Cherryblossom

di Sparrowhawk
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Un passo indietro. ***
Capitolo 3: *** Come ho potuto essere così cieco? ***
Capitolo 4: *** Risveglio. ***
Capitolo 5: *** Bisogna sempre ascoltare i consigli degli amici. ***
Capitolo 6: *** Parenti, che passione! ***
Capitolo 7: *** La felicità di un minuto può essere così labile. ***
Capitolo 8: *** Piccoli grandi eroi. ***
Capitolo 9: *** Tutti insieme appassionatamente. ***
Capitolo 10: *** Ultimo colpo. ***
Capitolo 11: *** Epilogo. ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Titolo: Cherryblossom
Fandom: Pandora Hearts - Kuroshitsuji
Personaggi Primari - Secondari: Elliot Nightray; Ciel Phantomhive (ver. femminile) - Angelina Durless; Ciel Phantomhive (ver. maschile); Sebastian Michaelis; Dean (creato da me)
Rating: Giallo
Genere: Romantico; Fluff; Drammatico
Altro: Cross-over; Gender Bender
Note: Primo esperimento circa i Cross-over. Che nessuno si fila XD Io personalmente li trovo interessanti, divertenti il più delle volte (le viene in mente Cross Epoch). Questo però non è uno di quei casi.


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«Sei solo anche tu...? Allora restiamo vicini, insieme forse...sarà diverso.»

Célie gli aveva detto una frase così pochi giorni dopo il loro primo incontro. Lei, così timida e poco propensa a parlare, si era arrischiata a dire una cosa simile di fronte a lui ignorando il rossore che le aveva coperto le guance candide e il forte battito del suo cuore. Gli aveva detto quello che stava pensando, come sempre con una sincerità ed un'inoccenza che erano in grado di lasciarlo totalmente spiazzato.

E adesso...

"Adesso sono solo." pensò, prendendosi la testa fra le mani e chiudendo gli occhi sconvolto, incapace di fare qualsiasi altra cosa "Adesso sono solo di nuovo!"

Elliot scosse il capo, il rumore di passi continui che non cennavano a voler smettere di aggiungersi al caos che aveva in quel momento nella testa: ma come ci erano arrivati a quel punto? Come diavolo era successo tutto quello che ora stava vivendo?

"Se solo fossi stato più forte, più accorto...." si disse ancora, mentre una lacrima scendeva dai suoi occhi intrepida, seguendo la linea di altre che avevano già avuto modo di solcare il suo volto, solitamente serio e poco propenso al lasciar trasparire anche solo un'emozione "Dovevo rendermi conto...di quanto stesse soffrendo! Come ho potuto non notarlo?!"

«Siete parente di Célie?»

Il ragazzo spalancò gli occhi e, alzandosi automaticamente, corse incontro al medico appena uscito dalla stanza in cui avevano rinchiuso la sua piccola Célie: appoggiò le mani sulle sue spalle, scuotendolo, gli occhi così preoccupati ma ancora lucidi dal pianto, che tra l'altro era solamente stato rimandato.

«Come sta?» domandò, la voce tremante «Adesso è sveglia?!»

L'uomo, probabilmente sulla cinquantina, gli occhi marroni e profondi incastonati come pietre preziose in quel viso dall'aria dura e severa, discostò delicatamente le mani di Elliot dalle sue spalle e lo guardò negli occhi capendo forse quanto in quel momento fosse ansioso di conoscere le condizioni della sua amica o, molto più probabilmente, della sua compagna.

Sospirò «Ora è stabile.» rivelò infine, scuotendo però il capo «Ma non posso dirti altro figliolo. Solo i parenti possono venire a conoscenza delle sue condizioni.»

«Lei non ha nessuno.» disse allora Elliot, ancora tremante, le mani strette in due pugni «Ha solo me. Sono io la sua...la sua famiglia.»

Il medico non disse nulla, limitandosi a guardarsi in giro per cercare di capire se le poche persone presenti e che stavano sedute sugli appositi sedili non fossero invece anche loro lì per la piccola ragazzina che aveva in cura: no, non era una cosa plausibile. In fin dei conti, da come era entrato nel corridoio, se ci fossero stati dei suoi parenti a quest'ora lo avrebbero già raggiunto. Invece solo quel ragazzo alto e snello lo aveva avvicinato, dimostrando tutta la preoccupazione che era tipica di chi amava qualcuno e temeva di perderlo.

Forse diceva la verità e, anche se non fosse stato il caso, per una volta avrebbe anche potuto fare uno strappo alla regola no?

«Vieni con me.»

Stavolta fu lui a poggiare una mano sulla sua spalla, costringendolo a seguirlo. Camminarono uno vicino all'altro per un poco di tempo prima di raggiungere la porta della camera in cui Célie si stava riposando: non lo fece entrare subito e, sopratutto, fu grato al cielo che le tendine della porta fossero tirate o di certo l'attenzione del ragazzo sarebbe stata tutta attratta dalla figura della sua amata nel letto d'ospedale.

Mostrò uno sguardo serio, deciso mentre si decideva a parlare.

«Appena l'hai trovata l'hai portata qui dico bene?» Elliot annuì «Non sai da quanto tempo era...si insomma, da quanto tempo si era tagliata le vene?»

Scosse il capo e allora l'uomo continuò «Ha perso molto sangue e quando è arrivata qui le abbiamo fatto subito una trasfusione ma il taglio sul suo polso era davvero, davvero profondo. Bloccare l'emorraggia è stata dura.»

Fece una pausa, guardando in quegli occhi azzurri e freddissimi, ora persi in chissà quali congetture: sapeva che lo stava ascoltando, era per quello che aveva quello sguardo, però sapeva anche che c'era una parte di lui che non stava pensando ad altro che alla domanda che più gli premeva porre ma che, senza coraggio o senza il vero desiderio di conoscere la risposta, non riusciva ancora a porre.

Quanta desolazione in quegli occhi, non ne aveva mai vista così tanta in un ragazzo della sua età.

«Per il momento...puoi solo aspettare.» sussurrò «Célie ha un fisico molto fragile, si ammala facilmente e non ha mai avuto una salute di ferro. Questo incidente ha peggiorato solo la situazione.»

Lo vide alzare finalmente lo sguardo ed incontrare il suo.

«Potrebbe farcela come non passare la notte.»

Detto questo, l'uomo se ne andò via, lasciando Elliot solo con i suoi pensieri e sopratutto solo di fronte alle difficoltà che gli si ponevano di fronte adesso: le parole del medico erano state dure ma, per quanto in quel momento volesse avercela con lui per non aver fatto una magia facendo sì che Cèlie fosse già bella che pronta ad andare a casa, non poteva biasimarlo per come lo aveva trattato anzi, gli era grato di avergli detto la verità. Anche se, doveva ammetterlo, era così amara che lo stava facendo sentire peggio che mai.

Sospirò e, incapace di fare altro, si limitò a posare con fare incerto la mano sulla maniglia della porta, tirandola poi a se lentamente: non era del tutto preparato alla scena che gli si parò di fronte, fu chiaro nel momento stesso in cui i suoi occhi si spalancarono dalla sorpresa alla sola vista della sua Cèlie, la sua bellissima, bellissima Célie, ridotta in quello stato pietoso. Era pallidissima, anche più del solito, e i sottili tubi che erano collegati al suo corpo la rendevano ancora più piccola ai suoi occhi, quasi più fragile se possibile.

Le si avvicinò a passo veloce ma felpato, arrivandole ben presto accanto e prendendole le mani fra le sue: le strinse forte, più di quello che avrebbe voluto, e poi si mise seduto sullo sgabello lì a fianco, portando infine le loro mani congiunte alla fronte mentre chiudeva gli occhi. Oddio come si sentiva male adesso! Cosa avrebbe dato per poter essere al suo posto, in quel letto, senza poter nè vedere nè sentire quello che invece era costretto a vedere e sentire.

«Avevi promesso...» sussurrò, dapprima con voce cauta e poi quasi urlando, arrabbiato «Avevi promesso che saremmo rimasti sempre insieme! Mi avevi promesso che non te ne saresti andata senza di me! Lo avevi promesso, maledizione!»

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Capitolo 2
*** Un passo indietro. ***


Elliot camminò tranquillo per il corridoio scolastico, ignorando come al solito le ragazze che, non appena lui passava, non facevano altro che osservarlo e parlottare fra di loro fitto fitto. Sembravano essere convinte del fatto che lui non si rendesse conto di quel fatto ma, siccome non era un povero idiota, questa speranza era del tutto vana: per loro sfortuna Elliot si accorgeva di tutto quello che aveva intorno, allenato dai tenori della sua famiglia ad essere sempre scaltro ed accorto. Non lo aveva chiesto lui di essere così appariscente in fin dei conti!

Appoggiò il suo libro alla spalla e, fermandosi di colpo, guardò giù da una delle finestre del corridoio bene illuminato udendo un gran vociare provenire dal cortile sul retro: c'era un gruppo di ragazze che, accerchiate intorno ad un piccolo figurino inginocchiato, se la stavano ridendo della grossa parlando di chissà che cosa. Lì per lì non pensò a nulla, immaginando che stessero semplicemente dicendo delle sciocchezze ma, proprio quando stava per andarsene, ecco che colse alcune parole davvero poco gentili.

«Sei davvero una noia mortale Célie!» disse una di quelle che gli davano la schiena, almeno dalla sua posizione in alto «Scoppi sempre a piangere, neanche ti avessi detto chissà che di nuovo. In fin dei conti lo sai anche tu che tuo fratello ti ha mandata qui solo perchè non ti può più sopportare!»

Elliot si accigliò.

«Oh, come dargli torto del resto?» esordì un'altra «Questa qui è detestata da tutti quanti!»

«Già. Nessuno sopporta i suoi continui piagnistei ne il suo viso sempre perso fra le nuvole!» rise ancora un'altra «Possibile che tu non riesca a stare con i piedi per terra?!»

Improvvisamente, lasciandolo più che basito, ecco che la prima che aveva parlato diede un leggero calcio alla ragazza inginocchiata di fronte a lei, continuando così fino a che non si decise a chinarsi per prenderle il viso fra le mani: fu solo allora che Elliot si rese conto di che genere di espressione avesse addosso Célie, così la avevano chiamata. Sembrava spaventata, un terrore del genere non lo aveva mai visto addosso a nessuno e, doveva pur dirlo, era uno che se ne intendeva a riguardo visto quante persone aveva spaventato nel corso della sua vita. Aveva un viso così severo e si arrabbiava così facilmente che non sempre gli altri si accostavano a lui senza il timore di doversi sorbire qualche strana predica, ma quello...

Aprì la finestra di scatto, sporgendosi un poco da essa e urlando «Ehi tu! Che accidenti stai facendo?!»

Il gruppetto si voltò verso di lui e, nel momento in cui si resero conto di chi egli fosse, ecco che si sparpagliarono senza posa correndo di qua e di là, lasciando finalmente sola la piccola ragazzina ancora inginocchiata a terra, tremante.

La guardò per un pò, perplesso «Stai bene...?»

Non ricevette risposta.

«Ohi!» continuò, incontrando ben presto il suo sguardo triste che lo colpì nel profondo, stringendogli il cuore.

«S-sto...sto bene...» disse lei, alzandosi titubante e portandosi una mano sugli occhi, scacciando le lacrime che gli avevano rigato il volto sino a quel momento «...ci sono abituata...»

«Abituata...?»

Célie annuì e se ne andò, senza aggiungere altro.

A che serviva darsi pena di dire che no, non stava per niente bene, quando nessuno si era mai veramente interessato a ciò che pensava o desiderava? Per esempio, Célie voleva tornarsene a casa, a Londra, da suo fratello. Voleva stare solo con lui perchè era l'unico che la capiva e che non la trattava male. Voleva lasciare la casa di suo zia quello stesso strano personaggio che non aveva mai visto se non da quando era arrivata a Parigi, e dimenticarla per sempre.

E invece no, era bloccata lì per non si sa quale motivo. Ciel la aveva lasciata in quel posto, promettendole che sarebber tornato a prenderla nel momeno in cui avrebbe risolto alcune faccende. Le aveva anche promesso che presto si sarebbe fatto sentire ma...era da più di un anno che le sue lettere non ricevevano risposte.

Era rimasta sola.

Si fermò in mezzo al cortile, all'ombra di uno degli alberi di ciliegio che, per via della stagione, non erano ancora sbocciati e, d'improvviso, si mise a piangere senza ritegno portandosi le mani a coprirle il volto: non le importava se qualcuno la avrebbe vista, non le interessava se i suoi compagni di scuola avrebbero ricominciato a sparlarle dietro dicendole di smetterla o la avrebbero spinta. Semplicemente non le importava di niente.

«Tieni.»

Smise di singhiozzare per un secondo, alzando lo sguardo ed incontrando gli occhi azzurro ghiaccio dello stesso ragazzo che poco prima la aveva temporaneamente salvata dal solito supplizio del bullismo quotidiano al quale era sottoposta. Gli stava porgendo un fazzolettino di tessuto, osservandola con sguardo serio.

«Dai su, prendilo.»

Lo prese e, asciugandosi le lacrime, fissò il terreno incapace di guardarlo negli occhi.

Quella era la prima gentilezza da quanto...?

«Perchè piangi?» le chiese, senza badare al suo palese imbarazzo.

«S-sono triste.»

«Tutti siamo tristi qualche volta, ma vedi forse gente che continua a piangere?»

No, non la vedeva, sapeva di essere l'unica che continuava a farlo.

«Se ti sforzassi di trattenerti forse...»

«Non servirebbe a niente.» lo interruppe lei, ridandogli il fazzoletto e scuotendo il capo «Non serve a niente, ci ho provato ma non...non vengo accettata perchè sono diversa.»

«Diversa per cosa?»

Sospirò e, alzando appena il ciuffo di capelli blu che le ricadeva sulla parte destra del volto, alzò lo sguardo su di lui di modo di fargli vedere cosa la rendeva differente dagli altri: il suo occhio destro, a differenza dell'altro che era di un blu oceano intenso, era di un lilla acceso e vivace, cosa che palesemente non poteva essere normale agli occhi delle altre persone.

«Per questo.» sussurrò «...e per...mille altre cose.»

Probabilmente adesso lui se ne sarebbe andato, chiamandola mostro o cadaverino come tutti gli altri, ma ciò non avvenne e, anzi, il ragazzo non fece altro che riprendersi il suo fazzoletto rimettendolo nella tasca dei suoi pantaloni scuri. Célie rimase sbalordita: di solito, quando toccava qualcosa, gli altri studenti non osavano neanche più sfiorarla considerandola come maledetta per sempre.

«N-non...non lo butti...?» domandò, aggrottando la fronte.

«No, perchè dovrei?» rispose lui, sbuffando e appoggiandosi un libro sulla spalla «Figuriamoci se butto via il mio fazzoletto! Non è mica di carta.»

«M-ma io...io l'ho...»

«Ti ci sei asciugata gli occhi. Nulla di che.»

Si sentì qualcuno parlare alle sue spalle e, voltandosi, vide un gruppo di ragazzi che faceva dei segni a quello che aveva di fronte al naso: tornò a guardarlo, rendendosi conto che anche lui li aveva notati. Cominciò a camminare passando oltre e raggiungendo i suoi amici, senza più degnarla di uno sguardo.

«Ci vediamo.»

Célie sgranò gli occhi e si voltò a guardarlo mentre se ne andava.

Che aveva detto?






(N.d: Un piccolo passo indietro, come da titolo, per spiegare come Elliot e Célie si sono incontrati. Niente di che, come al mio solito, XD, ma spero comunque che per voi sia valso la pena di essere letto. Insomma, non è mai bello quando manca un pezzetto del tassello!)

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Capitolo 3
*** Come ho potuto essere così cieco? ***


Elliot strinse forte la mano fredda di Célie, pensando costantemente ai momenti felici passati con lei in quanto unici pensieri a riuscire in qualche modo a tirarlo su di morale: ogni volta che rifletteva alle parole dolci, anche se a volte un pò strane, che quella ragazza aveva da rivolgergli, ai suoi modi fini e alle sue movenze eleganti, alla passione che metteva in ogni cosa e a che significava per lui anche solo starle accanto, ecco che tutto svaniva ed ogni sua preoccupazione si perdeva. Conoscendola aveva avuto modo di entrare in un nuovo, bellissimo mondo, che esisteva ed aveva un senso solo se poteva vederlo riflesso negli occhi bicolore della sua piccola Célie.

Ma ora lei non lo stava guardando, non aveva gli occhi fissi nei suoi no. Adesso Célie dormiva e, la cosa peggiore di tutte, era avere il timore che forse non si sarebbe più svegliata.

No anzi, c'era qualcosa che sorpassava persino quella paura.

Perchè lui era stato in grado di sopravvivere sino a quel momento anche solo con i ricordi che si erano costruiti assieme mentre lei, senza dirgli nulla per farsi aiutare, aveva preferito abbandonare tutto e tutti compreso lui e lasciarlo indietro? Perchè non gli era bastata la sua compagnia? Perchè aveva tentato di togliersi la vita, insomma?!

Dio come stava male in quel momento, come avrebbe voluto prendere qualcosa e sfasciarlo contro al muro!

Ma non poteva.

Non poteva e non voleva a dirla tutta. Non se la sentiva di lasciare la sua postazione, non se questo significava lasciare andare la mano di Célie e non avere più la certezza che il suo cuore stesse continuando a battere nonostante tutto. Elliot voleva sapere che lei stava lottando, che stava adoperando quel tempo per poter tornare da lui. Il resto era assolutamente irrilevante adesso.

«Fuori c'è la luna piena sai?» disse, alzando lo sguardo e sorridendole per quanto fosse conscio del fatto che ora come ora non poteva essere visto «Tu...tu adori la luna piena. Perchè non apri gli occhi per guardarla...? Possiamo...possiamo guardarla insieme se vuoi, così ti sentirai meno sola.»

La guardò per un istante, speranzoso, ma quando vide che non vi era nessuna risposta da parte sua tornò a chiudere gli occhi e abbassare il capo, scuotendolo lentamente: doveva aspettare, come aveva detto il dottore, ma quell'attesa era così snervante da rischiare di ucciderlo. Eppure voleva solamente parlare, accidenti!

Sospirò e si rimise a pensare, a ricordare tutto quello che avevano passato insieme in quell'anno.

Quello era l'unico modo per ritrovare un pò di speranza, l'unico che conosceva che, da che la aveva conosciuta, aveva sempre funzionato.

 

Célie camminò pensierosa per il cortile, portandosi dietro il cambio che aveva appena tirato fuori dalla borsa che aveva lasciato appositamente nel suo armadietto: grondava acqua da qualsiasi parte, ma non per questo sembrava decisa a darsene peso, tanto più che -come per tutto il resto- era abituata anche a quel genere di situazioni.

Si guardò un secondo in giro, ignorando come sempre il chiacchiericcio che seguiva il suo passaggio e dirigendosi verso gli spogliatoi di ginnastica. Improvvisamente però si bloccò e, notando un ragazzo intento a leggere poco distante da lei, un piccolo sorriso -accompagnato da un leggero rossore a dirla tutta- comparirono sul suo volto. Era il ragazzo che le aveva prestato il fazzoletto qualche giorno prima e che, da lì in poi, la aveva sempre sorpresa rivolgendole la parola e salvandola di tanto in tanto dai soliti bulli della scuola. Elliot Nightray, ecco come si chiamava.

Gli andò incontro, un poco titubante, fermandosi un paio di volte come indecisa sul da farsi. Non sapeva proprio come doversi comportare nei suoi confronti, e questo non solo perchè era la prima persona che sembrava dimostrare, anche se in minima parte, un poco di ineteresse per lei, ma anche perchè lui era anche uno dei ragazzi più quotati della scuola. Nelle classifiche dell'Istituto per la popolarità, Elliot compariva fra i primi tre sempre e comunque, qualunque fosse l'argomento. Bellezza, lui c'era. Intelligenza? Anche lì era presente. Si era chiesta mille volte come mai uno del genere ancora le parlasse.

Si portò le mani dietro alla schiena, stringendo ancora a sè il cambio mentre finalmente raggiuneva quel ragazzo, tutto preso dalla lettura come suo solito: Elliot amava davvero leggere e, almeno per quello che pensava lei, se avesse potuto avrebbe continuato a farlo per l'eternità infischiandosene completamente di quelli che stavano fuori dal suo mondo a guardarlo. Aveva una certa insofferenza per il prossimo, motivo in più che non le permetteva di comprendere il motivo per cui le stava vicino.

