I tuoi occhi non mentono

di franziphan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Premessa ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***



Capitolo 1
*** Premessa ***


Vi è mai capitato di pensare di poter vedere la vostra vita attraverso gli occhi di qualcun altro, non come retoricamente si dice per osservare la propria esistenza da un’angolazione distante e non coinvolta sentimentalmente. Il modo di cui parlo io è quello reale, attraverso occhi che non sono i tuoi, perché tu non riesci a vederla da te. Capirete di cosa sto parlando, lo capirete presto.

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


Era una domenica pomeriggio, di quelle assolate che puoi sentire bruciare la pelle sotto i potenti raggi di quella palla infuocata che ci galleggia felice sulle teste ogni giorno. Era l’estate di luglio ed io ero seduto sulla mia poltrona preferita. Aveva tutto addosso l’odore di mia madre, per questo mi piaceva tanto. Era la poltrona dove ci sedevamo quando ero più piccolo e mi leggeva le favole per farmi calmare o semplicemente addormentare.
Io su quella poltrona mi sono fatto molti viaggi assurdi, accoccolato fra le braccia di mia madre. Vedevo castelli grandi come grattacieli a mille piani, principi nobili ed incantevoli principesse dai capelli di zucchero filato. Assurdo lo so, ma io ho continuato a vivere in quel mondo per più tempo rispetto agli altri bambini. Io avevo una mamma buona e premurosa, alle volte troppo chioccia, ma sono felice di averla avuta così.
Riesco ancora a sentire il profumo delle polverose pagine ruvide sulle quali mia madre leggeva con passione ed amore le fiabe più belle che siano mai state scritte. Un odore che non posso dimenticare, come quello di mia madre. La sento arrivare da lontano. La sento sempre, anche mentre dormo.
Ero seduto comodo con i piedi ciondolanti abbracciando il cuscino e godendomi il sole che si infrangeva sulle mie gambe scoperte dal pantaloncino blu. Non avevo voglia di fare nulla. Me ne stavo tranquillo nel silenzio della casa, i miei dormivano.
La luce quasi accecante che entrava dalla grande finestra nel soggiorno ed ai miei piedi, accoccolato al sole c’era Frank, come Frank Sinatra autore che mia madre adorava e con il quale sono cresciuto. Frank era il mio Border Collie di appena sette anni. Eravamo inseparabili noi due, mia madre lo lasciava dormire sul mio letto ed io mi sentivo sempre coccolato, come se avessi un fratello ma di quelli che non parlano. Uno di quelli muti, ma che sanno tanto amare.
Sentivo Frank respirare a fondo mentre dormiva e mi proteggeva da chissà quale pericolo potessi incontrare stando seduto su quella comoda poltrona rosso bordeaux. Era un pomeriggio statico in attesa che mia madre si svegliasse ed andassimo fuori a fare una passeggiata. Non avevo molti amici ad essere sincero, ero piuttosto solitario come ragazzo anche perché studiavo in casa e non al liceo della città.
Erano rare le occasioni nelle quali potevo interagire con dei ragazzi della mia età ed in quelle rare occasioni mi sentivo un po’ in imbarazzo a parlare con le femmine. Non ci ero abituato e non sapevo come si facesse. Non avevo mai avuto una ragazza anche se non ne sentivo il bisogno, avrei trovato l’amore della mia vita, diceva mamma, ma più avanti di sicuro.
Attesi con gli occhi socchiusi, non riuscivo a vedere altro che luce ed i contorni delle cose erano sfumati all’interno di quel bagliore che rendeva tutto candido e soffice come il manto di Frank. Amavo quel bagliore caldo che entrava beffardo dalla finestra e mi scaldava le cosce. Un sorriso spontaneo si stendeva sulle mie labbra e le gote si tingevano un poco di rosso. Gli occhi socchiusi ad attendere il risveglio.

