Apocalisse risorgimentale

di Pinca
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Apocalisse risorgimentale ***
Capitolo 2: *** Il burattinaio ***
Capitolo 3: *** Perché là dove stanno loro è brutto, è triste, chiov siempr ***
Capitolo 4: *** Olocausto ***
Capitolo 5: *** Annichilimento ***
Capitolo 6: *** L'attore dimenticato ***
Capitolo 7: *** La Terra Promessa ***
Capitolo 8: *** Ritorneremo ad essere grandi! ***
Capitolo 9: *** Finchè è con me non deve preoccuparsi di nulla. ***



Capitolo 1
*** Apocalisse risorgimentale ***


caput mundi
Questa è una raccolta credo. Non so bene come definirla. Forse è un progetto, fatto sicuro è che saranno trattati eventuali momenti storici in maniera molto, molto romanzata. Quindi niente date precise, niente battaglie precise, sarà tutto molto vago.
Non so come interpretare l’inizio. Forse sarebbe stato meglio usarlo a parte, ma dopo tutto hetalia è a episodi sconnessi, quindi anche questa storia sarà un po’ sconnessa tra un capitolo e l’altro.
I momenti storici che andrò ad analizzare saranno trattati in un modo molto particolare perché cercherò di dare la penna della storia in mano ai vinti, per dare loro la possibilità di raccontare le proprie motivazioni che li hanno portati a determinate scelte, le proprie condizioni, le speranze, le verità.
Forse è un po’ avventato da parte mia, ma non ho pretese di cambiare la concezione della storia a nessuno, anche perché non sono una storica ne niente.
Una cosa sola, per motivi di trama ho deciso di cambiare il sesso di feliciano, anche se in alcuni capitoli lo potreste rincontrare nella sua versione originale.
Premesso questo, per chi ha deciso di intraprendere questo cammino consiglio di prendere tutto questo come un gioco, come lo è l’anime originale, o come una visione/versione alternativa dei fatti.
Ciao!
Pinca
 
 
 
 
 
 
 
 
Trombe squillanti risuonarono, infransero l’aria, scossero terra e anime.
La bandiera porpora e oro era tornata a splendere svettante al sole, nel vento dei cieli azzurri della città eterna, con il suo vessillo imperiale esposto in avvertimento e guida, tirata su mentre ancora alcuni frammenti del tricolore resistevano alle fiamme divoratrici, diventando cenere ai piedi dell’uomo che teneva retta l’asta d’oro con orgoglio e forza.
Fu allora che l’intero mondo comprese che la mano spietata della Storia aveva messo un punto e stava per volgere a capo.
Qualcuno stava risorgendo, e veramente questa volta,  a discapito di tutto ciò che quei terzi, ora tremanti, avevano fatto per evitarlo.
Caput Mundi, e il suo nome sarebbe tornato ad imporre la sua giustizia nelle pagine a venire.
Caput Mundi, e la mano della Storia tornò a scrivere il suo nome glorioso, fiammeggiante d’inchiostro nero e fresco, sulla pergamena rugosa: Roma caput mundi regit orbis frena rotundi.
 
 
 
                                                                                           
 
 
 
 
 
"Roma capitale del mondo regge le redini dell’orbe rotondo", verso presente nel sigillo di Federico Barbarossa.
 
 

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Capitolo 2
*** Il burattinaio ***


caput mundi 1
                                                                                              
 Ciao! pubblico il nuovo capitolo. è una parte della realtà molto semplificata, diciamo il volto nascosto dell'evento che è l'unità d'italia. ci vediamo alla fine del capitolo. ripeto, l'argomento è molto più complesso, ma resto sul romanzato.
 
 
 
-Li hai letti ultimamente i giornali? Vogliono unificare l’Italia.-
-Quelli? Si, qualche occhiata gliel’ho buttata…-
-Cosa ne pensi?-
-Ma non saprei... visionari! L’idea non mi entusiasma molto....-
-Dici? A me sembra capitare proprio a fagiolo.-
-Come fai a dirlo? Un’Italia unita, proprio sotto di me…. Ma tu cosa ne puoi capire di confini?-
-Ti sbagli mio caro amico, ne capisco e come! E so che sono un dettaglio irrilevante se consideriamo che si tratta di una penisola nel bel mezzo del Mediterraneo. A maggior ragione l’idea mi piace ancora meno se l’Italia partisse dal Sud. Quei Borbone, non mi piacciono affatto. Tutta quella flotta, quelle navi a vapore. Adesso pure un transatlantico…-
-Mi sembri preoccupato!-
-François, ti ricordo che abbiamo dei forti interessi in quel mare. A breve sarà pronto il canale di Suez….-
-Già.-
-Per non parlare dello zolfo in Sicilia. Già una volta Lovino ha provato a frenarmi…-
-Si, mi sembra di ricordare qualcosa come dei cannoni puntati su Napoli….-
-Con la sua maledetta politica dell’indipendenza, chiuso nel suo bel paese!-
-Desideri muovergli guerra?-
-No, non ne ho alcuna intenzione.-
-Comunque io non me ne preoccupo. Che l’Italia rinasca dal basso è una cosa improbabile. Non hanno motivo di soppalcarsi guerre, soprattutto non contro l’Austria, sua alleata, ne minacciare i possedimenti della Chiesa. Sono cattolicissimi.-
Arthur portò la tazza di the alle labbra. I pensieri si mischiavano al vapore caldo e profumato che si alzava pigramente dinnanzi ai suoi occhi.
-Come sta Antonio?- chiese ad un certo punto, tornando a parlare.
-Mah, sinceramente, non lo vedo bene! Problemi di successione, robe di questo tipo…-
Arthur abbassò gli occhi sulla superficie scura del suo the riflettendo a fondo, facendola ondeggiare leggermente con un movimento lento del polso.
-E di quell’ometto, quel Cavour, quello che ha partecipato alla guerra di Crimea, cosa ne pensi?-
-Il piemontese?-
-Si.-
François si fece sfuggire una risatina per poi appoggiarsi al bracciolo della poltrona con aria distratta.
-Ah, che tipetto, ha indebitato il suo paesello per farsi notare da noi!-
-E i sovrani sono mezzi francesi…-
-Oh si, legiferano in francese.- spiegò François. Spostò il suo sguardo ceruleo sul fratello seduto di fronte a lui, scrutandolo intensamente. -Che intenzioni hai Arthur, parla chiaro!-
-Che ne dici di occuparci noi della questione italica, François?-
-Ma come? Hai cambiato idea? Adesso li vorresti aiutare? Non sarà una delle tue stupide scommesse, spero.-
-Affatto, mio caro amico. Per evitare spiacevoli rinascite spontanee, è richiesto un nostro repentino intervento.- 
-Insomma, dobbiamo farla noi questa Italia, prima che si faccia da sola. E dei tedeschi? Di loro non ti preoccupi?-
-Solo se a prendere il controllo della situazione è Austria! Intanto occupiamoci della futura Italia…. Asseconda quell’uomo, aiutalo a liberare il piccolo Veneziano dal perfido Roderich.-
-E poi?- lo incalzò curioso François.
-E poi, saranno i capi stessi della nostra nuova Italia ad occuparsi di Romano. Siamo tutti fratelli, no? Mi raccomando però, Veneziano dovrà restare all’oscuro di ogni cosa. Dobbiamo fargli credere di esserci riuscito da solo, di essere lui stesso l’artefice, che il suo momento è arrivato.-
-E come gli faremo passare per buono la distruzione di suo fratello? Perché è la distruzione di Lovino che vuoi, vero?-
-Che parole grosse, François, oserei dire esagerate. Diciamo che sarebbe più proprio dire… che voglio ridurlo all’impotenza. Faremo ricadere la colpa sui Borbone. Sono buoni amici degli austriaci, no? Sovrani assoluti come quelli ghigliottinati da te. Veneziano è un sempliciotto. Digli che una cosa è cattiva, per lui sarà cattiva. Gli faremo credere che il povero fratello deve essere liberato dalla stessa tirannide che ha oppresso lui. Tutto dovrà assumere connotati epici, eroici… abbiamo bisogno di un uomo all’altezza del compito.-
-Potremmo contattare il fratello Garibaldi.-
Arthur inarcò le sopracciglia impressionato, e rivolse a brindisi la tazzina al suo interlocutore prima di bere.
-Ottima scelta.-
-Sei sicuro che sia una buona idea? Voglio dire, azzoppare un paese alla nascita….-
La tazza tintinnò sul piattino, e alcune gocce del liquido bagnarono le dita di Arthur, scompostosi per un commento tanto ozioso.
-Non vorrai che torni Roma! È un maledetto fantasma, è un pericolo!- fece grave. Sospirò, allarmato al solo pensiero, e si nascose dietro la tazza di the. -Tale deve rimanere, un fantasma. Se tutto va come previsto, anzi, dovrebbe addirittura sparire….-
-Ma anche col nostro supporto, come può il Piemonte far crollare Romano? Ferdinando non lo permetterebbe mai!-
-Ferdinando, tsk! Confidiamo nella sorte, un cambio della guardia sarà propizio, fidati.-
-D’accordo, faremo così. Contatterò i fratelli in Piemonte.-
 
 
 
 
 
Nell’ombra tramava, tesseva e tirava i fili dei suoi burattini con le lunghe e ossute dita bigie, dedite alla conta dei danari.
Presto tutte le monarchie assolute sarebbero crollate sotto il suo soffio e il mondo avrebbe assunto un nuovo volto, nuove sembianze disegnate da Lui.
Una fitta rete invisibile presto avrebbe imprigionato e strangolato le Nazioni nel nome di un Nuovo Ordine Mondiale.
E intanto lui tesseva, anello ad anello, trame fitte e fittizie.
Cadute, le dinastie non avrebbero più potuto difendere le Nazioni dalla sua mano invisibile e rapace.
Napoli, Austria, Russia, Prussia, Impero Ottomano, il mondo intero non avrebbe avuto più difese e ognuno si sarebbe incastonato autonomamente nella maglia ben stretta seguendo il buon esempio rivoluzionario, nel nome della sua Libertà.
E chi avrebbe avuto le redini di tutto sarebbe stato Lui, all’apice della conoscenza, invisibile, inconsistente… inattaccabile. Il Dio del Nuovo Mondo.
 
 
 



Intanto avrete notato che ho usato spesso la parola fratello nel dialogo tra francia e inghilterra. è un appellativo prettamente massonico. garibaldi, cavour e molti altri personaggi che hanno segnato la nostra storia, più o meno alle luci della ribalta, lo erano. poi ho reso più francese il nome di francia, tanto per non smentirmi mai, insomma XD! ho intitolato questo capitolo "il burattinaio" perchè volevo sottolineare appunto il ruolo nella storia. la sua mano sarà invisibile a chi guarda lo spettacolo, ma i fili ci intravedono, ci sono. qui i burattinai sono a loro volta burattini nelle mani di un unico burattinaio fittizio e, appunto, inconsistente, etereo. non è una nazione fisica, è un corpo deterritorializzato. diciamo che abbiamo qui l'antagonista, e spero anche che sia abbastanza inquietante, dato che l'ho scritto quest'ultimo pezzettino in cinque minuti o poco più.
Grazie ancora a tutti coloro che sono arrivati fin qui! ciao da pinca^^
 
 

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Capitolo 3
*** Perché là dove stanno loro è brutto, è triste, chiov siempr ***


 
 questo capitolo non so come interpretarlo manco io, ma è una premessa per quelli a seguire dedicati proprio a romano e poi al personaggio che ho deciso di creare, cioè sicilia. non so se vi piacerà come personaggio o se l'idea stessa di averla creata vi farà storcere il naso, ma credo che quella che oggi è una parte d'italia abbia sempre avuto le carte in regola per essere considerata come una nazione vera e propria. molto probabilmente dedicherò un capitolo anche a lei, simile a quello che ho già scritto per romano. inoltre ho cercato di rendere in italiano, il napoletano e il siciliano, adattando alcune forme grammaticali, per rendere maggiormente le espressioni dei personaggi. noterete che il verbo avere sarà usato a volte al posto del verbo dovere, che il passato remoto sarà usato normalmente, i verbi messi a fine battuta, o l'utilizzo di "pigliare" "prendere" e simili. comunque prendete quello che viene come una commedia. spero che sia piacevole e anche un pò simpatico. ciao e grazie mille da pinca^^!
 

