Running up that hill - estratto Marue

di Hui Xie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte Prima ***
Capitolo 2: *** Parte seconda ***



Capitolo 1
*** Parte Prima ***


Untitled Document

Autore: Late Night Iridescente

Storia: Running up that Hill

Capitolo dell'estratto: a different feeling

Paring: Ace/Marco, qualche accenno Ace/Rufy

Note: si tratta della traduzione del flashback presente all'interno di questa storia.

***

“Marco,” disse Barbabianca, fissando un uomo alto e biondo con un pessimo senso dell’abbinamento cromatico, “occupati del tuo nuovo fratello finché non si sentirà a suo agio.”
Ace si mise sulla difensiva quando l’uomo sospirò scoccandogli un’occhiata, soprattutto ai vestiti strappati e ai graffi che gli marchiavano la pelle, la bocca chiusa in una smorfia rassegnata.
“Mi dai sempre i compiti peggiori, eh.”
Il vecchio pirata rise. “Perché sei il migliore. Soprattutto per questo compito.”

***

Ace rimase immobile sulla soglia, osservando la stanza spoglia. La cosa più strana era la presenza una spaziosa piattaforma di legno che sporgeva dal fondo del muro laterale, su cui erano impilate coperte e cuscini, nonostante ci fosse anche un letto.
Solo un letto.
“Ce lo divideremo, eh,” disse Marco, direttosi verso la cassettiera per prenderne un pacco di fiammiferi per accendere una sottile candela blu. Senza nemmeno pensarci, Ace schioccò le dita e lo stoppino prese fuoco prima che l’altro avesse il tempo di estrarre un cerino. Marco alzò un sopracciglio. “Utile.”
Ace avvampò, dato che non aveva intenzione di essere minimamente utile a chiunque navigasse sotto la bandiera di Barbabianca. “Cosa diavolo intendi, con ce lo divideremo? Spero tu non intenda che dovremo dormire assieme.”
“Se vuoi puoi stare sul pavimento, ragazzino.” Marco si voltò per fissarlo, il viso seminascosto dalle ombre causate dalla luce della candela. “Ma mi sembra che tu sia allo stremo delle forze perciò credo che tu abbia bisogno di una buona dormita. Cosa che non riuscirai a fare sul pavimento, eh.”
“E quello?” Ace indicò la piattaforma. “A cosa serve?”
“Per dormirci.”
“E allora perché non dormi lì?” Marco lo ignorò, togliendosi la camicia e piegandola sulla sedia della scrivania. Quando iniziò ad allentare la fascia blu attorno alla vita, Ace ne ebbe abbastanza: entrò rumorosamente lasciando chiudere la porta di botto. “Ehi, ascoltami!”
Marco non smise di spogliarsi, ma disse, “Mi sarà più facile tenerti d’occhio se stiamo assieme, eh. Se solo avessi un po’ di buon senso in quella tua testaccia dura, la smetteresti di cercare di uccidere il Babbo.”
“Non smetterò,” disse Ace, togliendosi riluttante i suoi vestiti sporchi e sudati. Aveva urgente bisogno di un bagno, ma col cavolo che avrebbe chiesto dove poterne fare uno. Delle due l’una, o l’avrebbe scoperto da solo o ne avrebbe fatto a meno.
Marco lo afferrò per le spalle, con gentilezza ma anche con decisione, conducendolo verso il letto, per poi scostare le coperte, spingendolo giù, facendolo rimbalzare contro il materasso duro. Poi lo seguì, intrappolandolo contro il muro senza lasciare quasi spazio fra i loro due corpi. Ace si accigliò e cercò di spingerlo via premendo contro il suo petto, ma Marco rimase immobile, anche quando usò tutta la sua – piuttosto debole – forza. Non riusciva a ricordare di essere mai stato così esausto in vita sua.
“Non sei abituato a dormire con qualcun altro, eh?” chiese Marco, guardando Ace agitarsi con un leggero divertimento che urtava maggiormente i nervi del giovane pirata. Bene, se le cose stavano così, non si sarebbe tirato indietro. Non avrebbe voluto usare il suo potere, ma strinse i denti e costrinse il suo corpo stanco ad emettere abbastanza fuoco da intimidire, in maniera che Marco si allontanasse per lasciargli almeno un po’ di spazio per respirare.
Ma rischiò di mordersi la lingua quando le sue fiamme rosse incontrarono quelle blu, con Marco che gli prendeva la mano incandescente, senza soffocare il fuoco ma lasciando agitare e mescolare assieme i due colori. Non importava quanto calore Ace desse, non riusciva a far estinguere le fiamme azzurre.
“Cosa sei? Che Frutto del Diavolo hai?” Era impossibile che si trattasse del Mera Mera, perciò da dove venivano le fiamme di Marco?
“Te lo dico domani mattina se la smetti di agitarti e fai la nanna come un bravo bambino, eh,” sorrise Marco. Ace fece spegnere il fuoco, ma col cavolo che avrebbe obbedito. Con una smorfia, riuscì a premere il gomito contro le sue costole.
“Almeno spostati un po’! Non c’è nemmeno spazio per respirare.” Con sua sorpresa, Marco sembrò allontanarsi un attimo, sistemandosi più vicino all’altro bordo del letto. Quello che Ace non si aspettava fu il braccio che gli mise attorno alla vita non appena si fu girato con la schiena in giù.
“H-hey!” protestò Ace, ma senza la rabbia di prima. Aveva appena realizzato quando potesse essere morbido il materasso per il suo corpo dolorante. Il sonno lo chiamò a lui.
“Mi sto solo assicurando che tu non ti muova da lì. Il Babbo sarà ancora al suo posto domani mattina se proprio avrai necessità di riprovarci, eh. Una notte tranquillo non farà differenza.”
Ace si accigliò. Non voleva certo dormire con un pirata che avrebbe potuto ucciderlo tranquillamente nel sonno se avesse voluto. Prima che potesse cercare di protestare ancora, fu quella sua maledetta narcolessia ad avere la meglio. Finì per addormentarsi, caldo e comodo nella stretta presa di Marco, anche se non l’avrebbe mai ammesso, nemmeno con se stesso.