«C-ciao.» sussurrò, gli occhi grandi ricchi di quell'ansia che, almeno per una volta, era qualcosa di buono.

Lui alzò piano gli occhi, incontrando il suo sguardo e costringendola a voltarsi per non doverlo affrontare visto che, come sempre, non riusciva proprio a sostenere quel contatto visivo. Divenne tutta rossa quando lo sentì sospirare.

«Mi dici come mai sei tutta bagnata...?»

Eh, lo sapeva che gli avrebbe posto quella domanda.

«Ah...ecco...» evviva, stava cominciando a balbettare «U-una secchiata...dall'alto.»

Elliot sospirò ancora, mettendo da parte il libro e ficcandosi una mano fra i capelli, muovendola lentamente mentre si grattava il capo con fare pensieroso.

«Andiamo.» esordì poi, afferrandole un braccio prima di abbassare la mano fino a stringere la sua «Ti accompagno agli spogliatoi della palestra.»

Ci misero poco ad arrivare e, per via della voglia che aveva di stare sola con lui, ci mise anche di meno a cambiarsi: adesso aveva indosso la sua divisa di riserva e per fortuna non rischiava più di prendersi un malanno. Nonostante fosse estate era sempre meglio non rischiare se si poteva evitare di ammalarsi.

Tornò da Elliot di corsa, trotterelando con la sua solita grazia innata e lui, appoggiato al muro, la guardò inespressivo, come sempre quando aveva da dirle qualcosa di importante. Célie si mise seduta a terra, portandosi le ginocchia vicine al petto ed appoggiandovi sopra la testa. Era strano come lei, che lo conosceva da così poco tempo, sapesse già distinguere ogni suo atteggiamente agendo di conseguenza. Quella era una delle sue abilità, l'osservare le persone le veniva abbastanza bene.

«Hai provato a comportarti in modo diverso come ti avevo chiesto?» domandò lui, tornando a fissare le persone che camminavano nel cortile con sguardo serioso «Sai...a fare amicizia con gli altri. Potrebbero agire in un altro modo se tu la smettessi di piangere sempre.»

«Non serve a niente. Te l'ho già detto.»

«Me lo hai detto è vero, ma non mi pare che tu abbia provato seriamente.»

«Tanto io...io non sono buona a nulla.»

Ci fu una pausa in cui udì lo spostamente di Elliot fino a poterla guardare per bene dalla sua posizione in piedi al suo fianco. Sentì i suoi occhi gelidi penetrarle la pelle, arrivando fino a sotto le ossa a scrutarle l'anima. Le vennero i brividi.

«Perchè hai questa poca stima di te stessa?»

Non rispose.

«Chi ti dice che non sei capace di fare niente?»

Rimase ancora in silenzio per un paio di secondi ma poi, sospirando leggermente, non poté fare a meno di dirgli ciò che voleva sapere. Era da un pò di tempo che giravano attorno a quell'argomento e, oramai, aveva capito che se Elliot voleva qualcosa avrebbe lottato con le unghie e con i denti per ottenerla. In quel caso voleva le informazioni che gli servivano per risolvere quel grande mistero che poteva sembrare la sua vita.

«Mia...zia. Lei me lo dice spesso.»

«Bella zia che hai.»

«...tu sei gentile...»

«Eh?» sentì un tono sorpreso nella sua voce.

Sorrise. «Nella mia classe sono in molte le ragazze che parlano di te sai?» continuò, guardandolo in faccia «Dicono tante belle cose sul tuo conto...ma non ho mai sentito diro loro che sei gentile. Forse non lo sanno.»

«Io non sono affatto gentile Célie.»

Sgranò gli occhi senza capire «M-ma...tu non mi tratti come gli altri. Non mi guardi c-come...come loro.»

Elliot non smise di osservarla neanche per un secondo, dimostrando come suo solito quel viso che non permetteva a nessun sentimento di essere espresso appieno. La sua maschera, venutasi a creare dopo anni di eventi orribili e disperazione, non poteva cedere per nessun motivo, neanche adesso che si ritrovava di fronte una ragazzina tanto dolce, indifesa e che, per di più, pensava che uno come lui fosse buono.

Ah, come si sbagliava.

«Io sono tutto fuorchè gentile.»

Fu allora che la sentì, la mano di Cèlie che si stringeva delicatamente attorno alla sua, lasciata penzolare senza che neanche se ne rendesse conto. Tornò con gli occhi fissi nei suoi, sorprendendosi di quella stretta improvvisa visto che lei non le era mai parsa come il tipo che riusciva ad esternare quello che sentiva.

«Sei...sei come me.»

Alzò di poco il viso mentre lei parlava.

«Sei solo anche tu...? Allora restiamo vicini, insieme forse...sarà diverso.»

 

A pensarci adesso, Elliot si rendeva conto di quanta pena fosse per lui il doverle stare accanto anche a quei tempi, anche quando Célie era sempre sorridente di fronte ai suoi occhi, pronta ad ascoltarlo con viso attento, a chiacchierare con lui di cose che normalmente stancavano quelli della sua età, a scoprire quanto la sua presenza stesse diventando assolutamente indispensabile per lui.

Elliot aveva sempre fatto del suo meglio per essere se stesso, per non doversi mai ritrovare a dover mentire di fronte alle altre persone, ma ora che stava lì, in quella dannatissima situazione, si rendeva conto che in realtà non aveva fatto altro che scappare o, quanto meno, di allontanare il prossimo: era vero, non diceva mai una bugia neache a costo della propria vita, però questo non voleva dire che si comportava come avrebbe voluto con il prossimo. Si era chiuso a riccio da quando sua madre aveva dato di matto, uccidendo i suoi fratelli e suo padre, lasciando in vita solamente lui per puro e semplice capriccio; aveva deciso di non mentire più solo perchè erano state le menzogne a portare sua madre a quello stato pietoso; si comportava come un burbero anziano solamente perchè voleva evitare di dover raccontare a qualcuno la sua storia perchè sapeva che se lo avesse fatto avrebbe sentito quanto dolore stava provando in realtà.

Questo era bastato per far sì che a scuola tutti lo lasciassero in pace o che gli parlassero con un minimo di rispetto. Aveva degli amici, era vero, ma non poteva dire con assoluta certezza che questi fossero dei veri amici, compagni di avventure per cui valeva la pena sacrificarsi insomma.

Cèlie invece, lei non aveva mai smesso di essere quella che era, la fragile e dolce ragazzina che non era in grado di smettere di fantasticare neanche per un secondo perchè aveva una creatività assolutamente travolgente. Lei era chi si sentiva di essere in ogni istante della sua vita, a viso aperto, senza alcun ripensamento, anche se questo significava incontrare il dissenso delle altre persone e venire totalmente emarginata o peggio ancora derisa e torturata psicologicamente.

Una volta la aveva considerata una stupida, senza un'ombra di cervello, ma alla fine che cosa aveva da biasimarle? Quella ragazzina possedeva tanto di quel coraggio che bastava a far sentire lui un'idiota per come aveva deciso di vivere sino a quel momento.

Era per quello che aveva maturato il desiderio di proteggerla, di diventare il suo cuscinetto contro il male del mondo, di evitarle ogni singola sofferenza...

«Che sciocco che sono stato...» esordì, guardando la sagoma ancora addormentata della sua piccola ed indifesa Célie «...Pretendevo di conoscere tutto del mondo, di sapere come era meglio proteggerti, ma non mi sono mai soffermato a pensare a cosa fosse il vero motivo che ti rendeva così triste. Solo ora riesco a capire come mai dicevi che non ti importava di quello che succedeva a scuola, che non sentivi nemmeno le parole che gli altri ti dicevano.»

Fece una pausa, sospirando sonoramente e lasciando andare la mano chiara e pallidissima di Célie:

«Tu...eri abituata a cose peggiori.» mormorò, assumendo un viso severo e pieno di rabbia «Non è forse così...Célie...?»




(N.d: Qui cominciano a venire fuori un pò di particolari eh? XD spero davvero non di aver lasciato indietro troppi errori di battitura. Ogni volta che rileggo ne trovo di nuovi. O non li cancello non vedendoli la prima volta o si moltiplicano a caso come funghi.)

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Capitolo 4
*** Risveglio. ***


Il giorno dopo non si potè definire per nessun motivo più calmo: Elliot non riuscì ad arrivare in ospedale alla stessa ora, subito dopo le lezioni, in quanto sembrava che tutti gli studenti che componevano con lui il consiglio di Istituto avessero deciso di indire una riunione a sua insaputa, tirandolo dentro all'ultimo momento proprio quando stava uscendo con la sua solita foga dalle porte della scuola. Inoltre, finita quella benedetta riunione, ecco che era stato ancora fermato da un manipolo di ragazzi della sua stessa età, che avevano deciso di chiedere proprio in quel momento notizie di Célie.
Ecco, quella era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso: non gliene era mai importato niente a nessuno di lei, tutti la avevano sempre trattata malissimo, quasi peggio di uno straccio, e, adesso che stava male e che il suo tentato suicidio era praticamente sulla bocca di tutti, ecco che improvvisamente facevano i preoccupati, gli amiconi addirittura. Li aveva liquidati con un alquanto secco e gelido "Scusate, ho da fare" ed era corso via, entrando nella macchina che lo aspettava sempre ai cancelli dell'Istituto e che, da un pò di giorni a quella parte, aveva il compito di portarlo dritto dritto in ospedale, dalla sua adorata Célie.
Salì i pochi scalini dell'entrata, si chiuse in ascensore e attese paziente di arrivare al piano giusto, incrociando le braccia nervosamente e battendo un piede a terra, come a voler tenere il tempo del suo stesso cuore.
Cuore che, cosa abbastanza ovvia, non aveva fatto altro che andare sin troppo velocemente da quando si era ritrovato in quella maledettissima situazione.
Ancora gli sembrava assurdo l'essersi lasciato invischiare in un rapporto così complicato, proprio non poteva credere che lui, il principe di ghiaccio, avesse ceduto alla dolcezza ed all'innocenza che quella ragazzina, la stessa che ora giaceva in un lettino sterilizzato d'ospedale, aveva saputo dimostrargli. Non era mai stato particolarmente interessato al mondo femminile, non dopo quello che era accaduto nella sua famiglia per colpa di una donna come tante altre, però Cèlie aveva saputo colpire esattamente nel segno. Un paio di giorni in sua compagnia e il suo animo non aveva fatto altro che legarsi sempre di più al suo, inesorabilmente ed indissolubilmente.
Aveva odiato tutto e tutti prima del suo incontro con lei e niente sembrava capace di tirarlo su di morale tanto quanto bastava per farlo sorridere di nuovo, ma Cèlie invece era stata un motivo fin troppo valido.
La amava, la amava davvero tanto e la cosa peggiore era che non aveva mai avuto il coraggio di dirglielo.
Sì, avete capito bene, Elliot il menefreghista totale non aveva avuto il coraggio di dire due semplici e stupidissime parole!
Il ragazzo ignorò tali pensieri, cancellandoli dalla sua mente nello stesso momento in cui le porte dell'ascensore si decisero ad aprirsi facendo sì che lui mettesse piede sul piano che ormai conosceva meglio delle tasche dei suoi pantaloni. Corse, corse come un matto, ignorando le parole di ammonimento delle infermiere, le quali lo informavano che si trovava in un ospedale e non in una pista di rally -ma dai?!-, e si intrufolò di volata nel corridoio in cui stava la stanza di Cèlie. Ancora pochi passi e la avrebbe vista, ancora poco e la sua ansia avrebbe trovato finalmente un freno, anche se per poco.
In fin dei conti, a lui era sempre bastato vederla per stare meglio. Solo un suo sguardo e tutto svaniva, nascosto momentaneamente dai soliti pensieri da innamorato che faceva su di lei. Si era sempre chiesto se anche per lei fosse lo stesso, se anche lei trovasse la pace solo guardandolo, ma dalla piega che avevano preso le cose era evidente che non era stato così.
Elliot si bloccò proprio con la mano sulla maniglia della porta di fronte a quel pensiero. Célie aveva dei problemi in famiglia, lo sapeva benissimo, ma anche lui li aveva e comunque aveva saputo tenere duro sino all'ultimo se alla fine poteva comunque essere in grado di spendere il suo tempo assieme a lei. Invece Cèlie non aveva tenuto duro, non aveva combattuto per il loro rapporto, si era solamente lasciata andare alla disperazione ignorando tutto quello che, con un gesto così estremo, stava rischiando di cancellare.
"Non ha combatutto per me..." si disse, sconvolto, la mano che scivolava giù dalla maniglia fino ad andare a finirgli lungo il corpo, come morta "Lei...non mi ama. Altrimenti non lo avrebbe mai fatto."
Una strana ombra comparve sul suo viso in quel preciso istante, un'ombra che conosceva benissimo e che stava a significare l'arrivo di grossi guai in vista: non avrebbe mai torto un solo capello a Cèlie, non ne sarebbe mai stato capace, ma se c'era una cosa di cui era certo era che non avrebbe mai potuto perdonarle quella debolezza. Per causa sua, per colpa di quel suo comportamento sconsiderato, la sua vita sembrava stare andando completamente a rotoli. Non era lui quello che si era tagliato le vene, non era lui quello che si doveva prendere cura di lei e, sopratutto, non era lui quello adatto a risollevare il suo spirito. C'era tanto di quella oscurità nel suo cuore, un desiderio così bruciante di vendetta che proprio non poteva stare ancora vicino ad una ragazza dal cuore puro ed ingenuo come lei. E poi, che accidenti ci stava a fare con una persona che non lo voleva e che, per quello che ne sapeva lui, lo aveva solamente usato?
Improvvisamente, fatte queste congetture, ecco che Elliot fece dietro front e se ne tornò da dove era venuto con un'espressione di totale rabbia e dissenso dipinta sul volto stanco e pallido: non aveva intenzione di spendere altro tempo là, in quel posto. Non se significava essere preda di mille dubbi e, sopratutto, non se voleva dire stare al capezzale di una Cèlie che tanto non si sarebbe mai e poi mai risvegliata. Lo aveva detto il dottore che, se non avesse aperto gli occhi dopo una settimana, allora le speranze che lo facesse in seguito erano vane.
Ogni fibra del suo corpo sembrava urlare ed i suoi muscoli si stavano opponendo con uan forza tale da rendere la sua camminata alquanto sgraziata, cosa strana per uno come lui, ma nonostante tutto questo il giovane mosse i suoi passi con la solita fredda decisione perchè, si sapeva, lui non tornava mai sui suoi passi.
Mai.
Sceso di sotto salì sulla sua macchina e diede indicazioni all'autista di riportarlo immediatamente a casa: per tutto il tragitto Elliot non fece altro che fissare il vuoto di fronte a sì almeno fino a quando un tuono non rimbombò nel cielo, udibile persino dentro l'abitacolo della vettura. A quel suono i suoi occhi di ghiaccio si alzarono di scatto, illuminatisi di colpo, e il suo viso si voltò verso al finestrino dell'auto intenti a scrutare quel poco di cielo che si riusciva a vedere dalla sua posizione. Dense nuvole nere si erano addensate tutte intorno alla città e, lo sapeva bene, ciò stava a significare che ben presto avrebbe cominciato a piovere.
Era una buona cosa che aveva deciso di tornare a casa così presto.
Lui non aveva l'ombrello.

Era immersa in un luogo buio, denso di desolazione e tristezza. Quello era sicuramente un posto adatto ad una persona come lei, che ormai viveva una vita fatta a metà, ridotta all'ombra di quella che era una volta. Ricordava ancora così bene i giorni passati con la sua famiglia, quelli di pura e semplice felicità in cui tutto sembrava andare bene e in cui lei aveva un sacco di speranze per il futuro.
Un futuro roseo, tranquillo. Chiaro come sole nelle giornate di primavera e senza il minimo accenno di nuvole all'orizzonte.
...quando era cominciato a piovere? Quando, tutto quello che conosceva e che amava, si era tramutato in un cumulo di sabbia che labile e crudele scivolava via dalle sue mani con la velocità di un fulmine...?
Oh certo, lei sapeva bene quale era stato il giorno che aveva segnato la fine di tutto, di ogni più piccola cosa.
Però adesso non ci voleva pensare, non voleva che quei pensieri affollassero ancora una volta la sua mente facendola addentrare ancora di più in quella brutta sensazione di essere completamente sola al mondo. Era vero, aveva passato dei brutti momenti, così terribili che sentiva ancora su di sè il dolore di ferite che ormai nemmeno c'erano più sulla sua pelle, però utlimamente anche lei aveva avuto un motivo per cui sorridere no?
Adesso non si poteva vedere in uno specchio, ma sapeva perfettamente che sul suo candido viso era comparso un sorriso enorme al solo pensare a quella persona, quella persona così importante.
Voleva tornare da lui, voleva guardarlo negli occhi e stringergli la mano, giusto per sentire che non era un sogno e che finalmente anche nel suo cielo era comparso un sole caldo e rassicurante, lo stesso di un tempo. Ma come faceva ad abbandonare quel luogo?
Come poteva fare per tornare indietro e lasciare una volta per tutte quel buio asfissiante...?
Célie si concentrò con tutta sè stessa, cercando di richiamare a sè quelle poche forze che le erano rimaste e, quando finalmente ebbe la sensazione che qualcosa si stesse muovendo, ecco che in lontananza sentì arrivare un rumore dolce e continuo, come di un ticchettio di orologio ma più tenue. Adoperò altra concentrazione per isolare quel suono e far sì di sentirlo meglio, non più così ovattato e distante.
"Pioggia...?" pensò, aggrottando le sopraciglia ed aprendo gli occhi, lentamente e con molta fatica.
D'apprima fu tutto sfocato, la stanza in cui si trovava era troppo chiara e girava, facendole venire un enorme voltastomaco. Poi però, piano piano, ecco che le sue iridi eterocromatiche si abituarono alla luce delle lampade e fu in grado di vedere dove si trovava: quella era una stanza d'ospedale, lei era sdraiata su di un piccolo lettino e le lenzuola candide e quasi ruvide di routine le coprivano il corpo sino al petto, lasciando scoperte le braccia. C'era persino un ago infilato sotto la sua pelle, a sinistra, e da lì partiva un tubetto lungo e sottilissimo che portava ad una flebo non poco distante.
Non ricordava come era arrivata lì e, sinceramente, non voleva nemmeno saperlo, però una cosa che fu felice di constatare era che non era morta e che i suoi timori erano stati del tutto infondati: in quel luogo buio, quella che per lei era stato come una specie di prigione, aveva seriamente creduto di aver perso la vita in chissà quale modo che ora proprio non le tornava alla mente. Aveva versato anche delle lacrime a quel pensiero, anche se non era del tutto certa che quelle fossero state vere. Cèlie non aveva alcuna intenzione di morire.
Non ora che aveva trovato qualcosa per cui vivere.
"No, non qualcosa..." si disse, annuendo con estrema fatica mentre girava di poco la testa e cominciava a guardare fuori dal grande finestrone vicino al suo letto "Qualcuno."
«Non è venuto nessuno a trovarla oggi?»
Cèlie udì delle voci al dì là della porta della sua stanza, ma non vi fece caso e continuò imperterrita a guardare di fuori.
«No signore.»
«Strano. Nemmeno il ragazzo che viene sempre...?»
«Nemmeno lui.»
La porta sì aprì di scatto, lasciando entrare due individui, un uomo ed una donna. Il primo dava l'idea di essere un dottore visto il lungo camice che stava indossando e lo stetoscopio che pendeva giù dal suo collo, mentre la seconda doveva essere per forza di cose un'infermiera, con una bella uniforme di un azzurro chiaro e tenue.
Si avvicinarono al suo letto, con passo svelto e cominciarono ad armeggiare intorno a lei, presi da lavori che sembravano di semplice routine per loro. Non sembravano essersi accorti del fatto che si era svegliata.
Chissà da quanto stava dormendo...
«St-sta...sta...»
La voce le tremava e le uscì come poco più di un sussurro, ma lo stesso Célie si fece forza e cercò di farsi notare.
«Sta...p-piovendo.» sentenziò, gli occhi ancora fissi sulle goggioline che si andavano ad infrangere senza posa contro al vetro della finestra «Mi piace la pioggia... Sentirla...mi ha fatta svegliare.»
I due sussultarono sulla prima parte della sua frase ma alla fine, ricomponendosi per bene, ecco che si decisero a cominciare a farle un sacco di domande a cui lei, come suo solito, prestò attenzione solo per i primi dieci secondi. Era già stanca, gli occhi le si chiudevano, però vi era ancora una cosa che doveva assolutamente chiedere. Il suo cuore aveva bisogno di sapere se lui era andato a trovarla, se era nei paraggi e se poteva vederlo.
Voleva disperatamente vederlo.
«Mi sente signorina?» chiese il dottore, controllandole il battito percè conscio del fatto che stava per perdere di nuovo i sensi «Può rispondermi?»
L'infermiera uscì a chiamare qualcuno.
«Deve rimanere sveglia signorina Célie. Rimanga sveglia!»
La ragazza annuì, sorridendo.
«E-Elliot...»