 
 
 
Anche quella volta Sicilia era tornata a lamentarsi sempre per il solito problema. L’autonomia? No, per carità. Guai, guai ad aprire un argomento del genere! Quel tasto doleva peggio di un dente cariato. Era capace di tenergli il muso e di guardarlo male per mesi interi. Non le era andato proprio giù il suo intervento nel ’49.
-Devi fare qualcosa! Io a quello non lo sopporto più, si comporta come se fosse il padrone di casa!-
-E come, quello non ero io?- chiese scherzoso, comodamente seduto in uno degli ampi salotti soleggiati della reggia di Napoli.
-Si, ma sei così incapace che bastano un po’ di moine per farti mettere da parte!- continuò lei in preda all’indignazione, facendo avanti e indietro sul marmo bianco levigato. Si contorceva le mani in grembo, segno che si stava trattenendo dall’urlargli contro.
Lovino sussultò nel sentir definire “moine” quello che l’inglese aveva combinato nel 1816.
-Un po’ di moine?! Azz, e i cannoni puntati contro Napoli me li chiami moine? Ma che, te ne sei dimenticata che è successo l’ultima volta che volevamo passare il monopolio ai francesi? Quello ha combinato il finimondo!-
-Sei un incapace!- sentenziò sprezzante Rosalia senza neanche guardarlo.
-Pure!-
-Anzi, poco ti ho detto!-
-E tu sempre poco mi dici.- concluse Lovino dando poco peso a tutta quella faccenda. Gli bastava stare lì ad osservarla imbronciata e orgogliosa, con mille grilli per la testa, ferma a osservare il mare al di fuori dell’ampia vetrata con i suoi occhi neri, ardenti come carboni accesi. E come era bella e impettita in quel vestito color rosso dalle trame gialle, con una scollatura che, per quanto decorosa, non bastava certo a tenere a freno i sui occhi e i suoi pensieri, con i capelli corvini intrecciati sotto la nuca velati da un fazzoletto di pizzo porpora che lasciavano il lungo collo scoperto. 
-Non ti sopporto!- sbottò amareggiata continuando a guardare fuori.
-Dai, non dire così. Lo sai che ti voglio bene!-
-Tsk!- lo fulminò con un’occhiata fugace e risentita. -Infatti, l’ho visto quanto bene mi vuoi!-
Lovino si abbandonò sulla poltrona buttando la testa indietro esasperato.
-Uffà, una femmina più pesante di te non me la potevo trovare! Non ti va mai bene niente! Ma che fastidio ti da questo inglese?-
-È un cafone!-
-Ha parlato la regina di Francia!- la sfotté sventolando una mano in aria.
-In casa mia le persone devono sapersi comportare. Mi tratta come una schiavetta, si crede di avere a che fare con una delle sue colonie! E poi, per lavata di faccia, mi paga quei quattro spiccioli…. Chi me lo doveva dire che alla mia età il primo pirata da quattro soldi si sarebbe permesso di trattarmi così!-
Romano si piegò in avanti, poggiando i gomiti sulle ginocchia, scrutando corrucciato la donna che aveva di fronte.
-Ma fammi capire, che vuoi farci la guerra?-
L’attenzione di Rosalia saettò immediatamente dal golfo al ragazzo seduto al centro della stanza, e vi si avvicinò a grandi passi.
-Io? Tu dovresti farci la guerra! Non mi volesti maritata, e ora fai il tuo dovere e mostra chi comanda!-
Romano scattò in piedi trionfante, fronteggiandola, sbandierando un dito come a voler dimostrarle che con quella frase si era smascherata da sola.
-Ah, e qua ti volevo!- fece soddisfatto fermandosi proprio di fronte a lei. -Ora non ti dispiace essere maritata, vero?- chiese avvicinando il viso sorridente e spavaldo a quello tirato della moglie.
-Non mi dispiacerebbe se ogni tanto qualche lato positivo ci fosse!-
-E quindi ora pretendi che io ti cacci quell’inglese di casa!- continuò lui con la stessa aria tra lo sfottò e l’accusa.
-E certo, voglio vedere. Qua ci sei tu che fai il padrone, là, a casa mia, c’è quell’altro che fa il padrone e non mi è manco marito!-
-Io, padrone?- Lovino incredulo si portò le mani al petto offeso. -E tu tieni pure il coraggio di chiamare padrone a me? Dopo tutti questi anni?-
-Sì, esatto, e sappi che alla prima occasione buona, io faccio i bagagli e me ne vado, capisti?- confermò Etna inflessibile, passandogli accanto e percorrendo nervosamente il salotto.
Romano sbuffò e alzò gli occhi al cielo, voltandosi verso di lei.
-Sì, si, l’ho capito, non fai altro che ripetermelo!-
-Sei uno sciocco. Non lo capisti ancora che, chi non si impone con le armi, destinato a stare in basso è?-
-Dai Etna, non iniziare con questa storia, lo sai che non sono d’accordo....- fece seccato, tornando a sedersi sulla sua poltrona.
Rosalia si fermò e tornò a rivolgere il suo sguardo irrequieto su di lui.
-A no? E com’è che a tutt’oggi ho ancora quel maledetto inglese che si prende tutto il mio zolfo indisturbato?-
-Ma che c’entra?- scattò dritto Lovino giungendo le mani. Ma possibile che si dovesse trovare a spiegarle queste cose? Ma non erano già abbastanza ovvie? -La grandezza di un paese non si vede dai fucili, ma da come sta la sua gente. Abbiamo industrie, la ferrovia, i cantieri navali, servizi per i poveri, i malati e gli orfani…. Viviamo meglio degli inglesi e dei francesi, e questo senza bisogno di puntare fucili contro nessuno.-
-Ti sbagli!-
La sua insistenza lo fece uscire dai gangheri. Sembrava contraddirlo per puro spirito, solo perché erano parole sue.
-Eh… Etna, camm’a fa?- chiese spazientito alzando la voce, oramai seduto in punta alla poltrona. -Ma che, veramente vuoi la guerra? Ma stai uscendo pazza? Ma sai che significa partire per andare ad ammazzare o essere ammazzato? Ma chi me lo fa fare? A quale scopo?-
Etna sbuffò cercando di resistere, ma dopo aver vagato con lo sguardo, si arrese e lo abbassò amareggiata sul pavimento di marmo bianco.
Lovino sospirò nel vederla così, e tutta la rabbia passò immediatamente. Era veramente bella Sicilia, appunto perché non sarebbe mai stata sua veramente, appunto perché aveva un carattere così forte da non lasciarsi sopraffare da nessuno.
-Vieni con me….- si alzò dalla poltrona e le passò un braccio attorno alla vita per guidarla. Ma lei non si lasciò accogliere nel suo abbraccio, quasi non la toccò, e lo seguì avvicinandosi all’ampia vetrata.
Lovino la spalancò incamminandosi nel terrazzo, fino alla balausta. Lei si fermò proprio accanto a lui, senza dire una parola. Un vento profumato soffiava piacevolmente dal mare e il sole alto scaldava il viso e il petto.
-… Lo vedi questo?- le chiese indicandole il golfo di Napoli.  
-Lo vedo, e io ho viste migliori a casa mia.-
A Lovino caddero involontariamente gli occhi nella scollatura del vestito, e si trovò a deglutire e ad imporsi di concentrarsi immediatamente su quello che stava dicendo.
-Di questo non dubito, ma guarda!- riprese sospirando. Non era da tutti avere una moglie bella tanto quanto virtuosa e inamovibile, una moglie che anziché infuocarsi nella camera da letto, si accendeva per questioni che a Lovino interessavano il tempo che trovavano. Sicché da quando erano sposati non più di un qualche bacio era riuscito a strapparle, ma che bacio però, questo doveva ammetterlo, erano infuocati e combattuti come guerre.
Insomma, Lovino si poteva definire un uomo fortunato! Forse era proprio per questo che non gli interessava niente al di fuori del suo regno, e nessuna intenzione aveva ad aprirsi ad altre nazioni.
 -Tu lo sai perché i francesi, gli inglesi vanno sempre a fare le guerre in giro per il mondo, a conquistare gli africani, gli indiani e… insomma, hai capito. Tu lo sai perché?-
Sicilia con tanta pazienza dovette rispondere. -Perché?- chiese sospirando apertamente, evitando pure di guardarlo.
-Perché là dove stanno loro è brutto, è triste, chiov siempr (piove sempre)! E invece noi qui, non solo abbiamo le industrie, le officine, ma abbiamo pure questo ben di Dio, abbiamo il Sole.- si voltò verso di lei e appoggiò le mani sulle spalle minute della donna, stringendola amorevolmente. -Non ci manca niente…. e poi guardati, ci sei tu, che si talmente bella….- Ma Lovino si lasciò andare a quella scollatura, che meno era sfacciata e più lo incuriosiva, e si abbandonò alla contemplazione, stringendole le braccia e attirandola a se, cosa che la lasciò interdetta. –Sei così piena, prospera….-
e più la stringeva, più i seni si baciavano e lui più impazziva e si abbassava automaticamente per avvicinarvi il viso e morderli. Peccato che trovò la solita resistenza di lei che non gli permetteva certo di farsi toccare! Lui si avvicinava e lei lo scostava piegandosi sulle ginocchia, stretta in quell’abbraccio forzato.
-Lovino, le mani!- lo richiamò aspramente.
-E io mica con le mani ti sto toccando!- fece evasivo lui con tutte le intenzioni di strappare a morsi il foulard bianco che le copriva pudicamente il seno.
A farlo destare fu la spinta che gli diede e lo schiaffò che seguì.
-Ti dissi che non m’hai mettere le mani di sopra! Quante volte te lo devo ancora dire?- lo rimproverò indignata risistemandosi il corpetto e il foulard in modo tate che le coprisse veramente tutto il petto questa volta. 
-Oh, ma te la faccio vedere io! Alla prima occasione, alla prima, e tu a me non mi rivedi più! E lo faccio! Non lo faccio secondo te, lo faccio, lo faccio!- continuò reiterando le solite intimidazioni, rientrando nel salotto.
-Ahè, di nuovo con le minacce!- Lovino rassegnato la seguì.  
-Credevi di passartela così facilmente?- gli fece una volta dentro. -Mi maritasti con un trucco infame, dovesti aspettare che Napoleone rivoluzionasse l’Europa per maritarmi!-
-E che volevi, la proposta?- fece lui leggero, senza dare peso al tono grave che continuava a rivolgergli.
-Sarebbe stato più dignitoso da parte tua, avresti mostrato un po’ di fegato in più! Ma tanto l’hai fatto solo perché così gli girava al Re!- prese la mantella sua e quella di Lovino e se le mise sotto braccio, dopodiché aprì la porta e con tono autoritario, l’unica cosa che la faceva rassomigliare ad una moglie, gli indicò di uscire. -Ora tu vieni con me, e ce lo dici a quel filibustiere arrogante che in casa mia si deve rispettare la buona creanza e che se vuole lo zolfo lo deve pagare veramente e non simbolicamente!-
E mentre Lovino usciva dalla stanza a testa bassa come un cane bastonato, lei non si risparmiò l’aggiunta pessima per Etna si stava tenendo dentro da quando era arrivata quel pomeriggio a Napoli.
-Non vuoi fare l’uomo? Te lo faccio fare io a furia di calci, da qui fino a Palermo!-
 
 
 
