Un amore tutto nuovo

di billiejoe
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** l'amore sbagliato ***
Capitolo 2: *** Il nuovo giorno ***
Capitolo 3: *** Hailey ***
Capitolo 4: *** Alexander ***
Capitolo 5: *** la facoltà ***
Capitolo 6: *** il compleanno di Hailey ***
Capitolo 7: *** una notte d'amore ***
Capitolo 8: *** il lungomare ***
Capitolo 9: *** il 4 dicembre ***
Capitolo 10: *** il tradimento ***
Capitolo 11: *** delitto e castigo ***
Capitolo 12: *** il regalo ***
Capitolo 13: *** l'anno nuovo ***
Capitolo 14: *** la fuga ***
Capitolo 15: *** la confessione ***
Capitolo 16: *** la fine ***
Capitolo 17: *** San Valentino ***
Capitolo 18: *** l'incontro ***



Capitolo 1
*** l'amore sbagliato ***


l'amore sbagliato


Billie Joe non amava facebook, non amava chattare, non amava parlare con gli sconosciuti, e nemmeno con quelli che conosceva. in effetti non aveva molti amici, e passava le sue giornate sui suoi libri, o davanti al suo portatile. Scriveva, tutto quello che capitava, poesie, storie, favole per i bambini. E poi, quando arrivava la sera, si rannicchiava sotto le sue coperte, fissava il soffitto per ore cercando di convincersi che non sarebbe caduto giù, che sarebbe andato tutto a posto, che un giorno sarebbe stato felice.

Si era trasferito in città per studiare, condivideva la sua stanzetta con un ragazzo allegro e spensierato, e si chiedeva come cazzo facesse a essere sempre felice, ma non poteva immaginarlo. Dennis aveva insistito tanto e alla fine un giorno gli aveva creato un profilo su facebook. Lo aveva iscritto a tutte le pagine sui green day che conosceva, e gli aveva dato il nome di Billie Joe. Che ovviamente non era il suo nome, ma quello che tutti i suoi amici usavano per chiamarlo. Glielo aveva affibbiato sua sorella tanti anni prima, quando era follemente innamorata del cantante dei green day e gli diceva che la sua figura esile e i suoi occhioni dolci glielo ricordavano continuamente.

Aveva iniziato a frequentare il suo profilo quasi per gioco, in un pomeriggio freddo di novembre, quando il suo prossimo esame si avvicinava ed era troppo giù per non tentare una via di fuga dalla sua vita, anche se solo dietro lo schermo di un computer.

Aveva scoperto che condividere i propri pensieri ogni giorno, con persone che non conoscevano niente di lui, con persone che condividevano solo i suoi gusti musicali, che scherzavano con lui come se lo conoscessero da tempo, lo rendeva felice.

Almeno per qualche minuto, lui non era più Arthur, non era più il ragazzo gracile e fragile che attraversava la città in fretta con le sue cuffie alle orecchie per cancellare i rumori della città, e per spegnere le voci che lo tormentavano, non era più il ragazzo che sorrideva ipocritamente per non svelare il suo dolore. Era Billie Joe. Era allegro, era strafottente. Aveva indossato i panni di Billie Joe, e smesso i suoi.

Ma quando spegneva il computer tornava Arthur, e la sua mente era affollata di domande. Quanto si può essere innamorati di una donna, e quanto male puoi lasciare che ti faccia? Se lo chiedeva continuamente, ogni fottuto giorno della sua vita. Si svegliava presto al mattino, e mentre era ancora rannicchiato sotto le coperte calde e si voltava a guardare Dennis che dormiva profondamente, e russando, i suoi pensieri scivolavano verso di lei. Era stato così bello amarla, era stato così emozionante stringerla al suo petto e sussurrarle tenere parole d'amore, e adesso faceva così male stare lontano da lei.

Quella mattina avrebbe voluto restare nel suo letto, a fissare il soffitto aspettando che passasse un altro giorno, ma poi aveva visto un timido raggio di sole sbucare dalla finestra socchiusa e aveva sorriso. Quanto amava il sole, quanto gli piaceva vederlo dribblare le nuvole e tornare a splendere quando faceva così freddo. Si era alzato preso da una strana allegria, e la sua giornata era stata serena. Aveva passato ore seduto tra i banchi della facoltà ascoltando le noiose lezioni di diritto e sorridendo di tanto in tanto, quando pensava a quello che avrebbe fatto quella sera. Non poteva aspettare ancora, non voleva passare un altro giorno lontano da lei. Quella sera lo avrebbe fatto, sarebbe tornato da lei, le avrebbe parlato.

L'aveva chiamata quel pomeriggio, e lei gli aveva dato appuntamento a casa sua. Mentre attraversava la città stringendosi nel suo giubbotto, e canticchiando sottovoce le canzoni dei green day che amava tanto, pensava a quello che le avrebbe detto.

Ok lei lo aveva lasciato, e lui aveva sofferto, ma forse non era davvero finita, c'era il sole, lui era allegro e lei gli aveva dato un appuntamento, ed era così felice che gli sembrava di sentirsi una persona diversa, e forse lo era.

Aveva bussato alla sua porta e il suo cuore batteva tanto forte che riusciva a superare il volume della sua musica. Aveva spento l'mp3 pochi istanti prima che la porta si aprisse e gli splendidi occhi neri di lei si posassero sulle sue guance rosse e gelide. Le aveva sorriso, e lei gli aveva chiesto di entrare.

Le case degli studenti fuori sede sono così surreali, e mentre attraversava quel corridoio stretto e buio si chiedeva perché non lo portasse in camera sua, perché invece si fosse diretta nell'angusta cucina e gli avesse chiesto di sedersi. L'aveva guardata solo un istante, e ogni paura si era dissolta.

Non gli era mai difficile tirare fuori i suoi sentimenti con lei. Lei si era seduta di fronte a lui e stava sorridendo. E lui le aveva confessato di non aver mai smesso di pensare a lei, le aveva detto che la amava. Che ogni sua giornata iniziava con un pensiero rivolto a lei, che non chiudeva gli occhi ogni sera senza pensare a tutte le volte che le aveva sfiorato le guance con le dita gelide, a tutte le volte che lei aveva sorriso dopo che lui le aveva fatto trovare una poesia nei suoi libri, a tutte le volte che l'aveva baciata, a tutte le volte che avevano fatto l'amore e lui era rimasto sopra di lei a guardarla e ad aspettare che aprisse gli occhi e lo guardasse.

Com'era stato facile dirle quanto la amava mentre lei continuava a guardarlo. Ad ogni parola, ad ogni singolo movimento delle sue labbra, si convinceva che alla fine lei lo avrebbe abbracciato, e baciato, che tutto sarebbe tornato come prima, che lui sarebbe tornato felice.

Quante volte si può restare delusi dalla stessa persona? Quante volte quella ragazza avrebbe continuato a spezzargli il cuore?

Aveva parlato per chissà quanto tempo, e lei era rimasta in silenzio. - che poeta che sei... che sfigato -

Credeva di non essere riuscito a capire davvero, non poteva essere vero. Poi l'aveva guardata di nuovo, e lei rideva. Rideva di lui. Del suo amore, dei suoi ricordi, delle immagini sdrucite che conservava nel suo cuore e che non contavano più niente per lei.

Quanto male gli aveva fatto con quelle parole. Lui l'amava, e lei lo considerava uno sfigato, e alla fine glielo aveva detto senza girarci intorno - vivi nel mondo dei sogni Arthur -

Aveva sentito gli occhi riempirsi di lacrime. I sogni. Gli unici sogni in cui avrebbe voluto vivere erano i momenti che aveva condiviso con lei, che di certo non aveva mai davvero capito chi lui fosse, cosa provasse per lei, quanto fosse stato difficile trovare la forza di amarla in mezzo a tutto quello schifo, quanto fosse stato difficile per lui mostrarsi sempre allegro per non turbarla, sempre disponibile per non rattristarla, sempre sicuro per non deluderla.

Se solo lei avesse saputo quante volte aveva nascosto le sue lacrime per non apparirle fragile, e quante parole dolci aveva dovuto ingoiare mentre la guardava rivestirsi, solo per non apparirle troppo "romantico e fuori tempo".

Forse non era mai stato davvero se stesso con lei, e di certo lei non lo aveva mai amato davvero, non per quello che era. Non aveva mai voluto chiedersi perché una ragazza così bella e spigliata avesse voluto averlo accanto, perché gli avesse mostrato un mondo nuovo e sconosciuto per lui, l'amore.

Aveva abbassato gli occhi e aveva sentito lacrime calde scendere sul viso. Era riuscito solo ad asciugarle, senza dire una parola. Aveva alzato gli occhi e le due amiche di lei lo guardavano ridendo. Quanto si era sentito umiliato. Avrebbe voluto dire qualcosa ma non poteva, era paralizzato. La donna che amava lo stava umiliando in quel modo, e lui avrebbe dovuto odiarla e invece la amava, la amava talmente tanto che non riusciva a guardarla.

Era andato via con gli occhi bassi, piangendo.

Era tornato nella sua stanza e aveva passato tutta la notte a fissare il soffitto aspettando che cadesse sulla sua testa, che spezzasse quel circolo vizioso di dolore e rancore che attraversava la sua mente. Aveva preso le sue pillole e aveva chiuso gli occhi, ma l'alba era arrivata prima che lui riuscisse a dormire, e il sole lo aveva sorpreso sbucando dalla finestra socchiusa, lo aveva sorpreso a piangere ancora.

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Capitolo 2
*** Il nuovo giorno ***


Il nuovo giorno
 
Le mattine non sono tutte uguali, a volte ti svegli distrutto dal dolore, altre volte ti senti preso da un’energia nuova, altre ancora senti che quello sarà il giorno della svolta. E poi ci sono le mattine nelle quali il peso del giorno prima non si è ancora sciolto, e continua a pesare sul tuo cuore con la forza di un macigno.

Quella mattina Arthur era davvero stanco. Di piangere, di soffrire, di vivere le sue giornate tutte uguali, nello stesso modo, con lo stesso carico di tormenti, di ricordi. Era stanco di vivere, e basta. Era come se nulla avesse più un senso.

Ma poi si era deciso ad alzarsi e ad affrontare la sua giornata diversamente, le sue pillole gli avevano regalato una strana euforia e anche se faceva freddo aveva aperto la finestra e guardato il sole. Si era voltato a guardare Dennis dormire, e si era chiesto se davvero tutto quello che stava facendo fosse giusto.

Sara aveva ragione, a modo suo, con la sua superba arroganza gi aveva almeno detto la verità, quella che tutta la gente che lo aveva circondato fino a quel momento non aveva avuto il coraggio di rivelargli. Lui era uno sfigato. Punto. Non c’erano scuse per questo, non c’erano motivi che potessero spiegare il suo modo di essere,le sue paure, la sua disperazione, il suo bisogno di essere amato. Era debole, di fronte alla vita, si era lasciato sopraffare e avrebbe continuato a subire tutto quello che la vita gli avrebbe messo davanti, almeno finchè non avesse avuto di nuovo la forza di farla finita, e questa volta senza
sbagliare.

Si, Sara aveva ragione, lui non era capace di realizzare niente, poteva solo tirare fuori le sue belle parole, poteva solo scrivere poesie,  e parlare alla gente che non conosceva, nascondendosi dietro un computer, e poteva dispensare consigli, poteva chiedere alle anime in pena di leggere dentro al loro cuore le risposte al loro dolore, alle loro domande, ma lui non era in grado di farlo.

Lui sapeva come combattere la sua guerra, lui sapeva come armare i suoi eserciti e tirarsi fuori dal pericolo, sapeva come essere felice, ma non riusciva a muoversi, restava lì, immobile e silente perché era più facile per lui soffrire alle parola della donna che amava, piuttosto che affrontarla, era più facile farsi del male, piuttosto che farlo agli altri.

Lui era lì per quello, il suo ruolo nel mondo era quello di farsi del male, perché qualcuno potesse essere felice, perché qualcuno si sentisse realizzato, o forte, o migliore, e non ci voleva poi molto ad essere migliori di lui.

Dennis si era alzato sorridendogli, e aveva preparato il caffè, e quella mattina lui doveva avere una faccia spaventosa perché glielo aveva addirittura portato nella sua stanza, e con i suoi modi da cafone gentiluomo gli aveva chiesto se non volesse essere consolato, a modo suo, e non era poi tanto male, ma non in quel momento.

Si era rimesso sul letto e aveva acceso il portatile, per scrivere qualcosa, ma poi era finito a cazzeggiare su face book, a ridere come uno scemo davanti ai link divertenti di una pagina sui green day. Rideva. Come cazzo potesse ridere in quel momento, non lo sapeva nemmeno lui, era riuscito addirittura a buttarsi il caffè sui boxer ed era rimasto scosso da Dennis che senza troppi complimenti gli aveva offerto il suo aiuto per sfilarglieli.

Come poteva quella giornata di merda cambiare all’improvviso, cambiare per un’immagine sullo schermo, per un disegno, per una frase, scritta chissà quando, chissà da chi, chissà perché, non riusciva a spiegarselo.

Forse era solo un’altra delle sue ossessioni, forse era solo un modo di scacciare il dolore che però non sarebbe andato via. Non voleva pensarci, ridere gli era piaciuto, si sentiva allegro, e non voleva smettere.

Chissà chi era, la persona dietro quella pagina, chissà se davvero comprendesse quanto fosse in grado di entrare nella testa della gente e di scacciare via i tormenti che la assediavano, anche solo per qualche minuto. Dopo un po’ era riuscito a collegare la pagina a chi l’aveva creata, ed era entrato nel suo profilo, e non era poco perché lui a malapena sapeva cosa fosse un profilo.

Era da una vita che non si impegnava tanto a fare qualcosa, ed era assurdo, surreale, ma poi quel disegno buffo come immagine del profilo gli aveva messo allegria anche solo a guardarlo, era come se lei, perché era una donna, era come se si stesse in qualche modo presentando a lui, al mondo, con la sua sfacciataggine, la sua forza, la sua dissacrante voglia di mandare affanculo il sistema.

E lui, invece? Non aveva niente di tutto questo, non aveva la forza nemmeno di sperare che un giorno sarebbe stato felice, gli sembrava che tutto lo schifo che lo aveva avvolto fino a quel momento non potesse riservargli niente, niente di buono, nel suo futuro, nel suo presente.

Era rimasto a fissare lo schermo del computer, quella enorme pagina bianca, e aveva iniziato a scrivere della sua vita, del suo dolore, e ci aveva infilato una torbida relazione omosessuale perché qualcuno potesse essere interessato a leggerla, e a entrare nel suo mondo, e sebbene sapesse che nessuno avrebbe potuto davvero capire che lui era Billie Joe, sarebbe stato comunque liberatorio far morire quel bastardo, insignificante, sfigato, e far rinascere qualcuno che fosse ancora in grado di amare, e di essere amato.

Stava scrivendo ancora quando un sordo rumore strano e per lui inconsueto aveva fatto capolino nei suoi pensieri, e mentre ancora si stava chiedendo da dove sbucasse aveva poggiato il gomito sulla tastiera mandando a puttane tutto quello che aveva scritto fino a quel momento.

Si era ritrovato davanti la pagina di face book, con quella foto da coglione che lo guardava come per implorarlo di sorridere almeno un po’, e subito dopo si era reso conto che qualcuno lo stava contattando sulla chat.

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Capitolo 3
*** Hailey ***


Hailey

Quel suono stridulo e inaspettato gli aveva mandato il palla il cervello, come tutto quello che arrivava all’improvviso e aveva la forza di distrarlo dai suoi pensieri confusi. Ma come era riuscito a cancellare tutto quello che aveva scritto per due ore, come poteva essere così impedito?
 
Era ancora indeciso se afferrare la spina del suo fottuto portatile e scaraventarlo fuori dalla finestra  o mandare al diavolo chiunque gli avesse fatto combinare quel casino. Era successo di nuovo, aveva perso tutto quello che aveva costruito, e anche se non era la vita ma una banale storiella, si sentiva comunque frustrato. Non aveva voglia di parlare con nessuno, non voleva che nessuno lo vedesse in quel momento, in quel modo, che nessuno capisse come stava, cosa stava facendo, cosa stava provando.
 
Doveva essere una notifica, perché aveva commentato un link idiota poco prima, e lo aveva commentato anche la strana ragazza col disegno giallo, che aveva un nome troppo difficile perché lui riuscisse a ricordarlo. Era nervoso e le aveva risposto male, ed in effetti lei lo aveva capito, perché gli aveva chiesto se fosse arrabbiato, e lui ovviamente le aveva detto di no, perché mentire sui suoi sentimenti era quello che gli riusciva meglio, quello che faceva più spesso. Eppure lei era ancora lì, e gli stava chiedendo se davvero fosse tutto a posto. Cosa le importava, poi?
 
Lei lo aveva contattato spesso negli ultimi giorni, avevano parlato di assurdità, di musica, di strani disegni porno e di storie allucinanti pubblicate su EPF, di fantasie sessuali e di speciali orge a tre, insomma di tutte quelle cose che servono solo per passare il tempo allegramente senza dover poi ricordare tutto quello che era appena stato detto. In realtà, lui si sentiva allegro ogni volta che vedeva quella faccina strana apparire in qualsiasi modo nel suo profilo, e si sentiva quasi triste ogni volta che, per un motivo o per l’altro, era costretto a chiudere quello fiume di assurdità che si raccontavano con un semplice e banale - a dopo darling -.
 
