L'avventura mancante di Joseph Bell (/viewuser.php?uid=104685)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Premessa - alcuni documenti ***
Capitolo 2: *** Capitolo I - Due cuori nella casa delle bambole ***
Capitolo 3: *** Capitolo II - come salvai le carte e la pelle ***
Capitolo 4: *** Capitolo III - Un po' di luce, solo un po' ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV - La febbre, la pozione magica e l’interprete italiana ***
Capitolo 6: *** Capitolo V - Viaggio in Italia, parte prima ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI - Alcune considerazioni ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII - Il racconto del giovane Verner ***
Capitolo 9: *** Capitolo VIII - L'avventura mancante ***
Capitolo 1 *** Premessa - alcuni documenti ***
PREMESSA
Clapham, 25 luglio 1970.
Con la presente dichiaro che le informazioni contenute in questo
manoscritto sono state tratte dai documenti custoditi nella cassetta
di sicurezza del dottor John Hamish Watson presso la filiale di
Lombard street della Banca di Londra, ergo, in qualità di mero
trascrittore, declino ogni responsabilità per eventuali danni
morali che la divulgazione di questo manoscritto potrà
causare. Dichiaro altresì essere trascorsi da oggi il termine
di anni trenta dalla pubblicazione delle volontà testamentarie
del dottor John Hamish Watson.
Preciso che nel 1940, in qualità di impiegato della Banca
di Londra, presenziai all’ apertura del vano di sicurezza che
il dottore aveva presso il nostro Istituto. L’operazione di
apertura forzata si rese necessaria in quanto trascorsi i termini di
legge per reclamare la proprietà del contenuto del mezzo di
custodia. Secondo le Norme correnti, infatti, in assenza di reclamo,
le proprietà contenute nei mezziforti dati in concessione,
passano de plano all’ Istituto che eroga il servizio, trascorso
il termine di dieci anni dalla data del decesso del concessionario.
Certamente alcuni maligni potranno obiettare che io mi sia
impossessato abusivamente dei documenti del defunto dottor Watson, ma
per fugare ogni dubbio in merito a ciò, accludo copia del
verbale d’apertura della cassetta di sicurezza, da cui si
evince chiaramente che la proprietà dei manoscritti del dottor
John Hamish Watson è esclusivamente mia.
In
Fede,
Samuel Donovan
ROYAL BANK OF LONDON
29, Lombard Street
Ufficio della tesoreria e delle custodie.
OGGETTO: verbale di apertura forzata del
mezzo di custodia n° 24585620
In data 25 luglio 1940 alle ore 1 e 40 post
meridiane, trascorsi i termini di legge, come da regolamento interno
dell’Istituto ed in assenza di reclami da parte degli aventi
diritto, si procede all’apertura forzata della cassetta di
sicurezza n° 24585620 data in concessione al dottor John Hamish
Watson il 12 dicembre 1901.
Presente il sottoscritto, notaio, Dott.
Harold Norman Obwegner,
Presente il direttore dell’Istituto,
Sir David Galwert,
Presente il Capo Cassiere, Signor Robert
Thornam,
Presente il commesso del caveau, Signor
Samuel Donovan,
Presente il tecnico autorizzato della
Harland & Kolln, Signor Stephen Pyne.
Alle ore 1 e 50 post meridiane si incarica
il signor Stephen Pyne, tecnico della ditta costruttrice del caveau,
Harland & Kolln, di procedere alla apertura del mezzo di
custodia.
Alle ore 2 e 30 post meridiane si incarica
il signor Donovan di procedere all’ ispezione del
contenuto della cassetta di sicurezza in oggetto. Di seguito si
riporta quanto rinvenuto:
n°1 scatola metallica con etichetta
recante la dicitura “John Hamish Watson, 5° reggimento
fucilieri Northumberland”, contenente molteplici manoscritti
stenografati.
n°2 plico chiuso con tre sigilli in
ceralacca, senza iscrizioni.
Il signor Donovan viene incaricato
dell’apertura del plico di cui al secondo punto in elenco.
Detto plico contiene un fascio di cinque fogli di carta in formato da
lettera autografo del dottor John Hamish Watson, legate insieme da
una fettuccia. Da rilevare che il frontespizio del fascicolo reca le
seguenti parole:
“Londra, 26 giugno 1930
Io, John Hamish Watson in perfetta capacità
di intendere e volere, non avendo prole ed essendo prossimo alla fine
dei miei giorni, lascio la proprietà integrale di quanto
contenuto nella cassetta di sicurezza n° 24585620 della Banca di
Londra a colui che aprirà il plico che contiene queste carte,
vincolandolo a non pubblicare nessuna delle informazioni che rinverrà
prima del termine di trenta anni dalla data di apertura del plico.
John H. Watson”
Preso atto di quanto sopra, stante il nulla
osta del direttore d’Istituto e del Capo Cassiere, si consegna
il contenuto della cassetta n° 24585620 al signor Samuel Donovan,
che risulta esserne, a norma di Legge, il nuovo proprietario.
Si chiude il verbale, con le firme dei
presenti, alle ore 3 e 25 post meridiane del giorno 25 luglio 1940.
Per garanzia di Legge,
Harold Norman Obwegner
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Capitolo I - Due cuori nella casa delle bambole ***
CAPITOLO I - Due cuori
nella casa delle bambole
Terminato il turno alle cinque del
pomeriggio, uscii dalla banca. Alcuni colleghi mi invitarono al pub,
ma io declinai:
“Non posso, Bess mi aspetta a casa,
non vorrete rendervi responsabili del fallimento del mio matrimonio,
vero?”
“Ah, e bravo Sam!” rispose uno,
“Vai vai, che la mogliettina italiana ti aspetta,” poi
rivolgendosi alla compagnia, “Io la mia la lascio volentieri a
casa!”
Al che io risposi placido, “Vedi,
questo è il vantaggio di avere una moglie italiana: tu devi
tornare a casa, mentre io voglio tornare a casa.”
Piovve uno scroscio di risate ed
ammiccamenti che interruppi dicendo:
“Poi sono curioso di leggere queste
carte che ho ereditato oggi.”
Thomas, il cassiere più giovane, mi
disse scherzando:
“Ah! Se dovessimo aprire la cassetta
del duca di York voglio essere presente. Accidenti, con questi pazzi
in giro ti puoi trovare tra le mani qualche milione di sterline senza
neppure accorgertene. Ma dimmi Sam, c’erano soldi li dentro?”
Scossi il capo ridendo e poggiata la scatola
metallica sul tavolo, all’ ingresso del salone della banca, la
aprii per mostrare che c’erano solo carte.
“Ecco, come vedete non c’è
nulla di importante qui dentro, solo carte stenografate che non
riesco a leggere. Parola mia, questo dottor Watson non doveva avere
tutte le rotelle a posto per arrivare a spendere cinque sterline
all’anno per una cassetta di sicurezza in cui conservava delle
carte!”
“Si vede che aveva soldi da buttare,”
rispose Thomas, “Certo con questi tempi che corrono e quei
crucchi pazzi di là del Canale, io mi terrei stretto anche un
penny bucato, ma si vede che il vecchio dottore non la pensava così.”
“Nient’affatto!” Rispose
la voce traballante di Oswald Cullen, il direttore di sala, a cui
ormai mancavano pochi mesi per la pensione “Signor Donovan, la
invito prima di tutto a mantenere un certo decoro nel salone della
banca, quanto a voi signori, ritengo cosa di pessimo gusto
spettegolare sulle volontà testamentarie di un nostro cliente.
Se volete chiacchierare andate al pub. Quanto alle carte del dottore,
signor Donovan, le suggerisco di custodirle con cura. Lei è
troppo giovane per capire di cosa sto parlando, ma se avrà
modo di leggere quei manoscritti, la scongiuro di farne un uso
responsabile. Conobbi personalmente il dottore e le garantisco che
era una persona molto seria!”
Così dicendo, l’anziano
funzionario mi prese il braccio in una stretta solida, un gesto di
confidenza di cui non l’avrei mai ritenuto capace e mi disse:
“Quelli che lui ha pubblicato per anni
erano solo romanzetti, li dentro,” indicando con lo scarno dito
la scatola, “Ci sono dei segreti che possono irritare numerose
persone. Stia attento signor Donovan, non le è stato fatto un
bel regalo e francamente, non vorrei trovarmi al suo posto.”
Con passo celere mi diressi verso la stazione. Passando davanti la
tabaccheria Sampson, a Walbrook, mi toccai le tasche del paltò
ricordandomi che avevo finito il trinciato per la pipa, ma non feci
in tempo a tornare indietro, che la mia ampia falcata mi aveva già
condotto sui gradini della stazione di Cannon Street. Dentro di me
fui felice di risparmiare sei pence e carezzai la mia vecchia
Peterson, che giaceva nella tasca destra del cappotto, come per
consolarla, perché per un po’ non l’avrei fumata.
Durante il viaggio in metropolitana pensai ai nuovi acquisti da
fare per la casa. Bess ed io, infatti, ci eravamo sposati da pochi
mesi e nonostante gli aiuti delle nostre famiglie, dovevamo fare non
pochi sacrifici per mettere su famiglia.
Numero 16, Church Street, Luton, appena poche miglia fuori Londra,
come dicevano i latini: Domus mea parva est, sed mihi apta.
Entrai, chiusi la porta e buttai la giacca su una poltrona
gridando:
“Bess! Sono tornato.”
Posai le carte sul tavolo ed andai nella stanza attigua a cercare
mia moglie.
“Bess, ma dove sei? Bess!”
La trovai affacciata alla finestra che guardava infondo alla
strada in direzione della ciminiera della Bedford1.
“Bess, ma che fai? Perché non rispondevi?”
“Guardavo quell’enorme camino nero, mamma mia,
che brutto.”
“Sei triste? Che succede?”
“No, niente, oggi sono andata a fare la spesa con Franca e
Anna e loro dicono che presto ci sarà la guerra e che gli
Inglesi combatteranno contro gli Italiani e che noi Italiani che
siano qui in Inghilterra verremo mandati via o addirittura
imprigionati,” era molto spaventata e triste, “Ma è
vero, Sam?”
Purtroppo era vero, le nostre due nazioni si stavano già
combattendo per colpa di folli decisioni che avrebbero portato
un completo sovvertimento degli equilibri politici del mondo. La
colonia italiana di Londra, numerosissima fin dai tempi dei Re
Plantageneti, si sarebbe ridotta quasi a scomparire dopo la guerra.
Ma in quel momento non volevo credere a tanto orrore e quindi
abbracciai mia moglie dicendole:
“Ma certo che no, sciocchina! Tu sei la signora Donovan e
sei inglese, come me. Capito Bess?”
“Mi piace quando mi chiami Bess, mi fa dimenticare di essere
Elisabetta Fucini, figlia di un anarchico condannato all’esilio.”
Rimanemmo ancora qualche ora a discutere delle paure di Bess, di
suo padre, che da bambino aveva conosciuto Gabriel Rossetti2,
anche lui vittima dell’esilio, parlammo della guerra, che era
cominciata a giugno, poi cenammo e passammo il resto della
serata in salotto ascoltando la radio. La BBC parlava delle azioni
dei soldati inglesi contro gli Italiani in nord Africa ed invitava la
popolazione a non intraprendere viaggi nei territori sotto il
controllo italiano. Ero francamente imbarazzato, mia moglie soffriva
trovandosi in mezzo a questa sorta di schizofrenia. Le emozioni del
suo cuore, mi confidò, erano contrastanti e temeva per
l’incolumità di ognuna delle due parti. Spensi la radio
buttando il giornale sul divano e presi le mani di Bess dicendole:
“Adesso basta tesoro, basta! Il mondo faccia pure ciò
che vuole, noi siamo qui e dobbiamo rimanere uniti per…”
il mio sguardo si abbassò verso il suo grembo, poi la guardai
negli occhi sorridendo. “Quando diventeremo genitori.”
Mi persi in quei suoi immensi occhi neri che avevano preso a
guardarmi con una infinita dolcezza.
“Sam, vieni qui. Ho paura,” disse, ed io la portai sul
letto in braccio addormentandomi vicino a lei.
Il sonno durò poco, in quella strana nottata non potei
chiudere occhio. Mia moglie dormiva profondamente ed io stetti a
guardarla per molti minuti, rapito dai suoi capelli corvini gettati
sul cuscino di lino chiaro. La tenue illuminazione della strada
emanava tonalità azzurrine che si riflettevano sul soffitto.
Mi alzai dal letto cercando qualcosa da fare, scorsi la scatola
metallica che avevo ereditato e decisi che era arrivato il momento
giusto per aprirla.
Alla discreta luce di una vecchia lampada ad olio esplorai il
contenuto della cassetta. Carte, carte e carte stenografate.
Null’altro. Duecentotrentasei fogli numerati nell’angolo
in alto a destra, scritti su ambo i lati, che non riuscivo a leggere
dal momento che la stenografia era un’ arte a me oscura. Levai
i fogli dalla scatola e li misi ordinatamente uno sull’ altro
di fronte a me. Poi mi dedicai al plico. I sigilli che avevo rotto la
mattina in banca, erano stati fatti con un timbro che recava l’effige
di una lanterna di terracotta affiancata dalle lettere D C.
Rimuginai a lungo pensando a quale eccentrico figuro potesse chiudere
un plico con un sigillo simile e ad un tratto mi sentii toccare una
spalla. Trasalii per un momento, poi mi accorsi che era mia moglie.
“Che ci fai ancora in piedi?” mi chiese, assonnata.
“Potrei farti la stessa domanda, sai? Stavo consultando la
mia eredità.” risposi sorridendo.
“Cosa? Cosa è questa roba?”
“Nulla, sono le carte di un povero vecchio morto dieci anni
fa, che aveva una cassetta di sicurezza in banca, da noi. Non avendo
figli o altri eredi ha deciso di lasciare i suoi fogli al primo che
avesse aperto il suo testamento e quel fortunato sono io!”
Mia moglie sorrise incredula: “Beh, era un bel po’
strano questo vecchio.”
“Direi di sì, anche se il vecchio Cullen dice il
contrario. A quanto pare doveva essere una persona importante qualche
anno fa,” presi il coperchio della scatola metallica e ne lessi
il nome, “Era un militare, o qualcosa del genere, si chiamava
John Hamish Watson.”