Non lo prese a calci da lì fino a Palermo per fortuna sua. Una volta al di là del faro, Lovino però, con grande disappunto, constatò che nessuno, al loro passaggio salutava. Alcuni facevano un leggero cenno con la testa, quasi impercettibile, altri uomini alzavano leggermente la visiera della coppola all’indirizzo di Etna.
Che ce l’avessero ancora con lui era probabile, ma manco a salutare Etna, questo era strano.
Solo quando arrivarono nel palazzo dei Normanni, un uomo, un barone, bello che impettito, si inchinò togliendosi tanto di cilindro.
-Signora Rosalia!-
-Signorina prego!-lo corresse severa Etna, umiliando così il marito che le camminava accanto reticente.
-S’abbenedica!- rispose l’uomo senza fare una piega e seguendoli con lo sguardo.
Anche già solo per la sua tempra orgogliosa e testarda, Etna non era quella che si poteva definire una moglie ideale. E quante gliene faceva passare a Lovino! Ma anche lui, non era certo un santo, e se qualche bella sottanella gli passava accanto, poi tanti problemi non se li faceva.
-Si può sapere perché nessuno saluta?-
-Nessuno chi? Tutti salutarono!- fece lei offesa. Certo non poteva pretendere che Lovino percepisse il saluto silenzioso dei siciliani.
Ed era in una delle stanze del palazzo reale che l’inglese, con degli sporchi stivali incrociati sulla bella scrivania ad imbrattare indifferente dei fogli bollati, stava comodamente seduto ad attenderli.
Furono proprio quegli stivalacci sporchi ad indispettire Sicilia fino a farla irrigidire intransigente sulla porta della stanza.
-Alla buon’ora!- fece beffardo sir Arthur sorridendo sornione ai due immobili sulla soglia. –Prego, accomodatevi!-
Romano, perplesso per il fatto che Etna si fosse bloccata sulla soglia, non si fece problemi, ne diede peso al tono dell’inglese. Avanzò nella stanza e si accomodò ad una delle sedie davanti alla scrivania.
Etna con passo fermo, lo affiancò e, estratto il ventaglio, lo frustò spietata e indignata per il comportamento ingenuo di quello che era diventato suo marito con quel trucco infame.
-Alzati immediatamente!- gli ordinò a denti stretti. Possibile che fosse così sciocco da farsi trattare da ospite in casa sua?
Romano si massaggiò il collo e si alzò di malavoglia.
-Che volete?- chiese Rosalia ostile all’inglese seduto dietro alla sua scrivania.
Sir Arthur ghignò divertito dalla tempra di quella donnetta, che si credeva tanto importante da mostrarsi apertamente avversa alla sua presenza, e niente poteva impedirgli di fantasticare piacevolmente sui modi più svariati di poterla piegare, fino a spezzarla. Era una sfida aperta e promettente.
-Perché quel tono? Sono qui per onorare il pagamento dello zolfo, ecco…- infilò una mano nella giacca e ne estrasse un mazzo di carte larghe quanto fogli di quaderno, lanciandoli di malagrazia sul tavolo, cosa che la stizzì, lo poté notare dal tremito delle labbra livide di rabbia. Quello era un gesto che si riservava alla carità, ai morti di fame.
Ma Rosalia fu più signora, raccolse le carte e le visionò diffidente.
-Carta? Adesso vengo pagata addirittura con la carta!- constatò lasciando cadere le carte sul tavolo. -Non tollero questa farsa, sappiatelo!-
-Non è semplice carta. Sono cambiali. Non potevo certo trasportare l’oro per i mari. Diverrebbe facile preda di pirati...- spiegò con tono paziente, come se si stesse rivolgendo ad una bambina.
-Pirati? Vi auto saccheggereste quelle quattro monete d’oro simboliche che mi dovete?-
Gli occhi verdi dell’inglese si assottigliarono sulla figura bruna e ostile di fronte a lui, per poi spostarsi sul ragazzo accanto.
-Che lingua biforcuta ha la sua signora. Dovrebbe tenerla a freno e sguinzagliarla nei salotti, non qui!-
Quello fu un puro affronto per Etna, il cui petto si gonfiò di indignazione sotto il fazzoletto candido.
Romano comprese che era arrivato il momento di intervenire quando Etna fece un mezzo passo in avanti.
-Ehm… e come funzionano queste… cambiali?- chiese bloccandola, passandole un braccio davanti e afferrando le carte che lei aveva lasciato sulla scrivania con indignazione.
-Basta presentarle alla banca depositaria, e vi sarà dato il valore aurifero riportatovi. È la nuova frontiera, il futuro!- spiegò sir Arthur.
-È una truffa! È solo carta straccia.-
-Effettivamente, scusate, ma non è che sia una idea fantastica questa. Voglio dire, chi me lo assicura che la banca mi consegna l’oro segnato su queste cambiali?- chiese con molta più diplomazia Romano, lanciando uno sguardo di rimprovero alla moglie irrequieta.
-Sta per caso insinuando che la sto truffando. Non dia ascolto a sua moglie, cosa ne può capire di nuova finanza?-
A quest’ultima affermazione il silenzio calò nell’ufficio. Sicilia aveva smesso di guardare l’inglese, ma guardava il marito, in attesa di una reazione, che era certa, non sarebbe stata quella dignitosa di una nazione del suo livello. E infatti Lovino ingoiò l’ennesimo compromesso, e si mise in tasca le cambiali, sforzandosi di sorridere alla donna che gli stava accanto che lo guardava con un moto di delusione che gli faceva più male di qualsiasi altra cosa.
-Ehm, sentite, scusate, non è che potreste levare i piedi da… ecco, darebbe un po’ di stizza alla signora…-
-Signorina.-
-Certo!-  fece l’inglese alzandosi, ma Romano perse la pazienza.
-E mo ci hai scassato co’ sta storia della signor….-
Il tossicchiare di Sir Arthur lo fece frenare e ricomporre immediatamente. Certo non si poteva lasciare andare così davanti ad un estraneo.
-Eh, arrivederci, tanti saluti a voi e a Maestà!- gli fece stringendogli la mano con un sorriso tirato, mentre Arthur faceva il giro della scrivania e usciva dalla stanza.
Lovino sospirò e si passò una mano tra i capelli stancamente, mentre Sicilia gli faceva un giro intorno guardandolo dalla testa ai piedi.
-Incompetente, incapace! Du ficusu! Ma proprio tu mi dovevi capitare?- sbottò infine.
-Ma potevo prenderlo di punto e in bianco e buttarlo fuori? Ragiona, quello ci avrebbe puntato i cannoni delle sue navi contro!-
-Se non mi sbaglio anche noi abbiamo cannoni e navi, anche più nuove delle sue!- gli fece Rosalia amareggiata, avanzando verso il centro della stanza. -Adesso neanche più la figura che vengo pagata! Peggio di una colonia! Con le carte mi paga, mi prende pure in giro!-
-Ma se ha detto che in banca, se porti quelle carte, ti danno l’oro in cambio.-
-In banca?- si voltò repentina verso il marito. -E mi dovrei pure presentare per prendermi quella miseria? Vado a fare la figura della pezzente?-
-Uffà, e non te ne va bene una!-
-Alla mia età, mai sono stata trattata in questo modo! Mai nessuno si è permesso!- fece avvicinandosi tanto da ritrovarsi a faccia a faccia col ragazzo. -Sei un vigliacco Romano! Un altro poco gli lustravi quegli stivali fetosi come a lui con la lingua….-
-We, e che sono ‘ste cose! Adesso basta!- tuonò esasperato alzando la voce. -Quando è troppo è troppo. Sta zitta o qua non so come va a finire!-
-Ah, ora ce l’hai la voce, eh? Sei capace di fare il grande solo con me! Che grand’uomo!-
-E sì, va bene? Faccio il grande solo con te, ed è mille volte più difficile che farlo con quello!-
-Giuro, alla prima occasione ti mollo!-
-Ancora con ‘ste minacce?- Romano la afferrò per le spalle e la scosse forte. –Ma io ti lascio vittima, ti lascio…-
-L’hai già fatto.- gli disse divincolandosi bruscamente dalla sua stretta e frapponendo tra se e lui la sedia.
-E rientrava nei miei sacrosanti diritti di marito! E poi la colpa è tua, che hai una faccia tosta da prendere a schiaffi.- continuò agitandosi e scostando la sedia con impazienza.
Lei indietreggiò guardandolo con sfida, perché lo sguardo di Lovino si era fatto scuro, intenso, e lo conosceva quello sguardo appassionato. Perché Lovino lo sapeva che cambiava da un momento all’altro, così, si appicciava all’improvviso, a come gli girava. Teneva un fuoco incandescente nel cuore che lo riscaldava e lo addolciva, e poi senza preavviso esplodeva.
-Vieni qua, femmina indemoniata.- fece avanzando.
-No!- continuò indietreggiando lei, trovandosi troppo presto ostacolata alle spalle dalla scrivania e Lovino la afferrò per le spalle piccole e strette nel vestito rosso e giallo immobilizzandola con la forza alla quale lei oppose una fiera resistenza.
-Statte ferma…- le intimò inseguendo con le labbra e gli occhi infuocati, la bocca rossa e morbida che Rosalia teneva lontano da lui, indietreggiando con la testa. -Dammi nu vas.- continuò scuotendola con ardore, e oramai le stava addosso con tutto il suo corpo a schiacciarla contro la scrivania di legno scuro imprigionandola.
-No!- soffiò testarda e orgogliosa, ancora, ad un soffio dalle labbra di Romano, con le palpebre basse e il cuore a scuoterle il petto.
-Ti ho detto di darmi un bacio, lo voglio subito. Sei mia moglie!- ordinò ancora scuotendola con più veemenza.
-E quindi?- Rosalia ritrovò la voce e la forza di sfidarlo. -Tu sei mio marito, ma il tuo dovere con quello non l’hai…- Ma Lovino la baciò, con lo stesso ardore e passione di chi avrebbe persino osato stracciarle pure le vesti di dosso in quell’impeto. E certo non poteva dire niente lei, caduta nella sua trappola, sapendo che in un momento del genere i suoi sprezzanti discorsi e rimproveri a Lovino passavano indifferenti, inesistenti. Si era lasciata distrarre, tutto qui, e ora si ritrovava a ricambiare quel bacio, a lottare con l’affanno per non farsi sopraffare dalla passione di lui, trascinata velocemente dalla stesso fuoco ribollente. E con la mano salì veloce ad afferragli i capelli bruni, e li strinse forte e li tirò allontanandolo da se con la forza, quel tanto che bastava a riprendere fiato ad entrambi. 
-Com’è che dici? Viva o’re?- gli chiese con gli occhi ostentatamente svogliati piantati in quelli di Romano, che vagavano impazienti dalle labbra al viso di lei.
-Eh, viva o’re!- rispose tornando a tuffarsi su quelle labbra che lottavano reticenti tra quell’amore e quell’orgoglio cozzanti.
-Dimmi… parlami in siciliano, quelle parole con la “u”…- le ordinò dopo un attimo.
Lei ci rifletté e poi glielo negò con un cenno del capo, per il puro gusto di digli di no.
-Parla o ti mozzico!- E Lovino la scosse ancora, perché voleva vedere quelle benedette labbra, quella bocca stringersi in quella “u” riservata e chiusa che sapeva pronunciare solo lei in quella maniera così particolare e dolce. Quella “u” le chiudeva le labbra e le spingeva in avanti come se stesse dando un bacio, e lui impazziva, gli bastava vederlo e non ci capiva più niente, e si ritrovò a supplicare arrendevole ad un suo secondo diniego.
Peccato che proprio in quel momento un bussare fece trasalire entrambi, che si trovarono estraniati a fissare la stessa persona per la quale poco prima si stavano dando contro a vicenda.
-Vogliate scusare l’interruzione…- Sir Arthur con sguardo ammiccante e un mezzo sorrisino malizioso, avanzò nella stanza e afferrò il piumato cappello nero poggiato sulla scrivania. –Avevo scordato il capello! Signora… Sir!- disse infine prima di andarsene, facendo un segno di saluto in direzione dei due che, imbarazzati, guardavano in direzioni diverse.
Sicilia si ricompose stirandosi il corpetto lungo i fianchi e percorse la stanza a grandi passi, lasciandolo solo con l’ennesima minaccia lasciata a mezz’aria. –Alla prima occasione Lovino, alla prima…-
 
 
 
 

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Capitolo 4
*** Olocausto ***


4riso
 
 
Questo capitolo è in commemorazione a tutte le vittime duosiciliane dell’unità d’Italia, del primo olocausto della storia moderna, non riconosciuto e ignorato dai libri di storia accademici. Dieci anni di guerra contro i civili, e nessuno si chiese come mai.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
E fatta l’Italia, l’ebbe in guinzaglio, ben assicurata al collo, ed a passeggio si appropinquava a portarvi li capi come canidi obbedienti e fidi. Di sua proprietà, ogni persona, prima la nazione francese e poi quella italica intera, legata ad un debito inviolabile e insolubile, la nuova invisibile catena schiavista.
E pensare che gli era bastato inventarsi l’unità d’Italia….
                           
                                                                                            Il Dio del Nuovo Ordine Mondiale
 
 
 
 
 
 
 