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Capitolo 5
*** Bisogna sempre ascoltare i consigli degli amici. ***


Ecco, adesso che tutto si era sistemato e che lei si era svegliata, l'unica cosa che le mancava e di cui aveva veramente ma veramente bisogno era la presenza di Elliot. Del suo amatissimo ed insostituibile principe azzurro, colui che non solo la accettava per quello che era ma che, per di più, aveva sempre il coraggio di difenderla di fronte alle cattiverie del mondo. Stando accanto a lui, la piccola Célie, aveva appreso cosa significasse vivere a testa alta in questo mondo, infischiandosene una volta per tutte delle parole altrui e dimostrando di avere diritto di esistenza tanto quanto lo avevano tutti gli altri.
Ovvio, rispetto a quel ragazzo ancora non riusciva a rispondere con quel cipiglio estremamente sicuro che non ammetteva repliche, però era sulla buona strada per almeno provare a farlo.
Célie si guardò intorno perplessa: stava seduta, ritta come mai prima di allora, già da un paio d'ore ma, a differenza di quello che aveva detto il dottore che la aveva sotto cura, non era ancora arrivato nessuno a trovarla. L'uomo le aveva raccontato di una persona che non faceva altro che passare il suo tempo al suo capezzale, stringedole la mano e preoccupandosi che tutto fosse stato perfetto intorno a lei anche se, visto che stava in coma, non avrebbe comunque potuto vedere nulla. Dal modo in cui ne parlava e dai commenti che faceva sul suo modo di comportarsi, la giovane non aveva potuto fare altro che riconoscere Elliot e quindi si era tutta entusiasmata, immaginando che, se si era fatto vivo così tanto volte in un momento in cui non si potevano parlare, allora sarebbe stato là con lei ancora di più ora che finalmente aveva riaperto gli occhi ed era sveglia.
"Dove sei...?" si chiese ancora, forse per la sessantesima volta quel pomeriggio "Dove sei Elliot?".

Elliot camminò con grande tranquillità giù dalle scale della scuola, ignorando gli sguardi pieni di interesse che, come sempre da un pò di tempo a quella parte, si premunivano di seguire ogni sua singola mossa: sapeva bene cosa si stavano chiedendo tutti quanti e, anche se l'irritazione gli stava crescendo dentro gonfiando ogni parte più intima del suo animo, non aveva alcuna intenzione di andare a dire in giro come mai non stava correndo come un matto apposta per andare in ospedale da Célie. Non gli andava che la gente sapesse che si era reso conto solo ora di quanto stupido fosse stato a pensare che, uno come lui, potesse aver davvero trovato qualcuno che lo amasse sul serio, qualcuno che per lui avrebbe fatto di tutto e di più. La relazione vissuta con Cèlie era sempe stata a senso unico, sempre.
Scemo lui nell'essere stato così ingenuo e speranzoso.
Vide dei ragazzi fermarsi di fronte al suo passaggio e, riconoscendoli come alcuni dei suoi compagni di classe -alcuni dei pochi che sopportava a dire il vero-, decise allora di fermarsi a parlare un pò con loro, già vedendo riflessa nei loro occhi una sorpresa che sicuramente aveva a che fare con l'argomento citato poco più sopra. Lui non disse nulla in principio, limitandosi a camminare verso di loro con la sua solita aria elegante e severa, e guardandoli con quegli occhi gelidi che il più delle volte erao capaci solo di farti accapponare la pelle. Furono i suoi amici a parlare per primi, tutti sorridendo e felici che, per una volta, potevano parlare con lui senza che scappasse trafelato da un'altra parte.
«Come va El?» chiese il primo, portando il braccio intorno al suo collo e costringendolo a piegarsi visto che non solo era più alto di lui ma per di più questo lo stava attirando a sè con una foga inaudita «Problemi in paradiso?»
Elliot si divincolò senza troppi problemi, sistemandosi subito la divisa scolastica e guardandolo storto.
«Non so di che parli Dean.»
Il ragazzo, di altezza media e dai capelli scuri, si mise a ridere come un matto, facendolo irritare un poco di più: era evidente che non credeva a quello che stava dicendo o, molto più semplicemente, era difficile immaginare che una mente contorta come la sua non stesse affrontando nessun ragionamente inutile in quel momento. Elliot si mise le mani sui fianchi, scuotendo il capo. Con uno come Dean c'era ben poco da fare, in fin dei conti lo conosceva benissimo, si frequentavano da quando avevano rispettivamente sei e cinque anni!
«So bene che il tuo cervellino pessimista si è fatto un altro viaggio dei suoi...» disse l'amico, prendendolo per le spalle e spingendolo fuori dall'edificio scolastico, lontano da orecchie indiscrete che di certo non potevano capire che razzai di istante delicato fosse quello «...Avanti, raccontami tutto.»
I due cominciarono a camminare, uno di fianco all'altro, dapprima in silenzio visto che uno stava cercando le parole giusto da dire e l'altro era intento ad attendere che l'ispirazione venisse a far visita al compagno. Elliot non voleva dilungarsi troppo, non era persona che amava parlare di sè in particolare, men che meno quando si trattava di cose come quella che stava vivendo adesso, era però anche ovvio che non avrebbe mai potuto accantonare i suoi sentimenti come se nulla fosse, raccontando le cose che aveva passato a metà e senza spiegarle completamente. Doveva essere sincero insomma, forse anche più del solito.
«Centra Célie per caso?»
Al suono di quella domanda, il ragazzo si irrigidì di colpo e, guardando l'amico, non poté fare a meno di esibire uno sguardo alquanto disperato: sì, era per lei che stava così adesso, non c'erano dubbi a riguardo.
Annuì.
«E figuriamoci.» disse ancora Dean, sorridendo sornione «Ah, che l'amore così dolce alla vista debba dimostrarsi così crudele una volta posseduto!»
Lo aveva sempre detto, Dean poteva sembrare un ragazzo senza cervello a cui piaceva solo andare dietro alle donne, divertirsi con loro e fare scorribande con gli amici, ma una volta che ti capitava qualcosa, qualcosa di veramente brutto, era sempre disposto ad ascoltarti per darti una mano. Inoltre, lo si capiva subito, aveva una stroardinaria capacità di comprendere all'istante cosa ti stava affliggendo, come in quel caso.
«Non mi sarei mai aspettato che, uno come te, alla fine riuscisse a trovare qualcuno di cui potersi innamorare per davvero.» continuò, portandosi una mano al mento e grattando la pelle leggermente «Mi ha un poco sconvolto questo tuo improvviso interesse verso l'universo femminile.»
«Ehi, io non ho mai detto di non essere interessato alle ragazze.»
«Sì ma, sai com'è, stavi sempre intorno a me, non ti facevi avvicinare mai da nessuna fanciulla, ogni volta che ti parlavo delle mie serate mi costringevi a cambiare argomento...»
Dean rise ancora una volta, costringendolo a voltarsi per vedere che razza di faccia stesse facendo: no, non poteva credere che fosse giunto ad una conclusione simile.
Elliot avvampò «Dean! Io non sono gay!»
«Beh, ora lo so.»
«Ma come hai potuto pensarlo?!»
«Te l'ho detto, dopo tutte quelle stranezze ad una persona viene il dubbio...»
«Solo perchè non mi va di starti a sentire mentre mi parli di certe cose non significa che sono omosessuale, santo cielo!»
«Ok ok.» disse, portando le mani avanti a mò di resa «Passiamo alle cose importanti adesso. Cosa è successo con Cèlie?»
Raccontò ogni cosa, senza risparmiarsi nulla nè circa i suoi timori nè rispetto a quello che aveva fatto la sua piccola principessina. Per tutto il tempo, mentre camminavano, Dean non lo interruppe neanche una volta e rimase fermo, ad annuire di tanto in tanto, con l'aria di chi non solo stava prestando un orecchio alle sue parole ma anche di chi stava seriamente riflettendo su quello che gli veniva rivelato. Man mano che quella conversazione andava avanti, il peso che Elliot sentiva sul cuore sembrava affievolirsi sempre di più, come non fosse mai estisto anche se, lo sapeva fin troppo bene, quella era solo una sensazione momentanea. Purtroppo, una volta tornato a casa, si sarebbe ritrovato di nuovo a pensare a lei, a quanto la amava e a quanto la desiderava. Al fatto che ogni suo sorriso era per lui una poesia e alla felicità che gli dava il saperla felice a sua volta. Al fatto che, anche solo sfiorandola, si scatenavano dentro di lui sentimenti così forti da mandarlo completamente in tilt, costringendolo a sedersi per riprendere fiato, neanche avesse corso per delle ore interminabili.
Come poteva dimenticare tutto quello?
Come?
«Sei sicuro di quello che dici? Vuoi davvero dimenticarla?»
Dean lo bloccò, mettendogli un braccio davanti al petto e ostentando uno sguardo così serio da fare quasi paura. Non sembrava nemmeno lui tanta era l'enfasi che gli si vedeva riflessa negli occhi. Era chiaro, aveva scovato qualcosa che non quadrava nel quadro che lui gli aveva offerto, ma di certo gli avrebbe fatto sudare almeno cinquanta camice prima di dirgli che cosa era con esattezza.
«Non mi hai sentito?» domandò a sua volta, spostando il braccio dalla sua traiettoria come se gli desse enormemente fastidio «Lei non mi ama più...anzi, dubito che mi abbia mai amato per davvero.»
«Idiota.»
«Che?!»
«Ti vanti tanto di capire le persone con uno sguardo e manco riesci a capire la ragazza che ami.» continuò Dean, sbuffando sonoramente e mettendosi le mani nelle tasche «Célie stravede per te, lo si capisce lontano un miglio. Ogni volta che l'ho vista posare lo sguardo su di te, il suo viso si illuminava di luce propria, facendola diventare ancora più bella. Davvero non capisci quanto la tua presenza le abbia cambiato la vita?»
Il ragazzo se ne rimase muto di fronte a quella rivelazione.
«Célie ti ama Elliot, eccome se ti ama! È chiaro che c'è qualcosa, in tutta la faccenda del tentato suicidio, che non va.»
Gli posò una mano sulla spalla, cercando di riscuoterlo: adesso probabilmente aveva stampato in volto un viso quanto mai idiota, della serie "sorrido perchè mi sono reso conto solo adesso di una cosa magnifica".
«Qualcuno le vuole male Elliot.»
Bastò questo a farlo rinsavire, obbligandolo ad ostentare un viso fin troppo attento.
«Devi correre da lei, perchè se è come penso...» esordì Dean, pacato e preoccupato «Allora la storia non è finita qui.»

(N.d: Wow. Mi sono resa conto solo di recente di quanto un manga che sto seguendo mi abbia ispirata smisuratamente per questa fanfic! Il canto delle stelle è davvero stupendo, lo consiglio agli amangi degli Shoujo manga ù.ù Kana-chan is the best! LOL Ad ogni modo, andiamo sempre per il meglio qui, la storia si infittisce, uuuuuhm.)

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Capitolo 6
*** Parenti, che passione! ***


Cèlie ancora non si era arresa e, nonostante fosse consapevole del fatto che l'orario delle visite era ormai in procinto di giungere ad una fine, si ostinava ad esibire un piccolo sorriso ingenuo, ripetendosi mentalmente che c'era ancora del tempo, che Elliot stava per arrivare irrompendo dalla porta di cui ormai conosceva ogni più piccolo particolare. Non voleva arrendersi di fronte all'evidenza, non voleva pensare che lui poteva non desiderarla più.
"Ancora poco" si disse, stringendo le mani sulle candide lenzuola sterilizzate dell'ospedale "...ancora poco e lui arriverà."
fu solo quando sentì alcune lacrime scendere dagli occhi che, in un sussulto, si rese conto di quanto stupida fosse sempre stata. Quella che aveva avuto sino a quel momento non era stata altro che fortuna sfacciata, forse persino troppa nel suo caso: Elliot che le stringeva la mano, le parlava con sincerità ed arrossiva ogni volta che lei gli diceva quanto speciale fosse...tutto quanto era solo un'enorme bugia, l'ennesimo scherzo crudele del fato.
Probabilmente, il tempo trascorso assieme, non era che illusorio. Lui non la amava affatto.
"Io però...io ti amo Elliot!"
Eccome se lo amava, lo amava quasi più dell'aria, della sua vita stessa. Era arrivata al punto di non poter nemmeno pensare con chiarezza se lui non era nei paraggi, als uo fianco, pronto a sorriderle con timidezza. La sua persona era in grado di illuminare tutto il resto, facendolo risplendere di luce propria e permettendo, persino alla piccola Célie, di vedere ogni cosa singola cosa sotto ad una luce diversa, migliore.
Come avrebbe fatto senza di lui?
«Oh, la mia piccina! Célie!»
Quella voce fece rabbrividire la ragazza che, come risvegliatasi da un sogno, tornò a fissare con occhi gonfi dal pianto la porta della sua stanza: là, sorridente e con finte lacrime a solcarle le guance rosee, c'era sua zia. Rimase incredula a guardarla, come incapace di dire anche solo una cosa che potesse avere un senso compiuto. Persino respirare era fuori discussione adesso, le veniva fin troppo difficile.
«Come vede si è svegliata.» disse il Dottore, incitando la donna a farsi avanti mentre lui chiudeva la porta dietro di sè «Sta meglio, ma non la strapaz-...»
Non fece neanche in tempo a dirlo che lei si fiondò su Célie per abbracciarla, stringendola asè con una dolcezza del tutto innaturale se paragonata al modo in cui solitamente la prendeva. La giovane sgranò gli occhi, portando le mani avanti come a volersi proteggere da quella che, almeno di solito, era la furia della zia contro di lei. Posò i palmi sul petto della donna, pregando di avere abbastanza forza per respingerla nel momento in cui quella bontà momentanea sarebbe svanita, lasciando spazio al solito, infinito disprezzo. Un vero peccato però che, almeno in quel momento, Cèlie non avesse neanche la forza di muovere un singolo dito: quella situazione era così strana, così surreale, che la piccina si stava crogiolando nella speranza che improvvisamene sua zia non la odiasse più e che, finalmente, avesse preso a comportarsi sul serio come una madre per lei o, per lo meno, come un'amica.
Quante volte le aveva concesso un abbraccio così, pieno di tutta quella clemenza?
«Ah, è solo colpa mia! Non sono abbastanza presente!» esclamò Angelina, affondando il viso nella spalla della nipote «Perdonami...perdonami!»
«Signora Phantomhive...»
Il Dottore la spostò da Cèlie di peso, con forza «...la prego di darmi retta. Sua figlia non è ancor-...»
«Non è mia figlia.»
Uno strano sorriso comparve sul volto della donna, coronandole il volte e donandole un aspetto quanto mai strano «Io sono sua zia. La prego di chiamarmi Angelina, signor...?»
«Signor...Alastor.» rispose a bassa voce il medico di Cèlie, scuotendo leggermente il capo come se non comprendesse che gusto ci trovassi Angelina a continuare ad interromperlo. Ma c'erano ben altri motivi che lo spingevano a fare un simile gesto, primo fra tutti lo strano comportamento che la zia della ragazza aveva nei suoi confronti: a giudicare dal modo in cui la aveva appena abbracciata non avrebbe mai detto che le avrebbe dato fastidio l'essere scambiata per sua madre ed invece, non appena lui si era anche solo azzardato ad ipotizzarlo, lei gli aveva detto quella cosa con una stizza tale da fargli pensare quasi che non potesse soffrire la presenza della nipote nella sua vita.
«Angelina» disse, riprendendo il discorso e decidendo di non ficcare il naso in faccende che non lo riguardavano «...come sa, sua nipote ha tentato il suicidio.»
«Lo so.»
Célie alzò di colpo il capo: lei aveva tentato...che cosa?! «Converrà con me che questa è una situazione un poco, come dire, astrusa per noi tutti da dover affrontare.» continuò l'uomo, senza notare lo sguardo perplesso della diretta interessata «Siamo stati in grado di salvarle la vita, ma è la prassi che degli assistenti sociali vengano a farle una visita, sia a lei che alla piccola, prima che abbandoni l'edificio.»
«Capisco.»
Angelina guardò nella direzione della ragazza, appoggiando una mano sulla spalla di lei e affondandovi leggermente le unghie lunge e colorate di rosso. Célie trattenne un gemito, incapace di esprimere il brutto presentimento che stava avendo adesso, in quell'istante preciso. Lei non aveva alcun ricordo del suo tentato suicidio, ma forse, per quanto sgradevole fosse pensarlo, sua zia invece ne sapeva qualcosa.
«Le consiglierei inoltre di...sì, di portare sua nipote da uno psicologo.»
Di certo, con quelle parole, Alastor non voleva ferire i sentimenti di Célie ma, per quanto gentile egli potesse essere, era sempre meglio dare qualche consiglio in più alle persone, sopratutto se avevano a che fare con problemi gravi come il suicidio. Sentiva a naso che qualcosa non andava in quella per così dire famiglia e, nonostante tutto il desiderio che aveva di non immischiarsi, nel profondo non poteva fare altro che sentirsi enormemente preoccupato. Bastava uno sguardo per capire che genere di esistenza conducesse la ragazzina che stava ora nel lettino, vicino a lui: probabilmente non aveva molti amici, la sua salute era da sempre cagionevole e la sua bellezza e fantasiosità non le permettevano di essere ben vista dalle persone o, quanto meno, non sempre nel modo giusto.
...c'era poi sua zia che, a dirla tutta, non avrebbe convinto nessuno con quella farsa appena recitata.
«Vogliate scusarmi...» disse, sovrappensiero, mentre con una mano accarezzava dolcemente il capo della sua piccola paziente «...ho molto da fare oggi. Tornerò più tardi per vedere come ti senti, ok?»
Detto questo, dopo aver visto il cenno di assenso di lei, uscì immediatamente dalla stanza, desideroso di chiamare al più presto i servizi sociali per risolvere almeno un poco il mistero che era la relazione fra Angelina e la piccina.
Célie sentì la presa della zia allentarsi su di lei e, cercando di non guardarla direttamente negli occhi -cosa che sapeva darle enormemente fastidio-, prese a massaggiarsi la spalla dolente quando la vide allontanarsi da lei per andare verso la grande finestra che stava al fianco del suo comodino, non troppo distante dal suo letto. Sapeva che, a breve, sarebbe arrivata la ramanzina di turno. Le parole che sua zia aveva da rivolgerle non sempre erano insulti, ma il modo in cui la facevano sentire era sempre lo stesso: era come se, improvvisamente, Cèlie non fosse altro che un oggetto, un essere alla stregua dei vermi o di quanto più basso ci possa essere nella catena gerarchica della natura stessa. Non era più una persona, no, quello era un lusso che, secondo Angelina, non si poteva neanche permettere. Il fatto che la avessero portata da lei nel momento in cui i suoi genitori erano venuti a mancare non era stato altro che un disagio per la donna, un enorme e madornale errore.
Diceva sempre che era una fortuna che almeno Ciel, suo fratello, se ne fosse rimasto in Inghilterra, laddove era il suo posto.
Si preparò, quasi fremente, all'ennesima batosta.
«...a quanto vedo, sei riuscita ad ingraziarti anche il tuo medico.»
Non disse nulla, ben sapendo dove voleva arrivare.
«Non riesco mai a capire cosa ci trovino in te le persone, sopratutto gli uomini.»
Angelina tornò a guardarla, gli occhi scarlatti nuovamente puntati su di lei, severi e brillanti come non mai «Sei così inutile, così inetta. Davvero non capisco...»
Muovendosi con sinuosità e naturale grazia nella sua direzione, le arrivò ancora una volta vicino, afferrandole una ciocca di capelli blu che le cadevano dolcemente sulle spalle, lisci e perfetti come lo erano sempre stati. All'inizio il suo tocco fu normale, quasi docile, ma ben presto si tramutò in qualcosa di malvagio e crudele: tirò a se i capelli di Célie stringenovi sopra la mano a pugno, ridendo scioccamente del dolore che era impresso a chiare lettere sul volto della nipote. Non le importava che sentisse male, non le dava fastidio il pensiero che stesse ferendo qualcuno che, almeno in parte, possedeva il suo stesso sangue.
Stavolta la giovane non riuscì a trattenersi e, emettendo un suono rauco, si portò le mani tremanti alla bocca, come per smorzarlo. Un'altra cosa che lei non voleva, era che qualcuno sentisse le sue urla.
«Immagino che sia più che altro perchè sei carina.» continuò Angelina, senza smettere neanche di ridere «Proprio come lo era mia sorella...lei...lei attirava sempre l'attenzione, rendendomi quasi del tutto invisibile.
La detestavo per il semplice fatto che fosse così perfetta: sempre la prima della classe, sempre la più brava a suonare, sempre gentile con tutti...Ah! Solo io vedevo quanto fosse stupida!»
Prese il viso della nipote fra le mani e, muovendo il pollico sulla sua guancia pallida, adoperò ancora il suo sguardo torvo.
«"Perchè non puoi essere come tua sorella, Angelina?", "Perchè ti comporti sempre in modo così sgarbato con lei?"...i nostri genitori sapevano dire solo questo. Lo sai che mi ha portato via l'unico uomo che avessi mai desiderato più di qualsiasi altra cosa?!»
Oh se lo sapeva, lei non aveva fatto altro che ripeterglielo sin dal primo istante. Conosceva la storia dell'amore di sua zia per suo padre a memoria, e sapeva anche come andava a finire, ovvero con il matrimonio dei suoi genitori. Non aveva mai pensato che, in mezzo all'euforia generale, sua zia avesse patito pene così indicibili...o almeno, lo divenivano quando lei le raccontava.
«Tuo padre doveva essere mio. Solo mio...» sussurrò, digrignando i denti «...ma scelse lei.»
Finalmente lasciò andare il suo viso e, incrociando le braccia di fronte al petto prosperoso, fissò per un secondo buono il vuoto vicino a Célie. La rabbia che fluiva dal suo corpo era palpabile, la si sarebbe potuta sentire a chilometri di distanza e con la stessa identica intesità che a due passi da lei.
«Non potrò mai perdonarle il fatto di avermi separata da lui.»
«I-io però cosa centro con-...!!»
La mano di Angelina schioccò quando si adattò alla guancia di Célie, facendo un suono così orribile da lasciare la piccola in totale disappunto. Era sconvolta, ma quella di certo non era la prima volta che sua zia la picchiava, anzi.
«Centri perchè sei come lei! Tu sei come lei!» strillò la donna, tremante dall'ira «Quando sei arrivata a casa mia e ti ho vista te lo giuro, avrei voluto ucciderti all'istante! Non potevo credere che esistesse qualcuno identico a lei, in tutto e per tutto. Nonostante avessi appena vissuto una tragedia come la perdita dei tuoi genitori e nonostante fossi ancora sconvolta, il tuo viso era bellissimo e dolce, il tuo sguardo perso in un mondo pieno di sogni e speranze, i tuoi occhi grandi e stupendi...Ah, come ti ho odiata!»
Si mosse, leggiadra, verso la porta e, una volta poggiata la mano sulla maniglia, si fermò un solo istante per poter dire ancora qualcosa alla nipote.
«La prossima volta dovrò usare più polvere.» disse, con voce vellutata «O forse dovrò semplicemente chiamare l'ambulanza senza troppa fretta.»
Detto questo, lasciata una Célie in procinto di piangere tutte le lacrime che aveva, per l'ennessima volta, Angelina se ne uscì dalla stanza e prese a camminare lungo il corridoio incontrando però ben presto Alastor in compagnia di un ragazzino alto e slanciato, dall'aspetto elegante e ben curato. Un vero bocconcino.
Sorrise, maliziosa, facendosi avanti ed esibendo tutto il suo charme.
«Dottore!» esclamò, agitando la mano «Dottore!»
I due si girarono verso di lei e, aspettando che li raggiungesse, entrambi la fissarono con un poco di riluttanza nello sguardo. Riluttanza ben mascherata però.
«Signorina Angelina.» le rispose il medico, sorridente nonostante tutto «Come le è parsa Célie?»
«Era deliziosa...come sempre del resto. Quella ragazzina è così dolce, non trova anche lei? Verrebbe voglia di mangiarla.»
«Certo certo...Ah! Questo è Elliot, il ragazzo che, come le dicevo, ha frequentato assiduamente la camera di sua nipote per lungo tempo. È un'ospite fisso dell'ospedale ormai!»
Elliot non disse niente e, con occhi fiammeggianti tanto erano pieni di disprezzo, non si prese neanche la cura di mascherare almeno un pò l'odio che provava nei suoi confronti: allora, dopo tutto quel tempo, aveva modo di stare faccia a faccia con colei che aveva reso la vita di Célie un autentico inferno. Capiva molte cose ora che la guardava.
«Ah davveri...?»
«Sì, io tengo molto a sua nipote.»
«Interessante.»