***

“Perché non lasci perdere, eh?” chiese Marco una settimana dopo, mentre tamponava la guancia ferita di Ace, che non ne voleva sapere di rimanere fermo o di smettere di lamentarsi e di borbottare maledizioni a mezza bocca.
“Ho i miei motivi,” ribatté lui, agitando il viso fra la presa stretta di Marco. “E piantala! Non lo voglio il tuo aiuto!”
“Peccato,” disse l’altro, calmo ed imperturbabile come sempre. “Tanto ti aiuto comunque, eh.”
Ace fece un ultimo tentativo con meno forza per sfuggire a quelle attenzioni verso le sue ferite, il risultato di un altro attentato al vecchio. I suoi vestiti erano zuppi d’acqua a causa della caduta in mare, e l’acqua salata gli scendeva dai capelli e gli bruciava gli occhi.
Ogni volta che veniva salvato da uno degli uomini, finiva per odiarsi un po’ di più.
“Bastardi. Perché non mi rinchiudete da qualche parte e basta? Non sarebbe meglio per voi?”
“E privarci del nostro divertimento preferito?” sorrise Marco. “Non penso proprio, eh.”
Ace sibilò quando Marco gli passò il cotone imbevuto di disinfettante su un taglio più profondo. “Nessuno di voi è preoccupato che ce la possa fare sul serio? Che prima o poi riesca ad uccidere il vecchio?”
“No,” disse Marco semplicemente. “Il Babbo è troppo forte perché qualcuno possa ucciderlo. Specialmente uno che non ne ha nemmeno l’intenzione, eh.”
“Di che diavolo stai parlando?” chiese Ace mentre gli incollava un cerotto sull’ultima ferita. “Io voglio ucciderlo di sicuro.”
“Davvero?” Marco alzò le labbra in un mezzo sorrisetto che gli stava diventando maledettamente familiare, con tutto che lo odiava, per passargli una mano fra i capelli bagnati. “Per il Babbo, per tutti qui sulla nave, sembra più il comportamento di un figlio affezionato che sta attraversando la fase della ribellione, eh.”
“Io non sono suo figlio! Non sono il figlio di nessuno!” sbottò Ace, riuscendo alla fine a liberarsi dalla stretta di Marco, il quale continuò a guardare divertito i suoi capricci.
“Rilassati, ragazzino. Ti sto solo dicendo cosa ne pensa il Babbo di questa storia.”
“Be’, non me ne frega un cazzo. Quel vecchio può pensare quello che vuole, ma un giorno lo batterò. Farò quello che quel buono a nulla di mio padre non è riuscito a fare!” Ace si bloccò, il dito premuto sulle labbra per sigillare quel fiume di parole che stava disperatamente cercando di liberarsi.
Quello risvegliò la curiosità di Marco, ma non aveva intenzione di chiedere nulla. E comunque non avrebbe ottenuto risposta da quel pirata diffidente.
Almeno, non ancora.
“No so quale sia il tuo passato, o di chi sia il sangue che ti scorre nelle vene,” disse, scegliendo le parole con cura prudente. Il calore che si diffuse sul viso di Ace gli disse che stava mirando nel punto giusto. “Tutti noi ci siamo uniti alla ciurma di Barbabianca per avere un’altra possibilità, un posto dove nessuno ci giudicasse per i peccati che avevamo commesso… Che fossero veri o no. Siamo uomini del Babbo perché lui ci ha dato una casa, eh.”
Ace sembrò accartocciarsi su se stesso, gli occhi chiusi con forza ed il corpo improvvisamente docile sotto il suo tocco, tanto che quando Marco pulì una striscia di sangue con il polpastrello del pollice, Ace non si ritrasse.

***

La fitta allo stomaco stava diventando quasi insopportabile, ma Ace avrebbe aspettato fino a tardi per rubare qualcosa da mangiare, quando tutti, a parte gli ubriachi, erano a dormire o a fare dell’altro nelle loro stanza. Col cavolo che avrebbe chiesto del cibo.
Le stelle brillavano nel cielo a più non posso. Ace cercò di distrarsi dalla fame che gli attanagliava lo stomaco contandole o provando a collegare i punti, cercando di costruire delle forme che gli venivano in mente: carne; Rufy, con il suo ampio sorriso; la bellissima e brillante apertura alare di un uccello che attraversava il cielo, padrone di tutto…
Marco gli aveva detto che il suo Frutto del Diavolo era uno Zoan, che tra le altre cose gli permetteva di trasformarsi in una fenice. Sì, Ace conosceva le leggende su quegli uccelli che incendiavano il mondo prima di trasformarsi in fiamme e rinascere dalle proprie ceneri. Però non riusciva a credere che Marco avesse un potere del genere – il pirata si era rifiutato di mostrargli dell’altro oltre a quelle misteriose fiamme che bruciavano senza danneggiare nulla, calde al tocco ma non bollenti, nemmeno per un normale essere umano.
Non come il fuoco di Ace, che lasciava distruzione ovunque passava. Marco poteva guarire. Ace poteva solo ferire
Il suo stomaco borbottò arrabbiato, diretto a pretendere del cibo, subito. Ace si premette una mano sull’addome imprecando sottovoce e pregando i santi e i demoni che nessuno fosse in giro a poterlo compatire.
Ma Dio lo odiava, deciso e senza rimorso – Ace sentì un leggero spostamento d’aria, e quando si voltò vide Marco a poca distanza da lui, con le braccia incrociate. Non aveva sentito nemmeno un passo.
Il suo stomaco, quell’inutile apparato digestivo che era, decise che quello era il momento giusto per brontolare con la massima intensità.
Marco non disse nulla, osservò semplicemente in silenzio gli occhi lucidi di Ace, ed il suo braccio sanguinante, e il labbro gonfio. Ace lasciò che la supposta fenice facesse quello che gli pareva – era intrappolato sulla Moby Dick ormai da un mese, e anche se era doloroso per il suo orgoglio, doveva ammettere che non riusciva ad opporsi se Marco voleva qualcosa da lui. Visto come viveva, non era mai riuscito a riprendersi del tutto dalle sue lotte con Jinbe e il vecchio – mangiava solo quando poteva rubare qualcosa, sprecava tutte le sue energie cercando di uccidere Barbabianca, dormiva solo quando lo colpiva un attacco di narcolessia.
Ad eccezione di quando Marco lo spingeva a letto e gli ordinava, con voce bassa e pericolosa, di riposarsi; in quelle occasioni, Ace dormiva per un giorno intero.
“Vieni qua, eh,” disse Marco, rompendo il silenzio. Ace non era certo di quanto fossero rimasti a guardarsi l’uno con l’altro, mentre di sottofondo si sentivano alzarsi ed abbassarsi delle grida, ma era abbastanza, quindi camminò debolmente verso di lui, senza nemmeno protestare quando gli passò un braccio attorno alle spalle per agitarlo. Se l’avesse fatto chiunque altro, Ace l’avrebbe allontanato. Ma Marco era… Marco era…
Ace non voleva pensare a cosa fosse Marco.
Marco lo condusse sottocoperta, dove il ruggito delle risate non era più nascosto. Ace fece resistenza – non aveva intenzione di unirsi alla festa – ma l'altro premette leggermente sulle costole, dirigendolo piuttosto verso una porta. Una volta chiusa alle loro spalle, tutti i rumori si abbassarono al punto che Ace avrebbe potuto decidere di non ascoltarli del tutto.
Erano in cucina. C’erano ancora dei cuochi, che di tanto in tanto aggiungevano spezie o altra roba in una pentola che ribolliva, ma per la maggior parte bevevano boccali di birra. Bastò un’occhiata di Marco a farli fuggire in un battito di ciglia.
“Non ho fame,” mormorò Ace mentre l’altro iniziava ad apparecchiare con una ciotola e piatti pieni di pane, burro e marmellata. Marco assaggiò ciò che stava bollendo nella pentola e dovette trovarlo invitante perché se ne servì una porzione abbondante.
“Io invece sì,” disse, sedendosi su uno sgabello e prendendo un cucchiaio. “Ma non è divertente mangiare da soli, eh. Anche se non vuoi niente, sarebbe proprio un problema tenermi compagnia?”
“…Credo di no.” Ace si sedette di fronte a lui, ignorando l’odore invitante della zuppa e il fatto che quelle pagnotte apparissero morbidissime. Marco ne spezzò una e la inzuppò nel burro – burro saporito, Ace poteva dirlo maledettamente bene anche dal suo profumo – masticando ad occhi chiusi.
La ciotola era quasi vuota quando Marco disse, “Per me è troppo,” e spinse il piatto di pane verso Ace. “Sai che sarebbe da irresponsabili sprecare il cibo mentre si naviga, eh. Aiutami a finirlo perché non voglio essere rimproverato.”
Ace si limitò a guardare fisso la pila di pagnotte di fronte a sé finché Marco non aggiunse, “Per favore?”
…Se qualcuno glielo chiedeva le cose cambiavano. Giusto?
Perciò diede un morso esitante, e poi un altro e un altro e un altro finché il piatto rimase vuoto e Marco dovette riempire di nuovo la ciotola e rioffrirgliela. Fu solo quando gli premette sull’occhio gonfio un tovagliolo fresco e umido che Ace scoprì di avere le guance bagnate.
“Perché sto piangendo?” chiese, troppo sconvolto per nascondere l’accaduto. Bloccò il cucchiaio di brodo a metà strada per la sua bocca, sia spaventato sia speranzoso che Marco potesse rispondere.
Marco spinse il cucchiaio nella sua bocca coi polpastrelli. “Lo sai solo tu, eh.”

