Daimon Sotér e Daimon Abbadon: La ricerca

di Neal C_
(/viewuser.php?uid=101488)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo; il ramo malato ***
Capitolo 2: *** Jersa_ Fuori posto ***
Capitolo 3: *** Shara_ Verso l'acqua e verso casa ***
Capitolo 4: *** Jersa_ Vecchiardo in incognito ***
Capitolo 5: *** Shara_ Il morbo ***
Capitolo 6: *** Jersa_ La cattura ***
Capitolo 7: *** Shara_ Una strega al villaggio ***
Capitolo 8: *** Il Labirinto_ Jersa ***



Capitolo 1
*** Prologo; il ramo malato ***


Prologo

Il ramo malato


La giovane donna immerse la chioma liscia e vellutata nella bacinella piena d’acqua. Poi si alzò in piedi, i capelli ancora gocciolanti e afferrò un sacchetto in pelle di camoscio.
Ne trasse una polvere nera e la gettò nella bacinella. Quindi immerse ancora i capelli e attese.
Intorno a lei era tutto silenzioso e in pace. C’era un’aria pesante che traspariva dall’enorme struttura in pietra.
Quel luogo era uno dei monasteri limitrofi, al confine con la palude, l’ultimo baluardo di civiltà prima della desolazione. Era abitato dalla confraternita della Mano Bianca e la loro fortezza era il rifugio più sicuro per i pellegrini e portava conforto ai poveri e agli ammalati.
Ma per lei quello era il luogo più pericoloso sulla faccia della terra.
I monaci della Mano Bianca erano guaritori, uomini di scienza e possedevano capacità magiche.
Erano linfalbini. Era un fenomeno innato che donava loro poteri speciali. Nascevano nel loro sangue organismi biancastri perciò detti albini, portatori di potenziale magico che tramite la circolazione nutrivano il cervello. Così quegli impulsi magici si sviluppavano all’intero della materia grigia.
I primi anni di vita non erano diversi da quelli di normali bambini; poi, raggiunti i sette anni, alcune cellule del corpo cominciavano ad invecchiare.
Allora la pelle del bambino si seccava, impallidiva, talvolta si copriva di leggere rughe, gli occhi divenivano acquosi; si trattava di reazioni soggettive, chi le sviluppava di più chi di meno ma c’era una cosa che li contraddistingueva in assoluto: i capelli si striavano di bianco.  
 Ed era così che i futuri monaci erano presto individuati, strappati alle famiglie e mandati a studiare nei conventi. E vivevano rinchiusi fra quelle quattro mura, lontani dal calore della casa e degli affetti familiari. Molti dimenticavano chi erano stati, il loro nome, la loro discendenza.
Erano tutti uguali, tutti destinati a servire la strada della conoscenza: erano destinati a diventare la casta.
Shara rabbrividì. Anche lei era stata prelevata e addestrata e aveva goduto di quel potere, di quei benefici.
Si era sentita più fortunata, più forte di tutte le  sue coetanee e aveva studiato a lungo insieme ai suoi compagni di privilegio.
Tutti si erano immersi in quelle conoscenze, esaltati dal potere che raggiungevano sugli altri, ma lei aveva visto pian piano il mondo incrinarsi davanti ai suoi occhi. I suoi compagni di studi perdevano la loro umanità, impazzivano, inspirati dall’opera di indottrinamento che il monastero metteva in atto. Lei era rimasta l’unica, ancora incollata alla realtà; aveva studiato il sistema, non era sbagliato.

È come una pianta. Ha qualche ramo malato ma, tagliato quello, il resto del tronco è solido.

Sentiva di non avere tutti i torti. In fondo gli ultimi cento anni erano stati anni di pace.
Un secolo fa l’ordine dei monaci aveva raggiunto il potere e aveva messo fine ai contrasti fra le tre unità protagoniste della società dell’epoca: la famiglia reale, la nobiltà e il popolo.
Non esisteva una vera classe mercantile e il commercio era nullo: Filesis era una terra terribilmente arretrata e in lotta per il potere.
I monaci con l’appoggio del popolo e del re avevano sterminato l’aristocrazia per poi indebolire il potere del sovrano alleato. Loro avevano incrementato il commercio , creato le corporazioni, piccoli paradisi chiusi ai forestieri, pallidi sogni di coloro che non erano corporati per nascita o amicizie fortunate. Era raro che si venisse accettati per i propri meriti; in un certo senso avevano sostituito l’aristocrazia ma sapevano bene che se avessero reclamato per se il potere sarebbero crollate sotto il comando dei monaci.
Erano reti corrotte che non avevano alcuno scopo se non l’arricchimento ma non dovevano turbare gli equilibri loro imposti. Se avessero osato troppe ingiustizie sarebbero stati messi a tacere dal potere delle masse; non c’erano scrupoli di sorta. Eppure i monaci avevano portato un clima di benessere in tutta Filesis. Certamente era stata perpetrata molta violenza ma si poteva ricominciare.
Shara sospirò. Lei era la persona meno adatta a quest’impresa; era una traditrice e non doveva farsi scoprire in quel frangente: doveva nascondersi.
Due tocchi sordi rimbombarono nella stanza semi-vuota.
A Shara suonarono come una condanna a morte. Poi una voce acuta e dolciastra filtrò dalla porta.
“È permesso?”
La giovane prese un panno ruvido posato poco lontano dal catino e se lo avvolse intorno ai capelli: non sapeva se erano completamente neri oppure la tintura doveva ancora fare effetto e non valeva la pena di correre rischi.
“Avanti”
Nonostante tutto l’autocontrollo la voce suonò malferma.
Fece ingresso nella stanza un monaco con una veste bianca, una cintura nera e calzari in cuoio nero, che si allacciavano attorno a tutto il polpaccio.
I lunghi capelli striati di bianco erano raccolti in una coda, gli occhi erano lucidi e tremebondi. Doveva avere massimo vent’anni, lei aveva imparato a riconoscere quella falsa vecchiaia.
Non incuteva alcuna paura a prima vista ma poteva rivelarsi molto più pericoloso di quanto si potesse immaginare. Non era una figura anomala ma la voce squillante sconcertava Shara più di ogni altra cosa. Doveva sperare di non conoscerlo o almeno che lui non l’avesse mai vista. Ebbe fortuna: l’uomo si avvicinò con piccoli passi e distese i denti giallastri in un sorriso.
“Cara figliola, spero che non ti manchi niente. Sono qui per esaudire tue eventuali richieste.”
Lei sentiva l’imperfezione nell’accento. Era quell’esitazione, il tentativo di ricordare la lingua volgare che forse non usava da secoli.
Anche lei aveva avuto problemi a recuperare la sua familiarità con il volgare. Nei monasteri fra fratelli si parlava l’absito.
Era la lingua della cultura ed era completamente diversa dalle lingue popolari.
Anche lei in quel momento non riusciva a trovare le parole. Quel luogo era stregato, le sibilava nell’orecchio parole in absito che si facevano strada nella sua mente. Erano inviti suadenti che le scivolavano sulla lingua. Lei le ricacciava in gola avvertendo una sorta di dolore fisico.
“Figliola, ti senti male?”
Il suo sguardo era indagatore e cercava di mettere a fuoco il volto della ragazza. Non doveva permettergli di avvicinarsi ancora.
Con un grido muto, disperato si lasciò sfuggire dalle labbra un mormorio strozzato:
“Fame...”
Masticò quella parola e piano piano ritrovò familiarità, ricacciando indietro l’absito come una pillola amara da ingerire.
“Io avrei un po’ di fame, ma devo mangiare in fretta...devo partire.”
Il monaco si addolcì e con voce accondiscendente replicò:
“Ma bimba cara, è quasi buio. Dove andresti a quest’ora? Tu devi riposare. Penserò io a portarti da mangiare”
Sentiva le palpebre farsi pesanti e il corpo perdere rapidamente le forze, afflosciarsi sotto quel peso immane. L’uomo riprese a parlare sibilando:
“Delle consorelle si occuperanno di te. Sei in buone mani, bambina.”
Mentre il monaco usciva dalla cella con passi piccoli ma pesanti, Shara entrò nel panico.
Doveva sperare che la tintura avesse fatto il suo effetto. Altrimenti avrebbe dovuto fuggire.
Ma come avrebbe fatto a trovare una via di fuga quando si trovava in un monastero a picco sui monti Nubion?
Srotolò in fretta il panno ma si sentiva la testa ovattata, desiderosa solo di dormire. Verificò che la tintura era stata applicata; poi attese l’arrivo dei monaci.
Non dovette attendere a lungo. Comparvero due anonime monache e lei potè tirare un sospiro di sollievo.
L’unica provincia vicina a quella di Neietta, conquistata con una manovra politica dai monaci e da allora chiamata Lifelbina. Lei era ancora una bambina quando aveva dovuto chiamare la sua città natale con quel nuovo appellativo. Era la provincia più vicina e Shara temeva che  tutti i giovani monaci provenissero da lì. Così si alzava sempre di più la possibilità di incontrare persone conosciute.
Ma per il momento quelle due donne erano delle perfette sconosciute.
La svestirono e la misero a letto, credendola completamente priva di forze. Portarono anche abiti femminili, ritenendo la sua camicia e i suoi pantaloni in pelle sconvenienti per una giovane donna.
Shara ringraziò la sua buona sorte: non l’avevano lavata, prima di metterla a letto, altrimenti avrebbero sciolto la tintura ancora troppo recente per aderire bene.
Si coprì ancora di più con la pesante coperta di lana. Sentiva la paglia, e ancora sotto la superficie di legno.
L’avevano fatta stendere sul giaciglio sulla parete di fronte alla porta. Accanto c’era una brocca di coccio con dell’acqua e anche un boccale di Diarik, un liquore molto forte; forse un augurio a riprendersi. Finalmente si sentì al sicuro, dopo tanto tempo. Le piaceva quella sensazione, come avrebbe voluto abbandonare la sua vita precaria a cui lei stessa si era condannata e riabbracciare la sua vecchia vita. Solo ora sentiva che non ce l’avrebbe fatta a sopravvivere da sola.
Non dopo quello che aveva passato: non avrebbe più barattato la sua anima per un pasto caldo e un rifugio. Non era ancora così disperata. Domani avrebbe riunito in se il coraggio e sarebbe ripartita per i suoi vagabondaggi.

Rimessasi in forze, si lasciò il luogo alle spalle l’indomani, con il freddo che imperversava. Nessuno aveva sospettato nulla.
Le avevano offerto una zuppa di legumi con il pane secco dentro e un pezzo di carne ben cotto. E quando lei aveva chiesto di allontanarsi, le avevano ceduto la coperta di lana e alcune provviste: carne e verdure secche o salate.
Ne era sempre più convinta: il sistema non era completamente guasto. Per questo c’era ancora speranza nel mondo.


L'angolo dell'autrice

Salve a tutti, cari i miei lettori chiunque voi siate e se non ne ho nessuno vuol dire che il prologo è scritto talmente male che farei meglio a darmi all'ippica ù.ù
Premetto che l'idea di pubblicare su EFP non è mia  e ringrazio le mie adorate evm e Kill Bill per avermi convinto/costretto a farmi avanti e a pubblicare questa storia che sto covando da quasi un anno.
Vi anticipo che i capitoli originari sono lunghi anche dieci pagine quindi ho preferito spezzarli.  Manovra molto comoda dal momento che non ho finito la storia (AVVERTENZE potrebbe essere lunghina) e ho davvero poco tempo per scrivere quindi rischierei di non aggiornare per mesi <.<
In generale aggiornerò una volta a settimana, fra il venerdì e la domenica, e, quando sarò a corto di capitoli e non riuscirò a scriverne di nuovi allora metterò un bel cartello "Work in progress" e poi si vedrà.
Nel frattempo leggete, se vi ispira seguite, recensite, cestinate, ditemi che è bella, che fa schifo, io più di tanto non mi offendo (vi inseguo solo con un forcone in mano, mwaaahahahah :D ).
Difficilmente prenderò in considerazione suggerimenti sulla trama, sui personaggi o altro perchè ho un'idea molto precisa di come si deve sviluppare il tutto ma se qualcuno/a di voi mi fa trovare un'idea particolarmente originale in una delle recensioni potrei decidere di inserirla.
Inutile dire che mi piacerebbe sentire qualche parere anche se io stessa tendo a leggere molto e a recensire poco.
That's all people! tatatatan!

Abbi

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Jersa_ Fuori posto ***


Avvertenze per il povero lettore:

Cari miei, meglio che chiariamo un po' la struttura di sto' poema, così siamo tutti più contenti sopratutto perchè ci capiremo tutti qualcosa in più.
La storia è vista da due punti di vista diversi e quando parlo di POV non intendo che il racconto è scritto in prima persona (ma visto che non siete dementi sicuramente ve ne sarete accorti ù.ù) bensì intendo che ciascuno vive le sue vicende fino ad incontrarsi (oppure no...?) tutti insieme appassionatamente. Ecco spiegato il nomiciattolo in grassetto puramente inventato che apre il capitolo, in posizione centrale
Così quando leggete il corsivo almeno avete una vaga idea di chi sta pensando e non vi confondete. I nostri cari protagonisti si dovrebbero alternare e tenervi così con il fiato sospeso.
Ecco, adesso che ho svelato il trucco, prego, leggete pure. 



Jersa

Fuori posto

Jersa si accovacciò nel terreno umido, cercando di apparire invisibile nonostante i falò centrali che evidenziavano malignamente le ombre.
Il campo era coperto di feriti e mutilati, sdraiati su mucchi di stracci, la puzza del sangue impregnava l’aria, faceva girare la testa tanto era intenso. C’erano pile di cadaveri ammassati vicino ai fuochi e Jersa poteva udire il cozzare delle pale sul terreno. C’era rischio di pestilenza se i cadaveri non fossero stati sotterrati o bruciati. Il timore più grande era che le masse di corpi soffocassero le pire, tanta era la mole; Per questo si era deciso di ricorrere alle fosse comuni. 
Era stata una carneficina ed era la sua prima battaglia.
Non aveva mai veramente desiderato arruolarsi nell’esercito; era l’unica realtà che conosceva e quando suo padre perì in una di quelle battaglie inutili contro i Ribelli il suo corpo fu riportato su di una barella di legno. Era la prima volta che vedeva un morto e la cosa lo scosse profondamente.
Suo padre era un uomo serio, un veterano di poche parole ma aveva sentito poco la sua mancanza; aveva undici anni. A quattordici aveva dovuto scegliere il destino da seguire.
Era tardi per iniziare a lavorare, avrebbe dovuto prendere anni prima quella decisione ma era stata la sensazione di crescere, trovare un mondo ingiusto e inospitale, a rallentare il processo della sua giovinezza. Sorrise amaro; un vecchio del villaggio una volta aveva detto: “La vita è dura”. Lui si lamentava delle sue vecchie ossa mentre Jersa si lamentava di sè. Era insoddisfatto del suo fisico gracile e non ben piazzato come gli eroi combattenti delle storie che si tramandavano. E le sue mani piccole e tozze, non erano mani da soldato ma da suonatore di cetra, e anche il suo corpo era quello di un bardo o di un ladro, affatto adatto alla carriera militare. Ciononostante sua madre l’aveva mandato presso il generale dei Serapides chiedendo intercessione per lui, Jersa figlio di Enagmir il Capitano; Essere figlio di un autorità non garantiva niente, salvo un posto nell’esercito alla progenie e forse qualche amicizia del genitore morto. Il rispetto se lo doveva conquistare, e per di più la carriera militare non rendeva neppure ricchi. Lui, figlio di un capitano, era cresciuto in mezzo al fango di un villaggio come un contadino e aveva goduto dell’aria libera finchè il tempo non aveva reclamato la sua vita.
Era come se il suo mondo fosse finito prima di iniziare. L'unica  vita degna di essere vissuta era stata la sua spensierata giovinezza, quel nuovo tempo che era giunto  era solo un'incognita.
Non era ancora un uomo, lo leggeva negli occhi di tutti coloro che vedeva, persino quel giorno l’aveva letto negli occhi dei suoi nemici, quasi come se fossero incapaci di attentare alla vita di un bambino. Eppure da lui già si aspettavano che tracciasse la sua rotta come una nave ben avviata, con il timone sciolto, mentre il nostromo osserva le carte e la bussola alla ricerca del Nord. Era una responsabilità che mai si sarebbe attribuita ad un bambino e la sua gravità pesava come un macigno.
Poi c’era stata quella mattina e si era accorto che non avrebbe più potuto combattere contro uomini che lo guardavano compassionevoli. Non voleva vedere la pietà nei loro occhi, se non era abbastanza uomo per affrontarli, avrebbe preferito non fronteggiarli mai più. Sapeva che disertare era un reato, ma sapeva anche che i monaci sarebbero stati clementi, semmai lo avessero preso.

Ce la posso fare.