Mia moglie trasalì. “Come hai detto? Watson? Il
dottor Watson?”
“Sì, perché? Lo conosci pure tu? Sai che era
un medico?”
“Sam, quello fuori di testa sei tu, davvero! Accidenti, ma
non conosci i racconti del dottor Watson?” rise di gusto,
“Vorresti dire che tu non conosci Sherlock Holmes?”
“Mai sentito nominare, Bess!”
Ogni frase venne interrotta dalle sirene antiaeree. Il suono cupo
di quei segnalatori di morte scandiva le serate inglesi da almeno
quindici giorni. Dopo pochi minuti udii il rombo delle squadriglie di
Messerschmitt3 che si avvicinavano. Mi aspettavo di li a
poco rumori di esplosioni, ma il tuonare dei motori dei caccia
tedeschi era più forte del solito. Chiusi le carte nella
scatola metallica e vi forzai dentro anche il plico, misi tutto nella
credenza e con mia moglie ci nascondemmo sotto il tavolo. Un boato
inumano ci privò dell’udito per qualche minuto. Un
ronzio fastidioso fischiava nelle orecchie e solo la percezione
fisica dello stringere nella mia la mano di Bess, mi dava la
sicurezza di non essere ancora morto. Passarono minuti lunghi come
ore ed alla fine uscimmo dal nostro nascondiglio scoprendo con orrore
che il muro che limitava la nostra casa era crollato. Mi sentivo come
un pupazzo nella casa delle bambole. Per tutta la città la
luce elettrica era sparita e dall’ orribile finestra che aveva
aperto il bombardamento, mi apparve la notte rischiarata dai bagliori
e dalle esplosioni della fabbrica Bedford in fiamme.
1, Bedford Vehicles: fabbrica Britannica di mezzi pesanti,
operativa dal 1931, impegnata nella costruzione dei carri armati
“Churchill Mk IV”. Non fu mai bombardata.
2, Dante Gabriel Rossetti: Poeta e Pittore
Italo-Britannico, fondatore del movimento Preraffaellita, il padre,
Gabriele Rossetti, filologo e studioso di Dante Alighieri, venne
condannato all’esilio dal Regno delle Due Sicilie per la
partecipazione ai moti rivoluzionari del 1820.
3, Messerschmitt, aereo da caccia tedesco in dotazione alla
Luftwaffe.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Capitolo II - come salvai le carte e la pelle ***
CAPITOLO II - Come salvai le carte e la pelle
Quelli che passarono alla storia come i “bombardamenti
Baedeker1” finirono nell’ agosto del 1941, con
l’apertura del fronte russo. Nonostante il Terzo Reich avesse
tante armi e tanti soldi, non poteva permettersi di mantenere una
guerra contro di noi ed una contro l’Unione Sovietica.
Da un anno vivevamo a casa dei miei genitori , a Clapham, ci
eravamo trasferiti in fretta e furia la notte in cui la nostra casa
di Luton venne semidistrutta dai bombardamenti che colpirono la
Bedford.
Nel mentre era nato anche il piccolo Charles Matteo, il
meraviglioso bambino che Bess mi aveva donato.
La filiale della Banca di Londra presso cui lavoravo, venne
distrutta da una bomba a dicembre del 1940 e così, da quella
data, entrai nel personale volontario di sicurezza Nazionale
distaccato a Clapham.
Debbo confessare che il lavoro non era eccessivo, la paga
discreta, anche se neppure lontanamente paragonabile a quella che
percepivo in banca, ma in compenso il tempo da dedicare alla mia
famiglia era molto; nel complesso, quindi, potevo ritenermi
fortunato.
Una mattina, i primi di settembre del 1942, mentre svolgevo il mio
servizio di volontario presso la stazione di Clapham, accogliendo i
profughi che come me avevano avuto una casa distrutta dalle bombe, mi
capitò di vedere una famiglia benestante scendere dal treno
delle 12 e 40. Il padre era un signore rispettabile, di mezz’
età, con una valigia di cuoio marrone, la madre, una signora
indaffarata a tenere uniti i due bambini, un maschietto ed una
femminuccia. Fu proprio la vista dei bambini a far scattare nella mia
mente qualcosa che ormai avevo cancellato. Come in un’istantanea
colsi il maschietto mentre cercava di tenersi stretta una scatola di
costruzioni, una scatola metallica troppo grande per lui e che a
fatica teneva sotto il braccio. Urlai:
“I documenti!”
Molta gente si spaventò, alcuni si girarono, altri
gridarono scompostamente “al ladro!”, cercando qualcuno
che poteva aver rubato dei non meglio identificati documenti nella
ressa della banchina ferroviaria.
A fine turno tornai a casa rassegnato. Pensai che non avrei mai
più rivisto quelle carte, ormai sicuramente carbonizzate tra
le macerie. Ma come sempre il mio angelo custode, mia moglie, era in
agguato:
“Prova!” mi disse Bess mentre riscaldava il latte per
il piccolo Charles “Stasera, prendi il treno per Luton, ci
vorranno più o meno venti minuti da qui, vai a casa, sempre
che esista ancora e cerca!”
L’inguaribile ottimismo di Bess aveva il potere di far
sembrare semplice la più drammatica delle avventure, tuttavia
io obiettai:
“Scusa, ma cerchiamo di essere logici, perché poi
dovrei tornare li? Per di più al solo scopo di cercare dei
pezzi di carta!”
“Ah, questo non lo so di certo! Ma tu mi hai detto che eri
dispiaciuto per aver perso i documenti di Watson ed io ti ho dato un
parere” dopo un attimo di pausa, in cui provò il calore
del latte sul suo polso, proseguì “certo, se fosse per
me ti direi di andarci di corsa, vorrei tanto sapere i dettagli dell’
indagine del Faro o dei Reali olandesi”
Guardai mia moglie, che aveva assunto un’aria sognante,
mentre dava la poppata a nostro figlio, e le dissi:
“Ma che stai dicendo? Cos’ è il faro? E che
c’entrano i Reali olandesi?” al che lei seccata:
“Prendi i documenti e torna qui, intanto io cerco di farmi
prestare qualche vecchia copia dello Strand dal parroco, così
capirai meglio!”
“Lo Strand?”
“Vai, non ti preoccupare, quando tornerai capirai tutto”
Alle 20 e 15 presi il treno per Luton. Nei miei programmi avevo
pensato di andare a quel che restava della mia casa, in non più
di mezz’ora cercare la scatola e tornare alla stazione alle 9e
50, in tempo per prendere il treno per il ritorno. Un’
operazione abbastanza folle, di sicuro, ma se era vero che la fortuna
aiuta gli audaci, allora tanto valeva fare una prova.
Al fischio del capotreno seguì lo stridore delle ruote
della motrice, dopo qualche sbuffo nero ero lanciato a cinquanta
miglia orarie sulla ferrovia locale. In tasca avevo del pane con
roastbeef, previdentemente preparato dalla mia Bess. Il vagone era
semideserto, c’ era solo un’ anziana signora seduta in
testa, vicino la porta di comunicazione con l’altra carrozza,
il cui capo ciondolava ad ogni sobbalzare del treno.
Arrivai a Luton alle 20 e 35. Quello che era un gaio paesino del
Bedfordshire appariva come un rudere. Molte le case crollate ed i
negozi chiusi. Le tende dell’ esercito nelle piazze erano il
segno che la popolazione residente non aveva voluto, o forse non
aveva potuto, abbandonare il proprio paese. Camminai tra le rovine
delle case lungo St. Mary Road. Erano rimasti pochi edifici
integri e la cosa mi parve molto strana, dal momento che quando
partimmo da li la situazione non era certo così catastrofica.
Pensai che forse, durante la nostra assenza, si erano verificati
altri bombardamenti, ma la mia ipotesi stava per essere confutata,
peraltro in modo assai sgradevole.
Vidi dietro una casa ancora integra la sagoma di una grande gru a
vapore. Mi avvicinai. Ai piedi della struttura metallica c’erano
quattro operai che stavano bivaccando. Chiesi loro:
“Scusate il disturbo, ma come mai tutte queste case sono
crollate? Ci sono stati altri bombardamenti?”
Uno degli operai, messo da parte il pasto, si alzò
dicendomi:
“No, signore, abbiamo avuto ordine di abbattere tutte le
case pericolanti dopo il bombardamento del luglio dell’ anno
scorso”
Raggelai, pensando che non avrei mai più rivisto i miei
documenti:
“Siete già arrivati a Church street?”
“No, non ancora, abbiamo cominciato da appena dieci giorni.”
Forse intuendo le mie intenzioni, l’operaio proseguì
“Ma, non credo che la lasceranno avvicinare ai ruderi, sono
tutti pericolanti e poi c’è la ronda dei volontari, per
scongiurare i casi di sciacallaggio.”
“Capisco, grazie, buon proseguimento, arrivederci”
Mi affrettai lungo la strada, fino a scorgere da lontano la chiesa
di St. Mary, sorprendentemente rimasta indenne. Evidentemente la mia
casa cadeva sul margine più esterno dell’area colpita
dalla bomba e questo fece si che i danni fossero limitati alla sola
facciata.
Salii i gradini pericolanti della mia vecchia casa. Fino ad
arrivare all’appartamento. Tutto era rimasto grossomodo come
quella sera, tranne che nella camera da pranzo, dove per l’assenza
del muro di facciata tutte le suppellettili ed i mobili avevano
subito gli insulti delle intemperie.
In mezzo a quella assordante desolazione, venni colto da un raptus
di follia:
“Perché non mangiare qui?” mi dissi e, presa
una sedia, mi sedetti di fronte all’ immensa finestra come uno
spettatore in galleria. Lo spettacolo era crudele: devastazioni,
bivaccamenti improvvisati, tende, ma anche una certa industriosità
dei miei concittadini nel cercare di ricostruire tutto ciò che
avevano perso. Alla data di oggi, dopo trenta anni, posso dire che al
posto di quella graziosa casetta georgiana e dell’ intero
isolato, adesso c’è un grande parcheggio che serve il
vicino aeroporto. All’ epoca, però non mi posi il
problema di cosa sarebbe successo dopo, cavai di tasca il panino
fatto da mia moglie e mi misi a mangiare relativamente sereno.
Qualcosa sibilò vicino il mio orecchio, l’intonaco
del muro, dietro di me, saltò in piccole schegge mentre una
voce dalla strada gridava:
“Chi va la! Fermo o sparo!”
La situazione era talmente assurda che una mia reazione di
spavento, seppure perfettamente normale, sarebbe parsa fuori luogo.
“Non è un po’ troppo tardi per avvertire?”
dissi “prima si avverte, poi si spara, casomai. Fatto così
è un po’ inutile, no?” non feci a tempo a finire
la frase che un soldato, giunto dietro di me, mi puntò il
fucile alla schiena intimandomi di rimanere fermo.
“Sono il proprietario di questo appartamento, e sono un
volontario della protezione nazionale distaccato a Clapham”
dissi addentando il panino e rimanendo seduto, poi volgendomi verso
il militare, con la bocca ancora piena “vuol favorire?”
Evidentemente il soldato si sentì preso in giro , poiché
mi assestò un colpo alla base del collo con il calcio del
fucile
“In piedi!” mi disse dopo che rovinai cadendo dalla
sedia
“Vuol vedere i miei documenti?” tossii gattonando
verso un appiglio per potermi alzare
“Vediamo, forza!”
“Eccoli!” e tirai ai suoi piedi il mio portafogli, il
soldato lo aprì e dopo un po’ me lo porse dicendomi:
“Lei ha rischiato pesantemente, signor Donovan. Avrei potuto
colpirla in piena fronte poco fa”
“Non credo, la sua mira è veramente scadente”
replicai “e se adesso non le spiace vorrei finire di mangiare,
ho il treno tra esattamente venti minuti” dissi guardando con
noncuranza l’orologio.
“Non è possibile signore, quest’area è
sottoposta ad interdizione, debbo chiederle di abbandonare subito
questo edificio, lo dico per lei, signore, è pericoloso!”
Richiusi il panino nella carta oleata, lo rimisi in tasca e mi
diressi verso il mobile della credenza che giaceva rovesciato sul
pavimento.
“Vorrebbe essere così gentile da aiutarmi a sollevare
questa credenza?” dissi al militare “ci sono dei
documenti di mia proprietà che debbono assolutamente essere
recuperati”
“Va bene, signore, ma dopo lei scomparirà da qui,
vero?”
“Ma certo, oltretutto, mi creda, non mi trattiene davvero
nulla!”
Il soldato mise il fucile a tracolla e mi aiutò a spostare
il mobile di chiaro rovere inglese. Lo sportello della credenza non
voleva saperne di aprirsi, ma cedette alle dolci lusinghe della
baionetta del militare, rivelando la tanto sperata scatola di
metallo. La presi malcelando una certa impazienza e scappai giù
per i gradini dopo aver ringraziato il soldato ed avergli detto:
“Mi raccomando, chiuda bene quando esce!”.
1, Bombardamenti Baedeker:
serie di bombardamenti effettuati sul suolo inglese dalla Luftwaffe
nel marzo del 1942. Il nome deriva da una popolare guida turistica
della Gran Bretagna molto diffusa in Germania ed edita dalla Karl
Baedeker Verlag.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Capitolo III - Un po' di luce, solo un po' ***
CAPITOLO III – Un po’di luce, solo un po’
Riuscii a prendere il treno delle 9 e 50, come avevo programmato.
L’avventura kafkiana con il povero militare di ronda mi procurò
un viaggio piacevole, dal momento che non potei smettere di ridere
pensando alla sua figura inebetita mentre mi osservava allontanarmi
verso la stazione con la scatola sottobraccio.
“Una figura buffissima” pensai “si leva
l’elmetto, si gratta la testa e rimane li, imbambolato, come
uno stoccafisso.” Ripercorsi la scena numerose volte con la
mente e sempre mi faceva ridere quell’ uomo in divisa che
potevo vedere nella mia camera da pranzo, attraverso lo squarcio
nella parete.
Smisi di ridere. Capii.