***

Ace si svegliò lentamente, con le membra sazie per la buona notte di riposo. Con le palpebre mezze alzate e la visione sfocata, il cervello imbambolato e lento ad accendersi, non notò inizialmente che non era da solo a letto. Marco era seduto al limite, il fumo che risaliva ad onde dalla sigaretta fra le sue dita.
Era insolito, un cambiamento nelle loro abitudini – Marco dormiva la notte a fianco a lui, ma se ne andava ben prima che Ace si svegliasse al mattino, tanto da far raffreddare il cuscino – quindi rimase a fissare imbambolato il comandante della prima flotta chiedendosi perché fosse ancora lì.
Lo sguardo di Marco si spostò dalla finestra ad Ace non appena si fu accorto che si era svegliato.
“Che c’è?” domandò quest’ultimo debolmente, ma con un reale interesse nella risposta. La sua mente addormentata si stava ancora stiracchiando per mettersi in movimento; non poteva davvero tirare fuori l’energia necessaria per arrabbiarsi e comunque, un po’ Marco gli piaceva. Solo pochino pochino, nonostante la terribile capacità di comprensione la pazienza infinita e quei sorrisini.
…Oh, al diavolo.
Marco era voltato verso di lui, con lo sguardo volontariamente fermo sul bicipite scoperto di Ace. Anche lui lo fissò, la pelle marchiata e le quattro lettere fisse lì, solo una che avesse un reale valore. “Ubriaco, eh?”
“Completamente sfatto,” disse, e poi capì che Marco si stava riferendo alla S barrata da una croce, che per chiunque altro appariva come un errore causato dall’alcol, ad eccezione di lui e di un ragazzo che stava dall’altra parte del mondo. Ace rimase sdraiato, tra il calore e l’odore acre del tabacco e disse, “ma volontario.”
La fenice alzò un sopracciglio ma non chiese nulla, e proprio per quello Ace aprì la bocca e lasciò che le parole uscissero come il sangue dalla ferita. “Avevo un fratello. Per decisione nostra e non per sangue, ma senza dubbio mio fratello, lo conoscevo da anni. Non riesco a contare le volte in cui mi ha impedito di farmi uccidere.” Ace prese un profondo respiro. “Sabo era… Veniva da una famiglia nobile, ma la sua vita era piena di miseria e solitudine e alla fine non ce l’ha più fatta – e anche se aveva solo dieci anni è partito in mare come pirata, cercando una vita migliore.”
E ora, Ace combatteva per continuare. Marco spense la sigaretta, si sdraiò accanto a lui, mostrandogli un aiuto silenzioso affinché trovasse la forza. “Ed è morto provandoci.”
Marco tracciò con gentilezza la S con la croce usando un dito circondato di fiamme blu. Il calore si irradiò dai punti toccati, un fuoco calmo che bruciava anche se Ace sapeva che non feriva – il suo corpo pizzicava dalla voglia di rispondere con le sue stesse fiamme, non per la paura o la rabbia ma per qualcos’altro totalmente diverso. Ace strinse i denti e nascose le sue guance arrossate nel cuscino.
“Qui a bordo siamo una famiglia. Io li considero tutti miei fratelli, eh,” disse Marco. “Nessuno può sostituire quello che hai perduto, ma quello che il Babbo ti offre è la possibilità di averne di nuovi.”
“Avere dei fratelli mi va benissimo. Quello che non voglio è un padre.” Ace sbuffò e si voltò faccia al muro, deciso a dormire e a fingere che quella conversazione non fosse mai avvenuta. Non aveva niente a che fare con la vicinanza a Marco, e quanto pericolosa ed immediata fosse la sensazione. Proprio niente.

