Daimon Sotér e Daimon Abbadon: La ricerca di Neal C_ (/viewuser.php?uid=101488)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo; il ramo malato ***
Capitolo 2: *** Jersa_ Fuori posto ***
Capitolo 3: *** Shara_ Verso l'acqua e verso casa ***
Capitolo 4: *** Jersa_ Vecchiardo in incognito ***
Capitolo 5: *** Shara_ Il morbo ***
Capitolo 6: *** Jersa_ La cattura ***
Capitolo 7: *** Shara_ Una strega al villaggio ***
Capitolo 8: *** Il Labirinto_ Jersa ***
Capitolo 1 *** Prologo; il ramo malato ***
Prologo
Il ramo malato
La giovane donna immerse la chioma liscia e vellutata nella bacinella
piena d’acqua. Poi si alzò in piedi, i capelli
ancora gocciolanti e afferrò un sacchetto in pelle di
camoscio.
Ne trasse una polvere nera e la gettò nella bacinella.
Quindi immerse ancora i capelli e attese.
Intorno a lei era tutto silenzioso e in pace. C’era
un’aria pesante che traspariva dall’enorme
struttura in pietra.
Quel luogo era uno dei monasteri limitrofi, al confine con la palude,
l’ultimo baluardo di civiltà prima della
desolazione. Era abitato dalla confraternita della Mano Bianca e la
loro fortezza era il rifugio più sicuro per i pellegrini e
portava conforto ai poveri e agli ammalati.
Ma per lei quello era il luogo più pericoloso sulla faccia
della terra.
I monaci della Mano Bianca erano guaritori, uomini di scienza e
possedevano capacità magiche.
Erano linfalbini. Era un fenomeno innato che donava loro poteri
speciali. Nascevano nel loro sangue organismi biancastri
perciò detti albini, portatori di potenziale magico che
tramite la circolazione nutrivano il cervello. Così quegli
impulsi magici si sviluppavano all’intero della materia
grigia.
I primi anni di vita non erano diversi da quelli di normali bambini;
poi, raggiunti i sette anni, alcune cellule del corpo cominciavano ad
invecchiare.
Allora la pelle del bambino si seccava, impallidiva, talvolta si
copriva di leggere rughe, gli occhi divenivano acquosi; si trattava di
reazioni soggettive, chi le sviluppava di più chi di meno ma
c’era una cosa che li contraddistingueva in assoluto: i
capelli si striavano di bianco.
Ed era così che i futuri monaci erano presto
individuati, strappati alle famiglie e mandati a studiare nei conventi.
E vivevano rinchiusi fra quelle quattro mura, lontani dal calore della
casa e degli affetti familiari. Molti dimenticavano chi erano stati, il
loro nome, la loro discendenza.
Erano tutti uguali, tutti destinati a servire la strada della
conoscenza: erano destinati a diventare la casta.
Shara rabbrividì. Anche lei era stata prelevata e addestrata
e aveva goduto di quel potere, di quei benefici.
Si era sentita più fortunata, più forte di tutte
le sue coetanee e aveva studiato a lungo insieme ai suoi
compagni di privilegio.
Tutti si erano immersi in quelle conoscenze, esaltati dal potere che
raggiungevano sugli altri, ma lei aveva visto pian piano il mondo
incrinarsi davanti ai suoi occhi. I suoi compagni di studi perdevano la
loro umanità, impazzivano, inspirati dall’opera di
indottrinamento che il monastero metteva in atto. Lei era rimasta
l’unica, ancora incollata alla realtà; aveva
studiato il sistema, non era sbagliato.
È come una
pianta. Ha qualche ramo malato ma, tagliato quello, il resto del tronco
è solido.
Sentiva di non avere tutti i torti. In fondo gli ultimi cento anni
erano stati anni di pace.
Un secolo fa l’ordine dei monaci aveva raggiunto il potere e
aveva messo fine ai contrasti fra le tre unità protagoniste
della società dell’epoca: la famiglia reale, la
nobiltà e il popolo.
Non esisteva una vera classe mercantile e il commercio era nullo:
Filesis era una terra terribilmente arretrata e in lotta per il potere.
I monaci con l’appoggio del popolo e del re avevano
sterminato l’aristocrazia per poi indebolire il potere del
sovrano alleato. Loro avevano incrementato il commercio , creato le
corporazioni, piccoli paradisi chiusi ai forestieri, pallidi sogni di
coloro che non erano corporati per nascita o amicizie fortunate. Era
raro che si venisse accettati per i propri meriti; in un certo senso
avevano sostituito l’aristocrazia ma sapevano bene che se
avessero reclamato per se il potere sarebbero crollate sotto il comando
dei monaci.
Erano reti corrotte che non avevano alcuno scopo se non
l’arricchimento ma non dovevano turbare gli equilibri loro
imposti. Se avessero osato troppe ingiustizie sarebbero stati messi a
tacere dal potere delle masse; non c’erano scrupoli di sorta.
Eppure i monaci avevano portato un clima di benessere in tutta Filesis.
Certamente era stata perpetrata molta violenza ma si poteva
ricominciare.
Shara sospirò. Lei era la persona meno adatta a
quest’impresa; era una traditrice e non doveva farsi scoprire
in quel frangente: doveva nascondersi.
Due tocchi sordi rimbombarono nella stanza semi-vuota.
A Shara suonarono come una condanna a morte. Poi una voce acuta e
dolciastra filtrò dalla porta.
“È permesso?”
La giovane prese un panno ruvido posato poco lontano dal catino e se lo
avvolse intorno ai capelli: non sapeva se erano completamente neri
oppure la tintura doveva ancora fare effetto e non valeva la pena di
correre rischi.
“Avanti”
Nonostante tutto l’autocontrollo la voce suonò
malferma.
Fece ingresso nella stanza un monaco con una veste bianca, una cintura
nera e calzari in cuoio nero, che si allacciavano attorno a tutto il
polpaccio.
I lunghi capelli striati di bianco erano raccolti in una coda, gli
occhi erano lucidi e tremebondi. Doveva avere massimo
vent’anni, lei aveva imparato a riconoscere quella falsa
vecchiaia.
Non incuteva alcuna paura a prima vista ma poteva rivelarsi molto
più pericoloso di quanto si potesse immaginare. Non era una
figura anomala ma la voce squillante sconcertava Shara più
di ogni altra cosa. Doveva sperare di non conoscerlo o almeno che lui
non l’avesse mai vista. Ebbe fortuna: l’uomo si
avvicinò con piccoli passi e distese i denti giallastri in
un sorriso.
“Cara figliola, spero che non ti manchi niente. Sono qui per
esaudire tue eventuali richieste.”
Lei sentiva l’imperfezione nell’accento. Era
quell’esitazione, il tentativo di ricordare la lingua volgare
che forse non usava da secoli.
Anche lei aveva avuto problemi a recuperare la sua
familiarità con il volgare. Nei monasteri fra fratelli si
parlava l’absito.
Era la lingua della cultura ed era completamente diversa dalle lingue
popolari.
Anche lei in quel momento non riusciva a trovare le parole. Quel luogo
era stregato, le sibilava nell’orecchio parole in absito che
si facevano strada nella sua mente. Erano inviti suadenti che le
scivolavano sulla lingua. Lei le ricacciava in gola avvertendo una
sorta di dolore fisico.
“Figliola, ti senti male?”
Il suo sguardo era indagatore e cercava di mettere a fuoco il volto
della ragazza. Non doveva permettergli di avvicinarsi ancora.
Con un grido muto, disperato si lasciò sfuggire dalle labbra
un mormorio strozzato:
“Fame...”
Masticò quella parola e piano piano ritrovò
familiarità, ricacciando indietro l’absito come
una pillola amara da ingerire.
“Io avrei un po’ di fame, ma devo mangiare in
fretta...devo partire.”
Il monaco si addolcì e con voce accondiscendente
replicò:
“Ma bimba cara, è quasi buio. Dove andresti a
quest’ora? Tu devi riposare. Penserò io a portarti
da mangiare”
Sentiva le palpebre farsi pesanti e il corpo perdere rapidamente le
forze, afflosciarsi sotto quel peso immane. L’uomo riprese a
parlare sibilando:
“Delle consorelle si occuperanno di te. Sei in buone mani,
bambina.”
Mentre il monaco usciva dalla cella con passi piccoli ma pesanti, Shara
entrò nel panico.
Doveva sperare che la tintura avesse fatto il suo effetto. Altrimenti
avrebbe dovuto fuggire.
Ma come avrebbe fatto a trovare una via di fuga quando si trovava in un
monastero a picco sui monti Nubion?
Srotolò in fretta il panno ma si sentiva la testa ovattata,
desiderosa solo di dormire. Verificò che la tintura era
stata applicata; poi attese l’arrivo dei monaci.
Non dovette attendere a lungo. Comparvero due anonime monache e lei
potè tirare un sospiro di sollievo.
L’unica provincia vicina a quella di Neietta, conquistata con
una manovra politica dai monaci e da allora chiamata Lifelbina. Lei era
ancora una bambina quando aveva dovuto chiamare la sua città
natale con quel nuovo appellativo. Era la provincia più
vicina e Shara temeva che tutti i giovani monaci provenissero
da lì. Così si alzava sempre di più la
possibilità di incontrare persone conosciute.
Ma per il momento quelle due donne erano delle perfette sconosciute.
La svestirono e la misero a letto, credendola completamente priva di
forze. Portarono anche abiti femminili, ritenendo la sua camicia e i
suoi pantaloni in pelle sconvenienti per una giovane donna.
Shara ringraziò la sua buona sorte: non l’avevano
lavata, prima di metterla a letto, altrimenti avrebbero sciolto la
tintura ancora troppo recente per aderire bene.
Si coprì ancora di più con la pesante coperta di
lana. Sentiva la paglia, e ancora sotto la superficie di legno.
L’avevano fatta stendere sul giaciglio sulla parete di fronte
alla porta. Accanto c’era una brocca di coccio con
dell’acqua e anche un boccale di Diarik, un liquore molto
forte; forse un augurio a riprendersi. Finalmente si sentì
al sicuro, dopo tanto tempo. Le piaceva quella sensazione, come avrebbe
voluto abbandonare la sua vita precaria a cui lei stessa si era
condannata e riabbracciare la sua vecchia vita. Solo ora sentiva che
non ce l’avrebbe fatta a sopravvivere da sola.
Non dopo quello che aveva passato: non avrebbe più barattato
la sua anima per un pasto caldo e un rifugio. Non era ancora
così disperata. Domani avrebbe riunito in se il coraggio e
sarebbe ripartita per i suoi vagabondaggi.
Rimessasi in forze, si lasciò il luogo alle spalle
l’indomani, con il freddo che imperversava. Nessuno aveva
sospettato nulla.
Le avevano offerto una zuppa di legumi con il pane secco dentro e un
pezzo di carne ben cotto. E quando lei aveva chiesto di allontanarsi,
le avevano ceduto la coperta di lana e alcune provviste: carne e
verdure secche o salate.
Ne era sempre più convinta: il sistema non era completamente
guasto. Per questo c’era ancora speranza nel mondo.
L'angolo dell'autrice
Salve
a tutti, cari i miei lettori chiunque voi siate e se non ne ho nessuno
vuol dire che il prologo è scritto talmente male che farei
meglio a darmi all'ippica ù.ù
Premetto che l'idea di pubblicare su EFP non è mia
e ringrazio le mie adorate evm e Kill Bill
per avermi convinto/costretto a farmi avanti e a pubblicare questa
storia che sto covando da quasi un anno.
Vi anticipo che i capitoli originari sono lunghi anche dieci pagine
quindi ho preferito spezzarli. Manovra molto comoda dal
momento che non ho finito la storia (AVVERTENZE potrebbe essere
lunghina) e ho davvero poco tempo per scrivere quindi rischierei di non
aggiornare per mesi <.<
In generale aggiornerò una volta a settimana, fra il
venerdì e la domenica, e, quando sarò a corto di
capitoli e non riuscirò a scriverne di nuovi allora
metterò un bel cartello "Work in progress" e poi si
vedrà.
Nel frattempo leggete, se vi ispira seguite, recensite, cestinate,
ditemi che è bella, che fa schifo, io più di
tanto non mi offendo (vi inseguo solo con un forcone in mano,
mwaaahahahah :D ).
Difficilmente prenderò in considerazione suggerimenti sulla
trama, sui personaggi o altro perchè ho un'idea molto
precisa di come si deve sviluppare il tutto ma se qualcuno/a
di voi mi fa trovare un'idea particolarmente originale in una delle
recensioni potrei decidere di inserirla.
Inutile dire che mi piacerebbe sentire qualche parere anche se io
stessa tendo a leggere molto e a recensire poco.
That's all people! tatatatan!
Abbi
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Capitolo 2 *** Jersa_ Fuori posto ***
Avvertenze
per il povero lettore:
Cari miei, meglio che chiariamo un po' la struttura di sto'
poema,
così siamo tutti più contenti sopratutto
perchè ci
capiremo tutti qualcosa in più.
La storia è vista da due punti di vista diversi e quando
parlo
di POV non intendo che il racconto è scritto in prima
persona
(ma visto che non siete dementi sicuramente ve ne sarete accorti
ù.ù) bensì intendo che ciascuno vive
le sue
vicende fino ad incontrarsi (oppure no...?) tutti insieme
appassionatamente. Ecco spiegato il nomiciattolo in grassetto puramente
inventato che apre il capitolo, in posizione centrale
Così quando leggete il corsivo almeno avete una vaga idea di
chi
sta pensando e non vi confondete. I nostri cari protagonisti si
dovrebbero alternare e tenervi così con il fiato sospeso.
Ecco, adesso che ho svelato il trucco, prego, leggete pure.
Jersa
Fuori posto
Jersa
si
accovacciò nel terreno umido, cercando di apparire
invisibile
nonostante i falò centrali che evidenziavano malignamente le
ombre.
Il campo era
coperto di
feriti e mutilati, sdraiati su mucchi di stracci, la puzza del sangue
impregnava l’aria, faceva girare la testa tanto era intenso.
C’erano pile di cadaveri ammassati vicino ai fuochi e Jersa
poteva udire il cozzare delle pale sul terreno. C’era rischio
di
pestilenza se i cadaveri non fossero stati sotterrati o bruciati. Il
timore più grande era che le masse di corpi soffocassero le
pire, tanta era la mole; Per questo si era deciso di ricorrere alle
fosse comuni.
Era stata una
carneficina ed era la sua prima battaglia.
Non aveva mai
veramente
desiderato arruolarsi nell’esercito; era l’unica
realtà che conosceva e quando suo padre perì in
una di
quelle battaglie inutili contro i Ribelli il suo corpo fu riportato su
di una barella di legno. Era la prima volta che vedeva un morto e la
cosa lo scosse profondamente.
Suo padre era
un uomo
serio, un veterano di poche parole ma aveva sentito poco la sua
mancanza; aveva undici anni. A quattordici aveva dovuto scegliere il
destino da seguire.
Era tardi per
iniziare a
lavorare, avrebbe dovuto prendere anni prima quella decisione ma era
stata la sensazione di crescere, trovare un mondo ingiusto e
inospitale, a rallentare il processo della sua giovinezza. Sorrise
amaro; un vecchio del villaggio una volta aveva detto: “La
vita
è dura”. Lui si lamentava delle sue vecchie ossa
mentre
Jersa si lamentava di sè. Era insoddisfatto del suo fisico
gracile e non ben piazzato come gli eroi combattenti delle storie che
si tramandavano. E le sue mani piccole e tozze, non erano mani da
soldato ma da suonatore di cetra, e anche il suo corpo era quello di un
bardo o di un ladro, affatto adatto alla carriera militare.
Ciononostante sua madre l’aveva mandato presso il generale
dei
Serapides chiedendo intercessione per lui, Jersa figlio di Enagmir il
Capitano; Essere figlio di un autorità non garantiva niente,
salvo un posto nell’esercito alla progenie e forse qualche
amicizia del genitore morto. Il rispetto se lo doveva conquistare, e
per di più la carriera militare non rendeva neppure ricchi.
Lui,
figlio di un capitano, era cresciuto in mezzo al fango di un villaggio
come un contadino e aveva goduto dell’aria libera
finchè
il tempo non aveva reclamato la sua vita.
Era come se il
suo mondo
fosse finito prima di iniziare. L'unica vita degna di essere
vissuta era stata la sua spensierata giovinezza, quel nuovo tempo che
era giunto era solo un'incognita.
Non era ancora
un uomo, lo
leggeva negli occhi di tutti coloro che vedeva, persino quel giorno
l’aveva letto negli occhi dei suoi nemici, quasi come se
fossero
incapaci di attentare alla vita di un bambino. Eppure da lui
già
si aspettavano che tracciasse la sua rotta come una nave ben avviata,
con il timone sciolto, mentre il nostromo osserva le carte e la bussola
alla ricerca del Nord. Era una responsabilità che mai si
sarebbe
attribuita ad un bambino e la sua gravità pesava come un
macigno.
Poi
c’era stata
quella mattina e si era accorto che non avrebbe più potuto
combattere contro uomini che lo guardavano compassionevoli. Non voleva
vedere la pietà nei loro occhi, se non era abbastanza uomo
per
affrontarli, avrebbe preferito non fronteggiarli mai più.
Sapeva
che disertare era un reato, ma sapeva anche che i monaci sarebbero
stati clementi, semmai lo avessero preso.
Ce la posso fare.
Quella sera
avevano
abbassato la guardia. Non era rimasto niente dell’esercito
messo
in piedi dai Ribelli e non si temevano agguati e ritorsioni. I cadaveri
di cui disfarsi avevano quasi tutti la livrea nera della Ribellione.
Prese un sorso di Diarik dalla fiasca del suo fedele marsupio di cuoio.
Erano poche strisce di pelle conciata cucite insieme ma erano tutto per
lui. Il suo unico bagaglio indispensabile e mai se ne sarebbe separato.
