As Grandpa Charlie says

di Slits
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** #1. Avec mes meilleures salutations. { Arthur, Francis ***
Capitolo 2: *** #2. Cura ut valeas! { Germania, Impero Romano ***
Capitolo 3: *** #3. Pigghialu, che è 'rossu! { Antonio, Rovino ***
Capitolo 4: *** #4. Please knock before entering. { Arthur, Francis ***
Capitolo 5: *** #5. Platʹe. { Ivan, Toris ***
Capitolo 6: *** #6. Militärische. { Ludwig, Feliciano ***
Capitolo 7: *** #7. Ser rencoroso. { Antonio, Rovino ***
Capitolo 8: *** #8. Szerelem és kamat. { Gilbert, Elizaveta ***
Capitolo 9: *** #09. Eintritt interdite { Vash; !Tutti ***



Capitolo 1
*** #1. Avec mes meilleures salutations. { Arthur, Francis ***


« Ognuno è solito definire barbarico ciò che non rientra nei propri usi e costumi. »
Charles-Louis de Secondat



Inconcepibile.
Il Congresso delle Nazioni era da poco finito. Camminando di buon passo, Arthur Kirland attraversò il corridoio stretto e silenzioso in un paio di minuti e fu fuori. Visto da lontano, ai piedi della tenuta, Francis Bonnefoy disegnava una specie spirale invisibile sulle guance paonazze del Nord Italia. Lo stava salutando. Anche se, a giudicare dalla quantità di volte in cui le labbra avevano schioccato sulla fronte del povero italiano, sembrava che metà della sua bocca fosse rimasta appesa alla faccia di Feliciano con l’ausilio di un filo invisibile. Buon Dio, quell’uomo aveva più malizia in un solo sopracciglio che la maggior parte della gente in tutto il corpo.
Dannato barbaro, pensò il biondo con una punta di fastidio. Dannato barbaro buono a nulla, si corresse quasi subito.
- A’ la prochaine. – si congedò il francese.
Feliciano, ormai di spalle, sventolò in aria una mano a mo’ di saluto.
Arthur si chiuse la porta alle spalle. Poi prese il paltò, il cappello e la vecchia valigetta e si avviò verso l’uscita. Non appena fu ai cancelli, Francis si voltò con una velocità sorprendente e sorrise in maniera quasi innaturale. Con un po’ di fantasia, forse, le labbra avrebbero potuto tranquillamente coprire l’intera circonferenza della sua testa.
- Oh, Arthùr! Te ne stai andando? -
E, per un solo attimo, Arthur Kirkland osò sperare.
- Non sai che è buona educazione salutare, prima di congedarsi? -
Ma persino Dio avrebbe ben poche possibilità con i costumi di un maledetto barbaro.



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C
hiunque sia stato il pazzo che finora ha sostenuto che leggere faccia bene all’animo cortesemente si impicchi. Corda e eventuali ve li passo io.

Per distrarmi dalle troppe idee che ultimamente mi sono venute in mente, tutte rigorosamente non-scolastiche, qualche giorno fa ho pensato di darmi a delle buone letture. Montesquieu, ho detto, che male potrà mai farmi? , ho ingenuamente pensato.
Oh, beata innocenza.

Sapete che ha scritto un’opera intitolata “I miei pensieri”, vero?
E sapete anche che, nella suddetta, tratta di varie popolazioni, fra cui francesi, inglesi e italiani? Non lo sapete? Be’, sapevatelo, neanche io lo sapevo.

Ma ora mi son acculturata, decisamente con poco, mi son riempita di spirito vitale e… e… * scoppia in lacrime
ho avuto una nuova idea. ç_ç

Questa che avete appena a letto, a grandi linee.
Più altre tante, tante, tante storie.

Perché al peggio non c’è mai limite.

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Capitolo 2
*** #2. Cura ut valeas! { Germania, Impero Romano ***


« Prima bisogna sapere il latino, poi bisogna dimenticarlo. »
Charles-Louis de Secondat