 
L’ennesima frustata squarciò la pelle viva, dilaniata e insanguinata della schiena del ragazzo scuotendolo fin dentro l’animo.
Le catene tintinnarono tagliando i polsi imprigionati, e un urlo gli scappò dalle labbra spaccate e tagliate dai denti nei precedenti tentativi di non piegare il proprio orgoglio al dolore esplicito.
Il petto pesava, sanguinate, imbottito di piombo. Ogni pallottola aveva bucato il suo petto, c’erano tanti buchi e talmente tanto sangue che la sua camicia, quella bella camicia bianca e leggera di cui il suo Re gli aveva fatto dono, di seta, era ridotta a brandelli purpurei.
Un’altra volta la frusta lo scosse fendendo i muscoli scoperti sulla schiena.
Brigante, lo accusava il suo aguzzino, lo stesso che gli aveva promesso grandi cose, lo stesso che prima lo aveva imbottito di belle parole, di sogni che mai l’avevano sfiorato, e dopo di piombo e disperazione.
E gridò testardo, ancora una volta: -Viva o’Re!- e a seguito un altro grido di dolore gli aprì i polmoni.
E guardava in alto, imponendosi di rimanere cosciente, di non perdere di vista quel crocifisso di legno appeso alla parete, l’unico suo ultimo punto di riferimento, l’ultimo appiglio, l’ultima speranza.
E anche il nome di Veneziano, quello che i suoi carnefici gli avevano insegnato a chiamare fratello, aveva invocato tra i lamenti e il nome di Dio e del suo Re.
Ma Veneziano non lo sentiva, non gli rispondeva, era lontano, così distratto. Una mezza volta l’aveva visto, quel 17 marzo, e poi più nulla.
Era stato buttato in un baratro di violenza inaudita, era stato depredato, marchiato, violato. Aveva provato a reagire, ci provava ancora e si guadagnava una pallottola dopo l’altra. Respirava, e si guadagnava una frustata.
Quel calvario, quella passione, e il Cristo in Croce gli ricordava che c’erano ancora tante sofferenze che avrebbe dovuto sopportare, e che tutto quello era solo una minima parte, solo l’inizio. Il suo Cristo era stato forte, lo sarebbe stato anche lui. Chiuse gli occhi e fece suo il penetrante dolore della frusta sulla pelle viva. Li riaprì costringendosi a far entrare l’aria nei polmoni.
Brigante! Continuavano le accuse, e si chiese se anche le sue lacrime fossero diventate di sangue, mentre le sue donne e i suoi bambini venivano fucilati, faccia al muro, in paeselli stravolti dall’arrivo degli invasori piemontesi, e dati a fuoco dai bersaglieri.
Confidava ancora fin troppa speranza Lovino, troppa per i suoi carnefici per permettergli il privilegio di un attimo di respiro.
Era inaccettabile una sua resistenza, era un traditore chi andava contro il Re della nuova e unita Italia, chi si opponeva all’unificazione.
Era un traditore chiunque appoggiasse, supportasse, nascondesse i traditori, i briganti, quella piaga di cui il reale governo sabaudo si stava prendendo coraggiosamente carico in nome del nobile obbiettivo dell’unità italiana, in nome della liberazione e della civilizzazione del sud.
Eppure il suo Re glielo aveva detto, lo aveva avvisato, e ora lo rimpiangeva amaramente, e lo invocava nella speranza che tornasse e lo difendesse, lo liberasse da quel sopruso.
Era stato un ingenuo, si era fatto ingannare, aveva creduto veramente nelle belle parole di quegli uomini e poi in quell’uomo che ora si era ritirato mortificato su quell’isola, Caprera, in preda al rimorso, senza il coraggio di venire in quella cella a vedere il risultato del suo operato, di asciugare la fronte di quel ragazzo e chiedergli apertamente scusa.
Tremò ancora Lovino al suono della frusta.
Il suo Re, Ferdinando, li aveva cacciati quegli uomini, li aveva imprigionati, e lui gli aveva dato del tiranno, mentre cercava solo di proteggerlo dai loro facili inganni, di proteggerlo dalla sua stessa ingenuità.
Maledetto, si ripeteva in Mea Culpa Lovino.
E poi se ne era accorto finalmente, quando arrivarono le camicie rosse col benestare delle navi inglesi.
Era stato pronto a combattere in nome del suo Re, Franceschiello. Così lo chiamava lui, perché gli voleva bene, sinceramente, e non semplicemente come si può amare un proprio sovrano, e solo lui si poteva permettere di appellarlo così, con la stessa bonarietà.
Lovino era così forte, così determinato, ma capitolò. Me mani e le gambe, ogni volta che aveva puntato il fucile contro quegli sprovveduti senza arte ne parte in camicia rossa, perdevano di sensibilità e non funzionavano.
Ma gli era bastato trovare le lettere dei piemontesi nelle tende dei suoi generali.
I più alti generali del suo esercito era stati corrotti, lo avevano tradito, venduto agli invasori!
E gli invasori l’avevano spogliato, legato e imbavagliato. Gli aveva tolto tutto: l’oro nelle casse dello stato, le macchine e gli strumenti che aveva costruito per lavorare, la dignità e la parola.
Ribelle, lo avevano chiamato. Si era semplicemente opposto. La repressione era la loro arma.
E sentiva freddo Lovino, freddo come i suoi soldati, fedeli a lui, a Napoli e a Francesco e ai suoi Re, i suoi unici sovrani, i Borbone. A migliaia deportati nella fortezza di Fenestrelle a morire di stenti, esposti alle intemperie e al gelo di quell’ammasso di pietre, una trappola di morte, orgogliosi e mai disposti a piegarsi e a giurare fedeltà al barbaro Savoia Vittorio Emanuele II.
E si sentiva bruciare, la pelle, la faccia, gli occhi, i corpo, fino allo strazio, come i suoi soldati più coraggiosi gettati vivi e sciolti nella calce viva.
Sentiva i pensieri mancargli e sparire, proprio come tutte quelle persone deportate dall’altro capo del mondo in campi di prigionia stranieri per farli tacere.
Quel re, quel maledetto che non aveva neanche avuto l’accortezza di adattare il suo nome in rispetto del nuovo regno, considerandolo esplicitamente come espansione del suo regno originale, schiacciando così la sua dignità, quella del suo popolo e della sua storia sotto i tacco dei suoi stivali lucidi.    
Alla fine si era veramente ribellato Lovino.
Glielo aveva chiesto al suo Re, perché aveva permesso tutto quello? Perché non aveva fatto impiccare quei generali corrotti? Ma lui aveva un animo bonario, non era forte come il padre, mentre gli parlava teneva gli occhi bassi e le spalle spioventi, gravate dal peso dell’ignavia.
E poi non poteva fare niente, gli aveva spiegato, in un modo o nell’altro sarebbe successo, ci sarebbero riusciti. Ma lui non l’aveva capito e a tutt’oggi continuava a non capirlo.
Non aveva compreso che il suo amato Re non si riferiva semplicemente ai piemontesi e alla conquista.
Il suo Re sapeva che dietro c’erano inglesi, francesi e attori ancora più occulti e spietati, personaggi che avrebbero reso ogni sua opposizione un supplizio in più che Lovino in prima persona avrebbe subito sulla sua pelle. Persone che avevano puntato alla sua distruzione perché troppo bello, troppo promettente. E il suo Re non era stato l’unico consapevole di tutto quel disegno.
Lovino aveva invocato anche l’aiuto di Spagna, prima di trovarsi imprigionato e prossimo alla morte. Ma Antonio era così debole, così stanco, che l’unica cosa che aveva potuto fare era stato mandargli quattro soldati spagliati per cacciare i garibaldini. Niente più fece Antonio, poi era caduto in un penoso silenzio, vietandogli pure quegl’occhi verde oliva.
E ora si ritrovava in ginocchio, mentre la sua gente moriva ammazzata, stuprata, le sue terre venivano bruciate, le sue industrie e i suoi ori saccheggiati e portati via, e chi sopravviveva scappava via. Era una massa infinita a scappare via in preda al terrore dalla sua terra, e le forze gli venivano a mancare. Più emigravano e più perdeva le speranze e le energie.
E a quel crocifisso pregava che il suo Re venisse a salvarlo. Ma oramai era lontano, l’avevano cacciato. Non stava più a Roma, sotto l’ala protettrice del Papa, l’avevano fatto andare ancora più lontano da lui, accolto in Bavaria.
Il sangue scuro e fresco sulle lastre di pietra sotto le sue ginocchia era talmente tanto da sembrare l’acqua torbida di un abisso nero. La testa gli girava, e il suo aguzzino lo scosse con calcio, come una bestia.
-Chi è il tuo Re?- gli chiesero ancora, mettendolo alla prova.
Romano continuava a fissare con ostinazione il Crocifisso. Le orecchie gli fischiavano assordandolo col rumore dei moschetti, delle lacrime del suo popolo violentato, deportato, sterminato.
Sentiva il dolore di ogni omicidio, sentiva lo strazio delle madri e dei figli arsi dentro le case, avvertiva ogni lama che si accingeva a decapitare i ribelli che lottavano senza demordere.
-Il mio Re… Francesco seco…!- un altro urlo di dolore gli fu strappato, e altra gente morì.
Un dottore lì presente lo stava studiando con cinismo. Gli aveva misurato la grandezza del cranio con un compasso di ferro, l’altezza della fronte, da distanza tra gli occhi, le fattezze intere del suo volto annotandosi tutto su dei fogli, proprio come aveva fatto con gli altri suoi figli, con quegli uomini fieri, ribelli al proprio destino, decapitati. Le loro teste erano conservate in delle teche, così le stava studiando il dottore, il criminologo, così lo chiamavano.
E per lui aveva decretato che non c’era niente da fare, che era biologicamente un brigante, un delinquente, un selvaggio. Lui e tutto il suo popolo, nessuno escluso.
Un uomo gli sollevò il viso afferrandogli malamente il mento tra le dita ruvide. Lo conosceva bene quell’uomo, Sicilia lo aveva definito una camurria, perché era assillante, perché ciò che voleva lo otteneva con l’insistenza, e in modo vile per di più, poiché faceva leva sulla debolezza delle persone, sulla loro povertà, sul bisogno.
Sorrise famelico, e Lovino comprese di essere prossimo al diventare la carcassa di quello sciacallo.
Una volta morto per mano di quei barbari invasori, i suoi resti sarebbero stati affidati a quell’uomo che lui era sempre riuscito a tenere a bada, e che ora si sarebbe cibato di lui.
Si aggrappò a quel crocifisso continuando a tremare a ogni frustata, addomesticando il dolore, ma mai nessuna frustata riuscì a farlo tremare tanto quando il pensiero corse alla sua Sicilia. Il cuore se lo sentì improvvisamente svuotato.
A lei, che sorte era toccata? Il destino che strada aveva scelto per quella donna accogliente e indomabile, antica quanto la Madre Grecia?
Non aveva mosso un dito Sicilia quando erano sbarcate le camicie rosse, dopo tutto glielo aveva sempre ribadito, alla prima occasione lei se ne sarebbe andata, e non era bastata neanche la costituzione che le aveva donato Francesco prima che si perdessero di vista, per farla desistere dalla sua decisione caparbia. Forse l’orgoglio le aveva impedito di tornare sui propri passi, ma adesso dove l’avevano portata quei passi impervi?
Il cuore gli tremò e pregò anche per lei, mentre la sua gente continuava a sparire, a scappare, a sciogliersi nella calce viva. Era l’inferno, era arrivava la fine.
E poi un volto dolce e conosciuto gli apparve. Il volto di una donna avanti con l’età, gli sorrideva e negli occhi lucidi per la commozione nascondeva il rimpianto di non essere riuscita a evitare l’inevitabile. Si accorse che le frustate erano cessate. 
Gli fece dono di una carezza materna e di un sorso d’acqua, cose che riuscivano a dare sollievo a qualsiasi figlio partito per la guerra. E aveva sete, non beveva e non mangiava da anni oramai, ne aveva tanta, quel sorso d’acqua gli aveva ricordato che c’erano altri sapori oltre quello del sangue e del piombo. Era bella quella donna, sembrava la Madonna, anzi, sembrava Sant’Anna, ma chi fosse veramente non se lo ricordava più, era passato troppo tempo ormai.
-Maria Sofia…- soffiò debolmente. Le frustate non arrivavano più, era vero. Avvertì un moto di sollievo diffondersi nel petto intorpidito. Spirò sollevato.
Quel Crocifisso povero, appeso proprio  là davanti, danzava ora, etereo dinnanzi ai suoi occhi.
Sorrise, incosciente di stare per abbandonarsi a quell’oblio più profondo contro il quale aveva combattuto e aveva resistito con tanta determinazione per anni. Ma gli anni passano, e al dolore ci si abitua, ma questo Romano non lo capiva più. Non aveva più le forze se non per ripetere ancora, per un’ultima volta quelle parole per il quale era stato disposto a donare la vita mille e più volte.
-Viva o’Re, viva Napoli!-
E il crocifisso scomparve, e il soffitto si fece nero, e la sua memoria si spense nel sangue secco.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Nel precedente capitolo ho introdotto il tema della moneta. Ai tempi nel regno delle due sicilie circolavano solo monete d’oro e d’argento, in sostanza con un valore reale, e non esisteva ancora la carta moneta, essendo un paese ricco. Gli stessi generali duo siciliano corrotti si sentirono truffati dai piemontesi quando vennero pagati con della carta senza valore.
Questo argomento è centrale per comprendere l’intero svolgimento degli ultimi secoli, ed è causa stessa dell’unità d’Italia. Fu una certa famiglia a volere l’unità (non una famiglia reale, ne italiana) e a sobillare e indottrinare gli italiani che prima di allora mai avevano pensato all’italia unita. Il perché è da cercare nell’emissione della moneta, sempre custodita dai sovrani, e che con i movimenti rivoluzionari e liberali passa ai privati.
La moneta è sempre stata del popolo, chi portava la moneta in tasca ne era proprietario, oggi invece la moneta che abbiamo nel portafoglio è il nostro debito grazie ad un meccanismo che si nasconde dietro a paroloni difficili, sigle anonime e numeri fittizi. Chi ha un debito non è libero e, con i meccanismi che si sono creati con l’inganno e a nostra insaputa, lo sarà per sempre.  a questo fa riferimento la prima parte del capitolo. l'unità l'hanno voluta una determinata famiglia di banchieri, gli stessi che ad oggi detengono il 90% della stampa mondiale.
Affronterò anche questo argomento in futuro, non so quando. Se intanto volete approfondire cercate su internet cosa è il signoraggio bancario. Non è difficile da capire come funziona, l’ho capito io XD! Ci sono video su youtube, per chi si secca leggere ;).
Nella parte dedicata a lovino non so che dire. Maria Sofia, nominata alla fine, fu l’ultima regina del regno delle due sicilie, moglie di Francesco II e sorella della ben più famosa principessa Sissi. Amava il suo popolo, tanto che non si arrese mai all’idea di averlo perso e si dedicò quando possibile a soccorrere i suoi coraggiosi soldati.
Le industrie furono saccheggiate e portate al nord, come gli ori e le monete vennero rastrellate dal territorio e sostituite con la banconota che portò con se il debito pubblico e le inflazioni che continuano a minare la stabilità del paese.
Inoltre la resistenza venne repressa nel sangue, fu attaccata la popolazione, i soldati vennero deportati in fortezze come quella di fenestrelle, per morire in massa. Furono i primi campi di concentramento della storia.
Il criminologo a cui faccio riferimento è lombroso, che credeva che determinate fattezze del viso determinassero l’indole di una persona. A torino c’è pure un museo dedicato a lui, dove sono esposte teste imbalsamate di partigiani duo siciliani, o più comunemente chiamati briganti, crani, ossa e strumenti vari di misurazione. Molti hanno protestato, e protestano ancora, affinché questo museo venga chiuso, ma come al solito la voce di romano nessuno se la fila!
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, non so quando aggiornerò.
 
