Disneyland Acid Trip

di Cherry Berry
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sleeping Beauty ***
Capitolo 2: *** Red like blood ***
Capitolo 3: *** Happy strange nineteen! ***
Capitolo 4: *** Unholy Confessions ***



Capitolo 1
*** Sleeping Beauty ***


Disneyland Acid Trip

1. Sleeping Beauty

Sometimes when we're young, and always on the run
It gets so dark and I know that place yeah-ee-yeah!
So don't be too concerned, you got a lot to learn
Well so do I and we've got plenty of time yeah-ee-yeah!
Don't fall off the track yet with so many races to go
Hold on!

[Unbound, the wild ride - Avenged Sevenfold]

Aurora sedeva al bancone del bar con una bottiglia di birra in mano. I suoi lunghi capelli cadevano in un’onda dorata sulla sua schiena, le lunghe gambe pallide erano accavallate con grazia e i luminosi occhi verdi fissavano il vuoto. Svuotò d’un sorso il suo drink, sbattendo il contenitore vuoto sul ripiano ligneo.

«Un’altra, per favore.»

Il barman le portò ciò che aveva richiesto e lei ringraziò con un sorriso luminoso. Mentre sorseggiava la seconda birra della serata, osservò con circospezione la sala affollata. Odiava il sabato sera. C’era sempre troppa confusione, si sentiva a disagio. Finita anche la seconda bottiglia, la giovane donna si alzò dal suo posto, pagando e uscendo in fretta dal locale. Camminando verso la sua auto, la sua presenza attirava l’attenzione di parecchi uomini presenti sul marciapiede affollato, che si voltavano verso la sua figura avvolta in un abitino blu aderente e scollato. Salì sulla sua cabriolet nera decappottabile, guidando verso lidi migliori. Sapeva dove avrebbe potuto trovare un posto dove divertirsi e non pensare al fatto che l’indomani avrebbe compiuto diciannove anni. Cosa che la terrorizzava.

Aurora era nata con una grave malattia genetica di tipo terminale. I medici le avevano diagnosticato questa rara patologia quando aveva all’incirca tre anni, dicendole che entro i diciotto sarebbe caduta in un coma irreversibile. I suoi genitori non le avevano tenuto nascosto nulla, dicendole da subito, quando poteva capire realmente di cosa si trattasse, che era affetta da quella malattia. La ragazza non si era mai fatta troppi problemi al riguardo, aveva deciso di vivere la vita fino in fondo, invece di rinchiudersi tra le mura di un ospedale e sottoporsi a delle cure palliative che avrebbero soltanto allungato la sua agonia. Aurora non era diventata una suorina devota ad un dio inesistente, non si era rinchiusa in casa alla ricerca di protezione. Aveva deciso di darsi all’alcol e alle feste, di divertirsi e godersi la vita, finché era in tempo. Aveva praticato parecchi sport estremi e, nonostante tutto, tra lo stupore generale aveva compiuto e sorpassato i diciotto anni senza manifestare sintomi della malattia. E dunque, avvicinandosi ai diciannove, il terrore l’aveva colta.

L’automobile percorreva a gran velocità le vie cittadine, ingombre dal traffico del sabato sera. Ah, quanto odiava i sabati. Per fortuna la giovane donna conosceva parecchie scorciatoie. Prese dunque una stradina laterale per evitare un incrocio che sicuramente sarebbe stato bloccato dalle macchine, e si diresse verso la sua destinazione. La traversa era buia, pochissimi lampioni ai lati della strada. Una stranissima sensazione colpì la guidatrice, che si sentì osservata. Volse lo sguardo al marciapiede, ma non vide anima viva. O almeno, nel buio non le parve di riuscire a distinguere nessun essere vivente. In quei pochi istanti in cui i suoi occhi si erano rivolti altrove, però, qualcosa aveva urtato il suo mezzo, finendo contro il parabrezza e rotolando poi per terra, nel momento in cui la donna frenò di colpo. Col respiro affannoso, aspettò qualche secondo prima di scendere dall’auto. Che cazzo aveva investito?

Una figura scura giaceva sul terreno. Non riusciva a capire se fosse un essere umano o un animale, vedeva soltanto il luccichio sinistro del sangue sull’asfalto e sulla carrozzeria.

«Oh dei.» fu l’unica cosa che riuscì a mormorare a fior di labbra. Si sporse verso la sagoma accartocciata davanti a lei, quando questa emise un gemito.

«Sei vivo?» Non sapeva nemmeno se fosse un uomo, che diavolo! Per quanto ne sapeva poteva aver investito un grosso cane!

«Prima mi investi a duecento all’ora e poi mi chiedi anche se sono vivo?!»

La voce era flebile ma con una nota ben percepibile di sarcasmo. La ragazza trasse un profondo respiro di sollievo. Se parlava significava che era vivo, no?

«M-mi dispiace, non era mia intenzione. Sei apparso all’improvviso…»

La persona si mise a sedere, massaggiandosi la testa.

«Penso di avere un taglio piuttosto profondo sulla nuca ed un trauma cranico. Spero almeno che avrai la decenza di accompagnarmi in ospedale.»

Aurora si alzò dalla posizione accovacciata in cui si trovava per verificare le condizioni di chi aveva investito, dando a questi la mano in modo da aiutarlo a trarsi in piedi. Lo fece accomodare sul sedile del passeggero, dandogli qualche fazzolettino per tamponarsi la ferita alla testa, e poi mise in moto.

«Che cazzo… Le ferite alla testa sono quelle che sanguinano di più.» esclamò il ragazzo, sussultando mentre cercava di asciugare il sangue che gli usciva copioso.

«Già… Senti… Io… Mi dispiace tanto.»

«Non preoccuparti, non è tutta colpa tua. Sono stato imprudente nell’attraversare senza rendermi conto che stava giungendo una macchina.»

La donna gli dedicò un’occhiata, per poi riportare lo sguardo sulla strada.

«Posso sapere perché ti porti dietro un fucile?»