(N.D: Qui compare anche Angelina Durless, o Madame Red nel manga. Personalmente io la rispetto molto nella serie, non ho niente contro di lei anche perchè ai miei occhi si redime subito dopo ciò che ha fatto con Grell, ma siccome mi serviva un cattivo mi è venuto quasi spontaneo pensare a lei. Mah. E che la adoro, mi sta simpaticissima! XD La mia mente contorta, al solito.)

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Capitolo 7
*** La felicità di un minuto può essere così labile. ***


Fosse stato per lui, avrebbe passato tutto il tempo della sua vita solo per poter smascherare quella maledetta donnaccia, dicendo a viso aperto quanto male trattasse la nipote e che genere di parole le rivolgesse, ma siccome al momento andava abbastanza di fretta non aveva la pazienza per poter stare là con lei ed il Dottore, ostentando una calma che, poco ma sicuro, non possedeva per niente. Aveva bisogno di vedere Célie, sopratutto ora che aveva appreso la grande notizia: si era svegliata, avrebbe potuto parlare di nuovo con lei, vederla sorridere innocentemente non appena incrociava il suo sguardo e, cosa assai più importante, avrebbe potuto dirle quello che sentiva per davvero nel profondo del suo cuore tormentato.
Ci aveva messo tanto a capirlo -anche troppo- ed era servito Dean per mettere assieme tutti i pezzi, ma ora che sapeva con assoluta certezza che anche la ragazza ricambiava i suoi sentimenti non vi erano più dubbi che tenessero. Doveva parlarle, doveva ad ogni costo...
E, guardando negli occhi rossi di Angelina, capiva che doveva farlo al più presto.
«Dottore, ho bisogno di vedere Célie ora.» disse infine, aggrottando la fronte e prendendo a fissare Alastor con ansia crescente. Sentiva che qualcosa non andava, lo sentiva a pelle, e mai come ora aveva bisogno di appurare con i suoi occhi che la sua principessina stesse bene per davvero.
«Uhm...lo sai sì che l'orario delle visite è finito...?»
«Lo so ma...»
«Questi giovani d'oggi. Non sono mai puntuali.»
Elliot fulminò Angelina senza farsi troppi problemi, trattenendo a stento l'irrefrenabile desiderio di prenderla a sberle esattamente come lei aveva fatto per anni con Célie. Che voleva adesso, impedirgli di vederla?
Ma certo, guardandola poteva anche darsi in fin dei conti.
«Sono consapevole del mio ritardo, ma lo sa che non è mia consuetudine darle dei grattacapi.» continuò allora il giovane, cercando di sorridere amabilmente quando invece avrebbe solo voluto rompere qualcosa là, davanti a tutti quanti «Ho davvero bisogno di vedere come sta Célie.»
Alastor annuì paziente, ben consapevole dell'ennesimo tumulto che si stava agitando nel petto di Elliot. Sin dal primo istante aveva compreso chiaramente quanto quei due ragazzi fossero legati l'uno all'altra: erano due anime affini, destinate a stare assieme, e nessuna forza al mondo avrebbe mai potuto dividerle, nemmeno delle regole scritte ed approvate da qualsiasi ospedale presente sulla faccia della terra. Sospirò, incapace di fare altro mentre con occhi comprensivi fissava il ragazzo davanti a sè.
Alzò lentamente il capo, facendo un piccolo cenno come a volergli dire che sì, poteva andare dalla sua piccina.
Elliot annuì, correndo subito nella stanza di lei.
Fu solo quando fu scomparso per il corridoio, dopo aver girato l'angolo, che Angelina si decise finalmente a parlare. Sapeva bene cosa pensava Elliot e, cosa più sconcertante, sapeva che non poteva che divenire un grosso problema per lei: era abbastanza chiaro che sapeva, che Célie non si era riasparmiata nessun particolare e che, adesso, poteva vedere il suo futuro andare in completamente fumo. Se solo qualcun'altro avesse capito allora addio a tutto, ogni cosa.
«Pensa davvero che sia il caso di farli vedere ancora?» domandò quindi, dimostrando uno sguardo alquanto preoccupato mentre ancora teneva gli occhi fissi nel punto esatto in cui il ragazzo era svanito solo pochi istanti prima che le cominciasse a parlare.
Alastor sembrò sorpreso di fronte a quella domanda, ben mantenendo dentro di sè la consapevolezza che qualsiasi cosa Angelina diceva doveva andare preso seriamente con delle pinze.
«Cosa intende dire?»
La vide voltarsi verso di lui, quegli occhioni enormi puntati nei suoi «Il signorino Nightray mi sembra una persona con la testa sulle spalle, senza contare che mi sono reso conto del profondo affetto che prova nei confronti di sua nipote.»
«Oh, non fraintenda, anche io mi sono accorta di quanto le voglia bene ma...» fece una pausa, guardando in basso «...non ha saputo di quello che è accaduto nella sua famiglia?»
«Accaduto...?»
Angelina, dentro di sè, sorrise come se già avesse la vittoria in pugno: di fronte a quell'uomo, che tanto sembrava interessato al benessere tanto di Cèlie quanto di Elliot, non poteva fare altro che sentirsi in una specie di botte di ferro. Era buono. Così buono che prenderlo in giro e rivoltare la storia come più le andava a genio sarebbe stato un gioco da bambini.
«Sa, sua madre ha ucciso i figli ed il marito dopo aver dato di matto.» rivelò «Aveva dei problemi mentali e, se mi permette, ho motivo di pensare che lui non sia da meno. Elliot intendo.»
Fu così che, prendendolo da parte, raccontò tutte le cose che si celavano nel passato del giovane, fin nell'ultimo dettaglio. Se lui aveva fatto delle ricerce sulla sua di vita, Angelina aveva fatto esattamente lo stesso nei suoi confronti, perchè se c'era una cosa che aveva imparato era che non bisognava mai lasciare nulla al caso. Sopratutto se in ballo si avevano cose che potevano valere una vita intera. Quasi quasi provava compassione per lui, ancora convinto che alla fine il bene avrebbe trionfato e che insieme a Célie avrebbe potuto vedere l'alba di un nuovo giorno appropinquarsi.
Dopo essersi liberata dei sospetti del Dottore e della sua "carissima" nipote...allora avrebbe trovato il tempo di occuparsi anche di lui, una volta per tutte.
Ma prima occorreva dare un incentivo a qualcuno affinchè glielo tenessero lontano quanto bastava per poter mettere in atto il suo secondo tentativo di uccidere Célie.
La prima volta aveva fallito, ma la seconda sarebbe andata bene.
In fin dei conti, anche con i suoi genitori ci aveva messo un pò prima di elaborare quel grandioso piano di vendetta.

Arrivato di fronte alla porta di Célie, Elliot non poté fare a meno di fermarsi ancora una volta con la mano per aria, appoggiata alla maniglia fredda e metallica come se, lasciandola, avesse rischiato la sua stessa vita. Adesso era sicuro, certo che i suoi sentimenti non fossero a senso unico, però comunque non riusciva ancora a togliersi di dosso una fastidiosa consapevolezza: lui sapeva, sapeva fin troppo bene, che nell'esistenza umana non vi era mai spazio per il lieto fine. Non avrebbe lasciato sola la ragazza che amava, ma lo stesso Angelina si sarebbe messa in mezzo all'infinito, per sempre, rendendo le loro vite impossibili o peggio ancora dividendoli. Vi erano così tante incertezze in quel momento nel suo futuro che stentava quasi a contarle tutte, ponderando ogni singola sentenza fino a venire a capo con una soluzione adatta.
No, non era da lui preoccuparsi a quel modo, no davero, però...
Solo in quel momento si rese conto di un rumore strano, sommesso, che proveniva da dietro alla porta che conduceva alla stanza di Célie. Era un suono pacato, interrotto alle volte da dei singhiozzi, un qualcosa che lui aveva imparato a riconoscere negli anni che aveva passato a sbirciare nella stanza della madre quando ancora stava bene nonostante sapesse che suo marito la tradiva. Soffriva, glielo si leggeva negli occhi, ma lo stesso tirava avanti con forza aggrappandosi all'amore che provava per i propri figli. Per tutta la vita sua madre aveva lottato con le unghie e con i denti per riuscire a dare un avvenire alle creature che aveva messo al mondo con l'uomo che aveva sempre amato, però alla fine qualcosa si era spezzato e lei non era più riuscita a rapportarsi con il resto del mondo come si doveva.
Piano piano ogni memoria, ogni ricordo che aveva gelosamente custodito nel cuore e che la aveva spinta a vivere fino a quel momento scomparve del tutto dalla sua mente lasciando solo il vuoto, assieme ad una cieca rimembranza di quello che un tempo era stata.
I pianti che faceva nella sua camera, di notte, Elliot non li aveva mai dimenticati.
Mai.
Il ragazzo aprì la porta lentamente, il cuore che batteva così forte da fargli quasi male mentre con occhi sgranati si decideva finalmente a mettere almeno la testa dentro alla stanza. In principio non vide molto, solo un pò di buio e una sagoma inginocchiata sul lettino al centro della saletta, ma grazie alla fioca luce che penetrava di tanto in tanto fra una nuvola di pioggia e l'altra ben presto Elliot fu in grado di azzardarsi a fare qualche passo verso di lei, verso la sua Célie.
Dapprima erano passi indecisi, lenti, calcolati. Era un pò come se non volesse che Célie lo vedesse, come se avesse preferito rimanere celato nell'ombra per sempre piuttosto che interrompere con la sua presenza l'istante che la ragazzina stava vivendo da sola: anche così, disperata, in ginocchio, lei era bellissima. Elliot ancora non capiva come potesse sembrare un angelo in qualsiasi circostanza.
Davvero, c'era qualcosa di magico in tutto quello che stava vedendo, peccato che il suo solito carattere irruento non gli permise di far durare quella calma lungo.
«Célie...» sussurrò, con voce così flebile che persino lui aveva fatto fatica a sentirla.
Le vide alzare impercettibilmente il capo, come se neanche lei fosse certa di aver sentito effettivamente qualcosa o meno.
«Célie, come stai?»
Lei si mosse di scatto e, tirando su definitivamente il capo, puntò quegli occhi eterocromatici su Elliot facendolo arrossire di colpo: era da troppo tempo che non aveva occasione di specchiarsi in quelle iridi che, a differenza di tutto il resto del mondo, amava come mai aveva amato una semplice caratteristica di una persona. Le si era già avvicinato, in un soffio, senza nemmeno rendersene conto, le sue mani già la stavano cercando ossessivamente. Dio, quanto aveva bisogno di stringerla a sè.
«E-Elliot...» disse Cèlie, piangendo lacrime amare che purtroppo lui aveva imparato a rincondurre alle angherie subite a causa di Angelina «Elliot!»
Si fiondò fra le sue braccia senza attendere oltre, obbligandolo quasi a sdraiarsi con lei sulla branda tanta era la foga che impresse in quel singolo gesto. Da quell'abbraccio, fu in grado di comprendere quanto Cèlie nella realtà dei fatti avesse sofferto e quanto ancora stesse soffrendo: era stato uno sciocco a credere che la sua sola presenza non avesse significato nulla per lei, non più di un passatempo. I momenti bui che quella piccola ragazzina aveva dovuto passare erano così abominevoli che persino uno come lui, che in quanto ad aver vissuto cose non proprio piacevoli poteva essere considerato una specie di campione, veniva costretto a mettersi da parte per lasciare il primo posto assoluto a Cèlie.
La strinse forte, accarezzandole dolcemente i capelli e intrecciando le dita con quelle di lei nell'istante stesso in cui ebbe modo di poterla guardare negli occhi.
Aveva pensato ad un sacco di cose nel lasso di tempo passato lontano da lei, davvero, si era preparato anche un discorso perfetto da recitarle quando finalmente si sarebbero potuti parlare faccia a faccia, ma ora che stavano lì e non era più solo lui a parlare, sembrava che tutto gli morisse in gola impedendogli di esprimersi come si conveniva. Sospirò, pensando che la sua innata timidezza nei suoi confronti forse non sarebbe mai e poi mai svanita come invece sperava.
«Avevo...tante di quelle cose da dirti...» cominciò, scuotendo il capo «...eppure adesso non ricordo niente. Bello scemo che sono.»
«Non importa.» disse allora Célie, avvicinando lentamente il viso a quello del ragazzo «Non...non importa.»
Posò un bacio leggero sulle sue labbra, così, senza neanche riflettere.
Normalmente non si sarebbe di certo permessa di comportarsi in modo così sfacciato con Elliot, ma sentiva nel profondo che, se non ci avesse pensato subito a fargli capire ciò che provava, allora non ci sarebbero più state altre possibilità per lei. Sua zia, la donna che avrebbe dovuto prendersi cura di lei ma che invece sembrava intenta e desiderosa di fare tutt'altro, non le avrebbe più permesso di vederlo. Aveva in mente qualcosa e, per quanto Cèlie desiderasse la vicinanza di Elliot in un momento del genere, non voleva nemmeno che si andasse a cacciarenei guai per colpa sua.
Non si sarebbe mai perdonata se, in una spiacevole eventualità, lui avesse rischiato la vita.
Interruppe quel contatto solo per far sì di imprimersi per sempre l'immagine di Elliot nella mente, nella speranza che fino al momento della sua fine non se fosse andata via.
«Ti amo...» esordì, sorridendo dolcemente «Ti amo così tanto, così tanto...»
Il ragazzo non potè ricambiare quel sorriso in quanto ben conscio della malinconia che era impressa a chiare lettere sulle labbra di Célie. Sapeva a che stava pensando, lo sapeva perchè anche lui era stato assalito solo poco prima dagli stessi crucci, eppure adesso si ritrovava più sicuro e deciso che mai. Non le avrebbe permesso di farsi carico di tutte le difficoltà da sola, come aveva fatto sino a quel giorno.
Quella storia doveva finire.
«Ti amo anche io.» disse solo, abbracciandola di nuovo e lasciando che lei si accoccolasse sul suo petto in cerca di quel calore che, a sua insaputa ovviamente, tanto le era mancato.
Un modo per fermare Angelina ci doveva essere.
E lui lo avrebbe trovato.

