Il vampiro che c'è in me

di kithiara
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Sogni ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1: Una come tante ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2: I sogni son desideri ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3: Un ospite indesiderato ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4: Prove pratiche di convivenza ***



Capitolo 1
*** Prologo: Sogni ***


Prologo: Sogni
 

E’ buio.
Molto buio.
Infinitamente buio.
Non ci sono ombre, l’oscurità è totale, priva di qualsiasi sfumatura.
E’ come trovarsi immersi nel nulla.
Sto correndo alla cieca, non so nemmeno dove sto andando, ma corro.
Il battito impazzito del mio cuore è l’unico suono che sento, è assordante e mi riempie la testa, mi confonde la mente.
Ho paura. Di cosa, non so.
E’ la stessa paura irrazionale che hanno i bambini quando, infilandosi sotto le coperte, pregano che il mostro che vive sotto il loro letto non li mangi.
So che c’è qualcosa.
So che non è nulla di buono.
So che non devo farmi prendere.
Sento i crampi alle gambe e quel dolore insopportabile alla milza.
I miei polmoni ossigenano ad una velocità folle, se continuo così il mio cuore esploderà.
 
Poi d’improvviso una luce.
Non si tratta di una luce soffusa, di un chiarore in lontananza, ma di una vera è propria onda di luce, una colonna abbagliante come i raggi di mille soli.
Ne vengo investita e lo stupore mi paralizza.
Le mie pupille non possono o non vogliono nemmeno prendere in considerazione l’idea di adattarsi ad una tale intensità di luce, così chiudo gli occhi e avanzo a tentoni in quella direzione.
Sento caldo.
Il vortice luminoso emana una forza straordinaria e io ne sono irrimediabilmente attratta.
Per un qualche inspiegabile motivo, sento che l’energia che sprigiona è positiva, forse perchè il suo tepore riesce a lenire le mie sofferenze, sbiadisce le mie paure.
 
Avanzo passo dopo passo con le mani in avanti a proteggere il viso.
Una sensazione di pace mi pervade il cuore e lacrime calde sgorgano dai miei occhi socchiusi, improvvise, ma consolatorie.
Ancora pochi metri e potrò toccare la luce.
 
Cinque passi.
 
Mi sento stranamente euforica.
 
Quattro passi.
 
Il calore si fa sempre più intenso.
 
Tre passi.
 
La terra inizia a tremare.
 
Due passi.
 
Fatico a restare in piedi e nuovamente la paura mi attanaglia, mi sono distratta e ora pagherò con la vita. Ma avanzo lo stesso.
 
Un passo.
 
Allungo una mano per sfiorare la cascata di luce, solo pochi centimetri mi separano da quella fonte di energia sconosciuta.
 
Poi d’improvviso sento il terreno franare sotto i miei piedi.
Inizio a cadere, sempre più in fretta, precipito sempre più giù. Ma giù dove?
Come per un riflesso incondizionato inizio ad urlare mentre continuo a sprofondare e…
 
DRIIIIIIIIIN!
 
Mi sollevo di scatto a sedere, il corpo madido di sudore, il battito del cuore ancora accelerato, le lenzuola stropicciate sul materasso che conserva ancora la sagoma del mio corpo inquieto.
Ancora lo stesso sogno. Tutte le notti ormai, da più di due settimane.
E ogni volta è sempre peggio. So che devo toccare quella luce, sento di doverlo fare, ma quando sembra che io stia finalmente per riuscirci, un abisso si apre sotto i miei piedi, una voragine oscura e di una profondità indefinita, forse addirittura infinita.
Lacrime di frustrazione rotolano sulle mie guance accaldate.
Prima o poi ci riuscirò.
Indugio inconsciamente ancora per un secondo su questo pensiero, ma quando metto i piedi giù dal letto il sogno è già dimenticato.
Fino alla prossima volta.



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Capitolo 2
*** Capitolo 1: Una come tante ***



Capitolo 1: Una come tante
 

E’ una giornata come tante, la nebbia avvolge Londra col suo manto ovattato e nell’aria l’odore degli scarichi si mescola a quello del croccante e dello zucchero filato delle bancarelle natalizie che come ogni anno affollano le vie.
Gli artisti di strada inondano i lunghi sotterranei della subway con le allegre note dei jingles più conosciuti e gli autobus che attraversano la città fino a Piccadilly Circus, sono affollati di gente con le mani stracolme di borse variopinte e pacchetti regalo.
Persino gli uomini d’affari più seri della City si concedono un sorriso alla vista delle vetrine addobbate a festa, mentre con i loro bicchieri Starbucks colmi di fumante caffè nero attraversano la città diretti ai loro moderni uffici.
 
Dicembre è in assoluto il mio mese preferito, l’atmosfera di festa rende sopportabile persino il lungo tragitto in metropolitana fino al lavoro.
Incastrata fra due persone leggermente over-size, mi perdo fra i miei pensieri, cullata dal movimento della métro e dalla cadenza ritmica delle ruote sui binari.
Passo il tempo osservando con curiosità la gente che mi circonda, perché non c’è folla più variegata dei londinesi in metropolitana.
Puoi trovare i fidanzatini della porta accanto, tutti baci e sospiri. Osservandoli, perennemente mano nella mano, farebbero venire il diabete a chiunque.
Si possono ammirare vari esemplari di giovani rapper che fanno a gara fra di loro per l’abbigliamento più strambo a base di pantaloni modello tre-taglie-più-larghi, dal cavallo improponibilmente basso e cappellini dai colori improbabili calati sulla fronte.
C’è la mamma manager, che con una mano stringe il passeggino e con l’altra regge la ventiquattr’ore. La si riconosce perché culla il bambino con la suoneria del cellulare che squilla incessantemente.
C’è il predicatore, un barbone con i capelli radi e decisamente troppo alcol in corpo che preannuncia anche per quest’anno la fine del mondo. Meglio stargli alla larga se non volete prendervi la vostra dose di insulti quotidiani!
 
E poi ci sono io.
Avete presente la ragazza dai vaporosi capelli biondi? Quella col cappotto rosso e la minigonna di pelle nera che lascia scoperta una generosa parte delle lunghe gambe mozzafiato? Sì, proprio quella che sembra appena uscita da una rivista di moda.
Bene, quella non sono io.
 
Tranquilli, è normale sbagliarsi, mi capita sempre.
Se non lo aveste notato, il tono era ironico. No, decisamente non sono la bionda.
Io sono l’altra, quella a fianco, pensandoci bene sono sempre quella a fianco.
Sono quella che non si nota, quella troppo infagottata nel suo piumino nero per essere visibile. Quella che si vergogna non appena incrocia lo sguardo di uno sconosciuto, la stessa persona che fa delle gaffes il suo pane quotidiano.
Ecco, bravi, quella sono io.
 
