Kiss From a Rose

di Maggie_Lullaby
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4. ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1. ***


Kiss From A Rose


Capitolo 1.

 


Certe notti la macchina è calda e dove ti porta lo decide lei.

Certe notti la strada non conta, quello che conta è sentire che vai.

Certe notti la radio che passa sembra aver capito chi sei.

[…] I locali a cui dai del tu.

[…] Non si può restare soli, certe notti.

{Certe Notti; Ligabue}


«Il cantante Joseph Jonas è scomparso da quattro giorni. Le autorità sono alla ricerca del ragazzo, che pare essere scappato dopo l'incidente che l'ha coinvolto giorni fa. La famiglia si sta mobilitando in ogni modo per riportarlo a casa e gli chiedono, nel caso stia ascoltando questo messaggio, di tornare dal loro il prima possibile. L'incidente, causa della sua scomparsa, è avvenuto diciassette giorni fa, conseguito con il decesso di...». Joe spense il televisore e lanciò il telecomando dall'altra parte della stanza, dove cadde sul tappeto con un tonfo sordo.

Si nascose la testa tra le mani, dondolandosi in avanti e indietro sul letto a una piazza, nella piccola stanza del motel in cui stava alloggiando.

«È colpa mia, è colpa mia...», continuò a ripetersi, in un sussurro fioco appena percepibile. Alzò un poco lo sguardo sull'unica finestra della camera, affacciata nel parcheggio semi vuoto del motel, illuminato da qualche auto e dal bar dall'altra parte della strada, da dove proveniva una musica alta, chiacchiericci e risa divertite.

Si alzò, come un automa, e afferrò il giubbotto di jeans, l'unico che si era portato dietro da casa, e uscì sbattendosi la porta alle spalle, senza preoccuparsi di chiuderla o meno a chiave; se anche fosse entrato qualcuno per rubargli qualcosa non gli sarebbe importato, l'unica cosa che davvero gli importava la teneva nella tasca del giubbotto, appoggiata sul cuore. Lì dove doveva stare.

Si spettinò i capelli con una mano mentre entrava nel bar dalle luci soffuse, tenendo il capo chino. Gesto inutile, nessuno in un bar lungo un'anonima superstrada del Nevada l'avrebbe mai riconosciuto come Joe Jonas, il ragazzo scomparso.

Correzione: scappato.

Si sedette su uno sgabello, guardando con la coda dell'occhio gli altri clienti, per lo più interessati al tavolo da biliardo, dove stavano facendo varie scommesse su chi avrebbe vinto e con quanto margine di vantaggio.

«Cosa ti porto?», gli domandò una cameriera dai corti capelli tinti di biondo e un sorriso esausto sul volto giovane, un grembiule nero stretto intorno alla vita.

«Una vodka, senza ghiaccio», rispose Joe, senza guardarla negli occhi e mantenendo la sua attenzione sulla fila di alcolici dietro di lei.

La cameriera annuì e sparì per qualche istante nel retro, tornando con un grosso bicchiere e una bottiglia di vetro vuota a metà.

Non gli domandò i documenti, forse perché davvero dimostrava ventun anni finalmente, o forse perché dalla sua espressione aveva capito che ne aveva davvero bisogno. Magari se nera solo dimenticata, o non le importava, chissà.

Joe guardò il liquido scivolare nel bicchiere, con desiderio, e ne tracannò un sorso non appena la ragazza si fu allontanata. Doveva avere una ventina d'anni, non molti di più.

Si pulì la bocca con il dorso della mano e continuò a bere piano, sentendo il liquido bruciargli la gola. Non era abituato a bere così tanto, aveva cominciato da qualche giorno, non appena era uscito dall'ospedale.

Grugnì quando il bicchiere fu vuoto e fece cenno alla cameriera di riempirglielo di nuovo. Lei ubbidì e tornò a parlare con un gruppo di motociclisti appena arrivato, ridendo; evidentemente li conosceva, non doveva essere la prima volta che si fermavano da quelle parti.

Finì di bere in pochi secondi. La terra aveva già preso a girare intorno a lui, ma sapeva che avrebbe dovuto bere ancora molto prima di riuscire a smettere di pensare.

Smettere di pensare alle grida di quella sera, alle urla di dolore di suo fratello, alle sue, i gemiti di paura, le richieste di un aiuto che tardava ad arrivare. Smettere di pensare alle sue mani imbrattate di sangue, suo fratello che aveva smesso di gridare, lei che non parlava più. Smettere di pensare, poi, alla corsa in ospedale con l'elicottero, il buio, il silenzio, il dolore, le iniezioni e di nuovo il buio. Smettere di pensare alla notizia.

Ed era stata colpa tutta di Joe. Tutta sua, come continuava a ripetersi, sua che non aveva visto quello stupido cane in mezzo alla strada. Era colpa sua se non c'era più.

Trattenne il fiato mentre una morsa gli artigliava le viscere e sentiva il respiro venirgli meno.

La ragazza, che stava ripassando lì davanti, interpretò quel verso come una richiesta di altra vodka e gli prese il bicchiere, versando altro liquido chiaro.

Joe non la ringraziò e bevve mentre le immagini di quel giorno gli affollavano la mente come un filmino in cui non si poteva premere il tasto stop o, peggio, cancel.

«Lasciatelo dire, amico, hai proprio una brutta cera», commentò una voce alla sua sinistra.

Il ventunenne alzò il capo e volto la testa verso la ragazza che stava parlando al suo fianco, con una smorfia sorpresa e perplessa.

La ragazza doveva avere al massimo venticinque anni, dai capelli corti e mori, gli occhi grandi e di un castano particolare, come miele fuso. Era alta e dal fisico esile.

Joe non rispose a quelle parole.

«So che starai pensando», continuò la sconosciuta. «Chi è 'sta pazza, e che vuole dalla mia vita?! Beh, scusa se ti importuno, ma è una serata particolarmente noiosa e non c'è nessuno di interessante con cui parlare. Tu non mi pari un matto maniaco pervertito quindi mi sono detta, perchè no? Comunque, piacere, io sono Matilde», gli porse la mano, senza aspettarsi davvero che lui la stringesse.

Joe annuì ma ignorò la mano, come da copione.

Matilde lo guardò a lungo, annuendo piano.

«Sai, a questo punto dovresti presentarti anche tu», lo informò, con un sorrisetto divertito sul viso affilato.

Il ragazzo alzò gli occhi al cielo prima di posarli nei suoi, irritato.

«Scusami, Matilde, ma non sono in vena di far chiacchiere. Non sono la persona adatta per passare un'allegra serata in compagnia», riferì nervosamente, bevendo un altro sorso di vodka.

La ragazza incrociò le braccia al petto e continuò a fissarlo, con gli occhi fastidiosamente puntati sul suo viso.

Joe la guardò di sottecchi e si sentì imprecare.

«Che cosa vuoi?!», sbottò.

«Parlare, ti ho detto. Scusa se ti disturbo, ma cinque minuti non ti uccideranno di certo», commentò, sedendoglisi accanto, «anzi, potrebbero addirittura farti bene!».

Il ragazzo sbottò un'imprecazione, guardandola storta.

«Sei il ritratto della simpatia!», rise Matilde, ordinando una birra alla cameriera che, esausta, continuava a fare avanti e indietro.

«E tu della timidezza», fece Joe, inarcando un sopracciglio. Sentiva l'alcool iniziare ad andare in circolo nel suo corpo, mentre il suo mondo iniziava ad essere a colori.

Matilde annuì.

«Dai, solo cinque minuti», lo supplicò ancora, sbattendo gli occhi grandi e montando sul viso un'espressione da cucciolo bastonato che lo fece sorridere appena. «Da noi in Italia c'è un cantante che dice: “non si può restare soli, certe notti”

«Solo cinque», cedette Joe, a quelle parole. Matilde batté le mani contenta. «Dunque, sei italiana», cominciò, incerto. Non sapeva cosa dire, era come se avesse smesso di sapere come si chiacchierava con la gente.