L’uomo al suo fianco, infatti, aveva un fucile di precisione appoggiato sulle ginocchia.

«Ero a caccia.»

«A caccia di cosa?» A caccia nel pieno centro della città?!

«Cacciavo un lupo cattivo.»

Aurora non si voltò di nuovo nella sua direzione, pensando tra sé che quel tipo doveva essere completamente matto, oppure il suo trauma cranico era peggiore di quanto pensasse.

Parcheggiarono davanti al pronto soccorso, la ragazza gli impose di lasciare l’arma da fuoco sul sedile della sua auto. Non volevano di certo scatenare il panico.

La dottoressa che visitò Brian, così si chiamava lo strano individuo che aveva investito, disse che aveva un lieve trauma cranico e che necessitava di qualche punto dietro la nuca. Dopo che l’ebbero ricucito con quindici punti, gli ebbero dato qualche medicina ed ebbero controllato che non ci fossero altri problemi, lo dimisero. Erano passate circa due ore ed ormai la mezzanotte si avvicinava inesorabilmente.

«Perché così tesa?»

La domanda la colse alla sprovvista, così che voltò lo sguardo verso il ragazzo che camminava al suo fianco verso la sua automobile. I suoi occhi verdi incontrarono quelli castani e pieni di curiosità di lui.

«Non sono tesa.» ribatté stizzita. Adesso un perfetto sconosciuto si rendeva conto dei suoi stati d’animo come fosse una vecchia amica?

«Ahah, sì, e io sono Cappuccetto Rosso.»

Aurora gli lanciò un’occhiataccia, mentre apriva la macchina con il telecomando e saliva a bordo.

«Non sono fatti tuoi.» affermò, quando Brian fu salito ed ebbe chiuso la portiera.

«Ok, chiedo venia.»

«Invece di dire stronzate, perché non mi spieghi dove devo lasciarti?»

«Mmh. Visto che il lupo ormai sarà fuggito, penso che tu possa accompagnarmi a casa mia.» Le diede le indicazioni per giungerci, mentre lei rimuginava sulla sua sanità mentale. Un lupo in pieno centro città, certo. Mentre attraversavano a tutta birra una strada poco trafficata, il ragazzo le chiese di fermarsi. Lei accostò, senza nemmeno domandarsi più cosa diavolo stesse facendo. Si era rassegnata alla sua pazzia. Lo vide scendere dall’auto col fucile sottobraccio, aggirandosi con circospezione lì intorno. I suoi corti capelli biondi rilucevano alla luce dei lampioni, mentre camminava in completo silenzio. La ragazza si accese una sigaretta, sbuffando. E lei che si sarebbe voluta divertire, quella sera! Che cazzo! Fece uscire il fumo dalla bocca, fissando il cielo scuro in cui spiccava qualche stella. Si scorgevano solo perché si trovavano in periferia, eppure erano comunque offuscate dalle luci cittadine. Uno sparo risuonò nell’aria. Aurora si voltò di scatto, guardando fuori dal finestrino. Brian stava tornando indietro, trascinandosi appresso un altro uomo. Non riusciva a vederlo bene, ma le pareva zoppicasse. Che gli avesse sparato a una gamba? La donna scese dall’automobile avviandosi verso di lui.

«Ma che cazz…»

«Hai visto bellezza? Ho trovato il mio lupo.»

Aurora lo guardò con aria stupita. Che diamine andava cianciando? Poi scorse dietro i due uomini un’altra figura. Una ragazzina vestita di rosso camminava dietro di loro. Aveva all’incirca quindici anni, a prima vista, capelli corti e neri, pelle color porcellana.

«Ti spiace se lo carico in macchina e facciamo un salto al commissariato?»

La donna fece un gesto noncurante. Poco le importava, ormai la sua serata era andata a puttane. Rimase però ferma sul marciapiede, mentre Brian caricava il “lupo” sulla macchina, osservando la ragazza che era arrivata a un passo da lei. C’era qualcosa di terribilmente sbagliato in quella fanciulla vestita di rosso. Camminava con grazia, aveva lineamenti delicati, occhi scuri e vivaci. Eppure quel viso da bambola era deturpato da un’espressione feroce, un ghigno malvagio le piegava le labbra. Un brivido corse lungo la schiena di Aurora. Chi diavolo era quella persona?

«Ciao, io sono Akane.»

Nda.
Saaaalve a tutti quanti, eccomi qui con questa stranissima original. Come mi è venuta in mente? NON NE HO IDEA! Ahahah. Spero soltanto vi piaccia, sarà una storia piuttosto particolare che penso di portare avanti per un po' di tempo. Vedremo come si evolveranno le cose :D Un grazie ai miei adorati Avenged Sevenfold per avermi dato l'ispirazione per il titolo. *A*
Hope you'll enjoy!
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Capitolo 2
*** Red like blood ***


2. Red like blood

Must have stabbed her fifty fucking times, 
I can't believe it, 
Ripped her heart out right before her eyes, 
Eyes over easy, eat it eat it eat it 

[A little piece of heaven, Avenged Sevenfold]

Una ragazzina dai corti capelli neri sedeva sulla sedia arancio scuro, dallo schienale rigido, in plastica. Il suo sguardo puntava verso il pavimento, gli occhi color cioccolato erano persi in chissà quale pensiero astratto e confuso.

«Akane?»

Il viso della giovane si rivolse verso la fonte che aveva prodotto quel suono così fastidioso. Il suo sguardo perso nel vuoto era diventato improvvisamente triste e bisognoso di conforto.

«Oh, sei qui quindi?»

Una donna dai lunghi capelli color caramello le si era avvicinata, accovacciandosi al fianco della sua sedia, rivolgendole un’occhiata carica di pietà e compassione.

«Piccola, stai bene?»

Erano domande da fare ad una ragazzina di soli dodici anni che aveva appena perso i genitori? Decisamente no! In tutta risposta la piccola mugugnò qualcosa, scostando il viso dallo sguardo dell’interlocutrice.