La voce registrata annuncia la prossima fermata…è la mia. Devo scendere.
Mi avvicino all’uscita con non poca fatica, cercando di farmi largo in mezzo alla ressa dei pendolari, ma quando si apre la porta vengo letteralmente travolta da un’anziana signora, armata di bastone, che senza grazia alcuna mi pesta un piede e se ne va, non prima di avermi lanciato uno sguardo infastidito e borbottando come una pentola di fagioli.
Certa gente ha tutti i coraggi…e certa gente non ne ha nessuno, come me.
Oddio, se può definirsi coraggio non svenire durante un prelievo di sangue, allora sì posso definirmi coraggiosa.
Per tutto il resto però, sono una vera frana. Diciamo che tendenzialmente vengo travolta dalla vita, non la cavalco.
Forse è per questo che a volte preferisco vivere di riflesso la vita degli altri, perché è più semplice.
Così fantastico, inventando una storia per ognuna delle persone che incrociano anche solo per pochi istanti il mio cammino.
Me la cavo bene in questo, generalmente ho in mente per tutti una vita interessante, piena di immense fortune, grosse soddisfazioni, teneri amori, grandi passioni.
E’ perchè penso che per tutti possa arrivare l’avventura, quella con la A maiuscola, quella che capita una volta sola nella vita e quando arriva, te la stravolge.
Ho detto per tutti? Ho sbagliato. Intendevo per tutti gli altri, ma non per me.
 
Ecco lo sapevo, ci casco sempre, nel vittimismo intendo.
Mia madre me lo dice sempre devi pensare positivo, sei tu che decidi della tua vita…ma se è così, perché non la pianta di dirmi cosa devo fare? Perché vuole costringermi…a cambiare?
Procedo con calma fra le vie della città, sono leggermente in ritardo, ma non ho nessuna fretta di arrivare. Conosco il percorso a memoria e questo mi dà la possibilità di camminare pur continuando a rimuginare su altro.
Si diceva: perché cambiare?
Non fraintendetemi, anch’io odio il mio carattere, non mi entusiasma essere una vigliacca, ma a volte trovo che sia più semplice convivere con questa mia pavida essenza, piuttosto che cambiarla.
In fondo odio anche dover portare gli occhiali, ma è anche vero che se non li portassi non ci vedrei nulla. Quindi, meglio questo che niente.
Forse è lo stesso per il mio carattere, non mi piace, ma se sono così ci sarà pure un motivo! E magari è pure un buon motivo.
Forse la mia grande avventura è quella di essere una come tante.
 
Svolto a destra e mi blocco improvvisamente: sono arrivata.
La gente mi passa a fianco e mi scansa senza problemi, come se non fossi lì.
Sì, questo mi viene bene, riesco ad essere perfettamente invisibile quando mi ci metto d’impegno.
Il chè succede pressochè ogni giorno, esattamente a partire da…adesso.
E con adesso intendo il momento esatto in cui varcherò la soglia di questo elegante edificio in stile vittoriano al 510 di Lombard Street, sede storica della C&C Associates, uno degli studi legali più affermati di tutta Londra. E finirà nel momento in cui, psicologicamente distrutta, ne uscirò, sola, per ritornare al mio minuscolo appartamento nel West End.
Per inciso, se pensate che io stia esagerando, è perché non avete ancora conosciuto i miei amorevoli colleghi.
 
Sospiro rassegnata guardando le porte di vetro automatiche che si spalancano davanti a me, invitanti quasi quanto i portoni dell’inferno.
Il solito groppo alla bocca dello stomaco mi assale; nervosamente, mi sistemo una ciocca di capelli castani dietro l’orecchio e finalmente entro nell’edificio.
Si comincia

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Capitolo 3
*** Capitolo 2: I sogni son desideri ***


 Capitolo 2: I sogni son desideri
 
 
Senza nemmeno appoggiare il sacchetto della spesa, rimesto all’interno della borsa alla ricerca delle chiavi, rischiando di far cadere a terra quella che dovrebbe essere la mia cena.
Il pianerottolo è buio, la luce delle scale si è fulminata almeno un mese fa, ma non ho ancora trovato la voglia di chiedere al padrone di casa di sostituirla.
Imprecando come uno scaricatore di porto, finalmente riesco ad afferrare il portachiavi a forma di orsacchiotto che stavo cercando e con abile mossa ad inserire le chiavi nella toppa.
Girandole lentamente la porta si apre, lasciandomi intravedere il rifugio sicuro della mia tana.
Però è solo dopo aver richiuso la pesante porta di legno alle mie spalle, appoggiandomici contro, che mi sento finalmente tranquilla.
 
Non ho fatto ancora in tempo ad accendere la luce che sento un rumore provenire da un punto non ben precisato del pavimento.
Il suono si sposta, è come un fruscio, un gorgoglio basso e prolungato.
Sorrido mentre cerco con la mano l’interruttore e quando la luce inonda il soggiorno, mi ritrovo ad osservare il corpo nero, lucido e setoso della mia gatta che si strofina contro le mie gambe.
Finalmente qualcuno che è felice di vedermi!
“Ciao Perelun. Hai fame?”
Attraverso la stanza, seguita a ruota dalla mia palla di pelo, che per tutta risposta ha aumentato il volume delle fusa.
Lo prendo per un sì.
 
Quando poso il sacchetto di carta sul tavolo della cucina, con un balzo aggraziato la gatta è già al mio fianco, intenta ad annusarne speranzosa il contenuto.
I suoi grandi occhi verdi si fissano dolcemente nei miei nel momento in cui una scatoletta fa capolino fra le mie mani e un miagolio insistente mi fa capire che sto decisamente mettendoci troppo.
Verso il contenuto della scatoletta, dal profumo non propriamente invitante, nella ciotola posata sul pavimento e rimango a guardarla mentre lo divora con voracità.
Si ferma solo un attimo, per lanciarmi quello che, nel nostro muto linguaggio fatto di sguardi, può essere inteso come un ringraziamento.
Poi riprende a mangiare.
Il mio stomaco brontola, forse è il caso che mangi qualcosa anch’io, solo un’insalata dall’ora di pranzo sinceramente non è abbastanza per sopravvivere!
 
Spalanco le finestre e il freddo decembrino mi investe.
Brrr…solo cinque minuti.
Devo resistere, quest’appartamento incomincia a fare troppo odore di chiuso!
Mi guardo in giro, il disordine regna sovrano.
L’armadio vuoto, i vestiti sparpagliati ovunque, tazze e stoviglie abbandonate sui mobili, il tutto ricorda molto uno di quei quiz da settimana enigmistica della serie trova l’oggetto nascosto.
Devo fare qualcosa, questa casa sembra più il rifugio di un barbone che l’appartamento di una ragazza.
 