«Come sarebbe a dire che non posso vederla?!»
La voce di Elliot era udibile da tutto l'ospedale eppure lui, arrabbiato quanto mai, non si decideva ancora ad abbassare il tono con cui stava parlando al personale dell'edificio.
Come ogni mattina si era diretto verso la stanza di Cèlie quando, improvvisamente, un'infermiere lo aveva fermato intimandogli di non muovere un solo singolo passo in avanti. Non erano valse a nulla le sue proteste nè i suoi tentativi di chiamare Alastor per qualche spiegazione e più si agitava più altri idioti in divisa venivano fuori dal nulla per fermare il suo attacco di nevrosi.
Lo stavano trattando come se fosse un pazzo, e la cosa non gli piaceva per niente.
«Abbiamo ricevuto ordini d-...»
«Di tenermi lontano, ok, ma perchè?»
L'uomo che aveva avanti, di statura media ma largo come un armadio a due ante, sembrò tentennare di fronte a quella domanda. Forse nemmeno lui, che eseguiva gli ordini, sapeva bene come mai doveva interporsi a quel modo fra Elliot e la sua ragazza. Come mai adesso venivano fuori problemi? Perchè proprio ora che Célie si era svegliata avevano deciso di non fargliela più vedere?
«Signorino Nightray.»
Girò lo sguardo in tempo per vedere due poliziotti alle sue spalle.
Erano in compagnia di Angelina e del Dottor Alastor.
«Deve allontanarsi da questo edificio.» continuò quello che aveva parlato per primo «Subito.»
Lui non si mosse, anzi, decise di sfidare quello sguardo severo con uno altrettanto risoluto nella speranza che finalmente qualcuno gli avrebbe spiegato cosa esattamente non andava.
«Io non mi muovo.»
«Opporre resistenza non farà altro che aggravare la sua situazione.»
«Non capisco nemmeno di che cosa lei stia parlando.» rispose Elliot, girandosi del tutto per poterlo vedere meglio.
Non sembrava cattivo, però al momento gli pareva come la creatura più idiota del mondo.
Dopo Angelina, ovvio.
«La signorina Durless ci ha specificatamente chiesto di tenerla lontana da sua nipote visto che, stando a quello che dice, rappresenta un pericolo per lei.»
«Io?»
Elliot non ci poteva credere «Io sarei pericoloso per Célie? E lei allora?!»
«Ecco, lo vede? Questo ragazzino non sa trattenere la rabbia!» cominciò a dire la donna, aggrappandosi con forza al poliziotto che aveva accanto come se fosse indispensabile che la proteggesse dalla sua furia omicida «La mia piccina ha dovuto sopportare chissà quali angherie da parte di questo bruto! Ogni giorno le scovavo un sacco di lividi addosso da quando lo ha incontrato!»
L'uomo che fino a quel momento aveva conversato con lui si girò per guardare Alastor che, scuotendo il capo, non aveva levato gli occhi di dosso a Elliot.
«Effettivamente...abbiamo trovato segni di precedenti contusioni e anche...rimasugli di arti rotti quando abbiamo fatto gli esami alla piccola.»
Era vero, tutti erano rimasti sconvolti nello scoprire che un corpicino già mal messo come quello di Célie aveva dovuto sopportare tutte quelle cose, ma mai aveva creduto che dietro a quelle cattiverie ci potesse essere proprio uno come Elliot.
Alastor non poteva crederci, eppure non disse niente perchè anche se credeva di sapere cosa stesse accadendo nella realtà dei fatti, ancora non aveva nessuna prova. Angelina aveva coperto per bene le sue impronte.
«Questo basta ed avanza per denunciarla, signorino Nightray.»
«No, mi basta che stia lontano da mia nipote per sempre.» aggiunse Angelina, passando affianco ad Elliot per dirigersi nella stanza di Cèlie «Non voglio che questa storia si protragga ancora. Ne ho abbastanza delle persone che si intromettono nella nostra vita.»
Lo sfiorò appena con una spalla, sorridendogli e facendogli venire il sangue alla testa.


(N.D: Le persone che, vicino a me, hanno letto questo capitolo si sono mangiate le mani dal nervoso quasi. Hanno odiato Angelina già dal capitolo precedente, ma con questo ho decisamente dato loro un motivo in più per detestarla senza possibilità di appello. Quando mi ci metto so essere crudele anche io. Che altro dire? I capitolo si sono allungati eh? Mi dispiace se vi annoio XD ma così vanno le cose.)

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Capitolo 8
*** Piccoli grandi eroi. ***


Quello, poco ma sicuro, stava diventando il volo più lungo della sua intera esistenza: non era mai stato capace di apprezzare appieno le "gioie" del viaggio in aereo ma, ora che oltre al terrore dell'altezza e all'idea di poter cadere del vuoto da un momento all'altro si era aggiunta anche l'ansia di arrivare il prima possibile a destinazione, la cosa si era fatta persino peggiore.
Aveva le mani sudaticce, il cuore stava battendo fortissimo, i suoi nervi minacciavano di cedere da un istante all'altro e, come se tutto quello non bastasse, il vecchio magnate delle finanze alla sua destra non la smetteva di sproloquiare circa tutti i soldi che possedeva, al gran numero di amanti che aveva avuto nel corso della sua esistenza -abbastanza lunga a giudicare dalle rughe evidenti sul suo volto e sulle mani, per non parlare della pelle flacida lungo il collo- e a come stavano i figli a casa. Ad Elliot poco importava della sua famiglia! E il bello era che glielo aveva anche detto apertamente "Non sono dell'umore giusto per ascoltare chiacchiere simili", ma lui niente, aveva continuato a parlare e a parlare ancora. Era una cosa insopportabile!
«Ha chiamato?»
La voce calma e vellutata della hostess, comparsa magicamente al suo fianco, gli fece dimenticare per qualche secondo la parlantina dell'uomo poco distante da lui. Tentò di ricambiare quel sorriso, per quanto, lo sapeva bene, il suo era fin troppo tirato e sforzato.
«Sì, volevo chiedere un bicchiere d'acqua...» disse, cautamente.
«...e poi non sai quanto Stan, il mio cane, sia noioso alle volte. Comincia ad abbaiare come se niente fosse, e non la smette più! Abbaia, abbaia, abbaia...da quando lo abbiamo castrato si comporta così.»
Elliot sospirò. «...ed un'aspirina, grazie.»
Lei sorrise amabilmente, dirigendosi ben presto verso il piccolo corriodio ove gli addetti tenevano tutto il necessario per poter soddisfare al meglio i passeggeri dell'aereo. Gli occhi azzurro ghiaccio del ragazzo la seguirono per un poco, come ansiosi di vederla tornare di volata da lui o, forse, desiderosi di fissare la mente di Elliot su qualcosa che non fossero gli sproloqui di qualcuno troppo estroverso o i problemi che stava affrontando a casa.
Già, a casa.
Era partito da poco e già sentiva la mancanza della sua Célie anche se, in fin dei conti, erano ben tre giorni che non gliela facevano vedere. Angelina aveva ordito un qualche diabolico piano per tenerli lontani e, a giudicare dalle forza armate intorno all'ospedale e vicino alla stanza di sua nipote, era anche chiaro che non era disposta a vederlo fallire poi tanto facilmente. Probabilmente aveva calcolato tutte le sue mosse con la minima precisione, tenendo comunque conto del temperamento difficile di Elliot e della difficoltà che trovava nell'abbandonare un qualcosa cui teneva. Sì, era su quello che giocava, sul suo desiderio di stare per sempre con Célie e sulla sua dannatissima testardaggine.
Dando in escandescenze, qualche giorno prima, non aveva fatto altro che aggravare la sua situazione dando modo ai poliziotti di constatare che la zia della piccina aveva ragiona e il sacrosanto dovere di tenerlo alla larga da Célie.
Era per quello che aveva deciso di prendere un volo per Londra.
Là, in Inghilterra, c'era la sua ultima speranza di vedere risolta quell'intera, orribile e straziante faccenda. Non aveva mai parlato una volta con Ciel Phantomhive, ma a sentire i racconti della sua adorata principessina i loro caratteri erano alquanto simili: testardi, duri, intelligenti, desiderosi di mantenere il loro lato dolce ben nasconsto...
Qualcosa del genere insomma.
«Ecco qui.»
L'Hostess era tornata con il suo prezioso carico e, porgendo un bicchiere ad Elliot, tese al ragazzo anche l'aspirina da lui tanto agognata. La prese in un soffio, mettendosela in bocca poco aggrazziatamente e bevendo di conseguenza il liquido inodore ed incolore presente nel cristallo lucente. Nemmeno quell'aspirina sapeva di qualcosa di specifico, ma siccome non era mai stato un'amante delle medicine non poteva che rallegrarsi almeno di quel fatto. Quando si sentì a posto, riconsegnò il bicchiere alla donna e, guardandola, porse una domanda:
«Scusi, quanto manca all'arrivo?»
Lei lo guardò un poco sorpresa. «Uhm...credo manchi un quarto d'ora signore.»
«Un...quarto d'ora?»
La vide mentre, con occhio lesto, si metteva a guardare l'uomo che ancora stava parlando e non si era minimamente reso conto del fatto che Elliot non stava prestando molta attenzione a ciò che diceva. Sorrise, sinceramente divertita dalla situazione.
"Almeno qualcuno ci trova da ridere..." si disse lui, alzando le spalle.
«Oh, non si preoccupi e si goda il viaggio...» continuò «...per quanto le è possibile.»
Il problema era che Elliot non poteva godersi il viaggio in alcun modo.
Messi da parte i suoi timori e quel benedetto vecchiaccio, c'erano davvero troppi pensieri che vagavano indisturbati per la sua mente, congetture che non si poteva mettere da una parte neanche per un solo secondo importanti come erano.
Doveva salvare Célie, doveva assolutamente, e per farlo aveva bisogno del solo che potesse testimoniare contro sua zia.
Ciel, suo fratello gemello.

Inutile dire che, arrivato a destinazione, fu alquanto risentito nel vedersi rifiutato bellamente.
A quanto aveva capito, il signorino Phantomhive non era in vena di ricevire nessuno e, di conseguenza, gli era stato detto di attendere il giorno dopo o, al massimo quello seguente. Eh sì, perchè stando a ciò che i domestici avevano detto, Ciel era molto volubile e a meno che non fosse stato lui a deciderlo non avrebbe assecondato i capricci di nessuno.
"Qui l'unico che fa capricci è lui" pensò, mettendosi le mani sui fianchi e guardando storto il maggiordomo che aveva di fronte "Sono arrivato sino a qui, non posso tornare indietro.".
«Glielo ripeto, signorino Nightray, il padrone non la può ricevere oggi.»
Quel maggiordomo aveva qualcosa di strano, non gli piaceva per niente: forse era il suo sorriso apparentemente cordiale -che secondo lui nascondeva intenzioni ben lontane dalla cordialità-, oppure era il suo aspetto fin troppo perfetto, ma stava di fatto che il solo guardarlo negli occhi gli faceva in qualche modo salire il sangue alla testa. Non era mai stato tipo da essere geloso per la bellezza di qualcuno e non era certo quello a dargli sui nervi...
Era tutto il complesso, quell'aria in qualche modo diversa.
Qualcosa in lui non andava.
«E io ripeto a te che non mi interessa.» rispose Elliot, senza muovere un passo «Sono qui per un motivo molto importante e sono convinto che, una volta ascoltato ciò che ho da dire, anche il tuo caro padrone capirà la gravità della situazone.»
L'uomo dai capelli neri sorrise, affabile.
«Per me, le parole del signorino Phantomhive, sono legge.»
«...lodevole davvero, ma non è rilevante.»
«Lo è per me.»
Era come trovarsi davanti ad un muro, un muro invalicabile: quello là non aveva alcuna intenzione di cambiare idea e, cosa ben peggiore, lo stava trattando come se fosse un povero mentecatto.
«Senti un pò, pinguino imbalsamato, io non ho tempo da perdere chiaro?!» sbottò, muovendo le mani con fare agitato e minaccioso «Non sono venuto qui da dietro l'angolo, ok? Io vengo da Parigi, diamine! Parigi hai presente?»
«Una magnifica città.»
«Oh, certo. Magnifica. È magnifica quando non ci abitano personaggi allucinanti e completamente pazzi.»
«Pazzi?»
«Sì, pazzi! Donne acide e isteriche che provano gusto a malmenare le nipoti per chissà quale oscuro motivo e che, non appena qualcuno le minaccia, trovano un modo per imbonirsi l'intero corpo dell'ordine della città!»
«Cos'è tutto questo chiasso, Sebastian?»
Il ragazzo alzò lo sguardo di scatto, incontrando ben presto la minuta persona di un giovane in piedi su per il grande scalone della villa, quello dell'entrata. I suoi occhi si sgranarono dalla sorpresa nel momento stesso in cui, per ovvi motivi, si rese conto della grande somiglianza effettiva fra Ciel e Célie: stessi capelli di quel blu acceso, che risplendeva sotto ai deboli raggi di luce -fossero essi di una semplice lampada o del sole-, stessa statura e stessa corporatura, stessi occhi bicolore, grandi e capaci di parlarti anche senza che le loro bocche emettessero un solo singolo suono...
Solamente l'espressione, nei due gemelli, era diversa. Dove una sorrideva radiosa e sapeva farti sentire a posto con te stesso, l'altro ti faceva invece sentire nel modo inverso, come se non avessi nessun motivo di esistere o, comunque, nessuno per stare davanti a lui. Elliot rimase un secondo in silenzio, ponderando quella piccola ed unica differenza.
«Chi dovrebbe essere quello?» chiese allora Ciel, già spazientito di suo «Avevo specificatamente chiesto di non essere disturbato da nessuno.»
«Lo stavo appunto dicendo a que-...»
«Il mio nome è Elliot Nightray.» esordì il ragazzo, facendosi avanti e superando Sebastian per posizionarsi poco più in basso di Ciel, gli occhi azzurro ghiaccio pieni di quella sicurezza che nel corso degli anni lo aveva aiutato in ogni singola occasione, anche la più difficile «Vengo da Parigi e, sebbene lei ancora non mi conosce, io so molte cose sul suo conto.»
«Interessante davvero, ma ora se non le dispiace vorrei davvero stare solo...»
«In un altro momento sarei felicissimo di lasciarla in pace, mi creda» continuò lui, imperterrito «ma si da il caso che non sia questo il caso. Ho bisogno del vostro aiuto.»
«Del mio?»
Lo vide sorridere, un ghigno cupo e privo di quel barlume di felicità o gaiezza che dovrebbe essere sempre impresso in un'espressione come quella. No, Ciel era del tutto differente da Célie. Le cose che avevano dentro non potevano venir paragonate le une con le altre in alcun modo, nemmeno volendolo con ogni fibra del proprio essere. C'era tanta di quella rabbia in suo fratello, tanto di quello sdegno da lasciare perplessi persino uno che, come Elliot, aveva passato la sua vita a crogiolarsi nel suo pessimismo.
«Sì, del suo.»
«Ho molto da fare, non credo davvero di avere il tempo di starla a sentire.»
«Non chiedo aiuto per me.»
«...posso osar chiedere per chi allora?»
«Per Célie.»
Eccola l'espressione che voleva vedere dipinta sul volto di Ciel che, già pallido di per sè, al suono di quel nome si era fatto anche più bianco e cadaverico. Il giovane scese velocemente lo scalone arrivandogli proprio di fronte e, a pochi passi l'uno dall'altra, punto i suoi occhi in principio severi ma ora preoccupatissimi in quelli di ghiaccio di Elliot. Gli chiese all'istante di raccontargli tutto quello che sapeva sulla gemella, tutto, anche le cose più piccole e meno significative della sua vita. Era da tempo ormai che non riceveva sue notizie, da mesi che le sue lettere non avevano risposta e, sopratutto, da un anno che non parlava con lei nemmeno per telefono.
In un modo o nell'altro, disse, c'era sempre qualcosa che glielo impediva, qualcosa che obbligava sua zia a riattaccare prima che lui potesse anche solo chiedere di Célie.
"Dio, quanto è furba..." pensò allora l'altro, digrignando i denti e stringendo i pugni mentre, trattenendo la rabbia, cominciava a raccontare dal principio.

Dean non era una persona che si faceva troppi problemi, anzi.
Non gli volevano aprire la porta? E allora sarebbe entrato da solo, in un modo o nell'altro. Che gli importava di dare nell'occhio? Tanto meglio a suo avviso, così se qualcuno lo avesse visto e poi avesse chiamato la polizia, in caso alla fine fosse successo davvero qualcosa, avrebbe avuto abbastanza fortuna per poter evitare di farsi male e di lasciare Célie da sola. A lui non era mai piaciuto immischiarsi delle vicende altrui, ma quando Elliot lo aveva supplicato di tenere d'occhio tutta quella assurda faccenda per conto suo mentre lui era via, non aveva di certo potuto dirgli di no.
Elliot era il suo migliore amico, una di quelle poche persone che aveva la saggezza di andare oltre la sua barriera di idiozie e spavalderia per addentrarsi fin sotto la scorza che ricopriva il suo cuore: ne avevano passate molte insieme e entrambi conoscevano ogni particolare della vita dell'altro, e di conseguenza non lo avrebbe mai lasciato solo, sopratutto non ora che aveva così bisogno di qualcuno che lo sostenesse.
Angelina, la zia di Célie, aveva fatto un lavoro eccelso nel metterlo fuori combattimento, su questo non c'erano proprio dubbi.
Lui aveva sempre saputo che dietro al suicidio dell'amica non poteva che esserci qualcun'altro, ma mai avrebbe creduto che potesse essere proprio colei che la aveva accolta in casa sua in un momento quanto mai buio della sua esistenza. La morte dei genitori di certo non doveva essere stata semplice da digerire per la piccola Phantomhive, erano ferite quelle che non si rimarginavano subito e forse neanche mai del tutto. Sua zia avrebbe dovuto capirlo, eppure...
"Ah, certa gente dovrebbe crepare fra le fiamme dell'inferno" si disse Dean, arrampicandosi su per l'edera rampicante della villa dei Durless "O quanto meno dovrebbe trovare un modo alternativo per scaricare la rabbia...che ne so, magari ficcandosi le mani nel sedere..."
Sorrise nell'ombra mentre, passo dopo passo, si faceva sempre più vicino a quella che aveva dedotto fosse la finestra della camera da letto di Célie. La notte era calata da un pò a Parigi, però la luce dei lampioni vicini gli permetteva di muoversi liberamente lungo il muro candido dell'enorme casa che stava scalando manco fosse il monte Everest. Nonostante tutto stesse volgendo per il meglio però, e nonostante nessuno ancora avesse urlato Ommiodio, c'è un ladro a villa Durless, il ragazzo non si sentiva del tutto al sicuro ora come ora: aveva imparato a dare sempre ascolto al suo sesto senso e mezzo, un pò come Dylan Dog, e quello adesso gli stava dicendo che sì, si stava andando a ficcare nella bocca del lupo.
Ma aveva forse altra scelta?
Chi, oltre lui, poteva andare a liberare Célie per prendere tempo mentre il suo vero principe era via?
"Cavolo...sono la spalla?! Io dovrei essere l'eroe!"
Si diede del Robin in un secondo, spalancando la finestrona che, per puro miracolo, era stata dimenticata aperta nel tardo pomeriggio quando avevano deciso di arieggiare la stanza. Entrato dentro si guardò attorno il tempo necessario per vedere che, oltre a lui, nella stanza di Célie non c'era assolutamente nessuno.
Strano visto che, appena tornata dall'ospedale, era pur normale il trovare l'ex paziente a letto a riposo.
Fu così che, sospirando, Dean si fece spazio fra le mille cose gettate ovunque che giacevano a terra, raggiungendo veloce ed elegante come un felino la porta che dava sul corridoio del secondo piano: sbirciò fuori un solo istante e poi, cauto, mise il naso all'esterno seguito a ruota dal resto del corpo.
Probabilmente, se appena uscito dalla porta non avesse udito un urlo, non si sarebbe mai diretto di corsa e a perdi fiato verso il piccolo salottino poco distante dalla camera in cui era precedentemente stato. Forse, se davvero non lo avesse sentito, si sarebbe risparmiato la visione di Célie legata ed imbavagliata stesa a terra, inerte, incapace anche solo di respirare.
Ma sopratutto, se le sue orecchie non avessero funzionato così bene, allora alla fin fine persino quella terribile botta in testa non sarebbe stata altro che un pessimo scherzo della sua fervida immaginazione.
L'ultima cosa che vide, cadendo a terra come un sacco di patate, furono gli occhioni bicolore della sua piccola amica che, pieni di lacrime, lo fissavano mentre perdeva i sensi.


(N.D: E finalmente sono arrivati anche le due honor guest della situazione, Sebastian Michaelis -alias il maggiordomo più gnocco e stupendo che mente umana abbia mai concepito e universo abbia visto- e Ciel Phantomhive -alias il conte inglese più snob che mondo abbia conosciuto, ma che adoro con tutta me stessa-, che ne dite? Li ho resi bene?
Ah beh, spero di sì ^^ Da qui in poi la cosa si fa difficile, spero che capiate.)