Mia madre scese le scale, la sentii che era ancora di sopra aprire la porta della sua camera e scendere in pantofole lisce per non rovinare il parquet. Non faceva rumore, ma la sentivo ugualmente avvicinarsi ogni gradino di più. Frank drizzò le orecchie ed il capo, sfiorò con il suo pelo la mia gamba ed il solletico che mi provocò il suo gesto mi fece fare una piccola risatina che conclusi con una carezza sporgendo la mano in basso verso di lui fino a raggiungerne la testa e arruffargliela un poco.
<< Buongiorno mamma. >>
La salutai una volta arrivata sotto l’arcata che divideva l’entrata con le scale dal soggiorno dove mi stavo riposando.
<< Buongiorno Aaron. >>
Mi rispose con un sorriso che potevo leggere anche ad occhi semichiusi. Non aveva segreti per me, era mia madre. Non avevo segreti per lei, era mia madre.
Scesi dalla poltrona seguendola mentre si dirigeva verso la cucina per farsi un caffè e svegliare i suoi occhi pigri colpiti a tradimento dai dispettosi raggi del sole che filtravano dalla grande finestra in salotto. Frank mi seguiva come suo solito ed io lo potevo sentire strusciare il pelo contro di me, mi seguiva sempre.
Ecco il profumo della polvere scura nella caffettiera che sprigionava assieme all’acqua bollente quell’aroma amaro e pungente nell’aria della piccola stanza color vaniglia e rame. Poi seguiva il borbottio di quella caffettiera dispotica e frettolosa che, come se le disgustasse l’odore del suo denso contenuto, brontolava parole incomprensibili bagnate di caffè. Darleen, così aveva nome mia madre, prese quella bisbetica brontolona dal fornello e la liberò dai suoi affanni facendo scivolare il cremoso contenuto in una tazzina bianca senza decori, semplice come era lei. Versò un paio di cucchiaini di zucchero e la posò sul tavolino in marmo. Io adoravo mescolarle il caffè mentre lei lavava la caffettiera sotto l’acqua del rubinetto e la posava in alto a scolare assieme ai piatti. A Frank il caffè non piaceva molto, l’aroma lo faceva starnutire di tanto in tanto ed io ogni volta ridevo. Mi presi la libertà di tenermi il cucchiaino con il quale avevo girato la bevanda nella tazzina. Non piaceva neppure a me il caffè, ma mi ostinavo tutte le volte ad assaggiarlo tramite le gocce che restano sull’utensile ed ogni volta facevo la stessa smorfia di disapprovazione per il gusto amaro di quello che invece a mia madre piaceva tanto.
Mise anche la tazzina a bagno e poi accanto alla caffettiera per avvicinarsi e darmi un bacio sulla testa spostando un poco i capelli che subito rimisi a posto. Detestavo quando mi scompigliava i capelli anche se avrei sicuramente rinunciato ad averli perfetti per avere un altro suo gesto di tenero affetto spontaneo come quello.
Mise le scarpe e mentre si preparava io e Frank l’attendevamo già davanti alla porta. Misi il collare al mio fedele amico e mi accucciai a terra per coccolarlo sotto il mento dove più era sensibile.
Una volta pronta mia madre mi aiutò ad alzarmi e quando aprì la porta venni investito di sole. I suoi raggi mi colpivano il viso e faticavo a tenere gli occhi aperti o sarei stato abbagliato di luce candida come quella che entrava dalla finestra, ma questa volta moltiplicata per mille.
Piano piano i miei occhi si abituarono all’esplosione di luce alla quale ero appena stato sottoposto come ad un trauma inaspettato, i contorni delle cose non li potevo distinguere. Tutto era luce più o meno candida. La mano di mia madre sulla schiena e Frank che mi guidava fuori dal viottolo di casa che sentivo pieno di fiori colorati e dalle dolci fragranze che alzavano all’aria fieri.
Ero un ragazzo diciassettenne cieco dalla nascita mentre con la madre ed il cane guida faceva la sua quotidiana passeggiata nel verde del parchetto nella zona rispettabile della città. Ero un ragazzo diciassettenne cieco dalla nascita con una patologia della quale non mi ero mai sprecato ad imparare il nome, ma che intaccava gli organi dei miei occhi tanto che non mi permetteva di vedere quasi nulla. I miei occhi aperti al mondo vedevano solo luce e pochissimi colori intrisi di bianco candore. Non avrei distinto mia madre da mille persone se non fosse per gli altri sensi, a dire il vero non avrei distinto una persona da qualsiasi altra cosa se non per gli altri sensi. I miei occhi, che possedevano iridi così chiare da sembrare schegge di vetro, si muovevano di tanto in tanto seguendo i rumori o gli odori, ma non potevano vedere nulla. Solo la luce o il buio. Eppure io stavo bene così, non mi mancava nulla, perché ancora non sapevo cosa significasse poter vedere.