Non aveva voglia di risponderle ancora, non era in vena di amenità quel giorno, non aveva voglia di raccontarle dei suoi studi, delle sue passeggiate per Bari e di quanta acqua gli fosse entrata nelle mutande quel giorno a Venezia, c’era solo un grande buco nero nel suo cuore in quel momento, e tanta rabbia nella sua mente.
 
Le aveva risposto che era tutto a posto, e aveva di nuovo ripreso a scrivere, tentando di capire come evitare di perdere tutto un’altra volta, ma aveva sentito di nuovo quel suono e adesso lei lo stava contattando sulla chat.
 
Perché una ragazza distante così tanto da lui era riuscita a capire quello che non aveva svelato mai a nessuno, come era riuscita a leggere nei suoi pensieri, a comprendere il suo dolore e la sua rabbia? Lei gli stava chiedendo se stesse bene, e sembrava sincera, e lui non credeva che fosse davvero possibile che qualcuno si stesse interessando a lui.
 
Aveva iniziato a parlare, e come ogni volta che gli eventi lo sorprendevano l’aveva coperta di parole, le aveva detto tutto, tutto quello che era successo con Sara, tutto quello che provava, le aveva addirittura detto che stava piangendo, e mentre parlava non lo aveva sfiorato neppure per un attimo l’idea che lei potesse crederlo un perfetto sfigato, non si era sentito inadeguato, non aveva avuto paura di mostrarle i suoi sentimenti.
 
In fondo, lui non lo conosceva nemmeno. Forse per questo, lui si sentiva protetto, e forte, ma sentiva che c’era qualcosa di più, era stata una giornata di merda, eppure in quel momento la sua giornata di merda non esisteva più, c’erano solo poche insignificanti parole, spesso seguite da faccine strane che lui non aveva ancora imparato a decifrare, e poi c’era lui che continuava a parlare come un fiume in piena, e lei che lo ascoltava come se davvero le importasse qualcosa di lui.
 
Quando aveva chiuso la chat era già tardi, e lui si era reso conto di aver parlato per due ore con una perfetta sconosciuta che lo aveva tirato su di morale più di un mese di psicoterapia, e alla fine, quando lei lo aveva salutato, avrebbe voluto chiederle di dargli un’altra occasione, di dargli un appuntamento, ma aveva avuto paura di apparirle molto più sfigato di quanto non fosse, e aveva desistito.
 
Quel giorno mentre andava in facoltà sorrideva davanti ad ogni vetrina, ad ogni semaforo, e quella sera, quando era tornato a casa, non lo aveva infastidito neppure la chiamata di sua madre. Ora aveva un altro pensiero per la testa e non era più il solito angosciante pensiero riguardo la stazione, il treno, o la fuga dal mondo. Aveva acceso il computer, e lo avrebbe fatto per tutti i giorni successivi, e ogni giorno, ogni volta che la sua buffa faccia da idiota lo guardava dallo schermo del computer, ricordava quello che desiderava più di ogni altra cosa, ricordava quella allegra ragazza che gli aveva rivolto la parola con uno stupido pretesto e a cui in poche parole aveva descritto la sua inutile vita.
 
Era scesa la sera, e poi la notte, e lui era sul suo libro a studiare, e come ogni volta che le parole iniziavano a correre nella sua mente aveva preso la penna e aveva scritto una poesia, insulsa e nemmeno troppo originale, ma aveva sorriso e questo era davvero tanto per lui. Chiudendo gli occhi aveva immaginato lo sguardo di quella ragazza e gli era apparsa davanti Sara, in tutto il suo splendore, e si era sentito quasi insultato da sé stesso.
 
Ma poi quell’immagine era svanita, e all’improvviso si era reso conto che non avrebbe più sprecato il suo tempo piangendo per lei. In fondo, qualcuno che poteva amarlo lì fuori c’era, qualcuno che potesse accettarlo per quello che era, con le sue paure, i suoi dubbi, col suo disperato bisogno di amare e di essere amato, con le sue paranoie e le sue sfuriate… Vabbè questa parte avrebbe fatto meglio a seppellirla da qualche parte nella sua testolina bacata.
 
In fondo, qualcuno che lo avrebbe amato c’era, e magari nemmeno troppo lontano, magari solo nell’altra stanza, magari altrove.
 
Di questo si sentiva stranamente sicuro, ed era troppo tempo che non si sentiva così, e in buona parte era merito di Hailey. Aveva sorriso… Era riuscito a ricordare il suo nome.

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Capitolo 4
*** Alexander ***


Alexander
 
L’esame era andato bene, e lui si sentiva veramente felice, come non lo era più da troppo tempo. Ma dov’era stato in quegli ultimi mesi, perché aveva abbandonato sè stesso e i suoi ideali, perché aveva lasciato che una donna gli portasse via la dignità, e perché si era sentito così depresso e stanco?
 
Si era fermato a guardare il parcheggio sotterraneo di fronte alla facoltà, e in effetti un paio di risposte se le era date. La malattia, Sara, la depressione, ma poi, soprattutto, il sesso.
 
Ma quanto cazzo gli mancava fare l’amore con la sua ragazza, perché non si sentiva soddisfatto adesso e perché pensava a quei momenti come a quelli più belli della sua vita quando invece avrebbe dovuto rimuoverli dalla sua mente per sempre?
 
Quando era tornato a casa si era messo sotto le coperte e aveva acceso il portatile sperando di parlare con Hailey, perché almeno lei avrebbe potuto capirlo. E invece no, lei non c’era, lui era solo e stava di nuovo male, e stavolta nemmeno le sue pillole lo avevano tranquillizzato.
 
Pensava a lei sempre più spesso, gli mancava, e ne aveva paura. Si stava infilando in un altro casino, e questa volta tirarsene fuori sarebbe stato ancora più difficile. Era troppo debole emotivamente, ed era troppo stanco nel corpo, e l’ultima cosa che avrebbe voluto, e dovuto fare, era innamorarsi di qualcuno. Tanto più di qualcuno che non avrebbe potuto amarlo, che non avrebbe potuto conoscerlo, che non avrebbe voluto sopportare i suoi problemi.
 
Dennis era tornato a casa entrando senza bussare nella loro stanza, e lo aveva visto così giù che pensava che il suo esame fosse andato male. Aveva cercato di tirargli su il morale invitandolo a mangiare qualcosa, soprattutto a bere qualcosa, coi vecchi amici di facoltà. Non voleva uscire, e forse sarebbe davvero stato meglio se fosse rimasto sotto le coperte, ma a volte la vita prende strade che neppure noi riusciamo a immaginare, e spesso ci porta su sentieri che non avremmo mai voluto conoscere, e praticare.
 
Quel locale puzzava di birra e fumo, Arthur aveva bevuto un paio di bionde, e Alexander si era seduto di fronte a lui e gli aveva sorriso maliziosamente per metà della serata, e gli aveva carezzato ambiguamente un ginocchio per l’altra metà. Lui e Alex erano stati amici per tanto tempo, ma poi qualcosa era cambiata, e uno strano sospetto aveva invaso la sua testa. Probabilmente anche quella sera Alex ci stava provando con lui, ma era davvero troppo ubriaco per rendersene conto, per esserne sicuro.
 
Con una scusa banale Alex gli aveva chiesto di riaccompagnarlo a casa sua, e di entrare perché quella sera era solo. Nella sua stanzetta a parte il letto c’era solo una bandiera del Bari stropicciata sulla parete, e qualche libro ammassato a terra, una strana lampada e il portatile aperto sulla scrivania piena di cartacce.
 
Ma c’era un’atmosfera strana e lui cominciava a sentirsi a disagio. Subito dopo essere entrato, aveva preso la maniglia e stava cercando di uscire, quando Alex lo aveva preso per un braccio e una volta di fonte a lui lo aveva baciato.
 
Non riusciva a capire quello che stava succedendo e soprattutto perché si fosse trovato in quella situazione, ma all’improvviso aveva sentito tutti i suoi tormenti svanire e si era sentito bene, bene davvero. Forse questo gli mancava, forse non aveva bisogno di parole di conforto, di frasi di circostanza, di amicizia, di amore, forse aveva bisogno solo di sesso, di sentirsi parte di qualcosa di forte e appassionante, come in quel momento, con quel ragazzo a cui finora aveva appena rivolto la parola.
 
Alex aveva continuato a baciarlo mentre lui era ancora assorto nei suoi pensieri, e poi lo aveva stretto forte a sé e lui aveva percepito la sua eccitazione, e per un istante ne aveva avuto paura, ma poi si era ritrovato a guardarlo in quegli occhi carichi di desiderio e tutto quello che sentiva di dover fare era strappargli quei vestiti di dosso e fare sesso con lui, in qualunque modo fosse possibile.
 
Non era riuscito nemmeno a sbottonarsi il giubbino perche Alex aveva già il suo pene in bocca e aveva iniziato a masturbarlo con la lingua, e lui aveva immediatamente iniziato ad ansimare come una troietta in calore. Del resto, il sesso era la sua debolezza, e chi gli stesse facendo un pompino e perché in quel momento non poteva importare.
 
E non sarebbe importato per i dieci minuti successivi, almeno fino a quando anche Alex aveva preteso lo stesso trattamento. E lui non aveva deluso le sue aspettative. Che sapore nuovo e strano, e che sensazione assurda, trovarselo in bocca, toccarlo, masturbare un pene che non fosse il suo, e provare un piacere comunque intenso eppure diverso. E che emozione nuova e meravigliosa sentire il calore di una persona, il suo amore, la sua dedizione. Inutile, la sua anima da sfigato veniva fuori anche in quella assurda circostanza, doveva trovare un lato romantico anche in una scopata tra due uomini.
 
Alex si era girato, si era messo carponi sul letto e gli aveva chiesto di penetrarlo, e diavolo lui non aspettava altro. Aveva spinto nel suo corpo con tanta di quella forza che alla fine si era sentito distrutto e prima di venire si era quasi sentito svenire, eppure mentre lo faceva sentiva ansimare anche Alex e si chiedeva come mai potesse piacergli tanto una cosa così scomoda e dolorosa.
 
Lo avrebbe scoperto presto perché quando era venuto si era steso supino sullo scomodo lettino del suo amante e Alex si era infilato in bocca due dita e gli aveva allargato le gambe. Doveva essere parecchio ubriaco per averglielo permesso, o almeno era quello di cui cercava di convincersi perché in realtà la sbornia era finita da un pezzo e tutto il piacere che stava provando lo viveva in assoluta lucidità.
 
Quando aveva sentito le sue dita entrare delicatamente dentro di lui si era irrigidito, e aveva sentito dolore e per un istante lo aveva maledetto ma non era riuscito a dire niente perché Alex gli aveva chiuso la bocca con un bacio, e con un braccio sul torace lo aveva tenuto fermo mentre gli spingeva quelle dita umide fino in fondo. Aveva gridato, forte, ma piano piano quel dolore bruciante e lacerante si era trasformato in un sordo piacere, e poi in un piacere sempre più intenso, e nuovo, e si era accorto di aver iniziato a gemere in modo osceno, a mordersi a sangue le labbra per non urlare come una puttana, e poi si era ritrovato il suo pene tra le mani, duro come se lo avesse masturbato.
 
Ok, era chiaro che non capiva più un cazzo. Aveva oltrepassato la linea di confine tra il giusto e lo sbagliato, tra il razionale e l’illogico, e adesso aveva paura e allo stesso tempo voleva continuare a provare quel piacere e a sentirsi amato. Amato. Stava scopando selvaggiamente con un uomo e cercava di trovare l’aspetto più sentimentale della situazione, perché in quel momento aveva bisogno di sentirsi amato nel cuore forse più che nel corpo. Forse.

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Capitolo 5
*** la facoltà ***


La facoltà
 
La notte di sesso più assurda della sua vita era ormai alle spalle, la sbornia pure, ed era rimasto solo un forte senso di colpa, di vergogna, di paura. Alex lo aveva rassicurato in tutti i modi possibili che quella era la cosa più normale che potesse accadere, che non lo avrebbe detto a nessuno, che non ci avrebbe più provato se lui non lo avesse voluto di nuovo, ma in realtà lui non si era sentito tranquillo per niente.
 
Era tornato alla sua vita di tutti i giorni, era tutto come al solito eppure lui aveva un nuovo tormento dentro, un nuovo problema a cui doveva trovare una soluzione. Forse doveva chiamare Sara, farsi umiliare di nuovo da lei per tornare ad essere quello di prima, forse doveva litigare coi suoi genitori, forse invece doveva parlare con Hailey, ma lei era a scuola e comunque era già impegnata.
 
Già, lo aveva saputo così, come un fulmine a ciel sereno, che lei aveva un ragazzo, e ovviamente la sua mente egocentrica aveva interpretato il tutto come un rifiuto nei suoi confronti. E poi qualche giorno prima, mentre parlava con lei di sesso e sconcezze varie, gli era scappata una frase che doveva restare nella sua testa, per il bene di tutti, aveva scritto una stronzata, e lei aveva capito che lui provava qualcosa.
 
Gli aveva chiesto se ci stava provando, sembrava seccata, e lui aveva negato nel miglior modo possibile, ovviamente male. E poi lei gli chiedeva consigli in merito al suo ragazzo, gli parlava di quanto sono stronzi gli uomini, e lui le dispensava questi consigli come un buon amico disinteressato che però aveva già cominciato a soffrire per lei. Doveva restarne alla larga, non doveva lasciarsi coinvolgere, e soprattutto non doveva coinvolgere lei.
 
Non poteva essere vero, alla fine, dopo Sara, dopo quello che era successo con Alex, lui stava lì a preoccuparsi dei sentimenti di una ragazza di cui non conosceva nemmeno il nome, di quello che lui provava per lei, e aveva iniziato a esplorare il suo futuro con lei, e questo lo spaventava.
 
Il colpo di grazia lo aveva avuto il giorno dopo, mentre era a lezione, e annoiandosi aveva pensato a lei, al suo compleanno imminente, aveva pensato a qualcosa da regalarle, così da buon amico, e senza accorgersene aveva scritto una poesia d’amore. La sua mente poteva anche rifiutare i suoi sentimenti ma il suo cuore ormai era partito, una poesia d’amore, ma che cazzo gli passava per la testa, per una ragazza fidanzata.
 
Cercava di convincersi che fosse solo un’amica e intanto le aveva candidamente confessato di aver tentato il suicidio, e fino ad allora non lo aveva detto a nessuno. Ma quanto era fuori in quel momento, come poteva sperare che lei potesse interessarsi a lui, soprattutto dopo quello chele aveva detto, e come poteva sperare che si innamorasse di un tale sfigato mentre cercava di riportarla tra le braccia di quell’altro?
 
I suoi pensieri correvano sempre troppo veloci perché lui riuscisse a star loro dietro, e quel pomeriggio in facoltà l’aveva coperta di messaggi, e lei sembrava felice, e serena, e lui era sempre più depresso. Mancavano due giorni al suo compleanno, sarebbe stato felice di farle gli auguri, magari per primo, ma poi aveva pensato che sarebbe stato stupido, perché lei aveva accanto qualcuno che l’avrebbe baciata, e abbracciata, e lui non aveva niente di tutto questo, non poteva darle che qualche parola sdrucita scritta in fretta tra una lezione e l’altra, che qualche chiacchiera in chat mentre si tagliuzzava facendosi la barba.
 
Evvai, era di nuovo coinvolto in qualcosa, la sua fottuta paura di stare solo lo aveva di nuovo spinto in mezzo all’arena, e stavolta sentiva che sarebbe stato difficile, ma era comunque impegnato a realizzare qualcosa, ed era già tanto.
 
E poi c’era lo psicologo, e quella maledetta relazione su di lui. L’aveva scoperta per caso tra le carte di suo padre, in mezzo a un cosa chiamata decreto di interdizione. Solo questione di giorni e la sua vita avrebbe avuto lo stesso valore di un sasso, solo pochi giorni di libertà, di autonomia, e poi avrebbe smesso di guidare, di decidere, di essere una persona adulta, sarebbe tornato un bambino.
 
Se lo meritava dopotutto, il suo stato emotivo era tale da spaventare chiunque ci si fosse affacciato anche solo per un istante, del resto aveva cercato di uccidersi, aveva cercato di uccidere, ormai tutto quello che la gente pensava di lui era che fosse pazzo, tutto quello che la gente voleva da lui era che stesse lontano, tutto quello che si aspettavano le persone che amava era che morisse presto, che smettesse di essere un peso per tutti e magari anche per se stesso.
 
Certo una crisi davanti a tutti i suoi compagni di facoltà gli mancava ancora, e gli mancava svenire sulla porta dell’aula davanti alla ragazza che aveva amato, e davanti a cui si era mostrato sempre forte, ma a questo il destino stava per rimediare molto in fretta.
 