Ps: con la nascita del regno d’italia il re Vittorio emanuele II avrebbe dovuto cambiare il suo nome in vittorio emanuele I. questa era prassi quando si formava un nuovo regno, mentre quando il regno si espandeva il nome restava uguale. Quindi il regno d’italia non nasceva, ma era solo un “allargamento” del regno di sardegna. Esempio: ferdinando I delle due sicilie, prima del congresso di vienna era ferdinando IV di napoli e ferdinando III di sicilia, ma era pur sempre lui, solo il regno era cambiato diciamo.
 
 

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Capitolo 5
*** Annichilimento ***


anni
 
 
 
 
Non so quanto questo capitolo possa essere attendibile… in tutti i sensi. Non è niente di che, non è fondamentale, ma siccome ho trattato l’argomento di Romano, ho pensato di dare spazio a Sicilia. Premetto che è una mia personale interpretazione dei vari eventi e di come hanno inciso sull’anima nazionale dell’isola. Questo è solo l’inizio del percorso che conosciamo tutti: mafia, omertà, silenzi, complicità. Questa prima fase è caratterizzata da un annichilimento, una scossa ci sarà solo nel 43 con lo sbarco degli alleati. Forse è tutta invenzione mia, dopo tutto non sono una studiosa, quindi prendete tutto con le pinze. avvertimenti: minchiate a raffica!
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-Bastardi! Lasciatemi immediatamente! Bugiardi, schiava mi volevate! Neanche mezza promessa avete mantenuto! Siete uomini senza onore!-
Cadde a terra in ginocchio sotto il colpo spietato dell’uomo che le stava di fronte, tenendosi stretta una mano in grembo. Stringeva i denti e i pugni, e fremente la voglia di reagire montava nelle sue membra provate dalle percosse e lacerate dal piombo della baionette, mentre fissava con disgusto le lucide scarpe nere di quell’uomo borioso e infame. 
-Indegno….- fu quel ringhio bruciante e basso a farla scattare addosso a quell’uomo, pronta a battersi a mani nude, anche a strappargli la carne con le unghie e con i denti*, per liberarsi di quel mostro.
Ma questo scoppiò a ridere quando ad un centimetro dalla sua faccia la Sicilia sgomenta fu ricacciata indietro, afferrata da rudi mani per li capelli intrecciati e sbattuta contro la parete di quella stanza mezza distrutta.    
-Malacanni!- imprecò sdegnata contro l’uomo che l’aveva afferrata.
Quello e il suo compare risero soddisfatti perché qualcuno finalmente stava dando loro importanza. Mafiosi li avevano pure chiamati, quegli avanzi di galera**! Li avevano muniti di armi e autorità perché appresso a quel fituso di Garibaldi erano corsi! 
Bel modo di governarla, affidarsi ai criminali!
-Sappiate, per quanto potrete fingere, mai dei vermi come voi potranno somigliargli!- disse con orgoglio a quell’uomo indegno. -Mai potrete infangare il nome di Roma! Non siete nemmeno la sua l’ombra! Non siete nulla!-
L’uomo inarcò un sopracciglio e i baffetti si arricciarono nascondendo le labbra, in un’espressione di aperta derisione e beffa.
-Ma a noi non interessa dare vita a Roma.- le disse con sprezzo. -A noi basta avere l’Italia!-
Se solo Feliciano avesse sentito quelle parole, se solo le avesse comprese! Il suo futuro Re, il simbolo dei suoi sforzi e della sua fede appassionata e sincera per un ritorno alla forza di un tempo, di una rivincita sulla storia, non condivideva affatto il suo sogno, lo sfruttava per averlo in suo possesso.
Ma quella era Sicilia, lei non aveva gli stessi sogni di Feliciano, e non comprese, quelle parole non la sfioravano perché lei non era mai stata Roma, e tanto meno sarebbe stata Italia!
-E allora lasciatemi! Io che c’entro!?- chiese irrequieta distaccandosi dal muro.
I due bravi si mossero con lei pronti ad intervenire a loro piacimento, mentre i militari si misero sull’attenti, pronti a far valere i diritti d’assedio col fuoco.
-Tu sei parte dell’Italia, l’hai scelto liberamente col plebiscito di farvi parte.-
-Ma quale plebiscito? È stato tutto un broglio! Bastardo, con i fucili puntati contro ci avete mandato a votare! Se questa è la vostra libertà, allora io ci sputo sopra la vostra Italia!***-
Gli spari risuonarono come tuoni contro le pareti e il soffitto.
Sicilia scivolò lungo la parete lasciandovi una scia di sangue, finendo scompostamente in ginocchio.
Con sprezzo, dall’alto il suo nuovo Re si coprì, sdegnato da tale vista, la bocca con un fazzoletto immacolato e diede l’ordine.-Portatela via!-
 
 
 
 
L’orlo della gonna sollevato fino a scoprire lascivamente le cosce. Ringhiando contro la mano che le tappava la bocca, l’altra mano stava a bloccarle i polsi dietro la schiena, si dimenava e lottava inferocita resistendo con tenacia alle altre due mani di quel vile che invece le stava di fronte e che neanche il coraggio aveva di mostrarsi in volto, nascosto sotto il cappuccio nero del mantello. Lottava contro quelle mani strette sulle sue ginocchia nude, che ingorde tentavano con forza di spalancarle le gambe serrate.
Non avrebbe permesso che le fosse fatto un affronto simile, e tutti gli insulti che dalle viscere finivano per sbatterle in un rigurgito contro i denti, venivano ricacciati indietro finendo a vorticarle nella testa ad alimentare la sua ira.
Era finita in mezzo ad un branco di lupi che la credevano un agnellino, mentre in verità quell’agnellino aveva un vorace impulso a sbranarli con i propri denti e ridurli a brandelli.
Non potevano farle questo!
L’avevano venduta come una puttana, e a chi poi? Quel bastardo che le stava lasciando lividi rossi sulle cosce, con le chiare intenzioni di brutalizzarla, era lo stesso che aveva accompagnato Garibaldi lungo le sue coste, ne era certa, era lo stesso!
E gli uomini lì attorno, tra chi rideva, chi sghignazzava, chi con freddezza assisteva e chi le urlava insulti, nessuno interveniva, erano tutti d’accordo, erano tutti lì per questo.
In anni ed anni mai si era ritrovata in una situazione del genere. Mai nessuno era stato tanto vigliacco da usare sotterfugi per conquistarla. Solo dei delinquenti potevano avere a che fare con altri delinquenti, e se non si ribellava immediatamente, se non li fermava nessuno l’avrebbe potuto fare, ne Feliciano ne Romano, fin troppo coinvolti in quella messinscena. Ma lei, non si sarebbe fatta usare per legittimare quella sporca commedia italiana!
Fu un attimo, riuscì ad addentare la mano callosa e ruvida di quel bastardo che la bloccava e strinse fino a farlo urlare per i dolore. Gl’insulti che le rivolse fomentarono la rabbia facendo aumentare la pressione su quella mano fino a sentire il sangue sulla lingua. La presa sui polsi si allentò, mentre l’uomo strattonava la mano con forza per liberarsi dalla morsa. I soldati caricarono i fucili pronti ad intervenire.
Lo mollò improvvisamente e si avventò sull’uomo di fronte, con una testata, sentì contro la fronte il tessuto del cappuccio e lo scricchiolio netto del naso che si rompeva. Finalmente fu libera dalla presa di quegli uomini che ora barcollavano e indietreggiavano stringendosi l’uno la mano, l’altro il naso, scese da quel piano dove l’avevano seduta e corse via, scansando e spintonando a spallate gli uomini che si avventavano su di lei per bloccarla.
La porta in fondo alla stanza rappresentava la sua ultima speranza di poter scappare e chiedere rifugio ad Antonio, o a Ivan, a Roderich.
Gli spari dei fucili d’assedio le furono puntati contro e di nuovo echeggiarono nella stanza mozzandole il respiro mentre il piombo la trapassava da parte a parte.
Cadde sotto il fuoco dei bersaglieri, in ginocchio, e quella porta si fece lontana, troppo per essere raggiunta allungando un braccio verso di essa.
Crollò a terra. Tremando, il dolore esplosivo si dipanò in tutto il corpo, e il bisogno di respirare la costrinse a tossire un rivolo di sangue sul pavimento in pietra.
Il silenzio dopo gli spari sembrava un’illusione di chi si rialzava sulle braccia.
Si strinse il ventre tirandosi a sedere col viso trasformato in una maschera bianca e contratta.
E vide quel che non avrebbe dovuto vedere. Rimase pietrificata dall’incredulità a fissarlo, tanto che il dolore passò in secondo piano fino a sparire.
Il viso pallido dell’uomo incappucciato le fu svelato in un attimo, e si sintetizzò in due occhi verdi, famelici di vendetta, mentre il sangue copioso scorreva sulle labbra sottili e tra le dita strette sul naso rotto.
-Tu….-
Quegli occhi incrociarono quelli sbarrati di lei, e parvero smarriti nel rendersi conto di essersi scoperto, di guardare faccia a faccia la sua vittima.
In un attimo cambiarono allarmati, con un gesto fugace della mano impartì gli ordini agli uomini, e fu bendata con foga, tanto che per poco non ricadde all’indentro.
A quel punto comprese ed ebbe paura. Cercò di divincolarsi disperatamente dalla impotenza di non poter vedere cosa stava accadendo intorno a lei e cosa sarebbe accaduto, mentre il panico prendeva il sopravvento per quella cecità che l’avrebbe lasciata in balia degli eventi.
Urlò per ribellarsi, ma non riuscì a chiamare neanche il nome di Antonio o di Romano che un bavaglio alla bocca la mise a tacere mentre veniva spinta verso una direzione imprecisata di quello spazio totalmente nero.
Ad un altro ordine silenzioso e impaziente dell’uomo, delle mani sistemarono le bende in modo tale da coprirle anche le orecchie, tirandole i capelli neri dall’acconciatura ormai sfatta.
Smise di sentire.
E si ritrovò improvvisamente in un modo muto e vuoto, in cui il preavviso di dita potenti sui lividi delle cosce non fu abbastanza per permetterle di rispondere prontamente e ad impedire quell’invasione.
E sempre quello stesso uomo, pieno di soddisfazione, piegò quella donnetta che con la sua sfrontatezza l’aveva sfidato, fino a considerare quell’atto il suo trionfo, tanto viscerale da godere nel più profondo dell’animo di quella libido che prese il sopravento, tirando i capelli neri e strappando il foulard, ultimo assurdo ricordo di quel suo pudore signorile, e le leccò e morse il petto fino al collo.
Quella la sua lezione: Lei era convinta di essere importante, di valere tanto quanto Lui! Aveva fatto la preziosa e la difficile, ma ora le stava chiarendo la sua posizione nel mondo, dopo tutto lui era un ottimo insegnante e già molte testa aveva piegato.
Le spinte finirono e ripresero, e poi ancora, e ad uno seguiva l’altro. Tanto che non seppe quando se ne andò, tanto da dimenticarsi di quegli occhi verdi e di quel volto contorto dall’ira, fino a che quella moltitudine di abusi e violenze non divennero tutti un’unica figura nera.
Veniva dentro di lei, la sporcava e poi ricominciava da capo, di continuo. Smise di lottare e di dimenarsi, abbandonandosi all’oblio dell’ignavia. Smise di sperare, con l’anima bloccata in quel corpo nelle mani di un uomo senza scrupoli, all’interno di quell’immenso spazio vuoto, buio e silenzioso che era diventava la sua mente bendata, imbavagliata e chiusa.
Quello che trovò fu solo una misera nicchia buia in un angolo.
Fu gettata nella melma infine. Avevano finito? Avrebbero ripreso? Avvertì il viso e il petto imbrattarsi e bagnarsi. L’odore penetrante della fanghiglia, mischiato a quello del sangue e del sesso non la scosse. Neanche lontanamente provò disgusto, ne un rivolo di vomito la costrinse a trattenersi dal rigettare la sua condizione.
Rimase in silenzio. Vi rimase per molto tempo, indifferente alle intemperie e alle molestie.
Non mosse un dito per liberarsi dalle bende. Qualunque cosa o chiunque ci fosse stato dall’altra parte, preferiva non saperlo lì a contemplare la sua miseria.
Avrebbe chiuso gli occhi e si sarebbe voltata dall’altra parte, avrebbe tenuto la testa bassa per la vergogna.
Sarebbe passato prima o poi. Sarebbe scomparsa un giorno, si sarebbero dimenticati della sua esistenza e allora non avrebbero potuto farle più niente.
Sarebbe scomparsa un giorno, sì, come se non fosse mai esistita, e nel fango avrebbe trovato la sua consolazione.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
*la Sicilia non ha esercito dai tempi dei vespri, quindi nonostante la volontà di autonomia si è sempre ritrovata a dipendere da qualcun altro per difendersi. Per questo si difende con le unghie e con i denti, senza possedere alcuna arma.
**La parola “mafioso”, di origine siciliana, veniva affibbiata a uomini anziani che avevano una certa influenza nella società, con accezione positiva. I piemontesi ripresero il termine e gli diedero un diverso significato. Da positivo passò a negativo, e ad avere influenza, non gli anziani, ma i picciotti, i delinquenti al soldo dei baroni, i così detti bravi che fanno la loro comparsata anche ne “i promessi sposi”. Questo ovviamente diede molto vantaggio ai “bravi” che si ritrovarono a coprire una carica più importante.
*** ai tempi dell’unificazione una legge prevedeva la fucilazione per chi sputava sulla bandiera, chi insultava i sovrani e cose simili.
La mafia fu lo strumento dello stato per tenere a bada le rivolte dei contadini.
Lo sbarco in Sicilia dei mille fu accompagnato dalle navi inglesi. Non so se poi si capisce che “l’incappucciato” è proprio Arthur. Questa è sicuramente tutta invenzione mia, ma mi piaceva l’idea :D!
Ringrazio tutti coloro che sono arrivati fin qui!
Ciao da pinca^^!
Ps: fituso lo sapete che significa penso… fentente, lestofante. Malacanni… ehm… ehm… accidenti, si aggira tra malvivente e cattivo.
 