Lì conservava i suoi coltelli e la fiala di alcool.
Gli era sempre
piaciuto
l’alcool, il Diarik era forte ma per lui aveva un piacevole
sapore dolciastro. Lo aveva provato tre anni prima e da allora ne
portava sempre un po’ con se. Gli dava coraggio e lo faceva
sentire uomo. Poteva berne grandi quantità senza perdere la
ragione come capitava a molti e lo facevano star bene. Quello
era
l’aspetto più adulto che avesse e ne era
orgoglioso.
Parecchie volte aveva rimesso il liquore e la sua inconfondibile
schiuma giallastra gli era rimasta in bocca, ma l’idea che
potesse rovinargli il fegato non lo aveva neppure sfiorato. E se anche
ne fosse stato al corrente non vi avrebbe dato credito.
Un'altra cosa
di cui andava
fiero era la sua abilità con i coltelli che preferiva agli
spadoni e alle daghe tipiche dei cavalieri. Il suo sogno era il fejii,
un’arma che solo i ricchi si potevano permettere: un coltello
ricurvo di dimensioni molto più ampie di un semplice
pugnale,
facilmente letale; era l’arma dei monaci che ne avvelenavano
la
punta con intrugli e incantesimi magici e quella era la loro sola arma
difensiva.
Erano spesso
in un acciaio
argentato che brillava di bianco e poiché riservato alla
classe
alta era chiamato "linfacciaio".
Dunque
rimaneva un sogno,
anche quello. Jersa aveva pensato di servire i monaci ma sapeva di aver
ben poche possibilità non essendo nato
“vecchiardo”
come li definivano gli abitanti del suo villaggio. Non era cattiveria
ma solo buonsenso: erano come vecchi ma potevano avere anche poco
più di vent’anni. Gli abitanti erano loro grati
per la
pace che mantenevano in quella terra segnata dai contrasti. Ed erano
benevoli con quell’ordine così potente e
misterioso
poiché il sospetto difficilmente si insediava nelle loro
menti
sempliciotte. Ogni dubbio era subito smentito e aveva vita breve.
Il Diarik gli
aveva
restituito un po’ di coraggio e continuò a
strisciare
nella sabbia. Gli stivali erano impolverati e sporchi di sangue come il
terreno su cui sfregavano e quando il ragazzo dovette poggiare le mani
a terra, non poté trattene una smorfia disgustata.
Il campo aveva
una forma
circolare e il cerchio, sebbene nessuno ne fosse al corrente, il
ragazzo compreso, era uno dei simboli fondamentali
dell’Ordine
lifelbino: rappresentava l’inizio e la fine in circolo,
l’emblema di un potere eterno, destinato a rigenerarsi. Era
quello l’atteggiamento dei monaci, che l’occhio
sveglio di
Jersa aveva colto anche senza capirne il perché. Era una
sicurezza che nasceva alla radice, un territorio inattaccabile che non
aveva esitazioni, era forte ma diverso dal rozzo vigore che animava il
soldato. Una fermezza che non si materializzava nella violenza e per
questo il popolo ne era succube.
Anche il
giovane disertore
riconosceva che non vi era alcun motivo per scontrarsi e non capiva le
inutili ostinazioni dei ribelli. Gli era capitato di incontrarne
alcuni, prigionieri o ambasciatori che erano venuti a trattare, ma non
aveva mai trovato alcun fondamento nelle loro richieste. Volevano la
fine del “Monachismo” come era chiamato nei
quartieri
bassi, senza mezzi termini e tutti i tentativi di contrattare si
rivelavano inutili.
Ricordava,
ancora bambino,
quando suo padre era tornato a casa, all’alba, rosso in volto
tale era il furore che provava. Era rimasto irascibile e violento fino
a sera, poi, finalmente, era cominciato un dialogo fra i suoi genitori
che gli aveva fatto una grande impressione. Suo padre era seduto al
tavolo e aveva imprecato ad alta voce:
“Dannatissimi
mangia ratti! Ma lo sai che hanno fatto, moglie, lo sai?”
La donna era
intenta a
posare in tavola il piatto di verdure Kremiri, lunghi arbusti verdi
sciolti nel brodo in una poltiglia grassa, un miele animale salatissimo.
“E
che avranno mai
fatto, Enagmù, ancora possono stupirci? Chiedono sempre le
stesse cose e mi meraviglio che non ci siamo ancora stufati di
ascoltarli.”
La moglie era
come un
po’ tutte le donne: più realista, più
scettica,
poco combattiva e preferiva non partecipare alle faccende politiche di
cui si intendeva il marito ma certo non rinunciava a dare il suo parere
anche senza sapere niente di ciò di cui si stava parlando.
In fondo era
curiosa di
sapere, sicura di saper dare a ciascuno il consiglio giusto e portare
come esempio della sua ammirabile perspicacia ogni episodio che
riusciva a strappare agli altri.
Quindi, dopo
un’intera giornata di trepidante attesa, riusciva a stento a
trattenere la curiosità. Il marito era sicuramente un uomo
calmo
e posato, doveva esserci una ragione seria per quello sfogo
così
manifesto.
Ancora si
congratulava per
la sua perla di saggezza quando udì la voce
dell’uomo
farsi ancora più rabbiosa e tonante:
“E
invece hanno chiesto; che ne sai tu che hanno chiesto? Se anche te lo
dico che mi rispondi?”
Passata la
sfuriata, sospirò: “Ma ci pensi? Che si fa ora? Si
rinvia il trasferimento? Schifosi bastardi!”
La donna
sapeva di dover
aspettare ancora, far sbollire le ire residue, ma soprattutto, regola
numero uno di una pettegola, mai chiedere esplicitamente ne tantomeno
farsi insistente. Prima o poi avrebbe seminato e lei avrebbe raccolto i
frutti. Si limitò a posare sul tavolo una brocca di coccio
piena
di Diarik e aggiunse solo:
“Fermare
il trasloco? Che pasticcio! E come si farà?”
Il pugno del
soldato sbatté sul tavolo con veemenza.
“E
che dobbiamo fare?! Qua tutti vogliono risposte e che si fa?”
Afferrò
la brocca e
con un gesto brusco se la portò alle labbra, bevendo con due
lunghi sorsi rumorosi. Poi la allontanò con una manata
mentre
con l’altro braccio si passava il dorso della mano sulla
faccia
per pulire la bocca.
“Te
lo dico io che si fa! Qua si cambia destinazione! Non ci vado in quel
covo di delinquenti!”
Durante quel
dialogo di
sfuriate paterne e piccole trappole psicologiche materne,
l’allora piccolo Jersa era rimasto a guardare entrambi, con
gli
occhi spalancati, senza veramente capire quale fosse la disgrazia che
creava tanto panico in famiglia: “Scusate, ma che succede?
Signor
padre? Signora mamma?”
Il soldato
sbuffò infastidito : “Antilina, spiegaglielo tu
che non c’ho voglia”
La moglie,
ignara di tutto,
si limitò a lanciare un’occhiataccia al bambino e
a
rispondere aspramente: “Va a letto che non è cosa
per un
bambino.”
Ma il padre si
riscosse e
con uno sguardo serio al bambino deluso lo trattenne ancora. Prese un
pezzo di pane raffermo che la consorte aveva bagnato nello stufato di
Kremiri e lasciato sull’orlo del piatto.
“Ragazzo
mio, prima o poi dovrai pur capire qualcosa del mondo, quindi
zitto e ascolta.”
Cominciò
finalmente a parlare sotto gli sguardi incuriositi di due personaggi:
“Stamattina
è venuto al campo uno di loro, in uniforme di
battaglia...”
Arrivò
repentina la domanda del piccolo:
“Loro
chi?”
Fu ammonito
severamente:
“Lascia
parlare
altrimenti non saprai mai. Dunque...dicevo che è giunto
quest’uomo, un ambasciatore dei Ribelli che ha proposto
ancora
una volta i loro assurdi accordi che siamo abituati a sentire. Non
lasceremo mai Filesis nelle loro mani, che si rassegnassero. Per
accordarci, uno dei monaci, una ragazza con degli strani occhi, dopo
aver contrattato per un pezzo, ha promesso loro la città di
Tetranex come base, ma solo se smettevano di fare la guerra. Quei figli
di un demone hanno accettato subito e adesso siamo così
combinati!”
Digrignò
i denti e riprese a urlare furioso:
“Non
dovevano fare
una concessione così! Era una bella città sul
fiume, in
pianura, non troppo vicina e non troppo lontana dalla palude, aveva
anche un sacco di giardini dove ti saresti divertito! Io avrei trovato
presto lavoro e la mamma tante nuove amiche! Tutta
un’organizzazione stravolta! Bestie rapaci!”
Anche la madre
si
lamentò della disgrazia e imprecò fra
sé e
sé, ma dopo poco tornò a lavare i panni e non ci
pensò più. La notizia era ormai vecchia e, a
parte le
amiche del villaggio, nessuno era interessato ai maneggi politici delle
schiere militari. Si viveva alla giornata, non serviva sapere,
l’importante era proteggere le proprie cose, i propri cari e
tirare avanti come meglio si poteva. La pace che i monaci garantivano
soddisfaceva la gente e la loro piccola vita era tutto ciò
che
importava loro.
Nemmeno Jersa
capì
granché del discorso del padre: non sentiva alcun bisogno di
trasferirsi e non aveva mai visto dei giardini destinati alle
attività di gioco. Non conosceva ancora il mondo e non
sentiva
il bisogno di cercare qualcosa aldilà del suo villaggio.
Nemmeno ora,
con le gambe
che strusciavano nella polvere fino alle cosce, reduce dalla battaglia
di quel mattino, stanco e spossato ma con i sensi all’erta,
si
sarebbe allontanato per una semplice curiosità. Era una
necessità la sua, doveva trovare il suo posto e non si
trattava
solo di nascita ne di ereditare il lavoro del padre. Pensò,
solo
per un attimo, alla madre che avrebbe lasciato indietro, fuori dalla
sua vita e si fermò, abbandonando la prudenza,
improvvisamente
bambino.
Rimase
lì, accovacciato, a fissare il vuoto, cercando un unico
istante,
momento, giorno, ora della sua vita in cui sua madre fosse stata
veramente presente. Non trovando nessun motivo veramente valido per
rimanere, scacciò quei pensieri con una scrollata di spalle
e
continuò a strisciare lungo il bordo del campo.
L'angolo dell'autrice
Eccoci
di nuovo. Non mi dite che sentivate la mia mancanza! Anche
perchè non vi crederei.
Eccoci al secondo capitolo che sicuramente la mia adorata cuginetta Nihal992
rivedrà da cima a fondo e magari mi darà una mano
con la punteggiatura che proprio non è arte mia.
Ma a parte lei, su cui conto sempre (MEOW! *_____* ), voglio
ringraziare anche un'altra lettrice, la meno timida fra quei 38 che
hanno letto o scorso la storia, Giu09.
Magnifiche la mia emv che
già mi segna fra le sue preferite anche se non mi ha manco
letto (incoraggiamento
un po' di parte) e le mie Kill
Bill che più prudentemente mi seguiranno
assicurandosi che ne esca una cosa leggibile.
Allora vale la pena di continuarla sta' storia o è meglio
che mi do all'allevamento di seppie?
Aggiungo a beneficio di tutti per chi ha notato il titolo in
pseudo-greco antico (dannato/benedetto liceo classico!) : se vi
spiegassi anche questo vi avrei raccontato la storia in cinque parole,
dovrei chiudere i battenti e avrei tempo per dedicarmi alle mie seppie.
Ma visto che sono una che allunga il brodo allora soffrirete a lungo
prima di capire o, cosa più probabile, vi scoccerete prima.
Poi mi piacerebbe sentire chi dei due protagonisti vi fa più
simpatia. Io all'inizio avevo "il raptus della crocerossina" e
stravedevo per il mio Jersa, adesso non saprei più che dirvi.
Finisco con un must della letteratura, la nostra costituzione:
i diritti
imprescindibili del lettore.
I. Il diritto di non leggere
II. Il diritto di saltare le pagine
III. Il diritto di non finire un libro
IV. Il diritto di rileggere
V. Il diritto di leggere qualsiasi cosa
VI. Il diritto al bovarismo* (malattia testualmente contagiosa)
VII. Il diritto di leggere ovunque
VIII. Il diritto di spizzicare
IX. Il diritto di leggere a voce alta
X. Il diritto di tacere
* Il termine bovarismo indica
l’attitudine degli uomini a credersi e a vedere le cose
diversamente da quelle che sono, a sognare delle felicità
irrealizzabili, irraggiungibili.
Questo termine è stato coniato da Barbey
D’Aurevilly e deriva dal cognome della protagonista del
celbre romanzo di Flaubert, Madame Bovary. Flaubert si è
ispirato ad un fatto di cronaca: la vicenda di Delphine Delamare.
Questa donna aveva suscitato scandalo in un borgo della Normandia, per
le sue manie di grandezza, le sue spese eccessive e la sua
voracità nel leggere romanzi, infine si era suicidata,
perchè travolta dai debiti. L’eroina di Flaubert
sceglie una realtà fittizia che le da maggiore
gratificazione.
@
Copyright: Daniel Pennac "Come un romanzo" e Blog Lettera
Bartleboom:
http://letterabartleboom.wordpress.com/2006/12/20/ecco-il-vostro-peggior-nemico/
@
Ecco
adesso andate e moltiplicatevi, cari lettori!
Abbi
p.s Ovviamente ringrazio tutti quelli che hanno letto, che mi seguono,
mi seguiranno, hanno intenzione di seguirmi ecc. e ringrazierei anche
quelli che non volessero seguirmi mai e poi mai se mi spiegassero
perchè...aiuterebbe ;)
|
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Capitolo 3 *** Shara_ Verso l'acqua e verso casa ***
Shara
Verso l'acqua e verso
casa
Tutto era
deserto.
Il paesaggio
era un distesa gelida e perenne agli occhi di Shara. I monti erano alle
sue spalle e sussurravano ancora in absito le promesse di una vita
tranquilla, nella reclusione. I monasteri erano costruzioni imponenti,
come fari nella notte per le navi nell’oceano
immenso e di fronte a lei non vi era niente. La giovane strinse gli
occhi sino a ridurli a due fessure, aguzzò la vista
inutilmente, sperando, in una tale distesa piatta, di
scorgere un ostacolo alla vista, una barriera per quanto piccola che
limitasse quel deserto infinito. Le girava la testa e dovette
rapidamente abbassare le palpebre e respirare profondamente, facendosi
coraggio. Il terreno era stepposo, senza colore e non vi erano piante
di sorta, solo arbusti grigi, che non si elevavano a più di
pochi centimetri da terra. Molti erano rovi che si impigliavano nel
mantello della giovane e ne strappavano il tessuto sfrangiandolo e
riducendolo a brandelli. Shara aveva da tempo perso il conto dei
giorni, poiché in una tale desolazione non esistevano tempo
e spazio.
Possibile
che queste terre siano così...dov’è
finita la gente, che ne è della vita? È un
sogno?è un incubo?
Tutto pareva
un miraggio e, in cuor suo, la viaggiatrice cominciava a dubitare della
vita e della sua missione.
Cosa
ci faccio qui? Che cosa credo di fare? Cosa cerco di dimostrare?
È ridicolo.
Ogni passo che
faceva era un ripensamento, il desiderio di tornare indietro era sempre
più forte.
Non sapeva
neppure bene dove si trovasse. Trascinava con se una borsa di cuoio in
cui erano raggomitolate le coperte di lana e vi era ancora un poco di
carne salata nella sua bisaccia. Aveva raccolto delle erbe lungo il
cammino e adesso le custodiva in un piccolo sacchetto di canapa
grezza, legato attorno al collo. Erano erbe curative che
ancora portava con se, come un tempo. Curare e occuparsi dei malati era
forse l’unica cosa che sapeva fare; anzi, erano ben poche le
cose che conosceva dell’arte della sopravvivenza, che fino a
quel momento non le erano servite. Solo con la magia riusciva a
combinare qualcosa, come accendere un fuoco, costruirsi un riparo, e
cercava di mantenersi in forze perché il suo potere non
l’abbandonasse. Quindi dormiva regolarmente e consumava molta
acqua e cibo, senza preoccuparsi che finissero.
Così
fece ancora una volta. Si accampò, in mezzo alla pianura
secca e polverosa, vicino ad un cespuglio di sterpi e, fissati
intensamente i piccolo rami, gli diede fuoco. Mentre una fiammella
irradiava dai rovi, ella si girò, pose a terra il
bagaglio, notevolmente alleggerito, e distese le coperte. Cosse la
carne lentamente, tenendola sospesa sulla fiamma, mentre le dita
risentivano del calore del falò. Non faceva nè
caldo nè freddo ma tutto era secco e improvvisamente
sentì il bisogno bruciante di acqua. Le borracce erano
esaurite ed ella si risolse, ancora una volta, a trarre dal terreno
ciò di cui aveva bisogno. Seduta sulle coperte, accanto al
fuoco, si concentrò sulla terra e immaginò: in un
attimo vide veramente tutto ciò che c’era
lì sotto; incontrò tanta polvere, roccia, pietre
piatte e appuntite, ma anche tane di topi, piccoli animaletti che
vivevano sottoterra, che scavavano nelle loro gallerie per miglia e
miglia. Ma non c’era traccia di un falda acquifera, di
terreno umido, e il suo occhio scendeva sempre più in
profondità e l’oscurità che regnava in
quella contrada sempre più lontana dal sole la spaventava.
Anzi, tutto era sempre più secco e polveroso.
Che
io sia giunta al cuore della terra, dove regna il fuoco?
Temeva di aver
raggiunto il centro del sottosuolo dove si raccontava che ci fosse solo
una distesa di fuoco liquido, come quello di un vulcano. Prese a
risalire man mano, ma la stanchezza cominciava a farsi sentire,
alimentata dalla sete. Posò il suo occhio sulle immagini dei
piccoli abitanti del sottosuolo.
