Luce di stelle

di A li
(/viewuser.php?uid=28809)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Starlight ***
Capitolo 2: *** Starbucks ***



Capitolo 1
*** Starlight ***


Feeling good

Luce di stelle

Starlight

 

 

---

Disclaimer: I personaggi che si formano di loro spontanea volontà in questa storia, purtroppo non mi appartengono. Sono un po’ come i figli, li puoi crescere ed educare finché vuoi, ma alla fine ti sfuggiranno.

---

 

 

1. Starlight

 

L’appartamento all’interno era completamente buio.

Non una presenza, non un rumore. Regnava un silenzio incontrastato.

Si respirava quell’aria d’attesa, di tremula eccitazione, di quando sta per accadere qualcosa d’importante. La luna fremeva per poter filtrare attraverso le persiane chiuse; i lampioni spandevano curiosi la loro luce gialla fino al secondo piano, fino a quell’angusto appartamento nel centro di Londra.

Erano due rampe di scale: si avvolgevano su se stesse, come una grande e pesante chiocciola, finché sbucavano proprio davanti alla porta di quell’appartamento. Sul campanello campeggiava un nome a caratteri cubitali. Kirk. A sinistra, una finestra con un’immensa vetrata rasserenava il piccolo ingresso e concedeva, di sfuggita, la vista incantevole e meravigliosa della città.

 

Quella sera, era probabilmente il 7 di luglio, nel palazzo non c’era anima viva.

Qua e là si sentiva sussurrare che tutti si erano catapultati giù per le scale alle sei del pomeriggio, in modo da non mancare il grande appuntamento allo stadio. Concerto dei Radiohead. Per gli inquilini del palazzo doveva essere qualcosa di importante, perché non era rimasto proprio nessuno.

Il silenzio era totale, immobile e irreale.

 

Rimaneva soltanto quella febbrile eccitazione, in quell’appartamento al secondo piano, con la grande finestra, il campanello. E il nome Kirk.

 

Verso l’una di notte, cominciarono a sentirsi i primi rumori.

Fu inizialmente uno scalpiccio fuori dalla finestra. Erano due passi, due andature diverse ma simili: uno agitato e svelto, l’altro nervoso e più lento. Percorrevano Madison Street nella solitudine, nella notte e nel silenzio.

Dopo i passi, cominciarono i mormorii. Erano frasi spezzate e appena percettibili, risalivano la scala precedendo di poco i passi e precedendo di miglia le bocche da cui provenivano. Le voci si alternavano l’una all’altra, si sovrastavano e a volte interrompevano la loro cantilena.

Davanti alla porta dell’appartamento, arrivarono così due passi, due voci.

Due persone.

 

~

 

Aprì la porta con uno spintone, sfilando la chiave appena in tempo per non spaccarsi il polso.

Che fretta Dominic.

Lo tenni per me, ma avrei voluto dirglielo in faccia, tanto per vederlo arrossire alla luce dei lampioni che proveniva dalla grande finestra all’ingresso.

Lo agguantai per i fianchi, strinsi con forza il suo bacino e lo feci aderire al mio.

Sentirlo mugolare mi mandò in fibrillazione, come sempre.

Riuscii a bestemmiare soltanto mentalmente – sapevo che non sopportava quel genere di cose. Ma era quello che di più eccitante potesse esistere, con quelle labbra carnose e rosse, consumate dai miei stessi baci, schiuse, e quella camicia alla moda aperta fino a scoprire il petto liscio.

Mi permisi un attimo per osservarlo, perché sapevo che poi non sarei stato più in grado di farlo, né di controllarmi.

Scesi con gli occhi dal suo mento alle sue spalle, dalle spalle al petto, dal petto all’ombelico, perfettamente rotondo, dall’ombelico al cavallo dei pantaloni, fin troppo stretto.

Sorrisi, constatando quale effetto provocavo in lui.

- Non mangiarmi con gli occhi; mangiami e basta.

La sua voce, bassa, raggiunse il basso ventre prima delle orecchie.

Risi, appoggiandomi su di lui; avvicinai la bocca al suo orecchio.

- I cannibali non ti spaventano?

Sentii il suo petto fremere in un tentativo di risata.

- Per niente.

Assaggiai il lobo del suo orecchio. Rabbrividì.