 
 

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Capitolo 6
*** L'attore dimenticato ***


gg
 
Mi è stato indispensabile fare entrare in scena un attore che spesso viene ignorato ma che è fondamentale per comprendere le vicende della prima e poi della seconda guerra mondiale. Spesso queste vicende non vengono narrate nei libri di storia, quindi spero di riuscire a spiegare bene i vari passaggi. Ci vediamo a fine capitolo, ciao!^^
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Un ragazzo mingherlino si presentò alla porta della casa dei due fratelli, Gilbert e Ludwig. Continuò a farlo sempre più spesso, raggiungeva parenti che si trovavano lì, cercava riparo.
-Russia mi fa paura.- si era giustificato. Era il 1905, un anno di grande instabilità e confusione, Russia sembrava sul punto di esplodere. –Mi prende sempre di mira e mi fa male.-
Ludwig aveva cercato l’approvazione nello sguardo del fratello maggiore. Non aveva niente in contrario, anzi era quasi indifferente, dopo tutto David era un ragazzo smilzo e intraprendente che conoscevano da una vita.
-Non ti preoccupare.- gli disse rassicurante Ludwig con la sua voce ancora fanciullesca. Anche lui era appena più di un ragazzino. –E poi Russia fa veramente paura ultimamente.-
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La Grande Guerra
 
 
1916
 
-Germania!-
Dopo il leggero bussare la porta dell’ufficio si aprì, e il viso del ragazzo si affaccio timidamente per controllare che ci fosse.
-Dimmi David.- lo invitò Ludwig.
Gilbert in piedi accanto al fratello, oramai grande e forte, sfogliava alcuni fogli distrattamente.
Il ragazzo avanzò nell’ufficio quasi in punta di piedi, fino a fermarsi davanti alla scrivania di legno massiccio e scuro. 
I due fratelli lo fissavano in attesa che parlasse, ma non provò soggezione.
-Io… io volevo chiedervi un favore. Voi state vincendo la guerra, giusto?- iniziò con piglio sicuro.
Gilbert e Ludwig si scambiarono uno sguardo veloce e perplesso.
-Credo proprio di si.- affermò il più giovane senza troppi problemi. Dopo tutto l’armata francese era ammutina, quella russa disertava in massa, l’Inghilterra era allo stremo e proprio in quel momento lui e Gilbert stavano preparando un piano per ristabilire la pace. 
-Bene!- esordì David entusiasta. La Russia stava capitolando, ciò lo rendeva felice, ma non era questo l’unico motivo del suo sorriso, c’era ben altro, la possibilità di realizzare un sogno, il suo sogno. –Allora visto che siete i più forti, vorrei chiedervi un favore. Vorrei avere Israele!-
Dopo un momento di silenzio, Gilbert scoppiò a ridere sguaiatamente, non demoralizzando però David che tornò a ripetere con sicurezza: -Voglio tornare a casa, voglio Israele!-
-Gilbert!- Ludwig richiamò il fratello maggiore rivolgendogli un’occhiata ammonitrice. –Non è questo il modo, dobbiamo spiegargli perché la sua richiesta non è fattibile, altrimenti non capirà!-
Gilbert scosse la testa divertito e sospirò posando le carte sul tavolo. Gli ci volevano proprio due risate, quel ragazzino gli era sempre stato simpatico.
Ludwig si rivolse a David e pazientemente cercò di essere quanto più chiaro possibile.
-David, vedi, io capisco il tuo desiderio di avere una terra tutta tua, ma noi non abbiamo nessun diritto su quelle zone. Capisci cosa voglio dire?-
-Insomma…- intervenne schietto Gilbert, fregandosene del tatto e della premura del fratello. –… è come se… Gli Stati Uniti d’America promettessero, che so, il Giappone all’Irlanda*! È assurdo!-
David guardò i due fratelli. Le sopracciglia si erano aggrottate e il sorriso era scomparso per lasciare posto ad un broncio contrariato.
Ludwig si strinse nelle spalle dispiaciuto di non poterlo aiutare, mentre Gilbert ancora si crogiolava per aver trovato un esempio così azzeccato e perfetto, in sostanza, come lui. Magnifico!
-Vedila così, dopo tutto qui con noi non stai poi così male, e neanche da Alfred, no?- cercò di consolarlo Ludwig.
Ma David non era tipo da scoraggiarsi per così poco. Annuì sistematicamente e uscì dalla stanza. Avrebbe ottenuto ciò che voleva. 
 
 
 
 
 
 
 
 
1917
 
Ivan, Ivan. Così continuava a chiamarlo quella voce. Quella voce che gli sussurrava all’orecchio nel cuore nella notte, che lo faceva rivoltare nel letto senza riuscire a prendere sonno. Era la sua coscienza, era il suo orgoglio ferito, umiliato per quella sconfitta. Quella voce era tornata a tormentarlo e a suggerirgli vendetta. Vai piccolo Ivan, diventa grande! Si soffiava piano.
No, non era il suo orgoglio, non era la vergogna per le sconfitte subite, per il presentarsi arretrato e povero rispetto agli europei. Per un attimo se ne rese conto che quella voce non veniva da lui, ma da qualcun altro, ma subito fu sopraffatto di nuovo da quella voce che gli aveva iniziato a dire tante cose, tante promesse. Presto si sarebbe presentato in battaglia forte non solo del numero dei suoi uomini e del Generale Inverno. Presto, molto presto sarebbe diventato il polo del mondo e tutti avrebbero preso esempio da lui, e sarebbero diventati tutta una cosa con lui.
Presto, molto presto sarebbe diventato forte. Fatti forza, ribellati!
Eppure era così esausto, ma quella voce non poteva ignorarla, quella voce lo stata ossessionando ogni giorno di più, ad ogni colpo inflittogli, questa gli ripeteva: hai visto, avevo ragione io! Ribellati Ivan, ti stanno facendo umiliare davanti tutta Europa!
Chi? Arrancando sulla neve stremato, abbandonò la baionetta e passo dopo passo, sempre più vigoroso, il fuoco della rivolta nel suo cuore oramai non aveva più bisogno di quella voce per gonfiarsi. Quella voce era diventata la sua, e con quel fuoco era pronto a incendiare il resto del mondo. Un fuoco di giustizia, sì, giustizia riecheggiava la voce, di grandezza, di rivincita, libertà ed eguaglianza.
Ma prima di tutto, devi eliminare i Romanov!
E con le mani insanguinate rivolte al cielo ululò di gioia mentre la mano dell’oppressore passava a quella voce che, oramai, era convinto fosse della sua voce. La voce di una nuova fede, la voce di un nuovo Dio.
 
 
 
 
 
E quella stessa mano spuntò con soddisfazione il terzo nome dalla lista, sotto le due Reali Famiglie Borbone, i Romanov, zar della vecchia e oppressa Russia. Ah, la Russia, sarebbe diventata grande, travolgente!
Sfilò un altro foglio da sotto la pila e osservò la prima delle tre tappe che avrebbero annichilito ogni nazione. La Prima stava per volgere al termine.
 
 
 
 
 
 

 

*la frase è di Benjamin Freedman, statunitense, ricopriva una carica importante alla Casa Bianca. Molte delle informazioni sono prese da lui.
Eccoci qui. Penso che si sia capito chi sia David. In Russia e dintorni gli ebrei vennero perseguitati e cacciati, e molti di questi trovarono rifugio in Germania e in seguito in America. Qui prosperarono, ottenendo posizioni di grande prestigio e potere, come il controllo dei giornali e delle banche, maneggiando grandi capitali. Il loro ruolo inoltre sarà fondamentale per l’ascesa del comunismo in Russia.
Arrivata a questo punto credo di dover ripete che tutto ciò che viene trattato non è fantasia mia, ma sono meccanismi e passaggi che spesso e volentieri vengono omessi sui libri di storia.
Siamo nel 1916, due anni di guerra e la Germania ha praticamente vinto senza difficoltà, le altre nazioni sono allo stremo. Come e perché la situazione si ribalta nel giro di due anni. Tutto questo nel prossimo capitolo. Per chiarimenti e perplessità sono a vostra disposizione! Ciao da pinca!^^
 

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Capitolo 7
*** La Terra Promessa ***


1618
 
 
 
Salve! Ecco un nuovo capito. Ci vediamo alla fine. Grazie mille a tutti, spero anche qui di essere stata abbastanza chiara. Queste parti forse le sto facendo velocemente, ma spero che il messaggio passi lo stesso.
 
 
 
 
1916
 
La pioggia batteva sul terreno impastato di sangue e umidità.
L’orgoglio dell’Inghilterra vi annaspava ferito e umiliato. Cercava di tirarsi su facendosi forza sulle braccia, ma senza successo. Più faceva pressione e più le sue mani affondavano miseramente nella fanghiglia che mai gli era stata tanto avverta.
Degli stivali neri si fermarono di fronte al suo campo visivo e la voce altisonante del suo avversario, il suo acerrimo nemico, risuonò oltre il grondare della pioggia.
-Allora Inghilterra. Accetti la pace?-
Provò ancora a tirarsi su, di alzare la testa e guardare dritto in faccia quello che era oramai il conclamato padrone dell’Heartland, ma non riusciva ad alzare lo sguardo più su delle sue ginocchia.
Bagnato e sudicio ai piedi della Germania. Troppo umiliante.
-Status quo ante. Voglio solo che mi rispetti in quanto nuova potenza.-
Lo Status quo ante. Gli stava proponendo di riportare tutto come era all’inizio, prima di quel putiferio. Una proposta allettante per un perdente… inaccettabile!  
-Mai!-
La voce gli uscì debole e graffiata. Non avrebbe mai accettato, mai avrebbe ammesso la sua sconfitta, e mai avrebbe dato conferma di una possibile superiorità della Germania. A costo di continuare a combattere, a mandare uomini al fronte, non avrebbe mai ammesso un abominio del genere.
-Bene…- Germania fece un passo indietro per poi voltarsi, senza il minimo timore di poter essere colpito alle spalle. Oramai Inghilterra non era più una minaccia per nessuno. –Se cambi idea….-
Arthur crollò sul terriccio affondando col viso nel fango. I capelli biondi bagnati e imbrattati e dal cielo la pioggia continuava a scendere sul suo corpo, mentre i passi della forte e giovane Germania si allontanavano per sparire.
Eppure quella proposta continuava a risuonare nelle sua mente e a bruciare e a tentarlo, e ciò lo umiliava ancora di più. Una parte di lui si voleva arrendere, ma non poteva, ci doveva essere una soluzione, per forza. Non poteva essere arrivata veramente la sua fine!
Dei passi attirarono nuovamente la sua attenzione. Questi però erano diversi, più leggeri.
Alzò la testa quanto bastava per rendersi conto di non avere Germania di fronte, ma qualcuno di più piccolo, smilzo. Le scarpe affondavano nel fango davanti ai suoi occhi. Con un ulteriore sforzo alzò lo sguardo verso l’alto.
Era una figura confusa, dai contorni indefiniti, forse a causa della nebbia o della pioggia fitta, forse della sua debolezza, non riusciva ad esserne certo, ma distinse la mano che gli stava porgendo.
-Puoi ancora vincere la guerra…-
Disse attraverso quella coltre che lo avvolgeva.
Arthur fece forza sulle braccia. Come? E chi era a dire questo?
-Non hai bisogno di cedere. Io posso convincere l’America ad entrare in guerra al tuo fianco…-
Continuò.
Arthur sgranò gli occhi incredulo, sforzandosi di mettere a fuoco la persona che aveva davanti. Alfred? Quel tizio sarebbe stato capace di far venire fin lì Alfred in suo soccorso? Lo stesso che gli aveva voltato le spalle anni prima, che non aveva fatto una piega e che parteggiava allegramente per la Germania? Lo stesso Alfred che lo odiava tanto fino ad arrivare a tanto?
Non era possibile, nessuno poteva.
Arrancò nel fango disperatamente. Eppure quella poteva essere la sua unica speranza.
-Chi sei? Perché… perché lo fai? Perché mi vuoi aiutare? Cosa vuoi in cambio, dannazione!
Non gliene importava più niente. Voleva battere la Germania, umiliarla, distruggerla, ad ogni costo!
-La Terra Promessa.-
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Nuovo continente
 