«Tra poco sarà tutto finito e potrai andare a tenere compagnia alla tua dolce nonna, eh? Stai tranquilla.»

Le fece un sorriso tutto zucchero e miele per poi sparire dietro la porta dai vetri oscurati. Lo sguardo di Akane seguì i suoi movimenti finché non si chiuse l’uscio alle spalle. A quel punto i suoi occhi scuri e alquanto inquietanti si fissarono nuovamente sul pavimento, risucchiandola in un vortice inconsueto di pensieri.

 

Una figuretta vestita di rosso camminava a passo svelto per le vie della città. Il suo viso era coperto da un cappello con la visiera, mentre macinava metri su metri senza soffermare il proprio sguardo su ciò che aveva intorno. Nessuno faceva caso a lei, dopo tutto era quasi Natale e tutti erano indaffarati con le loro faccende da sbrigare. Un sorrisetto strano comparì sulle sue labbra, mentre si fermava dinanzi ad un negozio di ferramenta. Fece un profondo respiro, entrando nel locale con l’espressione più innocente che una quattordicenne poteva mostrare. Sfoderò uno dei suoi migliori sorrisi, rivolgendosi al primo commesso che vide.

«Mi scusi!», esclamò con una vocetta timida e infantile.

«Dimmi cara.», rispose lui sorridendo.

«Io, ecco… La nonna mi ha chiesto di venire ad affilare i coltelli da cucina.» affermò con un sorriso e la convinzione che le avrebbero creduto, mentre porgeva dei coltellacci all’uomo.

«No problem.» ammiccò il ragazzo, andandosene nel retrobottega con i suoi adorati coltelli.

Dopo pochi minuti di attesa trepidante l’uomo tornò, dandole le armi e dicendole che no, non c’era mica bisogno di pagare. Il sorriso della giovane era dolce ed innocente, mentre salutava e fuggiva da quel postaccio. E che diavolo, doveva sbrigarsi, mica aveva tempo da perdere con commessi troppo espansivi, lei! Tornò a ritroso su suoi passi, con la visiera calcata sugli occhi e un sorrisetto a deturparle il viso.

Quando giunse a destinazione, la nonna le aprì accogliendola con un abbraccio affettuoso. La ragazza ricambiò, mentre entrava in casa.

Quella sera le sirene di un’ambulanza risuonarono nel quartiere, svegliando tutto il vicinato, ma per la sua adorata nonnina non c’era più nulla da fare. Un pazzo omicida le aveva piantato cinquanta coltellate al costato, mentre la povera nipote era andata a prendere il cibo al ristorante dietro casa. Probabilmente quella ragazza era perseguitata, un altro dei suoi familiari era morto! Venne affidata dunque ai servizi sociali, che cercarono di trovarle una casa. Visti, però, i suoi precedenti, erano pochi i genitori interessati a lei. Nessuno voleva una figlia con problemi mentali, a quel mondo. Ed una bambina che si è vista morire dinanzi i genitori e la nonna non doveva stare sicuramente bene. Quegli anni per lei furono duri, affidata a istituti o orfanotrofi, circondata da gente che la trattava come una lebbrosa. Poco le importava, in effetti. Lei aveva sempre quel sorriso dolce e la voglia di conquistare tutti, di mostrare al mondo che nonostante tutto dentro di lei aveva ancora la forza per combattere. O, almeno, così pareva.

 

Ormai era maggiorenne. Quanto aveva aspettato quel momento? Quanto aveva bramato che arrivasse nel minor tempo possibile? Si era sentita morire più volte, in quegli orfanotrofi di merda, dove doveva sottostare a regole che non le piacevano, dove doveva mostrarsi sempre allegra e sorridente. Adesso era giunto il momento di mostrare al mondo chi fosse la vera Akane. Chi in realtà si celasse dietro quel berretto con la visiera rossa, chi era stata lei per tutti quegli anni, mentre l’indifferenza la circondava e si sentiva opprimere da tutti quegli sconosciuti che la giudicavano senza conoscerla. Cosa cazzo volevano da lei? Non potevano fare a meno di guardarla, se li infastidiva così tanto il fatto che tutti i suoi familiari fossero morti? Un brivido le correva lungo la schiena al pensiero degli anni passati, e non era di certo un brivido di piacere. Era un brivido di rabbia. Rabbia cieca. Rabbia rossa che si riversava di lei come una cascata, che la colpiva in pieno e la trascinava verso il fondo. Dove lei amava stare. Il profondo rosso.*

 

Gli occhi della donna si ridussero a due fessure. Dove cazzo era andato quel coglione? Non le sarebbe sfuggito così in fretta, lo sapeva anche lui. Lei era in grado di trovarlo ovunque. Non doveva fuggire, le rendeva soltanto le cose più difficili. Anzi, le rendeva difficili ad entrambi, che cazzo. Era nel suo interesse fare in modo che la sofferenza si protraesse per il minor tempo possibile. Oh, va bè. A lei personalmente non interessava. Che si comportasse come voleva. L’avrebbe trovato, lo sapevano entrambi.

Un rumore la fece voltare di scatto. C’era qualcosa che non andava. Si fermò, appoggiandosi a un lampione. Vedeva un uomo andare verso di lei, ma lui probabilmente non la vedeva ancora. Si nascose nell’alcova formata da un portone, osservandolo. Oh merda. Merda merda merda. Fissò la figura scura avvicinarsi e passarle oltre, senza vederla fortunatamente. Un cacciatore di taglie proprio non ci voleva, al momento. Lei però sapeva esattamente come comportarsi, quindi non c’erano problemi. Sorrise a se stessa, incamminandosi nella direzione opposta percorsa dal cacciatore. Ora, la cosa importante, era ritrovare quella testa di cazzo. Poi tutto il resto sarebbe stato estremamente facile, anche se avrebbe preferito finire la serata a modo suo. Purtroppo non poteva fare nulla al riguardo, aveva anzi già perso troppo  tempo.