Stava ancora scrivendo quando aveva sentito degli strani brividi percorrergli la schiena, e l’aula aveva cominciato a girare troppo velocemente. Stava male, doveva uscire, di corsa, ma ovviamente Dio non aveva ancora finito di prendersi gioco di lui e non gli aveva dato il tempo di chiudersi nello sporco bagno della facoltà e di riempirsi di pillole aspettando che gli passasse. No, doveva svenire lì, davanti a Sara, doveva risvegliarsi due minuti dopo tra le sue braccia.
 
I suoi occhi erano sempre belli, comunque lo guardassero, anche con quella compassione che voleva cancellare dalla faccia di chiunque lui incontrasse. Sara era lì, ma la sua testa no, era altrove ormai, e come ci fosse arrivata non lo sapeva neppure lui.
 
Doveva tornare a casa, da solo, nel suo letto, e parlare con Hailey, con l’unica persona che aveva quella risposta, che lo conosceva davvero, ma solo nel profondo, che lo capiva davvero, ma solo nell’anima, a cui piaceva davvero, ma solo come amico, a cui poteva dire tutto, tutto quello che pensava e che sentiva, con due fottute eccezioni: l’amore che iniziava a provare per lei, e il cancro.

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Capitolo 6
*** il compleanno di Hailey ***


Il compleanno di Hailey
 
Era arrivato il giorno del suo compleanno. Incredibile che fosse passato così poco tempo e che lui fosse così contento di poterle dare gli auguri. Era da poco passata la mezzanotte e lui era rannicchiato sotto le coperte aspettando che lei rispondesse al suo messaggio di auguri, e intanto si chiedeva se quell’altro le avesse fatto gli auguri, se glieli avrebbe fatti il giorno dopo e come.
 
Le aveva detto della poesia, ma non le avrebbe fatto leggere le sue parole d’amore. Non poteva esporsi, soprattutto non doveva farlo. E comunque c’era un pensiero che lo affliggeva in quei giorni e di cui doveva liberarsi, ma non sapeva come. Cosa provava quella ragazza per lui? Era davvero solo sua amica? Perché ok gli parlava, lo consolava, ci scherzava, e  spesso erano anche andati sul pesante ma aveva visto una piccola frase apparire sotto una canzone che le aveva dedicato, e ne aveva avuto timore.
 
I love you. Fottuto inglese. Come cavolo lo puoi tradurre un “I love you”? Non è come dire ti amo, o meglio potrebbe, ma potrebbe anche significare ti voglio bene, così, come amico. E l’ultima cosa di cui aveva bisogno era di fare una figuraccia.
 
No, non era di questo che aveva paura, ma di lasciare che lei si innamorasse di lui. Perché lui era così, era un fallito e uno sfigato, ma dentro aveva tanto da offrire e a volte gli sembrava di darle troppo più di quello che un amico dovrebbe dare, gli sembrava di parlarle troppo diversamente da quanto avrebbe dovuto fare con una semplice compagna di giochi e scherzi telematici. Le aveva dedicato canzoni d’amore, le aveva scritto che gli mancava, che lo tranquillizzava, che pensava a lei, ed era vero, era diventata il centro del suo mondo.
 
Quella mattina si era tirato fuori dal letto senza rendersene conto quando era ancora buio, e il sole non aveva ancora bussato alla sua finestra, per scriverle quella poesia. Le aveva promesso un regalo e non poteva darle altro, in effetti.
 
Quando aveva aperto facebook aveva trovato un messaggio di lei, era allegra, gli diceva di averlo sognato,  e lui si era sentito prendere da mille turbolenti pensieri.
 
Non avrebbe mai potuto averla, non avrebbe mai potuto stare con lei, non si sarebbero mai visti e non si sarebbero mai baciati, che senso poteva avere dirle quel fottuto ti amo? E poi lei lo avrebbe allontanato. Era inevitabile che accadesse. Gli aveva detto che parlare con lui la emozionava, che era dolce e tenero, belle parole ok, ma lui era solo un fantasma che parlava da un computer, e poteva di certo dirle tutto quello che aveva nel cuore e nella mente, ma non poteva mostrarle il suo corpo, e poteva di sicuro darle affetto, e gioia, allegria, ma non poteva darle il suo amore.
 
Lei non lo avrebbe accettato, e se anche fosse stato così non sarebbe stato giusto comunque. Sapeva come andavano queste cose, lei un giorno avrebbe voluto di più. E glielo aveva dimostrato perche due giorni prima gli aveva offerto il suo numero di telefono e lui si era sentito impallidire e gelare il sangue nelle vene.
 
Avrebbe voluto il suo numero, avrebbe voluto il suo indirizzo e avrebbe voluto sapere tutto di lei, sentire la sua voce, vedere il suo viso. E’ quello che fa la gente normale, si conosce, si innamora, si frequenta, poi si lascia magari. Ma in tutto questo lui non poteva infilarsi, non in quel momento.
 
Aveva pensato a tutte queste cose quando aveva iniziato a scrivere il titolo della poesia nel messaggio che le stava mandando.  E le aveva scritto una poesia. Ma non quella che aveva scritto per lei, un’altra che aveva scritto così, sul momento. Non le avrebbe mai detto quello che provava per lei, non le avrebbe mai detto che si era innamorato di lei. Si era fatto venire in mente altre parole, semplici, carine, parole da cui potesse trasparire l’affetto e la gratitudine che provava per lei, ma null’altro.
 
A lei era piaciuta, e lui aveva sorriso come uno stupido davanti al computer, davanti a una foto che aveva trovato tra quelle del suo profilo, e che la ritraevano con un grande sorriso e un enorme paio d’occhiali scuri. Quanto era diversa da lui, e quanto era diversa da Sara, eppure lui si sentiva attratto da lei.
 
Quella sera avevano organizzato un bel party di sesso e anfetamine a tre, con la loro amica Adurna che comunque faceva parte del loro rapporto praticamente da sempre. Eppure nonostante fosse solo un gioco, per lui era comunque importante sentire Hailey così vicina, in quel modo tutto speciale e particolare.
 
Era ufficiale, si era innamorato, di nuovo, e di nuovo della persona sbagliata e nel momento sbagliato.
 
Cosa avrebbe fatto se lei avesse capito cosa provava, se lo avesse messo alle strette, se gli avesse chiesto - mi ami? – glielo avrebbe detto di sicuro, e poi lei avrebbe potuto nell’ordine mandare il suo fidanzato a casa sua e fargli spaccare la faccia, prenderlo in giro come aveva fatto Sara, o farsi una bella risata pensando che lui stesse scherzando.
 
E poi c’era un’altra possibilità, quella che lei gli credesse, e volesse approfondire la cosa. Avrebbero continuato a scriversi messaggi romantici, a dedicarsi canzoni d’amore, a ridere e a scherzare e magari avrebbero iniziato a fare l’amore loro due soli. Ma un giorno lei avrebbe preteso di più, gli avrebbe chiesto di chiamarla, gli avrebbe chiesto di vedersi, in fondo abitavano a tre ore di macchina.
 
E lui avrebbe dovuto dirle di no. E allora sarebbe finita.
 
Era uscito preso dall’angoscia perché quella mattina lo aspettava lo psicologo. Aveva terrore di quello che sarebbe successo, di quello che il suo aguzzino gli avrebbe detto, delle conseguenze che quelle parole avrebbero avuto per lui, nei due giorni successivi almeno.
 
E invece Hailey era lì a tirargli su il morale. Tutto sommato lei lo stava aiutando davvero tanto, e gli aveva detto che stava passando un bel compleanno, e che il suo era stato il regalo più bello.
 
Doveva farla finita con lei, prima di farle male. Tanto valeva farla finita subito. Le aveva scritto quella poesia, mentre le vere parole d’amore stavano esplodendo nel suo cuore, e presto o tardi gli sarebbero venute fuori, e lui doveva metterle a tacere nell’unico modo che conosceva, scappando.
 
 

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Capitolo 7
*** una notte d'amore ***


Una notte d'amore
 
Aveva deciso di chiudere quella storia assurda quel giorno stesso. Lei sarebbe stata a casa da sola quella sera, di certo il suo ragazzo sarebbe andato da lei e le avrebbe fatto una sorpresa, si sarebbero baciati e poi chissà, e mentre pensava a tutto questo il sangue gli bolliva nelle vene.
 
Non poteva spingersi oltre, la situazione era troppo difficile già così, lei era a scuola e continuava a mandargli messaggi dolci e gli stava accanto, e lui non poteva continuare ad approfittare di quella amicizia, di quelle parole dolci, solo perchè ne sentiva troppo il bisogno, solo perchè si sentiva solo ed aveva paura di perdere anche quei pochi attimi di gioia che lei gli regalava.
 
Quel pomeriggio aveva iniziato a chattare con lei come ogni sera, ma poi a un certo punto, quando aveva trovato il coraggio di dirle che forse stavano esagerando, che forse dovevano mettere dei paletti nelle loro discussioni, e riportarle a un normale rapporto di amicizia, lei lo aveva interrotto.
 
Gli aveva aperto le porte della sua infanzia, dei suoi ricordi, della sua vita. Gli aveva parlato di un evento così intimo, e personale, gli aveva aperto il suo cuore e mostrato il suo tormento. E poi, all'improvviso, lei lo aveva lasciato, doveva andare via, in quel posto pieno di ricordi tristi e lontani, da sola, al buio, sotto la pioggia.
 
Lo aveva lasciato davanti a quel computer, a chiedersi che ruolo potesse avere lui in quel momento nella vita di quella ragazza, così lontana dal suo corpo eppure così vicina al suo cuore. Che cosa potesse davvero fare per lei, e in che cosa invece stesse sbagliando.
 
Ok lui era solo un perfetto estraneo dall'altro lato di una chat, e parlava con lei da poco più di una settimana, ma perchè adesso era andata via in quel modo, perchè da sola, perchè lui non poteva starle accanto, dirle qualcosa, fare qualcosa, per aiutarla a superare quel momento? Se lui non poteva fare niente per lei,se non poteva starle accanto, se voleva restare da sola, perchè gli aveva detto tutto, perchè si era aperta solo con lui? Davvero lei aveva bisogno di lui in quel momento?
 
Non poteva trovare risposte a quelle domande, e come ogni volta che stava male aveva iniziato a scrivere e le aveva mandato un messaggio, voleva dirle che in qualche modo lui ci sarebbe stato anche se solo per poco, solo per un istante, anche se solo nei suoi pensieri, che sarebbe rimasto nascosto per non disturbarla, che le avrebbe lasciato tutto il tempo che serviva, ma che sarebbe apparso quando lei ne avrebbe avuto bisogno.
 
 
Era uscito di casa tormentato e angosciato, quella sera a casa di sua sorella il suono delle canzoni allegre e le voci squillanti dei suoi nipoti non riuscivano a distogliere i suoi pensieri da lei. Si era imposto di non toccare il suo fottuto telefono, di lasciarla sola come gli aveva chiesto lei, ma non poteva restare senza fare niente, alla fine aveva aperto facebook, e sperato di trovare un suo messaggio. E quel messaggio c'era, sulla sua bacheca aveva trovato una richiesta di aiuto.
 
Poche piccole insignificanti parole - Billie... rispondimi... ti devo parlare  -
 
Gli si era gelato il sangue. Era rimasto immobile davanti a quelle parole, terrorizzato. Tremava, aveva paura che le fosse successo qualcosa, ma non poteva fare niente, e non poteva mostrarsi così davanti ai suoi, non avrebbero capito. Era uscito sul balcone, così, stringendosi nella sua camicia nera, e nella nebbia riusciva a vedere le luci colorate di natale che splendevano sulle case, e quelle delle auto che correvano verso casa. Era buio e freddo, lui era solo e lei, lei era sola chissà dove, e non rispondeva al suo messaggio, e lui non poteva fare altro che guardare quel fottuto telefono e pregare.
 
Non che Dio avesse tempo da perdere con lui. All'improvviso si era reso conto di quanto davvero inutile fosse la sua vita, il suo ruolo in quel rapporto, di quanto niente e davvero niente potesse fare per lei, in quel momento, e in quelli successivi. Gli erano mancate le forse, e si era ritrovato in ginocchio, a terra, a respirare affannosamente e a tremare, lei gli aveva chiesto aiuto, ma lui non poteva darglielo, non avrebbe potuto darglielo mai.
 
Il suo numero di telefono, lui l'aveva visto un giorno, sul suo profilo, da qualche parte. Aveva iniziato a scorrere tutte quelle inutili informazioni prima di riuscire a leggere quei numeri, tra le lacrime, e a mandarle un messaggio, sul suo cellulare.
 
Aveva varcato il confine, aveva fatto ciò che si era ripromesso di non fare mai, aveva invaso la sua intimità, e non sapeva come lei l'avrebbe presa, ma non importava in quel momento. Piangeva e non sapeva se fosse solo per la paura che le fosse successo qualcosa, o perchè sapeva cosa quel gesto avrebbe significato nel loro rapporto.
 
Lei gli aveva risposto, e quando quella bustina era apparsa sul suo telefono lui aveva poggiato le spalle al muro bagnato e si era messo a singhiozzare come un deficiente prima che sua mdre lo trascinasse dentro chiedendogli cosa fosse successo.
 
E tutto quello che era riuscito a dire, erano solo due piccole parole - sta bene, lei sta bene -.
 
In effetti in quel momento c'erano solo due certezze: lei stava bene, era a casa finalmente, e non era arrabbiata con lui per quei messaggi, per quella invasione nella sua vita. E lui, lui era innamorato di lei e non avrebbe più scritto quelle parole che aveva in mente da quella mattina, non l'avrebbe lasciata, no, le avrebbe chiesto di fare l'amore con lui.
 
Cosa potesse comportare tutto questo, cosa potesse significare per lei quella notte di sesso che non aveva nessun precedente, e non avrebbe dovuto avere nessun futuro, non lo sapeva, e non gli importava.
 
Lei era felice, era il suo compleanno, aveva avuto la sua festa, i suoi tormenti e la sua ancora di salvezza. Era finalmente nel suo letto, al caldo, e la stava aspettando. Quando tutti gli altri sarebbero andati via, quando lei fosse rimasta da sola, nel silenzio della sua casa, lui le avrebbe regalato una notte d'amore, con lui e solo con lui, e fino alla fine.

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Capitolo 8
*** il lungomare ***


il lungomare
 
Erano stati due giorni stupendi. Lei era felice, era allegra, e gli trasmetteva quella gioia di vivere e di sorridere che gli mancava da troppo tempo. 
 
Aveva passato la giornata a cucinare, e a mandargli messaggi, e lui invece era rimasto a casa coi suoi coinqulini, a meditare sul perchè in quei giorni fosse così allegro nonostante avesse deciso di smetterla con il prozac. Non era stata una vera decisione, era successo, punto. Era felice e sereno adesso, e non aveva più bisogno delle sue pillole.
 
La mattina era volata, e lui stava stranamente bene, e non voleva chiedere spiegazioni al suo corpo e alla sua mente, ma dopo pranzo le cose erano cambiate in modo assurdo, e inaspettato.
 
All'improvviso era nervoso. Era seduto al computer e dalla finestra vedeva solo la nebbia, che aveva creato un enorme alone grigio sui palazzi di via Sparano. Lei gli stava scrivendo ancora, ma la sua mente in quel momento era già lontana. Un nuovo tormento, l'amore.
 
Perchè doveva preoccuparsene proprio ora? Forse perchè non aveva preso le sue fottute pillole, forse perchè lei gli aveva chiesto seriamente il motivo dei loro rapporti, forse perchè lui le aveva mentito dicendole che erano solo amici e che non dovevano farsi domande, dovevano vivere tutto solo così, prendendo il meglio dal loro rapporto.
 
Ma di che natura era quel rapporto veramente? Loro non erano amici, questo era certo, facevano l'amore, si, ok, solo in quel modo assurdo, ma era un legame stretto e intimo, era un filo che li legava e che non poteva riguardare la loro amicizia. Il loro rapporto era a un livello superiore ormai, e lui era a un punto di svolta nella sua vita. O meglio al punto finale. Stava morendo.
 
Doveva fumare, doveva uscire, e camminare per le strade della sua città, quando il cielo si fa arancione, e il sole tramonta nella nebbia, prima che nel mare. I lampioni sembravano accendersi al suo passaggio, pochi passi e avrebbe visto il mare.
 
E lei era accanto a lui, era lì con le sue parole, era lì mentre lui si sedeva con la sua sigaretta davanti al mare, su quel freddo e umido sasso sugli scogli, mentre guardava le onde infrangersi sui suoi sogni. Aveva immaginato una di quelle scene da film romantico, e lei si era immaginata accanto a lui, di fronte ai suoi occhi. 
 
- Se fossi qui adesso ti bacerei -, aveva pensato, anzi no, glielo aveva proprio scritto.
 
Ormai le aveva svelato i suoi sentimenti, anzi lei gli stava dando addosso, lo stava costringendo a tirare fuori le palle, aveva detto proprio così, e a confessare i suoi sentimenti una volta per tutte. E lui era lì a tremare e a piangere col telefono in mano, certo non era la scena che aveva immaginato, ma il luogo era bellissimo, e forse anche il momento lo sarebbe stato, se lui non fosse stato nel pieno di un attacco di panico. - mi sto innamorando di te -
 
La prima bugia della giornata. Lui era già innamorato di lei. Perdutamente.  Per questo stava tanto male, perchè non doveva dirle niente, non doveva illuderla, non doveva prometterle niente che non potesse mantenere.
 