Mentre la cena si scalda nel microonde, inizio a dare una sistemata in qua e in là con ben poca convinzione; sono troppo stanca, mi chiedo chi me lo faccia fare.
Non trovando una risposta convincente, raccatto da terra il vivace plaid a tinte scozzesi che mi ha regalato mio fratello lo scorso Natale e mi ci avvolgo.
 
Con la cena sulle ginocchia, sprofondata sul divano, la tv accesa su uno di quei programmi che io chiamo resetta-cervello e Perelun che si liscia il morbido pelo accoccolata al mio fianco, riesco finalmente a non pensare più a questa tremenda giornata.
Almeno fino a domani niente più superiori incavolati, né vecchie segretarie acide e nervose pronte a prendersela con l’ultima ruota del carro (che sarei poi io), né tantomeno colleghi spiritosi in vena di scherzi verso l’ultima arrivata (che sarei nuovamente io). Niente di niente. Solo silenzio e…
 
La suoneria del mio cellulare.
Le note di Quantum Leap riempiono l’aria. Lo lascio suonare, un po’ perché adoro la sigla di questo telefilm anni novanta, un po’ perché ho visto chi sta chiamando…mia madre.
Addio tranquillità.
 
Quando ormai la canzone è ripartita da capo, segno che mia madre non ha nessuna intenzione di darmi tregua, rispondo col mio tono più fintamente cordiale.
“Ciao mamma!”
La voce squillante di mia madre mi aggredisce i timpani.
“Ciao tesoro, come mai non rispondevi?”
Già, perché?
“Ero sotto la doccia mamma.”
Scelgo la via della menzogna e speriamo che se la beva.
“Ma se a quest’ora guardi sempre Passioni?”
Azz…è vero! Tento un colpo di reni.
“Hai ragione, infatti sono appena uscita da sotto la doccia e mi sono fiondata davanti al tv, ma avevo lasciato il cellulare in bagno e così…”
Sento lo stridore immaginario delle unghie sullo specchio.
“Sì certo, va bene. Com’è andata la giornata?”
Cambia discorso, oramai è stufa anche lei di sentire le mie balle.
“Normale.”
“Di poche parole come sempre, vedo. Ricordo quando eri bambina, passavi ore intere a raccontarmi tutto quello che facevi a scuola, adesso invece… Almeno, dimmi che hai ottenuto quell’aumento.”
 
Lo sapevo.
Sapevo che l’avrebbe chiesto.
Sapevo che era lì che voleva andare a parare, non chiama mai senza un motivo.
E naturalmente sa già anche quale sarà la mia risposta.
“No mamma, non l’ho ottenuto l’aumento.”
E adesso se mi vuoi scusare, la mia soap opera preferita mi aspetta, vorrei aggiungere per farla tacere. Purtroppo so già che otterrei l’effetto contrario, a meno di non sbatterle il telefono in faccia…
Fuori discussione, questo minerebbe ancora di più i già fragili rapporti che ci sono fra di noi.
Insomma, meglio evitare un incidente diplomatico con la propria mamma, non trovate?
Peccato che lei non la pensi come me.
 
“Tesoro, devi smetterla di farti sfruttare in questo modo! Da quanti anni è ormai che lavori in quello studio?”
Sento aria di predica.
“Sono cinque anni mamma.”
E lo sa benissimo.
“Cinque anni e ancora nessuna promozione? Eppure sei una ragazza in gamba.”
Mi sgranchisco la schiena, improvvisamente a disagio sul morbido cuscino del divano.
“Cosa posso dirti, si vede che ci sono ragazze più…in gamba, di me. Quelle che mettono in mostra più di me le loro doti…”
Spiego, cercando di rendere ben chiara l’allusione a sfondo sessuale.
“Allora forse dovresti imparare ad essere anche tu un po’ più spregiudicata.”
Prego??
“Vuoi forse dirmi che dovrei vendermi di più, per avere una misera promozione?”
“Dico solo che meriti qualcosa di meglio e se i tuoi responsabili non se ne sono ancora accorti forse è perché tu non sei abbastanza…convincente. Devi credere di più in quello che fai.”
Bla bla bla, sempre la solita storia della fiducia in me stessa.
Stacco il cervello mentre lei continua nella sua ramanzina, iniziando a torturarmi un’unghia, gesto abituale quando sono nervosa.
Perelun mi sta fissando, ha smesso di lisciarsi e ora i suoi occhi verdi mi guardano accusatori, sembra quasi volermi redarguire, come se anche lei inconsciamente fosse d’accordo con mia madre.
Tu quoque, Bruto...penso sentendomi in qualche modo tradita.
Sospiro rassegnata.
 
“Va bene mamma, ti prometto che cercherò di strappare un aumento, a costo di dovermi strappare i vestiti di dosso.”
Così andrà bene? Spero di sì, se non l’avete capito sto usando la tattica del prometti e fuggi, cercando di farla desistere almeno fino alla prossima telefonata.
Ho bisogno di riposo.
“Io lo dico solo per il tuo bene. Comunque…volevo anche ricordarti che il giorno di Natale, naturalmente, ti aspettiamo a pranzo qui da noi.”
Naturalmente.
“Tuo padre ha deciso di vestirsi anche quest’anno da Babbo Natale, sai, per fare una sorpresa ai bambini.”
Santo cielo!
“Mamma, Maggie e James hanno dodici anni, non sono più dei bambini. E Michael porta i capelli lunghi e l’orecchino al naso, pensi che potrebbe mai emozionarsi davanti al travestimento di papà?”
“Lo sai che tuo padre ci tiene a mantenere le tradizioni. Ad ogni modo, ci sarai?”
Il suo tono è speranzoso, non la deluderò, almeno non in questo.
“Ci sarò, certo.”
“Bene. Spero con più entusiasmo. Ti voglio bene tesoro.”
“Anch’io mamma.” Sussurro subito prima di riattaccare.
 
Fantastico, il pensiero di mio padre vestito di rosso e bianco che dispensa i suoi oh-oh-oh in giro per casa fingendo di essere sbucato dal camino perseguiterà i miei sogni da qui alle prossime due settimane…
Beh, sempre meglio dell’altro incubo che non mi abbandona mai.
Per una cosa o per l’altra, ormai sono settimane che non dormo più bene.
 
Spengo la tv, ormai Passioni sarà finito e come ogni sera non c’è molto altro di decente da vedere, per cui, meglio un buon libro.
Nemmeno la lettura però sembra entusiasmarmi stasera, la stanchezza inizia a farsi sentire e le palpebre a farsi pesanti.
Accarezzo distratta il manto color inchiostro della gatta che ora dorme beatamente acciambellata sulle mie gambe, la sua presenza mi rilassa e sento piano piano il mio battito rallentare, fino a confondersi col suo.
 