Come
possono essere vivi loro? Non c’è traccia di
umidità, ma dov’è l’acqua?
Decise di
seguirne i movimenti per raggiungere il loro segreto, ma questo gli
sarebbe costato un grande sforzo. Dovette interrompersi
perché la notte era calata e mentre i suoi occhi erano cechi
il sole del tramonto così roseo si dileguava. Doveva dormire
e l’indomani mattina gettarsi all’inseguimento del
mondo sotterraneo. Ma innanzitutto doveva sapere dove si trovava. Si
rimise in piedi e puntò gli occhi su un cespuglio sterposo
poco lontano. Si inginocchiò presso la pianta e congiunse le
mani a coppa vicino alle radici. L’immagine dell’
acqua si formò nitida nella sua mente. Era poca e
terribilmente sfocata. In un attimo le mani ne furono piene e la
giovane si affrettò a berne. Il cespuglio era ancora
più inaridito ma era sopravvissuto alla magia.
Ciò
che le premeva maggiormente ora era scoprire quanto era vicina alla
meta. Doveva raggiungere una qualsiasi cittadina o luogo civilizzato
per poi decidere cosa fare della sua vita e scappare per sempre dalla
minaccia dei monasteri sulle montagne. Erano detti i
“montanari” ed erano anche le istituzioni
più ferme e integraliste che si occupavano
dell’isolamento e dell’indottrinamento dei giovani.
Osservò
quella notte appena coperta e con difficoltà
riuscì a intravedere una delle costellazioni più
nitide d’estate: il “cavallo rosso”,
così detto perché le stelle che lo componevano
emanavano un’aurea rossa e ciò lo rendeva
particolarmente visibile, anche a cielo nuvoloso o nebbioso.
Era una
costellazione dell’est, ed era il simbolo del fiume
più ricco di Filesis, il Diasperon. Quando ci si trovava
presso il fiume, nelle belle notti d’estate, si vedeva un
fiero destriero che luccicava come se marchiato a fuoco sulla volta
celeste. Shara si accorse con orrore che il cavallo era
sfocata. Era lontana dal fiume e chissà quando avrebbe
raggiunto l’acqua e la strada. Forse era troppo ad ovest o
troppo ad est. Sfiorò la mappa con il dito e mantenne un
occhio puntato sul cielo. Scorse una stella solitaria, la Reniga,
“la guida dell’ovest”, come era chiamata
dai forestieri che si spingevano all’ovest più
popolato. Potette tirare un sospiro di sollievo, poiché non
si era allontanata di troppo, ma da quel momento avrebbe fatto bene a
viaggiare di notte e a seguire il cavallo rosso fino al
Diasperon.
L’indomani
sarebbe rimasta ancora lì, in cerca dell’acqua,
seguendo di nascosto i percorsi di topi e altre bestie
sotterranee, nella speranza di trovare almeno un villaggio verso cui
mettersi in cammino. Altrimenti avrebbe seguito il destriero notturno.
Si distese
sulle coperte soddisfatta, senza neppure coprirsi, con il mantello
addosso e la chioma sparpagliata per terra. E, sebbene non avesse preso
misure di sorta, la notte passò tranquilla; il suo sonno
rimase indisturbato fino a giorno inoltrato.
Quando si
risvegliò il sole era alto nel cielo, sorto da tempo e
l’aria cominciava già a riscaldarsi. Fu in quel
momento che Shara si mise all’opera: puntò tutto
il suo essere sul terreno e ne fece la sua unica ragione di esistenza.
Ogni singolo pensiero era dedicato alla ricostruzione del terreno e
delle sue profondità. Tutto appariva trasparente e
tridimensionale nella sua mente e pian piano ogni cosa prendeva colore.
La sensazione che le procurava era un leggero formicolio, di chi non
compie qualcosa di così grande o non solleva un sacco
così pesante da tempo. Individuò delle talpe e
delle specie di manguste che si muovevano a velocità
impressionante, con un pelo rossiccio e i denti grandi e sporgenti.
Quell’animaletto la incuriosì ma non seppe come
chiamarlo e ben presto l’immagine si fece sempre
più sbiadita finchè non scomparve del tutto dalla
sua mente, come se non fosse mai esistito. Seguì una
famiglia di talpe che, gironzolando nei dintorni facevano
provviste. Sebbene ciechi, i piccoli animali si muovevano perfettamente
nel buio e con velocità passavano da una galleria
all’altra, dai cunicoli alle caverne. Era un incrociarsi di
vie e buchi scavati nella terra dove il traffico era
tutt’altro che tranquillo.
Adocchiò
un giovane maschio che sbatteva il muso avanti e indietro per carpire
odori. Andava avanti per miglia e miglia sottoterra, senza fermarsi,
spinto solo dall’olfatto. La giovane se ne
meravigliò ma non stette a pensarci troppo, per timore di
distogliere l’attenzione dal suo scopo. La concentrazione
costava sforzo alla sua mente e la distanza che separava il corpo dalle
sue azioni era grande. Da ore stava lì, affidandosi ad un
animaletto cieco ma quello prendeva sempre nuove gallerie, passaggi
stretti finchè le parve di perdere ogni cognizione di causa.
Fu un sollievo quando improvvisamente la talpa si fermò e
cominciò a battere le zampe sul terreno, emettendo suoni
simili a lunghi sospiri. L’animale graffiava una parete
concava con forza e, dal piccolo avvallamento naturale, ben presto
creò un vero e proprio squarcio nella roccia. Era pietra
fragile e Shara poteva addirittura percepirne la natura friabile. Le
unghie della talpa erano state create dalla natura per quello scopo e
cominciò il fruscio che annunciava acqua in movimento. Le
unghiate dell’animale incrinavano la roccia e si creavano
piccoli rivoli di acqua dolce, che scorrevano indisturbati, straripando
e dissolvendosi una volta toccata terra, assorbiti dal terreno
sottostante, per andare a disperdersi non si sa dove, ma la ragazza non
ci teneva ad indagare oltre: l’unico cruccio era quello di
non poter riconoscere minimamente il luogo in ci scorreva
quell’acqua fresca. Forse era vicina a lei di qualche
chilometro eppure lei non lo sapeva. Decise di aggrapparsi ad
un’altra speranza e abbandonò la talpa. Si
concentrò sul corso dell’acqua e ne
seguì il lento fluire partendo dalla piccola foce appena
scoperta per risalire alle origini. Si infilò nelle fessure
più anguste, risalì gli strati sulle tracce di
poche gocce assorbite dal terreno ma non perse mai la traccia della sua
preda, finchè, con grande gioia, giunse presso il letto di
un fiume. L’acqua era chiara e il fiume non era abbondante ma
neppure povero, eppure qualcosa lo rendeva terribilmente familiare: era
talmente limpido che il fondale di sassi bianchi e tondi si
distingueva perfettamente. Era il Nelost, ne era certa,
poiché ne conosceva ogni palmo. E allora si rese conto di
trovarsi a ovest, verso la sua città natale. La
constatazione la riempì di gioia e di sollievo; poi perse
completamente i sensi e non vide più niente.
Si
risvegliò la mattina successiva, completamente esausta. La
mente era appena un po’ appannata ma gli stimoli della fame e
della sete la corrodevano come l’acqua arrugginisce il ferro.
Era rimasta due giorni in ascolto, per trovare la fonte del Nelost, e
infine era crollata per la stanchezza e per il sonno, dormendo
un’intera notte. Sbuffò infastidita e
profondamente irritata dalla sua incombente debolezza fisica. Erano i
limiti del fisico l’unico freno alla magia. Questa non
indeboliva in alcun modo il corpo ma prendeva molto tempo e potevano
occorrere giorni e anche una settimana per operare una magia. Era stato
il suo corpo a ribellarsi dopo due giorni di digiuno, sotto il sole,
senza un goccio d’acqua e la sua posizione a gambe incrociate
non era certo risultata riposante. Aveva dormito ben diciotto ore, e
ora si risvegliavano tutti gli stimoli, tra i quali un forte
indolenzimento alle gambe. Tentennò un po’,
incerta se alzarsi o meno, dato il dolore sopraggiunto, e infine si
tirò su, con forza. Scricchiolarono tutte le ossa e
cominciarono a bruciare i legamenti.
Che
mi sia slogata qualcosa?
Si
tastò ben bene le gambe mentre i ginocchi le dolevano, con
una crema si massaggiò le caviglie, i polpacci, fino alle
cosce. Mangiò velocemente un altro pezzo di carne arrostito
ma quasi le venne la nausea al sapore salatissimo di quel cibo che il
suo stomaco riceveva da giorni. Sentiva bisogno di verdure e
soprattutto di pesce. Adorava il pesce fin da bambina e, con lo stomaco
debole e dolorante, cercava ora di ricordarne il sapore fresco con
nostalgia.
Ricercò
ancora l’acqua esigendola da alcuni cespugli e stavolta li
ridusse a paglia, non accontentandosi di assumere poche gocce, esigette
ogni singolo sorso di acqua che queste contenevano. Pensò
alla fonte che aveva scoperto: avrebbe varcato le porte della sua
città natale? Oppure avrebbe raggiunto il Nelost e poi
proseguito?
Non
posso tornare a Neietta, la città è piena di
confratelli. Vedrò che direzione prendere in seguito.
Qualcosa succederà.
Pensò
con frustrazione quanto soffrisse la mancanza di una destinazione o di
uno scopo. Sopravvivere alla giornata era davvero irritante per una
giovane che fino a quel momento aveva nutrito degli ideali, alimentati
da carte, libri, documenti, resoconti, parole di confratelli e
superiori.
Con gesti
veloci e rabbiosi preparò le sue bisacce e cercò
la posizione del sole per trovare la direzione da prendere. Il calcolo
era piuttosto approssimativo poiché era decisamente
più facile orientarsi con le stelle che in pieno giorno ma
infine si mosse, continuando a camminare e tendendo
l’orecchio, pronta a cogliere lo scorrere delle acque.
L'angolo
dell'autrice
Allora signori
miei, questo capitolo che potrà sembrare solo un inutile
cumulo di descrizioni e inutili puntualizzazioni su un luogo
praticamente deserto è meno scemo di quel che sembra
ù.ù
Direte voi: "e
grazie ce lo dici tu che sei l'autrice ma io lo trovo lo stesso una
palla" Pazienza! perchè era il modo migliore per
presentare un elemento fondamentale nella storia: la magia!
Niente
bacchette, niente mani, lampi, tuoni, avada kedavra o che so io. La
magia è un processo puramente mentale, non è
ereditaria quindi se c' hai la testa giusta te la tieni se non ce l'hai
ti fotti (bovinamente parlando).
Beh non
è che sia un piacere possederla se poi ti devi chiudere per
forza in un monastero pieno di vecchi bacucchi prepotenti
ç____ç
Ovviamente la
magia è uno degli elementi fantasy per eccellenza. Se fate
una partita a D&D, per citare uno dei più famosi e
diffusi gdr fantasy, sicuramente vi capita un mago nella truppa, o un
chierico o uno stregone e compagnia cantando. Però volevo
trovare un'alternativa al ruolo classico del mago che ha bisogno di
erbe, sterco di pipistrello, chissà quali pozioni magiche
dagli ingredienti introvabili (e anche piuttosto schifosi,
diciamocelo). E l'idea mi è venuta pensando ad un
famoso mito (che sicuramente è solo un mito e se non ve ne
convincete vi suggerisco di aprire questo link) secondo cui noi
attualmente useremmo solo il 10% del nostro cervello e ci sarebbero
chissà quali capacità nascoste nella
nostra mente, dalle telecinesi, alla previsione del futuro.
Partendo dal
presupposto che mi sembra una grande scemenza è un'idea che
ha successo in un racconto fantastico, fantascienza e quindi anche
fantasy!
Quindi la
magia, che è sempre uno di quei fattori inspiegabili o
comunque spesso dati per scontati, non dico che trova giustificazione
in questa teoria ma sicuramente diventa più affacinante
*____*
All'inizo
pensavo addirittura che avrebbe potuto trovare dei legami con la
fisica, tipo con le forze che agiscono su un corpo, poi ho visto le mie
belle valutazioni e quel poco che ho combianto all'ultimo compito e ho
pensato: "magari in un'altra vita" <.<
Insomma
SI, mi piace speculare su sta' roba e NO, non ho nient'altro
da fare U_U
Ringrazio come
al solito le mie beniamine Nihal992,
emv,
Kill
Bill e
anche il/la mio/a caro/a recensore (o recensitrice o recensora o che so
io...il dizionario mi gioca brutti scherzi) Giu09.
Ovviamente
ringrazio chi legge, chi non legge, chi si scoccia, chi si diverte ecc.
e per l'ennesima volta, a chi mi abbandona mezzo schifato lo invito
anche a farmi una pezza...molto spesso una bamdierina arancione con
un bel CRITICA aiuta! mica siamo nati Kafka (tanto per citare
uno dei miei idoli *_*)
Sayonara gente!
Abbi
p.s cortino
eh? mumble mumble...
p.p.s Lo so, direte voi, che razza di titolo è? E vi risponderò io: boh, suona uno schifo ma quest’è ù.ù
|
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Capitolo 4 *** Jersa_ Vecchiardo in incognito ***
Jersa
Il
Vecchiardo in incognito
Al centro della piazza c’era un falò che rimaneva
acceso tutta la notte e lì si attardavano i soldati, bevendo
e giocando alla Marca, un gioco di carte ma soprattutto di fortuna.
Jersa aveva provato a scommettere qualche moneta di cui era in possesso
ma naturalmente aveva subito perso. Le carte erano poste al centro e
bisognava ottenere una serie di combinazioni, ricordandosi a memoria i
numeri e i personaggi che uscivano. Se andava bene ricostruivi parte
della scala e potevi vincere un terzo di quanto avevi scommesso, ma era
molto più facile perdere tutto quello che avevi puntato. La
scala partiva dal Re, poi si proseguiva con il Monaco, il cavaliere, il
professionista, l’imprenditore, l’usuraio, il
mercante, il soldato, l’artigiano, l’apprendista,
lo sfaccendato e poi c’erano le carte rosse, la regina, la
Monaco, l’amazzone, la signora, la matrona,
l’imbrogliona, la locandiera, la puttana, la lavandaia, la
serva e la bambina guercia, che valevano il doppio del loro
corrispondete maschile.
Erano due
mazzi, uno rosso e uno blu, ma il dorso era nero come
l’inchiostro.
Venivano
mischiate le carte e un unico mazzo era posto al centro. Ognuno
riceveva una carta e cominciavano le scommesse.
Naturalmente
ogni carta aveva un abbreviazione *(1)
che rendeva più facile l’identificazione e Jersa
poteva udire gli scrosci rumorosi dei soldati che tiravano a indovinare
le marcate, come erano definite le
giocate.
Il campo era
in penombra ma era attorniato da una palizzata di solido legno alto
almeno tre metri e mezzo e senza appigli di sorta. Inoltre sul legno
era stato passato una specie di miele vegetale, una sostanza
appiccicosa che utilizzavano le piante cacciatrici per intrappolare gli
insetti. Era un’altra magia dei Monaci, che aveva trasformato
una poltiglia innocente in una ragnatela che all’interno era
innocua ma, se un qualunque nemico avesse cercato di assaltare
dall’esterno il campo, sarebbe bruciato in quella dolce morsa
che profumava di fiori di campo.
Jersa
rifletté in fretta e capì che doveva guadagnare
l’uscita con l’astuzia; era impossibile non essere
visti poiché il focolare era equidistante da ogni punto
dell’accampamento e si poteva scorgere ogni movimento nel
piazzale. Doveva distrarre le guardie e attendere il momento buono per
uscire da lì indisturbato. Si rassegnò
all’idea che l’avrebbero tormentato per tutta la
serata e avrebbe perso un mucchio di soldi in scommesse e puntate.
Uscì
dall’ombra e si avvicinò al falò
strascicando i piedi; doveva apparire stanco e spossato per non destare
sospetti. Molti dei giocatori, seduti in circolo non si girarono
neppure e cincischiarono a bassa voce con la bocca impastata:
“Ah si, è lui, si”
L’attenzione
era tutta concentrata su una marcata particolarmente importante che
riempiva l’aria di tensione. Erano tutte facce conosciute,
con una lunga fila di rughe sulla fronte che tradivano lo sforzo di
quelle menti semplici, che, nell’euforia del gioco, non
sentivano ne vedevano altro che le carte piegate e stropicciate sulla
trave di legno del piano da gioco.
Jersa
si lasciò cadere pesantemente sul terreno e qualcuno
trasalì, udendo per la prima volta un rumore esterno. Gli
arrivò uno scappellotto del milite vicino, basso e secco,
detto il Nocerino perché aveva la pelle scura e ruvida come
quella di una noce.
Il ragazzo
incassò il colpo con una smorfia e, appena il compagno volse
lo sguardo, prese a massaggiarsi la spalla dolorante: tutti in quel
campo picchiavano duro, anche se per gioco.
Poi una serie
di urla entusiaste lacerò la notte, come lo scoppio di una
pentola a pressione:
“Errerros!
Tié! Oddo vintu 3 marcate!” *(2)
Molti risero
sguaiatamente mentre uno dei vecchi cercava di riportare
l’ordine con poche secche frasi di sottofondo che si
ripetevano ancora e ancora: “Eppassiammo aunaaltra marcate,
passiammo addopo” *(3)
Tra le grida
generali, con un’occhiata veloce, Jersa cercò il
perdente ma ci mise un po’ ad individuare la figura
dell’uomo che stava seduto sereno dall’altra parte
della trave da gioco.
Solitamente i
giocatori che perdevano le marcate bestemmiavano, avevano attacchi
d’ira improvvisa per sfogare la tensione e alcuni
addirittura, soprattutto qualche inesperto mercante attaccato ai suoi
soldi come se fossero la sua anima, collassavano sulla sedia.