Quella sera avevano abbassato la guardia. Non era rimasto niente dell’esercito messo in piedi dai Ribelli e non si temevano agguati e ritorsioni. I cadaveri di cui disfarsi avevano quasi tutti la livrea nera della Ribellione. Prese un sorso di Diarik dalla fiasca del suo fedele marsupio di cuoio. Erano poche strisce di pelle conciata cucite insieme ma erano tutto per lui. Il suo unico bagaglio indispensabile e mai se ne sarebbe separato. Lì  conservava i suoi coltelli e la fiala di alcool.
Gli era sempre piaciuto l’alcool, il Diarik era forte ma per lui aveva un piacevole sapore dolciastro. Lo aveva provato tre anni prima e da allora ne portava sempre un po’ con se. Gli dava coraggio e lo faceva sentire uomo. Poteva berne grandi quantità senza perdere la ragione come capitava a molti e lo facevano star bene. Quello era l’aspetto più adulto che avesse e ne era orgoglioso. Parecchie volte aveva rimesso il liquore e la sua inconfondibile schiuma giallastra gli era rimasta in bocca, ma l’idea che potesse rovinargli il fegato non lo aveva neppure sfiorato. E se anche ne fosse stato al corrente non vi avrebbe dato credito.
Un'altra cosa di cui andava fiero era la sua abilità con i coltelli che preferiva agli spadoni e alle daghe tipiche dei cavalieri. Il suo sogno era il fejii, un’arma che solo i ricchi si potevano permettere: un coltello ricurvo di dimensioni molto più ampie di un semplice pugnale, facilmente letale; era l’arma dei monaci che ne avvelenavano la punta con intrugli e incantesimi magici e quella era la loro sola arma difensiva.
Erano spesso in un acciaio argentato che brillava di bianco e poiché riservato alla classe alta era chiamato "linfacciaio".
Dunque rimaneva un sogno, anche quello. Jersa aveva pensato di servire i monaci ma sapeva di aver ben poche possibilità non essendo nato “vecchiardo” come li definivano gli abitanti del suo villaggio. Non era cattiveria ma solo buonsenso: erano come vecchi ma potevano avere anche poco più di vent’anni. Gli abitanti erano loro grati per la pace che mantenevano in quella terra segnata dai contrasti. Ed erano benevoli con quell’ordine così potente e misterioso poiché il sospetto difficilmente si insediava nelle loro menti sempliciotte. Ogni dubbio era subito smentito e aveva vita breve.
Il Diarik gli aveva restituito un po’ di coraggio e continuò a strisciare nella sabbia. Gli stivali erano impolverati e sporchi di sangue come il terreno su cui sfregavano e quando il ragazzo dovette poggiare le mani a terra, non poté trattene una smorfia disgustata.
Il campo aveva una forma circolare e il cerchio, sebbene nessuno ne fosse al corrente, il ragazzo compreso, era uno dei simboli fondamentali dell’Ordine lifelbino: rappresentava l’inizio e la fine in circolo, l’emblema di un potere eterno, destinato a rigenerarsi. Era quello l’atteggiamento dei monaci, che l’occhio sveglio di Jersa aveva colto anche senza capirne il perché. Era una sicurezza che nasceva alla radice, un territorio inattaccabile che non aveva esitazioni, era forte ma diverso dal rozzo vigore che animava il soldato. Una fermezza che non si materializzava nella violenza e per questo il popolo ne era succube.
Anche il giovane disertore riconosceva che non vi era alcun motivo per scontrarsi e non capiva le inutili ostinazioni dei ribelli. Gli era capitato di incontrarne alcuni, prigionieri o ambasciatori che erano venuti a trattare, ma non aveva mai trovato alcun fondamento nelle loro richieste. Volevano la fine del “Monachismo” come era chiamato nei quartieri bassi, senza mezzi termini e tutti i tentativi di contrattare si rivelavano inutili.
Ricordava, ancora bambino, quando suo padre era tornato a casa, all’alba, rosso in volto tale era il furore che provava. Era rimasto irascibile e violento fino a sera, poi, finalmente, era cominciato un dialogo fra i suoi genitori che gli aveva fatto una grande impressione. Suo padre era seduto al tavolo e aveva imprecato ad alta voce:
“Dannatissimi mangia ratti! Ma lo sai che hanno fatto, moglie, lo sai?”
La donna era intenta a posare in tavola il piatto di verdure Kremiri, lunghi arbusti verdi sciolti nel brodo in una poltiglia grassa, un miele animale salatissimo.
“E che avranno mai fatto, Enagmù, ancora possono stupirci? Chiedono sempre le stesse cose e mi meraviglio che non ci siamo ancora stufati di ascoltarli.”  
La moglie era come un po’ tutte le donne: più realista, più scettica, poco combattiva e preferiva non partecipare alle faccende politiche di cui si intendeva il marito ma certo non rinunciava a dare il suo parere anche senza sapere niente di ciò di cui si stava parlando.
In fondo era curiosa di sapere, sicura di saper dare a ciascuno il consiglio giusto e portare come esempio della sua ammirabile perspicacia ogni episodio che riusciva a strappare agli altri.
Quindi, dopo un’intera giornata di trepidante attesa, riusciva a stento a trattenere la curiosità. Il marito era sicuramente un uomo calmo e posato, doveva esserci una ragione seria per quello sfogo così manifesto.
Ancora si congratulava per la sua perla di saggezza quando udì la voce dell’uomo farsi ancora più rabbiosa e tonante:
“E invece hanno chiesto; che ne sai tu che hanno chiesto? Se anche te lo dico che mi rispondi?”
Passata la sfuriata, sospirò: “Ma ci pensi? Che si fa ora? Si rinvia il trasferimento? Schifosi bastardi!”
La donna sapeva di dover aspettare ancora, far sbollire le ire residue, ma soprattutto, regola numero uno di una pettegola, mai chiedere esplicitamente ne tantomeno farsi insistente. Prima o poi avrebbe seminato e lei avrebbe raccolto i frutti. Si limitò a posare sul tavolo una brocca di coccio piena di Diarik e aggiunse solo:
“Fermare il trasloco? Che pasticcio! E come si farà?”
Il pugno del soldato sbatté sul tavolo con veemenza.
“E che dobbiamo fare?! Qua tutti vogliono risposte e che si fa?”
Afferrò la brocca e con un gesto brusco se la portò alle labbra, bevendo con due lunghi sorsi rumorosi. Poi la allontanò con una manata mentre con l’altro braccio si passava il dorso della mano sulla faccia per pulire la bocca.
“Te lo dico io che si fa! Qua si cambia destinazione! Non ci vado in quel covo di delinquenti!”
Durante quel dialogo di sfuriate paterne e piccole trappole psicologiche materne, l’allora piccolo Jersa era rimasto a guardare entrambi, con gli occhi spalancati, senza veramente capire quale fosse la disgrazia che creava tanto panico in famiglia: “Scusate, ma che succede? Signor padre? Signora mamma?”
Il soldato sbuffò infastidito : “Antilina, spiegaglielo tu che non c’ho voglia”
La moglie, ignara di tutto, si limitò a lanciare un’occhiataccia al bambino e a rispondere aspramente: “Va a letto che non è cosa per un bambino.”
Ma il padre si riscosse e con uno sguardo serio al bambino deluso lo trattenne ancora. Prese un pezzo di pane raffermo che la consorte aveva bagnato nello stufato di Kremiri e lasciato sull’orlo del piatto.
“Ragazzo mio, prima o poi dovrai pur capire  qualcosa del mondo, quindi zitto e ascolta.”
Cominciò finalmente a parlare sotto gli sguardi incuriositi di due personaggi:
“Stamattina è venuto al campo uno di loro, in uniforme di battaglia...”
Arrivò repentina la domanda del piccolo:
“Loro chi?”
Fu ammonito severamente:
“Lascia parlare altrimenti non saprai mai. Dunque...dicevo che è giunto quest’uomo, un ambasciatore dei Ribelli che ha proposto ancora una volta i loro assurdi accordi che siamo abituati a sentire. Non lasceremo mai Filesis nelle loro mani, che si rassegnassero. Per accordarci, uno dei monaci, una ragazza con degli strani occhi, dopo aver contrattato per un pezzo, ha promesso loro la città di Tetranex come base, ma solo se smettevano di fare la guerra. Quei figli di un demone hanno accettato subito e adesso siamo così combinati!”
Digrignò i denti e riprese a urlare furioso:
“Non dovevano fare una concessione così! Era una bella città sul fiume, in pianura, non troppo vicina e non troppo lontana dalla palude, aveva anche un sacco di giardini dove ti saresti divertito! Io avrei trovato presto lavoro e la mamma tante nuove amiche! Tutta un’organizzazione stravolta! Bestie rapaci!”
Anche la madre si lamentò della disgrazia e imprecò fra sé e sé, ma dopo poco tornò a lavare i panni e non ci pensò più. La notizia era ormai vecchia e, a parte le amiche del villaggio, nessuno era interessato ai maneggi politici delle schiere militari. Si viveva alla giornata, non serviva sapere, l’importante era proteggere le proprie cose, i propri cari e tirare avanti come meglio si poteva. La pace che i monaci garantivano soddisfaceva la gente e la loro piccola vita era tutto ciò che importava loro.
Nemmeno Jersa capì granché del discorso del padre: non sentiva alcun bisogno di trasferirsi e non aveva mai visto dei giardini destinati alle attività di gioco. Non conosceva ancora il mondo e non sentiva il bisogno di cercare qualcosa aldilà del suo villaggio.
Nemmeno ora, con le gambe che strusciavano nella polvere fino alle cosce, reduce dalla battaglia di quel mattino, stanco e spossato ma con i sensi all’erta, si sarebbe allontanato per una semplice curiosità. Era una necessità la sua, doveva trovare il suo posto e non si trattava solo di nascita ne di ereditare il lavoro del padre. Pensò, solo per un attimo, alla madre che avrebbe lasciato indietro, fuori dalla sua vita e si fermò, abbandonando la prudenza, improvvisamente bambino.
Rimase lì, accovacciato, a fissare il vuoto, cercando un unico istante, momento, giorno, ora della sua vita in cui sua madre fosse stata veramente presente. Non trovando nessun motivo veramente valido per rimanere, scacciò quei pensieri con una scrollata di spalle e continuò a strisciare lungo il bordo del campo.


L'angolo dell'autrice


Eccoci di nuovo. Non mi dite che sentivate la mia mancanza! Anche perchè non vi crederei. 
Eccoci al secondo capitolo che sicuramente la mia adorata cuginetta Nihal992 rivedrà da cima a fondo e magari mi darà una mano con la punteggiatura che proprio non è arte mia.
Ma a parte lei, su cui conto sempre (MEOW! *_____* ), voglio ringraziare anche un'altra lettrice, la meno timida fra quei 38 che hanno letto o scorso la storia, Giu09.
Magnifiche la mia emv che già mi segna fra le sue preferite anche se non mi ha manco letto (incoraggiamento un po' di parte) e le mie Kill Bill che più prudentemente mi seguiranno assicurandosi che ne esca una cosa leggibile.
Allora vale la pena di continuarla sta' storia o è meglio che mi do all'allevamento di seppie?
Aggiungo a beneficio di tutti per chi ha notato il titolo in pseudo-greco antico (dannato/benedetto liceo classico!) : se vi spiegassi anche questo vi avrei raccontato la storia in cinque parole, dovrei chiudere i battenti e avrei tempo per dedicarmi alle mie seppie. Ma visto che sono una che allunga il brodo allora soffrirete a lungo prima di capire o, cosa più probabile, vi scoccerete prima.
Poi mi piacerebbe sentire chi dei due protagonisti vi fa più simpatia. Io all'inizio avevo "il raptus della crocerossina" e stravedevo per il mio Jersa, adesso non saprei più che dirvi.
Finisco con un must della letteratura, la nostra costituzione:


i diritti imprescindibili del lettore.

I. Il diritto di non leggere
II. Il diritto di saltare le pagine
III. Il diritto di non finire un libro
IV. Il diritto di rileggere
V. Il diritto di leggere qualsiasi cosa
VI. Il diritto al bovarismo* (malattia testualmente contagiosa)
VII. Il diritto di leggere ovunque
VIII. Il diritto di spizzicare
IX. Il diritto di leggere a voce alta
X. Il diritto di tacere

* Il termine bovarismo indica l’attitudine degli uomini a credersi e a vedere le cose diversamente da quelle che sono, a sognare delle felicità irrealizzabili, irraggiungibili.
Questo termine è stato coniato da Barbey D’Aurevilly e deriva dal cognome della protagonista del celbre romanzo di Flaubert, Madame Bovary. Flaubert si è ispirato ad un fatto di cronaca: la vicenda di Delphine Delamare. Questa donna aveva suscitato scandalo in un borgo della Normandia, per le sue manie di grandezza, le sue spese eccessive e la sua voracità nel leggere romanzi, infine si era suicidata, perchè travolta dai debiti. L’eroina di Flaubert sceglie una realtà fittizia che le da maggiore gratificazione.

@ Copyright:  Daniel Pennac "Come un romanzo" e Blog Lettera Bartleboom:  http://letterabartleboom.wordpress.com/2006/12/20/ecco-il-vostro-peggior-nemico/  @

Ecco adesso andate e moltiplicatevi, cari lettori!

Abbi

p.s Ovviamente ringrazio tutti quelli che hanno letto, che mi seguono, mi seguiranno, hanno intenzione di seguirmi ecc. e ringrazierei anche quelli che non volessero seguirmi mai e poi mai se mi spiegassero perchè...aiuterebbe ;)

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Shara_ Verso l'acqua e verso casa ***


Shara
Verso l'acqua e verso casa

Tutto era deserto.    
Il paesaggio era un distesa gelida e perenne agli occhi di Shara. I monti erano alle sue spalle e sussurravano ancora in absito le promesse di una vita tranquilla, nella reclusione. I monasteri erano costruzioni imponenti, come  fari nella notte per le navi nell’oceano immenso e di fronte a lei non vi era niente. La giovane strinse gli occhi sino a ridurli a due fessure, aguzzò la vista inutilmente, sperando, in  una tale distesa piatta, di scorgere un ostacolo alla vista, una barriera per quanto piccola che limitasse quel deserto infinito. Le girava la testa e dovette rapidamente abbassare le palpebre e respirare profondamente, facendosi coraggio. Il terreno era stepposo, senza colore e non vi erano piante di sorta, solo arbusti grigi, che non si elevavano a più di pochi centimetri da terra. Molti erano rovi che si impigliavano nel mantello della giovane e ne strappavano il tessuto sfrangiandolo e riducendolo a brandelli. Shara aveva da tempo perso il conto dei giorni, poiché in una tale desolazione non esistevano tempo e spazio.

Possibile che queste terre siano così...dov’è finita la gente, che ne è della vita? È un sogno?è un incubo?  

Tutto pareva un miraggio e, in cuor suo, la viaggiatrice cominciava a dubitare della vita e della sua missione.

Cosa ci faccio qui? Che cosa credo di fare? Cosa cerco di dimostrare? È ridicolo.

Ogni passo che faceva era un ripensamento, il desiderio di tornare indietro era sempre più forte.
Non sapeva neppure bene dove si trovasse. Trascinava con se una borsa di cuoio in cui erano raggomitolate le coperte di lana e vi era ancora un poco di carne salata nella sua bisaccia. Aveva raccolto delle erbe lungo il cammino e adesso le custodiva in un piccolo sacchetto di canapa grezza,  legato attorno al collo. Erano erbe curative che ancora portava con se, come un tempo. Curare e occuparsi dei malati era forse l’unica cosa che sapeva fare; anzi, erano ben poche le cose che conosceva dell’arte della sopravvivenza, che fino a quel momento non le erano servite. Solo con la magia riusciva a combinare qualcosa, come accendere un fuoco, costruirsi un riparo, e cercava di mantenersi in forze perché il suo potere non l’abbandonasse. Quindi dormiva regolarmente e consumava molta acqua e cibo, senza preoccuparsi che finissero.
Così fece ancora una volta. Si accampò, in mezzo alla pianura secca e polverosa, vicino ad un cespuglio di sterpi e, fissati intensamente i piccolo rami, gli diede fuoco. Mentre una fiammella irradiava dai rovi, ella si girò,  pose a terra il bagaglio, notevolmente alleggerito, e distese le coperte. Cosse la carne lentamente, tenendola sospesa sulla fiamma, mentre le dita risentivano del calore del falò. Non faceva nè caldo nè freddo ma tutto era secco e improvvisamente sentì il bisogno bruciante di acqua. Le borracce erano esaurite ed ella si risolse, ancora una volta, a trarre dal terreno ciò di cui aveva bisogno. Seduta sulle coperte, accanto al fuoco, si concentrò sulla terra e immaginò: in un attimo vide veramente tutto ciò che c’era lì sotto; incontrò tanta polvere, roccia, pietre piatte e appuntite, ma anche tane di topi, piccoli animaletti che vivevano sottoterra, che scavavano nelle loro gallerie per miglia e miglia. Ma non c’era traccia di un falda acquifera, di terreno umido, e il suo occhio scendeva sempre più in profondità e l’oscurità che regnava in quella contrada sempre più lontana dal sole la spaventava. Anzi, tutto era sempre più secco e polveroso.

Che io  sia giunta al cuore della terra, dove regna il fuoco?

Temeva di aver raggiunto il centro del sottosuolo dove si raccontava che ci fosse solo una distesa di fuoco liquido, come quello di un vulcano. Prese a risalire man mano, ma la stanchezza cominciava a farsi sentire, alimentata dalla sete. Posò il suo occhio sulle immagini dei piccoli abitanti del sottosuolo.