Perelun è con me ormai da cinque anni, cioè da quando sono andata ad abitare da sola, lasciando il confortevole, ma ormai decisamente soffocante, nido dei miei genitori.
L’ho trovata per strada, lo stesso giorno in cui ho messo piede per la prima volta nel mio nuovo appartamento, sotto una pioggia torrenziale.
Era solo un piccolo batuffolo di pelo color fuliggine tutto arruffato, per rendere l’idea potrei dire che sembrava lo scovolino di uno spazzacamino.
Mi è sembrata subito adorabile, era spaurita e sola, come me.
 
Diciamo che fra noi c’è stata subito una forte empatia, poi anche lei ha capito come vanno le cose e in breve tempo è diventata la mia padrona.
Avevo scelto per lei quel nome così strano, perché anche solo la sua presenza aveva in sé qualcosa di magico, ragione di più visto il colore del suo pelo e il nome del bosco notturno, creato dalla fantasia di Michael Ende, mi era sembrato subito perfetto.
 
“Tu sì che sei fortunata amica mia. Dormi tutto il giorno, mangi e poi torni a dormire.”
Come a voler avvalorare questa tesi, il felino spalanca la bocca in uno sbadiglio contagioso, mostrandomi i suoi aguzzi dentini bianchi.
“Hai ragione, è ora di fare la nanna.”Le sussurro stiracchiandomi e dirigendomi verso la camera da letto.
Mentre mi infilo sotto alle coperte, mi tornano ancora una volta in mente le parole di mia madre: devi credere di più in quello che fai.
Forse dopotutto non ha tutti i torti, mi piacerebbe potermi svegliare domani mattina ed essere più, com’erano le parole esatte? Convincente e spregiudicata?
Sarebbe divertente.
Mentre nella mia testa le immagini di mio padre con tanto di barba bianca che mi fa sedere sulle sue ginocchia e mi chiede cosa voglio in regalo per Natale si sovrappongono a quelle della colonna di luce misteriosa, un desiderio prende forma nella mia mente.
Non ho ancora finito di esprimerlo però, che sono già addormentata.
 

*******

 
Sono immersa nuovamente nel buio, un buio che non ha nulla di rilassante.
Persino il silenzio, in questo mare di oscurità, è quasi fastidioso.
Non mi è chiaro il perché, ma stavolta so cosa aspettarmi, quindi la mia più che paura effettiva è più un’ansia da attesa, sottolineata dal forte battito del mio cuore.
Ed improvvisamente eccola, la luce abbagliante, mi investe col suo calore intenso e confortevole.
E’ più vicina questa volta e io inizio subito a correre verso di essa.
Quando il suolo inizia a tremare incespico, finendo distesa a terra.
Mi rialzo, sento un rivolo caldo di sangue scorrermi lungo la fronte, niente di grave, ma ad ogni modo brucia.
Non mi arrendo, questa volta ho deciso: devo assolutamente arrivare alla fonte di quella luce.
Quindi riprendo a correre, cercando di mantenere l’equilibrio su quel terreno sempre più instabile. Ansimo, le braccia protese in avanti.
Devo fare più in fretta, potrei svegliarmi anche questa volta e…non voglio…non devo.
La cascata luminosa è davanti a me, lentamente, col cuore in tumulto mi immergo in essa.
 
Una sensazione di stupore e meraviglia mi investe, mentre percepisco ogni fibra del mio corpo riempirsi di luce.
Un pensiero buffo mi passa per la mente facendomi sorridere.
Avete presente quelle lampade per bambini a forma di animaletto che se le accendi si illuminano dall’interno? Bene, io mi sento esattamente così.
Non è una sensazione sgradevole, tutt’altro. Mi sento stranamente forte, esaltata anche.
Se questo fosse un film, probabilmente adesso mi ritroverei ad urlare Sono il re del mondo! dalla prua del Titanic…ma questo non è un film, giusto? Sono ancora nel mio sogno.
 
Poi ad un tratto la luce inizia a sbiadire, è come se poco alla volta perdesse energia.
No, non è esatto, il fatto è che sembra che voglia perdere energia, come se stesse cercando di adattarsi ad un formato più…tascabile.
La sua intensità diminuisce a poco a poco, fino a quando le sue dimensioni non sono ridotte a quelle di una mela, una piccola sfera di luce che fluttua all’interno del mio corpo, direttamente dentro al mio cuore.
L’iniziale euforia lascia spazio ad un senso di pace che mi colma e mi fa scivolare in uno stato di sonnolenza a cui mi abbandono, dimentica di ogni cosa.
So di aver fatto ciò che dovevo, ora devo solo dormire e aspettare.
 

*******

 
Nello stesso momento, solo a migliaia di chilometri da lì.
 
La luce di una candela illumina fiocamente le pareti in pietra del lungo corridoio, non arrivando neanche lontanamente a rischiararne l’alto soffitto.
A reggerla fra le mani tremanti un anziano maggiordomo dai radi capelli bianchi, il viso segnato da rughe profonde, testimonianza di chi ha vissuto a lungo e non propriamente giorni tranquilli.
Che il cielo ci aiutipensa, mentre bussa con urgenza al grande portone di quercia e attende una risposta, che non tarda ad arrivare.
“Vieni avanti…”
 
Invitato nella stanza, si guarda lentamente intorno.
Il grande studio sarebbe immerso completamente nell’oscurità, se non fosse per la luce della luna che, entrando dall’ampia finestra, illumina in parte la scrivania ingombra di carte.
L’aria pervasa dall’odore acre del fumo e le ceneri nel camino, sono la chiara testimonianza del fuoco che fino a poco prima vi bruciava, ma che ora ha lasciato il posto ad un gelo irreale.
Rabbrividisce.
“Mio signore…porto notizie.”inizia titubante
“Continua.”lo incita la voce dall’ombra
“La profezia…la profezia è incominciata…il non-morto è stato risvegliato.”
 
Il silenzio rimane intatto, a tal punto da fargli credere di non essere stato udito, poi…
“Maledizione!”
L’imprecazione giunge così inaspettata da farlo sussultare e il movimento fa vacillare la fiamma della candela che si spegne, lasciandoli immersi nel buio.
Da dietro l’alto schienale di una poltrona, una nuvola di fumo a sottolinearne la presenza, la voce sconosciuta ordina in tono imperioso:
“Tienimi aggiornato, qualunque cosa succeda!”
“Sì, mio signore.”promette ritirandosi.
 
“E così è tornato. Ma non gli permetterò di riprendersi ciò che è mio!”