“Ecco perché!” e compresi l’umore di
quell’ uomo, compresi il perché di quel suo stare
perplesso con l’elmetto in mano.
“Anche lui si è sentito un pupazzo nella casa delle
bambole e certo avrà provato terrore, come me quella sera.
Anche lui”
La brusca frenata mi cancellò quel pensiero dalla testa,
dal finestrino scorsi il cartello “Clapham”, ero
arrivato.
Attraversai il paese, le poche persone che vidi per la strada mi
salutarono ed io risposi loro. Corsi a casa con la mia eredità
sottobraccio, aprii la porta e mi diressi in camera da letto. Erano
le 10 e 20 di sera, mia moglie dormiva con il piccolo Charles
accanto. Mi fermai a vedere quella scena tenerissima e mi domandai
“Perché, Perché mai l’uomo diviene così
cattivo da adulto?”
facendo il più piano possibile mi cambiai per la notte, ma
come un anno prima, non mi riuscì di chiudere occhio, optai
allora per concludere qualcosa di lasciato in sospeso. Mi diressi al
tavolo da pranzo, scostai una pila di giornali constatando che si
trattava delle vecchie copie del “the Strand” a cui fece
riferimento mia moglie prima che partissi per Luton ed aprii la
scatola metallica. La mia eredità era ancora li, come un anno
prima, ne estrassi il plico che avevo frettolosamente forzato all’
interno, e dopo le altre carte. Le disposi nuovamente in ordine e
ripresi la mia analisi li dove l’avevo interrotta.
Delle duecentotrentasei carte stenografate, riuscii a leggere solo
le date e quello che presumibilmente doveva essere l’argomento
via via trattato, vi comparivano titoli come: “ 11 gennaio 1889
- Omicidio Trepoff”, “3 febbraio 1889 –
fratelli Atkinson” , “21 febbraio 1889 - Reali olandesi,
non pubblicare fino alla morte di S.A.R. Guglielmina di
Orange-Nassau”. Iniziai a comprendere le parole del vecchio
Cullen quando mi disse che le informazioni di quelle carte potevano
risultare spiacevoli a molte persone. Feci un elenco di tutti i
titoli, segnando anche i numeri di pagina corrispondenti. Il lavoro
di catalogazione mi portò via buona parte della nottata, ma
del resto catalogare documenti, anche se di contabilità, era
stato il mio lavoro sino ad un anno prima. Finii verso l’ una
di notte e sebbene il sonno cominciasse a farsi sentire c’era
ancora il plico da esplorare, così, messi da parte i fogli
stenografati, aprii il plico estraendo le cinque pagine che
conteneva, legate insieme da una larga fettuccia bianca fermata con
un nodo. Sciolsi il nodo e misi da parte il nastro, poi disposi uno
dopo l’altro i fogli davanti a me. Uno di essi attirò la
mia attenzione in modo peculiare: si trattava di un formato speciale,
diverso da un comune foglio da lettera e realizzato con una spessa
carta di qualità decisamente buona. In testa al foglio era
raffigurata una lampada di terracotta affiancata dalle cifre D C e
sotto l’indirizzo: “142, Pall Mall, Londra”. Il
testo era scritto in una grafia tonda, nitida e ben calcata, ma non
era scritto in inglese. La data riportata era: “Londra, 6
maggio 1891”, la firma era una minuscola serie di letterine
tonde messe in riga a formare la parola “Verner”. Sull’
altro lato del foglio, c’era quella che presumibilmente doveva
essere una risposta, la cui data era: “Greve in Chianti, 15
maggio 1891”, redatta in due grafie e due lingue distinte, di
cui una inglese. La parte di testo per me comprensibile riportava:
“Caro cugino,
Non è sicuro far girare troppe carte, la posta potrebbe
essere intercettata, è per questo che lo zio ed io rispondiamo
sul retro della lettera ed è per questo che ho intenzione di
limitare al massimo ogni comunicazione. Rimarrò qui in
silenzio per un po’, almeno fin quando non si saranno calmate
le acque, non scrivere più, ne va della mia vita, quella gente
è pericolosa, ed anche se il loro affare è sfumato
vorranno di certo eliminare ogni prova che possa ricondurli alla
faccenda del porto.
Ti ringrazio per quello che hai fatto, ti lascio qualche
istruzione per mio fratello, fagliele leggere.
1)
Contatta W, ho bisogno di essere creduto morto per qualche anno, lui
sa come fare.
2)
Continua a pagare l’affitto di casa mia. Accertati che tutto
rimanga così come l’ho lasciato, se la signora H.
dovesse far storie inventati qualcosa, qualsiasi cosa, ma tutto deve
assolutamente restare come è.
3)
Fai un bonifico internazionale di 1000 sterline sul conto corrente
795/32 del Banco di Toscana, filiale n° 1, 16, piazza della
Signoria, Firenze. Ho urgente bisogno di denaro che mi dovrà
bastare per un periodo piuttosto lungo.
4)
Distruggi questa lettera
Grazie ancora, vi farò sapere in anticipo quando ritornerò
Vostro, S.”
Certo la storia si faceva molto intricata, su un vecchio atlante
provai a cercare la città da cui era stata datata la risposta
firmata dal signor “S”, ma non riuscii a trovarla.
Tuttavia, adesso sapevo che questo misterioso signore era il cugino
del signor Verner, ma quello dell’ effige in testa alla pagina
rimase comunque un enigma irrisolto.
All’ improvviso ebbi la sensazione di aver avuto un deja-vu,
quell’ immagine di lanterna con le cifre D C non mi era nuova,
chiusi gli occhi e cercai il più possibile di ricordare.
Provai la stessa sensazione che sperimentano coloro che per la prima
volta si cimentano ad infilare un filo nella cruna di un ago, il
filo, la cui estremità sfrangiata si sfioccava in tante fibre,
era il mio ricordo di quella strana immagine e la cruna, solido
pertugio d’acciaio, la mia mente. Ogni volta che provavo ad
afferrare il ricordo, esso mi sfuggiva restituendomi immagini di
distruzione, rumori di bombardamenti e ricordi di quell’ ultima
notte a Luton. Poi d’improvviso tutto fu nitido. I sigilli di
ceralacca che chiudevano il plico. Confrontai le due immagini ed ebbi
la conferma che volevo, adesso bastava solo tradurre il resto della
lettera oppure recarsi di persona al 142 di Pall Mall per chiedere
informazioni.
La mia curiosità per quella sera non fu affatto appagata,
il velo di mistero attorno al bizzarro medico che mi aveva creato suo
erede ed al suo ancor più bizzarro seguito di amici, andava
infittendosi, mi era scoppiato un terribile mal di testa a furia di
lanciare la mia mente in tentativi di collegare tra loro i Re dei
Paesi Bassi, C D, il signor Verner ed il suo parente, il signor “S”.
Decisi, quindi, di andare a letto trascurando le altre tre
pagine del plico per evitare di acuire i dolorosi sintomi della
mia emicrania.
Mi distesi piano, cercando di non svegliare il piccolo Charles che
dormiva vicino a Bess, ma non ci riuscii e per un attimo confesso di
aver preferito le sirene della contraerea al fragoroso pianto di mio
figlio. Bess si svegliò ed in breve ridusse al silenzio il
pargolo sommergendolo con tutta la dolcezza che solo lei poteva
usare, la vidi sorridermi nella penombra e dirmi:
“Come è andata la caccia?”
“Bene, erano li, li ho classificati, ma non sono riuscito a
leggere quasi nulla è scritto in una lingua che non conosco,
forse in italiano.”
Bess mi disse qualcosa, ma io sprofondai in un sonno
piacevolissimo che pose fine al mio mal di testa.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Capitolo IV - La febbre, la pozione magica e l’interprete italiana ***
CAPITOLO IV – La febbre, la pozione magica e l’interprete
italiana
Mi svegliai il giorno dopo con il sole già alto e nessuno
vicino a me. Avevo gli occhi gonfi e la testa pesante. Provai ad
alzarmi dal letto con l’unico risultato di rovinare nuovamente
sul materasso dopo aver fatto una piroetta. Non mi sentivo molto
bene, chiamai Bess la quale venne con in braccio il piccolo Charles.
Vedendomi in quello stato pietoso e dopo avermi messo una mano sulla
fronte sentenziò:
“Hai la febbre. Sam, sei riuscito ad ammalarti ad agosto!
Come hai fatto?”
“Non lo so, ma sto male, Bess”
“No, ma stai tranquillo, non è influenza” mi
rassicurò mia moglie “Sicuramente è l’eccessiva
fatica di questi giorni che ti ha ridotto così” uscì
dalla stanza continuando a parlare “Adesso vado a cercare
qualcosa per rimetterti a posto, tu aspetta qui, non ti muovere, vado
anche da Christiansen a dirgli che oggi non potrai essere di
servizio” riapparve nella stanza, vestita di tutto punto, dopo
pochi minuti “mi raccomando, non ti muovere!”
Era improbabile, e posso garantire che lo è tutt’oggi,
tentare di fermare mia moglie. Il suo temperamento mediterraneo,
affatto mitigato da ormai quasi quarant’anni di cittadinanza
britannica, la porta spesso a travolgere, anche fisicamente,
qualsiasi cosa o persona che non si allinei al suo pensiero. Quindi
nemmeno mi sforzai di chiederle dove andasse, chiusi gli occhi e mi
riaddormentai.
Mi risvegliai quando una goccia d’acqua ghiacciata iniziò
a colarmi lungo il collo. Aprii gli occhi e scorsi mia madre alle
prese con delle pezze bagnate che mi disponeva sulla fronte ad
intervalli regolari. Sorrisi e le chiesi
“Sai dove sia Bess?”
“Si, è tornata poco fa, è con tuo padre in
cantina”
“In cantina?”
“Si, ha detto che le serviva del vino”
“Per cosa?”
La risposta stava per arrivare, un intenso profumo fruttato
precedette nella camera la bella figura di Bess, la quale comparve
con una candida e grande tazza in mano.
“Eccoci qui, questa è la cura” si
avvicinò al comodino e vi posò sopra la tazza, mentre
io e mia madre la osservavamo curiosi.
“Sam, dove sono i fiammiferi?”
“I fiammiferi? Nella tasca della giacca, perché?”
Senza rispondere, Bess trovò la scatola di zolfanelli, ne
accese uno e lo accostò al bordo della tazza. Una fiamma di
almeno sei pollici si levò dal candido contenitore in
ceramica, estinguendosi spontaneamente dopo poco. Mia madre,
inorridita, si levò in piedi gridando:
“Che diavoleria è mai questa? Non vorrai far bere
quella cosa al mio Sam?”
Bess si voltò verso mia madre, dopo avermi avvicinato la
tazza e disse pacifica:
“Signora, si tratta di un…tonico, la ricetta me l’ha
insegnata mia nonna. Bevi, Sam, ti sentirai subito meglio”
Una sostanza di colore marrone scuro e di consistenza spessa,
riposava nella bianca tazza di ceramica, l’odore era
decisamente invitante, ma non appena iniziai a berla, sentii come un
fuoco divorarmi i visceri. Feci per abbassare la tazza, ma mia moglie
mi fermò forzandomi a trangugiare tutto sino all’ ultima
goccia.
“Ma cosa diamine c’è qui dentro!” urlai.
Dopo qualche minuto sentii che il mal di testa stava diminuendo,
mentre un’onda di calore, dall’ addome, si propagava in
ogni fibra del mio corpo.
“Caspita, Bess, questa cosa è eccezionale, mi sento
decisamente meglio!”
“Te l’avevo detto!”
Vidi mia madre andare via perplessa, guardando con timore mia
moglie e me con apprensione
“Mi spieghi cosa c’era qui dentro?”
Chiesi con curiosità a Bess
“Ma nulla, Sam! Frutta, spezie e miele messi a bollire in un
tegame pieno di vino, quando il liquido si addensa tanto da entrare
in una tazza è pronto. Poi si toglie l’alcool in eccesso
dando fuoco con un fiammifero e si beve. Questo è il segreto
della pozione magica!”
“Quindi tu sei uscita a cercare gli ingredienti”
“Si, e li ho trovati quasi tutti, tranne uno: i chiodi di
garofano. Non so come si chiamino in inglese e quindi non li ho
neppure potuti cercare”
“Chiodidi Grofano?” ripetei incerto
“No!” sorrise Bess scandendo piano: “Chiodi –
di – garofano sono dei semi”
“Capisco, strana lingua l’italiano” Sgranai gli
occhi “Bess! Diamine, le carte, mi devi fare da interprete!”
“Cosa?”
“Si, tra le carte di Watson ce n’è una in
italiano, me la devi tradurre, portale tutte qui, te le farò
vedere”
“Calma, calma, si, già l’ho letta. Ricordi di
avermelo detto ieri sera, prima di addormentarti? Aspetta, la vado a
prendere”
Così iniziò a farsi un po’ di luce sul mistero
delle carte del dottor Watson: sulla prima facciata del foglio “della
lanterna” c’era scritto:
Londra 7 maggio 1891
Caro zio,
Vogliate perdonarmi per le poche volte che v’ho scritto
da quando sono qui a Londra.
V’è necessità che voi e la zia prestiate
soccorso ad un pover’ uomo di cui non posso dirvi oltre in
questa lettera.
Voi conoscete quant’ io sia serio, pertanto vi chiedo,
amatissimo zio, di fare ciò che vi dirò di seguito
senza indugiare minimamente su nulla. Sappiate che ogni vostra
curiosità verrà appagata presto, ma sappiate pure che
dalla celerità e dalla precisione del vostro intervento
dipende la vita di un uomo a noi tutti molto caro.
Ecco quanto vi scongiuro di fare:
Il 15 di questo mese recatevi con la carrozza chiusa al bivio
per la chiesa di san Marcellino, appena fuori Greve. Abbiate cura di
oscurare tutti i vetri e di far sì che nessuno possa
scorgere, dall’esterno, gli occupanti del mezzo.
Giunto in tal luogo attendete sino all’ultimo rintocco
del mezzodì; vi si approssimerà un uomo in condizioni
miserevoli che non parla italiano. Fatelo montare repentinamente in
carrozza e conducetelo alla vostra casa, non fermatevi per alcun
motivo. La dilettissima zia Fanny potrà fare da interprete tra
voi e quest’uomo, che vi racconterà tutta la sua
incredibile storia. Abbiate cura di lui come la avreste di me e
ragguagliatemi, vi prego, su tutte le nuove del caso.