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Capitolo 9
*** Tutti insieme appassionatamente. ***


Fortunatamente, una volta venuto a conoscenza della verità che si celava dietro all'insistenza di Angelina nel non farlo parlare con la sorella, Ciel si era mostrato decisamente più disponibile di quanto avrebbe immaginato e, pronto a partire alla volta della Francia, aveva accompagnato Elliot all'aeroporto all'istante. Non ci avevano messo che pochi minuti nel parcheggiare la grande macchina nera e laccata del giovane erede Phantomhive proprio di fronte all'entrata, scendendo di corsa e percorrendo a grandi falcate il salone del grande impianto.
Seguiti a ruota da Sebastian, che sembrava un leale cagnolino alle costole del proprio padrone, i due ragazzi salirono sul primo aereo e, di tutta fretta, raggiunsero ben presto la loro meta.
Nessuno dei due voleva perdere tempo, anche un solo singolo istante poteva voler dire perdere per sempre quella persona tanto importante per entrambi: nonostante Ciel non la vedesse da molto tempo, era evidente quanto tenesse alla salvezza della propria gemella, proprio come Elliot non poteva che sentirsi in apprensione per colei che amava. Avevano uno scopo da condividere, ovvero portarla al sicuro.
«Dove andiamo adesso signorino?» domandò allora il maggiordomo dai capelli neri, gli occhi fissi su Ciel.
Anche Elliot si voltò verso di lui, le mani strette in due pugni abbandonati a loro volta lungo il corpo. Erano appena saliti su un taxi, ma a dire il vero nessuno sapeva ancora dove era meglio dirigersi.
«Conosco Angelina...» disse allora l'altro, facendo spallucce «...probabilmente ha approfittato della mancanza di Elliot e ha riportato Célie a casa sua.»
Ecco una cosa che avrebbe preferito non sapere.
«A casa...sua?» chiese il giovane, spaesato, portandosi una mano sulla fronte «...come hanno potuto lasciargliela portare via così?»
«Ha fatto in modo che credessero che tu fossi il responsabile del tentato suicidio di mia sorella, quindi immagino che nè i medici nè i poliziotti abbiano avuto da ridire di fronte alla sua richiesta di riportarla nella propria dimora.»
Fece una piccola pausa. «Senza contare che, di fronte alla legge, lei è la tutrice di Célie.»
Già, la tutrice. Ancora si domandava cosa avesse spinto uno come Ciel, che di certo non era uno sprovveduto, a lasciare la propria sorellina nelle grinfie di quella donna psicopatica, orribile e palesemente sospetta. Sapeva molte cose circa la loro vita prima e dopo la morte dei genitori, ma ancora gli veniva difficile mettere insieme i pezzi che potevano aiutarlo nel ricomporre la stessa sequela di pensieri che avevano spinto il suo nuovo compagno di avventure ad agire come aveva agito.
«Quindi...andremo a Villa Durless.» commentò infine, puntando quei suoi occhi severi tanto quelli di Ciel verso il guidatore della vettura «Sa dove si trova?»
L'uomo fece di sì con il capo, ridendo quasi sotto ai baffi.
Sì, in effetti era inutile chiedere una cosa del genere visto che erano davvero in pochi a non sapere dove si trovasse la villa dei Durless. Quella, poco ma sicuro, era una delle case più belle e ben tenute di tutta Parigi e, per di più, ci viveva una donna che era ormai rinomata in tutto il mondo per il semplice fatto di possedere la compagnia che aveva a che fare con il più famoso giornale di moda della Terra. Persino un buzzurro come quello che gli era capitato non poteva non sapere.
«Bene, ci porti lì.»
Ora che ci pensava bene, anche Dean doveva essere in quel luogo: gli aveva chiesto di vegliare al posto suo su Célie e, di conseguenza, veniva abbastanza immediato il pensare che lui avesse seguito zia e nipote fino alla villa. Si chiedeva se stava bene ma, nonostante la preoccupazione, non poteva davvero credere che uno come lui potesse in qualche modo farsi fregare da una donnaccia come Angelina. Era troppo furbo, davvero troppo, perciò forse non doveva nemmeno preoccuparsi.
«Una volta lì che faremo?»
La voce di Ciel lo distolse dai suoi pensieri.
«...a dire il vero non ho pensato a qualcosa di concreto ancora.» ammise Elliot, grattandosi la guancia distrattamente «Non capita certo tutti i giorni di dover sventare un omicidio.»
«Non capita a te forse...»
Alzò un sopraciglio, sorpreso: e che cavolo voleva dire quella frase? Lui era forse solito avere a che fare con cose simili tutti i santi giorni?
«Sentiamo allora, cosa suggerisci di fare? Chiamare la polizia?»
«Chiedere aiuto alla polizia servirebbe a ben poco.»
«E quindi...?»
«E quindi dovremo farci giustizia da soli.»
«Giustizia...da soli...?»
«Non preoccuparti, è una cosa semplice una volta che ci prendi la mano.»
Al suono di quell'enigmatica frase Elliot non poté fare a meno di sgranare gli occhi colto del tutto alla sprovvista. Da come diceva una cosa del genere, sembrava quasi che avesse intenzione di uccidere Angelina con le sue stesse mani o, se proprio, adoperando quelle esperte di Sebastian. Eh sì, perchè dal primo istante in cui lo aveva visto aveva capito che quel tizio aveva ben poco a che fare con i maggiordomi che, nella mente di tutti, erano vecchietti o personaggi buffi con cui era bello intrattenersi. Quel perenne sorriso, quello sguardo imperturbabile, il menefreghismo totale con cui trattava il prossimo a meno che non si trattasse del proprio datore di lavoro...andavano ben oltre la semplice stima od il rispetto.
Il ragazzo deglutì. «Non credo sia una buona idea.»
«Ah no?»
«No.»
«E perchè mai?»
«Perchè, per quanto quella donna possa essere crudele, non trovo giusto toglierle la vita così, come se niente fosse.» asserì, trovando assai strano il pensiero che gli ronzava in testa -stava difendendo quell'ignobile donna?!- «Così facendo ci...abbassiamo al suo livello.»
Ciel sorrise amaramente, guardando fuori da finestrino con quegli occhioni blu intenso così grandi ed intensi.
«Temo di essere arrivato oramai ben oltre il suo livello...»

«Célie cara, tutti questi ficcanaso in casa mia non mi vanno molto a genio sai?»
Angelina si mise a ridere da sola mentre, seduta sopra al corpo inerte e ora pieno di lividi di Dean, fissava il suo sguardo pieno di rabbia e di invidia sulla nipotina. Si stava divertendo, era evidente. Trovava tutta quella faccenda così interessante da scambiarla quasi per un passatempo degno di quel nome, come se ciò che si stava apprestando a fare non fosse una delle azioni più abominevoli che esistevano a quel mondo.
Célie trattenne le lacrime, scuotendo il capo.
Dopo tutto quel tempo ancora sperava che lei si sarebbe fermata, che avrebbe capito verso che genere di esistenza si stava volgendo, ma più le cose andavano avanti e più le pareva chiaro che sua zia non aveva alcuna intenzione di fare ammenda per i peccati commessi.
«Non pensavo avessi anche un altro amichetto...» continuò l'altra, facendo spallucce ironica «Sei proprio una piccola sgualdrina.»
Oh, se solo fosse stata un'altra persona le avrebbe risposto a dovere dinanzi a quell'affronto -anche perchè, se lì c'era una sgualdrina, quella non era di certo lei-, ma purtroppo se ne rimase zitta a fissare il pavimento, incassando anche quell'ennesimo colpo assieme a tutti gli altri che lei le aveva inferto.
«Che nooooooia
La sentì mentre si alzava, tirando un ultimo calcio a Dean che, sotto alla botta, gemette di dolore. Cèlie era certa che, se non avesse avuto addosso quella benda a coprirgli le labbra, probabilmente ci avrebbe pensato lui a dire qualcosa che facesse valere entrambi. Glielo leggeva negli occhi che, se solo avesse potuto, avrebbe vomitato addosso a sua zia tutto il disappunto che provava.
«Direi che è ora di cominciare lo show.»
La piccina si sporse in avanti, sforzando le corde che la tenevano legata ad una gamba del grande tavolo in ebano al centro della stanza buia.
«Ti prego zia, ti prego!» esclamò, con voce rotta dall'emozione e dalla paura «Lascia andare Dean, lascialo andare per carità! Lui non ha fatto nulla, nulla!»
Angelina sorrise. «Secondo te, dopo che ti ha visto in queste condizioni ed ha ascoltato i miei discorsi posso lasciarlo andare via così?»
Si girò ancora una volta verso di lei, sfidando il suo sguardo incerto con quegli occhi rossi e completamente svuotati da ogni genere di pietà.
«Colpa sua che si è intromesso.»
«M-ma zia...!»
«Non chiamarmi così!» urlò la donna, stringendo così forte i pugni da far divenire le nocche bianche «Io non sono tua zia, non lo voglio essere è chiaro?!»
Con una persona come quella era impossibile ragionare, lo sapeva bene, ma che altro poteva fare se non cercare di parlarle un pò? Non aveva mai avuto doti combattive, era abbastanza chiaro visti gli anni che aveva passato a subire abusi da parte sua, e anche la sua capacità di dialogare con il prossimo rasentava lo zero però che altre possibilità aveva?
Cosa poteva fare lei, sola?
"Elliot..." pensò, sentendo gli occhi bruciarle ora che si rendeva conto del fatto che non avrebbe più potuto rivedere coloro che amava più della sua stessa vita "...Ciel...".
Persino suo fratello, lo stesso che sembrava averla completamente dimenticata, ora gli tornava alla mente facendola sentire immensamente sola ed abbandonata. Avrebbe voluto vederli un'ultima volta, insieme, per dire loro quanto li amava e quanto le sarebbe piaciuto vivere al loro fianco per sempre, per tutta la vita.
Ma non poteva, era finita.
Avevano perso.

Sebastian non ci mise molto a seguire gli ordini che Ciel gli aveva impartito: armato dei suoi soli pugni, aveva sfondato una delle finestre al piano terra e aveva fatto irruzione nel salone d'entrata della villa dei Durless scatenando ben presto un putiferio allucinante fra guardie che urlavano, sparavano e si muovevano su e giù per il grande scalone.
Dalla sua postazione, Elliot, aveva modo di vedere ben poco di tutta quella lotta impari e questo contribuì a farlo andare del tutto fuori di testa.
«Gli hai fatto fare da esca!» sibilò, nascosto nei cespugli con al fianco un Ciel del tutto disinteressato «Io non ci posso credere!»
«Beh, ci serviva un modo per entrare no? Cosa poteva essere meglio di un diversivo...?»
Lo guardò, ormai del tutto incapace di sorprendersi ancora per le cose che sentiva uscire dalla sua boccaccia. Ah, il fratello di Célie era completamente fuori di testa o, se non altro, era un bastardo di prima categoria.
Improvvisamente sentì degli spari e, tornando a fare attenzione a ciò che avveniva oltre l'enorme finestra in mille pezzi, notò Sebastian che brandiva due pistole e sparava all'impazzata e con estrema precisione sui nemici.
«Da dove cavolo le ha tirate fuori quelle?!»
«Eh, è uno pieno di sorprese...» rispose l'altro, ridendo appena e prendendogli un braccio con una forza del tutto inaspettata «Adesso però andiamo.»
Piano piano, passo dopo passo, camminarono a carponi lungo il giardino, mantenendosi nell'ombra: non avevano alcuna intenzione di guastare la copertura che Sebastian stava fornendo loro e, pur dovendo constatare che con uno come lui probabilmente tutta l'attenzione delle guardie era rivolta all'entrata, nè Ciel né Elliot si sentivano in vena di tentare la sorte correndo come dei dannati per il cortile attirandosi addosso i mirini di chissà quanti cecchini appostati sul tetto della villa.
"No, forse adesso sto esagerando..." si disse il ragazzo dai capelli castani, praticamente ambrati "Ok, non dobbiamo dare nell'occhio per un motivo o due ma dubito che quella si sia messa ad assoldare cecchini."
Il giovane seguì pazientemente Ciel che, dal canto suo, sembrava conoscere abbastanza bene il luogo in cui si trovava. Forse ci era venuto ancora quando lui e la sorella erano piccoli, magari con i genitori, intenti a vivere una di quelle belle giornate in cui si sa che niente di niente potrebbe andare storto: per un poco Elliot si crogiolò in quella deliziosa visione, vedendo all'orizzonte, fra i fiori, due piccoli bambini sorridenti che giocavano allegri mentre i genitori e la zia li guardavano amorevolmente, godendosi il sole primaverile. Poi però, quando si soffermò sui particolari dello sguardo di Angelina, Elliot comprese che nemmeno in una sua fantasia l'odio che ormai era evidente che provasse nei confronti dei suoi stessi parenti poteva sparire. Non c'era affetto in quegli occhi, nulla che valesse anche solo la pena di scambiare per un piccolo apprezzamento. Quando vedeva sua sorella vedeva forse una donna che gli aveva portato via tutto e, quando posava lo sguardo sui suoi nipotini, si accorgeva di quanto loro due fossero il simbolo del tradimento dell'uomo che aveva amato.
«Si può sapere a che pensi?»
Ciel si era fermato e lui, per poco, non gli stava finedo addosso. Si bloccò di scatto, frenandosi con i palmi delle mani che, in un istante, si strinsero a pugni sull'erba fresca tagliata da poco.
«Niente, niente.» mugugnò, alzando le spalle e guardando in alto, per capire come mai si erano dovuti mettere proprio là «Quella è un'edera rampicante...?»
«Bravo Sherlock!»
Elliot lo guardò storto.
«Ora abbiamo una chiara visione dell'ovvio.»
«Senti, Ciel, la smetterai mai di essere...così?»
Ci fu un attimo di silenzio.
«No.»
Gli avventurieri si alzarono in piedi, lentamente, lanciando occhiate furtive tutto attorno mentre con le mani già si andavano ad aggrappare sulla pianta la quale, grazie ad un maestoso intrico di rami e foglie, sembrava essere in grado di reggere il peso di entrambi. Avevano intenzione di salire lungo quel muro, ben consci di come la loro scalata non sarebbe passata inosservata a quell'ora tarda della sera. Stava però di fatto che non potevano di certo attendere che calasse la notte, nessuno diceva loro che Angelina avrebbe rimandato ancora la sua folle decisione, sopratutto ora che era certo avesse sentito che qualcuno era entrato in casa sua.

Ci avevano messo un pò -Ciel non era molto adatto allo sforzo fisico evidentemente-, ma alla fine avevano raggiunto una finestra e, senza pensarci due volte, vi ci si erano gettati dentro silenziosamente. Tornati con i piedi ben piantati su qualcosa di saldo e non effimero come un piccolo rametto o la stanga di un pezzo di legno, i ragazzi si tolsero di dosso la polvere e cominciarono infine a correre fuori da quella stanza.
Entrambi avevano compreso che quella era la camera di Célie, ma non avevano davvero il tempo per esaminare chi o che cosa avesse messo così disordine in quel piccolo antro buio.
Furono sul corridoio in un attimo e, passando oltre le scale, udirono ancora i suoni della lotta che imperversava al piano terreno, ove Sebastian stava svolgendo il suo mestiere in modo egregio. Se tutto andava bene e come avevano previsto, allora il maggiordomo li avrebbe raggiunti poco dopo aver fatto piazza pulita di quegli energumeni e, con lui, avrebbero messo KO anche Angelina, portato via Célie e infine se ne sarebbero semplicemente andati.
Nel momento in cui si fermarono, senza sapere dove andare, ne approfittarono per riprendere un pò di fiato.
«Da che parte?» domandò Elliot.
«Non posso dire dove abbia deciso di metterla.»
«Non hai una risposta quindi.»
«No.»
«Allora scelgo io.» Elliot si mise una mano sul mento, una piccola goccia di sudore che colò lungo la sua guancia. Quando si fu calmato, mosse un dito avanti ed indietro a seconda delle direzioni disponibili e poi cominciò a fare la conta. Non era un metodo scentifico, ma di solito aiutava. «Di là.»
Si incamminò verso destra.
«Ti aspetti che io ti segua dopo che hai preso una decisione basata unicamente sul caso?»
«Esattamente.» rispose lui, ridendo «E mi aspetto anche che tu non fiati.»
Sarebbe stata bello se, aprendo la porta che si ritrovarono di fronte, i due avessero visto unicamente Célie, magari sorridente, pronta ad essere tratta in salvo come in uno di quei bei romanzi in cui la principessa attendeva pazientemente il proprio principe azzurro. La visione che però ebbero non fu tale e, alla fine, mandando giù un bel pò di saliva in un colpo solo, sia Elliot che Ciel se ne rimasero completamente in silenzio sul ciglio dell'entrata.
Da una parte, mezzo svenuto per le botte che aveva preso, c'era Dean. Era ricoperto di lividi e, come se non bastasse, qualcuno lo aveva legato come un salame rendendo l'immagine che dava a dir poco imbarazzante e penosa.
Dall'altra, in un angolo, legata alla gamba di un tavolo, c'era Célie.
Ciel trasalì e le corse incontro, scuotendola vistosamente visto che, pur chiamandola a gran voce, la piccina non sembrava comprendere dove si trovasse. Era come in uno stato di shock, il che era anche abbastanza normale visto e considerato il genere di avventure che aveva dovuto sopportare sino a quel momento.
Elliot, dal canto suo, non poté fare a meno di deglutire nuovamente vedendo quella orribile scena stanziarsi di fronte ai suoi occhi: si chiese, forse per la millesima volta, come una persona sola potesse arrivare a distruggere sino a quel punto non solo la propria vita, ma anche quella di così tante altre persone. Perchè lì, ormai, non si trattava più solo di Angelina e del dolore che doveva aver sentito perdendo al persona amata. Adesso, in quel singolo istante, il ragazzo aveva compreso che quel dolore, quel sentimento straziante e corrosivo, si era spinto oltre i confini di quella donna, oltre la sua casa, giungendo sino ai genitori di Ciel e di Cèlie, sino ai suoi nipoti, persino fino a lui e Dean.
«Ehi!»
La voce di Ciel lo risvegliò dal suo riflettere.
«Non mi sembra il momento per perdersi in inutili congetture.» disse, autoritario «Avrai tempo dopo per sprecare la tua esistenza.»
Non rispose nemmeno, ricordandosi del motivo per cui si era spinto in tutta quella oscura faccenda. Corse dall'amico, slegandolo ed imbavagliandolo in tempo per sentire ogni suo improperio e tutta la sua frustrazione. Sorrise addirittura, felice di constatare che nonostante tutte le botte prese niente e nessuno era stato capace di togliergli di dosso la sua solita grinta.
«Dio santo, quella donna è una stronza!»
«Sì, lo è ma...»
«Ah no! Non osare dirmi di trattenere la lingua! Quella si merita ogni sacrosantissima parolaccia presente nel mio più che fornito vocabolario bello mio.»
«Ok ok, non dico questo ma...»
«Se la ripesco giuro che io le farò...le farò...»
«...?»
«Beh, al momento non mi viene in mente nulla di abbastanza cattivo, ma sta sicuro che prima o poi qualcosa arriverà.» continuò Dean, alzandosi in piedi da solo e ripulendosi gli abiti sporchi «Sono un tipo piuttosto creativo quando mi ci metto.»
I due compagni raggiunsero i gemelli che, dal canto loro, si stavano godendo un lungo e caloroso abbraccio: era da tanto che non si vedevano, da tanto che non avevano modo di sentire l'affetto reciproco che li legava, da tanto che non parlavano allegramente del più e del meno insieme.
Era un peccato doverli dividere, eppure...
«Dobbiamo sbrigarci.» intervenne Elliot, posando una mano sulla spalla di Ciel «Voglio evitare ch-...»
«Bene, altri ospiti imprevisti!»
Tutti si voltarono verso l'entrata, ove Angelina li stava osservando da dietro la canna di un fucile.
«...era proprio questo che volevo evitare.»
Al piano di sotto ancora si sentivano i rumori della battaglia in corso, era quindi insperabile che Sebastian apparisse dal nulla da un momento all'altro, portandoli in salvo tutti e quattro come se niente fosse. Avevano fatto tutta quella strada e, in pratica, avevano miseramente fallito.
Stavolta per davvero.
Che potevano fare, loro, che sebbene fossero in maggioranza erano totalmente inermi di fronte ad un'arma come quella che la Durless aveva fra le mani?


(N.D: avendo scritto questo appena dopo la fine del blue ray di Sherlock Holmes sono sicura che alcune delle sue frasi si sono magicamente trasferite qui XD
Credo che per me sia normale, mi lascio influenzare molto da ciò che vedo, sento, odo -ooooh, che parolona-, quindi ormai non mi stupisco neanche più. Angelina è una vera spina nel fianco ah?)