Come possono essere vivi loro? Non c’è traccia di umidità, ma dov’è l’acqua?

Decise di seguirne i movimenti per raggiungere il loro segreto, ma questo gli sarebbe costato un grande sforzo. Dovette interrompersi perché la notte era calata e mentre i suoi occhi erano cechi il sole del tramonto così roseo si dileguava. Doveva dormire e l’indomani mattina gettarsi all’inseguimento del mondo sotterraneo. Ma innanzitutto doveva sapere dove si trovava. Si rimise in piedi e puntò gli occhi su un cespuglio sterposo poco lontano. Si inginocchiò presso la pianta e congiunse le mani a coppa vicino alle radici. L’immagine dell’ acqua si formò nitida nella sua mente. Era poca e terribilmente sfocata. In un attimo le mani ne furono piene e la giovane si affrettò a berne. Il cespuglio era ancora più inaridito ma era sopravvissuto alla magia.
Ciò che le premeva maggiormente ora era scoprire quanto era vicina alla meta. Doveva raggiungere una qualsiasi cittadina o luogo civilizzato per poi decidere cosa fare della sua vita e scappare per sempre dalla minaccia dei monasteri sulle montagne. Erano detti i “montanari” ed erano anche le istituzioni più ferme e integraliste che si occupavano dell’isolamento e dell’indottrinamento dei giovani.
Osservò quella notte appena coperta e con difficoltà riuscì a intravedere una delle costellazioni più nitide d’estate: il “cavallo rosso”, così detto perché le stelle che lo componevano emanavano un’aurea rossa e ciò lo rendeva particolarmente visibile, anche a cielo nuvoloso o nebbioso.
Era una costellazione dell’est, ed era il simbolo del fiume più ricco di Filesis, il Diasperon. Quando ci si trovava presso il fiume, nelle belle notti d’estate, si vedeva un fiero destriero che luccicava come se marchiato a fuoco sulla volta celeste.  Shara si accorse con orrore che il cavallo era sfocata. Era lontana dal fiume e chissà quando avrebbe raggiunto l’acqua e la strada. Forse era troppo ad ovest o troppo ad est. Sfiorò la mappa con il dito e mantenne un occhio puntato sul cielo. Scorse una stella solitaria, la Reniga, “la guida dell’ovest”, come era chiamata dai forestieri che si spingevano all’ovest più popolato. Potette tirare un sospiro di sollievo, poiché non si era allontanata di troppo, ma da quel momento avrebbe fatto bene a viaggiare di notte e a seguire il  cavallo rosso fino al Diasperon.
L’indomani sarebbe rimasta ancora lì, in cerca dell’acqua, seguendo di nascosto i percorsi  di topi e altre bestie sotterranee, nella speranza di trovare almeno un villaggio verso cui mettersi in cammino. Altrimenti avrebbe seguito il destriero notturno.
Si distese sulle coperte soddisfatta, senza neppure coprirsi, con il mantello addosso e la chioma sparpagliata per terra. E, sebbene non avesse preso misure di sorta, la notte passò tranquilla; il suo sonno rimase indisturbato fino a giorno inoltrato.

Quando si risvegliò il sole era alto nel cielo, sorto da tempo e l’aria cominciava già a riscaldarsi. Fu in quel momento che Shara si mise all’opera: puntò tutto il suo essere sul terreno e ne fece la sua unica ragione di esistenza. Ogni singolo pensiero era dedicato alla ricostruzione del terreno e delle sue profondità. Tutto appariva trasparente  e tridimensionale nella sua mente e pian piano ogni cosa prendeva colore. La sensazione che le procurava era un leggero formicolio, di chi non compie qualcosa di così grande o non solleva un sacco così pesante da tempo. Individuò delle talpe e delle specie di manguste che si muovevano a velocità impressionante, con un pelo rossiccio e i denti grandi e sporgenti. Quell’animaletto la incuriosì ma non seppe come chiamarlo e ben presto l’immagine si fece sempre più sbiadita finchè non scomparve del tutto dalla sua mente, come se non fosse mai esistito. Seguì una famiglia di talpe che, gironzolando nei dintorni  facevano provviste. Sebbene ciechi, i piccoli animali si muovevano perfettamente nel buio e con velocità passavano da una galleria all’altra, dai cunicoli alle caverne. Era un incrociarsi di vie e buchi scavati nella terra dove il traffico era tutt’altro che tranquillo.
Adocchiò un giovane maschio che sbatteva il muso avanti e indietro per carpire odori. Andava avanti per miglia e miglia sottoterra, senza fermarsi, spinto solo dall’olfatto. La giovane se ne meravigliò ma non stette a pensarci troppo, per timore di distogliere l’attenzione dal suo scopo. La concentrazione costava sforzo alla sua mente e la distanza che separava il corpo dalle sue azioni era grande. Da ore stava lì, affidandosi ad un animaletto cieco ma quello prendeva sempre nuove gallerie, passaggi stretti finchè le parve di perdere ogni cognizione di causa. Fu un sollievo quando improvvisamente la talpa si fermò e cominciò a battere le zampe sul terreno, emettendo suoni simili a lunghi sospiri. L’animale graffiava una parete concava con forza e, dal piccolo avvallamento naturale, ben presto creò un vero e proprio squarcio nella roccia. Era pietra fragile e Shara poteva addirittura percepirne la natura friabile. Le unghie della talpa erano state create dalla natura per quello scopo e cominciò il fruscio che annunciava acqua in movimento. Le unghiate dell’animale incrinavano la roccia e si creavano piccoli rivoli di acqua dolce, che scorrevano indisturbati, straripando e dissolvendosi una volta toccata terra, assorbiti dal terreno sottostante, per andare a disperdersi non si sa dove, ma la ragazza non ci teneva ad indagare oltre: l’unico cruccio era quello di non poter riconoscere minimamente il luogo in ci scorreva quell’acqua fresca. Forse era vicina a lei di qualche chilometro eppure lei non lo sapeva. Decise di aggrapparsi ad un’altra speranza e abbandonò la talpa. Si concentrò sul corso dell’acqua e ne seguì il lento fluire partendo dalla piccola foce appena scoperta per risalire alle origini. Si infilò nelle fessure più anguste, risalì gli strati sulle tracce di poche gocce assorbite dal terreno ma non perse mai la traccia della sua preda, finchè, con grande gioia, giunse presso il letto di un fiume. L’acqua era chiara e il fiume non era abbondante ma neppure povero, eppure qualcosa lo rendeva terribilmente familiare: era talmente limpido che il fondale di sassi bianchi e tondi  si distingueva perfettamente. Era il Nelost, ne era certa, poiché ne conosceva ogni palmo. E allora si rese conto di trovarsi a ovest, verso la sua città natale. La constatazione la riempì di gioia e di sollievo; poi perse completamente i sensi e non vide più niente.

Si risvegliò la mattina successiva, completamente esausta. La mente era appena un po’ appannata ma gli stimoli della fame e della sete la corrodevano come l’acqua arrugginisce il ferro. Era rimasta due giorni in ascolto, per trovare la fonte del Nelost, e infine era crollata per la stanchezza e per il sonno, dormendo un’intera notte. Sbuffò infastidita e profondamente irritata dalla sua incombente debolezza fisica. Erano i limiti del fisico l’unico freno alla magia. Questa non indeboliva in alcun modo il corpo ma prendeva molto tempo e potevano occorrere giorni e anche una settimana per operare una magia. Era stato il suo corpo a ribellarsi dopo due giorni di digiuno, sotto il sole, senza un goccio d’acqua e la sua posizione a gambe incrociate non era certo risultata riposante. Aveva dormito ben diciotto ore, e ora si risvegliavano tutti gli stimoli, tra i quali un forte indolenzimento alle gambe. Tentennò un po’, incerta se alzarsi o meno, dato il dolore sopraggiunto, e infine si tirò su, con forza. Scricchiolarono tutte le ossa e cominciarono a bruciare i legamenti.

Che mi sia slogata qualcosa?

Si tastò ben bene le gambe mentre i ginocchi le dolevano, con una crema si massaggiò le caviglie, i polpacci, fino alle cosce. Mangiò velocemente un altro pezzo di carne arrostito ma quasi le venne la nausea al sapore salatissimo di quel cibo che il suo stomaco riceveva da giorni. Sentiva bisogno di verdure  e soprattutto di pesce. Adorava il pesce fin da bambina e, con lo stomaco debole e dolorante, cercava ora di ricordarne il sapore fresco con nostalgia.
Ricercò ancora l’acqua esigendola da alcuni cespugli e stavolta li ridusse a paglia, non accontentandosi di assumere poche gocce, esigette ogni singolo sorso di acqua che queste contenevano. Pensò alla fonte che aveva scoperto: avrebbe varcato le porte della sua città natale? Oppure avrebbe raggiunto il Nelost e poi proseguito?

Non posso tornare a Neietta, la città è piena di confratelli. Vedrò che direzione prendere in seguito. Qualcosa succederà.

Pensò con frustrazione quanto soffrisse la mancanza di una destinazione o di uno scopo. Sopravvivere alla giornata era davvero irritante per una giovane che fino a quel momento aveva nutrito degli ideali, alimentati da carte, libri, documenti, resoconti, parole di confratelli e superiori.
Con gesti veloci e rabbiosi preparò le sue bisacce e cercò la posizione del sole per trovare la direzione da prendere. Il calcolo era piuttosto approssimativo poiché era decisamente più facile orientarsi con le stelle che in pieno giorno ma infine si mosse, continuando a camminare e tendendo l’orecchio, pronta a cogliere lo scorrere delle acque.

L'angolo dell'autrice

Allora signori miei, questo capitolo che potrà sembrare solo un inutile cumulo di descrizioni e inutili puntualizzazioni su un luogo praticamente deserto è meno scemo di quel che sembra ù.ù
Direte voi: "e grazie ce lo dici tu che sei l'autrice ma io lo trovo lo stesso una palla"  Pazienza! perchè era il modo migliore per presentare un elemento fondamentale nella storia: la magia!
Niente bacchette, niente mani, lampi, tuoni, avada kedavra o che so io. La magia è un processo puramente mentale, non è ereditaria quindi se c' hai la testa giusta te la tieni se non ce l'hai ti fotti (bovinamente parlando).
Beh non è che sia un piacere possederla se poi ti devi chiudere per forza in un monastero pieno di vecchi bacucchi prepotenti ç____ç
Ovviamente la magia è uno degli elementi fantasy per eccellenza. Se fate una partita a D&D, per citare uno dei più famosi e diffusi gdr fantasy, sicuramente vi capita un mago nella truppa, o un chierico o uno stregone e compagnia cantando. Però volevo trovare un'alternativa al ruolo classico del mago che ha bisogno di erbe, sterco di pipistrello, chissà quali pozioni magiche dagli ingredienti introvabili (e anche piuttosto schifosi, diciamocelo). E l'idea mi è venuta  pensando ad un famoso mito (che sicuramente è solo un mito e se non ve ne convincete vi suggerisco di aprire questo link) secondo cui noi attualmente useremmo solo il 10% del nostro cervello e ci sarebbero chissà quali  capacità nascoste nella nostra mente, dalle telecinesi, alla previsione del futuro.
Partendo dal presupposto che mi sembra una grande scemenza è un'idea che ha successo in un racconto fantastico, fantascienza e quindi anche fantasy!
Quindi la magia, che è sempre uno di quei fattori inspiegabili o comunque spesso dati per scontati, non dico che trova giustificazione in questa teoria ma sicuramente diventa più affacinante *____*
All'inizo pensavo addirittura che avrebbe potuto trovare dei legami con la fisica, tipo con le forze che agiscono su un corpo, poi ho visto le mie belle valutazioni e quel poco che ho combianto all'ultimo compito e ho pensato: "magari in un'altra vita" <.<
Insomma SI,  mi piace speculare su sta' roba e NO, non ho nient'altro da fare U_U

Ringrazio come al solito le mie beniamine Nihal992, emv, Kill Bill e anche il/la mio/a caro/a recensore (o recensitrice o recensora o che so io...il dizionario mi gioca brutti scherzi)  Giu09.
Ovviamente ringrazio chi legge, chi non legge, chi si scoccia, chi si diverte ecc. e per l'ennesima volta, a chi mi abbandona mezzo schifato lo invito anche a farmi una pezza...molto spesso una bamdierina arancione con  un bel CRITICA aiuta! mica siamo nati Kafka (tanto per citare uno dei miei idoli *_*)
Sayonara gente!

Abbi

p.s cortino eh? mumble mumble... p.p.s Lo so, direte voi, che razza di titolo è? E vi risponderò io: boh, suona uno schifo ma quest’è ù.ù

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Jersa_ Vecchiardo in incognito ***


Jersa

Il Vecchiardo in incognito

Al centro della piazza c’era un falò che rimaneva acceso tutta la notte e lì si attardavano i soldati, bevendo e giocando alla Marca, un gioco di carte ma soprattutto di fortuna. Jersa aveva provato a scommettere qualche moneta di cui era in possesso ma naturalmente aveva subito perso. Le carte erano poste al centro e bisognava ottenere una serie di combinazioni, ricordandosi a memoria i numeri e i personaggi che uscivano. Se andava bene ricostruivi parte della scala e potevi vincere un terzo di quanto avevi scommesso, ma era molto più facile perdere tutto quello che avevi puntato. La scala partiva dal Re, poi si proseguiva con il Monaco, il cavaliere, il professionista, l’imprenditore, l’usuraio, il mercante, il soldato, l’artigiano, l’apprendista, lo sfaccendato e poi c’erano le carte rosse, la regina, la Monaco, l’amazzone, la signora, la matrona, l’imbrogliona, la locandiera, la puttana, la lavandaia, la serva e la bambina guercia,  che valevano il doppio del loro corrispondete maschile.

Erano due mazzi, uno rosso e uno blu, ma il dorso era nero come l’inchiostro.
Venivano mischiate le carte e un unico mazzo era posto al centro. Ognuno riceveva una carta e cominciavano le scommesse.
Naturalmente ogni carta aveva un abbreviazione *(1) che rendeva più facile l’identificazione e Jersa poteva udire gli scrosci rumorosi dei soldati che tiravano a indovinare le marcate, come erano definite le giocate.     
Il campo era in penombra ma era attorniato da una palizzata di solido legno alto almeno tre metri e mezzo e senza appigli di sorta. Inoltre sul legno era stato passato una specie di miele vegetale, una sostanza appiccicosa che utilizzavano le piante cacciatrici per intrappolare gli insetti. Era un’altra magia dei Monaci, che aveva trasformato una poltiglia innocente in una ragnatela che all’interno era innocua ma, se un qualunque nemico avesse cercato di assaltare dall’esterno il campo, sarebbe bruciato in quella dolce morsa che profumava di fiori di campo.
Jersa rifletté in fretta e capì che doveva guadagnare l’uscita con l’astuzia; era impossibile non essere visti poiché il focolare era equidistante da ogni punto dell’accampamento e si poteva scorgere ogni movimento nel piazzale. Doveva distrarre le guardie e attendere il momento buono per uscire da lì indisturbato. Si rassegnò all’idea che l’avrebbero tormentato per tutta la serata e avrebbe perso un mucchio di soldi in scommesse e puntate.