Matilde annuì, scostandosi i capelli dal viso diafano e struccato.

«Di Torino», specificò, vedendolo in difficoltà. «E tu?».

«Los Angeles», rispose automaticamente, pentendosene subito e mordendosi il labbro inferiore con forza, quasi fino a farlo sanguinare.

«Wow, Los Angeles, la Città degli Angeli! Cosa sei, un attore? Un cantante?», scherzò la ragazza, bevendo un sorso di birra.

«Niente del genere», mentì il ragazzo, prontamente. Non voleva che lei sapesse della sua vita, della sua vecchia vita. Sospirò amareggiato e chinò il capo sul bancone lucido, sentendo gli occhi appannarsi, e non era per l'alcool.

Matilde non se ne accorse, o per lo meno finse saggiamente di non averlo visto, continuando a parlare a vanvera.

Joe si passò una mano sugli occhi, asciugandoseli e la fissò. Non riusciva a credere che una persona potesse parlare tanto, doveva essere ubriaca, o aver assunto qualche strana sostanza stupefacente.

«Tu sei tutta matta», mormorò quando Matilde iniziò a parlare di alieni e di vampiri.

Lei corrucciò il viso e fece il labbruccio, incrociando le braccia al petto.

«Mi ritengo offesa. Te ne sei accorto solo ora?». Scoppiò a ridere, cristallina.

E per un attimo Joseph la invidiò per la sua capacità di riuscire a ridere anche dopo ciò che a lui era successo, anche se probabilmente lei nemmeno lo immaginava, o forse lo sapeva ma non le importava.

Lui accennò un piccolo sorriso, come per scusarsi, senza sapere che altro aggiungere.

«Cosa ci fai qui da Torino?», domandò Joe, dopo minuti di silenzio duranti i quali Matilde finì di bere la sua birra e lui guardava la cameriera fare avanti e indietro, indeciso se chiederle altra vodka.

La ragazza scrollò le spalle, alzando le sopracciglia.

«Tra tre mesi mi sposo», spiegò, tranquilla, senza nascondere un sorriso felice.

«E?».

«E questa è il mio addio al nubilato, tre settimane in vacanza on the road in giro per tutti gli Stati Uniti, solo io, la strada, e la mia macchina. Il mio sogno». Nei suoi occhi Joe riuscì a cogliere un debole barlume di felicità.

Quelle parole lo colsero di sorpresa. Quella strana ragazza era in partenza per tutti gli Stati Uniti, solo con la macchina, ciò significava che non doveva mostrare documenti e passaporti all'aeroporto per andarsene o altro. Era completamente libera. E a lui quella libertà serviva.

Quando era scappato dell'ospedale si era portato dietro soltanto i soldi che erano nel suo portafoglio, senza contare le carte di credito. Aveva ritirato tutto quello che poteva al primo bancomat disponibile ma ormai gli restavano un paio di centinaia di dollari, troppo pochi per affrontare un viaggio e rifarsi una vita. E se avesse prelevato altro denaro avrebbero potuto capire dove si trovava. Maledì la tecnologia per l'ennesima volta.

«Interessante», ammise. «E dove sei diretta, ora?».

Matilde parve felice che fosse finalmente lui a fare le domande, e non dovesse essere lei a incitarlo.

«Idaho», rispose, contenta. Guardò l'orologio che aveva al polso. «Anzi, è meglio che vada».

«...Come?», esclamò lui, sorpreso vedendola alzarsi e abbandonare cinque dollari sul bancone, prontamente presi dalla cameriera. «Te ne vai?».

«Sì», annuì la mora. «Preferisco muovermi la notte, c'è meno traffico ed è tutto...», sospirò, «tutto più tranquillo, più calmo. Posso andare alla velocità che voglio!». Rise ancora.

Joe la fissò ad occhi sgranati, mentre la mascella gli cadeva.

«Che c'è?», domandò lei, perplessa vedendolo con quell'espressione e corrugò la fronte, mentre una ruga di concentrazione le rigava il viso.

Il ventunenne lanciò un'occhiata a lei e al bicchiere di vodka, a Matilde ed infine alla porta del bar.

«Posso venire con te?», domandò infine, alzandosi anche lui dallo sgabello.

«Come?!», fece Matilde, gli occhi spalancati dalla sorpresa. «Non mi conosci nemmeno...».

«Non mi importa, hai una macchina e te ne stai andando, è ciò che mi interessa. Posso pagarti, ho circa duecento dollari, spero ti possano bastare», spiegò lui a raffica, determinato come non lo era da troppo tempo.

Matilde lo guardò, muovendo la testa in diagonale, come per osservarlo meglio; guardò la luce nuova che si era impadronita dei suoi occhi, i pugni serrati e le nocche bianche, l'espressione determinata.

E, prima che lui potesse aggiungere altro, annuì piano.

«Non mi interessano i soldi», chiarì immediatamente, «ma sarà un viaggio ancora più avventuroso di quanto mi aspettassi! La ragazza fuori di testa che raccatta un tipo tenebroso e misterioso in un bar su un'autostrada e cominciano un viaggio pieno di insidie», rise. «Devo almeno sapere il tuo nome, Signor Sconosciuto».

Joe annuì, mentre un sorriso di soddisfazione gli solcava il viso.

«Joseph», rispose.

Matilde non si aspettava di sapere anche il suo cognome e sorrise quando scoprì che aveva ragione.

«Bene, Joey...», iniziò.

«Joe», la corresse il ragazzo, mentre il cuore cominciava a battere all'impazzata. «Per favore, chiamami Joe».

La mora alzò le sopracciglia, stupita da quella strana richiesta, e annuì scrollando le spalle.

«Joe, allora. Vai a prendere la tua roba, ti aspetto nel parcheggio» e con quella parole uscì dal locale, con una camminata felina, silenziosa.

Il ventunenne lasciò dieci dollari alla cameriera, sempre più stanca, e corse fuori dal bar il più velocemente possibile, spaventato che quella strana ragazza se ne potesse andare lasciandolo lì.

Per arrivare sino al Nevada aveva utilizzato la moto che gli avevano regalato per i diciannove anni, che utilizzava raramente, ma ora che tutti lo stavano cercando qualcuno avrebbe potuto riconoscere la targa. Non gli importava di lasciarla a prendere polvere in un parcheggio, ormai non gli importava più di niente.

Entrò con la forza di un uragano nella sua stanza e recuperò lo zaino in cui aveva le sue – poche – cose, si assicurò di avere il portafogli in tasca e restò qualche istante a guardare il suo iPhone appoggiato sul comodino. I suoi genitori non facevano che chiamarlo, mandargli messaggi, lasciargli suppliche di tornare a casa sulla segreteria, ma lui non rispondeva mai. Ormai lo teneva spento, eppure lo considerava come l'unico oggetto che lo poteva tenere in contatto con la sua famiglia. Lo afferrò e se lo infilò in tasca, uscendo sbattendosi la porta alle spalle.

Matilde lo aspettava con le braccia incrociate, uno zaino a tracolla colorato e un paio di chiavi in mano, appoggiata a un auto scura.

«Pronto?», fece, dondolando davanti ai suoi occhi le chiavi dell'auto.

Joe annuì, lanciando un'ultima occhiata alla sua moto.

Matilde capì ma non disse nulla. Era del parere che se avesse voluto parlarle di lui l'avrebbe fatto, altrimenti sarebbe riuscita a vivere tranquillamente anche senza simili informazioni.

«Joe, lei è la mia piccola», sorrise la ragazza, indicando la macchina su cui si era appoggiata.

Joe la osservò, era una macchina vecchia, nera, ma ben tenuta. Non riconosceva la marca.

«Aah, la mia Impala, Chevreolet del '67», sospirò armoniosa. «Mi è costata un occhio della testa quindi non osare rovinarmela, va bene? Sei avvertito che non la potrai mai guidare». Bensì il suo tono fosse scherzoso Joe percepì la minaccia.

Alzò le mani, in segno di resa.

«Sissignora», ubbidì.