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Capitolo 3
*** Capitolo II ***


Nuovi vicini significava cesto di benvenuto ed inutili convenevoli da cortile. Mia madre li adorava. Magari avrebbe potuto arruolare la nuova vicina nell’annuale gara di torte o magari sarebbe stata un nuovo elemento per il club del libro. Il padre sarebbe sicuramente stato un uomo d’affari con le mani in pasta un po’ ovunque come il mio, patito di uno qualsiasi degli sport nazionali, nato già con la cravatta. Si sarebbero trovati benissimo a parlare. Per quanto riguardava me era bene che mi facessi poche illusioni. Potrebbero aver avuto figli piccoli o magari delle bambine impegnate a fare la messa in piega alle bambole – e certo non avevo intenzione di finire nelle loro grinfie - o nella peggio ipotesi non averne nemmeno uno.
Darleen stava mettendo qualche frutto e qualche biscotto che nella mattinata aveva preparato nella cesta mentre da qualche giorno a questa parte nella casa di fronte si scaricavano e spostavano mobili.
Quella casa aveva da sempre avuto come proprietari due anziani signori che avevo imparato a considerare come parte della famiglia. Una specie di terzo nonno e nonna avendo i genitori di mio padre lontani. La signora Preecott mi aveva sempre trattato come il nipote che non aveva mai potuto avere essendo suo figlio padre di due splendide bambine, ormai donne. A me aveva passato i giocattoli e quant’altro smesso di suo figlio e le torte per il mio compleanno erano da sempre opera sua. Il signor Preecott invece mi incantava sempre con qualche bizzarro racconto di guerra o di vita nei campi, quelli della sua zona. Dei giochi che faceva da bambino solo con l’ausilio di una canna di fiume e tanta fantasia. Forse un po’ di quella fantasia me l’aveva passata infondo. Da un anno però la casa aveva perso lucentezza e vigore essendo venuto a mancare il vecchio Roger. Il figlio della coppia aveva già da una settimana impacchettato le ultime cose per portare la donna ormai non più tanto capace di vivere da sola in un appartamento poco distante dal suo per permetterle anche di vedere più spesso le nipoti.
Ovviamente avevamo organizzato una grande festa e non ci saremmo certo dimenticati di quella coppia felice che da anni aveva sparso consigli di cucina e di matrimonio a tutto il quartiere.
E tra la nostalgia per i vicini passati e l’eccitazione per i vicini futuri si sentivano le voci degli operai e della signora Jones – ormai avevo imparato il nome con tutte le volte in cui i manovali si erano rivolti alla donna per conoscere la posizione giusta dove appoggiare una volta la credenza e l’altra il mobiletto a cassetti – che dirigeva i lavori come una vera e propria vigilessa del traffico.
Il marito era partito più o meno mezz’ora prima di mio padre, ora nella quale avevo lasciato il calore del mio letto per approdare nel bagno e traumatizzare il mio viso con acqua e sapone.