-Ma veramente?- Alfred sgranò gli occhi scandalizzato dai racconti di David.
-Si, è cattivissimo! Taglia le mani ai bambini, uccide le crocerossine! Non hai idea di quanto sia sleale!-
-Germania fa queste cose?- chiese ancora sporgendosi verso di lui.
-È il male assoluto e tu dei aiutare Inghilterra, non puoi lasciarlo in balia di quel barbaro!-
America si alzò di scatto dalla sedia stringendo i pugni agguerrito. –Lo so, mi ero ripromesso che non mi sarei mai immischiato negli affari di quei signorotti europei, ma io sono un eroe e non posso fare finta di niente! Io devo salvare l’Europa da quel pazzo!-
Afferrò Matthew per il braccio e senza pensarci due volte lo trascinò con se fuori di casa. –Andiamo, Inghilterra e Francia hanno bisogno del nostro super supporto contro quel cattivone!-
Era stato più facile di quanto pensava.
 
 
 
 
Londra
 
-Come fai a fidarti di un tizio di cui non riesci neanche a distinguere in contorni e che sta chiaramente pugnalando alle spalle un suo amico!? Mon Dieu, Arthur, come puoi fidarti di un diavolo del genere?-
-Francis, non avevo scelta….-
-E se facesse la stessa cosa anche con te?-
-Non lo farà!-
-E chi te lo assicura!? E poi promettergli la Palestina, dopo tutto quello che stiamo facendo per fare insorgere gli arabi contro Sadik!-
-Non posso permettere che la Germania mi spodesti!-
-Gli arabi devono formare una propria nazione libera e indipendente, bla bla…. Tutte parole al vento secondo te? Guarda che quelli ci stanno credendo veramente Arthur, non possiamo adesso andare da loro e ritagliare Gerusalemme e….-
-Lo so, dannazione!- urlò Arthur esasperato dalle chiacchiere futili di Francis. Lo sapeva, lo sapeva benissimo, cosa credeva? Si voltò e si appoggiò al davanzale del caminetto stancamente, e chiuse gli occhi contro il braccio. Il bicchiere di scotch nella mano sinistra rifletteva le guizzanti fiamme nel suo colore ambrato.
-Ma che altra scelta avevamo?- sussurrò infine.
Francia sospirò preoccupato. Quel tipo non gli era mai piaciuto.
-Troverò un modo… risolverò la situazione. Limiterò lo stanziamento di David, in qualche modo farò….- continuò sollevando la testa. –Vedrai, nel giro di pochi anni la risolveremo. Non è poi così catastrofica come la dipingi tu.-
Francis si avvicinò a lui e gli poggio una mano sulla spalla.
-Sì, forse hai ragione, forse sono io troppo esagerato.-
 
 
 
 
 

 
 
1918
  
Germania guardò incredulo il suo avversario, giovane, forte e vigoroso quanto lui. Ma lui era finito in ginocchio, Austria e Ungheria si erano sciolti, L’impero Ottomano era collassato.
Eppure prima erano Francia, Inghilterra e Russia quelli in ginocchio.
-Ahahaha! Adesso non fai più il gradasso!-
America scoppiò nuovamente a ridere. Dietro di lui Inghilterra tronfio e soddisfatto lo guardava dall’alto. 
Gilbert al suo fianco teneva lo sguardo basso, tremava di rabbia, di dolore. Era stremato.
Tornò a guardare Inghilterra e America e sospirò pronto ad affrontare il suo destino.
Non sapeva, ne immaginava che non gli avrebbero dimostrato la stessa cortesia che lui aveva riservato loro quando la situazione era inversa. Non credeva che la disfatta sarebbe stata mirata ad umiliarlo, schiacciarlo e azzopparlo.
Ma Inghilterra non era lui. Francia non si sarebbe mai fidato avendolo accanto.
Quella era la guerra, lo imparò solo in quel momento, a Versailles, quando gli tolsero quasi tutto, quando lo caricarono di debiti, di risarcimenti. E con amarezza si rese conto di essere stato troppo ingenuo e troppo buono. Che chi vince non deve avere pietà, neanche per un attimo, che gli avversari non si risparmiano. Non esiste la possibilità di uno status quo ante, glielo stavano insegnando loro. Il suo sogno di essere una potenza cozzava con la volontà degli altri e comprese che solo a scapito di un’altra sarebbe potuto diventarlo, solo così. Non bastava farsi semplicemente spazio, avrebbe dovuto soppiantarsi, prenderne completamente il posto. Adesso lo capiva, solo adesso, troppo tardi.
Italia poco più in là si guardava in torno deluso. Nessuno gli stava dando conto, nessuno lo considerava minimamente. Doveva essere frustrante per lui parlare e sentire a malapena lui la sua voce, ritrovarsi a fronteggiare la dura realtà del non essere all’altezza dei propri sogni senza riuscire a comprenderne il perché. 
Ingenuo, erano entrambi due ingenui.
E poi dal fondo del tavolo una mano si alzò per prendere la parola, sventolando un pezzo di carta scarabocchiato.
Ludwig fu colpito dalla presenza di David a quel tavolo.
Il ragazzo si alzò in piedi per prendere la parola e fare valere quella che Arthur gli aveva dato. Sul quel foglio c’era il loro accordo, c’era la sua promessa.
-Allora, adesso mi devi Israele!-
-Cosa?- Ludwig sussultò. Mi devi Israele? -Cosa significava?-
Gilbert al suo fianco strinse i pugni. –Che ci ha venduti!- rispose in un sussurrò strozzato.
Ludwig guardò incredulo il fratello mentre si alzava e senza dire una parola, per l’indignazione, usciva dalla sala.
Erano stati venduti? Gli occhi tornarono autonomamente sui lineamenti del ragazzo in fondo alla sala che discuteva con un Arthur imbarazzato e in difficoltà. Mai gli parvero così estranei come in quel momento.
Si sentì svuotato, qualcosa peggiore dell’umiliazione. Vuoto e rotto come un giocattolo usato e buttato via. Era un ragazzo di vent’anni oramai, ma ricordava perfettamente cosa provava da bambino quando guardava con rimorso e rimpianto un giocattolo che lui stesso aveva rotto.
Era stato troppo morbido, così morbido da permettere che giocassero con lui senza che si facessero scrupolo di romperlo.
E mentre le sanzioni venivano elencate senza il suo intervento, le spalle si fecero pesanti e il legno lucido del tavolo era l’unica cosa davanti ai suoi occhi sbarrati.
Ma lui era un uomo, non era un bambino ne un giocattolo. Si sarebbe comportato da uomo.
-Germania…- Italia lo chiamò con tono gentile. –Tutto bene?-
Lui annui, e dopo aver passato in rassegna tutti i presenti, fece santa quella lezione che quel giorno gli avevano impartito e raggiunse suo fratello.
 
 
 
 
 
 
 
 
Quello che sventola allegramente David è la dichiarazione di Balfour, siglata nel 1917, il gorverno britannico si dichiarava favorevole all’insediamento di un focolare ebraico in Palestina, terra che nel 1920 passerà sotto il controllo inglese, con la conseguente sconfitta dell’impero Ottomano.
Nella discussione tra Arthur e Francis emerge l’ostilità che nutre Francis nei confronti di David. Inoltre i due parlando dei paesi arabi e del fatto che li abbiano messi contro L’impero Ottomano, cioè Sadiq. Infatti inglesi e francesi alimentarono dall’interno il nazionalismo arabo per far crollare il controllo e il potere di Sadiq su quei territori di passaggio tra la Inghilterra e India, e che rappresentavano la possibilità di avere nuove terre da colonizzare con tutti i benefici che seguivano. Ed eco spiegata in brevissimo e in maniera semplicissima (forse troppo) l’origine dei cronici conflitti di cui sentiamo continuamente parlare in tv, tra israeliani e arabi, che si sono visti fregare
alla grande. Insomma, non so se mi spiego, è come se ti facessero laureare in medicina con il massimo dei voti per poi mandarti a fare l’infermiere e dare il posto ad un pinco pallino qualsiasi. Che esempio sconclusionato, ma lasciamo perdere e sorvoliamo XD!
Poi, come riesce David a convincere Alfred che Ludwig sia un super cattivo? A parte il fatto che il nostro Alfred è molto credulone… dai scherzo ;P. Possiede i mezzi di comunicazione, sia in Germania che in America, quindi è bastato cambiare i titoli dei giornali da “Germania buona batte quella checca di Inghilterra” a “Germania è un mostro assetato di sangue”.
Credo che sia tutto, spero. Per qualche chiarimento, o se ho sbagliato qualcosa ditemelo, anche perché non sono tanto sicura di Canada, mi pare che stesse già aiutando in qualche modo l’Inghilterra ma sinceramente non ricordo.
Grazie mille a tutti, spero di non avervi annoiati. Alla prossima. ps: per chi domani sarà al comicon a napoli, alla fiera d'oltre mare, ^^ io ci sarò, e sarò quella matta sui trampoli vestita da femromano. spero di incontrare qualcuno di efp! bacio!
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 8
*** Ritorneremo ad essere grandi! ***


romass
 
 
 
Ok, penso di aver trattato tutta la prima guerra mondiale. Forse ho tralasciato qualche particolare sulla rivoluzione russa, ma non importa. Adesso possiamo passare all’italia.
 
 
 