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Capitolo 4
*** Capitolo 3: Un ospite indesiderato ***



Capitolo 3: Un ospite indesiderato
 
 
 
E’ giorno.
Percepisco, più che vederla, la luce filtrare attraverso le tende della stanza.
Socchiudo appena gli occhi, mentre con un braccio mi allungo verso il comodino per controllare l’ora.
Strano…sono sveglia e sono solo le 6:40, la sveglia non suonerà prima di altri dieci minuti.
Mi rigiro lentamente fra le coperte, godendo ancora per un po’ del loro tepore e di quello stato di grazia che sta fra il sonno e la veglia.
 
Mi sento riposata come non mi capitava da settimane e la cosa mi rende già di ottimo umore.
Finalmente decisa ad alzarmi, butto le coperte verso il fondo del letto, ricevendo in cambio un basso miagolio di protesta da parte di Perelun che si vede ricoprire dal candido piumone.
Ridacchio piano, mentre carico la moka e accendo il fornello, un gesto ormai divenuto abituale visto che sono una vera drogata di caffeina.
E quando intendo caffeina, intendo la vera moka italiana, non la brodaglia che ci propinano qui.
 
Una volta in bagno, apro i rubinetti del lavandino e lascio scorre l’acqua fino a quando non raggiunge una temperatura accettabile.
Il morbido tappetino mi solletica i piedi nudi.
Senza quasi rendermene conto inizio a canticchiare, l’acqua che piacevolmente mi scivola sul viso e nell’aria l’odore del caffè che inizia ad aleggiare.
E’ uno stato di quiete quello in cui sono e quasi inconsciamente mi chiedo quanto possa durare.
Affondo il viso nell’asciugamano fresco di bucato, poi finalmente mi guardo allo specchio e…faccio un salto indietro dallo spavento.
 
Quelli che mi fissano dalla superficie liscia e riflettente non sono i miei occhi.
O almeno, sono i miei occhi, l’espressione è la stessa, ma è il loro colore che non mi appartiene.
Sono di un blu profondo, decisamente diverso dal nero che mi è così familiare.
E’ un po’ come avere delle lenti a contatto colorate…solo che io non porto lenti a contatto.
 
Mi riavvicino per controllare meglio. Sono proprio blu.
Ripensandoci, perché non posso avere gli occhi di questo colore?
E’ decisamente meglio del mio! E si intona molto con la mia carnagione pallida.
Li strizzo fino a vedere le stelline bianche come quando ero bambina e quando li riapro sono nuovamente loro, le mie iridi scure, che mi guardano confuse.
Soffro di allucinazioni adesso?
 
Non faccio nemmeno in tempo a preoccuparmi che uno sguardo all’orologio mi ricorda che devo sbrigarmi se non voglio arrivare in ritardo.
Saltellando per la stanza con una gamba del pigiama sì e una no, sto già pensando a cosa indossare.
L’incidente viene definitivamente archiviato con un’alzata di spalle, nel momento in cui la caffettiera inizia a fischiare.
 

*******

 
E’ verità universalmente riconosciuta, che quand’anche ti dovessi svegliare con il piede giusto, la tua giornata non può che essere destinata a peggiorare.
Per una volta tanto che sono riuscita a svegliarmi prima, i lavori in metropolitana e la pioggia rischiano comunque di farmi arrivare in ritardo.
 
Accelero il passo, facendomi largo in qualche modo sul marciapiede ingombro di persone, la pioggia che mi colpisce incessante perché purtroppo il mio ombrello ha scelto proprio oggi per andarsene in ferie.
Un auto passa pericolosamente vicina al marciapiede, mi fermo giusto in tempo per non essere investita dal getto d’acqua di una pozzanghera.
 
Sono quasi davanti all’ingresso dell’ufficio, già pregusto il calore dell’atrio dopo il freddo gelido della strada.
Ma evidentemente oggi non è proprio il mio giorno fortunato.
 
Un taxi accosta al marciapiede proprio in quel momento senza fare alcuna attenzione e ciò che prima avevo solo sfiorato, ora mi travolge in pieno.
Sono bagnata fradicia.
Sto ancora snocciolando bestemmie in tutte le lingue del mondo, quando vedo uscire dal taxi niente meno che Barry Mitchell, l’odioso Barry come lo chiamo io, uno dei soci più giovani del mio studio e neanche a dirlo uno dei miei più fervidi oppositori.
 
Mi guarda dal suo metro e novanta di altezza e senza degnarmi nemmeno di una scusa, mi rivolge uno dei suoi viscidi sorrisini denigratori.
Che si fotta.
L’unica cosa che voglio ora è varcare quella maledetta soglia e riscaldarmi un po’.
Sento le gocce d’acqua scendere giù per la schiena, ho il fondo dei pantaloni gonfio di pioggia e neanche sto a raccontarvi come sono i miei capelli, una matassa arruffata e ingarbugliata tutta appiccicata alla testa.
 
Purtroppo, quando si dice che le sfighe non vengono mai sole, ecco entrare nell’atrio lui in persona, Clifford Cox, uno degli avvocati più blasonati di tutta Londra, discendente di uno dei due soci fondatori della C&C Associates, in parole povere…il mio capo.
 
Cerco di farmi piccola piccola, non mi pare proprio il caso che mi veda in queste condizioni, quando ecco che quel verme strisciante di Mitchell si fa incontro a Cox e dopo averlo salutato e leccato per bene, mi apostrofa così
“Dickinson, sembri il mostro della palude appena uscito dalle acque, non penserai di salire con noi in ascensore, vero?”
E si mette a ridere.
 
L’ascensore parte e io vorrei sprofondare.
Ho notato perfettamente lo sguardo disgustato che mi ha lanciato il Signor Cox prima che si chiudessero le porte.
Già ci si mette madre natura a complicarmi la vita, per quale motivo poi persone spregevoli come Barry Mitchell devono infierire?
 
Sto quasi meditando di girare sui tacchi e tornarmene a casa, quando incrocio lo sguardo della ragazza della reception, mi pare che si chiami Anne qualcosa.
Nei suoi occhi azzurri scorgo un mare di comprensione, mentre con gentilezza mi porge una salvietta.
Balbetto un distratto grazie e mi dirigo a tutta velocità verso il bagno più vicino.
Sto per mettermi a piangere.
 
Il contatto coi vestiti bagnati mi fa tremare di freddo, così cerco invano di tamponare la stoffa.
Guardo nello specchio e il mio riflesso ricambia lo sguardo con occhi scuri di mascara sbavato.
Apro il rubinetto dell’acqua calda e mi appoggio al lavandino in attesa di poter lavare via la sensazione di gelo che mi pervade.
So già che la sensazione costante e ben più ingombrante di completa inadeguatezza invece non se ne andrà.
 