- Oh, Germania-san! – disse il vecchio Impero Romano – E’ sempre un piacere rivederti! -
L’altro si strinse nelle spalle.
- Ormai era da un po’ che non ci si beccava in giro… -
Cominciarono a camminare, sentendo il freddo della valle farsi più pungente ad ogni passo. Improvvisamente, la voce cristallina di Romano risuonò alle spalle della vecchia potenza.
- A dispetto di tutto, è bello vedere che non sei cambiato di una virgola. -
Germania si voltò. L’uomo era ancora lì, al suo fianco. Portava gli stessi calzari del giorno in cui si erano conosciuti.
- Ah sapessi! Anche io vorrei poter dire lo stesso, ma con Feliciano che ogni giorno diventa sempre più carino non posso non sentire almeno un po’ il peso degli anni… sai, secolo più secolo meno…-
Il biondo si guardò attorno, come se sperasse di trovare un buon suggerimento scritto su nel cielo.
- E’ sempre un piacere poter parlare con te – ammise il vecchio Impero alla fine, senza troppi fronzoli – E’ bello sapere di aver ormai seppellito ogni ascia di guerra. -
Sorrise raggiante e imbracciò una chitarra tutta scassata. Da qualche parte, il piccolo Feliciano stava combattendo una lotta per la sopravvivenza. Era suo preciso dovere aiutarlo.
Sarebbe intervenuto tempestivamente, con un concerto rock questa volta. Perché il metal, si sa, alla fine istiga sempre alla violenza.
- Fammi avere presto tue notizie, mi raccomando! -
Germania-san annuì. Se gli avesse chiesto se gli piaceva il cianuro, probabilmente la sua risposta sarebbe stata la stessa.
- Cura ut valeas! -
Lo guardò allontanarsi, sempre muto. Se avesse saputo di dover incontrare il vecchio Impero Romano, si sarebbe preparato a dovere. Nel combattimento era sempre stato un artista, certo, ma come interprete non valeva un soldo bucato. Dopo qualche istante di incertezza, Germania-san alzò una mano per fermarlo, ma l'altro era già scomparso.
Meglio così, in fondo.
Ammettere di non ricordare una sola parola di latino, forse, era denigrante perfino per un Impero ormai scomparso.



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S
u Germania-san ho dovuto davvero sudare freddo per trovare qualche informazione. Non è colpa mia, è lui che si nasconde. Alla fine ho ricavato qualche nozioncina guardando un po' a destra ed un po' a manca.
Sul rapporto con Romano non ho voluto metter bocca più di tanto, ma sulla lingua sì perchè... perchè... al diavolo, non lo so manco io. .-.
Che bello sapere cosa ti spinge a scrivere. Davvero.

Inutile dire quanto possa ringraziare chiunque finora abbia preferito, aggiunto o quant'altro.

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Capitolo 3
*** #3. Pigghialu, che è 'rossu! { Antonio, Rovino ***


« E’ una sventura non essere amati, ma è un affronto non esserlo più. »
Charles-Louis de Secondat



Per un giorno il cabròn si stancò dell’Appennino e si spostò verso nord. Come un bandito, Rovino Vargas se la svignò dalla tenuta Carriedo saltando il vecchio steccato per andare in giardino, pronto a rilassarsi un po’, come desiderava da quando Feliciano aveva messo piede in casa di quel pezzo di deficiente. All’arrivo del minore dei fratelli Vargas, le nuvole si erano aperte in una tendina di azzurro. Il canto un po’ stridulo dei merli echeggiava nell’aria insolitamente frizzante.
Che contorno fastidioso.
- Oh, Ita-chan! Guarda come sei diventato carino! -
Rovino era seduto in giardino, concentrato sull’assemblaggio di una vecchia lupara. Non appena lo spagnolo smise di ridere, cominciò a ponderare un modo per impallinarli uno ad uno. Bestiacce moleste quasi quanto il deficiente che si ostinava a tenerle in cattività nonostante coltivasse in quello stesso campo da almeno un secolo o giù di lì.
- Nulla a che vedere con quel musone di Lovinito, per fortuna! -
Rovino Vargas sentì l’improvvisa urgenza di caricare l’arma. Si chiese se lo spagnolo ci fosse o ci facesse, ma quasi subito si risolse con un’alzata di spalle.
Gli venne in mente una frase che aveva sentito da un bracconiere calabrese, particolarmente dedito alla caccia al lupo.
”Ogni attimo che passi a cercare di capire cosa pensino, è un’occasione che hai in meno per prendere la mira e sparare.”
Giusto.
Senza aspettare oltre, Rovino caricò l’arma e si diresse verso la tenuta. Niente uccelli. Affatto.
Per quel giorno si sarebbe dedicato soltanto alla caccia grossa.