Matilde sorrise e ed entrò in auto, accarezzando il volante.

Joseph fece un sospiro profondo; non avrebbe guidato comunque, non dopo quello che aveva combinato... e dopo quello che era successo.

Scosse il capo e si sedette accanto a Matilde, osservando l'interno della macchina.

«Ami il rock degli anni '70, vero?», gli domandò lei, infilandosi una felpa a patchwork.

Joe annuì.

«Bene, perché ascolto solo quello», spiegò, sorridente. Infilò le chiavi nel quadro e le girò. Un rombo come di fusa partì da sotto di loro, facendo ridere Matilde.

«Sei sicuro, Joseph?», chiese per un'ultima volta, questa volta seria.

Joe la guardò, e non aveva dubbi nella sua mente.

«Parti», le ordinò.

La ragazza fece un respiro profondo, guardò lo specchietto e ingranò la marcia.


Continua...


Prima che possiate dire qualsiasi cosa, sì, sono tornata. Sono scomparsa da questo fandom da mesi, me ne rendo conto, ma l'ispirazione per I'm Only Me When I'm With You è andata a farsi benedire; a dire il vero tre o quattro capitoli pronti li avrei, ma vorrei scriverne un altro paio prima di ricominciare a postare regolarmente. Se va tutto bene, dovrei postare tra due settimane il dodicesimo capitolo, ma non prometto nulla.

Questa è una mini-long, avrà quattro capitoli che ho già concluso, poiché l'ho iniziata a scrivere la scorsa estate, ma forse la allungherò a cinque. È una storia drammatica, siete avvertite.

Il settimo capitolo di Olive & An Arrow non l'ho nemmeno cominciato a scrivere, ma credo approfitterò delle vacanze di Carnevale nei prossimi giorni per buttare giù qualcosa, sempre che l'Ispirazione mi assista. *guarda il cielo e lo supplica*

Nel frattempo, posterò questa fanfiction, una volta alla settimana, tutti i mercoledì.

Spero mi facciate sapere ciò che pensate di questa fic, commenti sia negativi che positivi sono ben accetti.

Il personaggio di Joe Jonas e relativi familiari non mi appartengono. Tutti gli altri personaggi, invece, sono una mia invenzione e mi appartengono in quanto tale. Questa storia non è stata scritta a fini di lucro.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2. ***


Capitolo 2.


Paura di decidere, paura di me.

Di tutto quello che non so, di tutto quello che non ho,

eppure sentire nei sogni in fondo a un pianto,

nei giorni di silenzio c'è un senso di te.

{Eppure sentire; Elisa}


«Così non possiamo andare avanti», chiarì Matilde, seccata, parcheggiando l'Impala a un angolo dell'autostrada e fissando Joe dritto negli occhi. «Si può sapere che hai?».

Erano in viaggio da tre giorni, tre giorni duranti i quali avevano sostato per dormire solamente negli spazi dell'S.O.S. e fermati per brevi soste negli autogrill sparsi dovunque. Nell'ultimo in cui erano entrati per mangiare un panino Joe aveva notato la sua faccia schiaffata in prima pagina di un giornale vicino a Matilde, accompagnata dalla scritta “Ragazzo Scomparso”. Prima che la ragazza potesse anche dare il primo morso al suo panino l'aveva afferrata e trascinata nel parcheggio, pregandola di rimettersi subito in marcia.

Aveva creduto che Matilde accettasse questa sua richiesta senza fare domande, così come aveva fatto sino a quel momento. Si era sbagliato.

«Mi devi delle spiegazioni, Joe. Ho aspettato che tu mi spiegassi senza che te lo chiedessi ma evidentemente non ne hai intenzione. Non voglio sapere vita, morte e miracoli di te, solo sapere se hai combinato qualche casino con la legge. Perdonami, ma non ci tengo a finire davanti a un giudice per te», fece, concitata, muovendo le mani con fare agitato.

Joe ridacchiò, isterico, senza allegria.

Matilde lo fulminò con un'occhiataccia.

«Allora è così, hai combinato qualcosa», disse, tremante, piena di paura. «Cosa sei, un maniaco? Un assassino? Che cos'hai fatto?!».

Assassino, ecco la definizione più adatta, pensò il ventunenne, il capo chino e i pugni stretti in una morsa mortale, le nocche bianche.

Urla... Grida... Il sapore del sangue in bocca... Un dolore acuto al petto, un dolore troppo forte... Altre grida... Perché non veniva nessuno?... Cos'era quella cosa che aveva sulle mani?, sangue?

«JOSEPH!», lo richiamò Matilde, con una note isterica. «Cos'hai combinato?!».

«Niente», mentì lui, chiudendosi a riccio.

«Joe...», non gli credette la venticinquenne, irritata.

«La legge non ce l'ha con me, ti basti questo. Se fossi stato un assassino, o un pervertito, puoi essere certa che avrei approfittato delle lunghe ore in cui hai dormito all'angolo della strada. Ah, e per inciso, russi. Fidati di me, non ho fatto niente per cui la polizia debba avercela con me», grugnì il ragazzo, sincero, fissandola negli occhi.

Matilde rabbrividì a quell'espressione. Quelli erano gli occhi di un uomo perduto, chiuso nel suo passato senza riuscire ad uscirne. Quasi riuscì a vederci riflesso ciò che era accaduto. Quasi.

Lei annuì e si passò una mano tra i capelli, scoppiando in una risata cristallina.

«Sono un po' paranoica, vero?», chiese, scuotendo il capo.

«Un pochino», ammise il ragazzo, rilassandosi, contento che l'argomento “Joe-pazzo-maniaco” fosse chiuso.

«Beh, scusami, ma in Italia rapimenti, maniaci e stupri sono all'ordine del giorno», riferì Matilde mentre premeva di nuovo il piede sull'acceleratore e Don't Try Suicide dei Queen ripartiva al massimo volume.

Joe colse la palla al balzo facendole altre domande sulla sua terra, sulla sua vita, sul suo fidanzato, Michele, sui suoi genitori, sul suo lavoro in una ditta di marketing...

Matilde rispondeva a tutto con allegria, a volte voltando la testa per guardarlo. Gli fece anche lei delle domande, sulla scuola, le compagnie.

«Hai fratelli?», gli domandò a un certo punto, curiosa.

Joe si irrigidì, mentre la pelle gli si accapponava.

«Sì. Due», disse, piano, col tono di uno che vuole chiudere quell'argomento il prima possibile. Matilde lo capì e si mise ad elencare le date del viaggio. Ormai si era abituato a quella nuova realtà, due fratelli, non più tre. Il terzo l'aveva perso, per colpa sua.

Dopo il Minnesota voleva andare nel South Carolina, nel Rode Island, e ancora il New Jersey, il Texas, il Michigan, e anche la California.

«Potresti farmi da guida a Los Angeles, che dici?», propose, ridacchiando, scherzando ma non troppo.

Joe annuì appena, rigido, certo che lui sarebbe sceso da quella Chevreolet molto prima della California.

Non avevano ancora parlato dei suoi progetti, a Matilde tutto sommato piaceva avere qualcuno con cui parlare, senza di lui quel viaggio sarebbe diventato forse troppo noioso e non aveva intenzione di chiedergli quando avrebbe dovuto salutarlo. Glie l'avrebbe detto Joe, come sempre.

«No, ti prego, lascia», lo supplicò Matilde quando vide che il ventunenne stava per cambiare canzone. Era Free as a bird, dei Beatles. «È la mia canzone preferita».

Libero come un uccello. A Joe sarebbe piaciuto. Completamente libero, senza dover preoccuparsi del suo passato.

Chiuse gli occhi, cullato da quella canzone, e non pensò più.

**

«Joe?», disse Matilde, scuotendolo piano con le sue piccole mani dalle dita affusolate, lunghe e bellissime.

Il ragazzo si riscosse, guardandosi intorno: erano in un parcheggio, davanti a loro c'era un motel con la scritta luminosa rossa accesa.

«Dove siamo?», sbadigliò lui, mettendosi la mano davanti alla bocca e poi tra i capelli già di per sé spettinati.