Appoggio gli occhiali sul ripiano del lavandino poi raccolgo un po’ d’acqua fra le mani e mi detergo il viso.
La sensazione di sollievo è immediata e per un attimo mi illudo di potermi sentire meglio, quando ecco che un dolore fortissimo mi trapassa le tempie e reggendomi la testa che pare voler esplodere, mi accascio a terra gemendo.
 
E in quel momento la sento.
“Per l’inferno, che dolore!”
 
La sorpresa mi paralizza, seduta lì sul lucido pavimento del bagno.
“Chi ha parlato?”
“I miei occhi, non vedo un accidente di niente dannazione!”
“C’è qualcuno?”
La mia voce rimbalza sulle pareti dello stretto locale.
“Ehi parla più piano, qui dentro rimbomba tutto.”
“Dentro dove? D-dove sei?”
“Come se lo sapessi. Qui è tutto così maledettamente confuso.”
 
La voce che sento è chiaramente irritata e lo sarei anch’io, se non fossi già anche decisamente spaventata.
Rialzandomi in piedi a fatica, con il sangue che pulsa ancora forte nelle tempie, apro di scatto le porte di tutti i bagni, alla ricerca del colpevole.
Sono tutti vuoti.
Alzo la voce, che assume così una tonalità forse un tantino isterica.
“E’ uno scherzo, vero? Andiamo ragazzi, uscite fuori! Siete contenti? Mi avete già spaventata abbastanza, ora basta però!”
“Ma la pianti di urlare? Qui ci siamo solo io e te…e il mio mal di testa, ovvio.”
 
Non è possibile, sono sola eppure la sento chiaramente…
“Io…sto sognando, non c’è altra spiegazione.”
Ma certo, cadendo ho sbattuto la testa e sono svenuta…e ora sto sognando.
“Non stai sognando.”sbuffa
Nemmeno la ascolto, tanto quella voce non esiste.
“Forse se mi do un pizzicotto mi sveglio.”
Brava Emily, mantieni la calma.
“Ahi!”
 
Sussulto, appoggiandomi di scatto al muro dietro di me.
“Ma come, l’hai sentito anche tu?”
Ecco brava, mettiti pure a parlare con qualcuno che non esiste.
“Sì accidenti e ha fatto un male cane, quindi vedi di non riprovarci.”
Ma bene, adesso anche nei sogni vengo rimproverata.
“Questo sogno è fin troppo realistico…”
“Come devo dirtelo, non stai sognando!”
“Ah no? Allora come lo spieghi il fatto che sto parlando con una voce dentro la mia testa?”
 
Al diavolo la calma, sono imbufalita!
Ci mancavano solo le voci per rendere la mia giornata già schifosa…definitivamente orribile.
“Sei sicura di non essere tu dentro la mia? Sai, ho già avuto esperienze di questo tipo.”
“So riconoscere la mia testa e quella…quella è la mia testa!”sbraito indicando lo specchio che occupa tutta la parete di fronte e su cui la mia immagine si riflette in tutto il suo candido pallore alla luce delle lampade al neon.
“Oh. In effetti quello non sono io, almeno credo, è da un po’ che non mi vedo allo specchio.”
Una pausa, come se stesse valutando meglio, poi prosegue.
“No, decisamente non sono io. Io ero più alto, molto più alto. E…beh non ero una donna. Perché sei una donna, vero?”
 
Ok adesso basta, fuori le telecamere.
Perché è chiaro che sono finita su Scherzi a parte.
O è così o ho a che fare con il fantasma più cafone dell’universo.
“Come sarebbe se sono una donna? Cos’è sei cieco?”
“Veramente tutto quello che vedo è una sagoma, il resto è annebbiato.”
 
Cosa?
“Fammi capire, mi stai dicendo che non sei solo dentro alla mia testa…ma anche dentro al mio corpo?”
Sono una debole, mi pareva di avervelo già detto.
E infatti sto già prendendo in considerazione l’ipotesi che questo tizio, a dire il vero poco cordiale, stia davvero dentro di me.
“E puoi vedere quello che vedo io…è inquietante.”Sussurro colpita.
“Se è così, dobbiamo fare qualcosa per i tuoi occhi, dico io, ma ci vedi sempre così male?”
 
Poco cordiale davvero.
Però devo ammettere che su questo ha ragione, certo che è normale
“Non ho gli occhiali.”concludo a voce alta
“Come?”
“Ho detto che vedi annebbiato solo perché adesso non ho gli occhiali.”
E così dicendo recupero gli occhiali dalla montatura sottile che avevo provvidenzialmente appoggiato sul piano di marmo del lavandino un attimo prima di ritrovarmi a terra preda di dolori lancinanti alla testa.
 
“Fantastico, quindi adesso porto di nuovo gli occhiali…centoventisette anni senza un problema di diottria e ora sarò di nuovo un maledetto quattr’occhi!” Sbraita ”Carina però la pettinatura!”
“Che fai sfotti?”dico pensando ai capelli stile gorgone che mi ritrovo in quel momento.
“E poi non cambiare discorso. Che ci fai nella mia testa?”
“Hai una domanda di riserva?”
“Sono forse impazzita?”
“Per chi mi hai preso, per uno psicologo? Intendevo una domanda sensata.”
Sbuffo sempre più infastidita.
“Cosa vuol dire che hai centoventisette anni?”
“Ecco, questa è una buona domanda. Sono un vampiro.”
“Mph ahahahah!!”
“E adesso che c’è da ridere?”
“Rido perché adesso è chiaro che sto sognando! Certo di sogni strani ultimamente ne faccio tanti, maquesto li batte tutti! Un vampiro…nella mia testa! Ahahahah!!”
Cerco di trattenermi, ma le risate mi scuotono tutta.
Metto una mano davanti alla bocca per attutirne il rumore, se qualcuno mi sentisse, passerei da matta oltre che da sfigata.
Ma non so resistere.
“E sentiamo…quale vampiro saresti? Dracula? Lestat? Edward Cullen?”
“Edward chi?”
“Sei qui per uccidermi? O mi morderai sul collo e mi trasformerò in un vampiro anch’io?”
Ancora risate, lui però sembra sempre più irritato.
“Dì un po’, ma tu parli sempre così tanto?”
Non lo ascolto neanche, troppo presa nel mio delirio.
“Dovrò bere il tuo sangue? Perché non sono sicura che mi piaccia, ha quel retrogusto ferroso…”
“Adesso inizi proprio a stufarmi! Se potessi ti morderei seduta stante. E nemmeno io so se mi piacerebbe!”
 