***

Quando si sparse la voce della presenza di isole e si decise di ormeggiarvi, Ace non era sicuro di cosa dovesse fare di se stesso. Era la prima volta che la nave di Barbabianca si fermava ad un porto da quando era stato preso a bordo. Avrebbe potuto scappare. Sarebbe dovuto scappare.
Anche se per qualche insana ragione aveva deciso di non allontanarsi troppo (cosa che avrebbe voluto, decisamente molto lontano, lontanissimo, anche se immaginava che nemmeno l’altra parte di quel maledettissimo mondo fosse lontana a sufficienza) cos’era che voleva fare veramente? Restare su quella nave come un prigioniero, nonostante Satch insistesse che non lo era? Forse gli avrebbero fatto fare le pulizie o qualcosa di altrettanto ridicolo solo per tenerlo impegnato. Be’, manco per l’anima. Alla prima occasione che avesse avuto, si sarebbe confuso fra la folla, e non avrebbe messo più piede sulla soglia di Barbabianca. Con tanti saluti.
Era seduto sul letto di Marco, ad organizzare con impegno una fuga da maestro con più stratagemmi di quanti ne servissero, quando la fenice si affacciò dalla porta aperta e disse, “Ehi, andiamo.”
Ace si accigliò, sospettoso. “Andiamo dove?”
“In città, eh.” Marco alzò gli occhi, afferrò Ace per il polso e lo trascinò fuori della stanza. “C’è un posto che voglio farti vedere.”
“Stai interrompendo il mio piano di fuga,” si lamentò ignorando la smorfia irritante di Marco e il fatto che stava facendo una debole resistenza; arrivarono sul ponte, che era in piena attività, con pirati che si agitavano da tutte le parti per finire i propri doveri più in fretta possibile. “Chi ti dice che non scapperò?”
Allora Marco si fermò, appoggiando una mano sul suo petto e abbassandosi a sussurrargli all’orecchio, “Non puoi scappare da me, ragazzino. Nemmeno se lo vuoi.”
Gli venne la pelle d’oca sulle braccia e sul collo, mentre le guance si scaldarono in un secondo, tanto che Ace dovette respirare profondamente un momento per riprendersi. Dio, Marco si era accorto di cosa aveva causato al suo povero corpo? Per un attimo, se lo chiese; poi Marco gli passò un braccio sulle spalle e lo spinse sul ponte, con un mezzo sorriso annoiato sul viso, e Ace lasciò perdere. Si divertiva a prenderlo in giro, dopotutto.
“Scommetto che il tuo fuoco non può battere il mio,” disse Ace, incrociando le dita sul fatto che l’altro non avesse notato la sua reazione. “Non è nemmeno caldo.”
“Forse no. Ma non è che posso solo guarire, eh.”
“Giusto. La tua presunta forma di volatile, che non mi hai ancora fatto vedere. Non ti credo.”
“Pazienza,” disse Marco, dandogli una leggera pacca sulla testa solo per farlo incavolare. Fu ricompensato con un’occhiataccia. “Lo vedrai presto.”
“Che vuoi dire?” chiese Ace, ma l’altro si rifiutò di rispondere. E poi entrarono in città, cosa che catturò il suo interesse, perciò per quella volta lo perdonò.
In realtà non era la città, ma quello che gli abitanti indossavano che affascinava Ace. Alcuni erano vestiti normali, come da qualsiasi altra parte, ma la maggioranza aveva dei kimono dai colori brillanti – i modelli erano vari e graziosi; koi e draghi e fiori maturi, squali e fiori di ninfea e decorazioni geometriche di blu, rosso, bianco – ed Ace li fissava tutti mentre Marco continuava a guidarlo. Superarono una bancarella che emanava un odore di Takoyaki da far venire l’acquolina in bocca, ma Marco non si fermò, nemmeno quanto Ace impuntò sul serio i piedi ed il suo stomaco protestò ad alta voce.
“Ho fame, maledizione,” si lamentò Ace. “Non possiamo mangiare prima che tu mi trascini da qualunque parte tu voglia?”
“Potrai mangiare quando ci arriveremo, e non è lontano. Stai zitto cinque minuti e basta, eh. Anche se per un ragazzino come te è impossibile,” Marco fece un sorrisetto.
“Non sono per niente un ragazzino!” protestò Ace, e mantenne un volontario silenzio mentre camminavano, anche quando si lasciarono il villaggio alle spalle, solo per provare che poteva farlo.
Alla fine si ritrovarono in un sentiero circondato dagli alberi, pavimentato in pietre ordinate si differente forma e dimensione. Ace si fidava abbastanza di Marco tanto che il pensiero che lo stesse portando in un luogo isolato per sbarazzarsi di lui non l’aveva nemmeno sfiorato; la sua mente desiderosa di aiutarlo gli fornì altre immagini di quello che avrebbero potuto fare lontano da occhi indiscreti, ed Ace si pizzicò un fianco per scacciarle. Le possibilità di fare con Marco certe cose (nudi) erano anche minori dell’essere strangolato nel mezzo di una foresta.
Ace poteva accettare l’idea di essere attratto dall’altro senza preoccuparsi di sentirsi in colpa. Gli piaceva il sesso, proprio come a Rufy – entrambi avevano sviluppato un’intimità fisica per nulla inaspettata per una coppia di giovani pirati – ed anche se una grande porzione del suo cuore sarebbe stata esclusivamente di Rufy, qualunque cosa la vita gli avesse offerto, nessuno dei due si preoccupava di condividere il proprio corpo con un altro se ne avevano il desiderio.
No, quello che preoccupava Ace non aveva niente a che fare con il suo corpo, ma tutto con quella parte del suo cuore che non conteneva il nome di Rufy. Quella parte che, in un’incredibile manifestazione di intelligenza subdola che Ace non credeva avesse, si era affezionata. Sentimentalmente. A Marco, che faceva parte di quei maledetti pirati di Barbabianca… Era la parte che lo aveva punto quando Marco gli aveva sorriso, quando aveva saputo tutte le ragioni per cui Barbabianca si meritava il soprannome di ‘Babbo’.
Era la parte – quella traditrice – che gli sussurrava forse dovresti restare quando Ace era sdraiato la notte, con Marco che respirava dolcemente al suo fianco.
Più voleva rimanere, più grande la sua determinazione di fuggire…
…era quello che avrebbe voluto dire. Ace non era in realtà uno che negava le cose.
A parte il fatto che restare significava avere un padre.
E lui proprio… Non poteva
No?

TBC

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Capitolo 2
*** Parte seconda ***