Le somme che
si scommettevano erano sempre forti e circolavano decine di trucchi;
molti sfaccendati vendevano “la mossa perfetta”, ed
erano chiamati “Venditori di imbrogli”, ma ormai
solo gli ingenui ci cascavano. Un uomo poteva perdere tutta la sua
fortuna fra le chiacchiere dei compagni e un bicchiere di Diarik. Poi
c’erano gli adulatori, che non vedevano l’ora di
sottrarre le vincite al povero malcapitato e, con fare untuoso,
squittivano lodi sperticate: quelli erano chiamati “Lingue
lunghe”. Infine c’erano le puttane che attiravano i
giocatori, che erano per lo più uomini: alcune si
accompagnavano a ladri e lestofanti che spogliavano l’uomo di
tutti i suoi averi, altre, come vedove nere, si sbarazzavano dei
concupiti con le loro mani una volta per tutte.
Tutti i
giocatori avevano bisogno di essere rassicurati, seguiti e si
abbandonavano nelle mani dei truffatori che davano loro effimere
certezze.
Questo Jersa
non lo sapeva ma non era stupido; non si sarebbe mai affidato ad uno
straniero. Eppure non aveva mai visto un personaggio così
tranquillo davanti ad una perdita del genere. Solo i monaci erano
così sicuri di se: tutto ciò che cercavano se lo
procuravano con la magia.
È
un Vecchiardo in incognito?
Si sporse
appena per guardare bene lo sconosciuto che non aveva notato fino ad
allora: era a volto scoperto, il mantello appena appoggiato sulle
spalle, non un tentativo di coprirsi bensì un gesto
indolente. Non c’era traccia di bianco nei suoi capelli
corti: era solo una zazzera nera e spettinata, leggermente riccia, che
incorniciavano un volto chiaro, ovale.
Era un volto
giovane e liscio, come quello di un bambino e persino la sua statura
stava ad indicare un giovinetto piuttosto che un uomo vissuto.
Doveva avere
all’incirca sedici anni; era praticamente un coetaneo, anzi
pareva addirittura più puro e innocente e Jersa non riusciva
a capacitarsi come fosse ancora vivo in quel mondo inclemente dove
sopravvivevano solo i più scaltri. Per un attimo
sembrò smuovere in lui corde mai toccate, facendogli
conoscere un sentimento che fino a quel momento non aveva nome ne
consistenza: istinto materno. Ispirava una innocenza e un candore che
non aveva mai trovato in un ragazzo o in un uomo in generale. Per un
momento pensò di proteggerlo da quegli uomini che lo
sbeffeggiavano e gridavano entusiasti alla luce della sua sconfitta, e
incrociò il suo sguardo limpido. I suoi erano occhi di un
grigio chiaro e pensoso che gli donavano quell’aria serena e
anche la sua espressione fu tranquilla e posata. Era un messaggio muto
che Jersa aveva interpretato con stupore: Fidati di me, so cosa sto
facendo.
In quel
momento tutti i suoi buoni intenti, i suoi piani di fuga erano spariti
e per la prima volta dopo tanto tempo il ragazzo si sentì
confuso; i suoi difetti, i suoi cattivi pensieri, i suoi peccati
risaltavano davanti a quell’innocenza come il nero su bianco.
Ricordava i suoi dispetti, i suoi piccoli furti, gli inganni, le bugie,
le ingiurie silenziose con cui aveva bersagliato tutti, persino sua
madre, e la mancanza di rimpianti che non lo avevano trattenuto presso
la sua genitrice.
Mentre il suo
cuore era in tumulto, mantenne lo sguardo fisso sullo sconosciuto che
lo ricambiò con un’occhiata di sincera
curiosità.
“Mi
ritiro dal gioco” fece lo straniero con semplicità
e, dopo un po’ di mormorii generali, si discostò
dalla tavola di legno, rimanendo seduto come se dovesse cercare
qualcosa nel terreno, quindi, strettosi nel mantello nero, si
alzò e cominciò a camminare in direzione
dell’uscita.
Jersa
sentì un tuffo al cuore e corse avanti per tagliargli la
strada, fermarlo. Lo avrebbero punito come disertore o per violazione
del coprifuoco.
A pochi passi
dalla porta, gli si parò davanti e quello non nascose la sua
sorpresa nel vederlo apparire dal nulla. Dopodiché rimase
imbambolato di fronte al coetaneo sempre più stupito e
incuriosito.
Jersa
misurò le parole, indugiando a lungo sulla scelta dei
termini da usare per non spaventare quel piccolo bambino, frutto della
sua immaginazione:
“Tu…non…puoi
uscire…a
quest’ora…No…è…è…”
si interruppe e trasse un bel respiro “è
pericoloso”
“Perché?”
Il giovane
quattordicenne avrebbe voluto ridere di quella domanda innocente che lo
terrorizzava:
Già
perché no?Ma perché è così!
È pericoloso per lui, è
così…piccolo
Alla fine
sorrise nervoso: “Se ti beccano ti puniscono”
Anche il
giovane estraneo sorrise ma fu una smorfia divertita, come se non ci
credesse:
“E
per cosa mi puniscono?”
Jersa,
stavolta, ribatté pronto: “Perché non
hai rispettato il coprifuoco”
L’altro
si guardò intorno e gli rivolse un ghigno furbesco:
“Scommettiamo
che non mi prendono?”
Le
pupille di Jersa si dilatarono per lo spavento mentre il sedicenne lo
sorpassava con un gesto leggero e elegante e si dirigeva verso
l’arco della porta.
Avrebbe voluto
gridare contro quel giovane stolto che non aveva ascoltato alcuna
raccomandazione e, improvvisamente, lanciò il braccio in
avanti, in un richiamo silenzioso ma disperato.
Dal canto suo
il ragazzo estraneo attraversò l’arco con tutta
calma senza mai sparire dalla vista e, a distanza di un metro
dall’arcata, si girò e gli rivolse un sorriso
sereno, si umettò appena le labbra e quindi
replicò, divertito: “Ho vinto io”
Poi, dopo
essersi guardato intorno, in un attimo di riflessione, si rivolse a
Jersa, luminoso e solare: “Vieni con me!”
Questi
sentì l’impulso di corrergli incontro e di
abbracciarlo, ma, troppo stordito, si limitò ad annuire e a
raggiungerlo con passo calmo.
Non sentiva
più la necessità di sfuggire da qualcosa e
finì per convincersi persino che, al seguito di un essere
così puro, sarebbe stato al sicuro da ogni sventura.
Mentre si
allontanavano dalla città, passo dopo passo, Jersa
sentì il neocompagno stringergli il braccio e sussurrare:
“Come ti chiami?”
La risposta fu
meccanica e neppure troppo pensata: “Jersa, figlio di
Enagmir”e si fermò piantando i piedi sul terreno:
“”Tu?”
Il ragazzo al
suo fianco rispose semplicemente: “Erick”
*(1)
Carte in gioco
Re/regina:
Errerros/Errenè
Monaco/a:
Vecchiardo/a
Cavaliere/amazzone:
Bestierros/Bestiennè (da bestia=cavallo: le amazzoni
andavano solo a cavallo)
Professionista/Signora:
Signorros/Signonè
Imprenditore/Matrona:
Riccherros/Ricchennè
Usuraio/Imbrogliona:
Latròne/Latronéss
Soldato/Puttana:
Lo’fforte/ La’ddolce
Artigiano/Lavandaia:
Lo’scuoio(dagli artigiani del cuoio la gilda maggiore)
/Lavapanneri
Apprendista/serva:
gnocco/triglia
Sfaccendato/Bambina
guercia: Lo’gnavo(da ignavo)/ la’ llosca
*(2) Una Regina!
Tié! Ho vinto 3 giocate!
*(3) E passiamo ad
un’altra giocata, passiamo a dopo
Angolo dell'Autrice
Vi annunzio che mi scoccio di scrivervi qualcosa...
Quindi niente commento al capitolo.
Che perdita eh?
Bwaaaahahhahahahahha
Misa
p.s Quanto amo le carte che ho inventato!!! *_*
|
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Capitolo 5 *** Shara_ Il morbo ***
Shara
Il morbo
Al
tramonto cominciò ad intravedere del fumo che si perdeva
nell’aria come lo zucchero si scioglie velocemente
nell’acqua. Affrettò il passo, gli stivali che
battevano come zoccoli sul terreno. Vide spuntare un manipolo di
casupole disposte a elle: le abitazioni erano in orizzontale
e culminava con un’ala laterale, dove c’era qualche
edificio pubblico e un piccolo pozzo. Erano tutte in tufo e in pietra,
quella pietra semimorbida che l’acqua tranquillamente erode;
il pozzo era delimitato da un recinto di sassi robusti.
Così era composta la periferia di Neietta, di tante elle
disposte a corona, come i petali di un fiore di ninfea. Ma il fumo si
faceva sempre più nero e pareva fosse stato acceso un vero
falò. La stagione era estiva e la natura era rigogliosa,
dunque non si trattava della cerimonia del vecchio: con
l’equinozio di autunno finiva l’anno e le foglie
degli alberi che cadevano, simbolo dell’anno vecchio che si
allontanava, erano ammucchiate nelle piazze principali di tutti i
paesini e si accendevano grandi roghi finchè tutto il
vecchio non era smaltito. L’anno ufficialmente iniziava con
il solstizio di inverno e i giorni che andavano dalla fine
dell’anno prima all’inizio del nuovo erano giornate
di festa per tutta la popolazione che abbandonava le proprie
occupazioni e impiegava il proprio tempo liberamente. Persino le
autorità si affrancavano dal loro compito ed erano
più frequenti disordini, risse in taverna o divergenze di
ogni genere.
Shara si lasciò guidare dalla curiosità e
seguì la scia come un topo corre dietro al profumo del
formaggio, emmenthal con i buchi della migliore qualità. A
cinque chilometri di distanza c’erano gli altri insediamenti
ad elle e nessuno di questi, tranne quelli più esterni a
raggiera, erano protetti da una cinta di solide mura.
La giovane si fermò presso un pozzo, ansante, stordita per
l’emozione, tanto che dovette sedersi sulla ghiaia del
terreno. Non era più dispersa in un luogo deserto
e sulle soglie delle case c’erano le vecchie sedute sui
gradini ad osservare i passanti e a filare la seta; Le mani erano
piccole, affusolate e agili, mentre alla scarsa vista suppliva una
dimestichezza invidiabile con i fili e gli aghi che danzavano fra le
dita. Altre piccole presenze erano i bambini che solitamente correvano
e giocavano, lanciando schiamazzi ma stavolta erano silenziosi e
raccolti intorno ad una grossa panca, proprio ai piedi del pozzo. Erano
figli di umili origini e alcuni di loro erano a torso nudo,
il corpicino magro in mostra. Era tutto un confabulare e Shara non
tardò ad innervosirsi, data l’aria pesante che
affliggeva il posto. Vide una bimbetta di cinque o sei anni che la
additava davanti ai compagni, fissandola con palese interesse. Le fece
cenno con la mano di avvicinarsi, e la incoraggiò con un bel
sorriso. Ma la piccola rimaneva dov’era e sul volto della
giovane si dipinse un’espressione furba e divertita.
Infilò nella sua bisaccia una mano e rovistò un
po’. Ne trasse infine un povero anellino di rame che aveva
dei bei riflessi rossi e lo pose sulla mano in bella vista. Quindi lo
offrì alla piccola, con gran successo: la bambina lo
afferrò fulminea e cominciò a rigirarselo fra le
mani. Shara ne approfittò per domandare con voce dolce e
rassicurante:
“Buon giorno a te, piccola, dove siamo?”
Fu molto intenerita dalla vocettina che sgorgava da quella boccuccia,
acuta e infantile:
“Neia...Giro...”
La giovane viaggiatrice annuì: era esattamente come pensava,
si trovava nella periferia di Neietta, divisa in Tala o centro e Neia o
Giro, la parte esterna circolare.
La bambina si lasciò cadere a terra e cominciò ad
intrecciare attorno all’anellino foglie e fili
d’erba dei ciuffi che spuntavano numerosi dalla ghiaia.
“E, dimmi” storse appena il naso davanti
all’odore di bruciato che si diffondeva nell’aria
“cos’è tutto questo fumo?”
La piccola spalancò gli occhi e la
guardò con appena un po’ di timore nello sguardo e
la voce tremula. “stanno bruciando gli cattivi
spiriti”
La ragazza impallidì: “come?”
Davanti a quel terrore la piccola interlocutrice annuì come
aveva talvolta visto fare ai grandi che la circondavano e
assunse un’aria grave che risultò grottesca e
ridicola. Shara avrebbe riso davanti a quella mascherata infantile se
non fosse rimasta così sconvolta da quelle rivelazioni. Gli
“ spiriti cattivi” potevano anche essere ribelli, o
semplicemente persone innocenti, sospettate di non si sa quali crimini.
Sono roghi?di uomini o veramente creature magiche?
Da quanto aveva appreso non erano rimaste creature magiche su Filesis
bensì erano tutte state sterminate dai monaci. Per un attimo
si chiese se la bambina avrebbe saputo dirle di più e quindi
lo sguardo saettò intorno esplorando i confini della piazza,
nella speranza di scorgere un adulto. C’erano le anziane del
villaggio intente a lavorare ma neppure loro erano affidabili
messaggere. Infine si decise a interpellare la piccola che la scrutava
con aria via via più sospettosa.
“Chi sono questi spiriti cattivi? Uomini? Bestie?”
Poteva darsi che si sbagliasse, che fossero animali indomabili che
erano stati soppressi e le ossa bruciate...
“Sono uomini, i grandi” il tono fu duro, impietoso,
come se la piccola fosse giudice di ogni atto, in un grande processo in
cui tutti erano implicati.
“E cosa hanno fatto di male?”
“Avevano i cattivi segni”
Shara la guardò senza capire: quali segni?
Bandito ogni terrore le ordinò, con tono non più
gentile e accomodante: “fammi vedere”
La bambina la prese per mano e cominciò a tirarla verso le
casupole che dovevano essere il quartiere residenziale. Avevano
superato il pozzo e un enorme recinto, forse il luogo del mercato.
Oltrepassarono anche fatiscenti baracche di legno, stalle da cui
provenivano nitriti, grugniti e altri versi, accompagnati da odori di
stalla vari. Ma, giunta in prossimità della piazza la
piccola guida cominciò ad allontanarsi dal centro. Frattanto
gli occhi stanchi e quelli curiosi di vecchi e bambini avevano trovato
un nuovo spettacolo che rompesse la monotonia di quel giorno
lavorativo. Shara sentiva ogni suo movimento osservato e cercava di
mantenere un’andatura normale quando in realtà
avrebbe voluto mettersi a correre, di gran fretta. Dopo diversi passi
oltre la piazza cominciò ad intravedersi una catasta di
legno e corpi, come identificò in seguito la giovane. La
piccola guida si fermò ad una distanza di tre metri dal
cumulo, e alzò la manina indicando il desolante paesaggio.
“Quelli” aggiunse, come se la straniera non potesse
capirlo.
Shara fece per avvicinarsi ai cadaveri, molti carbonizzati, alcuni
ancora intatti, ma la bimba le strinse le dita che ancora aveva fra le
mani fino a farle male. “Non andare, oppure diventi come
loro”
La rimproverò, impertinente. Shara sciolse la stretta,
scrollandosela di dosso e coprì la distanza di tre passi, ma
la bimbetta non si mosse. Discostato dall’ammasso stava il
corpo martoriato di una donna, una ragazzina, forse ventenne. Sulla
pelle c’erano macchie arancioni di un’estensione
impressionante. I bordi erano bianchi e spaccati e, in alcuni punti la
pelle pareva ricucita con un filo biancastro. In queste piaghe bianche
si annidava del pus giallastro che rendeva tutto ancora più
ributtante. Persino la lingua della vittima era di un arancione acceso.
Le macchie deturpavano il ventre e la pancia mentre sulla schiena erano
rade. Shara non seppe trattenersi e vomitò di lato;
la bocca che si riempiva di amaro mentre gli ritornava su il
sapore salatissimo della carne. Poi riportò lo sguardo su
quella disgustosa malattia, o infezione che fosse.
Che cos’è questo morbo? Dove ne ho già
sentito parlare?
Infezia vermiglia. Era un’allergia mortale che si manifestava
come una semplice scottatura, ma le macchie erano arancioni invece che
rosse. L’infezione metteva radici e tirava il tessuto,
impedendo al sangue di circolare lungo la macchia.
All’interno si formavano i grumi di sangue che mantenevano la
pelle arancione ma che causavano poi la morte della persona. I bordi
invece sbiancavano e il virus tendeva tanto la pelle che questa di
spezzava e comparivano quelle orrende cicatrici piene di solo pus,
perché di sangue non ne era rimasto. La persona moriva dopo
poche ore dalla comparsa di quelle spaccature. Era un virus, un piccolo
animaletto che mangiava i tessuti cutanei e li ricuciva
finchè questi, troppo tesi, si rompevano. Il processo era
lento poiché le macchie non ricoprivano tutta una superficie
e lasciavano alcuni vasi che continuavano a far circolare il sangue,
malgrado le zone di isolamento. Quando invece si creavano le cicatrici
pian piano si chiudevano tutti i vasi sanguigni e nel giro di un giorno
risultavano totalmente otturati. Sarebbe stata una morte piuttosto
indolore se le vittime non avessero risentito di alcun tormento e il
loro cuore avesse semplicemente smesso di battere. Eppure,
come ogni scottatura cominciava a bruciare, quindi si perdeva la
sensibilità nel punto in cui c’era la macchia.
Ritornava più tardi accompagnata da un dolore fisso, che
aumenta sempre di più come una spina che a poco a poco si
tramuta in un intero rovo. Dunque si provava una sensazione di
stiramento, indolenzimento che provocavano un gran mal di testa, ma la
lacerazione era il momento più doloroso. La spina nel fianco
faceva il suo strappo ed agiva come un pugnale che affonda nella carne
con veemenza.
