno, o forse nemmeno dopo che Danielle è...», si
zittì, senza riuscire a ripeterlo.
«E
gliel'ho detto. Gli ho detto che ero innamorato di lei. Che avrei
voluto averla sposata io, non so perché lo feci, forse era
l'effetto degli antidolorifici. Abbiamo litigato, e lui mi ha detto
che era tutta colpa mia se lei era morta, che era tutta dannatamente
colpa mia. Mi ha detto che ero un assassino, che si sentiva tradito
da me.». Trattenne il fiato. «Mi ha detto che non dovevo
più considerarlo mio fratello, perché per lui io non
ero altro che l'assassino di sua moglie.».
«Joe...
Era fuori di sé per il dolore. Sua moglie era appena morta...
sono sicura che non lo pensava veramente. Sei suo fratello, Joe, non
si può decidere di non esserlo più. Lui ti vuole bene,
e sono certa che sia pentito di ciò che ti ha detto.».
«Tu
non c'eri.», mormorò il ragazzo. «Tu non eri lì,
era così convinto, così distrutto... Lui lo diceva
veramente.».
«Sono
sicura non sia così.», disse Matilde, con tono convinto.
La
canzone lenta era finita da molto, ma loro due erano ancora nella
stessa identica posizione.
«È
per questo che sei scappato?», domandò poi, a bassa
voce, facendo alzare lo sguardo a Joe.
«C...
come?».
«Pensi
che non abbia capito che sei scappato di casa e che tutti ti stanno
cercando?», domandò. «Non sono una stupida, Joe.».
«Non
volevo dirtelo.».
«Non
importa. Non mi interessa se non me l'hai voluto dire. Ma, Joe, tu
devi tornare a casa, lo sai questo, sì? Non mi guardare
così.», aggiunse, notando lo sguardo disperato del
ragazzo. «Joseph, hai una vita meravigliosa che ti aspetta, una
famiglia che ti aspetta, migliaia di fan che chiamano il tuo nome a
gran voce...».
Quello
non se lo aspettava. Il cantante aprì la bocca, sbalordito, e
in cambio ricevette semplicemente il sorriso aperto di Matilde.
«Non
ti ho riconosciuto subito, lo ammetto. Ci ho messo qualche giorno a
ricordare in te il ragazzo che vedevo nei cartelloni pubblicitari in
giro per Torino nel 2009. Ma sei tu, non è vero, Joseph Jonas?
E hai una vita invidiabile. Con Kevin si risolverà tutto, lo
so. Devi solo tornare a casa, devi dare a te stesso una seconda
possibilità. Ma per ritornare alla tua vecchia vita devi
ficcarti bene in quella testa vuota una cosa: non è stata
colpa tua. Okay? Nonostante ciò che potrai mai leggere o
sentirti dire non è colpa tua se Danielle non è più
qui. Non è colpa tua se a Seattle piove, o se quel cane stava
attraversando la strada. Niente di ciò che è
avvenuto è stata colpa tua. Devi capirlo, seriamente, prima di
poter pensare di tornare alla tua vecchia vita, okay?».
Joe
annuì, le lacrime che ancora gli rigavano il volto.
«Mati...».
«Non
dire niente.», gli sorrise lei, e gli diede un bacio vicino
all'angolo della bocca, asciugandogli una lacrima. «Non dire
niente.».
Siamo
gocce di un passato che non può più tornare, questo
tempo ci ha tradito.
{Gocce
di memoria; Giorgia}
Joe
si svegliò improvvisamente in un letto che, di sicuro, non era
il suo. Si mise seduto sul materasso una volta essersi districato da
tutte le coperte che lo avvolgevano e si passò una mano tra i
capelli.
Lanciò
un'occhiata in giro per la stanza, riconoscendo le pareti e
l'arredamento sobrio della piccola stanza di motel che aveva preso in
Nevada.
Scese
di corsa dal letto, rischiando quasi di cadere per terra nella
fretta. Com'era tornato in Nevada, dal confine con il Nebraska?
Dov'era Matilde?
Si
guardò intorno, ma nulla lasciava presumere che la ragazza
fosse o fosse stata lì.
Non
era possibile, doveva essere un sogno, lui era in un bar vicino al
Nebraska dove si cantava il karaoke; perché era tornato nel
luogo in cui aveva cominciato il suo strano viaggio con quella
stramba ragazza chiamata Matilde?