Cerco di rimanere seria.
“Va bene, non ti scaldare. Ricominciamo da capo. Chi sei?”
“Il mio nome è Spike, i miei nemici mi chiamavano il Sanguinario. E…”
Scoppio nuovamente a ridere.
“Mph ahahahah!!”
“E adesso si può sapere cosa c’è?”
“Spike…che razza di nome è Spike? Aiuto, sono prigioniera del pericolosissimo vampiro Spike! Spike il signore delle tenebre! Spike il temibile! Mph ahahahah!!
“Sciocca ragazzina, rideresti meno se potessi sentire la pressione dei miei denti sul tuo collo! E se proprio vogliamo parlare di nomi strani…che razza di nome è Emily Dickinson?”
 
Quasi mi strozzo.
“Tu come…come sai il mio nome?”
“Oh è scritto proprio qui, a caratteri cubitali nella tua testolina. Oddio, certo che i tuoi genitori devono avere proprio un gran senso dell’umorismo!”
“Tu non puoi leggere la mia mente!”
Non deve!
“A quanto pare invece posso farlo. Toh! Ecco qui mamma e papà. Un pochino in sovrappeso il paparino! E questa chi è? Santo cielo, tua sorella è uno schianto! Due figli? Non con quel corpo! E qui che c’è…Hugh Jackman? Chi diavolo è questo bellimbusto, il tuo fidanzato? Uuuh piccante!”
“Basta smettila! Non ti azzardare a sbirciare ancora nella mia testa, razza di vampiro ficcanaso!”
“La pianto se tu la smetti di ridere di me…ho anch’io una mia dignità, anche se nessuno l’ha mai presa molto in considerazione.”
“Va bene, va bene.”
 
Poi più rivolta a me stessa.
“Oddio, ma che ci faccio io con un vampiro nella testa?”
“Tanto per dirne una, potresti mangiare qualcosa. Non so perché, ma riesco a percepire persino il brontolio del tuo stomaco.”
“Magnifico. C’è qualcosa che non puoi fare da lì dentro?”
“Andiamo, su con la vita, poteva andarti peggio…potevo essere uno zombie. Sai, quelli non sanno essere molto di compagnia.”
“Chi ti dice che io voglia la tua compagnia, Spike?”
“Andiamo, Emily, se fra i tuoi pensieri più frequenti ci sono la tua famiglia e un tizio che chiaramente è uscito fuori da una rivista di cinema…non puoi non avere bisogno di compagnia.”
“Certo, tu sì che sai come trattare le donne.”
“Sono un cattivone…fa parte del mio fascino.”
“Quindi non ho scelta, sono costretta ad ospitarti fino a quando non scopriamo come sei arrivato dentro di me?”
“Ti assicuro che questa situazione non soddisfa neppure me. Spero solo che questa convivenza finisca, prima di diventare deleteria per i miei nervi.”
 
I suoi nervi? E i miei allora?
Come farò ad affrontare il lavoro? E i miei genitori?
Tutta questa situazione mi sembra assurda e improvvisamente mi sento molto stanca.
“Andiamo a casa.” dico solo.


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Capitolo 5
*** Capitolo 4: Prove pratiche di convivenza ***


Capitolo 4: Prove pratiche di convivenza
 
 
 
Il ricordo che ho dei giorni seguenti è piuttosto nebuloso.
So di aver telefonato in ufficio la mattina dopo per darmi malata e Anne…
Tyler! Ecco come si chiama! Anne Tyler.
Beh insomma, lei, è stata molto gentile, mi ha addirittura augurato di riprendermi in fretta.
 
Spike sostiene che io le piaccio.
Sì, avete capito bene, ho detto Spike.
Lui non è sparito, tutt’altro.
Diciamo che dopo essere entrato prepotentemente in me, violando la mia mente e il mio corpo come fosse casa sua, adesso ci sta prendendo gusto e sta per così dire, arredando casa.
 
Sono cinque giorni che non dormo, lui non fa che parlare, continua a farmi domande su tutto.
Sostiene che deve aggiornarsi su quanto è successo nel mondo da quando lui ha smesso di farne parte, cinque anni fa.
Ho anche cercato di farmi spiegare com’è successo, per quanto ne so i vampiri a meno che non vengano infilzati con un paletto o inceneriti dalla luce del sole vivono in eterno, ma lui ha sempre sviato il discorso, dicendo che non ricorda.
Non so perché, ma ho la sensazione che mi stia nascondendo qualcosa.
 
Intanto però ho capito una cosa: per essere un vampiro di centoventisette anni…è incredibilmente immaturo!
Sono due ore che stiamo discutendo e ancora non ne vedo la fine.
 
“Tu non mi infilerai in quella cosa!”
“Si chiamano collant Spike e devo indossarli.” ripeto per la centesima volta.
“Non puoi portare un paio di jeans come fanno tante altre ragazze?”
“No se non voglio essere licenziata! I titolari del mio studio richiedono un abbigliamento piuttosto formale, sostengono che riuscire a fare buona impressione sia la prima qualità di un bravo avvocato.”
“Mi fanno orrore. Sono così poco…virili.”
 
Sbuffo contrariata.
“Allora è una fortuna che non sia tu a doverli portare. E visto che non ho nessuna intenzione di mettermi in mutande davanti allo specchio, non dovrai nemmeno vedere come stanno!”
“Me li sentirò addosso però.”
“Uffa, quanto sei difficile! Ti ho già spiegato che non posso indossare pantaloni e giacca di pelle quando sono al lavoro. E visto che a quanto pare dovremo convivere dentro il mio corpo, temo che dovrai abituarti a portare la gonna!”
 
“Questa cosa ti diverte un mondo, vero?”
Sorrido.
“Ammetto che ha i suoi lati comici. Se però considero che la tua presenza viola completamente la mia privacy…”
“Mi pare di averti già promesso di non sbirciare fra i tuoi neuroni.”
“E come pensi possa fidarmi di un vampiro?”
“Sono un gentiluomo prima che un vampiro! Ai miei tempi avevamo un’etica.”
“Ai miei tempi…Ma ti senti come parli? Sembri mia madre.”
 
Poi alleggerendo un po’ il tono.
“Di un po’, quindi è vero che hai vissuto nel 1800? Forte!”
“Era il 1880 e non era poi così forte…anzi, era un’epoca piuttosto buia.”
“Sì, ma le donne erano vestite con meravigliosi abiti dai corpetti ricamati…”dico lasciando volare per un attimo la fantasia.
“Strumenti di tortura, come questi…collant!”
“Non riesco proprio ad immaginarti a quei tempi. Che io sappia, la gente allora aveva molta classe, titoli nobiliari a parte; e soprattutto aveva una pazienza quasi…flemmatica. Cosa che a te, chiaramente, manca.”
“Quindi io sarei nervoso? E dimmi, chi sarebbe quella che si mastica le unghie quando ha un problema?”
“Mi serve per scaricare la tensione.”
“Ma le tue mani sono inguardabili. Dovresti farti le unghie finte.”
“Ehi! Quando vorrò assumerti come consulente di immagine te lo farò sapere!” borbotto offesa.
“Guarda che ci faresti un affare. E già che ci siamo, perché non prendi in considerazione l’idea di mettere un paio di lenti a contatto al posto di questi fondi di bottiglia?”
“Che hanno i miei occhiali?”
“A parte far sembrare i tuoi occhi troppo piccoli e la tua faccia una caricatura? Ci credo che i tuoi colleghi ridono di te!”
“E va bene, non c’è bisogno di infierire così…lenti a contatto siano, a patto che tu la smetta di lamentarti ogni santo giorno delle mie gonne!”
 