Mentre tutte quelle nozioni affioravano nella memoria la giovane si
avvilì al pensiero delle superstizioni che le aveva
raccontato la bambina per spiegare quella carneficina.
Doveva dare loro la possibilità di curare il morbo e che
pensassero pure alla magia nera. Lei era certa di non prenderla
poiché il suo organismo era protetto da innumerevoli
incantesimi che avrebbero dovuto arrestare il processo di vecchiaia a
cui erano destinati quelli della sua specie. Abbandonò il
cadavere per terra ma non osò avvicinarsi alla piccola
ancora in attesa di sue nuove che la guardava con curiosità;
se fosse stata portatore sano allora avrebbe avuto la sua morte sulla
coscienza. Poi pensò che la piccola non sarebbe morta,
poiché lei l’avrebbe curata e protetta da ogni
malattia. Forse l’avrebbero accettata là come
guaritrice e lei avrebbe trovato il suo posto. Sicura di sé,
si diresse verso la bambina e si inginocchiò vicino a lei,
prendendole la mano e accarezzandogli la guancia con dolcezza.
“Come ti chiami piccola?”
La bimba rabbrividì, come se avvertisse lo spirito maligno
che aveva accusato prima penetrare le sue difese.
“Yeuka”
Shara la prese per le spalle e le strinse con forza.
“Yeuka, adesso ti chiederò di fare delle cose
molto importanti. Ti prego di mostrarmi casa tua perché
possa chiedere ospitalità. Me lo permetti? Per il cibo non
vi darò problemi ma ho bisogno di un tetto.”
E devo controllarti meglio, poiché all’alba del
domani compariranno i primi sintomi e io sarò la tua
salvatrice. Sarò la salvezza di tutto il paese.
La bambina annuì, ignara del pensiero egoista della giovane
straniera premurosa. E di nuovo prese a tirarla stavolta per il
mantello. Shara si affrettò a seguirla, mentre un senso di
contentezza e soddisfazione la invadeva. Neppure un attimo
pensò al rischio che correva la sua piccola guida, tanto
sicura delle sue capacità e si lasciò guidare,
con un’espressione sul viso troppo allegra che non si
addiceva minimamente al dramma che la circondava.
Yeuka entrò in una delle casupole di legno, dalle pareti non
troppo alte che rispettavano la scarsa altezza degli abitanti del luogo
e Shara dovette abbassare la testa per fare il suo ingresso nella
piccola dimora. Il tetto era composto da una specie di impasto che
doveva essere l’insieme di paglia e fango solidificati e la
giovane straniera poté avvertire come alla base di quella
tettoia primitiva ci fosse un incanto di solido. Era la migliore
soluzione contro la pioggia che erodeva il fango e scioglieva
l’impasto. Il terreno era ricoperto di stuoie di canne e
c’era un grande tappeto al centro. La stanza era unica e gli
ambienti erano divisi da tanti paraventi. C’erano quattro
paraventi, ai quattro angoli della stanza quadrata e molti ricordi
riaffiorarono nella mente di Shara. Quegli ambienti dietro i paraventi
erano le stanze da letto, una per le ragazze, una per i ragazzi, una
per i genitori e una di riserva o forse per gli ospiti, relitto di un
tempo in cui gli stranieri erano ben venuti. Al centro del tappeto un
tavolo basso e delle stoffe che fungevano da posti a sedere. Sotto il
tavolo e sotto il tappeto c’era una buca fresca nel terreno
dove venivano conservate le provviste e appariva come un pozzo,
rivestito di pietra dura e fredda, al riparo da bestie e insetti vari.
Sulle pareti laterali c’erano lunghissime cassapanche di
legno massiccio in cui veniva conservata ogni cosa, dalle vettovaglie,
agli attrezzi di cucina, ai vestiti, agli utensili per il cucito,
caccia, pesca o lavoro per la casa. Essi si distinguevano dalle varie
pareti poiché l’entrata delle dimore era sempre
rivolta a sud e la mobilia si classificava di ponente, di levante e di
settentrione.
Occupavano tutte le pareti ma non erano alte più
di una sessantina di centimetri da terra. Tutta la mobilia nelle
cittadine del nord era bassissima e praticamente si dormiva e si
mangiava per terra; si viveva per terra e gli abitanti non soffrivano
della loro bassezza.
Quando Yeuka rientrò portando per mano la straniera, una
donna era seduta presso il mobile di ponente, intenta a
spolverarlo con uno straccio bagnato, forse canapa grezza che
strofinava e accompagnava ad una mistura di acqua e limone.
Alzò la testa e il suo sguardo corse subito al meridione,
verso l’entrata. Accolse Shara con un’occhiata
diffidente e un mezzo sorriso che non avrebbe incoraggiato viaggiatori
sperduti meno motivati della ragazza. Lei torreggiava sulla donnina dal
volto paffuto e roseo, gli occhi allungati e lunghe ciglia, ma quello
che più lasciò stupefatta la nuova arrivata erano
dei lunghissimi capelli che arrivavano alle ginocchia della donna,
chiari e in alcuni punti completamente bianchi. Era il peso della
vecchiaia che piegava il sorriso della signora in una smorfia e
affiorava lo sguardo di chi avrebbe preferito veder meno e viver di
più.
“Mama” chiamò Yeuka, spalancando gli
occhioni di uno spiccato verde, gli stessi occhi della madre
che scrutava la straniera ancora più rabbuiata.
“Addovo loe chi la trovata?Chiloe ie chielo vole?” *(1)
Aveva una parlata strascicata e pasticciava con le parole al punto che
Shara si chiese dove la figlia avesse appreso quel verbo
così limpido, lento e misurato. Si sentì in
dovere di intervenire e di spiegare quell’intrusione:
“Sono una viaggiatrice che cerca riparo per poche notti,
giusto per riprendersi da una lunga camminata nel deserto e per
affrontare un nuovo viaggio. Ho incontrato tua figlia e mi sono rivolta
a lei.”
Non vi fu alcuna apparente reazione da parte della donna e, dopo
essersi fissati per un tempo che parve infinito la madre di Yeuka
ribatté in tono secco e di rimprovero: “Non
c’è posto per i viaggiatori che si avventurano
fuori, di questi tempi.”
La constatazione colpì Shara come un pugno che
cade sulla spalla di uno sventurato sovrappensiero. “Signora,
io non ti darò alcun fastidio, ti chiedo solo un tetto e non
ti importunerò oltre; ho accettato per disperazione la
proposta che mi ha fatto tua figlia e ti ripeto la stessa
preghiera.”
La donna lanciò un’occhiata di fuoco a Yeuka ma la
piccola non colse il truce sguardo, intenta com’era a fissare
un piccolo rampicante che si faceva strada tra le canne del paravento
alla sinistra del mobile. Shara acuì il tono, facendolo
vibrare di passione, una commedia che recitava lei sola, davanti alla
dura verità che sbatte la porta in faccia con disinvoltura:
“Lavorerò per te e saprò sdebitarmi; in
qualche modo ti ripagherò di questa grande carità
che mi fai”
La donna fece un cenno secco con la testa e ribatté, scura
in volto: “Entra pure e sistema le tue cose
nell’angolo di levante, a meridione.”
Distolse lo sguardo e parve già essersi dimenticata
dell’ospite scomodo. Shara brillò di
felicità e sorrise, chinando appena il capo: “Ti
ringrazio.”
La vita in quella piccola periferia era monotona come ben presto si
accorse Shara. La madre di Yeuka non faceva altro che lavare la casa,
spolverare, cucinare e raccogliere qualche erba. Quella sera stessa
incontrò la parte restante della famiglia e si
stupì di non vedere maschi fra le cinque femmine che erano
sedute al lungo tavolo centrale, a testa alta che si rivolgevano al
padre con un pizzico di autorità. Erano tutte in giovane
età e la più grande non aveva sedici anni. Erano
cinque chiome bionde e lisce, raccolte in lunghe trecce e sembravano
tante matriosche tanto erano simili, seppure a diversa grandezza. Yeuka
era la più piccola e, fin a quel momento, Shara non aveva
visto alcun ragazzo frequentare quella casa. Poi, il primo giorno, la
piccola si lasciò scappare poche secche parole e la
straniera approfittò subito per saperne di più;
“Sono stufa di aspettare Mine e Reuk, non torneranno
più”
“perche dici così? Chi sono queste
persone?”
“sono i miei fratelli che sono partiti e hanno detto che
torneranno.”
“Quanto tempo fa l’hanno detto?”
“Non lo so, io non c’ero.”
“Eri partita?”
“No, non ero ancora nata, non li ho mai visti.”
Gli uomini sembravano spariti in quel paese eppure Shara non ricordava
ai suoi tempi che i ragazzi fossero così rari. Non ne vide
mai uno per le stradine del villaggio e neppure incrociò
voci che non fossero lo schiamazzo dei bambini, il lamento delle
vecchie e le pettegole giovinette di campagna che, pure nella loro
semplicità, facevano sciocche fantasie sul loro futuro.
Tutto questo notò Shara che osservava disperatamente Yeuka e
spiava ogni suo movimento per cercare su di lei i sintomi
dell’ infezia ma con scarso successo. Che la piccola fosse
una portatrice sana? I dubbi rimasero per pochi giorni
finchè, una notte, la ragazza sorprese Yeuka a immergere i
piedini nell’acqua e, sulle caviglie si estendevano piccole
macchie arancio che minacciavano di allargarsi in fretta. Era tardi e
tutto era spento e in riposo eppure la porta di casa cigolava e Shara,
incapace di dormire per il caldo, si era affrettata a seguire la
presenza che aveva lasciato tutti gli steccati della casa aperti. Nella
notte, scorse la piccola figura di Yeuka che sedeva su un grosso sasso,
i piedi a bagno in un catino di rozzo legno intagliato. Rimase a
guardare la piccola che si strofinava le caviglie, dapprima senza
capire, poi un’espressione di trionfo le si dipinse sul viso.
Uscì velocemente dall’ombra e inscenò
la parte della giovane amica in pensiero.
“Yeuka, che succede? Che fai alzata a quest’ora di
notte?”
La bambina affondò i piedi nell’acqua scura.
“Con i piedi sporchi ho imbrattato tutto il tappeto e la
stuoia e allora li sto lavando. ”
In un attimo Shara era al suo fianco come una madre premurosa:
“Così tardi t’è venuto il
pensiero? Vai a letto, vai...”
Alla vista del marchio arancione avvertì un sensazione di
caldo e il volto le si infiammò per la gioia ma nella notte
tutto è nero e agisce inosservato colui che non vuole essere
scoperto.
Balbettò poche parole, un finto stupore mimato ad arte:
“il morbo...sei malata...una cura”
Tirò un profondo respiro e chiese sudando freddo.
“Come è accaduto?”
La piccola interlocutrice scosse la testa lentamente:
“Io...non lo so, ma ho...paura”
La straniera, acquistata confidenza con la bimba , aggiunse in tono
grave e serio:
“Tu guarirai, te lo prometto.”
Regnò un silenzio carico di attesa e fu Yeuka a
interromperlo, con una nota di angoscia che, per la prima volta,
vibrava nella sua vocetta infantile.
“Ma non dirlo alla mama, ti prego”
Note
*(1)
"Dov’è che l’hai trovata? Chi
è e che vuole?"
L'angolo
dell'autrice
Bentrovati! Accusatemi pure di troppo realismo, giuro che
non mi offendo xD
Spero che non appaia troppo cruda la descrizione del morbo. Ma direi
che c'è di peggio. Semmai potrete dire che è
inutilmente lunga e quasi morbosa e anche in quel caso avrei una
risposta!
Non è colpa mia se la nostra studiosa "miss voglio cambiare
il mondo che è tutto marcio" ha una memoria invidiabile,
anzi, mettiamola così, fa parte della sua sterminata cultura
di ex-monaco pentito. E, come tutte le persone che hanno studiato e
pensano di sapere qualcosa, è un tantino presuntuosa e
abbastanza imprudente da sperimentare la sua cura su una povera bambina
innocente. Le andrà bene?
Quello della pericolosissima malattia infettiva è
praticamente un topos, è usato e abusato. Il primo che io
ricordi era un certo tizio di nome Tucidide e gli altri hanno tutti
scopiazzato, me compresa ù.ù
A parte questo mi affascinava anche la mentalità primitiva
del popolo che crede ancora agli spiriti maligni e mi sono divertita un
sacco a descrivere che aria tira in un paesino sperduto, o meglio nella
periferia un po' campagnola di una grande città.
Detto questo ringrazio come mio solito evm, Kill Bill, Nihal992 e Giu09 a cui mi sto
proprio affezionando *_*
Vabbè il discorso è il solito, grazie a chi
legge, a chi non legge, a cappuccetto rosso, alla strega cattiva e
tutta Puffolandia.
Magari Grande Puffo mi manderà qualche altra bella
recensione...
Sayonara gente!
Misa
|
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Capitolo 6 *** Jersa_ La cattura ***
Jersa
La cattura
“Dove
stiamo andando?”
Jersa camminava da ore seguendo i passi del compagno che non
sembrava seguire nessun percorso. Lo sguardo di Erick era sempre perso
nel
vuoto e non aveva mai messo mano ad una cartina o una bussola che gli
indicasse
la via. Di tanto in tanto inspirava con violenza e si riempiva i
polmoni di
quell’aria fetida che li circondavano. Erano ormai al confine
con la zona
paludosa e il clima mutava rapidamente. Era caldissimo, asfissiante e
soprattutto umido. Jersa sentiva i capelli appiccicarsi alla nuca e
aveva preso
la sana abitudine di legarli con un pezzo di stoffa strappato dalla
camicia.
Aveva messo tutti i suoi averi al centro del lungo mantello di lana,
ricordo di
suo padre e l’aveva trasformato in un sacco legandone
l’estremità. La camicia
era stata strappata diverse volte per
bendare piedi e gambe. Gli stivali erano fradici, la pelle
si irrigidiva,
causandogli calli e lividi e i piedi erano continuamente bendati per
far fronte
alle sanguisughe. Si infilavano dovunque e le gambe del ragazzo erano
un bagno
di sangue. Era dunque costretto a tenersi addosso i brandelli di
camicia per
frenare le zanzare ma la stoffa così malmessa non era
efficace. Si era seccato
di schiacciarle poiché parevano non finire mai e infine si
era persino tolto la
camicia e l’aveva riposta nel mantello perché
servisse come benda in futuro.
Ormai era una casacca senza maniche e tutta sfrangiata. Ciò
che Jersa non
riusciva a concepire era come il suo compagno fosse tranquillo. Egli
portava
una sacca di tela nera e lì era riposto il mantello ma
teneva lontano ogni tipo
di animale, come se questi non a avvertissero la sua presenza.
Attraverso la
camicia immacolata si intravedeva ancora di più il suo busto
snello e quella
corporatura così piccola che,
rispetto allo
standard atletico e muscoloso, era inquietante. Era equilibrato e
perfetto e
non solo secco e flaccido come quello di Jersa. Il soldato era un bagno
di
sudore e persino i
capelli erano mossi e
sfuggivano alla coda, senza prendere una direzione, per quanto il
proprietario
si sforzasse di tenerli appiccicati in testa. Erano sciupati e il
biondo cenere
della chioma sbiadiva, lasciandogli piccole ciocche con le doppie punte
color
paglia. Trascurata la forma erano cominciati a spuntare piccoli peli
biondi che
si facevano sempre più lunghi e seguivano il contorno delle
labbra. Aveva un
aspetto selvaggio e
forestiero, sciatto
rispetto all’eleganza del compagno. Erick pareva trovarsi
perfettamente a suo
agio nei pantaloni di pelle e
stivali
neri, mentre la camicia era rosso spento, bordeaux. E quel volto liscio
e
pensoso era sempre rivolto verso l’orizzonte e si posava
piano piano sulla zona
paludosa, la
Secca
di Malthianesh.
Si raccontava di questo fiume secco che in inverno e autunno
si riempiva fino all’inverosimile. Era un fenomeno magico e
naturale allo
stesso tempo poiché le acque risalivano lungo il terreno ed
era alimentato
dalle piogge frequentissime nella zona di palude. Il Malthianesh, come
era
detto il fiume, erodeva la terra con il passaggio dell’acqua
e si creava un
solco enorme. La larghezza del letto erano anche ottanta metri ed era
profondo
massimo venti metri. La massa d’acqua era enorme e scorreva
lenta lungo la zona
paludosa che prestava lei ancora più acqua di cui nutrirsi; la quantità di
liquido era tale da sbriciolare
il terreno e, all’estremità della foce, si erano
formate le cascate
del Malthi: era
un
salto nel vuoto, letale per ogni essere umano che vi si avventurasse,
un
precipizio altissimo che finiva direttamente a mare e la forza della
sua
corrente poteva trascinare persino un galeone grosso e pesante alla
deriva,
nella “bocca
dell’abisso”,
come si fidavano di dire vecchi marinai. Jersa ne ignorava
completamente
l’esistenza e per lui quel percorso era insensato e la strada
smarrita.
“Dove diavolo mi porti?” fece una smorfia
disgustata
guardandosi intorno sospettoso. Non ricevendo risposta lo
richiamò ancora,
stavolta a voce più alta: “Dì la
verità, ci siamo perduti! Ti decidi a dirmi
qual è la nostra meta...?”
“SHSHSH!” Lo zittì aspro il compagno
agitando la mano
convulsamente. I due giovani erano fermi in uno spiazzo pieno di fauna
da bosco
e alberi che si innalzavano sempre più alti, si
attorcigliavano gli uni
parassiti degli altri. Toccavano tutte le tonalità che
andavano dal verde al
beige, al marrone e persino il grigio. Talvolta cadeva qualche
gocciolone di
fanghiglia dai rami alti e atterrava sugli ignari viaggiatori, intanto
strati
interi di verde secco, di corteccia giallastra e scrostata ricoprivano
ormai il
sentiero. Proprio in quelle croste talvolta lunghe
e sottili inciampavano i piedi di Jersa.