Mancava solo una bottiglia di vino rosso per bagnare le labbra con i biscotti di mandorle e la cesta sarebbe stata pronta. Frank fiutò nell’aria l’insolita festa che mia madre faceva per l’evento mettendosi a scodinzolare a tirare verso la porta con in bocca il collare. Fui costretto ad assecondarlo aspettando dunque mia madre fuori mentre quella si sistemava ancora una volta i capelli prima di definitivamente portare il suo entusiasmo sul campanello di casa Jones. Ne comparve una giovane donna dal profumo leggero ed i modi molto gentili nonostante il fatto che trovasse opportuno mimare molte delle parole che pronunciava con le mani. Ci invitò ad entrare ed accomodarci nel salotto appena allestito che ci confessò non ancora terminato. Da amante degli oggettini inutili quanto era mia madre, quella stanza le parve un angolo di paradiso. Le lasciai chiacchierare sui componenti del quartiere andandomene come indirizzato da Chloe, la padrona di casa, a vagare per l’abitazione in cerca della figlia Cora. Non sapevo esattamente cosa aspettarmi e soprattutto come comportarmi visto che con i miei studi a casa erano mesi che non parlavo seriamente con qualcuno non di famiglia.
Arrivai in giardino guidato da Frank, dal rumore di una paletta e l’odore del terriccio fresco.
<< Dannazione, perché non stai dritta? >>
Una ragazza, più o meno della mia età a sentire dalla voce. Mi avvicinai senza volerla spaventare.
<< Ciao. >>
Mi limitai a dire mostrando un sorriso imbarazzato ed alzando un poco la mano.
<< Ciao. Tu devi essere il nostro nuovo vicino immagino? >>
Aveva una voce sottile e delicata, ma a differenza del sottoscritto mi parve sicuramente molto più estroversa.
<< Tecnicamente siete voi i nuovi in questo quartiere. >>
Incalzai puntualizzando al mio solito. Rise un poco alla mia semplice battuta alzandosi ed avvicinandosi a me prima di rispondere.
<< Hai ragione in effetti, ma che maleducata, non mi sono neppure presentata. Mi chiamo Cora. >>
Sorrisi e mi limitai ad inclinare un poco la testa in segno di saluto cortese. Probabilmente lei aveva mostrato la mano in segno di altrettanta cortesia, ma per ovvie ragioni lo capii solo dalla sua seguente affermazione che non mi lasciò neppure terminare la mia presentazione.
<< Non si usa dare la mano qui? >>
Domandò frettolosamente e con un po’ di imbarazzo nella voce, come se avesse fatto una gaffe. Probabilmente aveva ritirato la mano non vedendo la mia.
<< Solitamente si, se solo fossi in grado di vederla. >>
Rimase un attimo interdetta cercando di interpretare quelle mie parole. In effetti non ero stato molto esplicito a riguardo, ma doveva essere una ragazza sveglia perché in meno di un secondo realizzò ed il dubbio lasciò il posto al vero imbarazzo. Iniziò con lo schiarirsi la voce piano e deglutire, poi una serie di suoni come balbettii di chi non ha parole per rispondere.
