Eidolon

di Silver Pard
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cocito ***
Capitolo 2: *** Acheronte ***
Capitolo 3: *** Mnemosine ***
Capitolo 4: *** Erebo ***
Capitolo 5: *** Tartaro ***
Capitolo 6: *** Prateria degli Asfodeli ***
Capitolo 7: *** Lete ***
Capitolo 8: *** Campi Elisi ***
Capitolo 9: *** Stige ***



Capitolo 1
*** Cocito ***


Note della traduttrice che stavolta ci terrei leggeste: so già che molto probabilmente a leggere questa storia saremo io, la mia beta, il cane della mia beta se solo sapesse leggere e il mio cane se solo avessi un cane, e mi sta anche bene.
Lo capisco perché neanche l’originale ha avuto tanto seguito, ed è una delle storie (meta storie) più strane che abbia mai letto, contando quella in cui Cloud si masturba insieme a Tifa con la mano del cadavere di Aeris (non guardatemi così, non sono io a cercare queste storie, sono loro che trovano me. Vi ho mai raccontato di quella in cui Nanaki fa cadere in disgrazia Cosmo Canyon perché se ne sta tutto il giorno, e intendo tutto il giorno, nella soffitta di Bugenhagen ad affittarsi i filmetti porno e a giocare a poker su internet? I DON’T EVEN-).
All’inizio si fatica a seguire, a dispetto dello stile fluido, e tutta la cornice narrativa alla fine è un po’ un pretesto per parlare di FFVII, quindi è più che comprensibile l’accoglienza freddina che ha ricevuto e immagino riceverà. A volte ho quasi l’impressione che sia una collezione di essay travestita da fanfiction.
In questa lunga storia sostanzialmente non succede niente o quasi, eppure è incredibilmente ricca e ragionata, tappa i buchi più imbarazzanti della trama e delle caratterizzazioni di Advent Children con un certo successo, senza mai essere per questo arida e fredda. Contiene delle riflessioni e analisi veramente interessanti, approfondite e a tratti filosofiche sul gioco e sui personaggi, e pur non condividendo ogni singola riga e ogni singolo paragrafo e neppure quella che potrebbe essere considerata la visione d’insieme, ho trovato comunque bello poter leggere delle introspezioni così acute e talvolta spietate scritte da una penna intelligente. Spero lo stesso valga per voi, se ci arriverete.
Non fatevi spaventare dai paragrafi sui cuori e le chiavi, non è tutta così e dopo un po’ si capisce cosa diamine sta succedendo xD
Per la cronaca, l’ho tradotta (e neanche malissimo) quasi tre anni fa nel giro di una settimana. Non chiedetemi perché ci ho messo tanto a pubblicarla perché non lo so.
AH! Prima che la lettura possa diventare più complicata di quello che è: la storia è ambientata tra il gioco originale e Advent Children, e solo di questi due tiene conto.
Zack è uno dei protagonisti della storia, ma il modello di riferimento non è il personaggio per certi versi semplicistico di Crisis Core. Non che sia completamente diverso, eh, in fondo i tratti base derivano dallo stesso personaggio abbozzato nel gioco originale, però la differenza si nota :)
Fosse stato per me avrei aggiunto anche Tifa ai personaggi, ma non c’entrava e mi premeva di più sottolineare il fatto che questa è una storia che tocca almeno di sfuggita praticamente tutti i personaggi del gioco. Però anche se da questo capitolo non si direbbe, pure a lei viene data molta importanza, e le vengono dedicati paragrafi veramente strazianti.
Buona lettura.
(btw: longest. note. ever.)







(Cocito)





È cominciata nel sangue. Come tutto. Per te è cominciata con la tua città natale, per alcuni è cominciata con un neonato e sua madre che moriva con il sangue ancora umido sulle cosce, e forse per qualcun altro ancora che ne sappia qualcosa è cominciata con un reperto congelato ritrovato da scienziati senza buon senso. Sbagliato. Questa è una cosa antica, che va molto più indietro. Non ha niente a che vedere con te, con noi. Ma ci ha investito comunque, ci ha avvicinato tutti con un unico colpo di rete cosmico che ha intrecciato le vite di tanti estranei.

Ha tutto a che vedere con te, con noi.

Che fai? Vieni, perché viaggi, paghi le bollette, giochi, aspetti che il telefono squilli – perché ti comporti come se fosse un giorno qualsiasi? Questo è l’anniversario, unisciti alla mascherata, ti stiamo aspettando.

Seguici. Lasciati tutto alle spalle per un po’, non ti servirà. Cammina con noi come noi abbiamo camminato al tuo fianco; dimentica queste cose mortali che non hanno significato e ricorda.

Non andartene! Perché tanta amarezza? Perché nessun altro ne capisce il valore? Tutti dimenticano; è così che funziona – per te non è forse questa la prova della misericordia del tempo, invece del contrario? Tutti dimenticano. Tranne te, certo. Tu, che ti ritrovi con una testa guarita ma maledetta da un ricordo che riporta facilmente alla luce specifici eventi, crudele come la verità e reale quanto la morte.

Ricordi la sensazione delle fiamme nel giorno in cui il tuo mondo è stato spazzato via come un castello di carte da un soffio di vento, il loro vivissimo calore che ti solleticava la pelle? Ricordi i suoni, l’odore, il sapore, ricordi il rumore crepitante della carne umana che si carbonizzava intorno a te, le grida di quelli che si rifiutavano di spegnersi nel silenzio della notte, il sibilo smorzato di una lama e del sangue?

Ricordi la lama del bisturi, lo scintillio della luce intercettata dalla sua punta sottile, l’aspro terrore che evocava e che riuscivi ad assaporare sulla lingua? Ricordi la paura che la tua pelle fosse diventata vetro e che un respiro troppo profondo, troppo lungo, potesse infrangerti in mille pezzi, minuscole schegge di te troppo piccole per potersi riunire ma troppo grandi perché potessi disintegrarti nell’oblio?

Ricordi il suono dei proiettili che laceravano la carne, la vista del sangue che descriveva un arco in aria, le goccioline rosso carminio che ti bagnavano la faccia e ti s’infilavano negli occhi nebulosi drogati di Mako?

Ricordi quel suono, quello della spada che le penetrava nella carne? Il modo in cui le mani le cascarono ai fianchi, le dita che si sciolsero dal gesto di preghiera, la maniera in cui il fiocco le si sfilò dai capelli in assurda sincronia, e la Materia che cadde sull’altare, producendo a ogni rimbalzo un piccolo scampanellio musicale che ti ha dilaniato nel profondo?

Ricordi il viso di lui, mentre la tua, di spada, affondava, e poi ancora e ancora e ancora, il rumore rantolante, come di risucchio, di quando la estraevi dalla carne per rimmergerla subito dopo un’altra volta, solo un’altra volta ancora, il sangue delle arterie che ti schizzava in faccia e lo sguardo nei suoi occhi che si spalancavano per il – ah, no.

Tortura? No. In cuor tuo sai che è giustizia. In fondo tu sei quello fortunato. Tu sei ancora vivo.



Com’è essere morti? Provate a indovinare.



Mi conoscete, credo. Zack Fair, al vostro servizio. O voi siete al mio?

Ah, così mi conoscete davvero. Pronti? Andiamo a farci un giretto, dai. Ci sono migliaia di posti da visitare, centinaia di vite da esaminare, tante di quelle cose da rimpiangere.

Da dove iniziare?

Da qui. Dall’inizio della fine, o la fine dell’inizio, come potrebbe filosofeggiare Valentine. La mia morte. Le nostre morti.

Quando sono morto io, mi sono trasformato in uno specchio. Nell’istante in cui quel proiettile fatale mi attraversò il cranio mi tramutai in vetro e rimasi intrappolato dall’altra parte, un’immagine del tempo passato, di un’era ormai conclusa.
Vidi Cloud, lo vidi allungare una mano dentro lo specchio ed estrarne il mio cuore di cristallo. Si aprì il petto con una lunga chiave deforme che divenne un nome, e all’interno del torace il suo cuore fatto di mytrhil, e nebbia, e fulmini si accese di rabbia e tristezza.
Una piccolissima chiave formata da un’ala legata a una catena aprì il cuore di mythril e nebbia, e fu lì dentro che lui ripose il mio cuore, dove batté e gridò il mio nome mentre lui richiudeva tutto con la chiave con l’ala e sigillava di nuovo il petto con la chiave che era un nome.

Ma io non vidi nulla. Quando mi tolse il cuore, lo specchio esplose in centinaia di migliaia di schegge e diventò un’armatura, e in ogni piastra scorgevo il mio viso.

Quando mi risvegliai, ero parte di questa sottilissima esistenza, di questo luogo teso di ricordi e Lifestream, di questa semplice realtà tra la veglia e la Terra Promessa, la cosa più vicina alla vita che la morte consenta.

Sephiroth mi ha detto che quando è morto lui – la prima volta – stava affogando in un mare di lacrime. Aveva una catena di inchiostro e seta nera attorno alla caviglia sinistra che lo ancorava al basso e una catena d’oro e d’argento annodata al braccio destro che cantava con voci metalliche, e scalciando e dimenandosi per tornare in superficie trasformò il mare di lacrime in uno di sangue.
Il sangue divenne un ponte che oltrepassò fino a raggiungere una sponda bianca, dove le catene lo strattonarono in due direzioni differenti: una conduceva a un sentiero luminoso di fuoco purificatore, l’altra conduceva a un sentiero d’ombra e spine.
Scelse – o forse no, non saprei – il sentiero d’ombra e spine, annodandosi la catena che cantava attorno al corpo per non dimenticare, e camminò e camminò, lasciando dietro di sé lacrime di cristallo screziate di sangue a segnare il suo percorso fin quando i due sentieri non si combinarono nuovamente.
In una radura di rovi e fiamme incontrò un ragazzo con delle cicatrici sulle ginocchia che gridava e piangeva e lo supplicava di andare via, ma era il primo essere che Sephiroth vedesse da quella che sembrava un’eternità e lo abbracciò e non lo lasciò andare. Il ragazzo gli scivolò tra le dita come un sogno, e lui lo legò alla catena d’oro e d’argento che cantava, così che nessuno dei due potesse correre abbastanza lontano da lasciare indietro l’altro.

Quando si risvegliò, non aveva perso le catene come io avevo cessato di essere lo specchio, e non riusciva a rimanere immobile e a riposare perché entrambe lo strattonavano in due direzioni differenti; scelse la catena di inchiostro e seta tenendosi stretto a quella che cantava, senza riuscire a ricordare il perché.

Aeris mi ha detto che quando è morta lei, le erano spuntate sulla schiena due gigantesche ali bianche. Volò alta e lontano nel cielo, tanto lontano che il Pianeta divenne piccolo come una Materia che lei racchiuse tra le mani. Ci respirò forte dentro per colorarlo di un verde brillante e se lo portò al collo dove quello cantò in milioni di voci che la rimpicciolirono nella sua vecchia pelle, che si increspava e brillava come il Lifestream.
Le milioni di voci si unirono in un fiocco che la guidò lungo la nervatura di vene sottili del dorso di una foglia che divenne un labirinto al centro del quale, mi raccontò, vide la mia schiena, ma io scivolai nella mia ombra quando tentò di tendere le braccia verso di me e precipitammo sempre più in un cielo senza colore prima di atterrare in un campo di fiori bianchi e gialli.

Sono state queste le strade che abbiamo attraversato per arrivare all’altro lato della vita.



Nella chiesa i fiori germogliano ancora, e in mezzo a loro si celano minuscoli ricordi, piccole istantanee d’affetto – nastri e fiocchi scuciti, bigliettini arcuati e ingialliti dal tempo, parole illeggibili sbavate dalla pioggia e dalle stagioni che dichiarano che non la dimenticheranno mai, un fiore giallo avvizzito, schiacciato con cura e imprigionato nella plastica come una mosca nell’ambra. Lui continua a tornare qui. (—I criminali tornano sempre sul luogo del delitto, eh?

—Zitto, Zack, dice seccamente Aeris, dandomi una gomitata nelle costole.)

Questo è il posto in cui lui ci è più vicino, in particolar modo ad Aeris, tanto che quasi riesce a percepirla mentre gli gironzola accanto, quasi ascolta la sua voce con le orecchie. È Aeris che Cloud chiama, sono le conversazioni con Aeris che sente e ricorda, ma è Sephiroth che gli si apposta quasi sempre vicino alla spalla a scrutare ogni sua azione con odio o pietà o disinteresse o direttamente nessuna emozione, perché decifrare correttamente il suo volto è pressoché impossibile. (—Non lo odio, dice Sephiroth con semplicità. Rovina poi prontamente il momento redentore aggiungendo quasi sovrappensiero: —Non ora, perlomeno. Aeris e io ci guardiamo e decidiamo in silenzio e di comune accordo di fingere che l’ultima frase non sia mai stata pronunciata.

—Lui ti odia, gli rispondo io piano. —Tu l’hai distrutto.

Lui mi sorride come se non gli avessi appena detto che ha distrutto un uomo. —Lo so, assicura. —Ma si dà il caso che lui mi piaccia di più così.)

Potrebbe essere l’odio o la rabbia o la paura oppure semplicemente la memoria a indurre Cloud a pensare a Sephiroth e di conseguenza a chiamarlo tanto spesso; fatto sta che è una chiamata che lo attira con una tale forza che gli sarebbe letteralmente impossibile stargli lontano.

Non che conti molto, dato che a Sephiroth piace da morire perseguitarlo. Ha imparato che il suo tocco fa riaffiorare ricordi e incubi, brevi squarci di immagini in rapida successione che fanno agitare e tremare Cloud, e così, a tempo perso, gli sfiora il viso con le dita affusolate, e la spalla, la gola, il delicato lobo dell’orecchio, la nuca. Il suo tocco è un veleno che s’infiltra nella pelle, nel cuore, e nella mente di Cloud, gli corrode i pensieri con ricordi che è stanco di mettere sotto chiave.

(Sephiroth è più grande di noi, ma il piacere che trae da questa meschina crudeltà… Non è stato sempre così. La sua mente… diciamo solo che non tornerà mai più come prima.)

Ogni notte ci lascia per osservare Cloud mentre dorme, a volte furioso per un battito dato per scontato, altre solo ferito e disperato e stanco di non essere nulla. È soprattutto il non essere nulla che non riesce a sopportare, perché per moltissimo tempo è stato tutto per tantissime persone; non riesce ad accettare di essere dimenticato tanto facilmente. Per questo si avvinghia a Cloud, che non riesce ad abbandonarlo, e anche quando vorrebbe non può andarsene. Alla fine ha capito che i fili da burattino a burattinaio che li uniscono possono funzionare da entrambi i capi.

Perché sei tu quello che dovrebbe vivere? Perché tu?

Perché fin quando Cloud vivrà, Sephiroth rimarrà qui, a guardarlo fare ogni respiro.

(—Finalmente l’immortalità, dice Sephiroth in tono asciutto, un lampo di raro umorismo nero che pensavamo tutti perso con lui tanti anni fa.)

È passato un anno da quando Sephiroth è morto per la seconda volta, dalla caduta di Meteor, da quella che avrebbe potuto essere la fine del mondo. Un anno, ed è cambiato tutto e niente.



Per quanto riguarda Sephiroth… Fatemi cercare di spiegare.

No, se cercassi di spiegarlo potrei solo peggiorare le cose. Rischieremmo di confondere ancora di più le cose.

Da dove comincio? Bisogna fare una scelta, quando si muore. Ci sono tante Terre Promesse, tante di quelle vite dopo la morte e tanti di quei modi per arrivarci quante le persone che popolano il mondo, e ognuno decide la sua strada.

Alcuni non vogliono stare qui, si uniscono al Lifestream e diventano parte di un nuovo tutto – l’erba, la terra, le nuove creature, ogni cosa, e una volta lasciato tutto ciò che sono stati non sanno mai di sentirne la mancanza. Altri trovano la loro Terra Promessa, altri ancora diventano quello che si potrebbe definire un “fantasma”; certe persone si addentrano in luoghi oscuri che pochi hanno il coraggio o la convinzione di raggiungere. E a volte non è nemmeno del tutto una nostra scelta, ma vostra, perché siete voi ad avere bisogno che la facciamo.

Per esempio: Aeris una volta mi ha raccontato di una bambina che aveva visto in strada, che guardava la propria madre. Ma la bambina era morta, e quello che ne rimaneva stritolò il cuore della madre in un pugno di ferro, le lacerò la gola facendole scappare un ansito che formò il nome di sua figlia. Sei venuta per me? chiese la madre nella propria testa, e Aeris avvertì la nostalgia che le divampava dentro, una marea che non si sarebbe mai prosciugata.

Ma un secondo dopo non riusciva più a vedere la bambina, e per quanto il cuore insistesse nel ripeterle che era ancora lì, la sua mente stava già accampando scuse – Non ho visto la mia bambina morta che mi aspettava a quell’angolo della strada. La mente ha ingannato i miei occhi, mia figlia è morta. I fantasmi non esistono. Non voglio vederla. È acqua passata.

Ci sono tante Terre Promesse quante le persone che popolano il mondo; dipende tutto dal punto di vista. Questo lo capite?

Permettetemi di essere schietto. Qualcosa è andato storto mentre Sephiroth compiva la sua traversata, quando si è incamminato sul sentiero che porta dalla vita a quello che si trova al di là della vita. Se non fosse stato per Jenova non credo che adesso sarebbe qui. Il Sephiroth che conoscevo io non avrebbe mai scelto questo posto; non era il tipo di persona che si lega invano al mondo dei viventi, che vuole trascorrere il resto del suo tempo a guardare ciò che non può cambiare. In lui è rimasto abbastanza di quello che era per capire che questo non è il luogo adatto a lui, ma non abbastanza per sapere dove esattamente avrebbe dovuto andare.

È per questo che imbracciò (imbraccia) le catene. Una catena era per Cloud, e se l’era forgiata da solo usando sensi di colpa, necessità di ancorarsi a qualcosa e una ciocca di capelli d’argento in modo da renderla parte di sé e da non poterla sciogliere neanche volendo. L’altra catena era opera di Jenova, ma se la strinse intorno di sua spontanea volontà. Lo legarono al regno dei vivi, ma in due modi completamente diversi, e perciò si è diviso in due.

Quello che mi piace chiamare Il Vero Sephiroth™ ogni tanto faceva la sua comparsa qui, un’apparizione sobria e solenne che non riusciva a stare in un posto solo per molto, intrappolato in questo luogo sospeso nel mezzo. Malgrado i suoi sforzi non riusciva ad andarsene, e appariva qua e là ma soprattutto dove e quando Cloud aveva più bisogno di lui.

L’immagine di Sephiroth, lo zimbello di quello che era stato, era di Jenova. Non era affar nostro – apparteneva al mondo dei vivi, ed era un problema loro. (E se credete a questo, potete credere a tutto.)

Pensavamo tutti… beh, io pensavo che quando il suo corpo fosse morto, lo spirito sarebbe tornato ad essere uno.

Ah, beato schifoso ottimismo. La seconda traversata di Sephiroth fu ancora più disastrosa della prima. Non so cosa sia successo, perché Sephiroth non è mai stato in grado di spiegarcelo, non ha mai avuto abbastanza coerenza, ma ciò che è venuto fuori dopo la fine non è né Il Vero Sephiroth™ né lo zimbello jenoviano.

È il più grande mistero di questa vita dopo la morte – dov’è Il Vero Sephiroth, quando ritornerà… O forse questa persona danneggiata che io e Aeris vediamo ogni giorno è il vero Sephiroth, la somma totale della sua devastante esperienza? E se il burattino di Jenova si fosse fuso con il Generale alla sua seconda (vera?) morte? E se la cosa rincoglionita che passo le mie giornate a compatire e temere fosse in realtà l’oggetto genuino?

Tanto tempo fa, Sephiroth aveva una mente brillante. Ora ha queste piccole scaglie fratturate di pensieri che non solo alle volte sono del tutto incompatibili tra loro, ma addirittura, quando in aperta contraddizione, lottano ferocemente come Turk rabbiosi che si contendono l’ultima tazza di caffè. Avendo tre idee distinte e separate praticamente su ogni cosa, oltrepassa la linea sottile tra i vari assortimenti belligeranti di pensiero come un ubriaco che fa il test del palloncino.

Una maniera contorta per dire che è completamente pazzo. Dategli cinque minuti e ve lo dimostrerà.

Quindi, adesso che lo sapete, dove andiamo?

L’inizio. O perlomeno quello che è stato il nostro inizio. Ma qual è stato il punto di partenza? A Wutai, dove ho visto un uomo-mostro radere al suolo un’intera nazione e gli sono diventato comunque amico? Quando ho incontrato Cloud, che sarebbe diventato il salvatore del mondo? Quando Sephiroth ha deciso che la piromania era il futuro? Quando sono morto e Cloud si è trasformato in qualcosa di diverso da Cloud? Quando ci siamo rincontrati tutti? Da dove volete che cominci? È tutto così confuso.

Che ne dite di questa – non ne parliamo affatto. Mica male?



Wutai è aspra e bellissima. Ricordo di aver pensato questo mentre ero lì. Wutai è aspra e bellissima, e lo insegna alla sua gente. Hanno un profondo rispetto per la loro terra, perché la terra è potente e loro non sono nulla di fronte a lei. Wutai insegna alla sua gente a essere orgogliosa, a essere aspra, a non arrendersi mai, perché altrimenti non si sopravvive. Wutai insegna a trovare il piacere nelle cose semplici – a trovare la bellezza nel temporaneo e la pace nell’eterno. Avevo una voglia incredibile di vedere le cose come la gente di Wutai, di capire.

Mi vergognavo a non conoscerla, e mi vergognavo al pensiero di quanto invidiassi il nemico. Ma chi se ne fotte, ero molto giovane. Sono ancora molto giovane.

Ero a Wutai da un mese, e stavamo di vedetta, io e un mio amico, e discutevamo bonariamente dell’inutilità dei nuovi posti di guardia, di quali teorie del complotto fossero tanto ridicole da poter essere vere, e di quella vecchia lagnanza militare che è la burocrazia. Lui era più grande di me, aveva almeno il doppio dei miei anni, e si era assunto la responsabilità di farmi quasi da precettore, di guardarmi le spalle (l’età minima per entrare nell’esercito dovrebbe essere quattordici, ma la guerra andava avanti da tanto tempo e ormai a nessuno importava particolarmente quanti anni avessi se sapevi impugnare una pistola).

Mi parlò un po’ di sua moglie che stava a Midgar, e del fatto che presto avrebbe avuto un congedo. Quando gli argomenti di conversazione si esaurirono, osservammo i nostri respiri cristallizzarsi in aria, e io alzai gli occhi alle stelle, così luminose e chiare, e inspirai l’aria fredda tanto profondamente che la gola mi bruciò al ritmo del cuore e mi fecero male i polmoni, e ogni respiro ricordava un rantolo rubato a un uomo morente.

« Stanotte nevicherà » disse il mio amico. Era a Wutai da molto tempo, quasi dall’inizio della guerra, e conosceva i segni premonitori di un inverno di Wutai. « Stanotte o domani. »

(Aveva ragione. Fu la nevicata più grande che avessi mai visto – Gongaga è circondata da alberi che ci riparano dai venti freddi del nord, e al di là delle foreste le pianure sono sconfinate e piane, il clima è temperato. La neve ricoprì il corpo del mio amico tanto che alla fine sembrava solo un bizzarro rialzamento della terra sottostante, riempì le ultime impronte della sua vita, colorò le macchie rosse di infido bianco. Quando gliela spazzai di dosso, la pelle gli era diventata blu e i suoi lineamenti erano orlati di brina. Le piastrine gli si erano incastrate nel torace, e quando le tenni sospese di fronte a tutti gli altri, strisce di carne congelata scivolarono giù come nastri.

Ci furono tante di quelle battaglie in quel periodo che la lettera di condoglianze fu spedita solo sei mesi dopo.)

Ma tanto non lo stavo ascoltando. Stavo pensando al fatto che non avevo mai elogiato la cucina di mia madre, a quanto avrei dovuto farlo. Stavo pensando al bambino-generale con i capelli d’argento, a come sarebbero diventati di puro bianco se incorniciati dalla neve, e ai suoi freddi occhi verdi, e al fatto che ormai non era più un bambino e probabilmente non lo era mai stato.

Mi stavo dando dell’imbecille perché mi piaceva lo stesso, anche dopo aver visto ciò che aveva fatto ai prigionieri di guerra, e perché tentavo di essere suo amico, perché ero diventato un soldato per vedere se era davvero come era apparso in televisione tanti anni prima. Aveva avuto quattordici, quindici anni (poco più che un bambino! Mia madre aveva pianto, anche se all’epoca aveva quasi il doppio degli anni miei, ma bastarono i pochi secondi di un video traballante che lo ritraeva sul campo di battaglia per arrestare le sue lacrime). Stavo pensando a quanto mi fosse sembrato composto ed elegante anche allora, quando era in bilico sulla linea indistinta tra l’adolescenza e la maturità, e invidiavo la facilità con cui era riuscito ad attraversarla ora che io stesso avevo raggiunto quel periodo goffo.

Stavo pensando alla battaglia che ci sarebbe sicuramente stata il giorno dopo, e mi chiedevo se sarebbe stato l’ultimo.

Sentivo che morire avrebbe potuto piacermi, perché in quel momento la gola mi stava uccidendo, e stavo pensando a quanto Wutai fosse simile alla sua gente, o forse a quanto avesse imparato da lei la sua gente – a essere aspri e bellissimi, morte o vittoria, sempre, senza mezzi termini.

« Mi arrendo » sbottò il mio amico fingendosi irritato. « Non pensare troppo, testa di riccio, potresti danneggiare qualche rotella. » Si allontanò e mi salutò con la mano, e annotai mentalmente di scusarmi il giorno successivo per averlo trascurato da pessimo amico, quando ne avessi avuto il tempo, non appena l’avessi rivisto.

Ogni tanto lo cerco, quando Aeris va nei suoi campi e Sephiroth fa la sentinella a Cloud e gli picchietta le dita sulla fronte mentre elabora metodi per ucciderlo, ma il Lifestream è vasto, e perché mai al mio amico dovrebbe essere capitato quello che è successo a me?

Forse se n’è andato. Forse il suo spirito si è già buttato tutto alle spalle, è divenuto parte di qualcosa di nuovo, parte dell’erba, dei fiori, dell’acqua e delle creature che nascono ogni giorno. Non lo so. Credo di sì.

Ma così ho qualcosa da fare. Così posso non pensare alla stanchezza negli occhi di Aeris quando di notte abbraccia Tifa e le dice di non piangere. Così posso non pensare al ghigno beffardo di Sephiroth quando guarda le masse cieche che gremiscono le strade. Così posso non pensare al mio odio per i pellegrinaggi di Cloud a quel pezzo di terra spoglia dove ha conficcato la mia spada, intaccata dalla ruggine e vecchia, una cosa che non ha più niente a che vedere con la lama che custodivo gelosamente.

(E a volte vorrei chiedere, chi cazzo ti credi di essere per tenerci ancorati qui?)



Se vuoi sopravvivere agli orrori della guerra devi ridere, giocare, baciare ragazze carine, e fare anche di più se loro te lo permettono.

Non ti tieni i tuoi sentimenti stretti al petto, ammantandoti nell’immagine del soldato perfetto, incapace di avvicinarsi agli altri, incapace di condividere, mentre li seppellisci sempre più giù per fingere che non siano mai esistiti.

Non ti carichi al massimo come un giocattolo, perché prima o poi esploderai.

Ah, Nibelheim.

(Fuoco, fuoco ovunque, e non uno strizzacervelli nei paraggi manco a pagarlo oro.)



Nibelheim la ricordo così. Mi sanguinava il labbro, l’avevo morso fino a romperlo quando ero uscito dal maniero e avevo visto quello che aveva fatto il mio migliore amico. Sentivo il calore delle fiamme sulla pelle, superava persino gli stivali. Scorsi Cloud fuori dalla sua vecchia casa, e ricordo di averci guardato dentro e, senza volerlo, di aver visto sua madre – non poteva essere nessun altro, con quei capelli – fissarmi con degli occhi vuoti e accusatori. Era ricoperta di sangue, e il suo vestito prese fuoco mentre ancora la guardavo, vidi le fiamme ammantare lei, la sua pelle, il suo viso, il suo viso-

Ricordo che Cloud pronunciava un nome (Se…phi…roth…) a scatti, a pezzi, come se fosse composto da schegge d’ossa che doveva sputare per non strozzarsi. Ricordo di essermi chiesto perché fosse lì, visto che era rimasto a guardia dell’entrata del seminterrato da quando Sephiroth si era rinchiuso lì sotto.

Forse aveva visto la follia negli occhi di Sephiroth mentre lasciava il seminterrato ed era corso avanti per cercare di raggiungere sua madre prima di lui? Aveva strisciato obbediente dietro di lui per poi rimanere inorridito a guardarlo mentre ammazzava la prima persona che gli aveva chiesto se stesse bene? Aveva abbandonato il suo posto per andare a far visita a sua madre, perché tanto Sephiroth era lì già da una settimana e non dava cenno di muoversi e se anche fosse sparito per qualche ora nessuno vi avrebbe fatto caso? Lei lo stava circondando di premure quando Sephiroth si era precipitato in città col fuoco negli occhi e la Masamune tra le mani? Ma in quel caso come ci era finito, lì fuori?

Non l’ho mai chiesto. Non si ricevono tutte le risposte venendo qui. Tutto il presente è a nostra disposizione, ma il passato ci è precluso, e il futuro ci è oscuro come a tutti gli esseri viventi.

Mi inginocchiai accanto a lui, e fui grato del fatto che non sembrasse vedermi, che continuasse a chiamare il nome di Sephiroth soffocando su quelle sillabe di ossa, perché altrimenti avrei dovuto dirgli, « Tua madre è morta. » Ma forse già lo sapeva, e mi odiai quando sperai che fosse vero, che l’avesse visto succedere, solo perché significava che non avrei dovuto dirglielo io. Poi intravidi Sephiroth tra una cortina di fuoco.

Ricordo che lasciai Cloud lì e lo inseguii, troppo carico di furia e odio per fare qualsiasi altra cosa. Ero arrogante, ed ero uno stupido.

Ricordo di aver guardato Sephiroth in faccia e di aver pensato (…………oh, dio, sono morto) che non avevo mai assistito a nulla di più raccapricciante. Ero stato suo amico da abbastanza tempo da poter dimenticare una cosa che non credevo avrei mai potuto scordare – che quell’uomo non era come me, come tutti gli altri, che era qualcosa che andava molto oltre noi. Avevo dimenticato il Sephiroth che avevo visto sul campo di battaglia, avevo dimenticato che questo era lo stesso uomo che aveva sterminato l’esercito di Wutai come un uragano, come un mietitore che taglia innumerevoli spighe di grano con una falce affilata – perché col tempo ero arrivato a credere di non aver motivo di temerlo, che non mi sarei mai trovato nella situazione di dover affrontare la stessa cosa.

Ricordo… che il suo sangue sulla Buster Sword era quasi nero. Era la prima volta in assoluto che vedevo Sephiroth sanguinare, e guardai il suo sangue colare sulla lama della Buster e pensai… pensai (non sta succedendo) che fosse finita un’era, che fosse arrivata la fine del mondo. Vidi il Grande Sephiroth sanguinare per mano di un soldatino qualunque. Lo vidi come – veramente, e per la prima volta, non perché mi piaceva ed era mio amico – un uomo normale. Subito dopo intervennero la mia arroganza e il mio orgoglio, perché vederlo ferito da Cloud, un ragazzo normale, niente di speciale, un soldato semplice della ShinRa (un lupo che aveva finto di essere un cane)… Quasi volevo…

No, è una bugia: io volevo che buttasse via Cloud come un giocattolo, volevo che scagliasse lui contro il muro tanto forte da lasciarci un’ammaccatura, perché com’era possibile che io non fossi riuscito a fare niente e Cloud tutto? Com’era possibile che per lui fosse stato tanto facile scacciarmi via come un insetto fastidioso… ma così difficile anche solo parlare dopo che Cloud gli aveva assestato un colpo come si deve? Com’era possibile che per Cloud fosse stato così maledettamente facile riuscire dove io avevo fallito?

(—Ciò di cui tu non tieni conto, Fair, mi interrompe Sephiroth nel tono più glaciale che gli abbia mai sentito usare, da lucido o da pazzo, se per via del ricordo o per quello che ho detto non lo so, —È che quella che incendiai era la città di Cloud Strife, non la tua. Naturalmente, desiderava la mia fine molto più di te. Per non parlare del fatto che lui è stato intelligente. Lui non mi ha lanciato un avvertimento. Non c’entra niente la Mako o la non Mako.)

È per questo che… ho detto a Cloud di ucciderlo. Io volevo… Cloud… volevo… vederti fallire.

Ho rimpianto quell’istante di orgoglio perverso per il resto della mia vita e oltre, ma questo non cambia nulla, non cambia il fatto che quando vidi Cloud inchiodato sulla Masamune come una farfalla, una parte di me, la parte SOLDIER che era abituata a essere considerata superiore alla gente comune ed era arrivata a credere alle montature giornalistiche, quella parte di me disse .

(—Se non fosse per la mancanza di alternative, mi disse molto pacatamente Il Vero Sephiroth™ con voce funerea quando glielo raccontai, e ricordo ancora la vergogna schiacciante che provai e i suoi occhi che mi studiarono come se vedessero solo sporco, come se vedessero una cosa che gli avrebbe fatto schifo toccare anche solo con lo stivale —Non ti rivolgerei più la parola.

Non me la presi nemmeno, perché quando ci penso, sono io che non voglio più parlare con me stesso.)

Ricordo la faccia di Zangan, corrosa dall’apprensione e dalla determinazione, ricordo di averlo visto oltrepassare Cloud come se non esistesse e raccogliere Tifa tra le braccia prima di uscire di corsa. Ricordo di aver maledetto il suo nome nella mia mente per diverse settimane di seguito per averci abbandonato lì.

Così ricordo la fine del mio mondo.

Parliamo un po’ di Zangan per un momento, proviamo a vederla dai suoi occhi.

Sei un maestro di arti marziali, sei bravo, sei formidabile. Hai cento ventotto studenti in tutto il mondo, da Midgar a Wutai. Quando Sephiroth perde qualche rotella di troppo cerchi di aiutare la gente del villaggio, e questa è cosa buona e giusta (tranne che verrebbe da chiedersi, ma per quale vita li hai salvati? Sono diventati i Mantelli Neri, dopotutto). Tu non lo insegui – tu, un lottatore con tanti anni ed esperienza alle spalle, l’unica persona in paese con una vera possibilità.

(E ti dai del guerriero, vecchio? Sei rimasto a guardare e hai cercato di aiutare gli abitanti del posto solo in un secondo momento… E poi, dopo che un SOLDIER ha tentato, dopo che la tua pupilla di quindici anni e un sedicenne con una preparazione non superiore a quella di un qualsiasi altro soldato semplice della ShinRa hanno tentato, tu abbandoni quella gente come se d’improvviso valessero meno di zero e vieni da noi.

Avevi paura? Hai visto come tranciava uomini, donne, bambini con colpi pigri e semplici di quella lunga spada? Sei rimasto incantato dalla facilità con cui riduceva la gente in carcasse? Ti sei detto che non era la paura ma la prudenza a immobilizzarti mani e piedi?)

Entri nel reattore. Ci sono tre persone. Un ragazzo che non conosci, una ragazza che invece conosci molto bene e un SOLDIER a cui hai detto di uccidere Sephiroth (beh, di sicuro questa storia mi ha insegnato il prezzo dell’arroganza).

Tre persone. Il ragazzo è il più vicino, il ragazzo che ha fatto ciò che tu non hai potuto, quello che tu – un maestro di atri marziali, con allievi da Midgar a Wutai – avresti dovuto fare. Tu questo non lo sai, certo – non c’eri. È gravemente ferito, magari sta morendo.