Matilde fece un gran sorriso.

«Benvenuto in Minnesota», sorrise lei, raggiante. «Abbiamo varcato il confine da pochi minuti, ma sono distrutta, ho dormito poco e male questa mattina. Prendiamo una stanza qui e rimettiamoci in marcia domani, ci meritiamo entrambi una dormita come si deve».

Joe annuì e uscì dall'auto, appoggiandosi sul cofano con una mano e afferrando il suo ziano. Il parcheggio era semi vuoto.

Entrarono nel motel l'uno accanto all'altra, quasi sfiorandosi, mentre Joe montava un falso sorriso stanco sul viso.

«Aspettami pure lì», gli disse Matilde, indicandogli le scale e sorridendogli rassicurante. «Faccio io».

Joe annuì, riconoscente, raggiungendo il posto indicatogli e appoggiandosi alla parete, braccia incrociate al petto ed espressione spenta. Gli faceva quasi male riuscire a sorridere. Gli avevano detto che col tempo il dolore sarebbe passato, quasi fino a sparire del tutto, ma invece a lui pareva che si acuisse giorno dopo giorno. Diventava sempre più forte, sempre più insopportabile.

Matilde tornò poco dopo, sventolando un mazzo di chiavi insieme alla sua borsa.

«Ho preso una stanza sola, scusami, altrimenti costava troppo, ma sono comunque due letti», spiegò velocemente. «Va bene? Altrimenti...».

«Va benissimo così», la interruppe Joe, rilassandola. «Che piano?».

«Primo», rispose la venticinquenne. «La colazione possiamo farla qui, ho fatto il pacchetto completo».

Joe voleva sorridere vedendola in quello stato, sembrava una bambina sovreccitata, ma non ci riuscì. Faceva troppo male.

Salirono ed entrarono in camera. Era spaziosa, stranamente ben arredata, con due grossi letti ai lati opposti.

Matilde entrò nel bagno e ne uscì poco dopo, già cambiata per la nottata con una camicia da notte sobria e svolazzante. Le fasciava i fianchi esili, sottili e le spalle fragili. Per un attimo soltanto Joe la trovò bellissima. Bella come una rosa.

Lui si era già cambiato, infilandosi un paio di pantaloni della tuta e una vecchia t-shirt che si era portato per dormire.

Matilde si infilò sotto le coperte in pochi minuti, spegnendo le luci eccetto quella sul comodino di lui.

«Buonanotte, Joe», sospirò, felice.

Il ventunenne le si avvicinò per guardarla e le sue labbra si incresparono appena in su, in una specie di sorriso, anche se non lo era: già dormiva.

La imitò, seppellendosi sotto strati e strati di coperte, mettendo una mano sotto il cuscino. Non voleva addormentarsi, di solito sognava, e faceva degli incubi. Riviveva tutto, ogni cosa, ogni istante. Ma non riuscì a combattere contro le sue palpebre che, inevitabilmente, si stavano chiudendo trascinandolo tra le braccia di Morfeo.

**

«Tempo dannato», si lamentò Kevin, guardando fuori dal finestrino dell'auto la pioggia che cadeva scrosciante. Teneva una mano stretta a quella di Danielle, seduta dietro di lui.

«Non ci badare», lo rassicurò Joe. «Saremo in hotel in meno di venti minuti. Perché diavolo abbiamo scelto proprio Seattle per questo concerto? Non potevamo restare a Los Angeles?», si voltò per guardarlo.

«Per favore, Joe, guarda la strada. Non mi piace che tu guidi con questo tempo. Vuoi che ci scambiamo?», propose Kevin, preoccupato, conscio che la guida di suo fratello ventunenne non era mai stata delle migliori.

«Non ti fidi di me?», fece il labbruccio Joe, obbedendogli. «E dai, siamo quasi arrivati...».

Il ventitreenne annuì, sconfitto, scambiandosi un'occhiata con Danille.

La ragazza rise solare, scostandosi i capelli lunghi dagli occhi.

«Stai tranquillo, amore, Joe non ha preso multe nelle ultime tre settimane, dagli una chance», disse al marito, stringendo più forte la mano a Kevin.

«Ecco, Kev, dammi una chance!», esclamò il ventunenne, guardando Danielle con il finestrino retrovisore. Era così bella...

«JOSEPH!», strillò Kevin, voltando la testa verso la strada e vedendo un cane lì in mezzo. Istintivamente Joe sterzò, premendo il freno. Sentì l'auto scivolare sull'asfalto bagnato, le grida spaventate di Danielle.

La macchina si rovesciò su sé stessa, scivolando sull'acqua.

Joe gemette sentendo il rumore di acciaio che si piegava fino a rompersi. Kevin urlava. Danielle strillava.

La loro corsa si fermò contro a una parete rocciosa che Joe non sapeva nemmeno da dove fosse comparsa.

All'improvviso un dolore fortissimo al petto, più grande di qualsiasi cosa avesse mai provato in vita sua.

Poi il buio.

Sentiva a sprazzi una voce femminile che lo chiamava. Danielle? Lo stava chiamando Danielle? Era così bella, lei, così dolce, così generosa e solare...

«JOE!», gridò Matilde, spaventata.

Il ventunenne spalancò gli occhi, ansimando, sudato fradicio.


Continua...

Eccomi di nuovo. :3

I capitoli sono piuttosto sbrigativi essendo una mini-long.

Alla prossima settimana. <3

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Capitolo 3
*** Capitolo 3. ***


Capitolo 3.


Tra i ricordi cerco una ragione per riuscire a stare meglio, ma poi...

{Chi Sei Adesso; Gemelli Diversi}


«Oh, mio Dio, Joe, stai bene?», chiese Matilda, osservandolo mettersi seduto sul letto, le mani sul viso mentre delle lacrime silenziose gli rigavano il viso.

La ragazza, si mise in ginocchio davanti a lui, sfiorandogli un ginocchio, guardandolo con i grandi occhi spaventati.

Sentirono un bussare frenetico alla porta.

Matilde lanciò un'occhiata a Joe e poi corse verso la porta, aprendola in fretta e furia.

Sull'uscio c'era il receptionist, un'espressione confusa e allo stesso tempo spaventata sul viso tondo, mentre una giovane coppia in vestaglia si teneva per mano lanciando delle occhiate alla venticinquenne.

«Tutto bene, signorina? Abbiamo sentito delle urla», spiegò il receptionist, cercando di guardare dentro alla stanza, come per accertarsi che non fosse stato commesso un omicidio.

Matilde annuì.

«Sì, sì... Il mio amico», si voltò per guardarlo un istante, «il mio amico è caduto e ha sbattuto la testa, temevo si fosse fatto male ma va tutto bene», mentì frettolosamente, montando un sorrisetto convinto.

«Ne è sicura? Volete che vi porti una cassetta del pronto soccorso? Oppure chiamo un medico?», propose l'uomo, mentre la coppia si rilassava visibilmente.

«Ma no, si figuri, il mio amico è una caduta vivente, sta benissimo glielo assicuro, stia certo che se avremo bisogno la verrò a chiamare».

Il receptionist rimase un istante a contemplare gli occhi così belli e profondi di Matilde, poi si scosse.

«Va bene. Allora buonanotte, signorina».

«A lei», ricambiò la ragazza, salutando anche la coppia.

L'uomo accennò un piccolo inchino e se ne andò, lasciandola finalmente sola.

Matilde si chiuse la porta alle spalle, sospirando, poi con piccoli passi veloci andò in bagno, prese un bicchiere e lo riempì d'acqua, portandolo poi a Joe, nella stessa identica posizione in cui era quando se n'era andata.

Il ventunenne bevve un sorso solo per farla contenta, appoggiando poi con mano tremante il bicchiere sul comodino.

«Joe, che è successo? Non ti senti bene?», domandò, sedendosi accanto a lui e accarezzandogli la schiena, come se fosse un bambino, nel vano tentativo di dargli un minimo di consolazione.