In un attimo si era sciolto come cera tra le mie mani calde.

- Non hai paura?

- No -, insistette.

E sapevo che non ne aveva, perché era come me.

Ma mi concessi ancora qualche secondo di lucidità per divertirmi.

- Dovresti averne -, lo avvertii.

Infilai una mano direttamente nei suoi jeans, lasciando soltanto i boxer attillati a dividermi dalla sua eccitazione evidente. Fu scosso da uno spasmo involontario per il mio gesto, lanciò un gemito.

Chiusi gli occhi e mi avventai sulle sue labbra, incontrando la sua lingua al primo impatto.

La mia mano libera gli strinse i capelli, artigliò la sua testa e spinse la sua fronte contro la mia, costringendo i nostri nasi a cozzare.

Il suo corpo perfetto aderiva al mio, lo completava.

Sentii i brividi percorrermi dalle gambe al collo. Era irresistibile.

Niente e nessuno era mai stato in grado di farmi impazzire fino a quel punto di non ritorno. Di dipendenza irreversibile ed eterna.

Solo lui.

Solo Dominic Howard.

La luce mi infastidiva, penetrava le palpebre e raggiungeva la mia mente dove avrebbe dovuto esserci soltanto intenso e spasmodico piacere. Allontanai per un attimo la gamba destra dal suo posto tra quelle di Dom.

Con un colpo secco, chiusi la porta dell’appartamento.

 

Vederlo rivestirsi era una delle cose più belle.

Aveva una cura maniacale per ogni capo d’abbigliamento: che fosse una sciarpa o il suo nuovo paio di jeans firmati all’ultimo grido, aveva il diritto a cure e attenzioni tanto quanto ogni altro membro del suo immenso armadio.

Così capitava che a volte, dopo del buon sesso, si disperasse o cadesse in paranoia.

Era tipico di lui.

È colpa tua, diceva. Non so mai dove ho la testa quando sono con te.

E non importava che gli ripetessi che in realtà la sua testa era perfettamente a posto perché lo avevo baciato per tutto il tempo; non coglieva l’ironia, sbuffava infastidito e girava per la casa nel tentativo di trovare un paio di boxer, o gli occhiali, o addirittura le sue calze preferite. Con che criterio le scegliesse, non ero mai riuscito a capirlo. Per me le calze erano tutte uguali: bianche, nere o colorate, ma che importava.

Bastava che fossero calze.

Effettivamente vederlo girare mezzo nudo per l’appartamento non era un’esperienza così negativa. Se abbassavo il volume mentale delle sue lamentele, riuscivo a godermi lo spettacolo di un Dom in mutande e calze, che vagava in cerca dell’ultimo oggetto perduto.

Questa volta ero riuscito a fargli scappare la sua adorata camicia.

- No, Matt, tu non capisci. Ti sembra normale? Una camicia non sparisce. Dimmi dov’è, te lo ordino.

Alzai le spalle, cercando di spandere innocenza con ogni parte del corpo.

Non ne avevo la più pallida idea.

Ricordavo solo di avergliela tirata via con forza e averla gettata alle mie spalle quando ancora eravamo sulla porta. Ma ero troppo preso da lui. Come poteva pretendere che me ne ricordassi?

- Cazzo, Matt, almeno aiutami!

Risi di gusto.

Era un caso perso.

Rinunciò a coinvolgermi nella sua ricerca e tentò di sbrigarsela da solo.

Mi accesi una sigaretta in santa pace, assorbendo tramite nicotina la tranquillità a cui avevo rinunciato, più che volentieri, quella notte.

- A proposito -, gridò Dom dalla stanza accanto, - stamattina mentre dormivi, i vicini sono venuti a lamentarsi.

- Cosa? E di che?

Ma soprattutto, quali vicini?

Tom aveva detto che sarebbero stati tutti, vecchi compresi, allo stadio per i Radiohead.

- Non lo so, un tipo che ha detto di essere Il-signor-Thomas-del-piano-di-sotto. L’ha ripetuto più o meno cento volte. Ha detto di aver sentito dei ‘rumori molesti’ per tutta la notte.

Sentii la risata chiara di Dom diffondersi nella stanza.

- Mi ha fatto chiaramente capire che mi consigliava di andare a puttane da un’altra parte.

- Lo prendo come un complimento!, gli gridai.