Quando la sua risposta era arrivata lui si era sentito male davvero. Lei lo amava già. Si era sentito un coglione, perchè se lei gli avesse detto quelle stesse parole un anno prima, se lui avesse provato quei sentimenti un anno prima, sarebbe stato tutto diverso, tutto meraviglioso.
 
Lui avrebbe sorriso tremando, e poi avrebbe composto il suo numero, l'avrebbe chiamata, per dirle, per sussurrarle, per urlare quel ti amo che scoppiava dentro di lui, e per sentire la sua emozione, e la sua voce tremare.  Sarebbe corso a casa, avrebbe fatto quei fottuti quattro piani a piedi e poi avrebbe preso le chiavi della sua alfa, e si sarebbe messo sull'autostrada finchè un maledetto cartello non gli avesse indicato la via per raggiungere la sua donna. L'avrebbe vista, le avrebbe detto che l'amava, l'avrebbe baciata.
 
Mentre i suoi sogni volavano, i suoi piedi restavano ancorati alla sabbia e agli scogli, lui non poteva andare da nessuna parte, lui non poteva darle niente, niente.
 
La seconda bugia. O la terza, la ventesima, era questo il loro fottuto rapporto, solo bugie, e tutto perchè alla base c'era quel maledetto segreto. Le aveva detto che il telefono era scarico, che ne avrebbero riparlato dopo, quando fosse tornato a casa.
 
Era rimasto lì a tremare per un'ora, a guardare nel mare ormai buio, a cercare una via di fuga.
 
Quando era riuscito a rialzarsi era tornato a casa, e i suoi amici lo avevano guardato come un fantasma, e non doveva essere molto diverso in effetti. Era corso nella sua stanza, aveva acceso il computer, e l'aveva trovata lì, era felice, era ancora felice, forse più di quanto lui stesso potesse immaginare, lei lo amava e lui le aveva confessato i suoi sentimenti, e per una donna non doveva esserci nulla di più bello ed emozionante.
 
Lui doveva aver smontato subito la sua gioia, le aveva chiesto perdono, per tutte le sue bugie, e lei doveva aver temuto che i suoi sentimenti non fossero sinceri, perchè a un certo punto gli aveva chiesto di poterlo chiamare.
 
Se non avesse ingoiato mezzo blister di prozac si sarebbe fatto venire un altro attacco di panico, no, niente telefoni, niente voci, niente ulteriori complicazioni, lui non poteva dar seguito a quella telefonata, non poteva dar seguito ai suoi sogni, e se faceva già tanto male deludere se stesso, non poteva permettersi di deludere anche lei. E invece lo stava facendo, lei pensava che lui le avesse mentito sui suoi sentimenti, e poi si era presa la colpa di tutto, della sua voglia di sentirlo, di amarlo, e non poteva restare a guardare la donna che amava torturarsi così. 
 
Non era giusto che lei si prendesse la colpa e il tormento di aver rovinato un rapporto che non era ancora nato, ma che faceva battere forte i loro cuori, e tremare le loro menti insicure e spaventate.
 
Era lì davanti alla finestrella della chat come tante troppe altre volte, ma quella sera la sua testa non era in grado di partorire un'altra bugia, magari migliore di quelle che aveva sfornato fino a quel momento.
 
Il pensiero sottile. Per chi ci crede, consente di leggere nel pensiero dell persone con cui sei legato da un profondo legame interiore. Lei doveva essere nella sua testa molto più di quanto lui immaginasse. Glielo aveva chiesto così, senza girarci su, gli aveva chiesto se lui non fosse malato.
 
Quanto male può fare sentirsi dire quello che cerchi di nasondere e di dimenticare ogni fottuto istante? Lei era sconvolta, lui voleva renderla felice e lei era sconvolta.
 
Gli aveva chiesto un attimo per pensare, una notte per metabolizzare, del tempo per farsi una ragion del fatto che l'unico uomo che avesse mai amato stesse per morire.
 
Era di nuovo solo su quella chat. Era di nuovo solo col suo dolore, e ne aveva creato un altro, più lacerante, in una dolce e sensibile ragazza di diciassette anni che avrebbe dovuto pensare solo a godersi la sua vita, e non a lui, al suo amore, alla sua maattia.
 
Aveva scritto un altro messaggio, aveva scritto altre stronzate, aveva fumato mezzo pacchetto di sigarette e fatto fuori tutto il prozac. Ma il cuore batteva forte, ancora. Si era alzato barcollando, aveva raccolto il suo giubbotto da terra e aveva svuotato tutte le tasche. Il telefono. Aveva sospirato e aveva composto un numero.
 
Aveva sentito la sua voce, pochi suoni dolci e armoniosi, rotti dal pianto, e dal dolore. La loro storia era iniziata. E non importava se e quanto sarebbe durata, loro erano lì, in quel momento, e tutto il resto era solo inutile.

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Capitolo 9
*** il 4 dicembre ***


Il 4 dicembre
 
Hailey e Arthur. Due persone così lontane, così diverse. Eppure così simili, al punto da essere riusciti a innamorarsi solo in pochi giorni, solo con poche parole. Avevano iniziato a sentirsi ogni giorno. Nonostante la malattia, lui stava vivendo un periodo tranquillo, sereno. Viveva in quella angusta casetta universitaria coi suoi amici, frequentava la facoltà e aveva già comprato il libro per il  suo prossimo esame. Era allegro, e adesso era anche innamorato. Era leggero, come all'incirca un anno prima, era tornato quello di un tempo e si piaceva in quella nuova situazione.
 
Qualche altro giorno e sarebbe arrivato il suo compleanno, e lei gli aveva promesso un regalo bellissimo e inaspettato, di certo originale, una canzone.
 
Quanta nuova gioia c'era nel suo cuore, e quanta nuova passione ed energia nel suo corpo. Avevano fatto l'amore ogni sera, e se all’inizio era stato strano e imbarazzante, già dopo un paio di giorni era diventato normale, eppure allo stesso tempo nuovo e diverso ogni volta.
 
Avevano iniziato a conoscersi e a raccontarsi tutto quello che attraversava le loro vite, lui aveva iniziato a selezionare solo quello che avrebbe dovuto dirle per non farla scappare via di corsa, e lei aveva iniziato a svelarsi a lui a poco a poco, e a dargli ogni giorno un motivo per amarla sempre di più.
 
Erano felici, inesperti e spensierati come ogni coppietta alle prime armi, vogliosi e desiderosi l’uno dell’altra, impazienti e spesso sbagliati, ma comunque sinceri. E questa gli sembrava la cosa più importante, anche perché il loro rapporto era già iniziato con un segreto bello grosso. Intanto, la sua paura più grande, la solitudine, sembrava svanita.
 
Era leggero, non aveva più pesi, né segreti. Le aveva raccontato tutto, del cancro e del fatto che non ci fosse più niente da fare, aveva svuotato l'anima dai suoi tormenti, li aveva condivisi con qualcuno che potesse capirlo, davvero, e poi era tutto passato, il cancro non era parte del loro bellissimo rapporto, non era che un insignificante aspetto marginale.
 
Almeno fino al giorno in cui si era sentito male, in macchina, mentre parlava con lei. Aveva avuto paura, di morire, di restare chiuso in quella fottuta auto, di essere solo. Ma non era così, lei era rimasta al suo fianco, era con lui e gli aveva tenuto la mano e parlato, parlato, finché non era tutto passato.  No, no gli aveva anche cantato una canzone, bellissima, e lui aveva pianto in silenzio perché sapeva che lei avrebbe pensato a lui ogni volta che l’avrebbe riascoltata. Ormai era davvero la sua ragazza, ormai era davvero un amore nuovo e inatteso, il miracolo che aspetti da tutta la vita.
 
Aveva pregato tanto, dopo aver scoperto di essere malato. E’ sempre così, Dio lo scopre solo quando hai bisogno di lui, e spesso Lui te la fa pagare la tua ipocrita e improvvisa voglia di recitare il Padre Nostro, cercando di ricordare parole che avevi cancellato dalla tua mente parecchi anni prima. Aveva pregato quel giorno, sul suo letto d’ospedale, quando gli avevano detto di quella buffa pallina nella sua testa, gli aveva  di stare bene, di tornare a stare bene di nuovo, si era arrabbiato, aveva pianto, aveva bestemmiato, aveva urlato ed era ormai certo che Dio non lo avesse ascoltato.
 
Non era guarito, e non sarebbe guarito mai, anche se i suoi medici continuavano a chiedergli di sperare, anche se i suoi lo stavano costringendo a un altro ciclo di chemioterapia. Non c’era stato nessun prodigio, eppure il miracolo c'era stato, era guarito nell'anima, e avrebbe avuto al suo fianco una donna meravigliosa, fino alla fine.
 
Il suo compleanno era arrivato. Vent'anni. Li aveva immaginati tante volte, nella sua fantasia di adolescente, essere adulto, vivere fuori casa, correre con l’auto e andare a ballare. Certo la sua vita era molto diversa adesso, la sua bellissima alfa era nelle mani di chissà chi ormai, e di certo non sarebbe andato a ballare quella sera, e neppure le successive.
 
In quel fottuto giorno comunque non era mai riuscito a realizzare niente di buono, anzi aveva sempre trovato il modo di rovinare ogni cosa.
 
Tra i ricordi più nitidi dei suoi diciotto anni c'erano quella fottuta depressione che si insinuava continuamente ogni giorno di festa, e quelle coperte calde, nel suo letto, le sue pillole, troppe  e tutte insieme, le lacrime di un dolore sordo e sconosciuto, eppure lacerante, e le note diAcross the Universe, che lo avevano accompagnato in quello che doveva essere il suo ultimo viaggio. E quando era stato abbastanza lucido, si era reso conto che aveva causato lui tutti gli errori che aveva fatto nei suoi ultimi mesi e che alla fine avevano spinto Sara a lasciarlo, di nuovo, in quello stesso giorno, l'anno prima.
 
Quello sarebbe stato il suo migliore compleanno, e non poteva che essere così, perché gli altri facevano schifo, e perché sarebbe stato l'ultimo. Doveva darsi da fare, in un modo o nell’altro, soprattutto per non pensare, per non combinare altre cazzate.
 
Aveva aspettato quel pomeriggio con ansia, aveva acceso il computer e trovato la canzone che lei aveva scritto per lui. Era bellissima, forte ed emozionante al tempo stesso, e quelle parole cantate dalla sua voce così bella, così dolce e prorompente, erano il più bello e sincero regalo che avesse mai ricevuto, che avrebbe mai ricevuto.
 
Era a casa dei suoi genitori, e tutto sommato stavano festeggiando il suo compleanno senza fargli troppo pensare che non ce ne sarebbe stato un altro. La sua bella torta, le visite dei soliti scoccianti parenti e le battute idiote di suo cognato avevano creato quell’atmosfera di calma e serenità che no ricordava più da tanto in quella casa. Sembrava una giornata meravigliosa, ma all’improvviso i suoi occhi erano caduti su una lettera, le sue mani l’avevano aperta e la sua testa aveva iniziato a pensarla diversamente, e come ogni giorno, se la mattina era stata stupenda, e il pomeriggio accettabile, la sera aveva riservato brutte sorprese.
 
La sua fottuta depressione lo aveva di nuovo portato indietro, al suo passato, a quei giorni difficili, e poi di colpo lo aveva scaraventato in avanti, nel buco nero di quello che non sarebbe successo mai, dei sogni che non si sarebbero realizzati, dei progetti che sarebbero rimasti nel vuoto.

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Capitolo 10
*** il tradimento ***


Il tradimento
 
Il suono del citofono lo aveva distratto per un instante, e aveva accartocciato la lettera tra le dita, nascondendola nelle tasche strette dei suoi jeans. I suoi amici si erano presentati a casa sua all’improvviso, e lui ne era stato felice. Una bella sorpresa, finalmente. Lo avevano trascinato nell'unico e buio pub di quel paesino di provincia. Avevano di nuovo voglia di bere e fare caciara, e lui in questo era insuperabile, almeno quando la depressione non lo attanagliava.
 
Erano tutti stretti su quella fredda panca di legno a ridere come dementi, allacciati alle loro birre e ai discorsi da cafoni, quando alle sue spalle aveva sentito due braccia cingerlo in un tenero abbraccio, e un bacio sfiorargli i capelli. Voltandosi aveva ritrovato i profondi occhi azzurri di Alex.
 
Lui gli aveva sorriso e gli aveva fatto gli auguri, e poi aveva praticamente rimosso con uno spintone Dennis dal suo posto, per sedersi accanto a lui. Arthur si era improvvisamente sentito a disagio, e aveva avuto la tentazione di andare via, ma non ne aveva avuto la forza.
 
 Alex gli aveva preso la mano, gliela teneva stretta, e lui si era voltato a guardarlo come per chiedergli il perché di quel gesto, ma dentro di sé sapeva che era ciò di cui aveva bisogno in quel momento, e che lui gli aveva letto dietro il suo sorriso, aveva sentito quel dolore sordo che riempiva la sua mente in quel giorno, a quella fottuta ora.
 
I suoi amici avevano continuato a ordinare birre e a mangiare patatine, e lui aveva sentito il bisogno di una sigaretta. Era uscito stringendosi nel suo piumino, e aveva cercato l’accendino in quella tasca, ritrovando la lettera. Aveva sentito una lacrima scendere sul suo viso, ed era appena riuscito ad asciugarla quando Alex lo aveva preso per mano e lo aveva trascinato fino alla sua auto. Glielo aveva fatto fare senza discutere, senza pensarci troppo. Non riusciva più a sopportare tutta quell’allegria, era il suo compleanno, l’ultimo, e lui aveva bisogno di piangere. Alex lo aveva lasciato sfogare per un po’, lo aveva abbracciato e quando finalmente si era calmato gli aveva chiesto di salire sulla sua auto.
 
Avevano fatto un giro per il paese, tra quei vicoli stretti illuminati solo dalle luci di Natale, e lui aveva iniziato a raccontargli tutto, della depressione, degli attacchi di panico, della chemio. Della lettera. E poi di Hailey, di quanto fosse innamorato di lei, di quegli ultimi giorni così belli. In fondo, prima che il suo amante, lui era anche e soprattutto il suo migliore amico, quello che lo conosceva più di chiunque altro. Alex aveva imboccato una strada stretta, aveva costeggiato la stazione ormai deserta fuori paese, e aveva fermato la macchina in un vicolo buio e disabitato.
 
Gli aveva carezzato la guancia con la mano calda, aveva sfiorato il suo sorriso, e gli aveva chiesto se fosse felice. Era una domanda retorica, perché lui conosceva già la risposta, lui conosceva tutte le risposte.
 
Arthur aveva continuato a sorridere, e aveva visto gli occhi di Alex farsi lucidi. Aveva preso tra le sue dita quella mano che ormai lambiva insistentemente le sue labbra. – Non succederà di nuovo Alex – non poteva accadere nient’altro tra di loro. Lui era innamorato adesso, era innamorato di Hailey, e glielo aveva ripetuto, di nuovo, mentre lui abbassava gli occhi.
 
Alex aveva rialzato il viso solo un attimo, l'aveva guardato di nuovo, sorridendo beffardamente. - Lo so - gli aveva risposto. Si era allontanato da lui, aveva messo le mani sul volante e sembrava volesse rimettere in moto la sua auto. Ma poi si era di nuovo voltato, lo aveva guardato solo un istante e lo aveva baciato.
 
Era rimasto sorpreso da quel bacio, ma forse sotto sotto lo stava aspettando, lo voleva, lo voleva davvero. Ma non poteva chiederlo, volerlo, desiderarlo perché adesso aveva una ragazza, la amava, e non poteva amare anche lui.
 
Eppure cazzo Arthur era follemente innamorato di Alex, e come potesse il suo cuore dividersi in quel modo tra due persone tanto diverse, tanto uniche e speciali, non lo sapeva, e aveva paura di scoprirlo, e mentre tutti i suoi fottuti pensieri si sovrapponevano uno sull'altro Alex aveva ripreso a baciarlo e a stringerlo forte a sé, e le ragioni del cuore erano andate a farsi benedire perché ormai il suo disperato bisogno di sesso aveva preso il sopravvento.
 
Alex era ancora impegnato a baciarlo quando lui gli aveva all’improvviso sbottonato i pantaloni, e aveva preso il suo pene ancora sopito tra le dita, iniziando a stringerlo e a strofinarlo contro le sue gambe. Alex lo aveva fermato per un istante, cercando di capire cosa fosse giusto, gli aveva chiesto se era sicuro, se lo voleva davvero. Dopo quel giorno a casa sua non avevano più parlato di sesso, e Arthur si era mantenuto a debita distanza da lui.
 
Aveva bisogno di risposte perché lo aveva guardato e a bruciapelo gli aveva chiesto cosa provasse per lui. Ma Arthur non aveva risposto. Si era sbottonato il giubbino e si era messo sopra di lui a cavalcioni e anche se lo sterzo gli premeva contro la schiena non si era curato di niente che non fosse tappare la bocca di quell’uomo con la sua lingua.
 