Forse eri invidioso di questo ragazzo? Dell’impresa di forza che tu non eri riuscito a compiere? O forse era semplicemente colpa del modo in cui stava disteso per terra, accartocciato come un burattino a cui sono stati tagliati i fili, e la parte guerriera del tuo cervello ha visto come stava, ha visto il sangue e il pallore della sua pelle e ti ha detto, non vivrà, mentre la parte umana ti ha detto, non conosco questo ragazzo.

Poco più avanti c’è una ragazza, una ragazza che hai allenato e a cui ti sei affezionato aperta come un tacchino.

È stato solo quello a salvarla dal fato che attendeva gli altri superstiti di Nibelheim? Che era la tua pupilla? Le tue emozioni hanno prevalso sul tuo buon senso, quando ci è stato insegnato di non permetterglielo mai? L’aveva squarciata con un colpo senza nemmeno pensarci; avevo visto la sua pelle, la sua carne scorticarsi e schiudersi come un fiore rosso per rivelare le ossa – hai veramente pensato che lei sarebbe sopravvissuta? Dov’era la parte guerriera del tuo cervello in quel momento?

(Ogni tanto mi chiedo se lui non avesse voluto che lei vivesse. Avevo visto la Masamune passare le ossa da parte a parte come se fossero burro. L’avevo visto squartare persone come un cazzo di artista. Se voleva che qualcuno morisse, quello moriva. O forse era tutto un gioco: se muori, beh, a me sta bene; se hai abbastanza forza da costringerti a vivere, probabilmente te lo meriti. Forse stava giocando con il suo burattino anche allora, e osservava le sue reazioni come si studia un ratto di laboratorio.

Forse semplicemente non gliene fregava un cazzo.)

Il più lontano è l’uomo, anche lui gravemente ferito, ma infuso di Mako che si occuperà in fretta di quelle ferite.

(Mi sarei ripreso. Una questione di giorni, una settimana, io mi sarei ripreso. Cazzo, se mi avessero dato un paio d’ore o una Restore – che figura di merda se Cloud fosse riuscito a fare qualcosa più di me, un maledetto SOLDIER Prima Classe eccetera. Avrei potuto rimettermi. Io avrei potuto rimettermi.)

Hai cinque minuti, forse meno.

Come si fa a decidere, in una situazione del genere, chi bisogna salvare?

Lo sapeva a cosa ci stava abbandonando? Ipotizzando di no, era talmente consumato dal pensiero della sua allieva prediletta che non riuscì a risparmiare nessuno di noi? La scaricò a Midgar non appena arrivato lì. Perché non è tornato indietro, anche solo per lavarsi la coscienza?

Ma non tornò.

(Sono ingiusto? Beh, che cazzo vi aspettavate? La colpa deve andare da qualche parte, e non posso accollarmela tutta io.)

Non pensiate che non volessi bene a Cloud. Sono morto per lui, una di quelle cose di cui tutti parlano ma in pochi fanno davvero. Sono morto per lui e non è stato un errore – non avrei mai potuto fare altrimenti, per quanto egoista mi possa sentire ogni tanto. E okay, desiderarlo impalato su una spada non fu esattamente da animo nobile, ma non crediate che non mi sarei rimangiato quel pensiero se avessi potuto. Non crediate che non mi sia maledetto all’infinito per aver ceduto a un egoismo così umano.

Non crediate che stia qui a sperare che Cloud stia male. Non crediate che non rifarei tutto se potessi.

Ma non crediate nemmeno che io sia una sorta di santo. Ero solo un ragazzo normale, che si è incasinato in cose che andavano oltre la sua comprensione, e ha fatto il meglio che poteva.

Come osate giudicarmi?

(Se…phi…roth…) sentii biascicare a Cloud tra le lacrime, tra l’odio e la rabbia. Piccole sillabe di ossa.



Quella fu la fine della mia vita. Tutto ciò che seguì ne fu solo l’immagine residua.



A quattordici anni, Cloud Strife era piccolo, ossuto e pallidino, e ricordo di aver pensato che avesse gli occhi non diluiti dalla Mako più chiari e azzurri che avessi mai visto. Aveva spirito, all’epoca; era come un puledro da domare, e gli si leggeva negli occhi che combatteva ogni grado dell’addomesticamento.

L’addestramento SOLDIER fece ciò per cui era stato ideato e lo percosse, lo ruppe, lo riavviò, levigò gli spigoli; lo trasformò nell’ennesimo, minuscolo bullone della maestosa macchina ShinRa, e lui imparò la sua lezione. Non si faceva coinvolgere nelle risse. Non rispondeva in modo sfrontato agli ufficiali. Non sollevava polveroni. Scivolava sulle pareti con tanta efficienza che è un mistero che i Turk non abbiano capito quale diamante grezzo gli si aggirasse sotto il naso e non l’abbiano preso al volo. Era un lupacchiotto feroce mascherato da cagnolino, e a vederlo ero soltanto io.

(—Io l’ho visto, mormora Sephiroth, a voce tanto bassa che quasi penso sia stata solo la mia immaginazione. Non sono tanto incline a credergli. Sono anni che è ossessionato dal pensiero di ammazzare Cloud; una cosa del genere deve per forza fare scherzi alla memoria. Non sto dicendo che Sephiroth non riconosca che ci sia qualcosa di speciale in Cloud – dev’esserci, perché sia riuscito a ucciderlo da modesto soldato ordinario. Ma dubito che all’epoca l’avesse già intuito.)

Non sapeva neanche cosa fosse la paura, era troppo concentrato sul suo obiettivo per badare a molto altro. Aveva quello che ha Reno, quello che ogni bravo Turk o SOLDIER possiede – ogni volta che lo buttavi a terra, lui si rialzava subito. Qualunque cosa gli capitasse, lui continuava per la sua via, anche strisciando, se necessario. Una determinazione del genere è rara.

Il che rende tutto quello che gli è successo uno spreco ancora più grande e stupido. Il modo migliore con cui posso descrivere questa cosa è… un bambino. Un bambino che riceve un nuovo giocattolo, uno di quei giocattoli nuovi, robotici e molto costosi, e lo sbatte ripetutamente contro il muro finché il giocattolo non si rompe in migliaia di componenti elettroniche. E poi il bambino lo riassembla, ma sottosopra, e il risultato è un qualcosa che non ha alcuna somiglianza con l’originale. Poi il bambino parla di questo rimpiazzo come se fosse qualcosa di superiore, perché l’ha ricostruito lui con le sue mani.

Uno spreco. Stupido. Spregevole.

Il laboratorio… Lì dentro, il mondo era formato da mura di vetro, verde brillante e grida. No. Non parliamo di quello. Posso parlare di quello che avvenne dopo, se chiudo gli occhi e faccio finta che sia successo a qualcun altro. Posso parlarvi di quello che accadde a Cloud, se non penso a ciò che ha significato davvero. Posso parlarvi di queste cose con tutta la schiettezza di cui sono capace, ma non chiedetemi di rientrare in quel posto.

La Grande Fuga… Sì, di quella posso raccontarvi qualcosa.

Nel laboratorio… nel laboratorio, Cloud parlava costantemente. All’inizio. Ma mai a me; era come se per lui io facessi parte di un qualcosa di meno reale, come se io fossi l’allucinazione, io e il laboratorio, le mura di vetro, il tanfo di Mako e i toni misurati degli assistenti di laboratorio. L’unica cosa reale era la voce che nessun altro poteva udire.

Chiamava il nome di Sephiroth, e imprecava e ringhiava come un lupo ammattito, mentre altre volte si sedeva e canticchiava a bocca chiusa qualche canzone molto carina che sicuramente mi sarebbe piaciuta se le circostanze non fossero state quelle che erano, e ogni tanto blaterava delle stronzate seriamente strane. Speravo che dell’ultima peculiarità fossero responsabili le droghe che continuavano a pompargli nelle vene, perché l’alternativa era troppo brutta e dolorosa.

La spina, per un sentiero di guai e dolore » disse una volta Cloud dopo, non so, forse tre mesi? Un bel po’, comunque. Insomma, a un certo punto se ne esce con questa cosa, da un momento all’altro e senza apparente motivo, e poi si ferma e ascolta. Non si mosse, esattamente, non tolse la fronte dal vetro; non muoveva neanche un muscolo, ma non muoveva un muscolo in un modo che faceva pensare stesse parlando con qualcuno e quel qualcuno stesse rispondendo. Poi rise, una risata molto delicata, un po’ come una piuma macchiata di sangue che si libra nell’aria: persa e patetica.

« Il ghiaccio, per un sentiero di sofferenza e solitudine. Bugiardo » bisbigliò in risposta all’interlocutore invisibile, ma in quel tono che ti fa pensare a dei vecchi amici o a due freschi innamorati, con grande affetto, come se fosse vero che l’altra persona stava mentendo e lo sapessero entrambi, ma lui non volesse ferire i suoi sentimenti.

« Il bue selvatico, per il coraggio e la forza. Non credo – uh, tu sì? Ma parti prevenuto, non è così? »

« Smettila » gli dissi. « Cloud, smettila. »

« La torcia di pino, scoprirai un segreto. Figo, no? Vuoi sapere il segreto quando lo scopro? Se vuoi te lo dirò. Ma anche tu devi dirmi un segreto, perché altrimenti non è equo, capito? »

Smettilasmettilasmettilatiprego

« La pietra, delusione ti attende. Io l’avevo detto che prevedere il futuro con le rune era stupido, più deluso di così non posso diventare. Parliamo di qualcos’altro. … Ehi, Sephiroth? »

Perché non parlavi con me? Tu eri mio amico; perché non parlavi con me?)

Poi si zittì del tutto. Rimasi in attesa per mesi e mesi, perché a volte Cloud sprofondava tantissimo in se stesso e gli era difficile trovare il modo di risalire. Aspettai fino al giorno in cui qualcosa comparve nella testa di Cloud: si affacciò e scrisse in lettere di Wutai sul vetro che era diventato il limite del nostro mondo, e non riuscii più a fingere.

Usciamo di qui.

Ero pronto. Ma anche Hojo era pronto.

A volte mi chiedo se Hojo non avesse macchinato qualcosa per la nostra fuga. Con la mia morte e la sopravvivenza di Cloud, e la Riunione che si avviò quando Cloud venne rinchiuso nella torre ShinRa, ci sono volte che mi chiedo se quel viscido bastardo non avesse pianificato tutto.

Poi provo a non chiedermi nulla perché mi si stringe il cuore, mi si serra lo stomaco e mi pungono gli occhi. Come potrebbe esistere qualcuno – qualcuno di così sadico, crudele, fottutamente mostruoso-

Oddio, Cloud.

Ah, Sephiroth. Sephiroth.

Dio. Solo… Dio.

(proiettili e dolore, e lascialo perdere, questo qui è uno spreco di proiettili, e i miei ultimi pensieri furono pieni di sollievo, perché per Cloud sarebbe andato tutto bene, se la sarebbe cavata, e che diamine ne potevo sapere, e se l’avessi saputo forse avrei preso il pugnale che nascondevo nello stivale e gli avrei mozzato la gola.)

All’epoca non mi insospettii neanche vagamente – c’erano grossi casini nel presente di cui preoccuparmi, come per esempio tirare Cloud fuori di lì, come scappare, e tanto piacere che c’erano molte meno guardie di quanto mi aspettassi, tanto pateticamente inutili per essere gente che in teoria ci sorvegliava da cinque maledetti anni e

Dio. Dio, vidi il cielo per la prima volta dopo cinque anni. C’erano solo nuvole – un grigio noiosissimo – e il sole combatteva con le unghie e con i denti per mostrarsi di tanto in tanto, rischiarando tutto per qualche secondo di merda ogni dieci minuti o giù di lì, il tipo di tempo che avevo sempre detestato perché non si capisce mai dove voglia andare a parare, ma Dio, era bellissimo.

Era così schifosamente bello e io ero così felice che appoggiai Cloud a terra per qualche istante e sollevai la testa, guardando come un matto la meraviglia che ci sovrastava, volteggiando ininterrottamente a braccia spalancate come se avessi potuto abbracciare tutto il mondo. Poi caddi e rimasi sdraiato lì, a fissare il cielo.

Stetti in quella posizione per dieci secondi interi prima di alzarmi, mettere Cloud in piedi e trascinarmelo dietro mentre lui emetteva versetti piagnucolosi privi di senso. A parte il fatto che io desideravo a morte che continuasse, perché erano le prime cose che non fossero urla che Cloud si lasciasse scappare da mesi.

E così eccoci lì, finalmente liberi, con Cloud che sbavava come mio nonno – lui era malato di demenza senile, o perlomeno lo era a ogni raduno di famiglia, perché nessuno darebbe mai uno schiaffo a un vecchietto che non ha abbastanza cervello da evitare commenti estremamente fuori luogo, giusto? – io che tremavo e Nibelheim a circondarci, e per un attimo mi sentii così disperato che una parte di me voleva mollare tutto e sdraiarsi di nuovo a scandagliare il cielo fino a che i bastardi in camice bianco e divise blu non fossero venuti a riportarci dentro.

Chissà cosa sarebbe successo se l’avessi fatto davvero.

Nibelheim. Se non fosse stato per vincoli di tempo e per il bisogno di andarcene il più lontano possibile l’avrei incendiata di nuovo, perché costruire il duplicato esatto di un’intera città proprio sopra quei cazzo di tetti d’ardesia non mi diceva nulla di buono.

Proprio nulla.

Se avessi saputo del futuro che stavo riservando a Cloud, chissà se avrei ceduto all’impulso di stringergli le mani al collo e strangolarlo. Se avessi saputo ciò che lo aspettava, l’avrei fatto?

Credo… credo che avrei potuto farlo.

Il giorno in cui sono morto, mi dissi che non contavano più il dolore, la sofferenza, il tempo perduto e tutti gli esperimenti, il sangue e la tracotanza, ne sarebbe valsa la pena se solo Cloud fosse sopravvissuto. Ci credevo davvero. Ma se avessi saputo quale sarebbe stata la vita per cui lo stavo salvando, l’avrei ucciso. Al diavolo i sensi di colpa e il destino, io l’avrei ucciso.

Non è passato molto tempo da quando sono morto – non abbastanza da dimenticare com’era stare stesi sull’erba appena tagliata, da dimenticare il meglio delle albe o il sapore di una birra fredda (e non se ne parla, naturalmente, ma è una questione di principio – che c’è, vi siete fatti convincere da Seph che non ho principi?) o il profumo della pelle di Aeris…

Ho perso tutto volontariamente. Il sorriso che Aeris mi avrebbe regalato per salutarmi, il sapore dei piatti di mia madre, l’euforia di una bella lite – ogni momento prezioso che avrei potuto avere o avevo vissuto senza riconoscere come tale mi furono strappati in pochi secondi con la sensazione dei proiettili che mi perforavano la carne e del sangue che mi si raggrumava sulla pelle, ma io ero disposto a perdere tutto quanto, a perdere la battaglia più importante della mia vita, a patto che il mio amico, l’ultimo amico che mi fosse rimasto, potesse vivere.

(Ora vi dico un segreto, sì? Una cosa tra me e voi. Non sono poi tanto altruista. Ci sono giorni che preferirei fosse toccata a Cloud. Chiunque dica che non l’avrebbe mai pensato mente.

Me lo ripeto in quei giorni in cui penso a Cloud, penso a tutta la sofferenza che Sephiroth gli ha inflitto, a tutti i cerchi di fuoco in cui ha dovuto saltare, a quanto fosse dilaniato. Ci sono persino giorni in cui potrei ammettere che la ragione è semplicemente che volevo tanto essere io a uccidere Sephiroth – me lo meritavo, lui se lo meritava – o che avrei preferito morire sulla lama di un SOLDIER. E ci sarebbe un margine di verità nelle mie parole. Tutte le migliori bugie ce l’hanno.

Ma non dirò mai a nessuno che ci sono momenti in cui mi viene da dire, avrebbe dovuto succedere a me, io avrei dovuto vivere. Io ero il SOLDIER; io ero la forza, la spada, lo scudo. Io avrei dovuto vivere.

Però non è andata così, io sono qui e lui è lì, e non gli chiedo, perché la tua vita era più degna di essere preservata della mia? e non mi domando quanto tempo in più avrei vissuto se l’avessi abbandonato, perché non riuscirei a sopportare la risposta.)

Così mentre Cloud viveva vivevo anch’io, seguendo i suoi passi come una seconda ombra (O forse una terza o una quarta. Ho il sospetto che ci collezioni, sapete. Di certo non fa nulla per sbarazzarsi di noi) e osservandolo. Osservandolo mentre con i sensi di colpa ergeva uno spazio dentro di sé in cui farmi stare, un vuoto così ampio e profondo che avrebbe potuto entrarci chiunque tranne il mio migliore amico. Sapevo che stava scavando troppo; che le pareti erano sottili e si sarebbero crepate e sbriciolate, che avrebbero franato, che il soffitto sarebbe piombato sulla sua povera testa confusa, ma volevo vivere – la vita significava ancora qualcosa per me (avevo ventitré anni, maledizione, e nessuno, qualunque cazzo di lavoro faccia, vuole morire a ventitré anni) – e allora restai, e gli permisi di nascondersi dietro di me come un bambino che non conoscevo.

Il mio amico non era altro che un vuoto, una cavità in cui spingeva ricordi disperati, i pensieri degli altri e vite diverse, come se Cloud Strife non fosse abbastanza. (Chi cazzo gli ha messo in testa questa cosa? Pensava che sarei morto per il primo che passava?

—Il sacrificio porta con sé fin troppi svantaggi, commenta Sephiroth con voce strascicata in una perfetta imitazione di Reno. —Ed è per questo che faccio in modo che siano gli altri a sacrificarsi per me. Posso tollerare le loro morti molto meglio di quanto loro reagirebbero alla mia.)

Lo vidi sfasciarsi e capii che alla fine non ne era valsa la pena. Sarebbe stato meglio per lui se fosse morto. (Ma ogni volta che viene da noi lo rispediamo indietro – scusa amico, non è ancora la tua ora, non è mai la tua ora)

Sarebbe stato meglio per lui se fosse morto, ma Cloud Strife era – è – mio amico. Gli amici non si piantano mai in asso. Mai. Non amici come noi, che abbiamo vissuto l’uno per l’altro nei giorni in cui la morte sarebbe stata il miglior dono che potessimo ricevere. Io non mi trovo qui perché devo; sono qui perché l’ho scelto. Perché certe cose mi fanno pensare, ehi, forse può farcela. Forse c’è un motivo se il mio compare è sopravvissuto; non è per via di una bizza capricciosa del fato che lui sia l’unico in grado di sconfiggere Seph.

Metà delle volte, capisco che sto mentendo.

Ma l’altra metà… Vedo il volto di Sephiroth, lo vedo entrare nei sogni di Cloud e allora so. Vedo il suo sorriso e vedo il segno della catena attorno al suo braccio e so che lui sa.

(Tu, non ha mai detto. Tu e nessun altro. Se io fossi ancora vivo, il privilegio sarebbe mio?)



Quando io e Sephiroth ci rincontrammo in questo posto, cercai di strangolarlo. Non la cosa più furba da fare nell’aldilà all’uomo che aveva provato ad ammazzarmi l’ultima volta che ci eravamo visti. Ma che altro potevo fare? Lui era la ragione per cui al mio mondo si erano sfaldate le giunture, era la ragione per cui Cloud aveva passato cinque anni della sua vita tra grida e deliri, la ragione per cui io ero morto su un dirupo fuori Midgar; cosa credevate che avrei fatto, che l’avrei abbracciato?

In ogni caso, dopo fu quasi come ai vecchi tempi. Quasi. Lui non era morto e non apparteneva a quel luogo, e non c’era modo di controllare quando o dove sarebbe apparso. Ma a quei tempi, diviso in due, quando c’era, era Sephiroth.

Nelle sue rare visite, gareggiavamo silenziosamente per l’opportunità di parlare con Cloud, sperando entrambi fino all’ultimo che toccasse a uno dei due sorprenderlo in quei brevi periodi di lucidità in cui poteva sentirci e rispondere. Io ero avvantaggiato – dopotutto era dietro di me che si nascondeva, e senza saperlo pensava a me a ogni gesto. Sephiroth non poteva mai restare per molto, ed era pacato e conciso ogni volta che riusciva a rimanere abbastanza tempo da poter parlare.

Nel complesso, lo vidi all’incirca due ore durante la “Crisi” e imparai più cose allora su di lui che durante tutta la nostra amicizia.

Era più fermo, determinato e costante possibile, conduceva Cloud meglio che poteva lungo le strade migliori senza che lui se ne accorgesse, come le migliori guide. Era la sua maniera di scontare i suoi debiti, mi sipegò Aeris quando arrivò qui, soddisfatta, come se l’enorme pezzo di un puzzle che stava cercando di completare da anni si fosse appena incastrato al suo posto.

Riusciva addirittura a prendere il controllo, certe volte, e sapeva cosa andava fatto. Si auto-influenzò, obbligò lo zimbello di se stesso ad ascoltare e a reagire a ciò che ordinava, in modo che quello – che non era esattamente lui… capite cosa intendo, sì? La… l’immagine, l’imitazione da quattro soldi che era rimasta di lui – finisse per spogliare Cloud della sua armatura, sbucciando strati di memoria per arrivare a quel ragazzo di sedici anni che l’aveva ucciso e che non aveva conosciuto la lama di un bisturi; strattonava Cloud verso la chiave dell’enigma cercando al tempo stesso di ucciderlo.

Perfer et obdura; dolor hic tibi proderit olim. Poli, poli, di umbuendo, ricordo che una volta mormorò all’orecchio di Cloud, tessendogli uno scudo con parole antiche. Dovetti chiedere a Aeris il loro significato.

Pazienta e sopporta; un giorno questo dolore ti sarà utile. Lentamente, lentamente, ci arriveremo.

Il problema era che togliergli la sua protezione significò un periodo molto lungo (per una persona viva, intendo) durante il quale Cloud rimase con noi e si rifiutò di tornare indietro, impotente e confuso.

Bisogna essere feriti per guarire, mi spiegò Aeris quando lo maledissi per la condizione di Cloud, usando appellativi che dubito Highwind stesso abbia mai sentito.

—Aiutalo, scoppiai alla fine. —Tu l’hai distrutto, e ora tu lo aggiusti, cazzo, maledizione a te! (Nessuno conoscerà mai la disperazione come me in quel momento.) —Ti prego, Seph, fallo per me.

Il cipiglio sul suo viso esprimeva con molta chiarezza ciò per cui non avrebbe sprecato un respiro: cosa vuoi che m’importi di te, sei stato una rottura di coglioni dall’istante che ti ho incontrato.

—Bene, allora fallo per Cloud.

Lentamente, lentamente, ci arriveremo.

Era la tattica sbagliata, sottintendere che gliene fregasse qualcosa. —Perché dovrebbe importarmi qualcosa di un piccolo, patetico essere umano, disse, canzonando se stesso, la voce talmente roca perché era tanto che non la usava che era impossibile accorgersi delle normali sfumature del suo umorismo asciutto e a stento discernibile.

—Forse perché sei ossessionato da quel piccolo, patetico essere umano da cinque anni, insistetti, impaziente. —So che eri nel laboratorio, aggiunsi.

Gli angoli della sua bocca si tesero dal disappunto; inarcò sdegnoso un sopracciglio inquisitorio.

—Per le corna di Ifrit, borbottai. —Pensavi seriamente che non avrei capito che stava succedendo qualcosa quando il mio migliore amico si è messo a parlare con l’aria rarefatta dandole il tuo nome?

Fece una smorfia quasi contrita prima di incrociare le braccia e mettersi comodo. (—È stata colpa mia, mi spiegò flemmatico l’ultima volta che lo vidi. —Nessuno avrebbe dovuto finire lì dentro, non tu e soprattutto non lui, che non era nemmeno – era solo un fante. Era giusto così, capisci? Se fossi riuscito a dargli qualcosa a cui aggrapparsi, per spingerlo a vivere, fosse stato pure soltanto odio, era giusto. Era l’unico modo per poter anche solo cominciare a chiedere perdono.)

—Fallo per te, suggerì gentilmente Aeris. Ci voltammo entrambi verso di lei. Lui aprì la bocca, se per risponderle o per chiederle chiarimenti non saprei, perché poi sparì in un batter d’occhio.

—Merda, sbottai. —Dev’esserci un modo per farlo rimanere qui per più di cinque minuti.

—Solo la morte vera, replicò Aeris, intrecciando le mani. —E forse nemmeno quella. Non preoccuparti, Zack. Se non può farlo lui, possiamo noi.

—Stronzate, imprecai, nascondendo la testa tra le mani.

—Possiamo, ripeté lei risolutamente, gli occhi che ardevano. —E a Sephiroth è rimasto abbastanza orgoglio da non poter sopportare la vista dell’immagine di se stesso che commette tali atrocità.

—Sei una tale manipolatrice, sospirai con un ghigno stanco. —Per forza che i Turk ti volevano.

Lei sorrise raggiante in risposta, e fece uno di quei suoi bellissimi movimenti ondeggianti che mi facevano sempre venir voglia di baciarla fino a che l’aria non ci avesse ricordato di essere una necessità, e non un’opzione. —Starà bene, mi garantì fermamente.

—Quello che non ti uccide ti fortifica, eh?

—Già già. Mi sorrise dolcemente, e mi dimenticai completamente di Cloud per qualche ora.



Pazienta e sopporta; un giorno questo dolore ti sarà utile. Lentamente, lentamente, ci arriveremo.

Questo siamo. Proprio qui. Non siamo un gioco.







NdA: Sconclusionata, inutile e confusa. Senza contare che rubacchia allegramente idee da ogni dove. Se siete arrivati fin qui, mi inchino a voi e vi offro dei dolci.

NdT: … Non statela a sentire, giuro che alla fine si capisce. E dà pure un senso ad AC, volendo ;D
Spero vi piaccia questo Zack un po’ tanto amareggiato e un po’ meno cucciolotto. Io l’ho adorato sin dal primo istante. Ovviamente. xD
Come i fan più accaniti sicuramente noteranno, questa storia è piena zeppa di frasi prese dal gioco. In mancanza di una traduzione ufficiale ho dovuto proporre la mia, ma spero che il collegamento sia comunque abbastanza immediato. Quelle più oscure cercherò di segnalarle quando possibile (ovvero quando me ne accorgo io stessa xD).
A presto con il prossimo (primo?) capitolo. In cui succede qualcosa. (Maybe.)

PS: sto giocando con i codici e l’impaginazione. E avete notato che ho cambiato virgolette dei dialoghi? I KNOW RIGHT? Danno un taglio diverso anche se sono solo e soltanto per i dialoghi, mi ci devo ancora abituare ;_; Diciamo che ho fatto un tentativo per questa fic, poi si vedrà.

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Capitolo 2
*** Acheronte ***


NdT: Sì, sono già qui. Questa storia ha aspettato troppo.
Comunque, “Spike” (letteralmente “punta”, “spunzone”) nel fandom inglese è un soprannome abbastanza popolare di Cloud, e deriva ovviamente dai suoi capelli. Nel gioco non c’è, anche se vengono usati aggettivi come “spikey(-headed)”. Mi è già capitato di incontrarlo in qualche storia e generalmente ho tradotto con robe tipo “capellone”, ma qui, dopo accese (?) discussioni con Vale ho deciso di non tradurlo (benché “Puntaspilli”, proposto da lei, fosse veramente tanto carino) e di usare “Spikey”, che fa più nomignolo a un orecchio italiano.







(Acheronte)





La tua mano nella mia. La mia voce nel tuo orecchio. Insieme, cadiamo.



(22 ore)

Lasciamo Cloud con la testa china sui fiori della chiesa. Il cielo comincia finalmente a rischiararsi mentre viaggiamo, il blu del crepuscolo si scolora nel bianco che ormai sormonta le montagne di Nibel, l’alba allunga le dita pallide sulla fronte della terra, il mare sciaborda soddisfatto sulle rive di Wutai.

All’altro capo del mondo, in un luogo nascosto da occhi indiscreti, uno dei suoi ex-compagni alza il capo come gli animali quando passiamo accanto a loro, ripensando tutto d’un tratto all’uomo che avrebbe potuto essere suo figlio. (Fantastico, o un maniaco armato di bisturi o un vampiro. Il povero Seph era destinato a nascere maledetto.

Lui non dice niente, ma l’improvvisa intensità del suo sguardo mi istiga a cambiare argomento.)

Piega la testa di lato, tendendo l’udito. Se Vincent avesse il pelo come i cani che aguzzano le orecchie quando noi siamo nei paraggi, nessuno di noi dubita che lo rizzerebbe e ci ringhierebbe dietro.

Vincent si è perso in un dedalo che si trova in un labirinto che si trova all’interno della sua testa. Oscilla di pensiero in pensiero, incespica tra intrichi contorti di sangue, lutti, angoscia e incubi. Fugge da un pensiero a noi a un ricordo di Lucrecia, una consolazione gentile sui cui striscia ben presto l’odore di Mako stantia e del sangue vecchio, e la sensazione delle sue mani, il profumo dei suoi capelli e il sorriso sul suo viso si sgretolano, sostituiti da mura di vetro e dal dolore di ali che sono e al tempo stesso non sono sue, che gli squarciano la pelle e si spalancano come una maledizione.

Ce ne andiamo, lasciando Vincent a ponderare sui suoi peccati, la bestia di nome Chaos si agita spasmodicamente dentro di lui al nostro passaggio, e noi rispondiamo alla chiamata della ragazza che secondo logica dovrebbe essere morta. (—Anche i migliori sbagliano. Giusto, Seph?

—Non riesco a credere che tu possa scherzare su una cosa del genere, protesta Aeris.

—Siamo morti, amore mio, non c’è più bisogno del tatto.)

Tifa si sveglia con un sussulto, senza fiato, gli occhi vitrei e assenti accecati per un attimo dalla paura. Anche quando tutto torna normale continua a sentirsi a disagio, e cerca cautamente una possibile spiegazione. Rigirandosi, tocca la sveglia e corruga la fronte, tracciando i numeri con un dito stanco. Qui fuori il cielo è ancora buio.

(pelle che si schiude, un fiore rosso che germoglia – non addormentarti, potresti non riaprire più gli occhi)

C’è qualcosa di sbagliato nell’immobilità di questa mattina. È la quiete prima della tempesta. Si rannicchia sotto le coperte, tenta di individuare le radici del dolore nel suo petto e della secchezza che le impasta la bocca.

C’è uno spazio vuoto che parte di lei sa dovrebbe essere colmato, e non è del tutto sorpresa quando le viene in mente che a mancare è Cloud. Ma non è questo che non va, perché lo spazio vuoto è una vecchia piaga che sta curando e cercando di occupare con i bambini abbandonati e disincantati che riescono ad arrivare a lei.

Non ha un calendario. Non qui, in camera sua, dove dovrebbe essere schermata da pensieri sul futuro. Fuori ci pensa troppo, ed è per questo che viene qui. In teoria è in questo luogo sicuro che si creano le vite, ma non la sua.

Ha bisogno di questo posto per poter essere libera dalla sua razionalità, dal buon senso e da tutti i vincoli che le impediscono di gridare la sua rabbia e la sua frustrazione a Cloud ogni volta che torna e scivola di nuovo nella sua vita come se non se ne fosse mai andato, come se non l’avesse sventrata e abbandonata a dissanguarsi.

Odia i calendari: crede che esistano per segnare i giorni, i mesi e gli anni che ha sprecato ad aspettare, a cercare, a rincorrere un problema, qualunque esso fosse. Non le piace l’idea che la sua vita possa essere rinchiusa in quei quadratini a fianco del minuscolo disegno indicante le festività che non osserva mai.

Non ha un calendario, ma parte di lei già sa. Non vuole svegliarsi così presto e dover affrontare la data, e allora si volta, affonda la faccia nel cuscino, inspirando l’aria che ha già espirato, mentre il suono del proprio respiro le rimbomba nelle orecchie. Sulla parete delle palpebre chiuse danzano scintille e granelli di luce colorata, spire, e veli, e schemi a scacchiera, esplosioni di colori che si spengono e assumono nuove forme nel tempo infinito tra un secondo e l’altro. Quasi la tranquillizza, cercare di definirle.

Il letto è caldo, confortevole, e ci sono giorni che avrebbe voglia di rimanere qui per sempre, senza più rialzarsi. Potrebbe limitarsi a protrarre la sua esistenza; sarebbe così facile.

Senza il suo consenso, affiora il concetto di “un anno.” Un anno significa tante cose per Tifa. È un lasso di tempo che non riavrà mai più, un qualcosa che rende un po’ più reale l’anniversario di tante cose, che accentua un po’ di più le cicatrici. Un anno implica un altro compleanno mai festeggiato e perso per sempre, un altro periodo di lutto da sommare a quello vecchio. Per molto tempo ha avuto a cuore il numero di anni trascorsi dalla morte di suo padre, dalla distruzione della sua città natale, ma ha smesso quando ha capito che così gli anni sembravano solamente più lunghi e vuoti di quanto avrebbero dovuto.

Oggi è il giorno in cui la Meteora è quasi caduta, l’anniversario della fine del mondo, il giorno in un cui uno psicopatico che si illudeva di diventare Dio si è arreso alla vergognosa debolezza della morte.

(—La morte non porta vergogna, mormora Sephiroth, punto sul vivo. Non si è mai concesso di rassegnarsi alla sua morte, ma questo non vuol dire che non sia capace di comprenderla. Ogni tanto.

—La morte è semplicemente l’altra faccia della Vita, dice Aeris, e io non rivelo a nessuno dei due il mio parere.)

Ora l’assenza di Cloud la infastidisce. Le sembra quasi che sia riuscito a svincolarsi dal peso, dal carico ingombrante della memoria. (—Ah sì? E tu che ne sai? Forza, diccelo in faccia!)

La sua assenza la infastidisce come se fosse il sintomo di una malattia – Cloud Strife non è un uomo e nemmeno un SOLDIER (è un’altra cosa su cui non vuole rimuginare). È Atlante, che porta il cielo (che porta noi) sulle sue spalle.

La verità è che capisce che Cloud non apparterrà mai davvero al mondo mediocre in cui vivono lei e tutti gli altri. Lui è parte dell’Altro ormai, smarrito nel Lifestream e nei ricordi.

Lo sa. Ma Dio, quanto odia che sia così. Farebbe meno male se solo non lo amasse tanto.

(—Nessuno potrebbe legarlo per sempre, sussurra Aeris, solidale. —È nostro, in realtà. Tu lo sai, sei stata lì con lui.

“Lì” è dove ci troviamo noi, la combinazione di Lifestream e ricordi, e se c’è qualcuno che fa parte di questo luogo, il più vicino alla vita concesso dalla morte, quel qualcuno è Cloud.

—Lui è già qui, mormora Sephiroth, dal fondo della stanza. —Entra qui ogni giorno, si è solo dimenticato di abbandonare il proprio corpo.

Poi sorride, ed è come imparare il significato della parola “sinistro” daccapo. —Un giorno dovrò ricordarglielo, aggiunge, sognante.)

Cloud non è proprio tagliato per la normalità. Non più. Tifa, dal canto suo – lei e gli altri possono tornare al conforto delle loro vite precedenti, ma Cloud è troppo perso, ha sofferto troppo, è cambiato troppo per poter essere in grado di rinfilarsi nella sua pelle; un mostro emerso dalla crisalide di un’infanzia normale, pensa lui stesso ogni tanto.

(—Ma quale mostro, gli chiede Aeris. —Sei proprio come Sephiroth.

—Esattamente, interviene Sephiroth con indifferenza, la rabbia e il dolore che si congelano per plasmare odio glaciale. —Un mostro.)

Adesso che le è venuto in mente l’Anniversario, è impossibile dimenticarsene. Non ha gli stessi ricordi di Cloud, lampi vividi che utilizzano tutti i sensi per affrescare un quadro così tumultuoso che lui ha bisogno di qualche minuto perché il cuore gli si calmi in petto e la mente si schiarisca abbastanza da ricordargli che è passato un anno da quando è finita.