Uscì dall’ombra e si avvicinò al falò strascicando i piedi; doveva apparire stanco e spossato per non destare sospetti. Molti dei giocatori, seduti in circolo non si girarono neppure e cincischiarono a bassa voce con la bocca impastata: “Ah si, è lui, si”
L’attenzione era tutta concentrata su una marcata particolarmente importante che riempiva l’aria di tensione. Erano tutte facce conosciute, con una lunga fila di rughe sulla fronte che tradivano lo sforzo di quelle menti semplici, che, nell’euforia del gioco, non sentivano ne vedevano altro che le carte piegate e stropicciate sulla trave di legno del piano da gioco.
 Jersa si lasciò cadere pesantemente sul terreno e qualcuno trasalì, udendo per la prima volta un rumore esterno. Gli arrivò uno scappellotto del milite vicino, basso e secco, detto il Nocerino perché aveva la pelle scura e ruvida come quella di una noce.
Il ragazzo incassò il colpo con una smorfia e, appena il compagno volse lo sguardo, prese a massaggiarsi la spalla dolorante: tutti in quel campo picchiavano duro, anche se per gioco.
Poi una serie di urla entusiaste lacerò la notte, come lo scoppio di una pentola a pressione:
“Errerros! Tié! Oddo vintu 3 marcate!” *(2)
Molti risero sguaiatamente mentre uno dei vecchi cercava di riportare l’ordine con poche secche frasi di sottofondo che si ripetevano ancora e ancora: “Eppassiammo aunaaltra marcate, passiammo addopo” *(3)
Tra le grida generali, con un’occhiata veloce, Jersa cercò il perdente ma ci mise un po’ ad individuare la figura dell’uomo che stava seduto sereno dall’altra parte della trave da gioco.
Solitamente i giocatori che perdevano le marcate bestemmiavano, avevano attacchi d’ira improvvisa per sfogare la tensione e alcuni addirittura, soprattutto qualche inesperto mercante attaccato ai suoi soldi come se fossero la sua anima, collassavano sulla sedia.
Le somme che si scommettevano erano sempre forti e circolavano decine di trucchi; molti sfaccendati vendevano “la mossa perfetta”, ed erano chiamati “Venditori di imbrogli”, ma ormai solo gli ingenui ci cascavano. Un uomo poteva perdere tutta la sua fortuna fra le chiacchiere dei compagni e un bicchiere di Diarik. Poi c’erano gli adulatori, che non vedevano l’ora di sottrarre le vincite al povero malcapitato e, con fare untuoso, squittivano lodi sperticate: quelli erano chiamati “Lingue lunghe”. Infine c’erano le puttane che attiravano i giocatori, che erano per lo più uomini: alcune si accompagnavano a ladri e lestofanti che spogliavano l’uomo di tutti i suoi averi, altre, come vedove nere, si sbarazzavano dei concupiti con le loro mani una volta per tutte.
Tutti i giocatori avevano bisogno di essere rassicurati, seguiti e si abbandonavano nelle mani dei truffatori che davano loro effimere certezze.
Questo Jersa non lo sapeva ma non era stupido; non si sarebbe mai affidato ad uno straniero. Eppure non aveva mai visto un personaggio così tranquillo davanti ad una perdita del genere. Solo i monaci erano così sicuri di se: tutto ciò che cercavano se lo procuravano con la magia.
È un Vecchiardo in incognito?
Si sporse appena per guardare bene lo sconosciuto che non aveva notato fino ad allora: era a volto scoperto, il mantello appena appoggiato sulle spalle, non un tentativo di coprirsi bensì un gesto indolente. Non c’era traccia di bianco nei suoi capelli corti: era solo una zazzera nera e spettinata, leggermente riccia, che incorniciavano un volto chiaro, ovale.
Era un volto giovane e liscio, come quello di un bambino e persino la sua statura stava ad indicare un giovinetto piuttosto che un uomo vissuto.
Doveva avere all’incirca sedici anni; era praticamente un coetaneo, anzi pareva addirittura più puro e innocente e Jersa non riusciva a capacitarsi come fosse ancora vivo in quel mondo inclemente dove sopravvivevano solo i più scaltri. Per un attimo sembrò smuovere in lui corde mai toccate, facendogli conoscere un sentimento che fino a quel momento non aveva nome ne consistenza: istinto materno. Ispirava una innocenza e un candore che non aveva mai trovato in un ragazzo o in un uomo in generale. Per un momento pensò di proteggerlo da quegli uomini che lo sbeffeggiavano e gridavano entusiasti alla luce della sua sconfitta, e incrociò il suo sguardo limpido. I suoi erano occhi di un grigio chiaro e pensoso che gli donavano quell’aria serena e anche la sua espressione fu tranquilla e posata. Era un messaggio muto che Jersa aveva interpretato con stupore: Fidati di me, so cosa sto facendo.
In quel momento tutti i suoi buoni intenti, i suoi piani di fuga erano spariti e per la prima volta dopo tanto tempo il ragazzo si sentì confuso; i suoi difetti, i suoi cattivi pensieri, i suoi peccati risaltavano davanti a quell’innocenza come il nero su bianco. Ricordava i suoi dispetti, i suoi piccoli furti, gli inganni, le bugie, le ingiurie silenziose con cui aveva bersagliato tutti, persino sua madre, e la mancanza di rimpianti che non lo avevano trattenuto presso la sua  genitrice.
Mentre il suo cuore era in tumulto, mantenne lo sguardo fisso sullo sconosciuto che lo ricambiò con un’occhiata di sincera curiosità.
“Mi ritiro dal gioco” fece lo straniero con semplicità e, dopo un po’ di mormorii generali, si discostò dalla tavola di legno, rimanendo seduto come se dovesse cercare qualcosa nel terreno, quindi, strettosi nel mantello nero, si alzò e cominciò a camminare in direzione dell’uscita.
Jersa sentì un tuffo al cuore e corse avanti per tagliargli la strada, fermarlo. Lo avrebbero punito come disertore o per violazione del coprifuoco.
A pochi passi dalla porta, gli si parò davanti e quello non nascose la sua sorpresa nel vederlo apparire dal nulla. Dopodiché rimase imbambolato di fronte al coetaneo sempre più stupito e incuriosito.
Jersa misurò le parole, indugiando a lungo sulla scelta dei termini da usare per non spaventare quel piccolo bambino, frutto della sua immaginazione:
“Tu…non…puoi uscire…a quest’ora…No…è…è…” si interruppe e trasse un bel respiro “è pericoloso”
“Perché?”
Il giovane quattordicenne avrebbe voluto ridere di quella domanda innocente che lo terrorizzava:
Già perché no?Ma perché è così! È pericoloso per lui, è così…piccolo
Alla fine sorrise nervoso: “Se ti beccano ti puniscono”
Anche il giovane estraneo sorrise ma fu una smorfia divertita, come se non ci credesse:
“E per cosa mi puniscono?”
Jersa, stavolta, ribatté pronto: “Perché non hai rispettato il coprifuoco”
L’altro si guardò intorno e gli rivolse un ghigno furbesco:
“Scommettiamo che non mi prendono?”
 Le pupille di Jersa si dilatarono per lo spavento mentre il sedicenne lo sorpassava con un gesto leggero e elegante e si dirigeva verso l’arco della porta.
Avrebbe voluto gridare contro quel giovane stolto che non aveva ascoltato alcuna raccomandazione e, improvvisamente, lanciò il braccio in avanti, in un richiamo silenzioso ma disperato.
Dal canto suo il ragazzo estraneo attraversò l’arco con tutta calma senza mai sparire dalla vista e, a distanza di un metro dall’arcata, si girò e gli rivolse un sorriso sereno, si umettò appena le labbra e quindi replicò, divertito: “Ho vinto io”
Poi, dopo essersi guardato intorno, in un attimo di riflessione, si rivolse a Jersa, luminoso e solare: “Vieni con me!”
Questi sentì l’impulso di corrergli incontro e di abbracciarlo, ma, troppo stordito, si limitò ad annuire e a raggiungerlo con passo calmo.
Non sentiva più la necessità di sfuggire da qualcosa e finì per convincersi persino che, al seguito di un essere così puro, sarebbe stato al sicuro da ogni sventura.
Mentre si allontanavano dalla città, passo dopo passo, Jersa sentì il neocompagno stringergli il braccio e sussurrare: “Come ti chiami?”
La risposta fu meccanica e neppure troppo pensata: “Jersa, figlio di Enagmir”e si fermò piantando i piedi sul terreno: “”Tu?”
Il ragazzo al suo fianco rispose semplicemente: “Erick”  


*(1) Carte in gioco
Re/regina: Errerros/Errenè
Monaco/a: Vecchiardo/a
Cavaliere/amazzone: Bestierros/Bestiennè (da bestia=cavallo: le amazzoni andavano solo a cavallo)
Professionista/Signora: Signorros/Signonè
Imprenditore/Matrona: Riccherros/Ricchennè
Usuraio/Imbrogliona: Latròne/Latronéss
Soldato/Puttana: Lo’fforte/ La’ddolce
Artigiano/Lavandaia: Lo’scuoio(dagli artigiani del cuoio la gilda maggiore) /Lavapanneri
Apprendista/serva: gnocco/triglia
Sfaccendato/Bambina guercia: Lo’gnavo(da ignavo)/ la’ llosca
 
*(2) Una Regina! Tié! Ho vinto 3 giocate!
 *(3) E passiamo ad un’altra giocata, passiamo a dopo


Angolo dell'Autrice

Vi annunzio che mi scoccio di scrivervi qualcosa...
Quindi niente commento al capitolo.
Che perdita eh?
 Bwaaaahahhahahahahha

Misa

p.s Quanto amo le carte che ho inventato!!! *_*

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Shara_ Il morbo ***


Shara

Il morbo

Al tramonto cominciò ad intravedere del fumo che si perdeva nell’aria come  lo zucchero si scioglie velocemente nell’acqua. Affrettò il passo, gli stivali che battevano come zoccoli sul terreno. Vide spuntare un manipolo di casupole disposte a elle:  le abitazioni erano in orizzontale e culminava con un’ala laterale, dove c’era qualche edificio pubblico e un piccolo pozzo. Erano tutte in tufo e in pietra, quella pietra semimorbida che l’acqua tranquillamente erode; il pozzo era delimitato da un recinto di sassi robusti.
Così era composta la periferia di Neietta, di tante elle disposte a corona, come i petali di un fiore di ninfea. Ma il fumo si faceva sempre più nero e pareva fosse stato acceso un vero falò. La stagione era estiva e la natura era rigogliosa, dunque non si trattava della cerimonia del vecchio: con l’equinozio di autunno finiva l’anno e le foglie degli alberi che cadevano, simbolo dell’anno vecchio che si allontanava, erano ammucchiate nelle piazze principali di tutti i paesini e si accendevano grandi roghi finchè tutto il vecchio non era smaltito. L’anno ufficialmente iniziava con il solstizio di inverno e i giorni che andavano dalla fine dell’anno prima all’inizio del nuovo erano giornate di festa per tutta la popolazione che abbandonava le proprie occupazioni e impiegava il proprio tempo liberamente. Persino le autorità si affrancavano dal loro compito ed erano più frequenti disordini, risse in taverna o divergenze di ogni genere.
Shara si lasciò guidare dalla curiosità e seguì la scia come un topo corre dietro al profumo del formaggio, emmenthal con i buchi della migliore qualità. A cinque chilometri di distanza c’erano gli altri insediamenti ad elle e nessuno di questi, tranne quelli più esterni a raggiera, erano protetti da una cinta di solide mura.
La giovane si fermò presso un pozzo, ansante, stordita per l’emozione, tanto che dovette sedersi sulla ghiaia del terreno. Non era più dispersa in un luogo  deserto e sulle soglie delle case c’erano le vecchie sedute sui gradini ad osservare i passanti e a filare la seta; Le mani erano piccole, affusolate e agili, mentre alla scarsa vista suppliva una dimestichezza invidiabile con i fili e gli aghi che danzavano fra le dita. Altre piccole presenze erano i bambini che solitamente correvano e giocavano, lanciando schiamazzi ma stavolta erano silenziosi e raccolti intorno ad una grossa panca, proprio ai piedi del pozzo. Erano figli di umili origini e  alcuni di loro erano a torso nudo, il corpicino magro in mostra. Era tutto un confabulare e Shara non tardò ad innervosirsi, data l’aria pesante che affliggeva il posto. Vide una bimbetta di cinque o sei anni che la additava davanti ai compagni, fissandola con palese interesse. Le fece cenno con la mano di avvicinarsi, e la incoraggiò con un bel sorriso. Ma la piccola rimaneva dov’era e sul volto della giovane si dipinse un’espressione furba e divertita. Infilò nella sua bisaccia una mano e rovistò un po’. Ne trasse infine un povero anellino di rame che aveva dei bei riflessi rossi e lo pose sulla mano in bella vista. Quindi lo offrì alla piccola, con gran successo: la bambina lo afferrò fulminea e cominciò a rigirarselo fra le mani. Shara ne approfittò per domandare con voce dolce e rassicurante:
“Buon giorno a te, piccola, dove siamo?”
Fu molto intenerita dalla vocettina che sgorgava da quella boccuccia, acuta e infantile:
“Neia...Giro...”
La giovane viaggiatrice annuì: era esattamente come pensava, si trovava nella periferia di Neietta, divisa in Tala o centro e Neia o Giro, la parte esterna circolare.
La bambina si lasciò cadere a terra e cominciò ad intrecciare attorno all’anellino foglie e fili d’erba dei ciuffi che spuntavano numerosi dalla ghiaia.
“E, dimmi” storse appena il naso davanti all’odore di bruciato che si diffondeva nell’aria “cos’è tutto questo fumo?”
La piccola spalancò gli occhi  e la guardò con appena un po’ di timore nello sguardo e la voce tremula.  “stanno bruciando gli cattivi spiriti”
La ragazza impallidì: “come?”
Davanti a quel terrore la piccola interlocutrice annuì come aveva talvolta visto fare ai grandi che la circondavano  e assunse un’aria grave che risultò grottesca e ridicola. Shara avrebbe riso davanti a quella mascherata infantile se non fosse rimasta così sconvolta da quelle rivelazioni. Gli “ spiriti cattivi” potevano anche essere ribelli, o semplicemente persone innocenti, sospettate di non si sa quali crimini.
 
Sono roghi?di uomini o veramente creature magiche?

Da quanto aveva appreso non erano rimaste creature magiche su Filesis bensì erano tutte state sterminate dai monaci. Per un attimo si chiese se la bambina avrebbe saputo dirle di più e quindi lo sguardo saettò intorno esplorando i confini della piazza, nella speranza di scorgere un adulto. C’erano le anziane del villaggio intente a lavorare ma neppure loro erano affidabili messaggere. Infine si decise a interpellare la piccola che la scrutava con aria via via più sospettosa.
“Chi sono questi spiriti cattivi? Uomini? Bestie?”
Poteva darsi che si sbagliasse, che fossero animali indomabili che erano stati soppressi e le ossa bruciate...
“Sono uomini, i grandi” il tono fu duro, impietoso, come se la piccola fosse giudice di ogni atto, in un grande processo in cui tutti erano implicati.
“E cosa hanno fatto di male?”
“Avevano i cattivi segni”
Shara la guardò senza capire: quali segni?
Bandito ogni terrore le ordinò, con tono non più gentile e accomodante: “fammi vedere”
La bambina la prese per mano e cominciò a tirarla verso le casupole che dovevano essere il quartiere residenziale. Avevano superato il pozzo e un enorme recinto, forse il luogo del mercato. Oltrepassarono anche fatiscenti baracche di legno, stalle da cui provenivano nitriti, grugniti e altri versi, accompagnati da odori di stalla vari. Ma, giunta in prossimità della piazza la piccola guida cominciò ad allontanarsi dal centro. Frattanto gli occhi stanchi e quelli curiosi di vecchi e bambini avevano trovato un nuovo spettacolo che rompesse la monotonia di quel giorno lavorativo. Shara sentiva ogni suo movimento osservato e cercava di mantenere un’andatura normale quando in realtà avrebbe voluto mettersi a correre, di gran fretta. Dopo diversi passi oltre la piazza cominciò ad intravedersi una catasta di legno e corpi, come identificò in seguito la giovane. La piccola guida si fermò ad una distanza di tre metri dal cumulo, e alzò la manina indicando il desolante paesaggio.
“Quelli” aggiunse, come se la straniera non potesse capirlo.
Shara fece per avvicinarsi ai cadaveri, molti carbonizzati, alcuni ancora intatti, ma la bimba le strinse le dita che ancora aveva fra le mani fino a farle male. “Non andare, oppure diventi come loro”
La rimproverò, impertinente. Shara sciolse la stretta, scrollandosela di dosso e coprì la distanza di tre passi, ma la bimbetta non si mosse. Discostato dall’ammasso stava il corpo martoriato di una donna, una ragazzina, forse ventenne. Sulla pelle c’erano macchie arancioni di un’estensione impressionante. I bordi erano bianchi e spaccati e, in alcuni punti la pelle pareva ricucita con un filo biancastro. In queste piaghe bianche si annidava del pus giallastro che rendeva tutto ancora più ributtante. Persino la lingua della vittima era di un arancione acceso. Le macchie deturpavano il ventre e la pancia mentre sulla schiena erano rade. Shara non seppe trattenersi e vomitò di lato;
 la bocca che si riempiva di amaro mentre gli ritornava su il sapore salatissimo della carne. Poi riportò lo sguardo su quella disgustosa malattia, o infezione che fosse.

Che cos’è questo morbo? Dove ne ho già sentito parlare?

Infezia vermiglia. Era un’allergia mortale che si manifestava come una semplice scottatura, ma le macchie erano arancioni invece che rosse. L’infezione metteva radici e tirava il tessuto, impedendo al sangue di circolare lungo la macchia. All’interno si formavano i grumi di sangue che mantenevano la pelle arancione ma che causavano poi la morte della persona. I bordi invece sbiancavano e il virus tendeva tanto la pelle che questa di spezzava e comparivano quelle orrende cicatrici piene di solo pus, perché di sangue non ne era rimasto. La persona moriva dopo poche ore dalla comparsa di quelle spaccature. Era un virus, un piccolo animaletto che mangiava i tessuti cutanei e li ricuciva finchè questi, troppo tesi, si rompevano. Il processo era lento poiché le macchie non ricoprivano tutta una superficie e lasciavano alcuni vasi che continuavano a far circolare il sangue, malgrado le zone di isolamento. Quando invece si creavano le cicatrici pian piano si chiudevano tutti i vasi sanguigni e nel giro di un giorno risultavano totalmente otturati. Sarebbe stata una morte piuttosto indolore se le vittime non avessero risentito di alcun tormento e il loro cuore avesse semplicemente smesso di battere.  Eppure, come ogni scottatura cominciava a bruciare, quindi si perdeva la sensibilità nel punto in cui c’era la macchia. Ritornava più tardi accompagnata da un dolore fisso, che aumenta sempre di più come una spina che a poco a poco si tramuta in un intero rovo. Dunque si provava una sensazione di stiramento, indolenzimento che provocavano un gran mal di testa, ma la lacerazione era il momento più doloroso. La spina nel fianco faceva il suo strappo ed agiva come un pugnale che affonda nella carne con veemenza.
Mentre tutte quelle nozioni affioravano nella memoria la giovane si avvilì al pensiero delle superstizioni che le aveva raccontato la bambina per spiegare quella carneficina.
Doveva dare loro la possibilità di curare il morbo e che pensassero pure alla magia nera. Lei era certa di non prenderla poiché il suo organismo era protetto da innumerevoli incantesimi che avrebbero dovuto arrestare il processo di vecchiaia a cui erano destinati quelli della sua specie. Abbandonò il cadavere per terra ma non osò avvicinarsi alla piccola ancora in attesa di sue nuove che la guardava con curiosità; se fosse stata portatore sano allora avrebbe avuto la sua morte sulla coscienza. Poi pensò che la piccola non sarebbe morta, poiché lei l’avrebbe curata e protetta da ogni malattia. Forse l’avrebbero accettata là come guaritrice e lei avrebbe trovato il suo posto. Sicura di sé, si diresse verso la bambina e si inginocchiò vicino a lei, prendendole la mano e accarezzandogli la guancia con dolcezza.
“Come ti chiami piccola?”
La bimba rabbrividì, come se avvertisse lo spirito maligno che aveva accusato prima penetrare le sue difese.
“Yeuka”
Shara la prese per le spalle e le strinse con forza.
“Yeuka, adesso ti chiederò di fare delle cose molto importanti. Ti prego di mostrarmi casa tua perché possa chiedere ospitalità. Me lo permetti? Per il cibo non vi darò problemi ma ho bisogno di un tetto.”