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Capitolo 4
*** #4. Please knock before entering. { Arthur, Francis ***


« È raro trovare uomini di cultura che siano puliti, non puzzino e abbiano il senso dell'umorismo. »
Charles-Louis de Secondat



- Opera di un mio connazionale. – spiegò Francis Bonnefoy. – Non sia mai che non condivida la mia cultura con i meno fortunati. -
Arthur Kirkland sobbalzò colto di sorpresa. Al momento di voltarsi, con l’aiuto della divina provvidenza, si risollevò i pantaloni con un tale impeto che furono sul punto di strapparsi. Poi, ansante, si prese la faccia fra le mani. Guardò la porta del bagno indecorosamente spalancata.
Il sorrisino soddisfatto del francese che era arrivato come suo solito: come un meteorite.
La porta di nuovo.
Un ritratto del Principe Carlo che lo fissava con cipiglio severo dal salone.
Ancora il francese.
- Che diamine ci fai nel mio bagno di prima mattina, razza di ninfomane? – chiese, indicando il francese ora seduto con aria soddisfatta e tronfia sulla tavola del gabinetto – E perché ti sei tolto i vestiti? -
Alla seconda domanda Francis Bonnefoy fece spallucce, ritenendo superfluo dover motivare perfino certe ovvietà.
- Io sono un uomo di cultura. – si limitò invece a controbattere, con il viso illuminato – E, a differenza di certe specie, so bene cosa significhi fare del vero umorismo. -
Arthur Kirkland rimase in silenzio per una discreta manciata di secondi. Poi allungò una mano ed aprì un’anta del mobiletto sopra il lavandino, mentre Francis annuiva soddisfatto. Gli mollò un pacchetto in mano e richiuse la porta del bagno con un colpo secco.
Francis inarcò appena un sopracciglio, fra l’irritato ed il curioso, e fissò meglio l’oggetto. Sul fianco recava un’etichetta con la carta lacera e la marca sbiadita.
Infasil deo no-gas, diceva.

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Capitolo 5
*** #5. Platʹe. { Ivan, Toris ***


« Un grande impero suppone un'autorità dispotica in chi lo governa. »
Charles-Louis de Secondat



- Oh, che bellezza! -
Per una buona manciata di secondi nessuno fiatò. Le lancette di un vecchio pendolo ticchettavano come un metronomo.
L’eco di voci e pensieri si perdeva nell’enorme salone di Villa Braginski. Le tre Nazioni si guardarono in silenzio, quasi di sfuggita.
- E’ un despota. – disse Eduard.
- Shh! Non fiatare. – replicò Raivis, in un sussurro – Guarda che freddo cane che fa fuori! Per quel ne sappiamo potrebbe anche decidere di completare il tutto! -
Toris Loirinaitis fissò i tre manicotti di pelliccia davanti a loro per un lungo istante. Dietro la sua impassibilità, i suoi occhi sprigionavano un’inquietudine che disarmò i suoi compagni.
- Mai più. – affermò deciso – Russia-san non andrà mai più a trovare qualcuno. -

Versò metà mattina Ivan Braginski annunciò che doveva andare a Barcellona per sbrigare alcune faccende. Antonio Carriedo, un ragazzone tutto gambe e sorrisi, aveva acconsentito affinché portasse i suoi sottoposti per farli giocare con la sua nuova cavia. E il collare no? aveva ribattuto Eduard, punto nel vivo. Nessuno aveva osato controbattere.
Russia-san non si era ancora pronunciato al riguardo, ma nessuna delle tre Nazioni covava dubbi sul fatto che quel discorso non fosse stato interamente partorito dalla mente di Antonio Fernandez Carriedo. Almeno dalla parte dei giochini in poi, aveva sottolineato nuovamente Eduard. Ancora una volta, nessuno aveva ribattuto.
Una volta arrivati alla tenuta, la vista del protetto di Antonio gli cadde addosso come una pietra tombale. E gli sforzi delle tre Nazioni per nascondere il piccolo Rovino erano del tutto inutili. Almeno non con quelle vesti svolazzanti e quell’indecoroso grembiulino pastello indosso. In meno di un istante, Toris lesse le intenzioni negli occhi di Russia-san quasi come se fossero state trasparenti.
E allora non gli rimase che pregare che a Villa Braginski, da dopo la partenza di Gilbert Beilschmidt, dei succinti abitini da cameriera non fosse rimasto che un cumulo di cenere chiazzato di cacchette bianche e nere.