Con eterno affetto e riconoscenza,
vostro devotissimo nipote
Horace Teofilo Verner
Sul retro, sotto la risposta redatta in inglese stava
scritto:
Nipote,
stento a credere quanto è accaduto. Un uomo, ridotto a
guisa del più emaciato mendicante, si è arrampicato
nella nostra vettura con le ultime forze che aveva, per poi cadere
svenuto sul sedile. Grazie a vostra zia Fanny, ho potuto comprendere
quanto egli dicesse ed ho scoperto, con grandissima gioia, che quel
giovane così mal’ in arnese altri non è che il
figliuolo della mia amata sorella Beatrice. Non abbiate timori,
nipote, vostro cugino è adesso circondato da cure
amorevolissime e si riavrà assai presto.
Ho poi appreso che questo ragazzo corre serissimi pericoli,
legati alla sua professione, di cui non ho, tuttavia, ancora
afferrato la natura. Di certo potrà star sereno giacchè,
fintanto che si troverà nella villa non avrà nulla da
temere.
Quanto a voi, nipote, la mia collera nei vostri confronti è
un poco scemata, tuttavia vi debbo rimproverare di non aver più
mai dato notizie di voi da quando siete partito. Non dimenticatevi
dei vostri zii, date contezza di voi e veniteci a trovare presto.
Vostro zio
Nestore Verner Targhini-Zanca
Rimasi molto dubbioso. Bess posò il foglio sul comodino,
vicino alla tazza di ceramica bianca e mi disse:
“come stai?”
“bene, solo non riesco a capire il significato di questa
lettera”
“neppure io, però adesso sarà il caso che stai
tranquillo e pensi a rimetterti”
“no, non posso, mi
mancano gli altri tre fogli, e sono sicuro che la chiave di tutto si
trova li!” .
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Capitolo V - Viaggio in Italia, parte prima ***
CAPITOLO V – Il racconto del Dott. Watson -1: Viaggio in
Italia
Avevo ragione. Appena fui in grado di poter leggere, misi
gli occhi sul manoscritto e la situazione mi fu chiara. Cullen aveva
predetto correttamente: la mia non era una eredità fortunata.
---
Perfino la più grande metropoli del mondo con tutti i suoi
innumerevoli divertimenti, può apparire tediosa allorquando la
mente sia catturata e monopolizzata da un unico pensiero fisso.
Dopo la lettera del maggio 1891 non ebbi più notizie di
Sherlock Holmes, lo immaginavo immerso nella sua prigione dorata alle
porte di Firenze mentre i suoi concittadini lo credevano morto in una
cascata svizzera.
Fu essenzialmente la mancanza d’azione, la perdita di quel
pizzico di brio e la lontananza del mio amico a spronarmi nella
realizzazione di un pensiero folle: andare a trovare Holmes.
Ammetto che, seppure sulle prime mi sarebbe bastato avere solo
qualche notizia per lettera, con il passare del tempo, mi resi conto
di avere la necessità di rivederlo di persona e di scorgere
nuovamente quella sua lunga figura che portavo bene impressa nella
memoria.
Verso la metà di gennaio del 1894, erano passati due anni
dalla precipitosa fuga del mio amico da Londra, mi recai, come
spesso facevo, a Baker street per visitare la signora Hudson e per
respirare, seduto sulla mia poltrona, quell’aria ancora carica
del forte odore del latakia1. Quel giorno in particolare
ricordo di essermi soffermato più del solito sul quadro che la
mia vecchia padrona di casa aveva posto appena sopra la mensola del
caminetto. Si trattava di un disegno a china che raffigurava le
cascate Reichembach, circondata da un drappo nero. Risi al
pensiero di cosa avrebbe potuto dire Holmes di quella immagine, ma
presto il mio goliardico umore venne stemperato dall’
insinuarsi di una sottile nostalgia. Tutti gli angoli di
quell’appartamento mi parlavano, mi raccontavano la loro storia
e mi chiedevano di ricondurli, in qualche modo, dal loro
proprietario. Il mio sguardo rimbalzava dall’ attizzatoio che
Holmes aveva raddrizzato nel caso del signor Roylott alla sua pipa di
gesso, dall’ arpione del pirata Peter ad uno dei messaggi
ricevuti dalla signora Cubitt, ancora appeso alla parete, dal
cassetto che custodiva discreto il vituperato astuccio di marocchino
e la fotografia di Irene Adler all’imponente schedario
criminale che Holmes metteva costantemente in subbuglio.
Mi parve di vederlo nuovamente inginocchiato con i fascicoli
attorno sparsi, mentre mi spiegava i risvolti artistici della sua
professione, egli stesso si definiva un artista sui generis, che
aveva acquisito il gusto per l’arte dal suo avo Vernet e lo
aveva convogliato per un canale che si avvale del ragionamento più
che delle tele.
Sorrisi pensando a quell’episodio, alla vicenda del signor
Melas, frangente in cui feci la conoscenza dell’ altra mirabile
mente di casa Holmes, Mycroft. Mi rividi come in un sogno nella “Sala
degli Stranieri” del Diogenes club mentre osservavo i fratelli
Holmes, scambiarsi battute in rapida successione in quel loro curioso
gioco della finestra.
“Mycroft!”
dissi ad alta voce d’un tratto, mentre mi incamminavo giù
per i diciassette gradini di Baker street.
“perché non ci ho pensato prima!”
La signora Hudson uscì dalla cucina al pian terreno e mi
osservò con curiosità
“va tutto bene, dottore?”
“Benissimo mia cara signora! Se glielo chiedessi con un po’
di anticipo potrebbe preparare quel suo delizioso roastbeef?”
“Si, certo” mi rispose la gentile signora alquanto
sorpresa da quella mia bizzarra richiesta
“E pensa che potrà viaggiare?”
“Chi? Io?”
“Ma no, signora! Il roastbeef!” dissi stizzito. Solo
dopo mi accorsi di aver assunto il piglio del mio amico con la povera
signora Hudson, la quale rimase a guardarmi inebetita sulla soglia di
quello che ancora continuo a chiamare “221b” mentre mi
allontanavo verso New Bond street, diretto al Pall Mall.
Ricordo che provai una sorta di eccitazione inspiegabile mentre
percorrevo le strade verso il Diogenes. La mia mente era
completamente avvolta nelle più disparate cogitazioni,
cercando di far coincidere orari ferroviari, traghetti, permessi,
visti, passaporti e ad un tratto mi resi conto del perché
Holmes rimaneva sempre muto durante le sue indagini.
Finii per distrarmi talmente tanto che arrivai quasi a Buckingham
palace, dovetti quindi tornare indietro e pensai che queste cose ad
Holmes non accadevano mai, egli accendeva e spegneva il suo cervello
a piacimento, non gli succedeva mai di dimenticare qualcosa perché
troppo immerso in un ragionamento.
Incontrai Mycroft nella “Sala degli Stranieri”, era
placidamente assiso sulla poltrona quando con stupore alzò lo
sguardo verso di me e disse:
“Adesso capisco perché Sherlock ripone tanta fiducia
in lei, il suo tempismo è encomiabile, si sieda, prego”
disse indicandomi una sedia “dobbiamo solamente aspettare mio
cugino Horace, le dobbiamo mostrare una cosa molto importante”
“Signor Holmes, temo di non afferrare, io sono qui per
chiederle un grande aiuto”
“Come? Non ha ricevuto il mio biglietto? L’ho mandato
presso il suo studio”
“No, ero uscito, ero andato…” non mi fece
finire la frase
“Ah, già! Anche lei come mio fratello è un
gironzolone che ama le lunghe passeggiate, ma dico io quale è
il vantaggio di abitare e lavorare nello stesso palazzo se poi si va
in giro ad affaticarsi camminando per strada? Io, dottore, proprio
non la capisco! Se poi penso a quello che mi aspetta tra poco…!”
disse portandosi una mano alla fronte. “Comunque, cosa voleva
chiedermi?”
Trattenni un sorriso pensando a quando Sherlock Holmes parlando
del fratello diceva: “egli è completamente privo di
energie, è troppo pigro, preferisce ritenere errata una sua
deduzione piuttosto che alzarsi e verificarla personalmente”.
“ Volevo chiederle se poteva aiutarmi ad andare da suo
fratello!” dissi con un sorriso imbarazzato
“Mio buon dottore” rispose il paffuto funzionario “è
quello che vogliamo tutti, l’ho fatta chiamare apposta! Si
sieda, prenda un sigaro, dobbiamo aspettare Horace, come sa anche lui
è un medico ed avrà certo avuto un’ urgenza. Nel
mentre è meglio non affaticare la mente”
Se fino ad un momento prima avevo provato il furor holmesianum
adesso ero tornato ad essere, o perlomeno a sentirmi, l’ottuso
Epimeteo di sempre. Non capivo più nulla, quindi decisi di
sedermi e di attendere il dottor Horace Teofilo Verner, il cugino
italiano dei fratelli Holmes.
Egli, che più in avanti avrebbe rilevato il mio studio di
Kensington, era l’ultimo discendente del ramo italiano dei
Vernet, nato nel 1735, durante il periodo del soggiorno romano del
celebre paesaggista francese. A seguito di una fortunata serie
di matrimoni con la nobiltà toscana, i Vernet si trasferirono
da Roma per andare a vivere in un latifondo posto nelle immediate
vicinanze di Firenze.
In anni più recenti, durante le invasioni napoleoniche, il
nonno del mio collega, si era visto espropriato di una notevole quota
del suo patrimonio fondiario. Caduto l’Imperatore, poi, aveva
mutato il suo nome da “Vernet” in un più
germanico “Verner”, tanto per evitare di rimanere
vittima della diffusa francofobia, quanto per allinearsi con la nuova
classe dirigente dei granduchi d’Asburgo-Lorena nel tentativo
di riottenere almeno una parte dei possedimenti confiscati.
Il dottor Verner, con la sua esile figura, entrò nella sala
con passo silenzioso, poi, chiusa la porta dietro di se, disse:
“E’ incredibile, in questo posto si ha paura di
disturbare anche i posacenere!”
“Evidentemente, cuginetto, non sei abituato alla calma tu
che vieni da un paese tanto festaiolo”
“Mycroft, carissimo, anche tu vieni da un paese festaiolo,
come me, per metà”
“Si, ma io ho acquisito solo la metà silenziosa”
disse con un sorrisetto Holmes.
“Ah!” sospirò il mio collega “Oh!
Watson!” disse quando si accorse della mia presenza
“stavamo giusto aspettando lei!”
“Che combinazione, anche io stavo aspettando lei, Verner”
“Oh, si, mi scusi per il ritardo, ma ho avuto un’urgenza…
comunque… Mycroft ed io volevamo farle vedere questo, è
arrivato stamane con la posta, lo manda Sherlock.”
Guardai il foglio che Verner mi porgeva ed inorridii nel rivedere
gli omini danzanti del signor Cubitt.
“Questo è un codice con cui Holmes ed io ci siamo
scontrati tempo fa” indugiai “dovrei andare a cercare nei
miei diari la chiave per…” ovviamente Mycroft non mi
fece finire la frase
“C’è scritto: “ho bisogno di aiuto per
fuggire, importante. S.” Il messaggio è molto corto per
limitare le possibilità di decifrarlo a chiunque non sia in
possesso della chiave” disse Holmes quasi sbadigliando
“Ah, quindi lei conosce il codice degli omini danzanti!”
dissi io ingenuamente ed a questa mia domanda Mycroft scosse il capo
lentamente, portandosi una mano alla fronte. Per fortuna Verner venne
in mio aiuto:
“No, collega, sa come sono fatti i fratellini Holmes, vero?
Non esiste codice che loro non sappiano decifrare, quando l’ho
visto ho pensato ad uno scherzo di mio zio, come vede, infatti il
francobollo è italiano e l’annullo è di Firenze”
indicando Mycroft seduto “poi quel valent’uomo che vede
seduto li, mi ha detto che era un messaggio di Sherlock”.
“Oh, e quindi dobbiamo andare da lui!”
“Ma certo” disse Verner “è per questo che
Mycroft è di umore più nero del solito, non l’ha
capito? Solo il pensiero di farsi tremila chilometri tra andata e
ritorno lo fa sentir male!”
“A quanto corrisponde un chilometro?” chiesi io
“Più o meno mezzo miglio” rispose Verner “
tutto il viaggio saranno millesettecento miglia grosso modo”
“Non è nulla, Verner! Dopo il viaggio di ritorno da
Herat questa sarà poco più che una passeggiata!”
“Ottimo, Watson!” disse Verner sorridendo “e tu,
cugino, che ne dici?”
Sentendoci parlare così, Mycroft guardò entrambi:
“Non potreste portare voi i miei saluti a Sherlock?”
“Perfetto, sei dei nostri, allora! Ho già preparato
tutto, partiremo dopodomani, alle quattro del mattino c’è
un treno per Plymouth, da li il traghetto per Calais partirà
alle sei e mezza del mattino, dopodiché prenderemo il nuovo
treno rapido, l’Orient Express, fino a Venezia. Da li dovremmo
trovare un treno per raggiungere Bologna, prendere la ferrovia
Porrettana ed arrivare a Firenze. Il viaggio durerà
pressappoco un paio di giorni.” Disse Verner fregandosi le mani
“Preparate i bagagli, ci vedremo alla stazione Victoria
dopodomani alle tre e mezza. Watson, venga armato, non si sa mai.”
“Oh, certo, si! Ma come facciamo per i documenti? Per i
passaporti?”
“Sentito il dottore, cuginetto?” cinguettò
Verner all’ indirizzo di Mycroft, il quale rispose gravemente:
“L’Amministrazione Britannica non consente un uso
privato delle risorse statali. Io sono un funzionario del Governo e
la mia opera non è volta ad appagare le necessità dei
singoli individui”
“Mycroft, capisco che non hai nessuna voglia di muoverti dal
tuo club, ma si tratta di tuo fratello! Sono sicuro che se i il
dottor Watson necessita di un visto sul passaporto tu saprai
farglielo avere in poche ore, vero?”