Erick girava la testa di continuo e di scatto e sembrava quasi si
muovesse per
scacciare un insetto molesto. Il compagno taceva risentito dinnanzi al
brusco
rimprovero poco prima ricevuto e la sua espressione era ostinata, quasi
aspettasse il momento giusto per rinfacciare al coetaneo come la via
era
smarrita.
Poi, improvvisamente,
con suo grande stupore vide il ragazzo gettare a terra rabbioso la
sacca da
viaggio e lasciarsi cadere per terra, scivolando veloce ai piedi di un
tronco
morto che ancora si reggeva e forse fungeva da riparo ad insetti ed
uccelli.
Era un albero pietrificato, solo uno scheletro secco ed Erick si
strofinò la
schiena sulla corteccia che si sfaldava lentamente.
“Ma cosa stai facendo?” l’espressione
incredula di Jersa
potette solo irritare il compagno che si accigliò e gli
rigettò alacremente in
faccia poche parole: “Oggi ci fermiamo qui.”
Jersa lo guardò come fosse impazzito e obbiettò
con tono
ironico: “Guarda che è mattino inoltrato e non ho
intenzione di cominciare a
viaggiare di notte, non siamo mica vampiri noi?”
Lo sguardo di Erick scintillò minaccioso, ma la risposta fu
laconica: “Partiremo domattina”
Detto questo, tirate le ginocchia al petto, vi appoggiò la
testa sopra e nascose gli occhi alla vista del mondo.
Rimase in quella posizione per ore e così trascorse la
notte, mentre il compagno di tanto in tanto gli lanciava
un’occhiata
speranzosa. Jersa non capiva il motivo di quell’attesa e, con
il passare delle
ore quella pausa gli pareva sempre più assurda. Verso le
quattro del pomeriggio
decise di alzarsi e ma faceva fatica a muoversi. Si era appoggiato ad
una
roccia che troneggiava in quel trionfo di piante a fusto alto e liane
scivolose
che pendevano sulle loro teste, ma quando arrivò il momento
di staccarsene il
suo corpo non si decideva ad ubbidire. Si sentiva ancorato, anzi
inglobato
nella pietra e non percepiva la presenza della sua massa corporea.
Lanciò uno
sguardo allarmato ad Erick che continuava ad ignorarlo, mantenendo gli
occhi
bassi e nascosti. Quando riuscì a sollevarsi da terra
sentì uno strappo
violento come un cerotto che viene staccato brutalmente. Si
guardò intorno ma
non trovò nessuna spiegazione se non che tutto fosse frutto
della sua
immaginazione. Esasperato e con lo stomaco in subbuglio, mise mano al
coltello
e cominciò a tracciare strani segni sul terreno, tante
piccole barre fino a
formare un rettangolo, quindi cominciò a scavare, con il
coltello e con le
unghie, fino a raggiungere i tre metri. Raccolse frasche e pezzi di
corteccia
vari, fabbricando una trappola, e pose come esca un boccone di Mischeno,
un impasto di
farina, acqua e miele, che emanava un gradevole odore dolciastro, anche
se la
pasta era secca e mordicchiata da tempo. Nella sua frenesia e
frustrazione il
ragazzo sbocconcellava un pane di mischeno che aveva sempre con se e
mangiava
senza sosta talvolta saltando i pasti, dopo essersi riempito lo
stomaco. Era
goloso di dolci e avrebbe rimproverato volentieri la madre
poiché lei non ne
aveva mai cucinati. Lasciava che il sapore del miele gli si sciogliesse
in
bocca e si leccava le labbra per coglierne anche l’ultimo
sentore. Non gli
rimaneva che aspettare e, dopo poche ore di assoluto silenzio, i suoi
sforzi furono
ricompensati. Cadde nella piccola trappola una bestia,
un mammifero a quattro zampe con il pelo
grigiastro. Era un cucciolo e la sua carne era fresca e tenera, per sua
grande
fortuna. L’oscurità calava ma la sera non sembrava
raggiungerli, erano solo le
ombre degli alberi e delle loro folte chiome che portavano il buio, non
si
vedeva il sole calare ne la linea dell’orizzonte illuminarsi
del chiarore roseo
di un tramonto. Jersa si accinse a preparare la cena, improvvisando un
falò e
una pietra piatta su cui appoggiare la carne dell’animale.
Era grassa ed era
difficile da pulire, e il ragazzo dovette pasticciare a lungo con gli
intestini
e i nervi. Quando la carne fu cotta e fragrante il suo sguardo si volse
ancora
al compagno che non aveva cambiato minimamente posizione rimanendo come
un
tutt’uno con il suo tronco. Gli lasciò un pezzo di
muscolo bello grosso e si
avventò sul pasto famelico come un avvoltoio.
L’enorme quantità di carne gli
fece venir un gran sonno e, sebbene si fosse ripromesso di non
addormentarsi
quella notte, per cogliere il momento in cui Erick sarebbe riemerso dal
suo
sonno, scivolò ben presto nell’incoscienza. La
luce pallida della luna che
quasi non filtravano
oltre il bosco
illuminò le frasche della trappola riportate al suo posto,
poi si oscurò tutto.
Nel bel mezzo della notte Erick aprì di scatto gli occhi e
la sua gola emise un ringhio sordo; con un balzo si rimise in piedi e
cominciò
ad arretrare dal falò che il compagno aveva lasciato ancora
rovente, sebbene
ormai tutto il legno fosse carbonizzato. Indietreggiava lentamente, di
soppiatto e si addossò ad un tronco cavo entrandovi dentro
quanto più potette.
C’era una colonia di formiche che si agitavano e correvano
operose per il
tronco ma il ragazzo non prestò attenzione alcuna al
formicolio. Gli insetti
erano come impazziti e cercavano una via d’uscita
concentrandosi nella parete
superiore del tronco. Le orecchie di Erick erano spalancate e percepiva
con
lucidità i passi, anzi i tonfi di stivali pesanti. Erano
soldati, guardie o
forse cavalieri, ma mentre cercava una spiegazione plausibile,
udì il fracasso
del fogliame calpestato e spezzato, accompagnato dall’urlo
dell’uomo
misterioso. E vide distintamente Jersa risvegliarsi con uno scatto
nervoso e
barcollare in avanti ancora insonnolito. Il ragazzo assonnato corse
presso la
buca e si sporse mentre l’uomo si agitava e affondava le
unghie sulle pareti
del buco nero.
“AIUTO! SOCCORSO! AIUTO!” gridò
finchè il suo ultimo urlo
non fu stroncato da un attacco di tosse.
Jersa avanzò minaccioso con il coltello e a sua volta
urlò,
nervoso:
“SILENZIO! ” alzò la lama che gettava
riflessi argentei come
uno specchio ”o ti taglio la gola”
Il prigioniero ammutolì e smise di agitarsi, bensì domandò con
voce ansiosa: “Chi sei
viaggiatore che dormi nelle paludi come un incauto?”
“Piuttosto chi sei tu che ti aggiri nel pieno della notte in
una palude, così avventato sei?”
Il personaggio sembrò ignorare la domanda e
ricominciò a
questionare: “Sei solo?”
Jersa fece una smorfia indispettito: “Sono il decimo dei
miei compagni e siamo ben armati”
L’uomo si agitò, pensoso e si lasciò
cadere al suolo come se
fosse stremato mentre il suo carceriere rincarò la dose:
“Chi sei? Sei solo?
RISPONDI!”
“Sono un disertore...ti prego fermati e lasciami
andare” piagnucolava
il prigioniero. “Ti dirò ogni cosa, sono solo e
stavo scappando dal campo di
battaglia, a Limerick”
“Allora dovrò averti incontrato da qualche parte,
da lì
arrivo anch’io e siamo io e il mio compagno”
Il tono era sospettoso ma quando si ricordò
dell’esistenza
di Erick spostò immediatamente lo sguardo sul tronco che si
era scelto e aveva
occupato da quando ricordava.
“Erick...Erick...ERICK!” Lo chiamò
più volte
senza ricevere risposta e improvvisamente digrignò i denti e
puntò il pugnale
sullo sventurato ancora seduto in fondo al fosso:
“Dov’è il mio amico? Ne sai
qualcosa? Hai detto che sei solo ma se osi mentirmi...” era
pallido di rabbia e
girava la testa in tutte le direzioni come se si aspettasse di vederlo
spuntare
da un momento all’altro.
Nella sua agitazione non si accorse di una serie di passi
che si affrettavano a raggiungere lo spiazzo.
Mentre il compagno chiamava in preda al panico, Erick si
stringeva ancor più nel suo rifugio e attendeva tranquillo;
i passi risuonavano
distinti nelle sue orecchie ma neppure per un attimo pensò
di avvertire Jersa.
Erano in tanti, forse una decina e quattro di loro accorrevano in aiuto
dell’
amico disperso. Comparve dalla boscaglia un uomo basso e muscoloso che
stringeva una lunga ascia e la brandiva contro Jersa con fare
minaccioso. Fu
presto seguito dai suoi compari, armati fino ai denti. Il capo
puntò i suoi
occhi prepotenti sul pugnale che il ragazzo stringeva e manteneva saldo
nonostante la mano sudasse per l’agitazione:
“Se ci dirai dov’è il nostro fratello ti
lascerò in vita,
altrimenti morrai come un cane, ragazzo...”
Sottolineò l’ultima parola con una punta
minacciosa e grave
e fece indietreggiare il giovane quanto bastasse perché si
trovasse sull’orlo
della trappola che lui stesso aveva costruito. Infine, senza preavviso,
Jersa
si sentì tirare giù e crollò nel buco
atterrando di schiena sulla gamba del suo
prigioniero.
Si udirono delle grida di dolore e tutti si precipitarono
sul fosso.
Quattro teste si sporsero lasciando vagare gli sguardi attenti
nella trappola scura e profonda: Il giovane sconosciuto era come
sopraelevato e
schiacciava con tutto il suo peso un corpo familiare: “AH!
Brutto bastardo,
togli quel tuo schifoso piede dalla mia faccia!”
Erick scorgeva solamente le schiene di una decina di omoni
solidi e robusti che si sporgevano al di sopra del fosso.
Vesti nere, stivali
neri, mantelli neri, farsetti neri...capelli neri?
Il
ragazzo, ancora nascosto, rifletteva sull’identità
di
quella compagnia fantasma, sbucata dal nulla. Infine le membra tese,
irrigidite
dalla tensione e dalla lunga riflessione, si sciolsero in un sorrisetto
soddisfatto. Si risolse a rimanere al proprio posto, indisturbato e
ignorato
dall’ambiente circostante tranne che dalle formiche in balia
all’inquietudine e
all’agitazione. Formavano una lunga fila che si snodava lungo
il dorso
dell’albero concavo e, in fila indiana si allontanavano dalla
loro casa come se
la presenza del giovane avvelenasse l’aria.
Di questi movimenti erano all’oscuro gli uomini che
cercavano nel fosso con lo sguardo segni di vita da parte del compagno.
Jersa si sentiva tutto dolorante e la cassa toracica gli
bruciava come se abbrustolita su un falò a fuoco lento.
Ricevette una testata
dal suo compagno di sventura e il piede cadde sbilanciandolo e
facendolo finire
con il sedere per terra. Rimase lì, sulla schiena, mentre
l’uomo accanto a lui
si sbracciava e faceva grandi sforzi per arrampicarsi scivolando
indietro. Gli
fu calata una corda e vi si avvinghiò, senza però
muoversi. Alla fine piantò i
piedi a terra e si legò la corda intorno alla vita; con le
mani libere agguantò
e sollevò il nemico e neo ostaggio rovinato per terra,
portandolo in braccio e
lasciando che i suoi compagni li trascinassero entrambi fuori dalla
buca.
Jersa si vide malamente abbandonato sul terreno umido e udì
due voci basse e accenti stretti:
“Chi è questo sbarbatello?”
“Non ne ho idea”
Detto questo il capo degli aggressori sconosciuti si rivolse
al ragazzo con voce grave e dura:
“Il tuo nome?”
In risposta ricevette poche secche parole e diversi colpi di
tosse: “Jersa, figlio di Enagmir” Quindi
posò la fronte per terra mentre tutti
i compagni della banda si interrogavano e chiedevano al loro capitano,
perplessi:
“Che ne facciamo di lui?”
“Lo portiamo con noi, non abbiamo grande scelta”
Si aggiunse una terza più chiara e aspra:
“Potremmo eliminarlo, sarebbe facile e molto più
comodo...come avete intenzione di trasportarlo?”
Jersa prese a tremare impercettibilmente e artigliò il
terreno, le unghie sporche di terra.
Non voglio morire non
voglio morire NON VOGLIO MORIRE
Fortunatamente la terza voce fu zittita da uno scatto secco
della prima voce, la più profonda e autoritaria.
“Lo porteranno in due, vi daremo il cambio.”
Jersa si sentì sollevare di nuovo per la schiena e per le
gambe, e decise di non opporre resistenza, lasciandosi trascinare, nel
folto
della palude.
Erick inarcò la schiena e si liberò del tronco;
una volta
fuori, al sicuro, si stiracchiò e si guardò
intorno con rinnovato interesse.
Scrollò le spalle e continuò per la sua strada
mormorando divertito: “ci siamo
persi di vista.”
L'angolo
dell'autrice
Ma buona notte cari lettori, alle mie adorate e alla cara Giu09 che si
sottopone alla lettura del mio tomone, come al solito(quanto ancora
resisterai? xD).
Non ho molto da farvi notare stavolta, tranne che sto dando il meglio
di me nelle descrizioni della palude, dei fiumi, delle cascate. Il
tutto mettendoci un po' di avventura che sarà sicuramente
più gradita!
In tutto questo, il nostro protagonista sta diventando una specie di
pulcino bagnato mentre il mio adorato Erick si rivela un piccolo
stronzetto. Ecchevuoifà! così è la
vita ù.ù
Ammetto che sono ubriaca di sonno, e non vedo l'ora di mollare tutto
quindi non posso che augurarvi sogni d'oro...è
già tanto che riesca a scrivere queste righe!
Yawhnn...
+sbadiglia
moooolto rumorosamente
Misa
|
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Capitolo 7 *** Shara_ Una strega al villaggio ***
Shara
Una strega al villaggio
[“Tu guarirai, te lo prometto.”
Regnò
un silenzio carico di attesa e fu Yeuka a interromperlo, con una nota
di angoscia che, per la prima volta, vibrava nella sua vocetta
infantile.
“Ma
non dirlo alla mama, ti prego”]
A nulla bastarono i suoi occhi dolci il giorno seguente e le sue
preghiere poiché Shara si assicurò che la cosa
venisse immediatamente scoperta da tutto il villaggio. Il luogo era
deserto, tutti erano rintanati nelle proprie case e si
arrivò a considerare anche la possibilità di
abbandonare la piccola al suo destino come i cadaveri che troneggiavano
sulle pile, nella radura. Qualche vecchia maligna sussurrò
improperi al cielo e alla bambina, che era stata punita per la sua
scellerata giovinezza, sebbene non avesse colpe speciali se non quella
di essere una donnina come tante altre. Le sorelle erano rinchiuse in
casa, nella camera dei ragazzi, disperate, nel timore di essere
contagiate. E la madre la assisteva giorno e notte, al suo capezzale,
le guancie scavate, i capelli in disordine, con il volto devastato da
macchie, lacrime e delle occhiaie gonfie e nerastre. Shara per la prima
volta vide la sofferenza di una madre e ne rimase molto colpita. Eppure
era un mistero talmente fitto il loro legame che non riuscì
a decifrarlo tutto. Quella scena accrebbe in lei il desiderio di fare
del bene e di mettere il suo sapere a disposizione della donna e del
villaggio. L’alba era prossima quando Shara, ancora sveglia,
corse al capezzale della bambina e ci trovò ancora la madre,
con un fazzoletto in mano, una stoffa bianca e ricamata con filo rosa.
Se
lo passava più volte sul naso, tossiva e
sputacchiava mentre caldi lacrimoni colavano sul naso sempre
più rosso. Era uno sfogo del tutto inatteso e non
osò muoversi e far rumore, rispettando la sua disperazione.
Ma la donna si interruppe bruscamente fissandola, smarrita, come se,
per la prima volta, fosse lei la bambina inesperta:
“Cosa
fai qui?”
Si
affrettò a rispondere Shara, mettendo avanti le mani, per
scusarsi.
“Perdonami,
ti lascio sola con il tuo dolore.”
La sua interlocutrice vacillò e piagnucolò;
“Sono
sempre stata sola, in tutti questi anni, prima il mio uomo, poi i miei
figli e ora sono abbandonata a me stessa. Tutte le mie disgrazie sono
legata a questa malattia ”
Shara
ribatté fiduciosa:
“Non
ti abbattere...perché io credo...di poterti
aiutare.”
La
risposta fu solo rabbiosa come quella di un lupo ferito che trascina
via la zampa offesa.
“Ma
cosa vuoi fare tu? Che ne capisci? Hai mai avuto figli? Sei una
ragazzina, nient’altro!”
“Eppure
ti assicuro che ti sarò di grande aiuto, permettimi solo di
dimostrartelo.”
Il
tono era pacato e la ragazza colse lo sguardo furibondo della donna che
vedeva nuove speranze e attendeva già il momento in cui
tutte quelle promesse sarebbero scoppiate come tante bolle di sapone.
“Fidati
di me”
La
madre di Yeuka abbassò la testa e Shara seppe che la
conversazione era finita.
E
la mattina dopo, la giovane maga ebbe una
sorpresa; c’era un gran traffico e la strada
sembrava più rumorosa del solito, soprattutto in tempo di
contagio. E sopra tutti si levavano delle grida che oltrepassavano ogni
parete:
“Contro
la pestilenza, facciamo vivere i nostri cari, guariamo il morbo! Al
padiglione! Al padiglione! Sconfiggiamo il male!”
Si
udivano i rimbombi dei passi frettolosi di tutto il paese e Shara
incrociò per un attimo lo sguardo della donna che ancora
stava al capezzale della figlia, con uno straccio in mano.