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Capitolo 10
*** Ultimo colpo. ***


Dal giorno in cui i loro genitori erano morti Ciel lo aveva sempre saputo che, di lì in poi, tutto sarebbe dovuto cambiare e non necessariamente per il meglio. C'erano davvero troppi presupposti per una loro totale sconfitta per poter anche solo sperare in un roseo futuro, in un qualcosa che li avrebbe resi felici. Entrambi felici.
Quando, il giorno del funerale di mamma e papà, Cèlie era caduta senza forze a terra, svenendo incapace di andare oltre a quella dura verità, lui aveva compreso che da soli non ce l'avrebbero mai fatta. Mai. Era semplicemente troppo difficile per due piccoli bambini di soli nove, dieci anni, riuscire a tirare avanti coraggiosamente contando solo l'uno sull'altra. Anche se l'affetto che li univa era tanto e anche se avevano insegnato ad entrambi a contare sempre sulla propria famiglia, era esagerato pretendere che potessero riuscire in una simile impresa.
Forse fu per quel motivo che, con Cèlie ancora malata e sconvolta, al loro capezzale avevano mandato la zia, Angelina Durless, sorella minore della loro defunta madre.
Con loro era sempre stata gentile, disponibile, eppure quando Ciel finalmente la rivide gli furono chiari molti aspetti di lei che prima gli erano del tutto sfuggiti: quando stavano soli aveva uno strano modo di dimostrare il suo affetto, usava parole fredde, completamente differenti da quelle che prima infiorivano le sue frasi e le arricciavano le labbra; i suoi sguardi erano pessimi e starle vicino per niente piacevole. Quando invece erano in compagnia tutto cambiava, le cose sembravano tornare come un tempo.
Gia da allora Ciel aveva capito che quella donna era un disastro totale e che, facendo affidamento su una persona del genere, anche lui e Cèlie sarebbero finiti male, infangati assieme a lei nella stessa rovina. Sarebbero andati a fondo insieme, ancorati a lei come delle zavorre, e lui non aveva nessuna intenzione di lasciare che ciò accadesse.
Per questo motivo aveva smesso di comportarsi come un bambino e aveva cominciato a fare il piccolo adulto.
Il problema però era che la loro serie di sfortunati eventi non era che appena cominciata e, purtroppo, non sarebbe nemmeno finita tanto presto: poco tempo dopo l'arrivo della zia e proprio il giorno stesso in cui, loro tre insieme, sarebbero dovuti partire per la Francia, ecco che dei loschi tipi avevano rapito i due fratelli rinchiudendoli nelle segrete della loro base. Il motivo del loro rapimento era ovvio, o volevano un riscatto o, molto più probabilmente visto che ormai era di dominio pubblico il fatto che la famiglia Phantomhive non avesse più un soldo, qualcuno li aveva assoldati per ucciderli.
Ciel aveva fatto presto a puntare tutto ciò che gli rimaneva su quella possibilità. Sviluppò un piano, mise in salvo la sorella e le ordinò di non tornare indietro a meno che non fosse stata in compagnia della polizia.
Purtroppo quando loro arrivarono uno dei rapitori lo aveva già portato lontano e, torturandolo, lo aveva infine tolto di mezzo, o meglio, ci aveva provato. Ma lui era stato più forte, più di quanto chiunque altro avesse anche solo potuto immaginare.
Il suo odio, il dolore che sentiva, il desiderio di vendetta...
Tutto ciò era stato in grado di vincere persino la morte riportandolo indietro munito della potenza di una persona come Sebastian. Al suo fianco, deciso, aveva assunto il comando dell'azienda di famiglia e aveva spedito la sorellina dalla zia come da programma: sapeva quello che sarebbe potuto succedere, ma prima di poter ricominciare una nuova vita con lei doveva diventare indipendente, doveva diventare presto un adulto e non solo dentro di sè, anche all'esterno. Doveva divenire qualcuno capace di vivere senza doversi appoggiare a nessuno, e doveva anche fare presto.
«Bene, altri ospiti imprevisti!»
Ciel lanciò una veloce occhiata alla porta prima di alzarsi in piedi e mettersi di fronte a Célie, le mani strette in due pugni dall'ira.
«...era proprio questo che volevo evitare.»
Poteva capire bene la frustrazione che percepiva nel tono di voce di Elliot, forse poteva farlo meglio di chiunque altro. Si sentiva un tale idiota per aver abbandonato la propria sorella alla mercè di quella dannata donna che, per sua enorme sfortuna, doveva pure chiamare zia.
Appunto perchè aveva capito sin dal principio che genere di persona fosse non avrebbe mai dovuto permettere che mettesse le proprie grinfie sulla piccola Célie, mai. Nonostante avesse deciso di tenerla lontana per poter diventare più forte per entrambi, nonostante tutte le sue buone intenzioni e nonostante tutti i bei piani che si era fatto nella testa non avrebbe mai dovuto lasciare che tutte le cose di cui Elliot gli aveva parlato avessero luogo.
Sentì la piccola mano della gemella stringersi intorno alla sua e, intrecciandovi le dita, la sentì tremare dal terrore.
Anche ora che si ritrovavano di fronte ad una potenziale morte per mano sua, Célie non smetteva di volere bene ad Angelina. Non riusciva a concepire l'idea di poter odiare qualcuno così tanto da volerlo vedere morto. Era proprio fuori dalle sue corde mettere da parte i sentimenti, per una volta, e ragionare a mente fredda, completamente lucida. Ciò che adesso lei stava provando, dentro a quel suo piccolo corpo, Ciel lo aveva abbandonato da tempo.
Lo aveva fatto per potersi rialzare, giorno dopo giorno, di fronte ad ogni difficoltà.
Lo aveva fatto per poter crescere. Per raggiungere quella forza da lui tanto agognata.
Un vero peccato che per aquisirla avesse dovuto abbandonare persino la sorella. Si rendeva conto solo ora dell'enorme errore che aveva commesso.
«Ciel, tesoro, da quanto tempo non ci vediamo?»
Angelina sorrise mentre faceva un passo verso di loro, ma lui non le rispose nemmeno. Era certo che sapesse fin troppo bene da quanto tempo non aveva modo di vederlo. Probabilmente aveva contato i giorni, piena di felicità di non averlo fra i piedi visto che era molto più semplice tentare di ucciderlo da lontano piuttosto che sentire costantemente i suoi occhi accusatori addosso. Perchè era ovvio che Angelina sapesse dei sospetti che il nipote aveva nei suoi confronti, proprio come aveva capito subito che Elliot sarebbe potuto diventare un potenziale ostacolo ai suoi piani.
«Ci avevo visto bene direi.» continuò la donna, muovendo un altro passo verso di loro «Quel ragazzino di cui tu ti sei tanto infatuata non ha fatto altro che complicarmi l'esistenza Célie. Prima ha fatto venire quello là...»
Mosse il capo verso Dean, guardandolo con sospetto.
«...e poi mi ha portato in casa persino Ciel, che avevo faticato così tanto a tenere lontano.»
In effetti era vero, con tutti i sotterfugi che aveva ordito ed i piani che prevedevano di tenere lontano il ragazzino dalla sorella che aveva ideato, si poteva tranquillamente dire che Angelina avesse sudato non sette, ma più camicie per lasciarlo totalmente staccato dal resto del mondo.
Del suo mondo.
«A proposito caro» domandò, inclinando leggermente il capo «chi diavolo è quello che sta di sotto?»
Ciel rise. «Un diavolo, appunto. Non si nota?»
«...ammetto che non è normale, ma pensi che io mi beva una sciocchezza simile? Non sono mica nata ieri.»
«Questo è poco ma sicuro.»
Angelina non poté fare a meno di lasciarsi sfuggire un piccolo sorriso pieno di scherno quando, con il tacco del fucile, colpì Dean poco più su del linguine.
«...te la sei cercata...» mormorò Elliot, aiutandolo a rimettersi dritto.
«Ne è...valsa la pena...anche se forse ora non potrò più avere figli.» commentò l'altro, alzando il pollice come a voler dire che stava bene.
C'era poco da dire adesso. Quella era la resa dei conti e, per come la vedeva Elliot, c'erano poche probabilità che quelli ad uscirne vincitori sarebbero stati proprio loro.
Cosa poteva fare per risolvere quell'enorme casino?!
«Il mio piano era leggermente diverso...» esordì la donna dai capelli rosso fuoco «...ma siccome ora ho più persone da dover uccidere non mi resta che darmi una mossa e fare un poco di pratica con questo piccolo giocattolino.»
Sorrise ancora. «Sapete, avevo intenzione di mettere fine alla vita di Cèlie e di quel ragazzino tanto sagace in un modo un poco differente, però non mi resta che questo adesso. Dovrete accontentarvi e non lamentarvi se qualcuno di voi ci metterà più del previsto a passare all'altro mondo.»
Caricò il fucile, senza neanche staccare gli occhi da loro.
Fu allora che Elliot intravide una possibilità.
«Un fucile?» esclamò, facendo un passo avanti, il tono di voce canzonatorio «Questo è il tuo grande piano di riserva? Ucciderci tutti con uno stupido fucile?»
Dean lo prese per un braccio, gli occhi sgranati.
«Ti sei ammattito del tutto?»
«So quello che sto facendo.»
«A me non sembra per niente.»
«...si vede che ci tenevi proprio tanto ad uccidere Ciel e Célie.» continuò, nuovamente diretto ad Angelina «Davvero, quanto poco tempo hai speso dietro a questa vendetta? Fossi stato in te avrei creato almeno una decina di piani alternativi anche se, trattandosi appunto di me, il primo sarebbe certamente bastato.»
Fece un altro passo avanti, conscio del fatto che se si stava sbagliando avrebbe preso la pallottola di quel fucile per primo.
Improvvisamente, sia Dean che Ciel compresero il piano alquanto disperato che Elliot aveva avuto la grande idea di attuare: voleva distrarre Angelina il tempo necessario da poterle strappare dalle mani l'arma anche se, diciamocelo, quella era proprio l'ultima spiaggia per chiunque.
Ad ogni modo, pur fiutando più di un pericolo dietro all'angolo, non potevano che dare corda al compagno.
«In effetti Elliot ha ragione...» cominciò allora il ragazzino biondo, sorridendo in modo forzato ma pur sempre con quella carica di ironia che solo lui possedeva «Insomma, tutti questi anni e non sei mai riuscita a fare niente di meglio che inviare qualche assassino alle calcagna di mister perfezione qui presente e cercare di avvelenare qualcuno che era persino sotto al tuo stesso tetto?»
Anche lui si fece avanti, le mani sui fianchi. «Mi stai dicendo che questi due rachitici figli di papà hanno saputo mettere KO ogni mercenario che hai spedito ed ogni stupido virus? Andiamo! Non ci hai messo amore nei tuoi piani malvagi!»
"ll solito eragerato..." si disse Elliot, sentendo crescere alle proprie spalle l'ira di Ciel.
«Più che altro...» cominciò quindi il ragazzino dai corti capelli blu scuro «...mi aspettavo decisamente di meglio dalla persona che ha avuto la prontezza di spirito di organizzare il piano per uccidere i miei genitori.»
Tutti si zittirono e, in un secondo, si girarono verso di lui.
«Che...che cosa hai detto?»
Célie, che dal canto suo se ne era rimasta zitta sino a quel momento, aveva gli occhi completamente sgranati e stava fissando il gemello con crescente apprensione: aveva capito perfettamente che l'odio della zia nei loro confronti aveva sempre avuto a che fare con l'amore che c'era stato fra i loro genitori, era ovvio ed Angelina stessa le aveva fatto comprendere in ogni modo quel piccolo particolare, ma da qui all'arrivare a pensare che quell'odio potesse in qualche modo spingerla ad uccidere per davvero.
In fondo, la piccola, ancora pensava che lei si sarebbe ravveduta e che, prima o poi, avrebbe messo via quel fucile lasciandoli tutti liberi. Non poteva credere che al mondo esistesse tutta quella malvagità o, per meglio dire, tutto quel malessere.
«Ho detto quello che hai sentito Célie.» continuò suo fratello, voltandosi apposta per guardarla dritta negli occhi, le loro mani che si stringevano di più di prima «Lei è la causa di tutto quanto.»
«E bravo Ciel! L'ho sempre detto che eri il più intelligente dei bambini.»
Angelina si mise ad applaudire, il fucile saggiamente poggiato su una spalla.
«Ebbene sì, sono io l'assassina dei vostri genitori.»
Elliot non voleva nemmeno dare ascolto alle proprio orecchie. Era impensabile, assurdo, inconcepibile. Tutto quello che aveva vissuto in quelle settimane, tutto ciò che Angelina gli aveva fatto passare...semplicemente non poteva esistere davvero un mondo del genere. Anche lui aveva molti scheletri nell'armadio, sua madre era la prova che l'infelicità poteva portare a fare cose ben lontane dalla normalità di tutti i giorni, ma lo stesso.
Era troppo difficile accettare cose simili.
Non avrebbe mai voluto che la sua Célie dovesse patire le sue stesse pene.
«Come accidenti ha potuto fare una cosa del genere?!» urlò, agitandosi come suo solito di fronte agli occhi dei presenti, in parte sconvolti tanto quanto lo era lui «Era sua sorella o sbaglio?!»
«Si rende conto del fatto che lei è completamente pazza vero?!»
Persino Dean era indignato.
«Li ha uccisi...e lo dice con quel maledettissimo sorriso stampato sulle labbra!» disse ancora Elliot, scuotendo il capo «E adesso vuole fare lo stesso con i suoi nipoti. Dio santo, ma cosa c'è che non va nella sua testa?!»
Si prese la testa fra le mani, prendendo dei respiri profondi per non dare di matto così, su due piedi. Doveva calmarsi, cercare di non rivedere le immagini di sua madre sporca del sangue dei suoi familiari che gli sorrideva come se nulla fosse successo, come se lei non avesse appena messo una fine alle loro esistenze senza curarsi delle conseguenze.
«E la polizia le da anche ragione! Ma è assurdo!»
«Cosa?!»
Ciel si avvicinò, con la sorella, a Dean poggiandogli una mano sulla spalla.
«Forse Elliot non ha avuto modo di spiegarti tutto quanto ma sì, mia zia ha convinto la polizia che il vero colpevole del suicidio di Célie è proprio il tuo amico.»
Dean sospirò. «Mi state dicendo che non abbiamo l'appoggio delle forze dell'ordine? Bene. Magnifico.»
«Non sta lì il punto!»
Ellio aveva preso ad urlare e, adesso, i suoi chiarissimi occhi azzurri erano pieni di una rabbia che solamente Dean, il suo amico di vecchia data, era in grado di riconoscere e di temere. Cercò di trattenerlo ma fu tutto inutile, ormai il ragazzo non aveva più alcuna intenzione di tornare il solito "calmo" e "ragionevole" di sempre.
«Avrebbero dovuto difendere Célie, non quella donna! Avrebbero dovuto leggere fra le righe, vedere il timore impresso nei suoi occhi!» strillò ancora «Se solo la avessero ascoltata una volta, se magari le avessero chiesto qualcosa...Perchè non proteggono mai i figli?!»
Il bel monologo di Elliot venne interrotto dalla sonora risata che proruppe dalla candida gola di Angelina, la stessa che, poco dopo, più di uno dei presenti desiderò di sventrare.
«Quanto sei ridicolo!» esordì lei, tenendosi le mani sulla pancia come se avesse appena sentito qualcosa di così divertente da stare quasi rischiando di soffocare a forza di ridere. Aveva persino le lacrime agli occhi! «Voi non siete altro che dei bambocci incapaci di essere indipendenti. E vi permettete pure di protestare contro chi vi mantiene!»
Tutti lo notarono, Elliot non era l'unico ad aver raggiunto l'apice del proprio livello di sopportazione. Anche Angelina, che sino a quel momento si era mantenuta sempre con i nervi saldi, pur facendo innervosire chiunque altro, adesso stava perdendo qualche colpo: bastava guardarla in faccia per capirlo, per notare il leggero tremore del suo labbro, per vedere la crescente ansia nei suoi occhi.
«Tu...tu non hai più nessuna scusante!»
In un secondo, proprio quando nessuno se lo aspettava, ecco che Elliot scattò verso la donna e, lottando con lei per qualche minuto -che sembrò durare molto di più-, la gettò a terra finendo addosso, il ginocchio a bloccarle il ventre mentre la mano le portava via il fucile. Stavolta era lei a dover avere paura, era lei a dover temere di venire picchiata perchè, dio solo poteva sapere quanto lui si stesse trattenendo dal tirarle un pugno o due. Eppure, persino ora che avrebbe potuto venire risarcito di tutto il male che era stato in grado di fare non solo a lui e Dean, ma sopratutto alla persone che più amava a quel mondo, non riusciva a non dare ascolto al suo buon senso.
L'altra, dal canto suo, cominciò a dimenarsi come un'ossessa scalciando e graffianco, urlando come solo una pazza scatenata come lei poteva fare. Quando però capì che non aveva più possibilità di scampo, ecco che sgranò gli occhi ed abbandonò le mani lungo la testa, piangendo amare lacrime. Elliot ci rimase male a vederla in quelle condizioni. Improvvisamente il suo essere così squilibrata riuscì a fargli capire qualcosa.
«...perchè lo hai ucciso...?»
Lo domandò così, senza riflettere. Come il pensiero gli si era affacciato nella mente, lui aveva aperto la bocca.
«Perchè...hai ucciso il padre di Célie se lo amavi così tanto?»
Angelina smise un secondo di piangere e poi, guardandolo negli occhi, strinse i suoi, rossissimi, in due fessure. Era di nuovo infuriata.
«Mi ha tradita.» rispose, alzando le spalle «Mi ha tradita per mia sorella. Prima lui...lui stava con me. Lui amava me! Ma mia sorella, lei...lei era speciale, lei era più bella, più dolce, più educata! Me lo ha portato via, come mi ha portato via l'affetto dei nostri genitori.»
Entrambi sentirono i passi degli altri tre farsi più vicini, ma probabilmente nessuno dei due ci fece veramente caso. Non in quell'istante almeno.
«Non potevo perdonarle tutto questo, così incomincia a pensare di volerla vedere morta.» disse ancora «Escogitai un piano...»
«...ma non è capace di fare qualcosa che non concerne la creazione di piani per uccidere qualcuno?»
«Dean, stai zitto.»
Ciel gli parlò come se lo conoscesse da tempo ma, la verità, era che lui parlava con quell'autorità un pò con tutti. Anzi, forse l'unica eccezione era la persona che ancora stava tenendo per mano.
«...escogitai un piano e, prima di metterlo in atto, andai dal mio adorato per dirgli che era tutto a posto, che lo perdonavo e che presto saremmo potuti stare insieme per sempre.»
Ci fu una piccola pausa qui, in cui Dean prese in mano il fucile e lo puntò addosso ad Angelina, permettendo così ad Elliot di alzarsi in piedi e di tornare dai propri amici, staccandosi definitivamente da quell'ammasso di bugie, intrighi ed oscurità.
«E sapete lui cosa mi rispose?»
Fecero tutti di no con la testa, neanche si ritrovassero di fronte ad un insegnante pronto a bocciare tutti coloro che avessero risposto in modo sbagliato.
«Mi disse che mi voleva ancora bene, ma come si vuole bene ad una sorella e che, se avessi messo da parte tutto il mio odio, allora lui mi avrebbe accolto nella famiglia che si era costruito con mia sorella. Disse che volevano che io fossi felice con loro. Disse che c'era un posto per me, nel loro cuore...»
Angelina si morse un labbro.
«Fu allora che capii.» continuò «Lui non mi aveva mai amata, mai. E allora me ne andai.»
«Sì, ma poi tu tornasti.» commentò Ciel, lasciando andare la mano della sorella e facendo un passo avanti «Sei tornata e, mentre qualcuno metteva in atto il tuo piano uccidendo i nostri genitori e dando fuoco alla casa, tu te ne stavi allegramente in un hotel, a Londra, pronta a recitare la parte della zia premurosa e distrutta dalla perdita della sorella, del cognato e dei nipotini.»
«Volete dire che anche voi sareste dovuti...?» domandò Dean.
«Il piano prevedeva che morissimo anche io e Célie, ma lei venne salvata da un maggiordomo mentre io...beh, io dopo aver trovato i corpi di mamma e papà sono stato trascinato fuori, svenuto, da un pompiere credo...»
La donna sorrise.
«Sembra che i miei piani non vadano mai come devono. Non vinco mai. Voi due siete sopravvisuti e con voi anche loro, in qualche modo, sono ancora vivi.» disse «Avrei tanto voluto dimenticare, lasciarmi alle spalle tutto, ma ogni volta che vi guardavo vedevo l'uomo e la donna che mi avevano traditi. Voi mi avete solo rovinato la vita!»
Elliot stava per schizzare di nuovo in avanti, su di lei, quando Célie si mise in mezzo e, dando la schiena alla zia, scosse forte il capo allargando le braccia per impedire a chiunque di fare qualsiasi cosa ad Angelina. C'era già stato abbastanza odio, avevano sofferto tutti enormemente, non c'era bisogno di scendere ancora più in basso.
«Adesso basta!» urlò, le lacrime agli occhi «Non merita tutto questo!»
«Célie! Ti rendi conto di quello che ci ha fatto passare?!» suo fratello la fronteggiò, incredulo «Abbiamo di fronte la persona che ci ha tolto tutto, che ci ha distrutti...non vuoi vendicarti? Non vuoi davvero che tutto questo abbia fine?»
Lei rimase in silenzio.
«Possiamo dimenticare tutto una volta che avrà avuto ciò che merita.»
«E poi cosa?»
Ciel non sembrò capire, ma gli occhioni di lei, solitamente così dolci ed insicuri, ora erano così seri e convinti che riuscirono nell'intento di farlo zittire per un secondo, in attesa che lei esponesse le sue idee.
«L'odio è come una malattia. Ci contamina tutti, ad uno ad uno, e lo fa spingendoci a ferire chi ci ha feriti o persino chi non centra nulla con la nostra storia ed i nostri patimenti» sussurrò al ragazzina, sospirando «Nostra zia è colpevole di molte cose, ci ha fatto tanti torti ma...ma è solo perchè ha amato troppo. Lei amava davvero nostro padre! Mi rendo conto che dobbiamo mandarla in prigione e non vi fermerò dal farlo, è chiaro, ma non vi permetterò di farle ulteriormente del male!»