Gli piaceva da morire sentirgliela succhiare, lo eccitava in un modo nuovo e diverso. Quante maledette volte aveva pensato a lui mentre faceva l’amore con Sara, e quante volte aveva pensato ai suoi sentimenti contrastanti e contrastati. Non poteva dirgli la verità, e non voleva, voleva solo sesso da lui in quel momento, e non poteva sentirsi depresso, angosciato, non poteva pensare ai sentimenti suoi né a quelli di nessun altro.
 
La sua eccitazione cresceva ogni istante di più, sentire il pene di Alex crescere tra le sue mani lo mandava fuori di testa, aveva iniziato ad ansimare senza nemmeno toccarsi, senza ritegno. Era ormai pronto e  voleva penetrarlo, lo aveva fatto voltare su un lato e aveva infilato due dita in bocca, e poi nella sua apertura. Aveva chiuso gli occhi e gli era sembrato tutto assurdo per un attimo, ma due minuti dopo era dentro di lui e spingeva dolcemente, e lo teneva stretto, lo abbracciava, e Alex si era voltato verso di lui, e lo aveva baciato, e cercava le sue labbra mentre ansimava, e lui gliele aveva concesse, e intanto aveva spinto la sua mano fino al suo pene e aveva iniziato a masturbarlo sempre più intensamente.
 
Stava venendo, lì, in quell’auto, coi vetri ormai completamente appannati, con quella canzone che sembrava seguire i loro gemiti, con quella lucina rossa e azzurra che illuminava il loro buio, con quel dolce e a tratti nauseante profumo di fragola lì sotto il suo naso. Stava godendo come un disperato, e Alex continuava a chiedergli di spingere più forte, di venire dentro di lui. Erano passati minuti e minuti che sembravano secoli, e alla fine aveva dato quell’ultima forte spinta e si era allontanato da lui, tornando sul suo sedile.
 
Respirava a fatica, e si era voltato a guardare Alex sull’altro sedile, mentre goffamente cercava di voltarsi e di pulirsi. Erano venuti insieme. E non gli era mai successo prima, né con Sara né con nessun altro. Si era ritrovato di nuovo a piangere, e Alex aveva smesso di combattere con la lampo dei pantaloni e lo aveva abbracciato forte. E mentre continuava a stringerlo, nel calore del suo abbraccio, nella sicurezza delle sue parole, lì da soli dove nessuno avrebbe potuto vederli né sentirli, dove le uniche parole sarebbero state le loro frasi disconnesse e i loro gemiti, Arthur aveva socchiuso le labbra e con un filo di voce gli aveva detto – Ti amo - 

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Capitolo 11
*** delitto e castigo ***


delitto e castigo
 
Quando Alex lo aveva riportato a casa e lo aveva baciato, non gli aveva trasmesso solo il suo amore, ma anche e soprattutto un lacerante senso di colpa. All'improvviso aveva ricordato tutto quello che si era lasciato alle spalle quando era salito su quella macchina, quando aveva fatto l'amore con lui, quando gli aveva confessato il suo amore.
 
Salendo le scale aveva cercato di sistemarsi le idee, e i pantaloni, ed era a stento riuscito ad evitare le domande di sua madre, e a mascherare le sue guance avvampate e gli occhi lucidi.
 
Si era spogliato in fretta, il telefono era caduto, e si era illuminato sul nome di Hailey. Gli aveva mandato un messaggio. E lui lo non aveva nemmeno sentito, lo aveva letto solo dopo, dopo aver fatto l'amore con Alex. L'aveva chiamata. Aveva ancora il cuore in gola, ma lei era allegra e felice, in fondo era il giorno del suo compleanno e voleva festeggiare con lui.
 
Aveva deciso di raccontarle tutto, di dirle la verità e sperare che lei capisse. In effetti, lui le aveva già parlato di Alex, di quello che era successo tra loro due la sera dopo l'esame. Non le aveva parlato di sentimenti, non le aveva detto che in realtà lui e Alex si conoscevano da tanto, troppo tempo, che si erano frequentati per più di un anno quando lui stava ancora insieme a Sara, e non le aveva detto, soprattutto, che si erano allontanati quando Alex aveva cercato di baciarlo, e quando Arthur si era reso conto che quello che provava per quel ragazzo così presente nella sua vita non era amicizia, ma amore.
 
Stava per svuotare il sacco, ma lei lo aveva interrotto e lo aveva investito di parole, ed erano finiti a fare l'amore, quella sera come ogni sera. Ma quella sera non poteva essere uguale alle altre.
 
Le aveva mentito. Non era solo il tradimento in sé, non era solo quello che era successo con Alex, lui le aveva nascosto la verità ed era assurdo che potesse mancarle di rispetto in questo modo. Stavano insieme solo da una settimana e lui era già arrivato a quel punto. E si faceva schifo in quel momento, ma adesso dopo aver fatto l'amore con lei non poteva più dirle la verità.
 
Delitto e castigo. Uno dei libri più belli e intensi che Arthur avesse mai letto. Certo si era chiesto perché quel libro dedicasse solo due parole all'assassinio di una tirchia vecchietta, e centinaia di pagine al tormento, al lacerante dolore, al pentimento e al castigo.
 
Quella notte lo aveva capito. Fare l'amore con Alex era durato solo pochi minuti, pieni di adrenalina, di emozioni intense e a tratti dissociati dalla realtà. Solo pochi istanti in cui le emozioni avevano preso il sopravvento sulla ragione. Sarebbe stato troppo paragonare il sesso all'omicidio, ma in quel momento lui si sentiva così, come un assassino, l'assassino di un amore fresco e giovane, di una amore sincero che lui aveva tradito. E non per una semplice scopata, non per un po' di sesso, ma per un altro amore.
 
Aveva chiuso il telefono e passato metà della notte a fissare la lucina del computer e a piangere ascoltando i green day. I suoi tormenti erano riaffiorati, ed erano sempre di più. Il telefono avena iniziato a vibrare. Alex lo stava chiamando.
 
Si era chiesto perché, cosa lo spingesse a chiedere ancora di lui dopo tutto quello che era successo. Aveva quasi paura di rispondere, ma doveva dirgli che quella storia iniziava e finiva lì, che non c’era speranza per il loro amore, perché lui amava un’altra, perché era malato. Perché se anche così non fosse stato, non avrebbero potuto comunque. Punto.
 
Stringeva forte il telefono tra le mani, e alla fine lo aveva portato alle orecchie. Doveva sentire la sua voce. Alex non gli aveva nemmeno dato il tempo di aprire bocca, gli aveva detto che lo amava, anche lui. Ma poi aveva fatto ciò che non si sarebbe aspettato mai, lo aveva lasciato libero.
 
Alex parlava quasi soffocato dalle lacrime che non voleva mostrargli, ma lui continuava a non capire perché lo stesse facendo, perché gli stesse dicendo che nonostante il loro amore dovevano restare amici, solo amici. Aveva anche pensato alla cosa più cattiva, che lui si stesse allontanando perché non voleva soffrire, perché aveva paura di quello che avrebbe provato quando lui avrebbe perso completamente la ragione. In fondo, lui era quasi un medico, e lo stava lasciando per non soffrire, perché sapeva dove sarebbe arrivato.
 
Aveva iniziato a piangere, quando il pensiero della fine, e del dolore, della malattia e dell’oblio avevano preso posto nella sua testa come ogni fottuta notte. Alex aveva smesso di parlare, e poi aveva iniziato a calmarlo con la sua voce tranquilla e sicura, gli aveva detto che sarebbe andato tutto a posto, che lui gli sarebbe stato vicino, che non avrebbe dovuto aver paura perché un giorno sarebbe tutto finito, e lui si sarebbe finalmente sentito libero.
 
Si era asciugato le lacrime, e dopo due ore aveva sentito Alex sbraitare contro la sveglia che gli ricordava di alzarsi dal letto e di andare in ospedale. Avevano riso insieme per l’ultima volta quella notte, quella mattina. Arthur gli aveva chiesto di non lasciarlo solo mai, e Alex gli aveva promesso che sarebbe rimasto accanto a lui per sempre, non come amante, né come amico, ma solo nel modo in cui lui lo avrebbe voluto.
 
Avevano continuato a sentirsi ogni giorno, ogni notte. Non avevano mai più parlato di quelle due assurde notti di sesso, anche se spesso quei torbidi pensieri attraversavano la sua mente. Avevano smesso persino di parlare di sentimenti, e di amore. Non dovevano dirsi quel fottuto ti amo, era insito nelle loro menti, nei loro cuori, sepolto dove nessuno potesse vederlo, dove non potesse far del male a nessuno.
 
Eppure lui sapeva che un giorno o l’altro quel segreto sarebbe venuto a galla, e ogni giorno il peso della menzogna si faceva più forte, il peso della vergogna lo logorava, il peso del tradimento lo strattonava.
 
Il delitto era stato commesso, ed ora doveva sopportare il castigo, e non aveva idea di quanto potesse essere difficile ogni giorno di più.

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Capitolo 12
*** il regalo ***


Il regalo
 
E invece no, il tormento alla fine era rimasto sepolto nei meandri della sua testa malata, in fondo c’erano mille altri pensieri più importanti, mille altri tormenti più angoscianti, e in cima alle sue priorità c’era lei, c’era Hailey.
 
Il Natale era alle porte e per lui camminare nelle strade allegre di Bari piene di luci e colori, piene di quell’aria di festa che lo intrigava tanto, era una festa continua negli occhi e nel cuore.
 
E poi le aveva chiesto il suo indirizzo, perché voleva mandarle un regalo. In realtà, aveva paura di quello che sarebbe accaduto, perché sapere così tanto di lei lo avrebbe indotto in tentazione praticamente ogni volta che si fosse trovato perso a guardare i freddi binari della stazione, e ogni volta che la sua mente gli avrebbe malamente consigliato di salire su un treno per chissà dove.
 
Ma una parte di lui sapeva che anche un piccolo insignificante regalino lo avrebbe reso più reale ai suoi occhi, le avrebbe dato maggiori certezze, e avrebbe dato a lui la sensazione di un rapporto vero, di quelli che qualcosa di fisico ce l’hanno per davvero. Non era il regalo in sé a fargli tremare le mani per l’emozione, ma il fatto che quello che lui stava guardando, prendendo, toccando, sarebbe presto stato tra le sue mani, e anche se solo per un milionesimo di secondo le loro cellule si sarebbero unite, e le loro mani sfiorate.
 
Era fermo davanti a quella gioielleria da troppo tempo ormai quando si era deciso a importunare la commessa e a farle tirare fuori tutti gli anelli che aveva. Si era reso conto all’improvviso di quanto fosse difficile comprarle anche solo un piccolo regalo, non sapeva niente di lei, non aveva mai stretto la sua mano e non aveva idea di quanto fosse piccola, o grande. Aveva tirato fuori la foto di lei davanti alla commessa divertita, ma lui non aveva avuto voglia di ridere.
 
Né in quel momento, né quando lei gli aveva consigliato di portare anche la sua ragazza, perché sarebbe stato meglio che lo provasse, che lo scegliesse, che se lo guardasse al dito, E perché no, sarebbe stato bello che dopo averlo scelto e dopo aver passato dieci minuti a sorridere con gli occhi lucidi davanti al suo nuovo pegno d’amore, si voltasse verso di lui e lo baciasse.
 
Non c’era davvero niente da ridere, lui non avrebbe mai potuto vedere quell’espressione sul suo volto, non avrebbe mai potuto guardare i suoi occhi emozionati, e non avrebbe mai potuto baciarla, lui avrebbe solo potuto accontentarsi di sentire la sua emozione nascosta dietro alla sua voce lontana, dietro quel telefono che di fatto era il loro unico punto di incontro.
 
Aveva comprato quell’anello e scritto quel buffo bigliettino di Natale di notte, dopo una delle sue crisi di pianto, e aveva pensato che sarebbe stato carino per lei pensare di avere un nuovo regalo sotto l’albero, si era più volte chiesto come dovesse vivere lei quella cosa, quel suo primo amore, se fosse davvero stato come lo aveva immaginato, se lui avesse mai deluso le sue aspettative o se le avrebbe deluse mai, se lei un giorno si fosse stancata di lui, se ne avesse avuto il tempo.
 
Erano tutti pensieri paranoici buttati su un pezzo di carta tra una crisi di vomito e un attacco di pianto. Tra le altre cose, aveva di nuovo iniziato la chemio. Cosa sperassero ancora i suoi genitori, i suoi medici, non gli era chiaro. Non c’era più niente da fare, e lui non voleva, non poteva aggrapparsi a quella flebile speranza, aveva paura che ancora una volta sarebbe stata disattesa, aveva paura di essere deluso di nuovo dalla vita che ora gli stava dando troppo, e talmente tanto in fretta, da non potergli fare credere che fosse vero.
 
La chemio aveva iniziato a distruggere la sua autostima e la sua allegria, aveva iniziato di nuovo a tormentare i suoi sogni e a stancare il suo corpo, ma questa volta sarebbe bastato solo un mese per capire se davvero ci fosse ancora una speranza. Poco dopo l’inizio dell’anno nuovo, quando per tutti comincia una nuova vita, avrebbe saputo se la sua sarebbe continuata oppure no.
 
In quei giorni, durante la chemio, aveva pensato tanto a come rendere tangibile e duraturo il loro amore, e alla fine aveva deciso di chiederle di sposarlo.
 
In effetti, non aveva mai pensato a una cosa del genere quando stava con Sara, lei si limitava a sopportare la sua presenza e lui, nonostante l’amasse tanto, non aveva mai seriamente pensato di costruire qualcosa con lei.
 
Adesso non aveva prospettive, ma sentiva che se mai una piccola fottuta speranza di farcela ci fosse stata, se mai lui davvero fosse guarito, o se mai fosse anche solo migliorato tanto da avere davanti ancora qualche anno, allora avrebbe dovuto costruire qualcosa di piccolo ma importante insieme a lei.
 
Non era ancora del tutto uscito di testa, sapeva che in fondo era solo uno stupendo amore platonico, di quelli che coinvolgono la mente e il cuore, ma non il corpo,. Eppure nonostante tutto, nonostante gli ostacoli, lui sentiva di poter creare qualcosa con lei, e si era ritrovato a immaginarla nei contesti più familiari che aveva vissuto fino a qual momento, e l’aveva addirittura vista sulla soglia di casa, e aveva sentito la sua voce risuonare nel vuoto di quelle mura che avrebbero costruito insieme.
 
Non era che un sogno, certo, ma nessuno gli avrebbe impedito di sognare, nemmeno adesso che le speranze di vedere quei sogni realizzati erano così poche.
 
Il giorno di Natale era arrivato, e lei lo aveva chiamato e con la voce rotta dall’emozione aveva aperto il suo regalo. E lui era in piedi, davanti alla finestra, sentiva le lacrime di lei e le confondeva con l’acqua che scorreva sulle finestre bagnate dalla pioggia, e aveva socchiuso gli occhi solo per un attimo, tanto da poterla immaginare davanti a sé, tanto da poterla guardare negli occhi scuri e lucidi, e con un filo di voce le aveva chiesto di sposarlo.
 
Certo aveva immaginato quella cosa in un modo totalmente diverso, e aveva costruito tutto uno scenario che in realtà non avrebbe potuto realizzare mai, eppure in quel momento non importava perché le sue lacrime e quelle di lei si confondevano come un lungo e caldo abbraccio e lui si sentiva di essere felice come non era mai stato.
 
Aveva quasi paura di dirlo a sé stesso, e anche solo di pensarlo, ma cominciava a sperare davvero di farcela, e come non succedeva da tanto, troppo tempo, aveva trovato un nuovo motivo per sperare, per credere di riuscire a sconfiggere quel nemico che in effetti non aveva mai davvero combattuto.
 
Lei gli aveva detto di sì, gli aveva detto che avrebbe davvero voluto passare il resto della sua vita con lui. E come due stupidi fidanzatini innamorati avevano fissato anche una data per il loro matrimonio, così, di fretta, come ogni cosa che aveva contraddistinto il loro rapporto.
 
E quel giorno di fine d’anno era arrivato, si erano scritti delle promesse d’amore, e si erano sposati su face book, lì dove tutto era nato, lì dove un giorno sarebbe rimasta traccia del loro amore.
 
Hailey e Arthur erano sposati, e lui era felice. E ormai mancavano solo quattro giorni alla verità.
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 13
*** l'anno nuovo ***


L'anno nuovo
 
Il nuovo anno era sempre stato una fonte di speranza per Arthur. Ci aveva creduto per diciannove volte che sarebbe stato diverso, che sarebbe stato un anno pieno di fortuna e che la sua vita avrebbe finalmente avuto quella svolta di cui aveva bisogno. L'anno passato era di sicuro stato uno dei peggiori, ma era finito bene, tutto sommato, e lui voleva credere che quell'ultimo ciclo di chemio gli avrebbe regalato ancora qualche anno, qualche sorriso, qualche spiraglio di luce.
 