E devo controllarti meglio, poiché all’alba del domani compariranno i primi sintomi e io sarò la tua salvatrice. Sarò la salvezza di tutto il paese.

La bambina annuì, ignara del pensiero egoista della giovane straniera premurosa. E di nuovo prese a tirarla stavolta per il mantello. Shara si affrettò a seguirla, mentre un senso di contentezza e soddisfazione la invadeva. Neppure un attimo pensò al rischio che correva la sua piccola guida, tanto sicura delle sue capacità e si lasciò guidare, con un’espressione sul viso troppo allegra che non si addiceva minimamente al dramma che la circondava.
Yeuka entrò in una delle casupole di legno, dalle pareti non troppo alte che rispettavano la scarsa altezza degli abitanti del luogo e Shara dovette abbassare la testa per fare il suo ingresso nella piccola dimora. Il tetto era composto da una specie di impasto che doveva essere l’insieme di paglia e fango solidificati e la giovane straniera poté avvertire come alla base di quella tettoia primitiva ci fosse un incanto di solido. Era la migliore soluzione contro la pioggia che erodeva il fango e scioglieva l’impasto. Il terreno era ricoperto di stuoie di canne e c’era un grande tappeto al centro. La stanza era unica e gli ambienti erano divisi da tanti paraventi. C’erano quattro paraventi, ai quattro angoli della stanza quadrata e molti ricordi riaffiorarono nella mente di Shara. Quegli ambienti dietro i paraventi erano le stanze da letto, una per le ragazze, una per i ragazzi, una per i genitori e una di riserva o forse per gli ospiti, relitto di un tempo in cui gli stranieri erano ben venuti. Al centro del tappeto un tavolo basso e delle stoffe che fungevano da posti a sedere. Sotto il tavolo e sotto il tappeto c’era una buca fresca nel terreno dove venivano conservate le provviste e appariva come un pozzo, rivestito di pietra dura e fredda, al riparo da bestie e insetti vari. Sulle pareti laterali c’erano lunghissime cassapanche di legno massiccio in cui veniva conservata ogni cosa, dalle vettovaglie, agli attrezzi di cucina, ai vestiti, agli utensili per il cucito, caccia, pesca o lavoro per la casa. Essi si distinguevano dalle varie pareti poiché l’entrata delle dimore era sempre rivolta a sud e la mobilia si classificava di ponente, di levante e di settentrione.
 Occupavano tutte le pareti ma non erano alte più di una sessantina di centimetri da terra. Tutta la mobilia nelle cittadine del nord era bassissima e praticamente si dormiva e si mangiava per terra; si viveva per terra e gli abitanti non soffrivano della loro bassezza.
Quando Yeuka rientrò portando per mano la straniera, una donna  era seduta presso il mobile di ponente, intenta a spolverarlo con uno straccio bagnato, forse canapa grezza che strofinava e accompagnava ad una mistura di acqua e limone. Alzò la testa e il suo sguardo corse subito al meridione, verso l’entrata. Accolse Shara con un’occhiata diffidente e un mezzo sorriso che non avrebbe incoraggiato viaggiatori sperduti meno motivati della ragazza. Lei torreggiava sulla donnina dal volto paffuto e roseo, gli occhi allungati e lunghe ciglia, ma quello che più lasciò stupefatta la nuova arrivata erano dei lunghissimi capelli che arrivavano alle ginocchia della donna, chiari e in alcuni punti completamente bianchi. Era il peso della vecchiaia che piegava il sorriso della signora in una smorfia e affiorava lo sguardo di chi avrebbe preferito veder meno e viver di più.
“Mama” chiamò Yeuka, spalancando gli occhioni di uno spiccato verde, gli stessi occhi della madre che  scrutava la straniera ancora più rabbuiata. “Addovo loe chi la trovata?Chiloe ie chielo vole?” *(1)
Aveva una parlata strascicata e pasticciava con le parole al punto che Shara si chiese dove la figlia avesse appreso quel verbo così limpido, lento e misurato. Si sentì in dovere di intervenire e di spiegare quell’intrusione: “Sono una viaggiatrice che cerca riparo per poche notti, giusto per riprendersi da una lunga camminata nel deserto e per affrontare un nuovo viaggio. Ho incontrato tua figlia e mi sono rivolta a lei.”
Non vi fu alcuna apparente reazione da parte della donna e, dopo essersi fissati per un tempo che parve infinito la madre di Yeuka ribatté in tono secco e di rimprovero: “Non c’è posto per i viaggiatori che si avventurano fuori, di questi tempi.”
 La constatazione colpì Shara come un pugno che cade sulla spalla di uno sventurato sovrappensiero. “Signora, io non ti darò alcun fastidio, ti chiedo solo un tetto e non ti importunerò oltre; ho accettato per disperazione la proposta che mi ha fatto tua figlia e ti ripeto la stessa preghiera.”
La donna lanciò un’occhiata di fuoco a Yeuka ma la piccola non colse il truce sguardo, intenta com’era a fissare un piccolo rampicante che si faceva strada tra le canne del paravento alla sinistra del mobile. Shara acuì il tono, facendolo vibrare di passione, una commedia che recitava lei sola, davanti alla dura verità che sbatte la porta in faccia con disinvoltura: “Lavorerò per te e saprò sdebitarmi; in qualche modo ti ripagherò di questa grande carità che mi fai”
La donna fece un cenno secco con la testa e ribatté, scura in volto: “Entra pure e sistema le tue cose nell’angolo di levante, a meridione.”
Distolse lo sguardo e parve già essersi dimenticata dell’ospite scomodo. Shara brillò di felicità e sorrise, chinando appena il capo: “Ti ringrazio.”


La vita in quella piccola periferia era monotona come ben presto si accorse Shara. La madre di Yeuka non faceva altro che lavare la casa, spolverare, cucinare e raccogliere qualche erba. Quella sera stessa incontrò la parte restante della famiglia e si stupì di non vedere maschi fra le cinque femmine che erano sedute al lungo tavolo centrale, a testa alta che si rivolgevano al padre con un pizzico di autorità. Erano tutte in giovane età e la più grande non aveva sedici anni. Erano cinque chiome bionde e lisce, raccolte in lunghe trecce e sembravano tante matriosche tanto erano simili, seppure a diversa grandezza. Yeuka era la più piccola e, fin a quel momento, Shara non aveva visto alcun ragazzo frequentare quella casa. Poi, il primo giorno, la piccola si lasciò scappare poche secche parole e la straniera approfittò subito per saperne di più;
“Sono stufa di aspettare Mine e Reuk, non torneranno più”
“perche dici così? Chi sono queste persone?”
“sono i miei fratelli che sono partiti e hanno detto che torneranno.”
“Quanto tempo fa l’hanno detto?”
“Non lo so, io non c’ero.”
“Eri partita?”
“No, non ero ancora nata, non li ho mai visti.”
Gli uomini sembravano spariti in quel paese eppure Shara non ricordava ai suoi tempi che i ragazzi fossero così rari. Non ne vide mai uno per le stradine del villaggio e neppure incrociò voci che non fossero lo schiamazzo dei bambini, il lamento delle vecchie e le pettegole giovinette di campagna che, pure nella loro semplicità, facevano sciocche fantasie sul loro futuro. Tutto questo notò Shara che osservava disperatamente Yeuka e spiava ogni suo movimento per cercare su di lei i sintomi dell’ infezia ma con scarso successo. Che la piccola fosse una portatrice sana? I dubbi rimasero per pochi giorni finchè, una notte, la ragazza sorprese Yeuka a immergere i piedini nell’acqua e, sulle caviglie si estendevano piccole macchie arancio che minacciavano di allargarsi in fretta. Era tardi e tutto era spento e in riposo eppure la porta di casa cigolava e Shara, incapace di dormire per il caldo, si era affrettata a seguire la presenza che aveva lasciato tutti gli steccati della casa aperti. Nella notte, scorse la piccola figura di Yeuka che sedeva su un grosso sasso, i piedi a bagno in un catino di rozzo legno intagliato. Rimase a guardare la piccola che si strofinava le caviglie, dapprima senza capire, poi un’espressione di trionfo le si dipinse sul viso. Uscì velocemente dall’ombra e inscenò la parte della giovane amica in pensiero.
“Yeuka, che succede? Che fai alzata a quest’ora di notte?”
La bambina affondò i piedi nell’acqua scura.
“Con i piedi sporchi ho imbrattato tutto il tappeto e la stuoia e allora li sto lavando. ”
In un attimo Shara era al suo fianco come una madre premurosa:
“Così tardi t’è venuto il pensiero? Vai a letto, vai...”
Alla vista del marchio arancione avvertì un sensazione di caldo e il volto le si infiammò per la gioia ma nella notte tutto è nero e agisce inosservato colui che non vuole essere scoperto.
Balbettò poche parole, un finto stupore mimato ad arte:
“il morbo...sei malata...una cura”
Tirò  un profondo respiro e chiese sudando freddo. “Come è accaduto?”
La piccola interlocutrice scosse la testa lentamente:
“Io...non lo so, ma ho...paura”
La straniera, acquistata confidenza con la bimba , aggiunse in tono grave e serio:
“Tu  guarirai, te lo prometto.”
Regnò un silenzio carico di attesa e fu Yeuka a interromperlo, con una nota di angoscia che, per la prima volta, vibrava nella sua vocetta infantile.
“Ma non dirlo alla mama, ti prego”


Note
*(1) "Dov’è che l’hai trovata? Chi è e che vuole?"


L'angolo dell'autrice

Bentrovati! Accusatemi pure di troppo realismo, giuro che non mi offendo xD

Spero che non appaia troppo cruda la descrizione del morbo. Ma direi che c'è di peggio. Semmai potrete dire che è inutilmente lunga e quasi morbosa e anche in quel caso avrei una risposta!
Non è colpa mia se la nostra studiosa "miss voglio cambiare il mondo che è tutto marcio" ha una memoria invidiabile, anzi, mettiamola così, fa parte della sua sterminata cultura di ex-monaco pentito. E, come tutte le persone che hanno studiato e pensano di sapere qualcosa, è un tantino presuntuosa e abbastanza imprudente da sperimentare la sua cura su una povera bambina innocente. Le andrà bene?

Quello della pericolosissima malattia infettiva è praticamente un topos, è usato e abusato. Il primo che io ricordi era un certo tizio di nome Tucidide e gli altri hanno tutti scopiazzato, me compresa ù.ù
A parte questo mi affascinava anche la mentalità primitiva del popolo che crede ancora agli spiriti maligni e mi sono divertita un sacco a descrivere che aria tira in un paesino sperduto, o meglio nella periferia  un po' campagnola di una grande città.
Detto questo ringrazio come mio solito evm, Kill Bill, Nihal992 e Giu09 a cui mi sto proprio affezionando *_*
Vabbè il discorso è il solito, grazie a chi legge, a chi non legge, a cappuccetto rosso, alla strega cattiva e tutta Puffolandia.
Magari  Grande Puffo mi manderà qualche altra bella recensione...
Sayonara gente!