Nonostante sentire la gente imbarazzata per me mi facesse ridere alquanto sotto i baffi, non me la sentii di tenerla ancora in stallo a quel modo e mi mossi per toglierla d’impiccio.
<< Non ti preoccupare Cora, non ne faccio una malattia e tu non hai fatto nulla di male. Quasi se ne scorda mia madre. >>
Le sorrisi il più grande possibile.
<< Comunque io sono Aaron. >>
Porsi la mia mano aspettando la sua e con quel gesto non solo fare amicizia, ma suggellare anche una specie di pace cancella gaffe. Colse il mio gesto. Le sue mani erano ruvide di farina nonostante le avesse sbattute una volta tolti i guanti da lavoro.
<< C’è qualcosa che vorresti chiedermi? >>
Non potevo vedere ma sentivo molto più del dovuto. Come il suo sguardo perplesso e colmo di perché che mi fissava gli occhi vitrei che madre natura aveva deciso di darmi. Nella sua voce un chiaro segno di indecisione mi portò ad esortarla a non avere paura di chiedere. Per me non era affatto un problema. Ero abituato anche alle domande più indiscrete ormai, non sarebbe stata ne la prima ne l’ultima.
<< Se non sono troppo indiscreta. Beh, come fai a muoverti senza sbattere contro a tutto? A me succede anche se ci vedo benissimo. >>
Ecco che tornava la piccola giardiniera dal carattere estroverso che avevo conosciuto pocanzi.
<< Frank è molto utile in questo.. >>
Sentendosi chiamato in causa, l’animale ci si affiancò annusando la ragazza.
<<..poi i miei sensi sono molto più sensibili rispetto a quelli dei ragazzi comuni. >>
Primo ostacolo superato, avanti la seconda domanda.
<< Ma non riesci a vedere proprio nulla? >>
Domandò ancora muovendomi piano una mano davanti al viso. Potevo chiaramente vedere l’ombra passare a destra a sinistra del mio naso senza contare l’aria ed il suono che questa faceva passando fra le dita che teneva aperte.
<< Non esattamente. >>
Le dissi sorprendendola alquanto quando con uno scatto le presi il polso senza stringerlo e fermando il movimento del suo braccio riportandolo verso il basso.
<< Vedo le ombre e le luci. Qualche colore riesco anche a distinguerlo dalla massa informe delle cose, ma di certo non posso ne leggere ne godermi una pellicola al cinema. >>
Le spiegai sempre mostrandomi a mio agio sia con lei che con la mia condizione.
<< Fidati, ci sono dei film alle volte che è meglio non vedere. >>
Provò a rompere la tensione che ancora la teneva in stallo con una battuta della quale ridemmo entrambi. Era dolce a suo modo nel provare a sdrammatizzare. Poi aveva una voce così candida e soave che non le si poteva dire di no.
<< Non avevo intenzione di interrompere la tua opera di giardinaggio, se ti serve posso dare una mano. >>
<< Ok, adesso dimmi dove tieni l’informatore, oppure il tuo cane deve parlarti in alfabeto morse, perché non ho la più pallida idea di come tu faccia a sapere che sto facendo giardinaggio. >>