Tifa ricorda le cose come le persone normali, immagini piatte offuscate dal tempo e mai completamente corrette. Ora ricorda, e vorrebbe che le lacune fossero un po’ più vaste, i buchi nella sua memoria più profondi, perché così forse sarebbe libera.

(Un grido alto e penetrante mentre la mente di un uomo va in pezzi)

Era il giorno in cui avrebbe potuto finire tutto.

(risuona e qualche volta Tifa si sveglia di soprassalto e si aspetta di vedere Cloud in ginocchio che urla, le mani strette convulsamente alla testa che cercano di scavargli nelle tempie. Urla, e cosa potrebbe mai fare, lei, per aiutarlo?)

A volte, quasi vorrebbe che fosse finita.



giù



(18 ore)

Questa è la mattina che Cid sperava futilmente di non dover vedere mai, o nel caso di poterla vedere fortificato da un barile di birra. Le sei del mattino, cazzo, è troppo presto per pensarci – ma ormai è sveglio e ha bisogno di tenersi impegnato, ha bisogno di qualcosa che gli occupi le mani e i pensieri. I servizi di manutenzione non sono che un modo come un altro.

Non è che la conoscesse. Insomma, porca miseria, lui è stato l’ultimo a unirsi al loro gruppo ormai leggendario. Ha avuto poco tempo per volerle bene. Per questo può guardare alla sua morte oggettivamente, a differenza degli altri, senza essere annebbiato dall’affetto e dalla nostalgia.

Serve a poco. È questa la particolarità di Aeris: non importa che abbia solo sfiorato la tua vita, la sua immagine rimane lì, permane con quel suo profumo di fiori e la caparbietà della luce. Era una ragazza dolce, e gli tornano in mente un sorriso gentile e due calmi occhi verdi. Una ragazza delicata, femminile, e tremendamente fuori posto in mezzo agli uomini dal volto feroce (Biondo o no, Cloud fa la sua porca, temibile figura da pseudo-SOLDIER.

Sephiroth vicino a me esplode in uno sbuffo di risa, ma dal bastardo irrispettoso che è si rifiuta di illustrarmi la battuta) e alle guerriere atletiche e sicure delle proprie capacità che bussarono alla loro porta.

Ma questi sono ricordi maledettamente labili. È la fine che ricorda meglio, il modo maldestro e sgraziato in cui si è accasciata al suolo e quell’orribile taglio aperto nell’addome, le mani di Cloud che tremavano impotenti mentre lo coprivano in preda al riflesso condizionato dei combattenti di fare pressione su una ferita che non si sarebbe rimarginata.

Un po’ si sente in colpa per non riuscire a importarsene di più, per il fatto che non riesce a darle di più, ma almeno è onesto. È stato triste, è stata una tragedia, ma prima o poi ogni vita deve finire, e alla fine non è stata una morte tanto atroce, suppone, non se paragonata ad alcune delle voci che aveva sentito quando lavorava per la ShinRa durante la guerra. (Sephiroth si erge nella sua massima statura, oltraggiato nella dignità e insultato nell’orgoglio.

Io e Aeris indietreggiamo subito, saggiamente, e non gli facciamo notare la fondatezza di quelle voci.)

Una volta ci è andato, alla chiesa, riuscendo miracolosamente a non incrociare Spikey, benché fosse chiarissimo anche a lui che qualcuno ci vivesse (in strada sussurrano che sia un fantasma, uno spirito guardiano inviato dal Pianeta a sorvegliare il luogo sacro), e ha piantato quel cosino coi petali intorno che gli aveva comprato Shera, sperando che fosse quella la cosa giusta da fare. Tanto probabilmente è appassito.

Non aveva mai visto una persona che gli piaceva morire infilzata su una spada di due metri.

Una ragazzetta carina vestita di rosa, con tutta la vita davanti. Ventidue anni. Cazzo di età è per morire?

E Spikey, ancora più giovane, sì e no un adulto, ha la faccia liscia e inespressiva di un bambino (anche se i suoi occhi sono più vecchi dello stracazzo di Pianeta) ed è uno stramaledetto “eroe”, e ha dei seri, seri problemi.

Forse è questo che significa essere un eroe, decide. Essere abbastanza forte da convincere chiunque ti stia attorno di potergli risolvere i problemi senza capire che sei come uno strato sottile di ghiaccio quando si parla dei tuoi, di problemi. C’è gente che ha di lui un timore reverenziale quando va a nascondersi in quella chiesa, dove si sgretola sempre di più. Forse è questo l’eroismo. Mettere chiunque (e maledizione, proprio chiunque) al di sopra di te, e non alla maniera dei racconti e delle favole: ignorare veramente e fino in fondo te stesso per un estraneo sul marciapiede.

(Ci sono giorni in cui Cid vorrebbe afferrare Vincent e Cloud, vorrebbe sbattergli la testa l’una contro l’altra, sbatacchiarli fino a far rimbalzare loro i denti nel cranio e strillare: « Smettetela! Smettetela! Smettetela di caricarvi la merda di tutti sulle vostre spalle! Non tutte le cazzo di situazioni di merda di questo mondo sono merito vostro – lasciate che la gente si prenda la responsabilità dei propri errori! … E avete rotto il cazzo voi e i musi lunghi che fate negli angolini della mia stramaledetta nave come dei fottutissimi aspiranti suicidi! » Ma, ovviamente, non lo fa mai.)

Può convincersi che il mondo non sia mai stato in pericolo, che non abbiano mai dovuto darsi da fare per ammazzare un uomo in tempo, prima che imbrigliasse il potere del Pianeta. Se ne può convincere, ma è maledettamente lieto che quella testa vuota e puntuta si sia rimessa in sesto, maledettamente lieto di avercela fatta in tempo e maledettamente lieto quando pensa che un giorno rispolvererà questa storia con qualcuno nella Terra Promessa, riflette, fissando l’amore della sua vita, la sua preziosa aeronave.

Non lo sapete che avrebbe potuto finire tutto? Avete messo tutto il mondo sulle spalle esili di un ragazzino confuso e l’avete messo contro l’uomo che un tempo era il suo (Dio) eroe, e (che razza di stronzi perversi siete?) credevate davvero che potesse uscirne a posto? Siete dannatamente fortunati che Spikey sia Spikey.

Cid conosce i suoi limiti. Sa che se fosse stato al posto di Spikey lui si sarebbe spezzato. Cazzo, spezzato non è la parola giusta. Si sarebbe frantumato, sarebbe scoppiato fino a che di lui non fosse rimasto altro che frammenti affilati impossibili da toccare.

Getta la cicca di sigaretta a terra, imprecando mentre la pesta sotto un piede, seppellendola nella polvere. Stronzi, pensa, che stronzi di merda.



più a fondo



(17 ore, 28 minuti)

Lucrecia è una donna morta. Ah, ma le donne morte esercitano spesso un’influenza maggiore di quelle vive, con tanto di tardivo disappunto di Scarlet. Le donne morte, le madri morte, sono fra le persone più potenti al mondo. Ci sono uomini che uccidono in ricordo delle madri morte, conquistano e governano per l’orgoglio delle loro madri morte. Il desiderio di una madre in fin di vita è molto più autorevole di un qualsiasi desiderio espresso in salute, quando ancora faceva le cose che fanno le madri. Il desiderio di una madre in fin di vita è più grande di quello di un re.

Lucrecia è una donna morta. Eppure il suo corpo vive ancora. È una cosa simile – benché non identica – a quello che è accaduto di recente a Sephiroth, quando il suo corpo (o la sua immagine) è scappato di continente in continente, di città in città e di battaglia in battaglia, mentre quello “vero” appariva qua e là, mai a lungo, un’apparizione sobria e solenne che spaventava a morte buona parte di noi sfortunati cagasotto del Lifestream.

Ma è comunque una madre morta, e ha l’ombra più lunga di ogni altra madre. Lei è la madre di un mostro-dio.

(Sephiroth le si avvicina, le posa le mani spettrali sul viso, esamina i suoi lineamenti con carezze gentili, cerca qualcosa. Cosa non lo so, e non ce lo dirà mai.)

Apre gli occhi, che sono vuoti e morti, ma nel breve istante in cui lui ne traccia il contorno con le dita affusolate, s’illuminano e prendono vita. Bisbiglia il suo nome tra le labbra screpolate, la voce sommessa come una preghiera e debole come un soffio di fiato, lo guarda quasi come se potesse vederlo, le braccia che si uniscono automaticamente per cullare il bambino che non ha mai avuto per sé.

Lei non sa che giorno è oggi; sente solo una fitta che le ricorda una delle contrazioni che moltissimi anni fa le preannunciò la nascita del suo figlio maledetto, e lui le manca tantissimo, vorrebbe talmente tanto il suo bambino che una morsa fisica le attanaglia il cuore. (Lui si abbassa e l’abbraccia, sussurrandole qualcosa all’orecchio. Per un attimo fugace e potente, lei ricorda.)

Le fa male la gola (grida sempre e perciò s’infiamma; i lamenti orribili e addolorati di una madre che piange la morte di un neonato), ma continua a mormorare il suo nome, all’infinito, come se così potesse riportarlo indietro, come a darsi una ragione per non auto-distruggersi.

« Uccidimi » ci prega, e Sephiroth si ritrae. La lasciamo alla sua sofferenza, cruda e fresca come il giorno in cui un bambino ancora sporco di sangue le è stato sottratto.

« Ti odio » bisbiglia, tossendo sangue. « Ti odio ti odio ti odio! »

È difficile capire a chi stia parlando, esattamente.



e giù



(17 ore, 12 minuti)

Si accovaccia vicino al laghetto, guardando nell’abisso. La Mako che gli affila gli occhi e le orecchie gli ricorda dopo un attimo del potenziamento di ogni suo senso, anche quelli rimasti latenti negli esseri umani da quando hanno smesso di vivere unicamente di caccia e coltura.

I suoi occhi (—luccicano, ugh, ma che razza di fenomeno da baraccone sei?

—Sta’ zitto, Zack!

—Sto scherzando! Porca Meteora! Ti pare per caso che i miei occhi siano perfettamente normali?)

I suoi occhi sono talmente acuti che potrebbero rivaleggiare con quelli di un falco, e ogni dieci secondi o giù di lì la sua testa scatta leggermente all’insù, quel che basta per verificare che il movimento delle foglie a cento metri di distanza non sia affar suo. Il tutto accade in meno di un secondo, si riassume in un fremere di sinapsi e impulsi elettrici, così in fretta che nemmeno si rende conto di aver visto qualcosa.

Le sue orecchie possono percepire il brulicare di animali immersi nelle viscere della terra ai suoi piedi, se vuole che lo facciano (non vuole. Li percepiscono comunque.), i vermi che si fanno strada nel terriccio (ché poi è questo che siamo tutti – vermi conficcati sull’amo).

Il suo naso discerne un assortimento di dolci fragranze che lui riconosce ma non sa identificare, dal momento che nessuno gli ha mai insegnato i loro nomi.

(—Lavanda, cardo latteo, monarda, lingua di drago, rosa canina, e stellina odorosa, ci svela Aeris con praticità. La fissiamo un attimo prima di ridere.

Il fiore di Cloud è l’arcangelo nero. Sono fiori semplici a campanula, di un rosso intenso, carnivoro – baluginano tra le foglie a punta come macchioline di sangue su coltelli verdi. È difficile ucciderli, e per qualche torbido guizzo della natura normalmente compassionevole di Aeris, crescono meglio dove lui ha versato sangue o qualche pezzo di se stesso. Il loro unico significato si deve a lui.)

Un senso a cui non riesce a dare un nome, e che da tempo gli altri esseri umani non possiedono più, gli dice che l’unica vita nelle vicinanze non è predatrice, o quantomeno non è umana, e che non si trova in un pericolo immediato.

Cloud capì, a un livello inconscio e drogato mentre un po’ trascinavo e un po’ mi caricavo in spalla il suo culo intossicato fino a Midgar, che se non avesse imparato a convivere con il sovraccarico sensoriale avrebbe passato il resto dei suoi giorni come tutti gli altri beneficiari del veleno Mako – a sbavare, incapace di formare una sola parola coerente… Una creatura indegna. Perciò il suo cervello si è adattato, ha cominciato a filtrare le informazioni a uno stadio subliminale.

È una questione di sofisticato controllo – quanto è importante questa cosa, mi serve quest’informazione? Ci sono cose che devi cercare di carpire in ogni momento (quando divenni un Prima Classe imparai a localizzare un furgoncino dei gelati parcheggiato in una strada con un massimo di tre bar che sparavano musica pop. … Che c’è?) ma per il resto, lui cerca semplicemente di spegnere tutto.

(Ah, le glorie della Mako, che ti obbliga a imparare la differenza tra l’odore del sangue mestruale e quello arterioso.

Ve l’ho mai raccontata quella storia?

Era passato un po’ di tempo dalla guerra – non tanto, quanto basta perché la gente si fosse abituata al fatto che Sephiroth abitasse a Midgar e non stesse macellando persone dall’altra parte del mondo. C’era questo gruppo di ribelli – non una roba grande, nulla di serio come l’AVALANCHE, solo un gruppetto di idioti senza molto sale in zucca che si ubriacavano insieme e sparlavano del pezzo grosso della ShinRa, freschi diplomati di atti minori di terrorismo – che so, finestre rotte, graffiti in posti particolarmente in vista, bombe mal dosate alla stazione dei treni, come se cose del genere potessero cambiare qualcosa…

Comunque il Presidente non ci sta, non quando lo spettro della guerra ancora aleggia ovunque, non ora che ha il cane perfetto da sguinzagliare e con cui schiacciarli, se necessario. Inseguimmo quei poveri disgraziati per tutto il Settore Quattro finché non schizzarono in un bordello. Non so cosa avessero in mente – forse credevano che il Grande Sephiroth fosse troppo arrogante per seguirli in una casa chiusa, o forse che ci saremmo vergognati troppo a rincorrerli fin lì dentro, ma evidentemente si sbagliavano.

In pratica entriamo, facciamo schierare le donne e i loro clienti, le truppe mettono a soqquadro le stanze per trovare questi uomini, e Sephiroth continua a guardarsi intorno come un segugio che ha captato un odore che sa che non ha niente a che vedere con quello che dovrebbe cercare, ma non riesce a ignorare. Sephiroth ha imparato a rispondere automaticamente all’odore del sangue, e più prova a ignorarlo, più forte sembra diventare, e alla fine sbotta, « Chi è che sta perdendo sangue? »

Ovviamente, una delle ragazze avvampa, e neanche la pappona fa una bella faccia – è lì lì per spaccargli una padella in testa.

« Lei può sentire… può sentire quello? » squittisce un’altra di loro, e Sephiroth – sempre più stizzito, perché la sua abilità sta innescando reazioni fuori luogo per uno scambio con i civili – punta gli occhi su una zona che non si dovrebbe mai indicare in compagnia se si è anche solo vagamente dei gentiluomini e le fa: « Lei che dice? »

Al che la signora tentò davvero di spaccargli la testa con una padella, e per tutta risposta Sephiroth, naturalmente, le ruppe un braccio in tre punti diversi e fu così che riuscimmo a far bandire la SOLDIER da ogni bordello di Midgar, e fu così che finimmo pure per dover spiegare – ad Heidegger in persona – che lo scandalo propagatosi per tutta la città circa la brutalità dei SOLDIER e l’ingerenza della Compagnia in faccende che non le competevano era stato generato dal fatto che Sephiroth era riuscito a sentire che quella ragazza aveva il ciclo.

Questa storia strappava sempre una bella risata ai novellini quando spiegavo loro il tipo di migliorie che la Mako avrebbe apportato ai loro sensi.

(Ma non dissi loro delle ragazze, di come risposero al suo sguardo incolore con uno di sfida o di vergogna, e di quando si voltò e una di loro chiese, « Chi cazzo s-si crede di esshere » la voce ispessita dalla rabbia e dalle lacrime, « per guardarci coshì? Come se non fosse un uomo, come tutti gli a-altri? » Non dissi loro di come avesse sputato la parola “uomo” come se fosse una bestemmia.

Non dissi loro che quando uscimmo lui vomitò, non dissi loro di quanto fosse convinto di riuscire ancora ad avvertire l’odore del posto sulla propria pelle, o di quando disse che lì dentro riusciva a sentire tutto, non poteva bloccare gli odori; che per lui quel posto puzzava di sesso misto a profumo stantio e vecchio sudore, puzzava di disperazione.

Non glielo dissi.)

Credo che ridessero fondamentalmente perché sapevamo tutti che Sephiroth stava a noi come noi stavamo a un fante, come una divinità sta a un uomo. Sapevamo che non avremmo mai capito fino in fondo cosa significa riuscire a udire il continuo brusio delle frequenze radio, o odorare le quantità più misere di sangue in un mare di gente, o essere in grado di vedere così chiaramente al buio come se fosse giorno, e trovare accecante anche solo la debole luce del sole, tanto le pupille si trasformano in fessure da gatto.

Non capirono quello che gli raccontai, e a dirla tutta, nemmeno io. Cloud ora capisce.)

In combattimento, Cloud è la cosa meno naturale del mondo: tutti i suoi sensi si acuiscono, la breve fiammata suscitata dalla Mako e dalle cellule di Jenova gli fa lampeggiare gli occhi, e diventa spietato e veloce, pronto a tutto, una sensazione molto più piacevole di quella che potrebbe dargli una droga. Solitamente (fuori dalle battaglie, intendo) si sente normale (o almeno, com’era prima), anche se sa che nelle sue vene scorre abbastanza Mako per una trasfusione in grado di avvelenare un SOLDIER.

Però evita tuttora i centri abitati (come un animale), e vicino a Tifa non riesce a fidarsi dei propri sensi – a volte riesce a sentire il suono del suo cuore che batte dall’altra parte della stanza, oppure la guarda e riesce a scorgere un minimo increspamento della sua fronte generato dal dolore o dalla stanchezza, sente l’odore del sangue di un graffietto sul suo dito che si è già richiuso, riconosce il sapore della sua apprensione quando apparentemente è calma e serena come una statua.

Sa quando lei è dietro di lui in corridoio, quando lo fissa mentre prova a bere (non funziona; il suo corpo espelle automaticamente le tossine e l’alcol lo rende semplicemente irritabile e un po’ stordito – senza la sbornia allegra), e non lo sopporta. Non vuole i promemoria costanti del fatto che è un abominio, del fatto che Hojo lo ha sbrindellato e l’ha ricucito facendo di lui qualcosa di (meglio) non umano, qualcosa di (grande. Il Grande-) alieno. Ha paura di quello che potrebbe farle, perché non è più umano.

Perfer et obdura;

Si tuffa.

dolor hic tibi proderit olim.

Un lampo di memoria: i polmoni che si espandono riempiendo i confini angusti delle costole, che pretendono altra aria oltre a quella viziata che contengono, il cuore che palpita rapidamente contro il costato, costretto ad accelerare per provare (senza successo) a tener testa alle richieste di un corpo che sta morendo, la lotta contro l’istinto di aprire la bocca e inspirare profonde boccate di prezioso ossigeno per placare il bruciore nel petto, la curiosa pesantezza che aumenta man mano che affonda sempre più giù.

Ma è solo un ricordo; è sott’acqua da due minuti, forse tre, e non sente niente, non combatte niente oltre alla battaglia che sta trascinando adesso contro l’impulso spontaneo di risalire a galla per recuperare l’aria di cui non ha più quel bisogno disperato di un tempo. Lui è un secondo Sephiroth, un mostro geneticamente modificato – le regole umane sono ridondanti.

(—Non è vero! gli grida Aeris, ma è inutile perché è così, persino Sephiroth ha il coraggio di ammetterlo.)

Apre gli occhi, e osserva la luce che si riflette sul pelo dell’acqua sempre più lontano. Chissà se è questo che Aeris ha visto mentre la calava nella sua tomba subacquea.

(—No, protesta lei.

Sì. Perché mentire quando si è morti? Tanto gli unici che possano sentirti sono i morti senza pace, e su questo punto sono tutti d’accordo.)

Tocca il fondo, il limo agitato dalla sua caduta gli fluttua attorno, i pesci sfrecciano via in un fulmine di squame d’argento perfettamente sincronizzate, e la luce della superficie tanto lontana gli danza sulla pelle in ragnatele incantevoli. Ci lascia andare. Sta ancora aspettando di esaurire l’aria immagazzinata nei polmoni.



l’appel du vide – l’impulso di saltare giù dalle colline, in un canyon, ecc. Letteralmente, “la chiamata del vuoto.”







NdA: non saprei dirvi se esista davvero un fiore chiamato “arcangelo nero”. Comunque sia, la descrizione che ne ho fatto deriva da diversi membri della famiglia delle ortiche rosse, e non è quindi da ritenersi accurata. In particolare, ho preso spunto dallo Yellow Archangel (lamiastrum galeobdolon – in italiano: falsa ortica gialla) e dal Red Dead Nettle (lamium purpureum – in italiano: falsa ortica purpurea).

NdT: curiosamente, il “Black Archangel” (che sì, a 'sto punto avrei potuto tradurre con “falsa ortica nera”, ma volete mettere la poesia?) esiste davvero, anche se è un fiore parecchio bbbbrutto e lillà che in italiano si chiama anche “marrubio fetido” perché puzza.
In altre parole il fiore di Cloud è il marrubio fetido, l’ortica puzzona.
>8D
BTW, nel testo originale Cid dà a Cloud del numbskull (qui tradotto come “testa vuota”) – e io ovviamente sono andata in Awww Mode, perché quando Cid accetta di entrare nel gruppo dice che “Anyone stupid enough to go up against Shinra nowadays, has GOTTA be a numbskull! I like it!”
E “numbskull”, per qualche ragione che in realtà non mi è troppo chiara, è diventato abbastanza famoso all’interno del fandom inglese, come un “This guy are sick”, o un “Don’t step on the flowers”, o un “Oh yeah? Well to me it looks like a golden shiny wire of hope.” (andate intorno a 7:24, merita sempre xD)
Purtroppo questo è uno degli svantaggi peggiori del non avere una traduzione ufficiale – certi piccoli rimandi finiscono inevitabilmente per perdersi. ;_;
INOLTRE, quella cosa dei profumi che Cloud riconosce ma non riesce a identificare credo sia un riferimento a Case of Tifa, la novel che io sappia non molto conosciuta in Italia che avevo pure tradotto (ma mai pubblicato da nessuna parte) tanti secoli or sono, in cui tra le altre cose Tifa lolla in segreto perché Cloud non sa i nomi di molta frutta e verdura, probabilmente (non viene specificato) perché la sua vita si è interrotta momentaneamente a sedici anni e non ha avuto il tempo di viverla e conoscere o interessarsi a un sacco di cose.
Ma queste note smetteranno mai di essere così lunghe…?

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Capitolo 3
*** Mnemosine ***


(Mnemosine) (Inter-mezzo)





dio. Sephiroth. per un sacco di tempo, non sono riuscito a vedere la differenza.

(“Vieni ad adorare. Questo è il tuo Dio.” Avrebbero tranquillamente potuto scrivere questo sui poster di reclutamento.)



(—È possibile, secondo te, chiedeva spesso a Cloud, quando desiderava morire, lasciarsi alle spalle il dolore, ed era invece costretto a restare, —che un giorno saremo liberi?

A volte lo chiedeva seriamente.

I sogni di Cloud quando gli poneva questa domanda erano sempre costellati di montagne, di aria tagliente e fredda ma pura, e nei suoi sogni aveva quattordici anni – o magari tredici, con quelle braccia magre e le mani fragili, gli occhi normali e la pelle liscia e esente da cicatrici? – e Sephiroth era seduto al pozzo e gli chiedeva com’era avere una città natale, una famiglia, una madre vera, essere vivi, amati, essere immortali.

E ogni notte, Cloud lo guardava, scuoteva la testa e domandava, —Proprio tu me lo chiedi?

Sephiroth non capiva mai.

La notte prima della fine del mondo, quando ancora poteva andarsene da questo posto, quando ancora era Sephiroth, ruppe la tradizione e gli chiese di fargli una promessa. —Promettimelo, disse, dopo aver spiegato tutto ed essersi assicurato che lui lo avesse ascoltato, sgretolandosi mentre parlava, una coerenza solo temporanea.

Come un idiota, Cloud promise.)



io Ti amavo. noi Ti amavamo. Tu eri… perfetto. sì. perfetto. mi dispiace, mi dispiace midispiace – ma era vero.

per me, la perfezione era il Tuo viso.


(« Inginocchiati. Chiedi perdono. »)



C’è una ragione se Sephiroth sorveglia tanto gelosamente il sonno di Cloud, se noi (io) abbiamo passato anni ad aspettare i momenti in cui Cloud è completamente dimentico del mondo, quando l’unica cosa che riconosce sono le nostre voci, il nostro mondo, le nostre ombre, le nostre parole.

(A quei tempi… potevi cavartela con delle ginocchia sbucciate…)

Non che non sia possibile che ci veda da sveglio; è solo… difficile.

E va bene – lui ci blocca inconsciamente, come fate tutti voi. Contenti? Ci vede di sfuggita, ovviamente. Quando è troppo stremato per fingere, lui ci vede; ma non è mai abbastanza, capite? No, certo che no.

Una volta però ci ha visto per bene. Una volta soltanto. Una notte un incubo lo ha svegliato – non uno dei nostri, un incubo “normale”, se credete alla loro esistenza – e ci ha visto, disposti attorno a lui come chi aspetta al capezzale che la persona nel letto muoia.

« Voi non siete reali » esordì, disperatamente, e nessuno di noi riuscì a capire se fosse dispiaciuto o contento della cosa. Aeris mi disse di aver sentito sofferenza, ma Sephiroth percepì sollievo, dove io non sentii altro che disperazione.

—Cos’è reale? domandò Aeris, e dovetti reprimere l’impulso di grugnire. Solo perché sono morto non significa che sono già caduto sotto un incantesimo che mi fa parlare per indovinelli metaforici. Ma Aeris, oh, lei si è buttata a pesce su 'sta roba. Forse perché parlava così anche quando era viva e nessuno aveva le palle di dire al suo sorriso ehi, ma che erba ti fumi?

—L’ombra è reale? aggiunse Sephiroth con un sorrisetto timido, riservato, il genere di sorriso che ormai rivolge solo a Cloud, quello che dice tu capisci. È una cosa fra me e te e nessun altro, questa la sappiamo solo noi.

A questo punto ritenni fosse meglio uniformarmi alla massa. Siamo un trio di fantasmi unito e compatto, capite. E così: —La musica è reale? chiesi prima di poter pensare a qualcosa di meglio, perché poi mi persi un bel pezzo della conversazione che seguì per tentare di sciogliere il mio enigma.

Povero Cloud. Prima aveva dovuto convivere con il sospetto di star rincoglionendo, a furia di vedere costantemente Sephiroth con la coda dell’occhio o Aeris nei momenti in cui meno se lo poteva permettere (lei ama particolarmente mostrarsi quando guida la sua nuova moto. Continuo a ripeterle che un giorno lo ammazzerà, ma lei risponde, per la gioia di Sephiroth, che le persone toccate come lui dal destino, con nemici come i suoi, in sella a una moto non ci crepano e basta), adesso doveva convivere con la consapevolezza di essere rincoglionito sul serio.

« Voi… voi li vedete mai? » chiese ai rimanenti della cricca quando s’incontrarono il giorno successivo per salutarsi eccetera. Yuffie sarebbe tornata a Wutai; Vincent era passato solo per il bisogno di dimostrare che avrebbe potuto smettere di fare l’eremita quando voleva, e semplicemente non voleva; Reeve era impegnato con Edge; Barret si era preso del tempo libero per ubriacarsi col vecchio gruppo; Nanaki era già a Cosmo Canyon…

Noi stavamo nell’angolo del bar – io stavo cercando invano di versarmi da bere, Sephiroth stava coltivando il suo speciale talento che consisteva nell’incombere nella visione periferica di Cloud, e Aeris mi stava dicendo di prepararle uno screwdriver – e li guardavamo con i sorrisi storti che i sobri riservano agli sbronzi.

« Vedere chiii? » strascicò Yuffie, dopo aver finalmente vinto la resistenza di Tifa (o meglio, la resistenza di tutti, perché era talmente iperattiva e rumorosa che le passavano i bicchieri per farla stare zitta).

« … Fa niente. »

« Nah, nah, vedere chiii? Eddaaai, Spiky-spike! Diccelo, diccelo! Dillodillodillo! »

Lui le rivolse un cipiglio minaccioso, ma se conosceste qualcuno bene come noi conosciamo il signor Bel Visetto Imbronciato, avreste capito anche voi che si era messo sulla difensiva, come qualcuno che sa in anticipo che quello che sta per dire gli farà fare la figura dello stupido; il cipiglio è un attacco preventivo, una specie di “beh, è stupido, ma sai che mi frega, tanto vale dirlo”.

« Loro. Aeris… e… Sephiroth. » (Notare che mi tagliò fuori, il bastardo ingrato. Io non sono tanto criptico. … Vero?)

Gli puntarono addosso Lo Sguardo Collettivo. Avete capito quale. Quello che dice, Ma ciao, psicopatico, come abbiamo potuto non accorgerci prima della tua presenza?, al quale seguì automaticamente uno scambio di caute occhiate tra i membri del gruppo, come a chiedersi, Okay, ragazzi, come abbiamo potuto non accorgerci prima che uno dei nostri è uno svitato?

« Cloud, credo che tu abbia bevuto abbastanza » disse Tifa.

Il suo cipiglio si accentuò di qualche livello. « Io non sono ubriaco » sbraitò, con tutto il vetriolo esasperato di uno che è ubriaco fino al midollo. O di un SOLDIER che non riesce a ubriacarsi, malgrado diligenti tentativi. « Io – lasciamo stare. » concluse amaramente, scoccando un’occhiata al nostro angolo “vuoto”.

« Io a volte vedo Aeris » borbottò Yuffie nel suo gin (originariamente proprietà di Vincent, ma ritrovarti Yuffie a pochi centimetri dalla faccia che ti fissa negli occhi ovunque essi si spostino, palesemente restia a desistere prima del Giorno del Giudizio, è evidentemente un’esperienza terrificante anche per i vampiri. Vincent, tanto per la cronaca, in quel momento stava occhieggiando il soffitto con uno sguardo assorto, lo sguardo tipico di chi studia le travi in cerca di debolezze strutturali che potrebbero impedire la morte per impiccamento).

A Yuffie recapitarono Lo Sguardo Collettivo dell’Esasperazione, leggermente diverso dall’esempio precedente per il fatto che tutti sanno che il destinatario è sbronzo e dunque non responsabile delle idiozie che spara, che ciononostante restano estremamente fastidiose.

« È vero! » insistette, sbracciandosi come una vera ubriaca che cerca di avvalorare la sua tesi.

« Stazzitta, Yuffie » brontolò Barret, sbattendo un pugno massiccio sul tavolo. « Non… non devi parlare così dei morti. » (Qui Sephiroth cedette a uno dei suoi impulsi più infimi, andò dietro di lui e gli diede uno spintone; la birra ebbe improvvisamente la meglio su di lui e si accasciò sul tavolo, battendo la testa così forte che mi strozzai dal ridere. Sephiroth tornò e mi diede il cinque, quando erano secoli che cercavo di insegnarglielo e lui si era sempre rifiutato adducendo a pretesto il fatto che sembrava stupido e altamente degradante.)

« Io li vedo » mugugnò Cloud fra sé. « Li vedo e non – non è… non sono pazzo » Si sporse e uncinò tranquillamente una bottiglia di delizioso vino di Wutai con una mano. « Sono reali » persistette, sistemandoli tutti con Lo Sguardo dell’Ubriaco Fradicio.

« Coloro che sono morti non ci lasciano mai davvero » intervenne Vincent, gli occhi ancora fissi sul soffitto. « Rimangono per sempre nel nostro cuore e nella nostra mente, e chi può dire che non sia questa l’immortalità? »

Tutti, alquanto avvezzi a questi sprazzi random di filosofia, lo ignorarono completamente.

« Io li vedo » bisbigliò Cloud, e ormai i suoi occhi si muovevano sempre di più per la stanza, l’immagine indistinta di Sephiroth irraggiungibile per un soffio.

Prima eravamo tanto misericordiosi. Avevamo tanta compassione.

« Si nascondono negli angoli, non li vedi per pochissimo. » La mano gli tremava un poco. Lo ricordo molto distintamente, perché lui di solito era così immobile – i suoi Scleri™ erano preannunciati da minuscoli tremori, che diventavano una specie di tic convulso, poi prendeva grandi respiri tremanti di aria che non servivano a niente, e si piegava su se stesso prima di poter assalire e ferire qualcuno (quante attenzioni, quanto rispetto. Specialmente quando crollava).

Tifa gli strappò sollecitamente la bottiglia di vino di mano. « Non esistono cose del genere, Cloud » disse pacatamente. (Sephiroth le porse il suo saluto con un dito solo. Non che la disprezzi particolarmente; in realtà, la reputa divertente e di grande intrattenimento. Solo che odia il fatto che il suo burattino possa trovare il tempo e le riserve emotive per fregarsene veramente qualcosa di qualcuno – chiunque esso sia – che non sia lui. Ho già accennato al fatto che ha dei problemi seri, sì?)

« Invece sì! » ribatté lui con calore. « Dimmi che non li hai visti dopo Nibelheim. Tuo padre, o i tuoi amici, o- »

« Certo che li ho visti » lo interruppe freddamente, perché persino Tifa, la Regina della Compassione, Santa Tifa la Masochista, ha i suoi limiti. « Nei sogni. Non vedi nient’altro che questo, Cloud. Sogni. »

Lui la fissò a lungo, e non disse nulla; Sephiroth ostentava un sogghigno da sopra la spalla della donna.

« Nelle profondità dell’incubo e del sogno si celano le più grandi verità » commentò Vincent, lo sguardo sprofondato dal soffitto a una bottiglia di whisky.

Tutti i presenti ancora in sé gli ordinarono di chiudere il cesso.



Ti avrei servito volontariamente. non c’era bisogno di costringermi a inginocchiarmi. per quel che mi riguardava, Tu eri la voce di dio. no. non solo la voce. Tu eri il viso, la forma, l’immagine stessa di dio. Tu eri dio – Tu eri il mio dio, e se lo eri anche per altre persone, beh, era una sorpresa, ma incidentale.



Cloud dorme. Cloud dorme e nei suoi sogni ci siamo noi, come in una piccola riunione tutta nostra. In questo sogno ci troviamo nei campi infiniti di Aeris. Ai piedi di Sephiroth ci sono dei rovi, i fiori appassiscono, si accartocciano e muoiono, diventano un requiem di marrone e nero stinti, un fuoco spento. Il profumo di monarda lo avvolge, dicendo con voce amareggiata, la voce di Cloud: i tuoi capricci sono insopportabili.

(—Io non ho bisogno di te, sibila Cloud. Oggi ha otto anni, e sulle sue ginocchia le cicatrici appaiono e scompaiono ripetutamente. Sephiroth si staglia di fronte a lui, cerca di sembrare calmo e distaccato. Non ci riesce.

—Bugiardo, lo accusa, gettando la parola nel vuoto verso di lui, come se stesse lanciando una corda oltre un abisso. Manette di seta e acciaio lo cingono come un regalo troppo incartato. Si stringono e si allentano al ritmo del battito di Cloud.

—No! grida il bambino (Cloud? Questo focoso stronzetto?). —No no no! Io ti odio!

—Esattamente! Tu hai bisogno di odiarmi! dichiara Sephiroth trionfante. Per un attimo le catene si serrano così forte che espelle il respiro con un rantolo.

Aeris avanza verso di me e fa scivolare una mano nella mia. —Fermali, Zack. Mi fa male vederli così!

—Come se io potessi farci qualcosa! sbotto, ma non sono arrabbiato con lei, in realtà. Nemmeno loro sanno perché stanno litigando. Litigano e basta.)

Nel regno dei viventi, Cloud si raggomitola in una posizione fetale (cerchi di fare il riccio non solo con i capelli, eh?). « Madre » chiama, indifeso, e questo dovrebbe farvi capire con molta precisione quanto sia brutto tutto ciò, quanto in profondità stia scavando il loro battibecco – da quando c’è Sephiroth, non può neanche pensare a sua mamma come a sua “madre” senza avvertire un piccolo brivido di disagio.