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Parte Seconda

Capitolo dell'estratto: Trio

Un’ora e mezzo dopo, la foresta divenne meno fitta. Spuntarono in una radura che secondo Ace era dalla parte opposta dell’isola – non ci aveva fatto caso all’arrivo, ma la sua prima impressione era che si trovassero in una delle isole più piccole del Nuovo Mondo. Ace si fermò di botto mentre ragionava sulla dimensione e pure su un sacco di altre cose quando, una volta saliti su una piccola altura, apparve alla vista un caratteristico edificio in legno.
Ace sentì degli avvertimenti da una memoria offuscata, che lo rimandava indietro nel Mare Orientale e a quando non era ancora esperto del vasto oceano; un edificio con un simile aspetto, sempre in periferia tanto da poter essere definito come una zona turistica indipendente. Ci aveva trascorso tre giorni completamente dimentico del tempo che passava, tenuto costantemente in uno stato di semi-veglia per il calore e il profumo e il cibo – si sentiva rilassato, veramente, dalla prima volta da quando aveva salutato Rufy.
“Per favore per favore dimmi che è quello che penso che sia.”
Marco fece un sorrisetto, tirando leggermente fuor la lingua e alzando gli occhi. “E’ esattamente quello che pensi.”
A quel punto ad Ace non gliene importava più niente dei progetti di Marco per lui, ma si gettò immediatamente verso le sorgenti caldi con un grido eccitato ed agitando le braccia come un bambino. Saettò sulle pietre levigate del sentiero ed attraverso le porte apribili, spaventando terribilmente con la sua apparizione improvvisa le due donne che stavano chiacchierando dietro il bancone della hall. Fissarono Ace, ed una si mise una mano sul viso sconvolta, finché Marco non entrò dietro di lui, con un ingresso decisamente regale, se paragonato.
“Oh,” la seconda donna, più anziana, sospirò sollevata. “Marco-chan. Bentornato.”
Ace passò lo sguardo tra Marco e lei – la padrona, almeno a giudicare dal suo kimono di seta – curioso. La fenice doveva essere stato qui parecchie volte in precedenza, per essere salutato così affettuosamente nonostante facesse parte di una delle peggiori ciurme al mondo.
“E’ un bel po’, Kimiko-san,” disse Marco, allungando una mano mentre lei si avvicinava, e quella gliela strinse con entrambe le sue, un gesto così familiare che fece domandare ad Ace esattamente da quanto tempo visitasse il posto… E se all’epoca fosse già il comandante della prima flotta di Barbabianca. “E ti chiedo scusa se questo ragazzino ti ha spaventato, eh. Si eccita facilmente.”
“Non preoccupartene.” Con le rughe scavate dall’età accentuate dal sorriso e con gli occhi più gentili che avesse mai visto, Kimiko appariva ad Ace come la nonna di un vecchio amico; quando gli sorrise non poté far a meno di rispondere, imbarazzato e rigido.
“Devo chiederle scusa, signora.” Si chinò così profondamente da far quasi cadere il cappello. “Scusi per l’intrusione.”
Kimiko applaudì soddisfatta e fece un commento riguardo alle sue buone maniere mentre la donna più giovane, ancora nascosta dietro il bancone, guardava Ace con nuovo interesse. Ma era l’espressione di Marco che lo stava deliziando – lui aveva solo un sopracciglio alzato, ma Ace sapeva che nonostante la sua faccia quasi impassibile era in realtà profondamente sconcertato. Non c’erano state occasioni né volontà di mostrare l’educazione con cui Makino l’aveva istruito a bordo della Moby Dick.
Sul serio, Ace voleva semplicemente che Marco smettesse di considerarlo un ragazzino. Se questo desiderio aveva meno a che fare col far cessare le prese in giro e di più a fare in modo che Marco considerasse fare con lui cose che normalmente non si farebbero con un ragazzino, be’. Non lo si poteva biasimare.
“Ti faccio vedere la tua stanza.” Kimiko lo accompagnò lungo un corridoio circolare decorato con dipinti. Una sezione specifica di quei pannelli era dedicata ad un grande uccello con fiamme blu-dorate, ed Ace si fermò a tracciarne il contorno con dito, con la coda dell’occhio su Marco che parlava tranquillo con Kimiko. Si fermarono alla porta successiva. Con un ultimo cenno da parte della padrona, Marco si tolse i sandali e scomparve all’interno.
Quando Kimiko le fu di nuovo dietro, Ace domandò: “Questo è nuovo rispetto agli altri? E’ ancora così vivido, gli altri sono sbiaditi.”
“La maggior parte delle opere non è stata toccata da quando questo posto è stato costruito, più di un secolo da,” disse Kimiko, indicando il muro opposto decorato da una volpe rampante. “Ma la fenice è stata aggiunta solo dieci anni fa, quando Marco-chan ha protetto le sorgenti dall’invasione dei pirati.”
“Lei l’ha vista? Ha visto la forma di fenice di Marco?” Ace ritornò sul dipinto, completamente affascinato. “E’ fatto così?”
L’anziana chinò la testa. “Esatto. Non l’hai mai vista di persona?”
“Non ancora,” mormorò Ace.
“Allora sono sicura che succederà presto, perché Marco-chan deve essere molto affezionato a te.” Kimiko gli diede una pacca confortante sulla spalla. “Tu sei il primo che porta qui.”
Ace si interessò. “Davvero?”
“Davvero,” confermò Kimiko. Una voce squillante la chiamò, e prima di andarsene gli regalò un altro sorriso. “Stammi bene, Ace-chan.”
“Anche tu, obaa-chan.”
La porta in cui Marco era entrata era socchiusa, ed Ace infilò la testa nel buco per dare un’occhiata. Nella stanza pavimentata a tatami c’erano due futon piegati, un chabudai e, soprattutto, un’altra porta da cui Ace sentiva venire il suono di acqua corrente.
Dato che Marco non si vedeva, Ace lasciò le sue scarpe sulla soglia ed uscendo si ritrovò su un portico, scivolando sulle tavole di legno. I vestiti di Marco erano piegati ordinatamente sul pavimento, ed il proprietario era accomodato contro le rocce al confine della sorgente calda, semi-immerso. Il vapore gli lambiva dolcemente il petto. Riccioli biondi e bagnati circondavano le orecchie, Dato che aveva gli occhi chiusi, Ace ne approfittò per godersi la vista – non era esattamente così, dato che normalmente la sua camicia non nascondeva nulla, ma comunque era un raro piacere vederlo senza.
Dopo essersela goduta abbastanza, Ace si spogliò ed iniziò a lavarsi con gli strumenti lasciati in un angolo, una forma di cortesia dovuta, il non entrare nelle sorgenti con la propria sporcizia addosso. Quando si voltò, scoprì che Marco lo stava guardando, un sopracciglio alzato.
“Ti stai divertendo, eh?”
“Non ancora,” dise Ace, togliendo le ultime bolle di sapone dal braccio. L’idea di gettarsi a palla di cannone nella sorgente gli attraversò la mente ma ci rinunciò vedendo lo sguardo di Marco che gli stava leggendo la mente.
“Non ci provare,” brontolò, allungandosi verso di lui, pronto a combattere per bloccarlo prima che potesse avere delle intenzioni maligne. E anche se trascinare Marco in un combattimento nudi poteva essere decisamente divertente, Ace decise che era anche troppo rischioso, ed alzò le mani in segno di resa, entrando in acqua con appena uno leggero splash.
ll calore gli accarezzò la pelle, ed Ace mormorò felice mentre quattro mesi di tensione sene andavano assieme, lasciandolo piacevolmente stordito. In quello stato di rilassamento, il filtro tra il cervello e la bocca si ruppe come quella mattina al profumo di nicotina, e chiese, “Da quanto stai con il vecchio?”
Marco sbatté le palpebre sorpreso, ma sembrò interessato dal fatto che Ace avesse fatto una domanda su Barbabianca senza cattive intenzioni. “Da prima che tu nascessi, eh.”
“…Quanti anni hai?”
“Ragazzino,” sorrise Marco, facendogli chiaramente capire che a quella particolare domanda non avrebbe risposto molto presto.
Ace gli fece la linguaccia come risposta. “Vecchietto.”
Marco ridacchiò, quindi rimasero in piacevole silenzio. Ace radunò la forza per avvicinarsi al compagno – non aveva senso pretendere che Marco fosse da qualche altra parte, come faceva con Satch – e trovò una nicchia confortevole tra le rocce che sembrava fatta apposta per appoggiarci la schiena. Il sonno iniziò ad aprire le porte della sua coscienza. Con il calore di Marco al fianco, i corpi affiancati dalle spalle ai piedi, Ace non lo rifiutò – forse per a prima volta – e lasciò chinare la testa nella curva della gola di Marco.