- Ti sta che è un incanto! Anche se dovresti depilare un po’ quelle gambette, Toris, che poi sfigurano l’abito! Vieni, ti presto il diserbante che usa mia sorella. -
Al momento di seguire Russia-san, gli sguardi di Raivis ed Eduard lo colpirono con una tale intensità che Lituania fu sul punto di mettersi a piangere. Fu soltanto in quel momento che la Nazione realizzò due cose, con una lucidità quasi disarmante.
La prima, quasi ovvia, era che perfino Gilbert Beilschmidt aveva avuto abbastanza amor proprio da decidere di metter da parte la vendetta per la salvezza. I vestitini rimasti ancora lì ne erano la prova. Dal primo all’ultimo.
- Toh! Ho finito le lamette! Poco male, una delle sciabole del buon Sadiq va bene lo stesso, no? -
La seconda era che Ivan Braginski non era un despota. Affatto.
- Cortesemente smettila di tremare, Toris. -
Soltanto un sadico.



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A
lle recensioni prometto di rispondere in serata. Per ora, grazie a tutti quelli che hanno recensito.

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Capitolo 6
*** #6. Militärische. { Ludwig, Feliciano ***


« L'ignoranza è madre di tutte le tradizioni. »
Charles-Louis de Secondat



- Germania! Germania! -
Ludwig sollevò lo sguardo. Il sole stava calando e un raggio ambrato scalò sui suoi occhi infastiditi.
Si voltò e vide Feliciano Vargas che correva nella sua direzione. Provò un fastidio in gola, e un groppo insopportabile gli costrinse lo stomaco. Probabilmente, la gastrite che lo aveva colpito da quando aveva cominciato ad avere a che vedere con l’italiano si stava cronicizzando.
- Cosa succede, Italia? – chiese.
Feliciano lo guardò per un paio di secondi: si era asciugato le lacrime in tutta fretta e ostentava un’espressione ottimista.
- Francia nii-san ha cercato ancora una volta di rubare i miei quadri! -
- Dunque? -
L’Italia del Nord si portò un pugno al petto ed alzò la testa, vittorioso. Ludwig richiuse il giornale e sospirò, preparandosi ad un monologo degno del suo pazzo comandante.
- Gli ho tirato delle olive per difendermi, ma lui ha cominciato a brandire le baionette. Poi sono passato ai mandarini, ma contro avevo già un piccolo plotone, allora mi sono detto che no, che così di certo non potevo vincere, e sono passato alle maniere forti. Avevo già preso in mano i cetriolini freschi quando il fratellone mi ha messo contro un intero esercito, e allora… -
Ludwig si alzò e raggiunse Feliciano, che stava raccontando di come per un paio di minuti aveva tenuto sotto scacco uno squadrone di francesi con una ruota di pane ammuffito. Gli mise entrambe le mani sulle spalle e lo fissò. L’italiano alzò gli occhi e gli sorrise.
- Italia… -
- Ci facciamo un po’ di pasta? Dopo uno spavento simile direi che ci… -
Ludwig rimase in silenzio e Feliciano deglutì, nervoso. Forse non era il momento.
- Italia, vorrei che mi rispondessi sinceramente. -
L’altro annuì.
- Hai almeno la più pallida idea di come sia fatta un’arma? -
Feliciano sgranò gli occhi, arretrò di un passo e si nascose dietro la porta. Non ci poteva credere: lo aveva fatto. Lo aveva fatto davvero. Ecco perché tutti i paesi definivano Germania un temerario.
- L’hai fatto, l’hai fatto! – gridò.
Ludwig inarcò un sopracciglio, senza riuscire a trovare niente da aggiungere.
- Hai detto quella parola! La parola che non si può dire! -

- E questa è l’armeria. -
Il vecchio Impero Romano aprì la porta delicatamente. Ogni volta che entrava, temeva che un colpo particolarmente energico avrebbe fatto scattare i meccanismi di metà dei congegni tenuti in quella stanza.
- Feliciano, mi raccomando, non toccare niente. -
Un’anta venne spalancata. Una balestra impolverata brillò davanti agli occhi verdi del maggiore dei fratelli Vargas.
Il Grande Impero lo scrutò per una manciata di secondi, inarcò gli angoli della bocca e fece spallucce. Poi prese Feliciano sottobraccio e si diresse verso un corridoietto.
Passarono davanti ad una teca con la parete tappezzata di armi. Lance, baionette, spade, archi… erano stati conquistati popoli con molta meno roba.
- Ora, quello che ti raccomando piccolo mio, è di non usare mai un’arma… -
Dalla balestra di Rovino partì un colpo che mancò di poco il vecchio Impero. Romano si scostò, guardò torvo il nipote e riprese - … un’arma. Sono cose pericolose, proibite e molto dannose. -
Feliciano fece un verso di ammirazione, colpito.
- E se dovessi difendermi, nonno? – chiese dopo un po’.
Romano ci pensò su per qualche istante. Indicò a Rovino un’antica macchina di tortura con cui giocare, si sistemò i calzari ed alla fine, ispirato, parve trovare una risposta adeguata.
- Sorridi, Feli! Non c’è battaglia che… -