“Cosa
succede? Chi sono?” Il tono era velato di preoccupazione e
fastidio ma la madre di Yeuka non rispose. Sussurrò:
“Aiutami”
Quindi
afferrò i lembi della stuoia e sollevò la figlia
per le gambe, debolmente, mentre Shara si affrettava a mantenerle alta
la testa e il petto.
La
trasportarono fuori, avvolta in un lenzuolo bianco leggerissimo, di un
lino delicato e trasparente e la gente per le strade
indietreggiò spaventata, mentre molti si davano alla fuga.
Dalla piazza invece si udivano ancora quelle grida che si rivolgevano
ai fuggitivi: “non scappate davanti al maligno, lasciate che
sia la nostra giustizia ad allontanare i suoi influssi! Venite
avanti!”
Si
formò un corridoio larghissimo che attraversava tutta la
piazza fino ad un palchetto ricavato con qualche asse di legno, su cui
un omino grasso e roseo si sbracciava. I capelli erano rossi come non
se ne erano mai visti, color ceralacca e pareva un pagliaccio venuto
lì a far spettacolo, con un’aria di grottesca
serietà.
“Signora,
fatti avanti! Trova la soluzione al tuo dolore!”
La
madre di Yeuka fece una smorfia e si morse le labbra con rabbia, quindi
posò la figlia al centro della piazza e si mise
lì a gambe divaricate, i pugni stretti, le spalle contratte.
“Vieni pure tu qui e portami la soluzione come fanno i buoni
messaggeri.”
Il
silenzio era esemplare e la curiosità della gente era
smisurata. Gli sguardi erano fissi sulla scena, l’aria era
tesa e l’attesa quasi morbosa come chi tace per poter poi
dire la sua. Tutti si improvvisavano giudici e sapienti e aspettavano
prove per irrompere in sentenze e considerazioni.
Il
pagliaccio si rassegnò a scendere dal suo palcoscenico, con
un sacco di iuta in mano, sbattendolo di qua e di là e si
trascinò davanti alla donna e alla bambina. Aveva alle mani
guanti spessi di pelle che avevano l’aria di nascondere mani
grosse e rozze e Shara non poté trattenere il disgusto e
l’aria incredula.
La
madre lo avvertì con un ringhio, indicando Yeuka con un
cenno del capo: “Non toccarla”
Un
sorriso sornione del pagliaccio fece deglutire la giovane maga, che
percepiva attacchi di panico, e si guardava febbrilmente intorno, le
pupille che scattavano da un lato all’altro della piazza. La
mente era affollata di voci:
Cosa
devo fare, chi è, cosa c’è in quel
sacco, devo allontanarlo, è un ciarlatano, mente, non esiste
alcun rimedio che non sia un incanto, non sono pulci sono virus, quella
polvere è farina, IO devo guarire Yeuka!
“Stai tranquilla, Signora mia, basta che le spalmi questa
polvere guaritrice finchè tutte le macchie non ne siano
ricoperte. Quindi attendi alcuni giorni e queste saranno sparite e la
malattia debellata.”
Lo
sguardo della sua interlocutrice era scettico e, neppure un attimo
accennò ad afferrare quella polvere. Aggiunse con un tono
mistico e altisonante il ciarlatano: “Mi raccomando, signora,
che siano ben coperte le macchie e se non farai attenzione al
processo di guarigione la tua bimba potrebbe risentirne e
morire.”
Shara
fremette e non trattenne più la sua indignazione:
“Vattene, schifoso insetto, sei più letale
dell’epidemia perché distruggi le speranze di chi
incontri”
Ricevette
come risposta sghignazzi e risatine del pubblico e la vocetta del
pagliaccio che zittiva tutte le altre : “Sei sorda, ragazza?
Questo guarirà la bambina!”
La
maga ruggì alla piazza intera:
“Questa...COSA...è polvere bianca che potreste
dare a galli e galline, semola di grano, mangime per porci, spuntino
per cavalli, farina per il pane, ma non è certo un rimedio
valido!” Indicava rabbiosa il sacco di iuta e la voce si
alzava sempre di più “Voi non sapete cosa sia
questa epidemia e tirate a indovinare!”
Il
popolo se ammonito non è contento ed inizia ad agitarsi
quindi ben presto diverse voci cominciarono a levarsi in difesa del
pagliaccio. Di bocca in bocca passarono parole come
“pazza”, “malata”,
“indemoniata”, e la accusarono di attirare
l’attenzione e agitare la folla.
La
ragazza era pallida per la rabbia e frustrata mentre il pubblico
gridava, acclamando il disgustoso personaggio rossiccio che elargiva
sorrisi sdentati a tutti, sebbene poco convinti.
“Questi
sono animaletti che ti strappano la carne! Non esiste polvere che li
scacci, è infezia vermiglia! Capite? Infezia
vermiglia!” Le grida di Shara si perdevano
nell’aria e le menti della folla rimanevano chiuse e ostili
al suo verbo. La ragazza si passava le mani fra i capelli e stringeva
con forza fino a tirarli e a strattonarsi la chioma nero lucida.
Non
capiscono, non capiscono, solo IO posso guarirla, NON
CAPISCONO!
Improvvisamente
la madre di Yeuka si presentò con uno strano piatto di ferro
e un martello da fabbro e il richiamo di un gong esplose nelle orecchie
della piazza intera. Quando finalmente fu ristabilito il silenzio la
donna parlò, con voce bassa e fitta: “Dimostrami
che la puoi curare”
Il
popolo tornò ad agitarsi e la donna dovette ripetere le
proprie parole perché tutti le bevessero, per soddisfare la
loro sete di notizia.
Nel
frattempo Shara cercava fra la folla il predicatore ciarlatano ma
questi sembrava sparito e, con quel suo aspetto esuberante e vistoso,
inconfondibile, si era dileguato come un ladro.
Davanti
alla volontà della madre disperata, fece un cenno con il
capo e si chinò sulla bambina che pareva non risentire del
caos intorno a lei e aveva gli occhi fissi e vitrei, sebbene il piccolo
petto si alzasse e si abbassasse ancora, con un po’ di
affanno.
Shara
le accarezzò i capelli mentre mormorava:
“Yeuka...piccola Yeuka...”, intanto una miriade di
colori vivaci le esplodevano nella testa: il rosso delle labbra di
fanciulla, il rosa pesca delle gote, il biondo grano dei suoi capelli,
così lunghi, il profumo del corpo, i suoi movimenti, il suo
sudore; tutte le sensazioni che i cinque sensi smistavano con
regolarità nel suo cervello, erano un’accozzaglia
di percezioni che affogava in un unico colore. Cominciò a
passare le mani sulla faccia, macchiata di arancio, seguendo il
contorno delle piaghe e premendo, come se tracciasse un percorso. Ma la
piccola lanciava pesanti sospiri e qualche gemito da neonato e quando
puntò il dito sulle palpebre che erano rossastre e irritate,
emise un grido angosciato “mama!”. Questo
bastò perché la donna al suo fianco perdesse ogni
ritegno e si gettasse sulla figlia, per proteggerla da ogni cosa. La
folla ruggì in delirio “strega!” ma
nessuno osò avvicinarsi nel timore della malattia.
“Fidati
di me!” ammonì, aspra, la straniera.
Tu
devi credermi, DEVI!
Ma
La madre di Yeuka si limitò ad un gesto con la mano, come
per scacciare uno spirito maligno. “Vattene”
Ma
tu devi credermi, lei morirà se non la curerò,
devi credermi, DEVI!
Shara
aveva gli occhi spalancati dal terrore e scuoteva la testa come se la
realtà le fosse totalmente estranea. Tendeva il braccio in
un segno di richiamo e farfugliava smarrita: “Ti prego
lasciami fare, morirà, ti prego, io la devo
curare.”
La
donna strinse a se Yeuka ancora più forte e scosse il capo
decisa: “Te ne devi andare, vattene”
allontanò con una spinta forte la mano della maga che veniva
sempre più vicina; era un gesto meccanico, un tentativo di
toccarla e continuare la sua opera.
La
madre urlò al villaggio intero, feroce:
“Che
nessuno la tocchi o morirete bruciati dal suo fuoco!”
Le
donne si strinsero ai pargoli e gli chiusero gli occhi mentre i pochi
uomini stringevano indietro consorti e famiglie.
Le
ultime parole della madre di Yeuka furono pochi sussurri:
“Allontanati, rinnegata, non tornare, vattene
perché la folla è incontrollabile, non farti
più rivedere”
Ma
Yeuka morirà, IO devo curarla, solo IO posso…
Si
voltò e si allontanò, di corsa, abbandonando ogni
cosa in quel villaggio. Non fu inseguita se non da urla della folla
inferocita ma non ne sentì neppure l’eco. Nella
testa aveva poche parole ma erano in absito e sibilavano come il verbo
di un serpente.
È
tutta colpa mia, devi credermi, DEVI, morirà,
morirà...
Angolo
dell'Autrice
Immagino
starete piangendo tutte le vostre lacrime... Ebbene si! Eccoci arrivati
ad un bel capitolo drammatico. Immaginate la frustrazione e il senso di
colpa, ma meglio non anticipare niente. In fondo c'è o non
c'è il tag "introspettivo" fra le caratteristiche della
storia?
Scherzi a parte, bisogna essere accecati dall'egoismo e dall'arroganza
per mettere in gioco vite altrui per fare i propri esperimenti e
cominciare la scalata sociale. Che cosa complicata da
ottenere la fiducia e l'accettazione da parte degli altri. Voi
mettereste mai la vostra vita nelle mani di una così?
Potrebbe decidere di voler provare su di voi come resuscitare i
morti... MWAAAAHAHAHAHAAHAH! :D
Ok, mi sono dovertita abbastanza alle vostre spalle. Speriamo bene in
qualche commentino incoraggiante ù.ù
Mitiche emv, Kill Bill,
Nihal992 e Giu09!
Adios a todos,
Misa
|
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Capitolo 8 *** Il Labirinto_ Jersa ***
Jersa
Il labirinto
Jersa si
vide trascinato per diverse miglia, fino a giorno inoltrato, e verso
mezzogiorno la truppa si fermò presso una conca
che formava un dislivello.
“Sveglia
ragazzo, sei troppo pesante per prendertela comoda”
Un
uomo con due grossi baffi e una barbetta brizzolata lo guardava con
un’espressione arcigna. Era basso, alto quasi quanto lui,
forse qualche centimetro in più e sebbene fosse asciutto
aveva un ossatura grossa e robusta.
Jersa
vide ciascuno degli uomini calarsi nella conca e dovette, sotto le
proteste spietate del suo torace, scendere appoggiandosi alla pietra
fangosa. Si stupì che in quella palude potesse esistere una
superficie che non fosse flaccida e viscida ma il terreno su cui
poggiava i piedi pareva essere solido. Il percorso continuava in una
galleria buia e dopo duecento metri di cammino veloce e serrato
raggiunsero una parete a cui era incastonata una fiaccola che ardeva
luminosa.
Quindi
c’era un secondo buco e una seconda via che culminava con una
fiaccola e un terzo buco. La cosa si ripeté per sette
livelli finchè all’ottavo la galleria
terminò con una porta di marmo.
“Chi
è là? Fatevi riconoscere!”
Il
vecchio baffuto si fece avanti con passo pesante:
“Reietti
e prigionieri in terra propria” sbuffò come se gli
toccasse una parte ignobile in una messinscena ridicola.
Si
udì una risata sincera dall’altra parte e la porta
fu aperta prontamente. Comparve un omino grassottello che sghignazzava
con i denti gialli e appuntiti: “Per te la sicurezza
è tutta roba da ridere, Remy?”
La
risposta fu indispettita: ”Non farmi irritare e sposta quella
montagna di grasso dalla porta, abbiamo ospiti” indicando con
una manata che si perse nell’aria Jersa, poco dietro di lui.
Lo
spettacolo era impressionante oltre quella parete:
c’erano
superfici e soppalchi tutti in cristallo che riflettevano la luce
proveniente da un buco nella pietra che si vedeva in lontananza come un
sole e doveva trovarsi a centinaia di metri da terra. In
quell’enorme caverna sorgevano edifici, persino orti e serre,
allevamenti di animali da pascolo, ciascuno al proprio livello e ogni
angolo era un trionfo di luce e di colori arcobaleno, sfaccettature di
cristallo che coloravano la pietra grigia.
L’uomo
chiamato Remy fece le spallucce e rispose laconico davanti agli occhi
spalancati di Jersa.
“è
stupenda, lo sappiamo.”
“è
una specie di città?” si pronunciò per
la prima volta, il ragazzo.
“è
una base ribelle come tante...forse la più bella”
concesse alla fine il vecchio.
Il
ragazzo lo guardò come se avesse appena detto una cosa
disgustosa e si passò la lingua sulle labbra.
Remy
fece una smorfia ironica e ridacchiò sotto i baffi.
“Adesso
dovrò essere giudicato, processato e condannato, non
è così?” il tono del giovane cercava di
essere il più indifferente possibile ma serrava le labbra,
mantenendo rigida la mascella.
“Quanta
fretta di finire sul patibolo” mormorò spettrale
il vecchio.
Jersa
rabbrividì ma non riuscì veramente ad immaginarsi
cosa sarebbe stata la morte. Quel giorno, sul campo di battaglia aveva
visto tanti occhi vitrei e tanti corpi abbandonati, bocche
innaturalmente silenziose da cui non filtrava più neppure
l’ombra di un respiro, membra rigide e pallori spaventosi.
Erano stati brutti incubi molto vicini eppure in quel momento erano
l’ultima preoccupazione del ragazzo.
“Cosa
si prova dopo la morte? Sei ansioso di scoprirlo?”
Le
riflessioni di Jersa furono interrotte bruscamente dalle sentenze
implacabili del vecchietto sfacciato e il ragazzo alzò un
sopracciglio irritato ed esclamò:
“Grazie
tante, adesso se non ti spiace rifletterò sulle mie
disgrazie da solo!”
“Io
cercavo solo di fare un po’ di conversazione”
sbuffò Remy.
Solo
allora Jersa si accorse di come le loro gambe stessero divorando
chilometri, percorrendo lunghe scale per passare di livello. Al fianco
delle lunghe e strette scalinate stavano lunghissimi cavi di metallo la
cui vista emanava sicurezza e consistenza notevoli. Tiravano su
piattaforme di ferro che potevano trasportare grandi pesi tra persone e
carichi vari.
Arrivato
solo al trentesimo gradino il ragazzo fece una smorfia e
commentò, lamentoso:
“Ma
dove sono le misure di sicurezza? Sono o non sono un pericolosissimo
prigioniero? Potrei tranquillamente scappare qui sopra”
lanciò uno sguardo speranzoso all’ascensore che
scendeva pian piano tentando tutti coloro che scalavano i livelli.
“Vorrei
proprio vedere come, a meno che tu non abbia intenzione di gettarti nel
vuoto. Effettivamente...” si passò la mano sulla
barba il vecchio “se scegliessi questa opzione io non avrei
più seccature di sorta”
Il
ragazzo affrettò il passo e mormorò velocemente
fra i denti un “non importa”.
Quando
raggiunsero il primo livello Jersa notò che diversi soldati
della compagnia con cui aveva imparato a convivere durante lo scomodo
viaggio sembravano scomparsi ma non osò fare domande
poiché la sua guida esibiva un grugno contrariato e la sua
lingua si era fatta più affilata di una vipera. Eppure il
vecchio non sembrava mai stanco, solo infastidito e il passo era una
marcia sempre più ardua da sostenere, inoltre il ragazzo
sentiva le sue costole che sussultavano, sembravano tenute insieme per
miracolo da una una pellicola delicata che si incrinava facilmente.
Fece un altro passo avanti e stirò la gamba appena
più del dovuto allungandosi in avanti. Barcollò
paurosamente e si appoggiò con violenza al corrimano di
corda che accompagnava gentilmente la scalinata:
“
Non ce la faccio” disse infine al compagno che lo precedeva
“penso di avere delle costole rotte...non riesco a
muovermi”
“Una
e forse due, per la precisione” lo informò con
tono puntiglioso Remy e scrollò le spalle
“vorrà dire che prenderemo il Carro ” e
indicò l’ascensore che si apprestava a salire al
secondo piano. Jersa fu costretto a trascinarsi fino al piano
superiore; a sostenerlo c’era la rabbia che lo scaldava e che
scaricava di tanto in tanto lanciando occhiate velenose al vecchio
davanti a lui. Remy, da parte sua, sembrava più allegro di
prima. Raggiunsero il sesto piano, su cui troneggiava un gigantesco
palazzo rettangolare la cui cerchia muraria sembrava infinita. Le
pareti erano ricoperte di verdi rampicanti e forse si estendeva per
tutto il piano. Quel verde spuntava dal nulla poiché a terra
non c’era vegetazione ma solo ghiaia bianca. Non
c’erano finestre ne porte all’apparenza
finchè Remy non si avvicinò ad un muro qualsiasi
e picchiettò più volte sulla
superficie. Con uno spintone aprì una breccia e
trascinò con se il ragazzo attonito. All’interno
del palazzo il silenzio era totale e mostruoso, si sentivano invece,
distintamente , il respiro sommesso del vecchio, e quello affannoso del
ragazzo. Le stanze erano totalmente spoglie, le pareti di cristallo
lasciavano intravedere le edere dell’esterno e il pavimento
era scivoloso. Jersa avvertì una sensazione di capogiro e
profondo malessere poiché ogni cosa pareva la stessa e ogni
stanza era percorsa cento volte. Dopo un numero interminabile di sale,
al centro di una di queste, trovarono un ragazzetto buffo con lunghi
capelli rossi e un corpo slanciato. Ricordava un’ antilope.