(N.D: Anche qui, se non ci fosse stato Il canto delle Stelle, allora forse non avrei mai trovato le parole giuste da far dire ai personaggi. Liberamente tratto, perchè quelle parole sembravano fatte su misura per loro.)

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Capitolo 11
*** Epilogo. ***


Cèlie lasciò che il vento le scompigliasse i capelli, pensierosa, le mani conserte dietro alla schiena nella sua solita posa "sto sognando ad occhi aperti". Ma in quel momento, Elliot poteva scommetterci, la sua piccola principessina non stava certamente sognando anzi, probabilmente stava pensando agli ultimi eventi che avevano arricchito le loro vite, seppure in modo negativo.
Alla fine, nonostante tutti gli sforzi fatti da lei, Angelina non accolto di buon grado quella pietà nei suoi confronti e, afferrando un pezzo di vetro poco distante, probabilmente uno dei tanti che si erano schiantati a terra quando lei stessa aveva rotto lo specchio che stava nella sua stanza ancora ore prima, si era prontamente tagliata la gola. Aveva riso un'ultima volta, li aveva mandati al diavolo, e poi lo aveva fatto.
Angelina si era tolta la vita.
Se fosse stato il vecchio sè stesso, quello che poco pensava la prossimo e che sicuramente non si pentiva di nulla di ciò che faceva se in confronto era meglio ai gesti compiuti da altri -o se fosse stato Ciel, per esempio- Elliot avrebbe trovato quel gesto davvero poco rilevante, forse persino superfluo. Non avrebbe intaccato in nessun modo la sua vita e alla fine avrebbe dimenticato ogni cosa, cancellandola o relegandola in una parte della sua mente ben poco frequentata.
Ora però, ora che aveva conosciuto lei, Célie, tutto aveva aquisito un significato diverso, persino l'esistenza altrui.
Si pentiva di non essere stato in grado di aiutare quella donna così come, stringendo i pugni e lottando fino all'ultimo, era stato in grado di aiutare la persona che tanto amava. Riflettendoci però era anche abbastanza evidente una cosa: per salvare Célie, Angelina doveva necessariamente sparire in un modo o nell'altro. Se avesse continuato a vivere, se magari un giorno fosse uscita di prigione, il suo odio non si sarebbe mai fermato e la sua ombra avrebbe perseguitato i gemelli Phantomhive per sempre, senza dare tregua nè a loro, nè a chi gli stava intorno.
Quindi, l'unica soluzione, rimaneva la morte.
"Che misera la vita di noi esseri umani..." pensò, le mani in tasca, poco distante dalla compagna sul terreno consacrato del cimitero "...alla fine, ogni singola cosa si riduce a quello, alla morte. L'epilogo di tutto."
Erano volati a Londra, lui, Cèlie, Ciel e Sebastian, accompagnati dalla salma di Angelina. I due fratelli avevano deciso, di comune accordo, di portare il corpo della zia a casa, dove era giusto che stesse, al fianco di coloro che, oltre ad essere i loro genitori, erano ancora a tutt'oggi le prime vittime di quella immane follia.
«Avrebbero voluto così.» aveva detto Célie, sorridendo per quanto le era possibile «Loro, ne sono certa, ancora la considerano parte della famiglia.»
«Tu la consideri tale?»
Ciel glielo aveva chiesto ben sapendo che genere di risposta avrebbe ottenuto, e anche Elliot era certo che da quella rosee labbra non sarebbe uscita che quella frase, così breve e sicura, piena di un affetto che mai era stato ricambiato e che ora meno che mai lo sarebbe stato.
«Certo che sì.»
La giovane si voltò verso di lui improvvisamente, cercando il suo sguardo come se si fosse resa conto solo ora di aver bisogno di sentirlo al suo fianco, vicino, forse più di quanto non lo fosse stato sino ad allora. Elliot si fece avanti e, prendendole la mano, la accostò al proprio corpo poggiando il mento sul suo capo.
«Non pensavo che saremmo arrivati a tanto...» mormorò lei, alzando le spalle, con fare titubante «...non credevo che quella morta...alla fine sarebbe stata lei.»
Elliot non disse niente, incapace di aggiungere qualcosa a quella breve constatazione: in fin dei conti lui era stato il primo a temere per il peggio quando, ancora a Parigi, si erano ritrovati sotto tiro di quel benedetto fucile. Aveva scommesso tutto quello che aveva che quelli con una propria sezione sul giornale nella parte dei necrologi sarebbero stati loro.
«Stava tanto male.» disse, alzando la testa per guardarlo ancora negli occhi, quegli occhi limpidi che tanto amava «Ci ha detto tante bugie. Tante...ma la persona che più ha preso in giro è stata sè stessa.»
«In che...senso?»
Célie esitò un secondo ma poi, frugando con una mano candida nella tasca della propria giacca, tirò fuori una lettera tutta stropicciata, rimessa insieme alla bell'è meglio da un poco di scotch.
«E quella da dove viene?»
«Dalla scrivania della zia. È sua.»
«L'hai rubata?» chiese ancora Elliot, sgranando gli occhi «E quando?!»
«Ancora tempo fa, molto prima che le cose prendessero...questa brutta piega.»
Spiegò di come, ancora poco convinta del totale disinteressamento del fratello, si era azzardata a mettere il naso nella corrispondenza di Angelina del tutto intenzionata a trovare le lettere che, lo sapeva, lei le stava nascondendo. Fu allora che, fra gli oggetti dimenticati e quelli volutamente relegati in cima agli armadi, aveva trovato alcuni pezzi di quella fatidica lettera. Disse che la cosa che più la aveva colpita era la fragranza di fragole che proveniva dalla carta, oramai del tutto estinta visto il tempo che era passato e viste tutte le volte che, piena di tristezza, aveva usato le parole scritte in bella calligrafia lì sopra per potersi assopire.
«L'ha scritta la mia mamma.» ammise infine, quel suo dolce e malinconico sorriso ad impreziosire il suo candido volto «L'ha scritta quando la zia tentò di togliersi la vita. Qui c'è scritto che, proprio come è successo a me, è rimasta in coma per lungo tempo prima di riaprire gli occhi...però, anche quando questo accadde, non parlò più che nessuno e, anche se respirava, sembrava lo stesso che fosse morta, del tutto assente.»
La piccina, deglutendo e prendendo un grande respiro, si accinse a leggere quelle poche parole che, la sua mamma, aveva scritto con tanto affetto e desiderio di vivere tutti insieme, felici, per sempre.

Cara Angelina, mia dolce ed insostituibile sorellona, non so davvero come cominciare questa lettera che, come ultimo tentativo per poter comunicare con te, ho deciso or ora di inviarti. Da quando ti sei svegliata non ha permesso a nessuno di venire a trovarti, perchè? Perchè non ci permetti di starti vicina ora che hai bisogno più che mai della presenza dei tuoi familiari? Lo so, forse credi che mamma è papà mi preferiscano, forse sei certa che loro ti odino, ma io ti assicuro che non è assolutamente così: dovresti vederli sorellona, dovresti vedere la tristezza impressa nei loro volti sapendoti lì, costretta in quel letto d'ospedale. Il viso di papà non mi è mai sembrato così privo di ogni forza. Mai nella vita avrei pensato di scoprirlo così debole di fronte ad una simile occasione...pensavo fosse l'uomo più forte del mondo, ma forse mi sbagliavo.
D'altro canto, credevo che anche tu fossi la donna più forte e combattive del mondo intero.
Ti ho sempre invidiata per la tua grinta, per la potenza che riesci a scatenare dentro di te quando vuoi qualcosa e sei disposta a tutto per raggiungerla. Ho sempre ammirato il tuo sguardo così sicuro e le tue parole tanto sagaci da farmi ridere in ogni occasione. Tu eri la mia luce lo sai?
La persona che più rispettavo a questo mondo...ma dal giorno in cui lui è morto tu non sei più stata la stessa...


«Lui?» domandò Elliot, corrugando la fronte «Non...può parlare di tuo padre, dico bene?»
Célie alzò gli occhioni dal foglio, scuotendo il capo.
«Il punto è proprio questo, nessuna delle due aveva ancora incontrato papà.» asserì «Qui si parla del primo vero amore di Angelina. Del suo promesso sposo.»
«Promesso...?!» le parole gli morirono in gola, così come ogni intenzione di andare avanti con i suoi commenti inutili.
«Al tempo la zia aveva già vent'anni e, prima che una malattia lo uccidesse, era fidanzata con un socio di lavoro di mio nonno, uno dei più giovani appena entrato nella compagnia.» spiegò la ragazzina «Era stato amore a prima vista...così c'era scritto in altre lettere che ho, beh, che ho letto di nascosto.»
Le sue guance si tinsero di un vivido rosso fuoco non appena quelle poche parole vennero pronunciate e, questo, non fece altro che sorridere Elliot. Quanto era carina quando arrossiva.
«Ad ogni modo, Lucas, così si chiamava, morì per malattia dopo un viaggio d'esplorazione nella foresta nera. Amava fare l'avventuriero e prima del matrimonio voleva dare un'ultima occhiata al luogo in cui aveva deciso di portare anche la zia.»
«Mio dio che...brutta cosa.»
«Già.»
Célie continuò la lettura.

So cosa pensi ora, per quanto tu possa essere certa che io non capisca niente di quello che percepisci in giornate così buie.
Probabilmente ti stai ripetendo che questo mondo è ingiusto, che questo mondo è inutile. Che non c'è motivo di continuare a vivere in un luogo in cui, la persona che hai amato più della tua stessa esistenza, non c'è più.
Angelina, tu non vuoi rimanere qui vero?
No, perchè continuare a respirare è peggio di qualsiasi altra cosa mai provata...lo vedi ogni istante, lo senti ogni istant, è come se non se fosse mai andato ma quando apri gli occhi, quando guardi veramente con la lucidità che ti ha sempre contraddistinta, ogni suo ricordo si cancella e tu torni sola.
Per questo hai tentato di ucciderti. Non volevi più sentire niente.
Sorellona...
Sorellona, ti prego, torna da me. Insieme ce la possiamo fare, io e te, per sempre insieme. Per sempre, come ci siamo ripromesse.
Ti voglio così bene da sentirmi male, così tanto da non poter resistere senza averti accanto.
Sì, forse sono egoista, sto pensando solo a me stessa, ma non voglio perderti.
Non posso permettere a te stessa di rovinarti con le tue stesse mani.
Non posso.
Tu sei una stella solitaria. Il tuo luccichio dice...che sei sola, che sei triste.
...ma tu non ti accorgi nemmeno di stare brillando.
Attendo una tua risposta.
Eternamente tua.


«Finisce...così?»
Elliot stava stringendo i pugni, sconvolto.
Dopo una lettera del genere, così piena di affetto e di belle parole, Angelina come accidenti aveva potuto uccidere la propria sorella?
Eccolo, l'odio provato in precedenza verso di lei tornò fiammeggiante a tormentarlo.
«Dopo c'è la risposta della zia.» esordì Célie, facendosi un poco più infelice «...non credo l'abbia mia inviata però.»
«Perchè?»
«Penso che volesse dargliela di persona, ma quando è uscita dall'ospedale ed è arrivata a casa, ha trovato mio padre con la mamma.»
Lui non riusciva a comprendere come mai il suo viso si stesse facendo via via più scuro e triste.
Quante cose ancora gli stava nascondendo Angelina?
«Lui era...il fratello minore del suo Lucas.» continuò la giovane «Lucas Phantomhive era mio zio paterno.»
Elliot si portò una mano sulla fronte. «Non posso crederci.»
«Non appena lo vide, la zia pensò all'istante che fosse Lucas e fu convinta di questo per molto tempo, sino all'ultimo. Credo che, nella realtà dei fatti, non abbia mai amato veramente mio padre. Era solo che in lui, per via della grande somiglianza, rivedeva il suo innamorato...e quando quel Lucas l'ha tradita per mia madre il mondo le è crollato addosso.»
Ecco svelato il grande mistero, ecco che finalmente riusciva a capire cosa aveva spinto la donna ai limitari della follia più sconvolgente. La gelosia, l'odio, il rammarico...erano tutti sentimenti che non avevano nulla a che fare con il grande ed irreversibile amore che, sin dal principio, la aveva legata a Lucas.
Come aveva detto Célie, in quel salottino, mentre gli avvenimenti avevano preso a vorticare attorno a loro senza dare alcun senso alle parole che uscivano dalle loro bocche e la morte sembrava così poco distante, era stato l'eccessivo amore a mettere fine alla sanità mentale di Angelina.
Ora che sapeva, cosa poteva fare se non compatirla per davvero?
Guardò a terra, scuotendo forte il capo.
Adesso sì che era confuso, ed aveva anche ogni sacrosanto diritto di esserlo!
Come avrebbe detto Dean in quel momento, se solo fosse stato là assieme a loro, aveva odiato per tutto quel tempo una persona che, proprio come loro, non era stata altro che una misera vittima all'interno di quel pericolosissimo gioco? Anzi, lei era stata la prima vittima. La prima.
«L'amore...l'ha condotta alla follia.»
L'altra alzò improvvisamente gli occhi, incredula di fronte a quell'affermazione.
«Come?»
«Perchè perdiamo tempo con una cosa del genere quando non fa altro che del male?»
Célie si avvicinò e gli posò una mano sul petto.
«Elliot...che cosa...che cosa dici?» tentò di sorridere, impaurita dall'improvviso discorso intavolato.
«...mia madre si è ridotta al suo stesso modo.» esclamò «Lei li ha uccisi tutti. Mio padre, i miei fratelli...li ha uccisi perchè ha amato così tanto da non poter più accettare di venire messa da parte!»
Non glielo aveva mai detto ancora, non gli aveva mai raccontato ciò che era accaduto all'interno della sua famiglia: Célie si era sempre fidata di lui, ma al contrario Elliot non era mai stato in grado di parlare a cuor leggero degli avventimenti che lo avevano portato a diventare ciò che era ora. Quel ragazzo scontroso, chiuso in sè stesso, infelice...quello che brontolone che se aveva un pò di amici, amici veri, era solo perchè aveva dovuto sudare mille camicie per poter mettere da parte il muro enorme che si era costruito attorno al cuore.
Attorno all'anima.
E aveva fatto bene.
Non ci si guadagnava nulla ad amare, se non sofferenza.
Improvvisamente, come un fulmine a ciel sereno, Célie gli tirò un sonoro ceffone. Il ragazzo, paralizzato dalla sorpresa, si portò una mano sulla guancia e la fissò mentre alcune lacrime affioravano ai bordi dei suoi grandi, bellissimi occhi bicromatici.
«Non è morta perchè amava troppo.» esordì, tremando «Non si può morire...perchè si ama troppo! È l'amore che ci spinge a vivere, l'amore che ci porta a fare cose inimmaginabili che prima mai ci saremmo sognati di fare!»
Non smise di guardarlo dritto negli occhi per quanto, almeno solitamente, le risultasse alquanto complicato farlo.
«Come puoi anche solo pensare di abbanonare i tuoi sentimenti?» chiese «Io credo...credo che amare non sia mai sbagliato, mai...persino quando ci fa soffrire e ci fa compiere degli errori.»
Fu allora che scoppiò a piangere, lanciandosi con impeto fra le sue braccia. Lo cinse in un istante, sospirando.
«...io vorrei tanto che tu vedessi quanto bene mi ha fatto il tuo amore.»
Era vero, Elliot ancora non riusciva a vedere come il suo solo affetto avesse tratto in salvo la piccola Célie in più di un'occasione. A scuola per esempio, a casa...le bastava pensare a lui e all'affetto che li univa e tutte le cose brutte che l'affliggevano sembravano svanire nel nulla.
Non per sempre, era impossibile, ma almeno la lasciavano libera di vivere con serenità il suo rapporto con lui.
«Avrei tanto voluto che...il mio amore avesse potuto aiutare anche mia madre.» sussurrò Elliot, cominciando anche lui a piangere.
Si sentiva così in colpa, sempre, costantemente. E quella colpa cresceva ogni volta che andava a trovarla in ospedale, in quel posto in cui la avevano ricoverata per la sua psicosi. Aveva persino dimenticato di aver fatto quelle cose, aveva completamente cancellato il fatto di aver tolto la vita, con le proprie mani, a tutta la sua famiglia meno che a lui, il suo piccolo prediletto.
«Sapevo ciò che faceva mio padre, lo sapevamo tutti a casa, ma lo stesso non dicevamo niente. Volevo proteggerla...» cominciò ad urlare, sempre singhiozzando, le mani premute contro le orbite come a voler impedire che le lacrime continuassero a scendere.
Ma era tutto inutile.
«Ma quale proteggerla! Ho solo fatto sì che le cose andassero peggio facendo finta di niente!» strillò «Le volevo così bene che credevo bastasse il mio affetto, credevo che standole vicino tutto si sarebbe sistemato...e invece è stato uno strazio!»
Ancora adesso voleva esserle di qualche conforto, ma quando la vedeva si sentiva peggio di un verme. Era colpevole, così dannatamente colpevole! Andava da lei perchè gli mancava da morire, eppure allo stesso tempo dentro di lui cresceva il desiderio di non rivederla mai più per smetterla di soffrire a quel modo.
Detestava il posto in cui si era rinchiuso, odiava non avere mai una luce ad accompagnarlo, ma, sopratutto, non poteva più sopportare tutta quella situazione da solo.
Era stanco.
«Stanco...» disse ancora, in un lieve sussurro appena udibile «...sono così stanco...di tenere tutto sulle mie spalle.»
«E allora dividi il tuo peso con me...»
Célie si alzò sulle punte, titubante, e posò sulle labbra di lui un dolce, indimenticabile bacio. Durò poco, forse non più di qualche secondo, ma fu così importante da lasciarlo totalmente senza fiato. La guardò quando finì, la guardò stupefatto, rendendosi conto che ormai la ragazzina paurosa e sempre pronta a piangere aveva lasciato il posto ad una donna sicura, certa dei propri sentimenti e di ciò che la circondava.
O, molto più probabilmente, quella era sempre la sua piccola principessa, la personcina timida ed impacciata che, adesso, cercava di fare la dura per riuscire a fargli capire quanto lo amava. Quanto voleva aiutarlo.
«Elliot...ti amo.» mormorò lei, piangendo ancora ed ancora ed ancora «Ti amo. Perciò...stiamo insieme. Per sempre.»
Mentre la sua Célie lasciava andare quelle lacrime cristalline, Elliot sorrise e le prese il viso fra le mani, accarezzandole le guance con i pollici. Si avvicinò al suo viso sempre di più, lentamente, assaporando l'istante che si stava prospettando di fronte a loro.
Dean aveva proprio ragione, era un vero cretino.
Non vedeva ciò che gli stava di fronte almeno fino a che non ci sbatteva addosso il naso.
La baciò, con passione, trasmettendole ogni sentimento che sentiva.
«Dio Célie...sei un vero disastro...» esordì, ridendo «Ti parlo del mio passato e quella che piange di più sei tu?»
Ma, a dirla tutta, era grato al cielo di essere incappato in quella piccola catastrofe con le gambe.
«Ti amo anche io.»


«Sei...sei come me. Sei solo anche tu...? Allora restiamo vicini, insieme forse...sarà diverso.»
Ah, cosa non può fare l'amore!


(N.D: Finito. Spero sia piaciuto. ^^ alla prossimaaaaa *svanisce in una nube di fumo come i ninja*)

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