(Le urla si fanno più acute. Devo ammettere che sono colpito. Non credevo neanche che conoscessero le parole che si stanno scagliando addosso a vicenda.

Tanto tempo fa, Sephiroth era il fiore all’occhiello della compagnia per la sua tranquillità. Nell’enciclopedia degli impiegati che avevo redatto personalmente – un giorno devo riuscire a trovarla – vicino al suo nome c’era scritto: “la persona meno a rischio d’infarto o di colpo apoplettico”. Può darsi che l’abbia scritto Reeve, ma comunque fidatevi di me se vi dico che era un’alta onorificenza nella ShinRa.

Non è più così. È diventato irrequieto, è sempre alla ricerca di qualcosa; è in continuo fermento, e s’infrange sui confini del Lifestream come le onde sulla spiaggia. La sua pazienza ormai non esiste. Il suo distacco è morto. Per cui non dovrei stupirmi quando si scaraventa contro Cloud e gli dà una botta così forte che la testa gli schiocca sul collo. Non dovrei stupirmi, ma è più forte di me.

—Zitto, sibila tra i denti stretti. —Stai zitto.)

Cloud fa una smorfia nel sonno. La sua mano sinistra si apre e si chiude come un fiore, come una bocca che cerca di riprendere fiato, mentre del sangue gli cola dal naso. « Stai zitto » fa eco, e anche se profondamente addormentato, la sua voce trema di rabbia.

(L’immagine di Cloud tremola – ora c’è un bambino, ora un uomo, ora un adolescente – ma i suoi occhi rimangono sempre gli stessi. —Vattene, sussurra, guardando il sangue sulle sue dita. Sembra leggermente sorpreso, e io non mi capacito del perché quando ogni sua cicatrice ha la firma della Masamune.

—Non posso, dice Sephiroth, irritabile. —Non posso “andarmene” se tu non me lo permetti. E tu non mi lascerai. Perché io ti fortifico. Perché senza di me tu non sei niente, sei solo uno stupido, sciocco bambino – senza di me tu non vali niente, e lo sai.

—Prenditi la tua maledetta forza, sbotta Cloud. —Io non la voglio. Non mi serve.

Sephiroth ride, barbaramente, istericamente. Si siede accanto a lui, pulisce via il sangue dal naso del suo nemico, e non dice nulla.

(Tu non hai nient’altro. È questo che potrebbe dire in questo momento, in un mondo non più lontano di un battito di ciglia. Ma qui non lo dice.)

—… Perché stiamo combattendo? chiede Cloud alla fine, nell’esile, stanca voce di un bambino che ha partecipato a troppi litigi finiti male, la voce di un ragazzo a cui è stato chiesto troppo spesso se sua madre non amasse un po’ troppo le previsioni del tempo visto il nome che si ritrovava. Un ragazzo che ha gridato, e ha perso sangue, e si è scottato e accartocciato talmente tanto su se stesso che è un miracolo che possa ancora parlare.

Sephiroth fa spallucce. Le spallucce sono il gesto più eloquente del linguaggio umano, secondo me, e nessuno riesce a comunicarne il pieno significato come Sephiroth. In fondo prima rappresentavano il massimo grado delle sue interazioni sociali.

—Perché non smettiamo?

Sephiroth fa di nuovo spallucce. —Non lo so, risponde in tono piatto. Scruta Cloud, adesso nel corpo di un teenager con le gambe e le braccia sgraziate troppo lunghe per il suo corpo. —Quando lo scopri dimmelo.)

Cloud si sveglia e non ricorda nulla. Fissa le stelle per un lungo periodo, scivolando inquieto in quel mondo a metà tra la veglia e il sonno, protetto dalla sconnessione.

(—Ciao, lo accoglie Aeris dolcemente, come se lui non fosse stato qui fino a mezzo secondo fa.)



(« Ho pensato… »)

Tu eri il mio dio. e io non ero abbastanza per Te.

io Ti adoravo. Tu eri tutto. tutto. io ero nulla, e lo sapevo, ma in quanto Tuo servo, Tuo adoratore, Tuo schiavo, almeno ero il Tuo nulla. avrei fatto qualunque cosa Tu mi avessi chiesto.

e Tu mi hai buttato via.


(« … a un bel regalo per te. »)



(—Tieni, comincia Cloud. —Te li regalo.

Sephiroth sbatte le palpebre osservando i fiori. —… Non capisco, replica, aggrottando la fronte.

—Delusione, dice lui. O forse non lo dice, perché i sogni hanno quella strana logica tutta loro. —Rifiuto.

Sephiroth tende un braccio verso le sue mani e si appropria dei garofani gialli. —Continuo a non capire.

Cloud porta gli occhi al cielo. —Il tuo ego ha soverchiato la tua intelligenza, lo informa sprezzante. Sephiroth si acciglia ancora di più, torcendo i fiori da tutte le parti.

—Che me ne faccio di questi cosi? chiede infine, perplesso.

—Si strappano i petali, intervengo io. —Uno per uno, e si dice: “m’ama, non m’ama…”, e quando hai finito i petali, hai la tua risposta. Faccio l’occhiolino a Cloud, che pare indeciso se picchiarmi o scoppiare a ridere.

—Non capisco! esclama furente Sephiroth. —Che senso ha?!

—Hanno davvero puntato al risparmio con la tua infanzia, dico, afferrando i fiori. —Sta’ a guardare… Strappo un petalo. —Cloud mi ama! dichiaro teatralmente, facendo cadere il petalo. Aeris sta già ridacchiando come una matta, e il rossore mortificato che si diffonde sulle guance di Cloud mi fa desiderare di avere una telecamera – sono anni che non vedo Cloud umiliato al punto da arrossire.

Beh, in realtà, ora che ci penso, credo che Aeris possa esserci riuscita una o due volte. Sfrutta al massimo quella sua aura d’innocenza per fare delle uscite che sconvolgerebbero Cid. Ebbene sì! C’è dell’impudenza nella dolcezza! Sinceramente, perché sarei uscito con lei se non fosse così? Troverei quella facciata da più-santa-di-te seriamente irritante dopo un po’ se non sapessi cosa c’è dietro.

—Non mi ama!

Sephiroth mi fissa.

—M’ama!

Quindi guarda Aeris.

—Non mi ama!

Lei s’impietosisce e gli dà una gomitata leggera. —Va tutto bene, dice con fare rassicurante. —Lo sai che a Zack… manca qualche rotella.

—Sì, concorda Sephiroth, lanciandomi uno sguardo divertito. —Ma mi sfugge ancora il senso di questo rituale. Come può lo strappare i petali a un fiore determinare un qualcosa di vago come l’amore?

—M’ama!

Lei scuote la testa. —È solo un gioco. Fossi in te, mi concentrerei di più su quello che Cloud stava cercando di dirti quando ti ha dato quei fiori.

—Non mi ama!

—Perché, significano qualcosa? Si passa una mano impaziente tra i capelli.

—Certo che sì. Pensala… come un codice.

Saggia Aeris. Ve lo dico io, la mia ragazza è un genio. (Ma non ditele che ve l’ho detto, perché se no chi la tiene più.)

—Un codice?

—Sì, Aeris annuisce. —Ogni fiore ha uno speciale messaggio, e ci sono persone che regalano fiori per dire cose che non sarebbero in grado di dire a voce. E ovviamente, un fiore può avere due significati opposti. Una petunia, illustra, entusiasmandosi al suo campo, —può significare “la tua presenza mi rasserena”, ma allo stesso tempo può indicare risentimento e collera.

—E allora quel fiore…?

—Un garofano giallo sta per disappunto e rifiuto: tu mi hai deluso. Mi spiace, ma non c’è nessun altro messaggio.

—M’ama! Faccio un largo sorriso in direzione di Cloud, che sta tentando di fracassarsi la testa per terra. —Scusa Aeris, mio amore perduto, ma il fiore ha parlato!

Sephiroth aggrotta la fronte guardando Cloud. Immagino che le parole “tu mi hai deluso” gli stiano rimbombando in testa. —Non è un regalo molto gentile, dice in tono asciutto.

Lui alza il capo e lo fissa, solo vagamente strabico. —Non voleva essere gentile. Cazzo, se non l’hai ancora capito ti odio.

—Modera il linguaggio, lo rimbrotta distrattamente Sephiroth, continuando a fissarlo. Poi, improvvisamente, sorride. —Questo significa che dovrò pensare a un bel regalo da darti in cambio, giusto? Per quando ci rivedremo, spiega allo sguardo confuso di Cloud. (Questo… non promette niente di buono.)

—Noi non ci rivedremo, replica Cloud in tono incolore, disorientato.

—Noi ci vediamo continuamente, ragazzo smemorato. Ma sì, intendevo nel mondo della veglia. Ride sotto i baffi. —Danzeremo, dice, canticchiando a bocca chiusa una melodia frivola e leggera, una di quelle che ti fa venir voglia di ballare il valzer quando non hai la più pallida idea di quali siano i passi: da da da du daaaa, du du da da… (Ho quest’improvviso flash mentale di loro due che combattono, delle loro spade che si muovono tanto in fretta da divenire macchie sfocate… e poi d’un tratto le rinfoderano, si prendono per mano e cominciano a ballare alla stessa identica velocità e con la stessa identica grazia, un due tre, gira, avanti, indietro, un due tre…

Sì. Fossi in voi anch’io mi preoccuperei.)

—Tu sei pazzo, gli faccio.

Lui non mi degna neanche di un’occhiata. —Non credo che tu abbia il diritto di mettere bocca sull’altrui pazzia, risponde freddamente.

—Seph- inizio, ma m’interrompe con un gesto.

—Non so a chi ti riferisci, dice, sollevando il naso.

Date retta a me, certi giorni non vale la pena neanche di alzarsi dal letto.)

Quando stavolta si risveglia, non si riaddormenta. Non ricorda nulla nemmeno stavolta – non si tratta del genere di sogni che uno ricorda – ma crede di aver sognato qualcosa a proposito di… un ballo? Fiori, indubbiamente. Regali? Forse. Non è uno di quei sogni di cui valga la pena preoccuparsi da sveglio, si dice.

Si veste e se ne va, e dove stia andando non lo sa, ma si chiede una cosa e la cosa è questa: per quanto tempo posso trattenere il respiro?



avevo riposto la mia fiducia in Te, e Tu l’hai tradita. Ho camminato fedelmente nella Tua ombra, e Tu mi hai messo da parte. Tu…

(« Vuoi disperazione? »)



Si tuffa.

ariabisognodiaria

—Stai cercando di affogarti?! grido, ma Sephiroth fa servizievolmente notare che anche se fosse lui lo riporterebbe allegramente in vita, perché, e qui cito testualmente, “lui è un idiota, ma è il mio idiota, e difenderò fino alla morte il diritto di ucciderlo con le mie mani.”

respirarespirarespira ma è un istinto per gli esseri umani e lui si rifiuta di dargli ascolto.

Ci lascia andare. Aspetta di esaurire l’aria immagazzinata nei polmoni.

respirarespirarespira

—Ehi, dice Sephiroth. —Svegliati.



hai smesso di essere dio. ma avresti potuto esserlo, tu.

(« Qual è la cosa che consideri più preziosa? »)

oh, se avresti potuto esserlo.



(Aeris lancia un’occhiatina di sbieco a Sephiroth. —Sephiroth, gli fa, cauta.

Sephiroth sbatte le palpebre per farle magnanimamente cenno di proseguire. È un buon segno, significa che al momento è mediamente sano. —Sephiroth. Ma a te… a te piace il modo in cui si sta comportando adesso Cloud?

Sephiroth piega la testa, incuriosito. Buon segno? Brutto segno? —Spiegati meglio.

Buon segno.

—Intendo… il fatto che si rifiuti di lasciarci andare.

—Intende le sue tendenze suicide, m’intrometto, ignorando lo sguardo piccato di Aeris.

Lui aggrotta le sopracciglia. —E la causa sarei io?

Brutto segno. Io e lei ci scambiamo degli sguardi. Rispondendo di sì lo gratificheremmo e gli faremmo venire voglia che Cloud continui. Rispondendo di no si infurierebbe e gli verrebbe sete di vendetta al pensiero che qualcun altro possieda una certa influenza sulla sua proprietà.

—Non importa, mi affretto a dire. —Quello che importa è, ti piace che si comporti così?

—… In effetti no, ammette lentamente. Scrolla le spalle. —Non è molto divertente da guardare.

Incredibile. Assolutamente incredibile. Questo è uno di quei momenti sempre più frequenti in cui mi viene voglia di trucidarlo con la Nailbat di Cloud.

—Okay, concede in fretta Aeris, rivolgendomi una rapida occhiata di avvertimento con la coda dell’occhio. —Comunque, lo sai che quando dello sporco entra in una ferita quella diventa una piaga?

Lui annuisce, e si trattiene dal portare gli occhi al cielo. Forse per rispetto, ma più probabilmente perché la sua mente è già altrove.

—Beh, i ricordi su di noi sono come lo sporco in una ferita sull’anima di Cloud. Non è molto interessante da guardare perché è ferito, capisci?

—Sì, risponde. Ma pare un po’ dubbioso. (Per il nostro meraviglioso Generale, Cloud Strife è il giocattolo infrangibile. È assolutamente convinto della sua indistruttibilità; il pensiero che possa esistere un danno capace di deteriorare il gioco invece di aumentare il divertimento è una rivelazione stupefacente).

—Quando lo rincontrerai… Incrocia le dita dietro la schiena. —… non sarebbe più bello se Cloud fosse al massimo delle sue possibilità?

I suoi occhi si stringono pericolosamente. —A me piace quando sta male, dice fermamente. Mi sento sprofondare; è la sensazione che arriva sempre quando mi rendo conto che la scarna lucidità mentale di Sephiroth ha traslocato.

Il silenzio sgradevole si protrae. Ho abbastanza paura da respirare pianissimo, da non fare nulla che possa irritarlo, in un modo o in un altro. Accanto a me Aeris si è congelata, ma ha ancora la testa alta di orgoglio, le brillano gli occhi.

—E poi, aggiunge Sephiroth alla fine, voltandoci le spalle. —Chi l’ha detto che voglio che sia così quando ci rincontreremo? Non ci sarebbe niente di divertente.

Aeris sorride e mi lancia uno sguardo significativo. —Andrà tutto bene, mi dicono le sue labbra. Sephiroth è molto bravo a far diventare Cloud più forte, a dargli una ragione per andare avanti, anche (soprattutto) quando non è sua intenzione.)



(E questo come ti fa sentire?)

… io…

(Dimmi. Come ti fa sentire, Cloud?)

non voglio parlarne.







NdT: tutte le frasi tra le caporali (« e ») e tra parentesi nelle parti al centro provengono da Advent Children, e sono dette da Sephiroth durante il suo duello con Cloud. Potete leggere l’intero scambio queer qui.
Nota di colore: la frase “Shall I give you despair?” è meglio nota nel fandom come “Shall I give you dis pear?
Ovviamente mi sono rifiutata di comprare il dvd, quindi grazie mille ad Alister per avermi fornito la loro traduzione ufficiale!
Ah, le “ginocchia sbucciate” vengono invece da uno dei pensieri che Cloud “sente” nel gioco (per intenderci: schermo nero, riga di testo bianca/grigia al centro, momento wtf) quando si risveglia nella chiesa di Aeris.

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Capitolo 4
*** Erebo ***


(Erebo)





(17 ore, 2 minuti)

Non siamo più lì. È veloce, un battito di ciglia, di meno, ed eccoci qui, passati da Cloud che letteralmente affoga a Tifa che affoga nella sua routine di tarda mattinata. È buffo, come uno spirito impetuoso come lei possa addomesticarsi tanto, possa legarsi in maniera così totale a una simile monotonia. O forse no.

Osservando Barret ha imparato molto – c’erano stati giorni in cui lui aveva lavorato più del dovuto, ore che persino il suo immenso corpo avrebbe voluto rifiutargli per la stanchezza, ma dopo dormiva profondamente sonni senza sogni (Sognava. Su questo non c’è alcun dubbio, sognava. Solo non lo ricordava).

Ma lei ha il suo modo personale di occuparsi delle cose. Tifa può immergersi completamente in ogni situazione possibile. Può concentrarsi esclusivamente sull’arco che disegna con un calcio alto, su come spingere tutto il corpo in un pungo, su come contrattaccare a questa mossa, su come schivare quell’altra.

E può concentrasi esclusivamente su come rigirare le strisce di bacon per cucinarle uniformemente, su come friggere le uova al tegamino (alla maniera di suo padre). Certe mattine va a correre, certe notti lavora fino a tardi; trasforma la sua vita in una serie di abitudini che può gestire.

Chissà quante persone ci saranno, lì fuori, a fare la stessa cosa.

Fissa senza realmente vederla la colazione posata nel piatto, ma non riesce a mangiarla. Ripensa ai pasti poveri di cui lei e il resto del gruppo si erano dovuti accontentare quando viaggiare veloci e leggeri era più importante dell’essere ben nutriti. L’indulgenza malsana di grasso che vede sul tavolo le ricambia lo sguardo e il suo stomaco si ribella.

L’ha preparato perché suo padre le faceva colazioni di questo tipo, l’ha preparato perché di colpo sente il bisogno di un qualche collegamento con una vita normale, che ormai le sembra nulla più che un sogno sbiadito, benché serbato a lungo.

Non è così che dovrebbe essere. Non è così che dovrebbe essere lei.

(Ci aveva messo delle settimane intere ad abituarsi alla Tifa Lockheart che aveva incontrato a Midgar.

Vestiva la parte, parlava la parte, recitava la parte. Si impegnava tanto per sbarazzarsi del suo accento, dell’innocenza e dell’ingenuità che gli altri ci sentivano dentro, si impegnava tanto per convincere tutti, lei compresa, che quello era il suo posto.

La gonna era appena un po’ troppo corta – doveva resistere costantemente all’impulso di tirarsela giù – e il top troppo stretto – gli lanciava spesso occhiate inquiete per accertarsi che la Cicatrice non fosse visibile (Dio, quanto la odiava all’epoca, quanto le ricordava di quel viso, di quegli occhi, del disprezzo che contenevano; a quei tempi non era un modo per affermare la propria vita, la prova di essere sopravvissuta dove innumerevoli altri non avevano potuto).

Trovava (trova ancora) molto più umiliante che qualcuno intravedesse quello sfregio, quella cruda cucitura di carne, che non le pratiche mutandine di cotone che nascondeva sotto la minigonna di pelle.

(Le cicatrici di Cloud sono pulite, argentee, lo ricoprono come una ragnatela di seta. La prima volta che le aveva viste nella loro interezza si era domandata se non fossero proprio quelle a tenerlo insieme, se la fragile intelaiatura di pelle sopraelevata non fosse in realtà una rete che lo avvolgeva, trattenendo dentro tutto quello che altrimenti sarebbe scivolato fuori.

In confronto a quella poesia, la cicatrice di Tifa non è che un brutto verso di una parola in mezzo ai suoi seni, una bocca raggrinzita che si è abbeverata del silenzio che il suo urlo avrebbe dovuto spezzare.)

Continuava a chiedersi quando sarebbe arrivato suo padre a prenderla per un braccio e a riportarla a casa, strillando sui valori! e la decenza! e non-ti-ho-cresciuta-perché-ti-comportassi-così!

Sarebbe stata felice come non mai di ricevere una strigliata. Ma poi ricordava che suo padre non l’avrebbe mai più sgridata, che non avrebbe mai più disapprovato i suoi vestiti o i suoi comportamenti, e si versava qualcosa da bere in un sorso solo, giusto per dimostrare la sua assenza.

A Nibelheim era una ragazza che indossava abiti provocanti con tutta l’innocenza che questo comportava, solamente per far indispettire suo padre, ma a Midgar era una donna. A Midgar aveva imparato che il suo corpo era un’arma quanto lo erano i pugni, e di conseguenza l’aveva usato.

Vedersi riflessa negli occhi di Cloud dopo tanti anni la stupì. Si era in qualche modo convinta di essere rimasta quella di sempre sotto lo sporco di Midgar, la stessa ragazza acqua e sapone della Nibelheim incendiata, la bambina che gli aveva chiesto di farle una promessa; non riconobbe la donna che vide lui, la donna che conosceva a menadito il trucco e i suoi vantaggi, che sapeva ancheggiare senza sembrare o sentirsi stupida, che conosceva cento scollature diverse per le mance migliori, che sapeva promettere tutto in uno sguardo senza poi dare niente.

No, non l’è piaciuta la Tifa Lockheart che ha incontrato a Midgar. Ma ci sono volte in cui le è così grata, volte in cui ha avuto talmente bisogno di quella donna dura come l’acciaio, che seppure si facessero tornare indietro le lancette dell’orologio e si fermasse Sephiroth prima che impazzisse, non saprebbe dire se non rifarebbe comunque tutto daccapo.

Oggi è uno di quei giorni in cui ha bisogno di lei.)

Raccoglie il giornale davanti all’ingresso, ancora in vestaglia, il titolo in grassetto tocca qualche corda dimenticata – nel suo piccolo, ha dato una mano affinché si compisse l’impresa eccezionale che è stata sbattuta in prima pagina – prima di voltarsi e tornare dentro, chiudendo la porta a chiave (contro cosa?).

Il mondo. La data. Tutto e tutti. Dentro casa sua (non la chiama così, ma col tempo l’accetterà come tale) non vuole che entri niente di quello che sta fuori, niente delle persone che ha aiutato a salvare, niente del suo passato e sicuramente niente di quello che potrebbe diventare il futuro. Se volesse, potrebbe chiudere fuori Cloud. Getta il giornale sul tavolo quando gli passa accanto, oltrepassando il cibo che si sta raffreddando e che un anno fa avrebbe messo fuori perché lo mangiassero gli uccelli, e che metterà lì anche stavolta se i bambini non lo vorranno. Sale di nuovo le scale, le spalle accasciate. Noi la seguiamo.

È questo che fa a se stessa, per mettersi in condizione di sopportare il peso del vivere, problema che si pone quando la tua vita fa parte di una grande storia. Le storie sono fatte per finire. Ma raramente, se non mai, finiscono con te. Finiscono su un monte, sull’apice della tua vita (non conta che tu abbia venti o ventun anni, e la tua vita non dovrebbe essere tanto piena, tanto vuota per gli anni a venire) e quando tutto si conclude tu devi comunque continuare a vivere.

Sparsi per casa, se ci si prende la briga di notarli, ci sono i segni della presenza di un’altra persona che vive qui almeno per qualche periodo. Nessuno di questi segni punta a Cloud, ma d’altro canto, anche Prima, lui non è mai stato bravo a stabilirsi in un posto, a essere una piccola parte della piccola vita di paese (… Non che Edge sia piccola, di per sé).

Certo, lui pensa che se potesse tornare indietro a quando aveva sedici anni (è stato a quattordici che tutto ha cominciato ad andare a puttane, ma chi tiene il conto?) sarebbe maledettamente contento di quella vita piatta. (Nessuno di noi è d’accordo. A quattordici anni, Cloud aveva grandi sogni e poco buon senso, ma adesso ne ha ventidue, ha visto cose che nessun’altra persona al mondo avrebbe la forza di reggere, e sogna in piccolo ma ha la stessa quantità di buon senso.

I piaceri semplici intrinseci dell’essere un uomo non può averli più – sotto mano ha delle cose più grandi, come gli attacchi al Pianeta e gli incubi di un uomo morto. Non si preoccuperà mai di figli, di partecipare all’adunanza comunale, di qualcosa di così banale e importante.)

Adesso sta entrando nel bagno, strofinandosi distrattamente il sonno dagli occhi con una mano e passandosi l’altra tra i capelli flosci; fa una smorfia, sentendo per un breve istante la disperata certezza che questa sarà una brutta giornata (è passato molto tempo da quando la sua percezione di “brutta giornata” è diventata così semplice).

Sta ancora pensando a noi. Apre l’acqua, trasalendo per la sua freddezza, prima di slacciarsi la vestaglia, togliersela tranquillamente con una scrollatina di spalle e appenderla.

(Non riusciamo a distogliere lo sguardo abbastanza in fretta (porca miseria, porca miseria nera, è Tifa. Spikey mi ucciderebbe).

Aeris si copre gli occhi con le mani, voltandosi (ed è divertente come ogni volta che lo fa), io cerco di trovarmi nello specchio, mentre Sephiroth la squadra con calma, un sopracciglio delicatamente inarcato in un’espressione che potrebbe significare una miriade di cose, prima di girarsi e mettersi a studiare tutti i prodotti per l’igiene e di bellezza con ammaliata repulsione.

Shampoo, risciacquo, balsamo. Le piace l’acqua calda sulla pelle fredda. Il vapore ci avvolge, appanna la finestra e sgocciola, lasciando fuori i contorni di edifici grigi e facendo entrare soltanto la debole luce del sole.

Questa è la sua ricompensa per essersi svegliata un altro giorno (che stupore, quando si era svegliata a Midgar, quanto si era detta sicura che non avrebbe più dato per scontato l’ordinario miracolo di respirare). Questa è la sua ricompensa per aver avuto abbastanza fede da alzarsi e mettere il pilota automatico. La doccia lava via la mattina e il passato e lascia solo il presente, una quiete oscura che si trova più comunemente nel grembo materno.

È qui che si lascia in contemplazione del nulla. È questo l’unico luogo in cui il pensiero di Cloud non entra, e può essere soltanto Tifa.

Qui, può convincersi che le lacrime siano semplicemente acqua. Di non avere nulla per cui piangere, e che se anche ce l’avesse, la doccia piangerebbe per lei.

Non avrebbe mai voluto essere una di quelle donne patetiche dei romanzetti rosa che aspettano che un uomo le salvi. Ha imparato le arti marziali per potersi salvare da sola, non per perdersi nelle abitudini, e nei rimpianti, e nel pensiero di un viso dagli occhi scintillanti.

Finalmente capisce perché i più crudeli degli dei si armavano di frecce acuminate.

Chiude gli occhi e nasconde il volto tra le mani, ascolta l’eco del battito cardiaco nelle orecchie, il rumore irregolare del suo respiro che quasi assomiglia a un singhiozzo, sente il calore dell’aria che espira tornarle riflesso. Finalmente ci lascia andare, e scivoliamo oltre, fuori, giù per le scale, e corriamo sul marciapiedi, evitando macchine e persone come se fossimo ancora vivi.)



Per Cloud, Tifa sarà sempre la prima ragazza.

Per questo non funzionerà mai.

Ricorda perfettamente la prima volta che l’ha vista, e non aveva visto la figlia del sindaco o la ragazza della porta accanto o l’ennesima bambina pronta a rendergli la vita un inferno (e quanto ride questi giorni quando ci pensa, conoscendo il vero significato delle parole “rendere la vita un inferno”).

Lui aveva sei anni, lei cinque. Erano nel cuore di luglio, e lei era seduta al pozzo, i piedi sporchi e scalzi, i capelli legati in una treccia disordinata che già cominciava a sfaldarsi, e stava canticchiando a labbra serrate la sigla di un programma del sabato mattina, e per Cloud il sole brillava solo per lei.

Fu come se fosse stato colpito in pieno petto. Fu come se qualcosa dentro di lui si fosse azionato di scatto. Tutto d’un tratto sapeva chi sarebbe diventato da grande, sapeva di essere più forte di quanto non avrebbe mai creduto, e allo stesso tempo si sentì patetico, e ferito, e piccolo, e pensò non guardarmi, ti prego, fammi scappare via adesso, e pensò guardami.

Voleva girarsi, voleva fuggire, rimanere semplice, ma i suoi piedi si erano incollati al terreno. Poi lei si voltò e gli sorrise, e per lei quel sorriso non significò nulla, era solo un’espressione, ma per lui fu come se Dio gli avesse sfiorato la spalla, come se il mondo si fosse ristretto al suo viso, al suo sorriso, e s’innamorò perdutamente di lei in un istante con tutta la schiacciante semplicità del primo amore, e con il suo cuore di bambino capì che avrebbe trascorso il resto dei suoi giorni a vivere per quel sorriso.

È così che comincia. Sempre. (Se descrivessi il mio primo amore non sarebbe molto diverso.)

È così che finisce. Sempre.

Poi lei se ne va. Tu la guardi mentre si allontana. Prende il braccio di un altro ragazzo, o la osservi da dietro il vetro di una finestra quando parte, o la vedi correre in un prato o semplicemente sorridere a qualcun altro nel modo che tu precedentemente, stoltamente, avevi pensato fosse riservato solo a te.

Ma in qualunque modo succeda, in qualunque momento succeda, lei se n’è andata, e tu ti senti vuoto, come se ti fosse stato strappato via qualcosa. E qualcosa ti è stato tolto – la parte di te che sapeva cosa significasse amare, e pensi che non riuscirai mai più a sostituirla, che non amerai mai più, che nulla ricrescerà mai in quel posto vuoto che prima occupava lei.

E forse è così, forse quel posto rimarrà vuoto per anni, ma alla fine sì, qualcun altro entrerà in quel posto reso possibile da lei, dalla prima ragazza di cui ti sei innamorato, e la ringrazierai, perché per quanto ti abbia ferito (che sia nel profondo dell’anima o nulla di più di un graffio) ti ha dato la possibilità di poter amare quel qualcuno.

Ti butti alle spalle il tuo primo amore, sempre, perché è così che vanno le cose. Forse con lei ci hai vissuto anni, forse l’hai vista una volta soltanto, solo per qualche secondo, il risultato non cambia. E forse non volevi, forse l’hai rincorsa gridando il suo nome, forse hai urlato e ti sei tormentato per lei, ma comunque te la butti alle spalle.

(Ormai avrete capito che non stiamo veramente parlando di Cloud, vero?)

Forse, come i miei genitori, ti sposi questo primo amore, e rimani sposato e probabilmente morirai sposato a lui o lei. Questo dovrebbe annullare la mia tesi? No. Perché è impossibile, assolutamente impossibile che la bambina di cui si è innamorato mio padre (la prima volta che l’ha vista, lui aveva nove anni e lei stava malmenando il suo vicino di casa perché le aveva tirato le trecce – per la precisione gli aveva dato un pugno tanto forte da farlo cadere nel terreno) sia la stessa donna che mi ha detto di stare attento, scrivere spesso e chiamare di più.

Il primo amore può diventare l’ultimo, può diventare “vero amore”, ma non può mai rimanere il tuo primo amore, mi seguite? Chiamare qualcuno il tuo primo amore implicherà sempre che a un certo punto hai cominciato ad amare qualcun altro, anche se non hai mai smesso di amare lui o lei.

Qualcuno mi ricorda perché stiamo discutendo dell’amore?

Oh, giusto. Tifa. Tifa… ha un motto. Fa così: non arrenderti mai. (Scusate, ho dimenticato le maiuscole. Fatemi riprovare: Non Arrenderti Mai.) Se Tifa si facesse un tatuaggio, sarebbero queste parole. Non “Combattere Fino alla Fine” o “Fino alla Morte” o robe simili. No. Con quelle si indicherebbe qualcosa di finito. Vorrebbe dire che prima o poi sì, arriva il punto in cui ti fermi.

Tifa non saprebbe quando fermarsi nemmeno se qualcuno le desse un pugno in faccia (o provasse a tagliarla a metà, che forse calza meglio). Mai significa davvero mai, significa che continui a mettere un piede davanti all’altro, nonostante tutto sia contro di te, nonostante il fatto che una qualsiasi persona sana di mente avrebbe cercato di limitare le perdite e sarebbe scappata tempo fa.

(L’ordine è sbagliato. Lei ha già perso.)

Tifa per Cloud è la prima ragazza. Quando pensa a lei, in fondo all’immagine che ha di lei c’è questa bambina che fa dondolare i piedi avanti e indietro e canticchia una sigla. È talmente radicata, talmente coperta da altre impressioni che la si scopre solo scavando a fondo, solo strappando e mettendo da parte tutti quei ricordi fragili, solo sbrogliando tutte quelle visioni intrecciate.

Cloud aveva una scelta, quando era inginocchiato nel reattore, e lei gli sanguinava sulle mani. Poteva scegliere tra Tifa, la prima ragazza, e il dio che aspettava nel cuore del reattore. Ha scelto Sephiroth. Si è buttato il resto alle spalle.

Quello non conta, potreste controbattere (lei potrebbe controbattere). Era una questione di vendetta, lei l’avrebbe voluto (oh, se lo voleva), è stato tutto troppo veloce e confuso per essere una decisione consapevole.

Balle. Dalla prima all’ultima: balle. Sì, è stato un qualcosa di veloce e confuso, secondi, non minuti. Ma lui ha scelto di inseguire Sephiroth, ha preferito la vendetta a lei, ha deciso in quel preciso istante che ucciderlo era più importante di lei, della ragazza che sarebbe diventata la donna che tutti (chi sono questi tutti?) si aspettano che sposi. (E poi fu molto difficile pensare a quanto amasse la ragazza della porta accanto quando per i cinque anni seguenti era un po’ impensierito dalla sua possibile morte. Stranamente, cose come l’amore della tua vita impallidiscono fino a perdere significato quando ti trovi davanti a cose del genere.)

Però il primo amore non si scorda mai. È per questo che Cloud scappa, ma mai troppo lontano. È per questo che ha smesso di rispondere alle telefonate, ma non butta via il cellulare.

(… Ecco perché smetti di amare qualcuno anche quando non vorresti:

Perché se non lo fai, distruggi te stesso e distruggi l’altra o l’altro. Ci sono certe persone, lasciate dalla prima ragazza, che non smettono di telefonare, che piangono, gridano, fanno lo sciopero della fame, minacciano soluzioni drastiche. E l’altro, l’oggetto della loro adorazione, benché conscio dell’errore, torna e continua a tornare. E anche quando non ci sono, accecano gli occhi dello sciocco, che non riesce a vedere nessun altro.

Per questo te lo butti alle spalle. Perché non è una scelta. Perché devi.

Vi racconto la storia dalla parte di Tifa? Quanto mi piace divulgare segreti.

Vediamo. Tifa non ha mai amato nessuno in vita sua, non nel modo in cui ti aspetti di amare qualcuno nel segreto del tuo cuore.

Ti aspetti, nel profondo, di amare qualcuno nel modo di cui nelle storie non si parla mai. Non credi veramente nell’amore a prima vista, o alla seconda, o alla terza. Non ti aspetti di essere sopraffatto dall’attrazione verso qualcuno e finire così nel genere di relazione in cui vorresti passare il resto della tua vita. Ti aspetti, nel profondo, che sia lento, che si sviluppi nella fiducia, nell’affetto e nell’amicizia, una trasformazione naturale di cose preesistenti, non un colpo di fulmine a ciel sereno. In segreto, è così che ti aspetti di amare la persona della tua vita.

Tifa ama come…

(—Un boa constrictor, propone seccamente Sephiroth. —O una stalker.

—Sta’ zitto, prima che ti strozzi io, sbotta Aeris.)

… come una foresta che va a fuoco. È bellissimo, è il genere di amore di cui narrano le leggende, è il genere di amore che fa sospirare le ragazzine che si immaginano principesse, ma è letale e irrazionale e non…

Guardi un amore come quello di Tifa bruciare, e lo ammiri da una distanza di sicurezza e ringrazi la tua buona stella che non c’entri niente con te anche mentre menti a te stesso e ti chiedi con un sospiro come sarebbe essere amati così.

È distruttivo fino all’estremo. Non puoi amare così senza scottarti. Non puoi essere amato così senza consumarti. È questione di chi finisce in cenere per primo.)

Un giorno, credo, Tifa vincerà. Non dovrebbe, perché dopotutto, cosa vi ho appena detto sul primo amore? Ma vincerà.

Fino ad allora, è un circolo vizioso, e stupido, e buffo, e macabro come quello che intercorre tra Seph e Cloud. Non arrenderti mai. Anche quando dovresti.



(15 ore, 43 minuti)

A Barret non sono mai andati giù i sentimentalismi strappalacrime.