- Come vuoi…

Aspirai una boccata dalla sigaretta e m’impegnai per creare cerchi di fumo con la bocca. Era una cosa impossibile, ci provavo più o meno da un mese ma non mi riusciva.

Naturalmente questo non valeva per Dom, che sapeva soffiare fuori da quelle labbra rosse anche tre cerchi concentrici di fumo, come un vecchio indiano.

M’innervosii tanto per l’invidia che finii per consumare la sigaretta prima del tempo. La gettai nel posacenere, imbronciato, e mi alzai dal letto. Non riuscivo più a starci.

Diedi un’occhiata al panorama fuori dalla piccola finestra della camera. Dom aveva spalancato le persiane per far entrare la sana luce del sole del mattino, come la definiva lui. Cosa che, naturalmente, mi aveva svegliato da un morbido sonno in cui sognavo ancora il sesso della notte precedente.

Sì, forse ero un po’ maniaco; Dom doveva avere ragione su questo.

Comunque Londra era un miraggio irresistibile quella mattina. Il sole, così raro, la accarezzava appena con i raggi tremuli della prima mattina, accompagnando la vita frenetica di una città multietnica e industrializzata. Il cielo era di un particolare azzurro-grigio, come se temesse ancora la tempesta.

- Bella, eh?

Dom si era avvicinato e aveva appoggiato il naso al vetro, per guardare fuori.

Annuii.

- Hai trovato la tua roba?

Con faccia colpevole, alzò le mani e mostrò la famosa camicia, appallottolata come un gomitolo e tutta sporca.

- L’ha presa Jimmy -, ammise.

- Dimmi che scherzi.

Scosse la testa, probabilmente sperando che un sorriso bastasse a tenermi a bada.

- Sei tu che volevi il gatto.

- Sì, lo so; infatti non mi sto lamentando, come vedi.

Sperai che non dicesse sul serio.

- Sono quarantacinque minuti che ti lamenti, Dominic.

Il suo sorriso si allargò e contagiò gli occhi. Conoscevo quella mossa, lo faceva quando voleva convincermi a passare dalla sua parte.

- Mi perdoni se ti propongo uno scambio?

- Dipende…

Lo guardai ricambiando il sorriso con malizia.

Dom si dondolò sul posto come un bambino dispettoso, abbassando gli occhi per fingere timidezza.

- E se io ti promettessi tanto sesso in cambio del tuo perdono?

- Andata.

La mia mano era tesa verso di lui prima che le parole raggiungessero il cervello.

Dom inclinò la testa da un lato, come un cane, osservandomi a metà tra lo sconcertato e il divertito.

- Sì, tu sei un pervertito, Matthew.

Scrollai le spalle. Non m’importava.

Dom rise e si voltò, dirigendosi ancora nell’altra stanza. Si era completamente rivestito e non potevo godermi nessuna squisita parte del suo corpo.

 

Quando lasciammo l’appartamento era quasi mezzogiorno.

Dom aveva cambiato vestiti almeno tre volte prima di decidere definitivamente cosa mettere.

- I ragazzi ci staranno aspettando -, si lamentò.

- Aspetteranno. Non sarà questo a ucciderli.

- Ma dobbiamo organizzare il tour!

Gli lanciai un’occhiata eloquente, mentre davo un giro di chiavi in più del necessario.

- Showbiz? È il mio bambino, non va da nessuna parte.

Dom sbuffò e capì che non c’era possibilità di discutere su quel punto.

La scala a chiocciola ci sembrò più semplice della sera prima. Percorrerla salendo, al buio, era stata un’impresa non da poco. Avevamo dovuto sbattere tre volte nel corrimano per capire che era una spirale e che, di conseguenza, girava su se stessa.

Arrivati al primo piano, ci scontrammo con un vecchio rugoso che portava a spasso un piccolo cane, un bassotto. Ci squadrò e qualcosa nell’espressione di Dom mi fece capire chi fosse.

- Buongiorno signor Thomas -, salutai.

Tesi una mano verso di lui, ma il vecchio continuò semplicemente a guardarmi, in modo sfacciatamente disgustato, e se ne andò un attimo dopo, scendendo le scale.

Dom scosse la testa rassegnato, massaggiandosi le tempie.

- Beh? -, protestai.

Non avevo fatto nulla di male.