 
L’uomo si fermò di fronte a lui, gli prese il mento e lo sollevò verso di se passando con attenzione il viso all’analisi del suo sguardo attento e inflessibile.
Veneziana guardava da dietro la spalla dell’uomo il fratello maggiore seduto su un vecchio e instabile sgabello di legno in quella stanza grigia e squallida. Due ombre scure sotto gli occhi segnavano il viso sciupato e esangue. Le guance erano scavate e chi occhi sembravano ancora più grandi, spenti e vuoti. 
-Quindi, tu sei Romano!- disse questo con tono secco e risoluto, lasciandogli il viso e portando le mani dietro la schiena. Continuava a fissarlo dall’alto, col la mascella contratta e la testa orgogliosamente alta. Ma fu lo sguardo a colpire Romano: determinato.
Ma l’idea che anche quell’uomo potesse volere qualcosa da lui lo svilì ancora prima di poter immaginare le sue intenzioni. Eppure Licia sembrava così contenta e fiduciosa. Tra lei e quell’uomo sembrava esserci un’intesa abbastanza forte da farlo sentire escluso, l’oggetto per cui erano venuti fin lì.
La sorella si avvicinò a lui e gli passò le braccia intorno alle spalle, chinandosi leggermente. Sorrideva ed era felice di vederlo, lo era veramente come quella volta…. Non ricordava. Quanto tempo era passato?
-Non sei contento? Torneremo ad essere Roma!- gli disse stringendolo in pieno entusiasmo. –Ora ritorneremo ad essere grandi!-
L’uomo gli tese una mano, forse per stringere la sua, forse per aiutarlo ad alzarsi, e Romano la osservò confuso e frastornato. Improvvisamente si accorse di avere le braccia pesanti, di non avere la forza neanche di parlare e non sapeva perché. Gli sembrava di essersi appena risvegliato da un lunghissimo sonno per trovarsi in quella miseria e squallore che lo circondavano e gli davano uno strano fastidio all’altezza dello stomaco.
-Tu hai bisogno dell’Italia e l’Italia ha bisogno di te. Seguimi e tornerai a conoscere la gloria di Roma!- gli disse senza vacillare neanche per un attimo, tanto sicuro.
Allora Romano lo vide che lo sguardo severo e intransigente di quell’uomo ardeva d’un fuoco inestinguibile. Che Licia avesse visto in lui quello che ora stava notando lui stesso? Che fosse entusiasta appunto per quello? Che quel fuoco fosse alimentato veramente da quel sogno chiamato Roma, Roma come loro due, sua sorella e lui come un tempo e non quella santissima città?
Sollevò la mano e la chiuse intorno a quella dell’uomo e questo ricambio stringendola con vigore, infondendogli una scarica positiva che l’attraversò fin dentro al cuore.
Si ritrovò alzato, disorientato per diversi secondi da quell’altezza, e le gambe intorpidite gli diedero l’impressione di non riuscire a reggere il suo peso, ma ce la fecero, e mosse i primi passi barcollanti e indecisi.La sorella accanto a lui gli sorrise rassicurante e gli passò una mano attorno alla vita. Era bella sua sorella, ma qualcosa la rendeva splendida oltre ogni modo.
La scrutò incuriosito finché la risposta non riemerse ovvia da quel pozzo nero che c’era dentro di lui: il sorriso. Era più prezioso di un diamante.
Ecco che cosa era sorridere, e senza rendersene conto anche lui tornò a farlo.
Quando tornò a guardare l’uomo, questo gli rivolse il saluto romano, e gli parve possibile, parve possibile ad entrambi i fratelli: Roma sarebbe tornata a risplendere come un tempo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il capitolo è breve, avrei voluto aggiungere un altro paragrafo sulla sicilia sempre sull’argomento, ma penso che questo sia abbastanza episodico così, continuerò nel prossimo capitolo.
Ho deciso di affrontarla dal punto di vista di lovino, perché lo avevamo lasciato che perdeva coscienza tra le braccia di Maria Sofia, e ho deciso di farlo rinvenire adesso, sotto le attenzioni del suo nuovo capo che penso si sia capito chi è… vero? Lovino non ha assolutamente memoria perché per i 15 anni dopo l’unità le scuole nel sud italia furono chiuse per far proliferare l’ignoranza, e questo risponde anche ad una domanda sulla differenza di alfabetizzazione tra nord e sud prima e dopo il processo unitario.  
Poi, mmm che altro dire? Ah, lovino nota che c’è una maggiore intesa tra Mussolini (lo avevate capito, vero?) e Feliciana (Felicia, Licia, chiamatela come ve pare) perché effettivamente il sopracitato capo amava molto il nord italia. È un piccolo particolare inutile ai fini della storia, l’ho messo per sfizio. Wahahah, ecco come affrontare argomenti seri cazzeggiando!
Questo diciamo che è il lato sentimentale del fascismo, anche perché credo che sarebbe inutile andare a tirare fuori la marcia su roma e tutte quelle cose la che sono già scritte sui libri, ne voglio addentrarmi nei particolari della composizione del partito o del delitto matteotti.
Evidenzio l’obbiettivo che è quello di ritrovare Roma (cosa che metterà ad un certo punto in agitazione qualcuno), come saranno diversi gli obbiettivi dei diversi paesi che si ispireranno alla struttura del fascismo italiano.
Come sempre, se qualcosa non torna o volete chiarimenti, io sono qui.
Ribadisco, soprattutto ora che stiamo iniziando ad addentrarci in un terreno abbastanza controverso e sensibile, che tutto deve essere affrontato in maniera serena e soprattutto aperta al confronto.
Facciamo un’uscita ad effetto? Ma si!
Questo, è solo l’inizio….  WAHAHAHAHAHHAH 
fa effetto vero? XD 




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Capitolo 9
*** Finchè è con me non deve preoccuparsi di nulla. ***


prefetto di ferro
 
 
Il ticchettio dell’orologio si propagava pigro nel silenzio dell’aria densa di polvere e calura.
L’uomo li aveva invitati ad entrare e ad accomodarsi nel salotto. I muri bianchi e spogli cozzavano con arredamento sfrontatamente barocco, e le persiane socchiuse proteggevano dal sole pomeridiano, immergendoli in una penombra innaturale.
Il nuovo capo d’Italia, insieme ai due fratelli, erano accompagnati da alcuni uomini dell’esercito, rimasti in piedi alle loro spalle.
Licia si guardava attorno stralunata, sorpresa di conoscere così poco quella parte d’Italia che, in tutta franchezza, aveva sempre creduto parte di suo fratello. Ma quel luogo le sembrava così alieno e lontano da lei e suo fratello che le sembrava di essere arrivata in un altro paese.
Lovino invece scrutava ogni particolare, alla ricerca di quel qualcosa, di quel tassello mancante che avrebbe completato quel senso di vuoto e desolazione che l’aveva accolto dall’arrivo in quell’isola silenziosa e mesta. Era come se qualcosa in quel posto lo tenesse col fiato sospeso, e gridasse nel silenzio il bisogno di farsi notare. Ma, per quanto si sforzasse, quell’insieme di particolari che sembravano riemergere da lui stesso lo stava soffocando.
-Lasciatevi offrire il caffè, per me sarebbe un onore!- disse l’uomo. Anche lui era circondato da qualche uomo e uno di questi uscì dalla stanza.
Sembrava un uomo completamente sicuro di se e del suo potere quel tizio, lo si intuiva dal modo rilassato in cui stava seduto sulla poltrona, o forse dalla maniera abbastanza sfacciata di studiare col suo sguardo acquoso i due fratelli seduti al fianco del nuovo capo d’Italia, e si rivolgeva a quest’ultimo con tono diretto e impavido. Cercava la confidenza che si cerca con un proprio pari, dopo tutto era un capo come un altro, questo sarebbe andato d’accordo con lui tanto quanto gli altri che l’avevano preceduto.
Quell’uomo a Licia non piaceva, non le piaceva il modo in cui li fissava, non avevano niente di innocente quegli occhietti neri, e ciò la metteva in agitazione, ma la grande sicurezza del suo capo la tranquillizzava, perché lui non si scompose, anzi sembrava sempre più sicuro di se.
Dopo pochi minuti di silenzio la porta si aprì. Il ragazzo uscito pocanzi rientrò seguito da una donna vestita di nero con il vassoio che si apprestò a servire il caffè, poggiando le tazzine sul tavolino del salotto.  
-Prego.- li invitò l’uomo sporgendosi per servirsi. I tre colsero l’invito e fecero lo stesso, anche se Lovino tentennò qualche istante, trovando difficile pensare di riuscire in qualche modo anche solo bagnarsi le labbra di caffè con quella strana sensazione che aveva addosso, sempre più forte, sempre più opprimente.
L’uomo alzò la tazzina verso il nuovo capo come per brindare in suo onore.
Dopo il primo sorso, sempre con fare spavaldo, poggiò la tazzina sul piattino tintinnante e tornò a rivolgersi al nuovo capo.
-Comunque, non c’era bisogno di venire con la scorta. Finché è con me non deve preoccuparsi di nulla!-
Licia trovò strano quel commento, le sembrava una semplice e cortese forma di gentilezza, eppure qualcosa stonava. Non si rese conto della gravità di quelle parole finché il non sentì il tintinnio della porcellana sul piattino del suo capo.
-Capisco.- disse solamente Mussolini senza fare una piega.
Spostò l’attenzione dall’uomo e si rivolse alla ragazza in piedi alla sue spalle, che silenziosa continuò a tenere lo sguardo basso.
-Sicilia.-
Si rivolse a lei con quel nome, con voce limpida e chiara che fece tremare il cuore di Romano come la corda di una chitarra.
-Chi è quest’uomo?- le chiese diretto esigendo una risposta pronta e chiara.
Ma La ragazza non rispose, come se non si fosse rivolto a lei. Continuò a tenere il capo basso, nonostante gli occhi penetranti e decisi del Duce la stessero perforando esigenti e senza pietà.
Un uomo della scorta si avvicinò a Mussolini e gli sussurrò all’orecchio l’identità di quell’uomo che li aveva invitati ad entrare. Era proprio come sospettava.
-Bene!- si alzò senza più rivolgere nemmeno uno sguardo all’uomo seduto sulla poltrona di fronte a lui, che incredulo rimase piantato alla poltrona senza dire una poltrona. Licia si alzò di scatto, pronta a seguirlo, mentre Lovino continuò a fissare la donna vestita di nero, incredulo. Si era dimenticato di lei, e ora quasi stentava a riconoscerla.
-Possiamo andare! Chiamate Cesare Mori, nominatelo prefetto, voglio che questa erbaccia venga estirpata.-
L’uomo che prima aveva suggerito al suo orecchio prese immediatamente l’ordine e si precipitò fuori.
Ma intanto Lovino non riusciva a schiodare gli occhi dalla Sicilia, e per un attimo lei gli rivolse uno sguardo fugace, e si sentì mancare per l’intensità e la stranezza di quel nero cupo. Era uno sguardo di fiera ferita, graffiante e aggressivo di un animale selvatico, non c’era più ombra del limpido orgoglio e della giocosa baldanza che lo illuminava.  
-Andiamo Romano!- Licia gli mise una mano sulla spalla, facendogli distogliere l’attenzione dalla Sicilia.
Si alzò titubante, mentre la stanza si svuotava. L’uomo e i suoi tirapiedi uscivano da una porta, mentre I camerati uscivano dalla parte opposta, lasciandolo ultimo in quella stanza.
Rosalia seguì il suo capo, e fu sul punto di richiudere la porta, ma Lovino la bloccò col piede, aggrappandosi al pannello bloccato alla sua sinistra.
Sicilia era proprio di fronte a lui, a pochi centimetri di distanza, come era sempre stato, ma qualcosa in lei lo allontanava.
I capelli neri erano increspati intorno al viso, e acconciati alla meno peggio. Continuava a tenere la testa piegata, ma era bella, nonostante fosse sciupata e povera, e il pallore della pelle la faceva apparire grigia e spenta.
-Rosalì.-
Da che sembra che niente potesse scalfire quello stato di silenzio, quel sospiro, il modo in cui apostrofò il suo nome la fece tremare, divisa tra il tendersi verso di lui e il bisogno di allontanarsi e sparire.
Lovino avvertiva il bisogno di dirle mille cose, di fare qualcosa, ma quel senso di vuoto e confusione lo pietrificava, e l’unica cosa che riuscì a fare fu chinarsi verso di lei, verso il suo viso e le sue labbra, come attirato da una calamita, avvertiva uno struggente bisogno di assecondare quella forza. E tornò ad incrociare quegli occhi, ora tristi.
E come un tempo fu soggiogata da quell’amore che provava per lui e il desiderio bruciò ogni altra cosa.
E furono diversi i secondi sulla distanza di quei pochi centimetri che li separavano, mentre il cuore dei due tuonava rampante, e l’emozione era talmente forte e tesa che i respiri faticavano ad uscire e si mescolavano a tratti.
Ma il contatto visivo si interruppe, e Sicilia si ritrasse, mentre Lui si faceva disperatamente avanti per non perdere quell’occasione che per qualche secondo gli si era presentata e ora gli stava sfuggendo tra le dita come acqua.
Questa volta non fu il vecchio e sopito orgoglio a trattenerla, o la necessità di sparire, ma la consapevolezza che a Lovino sembrava sfuggire.
Gli poggiò una mano sul petto per bloccarlo, e girò il viso dall’altra parte, fermi entrambi in quello spiraglio tra i due pannelli della porta.
-Lovino, siamo fratelli adesso.-
Glielo disse e non ebbe nemmeno il coraggio di guardarlo negli occhi.
E lui parve scioccato. Non poteva desiderarla, eppure l’aveva fatto. Come aveva potuto desiderare sua sorella? Era sbagliato, lo sapeva, eppure… avrebbe dovuto provare disgusto, non trovarlo strano.
-Romano!- come prima la voce di Licia gli arrivo portandolo alla realtà. Lo aveva chiamato dal corridoio, e stava tornando indietro.
-Vai.- gli disse soltanto Rosalia distaccandosi da lui.
Fece a malapena mezzo passo indietro Lovino e si vide chiudere la porta in faccia.
Licia entrò nella stanza e gli prese la mano.
-Dai andiamo! Perché sei così lento?- lo rimproverò tirandolo con se.
Lovino non rispose, la seguì e basta. Se era sbagliato desiderarla, allora non l’avrebbe desiderata. Era sua sorella, nient’altro.
 
 
 
 
 
Mi sono lasciata un po’ andare nell’ultima parte alla romano/sicilia, spero che non faccia tanto schifo. Questo capitolo parla di un episodio veramente avvenuto durante una visita di Mussolini in sicilia, a piana dei greci. L’uomo è il primo cittadino Francesco Cuccia. Le parole che gli dice riguardo la scorta che non era necessaria e che poteva usufruire della sua protezione sono “originali”, non so come dire, sto rincoglionendo di giorno in giorno. Anche la non risposta di sicilia è realmente avvenuta. In capo di sicilia pensava di poter trovare il benestare del fascismo credendo di avere davanti il solito capo italiano pronto a scendere a patti, ma si sbagliò. Negli anni successivi il prefetto di ferro, così viene chiamato Cesare Mori, estirpò letteralmente la mafia dalla sicilia, senza farsi alcuno scrupolo. L’unico fatto negativo fu che alcuni capi mafia scapparono in america, e come sapete gli anni 30 sono famosi per la mafia siciliana a Chicago e in altre città. È un episodio fondamentale per lo sbarco in sicilia nel ’43. penserò poi cosa, come e quando mettere tutto questo sotto forma di capitolo.
Penso che per adesso sia tutto.
Grazie mille a chi legge!
 
 
 
 

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