L’incredulità nella sua voce mi stuzzicava alquanto, non ero Sherlock Holmes ma ci andavo vicino in quanto a deduzione alle volte.
<< Odore di terriccio fresco, rumore di paletta e credo tu ti sia tolta i guanti mentre ti avvicinavi. Ah, poi aiuta anche il fatto che siamo in giardino. >>
Scoppiò in una risata sincera ed ingenua alle mia parole. La divertiva probabilmente la mia capacità di vedere attraverso gli altri sensi, o magari il fatto che non aveva minimamente pensato a tutti questi fattori che indubbiamente avrebbero portato a quella deduzione, ad ogni modo le sorrisi.
<< A cosa ti dedicavi? >>
<< La mia pianta di “Trifolium Repens”. Ha un significato molto particolare per me. >>

Rispose una volta smesso di ridere.
<< Vieni. >>
Mi prese la mano e iniziò a portami in avanti probabilmente verso la sua pianta.
<< Scusa la mia ignoranza ma non so cosa sia una pianta di “Trifolium Repens”. >>
Le confessai passando da completo idiota, o per lo meno così mi sentivo io.
<< Tranquillo, non ne faccio una malattia. >>
Mi rispose pronta usando le stesse parole che io stesso poco prima avevo utilizzato per togliere lei dalla sua gaffe. Era sveglia e sapeva come metterti a tuo agio. Mi pareva quasi di conoscerla da sempre, mi piaceva come vicina. Tenendo ancora la mia mano si piegò a terra ed io con lei fino a che la mia mano non toccò i petali setosi di quel piccolo arbusto.
<< E’ un comune trifoglio bianco. Una piantina piccola con tre foglie verde chiaro, ma alle volte ne puoi trovare anche quattro. >>
Sapevo a mala pena come fosse fatto una pianta, o per lo meno la mia idea era stilizzata e studiata sul libro di braille. Senza contare che sapevo benissimo che il verde fosse il colore dell’erba e del semaforo quando era possibile camminare sulle strisce, conoscevo il suo significato e quant’altro, ma non riuscivo ad immaginarmelo per niente. Mi limitai ad annuire scorgendo la forma che mi descrisse con il tatto.
<< Quindi il tuo nome sarebbe? >>
Continuai incuriosito da quella stranezza. Avevo sentito ragazze chiamarsi Margherita, Rosa e persino Viola, ma mai “Trifolium”.
<< Cora Clover Sky Jones. Un nome più complesso non potevano proprio sceglierlo i miei genitori. >>
Commentò sospirando del suo stesso essere.
<< Lo trovo originale invece e molto particolare. >>
Le risposi sincero. Non suonava niente male detto tutto assieme ed in quanto a peculiarità riceveva sicuramente un dieci tondo con lode.
<< Io non porto il nome di una pianta ma anche il mio è multiplo. Aaron Keith Somers. Meno d’impatto però. >>
<< Bene, Aaron Keith Somers, tieni la paletta e aiutami a far star dritta questa pianta alla quale non sembra piacere il nuovo giardino. >>

Disse chiudendomi l’arnese fra le mani. Arruolato.
<< Ai suoi ordini, madama. >>
L’apostrofai sarcasticamente mettendomi comodo sulle ginocchia. Non mi curai dei vestiti, avevo una missione da portare a termine.
Frank ci girava attorno mentre cercavamo di ripiantare un po’ più in profondità quell’arbusto che pareva davvero detestare la nuova sistemazione. Portammo comunque a termine la nostra opera senza domandare nuovamente il permesso a quell’arbusto dalle foglie setose ed una volta compiuta l’eroica impresa mi portò in veranda dove un piccolo lavandino sgorgava acqua gelida anche in piena estate. Conoscevo quella casa, la conoscevo anche meglio di quanto potesse conoscerla l’attuale proprietaria.
<< Hai già trovato l’asse staccato qui in veranda? >>
Le domandai conoscendo quasi per niente la sua capacità d’investigatrice essendomi reso conto di quanto fosse però sveglia la ragazza.
<< L’asse staccato? >>
Domandò ripetendo con una qualche goccia di incertezza nella voce. Ne dedussi che non sapeva ovviamente di cosa stessi parlando. Mi feci avanti per mostrarle dove qualche anno fa l’asse del pavimento in legno di fosse staccata permettendo la costruzione di un piccolo nascondiglio perfetto per le piccole cose che non devono essere trovate come scatole dei ricordi o mappe del tesoro.
<< Sto parlando di questo. >>
Così dicendo alzai la tavola di legno polveroso e logoro. Per trovarla non avevo incontrato molte difficoltà. Sapevo benissimo lo scricchiolio vuoto che faceva camminando con il mio peso sopra le assi e conoscevo più o meno la sua dislocazione partendo dal lavabo.
<< Sei pieno di sorprese Aaron Keith Somers. >>
Disse accucciandosi al mio fianco appoggiando una mano sulla mia gamba per sporgersi un poco.
<< Peccato che non ci sia il tesoro dei pirati. Devono essere già passati di qua. >>
Continuò con una punta di falsa delusione nella voce. Non potei che ridere prima di fare la mia proposta.
<< Potresti metterci il tuo di tesoro. >>
Il rumore che fece la sua gola era di asserzione. Me ne compiacqui alquanto avendole dato una bella idea da mettere in pratica, ma certo non immaginavo che avrebbe coinvolto anche il sottoscritto. Infondo non ci conoscevamo cha da qualche minuto, mezz’ora massimo, eppure mi pareva quasi di conoscerla da sempre.
<< Perché non ci mettiamo il nostro di tesoro? >>
Mi spiazzò non poco quel “nostro”, non avrei mai creduto di possedere un noi in quella vecchia veranda. Era il primo noi che possedevo fuori dalle mura di casa ed era bello possedere un noi.

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