 

Che poi fottere i tipi come lui era facile da morire. Bastava fare gli occhi dolci, mostrarsi una quindicenne sprovveduta e il gioco era fatto. Le sue fattezze giocavano a suo favore, non appariva affatto una diciannovenne, il suo viso mostrava al massimo sedici anni. Oh, eccolo finalmente! Corse nella sua direzione, brandendo la pistola come se stesse maneggiando un cono gelato.

«Te l’avevo detto che scapparmi non sarebbe servito.»

L’uomo sobbalzò, voltandosi. Cazzo, l’aveva trovato. Sentì una morsa stringergli il petto, mentre con passo sicuro quella carogna andava verso di lui. Come aveva potuto farsi ingannare dalle apparenze a quel modo? Stava per cercare di fuggire di nuovo, quando uno sparo risuonò nell’aria. Ma non proveniva dalla ragazza che, a quanto pareva, era sconvolta quanto lui. Nascose in fretta l’arma, voltandosi verso l’uomo che aveva sparato. Il cacciatore finalmente li aveva trovati! Alleluja! L’uomo prese il mostro, trascinandoselo dietro, dicendo alla ragazza di non preoccuparsi, che era in salvo, di seguirlo e tutto sarebbe andato bene. Certo, bla bla bla… Le solite palle. Quando giunsero dinanzi all’auto Akane aveva un sorriso compiaciuto all’estremo e… No, non si era aspettata di trovarsi dinanzi una donna bionda, alta e slanciata, che la guardava come se avesse avuto le corna. Il suo sorriso però restò saldo al suo posto. Voleva metterle un po’ di paura, in effetti. Non poteva mai mostrare a nessuno la sua vera natura. Una piccola soddisfazione ogni tanto se la doveva pur concedere.

 

*

Aurora fissava sconcertata quella creatura. Quella ragazza dai tratti delicati, il viso di porcellana, gli occhi grandi e luminosi… Appariva una maschera dell’orrore, deturpata da un sorriso terrificante e a dir poco indelebile per i poveri occhi della fanciulla. Non si sarebbe mai dimenticata quell’espressione. Era l’espressione terrena della malvagità, era quella terribile crudeltà che non ti fa dormire la notte mentre pensi a tutte le vittime che il serial killer di turno sta mietendo in città. E magari la prossima potresti essere proprio tu. Il viso della ragazzina davanti a lei non mostrava più di sedici anni, ma in quello sguardo sinistro e agghiacciante la donna leggeva la cattiveria millenaria di un demone. Chiuse gli occhi, sperando che riaprendoli si sarebbe trovata dinanzi ad una povera creatura spaventata e indifesa dall’attacco di un maniaco. Eppure quando il suo sguardo si posò nuovamente sulla donna vestita di rosso, nulla era cambiato.

Sentì la portiera chiudersi, mentre Brian diceva:

«Dobbiamo portare questo delinquente al commissariato.»

Gli occhi increduli di Aurora assistettero al cambiamento più repentino di tutta la sua vita. La ragazza, presentatasi come Akane, che poco prima sorrideva come se un mostro l’avesse posseduta, ora era sull’orlo delle lacrime, con un’espressione contrita e spaventata. Eppure la donna vedeva ancora in quello sguardo la consapevolezza di Akane di averle messo paura. Una paura vera, un terrore indicibile. Nessun essere umano l’aveva mai spaventata così tanto. Brian arrivò al suo fianco, poggiandole una mano sulla spalla e sussurrandole:

«Parlo io con lei, tu intanto sali in macchina.»

Non se lo fece ripetere due volte, mentre il cacciatore cercava di consolare la povera creatura sull’orlo delle lacrime, e lei sedeva in silenzio con il maniaco. Preferiva quello, che avere a che fare di nuovo con quel demone.

«Ti ha incastrato, vero?»

L’uomo sul sedile posteriore fu sinceramente stupito nel sentirla parlare. Soprattutto nel sentirle dire quelle parole. Che avesse visto quale mostro si celava dietro le dolci apparenze?

«Sì.», disse semplicemente, con voce roca, tacendo poi. Il silenzio si allargò come una pozza d’acqua scura nell’auto, con la consapevolezza che entrambi erano entrati a contatto con la malvagità pura, venendone terrorizzati come due bambini spaventati inconsciamente dal buio.

Aurora stava zitta, riflettendo, quando Brian aprì la porta anteriore del passeggero, facendo salire la donna vestita di rosso. Un brivido corse lungo la sua spina dorsale, ma le parve stupido quando vide il viso della giovane. Un’espressione triste e sconvolta vi capeggiava, mentre la donna si domandava con quale forza di volontà ella fingesse a quel modo. Brian salì sul retro, per controllare che il maniaco non decidesse di fare qualche colpo di testa azzardato.

 

Inchiodando davanti al commissariato, Aurora trasse un sospiro di sollievo. Finalmente quella storia era finita, poteva tornarsene a casa con diciannove pesanti anni sulle spalle e la paura di poter morire da un momento all’altro. Brian, invece, le disse di restare ancora un po’, voleva che tenesse con sé Akane mentre lui portava dentro il criminale, per poi tornarla a prendere per la testimonianza. E infine avrebbe lasciato la ragazzina alla polizia, andando da lei per ricambiare il favore che gli aveva fatto scarrozzandolo in giro. Lei disse che non era necessario, ma lui non volle sentir ragioni. Così scosse le spalle, osservando le sue braccia muscolose trascinare verso le sbarre di una cella sicura quell’uomo. Mentre lei sarebbe rimasta con la vera bestia, la fanciulla vestita di rosso che sedeva silenziosa al suo fianco, guardando fuori dal finestrino.

«Guarda che mica ti mangio, non c’è bisogno che tremi di paura.»

Aurora si voltò a guardarla, mentre stringeva con tutte le sue forze il volante fino a farsi diventare le nocche livide.

«Non sono commestibile per te?»

La ragazzina ridacchiò, portandosi una mano alla bocca.