Un giorno aveva parlato di questa speranza ad Hailey, e le aveva fatto una promessa, le aveva detto che se fosse guarito, o meglio se fosse migliorato, sarebbe andato da lei, e le avrebbe finalmente permesso di vederlo. Certo aveva paura della sua reazione quando lo avrebbe per la prima volta guardato negli occhi, e nel corpo, ma sarebbe stato bene per quel momento, sarebbe tornato quello che era circa un anno prima. E lei lo avrebbe amato del tutto, finalmente. Arrossiva ogni volta che pensava a lei, e al fatto che lo avrebbe guardato con quell'imbarazzo tipico della prima volta.
 
La sera di capodanno era rimasto a casa dei suoi, si era rifugiato nella sua stanzetta e aspettava che la mezzanotte arrivasse e che quell'anno nuovo gli mostrasse finalmente le sue intenzioni. C'era anche Hailey. Sì, era anche lei davanti a un computer, e almeno, dato che non potevano sentirsi, potevano condividere anche quei momenti.
 
Era strano passare così il capodanno, era strano non essere in giro a fare baldoria, o in quel vecchio e freddo locale a giocare a carte e bere birra fino al mattino. Come era cambiata la sua vita in quegli ultimi mesi, non era davvero più l'Arthur che ricordava, quello allegro, caciarone, quello che faceva il timido e poi tirava fuori la sua sfacciataggine davanti alla ragazza più bella, quello che amava ridere su ogni battuta scema e passava ogni sera in giro con gli amici di una vita, alla ricerca di una ragazza da sfottere o di una pizzeria in cui mangiare.
 
E soprattutto non era più il ragazzo sicuro e forte che aveva mostrato a Sara, e che lei aveva prontamente deriso, era diventato solo un'ombra ormai, una larva regressa che aveva perso tutto lo splendore della farfalla di un tempo, e di questo doveva accontentarsi Hailey, della milionesima parte dell'uomo che era in realtà. Che era stato in realtà.
 
Tutti questi pensieri dolorosi erano venuti fuori poco prima della mezzanotte, quando aveva anche iniziato a stare male. Aveva la febbre, e forti dolori allo stomaco, e mentre scriveva ad Hailey aveva iniziato a tremare, e a vedere lo schermo del computer sempre più lontano, sempre più avvolto da un alone biancastro.
 
E poi, mentre tutti gli altri festeggiavano, lui, steso nel suo lettino e col computer sulle ginocchia, aveva iniziato a vomitare. Sangue. Stringeva tra le dita e sul petto il regalo di Hailey, stringeva quella catenina come se da quell'oggettino tanto prezioso per lei potesse venire fuori una piccola parte della sua essenza, per sostenerlo in quel momento. Aveva macchiato di sangue anche quel ciondolo, e a un certo punto le sue lacrime si erano confuse a quel sangue, ed era riuscito a chiamare Hailey, e lei lo aveva implorato di avvisare i suoi genitori.
 
Non voleva farlo. Si sentiva stupido anche solo a pensare una cosa del genere, non aveva senso restare lì a soffrire e a sputare tutto il sangue che aveva in corpo, ma ormai era chiaro quello che le ore successive gli stavano riservando, ed era terrorizzato anche solo ad immaginarlo. Sarebbe finito in ospedale, sarebbe tornato in quel posto e ci sarebbe morto, avrebbe finalmente saputo quale destino lo attendeva nei mesi a venire, e aveva avuto paura di questo. L'ora della verità si stava spaventosamente avvicinando, e il fatto che stesse vomitando sangue non poteva che essere un presagio del triste responso che avrebbe avuto.
 
Continuava a piangere, e a vomitare, e a rifiutarsi di chiedere aiuto ai suoi, ma quando Hailey era scoppiata a piangere e lo aveva supplicato di chiamare sua madre, aveva sentito quella disperazione lacerargli l'anima più di quanto il dolore in quel momento stesse lacerando la sua testa, le sue carni. Quanto male le stava facendo fingendo che andasse tutto bene, quanto dolore le stava creando cercando di fare il forte, e riuscendo solo nell'impresa di fare l'imbecille.
 
Erano da poco passate le due quando avevano varcato le porte del Policlinico di Bari, ma a quel punto lui non riusciva neppure a capire dove fosse, e a reggersi in piedi, e poco prima che quell'uomo gli chiedesse cosa si sentisse aveva visto il buio calare davanti ai suoi occhi, e quando li aveva riaperti era già mattina inoltrata.
 
Il suono sordo e metallico della tac lo spaventava ogni volta come la prima volta, e in quel momento, come sempre, si era sentito nudo nell'anima come nel corpo. Aveva troppa paura, e sentiva le voci dei medici che gli chiedevano di non muoversi, ma lui non si stava muovendo, tremava, e non per il freddo lettino sotto di lui.
 
Due ore dopo era tornato nel suo letto in quelle mura verniciate di verde, in quell'odore di alcol e brodino. Sua madre aveva fatto i pochi passi dalla porta al suo letto quasi traballando, e si era accasciata sulla sedia accanto a lui, ma non aveva avuto il coraggio di guardarlo negli occhi. Suo padre era vicino a lei, col piglio forte e sicuro del militare in missione da tutta la vita, ma i suoi occhi lucidi tradivano il responso terribile della tac.
 
Arthur aveva ascoltato quelle poche fredde parole restando impassibile. Aveva alzato lo sguardo verso suo padre per un attimo solo, prima di deglutire chiudendo gli occhi e di voltarsi a guardare sua madre intenta ad asciugare una lacrima.
 
Non era riuscito a pensare a niente, era rimasto in silenzio, immobile, a canticchiare nella testa qualche canzone sperando che potesse cancellare quel dolore. Ma non ci sarebbe stato niente di altrettanto forte, di così delirante, di tanto sconvolgente.
 
Quattro mesi. Ma come cazzo si può dare una scadenza alla propria vita? Come si può sperare che una persona accetti di sapere come e quando morirà, come si può pretendere che capisca che il momento che cerchi di evitare per tutta la vita è arrivato? Quattro mesi, poco più di cento giorni. Un numero che non riusciva a quantificare, nonostante avesse passato tre ore a contare, a rigirare il suo cellulare per cercare un'agenda, a scrivere, a leggere, ad ascoltare la sua musica deprimente, a fare tutto quello che avrebbe dovuto rilassarlo. E invece no, quella volta non ci sarebbe riuscito, non avrebbe potuto.
 
L'anno nuovo era iniziato, e per molta gente sarebbe stato l'inizio di una vita nuova, ma non per lui, la sua vita stava finendo. E mentre l'angoscia prendeva possesso del suo cuore, chiudendo gli occhi si era reso conto che stavolta a piangere ci sarebbe stata una persona in più.
Ed era rimasto nascosto sotto le sue coperte, senza più lacrime, senza più dolore, a chiedersi come lo avrebbe detto ad Hailey.
 
E alla fine ci era riuscito, l'aveva chiamata e con più calma di quanto pensasse le aveva detto tutto quanto, o forse no, non se lo ricordava nemmeno se aveva parlato di mesi, di numeri, o solo di quanto ormai fossero inutili i loro progetti e le loro speranze. Era arrabbiato, sì, questo era in quel momento, arrabbiato e deluso, più che sofferente. Si era illuso di nuovo, e la vita ancora una volta lo aveva deriso. Non riusciva a farsene una ragione, e quando lei aveva chiuso in preda alla disperazione e in mezzo a una crisi di pianto, aveva sentito le sue lacrime rigargli il viso e penetrargli la carne, fino in fondo, fino al cuore.
 
Aveva cercato di dormire, era pieno di tranquillanti ma non riusciva nemmeno a chiudere gli occhi, e non poteva spostare le braccia coperte di aghi. Sapeva che non sarebbe riuscito a prendere sonno senza accovacciarsi sotto le coperte, come faceva da sempre, da quando era un bambino. Era questa la fine che meritava, e la meritava davvero? Cosa avrebbe dovuto fare in quei quattro mesi, che senso avrebbe avuto viverli soffrendo e aspettando che la sua mente andasse a puttane insieme al suo corpo, che senso avrebbe avuto contare i giorni aspettando solo la fine, senza una speranza, senza uno scopo?
 
Aveva chiuso gli occhi per dare un'immagine ai suoi pensieri e li aveva riaperti un istante dopo, quando aveva sentito un profumo troppo familiare al suo fianco. Alex. Lui lo sapeva già, era uno specializzando del suo neurologo, le fottute coincidenze della vita. Gli aveva sorriso mestamente, con gli occhi lucidi anche nella flebile luce soffusa della notte, e si era seduto accanto a lui, e gli aveva parlato per tutta la notte stringendogli la mano e dicendogli che alla fine si sarebbe sistemato tutto. Che era una bugia enorme, ma nel raccontare bugie Alex era più che un maestro.
 
 
Gli aveva detto che non doveva abbattersi, che doveva trovare la forza di andare avanti, anche se per poco, che in fondo un motivo per restare sulla terra, per resistere al dolore, lui ce l’aveva. Lui lo aveva guardato per capire bene di che stesse parlando, e Alex aveva iniziato a parlargli di Hailey, gli aveva detto che lei avrebbe superato questo momento di sconforto, che dopo aver digerito quel dolore sarebbe tornata a sorridere al suo fianco, e gli sarebbe rimasta accanto fino alla fine, che lo avrebbe amato e non sarebbe rimasto solo mai.
 
E poi gli aveva detto che comunque lui ci sarebbe stato, quando le cose sarebbero state insostenibili, quando sarebbe bastato anche solo un abbraccio, poche parole, o troppe lacrime da condividere. Gli aveva staccato la flebo e lo aveva aiutato a girarsi, e poi era rimasto accanto a lui ad aspettare che si addormentasse.
 
La mattina dopo Arthur aveva finalmente capito cosa avrebbe dovuto fare in quei mesi: vivere. Per sè stesso, per Hailey, per tutti quelli che lo avrebbero amato fino alla fine.

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Capitolo 14
*** la fuga ***


la fuga
 

Accogliere la verità non era stato facile, e di accettarla non se ne parlava proprio. Aveva trasformato ogni  singola emozione del suo corpo in rabbia cieca e furiosa nei confronti di chiunque si fosse avvicinato a lui in quegli ultimi giorni. Aveva litigato con chiunque gli fosse capitato a tiro, e con sua madre erano arrivati davvero ai ferri corti, e lei lo aveva accusato di essere un bambino, e lo aveva lasciato da solo a piangersi addosso, e questo lo faceva infuriare.
 
Se anche la donna che lo aveva messo al mondo non voleva più stare con lui, allora era davvero arrivato il momento di stare da solo, e a questo punto non era più solo uno stato della sua mente. Quando lei era uscita senza salutarlo, e sorridendo al povero disgraziato accanto a lui, Arthur aveva sentito gli occhi riempirsi di lacrime, ma aveva scacciato il dolore per far posto alla rabbia.
 
Aveva preso il telefono. Fanculo tutto quanto, almeno aveva Hailey con cui parlare. Ma lei era in vacanza in quei giorni, era fuori con la sua famiglia, i suoi amici, e forse per questo, o forse solo perché aveva davvero bisogno di tempo per accettare quello che stava succedendo tra loro, lo aveva trascurato un po'. Oppure non era nemmeno così, magari lei non lo stava trascurando, lo stava trattando come al solito, lo stava amando come al solito, ma lui aveva iniziato ad avere bisogno di lei continuamente, a pretendere la sua presenza ogni istante, e questo ovviamente non era possibile, per lei né per nessun altro. Si sentiva frustrato, umiliato, si sentiva inutile e insignificante. La solitudine era davvero il peggior nemico della sua stabilità.
 
Aveva iniziato a darle addosso come una furia accecata dal dolore, era arrivato a dirle cose orribili, a dubitare delle sue preoccupazioni, delle sue attenzioni, del suo amore. L'aveva insultata, l'aveva fatta sentire in colpa perché lei aveva una vita davanti, mentre lui sarebbe morto di lì a poco, e ogni volta che chiudeva la bocca dopo aver fatto uscire tutto quello schifo, avrebbe voluto riaprirla per rimangiarselo ma non poteva farlo, e questo lo faceva soffrire tanto, troppo. Perché stava facendo del male all'unica persona che amava davvero, che lo amava davvero? Sua madre aveva ragione, era solo sua la colpa di quella solitudine?
 
Quella mattina aveva superato sé stesso. Lei lo aveva chiamato per pochi minuti e gli aveva detto che sarebbe uscita, che si sarebbero sentiti nel pomeriggio. E lui si era arrabbiato come un pazzo. Le aveva detto che non capiva, che non lo voleva più sentire, che non le importava più di lui. E il motivo di quella rabbia era ancora la solitudine. La voleva accanto a sè, continuamente, era diventato uno schifoso egoista, e non riusciva a capacitarsene, e in quel momento non gli importava.
 
Le aveva detto che poteva andare via felice ora che sapeva che lui non era morto. Che frasi orribili uscivano da quella bocca che in passato aveva solo decantato versi e canticchiato canzoni stonate. Che parole cattive stava riservando alla donna alla quale avrebbe solo voluto sussurrare parole d'amore e di passione.
 
Ma in quel momento era riuscito solo a dare il peggio di sé, e mentre ancora le parlava al telefono aveva iniziato a strapparsi le flebo dalle braccia e a osservare quei piccoli rivoli di sangue macchiare la camicia che si stava infilando a fatica. Aveva chiuso il telefono in preda alla rabbia e aveva giurato a sé stesso che non avrebbe mai più parlato con lei, né con nessun altro, e camminando era inciampato sulla busta del catetere e si era strappato anche quello bagnando gli occhi di quelle lacrime di dolore fisico, e il suo corpo di quei brividi di freddo e caldo insieme.
 
Si era infilato i suoi jeans attillati, o meglio quelli che lo sarebbero stati 5 o 6 kg prima di quel giorno, e aveva sorriso con malinconia. Il corpo che aveva amato e curato negli ultimi anni non esisteva più, e la mente che aveva memorizzato tutte quelle canzoni, quelle musiche, quelle poesie, ormai stentava a ricordare da quale lato infilare la cintura. Due minuti dopo era davanti al cancello bianco e arrugginito del policlinico, stretto nel suo giubbotto, con le sue cuffie alle orecchie e nel freddo gelido dei primi giorni di gennaio. Aveva camminato per un po' sotto i portici di quella via che aveva attraversato troppe volte, di corsa, di notte, spesso con una di quelle brioche appena sfornate, ancora più spesso con la ragazza che lo aveva deluso tante volte, e che abitava a pochi passi da quel palazzo marrone.
 
Quando il semaforo era diventato verde aveva attraversato la strada e si era ritrovato nel sottopassaggio centrale, e poi finalmente al binario 4 ovest. Era di nuovo alla stazione, nella folla di gente indaffarata e indifferente, nel caos, era in mezzo a tutte quelle persone eppure era solo, e si chiedeva se qualcuno avrebbe notato la sua assenza, se qualcuno si fosse chiesto che fine avesse fatto il paziente della stanza 12, perché lui era solo un numero in quella stanza, ed era solo un peso per i suoi genitori insoddisfatti, per la sua ragazza esasperata, per i suoi amici impegnati.
 
Si era seduto sulla fredda panchina di marmo e aveva iniziato a tremare come uno scemo, aspettando un treno, uno qualsiasi, anche se da quel binario partivano solo treni per Lecce. In fondo, non aveva nemmeno i soldi per un biglietto, non aveva niente che non fosse la sua disperazione, non voleva niente che non fosse la sua musica desolante e i suoi ricordi, ma stare lì lo rilassava e soprattutto gli serviva a fare del male a tutti quelli che lo avevano ferito quel giorno.
 
Era rimasto a fissare facebook sul suo telefono per ore e ore, aveva aggiornato quella pagina per migliaia di volte solo per trovare una parola che lo aiutasse a rimettersi in piedi. Sua madre lo aveva chiamato, ma lui non aveva risposto, e Adurna era riuscita a tirargli fuori la verità, ma non tutto il suo dolore, la delusione, la disperazione. Non c'è bisogno di una ragione per piangere, non c'è bisogno di un motivo per essere disperati, non c'è bisogno di una giustificazione per aver voglia di scappare.
 
Aveva chiamato Hailey, sperando che lei lo convincesse a chiamare sua madre, e a farsi venire a prendere, e così era stato. Non era davvero più quello di un tempo, stavolta non avrebbe avuto nemmeno il coraggio per farla finita, non aveva avuto le palle di salire su un treno e di andare chissà dove, di stare via tre giorni solo per far capire a chi diceva di amarlo che si può essere molto più soli accanto a chi ti ama che non accanto a perfetti sconosciuti. Aveva fallito di nuovo. A che era servito restare a prendere freddo tutto il giorno, se quella sera si sarebbe comunque ritrovato nel suo letto in quella fottuta stanza 12, se non avrebbe potuto cambiare le cose, la sua vita, il suo rapporto con gli altri?
 
Aveva sbagliato a fare lo stupido, sapeva che i suoi genitori gliel'avrebbero fatta pagare, e cosa ne aveva ottenuto? Era di nuovo nel suo lettino, e stringeva ancora quella lettera da cui era partito tutto. Non era certo il momento migliore per conoscere la verità, ma non se la sentiva di aspettare oltre. Aveva chiamato quel numero con angoscia, e quella voce gli aveva risposto con altrettanto dolore e rassegnazione.
 