(—Bugiardo, sussurra Sephiroth, inalando l’ipocrisia e rotolandosela sulla lingua come fosse un pasticcino squisito, assaporando le menzogne che il leader dell’AVALANCHE dice a se stesso, dolci e amare, amare e dolci.)

Ma quando si parla della ShinRa, e di quello che stavano facendo, non può fare a meno di fare un po’ il sentimentale (un po’? Un altro pizzico di zucchero e i tuoi denti anziché cadere si dissolveranno). Quando affronti problemi così grossi, è difficile non farne una questione di bambini vecchi-giovani e di parole sulla libertà, sulla luce del sole e sulla felicità.

Si ripete che ha fatto ciò che ha fatto per i bambini (per la sua bambina), per tutti gli uomini e le donne che hanno sofferto sotto l’oppressione della ShinRa (per se stesso, per sua moglie, per la sua città, per placare il rancore cocente che gli corrodeva lo stomaco). Ha fatto discorsi, ha persuaso altri alla sua causa (la sua giusta causa), ma ha sempre saputo, da qualche parte dietro gli impeccabili scudi dell’abnegazione, di star mentendo.

Ha fatto quello che ha fatto perché aveva bisogno di vendetta. Punto. Ha detestato (detesta) Strife dal momento in cui ha visto quel bastardello arrogante perché Strife non sentiva alcun bisogno di mentire, di mascherare il suo semplice bisogno di vendetta con discorsi poetici e parole glorificanti sull’oppressione, la morte e le persone da salvare. Spikey dava le sue ragioni e non si vergognava a riconoscere che la sua era rappresaglia personale.

(Certo, ora sa che Cloud ha mentito su una scala molto più vasta delle sue piccole glorificazioni veniali. Ma questo l’aveva colpito, quando ancora Cloud era un mercenario e non il guscio rotto e crepato di un uomo che si nasconde alle proprie responsabilità.)

Si vergogna vagamente delle ragioni egoistiche che l’hanno inizialmente attirato in questo qualcosa che avrebbe poi avuto conseguenze di una portata tanto ampia, questo qualcosa che avrebbe dovuto essere disinteressato.

Però, pensa, se c’è qualcuno che può capirlo, che può togliere la punta dolorosa a tutto ciò, quella è Aeris. Per questo oggi è in visita alla chiesa, mentre Cloud sta seduto nudo (purtroppo non ci ha chiamato) accanto al lago in cui ha cercato di affogarsi e lascia che il sole gli asciughi la pelle e i vestiti, chiedendosi se non sia il caso di tornare a casa, se solo riuscisse a capire casa sua dov’è.

Marlene è fuori che saltella, e Barret racconta ad Aeris la sua giornata con parole titubanti e incerte, le cose grandi e piccole della sua vita, desiderando di essere stato benedetto da quel tipo di intelletto che crea poesia e bellezza dal nulla.

S’impappina e vacilla, ma continua, ostinatamente, risolutamente (ha fede. Lui crede), offrendo pure l’ennesimo, piccolo sacrificio a un altare di fiori e all’imago di una donna trasformata in dea.

(Un giorno erigeranno una statua. Per allora, Sephiroth sarà l’orribile meraviglia di un incubo, un drago nero che spiegherà l’ala dalla spalla sbagliata, le zanne che spuntano dalle labbra stirate in un sogghigno beffardo, gli occhi forgiati con piccoli smeraldi deformati in un’espressione degna di Hojo mentre scrutano torvi il suo avversario – che sarà alto un metro e ottanta e grosso come un carro armato e non l’esile ragazzo dai capelli arruffati che a stento ha cominciato a essere un uomo.

Dietro al Campione, Aeris sorriderà serenamente, le mani giunte, e verserà lacrime di sangue.)

Individua un fiorellino avvolto nella plastica. Non ha bisogno di guardarlo da vicino per sapere che è lo stesso fiore che un mercenario spaccone regalò a sua figlia prima che tutto andasse a rotoli. Si chiede chi l’abbia messo lì, chi l’abbia schiacciato, se Cloud l’abbia visto.

Stupido, si rimprovera. Cloud ci vive in questo maledetto posto, certo che lo sa. E sente quella piccola fiamma di risentimento attizzarsi di nuovo per l’autocommiserazione insita in un’azione del genere. La spegne ricordando quella faccia da ragazzo contratta di paura e orrore una volta capito di aver consegnato la Black Materia a Sephiroth.

Tiene ben stretta quell’immagine, prova a fonderla con altre che ha (mercenario burattino leader sano intossicato di Mako spaurito deciso perso) e quella gli scivola tra le dita come un fantasma, un camaleonte che svanisce nell’ambiente circostante malgrado i suoi più strenui tentativi di farlo rimanere di un solo colore.

Lui odia i SOLDIER. Per quanto gli riguarda, tutto ciò che c’era di sbagliato nella ShinRa può essere riassunto negli occhi di un SOLDIER. Fottutamente contro natura.

Ma tutto ciò che c’è di sbagliato nel mondo può essere riassunto in Cloud Strife.

Quando è sincero (leggasi: talmente sbronzo che è un miracolo che sia vivo), a Barret non piace Cloud. (Non è tanto strano come possiate pensare. Per le persone che conoscono solo il Cloud emerso dalle ceneri di Nibelheim non è facile che vada a genio.)

Può rispettarlo, ma non gli piacerà mai, non annegherà in litri di birra con lui come fa con Cid, né sentirà lo stesso desiderio paterno di proteggerlo che nutre per Tifa, che ha solo un anno di meno; non può neanche condividere con lui quell’esitante cameratismo che può avere con Vincent.

C’è qualcosa in Cloud… qualcosa in Cloud e nei suoi occhi (e forse… nel modo in cui pronuncia quel nome, nel modo in cui ogni tanto guarda le persone attraverso, come se tutto e tutti non significassero nulla) che è di gran lunga più terrificante di un Turk che diventa un mostro se messo sotto stress. In fondo al cuore, Barret ha paura di Cloud Strife.

(Come se Barret potesse mai aver paura di quella mezza sega, si dice, come se quel biondino ossuto potesse spaventare lui. Barret dubita che dentro sia grande abbastanza da non dover andare più a scuola, il fatto che beva/guidi/fumi/salvi il mondo conta poco.

Ma quando li guarda come li ha guardati la notte del Lifestream, quando li guarda così… dimenticate Sephiroth, che poteva fargli sprofondare il cuore negli stivali, Strife può trapanargli gli stivali e la terra e spedirgli il cuore all’altro capo del Pianeta.)

Barret non conosce i dettagli che hanno fatto di Cloud l’equivalente di un SOLDIER. Il brivido freddo che gli percorre la spina dorsale gli dice che sta bene così. Pensa a Sephiroth, che per lui è sempre stato la fotografia di un poster o una tremolante immagine televisiva, pensa che è impazzito per un paio di stramaledette parole e ha provato a ridurre tutto in polvere e si dice, se il Generale può impazzire

Se il Generale, l’uomo che dicevano non avesse emozioni, può impazzire così per qualche frase e un paio di eccessive modifiche apportate ai SOLDIER, cazzo, poi grazie che Cloud si nasconde in questo posto.

Ma questo non significa che dovrebbe.

A Barret frega dell’autocommiserazione altrui ancora meno della ShinRa.

(—Ipocrita, mormora Sephiroth, facendo penetrare con astio le dita nella spalla di Barret e chinandosi verso di lui, dove ripete la parola, gliela sibila all’orecchio come una maledizione.

(Il vuoto, la futilità dell’esistenza di Barret prima che scoprisse l’AVALANCHE, prima che si rendesse conto che c’era qualcosa che potesse fare lì fuori. La disperazione più nera di quando tutto, tutto si è sbriciolato e gli è stato portato via – sua moglie, il suo migliore amico, la sua casa, gli era rimasta solo una bambina non sua che lo guardava con gli occhi della moglie del suo migliore amico e gorgogliava allegramente come se lui fosse il buono della situazione, come se avesse una qualche vaga idea di come prendersi cura di lei, di come proteggerla.

Il Pianeta, la completa mancanza di significato di ogni cosa, la desolazione. Le voci al buio che lo schernivano, le fiamme che vedeva ogni volta che sentiva la parola ShinRa, e la vergogna, pesantissima anche sulle sue ampie spalle.)

Aeris afferra Sephiroth, gli aggancia un braccio attorno alla gola e fa leva con l’altro, prova inutilmente a staccarlo di lì. Lui oppone resistenza per un attimo, la pressione del suo avambraccio che cerca di schiacciargli l’esofago è poco più che fastidiosa, prima di capire cosa sta facendo e di lasciarsi trascinare via.

È morto, e confuso, e sta cominciando a odiare i vivi ancora di più di quando era vivo.)

Barret sente solo una brezza fredda, ma è sufficiente perché si alzi in piedi, si allontani e torni da Marlene. Ha finito di fare penitenza e si sente prosciugato ed esausto, anche se non è nemmeno mezzogiorno.

Riuscirà ad arrivare fino alla fine di questa giornata. Perché pensare al prezzo, quando il ricavato è tanto proficuo? La ShinRa non c’è più (Sephiroth è morto) i reattori Mako stanno chiudendo (la Materia non si usa più) il Pianeta sta guarendo (Cloud sta crollando).

Dietro di lui, un’ombra si stacca da quello che è rimasto delle travi, balza agilmente giù e atterra sugli stivali senza fare rumore, inginocchiandosi accanto ai fiori.

Barret non si volta a vedere Cloud, che si china e spegne la candela che ha lasciato dietro di sé tra le dita inguantate. (—Ne humanus crede, ringhia Sephiroth, l’espressione amara e rancorosa, le parole oscure e sinistre ma i gesti potenti e regali. Aeris sorride, esitante, diffidente – non si sente più esattamente al sicuro in sua compagnia).

Cloud gira la testa e ci sorride, il volto bagnato svuotato di vita e di lacrime.



(14 ore, 52 minuti)

Marlene salta, un due tre

Perché papà è occupato, papà sta ricordando la notte in cui la Fioraia ha mandato la Cosa Verde a combattere la roccia cattiva. Non la chiama Meteora, anche se è grande e intelligente abbastanza da capire cosa fosse. “Meteora” porta con sé una brutta sensazione; fa irrigidire di rabbia e paura soppressa la faccia di papà, ed evoca un’ombra scura di cui ha immensamente paura (complimenti, Seph, è bello vedere che certe cose ti riescono ancora bene), e non può fare a meno di provare un brivido di terrore quando gli adulti menzionano il suo nome.

Quattro cinque sei sette otto nove

Nemmeno zio Cloud lo pronuncia mai. Marlene ha un po’ paura di zio Cloud, perché anche se è carino e sembra delicato, come una delle rose della Fioraia, ha delle spine terribilmente affilate, e i suoi occhi… i suoi occhi sono davvero spaventosi. Hanno dei posti scuri, dei posti morti di ombra dove puoi perderti, e a volte, quando la guarda con quegli (artificiali) occhi vuoti, lui le guarda attraverso, e dentro, ed è come se le scuoiasse l’anima.

È stato toccato dal Pianeta e spaventato dal semi-dio, e Marlene odia che sia andata a finire così, perché lui è la persona più forte che conosca ed è così debole.

Le piace il fiore che lui le ha regalato (zia Tifa l’ha schiacciato per lei e poi l’ha messo nella chiesa della Fioraia dove zio Cloud si nasconde da se stesso), ma non incontra mai i suoi occhi se proprio non ne ha bisogno (perché, diamine, nemmeno Cloud può combattere con uno sguardo innocente).

Dieci undici dodici tredici quattordici

E zio Cloud porta l’ombra con sé, ovunque vada. Ogni volta che lo vede, l’ombra è sempre sulla sua spalla, nei suoi occhi, e ha un sorriso freddo e aguzzo come una spada, e ha occhi penetranti quanto quelli della Fioraia, senza il loro calore e la loro empatia. Sente la mancanza della Fioraia soprattutto quando l’ombra le guarda dentro con un sorriso pigro e imbrattato di sangue.

Ogni tanto ha sentito zio Cloud chiamare l’ombra “Sephiroth”, quando è vago e distratto e si permette di vederlo (ma solo per qualche secondo, tanto rapidamente che pensa di essere semplicemente paranoico. E lo è. Ma solo parzialmente, perché nessun altro può vederci davvero) e il nome riporta alla luce qualche indistinto ricordo…

Gli amici di papà, quelli partiti per la Terra Promessa, avevano detto qualcosa su di lui, tanto tempo fa (l’anno scorso, o forse era l’anno prima? Gli anni si confondono quando sei un bambino, lasciano dietro di sé solo specifici eventi), mentre discutevano di come aiutare il Pianeta e distruggere i reattori, cose come “rappresentativo” e “terrificante (brutta parola che in teoria lei non dovrebbe sapere)” e “fortuna che non c’è più il rischio di incontrarlo in un reattore…”

Questo dovrebbe voler dire che l’ombra è morta ed è ritornata al Pianeta. Ma non è così. Non fa del tutto parte del Lifestream. Lei lo sa. Non se combatte così tanto per stare vicino ai viventi.

Papà ha detto che l’ombra era un uomo cattivo, che ha fatto tornare la Fioraia al Pianeta, alla Terra Promessa, ma nemmeno questo è esatto, perché lei ha sentito la Fioraia la notte che è venuta la Cosa Verde, e papà deve sapere che quella era lei. Anche lei è ancora lì, lo sa, e lo sa pure zio Cloud. Ha sempre un’espressione vecchia e perseguitata, uno sguardo tirato e prudente.

Quindici sedici diciassette

Non fa domande sull’uomo-non-uomo che fa diventare morti gli occhi di Cloud e irrigidire la faccia di Tifa, ma un giorno è venuto zio Cid – piccola Marlene, ha tanti di quegli zii e così poche zie – e (forse aveva alzato un po’ il gomito, forse cercava di tenere testa a Cloud – non avete visto niente finché non vedete un povero illuso che cerca di battere un SOLDIER nel bere) le ha raccontato di una guerra e di un Generale, una lezione di storia che lei ha ascoltato rispettosamente, e più tardi, molto più tardi, quando probabilmente avrebbe rischiato il suicidio se avesse cercato di accendersi una sigaretta senza infiammare i fumi dell’alcol, le ha raccontato di alcuni esperimenti scientifici, e di odio, e di una lussazione.

Lei sa fare due più due, e ha capito che l’uomo di cui parlava zio Cid con riluttante rispetto e manifesta paura al tempo stesso è

(Sephiroth, mormora Cloud nel sonno, come se il mondo fosse contenuto in quella parola, in quel nome.)

Ha cominciato a fare degli incubi su un’alta ombra nera eretta in un campo di sangue, gli occhi verdi e taglienti che ridono mentre lancia la Meteora in aria e la riprende con rapidi, abili colpi di polso, e con l’altra stringe gli estremi di fili insanguinati che sono infossati nella pelle di Cloud.

diciottodiciannoveventi

Non si sveglia gridando. (Aeris l’abbraccia dolcemente; le accarezza i capelli, spazza via gli incubi con la dimestichezza di un esperto – lo fa per Cloud continuamente – e li rimpiazza con sogni di campi infiniti e risate serene.)

ventuno ventidue ventitré

Marlene salta, e anche se è una bambina intelligente, fin troppo grande per la sua età, non capisce che sta facendo la stessa cosa che fa Cloud, solo in maniera leggermente diversa: si perde nei numeri, negli schemi e nella routine per evitare di pensare a come stiano davvero le cose. Ma lei è una bambina; lei ha una scusa.

Ventiquattro venticinque ventisei

Le manca la Fioraia. Sa che il Pianeta soffre e si addolora, e vorrebbe disperatamente che la Fioraia potesse essere lì ad aiutare a lenirlo. Capisce quello che pensano tutti quanti – che non è un problema suo, non è un problema di nessuno tranne che di Cloud, perché per qualche ragione, il Pianeta l’ha scelto.

Il Pianeta ha scelto lui ora che la Fioraia è tornata dalla sua gente, e per qualche motivo questo significa che lui è ai suoi ordini, che ogni minaccia è sua responsabilità, nessun altro deve disturbarsi a pensare al Pianeta, lui non si spezza mai (si è già spezzato).

Lei vorrebbe gridare qualcosa a tutti quanti, perché aiutare il Pianeta dovrebbe essere uno sforzo congiunto di tutti, altrimenti qualsiasi cosa possa fare Cloud non sarà mai abbastanza.

Ventiset- inciampa sulla corda, e barcolla in avanti, sbucciandosi un ginocchio prima di riuscire a rimettersi in piedi. Il sangue zampilla, indolenti gocce rosse che si radunano lentamente al centro della ragnatela rotta di fragili capillari, e lei si morde un labbro, una donna adulta con i capelli scuri, cerca di legarsi al dolore, al sangue, al proprio corpo.

Ricomincia lo schema, e allenta la presa su di noi, permettendoci di andarcene. Rimaniamo un momento (un muscolo nella mascella di Sephiroth si contrae, ma nessuno di noi due ha tendenze suicide abbastanza forti da chiedergli il perché), e la guardiamo ristabilire un ritmo di rovina.

Uno due tre quattro







NdT: Tifa, esisti, ti prego, ti voglio troppo bene ;_;
Non sono molto d’accordo sulla visione del rapporto Cloti, anche se quel pezzo l’ho trovato scritto e argomentato benissimo, di una dolcezza sconfinata e malinconica – d’altro canto questa storia parte dal gioco e guarda ad AC, quindi vabbè :)
Trovo anche che sia stata un po’ inclemente con Barret, non tanto perché ne ha sottolineato l’ipocrisia che gli viene rinfacciata apertamente pure nel gioco (una delle caratteristiche che costituiscono la grandezza di FFVII, imho), quanto perché io ho una visione del rapporto Barret/Cloud pressoché opposta a quella che è stata presentata qui – ma a ciascuno le sue interpretazioni, immagino.
Ci vediamo la settimana prossima, mi sono ricordata in calcio d’angolo che erano già passati sette giorni dallo scorso aggiornamento xD

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Capitolo 5
*** Tartaro ***


(Tartaro) (Il Geostigma)





La sicurezza e la serenità della chiesa sono la sirena di Cloud, sono la canzone irresistibile che lo chiama alla sua sorte (non sta sacrificando la sua vita, ma la vita che potrebbe avere, la persona che potrebbe essere. Le sue amicizie, la sua famiglia, il suo futuro, butta via tutto perché non è in grado di resistere alla chiamata).

Questo posto gli calza a pennello. È vicino al Pianeta, e la Mako nelle sue vene ronza, riconoscendolo. È l’unico luogo al mondo in cui chiunque può avvertire ciò che Cloud avverte dovunque: qui si può capire veramente quanto siano vicini il Pianeta, il potere e la magia che scorrono proprio sotto la superficie delle fragili vite umane.

Con gentilezza e indifferenza passa le dita sulle Materia collezionate nel corso dei viaggi, centinaia di piccole sfere; alcune sono state in formazione per un millennio, e gli viene da chiedersi quanto sia lunga l’aspettativa di vita naturale di un SOLDIER,

(—Naturale, dice Aeris. —Cosa può mai esserci di naturale nel pomparsi la linfa vitale del Pianeta nelle vene?

—Nulla, prima della loro morte, rispondo io, allontanandomi dai fiori.)

se lui possa essere considerato un SOLDIER

(Sephiroth scuote la testa, un oceano di comprensione in un gesto di diniego fuori luogo.)

e quanto dovrà aspettare prima che il suo corpo smetta di combattere contro le leggi imposte dalla natura e sconfitte dalla scienza, prima che si arrenda, e cada.

(Per sempre. Ed è vero, c’è una tale crudeltà in questa risposta che non può non essere vero. Ventidue anni e già agogna la morte come un vecchio malato che sta spirando troppo lentamente.)

Come se l’avesse sentito, gli echi di un’orribile verità che non ha il coraggio di affrontare, si alza e lascia il suo santuario per intrufolarsi nella calca di umanità che ha toccato per pochissimo tempo, con estrema violenza, solo un anno fa. E proprio come con noi, gli altri ignorano la sua presenza mentre protraggono la loro esistenza. (Non ve l’avevo detto che dovrebbe essere uno di noi?)

Un sonnambulo, ripete come un automa le azioni quotidiane dei viventi e lo sa, circondato da ammiratori innocentemente ignari che non immaginano che sia stato lui, il “Prescelto del Pianeta” che credono debba essere, a impedire al mondo di finire seguendo semplicemente la sua vendetta.

Mette un piede dopo l’altro, si costringe a muoversi senza registrarne lo sforzo, si ritrova dall’altro lato della strada prima ancora di accorgersi che c’era una strada da attraversare.

Per un momento rimane immobile come una roccia, il vento si insinua nel caos dei suoi pensieri e gli schiarisce la mente dall’inquietudine emotiva, come se si trovasse in mezzo ai fiori.

Si comporta come un automa, un sonnambulo della realtà, ma un giorno tornerà a camminare, riuscirà a fermarsi e si renderà conto di essersi talmente abituato a fingere che la finzione si sarà tramutata in realtà, esattamente com’è successo non troppo tempo fa. « Dio » bisbiglia, lievemente stupito, a un cielo sgombro.

(—Sì, dice Sephiroth, alla sua spalla. —È quel che sono.)

Ci sarebbe mai riuscito davvero? Sarebbe stato tanto difficile vivere?

(Questa è Aeris, che gli ha posato una mano sulla fronte, come una madre che controlla la febbre, annebbiandogli la mente. L’effetto è solo temporaneo – un nanosecondo di intense domande seguito dal vuoto – a che stavo pensando?)

Non è abbastanza, non è mai abbastanza. Il sangue dev’essere ripagato col sangue. Gli incubi si arresteranno solo con la morte, i fili d’acciaio stretti alla sua vita saranno tagliati solo quando sarà morto e non potrà più adempiere al dovere che qualche bastardo cosmico ha in serbo per lui, per il Guardiano del Pianeta (perché, chiediamo. Perché lui, perché noi, come si può essere così crudeli). Cloud la pensa così.

E il brutto è che probabilmente ha ragione.

(—No, mormora Sephiroth, un’iridescente ala corvina che compare per un breve secondo da infarto. Ripete continuamente la parola, quasi che a furia di negare possa diventare realtà.

Più di ogni altra cosa, lui vorrebbe vivere; non si è mai rassegnato al pensiero della propria morte, e allora disprezza quest’esistenza a cui ora è stato obbligato perché non riesce a lasciarsi andare.

Noi non possiamo permettergli di andarsene, perché Sephiroth è… una malattia, anche senza volerlo. Così si unisce a noi controvoglia, furioso per essere così vicino al mondo dei viventi senza poterne far parte, benché questo sia l’unico conforto che il Lifestream possa offrirgli.

Sephiroth ha una volontà troppo forte perché possa liberarsi di tutti i legami che lo stringono alla vita – quanto tempo passa a guardare Cloud che dorme, contando ogni respiro inspirato ed espirato, colmo di un’ira imprevedibile all’idea che questo ragazzo debba vivere e lui no – ma è troppo volubile, troppo pericoloso perché gli possa essere concesso di tornare indietro.

Non c’è via di scampo.)

Cammina. Cammina, e ascolta il Pianeta cantare sotto i suoi piedi, e può quasi crederci quando dice a se stesso che non vuole morire.



Quando passa, i bambini della strada lo osservano: un uomo pallido, in abiti scuri, i capelli che si colorano quasi di oro bianco quando il sole li illumina nel modo giusto. Sanno chi è meglio di chiunque altro. I bambini sono più vicini degli adulti al Pianeta, perché non hanno ancora imparato che dovrebbero stargli lontano.

Lo guardano dai vicoli e dalle ombre mentre il Pianeta sussurra in un linguaggio privo di parole: campione, e strife, e difensore, e salvatore.

È da Strife che corrono con messaggi dalla Fioraia che lui accetta con un sorriso solenne, prima di ricambiare con indicazioni che li condurranno da una donna gentile che darà loro da mangiare e un posto in cui dormire che per una volta abbia un tetto. Lo adorano per questo, e la loro benevolenza è più forte e duratura di quella degli adulti, forse perché la sua è una gentilezza personale. Forse perché vedono i suoi occhi.

Sanno che è tormentato da fantasmi. Lui sente sulla pelle i loro sguardi indagatori, che lo scrutano mentre scivola tra le crepe del mondo della veglia come un’ombra, mentre entra ed esce dalla percezione sensibile, tradito soltanto dal luccichio sulla punta di una spada e dal fruscio di vestiti bui come la notte.

(Nella lingua di Yuffie, c’è una parola per le creature come lui che svaniscono come le guardi, esseri sospesi tra questo mondo e il prossimo. Nella lingua di Yuffie, c’è un nome per queste ombre incorporee come le nuvole.

Ma questi sono gli orfani della ShinRa, e per definire queste creature usano solo il suo nome.)

Sanno che è tormentato da fantasmi, e i loro occhi ci evocano a ogni sua venuta. Va così – noi per un po’ siamo di Cloud, camminiamo al suo fianco, e poi gli altri pensano a noi – ci chiamano – e noi ci spostiamo, guardiamo Cloud che si allontana, poi torniamo di sua proprietà.

A Sephiroth piacciono i bambini. Alcuni di loro… alcuni di loro sono troppo vicini. Possono sentirci (sentirlo) se tendono bene le orecchie, se si concentrano.

E alcuni di loro, solo qualcuno… Lui li riesce a toccare. Le sue mani lasciano una macchia, un minuscolo granello del suo essere, della sua follia, della sua malattia, un qualcosa che il Pianeta bagnerà del proprio odio facendolo germogliare – un livido, una lesione, una violenta dichiarazione di possesso; come a dire, guarda(ricordate)mi. Guarda come accumulo forza rubandotela pezzo… per… pezzo.

Noi non possiamo controllarlo in ogni momento. È lo svantaggio di tenerlo bloccato qui.

(ricordatevi di) Per tantissime persone lui era tutto.

(Me) È una guerra, e sta dilagando. Quante persone mi darai, o Pianeta, per cercare di proteggerle?

Lo chiamano Geostigma.



Sephiroth ha paura di essere dimenticato. Anche io. Credo sia il timore di chiunque sia stato vivo.

Finché Cloud vivrà, possiamo anche scordarcelo. Ma quando lui sarà morto chi terrà Seph, chi terrà noi, nel proprio cuore? È questo che preoccupa Seph. Storie mormorate di fantasmi basteranno a proteggerlo? Le superstizioni e i miti sbiaditi saranno sufficienti a farlo rimanere reale? Sì? No?

Però…

Se causasse abbastanza danni, se allungasse abbastanza la propria ombra… riuscirebbe a sopravvivere fino alla caduta dell’umanità stessa?

Potrei riuscirci io? Lo voglio?

Mi manca la birra. Mi manca poter buttare giù con un sorso d’alcol i problemi esistenziali. (—Carpe Cerevisi! Sephiroth sogghigna. —Sciacqua via la giornataccia, cogli la birra!

—Sephiroth! si lamenta Aeris non troppo seriamente. —Non si imbastardisce una lingua come quella!)

Proviamo a fare una cosa. Morte. Morire. Morto. Ripetetelo un paio di volte. Vi ci abituerete.

(Mento, ovviamente. Nel momento in cui succede davvero, nell’istante in cui vieni sradicato da questo mondo – e il termine giusto sembra proprio essere “sradicato”, perché per quanto a lungo tu possa aver vissuto, non è mai, mai abbastanza – non ti ci abituerai mai, per quanto tu ripeta il contrario a te stesso e agli altri.)

Non abbiate paura. Non c’è nulla di cui essere spaventati.

(Di nuovo, un’altra bugia. C’è molto di cui aver paura. Ma almeno non ci morirete, hm?)

Non ho intenzione di spaventarvi (a parte qualche volta), ma dovete capire: tutte le cose finiscono. Anche Cloud.

Anche noi.

Anche voi.



A Denzel lei piace. Tifa.

In parte, è perché è gentile e armata di buone intenzioni, e non lo compatisce per la chiazza scolorita e dolorante che ha sulla fronte, nonostante sia un segno della fine che lo attende quasi come se al suo posto ci fosse registrato un certificato di morte, come se avesse il buco di un proiettile invece di un livido.

In parte, è perché ha un buon profumo: odora di pane appena tostato, di torta, e poi di quell’aroma stomachevolmente pungente e dolce dei liquori assortiti che mischia.

In parte, è perché ha le mani calde e forti che profumano di fresco e di limone (tutti i detergenti per cucina profumano di limone. Non mi credete? Controllate pure.) quando gli asciuga le lacrime di dolore, e sa che quelle mani non lo abbandoneranno mai.

Soprattutto, è perché una parte di lui, recondita e segreta, le ha già affibbiato l’etichetta di “madre”, anche se questo non lo dirà mai ad alta voce.

(Peccato. Se c’è una donna nata per essere madre è Tifa.)

Gli piace anche Cloud, quando c’è. Pensa che sia figo (è la moto. Dev’essere la moto.) anche se Tifa sembra un po’ tesa e pallida quando resta (perché certo, lei sa che prima o poi se ne andrà). Non riesce a capire come possa volersene mai andare.

Doveva essere un accordo temporaneo, e ci sono ancora giorni in cui guarda fuori dalla finestra e si chiede perché non se ne sia ancora andato, perché nessuno gli abbia detto di sloggiare, ma-

Una casa non è fatta di mattoni e mortaio. Questa è casa sua, e queste persone sono la sua famiglia. L’essenza stessa della semplicità, e magari la gente ci credesse al fatto che certe cose possono davvero essere tanto semplici.

Fino a poco tempo fa continuava a ripetersi che se ne sarebbe andato domani, che avrebbe smesso di essere un peso per una signorina tanto buona, ma è bello avere una famiglia, delle persone che tengano a lui, e gli piace molto Marlene, non vuole partire senza dirle addio e lei adesso è con suo padre.

Ché poi non è troppo ansioso di tornare in strada, senza i manicaretti di Tifa o le sue cure quando lo Stigma raggiunge i picchi peggiori, e poi domani pioverà, e stanotte Tifa preparerà una grande cena per tutta la famiglia quando tornerà da (la Candela) quel grande appuntamento a cui deve andare e di cui non gli dice niente tranne che gli ha preso una baby-sitter (come se alla sua età avesse bisogno di una baby-sitter! Non è mica un bambino), e Cloud gli ha promesso che avrebbe finito la storia di quello che è successo a Wutai con Yuffie “Miss Cacciatrice di Materia” Kisaragi, e vorrebbe tanto tanto tanto restare.

È bello. Qui si sente accettato. È più felice di quanto sia mai stato, pur sapendo che sta per morire.



Ha fatto di tutto per lasciare quella maledetta sedia a rotelle. Lo derideva, e continua a deriderlo, dicendo in una voce brutale e aspra: bello, sarai pure stato l’uomo più potente del mondo, ma per me sei solo uno storpio come un altro.

La odia, la disprezza, la aborre con ogni fibra del suo essere.

(—L’odio scaturisce dalla paura, commenta Sephiroth di gusto. —Ha paura di passare il resto della sua vita su una sedia a rotelle, Presidente?

—Forse è solo una mia impressione, mi sento bisbigliare a bassa voce ad Aeris, —Ma non ricorda anche a te un ragazzino che stacca le ali ad una mosca?)

La Sedia a Rotelle (merita le maiuscole, fidatevi) lo ha trasformato in un rottame umano, una bambola stanca e logora conservata solo per nostalgia; lo ha fatto sentire debole e solo.

(Cos’è mai successo a Dark Nation, mi chiedo?

Io adoravo Dark Nation. Sephiroth cercava di evitare che partecipassi ai meeting che coinvolgevano Rufus, che immancabilmente portava con sé Dark Nation, perché andavo sempre da Dark Nation, mi accovacciavo a terra, me lo spupazzavo fino a fargli chiudere gli occhi d’oro in preda a spasmi di gioia. Oppure, se mi ero svegliato particolarmente rompiballe, fino a farlo rotolare sulla schiena e fargli dimenare le quattro zampe in aria, implorando pietà.

« Come dici, Dark Nation » chiedevo deliziato, un occhio sul viso di Rufus che si faceva sempre più rosso. « Rufus è un coglione e merita di essere buttato in un pozzo? Ti sento, amico. »)

Ma Rufus ShinRa ha l’innata capacità di capovolgere qualsiasi situazione a suo vantaggio. Sarà pure stremato, ma cade sempre in piedi. Ha la testa di un fottuto serpente, per dirla con le parole di Reno.

Pensa a Elena, alla spumeggiante Elena con la testa tra le nuvole, che sa recitare la parte dell’esca e dell’oca alla perfezione. Elena, con una mente graffiante come una trappola sotto tutti quegli strati di ovatta ammucchiati con maestria, capace di sparare meglio di Rude se le gira bene e in grado di convincere Reno a smaltire le pratiche d’ufficio con un sottile accenno ai cicli mestruali e ai loro effetti sull’umore di una donna.

Pensa a Reno, allo svogliato, sboccato Reno, con la sua risposta angosciosamente orgasmica ai fuochi d’artificio e il suo incredibile talento nello scovare alcol pure in mezzo agli astemi; Reno, che sa pilotare cinque tipi diversi di aeroplani ed elicotteri da ubriaco, che conosce quindici modi per ammazzare un uomo usando solo un calzino, e può persuadere le persone che ha picchiato a sangue che la rissa è cominciata per colpa loro.

Pensa a Strife – troppo debole per essere un SOLDIER; l’unica persona che sia mai riuscita a fronteggiare Sephiroth in un vero combattimento e ne sia uscito vivo.

Debole, eh?

Un’altra brillante qualità del fu Presidente è l’abilità di captare le minacce dell’immediato futuro; captarle, stimarne la portata e architettare contrattacchi e la loro neutralizzazione prima ancora che chiunque altro abbia finito la pausa caffè.

Il suo fiuto per i rischi lo sta guidando verso l’odore di un pericolo quasi impercettibile, che non si manifesterà quest’anno. Forse nemmeno nel prossimo. Ma secondo Rufus, questo resta comunque il momento ideale per cominciare a lavorare.

Ha informato i suoi Turk della decisione, ed è stato premiato con l’accettazione serena degli ordini da parte di Tseng, con gli occhioni sbarrati in segno di totale innocenza di Elena che sarebbe stata un botto più convincente se solo si fosse ricordata che i veri innocenti non cercano subito una pistola, e con Reno e Rude che si sono scambiati una serie di comunicativi scatti delle spalle e contorsioni sopracciliari da bromance che non è riuscito a tradurre del tutto (anche se crede che potrebbe essere stata una cosa del genere:

Reno: sopracciglio inarcato, alzatina della spalla sinistra. Ragazzi, stavolta è partito sul serio.

Rude: rapido movimento della testa, entrambe le spalle ricacciate all’indietro con simulata indifferenza. Il capo sa quello che fa. Un cenno veloce del capo. … Ma probabilmente hai ragione.

Reno: lieve scatto della testa, Probabilmente? Un fischio basso, le sopracciglia vanno su e giù tre volte. Lo sai che ho ragione. Il capo è rincoglionito.

Dopodiché si sono susseguite delle combinazioni sempre più veloci che lo hanno seminato, e allora si è arreso e si è limitato a guardarli in cagnesco, supremamente irritato dal fatto che i suoi scagnozzi possano parlare male di lui standogli davanti e senza nemmeno dover dire una parola).

Così si lascia trasportare di nuovo alla sedia che detesta, impara a misurare accuratamente la distanza e la profondità con un occhio solo, smette di tentare di nascondere l’immonda piaga dello Stigma. Fa pratica con la pistola, si ricorda ugualmente dei nemici come degli alleati – i tasti dolenti di chi e come premerli, quali sono le persone che può sedurre, minacciare, corrompere o costringere a recitare la propria parte, che la sappiano o no.

« Non esageri col patetismo, signore » ridacchia Reno la prima volta che vede Rufus affaccendarsi con il lenzuolo per far in modo che rimanga propriamente in vista soltanto la mano marchiata, velando tutto il resto.