“Affare fatto. Adesso andiamo, mentre tu lavorerai duramente, io studierò qualche scherzetto divertente da fare ai tuoi colleghi. Non sarà il mio corpo, ma non mi piace che mi si prenda per i fondelli!”
“Povera me…sono posseduta da un demone della vendetta!”
“Ehi, bada a come parli! Non mescolarmi con la feccia. Sono tipi strani quelli, ma devo ammettere che a volte hanno dei veri colpi di genio! E tu mi ringrazierai quando ti porterò dalla zerbineria alla popolarità!”
“Io veramente stavo scherzando…esistono davvero i demoni della vendetta?”
“Certo. Una volta sono stato a letto con uno di loro.”
“Questa non la voglio sentire…”
“Andiamo, è divertente! Un po’ meno la parte in cui le ho prese dal suo fidanzato…
Ad ogni modo, si chiamava Anya e…”
 
Oddio, non c’è proprio modo di farlo smettere?
Sorrido fra me e me, certo che è stato un bel cambiamento passare dall’essere una ragazza single che vive sola in un piccolo appartamento nel West End, a condividere ben più di due stanze e un bagno con un egocentrico vampiro centenario con la passione per le soap opera.
 
Pensare che è passata solo una settimana.
Però devo ammettere che sto già facendo l’abitudine alla sua ingombrante presenza.
E non sono la sola, anche Perelun dopo un’iniziale titubanza, pare aver accettato di non essere l’unico altro ospite di questa casa.
All’inizio si è persino rifiutata di lasciarsi toccare, ha iniziato a soffiare, mordere e graffiare, prendendosi pure una marea di insulti da Spike che l’ha definita poco carinamente gatta da strega.
E’ bastata una sessione extra di coccole sulla pancia per farle capire che nulla era veramente cambiato…almeno non per lei.
 
Raccolgo la borsetta, le chiavi e mi appresto a tornare al lavoro.
Spero con tutto il cuore che il mio coinquilino faccia il bravo.
 
*******
 
Due settimane dopo, ovvero, tre giorni prima di Natale.
 
-Te l’ho già detto che trovo quel tipo veramente insopportabile?-
Alzo gli occhi al cielo…ci risiamo.
-Almeno un milione di volte.-
-Dici che posso provare a spaventarlo un po’?-
-Ci hai già provato e non mi pare che sia andata così bene. Doveva essere uno sguardo assassino e quel che ne è venuto fuori è stato solo uno sguardo da sono miope e non riesco a metterti a fuoco.-
-Tutta colpa tua, non ti sei impegnata abbastanza.-
Mi blocco di botto, smettendo di tampicciare sui tasti.
-Colpa mia? Sei tu che sei convinto che possano spuntarmi fuori i canini e i miei occhi mandare lampi o Dio solo sa cos’altro!-
-Si chiama faccia da demone e non manda lampi…ma di solito fa paura.-
-Al momento l’unica cosa che mi fa paura è il pensiero che Barry Mitchell pensi che gli sto facendo il filo.-
 
Riprendo a scrivere.
Potremmo andare avanti così per delle ore, io penso e lui pensa, un dialogo muto fatto solo di pensieri.
Ci siamo accorti quasi subito che non era necessario parlare, quando condividi la stessa mente le parole diventano superflue, per quanto quando siamo soli io preferisca ancora usare la voce, mi fa sentire più…normale.
Ma nel mondo esterno, o trovavamo un’altra soluzione o mi avrebbero rinchiusa in manicomio.
Ho scoperto che chi parla da solo, non è visto molto bene dalla società.
 
-Spike, domani ho una commissione da fare.-
-Non dovrai andare ancora una volta a fare la ceretta, vero? Una volta mi è bastata.-
-Che colpa ne ho se il fatto di essere posseduta dallo spirito di un vampiro non impedisce ai miei peli di crescere?-
-Micca posso fare miracoli.-
Trattengo a stento una risata.
-Dì un po’, cos’è che dobbiamo fare?-
-Devi aiutarmi a scegliere i regali di Natale per la mia famiglia.-
-Sei pazza? Lo shopping? Vuoi vedermi morto?-
-Tecnicamente la cosa sarebbe impossibile, visto che lo sei già.-
-Non ho mai fatto regali di Natale, nemmeno quando potevo farli.-
-Bè c’è sempre una prima volta per tutto. Io per esempio non ero mai stata posseduta da un vampiro.-
-Tu e la tua logica spiazzante…ci credo che fai l’avvocato.-
 
Sorrido.
-Allora mi darai una mano?-
-Le mani sono le tue, non posso certo evitarlo. Però non aspettarti granchè, non sono mai stato bravo coi consigli.-
-Ma come e tutti i consigli di moda che cerchi di rifilarmi? Allora lo vedi che non mi devo fidare!-
-Ragazza, quelli non sono consigli, sono i fondamentali della moda…anche un bambino li conosce, si tratta di abbinare i colori!-
-Non sono messa così male.- brontolo
Lo sento ridere, il suono della sua risata è così raro che mi fa piacere sentirlo.
 
Ho capito subito che era un duro, o almeno che questa era la parte che si era messo in testa di recitare, da come ha messo ben in chiaro che tutta la storia di essere finito in affitto dentro al mio corpo non gli andava affatto giù.
Aveva minacciato pure di fare richiamo ai piani alti
Facesse pure, per quanto mi riguarda, ho cercato fin da subito di tranquillizzarlo e sto imparando a non infastidirlo troppo.
A casa mia si dice, vivi e lascia vivere.
Si vede che funziona, perché adesso non si lamenta più così insistentemente ed ogni tanto mi concede addirittura un sorriso, metaforico s’intende, ma comunque gratificante.
 
-Sono stanca da morire, ti va di andare a casa?-
-E me lo chiedi? Dai che uscendo riproviamo la faccia da demone con Barry-vattelapesca.-
-Spike…-
-Che c’è?- chiede stizzito-Dovrò pur far passare il tempo, chiuso qui dentro!-
-Veramente, io volevo solo chiederti se digrignare i denti potrebbe aiutare.-
-E brava la mia ragazza! Farò di te una vera dark lady!-
O povera me…


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