«No... Io...», biascicò lui, come se fosse ubriaco, il corpo scosso da tremiti. «Sì, è solo... un brutto sogno».

Matilde socchiuse gli occhi, passandogli un braccio intorno alle spalle e stringendolo forte. Rimasero immobili per dei minuti che sembrarono ore, il corpo di Joe che continuava a tremare e lei che gli sussurrava tenere parole di conforto, come una madre al figlio.

Matilde attese, attese che Joe parlasse e le dicesse qualcosa, che si sfogasse. Non per lei, perché era curiosa, ma solo per lui: vederlo in quello stato la distruggeva.

Pensò che portarlo con sé in quel viaggio era la migliore e la peggiore cosa che avesse mai potuto fare nella vita. Forse se non l'avesse portato con sé si sarebbe tolto la vita, a vederlo in quello stato non ne sarebbe rimasta sorpresa, ma allo stesso tempo soffriva quasi fisicamente lei stessa mentre tentava di asciugare quelle lacrime di un dolore la cui fonte le era sconosciuta.

«Scusami», balbettò lui, stringendosi nelle spalle. «Io non...».

«Ssh», lo zittì lei. «Piangere fa bene. Sfogati, Joey, sfogati».

Quel nome le era salito alle labbra con una naturalezza innaturale; come la sentì Joe si irrigidì e si alzò di scatto.

«Ti ho detto di non chiamarmi così. Non chiamarmi così, non puoi chiamarmi Joey, tu non puoi, era solo un suo diritto, non puoi, tu...». Parlò così a bassa voce che Matilde lo sentì appena. Ripeteva “non puoi” all'infinito. Non puoi, non puoi, non puoi, non puoi, non puoi perché poteva solo quell'altra persona sconosciuta, quella persona per lui importante della sua stessa vita.

«Io... Joseph, scusami, non volevo, mi è scappato», mormorò la mora, strabuzzando gli occhioni di miele fuso.

Il ragazzo si accasciò a terra e per un attimo la venticinquenne fu presa dall'istinto di gridare, credendolo svenuto, salvo poi accorgersi che si era semplicemente sdraiato a lasciar scorrere le lacrime che non aveva consumato per l'amore nei confronti di una persona che non avrebbe mai dimenticato.

Matilde rimase a guardarlo per qualche minuto, senza sapere che fare, cosa dire, quando Joe gli voltò definitivamente le spalle, prese la coperta del letto su cui era seduto e gliela lanciò addosso, nel vano tentativo di dargli un minimo di calore.

Si sdraiò sul letto e chiuse gli occhi, tentando di addormentarsi di nuovo, i singhiozzi del ragazzo che le facevano da ninna nanna.


Avevo gli occhi aperti […] sentivo una voce chiamarmi, staccarmi via dal suolo, ma in volo tutto si è spento ed ora resto solo

{Ciò che poteva essere; Gemelli Diversi}


Matilde ingoiò un pezzo di toast osservando Joe che guardava la sua omelette senza nemmeno sfiorarla, gli occhi spenti, arrossati. Occhi che stavano rivivendo un passato troppo doloroso che, anche solo parlarne, poteva riaprire una ferita troppo fresca.

«Come stai?», chiese la venticinquenne facendogli un sorrisetto.

Il ragazzo annuì senza rispondere.

«Vuoi restare qui un altro giorno?», domandò conciliante, pensando che la gita alla bottiglia di ketchup più grande del mondo poteva essere posticipata di un giorno senza problemi.

Joe questa volta scosse il capo.

«Non voglio più stare qui», gracchiò.

«Va bene, daccordo», accettò la ragazza.

Erano chiusi in camera, si erano fatti portare la colazione in camera perché Joe non se la sentiva di scendere.

Matilde si alzò. «Vado a pagare il conto», disse. «Torno tra poco».


Continua...


Io aggiorno alla cavolo, si sa. u.u

Prossimo e ultimo capitolo a settimana prossima, non so il giorno, ma sarà la prossima settimana. A quel punto, potrete farmi tutte le domande che vorrete e insultarmi in quante lingue possibili conoscete. :)

A presto! <3

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Capitolo 4
*** Capitolo 4. ***



Capitolo 4.


Avevo gli occhi aperti […]

sentivo una voce chiamarmi,

staccarmi via dal suolo, ma in volo tutto si è spento ed ora resto solo

{Ciò che poteva essere; Gemelli Diversi}


Matilde aumentò la velocità della macchina, osservando con allegria la lancetta del contachilometri che sfiorava i centoventi chilometri allora. Lanciò un'occhiata felice verso Joe, il quale fece un cenno con il capo in silenzio, osservandola ridacchiare.

Erano passati quattro giorni da quella notte nel Minnesota, e da allora non avevano più toccato l'argomento sulla sua crisi, quel crollo nervoso che aveva avuto all'improvviso.

Sospirò e guardò fuori dal finestrino, sentendo il sole battergli sul viso e riscaldarlo. Per un singolo istante si sentì sereno, libero da qualsiasi cupo pensiero.

Durò solo un secondo.

«Prossima tappa?», domandò, voltandosi di nuovo verso la ragazza, vestita con una maglietta che le scopriva una spalla gialla limone, un paio di shorts rossi e degli scarponcini verdi. Una botta all'occhio.

«Nebraska.», disse lei. «Io stimo questo Stato.».

Joe corrucciò il viso.

«Come mai?».

«Hai sentito che nome stupendo? Nebraska. Stima profonda.».

Joe scosse il capo per quella sua ennesima stranezza, passandosi una mano tra i capelli corti e poi sul viso, ispido per la barba che non radeva da qualche giorno per rendere più difficile riconoscerlo in giro.

Matilde regolò la piccola radio dell'Impala, girando la manovella alzando il volume al massimo mentre partiva Eye of the tiger, dei Survivor.

«Allora, Joseph, fino a quando avrò l'occasione di poter godere della tua allegra presenza?», domandò la moretta, con una lieve vena di sarcasmo quando pronunciò la penultima parola.

Il ventunenne alzò gli occhi al cielo.

«Non lo so.», disse, scrollando le spalle, alternando gli sguardi tra il paesaggio che li circondava e il viso della ragazza. «Dopo il Nebraska dove pensi di andare?».

«Georgia. E poi il North Carolina. Ohio e poi Texas.».

Al suono dell'ultimo Stato pronunciato Joe rabbrividì: lì vivevano i suoi genitori e lui voleva rimanere lontano da loro il più possibile.

«North Carolina.», disse poi.

Matilde annuì.

«Ancora un paio di settimane, all'incirca, dunque.», commentò.

Joe fece un cenno affermativo con il capo, prima di voltare definitivamente lo sguardo verso la strada, osservando le centinaia di macchine che sfilavano accanto a loro, il sole che batteva sul suo volto, il vento che gli scompigliava i capelli che, pian piano, stavano diventando sempre più lunghi.

Gli faceva piacere viaggiare con Matilde, dopotutto. Quella ragazza gli dava una sensazione strana di sicurezza e protezione.

I suoi accostamenti colorati con i vestiti gli sarebbero mancati.

La venticinquenne inforcò con una mano gli occhiali da sole, tamburellando le dita dell'altra sul volante tenendo il ritmo della canzone.

Poi, improvvisamente, iniziò a cantare con quanto fiato aveva in corpo il ritornello di Eye of the tiger.

Joe fece un'espressione per metà divertita e per l'altra sorpresa.

«Su, avanti, canta con me!», lo incitò lei, ridacchiando. «Magari riuscirai a coprire lo strazio della mia voce, chissà!».

Joe scosse il capo.

«No, dai...», mormorò.

«No un corno. Suvvia.», e riprese a cantare, facendo addirittura voltare l'autista di una macchina che stava superando.

Joe iniziò a canticchiare a bassa voce, ma quando notò l'occhiata contrariata di Matilde alzò ancora più la voce.