I suoi piani per Jenova possono aspettare un po’, fino a che il nemico, chiunque – qualsiasi cosa – esso sia, faccia la prima mossa, si tradisca. Ha un sacco di tempo su questa sedia.

Che qualcun altro accenda la miccia della bomba; può attendere l’esplosione che ne seguirà, lo storpio impotente, e quando verrà il momento giusto, si prenderà la sua vittoria.







NdT: Oddio, Dark Nation, quanto ho odiato quella palla di pelo e i suoi Barrier nelle prime partite xD
E mi spiace per Rufus, ma sarebbe stato un ricordo molto più dignitoso da morto ammazzato dalla WEAPON. Eh.
Perdonate il ritardo, ho avuto qualche contrattempo.
BROMANCE! It’s guy love, that’s all it is, guy love, he’s mine I’m his, there’s nothing gay about it in our eeeeyes! C’è pure la pagina su wikipedia (COSA? XDDD). … Non sapevo davvero come tradurre altrimenti “heterosexual lifemates” (letteralmente una cosa tipo “anime gemelle eterosessuali”, senza ironia o quasi – si parla di relazioni strettamente platoniche), e bromance è un termine relativamente conosciuto e vicino al significato originale.
Maledetta storia, mi fa provare tenerezza perfino per il sosia di Roxas e__e
Piccola pausa per introdurre il Geostigma (!!! Allora non era un pretesto idiota per emizzare Cloud!!!1!), ma il prossimo capitolo è bel-lis-si-mo. E anche lungo.
A presto :)

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Capitolo 6
*** Prateria degli Asfodeli ***


(Prateria degli Asfodeli) (Il conto alla rovescia)





Ai tempi in cui era ancora un giovanotto di Nibelheim, Cloud avrebbe detto: non giocare d’azzardo con Reno; quello è amico di Loki. L’avrebbe detto con le particolari inflessioni dell’accento del Nibel, e avrebbe fatto quell’impacciato sorriso di circostanza dei ragazzi di campagna in mezzo alla compagnia di città, in particolar modo quando si parla di dei e superstizioni. In posti come il mio paese, un’affermazione del genere si sarebbe guadagnata soltanto un cenno di approvazione e uno sguardo diffidente all’uomo in questione, ma in città vieni ringraziato con una faccia incredula e una risata sprezzante.

Però sì, Reno è amico di Loki. Diamine, il dio dell’inganno dev’essere stato suo nonno o un altro parente stretto visto il suo talento con le carte.

Taaaanto tempo fa giocavo molto spesso con Reno: baravamo entrambi senza ritegno, e di tanto in tanto buttavamo giù le carte per accusare l’altro di un qualche trucco di mano, e quando finivamo (Reno vinceva sempre, nel caso ve lo steste chiedendo; una volta mi aveva compatito per la peggiore faccia da poker che avesse mai visto) confrontavamo i rispettivi appunti.

I giochi di carte non sono l’unica arena in cui Loki è amico di Reno.

Alla base di tutti i trucchi c’è il depistaggio – mentre l’attenzione del tuo pubblico è concentrata sulle cose più ovvie, tu gli combini il vero trucco sotto il naso. Che è anche una parte essenziale della natura di Reno come Turk.

Può portare a termine il lavoro con gli occhi di tutti puntati addosso: mentre tutti si concentrano sulla roba grande, la roba spettacolosa per cui è famoso, approfitta dell’occasione per strisciare alle loro spalle e piazzare innumerevoli lavoretti due volte più importanti che loro non noteranno mai e che a lui non verranno mai riconosciuti.

È per questo che lui e Rude sono la squadra perfetta. I loro avversari tendono a tenere d’occhio Reno, l’aggressivo, vistoso Reno con i capelli rossi e il suo manganello elettrico, e Rude sfrutta la loro distrazione per inchiodarli con un colpo alla nuca (in molti casi, letteralmente. La prima cosa che dicevano i loro nemici quando si ritrovavano al cospetto di Hades era: « Ma ce l’avevo proprio davanti! »)

Sono la tag team del secolo. Vanno insieme, si… s’incastrano tra loro. Reno e Rude. Rotola sulla lingua, vero? (Capra e crepa. Tre e tigri. Ba e Boom!

—Rude e Rompiballe, sbuffa Sephiroth, irritato, squadrandoli torvamente.

La sua suscettibilità potrebbe avere qualcosa a che vedere con il famigerato poster pubblicitario di Reno dello “Shampoo Mako”, quello con un Seph mezzo nudo ricoperto di schiuma. Porca miseria se non fu divertente guardare i dirigenti che strabuzzarono gli occhi quando lo trovarono in bacheca.

Se non fossi stato io a fornire la foto ci sarei cascato a mia volta; quello del fotoritocco è un altro degli incredibili talenti di Reno.)

« Io non ci posso credere » borbotta a Rude in questo momento, battendosi leggermente la gamba con il manganello elettrico (sfortunatamente scarico). Rude, che non è mai stato famoso per la sua loquacità, grugnisce. « Insomma, cazzo » continua, ignaro della mancanza di interesse di Rude. « Il capo è impazzito e gioca a travestirsi, Strife è impazzito e gioca a fare il postino- » Sbatte le palpebre. « Merda, ché poi cos’è che dovrebbe fare il salvatore del mondo una volta salvato il mondo? »

Rude scrolla le spalle con indifferenza, controllandolo a vista perché riconosce i segnali – i giochi col manganello? Significano che Reno ha voglia di dare a qualcuno un assaggio di come potrebbe essere la sedia elettrica. Le improvvise partenze per la tangente? Reno sta cercando di resistere al summenzionato impulso. La mano che si passa di frequente tra i capelli? Il cervello di Reno si sta ribellando ai pensieri seri e Rude deve pensare a un modo per intrattenerlo, altrimenti possono dire addio a mezza città.

« Beh, chissene. » Fa un gesto di noncuranza con la mano. « Noi siamo Turk. E lui ci dice che dobbiamo starcene buoni ad aspettare e- »

« … Microonde. » lo interrompe.

Il treno dei pensieri di Reno deraglia completamente e si schianta contro la barriera di cemento di un Rude-che-parla, proprio come voleva Rude.

« Uh? » dice, ma Reno non è il partner di Rude da quando l’umanità è strisciata fuori dal brodo primordiale per niente. Ogniqualvolta Rude dica qualcosa ad alta voce, Reno sa che sta per succedere qualcosa di grande. L’attesa trepidante per ciò che sta per accadere comincia automaticamente a strillare da ogni cellula del suo corpo.

« Pop-corn. » aggiunge Rude, solo per essere assolutamente certo che Reno lo ascolti. Ora Reno è in stato di allerta. Rude ha sempre le idee migliori, e gli lancia un’occhiata delle sue da sopra gli occhiali da sole. Sogghigna. « Boom. » conclude.

Reno è deliziato. Rude lo conosce come nessun altro – le esplosioni sono le sue preferite.



Quando entra nella chiesa, l’anello è lì ad attenderla.

Ovvio che non glielo potesse dare di persona. In fondo nessuno lo ruberebbe – a parte gli altri componenti dell’AVALANCHE, solo chi desidera protezione entra in questo luogo – e Cloud doveva sapere che proprio oggi sarebbe venuta in visita. Poi si chiede se non sia un regalo per Aeris, piuttosto che per lei.

È notevole. Brutto, ma notevole. È un’altra versione del gingillo che porta lui all’orecchio, ma è piccolo persino per le dita sottili di Cloud, e dev’essere stato fatto uno sforzo considerevole per snellire e rifinire i lineamenti del lupo, tanto che non ha l’aspetto più vigoroso e quasi tozzo dei suoi soliti ornamenti.

Non ha nulla dell’eleganza e della raffinatezza che lei cercherebbe in un anello, ma ammira la delicatezza nella rappresentazione della testa del lupo, le minuscole zanne, la curva gentile del muso, gli occhi saldi, la forma del pelo stilizzato in argento liquido.

Rimane un accessorio maschile, troppo vistoso e grande per lei, ma può imparare ad apprezzarlo, se significa quello che crede lei.

I lupi sono creature da branco, pensa, passando il pollice sul quel muso sospettoso, hanno bisogno di compagnia, e le viene in mente che se Cloud è un lupo, anche lui deve essere una creatura da branco. Capisce che è questo che il lupo al suo orecchio ha cercato ripetutamente di dirle mentre lei era troppo sorda per ascoltarlo.

Per quanto possa provare a distanziarsene, Cloud rimane un membro del branco che hanno formato, e se un branco può sciogliersi in tempi di ricchezza, in tempi di bisogno è una questione di sopravvivenza essere tra amici.

Tornerò, le dice ora il lupo. Io appartengo a questo luogo. Tu sei la mia famiglia. Sii paziente. Io ho bisogno di te.

A Tifa non sono mai piaciuti molto i lupi. Tanti anni fa i loro tetri ululati la tenevano sveglia la notte, e una volta arrivò a pensare che fossero gli spiriti che si erano smarriti lungo il viaggio sulla montagna che avrebbero passato il resto dell’eternità a richiamare nuove anime per mostrare loro la via.

Le sue mani la tradiscono, lo prendono e lo infilano a un dito.

Contro la sua volontà, comincia a immaginare un bambino, con i capelli di lui ma con i suoi occhi, o forse il contrario, un bambino che crescerà magro e minuto, alto quanto un monte ma senza la corporatura robusta e pesante costruita di generazione in generazione con la vita in montagna.

(A Nibelheim, bambini come quelli che immagina verrebbero considerati fragili e deboli, è verosimile che muoiano entro cinque inverni.)

Si vede con in braccio un bebè, un neonato. Riesce a sentire il suo (lei lui) peso sul fianco, i morbidi ciuffi di capelli chiari, la pelle liscissima appena creata e libera da cicatrici. Riesce a scorgere i suoi fiduciosi occhi azzurri, annuvolati come un cielo di maggio, che forse si scuriranno e si raddolciranno, diventeranno come la terra, calda e accogliente, o forse si schiariranno e si affileranno, diventeranno come il mare, liscio come il vetro in superficie ma insidioso in profondità, con le sue correnti nascoste e il freddo micidiale. Inspira quell’odore unico dei neonati, si avvolge addosso il calore della sua presenza come uno scudo.

Il mio bambino, pensa, e si sente spezzare il cuore da quanto è irraggiungibile, il mio bambino, mio figlio, mia figlia – la mia creatura. Non ha mai desiderato così tanto qualcosa in tutta la sua vita, ma nella sua mente uccide quel bambino, e lo seppellisce senza una preghiera. Ha imparato la lezione – i sogni sono cose pericolose e letali.

(—Provaci. Insegui l’impossibile, bisbiglia Aeris.

—Li stiamo distruggendo, dico io, ma Sephiroth mi calpesta:

—Siamo morti. Noi non facciamo niente. Sono le loro stesse scelte che li condannano a soffrire. Per cui che soffrano.

—Proprio tu parli di orgoglio, sibila lei.

—Ho per caso menzionato l’orgoglio? La sua voce è come uno schiocco di frusta, il sibilo tagliente dell’aria che si fende qualche istante prima della carne.

—Era sottinteso.

—Oh? mormora. Ogni tanto rimango meravigliato dal sarcasmo che il mio superiore riesce a imprimere a una sola sillaba.

Bambini. Piantatela, scatto. Sto ancora pensando a Tifa che culla quel neonato immaginario come una bambina con la sua bambola, ansiosa di crescere. Ah, quand’eravamo vivi non ero mai io il tipo giudizioso della situazione!)

Non ci penserà più. Lascerà quel possibile bambino qui, sotto i fiori gialli, un sacrificio come tanti all’altare del passato che hanno istituito.

(In questo posto si percepisce la disperazione – sa di sangue fresco, ti fa pensare a un uccellino che ti accarezza il viso con l’ala rotta mentre soccombe in una spirale.

La disperazione di Tifa risuona e vibra come un urlo, come il pianto che segue la rottura di un osso.

—Ehi, tesoro, arrenderti non è il tuo stile. Abbi un po’ di fiducia.)

« Ti amo » dice, e la sua voce si rompe di dolore, per la pressione di quelle piccole paroline che ha tenuto chiuse dentro di sé per tanto tempo. Qui dove non può vedere il suo viso può pronunciarle senza esitare.

(Ah, ma di fronte a una tale considerazione che altro può fare, il nostro Cloud, se non scappare?

—Già, che altro può fare, sbotta Aeris, e capisco che non riuscirà più a sopportare oltre.

(La tua è una battaglia persa in partenza, amore.) Si dondola piano, avanti e indietro, e mi chiedo se non stia pensando alla vita che avrebbe potuto avere, se anche lei non stia immaginando un bambino con i begli occhi di Cloud o i suoi capelli arruffati, e provo a non ingelosirmi. Io sono morto, mi dico, ma lei era viva come lui.)

« Lupi » continua, tornando a guardare l’anello, spingendo via le sue tenui illusioni con la realtà del suo peso, facendo cadere le parole come pietre nel silenzio immobile. « Lupi. Cloud, perché non potevi dirlo? »

I fiori non le rispondono, e rimane ferma per un lungo istante, tracciando quei lineamenti feroci con un dito, quel sorriso fiero. Non dice ti amo; non parla di eternità, vero amore e matrimonio, come avrebbe fatto un anello normale. Dice quest’assenza non è per sempre, e vale mille dichiarazioni del genere.



Il pasticcio di pop-corn e pezzi di microonde sarebbe orribile per i profani, ma tutti i Turk sopravvissuti sono abituati a cotali visioni. Tseng aggira attentamente (leziosamente) i pop-corn.

« Mi aspetto che tutto ciò venga ripulito prima di domani » ordina con una voce di seta, nel suo miglior tono da “NO-questo-casino-non-mi-tange”.

« Altrimenti? » prorompe Reno con voce strascicata, ammucchiando i pop-corn in piccoli cumuli prima di gettarli in aria. Rude tossicchia dall’altra parte della stanza, dove sta creando un mostro meccanico degno di Hojo – un terrificante amalgama di vitali componenti interne di microonde, scotch e cavi di riserva. Reno coglie il suggerimento e impasta uno sguardo contrito che non imbroglierebbe nessuno, figurarsi il signor Perfettini in persona.

(—Amareggiato, Zachary? mormora Sephiroth, e somiglia tantissimo al classico commento del Vero Sephiroth™, anche per il modo in cui l’ha detto, e il cuore mi salta in gola.

—Oh, no, dico con noncuranza. —Amareggiato? Io? Nah. Mi conosci, io e il rancore non andiamo d’accordo. È solo che, sai com’è, lui era coinvolto nel mio omicidio

Se questo fosse lo stesso Sephiroth che è stato mio amico, lo stesso Sephiroth che mi disse che saltellavo come un ragazzino sulla strada per Nibelheim, inarcherebbe un sopracciglio e accennerebbe un sorriso, una peculiare espressione che mi spronava sempre a continuare, tanto che alla fine le mie risposte perdevano coesione e si sbriciolavano di fronte al suo divertimento.

Ma questo non è il mio amico. Si volta, completamente disinteressato, come se non avessi detto nulla. O come se qualcosa l’avesse detto lui.)

« Altrimenti, puoi spiegare ad Elena che non ci saranno burrito passati al microonde. »

(… Devo ammetterlo, Tseng sa come giocarseli. Gli faccio comunque dei gestacci alle spalle.)

Il mostro meccanico di Rude emette un ding e comincia a trascinarsi a scatti verso Reno. Reno abbandona i pop-corn in un lampo. « Vieni da papà! » lo chiama deliziato, afferrando la macchina e aggredendola con un cacciavite. Tseng sospira stizzito e scivola fuori dalla stanza.



Reeve Tuesti non riesce a ricordare chi è. Ogni volta che crede di saperlo gli basta un’occhiata al piccolo gatto meccanico, muto e morto sulla sua scrivania, in attesa, per dubitare di tutto.

Tutti gli anni passati alla ShinRa a cercare in quella sua personalissima e tiepida maniera di aiutare i più sfortunati si annullano se paragonati a quel gatto tre volte maledetto. E come se non bastasse, Cait Sith non è nulla.

Moguri imbottito a parte, non era il membro più vistoso del gruppo, non era importante, non era utile (perfino le sue limit break sfidavano le frontiere dell’inefficienza e dell’inutilità: Reeve non è mai stato bravo con le slot machine), non è mai stato un granché se non spesso irritante e occasionalmente traditore.

Eppure, tutto ciò che Reeve abbia mai fatto impallidisce al confronto. Non è giusto.

(Non ci disturbiamo nemmeno a degnare quest’affermazione di una risposta. Certo che non è giusto, ma da quando questo conta qualcosa?)

Conosce i patti, certo che li conosce. Gli sfugge come gli altri siano giunti alla conclusione che sia necessario commemorare un giorno del genere (—È stata la vittoriosa conclusione di una campagna elettorale? propone Sephiroth, che non ha mai apprezzato la mentalità burocratica, decisamente) quando ci sono tanto lavoro da fare e tante verità da raccontare.

È lieto che la fine del mondo non sia arrivata e di tutto quello che ne è conseguito, ma questo non cambia il fatto che lui abbia ancora del lavoro da sbrigare e che la città sia ancora in rovina – e tanto lui non è mai stato una parte reale del gruppo. Non Reeve.

Lascia andare Cait al posto suo.

Va bene così. Non importa. Non era lui che volevano. Lui è l’uomo dietro Cait, dietro la sua strana cadenza dialettale e i gesti pomposi; sarà come se ci fosse.

Guarda l’aeronave partire prima di tornare al suo lavoro, vuoto e luttuoso.

Scarabocchia una dozzina di firme, si ferma, e vorrebbe che Cait fosse ancora qui, vorrebbe poter accarezzare le punte di quella stupida corona, percorrere con le dita il petto bianco e i segni netti sul muso, un’abitudine calmante diventata automatica ogni volta che si sente solo oppure, in alternativa, è circondato da noi.

Ormai non dorme più tanto. Non ne ha il tempo, né gli serve – deve auto-flaggellarsi, comporre dei piani; il suo mondo ruota attorno ai progetti e agli incontri del dipartimento, proprio come tanti anni fa, quando presentò Midgar al mondo come la più fiera delle levatrici.

Pratiche d’ufficio. È troppo occupato per festeggiare il ruolo che ha ricoperto nella salvezza del mondo per via di queste pratiche.

(D’altro canto, alla ShinRa funzionava così. Ragazzi, anche se Seph era un autentico mostro dell’ordine, ha visto la superficie della sua scrivania solo e soltanto quella volta che io ho azionato… accidentalmente… una Fire Materia.

Gh, saltò tutto in aria come… beh, come una serie di pacchi di fogli altamente infiammabili. Certo, me le diede per sette giorni di fila, ma l’enorme vaschetta di gelato ai biscotti che mi comprò dopo cancellò un po’ il gesto.

E poi, perlomeno scoprimmo che il sistema antincendio andava riparato.)

Ogni tanto parla con Cait, al buio, osservando la luce della luna che batte sul faccino meccanico, provando un impeto di adorazione paterna per quella creaturina che gli è tanto preziosa. Alla luce del sole viene schernito dagli occhi vacui e spenti e dall’immobilità simile alla morte del suo bambino, e lo odia con la furia impotente di chi passa inosservato, ma al buio non può vedere le sue colpe riflesse in quella scintillante corona da quattro soldi.

Nel monitor vede con gli occhi di Cait, e cerca di capire quand’è stato che Cait Sith ha smesso di essere un giocattolo e ha cominciato a essere lui.

« Ehi, Cait, che cosa facciamo stasera? » chiede gentilmente all’aria vuota, canzonando inconsciamente un cartone animato per bambini.

« Quello che facciamo tutte le sere, Reeve » si informa nella voce di Cait, un guizzo forse di umorismo, forse di malizia negli occhi. « Tentare di conquistare il mondo! »

Alza un bicchiere a noi, lo manda giù come se fosse acqua. Non parla, non piange, non vede nulla al di là della finestra ed esprime innumerevoli desideri con tutto se stesso.

Allunga distrattamente la mano per toccare Cait, ma le unghie gli affondano nel palmo quando le sue dita non trovano altro che aria.



Vincent sogna, e i sogni che fa non sono meglio dei suoi pensieri, complesse ragnatele di fuliggine e ardiglioni, catene di ricordi orrendi.

Qua e là intravede Lucrecia, ma non è la Lucrecia che vuole vedere. Qui e lì inciampa nell’incubo di qualcun altro, e di tanto in tanto si smarrisce nel maniero ShinRa, seguendo i nostri fantasmi mentre sfrecciamo di stanza in stanza (—Qui! Sa suonare il pianoforte, signor Valentine, uomo-vampiro? Da questa parte! In quella camera a Jenova è venuta la fame chimica, meglio non entrare, quella infetta!).

Vincent è l’incubo fatto carne, e passa molto tempo qui, nella sua testa, dove è meno un mostro e più un incidente del sogno.

Chaos si stiracchia e si alza per camminare al suo fianco nelle tenebre, le ali nere tagliate dalla notte che si spiegano per ammantare il mondo, la sua forma cangiante, incompleta. Parla in una voce di seta antica, scolorita e lisa, la sua risata è come il fruscio delle foglie secche sugli alberi morenti, si muove come un panno di raso che striscia su una lapide, come un Kwal sempre pronto a scattare.

In questo luogo, Vincent può guardarsi nel cuore senza spaventarsi. Forse può persino provare affetto per Chaos, qui, perché Chaos è una parte di lui che non può essere negata senza dolore. Sono entrambi liberi e contenti in momenti come questi, quando si trascinano per le stanze vuote in cui sono nati e sono stati plasmati.

(Se fossi sincero, spiegherei che ci sono giorni in cui odio Vincent Valentine. Ci sono giorni in cui non riesco a tollerare di essere vicino a lui, a Valentine e al suo appariscente mantello rosso, ai suoi sospiri che fanno tanto ahimè, alla sua nauseante nube di autocommiserazione e alla sua arrogante insistenza nel caricarsi tutti i peccati del mondo sulle spalle. Ci sono giorni in cui piega la testa nel modo giusto, o fa un gesto preciso al millimetro e non vedo altro che Sephiroth e non posso fare a meno di pensare, perché non poteva succedere a te, inutile e patetico spreco di spazio tombale? Chi cazzo piangerebbe te nella stessa situazione?

Se fossi sincero, spiegherei che gli porto rancore. Gli porto rancore per aver dormito “per espiare” quando avrebbe potuto fare qualcosa, quando avrebbe potuto aiutare Seph. Gli porto rancore per Cloud, per la manica nera di Cloud e il suo capo chino. Gli porto rancore per aver insegnato a Cloud fin nelle minuzie come naufragare in oceani di Angst, per essere un’illustrazione tormentata, per essere una tale primadonna del cazzo.

Se fossi sincero, vi direi che disprezzo Vincent Valentine-

Ma non lo disprezzo.)

Vincent si sveglia, e non riesce a capire se si sia svegliato o se stia ancora dormendo. Diventa difficile rendersene conto, quando si trascorre tanto tempo nel reame dei sogni a vagolare nella terra dell’incubo. (No, ma veramente, non riusciranno mai a togliere quelle macchie di Angst dalle pareti.)

Ora è pronto ad affrontare ciò che deve in questo giorno – notte, anzi, perché la prima stella della sera brilla già. Chaos starà tranquillo, come spesso accade dopo questi sogni di comunione che Vincent dimentica deliberatamente. Anche Chaos è in lutto.

Vincent non rimugina oltre su questa benedizione, la accetta semplicemente mentre comincia a camminare, stringendosi forte il mantello attorno a sé.

Il rosso è il colore della passione, il colore della rabbia, dell’amore e del sangue. Vincent continua a indossare il mantello rosso perché crede che sia il colore del suo peccato (Sephiroth commenta in tono assente che dovrebbe continuare a indossarlo solo perché il colore gli si sta bene).

Il rosso, oggi, dovrebbe stare per nuovi inizi, per una rinascita, dovrebbe essere il colore di una rosa appena sbocciata, ma lui non cambia il significato.

Deve affrettarsi, prima che gli altri lo lascino indietro. Oggi si riuniscono, la loro famigliola di disadattati, e malgrado ciò che è diventato lui onora le sue promesse e i legami a cui si lascia vincolare.

Non lo ammetterà mai nemmeno a se stesso, ma vuole trovare riparo tra le loro braccia accoglienti, vuole delle persone che sappiano ciò che è e non ne abbiano paura. Non vuole stare da solo, stanotte, sapendo che suo figlio è morto.

(Tre parole per riassumere Vincent Valentine: testimonial di complessi.)



Tseng li fissa. Elena si alza sulle punte per dare una sbirciatina da sopra la sua spalla, e deve ripiombare giù e schiacciarsi una mano sulla bocca per non scoppiare a ridere troppo forte.

Rude sta riprendendo fiato nell’angolo – avrei detto che stesse avendo un infarto, se non fosse che i Turk sono come gli scarafaggi: se anche gli crollano addosso palazzi interi sono i palazzi che si fanno male – perché ha pulito la stanza da cima a fondo in quindici minuti spaccati. (Ah! E voi che pensavate che i Turk fossero buoni solo a fare casini. Dopo sanno anche ripulire.)

Reno se ne sta seduto al centro della stanza, il completo ancora più spiegazzato del solito. Con un largo sorriso orgoglioso che pregusta il futuro più prossimo, pigia un nuovo pulsante e Il Mostro ha uno spasmo. Gli lampeggiano delle luci. Ronza. « Zeng – è uno – ztronzo » riesce a balbettare, prima di auto-distruggersi in uno scoppio di scintille azzurre.

« Ma no » sbuffa Reno mestamente, guardandolo disintegrarsi, appena un secondo prima che Rude lo tiri via dalla traiettoria della sedia che Tseng gli ha lanciato in testa.



Yuffie ama le foreste. Le adora. Le foreste vere, non gli alberi cadaverici e scheletrici che circondano la Città Dimenticata, perché quelli sono semplicemente strani, e non la stupirebbe trovarci in mezzo Vinnie; quello sembra proprio il tipo di luogo in grado di attrarre la sua natura morbosa (bare, rendiamoci conto).

No, lei ama le foreste dove gli alberi hanno la corteccia marrone e il fogliame verdeggiante, foreste di tanti strati di tonalità di verde che si fondono fra loro e fervono di vita – compresi quegli stupidi uccellini che detesta nella maniera più assoluta quando cantano per l’alba prima ancora che il sole abbia fatto la grazia di mostrarsi all’orizzonte, quei piccoli imbecilli cinguettanti. Soprattutto, sono l’unico posto dove non c’è un solo sussurro di casa.

Non ci sono delle vere e proprie aree boschive a Wutai. Nessuna foresta imponente, nessuna giungla vasta, solo scarni, radi boschi sparpagliati come lacrime dimenticate in punti cui è difficile accedere.

Wutai ha una bellezza austera – le montagne scolpite, le pianure sconfinate e persino le spiagge della sua terra sono aspre: la sabbia è ghiaiosa, ruvida, e non ha niente a che vedere con le dune soffici di Costa del Sol su cui ha corso scalza per ore durante i suoi primi giorni lì, strillando di gioia, affascinata oltre ogni dire. E i suoi uomini e le sue donne hanno combattuto e sono morti in ogni dove per preservarla, prima che suo padre la riducesse a una trappola per turisti: niente lotta, niente onore, niente cuore, niente anima.

Ama il suo paese, crede con ardore nell’onore e nella gloria della sua gente e della terra della sua gente, ma i suoi doveri in quanto discendente e unica erede dei Kisaragi sono pesanti, ed è scappata nelle foreste per provare ad alleggerirli.

La Materia è il motivo per cui è venuta nella terra del nemico (rappresenta la ShinRa, il potere del Pianeta che la ShinRa aveva raccolto, domato e usato contro la sua nazione, il potere che era stato loro negato con la sconfitta, e non c’è nulla di più bello che rubare qualcosa che è stato adoperato contro di te per rivoltarlo contro il suo stesso creatore), ma la sensazione di pace e l’illusione di libertà dai legami di onore che professa di negare sono le ragioni per cui ci è rimasta.

Il problema di Yuffie è anzi che sente l’onore in maniera troppo viscerale. Suo padre, sente, ha rovinato la sua gente, il suo paese, li ha privati del loro orgoglio, e non importa l’idea che si sia fatta, è suo dovere, sua responsabilità trovare il modo di restituire a tutti quell’orgoglio.

(—Compito gravoso per una mera ragazzina, commenta Sephiroth, completamente indifferente, dallo stronzo insensibile che sa essere.)

Le foreste sono indescrivibilmente reali per Yuffie. C’è qualcosa nella loro vitalità, nel senso dell’età, nell’abbondanza di panorami, suoni e aromi che la manda in estasi, la mette a suo agio, che la fa sentire solo il piccolo tassello di un mosaico molto grande, la benvenuta in un posto tanto distante da casa.

In primo luogo, le aveva scelte come posto ideale per le sue imboscate perché erano tecnicamente le più adatte alle sue abilità: le fornivano riparo e protezione, le permettevano di sfrecciare in combattimento e uscirne con altrettanta rapidità se le cose si fossero messe un pochino male (non che sia mai successo, insiste).

In secondo luogo, le aveva scelte per la facilità con cui le consentivano di infiltrarsi nel cuore del continente nemico, difesa dalla loro stessa vegetazione, il classico concetto che allettava il suo lato vendicativo, nascosto ad arte da esuberanza infantile e furti birichini.

Le piace saltellare su e giù, sentire la terra cedere appena sotto gli stivali, sapendo che la respingerà sempre verso l’alto. Le piace stare sulla cima degli strapiombi e gridare fino a farsi venire la voce roca. Le piace fissare il sole fino a che tutto si tinge di nero. Le piace vivere e vivere e vivere.

Qui c’è il Pianeta nella sua forma migliore, e quando vola in quei cosi terrificanti che Cid insiste nel definire il miglior mezzo per viaggiare, o si ritrova in quelle minuscole, oscillanti scatole su ruote, sente come di star perdendo volontariamente un pizzico di se stessa.

Le viene sempre la nausea, circondata da ogni parte da metallo, dall’odore dei macchinari, e se gli dei avessero voluto che le persone si spostassero più velocemente di quanto fosse loro consentito dalle gambe, beh, i Chocobo che li avevano creati a fare?

I suoi dei sono nel suolo, nelle montagne, nei fiumi, nell’aria, e quando visita la chiesa (altare) di Aeris non riesce mai a mettere a tacere la curiosità di sapere come sia possibile che qualcuno potesse vivere a Midgar.

Com’è possibile che a qualcuno potesse piacere essere attorniato da metallo, vetro e fumo senza nemmeno il misero conforto di una pianta in un vaso a ricordargli cosa fosse davvero la vita? A ricordare a tutti quanti, La vita è questo. Non la sorprende che Cloud vada alla chiesa. Lui è un montanaro, un provinciale; lui dovrebbe saperlo.

Crede che le foreste siano la vita, e non è troppo lontana dalla verità. Non c’è bisogno dell’odore di Mako e della luce scintillante perché chiunque le attraversi si accorga che questo posto pullula della stessa energia.

Yuffie l’ha capita: la Meteora, tutto ciò che l’ha preceduta e l’ha seguita, tutti quegli eventi – non sono stati l’unica cosa importante della sua vita. Certo, è stato un periodo veramente straordinario (quante persone possono dire di aver dato una mano a salvare il mondo?), ma non è tutto.

Ha trovato degli amici, ne ha persi alcuni e ha fatto delle cose certamente sbalorditive, ma questo non significa che debba rimanere ferma a quel momento per sempre. “Per sempre” è un intervallo di tempo terribilmente lungo, e non vede perché sperperarlo tutto sugli ieri quando ci sono così tanti domani.

(È così che dovrebbe essere. La vita è questo, la vita può essere questo, e non è morte, malinconia e nuvole di pioggia tutto il tempo, è divertente, piena di risate e di massì, chi cazzo se ne frega? Carpe diem e stronzate varie, è questo che avrebbero dovuto imparare da tutta questa storia.

Sephiroth borbotta qualcosa di velenoso che in realtà sono lieto di non aver sentito. Lo guardo storto, e la sua unica risposta consiste in uno sbuffo e un sogghigno; chiaramente i miei bizzarri stati d’animo lo divertono. (I miei bizzarri stati d’animo? Che schizofrenico bastardo!) Per ripicca, mi chino e mormoro all’orecchio di Yuffie che, almeno, qualcuno che ha pagato per le ferite inferte alla sua terra c’è.)

Sì, annuisce, ricordando all’improvviso (è stupefacente quanto fosse facile dimenticarlo, con tutti quei giorni passati a correre confusionariamente da una parte all’altra del globo per una causa che davvero non l’aveva, o meglio, non avrebbe dovuto coinvolgerla) che Sephiroth era il capo dell’esercito della ShinRa, che era di lui che i vecchi mormoravano e che per lui facevano segni arcaici per scacciare la scalogna che il suo nome inevitabilmente portava quando pronunciato.

(« Wutai non ha paura degli uomini » disse Godo quel giorno. Sembrava rattrappito e vecchio, nulla a che vedere con il leader di guerra dinamico che era stato. Io diedi un’occhiata a Sephiroth, freddo e imperturbabile, e persino io, la cosa più vicina a un amico che avesse, sentii un brivido di paura al pensiero che potesse ridurre un uomo come Godo in quello stato. « Wutai non ha paura degli dei » disse Godo. « Ma Wutai ha paura di te. »

Sephiroth piegò il capo all’indietro e stirò le labbra in un sorriso glaciale. « Wutai è saggia. »)

E lui è morto. Parte del prezzo di sangue è stato pagato, un pezzo dell’onore sbrindellato riconquistato.

« Prendi questo! » Yuffie sogghigna, dando un pugno all’aria. « Ho vinto, bastardo! Yuffie la Cacciatrice di Materia batte tutti! »

(—Batte tutti un corno, sbotta Sephiroth, il suo umorismo svanito più in fretta di una birra nelle vicinanze di Reno. Lo sguardo letale che mi rivolge mi fa domandare se si possa morire due volte. Se sì, credo che lo sperimenterò presto e nel modo più doloroso.)

Di tutti quelli che entrano in contatto con noi, Yuffie è quella che tormentiamo di meno. Quando Sephiroth si sente particolarmente in trappola, e dunque amareggiato, attribuisce la cosa alla sua stupidità, alla sua incapacità di comprendere argomenti di tale portata, alla sua ingenuità/giovinezza (che per lui sono la stessa cosa), alla sua completa insignificanza all’interno del gruppo, all’amicizia, al Grande Schema delle Cose e via discorrendo.

Personalmente, io credo sia perché, di tutto il gruppo, Yuffie è quella con la testa più ragionevolmente a posto. I morti sono morti, per lei, perciò i fantasmi non la importunano. È lei a controllare i suoi ricordi; non sono loro a controllare lei.

(—Potrei farle cambiare idea, borbotta Sephiroth soprappensiero, prima di scivolare via, da Cloud. Che fantasmino fedele che è diventato, per essere stato un uomo che si irritava anche per gli ordini più logici. Aeris lo segue con gli occhi, ansiosa, ma non va con lui – finirebbe col creare ulteriori incubi della sua morte, con tutti gli attori principali riuniti.)

Mi piace gironzolare intorno a Yuffie. Vorrei che gli altri condividessero la sua filosofia – non ci sarebbe tanto bisogno di noi.

(—A me piace stare qui, dice Aeris sfacciatamente. Mente, credo, e le passo un braccio attorno alle spalle e sospiro. Standole tanto vicino, riesco quasi ad accettare la crudeltà di rimanere qui.

—Anche a me. Solo che non mi piace guardare le persone andare in pezzi.

—Come potremmo aiutarli a guarire se non così? chiede lei, e confesso di non averne idea. Mi dico che non me ne andrei se ne avessi la possibilità, e quando penso a Cloud e all’addio che non sono mai riuscito a dargli, al modo giusto di salutarlo come avrei voluto, so che non lo farei.

—Guarda, bisbiglia. —C’è Cid.

È vero. E si riuniranno tutti, pezzi di una cosa sola, e strapperanno via le croste di ferite appena guarite, scaveranno nei ricordi che vanno un po’ troppo a fondo per poter essere sanati condividendoli.