Quella notte, in quella stanza d'ospedale, aveva guardato quegli occhi freddi cercando di percepire ogni emozione, aveva osservato quelle labbra che tante volte gli avevano mentito, cercando di capire se fosse davvero arrivato il momento della verità. E poi, come ogni volta, aveva aspettato di ascoltare tutto prima di asciugarsi una lacrima e capire, ancora una volta, di essere un fallito.
 
Quando era rimasto di nuovo solo aveva una nuova certezza nel cuore, e non era piacevole. E anche quella notte aveva avuto bisogno di parlare con Alex, di investirlo con i suoi tormenti, col suo dolore, per sentirsi libero e tornare di nuovo sereno. Non aveva detto una parola, lo aveva guardato solo un minuto, mentre si sfilava la sciarpa, e gli era saltato al collo piangendo, ed era rimasto così per ore, in silenzio. A volte non c'è bisogno di una parola, di un abbraccio, di una carezza, a volte basta solo un respiro, per farti sentire meno solo, per accompagnarti nelle ore del pianto e del dolore.
 
Era da poco l'alba quando Alex era andato via, portandosi dietro i suoi problemi, e lasciandolo tranquillo e pronto ad affrontare una nuova giornata. Gli aveva sorriso quando lui, ormai sulla porta, lo aveva salutato con un cenno della mano, e gli aveva dato appuntamento per quella sera. E invece sarebbe stata l'ultima volta che lo avrebbe rivisto.

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Capitolo 15
*** la confessione ***


la confessione

Erano passati pochi giorni e non erano stati facili. Era ancora in ospedale, ed era triste e solo, e nemmeno Alex era riuscito a tirargli su il morale.
 
Quel pomeriggio, pochi minuti prima che Hailey lo chiamasse, aveva ricevuto un'altra chiamata. Ci vogliono due persone per spezzarti il cuore, il tuo nemico per tradirti, e il tuo migliore amico per venirtelo a dire.
 
Non sentiva Tyler da una vita, e si era ricordato di chiamarlo proprio quella sera, e solo per dirgli che quella lettera non era altro che un misero cumulo di bugie. E questa volta era stato ancora più doloroso scoprire che anche le parole di quella sera erano state solo terribili menzogne. Quanto doveva essere facile per lei mentirgli, umiliarlo, trattarlo come una cosa senza valore, come un oggetto da scartare quando non ne avesse più avuto bisogno.
 
Non capiva più il perché di tutta quella storia, il perché di quella lettera, era assurdo visto che non aveva intenzione di raccontargli tutta la verità, e non capiva perché lo stesse ancora prendendo in giro, e non poteva di certo credere che lo stesse facendo per proteggerlo, perché del suo dolore non le era mai importato.
 
Hailey aveva iniziato a parlare, era allegra, e come faceva spesso aveva tirato fuori i versi di una canzone, di quella canzone, e non riusciva nemmeno a ricordare perché lo avesse fatto. Eppure lui si era ritrovato a piangere. All'improvviso, quelle parole lo avessero riportato alla sera del suo compleanno, e davanti ai suoi occhi si era materializzato Alex, e soprattutto si era materializzato l'amore che provava per lui.
 
Non sapeva più cosa dirle, piangeva e non riusciva a inventare una bugia abbastanza convincente da spingerla a chiudere e a non riparlarne più, e alla fine glielo aveva detto. Gli aveva detto di aver amato Alex.
 
Aveva parlato al passato, certo, e non le aveva detto di averla tradita, ma lei era già abbastanza ferita così. E non poteva essere altrimenti. Nessuno che non ci sia passato può capire quanto sia assurdo eppure possibile sentirsi innamorati di due persone allo stesso tempo, con la stessa intensità, eppure in un modo completamente diverso, tale da rendere ciascuno di quegli amori unico e speciale, diverso e irripetibile, indispensabile e insostituibile.
 
Era andato nel pallone dopo aver chiuso con lei, che per fortuna doveva andare a suonare, ma quella sera avrebbe dovuto parlarle con calma, darle delle risposte, tirare fuori qualcosa di più convincente. Non riusciva a ragionare, a capire cosa avrebbe dovuto fare, aveva bisogno di liberarsi dall'angoscia e di ritrovare la lucidità necessaria a inventare qualcosa che coprisse i suoi errori.
 
Non voleva dirle la verità, le avrebbe spezzato il cuore, sarebbe cambiato tutto e poi per che cosa? Non sarebbe successo mai più, con Alex, lui non voleva altre complicazioni nella sua vita e nel suo cuore. Amava lei, lei gli dava tutto ciò di cui aveva bisogno, gli era vicina e comunque lui aveva solo pochi mesi di vita ormai. Anche se sembrava strano anche solo a pensarlo, aveva trovato un certo equilibrio in quegli ultimi giorni, e si sentiva bene in quel posto, in quel momento, sentiva di non voler più andare via, di non voler lasciare che il dolore prendesse di nuovo il sopravvento.
 
Doveva far tornare il sereno nel suo cuore, e c'era solo una persona che poteva sollevargli il morale. Aveva preso il telefono e chiamato Alex, ma lui questa volta non era rimasto in silenzio ad ascoltare i suoi deliri, aveva preso in mano la situazione e gli aveva mostrato per una volta che non era solo il cuscino da stringere piangendo, che era una persona di carne e ossa, una persona che lo amava in silenzio, che accettava anche solo la sua amicizia, ma a cui di certo non poteva chiedere quale menzogna inventare per salvare il suo rapporto con Hailey.
 
Alex era furibondo, e non era da lui, ma mentre lo sentiva parlare aveva avuto il bisogno di chiedergli scusa, e subito dopo gli aveva detto che avrebbe accettato il suo consiglio, che avrebbe detto ad Hailey tutta la verità.
 
Il suo professore di diritto penale diceva spesso che in un processo, come nella vita, è meglio una piccola reticenza che una piccolissima confessione, e questa volta avrebbe dovuto ascoltare la voce di quel professore nella sua testa piuttosto che quella di Alex nel suo telefono.
 
Erano da poco passate le dieci quando l'aveva chiamata, e con tutto il distacco di cui era capace le aveva detto tutto. Le aveva detto che la sera del suo compleanno aveva visto Alex, le aveva detto che erano finiti a fare sesso, e che poi come un bastardo aveva fatto l'amore anche con lei. Aveva usato proprio questa distinzione, sesso e amore, perché alla fine il suo professore aveva avuto la meglio, e aveva deciso di buttarla solo sul tradimento fisico, e non anche su quello emotivo.
 
Lei non avrebbe potuto capire che i sentimenti che provava per lei non potevano essere scalfiti da quello che provava per Alex, che lui la amava esattamente nello stesso modo da quando l'aveva conosciuta, che non era cambiato assolutamente niente, in quei mesi, né in quella macchina, quella sera, che poteva e doveva essere tutto come prima.
 
Lei lo aveva insultato in tutti i modi che conosceva, e lui si era sentito sporco, macchiato, macerato dal dolore. Non aveva immaginato di poterle fare tanto male dopo averle promesso di renderla felice, e invece c'era riuscito. Aveva paura che lei decidesse di lasciarlo, di chiudere per sempre il loro rapporto. In fondo aveva sopportato le sue paranoie per tutto quel tempo, specie nelle ultime due settimane, e adesso era logico che lei lo mandasse al diavolo. E invece, alla fine, dopo aver pianto, dopo avergli chiuso il telefono in faccia, dopo che lui aveva riprovato a chiamarla, a chiederle perdono, a piangere, a disperarsi, alla fine lei lo aveva perdonato.
 
Sapeva che non avrebbe più potuto commettere errori, sapeva che non avrebbe dovuto darle un altro dolore, e sapeva, soprattutto, che se mai fosse riuscito a farle davvero dimenticare quello che le aveva fatto, avrebbe comunque dovuto continuare a tenerle nascosto il motivo che quella sera lo aveva spinto a fare l'amore con Alex.
 
Perché questo era stato, amore, e non soltanto sesso.

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Capitolo 16
*** la fine ***


La fine
 
Arthur non era bello come un adone e non era simpatico, era strano, silenzioso, aveva gusti musicali poco condivisi e a volte era talmente depresso da risultare scontroso e antipatico, eppure non aveva mai avuto problemi a stare insieme a una ragazza. Si era innamorato, e aveva colpito il cuore di quelle ragazze, e ci era stato insieme, tra tanti problemi e tanta gioia, ma in fondo era solo un adolescente, e lo erano anche loro. Pochi mesi di uscite e serate a ballare, pochi baci, qualche strusciata mai troppo approfondita.
 
E poi era arrivata Sara, e aveva scombussolato tutto. Era arrivata con i suo 4 anni in più, con la sua esperienza e la sua passione sempre sfrenata, aveva buttato nel cesso le poche certezze che aveva e lo aveva portato nel suo universo fatto di sesso e di bugie. Lui si era innamorato follemente, e lei lo aveva usato come un giocattolo, e alla fine lo aveva mollato, e umiliato.
 
E poi, giusto per concludere nel peggiore dei modi il loro rapporto fatto di inganni, gli aveva rifilato l’ultima delle umiliazioni. Quella lettera lo tormentava ogni fottuta notte. Lei non era mai stata sua, solo sua, ma non poteva pensare che gli avesse fatto una cosa del genere.
 
Era incinta. O meglio, lo era stata. Non riusciva proprio a immaginare Sara con il pancione, tantomeno con un bambino tra le braccia, il suo bambino. Certo c’erano stati momenti in cui lo aveva desiderato, ma evidentemente non era nei piani di lei. Prendeva la pillola, certo, perché era giovane, perché non potevano, perché lui era ancora un ragazzino per lei, o meglio ancora solo un vibratore attaccato a una persona.
 
Per liberarsi la coscienza, dopo più di sei mesi, aveva trovato il coraggio di scriverglielo, che era rimasta incinta, che aveva abortito. Lui si era disperato per giorni, aveva pianto davanti ad Alex, aveva umiliato sé stesso e anche lui, e alla fine l’aveva chiamata quella sera, per sapere, per conoscere tutta la verità. Sara non aveva fatto altro che ripetere le stesse parole della lettera. Che era incinta, che aveva abortito. Che il bambino non fosse suo, però, che lei lo avesse tradito e fosse rimasta incinta, aveva dovuto scoprirlo dal padre, o meglio dal presunto padre, visto quanto lei amava divertirsi alle sue spalle.
 
Quanto quella notizia lo avesse scosso era facile da immaginare. E quanto invece avesse scosso Hailey no, non poteva proprio saperlo. Arthur non era mai stato un chiacchierone, ma non riusciva a tenerle nascosto nemmeno quante volte avesse bisogno di andare a pisciare.
 
Il loro rapporto era nato da nemmeno due mesi, eppure lui sentiva che era già in crisi.
 
Lei diceva di amarlo alla follia, diceva di averlo perdonato per il suo tradimento, diceva che sarebbe tornato  tutto come i primi giorni, romantico e allegro, felice e spensierato, ovattato e passionale.
 
Ma gli stava mentendo, o meglio mentiva a sé stessa. Diceva di amarlo ma in realtà non riusciva a dimenticare quello che lui le aveva fatto, diceva di averlo perdonato ma in effetti non si fidava più di lui, al punto da avergli impedito anche solo di parlare con Alex, anche solo di mandargli un messaggio. E questo cominciava a pesargli, specie quando la notte si affacciava su di lui nella fredda stanzetta d’ospedale, e lui si sentiva solo come non lo era mai stato, e sentiva il fottuto bisogno di parlare con qualcuno, di parlare con lui. Aveva fatto una scelta, aveva scelto lei,. Aveva scelto di non parlare con lui mai più, ed era difficile per lui, e lo era per lei. Perchè Hailey sentiva la sua sofferenza e ne soffriva, perché Hailey sentiva il suo amore disperato e ne era gelosa.
 
E una notte, dopo aver pianto per due ore, dopo averlo insultato, dopo avergli detto che le faceva schifo pensare che lui avesse potuto fare sesso con un uomo, che le faceva schifo pensare che avesse bisogno di parlare ancora con lui, che odiasse sapere che Alex lo aveva cercato ancora, alla fine gli aveva fatto la domanda a cui non avrebbe mai dovuto rispondere. Gli aveva chiesto cosa provasse per lui. E Arthur non era più riuscito a mentirle, e le aveva detto la verità. Le aveva detto di amarlo.
 
Lei gli aveva chiuso il telefono in faccia. Era rimasto a fissare lo schermo con le lacrime agli occhi, e cercava di richiamarla, ma lei non gli avrebbe più risposto, per tutta la notte, e per tutto il giorno successivo.
 
Si sentiva un idiota. Lui l’amava in un modo assurdo e insensato, e benché fosse solo una voce nel telefono, poche parole in un messaggio, un’immagine sfocata sul suo computer, lui sentiva di non poter più fare a meno di lei. Sapeva di averla ferita, sapeva di averle fatto del male, e soffriva perché si era trovato nella sua stessa fottuta posizione, era stato tradito, e aveva sentito il suo cuore spezzarsi e cadere in frantumi, e poi aveva avuto il coraggio di farlo lui, di tradire, di spezzare i sogni di una ragazza innamorata di lui, nonostante le difficoltà, nonostante la malattia.
 
Era solo, nella sua stanza d’ospedale. Fissava il cellulare e sperava di ritrovarla. Le mandava messaggi, anche su face book, che era stato la culla del loro amore, ma lei lo aveva addirittura bloccato. Era finita tra loro, e non gli restata altro da fare che guardare la sua pagina, i suoi link, e cercare tra le sue parole arrabbiate, condivise sulla sua bacheca, di capire cosa lei stesse provando, cosa pensasse di lui.
 
Era uscito dal policlinico qualche giorno dopo. Erano ancora i primi freddi giorni di febbraio, fuori c’era il sole, e mentre tornava a casa costeggiando il lungomare aveva sentito le lacrime scivolare sul suo viso nel ricordo di quel momento troppo speciale per essere perfetto, troppo emotivo per essere romantico. Era stato bello, bellissimo. Era stato il suo miracolo, la sua ultima occasione, la consapevolezza che la vita può ancora sorprenderti anche quando ormai sembra essersi avviata alla più drammatica delle conclusioni.
 
Eppure per lui non sembrava esserci un lieto fine. L’aveva persa per sempre, ed era solo e disperato. Il suo viso era sempre più pallido, e i suoi occhi sempre più scavati. Non riusciva più a mangiare, a dormire, a pensare, a scrivere, non riusciva più a vivere. Era riuscito a sprecare la sua ultima possibilità di essere felice, era riuscito a distruggere il suo ultimo sogno d’amore, era riuscito a farsi del male, e a farne a lei.
 
I giorni continuavano a passare, e si era reso conto che non ci sarebbe più stato tempo per lui, che ormai l’avvicendarsi del sole e della luna, del giorno e della notte, era diventato solo un orologio al contrario, il muoversi delle lancette che come delle forbici tagliavano il tempo a sua disposizione. Stava morendo, e questo non lo poteva cambiare. Aveva ucciso la donna che amava, e nemmeno questo poteva cambiare.
 
Passava le sue giornate a camminare per Bari, nel freddo, solo e silenzioso. Odiava ascoltare la musica che avevano condiviso, e canticchiava nella sua mente sempre e solo le stesse canzoni malinconiche dei Blur, sperando che potessero dargli conforto. Ma il suo tormento non poteva essere colmato dalle note, come il suo dolore non poteva essere calmato dalla morfina. Si era ritrovato davanti alla più bella gioielleria di Bari, e aveva visto due fedi brillare l’una accanto all’altra. Il 13 febbraio. Si era guardato intorno, e aveva sentito quell’atmosfera carica d’amore e consumismo tipica della vigilia della festa degli innamorati. Il rosso di quei cuori incrociati, le frasi d’amore, le coppiette sottobraccio, i regali degli spasimanti di sua sorella e quegli assurdi cioccolatini blu in ogni fottuto bar, in ogni fottuta vetrina, urlavano solo e soltanto un nome, quello della donna che aveva perso per sempre, quello di Hailey.

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Capitolo 17
*** San Valentino ***


San Valentino
 
Il 14 febbraio. Erano da poco passate le sei, e lui aveva il suo cellulare in mano. Aveva pensato di darle il buongiorno con  un messaggio su face book come aveva fatto per due mesi, ogni mattina, e dopo averlo scritto aveva provato a mandarglielo ma si era reso conto, di nuovo, che non avrebbe potuto, che il contatto che più di ogni altro aveva segnato il loro amore era ormai bloccato per sempre per lui.
 
Aveva immaginato di festeggiare quel san Valentino con lei, di scriverle una poesia d’amore, di mandarle un regalo, e di sentire la sua voce entusiasta mentre tornava dalla posta soddisfatta come un bambino che ha comprato le caramelle.
 