***

Quando si svegliò, Ace era sdraiato tra le rocce, un asciugamano legato attorno ai fianchi e la sua pelle asciugata dal sole che ora stava tramontando all’orizzonte. Ammirò le delicate sfumature di rosa e arancione che dipingevano il cielo finché il suo stomaco non emise un rumore piuttosto fastidioso.
“Allora sei sveglio?”
Marco era seduto nel portico, un giornale spiegazzato sulle ginocchia. Stava indossando un largo kimono blu, con la silhouette di uccelli cuciti in filo oro per tutta la superficie. Ace ebbe un momento di smarrimento fissando il ginocchio nudo di Marco, che emergendo dalle pieghe del tessuto gli appariva come la cosa più incredibile che avesse mai visto. In quel momento fu assolutamente certo di dover ringraziare Kimiko per il lavoro che aveva fatto. Gli stava troppo bene indosso per non essere stato fatto a mano.
“Ti ho dovuto trascinare fuori dall’acqua prima che annegassi, eh.” Marco sollevò un pacco nero. “Il cibo è sul tavolo, e Kimiko mi ha chiesto di darti questo.”
Ace si alzò lentamente – era ancora intorpidito per la quantità di sonno al sole e di acqua calda – e prese il kimono prima di entrare nella stanza. Ad una rapida occhiata gli sembrò solo un semplice kimono che Kimiko aveva trovato per lui, ma quando lo aprì notò un simbolo bianco che spiccava sullo scuro. E che simbolo.
Nonostante trovasse strano che l’anziana donna avesse presupposto che facesse parte dei pirati di Barbabianca, Ace si rimproverò prima di indossarlo. Era stata un’ottima giornata, davvero. Non l’avrebbe rovinata protestando per una cosa così priva di importanza come indossare per una notte il simbolo di Barbabianca.
Il cibo preparato era caldo e profumato e esotico, specialità dell’isola, immaginava. Visto che era delizioso, lo inghiottì in un attimo – riuscendo, in qualche maniera, a non incastrare la faccia nella ciotola del riso – per poi raggiungere Marco fuori. Ora che ci faceva attenzione, anche sul suo kimono c’era lo stesso simbolo.
L’altro lo guardò con gli occhi semichiusi mentre si sedeva al suo fianco. Rimase in silenzio per un lungo attimo, prima che le labbra si piegassero in un ghigno soddisfatto.
“Del tè?” chiese.
Mentre il cielo si scuriva lentamente, Marco gli raccontò storie ambientate a bordo della nave, i combattimenti e le feste pazze e il calore di ottenere nuovi fratelli, nuovi membri della famiglia.
“- e ovviamente il Babbo non è stato contento di alzarsi con una barba non richiesta. Satch e Haruta hanno dovuto pulire il bagni per sei mesi, eh.”
Ace scoppiò a ridere, stringendo con forza la manica di Marco con dita tremanti. “Non posso credere che abbiano dipinto la faccia del vecchio! Color arcobaleno.”
“Proprio dei combina guai, quei due. Sono certo che ti reclutranno per la loro prossima azione.”
Con la pancia che gli faceva male dal ridere, Ace cadde su se stesso, usando le braccia come cuscino per la testa. Gli stava venendo di nuovo la sonnolenza, colpa del cibo con cui aveva riempito lo stomaco. Ma c’era un’ultima cosa che sentiva di dover chiedere.
Prima di sentirsi maggiormente a suo agio.
“E’ bello, avere un padre? Sei felice?”
“…Ragazzino.”
Ace lo prese come un sì.