Ah, merda, tanto che importa? Noi ci saremo, come sempre.)



Non sono mai stato a Cosmo Canyon prima d’ora, vivo o morto (Pianeta, detto così suona stupido. Vero, ma stupido).

Mi è stato raccontato che la fiamma di Cosmo Canyon arde da secoli. Non sono mai stato un patito del folclore, quindi non ho idea di cosa questo significhi, ma probabilmente è una metafora sull’arginare l’oscurità del male o robe così. (—Zack! protesta stridula Aeris, guardandomi scioccata quando salto oltre il fuoco; non è ancora riuscita a perdere del tutto il senso mortale di evitare rischi stupidi. Sephiroth accenna un sorriso prima di sedersi a gambe incrociate di fronte al falò, guardando i propri peccati dispiegarsi tra la luce ferma e l’ombra vacillante.)

Nanaki entra nel nostro campo visivo; la sua presenza è tradita solo dal suono flebile delle zampe sul suolo polveroso. Volta l’occhio buono verso di noi, i fermacapelli scintillano quando intercettano la luce che mette in risalto le parti piane del suo muso leonino.

« A che scopo siete qui? » chiede, accennando un ringhio gutturale verso la fine della domanda. (Io trasalisco a metà salto, finendo al centro delle fiamme, facendole ondeggiare. Aeris si porta una mano sugli occhi per l’orrore, o forse per l’esasperazione. Sephiroth inarca un sopracciglio, ma non distoglie lo sguardo dalla scena che sta osservando nel fuoco. —Ehm, è il mio commento geniale, e mi guardo disperatamente attorno per cercare aiuto.)

« Non mi ripeterò » prosegue sommessamente. (Di colpo quelle zanne paiono molto affilate, forse per il modo in cui brillano alla luce. Sephiroth alza finalmente la testa, e incrocia l’occhio d’oro di Red con i propri d’acciaio. Di fronte al guizzo delle fiamme, le sue pupille sono dilatate al punto da sembrare quasi normali.

—Cosa vuoi che facciano i fantasmi? domanda, imperturbato.)

Nanaki si accovaccia, il pelo gli si rizza un poco sulle scapole, la coda si muove, agitata, ma a ogni altro cittadino appare sereno. « Dovreste andare avanti » afferma senza emozione, ruotando l’occhio verso Aeris. (Noi non siamo troppo sicuri di cosa intenda. —Non è così semplice, gli dico.)

« È molto semplice. »

(—Magari.)







NdA: Loki ha deciso che anche se non è una Summon come Odino [Odin] (soprattutto perché non è una Summon come Odino), non si sarebbe di certo lasciato scappare la possibilità di intrufolarsi qui dentro. Considerate Nibelheim e le sue origini nordiche mi è sembrato appropriato che sapessero bene chi fosse. (Il che ci porta alla domanda, beh, allora perché il dio della morte è Ade [Hades]? Ade è presente nel gioco ed ha pertanto la precedenza su Hel, la dea della morte e degli inferi.)
Tra l’altro, con tanti di quei pantheon a disposizione, perché limitarsi a uno solo?

NdT: … Devo confessare che ai trip mentali sulle Summon del gioco non ci ero arrivata nemmeno io. xD
AH! Le “cadenze dialettali” di Cait. Se a qualcuno interessa. Nella versione inglese (e come credo si noti chiaramente solo in AC e DoC perché doppiati) parla con un forte accento scozzese, riferimento stranamente azzeccato visto che la figura a cui è ispirato proviene appunto dal folclore scozzese. Reeve non ha inflessioni dialettali e parla in maniera molto seria e rispettabile, al contrario dello sgarbatissimo Cait Sith, ed è per questo che a detta di molti è pazzo. Reeve, intendo. Il che è molto triste, dato che è forse l’unico personaggio veramente e pienamente altruista di tutto il gioco, ma vabbè. :D
Nell’originale giapponese Cait Sith parlerebbe invece nel dialetto del Kansai (forse più di Osaka che di Kyoto), come Selphie e Zell e tutti i personaggi un po’ scemi. Per quest’ultima informazione ringraziate Vale, a cui una volta, perché le voglio tanto bene, ho fatto analizzare certi pezzi dello script giapponese del gioco (non chiedetemi come l’ho trovato, non ne ho idea sono i trucchi del mestiere). ;D
… Potrei parlare per ore di questo capitolo, davvero. Dai paragrafi sofferti di Tifa (e Aeris) ai Turk che trolleggiano in grande stile (a proposito: lo shampoo Mako esiste), a Reeve che si deprime ed è abbastanza deprimente, a (OMFG) Nanaki che parla.
La parte di Yuffie in particolare mi ha fatto fangirlare da impazzire e mi ha fatto rinnamorare per l’ennesima volta di lei, ma la cosa veramente esilarante è che tutto lo spezzone di Vincent avrei potuto scriverlo io, concettualmente, frasi Vincent-padre-di-Sephiroth a parte. E infatti mi sono divertita vergognosamente a tradurla, tanto che in certi punti mi sono dovuta controllare xD Quella delle macchie di Angst non avrei mai potuto pensarla, però, e mi inchino di fronte a cotanto genio.
Forse, se nella Compilation e nelle fanfiction Cloud non avesse cominciato ad agghindarsi di patacche (oddio, il paragrafo dell’anello… xDD) e non fosse diventato il fratello scemo di Vincent e se tanta gente non mi accoppiasse Yuffie con Vincent solo per farla diventare la sorella scema di Vincent (!! YUFFIE!), non mi infastidirebbe più di tanto.
Forse.
Ma blatero :D Ormai la storia è agli sgoccioli ;o; Un altro paio di settimane e abbiamo finito.
A presto :)

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Capitolo 7
*** Lete ***


(Lete) (Inter-mezzo)





(« Resta lì, dov’è il tuo posto. »)

Strife, lo vedi?



(—E se, mi chiese pacatamente Sephiroth una notte, —Me ne volessi andare? Se… se volessi buttarmi tutto questo alle spalle, lasciare andare tutto e tornare ad essere uno?

Sapeva già la risposta.

—Non si può, gli risposi.

Stava fissando il volto addormentato di Cloud come se non l’avesse mai visto prima, gli occhi vuoti tranne che per qualcosa che ricordava un po’ la paura. —Perché no?

—Perché… anche se lo facessi, Cloud ti richiamerebbe qui. Anche se tu non volessi tornare a vivere, lo vorrebbe Cloud.

Non guardavo lui, loro, perché mi rifiuto risolutamente di dover scegliere tra uno dei due. Un giorno dovrò farlo, ma quel giorno non era allora, né è ancora arrivato.

Credo di sapere a chi di loro parlerò quando sarà il momento, perché ho una mezza idea dello schieramento che sceglierà Aeris, e credo che sarà quella la scelta giusta. Dopotutto, Cloud è ancora vivo, può ancora farsi del male.

E tutto d’un tratto, senza guardarli, mi sembrò tutto così ovvio che stentavo a credere di non esserci arrivato prima. Mi voltai. —Sai cosa siamo, Seph? Siamo solo ricordi, e i ricordi non hanno voce in capitolo, in queste cose.

Eidolon. Un’ombra vuota. Un idolo vacuo. Quello che rimane di una persona quando muore – non l’anima, non la persona in sé; letteralmente, una semplice ombra della persona che si era quando ancora in vita.

Lui si accigliò, strattonò irritato una ciocca vagante dei capelli di Cloud, schiaffeggiò la smorfia sul suo volto giovane (poco più che un bambino, aveva detto il ricordo di un Sephiroth lucido, sconcertato e gonfio di vergogna) – la fronte corrugata e le labbra tirate di un bambino che sta per piangere. —Perché no? ripeté, con maggiore impazienza. —Perché non riesce a lasciarmi andare?

Io allargai le braccia, impotente. —… Non lo so.

Aeris sorrise, e il suo sorriso era amaro e apparteneva a qualcuno, qualcos’altro. —Io (noi) sì, disse(ro). —Tu gli dai… significato. Tu… lo definisci. Dio, sì?

—Io non voglio! le urlò; eppure la sua mano si era stretta sulla spalla di Cloud, aveva affondato le dita come se il tocco potesse ancorarlo a lui, restituirgli contegno. —Non voglio- ma poi non riuscì più a parlare, soffocò sulla rabbia e sulle parole perché non era capace di spiegarlo, al pari degli altri.

Lei (loro) rise(ro) di lui. Lui svelò i denti come un lupo accerchiato e qualcosa in lui scattò, si sbriciolò.

Qualcosa dentro Cloud scattò, come una serratura. L’eco di una scheggia di lui che veniva incastrata al posto giusto si riverberò e vibrò.

Sephiroth si immobilizzò, allungò la mano e disegnò i bordi frastagliati della sua identità, affascinato, tracciando senza posa ogni illusione, ogni ricordo, ogni parola che abbia mai proferito, sgretolandosi le dita sulla confusione di Cloud.

—E se, sussurrò, a voce ancora più bassa, —E se lui volesse restare? Lo manderete indietro, come avete fatto con me?

—Sì, gli risposero. —Ha un compito da svolgere.

—Lui ha un compito da svolgere perché ce l’ho io. Se io mi fermassi, e lui non volesse più combattere, perché non potrebbe restare? Perché non potrebbe funzionare? Conosceva già la risposta, ma scelse di non ascoltarla. Tipico di Sephiroth.

—Ha un compito da svolgere, ripeterono.

—… Ma un giorno non lo avrà, insistette Sephiroth, nell’affermazione più vicina a una domanda che avesse mai formulato. Ci arriveremo. —Un giorno sarà di nuovo qui e qui ci sarà un posto per lui.

—Forse.

Quindi no, ma Sephiroth si rifiutò seccamente di ascoltare. Rimarrà deluso e astioso quando finalmente lo accetterà (tra un anno, una decade, un secolo), si dirà che gli hanno mentito ma senza che fosse necessario, visto che già lui mente volentieri a se stesso.)



Le stelle stanno cadendo, posso prenderle tra le mani…

(« Cosa vuoi? »)



Una verità: la vita consiste nel cercare di dimenticare che sotto la pelle c’è uno scheletro.

Si pensa, perché lo si sente nominare così spesso, che sia possibile dimenticarlo, ma non è vero. A volte è un sollievo – quando si perde tutto il resto rimane sempre, sempre, un flebile barlume di speranza, e nei laboratori quella speranza era congiunta alla certezza che mi fosse ancora possibile morire.

La cosa peggiore delle torture di Hojo era il conflitto che riusciva a instillare nei miei stessi pensieri – il desiderio e la paura di morire. Uno straordinario capolavoro di tortura psicologica che sono sicuro fosse accidentale.

Una verità: ogni grandezza è adombrata dalla crudeltà. Essere grandi significa bruciare come una supernova, e non riuscire più a distinguere i volti umani per via del fulgore.

(Sephiroth era anche il mio Dio; gli stavo vicino e riflettevo la sua luce, una luna e il suo sole, metà del mio corpo era sempre fredda, l’altra metà scottava sempre.)

Questa è la verità a cui nessuno vuol pensare – Sephiroth è vita. Contorta, confusa, e deformata al punto da non essere più riconoscibile. Vita portata all’estremo. Vita che può esistere quando il mondo è polvere. Vita che stringe i denti fino all’estinguersi delle stelle.

Da solo, il suo corpo fisico distrutto non conta nulla. Il suo spirito è tutta un’altra storia. La forza di volontà è la chiave, la soluzione e il mezzo, e Sephiroth, oh, Sephiroth ha una forza di volontà capace di portare in ginocchio Dio.

Ecco perché alcuni soccombono all’avvelenamento Mako e altri no. Ecco perché alcuni vengono annientati e altri mutano e certi si adattano. Forza di volontà pura e non diluita.

Non c’è mai stato niente e nessuno che sia riuscito a far fare a Sephiroth qualcosa che non volesse. È stato al gioco della ShinRa perché poteva, perché non aveva niente di meglio da fare, perché sapeva che non potevano costringerlo a fare alcunché.

Ricordo che verso la fine della guerra (è buffo come la parte Midgar-contro-Wutai abbia finito per essere gradualmente eliminata. Tutti sapevano cosa intendevi quando dicevi “la guerra” – tutti ci avevano perso qualcuno) minacciò di rimanere lì, nel paese che aveva distrutto. Aspettò che strattonassero il guinzaglio che gli avevano messo al collo, e quando lo fecero avvertì la debolezza del gesto.

Rideva come un pazzo (anche se non era nulla in confronto a quello che sentii nel seminterrato). Aveva combattuto contro di loro non perché voleva combattere; di quello non gli importava. Voleva soltanto vedere se loro potevano domarlo.

Non potevano.

Rimase con la Compagnia perché non vedeva alternative. Era scritto nel suo sangue, nei suoi pensieri e nelle sue ossa che avesse bisogno della ShinRa, della Mako che gli procuravano, che non avesse bisogno delle seccature che sarebbero sorte con la fuga. Rimase perché poteva comunque trarne qualcosa di buono, e col tempo dimenticò il suo disprezzo per il fatto che non potessero piegarlo.

Sephiroth aveva potere. Andava oltre l’incredibile, oltre la comprensione, era semplicemente oltre. L’unica cosa di cui Sephiroth avesse mai avuto bisogno era la Masamune in mano e la determinazione in mente.

Se si impegnava a fare una cosa, la faceva, senza mezze misure. Con tutta quell’ambizione, tutta quell’intelligenza, e la capacità, e l’energia, e la pulsione, non c’era nulla che non potesse fare.

Si lasciò cadere.

(SephirothMaestroDio)

È stata una scelta. Il Sephiroth che poteva far inginocchiare Dio ai suoi piedi, il Sephiroth che poteva deformare le stelle a suo piacimento, il Sephiroth che poteva evocare meteore, il Sephiroth che richiamava supernove – quel Sephiroth ha scelto di cadere.

Ha scelto questa strada. Il collare di Jenova se l’è stretto addosso di sua spontanea, maledetta volontà.

(TraditoreFalsoIdoloRammollito)

Forse lo ha fatto solo per vedere se lei sarebbe riuscita dove la ShinRa non aveva potuto. Se sarebbe riuscita a obbligarlo o se sarebbe stato lui ad avere la meglio su di lei. Forse era annoiato.

Forse, forse-

Semplicemente non sapeva quanto fosse forte. Noi lo sapevamo. Noi eravamo fuori, lo contemplavamo, ci meravigliavamo e cadevamo in ginocchio.

Sephiroth, invece… Sapeva di poter distruggere nazioni, sapeva che la ShinRa non poteva imprigionarlo, ma sapeva anche ciò che noi non sapevamo, dei laboratori, dei ricordi delle grida che ha lasciato tra quelle pareti.

Quando sei stato debole una volta, (Io sono il signore del mio mondo illusorio) puoi diventare forte quanto vuoi, ma quel ricordo rimane con te.

(« Ti distruggerò; ridurrò tutti voi in polvere, per Madre… »)

Come ho detto, c’è molto di cui aver paura.

Cose perse: la ragione di Sephiroth, la dolcezza di Aeris, la mia misericordia.

Cose trovate: il sapere di Sephiroth, la prudenza di Aeris, il mio perdono.



Le stelle…!

(« E questo pianeta? »)



Un segreto: certe notti Cloud si rannicchia delicatamente nel sonno, e Sephiroth gli infila le dita tra i capelli e gli bisbiglia segreti nell’orecchio come se ci stesse versando veleno.

Un altro: Cloud ride piano (qualche volta; molto di rado) nel sonno, e Sephiroth si stende accanto a lui come se dividessero una bara, e lo maledice in ogni lingua che conosce e oltre, una mano serrata sul suo avambraccio che romperebbe se solo potesse ancora toccarlo.

(Per chiunque altro, una maledizione potrebbe essere così: possano tutti i peccati del mondo ricadere su di te. Possa ogni Dio esistente voltarti le spalle. Possa tu essere esiliato al di là dei confini più remoti dell’universo, al di là della misericordia e della compassione. Possa tu morire della morte più agonizzante possibile. Possa tu gridare per tutta l’eternità.

Ma Sephiroth conosce Cloud, e sa cosa lo ferirebbe di più.

—Possa tu vivere per sempre, gli sussurra all’orecchio.)

Cloud è peggio di un non credente. È un credente in crisi mistica.



Resta con me. Navighiamo quest’universo, troviamo le sfide che ci attendono (facciamoci finalmente distruggere riduciamocinpolvere). Oh, mio burattino, quali meraviglie si rintanano tra le stelle!

(« Mi fai pena. »)



Quando ero piccolo, mia madre mi parlava di totem, di creature che ti svelano ciò si cela nel tuo cuore.

(Ero un marmocchio arrogante; ridevo delle credenze di mia madre e del mio paese e le schernivo. Andai nella grande città e ci scivolai dentro come se ci fossi nato, con il mio sorriso cinico e la mia facile indifferenza per chi mi era inferiore.

Mentivo quando parlavo a Cloud di Gongaga come se mi mancasse, mentivo quando ripetevo malinconicamente la storia dei totem di mia madre, mentivo con un sorriso affettuoso quando fingevo di capire i suoi pianti per le montagne.)

Però! Quando ero piccolo, m’innamorai dei lupi, e questo amore non è mai tramontato.

(Come avrebbe potuto? Dal soldato che sono, dall’assassino che sono, come avrei potuto non adorarli?)

Sì, okay, in parte era per egotismo – non avevo tutta questa voglia di essere rappresentato da un coniglio, eh? (Per quanto, quelle mostruosità al nord… Non ditemi che non avreste paura anche voi dei conigli dopo che uno di quei cosi vi ha affondato i denti in un punto pericolosamente vicino a un delicato attrezzo dell’equipaggiamento maschile.) Ma i lupi avevano qualcosa che mi toccava.

Attorno a Gongaga ce n’erano. Beh, proprio attorno a Gongaga no, mi sa che le foreste non siano il luogo più adatto, e poi sarebbero stati troppo vicini alle abitazioni umane, ma li si poteva sentire cantare sulle pianure.

La prima volta che udii la chiamata di un lupo provai quello che avevo provato quando avevo visto la mia vicina, che avevo giurato (alla veneranda età di otto anni) che un giorno avrei sposato. La differenza era che lei era un’ideale, mentre i lupi e la loro canzone erano una realtà più grande di me, più grande di tutto.

La nenia dei lupi è stata il filo conduttore della mia vita, dall’infanzia alla maturità, dall’innocenza al soldato. Mi toccavano. Nobiltà. Purezza di scopo. Perfetto adattamento alla loro vita. Socievolezza. Solitudine. Ferocia. Affettuosità. Tutte queste qualità avvolte nel bellissimo pelo ispido e nei fermi occhi dorati.

Durante l’addestramento militare li ho studiati. Osservavo i loro movimenti, come agivano, le loro abitudini di caccia, come si addormentavano, tutto.

Sentivo che i lupi fossero il modello perfetto a cui avrei dovuto rifarmi, essendo io un alto esempio di splendore evolutivo più di un qualsiasi altro sgraziato, rumoroso essere umano, per quanto freddi e rompicazzo fossero i miei istruttori.

Ho imparato a muovermi allo stesso modo (no, no, non a quattro zampe), ho imparato a dormire un sonno leggero e a svegliarmi regolarmente, come un lupo (ora, quello sì che fu un vero test per la mia forza di volontà, costringermi alla mattina a lasciare il mio bel letto caldo, comodo e sicuro…), ho imparato a stare attento all’ambiente, a notare i piccoli dettagli che altrimenti mi sarebbero sfuggiti. Tracce, comportamento animale, quel genere di cose.

Avevo amici che dicevano spesso che in battaglia sembravo un lupo, che mi fissavano preoccupati quando ghignavo dopo aver ucciso qualcuno, scoprendo i denti come avrebbe fatto il mio totem.

(Non dissi mai a mia madre che credevo nella sua stupida superstizione contadina, non spiegai mai a nessuno la ragione per cui avevo deciso “di punto in bianco” di cominciare a studiare i lupi. Non lo ammisi nemmeno a me stesso.)

Quando avevo diciotto anni, e mi stavo dirigendo verso una piccola città sperduta tra le montagne per una missione, con il mio piccolo protetto ancora scombussolato dal mal di movimento da una parte e il mio amico che guardava il fuoco dell’accampamento con occhi vuoti e inquieti dall’altra, mi portai le mani ai lati della bocca e cacciai fuori un ululato.

Il suono si trascinò per il nulla delle pianure, e sorrisi ridicolmente in barba alla disapprovazione del mio superiore finché Cloud non sollevò la testa e ululò per me.

I lupi gli risposero. (E non fu una sorpresa, veramente, ma sentii comunque una specie di fitta, un pizzico di… non so… risentimento, un vago fastidio per il fatto che la forma del mio cuore rispondesse a lui e non a me.

Quando Cloud era piccolo, le montagne erano casa sua, i lupi del Nibel i suoi compagni; io questo lo sapevo, ma il loro rifiuto mi ferì lo stesso.)

« Qualcuno ti ha superato » mormorò in tono asciutto Sephiroth, divertito e comprensivo; Cloud arrossì un po’ per l’attenzione del suo idolo, a cui lanciai un’occhiataccia per far capire a Cloud che non ero serio e a Sephiroth che lo ero.

« Ancora, Strife » incoraggiò gentilmente Sephiroth (gentilmente! Il numero di volte che questo avverbio possa applicarsi a Sephiroth si conta su metà delle dita della mano di un guerriero di Wutai).

Dopo un lungo istante in cui cercò di capire se Sephiroth stesse scherzando o meno (anche io non ne ero tanto sicuro), Cloud si diede una leggera spinta sui talloni e ululò di nuovo, e poi io mi unii a lui, e allora il branco che prima aveva risposto cominciò a intrecciare la sua voce alle nostre…

… e poi, con mio grande shock, Sephiroth ci imitò e fece cagare addosso tutti quanti, lupi compresi (probabilmente).

È uno dei ricordi che mi ha sostenuto nei laboratori, mi ci aggrappai fino a sfrangiarlo e consumarlo e a dargli le sembianze più di un buco che di un ricordo, riavvolgendolo costantemente nella mente finché non ne rimase che il suono delle nostre voci: la chiamata vacillante, dolorosamente dolce di Cloud; l’annuncio potente e profondo di Sephiroth circa la sua presenza che divenne automaticamente il centro e la base di sostegno per i nostri; il mio strillo roco e stonato di felicità; il lamento incerto e vagamente dubbioso del soldato semplice Jenkins (povero disgraziato morto, fortunato disgraziato morto) e lo strano branco che replicava al nostro coro, inserendosi e sfilandosi continuamente.

(Innocenza.

C’era questo di bello in quel momento – l’ultimo momento d’innocenza prima che il castello di carte crollasse su se stesso. Pensavo scioccamente di averla persa molto tempo addietro – che me l’avesse portata via la guerra – senza rendermi conto di quanto ancora avessi da perdere.)

Avranno pensato che ci stessimo immischiando nel loro territorio o roba così.

(Sarebbe bello se-

Ma è troppo assurdo.)



Strife, Strife che è tanto forte e tanto debole e tanto a doppio taglio, Strife che è fatto di contrasti, Strife che è tenero e tagliente e polvere e perla e scudo e spada e caritatevole e spietato, Strife perché non riesci-

-a vederlo?

(« Non capisci niente. »)



(—Ti odio, bisbiglia Sephiroth una notte, ogni notte, quasi se ne vergognasse, quasi fosse chissà quale grande segreto.

E il bello è che a Cloud sentirlo farebbe molto male. Voi direte, ma dopo essere stato puntellato su una spada, affettato, usato, frantumato e distrutto, teoricamente, una vaga idea in proposito dovrebbe essersela fatta, ma in un certo senso, sentirlo sarebbe completamente diverso.

Sephiroth, che non ha mai parlato di odio credendoci, sentirglielo dire – a Cloud, che sa tutto questo perché lo sapevo io, si spezzerebbe il cuore già pieno di crepe.

—Tu sei… dice, e le innumerevoli cose che non dice urlano nel silenzio.)



Tu sei

(« Non c’è niente che non consideri prezioso. »)

tutto



(« Qual è la cosa più preziosa che hai? » chiede Sephiroth (ma non è Sephiroth, questo è solo un sogno. Oh… cioè. Come se non avessi parlato).

« Quand’ero piccolo, tu eri il mio eroe » gli risponde Cloud.

Sephiroth piega un po’ la testa per esaminarlo meglio. Io, seduto fuori dalla loro arena immaginaria (oggi è un campo di una noia inconcepibilmente piatta, apparentemente sterminato), e desiderando di avere dei pop-corn, penso, strano.

Che risposta bizzarra. Vorrebbe dire che quando Cloud era bambino Sephiroth era la cosa più preziosa che avesse?

« Oh? Quale onore » dice ad alta voce, compiaciuto, e Cloud sfodera un sorriso sinistro.

« Beh, le cose sono cambiate. »

Stop. Rewind.

Domani torneranno a combattere e a farsi sogghigni beffardi e a pretendere di nuovo delle risposte, perché è questa la loro ragione di vita, era/è/sarà questo il momento che dà definizione alle loro vite e dev’essere perfetto.

Stop. Play.

« Sephiroth, cosa vuoi? »)



Mio.

(« Resta »)

Non ti lascerò

(« nei miei ricordi. »)

mai andare.







NdT: ancora una volta ringrazio alister per avermi riportato le frasi precise usate nel duello tra Sephiroth e Cloud nella versione italiana di AC. Stavolta si tratta delle battute di Cloud.
La prima frase (“Resta lì, dove è il tuo posto”, in originale “Stay where you belong”) in realtà è leggermente diversa, perché nel film è fusa con l’ultima (“Stay in my memories, where you belong”). “[Resta] dove è il tuo posto” da solo non rendeva benissimo come frase di apertura, e ho quindi modificato leggermente.
… Ma immagino non importi a nessuno, com’è giusto che sia xD Piuttosto, “Io sono il signore del mio mondo illusorio” è ovviamente la famosissima “I’m[… Cloud.] The master of my own illusory world.” L’ho lasciata più che riconoscibile. :)

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Capitolo 8
*** Campi Elisi ***


(Campi Elisi) (Il raduno)





Il fuoco tremolante della coda di Nanaki si affievolisce sotto il peso dei pensieri. Il pelo che gli drappeggia le spalle e la nuca si arriccia per l’agitazione quando pensa a noi, alla nostra comparsa.

Pensa al volto severo di Sephiroth, al gioco di ombre e luce arancione sul suo viso, alla fiamma che gli riluce negli occhi. Pensa a Aeris (così giovane, sembra così giovane, lo è sempre stata?), a me (non mi conosce, ma sospetta. È per come mi muovo, per come si muove Cloud, è per come piego la testa, per come mi gratto la nuca, per il timbro della mia voce che è la voce di Cloud quando spazia con lo sguardo con una mano sull’impugnatura della Buster Sword).

Si rammenta dei fantasmi della Gi Tribe. Pensa al tocco che lo sfiorò nella notte in cui il Lifestream fluì, al sussurro con la voce di Aeris. Pensa alla donna che Vincent custodisce in una teca, e accetta che siamo reali. Non riesce ad accettare che siamo veri.

Pensa a Sephiroth, a quell’odore di sbagliato che ha imparato ad associare a lui, il tanfo di Mako e Jenova. Pensa al modo in cui si muoveva, talvolta a scatti, goffamente, come se ogni passo fosse una battaglia, a volte in un onirismo disumano che come una macchia di olio viscido si allargava e insudiciava tutto ciò che tocca – e senza un briciolo di eleganza, come in quell’istante in cui ha alzato la testa e ha chiesto, cosa vuoi che facciano i fantasmi?

Per un momento sfodera le zanne, immagina di conficcarle nella carne smorta, ma nell’attimo stesso in cui formula il pensiero, il muso gli si accartoccia dal disgusto. Sephiroth è un’infezione, mormorano i suoi sensi, e non essendo umano lui sa che è meglio non metterli in dubbio.

Pensa a me, a come sposto il peso da un piede all’altro proprio come Cloud, al modo in cui aggrotto le sopracciglia.

Sa leggere il linguaggio del corpo dal giorno in cui è nato, sa se la sua preda è forte e in salute o debole e fiacca, se attaccherà o scapperà, se è vigile o distratta; nell’eco di me stesso, del mio comportamento, scorge qualcosa che non quadra.

Alcuni gesti di Cloud, ricorda, sono stranamente forzati e innaturali – gli capita di aspettarsi che il suo corpo faccia qualcosa che invece non farà. Ma su di me quei gesti sembrano veri, sembrano giusti, e l’apprensione lo rode come un ratto famelico all’idea di una cosa tanto dolorosamente sbagliata come l’appropriarsi della personalità di qualcun altro in maniera così totale.

Pensa a Aeris, e al bagliore che la riveste, iridescente, simile alle scaglie delle ali delle farfalle, mai chiaramente visibile ma sempre presente. Pensa a come gli appare, lì, davanti al Fuoco – tanto più giovane di quanto la ricordi – con il fuoco che le brilla sui capelli e negli occhi e nessuna ferita al ventre, nessun segno che lasci intendere che un tempo sia stata una donna viva a parte l’espressione tesa e l’aria stanca con cui si tiene stretta.

Nanaki ha imparato che gli esseri umani ricordano le cose in maniera diversa da lui, ma i suoi ricordi non sono mai imprecisi. È la discrepanza tra il ricordo che ha di lei e l’immagine del suo fantasma a convincerlo più di ogni altra cosa che noi non siamo veri.

I ricordi di Nanaki consistono principalmente di odori e suoni, non visioni – Sephiroth, per esempio, rientra nell’odore del pericolo – i funghi che ogni tanto mangiavano i suoi compagni umani, indistinguibili dal bene, la fragranza di un limpido cielo azzurro con una tempesta lontana all’orizzonte e della carne congelata prima che diventi nera. Aeris è fresca acqua corrente, è il profumo denso delle foglie e della vegetazione come lo si può annusare solo all’interno dei boschi.

Ma ora è cieco, perché i fantasmi non hanno odore, e al loro passaggio lasciano solo i rumori che desiderano. Percepisce la nostra vicinanza dal prurito ai cuscinetti delle zampe, dal modo in cui i peli gli si rizzano sul collo, dal flebile brusio di voci morte, ma senza il nostro odore il suo mondo è capovolto e incompleto. Il vuoto lo disturba più di quanto avrebbe mai potuto fare un’infezione.

« Fantasma » bisbiglia fra sé e sé, le orecchie appiattite sul cranio, seminando squarci con gli artigli nella terra rossa. « Nonno » sussurra, prima di rendersi conto di averlo detto.

Si alza e va a posizionarsi con risolutezza davanti alla Candela, per scrutare il fuoco, e meditare, e decidere se parlare di noi con i suoi amici, quando anche loro verranno a posare lo sguardo sulla luce.

« Qualsiasi cosa abbiate da fare, fantasmi » dice senza voltarsi. « Vi esorto a concluderla stanotte. »



Ci dividiamo. Come loro, ci riuniremo più tardi, e nell’attesa ci separiamo per andare a visitare luoghi e persone privati.

L’AVALANCHE è come proprietà pubblica – pure gli sconosciuti li possono accostare e dire, ehi, io ti conosco (di fama) – ma i posti in cui andiamo stavolta sono privati e personali. È giusto e sacrosanto che ciascuno rispetti il più possibile la privacy degli altri due.

Credo che Aeris vada negli anfratti del Lifestream a cui noi, io e Seph, non possiamo accedere. Insomma, posti che solo i Cetra possono vedere. Io non ci posso andare perché sono umano, e Seph non ci può andare perché… beh, c’è davvero bisogno che lo dica?

Credo che Sephiroth vada a trovare ciò che rimane di “Madre” (spererei di no, ma sono una persona con i piedi per terra, e io so che Sephiroth è più svitato di un tappo e non è esattamente in grado di distinguere tra “giusto”, “sbagliato”, e “cose in cui crederebbero solo coloro dotati dell’equivalente mentale di un’ameba”).

Io vado dai miei.

Il dolore dei miei genitori è come vino maturo, stagionato per anni, serbato con cura più che altro perché tanto vecchio. Ogni sorso è carico di nostalgia e amarezza; non fa più tanto male da stenderli, come nei primi anni in cui smisi di scrivere, smisi di chiamare, semplicemente smisi. Hanno la bottiglia sempre aperta e a portata di mano, ma la consumano con rammarico.

Gli occhi fermi di mia madre sono posati sul volto di mio padre, notano l’ingrigirsi dei capelli folti, le profonde spaccature che il duro lavoro e le sofferenze gli hanno inciso sul viso. Ha l’aspetto rude e segnato di un lupo; il lutto gli ha strappato via l’imperiosa natura di re.

I lineamenti stanchi di mio padre sono rivolti alle mani di mia madre, irrigidite dai reumatismi, le mani che mi hanno stretto e mi hanno afferrato durante la mia turbolenta infanzia.

Al centro della stanza, io. Tra di loro, il bambino che ero gattona ai loro piedi.

I miei genitori non vedono un salvatore, un uomo o un SOLDIER. Non vedono l’amico del Generale o il compagno d’armi, il flagello al servizio della ShinRa o il migliore amico di nuovi cadetti lontani da casa. No. Loro vedono me. Me come nessun altro. Me.

(Ero il cocco di mamma, la spina nel fianco che non avrebbe tolto per nulla al mondo. Ero l’orgoglio di mio padre, l’esasperazione costante in cui trovava unicamente gioia.

Avevo preteso i loro cuori e loro me li avevano dati con piacere, perché erano i miei genitori e io loro figlio. Li misi da parte perché ero il tipo che pensava di più a se stesso che alla sua famiglia, perché sarei stato un signor SOLDIER – non avrei passato il resto della mia vita a faticare per la stessa piccola, miserabile (soddisfatta) esistenza di mio padre e di suo padre prima di lui e di suo padre prima di loro, fino ad arrivare alla fondazione di Gongaga. No, io facevo sogni in grande e incontenibili, ed ero gonfio di amor proprio.

Ero un bravo ragazzo, un eroe.

Sono (ero, ero) un SOLDIER. Prima Classe. Non diventi un Prima Classe con le buone maniere. Lo diventi stando alle regole del gioco, essendo quello che la ShinRa vuole – una persona che riesce a fare cose pericolose e difficili lasciando la coscienza alla porta.

Però volevo bene a tutti e due. Erano la mia estensione e io mi volevo bene, quindi certo che ne volevo a loro.

Loro riuscivano a vedere persino quello.)

Queste visite fanno male.

Sono lieto che la stiano superando, che possano sopravvivere senza di me… ma allo stesso tempo fa male che ci riescano. Come ogni figlio mi piaceva pensare di essere la luce delle vite dei miei genitori – che senza di me il mondo sarebbe stato un po’ più buio, un po’ più vuoto, per loro.

Forse è perché ho trascorso tanto tempo con persone che danno tutto un nuovo significato alla parola “morboso”, ma vedere queste persone – genitori, i miei genitori – esistere, con semplicità, così calmi, così sereni, mentre le loro vite procedono come prima, quando invece hanno perso qualcuno di importante, è… strano.

—Non ve ne frega niente? chiedo loro, che seduti accanto al fuoco si tengono le mani fiacche e rovinate dal lavoro come in una promessa di eternità.

Eh. Ipocrita, hm?

Beh, mi pare logico. Sono solo umano.



(Io ero un Prima Classe, ero il migliore, e sono caduto, sono caduto prostrato dai proiettili, dalla disperazione e dallo sfinimento. Non avevo imparato ciò che sarebbe stato determinante per la sopravvivenza di Cloud alla mia morte.

Si può mangiare il dolore.

A sette anni, trattenuto da tre bambini del villaggio più grandi e forti di lui, mentre si dimenava come un’anguilla in una rete, il braccio destro immobilizzato e girato dolorosamente dietro la schiena, Cloud ebbe questa rivelazione.

Torsioni. Strattoni. Pressione sulle giunture, le ossa sfregavano ciascuna contro la propria cavità. Il rumore attutito di ossa che raschiavano su ossa sotto i muscoli e la pelle. Gemiti strangolati e sibili di sorpresa, ma non un grido.