Fu come una magia. Da quando c'era stato l'incidente non aveva più cantato, per lui cantare significava felicità e credeva che da quel momento in poi avrebbe dovuto dimenticare quella parola. Non aveva più canticchiato sulla doccia, non aveva più ripetuto le parole di una canzone nella propria mente. Ed ora, sentire quelle frasi fluide accompagnate dalla musica del CD uscire dalla sua bocca... Fu come ritornare quando tutto andava bene, quando lui non aveva ancora rovinato la vita a tutta la sua famiglia.

Matilde sorrise vedendolo con un sorriso spontaneo sul viso anche mentre cantava, gasato, tutta la canzone: la conosceva a memoria.

E per il minuto e mezzo che rimaneva della canzone, su quella autostrada c'erano solo loro due, l'Impala, e i Survivor. Matilde non era una promessa sposa e Joe non era un assassino.

Per un minuto e mezzo, andò tutto bene.

Quando la canzone finì e cominciò You give love a bad name Matilde diede una pacca con una mano al ragazzo.

«Joe, non mi avevi detto di saper cantare così bene!», disse sorpresa. «Sei veramente bravo, sul serio!».

«Grazie.», mormorò il ragazzo, appoggiandosi allo schienale del sedile, con un lieve sorriso sincero.

Il sole stava tramontando all'orizzonte, il cielo si stava tingendo di rosso e di giallo, regalando ai due compagni di viaggio uno spettacolo meraviglioso.

Matilde fu tentava di fermare la macchina e scattare una fotografia, ma non lo fece.

«Matilde, posso farti una domanda?», domandò Joe, senza smettere di guardare il tramonto.

«Certo, anche due.».

«Michele, il tuo fidanzato, ti manca?», chiese.

La ragazza rimase sorpresa per la domanda, ma rispose comunque.

«Come l'aria.», disse, con un velo di tristezza. «Perché me lo chiedi?».

«Viviamo a stretto contatto da due settimane e non ti ho mai vista al telefono con lui.», spiegò con semplicità il ventunenne.

«Sì, è una regola che ci siamo imposti. Non sentirci in alcun modo per tutto il mio viaggio qui negli Stati Uniti, una specie di prova finale per capire se veramente vogliamo stare insieme per il resto della nostra vita. Se riusciamo a stare tutto questo tempo senza sentire nemmeno la voce l'uno dell'altra senza sentirne la mancanza vuol dire che c'è qualcosa che non va. E Michele, a me, manca. Sono sicura che lui sia l'amore della mia vita e, sinceramente, a volte vorrei che questo viaggio finisse il più presto possibile.».

Joe ascoltò attentamente e, per quanto trovasse strana la cosa, era anche giusta.

Quando ormai era calato il buio da un bel po' Matilde notò un'insegna luminosa sull'orlo della strada e girò verso di essa, parcheggiando di fronte a una piccola locanda simile a quella in cui si erano incontrati lei e Joe da cui proveniva una musica alta, risa e chiacchiericci vari.

«Signor Joseph, questa sera affronteremo una nuova sfida.», commentò la ragazza, spegnando la macchina e uscendo nell'aria fresca estiva, afferrando dal sedile posteriore il proprio giacchino di jeans.

Joe la guardò storta, aprendo la portiera e uscendo anche lui, seguendola mentre entrava nel bar.

Il piccolo locale era pieno di gente e nell'aria aleggiava un pesante odore di fumo e sudore.

Una zona del luogo era riservata come pista da ballo, poiché qualche coppia ballava al ritmo della canzone che veniva cantata dal karaoke dall'altra parte del bar.

«Fermiamoci qui per un po'.», propose Matilde. «Conosci Its my life di Bon Jovi?».

Joe annuì, lievemente spaventato per quello che poteva vagare nella mente della giovane donna.

«Perfetto!», trillò lei, saltellando sul posto. «Karaoke!».

«Neanche se mi paghi!», esclamò Joe, strabuzzando gli occhi. «Come? No, no, io non canterò mai qui!».

«Forza, Joseph! Si tratta di una canzone soltanto!», insistette la ragazza. «Ti farò compagnia. Ti prego!».

Il ventunenne la guardò mentre spalancava gli occhi in un'espressione molto simile a quella di un cucciolo che necessitava di coccolo e, non riuscendo a resistere, annuì.

«Io ti adoro, uomo!», fece lei, abbracciandolo di slancio, lasciandolo basito. «Forza, andiamo.», lo afferrò per la camicia e lo tirò dietro con sé lungo i corpi degli altri presenti.

L'uomo che stava cantando in quel momento una canzone piuttosto vecchia di Elton John finì poco dopo, tra gli applausi di un gruppo di amici seduti a un tavolo e di pochi altri.

Non appena avuto il permesso di uno dei camerieri del locale, Matilde salì sul piccolo palco accompagnata da un Joe piuttosto riluttante.

«Ma buona sera a tutti voi!», trillò, attirando su di sé gli sguardi di molti. «Bene, io sono Matilde e il qui presente è il mio amico Joe. E per 'sta sera, solo per 'sta sera, faremo un'esibizione straordinaria. Godetevi lo spettacolo e mantenetelo nei vostri ricordi!».

In parecchi risero, percependo il pesante sarcasmo della ragazza, nel frattempo Joe aveva selezionato la traccia musicale nell'apparecchio apposito.

Le note di Its my life partirono subito dopo e Matilde e Joe iniziarono a cantare, ognuno con un proprio microfono.

All'inizio il ragazzo era intimidito, come poco prima in macchina, ma pian piano, guardando Matilde e il suo entusiasmo, e come la gente ridesse guardandola così allegra e felice, lanciata in un balletto sfrenato, si sciolse.

Ed era di nuovo su un enorme palco davanti a diecimila persone che chiamavano il suo nome, quello di Nick e di Kevin. Nicholas suonava la chitarra, cantando, stregando le fan con la sua voce meravigliosa e Kevin gli sorrideva, suonando la chitarra come se fosse la sua stessa vita.

Era di nuovo Joe Jonas, il pazzo, stupido, un po' idiota Joe. Il ragazzo solare e sorridente. Il ragazzo stampato sui poster di migliaia di ragazzine. Era di nuovo un fratello, un amico, un figlio amato.

Si accorse solo alla fine della canzone, che aveva cantato a pieni polmoni, che Matilde aveva smesso da molto tempo di cantare con lui e l'aveva semplicemente osservato, con un gran sorriso compiaciuto, ballando tenendo il ritmo per fare un minimo di presenza scenica.

Tutte le persone presente nel locale si erano voltate verso di lui e applaudivano, lo applaudivano di nuovo.

Joe sorrise.

«Bis!», gridò Matilde, incitando anche gli altri a ripetere lo stesso.

Un coro che gli credeva di cantare di nuovo si alzò dal palco e il ventunenne annuì, mentre Matilde, lo abbracciava brevemente prima di selezionare un'altra canzone: Have a nice day, sempre di Bon Jovi.

Joe aspettò lo stacco per iniziare a cantare e riprese. Ringraziò Matilde mentalmente, per averlo bombardato per due settimane con quella canzone che ormai conosceva a memoria.

Matilde batteva le mani a ritmo mentre Joseph cantava, mettendoci animo e corpo. Furono solo due canzoni, ma sapeva che probabilmente era la migliore esibizione che avesse mai fatto sino a quel momento.

Quando anche quella canzone finì scese dal palco, lasciando lo spazio a un paio di ragazze un po' brille.

Matilde si avvicinò al bancone del bar e prese un paio di birre in bottiglia, portandone poi una a Joe, che la aspettava poco lontano.

«Sei stato fantastico, seriamente.».

«Grazie. Anche per avermi convinto a fare questa... cosa. Ti ringrazio, di cuore.».

Matilde scrollò le spalle.

«È stato un piacere.».

Le due ragazze al karaoke stavano intonando una melodia lenta, un po' malinconica, e in molti si erano avvicinati alla pista da ballo per ballare uno dei pochi lenti proposti della serata.

«Vuoi ballare?», propose Joe, con un mezzo sorriso storto.

Matilde annuì, sorridente, un po' sorpresa.