Un grugnito baritonale fu la risposta, che, a posteriori, si
rivelò affermativa.
La pernice al forno, sapientemente accompagnata da uno Chablis2
del 1879 era un lontano ricordo. Eravamo scesi da poco a Venezia,
abbandonando i lussi dell’ Orient Express per salire su di un
più modesto convoglio in direzione di Bologna. Al paesaggio
gentile e delicato della campagna francese, che avevamo visto il
pomeriggio precedente, si era sostituito un pianoro vastissimo invaso
da una fitta nebbia, da cui spuntavano di tanto in tanto degli uomini
vestiti con pesanti tabarri di lana cotta. Verner, il nostro
Cicerone, ci spiegò che quella era la pianura emiliana, la
quale d’estate sapeva essere tanto bella ed affascinante quanto
fosca ed oscura d’inverno.
Arrivammo a Firenze alle sei di sera del 17 gennaio 1894, Mycroft,
esausto ed ancora più indispettito dall’ enorme fatica
che per lui aveva rappresentato un così lungo viaggio, cercò
di convincerci che sarebbe stato opportuno dormire in città
per poi recarsi da Holmes il giorno dopo. Naturalmente io ero di
tutt’altro avviso, ma non avevo una confidenza tale da potermi
permettere di imporre la mia opinione. Per fortuna Verner convinse il
cugino della assoluta necessità di un nostro tempestivo
intervento a villa Targhini così come era stato richiesto dal
mio amico.
Prendemmo un fiacre, una carrozza pubblica più grande e
comoda delle nostre carrozze londinesi, nella piazza di Santa Maria
Novella e ci dirigemmo per la via Chiantigiana verso la nostra meta.
Era già molto scuro e se almeno nella città potevamo
godere di una flebile illuminazione artificiale, nella campagna
regnava il buio più pesto e le uniche luci a solcare quel mare
oscuro erano i fanali della nostra carrozza. Di tanto in tanto
attraversavamo borghi silenziosi ed io mi sporgevo dal finestrino per
respirare quell’ aria così penetrante e per osservare
qualcosa del paesaggio attorno a me. Mycroft era taciturno ed
imbronciato, seduto nell’ angolo sul divano di logoro cuoio,
mentre Verner, con l’entusiasmo tipico di chi ritorna dopo
tanto tempo a casa propria, snocciolava i nomi delle contrade che
attraversavamo, indicandomi ora questo ora quel posto, che nel buio
della notte non riuscivo a scorgere.
Dopo quasi una mezz’ora fummo davanti un bel cancello di
ferro battuto ai lati del quale stavano, incise su ampie superfici di
marmo le parole “ VILLA TARGHINI – ZANCA”. Il
nostro viaggio era appena finito, ma la grande avventura in cui ci
saremmo imbattuti tutti quanti era appena agli inizi.
Il nostro movimento davanti al cancello della villa, attirò
uno dei guardiani, che ci venne incontro con una poco amichevole
espressione ed un fucile da caccia, imbracciato in maniera
decisamente ostile. Verner ed il guardiano si scambiarono poche
parole e subito il cancello della villa fu aperto. Fummo fatti
entrare, Mycroft ed io facemmo la conoscenza del barone Verner
Targhini-Zanca e della sua amabile signora, nostra connazionale, la
baronessa Fanny.
Durante i convenevoli e le presentazioni di rito, una lunga
figura, avvolta in una vestaglia rossa, si appalesò alla
nostra vista con la noncuranza del più perfetto dandy.
“E voi cosa ci fate qui?” disse Sherlock Holmes con un
espressione quasi irata
“Credimi Sherlock, non sarei venuto per nulla al mondo.
Avrei senz’altro preferito attenderti fedelmente sulla poltrona
del mio club” rispose placido Mycroft
Guardai il funzionario con un certo disappunto e dissi “Holmes,
ma non è stato lei a chiamarci?”
“Io? Watson, ma cosa dice?” rispose il mio amico
avvicinandosi a noi
“Sherlock, tu ci hai mandato questo qui e noi siamo venuti!”
Concluse Verner mostrando il messaggio arrivato al Diogenes “Guarda”
continuò “c’era il francobollo italiano, il timbro
è di Firenze… chi altri poteva essere?”
“Non io! Non io, accidenti!” urlò Holmes
incrociando le braccia e mettendosi nervosamente a camminare per il
corridoio. In un angolo la baronessa Fanny traduceva le parole che ci
scambiavamo e le ripeteva all’ orecchio del marito, sui cui
lineamenti si potevano cogliere le nostre stesse espressioni con
qualche attimo di ritardo.
“Il messaggio degli omini di Cubitt.” disse Holmes
sospirando “Mycroft, devi proprio avere una brutta opinione di
tuo fratello per credere che io usi un codice come questo per
comunicare con voi” si girò verso di me
“Dottore, come sempre devo ringraziarla di tutta la
pubblicità che lei ha fatto alla mia professione con i sui
racconti. Come debbo ripeterle che non deve divulgare i dettagli! Non
basta aver cambiato il numero civico di dove abito, anche perché,
non essendoci duecento numeri su Baker street, anche un idiota
capirebbe che vivo al numero ventuno!” ci fu una pausa che
parve lunga decenni “Ma al di la di questo” disse
rivolgendosi a tutti con rassegnazione “siete caduti in una
trappola” appallottolò il messaggio degli omini che
aveva ancora in mano “ ed avete condannato a morte tutti noi”.
Una cortina di mestizia calò sugli sguardi di tutti i
presenti. L’anziano barone Verner impartì un ordine alla
servitù, che prontamente uscì dalla sala, poi si
avvicinò ad Holmes e gli mise una mano sulla spalla chiamando
a se la moglie. Anche in quel momento così tragico, in cui la
vita di ognuno era appesa ad un filo, non potei fare a meno di
cogliere quel quadro bizzarro in cui l’anziano nobile, per
parlare con il nipote, si avvaleva della traduzione della moglie.
“Vedrai che tutto si sistemerà. I guardiani
piantoneranno gli ingressi della villa ininterrottamente. Ho dato
disposizione che vengano usate anche le mute di segugi che di norma
usiamo per la caccia. Nessuno potrà avvicinarsi alla villa
senza essere visto” Così disse la baronessa Fanny
traducendo le parole del marito, ma Holmes replicò con un
amaro sorriso:
“Il nostro nemico è ben più grande di un
semplice sicario. Abbiamo contro tutto il Governo di questa nazione.
Potrebbe darsi, che questa volta siamo veramente arrivati al
capolinea. Mio caro Boswell” disse il mio amico stringendomi
una spalla “ Non è colpa sua, sappia che non le serbo
rancore”
---
Londra, 6 luglio 1930
Caro erede,
questa mattina un colpo apoplettico ha seriamente compromesso le
mie già precarie condizioni, sento che, con molta probabilità,
non arriverò a superare la nottata. Non odiarmi per aver
interrotto così la tua lettura, ma sappi che ti scrivo queste
righe con il preciso intento di ammonirti.
Non so chi tu sia, né lo voglio sapere. Sono certo che il
Caso sceglierà la migliore persona possibile. Ti devo
avvertire, però, su una cosa importante, non proseguire la
lettura di questa storia se ti manca il coraggio. Se vorrai leggere
oltre, sappi che molte persone saranno pronte ad impedirti di farlo.
Sappi che ho mentito su molte cose nella mia vita, sempre a fin di
bene, ma adesso sto dicendo la verità, se vorrai leggere oltre
chiedi di Horace Verner o, visto che saranno passati ormai molti
anni, di suo figlio presso il Diogenes club, dì loro che sei
“l’erede del dottor Hamish”. Usa queste parole ed
otterrai quel che cerchi. Che Dio t’aiuti.
J. H. Watson
1, Latakia : Tabacco di origine cipriota
dall’odore estremamente forte e persistente, componente della
classica english mixture
2, Chablis:
vino bianco francese prodotto in Borgogna
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Capitolo VI - Alcune considerazioni ***
CAPITOLO VI – Considerazioni
Lessi d’un fiato il racconto del dottore e mi scontrai
contro quell’ interruzione come contro un muro di mattoni.
L’unica mia speranza era Bess: la grande esperta delle storie
di Holmes.
“Ho letto le pagine che il dottore aveva scritto” le
dissi quella stessa sera a cena “a quanto pare fanno parte di
uno dei racconti inediti, ma la storia non è completa.”
“Quando è stata scritta?”
“non molto tempo fa, immagino, ma parla di avvenimenti
accaduti nel gennaio 1894”
“Impossibile, controlla meglio, nel gennaio ’94 Holmes
era creduto morto da tutti, forse avrai letto male, come minimo
dovrebbe essere maggio 1894”
“no, Bess. Gennaio 1894”
Mia moglie parve confusa
“tu sai cosa sia lo Hiatus?”
“no, francamente, no”
“E’ il nome che si da ad un periodo che va tra il 1891
ed il 1894. Periodo in cui Sherlock Holmes viene creduto defunto
nelle cascate Reichembach, in svizzera, dopo un mortale duello con il
temibile professor James Moriarty”
“Ah, si, queste cascate vengono nominate da Watson”
cercai il passo del racconto “ecco, ascolta: << lo
immaginavo immerso nella sua prigione dorata alle porte di Firenze
mentre i suoi concittadini lo credevano morto in una cascata
svizzera>> Quindi Watson sapeva che era vivo!”
Bess parve sempre più stupita
“No, lui lo rincontrò nell’ avventura della
casa vuota, dopo tre anni. Anche Watson era convinto che Holmes fosse
morto. Non capisco, ma sei sicuro che quella roba l’abbia
scritta Watson? Anche perché Holmes non rimase a Firenze, ma
viaggiò per mezzo mondo, pensa che andò addirittura in
Tibet!”
Evidentemente mi trovavo di fronte ad un qualcosa di veramente
anomalo. Le parole di Oswald Cullen, l’anziano cassiere della
banca in cui lavoravo, risuonarono ancora nelle mie orecchie:
“Signor Donovan, non le è stato fatto un bel
regalo e francamente non vorrei trovarmi al suo posto”
No, non mi era stato fatto un bel regalo affatto. In principio
avevo creduto di trovarmi di fronte a qualche raccontino poliziesco
partorito da una mente molto creativa, ma mi resi conto subito che
quanto avevo per le mani non era frutto di una invenzione, era una
realtà, una verità che a molti ancora poteva risultare
sgradita, pur dopo quasi cinquanta anni.
Era evidente che, la prima cosa da fare era informarsi sulla vita
del signor Holmes, dei suoi amici e dei parenti. Nessuno era più
vocato a questo compito della mia adorabile moglie.
In solo due mesi ricevetti una buona istruzione su tutto quello
che viene definito “Canone holmesiano” ovvero tutte le
opere scritte dal dottor Watson ed apparse sullo Strand. Notai
moltissimi dettagli discrepanti tra un racconto e l’altro,
specialmente per quanto riguardava le date. Quando poi andai ad
incrociare i dati desunti dal “Canone” con quelli che si
potevano estrapolare dai racconti della mia “eredità”,
in particolare con il mutilo resoconto del viaggio in Italia,
emersero delle divergenze davvero imbarazzanti:
1-
Holmes e Watson abitano al 221b di Baker street secondo la versione
ufficiale, ma per ammissione dello stesso Watson, nel “viaggio
in Italia”, quello non è il loro vero indirizzo. Questa
informazione la si può desumere anche dall’ “avventura
della casa vuota”. Questo racconto, sebbene forse frutto dell’
immaginazione di Watson, riporta un tragitto che i due amici
percorrono per le strade di Londra, seguendo questo percorso ci si
ritrova all’ altezza del civico 22 di Baker street, la sede,
appunto, della casa vuota. Ne segue che l’appartamento di
Holmes è al civico 21, dall’altra parte della strada.
2-
Holmes proviene da una famiglia benestante di estrazione rurale,
originaria del Sussex. Non si precisa altro nella “avventura
dell’ interprete greco” se non che Holmes è il
discendente di un pittore francese, Horace Verenet. Tempo dopo, nell’
avventura del “costruttore di Norwood” fa la sua comparsa
un oscuro individuo, Verner, che Watson dice di non conoscere e
che poi si rivela un parente di Holmes. Eppure dal “viaggio in
Italia” si apprende che Verner e Watson si conoscono benissimo
e non solo, si apprende anche che Verner è un nobile italiano
e che la sua zia, Beatrice, è la madre dei fratelli Holmes.
3-
Holmes muore in una cascata svizzera lottando con il suo acerrimo
nemico Moriarty. Come è possibile che una rivalità così
aspra venga a comparire solo in un breve resoconto di poche pagine
senza mai un minimo riferimento durante le precedenti avventure?
Inoltre nelle lettere si parla di un non meglio precisato affaire
o “scandalo” come causa della fuga precipitosa di Holmes
da Londra, fuga che deve essere creduta una morte.
Alla luce di queste informazioni era perciò possibile
dedurre che:
1– Watson alterava intenzionalmente molti dei dettagli che
avrebbero potuto ricondurre ad elementi sulla vita privata sua e di
Holmes.
2- Holmes non è mai stato alle cascate Raichembach e non ha
mai lottato contro un professore di matematica di nome James Moriarty
3- Holmes, tra il 1891 ed il 1894 è stato coinvolto in un’
indagine su scala internazionale relativa ad un presunto scandalo di
cui non conosciamo i dettagli. A seguito di questa indagine è
dovuto scappare da Londra per rifugiarsi a Firenze, da dove ha
continuato ad occuparsi del caso, con il vantaggio di essere creduto
morto.
Nel febbraio 1942 tutta l’Europa, ad eccezione della Gran
Bretagna, era dominata dal giogo tedesco. Il fronte russo dava
parecchie noie alla Wermacht, nonostante l’imponente
mobilitazione del piano Brbarossa, l’esrcito russo, decisamente
inferiore per risorse e qualità dei mezzi, offriva una strenua
resistenza, come del resto aveva già fatto in occasione dell’
invasione napoleonica.