Si
disse di restare calmo, mentre riordinava le idee. Poco prima stava
raccontando ciò che era accaduto durante l'incidente a
Seattle, e subito dopo si svegliava in un letto, a centinaia e
centinaia di chilometri di distanza.
Possibile
che fosse stato tutto un sogno?
Scosse
il capo. Era sembrato tutto così reale, così vero, non
poteva essere stato tutto falso, tutto solo uno stupido sogno.
Si
passò la mano laddove Matilde gli aveva lasciato un leggero
bacio a stampo, vicino all'angolo della bocca, e sembrò di
sentire il profumo di rosa della ragazza.
No,
non era stato un sogno, la sensazione di quel contatto era reale. Non
era stata una finzione.
Oppure
sì?
Possibile
che avesse dimenticato di essere tornato indietro sino in Nevada?
Scosse
il capo, cercando di ricordare, sinché non vide il suo iPhone
appoggiato su un armadio.
Come
un automa, lo afferrò e lo accese, inserendo il codice PIN. Lo
sfondo lo accolse come un colpo al cuore: un'immagine di lui, Nick e
Kevin stretti in un abbraccio durante un pomeriggio libero dal
lavoro, scattata da Danielle a sorpresa.
Sorrise,
guardando la propria immagine sorridente stretta tra i suoi due
fratelli. Pochi istanti dopo sullo schermo comparve l'avviso
di un centinaio di chiamate perse e un numero indefinito tra sms e
messaggi vocali lasciati in segreteria.
Ancora
prima che potesse aprirne uno la suoneria iniziò a suonare e
la scritta “Kevin” lampeggiò. Il cuore parve
fermarsi qualche istante per la sorpresa.
Con
dita tremanti accettò la chiamata e si portò il
telefono all'orecchio.
«...Pronto?»,
mormorò, il tono gracchiante.
«JOE!»,
urlò dall'altra parte la voce sollevata di Kevin. «Oddio,
Joseph, finalmente. Senti, mi dispiace, non avrei mai dovuto dirti
quelle cose, non è stata colpa tua. E lo sapevo, sapevo che
eri innamorato di Danielle, lo sapevo, e ne avremmo dovuto parlare
prima. Dannazione, era da quando l'abbiamo vista la prima volta che
sapevo che provavi qualcosa per lei, ma sono stato egoista e non ho
voluto parlartene. E l'incidente... non è stata in alcun modo
colpa tua. Non è stata colpa tua. Tu non c'entri, dico sul
serio, Joe. Ti prego, scusami. Io ti voglio bene, Joe, sei mio
fratello, sei il mio migliore amico, scusami, scusami davvero, non
volevo dirti quelle cose. Stai bene? Dove sei?».
Joe
guardò fuori dalla finestra e gli parve di vedere uscire dal
parcheggio del motel un'Impala Chevreolet del '67 nera. Sorrise.
«Sto
tornando a casa.»
Comunque
vada io mai mi scorderò di te.
{Ciò
che poteva essere; Gemelli Diversi}
E'
già finita. Ebbene sì.
Prima
di tutto, onde evitare critiche o accuse riguardo questo (di questi
tempi...) io non auguro in qualunque modo che possa succedere una
cosa simile a Danielle, Joe o Kevin Jonas, tutto ciò che è
accaduto in questa fanfiction è stato scritto non per poter
condividere un qualche specie di odio nei confronti di Danielle ma
per puro hobby. Danielle personalmente io l'adoro e credo sia
meravigliosa.
Detto
questo, stop. Questa fic non ha avuto molto successo in fattore
recensioni, ma... Va beh, chissenefrega, io scrivo perché mi
piace, se voi leggete è perché vi fa piacere (oppure
volete farvi quattro sane risate dietro le mie idee strampalate. ;D),
se mi lasciate una riga di commento mi fate un favore, se non è
così vivrò comunque. :)
Ringrazio
infinitamente le persone che hanno recensito, comunque, grazie. *w*
Alla
prossima (ovvero al capitolo di I'm
Only Me When I'm With You
che sto per postare). Olive &
An Arrow pensò potrei
pubblicarlo durante queste vacanze di Pasqua, ma non lo so, dipende
dal tempo.
Vi
manderò un saluto caloroso da Londra. **
Grazie
a tutti, chi a letto, chi ha recensito, chi ha messo questa storia
tra i preferiti, le seguite e le ricordate! <3
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