Si immersero in mezzo alle altre coppie e, con ancora le birre in mano, Joe le cinse la vita, mentre Matilde il collo.

Si dondolavano piano, in una danza più simile a quella del mattone che altro.

Joe sospirò guardandola, un groppo in gola.

«Ero innamorato della moglie di mio fratello maggiore.», cominciò, sentendo subito gli occhi farsi umidi.

Matilde lo guardò, presentandogli subito attenzione.

«A dire il vero, lo sono ancora. Lei era... una persona meravigliosa, capisci? Danielle era vera, sincera, una delle poche persone che mai si sarebbero approfittate di me, ed era di una bellezza incredibile. La conobbi quando ero solo un ragazzino, in vacanza con i miei fratelli. Credo di averla amata da quel momento. Ma lei iniziò a uscire con Kevin, mio fratello maggiore. E nonostante mi piangesse il cuore ogni volta che li vedevo, dovevo ammettere che erano perfetti. Due tasselli di un puzzle.».

«Due anni dopo essersi messi insieme, Kevin le propose di sposarla. E lei accettò. Si sposarono, ed io feci da testimone di nozze a mio fratello, insieme a Nicholas, mio fratello minore. Prima della cerimonia avevo intenzione di dire a Danielle ciò che provavo per lei, pensavo che magari sarebbe andata a finire come in quelle stupide commedie romantiche, in cui alla fine la ragazza è sempre stata innamorata del testimone di nozze e vissero per sempre felici e contenti. Ma non potevo fare una cosa del genere a Kevin. Lui... lui è una delle persone più importanti della mia vita, non avrei mai potuto fargli una cosa simile, strappargli l'amore della sua vita...».

Matilde lo guardò a lungo, sentendo una stretta al cuore, conscia che la tragedia vera e propria era dietro l'angolo.

«Ho frequentato altre ragazze, sono stato felice con alcune di loro, ma sapevo che non sarebbe stato lo stesso che con Danielle...», deglutì. «Due mesi fa, ero a Seattle con la mia famiglia. Una sera, poco dopo il nostro arrivo, pioveva, ovviamente, e in macchina c'eravamo solo Dani, Kevin ed io. Stavo guidando, lei era seduta sul sedile posteriore, mi sono distratto un secondo a guardarla con lo specchietto a retrovisore... e... e non ho visto un cane in mezzo alla strada. Quando Kevin me l'ha detto, ho sterzato, la macchina è scivolata sull'acqua e si è ribaltata».

Delle lacrime gli rigavano il volto mentre raccontava e Matilde lo strinse a sé, cullandolo dolcemente come se fosse stato un bambino.

«Non mi ricordo molto di ciò che accadde.», ricominciò. Aveva il bisogno di sfogarsi, di dire ciò che lo opprimeva come un macigno. «So solo che il volante mi aveva fracassato lo sterno e che non sono morto per un soffio. Fu Kevin a tirarmi fuori dall'auto, era l'unico che riuscisse a stare in piedi, mi ha tirato fuori e poi è andato a prendere Danielle.».

Le immagini di quei momenti gli comparvero di fronte come un'orribile film, come se la sua memoria avesse deciso di sbloccarsi in quell'istante. Avrebbe preferito non accadesse mai.

Joe era steso a terra, l'asfalto bagnato sotto di sé e la pioggia scrosciante che lo bagnava completamente. Non riusciva a muovere un muscolo e anche solo gemere gli procurava un dolore indefinibile al petto. La vista era sfuocata, ma riusciva comunque a vedere il rosso che gli bagnava la maglietta.

La figura tremante di Kevin sopra di lui riuscì a riscuoterlo per qualche istante.

«Joe? Joe, ti prego, rispondimi. Joe! Joe resisti. Ti supplico, ti prego Joe, resisti!», urlava il ventitreenne, ma al moro arrivava solo un suono ovattato.

«Torno subito, Joe. Joe, arrivo. Ti prego, resta con me, resta con me.». Lo vide allontanarsi, fino a sparire dalla sua vista. Cercò di dirgli di chiamare aiuto, e provò a voltare lo sguardo per cercare lei. Danielle.

«Da...», ansimò, ma dovette zittirsi prima di poter finire perché il dolore si era fatto talmente forte da mozzargli il fiato.

Ebbe la terribile consapevolezza di sapere che stava per morire.

Poco dopo la figura sfuocata di Kevin tornò, e tra le braccia teneva il corpo esanime di Danielle.

Kevin appoggiò la moglie a terra, vicino a Joe.

«Amore? Dani? Mi senti, amore? Ci sei...?». Kevin piangeva. Da quanto tempo Joe non lo vedeva piangere di tristezza?

Joe per un istante trattenne il fiato e pensò di perdere i sensi. Lei non poteva essere... no, lei non poteva, lei non era sicuramente morta...

«Kev.», disse la voce flebile di Danielle.

«Amore. Amore stai bene? Dove ti fa male?», chiese Kevin con voce spezzata, ma un nuovo sollievo nel proprio tono.

«Sto bene.», mormorò la ragazza.

«Sei sicura?».

Danielle annuì con una smorfia. Anche Joe riuscì a percepire che mentiva, cercò di dirglielo ma non ci riuscì.

La ventiquattrenne allungò una mano verso Joe e la ritrasse coperta di sangue.

«Joe...?», fece con tono spezzato. «Oh mio dio, Joe!».

Kevin si spostò e si allungò verso il fratello, completamente zuppo, il volto bagnato sia da lacrime che gocce di pioggia.

«Joe, guardami. Non devi chiudere gli occhi, va bene? Siamo qui, tra poco arriverà qualcuno e ci tirerà fuori dai guai, hai capito? Avanti Joe, sei il mio fratellino, non puoi lasciarci così.».

«Fa... male...», sussurrò il ragazzo, con tono spezzato, scoprendo si star piangendo anche lui.

«Lo so, lo so. Joe, dobbiamo bloccare l'emorragia, ora. Resta con me, okay? Stai qui con noi.».

Il ventunenne lo vide sfilarsi la giaccia e far pressione sul suo petto, mozzandogli il fiato per il dolore.

Voltò lo sguardo verso Danielle, che pian piano si stava issando sui gomiti per avvicinarsi a lui e non appena ci riuscì gli prese la mano, stringendola forte.

«Stai qui con me, Joey, okay? Guardami.».

E Joe la guardò: anche in quel momento, con un taglio sulla tempia che delineava una lieve striscia rossa di sangue, i capelli bagnati, il trucco sbavato, i vestiti strappati e lo sguardo pallido e disperato la trovò bellissima.

Un paio di luci li illuminarono, sentì Kevin alzarsi e iniziare a gridare qualcosa, sentì Danielle stringergli la mano con più forza.

«E' arrivato qualcuno, ora chiameremo un ambulanza, Joey, e tu starai bene. Forza, Joey, forza.», gli baciò la mano che gli teneva. «Stai con me. Resta qui con me.».

Joe ricambiò la stretta che la ragazza gli porgeva e chiuse gli occhi.

«Oh, mio Dio.», mormorò Matilde, iniziando anche lei a lacrimare lievemente solo immaginando ciò che quel ragazzo doveva aver passato.

«Mi hanno strappato alla morte per un soffio. All'inizio si pensava avessi bisogno di un trapianto di cuore, ma non è stato necessario. Sono rimasto in coma per tre giorni. Quando mi sono svegliato... Avrei preferito rimanere incosciente.».

Matilde percepì ciò che Joe le stava per dire.

«Dani... Dani era morta. Lei... lei aveva un'emorragia interna che è stata scoperta troppo tardi e non è... l'operazione... non l'ha superata.». Stava piangendo, come quella notte.

«Kevin aveva semplicemente sbattuto la testa e stava bene. In senso fisico, almeno, o forse nemmeno dopo che Danielle è...», si zittì, senza riuscire a ripeterlo.