La sede della banca presso cui lavoravo era stata ricostruita e
venni reintegrato in servizio con la promozione a capo commesso per
meriti civili in tempo di guerra.
Fu in una giornata dei primi di marzo, verso le sei del
pomeriggio, che, finito il lavoro, volli andare a dare un’
occhiata a Baker street per vedere i luoghi da cui partivano tutti i
racconti di Watson.
Avevo come riferimento la descrizione della “casa vuota”
ed il percorso fatto da Watson e Holmes per arrivarci. Raggiunsi
quindi George street, girai per Kendall place e mi trovai esattamente
dietro il numero 22 di Baker street. Entrai nell’ edificio per
la porta sul retro sperando di non essere visto da nessuno ed uscii
dall’ ingresso che dava sulla strada. La sorpresa fu amara, il
palazzo georgiano che aveva ospitato le avventure del famoso
investigatore era un povero cumulo di macerie, pensai: “proprio
come la mia casa a Luton” (Per la cronaca segnalo che al
momento della stesura del presente racconto, sul terreno del numero
21 si trova la filiale di una banca multinazionale1).
L’appartamento da cui ero appena uscito era esattamente quello
descritto da Watson, bianco, con una lunetta di vetro sopra la porta.
Non potevo sbagliarmi, ero arrivato all’ inizio della mia
personale indagine su Sherlock Holmes.
Da un telefono pubblico chiamai il pub di Coleman, l’unico a
Clapham ad avere un telefono, perché avvertisse Bess che quel
giorno avrei tardato a rientrare. Era infatti nei miei piani di
andare al
142 di Pall Mall, la sede del Diogenes Club, per chiedere notizie
di Horace Verner o di un suo erede in grado di fornirmi il racconto
mancante. Con un taxi impiegai qualche minuto ad arrivare a
destinazione, non potei fare a meno di sorridere pensando ad Holmes
che si appollaiava dietro le carrozze o che impiegava venti minuti
per andare da un quartiere all’ altro di Londra. Giunto a
destinazione, scesi e bussai alla porta.
Mi venne ad aprire un signore anziano con abiti dimessi, molto
probabilmente un custode, a cui chiesi:
“E’ questo il Diogenes Club?”
“Questo era il Diogenes, signore. Adesso è solo la
sede degli archivi del Reform Club2.”
“Stavo cercando il signor Verner, sa dove posso trovarlo?”
“Verner?” il vecchio si passò una mano sulla
guancia mal rasata “Beh, credo che lo potrà trovare ad
Highgate se non ha deciso di essere sepolto in patria” il
vecchio sorrise mostrando numerose finestre tra i suoi denti “sa,
signore, era italiano, purtroppo è morto prima di vedere
quello che stiamo combinando ad i suoi amici in nord Africa”
Rise sguaiatamente, il vegliardo, guadagnandosi tutto il mio
disprezzo
“Non sa se aveva dei figli?” chiesi freddamente
“Si, forse uno, un certo… oh, non ho granchè
memoria signore” disse sorridendo viscidamente, al che gli
tirai una moneta e lui riprese a parlare
“Oh, si adesso ricordo! Si chiama Jorge Horace Verner”
si passò una mano in testa “Abita a Glastonbury, nel
Sommerset”
“Non è che per caso ricorda anche la strada?”
“Ma certo signore, 23 Old Temple street.”
A marzo presi tre giorni di ferie dal lavoro, deciso a godermi una
gita con la mia famiglia, in un incantevole posto della Cornovaglia,
noto per il suo clima delicato ed il paesaggio pieno di sole:
Glastonbury.
1, sulla ubicazione del 221b di Baker street confronta il
bellissimo articolo a questo indirizzo:
http://www.unostudioinholmes.org/case.htm
2, Reform
Club
celebre club londinese con sede in Pall Mall
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Capitolo VII - Il racconto del giovane Verner ***
CAPITOLO VII – Il racconto del giovane Verner
Forse a causa della solitaria torre che da tempo immemorabile si
erge sulla collina avvolta dalle nebbie, forse per l’antica
abbazia in rovina che ricorda un dipinto di Friedrich1 o
forse a causa del Jerusalem di William Blake2, Glastonbury
emana un fascino ieratico, lontano dal tempo corrente. In questi
luoghi non ci si stupirebbe di vedere Re Artù camminare per la
città o Merlino raccogliere l’acqua dal Chalice Well3,
certo al giorno d’oggi questo posto è divenuto uno dei
tanti ritrovi dei cosiddetti “figli dei fiori”, ma all’
epoca dei fatti che sto raccontando era un bellissimo paesino che
discretamente raccontava al viaggiatore il suo grande bagaglio di
leggende.
Alloggiavamo al Pilgrim’s tavern, una vecchia locanda che
non credo esista ancora. Era un posto semplice, ma pulito e mantenuto
in ordine da una cortese signora che provvedeva con solerzia a tutte
le necessità dei suoi ospiti. La mattina successiva al nostro
arrivo lasciai Bess e Charles a fare colazione e chiesi alla
proprietaria le indicazioni per Old Temple street. Ricordo che vi
arrivai con semplicità, era una piccola strada in discesa al
termine della quale, in lontananza, si scorgevano le rovine del
monastero francescano fatto chiudere da Enrico VIII. Al numero 23
trovai un portoncino laccato di verde, con sopra una grande maniglia
di lucido ottone, non c’erano targhe o nomi.
Bussai ed una signora anziana, vestita con un abito non più
di moda da almeno cinquant’anni, mi disse con voce piana e
ferma.
“Desidera?”
“Buongiorno, sono il signor Donovan, dovrei parlare con il
signor Jorge Horace Verner”
“Il barone Verner non può riceverla, buona giornata”
rispose freddamente la signora chiudendomi la porta in faccia. A
questo punto mi tornarono in mente le parole dell’ anziano
Cullen: “Non le è stato fatto un bel regalo”
se avessi considerato anche il monito pronunciato dal dottor Watson
alla fine del suo racconto mutilo, avrei potuto concludere dicendo:
“Il Fato è contro di me, meglio non andare oltre”
ma, giunto a quel punto, la mia curiosità fu talmente tanta,
da spingermi ad un gesto molto poco educato. Bussai a pugno chiuso e
pesantemente alla piccola porta con il risultato di richiamare non
solo l’anziana signora sulla soglia, ma anche l’attenzione
di qualche passante.
“Come si permette ad usare questa invadenza? Vada via o
chiamerò le guardie!” tuonò la signora. Io per
tutta risposta dissi:
“Dica al barone che io sono l’erede del dottor Hamish”
Il portoncino verde si chiuse sonoramente per riaprirsi dopo pochi
minuti. L’anziana domestica mi introdusse agli ambienti
interni, dai quali proveniva una musica di pianoforte.
“Il barone suona?” chiesi alla domestica al solo fine
di rompere il ghiaccio.
“La prego di fare silenzio!” mi rispose la vecchia con
molto poco garbo
Stetti zitto ed attesi fuori da quello che presumibilmente doveva
essere lo studio del barone Verner. La musica cessò, udii
delle frasi ed una risatina vivace provenire dall’ interno
della stanza. Dopo poco, sulla soglia, vidi comparire la figura di
una giovane ragazza, di statura assai minuta, completamente
infagottata in un vestito pieno di orpelli.
“Grazie, sir, per la pazienza che avete con me. Mi
raccomando, dormite e cercate di mangiare!”
Dietro la giovane comparve la figura di un uomo molto robusto,
alto pressappoco sei piedi , una figura pacifica, ma con tratti che
certo non si sarebbero potuti definire inglesi. Doveva essere il
barone Verner, era di carnagione scura, indossava una pesante
vestaglia da camera di colore verde ed aveva una gran massa di
capelli nero corvino in testa. Il barone prese la mano della
signorina e si chinò per baciarla dicendo:
“Miss, può star certa che lo farò, glielo
prometto! Domani sarò qui ad attenderla”
Dopo questo la signorina si avviò con passo assai allegro
verso l’uscita, mentre il barone si avvicinò a me
presentandosi:
“Salve, sono il barone Jorge Horace Verner” disse
porgendomi la mano in modo assai cordiale “ed immagino che lei
sia l’erede designato dal fato, vero?”
“Immagino di si, signor barone, il mio nome è Samuel
Donovan, sono un impiegato di banca”
lo sguardo del nobile si fece sospettoso
“per quale Istituto lavora, signor Donovan?”
“per la banca di Londra, signore, la stessa filiale in cui
il dottor Watson aveva la sua cassetta di sicurezza” sulle
labbra del barone tornò un sorriso sereno
“La filiale di Lombard street, immagino, no?”
“Esattamente signore”
“Quindi lei conosce la Glynn & Mills al numero 67?”
“Beh, signore, quell’ istituto fallì molti anni
prima che io mi impiegassi alla banca di Londra, non l’ho mai
vista personalmente”
“Ovvio, caro Donovan, ma lei sa perché quella banca
fallì?”
“A dire il vero, no, signore, ma io sono qui per…”
“Caro Donovan” disse il barone sorridendo e facendomi
cenno di accomodarmi “lei non lo sa, ma è qui
esattamente per sapere questo!”
L’aria frivola e leggera dell’ ospite non fecero altro
che confondere ancora di più i miei pensieri, mi accomodai in
una vecchia poltrona di cuoio chiaro ed il mio sguardo si posò
su un grande pianoforte verticale su cui erano collocati moltissimi
ritratti di persone e scorci di paesaggi che non avevo mai veduto,
sulla destra del massiccio strumento di palissandro un tavolino di
noce portava una lampada liberty che spandeva una tenue luce
attraverso i suoi vetri colorati. Davanti a me, semi sdraiato su una
chaise-longue di seta verde, stava il barone Verner che mi guardava
evidentemente divertito nel cogliere il mio disorientamento. Nel
tentativo di rompere l’imbarazzante silenzio chiesi:
“Lei insegna pianoforte?”
“Oh, no, affatto, lo suono a malapena e ad orecchio”
mi rispose sorridendo “però mi piace sentir suonare la
signorina Neamar, la ragazza che ha visto uscire al suo arrivo. E’
una brava fanciulla e ha la pazienza di sopportare un individuo
stravagante come me!” fece una pausa, al termine della quale
emise un sospiro, e guardando il soffitto riprese:
“Tuttavia signor Donovan, lei non è certo qui per
sapere cosa faccio io nel mio tempo libero, quindi se non sa da che
parte cominciare a pormi le domande comincerò io dal
principio, ma la avverto che la storia potrebbe essere lunga!”
“Dunque signor barone, io ero presente all’ apertura
della cassetta di sicurezza del dottor Watson e, per una serie di
fortuite coincidenze sono stato l’uomo che ha aperto il plico
sigillato”
“E questo fa di lei l’erede, molto bene, poi cos’altro
le è capitato?”
“Ho letto gli appunti stenografati, ne ho preso nota e li ho
trascritti per esteso”
Il barone annuiva “Poi?”
“Poi ho letto il resoconto che si trovava dentro la busta,
quello che parla della visita di Watson in Italia per trovare Holmes”
Con un ampio sorriso Verner riprese a parlare: “Si, il
povero dottore era molto legato a mio zio” si alzò per
andare al pianoforte, da cui prese una cornice d’argento “Era
proprio un brav’uomo, mi ricordo di quando veniva a casa nostra
a prenderci con il suo brum per andare a trovare zio Sherlock. Era
veramente un buon amico.” Gli occhi del barone si fecero lucidi
mentre mi porgeva la cornice cha aveva preso “Guardi, vede?”
mi disse indicando con il dito “questo qui a sinistra era mio
padre, questo qui in basso, seduto a terra sono io, poi qui, seduto
sulla sedia c’è mio zio e quest’ uomo baffuto in
piedi dietro di lui era il dottore. Questa fotografia è stata
scattata nel 1921, avevo quindici anni, ne è passato di tempo,
eh?” Quell’ ultima domanda sembrava più rivolta a
se stesso che a me “Bene, adesso che conosce i protagonisti
della storia, mi dica, signor Donovan, cosa vuole sapere?”
“Barone, se non le spiace vorrei conoscere il motivo della
precipitosa fuga da Londra di suo zio, Sherlock Holmes, e vorrei
sapere il finale del resoconto contenuto nel plico che costituisce la
mia, per così dire, eredità. In fondo il dott. Watson
ha lasciato disposto di venire a chiedere informazioni presso il
dottor Verner o i suoi eredi, quindi, in un certo qual modo, il
possesso di queste informazioni mi è dovuto”
Il barone mi guardò con amarezza, gli sfuggì una
sorriso disgustato a cui seguì: “Io le dovrei delle
informazioni? Ne è sicuro signor Donovan? Potrei rifiutarmi di
raccontare i fatti privati della mia famiglia ad un oscuro individuo
che mi viene in casa e mi parla di “doveri” e di
“diritti” testamentari accampati, per giunta, in modo
tanto bizzarro. Con tutto il rispetto per la buon’anima del
dottor Watson, non mi sento in dovere di raccontarle nulla signore.”
Si alzò dirigendosi alla finestra “Se io adesso le
raccontassi tutta la storia di quello che la gente chiama Hiatus
chi mi assicura che lei poi non andrà in giro a divulgarla
al solo scopo di trarne profitto?”
Il comportamento dell’ eccentrico nobile era quantomeno
bizzarro. La mia era solo curiosità, ero stato tirato in ballo
in una storia senza senso, avevo rischiato di morire fucilato in casa
mia, avevo affrontato peripezie incredibili per difendere le carte di
Watson, avrei avuto sicuramente il piacere di sapere dove mi avrebbe
portato tutta questa successione di follie.
“Signore” dissi “non è mia intenzione
pubblicare alcunché di quanto lei mi dirà, sono solo
curioso di sapere cosa è successo dal 1891 al 1894 a suo zio”
“Lei è pazzo, Donovan!” disse ridendo il mio
interlocutore “Sicuramente io lo sono, lo so che lo sta
pensando, ma mi creda, lo è anche lei! Lei non è un
buon osservatore. Vediamo di metterla sulla pista giusta, allora,
domanda semplice: cosa ci fa un nobile italiano, uno Squire, come
dite voi, in Inghilterra, mentre gli inglesi e gli italiani si
massacrano in Libia? A questa segue una domanda ancora più
semplice: come mai il nobile italiano non è tornato a casa
sua, visto che ha veramente una bella casa in Italia, ma rimane qui
in una casetta di un piccolo paesino della Cornovaglia? Sa darmi
delle risposte?”