«No, non direi. E poi stasera ho mangiato abbastanza.» affermò sorridendo. Lo sguardò di Aurora corse su di lei, allarmato. Non si sentiva al sicuro, lì. Mille voci nella sua testa le gridavano di fuggire, e lei avrebbe voluto ascoltarle. Senonché poi avrebbe dovuto rendere conto del suo comportamento a Brian, che l’avrebbe sicuramente presa per pazza. Scosse la testa, facendo ondeggiare la chioma di capelli dorati.

«Su dai, resisti giusto dieci minuti. Il tuo principe sarà qui a soccorrerti tra poco.» esclamò Akane con un sorrisetto da lupo cattivo.

*Akane significa, in giapponese, profondo rosso.

Nda

Nyah a tutti. Eccomi col secondo e frammetario capitolo. Spero si sia capito che Akane sarà un personaggio complicatissimissimo, quindi cercherò di farvi presto comprendere meglio la sua storia, anche se penso si intuisca abbastanza. Probabilmente nel prossimo capitolo vi svelerò i segreti del nostro caro Brian... E lo descriverò un po' meglio ;D Bene, un grazie ai miei A7X per avermi sempre dato l'ispirazione e alla Mocch per avermi dato la voglia di finire in tempi brevi. Lov ya girl <3

Spero che vi sia piaciuto e che leggerete questa storiella a cuor leggero ;D

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Capitolo 3
*** Happy strange nineteen! ***


3.  Happy strange nineteen!

Sorry, did I wake your dream?

Some questions run to deep
We only, only wake up when we sleep
Led by the lunar light, trouble's all we'd find
Lost our way tonight.
[Save me, Avenged Sevenfold]

Brian accompagnò il delinquente all’interno del commissariato. Quando lo vide entrare Jessica gli sorrise, facendogli un cenno con la mano per salutarlo. Quell’uomo era incredibile, era già il terzo maniaco che assicurava alla legge quella settimana. Si assicurò che il tipaccio venisse ammanettato, per poi tornar fuori a recuperare la testimone oculare.

«Visto, è già tornato!» esclamò Akane sorridendo amabilmente alla donna al suo fianco. Lei non disse nulla, attendendo che il cacciatore di taglie aprisse la portiera dell’auto e portasse via la ragazzina, che le fece ciao ciao con la mano mentre si allontanava. Aurora rimase immobile e silenziosa, mentre guardava le due figure allontanarsi, Brian cingere con un braccio le spalle sottili della figuretta vestita di rosso per infonderle coraggio.

“Attento, potrebbe mangiarti vivo.”, pensò la donna tra sé, mentre finalmente la tensione che aveva accumulato si allentava e cominciava a mollare la presa dal volante, massaggiandosi le dita bianche per far circolare il sangue. Come poteva essere così inquietata da una ragazza con quelle sembianze così delicate? La donna scosse la testa, accendendosi la seconda sigaretta della serata. Quand’era nervosa non poteva fare a meno di inalare fumo e nicotina, il tutto la rilassava. Abbassò il finestrino, in modo da fare circolare l’aria e godersi il tepore della notte estiva. Appena gettò il mozzicone per terra, vide il cacciatore di taglie venirle incontro con un gran sorriso incoraggiante.

«Bene, ora tocca alla polizia.» disse mentre saliva al posto del passeggero con un sorriso soddisfatto.

«E per farmi perdonare ti offrirò da bere!»

Aurora lo guardò con aria scettica, ma non ribatté.

«Dove andiamo?» domandò dopo una pausa di silenzio. Brian ridacchiò.

«Sorpresa. Prima però dobbiamo passare da casa mia, devo prendere qualche spicciolo.»

La ragazza mise in moto, dirigendosi dove le veniva indicato dal giovane uomo seduto al suo fianco. Parcheggiò dinanzi ad una villetta dalle mura beige e il giardinetto ben curato.

«Puoi aspettare qui giusto due minuti?»

Lei fece spallucce, scendendo dall’auto per sgranchirsi le gambe. Si fermò davanti a un’altra casa, nel giardino della quale vi erano sette nanetti di gesso. Aurora li guardò con attenzione, notando come avessero qualcosa di strano… Le sembrava, ma poteva sbagliarsi, che fossero vestiti da donna. Nah, probabilmente era un gioco di luci.

«Perché sto dando retta a un perfetto sconosciuto?»

“Perché sei una stupida.”, parve sentire rispondere Dotto, con quella sua aria di superiorità.

«Probabile.», ammise lei. «Potrebbe essere lui il maniaco assassino ed io qui a dargli retta.»

“Non essere così pessimista.” la rimproverò Mammolo, scuotendo il capellino rosso.

«Ma davvero non so chi sia! Cosa mi è saltato in mente nel seguirlo?» chiese a se stessa.

“Se non lo sai tu…” affermò Eolo, con uno sbadiglio delle labbra ricoperte da rossetto.

«E adesso quanto ci mette a recuperare qualche banconota? Si starà armando per uccidermi e nascondere il mio corpo.» sospirò.

“Lo penso anch’io. E smettila di lamentarti.” brontolò Brontolo incrociando le braccia ricoperte di braccialetti al petto.

«Senti chi parla di lamentarsi.» ironizzò la ragazza, scuotendo la testa.

“Lascialo perdere Aurora, è invidia la sua. Vorrebbe essere al posto tuo per uscire con quel bel ragazzone.” squittì Cucciolo ammiccando vistosamente.

«Parli spesso da sola?»

Aurora trattenne il respiro mentre si voltava. Opporcamiseria.

«Ehn… Solo quando sono nervosa.» mormorò, mentre cercava di non arrossire per l’imbarazzo. Da dove le era saltato in mente di mettersi a parlare con degli ambigui nani da giardino?

Brian le sorrise in maniera accondiscendente. Doveva averla presa per pazza.

«Ho preso il portafogli, possiamo andare. Ti porto in un bel locale e ti offro un boccale di birra. Ah, aspetta. Devi guidare.»

«Non importa.» esclamò lei, che non sapeva dire di no alla birra e alla guida in stato di ebrezza.