Si può mangiare il dolore. Non ti ucciderà.

Un pugno basso sulla spina dorsale, che sprofondava nelle reni, l’aria che veniva espulsa dai polmoni con un rantolo che lo lasciò senza fiato, e pensò nonovoinonpotetecostringermiionongriderò.

Oh sì, si può mangiare il dolore. Il sangue e l’umiliazione ti si coagulano in bocca e schegge di pensieri si infrangono l’un l’altra nella tua testa, ma sopportarlo è possibile.

Li guardò, e li vide domandarsi fin dove avrebbero dovuto spingersi, rendendosi conto che era inutile continuare, perché lui non si sarebbe spezzato, neanche se l’avessero fatto le sue ossa.

Pensò a Tifa, alla curva del suo sorriso e alla luce riflessa dai suoi capelli, pensò ai suoi occhi vivaci e alla sua camminata saltellante; pensò ai cuccioli di lupo che facevano i primi, barcollanti passi fuori dalla tana sulla guglia chiamata oude witte dalla gente di Nibelheim, al divertito disinteresse del membro del branco rimasto a sorvegliarli quando lo accoglievano con fragorose risate sotto forma di guaiti; pensò al tramonto tra le cime della montagna, al bagliore rosa e rossastro e alle venature di glorioso blu e viola sull’orlo inferiore delle nuvole e pensò

(Sopravviverò.)

Ed ecco – eccolo lì, nel momento in cui il braccio raggiunge il limite e si sloga, nel momento che precede lo schioccare delle ossa nel dito, nel momento in cui alzi la testa e mostri al mondo la faccia imbrattata di sangue con un orgoglio perverso negli occhi – è in quel momento che ingoi il dolore in un sol boccone e capisci che non può ucciderti.

Non si muore mangiando dolore. Si muore cercando di sfuggirgli.

A sette anni, Cloud capì che poteva mangiare il dolore e sopravvivere.

Io sono stato costretto a sostenere il più rigoroso regime d’addestramento che la ShinRa avesse da offrire, sono andato in guerra e ne sono uscito vivo, e non ho mai imparato a mangiare il dolore. Non so se questo abbia contribuito a farmi diventare un SOLDIER Prima Classe o meno. Ho imparato ad ignorarlo, ho imparato ad attraversarlo strisciando, e ho imparato a cedergli.

Non ho mai imparato la lezione che Cloud apprese quel giorno d’estate mentre incespicava sulla strada di casa con delle ciocche di capelli strappate e l’occhio sinistro talmente gonfio che non riusciva a tenerlo aperto e tanti lividi diffusi su tutto il corpo come un campo dove nascevano fiori di violenza.

E fu così che rimasi nella mia cazzo di cella di vetro brillante a pregare che Hojo mi lasciasse morire.

Pregavo perché tenesse i suoi neri occhi morti fissi su Cloud, e quando lo faceva, seppur indebolito dal dolore, tra profondi sospiri di ripugnante sollievo, mi veniva da vomitare per quanto ero disgustoso.

(Ovviamente poi mi dicevo di non aver mai avuto pensieri simili. Ovviamente supplicavo e mi offrivo innumerevoli volte al bisturi di Hojo quando toccava a Cloud.)

Lo guardavo, le lacrime che gli scorrevano involontariamente sulla faccia per l’agonia più totale a cui era sottoposto, lo guardavo sputare uno squallido miscuglio di sangue e muco fuso a Mako e ricacciare dentro dolore e furia e combattere anche solo per allargare le costole e immettere aria nei polmoni, e Dio, miei Dei tutti, non avevo mai visto una cosa del genere.

Era come – mai visto un uccellino volare contro una finestra di vetro? A Midgar no, poco ma sicuro, ma una volta a Junon mi è capitato. Il colpo sordo di un soffice corpicino pieno di ossa che va a sbattere a chissà quale velocità contro una barriera solida, seguito dal tonfo più sommesso di quando cade giù.

C’è qualcosa di orribile, nel guardare un uccellino tramortito a terra che agita debolmente le ali come se non sapesse perché sono unite alla sua schiena ed emette patetici cinguettii di smarrimento, c’è un qualcosa di orribile nel guardarlo risollevarsi e tornare in aria per fare dei giri a vuoto, in preda alla confusione e al panico perché non sa più dove stava andando.

Era come guardare un uccellino intrappolato in una gabbia di vetro, che si gettava contro la superficie una volta e poi di nuovo e poi ancora fino al punto che si potevano sentire le ali che cominciavano a spaccarsi, il cric-crac delle ossa che si frantumavano e dei tendini che si logoravano fino a strapparsi.

Lo guardavi che se ne rigava dritto verso il suo obiettivo, e ti rendevi conto con sgomento che non si sarebbe fermato finché non fosse riuscito a uscire, finché non fosse stato libero e in volo, o fino alla sua morte.

E Cloud pensa che l’eroe sia io.)



Questa è la notte. Lo è stata per tutto il giorno. Si raduneranno attorno alla Candela come dei bambini attorno alle fiammelle di un accampamento, in attesa, raccontandosi storie, condividendo risate, scambiandosi sofferenze, togliendosi dei pesi.

È una Riunione per lavare via le brutte connotazioni che la parola aveva assunto. È un raduno e un addio ai fantasmi, un disfarsi di fardelli.

Potrebbe perfino funzionare.

Noi rimaniamo ai margini, al riparo dalla vista percettiva di Red. Sarebbe più facile tornare a vivere che non essere qui. (Pessima scelta di parole – Sephiroth si è dimostrato incredibilmente resistente al richiamo della mortalità). Anche noi stiamo aspettando.

Yuffie è la prima a uscire dall’amata aeronave di Cid, giubilante (e un po’ verdognola), un ampio sorriso in viso e qualche Materia che luccica dai vari nascondigli nei suoi vestiti. Corre da Red con uno strillo di gioia, azionando la sua parlantina.

Marlene, che trotterella dietro Barret che sta discutendo amabilmente con Tifa, porta Cait in braccio.

La presenza di Cid, in ritardo, è annunciata dall’odore di sigarette e da un flusso di imprecazioni, e viene accolta con dei larghi sogghigni e delle bonarie prese in giro.

(Aeris sorride, un bellissimo sorriso materno, dando loro l’unico sostegno concessole. Volteggia tra i suoi amici sfiorandoli uno per uno, scacciando i pensieri di morte e tenebre che Sephiroth porta quando entra nel loro campo visivo tramite ricordi di fiori, di un vestito rosa e di una risata delicata.

Nessuno di loro pensa a me, a parte forse Tifa, di passaggio, ma a me sta bene. Io sono qui per Spikey.)

Un’ora o due dopo, Cloud mette finalmente piede fuori dalle ombre, stringendosi addosso la sua facciata di indifferenza come uno scudo contro le loro amichevoli preoccupazioni.

Non vorrebbe essere qui; si sente perso, odia le cose che loro fanno riaffiorare automaticamente. Ma li raggiunge comunque, allontanando le paure e il suo malessere col solo aiuto della determinazione.

Queste persone lo conoscono; non esiste maschera che possa aderire abbastanza in profondità da nascondere il ragazzo che ha finto di essere un SOLDIER alle persone che sanno già che lui è lì dietro. (È troppo tempo che indossa maschere: se la infila comunque.)

Vincent è l’ultimo. Di recente i suoi incubi sono peggiorati, con l’avvicinarsi dell’anniversario, e si è arrovellato su quanto fosse saggio venire qui, tra persone che li conoscono e potrebbero farli spuntare in superficie senza volerlo.

Ma queste sono le uniche persone con cui possa dividere il silenzio senza che nessuno si aspetti che dia voce a ciò che gli consuma la mente e disturba il suo precario equilibrio, e ultimamente, essere compreso ha acquisito un’attrattiva notevole, anche per un uomo che potrebbe impartire lezioni di asocialità a Sephiroth.

Scivola per ultimo nella luce, il mantello rosso si increspa come acqua a ogni suo movimento, e regala loro un rarissimo sorriso per rassicurare tutti sul fatto che ritrovarsi qui, oggi, è la cosa giusta da fare, a costo di riaprire tantissime ferite o toccare innumerevoli lividi, anche se alcuni di loro preferirebbero di gran lunga scappare dalla storia cui sono stati costretti a prendere parte.

Ciononostante, la conversazione muore, diviene artificiosa, difficile – è tutto molto più facile quando non sono faccia a faccia, e non devono leggersi negli occhi gli effetti di una vita vissuta con il passato.

Alla fine, uno di loro fa una battuta, e l’aria tesissima e le parole vuote svaniscono come se tra loro non ci fossero mai stati degli abissi di esperienza, come se la Meteora non fosse mai caduta e fossero ancora un gruppetto sparuto di persone obbligate a diventare amiche e a viaggiare insieme per salvare il mondo.

Sprofondano nei ricordi, riscoprono i piccoli desideri e i sogni che cullavano e che si stringevano forte al cuore quando sembrava che stessero perdendo tutto. Accumulano vecchie speranze e fantasie e le usano come filo, come fossero un sentiero di molliche di pane per ritrovare la strada in un labirinto di ricordi, fino a tornare alla fragile armonia che avevano raggiunto all’interno del gruppo.

È come tornare a casa, come trovare i pezzi mancanti di un puzzle che non ti eri accorto di aver perso perché la tua mente li aveva automaticamente ricollocati nel quadro generale.

(Noi ci crogioliamo nella loro memoria, assaporiamo il loro dolore, le loro risate, il loro bisogno di ricordare quasi fossero un buon vino. È inebriante, e glorioso, e per un momento siamo quasi di nuovo vivi.)

È profondamente privata, profondamente personale, questa tela che si è intessuta tra di loro. Avrebbe potuto tagliare; avrebbe potuto avere delle catene. Così non è. È la rete di appoggio che finalmente si è risistemata e ha raccolto i trapezisti che vagavano ad alta quota prima che si sfracellassero al suolo; ciò che impedisce a tutti di perdersi in una storia troppo grande per loro.

Non riescono a spiegarlo, e allora preferiscono mostrarlo – un fiocco rosso (in privato, Sephiroth ha sempre considerato un affronto quasi personale che l’oggetto in grado di prevenire gli status negativi dovesse essere un accessorio tanto femminile).

Rappresenta tantissime cose, ha un valore che va oltre le parole, ma Cloud non pensa a nessuna di queste quando se lo lega al braccio, la mente serenamente vuota. (Così stava Fenrir incatenato fino alla fine del mondo, che si è legato volontariamente con nastri di seta, per aspettare eternamente il giorno in cui verrà liberato per divorare il mondo.)

L’infinito avvolto a ogni braccio, tutti i loro legami racchiusi in una fascetta di velluto che già adorano. Cloud dovrebbe conoscerne i rischi più di chiunque altro.

(—Cosa vuoi? chiede Aeris a ognuno di loro, toccando i loro volti, spazzando via l’oscurità. Rispondono tutti a modo loro, vaghe verità che non possono dire ad alta voce per paura che perdano la loro potenza, la loro realtà.

Io voglio essere felice. Io voglio pace. Io voglio la mia libertà. Io voglio lasciarmi il passato alle spalle. Io voglio ricordare. Io voglio dimenticare. Io voglio Io voglio Iovoglio IovoglioIovoglioiovogliovoglio)

Cloud decide di rispondere di persona, usa la Mako e le cellule di Jenova nelle sue vene per scivolare vertiginosamente nel vuoto, segue la spirale dentro di sé fino al centro e si ritrova faccia a faccia con noi nel Verde.

È una pazzia, un’imprudenza, e forse un po’ di responsabilità l’abbiamo pure noi, perché vogliamo, abbiamo bisogno di vederlo, questa notte più che mai. Non lo ricorderà.

Voglio essere perdonato, ci dice senza propria definizione e forma, ancora tremendamente titubante, così insicuro, (—Veramente? chiede Sephiroth) prima che nasca un nuovo giorno e la magia si perda.

(—Anche noi. Lasciaci andare.)

Non posso. Non so come fare.

(—Io potrei perdonarti, dice Sephiroth. —Ma non ti lascerò andare. Mai.

Il suo sorriso è tagliente, gli occhi sono freddi. —Ma questo già lo sai, vero?

Non è una domanda.

Il rumore stremato e soffocato che Cloud si lascia sfuggire gli muore in gola quando Seph lo attira a sé, a noi, dentro di noi, gli stringe le braccia attorno in una grottesca parodia dell’affetto.

Presto o tardi (tardi, spero) si unirà a noi per davvero, e quando quel momento arriverà lo accoglieremo veramente. Ma per adesso, lasciamo che Sephiroth gli ricordi della sua mortalità.

Sephiroth lo stringe come se non sapesse se ferirlo o cullarlo, e allora prova a fare entrambe le cose, e Cloud si contorce tra le sue braccia, negli occhi la paura e la vitalità che li animano solo quando ti credi a un passo dalla morte. Nel nostro mondo è meravigliosamente, gloriosamente vivo, faccia quel che faccia di quell’altra sua vita, incredibilmente vivo, ed è questo che vogliamo più di tutto.

Io voglio proteggere quella vita, voglio essere il suo scudo più di ogni altra cosa, voglio che sia al sicuro. Voglio che continui a respirare, a camminare, e a sognare, e a lottare, perché è mio amico, perché un pezzo di me vive con lui, perché non voglio aver perso la mia battaglia per nulla.

Aeris vuole che viva e ami perché Aeris è questo, perché a volte è più una dea che una ragazza, perché Cloud è il suo cavaliere sul destriero bianco, il suo campione, anche se ha fallito. Vuole che Cloud sia felice, vuole che ci lasci andare più per il suo bene che per il nostro, perché sa che lo stiamo uccidendo lentamente e non avrebbe mai voluto che si comportasse così, che vivesse la sua vita ricordando dei sogni.

Sephiroth, poiché gli è stato insegnato a fare le cose meglio e più in grande di chiunque altro, vuole e desidera come una foresta che va a fuoco, vorace e insaziabile. Vuole ogni respiro che Cloud inspira, vuole scivolargli nella pelle ed espirarli per lui, perché ogni secondo che Cloud respira è un secondo che lui non ha, è un secondo che Cloud gli ha rubato per poter respirare al posto suo.

Cloud prova futilmente a divincolarsi; farebbe prima a combattere contro uno specchio.

Crolla in ginocchio, un’esausta confessione di sconfitta, una tardiva ammissione che la vittoria gli ha prosciugato le forze.

—Lasciatemi andare, sibila insistentemente, prima che i sibili diventino suppliche pietose. —Vi prego.

Non ancora. Non ancora.

—Più vicino, mormora Sephiroth. —Ancora più vicino. Liberami, e bruceremo insieme.)







NdT: a breve posterò l’ultimo :)

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Capitolo 9
*** Stige ***


(Stige) (La promessa)





Nonna – che non era davvero la nonna di Tifa, o la nonna di chicchessia, per quel che ne sapeva lei, bensì una donna saggia, una völva (ogni paese rurale ne ha una: un’anziana che preserva le antiche tradizioni. Gongaga ne ha una. Cosmo Canyon ne ha un’intera tribù) – le spiegò la natura del dolore del lutto quando era una bambina.

Sua madre era morta un anno prima, e non c’era bisogno di essere una donna saggia per leggere sul viso di suo padre che il dolore gli stava risucchiando la vita. Le si era seduta ai piedi e le aveva chiesto perché papà sospirasse tanto, perché le sembrasse che, trasportato alla deriva dalla tristezza, si stesse allontanando da lei.

« Le donne sopravvivono agli uomini » disse Nonna. « Il Padre di Tutto ha voluto così. »

Quelli di Nibelheim sono gli dei del ghiaccio e della neve, divinità crudeli per terre crudeli. (Esistono nove mondi, e il mondo più basso è la terra di Niflheimr, la terra della nebbia (delle nuvole).

Quando Loki concepì Hel, Odino la confinò nel Niflheimr, e le delegò il potere di regnare sui nove mondi, di assegnare dimora a coloro che le venivano mandati, ovvero agli uomini morti di malattia o di vecchiaia…

Grazie al cazzo che poi a Nibelheim sono tutti schizzati, con questo tipo di leggenda dietro l’angolo.

Gongaga era indifferente agli dei, ma imprecavamo più spesso in nome di Shiva e Ifrit – e che bestemmie creative che erano! – e a volte di Titan. È impossibile sentire uno di noi spergiurare sulle fiamme del Múspell e sul sangue che imporpora la lancia di Odino che il ghiaccio ricopra la tua tomba scoperchiata fino al Ragnarok. Brrr.)

Sorrise, il volto segnato da rughe profonde trasfigurato per un attimo dal tipo di comprensione che solo l’età e la saggezza possono conferire.

« Gli uomini come tuo padre non riescono a sopravvivere alle loro donne. Comincerà a vagare senza meta, le cose quotidiane perderanno significato. Si arrenderà, e presto o tardi si spegnerà. » Fece un gesto per allontanare il malocchio. « Il Signore dei Morti verrà a prenderlo. Forse nuoterà al largo dal suo dolore abbastanza a lungo da vederti adulta, ma il tuo papà è uno di quegli uomini che non riescono a sopravvivere alla morte della propria moglie. »

« Ma- »

« Non essere triste. È solo il corso delle cose, cara. » Scrollò le spalle sottili ammantate dallo scialle pesante.

Solo il corso delle cose, cara. (Non troverete mai persone più crude e insensibili di quelle che vivono all’ombra del Nibel.)

All’epoca Tifa la odiò, ma adesso inizia a capire.

(E poi che avete da ridire, Nonna aveva ragione. Suo padre non ha vissuto a lungo. Certo, strada facendo è stato aiutato da una lama affilata, ma il naturale ordine delle cose non presta molta attenzione ai particolari.

E chi può dire che magari non sia stato un atto di suicidio assistito mosso dal dolore? Quanto spesso pensate che capiti che il Sindaco di una qualunque città entri in un Reattore Mako, anche quando non vi si nasconde dentro un pazzoide con una spada di due metri?)

Era questo che intendeva: solo i deboli si ammalano e muoiono, crogiolandosi nel dolore. Tifa non è debole. E neanche Cloud, a dispetto dei suoi sforzi per convincersi del contrario.

È questo il corso delle cose: la vita è fatta per i vivi, non per i morti. Lasciate i morti sotto terra o come cenere al vento, come preferite. Ricordateli, se volete, dimenticateli, se dovete, ma vivete, vivete, vivete – non andateli a cercare nelle ombre e nei frammenti di memoria.

La madre di Cloud lo diceva sempre. (Marmocchio irriconoscente che non sei altro, Cloudy, avresti dovuto ascoltare la mamma; sapeva il fatto suo.

—Una Madre lo sa, hmm? Sephiroth scoppia a ridere fortissimo, senza inibizioni.

Esisteranno persone familiari quanto me a quel terrore che serpeggia alla bocca dello stomaco? —Io non – non intendevo-

-provateci voi a discutere con lui.

Merda. Merda. Merda!

Aeris mi abbraccia con delicatezza, come se potessi rompermi. È una panacea, vi giuro.

Sephiroth ci degna solo di un’occhiataccia, uno sguardo risentito, quasi amaro. È lo sguardo di un bambino, un’espressione di bimbo che dice: voglio quello che avete voi.

Non mi è mai mancato tanto il mio amico come in questo momento.)

Quando io sono morto – quando mi sono ritrovato qui invece che – oh, insomma. Quando capii che ero legato a Cloud per il resto della sua vita, quando capii ciò che aveva fatto, ciò che avevo fatto-

È stata una mia scelta. Di questo non ho mai dubitato nemmeno per un secondo. Però io – non puoi perdere tutto ciò che eri senza sentire-

Dolore. Sì, è questo il termine giusto. Proprio come diceva Nonna. Sentii il dolore mozzarmi il fiato; lo sentii serrare i denti su di me come le mascelle di un cane nero alla gola. Ero morto. Io, il prodigio, il SOLDIER, l’immortale. Gridai, piansi, m’infuriai.

(Io avrei dovuto vivere! Io, io, io, IO! Come osi rubarmi tutto questo!)

Avevo visto tantissime persone morire – nemici, amici, alleati – e quella fu la prima volta che conobbi veramente il dolore della morte.

Guardo continuamente Cloud e vedo il dolore in ogni suo movimento, lo percepisco in ogni suo respiro, e vorrei poter essere fulminato dall’ipocrisia quando gli chiedo se nessuno gli ha mai detto che dopo un po’ le cose si lasciano andare.

(—Smettila, bisbigliai una notte di tanto tempo fa. —Lasciaci andare. Non ce l’avremo con te.

Anche mentre lo dicevo desiderai non averlo fatto, desiderai di essere a chilometri di distanza, dall’altra parte di questo maledetto mondo invece che lì accanto a Cloud, che aggrottò lievemente la fronte nei suoi sogni lontani con Tifa raggomitolata al suo fianco.

Senza Cloud, come staremmo noi? Senza Cloud, cosa diventeremmo e dove andremmo? Senza Cloud noi non abbiamo significato, né scopo, e senza di noi, cosa ne sarebbe di lui, come potremmo essere certi che stia bene?

È un segreto, ma ci piace, il bisogno che ha di noi. È un segreto, ma vogliamo continuare a essere il sole e la luna e le stelle della sua vita. O forse non è un gran segreto, nel caso di Sephiroth, che preferirebbe che Cloud non pensi mai a qualcosa che non sia lui.)

Mi sbagliavo, ho mentito davanti alla Candela, io sono capace di dire addio alla vita tanto quanto Seph. Ma un giorno potrò, così come potrà Cloud, e questo pensiero mi consola.

Vedete:

Amai amo amerò. Il tempo si schiude e si piega, il tempo ti racchiude nel suo abbraccio. Raggiunge la sua fine, e ti prende, ti dà un bacio di addiobenvenuto, ti avvolge fino a farti tornare a esistere. Nulla finisce davvero. Semplicemente gira e gira, e per alcuni questa è la consolazione, e per altri questa è la tragedia.

Per noi, è così e basta. Impari ad accettare, impari a lasciare andare, impari a lasciar passare il tempo, a permettergli di riempirti invece di provare tu a riempirlo.

E un giorno, apri gli occhi e puoi pensare alla morte (la tua o quella degli altri, non importa) senza dolore. È questo il momento che sto aspettando. Sarà il momento in cui riuscirò finalmente a comprendere, e se io posso comprendere, può anche Cloud.

Visto? Persino nel mio egoismo so essere altruista.



« Vieni, ora. Torna a casa con noi » dice Tifa.

Quando smetterai di fidarti dell’istinto di scappare? Quando accetterai il fatto che non ti sentirai mai a casa, ovunque tu vada? Quand’è che ti costringi a restare e basta?

(Qui. Adesso.)

Per metà è sveglio, per metà sogna; il mondo è una vertiginosa combinazione di cose che sa essere reali, e cose che sa essere ancora più reali.

Lentamente, lentamente, ci arriveremo.

Alza gli occhi dalla fiamma, annuisce e la segue docilmente, mansueto. I nostri sussurri si fanno sempre più fiochi alle sue orecchie. Resterà.

(Questa presenza non è per sempre, dice il lupo al suo orecchio.)



La notte dopo l’Anniversario scivoliamo nei suoi sogni. Non è per dire addio. Quella parola qui non esiste. C’è “arrivederci”, c’è “a dopo”, c’è di tutto e di più tranne che addio, perché questa non è la fine, non lo è mai stata.

—Non sarà sempre così, gli sussurro. —Prima o poi imparerai ad essere normale, oppure imparerai a far finta di esserlo, e forse col tempo non farà più tanto male, guardarti. Un giorno tutto questo non sarà nulla di che. Sarà solo una cosa che è successa, tanto tempo fa, e non ci sarà dolore, solo rassegnazione. Col tempo sistemeremo tutto. Okay?

Pazienta e sopporta; un giorno questo dolore ti sarà utile. Lentamente, lentamente, ci arriveremo.

Non credo che Cloud lo ricorderà, ma si volta automaticamente verso Seph, come un bambino che cerca l’approvazione del genitore. Lui reclina il capo all’indietro, e Cloud quasi trasalisce per la delusione che gli intravede negli occhi (fino a non molto tempo fa Seph era il suo idolo; un poco brucia ancora, tocca i nervi senza più sensibilità dell’adorazione dell’eroe).

—Sei più forte di così, lo ammonisce, la voce che trasuda disapprovazione, nello stesso tono che usava con i nuovi SOLDIER, severo e ostile, e se non ti faceva venir voglia di essere degno della sua approvazione, potevi pure essere il SOLDIER più bravo del mondo, ma eri nell’esercito sbagliato.

—Sai fare di meglio. La sua voce è seta e acciaio, acido e neve, divora gli scudi che Cloud si è costruito con i pezzi di me e arriva dritta al ragazzino che voleva essere un eroe e che tra beffe, incoraggiamenti, convincimenti e pretese è partito e si è messo alla prova.

E ovviamente, Cloud farà del suo meglio. È quasi rivoltante che Sephiroth riesca ancora a suscitare in lui risposte tanto profonde.

Riesco quasi a vedere i fili invisibili della comunicazione non verbale che intercorre tra di loro, ora che si scambiano uno sguardo.

Perché non potevo avere degli amici normali? Amici normali che non diventano nemici mortali e non sentono il bisogno di infilzarsi periodicamente a vicenda? O che conoscono la mente dell’altro così bene da non aver bisogno di parole per discutere?

Pff. Ma non sarebbero divertenti nemmeno la metà.

—La prossima volta che ci rivedremo, avverte Seph ad alta voce per noi poveri mortali che non abbiamo bizzarri rapporti in cui ci si scanna reciprocamente la testa, e non abbiamo pertanto idea di come si condividano i pensieri. —Faresti meglio ad essere più forte. Non spreco il mio tempo con i fallimenti.

Quando Sephiroth era il mio capo e non totalmente fuori di testa, parlava all’incirca così. Con la differenza che all’epoca non aveva capito come mirare alla giugulare emotiva, essendo completamente indifferente ai molesti sentimenti umani altrui; non riusciva mai a spiegarsi come delle semplici parole potessero provocare pianti e scatti di collera incoerenti ad alcuni dei suoi SOLDIER migliori.

Adesso colpisce dritto alla gola senza un battito di ciglia che sia uno. La frecciata verbale affonda in profondità. E anche di più. Abbatte un muro di metallo.

Fallimento. Non è giusto che una parola possa avere tanti significati.

… Lo strangolerei all’istante, se non fosse che a ogni secondo non so mai se sia dell’umore di assecondarmi o decapitarmi. Ha una qualche idea del male che sta facendo?

Sì che ce l’ha, dal divertito orgoglio con cui osserva il contrarsi dei lineamenti di Cloud.

—Perché non mi lasci in pace? chiede lui, ora sarcastico, come se fossero vecchi amici che si incontrano, invece che cattivo/buono burattinaio/burattino dio/ex discepolo. (Okay, l’“ex” dell’ultima designazione ogni tanto va in forse; voi non fate domande in proposito e io non vi darò risposte che non vi aggradano, intesi?

Sapete una cosa? Quando lo vedo sorridere così capisco perché tutti abbiano rinunciato a definire il loro marchio speciale di follia. Non si può, è impossibile, come un Palmer senza lardo nel suo tè, o un Vincent che invita un clown ad allietare le sue serate vittimistiche, o un Hojo che chiude con la scienza e con i capelli unti. Non si può fare e basta.

A volte penso che Cloud sia pazzo quanto Seph quando a quest’ultimo gira male. Anzi, rettifica: lo so che è così.)

—È davvero questo che vuoi? ribatte Sephiroth, accennando uno di quei sorrisi saccenti che irritava pesantemente tutti quanti durante le riunioni.

—Sarebbe… Si ferma, prova a trovare le parole per quello che vuole dire. Quando cerca di parlare, le sillabe vengono fuori esitanti e fiacche – non è mai stato molto bravo nello scontro verbale con Seph; le loro dispute sono sempre state fisiche, sono fatte per essere fisiche, per risolversi in una questione di forza sulle braccia che reggono le spade, di abilità con la lama, di velocità e grazia che riescono a spremere dai corpi spossati – a loro piace combattere così, è più facile.

—Sarebbe davvero possibile?

Sephiroth sogghigna, lo spintona via, nel mondo dei vivi che ha abbandonato per parlare con noi (si sveglierà, ma non urlerà).

—Non credo, risponde, pragmatico, guardandolo svanire (la televisione prende malissimo da queste parti). —Ma prima o poi lo scopriremo, no?

Sì. Lo scopriremo.

Lentamente, lentamente, ci arriveremo, disse. Sì, è difficile. Sì, è doloroso. Ma ciò che non può essere rimosso lo alleggerisce il tempo. Non siamo perduti.



Nella chiesa c’è un nuovo biglietto, risalente a un giorno fa, che nessuno vedrà mai. Si annida al centro del letto di fiori, che nessuno calpesterà per timore di disturbare il suolo sacro.

È stato vergato con cura; il messaggio e la calligrafia sono stati limati alla perfezione perché non deturpino in nessun modo l’emozione che racchiudono, anche se presto o tardi il tempo e la pioggia faranno sbiadire e sbavare l’inchiostro.

Sopra c’è scritto: “Pensavo avessi detto ‘tornerò’?”



È finita così:
C’è un ragazzo. Un tipetto pallido e smunto, con gli occhi taglienti come vetro rotto, eppure il sopravvissuto è lui. È stato battuto, rotto, rimodellato e rinforzato dall’inarrestabile martello del dio, al punto da riuscire a uccidere il dio. Adesso è vuoto, un guscio in cui riversare sogni, ma va bene così, perché questa è la fine, e chi ha bisogno degli eroi dopo che è calato il sipario?

O forse finirà così:
C’è un uomo. Sta morendo, di una monte lenta ma terribilmente certa, di una malattia che non ha cura, o quantomeno, non ha cure che il Pianeta sia disposto a offrire. Ha ventidue, ventitré anni, e ha già compiuto l’impresa più grande della sua vita. Avvizzisce, si ripiega su se stesso e scompare, come tutti i vecchi eroi, e quando un giorno il Pianeta urlerà non ci sarà più nessuno a rispondergli.

C’è un breve spasmo che dura una manciata di secondi, ed è così che finisce il mondo, non con un grido, e nemmeno con un lamento, ma con un sospiro.

(—Oh, mormora Aeris. —Oh no.

Sephiroth ci rivolge pigramente un sorriso. —A te piace dire le cose con i fiori. Il bagliore nei suoi occhi è quello della Mako, non della ragione. —Prendi, dice, e le getta un bouquet all’indietro mentre si allontana.

Rose bianche e convolvolo, cordoglio e speranza infranta. Se avesse potuto dar fuoco ai campi di fiori, l’avrebbe fatto.

Elementare aritmetica. Jenova + Vestigia di Sephiroth = …?)

Ho mentito. Una via di scampo c’è.



(—Promettimi che lo farai, disse Sephiroth, seduto al pozzo al centro di Nibelheim, mentre beveva lunghi sorsi alla sorgente della disperazione, dalle acque di ghiaccio e veleno. —Promettimi che non cederai. Promettimi che non lascerai che accada mai più. Promettimi che mi ucciderai.

—Promettimelo.
)

Come un idiota, Cloud promise.







NdA: 1) Tutto questo casino di storia è quello che a quanto pare succede quando ascolto Enya a ripetizione. *le lancia un’occhiata stranita*

2) Questo è quanto Sephiroth ha fatto per buona parte della fic:

Sephiroth: *fissa Cloud* (forse progetta di ucciderlo; più semplicemente potrebbe essere irritato dal fatto che un individuo così insulso l’abbia ucciso)
Cloud: *angsta, si deprime, e altri sinonimi per “essere di una noia mortale”*
Sephiroth: *lo fissa*
Cloud: *comincia a preoccuparsi*
Sephiroth: *lo fiiiiiissaaaa*
Cloud: *fa per nascondersi sotto il letto… Ma ce l’ha il letto? Diciamo di sì.*
Sephiroth: *gli lancia sassi, penne, spade e freddure sagaci*

NdT: Ma cosa…? xD
Ovviamente, clouds = nuvole. E “remnant”, qui tradotto come “vestigia”, è il termine solitamente usato per indicare i tre bambocci con i capelli d’argento di voi sapete cosa.

Quesito più che lecito e che mi sono realmente posta all’epoca della prima lettura: che Advent Children in realtà (gasp gasp) AVESSE UN SENSO PROFONDO? Che fosse in realtà l’ultima, definitiva, totale, sensata catarsi di Cloud, la cui involuzione non era che la logica conseguenza di una somma di fattori e frutto di due anni di sofferto, comprensibile pellegrinare? Che la presenza in AC del fantasmino non solo di Aeris, ma anche di Zack, che nel migliore dei casi avrebbe dovuto essere l’aculeo di un cactus da più di due anni, non fosse un plot-hole grande quanto una casa, ma fosse anzi una scelta coerente, sfaccettata, pregna di significato, oculata, ponder- sì, vabbè, ciao. xD
Advent Children resta una boiata di proporzioni epiche e nessuna storia o essay di questo mondo potranno mai convincermi che Sephiroth fosse così concentrato su Cloud nel gioco originale e abbia addirittura cercato di aiutarlo più o meno consapevolmente a superare i suoi traumi. Anche se è un’idea a cui non posso negare il suo fascino.
STILL. Come avevo detto all’inizio, posso non essere d’accordo, ma non posso non apprezzare un parere articolato espresso con tanta bravura.

TRA L’ALTRO! *rullo di tamburi* La traduzione italiana, che consta di ben 87 pagine (uh, uh! Parlando con Silver ho scoperto che in realtà la leggera differenza tra il primo capitolo e gli altri si deve al fatto che in origine questa storia doveva essere pubblicata come one-shot. PFFFF-), non ha neanche ecceduto particolarmente nel numero di parole, nel senso che il testo italiano ha solo un tremila parole in più del testo inglese – ovvero meno del 10%! ;O;
*viene freddata dalla condivisibile indifferenza generale*
(Per chi se lo stesse chiedendo: no, non controllo sempre la differenza di parole e le percentuali. Giuro. Di solito non so neanche quante pagine sto traducendo/ho tradotto perché uso un programmino leggerissimo. Lo faccio solo con le long-fic per curiosità, specie se mi ci sono impegnata. Go Not Gently per esempio mi è venuta un po’ troppo più lunga… ;_;)

La cosa divertente è che io per anni ho conosciuto Silver Pard (che, ve lo garantisco, oltre ad avere talento è anche incredibilmente umile e sinceramente modesta, e alla mia richiesta di tradurre Eidolon ha risposto all’incirca così: “… Eidolon? Ma sei sicura? Cioè, no, tipo, okay, prego. … Ma proprio Eidolon? Guarda che ho scritto anche cosine leggibili – però fai tu ;o;”) per quella che è probabilmente la storia demenziale più famosa della sezione, ovvero Why Waist Lenght? (letteralmente: Perché [i capelli] fino alla vita?), che comincia con Sephiroth che cede alle lusinghe di Jenova perché lei gli promette un paio di forbici per tagliarsi i capelli o qualcosa di altrettanto assurdo e finisce col tempo per analizzare scherzosamente – ma sempre acutamente – il gioco. Non l’ho letta tutta, ma un giorno la tradurrò per partito preso.
Però, ecco, un po’ mi fa strano pensare che anni dopo l’ho ritrovata con questa notevolissima storia. O forse no.

Considerazioni random a parte (e mi sono contenuta), spero che il viaggio lungo e tortuoso vi sia piaciuto e che magari vi abbia lasciato qualcosa. Di sicuro non ho mai scritto note più lunghe in vita mia, e vuol dire tanto xD
Ringrazio un’ultima volta i recensori (in particolare alister che si è addirittura sorbita più volte lo spezzone del combattimento per riferirmi le traduzioni esatte – santa subito.) e la mia carissima beta, Bakabeans, celere e paziente come al solito. Perché le acque sono appagate e tu lo sai.

Till next time (e stavolta lasciamo passare un po’, dai. /ultime parole famose),

youffie

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