Rimanevo incantato a guardare quell’ uomo. Parlava e
gesticolava come fosse un pazzo, alternava toni acuti a toni gravi
della voce e di tanto in tanto emetteva gridolini di compiacimento
per ciò che diceva, in parole povere era il nipote di Sherlock
Holmes.
“No, signore, ma immagino che avendo le giuste informazioni
potrei tentare di…”
“Ovvio! Ma provi ad usare la logica, deduca le informazioni
che le servono. Io, italiano, mi trovo qui quando per logica mi
troverei più al sicuro in Italia, che ne deduce?”
“Che lei in Italia non sarebbe al sicuro”
“Bravissimo! Visto? Se si impegna riesce a ragionare, bravo!
Perché a casa mia non dovrei sentirmi sicuro?”
“Perché…” non sapevo veramente cosa dire
e mi tormentavo le mani guardando Verner che mi incitava con lo
sguardo a rispondere “Perché ha fatto qualcosa che non
doveva fare?” azzardai e la reazione del barone mi fece capire
che non avevo del tutto torto
“Bravo! C'è andato vicino. Ha mai pensato di fare
l’investigatore?” disse ridendo e battendo le mani mentre
camminava per la stanza “Allora Donovan, basta giocare”
con una mossa repentina si lanciò su una poltrona guardandomi
divertito “Adesso le racconterò tutto quello che è
successo”.
1, Kaspar David Friedrich, pittore romantico tedesco
vissuto agli inizi del XIX secolo, i suoi dipinti sono permeati da
un’aura mistica e misteriosa
2, William Blake, Poeta ed incisore inglese vissuto tra il
XVIII ed il XIX secolo, autore del poema Jerusalem da cui è
stato tratto uno degli inni non ufficiali dell’Inghilterra
3, Glastonbury...Chalice Well,la cittadina di Glastonbury è
famosa per una leggenda riguardante un presunto viaggio effettuato
dal giovane Gesù in compagnia di Giuseppe d’Arimatea.
Questa leggenda ispirò il poema Jerusalem di Blake
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** Capitolo VIII - L'avventura mancante ***
CAPITOLO VIII – L’avventura mancante
Il barone Verner si distese sulla poltrona ed allungò una
mano verso il tavolino habillé che gli era accanto, le sue
mani, che a dispetto della corporatura massiccia, erano molto sottili
ed allungate, frugavano dentro un cofanetto di radica ed emersero
brandendo un havana che mi fu porto con un sorriso.
“Prego signor Donovan, questi sono i sigari preferiti da sir
Winston Churchill, sono certo che li apprezzerà”
“La ringrazio” dissi ansioso di ascoltare il racconto
“ma fumo solo la pipa e, a dire il vero, è da tanto
tempo che non la tocco più”
“Ah, come mio zio!” disse il barone mentre, come in un
rituale, si accingeva ad accendere il suo sigaro ed a tirare le prime
boccate “che tabacco fuma?”
“Fumavo un taglio classico, nulla di speciale, un comune con
una aggiunta di latakia cipriota, ma, non vorrei sembrarle scortese…”
“Si, si, ho capito signor Donovan. Adesso arriveremo al
punto. Questa storia ha avuto inizio più di settanta anni or
sono, immagino che un’ ora di più non farà poi
così tanta differenza.”
Reclinò il capo verso l’alto e sbuffò verso il
soffitto una serie di volute azzurrine, poi rivolse il suo sguardo
verso di me.
“Dunque, signor Donovan, lei è un impiegato di banca.
Conosce per caso come si sia evoluto il sistema bancario
italiano?”
“Francamente no, signore, so che l’Italia possiede,
come l’Inghilterra, una banca centrale che controlla tutti gli
altri istituti di credito e che è la sola a battere moneta”
“Esatto Donovan, proprio così. Ma prima non era così,
come lei sa l’Italia era un insieme di stati sovrani, ognuno
con una banca centrale. Dopo l’unificazione, il diritto di
stampare monete venne ancora concesso alle ex banche centrali dei
singoli stati, si ebbe dunque un fenomeno per cui esistevano ben
quattro banche che battevano moneta: il Regio Banco di Torino,
la Banca di Toscana, il Banco di Napoli e di Sicilia ed infine la
Banca Romana. Deve sapere che proprio quest’ ultima, a
differenza delle altre, non aveva stabilimenti tipografici, quindi la
stampa delle banconote della Banca Romana era affidata, su
commissione alla Zecca di Londra, la quale provvedeva dietro
richiesta alla produzione di determinati quantitativi di banconote
con numeri di serie già predefiniti.” Il barone fece una
pausa per poi riprendere “Non mi guardi in quel modo, queste
informazioni saranno importanti in seguito e le serviranno per capire
quanto è accaduto la notte del 6 maggio 1891”.
“Mi perdoni, Barone, ma non esiste un resoconto di questi
fatti messo per iscritto?”
“No, Donovan. Il dottore lo voleva scrivere e lo avrebbe
certamente fatto se la malattia glielo avesse permesso. Purtroppo ne
esiste solo una versione orale, la mia!” disse toccandosi il
petto “ma se lei mette in dubbio la mia obbiettività…”
“Oh, no barone, certamente no!”
“Molto bene!”
Alcune volute di fumo si aprirono come grandi fiori grigi verso il
soffitto mentre il barone Verner raccoglieva le idee. Ad un tratto,
come se avesse ultimato le prove per una sinfonia, si girò
verso la finestra e cominciò a parlare:
“Nel 1886, un imprenditore privato di nome Andrew Lomackson
acquisì il 70% del capitale azionario della “Manchester
Channel & Docks” la quale fino a quel momento era stata una
società controllata dal Tesoro. Per quell’ operazione
venne staccato l’assegno dall’ importo più alto
mai emesso da un privato, attraverso un pezzettino di carta di
qualche centimetro quadrato passarono di mano un milione e
settecentomila sterline. L’intestatario del conto corrente era
un certo Eugene Simonaux e la banca era la Glynn & Mills1,
precisamente la filiale al numero 67 di Lombard street. Inizia a
ricollegare i fatti, Donovan? Le domande che nessuno si pose all’
epoca di questa transazione, sarebbero dovute essere: perché
il Governo sta vendendo una propria società ad un privato?
Come fa un privato cittadino a poter emettere un assegno per una
cifra che all’epoca poteva rappresentare il bilancio interno di
un piccolo stato come il Lichtenstein? Ed in ultimo, come mai la
notizia non ha fatto alcun rumore?
Cominciamo a fare un po’di luce. Andrew Lomackson, un
imprenditore americano, si incontra con il signor Eugene Simonaux,
rampollo di una famiglia della nuova nobiltà creata da
Napoleone, ma finita in disgrazia. Il signor Simonaux, pur non avendo
molte possibilità economiche ha molte buone conoscenze,
inoltre la sua ottima educazione unitamente ad un titolo di marchese
gli garantiscono la simpatia delle anziane signore parigine, le quali
lo invitano puntualmente nei loro salotti. Tra i velluti e le
chiacchiere Simonaux si sente a proprio agio, riesce a barcamenarsi
ed a mettere insieme il pranzo con la cena conquistando le simpatie
delle annoiate mogli dei più potenti uomini di Francia. Visto
così il nostro personaggio non sembra essere molto pericoloso,
direi piuttosto che si tratta di un comune cicisbeo. Lomackson, al
contrario di Simonaux è un uomo rude, venuto dal nulla e
diventato milionario dopo una vita di sacrifici, non è quello
che si dice uno stinco di santo e con sotterfugi più o meno
delicati era riuscito a farsi assegnare dal Congresso degli Stati
Uniti la commissione di una tratta ferroviaria che doveva collegare
Boston, Chicago, Salt Lake City e Los Angeles. Logicamente,
un’impresa del genere richiede dei fondi adeguati e l’idea
di Lomackson era quella di reperirli in Francia. Come saprà,
Donovan, le ferrovie di tutta l’America sono state costruite
grazie ai soldi degli azionisti Britannici, ma la Francia
rappresentava ancora un territorio vergine e non toccato dalle
speculazioni statunitensi. Fu per un caso che nella hall dell’
Hotel du Louvre a Parigi, Lomacksons salvò dal carcere
Simonaux che tentava di fuggire, vestito da cameriere, dopo aver
rubato i gioielli di una facoltosa signora con cui aveva passato la
notte. I due divengono amici, ovviamente fu un’amicizia
interessata, giacchè Lomackson intuì subito le
potenzialità di Simonaux, un ottimo passe-par-tout per
i salotti della Parigi che conta. Quindi, in cambio di un tetto sulla
testa e qualche vestito, Simonaux introdusse il suo compare al Gotha
francese.
Fu durante una festa che Lomackson fece un altro incontro,
stavolta con un personaggio della sua stessa taglia, un anziano
armatore italiano, anche lui venuto dal nulla e divenuto ricchissimo:
Raffaele Rubattino. Costui, attraverso conoscenze politiche era
riuscito ad ottenere numerose commesse statali, che lo portarono
rapidamente ad essere uno degli uomini più ricchi del suo
paese, ricco a tal punto che potè permettersi di comprare dal
Governo Eritreo l’intera baia di Assab. Capirà, Donovan,
che un trio così ben assortito non poteva non dedicarsi da
subito all’attività che gli riesce più
congeniale, ovvero produrre soldi, senza alcun limite dettato dall’
etica o dal buon senso, del resto gli affari sono affari!
Lomackson spiegò al collega italiano il suo intento di
recepire fondi per la realizzazione della tratta ferroviaria
transcontinentale. Si trovava in grande svantaggio rispetto alle
imprese concorrenti come la West Railways o la Union Pacific, le
quali avevano saturato la borsa di Londra con le loro azioni. L’unica
speranza per lui di non perdere l’appalto statale era di
recuperare fondi nel vecchio Continente. A quanto pare l’anziano
finanziere italiano, sentendo quella storia scoppiò a ridere
facendo notare come sarebbe stato impossibile spremere anche un solo
fiorino dalle tasche francesi già duramente provate dal
recente crollo del secondo Impero. La soluzione di Rubattino apparve
semplice, quasi al limite della banalità: vendere a terzi la
società concessionaria per la costruzione delle ferrovie un
momento prima di dichiarare fallimento, quindi trasferirsi sul
vecchio continente per non incorrere nelle sanzioni derivate dalla
bancarotta fraudolenta. Uno schema molto astuto, ma qui entra in
ballo un nuovo elemento.”
Verner si distese, tirò una boccata dal sigaro e riprese
“Si, un nuovo elemento”
Ad un tratto un terribile rumore di ceramiche in frantumi attirò
la nostra attenzione, Verner, giratosi verso di me disse:
“Se non fosse che è andata via direi che si tratta
di…”
Un’esile figura fece la sua comparsa nel salotto scortata
dalla arcigna donna di servizio, la quale disse laconicamente: “
Miss Bellis Neamar, signor barone”
La giovane ragazza si fece avanti a piccoli passettini con il
visino basso
“Sir, mi spiace, le avevo portato un nuovo servizio da tè
per rimpiazzare quello che ho rotto stamattina” dei lacrimoni
si affacciavano al piccolo viso “ma la scatola che lo conteneva
mi è caduta ed è andato tutto in frantumi”
Verner scoppiò a ridere “Ma miss! Non importa, non
doveva disturbarsi, venga qui, si sieda. Le presento il signor Samuel
Donovan, signor Donovan, la signorina Neamar. Miss, stavo raccontando
al nostro ospite la storia del porto”
La ragazza battè le mani divertita “Oh, è una
delle mie preferite! A che punto è arrivato?”
Rimasi stupito, cosa voleva dire con “è una delle
mie preferite”? ce ne erano delle altre? E poi, non
dovevano essere informazioni riservate? Il giovane barone era un tipo
veramente bizzarro ed ancor di più la sua amica.
“Siamo quasi giunti all’ acquisto del porto, miss”
“Ah, si, il signor Strofina-un-piccolo-pipistrello sta per…”
Verner scoppiò a ridere “Miss, la prego! Si dice
Rubattino, tutto attaccato, con la “o” alla fine”
“Ed io cosa ho detto? Rubbattiny,
Strofinaunpiccolopipistrello”
“Va bene, ci rinuncio!” disse Verner continuando a
ridere
“Allora, come dicevo, Rubattino riconsidera il piano e
chiama Lomackson per esporgli il suo progetto:
“Lei dovrà vendere la sua società ferroviaria
falsificando i bilanci, in modo da farla apparire solida. Cerchi di
ottenere la cifra più alta possibile, abbiamo bisogno di due
milioni di sterline”
“Abbiamo? Forse lei ne ha bisogno e non vedo perché”
“Voglio entrare in società con lei, Lomackson. Voglio
comprare il porto di Manchester”
“Cosa? Ma non le basta la baia che ha comprato in Eritrea?
Cosa ci deve fare con il porto di Manchester?”
“Caro ragazzo, lei vede troppo poco lontano. Inizieremo ad
importare oppio in Inghilterra, le occorre che le spieghi come?”
“Penso di si, signore, perché o lei è un genio
o, parola mia, lei è pazzo da legare!”
“Bene, Lomackson, visto che sono arrivato a questa età
credo che la sua prima ipotesi sia quella corretta. Lei sa che
l’Inghilterra esporta oppio in Cina dall’ India? Certo
che lo sa, hanno combattuto due guerre per questo, bene, adesso
rifletta. Noi compreremo l’oppio in Cina e lo faremo arrivare
ad Assab. Li cambieremo i documenti del carico e trasformeremo
l’oppio cinese in vasi indiani o in qualsiasi altra cosa. A
questo punto invieremo la merce al porto di Manchester e da li a
tutte le fumerie del Regno Unito. Che ne dice?”
“Signore, con tutto il rispetto, ma la sua strategia fa
acqua ovunque. Per comprare il porto ci vorranno due milioni almeno,
e per comprare e rivendere l’oppio guadagnandoci sopra dovremmo
fare dei prezzi troppo alti rispetto a quelli della concorrenza. Non
saremmo mai competitivi! In ultimo, signore, lei è certo un
uomo assai ricco, ma dove crede di trovare tutti questi soldi?”