«Oh, okay, se lo dici tu.»

 

*

 
La donna smise di guardare fuori dalla finestra, chiudendo le tende. I suoi lunghi capelli neri erano legati in una coda di cavallo, mentre i suoi occhi blu si muovevano nervosamente attraverso tutta la stanza. Le era parso di sentire un rumore.  Eppure nessuno le apparve al fianco brandendo un’arma, così trasse un sospiro di sollievo, sedendosi in poltrona e accendendo la televisione. Il canale trasmetteva uno stupido film strappalacrime con finale a lieto fine, mentre lei pensava a cosa aveva appena visto nel suo giardino. C’era una ragazza dai lunghi capelli biondi che parlava con i suoi nani da giardino e si comportava come se essi le rispondessero. Al mondo esisteva chi stava peggio di lei! Il telefono squillò, facendole impugnare la lampada a mò di mazza da baseball per proteggersi. Ma poi si accorse di ciò che stava accadendo e corse a rispondere.

«P-pronto?»

«Gwen, ma quanto tempo ci metti per rispondere al telefono?»

La sua matrigna aveva il brutto vizio di urlare quando tardava ad alzare la cornetta.

«Scusa, stavo guardando la tv e non ho sentito subito gli squilli.» si giustificò con un sospiro.

«Sì sì va bene. Volevo chiederti…»

Gwen però si perse il resto della frase, poiché le parve di sentire uno strano rumore provenire dalla cucina. Si voltò di scatto, guardando in quella direzione con aria terrorizzata. Aveva per caso i ladri in casa? Fu presa dal panico, mentre con una mano teneva la cornetta e l’altra afferrava la mazza da baseball che teneva sempre vicino a sé per ogni evenienza.

«…Mi stai ascoltando, Gwen?»

L’irritante e stridula voce della sua matrigna la riportò alla realtà, e lei si affrettò a rispondere:

«Sì, certo!»

«Allora venerdì prossimo ci sarai?»

«Puoi contarci! Scusa ma adesso devo proprio andare, è arrivato il fattorino con la pizza.», disse chiudendo brutalmente la conversazione. In realtà non ci sarebbe andata. Come se non sapesse quale fosse il vero intento di Molly. Voleva brutalmente ucciderla perché non sopportava il fatto che la sua figliastra non si fosse laureata e facesse la modella. E quindi per non doverla presentare nelle occasioni ufficiali la voleva far fuori. Povera Gwen. Serrò la presa sulla sua arma improvvisata, avviandosi verso la cucina con aria preoccupata. Sentì ulteriore rumore ed entrò, intimando l’alt. Il suo gatto la guardò con aria preoccupata. Cosa voleva da lui quella psicotica, stava soltanto cercando qualcosa da mangiare! La ragazza lo guardò con aria stupita.

«Sei tu Pallino!»

Il micio la osservò sconcertato e se ne andò con aria oltraggiata. Non solo non gli dava da mangiare, gli faceva anche domande stupide!

Rimasta sola, Gwen prese a guardarsi intorno. Nessuno stava tentando di entrare in casa sua e ucciderla, al momento, ma è sempre meglio prevenire che curare. Sprangò porte e finestre e si disse che era arrivato il momento di andare a dormire.

 

Nel cuore della notte si svegliò di soprassalto, sicura di aver sentito qualcuno abbattere la porta principale. Si avventurò in salotto brandendo un coltello da cucina, ma la porta era al suo posto sui cardini e non c’era nessuno in giro. Trasse un profondo respiro di sollievo. Evidentemente non era ancora giunto il suo momento. Eppure era sicura di aver udito qualcosa… Controllò in ogni stanza, ma nessuno pareva aver invaso la sua abitazione. Fissò sconcertata la televisione quando si accorse che era accesa. Lei era certa di averla spenta. Aspetta, ne era certa? Non era poi così sicura. Le parve giusto ricontrollare un’altra volta l’intera casa, gli armadi, sotto i letti. No, non c’era davvero anima viva tranne lei e il suo gatto. Spense le luci e tornò a letto, sperando di riuscire ad addormentarsi.

 

*

 

«Alla salute!» esclamò Aurora facendo tintinnare il suo bicchiere contro quello di Brian. Era già la terza vodka della serata e la testa cominciava a girarle leggermente. Si era anche bevuta due boccali di birra… Mandò giù la bevanda d’un sorso, sorridendo al cacciatore di taglie che aveva appena fatto lo stesso con la sua.

«Un altro giro?» domandò lei con un sorriso ampio.

«Ancora?» si stupì lui.

«Guarda che reggo molto più di quanto tu creda.»

Eppure il locale cominciava a girarle intorno.

«Come vuoi tu.» si arrese lui, ordinando altri due bicchieri.

«Quindi oggi è il tuo compleanno?»

Lei annuì, facendo una smorfia.

«Non che ne sia molto contenta.»

«Perché, scusa? È una bella cosa compiere diciannove anni.»

Lei fece un gesto della mano come a dire di lasciare correre e domandò:

«E tu Brian quanti anni hai?»

«Venti.»

Aurora spalancò la bocca. Pensava che il cacciatore fosse molto più grande. Cioè, si vedeva che era giovane, il suo viso abbronzato era bello e con appena un accenno di barba, ma la ragazza pensava che si avvicinasse più ai trenta che ai venti.

«E perché a vent’anni fai il cacciatore di taglie?», chiese curiosa.

«È una lunga storia.»

«Abbiamo tutta la notte davanti.» sorrise lei, buttando giù un altro bicchierino come nulla fosse.