Ma Dom mi spinse in fretta giù dalle scale.

- Certe volte sei proprio lento -, disse, - Quello ci crede una fantastica coppia, adesso.

- E allora?

Lasciai che la mia risata riempisse l’aria dell’ingresso del palazzo.

- Per me può credere tutto quello che vuole.

Dom sospirò e non rispose nulla.

Ma in fondo non gliene importava un granché.

 

 

Del resto eravamo giovani.

E quando uno è giovane, non gl’importa mai un granché.

 

 

---

Fine capitolo primo.

{Ali}.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Starbucks ***


Feeling good

Luce di stelle

Starlight

 

 

---

Disclaimer: I personaggi che si formano di loro spontanea volontà in questa storia, purtroppo non mi appartengono. Sono un po’ come i figli, li puoi crescere ed educare finché vuoi, ma alla fine ti sfuggiranno.

Disclaimer 2: Le informazioni su Starbucks, Londra, lo Speakers’ Corner sono quanto più possibile precise, ma potrebbero rivelarsi inesatte. Spero che la cosa non infastidisca chi conosce Londra veramente: io non ho avuto ancora la fortuna di ammirarla dal vivo, perciò ho lavorato soprattutto di fantasia. Il risultato è quello che è.

---

 

 

2. Starbucks

 

Nemmeno l’immenso ritardo accumulato, che ormai doveva essere più o meno di due ore, fece desistere Dom dal suo rituale mattutino.

Cercai di far trapelare la mia disapprovazione da ogni parte del corpo, ma era inutile: non potevi togliere a Dominic Howard il santo e amato Starbucks delle dieci di mattina. Contava poco o nulla che la maggior parte della gente odiasse il caffè di quel posto (‘Horrible coffee!’ era la slogan più frequente): Dom lo adorava. Spesso, quando gli dicevo che Leckie si era lamentato del nostro ritardo – soprattutto se causato da Starbucks –, lui semplicemente sporgeva il labbro inferiore e miagolava, in un modo decisamente insopportabile: A me piace. Poi si chiudeva in un silenzio di qualche minuto e camminava dritto filato nel tentativo di raggiungere Green Street; e la questione era chiusa.

Guai a provare, poi, un altro Starbucks. Voleva a tutti i costi quello al numero 4 di Green Street, o si sarebbe rifiutato di lavorare per il resto del giorno. Mi ero arreso da tempo a questa sua mania, del resto non era l’unica – e mangiare colazione con lui era il massimo, specialmente prima di una giornata piena di stress.

Londra, di mattina, era uno spettacolo da brividi. E in una giornata come quella, con il raro sole a scaldare la pelle fredda all’aria aperta, era semplicemente perfetta. Svoltammo in Green Street che erano le dieci e un quarto e Dom già si lagnava del ritardo.

Risi di gusto quando, cercando di accelerare il passo, quasi si gettò tra le braccia di una grassa signora in divisa da poliziotta: quella non si lamentò, ma gli rivolse un’occhiata di traverso e si voltò sdegnata non appena Dom tentò di abbozzare qualche scusa.

Finalmente arrivammo all’ingresso del locale. Era enorme, la porta a vetri era sormontata dall’icona verde scuro della catena, che incombeva come un marchio eterno. Oltrepassammo in fretta la cassa, a destra, e ci fiondammo al fondo della stanza, dove Dom si buttò, completamente soddisfatto, su uno dei comodi divani ancora liberi. Emise un sospiro compiaciuto e stese le labbra in un sorriso pieno.

- Spero per te che ti sia preparato una buona scusa, stavolta. Siamo più in ritardo del solito.

Dom alzò gli occhi e sbuffò.

- Non sei tu quello delle scuse?

- No, Dom. Oggi tocca a te.

Annuì, spolverandosi inutilmente la maglia già perfetta e aggiustando gli occhiali scuri, in modo che stessero esattamente come voleva lui.

Lo squadrai un momento e mi lasciai scappare un sorrisino.

- T-shirt rossa, occhiali neri perfettamente inutili e jeans. Elegante e poco sobrio. Devo presupporre che questa sia una delle giornate positive?

Prima di rispondere, fu interrotto da un lungo sbadiglio che non riuscì a trattenere.

- Mi sono svegliato col piede giusto. Mi sentivo rosso stamattina.