Misa

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Jersa_ La cattura ***


Jersa

La cattura

“Dove stiamo andando?”
Jersa camminava da ore seguendo i passi del compagno che non sembrava seguire nessun percorso. Lo sguardo di Erick era sempre perso nel vuoto e non aveva mai messo mano ad una cartina o una bussola che gli indicasse la via. Di tanto in tanto inspirava con violenza e si riempiva i polmoni di quell’aria fetida che li circondavano. Erano ormai al confine con la zona paludosa e il clima mutava rapidamente. Era caldissimo, asfissiante e soprattutto umido. Jersa sentiva i capelli appiccicarsi alla nuca e aveva preso la sana abitudine di legarli con un pezzo di stoffa strappato dalla camicia. Aveva messo tutti i suoi averi al centro del lungo mantello di lana, ricordo di suo padre e l’aveva trasformato in un sacco legandone l’estremità. La camicia era stata strappata diverse volte per  bendare piedi e gambe. Gli stivali erano fradici, la pelle si irrigidiva, causandogli calli e lividi e i piedi erano continuamente bendati per far fronte alle sanguisughe. Si infilavano dovunque e le gambe del ragazzo erano un bagno di sangue. Era dunque costretto a tenersi addosso i brandelli di camicia per frenare le zanzare ma la stoffa così malmessa non era efficace. Si era seccato di schiacciarle poiché parevano non finire mai e infine si era persino tolto la camicia e l’aveva riposta nel mantello perché servisse come benda in futuro. Ormai era una casacca senza maniche e tutta sfrangiata. Ciò che Jersa non riusciva a concepire era come il suo compagno fosse tranquillo. Egli portava una sacca di tela nera e lì era riposto il mantello ma teneva lontano ogni tipo di animale, come se questi non a avvertissero la sua presenza. Attraverso la camicia immacolata si intravedeva ancora di più il suo busto snello e quella corporatura così piccola che,  rispetto allo standard atletico e muscoloso, era inquietante. Era equilibrato e perfetto e non solo secco e flaccido come quello di Jersa. Il soldato era un bagno di sudore  e persino i capelli erano mossi e sfuggivano alla coda, senza prendere una direzione, per quanto il proprietario si sforzasse di tenerli appiccicati in testa. Erano sciupati e il biondo cenere della chioma sbiadiva, lasciandogli piccole ciocche con le doppie punte color paglia. Trascurata la forma erano cominciati a spuntare piccoli peli biondi che si facevano sempre più lunghi e seguivano il contorno delle labbra. Aveva un aspetto selvaggio  e forestiero, sciatto rispetto all’eleganza del compagno. Erick pareva trovarsi perfettamente a suo agio nei pantaloni di pelle  e stivali neri, mentre la camicia era rosso spento, bordeaux. E quel volto liscio e pensoso era sempre rivolto verso l’orizzonte e si posava piano piano sulla zona paludosa, la Secca di Malthianesh.
Si raccontava di questo fiume secco che in inverno e autunno si riempiva fino all’inverosimile. Era un fenomeno magico e naturale allo stesso tempo poiché le acque risalivano lungo il terreno ed era alimentato dalle piogge frequentissime nella zona di palude. Il Malthianesh, come era detto il fiume, erodeva la terra con il passaggio dell’acqua e si creava un solco enorme. La larghezza del letto erano anche ottanta metri ed era profondo massimo venti metri. La massa d’acqua era enorme e scorreva lenta lungo la zona paludosa che prestava lei ancora più acqua di cui nutrirsi;  la quantità di liquido era tale da sbriciolare il terreno e, all’estremità della foce, si erano formate le  cascate del Malthi:  era un salto nel vuoto, letale per ogni essere umano che vi si avventurasse, un precipizio altissimo che finiva direttamente a mare e la forza della sua corrente poteva trascinare persino un galeone grosso e pesante alla deriva, nella “bocca dell’abisso”, come si fidavano di dire vecchi marinai. Jersa ne ignorava completamente l’esistenza e per lui quel percorso era insensato e la strada smarrita.
“Dove diavolo mi porti?” fece una smorfia disgustata guardandosi intorno sospettoso. Non ricevendo risposta lo richiamò ancora, stavolta a voce più alta: “Dì la verità, ci siamo perduti! Ti decidi a dirmi qual è la nostra meta...?”
“SHSHSH!” Lo zittì aspro il compagno agitando la mano convulsamente. I due giovani erano fermi in uno spiazzo pieno di fauna da bosco e alberi che si innalzavano sempre più alti, si attorcigliavano gli uni parassiti degli altri. Toccavano tutte le tonalità che andavano dal verde al beige, al marrone e persino il grigio. Talvolta cadeva qualche gocciolone di fanghiglia dai rami alti e atterrava sugli ignari viaggiatori, intanto strati interi di verde secco, di corteccia giallastra e scrostata ricoprivano ormai il sentiero. Proprio in quelle croste talvolta lunghe  e sottili inciampavano i piedi di Jersa. Erick girava la testa di continuo e di scatto e sembrava quasi si muovesse per scacciare un insetto molesto. Il compagno taceva risentito dinnanzi al brusco rimprovero poco prima ricevuto e la sua espressione era ostinata, quasi aspettasse il momento giusto per rinfacciare al coetaneo come la via era smarrita. 
Poi,  improvvisamente, con suo grande stupore vide il ragazzo gettare a terra rabbioso la sacca da viaggio e lasciarsi cadere per terra, scivolando veloce ai piedi di un tronco morto che ancora si reggeva e forse fungeva da riparo ad insetti ed uccelli. Era un albero pietrificato, solo uno scheletro secco ed Erick si strofinò la schiena sulla corteccia che si sfaldava lentamente.
“Ma cosa stai facendo?” l’espressione incredula di Jersa potette solo irritare il compagno che si accigliò e gli rigettò alacremente in faccia poche parole: “Oggi ci fermiamo qui.”
Jersa lo guardò come fosse impazzito e obbiettò con tono ironico: “Guarda che è mattino inoltrato e non ho intenzione di cominciare a viaggiare di notte, non siamo mica vampiri noi?”
Lo sguardo di Erick scintillò minaccioso, ma la risposta fu laconica: “Partiremo domattina”
Detto questo, tirate le ginocchia al petto, vi appoggiò la testa sopra e nascose gli occhi alla vista del mondo.  
Rimase in quella posizione per ore e così trascorse la notte, mentre il compagno di tanto in tanto gli lanciava un’occhiata speranzosa. Jersa non capiva il motivo di quell’attesa e, con il passare delle ore quella pausa gli pareva sempre più assurda. Verso le quattro del pomeriggio decise di alzarsi e ma faceva fatica a muoversi. Si era appoggiato ad una roccia che troneggiava in quel trionfo di piante a fusto alto e liane scivolose che pendevano sulle loro teste, ma quando arrivò il momento di staccarsene il suo corpo non si decideva ad ubbidire. Si sentiva ancorato, anzi inglobato nella pietra e non percepiva la presenza della sua massa corporea. Lanciò uno sguardo allarmato ad Erick che continuava ad ignorarlo, mantenendo gli occhi bassi e nascosti. Quando riuscì a sollevarsi da terra sentì uno strappo violento come un cerotto che viene staccato brutalmente. Si guardò intorno ma non trovò nessuna spiegazione se non che tutto fosse frutto della sua immaginazione. Esasperato e con lo stomaco in subbuglio, mise mano al coltello e cominciò a tracciare strani segni sul terreno, tante piccole barre fino a formare un rettangolo, quindi cominciò a scavare, con il coltello e con le unghie, fino a raggiungere i tre metri. Raccolse frasche e pezzi di corteccia vari, fabbricando una trappola, e pose come esca un boccone di Mischeno, un impasto di farina, acqua e miele, che emanava un gradevole odore dolciastro, anche se la pasta era secca e mordicchiata da tempo. Nella sua frenesia e frustrazione il ragazzo sbocconcellava un pane di mischeno che aveva sempre con se e mangiava senza sosta talvolta saltando i pasti, dopo essersi riempito lo stomaco. Era goloso di dolci e avrebbe rimproverato volentieri la madre poiché lei non ne aveva mai cucinati. Lasciava che il sapore del miele gli si sciogliesse in bocca e si leccava le labbra per coglierne anche l’ultimo sentore. Non gli rimaneva che aspettare e, dopo poche ore di assoluto silenzio, i suoi sforzi furono ricompensati. Cadde nella piccola trappola una bestia,  un mammifero a quattro zampe con il pelo grigiastro. Era un cucciolo e la sua carne era fresca e tenera, per sua grande fortuna. L’oscurità calava ma la sera non sembrava raggiungerli, erano solo le ombre degli alberi e delle loro folte chiome che portavano il buio, non si vedeva il sole calare ne la linea dell’orizzonte illuminarsi del chiarore roseo di un tramonto. Jersa si accinse a preparare la cena, improvvisando un falò e una pietra piatta su cui appoggiare la carne dell’animale. Era grassa ed era difficile da pulire, e il ragazzo dovette pasticciare a lungo con gli intestini e i nervi. Quando la carne fu cotta e fragrante il suo sguardo si volse ancora al compagno che non aveva cambiato minimamente posizione rimanendo come un tutt’uno con il suo tronco. Gli lasciò un pezzo di muscolo bello grosso e si avventò sul pasto famelico come un avvoltoio. L’enorme quantità di carne gli fece venir un gran sonno e, sebbene si fosse ripromesso di non addormentarsi quella notte, per cogliere il momento in cui Erick sarebbe riemerso dal suo sonno, scivolò ben presto nell’incoscienza. La luce pallida della luna che quasi non  filtravano oltre il bosco illuminò le frasche della trappola riportate al suo posto, poi si oscurò tutto.


Nel bel mezzo della notte Erick aprì di scatto gli occhi e la sua gola emise un ringhio sordo; con un balzo si rimise in piedi e cominciò ad arretrare dal falò che il compagno aveva lasciato ancora rovente, sebbene ormai tutto il legno fosse carbonizzato. Indietreggiava lentamente, di soppiatto e si addossò ad un tronco cavo entrandovi dentro quanto più potette. C’era una colonia di formiche che si agitavano e correvano operose per il tronco ma il ragazzo non prestò attenzione alcuna al formicolio. Gli insetti erano come impazziti e cercavano una via d’uscita concentrandosi nella parete superiore del tronco. Le orecchie di Erick erano spalancate e percepiva con lucidità i passi, anzi i tonfi di stivali pesanti. Erano soldati, guardie o forse cavalieri, ma mentre cercava una spiegazione plausibile, udì il fracasso del fogliame calpestato e spezzato, accompagnato dall’urlo dell’uomo misterioso. E vide distintamente Jersa risvegliarsi con uno scatto nervoso e barcollare in avanti ancora insonnolito. Il ragazzo assonnato corse presso la buca e si sporse mentre l’uomo si agitava e affondava le unghie sulle pareti del buco nero.
“AIUTO! SOCCORSO! AIUTO!” gridò finchè il suo ultimo urlo non fu stroncato da un attacco di tosse.
Jersa avanzò minaccioso con il coltello e a sua volta urlò, nervoso:
“SILENZIO! ” alzò la lama che gettava riflessi argentei come uno specchio ”o ti taglio la gola”
Il prigioniero ammutolì e smise di agitarsi, bensì  domandò con voce ansiosa: “Chi sei viaggiatore che dormi nelle paludi come un incauto?”
“Piuttosto chi sei tu che ti aggiri nel pieno della notte in una palude, così avventato sei?”
Il personaggio sembrò ignorare la domanda e ricominciò a questionare: “Sei solo?”
Jersa fece una smorfia indispettito: “Sono il decimo dei miei compagni e siamo ben armati”
L’uomo si agitò, pensoso e si lasciò cadere al suolo come se fosse stremato mentre il suo carceriere rincarò la dose: “Chi sei? Sei solo? RISPONDI!”
“Sono un disertore...ti prego fermati e lasciami andare” piagnucolava il prigioniero. “Ti dirò ogni cosa, sono solo e stavo scappando dal campo di battaglia, a Limerick”
“Allora dovrò averti incontrato da qualche parte, da lì arrivo anch’io e siamo io e il mio compagno”
Il tono era sospettoso ma quando si ricordò dell’esistenza di Erick spostò immediatamente lo sguardo sul tronco che si era scelto e aveva occupato da quando ricordava. “Erick...Erick...ERICK!” Lo chiamò più volte senza ricevere risposta e improvvisamente digrignò i denti e puntò il pugnale sullo sventurato ancora seduto in fondo al fosso: “Dov’è il mio amico? Ne sai qualcosa? Hai detto che sei solo ma se osi mentirmi...” era pallido di rabbia e girava la testa in tutte le direzioni come se si aspettasse di vederlo spuntare da un momento all’altro.
Nella sua agitazione non si accorse di una serie di passi che si affrettavano a raggiungere lo spiazzo.
Mentre il compagno chiamava in preda al panico, Erick si stringeva ancor più nel suo rifugio e attendeva tranquillo; i passi risuonavano distinti nelle sue orecchie ma neppure per un attimo pensò di avvertire Jersa. Erano in tanti, forse una decina e quattro di loro accorrevano in aiuto dell’ amico disperso. Comparve dalla boscaglia un uomo basso e muscoloso che stringeva una lunga ascia e la brandiva contro Jersa con fare minaccioso. Fu presto seguito dai suoi compari, armati fino ai denti. Il capo puntò i suoi occhi prepotenti sul pugnale che il ragazzo stringeva e manteneva saldo nonostante la mano sudasse per l’agitazione:
“Se ci dirai dov’è il nostro fratello ti lascerò in vita, altrimenti morrai come un cane, ragazzo...”
Sottolineò l’ultima parola con una punta minacciosa e grave e fece indietreggiare il giovane quanto bastasse perché si trovasse sull’orlo della trappola che lui stesso aveva costruito. Infine, senza preavviso, Jersa si sentì tirare giù e crollò nel buco atterrando di schiena sulla gamba del suo prigioniero.
Si udirono delle grida di dolore e tutti si precipitarono sul fosso.
Quattro teste si sporsero lasciando vagare gli sguardi attenti nella trappola scura e profonda: Il giovane sconosciuto era come sopraelevato e schiacciava con tutto il suo peso un corpo familiare: “AH! Brutto bastardo, togli quel tuo schifoso piede dalla mia faccia!”
Erick scorgeva solamente le schiene di una decina di omoni solidi e robusti che si sporgevano al di sopra del fosso.

Vesti nere, stivali neri, mantelli neri, farsetti neri...capelli neri? 

Il ragazzo, ancora nascosto, rifletteva sull’identità di quella compagnia fantasma, sbucata dal nulla. Infine le membra tese, irrigidite dalla tensione e dalla lunga riflessione, si sciolsero in un sorrisetto soddisfatto. Si risolse a rimanere al proprio posto, indisturbato e ignorato dall’ambiente circostante tranne che dalle formiche in balia all’inquietudine e all’agitazione. Formavano una lunga fila che si snodava lungo il dorso dell’albero concavo e, in fila indiana si allontanavano dalla loro casa come se la presenza del giovane avvelenasse l’aria.
Di questi movimenti erano all’oscuro gli uomini che cercavano nel fosso con lo sguardo segni di vita da parte del compagno.
Jersa si sentiva tutto dolorante e la cassa toracica gli bruciava come se abbrustolita su un falò a fuoco lento. Ricevette una testata dal suo compagno di sventura e il piede cadde sbilanciandolo e facendolo finire con il sedere per terra. Rimase lì, sulla schiena, mentre l’uomo accanto a lui si sbracciava e faceva grandi sforzi per arrampicarsi scivolando indietro. Gli fu calata una corda e vi si avvinghiò, senza però muoversi. Alla fine piantò i piedi a terra e si legò la corda intorno alla vita; con le mani libere agguantò e sollevò il nemico e neo ostaggio rovinato per terra, portandolo in braccio e lasciando che i suoi compagni li trascinassero entrambi fuori dalla buca.
Jersa si vide malamente abbandonato sul terreno umido e udì due voci basse e accenti stretti:
“Chi è questo sbarbatello?”
“Non ne ho idea”
Detto questo il capo degli aggressori sconosciuti si rivolse al ragazzo con voce grave e dura:
“Il tuo nome?”
In risposta ricevette poche secche parole e diversi colpi di tosse: “Jersa, figlio di Enagmir” Quindi posò la fronte per terra mentre tutti i compagni della banda si interrogavano e chiedevano al loro capitano, perplessi:
“Che ne facciamo di lui?”
“Lo portiamo con noi, non abbiamo grande scelta”
Si aggiunse una terza più chiara e aspra:
“Potremmo eliminarlo, sarebbe facile e molto più comodo...come avete intenzione di trasportarlo?”
Jersa prese a tremare impercettibilmente e artigliò il terreno, le unghie sporche di terra.

Non voglio morire non voglio morire NON VOGLIO MORIRE 


Fortunatamente la terza voce fu zittita da uno scatto secco della prima voce, la più profonda e autoritaria.
“Lo porteranno in due, vi daremo il cambio.”
Jersa si sentì sollevare di nuovo per la schiena e per le gambe, e decise di non opporre resistenza, lasciandosi trascinare, nel folto della palude.
Erick inarcò la schiena e si liberò del tronco; una volta fuori, al sicuro, si stiracchiò e si guardò intorno con rinnovato interesse. Scrollò le spalle e continuò per la sua strada mormorando divertito: “ci siamo persi di vista.”

L'angolo dell'autrice

Ma buona notte cari lettori, alle mie adorate e alla cara Giu09 che si sottopone alla lettura del mio tomone, come al solito(quanto ancora resisterai? xD).
Non ho molto da farvi notare stavolta, tranne che sto dando il meglio di me nelle descrizioni della palude, dei fiumi, delle cascate. Il tutto mettendoci un po' di avventura che sarà sicuramente più gradita!
In tutto questo, il nostro protagonista sta diventando una specie di pulcino bagnato mentre il mio adorato Erick si rivela un piccolo stronzetto. Ecchevuoifà! così è la vita ù.ù
Ammetto che sono ubriaca di sonno, e non vedo l'ora di mollare tutto quindi non posso che augurarvi sogni d'oro...è già tanto che riesca a scrivere queste righe!
Yawhnn...

+sbadiglia moooolto rumorosamente

Misa

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Shara_ Una strega al villaggio ***


Shara
Una strega al villaggio

[“Tu  guarirai, te lo prometto.”

Regnò un silenzio carico di attesa e fu Yeuka a interromperlo, con una nota di angoscia che, per la prima volta, vibrava nella sua vocetta infantile.
“Ma non dirlo alla mama, ti prego”]

A nulla bastarono i suoi occhi dolci il giorno seguente e le sue preghiere poiché Shara si assicurò che la cosa venisse immediatamente scoperta da tutto il villaggio. Il luogo era deserto,  tutti erano rintanati nelle proprie case e si arrivò a considerare anche la possibilità di abbandonare la piccola al suo destino come i cadaveri che troneggiavano sulle pile, nella radura. Qualche vecchia maligna sussurrò improperi al cielo e alla bambina, che era stata punita per la sua scellerata giovinezza, sebbene non avesse colpe speciali se non quella di essere una donnina come tante altre. Le sorelle erano rinchiuse in casa, nella camera dei ragazzi, disperate, nel timore di essere contagiate. E la madre la assisteva giorno e notte, al suo capezzale, le guancie scavate, i capelli in disordine, con il volto devastato da macchie, lacrime e delle occhiaie gonfie e nerastre. Shara per la prima volta vide la sofferenza di una madre e ne rimase molto colpita. Eppure era un mistero talmente fitto il loro legame che non riuscì a decifrarlo tutto. Quella scena accrebbe in lei il desiderio di fare del bene e di mettere il suo sapere a disposizione della donna e del villaggio. L’alba era prossima quando Shara, ancora sveglia, corse al capezzale della bambina e ci trovò ancora la madre, con un fazzoletto in mano, una stoffa bianca e ricamata con filo rosa.