E invece era tutto finito. Aveva tirato fuori la testa dal piumone, aveva sbirciato fuori per scacciare le sue paure, aveva spostato piano le lenzuola. Si era alzato lentamente, aveva infilato i suoi jeans, la sua maglietta preferita, e si era diretto verso la calda cucina di casa sua. C’era sua madre, dolcemente gli aveva sorriso e preparato la colazione, ma lui continuava a girare il cucchiaio nella tazza e a fissare il fumo salire, continuava a cercare una spiegazione, un senso a tutto quel dolore, ma non poteva trovarlo. Voleva odiarla per averlo lasciato solo, per avergli impedito di essere ancora felice, ma non poteva, perché sapeva che lei aveva fatto l’unica cosa giusta da fare. Quello che probabilmente avrebbe fatto lui al suo posto. O forse no, lui aveva perdonato ogni fottuto tradimento, ma solo perché non aveva alcuna dignità. E lei sì, invece, lei era speciale, lei non avrebbe mai dovuto accontentarsi di lui, perché lui era solo uno stronzo.
 
Aveva lasciato la tazza ancora fumante sul tavolo, afferrato il giubbotto e le chiavi della sua alfa. Aveva baciato sua madre e le aveva detto che sarebbe andato a fare un giro, e mentre lei lo rincorreva per il soggiorno con le sue pillole, urlandogli di non prendere freddo e di stare attento, lui le aveva sorriso con le lacrime agli occhi, ed aveva chiuso la porta sospirando. Puoi lasciare che la vita ti corra davanti senza reagire, oppure prendere le chiavi della tua auto e inseguirla. Non dipende da te riuscire a raggiungerla oppure no, ma almeno ci avrai provato. E non ci sarà spazio per i rimpianti.
 
Aveva messo in moto e acceso la radio a tutto volume, e mentre le note dei Blur gli soffocavano il cervello aveva programmato il navigatore con un indirizzo che non conosceva affatto, con un indirizzo che forse non avrebbe dovuto conoscere ma che in quel momento era l’unico frammento di speranza che gli restava. Tre, quattro ore di macchina e sarebbe stato proprio sotto casa sua, l’avrebbe vista, le avrebbe parlato. Certo lei non sapeva niente, e di certo non lo avrebbe riconosciuto perché in effetti non lo aveva mai visto. Gli aveva chiesto una foto troppe volte prima di arrendersi al fatto che lui non gliela avrebbe mandata mai. Non voleva che lo vedesse, che si affezionasse troppo a lui, anche alla sua immagine oltreché alla sua voce e alle stronzate che scriveva.
 
 
Cercava di ricordare le parole delle canzoni, di cantare per non pensare a niente ma non ci riusciva, lei era nella sua mente, nei suoi pensieri e non c’era davvero niente che potesse scalzarla.
 
Era riuscito ad entrare dentro quel paesone che aveva immaginato di attraversare tante volte insieme a lei, era passato accanto all’ufficio della posta, al supermercato dove la sua voce l’aveva spesso accompagnata a fare la spesa, e davanti a quel piccolo ponticello che lei attraversava tutte le mattine per raggiungere l’autobus e andare a scuola.
 
A scuola. Doveva essere lì perché era lunedì, non era stata su face book e quindi non era a casa, o almeno così immaginava che fosse. Aveva anche provato a sapere qualcosa di lei attraverso la loro amica in comune, Adurna, e lei era stata tanto gentile, lo aveva compreso, gli era stata accanto, ma non era riuscita a ricucire lo strappo perché niente poteva chiudere la voragine che aveva così stupidamente creato.
 
Aveva parcheggiato la macchina in quella strada piena di vicoli, l’aria era fredda e sua madre aveva cominciato a chiamarlo per sapere che fine avesse fatto, e lui le aveva mentito dicendole che era a Bari, con i suoi amici. Non poteva certo dirle che era a trecento km da lei, con la febbre addosso e per aspettare di vedere la sua ragazza, di parlarle, probabilmente di essere mandato al diavolo ancora una volta.
 
Si era seduto su un freddo scalino e aveva iniziato a fumare e a tossire ad ogni tiro, continuava a cercare notizie di lei su face book ed era già arrivata l’una. Si era avvicinato sotto quel numeretto insignificante che rappresentava la casa di lei, il posto in cui si era aggirata tante volte la mattina mentre si preparava e lo chiamava, le scale che aveva sceso correndo perché non cadesse la linea, il portone che aveva sentito sbattere. Perché ogni fottuta cosa era per lui un ricordo indelebile? Perché ricordava cose che non aveva mai vissuto, immagini che non aveva mai visto? Perché pensare a lei lo faceva stare così male?
 
Aveva acceso l’ultima sigaretta e stretto il pacchetto vuoto tra le mani, si era guardato in giro per cercare un tabacchino e l’aveva vista. Camminava trafelata con gli occhi bassi, con le cuffie nelle orecchie e la sigaretta in bocca, cercava qualcosa nelle tasche dei suoi pantaloni e stava bestemmiando perché probabilmente non trovava le chiavi di casa.
 
Aveva sentito ogni fibra del suo corpo lacerarsi e ricomporsi in fretta, dolorosamente. Aveva una paura fottuta ma doveva parlare con lei, doveva implorare di essere ascoltato e chiederle perdono. Aveva fatto pochi passi e si era accostato al portone, poggiando il suo corpo stanco al muro. Aveva deglutito ed era rimasto immobile. Non riusciva a tirare fuori una sola parola. Lei era arrivata con le chiavi in mano e cercava di infilarle nella serratura.
 
Era così bella. Era esattamente come l’aveva immaginata, oltre quelle foto, oltre la sua voce. I suoi occhi scuri erano così profondi e dolci, e quella linea nera che li costeggiava li mettevano in risalto ancora di più, nel suo viso armonico. Indossava quella felpa dei green day che gli aveva descritto decine di volte, e quel buffo basco sulla testa le copriva i capelli. Aveva immaginato spesso di trovarsi di fronte a lei, aveva cercato di indovinare quali sensazione avrebbe provato sentendo il corpo che aveva desiderato tanto a pochi centimetri dal suo. E ora finalmente erano l’uno di fronte all’altra. Poteva vedere le sue labbra, sentire il suo respiro, avrebbe anche potuto toccare le sue mani.
 
Stava ancora cercando di contenere le sue emozioni sconnesse quando lei si era accorta di lui, del fatto che la stesse contemplando come si fa davanti a un capolavoro. L’aveva guardato con sufficienza e gli aveva chiesto che cazzo avesse da guardare. E poi, dopo avergli sorriso con commiserazione, aveva sussurrato non troppo sottovoce – che idiota – ed era entrata chiudendogli il portone in faccia.
 
Arthur era rimasto lì, come un idiota, davvero come un idiota. Tremava, e non riusciva a muoversi, e non era riuscito a dirle niente. Speachless. E i versi di quella canzone in quel momento ci stavano benissimo. Cazzo non lo aveva riconosciuto. Eppure, anche se doveva immaginarlo, una parte di sé aveva sperato, o creduto, che quei mesi passati a parlare, a ridere, a fare l’amore, le avrebbero trasmesso anche solo una briciola della sua essenza corporea. E invece no, le era apparso come appariva a tutti gli altri, come uno sfigato.
 
Aveva comprato un altro pacchetto di sigarette e si era di nuovo seduto sullo scalino, ma poi aveva realizzato di non poter restare lì tutto il giorno, ad aspettarla. E se lei non fosse più uscita? Se avesse dovuto aspettare fino al giorno dopo? Aveva preso coraggio, e l’aveva chiamata, ma lei non aveva risposto. E alla fine, in preda al panico, le aveva scritto un messaggio.
 
Si sentiva proprio come quella fottuta sera, quando le aveva scritto quelle due parole sul balcone di sua sorella. Stavolta ne bastava solo una, e se non avesse capito, se non avesse voluto capire, fanculo, aveva già un’altra destinazione, quella di non ritorno.
 
Il pennino del telefono continuava a scivolare dalle sue mani tremanti e gli ci erano voluti due minuti buoni per scrivere quelle sei letterine che avrebbero deciso il suo futuro. – scendi -.
 

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Capitolo 18
*** l'incontro ***


l'incontro
 
Hailey aveva letto quel messaggio tremando. Dentro di sé lo sapeva. Lui le aveva parlato di sé tante volte, e anche se non le aveva mai mostrato una foto, lei lo aveva immaginato proprio così. Quei capelli rossi, arruffati dal vento, quel viso pallido, quel corpicino esile abbandonato sotto il suo portone, quello sguardo da sfigato. Lei lo aveva intuito. Era lui quel ragazzetto spaesato e impacciato che la stava fissando non più di un’ora prima, era così che lo aveva immaginato, ma qualcosa dentro di lei le aveva impedito di capirlo subito, lo aveva allontanato con poche fredde parole, forse inconsciamente sperando che andasse via.
 
Una voce dal suo cuore le urlava di scendere davvero, di abbracciarlo, di piangere e perdonarlo, di dirgli quanto lo amava e quanto le era mancato.  Di guardarlo negli occhi, di farsi stringere tra le sue braccia, di baciarlo. Ma la voce della ragione, e della rabbia, le aveva presto ricordato cosa quelle labbra avevano fatto, chi quelle braccia avevano cinto. Un conato di vomito era salito alla sua bocca e per un istante l’amore aveva ceduto il posto al dolore, e subito dopo all’odio.
 
Si era avvicinata alla finestra e lo aveva visto lì, seduto su quello scalino, di fronte al suo portone, con una sigaretta tra le dita. Vedeva il fumo portato via dal vento, e il sole lentamente calare. Velocemente aveva risposto con un “fottiti” venuto dritto da lì, dal suo cuore, dettato dall’amore, e dalla rabbia. Aveva archiviato anche quel messaggio, insieme a tutti quelli che lui le aveva inviato, perché non aveva avuto il coraggio di cancellarli. Ma poi era tornata a sedersi alla sua scrivania, e a cercare di risolvere un’equazione di secondo grado.
 
Le luci di febbraio avevano lasciato il posto a un romantico e malinconico chiaro di luna, l’aria si faceva sempre più fredda, e la febbre sempre più alta. Arthur aveva guardato il cellulare, per controllare l’ora. E aveva trovato quel messaggio. Era evidente che non sarebbe scesa, che non le importava più, davvero.
 
Non poteva credere che tutto stesse finendo così, ma non c’erano più bagliori di speranza. Non aveva mai avuto troppo coraggio nella sua vita ma non voleva che finisse tutto senza aver lottato almeno un po’. Solo, a questo punto, non sapeva che altro fare. Per lei, lui era un capitolo chiuso, talmente chiuso da poterlo mandare al diavolo senza prendersi la briga di scendere poche scale, e di guardarlo negli occhi.
 
Quando lo schermo del cellulare si era spento si era sentito mancare le forze. Era scoppiato a piangere come un bambino, e più singhiozzava più sentiva i polmoni stringersi e fargli mancare l’aria, e la vita.
 
Aveva sofferto tanto nella sua vita, per tanti motivi diversi, più o meno gravi, aveva anche sofferto per amore ma stavolta era diverso. Lei lo aveva lasciato, e non perché fosse una stronza come Sara, o perché avesse trovato di meglio, no, lo aveva lasciato perché era lui quello sbagliato, perché lui l’aveva tradita. Era stupido, e se ne rendeva conto, ma soffriva forse solo per quello, perché aveva creato qualcosa di perfetto, un amore veloce, passionale, istantaneo, di quelli che non sono destinati a ingrigirsi nella monotonia, di quelli che restano bellissimi, incancellabili, indimenticabili. La sua creatura tanto perfetta era stata distrutta da lui stesso, e non c’era nulla che potesse fare per tornare indietro.
 
L’aveva implorata di perdonarlo ma lei non voleva, e non poteva. Aveva trovato poche forze per alzarsi e trascinarsi alla sua auto. I fari delle auto contro di lui erano solo enormi macchie gialle, confusi nella nebbia, tra le lacrime, dentro un immagine che forse era reale, che forse era solo un’allucinazione.
 
Non riusciva a mettere in moto nemmeno la sua macchina, figurarsi come avrebbe potuto rimettere in sesto per pochi mesi la sua vita.
 
C’era un bellissimo sito archeologico a pochi passi dalla casa di lei. Quelle rovine illuminate dalle luci alte della notte gli mettevano ansia, e gli spiattellavano ricordi di conversazioni, di passeggiate, di pensieri che non erano suoi, ma che lui aveva comunque condiviso con lei. Era sceso dalla macchina e si era messo a fissare quelle rovine, e aveva immaginato che un giorno, magari proprio in quel punto, uno sprovveduto turista avrebbe chiesto ad Hailey la strada per quel sito, e lei lo avrebbe spedito chissà dove, perché le piaceva prendere in giro i turisti, perché le piaceva essere la ragazza allegra che lui amava alla follia.
 
Hailey aveva passato tutto il pomeriggio sulla stessa equazione, che alla fine aveva dato decine di risultati diversi, nessuno dei quali era quello corretto. Le sue gambe erano ancorate alla sedia ma la sua volontà andava scemando. Sua madre l’aveva chiamata per la cena, ma quando si era alzata era corsa alla finestra. Non c’era più traccia di quel ragazzetto, e nemmeno della sua macchina scura parcheggiata davanti a quel passo carraio. Lui se n’era andato. Era uno stronzo, era andato via di nuovo.
 
Era seduta a tavola davanti al suo piatto quando sua madre gli aveva chiesto se fosse tutto a posto. Lei aveva abbozzato un sorriso, e aveva sussurrato quel nome. Sua madre le aveva carezzato la guancia, e le aveva detto, con un sorriso, di chiamarlo. Non aveva mai dato retta a sua madre per diciassette anni, e non avrebbe cominciato quella sera. Lei non sapeva che razza di stronzo lui fosse, non sapeva quanto dolore le aveva causato. Non sapeva quanto male facesse essere traditi in quel modo, in quello schifoso e lurido modo. Si era rifugiata nella sua stanzetta, e aveva pianto. Cosa cazzo volesse quel bastardo non riusciva a spiegarselo, l’aveva ferita, e nessuna scusa avrebbe sistemato la situazione.
 
Aveva infilato le cuffie e l’assordante musica dei Crimpshrine aveva sedato i suoi sensi, la sua rabbia, il suo dolore. E poi quelle poche parole confuse in mezzo a quel frastuono, a quel rumore.”Not gonna clutter my head with stupid pride”.

Si era alzata di scatto, aveva indossato distrattamente il giubbotto e il suo basco, e baciato sulla guancia sua madre, prima di dirle che usciva.
 
Arthur era ormai al terzo pacchetto di sigarette, e alla decima chiamata di sua madre che alla fine aveva minacciato di chiamare i carabinieri. In fondo, lui era come un bambino per lei, per lo Stato, per tutti quanti. Non aveva nemmeno più lacrime da versare, non aveva più voglia di piangere, né di guardare il telefono. Aveva sempre sorriso di quei film americani in cui la gente gettava il cellulare in mare o fuori dal finestrino per non rispondere, e lo aveva fatto anche lui. Lo aveva lanciato verso quelle rovine, e fanculo tutto il resto.
 
Non c’era niente nella sua vita ormai che potesse trattenerlo. Non si era reso conto di quanto alla fine lei fosse entrata dentro di lui e di quanto importante fosse diventata la sua presenza, al punto da mandarlo in paranoia per un messaggio in ritardo, per una sera senza la sua voce, per una notte senza la speranza di risentirla al risveglio.
 
Hailey continuava a chiamarlo ma quella vocetta femminile continuava a ripeterle che lui non era raggiungibile. No, non sarebbe stato raggiungibile per nessuno, per quelli che lo avevano frequentato per tutta la vita senza mai capirlo, per quelli che lo avevano guardato negli occhi tante volte senza mai guardargli dentro. Lei non aveva bisogno che lui le rispondesse, lei non aveva bisogno di sapere dove fosse. Era buio, ed era uscita a cercarlo. Perché lei sapeva esattamente dove trovarlo.
 
Mezz’ora dopo aver chiuso dietro di sé quel portone era davanti a un’alfa grigia, e le lettere della sua targa, BJ, le avevano strappato un sorriso. Il destino sa essere parecchio spiritoso a volte. Si era fermata solo un attimo a guardarlo poggiato sulla fredda ringhiera ad osservare quei posti che lei conosceva a memoria. Aveva paura, ma sapeva di aver fatto la cosa giusta.
 
Si sbaglia spesso, e lui aveva sbagliato parecchio. Si cade, e ci si rialza. Si ama, e si viene traditi. I spera, e si viene puntualmente delusi. Eppure quando si ama qualcuno davvero, quando quell’amore non si ferma al corpo e alla mente ma diventa qualcosa di superiore, quando prende la tua vita e la distrugge e ne crea un’altra, magari imperfetta, magari peggiore, ma nuova, diversa, quando quella vita è ormai la tua vita, non puoi più fermarti a pensare all’orgoglio, all’odio, al risentimento. Perché quelli sono sentimenti terreni, e in quel momento per lei di terreno non c’era altro che l’asfalto che calpestava, quei pochi passi che la separavano dal ragazzo stronzo e imperfetto che amava.
 
Si era schiarita la voce in silenzio, e quando si era trovata dietro di lui, dolcemente, e fermamente, gli aveva detto due semplici parole “mr Armstrong!”.

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