- Che sarebbe a dire?

- Divo sul piede di guerra -, rispose.

Scoppiai a ridere. Ma dove le andava a scovare quelle assurdità?

La cameriera interruppe il mio divertimento, lanciando scocciata un menù sul tavolo e aspettando in piedi, ferma come un palo, che decidessimo cosa prendere. Fui tentato di ricambiare l’immensa cortesia prendendomi un’ora per scegliere, ma Dom mi anticipò.

- Per me il solito, cioccolata calda. Molto calda.

La cameriera, che – notai – aveva un i-pod nascosto sotto la divisa, si rivolse a me, con un sorriso tirato, estremamente falso. Appoggiai il mento sulla mano e aspettai un minuto buono, prima di parlare.

- Caffè -, conclusi.

La cameriera se ne andò in fretta, irritata più di quanto fosse prima.

- Matt.

Dom mi rimproverò con gli occhi, ma non gli badai.

- Parlando di cose importanti -, disse cambiando argomento, - Dovremo liberare casa di Tom prima o poi.

- Bah, tanto lui non la usa.

- Sì, ma è sempre casa sua. E poi ha detto che ci deve portare qualcuna, domani sera.

- Eh?

Lo guardai interrogativo, ma lui alzò le mani come per difendersi.

- Non ne so nulla. Che ti ha detto l’idraulico?

- Che il nostro fantastico appartamento resterà gelido almeno fino a dopodomani.

Sbuffai, grattandomi distrattamente i capelli. Dom rimase in silenzio, assorto nei suoi pensieri, probabilmente negativi.

- C’è un’unica soluzione -, affermai per interrompere il silenzio.

- Cosa?

Mi leccai le labbra e incrociai le mani sotto il mento con sguardo lascivo. I miei occhi percorsero, fin troppo abituati, le linee dolci del corpo di Dom. Il suo sguardo si riempì di consapevolezza.

- No, Matt. Non pensarci nemmeno.

- E perché? -, protestai, con voce innocente, - Che c’è di male?

- Lo sai.

- Che t’importa? Sarà solo per una notte. E lo sai, quello è l’unico hotel che accetta animali. Non vorrai lasciare Jimmy tutto solo a casa di Tom. O peggio, in cattiva compagnia.

Dom abbassò il capo tormentato da assurdi sensi di colpa. Alla fine si appoggiò alla sedia, sconfitto.

- Va bene.

Far acconsentire Dom era la cosa che mi piaceva di più al mondo. Chiusi gli occhi, pregustando il piacere di una bella suite, preparata apposta per coppie appena sposate. Non poteva esserci soluzione migliore, almeno per me.

Stirai le braccia, sorridendo in pace col mondo.

- Mancheremo molto al signor Thomas.

- Matt.

- Peccato, avrei potuto fargli capire che distanza c’è tra me e una comune puttana.

- Matt!

Alzai appena una palpebra per capire il motivo del disappunto di Dom. Di solito non faceva così tante storie.

Davanti agli occhi mi ritrovai la cameriera, con un bicchiere enorme di caffè orrendo tra le mani, e con l’espressione di chi ha visto troppo (o sentito troppo) per poter sopportare.

Gli sorrisi, mostrando i denti bianchissimi in modo più che convincente. Oltretutto era piuttosto bella, pensai. Se non fosse stato per il suo carattere, sarei stato più gentile con lei.

Mi mollò il caffè davanti al naso con tutta la malagrazia in suo potere, andandosene sempre senza dire una parola. Al di là del bicchiere, Dom si copriva la faccia con una mano.

Risi.

- E non ridere, Matt. Sei un disastro!

- Sì. E tu ti devi rilassare, Dominic.

Avvicinai le labbra al bicchiere, naturalmente scottandomi. Bestemmiai, ma la lingua ormai era irrimediabilmente danneggiata: per il resto del giorno avrei avuto quell’odiosa sensazione di insensibilità. Dom mi osservava quasi compiaciuto, anche se ancora infastidito dal fatto che l’avessi chiamato col suo nome completo, cosa che odiava.

Senza smettere di guardarmi, cominciò a sorseggiare la sua cioccolata calda. Il sapore lo sciolse come sempre e presto la sua espressione si distese.