Era seduto in mezzo alla stanza, sul pavimento, a gambe
incrociate con le mani appoggiate sulle cosce. Tanto era piccolo che
sembrava un folletto delle favole. Gli occhi erano sbarrati, in
direzione dei nuovi arrivati, ed erano scuri, color mogano. La pelle
era chiara e lentigginosa, le mani e i piedi nudi erano quelli di un
bambino e portava dei guanti di pelle nera.
Si
rivolse a Jersa senza perdere tempo:
“Chi
sei? Chi ti manda?”
Il
mogano scuro delle pupille erano due buchi neri in cui il ragazzo
credette di affondare ma non distolse lo sguardo. Solo allora si
accorse che si trattava di una ragazza.
“Non
mi manda proprio nessuno, ero un semplice soldato in viaggio con un
compagno e sono stato strapazzato, mi hanno rotto due costole e ho la
schiena indolenzita.” Rispose secco e sgarbato.
“L’hai
inventata sul momento o è frutto di un lungo
studio?” fu la replica aspra della rossa e quella stessa voce
risuonò stranamente familiare nella mente del ragazzo
interrogato.
Azzardò,
con una smorfia nauseata:
“Forse
la prima volta che ti ho incontrata votavi a favore della mia morte?
Per qualche strano motivo adesso mi viene in mente” le
lanciò un’occhiata significativa.
“Non
sperare che abbia cambiato parere” Poi si
disinteressò completamente del ragazzo che si trattenne dal
ribattere. Fissava Remy con uno sguardo profondo che poteva significare
tutto:
“
Occupatene tu e cerca di pensare stavolta” si
lasciò sfuggire il vecchio, laconico.
Quindi
prese a camminare tranquillo sorpassando il prigioniero e la figlia.
La
giovane accolse il commento con un’alzata di spalle e dovette
ritornare al suo compito. Si grattò la nuca e con un balzo
si rimise in piedi di malavoglia. Infine fece cenno a Jersa di
seguirla. Questi mise in moto i piedi meccanicamente e mentre
attraversavano altre sale o forse sempre le stesse, poiché
non avrebbe mai saputo distinguerle, si chiedeva per quale assurdo
motivo non avesse ancora tentato la fuga. Non c’erano corde
che lo tenessero imprigionato e adesso anche il vecchio veterano
esperto si era allontanato. Era solo con una ragazzina, ai suoi occhi
talmente insignificante che avrebbe potuto spezzarla come un fuscello.
“Non
pensarci neppure!”
Lo
sguardo della rossa era ancora puntato sul suo volto e scuoteva la
testa come si fa con un bambino che si ostina a non capire come stanno
le cose.
“Pensare
a cosa?” fu il tentativo innocente di Jersa che
cercò scampo nelle sue scarse doti di attore.
“Alla
fuga, ovviamente” gli rivolse un’espressione
saccente.
“Per
poche semplici ragioni...innanzi tutto hai due costole rotte anche se
non devono poi essere così dolorose se te ne dimentichi
così facilmente. Poi non sapresti dove andare, per te le
stanze sono tutte uguali e il palazzo è immenso, quanto
tempo penseresti di sfuggirci? E poi non credo che potresti mai
sopraffarmi” concluse soddisfatta.
A
Jersa venne da ridere ma si limitò a contestare la ragazza
con tono ironico :
“Ah
no?”
Quella,
punta sul vivo, sollevò appena la camicia lunghissima che
portava allacciata fino al collo e sfilò una cintura di
cuoio con una pesante fibbia di ottone; gliela sventolò
davanti al naso per un po’ e la riallacciò,
stavolta in bella vista.
Il
ragazzo sentì la testa stranamente calda e i pugni che
prudevano ma non riuscì a mantenere il silenzio come gli
suggeriva il suo modello di eroe. Sentì il bisogno di
parlare, anche con quell’essere irritante, ma non
riuscì a frenare la lingua. Aveva paura di pensare,
c’erano tante domande che frullavano nella sua testa ed era
forte il senso di abbandono. Questo gli rammentava Erick che era
improvvisamente scomparso dal suo mondo: si chiedeva dove fosse finito,
perché mai non lo aveva aiutato e se mai lo avrebbe cercato.
Forse era l’unica speranza per lui ma era fragile quanto la
cera di una candela che si scioglie al sole.
Di
punto in bianco risuonò la sua voce pensosa:
“Adesso
mi sottoporrai ad un interrogatorio?”
“Proprio
così, mi rallegro della perspicacia, non sei così
stupido come sembri.” Ribattè tranquilla la sua
interlocutrice.
“Come
facevi a sapere cosa stavo pensando? Hai anticipato molti dei miei
pensieri.” Dovette ammettere suo malgrado il giovane,
l’espressione sul viso scontenta.
Ridacchiò
la rossa: “Sei un libro aperto; se questo può
consolarti, non sono un mostro che legge nel pensiero ma tutti i tuoi
movimenti e pensieri sono assolutamente prevedibili, hai tutto scritto
in faccia.”
Jersa
era impietrito e scuoteva la testa lentamente come se non riuscisse a
realizzare una notizia di quella portata.
“Tu...leggi...la
faccia delle persone?”
“Non
è affatto difficile. Basta avere una vista acuta e una mente
che non sia annacquata” con tono di superiorità.
“Tu comunque rendi l’impresa un giochetto per
bambini”sorrise infine rilassata.
Jersa
si zittì con le guance in fiamme, non sapendo più
che dire. Si sentiva stupido, come si era sentito incapace davanti al
compagno Erick, ma soprattutto stanco di vedere persone, visi sempre
nuovi, tutti nemici oppure, in ogni caso, non certo amici. Si chiese
perché avesse abbandonato la sua pace, i luoghi conosciuti,
i gesti quotidiani che tanto lo avevano annoiato.
“Sai
qual è la verità?” esplose, scontento
“tutto questo è ridicolo. Se foste stati seri mi
avreste chiuso in una cella, interrogato e forse anche forzato a
parlare con intimidazioni e...insomma stiamo camminando da ore e tu
parli, ridi ma non ti decidi. Cosa stiamo aspettando?!”
Ma
la rossa rimase scettica e non si lasciò colpire:
“Magari
anche torturato...ti credi un martire dato in pasto alle bestie? Ma
cosa vi raccontano quei vecchiardi da strapazzo?” si
interruppe con noncuranza “Comunque siamo quasi arrivati. Tra
poco avrai il tuo agognato interrogatorio.”
“Arrivati
dove?” la guardò senza capire. Era
un’altra stanza, stesse dimensioni stessa mobilia
inconsistente, ogni cosa era esattamente la stessa.
“Perché
siamo qui?”
La
risposta suonò assurda e ridicola alle sue orecchie:
“Qui
c’è un’ottima acustica!”
Ma,
con sua grande sorpresa, quella stessa voce acuta e ironica non
proveniva dalla ragazza che aveva al suo fianco.
E
pensò di aver raggiunto la follia quando davanti ai suoi
occhi apparve un’altra ragazzina rossa di capelli, ridotta ad
uno stecco, stessi tratti, stesse movenze, una copia della peste che
aveva incontrato molte camere prima.
Spostò
velocemente lo sguardo che oscillava fra le due gemelle e si
andò a concentrare sul pavimento, sbattendo più
volte le palpebre.
“In
fondo devi sostenere un interrogatorio” continuò
la rossa accanto a lui.
“O
questa è magia oppure sono io che sono
impazzito...” mormorò con un fil di voce.
“non
stai sognando, non sei ancora matto, e non è
magia...è capitato così, siamo nate
così” lo precedette la nuova arrivata
“Ci sediamo?” e si lasciò cadere sul
pavimento scivolando fluidamente. E il ragazzo si ritrovò
seduto al centro, circondato dalle due ragazzine,
più instupidito di prima.
“prima...”
esitò un attimo, spinto dalla curiosità
“di iniziare... come farò a riconoscervi? Mi fate
girare la testa. Non riesco a concentrarmi, come faccio a rispondere
alle vostre domande?” una nota di frustrazione nella voce che
si affievoliva.
“Se
ti fa sentire meglio chiudi pure gli occhi e immagina di star parlando
con un carceriere grande, grosso e crudele.” Lo
rassicurò con una punta di ironia una delle sorelle.
“Di
dove sei?”
Il
ragazzo si rassegnò e decise di non rimandare oltre:
“Di
Limerick, sono un disertore, del campo dei Serapide...di mio padre.
” anticipò la domanda “si, mio padre
è il comandante in capo. Perché ero
lì?” cominciò una specie di cantilena,
a voce bassa e roca “ero con un compagno, un coetaneo che mi
aveva aiutato a fuggire e lo seguivo. Non avevamo nessuna destinazione
oppure così mi sembrava; lui cercava qualcosa ma non dava
spiegazioni di sorta. In realtà non gliene ho mai
chieste...” ammise alla fine. Raccontò ancora, del
campo, del perché si era messo in viaggio,
dell’incontro con quel misterioso amico, persino molti dei
suoi pensieri più segreti. Le gemelle vollero soprattutto
sapere di questo personaggio oscuro e parvero soddisfatte del colloquio.
“Hai
fatto bene a non mentirci, saresti stato un pessimo
bugiardo.” Disse infine una delle gemelle.
Jersa
annuì e aggiunse sottovoce “ora sono
stanco...”
Le
pesti si alzarono contemporaneamente e con un sorrisetto risposero:
“Allora
buonanotte e buon riposo...”
“Ti
porteremo delle bende per le tue costole...”
“E
cibo per il risveglio...”
Una
di queste alzò un sopracciglio e annunciò:
“E
magari una camicia nuova...” puntando gli occhi sugli stracci
che portava da quando era entrato nella palude.
Esplosero
in due risatine acute e gli voltarono le spalle, allontanandosi a
passetti veloci.
Jersa
posò la testa sulla pavimentazione e sospirò
più volte. Tutto gli appariva confuso, diverso da come lo
aveva immaginato ma ciò che gli premeva di più
era ritrovare la sua libertà.
Ripensava
alle due ragazzine, che gli erano parse così sciocche e
infantili: non aveva mai avuto una buona considerazione per le donne in
generale. Le trovava capricciose, smorfiose, pensavano solo a cose
futili e facevano le svenevoli appena ne avevano l’occasione.
Non combattevano, non parlavano, non pensavano, oppure parlavano troppo
senza pensare e distraevano gli uomini. Per un attimo pensò
di sfruttare la situazione: probabilmente erano vanitose come ogni
donna, piccola o grande che fosse e, con un po’ di
abilità poteva guadagnarsi la libertà.
“Devo
solo smettere di fare domande e darmi un tono”
mormorò a bassa voce, una nota sprezzante nella voce.
“Parli
da solo?” esplose la voce acuta di una delle gemelle e lo
fece trasalire. Si irrigidirono le spalle e sentì dolorose
fitte al torace.
“ah...uhm”
si morse la lingua e cominciò a massaggiarsi le costole che
gli strappavano qualche sospiro.
“ormai
cadi a pezzi” la ragazza avanzò con un catino di
legno pieno d’acqua fumante e delle lunghe bende bianche di
cotone, infine una buona brocca di Diarik fra le mani. A quella vista
Jersa si sentì rinascere e comparve uno stupido sorriso
sulle sue labbra. Questo parve divertire la carceriera che
alzò gli occhi al cielo ed esclamò:
“Alcool, sempre Alcool vogliono gli uomini, persino i
poppanti”
Gli
mise in mano la caraffa e mentre lui beveva lunghe sorsate la rossa lo
ungeva con un olio scuro e cominciava a bendare il petto. Strinse tanto
il cotone che Jersa stava per soffocare, ancora con il Diarik in bocca,
annaspava e tossiva con violenza piegandosi in due. La ragazzina
iniziò a scuoterlo e a dargli pesanti botte sulle spalle
perché si riprendesse ma non sembrava affatto
d’aiuto, anzi gli procurava sgradevolissimi spasimi. Quando
finalmente si calmò, bevve un’altro sorso di
liquore e masticò fra i denti poche parole “Questo
posto sarà la mia fine. Lascia stare...”
ruggì davanti alla malcelata preoccupazione della gemella,
che si agitava, in colpa.
Pretese
un’altra brocca piena e una coperta, quindi si
girò la testa per terra, la schiena dolorante ma non disse
più una parole e soppresse tutti i lamenti riportando il
silenzio in quelle sale dimenticate dal mondo. La ragazza rimase in
attesa per pochi minuti ma non ricevette altra voce. E quando lei
girò le spalle Jersa provò una nota di
trionfo e sentì di aver vinto una battaglia.
La
mattina dopo trovò accanto a sé vasetti di
terracotta pieni di salse, carni e verdure e la brocca nuovamente piena
di Diarik. Si svegliò con la vescica piena e dovette trovare
un posto per urinare. Non vide anima viva per tutto il giorno e ogni
qualvolta che sentiva il bisogno di qualcosa lo gridava con quanto
fiato aveva in gola. L’eco si spargeva per
l’edificio e Jersa seguiva quel frastuono alla ricerca di un
uscita. Per ore percorreva la stessa via per poi ritrovarsi sempre
nello stesso punto, davanti ai vasetti di cibo e altre pietanze.
Frustrato, fissava il muro, cercava disperatamente porte segrete,
finestre che affacciavano sul mondo esterno. Per giorni non
spiccicò una parola, cominciò a blaterare da
solo, con una presenza fantasma che spesso chiamava Erick.
La
notte era agitata da incubi che continuavano durante il giorno,
susseguiti da decine di corridoi e camere. Divenne
un’ossessione e spesso rimaneva steso sulla coperta incapace
di aprire gli occhi, temendo di incontrare sempre lo stesso spettacolo.
Era uno stato di trance che lo cullava e lo lasciava inerte mentre il
suo bisogno di vivere svaniva come un paesaggio nella nebbia.
Finchè
non apparve una visione celestiale che lo riportò alla vita
reale. Una delle due gemelle comparve con un catino d’acqua e
delle nuove bende. Durante la sua prigionia il ragazzo aveva
completamente dimenticato di avere due costole rotte ed era rimasto la
maggior parte del tempo steso, questa pausa aveva giovato alle sue
ossa. Lui rimase impietrito davanti alla calma della carceriera che
sembrava star facendo una passeggiata nel giardino, controllando i
boccioli appena spuntati, verificando la crescita degli alberi.
“Buongiorno,
qual buon vento? Ti senti un po’ più solido della
settimana scorsa.”
Rispose
in tono funereo:
“Una
settimana...”
Rabbrividì
violentemente:
“è
stato orribile, mi avete quasi fatto impazzire”
La
ragazza ridacchiò e si avvicinò saltellando:
“Capita.”scrollò
le spalle, non curante “oggi per te è un gran
giorno” captò lo sguardo scettico del coetaneo ma
lo ignorò “mio padre deciderà che fare
di te” e mentre lui la guardava senza capire, la rossa gli
disfaceva e rifaceva le fasce.
“Adesso
avrai imparato che non bisogna tremare di paura solo davanti a guardie
alte due metri con muscoli da cinque chili l’uno e le minacce
di morte di qualche bellimbusto.” Strizzò gli
occhi “Molto spesso quelle prigioni che non sembrano prigioni
sono le più terribili”
Jersa
sentì la bocca riempirsi di amaro e si trattenne con
violenza dall’insultarla e aggredirla. Quella predica,
proprio perché fatta da una ragazzina, lo infiammava
anziché riempirlo di vergogna. Gli riusciva insopportabile
ricevere rimproveri, non riusciva ad accettare i consigli con
naturalezza. Era prepotente e forse un po’ arrogante, ma non
lo avrebbe mai ammesso. Quando lei gli tese la mano il ragazzo
continuò con il muso ignorando il braccio a
mezz’aria.
“Sono
Aser, e la mia gemella si chiama Alyce. Nostro padre è quel
soldato che ti ha catturato e condotto fin qui e... questa è
la più organizzata base ribelle a Filesis. Sei nella Cava,
il posto più sicuro delle terre conosciute. Qua dentro
nessuno, tranne una ristretta cerchia di persone, ti troverebbe e
nessuna magia funziona fra queste mura.” Riprese fiato, gli
occhi puntati sul broncio del prigioniero. “e non hai niente
di cui preoccuparti poiché mio padre riconoscerà
che non sei nessuno e tu sarai libero di andare dove vuoi.”
Jersa
si esibì in una smorfia maligna: “e se rivelassi
tutti questi preziosi dettagli a qualcuno? Certe informazioni si
vendono a peso d’oro.”
Ebbe
di tutta risposta un sorrisetto rilassato: “Pensi che siamo
stupidi? Certo non ti lasceremo andare prima di averti fatto
il lavaggio del cervello!”
La
ragazza ignorò ancora lo sguardo irritato e il suo volto si
fece improvvisamente serio. Sbuffò spazientita:
“Ascoltami bene, non puoi permetterti il lusso di continuare
pensare di essere padrone della situazione. Sono stata fin troppo
paziente”
Jersa
ingoiò il rospo e si affrettò a seguirla.
Angolo
dell'autrice
Wow...non mi entusiasma un granchè questa parte.
Forse perchè l'ho concepita in campagna, una
nottata un po' da schifo.
Anyway, non l'ho riscritta perchè non me la
riuscivo ad immaginare in nessun altro modo ma devo dire che ho dovuto
correggere parecchio la versione originale!
Per la gioia dei nostri lettori, ecco qualche dialogo in più
per movimentare la cosa...
Ah no! lo so cosa potreste pensare ù.ù
Chi è questa Aser? e come si dice dalle
mie parti, ma ch'è tutta sta' confidenza? E io intanto non
spoilero niente e vi lascio tutti nel beato dubbio! (poi magari sono
film che mi faccio solo io <.<)
Come non ringraziare i soliti non più ignoti; emv, Kill Bill, Nihal1992, la mia
fedelissima recensorA Giu09
e aggiungiamo alla lista una new entry un po' timida misstokio! Benvenuta
nel club dei quattro gatti (ma fedeli *_*)! Quando vorrai
farti sentire e lasciarmi le tue impressioni sarò
felicissima di risponderti ^^
Adios popolo,
Misa
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