- … non possa essere vinta con un grande, enorme sorriso! -
E Feliciano Vargas sorrise.
Ludwig, senza dire niente, prese il proprio cappotto ed uscì sbattendo la porta.
- Stai andando ad esercitarti su come sorridere, Germania? – si sentì urlare di rimando.

Al diavolo le tradizioni.
Nascono soltanto dall’ignoranza.

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Capitolo 7
*** #7. Ser rencoroso. { Antonio, Rovino ***


« Un popolo difende sempre più i suoi costumi che le sue leggi. »
Charles-Louis de Secondat



Antonio aveva preparato un delizioso piatto spagnolo il cui nome ricordava quello di un campo sterminato.
Cenarono in cucina, mentre gli raccontava del sogno che aveva fatto la notte precedente dove, come al solito, il tarlo del pentimento aveva cominciato a rodere poco per volta.
- Ci ho pensato a lungo, Rovino. – mormorò con quel tono atono ed un po’ fiacco che usava quando non voleva sembrare troppo serio – Ti ho privato di troppe cose in questi anni. E’ giusto che anche tu possa ottenere quello che ti spetta di diritto. -
Rovino Vargas rimase stranamente in silenzio, lasciando allo spagnolo il tempo di riordinare le idee. Antonio si chiese perfino se avesse detto o fatto qualcosa di sbagliato. Attese a lungo. Alla fine, col piatto intonso ancora davanti, decise di rialzare gli occhi.
L’italiano lo sfidò ad una lunga battaglia di sguardi, fino a quando il matador, infastidito, non riprese nuovamente parola.
- Sto parlando di libertà, Lovinito. -
- Mi piacerebbe molto, certo, ma in tutta franchezza credo che non sia abbastanza. -
Allacciò le dita sotto il mento e sorrise felino. Antonio lo fissò per un paio di istanti, ad occhi sgranati. Forse non aveva capito bene. Si schiarì la voce e tentò di mettere le parole in fila.
- Ma, Lovino… forse non hai capito… è di libertà che sto parland… -
- Ho capito benissimo. Semplicemente non sono interessato. -
- Lascia che ti aiuti… -
- Non è un aiuto che sto cercando, minchione. -
- Allora cosa…? – la voce di Antonio gli arrivò incerta e inquieta.
Lo osservò alla luce dell’alto sole spagnolo. Sembrava pallido e preoccupato.
Alla fine, come in una pellicola di cattivo gusto, le sue labbra si inarcarono in un sorriso metallico e aguzzo. Antonio si zittì.
- Vedrai. -

- Perché? – protestò – … davvero, perché? -
Antonio abbassò lo sguardo, vinto dalla vergogna. Tacque.
Gli pizzicava il naso: pochi minuti prima Rovino Vargas l’aveva raggiunto, anche se poi si era infilato a tutta velocità in uno dei magazzini della tenuta.
Era tornato con una specie di camicione lungo due metri che sembrava rubato dal corredo di una principessa.
Quello che ora la Nazione del sole aveva indosso, per l’inciso. Con ogni singolo strato di polvere raggranellato in più di cinquant’anni, pizzi, merletti ed una buona dose di insoddisfazione. Per lo meno da parte propria.
Rovino era fin troppo entusiasta perfino per ricordarsi cosa significasse realmente, la parola “insoddisfazione”.
- Capisco il risentimento, ma Lovinito… davvero… non ti sembra di stare esagerando? – mormorò l’altro, mentre cercava di aggiustarsi la spada in maniera, se non proprio comoda, almeno decente.
- Esagerando questo gran paio di cazzi, deficiente! Hai idea di cosa abbia significato dover pulire ogni giorno questa stalla che ti ritrovi per casa vestito come la sorella ritardata di quel maniaco di un francese? -
- Sì, ma… -
- Ah, non parlare che mi deconcentri! E ora, dove diavolo l’ho messa la calzamaglia? -
Antonio sospirò, piano, mentre con il piede cercava di far perdere le tracce della suddetta calza sotto un divano tutto seduta e spalliera. Per lo meno, si ritrovò a pensare, il tarlo del risentimento era scomparso.
Anche se, con ogni probabilità, far sparire l’irritazione provocata da tutti quei merletti non sarebbe stato altrettanto facile.