Cinque minuti dopo mi ero alzato in piedi, avevo raccattato il bicchiere che avevamo ordinato per Chris e avevo fatto un cenno a Dom.

- Forza, si va in città!

Dom alzò un sopracciglio.

- Non eravamo in ritardo?

Abbozzai un sorrisetto e alzai le spalle.

- Non ne ho voglia -, borbottai.

- Come ti pare.

Abbandonò a malincuore la tazza di cioccolata, vuota, e si avvicinò a me. Dopo avermi appoggiato le mani sui fianchi, mi diede una spinta verso l’uscita.

- Forza!

Ridacchiai, pagando alla cassa senza nemmeno controllare il resto.

E chi se ne importava.

Uscii alla luce del sole godendomi quella sensazione meravigliosa.

Avevo la vita ai miei piedi.

 

Al termine di Green Street, svoltammo su una strada più grande, tenendoci prudentemente sul marciapiede. Non avevo la minima idea di dove stessimo andando, ma la cosa non mi preoccupava nemmeno un po’. Chiacchieravo praticamente da solo, visto che Dom aveva rinunciato ad essere di compagnia, e mettevo un piede davanti all’altro nella direzione che mi indicava l’istinto.

Non eravamo nel centro di Londra.

Ma quel che sapevo era che ci muovevamo lungo una linea immaginaria che attraversava la zona del Westminster. Poco più in là doveva esserci un parco, o qualcosa del genere, l’avevo visto sulla cartina la sera precedente.

- Matt, sai dove stiamo andando, vero?

La fatidica domanda arrivò proprio quando avevo sperato di evitarla.

Non guardai Dom negli occhi, sapevo che mi avrebbe scoperto, ma proseguii con sicurezza distanziandolo un po’.

- Certo.

- E dove?

Finsi di non aver sentito e continuai a camminare.

Girai a sinistra appena possibile, addentrandomi in un’accogliente macchia di alberi, insolita in una grande città, ma che a Londra avevo imparato ad incontrare spesso. Un piccolo passaggio ci fece sbucare in una nuova strada, vietata alle macchine, molto più stretta ma non meno frequentata. Una serie di uomini e donne con facce serie percorreva il poco spazio avanti e indietro, affollandosi in alcuni punti.

Allungai il collo incuriosito.

Che diamine di posto era quello?

Senza un determinato scopo, seguii un ragazzo più o meno della mia età, che si tuffava nella folla con decisione, diretto in un punto preciso. Cercai di non perderlo, tenendo gli occhi incollati ai suoi talloni e intanto sperai che Dom riuscisse a starmi dietro. Lo sentivo lamentarsi ogni due passi, mentre dava gomitate alle persone ricevendo in risposta alcuni insulti davvero interessanti.

Non badai molto alle orecchie; i suoni che percepivo rimanevano indistinti e lontani dal mio cervello, che non aveva nessuna intenzione di decifrarli. Solo ad un certo punto mi parve di aver sentito una donna gridare qualcosa.

Quando finalmente il ragazzo si fermò, con lo sguardo seguii i suoi piedi salire su un basso podio. Alzai gli occhi.

In fila di fronte a me, davanti ad un gruppo nutrito di persone, alcuni ragazzi e ragazze parlavano ad alta voce, su piedistalli improvvisati, o gridavano all’interno di megafoni variopinti, esprimendo la propria opinione con fermezza. Il pubblico attaccava, si difendeva, criticava con la forza di un nemico agguerrito.

- Matt!

Dom venne sputato fuori dalla calca e quasi mi finì addosso.

Si ricompose in fretta, senza smettere di lamentarsi, arrabbiato con me e con la gente lì intorno.

Ma io non lo ascoltavo, troppo preso ad osservare quello spettacolo di fronte a me.

Un biondino di vent’anni urlò qualcosa a proposito del Primo Ministro.

- Non è possibile… -, mormorai, - Pazzesco…

- Che c’è? Mi vuoi dire dove cavolo siamo, Matt?

Aprii la bocca per parlare, ma per un momento mi mancò la voce.

- Speakers’ Corner…Speakers’ Corner, Dom!

Lui continuo a guardarmi allo stesso modo.

- Ma non capisci? -, continuai indignato, - Qui hanno parlato i più grandi, gli idealisti! Karl Marx, George Orwell…! Mio dio, Dom!