“Molto semplice, li farò stampare!”
“Vuole falsificare la sterlina?”
“No, intendo aprire un conto corrente in Inghilterra con
autentiche lire italiane, non copie, ma banconote vere!”
Inutile che vi dica quanto il povero americano rimase spiazzato,
ma non curandosi di nulla, Rubattino seguitò:
“Lomackson, ci rincontreremo tra una settimana alle dieci in
punto al Credit Mobilier di Place Vendome a Parigi. Ci saranno delle
persone importanti, venga e non ne rimarrà deluso. Porti con
se quel suo amico sciocco, come si chiama? Ah, Simonaux!”
Passò una settimana. Lomackson e Simonaux entrarono nell’
imponente salone del Credit Mobilier, una delle banche più
grandi d’Europa, chiesero del signor Rubattino e vennero fatti
accomodare in un salotto ovattato. Dopo poco li raggiunsero tre
persone, una di queste era Rubattino, che presentò gli altri
due.
“Signori, vi presento il signor Bernardo Tanlongo,
governatore della Banca Romana e Lord Randolph Churchill, che credo
non necessiti di presentazioni”
Mentre Simonaux strinse cordialmente la mano ai nuovi venuti
ignorando profondamente chi loro fossero, Lomackson rimase
impietrito, davanti a se aveva il ministro delle finanze della
nazione più potente della Terra ed il governatore di una banca
di stato. Rubattino rise gelidamente.
“Ha visto, Lomackson? Niente male per un pazzo, eh?”
L’armatore si rivolse a Churchill
“Milord, sono certo che il suo Ministero sarà lieto
di vendere al signor Lomackson il porto della città di
Manchester, egli ha di recente venduto delle commissioni per la
costruzione di ferrovie in America, ricavando… quanto ha
ricavato? Ah, bene, centocinquantamila sterline, che verranno versate
a lei personalmente per essersi preso la briga di venire qui stamane
ad accordarci questo piccolo favore. Il prezzo del distretto portuale
sarà fissato in un milione e settecentomila sterline che
verranno versate all’ Erario in soluzione unica a mezzo di un
assegno bancario”
“Qui immagino di entrare in gioco io, vero?” disse
Tanlongo
“Precisamente, lei opererà una commissione per
quattro milioni di lire alla zecca di Londra, le banconote
arriveranno in Italia con corriere diplomatico, da li, ripartiranno
per Londra dove il nostro caro signor Simonaux aprirà un conto
corrente presso la Glynn & Mills di Lombard street ed emetterà
un assegno a favore dell’ Erario Britannico per l’acquisto
del distretto portuale.”
A questo punto lord Churchill intervenne
“Mi auguro solo che l’operazione non porti a danni
consistenti per l’economia del Paese, mi dia del tempo per
riflettere, Rubattino, non posso…”
“Lei deve!” alzando improvvisamente la voce per poi
ridurla “Milord, sappiamo benissimo che quando lo scandalo
relativo alla sua incresciosa avventura nelle Indie verrà a
galla, lei sarà costretto non solo alle dimissioni, ma alla
damnatio memoriae . Non vorrebbe avere qualche soldino da
parte prima di andare per sempre in esilio e vivere serenamente quel
poco che la sua scandalosa malattia le consentirà di vivere?
Segua il mio consiglio, faccia quello che deve!”
Lomackson fu sconvolto dall’ indole spietata dell’affarista
italiano. Ne aveva viste e fatte egli stesso di tutti i colori, ma
mai era arrivato a muovere delle leve tanto in alto.
Il 6 agosto del 1886 avvenne la transazione ed il porto di
Manchester fu proprietà di Andrew Lomackson. A dicembre dello
stesso anno Lord Churchill fu costretto alle dimissioni per cattiva
gestione del patrimonio pubblico, morì di sifilide dopo poco
tempo. Raffaele Rubattino, il grande artefice del diabolico piano,
morì nel gennaio del 1887 lasciando la sua opera incompiuta.
Eugene Simonaux, non capendo la pericolosità del gioco in cui
era stato tirato dentro, si mise a ricattare Lomackson minacciandolo
di raccontare l’affaire dell’oppio alla stampa,
venne trovato morto a febbraio del 1887 nella pensione Des Beaux Arts
a Montmartre, per aver assunto una eccessiva dose di cocaina.
Verner guardò con un sorriso la sua amica “Come vado?
Le piace?”
“Oh, sir, questa storia mi emoziona sempre, è così
piena di colpi di scena!”
“Barone” chiesi perplesso “mi faccia capire, ma
la signorina conosce tutto?”
“Oh, si! Lei sa tutto, fino a ieri era la sola persona al
mondo a sapere queste cose”
“Capisco” dissi “vada avanti, ancora non capisco
in tutto questo cosa c’entri suo zio?”
“Porti pazienza Donovan e vedrà che capirà
tutto. Lomackson è rimasto da solo a gestire l’affaire,
ma senza Rubattino il flusso di denaro italiano si è
interrotto e quello che sembrava essere un piano brillante rischia di
sfumare.
L’americano però non si perde d’animo e riesce
a contattare i soci in affari del suo defunto amico: il banchiere
Ettore Consulich, l’industriale Erasmo Piaggio ed il principe
Vincenzo Florio di Favignana. Essi avevano fondato una società,
la Generale Italiana Navigazione che aveva rilevato il porto di Assab
alla morte di Rubattino. Lomackson incontrò i capi della
società nel meraviglioso Hotel Hassler di Roma alla fine del
febbraio 1887.
“Sappiamo, signor Lomackson” Esordì Florio “che
il nostro compianto amico aveva molta fiducia in lei tanto da
renderla socio in una vantaggiosa speculazione di cui aveva tenuto
all’ oscuro finanche noi, i suoi più cari amici”
Lomackson, avvezzo al duro lavoro che lo aveva forgiato in
gioventù, non amava le dietrologie e concepiva, come unica via
diplomatica, il piombo della sua pistola. Non c’è da
stupirsi quindi se rispose a quegli eleganti gentiluomini:
“Quanto volete?”
“Oh, signore! Come siete diretto!” rispose sdegnoso
Florio, subito interrotto da Consulich, che essendo di sangue
austriaco apprezzava i caratteri forti
“Lei mi piace Lomackson, saremo franchi con lei, si tenga
pure il porto, noi le forniremo il denaro attraverso il governatore
Tanlongo e le garantiremo anche il transito doganale nella baia di
Assab, ma in cambio vogliamo il 75% degli introiti. Niente se e
niente ma. O così o nulla!”
“Immagino che mi convenga accettare, e va bene, facciamo
così”
Gli affari di Lomackson ripresero alla grande, la banca di Londra
avviò un’ inchiesta sul misterioso conto corrente della
Glynn & Mills che ospitava svariati milioni in valuta estera, ma
grazie all’ intervento del console italiano a Londra tutto
venne insabbiato.
Per riassumere, Donovan, Lomackson importava oppio dalla Cina e il
terzetto della Generale Navigazioni incassava una lauta percentuale
da dividere con il governatore della Banca Romana Bernardo Tanlongo,
il ministro delle Finanze Luigi Miceli ed il capo del Governo
italiano Francesco Crispi. La macchina sembrava perfetta e tutto
sarebbe andato a meraviglia se ad un certo punto non fosse arrivato
mio zio.
La giovane signorina Neamar iniziò a battere le mani: “E
adesso ci divertiamo! Pensate, signor Donovan che Sherlock Holmes
scopre l’oppio italiano per caso in una fumeria, poi arriva
Watson ed insieme risolvono un altro caso, ma non dimenticano il
primo… oh, scusate sir, forse volevate continuare voi?”
Verner rise “Grazie, miss, per avermi dato il modo di
introdurre la storia. Fu per caso che nel 1889, mio zio, analizzando
due campioni di oppio provenienti da due fumerie di Londra in cui
erano avvenute due morti sospette, scoprì una perfetta
identità tra le due sostanze. Mi spiego: stessi eccipienti,
stesso trattamento, perfino stesso sistema di confezionamento. Eppure
il gestore di una delle due fumerie gli aveva confidato, come saprà
mio zio sapeva essere molto persuasivo, che l’oppio da lui
venduto proveniva dall’ Italia, era di ottima qualità ed
aveva un prezzo assai minore di quello indiano.
Per chiarire il dilemma il caro zietto si mise a girare per tutte
le fumerie di Londra e in una di queste risolse il caso dell’
uomo dal labbro spaccato, di sicuro ne avrà sentito parlare.
In breve capì che esisteva un mercato parallelo dell’
oppio indiano, che però, non si sa come, veniva venduto ad un
prezzo ridicolo e veniva creduto di provenienza italiana.
Il dottor Watson e mio zio si misero subito sulle tracce dell’
oppio italiano, e finirono per arrivare al porto di Manchester, dove
una sera videro il brigantino “Pantelleria” sbarcare in
modo piuttosto insolito delle casse lungo il Manchester Channel. Dai
registri del porto risultò che la Pantelleria trasportava
pigmenti per stoffe e proveniva dal porto di Assab. Subito
venne mobilitato zio Mycroft il quale si interessò del lato,
per così dire, spionistico della vicenda. Grazie ad alcuni
informatori nella Somalia Britannica si venne a sapere che delle navi
solcavano costantemente la rotta tra la Cina e Assab trasportando
oppio. Lei capisce che il mistero rimaneva in una sola domanda che
assillava la mente dei miei zii e del dottor Watson: “Da dove
prendevano i soldi?” A questa domanda rispose mio padre, in una
bella mattina di marzo del 1891 mentre, da poco arrivato dall’
Italia, faceva colazione con i suoi cugini al Diogenes Club.
“Ah, cari cugini, l’Inghilterra è un’
altra cosa” disse “si mangia male, ma almeno non rischi
che i tuoi risparmi vengano rubati da una banca!”
“Come, scusa?” chiese turbato zio Sherlock
“Ma si, non avete saputo di quel banchiere italiano,
Tanlongo, che stampa moneta senza avere il corrispettivo aureo nei
caveau? Pensate che ha fatto un buco di centocinquantaquattro milioni
di lire! Qui da voi queste cose non succedono”
“No, infatti, noi con quei soldi ci ricompriamo il nostro
oppio” rispose placido zio Mycroft mentre il fratello si alzava
da tavola per correre dal dottor Watson
In poco tempo l’ affaire dell’ oppio venne
smantellato, ma zio non ebbe mai la gioia di vedere Lomackson
occupare una suite a Dartmoor perché il farabutto aveva
preparato un attento piano di fuga, aveva trasferito le sue finanze
in una banca spagnola, e così facendo aveva causato il
fallimento della Glynn & Mills, che dal giorno alla notte si era
vista priva della sua maggiore quota in capitale liquido, e si era
procurato un passaporto svedese a nome di Edvard Lomosson. La sera
del 5 maggio 1891 mio zio lo intercettò mentre saliva su uno
sloop della Generale Navigazioni, che lo avrebbe portato a Bilbao. In
un’ accanita lotta sulla passerella dell’ imbarcazione
Lomackson aprì il fuoco contro mio zio che cadde in acqua
fortunatamente illeso.
Dell’ americano non si seppe più nulla, morì
dopo qualche mese, lo trovarono impiccato in un bagno d’albergo
di Madrid. Ma l’avventura non era finita, rimaneva in piedi
tutta la branca italiana dell’ organizzazione, mi riferisco non
solo a Tanlongo, ma anche a tutta la corte di disonesti che gravitava
attorno a lui. A nulla valsero le indagini dell’ onesto
funzionario Gustavo Biagini promosse dal senatore Rudinì, ogni
tentativo di far emergere lo scandalo veniva puntualmente insabbiato.
Fu solo nel 1894 che mio zio, grazie all’ aiuto di un audace
militare italiano, il colonnello Pintauro, riuscì a portare in
tribunale i responsabili del più grande crack finanziario
della storia d’Italia. Ma la sua opera servì solo a
formalizzare l’arresto di Bernardo Tanlongo, mentre tutti i
personaggi coinvolti, politici, amministratori, faccendieri e
funzionari corrotti, rimasero a piede libero. Come dire,
Donovan, tanto rumore per nulla! Ma c’era ancora un dato
importante da considerare per mio zio: fuggire illeso dall’
Italia. Certamente egli avrebbe potuto ancora usare i documenti e le
prove raccolte come arma nei confronti di coloro che volevano fargli
del male, ma fintanto che si trovava in Italia correva dei grandi
pericoli, tanto lui che zio Mycroft e, ovviamente, mio padre.”
Il barone sorrise verso la sua amica e poi verso me chiedendomi
“Bene, ci sono domande?”
“A dire il vero si, barone” dissi ripensando alla
rocambolesca catena di eventi “la mia copia del viaggio in
Italia di Watson è mutila, se fosse possibile ne vorrei
conoscere la conclusione”
il barone si alzò e si diresse ad un massiccio bureau di
mogano da cui trasse un fascicolo
“Ecco, questa è la bozza del viaggio in Italia”
fece una pausa “ la stesura definitiva è quella che ha
lei, ma non è mai stata completata, se riesce a leggere
nonostante le cancellature ed i ripensamenti del dottore, la troverà
una storia molto interessante. A proposito, Donovan, non tenga conto
di quanto le ho detto prima, pubblichi pure tutto ciò che
riterrà opportuno, faccia attenzione però, aspetti
qualche anno, aspetti che tutti coloro che hanno un legame con questa
storia siano trapassati” rise “in fondo non dovrà
attendere parecchio! Dopodiché, mio caro, faccia ancora
sognare la gente che aspettava settimane intere per poter leggere le
avventure di mio zio. Questa sarà l’ultima storia di
Sherlock Holmes.”
1, Nel 1887 la Glynn & Mills di Lombard Street pagò
effettivamente per un assegno dal valore di 1.710.000 sterline emesso
per l’acquisto della società Bridgewater
Navigation Company che controllava
il Manchester Ship Canal. Ad oggi rimane l’assegno dall’importo
più alto mai emesso da un privato cittadino.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=635641
|