«E gliel'ho detto. Gli ho detto che ero innamorato di lei. Che avrei voluto averla sposata io, non so perché lo feci, forse era l'effetto degli antidolorifici. Abbiamo litigato, e lui mi ha detto che era tutta colpa mia se lei era morta, che era tutta dannatamente colpa mia. Mi ha detto che ero un assassino, che si sentiva tradito da me.». Trattenne il fiato. «Mi ha detto che non dovevo più considerarlo mio fratello, perché per lui io non ero altro che l'assassino di sua moglie.».

«Joe... Era fuori di sé per il dolore. Sua moglie era appena morta... sono sicura che non lo pensava veramente. Sei suo fratello, Joe, non si può decidere di non esserlo più. Lui ti vuole bene, e sono certa che sia pentito di ciò che ti ha detto.».

«Tu non c'eri.», mormorò il ragazzo. «Tu non eri lì, era così convinto, così distrutto... Lui lo diceva veramente.».

«Sono sicura non sia così.», disse Matilde, con tono convinto.

La canzone lenta era finita da molto, ma loro due erano ancora nella stessa identica posizione.

«È per questo che sei scappato?», domandò poi, a bassa voce, facendo alzare lo sguardo a Joe.

«C... come?».

«Pensi che non abbia capito che sei scappato di casa e che tutti ti stanno cercando?», domandò. «Non sono una stupida, Joe.».

«Non volevo dirtelo.».

«Non importa. Non mi interessa se non me l'hai voluto dire. Ma, Joe, tu devi tornare a casa, lo sai questo, sì? Non mi guardare così.», aggiunse, notando lo sguardo disperato del ragazzo. «Joseph, hai una vita meravigliosa che ti aspetta, una famiglia che ti aspetta, migliaia di fan che chiamano il tuo nome a gran voce...».

Quello non se lo aspettava. Il cantante aprì la bocca, sbalordito, e in cambio ricevette semplicemente il sorriso aperto di Matilde.

«Non ti ho riconosciuto subito, lo ammetto. Ci ho messo qualche giorno a ricordare in te il ragazzo che vedevo nei cartelloni pubblicitari in giro per Torino nel 2009. Ma sei tu, non è vero, Joseph Jonas? E hai una vita invidiabile. Con Kevin si risolverà tutto, lo so. Devi solo tornare a casa, devi dare a te stesso una seconda possibilità. Ma per ritornare alla tua vecchia vita devi ficcarti bene in quella testa vuota una cosa: non è stata colpa tua. Okay? Nonostante ciò che potrai mai leggere o sentirti dire non è colpa tua se Danielle non è più qui. Non è colpa tua se a Seattle piove, o se quel cane stava attraversando la strada. Niente di ciò che è avvenuto è stata colpa tua. Devi capirlo, seriamente, prima di poter pensare di tornare alla tua vecchia vita, okay?».

Joe annuì, le lacrime che ancora gli rigavano il volto.

«Mati...».

«Non dire niente.», gli sorrise lei, e gli diede un bacio vicino all'angolo della bocca, asciugandogli una lacrima. «Non dire niente.».


Siamo gocce di un passato che non può più tornare, questo tempo ci ha tradito.

{Gocce di memoria; Giorgia}


Joe si svegliò improvvisamente in un letto che, di sicuro, non era il suo. Si mise seduto sul materasso una volta essersi districato da tutte le coperte che lo avvolgevano e si passò una mano tra i capelli.

Lanciò un'occhiata in giro per la stanza, riconoscendo le pareti e l'arredamento sobrio della piccola stanza di motel che aveva preso in Nevada.

Scese di corsa dal letto, rischiando quasi di cadere per terra nella fretta. Com'era tornato in Nevada, dal confine con il Nebraska? Dov'era Matilde?

Si guardò intorno, ma nulla lasciava presumere che la ragazza fosse o fosse stata lì.

Non era possibile, doveva essere un sogno, lui era in un bar vicino al Nebraska dove si cantava il karaoke; perché era tornato nel luogo in cui aveva cominciato il suo strano viaggio con quella stramba ragazza chiamata Matilde?

Si disse di restare calmo, mentre riordinava le idee. Poco prima stava raccontando ciò che era accaduto durante l'incidente a Seattle, e subito dopo si svegliava in un letto, a centinaia e centinaia di chilometri di distanza.

Possibile che fosse stato tutto un sogno?

Scosse il capo. Era sembrato tutto così reale, così vero, non poteva essere stato tutto falso, tutto solo uno stupido sogno.

Si passò la mano laddove Matilde gli aveva lasciato un leggero bacio a stampo, vicino all'angolo della bocca, e sembrò di sentire il profumo di rosa della ragazza.

No, non era stato un sogno, la sensazione di quel contatto era reale. Non era stata una finzione.

Oppure sì?

Possibile che avesse dimenticato di essere tornato indietro sino in Nevada?

Scosse il capo, cercando di ricordare, sinché non vide il suo iPhone appoggiato su un armadio.

Come un automa, lo afferrò e lo accese, inserendo il codice PIN. Lo sfondo lo accolse come un colpo al cuore: un'immagine di lui, Nick e Kevin stretti in un abbraccio durante un pomeriggio libero dal lavoro, scattata da Danielle a sorpresa.

Sorrise, guardando la propria immagine sorridente stretta tra i suoi due fratelli. Pochi istanti dopo sullo schermo comparve l'avviso di un centinaio di chiamate perse e un numero indefinito tra sms e messaggi vocali lasciati in segreteria.

Ancora prima che potesse aprirne uno la suoneria iniziò a suonare e la scritta “Kevin” lampeggiò. Il cuore parve fermarsi qualche istante per la sorpresa.

Con dita tremanti accettò la chiamata e si portò il telefono all'orecchio.

«...Pronto?», mormorò, il tono gracchiante.

«JOE!», urlò dall'altra parte la voce sollevata di Kevin. «Oddio, Joseph, finalmente. Senti, mi dispiace, non avrei mai dovuto dirti quelle cose, non è stata colpa tua. E lo sapevo, sapevo che eri innamorato di Danielle, lo sapevo, e ne avremmo dovuto parlare prima. Dannazione, era da quando l'abbiamo vista la prima volta che sapevo che provavi qualcosa per lei, ma sono stato egoista e non ho voluto parlartene. E l'incidente... non è stata in alcun modo colpa tua. Non è stata colpa tua. Tu non c'entri, dico sul serio, Joe. Ti prego, scusami. Io ti voglio bene, Joe, sei mio fratello, sei il mio migliore amico, scusami, scusami davvero, non volevo dirti quelle cose. Stai bene? Dove sei?».

Joe guardò fuori dalla finestra e gli parve di vedere uscire dal parcheggio del motel un'Impala Chevreolet del '67 nera. Sorrise.

«Sto tornando a casa.»


Comunque vada io mai mi scorderò di te.

{Ciò che poteva essere; Gemelli Diversi}


E' già finita. Ebbene sì.

Prima di tutto, onde evitare critiche o accuse riguardo questo (di questi tempi...) io non auguro in qualunque modo che possa succedere una cosa simile a Danielle, Joe o Kevin Jonas, tutto ciò che è accaduto in questa fanfiction è stato scritto non per poter condividere un qualche specie di odio nei confronti di Danielle ma per puro hobby. Danielle personalmente io l'adoro e credo sia meravigliosa.

Detto questo, stop. Questa fic non ha avuto molto successo in fattore recensioni, ma... Va beh, chissenefrega, io scrivo perché mi piace, se voi leggete è perché vi fa piacere (oppure volete farvi quattro sane risate dietro le mie idee strampalate. ;D), se mi lasciate una riga di commento mi fate un favore, se non è così vivrò comunque. :)

Ringrazio infinitamente le persone che hanno recensito, comunque, grazie. *w*

Alla prossima (ovvero al capitolo di I'm Only Me When I'm With You che sto per postare). Olive & An Arrow pensò potrei pubblicarlo durante queste vacanze di Pasqua, ma non lo so, dipende dal tempo.

Vi manderò un saluto caloroso da Londra. **

Grazie a tutti, chi a letto, chi ha recensito, chi ha messo questa storia tra i preferiti, le seguite e le ricordate! <3

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