Senza aspettare una sua risposta, avanzai verso uno strano palco di due metri per due, sul quale un signore di mezz’età stava tenendo una specie di mini-conferenza con un megafono.

Dom mi tirò per la maglia, tentando di trattenermi.

- Che vuoi fare? Dove vai?

Non risposi. Avevo in mente solo una cosa.

Dovevo salire su quel palco. Immediatamente. Per forza.

Mi liberai dalla presa di Dom e gli impedii di fermarmi ancora. Saltai sul palco, dirigendomi verso l’improvvisato oratore. Gli strappai il megafono di mano; il pubblico mi gridò qualcosa, il signore mi insultò, ma non riuscì a riprendersi la scena.

Era mia.

Prima avvicinare la bocca al megafono, vidi Dom nascondere il viso tra le mani.

- Sono Matthew Bellamy! E sono qui per avvertirvi! -, gridai.

 

La risata di Dom cominciava a mettere a dura prova la mia sopportazione.

Rideva da circa un quarto d’ora e non dava segno di voler smettere. Si divertiva infinitamente alle mie spalle, era evidente. Bene, che si divertisse. Io non gli avrei dato la minima soddisfazione in quel senso.

Girai la testa dall’altra parte, evitando fermamente il suo sguardo e camminando più in fretta possibile.

Dom sbuffò, senza interrompere la sua eterna risata e accelerando per non perdermi di vista in mezzo alla gente.

- Dai, Matt, non fare così. Devi ammettere che è stato divertente.

Non risposi. E nemmeno frenai la mia andatura.

Buon per te.

- Dai, avevo provato a fermarti; ma sei impossibile!

Aveva intenzione di continuare a infastidirmi ancora un po’?

Cercava di farmi ragionare, ma intanto continuava a ridersela alla mie spalle.

Non lo degnai di uno sguardo, strinsi i denti e in due minuti raggiunsi l’ingresso della casa che era diventata il nostro quartier generale e il nostro ritrovo abituale da un mese a quella parte. Casa Leckie.

Al di là del cancello, un piccolo giardino inglese, estremamente curato, dava bella mostra di sé e alle sue spalle una porta in legno veniva aperta all’improvviso.

Tom uscì con calma, venendo ad aprirci di persona.

- Alla buon’ora, voi due!

Alzai le spalle, mentre Dom tentava in malo modo di scusarsi.

Qualcosa nella mia espressione, però, dovette particolarmente colpire Tom.

- Che gli è successo?

Vidi Dom sollevare le braccia.

- Non guardare me. Ho tentato di fermarlo, ma ha voluto a tutti i costi salire su un palco allo Speakers’ Corner. Ha gridato a tutte le persone di fronte a lui che le nostre menti sono controllate da qualcuno di molto potente. La gente non l’ha preso proprio sul serio…

Un eufemismo per dire che hanno buttato nel cesso la mia teoria.

- Il futuro mi darà ragione -, sibilai, come se potessi pronunciare una profezia.

Dom rise e Tom gli andò dietro senza un minimo di riguardo per me.

Sospirai, perdendo tutta la forza di volontà, e attraversai il cancello, sperando di arrivare il prima possibile all’interno della casa e parlare con qualcuno che avesse un minimo di cervello: Chris, Leckie, o almeno Safta.

Ma Tom mi bloccò prima che potessi farlo.

- Ah, Matt! Novità dell’ultimo minuto!

Mi arresi e cercai di prestargli attenzione, anche se l’immagine di Dom che rideva tornava continuamente a tormentare i miei nervi.

Tom alzò un pollice verso di me. Sembrava contento.

- Si parte per la Francia!

Fantastico, pensai. Ci mancava solo questa.

 

Eravamo giovani, ambiziosi e pieni di talento.

Avevamo la vita ai nostri piedi.

 

 

---

Fine capitolo secondo.

Ringrazio di cuore tutte le ragazze che hanno recensito: takeabow, Easily Forgotten, Lady Of The Flowers, BrokenGlass, MusicAddicted, aleale00, esuM_.

Le vostre recensioni mi hanno fatto sorridere, riflettere, ridere di gusto (come Dom in questo capitolo, almeno). Ma soprattutto mi hanno spronato a fare il meglio possibile.

Spero di avervi accontentate e incuriosite.

{Ali}.

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=666963