***

Ace si fece strada stancamente verso il ponte della Moby Dick, massaggiandosi gli occhi stanchi e mormorando cose poco carine sottovoce. Il giorno prima Marco se n’era andato per una missione e non era tornato la sera, lasciandolo da solo a letto, insolitamente sveglio. Anche se Ace non aveva trascorso con lui tutte le notti – per i primi due mesi cercava di evitare la situazione il più possibile – ormai era diventata un’abitudine, e non aveva mai usato il letto senza la presenza di Marco. Dopotutto, era il suo.
La notte precedente Ace si era rannicchiato sotto le coperte, sperando che tornasse durante la notte e potesse vederlo al risveglio. Ma non si era fatto vedere. Aveva dormito a spizzichi e bocconi, senza riposarsi data l’assenza del braccio di Marco posto attorno al suo petto per tenerlo fermo, con il corpo che si rifiutava di stare fermo e dormire, anzi suggerendogli di aspettare. Aspettare Marco, che era andato chissà dove senza nemmeno dirgli quando sarebbe tornato.
Perciò al momento non aveva altre alternative che esplorare la nave per cercare un posto dove potesse farsi un riposino in pace e alzarsi poi in fretta. C’era solo un posto che non aveva ancora esplorato.
Si avvicinò alla zona d’ombra creata dall’enorme sedia di Barbabianca e vi si gettò. Il vecchio non c’era, probabilmente dormiva pacifico come voleva fare lui. Era terribilmente presto, tanto che il sole era solo una macchia allargata di arancione all’orizzonte. Ace sospirò, mettendo le mani sul petto e stringendo gli occhi sperando che l’agitazione non gli impedisse di avere il suo meritato risposo.
Ed in qualche maniera, per qualche ragione, la grande ombra creata dalla sedia di Barbabianca gli diede la consolazione che cercava. Nemmeno due minuti dopo, il suono chiaro del suo russare saltava il sorgere del sole.
Si alzò con la sensazione di essere ricoperto da qualcosa di grande e soffice e caldo – a dirla tutta, non proprio la sensazione più rassicurante che uno appena svegliato potesse provare - risvegliandosi di scatto. La luce penetrava debole attraverso qualunque cosa lo stesse ricoprendo. Una breve prova di tatto gli rivelò che si trattava di materiale pesante, e Ace strisciò sul pavimento, cercando noiosamente di scoprire la fine della stoffa che lo ricopriva.
Una volta trovata, mise fuori la testa prudentemente, sbattendo le palpebre accecato dalla luce del sole, che brillava ormai alto nel cielo. Risate roche vennero da sopra, ed Ace allungò il collo solo per vedere Barbabianca che gli sorrideva contento.
…Giusto, era riuscito ad addormentarsi dietro la sedia del capitano. Ace ricambiò con un ghigno timido. Ad un’ispezione più ravvicinata, capì cosa stava usando come coperta. Il materiale bianco era una giacca decorata con spalline d’oro; l’enorme grandezza indicava che si trattava di quella del capitano che aveva sulle sue spalle. La scoperta gliela fece semplicemente stringere di più sui fianchi mentre si metteva sulle ginocchia, mentre una sensazione positiva gli impediva di gettarlo via.
“Per quanto ho dormito?” chiese. La sua stanchezza di prima era ormai lontana. L’energia l’aveva riempito, tanto da desiderare che ci fosse un nemico da combattere. Era passato un bel po’ di tempo da quando le sue battaglie consistevano semplicemente dall’essere preso dolorosamente a calci in culo da Barbabianca.
“Boh. Ti abbiamo trovato sei ore fa, ma chissà da quanto tempo ti trovavi qui.” Satch si chinò al suo fianco, appoggiando una mano amichevole sulla spalla e stringendola, chiaramente divertito dal fatto che Ace potesse addormentarsi da qualunque parte volesse. “Il Babbo è stato così gentile da sacrificare la sua giacca per non farti scottare.”
“Ma io non posso-” scottarmi, stava per dire, ma Barbabianca lo sapeva. Le ustioni che non avrebbero potuto intaccare il suo corpo a causa del Frutto del Diavolo non c’entravano. Era solo un padre che si preoccupava per suo figlio.
Barbabianca si spostò per toccare i capelli di Ace, il quale rimase interdetto, dato che un suo dito era grande quanto la sua testa, e la leggera pressione gli faceva il solletico. “Non abbiamo avuto più molte occasioni per parlare, figliolo. Dimmi come ti stai trovando.”
Ace prese un respiro rassicurante. Quella parola – figlio – gli causava ancora un dolore pungente in quella parte del suo cuore che aveva esiliato anni prima, ma era il momento di ammettere che il muro aveva iniziato a sgretolarsi da quando aveva incontrato Marco, Satch e già, anche il vecchio. Era tempo di smetterla di rimanere in bilico in quell’indecisione. Non si tornava indietro.
“Bene,” disse, sorridendo prima a Barbabianca e poi a Satch. Sentì che era genuino e sincero sulle labbra. “Proprio bene.”
Aveva preso a sua decisione. Ma prima di renderla definitiva, voleva vedere Marco.
Voleva vedere la fenice.

***

Marco tornerà questa sera.
Così gli aveva detto Barbabianca, eppure era quasi mezzanotte e non c’era ancora traccia di lui. Ace si affacciò maggiormente al parapetto, gli occhi fissi sul mare, cercando di individuare una nave che navigava sulle acque scure.
I puntini luminosi brillavano sulla superficie dell’oceano; vivere sulle montagne impediva di vedere il bagliore del Regno di Goa di notte, e al massimo la loro visione del cielo era torbida. C’era una strana luce bassa in cielo, che pulsava di blu ed oro e si allargava avvicinandosi. Dieci minuti dopo divenne chiaro che quella luce azzurra non era una stella ma un oggetto che si avvicinava velocemente, bruciando più luminosa della luna.
Se fossero stati in pericolo imminente, gli uomini di guardia avrebbero fatto scattare l’allarme, ma l’oggetto era ormai vicino alla nave e nessuno sembrava preoccuparsene. In un movimento che era di fiamme, poteva vedere ora, atterrò a pochi passi da lui.
Ace smise di respirare.
Capì immediatamente cosa fosse. Era quello che desiderava vedere da quando aveva scoperto che Frutto del Diavolo avesse Marco: la fenice, con gli artigli sul parapetto e la strana coda dorata che gli solleticava i fianchi mentre si avvicinava, le fiamme che danzavano con intensità nella notte, il collo elegante piegato verso di lui, ad invitarlo. Anche se Ace non avesse acquisito il potere del Mera Mera, anche se non avesse saputo che quelle fiamme non erano pericolose, le avrebbe toccate comunque. Ogni istinto animale che possedeva gli stava urlando di gettarsi in quella forma blu-oro.
Ace aveva sempre ascoltato il suo istinto.
Marco aveva intenzione di lasciargli accarezzare le sue fiamme e le sue piume, per fargli sentire anche quella parte di cui non aveva precedenti esperienze. Come al solito, Ace esagerò ampiamente; non appagato dalla gola delicata che gli stava offrendo per soddisfare la sua curiosità, si gettò contro il corpo della fenice, rabbrividendo nell’essere circondato da quelle fiamme blu che lo affascinavano tanto.. Quello era Marco che alla fine, finalmente, si lasciava vedere interamente. Marco condivideva il suo ultimo segreto.
Le braccia di Ace circondarono l’uccello di fiamme, abbracciandolo con tutta la sua forza sperando che Marco lo lasciasse fare, che gli lasciasse quel momento. Tutti i pezzi erano al loro posto; sì, apparteneva a Barbabianca. Ma allo stesso modo anche a Marco.
Qualcosa iniziò a colpirlo alla base del collo, e ritornò un attimo in sé. Capì di aver gettato il viso fra le piume di Marco, e di starle accarezzando con la guancia per assorbire nella pelle quel fuoco più che poteva. Premevano cos’ delicatamente sul suo petto da fargli il solletico ogni volta che il piumaggio si spostava al ritmo dei sospiri di Marco, un inspirare-espirare stranamente a singhiozzo.
Con riluttanza, Ace lo lasciò, l’imbarazzo che saliva a bruciargli la punta delle orecchie. Ma alla fine della battaglia con i suoi orgoglio e il suo disgusto per lungo tempo, ammirare la fenice era stato un po’ troppo perché il suo cuore debole potesse reggere. Se prima Marco non aveva idea del fatto che Ace lo desiderasse, certamente l’aveva capito ora.
“Mi dispiace,” mormorò, mentre occhi brillanti rimanevano su di lui mentre Marco riassumeva forma umana a parte un’ala su cui Ace aveva tenuto senza accorgersene la presa. Non era accigliato né seccato o in qualche modo arrabbiato. Invece, guardava Ace con un’espressione che veniva definita di soggezione.
“C’è qualcosa di diverso, eh. Qualcosa è cambiato in te.” Marco toccò la sua guancia, passando il polpastrello ruvido sullo zigomo simulando pericolosamente una carezza. Per la seconda volta in pochi minuti, Ace rimase senza fiato. “Che è successo?”
Ho deciso di unirmi alla ciurma era quello che intendeva dire, ma quello che venne fuori fu: “Non sono riuscito a dormire mentre non c’eri. Era così vuoto, il tuo letto-” Ace inciampò sulle parole, indeciso su come continuare o se fosse il caso di farlo. Fra poco, Marco gli avrebbe dato del ragazzino, magari stringendogli un braccio attorno al collo e dicendogli di trovarsi un altro posto dove dormire. Ma la sua testa era così incasinata di emozioni, che non sapeva se avesse potuto affrontare un rifiuto.
Marco liberò l’ala dalla presa di Ace e l’alzò per poter afferrare il suo viso con entrambe le mani. I suoi occhi lo scrutavano, precisi e seri. Ace si calmò sotto quello sguardo calmo e sperò.
“Ah. Sembra che questo ragazzino sia cresciuto alla fine.”
E poi Marco lo baciò.
Paralizzato dalla sorpresa, Ace non reagì immediatamente. Marco sembrò aspettarselo, continuando a strofinarsi sulle labbra e facendo uscire la lingua per tastare il terreno, aspettando che Ace lo ricambiasse, mantenendo il bacio normale finché Ace non gli gettò le braccia al collo, stringendo la camicia per farlo avvicinare. L’altro spostò le sue gambe per infilarsi nel mezzo, facendo aderire i loro corpi, i petti nudi che si sfioravano facendo accendere ciascun nervo di Ace.
“Marco,” mormorò Ace una volta che le bocche si separarono. Toccò i capelli biondi, cercando di baciarlo ancora, ma la fenice gli mise una mano sulla bocca per fermarlo.
“Il mio letto non sarà più così vuoto ora, eh.” Ace fu sorpreso nel vedere del rosa sulle sue guance. “E qui non possiamo fare quello che ho in mente di fare.”
Il suo tono brusco fece rassegnare Ace, che cercava di fare del suo meglio per restare in piedi sulle gambe tremolanti per il desiderio. Arrivarono in camera di Marco, ma non prima che Ace fosse riuscito a fargli un bel succhiotto acceso sul bicipite. La sua cintura si era persa per la strada. La camicia di Marco era scomparsa ed Ace non poté resistere al passare le dita sul suo tatuaggio, toccando accidentalmente il capezzolo con il pollice, per poi ripetere il gesto dall’altra parte, finché Marco non sibilò fra i denti e lo spinse contro la parete più vicina, tenendolo per le braccia cercando di combattere contro un controllo di sé inesistente.
E Marco aveva avuto ragione; il letto non sembrava così vuoto con Marco sdraiatovi sopra ed Ace inginocchiato sopra, a farsi marchiare i segni blu delle unghie sulla schiena. Ad essere chiamato dentro di lui.
Ogni membro della famiglia di Barbabianca teneva il suo simbolo con inchiostro indelebile. Mentre le strisce lasciate dalla unghie di Marco bruciavano, mentre l’altro si chinava su di lui a quattro zampe e gli succhiava i graffi doloranti ed il sudore dalla pelle, Ace capì dove avrebbe fatto il suo.