*************

Nda

Eccoci qui giunti al terzo capitolo. So di non aver dato spiegazioni riguardo Brian, ma arriveranno nel prossimo capitolo, non disperate! Dedico il tutto a Macch e Mocch, e suggerisco a chi legge i capitoli di ascoltare le canzoni che metto all'inzio durante la lettura. Sono lì apposta! So che Akane sembra sparita, ma tornerà a breve. ;D Un grazie a chi legge e chi recensisce, al prossimo capitolo! :D

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Capitolo 4
*** Unholy Confessions ***


Dinseyland Acid Trip

4.  Unohly Confessions

I won't be the victim, but the first to cast a stone
Sedated nights to the bar room fights as metropolis takes its toll
And don't you try to stop me, it's a place you'll never know
Don't try to judge or take shots at me, I'll never let you seize control
[Trashed and Scattered, Avenged Sevenfold]

Era facile fingere che fosse tutto normale. Era facile voltarsi dall’altra parte, ignorare i segnali sulla sua pelle pallida, tralasciare il fatto che cercasse sempre di non svestirsi, che si nascondesse agli occhi altrui, abbassasse lo sguardo quando gli si domandava come stava, rispondendo che tutto andava a gonfie vele. Così non era, ma poco importava a quel mondo, a quelle persone che in lui vedevano un ragazzino timido che veniva picchiato dal padre. Non poteva farci nulla purtroppo, se la gente non capiva e giudicava senza parlare, era dura per lui stare a scuola, dove tutti gli parlavano alle spalle e non avevano il coraggio di domandargli nulla o anche solo di rivolgergli un saluto quando lo incontravano nel piazzale dell’istituto. Era più facile fingere che quel ragazzino pallido, dai capelli biondi e la carnagione segnata da mille lividi, macchie indelebili di sofferenza, non esistesse. Per loro era come un fantasma, un essere che seguiva i loro stessi corsi, stava nelle loro stesse classi, ma in realtà non era reale, soltanto un’illusoria creazione della loro immaginazione. Quel ragazzino che era bravissimo in tutti gli sport, ma mai una volta l’insegnante indugiava nel lordarlo, fingeva semplicemente di non vedere i suoi ottimi risultati in qualsiasi cosa facessero. Aveva inoltre una spiccata intelligenza, di quelle brillanti, una memoria analitica prodigiosa ed era semplicemente perspicace. Eppure non mai un premio, non mai una nota di merito, nulla di nulla. Era come se fosse davvero inesistente e inconsistente, e con il passare del tempo quel bambino dai capelli corti e biondi crebbe, diventando un ragazzo, senza nessun cambiamento nella sua esistenza. Il padre continuava a maltrattarlo, nonostante tutto però lui non aveva ancora avuto il coraggio di denunciarlo. Forse era un comportamento stupido e soprattutto autolesionista, ma comunque andassero le cose era pur sempre suo padre, gli voleva bene, nonostante i ceffoni, i pugni, i calci, gli oggetti lanciati contro la sua persona, a volte evitati per fortuna, a volte presi in pieno viso anche solo per placare la sua ira, che scoppiava in accessi incontrollabili e lo terrorizzava, quando quell’omaccione bruno diventava tutto rosso in faccia, con le vene e le arterie che pulsavano in maniera visibile sulla sua fronte e sul suo collo, rendendo evidente la ferocia che investiva la sua mente e il suo corpo, in quegli attimi di pura follia quando, in preda a non si era ancora capito quale raptus di crudeltà, prendeva a menar le mani contro il figlio e la moglie. Fu al compiere dei suoi sedici anni che accadde la tragedia. Era da solo a casa con sua madre, stavano festeggiando in silenzio, mangiando una piccola torta che lei aveva preparato prima del suo ritorno da scuola. Il padre era di sopra, dormiva, tranquillo, in camera sua. Per uno sfortunato errore del caso a sua madre cadde dalle mani una brocca colma d’acqua che si schiantò sul pavimento, facendo un fracasso infernale. Suo padre venne probabilmente ridestato dal tonfo, e scese le scale imprecando. Vide il macello che si era venuto a creare sul pavimento e, in un accesso d’ira, prese la moglie e la scagliò contro la porta, domandandole, ovviamente gridando, cosa diavolo avesse in mente, perché avesse creato tutto quel fracasso. Le strinse le dita intorno alla gola finché non divenne paonazza, arrancando, non riusciva a respirare e faceva cenno al figlio perché l’aiutasse. Il ragazzo la fissava, terrorizzato, non sapendo bene come aiutarla. I suoi capelli biondo rossiccio le ricadevano ai lati del viso che cominciava a chiazzarsi di viola, per l’asfissia. Finalmente, con un gesto risoluto, il ragazzo raccolse un frammento di vetro dal pavimento e graffiò il braccio del padre, che si voltò verso di lui, emettendo un ringhio e lasciando andare finalmente la povera donna, che cadde a terra, svenuta, battendo il capo sui cocci di vetro, che le entrarono nella cute. L’omaccione si avvicinò pericolosamente al figlio, finché questi non prese il coltello con cui avevano tagliato poco prima la torta e glielo puntò contro, minacciandolo di colpirlo. Questi rise beffardamente di lui, tirandogli un ceffone e facendolo indietreggiare, contro il muro, giusto per dargli poi il tempo di schiacciare il numero per la chiamata d’emergenza sul telefono appeso alla parete. Lo sguardo crudele dell’uomo, che gli rivolse, gli fece gelare  il sangue nelle vene. Sentì distintamente il liquido prendere a scorrere più lentamente, come fosse cristallizzato e faticasse a passare attraverso i suoi organi, come se rallentando i suoi battiti il padre non avrebbe percepito la sua paura e forse l’avrebbe risparmiato. Di lì a poco sentirono le sirene lontane, alla fine dell’isolato. L’uomo gli diede un’altra occhiataccia di rimprovero e poi uscì dalla porta sul retro. Per sua sfortuna le sirene erano più vicine di quanto pensasse. Intanto, all’interno, il ragazzino biondo si chinò sulla madre, fissando il suo volto pallido. Sentiva le lacrime affluirgli agli occhi ma tenne duro e provò a percepire i battiti del suo cuore, accostando l’orecchio alla cassa toracica della donna e prendendole il polso tra le dita. Un flebile scorrere di sangue vi era ancora, ma pareva andarsi assottigliando, così come il respiro, che faticava a tornare regolare. Provò a farle la respirazione bocca a bocca, soffiando dolcemente aria nei suoi polmoni in modo che riprendesse a respirare. Non le spostò il capo, cosparso di schegge di vetro, per paura di aggravare la situazione. Di lì a poco la polizia entrò in casa, con suo padre ammanettato al seguito. Chiamarono un’ambulanza e dissero al ragazzo che aveva fatto un ottimo lavoro, e dovevano purtroppo interrogarlo riguardo i fatti della giornata. Ce l’avrebbe fatta a rispondere? Sì, erano certi che sua madre si sarebbe ripresa, le stavano già prestando soccorso e l’ambulanza sarebbe arrivata di lì a poco.