Se lo passava più  volte sul naso, tossiva e sputacchiava mentre caldi lacrimoni colavano sul naso sempre più rosso. Era uno sfogo del tutto inatteso e non osò muoversi e far rumore, rispettando la sua disperazione. Ma la donna si interruppe bruscamente fissandola, smarrita, come se, per la prima volta, fosse lei la bambina inesperta:
“Cosa fai qui?”
Si affrettò a rispondere Shara, mettendo avanti le mani, per scusarsi.
“Perdonami, ti lascio sola con il tuo dolore.”
  La sua interlocutrice vacillò e piagnucolò;
“Sono sempre stata sola, in tutti questi anni, prima il mio uomo, poi i miei figli e ora sono abbandonata a me stessa. Tutte le mie disgrazie sono legata a questa malattia ”
Shara ribatté fiduciosa:
“Non ti abbattere...perché io credo...di poterti aiutare.”
La risposta fu solo rabbiosa come quella di un lupo ferito che trascina via la zampa offesa.
“Ma cosa vuoi fare tu? Che ne capisci? Hai mai avuto figli? Sei una ragazzina, nient’altro!”
“Eppure ti assicuro che ti sarò di grande aiuto, permettimi solo di dimostrartelo.”
Il tono era pacato e la ragazza colse lo sguardo furibondo della donna che vedeva nuove speranze e attendeva già il momento in cui tutte quelle promesse sarebbero scoppiate come tante bolle di sapone.
“Fidati di me”
La madre di Yeuka abbassò la testa e Shara seppe che la conversazione era finita. 
E la mattina dopo, la giovane maga ebbe una sorpresa; c’era un gran traffico e la strada sembrava più rumorosa del solito, soprattutto in tempo di contagio. E sopra tutti si levavano delle grida che oltrepassavano ogni parete:
“Contro la pestilenza, facciamo vivere i nostri cari, guariamo il morbo! Al padiglione! Al padiglione! Sconfiggiamo il male!”
Si udivano i rimbombi dei passi frettolosi di tutto il paese e Shara incrociò per un attimo lo sguardo della donna che ancora stava al capezzale della figlia, con uno straccio in mano.
“Cosa succede? Chi sono?” Il tono era velato di preoccupazione e fastidio ma la madre di Yeuka non rispose. Sussurrò: “Aiutami”
Quindi afferrò i lembi della stuoia e sollevò la figlia per le gambe, debolmente, mentre Shara si affrettava a mantenerle alta la testa e il petto.
La trasportarono fuori, avvolta in un lenzuolo bianco leggerissimo, di un lino delicato e trasparente e la gente per le strade indietreggiò spaventata, mentre molti si davano alla fuga. Dalla piazza invece si udivano ancora quelle grida che si rivolgevano ai fuggitivi: “non scappate davanti al maligno, lasciate che sia la nostra giustizia ad allontanare i suoi influssi! Venite avanti!”
Si formò un corridoio larghissimo che attraversava tutta la piazza fino ad un palchetto ricavato con qualche asse di legno, su cui un omino grasso e roseo si sbracciava. I capelli erano rossi come non se ne erano mai visti, color ceralacca e pareva un pagliaccio venuto lì a far spettacolo, con un’aria di grottesca serietà.
“Signora, fatti avanti! Trova la soluzione al tuo dolore!”
La madre di Yeuka fece una smorfia e si morse le labbra con rabbia, quindi posò la figlia al centro della piazza e si mise lì a gambe divaricate, i pugni stretti, le spalle contratte. “Vieni pure tu qui e portami la soluzione come fanno i buoni messaggeri.”
Il silenzio era esemplare e la curiosità della gente era smisurata. Gli sguardi erano fissi sulla scena, l’aria era tesa e l’attesa quasi morbosa come chi tace per poter poi dire la sua. Tutti si improvvisavano giudici e sapienti e aspettavano prove per irrompere in sentenze e considerazioni.
Il pagliaccio si rassegnò a scendere dal suo palcoscenico, con un sacco di iuta in mano, sbattendolo di qua e di là e si trascinò davanti alla donna e alla bambina. Aveva alle mani guanti spessi di pelle che avevano l’aria di nascondere mani grosse e rozze e Shara non poté trattenere il disgusto e l’aria incredula.
La madre lo avvertì con un ringhio, indicando Yeuka con un cenno del capo: “Non toccarla”
Un sorriso sornione del pagliaccio fece deglutire la giovane maga, che percepiva attacchi di panico, e si guardava febbrilmente intorno, le pupille che scattavano da un lato all’altro della piazza. La mente era affollata di voci:

Cosa devo fare, chi è, cosa c’è in quel sacco, devo allontanarlo, è un ciarlatano, mente, non esiste alcun rimedio che non sia un incanto, non sono pulci sono virus, quella polvere è farina, IO devo guarire Yeuka!

“Stai tranquilla, Signora mia, basta che le spalmi questa polvere guaritrice finchè tutte le macchie non ne siano ricoperte. Quindi attendi alcuni giorni e queste saranno sparite e la malattia debellata.”

Lo sguardo della sua interlocutrice era scettico e, neppure un attimo accennò ad afferrare quella polvere. Aggiunse con un tono mistico e altisonante il ciarlatano: “Mi raccomando, signora, che siano ben coperte le macchie e  se non farai attenzione al processo di guarigione la tua bimba potrebbe risentirne e morire.”
Shara fremette e non trattenne più la sua indignazione: “Vattene, schifoso insetto, sei più letale dell’epidemia perché distruggi le speranze di chi incontri”
Ricevette come risposta sghignazzi e risatine del pubblico e la vocetta del pagliaccio che zittiva tutte le altre : “Sei sorda, ragazza? Questo guarirà la bambina!”
La maga ruggì alla piazza intera: “Questa...COSA...è polvere bianca che potreste dare a galli e galline, semola di grano, mangime per porci, spuntino per cavalli, farina per il pane, ma non è certo un rimedio valido!” Indicava rabbiosa il sacco di iuta e la voce si alzava sempre di più “Voi non sapete cosa sia questa epidemia e tirate a indovinare!”
Il popolo se ammonito non è contento ed inizia ad agitarsi quindi ben presto diverse voci cominciarono a levarsi in difesa del pagliaccio. Di bocca in bocca passarono parole come “pazza”, “malata”, “indemoniata”, e la accusarono di attirare l’attenzione e agitare la folla.
La ragazza era pallida per la rabbia e frustrata mentre il pubblico gridava, acclamando il disgustoso personaggio rossiccio che elargiva sorrisi sdentati a tutti, sebbene poco convinti.
“Questi sono animaletti che ti strappano la carne! Non esiste polvere che li scacci, è infezia vermiglia! Capite? Infezia vermiglia!” Le grida di Shara si perdevano nell’aria e le menti della folla rimanevano chiuse e ostili al suo verbo. La ragazza si passava le mani fra i capelli e stringeva con forza fino a tirarli e a strattonarsi la chioma nero lucida.

Non capiscono, non capiscono, solo IO posso guarirla,  NON CAPISCONO!

Improvvisamente la madre di Yeuka si presentò con uno strano piatto di ferro e un martello da fabbro e il richiamo di un gong esplose nelle orecchie della piazza intera. Quando finalmente fu ristabilito il silenzio la donna parlò, con voce bassa e fitta: “Dimostrami che la puoi curare”
Il popolo tornò ad agitarsi e la donna dovette ripetere le proprie parole perché tutti le bevessero, per soddisfare la loro sete di notizia.
Nel frattempo Shara cercava fra la folla il predicatore ciarlatano ma questi sembrava sparito e, con quel suo aspetto esuberante e vistoso, inconfondibile, si era dileguato come un ladro.
Davanti alla volontà della madre disperata, fece un cenno con il capo e si chinò sulla bambina che pareva non risentire del caos intorno a lei e aveva gli occhi fissi e vitrei, sebbene il piccolo petto si alzasse e si abbassasse ancora, con un po’ di affanno.
Shara le accarezzò i capelli mentre mormorava: “Yeuka...piccola Yeuka...”, intanto una miriade di colori vivaci le esplodevano nella testa: il rosso delle labbra di fanciulla, il rosa pesca delle gote, il biondo grano dei suoi capelli, così lunghi, il profumo del corpo, i suoi movimenti, il suo sudore; tutte le sensazioni che i cinque sensi smistavano con regolarità nel suo cervello, erano un’accozzaglia di percezioni che affogava in un unico colore. Cominciò a passare le mani sulla faccia, macchiata di arancio, seguendo il contorno delle piaghe e premendo, come se tracciasse un percorso. Ma la piccola lanciava pesanti sospiri e qualche gemito da neonato e quando puntò il dito sulle palpebre che erano rossastre e irritate, emise un grido angosciato “mama!”. Questo bastò perché la donna al suo fianco perdesse ogni ritegno e si gettasse sulla figlia, per proteggerla da ogni cosa. La folla ruggì in delirio “strega!” ma nessuno osò avvicinarsi nel timore della malattia.
“Fidati di me!” ammonì, aspra, la straniera.

Tu devi credermi, DEVI!

Ma La madre di Yeuka si limitò ad un gesto con la mano, come per scacciare uno spirito maligno. “Vattene”

Ma tu devi credermi, lei morirà se non la curerò, devi credermi, DEVI!

Shara aveva gli occhi spalancati dal terrore e scuoteva la testa come se la realtà le fosse totalmente estranea. Tendeva il braccio in un segno di richiamo e farfugliava smarrita: “Ti prego lasciami fare, morirà, ti prego, io la devo curare.”
La donna strinse a se Yeuka ancora più forte e scosse il capo decisa: “Te ne devi andare, vattene” allontanò con una spinta forte la mano della maga che veniva sempre più vicina; era un gesto meccanico, un tentativo di toccarla e continuare la sua opera.
La madre urlò al villaggio intero, feroce:
“Che nessuno la tocchi o morirete bruciati dal suo fuoco!”
Le donne si strinsero ai pargoli e gli chiusero gli occhi mentre i pochi uomini stringevano indietro consorti e famiglie.
Le ultime parole della madre di Yeuka furono pochi sussurri: “Allontanati, rinnegata, non tornare, vattene perché la folla è incontrollabile, non farti più rivedere”

Ma Yeuka morirà, IO devo curarla, solo IO posso…

Si voltò e si allontanò, di corsa, abbandonando ogni cosa in quel villaggio. Non fu inseguita se non da urla della folla inferocita ma non ne sentì neppure l’eco. Nella testa aveva poche parole ma erano in absito e sibilavano come il verbo di un serpente.

È tutta colpa mia, devi credermi, DEVI, morirà, morirà...


Angolo dell'Autrice

Immagino starete piangendo tutte le vostre lacrime... Ebbene si! Eccoci arrivati ad un bel capitolo drammatico. Immaginate la frustrazione e il senso di colpa, ma meglio non anticipare niente. In fondo c'è o non c'è il tag "introspettivo" fra le caratteristiche della storia?
Scherzi a parte, bisogna essere accecati dall'egoismo e dall'arroganza per mettere in gioco vite altrui per fare i propri esperimenti e cominciare  la scalata sociale. Che cosa complicata da ottenere la fiducia e l'accettazione da parte degli altri. Voi mettereste mai la vostra vita nelle mani di una così? Potrebbe decidere di voler provare su di voi come resuscitare i morti... MWAAAAHAHAHAHAAHAH!  :D
Ok, mi sono dovertita abbastanza alle vostre spalle. Speriamo bene in qualche commentino incoraggiante ù.ù
Mitiche emv, Kill Bill, Nihal992 e Giu09!
Adios a todos,

Misa

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Il Labirinto_ Jersa ***


Jersa

Il labirinto
Jersa si vide trascinato per diverse miglia, fino a giorno inoltrato, e verso mezzogiorno la truppa si fermò presso una conca che  formava un dislivello.
“Sveglia ragazzo, sei troppo pesante per prendertela comoda”
Un uomo con due grossi baffi e una barbetta brizzolata lo guardava con un’espressione arcigna. Era basso, alto quasi quanto lui, forse qualche centimetro in più e sebbene fosse asciutto aveva un ossatura grossa e robusta.
Jersa vide ciascuno degli uomini calarsi nella conca e dovette, sotto le proteste spietate del suo torace, scendere appoggiandosi alla pietra fangosa. Si stupì che in quella palude potesse esistere una superficie che non fosse flaccida e viscida ma il terreno su cui poggiava i piedi pareva essere solido. Il percorso continuava in una galleria buia e dopo duecento metri di cammino veloce e serrato raggiunsero una parete a cui era incastonata una fiaccola che ardeva luminosa.
Quindi c’era un secondo buco e una seconda via che culminava con una fiaccola e un terzo buco. La cosa si ripeté per sette livelli finchè all’ottavo la galleria terminò con una porta di marmo.
“Chi è là? Fatevi riconoscere!”
Il vecchio baffuto si fece avanti con passo pesante:
“Reietti e prigionieri in terra propria” sbuffò come se gli toccasse una parte ignobile in una messinscena ridicola.
Si udì una risata sincera dall’altra parte e la porta fu aperta prontamente. Comparve un omino grassottello che sghignazzava con i denti gialli e appuntiti: “Per te la sicurezza è tutta roba da ridere,  Remy?”
La risposta fu indispettita: ”Non farmi irritare e sposta quella montagna di grasso dalla porta, abbiamo ospiti” indicando con una manata che si perse nell’aria Jersa, poco dietro di lui.
Lo spettacolo era impressionante oltre quella parete:
c’erano superfici e soppalchi tutti in cristallo che riflettevano la luce proveniente da un buco nella pietra che si vedeva in lontananza come un sole e doveva trovarsi a centinaia di metri da terra. In quell’enorme caverna sorgevano edifici, persino orti e serre, allevamenti di animali da pascolo, ciascuno al proprio livello e ogni angolo era un trionfo di luce e di colori arcobaleno, sfaccettature di cristallo che coloravano la pietra grigia.
L’uomo chiamato Remy fece le spallucce e rispose laconico davanti agli occhi spalancati di Jersa.
“è stupenda, lo sappiamo.”