***

I raggi del sole attraversavano l’oblò, risvegliando una figura sola dal riposo. Marco si alzò, massaggiandosi gli occhi assonati e sorridendo con affetto allo spazio a fianco a sé: uno spazio vuoto.
Al tocco, le coperte erano fredde. Non c’era più nessuno da ore.
Nascose la delusione ed il dolore alla bocca dello stomaco; sul serio, ma che si aspettava? Una volta placata qualunque curiosità avesse in Marco, Ace era libero di spostare il suo interesse altrove, e lui non se la sarebbe presa. Aveva il doppio degli anni di Ace, dopotutto. Un autentico vecchietto.
Ma la scorsa notte era stato così sicuro. Un cambiamento così drastico nel comportamento di Ace, la maniera con cui il ragazzino aveva tremato abbracciando la sua forma di fenice, come se in quell’attimo tutto si fosse spento e che tutto l’avesse reso veramente felice. Marco avrebbe potuto scommettere che aveva preso la sua decisione: quella di restare, come figlio di Edward Newgate e come suo…
Sospirando, recuperò i pezzi dei suoi abiti sparsi per la stanza, esitando al vedere uno degli stivali di Ace. Non se ne sarebbe andato senza, no?
La sua camicia era scomparsa. Ricordava vagamente Ace che gliela toglieva in corridoio, perciò decise che era obbligato a cercarla. Il collo e il petto erano ricoperti di segni provocati dalla bocca di Ace – se Satch li avesse visti, lo avrebbe preso in giro in eterno – ma benché potesse cancellarli facendo brillare un attimo le sue fiamme curative, non riusciva a farlo. Se non poteva avere Ace, avrebbe tenuto quegli effimeri marchi come ricordo.
Nel corridoio la camicia non era da nessuna parte. Andò sul ponte, chiedendosi se sbagliasse nel ricordarsi la situazione. Attraverso la nave senza trovarla, e aveva appena deciso che probabilmente era finita in mare quando girò l’angolo ed eccola: sistemata comodamente sulle spalle di Ace.
Il viso era chinato verso il mare, la testa piegata per ricevere la brezza. “Toglila,” gli disse senza guardarlo.
Marco lo fece, col cuore che pompava al massimo speranza nelle vene. Poteva essere? Poteva essere-?
La camicia scivolò sul ponte mentre Marco passava le mani sulle braccia di Ace, rivelando una fascia di bende allentate. Vennero via facilmente, e Marco fu colpito dal mucchio di emozioni che emersero al vedere il suo nuovo tatuaggio. Il simbolo del loro padre si spandeva sulla sua schiena, grande ed inconfondibile, qualcosa da indossare con orgoglio e fiducia in un uomo che non avrebbe mai tradito.
“Benvenuto a casa,” sussurrò Marco, divorandolo con un bacio sulla bocca che esprimeva tutto ciò che non poteva dire a parole. Quando cessò, Ace era aggrappato alle sue spalle, il viso rosso e il fiatone e i brividi dal desiderio mentre Marco gli passava la punta delle dita sul tatuaggio più e più volte.
“Possiamo tornare a letto?” Ace tentò di baciarlo di nuovo, maldestro e dolce ma comunque perfetto. “Per favore?”
“Penso di sì, eh.” Marco fece un sorrisetto, prendendolo per il polso e conducendolo verso la sua – la loro – stanza, il loro letto. Perché era il loro, lo era stato fin da quella notte di mesi prima quando Ace si era agitato e aveva protestato pur addormentandosi velocemente fra le sue braccia.
Sentì un pizzicotto sul sedere. Ace, con un gran sorriso deciso sul viso, non spostò la mano da lì.
“Accidenti a te, ragazzino.”

Un ringraziamento a tutti quelli che hanno letto la mia modesta traduzione. Grazie davvero.

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