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Capitolo 8
*** #8. Szerelem és kamat. { Gilbert, Elizaveta ***


« L'amicizia è un contratto col quale ci impegniamo a rendere a qualcuno piccoli servigi perché ce li ricambi con dei grandi. »
Charles-Louis de Secondat



- Prego? -
Elizaveta Héderváry lo guardò senza capire.
Gilbert Beilschmidt cercò di farsi intendere con un gesto della mano. La sola idea di dover scendere nel particolare gli dava i capogiri, anche se a parlare era pur sempre la sua onorevole persona. L’ungherese si appoggiò con una mano ad una padella tutta scassata e si sostenne mentre le guance dell’altro ripercorrevano l’intera scala cromatica e ritorno. Non era ancora del tutto sicura di aver capito bene.
- Intendo dire… avevi fame e ti ho nutrita, avevi sete e ti ho dato da bere… -
Il tedesco si fermò un istante, assorto. Quel discorso aveva la sensazione di averlo già sentito da qualche altra parte.
Elizaveta appoggiò la padella sullo scrittoio di casa Eldelstein e la lasciò lì per qualche secondo.
Senza dire una parola, serrò la presa attorno all’impugnatura e assottigliò lo sguardo. Gilbert si vestì del suo miglior sorriso ammaliatore. Poi, lentamente, raccolse fiato e coraggio e prese di nuovo parola.
- Il meno che puoi fare adesso per sdebitarti, donna, è uscire col magnifico me! -
Gilbert Beilschmidt aprì gli occhi e sorrise. Elizaveta, pallidissima, ricambiò. Poi sollevò la padella.

A parte una discreta manciata di denti lasciare senza un fiato la propria bocca, fu l’ultima cosa che il tedesco ricordò di aver visto in quell’assolato pomeriggio in casa Eldelstein.

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Capitolo 9
*** #09. Eintritt interdite { Vash; !Tutti ***


« La mediocrità è una ringhiera. »
Charles-Louis de Secondat



Jean-Jacques Russeau glielo diceva spesso. Eppure Vash il più delle volte preferiva di gran lunga fingersi sordo da ambo gli orecchi.
L’altro non demordeva e continuava a fissarlo, immobile qualche spanna sopra di lui, e a parlargli con quell’accento bislaccamente francese ed i modi morbidi di chi ha smesso di rigare dritto da troppo tempo.
Forse fu per questo che Vash Zwingli non gli diede mai ascolto. Se l’idea che l’altro potesse aver barattato i buoni principi svizzeri con quelli francesi lo aveva sempre infastidito, la consapevolezza che adesso, dimentico di tutta la buona letteratura del proprio paese, si fosse messo ad enunciare francesismi a caso gli dava semplicemente il voltastomaco.

Tuttavia negli ultimi tempi il biondo si chiedeva spesso, tanto per citare un esempio, per quale recondito motivo gli italiani dovessero attraversare i suoi giardini sempre e soltanto in mutande, e sempre e solo dopo aver scavalcato ogni sacrosanta recinzione lanciati all’inseguimento di biondi teutonici.


- Doitsu! Doitsu!
Perché stai scappando? Allora davvero non mi vuoi più bene? -
- Al diavolo Italia! Tu e le tue idee per ripararti dal freddo! -


E in mente gli veniva una sola risposta.
La mediocrità è una ringhiera.”


O perché diavolo un francese arrapato di qualsiasi cosa avente il raro dono del respiro aveva deciso di mettersi al seguito di sua sorella, pronto a evocare le grazie della propria dama con serenate tanto sconvolgenti quanto poco azzeccate.


- Parlez-moi d’amour, Mariù… -
- Si chiama Lily, pezzo di deficiente! –


Vash spesso li guardava, per poi tornare con lo sguardo alla ringhiera della propria casa. Di quella lena, l’epifania ci mise relativamente poco ad arrivare.
Il tempo di una nuova incursione soltanto.


- Romano! Non tenere il muso, suvvia! Anche tu sei carino!
Certo, sempre meno di Ita-chan però… Roman… Romano…? Cosa fai? P…osa la lupara! Posal- BANG! -


La mediocrità non è un ringhiera, ma la soglia che divide i folli dai sani di mente.
O, più precisamente, il resto del mondo dai soli due residenti di casa Zwingli.

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