“è una specie di città?” si pronunciò per la prima volta, il ragazzo.
“è una base ribelle come tante...forse la più bella” concesse alla fine il vecchio.
Il ragazzo lo guardò come se avesse appena detto una cosa disgustosa e si passò la lingua sulle labbra.
Remy fece una smorfia ironica e ridacchiò sotto i baffi.
“Adesso dovrò essere giudicato, processato e condannato, non è così?” il tono del giovane cercava di essere il più indifferente possibile ma serrava le labbra, mantenendo rigida la mascella.
“Quanta fretta di finire sul patibolo” mormorò spettrale il vecchio.
Jersa rabbrividì ma non riuscì veramente ad immaginarsi cosa sarebbe stata la morte. Quel giorno, sul campo di battaglia aveva visto tanti occhi vitrei e tanti corpi abbandonati, bocche innaturalmente silenziose da cui non filtrava più neppure l’ombra di un respiro, membra rigide e pallori spaventosi. Erano stati brutti incubi molto vicini eppure in quel momento erano l’ultima preoccupazione del ragazzo.
“Cosa si prova dopo la morte? Sei ansioso di scoprirlo?”
Le riflessioni di Jersa furono interrotte bruscamente dalle sentenze implacabili del vecchietto sfacciato e il ragazzo alzò un sopracciglio irritato ed esclamò:
“Grazie tante, adesso se non ti spiace rifletterò sulle mie disgrazie da solo!”
“Io cercavo solo di fare un po’ di conversazione” sbuffò Remy.
Solo allora Jersa si accorse di come le loro gambe stessero divorando chilometri, percorrendo lunghe scale per passare di livello. Al fianco delle lunghe e strette scalinate stavano lunghissimi cavi di metallo la cui vista emanava sicurezza e consistenza notevoli. Tiravano su piattaforme di ferro che potevano trasportare grandi pesi tra persone e carichi vari.
Arrivato solo al trentesimo gradino il ragazzo fece una smorfia e commentò, lamentoso:
“Ma dove sono le misure di sicurezza? Sono o non sono un pericolosissimo prigioniero? Potrei tranquillamente scappare qui sopra” lanciò uno sguardo speranzoso all’ascensore che scendeva pian piano tentando tutti coloro che scalavano i livelli.
“Vorrei proprio vedere come, a meno che tu non abbia intenzione di gettarti nel vuoto. Effettivamente...” si passò la mano sulla barba il vecchio “se scegliessi questa opzione io non avrei più seccature di sorta”
Il ragazzo affrettò il passo e mormorò velocemente fra i denti un “non importa”.
Quando raggiunsero il primo livello Jersa notò che diversi soldati della compagnia con cui aveva imparato a convivere durante lo scomodo viaggio sembravano scomparsi ma non osò fare domande poiché la sua guida esibiva un grugno contrariato e la sua lingua si era fatta più affilata di una vipera. Eppure il vecchio non sembrava mai stanco, solo infastidito e il passo era una marcia sempre più ardua da sostenere, inoltre il ragazzo sentiva le sue costole che sussultavano, sembravano tenute insieme per miracolo da una una pellicola delicata che si incrinava facilmente. Fece un altro passo avanti e stirò la gamba appena più del dovuto allungandosi in avanti. Barcollò paurosamente e si appoggiò con violenza al corrimano di corda che accompagnava gentilmente la scalinata:
“ Non ce la faccio” disse infine al compagno che lo precedeva “penso di avere delle costole rotte...non riesco a muovermi”
“Una e forse due, per la precisione” lo informò con tono puntiglioso Remy e scrollò le spalle “vorrà dire che prenderemo il Carro ” e indicò l’ascensore che si apprestava a salire al secondo piano. Jersa fu costretto a trascinarsi fino al piano superiore; a sostenerlo c’era la rabbia che lo scaldava e che scaricava di tanto in tanto lanciando occhiate velenose al vecchio davanti a lui. Remy, da parte sua, sembrava più allegro di prima. Raggiunsero il sesto piano, su cui troneggiava un gigantesco palazzo rettangolare la cui cerchia muraria sembrava infinita. Le pareti erano ricoperte di verdi rampicanti e forse si estendeva per tutto il piano. Quel verde spuntava dal nulla poiché a terra non c’era vegetazione ma solo ghiaia bianca. Non c’erano finestre ne porte all’apparenza finchè Remy non si avvicinò ad un muro qualsiasi e picchiettò più volte sulla superficie.  Con uno spintone aprì una breccia e trascinò con se il ragazzo attonito. All’interno del palazzo il silenzio era totale e mostruoso, si sentivano invece, distintamente , il respiro sommesso del vecchio, e quello affannoso del ragazzo. Le stanze erano totalmente spoglie, le pareti di cristallo lasciavano intravedere le edere dell’esterno e il pavimento era scivoloso. Jersa avvertì una sensazione di capogiro e profondo malessere poiché ogni cosa pareva la stessa e ogni stanza era percorsa cento volte. Dopo un numero interminabile di sale, al centro di una di queste, trovarono un ragazzetto buffo con lunghi capelli rossi e un corpo slanciato. Ricordava un’ antilope. Era seduto in mezzo alla  stanza, sul pavimento, a gambe incrociate con le mani appoggiate sulle cosce. Tanto era piccolo che sembrava un folletto delle favole. Gli occhi erano sbarrati, in direzione dei nuovi arrivati, ed erano scuri, color mogano. La pelle era chiara e lentigginosa, le mani e i piedi nudi erano quelli di un bambino e portava dei guanti di pelle nera.
 Si rivolse a Jersa senza perdere tempo:
“Chi sei? Chi ti manda?”
Il mogano scuro delle pupille erano due buchi neri in cui il ragazzo credette di affondare ma non distolse lo sguardo. Solo allora si accorse che si trattava di una ragazza.
“Non mi manda proprio nessuno, ero un semplice soldato in viaggio con un compagno e sono stato strapazzato, mi hanno rotto due costole e ho la schiena indolenzita.” Rispose secco e sgarbato.
“L’hai inventata sul momento o è frutto di un lungo studio?” fu la replica aspra della rossa e quella stessa voce risuonò stranamente familiare nella mente del ragazzo interrogato.
Azzardò, con una smorfia nauseata:
“Forse la prima volta che ti ho incontrata votavi a favore della mia morte? Per qualche strano motivo adesso mi viene in mente” le lanciò un’occhiata significativa.
“Non sperare che abbia cambiato parere” Poi si disinteressò completamente del ragazzo che si trattenne dal ribattere. Fissava Remy con uno sguardo profondo che poteva significare tutto:
“ Occupatene tu e cerca di pensare stavolta” si lasciò sfuggire il vecchio, laconico.
Quindi prese a camminare tranquillo sorpassando il prigioniero e la figlia.
La giovane accolse il commento con un’alzata di spalle e dovette ritornare al suo compito. Si grattò la nuca e con un balzo si rimise in piedi di malavoglia. Infine fece cenno a Jersa di seguirla. Questi mise in moto i piedi meccanicamente e mentre attraversavano altre sale o forse sempre le stesse, poiché non avrebbe mai saputo distinguerle, si chiedeva per quale assurdo motivo non avesse ancora tentato la fuga. Non c’erano corde che lo tenessero imprigionato e adesso anche il vecchio veterano esperto si era allontanato. Era solo con una ragazzina, ai suoi occhi talmente insignificante che avrebbe potuto spezzarla come un fuscello.
“Non pensarci neppure!”
Lo sguardo della rossa era ancora puntato sul suo volto e scuoteva la testa come si fa con un bambino che si ostina a non capire come stanno le cose.
“Pensare a cosa?” fu il tentativo innocente di Jersa che cercò scampo nelle sue scarse doti di attore.
“Alla fuga, ovviamente” gli rivolse un’espressione saccente.
“Per poche semplici ragioni...innanzi tutto hai due costole rotte anche se non devono poi essere così dolorose se te ne dimentichi così facilmente. Poi non sapresti dove andare, per te le stanze sono tutte uguali e il palazzo è immenso, quanto tempo penseresti di sfuggirci? E poi non credo che potresti mai sopraffarmi” concluse soddisfatta.
A Jersa venne da ridere ma si limitò a contestare la ragazza con tono ironico :
“Ah no?”
Quella, punta sul vivo, sollevò appena la camicia lunghissima che portava allacciata fino al collo e sfilò una cintura di cuoio con una pesante fibbia di ottone; gliela sventolò davanti al naso per un po’ e la riallacciò, stavolta in bella vista.
Il ragazzo sentì la testa stranamente calda e i pugni che prudevano ma non riuscì a mantenere il silenzio come gli suggeriva il suo modello di eroe. Sentì il bisogno di parlare, anche con quell’essere irritante, ma non riuscì a frenare la lingua. Aveva paura di pensare, c’erano tante domande che frullavano nella sua testa ed era forte il senso di abbandono. Questo gli rammentava Erick che era improvvisamente scomparso dal suo mondo: si chiedeva dove fosse finito, perché mai non lo aveva aiutato e se mai lo avrebbe cercato. Forse era l’unica speranza per lui ma era fragile quanto la cera di una candela che si scioglie al sole.
Di punto in bianco risuonò la sua voce pensosa:
“Adesso mi sottoporrai ad un interrogatorio?”
“Proprio così, mi rallegro della perspicacia, non sei così stupido come sembri.” Ribattè tranquilla la sua interlocutrice.
“Come facevi a sapere cosa stavo pensando? Hai anticipato molti dei miei pensieri.” Dovette ammettere suo malgrado il giovane, l’espressione sul viso scontenta.
Ridacchiò la rossa: “Sei un libro aperto; se questo può consolarti, non sono un mostro che legge nel pensiero ma tutti i tuoi movimenti e pensieri sono assolutamente prevedibili, hai tutto scritto in faccia.”
Jersa era impietrito e scuoteva la testa lentamente come se non riuscisse a realizzare una notizia di quella portata.
“Tu...leggi...la faccia delle persone?”
“Non è affatto difficile. Basta avere una vista acuta e una mente che non sia annacquata” con tono di superiorità. “Tu comunque rendi l’impresa un giochetto per bambini”sorrise infine rilassata.
Jersa si zittì con le guance in fiamme, non sapendo più che dire. Si sentiva stupido, come si era sentito incapace davanti al compagno Erick, ma soprattutto stanco di vedere persone, visi sempre nuovi, tutti nemici oppure, in ogni caso, non certo amici. Si chiese perché avesse abbandonato la sua pace, i luoghi conosciuti, i gesti quotidiani che tanto lo avevano annoiato.
“Sai qual è la verità?” esplose, scontento “tutto questo è ridicolo. Se foste stati seri mi avreste chiuso in una cella, interrogato e forse anche forzato a parlare con intimidazioni e...insomma stiamo camminando da ore e tu parli, ridi ma non ti decidi. Cosa stiamo aspettando?!”
Ma la rossa rimase scettica e non si lasciò colpire:
“Magari anche torturato...ti credi un martire dato in pasto alle bestie? Ma cosa vi raccontano quei vecchiardi da strapazzo?” si interruppe con noncuranza “Comunque siamo quasi arrivati. Tra poco avrai il tuo agognato interrogatorio.”
“Arrivati dove?” la guardò senza capire. Era un’altra stanza, stesse dimensioni stessa mobilia inconsistente, ogni cosa era esattamente la stessa.
“Perché siamo qui?”
La risposta suonò assurda e ridicola alle sue orecchie:
“Qui c’è un’ottima acustica!”
Ma, con sua grande sorpresa, quella stessa voce acuta e ironica non proveniva dalla ragazza che aveva al suo fianco.
 E pensò di aver raggiunto la follia quando davanti ai suoi occhi apparve un’altra ragazzina rossa di capelli, ridotta ad uno stecco, stessi tratti, stesse movenze, una copia della peste che aveva incontrato molte camere prima.
Spostò velocemente lo sguardo che oscillava fra le due gemelle e si andò a concentrare sul pavimento, sbattendo più volte le palpebre.
“In fondo devi sostenere un interrogatorio” continuò la rossa accanto a lui.
“O questa è magia oppure sono io che sono impazzito...” mormorò  con un fil di voce.
“non stai sognando, non sei ancora matto, e non è magia...è capitato così, siamo nate così” lo precedette la nuova arrivata “Ci sediamo?” e si lasciò cadere sul pavimento scivolando fluidamente. E il ragazzo si ritrovò seduto al centro, circondato dalle due ragazzine,  più instupidito di prima.
“prima...” esitò un attimo, spinto dalla curiosità “di iniziare... come farò a riconoscervi? Mi fate girare la testa. Non riesco a concentrarmi, come faccio a rispondere alle vostre domande?” una nota di frustrazione nella voce che si affievoliva.
“Se ti fa sentire meglio chiudi pure gli occhi e immagina di star parlando con un carceriere grande, grosso e crudele.”  Lo rassicurò con una punta di ironia una delle sorelle.
“Di dove sei?”
Il ragazzo si rassegnò e decise di non rimandare oltre:
“Di Limerick, sono un disertore, del campo dei Serapide...di mio padre. ” anticipò la domanda “si, mio padre è il comandante in capo. Perché ero lì?” cominciò una specie di cantilena, a voce bassa e roca “ero con un compagno, un coetaneo che mi aveva aiutato a fuggire e lo seguivo. Non avevamo nessuna destinazione oppure così mi sembrava; lui cercava qualcosa ma non dava spiegazioni di sorta. In realtà non gliene ho mai chieste...” ammise alla fine. Raccontò ancora, del campo, del perché si era messo in viaggio, dell’incontro con quel misterioso amico, persino molti dei suoi pensieri più segreti. Le gemelle vollero soprattutto sapere di questo personaggio oscuro e parvero soddisfatte del colloquio.
“Hai fatto bene a non mentirci, saresti stato un pessimo bugiardo.” Disse infine una delle gemelle.
Jersa annuì e aggiunse sottovoce “ora sono stanco...”
Le pesti si alzarono contemporaneamente e con un sorrisetto risposero:
“Allora buonanotte e buon riposo...”
“Ti porteremo delle bende per le tue costole...”
 “E cibo per il risveglio...”
Una di queste alzò un sopracciglio e annunciò:
“E magari una camicia nuova...” puntando gli occhi sugli stracci che portava da quando era entrato nella palude.
Esplosero in due risatine acute e gli voltarono le spalle, allontanandosi a passetti veloci.
Jersa posò la testa sulla pavimentazione e sospirò più volte. Tutto gli appariva confuso, diverso da come lo aveva immaginato ma ciò che gli premeva di più era ritrovare la sua libertà.
Ripensava alle due ragazzine, che gli erano parse così sciocche e infantili: non aveva mai avuto una buona considerazione per le donne in generale. Le trovava capricciose, smorfiose, pensavano solo a cose futili e facevano le svenevoli appena ne avevano l’occasione. Non combattevano, non parlavano, non pensavano, oppure parlavano troppo senza pensare e distraevano gli uomini. Per un attimo pensò di sfruttare la situazione: probabilmente erano vanitose come ogni donna, piccola o grande che fosse e, con un po’ di abilità poteva guadagnarsi la libertà.
“Devo solo smettere di fare domande e darmi un tono” mormorò a bassa voce, una nota sprezzante nella voce.
“Parli da solo?” esplose la voce acuta di una delle gemelle e lo fece trasalire. Si irrigidirono le spalle e sentì dolorose fitte al torace.
“ah...uhm” si morse la lingua e cominciò a massaggiarsi le costole che gli strappavano qualche sospiro.
“ormai cadi a pezzi” la ragazza avanzò con un catino di legno pieno d’acqua fumante e delle lunghe bende bianche di cotone, infine una buona brocca di Diarik fra le mani. A quella vista Jersa si sentì rinascere e comparve uno stupido sorriso sulle sue labbra. Questo parve divertire la carceriera che alzò gli occhi al cielo ed esclamò: “Alcool, sempre Alcool vogliono gli uomini, persino i poppanti”
Gli mise in mano la caraffa e mentre lui beveva lunghe sorsate la rossa lo ungeva con un olio scuro e cominciava a bendare il petto. Strinse tanto il cotone che Jersa stava per soffocare, ancora con il Diarik in bocca, annaspava e tossiva con violenza piegandosi in due. La ragazzina iniziò a scuoterlo e a dargli pesanti botte sulle spalle perché si riprendesse ma non sembrava affatto d’aiuto, anzi gli procurava sgradevolissimi spasimi. Quando finalmente si calmò, bevve un’altro sorso di liquore e masticò fra i denti poche parole “Questo posto sarà la mia fine. Lascia stare...” ruggì davanti alla malcelata preoccupazione della gemella, che si agitava,  in colpa.
Pretese un’altra brocca piena e una coperta, quindi si girò la testa per terra, la schiena dolorante ma non disse più una parole e soppresse tutti i lamenti riportando il silenzio in quelle sale dimenticate dal mondo. La ragazza rimase in attesa per pochi minuti ma non ricevette altra voce. E quando lei girò le spalle  Jersa provò una nota di trionfo e sentì di aver vinto una battaglia.
La mattina dopo trovò accanto a sé vasetti di terracotta pieni di salse, carni e verdure e la brocca nuovamente piena di Diarik. Si svegliò con la vescica piena e dovette trovare un posto per urinare. Non vide anima viva per tutto il giorno e ogni qualvolta che sentiva il bisogno di qualcosa lo gridava con quanto fiato aveva in gola. L’eco si spargeva per l’edificio e Jersa seguiva quel frastuono alla ricerca di un uscita. Per ore percorreva la stessa via per poi ritrovarsi sempre nello stesso punto, davanti ai vasetti di cibo e altre pietanze. Frustrato, fissava il muro, cercava disperatamente porte segrete, finestre che affacciavano sul mondo esterno. Per giorni non spiccicò una parola, cominciò a blaterare da solo, con una presenza fantasma che spesso chiamava Erick.
La notte era agitata da incubi che continuavano durante il giorno, susseguiti da decine di corridoi e camere.  Divenne un’ossessione e spesso rimaneva steso sulla coperta incapace di aprire gli occhi, temendo di incontrare sempre lo stesso spettacolo. Era uno stato di trance che lo cullava e lo lasciava inerte mentre il suo bisogno di vivere svaniva come un paesaggio nella nebbia.
Finchè non apparve una visione celestiale che lo riportò alla vita reale. Una delle due gemelle comparve con un catino d’acqua e delle nuove bende. Durante la sua prigionia il ragazzo aveva completamente dimenticato di avere due costole rotte ed era rimasto la maggior parte del tempo steso, questa pausa aveva giovato alle sue ossa. Lui rimase impietrito davanti alla calma della carceriera che sembrava star facendo una passeggiata nel giardino, controllando i boccioli appena spuntati, verificando la crescita degli alberi.
“Buongiorno, qual buon vento? Ti senti un po’ più solido della settimana scorsa.”
Rispose in tono funereo:
“Una settimana...”
Rabbrividì violentemente:
“è stato orribile, mi avete quasi fatto impazzire”
La ragazza ridacchiò e si avvicinò saltellando:
“Capita.”scrollò le spalle, non curante “oggi per te è un gran giorno” captò lo sguardo scettico del coetaneo ma lo ignorò “mio padre deciderà che fare di te” e mentre lui la guardava senza capire, la rossa gli disfaceva e rifaceva le fasce.
“Adesso avrai imparato che non bisogna tremare di paura solo davanti a guardie alte due metri con muscoli da cinque chili l’uno e le minacce di morte di qualche bellimbusto.” Strizzò gli occhi “Molto spesso quelle prigioni che non sembrano prigioni sono le più terribili”
Jersa sentì la bocca riempirsi di amaro e si trattenne con violenza dall’insultarla e aggredirla. Quella predica, proprio perché fatta da una ragazzina, lo infiammava anziché riempirlo di vergogna. Gli riusciva insopportabile ricevere rimproveri, non riusciva ad accettare i consigli con naturalezza. Era prepotente e forse un po’ arrogante, ma non lo avrebbe mai ammesso. Quando lei gli tese la mano il ragazzo continuò con il muso ignorando il braccio a mezz’aria.
“Sono Aser, e la mia gemella si chiama Alyce. Nostro padre è quel soldato che ti ha catturato e condotto fin qui e... questa è la più organizzata base ribelle a Filesis. Sei nella Cava, il posto più sicuro delle terre conosciute. Qua dentro nessuno, tranne una ristretta cerchia di persone, ti troverebbe e nessuna magia funziona fra queste mura.” Riprese fiato, gli occhi puntati sul broncio del prigioniero. “e non hai niente di cui preoccuparti poiché mio padre riconoscerà che non sei nessuno e tu sarai libero di andare dove vuoi.”
Jersa si esibì in una smorfia maligna: “e se rivelassi tutti questi preziosi dettagli a qualcuno? Certe informazioni si vendono a peso d’oro.”
Ebbe di tutta risposta un sorrisetto rilassato: “Pensi che siamo stupidi? Certo non ti lasceremo andare prima di  averti fatto il lavaggio del cervello!”
La ragazza ignorò ancora lo sguardo irritato e il suo volto si fece improvvisamente serio. Sbuffò spazientita: “Ascoltami bene, non puoi permetterti il lusso di continuare pensare di essere padrone della situazione. Sono stata fin troppo paziente”
Jersa ingoiò il rospo e si affrettò a seguirla.


Angolo dell'autrice

Wow...non mi entusiasma un granchè questa parte.
Forse perchè l'ho concepita in campagna, una nottata un po' da schifo.
Anyway,  non l'ho riscritta perchè non me la riuscivo ad immaginare in nessun altro modo ma devo dire che ho dovuto correggere parecchio la versione originale!
Per la gioia dei nostri lettori, ecco qualche dialogo in più per movimentare la cosa...
Ah no! lo so cosa potreste pensare ù.ù  Chi è questa Aser?  e come si dice dalle mie parti, ma ch'è tutta sta' confidenza? E io intanto non spoilero niente e vi lascio tutti nel beato dubbio! (poi magari sono film che mi faccio solo io <.<)
Come non ringraziare i soliti non più ignoti;  emv, Kill Bill, Nihal1992, la mia fedelissima recensorA Giu09 e aggiungiamo alla lista una new entry un po' timida misstokio! Benvenuta nel club dei quattro gatti (ma fedeli *_*)!  Quando vorrai farti sentire e lasciarmi le tue impressioni sarò felicissima di risponderti ^^
Adios popolo,

Misa


Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=692287