Sua mamma riscontrò parecchi danni al cervello, perché per un lungo lasso di tempo non le era arrivato abbastanza ossigeno da riuscire a mantenere le sue funzioni vitali inalterate. Era già tanto che fosse viva, gli avevano assicurato i medici. Inoltre aveva subito vari danni al sistema nervoso e ai centri della memoria. Praticamente sarebbe vissuta in una casa di cura per il resto dei suoi giorni, lui era solo e di ciò doveva ringraziare il padre, in quel momento in una qualche cella sudicia di un carcere qualsiasi.

 

«Sono diventato un cacciatore di taglie per vendicare mia madre, diciamo. All’inizio mi sono arruolato nell’esercito, appena compiuti i diciotto anni, ma poi ho deciso che non era la mia strada.»

Aurora lo fissò un attimo, con sguardo stupito e ammirato al contempo, e forse anche un po’ annebbiato dall’alcol che prepotente le scorreva nelle vene, mischiandosi al suo sangue e dandole una piacevole sensazione di calore. Che quel ragazzo sedutole dinanzi fosse un prodigio umano non v’erano dubbi, e se fosse rimasta a fissarlo un altro po’ con quell’espressione ebete non solo l’avrebbe presa per pazza ma anche per stupida. Si ricompose e abbassò lo sguardo al suo bicchiere vuoto, scostandolo di lato. E lei che si preoccupava dei suoi problemi. Intanto era viva, con tutte le funzioni vitali al massimo. Sì, sarebbe potuta crepare da un giorno all’altro senza preavviso, ma perlomeno il suo cervello funzionava alla perfezione e non aveva bisogno di nessuno che l’aiutasse, per nessun motivo, che fosse esso meramente pratico oppure cognitivo. Aveva davvero paura più della morte (apparente o reale che fosse) che di ridursi a un vegetale, seduta ventiquattro ore al giorno su una sedia davanti a una finestra luminosa? Doveva essere un’esperienza terribile, anche se forse il coma che l’attendeva non era per nulla dissimile da quello che la povera madre di Brian stava passando in quel preciso istante. Sperava soltanto che fosse come un lungo sonno senza sogni, o direttamente l’annullamento totale di sé. Sarebbe stato meglio che essere imprigionata nel proprio corpo per tutto il resto della sua vita, percependo ciò che le accadeva intorno ma non riuscendo a fare nulla, a rispondere agli stimoli, a fuggire dal dolore.

«Cosa ti preoccupa?»

Alzò lo sguardo color assenzio sul viso dell’interlocutore, che ora, dopo aver raccontato tutti i suoi più terribili incubi a una sconosciuta, pareva sentirsi decisamente sollevato.

«Niente.» mentì lei, abbassando nuovamente gli occhi al bicchiere vuoto che magicamente era stato sostituito da uno pieno d’alcol, pronto per essere nuovamente svuotato.

«Solitamente sono bravo a capire le persone, e quel broncio sulla tua faccia non mi pare che significhi proprio niente

Le sorrise, incoraggiante, mostrandole i denti bianchi e perfetti, e in quel baluginio bianco rivide il sorriso malvagio della ragazzina che poco prima avevano accompagnato in commissariato. Un brivido le percorse la spina dorsale, si strinse nelle braccia e buttò giù d’un fiato la bevanda che le stava posata davanti. Si sentiva davvero in dovere di raccontare a uno sconosciuto, un completo sconosciuto, ciò che la angustiava da tutta la serata, anzi dai giorni precedenti? O forse era anni che si portava quel peso sul cuore, in quel momento l’unica cosa che le pareva sensata fare era scoppiare in lacrime e raccontare tutto, tutto quanto, al ragazzo che, con sguardo leggermente preoccupato dal suo silenzio, la fissava. Aveva dei begli occhi, color cioccolato, premurosi e dolci. Probabilmente si stava immaginando tutto, ma pazienza, ormai aveva deciso. E in poco tempo si ritrovò a raccontare al biondino la sua storia, senza troppi fronzoli o arricchimenti, giri di parole che le avrebbero fatto perdere tempo. Tempo prezioso, che le scorreva fuggevole tra le dita, come fosse neve, che lei tentava di afferrare, con l’illusoria apparenza di riuscirci. Eppure quando apriva la mano per ammirare il fiocco di neve delicato esso si era già sciolto, lasciando dietro di sé null’altro che un alone di bagnato, un po’ di umido, dove un tempo c’era stato un bellissimo cristallo di ghiaccio. Così il tempo le dava l’impressione di regalarle attimi, ricordi meravigliosi, che però presto sarebbero evaporati, lasciandola in un buio infinito.

*************

Nda


Ciao bella gente! Eccomi qui, al seguito di un'interminabile assenza, con questo (orripilante) capitolo.  Non volevo attendere così tanto per continuare, però purtroppo ho avuto una mezza crisi dello scrittore e non sono riuscita a produrre nulla per un’interminabile periodo, in cui mi ero dedicata ad altro (un fallimentare altro, se devo dire la verità). Ringrazio sentitamente chi ha letto e recensito, siete voi che mi mandate avanti. Al prossimo (si spera più veloce) aggiornamento. Per chi stesse leggendo la mia fic sugli A7X, non disperi. A breve arriverà il nuovo capitolo. ♥

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